Archeo n. 327, Maggio 2012

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2012

tas-silg

micene

cesare di arles

etruschi in cattedra

guerra del peloponneso

speciale forche caudine

Mens. Anno XXVIII numero 5 (327) Maggio 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 327 maggio

i ma anteprn i fa

3800 an t i c o n i l p i ú atal i a oro d’i

e il mistero della maschera di agamennone

grecia

guerra nel peloponneso

malta

un santuario al centro del mediterraneo

micene

Speciale

la vera storia dell’agguato

forche caudine

€ 5,90



Editoriale Se l’Europa guarda a Pompei Quando, lo scorso aprile, il Governo ha presentato il Grande Progetto Pompei, finalizzato a ottenere, entro i prossimi tre anni, una sostanziale riqualificazione del sito archeologico (attraverso lo stanziamento di 105 milioni di euro) le parole d’ordine sono state due: la legalità (il progetto include un apposito protocollo volto a prevenire le infiltrazioni criminali) e… l’Europa. «L’Europa ci guarda», hanno affermato i ministri, e non solo per la diretta partecipazione al progetto di fondi europei (42 milioni, i restanti 63 provengono dalle casse dello Stato). Il grande sito campano, con i suoi due milioni di visitatori all’anno, è – malgrado le minacce che da anni incombono sulla sua integrità fisica – un patrimonio non solo del nostro Paese, ma della cultura internazionale, e, soprattutto, europea. Non deve stupire, allora, se uno sguardo particolarmente attento (e appassionato) su Pompei è offerto, proprio in questi giorni, da una mostra allestita nel Museo regionale di una città della Germania – Halle – conosciuta, semmai, per aver dato i natali al compositore barocco Georg Friedrich Händel. Intitolata «Pompei, Nola, Ercolano. Catastrofi sotto il Vesuvio» rappresenta una sintesi eccellente su storia e archeologia dell’area vesuviana, con l’esposizione di reperti straordinari provenienti dai magazzini di Pompei e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e con l’impiego di soluzioni museografiche di avanguardia.Vale davvero una visita, anche perché, con l’occasione, potreste ammirare la principale attrazione del Landesmuseum di Halle: il celeberrimo «disco di Nebra». Perché, ci si chiederà, una mostra sulle città del Vesuvio proprio qui, nella regione della Sassonia-Anhalt? L’aura di Pompei, in verità, soggiorna in questa «remota» parte della Germania sin dal Settecento, da quando Leopoldo III, principe di Anhalt-Dessau, di ritorno dal suo Grand Tour che lo aveva portato a Roma e sul Golfo di Napoli, incaricò il suo amico, l’architetto Erdmannsdorff, di «ricreare» – nei suoi possedimenti lungo il fiume Elba – paesaggi e monumenti di classica e vesuviana memoria: una nuova residenza in stile neoclassico, un anfiteatro, il ninfeo di Egeria, i cunicoli degli scavi di Ercolano, la villa di Lord Hamilton a Posillipo, la stessa ricostruzione di un vulcano, in grado di riprodurre spettacolari eruzioni… A loro volta ricostruiti e restaurati dopo la caduta del Muro di Berlino, i monumenti fanno oggi parte di un vasto parco storico naturalistico, dal 2000 posto sotto la tutela dell’UNESCO. Per ricordarci che lo «sguardo europeo su Pompei» non è solo storia di oggi… Andreas M. Steiner

Due immagini dei lavori di allestimento della mostra che il Landesmuseum di Halle (Germania) ha dedicato a Pompei e alle altre città colpite dall’eruzione vesuviana del 79 d.C.



SommariO

Editoriale

Se l’Europa guarda a Pompei

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scavi Tas-Silg, i millenni del tempio

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la notizia del mese

di Maria Giulia Amadasi Guzzo, Francesca Bonzano, Alberto Cazzella, Werner Mayer, Maurizio Moscoloni, Florinda Notarstefano, Anthony Pace, Claudia Perassi, Danila Piacentini, Giulia Recchia, Maria Pia Rossignani, Marco Sannazaro, Grazia Semeraro

di Filippo Maria Gambari

i luoghi della leggenda Micene. Una trama 44 rosso sangue

di Andreas M. Steiner

Attualità Un’eccezionale tazza in oro zecchino risalente all’età del Bronzo affiora in una cava dell’Emilia-Romagna

notiziario

8

di Massimo Vidale

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parola d’archeologo La Galleria degli Uffizi possiede una collezione di opere d’arte antica di grande pregio, che presto sarà valorizzata da un nuovo allestimento 12

mostre L’importanza di chiamarsi Giulio

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di Daniela Fuganti

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musei Con l’allestimento di Villa Poniatowski, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia amplia e arricchisce il suo percorso espositivo 14

storia

Storia dei Greci/15

La guerra del Peloponneso

94

di Fabrizio Polacco

speciale

Forche Caudine La vera storia

44

74

di Flavio Russo

Rubriche storia

I mille volti degli Etruschi/4

Quei maestri di scienza... di Daniele F. Maras

94

66

il mestiere dell’archeologo Uno sguardo sul passato prossimo 104 di Daniele Manacorda

l’età dei metalli Un quesito senza tempo

106

di Claudio Giardino

divi e donne Che matrona esemplare!

108

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Festa di primavera

112

di Francesca Ceci

libri

114


La Notizia del mese

Un mistero d’oro zecchino Poche settimane fa, un normale intervento di controllo ha lasciato a bocca aperta gli archeologi: dalla terra è infatti affiorata una tazza aurea dell’età del Bronzo. Un reperto di eccezionale pregio e rarità, di cui ora si dovrà ricostruire la funzione

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di Filippo Maria Gambari

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al sottosuolo italiano emergono ancora oggi ritrovamenti che riescono ad affascinare e sorprendere archeologi con decenni di esperienza. È quanto è avvenuto, nello scorso marzo, nel corso di un controllo di archeologia preventiva all’interno della cava di inerti «Spalletti» della C.C.P.L., sui terrazzi di sponda destra dell’Enza, tra S. Ilario e Montecchio, nel Comune di Montecchio Emilia (Reggio Emilia). La zona era già nota e considerata a rischio archeologico: negli oltre 5 m di stratigrafia della cava, infatti, era stata constatata la presenza di resti di abitato del Neolitico Finale e dell’età del Rame (IV-III millennio a.C.), di tombe a cremazione in urna di tipo terramaricolo dell’età del Bronzo media-recente (XIVXIII secolo a.C.) – presumibilmente collegate alla presenza nota di una terramara poco piú a sud – e di tombe etrusche a fossa dell’età del Ferro. Nel corso dell’intervento, ai margini orientali della zona sottoposta a controllo, in un suolo agricolo d’età storica, nella fascia di contatto al margine inferiore del terreno di aratura recente, è stata trovata una tazza d’oro puro, con un manichetto in lamina, alta poco piú In alto: ricostruzione grafica della tazza in oro rinvenuta di 12 cm, chiaramente sollevata e parzialmente sposta- in una cava di inerti nel territorio di Montecchio Emilia (provincia di Reggio Emilia). 1800 a.C. circa. ta dall’aratro in tempi non recenti.

A sinistra e a destra: due immagini della tazza in oro rinvenuta a Montecchio Emilia. Sulla base di confronti con esemplari simili rinvenuti in Germania, Bretagna e Inghilterra, il reperto è databile intorno al 1800 a.C.

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A sinistra: elaborazione fotografica che mostra la tazza aurea e il suo manico. Qui sotto: un’altra immagine della tazza, che lascia intravedere la terra che ancora riempie il reperto. Proprio dall’analisi di questo riempimento si spera di ricavare indicazioni utili a ricostruire il possibile uso dell’oggetto.

La realizzazione di oggetti come la tazza di Montecchio potrebbe essere legata a deposizioni votive

Le «sorelle» inglesi

Affini alla tazza di Montecchio Emilia sono due esemplari ritrovati in Gran Bretagna e oggi al British Museum di Londra. A sinistra: la tazza recuperata nel 2001 in un tumulo al centro dell’henge di Ringlemere (Sandwich, Kent). A destra: la tazza di Rillaton. Alta poco piú di 11 cm, fu rinvenuta nel 1837 in associazione con la deposizione di un guerriero, sotto un tumulo di pietre (cairn) della Cornovaglia. Il suo aspetto attuale è frutto del rimodellamento eseguito dopo la scoperta.

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Non è emersa alcuna struttura – tomba, cassetta di lastre o altro – a cui potesse essere riferita l’originaria collocazione del reperto, che doveva essere stato seppellito in una semplice buca in nuda terra. La tazza appariva schiacciata già in antico, parzialmente rotta poi dall’aratro con l’asportazione di una piccola parte e realizzata senza decorazioni con una lamina spessa 1,5 mm circa. La forma della tazza, caratterizzata da un fondo convesso con carena accentuata, pareti concave arcuate e da una ansa a nastro tra l’orlo e la carena, rimanda a tipologie ben note anche nelle versioni ceramiche, tipiche di una fase avanzata dell’antica età del Bronzo europea (Bz A2, 1950-1600 a.C. circa) e presenti sia nella cultura cisalpina di Polada, sia nella cultura mitteleuropea di Aunjetitz/Unetice e nelle facies a questa collegate fino alle coste atlantiche. Sulla base di queste comparazioni, il reperto può dunque essere datato intorno al 1800 a.C., in una fase precedente e di formazione della piú nota cultura terramaricola emiliana. I ritrovamenti di tazze come quella di Montecchio Emilia sono estremamente rari in Europa per l’altissimo valore intrinseco di questi oggetti fin dall’antichità: in pratica il nostro esemplare si può confrontare solo con altri quattro in Europa. Quasi identica, con ansa e orlo decorato, è quella rinvenuta, isolata, a Fritzdorf, in Germania (comune di Wachtberg, Renania Settentrionale-Vestfalia) l’11 novembre 1954 dal contadino Heinrich Sonntag. Rimessa in forma togliendo gli effetti dello schiacciamento, è oggi conservata nel Landesmuseum di Bonn. Una tazza simile era stata trovata a Plumilliau, in Bretagna, in un tumulo armoricano sconvolto e scavato nel XIX secolo; questo esemplare è da tempo perduto, ma resta nelle collezioni francesi un singolare cucchiaio in lamina d’oro che era associato nella tomba.

In Inghilterra due tazze coeve, oggi esposte al British Museum, mostrano una tipologia simile, ma resa con una forma modellata a costolature orizzontali, anche a causa degli spessori piú sottili della lamina: la tazza di Rillaton, alta poco piú di 11 cm, è stata rinvenuta da operai in una cista lapidea con una deposizione maschile di guerriero sotto un tumulo di pietre (cairn) della Cornovaglia (Bodmin Moor, Rillaton) nel 1837; rimodellata dopo la scoperta, dal tesoro dei duchi di Cornovaglia è passata nel 1936 al British Museum. Molto simile risulta la tazza di Ringlemere, ritrovata in un tumulo al centro dell’henge di Ringlemere (Sandwich, Kent) nel 2001 da cercatori con metal detector (vedi «Archeo» n. 207, maggio 2002). Nella cava non sono noti altri elementi coevi alla tazza, che dunque doveva essere deposta come ripostiglio o offerta votiva, ma alcuni dati d’archivio in corso di verifica potrebbero collegare la stessa tazza a un ritrovamento di 13 oggetti d’oro, apparentemente dell’età del Bronzo, avvenuto a seguito di un’aratura a Montecchio il 18 gennaio 1782: purtroppo, i reperti furono poi fusi e se ne conservano solo le fantasiose descrizioni dell’epoca. C’è ancora molta discussione tra gli studiosi sul significato da dare a questi ritrovamenti: se in area atlantica oggetti d’oro come questi fanno parte di tombe particolari, di capi o sacerdoti, come vasellame «liturgico», legato a particolari funzioni o riti, casi come quello di Fritzdorf e Montecchio Emilia potrebbero collegarsi a deposizioni votive piuttosto che a semplici ripostigli. Presentata in anteprima all’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria di Firenze il 23 aprile scorso per decisione del Presidente, Maria Bernabò Brea, la tazza d’oro di Montecchio Emilia deve ancora rivelare molte cose. L’analisi del terreno contenuto (è tuttora all’interno del vaso) potrà chiarire se in origine l’oggetto era stato deposto pieno di liquido o di altri eventuali elementi; l’analisi metallografica potrà fornire informazioni sull’origine del metallo, sulla tecnica di realizzazione, sulla sequenza di interventi che hanno defunzionalizzato l’oggetto. Entro la fine dell’anno si potranno avere i risultati completi, sperando di trovare tutte le risorse per sostenere i costi di laboratorio. Liberato dalla terra il piccolo recipiente, potrà essere pesato definitivamente, e si potrà verificare se in effetti lo spessore della lamina sia un poco piú consistente degli altri esemplari transalpini e valutare meglio le tracce di lavorazione. Al di là del suo eccezionale pregio, la tazza d’oro di Montecchio Emilia è destinata a cambiare radicalmente diverse idee consolidate sui commerci e sugli scambi nell’Europa di 3800 anni fa. L’intervento che ha portato alla scoperta è stato condotto per conto della Soprintendenza (sotto la direzione di Marco Podini) dagli specialisti dell’impresa Abacus di Cristina Anghinetti.

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Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

Gli «altri» Uffizi Il museo fiorentino vanta un ricco insieme di opere di età antica, che presto saranno valorizzate da un nuovo allestimento, di cui ci parla in anteprima Antonio Natali, direttore della galleria el 2011 la Galleria degli Uffizi è stata visitata da 1 milione e N 760 mila persone, provenienti da tutto il mondo. Considerando il rapporto tra questa cifra e la superficie espositiva, gli Uffizi si classificano al primo posto al livello internazionale. Ma, se nessuno avrà mancato i dipinti di Botticelli, Leonardo e Michelangelo, quanti si saranno soffermati, con la stessa attenzione, sui busti e sulle statue di epoca classica? La collezione di arte antica degli Uffizi, forse meno frequentata (e certo meno citata dei maestri del Rinascimento), è altrettanto unica e straordinaria. Non solo: costituisce il nucleo originario del museo, da un punto di vista storico, come spiega Antonio Natali, attuale direttore della raccolta… «Forse non tutti sanno che la Galleria degli Uffizi, nel Settecento, si chiamava la “Galleria delle Statue”. E il nome non era casuale: evidentemente la presenza dei marmi antichi era considerata cosa ragguardevole. E dovrebbe esserlo anche oggi, se a regolare le questioni della cultura non fossero le “idolatrie” della nostra stagione: per molti esistono solo Botticelli e Caravaggio, il resto conta poco. Vorrei che fosse chiaro: a me, come direttore degli Uffizi, piacerebbe che si venisse per guardare tutto quello che di poetico e spirituale c’è in Galleria, non quanto c’è di “feticistico”.

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Quella dei marmi antichi è una delle collezioni piú rilevanti degli Uffizi. La raccolta di sculture è costituita per lo piú da rielaborazioni di età romana ispirate a prototipi classici ed ellenistici, alle quali si aggiungono oltre centocinquanta splendidi ritratti di epoca repubblicana e imperiale. Tutti pezzi di qualità assoluta e di straordinaria importanza, non foss’altro perché rappresentano l’esito di uno dei primi interessi collezionistici della famiglia Medici. I marmi antichi, infatti, costituirono il nucleo originario degli Uffizi e la maggior parte delle opere che i Medici andarono acquisendo a partire dal XVI secolo, furono fra quelle piú ambite, sia a Roma che altrove, comparse sul mercato antiquario di quegli anni». Quindi, professore, le statue e i busti di età romana che oggi si possono ammirare al secondo piano della Galleria sono pezzi unici, ma, soprattutto, ne costituiscono l’ispirazione originaria… «Sí, la loro presenza dà il segno dell’interesse culturale da parte di Francesco I de’ Medici, che nel 1581 diede vita alla Galleria nel luogo che il padre, Cosimo I, aveva voluto come sede amministrativa delle magistrature, accanto al Palazzo della Signoria. All’ultimo piano Francesco colloca il suo “sogno”: il suo museo. La cosa piú importante, dal punto di vista

culturale, è che, fin da subito, gli Uffizi nascono come galleria d’arte contemporanea (cioè cinquecentesca), ma con un senso altissimo del percorso della storia e della tradizione. Moderno e antico, all’epoca, andavano di pari passo, facevano parte della stessa cultura. Anzi, i moderni gareggiavano virtualmente con l’antico, che era stato per loro modello, in una competizione che non poteva essere mai alla pari. Allora si riconoscevano ai maestri antichi le qualità piú eminenti in fatto di bellezza e poesia, tanto che se si voleva lodar qualcuno si diceva che “era stato cosí bravo da superare gli antichi”. Nel Cinquecento Giorgio Vasari, nel descrivere la “maniera moderna”, ovvero quella della sua stagione, cita Leonardo, Raffaello, il Correggio e il “divino Michelangelo”, ma dice anche che la “maniera moderna” nasce quando gli artisti videro cavar fuori da terra “certe anticaglie”


Due delle opere di arte antica conservate nella Galleria degli Uffizi. A destra: l’Afrodite di Doidalsa, copia romana dell’originale greco. Nella pagina accanto: lo Spinario, copia romana dell’originale di età ellenistica.

nominate da Plinio: e cioè il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, quella che lui chiama la “Cleopatra”, cioè l’Ariadne, con la testa reclinata su un fianco (tutte opere oggi conservate ai Musei Vaticani). È proprio il patetismo della cultura ellenistica, espresso in queste opere, che imprime, secondo Vasari, lo scatto al “moderno”». In questo momento state lavorando all’allestimento delle sale del Cinquecento toscano, cioè della

«maniera moderna» italiana: come valorizzerete, invece, l’«antico»? «Abbiamo previsto una sorta di corridoio di ingresso alle sale in cui sono esposti Andrea del Sarto, il Rosso Fiorentino, il Pontormo, il Bronzino, dove collocheremo alcuni marmi ellenistici della Galleria, seguendo esattamente il concetto vasariano.Vi esporremo lo Spinario, la Venere al bagno, il Torso Gaddi, l’Ercole del tipo Farnese. Il Vasari diceva che queste statue “si attorcono” in forme languorose: quel languore, quel patetismo, quegli occhi volti in alto, le teste inclinate, le braccia piegate e la figura a spirale, sono all’origine dell’arte della “maniera moderna”».

Oltre ai marmi di ispirazione ellenistica, agli Uffizi si conserva tutta la Galleria dei ritratti di epoca romana… «La ritrattistica romana, che comprende marmi di epoca repubblicana e imperiale, resterà dov’è attualmente, nel primo e terzo corridoio del secondo piano. Le figure si succedono secondo un ritmo ternario: una statua in piedi e due busti». Che cosa le piacerebbe che si percepisse, attraversando quei corridoi di opere antiche? «Sarebbe bello se ci fosse la consapevolezza che la storia dell’arte non conosce cadute o fratture: come tutte le storie, è un flusso. Bisogna essere generosi con l’arte contemporanea, perché è solo l’ultimo capitolo di un libro cominciato migliaia di anni fa. Chi è grande poeta o grande artista non prescinde mai dall’antico, perché è parte ineludibile della propria vicenda: l’artista non può prescindere dall’antico. Chi lo disconosce, è un bugiardo».

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n oti z i ari o musei Roma

Nelle stanze di papa Giulio di Giuseppe M. Della Fina

l Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma si è rinnoIvato e ha ampliato il proprio

percorso espositivo arrivando a comprendere i suggestivi spazi della vicina Villa Poniatowski e dando cosí vita a un polo museale di grande suggestione. L’operazione, avviata alla fine degli anni Novanta e coordinata da Anna Maria Moretti in piena collaborazione con i funzionari e il personale della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, è giunta a

conclusione. Essa ha portato a pieno compimento il progetto ideato dall’archeologo Felice Barnabei negli anni Ottanta dell’Ottocento e che culminò nell’apertura del museo, nel 1889. I primi anni dell’istituzione museale non furono semplici e su di essa si scaricarono le tensioni che l’azione politica e amministrativa di Barnabei – tesa ad affermare la presenza dello Stato italiano nella gestione del patrimonio storico e artistico del Paese – suscitò nel mondo politico e culturale nazionale ed europeo. Il museo comunque crebbe in fretta e, nel giro di pochi decenni, arrivò ad accogliere capolavori assoluti

In merito al nuovo allestimento, abbiamo rivolto alcune domande ad Anna Maria Moretti, che, come detto, è stata la promotrice dell’intervento. • Dottoressa, che cosa ha significato nella sua vita professionale avere la responsabilità del nuovo allestimento del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia? Realizzare un progetto come quello che vede oggi completamente rinnovato il piú importante museo di antichità etrusche quale è quello di Villa Giulia e Villa Poniatowski ha costituito un impegno che, assunto con Francesca Boitani nel 1995 e conclusosi dopo diciassette anni, ha richiesto coraggio e grandi energie. Tali elementi si sono peraltro dovuti conciliare con l’attività quotidiana di tutela e valorizzazione di un territorio come l’Etruria meridionale, fra i piú importanti e a rischio dell’intera Penisola. Si è comunque trattato di un’impresa entusiasmante, che ha comportato un’attenzione e una cura costanti, in quanto, al di là dei gravosi adempimenti amministrativi, si sono resi necessari un confronto continuo e una partecipazione attiva al dibattito scientifico, presupposti indispensabili per affrontare e risolvere adeguatamente le molte problematiche legate a testimonianze talora uniche della cultura etrusca. Non solo, ma a fronte della complessità dei contenuti, un’attenzione particolare è stata riservata alle soluzioni espositive e agli apparati didattico-esplicativi improntati a criteri atti a conferire facilità di approccio al quadro culturale proposto, senza sacrificarne il livello scientifico.

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dell’arte etrusca come il Sarcofago degli Sposi e la celeberrima statua di Apollo r invenuta nel 1916 nell’area del santuario di Portonaccio a Veio. Un riallestimento di notevole impatto si ebbe negli anni Cinquanta del Novecento sotto la direzione dell’architetto Franco Minissi. Interventi minori si sono succeduti nel tempo sino a quello piú organico che si è appena concluso. Gli ultimi lavori hanno interessato, in particolare, le antichità di Veio che ora sono presentate nelle stanze finali del percorso espositivo situate al pianterreno della Villa voluta dal papa Giulio III (sale 37, 38, 39 e 40). In parti-

• Quali sono gli elementi di maggiore interesse che ha trovato nel progetto? Il riesame e la revisione critica di contesti e collezioni spesso notissimi come quelli che accoglie il Museo hanno comportato non solo uno straordinario arricchimento da un punto di vista scientifico e professionale, ma spesso un rinnovato e piú approfondito apprezzamento per oggetti ora meglio valorizzati grazie alle scelte espositive adottate, nell’ambito delle quali la luce si conferma una componente essenziale. • Quali sviluppi auspica per il Museo? Grazie al ruolo di primo piano riconosciuto a livello internazionale alle collezioni di Villa Giulia e Villa Poniatowski, il Museo, oggi piú che mai, costituisce un punto di riferimento essenziale per gli studi etruscologici che potranno essere agevolati anche dalla ricca biblioteca della Soprintendenza ora ospitata nei luminosi spazi a essa riservati nel complesso di Villa Poniatowski. Tutto ciò che è stato fatto è rivolto al futuro del Museo e al suo inscindibile legame con il territorio che, non a caso, viene continuamente evocato nel percorso espositivo. La crescita delle collezioni è comunque continua e con essa, se adeguatamente catturata, potrà esserlo anche l’attenzione del pubblico: è però compito degli archeologi darne adeguata comunicazione, adottando gli opportuni mezzi per la diffusione delle conoscenze, anche attraverso esposizioni temporanee, che potranno essere ospitate nel prestigioso ambiente a esse ora riservato a Villa Giulia.


colare nella sala 37 viene documentata la fase piú antica del centro, mentre nella sala 38 trovano collocazione i reperti di epoca orientalizzante. Nelle sale successive l’accento è posto sui santuari di Veio e, in questo contesto, è presentato l’Apollo, che viene quindi inserito a pieno negli sviluppi della coroplastica veiente. Il percorso espositivo prosegue nella restaurata Villa Poniatowski (ma questa sezione è aperta al momento solo su prenotazione), dove hanno trovato collocazione i materiali preromani provenienti da alcuni centri dell’Umbria come, in particolare, Terni e Todi (sala 1, al pianterreno), e dal Latium Vetus. Piú in dettaglio si può segnalare che – al piano nobile dell’edificio – le antichità di Satricum sono distribuite nelle sale 3-6, mentre nelle sale 7 e 8 trovano collocazione i reperti di

Roma. Villa Poniatowski, il cui allestimento ha permesso di ampliare il percorso espositivo del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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n otiz iario

In occasione dell’inaugurazione del nuovo allestimento del Museo Nazionale Etrusco di Roma, abbiamo incontrato anche Luigi Malnati, Direttore Generale per le Antichità del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, al quale abbiamo rivolto alcune domande. • Il Museo di Villa Giulia si presenta ora con un volto nuovo, ma cosa possiamo dire delle altre importanti collezioni etruscologiche presenti in Italia? Partendo dal Nord, la situazione da me conosciuta meglio, dato che ho esercitato i compiti di soprintendente in diverse regioni settentrionali, segnalo il Museo Nazionale di Mantova, di prossima ristrutturazione sulla base di un progetto assai ampio; quelli di Adria e di Ferrara, ambedue riallestiti di recente con nuovi criteri di esposizione; quello di Marzabotto, provvisto di nuove sale non ancora allestite. Il Museo Civico Archeologico di Bologna conserva forse la piú importante collezione relativa alla documentazione archeologica della Felsina capitale dell’Etruria padana, i reperti vi sono esposti secondo i criteri «storicizzati» della fine dell’Ottocento. In Toscana il Museo Archeologico Nazionale di Firenze espone solo parzialmente collezioni di grandissimo valore provenienti da tutta la regione; i lavori sono in corso e la nuova inaugurazione è prevista orientativamente nel 2015. Altre importanti collezioni etrusche sono a Vetulonia, Populonia, Arezzo, Murlo, Chiusi, quest’ultimo riallestito di recente, mentre a Volterra si trova lo storico Museo «Mario Guarnacci» e a Cortona il Museo dell’Accademia Etrusca e della città etrusca e romana di Cortona, anche questo di recentissimo allestimento. Nel Lazio, oltre al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, non si possono dimenticare i musei nazionali di Taquinia, Cerveteri, Vulci e, tra quelli civici, il Museo di Viterbo. Ricordiamo ancora i musei dell’Umbria, in primis quelli di Orvieto, il Nazionale e il Museo «Claudio Faina», e di Perugia, nonche quelli della Campania etrusca: quelli nazionali, di Santa Maria Capua Vetere e di Pontecagnano, e quelli provinciali, il Campano di Capua e l’Archeologico di Salerno. • Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha in cantiere iniziative per valorizzare la civiltà etrusca? Sí, sarebbe importante ricominciare a lavorare su iniziative espositive interregionali, che coinvolgano piú soprintendenze su tematiche comuni per far conoscere le nuove scoperte e fare il punto della ricerca scientifica in campo archeologico. Gli uffici periferici del MiBAC hanno confini regionali e amministrativi che ovviamente non coincidono spesso con i confini storici delle diverse civiltà e culture italiane: è bene quindi che si confrontino su programmi comuni; questo vale naturalmente anche per la civiltà etrusca, sulla quale si vorrebbe promuovere una esposizione generale di tutte le regioni interessate per il 2015. • Ritiene che le ricerche archeologiche in corso in Etruria possano dare risultati interessanti nei prossimi mesi? Questo andrebbe chiesto ai singoli soprintendenti; ma è bene chiarire che le principali novità in campo archeologico non vengono da attività di ricerca programmate, ma dalla costante attività di controllo del territorio che le soprintendenze svolgono in tutta Italia grazie al lavoro di molti professionisti archeologi, con scavi preventivi e d’emergenza in occasione di lavori di vario tipo che intaccano i depositi archeologici delle nostre città e del nostro territorio. L’archeologia, in tutte le sue specializzazioni, si deve muovere soprattutto per fronteggiare questa situazione; se mi posso permettere un giudizio, l’etruscologia, da questo punto di vista, non è probabilmente il settore piú avanzato e lo dimostra la maggiore attenzione che ancora oggi viene rivolta allo scavo e allo studio delle necropoli rispetto a quello degli abitati antichi.

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Nella pagina accanto: coperchio di una pisside con Eros e Psiche abbracciati. Seconda metà del II sec. a.C. Pella, Museo Archeologico. In basso: Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La sala dedicata alla scultura in terracotta da Veio, nella quale è esposto il celebre Apollo, rinvenuto nell’area del tempio di Portonaccio nel 1916.

Palestrina che illustrano bene il fasto delle locali aristocrazie attraverso i corredi funerari delle tombe orientalizzanti Barberini e Bernardini rinvenute nella seconda metà dell’Ottocento. Nella sala 9 sono visibili i materiali da Segni. Dove e quando Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma, piazzale di Villa Giulia 9 Orario ma-do,8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 06 3226571; e-mail: sba-em@beniculturali.it; www.villagiulia.beniculturali.it


MOSTRE

la spezia

Roma

Un castello per l’archeologia

Una favola eterna di Daniele F. Maras

’erano una volta in una città un re e una regina» «C (Erant in quadam ciuitate rex et regina): inizia cosí la favola di Amore e Psiche, che è stata definita la prima grande fiaba della letteratura classica. Il racconto è infatti incastonato nel cuore delle Metamorfosi di Apuleio di Madaura (125-180 d.C. circa), e, nonostante ripercorra tempi e temi delle fiabe della tradizione orale, è indubbiamente una creazione letteraria dell’autore, ricca di metafore e di spunti filosofici. La storia è molto semplice: una principessa va in sposa a un uomo misterioso, che si dice sia un mostro orrendo, ma lo incontra solo di notte nel buio piú totale e la vita coniugale sembra procedere per il meglio; ma le sorelle, gelose, convincono la giovane a spiare nel sonno il suo amante, che si rivela bellissimo, ma scompare per non tornare piú. La fanciulla dovrà perciò affrontare molte avventure e superare una serie di prove impostegli dalla terribile suocera, per poter poi alla fine ricongiungersi allo sposo e trovare la felicità. Il significato della fiaba è reso però piú profondo dal fatto che la principessa è Psiche, «l’anima» umana e il suo sposo misterioso Amore, ovvero Cupido, il dio figlio

Dove e quando «La favola di Amore e Psiche. Il mito nell’arte dall’antichità a Canova» Roma, Museo di Castel Sant’Angelo fino al 10 giugno Orario ma-do, 9,00-19,00; lu chiuso Info tel. 06 32810 o 06 6819111; http://poloromano.beniculturali.it Catalogo «L’Erma» di Bretschneider di Venere, e in palio, oltre all’unione mistica tra i due, c’è addirittura l’immortalità dell’anima! La storia acquista pertanto una cornice mitologica e un forte contenuto simbolico e religioso che le ha permesso di attraversare i secoli e ispirare scultori e pittori fino all’età contemporanea. La mostra allestita in Castel Sant’Angelo, a Roma, illustra il racconto di Apuleio attraverso opere d’arte che spaziano dalle gemme intagliate alla grande scultura e dalla pittura alle stampe illustrate. Il percorso dell’esposizione accompagna il visitatore attraverso il tempo, dimostrando come lo stesso racconto sia stato inteso dagli artisti secondo lo spirito della pro-

Sabato 26 e domenica 27 maggio il Museo del Castello di San Giorgio della Spezia ospita la VII edizione del Paleofestival, rassegna rivolta principalmente ai giovani e ai bambini, ma che spera di coinvolgere sempre piú nei suoi laboratori anche il pubblico adulto. Tra le novità di quest’anno, segnaliamo la rappresentazione teatrale che si terrà la sera di sabato 26 maggio: il Museo delle Palafitte di Ledro, proporrà al pubblico a partire dalle 21,30 Living prehistory, vita e suoni dalla preistoria, una rievocazione in costume di scene di vita preistorica; e poi dimostrazioni di filatura con diversi tipi di fuso e preparazione delle fibre; trasformazione della silice in vetro; la realizzazione di gioielli in rame di epoca cipriota; intreccio di cestini in vimini; l’esperienza delle sensazioni preistoriche attraverso un percorso multisensoriale (tattile, uditivo, olfattivo e visivo), il tutto contornato da laboratori di tatuaggio e pittura corporale. Info: Museo Castello di San Giorgio, tel. e fax 0187 751142; e-mail: sangiorgio@ laspeziacultura.it; www.paleofestival.it; museodelcastello.spezianet.it

pria epoca: un mito erotico e tragico per la cultura romana ellenizzata, una metafora dell’aspirazione umana verso Dio nella visione rinascimentale, un’immagine drammatica d’amore e di mistero nella pittura barocca, una romantica espressione delle passioni piú profonde dell’animo umano per gli artisti neoclassici del Settecento.

a r c h e o 17


n otiz iario

incontri Puglia

Archeologi in erba

Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

Micene

al 6 al 15 luglio torna l’appuntamento con il Festival InterD nazionale di Archeologia per ragaz-

zi, manifestazione internazionale che, ormai da 15 anni, si svolge a Poggiardo (Lecce). Ospitati in strutture allestite per l’occasione e in un clima decisamente festoso, i giovani, di età compresa tra i 6 e i 16 anni, hanno la possibilità di tuffarsi per dieci giorni nel fantastico mondo dell’archeologia. Nel corso della manifestazione, infatti, prendono parte a un vero scavo (il contesto archeologico è quello di Vaste: una delle città messapiche piú importanti del Salento nel IV secolo a.C.), e, nei laboratori di archeologia sperimentale, imparano le tecniche di lavorazione dei materiali utilizzati nell’antichità, come la pietra, la selce e l’argilla. I piccoli archeologi potranno anche cimentarsi con la costruzione di una fornace simile a quelle antiche e alla fusione del metallo realizzando cosí strumenti secondo le tecniche allora in voga. Inoltre la replica di una capanna dell’età del Ferro diventa la location per le attività didattiche, ma anche una suggestiva scenografia per i numerosi spettacoli di cinema, teatro e concerti realizzati in questi anni. Per informazioni e programma: www.archeologiaperragazzi.it

18 a r c h e o

Sulla scia della nuova puntata dedicata da «Archeo» ai «luoghi della leggenda», torniamo a occuparci di Micene, mostrando materiale filatelico non utilizzato in occasione del primo intervento (vedi «Archeo» n. 313, marzo 2011). Naturalmente cominciamo dal luogo simbolo: la Porta dei Leoni, in una vecchia fotografia utilizzata per realizzare un intero postale greco (1; cartolina) della fine dell’Ottocento. L’intero viene riproposto solo per paragonarne l’immagine a una molto moderna, elaborata da un artista greco per il francobollo emesso dalla Grecia nel 2009 e qui mostrato su una cartolina Maximum (2). La localizzazione di Micene era nota fin dai tempi piú antichi, ma solo l’intuizione e la tenacia di Heinrich Schliemann, alla fine del XIX secolo, hanno restituito al sito l’antica e giusta fama. Anche Schliemann è stato ricordato filatelicamente piú volte e questo francobollo della Germania Orientale del 1972 (3) è quello che lo ritrae al meglio quasi idealizzandolo. Infatti le immagini di altri due francobolli, sempre della Germania orientale emessi nel 1990, lo raffigurano in età piú avanzata (4-5). Ancora la Germania Orientale (Schliemann era nato a Neubukow, nella regione del Meclemburgo) ricordò l’archeologo con un annullo del 1980 (6). Gli scavi dell’area delle tombe reali restituirono una gran quantità di oggetti preziosi, uno dei quali è il famoso diadema d’oro la cui bellezza è qui ben visibile perché riprodotto su un’altra cartolina Maximum (7). Infine, giova ricordare che Schliemann condusse scavi anche al di fuori delle mura ciclopiche della cittadella di Micene e i suoi sforzi furono premiati dalla scoperta di altre tombe reali identificate con

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

quelle di Atreo e di Clitennestra. Il sito della prima è riprodotto su un altro intero postale greco di fine dell’Ottocento (8) ed è molto interessante osservare come esso si presenti oggi, a distanza di circa 200 anni, attraverso un altro intero postale cinese del 2010 (9).



Calendario Italia

roma

Roma

Vetri a Roma

La favola di Amore e Psiche

Il mito nell’arte dall’antichità a Canova Museo di Castel Sant’Angelo fino al 10.06.12

Orti e giardini

Il cuore di Roma antica Palatino fino al 14.10.12 asti

Etruschi

L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 15.07.12 Caorle (VE)

TerredAcque

Per un’anteprima del Museo Nazionale di Archeologia del Mare Centro Culturale «A. Bafile» fino all’08.12.12 chiusi

Museo Etrusco di Chiusi + 110

Materiali inediti per il «compleanno» dell’istituzione Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12 Montefiore Conca (Rn)

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 Noventa di Piave (Ve)

Le memorie ritrovate

Materiali dal monastero di S. Chiara di Cella Nova a Padova Veneto Designer Outlet, CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia) fino al 30.06.12. otricoli

Cose mai viste

Lo splendore di Ocriculum esce dai Magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12 piacenza

Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

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In alto: disegno di Pelagio Palagi per le vetrate del Gabinetto Etrusco nel Castello di Racconigi. In basso: piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.

Prevalentemente incentrata sulla produzione di età romana, la mostra presenta circa 300 pezzi, tra vasellame prezioso, gioielli e mosaici, che raccontano il periodo di massimo fulgore della lavorazione del vetro, a partire dal II secolo a.C. Le guerre di conquista intraprese da Roma negli ultimi due secoli della repubblica non consentirono solo l’accesso nell’urbe dei favolosi tesori strappati alle regge dei sovrani orientali, ma favorirono lo straordinario sviluppo delle rotte commerciali in tutto il bacino del Mediterraneo e il trasferimento a Roma, piú o meno forzato, di artigiani altamente specializzati depositari, in tutti i settori, di raffinatissime tecniche di produzione e di una spiccata sensibilità artistica. Le vittorie di Pompeo sull’Oriente, celebrate nel trionfo del 61 a.C. e quella di Ottaviano sull’Egitto, culminata nella battaglia di Azio del 31 a.C., aprirono definitivamente la via al controllo da parte romana del mondo ellenistico, all’acquisizione di un patrimonio inesauribile di competenze e all’adozione di un nuovo atteggiamento di apertura nei confronti di un diverso stile di vita ispirato a quello delle corti orientali. In questo contesto si sviluppò una florida produzione di suppellettili di vetro, la cui raffinatezza rivaleggia con la preziosità dell’argenteria. dove e quando Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12 Orario tutti i giorni, dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto Info tel. 06 39967700 www.pierreci.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

spira

tivoli

Egitto, tesori scoperti

Adriano e Antinoo

Capolavori del Museo Egizio di Torino Museo Storico del Palatinato fino al 02.09.12

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12

Paesi Bassi

venafro

Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

La testa dell’Antinoo Farnese, ritratto su torso antico non pertinente.

Belgio

Leida

Isole degli dèi

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

I giardini dei faraoni

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

tongeren

Svizzera

Sagalassos, città dei sogni Museo Gallo-romano fino al 17.06.12

ginevra

Francia

Al calar delle tenebre

Arte e storia dell’illuminazione Musée d’art et d’histoire fino al 19.08.12

Parigi

Arles, gli scavi del Rodano

Mosaico di età bizantina con figura di un grifone e motivi floreali, provenienza sconosciuta.

Prangins

Un fiume come memoria Museo del Louvre fino al 25.06.12

Archeologia

Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12

I Galli

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12

USA

saint-germain-en-laye

filadelfia

Il Museo d’Archeologia nazionale e i Galli dal XIX al XXI secolo

Maya 2012: signori del tempo University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13

Musée d’Archéologie nationale fino al 04.09.12 Strasburgo

new york

Testimonianze di viaggio

100 000 anni di circolazione dell’uomo in Alsazia Musée Archéologique fino al 28.05.12

Un arte dell’illusione

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 17.06.12

L’alba dell’arte egiziana

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

The Metropolitan Museum of Art fino al 05.08.12

Riproduzione dell’affresco con scena di taurocatapsia dal Palazzo di Cnosso.

Germania halle

Pompei, Nola, Ercolano

Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 26.08.12 (prorogata)

In alto: fibula polilobata con inserti di granati. Età merovingia.

a r c h e o 21


scavi tas-silg

tas-silg I millenni del tempio

Sulla costa sud-orientale di Malta sorgono le vestigia di un grande santuario le cui radici affondano nella piú antica preistoria dell’isola. La lunghissima vita del complesso – fu frequentato da Fenici, Cartaginesi e Bizantini – viene da molti decenni indagata da una missione archeologica italiana. Ne presentiamo i risultati piú recenti, insieme all’annuncio di una scoperta davvero singolare… 24 a r c h e o


contributi di Maria Giulia Amadasi Guzzo, Francesca Bonzano, Alberto Cazzella, Werner Mayer, Maurizio Moscoloni, Florinda Notarstefano, Anthony Pace, Claudia Perassi, Danila Piacentini, Giulia Recchia, Maria Pia Rossignani, Marco Sannazaro, Grazia Semeraro

N

el 1962 Michelangelo Cagiano de Azevedo, docente presso l’Università Cattolica di Milano, svolse – su invito delle autorità maltesi e italiane – una ricognizione mirata a verificare le potenzialità archeologiche di età storica dell’arcipelago maltese, fino a quel momento noto, soprattutto, per i suoi straordi-

nari complessi megalitici. Nell’anno successivo, a opera di Sabatino Moscati, allora direttore dell’Istituto di Studi del Vicino Oriente dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» e dello stesso Cagiano de Azevedo, fu istituita la Missione Archeologica Italiana che, fra il 1963 e il 1970, indagò a Malta i siti di Tas-Silg e di San Pawl Milqi e, nell’isola di Gozo, il promontorio di Ras-il-Wardija. Il significato storico dei complessi indagati e i loro orizzonti cronologici vennero compresi allora: TasSilg, il luogo di culto frequentato nell’arco di tre millenni da genti mediterranee; la villa-fattoria di San Pawl Milqi, le cui fasi insediative interessano un arco di tempo

Nella pagina accanto: l’area archeologica di Tas-Silg, scavata dalla Missione Italiana a Malta. Il complesso megalitico, il cui primo impianto risale al Neolitico Tardo (III mill. a.C.), fu sede di un luogo di culto frequentato fino in età storica, quando divenne un importante santuario fenicio-punico dedicato alla dea Astarte, che, in epoca bizantina, fu trasformato in una chiesa dotata di battistero. In basso: ricostruzione virtuale dei «templi» I e II e dei vani subito a nord del santuario Neolitico Tardo. L’articolato complesso cultuale era costituito da quattro templi megalitici e vari ambienti annessi a pianta quadrangolare.

a r c h e o 25


scavi tas-silg Ramla Bay

Gozo

Xaghra

Kercem Ras-il-Wardija Xlendi

Tas-Silg

Marsalforn

Victoria

Marsaxlokk

St. George's Bay

Ggantija

Xewkija

Marsaxlokk Bay

Pretty Bay

Mgarr Cominotto

Tumbrell Point

Borg in-Nadur

Delimara Point

Comino

N 0

Mellieha Bay

fra il III secolo a. C. e la tarda età imperiale; il santuario a terrazze di Gozo, di chiara impostazione ellenistica. Alla sospensione delle attività sul campo è seguito un lungo momento di analisi dei dati acquisiti, con riflessioni concentrate in particolare sulle evidenze di Tas-Silg, a opera di Antonia Ciasca, che ha diretto la Missione fino al 2001, anno della sua scomparsa, e Maria Giulia Amadasi. Le indagini sono riprese nel 1995, con una équipe ampliata e un nuovo progetto di ricerca a lungo termine: la Missione, attualmente diretta da Maria Pia Rossignani, è ora costituita da diverse unità: dell’Università di Roma «La Sapienza» (responsabili Maria Giulia Amadasi per le ricerche epigrafiche, Alberto Cazzella per quelle di ambito preistorico); dell’Università del Salento (responsabile Grazia Semeraro), dell’Università di Foggia (responsabile Giulia Recchia); dell’Università Cattolica di Milano (responsabile Maria Pia Rossignani). Dopo numerose pubblicazioni parziali, i componenti della Missione stanno lavorando all’edizione di un’opera complessiva, che verrà realizzata entro il prossimo anno e che presenterà i dati sia dei vecchi che dei nuovi scavi: in questa sede vengono anticipate le novità piú significative prodotte dalle indagini e dalle riflessioni piú recenti, che completano quanto già illustrato in Archeo n. 233, luglio 2004. Maria Pia Rossignani 26 a r c h e o

Melliena

Ras il Qawra

San Paul’s Bay

Salina Bay

San Pawl Milqi

Ghain Tuffieha Bay Ras ir-Raheb

1 Km

Mgarr

Gharghur

Zebbieq Skorba

Naxxar Mosta

Bingemma

Malta

Bahrija

Birkirkara

Attard

Ghajn Klieb

Mdina

Rabat b

Marsamxett Harbour

San Gwann

Zebbug

Qormi

Dingli Siggiewi

Marsa Paola Luga

Mqabba Qrendi

Mnajdra

Valletta V

Grand Harbour

Vittoriosa Hal Saflieni Cospicua

Tarxien Marsascala Tas-Silg Marsaxlokk

Safi

Borg in-Nadur Birzebugga Hagar Qim Zurrieg Marsaxlokk Tal Bakkari Hal Far Bay

0

4 Km

Qui sopra: carta dell’arcipelago maltese con, in evidenza, i siti indagati dalla Missione Archeologica Italiana – Tas-Silg e San Pawl Milqi a Malta, e Ras-ilWardija a Gozo –, nonché i principali insediamenti a oggi noti. Nel riquadro in alto, la baia di Marsaxlokk, principale porto antico dell’isola, con il posizionamento del santuario di Tas-Silg. Nella pagina accanto: una veduta dal santuario di Tas-Silg verso est.

La storia del complesso cultuale si dipana per oltre tre millenni, dal Neolitico all’età bizantina


Un grande santuario al centro del Mediterraneo

I

l complesso monumentale, costruito su un basso rilievo che domina l’ampia baia di Marsaxlokk, si segnala per la sua lunghissima storia, che si dipana per piú di tre millenni, dalla preistoria all’età bizantina. L’imponente corpus epigrafico prova che in età storica il santuario fu dedicato ad Astarte, successivamente assimilata a Hera. È dunque questo il fanum Iunonis depredato da Verre, evocato nelle arringhe di Cicerone (Verr. II, 4 e 5), che lo descrive come edificato su un promontorio e lo dice «da sempre cosí venerato che non solo rimase sempre sacro e inviolato durante le guerre puniche (...), ma anche durante le scorrerie di questa moltitudine di pirati» (Verr. II, 4, 103-104). Ed è questo lo hieròn di Hera citato nella Geografia di Tolomeo, che a Malta segnala la presenza di un secondo tempio, dedicato a Eracle, in luogo distinto dal primo (Ptol. IV, 3,13). La ricostruzione della fisionomia del santuario nei diversi periodi storici è ostacolata dalle ripetute trasformazioni, amplificate dalla persistenza d’uso degli spazi e da rifacimenti in molti casi risolti con la sovrapposizione di strutture. Questo accentuato conservatorismo è uno degli aspetti piú interessanti del sito, ma ha reso esiguo lo spessore del deposito archeologico, soprattutto nella parte centrale del complesso, a piú forte valore sacrale. Ulteriore ostacolo alla comprensione sono i ripetuti episodi di spoliazione, protrattisi fino al XIX secolo, che han-

L’isola, dai primordi all’epoca bizantina Età Fase Data

Siti ed eventi piú importanti

Miocene Pleistocene

20 000 000 5 000 000 100 000

Formazione delle rocce. Malta diventa un’isola. Fauna caratterizzata da nanismo.

Neolitico Ghar Dalam Grey Skorba Red Skorba

5000 a.C.

Primi insediamenti e pratica dell’agricoltura.

Neolitico Zebbug Tardo Mgarr Ggantija Saflieni Tarxien

4000

Tombe ipogeiche.

3600

Primi complessi templari.

3000

Massimo sviluppo dei «templi».

Geologica

Età del Bronzo Thermi Ware Tarxien Cemetery Borg in-Nadur Bahrija

2300 2100 1500 1050

Età fenicio- punica

Fenici Cartaginesi

dalla fine dell’VIII sec. a.C.

Necropoli; attività commerciale. Trasformazione del «tempio» di Tas-Silg nel santuario di Astarte. Necropoli.

Età romana

Repubblica Impero

dal 218 a.C.

Fondazione di città. Costruzione di ville e terme; necropoli.

Cremazione; diffusione della metallurgia. Villaggi fortificati e segni del passaggio di carri.

Età IV-VII sec. d.C. Catacombe; necropoli; paleocristiana insediamenti. e bizantina


scavi tas-silg N

Planimetria generale del santuario megalitico con, in evidenza, i resti archeologici relativi alle diverse fasi, dalla preistoria all’età bizantina.

no inciso profondamente sullo stato di conservazione di resti murari e pavimentali, determinando ampie trincee di asportazione. Una strada moderna taglia fittiziamente in due parti il complesso sacro; a partire dal 1996 le indagini riprese dalla Missione Italiana si sono concentrate nell’area a nord della strada. Il santuario di età storica sfrutta la parte piú elevata di un vasto luogo di culto, il cui primo impianto risale al Neolitico Tardo. Del complesso preistorico, costituito da diverse unità, sopravvissero solo un grande lobo dalla facciata curvilinea e vani absidati interni, disposto con orientamento E-O nel punto piú elevato della collina: tale lobo rimase nei secoli l’edificio templare, sul quale era imperniata l’organizzazione spaziale del santuario. Gli scavi hanno provato che la frequentazione del luogo di culto da parte di genti fenicie iniziò negli ultimi decenni dell’VIII secolo 28 a r c h e o

a.C.; a partire da questo momento si interviene nel vasto spazio scoperto antistante la facciata del tempio, destinato alle cerimonie e ai riti della comunità. Tale spazio viene recintato: fori per l’alloggiamento di perni, quasi certamente metallici, posti a distanze regolari, circoscrivono un’area quadrangolare, secondo le linee che saranno poi rispettate nelle successive ristrutturazioni. In asse con l’ingresso principale viene messo in opera un altare, costituito da un’ampia lastra calcarea incassata nella roccia alla quale, sul lato rivolto verso il tempio, erano collegati tre elementi infissi, identificabili con la triade betilica, con chiari riferimenti al simbolismo religioso del Vicino Oriente. Consistenti tracce di fuoco sulla superficie segnalano che l’altare era destinato ai sacrifici cruenti, mentre alle offerte liquide era adibita una grossa scheggia di roccia con

strutture preistoriche non più visibili in epoca storica strutture preistoriche rimaste visibili periodo arcaico , prima e media età ellenistica periodo tardo - ellenistico periodo bizantino

Nella pagina accanto, in basso: proposta ricostruttiva dell’altare a tavola su gradini sorto nel IV sec. a.C. su un sacello di epoca precedente, probabilmente destinato a custodire la statua di culto del tempio di epoca fenicia. In alto: uno dei cippi che attorniavano l’altare, sepolto sotto le pavimentazioni successive.


ad astarte, «signora di malta»

In alto: l’area di scavo interessata dalle indagini della Missione Italiana, concentrate, dal 1996, a nord della strada moderna che taglia in due parti il complesso sacro.

ampio foro passante, collocata in corrispondenza dell’asse centrale dell’altare. Un sacello, destinato verosimilmente a custodire la statua di culto, viene costruito quasi al centro dell’area: aperto verso est, cioè verso il tempio, era costituito da grandi blocchi parallelepipedi, ritagliati dai monoliti preistorici. La struttura richiama l’edicoletta votiva in calcare, che reca al suo interno l’immagine di una divinità femminile, rinvenuta nel 1970. L’esistenza di una statua femminile – di grandi dimensioni e forse crisoelefantina – è suggerita da un orecchio in avorio, alto 6,4 cm, con foro per l’aggancio dell’orecchino e tassello per l’inserzione. Nella sua invettiva contro Verre, Cicerone ricordava «la grande quantità di avorio e i molti ornamenti» conservati nel santuario (Verr. II, 4, 103-104). Nel corso del IV secolo il sacello venne rasato e sui blocchi del filare residuo fu costruito un secondo altare, ma di diversa tipologia: si tratta ora di un altare a tavola, soprelevato a r c h e o 29


scavi tas-silg

su pochi gradini, al quale era connesso il sostegno della trapeza per le offerte. La trasformazione del sacello in altare è preceduta da un rito di «rifondazione»: due depositi votivi, del tutto simili fra loro, sono stati individuati sul piano di attesa dei blocchi, nei quali vennero praticate cavità adatte ad accogliere una coppetta in ceramica coperta da una coppetta analoga, rovesciata. Le coppette, di fabbricazione locale e databili entro il IV secolo a.C., contenevano in un caso materiale organico, nel secondo un anello in bronzo frammentario con castone ovale e un elemento in ferro, deformato dalla corrosione, di incerta funzione. Gli elementi lapidei riconducibili al nuovo altare sono blocchi della zoccolatura e della cimasa, di sagome troppo semplificate per poter essere datati con precisione nell’arco di tempo compreso fra il IV e gli inizi del II secolo a.C.; sul listello di coronamento della cimasa è incisa una iscrizione dedicatoria 30 a r c h e o

(«alla signora Astarte di Malta»), purtroppo mutila, per la quale è stata proposta una datazione fra il IV e il III secolo a.C. La struttura dovette rimanere a lungo in vita, fino al tempo dell’utilizzo dell’area sacra per il culto cristiano, quando venne demolita e i suoi elementi furono reimpiegati nel recinto presbiteriale della chiesa bizantina. Sempre nel IV secolo la recinzione dello spazio sacrificale fu sostituita da una struttura a blocchi, e la superficie accidentata della roccia trasformata in piano orizzontale omogeneo con riporti di terra mista a polvere di calcare. Cippi, stele, apprestamenti votivi erano disposti in file molto fitte e prossime all’altare, in modo non dissimile da quanto attestato nel santuario urbano di Metaponto, dove il fenomeno, iniziato alla fine del VII, sembra protrarsi per tutto il IV secolo a.C. La consuetudine di innalzare ex voto lapidei di forme e natura diversa

In alto: lo spazio sacrificale del santuario; in rosso, la fase documentata nel VII-VI sec. a.C.; in azzurro, la fase relativa al IV sec. a.C., quando la recinzione dell’area fu sostituita da una struttura a blocchi.


nelle aree a cielo aperto, presso il luogo dove veniva celebrato il sacrificio, è peraltro molto antica e accomuna tradizioni culturali differenti, a iniziare da quella feniciopunica. La costruzione del nuovo altare non comportò la dismissione del precedente che, con alcune modifiche, rimase funzionante e in qualche modo enfatizzato, perché inquadrato da due ante murarie concluse da pilastri con capitelli a doppia gola egizia. Il sacello sostituto dal nuovo altare fu trasferito poco lontano. La presenza contemporanea di due altari, con forme che possono trovare confronti nell’area culturale grecoellenistica, da un lato allude a rituali di sacrificio diversificati, dall’altro segnala trasformazioni nelle pratiche cultuali con l’immissione di elementi allogeni. Nella stessa fascia settentrionale del santuario, molto

prossima a una cisterna d’acqua, si trova un’ampia vasca quadrangolare, foderata all’interno da malta idraulica. Il particolare di una ricercata balaustra suggerisce che la vasca fosse destinata a riti specifici, come il bagno della statua, attestato dalle fonti letterarie greche, soprattutto a proposito dei santuari dedicati a Hera, divinità a cui, in età ellenistica, viene assimilata l’Astarte venerata a Tas-Silg. Ma se è vero che il rituale ha origini orientali e riconduce a culti pre-ellenici, è anche possibile che una funzione analoga fosse precedentemente assolta dal grande bacino monolitico, pertinente al vicino complesso preistorico. Le strutture di accesso, sul lato occidentale dello spazio sacrificale, sono di difficile comprensione, sia perché ricoperte dagli interventi successivi, sia perché ampiamente

asportate in epoca moderna. Un residuo stratigrafico fortunosamente conservato, oltre che fornire importanti elementi cronologici sulle fasi di frequentazione del luogo sacro, conservava la stesura di un finissimo cocciopesto pavimentale, con una inflessione concava, che suggeriva la presenza di un bacino, assimilabile a quelli posti all’ingresso dei santuari per segnare il passaggio fra lo spazio profano e quello sacro. A partire dal IV secolo, dunque, sembrano moltiplicarsi gli indizi di una immissione di elementi che interagiscono con i caratteri punici, sia nelle pratiche rituali che nel volto esteriore del monumento, questi ultimi documentati dalla giustapposizione di ordini architettonici diversi: vero crocevia sulle rotte marittime, l’arcipelago maltese dovette aprirsi agli scambi culturali che costituiscono un tratto qualifi-

Il santuario ellenistico Pianta ricostruttiva dell’area centrale del santuario agli inizi del I sec. a.C. A quest’epoca risale l’ultima importante ristrutturazione dell’edificio, probabilmente dedicato alla dea Hera, assimilata con Astarte, prima dei radicali interventi di età bizantina. Una corte-peristilio pavimentata da lastre di calcare e circondata da portici viene realizzata nell’area antistante la facciata del tempio neolitico, coincidente con l’antico spazio sacrificale. a r c h e o 31


scavi tas-silg cante dell’area mediterranea in età ellenistica. Agli inizi del I secolo a.C. è possibile datare, su basi stratigrafiche, l’ultima vasta ristrutturazione che plasma il volto del monumento, consegnandolo pressoché immutato agli interventi del periodo bizantino. Mentre l’intera area del santuario viene racchiusa da un muro di recinzione, che determina la dismissione dei vani cultuali settentrionali, nello spazio antistante la facciata del tempio viene realizzata una corte-peristilio, circondata da portici sui quattro lati. L’antico spazio sacrificale antistante la facciata templare coincide ora con la corte, pavimentata da lastre di calcare, e questo comporta la totale estirpazione dei cippi e degli elementi votivi che attorniavano l’altare a tavola. Rimangono in vita solo quest’ultimo e il sacello, mentre una sorta di «segnaletica orizzontale» consente di perpetuare la memoria dell’altare arcaico e delle ante, evidentemente considerati un insieme venerabile: la posizione dell’altare è segnalata da una lastra in calcare di colore e natura diversi da quello in cui sono realizzati gli elementi del lastricato; le ante, rasate, rimangono visibili nella stesura della pavimentazione. La corte-peristilio realizzata a TasSilg si inserisce nel fenomeno che in età ellenistica vede il rinnovamento del volto monumentale dei piú celebri luoghi di culto del Mediterraneo: i committenti sono i sovrani o i personaggi dell’aristocrazia o, spesso, i rappresentanti dei ceti emergenti, le cui fortune si basavano sui proventi del commercio, soprattutto marittimo. Ma, mentre nei casi conosciuti la creazione della corte porticata si accompagna a una ricostruzione in forme «moderne» del tempio, a Tas-Silg questo non avviene. Il rispetto per la lunga storia del luogo di culto dovette consigliare di non trasformare l’edificio templare, ma di limitarsi a enfatizzarne l’aspetto e a racchiuderlo in una cornice. 32 a r c h e o

Fonti archeologiche e letterarie attestano che, dalla fine del III secolo a.C. – nello scenario mediterraneo ormai controllato politicamente ed economicamente da Roma –, l’arcipelago maltese rivestí un grande interesse per la classe dei mercatores e vide una radicale trasformazione della sua economia; è quindi logico ipotizzare che le innovazioni architettoniche nel santuario vadano attribuite agli esponenti del ceto che partecipò al rinnovamento della società dell’isola, uno dei quali è certamente da riconoscere nel proprietario della cosiddetta Nella pagina accanto: Domus di Rabat. rilievo della porzione del Dopo un limitato ma significativo santuario del Neolitico intervento di età augustea, cessaTardo finora messa in luce no le operazioni edilizie di vasta e delle strutture dell’età del portata, anche se una rilevante Bronzo; il colore piú chiaro quantità di reperti di età medio e indica le ipotesi ricostruttive tardo imperiale attesta una contidell’andamento di alcuni nuità di frequentazione del luogo degli edifici megalitici. di culto. È possibile che l’interesse È inoltre segnalato il si sposti ora sul santuario urbano, punto di rinvenimento del quello di Apollo a Melita (l’odiercrescente lunare in agata con iscrizione cuneiforme na Mdina/Rabat), a proposito del (vedi a pp. 34-35). quale fonti epigrafiche attestano Nella foto in alto: sulla cospicui rifacimenti nel corso del sinistra l’ambiente M, II secolo d.C., a opera di un percaratterizzato dal lungo sonaggio di cui non conosciamo «altare» megalitico il nome, ma che viene definito addossato alla parete primus omnium melitensium. curvilinea che delimita In età bizantina nuovi interventi l’abside settentrionale del incidono sul volto del santua«tempio» IV. Sulla destra, rio pagano e, mantenendone le il corridoio F che conduce componenti, lo adattano al culto al «tempio» IV, di dimensioni cristiano. uguali o maggiori al «tempio» I. Maria Pia Rossignani


dal neolitico all’età del ferro

agata

muro della tarda età del bronzo

I

recenti scavi volti all’esplorazione dei livelli e delle strutture di epoca preistorica (tra gli inizi del III e gli inizi del I millennio a.C.) a Tas-Silg hanno fortemente modificato il quadro del santuario megalitico del Neolitico Tardo che si aveva fino a non molti anni fa. La ricostruzione dell’impianto originario proposta a suo tempo da Antonia Ciasca per il «tempio» megalitico già noto dalle ricerche degli anni Sessanta, con due coppie di absidi contrapposte, organizzate, come avviene anche in altri contesti sacri contemporanei a Malta, lungo un asse centrale, si è rivelata estremamente accurata, ma nuovi dati si sono aggiunti. Per quanto riguarda questo edificio («tempio» I), si sono definite meglio alcune caratteristiche, come l’esistenza di un secondo accesso verso est, accanto al quale sono state messe in luce altre strutture e spazi aperti, che fanno pensare che qui sorgesse, durante il III millennio a.C, un grande centro di culto del Neolitico Tardo. Sono state indi-

entrata orientale : restauro dell ’ età del bronzo

A sinistra: il dettaglio dell’ambiente A con i due «altari».

In alto: l’ortostato che delimita a ovest l’ambiente M con la piccola apertura quadrangolare modanata, il cosiddetto oracle hole (nicchia oracolare) forse utilizzato per mettere in comunicazione i fedeli con il «sacerdote». a r c h e o 33


scavi tas-silg un messaggio dalla terra dei due fiumi Fra i reperti trovati nell’area del santuario spicca il piccolo frammento di agata, originariamente a forma di falce di luna, che era stato utilizzato come dono votivo a una divinità babilonese. Sulla superficie sono incise sette righe, in minuscoli caratteri cuneiformi, che formano un’iscrizione con cui un gruppo di persone del ceto medio – forse artigiani – di Nippur dedica l’oggetto al proprio dio poliade (cioè protettore della città). L’iscrizione, databile tra 1330 e 1230 circa a.C., recita: [Un’imm]agine di Sîn (= il dio-luna), il signore dalla corona, il pu[ro]….. 2 Akhu-da[.., ….. 2 Ligdeshshir [….. Jamu, servo-[del-palazzo (= costruttore edile), ….. Iddin-Shamash, Sil[li-ND …..

viduate parti di altri due «templi» minori (II e III) e due absidi contrapposte di un probabile ulteriore «tempio» (IV) di dimensioni pari, se non maggiori, del primo. Il «tempio» IV fu distrutto in una fase finale del Neolitico Tardo da un incendio che non sembra attribuibile a un episodio bellico. Tale evento distruttivo ha consentito la conservazione di numerosi elementi carbonizzati, verosimilmente relativi al crollo del tetto, che, almeno nelle absidi, fu dunque realizzato con un’intelaiatura in legno, destinata a supportare elementi di copertura costituiti da argilla mista a calcare sbriciolato fortemente compattata (localmente denominata torba). Questo rinvenimento ci fornisce quindi una nuova informazione su un problema ampiamente discusso in relazione ai templi megalitici, quello del sistema di copertura. All’interno dell’abside meridionale del «tempio» IV, l’unica per ora indagata fino al piano di calpestio originale, si sono conservati sia alcuni vasi rotti in posto, sia tre dischi di pietra, verosimilmente connessi con le attività rituali. Questi elementi sono documentati anche in altri complessi megalitici dell’arcipelago, ma è la prima volta che sono stati trovati nel loro contesto d’uso. 34 a r c h e o

al piú fort[e dei grandi dèi, Ninurta,] hanno de[dicato e deposto nel tempio tale (?).] Non sappiamo quando, come e perché questo oggetto, a quel tempo probabilmente ancora completo (è stato calcolato che la sua larghezza massima doveva essere di 7,7 cm), sia arrivato a Malta. In ogni caso, poiché un dono votivo appartiene al dio e quindi è un elemento sacro, non può essere arrivato semplicemente come oggetto di commercio: all’origine è da supporre che ci sia stato l’atto sacrilego di un ladro (comune o altolocato) che lo portò via dal tempio. Il fatto che il frammento sia stato trovato nel santuario di Tas-Silg sembra indicare che il suo valore religioso, anche senza poter leggere l’iscrizione, venisse percepito e onorato. Werner Mayer

Lo spazio fra i due templi principali I e IV era occupato da alcuni ambienti, sia aperti che coperti, poco attestati negli altri santuari dell’isola. Per le loro caratteristiche essi appaiono ugualmente connessi con attività di culto, ma si distaccano nettamente dai «templi» per forma e dimensioni: hanno infatti una pianta quadrangolare, piuttosto che curvilinea, con una certa articolazione dello spazio interno. Uno di questi ambienti (M) fu distrutto dal medesimo incendio che interessò il «tempio» IV, e anche in questo caso sul piano di calpestio erano conservati alcuni dischi in pietra. Sul suo lato orientale è conservato un lungo blocco oriz-

In alto: il frammento in agata muschiata con iscrizione cuneiforme, probabilmente riferibile a un crescente lunare, rinvenuto al limite nord dell’area del santuario del Neolitico Tardo, nel corso della campagna di scavi del 2010. Nella pagina accanto: la scalinata megalitica adiacente l’accesso orientale del «tempio» I del santuario del Neolitico Tardo (vedi nella pianta a p. 33, in corrispondenza della lettera A).


Il frammento di agata è stato rinvenuto a Tas-Silg nella campagna di scavi 2010, nel livello di preparazione di un pavimento riferibile al IV-III secolo a.C., quando ormai aveva perso ogni significato simbolico o di bene di prestigio. È quindi probabile che l’oggetto integro sia arrivato a Malta o attraverso i traffici marittimi fenici nei secoli immediatamente precedenti o, viceversa, poco dopo la sua dedica in un tempio di Nippur, forse asportato in occasione di un saccheggio e trasportato nel Mediterraneo centrale dai Micenei/Ciprioti che organizzarono spedizioni commerciali verso tale area fino all’XI secolo a.C.: in particolare, in Sicilia non mancano testimonianze di rapporti con il Mediterraneo orientale negli ultimi secoli del II millennio, in un periodo in cui non era piú la ceramica tornita dipinta il principale bene richiesto dai gruppi locali. Anthony Pace, Giulia Recchia

zontale sostenuto da due elementi verticali sempre in pietra, analogo a quelli che nei «templi» megalitici vengono in genere definiti «altari», addossato alla parete curvilinea che delimita l’abside settentrionale del «tempio» IV. Sotto questo «altare», al centro, vi è un foro nella parete che mette in comunicazione l’ambiente con l’adiacente abside. Uno degli ortostati che delimitano l’ambiente sul lato opposto, a ovest, è caratterizzato da una piccola apertura quadrangolare modanata, che rientra nei cosiddetti oracle holes, attestati anche in altri templi, per esempio in quello di Mnajdra. Come indica il nome evocativo che è stato loro assegnato, si è ipotizzato che queste piccole aperture servissero a mettere in comunicazione un «sacerdote» e uno o piú fedeli, eventualmente per pronunciare «oracoli». La presenza dell’altare e dei fori contraddistingue anche questo ambiente, seppure apparentemente esterno al «tempio», come un spazio dedicato alle attività di culto. Il corridoio (F) che conduce al «tempio» IV è lastricato con ampie lastre megalitiche, una delle quali, purtroppo danneggiata dalle attività di spoliazione del sito, è caratterizzata da una concavità che costituisce una sorta di bacino, presumibil-

A destra: Anthony Pace, Soprintendente ai Beni Culturali di Malta, con in mano il frammento di agata.

a r c h e o 35


scavi tas-silg

Ipotesi ricostruttiva del sistema di copertura delle absidi del santuario megalitico del Neolitico Tardo, realizzato con un’intelaiatura in legno rivestita da argilla mista a calcare. La ricostruzione è stata effettuata sulla base degli elementi carbonizzati, relativi al crollo del tetto del «tempio» IV, rinvenuti durante gli scavi.

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mente connesso con un’ulteriore azione rituale (purificazione?). A sud di tale corridoio è presente un altro ambiente quadrangolare (A), preceduto da un’anticamera (B), caratterizzato da due blocchi orizzontali direttamente poggiati a terra, anch’essi interpretabili come «altari». Adiacente a questo, è stata posta in luce una piattaforma rialzata, alla quale si accedeva per mezzo di un’ampia scalinata che si originava presso l’ingresso orientale del «tempio» I. Si può pensare che anche tale piattaforma, da cui si domina lo spiazzo antistante l’accesso est al «tempio» I, fosse connessa con

una precisa attività cultuale, anche se non è possibile identificarla. Tutta quest’area del santuario, che possiamo definire «centrale», compreso il «tempio» IV, sembra essere stata delimitata verso nord da un muro realizzato con grandi lastre verticali poste alternativamente di piatto e di taglio, secondo una tecnica ben documentata in altri santuari tardo-neolitici maltesi.

Il Bronzo antico Verso la fine del Neolitico Tardo, forse in concomitanza con l’incendio che interessò il tempio Nord e l’ambiente adiacente, si verificarono


il contributo delle iscrizioni Fin dal primo anno di attività, lo scavo di Tas-Silg ha restituito documenti scritti – su ceramica, pietra, osso, avorio, nonché su blocchi architettonici – che hanno permesso di ricondurre il luogo di culto al santuario di Astarte, identificata poi con Era-Giunone. L’epiteto di Astarte, ’NN, il nome fenicio di Malta, dimostra la natura sovracittadina del santuario. La presenza del culto di una divinità maschile simile a Melqart, Milk‘ashtart, è attestata poi da un’iscrizione frammentaria su una coppetta, databile al IV-III secolo a.C.: al momento, però, non è possibile affermare se il culto di questo dio, assimilato in Occidente a Ercole e noto nel Vicino Oriente fin dal II millennio a.C., fosse presente nel santuario accanto a quello di Astarte. Le iscrizioni incise su pietra sono dediche alla dea fenicia, eseguite tra il V-IV e il II-I secolo a.C. Mostrano che, durante la fase ellenistico-repubblicana del santuario, la lingua e la scrittura fenicia erano ancora usate, accanto al greco che man mano le sostituí (a Tas-Silg l’uso del latino è testimoniato da un solo esempio). Le dediche erano incise su elementi architettonici pertinenti al tempio, una in particolare – purtroppo frammentaria – si trova sulla cimasa dell’altare US 4186: un elemento cultuale importante era stato dedicato forse da un cittadino facoltoso o da un gruppo di cittadini, secondo una pratica attestata da altre dediche in fenicio sia a Cartagine, sia in altre città fenicie. Ad Astarte di Malta si offrivano doni pregiati in avorio, statue o altri oggetti: lo ricorda anche Cicerone, la cui testimonianza ha trovato riscontro nelle iscrizioni, tra cui quella su una placchetta, recuperata in due frammenti, con la dedica di una «statua femminile» (SMLT in fenicio) ad Astarte di Malta. Altri avori iscritti mostrano l’abbondanza delle suppellettili in questo materiale. Una lastrina nomina vari personaggi, tra cui uno scriba, che poteva – sulla base di un’espressione contenuta nel testo stesso – lavorare nel santuario; le funzioni, anche economiche, proprie dei santuari richiedevano la presenza di scribi professionisti; lo attesta un’iscrizione rinvenuta a KitionBamboula (Cipro), che, in rapporto con un tempio di Astarte, registra anche il pagamento a uno scriba.

In alto: coppetta con iscrizione frammentaria recante il nome del dio Milk‘ashtart. IV-III sec. a.C. circa. In basso: placchetta frammentaria in avorio con dedica di una «statua femminile» ad Astarte di Malta.

In basso: placchetta frammentaria in avorio con la menzione di uno «scriba » forse impiegato nel santuario.

Le iscrizioni e sigle incise su recipienti in ceramica riportano gli atti di devozione e di culto quotidiani sia dei fedeli, sia del personale del santuario. I recipienti in questione sono perlopiú pentole, piatti, tazze, tazzine con segni dell’alfabeto fenicio incisi prima della cottura (databili dal IV fino al II-I secolo a.C. circa). Le iscrizioni piú comuni hanno l’espressione L‘ŠTRT «di/per Astarte» o la sigla LT, probabile abbreviazione della prima, e sono in gran parte incise su pentole. La loro funzione si può spiegare con l’ipotesi, già formulata da Antonia Ciasca, che esse fossero adibite a pasti in comune tra gruppi di fedeli, le cui offerte erano state dedicate presso varie strutture e altari nella zona Nord del santuario. A dimostrazione del loro uso, si nota che le pentole in questione, quando conservano il fondo, presentano tracce evidenti di fuoco. Le loro dimensioni abbastanza esigue hanno indotto a supporre che nel santuario convenissero gruppetti familiari di circa quattro persone. Le funzioni del clero, qui come altrove in ambito fenicio-punico, non ci sono note dai testi rinvenuti. Sono però attestate categorie di recipienti riservati al luogo di culto e al suo personale. Si tratta di lucerne o di recipienti generalmente chiusi, di fattura piú accurata rispetto alle altre categorie di vasi iscritti, che presentano le iscrizioni «del santuario» (ŠMQDŠ) e «sacerdote» (KHN), «del sacerdote» (ŠKHN) o «del sacerdote di Astarte» (ŠKHN ‘ŠTRT). Si tratta verosimilmente di vasi riservati ad atti cultuali compiuti dal personale del santuario. Nessun santuario fenicio aveva finora rivelato una tale quantità di recipienti iscritti e il caso maltese, nella sua unicità, pone problemi (oltre a quello del significato di alcune sigle), riguardanti, per esempio, la ragione degli usi adottati, il luogo in cui si fabbricavano i vasi, il ceto sociale degli offerenti, la natura delle offerte. Alcuni di questi vanno oltre il compito e le capacità degli epigrafisti, il cui lavoro deve concorrere con quello degli altri specialisti. Maria Giulia Amadasi Guzzo, Danila Piacentini


scavi tas-silg la documentazione monetale Le prolungate campagne di scavo nel sito di Tas-Silg hanno portato alla luce una ragguardevole quantità di monete. Il loro interesse è dato dall’amplissimo ambito cronologico documentato, dai contesti di rinvenimento e dalla presenza di esemplari mai prima attestati sul territorio maltese. Il numerario antico risale alle diverse fasi storiche vissute dall’arcipelago, che vide l’alternarsi della dominazione di Cartagine, Roma e Bisanzio. Il periodo romano repubblicano si segnala soprattutto per gli esemplari battuti dalla locale zecca di Melita (datazione tradizionale: 211-15 a.C.). Si tratta, infatti, del piú consistente gruppo di monetazione melitense rinvenuto in attività archeologica

sulle isole maltesi. Le 39 monete appartengono a tutte le serie note, con una sola eccezione: l’emissione maggiormente attestata (11 esemplari) è quella caratterizzata dal soggetto del Tripode e dall’etnico in greco; sono presenti anche pezzi contromarcati e pezzi intenzionalmente dimezzati. L’età romano-imperiale è documentata, per le campagne condotte fra il 1963 e il 1970, da poco piú di venti monete, emesse tra la fine del I e il V secolo d.C., fra le quali sono anche due denarii, rispettivamente a nome di Faustina iunior diva e di Macrino. Oltre al numerario battuto dalla zecca di Roma, si sono rinvenuti anche esemplari coniati a Cartagine, Nicomedia e Cizico.

Un considerevole lotto di monete di epoca tardo-antica fu invece scoperto in seguito alla ripresa delle indagini nel fonte battesimale: consiste di 276 pezzi in rame, databili fra la metà del IV secolo e la riforma di Giustiniano I (538/539), ritrovati nel limo accumulato sotto alla lastra della vasca, con una concentrazione in corrispondenza del foro di scarico dell’acqua. La facies cronologica meglio rappresentata è il V secolo, alla quale sono riferibili poco piú di 100 pezzi. Tale deposito ha permesso anche di attestare, per la prima volta, la circolazione sul territorio maltese di monetazione protovandala e vandala, grazie al riconoscimento di tre nominali anonimi del valore di 4 nummi

Particolarmente interessante risulta il rinvenimento di un deposito monetale sotto il fonte battesimale dell’edificio cristiano anche alcuni crolli delle strutture megalitiche: entrambi gli eventi, contemporanei o meno, non diedero comunque luogo a restauri, facendo pensare a una situazione locale di crisi. Presumibilmente, agli effetti di tale crisi si sommarono quelli di un fenomeno che aveva origini lontane. Nella seconda metà del III millennio a.C. in gran parte delle aree del Mediterraneo centrale si intensificarono i rapporti di scambio, probabilmente anche con spostamenti di piccoli gruppi a partire dalle coste occidentali della Penisola balcanica e dal Peloponneso o dalle isole Ionie. Anche la Sicilia orientale e Malta furono interessate da questo fenomeno, forse a partire dal XXIII secolo a.C.: in particolare, per Malta questo ebbe come conseguenze una maggiore apertura verso le aree adiacenti e un incremento degli scambi. Al tempo stesso nell’arci38 a r c h e o

pelago avvennero importanti modificazioni nel contesto ideologico: non furono costruiti nuovi santuari megalitici, ma diversi di quelli esistenti mantennero un forte valore simbolico e furono riutilizzati nell’ambito di questo nuovo contesto. Il caso attualmente piú noto è quello del santuario di Tarxien, dove una necropoli a incinerazione fu ospitata in uno dei «templi». A Tas-Silg non si hanno indizi di pratiche funerarie analoghe; vi furono, invece, diversi interventi sulle strutture pre-esistenti nell’area centrale, con il riuso di alcuni spazi aperti e strutture, mentre la scala di accesso alla piattaforma perse la sua funzione, e vi fu realizzata sopra una grande piastra di cottura.

Il Bronzo medio e tardo e la prima età del Ferro Il processo di riutilizzazione degli spazi e delle strutture del santua-

Uno dei nominali anonimi del valore di 4 nummi, rinvenuti durante gli scavi nel fonte battesimale. Fine del V-primo trentennio del VI sec. d.C. Tali emissioni attestano la circolazione sul territorio maltese di monetazione vandala e protovandala.


(databili alla fine del V o al primo trentennio del VI secolo?), di 12 nummi anonimi con Victoria (prima metà del VI d.C.), di un nummus di Hilderich (523-530) e di un secondo di Gelimer (530-534). Lo studio stratigrafico del deposito indica che la sua formazione derivò dall’infiltrazione delle monete dal fonte sovrastante, nel quale erano state inizialmente gettate nel corso di riti legati al sacramento del battesimo. Di meno chiara spiegazione risulta invece la presenza di un tremisse di Costantino IV della zecca di Siracusa (670-674 circa) nel livello piú alto dello strato limoso. L’anomala deposizione di un solo nominale, per di piú aureo, induce a ipotizzare una diversa funzione

della moneta, forse connessa con la vita del fonte (riconsacrazione? sconsacrazione?). Atti di natura rituale dovettero essere anche all’origine del rinvenimento di monete nell’area del santuario (campagne 1963-1970). Se ne segnalò infatti la massima concentrazione nel settore nord-orientale del sito, con un significativo addensamento nell’area del cosiddetto «cortile 8», nella quale vennero individuati scarichi di materiale votivo. La documentazione numismatica successiva alla produzione antica è rappresentata da occasionali esemplari di emissione araba, dei Cavalieri di Malta e dei sovrani inglesi. Claudia Perassi

rio megalitico continuò anche nelle successive fasi della tarda età del Bronzo, corrispondente indicativamente alla seconda metà del II millennio a.C., e degli inizi dell’età del Ferro, riferibili ai primi secoli del I millennio a.C. In queste fasi gli interventi sulle strutture originali non furono meno rilevanti e diverse testimonianze indicano come gran parte di esse fossero comunque ancora in uso. È il caso, per esempio, del rifacimento della sistemazione dell’accesso orientale al «tempio» I , che del resto fu ancora a lungo riutilizzato a partire dai Fenici, o di alcuni ambienti in cui il deposito formatosi fu riscavato fino a raggiungere i piani pavimentali tardo-neolitici. Verso nord, al di là del probabile muro di recinzione tardoneolitico ne fu realizzato un altro, forse ugualmente per delimitare almeno l’area centrale del sito. Lo spazio di risulta formatosi fra questi due mur i settentr ionali sembra essere stato adibito ad attività specifiche, come la filatura e la tessitura. Anche il «tempio» IV appare riutilizzato fino agli inizi

dell’età del Ferro, ma in questo caso senza raggiungere i piani pavimentali originari. Qui sono stati rinvenuti due elementi che ci indicano quanto stretti dovessero essere i rapporti con la Sicilia: la ceramica dipinta cosiddetta piumata e una fibula ad arco serpeggiante, che si collocano nel periodo subito prima e subito dopo il 1000 a.C. Resta aperto il problema se nel lungo periodo che va dalla fine del Neolitico Tardo, ultimi secoli del III millennio a.C., alla riorganizzazione del santuario da parte dei Fenici, nell’VIII secolo a.C., il luogo abbia continuato ad avere una valenza prevalentemente simbolica o no: chi scrive propende per una risposta affermativa, anche ipotizzando che i Fenici scelsero proprio Tas-Silg come luogo di culto, non solo per la sua posizione dominante sulla baia di Marsaxlokk e per il buono stato di conservazione almeno del «tempio» I, ma anche in virtú di un preesistente culto locale di una certa notorietà. Alberto Cazzella, Maurizio Moscoloni, Giulia Recchia

Qui sotto: dritto e rovescio di una moneta di epoca romanorepubblicana, battuta dalla locale zecca di Melita.

In basso: tremisse in oro di Costantino IV (670-674 d.C. circa) coniato nella zecca di Siracusa, dal deposito del fonte battesimale.

a r c h e o 39


scavi tas-silg l’analisi dei residui organici Le indagini archeometriche per la caratterizzazione chimica dei residui organici eseguite su vasi provenienti dal santuario di Tas-Silg contribuiscono a ricostruire le pratiche cultuali legate alla preparazione dei pasti rituali e alle offerte di cibo alla divinità durante la fase ellenistica. Grazie a tecnologie come la Gas cromatografia con spettrometria di massa e la Spettroscopia a infrarossi, è stato possibile determinare l’origine dei prodotti naturali che erano stati preparati, serviti o consumati all’interno delle ceramiche. Le analisi hanno permesso di identificare in alcune pentole grassi di origine animale, riconducibili ad animali erbivori, mentre in un altro gruppo sono stati rintracciati acidi grassi insaturi, comunemente presenti nei tessuti di pesci o molluschi. In alcuni piattelli sono presenti prodotti di degradazione della cera d’api, che rimandano al miele, talvolta mescolati a grassi animali. I dati relativi alle sostanze organiche individuate nei contenitori ceramici si integrano perfettamente con le informazioni derivanti dalle analisi archeozoologiche.

I livelli di scarico che contenevano i resti delle attività praticate nel luogo di culto hanno restituito, oltre a moltissimi contenitori ceramici (pentole, piatti e coppe di varie dimensioni), un’enorme quantità di reperti faunistici. Si tratta perlopiú di pesci pregiati (tonni, orate), spine e gusci di ricci, molluschi, associati a resti di ovicaprini, bovini e piccoli mammiferi come i conigli, che dovevano essere preparati e consumati sul luogo. Oltre a confermare questo dato, le analisi sui residui organici nelle ceramiche sembrano indicare un utilizzo sporadico dei recipienti: i campioni analizzati sono caratterizzati, infatti, da concentrazioni piuttosto basse di sostanze organiche. Ciò avvalora l’ipotesi che i recipienti utilizzati per preparare, servire e consumare le offerte di cibo fossero strettamente riservati al culto (molti di essi recano incise iscrizioni fenicie ad Astarte) e che il loro utilizzo non fosse ripetuto nel tempo, ma limitato alla preparazione di singoli pasti, al termine dei quali il vaso veniva abbandonato o offerto alla divinità. Florinda Notarstefano

indagini nell’area settentrionale del santuario

L

a fascia settentrionale corrisponde a uno dei limiti del santuario di età repubblicana. Agli inizi del I secolo a.C., infatti, quando si realizza la vasta ristrutturazione che modifica profondamente l’aspetto della corte centrale, si interviene anche nella parte Nord, costruendo un muro di recinzione e un vano quadrangolare sopraelevato rispetto al piano del santuario, una sorta di «torre». Dal punto di vista geomorfologico l’area ha sempre rappresentato un limite naturale. I sondaggi piú profondi, infatti, hanno mostrato che la roccia di base presenta un andamento in pendio verso Nord. Nel corso del tempo il profilo originario del terreno è stato modificato dalla frequentazione dell’area centrale. Sulla roccia si sono cosí accumulati, fin dal periodo protostorico, scarichi di materiali derivanti da periodiche azioni di pulizia. Nel IV secolo a.C. si costruiscono alcuni edifici, in parte visibili al di sotto delle strutture piú tarde. Negli ultimi anni si sono realizzate in questa zona ricerche finalizzate a 40 a r c h e o

definire la successione cronologica degli edifici e a ricostruirne l’elevato. Nello scavo all’esterno del muro di recinzione sono venute alla luce fondazioni murarie da ricollegare al cosiddetto «altare 43», in parte scavato negli anni Sessanta, insieme al vicino «altare 38». Entrambi sono ora riferibili a un unico edificio, composto da due vani rettangolari. La presenza di frammenti di intonaco dipinto e di elementi di un pavimento suggerisce che il vano piú a nord fosse coperto, probabilmente con un tetto piano, mentre l’altro poteva essere aperto e svolgere le funzioni di una specie di piccola corte. Lo spazio esterno all’edificio

Ricostruzione tridimensionale dell’edificio del IV sec. a.C., composto da due ambienti rettangolari (i cosiddetti «altare 43» e «altare 38»).


torre

era pavimentato con lastre di calcare, ben conservate nella parte a Nord. Un intervento effettuato in corrispondenza della «torre» ha accertato che essa sorge al di sopra di una piú antica struttura. È possibile dunque cogliere anche in questa zona l’effetto delle profonde trasformazioni verificatesi nella fase repubblicana, cosa che, purtroppo, rende molto difficile la comprensione dell’assetto del santuario nelle fasi precedenti. È comunque evidente che gli edifici del IV secolo a.C. rispondevano a una logica di organizzazione dello spazio diversa, come mostrano i vari orientamenti delle strutture, forse perché costituivano il risultato di impianti realizzati in momenti differenti nella storia del santuario. Si può inoltre affermare che, fino al IV secolo, il santuario si estendesse al di là del limite che viene fissato nella ristrutturazione di età repubblicana. A Nord dell’edificio 43 iniziava un pendio degradante dolcemente verso l’avvallamento che circonda tuttora la collina del santuario. È molto probabile che in questa fase l’area sacra non presentasse un limite costruito, ma fosse

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definita dagli elementi naturali del paesaggio, come spesso accade nei luoghi di culto antichi. La ristrutturazione di età repubblicana comporta una notevole trasformazione anche del profilo geomorfologico della collina. Il pendio viene coperto da un ampio riporto di terreno, che crea un’area pianeggiante all’esterno del muro. La presenza di alcune buche agricole può essere interpretata come traccia della creazione di una sorta di giardino sacro, nel quale si coltivavano arbusti, probabilmente viti. Al muro di recinzione appare funzionalmente collegata la struttura in cui, fin dagli scavi degli anni Sessanta, è stata riconosciuta una torre. Si tratta di un edificio quadrangolare, diviso in due spazi pavimentati a lastre di calcare, molto ben conservate. La funzione di questo ambiente all’interno della struttura di recinzione sembra collegata alla possibilità di esercitare un controllo visivo sul territorio circostante. Si può pertanto affermare che le trasformazioni di età repubblicana disegnano un paesaggio sacro profondamente diverso, a riprova del ruolo di rilievo che il santuario

Planimetria generale del complesso di Tas-Silg con sovrapposizione dell’alzato dell’edificio rettangolare del IV sec. a.C., situato al limite nord dell’area, e l’indicazione della «torre» quadrangolare.

sembra giocare tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Un indizio della grande popolarità assunta dal culto in questo periodo è fornito dai numerosissimi materiali ceramici, rinvenuti prevalentemente in una serie di livelli di scarico accumulatisi a ridosso del muro, nell’area interna al santuario. Lo scavo ha permesso di riconoscere in questa stratificazione il risultato di resti di attività sacrificali svolte dai fedeli. Gli strati sono molto ricchi di materiali organici, prevalentemente resti faunistici e botanici, fra i quali si segnala la presenza consistente di pesci e molluschi. Nei contesti sacrificali si conserva l’attrezzatura utilizzata all’interno dei rituali praticati nel santuario. Oltre ai resti organici sono presenti pietre alterate dal fuoco, pertinenti a focolari, e numerosi frammenti di pentole recanti iscrizioni dedicatorie ad Astarte. È possibile riconoscere, grazie a questi elementi, la presenza di pratiche che prevedevano la preparazione, nel sito stesso del santuario, di pasti rituali basati sul consumo di parte degli animali sacrificati alla divinità. Grazia Semeraro a r c h e o 41


scavi tas-silg il fregio egittizzante Durante gli scavi degli anni Sessanta furono rinvenuti alcuni frammenti di fregio in marmo bianco a grana fine con soggetto egittizzante che trovano perfetta corrispondenza, sia per dimensioni che motivo iconografico, con una lastra di fregio conservata in una collezione privata di Zejtun (centro abitato poco distante da Tas-Silg), quasi certamente proveniente dal santuario. Grazie a questa è stato possibile ricostruire – almeno in parte – la successione degli elementi: un serpente posto di tre quarti e rivolto a destra, un elemento di separazione composito e desinente in un fiore di loto aperto, e infine un cobra (ureo) raffigurato frontalmente. La lastra di Zejtun è lacunosa sul lato destro, e questo impedisce di comprendere se fossero presenti ulteriori soggetti. Il serpente e l’ureo rappresentano SerapideAgathodaimon e Iside-Thermoutis nel loro aspetto zoomorfo: le due divinità, simbolo della coppia regale, sono spesso raffigurate su rilievi e monete di età imperiale, affrontate a elementi della sfera isiaca. Il gusto per l’iconografia egittizzante ebbe particolare fortuna all’inizio dell’età augustea, quando alcune ricchissime dimore private (tra cui quella di Augusto a Roma) furono decorate da complesse raffigurazioni pittoriche. All’inizio dell’età imperiale rimanda anche il confronto stilistico tra il fiore di loto del nostro fregio e quello rappresentato su un elemento di coronamento attribuibile a uno degli edifici minori legati al Mausoleo di Augusto. Alcune caratteristiche del fregio – alto 55 cm – consentono di proporne

A sinistra: riproduzione grafica della lastra di Zejtun con la sovrapposizione dei frammenti in marmo bianco rinvenuti nel corso degli scavi a Tas-Silg.

In basso a destra: la lastra con soggetto egittizzante, probabilmente proveniente dal santuario, conservata a Zejtun, piccolo centro nei pressi di Tas-Silg. Qui sotto: una proposta di collocazione del fregio in uno dei vani porticati del santuario di epoca ellenisticoromana.

la collocazione in una sede privilegiata, forse uno dei due vani che concludevano i bracci interni dei portici nord e sud affiancando il tempio, con una soluzione analoga a quella della cosiddetta aula del Colosso nel Foro di Augusto, a Roma. A tali vani potrebbero essere pertinenti anche i frammenti di capitelli corinzi, pure essi in marmo, inquadrabili cronologicamente nello stesso periodo. Francesca Bonzano


la chiesa cristiana

C

on l’avvento del cristianesimo non cessa la funzione sacrale dell’area, che accoglie una chiesa e un battistero; purtroppo non sappiamo quanto tempo trascorra tra l’abbandono del tempio antico e la costruzione dell’edificio cristiano, che era certamente in funzione in età bizantina, come testimonia anche qualche lacerto epigrafico. Le tracce conservate permettono di riconoscere una chiesa che sfruttava in maniera parassitaria le strutture ancora in piedi del complesso precedente e che venne costruita utilizzando quasi integralmente materiale di spoglio. Un impianto basilicale a tre navate occupò l’intera corte-peristilio. Si costruí un’abside in corrispondenza dell’accesso monumentale al tempio e il portico antistante venne adattato a presbiterio; questo accolse una mensa d’altare sorretta da un sostegno monolitico e un nuovo pavimento in lastre di pietra; lo spazio riservato al clero si espandeva anche nella navata centrale, dove venne realizzata una recinzione dotata di seggi utilizzando i blocchi dell’antico altare In alto: planimetria della chiesa a pianta basilicale, sicuramente in funzione in età bizantina, che sfruttò le preesistenti strutture dell’area sacra pagana. 1. vasca battesimale e circostante pavimento in opus sectile; 2. trincea di asportazione dell’abside; 3. incasso per il sostegno della mensa d’altare; 4. impronte delle colonne tra le navate; 5. recinzione liturgica nella navata centrale; 6. soglia dell’accesso all’edificio; 7. resti del muro perimetrale nord. A sinistra: monogramma di epoca bizantina, da Tas-Silg, inciso su un frammento di transenna che può essere sciolto con il nome proprio «Proto».

ellenistico. La porzione orientale della cella fu invece trasformata in battistero; qui, sfruttando un antico bacino scavato nella roccia, si realizzò un fonte quadrangolare, dotato di gradini laterali di accesso e rivestito di lastrine marmoree; lo spazio che lo circondava venne nobilitato dalla stesura di una pavimentazione a disegno geometrico in lastre bianche e grigie. Intorno alla chiesa si sviluppò un villaggio: una strada lastricata che fiancheggia il muro di fondo settentrionale del quadriportico ellenistico, mantenuto come elemento di recinzione della nuova area sacra, separava quest’ultima da un gruppo di abitazioni, le cui fasi di sviluppo sono ancora da definire, ma che pare restare vitale per tutto il Medioevo. Marco Sannazaro a r c h e o 43


micene

di Massimo Vidale

una trama rosso sangue

Oggi è una remota rocca nel Peloponneso nord-orientale, un tempo fu il cuore di una grande civiltà, per secoli pulsante tra l’Europa, l’Africa e il Vicino Oriente. Al suo nome si legano leggende antiche e moderne: da quella di Agamennone – condottiero della spedizione che sconfisse Troia – a quella di Heinrich Schliemann, il celebre archeologo tedesco che nella città cinta da mura ciclopiche esplorò i grandiosi circoli sepolcrali. Scoprendovi un tesoro di maschere d’oro ingenuamente (o forse no?) attribuite proprio ai mitici discendenti di Atreo…


N

el mito greco, Agamennone era figlio di Atreo, re di Micene. Insieme a Menelao, suo fratello, erano cresciuti con Egisto, figlio di Tieste, fratello gemello di Atreo. Dopo aver ucciso Atreo, Tieste lo sostituí sul trono di Micene; Agamennone e Menelao si recarono a Sparta. Qui Agamennone sposò Clitennestra, la figlia di Tindareo, re della città, dalla quale ebbe quattro figli: Ifigenia, Crisotemi, Elettra e Oreste. Secondo Omero, Agamennone sarebbe pacificamente succeduto a Tieste sul trono di Micene dopo la morte di quest’ultimo, divenendo in breve il signore piú potente della galassia dei principati greci. Per questo, quando Elena, moglie di Menelao, fu rapita da Paride e portata a Troia, Agamennone fu comandante supremo dell’armata greca allestita per riparare il torto. La flotta si era riunita nel porto di Aulide, in Beozia, ma l’esercito greco era piagato da pestilenze, e una inspiegabile bonaccia impediva alle navi di salpare. Per placare la collera divina, Agamennone accettò il consiglio degli indovini, e decise, pressato dagli altri capi alleati, di sacrificare la propria figlia Ifigenia, dopo averla condotta sul luogo con la promessa di un matrimonio con Achille. Alcune storie vogliono che Artemide, dea della caccia, fosse intervenuta in extremis, salvando la (segue a p. 48)

Nella pagina accanto: veduta dell’acropoli di Micene, sorta sulla sommità di una collina in Argolide (Peloponneso). In basso: maschera funebre in oro, dalla tomba V del Circolo A di Micene. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Tradizionalmente attribuita ad Agamennone, il mitico re di Micene che guidò gli Achei contro Troia, la maschera si data al XVI sec. a.C.: è quindi di almeno tre secoli piú antica della guerra e non può essere appartenuta al leggendario sovrano. E neanche Heinrich Schliemann, che l’aveva scoperta, aveva sostenuto tale tesi, attribuendo ad Agamennone un’altra delle maschere da lui stesso rinvenute nella medesima tomba V (vedi box a p. 54).

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micene i luoghi della leggenda Schliemann a Micene

Sulle due pagine: le tombe reali del Circolo A, in una illustrazione degli scavi di Heinrich Schliemann a Micene dal volume Mykenae. 1878. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. A destra: ritratto di Heinrich Schliemann. Tra il 1870 e il 1873 l’archeologo tedesco realizzò lo scavo della collina artificiale di Hissarlik, sulla costa egea della Turchia, riconosciuta come l’antica Troia di Omero. Questa data, e le clamorose scoperte che ne scaturirono, segnano la nascita dell’archeologia popolare, come uno straordinario stimolo all’archeologia scientifica, allora ancora in fasce. Non pago del trionfo, tra il 1874 e il 1876, Schliemann, seguendo alla lettera le indicazioni del geografo ellenico Pausania (II secolo d.C.) riportò in luce, tra le rovine di Micene, il primo dei due circoli sepolcrali reali dell’antica città. Celebre il suo telegramma inviato nel novembre 1876 al re Giorgio I di Grecia: «Con gran gioia annuncio a Vostra Maestà di aver scoperto le tombe che la tradizione di Pausania indica come quelle di Agamennone, Cassandra, Eurimedonte e i loro compagni, tutti uccisi al banchetto da Clitennestra e dal suo amante Egisto». Dopo Micene, Schliemann intraprese altri scavi a Itaca, ancora a Troia e a Tirinto. In basso: carta della Grecia con, in evidenza, il sito di Micene, nel Peloponneso.

GRECIA Mare Egeo

Atene

Micene Mar Ionio

Mar Mediterraneo

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le tappe della scoperta 170 d.C.

Il geografo greco Pausania visita Micene, abbandonata da qualche secolo, e vi riconosce i luoghi di sepoltura di Agamennone e dei suoi familiari.

1700-1800 circa Diversi viaggiatori visitano e descrivono le rovine di Micene. 1801-1805

1804-1841

Lord Thomas Bruce, settimo conte di Elgin

(1776-1841), esplora il corridoio di accesso della tomba di Atreo e ne sottrae parte della decorazione scultorea, inviandola al British Museum. Gli Inglesi considerano la possibilità di asportare anche il fregio megalitico della Porta dei Leoni – il piú antico esempio di scultura monumentale d’Europa –, ma desistono per le difficoltà materiali dell’impresa.

La Società Archeologica di Atene incarica

Kyriakos Pittàkis (1798-1863) di scavare la tomba di Atreo e altre costruzioni affioranti, compresa la Porta dei Leoni, che è oggetto di un primo restauro. Febbraio Heinrich Schliemann effettua, con ben marzo 1874 34 saggi, i primi scavi non autorizzati a Micene, portando in luce murature e parte di una monumentale stele litica funebre. Agosto Schliemann scopre parte del palazzo dicembre 1876 reale, la tomba a tholos detta «di Clitennestra» e cinque tombe a fossa interne a un circolo monumentale in seguito chiamato «A» (1600-1500 a.C. circa), identificate dallo scopritore come quelle di Agamennone e dei suoi familiari, contrassegnate da numeri romani. 1877-1878 Panaghiòtis Stamatàkis scopre la sesta tomba del Circolo A e le tracce dei piú antichi insediamenti di Micene. 1886-1902 Scavi di Christos Tsoúntas: scoperta di altri settori del palazzo, di case e nuove tombe nelle zone basse del sito. 1920-1969 Scavi della British School di Atene: controlli stratigrafici nei vecchi cantieri, scoperta di nuove abitazioni e tombe monumentali. 1951 Ioannis Papadimitrou e George Mylonas scoprono casualmente il Circolo B, piú antico del primo (1650-1550 a.C.), nel corso di operazioni di consolidamento della tomba di Clitennestra condotti dalla Società Archeologica di Atene. Il Circolo B, scavato tra il 1952 e il 1954, contiene altre sepolture aristocratiche, indicate con lettere greche.

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micene i luoghi della leggenda giovane dalla pira del sacrificio e facendone per sempre una sua sacerdotessa. Al suo ritorno a Micene dopo la conquista di Troia, Agamennone aveva condotto con sé – come schiava e amante – Cassandra, principessa troiana dotata di poteri profetici. Il re, tra oscuri presagi, entrò in casa calpestando tappeti di porpora, simili a rivoli di quel sangue che non cessava di scorrere tra i discendenti di Atreo. Agamennone fu ucciso con Cassandra dalla moglie Clitennestra, secondo alcune versioni del mito, oppure dall’amante di lei, Egisto, come vendetta per l’assassinio di Ifigenia. La morte di Agamennone fu a sua volta vendicata dal suo unico figlio maschio, Oreste, tormentato dal dilemma posto dalla necessità ineludibile di vendicare il proprio padre e dall’orrore sacro del matricidio. Compiuta l’uccisione della madre, Oreste sarebbe stato tormentato dalle Erinni, dee vendicatrici dei delitti, invisibili a tutti se non ai colpevoli. La saga, con la sua catena di delitti, vendette e continui conflitti morali ebbe fine ai piedi dell’Acropoli di Atene, con un processo presso l’Areopago. Le Erinni stesse furono le accusatrici, Apollo il difensore, mentre Atena, la divinità che proteggeva la città, presiedeva la giuria. Oreste fu assolto grazie al voto di Atena, che si espresse a suo Gruppo in avorio con due dee e un fanciullo, da Micene. XIII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. Le figure femminili indossano il tipico abbigliamento di origine minoica, tramandato quasi inalterato in epoca micenea.

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perchÉ è importante

L’antica Micene, tra i maggiori siti preclassici della Grecia, sorge, arroccata

in cima a una collina, nella piana dell’Argolide. La «ricca d’oro», come la definí Omero, è descritta nella letteratura greca come una terra intrisa di mito e leggende, teatro delle tragiche vicende della dinastia degli Atridi. Le sue imponenti rovine, tra cui la celebre Porta dei Leoni, le tombe reali e le mura ciclopiche, rievocano il glorioso passato della città, centro più ricco e potente del Mediterraneo orientale dal XV al XII secolo a.C., come attestano anche le relazioni commerciali intrattenute fuori dai confini continentali.

La sua scoperta è legata al nome di Heinrich Schliemann (1822-1890) che, guidato dai versi di Omero e dalle descrizioni di Pausania, si convinse di poter trovare, entro il circuito delle mura, le sepolture dei leggendari sovrani di Micene. Tra il 1874 e il 1876, mise in luce un circolo di tombe, denominato convenzionalmente «Circolo A», ove i defunti erano stati inumati con sontuosi corredi, che attestano una ricchezza senza precedenti nel mondo egeo. La scoperta ebbe una risonanza straordinaria e Schliemann (vedi box a p. 46) non esitò ad attribuire le sepolture ai protagonisti dell’epopea omerica, riferendole all’epoca della guerra di Troia, tra il XIII e il XII sec. a.C. In realtà, oggi sappiamo che quelle tombe sono databili fra il 1600 e il 1500 a.C.

il sito nel mito

Secondo la tradizione, la città fu fondata dal re di Tirinto Perseo, figlio di Zeus e Danae, che ordinò ai Ciclopi di circondarla con imponenti mura difensive, le cosiddette «mura ciclopiche». Dopo la morte del suo ultimo discendente, fu scelto come re Atreo, figlio di Pelope e di Ippodamia, capostipite di una nuova dinastia, le cui drammatiche vicende sono uno dei temi prediletti dalla tragedia greca, in particolare della trilogia di Eschilo, l’Orestea.

La lunga sequenza di crimini e vendette comincia con la contesa fratricida tra Atreo e Tieste, durante il banchetto in cui il primo diede da mangiare all’ignaro fratello i suoi stessi figli, attirando così la maledizione degli dèi, che si sarebbe manifestata su Atreo e su tutti i suoi eredi. Agamennone, figlio di Atreo, al ritorno dalla guerra di Troia, è assassinato dalla moglie Clitennestra o, secondo altre versioni, dal suo amante Egisto. Oreste, figlio di Agamennone, per vendicare il padre uccide i due amanti, finché, perseguitato dalle Erinni, divinità punitrici che lo accusano per l’orrendo matricidio, si rifugia ad Atene, dove, giudicato da un tribunale presieduto da Atena, è assolto dall’accusa.

micene nei musei del mondo

In alto: Agamennone si impadronisce della schiava di Achille, Briseide, episodio narrato nell’Iliade di Omero. Particolare di uno skyphos (coppa con due piccole anse orizzontali) attico a figure rosse del ceramista Hieron e del pittore Makron. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Oltre 2500 reperti provenienti dagli scavi – tra cui ceramiche, tavolette in

argilla con testi in Lineare B, armi e gioielli – sono esposti nel Museo Archeologico di Micene (vedi nel box qui sotto), che presenta, inoltre, i plastici ricostruttivi del Palazzo e le repliche di alcuni oggetti preziosi – tra cui le maschere funebri in lamina d’oro – custoditi al Museo Nazionale di Atene (www.namuseum.gr). Completa l’esposizione un percorso fotografico che evoca la storia degli scavi.

informazioni per la visita

Il sito di Micene, inserito tra i Patrimoni dell’Umanità dell’UNESCO, si trova 40 km a sud-ovest di Corinto e 120 km a ovest di Atene, sulla via che porta a Nauplia, capoluogo dell’Argolide, collegata all’area archeologica da autobus giornalieri. Si può pernottare presso la moderna cittadina di Micene (Mykines), che dista dal sito archeologico circa 2 km. L’area archeologica e il Museo (realizzato al suo interno) osservano il medesimo orario: tutti i giorni, 8,00-19,30 (estivo); 8,30-15,00 (invernale); info http://odysseus.culture.gr; e-mail: amh@culture.gr

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micene i luoghi della leggenda favore perché, nata dal cranio di Zeus, non aveva avuto alcuna madre biologica. La soluzione divina dell’inestricabile problema etico e legale potrebbe sembrare una improbabile scappatoia di comodo. Ma ciò che il mito sembra dirci non è banale, né casuale: il nuovo mondo della polis poteva nascere solo dalla dissoluzione degli arcaici legami familiari della protostoria, che tuttavia trattiene e cela le piú profonde radici (e si tratta davvero di radici insanguinate) del sorgere della civiltà.

alL’epoca di agamennone Ipotesi ricostruttiva dell’antica Micene ai tempi di Agamennone, quando l’ultimo ampliamento della cinta aveva inglobato il cosiddetto «Circolo funerario A».

Tra Europa, Africa e Oriente Se oggi osserviamo quel che resta del megaron (la sala del trono) di Micene, solo a fatica riusciamo a immaginare l’oscurità delle stanze in cui si consumò il delitto di Clitennestra e del suo amante, e il rosso del sangue versato dagli Atridi. Dalla sommità della cittadella dell’età del Bronzo, lo sguardo sprofonda in burroni e vallate assolate, screziate dal grigio argentato delle rocce e delle pietre costruite, nel giallo e nel verde di erbe e olivi, il tutto affogato nel blu del cielo e delle montagne che incidono l’orizzonte. I suoni sono lo scalpiccio su pietra e ghiaia e le chiacchiere dei turisti, sovrastati dal frinire delle cicale. A 12 km di distanza le terre dell’antica reggia si compenetrano nel blu del Mediterraneo. Oggi si stenta a realizzare come questa rocca remota e sonnolenta sia stata il cuore di una grande civiltà pulsan-

Porta dei leoni

Alta 3,10 m e larga 2,95, la porta, principale accesso all’acropoli, prende il nome dai due felini scolpiti sul timpano ai lati di una colonna. Si apre perpendicolarmente alle mura, al termine di un corridoio stretto tra queste e un bastione a esse parallelo. 1250 a.C. circa.

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Palazzo reale

Sorto sulla sommità dell’acropoli, intorno al 1350-1330 a.C., l’edificio, incentrato su un vasto megaron, era organizzato su piú livelli con propilei, cortili, ambienti di servizio e residenziali distribuiti in parte su due piani, accessibili per mezzo di scale. Oltre alla pietra, i materiali architettonici usati dovevano essere lo stucco, il legno e i mattoni crudi.

cinta muraria

Formata da grossi blocchi di pietra grezza, l’imponente fortificazione si estende per circa 900 m e raggiunge spessori compresi tra i 3 e gli 8 m. Erette alla metà del XIV sec. a.C., le mura furono ampliate verso la metà del secolo successivo.

circolo A

La necropoli reale, compresa entro il circuito delle mura ciclopiche nel 1250 a.C. circa, fu in uso tra il 1600 e 1500 a.C. Comprendeva 6 tombe a fossa contrassegnate da stele funerarie, al cui interno giacevano 19 defunti inumati con ricchissimi corredi, cinque delle quali scavate da Schliemann e identificate, erroneamente, con quelle di Agamennone e dei suoi familiari.

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micene i luoghi della leggenda te per secoli tra l’Europa, l’Africa e il Vicino Oriente Antico. Ma il viaggiatore che abbia con sé i piú utili supporti informativi, potrebbe a questo punto scendere tra le rovine, sedersi all’ombra presso la Porta dei Leoni, e consultare le motivazioni che hanno fatto includere Micene (e i resti della vicina Tirinto) nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Le architetture e i monumenti dei due siti, recitano le parole dei compilatori, «sono esempi eccelsi del genio creativo umano».

L’importanza della tradizione omerica La civiltà micenea, all’apice del potere, ebbe un effetto profondo sul sorgere dell’architettura e dell’urbanizzazione della Grecia classica, e quindi, indirettamente ma linearmente, sull’intera cultura mondiale; le stesse scene storiche e archeologiche di Micene, attraverso la tradizione omerica e le continue citazioni della grande tragedia, hanno influenzato la cultura occidentale per ben tremila anni. Come altri complessi monumentali archeologici che abbiamo ereditato dal passato, Micene è oggi un «pensionato di lusso» al quale dobbiamo attenzione, rispetto, e ancora molta curiosità. La civiltà che prende il nome da Micene si sviluppò, dalla seconda metà del XVII secolo a.C., tra la Grecia A destra: veduta aerea del Circolo funerario A, compreso all’interno delle mura della cittadella di Micene. A poca distanza dalla necropoli reale, la Porta dei Leoni, ingresso alla città alta, che si apre tra due poderosi muri.

quel che resta di micene All’acropoli fortificata, di forma quasi triangolare, si accede dal lato nord-ovest attraverso la Porta dei Leoni. Appena entrati, si incontrano i resti di un granaio e, a sud, il Circolo A, oltre al quale sono stati ritrovati una serie di edifici residenziali. Il palazzo, esteso su terrazze artificiali, domina il punto piú alto della cittadella, e vi si accede da una grande rampa presso la Porta dei Leoni. A ovest e a sud-ovest dell’acropoli, fuori dalla cinta, si trova il Circolo funerario B, che racchiudeva al suo interno 24 sepolture. Le principali tombe a tholos scoperte a Micene, quelle «dei Leoni», «di Egisto» e «di Clitennestra», si trovano in questo settore, mentre il cosiddetto «Tesoro di Atreo» è piú a sud. LEGENDA 1. Granaio; 2. Casa del Vaso del guerriero; 3. Casa della Cittadella; 4. Casa Sud; 5. Casa della Rampa; 6. Casa di Tsountas; 7. Ingresso Nord-Est; 8. Corte; 9. Sala del Trono; 10. Rampa maggiore; 11. Megaron; 12. Tempio; 13. Scala d’accesso alla cisterna segreta. Porta dei Leoni 1

Tombe reali del Circolo A 233 m

5

2 3

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4


LEGENDA A. Tholos dei Leoni; B. Fontana di Perseo; C. Tholos di Egisto; D. Tholos di Clitennestra; E. Circolo delle tombe reali B; F. Casa degli Scudi; G. Casa del Mercante d’olio; H. Casa delle Sfingi; I. Case; K. Tholos della collina di Panagitsa; L. Tomba di Pano Phournos; M. Tomba dei Ciclopi; N. Tholos detta dei Demoni o di Oreste; O. Tomba di Kato Phournos.

A O

B D E

C F G H

N

M

Acropoli

L I

K

Tesoro di Atreo

13 Porta Nord

266 m

7 12 9

Postierla

278 m

Palazzo

8

11 10

Casa delle Colonne

Torre sud 6

Torre

N 0

25 m

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micene i luoghi della leggenda un equivoco secolare e l’ipotesi egiziana «In questo periodo, l’Agamennone di Schliemann subí un temporaneo cambiamento di sesso, trasformandosi da sanguinario capo militare ariano in una principessa egiziana piena di nostalgia per la madrepatria» (Cathy Gere, La Tomba di Agamennone, 2006). Siamo negli anni Sessanta, periodo di idee grandi e rivoluzionarie e di forti emozioni. George Mylonas (1898-1988), uno dei padri fondatori dell’archeologia egea e uno dei due scopritori delle sepolture del Circolo B, propone che la sepoltura che Heinrich Schliemann aveva attribuito al conquistatore di Troia celi i resti di una principessa egiziana data in sposa a un re straniero. La donna, destinata a morire lontana dalle sponde del Nilo, avrebbe scelto di essere almeno sepolta con rito egiziano. Una principessa con barba e baffi? Attenzione, dobbiamo qui chiarire un equivoco che perdura fino a oggi: Schliemann, in effetti, non aveva attribuito allo sfortunato sovrano la celeberrima maschera maschile che solitamente gli associamo (vedi foto nella pagina accanto e a p. 45), bensí un’altra, molto meno affascinante, piú rotonda e deformata, proveniente dalla stessa tomba V.

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Di essa lo scopritore aveva scritto: «Del terzo corpo, all’estremità nord della tomba, si conservava la faccia rotonda, con tutta la carne, al di sotto della pesante maschera d’oro». Per questo motivo Schliemann scrisse di aver guardato con i suoi occhi il volto di Agamennone, e di qui l’ipotesi della mummia femminile, meno bizzarra di quanto non potrebbe apparire. Infatti la possibilità dell’imbalsamazione non è ancora stata scientificamente confermata, ma nemmeno confutata in modo definitivo. L’ipotesi che le sepolture micenee (quelle del Circolo A, il piú recente) fossero state influenzate dai costumi egiziani ha, in realtà, una storia piú antica. La teoria risale alla fine dell’Ottocento, quando Eduard Meyer (1855-1930), egittologo e assiriologo tedesco, propose che i «Principi delle Tombe a Pozzo» di Micene fossero stati Argivi impiegati come mercenari contro gli Hyksos, i «Capi Stranieri» di origine asiatica che, tra la fine del XVII e il volgere del XVI secolo a.C., avevano occupato l’Egitto, stabilendovi proprie dinastie.

Dopo aver contribuito al sorgere della XVIII Dinastia, i mercenari sarebbero tornati in patria portando con sé costumi funebri stranieri. In effetti, se la teoria della mummificazione rimane incerta, puntano all’Egitto la forte probabilità che i corpi fossero stati sepolti in sarcofagi lignei, il massiccio uso dell’oro, le corone, i gioielli, i bottoni, i dischi sbalzati e le lamine figurate cucite ai sudari, le maschere auree (in tutto simili a quelle contemporaneamente in uso in Egitto); e persino i piatti di bilancia in oro deposti nei circoli, accostati al mito egiziano della «pesatura del cuore». Contatti precoci tra Micene e


l’Egitto sono del resto dimostrati dall’importazione di vasi in pietra (a partire dall’età predinastica, 3000 a.C. circa), di uova di struzzo, e dalla presenza nei due circoli sepolcrali di un centinaio di oggetti in avorio di elefante e di ippopotamo. Tuttavia, queste importazioni comportano processi piú complicati; alcuni manufatti di provenienza africana, a giudizio degli esperti, erano stati rielaborati a Creta, adattandoli al gusto egeo, e uno scarabeo di lapislazzuli con l’immagine della popolarissima dea Hathor, datato all’età degli Hyksos, presuppone un contatto (per quanto mediato) con le remote miniere del nord-est dell’Afghanistan. Le sepolture dei circoli contenevano inoltre armi, gioielli e ceramiche minoiche importati da Creta e dalle Cicladi; centinaia di perle di ambra e misteriose ruote nello stesso materiale semiprezioso (forse usate per aromatizzare il vino) provenienti dalle sponde del Baltico; perle in vetro fabbricate in Mesopotamia; oggetti in oro e argento di fattura anatolica. Non si tratta, quindi, di un orientamento commerciale e ideologico preferenziale per l’Egitto, quanto piuttosto di un’apertura globale ai contatti e agli scambi con tutte le civiltà del tempo (confermata dai rari relitti di imbarcazioni dello stesso periodo recuperati dagli archeologi). Nel circolo funerario piú recente (l’A, quello scavato da Heinrich Schliemann) all’oro e ai materiali preziosi di provenienza esotica si affiancano gradualmente perle, sigilli e intarsi in paste vetrose e faïence bianche, azzurre e gialle che sembrano imitarli e sostituirli. Questa innovazione fu forse il risultato della crescita, nella corte reale, di una nuova classe di burocrati e sacerdoti che richiedeva importanti simboli di status a costi minori: distinti sí, ma con un occhio alla borsa.

Nella pagina accanto: due delle maschere in lamina d’oro provenienti dalla tomba IV del Circolo A di Micene. XVI sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

centrale e il Peloponneso, da culture locali della media età del Bronzo (periodo detto Medio Elladico, 21001600 a.C. circa), fortemente influenzate da quanto stava avvenendo a Creta. Intorno al 1600 a.C. «L’esplosione del vulcano di Thera-Santorini – come scrive Louis Godart – cambiò la fisionomia politica dell’Egeo. La scomparsa della flotta minoica sotto le onde della marea provocata dall’eruzione lasciò Creta senza difese. I Micenei approfittarono dell’occasione per invadere l’isola e impadronirsene, distruggerne i palazzi e installare una propria capitale a Cnosso, da dove si volsero a dominare l’intero territorio cretese (…) La conquista dei principi achei proiettò i Micenei al primo posto dei popoli del Mediterraneo orientale. Ormai i loro navigli solcavano i mari legando i porti asiatici all’Europa e all’Africa» (Les Citadelles Mycéniennes, 1997). Nei due secoli successivi (1600-1400 a.C.) la civiltà micenea in effetti si espanse verso nord, alle coste greche di nord-ovest, e nell’Egeo alle Cicladi, alle isole del Dodecaneso e alla stessa Creta. Altri, invece, hanno preferito collegare il boom economico e politico delle città-stato micenee con le successive distruzioni dei palazzi cretesi degli inizi del XIV secolo a.C. Le ricorrenti crisi di Creta ebbero comunque l’effetto di limitare l’interferenza di un minaccioso intermediario, permettendo al commercio miceneo di interagire direttamente con gli scali della costa siro-palestinese, che l’Egitto stava ormai per pacificare. È possibile (ma non dimostrato) che nella menzione delle navi del paese occidentale di Ahhiyawa (gli Achei?), spesso citato dalle fonti ittite del XIV e XIII secolo a.C., si celi la consapevolezza di questa fase di forte espansione micenea. Gran parte di quanto sappiamo sulle fasi iniziali

Il mistero della maschera

Le tombe a fossa di Micene contenevano sette sepolture con maschera d’oro, sei appartenenti a un adulto e una trovata sui resti di un bambino. Pesanti dubbi sono stati sollevati a proposito della maschera d’oro trovata da Schliemann nella tomba V (qui sopra e a p. 45). Data la sua evidente differenza stilistica con le altre, è stato insinuato che si tratti di un falso commissionato dallo stesso Schliemann. Unica maschera con barba e baffi, essa esprimerebbe piú un’immagine regale reinventata nel gusto del XIX sec. che l’autorità di un sovrano miceneo. Alcuni hanno ipotizzato che i baffi fossero stati modificati intenzionalmente dallo scopritore sulla lamina dopo il rinvenimento; altri si sono spinti a riconoscere nella maschera un... beffardo autoritratto dello stesso archeologo. I difensori sottolineano, invece, che gli scavi di Schliemann erano stati attentamente sorvegliati da Stamatàkis, e che le accuse di falsificazione non hanno mai avuto alcun riscontro oggettivo. Se, infatti, si trattasse davvero di un falso, perché mai l’archeologo avrebbe identificato Agamennone nell’esemplare meno raffinato (vedi box nella pagina accanto) e non nella ben piú appariscente, presunta mistificazione?

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micene i luoghi della leggenda A sinistra: George Mylonas (1898-1988) ripulisce i vasi del corredo di una tomba riportata alla luce a Micene. L’archeologo (greco di nascita e poi naturalizzato statunitense), scavò, tra il 1952 e il 1954, il Circolo funerario B, posto circa 150 m a ovest della rocca, in uso tra il 1650 e il 1550 a.C. A destra: l’ingresso della tomba a tholos detta «Tesoro di Atreo», preceduto da un dromos scoperto lungo 36 m e largo 6. La grandiosa camera a pianta circolare sormontata da una falsa cupola (nella pagina accanto l’interno) è costruita mediante file di blocchi squadrati aggettanti che si restringono verso il centro fino alla sommità. 1200 a.C. circa.

della civiltà viene proprio dai tesori delle tombe a fossa dei due circoli di Micene, che testimoniano un controllo efficace del flusso di una serie di materie prime di interesse strategico come rame, stagno e oro, e un significativo sforzo di centralizzazione, sia economica sia politica. Al volgere del XIV secolo a.C. a Micene furono costruite le tombe piú impressionanti, in primo luogo quelle in pietra fatte di una cupola «ad alveare» o tholos, e di un corridoio monumentale di accesso. Erano tombe collettive usate nei fastosi funerali delle grandi famiglie che regnavano su Micene, come altre casate reggevano le sorti delle cittàstato di altre regioni, di piccola e media potenza. Lungo i pendii sud e sud-occidentali della collina di Micene si erano succedute le costruzioni della cosiddetta tomba «di Egisto» (1500 a.C. circa), la tomba «del Leone» (1350 a.C. circa), la tomba detta «di Clitennestra» (1220 a.C. circa) e infine quella «di Atreo» (1200 a.C. circa). Il culmine della civiltà micenea fu raggiunto tra il 1400 e il 1150 a.C., quando presero forma vaste regge pesantemente fortificate, provviste di magazzini e sofisticati sistemi idraulici e legate a porti costieri, nelle quali, per un periodo relativamente breve, gli amministratori usarono un sistema scrittorio modificato da quello precedentemente in voga nei palazzi di Creta. La scrittura micenea, nota agli specialisti come «Lineare B», era usata per notazioni contabili su tavolette allungate in argilla cruda, trovate nelle rovine dei palazzi della Grecia peninsulare (a Micene, Pilo,Tirinto e Tebe) come in strati contemporanei a Creta (Cnosso e Khania). La decifrazione di questa antica scrittura, effettuata nei primi anni Cinquanta del secolo scorso da 56 a r c h e o

Michael Ventris (1922-1956), rivelò che i Micenei parlavano una forma di greco antico, ed erano pertanto i precursori, insieme agli Ittiti che avevano creato un impero unitario nel cuore dell’Anatolia, della diffusione sulle coste settentrionali del Mediterraneo delle lingue indoeuropee. Inoltre, le scarne ma molto materiali informazioni tracciate sulle tavolette dai burocrati di allora, insieme alle altre scoperte archeologiche, ci permettono di tracciare un quadro piuttosto ricco e complesso di come si vivesse in una città-reggia potente come quella di Micene.

L’eredità dei ciclopi Sin dal IV millennio a.C., Micene era sorta su una collina naturalmente difesa, in corrispondenza di un nodo strategico per le piste di terra e le rotte del Mediterraneo orientale, soprattutto in direzione delle isole del Dodecaneso (Rodi) e, piú oltre, di Creta e Cipro. Una necropoli della media età del Bronzo (2100-1600 a.C. circa) mostra una occupazione continua del colle. Il palazzo di Micene era sorto sulla sommità del colle (l’acropoli) tra il XIV e il XIII secolo a.C. su terrazze naturali e artificiali a diverse quote. Eretto su piú piani sovrapposti, aveva pareti fatte da intelaiature di pali ortogonali che bloccavano pareti di pietra e argilla; l’esterno era rivestito da blocchi squadrati di calcare, l’interno era intonacato e rivestito di colorati affreschi. Di esso, dopo secoli di distruzioni, ricostruzioni ed erosione, restano un nucleo centrale, formato dai resti del megaron, la sala del trono dominata da un vasto focolare centrale attorniato da quattro colonne, usata per i consigli, le udienze e le cerimonie familiari. Le sale



micene i luoghi della leggenda del trono di Micene, Pilo e Tirinto sono molto simili, e certamente si ispirano a un unico modello. Il megaron era preceduto da un porticato che si apriva su una corte centrale. Della probabile ala orientale, addossata al muro di difesa, restano le costruzioni note come «casa delle Colonne» e «quartiere degli Artisti». Come negli altri centri micenei, il palazzo era il fulcro di un articolato insieme di interessi economici; garantiva la sicurezza di un vasto territorio rurale e ne sfruttava la rendita agricola, estraendone quanto bastava per sostenere, nei laboratori palatini e in città, artigiani specializzati nella produzione di beni di lusso, in primo luogo di tessuti, armi in bronzo e carri da parata e battaglia. Nel palazzo si trovavano le residenze della casa regnante e di altri membri delle élite, archivi e temporanei laboratori artigianali, magazzini e piccoli ambienti di culto; il cuore dell’edificio era il megaron. Il tutto era santificato e regolato dalla presenza, presso le residenze regali, di importanti santuari, ai quali ognuno era tenuto a presentare offerte e decime. Intorno al palazzo si estendevano le abitazioni dei funzionari, degli artigiani (come quelli che vissero presso il circolo B, nel corso del XIII secolo a.C., in quattro vasti laboratori artigianali attivi per la corte) e di parte del clero. Diversi insediamenti micenei apparivano come cittadelle difese da vasti circuiti di mura che la tradizione posteriore avrebbe attribuito alla forza immane dei ciclopi. Le mura di Micene formano un triangolo poderoso, che si estende complessivamente per 900 m, e occupa una superficie di 3000 mq. Sono costruite con enormi blocchi grezzi di varie dimensioni, che, in corrispondenza di punti critici, come la Porta dei Leoni, lasciano il passo a grandi pietre ben squadrate e lisciate. Secondo l’archeologo greco George Mylonas (1898-1988), la prima cinta muraria, costruita intorno al 1350 a.C., escludeva, nel suo primo tracciato, il circolo sepolcrale (A) scavato da Schliemann e Stamatàkis. Il cimitero reale fu incorporato in una seconda ricostruzione delle mura difensive (1250 a.C. circa), a cui fece seguito una sistemazione definitiva due decenni piú tardi, nella quale le difese furono integrate con la sistemazione dell’accesso a una vasta cisterna sotterranea, segno di preoccupazioni difensive che si facevano sempre piú serie. L’accorpamento del circolo funerario regale piú recente nel recinto murario cittadino è indubbio segno dell’esistenza di una arcaica, persistente memoria sto58 a r c h e o

A destra: frammento di pittura murale con una figura femminile, dalla «stanza dell’affresco» nell’area di culto di Micene. XIII sec. a.C. Nauplia, Museo Archeologico. In basso: testa femminile in stucco dipinto, forse una sfinge, da Micene. XIV-XIII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

rica delle genealogie regali, che traspare sia nei testi epici di Omero, sia in numerose e intricate tradizioni mitologiche ben posteriori. Anche se buona parte del palazzo e della cittadella fu abbandonata dopo un incendio disastroso intorno al 1200 a.C., per i Greci del I millennio a.C. i sovrani di Micene, Argo e Tirinto rimasero figure semi-divine, e molti pensano che le tracce di culti sul sito di Micene, protrattisi almeno fino al III secolo a.C., ne siano la prova diretta.

Il potere e la terra La società micenea era nettamente stratificata. Al vertice viveva il wa-na-ka (l’anax o sovrano della successiva tradizione greca), assistito dal ra-wa-ge-ta (letteralmente «duce del popolo», probabilmente il comandante in capo dell’esercito). Altri funzionari di alto rango erano il te-re-ta (forse una specie di sacerdote incaricato della distribuzione delle terre), il qa-si-re-u (parola in seguito trasformatasi nel greco basileus, «capo», «re») e l’e-qeta, cavaliere e compagno del sovrano. Il clero godeva di notevoli privilegi e formava una classe a sé stante. I cittadini liberi erano piccoli coltivatori e allevatori indipendenti che formavano il da-mo (demos, il popolo) e la schiavitú era ampiamente praticata. Ogni cittadella micenea controllava 2000-3000 km quadrati di territorio e qualche centinaio di villaggi rurali. La terra coltivabile era divisa in due parti, chiamate rispettivamente ki-ti-me-na (possedimenti del palazzo) e ke-ke-me-na (terre comuni a disposizione del da-mo). Dopo oltre quattro millenni di esperienza (e di amare lezioni) i Micenei avevano perfezionato un’agricoltura flessibile, sia intensiva che estensiva, adatta ad affrontare l’endemica penuria di terra fertile e le periodiche crisi ecologiche e produttive dei propri territori semiaridi. Coltivavano infatti cereali (orzo e grano), l’olivo e la vite: una strategia accorta che, con le dovute integrazioni e scorte (coltura del fico e del sesamo, raccolta del miele e pesca) permetteva di temperare gli effetti piú distruttivi degli anni di siccità. Il lino e la lana di pecore e capre permettevano inoltre investimenti im-


portanti nella produzione tessile (a Pilo il palazzo impiegava 550 operai, a Cnosso 900). In ultima analisi, il «miracolo economico» miceneo si riassume nell’applicazione del modello palatino vicino-orientale – con la sua tecnologia amministrativa e simili strutture sociali – a un ambiente produttivo piú dinamico e variegato, approfittando di ogni fase di stabilità per accumulare eccedenze (sotto forma di olio di oliva, vino e profumi), che permettevano a loro volta fortunati investimenti nel commercio di beni esotici a lunga distanza.

Verso il tramonto Come tutte le fasi di rapida espansione, anche quella micenea ebbe termine, e la fine – secondo quanto tramanda la tradizione, e con puntuali riscontri archeologici – fu disastrosa. L’enorme cittadella di Gla, in Beozia, fu distrutta nel corso del XIII secolo, poco prima di quelle di Micene, Tirinto, Tebe, Sparta e Pilo. Sull’istmo di Corinto fu iniziato, ma mai portato a termine, un possente muro difensivo. A Creta, analoghe distruzioni spazzarono via tutti i complessi palatini contemporanei; e nel fumo degli incendi svanirono la scrittura, le architetture piú complesse, la bellezza degli affreschi e l’artigianato di lusso, insieme al vasto reticolo commerciale e politico di Micene.

In sincronia storica, nello stesso secolo caddero gli imperi degli Ittiti e dei loro vicini sud-orientali, i Mitanni; decine di abitati dell’area siro-palestinese furono rase al suolo e abbandonate, mentre il faraone Ramesse III (XX Dinastia, 1185-1155 a.C. circa) si sforzava di respingere oltre il delta del Nilo masse di migranti asiatici. Forse ebbe temporaneamente la meglio, ma, di lí a poco, l’Egitto sprofondò nel caos, perdendo i suoi valori fondanti: l’unità politica e l’indipendenza. Tra le spiegazioni delle cause della grande crisi del primo XII secolo a.C. figurano gli effetti negativi di una eccessiva centralizzazione economica, un ciclo di invasioni dal Settentrione, una drammatica e prolungata siccità, conseguenti rivolte sociali, e persino decenni di saccheggi operati da mercenari rivoltosi, organizzati in corpi di fanteria con armi leggere, capaci di avere la meglio sui carri da combattimento dei tradizionali eserciti della tarda età del Bronzo. Comunque fossero andate le cose, molto si era spezzato per sempre, e il nobile lucore del bronzo fu ben presto sostituito dal luccichio bluastro degli armati in ferro. nel prossimo numero

persepoli il sogno di dario a r c h e o 59


mostre parigi

l’importanza di chiamarsi

giulio di Daniela Fuganti

Inghilterra Germania

Parigi

FRANCIA Oceano Atlantico

Italia

Arles

Spagna

Mar Mediterraneo

Corsica

Da molti anni, ormai, le acque del Rodano vengono scandagliate dagli archeologi; un lavoro che, di recente, si è trasformato in una autentica «pesca miracolosa», portando alla luce il ritratto del conquistatore delle Gallie che è ora al centro di una ricca esposizione allestita a Parigi, nel Museo del Louvre


D

a oltre vent’anni l’archeologo Luc Long, direttore delle ricerche subacquee del DRASSM (Département des recherches archéologiques subaquatiques et sous-marines), conduce indagini nel letto del Rodano, dal quale sono riemersi oggetti di importanza straordinaria per ricostruire e comprendere la storia del porto dell’antica Arelate (oggi Arles). Un lavoro che non sembrava suscitare interessi particolari, fino a quando, nel 2007, non apparvero bronzi e sculture, insieme all’ormai celeberrimo busto di Giulio Cesare, che potrebbe essere il piú antico ritratto conosciuto del conquistatore della Gallia, eseguito mentre era ancora in vita (vedi «Archeo» n. 280, giugno 2009). L’esposizione attualmente in corso al Louvre, Arles, gli scavi del Rodano, mette a confronto quell’intrigante capolavoro con il solo altro busto di Giulio Cesare «in vita» identificato fino a oggi come tale, scoperto a Tuscolo (Frascati) fra il 1804 e il 1820 durante gli scavi di Luciano Bonaparte e concesso in prestito dal Museo delle Antichità di Torino. La mostra presenta inoltre i reperti piú spettacolari tra quelli rinvenuti nel Rodano.

Vino e metalli L’antica Arles si trovava sulla via dei vini italiani destinati all’esportazione, la stessa percorsa, in senso inverso, dai metalli che dall’Occidente raggiungevano l’Italia. Il porto della colonia romana, fondata nel 46 a.C. da Giulio Cesare ed Emilio Lepido (il cui ritratto, bellissimo, risulta un po’ messo in ombra dalla sua collocazione proprio accanto a quello di Cesare), poteva accogliere imbarcazioni sia fluviali che marittime.

Tutto un popolo di artigiani vigiulio cesare veva grazie al commercio delle merci arrivate via mare, scariNato a Roma, tra il 102 e il 100 a.C., è nominato cate e trasferite sui battelli che questore nel 70 a.C.: è risalivano il fiume fino a Lione, l’inizio di una carriera imboccando poi la Saona per folgorante, che culmina, raggiungere le legioni romane nel 45 a.C., con la acquartierate sui limes germaconcessione della dittatura nici. Molte iscrizioni e offera vita. Il 15 marzo del te attestano l’importanza delle 44 a.C. (Idi di marzo) cade corporazioni che gravitavano vittima delle pugnalate intorno all’importante scalo. dei congiurati. Per esempio, l’iscrizione visibile sulla base della statua in marmo greco del Nettuno, scoperta nel Due immagini del busto recuperato ad 2007 (foto a p. 64), che accoglie il Arles, nel fiume Rodano, e identificato come ritratto di Giulio Cesare. Arles, visitatore all’ingresso dell’espoMusée départemental Arles antique. sizione, informa che la magnifiSe l’attribuzione venisse confermata, ca scultura fu offerta al dio del si tratterebbe della seconda immagine mare e del commercio verso il del dittatore realizzata quand’era 210 d.C. dalla corporazione dei ancora in vita, insieme al Cesare di renunclarii o «trasbordatori», fino Tuscolo (vedi a p. 63). a r c h e o 61


mostre parigi Qui sotto: statua in bronzo raffigurante un Gallo prigioniero, dagli scavi subacquei nel Rodano. Fine del I sec. a.C. Arles, Musée départemental Arles antique.

a quel momento conosciuta unicamente nel porto di Ostia. Riallacciandosi ai lavori diretti da Pascal Picard, conservatore al Museo di Arles antica, Jean-Luc Martinez, direttore del dipartimento delle Antichità greche, etrusche e romane del Louvre, e commissario dell’esposizione insieme a Claude Sintes, direttore del Museo di Arles antica, sottolinea l’importanza della statua in bronzo del Gallo prigioniero, con le mani legate dietro la schiena: una testimonianza eccezionale della conquista della Gallia, che rivela, secondo analisi recenti, il virtuosismo dei bronzisti nella tecnica della fusione a cera persa e in quella della saldatura. Ma naturalmente, fra tutte, l’opera che ha suscitato piú dibattiti, polemiche ed entusiasmi è il busto del personaggio

Qui sopra: Luc Long, l’archeologo che guida l’équipe a cui si devono le scoperte compiute negli ultimi anni nelle acque del Rodano, tra cui quella del ritratto di Giulio Cesare.

nel quale Luc Long ha riconosciuto i tratti di Giulio Cesare. E proprio all’archeologo abbiamo chiesto di ripercorrere le fasi salienti della scoperta e le tappe piú importanti delle ricerche nel Rodano. • I n quale zona è stato rinvenuto il busto di Cesare? L’area del ritrovamento è un luogo di deposito, un contesto in cui tutto risulta mescolato e l’interpretazione dei vari oggetti è particolarmente complessa: possono provenire dal carico di una nave arenata, oppure essere stati strappati dai fenomeni di erosione che interessano la sponda destra del fiume, che si pensava fosse stata sfruttata solo come scalo portuale, ma che invece – come possiamo oggi affermare – era in gran parte monumentalizzata, e aveva l’obiettivo di mostrare la ricchezza della città ai visitatori in arrivo tramite quell’immensa via fluviale che è il Rodano. «Duplex

Arelate», la definí il poeta latino Ausonio (310 circa-dopo il 393), cioè importante da entrambi i lati del fiume. Distrutte nel corso del III secolo durante le invasioni, le vestigia dei monumenti sono finite in acqua insieme ad altri oggetti, e, da allora, sono rimaste in balia delle correnti e dell’erosione. Non deve dunque sorprenderci l’estrema difficoltà delle ricerche subacquee. • Una delle tante difficoltà…


Oggi il Rodano, grazie agli argini costruiti nell’Ottocento, non dispone piú dello sfogo rappresentato dalle grandi piene che inondavano periodicamente la città. Il limo che ricopre i resti antichi è imprigionato nel letto del fiume, e scivola di conseguenza verso il basso. I nostri sondaggi finiscono spesso per essere realizzati oltre i 15 m di profondità, con una visibilità praticamente pari allo zero. A un osservatore superficiale, la nostra potrebbe apparire come un’attività «sportiva», ma è soprattutto mentale, dato che è indispensabile mantenere i nervi saldi in ogni momento. Le correnti sono fortissime, il tasso di inquinamento è molto elevato, le eliche delle numerose chiatte in navigazione sono un costante pericolo. Ci sono poi i siluri, lunghi 2 o 3 m, che tirano e mordicchiano le nostre pinne, scambiandoci per pesci… Senza dimenticare i veri squali, ossia i sommozzatori clandestini, talora competenti collezionisti, che hanno cominciato a controllarmi e a spiarmi telefonicamente da quando le scoperte si sono fatte interessanti: nelle loro comunicazioni in codice «Il serpente è sull’arteria» significava che il campo non era libero. Tutto ciò mentre lavoravo con equipaggiamenti assai sommari, senza tute a tenuta stagna né caschi, per mancanza di finanziamenti adeguati. Infine, dopo la scoperta del famoso busto, lo Stato mi ha dimezzato le sovvenzioni e vietato il proseguimento degli scavi per tutto il 2010. •N on sarebbe dovuto accadere il contrario, data l’importanza del rinvenimento? Purtroppo le cose non funzionano cosí: non sono un accademico, non faccio parte del CNRS, né dell’élite dell’archeologia francese, e, in questo Paese, il merito viene riconosciuto solo se si fa parte di un certo mondo. La scoperta mi ha causato un sacco di guai, ha scatenato invi-

Dall’alto in basso: alcuni dei ritratti di Giulio Cesare considerati piú vicini alle effettive sembianze del dittatore. Denario battuto a Roma, nel gennaio o febbraio del 44 a.C., da Marcus Mettius, uno dei magistrati preposti alla zecca. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

La testa maschile in marmo frigio rinvenuta ad Arles. L’opera era destinata a essere montata su un’erma, come mostrano il taglio posteriore e la presenza dei fori per alloggiare le necessarie grappe metalliche.

Il Cesare detto «di Tuscolo», perché rinvenuto nella cittadina laziale in occasione degli scavi condotti da Luciano Bonaparte. 44 a.C. circa. Torino, Museo di Antichità.

die e rappresaglie nei miei confronti, soprattutto a livello locale. • L’identificazione del marmo come ritratto di Giulio Cesare è stata messa in dubbio da alcuni studiosi... Insigni ricercatori hanno avvalorato la mia convinzione: da Flemming Johansen (il piú autorevole studioso dei ritratti di Cesare) a Jean-Charles Balty, accademico di Francia e a Christian Goudineau del Collège de France, fino a Paolo Moreno dell’Università «La Sapienza» di Roma, il quale ha addirittura annunciato una «scoperta nella scoperta» sottolineando la grande somiglianza del busto di Arles con la statua in bronzo – conservata al museo di Iràklion (Creta) – di Cesarione, il figlio che il dittatore aveva avuto da Cleopatra. Invece Paul Zanker della Scuola Normale di Pisa, per la verità senza mai aver visto l’opera dal vivo, pensa che l’effigie possa essere una scultura commissionata da un notabile importante al fine di farsi rappresentare «alla maniera di Cesare». Ma sembra francamente improbabile che un personaggio di spicco della comunità locale abbia ottenuto un ritratto del genere in una fase storica in cui l’immagine del dittatore non era ancora stereotipata. Esclusa tale ipotesi, ci si può legittimamente chiedere chi potesse essere l’anonimo cosí somigliante a Cesare, scolpito in un marmo eccezionalmente raro da un artista fuori del comune… •E qual è la sua convinzione personale? In questi anni ho svolto ricerche approfondite in ogni direzione. Benché ce ne siano altri, un solo ritratto rimane il vero riferimento per l’identificazione del busto del Rodano, quello scoperto a Tuscolo. È chiaro che le due effigi sono state eseguite da scultori di livello molto diverso. Quello di Arles, di influenza ellenistica, realizzato in marmo greco, è un a r c h e o 63


mostre parigi vero capolavoro: brutale e diretto, esprime una forza di volontà ispirata dalla virtú politica repubblicana, e si inserisce pienamente nella fase di verismo espressionista che segna la metà del I secolo a.C., durata pochissimo, forse un paio di generazioni. Il modello è innegabilmente piú vigoroso rispetto all’immagine di Tuscolo, e corrisponde a una rappresentazione di Cesare un po’ piú giovane, meno segnato dalla malattia e dall’usura del potere. Ricorda l’effigie di una moneta in bronzo emessa nel 48-47 a.C. a Nicea (Turchia) e pubblicata da Johansen, ma somiglia anche a quella coniata a Vienne (Francia) verso il 40-43 a.C., raffigurante Cesare calvo e senza corona. Infine il busto del Rodano mi fa pensare, per qualità plastiche, alla statua di un «generale» scoperta nel 1925 a Tivoli nel tempio di Ercole Vincitore e datata fra il 60 e 70 a.C.: stessa tensione muscolare, stessa dinamica nell’espressione. •Q uali analogie e somiglianze ci sono fra i busti di Tuscolo e del Rodano? Prendendo in considerazione le parti poco variabili nel corso della vita di un individuo – il cantus interno ed esterno degli occhi, la parte superiore e inferiore del naso, le commessure labiali –, le due immagini, digitalizzate, sono state sovrapposte con sofisticate tecnologie di morfologia facciale, sotto la guida di specialisti in medicina legale della facoltà di medicina di Marsiglia. Si nota che il naso del ritratto di Tudove e quando «Arles, gli scavi del Rodano» Parigi, Museo del Louvre fino al 25 giugno Orario tutti i giorni, 9,0017,30 (me, ve apertura serale prolungata fino alle 21,30); ma chiuso Info tel. +33 1 40205217; www.louvrefr. 64 a r c h e o

Ancora un’opera recuperata nelle acque del Rodano: una statua in marmo del dio Nettuno, rinvenuta in quattro frammenti e poi ricomposta. 160-180 d.C. Arles, Musée départemental Arles antique.

scolo sostituisce la parte mancante di quello di Arles e che l’attaccatura dei capelli è la stessa. Il disegno del profilo, legame fondamentale con le monete, risulta identico. I ricercatori che hanno eseguito le analisi hanno osservato punti di somiglianza anatomica a livello delle rughe frontali, del collo e delle pieghe nasali. Anche la fossetta supratiroidea, comune alle due rappresentazioni, è un segno individuale relativamente raro. Non è inoltre sfuggito agli esperti che il ritratto del Rodano presenta una ipertrofia temporale bilaterale, leggermente piú marcata a sinistra, segno di plagiocefalia (malformazione cranica conseguente a una inclinazione eccessiva dell’asse centrale, n.d.r.). •C he risulta molto evidente nel busto di Tuscolo... È vero. Ma i periti di medicina legale che ho consultato ipotizzano anche che il marmo conservato a Torino ricordi, nel disfacimento delle carni, lo stato dei malati in fase terminale, o addirittura l’immagine di una persona già morta. E questo spiegherebbe sia l’esagerata deformazione del cranio, il collo scarno, le narici serrate, gli occhi semichiusi, le orecchie appiattite dalla cera, oltre che il sorriso enigmatico – una sorta di rictus cadaverico – del busto di Tuscolo. Sappiamo comunque da Appiano che un ritratto di cera, a grandezza naturale, fu disposto accanto alle spoglie del dittatore in occasione dei suoi funerali. •E quindi che cosa possiamo concluderne? In un convegno che si terrà al Louvre in giugno, annuncerò un altro elemento molto importante e inedito, che potrebbe spazzar via parecchi dubbi circa l’autenticità del nostro Giulio Cesare. • Potrebbe anticipare qualcosa? Posso soltanto dire che, alla luce delle ultime indagini, il busto di Cesare è stato rinvenuto in un contesto «sacro».



storia gli etruschi visti dagli altri/4

quei maestri di di Daniele F. Maras

scienza... Sin dalle origini, gli Etruschi svolsero un ruolo di mediatori culturali tra la civiltà greca e vicino-orientale da una parte, e i diversi popoli dell’Italia, dall’altra: una circostanza che, per tutta l’età preromana, conferí loro una posizione di primo piano nel campo della scienza, della tecnologia e delle arti

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uando i primi coloni greci arrivarono in Italia, nella loro incessante ricerca di nuove rotte commerciali, risorse da sfruttare e terre da colonizzare, trovarono sulla costa tirrenica una cultura avanzata, che, già nell’VIII secolo a.C., disponeva di una società proto-urbana, basata su insediamenti maggiori che controllavano il territorio in modo capillare. Fu questo il motivo principale per cui le prime colonie greche d’Occidente si sono fermate in Campania (Ischia e Cuma), e la barriera del Lazio e dell’Etruria fu superata solo alla fine del VII secolo dai Focei, che la saltarono a piè pari, andando a fondare la colonia di Massalia (l’odierna Marsiglia) addirittura nel sud della Francia. Il modello proto-urbano della civiltà, efficace soprattutto dal punto di vista economico e dell’occupazione

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del territorio, ha coinciso in Italia con la cosiddetta cultura villanoviana, estesa nei territori che in età storica avrebbero restituito testimonianze di presenza etrusca: cioè, oltre all’Etruria propria tra il Tevere e il Tirreno, parte della Campania e della Pianura Padana.

Una presenza ingombrante ed evoluta Lo sviluppo della civiltà che nei secoli avrebbe portato il marchio degli Etruschi era già iniziato; e i mercanti greci, venuti dall’esterno, dovettero misurarsi con questa realtà e scendere a patti per poter accedere alle materie prime di cui avevano disperato bisogno (specialmente i metalli, stagno e ferro). Ma come venne vissuta questa ingombrante ed evoluta presenza dalle altre popolazioni che abitavano il suolo d’Italia, spesso fianco a fianco

Disegno ricostruttivo raffigurante la lavorazione del ferro entro forni fusori nel territorio di Populonia, importante centro metallurgico in epoca etrusca. La ricerca di nuove rotte commerciali e l’abbondanza di materie prime, specialmente metalli, spinse sulla costa tirrenica i primi coloni greci.


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storia gli etruschi visti dagli altri/4 Lastra fittile raffigurante un coppiere preceduto da un suonatore di cetra, da Acquarossa (Viterbo). VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Uno dei campi in cui gli Etruschi maggiormente si distinsero è quello legato alla produzione di terrecotte architettoniche decorative e lastre decorate a rilievo.

con gli Etruschi e a volte in conflitto piú o meno diretto? Chiave di volta per la comprensione dei fenomeni storici e dei rapporti umani (ivi compresi quelli tra popoli) è senz’altro la scrittura, non a caso considerata come il discrimine tra preistoria e storia. In effetti si tratta di una prospettiva del tutto moderna, dal momento che in realtà l’arrivo della scrittura non ha cambiato radicalmente le condizioni di vita delle persone, ma piuttosto ha reso visibili ai nostri occhi fenomeni che avevano luogo già da tempo immemorabile senza bisogno di essere registrati. Di fatto, però, solo 68 a r c h e o

le testimonianze scritte possono dar conto di fatti linguistici, onomastici e sociali, che sarebbero altrimenti caduti nell’oblio.

Immigrati di alto rango Per quanto riguarda la nostra storia, non appena gli Etruschi appresero la scrittura dai Greci – assai precocemente nell’ambito della cultura orientalizzante – iniziarono a registrare nomi su beni di prestigio, doni, vasellame e oggetti dei corredi tombali. In questo prezioso materiale onomastico si osserva, per tutto il corso del VII secolo a.C., la presenza di una gran quantità di individui di

origine straniera: soprattutto italica (umbro-sabina), ma anche latina, ligure e in qualche caso greca. Si tratta, di regola, di persone pienamente inserite all’interno del corpo civico, a volte in posizioni di alto rango, fatto che dimostra che non può trattarsi di immigrati recenti. La spiegazione piú probabile è che, già nel secolo precedente (e anche prima), gruppi consistenti di popolazioni italiche siano stati accolti e subito integrati nella cittadinanza dei nuovi centri proto-urbani, la cui organizzazione sociale ed economica particolarmente evoluta ha operato come polo di attrazione per la forza lavoro e l’intraprendenza di individui, famiglie e comunità provenienti dalle regioni vicine. In altre parole, la civiltà villanoviana funzionò per il resto d’Italia un po’ come l’America per gli Europei dell’Ottocento: un luogo avanzato e aperto, dove si poteva fare fortuna, con la differenza che le famiglie di rango elevato, che si spostavano con la propria clientela e servitú, vedevano riconosciuto il proprio livello sociale. Un riscontro a quanto si è detto viene dalla piú antica storia di Roma, fondata da Romolo secondo il modello etrusco, come ricorda Plutarco, che aveva al suo interno l’Asylum: uno spazio sul Campidoglio in cui i fuggiaschi e i vagabondi potevano essere liberati e riconosciuti come cittadini (da cui il moderno «diritto di asilo»). Ma la storia del ratto delle Sabine e della conseguente unione di popoli e di re, che


integrò nella cittadinanza gli italici Sabini, insegna che Roma fu teatro anche di immigrazioni di alto livello, come piú tardi quelle dei Valerii e dei Claudii, ancora dalla Sabina, o dei Tarquinii dall’Etruria: entrati in città come stranieri e accolti nel rango di principi e di re. Già in quest’epoca leggendaria, il modello etrusco fa dunque scuola: ma quali conferme può dare l’archeologia a riguardo?

sul suolo italiano, alla corte delle famiglie aristocratiche etrusche, per insegnare l’alfabeto e i sistemi per applicarlo alla lingua locale, che per molti versi era diversa dal greco. Traccia di questa attività è stata riconosciuta dagli studiosi nelle soluzioni adottate per risolvere alcune difficoltà di trascrizione di una nuova lingua con un alfabeto che, per lungo tempo, rimase esattamente uguale a se stesso e fondamentalmente greco. Ciò che è meno noto è che, quanL’A-B-C della civiltà Si è già accennato al precoce acqui- do a loro volta gli Etruschi trasmisto della scrittura da parte degli sero la scrittura ai popoli vicini, Etruschi, che la appresero dai mer- fungendo cosí da mediatori tra il canti greci assieme a tutto l’appara- modello greco e le lingue dell’Italia to cerimoniale del dono e del ban- antica, per un certo periodo furono chetto, che costituiva il cuore stesso attivi maestri etruschi, che adattarodella civiltà orientalizzante: una no l’alfabeto greco, ormai fatto prosorta di passaporto culturale che prio, alle esigenze dei dialetti locali. superava le barriere etniche e lin- Tra i primi a ricevere la scrittura ci guistiche e consentiva a tutti i po- furono i Latini, come dimostra la poli del Mediterraneo di dialogare fibula Prenestina, ritrovata a Palee scambiarsi merci e informazioni. strina e per la quale sono stati rePer un lungo periodo, durato per centemente cancellati tutti i dubbi tutto l’VIII secolo a.C. e oltre, ma- sull’autenticità (vedi «Archeo» n. estri di scrittura greci furono attivi 318, agosto 2011).

La matrice etrusca della scrittura è visibile nell’uso della lettera C, derivata dal gamma greco, non solo per il suono /g/, ma anche per il suono /k/ (come nel nome di Caius Iulius Caesar, che in realtà si sarebbe dovuto pronunciare Gaius Iulius Kaesar: la lettera G fu introdotta solo molto piú tardi per risolvere la questione). Poiché l’etrusco non aveva le consonanti sonore /g b d/, mentre il greco le aveva, è evidente che l’adattamento dell’alfabeto alla lingua latina è stato realizzato inizialmente da maestri etruschi e non greci. La scrittura etrusca è stata presto trasmessa anche ai Sabini d’oltre Tevere, forse con una tappa precedente nella regione falisca e capenate, di lingua latina e italica, ma posta in territorio etrusco, attorno alle odierne Civita Castellana e Capena. Ma assai piú interessanti sono le informazioni che vengono dal nord Italia, verso cui era aperto un canale commerciale molto attivo, che guardava ai mercati europei e alle rotte di terra che valicavano le Alpi. A ricevere la scrittura etrusca molto presto, già prima della fine del VII secolo a.C., furono le popolazioni celtiche che abitavano in Italia, nella zona della cosiddetta cul-

A destra: bicchiere d’impasto con coppia di iscrizioni graffite sotto il labbro, dalla tomba 12 della necropoli di via Sculati, a Sesto Calende (Varese). Primo quarto del VI sec. a.C. Sesto Calende, Museo Archeologico. Le iscrizioni riportano su un lato (riproduzione grafica in alto) un nome celtico, probabilmente di un personaggio locale, mentre sul lato opposto (riproduzione in basso) è incisa la parola «scriba» in lingua etrusca. Le piú antiche iscrizioni in alfabeto etrusco – come questa – rinvenute in territorio golasecchiano, abitato da popolazioni celtiche, sono contemporanee a quelle dell’Etruria settentrionale.

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storia gli etruschi visti dagli altri/4 tura golasecchiana (dal sito eponimo di Golasecca, in provincia di Varese, dove è venuta alla luce una vastissima necropoli, n.d.r.), tra il Ticino e il lago di Como. Qui le piú antiche iscrizioni sono praticamente contemporanee a quelle dell’Etrur ia settentrionale. I maestri etruschi furono attivi sul posto per qualche generazione e di recente un ritrovamento eccezionale ci ha restituito perfino la firma di uno di loro!

Il bicchiere dello scriba Infatti, in una tomba della necropoli di via Sculati, a Sesto Calende, è stato trovato un bicchiere d’impasto bruno di produzione locale, che riportava sotto il labbro due diverse iscrizioni: da una parte era graffito un nome celtico, purtroppo molto danneggiato (forse da leggere Usethu Vik[-]o[-]ri); dal lato opposto si trovava una sola breve parola etrusca, zichu, dal significato per noi molto prezioso, «scriba». L’oggetto documenta la rara usanza di registrare un br indisi for male a sigillo dell’amicizia tra due persone di rango, che bevevano da uno stesso bicchiere e vi scrivevano il proprio nome ai due lati opposti. In questo caso il rituale è servito a conservare la memoria del rapporto tra un personaggio locale e uno scriba etrusco: evidentemente uno dei maestri che hanno portato la scrittura in queste lande lontane, nell’ambito dei rapporti a distanza tra le aristocrazie. E poco piú tardi, probabilmente attorno alla metà del VI secolo a.C., la scrittura etrusca arrivò anche nel Nord-Est d’Italia, presso i Veneti, che ben presto impiantarono una fiorente scuola di scrittura a Este, presso il santuario della dea Reitia. Anche qui l’opera dei maestri etruschi è ben visibile, dal momento che, assieme all’alfabeto, fu impor70 a r c h e o

di piú che mai probabile che a insegnarlo ai Veneti siano stati sacerdoti scribi veienti, nell’ambito di una sorta di «programma» di relazioni a distanza tra luoghi di culto internazionali.

tato anche il metodo didattico che prevedeva l’insegnamento della scrittura attraverso le sillabe aperte (ca-ce-ci-cu, va-ve-vi-vu, ecc.). Il sistema, applicato con l’inserimento di una complicata serie di punti a segnalare le eccezioni alla regola, era stato diffuso in Etruria meridionale e soprattutto nel santuario di Portonaccio a Veio: è quin-

L’arte dei tetti etruschi Un campo in cui gli Etruschi furono r itenuti maestr i indiscussi dell’Italia antica è l’arte, specialmente per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche e la ricezione delle nuove tendenze dall’Oriente e dal piú avanzato mondo greco. L’introduzione dei tetti rivestiti e decorati di terracotta, che in Etruria avrebbero toccato livelli ineguagliati di monumentalità e preziosità, veniva attribuita dagli autori antichi


Cavalli e animali fantastici raffigurati su una tegola dipinta, da Acquarossa (Viterbo). VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nella pagina accanto: acroterio a figura maschile, proveniente dalla residenza arcaica di Poggio Civitate (Murlo). Prima metà del VI sec. a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate.

agli artigiani-artisti che avevano accompagnato il nobile Demarato in fuga da Corinto, al momento in cui si trasferí a Tarquinia e sposò una fanciulla aristocratica del posto per stabilirvisi definitivamente. La storia è stata raccontata da Dionigi d’Alicarnasso e da altri a proposito del brillante futuro di suo figlio, che avrebbe regnato a Roma con il nome di Tarquinio Prisco (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011), e include dettagli slegati dalla narrazione, ma preziosi per noi per il loro significato storico. Al seguito di Demarato, infatti, venne a Roma un’autentica squadra di tecnici della decorazione dei palazzi, di cui sono stati tramandati i nomi «d’arte»: Eucheir, «dalla

buona mano» (il modellatore delle terrecotte), Eugrammos, «dal buon tratto» (il pittore e decoratore di case), Diopos, «il traguardatore» (architetto della messa in opera). Per quanto leggendario, l’arrivo di tali artisti alla metà del VII secolo a.C., nell’ambito delle corti aristocratiche dell’Etruria meridionale è confermato dall’inizio di un periodo di rinnovato stimolo nella produzione di terrecotte decorative, che negli studi recenti ha preso il nome di «fase demaratea». È l’epoca in cui, nel giro di poche generazioni, si possono osservare gli exploit della ricca decorazione di palazzi aristocratici come quelli di Murlo e di Acquarossa, la produzione delle lastre decorate a ri-

lievo diffuse in Etruria e nel Lazio e delle sculture sempre piú elaborate poste sul colmo dei tetti. A questi fa riscontro un’analogo sviluppo nella grande pittura (perlopiú giunta fino a noi solo nelle realizzazioni funerarie), nella scultura e in altre realtà artigianali. Fino a tutto il VI secolo, con la cosiddetta «I fase» architettonica, i tetti etruschi, godettero di una supremazia indiscussa sulle decorazioni edilizie dell’Italia antica e quando infine si arrivò a una nuova svolta tecnologica e stilistica in tale produzione, furono di nuovo i centri dell’Etruria meridionale, Cerveteri e Veio, a recepire le novità provenienti dalla Magna Grecia, inaugurando cosí la cosiddetta «II fase», con i lussureggianti tetti del tempio B di Pyrgi e del tempio di Portonaccio a Veio.

Giove in Campidoglio Emblema del primato etrusco nell’architettura, palaziale prima e templare poi, è il tempio di Giove Capitolino a Roma, iniziato da Tarquinio Prisco e portato a termine dal Superbo, per essere poi inaugurato solo dai primi consoli della repubblica di Roma. La lunga durata della costruzione, come è raccontata dalle fonti letterarie, illustra bene il passaggio dei diversi momenti della produzione artistica etrusca. I re Tarquinii chiamarono a Roma artisti provenienti da Veio per realizzare i monumenti che li avrebbero resi celebri. In particolare Vulca, l’unico scultore etrusco di cui ci sia pervenuto il nome, fu incaricato di modellare la statua di culto di Giove, oltre a un’analoga scultura di Ercole, dando cosí per la prima volta a Roma un’immagine umana agli dèi, che fino ad allora erano venerati senza alcuna raffigurazione. E quando la costruzione del tempio raggiunse finalmente il tetto, un altro anonimo artista veiente, «esperto nell’arte della modellazione», fu chiamato dall’ultimo re di Roma per plasmare la quadriga di terracotta che avrebbe campeggiato sul colmo dell’edificio. a r c h e o 71


storia gli etruschi visti dagli altri/4

In alto: lastra fittile di decorazione architettonica raffigurante un carro, da Poggio Civitate. VI sec. a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale. A destra: lo sbocco della Cloaca Massima nel Tevere, a Roma. Il condotto fognario sotterraneo, realizzato secondo la tradizione dal re etrusco Tarquinio Prisco con l’obiettivo di bonificare la valle del Foro e del Velabro, rappresenta una delle migliori realizzazioni idrauliche nell’Urbe.

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per saperne di piú • Giovanni Colonna, Il maestro dell’Ercole e della Minerva. Nuova luce sull’attività dell’officina veiente, in Opuscula Romana XVI, 1987; pp. 7-41 • Ersilia D’Ambrosio e altri, L’attività recente del centro eruttivo di Albano tra scienza e mito: un’analisi critica del rapporto tra il vulcano laziale e la storia dell’area urbana, in Lazio e Sabina 6, 2010; pp. 211-222 • Daniele F. Maras, La scrittura dei principi etruschi, in AA.VV., Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente (catalogo della mostra, Asti, marzo-luglio 2012), Milano 2012, pp. 103-109.

La stessa struttura architettonica del tempio di Giove Capitolino, con le sue misure e proporzioni accuratamente calcolate, era chiamata a modello secoli dopo dal grande architetto romano Vitruvio per definire il cosiddetto «ordine tuscanico»: la maniera etrusca di costruire i templi, conosciuta e rispettata fino all’età imperiale. Gli autori antichi celebrano l’avan-

zamento tecnologico e scientifico degli Etruschi di cui sottolineano la perizia nella fondazione delle città, nell’arte e nell’architettura, ma anche nell’osservazione della natura, specialmente a scopo di divinazione, per riconoscere e interpretare gli eventi anomali: sono ricordate specifiche raccolte di animali, piante e fenomeni, dette Ostentaria, incluse nella letteratura religiosa etrusca.

all’abitabilità, attorno alla statua del dio Vertumno, installata lungo il percorso della cloaca. La scienza dei cunicoli idraulici fu inoltre strettamente legata alla fine della città di Veio: antica nemica di Roma e prima tra le grandi metropoli etrusche a cadere di fronte all’avanzata romana. Un aruspice veiente catturato dai Romani rivelò che, secondo i Libri Fatali etruschi, mai la sua patria sarebbe caduta finché le acque del lago di Albano non fossero state disperse nelle campagne senza raggiungere il mare. Tale conoscenza per mise di far fronte all’emergenza causata dall’improvviso aumento del livello del lago, che aveva dato adito a paure come presagio sfavorevole. Grazie alla tecnologia «rubata» agli Etruschi di Veio un imponente emissario artificiale fu realizzato per mantenere sotto controllo il livello del lago. Di conseguenza la strada per la conquista di Veio era aperta. E, ancora una volta, l’espediente risolutivo con cui i Romani vinsero l’assedio fu legato alla scienza idraulica: Furio Camillo riuscí ad arrivare fin nel cuore della città etrusca, addirittura all’interno del santuario di Giunone Regina sull’arce, grazie a una rete di cunicoli sotterranei che permisero ai soldati di sbucare letteralmente in mezzo agli abitanti inermi. Cosí, essendosi ormai impadroniti in armi del punto piú alto e inaccessibile della città, i Romani riuscirono facilmente a mettere in fuga i Veienti, presi alla sprovvista e preoccupati soprattutto di proteggere donne e bambini. Come spesso accade nella storia, una conoscenza tecnica e scientifica nata per migliorare le condizioni di vita umane, fu appresa e utilizzata per scopi militari, ritorcendosi contro i suoi stessi inventori… (4 - continua)

Il dominio delle acque Ma un campo in cui la tecnologia etrusca raggiunse un livello particolarmente elevato, di cui le ricerche archeologiche hanno dato ampia conferma, è la scienza idraulica, con particolare riguardo all’irregimentazione delle acque di superficie e meteoriche. Una fitta rete di cunicoli e canalizzazioni è visibile non solo nelle aree urbane, ma anche nelle campagne in tutte le regioni occupate permanentemente dagli Etruschi, sin dall’epoca arcaica, a dimostrazione di una speciale cura del territorio, utile sia a fini igienici che per un razionale sfruttamento agricolo. La percolazione delle acque attraverso le imponenti formazioni tufacee dell’Etruria meridionale era captata e drenata per mezzo di cunicoli sotterranei che percorrevano le profondità dei pianori su cui sorgevano le città. Ma anche le zone di fondovalle erano drenate e bonificate con impianti idraulici risalenti già all’epoca arcaica. Una delle principali operazioni portate avanti dal buon re Tarquinio Prisco, una volta preso il potere a Roma, fu la bonifica della pianura del Foro e del Velabro, fino ad allora rimaste zone paludose nel cuore della città dei Sette Colli. Il recupero avvenne per mezzo di quella grandiosa canalizzazione sotterranea che va sotto il nome di Cloaca Maxima, che drenava gli acquitrini in direzione del Tevere ai piedi del Campidoglio: non è un caso se il vicus Tuscus, il quartiere etrusco di Roma, sorse nella conca nella prossima puntata del Velabro, or mai recuperata • I piú religiosi tra gli uomini

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speciale forche caudine Modellino in bronzo di guerriero sannita, equipaggiato con l’armamento in uso all’epoca dell’episodio delle Forche Caudine. Roma, Museo della Civiltà Romana.

di Flavio Russo; grafica virtuale di Ferruccio Russo

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caudine la vera storia Durante la seconda guerra sannitica l’esercito di Roma subí una sconfitta clamorosa, culminata in un’umiliazione che sarebbe diventata proverbiale. Ma come si svolsero, davvero, le vicende in quei fatidici giorni di primavera del 321 a.C.? La disfatta fu il frutto di un capolavoro tattico dei Sanniti o l’esito dell’avventatezza di chi era a capo delle legioni? Ecco cosa ci rivela una nuova indagine eseguita dal punto di vista tecnico-militare… Nella pagina accanto: carta geografica del Sannio, tratta dall’opera dello storico Gianfranco Trutta, pubblicata nel 1776. In basso a destra, evidenziata dal riquadro, la zona a ridosso del Monte Taburno, in cui è compresa la Valle Caudina.

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ella primavera del 321 a.C. un esercito consolare romano si è incuneato nel Sannio, per una ennesima campagna offensiva. La sua base è presso Caiatia (oggi Caiazzo, in provincia di Caserta), a fianco al Volturno dove, nell’imminenza dell’avvio delle operazioni, giunge una tragica notizia: i Sanniti hanno stretto d’assedio Lucera, ultima città non ostile ai Romani nel Meridione. Senza immediati aiuti, capitolerà in pochi giorni. Per scongiurare l’infausto evento è necessario accorrervi al piú presto, superando il prospiciente massiccio del Taburno, per poi proseguire verso Levante per un centinaio di miglia. Essendo l’urgenza la priorità assoluta,


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speciale forche caudine Nella pagina accanto: carta dell’Italia centro-meridionale sulla quale sono indicati i principali insediamenti sanniti. Non sempre ne sono note la denominazione in lingua osca e l’ubicazione e ciò spiega la presenza dei punti interrogativi.

occorre evitare qualsiasi scaramuccia con i Sanniti lungo i due possibili itinerari, dei quali uno, discreto, per la Valle Caudina, sicuramente presidiato; l’altro, pessimo, lungo il greto del Calore, e non meno controllato.

Due gole ricoperte di boschi Ci si ricorda allora di un remoto tratturello per le capre che valica la montagna, noto da millenni ai pastori, reputato però impercorribile per uomini in armi, che Tito Livio cosí descrive: «la seconda via, piú breve attraverso le strettoie di Caudio. Ma la configurazione naturale di questa è la seguente: due gole profonde, strette, ricoperte di boschi, congiunte l’una all’altra da monti che non offrono passaggi, delimitano una radura ab-

In alto: antica carta del percorso dell’Appia nella quale sono riportate le posizioni di Calatia presso il Volturno e di Galaria lungo la stessa consolare, dopo Caserta.

bastanza estesa, a praterie irrigate, nel mezzo della quale si apre la strada; ma per arrivare a quella radura bisogna prima passare attraverso la prima gola; e quando tu l’abbia raggiunta, per uscirne, o bisogna ripercorrere lo stesso cammino o, se vuoi continuare in avanti, superare l’altra gola, piú stretta e irta di ostacoli» (Ab Urbe condita, IX, 2). Un corpo di spedizione, con equipaggiamento ridotto, potrebbe riuscirci: una scelta senza dubbio temeraria, ma la sola che, eludendo i Sanniti, consentirebbe di raggiungere in tempo utile Lucera.

Una visione retorica Alle spalle della vicenda delle Forche Caudine si impongono due quesiti poco considerati: l’agguato nella stretta di Caudio fu per i Sanniti una fortunata sorpresa tattica o il prodromo di un piú ampio disegno strategico? Nel primo caso, sarebbe stato un capolavoro di sfruttamento di una occasione irripetibile, avallando perciò la retorica visione di astuti Sanniti e di stolti Romani: gli uni tanto scaltri da organizzare in poche ore una trappola micidiale e gli altri tanto ottusi da finirvi dentro a migliaia. Entrambi dunque sarebbero ottimi

Chi erano i sanniti Popolo italico insediato sugli aridi altipiani dell’Appennino meridionale, parlante una lingua del gruppo osco, i Sanniti – propaggine del piú ampio gruppo dei Sabini – erano a loro volta un popolo dalle molte ramificazioni: i piú importanti erano gli Irpini, i Caraceni, i Pentri e i Caudini. Nel V e IV secolo a.C. alcune tribú si staccarono dal gruppo originario, dirigendosi verso le zone costiere, alla ricerca di terre piú fertili e ricche: un gruppo di Irpini si stabilí tra il Sele e il Bradano, dando origine al popolo dei Lucani; un ramo di questi, i Bruzi, invase la Calabria sottomettendo parecchie città greche, 76 a r c h e o

tra cui Sibari; altri gruppi occuparono invece la Campania, dove si amalgamarono velocemente con Etruschi e Greci, dando origine alla civiltà osca. A differenza di questi gruppi di invasori, che assimilarono facilmente la civiltà greco-etrusca, le tribú rimaste nel Sannio conservarono abitudini e forme di vita primitive: dedite alla pastorizia e distribuite in villaggi (tra cui la capitale Bovianum Vetus, oggi Pietrabbondante), non riuscirono mai a costituire un’unità politica o amministrativa; i vari gruppi, a capo di ognuno dei quali era un meddix (giudice), erano però


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riuniti in una forte federazione. Nel 354 a.C. strinsero un patto di amicizia con i Romani, ma la politica di espansione che entrambi i popoli perseguivano li portò inevitabilmente, nel giro di pochi decenni, alla guerra, che si risolse a favore di Roma dopo una lotta molto aspra, che durò con alterne vicende e fasi dal 326 al 304. Nel 295, alleatisi con Etruschi, Sabini, Umbri e Galli, i Sanniti tentarono di ribellarsi a Roma, ma la coalizione fu sconfitta a Sentinum in Umbria. In seguito il dominio romano nel Sannio andò sempre piú consolidandosi, specialmente attraverso gli insediamenti di colonie

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latine, tra cui notevoli furono quelle di Benevento (268) e di Isernia (263). Tuttavia, durante la guerra sociale (90-88 a.C.) i Sanniti furono ancora tra i piú bellicosi avversari di Roma e fu Silla a obbligarli alla resa dopo massacri e rappresaglie. Per questo, nella lotta successiva tra Mario e Silla, appoggiarono il partito mariano tanto che Preneste, dove si erano arroccati, divenne il centro della resistenza democratica; ma, nuovamente sconfitti, furono debellati definitivamente da Silla davanti alle mura di Roma. (red.) a r c h e o 77


speciale forche caudine esperienza in processioni e parate fosse un buon viatico per l’individuazione. Ma quei cortei nulla hanno in comune con lo sfilamento, in territorio nemico, di un esercito romano, e offrono confronti fuorvianti. Per contro, una unica conclusione appare condivisibile: la strettoia dell’agguato fu non lontano dalle pendici o persino sul valico del Taburno. Livio, fornendone un identikit morfologico apparentemente evidente – una gola singolare percorsa da un cupo sentiero – ne ha fatto ritenere facile l’identificazione. In realtà, le sue descrizioni, dell’una e dell’altro, sono cosí tanto generiche, che, volendo, potrebbero ben riferirsi al Gran Canyon o a Roncisvalle! Siamo insomma di fronte a una elusività per supplire alla quale occorre procedere sulla base della congruità delle singole variabili in gioco nella vicenda.

figuranti per una farsa, ma scarsamente verosimili dal punto di vista militare. Nel secondo caso, invece, la disfatta romana non può ascriversi né all’insipienza, né alla temeriarietà dei consoli, poiché il dispositivo del sannita Gaio Ponzio Telesino si basava su due alternative, entrambe gravide di funeste conseguenze per i Romani. Non correre in aiuto di Lucera, o farlo con lentezza, aprendosi con le armi la strada fra gli avamposti sanniti, avrebbe implicato la perdita dell’intero Meridione. Valicare d’impeto la montagna, possibilità implicitamente suggerita, li avrebbe portati nella trappola. I Romani, infatti, convintisi di disporre solo di quella azzardata manovra, pur non ignorando i rischi di una imboscata, procedura cara ai Sanniti, supposero di poterne contenere le perdite partendo all’improvviso e senza vistosi preparativi. Del resto, proprio per questa ragione, la tattica vede nella strada peggiore la migliore, capace per la sua imprevedibilità, di rovesciare le sorti di una situazione compromessa. Emergono cosí gli estremi teorici militari dell’indagine che segue, e che vuole distinguersi da quelle di matrice umanistica. L’incipit è il tentativo di definire, per esclusione dei siti tecnicamente non idonei, il meno improbabile per il mitico agguato, che finora, dopo ripetuti «pellegrinaggi» nella Valle Caudina e nelle convalli limitrofe, gli scavi hanno ubicato ora in punto ora in un altro, sempre in base all’aderenza con la fumosa descrizione di Livio. Tra i piú attivi, in questa sorta di caccia al tesoro, molti sacerdoti ed ex generali, convinti che la loro

Prime precisazioni La prima variabile riguarda l’entità dei Romani finiti nella sacca, che oscilla fra il migliaio e i quasi 50 000 legionari delle stime piú generose. Per molteplici conclusioni appare verosimile un corpo di spedizione formato da 10 000 uomini, due legioni circa, con 600 cavalieri, ridotto equipaggiamento e viveri individuali. Salmerie, attrezzi ed eventuali ausiliari, perciò, sarebbero rimasti nella base. Di gole in grado di fagocitare piú di 10 000 uomini, tra la Campania e la Puglia se ne trovano molte, ma tale capacità costituisce la connotazione necessaria, ma non certo sufficiente all’agguato, poiché il vero problema non è il 2

In basso: l’organico di una legione manipolare, che sarà modificata nel corso della seconda metà del IV sec., proprio per meglio adattarla alla guerra nel Sannio: 1. manipoli 2. hastati.

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contenimento, ma il disarmo di tanti uomini! In una stretta gola, in via puramente teorica, si può pensare che dopo la resa per fame, le schiere, una dopo l’altra, depongano le armi presso il varco d’uscita, vedendosi impedita dalla mancanza di spazio una ultima reazione disperata. Ma è mai esistita una gola dalle pareti cosí ripide da non poter essere scalate? Il discorso si fa ancor meno sostenibile nel caso di una gola molto ampia dove, invece, la renitenza degli sconfitti al disarmo avrebbe potuto attizzare uno scontro all’ultimo sangue. La gola perciò, considerata come mero supporto tattico e non come improbabile reclusorio inviolabile, non presenta connotazioni singolari. Del resto anche far derivare il toponimo di Forchia, paesino fra Arienzo e Arpaia nella Valle Caudina, dal mitico agguato è una forzatura poiché «forca», etimologicamente frequente, indica una biforcazione viaria. Una forzatura simile a quella che identifica la Caiatia di Livio, con Calatia, ubicandola per assonanza nel sito di Galazia o Galazze, abitato romano i cui ruderi affiorano vicino Maddaloni, una decina di chilometri piú a sud, lungo l’Appia, spostando perciò la base di partenza dai pressi dell’attuale Caiazzo, a fianco al Volturno. Al riguardo vi è confusione già sulla Tavola Peutingeriana, che li riporta rispettivamente come Gahatia e Calatia, ma mentre la prima identificazione è congrua ai vigenti criteri militari, in quan-

In alto: particolare di un affresco tombale raffigurante un cavaliere sannita con scudo rotondo e lancia, da Paestum. IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il guerriero, vestito con una corta tunica stretta alla vita da una cintura, presenta un elmo crestato munito di paraguance, gambe coperte da schinieri e piedi nudi.

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speciale forche caudine le guerre sannitiche 343-341 a.C. 343 a.C.

rima guerra sannitica. P I l conflitto ha inizio quando i

Sanniti cercano di conquistare la Campania e assediano Capua. I Romani intervengono in difesa della città campana. 341 a.C. Vittoria dei Romani a Suessola per merito del tribuno militare P. Decio Mure. I Sanniti si ritirano dalla Campania. 327-304 a.C. Seconda guerra sannitica. I Romani intervengono contro Napoli che si è posta sotto la protezione dei Sanniti. 321 a.C. Imboscata delle Forche Caudine e umiliazione dei Romani costretti a passare sotto il giogo dei nemici comandati da Gaio Ponzio. 305 a.C. Sconfitta dei Sanniti a Boviano. 298-291 a.C. Terza guerra sannitica. 298 a.C. Alleanza dei Sanniti con gli Etruschi, gli Umbri, i Sabini, i Lucani, i Galli Sènoni per sconfiggere i Romani. 295 a.C. Vittoria dei Romani a Sentino (Marche) contro le forze delle popolazioni italiche. I Romani sono guidati da P. Decio Mure, figlio del vincitore di Suessola, che muore in battaglia. 291 a.C. Fine dei conflitti per opera del console M. Curio Dentato.

to un campo legionario poteva essere impiantato soltanto nelle adiacenze dell’acqua – condizione imprescindibile per potere ospitare tanti uomini e animali –, la seconda, oltre a difettarne del tutto, contrasta anche con la dinamica dell’episodio. Occorre qui precisare che, sebbene i castra romani siano attestati dalla fine del IV secolo a.C., strutture tanto complesse non apparvero all’improvviso, ma dopo una lunga serie di perfezionamenti. È perciò logico supporre che, pochi decenni prima, qualcosa di molto simile fosse già utilizzato e che dunque non vi sia alcun anacronismo in Livio quando lo 80 a r c h e o

In alto: stralcio cartografico della tavoletta al 25 000 dell’IGMI relativa alla Piana di Prata, con i due sentieri, ascendente e discendente, tra Frasso Telesino e Cautano.

ricorda a Caiatia, né a ritenerlo utilizzato dal corpo di spedizione. Né si può immaginare un migliaio di tende, in zona nemica, sparpagliate come quelle dei boy scout! Ciò premesso dove poteva trovarsi quel grande accampamento per due legioni? Dopo le prime campagne nel Sannio, i Romani compresero che qualsiasi loro movimento era spiato e che nessuna iniziativa poteva effettuarsi di sorpresa, a meno che non fosse fulminea e apparentemente dissennata. Il dirigere perciò verso una strettoia impervia non può essere interpretato come una stupida ingenuità, ma come una precisa scelta tattica: se i Romani si addentrarono nelle Forche non fu perché non le conoscevano, ma perché, conoscendole, ne avevano ponderato difficoltà e rischi. In caso contrario, nessun console avrebbe agito in maniera tanto avventata, in nessuna circostanza e per nessuna ragione. Prassi che porta a supporre il campo base sulla riva sinistra del Volturno, come una sorta di testa di ponte, da cui in qualsiasi momento, e senza evidenti preparativi, poteva scattare un’avanzata aggressiva, non impacciata da un esasperante guado, che infatti Livio non ricorda. E


Secondo gli studiosi, la località nota come Castra Aniba sarebbe stata scelta da Annibale per porvi il suo campo

A destra: veduta dall’alto del tratturo che da Frasso Telesino risale sulla Piana di Prata.

appunto sulla riva sinistra, di fronte a Caiazzo, in un’area perfettamente pia­neg­giante, sulla già citata Tavola Peutingeriana si legge uno strano toponimo: Castra Aniba. Per gli studiosi, Castra Aniba ricorda il luogo in cui Annibale pose il suo campo nel corso delle operazioni contro Caiazzo, nel 216 a.C., un campo quindi prossimo a Caiatia, mutatosi poi in toponimo per la sua lunga permanenza. Dal momento che i Cartaginesi non ne costruivano si può concludere che Annibale si limitò a riutilizzarlo quando, in possesso di un enorme bottino, volle custodirlo in un luogo sicuro e riparato. Ideale, perciò, la vecchia base legionaria che, per l’ubicazione e le residue fortificazioni, rispondeva ottimamente all’esigenza. Secondo questa ipotesi, da lí sarebbe partito, inerpicandosi verso il valico del Taburno, il corpo di spedizione che poche ore dopo finí nella sacca di Caudio.

la Valle Caudina, 12 km dell’Appia la separano da Arienzo, 13 da Forchia e 15 da Arpaia: distanze al limite della marcia giornaliera di un esercito romano in trasferimento, soprattutto se in territorio nemico e in salita. Per conseguenza, se il primo sbarramento fosse stato a Forchia – peraltro priva di prati e di acqua – quasi al termine della tappa, quando la testa della colonna lo avesse raggiunto, la coda sarebbe stata ancora nella piana sottostante, dove, per l’ampiezza del luogo, mai si sarebbe potuto erigere il secondo sbarramento. E sarebbe stato altrettanto assurdo rinviare la scoperta del primo sbarramento al giorno successivo, dopo una sosta notturna, poiché sarebbe stato subito scoperto dagli esploratori senza che alle spalle vi fosse alcun punto idoneo al secondo sbarramento. Partendo, invece, da Castra Aniba e dirigendo verso il valico del Taburno, dopo 12 Km circa di percorso, indubbiamente piú duro e spossante, si sarebbe però raggiunta la Piana di Prata, racchiusa fra le cime dei

Nella pagina accanto: foto satellitare dell’odierno Iraq, nei cui confini è compreso il sito.

L’importanza delle distanze Un ulteriore argomento a sostegno di tale ubicazione si ricava dalle distanze relative tra campo base e sacca. In dettaglio, sebbene la Calatia prossima a Maddaloni risulti ubicata favorevolmente per Montesarchio attraverso a r c h e o 81


speciale forche caudine Colonne in movimento

A destra: ricostruzione grafica di una legione romana in procinto di mettersi in marcia.

Primo schema

secondo schema

DIREZIONE DI MARCIA

Lo schema di marcia di una legione romana ricostruito secondo quanto scrive lo storico greco Polibio (attivo nel II sec. a.C.)

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1. Ausiliari-arcieri 2. Cavalleria-fanteria pesante 3. Genio pionieri 4. Genio zappatori 5. Salmerie 6. Comando generale e scorta 7. Cavalleria legionaria 8. Artiglieria e macchine ippotrainate 9. Comandi reparti 10. Insegne e scorta 11. Trombettieri 12. Fanteria legionaria 13. Trasporti e servi 14. Mercenari 15. Retroguardia

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monti. Qui sono molte e abbondanti le sorgenti, rigoglioso il pascolo, ampio e piatto il terreno, ideale per accamparsi. Tempi di percorrenza uguali, dunque, ma siti d’arrivo completamente diversi.

Come marciavano le legioni Le ipotesi finora esposte, per potersi ritenere verosimili, devono risultare compatibili con la percorrenza quotidiana e con la lunghezza delle legioni in marcia, obbligando perciò a una breve digressione sulle loro modalità di trasferimento, dal «pronti a muovere» all’«alt». Dalle fonti si apprende che, dopo una frugale colazione all’alba, al terzo squillo di tromba, i Romani si muovevano, avanzando per circa sette ore, completando poi la costruzione del campo. Nulla era lasciato alla discrezione, soprattutto quando la marcia avveniva in territorio nemico, caso in cui la cavalleria effettuava ricognizioni a medio raggio e incessanti andirivieni sui fianchi 82 a r c h e o

Un altro schema di marcia di una legione, ricostruito anch’esso sulla base delle informazioni fornite da Polibio.

DIREZIONE DI MARCIA

bestie da soma

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della colonna, per evitare sbrancamenti. La tappa doveva essere sempre inferiore alle potenzialità di marcia dei legionari per lasciare loro, in ogni circostanza, energia fisica sufficiente per respingere eventuali assalti (una precauzione che giustifica la breve distanza fra i campi notturni). Tuttavia, e non di rado, si legge di legioni capaci di percorrere anche 30 km al giorno, prestazioni eccezionali, ma certamente agevolate dalla mancanza delle salmerie e dalle strade, la massima infrastruttura militare della storia. Nel 321 a.C., però, quella superba rete viaria non esisteva ancora e qualsiasi spostamento, anche di pochi chilometri, incontrava difficoltà immense, al punto da far definire impedimenta tutti gli indispensabili carriaggi. E se in pianura una legione veniva suddivisa in colonne parallele, accelerandone l’avanzamento, in montagna si trasformava in un interminabile serpentone, di lunghezza imprecisata. Per tentare di valutarla, occorre osservare che lo stesso reparto in


marcia risultava molto piú esteso che da fermo, per una ragione abbastanza semplice, ma che ha una rilevanza notevole nella vicenda. Un gruppo di automobili ferme davanti a un semaforo rosso, non riparte all’unisono, come le carrozze di un treno, per cui, a differenza di queste, al crescere delle distanze reciproche aumenta l’estensione collettiva.

Traffico «a fisarmonica» Per i veicoli autonomi, quindi, l’estensione statica e quella dinamica non coincidono, a differenza di quelli vincolati sempre uguali. Un susseguirsi di soste e di ripartenze produce un alternarsi di costipazioni e diradamenti, definito traffico «a fisarmonica», con un andamento che trova un esatto corrispettivo anche nelle colonne di uomini, il cui allungamento cresce proporzionalmente alla loro entità numerica e alle interruzioni. La sola contromisura, che comunque risolveva solo parzialmente il problema, consisteva nel frazionare le grandi unità in tanti gruppi piú piccoli, piú semplici da gestire e sincronizzare. La soluzione escogitata sul finire del Settecento per porre fine a quel caotico incedere fu la marcia cadenzata, nella quale ogni fante, muovendo la stessa gamba dei commilitoni nello stesso momento, trasforma l’intero reparto in un blocco sincrono, di uguale dimensione, sia da fermo che in marcia, come una sorta di treno umano!

Dall’alto in basso: raffigurazione di due manipoli in procinto di muoversi e poi in marcia: è facile constatare il loro notevole allungamento.

All’epoca delle legioni, dunque, tale innovazione era ancora ben lontana e la lunghezza di un esercito in marcia era estremamente variabile, e dipendeva dalle caratteristiche della pista percorsa. Manipoli, centurie e coorti non potevano perciò costituire blocchi rigidi, di uguale lunghezza, fermi o in marcia che fossero: le rispettive lunghezze, quando in movimento, dovevano infatti triplicare. E se la marcia non cadenzata determinava il prolungamento abnorme della colonna, l’effettuarla fuori strada ne riduceva notevolmente la velocità. In conclusione, è plausibile stimare per una grande unità in trasferimento, su di un terreno pianeggiante o appena inclinato, una velocità media non superiore ai 3 km/h nella migliore delle ipotesi. Poiché, però, anche la minima pendenza rallentava i carriaggi, appare sensato ridurla a un paio di km/h. Pertanto, un itinerario montano di 12 km circa veniva percorso da una lunga colonna in 7-8 ore consecutive, confermandosi cosí pari alla tappa quotidiana. Un’entità

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speciale forche caudine Nella pagina accanto: foto satellitare dell’odierno Iraq, nei cui confini è compreso il sito.

modesta, imposta, piú che dalla lentezza In alto: fotopiano dell’area della marcia, dalla frequenza dei corsi d’acqua da superare: il guado di un fosso di compresa tra la confluenza del pochi metri di larghezza, imponeva ore di Calore con il spossanti fatiche. Come se non bastasse, Volturno. Il poiché cavalli e muli richiedevano una cerchio indica il razione quotidiana in peso decupla di quelCastra Aniba, la di un uomo, per ridurre le grandi quan- mentre il riquadro tità di foraggio altrimenti necessarie, venievidenzia il vano lasciati pascolare ovunque possibile, massiccio del rallentando ulteriormente l’andatura. Taburno con la

Conseguenze tattiche Da quanto fin qui delineato, si ricavano almeno due prime conclusioni parziali circa il movimento di un esercito roma­no o di una sua grande unità. Innanzitutto, avanzando su di un’unica colonna, situazio­ne inevitabile nei percorsi angusti, sia che si iner­picasse verso la sella di Arienzo che verso il pianoro sommitale del Taburno, la sua lunghezza non poteva scendere sotto i 6‑8 km, soprattutto sostituendo ai carri carovane di muli. Un serpentone, quindi, di uomini e animali, che arranca sotto il sole e sotto gli occhi di un nemico, con uno sfalsamento fra la testa e la coda di almeno tre ore. Pertanto, mentre gli exploratores si devono immaginare già sul sito del nuovo campo, è probabile che la retroguardia fosse ancora presso il vecchio. In generale, quindi, negli itinerari montani l’intero sfilamento da un campo al successivo occupava spesso i due terzi della relativa distanza, 84 a r c h e o

Piana di Prata.

Il versante del Taburno che discende verso Cautano.

con pattuglie montate che ne proteggevano i fianchi fino al termine del trasferimento, a pomeriggio inoltrato. Solo da questo momento in poi, la pista alle spalle dell’esercito tornava libera e poteva essere impegnata da eventuali nemici, senza eccessivi rischi di venire scoperti o intercettati dai cavalieri. Per cui la costruzione del secondo sbarramento, che avrebbe dovuto interdire la ritirata ai Romani, quando l’avanzata fosse stata già bloccata dal primo, si sarebbe potuta avviare soltanto da quel preciso momento. Considerando la brevità della notte estiva, quella sorta di diga ammorsata alle opposte pendici della gola avrebbe dovuto essere innalzata in poche ore: piú che scienza, fantascienza! Volendo verificare, dal punto di vista militare, la compatibilità della sella di Arienzo-Forchia-Arpaia con l’agguato, la prima incongruenza consiste nel dover prolungare la marcia dalla Calatia di Maddaloni ben oltre i 15 km, eliminando il campo notturno. In tal caso, infatti, gli esploratori si sarebbero necessariamente dovuti imbattere, e con notevole anticipo, nel primo sbarramento, quello che precludeva la fuoriuscita dalla stretta – si fa per dire, con i suoi 500 m di larghezza minima – verso Caudio. Ne sarebbero risultati una marcia interminabile, una grave penuria di acqua, l’assenza assoluta di ricognizione limitrofa, e il mancato impianto del campo per la notte: una sequenza di gravissime infrazioni alla tassativa


normativa militare, che, peraltro, non risolve ancora il grande enigma dell’altro sbarramento, destinato a bloccare la retromarcia. L’altra incongruenza consiste nel supporre l’impatto con il primo sbarramento nel corso della stessa mattinata, evento che, per coerenza cronologica, deve inevitabilmente collocarsi in prossimità della sosta. In caso contrario, infatti, la coda della colonna sarebbe stata ancora tanto vicina al campo-base, da potervi fare pronto ritorno al primo dietrofront. Il che oltre a comportare un’assoluta mancanza di ricognizione, implica, soprattutto, che il secondo sbarramento avrebbe dovuto essere eretto nella parte residua della mattinata, subito dopo il transito della colonna e prima del suo arresto e conseguente dietrofront. Cioè di giorno e in meno di un paio di ore!

Una «presenza» sfuggente Partendo, invece, dalla riva sinistra del Volturno, tra Melizzano e Dugenta, il corpo di spedizione, dopo le fatidiche sei-sette ore di marcia, inerpicandosi lungo il preistorico tratturo, sarebbe pervenuto sul pianoro di Prata: nessun allarme dalle pattuglie in ricognizione, nulla di sospetto sulle pendici laterali, peraltro troppo distanti per tiri insidiosi di dardi, e nulla neppure all’imbocco del tratturo discendente. Nulla di sospetto se non l’endemica e sfuggente presenza nemica: e sarebbe stato inutilmente rischioso spingersi oltre nel sentiero discendente coperto dalla vegetazione. Una trascuratezza giustificabile, che diverrà il prodromo della disfatta e, probabilmente, la sua principale concausa. In quelle stesse ore, infatti, appena piú innanzi di dove le pattuglie si erano spinte in ricognizione, il tratturo era già ostruito e presidiato da Sanniti in assetto di combattimento. Questa allora la probabile scansione della vicenda. Tra la metà mattinata e il primo pomeriggio, l’intero corpo di spedizione romano raggiunge la Piana di Prata. Liberati dai basti gli animali per lasciarli pascolare e abbeverare, mentre alcune coorti si dispongono a difesa, altre avviano la formazione del campo. A prescindere dalla minore o maggiore idoneità dei siti di Arienzo-Arpaia e di Prata a ospitare un accampamento legionario, volendo ricostruire la vicenda secondo una meno forzata scaletta cronologica, appare evidente che, in entrambi i casi, il primo sbarramento si deve supporre, inevitabilmente, al di là del raggio di marcia giornaliero di un esercito romano. Ne consegue la necessità di collocare la sua scoperta nella mattina successiva, nel corso

Scorcio del tratturo, in uso già da epoca preistorica, che da Frasso Telesino sale alla Piana di Prata.

della quale deve compiersi la prima parte della vicenda dell’agguato alle Forche Caudine, quella del completo accerchiamento. Sebbene, come in precedenza evidenziato, la narrazione di Livio sia compilata in modo da impedire qualsiasi riscontro spazio‑temporale, la sensazione che si è sempre ricavata dalla lettura dell’episodio ha indotto tutti gli studiosi a inquadrare l’insaccamento dei Romani in un’unica giornata, la stessa della partenza da Caiatia. In realtà nessuna delle parole dello storico avalla tale interpretazione o smentisce l’ipotesi che, invece, sia avvenuto nella mattinata del giorno successivo. Anche ammettendo che i legionari avessero marciato per l’intera giornata, sarebbero pervenuti al primo sbarramento sul finire della stessa. Ma, a quell’ora, il sito per il campo avrebbe già dovuto essere stato individuato e delimitato dai pionieri. È poi impensabile che il corpo di spedizione non costruisse un campo blandamente fortificato: sostenerlo sarebbe un’ottusa saccenteria, trattandosi di oltre un migliaio di tende e piú ancora di quadrupedi, altrimenti espoa r c h e o 85


speciale forche caudine

SORGENTI PERENNI PRINCIPALI INSEDIAMENTI PREISTORICI Fotografia zenitale della Piana di Prata con, in evidenza, il probabile sito del campo, le sorgenti e gli insediamenti preistorici.

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sti a ogni aggressione notturna. Tuttavia, nella descrizione di Livio, vi è la menzione di un «campo erboso e acquoso, un prato pianeggiante attraversato al centro dal sentiero». Non un campo adiacente un fiume, un torrente o un lago, designati sempre con il loro nome generico e, spesso, con quello proprio, ma vicino all’acqua, un’indicazione che calza con le vicine sorgenti, di grande portata (che non a caso furono poi canalizzate per alimentare le cascate della Reggia di Caserta). L’inconsueta specificazione si trasforma in un indicatore geografico significativo, con il quale molti studiosi alle prese con la vicenda si sono dovuti cimentare, spesso senza venirne a capo. E che non fosse una presenza abituale è confermato dall’insistenza di Livio, che ricorda come il castra propter aquam costruito in precedenza, venne fortificato. Una connotazione che non si attaglia affatto all’arida Valle Caudina fra Arienzo e Arpaia, né alla piana ai piedi di Montesarchio.

Precisazioni strategiche Per la propaganda di Roma esulava dalle capacità dei Sanniti, primitivi e rozzi, concepire un piano tanto efficace da catturare un intero esercito romano. Secondo la versione ufficiale, si trattò, se mai, del fortunatissimo esito di un’imboscata, favorita dalla inadeguatezza dei consoli. Ma è cre­dibile immaginare


che i Sanniti si attivassero per organizzare una sacca per tanti legionari, poche ore prima del loro sfilamento? E, piú ancora, che ambedue i consoli fossero cosí avventati da imboccare un percorso ignoto, e sinistro, senza l’abituale avanguardia e per giunta in base alle indicazioni di pastori locali? L’episodio delle Forche Caudine è frutto dell’applicazione di una tattica archetipale dei montanari, ma non per questo può ritenersi banale e facile da organizzare. Le Forche Caudine, inoltre, per la loro rilevanza, non vanno valutate alla stregua della piú grossa trappola primitiva, ma della piú grande manovra a tenaglia dell’antichità. È perciò logico immaginare che l’operazione fosse stata accuratamente pianificata, in particolare per ciò che riguarda il secondo sbarramento che, per quanto fin qui detto, non poteva essere costruito in alcun modo. Un sistema alternativo consisteva nel provocare frane artificiali, innescando valanghe di pietre precariamente accatastate. Secondo tale ipotesi, il secondo sbarramento, a differenza del primo, non sarebbe mai stato innalzato, né nello stesso giorno, né nella notte successiva, ma solo predisposto, dandogli la parvenza di un tipico ballatoio difensivo sannita in opera poligonale. I materiali da far precipitare in basso sarebbero stati accumulati alle spalle di due mura di grossi massi, collocate in alto sulle opposte pendici, nel pun-

to piú stretto della gola, in ragione di circa 800 mc ciascuna. Ne avrebbero impedito la caduta prematura, robusti puntelli di legno trattenuti da funi, accortamente mimetizzate. Una trap­pola inesorabile, pronta a scattare senza alcun preavviso, micidiale e fulminea.

In alto, a sinistra: scorcio di un terrazzamento sannita in opera poligonale sul Monte Cila, a Piedimonte Matese. In alto, a destra: schema delle valanghe artificiali di sassi.

Lo sgomento dei legionari Il fallito tentativo di fuoriuscita dalla prima stretto­ia, pertanto, dovette essere preceduto da un episodio del tutto ignoto, o ignorato, dalla rievocazione classica, che può ipotizzarsi come segue, sulla falsariga di Tito Livio che cosí lo descrisse: «I Romani, discesi con tutto l’esercito nella radura per una strada ricavata nelle rocce, quando vollero attaccare senza indugi la seconda gola, la trovarono sbarrata da tronchi d’albero e da ammassi di poderosi macigni. A codesta constatazione dell’imboscata nemica si aggiunse anche la vista di presidi armati sulle alture circostanti. In gran fretta quindi ritornano sui loro passi per uscire di là dove erano entrati: ma trovano anche la prima gola chiusa allo stesso modo e presidiata da armati. Senza che ne venga dato l’ordine si arrestano: gli animi sono presi da sgomento, le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano gli uni con gli altri come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un’idea o un progetto di cui si sente privo: immobili in lungo silenzio. Poi, quando videro che si rizzavano le tende pretorie, a r c h e o 87


speciale forche caudine le parole di tito livio La cronaca dell’onta subita alle Forche Caudine è contenuta nell’Ab Urbe condita, la monumentale storia di Roma di Tito Livio, dal cui Libro IX sono tratti questi ampi stralci: «I consoli, essendo venuti a colloquio con Ponzio, mentre il vincitore voleva stipulare un trattato di pace, replicarono che il trattato non poteva essere stipulato senza il consenso del popolo, senza i feziali e il resto del consueto rituale. Per questo la pace di Caudio non fu stipulata con regolare trattato (...), ma tramite una garanzia personale. Infatti che bisogno ci sarebbe stato, per un trattato, di garanti e di ostaggi, visto che in quel caso l’accordo è stipulato dall’invocazione che Giove colpisca quel popolo venuto meno alle condizioni sancite, cosí come il maiale viene colpito dai feziali? Garanti si fecero i consoli, i luogotenenti, i questori, i tribuni militari, e ci restano i nomi di tutti coloro che sottoscrissero l’impegno (...). Inoltre, per l’inevitabile rinvio del trattato, fu imposta la consegna di 600 cavalieri in qualità di ostaggi, destinati a pagare con la propria vita se i patti venivano violati. Fu poi fissato il termine per consegnare gli ostaggi e per lasciare libero l’esercito disarmato. Il rientro dei consoli rinnovò il dolore all’interno dell’accampamento, e i soldati si trattennero a stento dallo scagliarsi addosso a quanti, per la loro imprudenza, li avevano trascinati in quel luogo: per la cui ignavia erano adesso costretti a uscirne in maniera ancora piú infamante di come vi erano entrati; non

erano ricorsi a una guida pratica della zona, né avevano effettuato ricognizioni, lasciandosi spingere alla cieca dentro una fossa come tante bestie selvatiche. Si guardavano gli uni con gli altri, osservavano le armi che presto avrebbero dovuto consegnare, le mani destinate a essere disarmate, i corpi soggetti alla volontà del nemico: avevano già di fronte agli occhi il giogo nemico, la derisione, gli sguardi arroganti dei vincitori, il passaggio senza armi in mezzo a uomini armati e ancora la mesta marcia dell’esercito disonorato attraverso le città alleate, il ritorno dai genitori in patria, là dove spesso essi stessi e i loro antenati erano rientrati in trionfo. Solo loro erano stati sconfitti senza subire ferite, senza armi, senza combattere; a loro non era stato concesso né di sguainare le spade né di scontrarsi in battaglia col nemico; a loro era stato infuso invano il coraggio. Mentre mormoravano queste cose, arrivò l’ora fatale dell’ignominia, destinata a rendere tutto, alla prova dei fatti, ancora piú doloroso di quanto non avessero immaginato. In un primo tempo ricevettero disposizione

che alcuni si accingevano ai lavori di fortificazione, pur essendo convinti che in quelle Scena di battaglia in cui si condizioni disperate senza via d’uscita quel lavoro sembrava quasi una beffa (...) tutti (...) fronteggiano due schiere di si accinsero all’opera, circondando il campo guerrieri armati, con un terrapieno, nelle vicinanze dell’acqua: in un ambiente ma essi stessi ammettevano (...) l’inutilità di montagnoso, quella fatica, alla quale, per di piú, anche i probabilmente nemici irridevano con disprezzo. Legati e una scena legata tribuni si raccolgono spontaneamente intor- all’episodio delle no ai consoli che neppure pensavano a radu- Forche Caudine. narli a consiglio, quando né di consigli né di Particolare della aiuti si vedeva la possibilità: anche i soldati, lo lastra nord della sguardo fisso alla tenda pretoria, chiedono ai tomba a cassa n. 114 rinvenuta loro comandanti un soccorso che appena appena poteva giungere dagli dèi immortali» nella necropoli di Andriuolo, nei (Ab Urbe condita, Libro IX).

Ipotesi alternativa Dopo il tranquillo pernottamento sul pianoro di Prata, all’alba la marcia riprende, lungo il sentiero discendente. La testa della colonna, 88 a r c h e o

pressi di Paestum. IV sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.

però, si arresta bruscamente quasi subito, confondendosi con gli esploratori che, attoniti, non hanno avuto il tempo per dare l’allarme. Al­le loro spalle i cavalli e i muli si urtano e scalciano nervosi. Gli uomini, dal canto loro, si accalcano senza una precisa ragione e la marcia cessa del tutto. Prima la curiosità e poi il timore iniziano a propagarsi insieme al caos: la colonna è ormai un groviglio di uomini e di animali, di improperi e di ordini urlati, di ragli e di nitriti. A quanti possono vederlo direttamente, l’ostacolo incute un immediato terrore, non già per la sua mole, ma per la sua evidente fattura. Dal centro dell’assembramento si cerca di capire che cosa stia accadendo appena al di sotto dell’imbocco del tratturo, magari tentando di guadagnare la testa della colonna, ma la ressa lo impedisce. I pochi centurioni che riescono a farlo, allibiscono. Uno sbarramento minaccioso, una sorta di alta e massiccia muraglia di massi, tronchi


di uscire dalla trincea senza armi, con addosso un’unica veste. I primi a essere consegnati e incarcerati furono gli ostaggi. Poi fu ingiunto ai littori di scostarsi dai consoli, cui fu invece tolta la mantella da generali: spettacolo questo che suscitò cosí grande compassione anche tra quanti poco prima si erano scagliati contro i consoli proponendo di consegnarli al nemico e di farli a pezzi, che ciascuno dei presenti, dimentico della propria sorte, distolse lo sguardo da quella profanazione di una simile autorità, come dalla vista di qualcosa di abominevole. I consoli furono i primi a esser fatti passare seminudi sotto il giogo; poi, in ordine di grado, tutti gli ufficiali vennero esposti all’infamia, e alla fine le singole legioni una dopo l’altra. I nemici stavano intorno con le armi in pugno, lanciando insulti e dileggiando i Romani. Molti vennero minacciati con le spade, e alcuni furono anche feriti e uccisi, se l’espressione troppo risentita dei loro volti a causa di quell’oltraggio offendeva il vincitore. Cosí furono fatti passare sotto il giogo, e – cosa questa quasi ancora piú penosa – proprio sotto gli occhi dei nemici. Una volta usciti dalla gola, pur sembrando loro di vedere per la prima volta la luce come se fossero emersi dagli inferi, ciononostante la luce in sé e per sé fu piú dolorosa di ogni tipo di morte, al vedere una schiera ridotta in quello stato. E cosí, anche se avrebbero potuto raggiungere Capua prima di notte, dubitando dell’affidabilità degli alleati e trattenuti dalla vergogna, lungo la strada che porta alla città abbandonarono a terra i loro corpi ormai bisognosi di tutto. Quando a Capua arrivò la notizia del vergognoso

d’albero e terriccio, che corre da una pendice all’altra dell’angusta gola, ne blocca il passaggio. Neppure per un istante ci si illude che sia una frana e a fugare gli estremi dubbi sono le grida di scherno dei Sanniti, comparsi all’improvviso sulla sua sommità e ai suoi lati brandendo i loro terribili giavellotti. Un rapido sguardo all’intorno basta ad annienta­ re la piú temeraria illusione di aggirare l’ostacolo. Le opposte pen­dici, non solo appaiono ripidissime, ma presidiate dalle consuete fortificazioni gradonate, che pullulano di nemici ansiosi di colpire chiunque sia tanto incauto da tentarne la scalata. Minaccia che, per la vicinanza, si conferma di facile attuazione. Nonostante ciò, alcuni tra i piú coraggiosi si inerpicano con il gladio in pugno, cercando di raggiungere i nemici. Pochi passi appena e un nugolo di aste, dalle loro lunghe cuspidi di ferro l’inchioda al suolo, originando piccoli rivoli di sangue. Brevi parole e l’ordine tassativo di dietrofront immediato: la rapidità della manovra è la sola

episodio, l’arroganza congenita dei Campani venne meno di fronte alla naturale compassione nei confronti degli alleati. Inviarono immediatamente ai consoli le insegne della loro carica; ai soldati offrirono invece armi, cavalli, vestiti e cibo, e al loro arrivo si fecero loro incontro tutto il senato e il popolo, adempiendo cosí a ogni tipo di obbligo formale in materia di ospitalità pubblica e privata. Ma né l’umanità degli alleati né la benevolenza dei volti poterono strappare una parola ai Romani, che nemmeno sollevavano gli occhi da terra per rivolgere uno sguardo agli amici che si sforzavano di consolarli. A tal punto la vergogna, ancor piú dell’amarezza, li spingeva a evitare la conversazione e la compagnia degli esseri umani. Il giorno dopo alcuni giovani esponenti della nobiltà vennero inviati col compito di scortare fino al confine della Campania quelli che stavano partendo; al rientro, convocati in senato, rispondendo alle domande degli anziani, riferirono che i Romani avevano dato l’impressione di essere ancora piú avviliti e mesti, tanto silenziosamente camminavano, come fossero diventati muti. Il fiero carattere romano era prostrato, e insieme alle armi aveva perso anche il coraggio. Nessuno aveva avuto la forza di ricambiare il saluto, di rispondere, di aprir bocca per lo sgomento, come se portassero ancora al collo il giogo sotto il quale erano stati fatti passare. La vittoria ottenuta dai Sanniti non era stata soltanto clamorosa, ma anche duratura nel tempo, perché aveva privato il nemico non tanto di Roma (come in passato i Galli), quanto piuttosto della virtú e dell’orgoglio romano, e questo dimostrava ancor di piú il loro valore».

speranza di contenere le perdite. Grazie alla disciplina e all’addestramento, la direzione di marcia è invertita in pochi istanti e la coda della colonna ancora a ridosso del campo ne diviene la testa. Tra i legionari inizia a serpeggiare la rabbia, non potendosi in alcun modo spiegare la mancata scoperta dello sbarramento.

Un boato terrificante Ricompostasi l’ordinanza, si intraprende la discesa sul tratturo del giorno prima. Alla rabbia si è sostituita una crescente angoscia, ricordando la forra che li attende, poco piú in basso. Le fortificazioni sannite che la sovrastano nel punto piú stretto, già osservate con apprensione all’andata, ora incutono terrore. Stranamente, però, avvicinandovisi appaiono deserte, senza alcun difensore. È l’ennesima conferma, se mai ve ne fosse bisogno, della ottusità dei Sanniti, incapaci persino di sfruttare un successo cosí vistoso. A ogni passo, aumenta nei legionari la speranza di riguadagnare la pianura ma, quando gli uomini che a r c h e o 89


speciale forche caudine Il prezioso «lascito» di alessandro il molosso

All’estremità del braccio, in maniera analoga alla mazza-fionda, era montata una fionda fissata con tre catene, due fisse e la terza a sgancio automatico durante il lancio.

L’affusto della balista monoancon, terminava con un grosso sacco imbottito di paglia, sul quale andava a battere il braccio della macchina al termine della sua corsa.

Ricostruzione virtuale di una probabile lanciasassi monoancon (in alto), che in seguito sarà ribattezzata dai Romani «onagro», e di una probabile catapulta sannita (in basso). La resa immediata e incondizionata dell’esercito romano, accerchiato dai nemici alle Forche Caudine, dipese, probabilmente, dall’uso da parte sannita di armi letali, come catapulte e baliste. Tali armi, che spiegano le migliaia di morti ricordate da Diodoro Siculo, sarebbero finite in possesso dei Sanniti, in seguito all’invasione dell’Apulia, pochi anni prima, di Alessandro il Molosso, re di Sparta, che le aveva probabilmente al seguito.

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90 a r c h e o


Cilindro di bronzo che reca incisi caratteri alfabetici oschi, rinvenuto a Casalbordino (Chieti). Seconda metà del IV sec. a.C. Chieti, Museo Nazionale. Il reperto funzionava forse come rotore del verricello di caricamento di una catapulta e le lettere incise, equivalenti ai numeri, avrebbero indicato la gittata dei proietti.

Veduta laterale del cilindro

Trasposizione delle lettere osche in numeri e gradi.

Dettagli ricostruttivi del reperto di Casalbordino, la cui posizione è indicata dal numero 1 nella ricostruzione alla pagina precedente.

guidano la formazione si sentono ormai al sicuro, dai sovrastanti terrazzamenti poligonali, scaturisce un crescente e terrificante boato, mentre un tremore orrendo scuote il suolo. Il tempo di sollevare gli occhi e una nube di polvere li avvolge, prima che la possente ondata li maciulli inesorabile, ostruendo in pochi secondi quell’unica uscita. Il rombo, riecheggiato a lungo dalla valle, rag­ giunge in pochi istanti le orecchie dei commilitoni ancora sul pianoro, som­mando terro­ re a terrore. Gli scampati, altrettante spaventose maschere di polvere e sudore, risalendo sconvolti la colonna divulgano in maniera sconnessa l’accaduto.Ai consoli bastano pochi attimi per concludere di essere in una sacca senza via d’uscita. Inutile nascondere la situazione: meglio che ognuno sappia con esattezza quanto accaduto. Molti legionari, dopo quelle spiegazioni, sono presi da sgomento, con le membra irrigidite da una specie di torpore; si guardano, come se ciascuno cercasse nel viso del compagno un’idea o un proget­ to di cui si sente privo. Nel frattempo si rizzano le tende pretorie dei consoli, mentre alcuni si accingono ai lavori di fortificazione.

Un’ultima e disperata difesa Dopo la tragica constata­zione di essere caduti in una trappola ordita dal nemico, esauritosi l’iniziale sconforto, in un sussulto di orgoglio, i legionari applicano la procedura regolamentare. Potenziano perciò le difese dell’accampamento in cui hanno trascorso la notte, trasformandolo in una sorta di fortino. Alcuni, ovviamente, reputando inutile quel lavoro, lo abbandonano, gettando gli arnesi. Gli ufficiali evitano di intervenire, essendo anch’essi dubbiosi al riguardo. Alla prima esposizione a caldo dei consoli ne è seguita una seconda, piú razionale e ottimista. Senza dubbio sono circondati, ma da un nemico inferiore per numero ed esperienza. A poche miglia di distanza vi è la loro base, con un gran numero di commilitoni e inviare i corrieri di notte, attraverso la montagna, è rischioso, ma possibile, e di arditi disposti a tentarlo se ne contano a decine. Se mai dovessero fallire tutti, si potrebbero innalzare colonne di fumo, che, scaturendo dal loro itinerario in una località disabitata, sugge­r iranno al comando di Caiatia l’invio di esplo­ratori. Naturalmente, tra il ricevere la richiesta d’aiuto, il riscontrarla attendibile, l’organizzare la spedizione di soccorso, l’eliminare il nemico, sarebbero intercorsi diversi giorni: occorre quindi adattarsi ad aspetta­re. Nessun a r c h e o 91


speciale forche caudine problema per l’acqua, nessuno per i viveri: le razioni già rinforzate, qualora insufficienti, saranno integrate macellando i cavalli e i muli, che, nel frattempo, pascolano liberamente sulla prateria. Quanto a un intervento diretto dei Sanniti, inutile preoccuparsene e inutile augurarselo. Disarmare 10 000 soldati liberi equivale a combattere con loro, soluzione antitetica all’agguato. Pochi giorni dopo, però, i Romani si arresero per fame. Piú che una precisazione, ciò appare come una giustificazione, dal momento che le razioni erano pressoché intatte e la carne abbondante, oltre 2000 quintali. Né era stata sostenuta alcuna marcia spossante, o ingaggiato alcun combattimento. Ciononostante, presto i Romani si arresero, ignominiosamente! Una simile conclusione non trova spiegazioni plausibili e ha dunque finito per avallare l’anzidetto risibile pretesto, il che lascia presumere che proprio in tale enigma si celi la chiave della vicenda, sempre meno inquadrabile come l’esito imprevisto di un agguato tattico fortunatissimo, e sempre piú leggibile come l’esatta conclusione di un disegno strategico ambiziosissimo, basato su di un elemento di micidiale dissuasione, volutamente rimosso.

Perché la resa? Occorre precisare che trappola, strettoia e forra definiscono la connotazione geomorfologica di un sito, non la sua idoneità reclusiva, che è tutt’altra cosa. Le falde pedemontane appenniniche in generale e quelle del Taburno in particolare, per la loro orogenesi, hanno pendenze modeste, intorno ai 45°, agevolmente superabili da ogni escursionista e oggi persino da molti fuoristrada. Come si può allora immaginare che legionari abituati al moto e alla fatica, giovani, addestrati e scelti per quella missione in base alla prestanza fisica, non ebbero l’ardire di avventarsi su quelle pendici in ondate d’assalto, entrando in contatto col nemico? Una forra lunga alcuni chilometri con alte pareti di roccia nuda e perpendicolare, è per lo meno irreale! Per cui, scartata la fame, scartata la reclusione, scartato l’assalto, si deve imputare la repentina resa all’impiego di armi micidiali da parte sannita. Nugoli di dardi e soprattutto di giavellotti, come pure di pietre scagliate con le fionde pastorali, spiegano l’impossibilità dei Romani di guadagnare il contatto fisico e l’apparentemente imbelle permanenza nella sacca. Spiegano, almeno fino a un certo punto, le migliaia di morti ricordate da Diodoro Siculo, ma 92 a r c h e o

non spiegano affatto perché i tentativi di rompere l’accerchiamento non vennero compiuti di notte, quando i lanci erano impossibili. E, meno che mai, spiegano la motivazione di una resa tanto subitanea e incondizionata, dal momento che l’interno del campo non era raggiungibile per quei tiri. La spiegazione meno inverosimile lascia immaginare l’avvio del sistematico massacro dei legionari intrappolati, in attesa della resa ufficiale. Tuttavia poiché i Romani non erano ancora fisicamente in mano dei Sanniti, la strage poteva perpetrarsi soltanto a distanza, con tiri molto lunghi, dall’alto in basso, non di aste, né di archi, ma di dardi e palle di artiglierie elastiche di cui, almeno fino ad allora, i Sanniti non disponevano, pur non ignorandole. È probabile, infatti, che ne fossero venuti in possesso appropriandosi dell’armamento di Alessandro il Molosso il quale, dal momento che quelle armi si erano evolute proprio in Macedonia pochi decenni prima, ne aveva sicuramente al seguito. Una significativa conferma di tale ipotesi viene da un curioso reperto custodito presso il Museo Nazionale di Chieti, col numero d’inventario 18572. Rinvenuto intorno agli anni Settanta del secolo scorso, in agro di Casalbordino (in provincia di Chieti), è un cilindro di bronzo che funzionava forse come rotore del verricello di caricamento di una catapulta, e che reca incisi col bulino, quindi applicati in una seconda fase, caratteri alfabetici oschi. Le lettere, all’epoca equivalenti ai numeri, avrebbero indicato la gittata dei proietti dalla tensione impartita alle matasse. La sua datazione si può ricavare dalla testa femminile, che trova precisi riscontri in orecchini di fabbricazione e di provenienza tarantina, databili alla seconda metà del IV secolo a.C., epoca e ambiente confer mati anche dall’orecchino a pendente conico. Una datazione cronologicamente compatibile con la presenza di catapulte e baliste tra i Sanniti. Da Filone di Bisanzio (III‑II secolo a.C.), si apprende anche dell’esistenza di una macchina lanciasassi a un solo braccio, che, a suo dire, consentiva negli assedi di scagliere pietre enormi a distanze notevoli e che forse costituiva lo sviluppo di un archetipale trabucco a strappo. È logico presumere che anche una macchina siffatta facesse parte delle armi del Molosso, finite in mano ai Sanniti. Dopo l’onesta esposizione dei consoli, il morale degli uomini non è piú in caduta libera e la fortificazione del campo lo con-


I Romani passano sotto il giogo. Dipinto del pittore elvetico Charles Gleyre (1806-1874). 1858. Losanna, Musée cantonal des Beaux-Arts. Il dipinto evoca la disfatta romana del 107 a.C., presso Agen (oggi in Svizzera), quando, i Tigurini – antica popolazione celtica – guidati dal loro capo Divicone, sconfissero l’esercito di Roma, uccidendo il console Lucio Cassio Longino e costringendo i superstiti all’umiliazione del giogo. La stessa mortificazione, secondo Tito Livio, fu inflitta dai Sanniti ai Romani vinti alle Forche Caudine, costretti a passare sotto le lance nemiche.

ferma. Trascorre cosí la seconda notte, interrotta ogni tanto da schianti e urla agghiaccianti. Il buio impedisce di avere un quadro esatto della situazione: si dice che alcuni legionari siano stati uccisi nelle loro tende, colpiti da dardi micidiali. Secondo altre versioni, invece, sono stati schiacciati, sempre nelle loro tende, da pietre enormi. Alle prime luci dell’alba entrambe le voci risultano tragicamente vere.

La risposta del generale sannita Quanto ai Sanniti non sanno esattamente cosa fare: piú in basso vi è una parte consistente dell’intero esercito nemico e il suo annientamento già garantirebbe una lunga tranquillità. Il problema è soltanto di valutare l’esatta convenienza di un simile massacro. L’anziano padre di Gaio Ponzio, il generale sannita al comando delle truppe, consultato per la sua saggezza, ha dato due risposte antitetiche e sibilline: rimandarli tutti liberi o ucciderli tutti! Interrogato ne spiega la ragio-

ne: nel primo caso si sarebbe potuta stabilire un’amicizia con Roma che avrebbe evitato la guerra. Nel secondo, per ovvi motivi, si sarebbe evitata la guerra! Il tempo gioca a favore dei Romani e questo i Sanniti, sia pur confusamente, lo hanno rapidamente intuito. Occorre abbreviare al massimo la resistenza dei prigionieri, in modo da ottenerne la resa incondizionata. Solo cosí, trattenendo come ostaggio l’intero patriziato equestre, si sarebbe imposta la pace a Roma, senza aizzarne la brama di vendetta. Affinché ciò avvenga, occorre stroncare ogni speranza di salvezza all’interno del campo. Ideale, pertanto, batterlo incessantemente con le artiglierie del Molosso, tenute fino a quel momento gelosamente segrete. Nella notte le grosse baliste iniziano a scagliare pesanti palle di pietra, mentre le catapulte lanciano tozzi dardi dalla cuspide di ferro. I tiri scavalcano facilmente il terrapieno, abbattendosi sulle tende: pochi colpi vanno a vuoto e molti Romani perdono la vita in quella tragica nottata. Di fronte a tanta ottusa testardaggine, Gaio Ponzio ha uno scatto d’ira: gli ripugnano tante morti inutili che, per giunta, vanificano la sua decisione di risparmiare i Romani per ricavare il massimo utile politico-militare dalla liberazione. Il tiro viene perciò intensificato al massimo, onde costringere tutti a rendersi conto della loro irreversibile sconfitta. E quando, finalmente, i rappresentanti romani si degnano di trattare la resa, quasi fosse in loro potere negoziarla, Gaio Ponzio li accusa che, neppure vinti e prigionieri, sanno confessare la loro sventura. E per dargliene evidente contezza, li avrebbe fatti passare sotto il giogo, disarmati e seminudi. a r c h e o 93


storia storia dei greci/15 di Fabrizio Polacco

la guerra del

peloponneso Nei decenni finali del V secolo a.C. la storica rivalità tra Atene e Sparta conobbe il suo momento piú caldo con lo scoppio di un conflitto che vide opporsi due grandi coalizioni, coagulatesi intorno alle capitali dell’Attica e della Laconia. Uno scontro durissimo, che non solo seminò morte e distruzione, ma segnò anche il punto di non ritorno dell’«utopia» democratica ateniese


T

utti i testi di storia riferiscono che il conflitto combattuto nell’arco di ventisette anni (dal 431 al 404 a.C.) tra Lacedemoni e Ateniesi con i rispettivi alleati si concluse con la vittoria dei primi e la disfatta dei secondi. Ciò che non viene detto con altrettanta chiarezza è che la guerra del Peloponneso non furono gli Spartani a vincerla, ma gli Ateniesi a perderla. E, soprattutto, che quella di Sparta fu una vittoria di Pirro ante litteram, poiché innescò il declino della polis come forma di governo, spalancando le porte della Grecia al dominio macedone e poi romano. Le conseguenze sul piano etico, religioso e filosofico, furono, se possibile, ancora maggiori: la tragicità degli eventi intervenuti nel corso del conflitto indusse intellettuali come Socrate e il suo allievo Platone a innestare una sorta di retromarcia nello sviluppo del pensiero antico che, minoritaria in principio, avrebbe poi gradualmente impregnato di sé l’intera civiltà europea.

Leggendo Tucidide Raccontare qui per esteso le complesse vicende della guerra sarebbe tanto appassionante quanto impossibile. La selezione non sarà tuttavia troppo dolorosa, poiché chi lo volesse dispone ancora del prezioso resoconto delle Storie di Tucidide. Basta leggerne qualche pagina per toccare con mano la profondità del La peste di Atene. Olio su tela di Michael Sweerts (1618-1664). 16521654. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art. L’epidemia, che colpí la città all’inizio della guerra del Peloponneso causando migliaia di vittime, uccise, probabilmente, anche Pericle, nel 429 a.C.

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storia storia dei greci/15 rivolgimento culturale successivamente intervenuto. Si prenda, per esempio, il punto di svolta della vicenda bellica, la spedizione in Sicilia del 415/13 a.C. Tucidide la prepara fin dall’inizio dell’opera, quando fa esporre a Pericle i piani per il conflitto. A quel tempo lo statista aveva superato i sessant’anni; tuttavia, se già alcuni antichi gli imputarono l’aver voluto la guerra per distogliere l’attenzione dei concittadini dai processi per «empietà» contro il suo entourage (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012), si deve ammet-

tere che egli si dimostrò ancora abile e lungimirante. Innanzitutto, con studiate provocazioni, fece sí che a dichiararla fossero gli Spartani. Inoltre elaborò una strategia che, finché fu rispettata dagli Ateniesi – anche dopo la sua morte – avrebbe assicurato loro, se non la vittoria, almeno l’immunità da gravi sconfitte: per cominciare, essi avrebbero dovuto ritirarsi tutti entro le Lunghe Mura, lasciando che i nemici invadessero e devastassero l’Attica senza mai affrontarli in campo aperto; nel frattempo, la supremazia navale avrebbe fornito ad Atene introi-

Mosaico raffigurante il generale e politico ateniese Alcibiade (450-404 a.C.). Età ellenistica. Sparta, Museo Archeologico.

perché la città non invecchi Nell’intervento di Alcibiade a sostegno della spedizione in Sicilia spicca una riflessione di carattere generale che rivela una «fisica della Storia» degna di un allievo dei sofisti, quale in effetti egli era: «La nostra città, se rimarrà inoperosa, si consumerà da sola come qualunque altra cosa, e ogni arte e sapienza invecchierà in essa. Invece, se sarà sempre in lotta, raccoglierà sempre esperienze nuove e si abituerà a difendersi piú nei fatti che nelle parole».

ti e approvvigionamenti, e in piú le avrebbe consentito di piombare ovunque lungo le coste peloponnesiache, saccheggiandole senza dare ai nemici il tempo di reagire; in ogni caso, ci si sarebbe dovuti astenere dall’effettuare ingenti spedizioni lontano dalla patria, le quali avrebbero messo a repentaglio, in caso di fallimento, troppi uomini e mezzi. Insomma, Pericle aveva previsto tutto.Tutto, fuorché la peste. Il male si abbatté poco dopo l’inizio del conflitto sulle decine di migliaia di cittadini ammassati entro le mura, feroce e incontrollabile. Ne sterminò gran parte, colpí il morale dei sopravvissuti e quasi certamente uccise, nel 429 a.C., lo stesso Pericle (anche Tucidide fu contagiato: ma si salvò). Privati del loro leader, afflitti da una calamità che non risparmiava soldati e marinai, gli Ateniesi tuttavia non si arresero. Questa prima fase del conflitto durò ben dieci anni, con alti e bassi, fino alla «pace di Nicia» del 421 a.C.

I protagonisti del conflitto Nicia era uno stratego, esponente aristocratico del partito conservatore: tradizionalista, uomo pio, ma anche un simpatizzante per gli Spartani, a cui toccò l’ingrato compito di condurre una guerra che non condivise mai fino in fondo. Insieme ad Alcibiade è il coprotagonista di questo conflitto, e, benché gli strali di molti storiografi, antichi e moderni, si appuntino soprattutto contro il «traditore» Alcibiade fu anch’egli artefice della catastrofe di Atene. E però, dopo quella pace temporanea, la potenza ateniese si poteva dire intatta: la città dominava sui mari, le casse del tesoro erano colme, gli abitanti, fiduciosi nel futuro, erigevano sull’Acropoli quel capolavoro di stile che è l’Eretteo. Tuttavia, non soltanto la peste aveva minato la salute della città. Anche la democrazia veniva gradualmente corrosa dall’avvento di una categoria di politici che le sono connaturati, e che allora apparvero per la prima volta: i demagoghi. Nicia, che pure


demagogo non era, non seppe tener loro testa: un’inettitudine che Atene pagò cara. Un esempio è quando gli Ateniesi riuscirono a intrappolare 300 opliti spartiati nell’isoletta di Sfacteria, lungo il Peloponneso (425 a.C.): egli tergiversò per settimane, esitando a sbarcare per catturarli, e, di fronte alle pubbliche critiche dell’avversario Cleone (il primo dei demagoghi, per Tucidide), non trovò di meglio che sfidarlo a prendere lui il comando, per dimostrare quel che

sapeva fare (proprio lui, che fino ad baldanzito, che dalla prosecuzione allora aveva diretto solo una bottega della guerra si attendeva maggiori di pellami..!). conquiste, sussidi, terre da espropriare oltremare per i meno abbienti. E cosí, quell’occasione irriLa pace rifiutata Quasi costretto dalla folla, Cleone petibile fu rifiutata. Solo quando accettò; e, contro ogni previsione, Cleone cadde in battaglia, sotto riuscí nell’impresa. Gli opliti avver- Potidea in Calcidica, Nicia riuscí a sari divennero cosí ostaggio della porre fine al primo round del concittà. Sparta, pur di riaverli, era flitto (421 a.C). pronta a una pace vantaggiosa per Ma oramai il veleno della demaAtene. Ma i demagoghi, Cleone in gogia era stato versato. E ancor testa, assecondarono il popolo im- piú grave fu che, per l’assenza di

La loggia delle Cariatidi dell’Eretteo, sull’acropoli di Atene. 421-406 a.C. Avvenuta all’epoca della guerra del Peloponneso, l’introduzione dell’ordine ionico, di cui l’Eretteo costituisce uno dei primi esempi, sottolinea l’alleanza stretta da Atene con le città stato della Ionia in funzione antispartana.


storia storia dei greci/15 Lekythos attica a figure rosse con erma di Hermes itifallico. Terzo quarto del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Della mutilazione delle erme, avvenuta la notte prima della partenza della spedizione ateniese in Sicilia, fu ingiustamente accusato Alcibiade.

Mare Adriatico Cuma

Napoli Taranto

L’area interessata dal conflitto del Mar Peloponneso Tirreno (431-404 a.C.) e i relativi schieramenti.

Metaponto

Mar Ionio

Magna Grecia Lipari

Segesta

Messina

Locri

Imera

Reggio

Naxos Selinunte

S i c i l i a Gela

Catania

Lentini Siracusa

Camarina

413 Plemmirio 414-413

Assinaro 413

Lega delio-attica

Vittorie ateniesi

Alleati di Atene

Vittorie spartane

Confederazione spartana e alleati

Campagne ateniesi

Stati neutrali

Campagne spartane

il fallo e il volto Hermes era il dio dei viaggiatori, dei viandanti, degli avventurieri: perciò agli incroci delle strade, anche quelle interne alla città, erano collocati i suoi busti sopra un pilastro, detti appunto Erme. In rilievo erano rappresentati unicamente il volto e il fallo del dio: parti che furono probabilmente oggetto dei colpi dei vandali.

98 a r c h e o

una figura dominante come Pericle, la democrazia cominciasse a girare a vuoto. Guerrafondai popolari da una parte e pacifisti conservatori dall’altra si alternavano al potere di anno in anno, impedendo che si seguisse una condotta lineare e razionale.

Ricco, colto e anche bello Alcibiade, in questo contesto, era una figura tutto sommato anomala. Aristocratico (imparentato con lo stesso Pericle); ricchissimo (gareggiò con tre equipaggi, vincendo, alla gara olimpica dei carri del 416 a.C.); colto ed eloquente (ebbe spesso la meglio negli agoni assembleari e fu intimo di Socrate); bello e affascinante (nonostante un difetto di pronuncia); ma, nonostante tutto ciò,


M a r Ne ro

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schierato dalla parte dei democratici: quindi avversario di Nicia. La catastrofe di Sicilia nacque proprio dai loro contrasti: ma anche dall’incapacità degli Ateniesi di scegliere nettamente uno dei due. Pur cresciuto a fianco di Pericle (che lo aveva preso con sé dopo la morte del padre), a un certo punto Alcibiade propose alla città di abbandonarne la strategia: si trattava di muovere una grande spedizione contro le poleis greco-doriche della Sicilia, Siracusa e Selinunte in testa, che minacciavano la sopravvivenza dell’elemento ionico locale aggredendo quelle alleate degli Ateniesi. L’obiettivo di piú lungo termine era conquistare la piú estesa, popolosa e fertile isola mediterranea per poi gettarsi contro i

Cauno

Peloponnesiaci con nuove risorse, e porre cosí termine una volta per tutte alla contesa con Sparta.

Una contromossa sbagliata I conservatori tentarono invano di disinnescare il fascino delle sue parole, che promettevano a un’Atene ancora all’apice della potenza di sfuggire a un possibile declino lanciandosi in quel nuovo, seducente azzardo. Ma poiché la proposta di Alcibiade ebbe la meglio, allora Nicia intervenne ancora in assemblea per rimediare a quello che riteneva un pericoloso errore. Col pretesto di garantire la riuscita dell’impresa, spiegò al demos che le città siceliote erano ben piú ricche e potenti di quel che si credeva, e che la pur ingente quantità di uomini e mezzi

150 Km

Trent’anni di guerra 431-421 a.C. Prima fase della guerra del Peloponneso; pace di Nicia. 430 a.C. Peste di Atene. 418-413 a.C. Seconda fase della guerra del Peloponneso; sconfitta dell’ateniese Alcibiade a Mantinea; Atene attacca Siracusa, alleata di Sparta, ma ne è sconfitta. 413-404 a.C. Terza fase della guerra del Peloponneso; lo spartano Lisandro sconfigge gli Ateniesi nella battaglia navale di Egospotami.

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storia storia dei greci/15 già deliberata era quindi insufficiente: se proprio si voleva tentare, essa andava addirittura raddoppiata. Sperava in cuor suo che gli Ateniesi, impressionati, avrebbero desistito. Ottenne l’opposto: i cittadini raddoppiarono le forze, quindi la posta dell’azzardo. Peggio: si illusero di cautelarsi combinando l’audacia di Alcibiade con la prudenza di Nicia, e assegnarono loro congiuntamente il comando: assieme a un terzo generale, Lamaco.

Giustizia ingiusta Ma, in una notte senza luna prima della partenza della flotta (la piú grande mai allestita da una sola città greca) si verificò l’evento che cambiò il destino della missione, e quindi di Atene: la mutilazione delle Erme (vedi box a p. 98). Non si trattò di una ragazzata, né dell’esuberanza di avvinazzati: fu atto sistematico e pianificato, giacché le statue furono sfregiate dai sacrileghi ovunque, senza che li si sorprendesse. Era un pessimo segnale, soprattutto per il momento scelto: si voleva far nascere la spedizione sotto auspici sfavorevoli. Per osservatori distanti nel tempo quali siamo, è facile intuire che gli autori della provocazione fossero stati gli avversari della spedizione, quindi di Alcibiade: i conservatori piú retrivi, oppure i democratici radicali che ne invidiavano la leadership, temendo, in caso di un eclatante successo, che egli puntasse alla tirannide. Ma nel demos, già aizzato vent’anni prima contro Pericle dai fanatici religiosi, montò una caccia alle streghe in cui si scaricarono le tensioni di una città che stava vivendo esperienze e contrasti mai conosciuti fino ad allora. Atene, o almeno una sua parte, era in preda a una vertigine causata dal sentiero ignoto su cui si stava avventurando. Le nuove idee filosofiche, il diffondersi della spregiudicatezza morale, l’assoluta originalità del sistema politico, il senso di solitudine e la coscienza degli enormi rischi e responsabilità propri di una grande potenza imperialistica, vi 100 a r c h e o

coesistevano pur sempre con la vecchia mentalità agricola e tradizionalistica dell’Attica: miscela potenzialmente esplosiva. L’episodio delle Erme ne fu l’innesco. Tutti i contrari alla radicale trasformazione della città, qualunque fossero le loro motivazioni, alzarono la testa, cogliendo il pretesto per aprire la caccia ai sacrileghi, ai miscredenti. In mancanza di prove, si cercarono indizi; in mancanza di indizi, ci si affidò a delazioni: che inevitabilmente colpirono coloro che, per mentalità o atteggiamenti, si riteneva avrebbero potuto essere i colpevoli... Lí per lí nessuno riuscí ad accusare direttamente Alcibiade e i suoi amici del misfatto; e tuttavia, si trovò chi r iferí che Alcibiade era solito commettere altre blasfemie: per esempio una volta aveva parodiato, in casa sua, i sacri misteri eleusini. Bastò questo perché venisse denunziato.

Invano egli si dichiarò innocente, anzi richiese un processo immediato prima della partenza della spedizione. Ma la perfidia degli avversari politici e personali non voleva che, ad assistervi, fosse l’esercito in armi, costituito prevalentemente da giovani che sostenevano il loro generale. Gli fu cosí imposto di partire comunque: sarebbe stato giudicato al ritorno.

Alla volta della Sicilia Dunque la grande flotta salpò dal Pireo (estate del 425 a.C.). Ma ecco che, appena arrivata in Sicilia, fu raggiunta dalla trireme di Stato ateniese, recante l’ordine per Alcibiade di tornare in patria per essere processato. La spedizione non era neanche cominciata che già la città le sottraeva il suo ideatore, l’unico che avrebbe potuto portarla al successo. Ovviamente, il generale non pensò in alcun modo di darsi in mano agli avversari. Appe-


In basso: Siracusa, la latomia del Paradiso, una delle antiche cave di pietra utilizzate, secondo Tucidide, come prigione per i superstiti della spedizione ateniese contro le città grecodoriche in Sicilia. A destra: una scena di commiato funebre con un giovane guerriero con lancia e petaso, raffigurata su una lekythos a fondo bianco. 440-430 a.C. Parigi, Musée des Beaux-Arts, Petit Palais. Durante la guerra, anche a causa dell’epidemia di peste diffusa all’interno delle mura e nelle fila dell’esercito, Atene perse circa un terzo dei propri cittadini.

na possibile, profittando di un scalo, si dileguò. Riparò a Sparta: e per Atene fu l’inizio della fine. E cosí in Sicilia 136 navi, 5100 opliti, 480 arcieri e 700 frombolieri, il meglio che Atene poteva mettere in campo, rimasero, sottolinea Tucidide, in balía di colui che li guidava «di malavoglia». Con una prudenza che sconfinava nella pavidità, Nicia non fece la cosa piú opportuna, cioè gettarsi subito sfruttando la sorpresa contro il principale obiettivo della spedizione, Siracusa. Invece perse tempo, vagando qua e là per reclutare rinforzi, e si presentò sotto le mura della città che erano già trascorsi sei mesi. E, dopo un primo scontro, si ritirò a Catania per svernare, attendendo l’inizio della primavera...

I consigli di Alcibiade Frattanto a Sparta, superate le titubanze iniziali, i Lacedemoni coi loro alleati accettarono i consigli che dava loro Alcibiade, che sembrava voler cambiare davvero campo: inviare subito soccorsi militari a Siracusa; e, allo stesso tempo, poiché gli Ateniesi restavano chiusi entro le Lunghe Mura, occupare stabilmente una fortezza nell’Attica, Decelea, e da lí tenere sotto tiro la città e bloccarne ogni movimento, almeno via terra. Bastarono queste due iniziative a mutare le sorti del conflitto. Nonostante gli Ateniesi, sempre su richiesta dell’ansiosissimo Nicia, gettassero l’anno successivo nella fornace dell’impresa un secondo esercito di poco inferiore al primo, inviandolo in Sicilia sotto la guida di un piú concreto Demostene, le cose laggiú si misero comunque male. Tanto che gli Ateniesi si trovarono, da assedianti che erano, assediati; fino a che, sconfitti per la prima volta anche sul mare, decisero il rientro in patria. Ma anche allora Nicia tergiversò, allungò pericolosamente i tempi: sapeva che gli Ateniesi non erano teneri con gli strateghi incapaci, e


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ancora sperava, forse, di ribaltare le sorti dell’impresa. Ma quando finalmente fu stabilita la data della partenza, ecco un nuovo imprevisto. Un segno dal cielo: un’eclisse totale di Luna. Subito gli indovini, che erano sempre al seguito delle armate, profetarono sciagure nel caso ci si fosse mossi.Tre volte nove giorni: tanto si doveva aspettare per la partenza. Né l’illuminato Pericle, né certo Alcibiade avrebbero dato retta a tali sciocchezze. Nicia, invece, non volle sentir ragioni, sostenuto da parte dell’esercito. E fu il disastro: quando, dopo quasi un mese, la flotta tentò di salpare, i Siracusani la sbaragliarono. Si dovettero abbandonare le navi, per tentare la fuga a piedi, verso l’interno. La spedizione che avrebbe dovuto segnare l’apoteosi di Atene si concluse cosí con un feroce tiro a segno su fuggiaschi senza meta, affamati, assetati e demoralizzati. Sia Nicia che Demostene caddero. I superstiti languirono nelle Latomie siracusane.

Una strada sbagliata A quel punto gli Ateniesi, o almeno parte di essi, pensarono di innestare la retromarcia. Se tutto stava per finire cosí male non era a causa di un incidente di percorso, ma perché la strada intrapresa dalla città era sbagliata: era pericoloso che questioni 102 a r c h e o

In alto: tetradramma d’argento con la testa della ninfa Aretusa, coniato a Siracusa. 405-400 a.C. Siracusa, Museo Archeologico. A destra: la battaglia navale di Egospotami, che segnò, nell’agosto del 405 a.C., la vittoria decisiva degli Spartani contro Atene. Litografia dell’inizio del XX sec.

importanti e delicate fossero affidate al popolo, instabile e suggestionabile, riunito in assemblee. Pensatori come Socrate osservavano già da tempo quanto fosse assurdo affidarsi a esperti e tecnici per le banali esigenze quotidiane, per poi affidare la nave dello Stato a chi non aveva la minima esperienza di navigazione tra i marosi della politica. Le consorterie aristocratiche (dette eterie) si mossero di comune accordo: nello scoramento generale si riuscí a far eleggere un Consiglio di dieci «probuli» (consiglieri) che avrebbero assunto i poteri della Bulè dei 500, per poi elabora-

re una riforma che riportasse Atene ai tempi della «Costituzione dei Padri»: ben oltre Pericle ed Efialte, Temistocle e Clistene, su fino ai tempi di Solone. Presto il potere fu trasferito a un Consiglio dei 400, composto da fautori dell’oligarchia: in attesa – si diceva – di selezionare 5000 cittadini atti a portare le armi (gli opliti, ceto medioalto), i quali soli avrebbero goduto dei diritti politici. Ma ciò non fece che scatenare un’altra tempesta: quanto restava della flotta, che da Samo reggeva ancora le sorti della talassocrazia ateniese, si ribellò al colpo di Stato,


per la sopravvivenza di Atene: la Propontide. A Cizico (410 a.C.) gli riuscí di distruggere l’intera armata avversaria. Sull’onda del successo, il generale rientrò in patria, e, mentre ogni accusa nei suoi confronti venne fatta decadere, condusse egli stesso gli Ateniesi nella annuale processione al santuario delle dee dei misteri, Eleusi.

minacciando di salpare contro la stessa città. Fu allora che ricomparve Alcibiade: quando vide la patria sull’orlo dell’abisso, la politica allo sbando, il demos rimordersi la coscienza per aver allontanato il suo leader piú capace; quando seppe che gli Spartani, per farla davvero finita con Atene, si erano rivolti alla Persia, per allestire anch’essi una flotta capace di bloccarla dal mare, allora mandò segnali di pacificazione ai ribelli: i quali, infine, lo accolsero. Solo lui, pensavano, poteva ribaltare la situazione. In effetti, Alcibiade quasi riuscí a salvare Atene. Scongiurò la guerra

Il colpo di coda e la fine E però Atene aveva esaurito ogni riserva, mentre Sparta poteva attingere alle casse senza fondo dei Persiani.Trovò un ammiraglio di grandi capacità, Lisandro, che riuscí a infliggere una sconfitta parziale a un luogotenente di Alcibiade (a Nozio, 407 a.C.). Bastò questo per volgere nuovamente l’umore degli Ateniesi contro il loro leader: che, a quel punto, amareggiato, gettò la spugna e li abbandonò per sempre, ritirandosi nei suoi possedimenti del Chersoneso. Quando i Peloponnesiaci, l’anno dopo (406 a.C.) riuscirono a intrappolare quanto restava del naviglio ateniese nel porto di Mitilene, la città, in preda al panico, fece uno sforzo supremo, arruolò perfino gli schiavi, bruciò le ultime risorse per armare una nuova flotta; e riportò una strenua ed estrema vittoria alle isole Arginuse. Il successo costò molte vittime, e una tempesta sopravvenuta aveva, pare, impedito di raccogliere i naufraghi ateniesi. Il demos, adirato, se la prese con gli strateghi vincitori, condannandoli a morte dopo un processo ingiusto, condotto a furor di popolo. Rimasta praticamente priva di una classe dirigente e di valenti generali, Atene cadde nella trappola fatale di Egospotami, in cui la sua ultima flotta venne distrutta prima ancora di salpare (405 a.C.). L’anno successivo la città si arrese: i vincitori abbatterono al suono dei flauti le Lunghe Mura di Pericle. (15 – continua)

civile, mentre quelli della città, incoraggiati dal suo ritorno, riuscirono a evitare che gli oligarchi realizzassero fino in fondo il loro piano segreto di aprire il Pireo agli Spartani. La democrazia fu restaurata, i «golpisti» processati, e tutto tornò come prima. O meglio, non proprio tutto, perché l’assenza di risorse impedí per qualche tempo il ripristino della retribuzione delle cariche. Infatti per ricostruire la flotta Atene dovette porre mano al suo fondo di riserva, voluto dal preveggente Pericle. Grazie a esso Alcibiade poté ripren- nella prossima puntata dere la guerra nella Ionia, guerra che poi si trasferí nel settore nevralgico • La democrazia e i suoi nemici

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Il mestiere dell’archeologo

di Daniele Manacorda

Un nettascarpe in ghisa compare in questo curioso dipinto ottocentesco di Philip Eustace, intitolato Latte versato. Collezione privata. L’attrezzo si riconosce sulla sinistra della tela.

perfino la remota Australia. Lo studio ne ha analizzato le forme e i modi d’uso, distinguendo due classi in base alle modalità di fissaggio, a terra o a parete. Questa tipologia è stata ordinata dagli autori passeggiando per alcuni quartieri di Roma presi a campione (Salario, Esquilino, Prati, Testaccio…) ed elaborando carte di distribuzione dei singoli tipi, cosí come un archeologo farebbe con qualsiasi manufatto antico.

Uno sguardo sul passato prossimo Un recente studio prende in esame una categoria di «reperti» decisamente insolita: i nettascarpe etnoarcheologia studia i comportamenti delle società L’ viventi, la loro cultura materiale e

l’uso che ne viene fatto, cercando di cogliere utili correlazioni fra queste pratiche attuali e la documentazione archeologica di età antiche, per riconoscere nei gesti odierni le tracce dei gesti passati: insomma, un modo di fare archeologia del contemporaneo. Sono freschi di stampa gli Atti del IV Convegno internazionale di Etnoarcheologia, tenutosi a Roma nel 2006 e che ora si prestano a letture e riflessioni. In particolare, vogliamo qui segnalare l’articolo di

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Olga Colazingari e Alessandro Guidi, che hanno scelto di analizzare una categoria di oggetti desueti delle nostre civiltà urbane occidentali: i nettascarpe, cioè quegli strumenti che svolgono, anche se ormai di rado, la funzione di permetterci di pulire le nostre scarpe prima di entrare in casa. Apprendiamo dunque che questi oggetti di ferro sono entrati a far parte del paesaggio urbano europeo sin dal Settecento, che in Inghilterra e in Irlanda si diffusero assai presto nelle belle case di età vittoriana, mentre conquistavano oltre Oceano la stessa America e

A stampo e in ferro battuto Anche in Italia i nettascarpe si diffondono nell’Ottocento in modo capillare, alcuni sono prodotti a stampo e impreziositi da decorazioni vegetali o animali sulle colonnine o alle estremità della lama, altri sono in semplice ferro battuto.Tra l’Ottocento e il Novecento alcuni esemplari di particolare pregio sembrano prodotti da officine ormai specializzate: i nettascarpe conoscono l’apogeo del loro favore, che raggiunse il culmine nel periodo fra le due guerre mondiali. Con il periodo fascista assistiamo infatti alla maggiore diffusione di questi strumenti, che accompagna l’espansione edilizia di Roma nei nuovi quartieri, già avviata in epoca umbertina. Dopo la guerra ha invece inizio una parabola discendente nella loro produzione. Scomparsi ormai quelli «a parete», incontriamo i nettascarpe «a terra» prevalentemente (e sempre meno) nelle aree urbane periferiche, spesso prive di strade asfaltate. Il progressivo rifacimento dei manti


stradali e la costruzione di nuovi marciapiedi hanno «affogato» i vecchi nettascarpe sotto strati successivi di asfalto o sotto nuove pavimentazioni all’interno dei condomini. Quelli che erano oggetti comuni dell’abitare piccolo e medio borghese sono oggi confinati nelle residenze di pregio, tra ville e giardini. Duplicità di una disciplina Ci si può domandare che senso abbia uno studio di tal genere, che potrebbe condursi – ma non è detto! – anche solo scartabellando i registri di produzione delle officine artigiane che realizzavano e mettevano in commercio questi attrezzi, in fondo tutt’altro che inutili. Molto ci potrebbero dire anche le informazioni orali, cioè i ricordi affidati alle interviste di chi produceva, vendeva, acquistava, usava, sostituiva, smontava o gettava i nettascarpe. E infatti la ricerca di cui stiamo parlando si è avvalsa anche di questo tipo di fonti. Ma il bello dell’etnoarcheologia è che il suo volto è duplice: nel momento stesso in cui ci dice qualcosa (e talora molto) sulla società di oggi (o appena di ieri), ci aiuta a verificare i nostri metodi di indagine archeologica, saggiandoli sul mondo attuale (dove possono essere verificati attraverso altre forme di conoscenza) per poi applicarli all’antico con maggior cognizione di causa. In altri termini, poiché lo studio del mondo contemporaneo si può avvalere di un numero assai alto di confronti e di parallelismi, che ci permettono di valutare piú in profondità il valore delle fonti materiali rispetto a quelle scritte, queste verifiche si riflettono positivamente anche nello studio di quei periodi piú antichi per i

quali le prime (cioè le testimonianze materiali studiate dagli archeologi) prevalgono nettamente sulle seconde. In conclusione, questi studi, solo apparentemente privi di un immediato valore storico, ci fanno riflettere sul nostro modo di lavorare e di interpretare i dati della cultura materiale. Perché – si domandano gli autori – la diffusione dei nettascarpe ha avuto un picco nel momento della crescita urbana di Roma e in particolare nel periodo fascista? Si

Un nettascarpe a parete in una via del quartiere Pinciano, a Roma.

confrontano due impostazioni, che ci aiutano a capire come possono ragionare diversamente due archeologi pur davanti alle stesse evidenze. Una spiegazione si attiene alla funzione pratica di quegli oggetti: la loro diffusione si spiega allora con il fatto che la nuova città in costruzione si espandeva in zone dove l’urbanizzazione apriva strade e piazze in aree un tempo agricole, in zone dunque sterrate e fangose, dove le scarpe dei nuovi abitanti si

inzaccheravano al momento del ritorno a casa. E c’è una spiegazione che tenta di andare al di là dell’aspetto funzionale di quegli oggetti, considerati invece anche come simbolo di un’epoca, quella dell’Italia liberale e ancor piú di quella fascista, nella quale la pervasività dell’ideologia dell’ordine sociale e del decoro esteriore si accompagnava alla proliferazione di regolamenti urbani, che favorivano la diffusione di questi oggetti utili e al tempo stesso «significativi». Molteplicità degli approcci Qual è la spiegazione giusta? Secondo Colazingari e Guidi è meglio evitare di abbracciare in modo acritico un approccio rispetto a un altro. La verità storica è complessa, e non si accontenta mai di una spiegazione sola. E noi siamo d’accordo con loro. L’archeologia globale, nella molteplicità dei suoi diversi approcci, mira a mettere in luce le diverse cause che agiscono nella storia, nei piccoli come nei grandi eventi. Sono cause di natura assai diversa, che spesso operano insieme, quasi indipendentemente le une dalle altre, in modo complementare. Scoprirne la concomitanza ci aiuta a prendere le distanze da certi atteggiamenti, assai diffusi anche in archeologia, che pensano di fare opera storica isolando nello studio di un fenomeno qualche causa dominante, economica o sociologica o ecologica che sia: una causa che lí per lí sembra chiarire le cose e che invece contribuisce ad annebbiarle, nascondendo la complessità delle storie grandi e piccole che l’archeologo si sforza di smontare per trovarne i complessi meccanismi che le hanno prodotte.

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L’età dei metalli Un quesito senza tempo La ricchezza fa davvero la felicità? O non conduce, piuttosto, alla dannazione, come sembrano ammonire, fin dall’antichità, innumerevoli miti e tradizioni leggendarie l concetto che l’oro – e con esso la ricchezza – non produca la Ifelicità è presente da millenni in

molte culture. Aristotele, nell’Etica a Nicomaco, sosteneva che non si doveva ricercare la ricchezza, poiché questa era solo un mezzo, non un fine; in una parabola del Vangelo di Luca, Gesú afferma che è stolto «chi accumula tesori per sé e non è ricco davanti a Dio». Miti, proverbi e leggende ammoniscono a non cercare la felicità nel possesso di tesori, anche sulla scorta dell’esaltazione della povertà che, almeno a parole, ha da sempre fatto il cristianesimo, collegando il denaro a Satana. Ma l’opinione che l’oro si accompagni all’infelicità ha origini ben piú antiche del cristianesimo e si ritrova nelle mitologie sia del mondo nordico che di quello mediterraneo.Viene, tra l’altro, espressa poeticamente nel Kalevala, poema epico nazionale delle genti finniche, composto nella metà dell’Ottocento sulla base di leggende popolari tradizionali della Finlandia. Il fabbro Seppo Ilmarinen – una sorta di Dedalo locale, che rappresenta la figura archetipica dell’artefice –, sebbene sia immortale e capace di realizzare ogni cosa, è sfortunato in amore. Dopo la morte della sua sposa cerca di fabbricarsene una nuova utilizzando i metalli piú preziosi,

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l’argento e l’oro, ma solo per scoprire con amarezza che questa sua «creatura» è… dura e fredda! L’antinomia fra oro e amore è presente anche nei miti grecoromani. Secondo la tradizione riportata da Ovidio nelle Metamorfosi, Mida il leggendario re della Frigia ebbe in dono dal dio Dioniso la capacità di mutare in oro tutto ciò che toccava. Ben presto, però, il sovrano si rese conto che quella era in realtà una dannazione: non solo non poté piú sfamarsi o bere, poiché tutto quel che sfiorava diventava istantaneamente d’oro, ma trasformò anche l’amata figlia in una statua aurea senza vita. La cupidigia avrebbe portato Mida alla morte se Dioniso, impietosito dalle sue suppliche disperate, non lo avesse privato di tale potere. L’oro del Reno Un’arcana maledizione sembra accompagnare anche i tesori: nella tradizione di molte regioni, queste ricchezze – sempre immaginate come accumuli di metalli preziosi, monete e gioielli – sono custodite da personificazioni del Male, streghe, demoni o draghi. È il caso della Fiaba del diavolo e del contadino raccolta nell’Ottocento dai fratelli Grimm, o di quella, piú recente, scritta da sir John Ronald R.Tolkien nel romanzo fantasy Lo

di Claudio Giardino


Nella pagina accanto: monumento eretto a Worms (Germania), nel 1905, in memoria del naufragio del leggendario tesoro dei Nibelunghi nel Reno. A destra: quattro bicchieri in argento recanti un itinerario via terra, dal deposito votivo di Vicarello, scoperto presso la fonte termale delle Aquae Apollinares, sul lago di Bracciano. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

hobbit, un’opera che pesca a piene mani nel folklore nordico.Tolkien, infatti, era un grande studioso di letteratura anglosassone antica e la figura del drago che protegge il tesoro è ispirata dalle saghe medievali islandesi. Nel mondo culturale e artistico degli ultimi due secoli ha avuto forti echi il mito germanico dell’oro del Reno, raccontato e messo in musica nell’Ottocento romantico da Richard Wagner. Esso trae evidente ispirazione dall’uso da parte delle popolazioni precristiane di considerare sacri gli specchi d’acqua, nei quali dimoravano delle divinità locali. Si usava quindi deporre come offerta votiva armi e altri oggetti di pregio in fiumi, laghi, paludi e pozzi, una consuetudine assai diffusa in tutta l’Europa protostorica, Italia inclusa. Nella prima parte dell’opera di Wagner L’anello del Nibelungo, le tre figlie del Reno, il cui compito è proteggere l’oro che giace nelle profondità del fiume, vengono ammirate dal nibelungo Alberico. I Nibelunghi sono un una stirpe di laboriosi nani metallurghi che vivono nelle viscere della terra e sono a conoscenza dei segreti della fusione del ferro.Alberico, attratto dalla bellezza delle fanciulle, cerca di afferrarle, ma esse gli sfuggono. Quando un bagliore tradisce la presenza dell’oro, le tre rivelano il

segreto potere del tesoro che custodiscono: chiunque sarà capace di forgiare con esso un anello dominerà il mondo, ma, per farlo, dovrà rinnegare l’amore. L’avido Alberico accetta la terribile sorte, impadronendosi del tesoro e dando cosí origine a una serie di sciagure che porteranno alla fine del suo mondo, al «crepuscolo degli dèi». Tesori leggendari e tesori reali La storia musicata da Wagner è basata sulle saghe norvegesi e su un poema epico medievale tedesco, il Canto dei Nibelunghi, a sua volta composto su tradizioni orali germaniche di eventi storici accaduti fra il V e VI secolo d.C. In esso si racconta la storia del principe Sigfrido, l’eroe che uccidendo il drago Fafnir si era impadronito del tesoro dei Nibelughi. Sigfrido, giunto alla corte dei Burgundi per conquistare la principessa Crimilde, dopo aver contribuito a sconfiggere i Sassoni e sposato Crimilde, viene ucciso a tradimento dai parenti di lei, decisi a impossessarsi del suo tesoro, occultato poi nelle acque nel Reno. Crimilde, rimasta vedova, per vendicarsi sposerà in seguito Attila, re degli Unni, che sterminerà i Burgundi. L’epilogo vede quindi l’annientamento di tutti i protagonisti e il compimento finale della

maledizione legata all’oro del Reno, che torna alla fine a giacere nei gorghi del fiume. Le storie sul rinvenimento di tesori nelle acque rispecchiano, sia pure trasfigurati e ingigantiti dal mito, eventi rari, ma reali. Le offerte di metalli, ma non solo di essi, alle divinità acquatiche sono numerose e sono attestate, oltre che nell’età del Bronzo, anche in quella romana. Un esempio significativo è il tesoretto diVicarello, località sul lago di Bracciano, non lontano da Roma. Esso venne scoperto nel 1852, durante il rifacimento delle terme che sfruttavano le proprietà terapeutiche delle acque, dove anche i Romani avevano costruito imponenti impianti termali. Gli antichi frequentatori, nel corso dei secoli, lasciarono all’interno della fenditura nella roccia da cui sgorgano le acque termali monete e oggetti, in segno di omaggio agli dèi.Venne cosí a crearsi una vera e propria stipe, costituita da circa 5000 monete bronzee greche, etrusche e romane – fra cui circa 400 kg di aes rude –, da tre vasi d’oro, venticinque d’argento e sei di bronzo, oltre a vari oggetti metallici tra cui bicchieri, piatti e statuette. Un nucleo consistente di monete pervenne al MedagliereVaticano, un altro andò invece al Museo Kircheriano, da dove passò al Museo Nazionale Romano; altri pezzi finirono invece dispersi.

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Divi e donne

di Francesca Cenerini

Che matrona esemplare! Sorella di Augusto, Ottavia fu una delle «signore» piú influenti del palazzo e venne celebrata come prototipo ideale di moglie e madre esaltato dalla tradizione A sinistra: busto di Ottavia, sorella di Augusto, da Velletri (Lazio). 40 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano. Stimata per le sue virtú fisiche e morali, Ottavia fu uno «strumento» politico nelle mani del fratello, che la fece sposare in seconde nozze con Marco Antonio, per suggellare la pace dopo l’accordo di Brindisi.

Parentele celebri

C. Giulio Cesare 46-44 a.C.

sp. Claudio Marcello (1) Ottavia

n questo numero ha inizio una nuova rubrica, che si occuperà Iancora di tematiche femminili, ma

con un diverso obiettivo: si tratta di una riflessione sulle cosiddette «imperatrici» romane. Con l’avvento del principato la politica viene sempre piú gestita all’interno della residenza e della famiglia dell’imperatore, la cosiddetta domus Augusta, che viene ad assumere la fisionomia di una vera e propria corte. In questo nuovo spazio, nel contempo fisico e ideologico, una delle funzioni piú importanti è quella di assicurare un successore all’imperatore regnante. In questo ambito, il ruolo femminile a corte non può che essere determinante e, sulla base di questa funzione,

Giulia Azia sp. Gaio Ottavio

(2) sp. Marco Antonio

C. Ottaviano Augusto

27 a.C.-14 d.C.

Gneo Domizio Enobarbo

Antonia Maggiore

Gneo Domizio Enobarbo Marcello sp. Giulia

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Marcella

Nerone

54-68 d.C.

Agrippina Minore

Antonia Minore

A sinistra: le origini e la discendenza di Ottavia. Nella pagina accanto: statua in marmo di Marcello, amatissimo figlio di Ottavia, nipote e genero di Augusto. 23 a.C. Parigi, Museo del Louvre


occorre riflettere sulla possibile influenza politica delle donne dell’imperatore e sul controllo della loro sessualità. In piú, se si considera che tutte queste Augustae sono molto ricche, ben si comprende come la materia che si intende trattare in questa rubrica si presti a una pluralità di interpretazioni, spesso in contraddizione tra di loro. Ma cominciamo dal principio. «Pedina» dell’imperatore Ottavia è la sorella del primo imperatore romano Augusto. Nel 35 a.C. Ottavia e Livia, moglie di Ottaviano e futuro Augusto, probabilmente in seguito a un provvedimento del senato, vengono tutelate con la concessione della sacrosanctitas, con l’esenzione dalla tutela muliebre, cioè il diritto di amministrare direttamente i propri beni, e con il diritto di essere onorate con statue (Cassio Dione, 49, 38, 1). Mi sembra evidente che Ottaviano nel 35 a.C., nel pericoloso clima da guerra civile, avvertisse la necessità di proteggere le «sue donne», la moglie e la sorella (cioè quelle che avrebbero potuto assicurargli un discendente di sangue) con la sacrosanctitas, cioè con la sicurezza e l’inviolabilità già propria dei tribuni della plebe. Ottavia è una pedina fondamentale nelle alleanze politiche del fratello, a cominciare dal contraddittorio rapporto di quest’ultimo con Marco Antonio, sconfitto definitivamente ad Azio nel 31 a.C. Dopo la morte del primo marito, il nobilissimo Caio Claudio Marcello, console del 50 a.C., Ottavia sposa Marco Antonio: tale matrimonio è una sorta di suggello del temporaneo riavvicinamento tra Antonio e Ottaviano in seguito agli accordi di Brindisi dell’autunno del 40 a.C., successivamente riconfermati dall’incontro di Taranto nell’autunno del 37

a.C. Plutarco (Vita di Antonio, 31, 5) dice che la legge romana non concedeva alla vedova la possibilità di risposarsi prima che fossero trascorsi dieci mesi dalla morte del marito (il cosiddetto tempus lugendi), ma che il senato, con un apposito provvedimento, dispensò i due coniugi dal rispetto di tale limite di tempo. Il solo Cassio Dione (48, 31, 3) dice che Ottavia era incinta del precedente marito,

ma probabilmente fa confusione. Ottavia, che diventa madre di due figlie, Antonia Maggiore, nata nel 39 a.C., e Antonia Minore, nata nel 36 a.C., trascorre un periodo di tempo in Grecia con Antonio (Appiano, Guerre civili, 5, 76, 322). La popolazione ateniese rende loro omaggio come divinità benefattrici, identificandoli come nuovo Dioniso e nuova Atena e il ritratto di Ottavia compare assieme a quello di Antonio su monete coniate da zecche orientali: il messaggio veicolato da queste emissioni allude alla concordia fra i due coniugi (e quindi fra i triumviri), rafforzata anche dalla loro somiglianza. Un «tesoro di donna» L’alleanza tra Ottaviano e Antonio si rompe definitivamente nel 32 a.C., quando Antonio, stabilitosi in Oriente alla corte di Cleopatra, tramite l’invio di una lettera (Plutarco, Vita di Antonio, 57, 4), impone il divorzio a Ottavia. Sorella del vincitore di Azio, Ottavia incarna il modello tradizionale femminile, opportunamente adattato alle circostanze. Le fonti che ne parlano, soprattutto Plutarco nella Vita di Antonio, ne enfatizzano le qualità fisiche, morali e intellettuali. Plutarco la definisce un «tesoro di donna» (Vita di Antonio, 31, 2), bella dentro e fuori, secondo i collaudati stereotipi della rappresentazione del modello idealizzato della matrona romana. In particolare Plutarco (Vita di Antonio, 35) sottolinea il ruolo di intermediazione svolto da Ottavia tra marito e fratello in occasione dei già citati accordi di Taranto: viene messa in luce la volontà di pace perseguita da Ottaviano, ovviamente secondo il punto di vista della propaganda augustea, quella del vincitore.

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Roma. Il portico di Ottavia, edificato da Augusto in memoria della sorella, tra il 33 e il 23 a.C., sui resti di quello di Metello della metà del II sec. a.C. Le strutture oggi visibili appartengono alla ricostruzione di epoca severiana.

Successivamente tale propaganda farà ricadere sul solo Antonio la responsabilità del conflitto e presenterà Ottavia come moglie e madre esemplare, ancorché brutalmente ripudiata dal marito che le aveva preferito la regina egiziana Cleopatra. Il suo ritratto si perfeziona nel suo iniziale rifiuto di abbandonare la casa di Antonio, come richiestole dal fratello (Plutarco, Vita di Antonio, 54, 1) e nella sua volontà di continuare a impersonare il suo ruolo tradizionale di matrona, considerandosi unica moglie legittima di Antonio, allevando ed educando le sue figlie, Antonia Maggiore e Minore, e anche Iullo Antonio, il secondogenito di Antonio e della precedente moglie Fulvia. In questo caso le fonti antiche hanno operato una precisa distinzione tra due modelli femminili: quello rappresentato da Cleopatra, la regina orientale dissoluta, che trascina Antonio nel vortice della passione sensuale, lo distoglie dai suoi doveri di uomo politico romano e lo coinvolge nella perversa aspirazione a una monarchia di tipo ellenistico; e quello rappresentato da Ottavia, fedele al tradizionale mos maiorum, moglie, madre e sorella virtuosa,

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devota alla famiglia, anche a scapito della propria soddisfazione personale.Virgilio definí Cleopatra Aegyptia coniux (Eneide, 8, 688), in contrapposizione a Ottavia, la legittima moglie di Antonio secondo il diritto romano. Amore filiale Anche dopo la morte di Antonio, Ottavia continua a incarnare questo suo ruolo: accoglie nella sua casa tutti i figli di Antonio, anche quelli di Cleopatra. Dal primo marito Caio Claudio Marcello, Ottavia aveva avuto tre figli, due femmine e un maschio: anche le due Marcelle, come le due Antonie, ebbero un ruolo di spicco nella corte di Augusto e, come tutte le nobildonne di età repubblicana, assecondarono le strategie politiche del capofamiglia con numerosi matrimoni e divorzi. L’unico figlio di Ottavia, Marco Claudio Marcello, era il parente maschile piú prossimo di Ottaviano Augusto e venne scelto, in un primo momento, come suo successore in pectore. La sua carriera magistratuale è fortemente accelerata (gli viene concesso di candidarsi al consolato con dieci anni di anticipo rispetto al cursus tradizionale, come scrive Cassio

Dione, 53, 28, 3) e gli viene data in moglie, nel 25 a.C., Giulia, l’unica figlia di Augusto. Marcello, però, morí a soli diciannove anni nell’autunno del 23 d.C., mentre ricopriva la carica di edile. Come sappiamo da Seneca (Consolazione a Marzia, 2), Ottavia rappresentò il modello retorico della madre inconsolabile, antitetico a quello, parimenti retorico, di eroica sopportazione del dolore impersonato da Livia nel 9 a.C. (Consolazione a Marzia, 3, 1-2) dopo la morte del figlio Druso Maggiore, in seguito a una caduta da cavallo sul fronte renanodanubiano. Il grammatico Elio Donato (Vita di Virgilio, 32) racconta che Ottavia sarebbe svenuta durante la lettura del famoso verso 883 dell’Eneide: tu Marcellus eris, sentendo pronunciare il nome del figlio amatissimo. Augusto aveva fatto restaurare la porticus Metelli con i proventi della guerra contro i Dalmati nel 33 a.C. e la aveva intitolata alla sorella (porticus Octaviae). Ottavia dedica alla memoria del figlio morto la relativa biblioteca, suddivisa in due sezioni, greca e latina, con apposito personale. Sempre in memoria di Marcello, Augusto fa costruire il teatro che a tutt’oggi porta il suo nome (Plutarco, Vita di Marcello, 30, 11). Ottavia muore nell’11 a.C.: l’orazione funebre è pronunciata dal fratello e dal genero Druso Maggiore (figlio di Livia e marito di Antonia Minore) (Cassio Dione, 54, 35, 4), e la salma viene sepolta nel mausoleo di Augusto. Si può presumere che nell’orazione funebre fossero esaltate e proposte come pubblico esempio la sua virtú, nobiltà d’animo, lealtà e umanità, qualità con cui è passata alla storia.



L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Festa di primavera Cosa lega la dea Flora, onorata con cerimonie licenziose e orgiastiche, alle vergini vestali, custodi del fuoco sacro di Roma? Vestale. Statua in marmo di Jean-Antoine Houdon. 1787. Parigi, Museo del Louvre. Incaricate di mantenere acceso il fuoco perenne del tempio della dea, le sacerdotesse di Vesta venivano scelte tra giovanissime nobili romane, obbligate alla verginità, per tutta la durata del sacerdozio.

al 28 aprile al 3 maggio si celebravano nel mondo D romano le feste in onore della dea

Flora, i Ludi Florales o Floralia (Ovidio, Fasti, IV, 184 ss.: Plinio Storia naturale, XVIII), antica divinità di origine italica che impersonava la potenza della natura in fiore e il suo pieno rigoglio.Varrone la vuole introdotta dal sabino Tito Tazio, che le dedicò un tempio a Roma nella zona del Quirinale, e la sua origine arcaica è attestata dal fatto che la dea compariva anche nelle invocazioni dei Fratelli Arvali, sacerdozio che si faceva risalire a Romolo, legato principalmente alla celebrazione rituale della terra e dei suoi frutti. La festa era contraddistinta da toni giocosi e licenziosi, in cui gli uomini si coronavano di fiori, le donne indossavano abiti sgargianti e ci si inebriava, per poi assistere a rappresentazioni teatrali e di mimo, condotte da protagoniste femminili, culminanti nella svestizione, in una sorta di spogliarello ante litteram al quale potevano partecipare anche le cortigiane. È evidente, nelle modalità della celebrazione, la stretta connessione tra fertilità e sessualità umana e naturale, inserita in un ambito di esaltazione della riproduzione, fonte di vita sotto ogni aspetto. È difficile immaginare un collegamento tra la tripudiante e disinibita Flora e la casta e severa


dea Vesta, divinità tra le piú importanti di Roma e patrona del focolare domestico, le cui sacerdotesse dovevano mantenere sempre acceso il fuoco nel tempio a lei dedicato. Le nobili fanciulle destinate giovanissime a tale sacerdozio erano oggetto di grandi onori e avevano l’obbligo alla verginità; solo alla fine del loro servizio, lungo trent’anni, potevano tornare alla vita civile e quindi anche sposarsi. Relazioni insolite Ebbene, la religiosità romana e il senso comune non dovevano trovare contrastante l’originale scelta iconografica operata dal magistrato monetario C. Clodius Vestalis, attivo nel 43/41 a.C. in questa carica e poi proconsole di Creta e Cirene. Sulle sue ricercate emissioni di denari e aurei, il nostro scelse infatti per il dritto la bella testa di Flora dalla elaborata acconciatura con corona di fiori, chignon sulla nuca e un lungo orecchino, la cui identificazione è offerta proprio dalla corona floreale, mentre, al rovescio, troneggia una donna riccamente abbigliata, seduta su un seggio con in mano il culullus, una brocca rituale in terracotta usata durante le libagioni da pontefici e vestali. La legenda sulle due facce compone il nome completo e abbreviato del magistrato, Caius Clodius Caii filius Vestalis. Le iconografie di età repubblicana mirano a celebrare la famiglia del monetario e le sue glorie avite, fossero esse di origine mitica nonché relative a personaggi storici del passato, poiché fino a Cesare non era concesso di rappresentare se stessi o personaggi viventi sulle monete. La testa di Flora, probabilmente, allude (ma l’ipotesi non è da tutti

condivisa) all’istituzione della festa Floralia a opera dell’avo Clodius Cento, console del 240 a.C., poi resa annuale da Clodius Servilius nel 173 a.C. (Ovidio, Fasti,V, 329). Dunque tale festività rappresentava motivo di orgoglio e vanto per gli appartenenti alla potente gens Clodia. Il rovescio è dedicato a un’ava

Denario di Caius Clodius Vestalis. 43-41 a.C. Al dritto (in alto) il busto di Flora, con corona floreale e giglio, con legenda C. CLODIVS C. F. Al rovescio, una vestale seduta, con culullus (brocca rituale) in mano, e legenda VESTALIS.

insigne, connessa al nome Vestalis del monetario, e una corrente di studio vi identifica la celebratissima vestale Claudia Quinta. La forza dell’innocenza In occasione della seconda guerra punica e delle sue incerte vicende, nel 204 a.C., i Romani consultarono i Libri Sibillini, nei quali si lesse che la vittoria avrebbe arriso a Roma se la pietra nera rappresentante la grande dea Cibele conservata a Pessinunte fosse arrivata nell’Urbe. La nave che la trasportava, però, si incagliò proprio alla foce del Tevere, risultando inamovibile. Interpellati i sacerdoti sul nefasto avvenimento, essi sentenziarono che soltanto una vergine immacolata avrebbe potuto disincagliare il vascello e trainarlo a braccia a Roma. Allora Claudia Quinta, accusata calunniosamente di impudicizia, si offrí di provare la propria innocenza: invocata la dea e dotata di forza sovrumana da Vesta stessa, la giovane, tra la meraviglia e il tripudio, trasportò con la sua cintura la nave in città, assicurando cosí la vittoria in guerra al suo popolo, dimostrando il suo candore e infine venendo celebrata addirittura con una statua, considerata simbolo della santità stessa della gens, inequivocabilmente cara agli dèi (Tacito, Annali, IV, 64). Un’altra interpretazione, invece, identifica la sacerdotessa seduta con la vestale Claudia, figlia di Appio Claudio Pulcher, console nel 143 a.C. La giovane, simbolo di amore filiale, difese il padre nel corso di un suo trionfo non apprezzato dal popolo romano e, per impedire che gli venisse arrecato danno, camminò presso il carro trionfale sino al tempio di Giove sul Campidoglio, forte dell’inviolabilità riservata alle Vestali.

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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Isabella Baldini, Monica Livadiotti (a cura di)

ARCHEOLOGIA PROTOBIZANTINA A KOS: LA BASILICA DI S. GABRIELE Ante Quem Soc. Coop., Bologna, 316 pp., ill. b/n. 30,00 euro ISBN: 978-88-7849-060-4 www.antequem.it

La basilica di S. Gabriele a Kos (Grecia) fu studiata da archeologi italiani negli anni Trenta del Novecento e poi trascurata, dal dopoguerra, per quasi ottant’anni. Quegli studi sono stati ripresi e portati a compimento, con le campagne di scavo 2007-2009, i cui risultati sono raccolti nel volume. Vengono presentate

l’analisi del monumento e delle sue diverse fasi di sviluppo, insieme alla contestualizzazione storica e topografica, che indaga il passato archeologico dell’isola e si sofferma sulle precedenti ricerche che

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l’hanno interessata, proponendo, infine, riflessioni sulle potenzialità di musealizzazione e fruizione del sito archeologico. La pubblicazione rappresenta un reale avanzamento negli studi sull’architettura religiosa in Grecia tra il V e il VII secolo e costituisce al tempo stesso un’operazione di recupero della storia culturale italiana. Paolo Leonini Andrea Fiorini (a cura di)

IL CASTELLO DI SORRIVOLI (RONCOFREDDO, FORLí-CESENA) Storia e archeologia dell’architettura Ante Quem Soc. Coop., Bologna, 90 pp., ill. b/n 20,00 euro ISBN 978-88-7849-064-2 www.antequem.it

Il processo di incastellamento nella Romagna è oggi un tema di grande attualità, e piú d’una ricerca sta appurando che, contrariamente a quanto ritenuto, già nel X secolo erano presenti nell’area numerosi castelli e che nel loro sviluppo non ci fu alcun ritardo rispetto ad altre aree geografiche. Il castello di Sorrivoli è, anche per questo, una testimonianza particolarmente significativa, di cui sono qui pubblicati gli studi che lo hanno riguardato. Dopo la descrizione

ISBN 978-0-19-974282-0 www.oup.com

delle strutture superstiti e un inquadramento storico (Andrea Fiorini), si esaminano le fonti scritte, iconografiche e cartografiche (Fiorini) e si illustrano le metodologie di ricerca (Alberto Urcia). Seguono poi l’analisi delle fasi edilizie (Emanuela Maroni), dei materiali costruttivi e relativa provenienza (Fabio Zaffagnini), quindi l’esame delle aperture (Maroni), delle murature (Fiorini, Maroni), degli apparati decorativi (Fiorini) e infine l’analisi mensiocronologica (Enrica Giorgioni) e dei canoni mensori (Valentina Archetti, Andrea Fiorini). Il riepilogo finale ripercorre l’evoluzione del sito nei secoli (Fiorini). P. L.

dall’estero Thomas Wynn and Frederick L. Coolidge

How to think like a neandertal Oxford University Press, Oxford-New York, 210 pp. 24,99 USD

Frutto delle ricerche congiunte di un archeologo (Wynn) e di uno psicologo (Coolidge), da anni impegnati in studi sull’evoluzione dei processi cognitivi, il volume aggiunge un ulteriore tassello alla «riabilitazione» dell’Uomo di Neandertal. Di questo nostro parente, ormai considerato piú che prossimo, vengono analizzati il pensiero, il possibile approccio alllla vita di ogni giorno – comunque ben diversa dalla nostra –, il modo di porsi e di relazionarsi con i propri simili. Un ritratto, insomma, che intende definire l’aspetto forse piú

sfuggente, ma al tempo stesso piú intrigante di questo antenato della nostra specie. Che, come si scopre leggendo, era tutto, fuorché il rozzo e brutale omaccione di tante visioni tradizionali. Stefano Mammini



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