2012
FILIPPO A HIERAPOLIS
CNOSSO
DONNE ETRUSCHE
ISEO DI BENEVENTO
SPECIALE MANOSCRITTI DI NAG HAMMADI
Mens. Anno XXVIII numero 4 (326) Aprile 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
ARCHEO 326 APRILE
UNA GRANDEVA ESCLUSI
NAG HAMMADI LE PAROLE SEGRETE DI GESÚ
• EGITTO 1945: LA SCOPERTA DEI MANOSCRITTI
• I L MISTERO DEI VANGELI GNOSTICI
• ERESIA O RELIGIONE?
HIERAPOLIS
NELLA CITTÀ DELL’APOSTOLO FILIPPO
CNOSSO
SOTTO IL SEGNO DEL MINOTAURO
€ 5,90
Editoriale Codici della memoria Nel 1190, dopo la conquista di Hierapolis, l’imperatore Federico Barbarossa decide di attraversare la città dell’Asia Minore con il suo esercito di crociati. Ma non lo fa per motivi militari. La ragione è un’altra: quella di celebrare la memoria dell’apostolo Filippo che in quella città visse e operò, subí il martirio e venne sepolto. Delle recenti scoperte, incentrate proprio sulla figura del Santo, realizzate dalla Missione archeologica italiana che da piú di cinquant’anni scava nel sito della Frigia, parliamo nell’articolo di apertura di questo numero: si tratta di scoperte sensazionali che gettano nuova luce su uno dei discepoli meno conosciuti, approfondendo le complesse e, per certi versi, misteriose origini del culto che gli fu tributato. Filippo è annoverato come quinto apostolo dai Vangeli, ma è anche protagonista di due scritti apocrifi (considerati non canonici dalla Chiesa cristiana) di notevole fascino e interesse, gli Acta Philippi (vedi alle pagine 36/37) e il Vangelo secondo Filippo. Quest’ultimo, risalente al II secolo e andato perduto, fu ritrovato dopo piú di millecinquecento anni, in occasione di una scoperta che ha riportato alla nostra memoria un patrimonio religioso e filosofico straordinario, quello racchiuso nei celebri Manoscritti di Nag Hammadi. Nello speciale di questo numero presentiamo il racconto dell’avventuroso rinvenimento, della storia delle vicende piú recenti che hanno riguardato i preziosi reperti, della loro interpretazione. È un racconto di codici e di papiri, come quelli che – fortunatamente – oggi sono stati recuperati in gran numero (vedi cartina alle pagine 84/85) o come quelli raffigurati nelle mani dei Quattro Evangelisti nell’illustrazione qui accanto: tratta da un manoscritto del 1150, rappresenta Matteo con un rotolo di papiro, Marco, Luca e Giovanni con alcuni codici. Per conoscere quale sia la differenza tra i due supporti, andate a pagina 80. Andreas M. Steiner
SOMMARIO
EDITORIALE
Codici della memoria
3
di Andreas M. Steiner
24
di Valentina Di Napoli
SCAVI
Attualità
Hierapolis
Nella città dell’apostolo 28 Filippo
LA NOTIZIA DEL MESE
Scoperta a Vulci un’intera necropoli etrusca, con ricchi corredi e l’enigmatica sepoltura di un cavallo 6 di Carlo Casi e Patrizia Petitti
NOTIZIARIO
DA ATENE La lieta novella
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SCOPERTE Indagini preventive nel territorio un tempo abitato dai Sanniti riportano alla luce un antico tracciato viario 8
di Francesco D’Andria
I LUOGHI DELLA LEGGENDA Cnosso, sotto il segno 44 del Minotauro di Massimo Vidale
L’ETÀ DEI METALLI Un impero inquinato
44
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Caronte come Noè?
Come fare affari (illegali) con il passato: un processo a Gerusalemme 22
28
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di Francesca Ceci
LIBRI
STORIA
I mille volti degli Etruschi/3
DALLA STAMPA INTERNAZIONALE
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di Claudio Giardino
MOSTRE Nell’Antiquarium di Villa Adriana si ricorda e si celebra la figura di Antinoo, il giovane bitinio di cui, nella stessa residenza tiburtina, Adriano aveva voluto eternare la memoria 14 MUSEI A Torino, nel Museo Civico d’Arte Antica, il Medagliere svela la sua ricchissima collezione, con migliaia di monete che raccontano duemila anni di storia 16
70
Libere, ma non troppo
62
di Daniele F. Maras
IL FASCINO DELL’EGITTO Misteri a Benevento
94
di Massimiliano Nuzzolo
94
SPECIALE
Nag Hammadi e le parole segrete di Gesú
70
di Madeleine Scopello
Rubriche ANTICHI IERI E OGGI Gente di strada di Romolo A. Staccioli
102
114
La Notizia del mese
La mia tomba per un cavallo
D
urante i lavori di ampliamento dell’area industriale di Montalto di Castro, in località Due Pini, è stata scoperta una necropoli etrusca composta da 44 tombe. L’eccezionalità del rinvenimento di un intero complesso funerario è purtroppo ammortizzata dalle numerose violazioni che hanno interessato le sepolture. Ciononostante, gli scavi, tuttora in corso, stanno riportando alla luce brandelli di vita quotidiana della comunità lí insediata. In prossimità della necropoli, sono state infatti individuate tracce di strutture abitative che saranno indagate con il prosieguo delle ri6 archeo
cerche, nella speranza di documentare la relazione tra il centro e il suo cimitero. Per il momento, le attività sono concentrate nell’esplorazione delle tombe intagliate nel bianco strato calcareo che si sviluppa a forma di mezzaluna tra le varie manifestazioni alluvionali, rigorosamente scartate dall’impianto della necropoli per via della loro scarsa consistenza. L’architettura funeraria è caratterizzata dal «cassone vulcente» – costituito da dromos (corridoio) e vestibolo a cielo aperto, formanti in pianta una suggestiva T e con una o piú camere sepolcrali aperte sulle pareti del vestibolo – caratteristico
in tutto il territorio di Vulci a partire dai decenni centrali del VII secolo a.C. (orientalizzante medio) e con il suo massimo impiego all’interno del VI. Proprio al VI secolo a.C. sono attribuibili i «cassoni» sin qui scoperti ai Due Pini. Non mancano però attestazioni di tombe a fossa, i cui corredi denunciano una maggiore antichità, da inquadrare verso la fine del VII secolo a.C. Importante è stato il ritrovamento di un cavallo sepolto all’interno del dromos della Tomba 2; lo scheletro, di ridotte dimensioni, è in corso di studio da parte dell’Università di Lecce, mentre quella di Viterbo ne sta determinando il
di Carlo Casi e Patrizia Petitti
A sinistra: Montalto di Castro (VT), località Due Pini. Un settore del cantiere di scavo della necropoli etrusca scoperta nelle scorse settimane. In basso: una delle tombe riportate alla luce. La ripresa dall’alto evidenzia la pianta a T, tipica di questi sepolcri, noti anche come «cassoni vulcenti». A sinistra: lo scavo di una delle tombe. In basso: olla in impasto rosso. Qui sotto: lo scheletro di cavallo rinvenuto nel dromos della Tomba 2.
DNA. La tomba ha anche restituito, nella camera laterale sinistra, un ricco corredo, solo parzialmente intaccato da un’antica violazione, che dimostra lo stato di floridezza economica raggiunto dagli abitanti del centro periferico. Probabilmente l’insediamento dei Due Pini è da collocare all’interno di quel sistema costiero organizzato e controllato dalla grande città di Vulci, del quale fa parte anche l’area della vicina Pescia Romana e dove in passato si sono avuti numerosi r itrovamenti di tombe sparse e collegabili ad alcuni centri minori. Questi
erano posti in prossimità della laguna costiera, che all’epoca era probabilmente navigabile, ed erano dediti sia ad attività produttive, come l’estrazione del sale, sia al controllo delle direttrici di penetrazione interna, rappresentate dai fiumi e dai torrenti sfocianti nella laguna stessa. Lo scavo, finanziato dal Comune di Montalto di Castro, è diretto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Etruria Meridionale ed è svolto da Mastarna, la società che gestisce il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci, con la collaborazione di Cooperativa Archeologia di Firenze e della Scuola di Restauro dell’Accademia di Belle Arti di Viterbo. archeo 7
n otiz iari o SCAVI Campania
Antiche strade del Sannio di Giampiero Galasso
preventive finalizzate a individuare il rischio archeoloIgicondagini lungo il tracciato interessato
dal passaggio della «Strada a scorrimento veloce Fondo Valle Isclero», hanno portato al rinvenimento a Moiano (Benevento), di un battuto stradale con tratti in acciottolato, la cui scoperta è di straordinario interesse per lo studio topografico dell’area caudina in antico. L’asse stradale, con andamento nord-ovest/sud-est, è stato intercettato in località Tre Masserie, per una lunghezza di 70 m circa e una larghezza di oltre 6, e attraversava certamente l’area suburbana periferica posta tra i due maggiori centri dei Sanniti Caudini: Caudium (oggi Montesarchio) e Saticula (l’odierna Sant’Agata de’ Goti). Il piano di battuto stradale si è presentato come uno strato di terreno pressato, compatto in su-
A destra: Moiano (Benevento). La strada acciottolata recentemente individuata, forse identificabile con un tracciato di origine sannitica che collegava i centri di Caudium e Saticula. Nella pagina accanto: Serino (Avellino), località San Giovanni Pescarole. Resti del Fontis Augustei Aquaeductus, impianto alimentato dalle sorgenti Acquaro-Pelosi.
Un tuffo nelle acque della Magna Grecia ’Associazione Etruria Nova organizza il Primo Corso Internazionale L di Introduzione all’Archeologia Subac-
quea aperto a studenti e volontari che vogliono fare esperienza nel campo dell’archeologia subacquea. Il corso si svolge dal 3 al 17 giugno a Praia a Mare (Cosenza) ed è stato ideato per sensibilizzare e introdurre gli appassionati alla conoscenza e alla tutela dei beni storicoarcheologici subacquei di un territorio antichissimo. Le attività saranno divise in due moduli complementari, della durata di una settimana ciascuno, alla fine dei quali verranno rilasciati i brevetti di Open Water Diver (O.W.D.) e di Archaeology Diver. Per informazioni: Associazione Etruria Nova Onlus – Vicolo S. Agostino,12 – 53024 Montalcino (SI); cell. 349 3613406; e-mail: info@ etrurianova.org; www.etrurianova.org 8 archeo
perficie, con una conformazione quasi orizzontale, pavimentato in alcuni tratti da ciottoli di calcare bianco di varia pezzatura e forma. Nella trama dell’acciottolato sono stati rilevati piú ordini di pietre, ma anche inserti di frantumi di laterizi e, in qualche caso, di minuti frammenti ceramici. Un breve tratto è composto anche da un doppio corso di ciottoli: una spessa e incoerente gettata di pietre calcaree posate su un sottofondo di ciottoli piú piccoli, infissi a loro volta in modo uniforme tra la superficie terrosa. Sono state anche rilevate tracce di quelli che sembrerebbero solchi longitudinali di forma rettangolare, con fondo concavo, dovuti forse al passaggio delle ruote di carri. È difficile, al momento, fissare la cronologia del piano stradale
L’acquedotto augusteo di Serino n’indagine di archeologia preventiva nel territorio di Serino (Avellino), ha portato all’intercettazione, in località San GioU vanni Pescarole, di un tratto, orientato sull’asse nord-est/sud-ovest, di uno specus (conduttura), di un acquedotto romano riferibile al Fontis Augustei Aquaeductus, realizzato alla metà del I secolo d.C.: alimentata dalle sorgenti Acquaro-Pelosi di Serino, la struttura fu poi restaurata agli inizi del IV secolo d.C. a spese dell’imperatore Antonino Pio e dei suoi figli, Crispo e Costantino. La lunghezza del condotto sotterraneo in muratura scoperto è di 5 m circa, per una profondità massima di 1,70 m e una larghezza di 1,50 circa. Lo specus risulta composto da due piedritti in muratura entrambi appoggiati sulla struttura orizzontale muraria di fondazione, realizzata sul fondo del cavo di una trincea terragna in cui è allestito l’intero condotto, quest’ultimo rivestito internamente sia nei piedritti sia nella fondazione da uno spesso strato di malta idraulica in cocciopesto. Al momento della scoperta, lo specus era riempito da un deposito formato da terra e materiale di risulta che segnava la fine della sua continuità d’uso: il deposito è di accumulo alluvionale ed era costituito da terreno misto a frantumi di laterizi (mattoni), scapoli e cubilia in tufo grigio, pietre di calcare bianco di varia pezzatura, frammenti di malta e di cocciopesto, frammenti ceramici. Non è stato possibile inquadrare cronologicamente il momento preciso del definitivo abbandono d’uso dello specus, che, in ogni caso, dovrebbe porsi in età tardo-antica: i pochi frammenti ceramici recuperati rientrano nelle classi della ceramica d’uso comune e da fuoco e risulta quindi complesso dare in fase preliminare un limite cronologico. scoperto, in quanto i materiali ceramici recuperati sono di natura eminentemente residua e riferibili a diversi periodi storici (età romana, altomedievale, medievale). Un terminus circa o post quem per la datazione potrebbe essere fissato con circospezione dal ritrovamento di due monete di bronzo: un triente repubblicano rinvenuto sul piano battuto e un asse di Augusto trovato tra le pietre dell’acciottolato, reperti che, comunque, fissano la frequentazione del tracciato viario tra il III-II secolo a.C. e il I secolo d.C. Ma non è improbabile che il battuto risalga all’epoca sannitica (IV secolo a.C.), poiché la strada potrebbe essere un segmento dell’antica arteria – finora mai localizzata – che collegava Caudium a Saticula.
G. G.
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n otiz iario
VALORIZZAZIONE Umbria
Per le terme di Carsulae di Elena Gabriella Lorenzetti e Piero Zannori
antica città di Carsulae, i cui resti si conservano nei presL ’ si della moderna San Gemini
(Terni) nasce alle pendici dei Monti Martani, lungo la via Flaminia, durante il III secolo a.C. e trae benessere dalla via stessa, dall’intensa attività di sfruttamento agricolo delle ville schiavistiche documentate nella zona e dalla presenza di fonti idropiniche curative. Nel I secolo a.C., forse già in seguito alla guerra sociale, diviene municipio e assume un assetto monumentale e un’organizzazione urbanistica che giungono a compimento nella prima età imperiale. Piú tardi, le cause del declino di Carsulae, per alcuni già in atto alla fine del III secolo d.C., ma grazie ai recenti scavi delle Terme da abbassare almeno al V secolo d.C. inoltrato, sono controverse o forse tutte ugualmente valide: il carsismo associato a frequenti fenomeni sismici, la scomparsa in profondità delle falde idriche, il declino del ramo occidentale della via Flaminia in favore del tratto orientale InteramnaSpoletium-Fulginii, le ondate di popolazioni barbariche. Il sito è oggi sotto la tutela della Soprintendenza per i Beni Ar-
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cheologici dell’Umbria ed è parco archeologico aperto al pubblico. Come molti insediamenti che non hanno avuto una continuità di vita dall’età antica a oggi, ha mantenuto un aspetto sostanzialmente intatto e naturale, ma è stato anche cava di materiali architettonici dal Medioevo all’Unità d’Italia, tanto che Gian Francesco Gamurrini, neoispettore alle antichità di Cesi,
In alto: Carsulae. La copertura realizzata a protezione dell’area delle cosiddette «Terme romane». In basso: studenti della Valdosta State University sul cantiere di scavo.
scriveva nel 1884: «di Carsoli oggi non si vedono che macchie, mucchi di sassi (…) solo la porta alta ad arco a grandi sassi, creduta un arco trionfale a onore di Traiano giganteggia
severa; e ci avverte che una città sta sepolta sotterra tra i pruni». Gli unici scavi sistematici, purtroppo condotti con metodologie che oggi chiameremmo di «sterro», si sono svolti tra gli anni 1951 e 1972, portando in luce quanto è ora visibile: foro, edifici di spettacolo, parte della necropoli nord, terme. Dal 2004 l’Associazione Valorizzazione del Patrimonio Storico San Gemini Onlus, particolarmente attiva nel territorio, ha promosso la ripresa delle ricerche nell’area di Carsulae, concentrandosi sul quadrante sud-occidentale e in particolare sulle cosiddette «Terme romane». Le Terme, in condizioni di precarietà strutturale a causa dell’abbandono che fece seguito agli scavi del 1783, che portarono alla luce un ambiente con mosaico marino a tessere bianche e rosse, e poi del 1953, quando si rinvenne un ambiente absidato con suspensurae, sono oggi oggetto di un grande progetto di tutela e indagine.
La stretta collaborazione, nata otto anni fa, tra l’Associazione Valorizzazione del Patrimonio Storico di San Gemini e la Valdosta State University (Georgia, USA), nell’ambito del programma «San Gemini Preservation Studies», che prevede cantieri di scavo e restauro, catalogazione ceramica e restituzione architettonica sotto forma di Summer school per studenti universitari, ha permesso di riportare in luce le strutture già individuate dai precedenti interventi, di cui a tutt’oggi non si possiede documentazione, e ripristinare parte del piano pavimentale originario, in pessimo stato di conservazione. Questo progetto di ricerca e valorizzazione ha appena compiuto un ulteriore passo in avanti, con la costruzione di un’ampia tettoia che possa fornire alla struttura termale un’adeguata tutela contro gli agenti atmosferici e la vegetazione spontanea. L’intervento è stato realizzato per volere dell’Associa-
zione Valorizzazione del Patrimonio Storico di San Gemini, con il contributo determinante della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, con fondi di imprenditori, del Comune di San Gemini e con le professionalità dei soci dell’associazione stessa. Esso ha lo scopo di proteggere l’intera struttura, che si spera di poter riportare alla luce in tutta la sua estensione, permettendo di facilitarne la lettura da parte dei visitatori del sito, di agevolare le opere di restauro e, non meno importante, di migliorare con lo scavo le nostre conoscenze sulle diverse fasi cronologiche della stessa Carsulae, attraverso la comprensione dei momenti di costruzione, vita e abbandono della struttura termale. L’auspicio per il futuro è che questo sia solo il primo di una serie di interventi, in collaborazione tra pubblico e privato, volti a disvelare questo immenso patrimonio archeologico che giace «sotterra tra i pruni».
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Parola d’archeologo
di Flavia Marimpietri
È salva la «Venezia della preistoria» Si prospetta una soluzione per la conservazione dell’eccezionale sito di Longola di Poggiomarino: ne abbiamo parlato con Teresa Elena Cinquantaquattro e Stefano De Caro l rischio di perdere le tracce dei «progenitori» di Pompei Isembra scongiurato: i resti del
villaggio protostorico scoperto nel 2000 a Longola, nel Comune di Poggiomarino (Napoli), verranno valorizzati attraverso un parco archeologico. La «Venezia della preistoria», cosí viene chiamato l’insediamento, formato da isolotti con capanne di legno e canali navigabili a bordo di canoe, è stata ricoperta di terra, ma non cadrà nell’oblio come paventato dalle associazioni culturali locali
alla notizia della conclusione dello scavo archeologico, nello scorso dicembre. Il villaggio, unico nel suo genere, si estende sul fiume Sarno per oltre sette ettari e ha un’ininterrotta, lunghissima vita: dall’età del Bronzo, nel II millennio a.C., fino all’inizio del VI secolo a.C. Per spostarsi tra un isolotto e l’altro, gli abitanti usavano piroghe ricavate da un unico tronco d’albero (monossili). Due delle tre canoe scoperte (l’ultima appena tre settimane fa), erano distrutte, ma ancora
attraccate agli ormeggi all’interno della darsena, segno che il sito subí forti alluvioni. Forse il Sarno aveva esondato di nuovo quando quella comunità abbandonò definitivamente Poggiomarino e partí alla volta di Pompei. Che ne sarà, ora che lo scavo è concluso, delle capanne e delle piroghe? Si pone il problema della conservazione e valorizzazione di resti archeologici delicatissimi, sommersi dall’acqua di falda a 4 m di profondità. L’unico modo per salvarli è stato ricoprirli di terra, a
POMPEI, CITTÀ DEI MAGNIFICI CINQUE? Abbiamo chiesto un opinione sul tema a Stefano De Caro, direttore generale del Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali (ICCROM) e già direttore generale per le Antichità del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che ha seguito da vicino Poggiomarino in qualità di soprintendente regionale per i Beni Archeologici della Campania. Come affrontare, oggi, la conservazione di un sito cosí complesso? «È il problema di tutto il materiale protostorico: la conservazione del legno ha modalità complicate, tempi lunghi e una spesa alta, quindi va calibrata la dimensione quantitativa dello scavo, cioè di quanto si vuole lasciare in vista, con la capacità economica di conservalo. I resti archeologici sotto terra non costano, sopra invece hanno un costo continuo, che è a perdere». La «Venezia della preistoria», in termini di conservazione, ha lo stesso problema di quella contemporanea: l’acqua. «Poggiomarino è davvero una Venezia ante litteram, con quel sistema di canali, ponti e isolotti. Il villaggio era un guado su un ramo delle sorgenti o del corso del Sarno: gli abitanti hanno sistemato con palizzate questi isolotti in
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mezzo al fiume, poi li hanno riempiti con terra, frasche e rami, cosí da ampliare la superficie utilizzabile. Il problema è che il sito è intriso d’acqua, tanto che è necessario un sistema di idrovore per mantenere la falda al di sotto del piano archeologico: l’acqua ha permesso la conservazione del legno ma è un grosso problema». Il villaggio di Poggiomarino è una testimonianza unica, non solo per l’enorme quantità di reperti lignei che ha restituito. «Da un punto di vista storico-archeologico è uno dei siti protostorici piú importanti in assoluto, insieme a quello di Nola in località Croce di Papa. Ha una storia millenaria, dall’età del Bronzo fino alla fondazione di Pompei». Davvero i coloni di Pompei provengono da questi isolotti? «Vengono da Poggiomarino, come da tutta la Valle del Sarno: è riconosciuto che lí esisteva una cultura dell’età del Ferro. Tanto che una delle ipotesi sul nome Pompei è che corrisponda al numero “cinque” in lingua osca, ovvero “la cinquina” o “i cinque”, riferito a comunità osche provenienti dalla Valle del Sarno. Secondo l’ipotesi classica, invece, il nome Pompei verrebbe da pompè, processione trionfale, ma non ci sono conferme archeologiche».
detta della Soprintendenza Archeologica Speciale di Napoli e Pompei, che ha trovato un accordo con Regione Campania e Comune di Poggiomarino per la realizzazione di un parco archeologico in situ. Abbiamo chiesto alla soprintendente, Teresa Elena Cinquantaquattro, quale sarà il futuro del villaggio protostorico. «Un progetto di valorizzazione del sito deve prescindere dalla fruizione diretta delle emergenze archeologiche», ha chiarito subito. «Anche perché l’eccezionale stato di conservazione dei resti è dovuto proprio al loro mantenimento, nei secoli, in un ambiente umido, cosa irriproducibile nel momento in cui le strutture del villaggio, in legno, vengono riportate alla luce. L’ipotesi praticabile è quella di valorizzare i risultati dello scavo con la creazione di un parco di archeologia sperimentale che preveda, per esempio, la riproduzione in superficie delle preesistenze». La Regione ha detto di voler destinare 4 milioni di euro per il progetto, basteranno? «Le risorse indicate, per cui siamo in attesa di conoscere la fonte di finanziamento, serviranno a realizzare il parco. Quello che va stabilito subito è il modo in cui gestirlo, e su questo spetta a Regione e Comune avanzare le proprie proposte».
Longola di Poggiomarino (Napoli). Pali lignei appartenenti a una delle strutture del villaggio scoperto nel 2000. L’insediamento, che occupava una superficie di 7 ettari, ebbe una lunga e intensa frequentazione, dal II mill. a.C. fino agli inizi del VI sec. a.C.
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n otiz iario
MOSTRE Lazio
Il bell’Antinoo ntinoo, il giovane dalla sublime bellezza che Adriano A conobbe in Bitinia e portò con
sé a Roma, «torna» a Villa Adriana, dove l’imperatore fece costruire in sua memoria l’Antinoeion. Antinoo arrivò in Italia intorno al 125 d.C.: a quel tempo la villa doveva essere interessata da numerosi cantieri, tuttavia Adriano poteva già abitarvi e di lí esercitare le funzioni di governo. Il suo favorito gli rimase al fianco, seguendolo anche nei viaggi ufficiali, come quello intra-
preso nel 128 che si concluderà tragicamente con la morte del giovane nel 130 d.C. La mostra allestita in suo nome è divisa in quattro sezioni, che espongono opere provenienti da vari musei e collezioni, nella cui selezione si è inteso privilegiare anche il ritorno a Villa Adriana di reperti che lí certamente, o verosimilmente, furono trovati. La prima sezione riunisce una serie di ritratti di Adriano e di Antinoo, tra cui il busto di marmo dei Musei Vaticani e il bel bronzo conservato al Museo Archeologico di Firenze. La seconda si incentra sulla deificazione del giovane bitinio, di volta in volta rappresentato nei panni di Apollo, Dioniso, o, ancora, come sacerdote di Attis. Si passa quindi a documentare le recenti scoper te dall’Antinoeion di Villa Adriana e ad affrontare il tema della rappresentazione di Antinoo nelle vesti di Osiride. Adriano aveva deificato il suo favorito con l’assimilazione alla piú alta divinità egizia che, secondo il mito, rinasce dalle acque del Nilo, simbolo di fertilità. In
mostra si ammira lo splendido ritratto di Antinoo-Osiride in quarzite rossa grazie al prestito dalle Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. Il capitolo conclusivo è dedicato alla fortuna di Antinoo attraverso i secoli. Qui, tra i prestiti concessi, si può ammirare anche uno dei preziosi volumi del Viaggio pittorico di Villa Adriana di Agostino Penna del 1831-36, che contiene un bellissimo ritratto del giovane, oggi conservato presso i Musei Vaticani, nella Sala della Rotonda. (red.)
DOVE E QUANDO «Antinoo. Il fascino della bellezza» Tivoli,Villa Adriana, Antiquarium del Canopo fino al 4 novembre Orario tutti i giorni, feriali e festivi, dalle 9,00 a un’ora e mezzo prima del tramonto Info tel. 06 39967900; www.pierreci.it Catalogo Electa
Un museo per le palafitte stato inaugurato il nuovo Museo delle Palafitte di Fiavé (Trento), una delle 111 località che costituiscono il sito È dedicato alle palafitte preistoriche dell’arco alpino entrate a
Antinoo Farnese, testa ritratto su torso antico non pertinente, dalla Collezione Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
far parte della lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO. Il museo racconta le vicende dei diversi abitati palafitticoli succedutisi lungo le sponde del lago Carera, bacino di origine glaciale, tra tardo Neolitico ed età del Bronzo. Nel percorso espositivo sono compresi oggetti straordinari, che suscitano stupore per la loro modernità. Si tratta di un’ampia selezione dei materiali caduti in acqua, accidentalmente o gettati al tempo delle palafitte, preziose testimonianze di notevoli conoscenze tecniche e costruttive e di abilità artigiana: vasi in ceramica, monili in bronzo e – collezione unica in Europa – circa 300 oggetti in legno, tra cui stoviglie e utensili da cucina, strumenti da lavoro, oltre a un arco e alcune frecce. Al nuovo Museo «Archeo» dedicherà prossimamente un piú ampio articolo. Info: Provincia autonoma di Trento-Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici – Via Aosta, 1 - 38122 Trento; tel. 0461 492161; e-mail: sopr.librariarchivisticiarcheologici@ provincia.tn.it; www.trentinocultura.net/archeologia.asp (red.)
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MUSEI Torino
Monete che hanno fatto la storia di Fabiola Cerminara
l Medagliere di Palazzo Madama ha una storia lunga e comIplessa che inizia nel 1863, anno
di fondazione del Museo Civico di Torino, quando vengono donate le prime 5000 monete, in massima parte sabaude e delle zecche piemontesi. Al 1870 risale l’acquisizione del Gabinetto Numismatico della Regia Zecca di Torino: 2889 monete ancora delle zecche piemontesi, l’intero archivio della produzione della Zecca di Torino con relativo materiale creatore (conii e punzoni), una selezione di monete degli Stati europei, monete extra-europee dall’Africa, Asia e America e piú di 884 medaglie, tra le quali l’importante serie della Storia Metallica della Real Casa di Savoia con i conii di Lorenzo Lavy (1753 per i conii, 1864 per le medaglie in bronzo). Una svolta importante si verifica nel corso degli anni Trenta, quando è direttore del museo Vittorio Viale, affiancato nella direzione del gabinetto numismatico da Pietro Antonio Gariazzo, ingegnere civile e collezionista di monete dell’antichità. Proprio attraverso la donazione Gariazzo, nel 1933, il museo si arricchisce di preziosi esemplari greco-romani.Tra di essi ricordiamo il tetradramma di Alessandro di Babilonia, databile fra il 323 e il 311 a.C., interamente in argento e dal diametro di quasi 18 mm, raffigurante al dritto la testa idealizzata di Alessandro come Eracle e al rovescio Zeus aetoforo in trono. O, ancora, il tetradramma di Lisimaco dall’Asia
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A destra e qui sotto: cistoforo in argento di Domiziano. I sec. d.C. In basso: soldo in oro di Eraclio I ed Eraclio II. 613-641 d.C.
Minore, databile dopo il 302 a.C. e raffigurante al dritto la testa di Alessandro come Ammone e al rovescio le leggende «BAΣIΛEΩΣ» e «ΛYΣIMAXOY», con in esergo la falce lunare. Notevole è anche il tetradramma di Atene in argento, databile fra il 527 e il 430 a.C., giunto in ottimo stato di conservazione, raffigurante al dritto la testa di Atena e al rovescio una civetta ad ali chiuse, rivolta verso destra con in alto il ramo d’ulivo. Il Medagliere Civico torinese conserva circa 4800 monete ro-
mane, di cui circa 850 sono di età repubblicana; fra queste ultime da segnalare è il denaro aureo di C. Numonius Vaala, raffigurante la testa alata della Vittoria sotto le sembianze di Fulvia sul dritto e un guerriero che attacca una trincea al rovescio, giunto in museo come acquisto. La collezione delle monete romane è stata incrementata nel 1957, attraverso la donazione di 2737 monete imperiali da parte dell’industriale, poi senatore, Giuseppe Mazzini e, nel 1961, con l’acquisto del tesoretto di Vigatto (745 pezzi). Fra le 4734 monete romane imperiali sono da ricordare il denaro aureo di Ottaviano Augusto, raffigurante al dritto la testa di Augusto coronata e al rovescio Apollo d’Azio, e il cistoforo di Domiziano, dal diametro di 30 mm e interamente in argento, con la testa dell’imperatore Domiziano al dritto e un’aquila legionaria fra due insegne al rovescio. Ancora grazie alla preziosa donazione Gariazzo del 1933 le collezioni numismatiche vengono incrementate con il nucleo delle 1290 monete bizantine in oro, argento e bronzo, fra cui il prezioso soldo in oro della zecca di Costantino-
n otiz iario
poli, databile fra il 613 e il 641 d.C., raffigurante al dritto i busti di Eraclio I e Eraclio II e al rovescio una croce su base. Due anni prima della donazione Gariazzo, le collezioni del Medagliere erano state fortemente accresciute (piú di 14 000 pezzi fra monete, medaglie, conii, punzoni e prove) con il lascito dell’antiquario e cultore numismatico Ettore Mentore Pozzi. Entravano in museo l’intera serie monetaria relativa a Casa Savoia (4390 pezzi) da Umberto II a Carlo Emanuele III, il nucleo di 1170 monete della zecca di Milano, da Desiderio, re dei Longobardi, a Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena, re del Lombardo Veneto e diversi pezzi delle zecche piemontesi (Acqui, Alba, Alessandria, Aosta, Asti, Carmagnola, Casale, Chivasso, Desana, Ivrea, Moncalvo, Susa, Torino, Tortona, Valenza, Vercelli) dal 500 d.C. alla metà del 1500 (quest’ultima sezione fu incrementata nel 1957 con la donazione del nobile astigiano Mario Rasero, giungendo a 2062 pezzi). Fra le monete sabaude piú antiche e meglio conservate dalla raccolta Pozzi si segnalano il denaro di Susa in argento battuto sotto Amedeo III fra il 1095 e il 1148 e il fiorino di Amedeo VII interamente in oro, databile fra il 1383 e il 1391. Sul sito di Palazzo Madama (www.palazzomadamatorino.it) si trovano le schede e le immagini ad alta definizione di un primo nucleo di 100 monete scelte per presentare le ricche collezioni del Medagliere. DOVE E QUANDO Museo Civico d’Arte Antica Torino, Palazzo Madama, Piazza Castello Orario da martedí a sabato, 10,00-18,00; domenica, 10,00-20,00; chiuso il lunedí. Info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it www.palazzomadamatorino.it
18 a r c h e o
Archeofilatelia
a cura di Luciano Calenda
L’isola del labirinto Creta è stata sempre considerata il crocevia piú 1 importante per la diffusione della civiltà in tutto il Mediterraneo e, tra le eccezionali ricchezze archeologiche che confermano questo suo ruolo, spicca il complesso di Cnosso, uno dei siti piú celebri al mondo e il cui simbolo è costituito dal cosiddetto palazzo di Minosse, immortalato in un bel francobollo di Grecia del 1961 (1). Negli scavi del grandioso complesso vennero alla luce anche magnifiche pitture murali, come quella famosa dei ginnasti che volteggiano sul toro, riprodotta su un altro francobollo greco del 1937 (2), o quello, anch’esso greco, della danzatrice (3), qui mostrato insieme a una cartolina degi inizi del Novecento (4). Ancora una bella pittura che raffigura una quaglia e un beccafico ripresi da un altro valore del 1961 (5). Ma nel sito sono state ritrovate anche molte testimonianze di vita quotidiana, come i giganteschi otri nella zona dei magazzini, anch’essi riprodotti su un altro francobollo del 1961 (6) e su una vecchia cartolina, dei primi del Novecento (7). E sembra che proprio la complessità dell’intero palazzo sia stata l’origine del mito del labirinto e dell’impresa di Teseo che uccise il Minotauro, episodi della mitologia che sono stati ricordati filatelicamente. Innanzitutto, il labirinto è raffigurato su un francobollo che riprende un’antica moneta cretese (8), mentre l’impresa di Teseo è ricordata da un’emissione del 2009 (9) in cui sono raffigurati Arianna, Teseo e il Minotauro. E Teseo è stato ripreso anche da un francobollo di Cipro del 1982 (10) che riproduce un particolare del rosone centrale del grande mosaico circolare scoperto nella cosiddetta Villa di Teseo a Paphos (Cipro; 11).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
Calendario Italia ROMA
Vetri a Roma
Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12 ANZOLA DELL’EMILIA (BO)
Anzola al tempo delle Terramare
PIACENZA A sinistra: piatto con scena dionisiaca, da Albenga. II sec. d.C. In basso: disegno di Pelagio Palagi per le vetrate del Gabinetto Etrusco nel Castello di Racconigi.
Museo Archeologico Ambientale fino al 16.12.12
Etruschi
L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 15.07.12 CAORLE (VE)
TerredAcque
CHIUSI
Museo Etrusco di Chiusi + 110 Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12 FERRARA
L’amore al tempo della guerra Museo Archeologico Nazionale fino all’22.04.12
Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12 ROMA
La favola di Amore e Psiche Il mito nell’arte dall’antichità a Canova
ASTI
Per un’anteprima del Museo Nazionale di Archeologia del Mare Centro Culturale «A. Bafile» fino all’08.12.12
Abitavano fuori porta
In basso: particolare di un cratere attico a figure rosse con scene legate al mito di Teti e Peleo.
La favola di Amore e Psiche, che occupa gran parte dell’Asino d’Oro di Apuleio, ha ispirato straordinari capolavori dall’antichità ai giorni nostri. Narra la storia della giovane Psiche, la cui straordinaria bellezza scatena la terribile gelosia di Venere, che, inconsapevolmente provoca l’innamoramento tra la stessa Psiche e Cupido. Superate le terribili prove richieste dalla dea, Psiche giunge all’Olimpo, dove convola a nozze con Amore. Psiche in greco vuol dire anima, soffio, respiro vitale, simboleggiato dalle delicate ali della farfalla, e quindi la sua storia è anche la storia dell’anima umana, che deve affrontare traversie terribili per raggiungere la sfera divina. La favola di Apuleio offre infatti piú piani di lettura, può alludere al grande amore verso una donna tanto da innalzarla nell’Olimpo degli dèi o può riferirsi al travaglio dell’anima umana nel suo difficile percorso verso la spiritualità. E la mostra, che prende avvio dal ciclo di Perin del Vaga che decora il fregio di una delle salette dell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo, intende appunto illustrare, attraverso materiali archeologici, dipinti, disegni, sculture, incisioni, arazzi e terracotte, i patimenti dell’anima e le prove da superare alla ricerca di Amore divino.
MONTEFIORE CONCA (RN)
Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 NOVENTA DI PIAVE (VE)
Le memorie ritrovate
del monastero di Santa Chiara di Cella Nova a Padova Veneto Designer Outlet, CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia) fino al 30.06.12. OTRICOLI
Cose mai viste
Lo splendore di Ocriculum esce dai Magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12
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DOVE E QUANDO Museo di Castel Sant’Angelo fino al 10.06.12 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; lu chiuso Info e prenotazioni tel. 06 32810 oppure 06 6819111; www.poloromano.beniculturali.it
TIVOLI
Adriano e Antinoo
Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12 TREVISO
Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 13.05.12
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Germania HALLE
VENAFRO
Splendori dal Medioevo
Pompei, Nola, Ercolano
L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12
Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 08.06.12
Grecia
Belgio
ATENE
TONGEREN
Isole fuori rotta...
Un viaggio archeologico a Castelrosso, Simi, Calchi, Piscopi e Nisiro Museo di Arte Cicladica fino al 23.04.12
Sagalassos, città dei sogni Museo Gallo-romano fino al 17.06.12
Paesi Bassi LEIDA
Isole degli dèi
Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12 (dal 18.04.12)
I giardini dei faraoni
Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12 (dal 27.04.12)
Svizzera
Francia
GINEVRA
Al calar delle tenebre
PARIGI
Arte e storia dell’illuminazione Musée d’art et d’histoire fino al 19.08.12
Arles, gli scavi del Rodano Un fiume come memoria Museo del Louvre fino al 25.06.12
PRANGINS
Archeologia
I Galli
Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12 (dal 27.04.12)
Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12 SAINT-GERMAIN-EN-LAYE
Il Museo d’Archeologia nazionale e i Galli dal XIX al XXI secolo Musée d’Archéologie nationale fino al 04.09.12 STRASBURGO
Testimonianze di viaggio
100 000 anni di circolazione dell’uomo in Alsazia Musée Archéologique fino al 28.05.12
Un arte dell’illusione
Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13 (dal 20.04.12)
In basso: fibula polilobata con inserti di granati. Età merovingia.
USA
In basso: paletta in forma di coppia di tartarughe. Naqada II, 3650-3300 a.C.
NEW YORK
Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 17.06.12
L’alba dell’arte egiziana The Metropolitan Museum of Art fino al 05.08.12
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L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner
La cosiddetta «stele di Joash», rivelatasi, insieme all’«ossuario di Giacomo», un falso clamoroso.
L
o scorso 14 marzo, un verdetto della corte distrettuale di Gerusalemme ha posto fine a un processo che, per lunghi anni, ha occupato le prime pagine della cronaca archeologica israeliana e non solo. Le parti in causa: lo stesso Stato di Israele contro Oded Golan, Robert Deutsch e altri, questi ultimi imputati di falsificazione, commercio e possesso illecito di reperti archeologici. A determinare l’esito del processo sono state le conclusioni presentate da un comitato di esperti, composto da archeologi della Israel Antiquities Authority (la Sovrintendenza alle Antichità d’Israele) e di diverse università. Secondo gli studiosi, infatti, i reperti intorno ai quali è stata costruita l’accusa sono, a tutti gli effetti, falsi, la cui «presentazione» al pubblico ha creato – secondo una dichiarazione dell’IAA – «una ingannevole suggestione di evidenza storica che ha influenzato l’opinione di milioni di persone in tutto il mondo», il tutto «deliberatamente e a puro fine di lucro». Ma vediamo quali sono questi «oggetti in causa»…
Fare affari con il passato Nel 2002 – i lettori di «Archeo» lo ricorderanno – venne presentata all’opinione pubblica la scoperta di un ossuario (un antico contenitore funerario in pietra calcarea come se ne sono trovati a migliaia nei dintorni di Gerusalemme) sul quale era incisa un’iscrizione in aramaico («Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesú»). L’oggetto – si affermava – costituirebbe dunque «la prima conferma archeologica dell’esistenza di Cristo». Oggi è stato stabilito al di là di ogni dubbio che, mentre l’ossuario stesso, databile tra il 10 e il 70 d.C., è autentico,
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l’iscrizione è stata aggiunta di recente, trasformando il reperto in un falso archeologico. Ancora piú grave, è invece, la vicenda che riguarda l’altro «imputato» del processo, una lastra calcarea recante un’iscrizione, questa volta in ebraico antico, che menziona lavori di restauro eseguiti sul grande tempio di Salomone da parte di «Joash, figlio di Ahazia, re di Giuda». L’iscrizione, se autentica, avrebbe costituito la prima testimonianza archeologica relativa all’esistenza di un monumento famoso quanto evanescente: il leggendario Tempio di Salomone. Peccato che la lastra (come avevamo già intuito, vedi «Archeo» n. 221, luglio 2003) sia completamente falsa. Le indagini condotte nell’ulti-
mo anno da un’équipe di investigatori e archeologi dell’unità per la prevenzione dei furti archeologici dell’IAA hanno, inoltre, rivelato l’esistenza di una vera e propria industria specializzata nella realizzazione di falsi archeologici. Operante in Israele e con diffusi contatti internazionali, la rete di falsari ha alimentato, nel decennio trascorso, un giro di affari di svariati milioni di dollari. A cadere nella trappola di Oded Golan e compagni, però, non sono stati solo i grandi collezionisti di antichità: lo stesso Museo di Israele a Gerusalemme, sensibilizzato sull’argomento, ha messo sotto esame alcuni dei suoi reperti. E alcuni di essi sono, effettivamente, risultati falsi.
Corrispondenza da Atene
di Valentina Di Napoli
La lieta novella Trasferite nel Museo dell’Acropoli tre delle metope originali del Partenone, tra cui quella «dell’Annunciazione» ra la fine del IV e il V secolo d.C., nei difficili anni in cui T le ultime resistenze del mondo
antico cedevano di fronte alle pressioni dei Goti di Alarico, gruppi di fanatici si accanirono contro il Partenone, tentando di bruciarlo e distruggendone l’arredo scultoreo. Le metope, in particolare, furono tutte accuratamente scalpellate; o meglio, tutte tranne una, la 32a del lato settentrionale, risparmiata perché creduta una raffigurazione dell’Annunciazione (motivo per cui alcuni attribuiscono l’atto all’epoca di Teodosio, quando il santuario era stato già trasformato in luogo di culto cristiano). La metopa in questione è l’ultima di una serie di scene interpretate dagli archeologi
A destra: Atene, Museo dell’Acropoli. Gli originali (in basso) delle metope del Partenone con Zeus e Iride e con Ebe ed Era posti a confronto con i loro calchi (in alto).
A sinistra: Atene, Museo dell’Acropoli. La 1a metopa del lato occidentale del Partenone, l’unica di questo settore del monumento che rechi una sola figura, cioè la regina delle Amazzoni che incita le compagne alla lotta.
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come la raffigurazione della presa di Troia, vicenda narrata appunto nei rilievi che ornano il lato settentrionale del Partenone. L’ultima notte di Troia Assieme alle due metope che la precedono sullo stesso lato, raffigura infatti gli dèi che, riuniti sull’Olimpo, prendono la solenne decisione di porre fine alla guerra di Troia con la vittoria dei Greci; le metope restanti, invece, rappresentano momenti dell’ultima, drammatica notte della guerra in cui la città fu presa con l’inganno e rasa al suolo. La 32a metopa, quindi, non raffigura certo l’Arcangelo Gabriele che annuncia alla Vergine la sua maternità: il
DOVE E QUANDO
PRIMA
Museo dell’Acropoli Atene, odos Dionysiou Areopagitou Orario tutti i giorni, 8,00-20,00 (venerdí apertura serale fino alle 22,00); chiuso il lunedí Info www.theacropolismuseum.gr personaggio che incede sulla sinistra è Ebe e quello seduto sullo sperone di roccia del monte Olimpo è sua madre, la dèa Era. Questa metopa, come pure la 31a dello stesso lato – che raffigura probabilmente Zeus e Iride – e la 1a del lato occidentale – l’unica di questo lato a recare una sola figura, la regina delle Amazzoni che incita le compagne alla lotta – si trovava fino a due mesi fa ancora sul Partenone. Ragioni urgenti connesse alla conservazione di questi originali, minacciati dagli agenti atmosferici e dall’inquinamento, ne hanno imposto il trasporto nel Museo dell’Acropoli. Accuratamente restaurate, le metope sono state presentate al pubblico lo scorso 25 marzo. Una data scelta non a caso, poiché si tratta di un giorno speciale per la Grecia: oltre a celebrare l’inizio della rivoluzione nazionale del 1821, che portò, diversi decenni piú tardi, alla creazione dello Stato greco, il 25 marzo si festeggia anche l’Annunciazione del Signore. Parate militari che ricordano la rivoluzione vengono allestite in tutte le città greche, mentre i fedeli celebrano l’unico giorno della Quaresima in cui agli ortodossi sia concesso mangiare pesce. Una ricorrenza speciale Quest’anno, quindi, il 25 marzo è stato un giorno di festa anche per l’archeologia greca. Per il prossimo semestre le tre metope del Partenone si potranno ammirare da distanza ravvicinata nel Museo dell’Acropoli, prima di essere esposte nella collocazione
DOPO
definitiva. Spicca, nel gruppo, la metopa «dell’Annunciazione», la piú notevole non solo per lo stato di conservazione, ma anche per la splendida lavorazione, che ne fa uno dei capolavori dell’arte classica. Il trasporto definitivo delle tre opere nel Museo dell’Acropoli segna una tappa importante nel progetto di smontaggio di tutti gli originali dalla Rocca Sacra; nella
La metopa raffigurante Ebe (a sinistra) che incede verso la madre, la dea Era, prima e dopo l’intervento di restauro. Il rilievo scampò alle distruzioni operate nel IV-V sec., perché erroneamente interpretato come la rappresentazione dell’Annunciazione.
collocazione iniziale ne restano ancora pochi, tra cui anche alcune metope del lato occidentale del Partenone. Il forte segnale che questa operazione vuole trasmettere, diretto al British Museum, ma forse anche al mondo intero, mira a ricordare che la Grecia, nonostante le difficoltà degli ultimi tempi, cerca ancora con impegno di occuparsi del proprio patrimonio.
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scavi HIERAPOLIS
HIERAPOLIS di Francesco D’Andria
NELLA CITTÀ DELL’APOSTOLO FILIPPO
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Da oltre mezzo secolo una missione italiana opera nell’importante centro ellenistico-romano dell’antica Frigia, in Turchia, portandone alla luce e restaurandone i principali monumenti. Ma una delle scoperte piú sensazionali si è verificata proprio durante l’ultima campagna di scavo, quando gli archeologi, seguendo il filo di una antica memoria…
N
ell’antichità la valle del fiume Lykos (attuale Cürüksu), affluente del Meandro, era attraversata da uno dei piú famosi assi viari, la «strada reale persiana», che collegava Persepoli, capitale dell’impero achemenide, con la costa egea e il Mediterraneo. Lungo questo percorso erano passate le armate del Gran Re dirette alla conquista della Grecia e, a controllare questo territorio, era stata costruita dai Persiani la città di Colosse, in cui aveva sede il satrapo (il governatore di una provincia dell’antico impero persiano, n.d.r.). Di questa fase piú antica si conservano ben poche testimonianze, ma, a partire dall’età ellenistica, le città di questo territorio hanno restituito numerosi monumenti che si presentano ancora oggi in uno straordinario stato di conservazione, all’interno di un paesaggio di grande bellezza e suggestione. L’ampia vallata del fiume Lykos è circondata da una corona di alte montagne, tra cui svettano la catena del A sinistra: Hierapolis (Denizli, Turchia). Il cantiere di scavo che, nell’estate 2011, ha interessato la chiesa di S. Filippo. Le indagini hanno accertato che l’edificio, innalzato nel V sec. d.C., fu costruito intorno alla tomba romana, databile al I sec. d.C., identificata con il sepolcro dell’apostolo. In alto: frammento architettonico in marmo proveniente dalla chiesa di S. Filippo.
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scavi HIERAPOLIS
Salbakos, con la cima piú alta, che Mar Nero i Turchi indicano come Baba Dag GEORGIA (Monte Padre), e il massiccio del Istanbul Samsun monte Kadmos (oggi Honaz Dag), Trabzon Ankara sulle cui pendici si trova la già citata Colosse, celebre anche per la TURCHIA lettera di San Paolo indirizzata ai Izmir Hierapolis suoi abitanti, i Colossesi. La regione corrisponde al comprensorio del Antalya centro moderno di Denizli, oggi in pieno sviluppo demografico ed economico grazie alle sue industrie IRAQ Mar Mediterraneo SIRIA tessili, ma anche meccaniche e alimentari. La produzione vinicola del fertile territorio, inoltre, ogni anno progredisce per qualità e capacità di no vasche, ricami di pietra, stalattiti Qui sopra: carta della Turchia con, in evidenza, il offerta commerciale. che si dispongono lungo il pendio sito di Hierapolis. in un paesaggio fiabesco che riflette i colori del sole, in particolare In alto: veduta delle vasche Il castello di cotone di calcare di Pamukkale, La grande e fertile pianura del Ly- quelli continuamente mutevoli del l’antica Hierapolis. kos corrisponde a un graben, una tramonto. I Turchi hanno dato al Nella pagina accanto: depressione provocata dal passaggio sito il nome poetico di Pamukkale ricostruzione virtuale del della faglia sismica. I terremoti han- (il «castello di cotone»), perché le teatro romano di Hierapolis, no modellato la geografia di questi bianche formazioni calcaree ricorradicalmente riedificato in luoghi e dato origine a una serie di dano il fiore di quella pianta, oggi epoca severiana. sorgenti termali. Attraverso le pro- diffusamente coltivata nella regione. fonde fratture provocate dalla faglia nella crosta terrestre le acque calde Nuove fondazioni dai livelli profondi vengono in su- Nell’età ellenistica, in particolare perficie, ricche di carbonato di calcio dal III secolo a.C., tutta la regione che viene depositato sul terreno una di Denizli fu investita da un intenvolta a contatto con l’atmosfera. so fenomeno di urbanizzazione, in Si formano cosí le spettacolari ca- particolare con la fondazione di due scate di candido travertino che ca- città, a poca distanza l’una dall’altra, ratterizzano il sito di Hierapolis: so- Laodicea e Hierapolis. Laodicea, al 30 a r c h e o
centro della valle, dominava da un pianoro elevato il territorio circostante. Hierapolis, invece, fu costruita ai margini orientali della pianura, proprio ai piedi della catena montuosa del Çökelez Dag. Qui scaturivano le sorgenti termali, dalle profonde lesioni nel banco di travertino, e nella roccia si aprivano varie grotte, dalle quali, insieme alle acque termali, uscivano vapori di anidride carbonica e altri gas, capaci di provocare la morte istantanea degli esseri viventi che si avvicinavano allo «spiraculum Ditis». Cosí Apuleio, nel De Mundo (17), definiva questa apertura, identificata come Ploutonion, ossia ingresso agli Inferi e al regno di Hades-Plutone. Chiaro appare il riferimento a Virgilio che nel settimo libro dell’Eneide (vv. 568 ss.) definisce con lo stesso termine la grotta di Ansanto nel Sannio, dove dal suolo si alzavano i vapori venefici di un’altra divinità infera, Mefite. Queste manifestazioni naturali davano al sito un carattere spiegabile solo con l’intervento divino, che si riconosce anche alla base del nome della città, Hierapolis, «la città santa» (dal greco ieros, sacro, e polis, città).
La Missione Archeologica Italiana a Hierapolis è diretta da Francesco D’Andria (Università del Salento-Lecce; al centro), coadiuvato da Riza Haluk Soner, vice direttore. Alle attività svolte nel corso dell’ultima campagna di scavo hanno partecipato le seguenti università ed enti di ricerca: Università del Salento-Lecce (coordinatori Francesco D’Andria, Grazia Semeraro); Università Ca’ Foscari Venezia (coordinatore Annapaola Zaccaria); Politecnico di Torino (coordinatore Donatella Ronchetta); Università di Roma La Sapienza (Francesco Guizzi); Università di Messina (coordinatore Lorenzo Campagna); IBAM-CNR, Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali di Lecce (coordinatori Piera Caggia, Giuseppe Scardozzi); Università di Oslo (coordinatore Rasmus Brandt); Università di Bordeaux (Caroline Laforest). Le ricostruzioni in 3D sono state realizzate da Massimo Limoncelli, mentre i restauri sono stati curati da Mario Catania (Lecce) e da Sina Noei (Istanbul). Il lavoro sul campo ha visto coinvolti 65 ricercatori (archeologi, architetti, topografi, informatici, antropologi, ecc.) e 60 restauratori, tecnici e operai turchi.
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scavi HIERAPOLIS Sotto l’impero di Augusto e di Tiberio la ricchezza della città si manifestò attraverso un ambizioso programma di monumentalizzazione dei principali nodi urbani: il Ploutonion e il santuario di Apollo, l’agorà civile, la plateia (l’asse viario principale) che attraversava la città da nord a sud, il ginnasio e le necropoli, in particolare quella settentrionale, dove fu costruita la cosiddetta Tomba Bella, cosí indicata per la ricchezza del suo apparato decorativo.
Il segretario del principe Un’altra fase di grande sviluppo si ebbe sotto Antonino Pio (138-161 d.C.), quando fu costruito il nuovo polo monumentale intorno all’agorà nord, e sotto la dinastia dei Severi. In questo periodo il sofista Antipatro, membro di una locale famiglia Al di là di questi aspetti cultuali, la fondazione dell’insediamento risponde alla necessità di un particolare controllo di questo territorio di frontiera tra regioni appartenenti prima al regno seleucide poi – dopo la battaglia di Magnesia, nel 190 a.C., quando Roma ed Eumene II sconfissero il re Antioco III di Siria – al regno di Pergamo. A questa fase appartiene un’iscrizione importante, attualmente conservata nei Musei Statali di Berlino, contenente un decreto degli abitanti di Hierapolis in onore della regina Apollonide, moglie di Attalo I, re della dinastia attalide che aveva a Pergamo la sua capitale. Con il passaggio del regno pergameno a Roma, anche Hierapolis entrò nel dominio capitolino, seguendone le vicende in un rapporto molto stretto tra le locali aristocrazie di cultura greca e la corte imperiale. Come riferisce Strabone, le acque calde della città avevano il potere di fissare i pigmenti ai filati di lana, colorati di rosso grazie alle radici della robbia; questi tessuti erano esportati in tutto il Mediterraneo perché somigliavano alla porpora, ma erano molto meno costosi. 32 a r c h e o
IL MARTYRION
LA COLLINA DEL MARTIRIO
A sinistra: planimetria della collina orientale, ove sorge il complesso monumentale riconosciuto come il santuario di pellegrinaggio dedicato a San Filippo. Nella pagina accanto, in alto: i lavori di scavo nella chiesa di S. Filippo: si vede la scala di marmo che portava i fedeli a una piattaforma realizzata sulla tomba dell’apostolo, dove probabilmente ardevano le lampade a cui i pellegrini attingevano l’olio delle euloghie. Nella pagina accanto, in basso: planimetria di Hierapolis nel V-VI sec. d.C. In basso: la facciata della tomba a sacello di età romana (I sec. d.C.) identificata con quella dell’apostolo.
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scavi HIERAPOLIS L’ECO DELLA SCOPERTA La notizia della scoperta ha avuto una vasta eco a livello mondiale: lanciata dalla TRT, la televisione nazionale turca, è stata immediatamente ripresa dalle agenzie di tutto il mondo che hanno riproposto la notizia nelle rispettive televisioni nazionali. Le autorità turche hanno accolto con entusiasmo la scoperta che arricchisce l’offerta turistica del sito e può contribuire a sviluppare, accanto al prevalente turismo di massa (oggi piú di un milione e mezzo di visitatori l’anno), un turismo di qualità, orientato alla scoperta delle memorie cristiane (inanç turizm – turismo religioso) di cui tutta la regione è ricca. Nella scorsa estate molti turisti sono saliti sulla collina chiedendo di poter vedere la tomba, e alcuni
A destra: veduta aerea della collina orientale con le rovine del complesso di S. Filippo: A Terme; B Chiesa; C Martyrion. In basso: ricostruzione virtuale del Martyrion di S. Filippo, a pianta ottagonale e copertura a cupola. Il corpo centrale dell’edificio era circondato da 28 camere quadrate in cui si praticava il rito dell’incubazione.
B C
A
Nella pagina accanto, in basso: veduta aerea delle terme ottagonali rinvenute ai piedi della collina orientale, e collegate al vasto complesso dedicato all’apostolo, utilizzate dai pellegrini per i riti di purificazione.
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domandavano perfino di poter venerare le ossa dell’apostolo. È stato necessario predisporre percorsi mirati all’interno del cantiere in cui operavano i mezzi come la grande gru semovente, indispensabile per spostare le centinaia di blocchi di travertino e di marmo
pesanti anche varie tonnellate. Tra i visitatori anche gruppi di pellegrini cattolici guidati dai loro parroci, pastori anglicani, cristiani di ogni confessione molto interessati e attratti dallo straordinario fascino di queste rovine e del paesaggio circostante. Un giorno è arrivato un centinaio di Cinesi di Hong Kong guidati da alcuni docenti inglesi: sembravano straordinariamente informati sulla tradizione del martirio e della sepoltura di Filippo a Hierapolis e alcuni hanno chiesto, citando gli Atti degli Apostoli, se si trattasse effettivamente del diacono o dell’apostolo Filippo.
In alto: veduta aerea della chiesa di S. Filippo. In basso, sulla destra, nella navata centrale, si trovano due grandi vasche rettangolari, rivestite di lastre di marmo, collegate a due vasche piú piccole, per le immersioni individuali. Il culto di San Filippo era caratterizzato da pratiche di guarigione attraverso l’impiego dell’acqua e l’immersione dei fedeli.
aristocratica, ricoprí cariche molto importanti presso la corte come segretario di Settimio Severo ex epistulis graecis (scrittore dei testi in greco per l’imperatore) e come istitutore dei principi Caracalla e Geta. Anche per questi collegamenti, oltre che per il crescente sviluppo economico, Hierapolis continuò ad arricchirsi di nuovi e sontuosi monumenti, come il teatro, che fu radicalmente ricostruito. I sedili in travertino della cavea furono sostituiti con sedili in marmo e la frontescena venne rinnovata, con la costruzione di tre ordini architettonici di marmo dalla straordinaria decorazione figurata in cui si esaltavano i culti locali di Apollo e di Artemide e la fedeltà all’imperatore e alla sua famiglia (vedi foto a p. 31). Nello stesso periodo la città fu ornata, lungo la grande strada di attraversamento nord-sud, da due grandi fontane, quella dei Tritoni, lunga 70 m, proprio all’ingresso dell’area urbana, e il ninfeo del tempio nel cuore della città, che formava un diaframma monumentale per quanti entravano nel recinto del santuario di Apollo, celebre per il suo oracolo.
Le prime esplorazioni Dopo un lungo abbandono, le rovine della città furono riconosciute e descritte nel XVII e XVIII secolo dai viaggiatori inglesi, come Richard Chandler che vi si recò grazie a un contributo della Society of Dilettanti. Nell’Ottocento sono i Francesi, come Léon De Laborde e Charles Texier, a raccontare e descrivere attraverso suggestive incisioni le bellezze del paesaggio e dei monumenti in rovina, come il teatro e le necropoli disseminate di sarcofagi. Ma il primo importante lavoro scientifico sulla città si deve a un gruppo di studiosi tedeschi, guidati da Carl Humann, i quali nel 1898 pubblicano il volume Altertümer von Hierapolis, a seguito di una breve ma intensa visita nella città in cui annotarono le principali caratteristiche del sito, soffermandosi sulla estesissima necropoli e le sue centinaia di iscrizioni. a r c h e o 35
scavi HIERAPOLIS GLI ATTI DELL’APOSTOLO FILIPPO Agli inizi del V secolo, quasi certamente a Hierapolis, venne elaborato un testo, inserito tra i Vangeli apocrifi e indicato come «Acta Philippi». Lo scritto narra le vicende e i miracoli del Santo e la sua opera di evangelizzazione di regioni misteriose e lontane al di là del Mar Caspio sino al suo arrivo nella città di Ophyoryme, che significa «il cammino dei serpenti», identificata dai commentatori con Hierapolis. Numerosi sono nel testo i riferimenti ai terremoti e alle manifestazioni del mondo sotterraneo che, attraverso squarci e aperture nella roccia, fa venire in superficie draghi contro i quali il Santo combatte vittoriosamente. Il testo è molto interessante ed è legato non solo alla realtà geografica e naturale della Frigia, ma anche alle specifiche tradizioni religiose sia pagane (Cibele e i culti della fecondità), sia cristiana. In Frigia, infatti, si sviluppò l’eresia montanista che prende il nome da Montano, un sacerdote della dea Cibele che si converte, conservando nel nuovo contesto i caratteri dei culti frigi, come l’acquisizione dei poteri profetici da parte delle donne o l’astinenza sessuale (i sacerdoti del culto frigio, i Galli, erano eunuchi). Negli Acta appare molto evidente l’influsso di una corrente ascetica e rigorista, anch’essa diffusa Martirio di San Filippo. Olio su tela di José de Ribera detto lo Spagnoletto. 1639 circa. Madrid, Museo del Prado.
A questa memorabile impresa fece seguito un lungo oblio, fino al 1957, quando un ingegnere e docente del Politecnico di Torino, Paolo Verzone, piantò la sua tenda sul pianoro di Hierapolis, fondando la Missione Archeologica Italiana. Questa istituzione, oggi diretta da chi scrive, ha portato alla luce e restaurato i principali monumenti della città, contribuendo in modo significativo a fare di Hierapolis uno dei centri archeologici piú studiati e piú noti del Mediterraneo, meta ogni anno di piú di un milione di turisti. Per la straordinaria combinazione di paesaggi naturali e testimonianze archeologiche, inoltre, Hierapolis è stata inserita nel 1988 nella lista del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO con il n. 485. Ma proseguiamo con il racconto della storia antica di Hierapolis, per arrivare all’età cristiana. Dopo un terremoto molto violento, riferibi36 a r c h e o
le alla seconda metà del IV secolo d.C., la città non poté ricostruire molti dei suoi monumenti. Non lo permettevano la scarsità delle risorse economiche ma, soprattutto, il nuovo assetto politico e culturale determinato dallo sviluppo di un impero dichiaratamente cristiano.
Dopo il terremoto La città si riorganizzò intorno a nuovi poli monumentali protetti da una possente fortificazione di 2100 m, che racchiudeva un’area di 65 ettari. Il grande complesso sorto in età antonina intorno all’agorà settentrionale era stato gravemente danneggiato dal sisma e solo le terme furono salvate, con la loro trasformazione in chiesa. I vasti portici di marmo della piazza e lo stesso teatro settentrionale furono lasciati fuori dal recinto fortificato e ridotti a una gigantesca cava di materiali da costruzione. I blocchi in travertino furono facilmente reimpiegati nelle mura, mentre gran parte dei marmi vennero cotti nelle fornaci e trasformati in calce.
Sigillo in piombo di San Filippo rinvenuto nella cattedrale di Hierapolis. VI sec. d.C.
in Frigia, e legata alle tradizioni gnostiche, quella degli encratiti (in latino i continentes, quelli che controllano le passioni); infatti essi identificavano il male nella materia e nella carne, erano astemi e vegetariani, contrari al matrimonio, praticavano l’astensione dal sesso. L’arrivo di Filippo a Hierapolis e la sua opera sino al martirio sono narrati nei capitoli XIII-XV degli Atti, in cui emergono i caratteri della sua azione indirizzata alla conversione dai culti pagani al cristianesimo e alla guarigione dei malati. Al suo arrivo nella città, con i compagni Marianna e Bartolomeo, inizia a operare miracoli che mostrano le sue capacità taumaturgiche: le scoperte effettuate a Hierapolis intorno alla tomba confermano questo carattere del culto (incubazione, purificazione con l’acqua, vasche per le immersioni individuali). Infatti, il primo atto di Filippo è la guarigione del cieco Stachys che attira una grande folla desiderosa di essere battezzata. Ciò provoca l’ira del proconsole, adoratore della Vipera, dal nome inquietante di Tyrannognophos, soprattutto dopo la conversione di sua moglie Nicanora. Filippo viene appeso a un albero e crocifisso a testa in giú per essere giustiziato, ma una scossa di terremoto
A partire dall’età di Teodosio (347395 d.C.), la città andò riorganizzandosi all’interno delle sue fortificazioni, che la proteggevano dalle incursioni dei barbari; mentre gli antichi santuari pagani venivano disattivati e demoliti, sorgevano nuovi monumenti di riferimento, costituiti da chiese sempre piú complesse e ricche di decorazioni e arredi liturgici. Accanto alla cattedrale a tre navate con il battistero fu costruita, non lontano dal santuario di Apollo, una straordinaria chiesa sostenuta da grandi pilastri in travertino da cui proviene un’iscrizione con la citazione del patriarca Gennadios. Un’altra chiesa a tre navate dominava la conca del teatro da una collinetta in cui probabilmente in età imperiale sorgeva l’altare dei Dodici dèi, il Dodekatheon in marmo, i cui blocchi sono sparsi in tutta l’area.
Il santuario dell’apostolo Le testimonianze piú importanti della fase protobizantina della città di Hierapolis sono costituite
fa aprire un abisso che inghiotte il proconsole, la folla e i preti del culto dei serpenti. Solo l’apparizione di Cristo Salvatore fa risalire gli empi dall’abisso, tranne Tyrannognophos, i preti e la vipera che essi adoravano. Dopo aver predicato e invocato il perdono del Signore, Filippo rende il suo spirito di fronte alla folla. I compagni Bartolomeo e Marianna fecero scendere il suo corpo dalla croce «costruirono la chiesa in questo stesso luogo e vi stabilirono Stachys come vescovo (…) e dalla testa dell’apostolo iniziò a scaturire un’essenza profumata». Nel testo, pur nella sua complessità e negli aspetti a volte curiosi ed eccessivi, appaiono molti elementi che i recenti scavi hanno permesso di evidenziare, come la costruzione della chiesa sul luogo del martirio, da identificare con l’ottagono costruito alla sommità della collina. Anche Filippo medico e guaritore negli Acta sembra trovare riscontro negli impianti delle terme, nelle vasche per immersione e nelle stanze intorno all’ottagono destinate alle pratiche di incubazione dei pellegrini. Come pure la camera rinvenuta sotto l’altare martiriale e il tubo in terracotta in cui si versava l’olio profumato (il myron) ricordano l’essenza odorosa che scaturisce dalla testa dell’apostolo alla sua morte.
PER CONOSCERE FILIPPO • Solo il IV Vangelo dà notizie di lui: Filippo nacque forse a
Betsaida e volle unirsi a Gesú avendolo riconosciuto come Messia.
• È il quinto apostolo, dopo le due coppie di fratelli, Simon Pietro-Andrea e Giacomo-Giovanni.
• Constatò, al momento della moltiplicazione dei pani, che «non sarebbero bastati 200 denari per dare a ciascuno una piccola porzione».
• Per iniziativa sua e dell’apostolo Andrea furono portati al
cospetto di Gesú alcuni «Greci» (gentili, o proseliti greci del giudaismo) che volevano parlargli.
• Nell’Ultima Cena gli viene attribuita la frase: «Signore,
mostraci il Padre, e ci basta» (Giovanni 1, 43-45; 6, 5-7; 12, 20-22; 14, 8).
• La tradizione gli attribuisce l’evangelizzazione della Frigia e lo fa morire a Hierapolis, crocifisso a testa in giú.
• Si festeggia il 3 maggio, con San Giacomo. • Portano il suo nome vari apocrifi:
Atti di Filippo, testo della prima metà del IV secolo, di cui restano solo frammenti, anche in lingue orientali, rappresentanti recensioni diverse; Vangelo di Filippo, in uso presso gli gnostici d’Egitto, di cui una versione copta è stata ritrovata a Nag Hammadi nel 1945 (vedi, in questo numero, lo speciale alle pp. 70-91). a r c h e o 37
scavi HIERAPOLIS
dal complesso monumentale che occupa la collina orientale e che è stato riconosciuto come il santuario di pellegrinaggio dedicato a San Filippo. Sulla presenza dell’apostolo nella città frigia abbiamo numerose e autorevoli testimonianze che riportano anche la notizia del suo martirio. Nell’anno 190 d.C. il vescovo di Efeso, Policrate, scriveva una lettera al papa Vittore, a proposito del giorno in cui si dovesse celebrare la Pasqua. In quel testo, il vescovo rivendicava le origini apostoliche delle Chiese orientali in questi termini: «Anche in Asia infatti riposano grandi astri, che si leveranno nell’ultimo giorno della parousía del Signore (…) (tra questi) Filippo, uno dei dodici Apostoli, il quale si è addormentato a Hiera38 a r c h e o
polis (…) anche Giovanni (…) si è addormentato a Efeso». In questa serrata dialettica tra Chiese latina e orientale, si inscrive un secondo testo, contenente il dialogo tra il presbitero romano Gaio e Proclo, un rappresentante dell’eresia montanista che aveva le sue radici proprio in Frigia. Mentre Gaio indica i trofei di Pietro e di Paolo, fondamenta della Chiesa di Roma, Proclo rivendica la nobiltà apostolica di Hierapolis, dove si trova il sepolcro di Filippo e delle sue figlie profetesse.
Numeri simbolici Già nei primi anni di attività della Missione, Paolo Verzone aveva cercato il riscontro archeologico di queste testimonianze, concentrando le sue ricerche nelle rovine
I resti dell’altare martiriale della chiesa di S. Filippo. Le colonnine che sostenevano la mensa eucaristica poggiavano sopra una lastra monolitica di marmo, sotto la quale è stata individuata una camera funeraria delle stesse dimensioni dell’altare, dove erano probabilmente deposte le reliquie del Santo (vedi anche il disegno alla pagina accanto).
UNA VISITA IMPORTANTE La scoperta della tomba di Filippo ha interessato anche il mondo dei cristiani ortodossi e il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartholomeos, che ha voluto ricevere chi scrive nella sede del Fanar e ascoltare direttamente dalla voce dell’archeologo la notizia della scoperta. Il giorno 14 novembre scorso, in cui ricorre per la Chiesa ortodossa la panegyris (la festa) di San Filippo, il patriarca si è recato a Hierapolis per visitare il santuario protobizantino e per celebrare, nel luogo del martirio e della sepoltura, la liturgia eucaristica e gli inni in onore del Santo. Tra le arcate del Martyrion ottagonale è stato allestito lo spazio dell’altare con gli arredi della liturgia; sono state collocate le icone e, da Costantinopoli, è stata portata anche una reliquia dell’apostolo. Gli abiti liturgici, i modi del rito, ma soprattutto i canti del coro, hanno creato un’atmosfera di forte misticismo. È stata fonte di grande commozione sentire risuonare tra le mura dell’Ottagono le melodie e i canti orientali, dopo piú di mille anni. A conclusione della celebrazione eucaristica, il patriarca ha voluto visitare la tomba e la nuova chiesa scendendo con agilità la scalinata in travertino. Bartholomeos si è meritato infatti l’appellativo di «patriarca verde» per il suo amore verso la natura e per il suo impegno a difesa dell’ambiente che lo porta a visitare luoghi impervi, a contatto con la bellezza dei paesaggi.
di una chiesa a pianta ottagonale posta sulla sommità della collina in cui correttamente aveva identificato il Martyrion dedicato a San Filippo. Verzone aveva messo in evidenza la nobiltà e la complessità di queste architetture basate anche su una sottile simbologia dei numeri: gli otto lati del corpo centrale fanno riferimento all’Aion, il tempo senza fine, l’Aeternitas, come dicono i Padri della Chiesa Ambrogio e Agostino. Il quadrato in cui è inglobata la chiesa fa riferimento ai quattro Evangelisti, i cortili triangolari alla Trinità, le cappelle eptagonali (a sette lati) che raccordano il corpo centrale ai cortili richiamano la sacralità del numero sette, risalente alla tradizione giudaica e alle sette chiese dell’Apocalisse. Per le ventotto camere quadrate
Di fronte alla tomba, il primate delle Chiese d’Oriente si è raccolto in preghiera e ha deposto i fiori che erano stati portati da alcune donne provenienti da Smirne. A conclusione della visita, Bartholomeos ha rilasciato una dichiarazione ai media della Turchia sottolineando l’importanza del luogo e della scoperta anche per la capacità di attrarre nuovi visitatori; il patriarca ha voluto anche ricordare le vittime del terremoto che in quei giorni aveva devastato i territori orientali della Turchia, intorno al lago di Van ed esprimere a quelle popolazioni sofferenti la sua vicinanza e solidarietà.
Ipotesi ricostruttiva dell’altare della chiesa di S. Flippo e della camera funeraria sottostante in cui erano custodite le reliquie. Attraverso un tubo di terracotta che collegava il piano pavimentale alla camera ipogea i pellegrini potevano introdurre sottili strisce di stoffa (brandea) che al contatto diretto con le sacre reliquie acquisivano proprietà taumaturgiche.
C
scavi HIERAPOLIS A destra: veduta della collina di San Filippo con i resti delle terme (A), la scalinata (B) e il Martyrion (C).
B A
C
D
A B
Qui sopra: ricostruzione virtuale degli edifici della collina di San Filippo. In primo piano, l’edificio ottagonale identificato con le terme (A) e la lunga scalinata di travertino (B) che conduceva sino alla sommità dove si trovavano il Martyrion (C) e la chiesa (D) dedicati all’apostolo. A destra: stampo in bronzo per i pani dei pellegrini, da Hierapolis. VI sec. d.C. Richmond (USA), Virginia Museum of Fine Arts.
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che circondano il corpo centrale del Martyrion,Verzone propose una funzione di accoglienza e ricovero dei pellegrini che da tutta l’Asia venivano a venerare la tomba dell’apostolo. Nell’osservare che queste camere non avevano pavimenti e che i pellegrini dovevano dormire a contatto con il piano di roccia affiorante, Verzone ebbe un’intuizione che le recenti ricerche hanno confermato: nel santuario si praticava l’incubazione. Durante il sonno, come nei santuari di Asclepio, il Santo appariva in sogno ai fedeli per guarirli dai loro mali e per rive-
lare i segreti del loro futuro. A San Filippo, infatti, la tradizione letteraria collega proprio la pratica della profezia, attraverso le sue figlie, che possedevano questo dono oracolare.
In cerca del sepolcro Nei primi anni della Missione si cercò la tomba di Filippo all’interno della chiesa ottagonale, ma senza alcun risultato.Verzone aveva praticato saggi nella zona dell’altare, mettendo in luce il pavimento a lastre di marmo, ma nessun indizio faceva pensare alla presenza di una tomba o di una struttura per ospitare le reliquie. Dopo una lunga interruzione le ricerche sono riprese nel 2000, nell’ambito di un programma di indagine sistematica del monumento e del suo contesto topografico. L’utilizzo dei sistemi moderni di indagine del territorio attraverso il telerilevamento e l’analisi delle immagini satellitari da parte di un’équipe guidata da Giuseppe Scardozzi, ricercatore dell’IBAM-CNR, portò all’identificazione di altri edifici che circondavano il Martyrion. Questa chiesa, dunque, non dominava il paesaggio circostante in uno splendido isolamento, ma costituiva il centro di un sistema complesso, a cui si giungeva attraverso una lunga strada processionale che, partendo dalla porta di ingresso alla città, attraversava l’abitato protobizantino costeggiando la cattedrale e usciva
nuovamente dal circuito murario attraverso un’altra porta, fiancheggiata da due torri. A mezza costa della collina orientale, una lunga scalinata costruita con grandi lastre di travertino portava sino alla sommità dove si ergono ancor oggi le monumentali strutture del Martyrion. Al complesso di edifici realizzati nel V secolo d.C. appartiene anche un secondo ottagono, proprio ai piedi della collina. Qui si fermavano i pellegrini, prima di affrontare la salita, per lavarsi e per purificarsi: gli scavi hanno infatti dimostrato che si tratta di edificio termale in cui, all’interno della forma ottagonale, si articola un percorso che dal vasto spogliatoio porta al calidarium, con piccole vasche, accuratamente rivestito di lastre di marmo. Che l’edificio svolgesse funzioni rituali è chiarito non solo dalla posizione, ma anche dal ritrovamento di varie euloghie (letteralmente «benedizioni», piccoli recipienti in terracotta segnati da croci e altre immagini di santi, che contenevano acqua benedetta oppure l’olio delle lampade che ardevano sui luoghi sacri della cristianità). Dopo la sosta, che aveva anche una funzione igienica considerando le lunghe marce e i disagi del viaggio, i pellegrini salivano sino a uno spiazzo ai piedi del Martyrion e, prima di percorrere l’ultimo tratto della scalinata, potevano compiere altre abluzioni presso una fontana (aghiasma), che ancora oggi
domina il paesaggio. In questa zona le ricerche furono sempre scoraggiate dalla presenza di un immenso cumulo di pietrame che interessava tutta l’area circostante la fontana. Con la sistematica indagine topografica e la messa in pianta di tutte le strutture per la realizzazione dell’Atlante della città, era apparso chiaro che le migliaia di pietre coprivano un importante edificio, che mai era stato oggetto di considerazione. Nella campagna 2010, dunque, si iniziò un’opera di parziale spietramento dell’area e di pulitura delle strutture murarie dalla vegetazione: subito apparvero blocchi architettonici in marmo con i motivi caratteristici dell’arte protobizantina.
Un indizio decisivo Ma l’elemento che maggiormente aveva attirato l’attenzione era la parte sommitale di una tomba a sacello di età romana, che emergeva appena dal cumulo dei crolli. Non era di per sé un fatto eccezionale poiché tutta l’area, prima della fase bizantina, era interessata da una vasta necropoli, di età imperiale. Tuttavia, questa tomba si distingueva in modo singolare rispetto alle altre strutture della vicina necropoli poiché tutta la sua facciata era interessata da fori (alcuni avevano ancora all’interno i chiodi di ferro) e la cornice della porta appariva lisciata e levigata dal ripetuto contatto con
LO STAMPO IN BRONZO PER I PANI DEI PELLEGRINI Le tecnologie digitali ci permettono oggi di ricostruire gli edifici che segnavano lo spazio e i percorsi sulla collina orientale. Dal ponte e dalle terme la grande scalinata portava allo snodo fiancheggiato dalle due chiese: a sinistra, in alto, il Martyrion ottagonale coperto da una cupola, a destra la chiesa a tre navate con copertura a spioventi in legno e tegole. Uno straordinario documento viene ora a sostenere l’interpretazione proposta: si tratta di un sigillo bronzeo di 12 cm di diametro, che serviva a segnare i pani da distribuire ai pellegrini. Proviene da Hierapolis e attualmente è conservato al Virginia Museum di Richmond negli Stati Uniti, dove è giunto attraverso il collezionismo privato, forse da Smirne. Databile al VI secolo d.C.,
rappresenta al centro San Filippo, vestito con il pesante mantello dei pellegrini, mentre lungo il bordo corre l’iscrizione del trisaghion «Santo, santo, santo il Signore». Il fatto straordinario è costituito dai due monumenti raffigurati ai lati di San Filippo, una vera «fotografia» del periodo bizantino che ci mostra gli edifici cosí come li abbiamo ritrovati negli scavi, in particolare quello di destra con una facciata a due spioventi, in cui è rappresentato, anche se stilizzato, il tetto di tegole quadrate. Inoltre va segnalata la presenza di una lampada, sospesa nel vano d’ingresso, che allude alla presenza del sepolcro, secondo un’iconografia diffusa che va dall’Anastasis di Gerusalemme alla tomba di San Pietro a Roma.
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scavi HIERAPOLIS IL PELLEGRINO FRANCESE DEL TRECENTO Nello scavo di una tomba della vicina necropoli orientale di Hierapolis, l’équipe norvegese guidata da Rasmus Brandt ha rinvenuto, in un contesto di sepolture collettive databili all’età bizantina, lo scheletro di un pellegrino europeo, forse francese, databile all’inizio del XIII secolo. Presso la testa, un tempo cucite forse su un cappello, sono state accuratamente recuperate quattro placchette in piombo o signa peregrinorum, che erano state raccolte nei santuari visitati nel corso di un lungo pellegrinaggio intrapreso dalla Francia: Santa Maria di Rocamadour nei Pirenei, San Leonardo di Noblat, nella regione di Limoges, e, infine, la basilica dei Santi Pietro e Paolo a Roma. In un’epoca segnata dai continui scontri militari tra i potentati selgiuchidi e le truppe di un impero bizantino molto indebolito, questo pellegrino europeo diretto in Terra Santa aveva trovato la pace a Hierapolis ed era stato sepolto dai compagni vicino al Martyrion, un cumulo grandioso di rovine che possedeva ancora un intimo e profondo valore religioso.
molte mani. Era ormai chiaro che occorresse comprendere la funzione di questo nuovo edificio all’interno del grande complesso della collina orientale. Nella lunga campagna di scavi condotta dalla Missione tra luglio e settembre del 2011, le strutture sono state scavate sistematicamente, portando alla luce una chiesa protobizantina a tre navate, con abside centrale dal profilo esterno poligonale. Ma il fatto piú interessante era che questa chiesa appariva costruita intorno alla tomba romana, che abbiamo datato al I secolo d.C. sulla base del tipo architettonico a sacello, con camera rettangolare dotata di letti funerari su tre lati. I fori sulla facciata non appartenevano alla fase romana, ma erano stati praticati per rivestire l’ingresso con un’incorniciatura metallica (forse una porta in bronzo o in argento) e per inglobare la struttura piú antica in una sorta di teca-reliquiario che impreziosiva la tomba. Dal nartece (il vestibolo interno, n.d.r.), una scala di marmo portava i fedeli a una piattaforma realizzata sulla tomba stessa, dove probabilmente ardevano le lampade a cui i pellegrini 42 a r c h e o
attingevano l’olio delle euloghie. I gradini della scala appaiono significativamente consunti dal passaggio di numerosi fedeli, prova della grande capacità di attrazione di questo luogo santo.
Il Santo taumaturgo Difficile riassumere i tanti ritrovamenti effettuati nella chiesa in una sola, anche se intensa, campagna di scavo: mosaici pavimentali e parietali, decorazioni di marmo, pavimenti in opus sectile (a motivi geometrici con lastrine di marmi policromi), iscrizioni, ceramiche di vario tipo che segnano le fasi di uso dell’edificio sino alla sua distruzione e al conseguente abbandono in età selgiuchide (XIII secolo d.C.). Il dato piú importante è emerso nella navata centrale, proprio accanto alla tomba: qui gli scavi hanno portato alla luce due profonde piscine rettangolari, rivestite di grandi lastre di marmo. A esse erano collegate due vasche piú piccole, funzionali a immersioni individuali. Questi elementi ci consentono di affermare che il culto tributato a San Filippo si caratterizzava anche per pratiche di guarigione
Le insegne di un pellegrino europeo, sepolto in una tomba della necropoli orientale di Hierapolis, presso il Martyrion.
attraverso l’impiego dell’acqua e l’immersione dei fedeli: si tratta di un’acqua che veniva portata dalle sorgenti dell’altopiano sopra la città e che acquistava la dynamis, il potere miracoloso, per il contatto con la tomba del Santo, presso la quale era fatta passare. Filippo assume cosí il ruolo di taumaturgo e anche queste vasche vanno lette in un sistema che vede i pellegrini purificarsi nelle terme e, alla conclusione del percorso, praticare il rito dell’incubazione dentro le stanze disposte intorno al Martyrion, cosí da ricevere in sonno le indicazioni del Santo. Appare evidente come nei nuovi santuari cristiani i caratteri dei culti di guarigione pagani venissero rifunzionalizzati, divenendo fattore di attrazione per le popolazioni dell’Asia che nei secoli precedenti avevano cercato guarigione e sollievo spirituale nei santuari di Asclepio e delle altre divinità sanatrici. A Hierapolis il culto di Serapide e di Iside aveva risposto a questa domanda di salute fisica, ma non bisogna dimenticare il ruolo centrale che in tutta l’Asia aveva rivestito il grande complesso dell’Asklepieion di Pergamo, sede di una delle piú celebri scuole di medicina dell’antichità.
santi Cosma e Damiano si sovrappose alle strutture del santuario di Asclepio, riutilizzando i portici per le pratiche di incubazione e la sorgente per le immersioni guar itr ici, propr io come vediamo a Hierapolis. Lo stesso fenomeno si riscontra anche nei santuari di altri santi medici, come Ciro e Giovanni, nella località di Menouthis, uno dei sobborghi di Alessandria in Egitto. Altri dati fondamentali per comprendere le modalità del culto a Hierapolis sono emersi man mano che lo scavo ha interessato la zona dell’abside delimitata dal templon, un recinto con colonne di marmo che divideva i fedeli dalla zona in cui si svolgeva il culto eucaristico. Qui, di fronte al synthronon dell’abside (struttura a gradini sui quali sedevano i mem-
Si va dunque definendo sempre piú chiaramente il percorso di fede di quanti visitavano il Santuario di San Filippo tra il V e il IX secolo d.C., articolato nei tre punti principali costituiti dal luogo del martirio del Santo (ottagono sulla collina), dalla tomba vuota e dal vano sotto l’altare, in cui si conservavano le reliquie dell’apostolo.
La traslazione delle reliquie Ma dove sono finite le ossa dell’apostolo Filippo? Già nel VI secolo d.C. furono trasferite a Costantinopoli e una parte delle reliquie giunsero a Roma dove Papa Giovanni III (561-574) fece costruire l’«ecclesiam sanctorum apostolorum Philippi et Iacobi» per custodirle. Della chiesa paleocristiana resta poco perché durante il Rinascimento venne totalmente rifatta con proporzioni monumentali: indicata oggi come chiesa dei Santi Apostoli si trova nel cuore di Roma, non lontano da piazza Venezia. Nel 1869 alcuni scavi furono eseguiti sotto l’altare portando alla scoperta di una struttura martiriale realizzata con marmi preziosi come il pavonazzetto: un foro rotondo collegava l’altare con un loculo sottostante in cui fu rinvenuto un cofanetto di argento che conteneva alcune ossa, oggetto di venerazione nella chiesa dedicata all’apostolo Filippo. La traslazione delle ossa del Santo a Costantinopoli non spense il ricordo della veneranda sepoltura di Hierapolis anche nel Medioevo. Durante i secoli IX-XI varie sepolture vennero realizzate all’interno della chiesa, soprattutto intorno alla tomba romana, e nel 1190, nel corso della terza crociata, Federico Barbarossa decise di passare proprio all’interno della città in rovina («dirutam civitatem») per celebrare la memoria dell’apostolo Filippo, facendo sfilare i crociati «cum cruce in litania majori». Le recenti indagini archeologiche hanno ulteriormente confermato la persistente centralità di questi luoghi santi.
La memoria della veneranda sepoltura si mantenne fino al Medioevo
bri del clero durante le celebrazioni), è venuto alla luce l’altare, che presenta le tipiche caratteristiche di un altare martiriale. Sopra una lastra monolitica di marmo poggiavano le quattro colonnine che sostenevano la mensa eucaristica, ma, sotto la lastra, si è indiCurare senza chiedere Dal dio benefico di Pergamo e di viduata una camera funeraria delle Epidauro ai santi medici come Co- stesse dimensioni dell’altare, nella sma e Damiano il percorso appare quale dovevano essere state deposte coerente e i santi anargyri (che cu- le reliquie del Santo a cui si tributarano senza chiedere denaro, a diffe- va il culto. Certamente erano le ossa renza degli esosi medici dei pagani) prelevate dalla tomba di età romadiventano gli eredi della medicina na posta nella navata laterale della antica. Anche nei dismessi santuari chiesa. Il piano dell’altare era colledi Asclepio si impiantarono le chiese gato al vano sottostante tramite un dei santi medici, che guariscono at- tubo di terracotta: dall’imboccatura traverso l’acqua secondo il modello del tubo si versava il myron, l’olio di Cristo, medico per eccellenza del profumato, e, attraverso questo concorpo e dell’anima, che a Gerusa- dotto, si introducevano nella camelemme aveva restituito la sanità al ra ipogea i brandea, sottili strisce di povero storpio presso la piscina delle tessuto, che diventavano esse stesse reliquie per contatto: i pellegrini le pecore (Probatica, Giov. 5, 1-9). Per esempio ad Atene, sulle pen- portavano con sé come phylakteria, dici dell’Acropoli, la chiesa dei per allontanare pericoli e malattie.
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CNOSSO SOTTO IL SEGNO DEL MINOTAURO
di Massimo Vidale
Centro politico e culturale della civiltà minoica, il palazzo cretese è il luogo in cui realtà e mito si confondono: nell’intricato groviglio di sale e corridoi affrescati, cortili e scalinate, l’archeologo Arthur Evans volle riconoscere la leggendaria reggia che il genio di Dedalo aveva creato per nascondervi il mostruoso Minotauro. Ma la sensazionale scoperta, avvenuta agli inizi del Novecento, fu ben presto adombrata dall’accusa di aver dato adito a un clamoroso «falso»… 44 a r c h e o
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n mare blu che divide due continenti enormi, e, al centro, un’isola lontana, ma scalo obbligato di grandi navi, insidiate nel lungo viaggio da onde, maremoti e pirati. Al centro dell’isola un palazzo di mille stanze, unite e divise da percorsi intricati, in cui vive un mostro orrendo. La storia, da millenni, è sempre la stessa: l’eroe viene gradualmente attirato dagli eventi e dalla sua stessa natura in questo nodo inestricabile. La creatura innaturale deve essere uccisa, e si può farlo solo ricorrendo al calcolo e all’astuzia, prima ancora che alla forza. Ma la lucida lama dell’ascia a doppio taglio dell’archeologia e dell’antica religione – labrys, l’arma che dà il nome stesso al labirinto – riflette, alla fine, il volto atterrito dell’eroe. È il momento della conoscenza, e l’arma è lí a ricordarci che uccidere il mostro è anche un po’ uccidere noi stessi. Vittorioso, l’eroe dovrà ripercorerre a ritroso il suo cammino tortuoso, risorgere alla luce del sole e riacquistare faticosamente la propria normalità, che però non sarà mai piú la stessa, perché labirinti e creature mostruose scavano nell’anima solchi incancellabili, e il vero «filo di Arianna» è una pista di sangue, dolore e innocenza perduta che salva, ma non redime, e non potrà mai essere cancellata. È l’eroe che paga sempre per tutti, semplicemente perché egli è tutti noi. È l’antichissimo mito del labirinto, ma è anche la trama, ormai piú che consueta – quindi compiutamente e profondamente letteraria -, dei miti piú popolari di oggi, esplorati in dettaglio dai contemporanei (segue a p. 48)
Affresco parietale con scena di taurocatapsia (gara rituale consistente in un salto acrobatico sul toro, animale sacro nella Creta minoica) proveniente dall’ala est del Palazzo di Cnosso. 1425-1300 a.C. circa. Heraklion (Creta), Museo Archeologico. In basso: pendente in oro in forma di ascia bipenne. XVII-XVI sec. a.C. Würzburg, Martin-von-Wagner-Museum der Universität.
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cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA LA RICERCA CONTINUA Dopo la morte dello scopritore del Palazzo di Cnosso, sir Arthur Evans, nel 1941, gli scavi a Cnosso proseguono, praticamente ininterrotti, fino ai giorni nostri, ad opera della British School of Archaeology, per chiarire la stratigrafia, la sequenza ceramica e le intricate vicende del complesso palaziale.
1957-1961
cavo delle case sud-occidentali. S cavo dei livelli arcaici, delle case arcaiche lungo il fronte sud del S
1958-1981
Intensa attività di ricognizione e recupero dei resti archeologici in
1957
palazzo e delle costruzioni a lato della «Strada Reale».
pericolo intorno al complesso palaziale. Dal 1960 in poi Pubblicazione sistematica delle diverse aree di scavo del Palazzo alla luce delle note di scavo originali di Arthur Evans. 1968-1969 Scavo della «Casa Inesplorata». Scavo del settore sud-ovest del Palazzo, ambienti a est del «Corridoio 1973 Processionale». 1978-1981 Scavo del «Sito del Museo stratigrafico», scoperta dell’«Affresco delle Ghirlande». Fine anni ’80 Scavo dell’ala sud-ovest del Palazzo; costruzioni esterne Primi anni ’90 alla facciata orientale. Knossos Urban Landscape Project (KULP): ricognizioni, rilievi 2005 architettonici, prospezioni geofisiche e studi sui cambiamenti geomorfologici.
A sinistra: l’archeologo inglese Arthur Evans (in alto, al centro), scopritore di Cnosso, fotografato sugli scavi durante la ricostruzione del Palazzo. Oxford, Ashmolean Museum. In basso: ritratto di Arthur Evans, di William Blake Richmond (1842-1921). 1907 circa. Oxford, Ashmolean Museum.
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evidenza, il sito di Cnosso, situato presso la costa centro-settentrionale dell’isola.
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cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA romanzieri del mistero e dell’orrore. Da Omero a Stephen King: un percorso letterario intricato e incerto, e solamente uno dei tanti labirinti di esperienze e idee che, nella storia del Palazzo di Cnosso e della riscoperta del suo passato, si incastrano indissolubilmente gli uni negli altri. «L’infame adulterio della madre (Pasifae) diventava palese, per l’orrore del mostro dalle due forme. Minosse volle dunque allontanare lo scandalo dalla sua casa, e di racchiudere il mostro in una costruzione oscura, di mura aggrovigliate. Dedalo, maestro assoluto di architettura, fabbricò il labirinto, e nascose tutti i segni, in modo da confondere l’occhio con l’intrico delle molteplici vie (...) A stento lo stesso architetto sarebbe stato capace di ritrovare l’ingresso, tanto la pianta era ingannevole. Minosse vi racchiuse il mostro, mezzo uomo e mezzo toro. Ma dopo la terza spedizione di ragazzi tratti a sorte ogni nove anni, il mostro che si era nutrito per due volte di sangue ateniese, fu abbattuto, e Teseo, con l’aiuto di Arianna, raggomitolato il filo, ritrovò l’uscita nascosta che nessuno aveva mai varcata. Rapita Arianna, Teseo fece subito vela verso Naxos, e crudelmente abbandonò la sua amata su quell’isola». (Ovidio, Metamorfosi,VIII, 155-176).
Una carriera fortunata Il piccolo Arthur Evans aveva perso la madre Harriet all’età di sette anni, ma dalla vita era destinato ad avere comunque molto. Nato nel 1851 a Nash Mills, nell’Hertfordshire (il cuore dell’Inghilterra), era cresciuto in un ambiente culturalmente vivace: suo padre John, manager di una redditizia cartiera, era stato antiquario, geologo e numismatico, conosceva il latino e citava a memoria gli autori classici. I proventi dell’azienda di famiglia avrebbero pagato senza intoppi i terreni, gli scavi e le pubblicazioni di Cnosso. Evans frequentò le migliori scuole e un collegio di Oxford, dove intrecciò rapporti con l’aristocrazia inglese che contava, primeggiando in storia moderna e nelle questioni orientali, che allora scottavano, con-
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PERCHÉ È IMPORTANTE
Cnosso è il principale sito archeologico dell’età del Bronzo sull’isola di Creta, celebre in tutto il mondo per il grande Palazzo, residenza dei sovrani dell’isola, legato agli antichi miti della Grecia classica.
L’esistenza sull’isola della «reggia» del mitico re Minosse, suggerita da Heinrich Schliemann sulla base dell’interpretazione dei testi omerici, diede avvio alle ricerche dell’archeologo britannico Arthur Evans. Lo studioso, agli inizi del XX secolo, portò alla luce le rovine del Palazzo Reale, centro di potere politico, religioso ed economico della civiltà minoica, organizzato come una città in cui vivevano centinaia di persone alle dipendenze del sovrano.
I resti del palazzo di Cnosso, che documentano l’alto livello di sviluppo raggiunto dalla società minoica, mostrano una pianta complessa, caratterizzata dalla mancanza di simmetria, con edifici a piú piani, cortili, una fitta rete di stanze e corridoi in cui Evans riconobbe l’intricato labirinto del mito.
IL SITO NEL MITO
Il Principe dei Gigli. Heraklion, Museo Archeologico. L’affresco proveniente dal Palazzo di Cnosso fu ricostruito da Émile Gilliéron (1850-1924), stretto collaboratore di Arthur Evans, sulla base di tre frammenti originali di intonaco dipinto: il capo, il tronco, e la coscia. A sinistra: skyphos a figure nere detto Skyphos Rayet, da Tanagra (Beozia). Su una faccia della coppa, è raffigurata l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo. 550 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
I l mito narra che Minosse, leggendario re di Creta, fece rinchiudere il Minotauro – creatura mostruosa con corpo umano e testa taurina, nata dall’unione di un toro con Pasifae, moglie del re – in un labirinto realizzato dall’ingegnoso Dedalo. Per nutrire il Minotauro, che si cibava di carne umana, ogni nove anni da Atene giungevano 7 giovani uomini e 7 giovani donne: un «tributo di sangue» che la città, sottomessa a Creta, era tenuta a rispettare.
Teseo, giovane figlio del re di Atene, Egeo, posto a capo di una delle spedizioni, riuscí a uccidere il Minotauro spezzando questa catena di sacrifici, e a uscire dal labirinto seguendo il filo di un gomitolo procuratogli da Arianna, figlia di Minosse, un’astuzia suggerita da Dedalo.
uando Minosse scoprí il tradimento di Dedalo, lo imprigionò nel labirinto insieme Q al figlio Icaro. Dedalo costruí allora due paia d’ali per fuggire, e ordinò al figlio di non volare troppo in alto, perché il calore del sole avrebbe potuto sciogliere la cera che teneva insieme gli intrecci delle ali. Icaro non tenne conto dei consigli paterni e, una volta fuori dal labirinto, volò talmente in alto che la cera si sciolse facendolo precipitare in mare.
CNOSSO NEI MUSEI DEL MONDO
I reperti provenienti dagli scavi del Palazzo sono esposti nel Museo Archeologico di Heraklion, nelle cui sale si possono ammirare utensili, ceramiche dipinte nello stile detto di Kamares, grandi pithoi decorati, oltre a plastici e ricostruzioni dei principali palazzi minoici. Gli affreschi del Palazzo, parzialmente ricomposti in epoca moderna, sono collocati al piano superiore.
Tra gli oggetti piú celebri la «dea dei serpenti», statuetta in faïence raffigurante una dea dai seni nudi (vedi a p. 53), e il rhyton in steatite a forma di testa taurina, utilizzato come vaso per le libagioni (vedi a p. 58), entrambi databili al periodo neopalaziale (1700 a.C.-1450 a.C.). Info www.odysseus.culture.gr; e-mail: amh@culture.gr; Orario lu 13,30-20,00; ma-do 8,00-20,00 (invernale); lu 12,00-17,00; ma-do, 8,30-15,00 (estivo)
INFORMAZIONI PER LA VISITA Il sito archeologico, che si estende sull’altura di Kephàla, a sinistra del fiume Katsaba, sorge sulla costa centro-settentrionale dell’isola di Creta, 5 km a sud di Heraklion, da cui è disponibile un servizio di autobus per poterlo raggiungere. Info www.odysseus.culture.gr; e-mail: protocol@kgepka.culture.gr Orario 8,00-15,00 (invernale); 8,00-19,00 (estivo) a r c h e o 49
cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA «Minosse infatti fu il primo signore, di quanti ci è giunta notizia, ad avere una grande flotta e dominare in estensione il mare ora greco, a esercitare il dominio sulle isole Cicladi e colonizzarne le terre dopo aver scacciato da esse i Cari e avervi installato i suoi figli come signori. Eliminò per quanto possibile la pirateria del mare, per poter meglio riscuotere i tributi» Tucidide, La Guerra del Peloponneso, I, 4 siderando l’incipiente dissoluzione dell’impero ottomano. Tra il 1870 e il 1875 il giovane Arthur fece viaggi avventurosi in Europa centrale, nei Carpazi e nei Balcani, poi in Scandinavia. Dopo essersi vista negata da Oxford una borsa di studio, Evans, che doveva aver maturato una certa insofferenza per l’accademia, partí nuovamente per i Balcani in fermento, in compagnia del fratello Lewis. Grazie al suo interesse per quelle regioni divenne un corrispondente politico per il Manchester Guardian. Nel 1878 sposò Margaret Freeman, figlia dello storico Edward Freeman, e, nel 1884, fu nominato curatore archeologico per l’Ashmolean Museum di Oxford, che a quel tempo versava in acque piuttosto cattive, e si mise alacremente
QUEL CHE RESTA DI CNOSSO Costruito intorno al 1900 a.C., il primo Palazzo fu distrutto in seguito a una catastrofe naturale nel 1600 a.C. circa e riedificato in forme piú ampie ed evolute. Gran parte di quanto è oggi visibile a Cnosso sono le rovine del secondo Palazzo, rimasto in funzione fino al 1400 a.C. circa, ampiamente integrate da Arthur Evans. LEGENDA 1. Base di altare; 2. Pozzi circolari; 3. Magazzini; 4. Propilei occidentali; 5. Stanza delle guardie; 6. Corridoio delle processioni; 7. Scala colonnata; 8. Casa Sud; 9. Corridoio Sud; 10. Propilei Sud; 11. Tempietto; 12. Anticamera; 13. Sacello centrale; 14. Cripta dei pilastri; 15. Corridoio del magazzino; 16. Sala del trono; 17. Rampa Nord; 18. Prigione; 19. Propilei Nord-Ovest; 20. Area di culto; 21. Strada reale; 22. Sala della dogana; 23. Atrio Nord-Est; 24. Magazzini Nord-Est; 25. Laboratorio di ceramisti (?); 26. Laboratorio di ceramisti; 27. Magazzini; 28. Stanza con bacino per l’acqua; 29. Laboratori di ceramisti; 30. Laboratori di tagliatori di pietre; 31. Veranda Est; 32. Scalinata; 33. Sala delle Doppie Asce; 34. Mègaron del re; 35. Mègaron della regina; 36. Bagni della regina; 37. Guardaroba della regina; 38. Bastioni Est; 39. Altare delle Doppie Asce; 40. Bacino lustrale; 41. Casa della Tribuna Sacra; 42. Casa Sud-Est.
PROPILEI SUD del Palazzo, con l’emblema delle corna di toro, ricostruite in epoca moderna. Il propileo era decorato da figure dipinte a grandezza naturale e disposte in due serie sovrapposte raffiguranti alcuni portatori di offerte.
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LE VICENDE DI UN PALAZZO 7000-5000 a.C. 5000-3000 a.C.
2000 a.C. circa
1900-1800 a.C. 1700 a.C. circa
1700-1400 a.C.
Primo villaggio neolitico aceramico sulla
collina di Kephàla (Heraklion). Fiorenti comunità calcolitiche abitano per secoli un grande villaggio costruito in mattoni crudi. Kephàla è l’unico sito simile a un tell (insediamento pluristratificato) orientale dell’Egeo. Gli edifici sottostanti il palazzo mostrano ormai l’orientamento dei successivi monumenti palaziali. Prime costruzioni palaziali sul sito di Cnosso. Prime distruzioni con incendio. Il palazzo viene distrutto da un possente terremoto che investe l’area centrosettentrionale di Creta, e ricostruito. Il grande palazzo prende forma con una complessa storia di distruzioni e ristrutturazioni. Iniziano i grandi affreschi palatini. Invenzione ed evoluzione del sistema di scrittura «Lineare A».
1600 a.C. circa Data piú comunemente accettata per l’eruzione e lo tsunami di Thera (Santorini), che ebbe effetti disastrosi anche a Creta. Nuove ricostruzioni monumentali, nuovi cicli di affreschi. 1400 a.C. Per cause sconosciute, Cnosso viene distrutta e bruciata insieme alle grandi residenze nobiliari cretesi. 1400-1250 a.C. Cnosso viene rioccupata e parzialmente ricostruita da una comunità che inizia a usare tavolette scritte in «Lineare B», in una forma di greco antico. 1250-1200 a.C.
Cnosso viene nuovamente distrutta, con tutte
1200-1000 a.C.
Ultimo tardivo avamposto miceneo a Cnosso,
le rocche micenee, dagli eventi bellici legati ai «Popoli del Mare», oppure da una migrazione convenzionalmente considerata come dorica. prima dell’affermazione generale delle componenti culturali doriche e greche. Abbandono della collina.
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cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA
al lavoro per incrementarne le collezioni. Fu cosí che gli capitò in mano il primo sigillo in pietra semipreziosa di provenienza cretese. L’archeologo, che ben conosceva le fortunate scoperte di Schliemann a Troia e Micene, si recò a Creta in cerca di altri sigilli, continuando a riflettere sugli strani segni scritti che vi comparivano; negli anni successivi pubblicò lavori che prefiguravano il riconoscimento delle scritture in segui52 a r c h e o
to note come «Lineare A» e «Lineare B». Nel 1899 i Turchi si ritirarono da Creta, ed Evans fu libero di usare il proprio denaro per acquistare una parte della collina di Kephàla, un rilievo che sorgeva a 5 km a sud di Heraklion dove, insieme alla British School of Archaeology di Atene e con la collaborazione dell’archeologo scozzese Duncan Mackenzie, iniziò gli scavi il 23 marzo 1900. Nel 1878, Minos Kalokairinos, mercante, an-
A sinistra: spaccato assonometrico del settore est del Palazzo, in cui erano gli appartamenti reali. Il vasto complesso, che occupava 24 000 mq circa, si sviluppava intorno a un grande cortile centrale rettangolare, sul quale si apriva una sequenza di ambienti uniti tra loro da un intricato sistema di corridoi. In basso: la «dea dei serpenti», statuetta in faïence, dal Palazzo di Cnosso. XVII sec. a.C. Heraklion, Museo Archeologico.
tiquario e archeologo dilettante cretese, aveva già iniziato a scavare sul posto, trovando parte di un magazzino affollato di grandi giare, ma i lavori erano stati fermati dai proprietari.Altri sondaggi erano stati effettuati da Heinrich Schliemann, che però morí improvvisamente nel 1890, e vi avevano operato – ma con scarsi risultati – alcuni archeologi francesi. Fu, insomma, una serie di eventi casuali a mettere nelle a r c h e o 53
cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA A sinistra: l’ala est del Palazzo, frutto di una massiccia anastilosi. Nella pagina accanto: il porticato occidentale. La vasta residenza, riportata in luce e in gran parte ricostruita dall’archeologo Arthur Evans, risale all’epoca neopalaziale (1700 a.C.-1450 a.C.).
mani di Evans il famosissimo sito. In archeologia, intuito e fortuna non sempre vanno a braccetto, ma questa volta il successo fu travolgente. Già nelle prime settimane di scavo, vennero alla luce le murature di un vasto palazzo dell’età del Bronzo (2000-1800 a.C. circa), con resti di affreschi dipinti a colori vivaci e tavolette con segni di scrittura indecifrabili (in «Lineare A»).
Nella reggia di Minosse Lo scavo continuò ininterrottamente per otto campagne. Subito dopo Evans si dimise dall’Ashmolean Museum, per dedicarsi allo studio delle tavolette e alla pubblicazione dei quattro volumi del suo Palace of Minos at Knossos (Il Palazzo di Minosse a Cnosso), pubblicati tra il 1921 e il 1935. Anche se le attività di scavo continuarono sino al 1931, nel 1905 buona parte del palazzo era già stata riportata alla luce. Alla fine degli scavi, il palaz54 a r c h e o
zo appariva come uno sterminato complesso di piú di mille stanze, esteso in larghezza per 130 m. Era strutturato in quattro grandi blocchi residenziali, affacciati di fronte a un vasto cortile rettangolare, e circondati da altre corti e terrazze lastricate. Il tutto occupava 24 000 metri quadrati circa. Costruzione tanto intricata e lussuosa quanto avanzatissima, se è vero, come sostengono gli archeologi, che un’ala era composta di quattro o forse cinque piani sovrapposti, che le murature erano percorse da condutture per le acque potabili (alimentate da un acquedotto che intercettava una fonte a 10 km di distanza) e da efficienti sistemi di smaltimento degli scarichi, e che le pareti erano rivestite di alabastro e di splendide pitture policrome. La «reggia» era provvista di cucine e bagni, di magazzini ricolmi di grandi pithoi (giare in terracotta da olio e da vino, ma usate anche per il pesce secco e i legumi) e da grandi ciste scolpite in
pietra. La costruzione – l’unica con questa caratteristica nota per l’età del Bronzo – aveva facciate e ingressi articolati su piú piani lungo tutti e quattro i lati, che davano su corridoi tortuosi che, evitando magazzini, ambienti privati e stanze di lavoro conducevano alla vasta corte centrale. Gli ambienti piú controllati e protetti, nei quali i locali si fanno piú piccoli e le planimetrie piú intricate, si trovano a ovest e a est del cortile: nell’ala ovest, forse adibita in prevalenza a scopi cerimoniali e religiosi, un atrio colonnato e una grande scalinata portavano a una «stanza di rappresentanza», mentre poco piú a nord furono scoperte la «Sala del trono», cripte sotterranee e altre sale interpretate come parte di tempietti e santuari palatini. La «Sala del trono» fu cosí chiamata per la presenza, al centro di una parete, di un trono in alabastro scolpito, che Evans definí e propagandò come «il piú antico trono d’Europa». La ricostruzione della sala non fu frutto di un unico progetto, ma di prolungati ripensamenti. L’archeologo dapprima protesse il sedile dalle piogge con uno scaffale, poi decise di installare nella sala quattro colonne di legno intonacato, quindi inca-
ricò i suoi restauratori di ricreare pitture murarie conservate solo in scarse tracce: e cosí comparvero grifoni crestati accucciati nell’erba e giovani aristocratici dai lunghi riccioli.
I «bagni» della regina Il lato opposto della corte, a nord, ospitava probabilmente le residenze di servi e artigiani di palazzo, contigue a stanze magazzino. A sud, queste stanze davano accesso a quelle che Evans interpretò come parte degli alloggi reali, compreso il «Mègaron della regina». Questo era circondato da ambienti minori usati come bagni privati con vasche, archivi e santuari provvisti di altari e simboli di varia importanza (tra cui la «Sala delle asce bipenni», cosí chiamata per le incisioni visibili sulle pareti). Frammenti di affreschi si trovarono in numerosi accumuli interni alle stanze crollate; sulle pareti ne erano rimasti soprattutto alcuni lacerti. Ciò che restava rappresentava giochi, processioni, eventi di gruppo, cerimonie collettive e persino paesaggi con animali, mentre le scene di guerra, violenza e dominio politico note dall’Egitto e che emergevano dagli scavi in Mesopota-
cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA «È impossibile minimizzare il sospetto che i pittori (di Evans) abbiano sacrificato il proprio zelo per una ricostruzione accurata a una predilezione inappropriata per le copertine di Vogue». Evelyn Waugh, Labels (1930) mia erano del tutto assenti. Le costruzioni sul lato nord della corte ospitavano un bagno lustrale, uno spazio aperto interpretato come «Teatro» per rappresentazioni religiose e una «Via sacra», forse destinata alle processioni cerimoniali. L’ingresso, su questo lato, avveniva tramite una grande sala animata da un propileo (sala colonnata), che Evans ritenne essere una «Dogana», abbellita da portici sopraelevati accessibili con scalinate.
In basso: frontale in grani di lapislazzuli e cornalina, e pendenti in oro a forma di foglie, dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. circa. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
Un riflesso dell’ideologia vittoriana? Non si trovarono grandi fortificazioni esterne, e le stanze – almeno 1300, al tempo del massimo splendore dell’edificio – sembravano quasi sfumare lungo pendii alberati. Questo facilitò da un lato l’associazione con il labirinto del mito greco, dall’altro l’idea del carattere totalmente pacifico della nuova civiltà che emergeva, nel suo straordinario splendore, ai confini tra Europa e Vicino Oriente Antico. Evans, supponendo che i Greci dell’era arcaica avessero tramandato con stupore la memoria delle intricate planimetrie, fece precipitare questo processo, denominando la civiltà di Cnosso come «Minoica», con esplicito riferimento al Minosse dei miti arcaici dell’Ellade. Ricondusse in vario modo le In alto: il «Mègaron della regina» in un acquerello di Arthur Evans del 1935. Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs. A sinistra: il «Mègaron della regina» composto da una sala centrale con bagno privato, dotato di impianto per l’adduzione dell’acqua. Alla ricostruzione di questa stanza collaborò l’architetto Piet de Jong, che si occupò anche di realizzare una copia dell’affresco parietale dei delfini sulla base dei pochi frammenti originali rinvenuti.
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UN ARCHITETTO FANTASIOSO
sue scoperte a una serie di tesi fondamentali: la civiltà minoica aveva un tempo dominato culturalmente gli spazi del futuro mondo greco; era una monarchia di signori amanti della pace, a capo di flotte di navi commerciali, con le donne in posizione di notevole rilievo sociale e una possente dea-madre al centro di un pervasivo sistema religioso, forse rappresentata dalle strane figurine di «dea» o «sacerdotessa dei serpenti» (rare statuette nelle quali, purtroppo, si stenta oggi a discernere l’originale dal ricostruito). L’archeologa femminista Margaret Ehrenberg (in La Donna nella Preistoria, Milano, 1989) ha dedicato diverse pagine a una disamina obiettiva di queste tesi. Come nella ben piú tarda ceramica attica, le donne degli affreschi hanno la pelle bianca, e gli uomini sono scuri: nell’evoluzione della cultura greca, l’implicazione è che la donna lavora in casa, mentre gli uomini si abbronzano lavorando all’aperto. Costrizione o elevato grado sociale? Le figure a seno nudo, come nel mondo moderno, non implicano certo una maggior libertà femminile. La conclusione di Margaret Ehrenberg è chiara: a fronte di indizi scarsi e ambigui, le interpretazioni di Evans parlano piú dell’ideologia vittoriana che del mondo antico; infine, «anche se possiamo ipotizzare che
Piet Christian Leonardus de Jong (1887-1967) è un altro dei «protagonisti nascosti» del restauro e dell’immagine archeologica di Cnosso. Figlio di un immigrato olandese e di madre inglese, nacque a Leeds, in Inghilterra. Studiò da architetto, distinguendosi immediatamente con una lunga serie di riconoscimenti e premi. Già a venticinque anni studiava architettura classica in Italia; nel 1916 andò al fronte come caporale dei corpi su bicicletta. Dopo la guerra, lo troviamo, affascinato dalle sirene del Sud, in Grecia e in Macedonia. De Jong non tardò a trovare la sua strada. Dal 1920 al 1923 lavorò a Micene, dove creò famose ricostruzioni dei circoli sepolcrali reali. Divenne l’architetto ufficiale della Scuola Archeologica Britannica di Atene, e, nel 1922, fu assunto da Sir Arthur Evans per documentare, ricreare e ricostruire le rovine degli scavi di Cnosso. De Jong era un disegnatore ricco di immaginazione e un acquerellista di talento, qualità che si sposarono immediatamente con la granitica (meglio sarebbe dire «cementizia») determinazione di Arthur Evans di far materialmente risorgere l’antica civiltà dell’isola. Dall’estetica Art Déco che dominava i media del tempo de Jong trasse un istinto viscerale per l’immagine, i colori caldi e pastosi, le linee curve e ridondanti, la ricerca dell’eleganza mediante effetti elaborati e stupefacenti. L’acquerello, a quel tempo, era l’unico mezzo esistente per fare accurate riproduzioni a colori della realtà, ed era largamente usato nel disegno scientifico. Nei termini delle convenzioni del moderno disegno archeologico, gli antichi vasi disegnati da de Jong non sarebbero accettabili, ma i disegnatori di un secolo fa erano talmente abili ed esperti che alcune delle loro opere, in quanto a informazione, appaiono superiori, a giudizio di molti, a qualsiasi odierna fotografia digitale. Piet de Jong ricostruí muri, ridipinse affreschi, riprodusse ceramiche e piccoli oggetti. Collaborò alla ricostruzione del Mègaron della regina e alla radicale ri-creazione di alcuni affreschi, primo tra tutti il celebre pannello con i delfini sulla porta di ingresso della Sala dei Colonnati. L’affresco fu ricostruito sulla base di frammenti davvero esigui, e molti ritengono che la collocazione sia totalmente posticcia (potrebbe infatti trattarsi di piccole porzioni del pavimento del piano superiore crollato piú in basso). Come tutti i grafici del tempo, de Jong era anche un eccellente caricaturista. Condannatosi da solo, per amor del mestiere, a vivere al comando degli archeologi, si vendicò lasciando ai posteri una serie di caricature di molti di essi: Arthur Evans, Alan Wace (lo scavatore di Micene) e molti degli altri «ellenofili» delle accademie archeologiche ateniesi del tempo.
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cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA PROCESSO A EVANS Negli ultimi vent’anni, Sir Arthur Evans è stato oggetto di un vero e proprio processo, tanto personale quanto scientifico, ideologico e politico. Oltre alle disinvolte ricostruzioni archeologiche di Cnosso, gli si è rimproverato di essere un ricco imperialista, in quanto riuscí a scavare Cnosso solo perché aveva comprato l’intera collina. Biografi malevoli e all’ultima moda lo hanno accusato di condividere tutti i pregiudizi razzisti dell’aristocrazia britannica di età vittoriana: infatti Evans visse a Creta secondo tutti gli stereotipi dell’Inglese in forzoso esilio all’estero, importando a costi esagerati carne in scatola e marmellata inglese, gin, whisky e vini francesi, disprezzando il locale vino cretese. Piú articolata, se non fattuale, è l’accusa di aver re-inventato una civiltà preistorica nei termini delle sue personali ossessioni e convinzioni. Secondo alcuni, l’intera idea del culto della dea madre sarebbe stata addirittura un riflesso dei suoi traumi infantili (la precoce perdita della madre), e molti altri hanno letto nella sua ricostruzione della benigna e pacifica «talassocrazia» cretese un banale e nostalgico riflesso della fatiscente gloria del Commonwealth inglese sulla soglia del tracollo. Al cantiere di Cnosso, cosí insistentemente discusso già alla fine degli scavi, inoltre spetta il poco invidiabile primato della prima costruzione in cemento armato mai eretta sull’isola, subito seguito – come sottolineano i maligni – dalla vicina Villa Ariadne (Arianna), residenza privata dello stesso Evans, in seguito lasciata alla British School di Atene. Ma una valutazione piú oggettiva non può prescindere dal considerare il grande archeologo come un uomo del suo tempo. Evans
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era uno studioso della vecchia scuola, molto piú vicino per formazione e sensibilità a Heinrich Schliemann che ai giovani archeologi «scientifici» che si stavano allora formando. La cultura di età vittoriana aveva ogni genere di inquietanti preoccupazioni in materia di sessualità, e le idee della venerazione di principi sacri femminili, dell’alta considerazione delle donne e del matriarcato nell’antica Creta furono una comprensibile scappatoia per dare una spiegazione logica alle rappresentazioni di donne a seno nudo, in atteggiamento che i moderni percepiscono come provocante, che sembrano affollare l’iconografia dell’antico mondo minoico. Agli inizi del secolo scorso, tutti gli intellettuali europei, e
particolarmente quelli inglesi, erano cresciuti in ambienti intrisi di razzismo e in qualche modo finanziati dall’imperalismo e dallo sfruttamento coloniale. Ma come sottolineano recenti e meno schierati interpreti, era stato Tucidide, nel V secolo a.C. – 2300 anni prima di qualsiasi
preoccupazione politica degli abitanti di una remota e fredda isola nord-europea – a dipingere Creta come la sede del trono di Minosse e di un possente impero marittimo. Non vi sono dubbi che i passi di Tucidide siano stati diretta fonte di ispirazione per la geniale intuizione dell’archeologo inglese. Infine, la «colpa» di aver re-inventato la civiltà minoica in termini senza dubbio leggendari deve essere condivisa da tutto il mondo archeologico del tempo. Fu l’intero ambiente culturale dell’epoca ad appoggiare e diffondere l’immagine di popolazioni minoiche pacifiche, protofemministe, spirituali e contemplative, abitanti di solari dimore mediterranee, vittime predestinate dei Micenei guerrieri, militaristi, barbarici e indo-europei, annidati in oscuri fortilizi (concezione falsa e ambigua, ma tutt’altro che estinta). Tutto si può rimproverare a Evans, tranne di non di aver avuto una visione coraggiosa e comunque autorevole, e di non avere amato profondamente l’archeologia dell’isola e la cultura alle quali dedicò, col maggiore successo possibile, una vita intera. Evans può avere ricostruito una Cnosso per molti versi posticcia, ma, come scrisse John Wilmott, conte di Rochester (1647-1680), cortigiano del re d’Inghilterra, mecenate e noto libertino, «Noi imitiamo solo ciò in cui crediamo e che amiamo». Anche se adesso tutti opererebbero in modo ben diverso, e molti dei pregiudizi di Evans ci appaiono politicamente scorretti, le condanne postume lasciano il tempo che trovano; la critica archeologica postmoderna, in ultima analisi, si è addentrata come Teseo nel labirinto per uccidere il mostro, ma ha finito per trovare... solo se stessa.
In alto: frammento di affresco raffigurante una danzatrice, dal Palazzo di Cnosso. XVI sec. a.C. circa. Heraklion, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: rhyton (vaso per bere a protome animale) in steatite con incrostazioni in oro, madreperla e diaspro, a forma di testa taurina, dal Piccolo Palazzo di Cnosso. 1600 a.C. Heraklion, Museo Archeologico.
le donne, o almeno quelle di un ceto sociale superiore, godessero di una condizione sociale privilegiata nella Creta minoica, non è possibile affermare che effettivamente detenessero il potere. Allo stesso modo, tuttavia (...) non esistono reperti che possano dimostrare che gli uomini detenessero il potere a spese delle donne». A sfondo di queste pesanti forzature, il radicale contributo dato da Evans all’archeologia scientifica non può essere dimenticato. Lo studioso fu il vero scopritore delle antiche scritture dell’isola, e ne stabilí correttamente la sequenza storica (sistema geroglifico, Lineare A, Lineare B). La sua ricostruzione della stratigrafia del grande palazzo fu altrettanto esatta, e ogni archeologo, lo ammetta o meno, invidia in cuor suo l’intuito e la visione di chi ha saputo leggere dietro le cortine di un grande mito, rivelarne le fondazioni storiche e passare cosí alla storia. Ma davvero si può far risorgere una civiltà sulle ali della fede in remote mitologie? Quella di Evans e dei suoi (altrettanto visionari) scenografi – perché di scenografie si trattava, anche se antichistiche – fu una suggestione quasi ipnotica, che travolse gli accademici di allora co-
me buona parte dei visitatori odierni i quali – almeno un milione ogni anno, dato che Cnosso, dopo il Partenone, è il sito piú visitato dell’intera Grecia – si aggirano stupiti tra basse colonne rosse coronate da capitelli gonfi come cipolle, scalinate cerimoniali, piani superiori ricostruiti di sana pianta, affreschi dai colori sgargianti, facendosi le stesse domande (piú che legittime).
L’immaginazione sotto accusa Dove Evans aveva incontrato o sospettato il legno, aveva fatto materializzare il cemento armato, poi storicizzato con spesse pennellate di rosso e nero. Eppure è innegabile che le sue «ricostituzioni» – come le chiamava onestamente l’archeologo, piuttosto che restauri – rendono un’immagine plastica, cromatica e luminosa della vita di palazzo nella civiltà minoica, e questa immersione nel tempo (vera o falsa che sia) sarebbe stata altrimenti impossibile (come rivelano le visite agli altri siti minoici che il «trattamento modernista» non lo subirono). In fondo, basta crederci! Il tempo perduto non è, per definizione, una dimensione metafisica? a r c h e o 59
cnosso I LUOGHI DELLA LEGGENDA LE IMPRESE DEI DUE ÉMILE Curiosa e controversa è la vicenda dei due Émile Gilliéron omonimi, padre (1850-1924) e figlio (18851939), che operarono in squadra per trent’anni a Cnosso come capirestauratori di fiducia di Evans. Il primo Émile, nato a Villeneuve in Svizzera, era giunto in Grecia nel 1876 e aveva lavorato come disegnatore per Heinrich Schliemann, e maestro d’arte per la casa reale ellenica. Già prima della collaborazione con Evans, Émile aveva costituito una fiorente azienda domestica, che forniva copie in rame di un consistente numero di
capolavori metallici preistorici, rivestiti in oro con metodo elettrolitico, comprese le due coppe di Vaphiò, la maschera aurea «di Agamennone» e le spade bronzee intarsiate di Micene. Per Evans, Émile padre restaurò il «Portatore di coppa» e il «Re-sacerdote» (nel quale il restauratore fu accusato di aver ricomposto l’immagine dai frammenti di tre figure diverse, inclusa parte di una sfinge piumata completamente diversa, ma la ricomposizione è in genere giudicata non del tutto arbitraria) e
Dame in blu, intonaco dipinto, riproduzione di Émile Gilliéron figlio (1885-1939), dell’affresco che ornava il vestibolo della sala del trono nell’ala orientale del Palazzo (datato al 1525-1450 a.C.). 1927. New York, Metropolitan Museum of Art.
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l’universalmente famoso pannello con gli atleti (o atlete) che saltano sul toro (qui solo la cornice esterna è considerata fasulla). Opera sua è anche il «Principe dei gigli» (1905) fatto con un piccolo frammento del capo, con un torso e parte di una coscia trovati, a quanto pare, in punti diversi dello scavo, e forse pertinenti a diversi dipinti. Émile padre restaurò e riprodusse anche dipinti di Micene, Tirinto e Hagia Triada (compresi quelli del celeberrimo sarcofago dipinto, su cui intervenne insieme al figlio). L’allievo
piú famoso della «bottega» Gilliéron fu Giorgio De Chirico (1888-1978), il quale, piú tardi, avrebbe sfruttato la fascinazione della storia di Arianna e delle perdute architetture di Creta, assorbite dal maestro, per dare vita ai suoi celebri e surreali paesaggi urbani. Émile, figlio di Émile Gilliéron, nato ad Atene, iniziò a lavorare nel 1913 sul restauro dei resti degli affreschi di Cnosso portati al museo di Heraklion; ricreò inoltre spazi e ambienti nelle rovine ed è l’autore di numerose delle tavole pubblicate nel monumentale rapporto di
«I capolavori dell’arte minoica non sono ciò che sembrano. I vivaci affreschi che una volta decoravano le pareti del palazzo preistorico a Cnosso oggi sono l’attrazione principale del Museo Archeologico di Heraklion (...). Databili tra l’inizio e la metà del II millennio a.C., sono alcune delle piú famose icone
La «Sala del Trono», cosí chiamata per la presenza di un trono scolpito in alabastro, ricostruita e decorata da copie degli affreschi originali, raffiguranti grifoni e gigli, da Émile Gilliéron, padre e figlio.
scavo in quattro volumi scritto da Evans. A Émile figlio sono attribuiti i «Raccoglitori di zafferano». Le «Dame in blu», già restaurate dal padre con molta libertà, furono danneggiate da un terremoto nel 1926 e nuovamente restaurate dal figlio l’anno seguente. Padre e figlio lavorarono alla ricreazione della «Sala del Trono». Uno dei problemi era che i due integravano ampiamente le parti mancanti di importanti composizioni ispirandosi ad altre opere, con l’effetto involontario di creare uno «stile cretese» molto piú coerente e ripetitivo del vero. Émile figlio fu nominato dal governo greco «Artista di tutti i Musei in Grecia» ed ebbe cosí modo, con una sorta di monopolio, di maneggiare per decenni tutti i piú importanti manufatti archeologici sino
ad allora scoperti. A lato di questi interventi, i due Svizzeri, che lavoravano ormai stabilmente in una sorta di fruttuosa e alacre azienda familiare, avevano inziato a rifornire i piú importanti musei europei e statunitensi (tra cui il Metropolitan di New York) di copie dei dipinti e delle loro stesse riproduzioni in acquerello. Con intonaco, gesso, legno, furono fedelmente riprodotti manufatti complessi (come il famoso trono, sul quale i due posero persino le focature nerastre dell’incendio che aveva devastato il palazzo). La pratica di esporre in mostra costose e fedelissime riproduzioni iniziò a declinare solo prima del secondo conflitto mondiale. Gran parte delle
della cultura dell’Europa antica, riprodotte su innumerevoli cartoline e poster, magliette e calamite da frigorifero: il magnifico giovane «principe» con la sua corona floreale, che cammina in un campo di gigli; i cinque delfini blu che sorvegliano il loro mondo sottomarino tra pesciolini e ricci di mare; le tre «dame in blu» (uno dei colori minoici piú popolari), gesticolanti, come se colte in conversazione e con i loro riccioli neri. Il mondo preistorico che evocano sembra in qualche modo strano e remoto, ma, allo stesso tempo, rassicurante, in quanto riconoscibile, quasi moderno. La verità è che queste icone sono moderne. Come
riproduzioni erano state legalmente vendute come apparati didattici ed espositivi, con regolari marchi di fabbrica dei Gilliéron. Kenneth Lapatin, nel libro Mysteries of the Snake Goddess (Misteri della Dea dei Serpenti, New York 2002), sostiene che i due fossero gradualmente scivolati nel «lato oscuro» della loro professione, creando opere fraudolente e vendendole come originali con gran profitto: restauratori di giorno – come si è scritto – e falsari di notte. La lista delle opere dubbie includerebbe, oltre ad alcune «dee dei serpenti», anche opere di gioielleria; l’ombra del sospetto, come si sa, ha sfiorato anche il famosissimo disco in terracotta di Festos.
Nemmeno Evans, che avrebbe autenticato o tenuto per sé opere dubbie, è del tutto esente dai sospetti; ma è probabile che l’archeologo, desideroso di veder confermate le sue audaci teorie, abbia autenticato i falsi senza sospettarne l’origine. Anche questo potrebbe essere un tema mitico: come aveva imparato Dedalo, la troppa abilità (unita a un insopprimibile interesse economico) può risultare infine deleteria. Singolare destino, che questo alone di sospetto si sia diffuso dal maestro Gilliéron all’opera del suo piú celebre allievo: anche molte opere di Giorgio De Chirico, infatti, tra furiose polemiche, sono state contestate e rifiutate dai critici.
ogni acuto osservatore del Museo di Heraklion può vedere, ciò che sopravvive dei dipinti originali, in molti casi, ammonta a pochi decimetri quadrati. Il resto è piú o meno ricostruzione immaginifica (...) Grosso modo, piú celebre è oggi l’immagine, minore è la parte di essa che è effettivamente antica». (Cathy Gere, Knossos and the Prophets of Modernism, University of Chicago Press, Chicago 2009). NEL PROSSIMO NUMERO
micene l’ombra di Agamennone a r c h e o 61
storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/3 Particolare del sarcofago in terracotta di Larthia Seianti, con la defunta semisdraiata sul letto triclinare, dalla necropoli di Poggio Cantarello, Chiusi. Secondo quarto del II sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
di Daniele F. Maras
LIBERE, MA NON TROPPO
Già vittime degli strali moralistici dello storico Teopompo, le donne d’Etruria hanno, tuttavia, da sempre colpito l’immaginazione di antichi e moderni per la loro qualità di campionesse di libertà e indipendenza. Ma qual era, realmente, la loro condizione sociale? E quanto vi è di vero nei racconti che descrivono i loro disinvolti costumi sessuali?
«L
e donne etrusche curano molto il loro corpo, spesso fanno ginnastica anche con gli uomini, e a volte da sole; non hanno vergogna a mostrarsi nude. E non banchettano con i propri mariti, ma accanto a chi capita e bevono alla salute di chi vogliono; sono anche grandi bevitrici e di bell’aspetto». Con queste parole lo storico greco Teopompo di Chio (IV secolo a.C.) esprimeva la sua condanna moralista nei confronti dei costumi dei Tirreni e delle loro donne, delle quali diceva anche che venivano tenute in comune (con un’espressione usata per le prostitute) e che non sapendo chi fosse il padre dei loro figli, li allevavano tutti insieme in una sorta di famiglia allargata. E inoltre, sempre a detta dello storico, i Tirreni non avevano alcun ritegno a praticare il sesso in pubblico e a parlarne liberamente con il primo venuto: emblematico l’episodio del padrone di casa che mandava a dire a un visitatore di attendere
perché era occupato a far l’amore con la moglie! Le parole di Teopompo, riecheggiate nella raccolta enciclopedica di Ateneo di Naucrati (I sapienti a banchetto, II secolo d.C.) e giunte cosí fino a noi, decretarono il giudizio negativo di larga parte degli autori antichi nei confronti degli Etruschi, ancor piú sentito con l’avvento del cristianesimo.
Scandalo a banchetto! In realtà, è alquanto probabile che lo storico greco abbia calcato la mano nel descrivere i costumi dissoluti degli Etruschi e che, come di regola, le necessità politiche e la morale del tempo abbiano avuto la meglio sulle esigenze di verità storica e di corretta informazione. Un parziale riscontro delle sue affermazioni viene però da Aristotele, uno dei padri della filosofia antica, che si limita piú sobriamente ad affermare che «i Tirreni banchettano al fianco delle proprie mogli, sdraiati sotto la stessa coperta». Con questa frase lapidaria – anch’essa tra-
smessa nell’opera di Ateneo – il grande pensatore alludeva piú o meno scopertamente all’atteggiamento libertino delle donne etrusche, con un chiaro riferimento all’aspetto erotico. Per comprendere l’insistenza delle fonti greche sulla partecipazione delle donne al simposio, che destava tanta meraviglia negli antichi, occorre ricordare che nel mondo greco classico il cerimoniale sociale del banchetto era riservato esclusivamente agli uomini, secondo una tradizione inveterata. Se una donna vi prendeva parte, quindi, non poteva essere che una prostituta: quella che nell’Atene classica sarebbe stata definita un’etera, magari di alto livello sociale e culturale come Aspasia, la compagna di Pericle. Non stupisce quindi che, quando viaggiatori greci giungevano ospiti a casa degli aristocratici etruschi, rimanessero scandalizzati dal fatto che le mogli dei padroni di casa dividevano il triclinio con il marito: un’immagine immortalata nelle famosissime urne degli sposi del Louvre a r c h e o 63
storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/3
e di Villa Giulia (di cui una replica di formato minore è conservata al Museo di Cerveteri). Secondo la regola filosofica del sillogismo aristotelico, la conclusione non poteva essere piú lineare: le donne che banchettano sono prostitute ~ le donne etrusche partecipano al banchetto ~ perciò le donne etrusche sono tutte prostitute… Per i Greci e i Romani, inoltre, anche il vino era vietato alle donne, salvo in particolari occasioni rituali, che per ragioni di decenza erano religiosamente e rigorosamente precluse agli uomini. Le donne etrusche, invece, bevevano vino come gli uomini e assieme a essi: fatto che meravigliava Teopompo e che non poteva essere considerato altro che un segno di corruzione morale.
L’importanza del nome In realtà, questa «libertà» di cui le donne godevano nei banchetti faceva parte di una diversa condizione sociale del ruolo femminile in Etruria, che si spiega nel contesto storico e culturale (al di là di 64 a r c h e o
In alto: Tarquinia, necropoli di Monterozzi. Coppia di coniugi ritratta nella Tomba degli Scudi. 340 a.C. circa. L’uomo porge un uovo alla donna, simbolo di rigenerazione. A destra: coppia di danzatori, particolare di un affresco dalla Tomba delle Leonesse nella necropoli di Monterozzi. Ultimo quarto del VI sec. a.C. La donna, a sinistra, indossa una veste trasparente, mentre l’uomo, nudo, regge una brocca.
alcune ricostruzioni forzate e antistor iche, che vedevano nelle Etrusche altrettante antesignane dei movimenti femministi del Novecento). E la chiave di lettura della condizione della donna in Etruria passa attraverso la proprietà dei beni, in particolare delle terre e degli immobili. La struttura sociale etrusca era particolarmente elaborata e avanzata già al momento del contatto con i mercanti e coloni greci nell’VIII secolo a.C. (che trovarono in Etruria meridionale complessi abitativi proto-urbani in via di formazione) e influenzò fortemente l’evoluzione sociale romana, da cui possiamo prendere utili spunti di informazione. La necessità di conservare e registrare la proprietà della terra e, soprattutto, di tramandarla ai propri eredi fece sí che nascesse l’idea del nome gentilizio: un nome di famiglia, antenato del nostro cognome, trasmesso di padre in figlio cosí come i beni. A partire dal VII secolo a.C., quindi, le formule onomastiche degli individui liberi etruschi erano composte da un prenome e da un gentilizio, al quale poteva essere aggiunta, come in Grecia, la paternità (sotto forma del prenome del padre) e, in casi speciali, anche la maternità (sotto forma del gentilizio della madre). Un esempio per tutti: Aule Metelis Velus Vesial clan, «Aule Metelis figlio di Vel e di una Vesi».
Eredi per legge A differenza di Roma, dove le donne possedevano il solo gentilizio e nessun nome personale, le donne etrusche potevano vantare orgogliosamente anche il prenome: l’informazione non ha solo una natura formale, ma riveste una particolare importanza nella trasmissione della proprietà privata. La donna, in quanto figlia, poteva ereditare beni personali, e, in quanto moglie, poteva essere titolare della casa e delle sue pertinenze: non si trattava di una a r c h e o 65
storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/3 semplice dote matrimoniale, che passava assieme con la donna in possesso al marito, ma di un vero e proprio ruolo giuridico indipendente della padrona di casa. Questa condizione indipendente appare evidente da alcuni marchi di produzione di officine di terracotte attive dall’età arcaica a quella recente, che registrano, nel VII secolo a.C., una manifattura di ceramiche artistiche «nella (casa) di una Kusnai», nel VI secolo una produzione di terracotte da parte di «Cusu (servo) di una Puiunai» e, nel III, da parte di «Vel (servo) di una Numnai». Evidentemente, le officine artigianali erano considerate parte delle pertinenze della casa aristocratica e pertanto cadevano sotto la giurisdizione della padrona.
Donne e funerali Un ruolo indipendente era manifestato dalla moglie anche in occasione dei funerali del marito, quando prendeva su di sé l’onere delle onoranze funebri. Quest’ultimo ruolo è dimostrato in modo esemplare dalla Tomba delle Iscrizioni Graffite di Cerveteri, nella quale era sepolto il padre del tiranno della città, Thefarie Velianas, ma che, nonostante l’importanza del figlio del defunto, vede la moglie Ramtha Spesiai in primo piano nel rito di sepoltura. E anche l’iscrizione su una stele funeraria volterrana registrava il dono della sepoltura da parte di una donna (una Uchulni) al suo nobile marito Larth Tharnies. Questo ruolo attivo nei rituali funerari spiega anche la partecipazione femminile alle gare sportive, che destava grande stupore presso i Greci: le gare olimpiche e, in generale, tutte le manifestazioni atletiche religiose erano in Grecia riservate per legge ai soli uomini, sia come atleti che come spettatori. In Etruria, invece, alcune pitture funerarie tarquiniesi – come quelle della Tomba delle Bighe – mostrano un pubblico misto che assiste sugli spalti alle competizioni, con 66 a r c h e o
una promiscuità impensabile nel resto del mondo classico, ma che trova giustificazione nella natura funeraria delle gare etrusche.
parte alla vita politica, se non attraverso i propri mariti, e che il loro ruolo, per quanto indipendente, era vincolato alla posizione del padre prima e del marito poi, attraverso una serie di relazioni matriMa non esageriamo… Guardando alla meraviglia che de- moniali tra le famiglie aristocratistavano le libertà concesse alle che nel corso del tempo. donne etrusche e confrontandole Qualche luce sulla posizione delle con le condizioni ristrette e subor- donne di rango viene dalle vicendinate in cui si trovavano le loro de della famiglia regale dei Tarquicontemporanee nel resto del Me- nii a Roma, cosí come è raccontaditerraneo, si può essere indotti a ta da Tito Livio e Dionigi d’Alipensare a una società fin troppo carnasso. A iniziare la casata fu il moderna e avanzata, in direzione greco Demarato, un nobile di Codella parità dei sessi. Ma, in realtà, rinto costretto all’esilio dalla tirannon si deve dimenticare che le nide di Cipselo, che riparò in donne non potevano prendere Etruria, dove aveva ricchi contatti
Due figure maschili distese sul letto triclinare, forse una coppia di amanti, si scambiano un gesto d’affetto, particolare di un affresco della Tomba della Quadriga Infernale, presso Sarteano, Chiusi. Seconda metà del IV sec. a.C.
quest’ultimo, che ricevette la corona direttamente dalla mano di sua moglie (vedi «Archeo» n. 321, novembre 2011). Il ruolo delle donne nelle faccende politiche era importante, ma pur sempre all’ombra del mar ito. Un’immagine emblematica di questa funzione femminile viene dalle pareti della Tomba degli Scudi di Tarquinia: vero e proprio monumento all’aristocrazia della città alle soglie dell’ellenismo (340 a.C. circa). La coppia dei capostipiti della famiglia Velcha, lí sepolta, viene rappresentata a banchetto in un’immagine idealizzata: l’uomo, Larth, è a torso nudo, con la toga aperta bordata di rosso e una corona d’alloro sul capo, lo sguardo volto verso l’orizzonte, come un antico eroe al massimo della sua dignità. Consegna un uovo, simbolo di rigenerazione, a sua moglie, seduta accanto a lui, come si conviene a una sposa fedele, anch’essa riccamente vestita e incoronata, che lo addita come modello per le generazioni future.
commerciali: il nuovo arrivato sposò una fanciulla di nobili natali, costretta ad accettare un matrimonio straniero perché povera. Uno dei loro figli, Lucumone, sposò un’intraprendente aristocratica tarquiniese di nome Tanaquil (o Tanaquilla; vedi «Archeo» n. 302, aprile 2010), che lo esortò a emigrare a Roma, dove non avrebbe avuto le difficoltà che incontrava a Tarquinia a farsi accettare in società nonostante l’origine straniera. A Roma Tanaquil affiancò il marito nella vita pubblica, aiutandolo a raggiungere il trono con il nome di Tarquinio Prisco, anche grazie alle sue doti divinatorie, alle quali era
stata istruita in quanto donna di alto lignaggio; e in seguito lei stessa fu l’artefice della transizione dal regno di Tarquinio a quello di Servio Tullio, evitando discordie e sedizioni e agendo da previdente statista (vedi «Archeo» n. 318 e 320, agosto e ottobre 2011). Naturalmente non mancarono pettegolezzi e indiscrezioni sull’ambiguo rapporto con il nuovo re, ma quello che qui ci preme di sottolineare è l’intervento femminile negli affari di Stato, con vantaggio per tutti. E piú tardi, ma stavolta in senso negativo, gli intrighi della figlia di Servio Tullio, sposata a Tarquinio il Superbo, portarono sul trono
Un gran parlare di sesso E cosa si può dire, infine, riguardo al sesso, l’altro argomento scandaloso sollevato da Teopompo? Senz’altro la necessità di mettere in cattiva luce i Tirreni aveva spinto lo storico greco a esagerare; ma dato che tanto lui che i suoi lettori vedevano gli altri popoli attraverso lo specchio deformante della morale ellenica, è forse possibile immaginare che ci fosse qualcosa di vero alla base delle dicerie sulla favoleggiata libertà sessuale. In effetti, se un viaggiatore si meravigliava tanto a vedere delle donne libere sedute a banchetto con gli uomini, quanto piú si sarebbe scandalizzato a sentir dire che il padrone di casa stava facendo a r c h e o 67
storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/3 Tarquinia, necropoli di Monterozzi. Due scene erotiche, particolare degli affreschi della parete di fondo della camera principale della Tomba dei Tori. Seconda metà del VI sec. a.C.
PER SAPERNE DI PIÚ
prio non poteva tollerare era il coinvolgimento di donne libere e sposate in simili occasioni pubbliGiovanni Colonna, Ceramisti e che. A paragone con l’immaginadonne padrone di bottega rio delle ceramiche attiche, la pitnell’Etruria arcaica, in tura funeraria e vascolare etrusca è Indogermanica et Italica. piuttosto povera di scene erotiche, Festschrift für Helmut Rix, ma non mancano alcuni esempi Innsbruck 1993, pp. 61-68. significativi, come sulla parete deAntonia Rallo, Il ruolo della donna, in Etruschi (catalogo della stra della Tomba della Fustigazione o in quella di fondo della Tomba mostra,Venezia, 2000), Milano 2000, pp. 131-139. Maria Leonarda dei Tori, entrambe a Tarquinia. Leone, 101 donne che hanno fatto grandi 101 uomini, Milano Una coppia insolita 2011; pp. 226-228. Da queste poche raffigurazioni, unite alle fonti letterarie, si direbbe che il sesso venisse considerato l’amore oppure ad assistere a un dagli Etruschi in modo abbastanza naturale, senza eccessiva malizia. atto sessuale pubblico! Eppure anche le occasioni sociali Decisamente meno diffusi sono greche spesso si concludevano invece i riferimenti a pratiche con il sesso, di regola con corti- omosessuali, che erano invece rigiane professioniste ovvero con correnti nell’iconografia greca, giovani compiacenti: per averne tanto quanto decantati dagli autori un’idea basta osservare molte sce- classici. Ha destato quindi un certo ne erotiche raffigurate sulla cera- clamore e un rifiuto da una parte mica attica a figure rosse (per della critica l’ipotesi che la coppia esempio nel Museo di Tarquinia). di banchettanti dipinta su una paPresumibilmente il senso del pu- rete della camera funeraria della dore era ben diverso tra un popo- Tomba della Quadriga Infernale a lo e l’altro, nonostante le affinità Chiusi potesse raffigurare una copculturali, e ciò che un Greco pro- pia omosessuale. 68 a r c h e o
L’anziano defunto, con la barba corta e profonde rughe che sottolineano l’espressione cupa, condivide il triclinio con un giovane convitato, al quale appoggia una mano sulla spalla («sdraiati sotto la stessa coperta», parafrasando Aristotele); quest’ultimo si volge verso di lui tenendogli una mano e allunga la destra verso il suo volto, in un gesto di affetto e di saluto molto intimo. Rimane il dubbio se il giovane sia un figlio o un parente, magari un erede, legato da un profondo attaccamento al defunto, o se piuttosto non si tratti di una delicata rappresentazione di un amore omosessuale, colta al momento dell’estremo saluto, come mai se ne conoscono nella pittura antica, neppure per rapporti coniugali. (3 – continua) LE PUNTATE DI QUESTA SERIE • I mille volti degli Etruschi • I pirati del Tirreno • Libere, ma non troppo… • Maestri di cultura • I piú religiosi tra gli uomini • Il popolo del mistero
speciale CODICI DI NAG HAMMADI
NAG HAMMADI E LE PAROLE di Madeleine Scopello
SEGRETE DI GESÚ
Alto Egitto, massiccio del Djebel el Tarif, inverno del 1945: alcuni contadini si avventurano all’interno di una grotta della falesia a picco sul Nilo, alla ricerca di antichi monili. Nella penombra appaiono i contorni di una vecchia giara… Inizia cosí il racconto di un’avventura scientifica che aprirà le porte a una scoperta straordinaria: quella dell’affascinante universo filosofico e religioso dei maestri della gnosi
Sullo sfondo: la montagna del Djebel el Tarif, nei pressi della città di Nag Hammadi, nell’Alto Egitto. Qui, all’interno di una grotta, nel 1945, alcuni contadini del luogo rinvennero casualmente un corpus di manoscritti contenenti testi gnostici scritti in lingua copta, oggi noti come i «codici di Nag Hammadi». A destra: una pagina in papiro del codice II di Nag Hammadi, con la fine dell’Apocrifo di Giovanni, e l’inizio del Vangelo secondo Tommaso databile, come il resto del corpus, intorno alla metà del IV sec. d.C.
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI
L
a fine dell’antichità fu percorsa, all’interno delle frontiere dell’impero romano, da un movimento di pensiero affascinante e complesso, la gnosi (dal greco gnosis, conoscenza). Incentrata sulla realizzazione di una conoscenza assoluta che, illuminandolo improvvisamente, svela all’uomo la sua vera essenza, la gnosi intende dare una risposta al problema del male, interrogandosi sul senso del vivere. Secondo gli gnostici (in greco, «coloro che hanno la conoscenza») – nome con cui i loro avversari li definivano, con intento polemico –, l’uomo è stato precipitato nel cosmo per volontà di un dio inferiore e malevolo, responsabile della creazione e distinto da un dio perfetto e inconoscibile. Schiavo del corpo e della materia nell’immensa prigione dell’universo retta dalla storia e scandita dal tempo, l’uomo ha dimenticato le sue origini celesti. Tuttavia, permane in lui una scintilla di luce, retaggio di un mondo superiore: questa scintilla, rivivificata, risveglierà il suo vero essere, conducendolo alla conoscenza di sè. Dall’Egitto a Roma, dalla Siria all’Asia Minore, i maestri della gnosi portarono sulle strade dell’impero la loro visione di Dio, del mondo e dell’uomo con una lucidità e una forza tali da minacciare la corrente maggioritaria del cristianesimo che cominciava a consolidarsi. Il loro pensiero fu osteggiato senza sosta dai Padri della Chiesa, tra il
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II e il IV secolo d.C., ma anche, per motivi diversi, dai filosofi dell’epoca. Gli uni come gli altri scrissero contro gli gnostici accese confutazioni, coscienti del pericolo che la loro dottrina, altamente speculativa, rappresentava sia per il messaggio cristiano, sia per l’interpretazione della filosofia antica. Senza una solida struttura sociale ed ecclesiale alle spalle, perseguitati dalla Chiesa e in seguito da Roma, gli gnostici scomparvero progressivamente, ma taluni dei loro insegnamenti, attraverso vie sotterranee e storicamente ardue da rintracciare, riapparvero periodicamente in altri movimenti di pensiero, dal manicheismo all’ermetismo, alla kabbala ebraica. Delle dottrine della gnosi, dei suoi maestri di altissima e raffinata cultura, non ci restava traccia, se non quella contenuta nelle testimonianze fortemente parziali e polemiche dei loro avversari. La voce degli gnostici si spense per secoli. Una sensazionale scoperta archeologica, avvenuta nell’Alto Egitto nell’inverno del 1945, presso Nag Hammadi, ha riportato i pensatori gnostici sulla scena della storia, restituendoci un considerevolissimo e coerente insieme di testi da loro scritti, dai quali emana un’identica aspirazione alla conoscenza, fondata su una profonda ricerca esistenziale. Una ricerca che non può lasciare indifferente l’uomo di oggi.
sonno millenario. Ma la curiosità è piú forte: La scoperta il piú coraggioso del gruppo, Muhammad Ali Dicembre 1945: come ogni giorno, alcuni Samman, afferra il suo piccone e sferra un fellahin (contadini) di un villaggio dell’Alto colpo deciso. La giara va in pezzi: un pulviEgitto, armati di pale e picconi, vanno in scolo dorato si spande dalla bocca del vaso: è cerca di sebbakh (il concime naturale che si forse il ginn liberato dalla sua prigione! trova nei siti archeologici, perché deSpaventati ma curiosi, i fellahin si chiriva dallo sbriciolamento dei mattoni nano sui cocci. Ma di oro non c’è crudi, n.d.r.) tra le le rocce del massicIn alto: Muhammad Ali nemmeno l’ombra! La giara, invece, è cio del Djebel el Tarif, per poi trasporSamman, del villaggio ricolma di manoscritti su papiro, ancotarlo nei campi vicini. Conoscono di al-Qasr, è l’uomo che ra racchiusi nei loro polverosi astucci bene il massiccio che scende a picco ruppe la giara contenente i di cuoio. La delusione dei contadini fu sul Nilo, scavato da un buon centinaio manoscritti. Sullo grande, ma si dissero che forse potevadi nicchie e di grotte che celano tomsfondo, il Djebel el Tarif no trarre qualche vantaggio da quelle be antichissime. Nei dintorni, presso e il monastero copto di vecchie, incomprensibili carte. Chenoboskion, sono state ritrovate le S. Palamone. vestigia dei primi monasteri fondati Nella pagina accanto: nel IV secolo da Pacomio, iniziatore Tra storia e leggenda due pagine del codice del monachesimo egiziano, nonché Cosí, in modo del tutto casuale, ebbe II, custodite, sotto lastre quelle di una basilica. Siamo a una luogo uno dei maggiori ritrovamenti di plexiglas, al Museo ventina di chilometri dalla cittadina di manoscritti compiuti nel XX secolo, Copto del Cairo. Su moderna di Nag Hammadi, fondata da quello dei testi gnostici di Nag Hamquella di destra gli Mahmoud Pasha Hammadi, e sede di madi, che gettò una luce nuova, inatteultimi brani del Vangelo secondo Tommaso, un’importante raffineria di canna da sa, sul pensiero della gnosi, permettentraduzione in copto zucchero. do nel contempo di ridisegnare con della metà del IV sec., Entrati in una grotta per una breve piú precisione il complesso paesaggio da un originale redatto sosta, i fellahin notano nell’ombra una religioso dei primi secoli della nostra in greco, tra il II vecchia giara in terracotta, alta un meera. Due anni piú tardi, nel 1947, ale il III sec. tro circa. Sperando di trovarvi dell’oro trettanto significativo fu il ritrovamene antichi monili, che avrebbero potuto to dei manoscritti del Mar Morto. rivendere a un buon prezzo a qualche Tuttavia, la storia della scoperta della rigattiere locale, decidono di spezzarla, non giara da parte dei fellahin si perde presto nelsenza un certo timore. Nella giara poteva la leggenda e le versioni da essi fornite varianascondersi un ginn – un demone – che non rono fin dall’inizio, arricchendosi ogni volta avrebbe gradito di essere disturbato nel suo di nuovi particolari, di cui fu difficile valutaa r c h e o 73
speciale CODICI DI NAG HAMMADI re l’esattezza.L’uomo che aveva rotto la giara raccontò ben piú tardi a James M. Robinson, professore all’Università di Claremont (California) – che ricostruí con infinita pazienza la storia della scoperta, recandosi sul posto e intervistandone a piú riprese, a partire dal 1975, gli attori e gli spettatori –, che, dopo aver sciolto il tessuto del suo turbante, vi aveva deposto i vari manoscritti e s’era gettato in spalla il sacco. Era poi tornato nel villaggio di al-Qasr (l’antica Chenoboskion), a poca distanza dal sito del ritrovamento, e aveva gettato tutto nel cortiletto di casa, tra la paglia, eliminando i fogli spezzati e i frammenti di papiro. Sua madre se ne serví, a quanto sembra – ma si tratta di una leggenda ricorrente, che si ritrova anche in altre scoperte di manoscritti – per alimentare il fuoco.
IL DJEBEL EL TARIF Il massiccio del Djebel el Tarif si trova una decina di km a nord-est della moderna città di Nag Hammadi. Se la scoperta porta il nome di Nag Hammadi, e non quello del Djebel el Tarif, è probabilmente perché gli studiosi che si recarono sul luogo della scoperta furono ospitati proprio a Nag Hammadi, nella «Sugar factory», una confortevole e ampia costruzione di epoca coloniale. Il ricercatore francese Jean Doresse, che si recò sul luogo fin dal 1947, aveva auspicato che la scoperta portasse il nome della vicinissima Chenoboskion. Il territorio di Nag Hammadi è ricco di una storia millenaria: siamo 130 km circa a nord-ovest di Luxor, e non lontani dagli antichi templi di Dendera e Panopolis.
fico di antichità. Alla fine fu autorizzato a vendere il codice III al Museo Copto, diretto all’epoca da Togo Mina, per 250 lire egiziane. Negli anni Settanta, James M. Robinson ha ritrovato Raghib a Qina, una cittadina dell’Alto Egitto, e il maestro divenne la sua principale fonte di informazione sulle vicissitudini dei manoscritti. Peraltro, nel registro degli acquisti del Museo Copto, Robinson trovò traccia dell’atto di vendita effettuato da Raghib: la transazione ebbe luogo il 4 ottobre 1946.
Da un acquirente all’altro Quanto al resto dei manoscritti, si doveva cercare un acquirente che li comprasse in cambio di un po’ di denaro. La famiglia di Muhammad Ali richiese una lira egiziana, ma nessuno, nel villaggio, era interessato. Un abitante di religione copta, a cui Muhammad Ali mostrò i manoscritti, comprese che erano scritti in copto e non in arabo, e che doveva quindi trattarsi di testi molto antichi, di epoca pre-islamica. Il primo annuncio ufficiale E un altro, dopo aver visto i paNell’autunno del 1947, Jean DoresL’automobile di Jean piri, pensò che si trattasse di una Bibse, ricercatore presso l’Istituto franDoresse ai piedi del Djebel bia in copto, ma neppure lui era intecese di archeologia del Cairo, ebbe el Tarif. Lo studioso, ressato all’acquisto, avendone già una. accesso al codice III e ne identificò esaminando il codice III, Secondo la ricostruzione di Robinle tracce del pensiero gnostico. Ma fu il primo, nel 1947, a son, la famiglia di Muhammad Ali era fu solo nel 1948 che l’eccezionale riconoscervi tracce del a quel tempo implicata in una sanguiscoperta fu annunciata ufficialmenpensiero gnostico. nosa faida e, temendo un controllo te dai giornali egiziani, con un artiNella pagina accanto, in della polizia, riteneva pericoloso concolo di Togo Mina (Une importante alto: Jean Doresse (terzo, da sinistra) con un servare in casa propria i manoscritti. découverte: un papyrus gnostique copte funzionario egiziano e Fu allora deciso di affidarne uno (in du IVe siècle), pubblicato da La Boualcuni membri dell’équipe, seguito numerato come codice III) al rse égyptienne del 10 gennaio 1948. in una foto scattata nel prete copto del villaggio affinché lo Il primo annuncio scientifico della 1950, ai piedi della parete conservasse ed eventualmente cercasscoperta dei testi di Nag Hammadi rocciosa; in basso: la se un acquirente. venne dato il 20 febbraio dello stesregione di Nag Hammadi; i Il prete aveva un cognato, un maestro so anno da Henri-Charles Puech, simboli cruciformi itinerante – Raghib Andarawus «Alallora direttore di studi all’École indicano altrettanti Qiss» Abd al-Sayyid –, che, di tanto in pratique des Hautes-Etudes di Parimonasteri pacomiani. tanto, passava per al-Qasr e che accetgi. Puech presentò all’Académie des tò di portare il codice al Cairo, dove Inscriptions et Belles-Lettres una si mise in contatto con alcuni intercomunicazione, preparata con la mediari; tuttavia, tradito da uno di essi, fu collaborazione di Jean Doresse, nella quale consegnato alle autorità con l’accusa di trafdimostrava che i testi portavano l’impronta di
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uno degli aspetti piú interessanti e meno conosciuti della religiosità del tardo-antico, quello della gnosi. Due anni piú tardi, lo studioso pubblicò un inventario preciso dei testi contenuti nei codici di Nag Hammadi e un loro studio interpretativo, che apparve nei Coptic Studies, offerti in omaggio al grande coptologo Walter E. Crum (The Byzantine Institute, Boston, 1950, pp. 91-154). Se il codice III era giunto senza ostacoli particolari al Museo copto, ben diversa fu la sorte del cosiddetto codice I, un testo di notevole bellezza per la scrittura e in eccellente stato di conservazione. Un antiquario belga, Albert Eid, ne venne in possesso e, dopo averlo fatto uscire illegalmente dall’Egitto, lo propose all’Università del Michigan e poi alla Fondazione Bollinger di New York, ma nessuno dei potenziali acquirenti concluse l’affare. Gilles Quispel, professore di storia del cristianesimo all’Università di Utrecht, venne a conoscenza dell’esistenza di questo codice, che, nel frattempo, Eid, prima di morire, aveva depositato presso una banca di Bruxelles, e segnalò alla Fondazione Carl Gustav Jung di Zurigo la possibilità di acquistarlo. La Fondazione accettò e si accordò con la vedova di Eid per una somma di 8000 dollari. Lo splendido codice venne donato allo psicanalista svizzero in occasione del suo compleanno, nel 1953 e gli fu dato il nome di Codice Jung (vedi foto a p. 82). I cinque trattati del codice – restituito dalla famiglia Jung all’Egitto nel 1975 – vennero pubblicati in Svizzera tra il 1956 e il 1975. Quanto agli altri codici (i codici IV-XII piú i fogli di un tredicesimo codice), essi passarono di mano in mano, attraverso vari interme-
Ossirinco
Pabau
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Nag Hammadi Luxor (Tebe)
Tabennisi Nilo
Al Qasr (Chenoboskion) Nag Hammadi
N 0
10 Km
diari, finché un noto antiquario cipriota del Cairo, Phocion Tano, riuscí a impossessarsene. Dopo varie pressioni, fu obbligato a restituirli al governo egiziano che li nazionalizzò e li consegnò al Museo Copto del Cairo nel 1952, ove si trovano tuttora, conservati, foglio per foglio, in teche di plexiglas.
Specialisti al Cairo La rivoluzione egiziana del 1952 e la crisi di Suez del 1956 ritardarono i primi tentativi di pubblicazione dei papiri di Nag Hammadi. Nel 1956, dopo l’ascesa al potere di Nasser, i testi furono dichiarati proprietà nazionale dal Dipartimento delle antichità egiziane e dall’amministrazione dei Musei nazionali. Venne istituito un comitato scientifico internazionale con lo scopo di pubblicare l’edizio-
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI ne fotografica dei manoscritti, al fine di metterli alla disposizione degli specialisti. Sotto l’egida dell’UNESCO e del Dipartimento delle antichità egiziane, il comitato ha dato alle stampe l’edizione in facsimile dei testi tra il 1972 e il 1984 (The Facsimile Edition of the Nag Hammadi Codices). Negli stessi anni, James M. Robinson, oltre ad avere un ruolo chiave nei negoziati che portarono alla pubblicazione dei facsimili, promosse il progetto di una traduzione completa dei testi in lingua inglese, che si concretizzò nel 1977, grazie al lavoro di équipe condotto da diversi coptologi e specialisti della gnosi, sotto la direzione dello stesso studioso statunitense. Robinson ebbe il grande merito di diffondere rapidamente nel mondo scientifico, al di là degli inevitabili attriti tra specialisti di vari Paesi, la traduzione integrale dei testi, che avrebbe potuto essere consultata anche da studiosi che non conoscevano la lingua copta e che quindi non potevano leggere i testi direttamente dai papiri o dai primi volumi pubblicati in facsimile. The Nag Hammadi Library in English, edita da Harper & Row di San Francisco, ha avuto finora varie edizioni, e, nel 1995, ne erano già state vendute 100 000 copie: un successo editoriale straordinario per una raccolta di testi antichi!
Che cos’è un codice? Il ritrovamento di Nag Hammadi ha portato alla luce dodici codici su papiro, a cui si aggiungono otto fogli di un tredicesimo, ritrovato nella copertina frontale del codice VI. Ma che cos’è un codice (dal latino codex, plurale, codices)? È l’antenato del nostro libro. Scritto su entrambe le facce (recto e verso), spesso rilegato, il codice comincia a soppiantare il volumen, il rotolo, agli albori del cristianesimo. Di fabbricazione meno costosa del rotolo, poteva essere realizzato con fibre di papiro debitamente preparate, ma anche su pergamena (vedi box a p. 80). Grazie al formato piú piccolo e piú agevole da consultare, da leggere, ma anche da trasportare, si diffonde largamente nell’area del Mediterraneo. I cristiani adottarono volentieri il codice per i testi sacri, mentre gli Ebrei continuarono a preferirgli il rotolo: tali sono, per esempio, i manoscritti di Qumran. I codici di Nag Hammadi sono formati da fogli piegati, rilegati tra loro in uno o piú quaderni, e in seguito cuciti insieme; i fogli sono scritti su ambedue le facciate (un foglio = due pagine) e le dimensioni delle pagine
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Cammellieri al Djebel el Tarif.
vanno da 23 a 30 cm in altezza e da 12 a 18 cm in larghezza. Quasi tutti i codici conservano la rilegatura d’origine, in cuoio, a eccezione del codice XII. Il cartonnage che rinforza le copertine in cuoio è di estremo interesse per datare i manoscritti: questi inserti, infatti, sono realizzati con materiale di recupero e, nel caso dei codici, con papiri già usati, alcuni datati, tra cui si trovano lettere private, contratti di vendita (codice I) e anche fatture d’acquisto di olio e di grano (codice IV). Il cartonnage del codice VII contiene frammenti in copto del libro della Genesi, nonché lettere indirizzate a monaci di Chenoboskion e un documento di natura giuridica, datato al
I PROTAGONISTI
In alto: 1947. Jean Doresse e Togo Mina, direttore del Museo Copto del Cairo, esaminano il codice III. A destra: Raghib Andarawus Al-Qiss Abd al-Sayyid.
A sinistra: Henri-Charles Puech. Il 20 febbraio 1948, con Jean Doresse, lo studioso francese presentò la prima relazione scientifica sui testi di Nag Hammadi.
348, che diventa, quindi, il terminus post quem del codice. Alcuni cartonnage contengono toponimi (codici I, V, VII e IX), il che potrebbe indicare che i manoscritti furono realizzati nei dintorni. Quanto alle copertine, sono fabbricate in pelle di capra o di montone e i fogli contenuti tra le due copertine sono fissati con lacci di cuoio. In alcuni casi sono ornate da simboli.
Testi greci tradotti in lingua copta I cinquantadue trattati di Nag Hammadi contenuti nei codici – un totale di 1156 pagine su papiro – sono scritti in copto, lingua parlata nell’Egitto cristiano dei primi secoli. A quell’epoca il Paese era bilingue e se la
In alto, da sinistra a destra: HenriCharles Puech, Pahor Labib e Gilles Quispel nel Museo Copto, 1956. A sinistra: James M. Robinson, con un codice sotto plexiglas, nel 1975.
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI I TRATTATI DELLA BIBLIOTECA I trattati della biblioteca di Nag Hammadi* • Preghiera dell’apostolo Paolo (I,1) • Epistola apocrifa di Giacomo (I, 2) • Vangelo di verità (I,3 e XII,2) • Trattato sulla resurrezione (I,4) • Trattato tripartito (I,5) • Apocrifo di Giovanni (II,1; III,1; IV,1) • Vangelo secondo Tommaso (II,2) • Vangelo secondo Filippo (II,3) • Ipostasi degli arconti (II,4) • Scritto senza titolo (II,5; XIII,2) • Interpretazione dell’anima (II,6) • Libro di Tommaso l’atleta (II,7) • Sacro libro del Grande Spirito Invisibile o Vangelo degli Egiziani (III,2; IV,2) • Eugnosto (III,3 e V,1) • Saggezza di Gesú Cristo (III,4) • Dialogo del Salvatore (III,5) • Apocalisse di Paolo (V,2) • Prima apocalisse di Giacomo (V,3) • Seconda apocalisse di Giacomo (V,4) • Apocalisse di Adamo (V,5) • Atti di Pietro e dei Dodici Apostoli (VI,1) • Bronté, intelletto perfetto (VI,2) • Discorso autentico (VI,3) • Concetto della Grande Potenza (VI,4) • Repubblica di Platone 588B-599B (VI, 5) • L’ogdoade e l’enneade (VI,6) • Preghiera di azione di grazia (VI,7) • Asclepio (VI,8) • Parafrasi di Sem (VII,1) • Secondo trattato del Grande Seth (VII,2) • Apocalisse di Pietro (VII,3) • Insegnamenti di Silvano (VII,4) • Le tre steli di Seth (VII,5) • Zostriano (VIII,1) • Lettera di Pietro a Filippo (VIII,2) • Melchisedek (IX,1) • Norea (IX,2) • Testimonianza di verità (IX,3) • Marsanes (X) • Interpretazione della gnosi (XI,1) • Relazione sul mito valentiniano (XI,2) • Allogene (XI,3) • Ipsifrone (XI,4) • Sentenze di Sesto (XII,1) • Il Primo Pensiero a triplice forma (XIII,1) *La cifra in caratteri romani indica il numero del codice; la cifra araba, il numero del trattato all’interno del codice. A destra: il corpus dei codici di Nag Hammadi, formato da 13 libri rilegati con copertine in pelle di capra o montone.
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lingua colta era certamente il greco, il copto veniva correntemente usato e cominciava a fiorire una letteratura copta, attestata soprattutto dalle opere dei Padri del deserto.
Al culmine della disputa Tuttavia, nei codici il copto è solo una lingua di traduzione. Il contenuto dei testi permette di affermare che all’origine, tra il II e il III secolo, erano stati redatti in greco; essi risalgono, dunque, al periodo culminante delle grandi controversie tra i Padri della Chiesa e gli gnostici. I testi greci originali sono andati perduti, salvo qualche rarissima eccezione. Numerosissimi vocaboli greci sono presenti nelle traduzioni copte: si tratta in genere di termini filosofici e teologici, che i traduttori hanno preferito lasciare nella versione originale. La scrittura adottata nei codici è di tipo onciale (maiuscolo), senza interruzione tra le parole. Diversi scribi dovettero ricopiare i testi: si distinguono infatti varie mani e delle grafie differenti, anche all’interno dello stesso codice. In altri casi, lo stesso scriba lavorò su piú di un codice. Lo studio delle grafie è di grandissima utilità per i papirologi al fine di
precisare l’epoca in cui i codici furono ricopiati: ogni epoca, infatti, ha i propri criteri calligrafici. L’indagine paleografica ha dimostrato che i codici furono sicuramente copiati tra la metà e la fine del IV secolo. I manoscritti conservati forniscono scarse informazioni sull’attività di traduzione, di copia e di fabbricazione dei codici di Nag Hammadi. Nulla sappiamo di coloro che tradussero i testi dal greco in copto: appartenevano a botteghe di traduzione o lavoravano in modo isolato? Certamente non era la prima volta che questi testi erano tradotti in copto; di alcuni di essi, infatti, sono state ritrovate altre versioni, simili ma non identiche, che circolavano all’epoca in Egitto. L’Apocrifo di Giovanni (presente in ben tre versioni nei codici di Nag Hammadi), per esempio, fa ugualmente parte di un altro codice del IV secolo, il cosidetto Codice di Berlino; mentre altri due trattati (Lettera di Pietro a Filippo e un’Apocalisse di Giacomo) riappaiono nel Codice Tchacos, scoperto negli anni Ottanta nella regione di al-Minya.
Il Vangelo secondo Tommaso (Nag Hammadi, codice II, 1)
Ecco le parole segrete pronunciate da Gesú vivente e messe per scritto da Didimo Giuda Tommaso. «Ed egli disse: ”Colui che troverà il senso di queste parole la morte non lo toccherà”». Si apre con queste parole il piú celebre dei Vangeli gnostici, la cui redazione risale al II secolo. Il Vangelo secondo Tommaso (in basso, una pagina manoscritta del codice II di Nag Hammadi) non ha alcun quadro narrativo: è una raccolta di parole di Gesú, di logia (logion in greco = parola), 114 di numero, alcuni sorprendentemente brevi, che assumono la forma di sentenze, di aforismi, di consigli, talvolta di parabole. Tali logia sono in genere introdotti dalla formula «Gesú ha detto». I discepoli che intervengono nel testo sono Simon Pietro, Matteo, Maria (Maddalena), Salomé e Tommaso. Quest’ultimo è il discepolo preferito, colui che riveste il ruolo di interprete dell’insegnamento esoterico di Gesú e che, nella finzione letteraria, ha messo per iscritto le sue parole.
Diverse tradizioni Non tutti i codici sono ben conservati, e, in piú d’un caso, la ricostituzione delle pagine ha severamente impegnato gli studiosi. Vi sono pagine quasi illeggibili, lacune di parole o di intere righe, ma, nel complesso, lo stato
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI Rotoli e codici
Il rotolo o volumen (a destra) è stato, in epoca antica, la forma piú comune di libro. Era costituito da una lunga striscia di papiro avvolta intorno a un piccolo cilindro (umbilicus), con il
testo scritto in colonne su una sola facciata. Dal II sec. d.C. inizia a diffondersi l’uso del codice (in basso), formato da piú fascicoli, composti a loro volta da piú fogli di papiro o pergamena scritti su entrambe le facciate e rilegati, con involucro esterno in pelle.
di conservazione dei documenti può considerarsi eccezionale, circostanza dovuta all’aridità del clima egiziano. Uno dei codici piú frammentari è il XII, di cui si conserva soltanto una decina di fogli, mentre possediamo circa la metà dei codici IX, X e XI. È molto probabile che gran parte dei testi conservati a Nag Hammadi, nel loro originale greco perduto, fossero stati scritti in Egitto,
nello straordinario crogiolo intellettuale di Alessandria, in cui si affrontavano o convivevano giudaismo, cristianesimo e paganesimo, affiancati dalle religioni misteriche, le correnti dell’ermetismo, la magia. Inoltre il fatto che alcuni luoghi sacri e templi dell’antico Egitto siano talvolta menzionati negli scritti di Nag Hammadi (soprattutto nei trattati del codice VI) ci induce a pensare che gli autori li conoscessero, almeno di fama. Altri testi, invece, portano l’impronta di tradizioni siriache (per esempio il Vangelo secondo Tommaso) e provengono con ogni probabilità da un altro centro di cultura di primo piano nei primi secoli, la città di Edessa. Scritti in greco o in siriaco, sono pervenuti in Egitto e qui diffusi in lingua greca e in seguito in lingua copta. Altri ancora erano noti a Roma, nella cerchia del filosofo Plotino, verso la metà del III secolo, e non si può escludere che fossero stati composti nella capitale dell’impero. Naturalmente è legittimo domandarsi chi avesse dato l’ordine di copiare i testi nei codici di Nag Hammadi – un’impresa che necessitava non solo di tempo, ma anche di organizzazione e denaro – e con quale scopo. Probabilmente si trattò di un uomo di cultura, di religione gnostica, certamente abbiente, o fors’anche di una comunità gnostica, insediata in una zona meno esposta alle tensioni religiose di Alessandria d’Egitto, che auspicava di riunire i suoi testi sacri in codici facilmente consultabili, destinati alla lettura, all’istruzione e alla meditazione. Si può peraltro immaginare che i codici fossero stati nascosti in una giara per proteggerli da una minaccia precisa, di natura religiosa o politica.
Una biblioteca che ha sfidato i secoli I codici di Nag Hammadi sono una vera e propria «biblioteca», che ha sfidato i secoli, facendoci pervenire un insieme di testi religiosi in uso in una comunità gnostica del IV secolo. Il termine «biblioteca» – ormai di uso corrente per definire il ritrovamento – si giustifica in quanto, al di là della diversità dovuta alla pluralità di testi, contenuti e autori, siamo di fronte a un insieme coerente, che propone un’unica visione esistenziale, un’identica attitudine di rifiuto nei confronti del mondo, e un’aspirazione alla conoscenza di sé. Questa
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conoscenza è nel contempo conoscenza delle proprie origini, delle proprie radici, che – lo gnostico ne è convinto – si situano nel mondo trascendente: «Se vi si chiede: “dove siete nati?”, dite loro: “siamo nati dalla Luce, là dove la Luce è nata da se stessa” (…). Se vi si chiede: “chi siete?”, rispondete: “siamo i suoi figli e siamo gli eletti del Padre Vivente”. Se vi si chiede: “qual è il segno del Padre in voi?”, rispondete: “un movimento e un riposo”» (Vangelo secondo Tommaso, codice II, 2, logion 50). Codice Bruce, conservato alla Bodleian Che cosa si sapeva degli In alto: un frammento Library), fu acquistato nel 1773, nell’Algnostici prima della scoperta della copertina in to Egitto, da un viaggiatore scozzese, di Nag Hammadi? cuoio del codice II. James Bruce, nelle vicinanze di Tebe. La documentazione diretta sul pensiero Nella pagina accanto, Contiene due trattati, privi di titolo, per gnostico ritrovata prima della scoperta in basso: la parte un totale di 78 fogli (156 pagine), assai di Nag Hammadi era molto scarsa, interna della copertina deteriorati dal tempo; vi si trovano degli anche se di notevole interesse. Alcuni del codice VII. Il insegnamenti attribuiti a Gesú e specucodici in lingua copta risalenti alla secartonnage utilizzato lazioni di natura mitico-filosofica. conda metà del IV secolo furono indiper rinforzarla, Il Codice di Berlino (Berolinensis viduati tra la metà del Settecento e gli realizzato con materiale di recupero, 8502), su papiro, proviene anch’esso inizi del XX secolo. Il Codice di Loncontiene frammenti in dall’Alto Egitto. Fu comprato presso un dra (o Codex Askew, depositato al Brilingua copta del libro antiquario di Akhmim, nel 1896, dal tish Museum), su pergamena, fu acquidella Genesi, lettere filologo Carl Reinhardt e identificato stato presso un antiquario londinese, indirizzate ai monaci dal coptologo Carl Schmidt, che lo fece nel 1750, da un medico appassionato di di Chenoboskion e un acquistare dal Museo di Egittologia di antichità, Antoninus Askew; proviene documento giuridico Berlino ove tuttora si trova. Quattro dall’Egitto e contiene un ampio trattadatato al 348. trattati lo compongono: il Vangelo di to di 178 fogli (corrispondente a 356 Maria (Maddalena), l’Apocrifo di Giovanpagine), nel quale sono riportati dialoni (presente anche nei codici di Nag ghi tra Gesú, Maria Maddalena e gli Hammadi), la Saggezza di Gesú e l’Atto apostoli. Il trattato è privo di titolo, ma di Pietro. I testi, tradotti in copto durante il IV si suole denominarlo Pistis Sophia (Fede e secolo, risalgono al II o al III secolo. Saggezza), dal nome di un’entità mitica che Come già accennato, i testi di cui nei pressi di ha un ruolo rilevante nello scritto. Nag Hammadi è stata ritrovata la traduzione Quanto al codice papiraceo di Oxford (o
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI
copta, furono all’origine scritti in greco nel II e III secolo, un’epoca in cui la dottrina cristiana non era stata ancora definitivamente codificata. In questo periodo, alcuni Padri della Chiesa – detti «eresiologi» (perché convinti che la gnosi fosse un’eresia del cristianesimo) – si sono violentemente scagliati contro il pensiero gnostico, visto come un grave pericolo per la Chiesa, che andava organizzandosi con un preciso bagaglio di dottrine. Prima della scoperta della documentazione diretta di Nag Hammadi dobbiamo agli eresiologi la stragrande maggioranza delle informa-
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zioni sugli gnostici. La reazione contro i maestri gnostici che, fondando scuole di pensiero e viaggiando lungo le strade dell’impero, diffondevano il loro messaggio, si esprime sotto forma di confutazioni, opere intrise di polemica, ma ben documentate, che i Padri scrivono citando ampi stralci di opere gnostiche, in modo da fondarsi su una materia precisa per controbattere le loro argomentazioni. Gli eresiologi sono in alcuni casi anche vescovi – come Ireneo di Lione (II secolo) o Epifanio di Salamina (IV secolo) –, che sentono come primo dovere quello di proteggere i fedeli delle comunità di cui sono responsabili dalle interpretazioni ritenute erronee. In linea generale, gli stralci citati corrispondono alle teorie sostenute dai vari maestri gnostici; per quanto riguarda invece le informazioni sui loro usi e costumi, esse sono senz’altro di parte e il piú delle volte non credibili.
mina il messaggio di Cristo sulla terra, rimetMa perché scagliarsi con tale foga contro gli te in causa la successione apostolica e l’autognostici? La risposta è semplice: perché gli rità della Chiesa e rischia, inoltre, di destruteresiologi non ne sottovalutavano la grande turare le comunità cristiane. preparazione intellettuale, il valore in campo Diverse ragioni provocarono la reazione dei filosofico e teologico, nonché la perizia interPadri. La piú evidente è il disprezzo assoluto pretativa delle Sacre Scritture. Insomma, gli degli gnostici per la creazione, in eresiologi erano pienamente consacui l’uomo è tenuto prigioniero e pevoli del fatto che gli gnostici eraNella pagina accanto: nella quale le particelle di luce, no in grado di sedurre le élite con la due pagine del Trattato provenienti da un Dio inconosciloro cultura e finezza di pensiero e tripartito contenuto nel bile, sono ormai disperse e avvindi allettare non soltanto cristiani codice I, detto «Jung» ghiate alle tenebre. Responsabile colti, ma anche pagani. Gli eresioloperché acquistato, nel di questa creazione fatta di materia gi si soffermano particolarmente sui 1953, dalla Fondazione corrotta è un dio inferiore, il demaestri gnostici del loro tempo, anJung e donato allo miurgo, geloso dell’uomo in quanche se tentano di ristabilire una fipsicanalista. Fu poi to questi porta ancora la traccia di liazione con maestri piú antichi. restituito dalla famiglia all’Egitto nel 1975. un dio superiore. Benché polemiche, le loro opere In basso: il codice di Una tale opinione non poteva che hanno il pregio di aver conservato Berlino, proveniente entrare in conflitto con uno dei numerose pagine di scritti gnostici. dall’Alto Egitto. Si fondamenti del cristianesimo (e compone di quattro del giudaismo), secondo i quali un I motivi della disputa trattati, redatti in copto dio infinitamente buono fu artefiI Padri della Chiesa fecero della nel IV sec. e risalenti al ce di una creazione assolutamente gnosi un’eresia. Il titolo della confuII o al III sec. perfetta. Siffatta opinione era tazione di Ireneo di Lione, scritta ugualmente in contraddizione con verso il 180, lo indica senza ambiguila teologia greca ed ellenistica che tà: Contro le eresie: denuncia e confutasostenne, nel corso della sua lunga storia, zione della gnosi menzognera. La conoscenza di l’ordine perfetto e la bellezza del creato. cui gli gnostici si sentono investiti è agli occhi Molti maestri gnostici identificarono il dio di Ireneo, e dei Padri in generale, una falsa della creazione con quello della Bibbia, un «conoscenza», un’interpretazione eretica del dio vendicativo che, secondo loro, non auspicristianesimo. Essa è pericolosa in quanto
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI L’anonimato dei testi
Ma chi sono gli autori dei trattati di Nag Hammadi? Essi restano anonimi: non sappiamo chi fossero, né da dove provenissero. Soltanto i loro scritti, di natura totalmente speculativa, svelano alcuni lati della loro personalità. E perché questo anonimato? Era un modo di proteggersi dalla malevolenza dei loro avversari e dalle persecuzioni? I loro scritti parlano in loro vece: hanno attraversato la storia malgrado le vicissitudini provocate dall’originalità del loro pensiero. Per conferire autorità ai loro scritti, gli autori anonimi li hanno attribuiti a figure prestigiose: a personaggi della tradizione biblica (Adamo, Shem, Seth, Melchisedek), a figure mitiche gnostiche (Saggezza, Protennoia, Bronté), o anche a esseri straordinari (Zostriano, Marsanes, Allogene), depositari dei segreti celesti. Un certo numero di scritti si presentano come se fossero stati scritti da personaggi dell’entourage di Gesú: Giovanni, Giacomo, Tommaso, Filippo, Pietro, Paolo, e un ruolo di primissimo piano è riservato a Maria Maddalena.
Parigi
Codice di Efrem Manoscritto su pergamena del V secolo con traduzione della Bibbia in greco e, sovrascritto, un trattato del teologo Efrem il Siro, del XII secolo. Forse dalla Palestina e Costantinopoli. Lione Po
Ravenna
Codice di Beza Codice su pergamena datato tra IV e V secolo, con testi del Nuovo Testamento in greco e latino. Di origine incerta, fu restaurato e conservato per molto tempo a Lione. Prende il nome da Teodoro di Beza che, nel 1581, lo donò all’Università di Cambridge, dove si trova oggi.
Corsica Roma
Sardegna
M ar Ti rreno
Sicilia
Principali scoperte di Vangeli apocrifi e gnostici 1 Vangelo di Maria Maddalena. Testo gnostico riportato
nel Codice di Berlino (Papiro Berolinensis 8502), datato al IV secolo con probabile provenienza da Akhmim. Acquistato al Cairo nel 1896.
2 Vangelo di Egerton. Rinvenuto intorno al 1934 (forse a Ossirinco),
è composto da cinque frammenti. È datato tra la fine del I e il II secolo. Riporta le parole e le gesta di Gesú.
3 Vangeli di Ossirinco. Sono due dei numerosi frammenti papiracei rinvenuti
nell’omonimo sito archeologico, databili tra I e VI secolo. Scoperti nel 1905.
4 Vangelo di Giuda. Testo gnostico contenuto nel cosiddetto Codice Tchacos,
cava la salvezza, ma la rovina dell’uomo, in quanto sapeva che quest’ultimo conservava in sé una particella di luce divina. La loro posizione sprezzante nei riguardi del dio biblico comportava il rifiuto delle Scritture (l’Antico Testamento), perché ispirate da questo dio imperfetto. Abili esegeti, i maestri della gnosi hanno analizzato nel dettaglio la Genesi e i libri della Legge, mettendo in difficoltà i Padri, e negando le connessioni e l’armonica continuità tra Antico e Nuovo Testamento.
Il rifiuto del corpo La contestazione della Bibbia implicava non solo uno sconvolgimento totale a livello teologico, ma anche gravi conseguenze pratiche per le comunità cristiane. La concezione negativa del mondo portava alla condanna assoluta del corpo e della carne: «questo corpo in cui l’anima e imprigionata è piú tenebroso delle tenebre stesse, piú spregevole del fango» (Recognitiones pseudo-clementine II, 58). Il rifiuto del corpo, inoltre, conduce al rifiuto della procreazione, ulteriore legame con la negati-
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rinvenuto nei pressi di Minya verso la fine degli anni Settanta del Novecento.
5 Vangelo di Pietro. Datato al VIII secolo, il frammento fu scoperto
nel 1886/87, all’interno della tomba di un monaco presso Akhmim. Riporta il racconto apocrifo della Passione di Cristo narrato da Pietro in prima persona.
6 Vangelo di Tommaso. Datato al IV secolo, fa parte della biblioteca di testi gnostici rinvenuta a Nag Hammadi nel 1945.
Altri manoscritti gnostici Codice Askew (o codice di Londra). Contiene un testo gnostico con dialoghi tra Gesú, Maria Maddalena e gli apostoli. Proveniente dall’Egitto, fu acquistato dal medico Antonius Askew nel 1750. Codice Bruce (o codice di Oxford). Contiene due testi gnostici a contenuto mitico-filosofico e insegnamenti attribuiti a Gesú. Fu acquistato a Tebe nel 1773.
vità del mondo, e vede nella sessualità una corruzione, voluta dal creatore, che devasta l’essere umano. Una posizione altrettanto estrema si riscontra negli scritti di Qumran, nei quali tutto cio che è legato al sesso, alla donna, alla procreazione è ossessivamente presente, e riappare, con tinte analoghe, nel manicheismo. Dal rifiuto del corpo e dall’impossibilità della sua salvezza risulta una visione particolare di Gesú Cristo. Secondo gli gnostici poiché
Mar
I piú antichi manoscritti cristiani Papiro Rylands Frammento di codice papiraceo in lingua greca acquistato in Egitto nel 1920; è considerato la più antica testimonianza del Nuovo Testamento canonico. Inizi II-III sec. Papiro Magdalen Tre frammenti papiracei acquistati a Luxor (Egitto) nel 1901 e contenenti passaggi del Vangelo secondo Matteo. 200 d.C. circa. Codice Vaticano Pergamena con la traduzione in greco della Bibbia. Di origine sconosciuta (forse Cesarea Marittima?) è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Datato al IV secolo è, insieme al Codice Sinaitico e al Codice Alessandrino, uno dei piú antichi manoscritti esistenti della Bibbia.
Papiri Bodmer Gruppo di ventidue papiri scoperti in Egitto nel 1952. Contiene testi dell’Antico e del Nuovo Testamento (Vangeli di Luca e di Giovanni). 200 d.C. circa.
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Papiri Chester Beatty Gruppo di undici manoscritti con frammenti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Forse dal Fayyum. III secolo.
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Codice di Aleppo Testi della Bibbia ebraica, composti a Tiberiade nel X secolo. Conservato al Cairo e poi ad Aleppo, si trova oggi a Gerusalemme.
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Papiri di Ossirinco Numerosi papiri, scoperti a Ossirinco nel 1896 e databili tra II e IV secolo, tra cui testi cristiani greci e latini (vedi anche, nella pagina accanto, Vangeli apocrifi di Ossirinco).
Aleppo
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Cipro
Codice Alessandrino Manoscritto del V secolo, con traduzione greca dell’Antico e del Nuovo Testamento. Di origine ignota fu conservato per lungo tempo ad Alessandria. Oggi si trova a Londra.
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Manoscritti di Qumran Circa 900 documenti papiracei biblici, databili tra il 150 a.C. e il 70 d.C., scoperti tra il 1947 e il 1956 in undici grotte vicino allo Uadi Qumran.
Creta
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Gerusalemme Khirbet Betlemme Qumran
Alessandria Cairo
1
Geniza del Cairo Duecentomila frammenti di testi ebraici scoperti in un deposito (geniza) della sinagoga del Cairo nel 1896. VI-VIII secolo.
2 3 Ossirinco 4 El Minya Delr el-Bala’Izah Ni
Codice Sinaitico Pergamena con testi dell’Antico e Nuovo Testamento, datato alla metà del IV secolo, e scoperto presso il monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai tra il 1844 e il 1859.
lo
Akhmim 5 Djebel el Tarif
la carne è contaminata, è assurdo pensare che il Salvatore si sia incarnato in un corpo di donna, ed essendo di natura unicamente divina, le sue sembianze umane non sono che apparenza, come pure la sua sofferenza sulla croce: la passione è una messa in scena, destinata a ingannare il dio inferiore e i suoi servi, gli arconti. In verità, Cristo si prende gioco di loro sulla croce. Entità celeste, preesistente, ha attraversato i cieli per portare soccorso all’uomo rivelandogli la vera gnosi, facendogli cioè prendere coscienza del-
Monte Sinai
6
Nag Hammadi
Ma r M Rosso
le proprie origini, divine, e rivivificando in lui la scintilla di luce oscurata dalla materia. Il dono della conoscenza e non il riscatto dei peccati caratterizza il Cristo gnostico. Queste ragioni, di natura teologica, erano piú che sufficienti per scatenare l’ira dei controversisti cristiani. A esse se ne aggiunge un’altra, di ordine sociale: l’aspetto elitario della gnosi. «Pochi uomini – sostiene Basilide, citato polemicamente da Ireneo (Contro le eresie I,24,6) – sono capaci di un tal
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI LE GRANDI CONFUTAZIONI DEI PADRI DELLA CHIESA Una delle principali confutazioni del pensiero gnostico fu scritta da Ireneo di Lione. Originario dell’Asia Minore, divenne vescovo di Lione nel 177, nel pieno delle persecuzioni. Compose in greco, tra il 180 e il 185, un’opera monumentale, Contro le eresie. Denuncia e confutazione della gnosi menzognera (perduta nell’originale, ma conservata in latino e parzialmente in armeno). Ireneo intende fornire ai fedeli i mezzi appropriati per difendersi dal dilagare della gnosi, mettendo l’accento sull’interpretazione erronea delle Scritture che condusse gli gnostici a elaborare dei miti privi di fondamento. Ireneo espone nel dettaglio la dottrina di Tolomeo e di Marco il Mago, noti maestri gnostici contemporanei, allievi della scuola di Valentino. In seguito, risale agli albori del pensiero gnostico, passando in rassegna le teorie di Simon Mago, di Menandro, di Saturnino, di Basilide, di Carpocrate e di Cerinto. Evoca ugualmente gli Ebioniti e i Nicolaiti, Cerdone e Marcione. Il suo intento è di costruire una filiazione tra un maestro e l’altro: una costruzione artificiale, anche se utile agli scopi della confutazione. Una Confutazione di tutte le eresie (Philosophumena) – in cui la gnosi fa la parte del leone – fu composta, agli inizi del III secolo, da un autore anonimo, che si suole indicare come lo Pseudo-Ippolito. È una classificazione in dieci libri (di cui se ne conservano sette) delle «false dottrine», trentatrè di numero, trenta delle quali sono gnostiche. Secondo lo Pseudo-Ippolito le teorie gnostiche sono dovute alla deleteria influenza della filosofia greca, delle religioni a misteri e dell’astrologia. Con dei paralleli certo Sant’Epifanio di Salamina (315 ?-403), vescovo palestinese che compose opere contro le dottrine eretiche dell’epoca. Olio su tela di Giuseppe Franchi (1565-1628). Milano, Pinacoteca Ambrosiana.
sapere. Ve ne è soltanto uno su mille, due su diecimila». Questa pretesa di essere eletti attirò sugli gnostici i fulmini dei Padri; il cristianesimo è una religione per tutti, e chiunque poteva aspirare alla salvezza come indica il messaggio di Gesú. La religione gnostica, invece, è riservata a un pubblico ben piú ristretto. Inoltre, non si sceglie di essere «gnostici», lo si è da sempre, per un’insondabile scelta divina. Almeno in teoria, non esiste la conversione alla gnosi. E questa gnosis può essere già ottenuta in questa vita: la sua attualizzazione procura la
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salvezza. Per di piú questa conoscenza non ha bisogno di intermediari, né di strutture ecclesiastiche, in quanto risulta da una ricerca interiore, compiuta su se stessi: «Tornai in me stesso, dopo aver contemplato la luce che mi circondava e il bene che era in me» (trattato dello Straniero, l’Allogene, codice XI, 3 di Nag Hammadi).
Una religione, non un’eresia Ma la gnosi non è soltanto un’eresia cristiana, come sostennero i suoi avversari: è una religione compiuta, fondata su una ricerca esistenziale che va al di là delle frontiere religiose. Citiamo le parole di Manlio Simonetti, nell’introduzione alla traduzione italiana dell’opera fondamentale di Hans Jonas La religione gnostica (Torino, Sei, 1973, in originale, The Gnostic Religion, Boston, 1958): la
CONTRO GLI GNOSTICI arditi, e forzati, le teorie di Simon Mago sono interpretate alla luce del pensiero di Eraclito (VI secolo a.C.), quelle di Basilide (II secolo d.C.), alla luce delle teorie di Aristotele (385-322 a.C.) e via dicendo. Da trenta a ottanta eresie: un secolo piú tardi, Epifanio, vescovo di Salamina di Cipro (315?-403) scrisse il Panarion (termine greco che significa «cassetta per le medicine»), in cui propone gli antidoti ai morsi dei «serpenti», cioè le dottrine gnostiche. Spirito caustico e intransigente, Epifanio copre di ridicolo le tesi degli avversari, considerandole assurde e dietro le quali intravede l’opera del demonio. Prende di mira non solo le loro idee, ma anche i loro costumi, rispolverando le accuse tradizionali dei pagani contro i cristiani: sessualità sfrenata, abusi, sacrifici umani a scopo rituale. Epifanio riuscí a infiltrarsi in alcune comunità gnostiche d’Egitto per spiarne i comportamenti; ne denunciò alcuni gruppi e ne ottenne l’espulsione dalle città. Lasciano perplessi le accuse d’immoralità rivolte agli gnostici. Benché esistessero alcuni gruppi che praticavano la licenza sessuale, in una sorta di estremo disprezzo del corpo, gli gnostici sono per lo piú animati da un ideale ascetico, come provano i testi di Nag Hammadi. Altri scrittori cristiani hanno dedicato una parte della loro produzione alla polemica anti-gnostica. Tertulliano di Cartagine (160?-220), avvocato pagano convertitosi al cristianesimo, scrisse diversi trattati contro coloro che considerava eretici, tra cui i discepoli di Valentino. Clemente di Alessandria (150?-216), ha trasmesso e confutato numerosi estratti delle opere (quasi totalmente perdute, tranne alcuni frammenti) di Valentino, Basilide, Isidoro e Carpocrate. Origene (185-254), tra i piú grandi intelletti del tardo-antico, ha conservato buona parte del commentario dello gnostico Eracleone sul Vangelo di Giovanni, che confuta scrivendo il suo proprio commentario al testo evangelico.
gnosi, secondo Jonas «è un movimento di pensiero animato da un motivo profondo e potente, tale da ridurre a salda unità gli elementi di disparata origine. Tale motivo animatore e unificatore è l’anticosmismo che caratterizza ogni esperienza gnostica». In effetti il pensiero gnostico è stato arricchito da influenze diverse, elaborate con originalità e autonomia di pensiero. Grazie alla documentazione di prima mano di Nag Hammadi, siamo ormai in grado di averne un’idea ben piú precisa. Piú di un maestro gnostico è nato in seno al giudaismo e ne conosce i fondamenti religiosi. Alcuni di loro, come abbiamo già notato esaminando le confutazioni degli eresiologi, hanno sviluppato una critica feroce delle Scritture fino a identificare il dio biblico con un creatore malvagio. L’Apocrifo di Giovanni,
l’Ipostasi degli arconti e il Trattato senza titolo di Nag Hammadi interpretano in tal senso la storia della creazione, che serve da mito fondatore per giustificare la negatività della condizione umana.Torneremo in seguito su questo punto essenziale. Inoltre gli autori anonimi di Nag Hammadi dimostrano di aver una buona conoscenza della letteratura intertestamentaria che si sviluppò nelle frange del giudaismo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.
Esoterismo e filosofia Un’attenzione particolare è rivolta alla letteratura fiorita attorno al personaggio visionario di Enoch: il trattato di Zostriano ne fornisce un esempio. Anche il genere letterario dell’apocalittica, che ebbe immensa fortuna nel giudaismo dell’epoca, sedusse gli autori di Nag Hammadi. Elementi di impronta dualista che caratterizzano gli scritti di Qumran – la lotta tra i figli delle tenebre e i figli della luce – hanno potuto inoltre influenzare alcune speculazioni contenute nei trattati di Nag Hammadi, senza contare l’interesse sviluppato a Qumran per l’angelologia, di cui troviamo notevolissimi paralleli nei trattati di Eugnosto, dello Straniero e del Sacro libro del Grande Spirito Invisibile. Le discipline esoteriche del giudaismo, che si esprimono nella letteratura della Merkabah (speculazioni sul trono e sul carro celeste, a partire dal libro di Ezechiele) e ben piú tardi nella Kabbala, hanno lasciato un segno sia tra i maestri confutati dai Padri (Marco il Mago), sia tra gli anonimi di Nag Hammadi (trattati di Marsanes e dello Straniero). Infine, il tema del viaggio celeste in cui l’iniziato riceve visioni e rivelazioni con l’aiuto di figure angeliche è egualmente un leitmotiv di diversi trattati. Il debito nei confronti della filosofia greca è importante, e lo si nota tanto nella letteratura gnostica trasmessa dai Padri quanto a Nag Hammadi. L’influenza piú considerevole è quella del pensiero platonico, reinterpretato, nel II secolo, dalle correnti medio-platoniche. Vi si elaborò una teologia detta «negativa»: non è possibile definire in alcun modo il dio inconoscibile. Il linguaggio umano deve limitarsi a dire ciò che Egli non è, poiché nessun attributo forgiato dall’uomo può adattarsi a Dio. Alcuni scritti di Nag Hammadi, inoltre, hanno subito l’influenza del neo-platonismo che fiorisce con Plotino alla metà del III secolo. Sappiamo che alcuni gnostici seguivano i corsi di Plotino a Roma, secondo la testimonianza del suo discepolo Porfirio, ma erano
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI fortemente criticati per le loro posizioni intellettuali e per l’uso abbondante dei miti. Plotino scrisse un’opera contro di loro (la seconda Enneade), e affidò alcuni trattati gnostici ai suoi discepoli affinché li confutassero. Due opere conservate a Nag Hammadi – l’Allogene (Lo Straniero), codice XI,3, e Zostriano, codice VIII,1 – sono menzionate in tal senso da Porfirio. Ciò permette di affermare che gli originali, in greco, di questi testi, avevano avuto una grande diffusione. Molti testi di Nag Hammadi attestano elementi cristiani. L’entourage di Gesú e Gesú stesso sono personaggi di primo piano e tra di essi si intessono dialoghi intensi nel corso dei quali i discepoli ricevono rivelazioni sul mondo trascendente. I vangeli, le apocalissi, i dialoghi di Nag Hammadi portano tutti, indiscutibilmente, il marchio dell’anticosmismo gnostico. La salvezza annunciata dal Salvatore non è posticipata alla fine dei tempi, ma è attualizzata: l’ascolto delle parole di rivelazione porta immediata, salvifica conoscenza. Un altro aspetto del cristianesimo è ripreso dagli gnostici, soprattutto quelli che si situano nella scia delle scuole di Valentino: il concetto di «Chiesa» (Ecclesia, in greco, comunità). Ma alla Chiesa ufficiale viene sostituita quella gnostica, fondata su una tradizione segreta che non è quella di Pietro; essa non comporta gerarchie o pesanti strutture, poiché non è di questo mondo. La Chiesa gnostica sulla terra è a immagine di quella celeste, preesistente, e si identificherà con essa come con il suo «doppio» spirituale, secondo le teorie dei valentiniani. L’Apocalisse di Pietro del codice VII di Nag Hammadi contiene una severa critica della Chiesa ufficiale, compromessa dalle tentazioni mondane; questi argomenti sono tuttavia affrontati di rado, sia a causa della natura speculativa dei testi gnostici, sia per il timore di ritorsioni da parte della corrente cristiana maggioritaria.
La tragedia della creazione I trattati di Nag Hammadi danno ampio spazio alla tragedia della creazione. Tra gli scritti piú significativi che affrontano questo argomento vi è l’Apocrifo di Giovanni. Il termine «apocryphon» (nella sua accezione di «segreto», da non divulgarsi) indica il carattere esoterico di un testo che si vuole sia il resoconto delle rivelazioni segrete di Cristo al discepolo Giovanni. Conservato in ben tre versioni nella collezione di Nag Hammadi (codice II, 1; III,
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I MAESTRI GNOSTICI CONOSCIUTI DAI PADRI Secondo i Padri della Chiesa, che tentano una classificazione cronologica dei maestri gnostici, all’origine di questa corrente di pensiero ci fu Simon Mago, nativo di Samaria, già menzionato negli Atti degli Apostoli 8,9-25. Vissuto durante il regno dell’imperatore Claudio (41-54), Simone si presentava come la Grande Potenza di Dio, capace di liberare le anime dalla materia. Menandro, anch’egli samaritano, discepolo di Simone, diffuse le sue idee ad Antiochia, in Siria. Visse fino all’80. I Padri lo dipingono come un adepto di pratiche magiche – un’immagine, già adottata con Simone, che mirava a screditare l’avversario. Nei suoi scritti Menandro attribuisce la creazione ad angeli malvagi – una teoria che ebbe largo seguito tra gli gnostici. Durante il regno di Adriano (117-138) Saturnino, originario di Antiochia, vi fonda una scuola. Un Dio ignoto – dice – fece angeli e arcangeli; sette di loro crearono il mondo e plasmarono l’uomo, imitando poveramente un’immagine splendente che era loro apparsa. Ma la creatura plasmata non si reggeva in piedi. Il Dio superiore, impietosito, inviò all’uomo una divina particella di luce che gli diede vita. Solo questa scintilla risalirà nel mondo superiore, mentre il corpo sarà distrutto. Carpocrate, alessandrino di nascita, insegnò a Roma sotto il pontificato di Aniceto (verso il 154). In un mondo fatto da angeli malvagi, Gesú, investito da una potenza sublime datagli dal Padre, è venuto per salvare le anime che, attraverso trasmigrazioni successive, si purificano fino a sottrarsi definitivamente alla carne. Accusati di usare filtri, incantesimi e magie, i seguaci di Carpocrate si dettero a ogni tipo di eccesso, ma Ireneo stesso sembra dubitarne. Basilide operò ad Alessandria d’Egitto tra il 120 e il 150, fondando una scuola che era ancora attiva nel IV secolo. Uno dei tratti piú salienti del suo pensiero è il pessimismo: ogni anima è contaminata dal peccato, la trasmigrazione è il mezzo per espiare. Un pessimismo cosmico pervade similmente i suoi scritti: il Dio sconosciuto è infinitamente lontano dall’uomo, separato da 365 cieli. La terra fu creata dal dio biblico, e solo la venuta di Cristo, entità divina identificata all’Intelletto, potrà liberare l’uomo.
1 e IV, 1), l’Apocrifo faceva ugualmente parte del Codice di Berlino (8502, 2): un testo, dunque, di grande notorietà, tanto da essere ricopiato piú volte in codici diversi. Fondato su una reinterpretazione sconvolgente del racconto della Genesi, l’Apocrifo mette teatralmente in scena la creazione di Adamo, compiuta dal demiurgo e dai suoi accoliti. L’insistenza ossessiva sul tema del corpo inteso come una prigione e sul meccanismo implacabile del fato, che regge lo spazio e il tempo, ne fanno uno degli scritti piú forti della gnosi da cui traspare l’angoscia della condizione umana: «Presero del fuoco, della terra e dell’acqua e li mescolarono con i quattro impetuosi venti. Li me(segue a p. 92)
DELLA CHIESA Valentino, personalità eclettica, poeta e mitografo, filosofo ed esegeta, è una delle figure piú complesse e misteriose dell’età tardo-antica. Benché della sua opera non sussistano che rari frammenti, il suo pensiero ebbe una grande influenza. Intellettuale d’avanguardia, segnò nel contempo la teologia gnostica, ma anche quella cristiana, e le sue teorie nel campo della cristologia e della dottrina trinitaria, cronologicamente anteriori a quelle delle Chiesa, suscitarono la riflessione dei Padri. Nato verso l’anno 100 in un villaggio del delta del Nilo, Valentino compí i suoi studi ad Alessandria: qui frequentò l’intellighenzia dell’epoca, venendo in contatto con diverse tendenze di pensiero, e nella città egiziana diffuse le sue teorie. Intorno al 140 partí alla volta di Roma e vi soggiornò per una ventina d’anni. La sua dottrina non aveva ancora una colorazione nettamente «eretica»: Valentino divenne una figura chiave della comunità cristiana di Roma e cercò invano di farsi eleggere vescovo. Ruppe allora con i cristiani romani e radicalizzò le sue dottrine. Fece vela verso Cipro ove continuò a diffondere il suo insegnamento. I frammenti conservati di Valentino indicano la grande varietà della sua opera: salmi, poemi, epistole, omelie. Essi interpellano il lettore con il loro linguaggio ermeticamente conciso, ove il pensiero si riveste di mito. L’aspetto visionario, quasi profetico, delle sue parole si modella in una riflessione di natura teologica e filosofica. Due prestigiose scuole di pensiero nacquero dal pensiero di Valentino: la scuola occidentale o italiana, illustrata da Tolomeo e Eracleone (seconda metà del II secolo) e la scuola orientale o anatolica, nel cui ambito
In alto: affresco con Cristo in gloria, dal monastero di S. Geremia a Saqqara. VI sec. Il Cairo, Museo Copto. In basso: miniatura con Nerone e Simon Mago. X sec. Udine, Biblioteca del Seminario Arcivescovile.
si distinguono Marco il Mago e Teodoto. Sono principalmente le opere dei discepoli di Valentino che hanno fornito ai Padri la materia delle loro confutazioni.
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI
DUE TESTI FONDAMENTALI UN MITO DI ESILIO Un mito fondatore percorre la letteratura gnostica. Già descritto e commentato dagli eresiologi, esso trova a Nag Hammadi nuove, ampie attestazioni. Si tratta di un mito di esilio, estremamente complesso e ricco di personaggi, che narra le disavventure di Sophia (Saggezza, in greco), ultima emanazione («eone») del Padre celeste. Nelle sue grandi linee può essere cosí riassunto: Sophia abbandona il mondo superiore («pleroma») e il suo compagno celeste (il pleroma è formato di entità in coppia), insoddisfatta della sua condizione e desiderosa di nuove sconosciute dimensioni. Ma precipita verso il basso e la sua caduta provoca, in ultimo, il concepimento di un figlio imperfetto, un aborto nato da lei sola. Questo aborto è il demiurgo, di cui si è già parlato, l’autore della creazione. Morte e oblio ricoprono l’universo. Persa in un universo oscuro che ha contribuito lei stessa a creare, Sophia prende coscienza del suo errore e cerca di tornare alla patria perduta, unendosi nuovamente al suo compagno spirituale. La trasgressione di Sophia ha dato luogo a grandi affreschi che, sotto il velo del mito, affrontano tematiche non solo teologiche ma anche cosmologiche e antropologiche, ed è stato elaborato principalmente nelle scuole eredi del pensiero di Valentino. STORIA DELL’ANIMA La vicenda di Sophia permette agli gnostici di affrontare il tema dell’anima – al centro della riflessione della filosofia antica come del pensiero cristiano. Quali sono le sue origini? Qual è il suo rapporto con Dio? Qual è la sua relazione con il corpo? In linea generale, i pensatori gnostici considerano l’anima come un’entità di origine divina, caduta in un mondo e un corpo ostili, che giunge alla salvezza (cioè alla conoscenza) se perviene a reintegrare il regno divino a cui appartiene. L’anima ha un «doppio», lo spirito, rimasto nel regno. Sarà lui il salvatore dell’anima: descritto sovente come uno sposo, talvolta identificato con Cristo, lo spirito scende nel mondo, risveglia l’anima dall’oblio e, rivelandole la conoscenza, la riconduce al luogo delle sue origini. Il doloroso esilio prende cosí fine e l’anima, unendosi allo spirito, ritrova l’integrità perduta. Una tale dottrina è in forte contraddizione con le posizioni cristiane, che tendono a sottolineare la distanza che separa l’anima dall’essenza di Dio, anche
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se tali teorie su un tema cosí sensibile non erano ancora del tutto fissate nel primo cristianesimo. La vicenda dell’anima è al centro di vari scritti di Nag Hammadi ed è stata elaborata in modi diversi. Presentiamo uno scritto del codice II di Nag Hammadi, L’interpretazione dell’anima, un racconto allegorico di una decina di pagine, che narra con arte, attraverso la riutilizzazione di temi tipici dei romanzi ellenistici, le tragiche vicende di Psiche. L’anonimo autore sceglie i registri della sessualità, dell’inganno, dell’illusione per descrivere la condizione umana. L’anima è qui rappresentata in sembianze femminili. Caduta dal regno superiore divino ove era vergine e androgina presso il Padre, essa s’incarna nel corpo, perde la sua verginità diventando la schiava sessuale di numerosi amanti che approfittano di lei, poi l’abbandonano. Figli malati nascono da queste unioni impure. POTENZE MALVAGIE Nell’allegoria, gli amanti sono le potenze malvagie che hanno imprigionato l’anima nella catena della sessualità e delle generazioni, perpetuando cosí la sua schiavitú; i figli malati sono i simboli delle passioni. Al sommo della disperazione, l’anima prende coscienza dei suoi errori e invoca il Padre. Questi compie un atto che le permetterà di ritrovare le sue caratteristiche originali di vergine e di donna. Questo atto consiste nel rivoltare il sesso dell’anima dall’esterno verso l’interno – essa infatti aveva assunto le caratteristiche sessuali maschili prostituendosi con i suoi amanti. Attraverso questa metafora, unica nella letteratura antica, l’autore esprime la superiorità di ciò che è «interno» su ciò che è «esterno» – un leitmotiv del pensiero gnostico. Il Padre invia inoltre all’anima il suo sposo celeste: abbandonata la vita di prostituzione, l’anima lo attende con ansia, un sogno gliene rimemora le sembianze, dimenticate nell’oblio che si è impossessato di lei. Adornata come una sposa, dopo aver sparso profumi nella camera nuziale ormai pronta, l’anima si unisce allo spirito in nozze spirituali, ritrovando in tal modo la sua condizione primordiale: «Questo matrimonio non è come il matrimonio della carne. Coloro che si sono uniti l’uno all’altro s’inebriano di questa unione e si liberano, come da un fardello, dal tormento del desiderio e non si separano piú l’un dall’altro. Questo matrimonio non è cosí. Se si congiungono l’uno all’altro, diventano una sola vita» (Interpretazione dell’anima, II, 6 132, 27-35).
DEL PENSIERO GNOSTICO IL GEMELLO DI GESÚ Nel Vangelo secondo Tommaso (Nag Hammadi, codice II, 1), lo statuto privilegiato di Tommaso è indicato dal nome che porta: Tommaso è il gemello di Gesú, Didimo (didumos) infatti significa, in greco, «gemello»; per di piú il nome «Tauma» (da cui deriva il nome Tommaso) significa, in aramaico, «gemello». Si tratta beninteso di una parentela spirituale: Didimo Tommaso era considerato il doppio terrestre di Gesú celeste. Una siffatta presentazione di Tommaso ci induce a pensare che questo vangelo gnostico sia stato composto in Siria, in greco o in aramaico, forse nella zona di Edessa, dove la figura di Tommaso fu oggetto di particolare venerazione e ispirò numerose tradizioni apocrife. Molte di queste tradizioni appaiono negli Atti di Tommaso, uno scritto di tono romanzesco degli inizi del III secolo, che riprende tradizioni piú antiche. Vi si narrano le molteplici avventure dell’apostolo, inviato da Gesú a convertire le regioni dell’Oriente, al momento della spartizione tra i discepoli delle zone di missione. Dopo aver percorso ed evangelizzato la Mesopotamia, Tommaso sarebbe partito via mare alla volta dell’India, ove operò numerose conversioni. Quando fu pubblicato per la prima volta, negli anni Cinquanta, il Vangelo secondo Tommaso suscitò una grande emozione. Se ne parlò come di un quinto vangelo che rivelava episodi sconosciuti della vita di Gesú. Negli Stati Uniti, ancora oggi, è oggetto di riflessioni da parte di varie sette esoteriche che si pretendono «gnostiche». Ma già nel 1957 HenriCharles Puech polemizzò contro queste interpretazioni infondate e ridimensionò la portata storica di questo testo, pur riconoscendone il grandissimo valore a livello di pensiero religioso. Davanti a questa importante raccolta di logia che formano il tessuto del Vangelo, ci si è chiesti se si trattava di detti autentici, pronunciati da Gesú. Rispondere è naturalmente impossibile. Puech opta per la prudenza, sottolineando tuttavia che alcuni detti attestano tradizioni molto antiche. I 114 detti erano già in parte noti tramite i Vangeli canonici, altri erano citati in alcuni vangeli apocrifi che circolavano nei primi secoli dell’era cristiana, testimoni della varietà di correnti che attraversavano il cristianesimo. Una quarantina di detti sono invece del tutto nuovi.
Per quanto riguarda i detti presenti anche nei Vangeli canonici, è legittimo chiedersi se il Vangelo secondo Tommaso sia anteriore o posteriore a essi oppure se tutti questi testi abbiano utilizzato un’unica fonte comune. La chiave di volta dell’insegnamento del Vangelo secondo Tommaso è la conoscenza di sé, che è nel contempo conoscenza di Dio. Questa gnosi apre le porte del regno: «Il regno è all’interno di voi e all’esterno di voi. Quando conoscerete voi stessi, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre vivente. Ma se non conoscete voi stessi, allora siete nella povertà, siete la povertà» (logion 3). La povertà diviene qui simbolo della condizione di ignoranza che incatena l’uomo al mondo. Liberandosene, prenderà coscienza delle proprie origini e del proprio destino, perché inizio e fine sono una stessa identica cosa: «I discepoli dissero a Gesú: Dicci come sarà la nostra fine. Gesú disse: Avete forse scoperto il vostro inizio per cercare la fine? Perché là dove c’è inizio, là ci sarà la fine. Beato colui che sarà nell’inizio perché egli conoscerà la fine e la morte non lo toccherà». Gesú è colui che riassume in sé il principio e la fine: «Gesú ha detto: Io sono la luce che è su tutti loro. Io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me ed è pervenuto fino a me» (logion 77). Il Tutto è sinonimo del «pleroma», il mondo perfetto e trascendente da cui proviene Gesú. Ma per raggiungere il Tutto, è necessaria una disciplina di vita fatta di distacco, di rinuncia e di isolamento. Carne e corpo sono violentemente condannati nel testo, cosí come il sesso e la procreazione: il mondo è un cadavere (logion 56). In questo testo si delinea l’ideale del «monakos», del solitario – prima attestazione del termine nella letteratura cristiana – che fa della rinuncia al mondo il punto di partenza della conoscenza. Allora l’uomo ritroverà se stesso: «Colui che si abbevererà alla mia bocca – dice Gesú – diventerà come me e anch’io diventerò lui e ciò che è nascosto gli sarà rivelato» (logion 108).
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speciale CODICI DI NAG HAMMADI LE EDIZIONI INTEGRALI DEI TESTI Tre progetti di edizione e di traduzione integrale dei testi di Nag Hammadi hanno dato luogo alle seguenti pubblicazioni, frutto del lavoro di tre équipe di ricerca: James M. Robinson (a cura di), The Coptic Gnostic Library, 5 voll., Brill, Leiden 2000. Bibliothèque copte de Nag Hammadi, Section «Textes», Presses de l’Université Laval, Québec (34 volumi pubblicati dal 1977 al 2012); vedere inoltre Jean-Pierre Mahé e Paul-Hubert Poirier (a cura di), Ecrits gnostiques, La Pléiade, Gallimard, 2007. Hans-Martin Schenke, Hans-Gebhard Bethge, Ursula Ulrike Kaiser (a cura di), Nag Hammadi Deutsch, vol. I-II, Walter de Gruyter, Berlin/New York 2001-2003.
scolarono insieme provocando un grande sconvolg imento. Condussero Adamo nell’ombra della morte per rimodellarlo (Genesi 2,7) a partire dalla terra, dall’acqua, dal fuoco e dal soffio che proviene dalla materia. La materia è la non-conoscenza tenebrosa, la concupiscenza, e il loro spirito imitatore. È la tomba del corpo modellato, di cui questi predoni hanno rivestito l’uomo, è la pesante catena dell’oblio. In tal modo l’uomo è diventato mortale» (Apocrifo di Giovanni, Codice II, 1, 21,1-14). L’albero della vita, sito nel paradiso della Genesi, diventa, nella rilettura gnostica, un albero di morte: «La sua radice è amarezza, i suoi rami sono la morte; la sua ombra è l’odio e la menzogna ingannatrice si nasconde nel suo fogliame; i suoi germogli sono l’unzione del male, il suo frutto è la morte, il suo seme la concupiscenza. Coloro che assaggiano i frutti di quest’albero soggiorneranno nell’Ade e il loro luogo di riposo sarà la tenebra» (Apocrifo di Giovanni, Codice II, 1, 21,29-22,3). Quanto alla fatalità che regge le sorti del mondo, l’autore la descrive cosí: «Il demiurgo complottò con le sue autorità, le sue potenze, e tutti insieme consumarono l’adulterio con la Saggezza. Generarono la fatalità che è l’ultima catena, mutevole, la piú forte. Questa fatalità è piú potente di quella che aveva incatenato gli dèi, gli angeli e i demoni e tutte le generazioni fino a oggi. A partire da essa si sono manifestati mali, ingiustizie, e parole blasfeme, cosí come la pesante catena dell’oblio, la non-conoscenza e ogni precetto severo, i gravi peccati e il terrore. In tal modo la creazione tutt’intera fu resa cieca affinché non potesse conoscere il Dio che è al di sopra di tutto» (ibid., 28, 11-18).
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Nicchia dipinta raffigurante la Vergine attorniata dagli apostoli, dal monastero di S. Apollonio a Bawit (Egitto). Arte copta, VI sec. Il Cairo, Museo Copto.
Una letteratura «apocrifa» La biblioteca di Nag Hammadi è dunque ricca di vangeli, di apocalissi e di epistole, poste sotto l’autorità di alcuni apostoli della cerchia di Gesú che, secondo gli gnostici, furono i depositari di parole e di insegnamenti segreti: Vangelo secondo Tommaso, Vangelo secondo Filippo, Apocalisse di Paolo (apocalypsis, in greco, significa «rivelazione»), Prima e Seconda Apocalisse di Giacomo; Lettera di Pietro a Filippo; Atti di Pietro e dei Dodici. Si suole chiamare questi testi – lo ricordiamo – col nome di «apocrifi» (in greco apocryphon significa «non autentico»): non sono cioè stati scritti dal discepolo menzionato nel titolo, ma gli sono attribuiti per conferire valore al trattato, affinché sia considerato come un testo sacro dai propri lettori. Ma questi testi sono «apocrifi» anche in un altro senso, ed era il senso conferito loro dagli gnostici: apocryphon in greco significa anche «segreto», «da non divulgare». In effetti un gran numero dei trattati di Nag Hammadi sono destinati a una cerchia ristretta, capace di ricevere un insegnamento esoterico. Le precauzioni indicate in conclusione di certi trattati affinché non cadano in mani empie, non sono soltanto for-
I VANGELI DA NAG HAMMADI
PER SAPERNE DI PIÚ Giovanni Filoramo, Il risveglio della gnosi ovvero diventare dio, Laterza, Roma-Bari 1990. Claudio Gianotto, I vangeli apocrifi, Il Mulino, Bologna 1990. Hans Jonas, Lo gnosticismo, SEI,Torino 2002. Luigi Moraldi, I vangeli gnostici, Adelphi Edizioni, Milano 1984. Henri-Charles Puech, En quête de la Gnose, I, La Gnose et le temps, II, Sur l’Evangile selon Thomas, Gallimard, Paris 1978. James M. Robinson, The Discovery of the Nag Hammadi Codices, in The Biblical Archaeologist 42/4 (1979), pp. 200-224. Maddalena Scopello, Gli Gnostici, Edizioni San Paolo, Milano 1993. Manlio Simonetti, Testi gnostici in lingua latina e greca, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1993. mule di sicuro effetto letterario, ma riflettono il mysterium tremendum del sacro che avvolge il loro contenuto. Attraverso immagini, simboli e miti il pensiero gnostico ha attraversato i secoli, soprattutto grazie alla scoperta dei testi di Nag Hammadi. L’anelito alla conoscenza di sè, la ricerca di risposte al perché dell’esistenza conferiscono a questi testi uno spessore che valica le frontiere del tardo-antico rendendoli significativamente moderni.
Quattro sono i Vangeli di Nag Hammadi: il Vangelo di verità, il Vangelo secondo Tommaso, il Vangelo secondo Filippo e il Vangelo degli Egiziani. A essi possiamo aggiungere il Vangelo di Maria (Maddalena) del codice di Berlino e il Vangelo di Giuda del codice Tchacos, scoperto nel 1980 e solo di recente pubblicato (2006). In realtà, il titolo di «vangelo» non rispecchia il genere letterario di questi testi. Non si tratta, infatti, di vangeli assimilabili a quelli canonici, cioè narrazioni fatte da un apostolo nell’intento di trasmettere il messaggio di Cristo e di portare a conoscenza i vari episodi della sua vita terrena. Sono invece vangeli nell’accezione data loro dagli gnostici, cioé dialoghi tra Gesú e gli apostoli in cui vengono affrontate tematiche astratte, nonché i grandi quesiti esistenziali che si pongono all’uomo. Non tutti i discepoli che intervengono in questi testi hanno avuto una posizione di primo piano nella Chiesa ufficiale, ma sono stati oggetto di particolare venerazione nelle tradizioni gnostiche: è il caso di Tommaso, di Filippo e di Maria Maddalena.
Desidero esprimere il mio piú vivo ringraziamento al professor Michel Zink, Secrétaire perpétuel de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres (Institut de France) per avermi autorizzato a pubblicare il ritratto di Henri-Charles Puech, proprietà degli archivi dell’Académie. Rigrazio ugualmente i colleghi James M. Robinson (Claremont College, California), che ha messo generosamente a mia disposizione diverse fotografie, e Marvin Meyer (Chapman College, Orange, California), che mi ha fornito un cliché personale del Codice di Berlino.
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il fascino dell’egitto L’ISEO DI BENEVENTO
Tutte le opere illustrate nel presente articolo sono esposte nel Museo del Sannio a Benevento.
Due statue acefale in granito di oranti isiache, provenienti probabilmente da gruppi scultorei raffiguranti la celebrazione del rito. Le sculture – facenti parte della decorazione dell’Iseo di Benevento, eretto dall’imperatore Domiziano (81-96 d.C.) – furono rinvenute casualmente durante gli scavi condotti da Almerico Meomartini, nel 1903, a ridosso delle mura del convento di S. Agostino, nell’area nord-occidentale di Benevento.
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MISTERI A di Massimiliano Nuzzolo
BENEVENTO
In età imperiale la città campana ospitò uno dei più importanti santuari dedicati al culto misterico di Iside. Ma perché la collocazione del tempio, magnificamente testimoniato dai reperti riuniti nel locale museo, non è mai stata individuata? E in che modo la venerazione per la dea dell’antico Egitto può collegarsi alla celebre leggenda delle streghe beneventane?
I
side è figura particolarmente venerata e amata nel mondo romano. Dea poliedrica e sfaccettata, la sposa di Osiride si fa spazio nel bacino del Mediterraneo fin dal II secolo a.C., ma è soprattutto in seguito alla conquista romana dell’Egitto (30 a.C.) da parte del futuro Augusto che assurge al rango di grande divinità, affiancando pian piano gli dèi dell’Olimpo, sebbene spesso ufficialmente avversata dagli stessi imperatori, come fu il caso, per esempio, proprio di Augusto e del suo successore, Tiberio. Da allora, il susseguirsi della costruzione di edifici di culto a lei dedicati, i cosiddetti «Isei», fece di questi templi uno degli aspetti piú caratteristici del paesaggio urbano del mondo romano, sia nella capitale che in provincia. Isei sono presenti, infatti, sia nella parte orientale che in quella occidentale del Mediterraneo, dalla Turchia alla Spagna, dalla Grecia al Marocco, passando per Roma. Nell’Urbe, in periodi e con vicende alterne, si svilupparono alcuni dei piú monumentali santuari dedicati alla dea egizia, anche se spesso si hanno notizie di questi templi piú dalle fonti letterarie ed epigrafiche che non dalla documentazione archeologica.
In basso: «cista mistica», in porfido rosso, dall’area del convento di S. Agostino. Manifattura tardo-egizia, I-II sec. d.C. La cista, legata al culto di Iside, è ornata da una mezzaluna e sul coperchio da un serpente (privo di testa). Durante le processioni sacre, contenitori simili in vimini, contenenti forse serpenti, erano portati in processione dietro la statua della dea.
Fra questi, un posto di primo piano spetta sicuramente all’Iseo Campense, cosí definito perché situato nel Campo Marzio, uno dei centri monumentali della Roma antica. Il tempio, edificato probabilmente alla metà del I secolo a.C., fu restaurato e ampliato dall’imperatore Domiziano, agli inizi del suo regno.
Una «dea» di famiglia In realtà tutta la dinastia dei Flavi era stata particolarmente «devota» a Iside, tanto da farne una sorta di divinità dinastica, protettrice delle fortune e delle sorti della famiglia imperiale, al fianco di altre, ben radicate, divinità orientali, in particolar modo Cibele. Si racconta che Vespasiano (insieme al figlio Tito), di ritorno dal vittorioso assedio di Gerusalemme, prima di celebrare trionfalmente il suo ingresso a Roma, per essere incoronato imperatore, avesse trascorso la notte proprio nell’Iseo Campense, al fine di r ingraziare la dea egizia dell’aiuto da lei ricevuto nella scalata ai vertici dell’impero. Domiziano, tuttavia, volle fare un passo ulteriore, conferendo a Iside un valore decisamente maggiore di quello, peraltro già prestigioso, di divinità dinastica e ponendola in una posizione di assoluto rilievo cultuale e ideologico a r c h e o 95
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politico le connotazioni mitologiche del loro legame personale. L’imperatore, però, non scelse solo Roma come centro di celebrazione di questo ambizioso progetto politico, ma privilegiò anche un’altra città, dalle origini antiche e posta al centro di una delle principali vie di rispetto alle altre figure del pantheon comunicazione fra l’Urbe e romano e orientale. Nell’ambito l’Oriente: Benevento. della sua politica imperiale assolutista, tendente a fare dell’imperatore Dall’Oriente al Sannio un dominus et deus sul modello dei La posizione dominante sulla via grandi sovrani di tradizione orienta- Appia e il suo essere naturale porta le, primi fra tutti i faraoni, Domizia- d’accesso verso Roma venendo dal no aveva intuito le altissime poten- Mediterraneo orientale, ponevano la zialità di una figura le cui prerogative città in una posizione privilegiata. mitico-simboliche si sposavano per- Benevento, quindi, diveniva una tapfettamente con le pretese dell’impe- pa centrale di un lungo itinerario di ratore. Riprendendo aspetti cultuali assimilazione simbolica e concettuae tendenze teologiche della Iside di le dell’imperatore con il dio Horus, epoca tolemaica, quali soprattutto il legittimo erede al trono generato da concetto di filiazione divina del fu- Iside; un itinerario che seguiva un turo re (Horus) dalla dea madre (Isi- preciso percorso geografico, oltre de), Domiziano associa la dea egizia che simbolico, e che, partendo da alla propria figura in maniera insi- Oriente, e attraverso tappe intermestente e insistita, traslando sul piano die, veniva infine sublimato a Roma. I SANTUARI ISIACI IN ITALIA Con il pallino nero sono indicati gli Isei di sicura identificazione; con il triangolo rosso sono indicati quelli di incerta identificazione; con il quadrato verde sono indicati gli Isei noti solo da iscrizioni.
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IL SACERDOTE Statua acefala in diorite raffigurante un sacerdote con canopo, di bottega alessandrina, dagli scavi del 1903 presso il convento di S. Agostino. La statua probabilmente costituiva l’elemento centrale di un gruppo di sculture che raffiguravano l’officiatura del rito dedicato a Osiride-Canopo e Iside-Menuthis.
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Carta della città di Benevento, con, in evidenza, i luoghi indicati come possibili sedi dell’Iseo.
DOVE E QUANDO Museo del Sannio Benevento, piazza Santa Sofia Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; lu chiuso Info tel./fax 0824 28831; e-mail: info@museodelsannio.com; www. museodelsannio.com
L’OBELISCO DI DOMIZIANO Obelisco frammentario, in granito rosso, di manifattura egizia, recante iscrizioni sui quattro lati, con dedica a Rutilius Lupus per il ritorno di Domiziano dalla guerra di Dacia, da Benevento. Età domizianea (81-96 d.C.). L’obelisco, in coppia con un secondo che oggi si trova in piazza Papiniano, a Benevento, era posto in origine all’ingresso monumentale dell’Iseo, secondo l’uso egiziano.
ISIDE Testa in diorite, di manifattura egizia, raffigurante Iside. Seconda metà del III sec. a.C. Iside è considerata la maggiore divinità femminile dell’antico Egitto, principalmente legata ai ruoli di sposa e madre, ma associata anche alla magia e all’oltretomba, e considerata protettrice dei naviganti. Secondo il mito, la dea, sorella e sposa di Osiride, generò con lui il figlio Horus, dopo averne ricomposto il corpo fatto a pezzi da Seth e avergli restituito il soffio vitale. In epoca ellenistica Iside venne assimilata a diverse divinità femminili greche e il suo culto, sotto forma di misteri («misteri isiaci»), si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo. In Italia, dove la dea divenne molto popolare, misure repressive furono applicate soprattutto da Augusto, che, nel 28 a.C., bandí da Roma la pratica della religione isiaca.
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il fascino dell’egitto L’ISEO DI BENEVENTO Statua in diorite, di manifattura tardoegizia, raffigurante l’imperatore Domiziano in veste di faraone, dagli scavi presso il convento di S. Agostino. Età domizianea (81-96 d.C.).
Nella città sannita l’imperatore Domiziano fece quindi edificare quello che a oggi resta l’Iseo piú significativo in termini di documentazione archeologica rinvenuta. Il programma decorativo doveva essere molto vasto e comprendeva importanti e monumentali testimonianze artistiche, quali statue dell’imperatore in vesti faraoniche, sculture teriomorfe delle maggiori divinità connesse al culto di Iside (Horus, Thot e Apis in particolare), statue di oranti e sacerdoti, sculture e rilievi della stessa Iside e dei suoi sacerdoti, simulacri di culto del rituale isiaco quali la «cista mistica», probabilmente raffigurata anche in un affresco proveniente da Ercolano. Anche la scelta dei materiali non era stata lasciata al caso, con un uso attento delle piú pregiate e dure pietre da taglio: diorite, granito, porfido.
Alla «maniera» egizia Il tutto venne realizzato assemblando pezzi di ispirazione e gusto egittizzante, ma sicuramente lavorati a Roma o da botteghe romane in Egitto, con altri di piú generico ambito ellenistico e altri ancora di sicura fattura antico-egizia, sia di epoca tolemaica che pienamente faraonica. Anche la tecnica esecutiva mostra una ricerca, quasi filologica, della «maniera» egizia, adottando e alternando il rilievo nell’incavo con il bassorilievo e l’altorilievo, come era consuetudine fin dalle prime decorazioni tombali del III millennio a.C. Ma ciò che piú stupisce è la chiara volontà dell’imperatore, per il tramite del dedicatario locale, Marco Rutilio Lupo, di mostrarsi conforme alla piena e autentica tradizione faraonica persino nelle iscrizioni e nei titoli regali. Almeno due obelischi gemelli facevano parte della decorazione del tempio, o meglio del suo ingresso monumentale, secondo un modello consolidato nei santuari egizi almeno a partire dal II millennio a.C., ed entrambi presentano iscrizioni e formule d’offerta che, se staccate dal nome dei protagonisti, potrebbero appartenere, senza dubbio alcuno, a epoche molto piú antiche. Questo vasto programma decorativo doveva essere inserito in una sceno98 a r c h e o
In alto: veduta d’insieme di alcuni tra i reperti che decoravano l’Iseo di Benevento, esposti nella sala dedicata, all’interno del Museo del Sannio. In primo piano, scafo in marmo bianco di una barca, parte del gruppo scultoreo detto di «Iside Pelagia», una delle forme di Iside, venerata come protettrice dei mari e dei naviganti. La statua, simulacro principale del tempio, doveva essere conservata nel Sancta Sanctorum.
grafica cornice architettonica, come si può intuire dal gran numero di sfingi rinvenute, che dovevano probabilmente ornare una lunga via processionale d’accesso al tempio, forse ulteriormente arricchita dalla presenza di un canopo, sul modello dei templi alessandrini e del già menzionato Iseo Campense di Roma, di cui quello di Benevento doveva grosso modo riprendere la pianta e la simbologia generale e al quale si ispira largamente anche il ben piú noto Canopo/Serapeo di Villa Adriana a Tivoli. Sulla base di quanto detto, stupisce, quindi, constatare come l’esatta collocazione di questo straordinario santuario isiaco sia ancora largamente dibattuta. Era il 1903 quando l’allora direttore del Museo del Sannio, Almerico Meomartini, incappò, per puro caso, in alcune delle stupende suppellettili di cui sopra (altri reperti furono ritrovati altrove) durante dei lavori di ristrutturazione della caserma dei Carabinieri,
edificata sui resti di un vecchio convento agostiniano. I materiali erano stati riutilizzati come riempimento delle mura urbane nell’area della cattedrale di S. Sofia, principale luogo di culto della città sannita nella prima epoca medievale, nonché grandiosa testimonianza del suo passato longobardo. Su queste basi, Meomartini ipotizzò, quindi, che il tempio potesse essere situato proprio nell’area del ritrovamento delle suppellettili, una zona, fra l’altro, non lontana dall’arco di Traiano, una delle principali porte d’ingresso della città, dove Iside, in qualità di «protettrice dei viaggiatori», poteva essere probabilmente venerata.
Il tempio perduto A questa teoria non sono però mancate obiezioni: alcuni studiosi hanno ipotizzato, infatti, che il santuario potesse essere situato laddove ora sorge la chiesa di S. Stefano, in piazza Cardinal Pacca, vicino all’attuale Duomo, secondo un fenomeno di
assimilazione religiosa molto noto in ambito cristiano, che tendeva a edificare luoghi di culto destinati al proto-martire su precedenti luoghi di culto isiaco (si vedano i casi di Roma e Verona). In questo modo, inoltre, il tempio si sarebbe trovato nelle immediate vicinanze del foro romano, laddove la via Appia incrociava la via Latina, e dunque in un punto nevralgico della vita cittadina, che ne avrebbe ancor piú valorizzata l’importanza artistica e religiosa. Altri, infine, non escludono la possibilità che il tempio potesse essere collocato a ridosso di edifici di tipo ellenistico quali il teatro, come avviene nel caso del ben piú famoso Iseo di Pompei, sebbene nell’area del teatro di Benevento non sia stato finora ritrovato nulla che possa avvalorare questa ipotesi. Oltre alle problematiche topografiche relative all’ubicazione del tempio, particolare attenzione merita anche lo stato di conservazione di alcuni di questi materiali e particoa r c h e o 99
il fascino dell’egitto L’ISEO DI BENEVENTO In basso: statua in diorite, di manifattura egizia, raffigurante il dio Horus in veste di falco, dagli scavi presso il convento di S. Agostino. 150 a.C. Nella pagina accanto: Il Noce di Benevento. Incisione ottocentesca. Una leggenda, priva di riscontri concreti, vuole che l’albero fosse collegato ad antichi riti longobardi, che, in parte, hanno poi dato origine alla tradizione delle streghe.
LA DEA EGIZIA E LE JANARE DI BENEVENTO La tradizione delle streghe di Benevento affonda le sue radici nel Medioevo. Nella Vita Barbati (un testo anonimo del IX-X secolo) si narra, infatti, di riti pagani, officiati al tempo dei Longobardi, in cui gli astanti dovevano strappare pezzi di una pelle di animale attaccata a un albero, la cui specie non è citata. Solo in seguito, e con un chiaro intento denigratorio e demonizzante, l’albero fu identificato con il noce, sulla scorta probabilmente di una falsa etimologia che ne faceva derivare il nome dal verbo latino noceo (nuocere, recar danno). Tali riti longobardi, di cui nulla altro sappiamo, trovarono verosimilmente terreno fertile nel substrato agricolo autoctono: sia in epoca romana che preromana, infatti, oscuri rituali notturni venivano praticati nei boschi in onore delle dee Diana ed Ecate, entrambe associate alla Luna e alle selve, ed entrambe con connotati tanto positivi e apotropaici, quanto negativi e malefici. Figura del tutto simile alla Diana classica, ma probabilmente preromana, è la dea Jana, divinità che, nella sua forma di «Jana
Luna», era associata alla luce lunare e considerata protettrice delle acque, dei boschi e delle belve notturne. Jana, inoltre, come controparte femminile di Janus (Giano), divinità bifronte legata alle porte, rimanda al concetto di passaggio, reale o simbolico che sia, fra dimensioni spazio-temporali diverse (la duplicità della dea è richiamata, concettualmente, anche dalle diverse facce della luna), e una delle caratteristiche principali delle streghe è proprio quello di avere la capacità di comunicazione tanto con il mondo terreno e reale quanto con quello ultraterreno e infero. Da questi rituali, dunque, e da un sincretismo fra la Diana classica e la Jana preromana, potrebbe essere derivata la figura della janara – seguace di Diana/Jana (Dianara/Janara) – una figura ibrida, molto simile alla strega, ma caratterizzata dalla duplicità dei suoi comportamenti, a volte positivi e dispensatori di doni, altre volte distruttivi, malvagi e persecutori. Il culto di Iside, con il suo portato magico-rituale, andò probabilmente a rafforzare questa tradizione autoctona sebbene non si debba dimenticare che
intercessione del locale vescovo Barbato. Costui, in cambio della vittoria, avrebbe preteso, però, una pronta e rapida conversione al cristianesimo da parte del duca e del popolo tutto, con la consegna dei sacr i simulacr i (segretamente estorti al duca con la complicità della moglie) e con il repentino abbandono delle diaboliche magie ed eresie pagane che essi erano soliti praticare. E che questi culti potessero essere proprio quelli connessi con la dea egizia lo farebbero pensare vari elementi, fra cui, per esempio, il ritrovamento di Il racconto del Santo Questo episodio ci riporta alle vi- oggetti del culto isiaco persino in cende narrate nella anonima e ro- zone limitrofe e marginali della manzata Vita Barbati del IX-X se- città, come l’area paludosa (detta colo. In quest’opera si narra del «Ripa delle Janare») del fiume Saduca dei Longobardi Romualdo, il bato, da cui proviene un grande quale, per vincere l’assedio alla cit- toro Api in granito rosa. tà posto dai Greci (Bizantini), Stando alle testimonianze archeoloavrebbe chiesto l’aiuto divino per giche e al racconto medievale di
larmente delle statue: quasi tutte, infatti, erano state decapitate, con il probabile intento di inficiarne l’autonomia vitale e il valore cultuale, una pratica attestata, nella prima epoca cristiana, anche in altre circostanze. Solo le sculture raffiguranti gli imperatori, e qualche altro oggetto minore, non erano stati, invece, distrutti, ma semplicemente sepolti, come se la furia iconoclasta fosse stata riservata ad alcune suppellettili in particolare.
esso, per sua stessa natura, era di carattere misterico e, dunque, non aperto a fasce larghe della popolazione, come erano, invece, sia i culti romani e preromani che quelli longobardi. Secondo alcuni studiosi, inoltre, elementi simbolici, cultuali e iconografici della dea egizia si ritroverebbero piú nel culto mariano che non in quello demoniaco delle streghe. Che la tradizione delle streghe derivi direttamente da Iside o piuttosto da un portato religioso locale, e di matrice popolare, ulteriormente rafforzato dalle usanze religiose longobarde resta, dunque, ancora non del tutto chiaro, cosí come molto discusse restano le modalità e le ragioni della costante associazione delle streghe, e dei loro rituali demoniaci (sabba), proprio con la città sannita. I processi inquisitori e le notizie di raduni stregoneschi in città, noti fin dal tardo Medioevo, possono certamente aver influito su questa percezione distorta di Benevento, ma sono probabilmente proprio le radicate tradizioni longobarde ad aver giocato un ruolo di prim’ordine in questa direzione, laddove i Longobardi, popolo di recente conversione mai pienamente romanizzato, rappresentarono per lungo tempo, con il loro ducato meridionale, una spina nel fianco della politica del papato e del Sacro Romano Impero.
te associata alla magia nera e alle figure delle streghe, probabili eredi, almeno per certi aspetti, della figura di Iside (vedi box in queste pagine). In tal senso, dunque, non sarebbe azzardata neppure l’ipotesi di ricondurre le devastazioni iconoclaste di cui si è detto all’epoca precedente l’arrivo dei Longobardi, e particolarmente al periodo immediatamente successivo agli editti teodosiani del 391-2 d.C., quando molti altri templi pagani, con relative suppellettili, furono sistematicamente devastati e profanati in molte parti dell’impero: basti ricordare, fra tutti, il caso del SeraEredi di Iside? D’altro canto, però, va ricordato co- peo di Alessandria, di recente rime gli antichi culti germanici dei portato alla ribalta dalla cinematoLongobardi ben si adattassero al grafia relativa alla figura di Ipazia contesto magico, e per certi versi, (vedi anche «Archeo» n. 304, giuesoterico del culto isiaco, e come, gno 2010). proprio dalla venuta dei Longobardi Tuttavia, al di là di queste considein poi, Benevento venisse stabilmen- razioni, ciò che appare evidente e San Barbato, si potrebbe ipotizzare, dunque, che un culto di antica tradizione e di grande fervore, tanto in ambito popolare quanto aristocratico (si pensi al racconto di Apuleio, L’asino d’oro), come quello di Iside, potesse aver giocato un ruolo fondamentale nella definizione dell’identità culturale e sociale della città sannita di epoca romana tardoimperiale e altomedievale, e fosse a tal punto radicato nel contesto locale da essere pericoloso concorrente della trionfante fede cristiana e dei suoi neofiti longobardi.
indubbio è che il tempio ha rappresentato, con la sua storia e con il suo splendido e ricco programma architettonico-decorativo, una delle maggiori realizzazioni dell’arte egizia in ambito italico e una delle pagine piú alte di assimilazione e celebrazione della regalità romana sul modello orientale. Il fatto che esso sia ancora adesso quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico, se da un lato è probabilmente dovuto alla collocazione geografica periferica della città sannita, dall’altro è forse anche il frutto di un oblio voluto e programmato fin dalla prima epoca medievale. Un oblio che, attraverso la condanna delle pratiche rituali e della figura stessa di Iside «Grande di Magia», ha portato a cancellare il ricordo di uno dei luoghi di culto piú monumentali e significativi mai edificati nella città sannita. a r c h e o 101
Antichi ieri e oggi
di Romolo A. Staccioli
Gente di strada
Centinaia di migliaia di persone, fin dalle prime ore del mattino, si riversavano nelle vie e nelle piazze: era questo lo spettacolo che, quotidianamente, andava in scena nella Roma degli imperatori
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ome in tutte le città mediterranee, nell’antica C Roma la vita si svolgeva fuori di
casa, prevalentemente all’aperto. Cioè in strada (sui marciapiedi o sotto i portici). Per ragioni climatiche, ma anche di... spazio e di comodità e per motivi economici. Escluse le famiglie agiate, la maggior parte della gente viveva in abitazioni tutt’altro che confortevoli. Spesso di fortuna, in
condizioni di precarietà. Di solito, perciò, a casa si stava quasi solo per dormire. Anche i pasti, infatti, si consumavano perlopiú fuori. Soprattutto quello principale, per il quale si ricorreva a uno dei tanti locali che offrivano la possibilità di prendere un piatto caldo o comunque cucinato: cosa difficile da fare in casa, dove anche soltanto un «angolo cottura» era privilegio di pochi.
Una folla di cittadini riempie la piazza antistante il Colosseo, sulla quale affacciava il Tempio di Venere e Roma e incombeva il Colosso di Nerone. La scena qui ricostruita era all’ordine del giorno nella Roma imperiale, una città che contava oltre un milione di abitanti, che trascorrevano nelle strade gran parte del proprio tempo.
al di sopra del vano delle botteghe, erano l’alloggio piú comune di commercianti e artigiani. Molto meglio passare le giornate all’aperto dove, peraltro, si svolgevano tutte – o quasi – le funzioni e le manifestazioni della vita pubblica: dalle assemblee popolari e dalle sedute dello stesso Senato alle cerimonie religiose che si celebravano presso gli altari collocati davanti ai templi, le cui «celle», riservate alle divinità titolari, erano accessibili ai soli sacerdoti.
Le abitazioni della gran massa della popolazione, anche quando si trattava di «appartamenti» d’affitto nei caseggiati a piú piani, si riducevano a locali, piccoli e angusti, freddi d’inverno e caldi d’estate.Tanto piú quando essi erano ricavati nei sottoscala o nelle soffitte e nei sottotetti, in soprelevazioni posticce soggette al continuo pericolo di crolli o di incendi, oppure nei soppalchi che,
Vita all’aria aperta! I consoli parlavano al popolo dalla tribuna dei Rostri, nel Foro, e da questa venivano pronunciati gli elogi funebri dei personaggi importanti, accanto alla salma esposta. Prima della costruzione delle basiliche, i pretori amministravano la giustizia in un tribunale allestito per l’occasione in un angolo dello stesso Foro e costituito da un semplice suggesto di legno sul quale erano sistemate la sedia del magistrato e le panche per le parti, i testimoni e gli avvocati, mentre il pubblico assisteva in piedi. Anche gli spettacoli erano tutti all’aperto, dai giochi gladiatori alle venationes – le cacce agli animali selvatici –, dalle corse dei carri alle rappresentazioni sceniche, dalle esibizioni ginniche alle declamazioni poetiche. Per non parlare dei grandi funerali pubblici, dei cortei trionfali, delle processioni religiose, delle pompae circensi. Conseguenza prima di un tal genere di vita erano l’inverosimile affollamento delle strade, la confusione che vi regnava, le difficoltà per la circolazione, i
fastidi e i pericoli d’ogni genere, il chiasso e quel frastuono di fondo che oggi chiameremmo «inquinamento acustico». Una metropoli cosmopolita «A me che vado di fretta, s’oppone l’onda della gente che mi precede – scrive Giovenale (III, 243-48) – mentre quella che mi segue mi preme ai fianchi, come una falange compatta. E uno ti dà una gomitata, un altro ti colpisce rudemente con una stanga; quello ti sbatte in testa una trave, questo una botte. Intanto, le gambe s’ingrassano di fango, d’ogni parte mi calpestano scarpe smisurate e un soldato mi conficca nei piedi le sue suole chiodate». Ma, già Orazio aveva sottolineato (Sat. II, 6,28) la fatica che occorreva in strada per farsi largo a strattoni tra la calca (luctandum in turba), prendendo a male parole chi avesse tardato a scansarsi (et facienda iniuria tardis). La folla era variegata e cosmopolita. Stando a Marziale (de spect. III, 10), oltre ai cittadini di tutte le classi sociali e agli schiavi d’ogni provenienza, impegnati nelle piú disparate incombenze, vi si potevano trovare il contadino della Tracia e il Sarmata «che si nutre di sangue di cavallo», l’Arabo e «chi si disseta alle sorgenti del Nilo», i Sabei, i Cilici «impregnati di zafferano», i Sigambri «con le chiome raccolte in un nodo» e gli Etiopi «con i capelli intrecciati». Tutti si riversavano in strada fin dalle prime ore del mattino. Sia quelli che avevano realmente qualcosa da fare, come chi doveva raggiungere il proprio posto di lavoro, o come i clientes che si recavano alla casa del patronus per compiervi il rito della salutatio matutina, dopo la quale si dipartivano per assolvere alle commissioni e agli incarichi ricevuti. Sia quelli che, non avendo nulla da fare (come capitava a molti), passavano il loro tempo alla ricerca di una qualsiasi occupazione... «Vagando – come osserva Seneca (Tranq. An. 12, 2,4) – per le case, per i teatri, per i fori,
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sempre pronti a occuparsi degli affari degli altri, sempre con l’aria degli indaffarati (...) E girano, per di qua e per di là, senza uno scopo al mondo e non fanno quello che hanno deciso di fare, ma quello che capita». A ognuno il suo posto! Meta preferita – e, in ogni caso, primaria – degli sfaccendati erano il Foro e le sue adiacenze dove, al tempo di Plauto, la gente si riuniva «per categorie». In un passo del Curculio (467 e segg.), il grande commediografo latino scrive che l’attore si offre al pubblico per mostrargli «in quale luogo sia facile incontrare chiunque si voglia, l’uomo onesto e il disonesto, il vizioso e il virtuoso». E, cominciando la rassegna dall’angolo nord-occidentale della «piazza» forense, elencava: «Chi cerca uno spergiuro, vada nel Comizio; chi vuole un bugiardo o un millantatore, vada al sacello di Cloacina. Nella basilica (Emilia) cerca i mariti ricchi e scialacquatori; lí si trovano anche le sgualdrine attempate e i loro mezzani. Nel mercato del pesce (si trovano) gli scrocconi; nel fondo
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del Foro, i galantuomini, e, nel mezzo, presso il canale (la futura Cloaca Maxima) sostano quelli che si presentano per quel che non sono. I presuntuosi, i pettegoli e i maldicenti stanno piú in su del lago di Curzio (...) Alle botteghe vecchie stanno gli strozzini e gli usurai; dietro il tempio di Castore c’è gente alla quale se credi senza riflettere te ne viene male; nel vico Tusco trovi i giovinastri che fanno mercato di sé». A testimoniare ancora oggi nel Foro la frequentazione di tanti fannulloni, sono rimaste qua e là (come sui gradini della Basilica Giulia), le tabulae lusoriae, i «tavolieri» incisi nel marmo per giocare a «filetto» (quello quadrato e quello circolare) e a qualcun altro dei tanti passatempo in voga, il piú diffuso dei quali, quello dei dadi, è attestato dai ritrovamenti di scavo. Un invito a cena Molti di coloro che, anziché starsene fermi da qualche parte, se ne andavano in giro, apparentemente senza una meta precisa, lo facevano alla ricerca affannosa di qualcuno che li invitasse a cena. «Nulla d’intentato,
nulla d’inosato lascia Selio ogni qualvolta si vede ridotto a cenare in casa», scrive Marziale (II, 14). Che poi, indicando – coi nomi dei monumenti o dei personaggi, per lo piú mitologici, evidentemente rappresentati da opere d’arte esposte in pubblico, ma come se fossero viventi – alcuni dei luoghi piú frequentati della città, descrive il concitato itinerario della sua «vittima»: «Corre al portico di Europa e loda senza fine te, Paolino, e i tuoi piedi degni di Achille. Se Europa non fa nulla per lui, allora si dirige verso i Saepta, per vedere se gli offrono qualcosa il figlio di Fillira o quello di Esione. Deluso, se ne va anche da lí per fare visita al tempio di Memphi e si siede sui tuoi banchi, o mesta giovenca. Quindi raggiunge il portico delle cento colonne e da lí quello di Pompeo coi suoi due boschetti; né trascura i bagni di Fortunato o quelli di Fausto; né quelli tenebrosi di Gryllo e quelli ventosi di Lupo: e nelle terme si lava, si lava, si lava. Dopo averle tentate tutte, col destino che gli rimane avverso, torna di corsa, ben lavato, alle siepi di bosso della tiepida Europa, se
Un’altra inevitabile conseguenza del vivere in strada era l’abituale e indiscriminata occupazione del suolo pubblico che – di fatto – era a disposizione di tutti, gratuitamente. Bastava impossessarsene, arrivando possibilmente prima di altri. Oppure ripartirselo, con accordi peraltro non sempre facili. La conquista piú ambita era quella dei marciapiedi.A essa miravano prima di tutto i venditori ambulanti. Sia che esponessero alla meglio la loro merce su teli di stoffa, tavole di legno, carrettini, sia che disponessero di banchi al riparo di tende (tentoria) o di «baldacchini» di legno (tabernacula).
per caso qualche amico vi diriga tardi i suoi passi.Ti prego, toro lascivo, per te e per la fanciulla che trasporti, invita tu Selio a cena». Il regno del frastuono Quanto ai rumori, sempre Marziale, dopo aver affermato (XII, 57) che «A Roma non esiste un posto in cui un poveretto possa meditare o riposare», aggiunge «Non ti lasciano vivere, al mattino, i maestri di scuola, la notte, i fornai, durante tutto il giorno, il martellare dei calderai. Qua c’è un cambiavalute che, non avendo altro da fare, scuote il sudicio tavolo con la sua scorta di monete neroniane; là, il battiloro picchia col suo lucido mazzuolo la pietra aurifera della Spagna già in pezzi. Né la smettono i fanatici del culto di Bellona di pregare ad alta voce; il naufrago, attaccato a un pezzo di legno, di raccontare; il piccolo Ebreo, ammaestrato dalla madre, di chiedere l’elemosina; il rivendugliolo cisposo di vendere, gridando, gli zolfanelli». Ma, già lo stesso Seneca, lamentandosi del
frastuono che lo circondava in casa (Epist.VI, 56), oltre ai rumori provenienti dal bagno pubblico sopra il quale abitava, aveva citato quelli che gli arrivavano dalla strada e, in particolare, «il vociare dei venditori di bibite, di salsicce, di pasticcini e quello degli inservienti delle bettole che vanno in giro offrendo la loro merce, ognuno con una speciale modulazione di voce». Rilievo con scena di mercato (a sinistra) e frammento di sarcofago raffigurante un macellaio (in alto). I sec. d.C. Ostia, Museo Archeologico Ostiense. Bottegai, artigiani e venditori ambulanti affollavano i marciapiedi di Roma, esponendo la loro merce all’aperto e attrezzandosi, spesso, con sedie che offrivano agli avventori.
A scuola in strada Ma sul marciapiedi anche i bottegai e gli artigiani trovavano il modo di ampliare gli spazi ristretti dei loro locali, di esporvi merci e prodotti, di offrire tavoli e sedie ai clienti e agli avventori. Lo facevano tutti, dai macellai agli osti, dai barbieri ai fruttivendoli, dai profumieri ai cambiavalute. Ai quali s’aggiungevano perfino i maestri di scuola che, non disponendo nemmeno d’un misero sottoscala, magari in un angolo meno frequentato (seppure ve ne fossero), organizzavano la propria classe con uno sgabello e qualche panca, eventualmente al riparo d’una tettoia improvvisata con un telone o una stuoia. La diffusione dei portici – soprattutto a seguito delle prescrizioni emanate da Nerone dopo l’incendio del 64 d.C., per proteggere le facciate dei caseggiati e prevenire, o almeno limitare, il rapido propagarsi delle fiamme – dovette ulteriormente favorire la pratica delle occupazioni. Specie laddove gli ambulacri erano liberi e non destinati a funzioni specifiche. Fossero pure, queste, di carattere pubblico e anche mercantile. Come nel caso dei Saepta, adiacenti al Pantheon, un tempo deputati alle riunioni dei comizi popolari e diventati, con Augusto,
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una piazza monumentale con portici che ospitavano un apprezzato e frequentato «mercatino» di oggetti d’arte e d’antiquariato. Il commercio ambulante era teoricamente regolamentato e controllato dagli edili. Sanzioni e provvedimenti L’occupazione di suolo pubblico era, altrettanto teoricamente, consentita solo in determinati casi, e temporaneamente. Per esempio, a vantaggio dei falegnami che potevano esporre, fuori dalle loro botteghe, certi tipi di oggetti, come le ruote dei carri, o dei lavandai, ai quali occorreva spazio per stendere e asciugare i loro panni. E c’erano anche interventi di rimozione o di sequestro e distruzione di merci proibite o collocate in modo da creare particolare intralcio alla circolazione, in particolare di lettighe e portantine. In linea di massima, però, ognuno faceva il proprio comodo. Al tempo di Domiziano (81-96 d.C.) la situazione era arrivata a tal punto che lo stesso imperatore dovette intervenire con un drastico provvedimento, ricordato – ed esaltato – dal solito Marziale (VII, 61): «Il venditore ambulante temerario Roma intera ci rubava e non si vedeva piú alcuna soglia: dall’alto in basso tutte erano ingombre.Tu, Germanico, hai ordinato di liberare i vicoli e dove prima si scorgeva un sentiero, ora possiamo percorrere una via. Nessun pilastro è piú circondato da bottiglie legate attorno a esso; il pretore non è piú costretto a camminare nel fango, né il rasoio viene piú impugnato alla cieca in mezzo a una turba che si pigia, o nere bettole ingombrano le strade. Barbieri, osti, beccai e cuochi stanno ciascuno nei propri limiti. Ora è Roma! Prima era tutta una bottega!». Tanto le strade erano affollate e animate di giorno, tanto, di notte, esse erano deserte e prive di vita. O meglio, vissute – almeno in parte – in altro modo e da altra gente.
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A prescindere dal traffico veicolare che, sospeso di giorno, riprendeva al tramonto per continuare fino all’alba, con decine e decine di carri che tornavano a muoversi tutti insieme, col frastuono provocato dallo scalpitio degli zoccoli degli animali, lo stridio dei cerchioni di ferro delle ruote, le grida, le imprecazioni, le liti dei carrettieri. Completamente al buio, salvo che nelle notti di luna piena, al calare del sole le strade diventavano insicure e frequentarle comportava rischi anche seri. Intanto, perché era abitudine assai diffusa gettarvi dalle finestre ogni genere di rifiuti, compresi quelli derivanti dalla generale assenza,
nelle case, dei piú elementari servizi igienici. Ma, il rischio peggiore era quello dei cattivi incontri. Perché, approfittando delle tenebre, «quando le case sono ben chiuse e dopo che, sprangate con catene le botteghe, d’ogni parte è silenzio» (come scrive ancora Giovenale, III, 278 e segg.), per le strade andavano in giro figuri ambigui, ubriachi, giovinastri e malfattori d’ogni risma che, nel migliore dei casi, si divertivano a picchiare i rari passanti. Come faceva Nerone che, secondo Svetonio (Ner. XXVI), «dopo il crepuscolo, messosi in testa un berretto di feltro o di pelle, se ne andava per bettole e
vagava per le strade folleggiando e non senza fare danni. Infatti, se incontrava qualcuno che tornava da una cena, lo bastonava e se questi avesse reagito, lo feriva e lo gettava in una fogna». I passatempi dell’imperatore A conferma delle bravate neroniane, c’è anche Tacito che si sofferma su altri particolari. «Nerone – scrive (Ann. XIII, 25) – travestito da schiavo, s’aggirava per le strade della città, le osterie e i lupanari, accompagnato da gente con la quale rubava la merce nelle botteghe e feriva quelli che incontrava e non lo riconoscevano, al punto da riceverne in cambio
I numeri di una capitale Riportiamo, qui di seguito, la consistenza (stimata e/o reale) della popolazione di Roma nel corso della sua storia: Epoca serviana (VI sec. a.C.) 30 000 unità Epoca delle guerre puniche (270 a.C.) 190 000 unità Epoca imperiale (II sec. d.C.) 1 200 000-1 700 000 unità Sacco di Roma e guerra gotica (V-VI sec. d.C.) da 650 000 a 100 000 unità Età medievale (XI-XIII sec.) da 100 000 a 30 000 unità (epidemia di peste) Rinascimento (XV sec.) Età moderna (XVII sec.) Unità d’Italia (1870)
40 000 unità 100 000 unità 200 000 unità
Oggi (dati ISTAT, settembre 2011) 2 777 979 unità, (è il Comune piú popoloso d’Italia)
Frammento di sarcofago raffigurante un cambiavalute, da Roma. Roma, Museo Nazionale Romano.
colpi che egli stesso mostrava sul viso». L’imperatore, evidentemente, fece scuola, visto che lo storico aggiunge: «In seguito, quando si venne a sapere che il grassatore era Cesare, aumentarono i casi di oltraggio a uomini e donne di riguardo e c’era chi, una volta consentita la sfrenatezza e al riparo del nome di Nerone, s’abbandonava alle stesse cose, con la propria banda. E cosí la notte passava come se si trattasse di una città conquistata». E Tacito continua citando un episodio specifico. Quello di Giulio Montano, membro dell’ordine senatorio, il quale «essendo, per caso, venuto alle mani col principe, nelle tenebre di una notte, e avendolo violentemente respinto mentre l’aggrediva, una volta che l’ebbe riconosciuto, l’aveva implorato, quasi rimproverandolo, d’essere indotto a darsi la morte». Quanto a Nerone, «diventato piú pauroso, si circondò di soldati e di molti gladiatori che gli facilitavano risse inizialmente modeste e come tra privati, ma che ricorrevano alle armi se gli aggrediti si fossero difesi validamente». Questi, tuttavia, erano passatempi imperiali. Non era raro il caso di passanti sfortunati assaliti da ladri e rapinatori... professionisti che li spogliavano d’ogni cosa. Non solo, ma «talvolta – conclude Giovenale – il grassatore, piombato all’improvviso, se la sbriga con un coltello». Non restava che la speranza d’imbattersi in qualche personaggio di rango che se ne tornava a casa scortato da una folta schiera d’accompagnatori armati e con un gran numero di torce e di lanterne di bronzo, per rischiarare le tenebre. Oppure in una delle tante pattuglie di vigiles – altri frequentatori abituali delle strade durante la notte – in servizio di ronda per la prevenzione o il pronto intervento contro gli incendi che proprio nelle ore notturne piú frequentemente e con maggiore violenza si sviluppavano nella città addormentata.
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L’età dei metalli
di Claudio Giardino
Un impero inquinato «Alla luce delle lucerne si scavano i monti con lunghi cunicoli; con le stesse si ricavano anche i turni di lavoro, poiché per molti mesi non si vede la luce del sole. Cosí frequenti sono i cedimenti improvvisi che seppelliscono i minatori, da far sembrare meno rischioso raccogliere le perle sui fondali marini: tanto abbiamo reso pericolosa la terra!» (Storia Naturale, XXXIII, 70). Queste parole di Plinio il Vecchio, con ogni probabilità riferite alle miniere iberiche, danno conto dei rischi dell’impresa estrattiva, che non solo mise a repentaglio migliaia di vite umane, ma fu causa di enormi devastazioni ambientali
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a Roma dei Cesari era affamata di metalli, che ricercava ed L estraeva in ogni provincia del suo
impero, al quale, per mantenere le sue dimensioni e la sua complessità sociale ed economica, occorrevano quantità enormi di materie prime. Il ferro, per esempio, era indispensabile per produrre, tra l’altro, l’equipaggiamento dei legionari e delle flotte, e le miniere del Norico – una regione che comprendeva parte delle attuali Carinzia, Baviera, Slovenia
nostri giorni. È stato calcolato che all’epoca del suo apogeo, nei territori dell’impero si producessero annualmente circa 17 000 tonnellate di rame, piú di quanto verrà estratto in seguito in Europa sino alla rivoluzione industriale, e una simile produzione causò l’inquinamento di molte aree, soprattutto di quelle prossime ai siti di lavorazione. Piante e animali contaminati Nel sito di Wadi Faynan, in Giordania, i cui depositi cupriferi vennero sfruttati dalla preistoria sino all’età romana, duemila anni dopo la cessazione delle attività industriali, l’ambiente è ancora avvelenato da residui tossici: la vegetazione e il bestiame che oggi crescono nella zona presentano, nei loro tessuti, alti tenori di rame. Gran parte del metallo rosso serviva per la realizzazione del bronzo, utilizzato non solo per la produzione di monete e di molti oggetti di uso comune, ma anche per fabbricare le innumerevoli statue che decoravano le città. Nella sola capitale, Roma, vi erano migliaia di monumenti in bronzo, che facevano dell’Urbe una vera miniera a cielo aperto. E come tale fu sfruttata durante il Medioevo e nei secoli successivi: il solo rivestimento bronzeo della travatura del Pantheon, fatto rimuovere nella prima metà del Seicento da papa Urbano VIII, permise al Bernini di realizzare il baldacchino che
A sinistra: lo spettacolare paesaggio di Las Médulas, antica miniera d’oro romana, nella comunità autonoma di Castiglia e León (Spagna centrosettentrionale). Creste aguzze, guglie e solchi profondi sono legati all’attività mineraria, che qui si svolgeva secondo il metodo di coltivazione dell’oro descritto da Plinio il Vecchio come ruina montium. Tale sistema comportava l’utilizzo della forza idraulica sia per setacciare l’oro che per frammentare e asportare la roccia che lo conteneva. In basso: lucerna votiva in oro, da Pompei. Età imperiale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Ai tempi dell’impero, il grosso della produzione aurifera era assicurato dalle miniere iberiche.
sovrasta l’altare maggiore della basilica di S. Pietro, del peso di 63 tonnellate! Grazie a un antico manoscritto conservato nella Biblioteca Vaticana possiamo avere un’idea, seppur approssimativa, dell’enorme quantità di metallo utilizzata per abbellire la città eterna. Il testo venne scritto alla metà del VI secolo dal vescovo greco Zacharias di Mitilene, all’epoca importante centro dell’isola egea di Lesbo. Una città piena di statue In esso il prelato, in visita nella città di Pietro, fornisce una descrizione della Roma in età tardo-antica: racconta che in quel tempo vi erano un’ottantina di
e Friuli-Venezia Giulia –, assieme a quelle del Weald, nella Britannia sud-orientale, furono ampiamente sfruttate per soddisfarne l’incessante richiesta. Molto del rame impiegato dai Romani proveniva da Cipro e dalla Turdetania, l’attuale Andalusia, dove erano i ricchi depositi cupriferi di Huelva, le cui miniere di Rio Tinto (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012) sono state sfruttate sin quasi ai
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DEVASTAZIONI AMBIENTALI
Una storia infinita I Romani fecero ricorso all’acqua ad alta pressione per frantumare la roccia e rimuovere i sedimenti per la prima volta in Spagna e nel Galles, nelle miniere aurifere di Dolaucothi, definendo tale sistema, non senza ragione, ruina montium (vedi «Archeo» n. 294, agosto 2009). Essa costituisce ancora oggi una forma di estrazione mineraria, sebbene molti Stati l’abbiano vietata per i permanenti danni ambientali che provoca. Nella Gran Bretagna venne usata in età elisabettiana, nella seconda metà del Cinquecento, per le coltivazioni di piombo, stagno e rame. In età moderna l’energia idraulica venne utilizzata nella metà dell’Ottocento durante la corsa all’oro nelle coltivazioni minerarie in California, presso Nevada City. Verso la metà degli anni Ottanta del XIX secolo, dopo soli 30 anni di impiego, si calcola che l’applicazione dello scavo a getto d’acqua abbia fruttato circa 311 850 kg d’oro, per un valore attuale intorno ai 7,5 miliardi di dollari. L’impiego di questa tecnica ha tuttavia devastato l’ambiente e l’agricoltura della California, con effetti ancora evidenti dopo oltre un secolo. I milioni di tonnellate di sedimenti prodotti, che si sono depositati a causa delle escavazioni nel letto dei fiumi, hanno modificato l’alveo di scorrimento e la portata dai corsi d’acqua, provocando tuttora frequenti e gravi inondazioni. Queste coltivazioni ottocentesche hanno dato vita a un paesaggio visibile nel Parco storico statale di Malakoff Diggins, a Nevada County, non dissimile da quello prodotto dai Romani a Las Médulas, nella comunità autonoma di Castiglia e León (Spagna).
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sculture in bronzo dorato raffiguranti le antiche divinità ancora esposte in luoghi pubblici e che le statue esistenti nella città erano oltre 3800. A quell’epoca il patrimonio artistico dell’Urbe si era già considerevolmente ridotto, non solo a causa del saccheggio perpetrato dai Visigoti di Alarico nel 410, ma anche a seguito delle spoliazioni operate da imperatori come Costantino (306-337) e Graziano (359-383). Costantino in particolare, per abbellire la sua nuova capitale, Costantinopoli, non aveva esitato a trasferire molte opere d’arte con le quali i suoi predecessori avevano ornato Roma. La città descritta da Zacharias doveva quindi essere
A sinistra: il Tesoro di Boscoreale, costituito da gioielli, specchi e vasellame in oro e argento, dalla villa romana della Pisanella (Boscoreale, Napoli). I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: dritto di un denario d’argento dal bordo dentellato con la testa della dea Roma. Età repubblicana.
solo un ricordo sbiadito dell’opulenta metropoli dei secoli d’oro della repubblica e dell’impero, fra il II secolo a.C. e il III secolo d.C. L’acqua scava la roccia La prosperità dell’impero era garantita e alimentata anche dall’oro che vi affluiva copioso, proveniente in gran parte dalle provincie dell’Iberia. Qui veniva ottenuto sfruttando l’energia idraulica per rimuovere enormi quantità di roccia ed estrarre agevolmente il metallo presente nei filoni (vedi box a p. 108). Anche questa tecnica, decisamente
rivoluzionaria, aveva conseguenze pesantissime sull’ambiente, evidenti ancora oggi. Con l’argento si producevano grandi quantità di monete, i denarii, con cui venivano principalmente pagate sia le legioni, che le merci provenienti da ogni parte dell’Europa e dell’Asia. Nei primi secoli dell’impero il metallo utilizzato per i denarii era di elevata purezza, con un tenore attorno al 90-98%. Il grande apprezzamento di cui godeva questa valuta è dimostrato dai tesoretti di monete con le effigi dei primi imperatori,
trovate perfino nella lontana Cina, dove erano state impiegate nell’acquisto della preziosissima seta. L’argento era destinato, oltre che alla monetazione, anche a produrre i raffinati vasi con i quali i ricchi allestivano i loro banchetti, e che ritroviamo oggi non solo a Pompei e a Ercolano, ma anche in molte regioni dell’impero. A esso era collegato l’umile piombo, ricavato dagli stessi minerali, che trovava molteplici usi, dalle grappe per
tenere assieme i blocchi in pietra di templi e anfiteatri, sino alle condutture d’acqua e alle ancore delle molte navi che solcavano il Mediterraneo e l’Atlantico. Questo fiume di argento e di piombo era soprattutto alimentato dalle miniere di galena argentifera (un solfuro di piombo ricco di argento) della Spagna sudoccidentale e sud-orientale, in particolare da quelle delle province spagnole di Huelva, Siviglia, Almeria e Murcia, che furono sfruttate intensivamente proprio in età romana. Il minerale estratto era poi sottoposto a vari processi metallurgici al fine di ricavare sia il piombo, che l’argento. La produzione raggiunse vette di 80 000 tonnellate l’anno, un record eguagliato solo alla fine del Settecento con la rivoluzione industriale. Nel corso di tali processi si sviluppavano notevoli quantità di gas inquinanti. Piombo nei ghiacci La massa di minerali estratti in età romana dalle miniere iberiche e poi raffinati fu tanto elevata da produrre il primo caso di inquinamento su scala globale della storia. I fumi industriali prodotti dai Romani inquinarono per secoli l’atmosfera dell’emisfero settentrionale del nostro pianeta con residui di piombo, raggiungendo anche l’Artico. Lo hanno dimostrato gli studi condotti con l’ausilio della determinazione del rapporto isotopico del piombo – una delle poche tecniche analitiche che consente di determinare la provenienza del metallo – su campioni di ghiaccio raccolti a Summit, nella Groenlandia centrale, tramite trivellazioni profonde eseguite agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. È stato ricondotto alle attività estrattive nelle miniere spagnole di Rio Tinto il 70% delle tracce di piombo riscontrate nei ghiacci per il periodo compreso fra il 150 a.C. e il 50 d.C.
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L’altra faccia della medaglia
di Francesca Ceci
Caronte come Noè? L’usanza di deporre nella tomba una moneta a mo’ di offerta per il traghettatore dei defunti è largamente attestata nelle sepolture antiche. E, talvolta, non riguarda soltanto gli esseri umani… A sinistra: Seppannibale (Brindisi). La sepoltura di una capra, nella cui bocca era deposta una moneta databile al I-II sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto, a sinistra: denaro milanese in argento di Federico imperatore, rinvenuto nella bocca di un bovino sepolto nella chiesa della Purificazione di Caronno Pertusella (Varese). Databile tra 1185 e il 1240.
a sepoltura lascia da sempre spazio a gesti rituali codificati L come quello di donare al morto
una o piú monete, noto nella letteratura antica e moderna come obolo di Caronte, che ha in sé molteplici valenze oltre a quella di viatico per l’Oltretomba. Ma monete «funerarie» sono attestate anche in contesti del tutto inusuali, ovvero in un paio di sepolture di animali, lontane tra loro nel tempo e nello spazio. A Seppannibale (presso Fasano, Brindisi), nel corso di indagini archeologiche relative al «Tempietto» altomedievale – una chiesa databile a partire dalla fine
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dell’VIII secolo – è stata localizzata un’area sacra di età romana caratterizzata dalla singolare sepoltura di due capre, immolate probabilmente per un rito di fondazione o sacrificale non meglio definibile, e ricoperte di pietrame. L’esemplare piú grande, forse di sesso maschile, era stato dotato di corredo, deposto vicino alla testa e formato da una lucerna e un chiodo, mentre in bocca aveva una moneta databile tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C. Il corredo è simile a quelli di analoghe sepolture romane di «umani», con la lucerna per illuminare il tragitto funerario del
defunto, coadiuvata dal chiodo che, come è stato dimostrato, se presente in una tomba singolarmente (o in due esemplari) ha funzione di portafortuna. L’essere costituito di ferro, metallo che poteva assumere in determinati contesti anche una valenza magica, e l’avere la terminazione a punta, atta a respingere il male, rendevano il chiodo un valido oggetto per la protezione del defunto, sia per non essere disturbato nella tomba da eventuali profanatori, sia, forse, per meglio affrontare la nuova condizione nell’Aldilà. L’aver fornito il capro di questi
PER SAPERNE DI PIÚ Angelofabio Attolico, I reperti numismatici, in Gioia Bertelli, Giorgia Lepore, Adda Editore (a cura di), Masseria Seppannibale Grande in agro di Fasano (BR), Adda Editore, Bari 2011; pp. 487-495. Maila Chiaravalle, La moneta nella bocca del bovino: un denaro imperiale federiciano per Milano, in Pierangelo Colombo, Paola Monti, Pierangela Zaffaroni (a cura di), Chiesa della Purificazione. Caronno Pertusella, Alinea Editrice, Firenze 2011; pp. 171-176.
Qui sopra: Caronno Pertusella (Varese), chiesa della Purificazione. La sepoltura di bovino e (in alto, a destra) particolare della moneta, evidenziata dal riquadro, collocata nella bocca dell’animale e scivolata sotto la mandibola in seguito alla decomposizione del corpo.
oggetti potrebbe indicare che chi si occupò della sepoltura dei due animali ne equiparò almeno uno a un essere umano. Una moneta per il bue A Caronno Pertusella, (Varese), nell’ambito del restauro della chiesa quattrocentesca della
Purificazione sono state effettuate indagini che hanno riportato alla luce strutture preesistenti, alcune sepolture e un ossario – ritrovamenti consueti nelle chiese dell’epoca – e una deposizione decisamente anomala. Al centro della navata principale, tra l’altare e l’ingresso della chiesa, sigillato dalla pavimentazione, è stato infatti ritrovato un esemplare di bovino domestico di circa quattro anni, accuratamente deposto con le zampe ripiegate, senza tracce di macellazione e con una moneta in bocca, che ricorda nella modalità la capra di Seppannibale.
In questo caso però non ci si trova di fronte a una preesistenza romana, dato che il corredo consiste in un denaro milanese a nome di Federico imperatore, coniato tra il 1185 e il 1240. La chiesa della Purificazione è posteriore alla datazione della moneta e il contesto stratigrafico lascerebbe ipotizzare l’anteriorità della sepoltura ma è anche possibile che la deposizione sia contestuale alla chiesa e solo leggermente anteriore a questa, e che sia stata usata come obolo una moneta non piú in circolazione all’epoca. Si tratta, comunque, di un probabile rituale di fondazione, connesso alla chiesa e quindi da inserire in un ambito pienamente cristianizzato. Errata corrige con riferimento al n. 325 (marzo 2012) desideriamo precisare che, nell’articolo Il ritorno di un tempo felice, le immagini in basso si riferiscono a una moneta dell’imperatore Caracalla, battuta nel 206 d.C., e non, come indicato in didascalia, a una emissione riferibile ad Antonino Pio. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.
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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Paolo Brusasco
BABILONIA All’origine del mito Raffaello Cortina Editore, Milano, 308 pp., ill. b/n + XIV tavv. coll. 26,00 euro ISBN 978-88-6030-441-4 www.raffaellocortina.it
Il volume propone un intreccio tra passato e presente, attraverso il quale si sviluppa una interessante rilettura del mito di Babilonia, riesaminando anche i giudizi tramandati dalle tradizioni ebraica e cristiana. Si scoprono una città e una civiltà fervide e ricchissime di arte e cultura, e vengono messi in luce gli apporti significativi dati allo
religioso babilonese e tali da suggerire – anche nelle intenzioni dell’autore – un’ispirazione per l’epoca contemporanea, verso il rifiuto di ogni fondamentalismo e verso l’accettazione e il riconoscimento delle altre culture. L’esempio del culto del dio babilonese Marduk è calzante: portatore di un monoteismo soft, come lo definisce nella prefazione il direttore della collana, Giulio Giorello, con la funzione di incorporare tutte le divinità non babilonesi in un unico riferimento religioso, senza necessariamente esautorarle o doverle definire false e bugiarde. Paolo Leonini Marco Martin
POSIDONIO D’APAMEA E I CELTI Un viaggiatore greco in Gallia prima di Cesare Aracne Editrice s.r.l., Roma, 510 pp., XXV tavv. col. 30,00 euro ISBN 978-88-548-4313-4 www.aracneeditrice.it
sviluppo di discipline come la medicina, o il progresso nei campi dell’architettura, della letteratura, dell’economia e del diritto. Vengono affrontati anche aspetti meno noti del mondo
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È l’interazione tra due culture a prendere forma nei racconti di questo viaggiatore curioso e affascinato; un intellettuale formato nello stoicismo greco, che si avventura nella ricognizione della Gallia meridionale sul finire del II secolo a.C. e che ci ha tramandato uno dei profili piú precisi delle popolazioni che vi abitavano. Il racconto
secolo, ha visto gli studiosi confrontarsi sia sul mondo dei Celti che sull’universo culturale di Posidonio. P. L.
DALL’ESTERO Eric H. Cline (a cura di)
THE OXFORD HANDBOOK OF THE BRONZE AGE AEGEAN di Posidonio, infatti, si differenzia da altre fonti per un approccio piú profondo, che indaga aspetti socio-culturali, economici e religiosi. I ventisei capitoli del volume sono organizzati in tre parti. Nella prima, Marco Martin introduce l’argomento della geografia della regione celtica nelle fonti greche e inquadra il contributo particolare di Posidonio. La seconda e la terza seguono lo svolgersi della narrazione di viaggio, ed esaminano, rispettivamente, le popolazioni dei Celti e dei Cimbri, dedicando anche un capitolo finale ai Germani. L’approccio dell’autore è di tipo filologico, storico e antropologico e prende in considerazione tematiche come la ricchezza e il potere, i rapporti sociali, i legami di dipendenza (le figure dello schiavo, del parassita, del cliente), il valore della vita e della morte e il mondo della religione, con particolare attenzione al druidismo. L’ampia trattazione dà anche conto del dibattito che, nel corso del XX
Oxford University Press, Oxford, 976 pp., ill. b/n 35,00 GBP ISBN 978-0-19-987360-9 www.oup.com
Per quanti, a livello specialistico, vogliano approfondire le molte problematiche storiche e archeologiche di cui si può leggere in questo numero nell’articolo dedicato agli scavi di Cnosso (vedi alle pp. 44-61), giunge tempestivo questo nuovo titolo, che
ripercorre la lunga e articolata vicenda della civiltà minoica, attraverso i contributi di oltre sessanta fra i massimi studiosi dell’argomento. Stefano Mammini