Archeo n. 329, Luglio 2012

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2012

palafitte

petra. la grande avventura

palazzo branciforte speciale sardegna punica e romana

€ 5,90

Mens. Anno XXVIII numero 7 (329) Luglio 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 329 luglio

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palafitte

quando l’uomo viveva sull’acqua

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sardegna

dai fenici alla dominazione romana

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la grande avventura

AST ST PPA

PASSIONE PER LA STORIA

PASSIONE PER LA STORIA



editoriale

il miraggio Scriveva Johann Ludwig Burckhardt, l’esploratore svizzero che con il suo viaggio nell’estate del 1812 riportò alla memoria dell’Occidente l’esistenza dell’antica Petra: «Un viaggiatore dovrebbe, se possibile, vedere ogni cosa con i propri occhi, poiché dei resoconti degli Arabi c’è poco da fidarsi, per quanto concerne ciò che può essere interessante sotto il profilo delle antichità: essi spesso magnificano cose che, una volta esaminate, si dimostrano prive di interesse e parlano con indifferenza di quelle singolari e importanti». La sua guida locale, infatti, lo aveva appena dissuaso dalla visita alla tomba di Aronne, forse per timore che il santuario potesse essere profanato dalla presenza di quello strano infedele vestito da sceicco e che, nel suo turbante, nascondeva un piccolo diario che riempiva di continue annotazioni. In questo numero, per raccontare l’incontro – avvenuto esattamente duecento anni fa – con quel miraggio che ancora oggi è la capitale dei Nabatei, abbiamo dato la parola allo stesso Burckhardt. E, per illustrarla, abbiamo trovato le immagini di alcuni pionieri della fotografia archeologica che, cento anni dopo la visita del Burckhardt hanno seguito le sue orme, muniti, questa volta, non di un diario nascosto nel turbante, ma delle prime macchine fotografiche. Oggi, visitare i grandi monumenti dell’archeologia mediterranea e vicino-orientale con i propri occhi è diventata, per gli «infedeli» e non, impresa rischiosa, spesso impossibile. Pensiamo all’Algeria, alla Libia, alla Siria, fino a ieri meta di un fiorente turismo archeologico. In questo quadro (che ci auguriamo sia solo temporaneo) fa eccezione la Giordania che, oltre alle rovine di Petra, ospita monumenti storici e archeologici di grandissima rilevanza e suggestione. E cosí «Archeo» ha organizzato un viaggio sulle tracce di Burckhardt (vedi a p. 8), poiché anche noi siamo convinti che, prima o poi, ogni cosa andrebbe vista «con i propri occhi». Andreas M. Steiner

Petra (Giordania). Il «Tesoro del Faraone» all’uscita del Siq, in un’immagine dei primi del Novecento.


Sommario

Editoriale

Il miraggio

3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

scavi Risultati di grande interesse scaturiscono dalle ricerche condotte in Etiopia dalla missione congiunta dell’«Orientale» di Napoli e dell’Università di Aksum

6

parola d’archeologo La divulgazione archeologica? È importante e, come insegna la rassegna Antiquitas, può aiutare a sconfiggere la paura del terremoto 10

40

palafitte

Storie scritte sull’acqua

22

di Stefano Mammini

6

Un museo per il mito

28

22 i luoghi della leggenda

Petra e l’avventuroso viaggio dello sceicco Ibrahim 40 di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

musei

Miracolo a Palermo

60

di Andreas M. Steiner

Anno XXVIII, n. 7 (329) - luglio 2012 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507

In copertina Petra. Particolare della decorazione della facciata del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»)

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Carla Del Vais è ricercatore in archeologia fenicio-punica all’Università di Cagliari, Valentina Di Napoli è archeologa. Rodolfo Fattovich è professore di archeologia e antichità etiopiche all’Università di Napoli «L’Orientale». Giampiero Galasso è giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Aleksandra Nestorović è curatore archeologo presso il Museo Regionale di Ptuj Ormož. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Simona Rafanelli è direttore del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Marco Rendeli è professore di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Sassari. Stefania Sapuppo è archeologa. Luisa Sernicola è archeologa. Roberto Sirigu è direttore e curatore del Museo Archeologico «Casa Museo» di Domus de Maria. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Verena Vidrih Perko è curatore archeologo presso il Museo Regionale di Kranj. Ivan Žižek è curatore archeologo presso il Museo Regionale di Ptuj Ormož. Illustrazioni e immagini: The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: copertina e pp. 3, 40/43, 50/51, 52, 54/55, 57/58 – Cortesia Missione Archeologica UNOAU: pp. 6-7 – Foto Stefano Mammini: pp. 9, 29, 31, 32/33 (alto e sfondo), 37 (alto e centro), 38/39 – Cortesia autore: pp. 10-12, 74/75, 77, 79 (alto), 80/81 – Cortesia Soprintendenza BA per le province Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 14 (sinistra) – Cortesia Università degli Studi di Salerno: p. 14 (destra) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 16 (destra, alto e basso), 65 – Cortesia Soprintendenza BA della Basilicata: p. 18 (sinistra) – Da Vision d’une civilisation engloutie (catalogo della mostra), Hauterive, Laténium/Zurigo, Schweizerisches Landesmuseum 2008: pp. 22/23, 26 (alto) – Mondadori Portfolio/Akg_Images: pp. 24/25, 27 – Da Wetland Archaeology and Beyond, Oxford University Press 2012: p. 26 (basso) – Foto Ornella Michelon: pp. 28, 33 (alto) – Cortesia Museo delle Palafitte di Fiavé: pp. 34/35, 37 (basso) – Cortesia Museo delle Palafitte di Ledro: p. 36 – Getty Images: pp. 48, 56 – Foto L. Michelangeli: pp. 60/64 – DeA Picture Library: E. Lessing: pp. 66/67; G. Nimatallah: p. 69


storia

Gli Etruschi visti dagli altri/6

Il popolo del mistero

66

di Daniele F. Maras

storia dei greci/16 I nemici della democrazia

96

di Fabrizio Polacco

Rubriche antichi ieri e oggi

S.P.Q.R.: Sono Polentoni Questi Romani...

66

106

di Romolo A. Staccioli

divi e donne

Padri contro figli

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Le torce di Cerere

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di Francesca Ceci

libri

speciale Archeologia della Sardegna/2

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia

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114

Sardegna antica. I secoli della conquista

(alto); Archivio: pp. 42 (sinistra), 44, 76 (sinistra), 79 (basso), 96/97; G. Dagli Orti: pp. 91 (destra), 98, 101, 103/107, 110; A. Garozzo: p. 99; A. Dagli Orti: pp. 78, 90 (alto e centro), 91 (alto), 93, 102; G. Cozzi: pp. 83, 84 (alto); J. Ciganovic: pp. 88/89 (alto); A. De Gregorio: p. 90 (basso); M. Carrieri: p. 92 – Doc. red.: pp. 46/47, 49 (alto), 53, 68, 69 (basso), 71 (destra), 72 (sinistra), 100, 112/113 – Marka: Marco Scataglini: pp. 70/71; Vito Arcomano: p. 95 – Corbis Images: Vanni Archive: pp. 72/73 (alto) – Cortesia Missione Archeologica a Sant’Imbenia: p. 82 – Foto Scala, Firenze: pp. 84/85 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: pp. 86/87, 89 (destra), 94; The Bridgeman Art Library: p. 109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 6, 30, 43, 47, 49, 63, 76.

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PAST PASSIONE PER LA STORIA

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di Carla Del Vais e Roberto Sirigu

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n oti z i ari o SCAVI Etiopia

antiche genti del corno d’africa

L’

Università di Napoli «L’Orientale» (UNO) e l’Università di Aksum (AU) hanno avviato nel 2010 un programma congiunto di indagini archeologiche lungo la valle del fiume May Negus/Haselo a ovest dell’antica capitale dell’Etiopia, Aksum, nel Tigrai centrale (Etiopia settentrionale), diretto da Rodolfo Fattovich (UNO). L’area indagata copre una superficie di 200 km² e include gli attuali villaggi di Seglamen, Mirina e Adet. Le ricerche includono ricognizioni di superficie e scavi sistematici in siti di maggior rilievo, anche al fine di fornire un cantiere scuola agli studenti di archeologia dell’Università di Aksum. Il progetto ha come obiettivi

6 archeo

Eritrea

Yemen

Sudan

Seglamen Gibuti Addis Abeba

Somalia

ETIOPIA Kenya

Somalia

principali quello di ricostruire la storia del popolamento della regione indagata, dalla preistoria al presente, con particolare attenzione al periodo di sviluppo delle prime forme di stato etiopico tra il I millennio a.C. e il I millennio d.C., e di produrre una documentazione dettagliata dei siti archeologici presenti nell’area in esame per l’elaborazione di

una carta archeologica utile a una migliore tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale. Finora sono state condotte due campagne di indagine sul terreno, nei mesi di novembre 2010 e 2011. Nel 2010 le indagini hanno compreso scavi sistematici presso il sito pre-aksumita di Seglamen e ricognizioni nelle aree circostanti i moderni villaggi di Seglamen, Mirina e Adet. Nel 2011 le indagini si sono concentrate esclusivamente sullo scavo del sito di Seglamen. Le ricognizioni hanno permesso di registrare la presenza di 3 siti litici nell’area di Adet e di individuare un sito abbastanza esteso presso il moderno villaggio di Mirina, databile, sulla base dei manufatti visibili in superficie, all’inizio del I millennio a.C. e fino alla metà


del I millennio d.C. Nell’area di Seglamen le ricerche di superficie hanno portato alla localizzazione di alcuni siti litici e dell’area di provenienza di alcuni manufatti raccolti dai contadini e databili alla prima metà del I millennio a.C. Inoltre hanno permesso di definire l’estensione del sito pre-aksumita e di individuare al suo interno alcune aree funzionali. Il sito pre-aksumita di Seglamen, circa 12 km a sud-ovest di Aksum, era noto fin dal 1973 in seguito al rinvenimento di un’iscrizione reale in lingua sud-arabica in cui si commemora la ristrutturazione di un tempio, ed era stato in parte indagato nel 1974 dalla spedizione dell’Università di Roma «La Sapienza», diretta da Lanfranco Ricci, che aveva portato alla luce resti di un’abitazione rurale medievale. Gli scavi condotti nel 2010 e 2011 hanno consentito di mettere in luce un’area monumentale caratterizzata da almeno tre diverse fasi di costruzione e alcune tombe, databili alla metà del I millennio a.C. e ascrivibili alla Cultura «pre-aksumita» (circa 900/800-400/300 a.C.), caratterizzata da influenze sud-arabiche che A destra: vaso antropomorfo, dalla Tomba 1 della necropoli pre-aksumita di Seglamen. Nella pagina accanto, in alto: cartina dell’Etiopia con la localizzazione di Seglamen. Nella pagina accanto, in basso: deposito di fondazione in una delle stanze dell’edificio piú antico rinvenuto a Seglamen.

alcuni studiosi attribuiscono a una migrazione sabea verso il Tigrai nella prima metà del I millennio a.C. Nell’area monumentale, lo scavo dei livelli piú antichi ha esposto i resti di un edificio a pianta rettangolare suddiviso in ambienti piú piccoli e circondato da un recinto in pietra. Sotto la fondazione del pavimento di uno di questi ambienti sono stati rinvenuti in situ due vasi in

ceramica, uno dei quali conteneva i frammenti di due piccole giare, una spatola in metallo e alcuni manufatti in pietra. Queste testimonianze, finora un unicum nell’ambito dell’archeologia etiopica, sono interpretabili come resti di un rituale di fondazione e rimandano a pratiche ben documentate in Egitto e in Nubia a partire dal III millennio a.C. e collegate alla costruzione di edifici rituali. Se l’interpretazione è corretta, l’edificio rettangolare rinvenuto nei livelli piú bassi dell’area monumentale di Seglamen potrebbe rappresentare la fase piú antica del tempio successivamente ristrutturato, secondo quanto riportato dall’iscrizione. Elementi nuovi e stimolanti provengono anche dalla necropoli, dove sono state scavate due tombe a pozzo associate a piccole stele. In una di esse sono stati rinvenuti i frammenti di un vaso antropomorfo molto schematico, con braccia modellate e appoggiate al tronco all’altezza dei fianchi, seni e organo sessuale modellati e decorazione puntinata a triangolo sul petto, il cui significato è ancora incerto. I dati provenienti dallo scavo del sito di Seglamen cosí come quelli che emergono dall’indagine presso altri siti pre-aksumiti dell’altopiano tigrino suggeriscono la presenza in questo periodo di diverse tradizioni culturali regionali tra loro interagenti, e arricchiscono di nuovi elementi il dibattito sulla storia del popolamento antico di questo territorio. Rodolfo Fattovich e Luisa Sernicola

archeo 7


con

archeo in viaggio a

Petra

Dal 30 settembre al 9 ottobre 2012

alla scoperta delle antichità della Giordania, sulle orme di Johann Ludwig Burckhardt Con la guida di Marco Di Branco, collaboratore di «Archeo» e professore di Storia Bizantina all’Università di Roma «La Sapienza».

programma 1° giorno – domenica 30.09 Roma/Amman

Partenza da Roma Fiumicino in fine mattina. Arrivo nel pomeriggio. Incontro con i nostri corrispondenti in aeroporto e trasferimento in hotel per la cena e il pernottamento.

2° giorno – lunedí 01.10 Amman–Castelli del Deserto

Escursione ai «Castelli del deserto», sontuose residenze dei califfi omayyadi tra il VII e l’VIII secolo. Pranzo picnic. In serata rientro ad Amman, cena e pernottamento.

3° giorno – martedí 02.10 Amman–Jerash/Ajloun

Breve visita di Amman (Odeon, Museo Archeologico, cittadella). Escursione a Jerash, la piú ricca e meglio conservata delle città della Decapoli; pranzo e proseguimento per la fortezza di Ajloun (Qalat arRabad), tra gli esempi piú interessanti di architettura militare islamica della Transgiordania. Rientro ad Amman, cena e pernottamento.

4° giorno – mercoledí 03.10 Amman/Monte Nebo/Madaba/ Umm el Rasas/Kerak/Petra

Partenza per Petra, percorrendo la Strada dei Re, che segue il percorso della vecchia via carovaniera. Visita del memoriale di Mosè sul Monte Nebo e delle chiese bizantine di Madaba e di Umm el-Rasas, celebri per i loro mosaici; dopo il pranzo, si prosegue per la fortezza crociata di al-Karak. In serata arrivo a Petra, l’antica capitale dei Nabatei. Sistemazione in hotel. Cena e pernottamento.

5° giorno – giovedí 04.10 Petra

Intera giornata dedicata a Petra (pranzo nel ristorante del sito), ai cui monumenti, scavati nella roccia, si accede per il Siq, la spettacolare gola profonda da 5 a 200 m. L’antica capitale nabatea fu custodita gelosamente nei secoli dalle popolazioni beduine

come luogo sacro e la sua scoperta si deve all’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt. Oltre alla città vera e propria, con le tombe rupestri, il teatro, il «palazzo della fanciulla», il tempio dei leoni alati e le basiliche bizantine, si effettuerà una lunga escursione all’«altare dei sacrifici», il piú importante santuario d’altura della zona. Cena e pernottamento a Petra.

6° giorno – venerdí 05.10 Petra–Tomba di Aronne

L’escursione alla mitica Tomba di Aronne, fratello di Mosè, permetterà di godere di uno dei piú straordinari panorami naturali e archeologici del mondo. Il percorso ha la durata di circa 3 ore per tratta (sarà possibile effettuare il percorso a dorso d’asino o di dromedario, pagando il relativo utilizzo in loco). Pranzo picnic. Cena e pernottamento a Petra.

7° giorno – sabato 06.10 Petra/al-Baydah/ Wadi Rum/Aqaba Di buon mattino, partenza per il «Monastero» e proseguimento a piedi per il sito di al-Baydah (Piccola Petra), dove sorse una delle città preistoriche piú antiche di tutto il Medio Oriente e successivamente un importante centro nabateo. Pranzo. Partenza per la vallata deserta di Wadi Rum, sulle tracce di Lawrence d’Arabia: si visiteranno la sorgente di Lawrence e il tempio nabateo e si potrà assistere al tramonto del sole immersi in un paesaggio di incomparabile suggestione. Proseguimento per Aqaba. Cena e pernottamento ad Aqaba.

8° giorno – domenica 07.10 Aqaba/Mar Morto

Partenza per il Mar Morto, situato nel punto piú basso della superficie terrestre, a 394 m sotto il livello del mare. In mattinata, visita della grotta di Lot e della chiesa costruita sul luogo del Battesimo di Cristo. Pranzo. Nel pomeriggio, potremo rilassarci sulla spiaggia in un centro attrezzato, provare l’ebbrezza di galleggiare tra le sue salatissime acque e sperimentare le eccezionali proprietà

terapeutiche dei suoi fanghi. Cena e pernottamento sul Mar Morto.

9° giorno – lunedí 08.10 Pella/Umm al-Gimal/Umm Qays/ Amman

Visita di alcuni tra i piú importanti centri della Decapoli, fuori dai circuiti turistici tradizionali: Pella, omonima della città macedone; Umm al-Gimal, notevolissimo esempio di città bizantina di frontiera, e Umm Qays, l’antica Gadara, famosa per i suoi poeti, i filosofi e gli artisti. Pranzo in corso di visite. In serata rientro ad Amman, cena e pernottamento.

10° giorno – martedí 09.10 Amman/Roma

Trasferimento in aeroporto e partenza per Roma Fiumicino, con arrivo previsto nel primo pomeriggio.

DESCRIZIONE

QUOTA IN EURO PER PERSONA (min. 18 partecipanti) € 1900,00 Supplemento sistemazione in singola € 280,00 Tasse aeroportuali

escluse

Assicurazione medico/bagaglio/ annullamento € 28,00 Cambio di riferimento

1€=1,25$

La quota comprende: • voli Royal Jordanian Airlines o Turkish Airlines in economy • tour privato con soggiorno in camera doppia in hotel 4 stelle • pensione completa • ingressi ai siti • guida locale • visto • accompagnamento dall’Italia del professor Marco Di Branco La quota non comprende: • bevande, mance e tutto quanto non espressamente indicato in programma. Condizioni generali da cataloghi Lombard Gate 2011-12 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 – 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it


musei Adria

Un patrimonio da riscoprire e valorizzare

D

ue giorni di relazioni e di dibattiti di grande interesse: possiamo sintetizzare cosí l’esito del convegno sui musei archeologici svoltosi ad Adria il 21 e 22 giugno. L’iniziativa intendeva fare il punto e ragionare su uno dei settori piú importanti nell’azione di salvaguardia e valorizzazione del nostro patrimonio, attraverso la presentazione di allestimenti particolarmente significativi e di progetti allo studio o in corso di realizzazione. Dedicato alla memoria di Franco Minissi (1919-1996), architetto che per primo, in Italia, ha sviluppato un approccio progettuale specificamente rivolto alla museologia e alla museografia, l’incontro ha coinvolto addetti ai lavori che operano su tutto il territorio nazionale. I loro contributi hanno offerto una panoramica ricca e articolata sulle

proposte messe a punto per dare visibilità e far «parlare» l’arte antica e l’archeologia. Al di là dei singoli casi, è emersa, purtroppo, una situazione che risente di una congiuntura economica difficile, che si riverbera anche nella gestione dei beni culturali, e non è un caso che molti degli interventi piú recenti siano stati possibili grazie a forme di finanziamento straordinarie, come è accaduto con i fondi raccolti attraverso il gioco del Lotto. Tutti i relatori hanno comunque trasmesso la dedizione e l’impegno con il quale si prendono cura dei nostri musei archeologici e sarebbe auspicabile che il loro «spirito di servizio» fosse ricambiato con scelte politiche e di investimento diverse da quelle finora attuate. Dal canto nostro, cercheremo, di contribuire alla conoscenza di un patrimonio

Adria, il Museo Archeologico Nazionale, sede del convegno. davvero inestimabile con una sorta di Viaggio in Italia, svolto attraverso la presentazione delle realtà di maggiore rilevanza. Stefano Mammini

Sopra: veduta dello scavo, che si è svolto in condizioni particolarmente un particolare del trofeo a rilievo. I sec. un particolare del trofeo a rilievo. I a rilievo. I sec. un particolare del trofeo a rilievo. I sec. a.C.Sopra veduta dello.

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parola d’archeologo di Flavia Marimpietri

l’archeologia per vincere la paura a colloquio con Livio zerbini, docente di storia romana all’università di ferrara, che nella città emiliana ferita dal terremoto ha tenuto a battesimo la prima edizione di antiquitas

M

entre scriviamo la terra ancora trema in Emilia e l’allarme per il sisma rimane alto a Ferrara, ma la città, che con il terremoto ha perso parte della torre della cinquecentesca Rocca Estense, non si dà per vinta. E non ha rinunciato a ritrovarsi ai piedi dello scalone rinascimentale di Leon Battista Alberti, nella piazzetta Municipale, dall’8 al 10 giugno scorso, per discutere su come coniugare ricerca storicoarcheologica e divulgazione, nell’ambito di Antiquitas, manifestazione organizzata dal Laboratorio di Antichità e Comunicazione del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara e dall’Università per l’Educazione permanente (U.T.E.F.), con l’obiettivo di sottolineare la «contemporaneità» dell’antichità e l’importanza della tutela, salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali. Un’iniziativa fortemente voluta da «Archeo», che ha partecipato all’evento «adottando» un monumento tra quelli crollati per il sisma (come già «Medioevo», vedi n. 186, luglio 2012), nonché svolgendovi il primo «ArcheoIncontro» della storia della rivista, un vero e proprio meeting tra «Archeo» e i suoi lettori.

10 a r c h e o

A ideare la manifestazione prima del terremoto, e a realizzarla poi, nonostante l’accaduto, è stato Livio Zerbini, docente di storia romana nell’ateneo ferrarese e Visiting Professor alla Sorbona di Parigi. Professore, che cosa rappresenta Antiquitas, in un momento cosí delicato per la città? «Innanzitutto, è stata la prima manifestazione pubblica che si è tenuta a Ferrara dopo il terremoto. E ha un significato particolare proprio perché ha consentito di tornare alla normalità in un momento difficile per la città. La piazza era gremita, sebbene quella di quest’anno fosse la prima edizione, proprio per il desiderio delle persone di riunirsi di nuovo e di “re-impossessarsi” della propria città, vincendo il timore del terremoto, che c’è e che continua a farsi sentire. Conosco tanta gente che vive nelle tende, perché ha paura. All’inizio abbiamo avuto non pochi dubbi: la manifestazione era organizzata da mesi ma, alla luce di quanto accaduto, non sapevamo se dare seguito ai programmi o meno. Poi, invece, abbiamo pensato di svolgere l’evento proprio perché si voleva riunire un pubblico quanto piú vasto sui temi della tutela,

salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali, nella convinzione (forte già prima del sisma, ma ancor piú valida oggi, alla luce degli eventi) che il passato rappresenti le radici della nostra identità e, al tempo stesso, le piú solide fondamenta per il futuro». L’archeologia in piazza come «antidoto» contro la paura del terremoto, si potrebbe dire. Ma perché proprio antichità e divulgazione? «Perché la divulgazione è quello che manca all’attività di ricerca storica e archeologica: è uno dei suoi maggiori limiti. Gli appassionati del mondo antico sarebbero piú motivati se ci fossero piú pubblicazioni di massa. Per questo abbiamo voluto invitare archeologi, storici e divulgatori: per farli dialogare tra loro, sul tema della tutela del nostro patrimonio antico, cercando di portare la storia e l’archeologia realmente alla portata di tutti. Con questo intento, nel 1998, ho fondato presso il Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara un Laboratorio di Antichità e Comunicazione (L.A.D.), dove è nato il primo e finora unico master in Europa sulla didattica dei beni culturali».


Qui sotto, da sinistra a destra: immagini della prima edizione di Antiquitas, la manifestazione svoltasi a Ferrara nello scorso giugno con il fine di sottolineare l’attualità e l’importanza della tutela, della salvaguardia e della valorizzazione dei beni culturali.

Anche perché spesso, a quanto pare, le Soprintendenze e le Università, con il grande pubblico comunicano poco e male... «Sui mezzi di comunicazione di massa, come tv, quotidiani e riviste, il mondo antico attrae molto: questa consapevolezza dovrebbe essere piú diffusa nell’ambito di Università e Soprintendenze. Anche se c’è da dire che, in questi ultimi anni, sia le une che le altre hanno compreso la necessità di aprirsi verso un “altro” pubblico, al di là di quello piú ristretto degli addetti ai lavori. Per incontrare il proprio pubblico, «Archeo» e «Medioevo», in occasione di Antiquitas, hanno tenuto l’anteprima degli «ArcheoIncontri», con il primo meeting dei lettori delle riviste, che dal prossimo anno vorremmo trasformare in un appuntamento fisso. Con «Archeo», a Ferrara, abbiamo anche presentato i risultati degli studi sul mondo danubiano in età romana e sul Mar Nero, a cura del Laboratorio sulle Antiche Province Danubiane del Dipartimento di Scienze Storiche dell’Università di Ferrara». La manifestazione è un’intuizione nata prima del terremoto, ma ha assunto, forse, un nuovo e ancor

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La ricostruzione del banco di lavoro di un ciabattino (sutor), con i ferri del mestiere.

piú pregnante significato proprio perché si è svolta dopo, anzi durante, il sisma… «È proprio cosí. Antiquitas nasce dalla necessità di riflettere sulla tutela e salvaguardia dei beni culturali, tema valido a maggior ragione, purtroppo, dopo il terremoto, che ha dimostrato tutta la fragilità del nostro patrimonio. Abbiamo visto che la manutenzione ordinaria non è sufficiente: sarebbe necessario un controllo capillare sugli edifici storici. Il bilancio dei danni sarebbe stato sicuramente inferiore se si fosse fatta una corretta prevenzione. Sarebbe bastato “cinturare” i monumenti con tiranti di ferro, nel senso della larghezza, per salvarli. Gli edifici antichi, infatti, dove erano stati restaurati di recente, non sono crollati, come nel caso della Rocca Estense di Finale Emilia: la parte restaurata ha resistito al terremoto, il resto è venuto giú». A crollare, in Emilia, sono state soprattutto le chiese, insieme alle rocche e alle torri estensi sparse sul territorio. Una stima ufficiale dei danni ancora non c’è. Mentre stiamo scrivendo il Ministero

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dei Beni Culturali fa sapere che una quantificazione esatta, al momento, non è possibile, poiché i tecnici delle Soprintendenze, per motivi di sicurezza, non hanno avuto modo di ispezionare da vicino tutti i monumenti, viste le continue scosse di terremoto. Secondo lei professore, che conosce bene il territorio, dove si sono verificati i danni piú gravi? «Almeno il 55 per cento dei beni culturali delle province coinvolte, Ferrara, Modena e Mantova, è seriamente danneggiato: soprattutto le chiese e l’architettura militare degli Estensi, con le fortificazioni di epoca medievale e rinascimentale. A Ferrara, per esempio, sono crollate parte della torretta della Torre dei Leoni del Castello Estense, e la chiesa di S. Maria in Vado. A Finale Emilia, in provincia di Modena, la Torre dei Modenesi si è letteralmente polverizzata, con la seconda scossa, e il mastio della Rocca Estense è venuto giú. A Poggio Renatico, in provincia di Ferrara, la Torre dell’Orologio di Castello Lambertini è completamente crollata, mentre il campanile dell’antica abbazia è stato

abbattuto per motivi di sicurezza. A San Felice sul Panaro, in provincia di Modena, la Rocca Estense è stata seriamente danneggiata, mentre a Mirandola, del Duomo, è rimasta solo la facciata». Quell’insieme fitto di torri e campanili che, in Emilia, punteggiano il paesaggio (ora devastati dal sisma), è stato definito patrimonio culturale «minore». Eppure, a ben guardare, minore non sembra affatto… «Non è assolutamente un patrimonio culturale minore: è una presenza diffusa capillarmente sul territorio, importante dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto per il suo valore “fondativo” dell’identità delle comunità locali. Sono monumenti che hanno vissuto per molti secoli, resistendo a guerre ed eventi naturali, e poi in pochi secondi sono venuti giú. Per questo, ora, è di fondamentale importanza ricostruirli, dove e come sono. Con la tecnica dell’“anastilosi” è possibile farlo, ricollocando ogni pietra nella sua posizione originaria, attraverso una ricostruzione filologica. È stato fatto nella basilica di S. Francesco ad Assisi, per le volte affrescate da Giotto e Cimabue, crollate con il terremoto del 1997, ma anche a Roma, a S. Giorgio in Velabro, dopo l’attentato del 1993, come pure a Venzone e Gemona, i due borghi medievali distrutti dal terremoto del Friuli del 1976, e a Venezia con il campanile di S. Marco, crollato nel 1902 e ricostruito in 10 anni. In questa direzione «Archeo» si è unita all’Università di Ferrara “adottando” un monumento, in modo da seguirlo nelle sue fasi di ricostruzione e far sí che la memoria storica del territorio non vada perduta. Il nostro Paese fa presto a dimenticare...».



campania

Tessitrici e cavalli

tutela Benevento

conoscere per programmare

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A Savignano Irpino (Avellino), in una zona collinare della Campania interna al confine con la Puglia, dove le alture dell’Appennino Dauno assumono funzione di controllo dell’alta valle del Cervaro, è stata eseguita una indagine archeologica preliminare alla realizzazione di un impianto eolico. Le ricerche hanno portato alla luce i resti di un insediamento sannitico-romano a sud di Monte Castello (600 m slm), occupato ininterrottamente dal Neolitico Antico all’età arcaica, e successivamente in età medievale. L’indagine ha messo in luce una probabile fattoria a pianta quadrangolare, databile tra la fine del IV e il I secolo a.C. Dell’edificio si distinguono un’area interna e una esterna: quella interna è caratterizzata da ambienti di forma quadrata, uno dei quali è stato scavato integralmente. L’ambiente appare dedicato alla tessitura come testimonia il ritrovamento di pesi da telaio in terracotta. Altri reperti, sempre riconducibili alla sfera femminile, sono stati trovati fuori e dentro il vano, tra cui un manico di specchio in bronzo della seconda metà del IV secolo a.C. e numerosi balsamari riferibili al II secolo a.C. Interessante anche la presenza di un passabriglie in ferro e di altri elementi che attestano la presenza di cavalli. G. G.

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a moderna ricerca archeologica ha messo a punto metodi e strategie di analisi per poter sostenere, senza essere considerata un ostacolo, il confronto con le trasformazioni territoriali e urbanistiche prodotte dalla società contemporanea. Un contesto privilegiato per cogliere questi mutamenti è quello urbano, dove le dinamiche storiche di lungo periodo rendono complesso e articolato il rapporto tra il passato e il presente di una città. Lo stretto rapporto tra archeologia e sviluppo urbano necessita sempre piú di ampie sinergie tra enti di tutela, enti di ricerca, amministrazioni locali e cittadini. E, per farlo, un aiuto significativo proviene dalla scienza dell’informazione. In questa prospettiva, la sfida di recepire la necessità di far interagire in modo dinamico i dati archeologici con i molteplici e diversificati livelli

Urbano di Benevento) frutto della collaborazione tra la Soprintendenza ai Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Caserta e Benevento e il Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno. Il progetto ha inteso sviluppare un sistema capace di rispondere a due finalità principali: da un lato contribuire allo studio scientifico di Benevento antica, uno dei centri urbani campani piú ricchi di testimonianze archeologiche, e alla realizzazione di una Carta Archeologica della città, tramite la raccolta dettagliata di tutti i dati vecchi e nuovi e il loro posizionamento nello spazio con coordinate geografiche assolute; dall’altro offrire agli enti amministrativi uno strumento agile di consultazione per la pianificazione urbana e la valorizzazione del patrimonio culturale beneventano. Qui accanto: una schermata che riassume il funzionamento e i possibili impieghi del SIUrBe. In alto, a sinistra: i resti del sito sannitico-romano scoperto a Savignano Irpino.

di informazione, atti a produrre sistemi di conoscenza utili a definire strategie sostenibili con l’immenso patrimonio culturale, e la consapevolezza che senza un’adeguata conoscenza il potenziale archeologico torna a «rappresentare un problema» e «un rischio da evitare» hanno dato origine, nel 2011, al progetto SIUrBe (Sistema Informativo del patrimonio archeologico

Consultando la banca dati informatizzata oggi tutti i tecnici che operano sul territorio potranno conoscere, già in fase, di progetto preliminare qual è il potenziale rischio archeologico della zona. Il progetto è stato presentato nello scorso maggio durante un workshop organizzato dall’Università di Salerno presso il campus di Fisciano. (red.)



slovenia

Antiche fiammelle Si è svolto nel castello di Ptuj, in Slovenia, il IV Congresso dell’Associazione Internazionale di Licnologia (la branca degli studi sulla ceramica che si occupa delle lucerne, da lychnos, il termine greco che le designa), Ex oriente lux, che ha visto la partecipazione di oltre 150 studiosi provenienti da vari Paesi europei. In età antica Ptuj fu sede di un accampamento augusteo e divenne colonia sotto Traiano con il nome Colonia Ulpia Traiana Poetovio; nel 69 d.C. vi fu proclamato imperatore Vespasiano. La città, importante per la sua posizione strategica lungo la via dell’ambra e quale centro termale, mantiene ancora rilevanti vestigia di età romana, tra cui ben cinque mitrei, alcuni sacelli e la stele sepolcrale detta di Orfeo, alta piú di 5 m eretta in onore di Marcus Valerius Verus, duumviro di Poetovio e datata al II secolo d.C. Il fitto programma del congresso ha compreso le relazioni, ma anche manifestazioni culturali, mostre ed escursioni mirate alla comprensione e alla promozione della cultura slovena dalla protostoria a oggi (come le mostre allestite nel Museo Regionale Ptuj Ormož: Usciamo dal buio. Antiche lucerne romane di Poetoviona e Costumi carnevaleschi tradizionali della zona di Ptuj, e quella proposta dal Museo di Kranj Recte Illuminas. Le lucerne romane da Singidunum – oggi Belgrado – di epoca romana). Verena Vidrih Perko, Ivan Žižek, Aleksandra Nestorovic

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mostre Gran Bretagna

splendori imperiali

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aliti al potere nel 206 a.C., gli Han sono considerati, se non i fondatori, gli artefici dell’unificazione di uno dei piú potenti e vasti imperi della storia. Le loro vicende sono ripercorse attraverso la presentazione di oltre 300 oggetti e opere d’arte – molti dei quali hanno varcato i confini del Paese asiatico per la prima volta –, che danno conto dei fasti di una dinastia che mantenne il controllo della Cina per poco piú di quattrocento anni. Il progetto espositivo è stato imperniato sulla rivalità che oppose le fazioni degli Han stabilitesi nel territori settentrionali dell’impero e il regno di Nanyue, che aveva acquisito il controllo delle regioni meridionali e, attraverso la sua città capitale – corrispondente alla moderna Guangzhou –, era un nodo cruciale e obbligato per le rotte commerciali fra il Mar della Cina e l’Oceano Indiano. Le due entità diedero vita a una sorta di gioco fra gatto e topo, l’una cercando di stabilire la propria supremazia e l’altra ben decisa a conservare la sua

Peso in pietra in forma di leone, dagli scavi condotti nel sito di Shizishan. Dinastia degli Han Occidentali, II sec. a.C. autonomia. Aneliti di grandezza che si riflettono nei corredi delle tombe reali esposti a Cambridge. Per il loro ultimo viaggio, sovrani e dignitari vollero circondarsi di materiali staordinari – tra cui statuette in terracotta, giade intagliate, monili in oro, armi e manufatti in bronzo – che, ancora una volta, mettono in luce le eccezionali capacità tecniche e la creatività di artisti e artigiani al servizio delle corti. S. M.

Dove e quando «Alla ricerca dell’immortalità. Tesori dalle tombe della dinastia Han» Cambridge, The Fitzwilliam Museum fino all’11 novembre Orario ma-sa, 10,00-17,00; do, 12,00-17,00; lu chiuso Info www.tombtreasuresofhanchina.org Statuetta raffigurante un suonatore di se (uno strumento a corde simile al salterio), da una tomba reale di Tuolanshan. II sec. a.C.



n otiz iario

mostre Vetulonia

dalla basilicata all’etruria

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a mostra esamina le relazioni che Vetulonia stabilí sin dagli inizi dell’età del Ferro (I millennio a.C.), con i popoli della Basilicata nord-occidentale e meridionale: i Dauni, gli Enotri, i Nord-Lucani. L’intento è quello di evidenziare in parallelo i processi di crescita, sviluppo, trasformazione politica, sociale, economica, culturale che interessarono queste diverse genti, ponendo a confronto i loro «percorsi di civiltà». Percorsi sviluppatisi alla luce di un comune denominatore, rappresentato dalla volontà di emulare la cultura e lo stile di vita di una civiltà piú progredita, eletta a «modello inimitabile» e di volta in volta identificata nell’Oriente dei sovrani, nella Grecia degli eroi omerici e poi delle poleis e, infine, per le antiche genti di Basilicata, nella stessa Etruria dei principi, già fortemente ellenizzata. Simona Rafanelli

Dove e quando «Il modello inimitabile. Percorsi di civiltà fra Etruschi, Enotri e Dauni» Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 4 novembre Orario tutti i giorni, 10,00-14,00 e 16,00-20,00; lu chiuso Info tel: 0564 948058 Cimasa di candelabro in bronzo con Eos e Kephalos, dalla Tomba 64 di Ruvo del Monte. Produzione etrusca, fine del V sec. a.C.

archeofilatelia

le meraviglie di petra Di Petra abbiamo già parlato in questa rubrica (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009), presentando una parte del materiale filatelico che la riguarda; ora, l’ideale percorso dei «luoghi della leggenda» non poteva non toccare ancora la «città rosa» ed è questa l’occasione per mostrare altro materiale che ne raffigura i monumenti piú famosi. Il primo pezzo non è «postale», ma è molto particolare. Negli anni Cinquanta il mondo delle immagini era agli albori: pochi cinegiornali e qualche foto su quotidiani e riviste consentivano di vedere posti esotici e lontani, e la pubblicità si doveva adeguare. Cosí la ditta giordana Nazzal’s Camp reclamizzava le sue capacità ricettive (20 posti nella struttura di pietra e ben 50 nelle tende) raffigurandole sul retro delle proprie buste commerciali (1-2). Ma eccoci ai monumenti che si ammirano arrivando a Petra dopo aver percorso la spettacolare gola del Siq. Verso la fine della strettoia il primo monumento che si vede è il Tesoro del Faraone, interamente scavato nella roccia, mostrato con una prospettiva insolita da un bel francobollo di Gibilterra che ha celebrato, nel 2008, l’inserimento di Petra tra le sette «moderne» meraviglie del mondo (3). Anche Cuba ha ricordato Petra per lo stesso motivo, ma ha scelto un altro monumento: ed-Deir (il Monastero), alto ben 50 m e largo 40 (4). Ancora il Monastero è il soggetto di un francobollo francese del 2005, qui mostrato in una prova di colore monocroma (5) e nei colori definitivi (6). E anche un aerogramma giordano (7) che pubblicizza i siti turistici del Paese ha scelto ancora lo stesso

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

monumento. Ma la «città perduta», come era chiamata prima di essere riscoperta da Johann Ludwig Burckhardt nel 1812, è famosa anche per molti pregevoli manufatti rinvenuti in loco; le Poste giordane hanno raffigurato nel 2007 una scultura (8) e uno dei tanti oggetti di ceramica (9).



calendario

Italia Roma Vetri a Roma

Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12

Affresco con pittura di giardino dalla Villa di Livia a Prima Porta.

Orti e giardini

Il cuore di Roma antica Palatino fino al 14.10.12

roma Marmo, Latte e Biancospino Mostra fotografica

chianciano terme De Chirico Il ventre dell’archeologo Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

Splendori

Giorgio De Chirico, Archeologi con bambino, gruppo in bronzo, da un bozzetto in gesso del 1969.

Capolavori dal Museo Archeologico di Firenze Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

chiusi Ori e gemme del Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.09.12

Il Vaso François

Museo Civico «La Città Sotterranea» fino al 31.10.12 (dal 21.07.12)

La facciata neoclassica del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi.

+110 Allestita nel complesso di Capo di Bove, sull’Appia Antica, la mostra propone un punto di vista originale sul paesaggio archeologico: quello etno-gastronomico. Le immagini, una quarantina, sono ordinate seguendo tre temi, con l’obiettivo di descrivere l’interazione spontanea tra l’uomo e questi luoghi: il paesaggio (Marmo, come idea dell’antichità), la vita rurale e la pastorizia (Latte), il vissuto dei luoghi stessi (Biancospino). La maggior parte delle fotografie è stata scelta nell’Archivio di Antonio Cederna che per lunghi anni ha frequentato questi luoghi, fotografando e raccogliendo immagini su ruderi e paesaggi, sull’avanzamento delle costruzioni della città, con l’intento di denunciare i cambiamenti e le distruzioni a danno di un patrimonio prezioso. Chiude il percorso una foto di scena de La ricotta di Pier Paolo Pasolini (1963), dell’Archivio Fotografico della Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale di Cinematografia, girato sull’Appia (zona Caffarella). Insieme alla foto è riportata una poesia di Pasolini recitata, nel film, da Orson Welles doppiato da Giorgio Bassani, tra i fondatori di Italia Nostra.

dove e quando Capo di Bove Via Appia Antica, 222 Orario tutti i giorni, 10,00-16,00; domenica, 10,00-18,00 Info tel. 06 7806686; www.archeoroma.beniculturali.it asti Etruschi

L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 14.10.12 (prorogata) 20 a r c h e o

Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13 (prorogata)

Guidonia Montecelio (Rm) Archeologi tra ‘800 e ‘900 Città e monumenti riscoperti tra Etruria e Lazio antico Ex Convento San Michele fino al 05.11.12

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13 (prorogata)

montepulciano Una porta sull’aldilà

Dal mondo egizio agli Etruschi Museo Civico Pinacoteca Crociani fino al 30.09.12

piacenza Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

pienza Tular-Tolle

Testimonianze etrusche tra Val di Chiana e Val d’Orcia Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30.09.12

Piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.

Materiali dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

teramo Ashby e l’Abruzzo

Museo Civico Archeologico «F. Savini» fino al 30.09.12

Germania I resti dell’antica Amiternum in una foto di Thomas Ashby.

halle Pompei, Nola, Ercolano

Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 26.08.12

spira Egitto, tesori scoperti

Capolavori del Museo Egizio di Torino Museo Storico del Palatinato fino al 02.09.12

Gran Bretagna Cambridge Alla ricerca dell’immortalità

tivoli Adriano e Antinoo

Tesori dalle tombe della dinastia Han The Fitzwilliam Museum fino all’11.11.12

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12

venafro Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

La testa marmorea dell’Antinoo Farnese.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12

Svizzera ginevra Al calar delle tenebre

lione Il sottosuolo dell’Antiquaille

Arte e storia dell’illuminazione Musée d’art et d’histoire fino al 19.08.12

Reperti da un antico convento Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière fino al 30.11.12

saint-romain-en-gal L’elmo di Agris Quando l’archeologia diventa un fumetto Musée gallo-romain fino al 27.08.12

Strasburgo Un’arte dell’illusione

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Leida Isole degli dèi

I giardini dei faraoni

Parigi I Galli

Musée d’Archéologie nationale fino al 04.09.12

Paesi Bassi Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

Francia

saint-germain-en-laye Il Museo d’Archeologia nazionale e i Galli dal XIX al XXI secolo

Ornamento in giada con maschera animale. Han Occidentali, II sec. a.C.

Una delle tavole realizzate per la storia a fumetti Il vero elmo di Agris.

Prangins Archeologia

Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12

USA filadelfia Maya 2012: signori del tempo University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13

new york L’alba dell’arte egiziana

The Metropolitan Museum of Art fino al 05.08.12 a r c h e o 21


mostra • dal mito alla scienza

storie scritte sull’acqua

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oma, Parigi, Londra… ma poi Venezia, Amsterdam… Ad accomunare la fondazione, piú o meno antica, di queste (e molte altre) città è un elemento che balza agli occhi immediato: l’acqua. Che sia quella di un fiume, di una laguna o di un bacino lacustre, l’acqua ha determinato la nascita di un numero forse incalcolabile di agglomerati urbani. Le motivazioni di volta in volta ipotizzate sono sempre state ricondotte alla possibilità di disporre in quantità praticamente illimitata di un bene essenziale, ai vantaggi stra-

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tegici derivanti dal controllo di una via d’acqua e/o di un guado, ai benefici che potevano scaturire dallo sfruttamento economico di una rotta commerciale disegnata dalla natura e, di fatto, pronta all’uso: ragioni dunque piú che comprensibili, anche a volersi calare con occhi moderni in realtà cronologicamente lontane.

Un fenomeno continentale Eppure, in epoche piú remote di quelle a cui rimandano i casi evocati, ci fu una non minore predile-

zione per l’acqua, in questo caso quella dei laghi, da parte di un numero di comunità umane altrettanto difficile da calcolare. Dall’Olocene (l’epoca geologica che ha inizio intorno ai 10 000 anni fa, all’indomani dell’ultima glaciazione, e nella quale tuttora viviamo) alle soglie della storia, un’amplissima porzione del continente europeo, dalla Scandinavia alla regione alpina, passando per le Isole Britanniche, fu interessata dalla diffusione di insediamenti fatti di case costruite sulle sponde dei laghi e, spesso, nell’acqua stessa.


Nell’inverno tra il 1853 e il 1854 l’europa viene colpita da una breve crisi climatica, che ha tra i suoi effetti l’abbassamento delle acque di molti bacini lacustri. SUCCEDE COSÍ ANCHE PRESSO ZURIGO, DOVE AFFIORA UN misterioso «CAMPO DI PALI» CHE Dà INIZIO A UNA DELLE PIÚ appassionanti AVVENTURE DELL’ARCHEOLOGIA europea... di Stefano Mammini

Abitazioni che hanno preso il nome di «palafitte» e che, ancora oggi, nonostante le ricerche in materia abbiano una storia ormai ultracentenaria, rappresentano uno dei fenomeni a cui spesso si guarda con la convinzione che debba esserci qualcosa di misterioso e inspiegabile in una scelta abitativa all’apparenza cosí bizzarra (anche se poi l’etnografia insegna che strutture palafitticole sono tuttora diffuse in varie regioni del globo, né mancano sperimentazioni architettoniche moderne in materia, come nel caso, per esempio, di alcuni proget-

ti del grande architetto e urbanista francese Le Corbusier).

una delle scelte possibili In realtà, oltre un secolo di ricerche ha dimostrato che non ci sono misteri di sorta, ma che, anche nell’interpretare il fenomeno delle palafitte, si tratta, come sempre, di adottare l’approccio piú adeguato. Lo ha per esempio ribadito, in un’opera recentissima sul tema dell’archeologia dei luoghi umidi (Wetland Archaeology and Beyond, Oxford 2012), Francesco Menotti, il quale scrive: «Le

Due delle opere commissionate nel 1867 dal Consiglio Federale elvetico al pittore Auguste Bachelin (vedi box a p. 24): a sinistra, Villaggio palafitticolo dell’età della Pietra; a destra, Villaggio palafitticolo dell’età del Bronzo. Entrambi i dipinti sono conservati presso il Museo nazionale svizzero di Zurigo.

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mostra • dal mito alla scienza

Un settore del villaggio ricostruito nel Museo delle Palafitte di Unteruhldingen, sul lago di Costanza (Germania), sulla base dei dati ricavati dallo scavo del sito palafitticolo scoperto sul bacino del Federsee.

Palafitte, che passione! Le scoperta del sito di Obermeilen e le ricerche di Ferdinand Keller scatenarono, in Svizzera, una vera e propria «febbre» palafitticola. I ripetuti ritrovamenti che ebbero luogo anche presso altri bacini lacustri furono presentati in occasione di rassegne nazionali e anche nelle esposizioni universali organizzate nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1867 il Consiglio Federale commissionò al pittore Auguste Bachelin (1830-1890) una serie di opere di ambientazione «palafitticola»: ne risultarono quadri che proponevano una visione idilliaca della vita condotta in età preistorica sulle rive dei laghi, quasi una sorta di metafora della giovane repubblica elvetica che si era costituita nel cuore dell’Europa. Quelle suggestive ricostruzioni incontrarono il favore del pubblico, che negli uomini delle palafitte volle vedere gli antenati della moderna Svizzera. E, sulla scia di Bachelin, molti altri artisti si cimentarono con il tema dei villaggi palafitticoli, dei quali reiterarono l’interpretazione in chiave romantica, conferendo loro una popolarità straordinaria.

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In basso: xilografia del 1892 nella quale si ipotizza l’aspetto delle palafitte di cui, nei decenni precedenti, erano stati ritrovati i resti in numerosi laghi della Svizzera, da Der Mensch und seine Rassen di Bernhard August Langkavel.

aree umide furono abitate e/o sfruttate per ragioni diverse, ma, al di là degli scopi per cui fu compiuta una scelta del genere, esse non furono mai considerate come entità isolate. In altre parole, i luoghi umidi furono (e in alcune regioni del mondo ancora sono) una componente importante di un contesto socio-economico e geografico piú ampio, che non può essere compreso se ne vengono esclusi i luoghi umidi stessi e la loro eredità culturale». Palafitte e affini, insomma, non furono una scelta esclusiva, ma rappresentarono una delle soluzioni possibili al problema dell’insediamento.


La storia moderna di questi abitati iniziò nell’inverno del 1853/54: in quei mesi l’Europa continentale fu colpita da una breve crisi climatica, che ebbe tra i suoi effetti un considerevole abbassamento del livello delle acque dei laghi. In uno di essi, quello di Zurigo, nella località di Obermeilen (sobborgo della cittadina di Meilen), il fenomeno portò allo scoperto un «campo di pali», utensili in pietra e frammenti di ceramica. I materiali furono portati al maestro del villaggio, Johannes Aeppli, il quale, a sua volta, segnalò la scoperta all’Associazione Antiquaria della città elvetica (Antiquarische Gesellschaft in Zürich), che diede incarico all’archeologo Ferdinand Keller (1800-1881) di occuparsi del ritrovamento.

l’inizio della «questione» Keller raccolse l’invito con sollecitudine e, nello stesso 1854, pubblicò un dettagliato resoconto delle sue esplorazioni, Die keltische Pfahlbauten in den Schweizerseen, che, oltre a far registrare la nascita del termine «palafitta» (Pfahlbau, da Pfahl, palo, e Bau, costruzione) di fatto, segna l’inizio di quella che potremmo chiamare la «questione palafitticola» e, senza che lo studioso potesse certo auspicarlo, aprí la strada alle fan-

tasiose congetture su come potessero essere organizzati i villaggi del presunto popolo delle palafitte. L’eco della scoperta di Obermeilen fu molto vasta, anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, e, solo per fare un esempio della popolarità incontrata dai «campi di pali», molti artisti, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo si cimentarono con suggestive ricostruzioni (vedi foto alle pp. 22-23 e box alla pagina precedente). Parallelamente, i ritrovamenti compiuti nel lago di Zurigo scatenarono nella stessa Confederazione elvetica, ma, piú in generale, in tutta la regione alpina, una vera e propria caccia al tesoro da parte di scavatori clandestini, che saccheggiarono, devastandoli, numerosi insediamenti: gli utensili e il vasellame tipici delle culture palafitticole divennero infatti assai ambiti da parte di collezionisti, ma, non di rado, anche da parte dei musei, soprattutto in ragione del loro eccezionale stato di conservazione. Fin dall’inizio, infatti, si comprese che le particolari condizioni di giacitura dei siti e dei materiali a essi associati restituivano oggetti altrove introvabili, come, per esempio, arnesi e contenitori in legno o manufatti realizzati con fibre vegetali o cuoio.

A mettere a repentaglio l’integrità dei siti palafitticoli concorse poi un altro fattore: in molti casi, i laghi sui quali erano sorti gli insediamenti si erano, nel tempo, trasformati in torbiere (vedi box a p. 35) e l’estrazione della torba – sfruttata come combustibile e utilizzata anche per la produzione di ammoniaca e fertilizzanti – causò danni ingenti. Danni solo in parte compensati dal fatto che molte delle ricerche archeologiche che hanno interessato i siti palafitticoli presero il via proprio dalla scoperta accidentale di pali e altri materiali venuti alla luce in seguito alle escavazioni compiute dai cercatori di torba (come è accaduto, per esempio, anche per il sito trentino di Fiavé, oggetto della seconda parte di questo articolo; vedi alle pp. 28-39).

solide piattaforme Fin dall’inizio, Keller ipotizzò che quanto era stato recuperato a Obermeilen apparteneva a insediamenti costituiti da abitazioni sospese sull’acqua, poiché i pali che erano emersi nei laghi alpini e «che si trovavano in fitta serie coperti da travi e da tavole formanti una solida piattaforma costituivano la struttura su cui erano state costruite delle abitazioni». Le conclusioni dello studioso sviza r c h e o 25


mostra • dal mito alla scienza

zero erano state in larga misura influenzate dai resoconti dell’ammiraglio ed esploratore francese Jules Dumont d’Urville (1790-1842), che, nel suo Voyage pittoresque autour du monde, aveva descritto e illustrato numerosi villaggi palafitticoli della Nuova Guinea e delle Isole Celebes. La definizione di palafitta era pertanto applicabile a qualunque tipo di costruzione sopraelevata, isolata dall’acqua, in zone lacustri e perilacustri, paludi e torbiere. Questa impostazione del problema fu a lungo e ampiamente condivisa dalla comunità scientifica internazionale e ancora oggi il contributo di Ferdinand Keller, nonostante le numerose revisioni critiche, è considerato una tappa essenziale nello sviluppo delle ricerche sulle palafitte.

Non una, ma tre soluzioni Dopo che Ferdinand Keller aveva stabilito che i resti scoperti a Obermeilen dovessero essere attribuiti a case costruite su piattaforme interamente alloggiate nell’acqua (1), le ricerche successive hanno permesso di stabilire che potevano esservi anche modalità alternative, con strutture «anfibie» (2) o realizzate all’asciutto (3), anche grazie a pali che avevano lo scopo di drenare e consolidare il terreno paludoso. Le diverse tipologie sono riassunte nel disegno pubblicato qui sotto. In alto è invece riprodotto uno dei modellini di palafitta realizzati nel 1866 da Jakob Messikommer e destinato a essere presentato a Parigi, in occasione dell’Esposizione Universale del 1867.

lago

1. case in acqua su

piattaforma sopraelevata (ipotesi keller, 1854)

riva

2. case costruite

presso la sponda (ipotesi reinhert, 1920)

3. case costruite all ’ asciutto (ipotesi paret, 1950)

nell ’ interpretazione corrente i tre modelli possono coesistere , anche all ’ interno del medesimo insediamento

26 a r c h e o

ipotesi alternative Una prima parziale rilettura di quelle teorie si ebbe sul finire del XIX secolo. In Francia, i primi interventi sulla rete idrografica del Giura (1873-1888) causarono un sensibile abbassamento delle acque e portarono a nuove scoperte. La messa a punto di metodi di indagine piú approfonditi e rigorosi aprí la strada a una nuova interpretazione dei villaggi palafitticoli, meno rigorosa ed esclusiva di quella di Keller. Cominciò infatti a diffondersi la convinzione che non fossero esistiti abitati costituiti unicamente da case sospese sull’acqua, ma che l’uomo, in condizioni ambientali particolar i, avesse fatto ricorso, oltre che a capanne di tipo tradizionale, «anche» a palafitte. L’inizio del XX secolo segnò un’altra importante acquisizione. A seguito dello sfruttamento intensivo della torba furono infatti rinvenuti molti nuovi insediamenti, localizzati in torbiere che si erano formate all’interno di antichi bacini lacustri. Keller, che aveva comunque seguito questo nuovo corso, di fronte alla scoperta di intere pavimentazioni di case costruite a livello del terreno e rivestite d’argilla per il focolare, ri-


Una figurina sul tema del lavoro presso i diversi popoli del mondo dedicata alla Nuova Guinea, nella quale, sulla destra, compare una palafitta. A questo contesto culturale si era ispirato anche Ferdinand Keller, la cui ricostruzione delle strutture palafitticole era stata influenzata dai resoconti dell’ammiraglio ed esploratore francese Jules Dumont d’Urville.

tenne di trovarsi di fronte ad abitazioni galleggianti, interpretando i pali conficcati nel terreno non piú come sostegni di piattaforme aeree, ma come ancoraggi per i tronchi che costituivano lo scheletro su cui poggiavano queste costruzioni. Le teorie di Keller cominciarono a essere messe seriamente in discussione negli anni Venti del Novecento, parallelamente all’evoluzione dei sistemi di indagine. Dagli scavi condotti, fra gli altri, da Hans Reinhert a Federsee, in Germania, emerse infatti una ulteriore realtà. In molti insediamenti localizzati sulle rive dei laghi furono infatti individuati resti di palafitte innalzate in zone asciutte.Veniva cosí a cadere il presupposto fondamentale di Keller, quello della palafitta vista come dimora sospesa sull’acqua, e gli studiosi ipotizzarono che queste case poggiassero su una piattaforma lignea per scampare alle possibili inondazioni causate dall’innalzamento del livello delle acque del lago. Qualche decennio piú tardi il quadro si fece ancora piú chiaro e si arricchí di nuovi elementi. Nel 1942, l’archeologo tedesco Oscar

Paret (1889-1972) nel suo Le mythe des cités lacustres aveva considerato come ormai acquisita la nozione dell’esistenza di abitati perilacustri composti da strutture localizzate a livello del piano di campagna. Nel 1951, ricerche compiute a Egolzwil (Lucerna, Svizzera) accertarono la presenza di un villaggio situato sulle rive del lago e formato da capanne direttamente poggianti sul terreno e, nello stesso periodo, gli scavi di Josef Speck al lago di Zug (Svizzera) acquisirono le prove tangibili dell’esistenza di case realizzate su piattaforme di tronchi incrociati tra loro, ma anch’esse ancorate direttamente al suolo.

le diverse condizioni ambientali Un secolo dopo l’affascinante ricostruzione di comunità stanziate in villaggi sospesi sull’acqua, il problema delle palafitte entrava finalmente in una prospettiva piú corretta e meglio documentata dai risultati ottenuti dalle ricerche degli archeologi. E oggi, anche grazie al contributo della New Archaeology (la corrente di studi sviluppatasi dagli

anni Cinquanta del Novecento, che si fonda sull’uso di procedimenti scientifici nella ricerca archeologica), sono state accantonate le controversie su palafitte in acqua e palafitte all’asciutto. Gli studiosi concordano, infatti, nell’accettare il fatto che l’uomo elaborò soluzioni diverse in funzione delle differenti condizioni ambientali, scegliendo di volta in volta la struttura che gli sembrava piú adatta: palafitta in acqua, case su piattaforme aeree all’asciutto o case a livello del terreno sulle rive dei laghi. Rispetto alle drastiche teorie di Keller, il fenomeno degli insediamenti palafitticoli si è arricchito di molte articolazioni e varianti e anche il termine «palafitta» non può piú corrispondere a un solo e unico tipo di struttura. Al di là dell’affinità delle situazioni ambientali – ambienti umidi, aree lacustri o fluviali, ecc. –, ogni abitato è espressione di una scelta ben definita e, sebbene la loro diffusione sia riferibile ad alcune epoche e culture ben precise (Neolitico ed età del Bronzo), gli studiosi hanno a che fare ogni volta con una storia diversa. a r c h e o 27


mostra • il museo di fiavé

un museo per il mito la storia di uno dei piú importanti siti palafitticoli italiani, quello di fiavé-carera, si può ora «leggere» negli spazi di un nuovo e coinvolgente museo

I

naugurato nello scorso aprile, il Museo delle Palafitte di Fiavé, allestito nell’omonimo Comune in provincia di Trento, racconta la storia dell’insediamento scoperto in località Carera alla metà dell’Ottocento, in seguito all’estrazione della torba, e poi indagato con regolari campagne di scavo, guidate da Renato Perini, tra il 1969 e il 1976 (vedi box a p. 34). Già prima di varcarne la soglia, il museo, che ha sede in uno stabile di fondazione cinquecentesca integralmente ristrutturato, si impone all’attenzione del visitatore con una soluzione di forte impatto: in corrispondenza dell’ingresso, infatti, un fascio di pali in ferro evoca il tema della palafitta e, in una coraggiosa commistione fra antico e moderno, fa di questo antico villaggio un emblema, proprio come è accaduto con il gonfalone della cittadina trentina, metà del quale è occupato dall’immagine di una ciotola ritrovata nel corso degli scavi. Le prime sale fanno da introduzione all’analisi del sito di Fiavé e alla documentazione dei materiali in esso recuperati: si può infatti seguire un riepilogo della storia delle ricerche

28 a r c h e o

sulle palafitte, dai primi studi di Ferdinand Keller fino alle ricerche piú recenti, e – in una sezione curata dal Servizio Conservazione della Natura e Valorizzazione Ambientale della Provincia Autonoma di Trento – scoprire in che modo si sia giunti alla formazione del lago su cui sorse il villaggio di Fiavé e che cosa ne abbia poi determinato la trasformazione in torbiera.

toccare non è vietato Fin dall’inizio, è possibile individuare alcune soluzioni che caratterizzano l’intero allestimento: i supporti didattici sono tutti in lingua inglese, oltre che italiana, e si nota la cura riposta nella grafica, che si traduce in pannelli di facile leggibilità e aspetto assai gradevole. Ma, probabilmente, ancor piú interessante è la dimensione tattile del museo: l’invito a toccare è continuo e ripetuto, senza però proporre touch screen o postazioni multimediali, ma suggerendo l’uso di sportelli, cassetti, finestre – con ampio uso di legno – che custodiscono informazioni e approfondimenti sui temi affrontati. Non che manchino i sussidi multimediali, ma si tratta

In alto: Fiavé (Trento). L’ingresso del Museo delle Palafitte. A destra: Fiavé, località Carera. Pali riferibili all’insediamento che, tra il Neolitico e l’età del Bronzo, sorse sulle sponde del bacino lacustre.


perlopiú di filmati, tra i quali merita una menzione quello che propone un documentario RAI degli anni Settanta in cui Renato Perini viene intervistato da uno dei piú autorevoli studiosi della preistoria del Trentino, Bernardo Bagolini. Dopo una sezione dedicata al contributo delle scienze archeometriche alla ricerca archeologica – sedimentologia, palinologia, archeozoologia, paleobotanica, ecc. – viene presentato l’inquadramento topografico del sito. L’antico insediamento, nel quale si succedettero tre villaggi, è collocato nel piú ampio contesto regionale (che, peraltro, comprende anche l’altro importante abitato palafitticolo del Lago di Ledro; vedi box a p. 36), e ne viene illustrata la possibile estensione totale: le

ricerche finora condotte hanno infatti interessato solo una parte dell’area abitata e carotaggi compiuti nella zona hanno provato la presenza di depositi archeologici anche al di fuori dei settori indagati.

dallo scavo al museo In questa sezione è stata anche ricostruita una porzione del cantiere di scavo, per mostrare la specificità delle ricerche in contesti di questo tipo: alla presenza dei pali, infatti, si unisce la ricchezza del deposito archeologico, composto dalle «banali» ceramiche, ma anche, e soprattutto, da reperti in materie prime che solo la giacitura nell’ambiente torboso ha potuto conservare, come il legno o le fibre vegetali. Con la sala successiva, si ha il primo

incontro ravvicinato con l’antico insediamento: una grande vetrina propone, infatti, una selezione di materiali provenienti dalle sette fasi di occupazione del sito di Fiavé, comprese fra il tardo Neolitico (prima metà del IV millennio a.C.) e l’età del Bronzo Recente (metà del XIV-XIII secolo a.C.). In realtà, ci sarebbe anche una ottava e piú antica fase, riferibile al Mesolitico (VII millennio a.C.), ma, per il momento, i dati acquisiti sono troppo scarsi e sembra che i materiali recuperati siano riferibili a un’occupazione di tipo stagionale, piuttosto che a un insediamento stabile vero e proprio. L’associazione tra reperti e fasi è resa chiara ed evidente dai grandi numeri stampigliati sulle vetrine e

a r c h e o 29


dal museo mito di alla fiavé scienza mostra • il

Una realtà diffusa La maggior parte dei siti palafitticoli a oggi noti si concentra nell’Italia settentrionale, come illustra la cartina, che ne indica i principali: 1. Trana; 2. Viverone; 3. Piverone; 4. Mercurago; 5. Lago di Monate; 6. Isolino Virginia; 7. Palude Bardello, Bardello Ranchet, Bardello Stoppani; 8. Ponti o Cazzago-Palude Brabbia; 9. Gaggio-Keller, Desor-Maresco, Bodio Centrale; 10. Lagozza; 11. Lagozzetta; 12. Bosisio Parini; 13. Torbiera Iseo; 14. Lucone; 15. Fornella di S. Felice sul Benaco; 16. Gabbiano di Manerbia; 17. Moniga; 18. Corno di Sotto-Desenzano; 19. Polada; 20. Lavagnone; 21. Barche di Solferino; 22. Bande di Cavriana; 23. Castellaro Lagusello; 24. Isolone del Mincio; 25. Maraschina; 26. Peschiera; 27. Bor di Pacego; 28. Cisano; 29. Ledro; 30. Fiavé; 31. Feniletto; 32. Fimon-Molino Casarotto; 33. Fimon-Fondo Tomellaro. 34. Arquà; 35. Palú di Livenza.

C e n t r a l i

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frequentazione probabilmente stagionale

Fiavé 1 4000-3500 a.C. Tardo Neolitico

capanne a terra e su bonifica della sponda

Fiavé 2 2100-1800 a.C. Età del Bronzo Antico

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Fiavé 3 1800-1650 a.C. Età del Bronzo Antico

palafitte sull’acqua

Fiavé 4 e Fiavé 5 1650-1500 a.C. Età del Bronzo Medio fase iniziale

palafitte sull’acqua

Fiavé 6 1500-1350 a.C. Età del Bronzo Medio, fase avanzata

capanne a terra e palafitte sull’acqua

Fiavé 7 1350-1200 a.C. Età del Bronzo Recente

abitazioni su versante terrazzato

30 a r c h e o

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Mesolitico 7000-6000 a.C.

fase avanzata

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Sette fasi per tre villaggi

fase iniziale

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30 29 Lago di Garda 15 28 14 16 27 17 25 18 20 26 19 23 21 22 24

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Lago Lago di Lugano Lago Maggiore di Como 7 6 12 5 8 9 4 10 11

34 e

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dall’uso di colori guida, uno per ciascun periodo, che ricorrono anche nelle sezioni successive del museo. La lettura dei reperti si svolge su due livelli: accanto agli oggetti, appartenenti a varie classi tipologiche e funzionali, il visitatore non trova le consuete didascalie, ma, a fronte, su un pannello di dimensioni identiche a quelle della vetrina, può trovare sia le definizioni dei materiali, sia approfondimenti sul contesto culturale al quale appartengono i manufatti e la loro certa o probabile utilizzazione. Ciascun oggetto, insomma, si specchia nella sua carta di identità. Nella stessa sala sono state realizzate teche che illustrano le caratteristiche e i possibili impieghi delle materie prime attestate a Fiavé, come per esempio la selce o il legno. E qui, a dimostrazione di come il progetto del museo sia stato pensato come un work in progress, sono stati previsti spazi che potranno essere riempiti da dati e informazioni ricavati dal prosieguo delle ricerche. A questa sezione, animata dal

gioco di pannelli scorrevoli e cassetti, sono associati alcuni grandi «libri» sfogliabili, che ricostruiscono il contesto storico nel quale sorse e si sviluppò l’abitato di Fiavé e ricordano quel che di piú significativo accadeva nel resto dell’Europa e non solo nel medesimo periodo storico.

scene da una palafitta Si entra quindi nel «vivo» della palafitta: le sezioni conclusive del percorso sono infatti introdotte da un grande plastico, che riproduce il villaggio di Fiavé, cosí come si immagina che dovesse essere strutturato nel corso della fase 6 (collocabile in un momento avanzato dell’età del Bronzo Medio, tra il XVI e la pr ima metà del XIV secolo a.C.). Il colpo d’occhio è quello di uno spettacolare «presepe» preistorico. Il plastico, infatti – oltre a caratterizzarsi per l’eccezionale qualità della realizzazione e la cura dei dettagli – si propone come strumento di informazione, efficacissimo, che

rende immediatamente concrete e comprensibili tutte le informazioni fino a quel momento acquisite nel corso della visita. La ricostruzione, inoltre, ha tra i suoi elementi di forza anche la vivacità della rappresentazione: questa sorta di fotografia dell’insediamento non è statica, ma propone un fermo immagine di momenti di vita salienti della comunità, con uomini impegnati nella fabbricazione di pali e tavole, altri intenti alla costruzione di una nuova struttura, altri ancora che stanno uscendo dall’area del villaggio per recarsi al lavoro nei campi vicini… Basta poco, insomma, per convincersi che il plastico rappresenti una realtà di cui l’area del lago di Carera fu senz’altro teatro. Il ricorso alle ricostruzioni, seppur di dimensioni piú contenute, (segue a p. 35) Particolare dei modelli di palafitta realizzati per illustrare le diverse soluzioni architettoniche adottate in questo tipo di insediamenti (vedi anche box a p. 26).


dal museo mito di alla fiavÊ scienza mostra • il


Da sinistra: un grande cesto in vimini ottenuti da rametti di salice, dal villaggio Fiavé 6; contenitori in ceramica (repliche di esemplari originali) con spighe di grano e frutti di corniolo, elementi importanti nell’alimentazione della comunità insediatasi a Fiavé; copricapo in vimini di pino e viburno, che, per la sua eccezionalità, potrebbe essere stato appannaggio di un personaggio eminente del gruppo. In basso: un particolare del grande plastico che ricostruisce il villaggio palafitticolo di Fiavé, illustrando varie scene di vita quotidiana, tra cui la costruzione di una nuova abitazione.


mostra • il museo di fiavé

storia delle ricerche La storia archeologica della palafitta di Fiavé inizia nel 1854, proprio nello stesso anno in cui, in Svizzera, Ferdinand Keller esplorava il sito emerso a Obermeilen, sul lago di Zurigo. Anche in questo caso, la presenza di materiali preistorici viene rivelata da lavori di estrazione della torba dall’area un tempo occupata dal lago Carera. Il primo a rilevarla è don Luigi Baroldi, sacerdote che affianca all’attività pastorale l’interesse per le scienze naturali, il quale lamenta la scarsa attenzione che si dà alla scoperta e il fatto che essa non venga ritenuta di importanza tale da giustificare la sospensione delle attività estrattive. Lo sfruttamento della torbiera, dunque, non si interrompe, e, comunque, una prima notizia ufficiale dell’esistenza del sito di Fiavé viene data da Paolo Orsi, nel Bullettino di Paletnologia Italiana. Finalmente, a quasi un secolo di distanza, l’allora Museo Tridentino di Scienze Naturali (oggi Museo delle Scienze) avvia, nel 1969, le prime ricerche sistematiche, che vengono affidate a Renato Perini (1924-2007), insegnante di scuola elementare, che da tempo si dedicava anche allo studio della preistoria trentina. Le campagne di scavo – che nel 1973 divengono competenza dell’Ufficio Beni Archeologici della Provincia Autonoma di Trento – si protraggono fino agli anni Ottanta e permettono di recuperare una quantità ingente di materiali, riferibili alle sette fasi di occupazione dell’insediamento che vengono distinte. La successione osservata da Perini, ancora oggi ritenuta valida, abbraccia un arco cronologico compreso tra un momento tardo del Neolitico (prima metà del IV millennio a.C.) e l’età del Bronzo Recente (XIII secolo a.C.). In anni piú recenti sono stati eseguiti carotaggi e piccoli saggi di scavo in tutta l’area dell’antico lago Carera, grazie ai quali è stato possibile definire con maggiore precisione l’estensione del bacino lacustre all’epoca del villaggio palafitticolo e individuare altre zone abitate. A oggi, invece, non si hanno indicazioni su dove potesse essere ubicata la necropoli (o le necropoli) riferibili ai tre villaggi.

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In alto: un settore del villaggio palafitticolo di Fiavé 6 al momento dello scavo. La scoperta del sito risale al 1854, ma le prime indagini sistematiche ebbero inizio nel 1969, per iniziativa dell’allora Museo Tridentino di Scienze Naturali e sotto la guida di Renato Perini.


che cos’è una torbiera La formazione di una torbiera è l’esito di un processo innescato dal progressivo interramento di un bacino lacustre o, viceversa, dall’impaludamento di un’area asciutta. Si tratta di un processo molto lungo, che può protrarsi per secoli o anche per millenni e che, comunque, si è registrato a partire dal Quaternario, il periodo geologico che ha inizio intorno ai 2,5 milioni di anni fa e nella cui epoca piú recente, l’Olocene, tuttora viviamo. Il materiale che si forma, la torba (definizione introdotta nel XVI secolo, dal francese tourbe, a sua volta derivato dal francone turba), è il risultato dell’accumulo e della decomposizione di materiali carboniosi, muschi e legname. Una decomposizione che, tuttavia, non è completa in quanto la presenza dell’acqua, di cui il deposito è intriso, determina una carenza di ossigeno che impedisce i processi di ossidazione (e che, dal punto di vista archeologico, è la ragione per cui lo stato di conservazione dei materiali palafitticoli risulta eccezionalmente buono, anche nel caso di oggetti fabbricati con materiali come il legno o le fibre vegetali). Le torbiere sono diffuse specialmente nei Paesi a clima temperato o freddo, in zone di montagna, in aree paludose di fondovalle o allo sbocco di valli alpine, dove le acque hanno un deflusso lento e difficile, oppure si formano lungo le coste, dove l’acqua del mare può stagnare dietro cordoni litorali (come nel caso dei giacimenti dei Paesi Bassi e della Germania). Oltre a essere usata come fertilizzante o come combustibile, la torba ha avuto nel tempo anche altri impieghi: uno dei casi piú noti è quello attestato in Scozia e Irlanda, dove il fumo generato dalla sua combustione viene usato per aromatizzare il salmone o il malto destinato alla produzione del whiskey (che, in questo caso, viene appunto detto «torbato»). Fiavé. La torbiera formatasi in seguito al progressivo interramento dell’antico lago Carera. I resti dei tre abitati palafitticoli sono stati individuati nella zona del piccolo specchio d’acqua indicato dal riquadro. L’area, oltre alla sua rilevanza dal punto di vista archeologico, è un importante contesto paesaggistico e ambientale, protetto anche dal punto di vista naturalistico.

è costante in questa sezione finale del museo e, oltre a numerose scene di vita, comprende anche un riepilogo delle tipologie architettoniche che si ipotizza fossero state elaborate dagli uomini delle palafitte: un raccordo ideale con le informazioni fornite nella sezione introduttiva del percorso, che, finalmente, dà concretezza al dibattito scientifico inaugurato da Keller nel 1854.

il lavoro dei campi Quindi, dopo averne avuto una visione in miniatura, le vetrine raccontano, attraverso una selezione degli oggetti piú significativi, in che modo vivessero e come si garantissero la sussistenza le comunità che si insediarono a Fiavé. Ancora una volta, lo stato di conservazione dei reperti restituiti dal sito permette ricostruzioni puntuali e dettagliate di molti degli aspetti essenziali della vita e del lavoro: ne sono un esempio l’aratro e il giogo da corna riconducibili alla pratica dell’agricoltura. Il giogo, in particolare, è un reperto eccezionale, la cui interpretazione si deve alle ricerche etnografiche svolte tra gli anni Venti e i Trenta del Novecento dall’elvetico Paul Scheuermaier. Questi condusse le sue ricerche dapprima in Svizzera e poi in Italia, documentando pratiche agricole che avevano ancora connotazioni pre-industriali; e, fra l’altro, rilevò l’uso di un giogo, attestato fra Svizzera e Lombardia, che non veniva applicato sulla nuca dell’animale, ma sulle corna. Renato Perini consultò i due volumi che Scheuermaier aveva pubblicato e lí trovò la chiave di lettura per il reperto recuperato negli strati del villaggio Fiavé 5 (collocabile in una fase iniziale dell’età del Bronzo Medio, tra la seconda metà del XVII e il XVI secolo a.C.) e fino a quel momento «misterioso». Gli abitanti delle palafitte del lago Carera erano allevatori oltre che agricoltori e dunque c’è spazio anche per i materiali che documentano le specie allevate, che mostrano la netta prevalenza di capre e pecore. Oltre alle indicazioni su quali fossero a r c h e o 35


mostra • il museo di fiavé Molina di Ledro (Trento). Una delle strutture ricostruite all’esterno del Museo delle Palafitte, sorto in prossimità dell’insediamento scoperto nel 1927 a seguito di un eccezionale abbassamento delle acque del locale lago.

dove e quando Museo delle Palafitte di Ledro Molina di Ledro (TN), via Lungolago, 1 Orario dall’01/07 al 31/08: tutti i giorni, 10,00-18,00; dall’01/09 al 30/11 e dall’01/03 al 30/06: ma-do, 9,00-17,00, lu chiuso; il museo è inoltre chiuso nei mesi di dicembre, gennaio e febbraio Info tel. 0464 508182; e-mail: receptionmtsn@mtsn.tn.it, museo.ledro@mtsn.tn.it; www.palafitteledro.it

i «cugini» del Lago di Ledro Il Lago di Ledro, situato al centro della Valle di Ledro, nel Trentino occidentale, ebbe origine dallo sbarramento operato dalla morena laterale destra dell’antico ghiacciaio del Garda. Nel 1927 le sue acque si abbassarono considerevolmente, per i lavori di costruzione della Centrale Idroelettrica di Riva del Garda, lasciando affiorare decine e decine di pali, in larga misura ottimamente conservati dallo strato torboso nel quale giacevano. Quella vera e propria «foresta» era la prima e spettacolare testimonianza del villaggio palafitticolo che, tra il 1800 e il 1500 a.C. era stato fondato in corrispondenza dell’emissario del lago, su un isolotto di forma triangolare. Al ritrovamento fecero seguito alcuni interventi di scavo, condotti da Ettore Ghislanzoni, ma solo dieci anni piú tardi, nel 1937, Raffaello Battaglia diede avvio alle prime esplorazioni sistematiche. Queste furono intraprese all’indomani di un altro eccezionale abbassamento del livello del lago, le cui acque scesero di 18 m rispetto alla quota abituale. L’area dell’abitato fu ampiamente indagata, riportando alla luce una superficie di oltre 4000 m2, nella quale si concentravano oltre 15 000 pali, di lunghezza spesso compresa tra i 4 e i 5 m. E, come a Fiavé, fu recuperata anche una quantità ingente di materiali archeologici, resti faunistici e botanici. Fra i secondi, spicca, proprio

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come nel caso dell’abitato sorto sul lago Carera, l’abbondanza dei semi di corniolo, che, anche qui, dovevano evidentemente costituire una componente importante della dieta alimentare. Nel 1972, operando una ricca selezione dei reperti, è stato istituito il Museo delle Palafitte, che ha arricchito il sistema di musei satelliti del Museo Tridentino di Scienze Naturali (oggi Museo delle Scienze). Soprattutto negli ultimi anni, il Museo ha dedicato molte risorse ed energie alla divulgazione e all’archeologia sperimentale, con programmi destinati, innanzitutto – ma non esclusivamente –, al pubblico dei piú giovani. E, sfruttando gli spazi esterni alla struttura espositiva, ha affidato una parte significativa del suo messaggio didattico alle ricostruzioni in scala reale di alcune palafitte. In particolare, dal 2006, è stato creato un vero e proprio «quartiere», composto da tre unità, aventi una superficie pari a 11, 15 e 20 m2 e rispettivamente immaginate come ripostiglio, come capanna di un artigiano e come casa vera e propria. Le strutture sono state realizzate seguendo fedelmente i criteri costruttivi attestati dai resti di capanne individuati nel corso degli scavi e piú volte simulati e verificati nel corso delle attività di archeologia sperimentale che il museo svolge regolarmente.


le parti degli animali consumate di preferenza, vengono anche illustrate le molte possibili utilizzazioni delle parti non commestibili come per esempio pelli, lana, budello o corna.

La funzione degli oggetti E qui, come in tutte le sezioni tematiche di queste sale finali, merita d’essere segnalata una delle scelte che piú caratterizzano l’allestimento del museo. La produzione e la conservazione dei cibi, la tessitura, ma anche la fabbricazione di stoviglie o la realizzazione di oggetti di ornamento vengono illustrate attraverso reperti, plastici, disegni, fotografie e… giocattoli. Sí, perché per rendere percepibile la funzione dei materiali esposti o il loro ambito produttivo, sono state inserite, all’interno di piccoli armadi, le moderne versioni in miniatura di piatti, pentole, caraffe, bicchieri o anche frutti e verdure di plastica. Il risultato è efficace, perché, come nel caso del plastico, il messaggio è immediato e, soprattutto, l’uso di modelli che formalmente non hanno nulla a che spartire con i reperti originali permette di cogliere il valore funzionale degli oggetti esposti, senza ingenerare il dubbio che quello potesse essere il loro aspetto reale. In alto: ricostruzione di un accumulo di rifiuti che gli occupanti di una delle palafitte avevano gettato in acqua ed erano andati a depositarsi presso la base dei pali di sostegno della struttura. Qui sopra: vetrina con reperti che documentano le 7 fasi di occupazione nei tre villaggi succedutisi a Fiavé.

Falcetti con lame in selce e immanicatura in legno. Età del Bronzo.

Oltre alla carne, per quel che riguarda l’alimentazione, sono illustrate le specie vegetali piú diffuse, cioè grano e corniolo – quest’ultimo presente in quantità rilevante in tutte le fasi di vita del sito –, e che comprendono perfino l’uva. Le analisi paleobotaniche indicano che quest’ultima era diffusa nell’area dell’insediamento in una forma non domesticata e non si può perciò ipotizzare che le comunità palafitticole praticassero una forma incipiente di viticoltura o, addirittura, a r c h e o 37


dal museo mito di alla fiavé scienza mostra • il

Plastico nel quale sono ricostruite una battuta di caccia al cervo e il pascolo di un gregge di capre e pecore.

sotto l’egida dell’unesco Nel 2011 l’UNESCO ha iscritto nella Lista del Patrimonio dell’Umanità i siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino: si tratta di 111 insediamenti – dislocati in Svizzera, Austria, Francia, Germania, Italia e Slovenia –, scelti per la loro importanza fra gli oltre 1000 a oggi noti. Di questi, 19 sono quelli italiani, distribuiti in Lombardia (Lavagnone, San Sivio, Lugana Vecchia, Lucone, Lagazzi del Vho, Bande, Castellaro Lagusello, Isolino Virginia, Bodio Centrale o Delle Monete, Il Sabbione o settentrionale), Veneto (Belvedere, Frassino, Tombola, Laghetto della Costa), Piemonte (Viverone, Mercurago), Friuli-Venezia Giulia (Palú di Livenza), e Trentino-Alto Adige (Molina di Ledro, Fiavé-Lago Carera). L’istituzione culturale delle Nazioni Unite ha assunto tale decisione per varie motivazioni, a partire dalla scarsa rappresentanza, nel Patrimonio Mondiale, della preistoria, rispetto alla quale le palafitte sono un fenomeno tra i piú appariscenti, molto noto al grande pubblico e, nel contempo, ricco di testimonianze di valore storico. I villaggi palafitticoli sono infatti una delle piú importanti fonti archeologiche per lo studio delle comunità umane europee tra il 5000 e il 500 a.C. Le condizioni di conservazione in ambiente umido hanno permesso la sopravvivenza di materiali organici che contribuiscono in modo straordinario a comprendere il Neolitico, ovvero l’avvento delle prime società agrarie, e l’età del Bronzo, caratterizzata dalla diffusione di tecnologie complesse come la metallurgia e gli scambi su lunga distanza, e, infine, le interazioni fra gruppi umani e territorio a fronte dell’impatto dei cambiamenti climatici.

In basso: resti faunistici appartenenti a varie specie animali. Le analisi archeozoologiche indicano che a Fiavé si allevavano in prevalenza ovini e caprini. Di questi, nonché degli animali cacciati, si utilizzavano per la fabbricazione di utensili e altri oggetti anche ossa e corna.


di produzione vinicola, ma era comunque nota e consumata. Piuttosto, appare plausibile l’idea che un qualche prodotto alcolico, ottenuto per fermentazione, potesse essere ricavato dal corniolo, il che potrebbe spiegarne la già ricordata abbondanza.

la via dell’ ambra Naturalmente, anche a Fiavé non si viveva di solo pane e sono attestate la pratica di attività quali la filatura e la tessitura, nonché la produzione di oggetti di ornamento. In quest’ambito si può peraltro individuare una delle tracce dei rapporti e degli scambi che il sito aveva certamente attivato: fra le materie prime utilizzate compare, infatti, anche ambra di origine baltica che, attraverso scambi verosimilmente indiretti, raggiungeva anche il territorio trentino. E, parafrasando il classico concetto della via dell’ambra, il percorso propone quindi una «via del legno», unendo in un itinerario ideale alcuni dei manufatti

piú rappresentativi, ma anche utensili che, a oggi, non hanno trovato una identificazione certa, come un arnese caratterizzato da una parte concava che potrebbe forse essere una sorta di stampo per il burro, o alcuni bastoni con terminazioni a gruccia, che potrebbero essere parti di «macchine» messe a punto per la filatura o la tessitura. Enigmi, che, in ogni caso, rivelano la straordinaria duttilità della materia prima lignea e, soprattutto, l’evoluzione tecnologica raggiunta a Fiavé da artigiani, falegnami e carpentieri, che seppero dotarsi di uno strumentario capace di offrire le risposte funzionali piú adatte allo svolgimento delle attività produttive praticate nel sito. Corollario «naturale» della tecnologia del legno era quella del metallo, documentata soprattutto dai manufatti in bronzo. Tra di essi sono molto diffuse le asce, prodotte con forme e caratteristiche tecniche adeguate alle diverse tappe di una catena operativa che prendeva le mosse dall’abbattimento degli alberi e si sviluppava, poi, in quella che potremmo definire l’«industria pesante» – votata alla produzione di pali e tavole impiegati nella costruzione delle palafitte – e nell’«attività manifatturiera», che riforniva gli abitanti del villaggio di attrezzi grandi e piccoli, stoviglie o vasellame. In un contesto produttivo che aveva dunque raggiunto una standardizzazione notevole non mancavano, tuttavia, realizzazioni eccezionali, forse dettate dallo status dei loro destinatari, come per esempio accadde per un casco realizzato con vimini di liburno e ramoscelli di pino o per un secchiello in legno il cui fondo fu lavorato separatamente dal corpo del contenitore e poi assemblato attraverso una sorta di cucitura. Come si può dunque intuire dalle testimonianze sin qui ricordate –

che sono solo un campione del ricco patrimonio di cultura materiale della palafitta di Fiavé che il museo documenta –, le comunità umane stanziate sul lago Carera avevano raggiunto un elevatissimo livello di interazione con il territorio e con le sue risorse, accumulando un bagaglio di saperi tecnici che ancora oggi sorprende per la sua ricchezza. Questa simbiosi felice non va tradotta con gli scenari idilliaci immaginati da certe ricostruzioni ottocentesche delle società palafitticole, ma è senza dubbio uno dei tratti distintivi di questa importante realtà archeologica, che nel nuovo museo di Fiavé ha trovato una rappresentazione esemplare. La realizzazione del Museo delle Palafitte di Fiavé è stata curata dalla Soprintendenza per i Beni librari, archivistici e archeologici della Provincia autonoma di Trento. In particolare, al progetto hanno contribuito: Paolo Bellintani (consulenza scientifica e coordinamento), Luisa Moser (didattica), Cristina Dal Rí (restauro e allestimento vetrine), affiancati dalle archeologhe Cecilia Cremonesi, Mirta Franzoi e Ornella Michelon. La ristrutturazione dell’edificio che ospita il museo e il progetto espositivo sono stati curati dall’architetto Franco Didoné, che, per l’allestimento, si è avvalso della collaborazione dello studio di grafica Gruppe Gut. Il plastico e le ricostruzioni si devono all’artista e modellista Gigi Giovanazzi. dove e quando Museo delle Palafitte di Fiavé Fiavé (Trento), via 3 novembre Orario fino al 20/09: ma-do, 10,00-18,00; dal 21/09 al 30/11: sa, do e festivi, 14,00-18,00, negli altri giorni visite per gruppi su prenotazione Info tel. 0461 492161; e-mail: sopr. librariarchivisticiarcheologici @provincia.tn.it; www.trentinocultura.net/ archeologia.asp a r c h e o 39


petra

e l’avventuroso viaggio dello sceicco ibrahim

DUECENTO ANNI FA, NELL’AGOSTO DEL 1812, UN VIAGGIATORE SVIZZERO NASCOSTO IN ABITI ARABI TRADIZIONALI SI INERPICA TRA LE ARIDE MONTAGNE DELL’ANTICA TERRA DI EDOM. ALLA RICERCA DI UNA CITTà MISTERIOSA, DI CUI SI ERA PERSA LA MEMORIA DA SECOLI…

di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

«E

ro particolarmente desideroso di visitare il Uadi Musa, delle cui antichità avevo sentito parlare dalla gente della regione in termini di enorme ammirazione; e quindi la mia speranza era di attraversare il deserto in linea d’aria fino al Cairo; ma la mia guida temeva i rischi di una viaggio nel deserto e insisteva affinché prendessi la via di Aqaba, l’antica Ezion Geber, all’estremità del braccio orientale del Mar Rosso, dove, egli diceva, potevamo unirci a qualche carovana e proseguire il cammino verso l’Egitto. Io, invece, desideravo evitare Aqaba, poiché sapevo che il pascià d’Egitto mantiene colà una nutrita guarnigione per osservare i movimenti dei Wahabiti e del suo rivale, il pascià di Damasco; di conseguenza, una persona come me, proveniente dalle precedenti località, priva di qualsiasi documento che ne mostrasse l’identità o la ragione della scelta di quell’itinerario tortuoso, avrebbe sicuramente suscitato i sospetti dell’ufficiale di comando a Aqaba e gli effetti sarebbero stati per me pericolosi in mezzo alla soldataglia di quella guarnigione». «Il cammino da Shobak ad Aqaba (…) si snoda a est di Uadi Musa; e l’averlo abbandonato per la semplice curiosità di vedere l’uadi sarebbe apparso assai sospetto agli occhi degli Arabi. Rendevo quindi noto di aver fatto voto di sacrificare una capra in onore di Harun (Aronne), la cui tomba sapevo essere situata all’estremità della valle, (segue a p. 44)

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La decorazione della torre circolare al centro del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»), uno dei piú celebri monumenti di Petra. I sec. a.C.I sec. d.C. Le citazioni dal diario di J.L. Burckhardt sono tratte dalla traduzione italiana apparsa nel volume (purtroppo fuori commercio) Viaggio in Giordania, a cura di Luigi Marino, Cierre Edizioni.


Tutte le foto in bianco e nero riprodotte in questo articolo sono state scattate tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento da fotografi della Colonia Americana di Gerusalemme. Si tratta del primo réportage mai realizzato nell’antica città rupestre. Pubblichiamo le immagini in esclusiva per i nostri lettori.

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petra • i luoghi della leggenda

J.L.Burckhardt o Sheikh Ibrahim? Nato il 24 novembre del 1784 da una famiglia di commercianti di Basilea, avviato da giovane alla carriera diplomatica, Johann Ludwig Burckhardt diviene presto un esponente della temperie culturale dell’Europa dei primi decenni dell’Ottocento, ancora impregnata delle conquiste dell’illuminismo. Sono gli anni in cui le potenze europee puntano a conoscere nuovamente il mondo extraeuropeo, alla ricerca di nuove aree d’intervento politico, economico e strategico. Burckhardt studia a Lipsia e Gottinga e, nel 1806 si trasferisce in Inghilterra. All’Università di Cambridge segue corsi di lingua araba, ma anche di astronomia, medicina, chimica e mineralogia. Nel 1809 la African Association accoglie la sua proposta di guidare una spedizione alla scoperta delle sorgenti del Niger. Nel marzo del 1809 giunge a Malta e, da lí, prosegue per la costa del Levante. Inizia cosí la sua vita di esploratore che, tra il 1810 e il 1816, lo porterà ad attraversare le terre del Vicino Oriente, dell’Egitto e dell’Arabia, fino ad allora disertate dai viaggiatori occidentali. Già a Malta abbandona il suo nome per assumere quello, arabo, di Ibrahim Ibn Abdallah, a cui fa precedere il titolo onorifico di «sheikh». E sotto l’identità di sceicco Ibrahim compirà i suoi viaggi che, nel 1814, durante il pellegrinaggio alla Mecca, lo condurranno all’interno stesso della grande moschea: Burckhardt/ Ibrahim diventerà, cosí, il primo europeo a visitare il monumento piú sacro dell’Islam, la Kaaba, di cui stilerà un’accurata descrizione. Muore di dissenteria il 15 ottobre del 1817, al Cairo, dove viene sepolto – secondo le sue volontà – in un cimitero musulmano, dove la sua tomba si trova ancora oggi. Lasciò la sua vasta collezione di manoscritti orientali e tutti i suoi scritti (raccolti in 350 volumetti) in eredità alla biblioteca dell’Università di Cambridge. Il suo diario venne pubblicato, a Londra, nel 1822, con il titolo Travels in Syria and the Holy Land.

Sulle due pagine: le montagne intorno alla valle di Petra. Al centro si riconoscono i resti del Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), uno dei principali santuari della città. In basso, a sinistra: ritratto di Johann Ludwig Burckhardt nelle vesti di sceicco Ibrahim ibn Abdallah.


LIBANO Beirut Mar Mediterraneo

Damasco

A sinistra: cartina del Vicino Oriente con il percorso compiuto, nel 1812, da Johann Ludwig Burckhardt e culminato, il 22 agosto dello stesso anno, nella scoperta di Petra. In basso, nel riquadro: il santuario musulmano con la tomba di Aronne, sul Gebel nebi Harun (la ÂŤmontagna del Profeta AronneÂť).

SIRIA

Lago di Shemskein Tiberaide Tiberiade Soueida Nazareth Daara

Haifa

Erbad Remtha

Beysan Scythopolis Giorda no

Tel Aviv

Boszra Szalkhat

Szalt

Amman

Philadelphia

Gerusalemme

Mar Morto

Madaba

ARABIA SAUDITA

Kerak

ISRAELE

Tafyle Shobak

Petra

Uadi Musa

Maan

EGITTO

Gharendel

Aqaba Golfo di Aqaba

GIORDANIA


petra • i luoghi della leggenda

e con questo stratagemma pensavo d’aver modo di vedere la valle nel mio tragitto verso la tomba. Al che la mia guida non ha saputo eccepire; il terrore d’attrarsi, opponendovisi, l’ira di Aronne lo ha zittito». Inizia cosí il racconto della riscoperta di Petra, luogosimbolo dell’archeologia del Vicino Oriente. Fu scritto esattamente duecento anni fa, il 22 agosto del 1812. In quel giorno, infatti, il giovane esploratore di nazionalità svizzera, Johann Ludwig Burckhardt, giunge nel Uadi Musa, la «Valle di Mosé», a conclusione di un viaggio che da Damasco lo aveva portato ad Amman e, da lí, sul percorso della celebre Strada dei Re, l’antichissima via carovaniera che univa la Siria con l’Egitto e la Penisola arabica. Per motivi di sicurezza – e anche per non destare inutili sospetti – Burckhardt indossa il tradizionale abbigliamento dei beduini e si spaccia per un erudito

44 a r c h e o

islamico, di nome Ibrahim Ibn Abdallah. La sua attenzione si desta quando sente parlare di splendide rovine che sarebbero nascoste nella valle. Ma, ben conscio di non poter esprimere apertamente il suo interesse per quanto era comunque considerata opera di «infedeli», egli escogita lo stratagemma di cui ci narra nel suo diario: fa finta di voler offrire un sacrificio sul Gebel Harun, la «montagna di Aronne», dove, secondo la tradizione islamica (ma anche cristiana) si trova la tomba del fratello di Mosè. È cosí che, accompagnato da una guida locale, egli si incammina in direzione del Gebel, attraversando in lungo le magnifiche e grandiose rovine della città morta, badando bene a non mostrare alcun segno di emozione. Quando il sole sta per tramontare si deve fermare perché la guida, a buona ragione, teme un’ aggressione da parte dei beduini del luogo: troppo diffusa, infatti, è la convinzione che tra le misteriose rovine siano nascosti magnifici tesori. Annota il Burckhardt nel suo diario: «Mi rammarico di non essere in grado di offrire un resoconto esaustivo delle vestigia, ma conoscevo bene il carattere della gente qui intorno: ero indifeso in mezzo a un deserto dove non s’era mai veduto viaggiatore alcuno, e un esame approfondito di queste opere degli infedeli, cosí li chiamavano, avrebbe suscitato il sospetto ch’io fossi un mago in cerca di


perchÉ è importante Litografia di David Roberts (1796-1864) raffigurante l’ed-Deir (il «Monastero»), insieme al Khazne Faraun il piú famoso monumento di Petra. All’artista scozzese si devono numerosi e accuratissimi ritratti di monumenti e città del Vicino Oriente, e di Petra in particolare.

Petra è la testimonianza unica dell’architettura nabatea e di uno straordinario connubio artistico e culturale tra Oriente e Occidente. Le sue imponenti architetture uniscono facciate ellenistiche e romane a elementi tradizionali della cultura nabatea, come i templi e le tombe scavate nella roccia.

La fortuna di Petra si dovette in gran parte anche alla sua posizione strategica lungo la via delle spezie, che la rendeva un punto di passaggio obbligato delle fiorenti rotte carovaniere e mercantili dell’antichità.

La messa a punto di un avanzato sistema di distribuzione idrica permise ai Nabatei di

fare di Petra un giardino rigoglioso nel mezzo del deserto. Per raccogliere l’acqua, gli abitanti utilizzarono i massicci circostanti la città, scavandovi cisterne e vasche che permettevano sia di immagazzinare le rare precipitazioni, sia di captare la rugiada che si condensava sulle rocce. Inoltre grazie a raffinate opere di sbarramento idrico e di canalizzazione, gli ingegneri nabatei riuscirono a creare persino fontane.

il sito nel mito

Petra rimase isolata dal mondo esterno per settecento anni. Dopo la ritirata dei

crociati nel 1189, fu l’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, durante un viaggio in Giordania nel 1812, a sentir raccontare di una città fantasma nascosta nel deserto.

La tradizione vuole che nei pressi di Petra, sul Gebel Harun (la «montagna di Aronne») si trovi il luogo di sepoltura del fratello di Mosè, Aronne. Sulla montagna è anche tramandata la presenza di un tempietto dedicato alla sorella di Mosè, Miriam, che sappiamo essere stato meta di pellegrinaggi ancora nel IV secolo, ma la cui posizione non è mai stata localizzata con certezza. Inoltre, la valle di Petra viene chiamata in arabo «Uadi Musa», cioè «valle di Mosè». Secondo la tradizione, Mosè fece scaturire l’acqua percuotendo con un bastone una di queste rocce.

le vie di Petra ci si imbatte spesso in nicchie in cui si trovano scolpiti i betili, Per ovvero pietre di forma rettangolare dal significato votivo-religioso. Derivano dal culto del dio Dushara, la principale divinità nabatea, venerata nella forma di una pietra nera rettangolare, su cui veniva sparso il sangue dei sacrifici animali in suo onore.

petra nei musei del mondo

ll’interno di Petra si trovano due musei, il Museo archeologico di Petra (Al-Habis) e il A Museo Nabateo, che ne raccontano la storia e conservano reperti emersi degli scavi effettuati nella città e nella regione circostante. Altri reperti sono esposti nel Museo Archeologico di Amman. Una delle maggiori raccolte di arte nabatea è conservata negli Stati Uniti presso il Cincinnati Museum of Art.

informazioni per la visita Aqaba, la città piú vicina a Petra, è collegata all’Italia da voli diretti. Il Visitor Center, situato all’ingresso dell’area archeologica, è dotato di un punto di ristoro e offre anche la possibilità di affittare cavalli, muli o calessi per arrivare piú rapidamente all’imboccatura del Siq. Si possono trovare utili informazioni nel sito dell’agenzia governativa che si occupa di Petra (in inglese) http://www.pdtra.gov.jo/ e si può ammirare una ripresa in diretta del Khazne Faraun all’indirizzo http://www.petralivecam.com/ a r c h e o 45


petra • i luoghi della leggenda

tesori; sarei stato quanto meno trattenuto e mi sarebbe stato impedito di proseguire il viaggio verso l’Egitto, e con ogni probabilità, sarei stato spogliato fino all’ultimo soldo che possedevo e, ciò ch’era infinitamente piú prezioso per me, del mio diario». E prosegue, profeticamente: «I viaggiatori futuri potranno visitare il sito sotto la protezione di una forza armata; gli abitanti si abitueranno maggiormente alle ricerche degli stranieri e le antichità di Uadi Musa saranno allora da annoverare tra i resti piú singolari dell’arte antica». Il giustificato timore che le sue vere intenzioni (nonché la sua reale identità) venissero svelate è ben esemplificato dalla reazione minacciosa cui si abbandona la guida, quando il Burckhardt si avvicina a quello che, in seguito, si rivelerà essere il piú importante santuario di Petra, il Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»): ««Lungo il mio itinerario ero entrato in varie tombe, con sorpresa della mia guida, ma quando mi ha veduto volgere i passi fuori dal sentiero verso il kaszr ha esclamato: “Ora vedo chiaramente che siete un infedele, con qualche compito particolare tra le rovine della città dei vostri antenati; ma non dubitate che noi non sopporteremo che voi portiate via un solo pezzo di tutti i tesori quivi nascosti, perché sono nel nostro territorio e ci appartengono”. Ho risposto che era pura curiosità quella che mi induceva a visitare le antiche opere».

«O Aronne, guardaci» Dopo la visita alle antichità di Uadi Musa (brevissima, in verità, durerà poco piú di una giornata, eppure frutterà una prima descrizione attenta e straordinariamente dettagliata dei monumenti di Petra), Burckhardt procede a compiere il suo «dovere»: in vista della montagna di Aronne sacrifica la capra che aveva portato con sé e, il giorno dopo, lui e la sua guida abbandonano la valle. Ma lasciamo, ancora una volta, la parola al nostro viaggiatore: «Il sole era già tramontato quando siamo arrivati sulla piana; era troppo tardi per raggiungere la tomba ed ero sovraffaticato; perciò mi sono affrettato a uccidere la capra (…) Ero sul punto di sgozzare l’animale, quando la mia guida ha gridato: “O Aronne, guardaci! E per te che sacrifichiamo questa vittima, O Aronne, proteggici e perdonaci! O Aronne, accontentati delle nostre buone intenzioni, perché è solo una magra capra!” (…) Abbiamo poi preparato le parti migliori della carne per il nostro pasto piú in fretta possibile poiché la guida temeva che il fuoco venisse avvistato e attirasse da quelle parti qualche predone». L’episodio sul Gebel Harun segna la conclusione del viaggio di Burckhardt il quale, il 26 agosto, riparte con una carovana composta da «nove persone, me compreso, e circa venti cammelli» in direzione del Cairo, dove giungerà il 4 settembre «senza aver perduto la salute o essermi esposto in modo ravvicinato a pericoli di sorta». Petra, dunque, rappresenta la tappa finale di un 46 a r c h e o

quel che resta di petra Nonostante nel corso della sua lunga esistenza abbia subito terremoti anche violentissimi, sia stato sottoposto all’erosione naturale e a manomissioni da parte dell’uomo (quando a Petra si insediarono i cavalieri crociati, per esempio, usarono le pietre degli antichi edifici per costruire la loro fortificazione), il vastissimo complesso (che include anche il Siq el-Barid, la «Piccola Petra» a nord della città), forse per la sua natura di essere «scolpito nella roccia», figura tra quelli meglio conservati del Vicino Oriente.

il « tesoro del faraone » visto dal siq

i colori della roccia


Tomba di Turkmaniya

Monastero ed-Deir

Forte dei crociati

Tombe del Wadi Mu’Aisireh

Rovine del Villaggio Tombe Sentiero al Umm Al l’altura Biyara

Casa di Doroteo

Tempio dei Leoni Alati

Tomba 731

Biz Mur an a tin e

Uadi Musa

Ua

Tomba di Sesto Fiorentino

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Tomba Corinzia Tomba di Seta Tomba dell’Urna

di

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Tomba di Uneishu

Ua Strada delle Facciate di Mu (Necropoli del Teatro) sa Siq Tomba del Timpano Rotto Tomba 229 Tesoro A Khazneh Tomba del Alto luogo dei Sacrifici Rinascimentale Triclinio Tomba del Tomba del Giardino Soldato Romano Obelischi Tomba 258 Monumento del Leone

Monumento del Serpente

inferiore

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Ninfeo Uad i Mu sa lonnata Cardo M aximus

Strada co

Qasr Al Bint Terme Nabatee Tempio Grande

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Chiesa Bizantina

Perco

Porta del Temenos

Tomba 803 Teatro Romano

Tempio Blu

Altare

Tomba del Palazzo

Colonna del Faraone Az-Zantur

Umm Al Biyara

Wu’Eira (Castello dei crociati)

tà cit lla de a r Mu

Casa dipinta

Gruppo di Tombe del Convento Museo di Al-Habis Tomba incompiuta Colombario

Tombe Cristiane

Torre Conway

Triclinio dei Leoni Tomba dei Leoni

Acquedotto

Mughur An-Nassara

Mercato intermedio Mercato Alto Terrazza Superiore Temenos superiore del Mercato Basso Monumento dell’Aquila Ingresso Diga

Tunnel

Ginn Bab Assiq Tomba del Serpente Tomba dell’Obelisco e Triclinio di Bab As-Siq

Museo

Sentieri pedonali

Tombe Al Madras

Sentieri a gradini

Altri punti di interesse

Sentiero principale

Cappella Obodas

una storia lunga 2500 anni metà del i millennio a.c.

I Nabatei si stabiliscono nelle terre tra i l Mar Morto e il Golfo di Aqaba. Petra

diviene centro commerciale e religioso del loro regno. 312 a.C. Prima menzione di Petra=roccia nelle fonti greche. Fallita aggressione al regno nabateo da parte del diadoco Antigono Monoftalmo. 300-200 a.C. Massima fioritura dell’Ellenismo. I Tolomei regnano in Egitto, i Seleucidi in Siria, Asia Minore e Mesopotamia. 168 a.C.-106 d.C. Si succedono i sovrani nabatei: Areta I (168 circa), Areta II (115-96 a.C.), Oboda I (96-85 a.C.), Rabbel I (85-84 a.C. circa), Areta III (84-62/60 a.C.), Oboda II (62-60 a.C.), Malico I (59-30 a.C.), Oboda III (309/8 a.C.), Areta IV (9/8-40 d.C.), Malico II (40-70 d.C.), Rabbel II (70-106 d.C.). 106 d.C. Occupazione romana. Il regno nabateo viene a far parte della Provincia Arabia. 127 d.C. T. Aninius Sextius Florentinus diventa governatore romano della città sotto Adriano. 131 d.C. Visita di Adriano alla città. 363 d.C. Un documento attribuito a Cirillo, vescovo di Gerusalemme, riferisce di un violentissimo terremoto che, nella

le « tombe reali »

446 d.C. 551 d.C. 636 d.C. 1107 1118-1131 1170-1188 1217 1812 1929

notte tra il 19 e il 20 maggio, aveva colpito tutta la regione della Palestina «da Cesarea a Filippi fino a Petra». La Tomba delle Urne viene trasformata in cattedrale. Un secondo terremoto colpisce la città. Inizio del dominio musulmano e progressiva decadenza della città. Il crociato Baldovino I, re di Gerusalemme, caccia le truppe di Damasco dal Uadi Musa. I crociati sotto Baldovino II si insediamo a Petra e vi costruiscono la loro fortificazione. I crociati abbandonano il Uadi Musa. Il pellegrino Thietmarus visita Petra. Riscoperta di Petra da parte di Johann Ludwig Burckhardt. Inizio dei primi scavi archeologici. a r c h e o 47


petra • i luoghi della leggenda

Dopo il 1812, la riscoperta di una leggenda 1818. I primi viaggiatori sulle orme di Burckhardt sono due inglesi, Charles Leonard Irby e James Mangles. Dall’alto dei 1510 m dello Gebel Harun (sul quale il Burckhardt non era riuscito a salire) i due riconoscono quel monumento che ancora oggi figura tra i capolavori di Petra, ed –Deir, «il Monastero». ● 1828. Il francese Leòn de Laborde, insieme al disegnatore Linant, visitano Petra. A quest’ultimo si deve la prima documentazione iconografica della città riscoperta. ● 1835. Con la conoscenza dell’antica città cresce anche il suo mito: lo studioso francese Étienne Marc Quatremère, autore di una Mémoire sur les Nabatéens, sostiene, sull’onda dell’emozione, che i signori di Petra siano gli eredi di un passato ancora piú grandioso, ipotizzando che essi rappresentino il piú antico ramo della grande stirpe aramaica, che siano loro gli abitanti di Babilonia prima ancora dei Caldei, e che a essi si debba l’invenzione della magia, dell’astronomia, della medicina, insomma, di tutte le scienze, in genere. ● 1836. Lo statunitense reverendo Edward Robinson, considerato il fondatore dell’archeologia biblica, visita la città nabatea. ●

48 a r c h e o

1839. A Petra soggiorna lo scenografo scozzese David Roberts, al quale si devono le celebri litografie colorate che ritraggono i principali siti archeologici vicinoorientali. ● 1840-1875. Studiosi inglesi, francesi e tedeschi visitano, in rapida successione, le rovine di Petra. Tra essi gli esploratori Austen Henry Layard e Charles M. Doughty. ● 1896. Nella città nabatea arrivano gli orientalisti e i padri dominicani Marie-Joseph Lagrange e Louis H. Vincent, dell’Ecole Biblique di Gerusalemme. ● 1896-1907. Un contributo fondamentale all’esplorazione di Petra viene dalle prime ricognizioni topografiche e storico-artistiche condotte da Rudolf Brunow, Alfred von Domaszewski, Gustaf Dalman e Alois Musil. ● 1929. Primi scavi archeologici a opera degli archeologi inglesi George Horsfield e la moglie Agnes Conway. ●

Altare

Qasr al-Bint


viaggio che, nel mese di giugno dello stesso anno, lo aveva visto partire da Damasco alla volta delle terre a est del Giordano e del Mar Morto, e a quelle situate tra quest’ultimo e il Mar Rosso: grossomodo il territorio dell’odierna Giordania. Non fu il primo né l’ultimo viaggio dell’esploratore svizzero; certo, però, fu quello che gli procurò fama mondiale. È verosimile che lo stesso Burckhardt, già in cammino verso nuove avventure (nel 1813, durante un viaggio nel deserto della Nubia, scoprirà i templi di Abu Simbel) fosse consapevole dell’importanza della scoperta. Il giorno 23 agosto, infatti, egli annota nel diario che «confrontando le testimonianze degli autori citati in Reland, Palaestina, [lo studioso olandese Adriaan Reland, 1676-1718, fu uno dei primi orientalisti nonché apprezzato cartografo, n.d.r.] appare altamente probabile che le rovine di Uadi Musa siano quelle dell’antica Petra, ed è significativa l’affermazione di Eusebio secondo il quale Tempio dei Leoni Alati (Tempio settentrionale)

Tempio dei Leoni Alati (Tempio settentrionale)

Uad iM usa Uad iM Temenos usa

Palazzo Reale

Temenos

Palazzo Reale

In alto: le rovine del Tempio Grande, prospiciente la via colonnata, nel centro di Petra. Qui sotto: pianta dei principali complessi monumentali che si affacciano sulla via colonnata di Petra.

Uadi Musa

Porta del temen os

Piccolo Tempio

Terme nabatee

Via Colonnata

Porta del temen os

Uadi Musa

Via Colonnata

Piccolo Tempio

Mercato Basso

Terme nabatee

Mercato Basso

Mercato Intermedio

Mercato Intermedio

Mercato Alto

Mercato Alto

Tempio Grande

Tempio Grande

Zibb Fir‘ün

Nella pagina accanto, in basso: il Qasr al Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), in verità un santuario dedicato alle piú importanti divinità di Petra, Dushara e al-Uzza. Risalente al I sec.d.C., è il piú importante tempio di Petra.

Zibb Fir‘ün

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Ninfeo

Ninfeo


petra • i luoghi della leggenda

la tomba di Aronne era indicata nelle vicinanze di «Dopo aver proseguito per venticinque minuti tra Petra. Da tutte le informazioni che mi sono procu- le rupi, siamo giunti a un sito dove il passaggio rate, almeno di questo sono persuaso, che non esisi slarga e il letto di un altro corso d’acqua stono altre rovine tra le estremità del Mar Morto e del Mar Rosso di rilevanza tale da corrispondere a proveniente da sud si unisce al Siq. Sul lato della quella città. S’io abbia o meno scoperto i resti della rupe a strapiombo, direttamente di fronte allo capitale dell’Arabia Petraea lascio decidere agli stusbocco della valle principale, ha fatto la sua diosi dell’antica Grecia…».

UNA LEGGENDA SCOLPITA NELLA ROCCIA Sono pochi i siti archeologici del Vicino Oriente in grado di suscitare nel visitatore un’emozione pari a quella di Petra, la grandiosa fortezza naturale nascosta tra deserti e aridi rupi a metà strada tra il Mar Morto e il golfo di Aqaba. Scolpita nell’arenaria dal vento, dall’acqua e, infine, dall’uomo, la leggendaria capitale dei Nabatei si sottrae a ogni sbrigativa definizione: è spettacolo della natura e opera dell’uomo, con le sue grandiose formazioni rocciose che si animano al sorgere del sole, colorandosi di grigio, viola e rosa, rivelando le facciate di antiche tombe scolpite, santuari nascosti, colonne crollate. Ancora oggi, quando all’imbrunire i turisti l’abbandonano e le sue rocce vengono avvolte da un silenzio appena interrotto dal gentile soffio del vento del deserto, torna alla mente la descrizione che di Petra diede John William Burgon, uno studioso biblista del XIX secolo: «la città rosso-rosa, antica come la metà del Tempo». Petra – il cui nome greco traduce quello biblico di ha Sela, «la roccia» – sorge sul margine occidentale dell’altopiano arabo, laddove esso si apre alla depressione dello Uadi Araba, il profondo solco che dal Mar Morto conduce al Golfo di Aqaba. Uno spettacolo unico si presenta al visitatore che vi giunge attraverso l’unica via d’acceso, il cosiddetto Siq, una stretta gola tagliata nella roccia, rossastra, corrosa, nervosamente scolpita dalle piogge stagionali, che dal villaggio di Uadi Musa porta al centro della città. Lungo il primo tratto, il Bab es-Siq («la porta della gola»), si incontrano numerose tombe, tra cui i cosiddetti «Blocchi dei Ginn», un gruppo di tre monumenti sepolcrali a forma di torre, databili al periodo di fondazione della città. Poco oltre si trova la Tomba degli Obelischi, sotto la quale si apre il cosiddetto Triclinio barocco – una vera e propria «sala da banchetti» provvista di tre file di letti scolpiti nella roccia – destinato alle commemorazioni del defunto. Quest’ultimo potrebbe essere stato un tale Abd Manku, il cui nome appare in un’iscrizione bilingue – greca e nabatea – sul lato opposto del sentiero. Dopo un cammino di circa un chilometro e mezzo tra le pareti strette e alte, talvolta fino a 70 m, del Siq appare, tutto a un tratto, il piú straordinario monumento di Petra, il Khazne Faraun, il «Tesoro del Faraone», la cui facciata, alta quasi 40 m, è interamente scolpita a rilievo nella roccia. Non si conosce l’esatta funzione 50 a r c h e o

comparsa un mausoleo rupestre, la cui posizione e la cui bellezza sono concepite per suscitare un’impressione straordinaria sul viaggiatore dopo quasi mezz’ora di attraversamento in un simile paesaggio, tetro e pressoché sotterraneo. Tra le antiche rovine esistenti in Siria, queste si annoverano tra le piú mirabili; il loro stato di conservazione sembra quello di un edificio ultimato di recente e a un esame piú approfondito le ho riconosciute quale frutto d’immenso travaglio… Gli indigeni designano questo monumento con il nome di Kaszr Faraoun, castello del Faraone, e sostengono che fosse la residenza di un principe» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)

Due vedute del Khazne Faraun (il «Tesoro del Faraone»), fotografato nei primi anni del Novecento. Da notare, nell’immagine qui sopra, il particolare del rilievo raffigurante un cavaliere, situato nella nicchia a destra dell’entrata (non visibile nella foto della pagina accanto).


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petra • i luoghi della leggenda

«Circa cinquanta passi sotto l’ingresso del Siq un ponte a una campata gettato sulla cima della fenditura è ancora intatto: subito al di sotto, su entrambe i lati, ci sono ampie nicchie scavate nella roccia, con eleganti sculture, destinate probabilmente ad alloggiare delle statue…» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)

L’ingresso al Siq in una litografia di David Roberts (1796-1864) e, qui sopra, in una foto di Eric Matson. Quando Roberts fece il suo disegno era ancora intatto il ponte di cui riferisce Burckhardt nel suo diario.

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Alcune tombe di Petra cosiddette «di tipo Hegra» (dal nome antico del sito nabateo di Mada’in Saleh, nell’odierna Arabia Saudita) caratterizzate dalla presenza di gradoni e coronate da merlature.

del «Tesoro», ma si ritiene che il grande mausoleo fosse la tomba del re nabateo Areta III, vissuto nel I secolo a.C. Il Khazne Faraun deve il suo nome a una tradizione locale secondo cui nella grande urna scolpita e posta a coronamento dell’edificio è contenuto un immenso tesoro. Fino a non molto tempo fa, i beduini di passaggio a piedi o a cavallo usavano sparare sull’urna posta a una quarantina di metri d’altezza, nella speranza di spezzarla e di ricavarne il tesoro. Il Khazne è sicuramente il piú appariscente dei monumenti di Petra, ma non è il solo. Procedendo lungo il cosiddetto Siq esterno in direzione del centro cittadino, dopo poco piú di 500 m si apre la vallata e lo sguardo del visitatore è catturato da un altro spettacolo architettonico: il Grande Teatro, con le sue scalinate interamente scolpite nella roccia rossa, e i resti del fronte scena di cui oggi rimane poco piú di qualche colonna. Costruito durante il regno di Areta IV (tra il 4 a.C. e il 27 d.C.), l’edificio poteva ospitare dai 7000 ai 10 000 spettatori, circa un terzo dell’intera popolazione di Petra.

per gli dèi di petra Un centinaio di metri prima di giungere al teatro si incontra, sulla sinistra, un ripido sentiero a scalini che conduce a uno dei piú importanti luoghi di culto di Petra, la Grande piattaforma cerimoniale in cima al Zibb Atuf, una vetta rocciosa che sovrasta la città antica dal versante sud. Sulla spianata sorgono ancora oggi due obelischi di 6 m d’altezza. Le stele erano state probabilmente erette in onore delle divinità nabatee Dushara e al-Uzza. Da identificarsi con il cielo (forse addirittura con il sole) e con la stella mattutina, le due divinità, assimilate dai greci a Zeus e Venere, occupavano il primo posto all’interno del pantheon della religione astrale dei popoli arabi preislamici. In prossimità delle stele si trova l’area sacra vera e propria, una corte rettangolare, scolpita nella roccia, al cui interno si erge una struttura a forma di cubo, anch’essa scolpita nella roccia, e alla quale si

accede mediante tre gradini: si tratta di un altare sacrificale, tipico dei santuari a cielo aperto delle popolazioni semitiche nell’antica Arabia. Dal teatro si accede al fondovalle che raccoglie le rovine della città vera e propria. Lungo la parete del massiccio roccioso che delimita a est la città si sussegue la serie delle cosiddette «tombe reali» (ma tale denominazione, suggerita dalla grandiosità dei monumenti, risale all’età moderna): la Tomba dell’Urna , la Tomba della Seta, la Tomba Corinzia e la Tomba del Palazzo. In posizione isolata è la Tomba di Sesto Fiorentino, governatore romano dell’Arabia morto nel 128 d.C. A ovest delle tombe reali, nella spianata percorsa in

nella terra di edom Dal racconto biblico sappiamo che, prima dei Nabatei, l’area era abitata dagli Edomiti, discendenti di Esaú (il fratello di Isacco) e, dunque, parenti lontani di Mosè. Noto è l’episodio dell’Esodo, narrato nell’Antico Testamento, in cui il patriarca chiede al suo «fratello», re degli Edomiti, di poter attraversare con il suo popolo il territorio di Edom, e riceve risposta negativa. Ora, le vicende dell’Esodo sono tradizionalmente datate intorno al XIII secolo a.C., ma le testimonianze archeologiche negano che, nella terra di Edom di quell’epoca, vi siano stati insediamenti stabili o, come vorrebbe il racconto biblico, veri e propri «regni». Archeologicamente parlando, i primi insediamenti degli Edomiti compaiono – non solo a Petra ma in tutta la terra denominata, appunto, Edom – intorno al VII secolo a.C. L’avvento dei Nabatei, dunque, si colloca nei secoli successivi. Gli studiosi concordano sul fatto che la loro penetrazione nell’ex terra degli Edomiti non sia avvenuta in maniera repentina quanto, piuttosto, come a una lenta e progressiva infiltrazione, durata parecchi decenni, se non secoli.

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petra • i luoghi della leggenda

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«Sotto il profilo della difesa, la posizione di questa città venne ben scelta, poiché poche centinaia di uomini potevano difenderne l’accesso contro un grande esercito; ma le comunicazioni con i dintorni dovettero essere soggette a grandi inconvenienti (…) Oltremodo opprimenti dovevano essere i caldi estivi, essendo il sito attorniato su tutti i lati da alte e nude rupi che concentrano il riverbero del sole, mentre impediscono ai venti occidentali di rinfrescare l’aria... La sicurezza fu quindi probabilmente l’unico obiettivo che indusse la popolazione a passar sopra a tali obiezioni e a scegliere un’ubicazione cosí singolare per una città» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822) direzione est-ovest dallo Uadi Musa («il ruscello di Mosè»), si estende il centro cittadino, costruito secondo i dettami della polis greco-romana: ai lati della grande Via Colonnata vi sono i Mercati, il Ninfeo e un’ampia area sacra. Sul lato nord si possono ammirare i resti di uno dei piú bei santuari della città, il Tempio dei Leoni Alati, cosí chiamato dalle sculture che, in origine, decoravano i capitelli del doppio colonnato del tempio. Infine, al termine occidentale della Via Colonnata si incontra il piú importante tempio di Petra, risalente al I secolo d.C.: il Qasr al-Bint Faraun (il «Palazzo della Figlia del Faraone»), in verità un santuario dedicato a divinità nabatee. Poco oltre il Qasr al-Bint, una ripida salita (circa un’ora di cammino in direzione nord-ovest) conduce in cima al Gebel ed-Deir (il «Monte del Monastero»), dove si trova un altro capolavoro monumentale di Petra, chiamato ed-Deir, il «Monastero», per le croci incise in cima alla roccia da monaci del IV-V secolo. Il «Monastero» regge bene il confronto con il primo edificio incontrato all’inizio del nostro itinerario, il

A sinistra: una tomba scolpita nella roccia a el-Barid, la «piccola Petra» situata a nord della città. A destra: un monumento funerario nabateo lungo il percorso verso il Gebel Harun, la «Montagna di Aronne».

I NABATEI NELLE FONTI GRECHE Un resoconto dello storico del I secolo a.C. Diodoro Siculo – che, a sua volta, cita quanto osservato in prima persona da un tale Ieronimo di Cardia – riporta la cronaca di uno scontro militare tra Greci e Nabatei. Nel 312 a.C., il generale Atenaio, al servizio di Antigono Monoftalmo – il piú importante dei diadochi che, dopo la morte di Alessandro Magno, regnava sulle terre dell’Asia Minore e della Siria –, attaccò Petra con 4000 soldati e 600 cavalieri. I beni della città – 500 talenti d’argento e una grande quantità di incenso e mirra – vennero

saccheggiati. In seguito, però, i Nabatei attaccarono nottetempo l’accampamento nemico, sconfiggendolo. Narra Diodoro Siculo che essi, consapevoli della superiorità militare dei Greci, inviarono una missiva a Antigono, offrendo di deporre le armi. La nota era redatta in aramaico, la lingua franca dell’epoca. Contrariamente a questa caratterizzazione, per cosí dire, «colta», nelle testimonianze di Diodoro Siculo i Nabatei sono semplicemente chiamati «Arabi» che vivono all’aperto, non

conoscono né case, né l’agricoltura, ma allevano cammelli e piccoli animali domestici e, soprattutto, si occupano del trasporto di sostanze aromatiche, dalle terre dell’«Arabia Felix» alla costa mediterranea. All’epoca in cui si era verificata la campagna di Atenaio, dunque, i Nabatei erano ancora una tipica popolazione nomade, fortemente radicata nelle tradizioni e nei modi di vita che erano loro propri prima che giungessero nella terra che oggi corrisponde alla Giordania meridionale, l’antica terra di Edom.

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«Tesoro del Faraone». Dalle dimensioni assai maggiori (è alto 45 metri e largo 50) il monumento, dietro alla cui facciata si nasconde un’ampia sala con un altare, verosimilmente riuniva in sé la funzione di sepolcro regale e di luogo di culto. A Occidente, la vallata che ospita il sito di Petra è chiusa da un imponente masso roccioso, alto piú di 1200 m, il Umm el-Biyara. Ai piedi della montagna, su un terrazzamento di terreno leggermente rialzato rispetto al fondovalle del cardo, si trovavano, molto probabilmente, i quartieri abitativi della città. Ma la questione intorno all’architettura domestica dei Nabatei è assai controversa e rappresenta uno dei numerosi «misteri» archeologici ancora irrisolti di Petra. L’antica città, infatti, presenta ancora moltissime zone d’ombra che riguardano la ricostruzione del suo assetto urbanistico, la definizione dell’effettiva estensione raggiunta nel periodo di massima fioritura e, appunto, la questione delle abitazioni: queste erano semplicemente costituite dalle tipiche tende delle popolazioni nomadi del deserto o, nella «citta della roccia» vi erano anche case in pietra? E quale peso si deve dare all’affermazione dello storico Diodoro Siculo quando dice dei Nabatei che «presso di loro è proibito seminare il grano, piantare alberi da frutto, bere il vino e costruire case; tutto ciò è punito con la pena di morte»? Anche se il Burckhardt afferma di aver «attraversato le rovine di abitazioni private», soltanto in questi ultimi anni stanno venendo alla luce i primi riscontri archeologici. Sulla base delle piú recenti scoperte si è fatta strada la seguente ipotesi: ancora nel tardo II secolo a.C. e nei primi decenni del I secolo a.C., le case degli abitanti di Petra non sarebbero state altro che ampie tende erette su piattaforme di Stele votiva (betilo) con raffigurazione di una divinità nabatea, dal Tempio dei Leoni Alati di Petra. Amman, Museo Archeologico.

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pietra appositamente costruite mentre, contemporaneamente, avrebbero fatto la loro apparizione le prime abitazioni in pietra.

UNA CULTURA ELLENISTICA ALLE PORTE DELL’ ARABIA Il Vicino Oriente ellenizzato non nasce come espressione diretta e immediata della conquista di Alessandro (il quale, tra l’altro, attraversò l’Eufrate, il Tigri e l’Indo, ma mai il Giordano!), quanto, piuttosto, come l’esito di un lungo processo di compenetrazione. Nella terra dell’antica Palestina e della Transgiordania, questo articolato processo vede la partecipazione di numerosi gruppi, prime fra tutti le due contrapposte potenze ellenistiche, quella dei Tolomei, con la loro capitale Alessandria, e quella dei Seleucidi, con la capitale Antiochia, sull’Oronte (l’odierna Antakya). Durante i due domini ellenistici, il greco viene introdotto come lingua ufficiale, anche se l’aramaico rimane la lingua parlata da tutti. Il dominio delle signorie ellenistiche, però, appare piú formale che sostanziale, tanto che esso permette l’affermarsi di significative e autonome entità politiche e culturali: in Palestina, il Giudaismo si divide in una metà «filoellenica» e in un’altra fortemente tradizionalista e religiosa, contrapposizione che sfocerà nella rivolta antiellenica dei Maccabei e nella nascita di un nuovo regno indipendente ebraico, guidato dalla dinastia degli Asmonei. In Transgiordania, invece, le terre una volta appartenute a Edomiti e Moabiti verranno occupate dai Nabatei. Nel periodo della loro massima fioritura economica e culturale (un periodo che, con un po’ di approssimazione, possiamo collocare tra il III secolo a.C. e il I-II secolo d.C.), essi costruiranno la

LE PIETRE DIVINE E LA RELIGIONE DEI NABATEI Una stele scolpita a rilievo e posta all’interno di una piccola nicchia rettangolare, simile a una finestrella: è forse questa la piú elementare rappresentazione della religiosità nabatea. Stele di questo tipo, chiamate «betili» secondo l’espressione aramaica BethEl (che significa «la casa di Dio») se ne trovano

numerose lungo le pareti rocciose di Petra. Lo stesso dio Dushara, il piú importante del pantheon nabateo, risiedeva in una pietra, anzi, veniva venerato in forma di pietra nera posta su un piedistallo d’oro. Talvolta le nicchie contengono due o piú betili di diversa altezza, spesso addirittura un intero gruppo.

Tali «famiglie» di betili rappresentano forse varie personificazioni di una stessa divinità o, piú verosimilmente, un consesso di divinità, guidato dal dio Dushara. Sono relativamente frequenti le rappresentazioni di una coppia di betili. Una variante non frequentissima è quella dei betili raffiguranti un volto umano molto stilizzato.


Veduta generale (qui sopra) e un particolare architettonico di ed-Deir (il «Monastero»), l’imponente facciata monumentale scolpita nella roccia dello Gebel ed-Deir, un promontorio che domina la valle di Petra. L’edificio, forse un mausoleo commemorativo dedicato al re Oboda I o all’ultimo re nabateo, Rabbel II, raggiunge un’altezza di circa 40 m.

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petra • i luoghi della leggenda

«Le pendici dei monti in prossimità dell’abitato sono costituite da terrazze artificiali coperte di campi di grano e frutteti. Sono irrigate dalle acque dei due ruscelli e di molte sorgenti piú piccole che scendono nella valle sotto Eldjy [il villaggio principale di Uadi Musa] dove pure il terreno è ben coltivato. Alcuni conci in pietra piú grandi, dispersi accanto all’attuale cittadina, segnalano la precedente esistenza di un’antica città in questo sito, la cui felice posizione dovette attrarre abitanti in tutte le epoche» (J.L.Burckhardt, Travels in Syria and the Holy Land, London, 1822)

Una cascata nei pressi di Petra, in una ripresa della fine dell’Ottocento.


loro capitale Petra, dando vita, cosí, a uno dei piú grandiosi complessi monumentali del mondo. L’origine dei Nabatei, popolo che per quasi un millennio esercitò il proprio predominio economico, politico e culturale nelle terre desertiche della Giordania meridionale e del Negev, è ancora incerta e oggetto di diverse ipotesi.Verso la metà del I millennio a.C., probabilmente, popolazioni provenienti dalla Penisola arabica (le cronache assire dell’VIII-VII secolo a.C. parlano di tribú nomadi denominate «Nabatu») giunsero nella terra tra il Mar Morto e il Golfo di Aqaba, sospingendo verso nord-ovest gli Edomiti. Ma chi, esattamente, erano questi «Nabatu» e dove, precisamente, era la loro terra di origine? È accertato che, in epoca persiana, tribú nomadi forse provenienti dall’odierno Yemen o dall’Arabia nord-orientale entrarono nell’antica terra di Edom, già distrutta, nel 552 a.C., dal re neobabilonese Nabonedo. Una penetrazione che, lo affermano i risultati degli scavi archeologici, è avvenuta in maniera pacifica: non vi sono, infatti, tracce di distruzioni e, addirittura, è dimostrata una continuità nella tecnica e nello stile della produzione di ceramica. Inoltre, i Nabatei assunsero all’interno del loro pantheon una divinità tribale edomita, il dio Qaus. I Nabatei, dunque, si configurano come gli eredi degli Edomiti e assumono, al loro posto, il controllo della famosa «Via dell’Incenso».

padroni di un territorio sconfinato Sin dalla metà del II secolo a.C., e partendo da una condizione di società nomade e tribale assai simile a quella degli odierni Beduini, essi diedero luogo a un vero e proprio Stato autocratico con, a capo, la figura di un re. Nel periodo della massima fioritura il loro regno si estendeva da Damasco, a nord, fino alla regione dell’odierna Mecca, nella Penisola arabica. Un territorio vastissimo, ai confini tra Asia e Africa, tra Mediterraneo e Mar Rosso, che metteva i Nabatei in diretto contatto con le diverse civiltà che li circondavano, quella degli Egizi e dei Fenici, degli Aramei, degli Ebrei e dei Greci. Da esse assunsero numerosi elementi, tra cui la scrittura aramaica (e aramaica era, verosimilmente, anche la loro lingua) e il sistema amministrativo, modellato su quello dei Greci. I Nabatei divennero il piú ricco e potente tra i popoli nomadi dell’Arabia. Una ricchezza che traeva origine proprio dalla particolare situazione geo-strategica del loro territorio, attraversato dalle piú importanti vie commerciali dell’antichità: la Via dei Re, che collegava l’Egitto con la Siria, e la Via dell’Incenso, che dall’Arabia meridionale conduceva fino a Gaza, sul Mediterraneo. Tutto il commercio nell’ambito siro-arabo-palestinese era costretto ad attraversare il territorio dei Nabatei, e questi ne trassero vantaggi enormi. Sembra che, almeno nei primi decenni del loro regno, i Nabatei intrattenessero buoni rapporti con i loro di-

retti vicini, primi fra tutti gli Ebrei. Ma l’amicizia tra le due popolazioni si incrinò intorno all’anno 100 a.C., quando Alessandro Ianneo, re della dinastia degli Asmonei, occupò la città di Gaza con il suo importante porto nabateo. Nel 65 a.C. i Nabatei furono addirittura i protagonisti di un assedio alla città di Gerusalemme, interrotto dall’avvento del generale romano Pompeo. Nell’anno 24 a.C., l’imperatore Augusto incaricò il suo comandante Elio Gallo di procedere all’esplorazione e alla conquista dell’Arabia Felix, la mitica terra (l’odierno Yemen) da cui, lungo la via carovaniera controllata dai Nabatei, giungevano gli aromi e le spezie che, a Roma, erano ormai diventate richiestissime. L’iniziativa si risolse in un sostanziale fallimento e il commercio delle spezie via terra restò nelle mani dei Nabatei, fino alla metà del I secolo d.C. circa, quando il potere dello Stato carovaniero incominciò a incrinarsi. In seguito alla fallita missione in Arabia Felix, Augusto decise di inaugurare un nuovo modo per approvvigionarsi delle preziose sostanze, puntando però sul trasporto marittimo, meno rischioso, piú economico e veloce. Lo spostamento del commercio delle spezie a favore di Roma rappresentò un duro colpo per i Nabatei e, in un certo senso, segna l’inizio della loro decadenza. È sorprendente, però, che proprio sotto il segno di una condizione economica divenuta all’apparenza piú precaria, inizi il periodo di massima fioritura del regno nabateo. Sotto Areta IV (9 a.C.-40 d.C.), il dominio dei Nabatei si estende da Hegra (in Arabia Saudita) al sud, fino a tutto il Negev, a nord. Numerosi e splendidi monumenti, tra cui il famoso Khazne Faraun a Petra, testimoniano di un grande fervore delle attività artistiche e culturali. Nel 106 d.C., quando Traiano annette il regno nabateo e crea la Provincia Arabia, il passaggio sotto l’egida dell’impero avviene senza grandi resistenze. Avraham Negev, uno dei maggiori archeologi della civiltà nabatea, descrive cosí i secoli che seguono: «Durante tutto il II secolo d.C. e per buona parte del III, l’intera provincia, inclusi i distretti un tempo appartenuti ai Nabatei nel Negev centrale, godettero di una fioritura economica e artistica che, per certi versi, superò quella del periodo dei grandi regni nabatei di Oboda II e di Areta IV». Ciononostante, con la perdita dell’autonomia politica viene lentamente meno anche quella dell’identità nazionale e, diremmo oggi, etnica dei Nabatei. Sul piano religioso, per esempio, il pantheon nabateo si adegua a quello del culto grecoromano e, successivamente, si dissolve nel cristianesimo. A partire dalla metà del III secolo, infine, la civiltà dei Nabatei vivrà soltanto nel ricordo dei suoi grandiosi monumenti. nel prossimo numero

verghina

il tesoro dei re macedoni a r c h e o 59


eventi • palazzo branciforte

Miracolo a

Palermo

Dopo un impegnativo e affascinante restauro si è inaugurato Palazzo Branciforte, un nuovo polo archeologico e culturale al centro della città

di Andreas M. Steiner

A sinistra: la facciata di Palazzo Branciforte, edificio cinquecentesco, sede della Fondazione Sicilia, a Palermo. Nella pagina accanto: uno scorcio dei magazzini dell’antico Monte dei Pegni di Santa Rosalia, in cui era stato trasformato il Palazzo agli inizi dell’Ottocento.

D

a oggi, chiunque si rechi a Palermo per visitare Palazzo dei Normanni, la Cappella Palatina, la Cattedrale o i numerosi altri gioielli monumentali di questa città, potrà prendere gioiosamente atto della presenza di un nuovo polo di riferimento culturale – archeologico e non solo – situato nello

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stesso centro cittadino, a pochi passi dal venerando Museo archeologico regionale «A.Solinas» (sfortunatamente chiuso al pubblico dall’estate del 2011, a causa degli ormai improcrastinabili lavori di ristrutturazione dell’edificio). Ci riferiamo a Palazzo Branciforte, in via Bara all’Olivella, un palazzo patrizio acquisito nel

2005 dalla Fondazione Banco di Sicilia (oggi Fondazione Sicilia). Nel 2008 la Fondazione, sotto la guida del suo presidente Giovanni Puglisi, affidò il restauro dell’enorme edificio allo studio dell’architetto Gae Aulenti.

«unico al mondo» I lavori si sono conclusi nella primavera di quest’anno e, da maggio, il Palazzo è aperto al pubblico, ponendosi come il luogo d’incontro per eccellenza della cultura palermitana e, perché no, di quella internazionale (oltre a rappresentare un elemento catalizzatore – per citare le parole dei protagonisti di questo grandioso lavoro – in vista del «recupero urbanistico dell’antico “Quartiere della Loggia”, riprendendo e ridando centralità a una zona di Palermo, ricca di bellezze e beni culturali ma infestata da una qualità della vita sempre piú degradata dall’abbandono civico e dall’incuria umana»). Prima, però, di approfondire gli aspetti di interesse propriamente archeologico, vale la pena di rievocare la storia di questo edificio per sottolinearne un aspetto


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eventi • palazzo branciforte

LE ALTRE COLLEZIONI DI PALAZZO BRANCIFORTE A Palazzo Branciforte sono riunite ed esposte tutte le collezioni artistiche della Fondazione Sicilia: la Collezione filatelica, numismatica, dei bronzi e, infine, la Collezione della stampe e dei disegni, delle maioliche e la Biblioteca del Banco di Sicilia. Troverà anche spazio e visibilità l’eccezionale Archivio Giuseppe Spatrisano, allievo di Ernesto Basile, uno dei padri del Liberty palermitano, e protagonista della vita culturale e urbanistica di Palermo della seconda metà del secolo scorso, vicino alla preziosa Biblioteca di Franco Restivo, donata alla Fondazione dalla Famiglia. Le collezioni numismatica e filatelica Al primo piano del Palazzo sono esposte le collezioni di monete siciliane medioevali e moderne, testimonianza della continuità della coniazione in Sicilia, dagli Aragonesi fino ai Borboni, e una collezione filatelica comprendente anche rari documenti postali. La prima presenta numerose monete in oro, argento e bronzo

La Sala dei Bronzi del Palazzo. In primo piano, le opere moderne di Mercurio e Diana Cacciatrice dello scultore Nino Geraci (1900-1980).

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dall’età piú antica, fra il VI secolo d.C. e l’età angioina, e l’anno 1836, in pieno periodo borbonico. Nella collezione filatelica spiccano le prime emissioni di francobolli del Regno delle Due Sicilie, che ebbero regolare corso dal 1858 per il Regno di Napoli e dal 1° gennaio del 1859 per il Regno di Sicilia. Le sculture e gli affreschi su pannello Un’area sempre al primo piano ospita cinquantacinque sculture, appartenenti all’Ottocento e al Novecento. Fra queste, celebri bronzi di Pasquale e Benedetto Civiletti, di Antonio Ugo, di Ettore Cumbo, di Jaroslav Horejc, di Giacomo Manzú, di Edouard Drouot, di Giacomo della Giustina e di molti altri autori, oltre a marmi, cere e terrecotte. Di grande prestigio, inoltre, gli otto affreschi su pannello dell’artista seicentesco Gaspard Dughet che si possono ammirare negli spazi al pianterreno antistanti l’Auditorium Branciforte, ovvero una sala conferenze tecnologicamente all’avanguardia.


La Biblioteca e i fondi archivistici La biblioteca comprende oltre 50 mila volumi. Una ricca sezione è quella dedicata alla storia della Sicilia, alla Storia dell’arte, alla Numismatica e all’Archeologia, comprendente circa 10 000 volumi. Nella grande sala di lettura del primo piano (il cui soffitto è decorato da un affresco di Ignazio Moncada di Paternò) si possono consultare enciclopedie, annuari, dizionari, ma anche periodici, miscellanee e monografie su argomenti vari. Il Fondo librario antico della biblioteca è costituito da molte pubblicazioni stampate dal 1501 al 1830. Altri due fondi di notevole importanza documentaria e storica sono Il Fondo Restivo (che, donato dagli eredi di Franco Restivo, illustre uomo politico e professore universitario siciliano, consta di circa 8000 volumi dedicati alla Sicilia ma anche alla storia, al diritto, all’arte, alla filosofia e alla letteratura) e il Fondo Spatrisano (che comprende la biblioteca personale dell’architetto Giuseppe Spatrisano, composta da circa 2000 volumi, i suoi progetti e rilievi). In alto: la biblioteca del Banco di Sicilia di Palazzo Branciforte, comprendente oltre 50 mila volumi.

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Piazza Maqueda

Palazzo Branciforte

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S. Francesco d’Assisi

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Piazza Pretoria

San Giuseppe S. Cataldo dei Teatini La Martorana

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Palazzo dei Normanni

Palazzo S. Croce

Palazzo Sciafani

La Magione Palazzo Aiutamicristo

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ai «panni vecchi» La costruzione del Palazzo, voluta da Nicolò Placido Branciforte Lanza conte di Raccuja come residenza privata della sua casata, risale alla fine del Cinquecento. Due secoli dopo, Palazzo Branciforte – conosciuto per essere una delle piú eleganti dimore della città – fu ceduto da un discendente del conte di Raccuja al Senato Palermitano, «a censo perpetuo». Il Palazzo decadde a succursale del Monte di Pietà cittadino: nel dicembre del 1801 vi fu trasferita la parte del Monte che raccoglieva i beni meno preziosi dati in pegno, le sete, la biancheria, piccoli oggetti in rame e bronzo. All’edificio viene dato il nome di «Monte dei Pegni di Santa Rosalia», in omaggio alla Patrona della città, ma presso la maggioranza dei Palermitani sarà noto come quello dei «panni vecchi». Nell’inverno del 1848, durante la rivolta

Via

architettonico particolarissimo, che ne fa un fenomeno culturale a sé, «un luogo unico al mondo» come ha sottolineato l’architetto Gae Aulenti.

In basso: la collocazione del Palazzo nell’antico «Quartiere della Loggia», nel cuore della città di Palermo.

Tuköry

Piazza Giulio Cesare

Stazione

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eventi • palazzo branciforte

dove e quando Il Palazzo (in via Bara all’Olivella, 2) è aperto al pubblico dal martedí alla domenica (chiuso il lunedí). Nel periodo novembre-febbraio dalla ore 9,30 alle 14,30; nel periodo marzo-ottobre, dalle ore 9,30 alle ore 19,30; l’ultimo ingresso è previsto 30 minuti prima della chiusura. Costo del biglietto: intero € 7,00; ridotto € 5,00 (per gruppi di almeno 15 persone, maggiori di 65 anni e categorie convenzionate); gratuito per le scuole e minori di 18 anni. L’ingresso alla biblioteca è gratuito. Tutte le informazioni sul sito www. fondazionebancodisicilia.it

In alto: erma bifronte in marmo di età romana, tra i reperti di particolare pregio della Collezione archeologica della Fondazione Banco di Sicilia. In basso: la Sala della Cavallerizza del Palazzo dopo

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il restauro. Un tempo adibito a scuderia, il grande ambiente ospita i reperti archeologici. Nella pagina accanto: un magazzino del Monte di Santa Rosalia.


Gli oltre 4700 reperti (vasi preistorici, terrecotte, ceramiche corinzie e attiche e indigene, per lo piú provenienti dagli scavi di Selinunte, Solunto, Torrevecchia di Cutli e Himera) sono esposti in uno degli ambienti del Palazzo che forse, per motivi strutturali, ha richiesto la maggiore attenzione da parte degli architetti: la grande sala detta della Cavallerizza.

UN RISTORANTE CON MAIOLICHE IN VISTA All’interno del Palazzo è anche presente il Ristorante Branciforte, parte integrante del percorso museale. Le pareti che lo delimitano sono infatti allestite con vetrine che espongono maioliche prodotte tra il Quattrocento e il Settecento da fornaci italiane, europee e del Vicino ed Estremo Oriente. Il nucleo centrale è costituito da piú di trenta pezzi siciliani, a cui si aggiungono autentici capolavori, fra i quali spicca il piatto di Francesco Durantino, uno dei massimi protagonisti dell’istoriato marchigiano. Orario: martedí-sabato, 12,30-15,00 e 19,30-23,00; domenica, 11,30-15,00; chiuso il lunedí. Info: tel. 091 320265; e-mail: info@ristorantebranciforte.it

antiborbonica, un grave incendio causato dall’esplosione di una granata fece crollare il solaio tra il primo e il secondo palazzo, distruggendo l’area dei magazzini dove erano conservate le merci date in pegno. Ma il servizio di prestito su pegno andava riattivato subito e, cosí furono innalzate, velocemente, semplici impalcature in legno, lungo le mura delle pareti e per tutta l’altezza degli undici ambienti che avevano costituito i preesistenti magazzini: un vero labirinto di scaffalature e camminamenti, collegati da scalette e interrotti da piccole balconate, munito di carrucole per il sollevamento dei beni dati in pegno, il tutto minuzio-

samente provvisto di numeri stampati sui ripiani. Ora, questo singolare e straordinario complesso di «archeologia industriale» ha superato, pressoché indenne, il secolo XIX e oggi, grazie a un lavoro relativamente semplice di consolidamento delle strutture murarie e di restauro di quelle lignee, è forse la piú spettacolare attrazione del nuovo Palazzo Branciforte. Che, però, è anche molto altro: i numerosi e vasti ambienti restaurati ospitano, infatti – oltre a una splendida biblioteca, una scuola di cucina e un ristorante –, le grandi collezioni della Fondazione (vedi box alle pp. 62-63), prima fra tutte quella archeologica.

fra tradizione e innovazione Il progetto archeologico, l’idea stessa di come esporre i reperti in maniera tale che non venga tradita la loro origine «antiquaria», è stato curato da Giuliano Volpe, rettore dell’Università degli Studi di Foggia, in collaborazione con Francesca Spatafora, direttrice del Parco Archeologico di Himera, e ha dovuto tener conto del «condizionamento» imposto dagli ampi spazi restituiti a nuova vita dai lavori di restauro. Cosí lo stesso archeologo spiega le priorità dell’intervento: «Escludendo ogni scelta di spettacolarizzazione esasperata che a volte caratterizza certe esposizioni moderne, ma evitando anche di limitarci esclusivamente alla tradizionale presentazione degli oggetti con allestimenti statici, che troviamo in gran parte dei musei archeologici, abbiamo tentato una strada in equilibrio tra tradizione e innovazione: il primo obiettivo è stato raggiunto attraverso la sistemazione di una vetrina continua, disposta lungo tre pareti (sud, ovest e nord della sala), nella quale, su quattro livelli espositivi, per un totale di oltre 400 m lineari (piú del triplo rispetto alla precedente sistemazione), i reperti sono stati disposti secondo un criterio tematico, contestuale (quando possibile), tipologico e cronologico. Abbiamo voluto, cosí, sottolineare e ricordare il carattere propriamente “antiquario” della collezione». Un connubio tra antiquaria e innovazione tecnologica – lo confermiamo in quanto testimoni oculari – di grande bellezza ed eleganza. a r c h e o 65


storia • gli etruschi visti dagli altri/6

Il popolo del mistero

SU ORIGINE, LINGUA E RELIGIONE – GLI ELEMENTI CHE ANCORA OGGI SERVONO A DEFINIRE LA LORO «IDENTITà» – SI È SCATENATA LA FANTASIA DEGLI AUTORI ANTICHI E MODERNI. ARRIVANDO A DESCRIVERE GLI ETRUSCHI CON PAROLE FAZIOSE E TUTT’ALTRO CHE IMPARZIALI. FINO A FARLI DIVENTARE «L’ALTRO» PER ECCELLENZA DELLA STORIA DELL’ITALIA ANTICA di Daniele F. Maras

Didascalia da fare In questo periodo Atene non corse gravi rischi, né fu coinvolta in decisivi conflitti militari. L’egemonia sui mari e la sicurezza dell’Attica non furono mai seriamente minacciate. Nonostante la temporanea rinuncia

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N

elle puntate precedenti abbiamo visto come l’immagine degli Etruschi sia stata alquanto varia e multiforme agli occhi degli altri popoli dell’antichità classica, cosí come raccontato dagli autori greci e latini. Piú che nella mancanza di una loro connotazione etnica, però, la varietà di percezione dipende dalla disposizione del commentatore e dal contesto in cui si calano i diversi giudizi. In realtà, la stessa cosa si può dire di qualunque altro popolo, se guardato con gli occhi degli «altri». Nel caso degli Etruschi, in mancanza di un punto di vista soggettivo interno, l’im-

magine multiforme ha dato origine a un vero e proprio mito, che qui ci prepariamo a raccontare, riprendendo alcuni degli argomenti che già a febbraio, nel primo numero della serie, avevamo in parte affrontato: un vero e proprio «ritorno alle origini»! I caposaldi attorno ai quali si è costruita la leggenda del mistero etrusco erano già presenti presso le opere degli autori antichi: le

Teste votive in terracotta, maschili e femminili, di produzione etrusca. VI-V sec. a.C. San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage.

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storia • gli etruschi visti dagli altri/6

origini, la lingua e la religione. A ciascuno di essi, nel corso del tempo, ormai al di là dell’universo romano e oltre ogni possibile riferimento all’attualità degli Etruschi, è stata attribuita una maggiore o minore importanza per la definizione del carattere di quel popolo.

La teoria di Erodoto In particolare, offrirono linfa vitale a queste speculazioni dotte le argomentazioni di Dionigi d’Alicarnasso (60 a.C. circa-7 a.C.) – che aveva cercato di opporsi ferocemente a ogni possibilità di integrazione degli Etruschi nella sfera delle parentele greche –, e quelle di Erodoto (484-424 a.C. circa) – che, invece, si era sforzato di riallacciare la storia dei Tirreni a quelle dei popoli

orientali nell’ambito dei retroscena del grande conflitto persiano. La controversia era già là, pronta per essere riaperta e approfondita. Uscendo dall’antichità, si può dire che gli Etruschi entrarono nel mito, dal momento che di loro, nell’immaginario dei sapienti che ancora ne tramandavano il ricordo, si fissarono questioni topiche come l’oscurità della lingua e delle origini, l’arte divinatoria e la passata grandezza, che aveva preceduto Roma nel controllo dell’Italia.Vi si riallacciarono, tra Umanesimo e Rinascimento, i tentativi eruditi di ricondurre tutti i popoli del mondo nell’alveo della tradizione biblica, che doveva necessariamente istituire un rapporto con le genti descritte nella Genesi successivamente al Diluvio Universale.

Blera (Viterbo). Un settore della necropoli rupestre del Terrone. VI-V sec. a.C. Le tombe, del tipo a semidado, sono disposte su terrazzamenti rocciosi.

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A tale riguardo va dato un particolare rilievo al religioso domenicano Annio da Viterbo (1432-1502), che dedicò gran parte della propria attività di studioso a nobilitare la propria città natale – che credeva erroneamente essere erede di Vetulonia –, collegandola ai fasti della tradizione etrusca. Fedele alla propria formazione ecclesiastica, Annio cercò di inquadrare anche l’Italia preromana all’interno dell’universo biblico, attribuendo l’origine degli Etruschi a un remoto gruppo levantino, emigrato in Occidente dopo i tempi di Abramo. Lo aiutarono in questa ardita speculazione le ormai famose incertezze sull’origine etrusca e le difficoltà di comprensione della lingua, che si candidava a diventare una lontana derivazione dall’ebraico. Ovviamente, né il metodo di raccolta delle informazioni (che includeva iscrizioni umbre e italiche fra quelle etrusche e faceva riferimento a documenti poi rivelatisi falsi), né tantomeno le conclusioni possono essere considerati in qualche modo degni di fede; ma il fatto stesso che il richiamo alla tradizione preromana potesse essere ritenuto nobilitante e prezioso testimonia un cambio di prospettiva nella percezione degli Etruschi.


In alto: particolare della cassa di una delle urne funerarie rinvenute nella tomba dei Calisna Sepu, a Monteriggioni. Fine del III sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico. Nell’iscrizione incisa sull’ossuario compare la formula dedicatoria, che recita: «Io sono [sono l’]

A tale tradizione si riferirono poi ulteriori speculazioni sulla presunta parentela tra l’oscura lingua etrusca e quella ebraica, in un’epoca in cui era considerata degna di serietà scientifica la ricerca di una lingua madre, alle origini di tutti gli altri linguaggi del mondo. E la teoria ebraica riuscí ad attraversare tutta l’età moderna, se ancora alla metà dell’Ottocento il cardinale Camillo Tarquini poteva pubblicare sulle pagine de La Civiltà Cattolica due ponderosi contributi su Le origini italiche e I misteri della lingua etrusca, apparsi entrambi nel 1857.

parentele ardite Ma il mistero della lingua si prestava a ben altre soluzioni, aprendo la porta ad accostamenti con tutti i linguaggi, noti e meno noti, del Mediterraneo antico e oltre. Sono state perciò tentate, soprattutto tra Otto- e Novecento, numerose soluzioni etimologiche dell’interpretazione dell’etrusco, riconoscendone di volta in volta la parentela con

ossuario di Larth Calisna Sepu, figlio di Arnth e di una Cursni». Il presunto «mistero» della lingua etrusca è stato in larga parte alimentato dal ristretto numero di vocaboli a oggi noti e dall’altrettanto scarsa consistenza delle fonti scritte a oggi note.

le lingue dell’Anatolia, con le lingue celtiche e con quelle germaniche, ma anche con il greco o il latino. Inoltre, dal momento che di regola «mistero» chiama «mistero», è stato esplorato ogni possibile confronto con altre lingue note, antiche o contemporanee, che presentino difficoltà di classificazione o di inquadramento nelle famiglie linguistiche maggiori: è il caso per esempio del basco, dell’albanese (con possibili richiami alle lingue dell’Illiria) o del sardo. Non tutte le linee di ricerca proposte hanno un valore scientifico, e, in realtà, la ricerca di parentele linguistiche e di «chiavi» etimologiche universali per la decifrazione degli idiomi non è piú una priorità metodologica della moderna linguistica. Ma la ricerca di una soluzione al presunto mistero della lingua etrusca ha dato origine a una ricca letteratura (non sempre sostenuta da serietà scientifica), che contribuisce ancora oggi ad alimentare il «mito» dell’indecifrabilità dell’etrusco e a

Un esemplare di canopo, un tipo di ossuario antropomorfo che ebbe grande diffusione in particolare nella zona chiusina e la cui produzione viene collocata dagli studiosi tra il VII e il V sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico.

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storia • gli etruschi visti dagli altri/6

mantenere ancora oggi l’aura del mistero attorno a quel popolo. A braccetto con l’enigma della lingua – che, dopo gli ultimi decenni di studi, è ormai sempre meno oscura – si pone quello delle origini che, come abbiamo visto, affonda le sue radici già nelle speculazioni degli storici greci di epoca arcaica e di età romana. Tra tutte, la teoria orientale che si basa sulla leggenda erodotea di Tirreno, principe lido e figlio del re Ati (vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012), è quella che ha riscosso maggiore successo nel corso del tempo. 70 a r c h e o

Ancora oggi, per molti, sembra essere confortata dall’apparente estraneità dell’etrusco al panorama delle lingue dell’Italia preromana.

radici orientali? Anche questo argomento, perciò, ha dato origine a una ricca letteratura (di livello accademico in tempi passati e di livello meno strutturato in tempi recenti), che dibatte sulla dimostrabilità di una provenienza orientale degli Etruschi, giunti da profughi in Italia e presto assurti a un ruolo dominante perché portatori di una civiltà piú

avanzata. La supposta prova in tal senso, offerta dalla cultura orientalizzante del VII secolo a.C. – ritenuta valida ancora da studiosi come lo storico francese André Piganiol (1883-1968) nella prima metà del Novecento –, si è in realtà rivelata illusoria, perché il fenomeno «orientalizzante» non è circoscritto ai soli Etruschi, ma abbraccia tutti i popoli dell’area mediterranea, dalla Grecia all’Italia e oltre. A complicare ulteriormente le cose sono sopraggiunte, in tempi recenti, alcune importanti ricerche genetiche, svolte su campioni di popola-


La piú bella di tutte Cerveteri, necropoli della Banditaccia, la Tomba dei Rilievi, detta anche Tomba Bella. Seconda metà del IV sec. a.C. Scoperto nel 1846 da Giovan Pietro Campana, è il monumento funebre piú celebre e piú spettacolare del sepolcreto. Le pareti della camera di sepoltura sono rivestite di un sottile strato di intonaco, decorato con elementi a rilievo dipinti a piú colori. Fra gli ornamenti, si riconoscono le riproduzioni di utensili, accessori, armi, strumenti musicali, mobilia. Al di là delle considerazioni culturali e artistiche, la tomba è uno degli specchi piú fedeli e realistici della vita quotidiana al tempo degli Etruschi.

avrebbe mantenuto attraverso i millenni le tracce delle caratteristiche fisiche originarie del gruppo etnico immigrato (o della razza bovina portata con sé). All’ipotesi orientale, tanto fascinosa per le potenzialità di un collegamento di civiltà tra culture e terre remote, risponde su un piano concreto l’archeologia, che non consente di individuare, al momento del passaggio all’Orientalizzante, nette discontinuità della cultura materiale (ovvero nelle tracce fisiche e documentabili lasciate dai gruppi umani nella loro occupazione di un territorio), che potrebbero far pensare a un’invasione – anche pacifica – o al trapianto di una civiltà ben definita e formata da un ambiente esterno e lontano.

zione dell’odierna Toscana interna – tanto per gli esseri umani quanto per le razze bovine –, che hanno evidenziato alcune affinità tra i moderni abitanti della Toscana e quelli delle regioni vicino-orientali. Secondo alcuni specialisti, l’interpretazione dei risultati di queste ricerche potrebbe avere una rilevanza nella determinazione dell’appartenenza etnica degli Etruschi, nell’ipotesi di una possibile conservazione di tratti genetici propri, attraverso consuetudini endogamiche (o una stretta selezione a scopo di allevamento per gli animali), che

Una non-soluzione Spostare la presunta migrazione indietro nel tempo non risolve il problema, né, in realtà, risponde a una vera esigenza dell’indagine storica: andare alla ricerca delle origini, spiegando anche i fenomeni storici con un semplice rapporto causa-effetto, è un metodo assai semplicistico. Piú concreta è la prospettiva scientifica che individua alla base di tali fenomeni altrettanti processi di formazione, composti da un’ampia serie di elementi, situazioni e contesti: in altre parole, non ha senso chiedersi da dove venissero gli Etruschi, quanto piuttosto domandarsi a partire da quando questi abbiano cominciato a considerarsi un gruppo etnico unitario, e sulla base di quali caratteri comuni, e quando, come e perché si siano di-

Stele funeraria in calcare, da Volterra. Metà del VI sec. a.C. Volterra, Museo Guarmacci. A sinistra, sul bordo della scultura, corre l’iscrizione che identifica il personaggio, un guerriero, con Avile Tite.

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storia • gli etruschi visti dagli altri/6

stinti dai gruppi etnici vicini e abbiano «scelto» di essere Etruschi. Le risposte a queste domande si trovano sul suolo italiano e continueranno a impegnare gli studiosi della materia a lungo, utilizzando le scoperte archeologiche, i dati storici e le metodologie scientifiche a disposizione, via via approfondendo la conoscenza della storia dell’Italia preromana. Il famoso «mistero» etrusco, pur avendo radici storiche profonde e antiche, ha basi scientifiche ormai pressoché nulle. Domandarsi da dove venissero o di chi fossero parenti (sia dal punto di vista linguistico che genealogico) è poco produttivo e scientificamente poco motivato, come si è cercato di dimostrare in queste pagine. È forse piú pertinente e interessante domandarsi quale futuro avranno gli Etruschi, che nonostante il loro «mito» ancora vivo e il fascino che esercitano,

A sinistra: urna in terracotta policroma, dal territorio chiusino. II-I sec. a.C. Siena, Museo Archeologico. Sulla cassa è rappresentato l’episodio che vede protagonista l’eroe Echetlo, un contadino armato di aratro (in greco echetle, da cui il nome), con il quale avrebbe fatto strage di Persiani nella battaglia di Maratona, e, dopo la vittoria dei Greci, svaní nel nulla.

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Cerveteri, necropoli della Banditaccia. Tombe rupestri affacciate su un tratto della via degli Inferi, il percorso scavato nella roccia che collegava l’area abitata al sepolcreto. Nel 2004 L’UNESCO ha inserito i monumenti etruschi della città laziale tra i beni del Patrimonio dell’Umanità.

stanno attraversando una fase di recessione e, in molti casi, di degrado dei loro siti storici, in verità condivisa da tutta l’archeologia italiana, che della crisi economica risente come e piú di altri settori della cultura e dell’economia.

un futuro incerto Fra i luoghi etruschi si contano siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, come le necropoli di Cerveteri e Tarquinia, e altri di rilevanza altrettanto globale, come le eccezionali necropoli rupestri del Viterbese, le aree archeologiche di

Vulci e di Vetulonia, le necropoli e i templi di Orvieto, gli impianti minerari di Populonia e delle Colline Metallifere, l’area urbana di Spina in Romagna, o, fuori dall’Italia, la città e la necropoli di Aleria in Corsica: solo per citarne alcuni. Portano il marchio degli Etruschi istituzioni importantissime come il Museo Archeologico Nazionale a Firenze e quello Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, il Museo Civico di Bologna e il Museo Guarnacci di Volterra (il piú antico museo d’Europa a loro dedicato), ma anche il Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano. Per non parlare di innumerevoli collezioni ed esposizioni locali e del coinvolgimento di istituzioni straniere, impegnate negli scavi e nello studio delle antichità etrusche, che ne garantiscono la visibilità nel mondo. Un patrimonio come questo appartiene di per sé all’umanità, anche se per ovvi motivi un’organizzazio-

Per saperne di piú Dominique Briquel, Le origini degli Etruschi: una questione dibattuta fin dall’antichità, in Gli Etruschi, cat. della mostra (Venezia, 2000), Electa, Milano 2000, pp. 43-51.

ne globale come l’UNESCO può certificare solo limitatamente tale definizione. Ma la quantità e qualità di siti, materiali e strumenti espositivi, ivi compresi i parchi e le aree archeologiche, richiedono una continua manutenzione e conservazione, due voci che non vanno d’accordo con i tagli e il rigore richiesto dalle crisi economiche correnti, passate e future. Concluderei dicendo che gli Etruschi (e con loro l’archeologia italiana) hanno oggi un futuro assai piú «misterioso» di quanto non lo sia stato il loro passato… (6 – fine) a r c h e o 73


speciale • archeologia della sardegna/2

sardegna antica. i secoli della conquista

di Carla Del Vais e Roberto Sirigu


Veduta aerea dei resti di Tharros, sorta all’estremità meridionale della Penisola del Sinis, sul golfo di Oristano. Fondata dai Fenici intorno alla seconda metà dell’VIII sec. a.C., la città fu un importante emporio commerciale, punto nodale dei traffici e degli scambi del Mediterraneo.

nel i millennio a.C., all’indomani dell’età nuragica, l’isola entra nell’orbita fenicia e poi cartaginese: nascono numerose città e si diffondono nuovi modelli culturali, in larga parte ripresi anche dai romani, che acquisirono il controllo del territorio a seguito della vittoria riportata nella prima guerra punica a r c h e o 75


speciale • archeologia della sardegna/2

L’età fenicio-punica

L’

inizio del I millennio a.C. vide il riannodarsi dei rapporti tra la Sardegna e l’Oriente e l’arrivo, soprattutto nel IX e nell’VIII secolo a.C., di genti levantine che cambiarono la storia dell’isola. Di questa antica fase di frequentazione, impropriamente chiamata «precolonizzazione», abbiamo poche ma significative tracce nei contesti indigeni della costa e dell’interno. Fino a pochi decenni fa si conoscevano solo materiali metallici di produzione o di influenza orientale, tra cui i bronzetti figurati di S. Cristina di Paulilatino, del nuraghe Flumenlongu di Alghero, del nuraghe Santu Antine di Genoni, di Olmedo, di Mandas, di Bonorva e di Galtellí, e manufatti di diverso tipo (specchi, vasi, tripodi e torcieri). Ciò aveva suggerito l’ipotesi di contatti tra le genti nuragiche ed elementi orientali che raggiungevano gli insediamenti indigeni, percorrendo le vie di penetrazione naturale, quali i corsi dei fiumi, per fini commerciali.

Santa Teresa di Gallura

La Maddalena

Arzachena Stintino

Tempio Pausana

Castelsardo

Porto Torres

Laerru

Sorso

Olbia Loiri Porto San Paolo

San Teodoro

Sassari

Budoni Florinas

Posada

Ozieri

Ittireddu

Alghero

Siniscola

Torralba Cheremule

Villanova Monteleone

Irgoli

Pozzomaggiore Bosa

Marina Mar di Sardegna Cuglieri

Nuoro

Suni

Orosei Dorgali

Oliena Macomer Paulilatino Orgosolo Fonni Ghilarza Austis San Vero Villagrande Strisaili Milis Fordogianus Samugheo Cabras Tortolí Arzana Oristano Tharros Lanusei Santa Giusta Genoni Nuragus Terralba Tertenia Isili Villanovaforru Guspini Villacidro Fluminimaggiore Iglesias

Orrolí

Sanluri Senorbì Serramanna Assemini

Gonnesa

Mar Tirreno

Dolianova

Villaputzu

Sinnai

Elmas

Carbonia Carloforte

Quartu Cagliari Sant’Elena Sarroch

Villasimius

Sant’Antioco Pula

In alto: cartina della Sardegna. In evidenza, le principali località citate nel testo. A sinistra: statuetta in arenaria, nota anche come «Astarte», da Monte Sirai. VII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Scambiando principalmente oggetti di lusso, i Levantini volevano assicurarsi le materie prime, in particolare metalliche, di cui avevano necessità. Le ricerche condotte negli ultimi anni nel villaggio nuragico di S. Imbenia, presso Alghero, consentono ora di prefigurare un’altra situazione di grandissimo interesse (vedi box a p. 82). In questo insediamento, impiantato nell’età del Bronzo Medio, sono stati individuati contesti abitativi relativi alla successiva età del Ferro (IX-VII secolo a.C.) che dimostrano la presenza di un nucleo di elementi orientali perfettamente integrati nel villaggio. A tale nucleo allogeno si attribuiscono numerosi materiali di importazione, principalmente ceramici, ma soprattutto la responsabilità di avere insegnato agli indigeni tecniche e tecnologie tese a migliorare


età punica

elementi significativi della cultura materiale

ceramica dipinta amuleti ornamenti in pasta vitrea gioielli stele epigrafi monete bronzi

arte mobiliare e immobiliare (pittura scultura e incisioni) religiosi

coroplastica , scultura lapidea e lignea bronzi figurati

ceramica a vernice nera ceramica sigillata italica (aretina)

ceramica tardo - romana bizantina , altomedievale gioielli ornamenti in pasta vitrea ed ambra

oggetti in bronzo , piombo e ferro

fibule ed armi in bronzo e ferro

ornamenti in oro

monete

statuaria in pietra , marmo e bronzo cippi e stele funerari

rocce sacre santuari all ’ aperto tofet , templi

insediamenti rurali

templi riutilizzazione di nuraghi

città

incisioni in tecnica lineare ,

«a polissoir»,

a puntinato in domus de janas e su massi pittura su parete e su intonaco in domus de janas decorazioni lapideee

chiese martiria

città

insediamenti villae

insediamenti rurali

teatri anfiteatri

civili

monumenti

terme

fortezze

cinte

fortezze

mura urbane

tomba a fossa , a camera , a sarcofago , a incinerazione

tomba a fossa , con stele , a fossa rivestita , alla cappuccina , in sarcofago , a colombario , a camera , in ziro (enkytrismos)

tombe a poliandro , in sarcofago , a fossa , a cassone

a r c h e o 77

1000 d.C.

476 d.C.

età alto medievale

terra sigillata

pittura su intonaco e su parete

città

funerari

Equipaggi misti Oggi, invece, si ritiene che in questa fase di proiezione verso Occidente i Fenici fossero una delle numerose componenti etniche responsabili del fenomeno; a essi si aggiungono altri popoli insediati nell’area siro-palestinese quali Filistei, Aramei, Siriani, oltre che Ciprioti e Greci dell’Eubea. Si prefigura, dunque, una situazione molto variegata, che vede l’arrivo in Occidente di navi di diversa provenienza e, probabilmente, con equipaggi

In alto: Othoca (Santa Giusta, Oristano). Una tomba fenicia in corso di scavo. Prima metà del VI sec. a.C. Le sepolture sono generalmente semplici fosse a inumazione scavate nella roccia o nel terreno; talvolta è documentata la combustione del cadavere direttamente dentro la tomba.

età romana

monete

stele e cippi

lo sfruttamento delle risorse del luogo, sia minerarie che agricole. Chi erano queste genti venute dall’Oriente? Fino a qualche anno fa si parlava solo di Fenici, un popolo insediato sulle coste dell’attuale Libano in grandi città-stato quali Tiro, Sidone, Beirut, Biblo.

civiltà urbane

età fenicia

ceramica d ’ uso

I Fenici sono una delle molte etnie con cui si identificano quelle «genti venute dall’Oriente» che giunsero anche in Sardegna

0

238 a.C.

510 a.C.

950 a.C.

età cultura e civiltà

età del ferro


speciale • archeologia della sardegna/2

misti che navigavano nel Mediterraneo in cerca di nuovi mercati e di materie prime. Solo in un momento successivo, da porsi nell’ambito dell’VIII secolo a.C., i Fenici si resero responsabili della fondazione di vere e proprie colonie, concentrate, diversamente dal periodo precedente, lungo le coste sudoccidentali dell’isola. Si possono ricordare, tra le piú importanti e in ordine geografico, la città di Karales, l’attuale Cagliari, ubicata al centro del Golfo degli Angeli e allo sbocco naturale del Campidano, la principale pianura dell’isola che conosce da fasi molto antiche una profonda penetrazione fenicia di natura commerciale e successivamente agraria; Nora, presso Pula, città ritenuta dalle fonti classiche la piú antica colonia fenicia nell’isola, dato non ancora confermato dall’archeologia, benché una importante iscrizione sacra monumentale dimostri una frequentazione orientale da fasi assai antiche; Bitia, localizzata presso Chia (Domusdemaria), che documenta contesti a partire dal VII secolo a.C.; Sulci, che ha finora restituito le tracce insediative piú antiche, ben spiegabili con la ricchezza mineraria del Sulcis, la regione sudoccidentale della Sardegna davanti alla quale si trova l’isola di S. Antioco, sede della città fenicia; Monte Sirai (Carbonia), colonia secondar ia di Sulci, fondata nell’immediato entroterra, cosí come l’insediamento gemello di Pani Loriga (Santadi). Nell’area di Monte Sirai deve ricordarsi anche il nuraghe Sirai, un complesso monumentale indigeno che ha accolto all’interno delle sue mura un nucleo fenicio. Altre città di importanza capitale in età arcaica sorgono a controllo del Golfo di Oristano, Neapolis (Guspini) a sud, Othoca (S. Giusta) al centro, Tharros (Cabras) a nord. Sempre all’età fenicia viene attribuita la prima fondazione della città di Olbia, posta a controllo delle rotte tirreniche. Di questa prima fase insediativa rimangono soprattutto tracce di ambito funerario e sacro, mentre pochissimi sono i contesti abitativi noti e ciò a causa della frequente sovrapposi78 a r c h e o

Pendente di collana in pasta vitrea, dalla tomba 24 della necropoli di Fontana Noa, a Olbia. IV-III sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

zione di livelli di vita piú recenti e della scarsa monumentalità delle strutture.Tra questi va ricordato il quartiere del cosiddetto Cronicario di Sulci, in cui, negli ultimi decenni, sono state messe in luce abitazioni con zoccolo in pietrame e alzato in mattoni crudi; esse hanno restituito materiali fenici databili a partire dall’VIII secolo a.C., associati a ceramiche di importazione greca. A Karales gli scavi realizzati negli anni Ottanta lungo le sponde orientali della laguna di S. Gilla hanno messo in evidenza semplici strutture databili dalla fine del VII secolo a.C. Le recenti indagini condotte sotto il foro romano di Nora hanno mostrato la presenza di apprestamenti in materiale deperibile a partire dalla fine dello stesso secolo.

«scatole» di pietra La documentazione è molto piú ricca in relazione al mondo funerario. La necropoli piú antica finora attestata è quella di S. Giorgio di Portoscuso, risalente all’VIII secolo a.C.; le altre aree sepolcrali fenicie, invece, non vanno oltre il VII. Tra queste si segnalano quelle di Bitia, Monte Sirai, Pani Loriga, Othoca e Tharros, con centinaia di sepolture che, nella maggior parte dei casi, prevedono il rito dell’incinerazione. Piú spesso il defunto veniva bruciato su una pira funeraria in un luogo diverso da quello della sepoltura; dopo la combustione i resti ossei venivano raccolti e deposti nella tomba, a volte dentro un’urna cineraria in ceramica, accompagnati dal corredo funerario e da oggetti personali. Le sepolture in questione sono piú spesso semplici fosse scavate nella roccia o nel terreno, mentre piú raramente si documenta l’uso di ciste litiche, vale a dire «scatole» parallelepipede costituite da lastre in pietra. In alcuni siti, quali Monte Sirai, Othoca e Tharros, è documentata anche la combustione del cadavere direttamente dentro la tomba, sempre rappresentata da una fossa allungata, riconoscibile per le forti tracce di bruciato e per la posizione anatomica dei resti ossei. Rara è l’attestazione dell’inumazione: il sito di Monte Sirai ne ha finora restituito il nu-


mero piú consistente, all’interno di semplici fosse, ma possono ricordarsi anche i casi di Othoca e di Tharros. Nella prima città sono state indagate, una negli anni Ottanta, l’altra nel 2010, due tombe a cassone litico con deposizioni plurime di inumati con ricco corredo anche di importazione etrusca. Nella necropoli settentrionale di Tharros gli scavi del 2009 hanno messo in luce una profonda fossa parallelepipeda scavata nella roccia con all’interno parte di una deposizione arcaica. Assai ricca risulta anche la documentazione relativa al mondo del sacro, riferibile principalmente al tipico santuario urbano di area centro-mediterranea noto con il nome di tofet. Si tratta di un’area sacra a cielo aperto, circondata da un recinto sacro e caratterizzata dalla presenza di urne cinerarie in ceramica contenenti resti ossei di feti, neonati e bambini molto piccoli, oltre che resti animali, specie di ovicaprini. Tali urne, a partire dal VI secolo, sono accompagnate da piccoli monumenti in pietra, le stele, che rappresentano la divinità in forma simbolica o antropomorfa, piú spesso su piccoli troni o all’interno di edicole sacre. Fino agli anni Ottanta il santuario era interpretato come luogo di sacrificio cruento dei bambini in onore delle due divinità, una maschile e l’altra femminile, evocate nelle numerose iscrizioni incise sulle stele, vale a dire Baal Hammon e Tanit. Oggi si ritiene,

In alto: Sulci (Sant’Antioco, Cagliari). Un settore del tofet, con le urne cinerarie destinate ai resti ossei di feti, neonati e bambini. In basso: stele con betili, dal tofet di Nora. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

invece, che nell’area sacra venissero deposti i bambini nati morti o deceduti in tenera età per cause naturali prima di essere accolti nella comunità degli adulti, associati ad animali sacrificati in onore della divinità. In Sardegna sono stati individuati diversi tofet, a Sulci, Monte Sirai, Nora, Tharros e forse a Karales e Bitia.

il dominio cartaginese In età arcaica si registra la progressiva influenza da parte di un’altra città fondata dalla fenicia Tiro sulle coste dell’attuale Tunisia; si tratta della metropoli di Cartagine che, in seguito a complesse vicende, riesce a prendere il controllo dell’isola già alla fine del VI secolo a.C. Il dominio cartaginese porta con sé numerosi e profondi cambiamenti cultural i , politici ed economici. Innanzitutto nel mondo funerario, che vede l’introduzione del rituale dell’inumazione e, di conseguenza, di tipi tombali nuovi. Appartengono a questa fase le centinaia di sepolture a camera scavate nella roccia, con vano di accesso a pozzo verticale o fornito di scale di discesa. Tombe di questo tipo sono visibili a Karales, nell’importante necropoli di Tuvixeddu, a Nora, a Sulci, a Monte Sirai e Tharros, oltre che in alcune aree funerarie dell’interno quali quelle di Monte Luna (Senorbí) e di Villamar. In esse il defunto era deposto in posizione supina, spesso all’interno di sarcofagi o di bare lignee, con ricchi corredi ceramici, oggetti personali a r c h e o 79


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e d’ornamento quali gioielli, amuleti, scarabei. Alcune di queste tombe presentano elementi simbolici e decorativi dipinti in rosso sulle pareti e, piú raramente, a rilievo. Possono ricordarsi al proposito le numerose tombe dipinte di Karales e due con altorilievo di stile egittizzante scoperte a Sulci. Insieme alle tombe a camera sono documentati in questa fase di controllo cartaginese, chiamata comunemente «punica», altri tipi tombali piú semplici, quali fosse scavate nella roccia o in terra, cassoni e sarcofagi litici, deposizioni infantili all’interno di anfore da trasporto. Con la fine dell’età punica (III secolo a.C.) si assiste alla reintroduzione dell’incinerazione e ciò per influsso della cultura greca ellenistica. In età punica il tofet conosce una frequentazione intensa, che prevede anche la deposizione di numerose stele in pietra. Tra gli altri luoghi di culto cittadini possono ricordarsi, tra gli altri, l’«altoluogo» di Tanit e il tempio di Eshmun-Esculapio di Nora, il tempio di Bes di Bitia e il tempio delle Semicolonne di Tharros. Una menzione a parte merita un grande santuario di impianto punico dedicato al dio Sid Addir Babai ubicato nella valle di Antas (Fluminimaggiore), in un’area con grandi risorse minerarie e lontana dalle città della costa. Per il tempio, ricostruito in età romana in onore del Sardus Pater Babai, si ipotizza un ruolo centrale, sia simbolico che economico, per lo sfruttamento delle miniere del Sulcis da parte di Cartagine. La madrepatria africana, infatti, per mantenere il suo impero e in parti- is Arrius (Cabras), che hanno restituito ricchi colare l’esercito mercenario aveva necessità di depositi votivi costituiti principalmente da metalli e di derrate alimentari. terrecotte femminili di influenza greca. Tornando alle città della costa, deve ricordarsi che proprio all’età punica si riferiscono le agricoltura intensiva L’approvvigionamento dei primi era assicu- tracce piú consistenti di strutture civili, corato in Sardegna dal controllo delle miniere struite con tecniche che sopravvissero anche sulcitane; per procurarsi le seconde, e in par- nella successiva età romana. Oltre alle case con ticolare i cereali, Cartagine attua nell’isola, a zoccolo in pietra e alzato in mattoni crudi, già partire dal V secolo a.C. ma soprattutto nel IV presenti nella fase fenicia, si documentano e nel III, una politica agraria capillare che edifici realizzati con la tecnica «a telaio», cioè vede lo sfruttamento intensivo delle aree pia- alternando pilastri monolitici o in grandi neggianti, in particolare del Campidano, del- blocchi sovrapposti e tratti murari in pietrame la Trexenta e dell’Oristanese; ciò determina piú piccolo appena sbozzato e messo in opera una diffusione sul territorio della popolazio- con malta di fango. Nella stessa epoca vengone in piccoli e medi insediamenti con pro- no introdotti i pavimenti e i rivestimenti in prie aree funerarie e propri santuari. Tale cocciopesto, realizzati con malta di calce, inerprocesso comporta anche la rioccupazione ti e frammenti ceramici. delle vecchie strutture nuragiche, in abban- Spesso le case si sviluppano attorno a un cordono da secoli, che ora vengono utilizzate tile centrale sul quale si affacciano tutti gli per fini abitativi, ma soprattutto come santua- ambienti funzionali alle attività diurne; si ri. Sono da ricordare, tra gli altri, i nuraghi ipotizza invece la presenza di piani alti con i Genna Maria di Villanovaforru e Lugherras vani destinati al riposo notturno. In questa di Paulilatino e il tempio a pozzo di Cuccuru fase l’approvvigionamento idrico era assicu80 a r c h e o

In alto, a sinistra: Tharros, necropoli settentrionale. Una profonda fossa scavata nella roccia, scoperta nel 2009, al cui interno è stata rinvenuta parte di una deposizione arcaica. In alto, a destra: Tharros. Tombe puniche della necropoli di Capo San Marco.


rato, dove possibile, da pozzi, ma piú di frequente erano le cisterne alimentate dalla pioggia a fornire l’acqua per le attività quotidiane. Se ne conoscono del tipo a «bottiglia», vale a dire di forma cilindrica con restringimento alla sommità, e, piú diffuse, del tipo a «bagnarola», cioè di forma allungata e con estremità curve.

torri e Bastioni poderosi La città punica era difesa da mura possenti, con torri quadrangolari poste a guardia delle porte; benché le tracce archeologiche siano scarse e la cronologia resti ancora in discussione, è stato possibile delineare i caratteri generali delle fortificazioni sarde e individuare alcuni elementi di sicura matrice ellenica, scaturiti probabilmente dal confronto tra il mondo cartaginese e quello greco di Sicilia. Le città costiere dovevano avere, fin dall’età fenicia, porti ben protetti e organizzati. I mutamenti della linea di riva intervenuti dall’antichità non consentono, a oggi, di ricostruire con precisione l’assetto delle aree portuali, se

non per tratti generali. È tuttavia evidente che almeno una parte di esse dovevano collocarsi all’interno di specchi lagunari e dunque non necessitavano di infrastrutture imponenti. A questo proposito vanno ricordati i rinvenimenti subacquei effettuati nelle lagune di Santa Gilla a Cagliari e di S. Giusta a Othoca, non direttamente ricollegabili a strutture portuali ma connessi ad attività di trasporto via acqua. Quest’ultimo sito, in particolare, oggetto di indagini recenti, ha restituito contesti subacquei di grandissimo interesse per la compresenza di contenitori ceramici, terrecotte, resti faunistici e botanici, associati a strutture lignee ben conservate. Il dominio cartaginese si protrae fino al 238 a.C., momento in cui, in seguito allo scontro epocale con la città rivale di Roma, la metropoli africana perde senza colpo ferire l’isola e parte del suo impero. A partire da questa data prende avvio un lento processo di romanizzazione che si compie solo in piena età imperiale. Per secoli in Sardegna si conservano elementi di tradizione punica e probabilmena r c h e o 81


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il «CASO» di sant’imbenia In prossimità del punto piú interno del golfo di Porto Conte, a una ventina di chilometri da Alghero, sorge, dal XIV secolo a.C., un nuraghe monotorre che, nel tempo, diventa punto aggregante di un villaggio. Scavi condotti dal 1982 al 1997 avevano messo in luce strutture importanti, e avevano posto all’attenzione della comunità scientifica il rapporto fra una comunità locale e i mercanti provenienti da Oriente che all’inizio del I millennio a.C. avviarono relazioni non solo commerciali, ma anche tecnologiche e culturali. La ripresa degli scavi nel 2007, oltre ad aver riproposto quei quesiti ne ha aggiunti di nuovi e importanti. Nell’area centrale non scavata è emerso quello che noi oggi interpretiamo come uno spazio aperto pubblico di forma ellittica, probabilmente destinato allo scambio, all’interno di un «sistema locale» e con mercanti giunti nel golfo di Porto Conte. Se questa interpretazione coglie

nel vero, il sito di Sant’Imbenia non assolverebbe solamente al compito di luogo deputato al commercio e allo scambio con mercanti allogeni ma potrebbe essere visto come polo «imprenditoriale» della Nurra, un centro primario che catalizza l’economia: produce ed esporta vino, conserva nel suo «erario» panelle di rame, è la punta di un iceberg rappresentato da un territorio fortemente strutturato e dalla organizzazione complessa. In alto: Sant’Imbenia (Alghero). Le strutture del villaggio in corso di scavo. A sinistra: planimetria del sito di Sant’Imbenia.

Le indagini a Sant’Imbenia, dirette da chi scrive e da Rubens D’Oriano, si svolgono nel quadro della convenzione che vede coinvolte la Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Sassari e Nuoro, il Comune di Alghero, la Faculty of Classics della University of Cambridge e l’Università degli Studi e sono rese possibili dai fondi erogati dalla Fondazione Banco di Sardegna. Marco Rendeli

te è in uso anche la lingua, come dimostra un’iscrizione di carattere ufficiale rinvenuta nel tempio di Bes a Bitia e databile al II secolo d.C.; un’altra testimonianza è costituita dalle centinaia di stele funerarie, collocabili al passaggio tra l’età repubblicana e quella imperiale, che palesano motivi di tradizione punica di preminente ambientazione africana. Carla Del Vais per saperne di piú Ferruccio Barreca, La civiltà fenicio-punica in Sardegna, Sassari 1986; Sabatino Moscati, I Fenici, Milano 1988; Sabatino Moscati, Piero Bartoloni, Sandro F. Bondí, La penetrazione fenicia e punica in Sardegna. Trent’anni dopo (= Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei, s. IX, vol. IX, fasc. 1), Roma 1997; Piero Bartoloni, I Fenici e i Cartaginesi in Sardegna, Sassari 2009.

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LA SARDEGNA ROMANA

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uando parliamo di «romanizzazione», facciamo riferimento, è opportuno ricordarlo, a un caso particolare di un evento culturale di portata piú generale che risponde al nome di «acculturazione». Con questo termine si designano quelle forme di mutamento culturale dovute al contatto tra due o piú gruppi che, a volte (raramente, in verità), presentano un andamento unidirezionale (cioè solo uno dei gruppi influenza l’altro o gli altri coinvolti nel processo), ma, piú frequentemente, assumono carattere di reciprocità (ovvero tutti i gruppi coinvolti si influenzano reciprocamente, anche se in misura differente). Da ciò consegue un fatto importante: pur presentando una serie di tratti distintivi unitari, il processo di romanizzazione che investí i territori progressivamente inglobati da Roma all’interno della propria sfera di controllo assunse connotati specifici nelle varie aree, proprio a causa della «contaminazione» reciproca tra la cultura di cui Roma era espressione e le culture con cui essa entrava di volta in volta in contatto. È questo, come vedremo tra breve, anche il caso del rapporto di acculturazione che vide coinvolte Roma e la Sardegna. I presupposti per un avvio del processo di romanizzazione della Sardegna possono essere colti già nel VI secolo a.C., quando il pri-

Fluminimaggiore, il tempio di Antas. Sorto in età punica e dedicato al dio Sid Addir Babai, il santuario fu rifondato in età augustea e re-intitolato al dio Sardus Pater Babai. L’edificio fu oggetto di una ulteriore ristrutturazione nel III sec. d.C.

mo trattato tra Roma e Cartagine sancisce la possibilità per Roma di esercitare i propri traffici commerciali in Sardegna. Nel IV secolo a.C. si può ipotizzare la fondazione della colonia romana di Feronia (Posada) sulla costa orientale dell’isola. Il secondo trattato tra Roma e Cartagine (348 a.C.) sancisce un mutamento dello stato dei rapporti tra le due potenze, con la proibizione per Roma di accedere e di fondare città in Sardegna.

da un padrone all’ altro Ma la data che segnò formalmente il passaggio della Sardegna sotto il controllo diretto di Roma è il 238 a.C., pochi anni dopo la conclusione della prima guerra punica (264241 a.C.) che vede Cartagine sconfitta pesantemente da Roma. Impossibilitata a soddisfare le richieste economiche dei mercenari di stanza nell’isola, Cartagine fu infatti costretta, nel 238 a.C., a cederne il controllo a Roma che approfittò dello stato di debolezza post-bellica cartaginese per prenderne possesso, nonostante tale passaggio non rientrasse tra le clausole del trattato di pace stipulato nel 241 a.C.

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Nel 227 a.C. la Sardegna divenne provincia romana, e il suo controllo fu affidato a un governatore. Da quel momento il processo di romanizzazione dell’isola si fece progressivamente piú intenso, anche se la matrice culturale sardo-punica mantenne a lungo una propria marcata vitalità, giungendo a esercitare la propria influenza anche sulla cultura «dominante» romana. Il fenomeno è attestato da significative testimonianze archeologiche ed epigrafiche. È il caso del rinvenimento, avvenuto nel 1860 a S. Nicolò Gerrei (Cagliari), in località Santu Iacci, di cui diede notizia il canonico Giovanni Spano – figura di spicco dell’archeologia isolana dell’Ottocento –, di una base di colonna in bronzo, evidentemente pertinente a un’area templare la cui ubicazione non è stata ancora individuata (anche se recenti indagini sul campo hanno consentito di cogliere nuovi indizi in merito). La base reca incisa un’iscrizione trilingue in latino, greco e punico, databile alla metà del II secolo a.C., con dedica di un altare ad Aesculapius, Asklepios, Eshmun come segno di ringraziamento per la grazia ricevuta. Questa 84 a r c h e o

In alto: l’anfiteatro romano di Cagliari, la cui fondazione dovrebbe risalire alla fine del I sec. d.C. In basso, sulle due pagine: frammento di stele sepolcrale con due figure femminili. Età imperiale. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


Elia a Cagliari (dobbiamo ancora una volta la segnalazione del rinvenimento al canonico Spano), con dedica alla divinità Astarte di un altare in bronzo. Anche in questo caso, se appare certa la presenza nel luogo di rinvenimento dell’iscrizione di un tempio dedicato al culto di questa divinità, non si è ancora giunti all’individuazione precisa dell’area di ubicazione, ma le ricerche di ricognizione e di scavo in corso stanno restituendo elementi documentari che potrebbero risultare risolutivi in tal senso. Anche in questo caso abbiamo un significativo riscontro della «traducibilità» di Astarte con la dea greca Afrodite e Astarte, Afrodite, Venere Un discorso analogo si può fare riguardo al con la dea romana Venere. valore documentario di un’altra iscrizione Sotto il controllo di Roma, il paesaggio incisa su un frammento di blocco in pietra, della Sardegna fu oggetto di una profonda rinvenuta nel 1870 sulla sommità del Capo S. metamorfosi. Uno dei tratti distintivi delle iscrizione potrebbe essere legittimamente interpretata come espressione della tendenza alla «traducibilità» culturale che, secondo Jan Assmann, egittologo e studioso dei processi di formazione e trasmissione di quella che egli chiama «memoria culturale» (intendendo con questa espressione la trasmissione del senso del passato su cui ogni comunità tende a edificare la propria identità collettiva) contrassegnava le dinamiche di contatto tra le culture che identificavano la propria dimensione religiosa nel politeismo.

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politiche di dominazione di Roma, infatti, fu sempre quello di imprimere ai territori controllati una forma paesaggistica che fornisse, già da un punto di vista visivo, una inequivocabile sensazione di «romanità». Le città di fondazione fenicia e punica furono cosí progressivamente ridefinite da intensi processi di riurbanizzazione, con la realizzazione di nuovi spazi (come il foro, perno cruciale del modello urbanistico romano) e di nuovi edifici (come gli impianti termali, i teatri, gli anfiteatri, i templi, i ponti e gli acquedotti) chiamati a conferire nuovi connotati alle città. Esempi eclatanti di tale processo sono l’anfiteatro romano di Cagliari, databile presumibilmente alla fine del I secolo d.C., il teatro di Nora, la cui fondazione può essere inquadrata in età augustea, il tempio di Antas presso Fluminimaggiore, anch’esso di primo impianto augusteo e successivamente soggetto a ristrutturazione nel III secolo d.C., dedicato al dio Sardus Pater Babai, che «succede» nel culto a Sid Addir Babai. Entrambe le divinità paiono mostrare, ancora una volta, chiare tracce del fenomeno di «traduzione» religiosa che ha visto coinvolte in Sardegna la matrice culturale prefenicia, quella fenicio-punica e quella romana. Una di queste tracce è rappre86 a r c h e o

sentata dall’appellativo «Babai», termine che pare riconducibile a un sostrato linguistico estraneo sia all’ambito fenicio sia a quello latino e che viene abitualmente interpretato come segno dell’origine nuragica – o quanto meno locale – di tale culto.

lavoro e relax La Sardegna venne sottoposta in età romana a un intenso sfruttamento sia agricolo sia minerario. Fecero la loro comparsa nelle campagne le ville, edifici in cui i padroni dei latifondi o dei terreni destinati allo sfruttamento agricolo potevano agevolmente esercitare un attento controllo sulle proprie tenute, ma anche luoghi destinati all’otium, ossia a momenti di vita ritirata dalle attività di lavoro e dedita alle cure spirituali. Preziosa dovette rivelarsi la capacità di assicurare il traffico marittimo per il trasporto delle risorse recuperate nell’isola da incanalare nella rete di traffici commerciali, assai fiorenti in età romana. Roma tenne comprensibilmente in particolare considerazione le città costiere fondate dai Fenici come Karales, Sulci, Nora, Tharros, ma ne creò anche di nuove, come Turris Libisonis (Porto Torres). In tutte provvide a realizzare nuove strutture portuali.Anche all’interno vennero creati nuovi centri urbani,


quali Forum Traiani (Fordongianus), Augustis (Austis), Valentia (Nuragus). I processi di natura urbanistica che abbiamo appena delineato sono, a ben guardare, un caso particolare di un importante fenomeno che da sempre segna le culture umane: si tratta del reimpiego. Con questo termine intendiamo fare riferimento alla tendenza a riutilizzare elementi di cultura materiale (e non solo) prodotti in passato per proiettare su di essi funzioni parzialmente o totalmente nuove rispetto a quelle originarie. Nel caso dei centri di fondazione fenicia e punica investite da processi di riorganizzazione urbanistica in età romana, non è affatto improprio parlare appunto di reimpiego: queste città, infatti, vengono letteralmente «reimpiegate» in età romana e sottoposte a piú o meno profonde ristrutturazioni e modifiche del loro impianto, a volte limitato a una riformulazione della destinazione d’uso di specifiche aree urbane, altre volte finalizzato a una piú generale metamorfosi. In proposito occorre però sottolineare la rilevanza di un dato. Abbiamo ricordato la volontà di Roma di attribuire ai territori controllati un inequivocabile carattere paesaggistico di «romanità», e il ruolo cruciale assunto nel perseguire tale obiettivo dalla

monumentalizzazione delle aree urbane ed extraurbane attraverso la realizzazione di fori, impianti termali, teatri, anfiteatri, templi, ponti, acquedotti, ville. Ebbene, il processo di monumentalizzazione della Sardegna raggiunse un grado di intensità decisamente meno rilevante rispetto a quello che vediamo manifestarsi in altri territori su cui Roma ebbe modo di esercitare il proprio diretto controllo (esempi eclatanti in tal senso sono rilevabili in Nord Africa o in Turchia). A spiegare tale apparente «anomalia» può forse essere la forza di un carattere culturale che ancora oggi sembra connotare fortemente la Sardegna, cioè la tendenziale refrattarietà ad accettare la formula urbana come forma di aggregazione collettiva. In questo senso non è azzardato affermare che, nell’isola, la città è sempre apparsa storicamente come un’eccezione rispetto alla norma rappresentata dai centri abitati – i paesi e i villaggi – di medie e piccole dimensioni.

Nora (Pula, Cagliari). Il pavimento a mosaico del frigidarium delle terme centrali. Seconda metà del III sec. d.C. Sullo sfondo, si staglia la Torre del Coltellazzo, le cui fondazioni poggiano sui resti di strutture dell’acropoli della città antica.

la seconda vita dei nuraghi Dalla rilevanza e dalla intensità di tale fenomeno deriva un altro importante caso di reimpiego che ha svolto un ruolo importante nel processo di romanizzazione della Sardegna. Ci riferiamo al reimpiego di uno dei a r c h e o 87


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monumenti-simbolo della cultura isolana: il nuraghe. Questo monumento è espressione peculiare dell’isola e in particolare di una cultura che ha occupato un arco cronologico che va dall’età del Bronzo alla prima età del Ferro e che da esso, nella letteratura specialistica, ha mutuato il proprio nome: la cultura nuragica, appunto (fenomeno ampiamente descritto nella prima puntata di questo speciale, vedi «Archeo» n. 328, giugno 2012). Ebbene, i dati archeologici rinvenuti nel corso di indagini di scavo e di ricognizione di tali monumenti testimoniano il manifestarsi di situazioni frequenti e intense di reimpiego e di rifunzionalizzazione di nuraghi e aree nuragiche in età romana. Due esempi per tutti. Il nuraghe Lugherras, che in sardo significa «lucerne», trae il proprio nome proprio dalla grande quantità di lucerne di età romana rinvenute al suo interno, testimonianza della rifunzionalizzazione del monumento a fini votivi. Lo scavo del nuraghe pentalobato Orrubiu di Orroli ha riportato alla luce fasi di riutilizzo databili in età romana in due ambienti classificati come «laboratori enologici», ossia spazi destinati alle fasi di lavorazione dell’uva per la produzione di vino. Si tratta di un fenomeno la cui rilevanza culturale deve essere ancora colta e indagata appieno, ma la cui definizione consentirà certamente di chiarire in maniera piú puntuale i connotati assunti dalla Sardegna sotto la dominazione romana. Ciò che appare sin d’ora certo è il fatto che tale fenomeno debba essere interpretato come esplicita espressione del carattere di reciprocità assunto dai processi di acculturazione in Sardegna durante la fase di dominazione romana dell’isola.

il sardo, figlio del latino Il sardo, la lingua ancora oggi parlata in Sardegna, soprattutto nei centri abitati dell’interno, è una lingua neolatina. Ciò aiuta a comprendere, piú di ogni altra considerazione, quanto sia stata intensa l’influenza non solo linguistica, ma anche piú generalmente culturale, esercitata dal dominio romano sull’isola. La scrittura fu certamente uno degli strumenti di comunicazione piú potenti impiegati da Roma per esercitare il proprio controllo su un impero che cresceva in misura esponenziale giorno dopo giorno. Solo la scrittura infatti poteva consentire la gestione di un apparato politico-amministrativo adeguato alle innumerevoli esigenze generate dalla vastità e dall’eterogeneità delle terre 88 a r c h e o

conquistate. Il latino assunse cosí i connotati di una vera e propria «lingua comune» all’interno dell’impero. Assai preziose sono dunque per noi le innumerevoli testimonianze scritte pervenuteci. Grazie alla scrittura infatti siamo in grado di percepire quale «immagine di sé» volessero lasciare quegli uomini e quelle donne che decisero di affidare alla scrittura una qualche testimonianza, confrontandola in molti casi con il dato archeologico, che talvolta conferma, talaltra smentisce l’affidabilità del testo scritto. Dalle iscrizioni ricaviamo anche informazioni molto importanti non solo sullo specifico status giuridico raggiunto da ciascun centro urbano, ma anche su quando tale status fosse stato acquisito. Una precisazione è però d’obbligo: la possibilità di accedere all’uso della scrittura non era prerogativa di tutti e proprio per questo il rinvenimento di un’iscrizione è per noi da intendersi come testimonianza dell’appartenenza di colui o coloro che la fecero realizzare a una delle classi sociali piú abbienti. Ciò significa che dal mondo descritto attraverso la scrittura sono tendenzialmente escluse le

In alto: il ponte romano di Porto Torres, ancora perfettamente conservato, che collega le due rive del rio Mannu. L’aspetto attuale della struttura è datato al I sec. d.C. Nella pagina accanto: statua giovanile di Druso Minore, da Sulci. I sec. d.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


classi piú povere ma, al tempo stesso, piú numerose del mondo romano. È questo un dato che occorre sempre tener presente per comprendere quale debba e possa essere la corretta dinamica dei rapporti tra l’epigrafia e l’archeologia e, piú in generale, le altre discipline storiche, ciascuna delle quali è in grado di restituirci un tassello insostituibile del quadro complessivo del mondo antico.

La rete stradale Un altro fondamentale segno del processo di romanizzazione dell’isola sono le tracce dell’esistenza di uno strumento impiegato da Roma per condurre e rendere capillarmente efficace il proprio controllo dei territori isolani. Ci riferiamo alla realizzazione di una efficiente quanto ampia rete stradale, in parte creata ex novo in parte ristrutturata e potenziata rispetto agli assi viari già creati in età fenicia e punica. In Sardegna sono stati rinvenuti molti esemplari di un tipo particolare di reperto, i cosiddetti «miliari». I miliari svolgevano, lungo gli assi viari romani, un’importante funzione. (segue a p. 94)


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I grandi musei e i musei tematici I principali documenti pre-protostorici, fenici, punici e romani della Sardegna archeologica sono raccolti nei Musei Nazionali di Cagliari, Sassari e Nuoro. • museo archeologico nazionale di cagliari Cittadella dei Musei, piazza Arsenale 1; www.archeocaor.beniculturali.it Raccoglie materiali provenienti da donazioni e collezioni ottocentesche nonché i reperti dei grandi scavi del primo Novecento e i materiali piú importanti provenienti dai principali siti delle province di Cagliari e Oristano. La sua visita permette di effettuare un excursus cronologico dalle fasi piú antiche della preistoria attraverso l’esposizione di materiali pre-nuragici provenienti da varie località della Sardegna tra cui una In alto e al centro: pendenti in oro fenicio-punici, da Tharros (VII-V sec. a.C.), conservati al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari (a destra e in alto) e al Museo Archeologico Nazionale «G.A. Sanna» (a sinistra). In basso: sarcofago di Giulia Severa, da Turris Libisonis (oggi Porto Torres). Metà del II sec. d.C. Sassari, Museo Archeologico Nazionale «G.A. Sanna».

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ricca selezione di statuine litiche femminili neolitiche ed eneolitiche. Per il periodo nuragico, una delle maggiori attrattive è certamente la presenza delle sculture di bronzo di età nuragica, tra cui quelle di Abini di Teti e di Santa Vittoria di Serri provenienti dagli scavi di Antonio Taramelli, che operò nell’isola dal 1903 al 1935. Per le fasi storiche vi sono i reperti delle grandi collezioni formatesi nell’Ottocento dallo scavo delle necropoli puniche, soprattutto quelle di Tharros, Karales e Sulci, conservate oltre che a Cagliari, nel Museo Nazionale di Sassari e all’Antiquarium Arborense di Oristano (vedi oltre). • museo archeologico

nazionale « giovanni antonio sanna » di sassari

via Roma 64; www.museosannasassari.it Istituito nel 1878, conserva, oltre a materiali provenienti da antiche collezioni private, reperti delle principali località archeologiche della provincia di Sassari e, in parte, di quella di Nuoro. Il percorso prende le mosse dai materiali del Paleolitico Inferiore di Perfugas, e tra gli aspetti dedicati al periodo prenuragico riserva una sala a Monte d’Accoddi. La parte dell’età nuragica comprende i contesti del nuraghe Santu Antine di Torralba e del Palmavera di Alghero, nonché reperti provenienti da


Reperti conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. In alto: maschera ghignante in terracotta, rinvenuta nel 1876 a San Sperate (Cagliari). VI-V sec. a.C. A destra: bronzetti nuragici dal santuario di Abini a Teti (Nuoro). IX-VIII sec. a.C.

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speciale • archeologia della sardegna/2

numerosi monumenti del territorio di Arzachena. La sala romana è dedicata in particolare a Turris Libisonis, fondata nella località dell’attuale Porto Torres. • museo archeologico nazionale di nuoro via Manno 1; www.museoarcheologiconuoro.it Dispone di una sezione paleontologica in cui, oltre ai reperti e alla riproduzione della stratigrafia della Grotta Corbeddu di Oliena, vi sono documenti del territorio nuorese. Nella sezione archeologica sono esposti i materiali degli importanti contesti cultuali di Su Tempiesu Orune, Nurdole di Orani, Su Romanzesu di Bitti, Sa Carcaredda e S’Arcu ‘e Is Forros di Villagrande Strisaili e Sa Sedda ‘e Sos Carros di Oliena, di cui è allestita una ricostruzione. • antiquarium arborense di oristano

(museo archeologico «giuseppe pau») piazza Corrias; www.antiquariumarborense.it Importante istituzione sviluppatasi intorno alla collezione Pischedda, una ricchissima raccolta privata di materiale proveniente specialmente dalla penisola del Sinis. Oltre a materiale preistorico e protostorico sono presenti corredi tombali fenici e punici provenienti soprattutto da Tharros. • musei civici , raccolte

locali e musei tematici

In alto: la statua-menhir maschile Barrili I. Laconi, Museo delle Statue-Menhir. Sotto la testa, presenta l’emblematico pittogramma pettorale detto «capovolto» e, piú in basso, il doppio pugnale. A destra: la testa del «guerriero» di Monti Prama (Cabras). IX-VIII sec. a.C. Sassari, Galleria espositiva del Centro di Restauro e Documentazione della Soprintendenza di Sassari e Nuoro.

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www.sardegnacultura.it Numerosi materiali pree protostorici trovano collocazione nei musei civici territoriali distribuiti su tutta la regione: Ittireddu, Ozieri, Perfugas, Torralba, Viddalba nella provincia di Sassari; Dorgali e Teti nel Nuorese; Cabras e Sedilo nell’Oristanese; Barumini, Sardara, Villacidro, Villanovaforru e Villanovafranca nel Medio Campidano; Carbonia, Sant’Antioco e Santadi nel Sulcis-Iglesiente; Senorbí in provincia di Cagliari.


Maschera silenica, dalla necropoli punica di Sulci, presso Sant’Antioco. V sec. a.C. Sant’Antioco, Museo Comunale.

In provincia di Oristano sono visitabili alcuni musei tematici come il Museo delle Statue Menhir a Laconi, che ospita quaranta sculture attraverso cui si segue lo sviluppo della statuaria eneolitica, e il Museo dell’Ossidiana a Pau, che consente di approfondire le caratteristiche del vetro vulcanico e della sua lavorazione. A Paulilatino è di prossima inaugurazione una prima sezione del museo dedicato al Culto dell’Acqua e ai ritrovamenti del pozzo di Santa Cristina. I materiali fenici e punici sono visibili nei principali musei sardi. Una ricca documentazione si trova esposta in numerosi musei civici. Possono ricordarsi, tra i piú importanti, il museo «Ferruccio Barreca» di S. Antioco, dedicato prevalentemente alla città di Sulci; il Civico Museo Archeologico «Villa Sulcis» di Carbonia, in parte dedicato a Monte Sirai; il Museo di Santadi, con numerosi manufatti da Pani Loriga; il museo di Villasimius, che raccoglie i materiali del santuario fenicio e poi romano di Cuccureddus; il Museo «Sa Domu Nosta» di Senorbí, in gran parte dedicato all’insediamento punico di Santu-Teru e alla necropoli di Monte Luna; il Civico Museo Archeologico «G. Patroni» di Pula, riservato alla documentazione di Nora; la Casa Museo di Domus de Maria, con i materiali di Bitia; il Museo Civico di Cabras, con numerosi manufatti provenienti da Tharros; un museo in parte dedicato a Othoca è in corso di allestimento a Santa Giusta (OR); un altro grande museo sarà allestito a Olbia. Una piccola sezione del

museo di Padria (SS) espone le terrecotte votive provenienti da un importante santuario tardo-punico e romano di tipo salutifero. Altri materiali punici sono visibili nei musei «Genna Maria» di Villanovaforru, «Casa Atzori» di Paulilatino e nel Museo Civico di Viddalba (SS).

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speciale • archeologia della sardegna/2 Nora (Pula, Cagliari). Veduta dall’alto del teatro romano, la cui prima fondazione si data all’età augustea (fine del I sec. d.C.). In una fase tarda, dopo il IV sec. d.C., l’edificio non fu piú utilizzato per la messa in scena di spettacoli, ma fu adibito a magazzino.

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Come avviene ancora oggi quando percorriamo una strada, la scansione delle distanze lungo i vari assi viari doveva rappresentare una preziosa informazione per chi si trovava in viaggio. Da qui è derivata la necessità di dislocare lungo la strada strumenti destinati proprio a offrire al viandante informazioni sulla distanza già percorsa e ancora da percorrere. L’unità di misura a cui si riferivano i miliari erano appunto le milia: 1 miglio corrisponde a 1480 m circa. Si tratta di pilastrini di pietra su cui venivano incise informazioni sia sul nome della strada sia sulla distanza dal centro urbano di riferimento. Il rinvenimento dei miliari rappresenta per gli archeologi una preziosa fonte di informazioni, soprattutto quando avviene in prossimità del luogo in cui il miliario doveva essere stato originariamente collocato. Ancora una volta dobbiamo rilevare che non è comunque raro il caso di riutilizzo di questi manufatti. Ce ne offre significativa testimonianza il rinvenimento, nei pressi della fonte sacra nuragica di Rebeccu, presso Bonorva, di strutture termali in cui diver-

si miliari furono utilizzati per svolgere la funzione di suspensurae ovvero di pilastrini, normalmente costituiti da mattoni sovrapposti, usati per sostenere i pavimenti rialzati degli ambienti termali.

al centro dei commerci Testimonianza dell’efficacia della rete stradale ci viene offerta dalle tipologie di reperti di produzione romana rinvenuti un po’ ovunque nel territorio isolano. Rilevante è infatti la presenza, in età romana, di produzioni materiali pertinenti alla vita quotidiana, realizzate in serie, come testimoniano la standardizzazione delle forme e delle caratteristiche tecniche. Particolarmente significativi in tal senso sono i manufatti ceramici. Ma la ceramica rappresenta solo una parte, benché significativa, della ben piú vasta gamma di prodotti in circolazione nell’isola, che andava dai beni di prima necessità ai prodotti di lusso. La Sardegna mostra cosí di essere parte integrante della fitta ed efficace rete di traffici commerciali che segnava l’intero impero romano.


imprenditori sardi a ostia Tra i mosaici che ornano due ambienti del piazzale delle Corporazioni di Ostia, il porto alla foce del Tevere che riforniva Roma di derrate e merci provenienti da tutte le regioni del mondo antico, vi sono quelli dei navicularii et negotiantes Karalitani e dei navicularii Turritani. La menzione indica quali fossero, in piena età imperiale, i due porti principali dell’isola in relazione al commercio con Roma. Una iscrizione rinvenuta nella stessa Ostia e datata nel 173 d.C. sembra confermare che la derrata principale trasportata dall’isola era il frumento e che la Sardegna era anche un porto di scalo per il grano africano diretto a Roma. In questa ottica risulta palese l’importanza che rivestivano le due città: Karalis in piú diretto contatto con l’Africa settentrionale e Turris (assieme a Olbia) rivolta verso Ostia; le due città, poi, si trovano a capo di vaste zone pianeggianti coltivabili: piú

ampio il Campidano di Cagliari, piú ristretto, ma pur sempre cospicuo, il territorio di Turris. La destinazione a coltura cerealicola di queste pianure sembra certa, e la documentazione archeologica di piccoli santuari campestri dedicati alla dea delle messi Cerere ne è una conferma. Del resto, che la Sardegna fosse una delle principali produttrici di grano del Mediterraneo è cosa ben nota dalle fonti che la citano, con la Sicilia e l’Africa, come uno dei tria frumentaria subsidia rei publicae (cioè una delle fonti principali di approvvigionamento granario di Roma), e che riportano notizie sull’abbondanza del grano sardo sul mercato romano. (red.) In alto: Ostia Antica, piazzale delle Corporazioni. Particolare del mosaico con l’iscrizione che menziona i navicularii Turritani, cioè di Turris Libisonis (oggi Porto Torres).

Per le grandi potenze del mondo antico la produzione di opere d’arte fu un’attività sempre strettamente connessa con l’esercizio del potere. Nel caso di Roma, questo discorso assunse connotati particolarmente forti ed efficaci. Roma infatti utilizzava le opere d’arte come vero e proprio strumento di consolidamento della propria immagine identitaria sia nella stessa città capitale dell’impero, sia nelle varie province che via via venivano soggiogate. Il vasto e complesso linguaggio artistico elaborato a suo tempo dalla Grecia divenne cosí, nelle mani di Roma, un nuovo «linguaggio» impiegato con grande maestria per imporre il proprio dominio culturale/politico/economico sui territori e le popolazioni che componevano l’impero. Anche la Sardegna venne investita da tale fenomeno, come dimostrano le varie testimonianze archeologiche: sculture, sarcofagi, pitture, mosaici, rilievi architettonici, vasellame pregiato, tutto venne impiegato per generare una sempre piú intensa assimilazione culturale della nuova provincia. Anche in Sardegna comunque le piú rilevanti espressioni dell’artigianato artistico furono appannaggio delle classi piú agiate di stanza nell’isola, anche se non mancano testimonianze di un’arte «povera». Roberto Sirigu a r c h e o 95


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i nemici della democrazia Cosí Antonio Canova immaginò il momento in cui Critone, che ne era stato amico e discepolo, chiuse gli occhi di Socrate, spirato dopo avere bevuto un infuso a base di cicuta. Rilievo in gesso, 1790-1792. Possagno, Museo e Gipsoteca Antonio Canova.


Un’Atene in ginocchio, una Sparta che pare invincibile: stretto tra avversari interni ed esterni, l’esperimento politico dei «governi del popolo» culminati con Pericle entra in una crisi torbida, fatta di colpi di mano oligarchici, di lotte accanite tra poleis e di critiche feroci provenienti dal mondo intellettuale

di Fabrizio Polacco

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n tutta la terra, chi è migliore è contro la democrazia; infatti nei migliori vi è pochissima sregolatezza e ingiustizia, mentre massima è la diligenza verso le cose giovevoli. Nella gente del popolo, invece, si raggiunge l’apice dell’ignoranza, del disordine, della malvagità: la povertà infatti li spinge di piú verso azioni ignobili, cosí come l’assenza di educazione e di conoscenze, causata dall’indigenza».

Un trattatello anonimo della seconda metà del V secolo a.C. (piú o meno l’epoca della guerra del Peloponneso) ci riporta discorsi e considerazioni che dovevano girare parecchio, ad Atene, dai tempi di Pericle in poi. Dapprima nascostamente, nel chiuso dei circoli aristocratici ostili alla democrazia trionfante (le eteríe); poi, man mano che l’Atene imperialista e popolare scivolava verso la

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Dall’amore platonico al neoplatonismo rinascimentale Per il ruolo svolto nella Atene tra il V e il IV secolo, Socrate veniva comunemente assimilato a un sofista, in quanto si intratteneva a insegnare ai giovani e ai cittadini ateniesi; e tuttavia il suo ruolo dovette apparire anomalo in quanto – contrariamente a essi – non si faceva pagare per ciò. A parte che egli sosteneva paradossalmente di «sapere di non sapere», il farsi retribuire presupponeva un atteggiamento che potremmo definire «democratico» riguardo alla conoscenza, poiché implicava che chiunque potesse ambire a divenire sapiente o saggio attraverso l’apprendimento.

Questa scelta socratica fa dunque trasparire un tratto aristocratico (nonostante l’umiltà delle origini che egli rivendicava, essendo figlio di uno scultore e di una levatrice); la tradizionale educazione, la paidèia, si trasmetteva difatti nell’epoca d’oro della aristocrazia in forma del tutto gratuita, disinteressata: se non per quella forma di do ut des – uno scambio di favori – intellettuali e morali da una parte, erotici dall’altra – su cui si fondava il legame tra «amante» e «amato»: e che, tanto per tornare al tempo dei Trenta, era istituzionalizzato, per esempio, proprio a Sparta. Di tal natura fu anche il rapporto tra Socrate e Alcibiade – già protagonista controverso delle vicende politiche ateniesi – se il filosofo, di gran lunga piú anziano, non vi si fosse sottratto, rifiutandosi di cedere alle advance di costui, come racconta Platone nel Simposio. Il rifiuto socratico tendeva a impostare la relazione sulla ricerca del Bene anziché su quella del piacere, attuando cosí uno slittamento progressivo del suo obiettivo dalla Bellezza al Bene, dall’Eros per i corpi a quello per le anime, da quello per le anime a quello per i concetti ideali di Bene, Vero, Giusto; e, infine, di Dio. Tale ascensione dal materiale allo spirituale (con Freud la diremmo «sublimazione») costituisce la base di quel che si definisce oggi, con approssimazione, «amore platonico», e farà giungere i suoi echi sino alla ripresa del pensiero antico da parte del neoplatonismo rinascimentale. A sinistra: particolare di un affresco raffigurante Socrate, da un ambiente delle case a terrazzo di Efeso, un complesso di ricche residenze private, situate presso il tempio di Adriano. III sec. d.C. Selçuk, Museo Archeologico di Efeso. Nella pagina accanto: Corinto. Resti del tempio di Apollo, edificato in stile dorico intorno al 540 a.C. Nel 395 a.C., insieme ad Argo, Tebe e Atene, Corinto mosse guerra contro Sparta, dando inizio a un conflitto intestino che si protrasse per nove anni.

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catastrofe, sempre piú allo scoperto. Una volta che la città e il Pireo furono occupati dai vincitori peloponnesiaci (era il 404 a.C.), le stesse severe condizioni di pace imposte agli Ateniesi (abbattimento delle mura, riduzione della flotta a sole dodici navi, divieto di attuare una politica estera autonoma da Sparta) rafforzarono la posizione dei tradizionali oppositori del potere del demos, e quindi della costituzione democratica, alla quale era fin troppo facile imputare in toto la responsabilità della disfatta. Tanto che, nonostante le aspettative, un cambiamento di regime in senso autoritario non fu imposto ai vinti dagli occupanti, ma attuato dagli Ateniesi stessi. I magistrati dotati di pieni poteri che vennero allora eletti da un’assemblea umiliata e sconfitta, e passati alla storia come i Trenta Tiranni, appartene-

vano tutti alla città. Erano personalità di tendenza oligarchica, in alcuni casi rinomate per il proprio ruolo intellettuale, come il filosofo Crizia; e, piú o meno, la pensavano come l’autore di quel pamphlet antidemocratico.

epurazioni violente I Trenta erano chiamati a riformare lo Stato ateniese; cosí, tanto per cominciare, ridussero fino a 3000 il numero dei cittadini dotati di pieni diritti politici: una quantità decisamente ridotta rispetto ai 30 000 circa della democrazia periclea. Ma, nei fatti, essi trasferirono solo in minima parte il potere a questa pur circoscritta oligarchia, e anzi procedettero a una serie di epurazioni violente, quasi tutte risoltesi in condanne a morte. Anche gli esponenti piú moderati del gruppo, come Teramene (già

protagonista del cambiamento di regime tentato nella città dopo la sconfitta nella spedizione contro Siracusa, nel 411 a.C), finirono ben presto tra le vittime. Come accade in tutti i regimi basati sulla forza, i Trenta tentavano di rafforzarsi creandosi complici al di fuori della propria cerchia. Presero cosí a inviare l’ordine di recarsi ad arrestare gli oppositori ad alcuni dei cittadini piú in vista: se costoro accettavano, si legavano per sempre alla sorte del nuovo regime; se rifiutavano, rischiavano di divenirne essi stessi le future vittime. Tra quelli posti di fronte alla sgradevole alternativa, vi fu anche un ateniese, non certo di nobili origini, eppure notissimo in città per il semplice stile di vita, per il singolare modo di pensare e di dialogare, e, infine, anche per le sue frequentazioni altolocate. Socrate, figlio di a r c h e o 99


storia • storia dei greci/16 Dritto di un darico in oro con l’immagine di Artaserse II, in posizione di corsa (o forse inginocchiato) con una lancia e un arco. 420-375 a.C. Il re persiano fu uno dei protagonisti dei conflitti che videro coinvolte anche Sparta e Atene e nel corso dei quali si ebbero gli eventi narrati da Senofonte nell’Anabasi.

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Sofronisco, del demo (circoscrizione attica) di Alopece, era all’epoca già ultrasessantenne; un personaggio tanto brutto (pare) fisicamente, quanto affascinante nella conversazione (vedi box a p. 98). Socrate, che comunque rifiutò, disobbedendo all’ingiunzione, di farsi complice del nuovo regime – si salvò solo per la repentina, successiva caduta dei Trenta – aveva già dato pubblica prova di sé in una precedente occasione: il drammatico processo delle Arginuse, che egli si trovava a gestire in quanto membro in carica tra i pritani (vedi «Archeo» n. 327, maggio 2012). Allora, non volendo sottomettersi alla marea giustizialista e forcaiola che stava montando nel tribunale popolare, Socrate fu l’unico che trovò il coraggio di votare in dissenso dalla maggioranza. Ma quel che piú ci importa qui è la conclusione che aveva tratto da tale esperienza: «Se da un pezzo io mi fossi messo a occuparmi degli affari dello Stato, da un pezzo sarei anche morto, e non sarebbe stata cosa utile a nessuno, né a voi (Ateniesi), né a me. E voi non indignatevi se io dico cosí: è la verità. Non

c’è uomo che possa salvarsi quando si opponga sinceramente non dico a voi ma a una qualunque altra moltitudine, e cerchi di impedire che troppe volte nella città si commettano ingiustizie e si trasgrediscano le leggi; e anzi è necessario che chi davvero combatte in difesa di ciò che è giusto, se voglia sottrarsi alla morte anche per breve tempo, viva da privato e non occupi cariche pubbliche».

una tazza di cicuta Il brano sopra riportato riferisce le parole di Socrate nel corso del suo processo, che si tenne alcuni anni dopo (nel 399 a.C.) e si concluse, come noto, con una tazza di cicuta che gli fu data da bere in esecuzione della condanna a morte (vedi box a p. 103). È interessante notare come questo evento memorabile, considerato uno spartiacque nella storia della cultura occidentale, non sia imputabile all’azione dei Trenta, ma a una volontà di rivalsa della successiva, restaurata democrazia. Infatti, quel tentativo oligarchico che voleva trasformare Atene in una fotocopia di Sparta aveva avuto breve vita. Nel 403 a.C. un gruppo di fuoriusciti antioligarchici, guidati dal leader Trasibulo, riuscí con vicende alterne ad abParticolare della battere il regime dei Trenta e a stele funeraria restaurare la libertà. Sparta non dell’epibate ostacolò fino in fondo l’impresa: (fante di marina) senza mura né flotta, Atene coDemokleides, munque non avrebbe potuto orfiglio di mai impensierirla. Caduto cosí, Demetrios, ucciso nello scontro con gli avversari, lo nella battaglia stesso Crizia, e reintrodotta la navale combattuta democrazia, fu proclamata un’ampresso l’isola nistia generale per i sostenitori di Cnido, nel 394 del regime (a esclusione quindi a.C., tra Ateniesi dei Trenta). e Spartani. Inizi Tuttavia pochissimi anni dopo a del IV sec. a.C. Socrate fu ugualmente intentato Atene, Museo un processo, destinato a finire maArcheologico le. Una non meglio precisata Nazionale. «corruzione dei giovani»; la mancata venerazione per gli dèi della polis; anzi, il tentativo di introdurvi non meglio specificate «nuove divinità»: non gliene risparmiarono proprio nessuna, nei loro capi


di accusa, i nemici personali del filosofo. Dovevano essere tanti, e presenti da una parte come dall’altra dello schieramento politico ateniese. Se, infatti, il tenore delle accuse rimandava, in qualche modo, ai processi intentati dai tradizionalisti e dai conservatori contro i sofisti vicini a Pericle, il motivo di fondo di tanta ostilità, almeno a quanto ci riportano autori come Eschine, era ben diverso: l’essere stato Socrate il «maestro di Crizia e di Alcibiade», considerati tra i principali affossatori della democrazia. Se, trattando di storia greca, pare sempre opportuno soffermarsi sulle ultime vicende di Socrate, ciò dipende dal fatto che rivelano e insieme preannunciano alcuni fondamentali mutamenti dell’epoca tra il V e il IV secolo a.C. Innanzitutto,

quello che potremmo definire il «revisionismo» ateniese: un intenso e travagliato percorso autocritico della città, che da signora dell’Ellade, quale era stata, si vede ridotta all’impotenza, soprattutto a causa dei propri errori.

Gli intellettuali prendono le distanze Inoltre, tali vicende rispecchiano il graduale distacco di una parte del ceto intellettuale dalla vita politica attiva: se i «sapienti» e i sofisti dell’arcaismo e dell’età classica erano stati quasi sempre organici alla città-stato e alla vita collettiva – tant’è vero che spesso avevano ricoperto incarichi pubblici ed esponevano le teorie e i contenuti del proprio insegnamento in forma pubblica e aperta –, con Socrate invece (che gli Ateniesi vedevano

spesso «confabulare» con piccoli gruppi di seguaci) si preannuncia già l’epoca delle «scuole filosofiche» che saranno fondate dai suoi illustri successori. Alcune di queste divennero assai importanti: come l’Accademia di Platone (fondata nel 387 a.C.), e il Liceo, o Peripato, di Aristotele (dopo il 335 a.C.). Tutto ciò lascia comprendere che il ceto intellettuale, seppure ancora legato all’ambito della polis, tuttavia stava prendendo sempre piú le distanze da essa; e anzi iniziava a contrapporle le prime utopie sociali (che cos’altro è, infatti, la Città ideale descritta da Platone nella Repubblica?), nonché un complesso di dottrine morali e politiche fondate su principi «razionali»: che poi, facilmente, si trasformavano in assoluti (vedi box a p. 102). a r c h e o 101


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Platone, le Idee e la Metafisica Il filosofo Karl Raimund Popper (1902-1994) ha dedicato la prima parte dell’opera La società aperta e i suoi nemici addirittura a Platone totalitario. L’utopia di una Città perfetta descritta dal filosofo ateniese nella Repubblica non è altro, in fondo, che la trasposizione politica della sua Teoria delle Idee, le Forme perfette, atemporali e immutabili, di ogni realtà terrena, a cui ogni anima e spirito superiore dovrebbero tendere con la ragione e con la sapienza. Infatti Platone è generalmente considerato il padre della metafisica occidentale, della credenza, cioè, in un mondo «vero» e «spirituale», collocato «oltre», e «all’origine» di ogni sua «copia» terrena, che è in ogni caso inferiore all’Ideale. Si comprende come tale teoria sia alla base di gran parte del successivo sviluppo filosofico e religioso dell’Occidente.

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Mosaico raffigurante sette filosofi e noto come Accademia di Platone, dalla villa di T. Siminius Stephanus a Pompei. Fine del II-inizi del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il terzo da sinistra potrebbe essere lo stesso Platone (1): rappresentato con una grande testa e un’ampia fronte, tiene un bastone nella destra e traccia sul terreno una qualche figura geometrica. Tra gli altri personaggi vi sarebbero anche Eraclide Pontico (2), Lisia (3), Senocrate (4) e, nell’atto di andar via tenendo nella sinistra un rotolo, Aristotele (5).


Tuttavia, in quegli anni decisivi, fu anche la stessa polis, intesa come forma di governo, a iniziare a vacillare. Dopo la conclusione vittoriosa della guerra del Peloponneso, tutti pensavano che per Sparta si sarebbe aperta un’epoca di egemonia incontrastata sull’Ellade, pari per estensione e durata a quella esercitata nel secolo appena concluso da Atene. E, in effetti, per cominciare c’era stata la spedizione dei Greci al fianco del principe Ciro in Persia, allora in lotta contro il fratello Artaserse. Gli Spartani avevano contratto con il giovane figlio del Re dei Re un debito di riconoscenza: Ciro, infatti, aveva impresso una svolta decisiva al conflitto con Atene, finanziandoli generosamente con l’inesauribile tesoro regio, e permettendo cosí loro di sconfiggere l’acerrima nemica sul mare. Perciò ora, nella lotta di successione intrapresa dal principe persiano contro il fratello

il filosofo alla sbarra Il processo contro Socrate si celebrò nel 399 a.C., seguendo la prassi allora in uso ad Atene: coloro che venivano portati di fronte ai giudici dovevano difendersi personalmente, facendo valere le proprie ragioni. Chi non sapeva parlare in pubblico poteva commissionare il discorso di difesa ai cosiddetti logografi (scrittori di discorsi). Il tribunale era una grande giuria popolare, formata per sorteggio tra volontari. Il voto era a scrutinio segreto e i collegi giudicanti potevano contare anche fino a 1501 giurati. All’indomani della condanna di Socrate, Platone scrisse l’Apologia di Socrate, una delle sue prime opere, nella quale introduce il grande maestro nell’atto di pronunciare la sua difesa davanti ai giudici. I capi d’accusa Socrate fu portato in giudizio perché accusato: • di non credere negli dèi della città • di credere in altre e nuove divinità demoniache • di corrompere i giovani La difesa Secondo il resoconto di Platone, Socrate risponde alle imputazioni con con un’argomentazione articolata in tre parti: • nella prima abbatte il cumulo di accuse a suo carico; • alla dichiarazione di colpevolezza da parte del tribunale e alla conseguente richiesta di morte, Socrate replica chiedendo di essere mantenuto a spese dello Stato nel Pritaneo come cittadino benemerito, suscitando lo sdegno di una parte dei giudici, che prendono la decisione di condannarlo; • infine, dopo aver ascoltato la condanna, Socrate proclama di non considerare affatto la morte come un male e lancia un ultimo monito ai giudici che gli sono stati avversi. Ritratto di Socrate. Copia romana forse tratta dalla statua postuma in bronzo del filosofo realizzata da Lisippo intorno al 330 a.C. e collocata nel Pompeion di Atene, una sorta di grande

ginnasio. Parigi, Museo del Louvre. La rappresentazione del filosofo ha caratteri quasi satireschi, un’accentuazione che vuole forse evocare la sua proverbiale bruttezza.

Ma che cosa ha detto veramente?

In realtà non avremo mai la certezza, non solo di quali siano state le parole effettivamente pronunziate da Socrate nel suo processo, ma anche di quella che fu la sostanza del suo insegnamento. Egli, infatti, non volle lasciare nulla di scritto, pur in un’epoca in cui era già nato e si diffondeva il libro. Era forse un anti-dogmatico? E Platone, che, a partire dalla Apologia di Socrate, ne fece il protagonista dei suoi numerosi Dialoghi (questi sí, messi per iscritto), fu perciò forse, come ha ipotizzato il filosofo britannico Gilbert Ryle (1900-1976), «il Giuda di Socrate»?

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storia • storia dei greci/16 Selinunte (Sicilia). Il tempio G. Al monumentale edificio si lavorò per oltre settant’anni, fino al 409 a.C., che non furono tuttavia sufficienti per ultimarne la costruzione, bruscamente interrotta dalla conquista della città da parte di Annibale.

alla morte del padre, Sparta inviò in suo sostegno varie migliaia di mercenari dal Peloponneso, i quali conseguirono la vittoria a Cunassa, in Mesopotamia (401 a.C.). Nell’occasione, però, lo stesso Ciro cadde in battaglia; i Greci, venuto meno il senso della spedizione, si dovettero ritirare per centinaia di chilometri nel cuore del Vicino Oriente, minacciati dal fratello di Ciro, divenuto sovrano incontrastato del grande impero. La «risalita» verso l’interno dell’Asia (ciò significa in greco Anabasi, titolo dell’opera di Senofonte che li guidò e ne raccontò poi nei suoi scritti), si concluse felicemente con l’arrivo ra forse al suo apice, aveva tuttavia sul Mar Nero dei «Diecimila». i piedi d’argilla. Il difetto principale era la scarsezza del numero degli fragilità di un impero Spartiati, ormai ridotti ad alcune Questa spedizione incompiuta migliaia e sempre minacciati dalle comportò tuttavia due ovvie conse- popolazioni sottomesse della Laguenze storiche. La prima fu che, conia e della Messenia. Un altro almeno per qualche anno, i buoni difetto, cruciale in questo frangenrapporti tra Sparta e la Persia ven- te, era proprio l’importanza del nero meno, anzi si trasformarono in ruolo svolto dall’aiuto persiano aperta ostilità. La seconda fu che i nelle vittoria di Sparta sulla rivale Greci toccarono con mano la fragi- Atene. Era prevedibile infatti che a lità di quel colossale impero che, questo punto il nuovo sovrano pur avendo ancora i mezzi finanzia- Artaserse II, vistosi aggredito nei ri per intervenire da arbitro nelle suoi stessi territori, avrebbe fatto dispute tra le poleis, ormai non sem- pendere la bilancia dalla parte degli brava neanche piú in grado di con- avversari di Sparta. Sembra, infatti, che alla guerra trollare il suo stesso territorio. Fu cosí che, nel 396 a.C., Sparta congiuntamente mossa a quel parve finalmente farsi carico di quel punto contro i Lacedemoni da ruolo di leader dei Greci nell’epoca- Corinto, Argo, Tebe – e, in un tenle conflitto contro il Barbaro che tativo di riscatto, anche da Atene era già stato di Atene. Il re lacede- – avessero non poco contribuito le mone Agesilao passò con un eserci- somme di danaro inviate dal Gran to in Asia, ove fu accolto come un Re, per corromperli, ai principali liberatore dalle città greche della esponenti politici di quelle città. costa egea e della Propontide; e Ma dietro questo nuovo conflitto, sembrò sul punto, con sessant’anni che logorò ulteriormente le forze di anticipo sull’impresa di Alessan- dell’Ellade, vi era un motivo piú dro Magno, di assestare un colpo profondo: la radicata, secolare aspirazione delle poleis alla totale automortale ai Persiani. La potenza militare di Sparta, allo- nomia e indipendenza, che le in104 a r c h e o

duceva a vedere sempre e comunque con ostilità lo strapotere raggiunto da una qualsiasi di esse.

Una guerra inutile Questa sciagurata «guerra corinzia», combattuta tra Greci, durò ben nove anni (dal 395 al 386 a.C.); fu dispendiosa ed esasperante, e, quel che è peggio, si concluse senza veri vincitori, né vinti. Ma ciò bastò perché Agesilao fosse richiamato nell’Ellade a difendere la propria città, quindi costretto a interrompere la vincente spedizione in Asia Minore; e perché allo stesso tempo Atene, che con il suo ammiraglio Conone e una flotta di navi greche e persiane aveva sbaragliato i Lacedemoni nelle acque di Cnido (394 a.C), riuscisse a liberarsi dalle condizioni-capestro dettate dalla pace con Sparta. Ricostruí le sue mura, e, piú tardi, ricostituí una seconda lega navale con i suoi nuovi alleati dell’Egeo. La conclusione fu che Sparta, messa in difficoltà, si decise una volta per tutte a riappacificarsi con Artaserse, assieme al quale impose all’intera Grecia la cosiddetta Pace di Antalcida o del Re (386 a.C.).


Per i Greci si trattava di un accordo umiliante: a distanza di un secolo dalle vittoriose guerre persiane, tutte le poleis dell’Asia Minore, comprese le isole di Cipro e di Clazomene, tornavano per esso in mano ai barbari; a ciascuna delle cittàstato della penisola, d’altra parte, veniva garantita l’autonomia; ma proprio per questo dovevano essere sciolte quelle alleanze regionali, le quali in genere vedevano sempre imporsi l’egemonia della città-stato dominante, e quindi avevano rappresentato gli unici tentativi di dar vita a potenze in grado di unificare in qualche modo i Greci, e di arrivare cosí a mettere davvero in pericolo il dominio del Gran Re.

La sicilia in fiamme Nel frattempo, anche i Greci di Sicilia non se la passavano meglio. La terribile lotta per la sopravvivenza che la principale colonia greca d’Occidente, Siracusa, aveva ingaggiato contro gli Ateniesi durante la guerra del Peloponneso, si era conclusa favorevolmente per la città; tanto che il protagonista di quella resistenza vittoriosa, Ermocrate, era stato inviato nell’Egeo a

sostegno dei Peloponnesiaci proprio contro Atene. Ma il conflitto tra Greci aveva fatto comprendere ai Cartaginesi, insediati all’estremità occidentale della grande isola mediterranea, che era forse giunto il momento opportuno per vendicarsi della terribile disfatta subita a Imera nel 480 a.C. Cosí, guidato da un generale di nome Annibale, un esercito punico, muovendo dalle basi di Mozia e di Panormo (Palermo), assediò e distrusse prima la splendida Selinunte (409 a.C.), ove oltre 16 000 Greci furono massacrati, e poi la stessa Imera. Nonostante il soccorso portato questa volta tempestivamente dai Siracusani, tre anni dopo toccò alla ricchissima Agrigento di essere espugnata dai Cartaginesi e completamente evacuata dai suoi abitanti; e nulla si poté fare, in seguito, neppure per difendere Gela (405 a.C.). La stessa Siracusa si vide a quel punto in pericolo: per la prima volta si rischiava che i nemici cacciassero del tutto i Greci dalla Sicilia. Fu allora che anche a Siracusa la democrazia fu abbattuta; ma questa volta non si trattò di un breve intervallo, come per Atene. A prende-

re il potere – con il sostegno del demos e contrastato invano da una parte degli aristocratici – fu un giovane ufficiale, Dionisio, il quale non l’avrebbe piú lasciato fino alla sua morte nel 367/6. Si fece dapprima conferire il titolo di strategos autokrator («generale con pieni poteri»), ma il suo governo si caratterizzò poi come quello di una vera e propria tirannide, che egli trasmise al figlio e successore, Dionisio II. Praticando una politica interna autoritaria e imponendosi, con deportazioni di popolazioni e cancellazioni di intere città, sugli stessi Greci di Sicilia, il tiranno riuscí tuttavia a contenere i Cartaginesi, anzi arrivò a un certo punto a distruggere la stessa Mozia; fondò cosí uno Stato di tipo territoriale (non piú una semplice polis, quindi), che si estese in seguito anche a settori della Magna Grecia. I Greci di Sicilia si erano insomma salvati dagli invasori barbari: ma a prezzo della propria libertà. (16 – continua) nella prossima puntata • Tebe: l’ultima egemonia a r c h e o 105


antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

s.p.q.r.: sono... polentoni questi romani per molto tempo, non fu il pane ad accompagnare le pietanze servite sulle mense di roma, ma una piú modesta – e probabilmente poco saporita – pappa realizzata con farina di farro

C

ontrariamente a quel che si potrebbe pensare, gli antichi Romani introdussero piuttosto tardi, nella loro alimentazione, l’uso del pane. Come assicura Plinio il Vecchio (Storia Naturale, XVIII, 62, 83, 107-8), ciò avvenne agli inizi del II secolo a.C., cioè solo dopo l’adozione del grano duro (proveniente dalla Sicilia e

dall’Africa), a chicco nudo, ossia libero del suo rivestimento, dal quale era possibile ottenere una farina senza scorie che rendeva manipolabile la pasta. Prima d’allora, con la farina di farro (far) – la farrina! – ottenuta mediante la grossolana macinazione o, piuttosto, la frantumazione, nel mortaio di

casa, dei chicchi «vestiti», cioè tenacemente attaccati al loro rivestimento (la pula), era possibile solo confezionare focacce. Le quali, peraltro, erano utilizzate soprattutto per farne offerte agli dèi in particolari circostanze, nel corso di riti e cerimonie solenni. Come in occasione dei matrimoni religiosi,

Come preparare una puls iuliana (ricetta tramandata da Apicio nel De re coquinaria, qui nella traduzione di Eugenia Salza Prina Ricotti) • Fa’ ammollare alica (grano duro) ben pulita, mettila a cuocere e quando bolle aggiungi olio. • Fa’ cuocere lentamente (...) quando si sarà bene addensata, prendi due cervella già cotte e un quarto di chilo di carne tritata come per farne polpette. • Mescola bene la carne con le cervella e mettila in un tegame. • Poi trita pepe, levistico, seme di finocchio, diluisci con liquamen e un po’ di vino e versa sulla carne e le cervella. • Quando

tutto sarà ben cotto e le carni si saranno ben amalgamate con il sugo, condisci la polenta con questa salsa aggiungendola poco a poco e schiacciandola insieme per darle l’aspetto di una crema. Idem per una puls punica • Si fanno inzuppare in acqua 400 gr di alica e si mettono in un alveum ben pulito con 1,2 kg di formaggio fresco e 200 gr di miele e un uovo. • Si mescola tutto bene e si mette a bollire questo miscuglio in una pentola nuova.


il cui rituale, proprio perché comportava l’offerta d’una focaccia di farro che gli sposi facevano a Giove, prendeva il nome di confarreatio. Prima ancora che per confezionare focacce, tuttavia, la farina di farro venne lungamente e largamente usata, cotta in acqua e sale, per confezionare la «polta» (o puls): una sorta di «polenta» o pappa semiliquida (non molto diversa dal pastone preparato per i polli sacri), che fu alla base dell’alimentazione dei Romani dei primi secoli. «Pulte autem, non pane, vivisse longo tempore Romanos manifestum» («È noto che i Romani vissero a lungo di polenta, non di pane»), scrive Plinio il Vecchio (Storia Naturale, XVIII, 83). E l’uso fu talmente radicato e diffuso che i Greci, da raffinati, chiamavano ironicamente i Romani pultiphagi (o

pultiphagonides), come attesta Plauto in diverse sue commedie, ossia, letteralmente, «mangiapolenta», cioè – come diremmo oggi – «polentoni».

Gli arricchimenti La «polta», nella sua versione piú semplice ed elementare – la antiquissima puls di Marco Terenzio Varrone (De lingua latina, 5, 105) – non doveva essere molto saporita! Si trovò cosí il modo di migliorarla aggiungendovi, volta a volta, vari ingredienti: cavoli e cipolle, latte e formaggi, uova, ceci, lenticchie e semi di altre leguminose, e soprattutto fave (nella puls fabata). Ma, tra le ricette di Apicio ce n’è una che la prescrive «guarnita» con un impasto fatto di cervelli e carne macinata, condito con pepe, levistico, seme di finocchiella, vino e liquamen (la

Pompei, Casa dei Vettii. I sec. d.C. Il focolare della cucina, sul quale sono state trovate una graticola e varie pentole. Prima dell’adozione del grano duro, che si ebbe agli inizi del II sec. a.C., ad accompagnare le pietanze che venivano cucinate era una sorta di «polenta», la puls, realizzata con farina di farro.

salsa di pesce della quale i Romani erano ghiotti). Quando era cosí «arricchita», la puls veniva talvolta chiamata col nome di satura (o satira). Densa e sostanziosa com’era, non è difficile capire come potesse condurre facilmente alla... saturazione (come diremmo oggi, mentre gli antichi ricorrevano a una perifrasi col verbo saturare). E si capisce pure come lo stesso termine sia stato usato per designare il genere letterario – cosí tipicamente romano – che ancora chiamiamo «satira»: in origine (e prima della «sistemazione» letteraria di Lucilio, nel II secolo a.C.), un componimento recitabile misto di poesia e prosa, fatto di un «miscuglio» di battute ironiche, di motteggi, di doppi sensi e di allusioni ridanciane, anche pesanti, scurrili e oscene. La «polenta» fu, a Roma, per molto tempo il pasto quotidiano di tutti, poveri e ricchi, patrizi e plebei. Lo stesso Plinio e Valerio Massimo, nel I secolo d.C., ricordano come, una volta, anche i maximi viri, gli uomini illustri, consumassero piú frequentemente polta che pane. Poi, proprio con la diffusione del pane e sempre di piú, via via che le conquiste d’oltremare portavano novità ed esotismi anche in cucina, essa abbandonò piuttosto rapidamente la mensa dei ricchi e di coloro che per mettersi al passo coi tempi, rinnegavano la rusticità e la frugalità degli avi. La «polenta», peraltro, continuò a svolgere un ruolo non secondario nell’alimentazione delle classi inferiori, magari in alternanza, o a integrazione, dell’uso del pane. Soprattutto nelle campagne, ma anche a Roma dove nelle case della povera gente continuavano a bollire «le grandi pentole di terracotta fumanti di polenta», evocate da Giovenale (grandes fumabant pultibus ollae). (1 – continua)

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divi e donne Francesca Cenerini

padri contro figli nata dall’unione tra augusto e scribonia, giulia maggiore fu un personaggio chiave negli anni del nascente impero. fino a quando non cadde in disgrazia, per volere del suo stesso genitore

G

iulia fu l’unica figlia di sangue di Augusto e della sua seconda moglie Scribonia, ripudiata, secondo le fonti, proprio nel giorno della nascita della figlia. Fin da giovanissima, Giulia fu una pedina fondamentale nelle strategie matrimoniali del padre, cosí come voleva una consolidata tradizione repubblicana. L’importanza del suo ruolo è dovuta al fatto che il matrimonio fra Augusto e Livia fu sterile, ma il principe non divorziò mai, soprattutto per ragioni di opportunità politica, e dovette quindi elaborare strategie alternative per costruire la sua successione. Con l’impero, all’elemento femminile della domus Augusta fu attribuito un ruolo essenzialmente dinastico, che le donne avevano già rivestito nelle monarchie orientali ed ellenistiche. A partire da Augusto il nuovo potere imperiale si trovò nella necessità di avere un erede che appartenesse biologicamente alla famiglia e che potesse farsi garante della trasmissione, per cosí dire, dell’«augustalità» carismatica del fondatore dell’impero. Come tutte le ragazze dell’aristocrazia repubblicana, Giulia ricevette la migliore educazione possibile. «Litterarum amor multaque eruditio»: cosí la descrive Macrobio (Saturnali, 2, 5, 2-4), che si compiace di sottolineare l’eccellenza della sua nascita. Lo stesso scrittore evidenzia molto bene, a mio parere, il nuovo ruolo

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che Giulia si trova a impersonare: Augusto avrebbe detto ad alcuni amici che aveva due figlie delicatae, che amava molto e di cui si doveva occupare, la res publica e Giulia. È evidente che, nel pensiero dell’imperatore, l’una non poteva prescindere dall’altra.

fidanzata a due anni Augusto dispose della figlia in vista della sua successione, come, peraltro, aveva già fatto durante la guerra civile durante la fine dell’età repubblicana. Infatti, nel 37 a.C., quando Antonio e Ottaviano si erano riavvicinati con l’accordo di Taranto, furono fidanzati i rispettivi figli, Marco Antonio Antillo e Giulia, che aveva appena due anni.

Mediatrice di tale riavvicinamento fu Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio. In politica estera, Giulia sarebbe servita anche per un matrimonio, mai celebrato, con Cotisone, re dei Geti, secondo quanto scrive Svetonio (Vita di Augusto, 63, 2). Il primo designato da Augusto alla propria successione fu il figlio di primo letto della sorella Ottavia, Marco Claudio Marcello. Tale scelta dinastica fu evidenziata anche dal matrimonio fra i due cugini, Marcello e Giulia, celebrato nel 25 a.C. Marcello, però, morí prematuramente nel 23 a.C., senza lasciare figli. Alla fine del 21 a.C. Giulia sposò Marco Vipsanio Agrippa, fedele collaboratore del padre, piú anziano di lei. Non si può non riconoscere che Giulia fu la «testimonial» ideale della politica paterna relativa all’incremento demografico, perché, nei dieci anni scarsi di matrimonio con Agrippa, nacquero ben cinque figli: tre maschi, Caio Cesare, Lucio Cesare e Agrippa Postumo, e due femmine, Giulia Minore e Agrippina Maggiore. Nel 17 a.C.

una famiglia al potere Clodia

1

Scribonia Claudio Marcello

1

Marco Vipsanio Agrippa

2

Giulia Minore

2

Giulia

Agrippina Maggiore

Augusto

3

Livia Drusilla Augustea

Tiberio

3

Caio Cesare

(1, 2...: numero del matrimonio; la linea tratteggiata indica l’adozione)

Lucio Cesare Agrippa Postumo


Augusto adottò i nipoti naturali, Caio e Lucio Cesari. Dopo la morte di Agrippa, nel 12 a.C., Giulia fu costretta a sposare un riluttante Tiberio, a sua volta obbligato a divorziare dall’amata moglie Vipsania Agrippina, figlia di primo letto dello stesso Agrippa e madre di Druso Minore, unico figlio di Tiberio. Presumibilmente nel 10 a.C. Giulia e Tiberio persero il figlio neonato (Svetonio, Vita di Tiberio, 7, 2-3) e, a partire dal 9 a.C., i

rapporti fra i due coniugi divennero definitivamente conflittuali, tanto che, nel 6 a.C., Tiberio si ritirò a Rodi, molto probabilmente a causa della forte accelerazione impressa alla carriera del giovane Caio Cesare, sostenuto dalla plebe di Roma, su iniziativa della madre Giulia. Nel 2 a.C. Giulia venne incriminata per il suo stile di vita scandaloso in un pubblico processo che si svolse in senato (Svetonio, Vita di

Augusto, 65, 4; Cassio Dione, 55, 10, 12-16). La sua caratterizzazione di donna dissoluta venne perfezionata e consegnata ai posteri nel ritratto che di lei ci tramanda il già citato Macrobio (Saturnali, 2, 5, 1-10). Sostenne l’accusa, con una dura lettera inviata al senato, suo padre, l’imperatore Augusto. Tra i capi di imputazione c’era quello di condurre una vita sregolata, sfrenata da un punto di vista sessuale e di avere incoronato con fiori la statua di Marsia nel Foro, simbolo delle libertà cittadine (Plinio, Storia Naturale, 21, 9).

«eresie» dionisiache Proprio questo ultimo atto d’accusa prova il fatto che Giulia e i suoi amici intendevano richiamarsi a Dioniso e, in particolare, a chi, negli ultimi tempi della sua attività politica e militare, si era proclamato Nuovo Dioniso, e cioè Marco Antonio, proprio colui che era stato l’acerrimo nemico finale di Ottaviano Augusto (e di Agrippa). È importante sottolineare che Giulia fu accusata di essere l’amante di Iullo Antonio. Questi era figlio di Antonio e di Fulvia, ed era stato allevato, dopo la morte del padre, da Ottavia, sorella di Augusto, vedova di Antonio. Personaggio di spicco a corte, Iullo aveva sposato una delle figlie di Ottavia, Claudia Marcella, e aveva raggiunto, dopo una brillante carriera, il proconsolato d’Asia (Velleio Patercolo, 2, 100, 4). Giudicata colpevole di adulterio, Giulia venne relegata in insulam (fu mandata a Pandataria, oggi Ventotene), sulla base della legislazione fortemente voluta da Augusto in materia di diritto familiare, la lex Iulia de adulteriis coercendis, fatta approvare nel 18-17 a.C. Fu accompagnata dalla Testa ritratto di Giulia, figlia dell’imperatore Augusto e della sua seconda moglie, Scribonia. I sec. a.C. Berlino, Pergamon Museum.

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AGRIPPA

GIULIA

CAIO CESARE

madre Scribonia, che volle condividerne l’esilio (Velleio Patercolo, 2, 100, 5). Del resto, anche Scribonia era stata accusata da Ottaviano di comportamento sessuale scandaloso (Svetonio, Vita di Augusto, 62, 2), quando il triumviro, come abbiamo già visto, aveva avuto la necessità di divorziare per cambiare le sue alleanze politiche. Seneca, invece, che dipende da altre fonti, ce la presenta come donna incorruttibile (Lettere, 70, 10). Basterebbe questa semplice notazione per rendersi conto dell’utilizzo fortemente strumentale dei ritratti delle donne romane da parte degli scrittori antichi. Il nome di Giulia Maggiore fu cancellato dalle dediche poste a Roma, in Italia e in tutte le province occidentali dell’impero, cioè subí quella che tecnicamente viene definita damnatio memoriae. Iullo Antonio venne giustiziato.

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Naturalmente, le fonti antiche perlopiú riportano la versione ufficiale, accreditata da Augusto, che indicava negli adulterii di Giulia e nel suo stile di vita dissoluto il motivo della sua condanna.

accuse pretestuose La piú recente indagine storiografica (Francesca Rohr Vio, Contro il Principe. Congiure e dissenso nella Roma di Augusto, Bologna 2011) dimostra, invece, che l’accusa di adulterio era pretestuosa e che, in realtà, il fatto va letto in chiave politica. Già nell’ultimo decennio del I secolo a.C., infatti, si assiste alla rinascita di una fazione antoniana – che si ispirava alla politica cesariana –, di cui facevano parte anche nobiles ex pompeiani. Si tratterebbe, insomma, di una reazione al progressivo conservatorismo augusteo da parte di elementi della

Roma, Ara Pacis, lato sud. Particolare della scena di processione alla quale partecipano i membri piú importanti della famiglia imperiale. 13-9 a.C. sua stessa corte, decisi a imprimere alla monarchia una svolta autocratica, secondo il modello ellenistico-orientale, fondato sul favore dei soldati e del popolo. Tiberio, invece, era visto come l’esponente dell’accordo con il senato, cioè con la classe dirigente conservatrice e tradizionalista in seno alla domus principis. Augusto accusò la figlia di condotta dissoluta e di adulterio con Iullo Antonio, anche allo scopo di eliminare le altre personalità di spicco coinvolte nell’opposizione al suo potere. Secondo Cassio Dione (55, 10, 15), Iullo avrebbe agito perché spinto dal desiderio di diventare re e la successiva propaganda augustea non mancò di istituire un parallelismo tra il passato vincolo di Antonio e Cleopatra e il nuovo legame di Iullo Antonio e Giulia. Come scrisse Seneca (La brevità della vita, 4, 6), Augusto non poteva di certo accettare «iterum timenda cum Antonio mulier», di temere, cioè, per una seconda volta una donna al fianco di Antonio, dopo il pericolo rappresentato dalla regina d’Egitto. L’imposizione del matrimonio tra Giulia e Tiberio nell’11 a.C. e il conferimento allo stesso Tiberio della tribunicia potestas nel 6 a.C. avevano chiarito che Augusto, nonostante l’adozione dei nipoti, non aveva alcuna intenzione di indulgere alle istanze politiche del circolo politico che si richiamava a Giulia stessa. La condanna della figlia e di Iullo Antonio sancí la loro sconfitta, sia pure non definitiva, in quanto pochi anni dopo, nell’8 d.C., la figlia di Giulia, Giulia anch’essa, detta Minore per distinguerla dalla madre, fu implicata in un’ulteriore congiura ai danni del nonno, come vedremo nel nostro prossimo appuntamento.



l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Le torce di cerere Il fuoco era un elemento fondamentale nella vita quotidiana antica. e la sua rappresentazione trova spazio anche nell’iconografia numismatica

I

n occasione del IV Convegno dell’ILA (International Lychnological Association), tenutosi a Ptuj in Slovenia e dedicato al tema delle lucerne e della luce in senso lato (vedi, in questo numero, a p. 16), chi scrive ha presentato un contributo sulla rappresentazione delle fiamme nella moneta romana. Le immagini di fuochi e strumenti di illuminazione erano solitamente inserite in contesti di ordine sacro, che riproponevano statue, situazioni e oggetti reali di cui spesso non si è conservata memoria archeologica. In età repubblicana ricorrono sui denari divinità come Cerere e Diana con faci o lunghe

torce in mano, che denotano di regola un’accezione infera; nel corso dell’impero domina l’immagine dell’ara fiammeggiante, sulla quale l’imperatore e a volte gli stessi dèi

dea delle messi...

Denario di Marco Volteio, emesso nel 78 a.C. Al dritto, la testa del dio Liber; al rovescio, Cerere su un carro trainato da due draghi, con legenda M VOLTEI M F.

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celebrano complesse scene sacrificali. Interessanti sono anche le strutture architettoniche destinate all’illuminazione, quali i fari che campeggiano sulle monete di Sesto Pompeo e di Nerone. Cosí come lo sono anche gli altari funerari e le pire destinate alla cremazione del corpo imperiale, in cui il fuoco e la luce che ne conseguiva svolgevano un ruolo principe anche sul piano ideologico, scenografico e religioso.

Tra le divinità con fiaccole vi è Cerere, che compare in primis sui denari di Marco Volteio nel 78 a.C. che ricordano i ludi dedicati alla dea in aprile. Divinità preromana della vegetazione, delle messi e legata al concetto di fertilità nel senso piú ampio, Cerere presenta anche un lato infero, connesso al Cereris mundus, una fossa oscura sita a Roma aperta soltanto per tre giorni all’anno che metteva in comunicazione il mondo dei morti con quello dei vivi, attraendo pericolosamente quest’ultimi a sé. Quei giorni (24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) erano considerati dies religiosi, durante i quali non si svolgevano attività pubbliche. Cerere fu poi identificata con la Demetra greca, condividendone anche le vicende mitiche relative all’episodio del ratto della figlia Persefone: da qui l’aspetto infero


attribuito alla divinità. La moneta di M. Volteio raffigura la dea alla guida del suo carro trainato da due draghi, simile a quello del Sole e a quello che donò a Trittolemo per percorrere rapidamente la terra e insegnare agli uomini l’arte dell’agricoltura. Demetra/Cerere tiene nelle mani le due lunghe torce di pino accese al fuoco dell’Etna, con le quali illuminò la notte vagando alla disperata ricerca della figlia rapita da Ade, re dell’Aldilà (Ovidio, Metamorfosi, V, 440.443). La bella testa di Liber/Dioniso sul dritto del denario riconduce all’aspetto propriamente italico della dea, riferendosi al tempio sull’Aventino dove si venera congiuntamente la triade «plebea» da lei formata insieme a Liber e Libera, come ricorda Ovidio nei Fasti (III, 783-786): «La gente dei campi veniva nell’Urbe per assistere ai giochi, ma non per divertimento, bensí per onorare gli dèi, e nel giorno del dio scopritore dell’uva si celebravano giochi che ora egli ha in comune con la dea portatrice di torcia».

...e degli inferi In età imperiale Cerere/Demetra compare frequentemente sulle monete – spesso delle imperatrici – in tutta la sua maestà, con in mano le lunghe torce oppure una torcia e delle spighe di grano, sintetizzando il ruolo connesso alla fecondità della natura a quello infero dell’oltretomba, quale madre della regina dell’Ade. Tale accezione che unisce nella dea la vitalità e la morte è usato nelle emissioni di consacrazione della Diva Faustina I, morta nel 141 d.C. e battute da Antonino Pio, che manifestò il suo cordoglio con una vasta produzione commemorativa. La stessa iconografia poteva

In alto: aureo emesso da Antonino Pio in onore della Diva Faustina I. Post 141 d.C. Al dritto, il busto di Faustina con legenda DIVA FAVSTINA; al rovescio, Cerere con un lungo scettro e una fiaccola, con legenda AVGVSTA. A destra: denario di Crispina. 180-183 d.C. Al dritto, il busto di Crispina, con legenda CRISPINA AVGVSTA. Al rovescio, Cerere con una torcia e un mazzo di spighe, con legenda CERES.

però riferirsi anche all’imperatrice vivente, intesa quale apportatrice di fecondità come nei denari della bellissima Crispina, moglie sfortunata di Commodo, dove la dea ha le spighe rivolte in basso e la torcia in mano, quasi ad anticipare il triste destino dell’imperatrice, accusata di adulterio dal marito, esiliata a Capri e infine fatta uccidere, senza poi naturalmente alcuna moneta di consacrazione a ricordarla. (1 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Michael D. Coe

la soluzione del codice maya La Linea, Bologna, 368 pp., ill. b/n 19,00 euro ISBN 978-88-97462-02-6 www.edizionilalinea.it

nel volume, la scoperta di Knorosov, che non è esagerato paragonare a uno Champollion dell’universo mesoamericano, ha impresso un’accelerazione formidabile agli studi sui Maya, la ricostruzione della cui cultura si è fatta sempre piú puntuale e ci permette oggi di tracciarne un profilo assai aderente alla realtà. E sempre piú lontano dall’immagine di esotici profeti di sventura… Licia Vlad Borrelli

etica della conservazione e tutela del passato

Quello che stiamo vivendo è, per molti, il «loro» anno, ma, pur cavalcando la popolarità derivata dalla catastrofica profezia sulla fine del mondo, ai Maya si dedicano anche iniziative lodevoli. È il caso di questa prima edizione italiana dell’opera con cui, nel 1992, l’archeologo e antropologo statunitense Michael D. Coe ripercorse la storia della decifrazione della scrittura maya, all’indomani delle geniali intuizioni del ricercatore sovietico Jurji Valentinovic Knorosov. Questi, nel 1947, dimostrò il valore fonetico dei glifi adottati nelle proprie iscrizioni dal popolo precolombiano e comprese che quei segni non esprimevano idee o concetti, ma precisi vocaboli della lingua maya. Come si legge

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a cura di Giuseppe Basile, Giuseppina Lauro e Almamaria Migliosi Tantillo, Viella, Roma, 222 pp. 26,00 euro ISBN 978-88-8834-759-6 www.viella.it

In poco piú di duecento pagine è possibile ripercorrere una vicenda esemplare ed eccezionale al tempo stesso: esemplare per il rigore che ha sempre ispirato l’attività della sua protagonista, Licia

Vlad Borrelli, eccezionale perché, soprattutto nella sua prima parte, la sua vita professionale si è sviluppata in un contesto fortemente caratterizzato dall’operato di alcuni dei piú insigni studiosi di arte antica della nostra storia e si è identificata con la nascita di una delle nostre istituzioni piú qualificate e prestigiose, l’Istituto Centrale per il Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro). Il volume, tuttavia, non si propone come un semplice amarcord, ma, anzi, si apre con un dialogo/intervista – fra Giuseppe Basile e Licia Vlad Borrelli –, che, oltre a considerazioni sul passato e sul lavoro svolto, offre non pochi spunti di riflessione sulla situazione attuale e sulle prospettive del restauro, e, piú in generale, sulla politica culturale del nostro Paese. Dopo una nota biografica, segue quindi una scelta di scritti della studiosa, di cui fanno parte in maggioranza contributi, finora inediti, presentati in occasione di convegni e seminari internazionali.

dall’estero John Reader

missing links In search of human origins Oxford University Press, Oxford, 538 pp., ill. col. 25,00 GBP ISBN 978-0-19-927685-1 www.oup.com

Senza avere alle spalle una formazione accademica tradizionale,

ma animato da una lunga passione per l’Africa, continente nel quale ha a lungo vissuto, John Reader si cimenta con il complesso e avvincente «mistero» delle origini dell’uomo, svelato attraverso il racconto delle piú importanti scoperte compiute nel corso di studi e ricerche ormai plurisecolari. L’opera merita d’essere segnalata perché l’autore riesce davvero bene a tradurre in chiave divulgativa, ma mai banale, un tema non facile, per le molte implicazioni, anche ideologiche, che esso da sempre comporta. Avvalendosi di un corredo iconografico ricco e vivace, Reader racconta le storie dei primi ritrovamenti e le grandi epopee africane della famiglia Leakey, di Lucy e di tanti altri protagonisti di una vicenda che non smette mai di affascinare. Un esempio di divulgazione «alta», che sarebbe bello vedere presto pubblicato anche in lingua italiana. (a cura di Stefano Mammini)



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