Archeo n. 328, Giugno 2012

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2012

ercolano e pompei

romani in germania

persepoli

divinazione etrusca speciale sardegna preistorica

€ 5,90

Mens. Anno XXVIII numero 6 (328) Giugno 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 328 giugno

vo es c luasziz o l

i l pa d i dar i o a c ome er te n verame

persepoli i colori del potere

etruschi

sacerdoti e indovini

ercolano e pompei

quando il mondo riscoprí l’antico

speciale

la sardegna nella preistoria

PAST

PASSIONE PER LA STORIA



Editoriale La (nostra) memoria di Adriano Chissà quanti dei nostri lettori hanno seguito le recentissime vicende intorno a Villa Adriana, la grande opera architettonica voluta e progettata dall’imperatore a partire dal 125 a.C.: ne abbiamo parlato nel numero di gennaio («Archeo» n. 323, alle pagine 8-11), rivelando l’incredibile proposta di allestire, a qualche centinaio di metri dall’area archeologica, una discarica enorme, finalizzata ad accogliere ampia parte dell’immondizia della Capitale. L’esito della vicenda è di questi giorni: dopo mesi di proteste e mobilitazioni a livello nazionale e internazionale (Villa Adriana è iscritta nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO dal 1999), culminate nelle dimissioni del Presidente del Consiglio superiore dei beni culturali, Andrea Carandini («Ho raggiunto il limite della tolleranza civica e personale» ha scritto l’archeologo), e in quelle, minacciate, dello stesso ministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, il progetto è stato archiviato: nessuna discarica mortificherà la memoria di Adriano… Come commentare l’intera vicenda? Tirando un sospiro di sollievo, quello sí, per un pericolo scampato che – se confrontato con la sfida lanciata alla nostra capacità di ricostruzione e salvaguardia dalle distruzioni che si stanno susseguendo, proprio mentre scriviamo, nei luoghi del terremoto in Emilia – può sembrare poca cosa. Ma è, tuttavia, un segno. Di una volontà, di una mentalità rivolta al nostro passato che – con passione e, talvolta, straordinario ingegno – ha coltivato, rinsaldato, ricostruito il patrimonio della nostra memoria collettiva. Siamo consapevoli di dire cose scontate, ma, in momenti difficili, giova molto ricordare imprese e risultati virtuosi della storia passata (nonché di quella attuale, come lo stesso salvataggio in extremis di villa Adriana). Per non correre il rischio di ripeterne, invece, gli errori e, magari, anche per rimediare agli stessi. Andreas M. Steiner

Villa Adriana. Due vedute della magnifica residenza voluta dall’imperatore Adriano nei pressi dell’odierna Tivoli: il cosiddetto Teatro marittimo (in alto) e il Canopo (in basso).



Sommario

Editoriale

La (nostra) memoria di Adriano

3

Le meraviglie del Regno-Giardino

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di Esaú Dozio

di Andreas M. Steiner

Il Vesuvio in mostra

Attualità notiziario

68

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di Esaú Dozio

8

scavi Interventi di archeologia preventiva in Umbria rivelano nuove e importanti testimonianze d’età romana 8 incontri Chianciano Terme e la Val di Chiana danno il via alla seconda edizione dell’Archeofest 14

dalla stampa internazionale

Roma e la «Germania Libera» prima dell’eruzione del 44 Vesuvio di Harald Meller

i luoghi della leggenda Persepoli. Il potere invisibile 52 di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

La Turchia lancia la sfida alle grandi collezioni museali internazionali

20

da atene Nuova luce (e aria) per Akrotiri

22

storia

Gli Etruschi visti dagli altri/5

I piú religiosi di tutti 68 gli uomini di Daniele F. Maras

speciale

Archeologia della Sardegna/1

La Sardegna prima della storia

76

di Anna Depalmas

52

di Valentina Di Napoli

ercolano e pompei Quando il mondo riscoprí l’antico di Friedrich-Wilhelm von Hase

26

26

76 Rubriche il mestiere dell’archeologo Ci vuole cosí poco...

104

di Daniele Manacorda

divi e donne Tutti i volti di Livia

108

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Bello da morire

112

di Francesca Ceci

libri

114












Calendario Italia Roma

Vetri a Roma

Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12

Orti e giardini

Il cuore di Roma antica Palatino fino al 14.10.12

montepulciano Medaglione in foglia d’oro incisa e dipinta tra due strati di vetro con ritratto maschile. Prima metà del III sec. d.C.

L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 15.07.12

Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

TerredAcque

Per un’anteprima del Museo Nazionale di Archeologia del Mare Centro Culturale «A. Bafile» fino all’08.12.12

pienza

Tular-Tolle

chianciano terme

Testimonianze etrusche tra Val di Chiana e Val d’Orcia Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30.09.12 (dal 14.07.12)

De Chirico

Il ventre dell’archeologo Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12 (dall’08.07.12)

Ori e gemme del Museo Nazionale Etrusco

Museo Nazionale Etrusco fino al 30.09.12 (dall’08.07.12)

Il Vaso François

Museo Civico «La Città Sotterranea» fino al 31.10.12 (dal 21.07.12) Guidonia Montecelio (Roma)

Archeologi tra ‘800 e ‘900 Città e monumenti riscoperti tra Etruria e Lazio antico Ex Convento San Michele fino al 05.11.12

Montefiore Conca (Rn)

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12

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Vasi, lucerne e balsamari da vari corredi tombali, dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.

piacenza

Caorle (VE)

chiusi

Noventa di Piave (Ve) Materiali dal monastero di S. Chiara di Cella Nova a Padova Veneto Designer Outlet, CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia) fino al 30.06.12.

Etruschi

Capolavori dal Museo Archeologico di Firenze Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12 (dall’08.07.12)

Dal mondo egizio agli Etruschi Museo Civico Pinacoteca Crociani fino al 30.09.12 (dal 09.07.12)

Le memorie ritrovate

asti

Splendori

Una porta sull’aldilà

teramo Giorgio De Chirico, Archeologi con bambino, gruppo in bronzo, da un bozzetto in gesso del 1969.

Ashby e l’Abruzzo Ai primi del Novecento, l’archeologo inglese Thomas Ashby intraprese sei viaggi in Abruzzo lasciandoci una meravigliosa collezione di fotografie, rimaste inedite fino a noi. Lo sguardo di Ashby colpisce perché va molto oltre l’archeologia, l’antropologia e l’architettura. L’Abruzzo che lui cerca e trova, percorrendolo a piedi e in bicicletta, è il luogo dove, accanto alle pietre e ai reperti delle vestigia romane, vi deve ancora essere quella cultura che delle pietre è la continuazione, l’autentica durata. Una cultura da registrare in fretta – con mezzi nuovi come la fotografia – e accuratamente – con trascrizioni, interviste, appunti – perché, Ashby lo sa bene, presto sarà cancellata dall’avvento della modernità. Nata dalla collaborazione tra la British School at Rome e Ad.Venture srl, la mostra propone 75 immagini fotografiche, stampate con l’antica tecnica al carbone. dove e quando Museo Civico Archeologico «F. Savini» fino al 30.09.12 (prorogata) Orario ma-do, 10,00-13,00 e 17.0021,00: lu chiuso Info tel. e fax 0861 240546; www.teramomusei.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

spira

tivoli

Adriano e Antinoo

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12 venafro

La testa dell’Antinoo Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

Paesi Bassi Leida

Un fiume come memoria Museo del Louvre fino al 25.06.12

Isole degli dèi

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

I Galli

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12

I giardini dei faraoni

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

lione

Svizzera

Il sottosuolo dell’Antiquaille

Reperti da un antico convento Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière fino al 30.11.12

ginevra

Al calar delle tenebre

saint-germain-en-laye In alto: statua in marmo della dea dell’abbondanza. II-III sec. d.C.

Quando l’archeologia diventa un fumetto Musée gallo-romain fino al 27.08.12

USA

Strasburgo

filadelfia

Un’arte dell’illusione

Pompei, Nola, Ercolano

Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 26.08.12

Prangins Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12

L’elmo di Agris

halle

Arte e storia dell’illuminazione Musée d’art et d’histoire fino al 19.08.12

Archeologia

saint-romain-en-gal

Germania

Gran Bretagna Tesori dalle tombe della dinastia Han The Fitzwilliam Museum fino all’11.11.12

Arles, gli scavi del Rodano

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Ornamento in giada con maschera animale. Dinastia degli Han Occidentali, II sec. a.C.

Alla ricerca dell’immortalità

Parigi

Musée d’Archéologie nationale fino al 04.09.12

Capolavori del Museo Egizio di Torino Museo Storico del Palatinato fino al 02.09.12

Cambridge

Francia

Il Museo d’Archeologia nazionale e i Galli dal XIX al XXI secolo

Egitto, tesori scoperti

Una delle tavole realizzate per la storia a fumetti Il vero elmo di Agris.

Maya 2012: signori del tempo

Riproduzione dell’affresco con scena di taurocatapsia dal Palazzo di Cnosso.

University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13 new york

L’alba dell’arte egiziana

The Metropolitan Museum of Art fino al 05.08.12

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pompei la riscoperta dell’antico

mondo l antico ’ riscoprí di Friedrich-Wilhelm von Hase

Quando il

U

na sorta di memoria collettiva sembra avere conservato intatto attraverso i secoli, fino a oggi, il ricordo dell’eruzione del 79 d.C. e delle città distrutte del Golfo di Napoli, proverbialmente note, già nell’antichità, per la bellezza del loro paesaggio. Sulla Tabula Peutingeriana, una pianta elaborata tra il XII e il XIII secolo da una mappa antica, sono registrate, quasi fossero ancora esistenti, le località sepolte. Anche alcune fonti letterarie del XV e del XVI secolo attestano come la memoria della catastrofe fosse ancora viva. Fra il 1594 e il 1600, infine, affiorarono le pr ime vestigia dell’antica Pompei, durante la costruzione del canale di Sarno, che attraversava il sottosuolo dell’antico abitato. Nel 1689, durante lo scavo di un canale nel centro di Civita, ci si imbatté in ulteriori resti della città. Nel 1748 iniziarono gli scavi ufficiali, ma solo nel 1763, quando si rinvenne presso la Porta Ercolanese l’iscrizione di Tito Suedio Clemente, che si riferisce alla res publica Pompeianorum (la città di Pompei), tutti i dubbi sull’identificazione del sito vennero fugati. Problemi piú ardui erano presen26 a r c h e o

tati dall’assetto geomorfologico del vicino sito di Ercolano, dove uno strato di fango lavico solidificato e compatto ricopriva per uno spessore di diversi metri tutto quanto l’intero abitato antico. A complicare ulteriormente lo svolgimento dei futuri scavi, un insediamento moderno si era sovrapposto a quello antico. Per questo motivo, fino a oggi, solo un quarto dell’area di Ercolano è stata investigata, mentre Pompei è stata riportata alla luce per circa i due terzi della sua estensione.

I primi reperti da Ercolano Già nel XVI secolo erano state rinvenute sculture e iscrizioni nel territorio dell’antica Ercolano. Il sito, però, fu identificato con certezza solo nel 1710, quando un contadino di Resina, che lavorava allo scavo di un pozzo, estrasse dal terreno antichi frammenti marmorei. I reperti, insieme con tutto il podere e il pozzo furono acquistati da un uomo di dubbia fama, il generale austriaco Emanuel Moritz von Lothringen, principe di Elboeuf. Il generale, ch’era giunto in Italia con le truppe di occupazione stanziate a Napoli, iniziò nel 1711 la costruzione di una sua villa a Portici, con l’intenzione di ornarla

di statue antiche. Decise perciò di scavare a proprie spese in quel sito tanto promettente, cercando altri reperti, che ben presto non mancò di trovare. I suoi sterri, infatti, avevano interessato la scena del teatro di Ercolano, una struttura piccola, ma splendidamente arredata. Tra le sculture emerse in quell’occasione vi furono tre statue femminili drappeggiate di finissima fattura, copie romane di originali greci del IV secolo a.C., in seguito battezzate dagli studiosi «la grande e le piccole Ercolanesi». Dopo riflessioni certo non ispirate da mera generosità, d’Elboeuf le fece spedire segretamente, via Roma, a Vienna, al cugino amante delle arti, il principe Eugenio di Savoia. E nella capitale asburgica le statue, esposte al Belvedere già nel 1713, non mancarono di suscitare sensazione. Dopo la morte del principe Eugenio, le tre Ercolanesi furono acquistate dal principe elettore Federico Augusto di Sassonia, giungendo cosí a Dresda, la piú splendida delle corti tedesche, già nel 1736, cioè prima ancora dell’inizio ufficiale degli scavi di Ercolano, che risale al 22 ottobre del 1738. E a Dresda si possono


Perché tre raffinatissime sculture, venute alla luce durante gli scavi di Ercolano ai primi del Settecento, sono conservate in un Museo della Sassonia? E cosa ci fa il manico di una casseruola di bronzo prodotta a Pompei all’interno di una necropoli germanica? E, ancora, quanti di voi conoscono la vicenda di quel principe tedesco che, nel suo piccolo regno lungo il fiume Elba, ricostruí le antichità del Golfo di Napoli, offrendole al godimento dei suoi sudditi? Apriamo con la rievocazione dei primi scavi delle città vesuviane il racconto di uno straordinario capitolo della nostra storia culturale. Che da quel fatidico 79 d.C. si prolunga, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri…

Statua in bronzo di corridore, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. Copia romana del I sec. d.C. da un originale greco del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Ove non altrimenti specificato, le opere d’arte e i reperti archeologici riprodotti in queste pagine sono attualmente esposti presso il Landesmuseum di Halle, nella mostra «Pompei, Nola, Ercolano. Catastrofi sotto al Vesuvio».


pompei la riscoperta dell’antico Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Replica del ritratto di Angelika Kauffmann del 1764 eseguita da Ferdinand Herrmann nel 1794. Halberstadt, Gleimhaus, Porträtsammlung Freundschaftstempel.

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il «padre» dell’archeologia Johann Joachim Winckelmann, lo studioso destinato a diventare famoso in tutto il mondo, come il fondatore dell’archeologia scientifica e della storia dell’arte, era nato il 9 dicembre 1717 a Stendal (nell’allora Prussia, oggi Sassonia-Anhalt), in una famiglia di modestissima condizione. Diplomatosi presso la scuola di latino della città natale, dove ricevette le basi della sua formidabile cultura filologico-umanistica, frequentò dapprima la facoltà di teologia protestante della celebre università di Halle. Proseguí gli studi a Jena, questa volta nelle discipline della medicina e della matematica. Nel 1748 accettò un posto di bibliotecario presso il conte von Bönau a Nöthnitz, vicino Dresda. Qui compose la prima delle sue opere destinate alla notorietà: Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (Riflessioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura), pubblicata a Dresda nel 1755, nella quale già si occupò, con entusiastiche lodi, delle tre «Ercolanesi». La fama delle straordinarie doti e delle eccezionali conoscenze di Winckelmann in campo archeologico si diffuse rapidamente. Ne fu particolarmente colpito il nunzio apostolico, conte Alberico d’Archinto, che prese lo studioso sotto la sua protezione e ne favorí energicamente l’avanzamento di carriera. Si deve peraltro ascrivere all’influenza dell’alto prelato la conversione di Winckelmann al cattolicesimo, avvenuta nel 1754: un passo compiuto, probabilmente, piú con un occhio ai possibili vantaggi professionali che per intima convinzione. Già l’anno seguente, infatti, Winckelmann poté realizzare il sogno della sua vita: vedere Roma.Vi giunse il 18 novembre del 1755, in qualità di «Pensionaire du Roi», ovvero di stipendiato dal re di Sassonia, e la città dei papi doveva presto diventare la sua seconda patria. Lo studioso, ormai promosso ad «Abbé Winckelmann», ottenne nel giro di pochi anni i piú alti onori e le piú alte cariche, come nessun tedesco prima di lui e nessuno dopo di lui. Nel 1764 fu nominato Antiquario della Camera Apostolica e Presidente dell’Amministrazione delle Antichità Papali. I quattro viaggi che lo studioso intraprese fra il 1758 e il 1767 a Napoli e dintorni, visitando Ercolano, Pompei e Stabia, gli altri siti e le collezioni antiche, furono di straordinaria importanza per lo sviluppo delle sue teorie scientifiche e le future pubblicazioni. Munito di lettere di presentazione dei sovrani di Dresda e di Roma, gli fu addirittura possibile fermarsi per giorni nel famoso Museo di Portici, approfondendovi gli studi, a onta delle severe norme cui erano sottoposti i visitatori. Fu cosí che Winckelmann divenne testimone diretto delle prime, grandiose scoperte archeologiche sul Golfo di Napoli, degli scavi a Ercolano, Pompei e Stabia. La fine dell’uomo la cui importanza per la storia dell’arte, l’archeologia classica e la stessa estetica del classicismo non potrà mai essere sottolineata a sufficienza, fu tragica. L’8 giugno del 1768 Winckelmann fu vilmente accoltellato nella sua stanza d’albergo a Trieste. L’assassino, un certo Francesco Arcangeli, considerava il celebre studioso «uomo di poco conto» e aveva preso di mira le preziose medaglie da poco ricevute dallo studioso a Vienna, dall’imperatrice Maria Teresa in persona. Johann Joachim Winckelmann fu sepolto a Trieste, città che, in seguito, dedicò alla sua memoria un monumento funebre, oggi collocato nel lapidario della Cattedrale.


ammirare tuttora nelle Staatliche Skulpturensammlungen (le collezioni statali di statuaria antica). Johann Joachim Winckelmann, che allora, come vedremo, risiedeva proprio nella «Firenze sull’Elba», salutò il loro arrivo con queste parole: «Merita sia comunicato a tutto il mondo che queste tre divine sculture costituiscono il primo vestigio dell’imminente scoperta dei tesori sepolti di Ercolano».

L’inizio degli scavi Una volta intrapresi in forma ufficiale sotto il patrocinio della corona, dal punto di vista politico-culturale gli scavi costituirono un’impresa quanto mai significativa per il regno di Napoli. Con l’obiettivo di ottenere i maggiori risultati nel minor tempo possibile, si cercava di riportare alla luce soprattutto le opere d’arte. La direzione generale degli scavi fu affidata dapprima allo spagnolo don Rocco Gioacchino de Alcubierre, ingegnere e comandante del genio nell’armata napoletana. L’esecuzione effettiva dell’opera fu delegata a uno svizzero, l’ingegnere militare Karl Weber, giunto a Napoli nel 1737 con un esercito al soldo della corona, il quale presto si guadagnò grandi meriti per l’oculatezza e il metodo usati durante gli scavi. Si ricominciò là dove già d’Elboeuf aveva avuto fortuna. Vennero cosí alla luce altri settori dell’antico teatro, e presto la discesa a lume di fiaccole entro «le grotte» fu per i visitatori una delle attrazioni principali. Da parte tedesca non si sottrassero a questa esperienza, fra gli altri, Wilhelmine von Beyreuth (1755), lo stesso Winckelmann (1758), Friedrich-Wilhelm von Erdmannsdorff (1766) e Johann Wolfgang von Goethe (1787). Ma ancor piú spettacolari furono le scoperte succedutesi, dal 1750 in poi, al di fuori dell’antico centro abitato, e che ebbero un’enorme risonanza in tutt’Europa. Durante lo scavo di un pozzo, ven-

Le regine del teatro Tra i primi scavatori del sito di Ercolano vi fu il generale austriaco Emanuel Moritz von Lothringen, principe d’Elboeuf (1677-1763). Questi, lavorando nell’area del teatro, riportò alla luce tre statue femminili, che furono ribattezzate Piccole e Grande Ercolanese. Sono copie romane della prima età imperiale di originali, in bronzo, della prima età ellenistica.

In alto: la Grande Ercolanese (alt. 196 cm), che, in realtà, può forse essere identificata con una immagine della dea Demetra. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. A destra: una delle Piccole Ercolanesi (alt. 180 cm), verosimilmente identificabile come Kore. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen.

nero alla luce i resti di una grandiosa villa del I secolo d.C., la cosiddetta Villa dei Papiri. Procedendo nello scavo per cunicoli sotterranei, Weber riuscí a individuare con eccezionale precisione l’impianto del fabbricato – esteso per una lunghezza di 280 m e una larghezza di 80 – tanto che gli fu possibile disegnarne una pianta tuttora affidabile, con l’indicazione precisa dei luoghi dei singoli ritrovamenti. I reperti recuperati arricchirono le collezioni reali di capolavori incomparabili: il «bottino» archeologico includeva piú di ottanta sculture, sia in bronzo che in marmo, mosaici, rivestimenti pavimentali, affreschi e squisiti oggetti di arte minore, nonché gran parte della ricchissima biblioteca, comprendente circa 1800 rotoli di papiro carbonizzati.

Nella Villa dei Papiri Gli scavi alla Villa dei Papiri furono effettuati fra il 1750 e il 1761, con una ripresa nel 1764-65, e poi interrotti per sopravvenute esalazioni sotterranee di gas. Si tornò a scavare nel 1986, per interrompersi ancora nel 1998. La scoperta dei papiri suscitò enorme interesse non solo fra gli studiosi napoletani, ma anche in Winckelmann, ormai stabilito in Italia, il quale ne riferí dettagliatamente a Dresda. La conservazione e la decifrazione dei preziosi rotoli sollecitò l’impegno di generazioni di specialisti, dalla seconda metà del secolo XVIII fino ai nostri giorni (per farsi un’idea dell’aspetto originario della Villa dei Papiri, basta osservare la villa del petroliere americano J. P. Getty a Malibu, presso S. Francisco, oggi sede del Getty Museum: il complesso è stato, infatti, costruito nel 1974 sulla base delle piante redatte da Karl Weber). Anche gli scavi condotti in altre zone della città portarono a risultati eccellenti, come la scoperta della cosiddetta Basilica, dove, già nel 1739, furono rinvenute statue a r c h e o 29


pompei la riscoperta dell’antico di ottima qualità e affreschi come quello, celeberrimo, con la rappresentazione del centauro Chirone che insegna ad Achille a suonare la lira: un dipinto che suscitò forte suggestione ai tempi della scoperta, come dimostra la replica, piuttosto semplificata, eseguita per il castello di Wörlitz. A Pompei, intanto, gli scavi ufficiali erano iniziati nel 1748, anche in questo caso sotto la supervisione di Karl Weber. E anche qui l’obiettivo principe era lo stesso: giungere ad altre scoperte spettacolari. E, infatti, statue di bronzo e di marmo, monili d’oro, vasi d’argento, piccoli oggetti di pregio, vasellame di bronzo e di terracotta e, soprattutto, splendidi affreschi riaffiorarono

da molte dimore. Come già a Ercolano, anche a Pompei mancò, inizialmente, una reale pianificazione nella scelta delle aree adatte a essere scavate. Del resto né qui, né altrove si era ancora fatto strada un metodo di indagine fondato su criteri scientifici.

granchi; un’asserzione che, una volta pervenuta alla corte napoletana, provocò, almeno temporaneamente, comprensibili malumori. Ancora qualche decennio piú tardi, nel 1787, Goethe annotava dopo una visita a Ercolano: «È un gran peccato che gli scavi non siano intrapresi da minatori tedeschi seguendo un piano chiaro e prestabilito: giacché è pur certo che frugando a caso e sottraendo qualcosa qua e là molti tesori sono andati perduti». Nel 1780 la direzione degli scavi fu affidata all’architetto spagnolo Francesco La Vega, sotto la cui supervisione si scavarono interi tratti stradali e si giunse a compilare una prima pianta di Pompei. Le indagini interessarono dapprima l’area

«Gotico» sarcasmo A causa della sua incompetenza, Alcubierre, il direttore degli scavi, attirò su di sé le pungenti ironie di Winckelmann, che, all’occasione, poteva dimostrarsi assai poco diplomatico e, addirittura, fazioso. «Il Goto» (com’era soprannominato) notava con sarcasmo che lo Spagnolo aveva tanto a che fare con l’archeologia quanto la luna con i

Pompei e i suoi monumenti

Pianta di Pompei, con l’indicazione dei monumenti civili e religiosi piú importanti, nonché di alcune delle residenze piú famose e ricche. Fondata forse già alla fine del VII sec. a.C., la città, al momento della distruzione, era arrivata a occupare una superficie pari a 66 ettari circa. Di questi, 44 sono stati finora dissepolti, grazie alle numerose campagne di scavo succedutesi a partire dal 1748, quando Carlo di Borbone, con l’intento prevalente di conferire prestigio alla casa reale, affidò l’incarico di condurre le prime esplorazioni all’ingegnere militare spagnolo Rocco Gioacchino de Alcubierre.

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I primi scavi dell’Iseo di Pompei, in una tavola realizzata da Pietro Fabris per l’opera di Sir William Hamilton Campi Phlegraei: Observations on the Volcanoes of the Two Sicilies, pubblicata a Napoli nel 1772.

urbana, ma presto i lavori si allargarono anche al di fuori, partendo dalla Porta Ercolanese, nei dintorni delle vie esterne al circuito delle mura fiancheggiate dalle sepolture, dove ci s’imbatté non solo in monumenti funerari, ma anche in al-

cune ville. Nel 1798 fu avviato lo scavo dell’anfiteatro e, fuori Porta Ercolanese, venne alla luce, nel 1754, la cosiddetta Casa di Cicerone, la quale, però, venne reinterrata dopo il recupero dei reperti. La stessa prassi fu adottata per la Casa

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1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Terme suburbane Porta Marina Tempio di Venere Tempio di Apollo Basilica Foro Edificio di Eumachia Tempio di Vespasiano Macellum

di Giulia Felice, nuovamente esplorata nel 1936 e nel 1953. In ogni caso, a partire dal 1763 e per espresso ordine del re, fu vietata l’insensata prassi di ricoprire di terra edifici già scavati, nonché la barbara abitudine di distruggere gli affreschi ancora in situ, pur di non farli cadere in mani incompetenti.

La visita del giovane Mozart Dal 1760 fu scavata l’area del grande teatro e, dal 1764 al 1766, si riportò alla luce il vicino tempio di Iside, affrescato con episodi del culto egizio. Il singolare edificio creò forte impressione fra i contemporanei; ne subí la suggestione, fra gli altri, nel 1768, l’imperatore Giuseppe II, e, nel 1770, il giovane Mozart, in visita a Pompei con il padre Leopoldo. È probabile che alcuni particolari della scena dell’opera «massonica», Il flauto magico, rappresentata per la prima volta a Vienna nel 1791, si basino su contemporanee incisioni di questo tempio, il primo del tipo egizio-romano a essere conosciuto in Europa. Nel 1766 si cominciò a riportare alla luce una piazza quadrangolare,

10. Tempio di Giove 11. Casa del Fauno 12. Casa del Poeta Tragico 13. Porta Ercolano 14. Necropoli di Porta Ercolano 15. Casa dei Vettii 16. Panificio 17. Lupanare

18. Terme Stabiane 19. Foro Triangolare 20. Tempio Dorico 21. Teatro Grande 22. Portico dei Teatri 23. Teatro Piccolo (Odeion) 24. Tempio di Asclepio 25. Anfiteatro 26. Palestra Grande

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pompei la riscoperta dell’antico

circondata da colonne, in prossimità del teatro. Dopo il terremoto del 62 d.C. se ne era ricavata una caserma per i gladiatori – un ludus –, con il cortile circondato da piccoli ambienti: le stanze dei gladiatori. Qui, oltre agli scheletri di quanti vi avevano cercato rifugio dall’eruzione del 79, venne scoperto il piú famoso complesso a oggi noto di armi gladiatorie, riccamente decorate, fra cui pezzi di squisita fattura, come elmi, schinieri e scudi. Un interesse del tutto particolare destarono i reperti rinvenuti nel 1770 nella Villa di Diomede davanti alla Porta Ercolanese. Qui, infatti, si erano conservate nel fango indurito le impronte in negativo dei corpi di alcune vittime del disastro: una documentazione che provocò molta commozione fra i visitatori. Purtroppo, nulla se ne è conservato, perché a quell’epoca non si conosceva alcun procedimento per colmare le cavità lasciate dai corpi decomposti: una tecnica introdotta solo nel 1860 da Giuseppe Fiorelli. Queste drammatiche testimonianze, comunque, accesero la fantasia dei visitatori, tra cui anche gli uomini di lettere, che, sin da allora, come in seguito anche i registi cinematografici, si cimentarono 32 a r c h e o

nella ricostruzione della fine di Pompei e del destino dei suoi sfortunati abitanti. Sotto i Borboni si riportarono alla luce solo alcune zone del centro cittadino, del suburbio e delle strade con le sepolture. Cosí il territorio urbano non ancora scavato suggeriva, diversamente da oggi, l’impressione di un vasto paesaggio archeologico. Per chi, come Goethe, si era occupato appassionatamente dei resti monumentali dell’antica Roma, il primo impatto con i piú modesti impianti di una città di provincia, per giunta ancora solo in parte risorta dai lapilli, provocò una certa delusione. Ed egli deplorò la piccolezza delle case («modellini o armadi per le bambole») e l’angustia delle strade di questa «città mummificata» (anche se piú tardi giunse invece a dire: «Sono successe molte catastrofi nella storia, ma poche cosí felici per l’umanità»).

Il «re archeologo» Va detto che dietro l’onerosa impresa degli scavi il sovrano celava l’obiettivo, ben comprensibile per l’epoca, di arricchire le collezioni reali con i nuovi reperti provenienti dalle città vesuviane e di far valere, di fronte alle altre corti europee, gli straordinari esiti di tanto impegno.

Ma Carlo VII di Borbone, re di Napoli, era sinceramente interessato alla ricerca e non si limitò a fare incetta di reperti archeologici. Molto presto accarezzò l’ambizioso progetto di sottoporre gli oggetti scavati allo studio approfondito degli specialisti. Cosí, nel 1775, fondò l’Accademia Erculanense, che riuní quindici studiosi sotto la presidenza del marchese Bernardo Tanucci, ministro della casa reale. L’iniziativa non diede però frutti di particolare rilievo, mentre suscitò una viva eco, anche a livello internazionale, l’uscita a Napoli, tra il 1757 e il 1792, degli otto preziosi tomi delle Antichità di Ercolano Esposte. Editi a tiratura limitata, anzi concepiti inizialmente come doni per un piccolo numero di destinatari distribuiti tra le corti europee, in origine i preziosi volumi non erano neanche reperibili in commercio. L’opera destò un interesse vivissimo, soprattutto in Francia e in Germania, non tanto per il testo, di poco agevole lettura, quanto piuttosto per il ricco corredo di illustrazioni. E le raffinate incisioni fornirono a pittori e artigiani i modelli per il nuovo stile che divenne di moda all’epoca: il classicismo à la grecque, di cui offrono un esempio particolarmente suggestivo gli in-


Due immagini dell’allestimento della mostra «Pompei, Nola, Ercolano. Catastrofi sotto al Vesuvio», in corso al Landesmuseum di Halle, fino al prossimo 26 agosto. Nella foto in questa pagina, in primo piano, sono due calchi delle vittime dell’eruzione, realizzati con la tecnica della colata di gesso, messa a punto dall’archeologo Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi di Pompei dal 1861 al 1875.

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pompei la riscoperta dell’antico

terni del castello di Wörlitz. Presto, accanto alla visita delle necropoli sul Golfo di Napoli, anche la visita del Museo Ercolanese divenne una tappa fissa nel programma del Grand Tour e dei viaggiatori colti provenienti da tutt’Europa. Il Museo fu allestito già nel 1758 in un’ala della residenza reale di Portici. Grazie alla fortunate campagne di scavo crebbe rapidamente, tanto che, nel 1796, contava già 18 sale ed era ormai inserito nel novero dei piú importanti musei di antichità esistenti in Europa. Si discussero a lungo diversi piani per il trasferimento delle collezio34 a r c h e o

ni a Napoli, in una sede piú ampia e meno minacciata dai sismi. Finalmente, nel 1808, i tesori di Ercolano, Pompei e Stabia giunsero nella sede attuale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, uno dei piú importanti in assoluto nel suo genere.

Vietato prendere appunti! Un dettaglio curioso: i visitatori delle collezioni reali borboniche erano sottoposti a un severo regolamento: potevano, sí, ammirare gli oggetti esposti, ma era vietato prendere appunti, misurare i reperti o improvvisare uno schizzo, per-

ché molti oggetti non erano ancora stati pubblicati. Alla corte di Dresda si prese presto e appassionatamente parte alle vicende delle riscoperte che avvenivano ai piedi del Vesuvio. Sin dal 1738, infatti, Napoli e Dresda erano legate da stretti nodi dinastici grazie al matrimonio della principessa Maria Amalia Cristina con il re Carlo VII di Borbone. Né si deve dimenticare che proprio a Dresda aveva iniziato la sua carriera Johann Joachim Winckelmann, padre spirituale dell’archeologia classica e della storia dell’arte in ambito germanofono. Da quando si era trasferito


A sinistra: Dessau-Wörlitz, Gartenreich. Due delle opere realizzate per volere del duca Leopoldo III di Anhalt-Dessau: la Villa Hamilton e il vulcano artificiale.

In basso: ritratto di Leopoldo III Federico Francesco principe di Anhalt-Dessau. Pastello su carta, 1762. DessauRosslau, Kulturstiftung DessauWörlitz.

sulla peculiare situazione del mondo degli antiquari napoletani e sull’intreccio delle loro rivalità. Frattanto, chi giungeva a Roma, cercava d’incontrare l’ormai famosissimo archeologo tedesco, tanto piú che fra gli altri suoi impegni, Winckelmann non disdegnava di fare da Cicerone ai viaggiatori «eccellenti». Ciò gli consentiva un incremento delle sue modeste entrate, e, soprattutto, gli permetteva di allacciare rapporti con i piú altolocati personaggi del tempo. Gravido di fruttuose conseguenze fu l’incontro di Winckelmann con il principe Leopoldo III Federico Francesco di AnhaltDessau, che, nel 1765, visitò Roma nell’ambito del Grand Tour insieme con l’amico Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff, geniale architetto, nonché progettista di parchi e giardini. L’entusiasmo reciproco fu immediato e profondo: Winckelmann aveva incontrato un giovane sovrano illuminato, del tutto consono alle sue piú alte aspettative, il quale, insieme al compagno di viaggio Erdmannsdorff, assimilava avidamente gli insegnamenti e gli stimoli dello storico dell’arte. Il risultato di questo scambio d’idee, dell’esperienza romana approfondita al fianco di Winckelmann e, infine, delle impressioni raccolte sul Golfo di Napoli, a Ercolano, a Pompei, a Portici, conflua Roma,Winckelmann riferiva det- aggiunti alle collezioni di Portici, irono in Sassonia, a Wörlitz, nella tagliatamente alla corte di Sassonia ma anche dei semplici oggetti del- realizzazione di un ideale paesagla vita quotidiana che vi erano gio culturale di precipua impronta delle epocali scoperte napoletane. Il primo resoconto inviato nel 1762 esposti; e Winckelmann ne racco- illuministica: il Gartenreich con il era intitolato: Comunicazione dalle mandava caldamente lo studio ai castello, la Villa Hamilton, il temscoperte ercolanesi. Lo scritto era indi- contemporanei, al fine di «educare pietto, i vari monumenti e un Vesuvio in miniatura (vedi l’articolo rizzato al compagno di viaggio, il al buon gusto». conte von Brühl, ma, in verità, era Insieme con le lettere scritte in ita- alle pp. 36-40). pensato per il principe elettore Fe- liano all’amico Gian Lodovico In nessun altro luogo della Gerderico Cristiano di Sassonia, fratello Bianconi, medico personale e bi- mania, l’influsso delle scoperte della consorte tedesca al trono di bliotecario del sovrano sassone, la vesuviane fu piú diretto e in gradotta Comunicazione e le puntuali do di dare luogo alla creazione di Napoli, Maria Amalia Cristina. Il seguito dei particolareggiati re- Notizie costituiscono una preziosis- un tale capolavoro dell’illuminisoconti giunse nel 1764, con il ti- sima fonte sugli esordi della storia smo, che, dall’anno 2000, è stato tolo di Notizie delle nuovissime sco- della ricerca, dell’archeologia e del- inserito dall’UNESCO nel Patriperte ercolanesi. Vi si riferiva dei siti la storia dell’arte; esse aprono, inol- monio dell’Umanità. degli scavi e dei grandi capolavori tre, uno squarcio interessantissimo (traduzione di Maria Aurora Salto von Hase) a r c h e o 35


pompei la riscoperta dell’antico

le meraviglie del

di Esaú Dozio

regno-giardino Il grandioso paesaggio culturale, creato per volontà del principe Leopoldo III di Anhalt–Dessau, rappresenta il primo e piú straordinario esempio di ricezione dell’antico nell’Europa continentale A sinistra: Wörlitz, Residenza. Statua di Iside-Fortuna: simili raffigurazioni si diffusero nel mondo romano a partire dal II sec. a.C., quando le immagini della divinità con il corno dell’abbondanza e le spighe, nate per rappresentare le regine tolemaiche, furono fatte proprie e associate a culti come quello, appunto, della Fortuna. In basso: il Pantheon, uno degli edifici di maggior pregio del Gartenreich, realizzato, tra il 1795 e il 1797, sul modello di quello innalzato a Roma.

N

el novero degli illustri visitatori degli scavi settecenteschi di Ercolano e Pompei, il principe Leopoldo III di Anhalt-Dessau non è certamente tra quelli piú noti al grande pubblico. Eppure, il suo breve soggiorno in Campania ha contribuito in maniera fondamentale alla ricezione dell’antichità nell’Europa centrale. La sua figura, inoltre, è una delle piú interessanti del XVIII secolo. Fin da giovane, il principe prende le distanze dall’importante tradizione militare del suo casato, abbandonando l’esercito prussiano dopo aver assistito alla carneficina dell’assedio di Praga, durante la guerra dei Sette Anni. Nonostante la diserzione e i conseguenti dissapori con l’imperatore, nel 1758 assume le redini del piccolo principato di Anhalt-Dessau, mantenendolo neutrale nel prosieguo del conflitto. I successivi viaggi in Inghilterra e in Francia contribuiscono in maniera determinante alla sua formazione. Le notevoli riforme in ambito sociale ed economico, promosse nel pieno spirito illuminista, fanno del piccolo Stato sull’Elba il centro piú progredito dell’intera Germania. È però il suo Grand Tour in Italia (1765-1766) a segnarne indelebilmente la personalità.Accompagnato dal suo architetto Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff, visita in-


nanzitutto Roma, dove incontra Johann Joachim Winckelmann e la cerchia di artisti e intellettuali che risiedono nell’Urbe. Il principe e il suo seguito proseguono poi verso sud e, dopo aver visitato Paestum, tornano a Napoli, dove sono ospiti di Sir William Hamilton. Il momento culminante del viaggio viene raggiunto tra il 4 e il 7 marzo 1766, con l’ascensione del Vesuvio, le visite agli scavi di Pompei ed Ercolano e quella alle collezioni reali a Portici.

La Campania... a nord delle Alpi Dopo il rientro in patria, il principe e il suo architetto decidono di far rivivere le impressioni raccolte in Italia anche a nord delle Alpi. Essi promuovono dunque una raffinatissima e complessa ristrutturazione del paesaggio del principato, caratterizzata dalla creazione di parchi e vedute, di ispirazione inglese, ma profondamente intrise delle loro esperienze personali vissute durante il soggiorno nel Bel Paese. La Campania viene perciò rivisitata all’interno del cosiddetto Regno-Giardino (il «Gartenreich», un complesso che occupa un’area di ben 142 km²), ancora oggi perfettamente conservato. In particolare, viene ricreato il Golfo di Napoli, grazie a un lago artificiale dominato da un piccolo vulcano tuttora funzionante. All’interno di questo Vesuvio in miniatura una serie di corridoi, simili ai cunicoli utilizzati dai primi scavatori di Er-

In alto: Wörlitz, Gartenreich. Il Grosses Walloch, bacino lacustre di origine alluvionale. A destra: l’architetto Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff, artefice del Gartenreich di Wörlitz, in un ritratto di Johann Friedrich August Tischbein. 1796. Halberstadt, Gleimhaus, Porträtsammlung Freundschaftstempel.

colano, conducono a diversi ambienti chiaramente ispirati alle nuove scoperte di area vesuviana. Nei pressi sono state ricostruite le rovine di un teatro romano, accanto al quale sorge la cosiddetta Villa Hamilton, replica della residenza estiva del diplomatico inglese a Posillipo. L’influsso del soggiorno in Italia si manifesta anche nella residenza stessa del principe a Wörlitz.Vedute di Roma, Firenze,Venezia e Napoli ornano alcuni ambienti, mentre in altri sono stati utilizzati, per la decorazione, soggetti derivati direttamente dalle Antichità di Ercolano Esposte. Per il loro raffinato lavoro, il principe ed Erdmannsdorff avevano infatti a disposizione i primi quattro volumi della suddetta pubblicazione, ricevuti in dono durante il soggiorno a Napoli e recapitati in seguito da Sir William Hamilton. Proprio attingendo a questo corpus

di illustrazioni, gli artisti di corte hanno provveduto a selezionare i soggetti piú adatti per i diversi locali della residenza. In alcuni casi le figure degli affreschi antichi sono state ricombinate secondo le necessità, oppure trasposte in rilievi tridimensionali, a conferma della grande accuratezza e intelligenza alla base del progetto settecentesco. Nella biblioteca e nelle stanze piú rappresentative sono inoltre conservati sculture e frammenti in marmo di epoca romana, tra cui un Eracle mingens donato al principe dal cardinale Albani e alcuni busti integrati personalmente da Bartolomeo Cavaceppi, ospite a Wörlitz nel 1768. Una notevole collezione di ceramiche di Wedgwood e di bronzetti completano l’allestimento. Una testimonianza particolarmente significativa dell’approccio del principe ai suoi interessi scientifici a r c h e o 37


pompei la riscoperta dell’antico Wörlitz, Villa Hamilton. La Stanza del Camino, sulle cui pareti sono allineati quadretti con riproduzioni delle pitture pompeiane e vedute d’impronta neoclassica.

– in particolare alla geologia e all’archeologia – è fornita dai piccoli souvenir raccolti durante la sua permanenza in Italia. Si tratta, per esempio, di un blocco di zolfo del Vesuvio, di alcuni elementi bronzei da lui rinvenuti a Pompei e di una piccola lastra marmorea pertinente alla decorazione della Casa di Livia sul Palatino. Il tutto, debitamente etichettato, è conservato come materiale indispensabile allo studio scientifico. Altrettanto sintomatica dell’importanza delle antichità classiche, nel poliedrico programma decorativo del Parco, è la presenza di un Pantheon, nel quale, oltre a una serie di sculture integrate come Apollo e le Muse, si riscontrano reminiscenze egit-

tizzanti chiaramente ispirate alla scoperta dell’Iseo di Pompei, visitato dal principe durante il soggiorno in Italia. Il vasto e raffinato riutilizzo di motivi di area vesuviana fa del Regno-Giardino il primo e al tempo stesso uno dei piú straordinari esempi della ricezione dell’antico nell’Europa continentale. A sua volta, esso è stato fonte di ispirazione per numerosi altri complessi architettonici, divenendo cosí un vero e proprio tramite tra la Penisola italiana e i territori dell’attuale Germania.

chitettonico e artistico. Il suo Regno-Giardino aveva un’importanza molto piú profonda, le cui radici vanno ricercate nella personalità stessa del principe e nella sua educazione illuminista. In effetti la peculiarità piú stupefacente del complesso è il fatto che esso fosse accessibile a tutti. Chiunque poteva passeggiare nei giardini del principe e, fatto ancor piú sorprendente, ognuno veniva ammesso nelle sue residenze, potendo visitarne i palazzi e addirittura le stanze private. In questo modo i sudditi dell’Anhalt-Dessau partecipavano alle esperienze che il loro Un parco per la principe aveva raccolto durante conoscenza di tutti Il vero significato dell’opera di i suoi viaggi. Leopoldo III non può però esse- L’aspetto didattico aveva dunque re confinato al solo ambito ar- una funzione fondamentale nel

Eruzioni a comando A sinistra: il vulcano ricostruito nel Gartenreich in un’acquatinta di Wilhelm Friedrich Schlotterbeck, da un originale di Karl Kuntz, 1800. Questo Vesuvio in miniatura, costruito tra il 1788 e il 1794, è una delle maggiori attrazioni del complesso voluto dal principe di Anhalt-Dessau. Dopo un lungo abbandono, la struttura è stata restaurata e riaperta al pubblico nel 2005 ed è stata resa nuovamente funzionante (come si può vedere dalla foto a destra). Al suo interno, lo Stein (come fu battezzato) è articolato in corridoi, simili ai cunicoli dei primi scavatori di Ercolano, che conducono ad ambienti ispirati alle scoperte effettuate nell’area vesuviana.

38 38 a r c h e o


Fino al 26 agosto, la Residenza di Wörlitz ospita l’esposizione temporanea «Fremde Welt ganz nah» («Uno strano mondo visto da vicino»), nella quale vengono presentate la nascita del Regno-Giardino e la fondamentale importanza delle esperienze maturate in Italia da Leopoldo III. La mostra, resa possibile anche da generosi prestiti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e del Museo Nazionale di Capodimonte, si riallaccia al progetto espositivo organizzato al Landesmuseum für Vorgeschichte di Halle. Quest’ultimo ha inoltre dedicato uno dei propri ambienti espositivi proprio

Berlino Olanda

Wörlitz

Polonia

Il regno-giardino e la campania

dove e quando

GE R M A N IA Rep. Ceca Francia Svizzera

alle profonde relazioni tra la Germania centrale e la Campania nel Settecento, ponendo l’accento sull’opera di Leopoldo III e di Johann Joachim Winckelmann, pure lui originario del territorio dell’odierna Sassonia-Anhalt.

Austria

«Uno strano mondo visto da vicino» fino 26 agosto Orario ma-do, 10,00-18,00; lu su appuntamento Info www.gartenreich.com (anche in lingua inglese)


pompei la riscoperta dell’antico programma del Regno-Giardino, dovendo contribuire, insieme alle numerose riforme in ambito agrario e sociale intraprese da Leopoldo III, a forgiare uno Stato moderno e impregnato dello spirito del tempo. Non soltanto le antichità classiche hanno profondamente influenzato la genesi del Regno-Giardino: edifici neo-gotici completano il panorama architettonico del parco mentre alcuni locali della Residenza sono decorati con cineserie, testimoniando dunque dell’intento enciclopedico del progetto, di nuovo nel pieno rispetto delle tendenze culturali del periodo.

Amore dell’arte e tolleranza Un ulteriore esempio della politica illuminata di Leopoldo III è fornito dalla grande tolleranza in ambito religioso, nel quale, anzi, la pluralità di culti viene esplicitamente sostenuta, per esempio con l’edificazione, nel 1790, di una sinagoga all’estremità orientale del parco. Già per i contemporanei del principe, il Regno-Giardino costituiva un affascinante compendio di conoscenze e un raffinato adattamento del paesaggio alle necessità scenografiche. Lo stesso Goethe ci ha lasciato una vivida testimonianza della straordinaria emozione suscitata in lui da una visita a Wörlitz nel 1778: «qui tutto è ora di una bellezza infinta. Mi ha molto commosso percorrere ieri sera laghi, canali e boschi notando come gli dèi abbiano concesso al principe di ricreare intorno a sé un sogno». Oggi, a piú di due secoli di distanza, il luogo conserva pienamente il suo fascino. Gli importanti restauri degli ultimi anni e la grande cura dedicata al parco hanno permesso di conservarne intatto lo splendore. Il Regno-Giardino, inserito dal 2000 nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, rappresenta certamente una delle scoperte piú affascinanti nel ricchissimo panorama culturale della Germania centrale dei nostri giorni. 40 a r c h e o

di Esaú Dozio

il Vesuvio in mostra

Al Landesmuseum di Halle, i risultati di una riuscitissima cooperazione italo-tedesca È difficile immaginare lo stupore di chi, in piena età del Bronzo, si sia soffermato a osservare la colonna di cenere vulcanica che si innalzava all’orizzonte. Gli abitanti dei villaggi preistorici di Nola e di Afragola non erano certamente a conoscenza delle peculiarità di quel monte che, da sempre punto di riferimento nel territorio, ora improvvisamente sembrava minacciare la loro stessa esistenza. Al contempo, non potevano sapere che la straordinaria fertilità della regione – fonte principale del loro sostentamento –, era dovuta proprio a catastrofi naturali analoghe a quella di cui in quel momento erano testimoni. Anche nel 79 d.C. la maggior parte delle vittime dell’eruzione avrà provato lo stesso senso di impotenza e smarrimento. Eppure, per chi conosceva le opere di Vitruvio, Diodoro Siculo e Strabone, questo nuovo risveglio del Vesuvio doveva essere solo in parte sorprendente. In effetti, in epoca romana, le caratteristiche dei vulcani campani erano ben note, permettendo, per esempio, un diretto confronto con la dinamica eruttiva dell’Etna. Si riteneva, però, che la loro attività fosse confinata a epoche remote. Oggigiorno la particolare situazione geologica del Golfo di Napoli non ha piú segreti, nondimeno non sarebbe possibile impedire una nuova eruzione. Si potrebbero soltanto evacuare tempestivamente gli abitanti, prima che la violenza del vulcano faccia il suo corso.

Convivere con il vulcano

Su questa lunga sequenza di catastrofi naturali, che nei millenni hanno segnato la vita delle popolazioni campane, si è concentrato il progetto espositivo organizzato dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei e dal Landesmuseum für Vorgeschichte di Halle (Germania). Allargando la prospettiva cronologica, è in effetti possibile inquadrare la distruzione di Pompei, Ercolano, Oplonti e Stabia in un contesto storico notevolmente piú ampio. Da sempre, gli insediamenti alle pendici Veduta della piana che si estende ai piedi del Vesuvio, con i centri abitati che oggi occupano gran parte della sua superficie. Sullo sfondo, il Golfo di Napoli.


il landesmuseum di halle: la casa del «disco di nebra» Il pregevole edificio che ospita l’esposizione è opera dall’architetto Wilhelm Kreis. Sin dalla sua costruzione, avvenuta tra il 1911 e il 1913, è stato concepito appositamente come Museo di Preistoria. La sua collezione è tra le piú importanti della Germania e testimonia della straordinaria ricchezza archeologica di questa regione. Le numerose e vaste campagne di scavo tuttora in corso portano quasi quotidianamente a nuove importanti scoperte, che vanno a completare le nostre conoscenze sulle varie culture che, nei millenni, si sono insediate in questo territorio. Il reperto piú noto della mostra permanente è certamente il celeberrimo Disco di Nebra (vedi «Archeo» n. 248, ottobre 2005), uno dei ritrovamenti archeologici piú importanti degli ultimi decenni. In alto: Halle. L’edificio che ospita il Landesmuseum, realizzato tra il 1911 e il 1913 dall’architetto Wilhelm Kreis. A destra: la statua in bronzo dell’Apollo Citarista, dall’omonima casa

pompeiana, nell’attuale esposizione a Halle. Rielaborazione della seconda metà del I sec. a.C. di un originale greco del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

del Vesuvio hanno dovuto convivere con le devastazioni causate dalle sue eruzioni, che, per un paradosso solo apparente, sono anche la causa principale della straordinaria ricchezza della regione. La convivenza tra uomo e vulcano è confermata in maniera esemplare dalla lunga storia del villaggio di Poggiomarino che, con la sua posizione privilegiata sulle rive del fiume Sarno, tra la seconda metà del II millennio e il tardo VII secolo a.C. dominava i traffici tra la costa e l’interno. All’inizio del I millennio a.C., in un lasso temporale di appena 25 anni, i suoi abitanti sono stati testimoni di ben due eruzioni del Vesuvio, confermate dalla scarsa crescita degli anelli degli alberi


pompei la riscoperta dell’antico utilizzati poi nell’insediamento. Grazie all’analisi dendrocronologica dei numerosissimi reperti lignei conservati, sarà presto possibile definire l’anno esatto in cui hanno avuto luogo questi due fenomeni vulcanici, le cui tracce sono riscontrabili non solo nelle immediate vicinanze del villaggio, ma anche in vaste aree della Penisola. In questo modo, grazie alle scoperte di Poggiomarino, gli strati di cenere vulcanica andranno a costituire un fondamentale punto di riferimento nella cronologia di questo periodo. Oltre al Vesuvio, la mostra dedica ampio spazio agli altri vulcani attivi in Campania, in particolare al Monte Epomeo, sull’isola di Ischia. La sua attività eruttiva ha posto fine alla storia dell’insediamento di Punta Chiarito. Il perfetto stato di conservazione delle suppellettili qui rinvenute ha consentito di confermare gli stretti legami commerciali che, tra l’VIII e il VI secolo a.C., hanno contraddistinto i rapporti tra la popolazione locale e i coloni greci. Un’ampia sezione della mostra in corso a Halle è dedicata al primo segnale di risveglio del Vesuvio nel I secolo d.C.: il violento terremoto che, nel 62/63 d.C., ha provocato notevoli danni a Pompei e nelle aree limitrofe. In particolare, sono state indagate le ripercussioni sulla società pompeiana e sulla vita stessa della città. Gli effetti disastrosi del sisma sono attestati da due rilievi, che mostrano, rispettivamente, il crollo della cosiddetta Porta Vesuvio e del tempio sul Foro. Gli interventi di ripristino sono testimoniati, nel percorso espositivo, dall’iscrizione dedicatoria del santuario di Iside, nonché dai frammenti di affreschi di straordinaria qualità rinvenuti nel giardino della Casa del Bracciale d’Oro, dove erano stati gettati in seguito al rifacimento della decorazione pittorica nei locali danneggiati dai movimenti tellurici.

Nella Casa del Menandro

Il lungo lasso di tempo tra la ripresa dell’attività vulcanica e l’eruzione del 79 d.C. è stato scandito da numerosi altri sismi, pur se di intensità apparentemente minore. Per questa ragione, anche alla vigilia della distruzione di Pompei, vari edifici della città erano soggetti a interventi di restauro. Nella mostra di Halle si è perciò deciso di dare grande risalto ai ritrovamenti effettuati nella Casa del Menandro, in particolare scegliendo di esporre i reperti secondo i vari contesti di rinvenimento. Cosí facendo si è delineato un quadro molto preciso delle numerose attività che si svolgevano nell’edificio, potendo evidenziare i diversi ambiti di azione degli abitanti di questo vero e proprio microcosmo sociale. Nella Casa del Menandro numerosi oggetti sono emblematicamente correlati con la storia stessa della città. Il contesto nel quale sono venuti alla luce testimonia gli interventi di restauro in corso e, al

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In alto, sulle due pagine: una delle sale della mostra al Landesmuseum di Halle. Sulla parete di fondo è proiettata un’immagine del peristilio della Casa del Menandro di Pompei, da cui proviene la statua di Apollo con grifo che si vede al centro. Quest’ultima

si data tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. e appartiene alle raccolte del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. A sinistra e a destra: ancora due immagini dell’allestimento della mostra «Pompei, Nola, Ercolano. Catastrofi sotto al Vesuvio».


tempo stesso, restituisce una chiara prospettiva degli ultimi attimi della tragedia, con l’estremo tentativo degli abitanti di salvare, oltre alla propria vita, anche alcune suppellettili. Allo stesso modo, gli scavi nella Casa dei Pittori al Lavoro hanno permesso di ricostruire con notevole precisione l’attività di un’officina specializzata nella realizzazione di affreschi. Oltre a pareti solo parzialmente decorate, sono venuti alla luce gli strumenti di lavoro e i pigmenti utilizzati dagli artisti, abbandonati nelle concitate fasi dell’eruzione. La riuscitissima cooperazione italo-tedesca sposta dunque l’attenzione dall’eruzione del 79 d.C. alla lunghissima storia del Vesuvio, riuscendo però, al tempo stesso, a presentare sotto una nuova luce e in una prospettiva temporale piú profonda ed esaustiva la distruzione di Pompei ed Ercolano. Al visitatore si aprono nuove opportunità per meglio comprendere la genesi della catastrofe naturale piú famosa dell’antichità, permettendogli al contempo di inquadrare questo singolo evento eruttivo nella sua corretta prospettiva geologica e storica.

dove e quando «Pompei, Nola, Ercolano. Catastrofi sotto al Vesuvio» Halle, Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 26 agosto Orario ma-ve, 9,00-19,00; do e festivi, 10,00-19,00: lu su prenotazione Info www.pompeji-ausstellung.de (anche in lingua inglese)

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scoperte da pompei all’elba

roma e la «germania libera» prima dell’eruzione del vesuvio di Harald Meller

Il limes costituí davvero quella frontiera netta tra Roma e il mondo germanico, tra civiltà e barbarie? Vediamo, nel racconto del direttore del Landesmuseum di Halle, che cosa ci rivelano le ultime scoperte dell’archeologia d’«oltrecortina»…

P

iú di trent’anni prima della sua tragica fine sulla spiaggia di Stabia verificatasi in quel fatidico 79 d.C., agli albori della sua carriera, Plinio il Vecchio era di stanza in un grande accampamento militare sulla frontiera del Reno, punto di demarcazione tra la Gallia recentemente conquistata e i territori della Germania libera. Queste basi, edificate in corrispondenza dei vari affluenti del fiume, avevano un carattere principalmente offensivo. Lungo i corsi d’acqua che scorrono in direzione est-ovest, in particolare la Lippe, era possibile scatenare campagne combinate di flotta ed esercito, assicurando al contempo i necessari rifornimenti alle truppe. Questa presenza militare contribuiva, inoltre, a evitare improvvisi attacchi germanici oltre il Reno. In uno di questi accampamenti, probabilmente a Vetera (l’odierna Xanten), Plinio inizia a scrivere un’imponente opera in venti volumi dedicata alle guerre germaniche, ispirata, pare, dall’apparizione in sogno di Druso. Quest’ultimo, padre del futuro imperatore Claudio e figliastro di Augusto, aveva legato il suo nome, insieme al fratellastro Tiberio, alla conquista delle Alpi e alle successive campagne militari fin nel cuore della Germania. 44 a r c h e o

Burcana

Ampsivari

Frisi L cus La Fle vo

Frisi

Cauci

Weser

Amista Ems

Angrivari

Frisi

Camavi

Fectio (Vechten)

Visurgis

Bructeri

Batavi Noviomagus 12 a.C.

Usipeti

11 a.C.

Nijmegen

Vetera

Dören dall’8 a.C. Lupia Haltern Lippe

Neuss

Cherusci 9 a.C.

Arbalo? Mattium?

Leine

(Niedenstein)

12 a.C.

Novaesium

Weser

11 a.C.

Marsi

11 a.C. Oberaden Andreppen dall’11 a.C. Ruhr

Sigambri Atuatuca

Elba

Visurgis

Chasuari

12 a.C.

12 a.C.

Albis

12 a.C.

Cauci

dal 12 a.C.?

Colonia

Angili

C a t t i

Tongeren

Bonna

Te n c t e r i

Bonn

Fulda

Lahn

Coblenza

Rödgen

Catti

Ma t t i a ci Q u a d ae

10 a.C.

Mogontiacum Va n g i o n i Augusta Treverorum

I Germani erano però noti ai Romani già dal III secolo a.C., anche se per i temibili Cimbri e Teutoni non era ancora stata utilizzata questa denominazione. Cesare definisce «Germani» le popolazioni stanziate sulla sponda destra del Reno solo in occasione della conquista

Saale Werra

9 a.C.

Moenus Meno

M a r c o m a n n i

della Gallia. In seguito, per molti secoli, proprio questo fiume costituí, nell’immaginario collettivo, la frontiera tra territori celtici e germanici. Nel 55 a.C., dopo avere sconfitto Ariovisto, re dei Suebi, Cesare fa costruire, a scopo dimostrativo, un ponte sul Reno, succes-


Busto in bronzo di Druso Maggiore (38-9 a.C.), da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Figlio di Livia e di Tiberio Claudio Nerone, il generale condusse campagne vittoriose in Germania, che gli valsero l’appellativo di Germanico.

Nella pagina accanto: cartina che illustra, appunto, le campagne condotte da Druso in Germania, tra il 12 e il 9 a.C. Il generale morí a causa dei traumi riportati in una caduta da cavallo, presso l’Elba. Fu sepolto nel mausoleo di Augusto.


scoperte da pompei all’elba sivamente smantellato dopo una mai un secolo. C’era dunque matevittoriosa campagna di diciotto riale sufficiente per l’opera monugiorni nel territorio dei Sigambri. mentale in venti volumi da lui concepita. In effetti, mentre le spedizioni di Cesare si erano concentrate Spedizioni oltre frontiera Prima delle spedizioni di Cesare, le solo sul territorio direttamente proregioni dell’Europa settentrionale spiciente la Gallia, tra il 12 e il 9 a.C. venivano suddivise da Greci e Ro- Druso si era spinto in profondità mani soltanto in due distinti bloc- oltre il Reno. Per la prima volta i chi, abitati rispettivamente dai Cel- Romani non si impegnavano solti a ovest e dagli Sciti a est. Dopo le tanto in limitate azioni di rappresavittorie in Gallia, una nuova entità glia in seguito a incursioni germaetnica viene a interporsi tra questi niche, ma raggiungevano prima di territori: i Germani. Al tempo in tutto il fiume Weser e poi l’Elba. cui Plinio era di stanza sulla frontie- Venivano cosí stabiliti i confini di ra renana, le guerre contro queste quella che, nei loro piani, sarebbe popolazioni si protraevano da or- dovuta diventare la nuova provincia Germania Magna. Le campagne militari di Druso, morto per le ferite riportate in seSulle tracce guito a una caduta da cavallo presso della XIX legione l’Elba, non solo hanno condotto all’esplorazione di nuovi territori, Una delle legioni piú note della ma sono state di fondamentale imprima età imperiale è certamente portanza per la politica espansionila XIX. Questa formazione di stica di Roma. Il contemporaneo veterani partecipa, sotto il utilizzo di una flotta lungo la costa comando di Druso, alla conquista del Mare del Nord e sul fiume Lipdelle Alpi. Attraversato il Passo di pe costituiva una valida soluzione in Resia si scontra con le popolazioni vista dei successivi sviluppi delle locali a Döttenbichl, presso operazioni militari. Con essa veniOberammergau. Su questo campo vano gettate le basi per la conquista di battaglia sono state trovate, a della nuova provincia. testimonianza dell’evento, frecce Prima della sconfitta di Varo nel 9 di catapulta con l’abbreviazione d.C. (vedi «Archeo» n. 295, settemLEG XIX. La legione fu poi di bre 2009; pp. 24-53), dunque, Rostanza nell’accampamento di Dangstetten e, infine, in quello di ma si stava assicurando senza partiHaltern. Persino a Colonia sono colari difficoltà il controllo del nuoattestati soldati di questa unità. vo territorio. L’affermazione di Insieme alla XVII e alla XVIII, la Cassio Dione, secondo la quale i XIX legione fu distrutta dai Romani, prima di questa disfatta, Germani nella Selva di stavano attivamente procedendo Teutoburgo. all’annessione della Germania Magna, trova conferma nei recenti scavi di Waldgirmes, dove è venuta

Punta di una freccia da catapulta che reca la dicitura LEG XIX, da Dangstetten. Monaco, Archäologische Staatssammlung. La presenza dell’abbreviazione è una delle prove dell’impiego del contingente nelle operazioni guidate da Druso. 46 a r c h e o

alla luce una monumentale statua equestre in bronzo dorato raffigurante l’imperatore Augusto (vedi «Archeo» n. 295, settembre 2009; pp. 16-17). Nonostante la tragedia di Varo, Roma non ritiene ancora persa la nuova provincia. Lo confermano le operazioni condotte sotto il comando di Germanico, figlio di Druso, che non furono semplici spedizioni punitive. Tuttavia, nonostante la riconquista delle insegne militari perse da Varo, l’imponente spiegamento di ben otto legioni non porta a una vittoria decisiva su Arminio. La rinuncia definitiva alla Germania Magna avviene probabilmente verso la metà del I secolo d.C., contemporaneamente alla cessazione di notizie riguardanti spedizioni in questa regione.

Barbari o acculturati? I lunghi decenni di scontri armati non hanno soltanto contribuito a migliorare le conoscenze romane dei territori a est del Reno. Anche i Germani ebbero la possibilità di entrare in diretto contatto con l’impero, sia come soldati delle truppe ausiliarie (oppure come schiavi o guardie del corpo) che come cittadini romani, perfettamente integrati nella società. Esemplare in questo senso è il confronto tra i due comandanti germanici Ariovisto e Arminio, il protagonista della sconfitta di Teutoburgo. Il primo è ancora un arrogante e carismatico principe barbaro, con qualche nozione della lingua gallica, ma non del latino, incapace di capire non solo l’idioma ma anche la mentalità dei Romani. Il secondo,


per contro, è egli stesso cittadino romano e membro dell’élite imperiale. Publio Quintilio Varo non può certo immaginare che il raffinato Arminio si possa trasformare, da un giorno all’altro, in un feroce leader barbaro nel brullo contesto di un’oscura selva del nord. Al momento dell’eruzione del Vesuvio, dunque, i Germani conoscono molto bene le province dell’impero. Essi sono al contempo affascinati dallo stile di vita romano, pur rifiutando, nel loro territorio, quelle influenze culturali che, come è successo per tante altre popolazioni, avrebbero significato una rapida assimilazione. A prescindere dalle informazioni desunte dalle fonti scritte, che si concentrano specialmente sui conflitti armati, numerose testimonianze archeologiche ci permettono di comprendere meglio le complesse interazioni tra questi due mondi apparentemente cosí diversi. Oltre alle già ricordate spedizioni di Druso, che raggiunge l’Elba probabilmente nei pressi della confluenza con la Saale, solo saltuariamente i Romani si sono addentrati in questa regione, non occupandola mai stabilmente. I ritrovamenti si limitano perciò a numerosi corredi funerari, arricchiti da oggetti di importazione. Essi testimoniano i notevoli scambi culturali tra le popolazioni germaniche e i Romani. Come già i Celti in Gallia e nella Britannia meridionale cinquant’anni prima, anche le élite germaniche adattano alcuni elementi culturali mediterranei alle proprie esigenze.

Il richiamo del vino Questo aspetto viene sottolineato dal ritrovamento, nelle tombe di quell’epoca, di recipienti da banchetto romani, in particolare legati al consumo del vino: situle bronzee, attingitoi, colini e, piú raramente, recipienti potori di importazione, come per esempio kantharoi d’argento o coppe vitree. Sono attestati

Moneta in bronzo trovata a Sanne, nel SachsenAnhalt. Età augustea. Halle, Landesamt für Denkmalpflege und Archäologie. La presenza della contromarca VAR (Varo) fa supporre che il pezzo fosse stato raccolto da un combattente germanico e – forato – portato poi al collo come souvenir della vittoria riportata nella selva di Teutoburgo.

tradizioni legate al vino. È interessante notare, a questo proposito, come l’élite germanica abbia preferito, nella maggior parte dei casi, essere sepolta con recipienti romani privi di ornamenti. In particolare vengono privilegiati, con poche ma notevoli eccezioni, i recipienti in argento non figurati.

anche servizi per il lavaggio delle mani, formati da brocche e patere. Mancano, però, completamente i piatti romani, presenti invece all’interno dei complessi funerari celtici. È, comunque, improbabile che il defunto germanico fosse stato a conoscenza o abbia desiderato imitare il complicato rituale romano legato al consumo del vino. Insieme a questi oggetti di importazione si continuano a utilizzare le forme tradizionali germaniche, come i corni potori e i recipienti di legno. La predilezione per la birra, dunque, coesiste, apparentemente, con la parziale assimilazione delle

Le ultime novità La sepoltura di MarkkleebergGautzsch (Germania centrale), databile all’epoca delle campagne di Druso, è uno dei primi esempi dell’aggiunta di oggetti di importazione (in questo caso una situla e una patera) a un corredo funerario tipicamente locale. Questa tradizione conobbe, nei decenni successivi, una grande fortuna nel medio bacino dell’Elba. Le ricche necropoli di Bornitz e Quetzdölsdorf ne sono la conferma, presentando uno spettro ancora piú variegato di oggetti di origine romana: tra questi figurano situle, attingitoi, colini e casseruole bronzee, queste ultime elemento tipico dell’equipaggiamento dei soldati romani. (segue a p. 50) a r c h e o 47


pompei scoperte la da riscoperta pompei all’elba dell’antico Il tesoro di una nobildonna germanica Alcuni dei materiali rinvenuti in associazione con i resti della donna sepolta a Profen (Germania centrale), in una tomba a incinerazione databile al I sec. d.C. Da sinistra a destra: una collana in oro, una situla in bronzo con anse a palmette, una seconda collana aurea e una fibula (in due immagini, da angolazioni diverse). La scoperta ha fornito dati nuovi e puntuali sui rituali funerari delle comunità stanziate nei

territori del medio bacino dell’Elba: sulla pira veniva stesa innanzitutto una pelle d’orso, su cui giaceva la salma. Nelle immediate vicinanze erano posti vari elementi del corredo, tra cui recipienti romani in argento, fusi poi dalle fiamme. Le ceneri e i frammenti di queste coppe vennero in seguito deposti nella situla qui riprodotta. Furono poi aggiunti gli elementi del corredo, tra cui le fibule e le collane.

Ricchi e numerosi corredi funebri testimoniano l’intensità degli scambi culturali tra le popolazioni germaniche e i Romani

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scoperte da pompei all’elba Bronzisti pompeiani Una delle due casseruole in bronzo, dalla necropoli di Bornitz (Germania centro-orientale). Sul manico compare l’abbreviazione di chi fabbricò il recipiente, M PLINI DIOGEN, cioè Marco Plinio Diogene, la presenza dei cui prodotti è attestata anche a Pompei. Un caso analogo è quello di Publio Oppio

Prisco. In entrambi i casi, è dunque piú che probabile che i manufatti rinvenuti nel territorio dell’allora Germania Magna provenissero dall’area vesuviana.

In basso: coppa baccellata in vetro, da una tomba della necropoli di Weissenfels (Sachsen-Anhalt). Produzione romana, 40-70 d.C. Halle, Landesamt für Denkmalpflege und Archäologie.

Recipienti pressoché identici sono frequentemente attestati anche nelle città vesuviane, cosicché si può ipotizzare che molti dei ritrovamenti effettuati nella Germania centrale siano di produzione campana, forse capuana oppure direttamente legata a una delle città sepolte nel 79 d.C. Di particolare interesse, in questo senso, sono due manici di casseruola ritrovati nella già citata necropoli di 50 a r c h e o

Bornitz. Uno di essi reca l’abbreviazione P OPPI PRISC: in totale sono noti sette recipienti prodotti dall’officina di Publio Oppio Prisco, di cui quattro ritrovati a Pompei. È dunque assolutamente probabile che questo elemento del corredo provenga proprio dall’area vesuviana.

La nobildonna di Profen Una delle scoperte piú interessanti degli ultimi anni nella Germania


centrale è certamente la sepoltura a incinerazione di Profen, nella quale furono deposti i resti di una nobile appartenente all’élite germanica. Il ritrovamento getta nuova luce sui rituali funerari degli abitanti dei territori del medio bacino dell’Elba: sulla pira veniva stesa innanzitutto una pelle d’orso, sulla quale giaceva la salma. Nelle immediate vicinanze erano posti vari elementi del corredo, tra cui diversi recipienti romani d’argento, fusi poi dal calore delle fiamme. Le ceneri e i frammenti di queste coppe potorie vennero in seguito deposti in una situla in bronzo di importazione con anse decorate da palmette. Infine, furono aggiunti gli elementi in oro del corredo: una coppia di fibule, una di bracciali e due raffinatis-

Vaso miniaturistico d’agata in forma di anfora. I sec. d.C. Halle, Landesamt für Denkmalpflege und Archäologie.

sime collane. Completano il quadro due fibule in bronzo di produzione locale, una perla in ambra, un pettine di osso ed elementi di cintura di tradizione norico-pannonica. Questa tomba è una testimonianza esemplare della complessità degli influssi culturali a cui erano sottoposti i Germani. Le collane, per esempio, sono chiaramente prodotti romani, mentre i loro fermagli e i pendenti, finemente granulati, costituiscono mirabili esempi di arte germanica. Lo stesso fenomeno di assimilazione di elementi distintivi del corredo è testimoniato anche

I recipienti piú prestigiosi dell’antichità erano quelli ottenuti dalla lavorazione di pietre semipreziose, come per esempio l’agata

dalle fibule d’oro. Si tratta certamente di oggetti realizzati nella Germania centrale, come attestato da innumerevoli esemplari bronzei della medesima tipologia. La scelta del materiale, però, tradisce un’influenza romana. Proprio all’interno dell’impero le fibule auree vengono infatti utilizzate per definire lo status particolare dell’individuo. I recipienti piú prestigiosi dell’antichità erano certamente quelli ottenuti dalla lavorazione di pietre semipreziose. L’estrema rarità di simili prodotti nei contesti archeologici della Germania Magna conferma l’eccezionalità di un altro ritrovamento, quello di Kleinjena. In questo insediamento alla confluenza dei fiumi Unstrut e Saale, dunque in posizione privilegiata per controllare i traffici nella regione, è venuto alla luce un piccolo balsamario in agata di notevolissima qualità. I numerosi oggetti di importazione rinvenuti nella stessa regione confermano che non si tratta di un caso isolato, bensí della prova dei continui e proficui scambi commerciali che segnavano, a prescindere dai frequenti e sanguinosi conflitti, la convivenza tra Romani e Germani. a r c h e o 51


Persepoli, Iran. Una delle gradinate di accesso al palazzo di Dario I, la cui costruzione, da lui stesso avviata, fu portata a termine dal figlio, Serse. VI-V sec. a.C. I rilievi mostrano i signori di 23 delle 28 nazioni comprese nell’impero achemenide che si recano in processione dal sovrano, portando doni e tributi.

persepoli di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

Il potere

invisibile

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Non sappiamo perché le fonti occidentali, cosí ben informate su Susa e Ecbatana – gli altri due centri politici dell’impero achemenide – ignorassero la grandiosa residenza dei dinasti Dario e Serse. Lo stesso Erodoto, per esempio, non ne aveva mai sentito parlare. Ma come potevano gli scrittori, i geografi e le spie della Grecia del V e IV secolo a.C. non sapere dell’esistenza di una cittadella cerimoniale tanto vasta e magnifica?

I

nvisibile – quasi fino all’ultimo – Persepoli resta ancor oggi agli occhi del visitatore, che attraversa in macchina o in autobus la distesa informe del Marv Dasht (la «piana deserta di Marv»), con gli occhi fissi su una cortina di rocce scure che si avvicinano gradualmente (il Kuh-e Rahmat o «montagna di grazia»); ma solo da pochi passi, quando si giunge ai piedi delle enormi terrazze che una volta sostenevano sale colonnate, soglie e portali, ciò che resta delle immense architetture perdute lo sorprenderà all’improvviso dai suoi sfondi rocciosi. Forse, questa assenza apparente, che in realtà si muta in subitanea rivelazione, è ancora dettata dai fantasmi dei grandi re, che per sei generazioni vissero e costruirono tra queste mura. Re invisibili, appunto, o almeno tali dovevano restare per la quasi totalità dei sudditi, sino al momento in cui sceglievano di apparire come sacre epifanie al culmine delle cerimonie piú solenni. Il Gran Re, come lo chiamavano i suoi sudditi di lingua greca d’Asia Minore, compariva allora come un’immagine inumana e ieratica, assisa su troni coronati da bestie e geometrie irreali, paludata di veli impalpabili tempestati di luci come stelle. Nei rilievi di Persepoli, nitidi come fotografie, il Gran Re ci appare, congelato nel suo potere, velato dallo sporco del mondo e persino dall’alito dei suoi piú alti funzionari, che a lui si genuflettono schermandosi il respiro, nel soffio di incensieri e turiboli dai profumi innaturali e stordenti. (segue a p. 56) a r c h e o 53


persepoli i luoghi della leggenda A destra: Mohammad Reza Pahlavi, con la regina Farah Diba, visita Persepoli, 1960 circa. L’ultimo shah dell’Iran (fu costretto ad abbandonare il potere dopo la rivoluzione islamica scoppiata nel 1978) celebrò piú volte la grandezza dell’impero persiano in chiave propagandistica. In basso: le rovine del palazzo di Dario a Persepoli in una incisione ottocentesca. Milano, Castello Sforzesco.

«Guardate attentamente ai lati della colossale piattaforma, che si vede bene soprattutto dai lati ovest e sud, dove i blocchi di calcare, meticolosamente aggiustati gli uni agli altri, enormi per dimensioni e peso, salgono a circa 20 m di altezza. La stessa terrazza si estende per 450 x 300 m di ampiezza. Un grande muro di mattoni crudi, almeno in parte coperto di mattonelle policrome, sorgeva sul margine della piattaforma» (Sylvia Matheson, Persia: An Archaeological Guide, 2001). A destra: veduta di Persepoli: in secondo piano, al centro della foto, sono i resti della Sala delle Cento Colonne. Voluta da Serse, è il piú grande edificio dell’intero complesso.

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Le tappe di un immenso cantiere sacro 530 a.C.

518 a.C.

486 a.C.

Ciro II, detto il Grande, fondatore dell’impero

persiano, muore in battaglia contro gli Sciti Massageti della regina Tomiri, nell’attuale Turkmenistan, ed è sepolto a Pasargade. Mentre qui immense costruzioni rimangono non finite, il figlio e successore Cambise II sceglie il pendio del Kuh-i Rahmat, circa 50 km a nord dell’attuale Shiraz, come sede di una nuova capitale dinastica. Dopo una gravissima crisi dinastica, Dario I (522-486 a.C.; in persiano antico il nome significa «Colui che possiede il bene») dà inizio a una grande stagione di fastose, costosissime costruzioni. Dario pianifica l’enorme terrazza in pietra e la dota di raffinati sistemi idraulici. Inizia la costruzione dell’Apadana (la sala delle udienze, con alte colonne che sorgono da corolle di fiori di loto, coronate da teste di leoni, grifoni e tori), con due scalinate monumentali che, ricoperte di bassorilievi, celebrano il sovrano achemenide nelle sue vesti di Re dei Re. Nelle immagini, i signori di 23 nazioni si recano in ordinata processione dal monarca, portando doni e tributi. Il palazzo di Dario I e quello del principe della corona, Serse, sorgono dietro all’Apadana. A Dario I è anche attribuita la costruzione del Tesoro. Muore Dario I, e l’Apadana viene completata dal figlio Serse («Colui che regna sugli eroi», 486-465 a.C.). Serse fa realizzare l’enorme Sala delle Cento Colonne (che ospitava il suo trono), il piú grande edificio dell’intero complesso (70 x 70 m), e costruisce anche il cosiddetto harem (gli appartamenti femminili), e la grande Porta di Tutte le Nazioni, protetta da imponenti tori androcefali (lamassu). Un’iscrizione su tavoletta rivela che nel 467 a.C., alla fine del regno di Serse, il Tesoro costruito dal padre ospitava piú di 1300 dipendenti. Al regno di

Serse, o alle decadi posteriori, si attribuisce anche il Tripylon (Tripla Porta) che sorge tra l’Apadana e la Sala delle Cento Colonne. 465 a.C. Alla morte di Serse, la Sala delle Cento Colonne non è ancora finita, e viene completata dal suo successore, Artaserse I (465-424 a.C.). 400 a.C. La Sala delle Cento Colonne si trasforma in circa magazzino, forse come sede accessoria del Tesoro reale, insufficiente a raccogliere il patrimonio della corte. 358-330 a.C. Gli ultimi tre sovrani achemenidi (Artaserse III, Artaserse IV, Dario III Codomano) sono ancora impegnati in cantieri costruttivi e nella ristrutturazione degli accessi alla reggia, ma la cosiddetta Porta Non Finita e l’incompleta Via processionale a essa collegata testimoniano l’improvvisa invasione macedone. Poco prima della morte dell’ultimo re 330 a.C. achemenide, Dario III Codomano, Alessandro distrugge col fuoco i palazzi di Persepoli. 1620-1892 Le rovine cadono nell’oblio fino agli inizi del XVII secolo, quando la città comincia a essere visitata da viaggiatori occidentali. La prima descrizione scientifica del complesso si deve a George Curzon (Persia and the Persian Question, 1892). 1931-1934 Prime campagne di scavo dell’Oriental Institute di Chicago, dirette Ernst Herzfeld. 1934-1939 Campagne di scavo di Eric Schmidt (Oriental Institute di Chicago, University Museum di Philadelphia e Museum of Fine Arts di Boston). 1939-1964 Scavi e ricerche condotte dal Servizio Archeologico Iraniano. 1964-1978 Restauri, ricostruzioni e scavi italiani da parte degli studiosi dell’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma).


persepoli i luoghi della leggenda

Facile, a questo punto, comprendere l’irritazione degli Iraniani di oggi nei confronti del film 300, pellicola facile e ingegnosamente fabbricata sull’onda del terrore rinnovato dall’attentato dell’11 settembre e delle paure crescenti per gli investimenti della Repubblica Islamica dell’Iran nei settori nucleari. Nel film, il re e i guerrieri di Sparta affrontano l’onda espansionistica di un buio impero del male, il cui imperatore è dipinto come un grottesco, enorme lottatore seminudo e dorato, dagli appetiti sessuali perversi e animato dall’unica aspirazione di schiacciare chiunque gli si opponga. I Persiani, in 300, sono fantasmi anonimi, col volto coperto da uno straccio nero, che combattono con metodi sleali e muoiono a migliaia da codardi. Senza indulgere nelle ironie piú facili (in Grecia l’omosessualità era piú che tollerata, e fatta palese istituzione pedagogica; e proprio gli Spartani ne fecero le spese un paio di secoli dopo, travolti dai «battaglioni sacri» dei guerrieri omosessuali tebani), possiamo rimproverare a regista e scenografi di avere totalmente 56 a r c h e o

sbagliato strada. L’essenza del potere dei Persiani, pienamente riflessa dall’intangibile e lucida perfezione dei rilievi di Persepoli, era infinitamente piú sottile.

Un impero basato sull’armonia? Infatti, come ha scritto Marguerite Del Giudice «ciò che piú colpisce nelle rovine di Persepoli (…) è la mancanza di scene di violenza su ciò che rimane delle sue mura in pietra. Tra i rilievi figurano i soldati, ma senza combattere.Vi sono le armi, ma non sono sguainate. I simbolismi piuttosto suggeriscono che in queste sale si svolgesse qualcosa di umano, genti di diverse nazioni che si riunivano pacificamente, portando doni, appoggiando amichevolmente le mani gli uni sulle spalle degli altri». Un impero retto a pacche sulle spalle? In effetti, le scene di aggressione e violenza sono limitate a lotte in cui figurano belve e animali fantastici, quasi a suggerire che, se gerarchia e sopraffazione fanno parte di questo mon(segue a p. 63)


perchÉ è importante

Persepoli fu una città-simbolo dell’impero persiano, dedicata a rappresentare il fasto imperiale e i principi ispiratori del potere degli Achemenidi. Le decorazioni dei palazzi fanno pensare a un regno basato sul mantenimento della pace e sul rispetto dei diversi popoli piú che sull’oppressione militare. Pur tenendo conto di un innegabile spirito propagandistico, traspare il fascino grandioso del progetto di governo di Dario I e dei suoi successori.

I resti oggi visibili sono quanto sopravvissuto alla conquista di Alessandro Magno, che nel 330 a.C. saccheggiò e incendiò la città, secondo le fonti (greche) per vendicare la distruzione di Atene del 480 a.C. Ma anche, piú probabilmente, per scongiurare il risorgere dell’impero persiano, nonché per fronteggiare con il bottino le spese militari del suo esercito.

il sito nel mito

Per ragioni tuttora inspiegabili, nessuno scrittore greco fa menzione di Persepoli sino a quando la città non fu conquistata da Alessandro Magno. Eppure questa capitale cerimoniale dell’impero doveva apparire quanto mai fastosa e impressionante: basti pensare che, stando al racconto di Plutarco, lo stesso Alessandro dovette organizzare una carovana di ben 10 000 muli e 5000 cammelli per trasferire a Ecbatana le ricchezze trovate a Persepoli.

persepoli nei musei del mondo

Uno dei grandi rilievi che ornano il Tripylon (Tripla Porta), che sorge tra l’Apadana e la Sala delle Cento Colonne. La sua costruzione viene attribuita al regno di Serse (486-465 a.C.) o ai decenni immediatamente successivi. La scena raffigura un leone nell’atto di abbattere un toro, da intendere come allusione al trionfo delle forze del bene su quelle del male.

Tra i palazzi di Persepoli, nell’edificio di quello che un tempo era l’Harem di Serse, si trova oggi il Museo di Persepoli. Aperto al pubblico nel 1937, espone reperti preistorici, achemenidi e islamici, la maggioranza dei quali proveniente dagli scavi locali o dall’antica cittadina di Estakhr.

Numerosi reperti provenienti da Persepoli sono conservati presso il British Museum, a Londra. Tra questi, il cilindro di Ciro, con iscrizioni in alfabeto cuneiforme babilonese, che narra della conquista pacifica di Babilonia nel 539 a.C. (vedi foto a p. 66) e che fu rinvenuto nel 1879 nelle fondazioni del tempio di Marduk a Babilonia. Numerosi anche i rilievi provenienti dai fregi dei vari palazzi, che raffigurano sfingi, soldati in parata o sudditi.

Anche il Museum of Fine Arts di Boston annovera tra le sue collezioni numerosi reperti provenienti da Persepoli. Tra questi, un frammento di fregio risalente al regno di Serse (486-465 a.C.), raffigurante un soldato, è riconducibile a un insieme che ritraeva la guardia scelta del re di Persia, anche chiamata dei Diecimila Immortali, perché si diceva che se uno di loro fosse caduto in battaglia, subito un altro si sarebbe lanciato in avanti a prendere il suo posto.

Uno dei reperti piú prestigiosi del museo dell’Oriental Institute of Chicago è la gigantesca testa di uno dei due tori guardiani che fiancheggiavano il portico della Sala delle Cento Colonne. Di dimensioni colossali (altezza 2,16 m, diametro max 1,58 m), scolpita in pietra calcarea scura negli anni a cavallo tra i regni di Serse e Artaserse I (485-424 a.C. circa), è stata scavata dalla missione dello stesso Istituto Orientale nel 1932-33.

informazioni per la visita L’Iran è collegato all’Italia da voli diretti per Teheran e, volendo, anche per Shiraz, capolouogo della provincia di Fars da cui si può organizzare l’escursione a Persepoli, situata circa 75 km a sud-ovest. • In autobus: corse frequenti e regolari partono dal Karandish Bus Terminal a Shiraz, i tempi di percorrenza sono di circa 45 minuti. • Il taxi è una delle migliori opzioni per spostarsi a Persepoli da Shiraz. Assicuratevi che il prezzo concordato includa il tempo di attesa mentre visitate il sito.

a r c h e o 57


persepoli i luoghi della leggenda TRE IMPERI PER MILLE ANNI Potenti dinastie di lingua e religione

4000-2400 a.C.

2400-600 a.C. circa

I n questo arco di tempo mal definito g li storici collocano, tra accesi

1800-600 a.C. circa

sconosciuta fondano in diverse regioni dell’altopiano iranico le prime civiltà urbane, monopolizzando redditizi commerci e inventando metallurgia e scrittura, in parallelo a quanto avveniva in Mesopotamia. Le dinastie dei regni elamiti, nella porzione sud-ovest dell’altopiano, costruiscono città e imponenti ziqqurat (torri sacre a gradoni). La Mesopotamia viene invasa ripetutamente e i suoi centri sottoposti a saccheggio. Nel XII secolo a.C. la stele sulla quale è iscritto il codice di norme emanato dal re babilonese Hammurabi (XVIII secolo a.C.) viene rubata e portata come bottino nella capitale elamita di Susa.

1000 a.C. circa

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contrasti, la vita e la rivelazione del profeta Zarathustra, che chiama gli uomini a prendere parte attiva in un cosmico scontro tra il bene e il male a fianco del dio supremo Ahura Mazda, elaborando i concetti dell’inferno e del paradiso, del libero arbitrio, della resurrezione dopo la morte, del giudizio finale, e la fede nell’esistenza degli angeli, che possono aver profondamente influenzato le successive religioni monoteiste. Tribú nomadiche che parlano lingue indo-europee penetrano nell’altopiano iranico dai confini settentrionali e divengono importanti potenze regionali.

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t L’impero persiano o da Ciro a Dario, VI-V sec. a.C. Come si può vedere, i sovrani achemenidi giunsero a dominare gran parte del mondo allora conosciuto.

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G olf o P ersico Gerrha


el graduale declino dei regni N e lamiti, i Medi, una confederazione

alle porte dell’India) verso est. I re di ogni terra pagano tributo tribale di questo gruppo, conquista e prestano alleanza politica e militare una effimera supremazia, alleandosi in cambio della sicurezza e con i Babilonesi. Sono presto dell’autorità carismatica emanata sopraffatti e sostituiti dai Persiani, dal «Gran Re». i loro vicini della regione di Parsa 330-129 a.C. Alessandro e il suo esercito rovesciano (l’attuale Fars). inesorabilmente le armate imperiali 539 a.C. Il persiano Ciro I, «Il Pastore», prende persiane. I Macedoni e i loro alleati Babilonia e mostra la sua clemenza giungono rapidamente fino al confine rispettando i culti locali e liberando orientale, e cancellano in pochi anni di gli Ebrei dalla prigionia. vittorie, razzie e rivolte il primo impero 539-330 a.C. «Con il favore di Ahura Mazda» – come universale della storia umana. Dalle recitano le iscrizioni regali – i re rovine dell’impero persiano sorge il persiani della dinastia achemenide potere della dinastia seleucide (da dominano gran parte del mondo Seleuco, uno dei generali e compagni conosciuto, dalle coste dell’Asia di Alessandro), gradualmente Minore a ovest sino alle valli esautorata, a sua volta, dalla nascente dell’Hindukush (l’antico Gandhara, fortuna dei Parti. 247 a.C.-227 d.C. Dalla roccaforte di Nisa, i Parti conquistano la Mesopotamia, la parte nord dell’altopiano iranico e importanti territori ancora piú orientali. Per IsIs sasratrete quattro secoli un «secondo impero ii (S(S yrydra draja rja tt )) iranico» contende il dominio dei Lago Lago ee dell’Oxo dell’Oxo commerci internazionali a Roma (verso g g (Lago (Lago aa ovest) e agli stati cinesi (verso est), d’Aral) d’Aral) ss impedendo un contatto diretto tra le ss a a due superpotenze euroasiatiche. OO xoxo M 224-641 d.C. I Sassanidi fondano il terzo e ultimo (A(A M Maracanda Maracanda mm (Samarcanda) (Samarcanda) Chorasmia Chorasmiauduada grande impero iranico. Lo zoroastrismo rjarja )) e il culto del fuoco sacro divengono a a i iaann XV XV religione e chiesa ufficiale dello Stato, SSooggdd XII XII e i sovrani realizzano grandiosi progetti M Maarrggi iaannaa edilizi. L’impero viene gradualmente Battra Battra XVI XVI indebolito da secoli di sanguinose a a nn GG a a Patigrabana Patigrabana i i a a r r guerre con Bisanzio. Taxila Taxila nndd BBaat tt t hhaa 641 d.C. Le armate arabe, sull’onda della r raa VII VII predicazione di Maometto, travolgono PP aa rr zz i i aa aa le truppe dell’ultimo imperatore I Persiani I Persianiall’avvento all’avvento ii didiCiro Ciro(558 (558a.C.) a.C.) rr sassanide, ma al crollo dell’antico Iran, AA Impero Imperodei deiMedi Medi(549 (549a.C.) a.C.) che si verificherà poco dopo la morte Proftasia Proftasia aa oossi i del Profeta, si accompagna c c Regno Regno di di Lidia Lidia (546 (546 a.C.) a.C.) aa SSaa AAr r un drammatico scisma religioso ggaa r rz z Regno RegnodidiBabilonia Babilonia(539 (539a.C.) a.C.) e dinastico. i ai a XX XX Massima Massimaestensione estensionedell’Impero dell’Impero L’Iran riconosce la legittima XVII XVII achemenide achemenide(550-330 (550-330a.C.) a.C.) CC discendenza del califfato di Ali, marito aa XIV r rmmXIV Territori Territoriconquistati conquistati di Fatima, unica figlia di Maometto e a dadaCiro Ciroil ilGrande Grande(558-528 (558-528a.C.) a.C.) aann Hussein, suo nipote. i iaa Conquiste ConquistedidiCambise Cambise(530-522 (530-522a.C.) a.C.) La loro sconfitta e il loro martirio nel Parga Parga Pattala ddr roossi iaa Pattala sud della Mesopotamia separa la Conquiste ConquistedidiDario Dario(522-486 (522-486a.C.) a.C.) GGee confessione sciita (letteralmente Strade Stradereali reali «quelli del partito») dall’ortodossia dell’impero dell’imperopersiano persiano islamica (i sunniti). Battaglie Battagliedei deiPersiani Persiani OOcceeaannoo IInnddi iaannoo Esuli zoroastriani emigrano con il fuoco Numero Numerod’ordine d’ordinedelle delle sacro nell’India occidentale, fondando satrapiesecondo secondoErodoto Erodoto IX IX satrapie e eloro loroprobabili probabiliconfini confini una comunità religiosa ancor oggi nota col nome di «Parsi».

I n n d d ii a a Ind I Indo o

D D rr a n angi g i aa n n aa

II n n d d i i

600-550 a.C. circa

a r c h e o 59


persepoli i luoghi della leggenda

La riscoperta di Persepoli da parte degli Occidentali comincia nel 1621, quando il nobile romano Pietro della Valle inviò a un amico un saggio di scrittura cuneiforme copiata da una struttura dell’antica città. I primi scavi ebbero inizio nel 1931, grazie all’Oriental Institute di Chicago. La ricostruzione che presentiamo mette in evidenza la struttura piatta dei tetti, realizzata con travature in legno di cedro, tipica dell’architettura palaziale achemenide. LEGENDA 1. Porta delle Nazioni; 2. Fortificazione nord; 3. Apadana; 4. Palazzo di Dario; 5. Palazzo H; 6. Palazzo di Serse; 7. Palazzo G; 8. Tripylon; 9. Harem; 10. Tesoro; 11. Sala delle 100 Colonne; 12. Sala delle 32 Colonne; 13. Porta non finita; 14. Piazza d’Armi; 15. Tomba di Artaserse III.

Turkmenistan

Mar Caspio Teheran

IRAN Iraq Kuwait Arabia Saudita

Afghanistan

quel che resta di persepoli

Persepoli

Golfo Persico

15

12

porta delle nazioni e apadana

11

2 13

14

3 1

sala delle cento colonne

Le ricostruzioni di Persepoli sono state realizzate dallo studio K. Afhami & W. Gambke / www.persepolis3D.com. e sono visitabili sul sito.


tripylon . portico settentrionale

10

9 8 9 7

6

tesoro

4 5 piazza d ’ armi

n


persepoli i luoghi della leggenda «Un grande dio è Ahura Mazda, che ha creato questa terra, che ha creato il cielo, che ha creato l’uomo, che ha creato la felicità per l’uomo, che ha fatto Serse re, unico re di molti re, comandante di molti comandanti. Io sono Serse, il Gran re, il re dei re, il re di tutti i paesi e delle moltitudini, il re di questa terra vasta in ogni direzione, il figlio di Dario, un Achemenide» (iscrizione di Serse sulla Porta di Tutte le Nazioni, ripetuta in antico persiano, babilonese ed elamita).

A sinistra: la Porta di Tutte le Nazioni, un’altra delle realizzazioni attribuite al regno di Serse (486-465 a.C.). Il monumentale ingresso è «sorvegliato» da due grandi tori androcefali, chiamati lamassu. In basso: ricostruzione tridimensionale del probabile aspetto originario della porta.

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Ancora un particolare dei rilievi del Tripylon (Tripla Porta), con un corteo di guardie reali persiane.

studiosi di oggi cresce il consenso intorno all’idea di una comunità linguistica indo-aria che, alcuni secoli dopo la soglia del 2000 a.C., si sarebbe scissa in due tronconi, uno orientale, rivolto all’Afghanistan meridionale e quindi alle pianure del Punjab, nell’attuale territorio del Pakistan, e l’altro occidentale, destinato a penetrare e a influenzare in profondità, appunto, l’altopiano iranico. Tracce consistenti di queste antiche comunità linguistiche e della loro preistorica contiguità compaiono negli inni sacri dell’Avesta, attribuiti allo stesso Zarathustra, e in quelli del Rgveda, il nucleo piú arcaico della tradizione religiosa indiana. In realtà, ciò che definiamo oggi «Iran» è un’idea di universalità difficile da ricondurre a precise coordinate storiche e geografiche, maturata lentamente nel corso della nascita e del collasso dei tre grandi imperi (achemenide, partico e sassanide) che oggi definiamo «persiani», nel millennio tra il 500 a.C. e il 500 d.C. Anche se i primi signori ad adottare ufficialmente questo nome furono quasi certamente gli ultimi, i Sassanidi, è per do, il consesso delle genti, sotto l’egida di un sovrano noi difficile dissociare questo concetto dalle costruziogiusto e caritatevole, ispira un ordine ben diverso. Per ni di Persepoli, e dall’ideologia imperiale che le ispirò. dirla alla greca, ciò che resta di Persepoli, 2500 anni dopo la sua distruzione, simboleggia ancora un ompha- Sulle glorie del passato los, un ombelico universale di stabilità, lealtà e onore, Nel 1971, lo Shahanshah («Re dei Re») Mohammad che attira le genti al centro del potere con la persuasio- Reza Pahlavi decise di celebrare 2500 anni di monarne e l’esempio; premiandone le diversità, piuttosto che chia persiana con una fastosa celebrazione delle rovine. schiacciare, opprimere e travolgere le periferie straniere Davanti all’ingresso dell’area archeologica fu costruita dell’impero. E un potere che seduce, coinvolge e premia una lussuosa tendopoli, in cui furono ospitati, a decine, è ben piú pericoloso di uno costretto a dilapidare le sue re e capi di Stato di ogni parte del mondo, quasi a risorse per minacciare e annientare. replicare – e l’allusione non era affatto sfumata – la sfilata dei re e dei dignitari che sulle scalinate della reggia persiana si recavano a omaggiare e a rendere L’ «insolenza» delle onde del mare Certo si tratta di propaganda, ma di propaganda genia- tributo al Gran Re. le e terribilmente efficace. Persepoli, da ogni punto di Furono costruiti padiglioni con bagni e pavimenti lavista, ben simboleggia la duplice natura del primo, stricati di marmi preziosi; aerei militari trasportavano i grande potere imperiale. Nelle Storie di Erodoto, il cibi piú raffinati da Parigi e dalle altre capitali europee. Gran Re compare a volte come icona seducente del Lo shah rinverdiva i fasti degli Achemenidi, ma, allo sovrano razionale e filosofo, vicino a uno «stato di stesso tempo, lasciava che un’onda di modernizzazione natura» nel quale le sorti della società umana si avvi- occidentale si rovesciasse sull’intera nazione, e sulla cinano – pur nella stranezza di una cultura del tutto popolazione piú disagiata di una capitale in crescita aliena – a ideali paradisiaci. In altri casi, ai Persiani si vertiginosa. A ben pochi Iraniani fu concesso di assisteattribuiscono l’indole selvaggia e incontrollabile dei re alla fastosa cerimonia, e l’indignazione popolare che barbari, il gusto per il sangue e le vendette piú effera- ne seguí, secondo gli analisti politici, ebbe un ruolo te; e, agli occhi dell’Ellade, fu certamente assecondan- fondamentale nella rivolta che, sette anni piú tardi, do quest’ultimo aspetto, simboleggiato dallo scoppio portò alla destituzione dell’imperatore e alla nascita di hybris (sacrilega e violenta rabbia) che Serse, nel della nuova Repubblica Islamica (che qualcuno ha varcare il confine dell’Asia, fece frustare le onde definito «un eccezionale esperimento di teocrazia codell’Ellesponto, colpevoli di aver infuriato contro gli stituzionale»). In seguito alla rivoluzione islamica, la venerazione scafi della sua immensa flotta, a difesa dei Greci. «Iran» significa «terra degli Arya», con riferimento alle delle fondamenta dell’antico impero dei Persiani cadde aristocrazie guerriere che sarebbero penetrate nell’al- in oblio e discredito, e non mancò chi, nei settori piú topiano iranico, tra le valli dell’Afghanistan e la pianu- oltranzisti del clero, chiese a gran voce di radere al ra mesopotamica, tra il II e il I millennio a.C. Tra gli suolo l’intero complesso archeologico di Persepoli. Da a r c h e o 63


persepoli i luoghi della leggenda

«L’originale splendore di queste costruzioni può essere immaginato solo a fatica, malgrado le impressionanti rovine ancora visibili, perché le grandi porte di legno erano coperte da lamine d’oro dai delicati disegni, pesanti tende ricamate in oro tenevano lontani gli spifferi; mattonelle invetriate in blu, giallo e rosa ritraevano leoni, tori e piante mentre dipinti sull’intonaco correvano sulla parte superiore dei muri. Tracce di colore sono state trovate anche sulle basi delle colonne, sui muri in pietra e sui bassorilievi delle scalinate – persino la gola di un leone in un capitello caduto nel portico orientale dell’Apadana recava tracce di colore rosso». (Sylvia Matheson, Persia: An Archaeological Guide, 2001).

In alto, sulle due pagine: rilievo che orna una delle pareti del Tesoro. La scena mostra un funzionario dei Medi (popolazione iranica il cui regno era stato conquistato da Ciro il Grande), nell’atto di rendere omaggio a Dario I. 515 a.C. circa. A sinistra: ricostruzione tridimensionale dell’ambiente del Tesoro in cui era scolpita la scena, che si ipotizza fosse in origine policroma.

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una decina d’anni, il popolo e gli intellettuali iraniani sono tornati a essere molto consapevoli delle antichissime origini della propria cultura, e del ruolo che i tre imperi, per un millennio, avevano avuto nel dare forma alla storia politica del continente euroasiatico, e in prospettiva al mondo intero. Oggi alcuni iraniani progressisti tornano a recare omaggio alla possente Tomba di Ciro, nella vicina città di Pasargade (primo centro del potere dinastico degli Achemenidi); l’idea è che Ciro («il Pastore»), visto come un sovrano «giusto e democratico» rappresenti l’archetipo di un potere autorevole e assoluto, ma anche inevitabilmente aperto alle richieste e alle suppliche degli strati piú deboli e non socialmente protetti delle genti persiane. Paradossalmente questa interpretazione si basa su un’operazione smaccatamente propagandista, a suo tempo pianificata e messa in atto dallo shah Mohammad Reza Pahlavi, incentrata su

un’iscrizione achemenide trovata in Mesopotamia: il cosiddetto «cilindro di Ciro». Il cilindro era stato scoperto dall’archeologo anglo-assiro Hormuzd Rassam a Babilonia, nel 1879, nelle fondazioni dell’Esagila (il tempio di Marduk), e celebrava il carattere pacifico della conquista persiana di Babilonia. Oggi, ricomposto da due frammenti, è conservato al British Museum. La sua iscrizione è considerata da molti una specie di «prima carta dei diritti delle nazioni».

Un dono provocatorio Nel 1971, il cilindro di Ciro fu esibito dallo shah come cardine della propria propaganda imperiale, in quanto antico manifesto delle libertà religiose, e consegnato simbolicamente alle Nazioni Unite. In realtà, l’interpretazione «libertaria» ignora il fatto che l’iscrizione segue un formulario standardizzato e canonico, in cui vi è ben poco di innovativo; inoltre, del testo a r c h e o 65


persepoli i luoghi della leggenda circolarono e ancora circolano traduzioni del tutto false, che celebrano la liberalità e la tolleranza del sovrano ben oltre il dovuto. Eppure il cilindro è la migliore illustrazione del «lato benevolo» del potere assoluto dei sovrani achemenidi, come essi ci appaiono nei rilievi di Persepoli.Vi si legge, infatti: «Io sono Ciro, re dell’universo, il grande re, il re potente, re di Babilonia, re di Sumer e Akkad, re delle Quattro Parti del Mondo, figlio di Cambise, gran re, re della città di Anshan, nipote di Ciro, il grande re, re di Anshan, discendente di Teispes, il grande re di Anshan, seme perenne della regalità, amato dal regno di Marduk e Nabu (...) Quando sono andato come augurio di pace a Babilonia vi ho fondato la mia reggia all’interno del palazzo, tra feste e gioia (…) Ogni giorno rispetto Marduk con soggezione. Il mio grande esercito marciò pacificamente in Babilonia, e Sumer e Akkad nulla ebbero da temere. Ho rispettato la città di Babilonia e tutti i suoi santuari. Marduk, il gran signore, si rallegrò della mia buona condotta e pronunciò una benedizione benevola su di me, Ciro, il re che lo teme, e sopra Cambise, mio figlio, e su tutte le mie truppe, per farci vivere felici in sua presenza e nel benessere (…) Possano tutti gli dèi, che restituisco ai loro santuari, chiedere ogni giorno a Marduk e Nabu una lunga vita per me, e menzionino le mie buone azioni (…) Io sono stato capace di far vivere tutte le terre in pace». In basso: il cilindro iscritto in caratteri cuneiformi nel quale Ciro il Grande celebra il carattere pacifico della conquista persiana di Babilonia.

È illusorio pensare che un impero sterminato come quello dei Persiani fosse stato unificato e gestito per due secoli con tanta bonomia, e uno stato di serenità imperturbabile. La storia politico-dinastica degli Achemenidi contiene pieghe oscure, nelle quali affiorano complotti, assassinii e usurpazioni, che rimasero tanto celebri da essere stati fedelmente riportati e commentati dagli informatori e storici greci. Nell’altopiano iranico – un agglomerato di placche geologiche schiacciate insieme e frammentate da titaniche forze geologiche in una miriade di valli inaccessibili, separate da alcuni dei piú torridi e inospitali deserti del mondo – convissero popoli e nazioni del tutto diversi per lingua e cultura, uniti solo da interessi commerciali e da occasionali alleanze politico-militari. L’impero funzionava solo nella misura in cui le minacce militari del centro (la Persia) riuscivano a persuadere i regni regionali a pagare i pesanti tributi richiesti; ma non appena il potere centrale si indeboliva e non appariva in grado di rispondere con le armi, le periferie tendevano a riacquistare la propria indipendenza. L’intero conflitto con gli Ioni della costa occidentale dell’Asia Minore, poi divampato anche nella penisola greca, risponde a queste semplici dinamiche di fondo; e alla lunga, l’espansione a ovest dei conflitti finí per causare il catastrofico collasso del potere degli Achemenidi.

539-530 a.C. Londra, The British Museum. Trovato a Babilonia, nel 1879, nelle fondazioni dell’Esagila (il tempio di Marduk), il reperto fu

simbolicamente donato all’ONU, nel 1971, dallo shah Reza Pahlavi, come cardine della propria propaganda imperiale.

«Io sono Ciro, re dell’universo, il grande re, il re potente, re di Babilonia, re di Sumer e Akkad, re delle Quattro Parti del Mondo, figlio di Cambise, gran re, re della città di Anshan, nipote di Ciro, il grande re, re di Anshan, discendente di Teispes, il grande re di Anshan, seme perenne della regalità, amato dal regno di Marduk e Nabu». 66 a r c h e o


Pasargade. La tomba di Ciro, il primo monumento dell’antica città identificato in età moderna.

La versione che Diodoro Siculo (90-27 a.C. circa), Curzio Rufo (I-II secolo d.C.?) e Giustino (II-III secolo d.C.) danno del sacco e della distruzione del centro abitato di Persepoli, a ben vedere, è chiaramente propagandistica, ma davvero curiosa, e a suo modo rivelatrice. Nell’autunno del 331 a.C., Alessandro, già maldisposto nei confronti degli abitanti del grande centro cerimoniale, si sarebbe imbattuto in una folla di circa 800 Greci di età avanzata, vestiti di stracci e rovinati da orrende mutilazioni corporee. Sarebbero stati artigiani impiegati dai Persiani nei propri cantieri e nelle proprie industrie, poi crudelmente abbandonati dopo essere stati torturati e resi inabili alla fuga. Difficile non vedere in questa processione di poveri Greci deformi lo specchio orrendo dell’elegante incedere, sulle lunghe scalinate di pietra della reggia, di tanti ricchi dignitari di ogni paese.

I palazzi reali erano stati risparmiati dalla devastazione; ma, nella primavera del 330 a.C., nonostante l’amato generale Parmenione cercasse di dissuaderlo dal rovinare le sue stesse proprietà – come racconta lo storico Arriano (II secolo d.C) – Alessandro decise di punire la devastazione dell’Acropoli di Atene e dei suoi templi operata dai Persiani nel 480 a.C. dando fuoco ai palazzi reali della città. Sebbene lo stesso Arriano dubitasse della veridicità di questa spiegazione, alcuni vi prestano fede, riconoscendo proprio nel cuore delle costruzioni di Serse il centro di origine del fuoco. Viene piuttosto da pensare che Alessandro non potesse permettere la sopravvivenza di una città cosí pregna di significati storici e di sacralità politica nelle sue retrovie. Deve aver pensato, molto lucidamente, di non poter rischiare che un nuovo «re persiano» si insediasse simbolicamente alle sue spalle, sull’antico trono degli Achemenidi. Se, come probabile, aveva già progettato di fondare la sua nuova capitale universale a Babilonia, e avendo bisogno di ricchezza in metalli Stragi e saccheggi Sull’onda di una forte emozione Alessandro avrebbe preziosi per pagare le spese militari in un momento lasciato libere le sue truppe di trucidare tutti gli abitan- tanto critico per la sua spedizione, Alessandro non ti maschi di Persepoli e saccheggiarne sistematicamen- poteva certo comportarsi con la stessa generosità che te ogni ricchezza. La storiella acquista cosí un forte Ciro aveva esibito a Babilonia. valore simbolico (il volto crudele del potere smaschera quello benevolo). I resoconti greci parlano di violenze nel prossimo numero e devastazioni, di 25 000 animali da soma portati dalla Mesopotamia e da Susa carichi d’oro, d’argento e di la capitale nella roccia ogni sorta di manufatti preziosi.

petra

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speciale archeologia della sardegna/1

sardegna prima della Storia la

di Anna Depalmas

L’

antico nome Ichnussa, dal greco ichnos, «orma» o «pianta del piede», oltre ad attestare antichissime cognizioni cartografiche sulla forma della Sardegna, evoca le leggende fantastiche sull’origine di questa grande isola: una terra che sorge dal mare come l’impronta di un gigante. Che le peculiarità naturali e culturali dell’isola abbiano alimentato miti e leggende di una terra primitiva e selvaggia, si evince anche dai resoconti dei viaggiatori europei che vi approdarono nel Settecento e nell’Ottocento. Nel 1838, Honoré de Balzac, in una lettera inviata da Cagliari a Parigi scrive di avere visto «cose tali come si raccontano degli Uroni e della Polinesia. Un intero regno desertico, veri selvaggi, nessuna coltivazione, savane di palme selvatiche, cisti (…) Ho fatto da diciassette a diciotto ore di cavallo (…) senza trovare una casa. Ho traversato foreste vergini, piegato sul collo del cavallo a rischio della vita, perché per attraversarle bisogna camminare lungo un corso d’acqua ricoperto da una volta di liane e di rami che mi avrebbero cavato un occhio, portato via i denti, rotto la testa. Ci sono querce verdi gigantesche, alberi da sughero, lauri, eriche di trenta piedi di altezza. Niente da mangiare». Un’avventura esotica in piena regola, anche se certo elaborata dalla vivida fantasia del romanziere. Le antichità dell’isola, con gli enigmatici monumenti dai nomi fiabeschi come domus de janas e tumbas de gigantes («case delle fate» e «tombe dei giganti»), hanno concorso a tratteggiare l’immagine di una terra di pietra, fossilizzata nel suo passato leggendario. Ma, tornando ai nostri tempi e a una realtà che ha visto nel corso degli ultimi settant’anni un grande impulso nella ricerca scientifica, gli aspetti archeologici della Sardegna sono stati ampiamente indagati, anche grazie a nuove scoperte che consentono di definire le sequenze della preistoria e della storia antica.


Il nuraghe di Santu Antine, nel territorio del Comune di Torralba (Sassari). XVI sec. a.C. Il complesso, formato da una torre centrale e da un bastione trilobato con ai vertici tre torri circolari, è una delle testimonianze piú spettacolari e importanti della civiltà nuragica.

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speciale archeologia della sardegna/1 Le prime tracce dell’uomo Trent’anni fa la scoperta casuale di selci scheggiate lungo il corso del Riu Altana, nel territorio dell’Anglona, scosse le certezze sui tempi relativamente recenti dell’arrivo dell’uomo sull’isola. L’analisi delle industrie permise di individuare manufatti riconducibili a un filone culturale su scheggia, privo di strumenti bifacciali. Nella stessa località dei ritrovamenti, le indagini di scavo delle Università di Siena e Firenze interessarono due complessi, Sa Coa de sa Multa a Laerru e Sa Pedrosa-Pantallinu a Perfugas. Nel primo, piú antico, al di sotto di un livello mesolitico, si individuarono tre paleo-superfici sovrapposte tra cui, il livello piú significativo del Paleolitico Inferiore, fu interpretato come una officina litica per la produzione di denticolati e di raschiatoi di selce. Piú livelli stratificati di una fase piú recente sono stati individuati anche sul terrazzo orografico di Sa Pedrosa-Pantallinu – datato su base pedologica 180 000 anni fa – dove è stato supposto fosse presente un punto di approvvigionamento e scheggiatura della selce presente in loco. Mancano ritrovamenti relativi al Paleolitico Medio e il Paleolitico Superiore è molto poco documentato. Solo di recente, nell’area del Campidano, a Santa Maria Is Acquas, a Sardara, sono stati raccolti nuclei e strumenti ritoccati scarsamente differenziati, tra i quali sono attestate anche grandi lame forse riferibili a industrie del Paleolitico Superiore. Nella scarsità di elementi ascrivibili al Paleolitico, ha particolare rilievo l’originale statuina in basalto locale, ritrovata nel riparo di S’Adde, a Macomer, nota come Venere di Macomer, scoperta casualmente nel 1949 e oggetto di un recente riesame, che ha evidenziato la peculiarità di una raffigurazione che coniuga elementi umani femminili a quelli animali. Oltre alla Grotta Corbeddu (vedi box a p. 82) e al livello superiore dell’atelier di Sa Coa de Sa Multa, attestazioni mesolitiche sono state individuate nel riparo di Porto Leccio a Trinità d’Agultu e nella Grotta di Su Coloru, a Laerru, località situate sulla costa settentrionale o in prossimità di essa. A Su Coloru il livello mesolitico è stato datato tra il 7040 e il 6210 a.C. La documentazione archeologica indica esigui gruppi che frequentano stagionalmente i ripari naturali, sfruttando limitate risorse liti78 a r c h e o

Qui accanto: cartina che mostra la Sardegna e la Corsica nel Pleistocene, quando le isole formavano un’unica terra emersa Elba Elba Elba (il colore scuro indica l’estensione attuale e quello piú chiaro la situazioneCorsica Corsica Corsica antica). Il ritiro definitivo delle masse glaciali ne comportò la separazione. Mar Mar Mar In basso: vaso globulare Tirreno Tirreno Tirreno decorato a incisione, dalla Grotta del Bagno Penale, presso Cagliari. Età eneolitica, cultura di Sardegna Sardegna Monte Claro, 2400-2300Sardegna a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

che locali e tra cui quelle dell’habitat costiero e la caccia ai piccoli mammiferi. È recentissima la scoperta, nel litorale di Arbus, a S’Omu e S’Orku, di un riparo sotto roccia in cui i processi di erosione misero in luce resti umani datati intorno agli 8500 anni fa, appartenenti a un maschio adulto, caratterizzati dall’abbondanza di ocra, accompagnati da una grande conchiglia di tritone (Charonia lampas), rinvenuta presso il cranio. In seguito venne scoperto un secondo individuo di sesso femminile. Gli esigui gruppi umani che vivono in Sardegna durante il Mesolitico si muovono lungo la costa, forse attraverso spostamenti sul (segue a p. 82)

M M aMr aa rr T T i irTrrierrnr e eo nn o o

Cartina della Sardegna con l’indicazione dei piú importanti siti e complessi monumentali di età prenuragica e nuragica.


B o c c h e d i B o n i f a c io Maddalena Cala Villa Marina La Maddalena

Lu Brandali S. Teresa di Gallura

Li Mizzani Caprera Palau Li Muri Arzachena Arzachena Albucciu Li Lolghi Arzachena Arzachena Casanili Pozzo Milis Luogosanto Olbia

Asinara Go l fo dell’A s i n a r a

Punta Falcone

Porto Torres Monte d’Accoddi Sassari

Grotta Verde Alghero

Palmavera Alghero

Camposanto Olmedo

Oridda Senori

Sa Turricola Muros

Nuraghe Maiore Tempio P.

Tempio Pausania

Grotta dell’Elefante Castelsardo

Sassari

Abealzu Osilo

Olbia Monte e S’Ape Olbia

Predio Canopoli Perfugas

Grotta Inferno Muros

Burghidu Ozieri

S. Antioco Bisarcio Ozieri

Anghelu Ruju Alghero

Monte di Deu Calangianus

Mandra Antine Thiesi

San Michele Ozieri

A destra: idoletto femminile in calcite, dalla tomba VIII della necropoli neolitica di Puttu Codinu, presso Villanova Monteleone (Sassari). Cultura di Ozieri, 3500-2800 a.C. Sassari, Museo Archeologico Nazionale «Giovanni Antonio Sanna».

Sos Nurattolos Alà dei Sardi Iselle Budduso

Nuraghe Pitzinnu Posada

Sa Coveccada Capo Comino Istalai Mores Nule Su Coveccu Bultei S. Andria Priu Maone Su Tempiesu Bonorva Benetutti Sa Ucca Orune Sos Furrighesos e Su Tintiriolu Riu Mulinu Orosei Anela Bonorva Mara Biristeddi Noddule Mura Cariasas Dorgali Nuoro Bonorva Motorra Molia Serra Orrios Dorgali Illorai Nuoro Tamuli Filigosa S. Barbara Dorgali Oliena Cala Gonone Macomer Macomer Macomer Orolio Sas Concas Gonagosula Silanus Nuraddeo Oniferi Dorgali Dorgali Oliena Suni Istevene S’Altare de Grotta del Bue Marino Macomer Mamoiada Ponte Sa Logula Dorgali Sedda Sos Serrugiu Dualchi Sarule Carros Cuglieri G o l fo S’ena Sa Vacca Gorthene Oliena Iloi Elighe Onna Olzai Orgosolo Sedilo Oragiana di Orosei S. Lussurgiu Cuglieri Bidistili S’Omu e S’Orcu Lugherras Fonni Urzulei S’angrone Abini S. Michele Fanne Massa Paulilatino Fonni Cuglieri S.Pietro Golgo Losa Abbasanta Teti Santa Cristina Pedras Fittas Baunei Abbasanta Campu Maiore Ovodda Paulilatino Serra Is Araus Busachi Sa Carcaredda S. Vito Milis S’Urachi Meana Villagrande S. Barbara Nolza S. Vero Milis Villanova Truschedu Pitzu e Monti Prama Ruinas Sceri Arbatax Pranu Arzana Ilbono Cabras Cuccuru Arrius Genna Corte Belvi Ardasai Cabras Laconi Perdalonga Seui Genna Seleni Tortoli Oristano Arrele Lanusei Laconi Fenosu Golf o Aiodda S. Antinu Palmas d’Arborea Motrox ‘e Bois Serbissi Nurallao Genoni Osini Usellus di Oristano Bruncu Roja Cannas Cuccureddi Madugui Uras Esterzili Paras Coni Is Isili Aleri Monte Arci Tertenia Marceddi Gesturi Nuragus S. Vittoria S’ Omu S’Orcu Terralba Serri Su Siddi Orrubiu Nastasi Nuraxi Barumini Cuccarada Orroli Tertenia Barumini Mogoro Su Molinu Su Pranu Orroli Villafranca Saurecci Funtana Coberta Genna Maria Guspini Ballao Villanova Forru Pranu Muteddu Genna Prunas Is Pirois Pardu e Jossu Guspini Sa Turriga Goni Monti Villaputzu Sanluri Mannu Serrenti Senorbi S. Cosimo Sa Corona Gonnosfanadiga Pranu Sanguini Villagreca S. Nicolò Gerrei Corongiu Capo Pecora Pimentel Perda Fitta Sa Grutta ‘e Ianas Su Mannau Serramanna San Vito Fluminimaggiore Matzanni M. Olladiri Sebiola Asoru Vallermosa Monastir Serdiana San Vito Buoncammino S. Gemiliano D’Omu S’Orcu Iglesias Sestu Domusnovas Su Cungiau Cuccuru Craboni de Marcu Iglesias Maracalagonis Decimoputzu Seruci Tani Monte Claro Gonnesa Is Concias Diana Carbonia Cagliari Quartucciu Quartu Su Carropu Su Moiu Cagliari Sirri-Carbonia Narcao Capo S. Elia Isola di Carbonia Cagliari Montessu G o l fo S’Arriorgiu Santadi S. Pietro Antigori Santadi Sarroch d i C a g l i a r i Capo Carbonara Istmo Domu S’Orcu S. Antioco Sarroch

Capo Caccia

Alghero

Sant’Imbenia Alghero

Isola di S. Antioco

Cannai S. Antioco

Santu Antine Torralba

Mar

S. Anna Arresi S. Anna Arresi

A sinistra e in basso: statuina femminile in basalto, dal riparo sotto roccia in località S’Adde, nota come Venere di Macomer. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Scoperta casualmente nel 1949, viene attribuita al Paleolitico.

Ti r r e n o

Nuraghe

Caverna funeraria nuragica

Dolmen e tomba megalitica nuragica e prenuragica

Villaggio nuragico

Caverna d’abitazione prenuragica e nuragica

Tomba dei giganti

Villaggio prenuragico

Tempio a cella nuragico (a «megaron»)

Ipogeo funerario prenuragico

Pozzo sacro

Tempio prenuragico

Santuario nuragico

Caverna funeraria prenuragica

Menhir, betilo e stele

Recinto nuragico


inferiore

medio

neolitico

mesolitico

antico

superiore

cultura e civiltà

età

paleolitico

6.000 a.C.

35.000 a.C.

10.000 a.C.

Tavola cronologica 120.000 a.C.

450.000 a.C.

speciale archeologia della sardegna/1

su carroppu

microliti in ossidiana

filiestru

ceramica ceramica impressa non decorata «strumentale» ceramica e « cardiale » ingubbiata in rosso a cordoni plastici anelloni litici

recente

bonu ighinu

ceramica impressa e graffita strumenti in selce e ossidiana strumenti in osso , vasi in pietra

san ciriaco

finale

ozieri

rare decorazioni di tradizione «bonu ighinu »

ceramica impressa , incisa e ingubbiata rossa

vasi a orlo estroflesso

vasi in pietra strumenti in selce e ossidiana strumenti in osso

industria su scheggia (in prevalenza in selce )

osso lavorato , strumenti in selce , calcare , quarzo

primi strumenti in ossidiana (?)

oggetti metallici

anse fittili antropomorfe

arte mobiliare e immobiliare (pittura scultura e incisioni)

elementi significativi della cultura materiale

ceramica impressa «cardiale»

grotta verde

medio

figurine in pietra

figurine in pietra , ceramica , osso

anse fittili zoomorfe

motivi scolpiti , incisi , dipinti su parete di domus de janas

motivi zoomorfi impressi su ceramica

religiosi

grotta

grotta

villaggio all ’ aperto (?)

riparo , grotta , villaggio all ’ aperto

motivi antropomorfi incisi su ceramica

(?)

grotta

tempio su terrazza

grotta

riparo , grotta , villaggio all ’ aperto

riparo , grotta , villaggio all ’ aperto in materiale deperibile o in muratura villaggi sotto roccia

civili

capanne tipo serra linta

grotta

funerari

monumenti

capanne circolari

riparo (?)

grotta naturale (?)

grotta , grotticella artificiale

fossa terragna grotta naturale , domus de janas (grotticella artificiale ) domus miste tombe a circolo con struttura in muratura tombe a circolo con cista dolmen

sepoltura primaria


950 a.C.

1.700 a.C.

2.200 a.C.

3.600 a.C.

età del bronzo

eneolitico

inferiore

medio

superiore

finale

antico

medio

recente

finale

sub - ozieri filigosa

decorazioni rare ceramica dipinta in rosso

vaso

«pluriangolare» bicchiere carenato vaso a fiasco

vasi carenati oggetti metallici

abealzu

vaso biconico bugne singole o in coppia , forate o no

monte claro

vaso a fiasco con collo allungato

campaniforme

ceramica a solcature , a incisione , a stralucido , dipinta a nastri rosso - ocra

bicchiere allungato , vaso conico , assenza di vasi carenati

materiali litici oggetti in rame e piombo

vaso a campana , tripode , tetrapode decorazione a rotella dentata

età nuragica

bonnanaro

decorazione su ansa a vasi di tipologia gomito ; bonnanaro ceramiche inornate decorazione incise ceramiche a nervature armi e utensili in bronzo

brassard , bottoni , armi

ceramiche tipo « tamuli »

olle a orlo ingrossato

ceramica geometrica

ceramiche a nervature

ceramica pregeometrica

ceramica a pettine

ceramica micenea

askoi , brocche piriformi

bronzi d ’ importazione orientale (?)

lingotti e armi di tipo egeo armi e utensili di bronzo

rara decorazione graffita , impressa a punti oblunghi

ambra e bronzi d ’ importazione tirrenica importazioni fenicie

decorazione incisa e dipinta

(a bande rosse)

crogioli fittili armi in rame ornamenti d ’ argento e rame vasi miniaturistici

motivi scolpiti , incisi e dipinti in domus de janas , motivi dipinti in ripari sotto roccia , motivi incisi in grotta e ripari sotto roccia

motivi geometrici incisi in domus de janas e ripari sotto roccia

betili aniconici

sculture architettoniche statuaria lapidea bronzi figurati

statue - menhir

modelli litici e bronzei di nuraghe

pozzi sacri

villaggio all ’ aperto grotta naturale

(?)

riparo sotto roccia

muro di difesa di villaggio

villaggi villaggio di capanne di capanne (pali e frasche e / o muratura )

villaggio di capanne grotta naturale

villaggio santuario

templi a cella rettangolare

grotte d ’ uso sacro

villaggio con capanne circolari

villaggio con capanne a settori capanne rettangolari absidate

capanne rettangolari absidate

nuraghe a corridoio , a tholos , semplice e complesso

muraglia su altura muro di difesa di villaggio

sepoltura secondaria anfratto fossa terragna

villaggio di capanne rettangolari con zoccolo in muratura e vani multipli

pozzi sacri

templi a megaron

(?)

domus de janas riutilizzate o ristrutturate o scavate ex novo

grotta naturale domus de janas realizzate ex novo riutilizzo di domus de janas dolmen

allée couverte

allée couverte

tombe a circolo

fossa terragna deposizione entro vaso cista litica

cista litica riutilizzo di dolmen e di domus de janas grotta naturale

grotta naturale domus de janas ex novo o riutilizzata cista litica

tomba di giganti con « stele », con fronte a filari e tecnica poligonale o isodoma

allée couverte tomba di giganti scolpita nella roccia allée couverte scolpita nella roccia

tomba di giganti con facciata a filari e tecnica isodoma

tomba monosoma a fossa e a pozzetto tafone tomba di giganti


speciale archeologia della sardegna/1

L’uso e la diffusione dell’ossidiana diedero vita a scambi e relazioni ad ampio raggio antichi cacciatori di cervi I ritrovamenti della Grotta Corbeddu di Oliena (Nuoro) sono databili alla fine del Pleistocene (l’epoca conclusiva dell’era quaternaria, durante la quale si ebbero le ultime glaciazioni, n.d.r.). Qui, nella sala 1 (14-12 000 anni fa), l’Università di Utrecht portò alla luce, tra il 1980 e il 1990, strumenti in selce di scarsa qualità e calcare siliceo. Nella sala 2, fu individuata una sequenza stratigrafica che dal Pleistocene giunge al Neolitico Medio: nello strato 2, in associazione con resti di fauna riferibili in gran parte a Prolagus (un roditore; circa 9000 anni fa), insieme a pochi manufatti litici atipici, vennero ritrovati un frammento di mascellare e uno di temporale attribuiti a un individuo che rientrerebbe nei margini di variabilità morfologica dell’Homo sapiens. Lo strato 3 era costituito da un livello con ossa selezionate di un cervide (Megaceros Cazioti) in giacitura non naturale, alcune delle quali presentavano tracce di usura per l’utilizzo come rudimentali strumenti mentre altre avevano tagli e segni forse conseguenti alle operazioni di macellazione dell’animale. Nel corso di un sondaggio operato nel 1993 nella sala 2 venne recuperata in giacitura primaria la porzione prossimale della prima falange di una mano che, sulla base delle correlazioni con i livelli datati della trincea principale, appare riferibile a circa 20 000 anni fa.

Disegno ricostruttivo di un Prolagus, un roditore simile a un coniglio selvatico che si diffuse in Sardegna e Corsica a partire dal Pleistocene. Resti dell’animale sono stati trovati, fra gli altri, negli scavi condotti all’interno della Grotta Corbeddu, presso Oliena (Nuoro).

82 a r c h e o

mare, occupando stagionalmente ripari che consentano lo sfruttamento delle risorse locali, per la produzione di un’industria atipica, realizzata con rocce di scarsa qualità.

Dal Neolitico all’età del Bronzo Il passaggio dal Mesolitico al Neolitico è segnato da una marcata discontinuità, oltre che nei dati cronologici, nelle forme di insediamento, nella tecnologia e nelle produzioni. Nella Grotta Corbeddu viene abbandonato l’uso della materia prima locale, sostituita da un’industria in ossidiana caratterizzata da elementi geometrici microlitici, e, a Su Coloru, benché sia largamente usata la selce locale, la presenza dell’ossidiana è indicativa dell’acquisizione di capacità di relazione e di scambi nel conseguimento di materiale da lunghe distanze.


Le prime comunità di agricoltori e allevatori si insediano dall’inizio del VI millennio a.C. (Grotta Su Coloru: 6830±80 BP, Before Present, cioè da oggi, n.d.r.), di preferenza nei territori della costa occidentale e nel centrosud dell’isola, con insediamenti all’aperto e, in misura minore, in grotte e ripari. L’intensa copertura vegetale a macchia mediterranea e foresta xerofila (cioè formata da piante adattate a vivere in ambienti caratterizzati da lunghi periodi di siccità o da clima arido), potrebbe avere rallentato la diffusione dell’agricoltura e orientato verso un maggiore sviluppo della caccia e dell’allevamento di ovicaprini, suini e bovini. Nella fase piú antica del Neolitico le forme ceramiche sono scodelle o olle con corpo ovoidale o globulare, spesso decorate con le impressioni di valve di conchiglia cardium.

Sono attestate la lavorazione della pietra verde, oltre all’utilizzo della selce e del diaspro, e la crescente diffusione dell’ossidiana del Monte Arci, che circola entro un ampio areale comprendente territori extrainsulari come la Corsica, la zona centro-settentrionale della Penisola italiana, la Provenza e il Midí della Francia. Nella fase successiva del Neolitico Medio, detta di Bonu Ighinu (prima metà del V millennio a.C.), oltre allo sviluppo nella tecnologia ceramica, che dà luogo a produzioni vascolari raffinate, con superfici lustrate e decorate da minuti punti o tratteggi, emerge il notevole impulso dato alla fabbricazione di elementi di ornamento di conchiglia e all’industria su osso, con punte di zagaglia, punteruoli, aghi e lesine tra cui una con la riproduzione stilizzata di un volto umano.

Il dolmen di Ladas-Luras, Sassari. La struttura megalitica è databile alle fasi finali del Neolitico, in particolare alla cultura di Ozieri, fine del V-prima metà del IV mill. a.C.

a r c h e o 83


speciale archeologia della sardegna/1 le «case delle fate» come ultima dimora Le prime tombe con circolo di pietre e cista litica al centro (Li Muri a Arzachena) e l’escavazione in roccia delle prime grotticelle artificiali (domus de janas, «case delle fate») – che costituiranno lo spazio funerario privilegiato a partire dal Neolitico Recente sino alle soglie dell’età nuragica e anche oltre – vanno verosimilmente assegnate alla facies detta di San Ciriaco (dal nome di un sito in territorio di Terralba, nell’Oristanese, n.d.r.). Gli oltre 3500 ipogei si aprono a fior di suolo o sulle pareti di roccia e al loro interno possono svelare una labirintica sequenza di ambienti dalle planimetrie semplici e articolate (sino a un massimo di 22 ambienti), nei quali possono essere riprodotti elementi architettonici quali nicchie, lesene, pilastri, banconi, setti divisori e, sul soffitto, la resa in positivo o negativo della copertura lignea di un tetto. Rientrano nell’ambito cultuale le piccole cavità scavate sul pavimento per la combustione o la deposizione di offerte e le raffigurazioni, piú o meno schematiche, di protomi o corna bovine. L’uso della pittura rossa per evidenziare i bassorilievi o per creare motivi architettonici o decorativi è ampiamente documentato. Tra i soggetti scolpiti nelle tombe, oltre alle citate figurazioni bovine e ai motivi astratti come le spirali, interpretabili come stilizzazioni di protomi animali, vi sono figure umane stilizzate, tra cui alcune con maschere animali, rappresentate in scene di danza (Tomba Branca, Cheremule), e altre raffigurate a testa in giú con il corpo ad ancora (Sas Concas, Oniferi). A fronte di un numero cosí elevato di ipogei sono estremamente esigui i dati relativi ai rituali funebri anche a causa della consuetudine, reiterata nei secoli, di riutilizzare gli spazi funerari, rimuovendo le deposizioni piú antiche. A partire dal Neolitico Finale, accanto al grandioso fenomeno funerario delle sepolture ipogee neolitiche (domus de janas), si assiste all’edificazione di differenti modelli di strutture funerarie, che rientrano nell’ambito del megalitismo e si ricollegano a una tradizione che innalza costruzioni subaeree con pietre di grandi dimensioni, e, piú in generale, con muratura a secco.

Uno degli ambienti interni (a sinistra) e la planimetria e la sezione (nella pagina accanto, in basso) della tomba 2 della necropoli di Iloi-Ispiluncas, a Sedilo (Oristano). Cultura di Ozieri, fine del V-inizi del IV mill. a.C. Il sepolcro appartiene alla categoria delle cosiddette domus de janas, cioè, letteralmente, «case delle fate».


La tomba C della necropoli di Anghelu Ruju, presso Alghero (Sassari). Il sepolcreto conta, a oggi, 38 monumenti ipogei, anch’essi, come nel caso di Sedilo (vedi alla pagina accanto) riferibili alla classe delle domus de janas. L’utilizzazione del sito a scopo funerario ebbe inizio nel Neolitico Recente (cultura di Ozieri, 3500 a.C.), ma si protrasse per almeno 1500 anni, fino alla prima età del Bronzo (cultura di Bonnanaro, 2000 a.C. circa).

È recente la distinzione dell’aspetto culturale di San Ciriaco (seconda metà del V millennio a.C.), corrispondente al passaggio tra Neolitico Medio e Recente o all’inizio del Neolitico Recente. La sua diffusione in parte coincide con quella del Bonu Ighinu, in parte è attestata in villaggi all’aperto ai margini della pianura del Campidano, nei quali compaiono le ciotole carenate, le tazze a profilo sinuoso, le tazze-attingitoi, prevalentemente inornate, a pareti sottili e ben rifinite, caratteristiche di quest’aspetto. Durante le fasi avanzate del Neolitico, con l’aspetto culturale di San Michele di Ozieri (fine del V-prima metà del IV millennio a.C.) la Sardegna appare oramai intensamente popolata, come indicano i diffusi ritrovamenti di manufatti ceramici e litici anche nelle zone piú interne. Il vasellame è ben caratterizzato da decorazioni spesso barocche con motivi geometrici di gusto rettilineo e curvilineo che denotano un certo gusto cromatico per l’uso di incrostazioni bianche e rosse sul fondo nero. La produzione di manufatti di ossidiana e selce ha raggiunto elevati standard di specializzazione sia nello sfruttamento della materia prima (per esempio nella realizzazione di lame) che nella circolazione regionale ed extrainsulare.

Grotte e capanne Nel Neolitico Antico, Medio e Recente sono ampiamente attestati, oltre agli insediamenti in grotta, anche abitati all’aperto con strutture di forma ovaleggiante leggermente infossate, ma solo con le fasi finali di Ozieri si ha una piú ricca documentazione dell’edilizia domestica oltre che funeraria. Recenti scoperte hanno permesso di individuare sul terreno tracce delle abitazioni di cui da tempo era stata ipotizzata l’esistenza sulla base degli indizi forniti dall’architettura funeraria. Infatti, oltre a modelli di abitazione impostati su moduli costruttivi di pianta rettangolare o quadrangolare, sono state scoperte peculiari strutture composte da ambienti a pianta rettangolare e semicircolare accostati a formare delle unità abitative che occupano superfici di notevole estensione. L’unico in-

a r c h e o 85


speciale archeologia della sardegna/1 sediamento sinora noto è quello di Serra Linta a Sedilo (vedi box a p. 88), presso le sponde del fiume Tirso dove sono documentate abitazioni anche maggiori di 280 mq. Un modello insediativo ben attestato sulla base delle testimonianze archeologiche note è quello che sembra prediligere l’ubicazione degli abitati su modesti rilievi, spesso adiacenti alle pianure fluviali, in corrispondenza di terreni di natura alluvionale, irrigui, caratterizzati da livelli di produttività ottimali per l’agricoltura e lambiti da fiumi o lagune. Un tratto che accomuna le strutture edilizie di questi insediamenti è la presenza di paramenti murari realizzati in tecnica a secco con pietre di piccole e medie dimensioni che emergono per un alzato molto modesto e che paiono indicativi dell’impiego di un basamento litico posto a supporto di pareti lignee o di materiale deperibile. Nel corso dell’Eneolitico (III millennio a.C.), attraverso la successione, non rigidamente sequenziale, di diversi aspetti culturali (denominati SubOzieri, Filigosa, Abealzu), si osservano mutamenti nelle produzioni ceramiche che, partendo dalla tradizione Ozieri, sviluppano un gusto meno interessato alla decorazione, pur se si sperimenta l’introduzione della pittura in ceramiche e l’industria litica in ossidiana subisce una contrazione rispetto ai periodi precedenti. L’inizio dell’attività metallurgica risale alla

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Pisside (vaso a forma di coppa) decorata con motivi a spirale corniformi, dalla Grotta di San Michele a Ozieri, Sassari. 3200-2800 a.C. Sassari, Museo Archeologico Nazionale «Giovanni Antonio Sanna».

fase di Ozieri (anellini di rame e argento ritrovati a Pranu Mutteddu a Goni), ma è con la fase Sub-Ozieri che ha inizio la diffusione di pugnali, lesine e punteruoli, oggetti d’ornamento di rame e argento, prodotti in loco, come attestano i crogioli e le scorie di fusione nell’ambito degli insediamenti (per esempio Su Coddu a Selargius).

Continuità culturale Nelle fasi medie ed evolute dell’Eneolitico, gli aspetti culturali Monte Claro e campaniforme rappresentano un’interruzione del fenomeno di continuità radicato nel solco della tradizione neolitica che aveva contraddistinto la prima parte del periodo. L’aspetto campaniforme, di cui sono state rinvenute tracce solo nelle tombe, rappresentate in gran parte da ipogei riutilizzati, è caratterizzato, oltre che dai tipici vasi a campana decorati da bande campite di tratteggio a pettine, da scodelle e ciotole carenate, anche se nelle fasi piú avanzate, che giungono all’inizio dell’età del Bronzo, sono particolarmente diffusi vasi polipodi e boccali con ansa a gomito, decorati con motivi incisi e sintassi originali (metope, clessidre, meandri, ecc.). Tra le manifestazioni architettoniche riconducibili all’Eneolitico vi sono muri megalitici e recinti realizzati presso il bordo di rilievi o sulla sommità di pianori isolati, la cui costruzione sembra suggerire l’indicazione di un avvenuto cambiamento nel rapporto delle comunità con il proprio territorio, percepibile nella ricerca di posizioni su alture difese naturalmente e nella delimitazione di spazi mediante strutture fortificate. A questa nuova concezione, che si afferma pienamente e in modo manifesto nell’età del Rame, sono ricollegabili sia elementi cultuali rappresentati da circoli megalitici (Is Cirquittus a Laconi), menhir (o pietre fitte) aniconici, stele con elementi simbolici (Boeli a Mamoiada) e da statue-stele (o statuemenhir), presenti isolati o in allineamenti (Pranu Mutteddu a Goni) o in particolari concentrazioni anche nell’ambito di uno stesso territorio (Laconi).


piccoli (e grandi) enigmi di pietra Le oltre 130 figurine femminili neolitiche ed eneolitiche a oggi note sono sculture di piccole dimensioni (10-15 cm di altezza media), provenienti da grotte, abitati e soprattutto tombe. Con l’aspetto culturale Bonu Ighinu (Neolitico Medio) vengono realizzate le statuine di pietra (steatite, alabastro, marna, ecc.) che rappresentano figure dalle forme opulente, presumibilmente di sesso femminile, in piedi, con le braccia aderenti alle cosce e la testa spesso adornata di un basso copricapo cilindrico. Nonostante gran parte di esse siano frutto di scoperte casuali, lo straordinario ritrovamento avvenuto agli inizi degli anni Ottanta a Cuccuru is Arrius (sito individuato sulla riva sud-orientale dello stagno di Cabras, Cagliari) fornisce qualche elemento per la loro interpretazione come divinità protettive e propiziatorie. In una necropoli costituita in gran parte da ipogei con pozzo verticale di accesso e una camera a forno, i defunti, ricoperti di ocra rossa e deposti in posizione contratta all’interno della camera, oltre a un corredo rappresentato da armi di ossidiana, strumenti di osso e uno o piú vasi di forma aperta contenenti conchiglie di Cardium, tenevano nel pugno una o due statuine. Le statue-stele o statue-menhir note sono oltre 100, localizzate in diverse regioni della Sardegna centrale. Sono monoliti di forma allungata che però, a differenza delle semplici «pietre fitte» o menhir, presentano sul prospetto elementi figurativi in rilievo. Hanno forma rastremata verso l’alto, faccia anteriore piatta, posteriore convessa e – sulla sommità – uno schema facciale a T, riassunto nelle sopracciglia ad arco e nel naso a pilastrino. La presenza del seno caratterizza pochi esemplari femminili, mentre la maggior parte delle pietre fitte sembra rappresentare, attraverso il simbolismo di un enigmatico pugnale posto nel registro inferiore della statua, personaggi maschili. Sulla base del motivo simbolico che campeggia al centro della superficie scolpita – una figura umana stilizzata a testa in giú, evocativa del mondo dell’aldilà –, è stato ipotizzato che le statue rappresentino defunti eroizzati e siano da ricollegare al culto degli antenati. Oltre a questi sono noti menhir che presentano una faccia costellata di coppelle o anche di motivi a cerchi concentrici con appendice uncinata (Boeli-Sa Perda Pintà e altri menhir del territorio di Mamoiada) analoghi a quelli presenti in lastre di sepolture come nel caso dell’allée couverte di Monte Paza a Sedilo.

In alto: statuina femminile in marmo con busto a placca traforata, dalla tomba II della necropoli ipogeica di Monte d’Accoddi. È stata rinvenuta con materiali neo-eneolitici, riferibili alle culture di Abealzu e Filigosa. Sassari, Museo Archeologico Nazionale «Giovanni Antonio Sanna». A sinistra: satuina femminile in alabastro, da Decimoputzu (Cagliari), località Su Cungiau de Marcu. Forse riferibile a un insediamento neolitico. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. A destra: restituzione grafica della stele di Boeli (presso Mamoiada, Sassari), detta anche Sa Perda Pintà. Cultura di Ozieri, 3200-2800 a.C. Ritrovata casualmente nel 1997, è una grande statua-menhir in granito (alt. 2,67 m; largh. 2,10-1,30 m; spess. 0,57 m), la cui faccia anteriore è fittamente decorata da cerchi concentrici e coppelle.


speciale archeologia della sardegna/1 Il passaggio tra l’Eneolitico e la prima età del Bronzo in Sardegna (facies Bonnanaro) avvenne attraverso una lenta evoluzione degli aspetti tecnologici. Tra le ceramiche prevalgono le forme aperte, come le tazze, le ciotole e i vasi tripodi, la decorazione è assente o limitata a cordoni plastici e bugne; le anse sono spesso a gomito e a volte presentano un prolungamento asciforme. Era diffuso l’uso di seppellire i morti nelle tombe ipogee, in ciste, tombe megalitiche e molto spesso in cavità naturali. I resti scheletrici ritrovati all’interno delle sepolture documentano sia la sepoltura primaria che le deposizioni secondarie di ossa semicombuste.

La porta dell’aldilà In molte località della Sardegna sono documentati raggruppamenti di tombe ipogee (domus de janas), sia con piccoli insiemi di due o tre unità, sia con aggregati di maggiore entità (necropoli) come quello di Montessu, a Villaperuccio. In un teatro naturale di grande suggestione e bellezza si aprono circa 40 tombe, poche con una sola camera, la maggior parte con piú vani articolati intorno a un ambiente di maggiori dimensioni. Alcuni ipogei sono decorati da pittura rossa e da motivi incisi geometrici e a spirale, oltre ai quali vi sono raffigurazioni a bassorilievo di corna bovine e della falsa porta, simbolo interpretato come passaggio per l’aldilà. Due domus presentano ristrutturazioni esterne con allineamenti megalitici, realizzate presumibilmente allo scopo di delimitare un’area esterna per le cerimonie rituali in onore dei defunti. Questi elementi, insieme ai materiali rinvenuti all’interno degli ipogei scavati, sono indicativi del prolungato uso della necropoli a partire dal Neolitico perlomeno sino agli inizi dell’età nuragica. Vivere ai tempi del Neolitico

trave di colmo Sostenuto da pali di particolare robustezza, è l’elemento cardine del tetto a doppio spiovente. I travicelli delle falde venivano fissati grazie a incastri e cordami ricavati da fibre naturali.

Nel 1989, a Firenze, in occasione di un congresso in onore dello studioso d’arte preistorica Paolo Graziosi, fu annunciata la scoperta dei resti di un villaggio di età neolitica, individuato in località Serra Linta, presso Sedilo (Oristano). Qui, sulle sponde del fiume Tirso, sono venuti alla luce i resti di un insediamento esteso su una superficie di 45 ettari circa, articolato in capanne la cui area raggiungeva in alcuni casi i 280 m². Si tratta, finora, dell’unico abitato del genere mai scoperto in Sardegna. Lo schema delle abitazioni era composto da strutture a pianta quadrangolare o rettangolare, associate ad ambienti semicircolari, come provano la planimetra della capanna 4 (in alto, in questa pagina) e il disegno ricostruttivo (a destra, sulle due pagine), basato su un’altra delle unità abitative scoperte.

88 a r c h e o


l’«esercito» di Sant’iroxi Benché la scoperta di Sant’Iroxi di Decimoputzu (Cagliari) risalga al 1987 (scavi Giovanni Ugas), il contesto rimane a tutt’oggi unico per la particolarità degli elementi ritrovati. Durante i lavori per la costruzione di una palestra fu riportata alla luce una tomba a grotticella artificiale. Qui, sopra gli strati neolitici (con materiali delle fasi San Ciriaco e Ozieri) ed eneolitici, si rinvennero due strati di sepolture con individui in posizione rannicchiata. Il primo livello di 15 inumati era pertinente a una fase del Bronzo Antico con tripodi e vasellame di tipo Bonnanaro, nel secondo, senza tripodi, ma con vasi a quattro anse, vi erano i resti di 138 individui, alcuni dei quali con uno straordinario corredo metallico. Oltre a numerose lesine e punteruoli vi erano 5 pugnali e 13

spade – a lama triangolare e base arrotondata, lunghe tra i 31 e i 72 cm – realizzate con rame arsenicale e piombo provenienti da giacimenti sardi. Le spade attestate a Sant’Iroxi mostrano strette affinità con le produzioni di tipo El Argar (cultura dell’età del Bronzo attestata in Spagna, n.d.r.) ma la manifattura locale porterebbe a ipotizzare che le strette analogie con produzioni dell’Occidente mediterraneo siano imputabili a sviluppi locali originati da un patrimonio comune. Le sepolture di armati di Sant’Iroxi sono certamente un forte indicatore del fatto che, alle soglie dell’età nuragica, vi erano comunità in cui l’organizzazione sociale aveva già acquisito dei connotati di evidente differenziazione socioeconomica.

copertura

Selezionando rami piú piccoli e frasche, si fabbricavano fascine che venivano poi legate alla falda del tetto. La scelta dei materiali e la posa in opera erano essenziali per garantire la funzionalità della struttura.

ingresso

In corrispondenza degli ingressi dell’abitazione, la struttura veniva verosimilmente rinforzata, e provvista di elementi orizzontali che avevano funzione di architrave.

In alto: località Sant’Iroxi, presso Decimoputzu (Cagliari). La tomba a grotticella scoperta nel 1987 in corso di scavo. Nell’ipogeo, databile all’età del Bronzo, sono stati trovati i resti di oltre 150 individui e una quantità considerevole di spade e pugnali.

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speciale archeologia della sardegna/1 l’«oro nero» del monte arci L’ossidiana, vetro naturale di origine vulcanica scheggiabile come la selce, fu largamente sfruttata nella preistoria per produrre strumenti con alto potere di taglio. Data la relativa rarità – si rinviene solo in pochi distretti vulcanici – essa prese a circolare diffusamente soprattutto nel Neolitico, allorché i contatti tra gruppi umani divenuti stabilmente sedentari portarono all’istituzione e alla progressiva intensificazione di articolate reti di scambio. Nell’Occidente mediterraneo la materia prima fu distribuita a partire da quattro sorgenti insulari italiane: Pantelleria, Lipari, Palmarola e Sardegna. La particolare condizione di reperibilità e la specifica composizione chimica di ciascuna sorgente, che la rende virtualmente unica, hanno indotto i ricercatori a ritenere l’ossidiana un indicatore privilegiato di scambi e interazioni. Cosí negli ultimi cinquant’anni hanno avuto sviluppo numerose tecniche di caratterizzazione

chimico-fisica, finalizzate alla determinazione della provenienza di ossidiane rinvenute in contesti archeologici. Nel caso della Sardegna, l’unica fonte sfruttata è il Monte Arci, complesso vulcanico affacciato sulla costa centro-occidentale. Ossidiane di questa area sorgente, abbondantissime nell’isola e nella vicina Corsica, sono state rinvenute a centinaia di chilometri di distanza lungo le coste mediterranee nordoccidentali, fino in Catalogna. Definire sistemi di produzione e forme di circolazione della materia prima, nonché l’uso, il significato e il valore che essa ebbe nel tempo e presso le differenti comunità preistoriche è uno degli obiettivi della ricerca in atto. Integrando metodi e tecniche di caratterizzazione archeometrica della roccia con l’analisi tecnologica dei manufatti archeologici, si può comprendere quali criteri di selezione operassero gli antichi scheggiatori, in funzione sia dell’accessibilità,


sia delle modalità di affioramento della materia prima (qualità, dimensioni, forme). Pertanto, lo sfruttamento dei diversi affioramenti del Monte Arci (gruppi geochimici denominati SA, SB e SC), intrapreso in modo asistematico nel Neolitico Antico (VI millennio a.C.), assunse forme progressivamente piú complesse fino ad acquisire il carattere di produzione di massa al termine del Neolitico Medio (seconda metà del V millennio a.C.). In questa fase i gruppi locali di facies San Ciriaco e, ormai alle soglie dell’età del Rame, quelli di San Michele di Ozieri, installarono veri e propri centri di lavorazione di notevole entità presso gli affioramenti di materia prima dei versanti meridionale (SA) e orientale (SC) del massiccio. L’attività delle officine sembra essere stata indirizzata prevalentemente alla messa in forma dei blocchi di ossidiana per produrre nuclei da immettere in reti di distribuzione organizzate. In questi tempi finali del Neolitico si registra la massima intensità

Tra le costruzioni funerarie a struttura trilitica – cioè con pareti costituite da lastre verticali infisse al suolo su cui poggia una lastra orizzontale che funge da copertura – si distingue per la monumentalità il dolmen di Sa Coveccada di Mores (lungo 5 m e alto 2,70), ascrivibile all’ambito tipologico delle sepolture megalitiche diffuse dal Neolitico in Europa, Asia e Africa settentrionale. L’area funeraria di Pranu Mutteddu di Goni, messa in luce da Enrico Atzeni, è caratterizzata dalla presenza di tombe a circolo, costituite da due o tre anelli concentrici di pietre di arenaria, disposte intorno a un ambiente circolare o ellittico costruito con filari aggettanti e a un corridoio di accesso delimitato e coperto da lastre. La tomba II, particolarmente grandiosa, si caratterizza per avere lo spazio funerario – costituito da ingresso, anticella e cella – ricavato entro due blocchi di arenaria trasportati da lontano e collocati su un piano appositamente predisposto, cosí da riprodurre fedelmente una domus de janas. A breve distanza dalle tombe si trova il maggiore insieme di menhir della Sardegna. Oltre che in allineamenti, le circa 50 pietre fitte, del tipo rastremato verso l’alto con faccia anteriore piatta, sono disposte in piccoli gruppi o a coppie presso le tombe. I manufatti ritrovati nelle tombe consentono di inquadrare il complesso nell’ambito del Neolitico Finale e dell’Eneolitico iniziale. L’area fortificata di Monte Baranta di Olmedo è esemplificativa per l’esame dei caratteri delle architetture in elevato eneolitiche. Su

di diffusione extrainsulare dell’ossidiana sarda, testimoniata dalla presenza di centinaia di elementi in siti dell’Italia settentrionale e della costa meridionale della Francia. In seguito, con l’età del Rame, la sua importanza si ridusse notevolmente, sebbene una produzione limitata alla scala insulare sia perdurata fino alla piena età del Bronzo, all’epoca dei nuraghi. Carlo Lugliè

un pianoro naturalmente difeso su tre lati si In alto: Pau (Oristano), trovano una muraglia rettilinea disposta in località modo da chiudere parzialmente l’accesso al Sennixeddu. pianoro, tre menhir e un circolo megalitico Scarti di esterni alla muraglia e un agglomerato costilavorazione tuito da almeno sei capanne quadrangolari dell’ossidiana in entro l’area definita dalla muraglia. sezione Sulla punta piú avanzata del pianoro, a un listratigrafica. vello lievemente piú basso rispetto al resto del In Sardegna, sin complesso, vi è un recinto-torre (9 m di aldalla preistoria, tezza) a ferro di cavallo con due ingressi a lo sfruttamento corridoio coperti da lastre e poderosa mura- dei giacimenti del prezioso vetro tura a doppio paramento (da 4,15 a 6,50 m vulcanico diede di spessore) che termina sull’orlo del rilievo; vita a una vasta all’interno, una scala ricavata nel muro conrete di scambi duce a una sorta di cammino di ronda precon l’intera sente solo su un limitato tratto perimetrale. I regione dati di scavo indicano una diffusa presenza di mediterranea. materiali eneolitici di Monte Claro, ai quali Nella pagina presso la torre si sovrappongono quelli della accanto: la fase iniziale dell’età nuragica (facies Sa Turristruttura cola del Bronzo Medio). dolmenica di Sa

E vennero gli uomini delle torri Chiunque attraversi oggi la Sardegna non può non essere colpito dal numero considerevole dei nuraghi disseminati in quasi tutta l’isola. Le prime manifestazioni che caratterizzano l’età nuragica – nuraghi a corridoio, villaggi e tombe di giganti – sono attestate nelle fasi iniziali del Bronzo Medio. Considerato che il numero di 7000 nuraghi è quello attualmente stimato, ma molti studiosi suppongono un numero originario di circa 9000, è evidente che si tratta di una

Coveccada, presso Mores (Sassari), attribuita all’Eneolitico, 2100-1800 a.C. circa.

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speciale archeologia della sardegna/1 grande quantità di monumenti, tale da fare sí che questo fenomeno architettonico abbia indirizzato la denominazione di un’epoca e di una fase culturale. Le strutture nuragiche piú antiche sono i nuraghi a corridoio (circa 350), ma il tipo piú comune è quello a tholos, la cui costruzione inizia in un momento avanzato del Bronzo Medio e avrà compimento nel Bronzo Recente. Nel Bronzo Medio ha inizio anche l’impianto di villaggi costituiti da insiemi di capanne circolari definite da un muro perimetrale di 0,80-1,50 m circa di altezza che sorgono intorno a un nuraghe o anche, di frequente, in assenza di esso. La copertura era lignea, piú raramente litica con lastre piatte, costituita da travi e travetti che poggiavano sulla base

A sinistra: bronzetto raffigurante un arciere, da Sardara. Età nuragica, IX-VIII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. La figurina si distingue per il gonnellino borchiato, di foggia orientale.

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muraria mentre al centro del vano era il focolare o una macina litica. Nelle zone di pianura prive di pietre, le abitazioni erano realizzate con materiale deperibile e/o con mattoni crudi di fango, anche semi-ipogee.

Culto dei defunti e degli antenati Il luogo della religiosità durante le fasi di nascita e sviluppo della civiltà nuragica (Bronzo Medio e Recente) sembra coincidere con quello riservato ai riti per i defunti e, forse, per gli antenati, come fa pensare l’erezione dei betili aniconici. L’esedra delle tombe è lo spazio in cui vengono deposte offerte e dove si svolgono le cerimonie comunitarie. Durante il Bronzo Medio e Recente l’aspetto dell’architettura sacra non appare ben definito anche se sono noti rinvenimenti di queste fasi in edifici di pianta rettangolare forse identificabili come edifici di culto (templi a megaron) e in fonti e templi a pozzo. Nelle fasi finali dell’età del Bronzo (11501020 a.C.) numerosi indizi suggeriscono che i caratteri e l’assetto territoriale formatisi nel corso delle fasi precedenti, con l’edificazione dei nuraghi, subiscano mutamenti sostanziali, che portano alla fine del fenomeno di costruzione di tali monumenti. Il progressivo indebolimento del concetto di nuraghe come punto di riferimento della società riflette una reale trasformazione, che si concretizza anche nel contemporaneo affermarsi, con forme rinnovate e consolidate, del sistema insediativo dei villaggi. Gli abitati di questa fase sono costituiti, oltre che da strutture circolari, da vani di varia forma, accessibili attraverso un cortile centrale che li raccorda. Nel villaggio è presente anche una grande capanna circolare con sedile perimetrale definita «capanna delle riu-


nioni». Al suo interno, è frequente il rinvenimento di modellini di nuraghe di pietra, che testimoniano l’esaltazione e il culto del nuraghe come opera degli antenati. Nella nuova organizzazione territoriale che fa seguito all’emergere del ruolo primario del villaggio, sembra acquisire un’importanza particolare la presenza degli edifici di culto comunitari (pozzi, fonti e altri edifici di pianta rettangolare o circolare). Intorno ai templi si sviluppano abitati che sembrano avere carattere temporaneo o, comunque, una stretta correlazione con lo svolgimento delle feste comunitarie. È attualmente oggetto di dibattito l’opportunità di denominare «età nuragica» il periodo che si svolge nella prima età del Ferro o anche nel Bronzo Finale, quando si conclude la fase di costruzione dei nuraghi. Al di là della questione terminologica, l’età nuragica sembra terminare definitivamente con l’affermarsi dei centri costieri punici nel VI secolo e la conquista cartaginese dell’isola nel 509 a.C. Nelle fasi avanzate della prima età del Ferro si registra la contrazione accentuata del numero degli abitati. Le comunità indigene non si risollevarono da questa significativa crisi e, per le fasi successive, non si riescono piú a distinguere con evidenza i processi e le vicende dei gruppi locali rispetto a quelle degli interlocutori giunti dall’esterno.

Contatti con l’Oriente Nel Bronzo Medio la Sardegna viene piú a contatto con il mondo del Mediterraneo orientale, giungono armi e utensili di bronzo di foggia cipriota, nonché apporti nuovi che influiscono sullo sviluppo della metallurgia. L’uomo nuragico aveva a disposizione un’ampia gamma di strumenti da fonditore di bronzo: pinze, palette da carbone, martelli e pic-

cole incudini. E questa categoria di manufatti trova appunto molte connessioni con la metallurgia egea e cipriota; documenti importanti delle relazioni commerciali e culturali che la Sardegna nuragica intratteneva con tutto il mondo mediterraneo. La constatazione di questi influssi porta a ipotizzare una supervisione egea sulle prime fasi dell’attività estrattiva e fusoria nuragica, proseguita poi autonomamente in loco, senza che per questo si allentassero le relazioni commerciali che vedono importazione e imitazione di oggetti di tipo orientale continuativamente fino all’età del Ferro. Nel Bronzo Antico, Medio e Recente si nota la presenza di un esiguo numero di armi che, oltre a riferirsi a una lacuna nella documentazione archeologica e nella ricerca, potrebbe dipendere dallo sviluppo ancora limitato, quanto meno in confronto all’età del Bronzo Finale, delle attività estrattive e della metallurgia. In bronzo erano fabbricati gli strumenti da lavoro, gli oggetti di ornamento, i recipienti e gli oggetti rituali e votivi (bronzetti figurati). Sono state ritrovate numerose forme di fusione bivalve, anche multiple, per la fusione di diverse classi di oggetti. Non si ha invece traccia delle matrici di argilla necessarie per la fusione a cera persa dei bronzi figurati. L’attività estrattiva veniva eseguita con utensili di bronzo, come i picconi, il cui uso ha lasciato solchi lunghi e sottili sulle pareti delle miniere. Arnesi per frantumare i minerali sono stati ritrovati in numerose località dell’isola: teste di mazza di granito, calcare e basalto con foro per l’immanicatura sono state rinvenute nell’Iglesiente e presso Guspini, pestelli in granito e in ematite si ritrovano in miniere del Cagliaritano. Per spezzare e separare il minerale dalla ganga venivano utilizzate doppie asce a tagli paralleli o convergenti di bronzo; coinvolti nell’attività estrattiva erano inoltre martelli, cunei e scalpelli anche se erano utilizzati principalmente come strumenti da fonditore e per lavorazione del legno. Le analisi effettuate sui lingotti, sulle panelle e sui manufatti hanno permesso di stabilire che i lingotti ox hide (letteralmente, «a pelle di bue») micenei e ciprioti ritrovati in Sardegna, furono prodotti da giacimenti di rame di Cipro e che sinora non risulta alcun manu-

Qui sotto: situla (secchiello) in terracotta, da Simbirizzi di Quartu S. Elena (Cagliari). Età eneolitica, cultura di Monte Claro, 2400-2300 a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

A sinistra, sulle due pagine: il nuraghe Busoro, presso Sedilo (Oristano). Si tratta di una struttura a torre unica, il cui interno era coperto da una tholos, cioè da una falsa cupola, ottenuta dalla sovrapposizione di filari concentrici di pietre aggettanti verso l’interno.

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speciale archeologia della sardegna/1 un’espressione grandiosa del pensiero religioso Il santuario nuragico di Monte d’Accoddi (Sassari) è un unicum in Sardegna e nel Mediterraneo non solo per la peculiare architettura, ma anche per la grandiosità di una costruzione realizzata grazie alla cooperazione di uno o piú gruppi umani che in essa ravvisavano l’espressione manifesta di un sentire religioso comune. Nella pianura tra Sassari e Porto Torres, la presenza di un’altura alta circa 6-7 m, accese le curiosità di molti sino agli inizi degli scavi avviati da Ercole Contu nei primi anni Cinquanta del secolo scorso. Fu allora messo in luce il perimetro dell’edificio e ciò che all’apparenza sembrava un grande tumulo, si rivelò un’opera preistorica unica nel suo genere, un grande altare a cielo aperto, simile a una ziqqurat mesopotamica. L’indagine non poté approfondirsi all’interno della struttura, cosa che avvenne invece circa vent’anni dopo, a opera di Santo Tinè. Gli scavi iniziati alla fine degli anni Settanta, infatti, localizzarono all’interno del monumento le tracce di un edificio piú antico, del tutto simile a quello piú recente, ma di dimensioni minori, che era stato inglobato e obliterato dal rifascio. Sulla sommità della terrazza piú antica si elevava il sacello del tempio, un vano rettangolare delimitato da un muro di pietra residuo per un altezza di circa 70 cm, preceduto da un piccolo portico, sorretto in origine da pali lignei cosí come la copertura a doppio spiovente del tetto. Le pareti della terrazza, cosí come tutto l’edificio, presentavano le tracce di un intonaco rosso che interessava anche il pavimento del sacello, da cui la denominazione di «Tempio rosso». Dagli scavi emerse che il tempio venne distrutto da un incendio, in seguito al quale sí ricostruí un nuovo sacello, una nuova piramide tronca e si ampliò la rampa d’accesso. Il monumento nel suo aspetto attuale è una possente struttura a pianta rettangolare (37,50 x 30,50 m), costituita da un ammasso di pietre e terra, racchiuso in murature a scarpa che gli conferiscono la forma di una piramide tronca. Una rampa inclinata, lunga 41,50 m e larga da 7 a 13,50 m, conduce alla sommità. Non tutti sono d’accordo sul suo assetto originario e cioè se si presentasse con alcuni gradoni (Tinè) oppure se vi fosse una sola variazione di inclinazione e di tessitura muraria nelle pareti della terrazza (Contu). Il carattere sacro del monumento è ribadito dalla presenza, sul lato orientale della rampa, di una tavola di pietra con sette fori passanti lungo il perimetro, poggiante su sostegni litici e soprastante una cavità della roccia, interpretata come un’ara per sacrifici, da un’altra tavola piú piccola e da un masso rotondo (omphalòs) con la superficie segnata da piccole coppelle. Anche alcuni edifici di pianta rettangolare a lato della terrazza, in particolare la cosiddetta Capanna dello Stregone, restituirono, insieme a una grande quantità di suppellettili, anche una statuina femminile, corna bovine, conchiglie bivalve e pesi da telaio. Oltre a questi, entro la rampa, fu recuperata una stele con un motivo a spirali e losanga e un’altra, di granito, 94 a r c h e o

il santuario e le sue fasi

Ricostruzione ipotetica del santuario di Monte d’Accoddi nella sua seconda fase. L’accesso avveniva per una lunga rampa (1), che saliva a una terrazza a pianta rettangolare (2), sulla cui sommità si elevava il sacello del tempio, un vano rettangolare coperto da un tetto a doppio spiovente (3). In corrispondenza di uno degli spigoli (4), il disegno mostra la struttura relativa alla prima fase del santuario: quando le pareti della terrazza e dell’edificio presentavano le tracce di un intonaco rosso, da cui la denominazione di «Tempio rosso», e non erano rivestite dalla cortina di blocchi di pietra. Nella zona in basso, ai lati della rampa, si immaginano uno dei menhir innalzati nell’area (5) e l’omphalòs (6). Alla destra della terrazza, sono vari edifici a pianta rettangolare (7), uno dei quali è stato convenzionalmente indicato come Capanna dello Stregone.

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A sinistra: Monte d’Accoddi, Sassari. Veduta della rampa d’accesso e della terrazza del santuario nuragico. In primo piano, il masso con la superficie segnata da coppelle (omphalòs), la cui presenza è ritenuta una delle prove del carattere sacro del complesso.

con la stilizzazione di una figura femminile, venne alla luce presso la parete nord dell’edificio piú antico. Alcuni dei menhir presenti nell’area potrebbero riferirsi a una fase precedente l’impianto dell’altare a terrazza, cosí come alcune delle abitazioni che compongono il vasto insediamento che lo circonda. La prima frequentazione risale all’epoca della facies di San Ciriaco (seconda metà del V millennio a.C.) e a questa seguí l’impianto di un piú vasto insediamento del Neolitico Finale di Ozieri (prima metà del IV millennio a.C.), nel cui ambito fu edificata la prima terrazza con rampa e tempio rosso sulla sommità. La ricostruzione della seconda terrazza dopo l’incendio sarebbe avvenuta durante la fase Sub-Ozieri, dell’Eneolitico Antico (metà del IV-inizi del III millennio a.C.), ma la vita del santuario sarebbe continuata per tutto l’Eneolitico (aspetti culturali di Filigosa, Abealzu, Monte Claro e campaniforme), anche con l’edificazione di abitazioni, mentre nel Bronzo Antico (fine del III-inizi del II millennio a.C.) fu utilizzato come sepoltura di un bambino.

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fatto nuragico realizzato con il rame di quei lingotti. Per le produzioni nuragiche, compresi alcuni lingotti piano-convessi, sarebbe stato impiegato il rame dei giacimenti sardi.

Le «tombe di giganti» Alle diverse principali classi di torri nuragiche (a corridoio, a tholos, complessi; vedi box alle pp. 96-97), corrispondono altrettanto grandiose costruzioni di ambito funerario. La sepoltura dei defunti della comunità avveniva, infatti, in edifici appositi, eretti a breve distanza dai nuraghi e dai villaggi. Non è stato calcolato, né è forse possibile valutare con esattezza, il rapporto numerico tra nuraghi e tombe, ma, nelle aree a maggiore densità di monumenti, presso ciascun nuraghe è attestata la presenza di una sepoltura comprendente fino a cinque tombe. Questi edifici – definiti nella tradizione popolare e, oramai, anche nella letteratura archeologica «tombe di giganti» – sono tombe collettive caratterizzate da una camera funeraria il cui ingresso si apre al centro della fronte e da una fronte concava definita da lastre ortostatiche o da filari di massi grezzi o isodomi (perfettamente squadrati) che delimitano uno spazio aperto semicircolare (esedra). La realizzazione di questo genere di se(segue a p. 99)

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speciale archeologia della sardegna/1 che Cos’è un nuraghe? e qual era la sua funzione? Con il termine «nuraghe», si intende una costruzione in elevato realizzata in muratura a secco. La distinzione piú significativa, in quanto anche espressione di una differenza cronologica, è quella tra nuraghi a corridoio e nuraghi a tholos. Le strutture denominate «a corridoio» – o protonuraghi – sono caratterizzate da un possente corpo murario di pianta ellittica, quadrangolare o circolare, realizzato con massi grezzi, disposti con cura sommaria. L’angusto spazio interno, spesso costituito da un corridoio che attraversa tutto il monumento, con piccoli vani accessori, ha pareti verticali e copertura di lastre piatte. Non è rara la presenza di una scala nel corridoio che conduce al piano alto, che veniva utilizzato come terrazzo a cielo aperto o, plausibilmente, con l’aggiunta di parti in materiale deperibile. Il nuraghe a tholos è una torre troncoconica a piú piani al cui interno sono ricavati un corridoio d’ingresso – su cui si apre a sinistra il vano scala per il piano o i piani superiori e a destra una nicchia – e una camera circolare ricoperta da una falsa cupola «a tholos», con nicchie (da 1 a 3) disposte lungo il perimetro. Il piano superiore può presentare una camera analoga a quella del piano terra oppure un terrazzo a cielo aperto. Questo spazio era in origine provvisto di un aggetto – presumibilmente di legno – sostenuto da mensole litiche che sporgevano in alto presso l’ultimo filare; solo in alcuni casi si conservano in posto, ma la documentazione della loro posizione e funzione è data anche dai modelli in miniatura di nuraghi che forniscono un’immagine idealizzata,

ma comunque realistica di come dovessero essere i monumenti integri. L’edificio a torre sopra descritto costituisce una sorta di modulo base che fu edificato isolato (nuraghe monotorre) o associato ad altre torri (nuraghe complesso o polilobato, da due a cinque torri), in modo da comporre edifici di maggiore complessità. Soprattutto i nuraghi complessi fanno supporre una progettazione accurata,

In alto: il cuore del complesso nuragico Su Nuraxi di Barumini, costituito da una torre troncoconica circolare (o mastio) circondata da un bastione composto da quattro torri piú piccole, raccordate da cortine rettilinee. La realizzazione di queste strutture si data alla prima fase del complesso, collocabile nell’età del Bronzo Medio avanzato, tra la fine del XV e gli inizi del XIII sec. a.C.

nuraghe a corridoio

Dette anche protonuraghi, sono strutture caratterizzate da un possente corpo murario di pianta ellittica, quadrangolare o circolare, realizzato con massi grezzi, disposti con cura sommaria. L’angusto spazio interno, spesso costituito da un corridoio che attraversa tutto il monumento, con piccoli vani accessori, ha pareti verticali e copertura di lastre piatte.


indispensabile per raccordare i vari corpi costruttivi con cortili, corridoi, scale e spazi accessori. Quale fosse la reale funzione dei nuraghi è ancora oggi oggetto di dibattito tra gli archeologi. Una delle interpretazioni piú correnti è quella di fortezze militari, sostenuta prevalentemente dalle caratteristiche tecnico-costruttive di imponenza e solidità delle torri, ottenute attraverso la messa in opera di straordinari apparati murari; di contro l’utilizzo di murature di pietra, anche possenti, non è limitato alle torri, ma si ritrova nelle strutture abitative del villaggio e in ogni altro edificio nuragico. Ma se si osserva la dislocazione dei nuraghi in relazione al territorio, si nota che i monumenti arroccati su posizioni dominanti non sempre occupano le migliori postazioni per un’eventuale difesa: spesso non garantiscono la visibilità massima sul territorio, mentre rocche isolate o posizioni piú elevate rispetto al nuraghe, non sono occupate. Quello a cui il nuraghe non sembra decisamente assimilabile è quindi l’insediamento difeso come è inteso e conosciuto in ambito protostorico, dove condizione imprescindibile è la localizzazione su altura. Inoltre le comunità nuragiche non sembrano mostrare particolare preoccupazione per eventuali pericoli provenienti dall’esterno e infatti lungo le coste è assente un sistema di nuraghi finalizzato alla difesa dei litorali. I nuraghi complessi sono stati spesso interpretati come palazzi-castelli, dimore del re, prova di un’accentuata stratificazione sociale, ma, in realtà, non sono mai stati ritrovati indicatori di distinzione di ruolo, né manufatti collegabili a figure emergenti e di potere, né vi sono tombe singole e con corredi distintivi. D’altra parte le strutture complesse sono

nuraghe monotorre

Si tratta di strutture costituite appunto da un solo elemento, a pianta circolare, che potevano avere l’interno articolato in piú piani, ai quali si accedeva per mezzo di scale elicoidali, come nel caso del nuraghe di Ponte di Silanus (Nuoro).

nuraghe complesso

La denominazione viene utilizzata per strutture composte da due o piú torri. Gli studi finora condotti dimostrano che a monte di queste opere, come nel caso del Su Nuraxi di Barumini, doveva esserci una pianificazione accurata, che teneva conto anche dei numerosi apprestamenti accessori, indispensabili per garantire la piena funzionalità dell’insieme.

realizzate seguendo il medesimo schema costruttivo della torre semplice, attraverso l’iterazione dei moduli, e non sono presenti ambienti particolari da intendersi destinati a funzioni amministrative o di rappresentanza. Se identifichiamo i nuraghi non come «regge» o costruzioni straordinarie, ma come le unità costruttive di normale diffusione su cui si incentra la vita dal Bronzo Medio al Bronzo Recente, la percezione di queste manifestazioni si priva dell’atmosfera di mistero e romanzo che nel passato – e, in una certa misura, ancora oggi, li ha avvolti – e acquista la reale dimensione di documento archeologico, sia pure straordinario. Anche se non sembra possibile in senso assoluto identificare i nuraghi con normali «abitati» protostorici, eccetto quella minima percentuale di nuraghi integrata con un villaggio di capanne, è pur vero che, in alcune aree, la densità molto elevata dei nuraghi lascia ritenere che la popolazione residente potesse essere tutta alloggiata entro di essi. a r c h e o 97


speciale archeologia della sardegna/1 tombe di giganti A destra: la tomba di giganti di Coddu Vecchiu (o Capichera), presso Arzachena, Sassari. La prima fase di costruzione del monumento si data all’età del Bronzo Antico, cultura di Bonnanaro, 1800-1600 a.C. Realizzata con blocchi e lastre di granito locale, è il frutto della ristrutturazione di una piú antica tomba a galleria (o «allée couverte»). In basso: località Iloi, presso Sedilo (Oristano). La tomba di giganti n. 2: presenta il classico schema planimetrico con corpo tombale absidato, corridoio funerario con copertura di filari aggettanti, esedra con bancone basale; dalle lastre rinvenute si ipotizza che il prospetto a esedra, qui ricostruito graficamente (vedi alla pagina accanto, in basso), nel punto centrale piú alto, superasse i 4 m di altezza.

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polture appare perfettamente in linea con la tendenza alla monumentalità e con il carattere di struttura collettiva e comunitaria che contraddistingue gli edifici nuragici. La Sardegna di età nuragica è l’unica regione della protostoria italiana ad avere restituito strutture monumentali identificabili come edifici appositamente adibiti al culto. Il quadro delle documentazioni è particolarmente ricco e diversificato, rappresentato, oltre che da pozzi e fonti, anche da edifici di pianta rettangolare (i «templi a megaron») e da edifici di pianta retto-curvilinea e circolare, anche se spazi per il culto vengono ricavati pure all’interno delle strutture civili come i nuraghi e i villaggi nuragici. La categoria piú rappresentativa, tuttavia, è quella dalle strutture direttamente ricollegabili al culto delle acque. Si tratta di pozzi sacri, cioè di strutture architettoniche che permettono di raggiungere una vena d’acqua direttamente nel sottosuolo mediante la realizzazione di una costruzione ipogea composta da un ambiente ricoperto a tholos, innalzato sopra il punto di raccolta delle acque e accessibile tramite una scala, o di fonti sacre, costituite da edifici realizzati in corrispondenza di un affioramento superficiale di acqua sorgiva.

Tegami, bollitoi e coppe di cottura L’omogeneità e l’unitarietà delle manifestazioni architettoniche caratterizzano per molti versi anche le produzioni di cultura materiale che non presentano, se non per alcune fasi limitate, marcati elementi di distinzione zonale. Nelle fasi iniziali del Bronzo Medio (facies Sa Turricola) la forma piú diffusa è il tegame, con basse pareti e fondo piatto, talvolta ansato; in questo periodo ha notevole diffusione anche il «bollitoio», recipiente cilindrico con risega interna per l’alloggiamento di un setto forato. Fa la sua comparsa anche la «coppa di cottura», una sorta di campana con sommità convessa, che perdurò per tutta l’età nuragica. I tegami caratterizzano anche la successiva fase del Bronzo Recente, specie nella Sardegna centro-settentrionale dove sono tipici della facies «a pettine», nella quale il fondo interno di tali vasi è decorato da impressioni di strumento. I grandi contenitori (dolii) iniziano a comparire in numero significativo nel corso di questa fase, ma si diffondono soprattutto nella fase successiva (Bronzo Finale), con esemplari di dimensioni molto grandi. Nel Bronzo Finale e nella successiva età del (segue a p. 102) a r c h e o 99


speciale archeologia della sardegna/1 il popolo dei bronzetti Bronzetto nuragico detto «La madre dell’ucciso», trovato negli anni Venti del Novecento in una grotta nel Comune di Urzulei. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

A destra: bronzetto nuragico raffigurante un muflone. Sassari, Museo Archeologico Nazionale «Giovanni Antonio Sanna». Sia la rappresentazione di questi animali,

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I bronzetti nuragici sono miniature di persone, animali, edifici e di oggetti d’uso quotidiano. Ne sono noti piú di 600, ma, purtroppo, molti sono frutto di recuperi e scoperte fortuite avvenute in tempi antichi, e non hanno l’indicazione precisa della località e del contesto di reperimento analogamente alle statuine che ancora oggi, di continuo, vengono riconquistate sottraendole al mercato clandestino. La loro produzione inizia verosimilmente nel Bronzo Finale (XII-X secolo a.C.), ma continua e si sviluppa anche nella fase successiva (IX-VIII secolo a.C.). Tra i soggetti piú riprodotti vi sono i guerrieri, le cui armi permettono di distinguere ruoli specializzati (arcieri, lancieri, frombolieri). Gli equipaggiamenti prevedono elmi, con o senza corna, giubbotti a placche o a borchie, corazze rinforzate da fasce, probabilmente metalliche, scudi circolari. Alcuni hanno una daga, altri una sorta di stendardo piumato, fissato su lunghe lance; molti un pugnale a lama triangolare e a elsa «gammata» sospeso sul petto con una tracolla; gli arcieri portano sulle spalle la faretra. Spesso le figure non armate riproducono un offerente che reca un dono (un pane o un recipiente) e tra questi sono particolarmente ben rappresentate le figure femminili. Le donne, con il capo coperto o con i capelli sciolti, hanno vesti lunghe, impreziosite da orli doppi o tripli, da un mantello con le frange e l’aggiunta di una stola. Altre figure con lunghe vesti e copricapi di varia foggia o con un lungo e ampio mantello e un bastone nodoso in mano potrebbero identificarsi in personaggi con un ruolo sociale importante, capi, sacerdoti o comunque raffigurazioni di un’élite. La gran parte dei soggetti rappresentati mostra una mano alzata, a palmo aperto, in atteggiamento di saluto. Il gesto è stato ricondotto a un’espressione di devozione e preghiera nei riguardi della

tipici della fauna isolana, che quella di altre specie sono temi ricorrenti nell’ambito dei piccoli bronzi e nella statuaria in pietra di piú grande formato.


divinità a cui è rivolta la riconoscenza per la grazia ottenuta (ex voto) o domandata, e qualifica l’individuo che lo compie come orante. Tra gli animali i soggetti piú rappresentati sono le specie domestiche, come bovini, ovini, maiali, cani, o selvatiche quali cinghiali, cervidi, mufloni e volpi. Anche alcuni oggetti della vita quotidiana sono riprodotti in miniatura: pugnali, anfore, cestini con coperchio, sgabelli, contenitori rettangolari, lampade, fiaccole, carri e imbarcazioni. Di grande interesse sono anche le rappresentazioni miniaturistiche dei nuraghi, che illustrano gli edifici nella loro interezza, fornendo una precisa informazione sull’aspetto della parte superiore degli edifici, mai conservata nella realtà odierna. I bronzetti di provenienza nota rivelano una stretta correlazione con la sfera del sacro: la maggior parte è stata ritrovata all’interno di complessi cultuali sviluppatisi in corrispondenza di una fonte, di un pozzo sacro, in grotte naturali, in templi «a megaron»; altre si rinvennero in nuraghi e in ripostigli non sempre ricollegabili con chiarezza ad ambiti civili o cultuali. Se i piccoli bronzi hanno una diffusione in tutta l’isola, la grande scultura è invece ricollegabile alla sola località di Monte ‘e Prama, una piccola altura nella penisola del Sinis. Frutto di una scoperta casuale avvenuta nel 1974, i frammenti di statue riportati alla luce tra il 1974 e il 1979, sono stati oggetto di un ampio articolo, recentemente pubblicato, al quale rimandiamo per ulteriori informazioni in proposito (vedi «Archeo» n. 323, gennaio 2012). Le manifestazioni religiose di età nuragica sono in gran parte connesse a rituali che prevedevano l’uso dell’acqua. Importanti attestazioni di queste pratiche sono le fonti sacre e i templi a pozzo e anche i numerosi edifici quali le strutture di pianta rettangolare o circolare con vasche litiche e le cosiddette rotonde con bacile. Intorno ai templi si sviluppano agglomerati piú o meno estesi di capanne, probabilmente in gran parte utilizzate solo in coincidenza di festività e cerimonie religiose che catalizzavano l’incontro delle comunità insediate nel territorio, analogamente a quanto

Bronzetto nuragico, dal villaggio-santuario di Abini, presso Teti (Nuoro). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il fatto che la figura presenti una moltiplicazione degli occhi, delle braccia e degli scudi suggerisce che possa trattarsi di un essere demoniaco, espressione di una concezione mitico-religiosa che rimanda a figurine iperantropiche orientali.

avviene ancora oggi nei santuari campestri cristiani. Non si conoscono le modalità di svolgimento dei riti e delle cerimonie intorno al pozzo sacro. I bronzetti spesso rappresentano offerenti che donano al tempio animali (arieti o montoni) e oggetti (spighe di grano, pelli conciate, e vasi quali brocche, olle, piatti o scodelle). Tra i beni presentati è ben individuabile una forma di pane o focaccia riprodotta con un incavo al centro e incisioni radiali, ma sembra di poter riconoscere altri pani di forma rotondeggiante allungata e a ciambella, disposti sopra un vassoio Nella pagina circolare o rettangolare. Con tutta accanto: foto probabilità sia gli oggetti di bronzo satellitare miniaturistici, sia gli animali sono indicativi dell’odierno Iraq, della varietà dei beni reali donati al tempio. nei cui confini èNei pochi contesti che, in sede dicompreso scavo, hanno il sito. permesso il recupero di materiale archeologico diagnostico, è infatti documentata la presenza di ossa di specie domestiche e selvatiche, anche bruciate, che fanno pensare a una liturgia in cui era contemplata la combustione di offerte animali, forse anche nell’ambito di pasti rituali. L’occasione delle feste santuariali, con l’incontro e la riunione delle tribú del territorio, doveva essere il momento della rievocazione dei racconti, delle storie degli antenati, delle leggende e dei miti. In questo contesto, potrebbero essere interpretate alcune particolari raffigurazioni della bronzistica, come le scene in cui le «madri» appaiono sedute su uno sgabello con in grembo un adulto o un bambino, o le iconografie di figure fantastiche come il bronzetto a quattro braccia e quattro occhi o il personaggio metà uomo e metà toro («minotauro» di Nule). Almeno a partire dal Bronzo Finale il santuario nuragico – sotto forma di tempio a pozzo, fonte, tempio/fonderia, edificio di culto senza pozzo – assume un ruolo primario come centro di raccolta di oggetti di pregio e di beni di consumo sotto forma di offerte, e, quindi, come luogo di tesaurizzazione e gestione di ricchezze.

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speciale archeologia della sardegna/1 il realismo delle navicelle La posizione della Sardegna al centro del Mediterraneo e la presenza di comodi approdi predisponevano l’isola ad avere, già in periodo nuragico, un ruolo importante nei traffici sulle distanze medie (coste tirreniche, Eolie, Sicilia) e lunghe (a Oriente, Grecia, Cipro, Levante; a Occidente, la Penisola iberica). Vettore di questi traffici erano le navi di cui i nuragici ci hanno lasciato dettagliate riproduzioni di bronzo. Le circa 150 navicelle nuragiche riproducono imbarcazioni caratterizzate da un corpo realizzato in forma di scafo di nave terminante, in corrispondenza dell’estremità anteriore, con una protome animale. I modellini, oltre ad avere particolari funzionali alla miniatura (peducci, anello per appendere), mostrano elementi pertinenti a un mezzo di navigazione. Si tratta di scalmi, sartie, legature, Navicella nuragica, dal complesso Su Angiu di Mandas (Cagliari). Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Il modellino, la cui prua termina con una protome bovina, è caratterizzato, al centro, da una colonna sormontata da un crescente lunare sul quale è posata una colomba, interpretata come simbolo della Dea Madre.

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battagliole, gavoni, alberi, coffe, elementi che ci riportano a un’attenta osservazione e riproduzione delle imbarcazioni reali e che fa emergere l’evidente familiarità dei Sardi nuragici con il mezzo di trasporto marino. La presenza in alcune navicelle di un albero al centro dello scafo, appare come un chiaro riferimento all’uso, oltre ai remi (peraltro mai raffigurati), della vela. L’impiego funzionale dell’oggetto come lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con l’analoga classe di manufatti realizzati in ceramica, per la quale è ampiamente documentato un uso come lampade all’interno di vani utilizzati per scopi cultuali.

Ferro si affermò la foggia della brocca askoide, vaso di forma chiusa con stretto collo decentrato, spesso finemente decorata. I prodotti della metallurgia ci offrono importanti informazioni sulla tecnologia che supportava le attività economiche dei nuragici. Oltre alle asce, utilizzate per lavorare il legno, sono noti altri strumenti, quali scalpelli, punteruoli, trapani, lime e seghe. Gli strumenti per lavorare la pelle sono raschiatoi, lame, perforatori, funzioni che fra i manufatti di bronzo nuragici possono essere state assolte da qualche particolare foggia di scalpello, dagli stessi pugnali o dai pochi coltelli e dai punteruoli, uguali o simili a quelli usati per il legno. La cultura materiale offre diversi strumenti di bronzo che potevano essere utilizzati in agricoltura, come lame di falce e zappe. Sono attribuiti all’attività agricola anche i picconi, che stupiscono per la loro funzionalità.

Esempi eccellenti L’entità numerica dei resti archeologici nuragici impedisce di stilare un elenco che comprenda tutti i monumenti piú significativi. Qui di seguito, si è perciò scelto di segnalare solo alcuni casi, esemplificativi per la classe tipologica di riferimento. Sul pianoro della Giara di Gesturi (un altopiano situato nella parte centrale della Sardegna, a ovest del golfo di Oristano, n.d.r.) si trova il nuraghe a corridoio di Bruncu Madugui, scavato negli anni Sessanta del Novecento da Giovanni Lilliu, che vi rinvenne materiali del Bronzo Medio.


Di pianta reniforme, presenta al suo interno una scala d’accesso al piano superiore, dove si sviluppa un’ampia terrazza su cui si aprivano due camere con copertura di filari aggettanti. A fronte del numero elevatissimo di strutture disseminate nell’isola, pochi sono i nuraghi monotorre scavati, giacché molte indagini, oggi come nel passato, hanno privilegiato i grandi edifici complessi. Benché sia in parte ancora interrato, il nuraghe Ponte di Silanus (Nuoro) è una torre a piú piani, alta 11,80 m, realizzata con massi di notevoli dimensioni, accuratamente sbozzati e di dimensioni decrescenti verso l’alto; la scala elicoidaLa testa di una le conduce a un secondo piano dove la camedelle statue di pietra dette ra superiore è illuminata da un finestrone. «pugilatori», I nuraghi complessi presentano una notevole varietà tipologica, ragion per cui gli edifici da Mont’e Prama, piú significativi (Santu Antine di Torralba, nel territorio di Losa di Abbasanta, Arrubiu di Orroli) hanno Cabras. Sassari, Centro caratteri che li distinguono e li differenziano di Restauro e gli uni dagli altri. Su Nuraxi di Barumini Documentazione rappresenta il primo nuraghe scavato con della criteri scientifici (1951-1956, scavi Lilliu). Soprintendenza Circondato da un antemurale turrito, il nudi Sassari e raghe ha una torre centrale piú antica, svilupNuoro. pata su tre piani per un’altezza di circa 19 m, intorno a cui si imposta un bastione con quattro torri a due piani, raccordate da mura rettilinee. Il villaggio di oltre 200 capanne che circonda il nuraghe si sviluppò nel Bronzo Finale e nella prima età del Ferro. Tra i numerosi villaggi sorti intorno a un nuraghe (Palmavera, Alghero, ecc.) o isolati (Serra Orrios, Dorgali), l’emporion di Sant’Im-

benia di Alghero è particolarmente rappresentativo del caratteristico assetto che gli abitati nuragici assumono nell’età del Ferro, in cui gli isolati tendono a disarticolarsi con vani non rigorosamente incentrati attorno a un cortile centrale. Anche le tombe di giganti presentano diversità tipologiche che coincidono con differenze di ordine cronologico. Le piú antiche tombe a struttura ortostatica e stele sono ben rappresentate dall’edificio di Coddu Vecchiu di Arzachena (vedi foto alle pp. 98/99). Un esempio di tomba a filari in tecnica isodoma è la tomba 2 di Iloi, a Sedilo, dal classico schema planimetrico costituito da corpo tombale absidato, corridoio funerario con copertura di filari aggettanti, ed esedra con bancone basale (vedi foto e disegno alle pp. 98 e 99). Tra le località in cui sorgono templi del tipo a megaron (Serra Orrios, Dorgali; Domu de Orgía, Esterzili; S’Arcu ‘e is Forros,Villagrande Strisaili), quella di Romanzesu, presso Bitti, presenta ben quattro edifici rettangolari all’interno di un villaggio di circa un centinaio di capanne, con un tempio a pozzo e un recinto gradonato per cerimonie; i megara hanno pianta rettangolare, sono pavimentati e hanno un bancone basale; due di essi hanno schema doppiamente in antis, cioè con i lati lunghi prolungati sulla fronte e sul retro. La fonte sacra piú significativa per la monumentalità delle strutture in elevato è quella di Su Tempiesu di Orune. Il tempio, alto 6,85 m, è formato da un vestibolo con banconi laterali, una scala e una cella coperta a tholos che raccoglie l’acqua della vena sorgiva; la sommità culmina con un timpano a triangolo acuto sul quale poggiava un acroterio che sosteneva venti spade votive di bronzo. Tra i complessi santuariali costituiti da un’area con capanne gravitanti intorno a un luogo di culto, il tempio a pozzo di Santa Cristina di Paulilatino è particolarmente rappresentativo per la raffinatezza e la perfezione tecnica della struttura isodoma: attraverso un’apertura trapezoidale, la scala di 25 gradini coperta da un soffitto gradonato conduce a una tholos ipogea costruita con blocchi perfettamente squadrati e aggettanti. (1 – continua) Nel prossimo numero • Dai Fenici all’età romana a r c h e o 103


Il mestiere dell’archeologo

di Daniele Manacorda

Ci vuole cosí poco... ... a raccontare storie, anche complesse. Ne è un esempio l’esposizione allestita a Casteldilago, in Umbria, sui materiali recuperati in una vecchia discarica questa rubrica non ci accade di prendere le mosse da Iunanspesso mostra, ma il caso su cui

divenuto nel tempo una discarica. Un’incredibile quantità di cocci di maiolica medievale, rinascimentale e moderna, ma anche oggetti in vogliamo attirare l’attenzione dei lettori merita piú di una riflessione. vetro, osso e metallo, oltre che resti alimentari, sono stati recuperati Casteldilago è un piccolo borgo con cura meticolosa e hanno medievale della Valnerina, situato attirato l’attenzione di uno pochi chilometri a monte della Cascata delle Marmore, in Umbria. studioso di eccezione,Tim Clifford, già direttore della Galleria In questi anni ha conosciuto un Nazionale Scozzese, e di sua vasto programma di recupero moglie Jane, che da anni dividono edilizio. È, in breve, uno dei tanti il loro tempo tra la Gran Bretagna splendidi piccoli centri abitati e le campagne umbre. carichi di storia, che merita d’essere riscoperto. Alcuni anni fa, nel corso della Dallo scavo allo studio ristrutturazione di un’antica I reperti archeologici sono finiti cisterna alla base di uno stabile sul quindi sul tavolo di un esperto di pendio della collina su cui sorge il arte e artigianato rinascimentale e borgo fortificato, è stato rinvenuto moderno, che ha cosí potuto un butto, cioè una grande quantità affrontare lo studio di quel di materiali di scarto (cocciame e complesso intrigante di cocci, non solo) gettati in quel luogo, applicando i metodi classificatori

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dell’archeologia e gli strumenti critici dell’antiquaria e della storia dell’arte. Le maioliche (ceramiche da cucina e da mensa) e i vetri (bottiglie, calici e bicchieri), di ottima qualità, costituiscono la parte piú cospicua del ritrovamento, arricchito dalla presenza di oggetti d’uso quotidiano (fibbie e bottoni, salvadanai, giocattoli, campanelli per animali). Molte maioliche erano decorate con gli stemmi di famiglie nobili piú o meno famose, come gli Orsini, i Medici, i Lauri e i Clementini. La mostra spiega il motivo della loro presenza a Casteldilago, sperduto castello della diocesi di Spoleto nello Stato Pontificio. Il borgo aveva un podestà, che veniva scelto tra le principali famiglie del luogo, ed era periodicamente visitato da vescovi,


cancellieri, governatori e luogotenenti, che si spostavano con il loro seguito di servitori, e con il loro equipaggiamento, comprensivo dei servizi in maiolica che, quando si rompevano, finivano nel butto con le altre immondizie. Scoperte d’archivio Cosí agli occhi dello specialista si sono via via presentati prodotti di alta qualità riferibili alle piú importanti fabbriche dell’Italia centrale, come quelle di Deruta e di Gubbio, di Todi, Acquapendente e Bagnoregio. Ma alcuni pezzi sembravano provenire da fornaci locali, di piú difficile attribuzione. Le ricerche effettuate nei musei e nella letteratura scientifica non avevano dato esito, finché un documento rintracciato nell’Archivio di Stato di Spoleto ha permesso di comprendere che si trattava di maioliche prodotte nelle fornaci di quella città.

per questo che attiriamo l’attenzione sulla mostra che ne è nata. Il motivo per cui la riteniamo, nella sua modestia (alcune vetrine nelle stanze disadorne di un palazzo da poco ristrutturato), esemplare, sta nella sobrietà dell’esposizione, nella semplicità del linguaggio usato nei pannelli che accompagnano i reperti, nella chiarezza con cui si espongono aspetti storici e culturali complessi e passaggi tecnici e metodologici delicati. Purtroppo non siamo abituati a questa naturalezza e troppe volte ancora ci troviamo a lamentare, in tante mostre di carattere archeologico e storicoartistico, apparati didattici avari di notizie, sfoggio di erudizione, quando non di inutili informazioni burocratiche, termini gergali ostentati e non spiegati, insomma una autoreferenzialità che è l’opposto di ciò che servirebbe perché una manifestazione

culturale diventi strumento per diffondere, appunto, cultura. Eppure, la mostra di Casteldilago, con la sua dimensione artigianale e senza alcuno spreco di risorse, ci dice che – quando alle spalle c’è un grande lavoro scientifico – occorre davvero poco per essere chiari e istruttivi e far avvicinare un pubblico variegato a oggetti (cocci un tempo belli e ora rotti in mille pezzi) ai quali si appassionano solo pochi specialisti. Un gioco di rimandi Facciamo qualche semplice esempio. Per quanto riguarda il metodo di ricerca, abbiamo già fatto cenno al gioco di rimandi tra documenti di archivio, topografia dei luoghi e qualità degli oggetti. Semplici rinvii indicano al visitatore la presenza di materiali di confronto nei vicini musei: un invito a ripercorrere la strada già battuta dagli studiosi, anche sulla

Nella pagina accanto: due brocche in maiolica provenienti dal butto scoperto ai piedi del borgo di Casteldilago. Produzione spoletina. 1560 circa. L’esemplare a destra ha lo stemma della famiglia Lauri. A destra: un piatto in maiolica che reca anch’esso lo stemma della famiglia Lauri, forse di produzione spoletina. 1530-35 circa.

Il documento riguarda, infatti, un contratto stipulato nel 1540 tra due vasai, uno di Deruta e uno di Faenza, per aprire in società una fornace a Spoleto nella contrada vicina al Monastero «del Palazzo». La sorte ha voluto che proprio in quel luogo, durante alcuni lavori eseguiti anni fa nel cortile del Palazzo Marignoli, venissero rinvenuti alcuni manufatti di scarto prodotti evidentemente da quella fornace. I confronti fra i reperti spoletini, esposti nella mostra, e quelli di Casteldilago dimostrano la giustezza della nuova attribuzione. Identificate, dunque, e pubblicate per la prima volta, queste maioliche costituiscono una scoperta importante per il mondo della ceramica, ma non è

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Altri reperti provenienti dallo scavo del butto e ora esposti nella mostra permanente allestita a Casteldilago A sinistra: stelo di un calice in vetro di Murano (Venezia). 1540-60. In basso: ciotola con testa femminile. Deruta, 1540-60 circa.

scorta di un semplice cartellino («A Marsciano c’è un bel museo dove si possono vedere molti esemplari simili»). Potremmo ricordare anche la precisione con cui si individuano gli stemmi presenti sulle brocche collegandoli non solo alle famiglie, ma ai singoli personaggi e ai loro ruoli, per esempio quando questo o quel luogotenente del governatore di Spoleto soggiornò a Casteldilago con i suoi soldati nel Palazzo del Podestà. O quella con cui si riconoscono i frammenti di bicchieri o boccali in quelli riprodotti nelle tele di qualche pittore del tempo, come Paolo Veronese. Una predella eseguita da Piero della Francesca per il polittico di S. Antonio (ora nella Galleria Nazionale di Perugia) aiuta a riconoscere in un rampino di ferro raccolto nella cisterna uno strumento utile per recuperare gli oggetti caduti in un pozzo. Sul piano della comunicazione i curatori della mostra non danno nulla per

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scontato, ma, con poche parole, spiegano concetti complessi o danno informazioni tecniche e storiche basilari, per esempio sulla maiolica e la sua diffusione dalla Spagna, via Maiorca, in Italia e poi in Francia. Le fasi della fabbricazione Quattro disegni da I Tre Libri dell’Arte del Vasaio di Cipriano Piccolpasso (1557-58) illustrano le varie fasi della fabbricazione di un vaso, dalla raccolta dell’argilla al lavoro in officina, dalla decorazione a smalto alla cottura. Queste poche note tecniche

aiutano a capire i passaggi concettuali della ricerca e danno un senso a piccole notazioni («Lo smalto sta cambiando dal bianco grigio al bianco panna»; «Pezzo rarissimo di colore rosa forse unico»), altrimenti incomprensibili per il pubblico, che invece è condotto per mano a dare un senso ai colori degli impasti o degli smalti, che guidano la ricerca dei confronti tra l’uno o l’altro centro produttivo (come nel caso di Spoleto e Deruta). Una serie di ciotole tutte uguali sono disposte l’una accanto all’altra, ma un cartellino avverte che le forme sono proprio identiche: è la loro decorazione che varia. E la decorazione non è priva di significati: come nel caso dell’Agnello mistico presente sui vasi in maiolica arcaica, o del simbolo del giglio, che – si spiega – era lo stemma degli Angiò e dei re di Francia, ma anche dei signori di parte ghibellina. Con molta semplicità un piccolo secchiello contiene una manciata di cocci sporchi e incrostati. Il cartellino spiega: «Quando i frammenti sono stati trovati erano in queste condizioni». Il lavoro dell’archeologo-antiquariostorico dell’arte è tutto lí: trarre da un materiale bruto e muto una storia raccontabile. dove e quando «Rubbish: tre secoli di ceramiche» Casteldilago (Terni), chiesa di S.Valentino esposizione permanente Orario sa-do, 10,30-12,30 e 17,00-19,00; negli altri giorni, su richiesta Info cell. 320 9017976 oppure 333 3193751; per visite guidate: cell. 328 4166341



Divi e donne Tutti i volti di Livia Chi fu veramente la sposa di Augusto? Eccone i ritratti nelle parole degli storici

di Francesca Cenerini

ivia (Drusilla) è la terza moglie di Caio Giulio Cesare L Ottaviano Augusto, il primo

insolita nel mondo antico) e il fatto che fu moglie e madre dei piú autorevoli esponenti politici del suo tempo le hanno assicurato una notorietà che ha superato l’oblio del tempo. Di lei possediamo rappresentazioni letterarie, numerosi ritratti scultorei, monete e iscrizioni che le furono intitolate e dedicate, ad attestarne l’indubbia popolarità nel mondo romano. Velleio Patercolo, storico della prima età imperiale e incondizionato ammiratore dell’imperatore Tiberio, ma la cui validità storiografica è stata di recente rivalutata, parla di Livia in questi termini (2, 75, 3): «Livia, figlia del nobilissimo e valorosissimo (Marco Livio) Druso Claudiano, fu la piú nobile, la piú virtuosa e la piú bella tra le donne romane, moglie di Augusto, fu sua sacerdotessa e figlia quando Augusto fu accolto tra gli dèi». Circa un secolo dopo,Tacito la descrive con parole molto diverse (Annali, 1, 5, 1-3): lo storico ricorda che nel 29 d.C. era morta l’anziana (aetate extrema) Iulia Augusta, nobile per nascita e

imperatore romano. Madre del suo successore,Tiberio, bisnonna di Caligola, nonna di Claudio e trisavola di Nerone, può essere a buon diritto considerata la «capostipite» della dinastia giulioclaudia, che tenne il potere imperiale fino alla morte di Nerone nel 68 d.C. La straordinaria longevità di Livia (visse quasi novant’anni, circostanza abbastanza Ritratto in basanite di Livia. Parigi, Museo del Louvre. La freddezza dell’espressione, tipica della prima età augustea, e il materiale utilizzato (una pietra di provenienza egiziana), suggeriscono che l’opera sia stata eseguita dopo la vittoria di Augusto su Antonio e Cleopatra ad Azio, nel 31 a.C.

Augusto

(C. Giulio Cesare Ottaviano) sp. Clodia, poi Scribonia poi

discendenza illustre

livia

già sp. a Tiberio Claudio Nerone

Tiberio

Germanico

Levilla

sp. Agrippina Maggiore

Nerone

Druso

Drusilla

C. Caligola

Lucio Domizio Enobarbo Nerone

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Druso

sp. Antonia Minore

Claudio

Agrippina Minore sp. Cn. Domizio Enobarbo


adozione. Si era sposata in prime nozze con Tiberio Claudio Nerone, esponente di una famiglia di antichissima nobiltà patrizia, che, all’indomani dell’assassinio di Cesare, aveva scelto in un primo momento di schierarsi dalla parte dei cesaricidi e che, pertanto, era fuggito all’estero con moglie e figlio, ma che poi era rientrato a Roma, in seguito a un accordo con i triumviri Antonio e Ottaviano. Nozze in tutta fretta Dopo poco tempo, Ottaviano, preso dalla bellezza di Livia (cupidine formae), la portò via al marito.Tacito prosegue affermando che non si sa se lei fosse consenziente o meno, ma Ottaviano aveva tanta fretta di sposarla che non aspettò neppure che lei partorisse il suo secondogenito, figlio di Tiberio Nerone (il futuro Druso Maggiore). Livia non ebbe figli da Augusto, ma ebbe in comune con lui alcuni pronipoti, che sarebbero nati dal matrimonio di

Agrippina Maggiore con Germanico. Agrippina Maggiore, infatti, era figlia di Giulia, l’unica figlia di Augusto, e di Agrippa, abile comandante militare e valido collaboratore di quest’ultimo, mentre Germanico era figlio di Druso Maggiore, figlio di Livia, e di Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e di Ottavia, quest’ultima sorella di Augusto. Sempre secondo Tacito, Livia fu conforme alla tradizione e pertanto irreprensibile nella vita domestica, ma piú affabile di quanto fosse consentito alle donne, madre autoritaria e moglie accondiscendente, del tutto in sintonia con le astuzie del marito e l’ipocrisia del figlio. Questa ambiguità nella caratterizzazione delle figure femminili di rilievo in età imperiale non deve stupirci, in

Statua raffigurante l’imperatrice Livia, ritratta con le sembianze di Cerere, divinità legata alla fecondità delle messi, alla quale alludono la cornucopia e le spighe. 20 d.C. Già Collezione Borghese. Parigi, Museo del Louvre.

quanto è un tratto comune degli storici antichi. Va chiarito che Tacito chiama Livia Iulia Augusta, vale a dire con il nome che la donna ottenne dopo essere stata adottata per via testamentaria dal marito dopo la sua morte (14 d.C.), che è anche quello con cui compare, da allora in poi, nei documenti ufficiali. Un banchetto sul Palatino Ottaviano, futuro Augusto, e Livia si sposarono all’inizio del 38 a.C. Lui si era già sposato due volte: con Clodia, figlia del tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro e di Fulvia, che, stando a Cassio Dione (48, 5, 2-3), era stata ripudiata vergine, e con Scribonia, imparentata con Sesto Pompeo, ripudiata, sempre secondo le fonti, il giorno stesso della nascita della loro unica figlia Giulia. Svetonio (Vita di Augusto, 70, 1-2) racconta di uno strano banchetto (forse lo stesso ricevimento di nozze di Ottaviano e di Livia), che avrebbe avuto luogo nella lussuosa dimora che Ottaviano si era fatto costruire sul Palatino e che è stata recentemente indagata dagli archeologi. In questa occasione l’allora triumviro fu aspramente criticato dai suoi avversari politici perché aveva cenato con sfarzo, in un momento in cui il popolo di Roma soffriva la fame, perché la flotta di Sesto Pompeo effettuava il blocco degli approvvigionamenti alimentari alla capitale. Marco Antonio aveva infatti intuito che il matrimonio tra Livia e Ottaviano sanciva un accordo tra quest’ultimo e l’aristocrazia romana tradizionalista, accordo che aumentava notevolmente il potere del futuro imperatore. La propaganda di Antonio vuole attribuire a Ottaviano le caratteristiche tipiche del tiranno che sottrae impunemente le mogli di bell’aspetto al marito legittimo. Livia venne definita, non senza ironia, dal pronipote Caligola,

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Ulixem stolatam (Svetonio, Vita di Gaio, 23, 2), vale a dire, traducendo liberamente, «Ulisse in gonnella», esperta di intrighi e di inganni (Livia non è esente, addirittura, da calunnie che riguardano i suoi rapporti con tutti i successori in pectore di Augusto, i nipoti di quest’ultimo Claudio Marcello, Caio e Lucio Cesari, di cui avrebbe causato la morte in giovane età, allo scopo di favorire la successione del figlio Tiberio), ma, al contempo, fu onorata, in numerose città dell’impero, come personificazione divina di Concordia e di Salus, apportatrice di prosperità e di benessere. Moglie solidale Paradossi per una donna che unisce una lunga vita a una posizione eccezionale, quella di moglie solidale del fondatore dell’impero, in un’epoca di transizione da un vecchio a un nuovo ordinamento politico tutto da pianificare e da attuare. Di Livia è stata sottolineata la funzione di mediatrice e di benefattrice, di singoli individui o di intere comunità, dovuta alla sua vicinanza all’imperatore, nuovo centro del potere; retaggio questo, peraltro, della posizione di alcune grandi dame dell’aristocrazia tardo-repubblicana, mogli e figlie di personaggi di spicco dell’élite al potere, e che continuò anche per le donne di corte in età imperiale. Tale funzione è testimoniata anche da documenti ufficiali, primo fra tutti il senatus consultum de Cneo Pisone patre del 20 d.C. che

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attribuisce a Livia molti meriti, tra cui quello di essere la madre dell’imperatore Tiberio e quindi, in un certo qual modo, di essere garante della legittimità della successione di Tiberio ad Augusto agli occhi della opinione pubblica. Va detto che già lo stesso Augusto si era adoperato per amalgamare, per cosí dire, la famiglia dei Giulii e quella dei Claudii, commissionando la celebrazione letteraria delle doti militari del figliastro Druso Maggiore, il quale, unendo le due discendenze, naturale (claudia) e acquisita (giulia), combatteva e vinceva per la comune gloria di Roma. Livia fu divinizzata nel 42 d.C. dal nipote Claudio, figlio dello stesso Druso Maggiore: il culto del divus

Particolare di una delle pitture di giardino che ornavano le pareti del triclinio della Villa di Livia sulla via Flaminia. 20-10 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

Augustus e della diva Augusta è pertanto promosso dallo stesso imperatore Claudio e verrà praticato all’interno di un unico tempio in tutte le città dell’impero. Il silenzio di Augusto Oggi, dunque, abbiamo a disposizione una serie di ritratti diversi di Livia: semplificando, si può dire che c’è una Livia del tutto positiva in Velleio Patercolo, una abbastanza scialba in Svetonio, una ambigua e intrigante in Tacito e una anticipatrice di realtà successive in Cassio Dione, quando questi sostiene che Livia aspirava a una vera e propria coreggenza con Tiberio (57, 12, 2): in reatà, lo storico è influenzato dal ruolo che le donne (Giulia Domna, Giulia Mesa, Giulia Mamea, Giulia Soemia) ebbero alla corte dei Severi, nella prima metà del III secolo d.C., corte con cui Dione aveva dimestichezza. Inutile sottolineare che Livia non è mai ricordata da Augusto nelle Res Gestae, sorta di rendiconto della sua attività politica e militare, redatto dall’imperatore stesso, che ci è giunto per via epigrafica. Segno, una volta di piú, che il principe riteneva che il tradizionale spazio femminile fosse quello domestico e familiare, pur con tutti gli adattamenti del caso: la legislazione matrimoniale di Augusto, da lui fortemente voluta, assegna un ruolo altamente civico alla maternità e a Livia chiede di farsene garante, presso la comunità dei cittadini, anche attraverso l’organizzazione di banchetti pubblici a cui erano invitate le matres familias della città di Roma.





I Libri di Archeo DALL’ITALIA Fabio Mirulla

la fotografia archeologica digitale Dallo scatto all’elaborazione Edipuglia, Bari, 154 pp., ill. col. 28,00 euro ISBN 978-88-7228-633-3 www.edipuglia.it

non sempre è cosí. Va dunque salutata con favore l’uscita di questo manuale, che offre una panoramica completa delle tecniche di ripresa, con informazioni preziose non soltanto sugli accorgimenti utili al momento dello scatto, ma anche sulle possibilità di ritocco e correzione delle immagini, che l’uso di fotografie digitali rende molto piú immediato. Stefano Mammini Alastair M. Small (a cura di)

Vagnari Il villaggio, l’artigianato, la proprietà imperiale Edipuglia, Bari, 490 pp., ill. b/n 60,00 euro ISBN 978-88-7228-608-1 www.edipuglia.it

La documentazione fotografica dell’attività di scavo e dei reperti è un momento essenziale nella pratica archeologica, sia perché testimonianza di situazioni di cui non resta altra traccia (lo scavo è, comunque, una distruzione), sia perché le immagini dei materiali divengono supporti fondamentali per il loro studio e confronto. In poche parole, ogni buon archeologo dovrebbe acquisire una dimestichezza almeno essenziale con l’uso della fotocamera – ogni cantiere di scavo o restauro dovrebbe poter contare sulla presenza costante di un fotografo professionista, ma

114 a r c h e o

L’esistenza di un villaggio romano nei pressi della masseria Vagnari, nella zona di Gravina di Puglia, era sconosciuta prima di queste ricerche. Nel 1996, nel corso di una ricognizione dell’area, era stata riscontrata l’abbondante presenza di reperti di età romana

imperiale. Da questi primi risultati incidentali ha preso avvio una campagna di ricerche e scavi, condotti dal 2000 al 2007, grazie ai quali oggi possiamo riconoscere nel villaggio di Vagnari il principale insediamento di un vasto fondo che era patrimonio dell’imperatore romano. I contributi del volume testimoniano l’ampiezza del lavoro svolto e ne documentano tutte le fasi e i risultati conseguiti: l’analisi della geomorfologia; la raccolta di superficie; le prospezioni geofisiche, effettuate con magnetometria e indagine della resistività magnetica; la descrizione degli edifici rinvenuti nel sito; la descrizione delle fornaci (specializzate nella produzione di tegole ed embrici); le aree di sepoltura; le tecniche costruttive; i resti faunistici; l’analisi dei resti vegetali carbonizzati; e, infine, l’inquadramento del sito di Vagnari nel contesto dell’Apulia Romana. L’opera è redatta in inglese e italiano, e ogni contributo è inserito nella lingua originale di scrittura, fornendone la traduzione in coda al volume. Paolo Leonini

dall’estero Francesco Menotti

wetland archaeology and beyond Theory and practice

Oxford University Press, Oxford, 568 pp., ill. b/n 95,00 GBP ISBN 978-0-19-957101-7 www.oup.com

Dedicato all’archeologia «dei luoghi umidi», il saggio, ricco e articolato, affronta un tema di grande interesse. Nella categoria appena menzionata, infatti, rientrano insediamenti e strutture, come per esempio le palafitte, che, oltre a richiedere strategie di intervento specifiche,

hanno rappresentato e rappresentano vere e proprie miniere di informazioni e di materiali altrove irrecuperabili (si pensi agli oggetti in legno). Un universo del tutto peculiare, di cui Menotti traccia i caratteri distintivi piú importanti, cercando anche di sgombrare il campo dalle ipotesi fantasiose fiorite a proposito degli uomini che abitavano sull’acqua... S. M.



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