Archeo n. 330, Agosto 2012

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2012

mummy project

verghina

etruschi ad asti

tebe, l’ultima egemonia speciale giuliano l’apostata

Mens. Anno XXVIII numero 8 (330) Agosto 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 330 agosto

Giuliano

rivelazioni sull’ultimo imperatore pagano

verghina

e il tesoro di filippo ii

grecia

l’ascesa della dinastia macedone

egitto

indagini su una mummia

PASSIONE PER LA STORIA

PASSIONE PER LA STORIA

€ 5,90

AST ST PPA

www.archeo.it



editoriale

www.archeo.it

A partire da quest’estate i lettori di «Archeo» hanno a disposizione un nuovo strumento di informazione e consultazione: il sito internet della rivista (www.archeo.it). L’iniziativa si presenta, naturalmente, in forma ancora da perfezionare, ma, sin da oggi, risponde ad alcune esigenze fondamentali a cui i lettori hanno piú volte dato voce nel corso degli anni. Tra queste figura, in prima istanza, la necessità, se non di un archivio che riassuma tutti gli argomenti trattati negli anni a partire dal marzo del 1985, almeno di un indice dei numeri e dei titoli dei singoli contributi: ora, attraverso il sito – i lettori lo potranno verificare subito cliccando la voce «Rivista» –, tutti i numeri dal gennaio del 2007 (a eccezione dei sei numeri piú recenti) sono pienamente consultabili, articolo per articolo, o, nella versione sfogliabile, pagina per pagina. Delle annate precedenti (dal 1985 al 2006) sono, invece, riprodotte le copertine ed elencati gli indici. Temi e autori dei contributi, inoltre, sono richiamabili attraverso un motore di ricerca interno. Un’altra richiesta dei nostri lettori riguarda la possibilità di accedere a un quadro aggiornato delle attività di scavo in corso in Italia e delle missioni italiane attive all’estero: a questa risponderà la voce «Scavi», in fase di completamento, grazie anche alla collaborazione con la Direzione Generale per le Antichità e il Ministero degli Affari Esteri. Questo per quanto riguarda gli aspetti piú «istituzionali». Naturalmente, vi è molto di piú: le potenzialità che le tecnologie informatiche aprono alla comunicazione anche dell’antico (di cui la nostra rivista, vogliamo ricordarlo, è stata – in Italia ma anche a livello internazionale – pioniera) sono straordinarie e, oggi, imprescindibili. Nostro compito (e nostra intenzione) sarà quello di utilizzarle ad ampio raggio, ai fini di realizzare per i nostri lettori uno strumento di informazione e di conoscenza della piú alta qualità possibile. Suggerimenti e critiche sono benvenuti all’indirizzo: archeo@archeo.it Andreas M. Steiner


Sommario Editoriale

www.archeo.it di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

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scavi Torna alla luce, in Toscana, uno straordinario mosaico policromo con una scena di caccia al cinghiale, che era il vanto di una residenza aristocratica dell’età tardo-imperiale 6 parola d’archeologo La tutela comincia dalla conoscenza: muove in questa direzione il progetto SIT dell’IBAM-CNR 10

antico egitto Tutti pazzi per Mummy

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di Sabina Malgora, con la collaborazione di Lucio Calcagnile, Marina Caligara, Jonathan Elias, Franco Lodi e Gianluigi Nicola

i luoghi della leggenda Verghina e l’oro dei re macedoni di Massimo Vidale

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54 mostre

Un ponte tra Oriente e Occidente 54 di Maurizio Sannibale e Alessandro Mandolesi

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mostre Al Museo Civico Archeologico di Chianciano Terme le sculture di Giorgio De Chirico dialogano con i reperti dell’età etrusca 14

dalla stampa internazionale I danni «collaterali» della guerra civile in Siria

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Anno XXVIII, n. 8 (330) - agosto 2012 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato

In copertina particolare di un solido d’oro con l’effigie di Giuliano l’Apostata, 361-363 d.C.

Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Lorella Alderighi è archeologo direttore presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Elisio Bonora è collaboratore del Museo Archeologico del Finale-IISL. Lucio Calcagnile è direttore del CEDAD, CEentro di DAtazione e Diagnostica dell’Università del Salento. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Marina Caligara è tecnico di elevata professionalità presso la Sezione Autonoma di Tossicologia Forense, Dipartimento di Fisiologia Umana dell’Università di Milano. Federico Cantini è ricercatore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Pisa. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Marco Di Branco è docente di storia bizantina presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Jonathan Elias è direttore dell’AMSC, Akhmim Mummy Studies Consortium. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Franco Lodi è professore ordinario di tossicologia forense all’Università di Milano Sabina Malgora è egittologa e curatrice della sezione egizia del Castello del Buonconsiglio di Trento. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi è docente di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Torino. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Giovanni Murialdo è Presidente della sezione Finalese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, ente gestore del Museo Archeologico del Finale. Gianluigi Nicola è restauratore. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Maurizio Sannibale è curatore del Reparto per le Antichità Etrusco-Italiche dei Musei Vaticani Stefania Sapuppo è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: G. Dagli Orti: copertina e pp. 36, 42, 45, 46/47 (centro), 48/49 (sfondo), 72 (basso), 80, 95, 106 (alto), 110, 112 (basso); Archivio: pp. 37, 72 (centro a destra), 79, 105, 106 (basso), 107; A. Dagli Orti: pp. 51, 104; A.C. Cooper: p. 109 – Cortesia Soprintendenza BA Toscana: pp. 6-8 – Cortesia Soprintendenza BA Umbria: pp. 9 – Cortesia IBAM-CNR: pp. 10, 12 – Museo Archeologico del Finale/foto D. Arobba: p. 13 – Stefano Mammini: p. 14 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 14 (basso), 56/57, 59/60, 62/64, 65 (alto), 67 (alto), 68/69 – Cortesia Mummy Project, Milano/foto Igor Furlan: pp. 24/35 – Da Great Moments in Greek Archaeology, Edizioni Kapon, Atene 2007: pp. 40, 43 (basso), 44 (alto), 50 – Da Verghina, Zanetti Editore, Montichiari (BS) 1997: pp. 44 (basso), 47 (basso), 48 (basso), 49 (destra) – Doc. red.: pp. 52/53, 77, 81, 92 (alto), 108 – Foto Musei


storia dei greci/17 Tebe, l’ultima egemonia

Archeotecnologia 86

di Fabrizio Polacco

Il «miracolo» di Erone

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di Flavio Russo

86

Rubriche il mestiere dell’archeologo L’enigma delle terme perdute

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di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi E venne il tempo dei fornai

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di Romolo A. Staccioli

divi e donne

Vincoli di sangue e trame di potere

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di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Una luce nella notte

speciale 112

di Francesca Ceci

libri Vaticani: pp. 54/55, 65 (basso), 66 (basso), 67 (basso) – Mondadori Portfolio: Akg_Images: pp. 70, 72 (alto), 78, 82/83, 86/87, 91 (sinistra) – Getty Images: p. 72 (centro a sinistra) – Tips Images: p. 75 – Archivi Alinari, Firenze: The Bridgeman Art Library: pp. 76, 84/85 (alto), 94; The Granger Collection: pp. 96/97 (basso), 100 – Flavio Russo: foto e disegni alle pp. 97 (alto), 98/99, 101 – Photo Aisa: p. 88 – Foto Scala, Firenze: p. 92 (sinistra) – Da Via Appia. Cinque secoli di immagini, L’Erma di Bretschneider, Roma 2009: p. 102 – Cortesia autore: pp. 103, 112 (alto), 113 – Cippigraphix: cartine allew pp. 39, 43, 44, 61, 84, 89, 90/91, 93. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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Giuliano. Dall’utopia alla storia

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di Marco Di Branco

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n oti z i ari o SCoperte Toscana

dal buen retiro di un gentiluomo

I

l lavoro congiunto della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e dell’Università di Pisa ha permesso di riportare alla luce parte di una grande villa tardo-antica a Limite sull’Arno (Firenze). Si tratta di un ritrovamento di eccezionale importanza, che getta nuova luce sulle residenze delle ultime aristocrazie senatorie vissute tra il IV e il V secolo. In un’area già frequentata tra l’età ellenistica e la prima età imperiale e poi abbandonata nel corso del III secolo, viene costruito, verso la metà del IV secolo, un grande complesso residenziale. La parte finora indagata è composta da vari ambienti, tra i quali spicca una sala absidata arricchita da uno splendido mosaico policromo figurato e da pareti affrescate. La villa viene ampliata nel corso del V secolo, quando si realizzano un grande muro di recinzione, due nuovi ambienti e una vasca semicircolare che si doveva affacciare su uno spazio aperto, probabilmente un giardino. Reimpiegata sul fondo di questa vasca, è stata rinvenuta un’iscrizione mutila, che ricorda un Vettio Pretestato, forse identificabile con il Vettio Agorio Pretestato, che fu corrector Tusciae et Umbriae prima del 362 e praefectus urbi nel 384, anno della sua morte. L’ipotesi sembra avvalorata anche da una lettera dell’amico Simmaco, che ne ricorda i lunghi soggiorni in Etruria. L’iscrizione permette di ipotizzare che l’edificio del IV secolo potesse essere appartenuto alla famiglia dei Vettii, mentre il suo reimpiego si può spiegare con un

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successivo passaggio di proprietà del complesso, che avrebbe reso superflua la celebrazione di Pretestato. L’edificio viene probabilmente abbandonato nel corso della seconda metà del V secolo, quando la villa viene distrutta, come sembrano suggerire alcuni strati carboniosi formatisi in seguito a un incendio. I ruderi del complesso furono poi oggetto di spoglio, prima di essere ricoperti da strati di sabbie dilavati dai vicini rilievi. L’unico pavimento rimasto in posto è quello a mosaico dell’aula absidata, a oggi messa in luce per l’intera larghezza di 5 m e solo parzialmente in lunghezza (4,32 m), poiché il vano si estende oltre i limiti dell’area di scavo all’interno di un’altra proprietà edificata. Il mosaico è decorato con un motivo figurato circondato da figure geometriche, racchiuse da una doppia cornice in bianco e nero, composta da denti di lupo e da quadrati disposti a scacchiera. Il quadretto centrale, circondato da una corona di foglie d’alloro, rappresenta una figura

Limite sull’Arno (Firenze). Il cantiere di scavo che ha interessato i resti di un complesso residenziale costruito alla metà del IV sec. d.C. e forse appartenuto alla famiglia dei Vettii. maschile a cavallo che, con la lancia impugnata nella destra, ha colpito un cinghiale. Il cavaliere, che indossa un corto mantello giallo sopra una tunica arancione, trattenuta in vita da una cintura, abbigliamento adatto alla caccia, impugna nella destra una lancia, la cui grande punta va a infilarsi nelle carni del cinghiale, che appare già colpito, come dimostra il sangue che sgorga copioso dalla ferita e si riversa sul terreno. Il pannello narrativo centrale riproduce un episodio legato al tema della venatio apri (caccia al cinghiale), molto comune nelle raffigurazioni musive a partire dall’età severiana e in misura anche maggiore nei secoli successivi. Il motivo della caccia al cinghiale viene utilizzato in funzione celebrativa della virtus eroica, della ricchezza e dello status sociale del committente,


il dominus esponente della nobilitas cittadina che si trasferisce nel proprio fundus. Nel nostro caso la figurazione appare una riduzione dei modelli di scene di caccia comuni in ambito siciliano, africano e, potremmo dire, in ogni regione dell’impero, sebbene in schemi decorativi piú estesi e affollati di personaggi e di animali. Le immagini sono rese realisticamente con l’uso di tessere lapidee e di terracotta. Oltre al marmo bianco di sfondo, infatti, gli altri colori sono ricavati da pietre locali, tra cui il diaspro rosso, il calcare grigio e ceruleo, materiali meno deteriorabili

dell’arenaria grigia utilizzata per le grandi campiture di colore nero. Con gli stessi colori sono anche realizzate le complesse figure geometriche che circondano la scena di caccia, a imitazione dei pavimenti composti in opus sectile in uso nelle residenze di prestigio in compresenza di quelli a mosaico. L’eccellente conservazione del pavimento, a eccezione di due lacune create durante i lavori agricoli realizzati per l’impianto del frutteto, permette di osservare i minimi dettagli decorativi e alcune incertezze delle maestranze: nella messa in opera del mosaico,

Il pavimento a mosaico dell’aula absidata. L’ambiente aveva anche pareti intonacate e affrescate con uno zoccolo di colore rosso e bande azzurre e doveva essere dotato di ampie finestre, come suggeriscono i numerosi frammenti di lastre vitree trovati sotto il crollo del tetto. Per quanto riguarda la sua funzione, al momento, si possono formulare solo ipotesi, poiché il vano prosegue oltre i limiti dell’area di scavo, per cui rimane difficile anche verificarne l’effettivo sviluppo planimetrico. Potrebbe trattarsi di un’aula rettangolare con terminazione absidata, oppure di un ambiente biabsidato o addirittura polilobato.

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n otiz iario Particolare del pavimento a mosaico policromo dell’aula absidata: il pannello narrativo centrale con la scena di venatio apri (caccia al cinghiale). Il lato breve misura 160 cm, mentre il lato lungo dovrebbe raggiungere i 2 m. Il cavaliere mostra una capigliatura a calotta compatta di stile post tetrarchico e indossa il tipico abbigliamento leggero da caccia, ovvero un corto mantello, forse una paenula in pelle, che copre appena le spalle, una tunica sopra il ginocchio e protezioni per le gambe contro i rovi e le sterpaglie. Per la scena di caccia qui raffigurata appare probabile la tecnica del venabulum, ovvero l’uso di una lancia lunga e robusta da impugnare per colpire l’animale. È la presa di lancia piuttosto alta con cui l’asta viene tenuta vicina al petto che permette di

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spingere il colpo non solo con la forza delle braccia ma anche col peso del busto. Le file di tessere in diaspro rosso visibili al di sopra del medio e del mignolo piegati della mano destra potrebbero, infatti, indicare la presenza di un laccio (amentum) per tenere ben salda l’arma. L’eccellente stato di conservazione della composizione permette di apprezzare i minimi dettagli interni delle figure che, grazie all’associazione dei colori caldi utilizzati per le tessere, appaiono come illuminati da una fonte di luce posta in alto e di fronte, in una ricerca di ambientazione paesaggistica sottolineata anche dai motivi che formano piani diversi di impostazione del cavallo e, piú in basso, del cinghiale, a indicare leggeri declivi del terreno.

infatti, sono visibili le difficoltà di rappresentare nella curvatura absidale i denti di lupo e i quadrati della cornice e di congiungerne l’inizio e la fine. I confronti iconografici del pannello figurato e i particolari tecnici, oltre ai dati dello scavo stratigrafico porterebbero a una sua datazione verso la metà del IV secolo o, comunque, non oltre la seconda metà dello stesso secolo. Un rifacimento di piccole parti usurate con la sostituzione di alcune tessere in calcare bianco al posto di quelle celesti nella decorazione geometrica farebbe pensare a un uso abbastanza lungo dell’ambiente. L’attribuzione della proprietà del complesso al senatore Vettio Agorio Pretestato concorderebbe con la datazione della fase della villa a cui appartiene il pavimento musivo. Lorella Alderighi, Federico Cantini


SCAVI Umbria

il fulmine sepolto

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urante i lavori per la realizzazione del Parco di Porta Amerina, meglio nota come Porta Fratta, a Todi è stato scoperto un recinto sacro di epoca romana. Lo scavo ha messo in luce un singolare pozzo, che è uno dei rari documenti noti di fulgur conditum, cioè della vera e propria «sepoltura» di un fulmine, un caratteristico rituale italico collegato alla liturgia etrusca dei libri fulgurales, nel corso del quale i sacerdoti addetti recitavano l’espiazione. Il luogo colpito dal fulmine veniva ripulito e le sue tracce eliminate scavando una fossa terragna dove poi venivano sotterrati tutti i materiali che il fulmine aveva colpito e frantumato (condere fulmen). La fossa veniva sigillata solo dopo codificati sacrifici e riti e successivamente recintata e consacrata: il luogo rappresentava,

anche per i Romani, un locus religiosus, in quanto si riteneva che Iuppiter Fulgur lo avesse scelto per manifestare la sua potenza dedicandolo a se stesso.
 A Todi, però, sul pozzo di sepoltura del fulmine (puteal) è stato trovato un blocco lapideo in due frammenti, che sul bordo reca l’iscrizione FVLGVR CONDITVM, di epoca imperiale, a sottolineare l’identità del giacimento archeologico messo in luce. Il pozzo, orientato nord-est/ sud-ovest in senso ctonio, cioè sotterraneo e infero, era stato riempito da elementi di rivestimento in marmo, probabilmente provenienti da un monumento funerario, ed era formato da lastre di travertino disposte verticalmente di taglio e

Il blocco con l’iscrizione FULGUR CONDITUM, testimonianza del rito della «sepoltura» del fulmine. legate tra loro da grappe di ferro e piombo. La scoperta è di particolare interesse poiché sono rari gli esempi di questo rituale, praticato fin dall’età del Ferro. In Umbria ne esistono altre testimonianze a Terni (Interamna) e Bevagna (Mevania), mentre altri casi sono attestati nella Casa dei Quattro Stili di Pompei, a Minturno, in prossimità dei resti archeologici del Capitolium, a Vulci, sempre nelle immediate vicinanze di un edificio sacro, nella Domus dei Valerii a Roma e a Pietrabbondante, nei pressi del Tempio A. Giampiero Galasso


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

i soliti ignoti la tutela comincia dalla conoscenza: a questo mirano le ricognizioni topografiche del progetto sit, sistema informativo territoriale. CE ne parla il responsabile, marcello guaitoli

L

a quasi totalità dei giacimenti archeologici italiani non è censita, dunque è sconosciuta. Un dato inquietante, emerso dallo studio condotto in Puglia, Campania, Lazio, Abruzzo e Toscana dall’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IBAM-CNR), sulla base del Sistema Informativo Territoriale (SIT). Le ricognizioni topografiche, condotte in sinergia con le Università di Roma «La Sapienza», del Salento, di Napoli, di Siena, della Tuscia e con le strutture del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, insieme al monitoraggio aereo e terrestre effettuato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale in collaborazione con il CNR, offrono la prima mappatura delle presenze archeologiche in queste regioni. «I dati del SIT, raccolti attraverso le ricognizioni lanciano un vero e

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proprio SOS: l’obiettivo è frenare questa perdita di beni culturali», spiega ad «Archeo» il responsabile della ricerca, Marcello Guaitoli, ricercatore dell’IBAM-CNR e docente presso l’Università del Salento, precisando che la divulgazione di questi numeri non vuol essere un atto di denuncia, ma uno strumento di collaborazione per la tutela del nostro patrimonio archeologico. «La nostra mappatura intende trasmettere i dati della ricerca sul campo, cioè quella del CNR e delle varie Università che studiano il territorio, agli organi addetti alla tutela e quindi alle Soprintendenze. È come dire “attenzione”: noi conosciamo poco o niente del nostro patrimonio archeologico e stiamo perdendo una grande quantità di presenze archeologiche che, proprio perché non conosciute, vengono ogni giorno distrutte».

Professore, il dato emerso dalla mappatura è sconcertante: in gran parte del Centro-Sud Italia, è nota solo una minima parte delle presenze archeologiche. È cosí? «Sí, è cosí. I beni presenti sul territorio, mediamente, sono conosciuti solo nella misura del 10%. Il nostro è un monitoraggio dei danni che non si può discutere: noi facciamo analisi topografica, che è un mestiere; i nostri dati numerici sono reali e non teorici, sono verificabili – questa è la novità della ricerca – e per questo incontrovertibili. Ogni testimonianza archeologica nota, non nota, soggetta a danni o meno, ha una scheda di 10 pagine valutata da ricercatori senior o professionisti». Le presenze non censite in Lazio e Puglia, per esempio, vanno da un minimo del 67% a un massimo del 94%. Considerando che è impossibile proteggere qualcosa di cui non si conosce l’esistenza, quanto «sanno» le Soprintendenze del nostro patrimonio? «Quello che è arrivato alla conoscenza delle Soprintendenze, e che coincide al massimo con quanto scritto sui libri, è pochissimo: è una percentuale minima rispetto alle effettive presenze sul terreno, leggibili con tecniche piú o meno moderne. Generalmente, il “noto” va dall’1%, per esempio in alcune zone della Puglia e della Basilicata, al 15% circa, nelle regioni piú studiate, o anche al 20%, in aree in cui lavorano Università o


esiste una consolidata tradizione di ricerca, come la campagna romana, studiata fin dall’Ottocento e nota per il 40%». La forbice tra il noto, oggetto di tutela, e l’ignoto è dunque ampia... «Per questo la ricerca può essere uno strumento estremamente utile per la tutela. Ricordo il caso di un gruppo di imprenditori in Puglia che doveva realizzare una strada tra Maglie e Capo di Leuca, in provincia di Lecce: avevano avuto dalla Soprintendenza solo tre segnalazioni di vincolo, mentre noi, nell’area di rispetto di 100 m dalla strada, abbiamo rilevato ben 128 presenze archeologiche. Il problema è che l’unico modo per conoscere i dati effettivi è condurre un’esplorazione sistematica del territorio. I nostri ricercatori hanno battuto a tappeto queste cinque regioni, incrociando i dati sul campo con quelli ricavati dalle fotografie aeree e utilizzando le tecnologie piú recenti. Abbiamo cercato di dimostrare con i numeri che le testimonianze note sono una minima parte, quantificandone la presenza e i danni subiti». Quali sono le zone piú dimenticate? «Generalmente, quelle interne di campagna. Anche se il SIT mostra situazioni critiche diversificate: beni conosciuti e vincolati ma privi di tutela diretta, molti altri ignoti e di conseguenza non protetti. Per esempio in Puglia, nel territorio di Taranto, su 1190 siti archeologici censiti (di cui 859 noti grazie alla ricognizione a tappeto e 331 dalla bibliografia), le aree sottoposte a vincolo sono appena 8 e quelle archiviate dalla Soprintendenza in tutto 63, di cui 44 ormai scomparse. Nulla in confronto a Ruvo, in provincia di Bari, dove il 99% dei siti segnalati non esiste piú. Nel Salento le presenze archeologiche scoperte grazie alla ricerca sono oltre i tre quarti del totale (3166 sulle 3931 conosciute), a Capo Santa Maria di Leuca, 1001 su 1092. Il caso limite è Neviano (in provincia di Lecce), dove solo

Nella pagina accanto: Puglia. Un impianto eolico realizzato in un’area del Tavoliere che, come mostra la foto aerea, è interessata da strutture riferibili a villaggi trincerati di età neolitica. Simili insediamenti sono stati cosí definiti per la presenza dei fossati che delimitano l’area abitata. Le ricerche condotte nell’ambito del SIT hanno fatto ampio ricorso a questo tipo di documentazione fotografica delle presenze archeologiche, che ha il vantaggio di evidenziare strutture spesso non visibili sul terreno.

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Cerveteri (Roma). Un’altra foto aerea che evidenzia la presenza di tombe a tumulo di età etrusca.

il 6% delle aree archeologiche è presente in bibliografia». Per conoscere, e dunque tutelare, l’archeologia di un territorio è perciò fondamentale il contributo della ricerca topografica, oltre allo spoglio di quanto pubblicato. E questo sembra valere per gran parte del Centro-Sud Italia... «La situazione è critica anche nel Lazio. Nel territorio di Viterbo l’87% di quello che è conosciuto (2158 presenze), è frutto della mappatura. Nell’area a nord-ovest di Roma sono stati rintracciati 3183 siti, di cui il 55% sconosciuti. Anche qui emerge il dato sconfortante dei molti luoghi di interesse citati dalle fonti scritte oggi scomparsi: esemplare il caso della via Prenestina, dove solo 245 presenze archeologiche, su 856 rilevate nel 1970, sono scampate alle opere di urbanizzazione». Quali sono le principali cause di danneggiamento, secondo i dati emersi dalla vostra ricerca? «Principalmente infrastrutture industriali e urbane, costruzioni edilizie, scavi clandestini, distruzioni di varia natura legate all’attività umana. Ma la minaccia maggiore è costituita dai lavori agricoli, che incidono nei danni da un minimo del 40% (come a Neviano) fino all’87% (a Commenda, in provincia di Viterbo). Se condotta in modo incontrollato, la pura coltivazione diventa un grave danno perché l’aratura progressiva, col tempo, cancella le presenze antiche.

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Va bene lavorare la terra, ma su un podere di 40 ettari, per esempio, si potrebbero proteggere i resti archeologici con balle di fieno e coltivare il resto del terreno. Se distruggo una villa romana che nessuno conosce, nessuno saprà che è stata distrutta». Questa perdita costituisce un danno anche economico. Lo avete quantificato? «La perdita del patrimonio culturale ci costa circa 1 punto percentuale del PIL, calcolando il solo valore economico e non quello culturale, che è incalcolabile. Se adeguatamente conosciuto, conservato e tutelato, il nostro patrimonio archeologico è una fonte inesauribile di reddito, in grado di muovere un indotto notevole in numerosi settori, oggi come tra trent’anni. Il nostro vuole essere un messaggio rivolto in particolare alla politica, visto che il MiBAC è immobilizzato dai tagli, come per dirle “stai attenta”, perché buttiamo miliardi di euro ogni anno, per beni archeologici distrutti o danneggiati poiché non conosciuti. I numeri della ricerca devono essere utilizzati: se non ci scambiamo i dati, rischiamo di perdere il nostro patrimonio e gli archeologi di non lavorare piú. L’archeologia preventiva francese, per esempio, ha dato lavoro a una gran quantità di archeologi, sfruttando i dati della ricerca topografica. A mio avviso, la responsabilità principale è della politica, incapace di

comprendere che i beni culturali sono una risorsa che non si esaurisce nel tempo e che può creare indirettamente un indotto economico considerevole, sotto forma di servizi, posti letto, punti ristoro presso i siti archeologici». Quali sono, invece, le responsabilità delle Soprintendenze per la scarsissima conoscenza delle presenze archeologiche sul territorio? «Il problema è il passaggio dei dati dalla ricerca agli organi preposti alla tutela. In alcuni casi questo avviene molto velocemente: in Abruzzo, per esempio, dove abbiamo scoperto nuove presenze, la Soprintendenza archeologica è intervenuta il giorno successivo. Con altri uffici, invece, non è stato possibile lavorare, a causa dell’illogica separazione dei ruoli in questo settore. Tutti lavoriamo per lo stesso obiettivo: i beni culturali. Le Soprintendenze, che devono magari decidere sul tracciato di una strada o di una ferrovia, non possono non conoscere i dati che provengono dalla ricerca. L’attuale separazione netta tra le strutture non ha senso di esistere: alcune collaborazioni devono funzionare meglio e i numeri dello studio topografico devono essere applicati alla tutela del nostro patrimonio archeologico. Anzi, i dati devono essere pensati per chi fa tutela e, viceversa, chi opera nel campo della tutela non può ignorare chi lavora nel mondo della ricerca».


musei Liguria

sempre piú ricco...

Museo Archeologico del Finale (Finale Ligure Borgo). Uno scorcio della nuova sala dedicata alle collezioni numismatiche.

I

l Museo Archeologico del Finale, a Finalborgo, si è arricchito di una nuova sala dedicata alle monete e alla loro evoluzione e storia. Questo spazio espositivo è incentrato sulla collezione di monete dello storico Giovanni Andrea Silla (Finalmarina 1876-1954), una delle figure di riferimento della cultura locale nella prima metà del Novecento. Egli scavò la «Pieve del Finale», al di sotto della chiesa dei Cappuccini, nella quale fu individuata una sequenza di edifici battesimali datati tra il V e l’XI secolo. A lui si deve, inoltre, la costituzione del primo nucleo del Museo Civico del Finale, aperto nel 1935 in palazzo Ghiglieri a Finalmarina. Gli interessi numismatici costituirono un motivo non secondario nell’attività scientifica del Silla, che riuní una collezione di quasi 1600 monete, provenienti dal mercato numismatico, ma anche da donazioni e da recuperi piú o meno fortuiti nella zona. La collezione è composta da un primo nucleo di monete «greche» in argento e bronzo, databili a partire dalla fine del VI secolo a.C., con emissioni di centri della Magna Grecia e della Sicilia greco-punica, dei regni ellenistici dell’Asia Minore, dell’Egitto e della Cirenaica, del regno dei Parti, di quello di Elymaide, degli imperi persiano e sasanide. Di particolare interesse risulta uno shekel, emesso durante la rivolta giudaica del 67-70 d.C. La serie piú consistente della collezione è peraltro costituita dalla monetazione romana, con oltre 450 pezzi distribuiti tra l’età repubblicana e il V secolo d.C. Tra gli esemplari di maggiore prestigio si annoverano tre tremissi aurei longobardi di Liutprando (712-744) e Astolfo (749-756), forse provenienti dalla

collezione di Vittorio Emanuele III. Per il periodo medievale e moderno, le emissioni della Repubblica di Genova coprono l’intera sequenza compresa tra l’apertura della zecca nel 1139 e la sua chiusura definitiva nel 1814. La grande diversificazione delle coniazioni medievali, non solo italiane, emerge chiaramente dalle monete emesse da zecche di comuni e repubbliche cittadine, signorili, papali o attive nell’Italia meridionale angioina e aragonese. La ricca monetazione dell’età moderna si identifica nelle emissioni riconducibili agli Stati regionali italiani, ai possessi spagnoli e imperiali, ai ducati governati dalle principali famiglie che dominavano la scena e a zecche minori imperiali, controllate da famiglie nobiliari genovesi. La collezione comprende infine una nutrita serie di emissioni degli stati italiani pre-unitari e del Regno d’Italia dalla sua costituzione nel 1861 fino all’avvento della Repubblica nel 1948.

Un’apposita vetrina ospita una scatola in legno per una bilancia di produzione genovese, destinata al controllo di monete in circolazione alla fine del XVIII secolo. Inoltre nella sala vengono presentate monete e tessere commerciali provenienti dal territorio finalese, comprese tra le emissioni bizantine dell’VIII-XI secolo fino a quelle risorgimentali ottocentesche. La nuova sezione numismatica è stata realizzata grazie al sostegno della Fondazione «A. De MariCassa di Risparmio di Savona». Elisio Bonora e Giovanni Murialdo

Dove e quando Museo Archeologico del Finale Finale Ligure Borgo (SV), Orario lug-ago: tutti i giorni, 10,0012,00 e 16,00-19,00; giu-set: tutti i giorni, 9,00-12,00 e 14,30-17,00; lunedí chiuso Info tel. 019 690020; www.museoarcheofinale.it

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n otiz iario

mostre Chianciano

contaminazioni e sorprese

Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico. Materiali esposti in occasione delle mostre temporanee allestite nell’ambito dell’Archeofest. A sinistra: Ettore e Andromaca, gruppo in bronzo patinato di Giorgio De Chirico collocato accanto a un canopo di tipo antropomorfo. In basso: particolare della statua cinerario in pietra fetida, dalla località Buttarone.

Dove e quando

N

el segno di una consuetudine che va intensificandosi, Chianciano replica con successo l’esperimento del dialogo tra l’arte contemporanea e le memorie del passato. Nel Museo Civico Archeologico è infatti esposta una selezione di bronzetti firmati da Giorgio De Chirico, cioè da uno degli artisti che meglio hanno saputo assimilare e poi rielaborare la lezione dell’arte antica. Il risultato è di grande impatto e, in piú d’un caso, di sorprendente armonia, come, per esempio, nella vetrina in cui il gruppo dell’Ettore e Andromaca si confronta con un canopo di tipo antropomorfo, in cui l’essenzialità dei tratti fisionomici del coperchio dell’urna funeraria trova un contraltare «naturale» nelle linee altrettanto essenziali del bronzetto di De Chirico. Nella sua dimensione raccolta, la mostra sembra insomma interpretare al meglio le parole del grande maestro scelte per aprire la presentazione del catalogo: «Senza la scoperta del passato, non è possibile la scoperta del presente».

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«Giorgio De Chirico. Il ventre dell’archeologo» «Splendori etruschi. Capolavori del Museo Archeologico di Firenze» Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico fino al 30 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-13.00 e 16,00-19,00; chiuso lunedí Info tel. 0577 530164 oppure 0578 30471 Poco oltre, lo stesso Museo propone un altro allestimento temporaneo, di segno diverso. In questo caso sono stati riportati a Chianciano materiali provenienti dal suo territorio e attualmente in deposito presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. L’operazione non è un semplice ritorno a casa, ma è l’occasione di vedere ricomposti alcuni complessi tombali di grande interesse, databili all’età orientalizzante. L’operazione permette di ammirare molti reperti davvero eccezionali,

come nel caso di una maschera in bronzo, che riporta subito alla mente gli omonimi e celebri manufatti trovati nelle tombe reali di Micene. O come un’ascia in bronzo, che conserva un ricco ed elaborato manico in avorio con intarsi in ambra. Materiali splendidi, che si offrono al visitatore sotto lo sguardo sereno e severo al tempo stesso della statua cinerario in pietra fetida recuperata in occasione di scavi condotti alla fine dell’Ottocento in località Buttarone. Stefano Mammini



n otiz iario

musei Campania

storia di un territorio

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spitato nel complesso dell’ex convento di S. Maria la Nova, nel centro storico della città, il Museo Archeologico Nazionale di Nola, in provincia di Napoli, è una delle piú importanti raccolte del Meridione ed è altamente rappresentativo della storia plurimillenaria del territorio campano tra l’età del Bronzo Antico e l’epoca romana. Il percorso inizia dalla preistoria, con la sala che illustra l’attività vulcanica del complesso Somma-Vesuvio, che, con le sue eruzioni, come quelle delle Pomici di Avellino (XVIII secolo a.C.) e di Pollena (V secolo d.C.), ha fortemente caratterizzato la vita degli insediamenti antichi dell’intera regione. Nelle sale successive sono esposti vasi del Bronzo Antico, della facies di Palma Campania, e di materiali che testimoniano l’effetto prodotto dai depositi piroclastici dell’eruzione delle Pomici di Avellino che distrussero e obliterarono i siti capannicoli della zona. Si può quindi ammirare la ricostruzione in scala 1:1 di una delle capanne rinvenute durante lo scavo del villaggio preistorico in località Croce del Papa di Nola: all’interno della struttura sono stati disposti alcuni dei reperti recuperati ancora integri durante lo scavo archeologico. A quella preistorica segue la sezione dedicata alle origini, tra l’VIII e il VI secolo a.C., di quella che sarà la potente città di Nola: vi sono esposti i corredi tombali di età orientalizzante e arcaica provenienti dalle necropoli scoperte in località Torricelle e in via San Massimo, con oggetti di ornamento personale, vasellame d’impasto rosso e

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Nola, Museo Archeologico Nazionale. A destra: la ricostruzione in scala 1:1 di una capanna del sito preistorico di Nola. In basso: testa ritratto femminile di età severiana. bruno di produzione locale e forme vascolari in bucchero pesante, ad attestare la profonda influenza etrusca sulla realtà etnica e culturale dell’insediamento. Non mancano ceramiche d’importazione dalla Daunia ma anche da Pithecusa (Ischia), e vi sono anche raffinati oggetti di ornamento, come pendagli di argento e ambra e scarabei di tipo egizio, nonché preziose spade in ferro del VII secolo a.C. con fodero in legno, ferro e cuoio e decorazioni in osso.

Segue lo spazio dedicato alla «Città dei Cavalieri» (VI-IV secolo a.C.), nel salone dell’ex refettorio del convento, dove sono esposte numerose testimonianze recuperate nel territorio tra il XVIII e il XIX secolo, come ceramiche a figure nere e rosse di produzione attica, tra cui spiccano due preziose anfore a figure rosse, attribuite rispettivamente al Pittore di Alchimaco e al Pittore di Berlino, e un cratere a colonnette a figure rosse del Pittore di Napoli. Insieme a Capua, Nola è il centro piú importante della pittura funeraria campana: qui si affermò una scuola di artigiani che hanno lasciato diverse testimonianze della loro arte. Punto nodale della sezione sono qui le tombe a cassa e a semicamera dipinte, che si susseguono al centro della sala, dove sono ricostruite le sepolture a cassa provenienti dal vicino comune di Casamarciano, tra cui la Tomba dei Togati e la Tomba della Danzatrice. Il percorso museale prosegue con le ultime testimonianze relative alla presenza osca nella zona: si tratta del periodo che va dalla conquista romana della città (313-312 a.C.) fino alla guerra sociale (90-88 a.C.). Tra i reperti esposti vi sono terrecotte architettoniche da santuari ellenistici rinvenuti presso Cimitile e San Paolo Belsito, che



n otiz iario

Luciano Calenda provano l’influenza delle correnti architettoniche microasiatiche. Attraversando il porticato del cortile, si passa alla sezione romana, con sculture di notevole importanza: le due statue funerarie dalla necropoli in località Cangio, il rilievo da Scisciano pertinente a un recinto funerario a forma di porta di città. Al periodo augusteo risalgono i sei pilastrini con rilievi dall’anfiteatro, una statua eroica e una base posta dal collegio degli Augustali, mentre l’iscrizione che ricorda il restauro del tempio dedicato al Genio della Colonia è dell’epoca imperatore Tito. Sono infine esposti una statua loricata di età traianea, l’iscrizione di un edificio pubblico dedicato ad Adriano e una testa femminile, databile al periodo compreso tra gli Antonini e i Severi. Il percorso continua al primo piano, con l’illustrazione delle testimonianze di età imperiale, fino alla sala dedicata alla Villa di Augusto, scoperta a Somma Vesuviana e indagata dall’Università di Tokyo, in cui sono esposte due statue in marmo, rinvenute nel 2003: la prima raffigura una donna che veste il peplo e l’altra Dioniso/ Bacco con il capo coronato d’edera e un cucciolo di pantera in braccio. L’esposizione si conclude con una sezione dedicata alla fine del mondo antico e all’età medievale, a cominciare dal suggestivo complesso delle basiliche paleocristiane di Cimitile. Giampiero Galasso

Dove e quando Museo Storico Archeologico di Nola Nola, via Senatore Cocozza 2 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso lunedí Info tel. 081 5127184 o 5127023; e-mail: ssba-na@beniculturali.it; http://sbanap. campaniabeniculturali.it

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archeofilatelia

i tesori dei re macedoni Il nome di Verghina forse non suscita suggestioni simili a quelle evocate da Micene, Petra, Cnosso o Persepoli, ma il sito può a buon diritto essere incluso tra i «luoghi della leggenda», perché è il luogo simbolo della dinastia dei re macedoni, soprattutto Filippo II e suo figlio, Alessandro il Grande. La notorietà di Verghina inizia nel 1977, con la scoperta del Grande Tumulo, la tomba che ha ospitato i resti mortali di Filippo II con il suo ricchissimo corredo funerario (la busta [1] presenta proprio la sezione della tomba di Filippo). Le Poste greche emisero nel 1979, appena due anni dopo la scoperta, una bellissima serie, che raffigurava gli oggetti piú mirabili rinvenuti, a partire dalla testa in avorio di Filippo II (2) e dall’urna d’oro che conteneva i suoi resti mortali sul cui coperchio è inciso «il sole di Verghina» a 16 raggi (3). Altri straordinari oggetti sono la magnifica corona d’oro (4), uno dei piú bei gioielli del genere di tutto il mondo greco, e una faretra, sempre d’oro (5). Ancora oggetti in rame (6) e in argento (7), nonché una corazza in ferro e oro (8). Il Grande Tumulo fu voluto da Alessandro Magno (9) proprio per onorare in modo degno il genitore, qui ricordato anche da un annullo greco usato nella città macedone di Kavala (10). E Alessandro scelse la località di Verghina in modo simbolico perché essa era stata l’antica capitale della Macedonia prima che essa fosse trasferita a Pella. I confini della regione sono raffigurati in uno dei francobolli (11) della serie che ricorda Aristotele (12), educatore di Alessandro e altra grande figura della storia macedone.

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it


incontri Paestum

la borsa scalda i motori

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archeologo tunisino, già Ministro della Cultura, l’ingegner Giorgo Croci e l’architetto Andrea Bruno, tra i massimi esperti di conservazione e restauro architettonico. La Direzione Generale per le Antichità del MiBAC organizzerà il convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», con interventi degli Assessori Regionali al Turismo e ai Beni Culturali, dei Soprintendenti delle aree archeologiche del Sud Italia oltre che dei vertici delle Organizzazioni nazionali di categoria. «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo» sarà il tema del convegno a cura della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, previsto venerdí 16 con la partecipazione dei direttori delle missioni archeologiche impegnate nei Paesi dell’area: Turchia, Siria, Libano, Giordania, Israele, Palestina, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco. ArcheoVirtual, Mostra e workshop sull’archeologia virtuale a cura del Virtual Heritage Lab dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR con la direzione scientifica di Sofia Pescarin, farà scoprire le nuove frontiere della ricerca scientifica e tecnologica legate al mondo antico. Nell’ambito di ArcheoLavoro, le Università presenteranno i Corsi di Laurea e i Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre gli esperti del settore illustreranno le figure professionali e le competenze emergenti. I Laboratori di Archeologia Sperimentale, con la direzione scientifica di Mauro Casaretto del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, presenteranno la cultura antropologica e materiale dell’antichità, attraverso la riproduzione delle tecniche utilizzate per realizzare manufatti d’uso quotidiano. Per ulteriori informazioni e per il programma della manifestazione: www.borsaturismo.com

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infor mazione pubblicitar ia

i è rimessa in moto la macchina organizzativa della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, la cui XV edizione è in programma a Paestum, dal 15 al 18 novembre. Paese Ospite ufficiale sarà quest’anno l’Armenia, mentre fra i Paesi esteri che parteciperanno al Salone Espositivo, vi saranno per la prima volta il Tatarstan e il Kenya. In occasione del trentennale della Domenica del Sole 24 Ore e del «Manifesto per la cultura» promosso dalla testata, domenica 18 avrà luogo l’incontro «Le Associazioni per la diffusione della cultura della conservazione, della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale», moderato dal direttore della Domenica, Armando Massarenti, e al quale partecipano Franco Iseppi, presidente del TCI, Enrico Ragni, presidente dei Gruppi Archeologici d’Italia, Claudio Zucchelli presidente degli Archeoclub d’Italia. Al VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione e l’occupazione» in collaborazione con ICCROM e «Archeo», parteciperanno i direttori delle principali testate archeologiche, Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, e Maurizio Melani, Direttore Generale DG per la Promozione del Sistema Paese Ministero degli Affari Esteri; sono stati inoltre invitati ad intervenire Snežana Samardžic-Markovic, Direttore Generale per la Democrazia del Consiglio d’Europa, Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale del Direttore Generale dell’UNESCO, Pier Luigi Celli, Presidente dell’ENIT, Antonia Pasqua Recchia, Segretario Generale del MiBAC, e Pasquale Muggeo, Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Modererà il direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner. Nell’incontro «La rinascita del Mezzogiorno è nel passato», Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene e Presidente della Fondazione Paestum, Angela Pontrandolfo, Presidente Consulta Universitaria per l’Archeologia del Mondo Classico, Alessandro Laterza, Vice Presidente di Confindustria per il Mezzogiorno, dialogheranno con Andrea Carandini, già Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Modererà Paolo Conti giornalista del Corriere della Sera. All’Incontro con i Protagonisti «I grandi segni dell’uomo» Roberto Giacobbo, autore e conduttore di Voyager Rai 2, intervisterà Azedine Beschaouch,


calendario

Italia Roma Vetri a Roma

Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12

Orti e giardini

Medaglione in foglia d’oro incisa e dipinta tra due strati di vetro con ritratto maschile. Prima metà del III sec. d.C.

Il cuore di Roma antica Palatino fino al 14.10.12

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13

montepulciano Una porta sull’aldilà

Dal mondo egizio agli Etruschi Museo Civico Pinacoteca Crociani fino al 30.09.12

Marmo, Latte e Biancospino

Mostra fotografica sull’Appia Antica Capo di Bove fino al 31.12.12

Piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.

piacenza Abitavano fuori porta

asti Etruschi

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 14.10.12

Materiali dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.

chianciano terme De Chirico Il ventre dell’archeologo Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

Splendori

pienza Tular-Tolle

Capolavori dal Museo Archeologico di Firenze Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

Testimonianze etrusche tra Val di Chiana e Val d’Orcia Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30.09.12

chiusi Ori e gemme del Museo Nazionale Etrusco

spello Aurea Umbria

Museo Nazionale Etrusco fino al 30.09.12

Una regione dell’impero nell’era di Costantino Palazzo Comunale fino al 09.12.12

Il Vaso François

Museo Civico «La Città Sotterranea» fino al 31.10.12

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Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13

tarquinia Il Tumulo della Regina Qui sopra: l’edificio neoclassico, sede del Museo Etrusco di Chiusi.

cortona Gli Etruschi al passo con la moda Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 09.09.12 (dal 25.08.12)

Guidonia Montecelio (Rm) Archeologi tra ‘800 e ‘900 Città e monumenti riscoperti tra Etruria e Lazio antico Ex Convento San Michele fino al 05.11.12 20 a r c h e o

Immagini di una scoperta archeologica nella necropoli di Tarquinia La mostra, fotografica, illustra i risultati dei quattro anni di scavo del tumulo monumentale situato nel sepolcreto principesco della Doganaccia (al centro della necropoli di Monterozzi). Per l’occasione, sono esposti in esclusiva alcuni frammenti di intonaco dipinto provenienti dalla tomba, probabilmente i piú antichi esempi di pittura funeraria tarquiniese.

dove e quando

Cratere apulo con la preparazione di un guerriero. IV sec. a.C.

Biblioteca Comunale, Sala Grande Tarquinia (Viterbo), Barriera San Giusto fino al 28 ottobre 2012 Orario ago: tutti i giorni, 10,00-12,00 e 18,00-22,00; set-ott:10-12 e 17-19,30; lu chiuso Info tel. 0766 856716 oppure 335 6175139; e-mail: doganaccia@viadeiprincipi.it; www.viadeiprincipi.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania teramo Ashby e l’Abruzzo

halle Pompei, Nola, Ercolano

Museo Civico Archeologico «F. Savini» fino al 30.09.12

Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 26.08.12

tivoli Adriano e Antinoo

spira Egitto, tesori scoperti

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12

Capolavori del Museo Egizio di Torino Museo Storico del Palatinato fino al 02.09.12

venafro Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

vetulonia Il modello inimitabile Percorsi di civiltà fra Etruschi, Enotri e Dauni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.12

In alto: la testa dell’Antinoo Farnese. A sinistra: cimasa di candelabro in bronzo con Eos e Kephalos, da Ruvo del Monte.

Cambridge Alla ricerca dell’immortalità Tesori dalle tombe della dinastia Han The Fitzwilliam Museum fino all’11.11.12

Leida Isole degli dèi

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

Parigi I Galli

I giardini dei faraoni

Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.09.12

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12

Svizzera

lione Il sottosuolo dell’Antiquaille

Prangins Archeologia

Reperti da un antico convento Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière fino al 30.11.12

Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12

saint-germain-en-laye Il Museo d’Archeologia nazionale e i Galli dal XIX al XXI secolo

USA

Musée d’Archéologie nationale fino al 04.09.12

filadelfia Maya 2012: signori del tempo

saint-romain-en-gal L’elmo di Agris

University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13

Quando l’archeologia diventa un fumetto Musée gallo-romain fino al 27.08.12

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Gran Bretagna

Paesi Bassi

Francia

Strasburgo Un’arte dell’illusione

Ornamento in giada con maschera animale. Han Occidentali, II sec. a.C.

Una delle tavole realizzate per la storia a fumetti Il vero elmo di Agris.

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l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

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artendo da Damasco, a Palmira si arriva in poco piú di un paio d’ore di autobus. Dopo l’attraversata del deserto, brullo e solitario, una striscia grigia e tremolante come un miraggio preannuncia la presenza dell’antica città; è l’effetto ottico causato dalle saline naturali che, a meridione, racchiudono la grande oasi. Le rovine di Palmira – i templi, la grande via colonnata, la monumentale necropoli – appaiano cosí, quasi all’improvviso, circondate dal nulla, protette dalla sagoma severa di una fortezza araba. Fino allo scoppio delle rivolte nell’estate scorsa, il centro carovaniero pullulava di turisti provenienti da tutto il mondo. Oggi, come riferisce una testimonianza pubblicata dal primo quotidiano tedesco, Palmira è abbandonata, i suoi monumenti – alcuni di essi trasformati in accampamenti militari delle truppe governative – In questa pagina: due vedute delle grandiose rovine di Palmira, l’antica città carovaniera al centro del deserto siriano.

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nottetempo sono in balía delle bande di saccheggiatori…

quando su Palmira cala la notte... Palmira, nei cui edifici si fondono elementi architettonici orientali ed ellenistico-romani, rappresenta il simbolo della ricchezza e della complessità che contraddistingue il patrimonio culturale della Siria, una terra nella quale, per quattromila anni, si sono succedute, incrociandosi, le grandi civiltà del Vicino Oriente: dai Sumeri ai Babilonesi, dagli Egiziani agli Assiri, Ittiti, Persiani, Greci e Romani, fino alla conquista

islamica. Ma Palmira è diventata anche il simbolo della tragedia umana e culturale che, da mesi, si è abbattuta sul Paese vicinoorientale. Se, infatti, niente supera in orrore gli assassinî di massa della popolazione civile, la distruzione del patrimonio archeologico e monumentale siriano rappresenta, tuttavia, un’ulteriore catastrofe, di dimensioni universali. Sotto tiro – scrive il Frankfurter Allgemeine Zeitung – sono le radici stesse della nostra civiltà: gli edifici antichi, bizantini e medievali, sono alla mercé delle fazioni in lotta e di una rete clandestina,


Palmira (Siria). Il tempio funerario e, sullo sfondo, il castello mamelucco (1250-1517), che sovrasta l’antica città. I monumenti di Palmira sono stati riportati alla luce da missioni archeologiche tedesche, francesi, polacche, svizzere e siriane.

professionalmente organizzata, di trafficanti d’antichità. Come da Palmira, anche da Apamea – l’antica metropoli sull’Oronte, celebre per la sua via colonnata lunga 2 km – arrivano notizie di distruzioni e saccheggi. Un filmato, girato lo scorso marzo, mostra la cittadella di Apamea sotto il fuoco dell’artiglieria. Poco dopo, delle rovine di tremila anni fa ha preso possesso un’unità dell’esercito siriano: nelle antiche mura le ruspe hanno aperto varchi per creare spazio ai carri armati. Ma i combattimenti hanno coinvolto anche numerosi altri siti, tra cui il Krak dei Cavalieri, il piú celebre dei castelli crociati del Vicino Oriente. Gli stessi musei archeologici sono ad alto rischio: già nel luglio del 2011 un memorandum pubblicato da fonti governative metteva in guardia dalle attività di trafficanti clandestini, muniti di strumentazioni tecnologiche d’avanguardia. Non richiedono commenti le amare dichiarazioni dell’archeologa Karin Bartl, direttrice dell’Istituto Archeologico Germanico a Damasco, che in Siria è stata, per l’ultima volta, lo scorso dicembre: «tutti i nostri collaboratori locali sono fuggiti in campagna,

mentre la casa della missione archeologica a Hama è al centro di sparatorie continue. È ancora in piedi, ma posso ben immaginare che fine farà se i combattimenti continuano». Per la studiosa, la guerra civile segna la fine di un’epoca di

esplorazioni archeologiche: «La Siria che conoscevamo – afferma – non ci sarà mai piú». (per approfondimenti sulle condizioni del patrimonio monumentale e archeologico siriano, visita il nostro sito: www.archeo.it).

vietato scavare!

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n un recente convegno dell’ESOF (European Science Open Forum) a Dublino, studiosi svedesi e francesi hanno sollevato la questione della responsabilità etica – nei confronti delle generazioni future – intorno al problema di come segnalare la dislocazione dei siti di stoccaggio delle scorie nucleari. Questione che riguarda un periodo (piú o meno di 100 000 anni) troppo lungo per poter escludere che la memoria di questi depositi possa andare perduta. Che fare, allora, si sono chiesti designer, archeologi, linguisti e futurologi? Le soluzioni prospettate sono tutt’altro che incoraggianti: sigillare i siti in maniera definitiva, sperando che non vi si avventuri nessuna trivella alla ricerca di acqua o petrolio, non basta – avvisa l’archeologo Anders Högberg dell’Università Linneo. Ma sarà sufficiente segnalare i siti con scritte d’avvertimento, magari incise su supporti di zaffiro, la cui indistruttibilità è valutata in una durata di un milione di anni? Anche in questo caso sono proprio gli archeologi a dimostrarsi scettici. Se anche i segnali fossero ancora leggibili tra millenni, verrebbero a confrontarsi con una caratteristica dell’uomo altrettanto indistruttibile: la sua curiosità. Un segnale con la scritta «NON SCAVARE IN QUESTO LUOGO» indurrebbe l’uomo, anche tra 100 000 anni, a impugnare la pala. Del resto, ricorda Högberg, perfino le minacce iscritte sulle pareti delle piramidi dell’antico Egitto non hanno dissuaso i predatori di tutte le epoche…

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antico egitto • mummy project

tutti pazzi

per mummy

È POSSIBILE EFFETTUARE UNO SCAVO ARCHEOLOGICO ALL’INTERNO DI UNA MUMMIA EGIZIA? È QUANTO HANNO TENTATO DI FARE GLI STUDIOSI DEL MUMMY PROJECT DI MILANO, SCEGLIENDO COME TERRENO DI PROVA IL SARCOFAGO DI UN SACERDOTE VISSUTO CIRCA 2800 ANNI FA. E I RISULTATI NON SI SONO fatti ATTENDERE…

testi di Sabina Malgora, con la collaborazione di Lucio Calcagnile, Marina Caligara, Jonathan Elias, Franco Lodi e Gianluigi Nicola

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e mummie sono vere e proprie capsule del tempo, mute testimoni di epoche passate e custodi di preziose informazioni. Reperti fragili, bisognosi di cure costanti per non mettere a rischio l’eternità che i processi di imbalsamazione e i riti pronunciati dai sacerdoti si sono impegnati a garantire loro. Un’eternità oggi assicurata dalle tecniche di indagine e dagli interventi di restauro e conservazione. 24 a r c h e o

Prima della metà del secolo scorso, tuttavia, non sempre gli studi avevano uno scopo altamente scientifico e spesso portavano al danneggiamento o alla distruzione del reperto. La curiosità di vedere i corpi celati sotto le bende, il desiderio di recuperare oggetti preziosi e la mancanza di strumenti di indagine, quali anche semplicemente i raggi X, spesso sfociavano nella sbendatura delle mummie.

In alto: l’équipe del Mummy Project di Milano, centro di ricerche finalizzato allo studio dei reperti organici, con la mummia rinvenuta all’interno del sarcofago egizio di Ankhpakhered, donata al Museo Civico Archeologico di Asti nel 1920.


La prima indagine clinica fu condotta nel 1908 da Margaret Murray su due mummie della XII dinastia (1985-1773 a.C.), provenienti da Rifeh. L’autopsia era la sola via di indagine fino a quando, nel 1895, il fisico tedesco Wilhelm Konrad Röntgen scoprí i raggi X (scoperta che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1901). Nel 1912 vide la luce la prima pubblicazione sulle mummie del Museo del Cairo, a firma di Sir Grafton Elliot Smith, ma le informazioni radiologiche occupavano ancora solo un’appendice. A rallentare l’impiego di tale tecnica non furono solo l’apparente difficoltà a comprendere l’importanza dell’indagine radiologi-

ca o il non voler rinunciare al vecchio sistema dell’approccio diretto e invasivo, ma anche complessi problemi di logistica per sottoporre tali reperti a indagine radiologica. Questi furono risolti a volte in maniera rocambolesca, come per esempio con il trasporto della mummia di Tutmosi IV in taxi-calesse dal Museo del Cairo all’ospedale.

enigmi svelati Il 1931 fu un anno di svolta: il ricercatore Roy L. Moodie usò per la prima volta i raggi X per uno studio nel quale raccogliere informazioni radiologiche da 17 mummie e, nel 1967, Peter Hugh Ker Gray ne studiò ben 133, conservate in vari mu-

sei inglesi e olandesi. L’importanza di queste analisi fu lampante: l’identificazione delle malattie o delle caratteristiche fisiche, ottenuta attraverso le ricerche di questi studiosi, permetteva di riconoscere alcuni tratti come «familiari» e di confer mare alcuni dettagli contenuti nei testi antichi. Per esempio, la morte in battaglia del faraone Seqenenra II (1560 a.C.) fu confermata dalle ferite e dal trauma al cranio evidenziati dai raggi X. Le analisi radiologiche permisero anche di sciogliere dubbi in merito all’identificazione, come accadde, per esempio, con lo scheletro della mummia r itenuta di Tutmosi I (1504-1492 a.C.), terzo re della Milano, Ospedale FatebenefratelliMacedonio Melloni. L’autrice dell’articolo esegue un prelievo sulla mummia in sala operatoria, cosí da poter effettuare analisi chimicotossicologiche e la datazione al radiocarbonio.

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antico egitto • mummy project

il sarcofago del sacerdote

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Il sarcofago di Ankhpakhered (nelle immagini in queste pagine) è di tipo antropoide, con l’imbastitura perimetrale tagliata a metà ed è costituito da un coperchio e un alveo. Il primo presenta una decorazione ricca, dove il volto maschile, reso con pittura rossa, è incorniciato da una parrucca tripartita; sul petto compare un’ampia collana, a piú file di elementi geometrici e floreali. Al centro è il feticcio di Abidos, simbolo di resurrezione. Alla parte corrispondente al corpo è dedicata una decorazione disposta su quattro registri, intervallati da fasce policrome. Nel primo registro (1) sono rappresentati al centro due guardiani dell’oltretomba, mummiformi: due Horus, dio dal corpo umano e testa di falco. La scena è inquadrata dai quattro geni funerari, a destra Amseti e Hapi e a sinistra Kebehsenuef e Duamutef. Il secondo registro (2) è dedicato alla pesatura dell’anima, la psicostasia, descritta nel capitolo 125 del Libro dei Morti: la bilancia è a destra, sormontata da un babbuino, rappresentante il dio Thot. Su un piatto vi è il cuore del defunto e sull’altro Maat, la rettitudine, raffigurata come piuma alla presenza di un genio mummiforme dalla testa presumibilmente di sciacallo, oggi perduta, e della divoratrice Ammit, un mostro a metà tra un ippopotamo e un coccodrillo, che attende i dannati come pasto, posta su un catafalco o naos da cui fuoriescono teste umane. Presenzia al giudizio Ra-Harakhti in trono, divinità con testa di falco, coronata da disco solare e ureo, con in mano gli scettri heqa e nekhekh. Il dio Osiride, in forma di serpente, è ritto sulla coda tra la divoratrice e il dio Ra, con i consueti attributi della corona bianca e della barba posticcia. Tre dee sono raffigurate in fase di adorazione con il braccio sinistro alzato

XVIII dinastia, padre di Hatshepsut, il primo a essere seppellito nella Valle dei Re. L’avvento di nuove tecnologie non invasive non limitò invece le sbendature e le autopsie, mosse spesso dal desiderio di arricchire le collezioni museali con gioielli e amuleti.

nuove tecnologie Oggi il panorama della ricerca è ben diverso. Nuove e sofisticate tecnologie favoriscono lo sviluppo di metodi di ricerca che permettono di ottenere informazioni sempre maggiori nel totale rispetto dei reperti. Le ricerche mediche comprendono le tomografie computerizzate (TAC), che effettuano scansioni volumetriche, consentono una ricostruzione tridimensionale senza alcun danno al reperto; le microanalisi chimiche e fisiche, tra cui quelle istologiche, tossicologiche, tricologiche; e l’analisi genetica (DNA antico). Gli studi sulle mummie hanno avu-

Il sarcofago antropoide di Ankhpakhered visto di profilo (in basso) e frontalmente (a sinistra). Il proprietario del sarcofago era, secondo l’iscrizione in geroglifico dipinta sul perimetro dello stesso, un sacerdote del dio egizio della fertilità Min.


e ankh, simbolo di vita eterna, nella mano destra, posto lungo il fianco o infilato al gomito. Neftis, Iside, con il nome scritto sul capo umano e la terza, con la testa di vacca adorna di disco solare tra le corna, identificabile forse con Meheturet. Nel terzo registro (3), al centro, è raffigurato un grande avvoltoio con le ali spiegate, con le zampe sul simbolo dell’oro; ai lati vi sono figure non leggibili e resti di iscrizioni. Nel quarto registro (4), al centro, è rappresentato Osiride stante, mummiforme, con volto umano e con i consueti attributi quali la corona bianca, la barba posticcia, gli scettri heqa e uas e il flabello nekhekh tra le mani. Ai suoi fianchi vi sono due figure molto lacunose e per questo non identificabili. Al termine del sarcofago, in corrispondenza dei piedi, campeggia uno scarabeo nero su fondo rosso. Gli orli del coperchio e dell’alveo sono decorati con una fascia di rettangoli policromi (5), che corre su tutto il perimetro, interrompendosi in prossimità della parrucca; sul piede la fascia è doppia. Al di sotto di tale decorazione, vi sono le due colonne di geroglifici (6), realizzati con cura, che occupano lo spazio ricavato nella curvatura tra il fondo e le pareti verticali del sarcofago: qui si leggono il nome e il titolo del proprietario. Il fondo esterno è decorato con il pilastro djed per tutta la lunghezza e con il segno dell’orizzonte, akhet, in corrispondenza del capo. La decorazione ricopre solo le pareti esterne. Osservando la tecnica usata per la sua realizzazione e la sua decorazione, il sarcofago può essere considerato un prodotto funerario di buona qualità e la sua datazione può collocarsi tra la XXI e la XXII dinastia (945-750 a.C.).

to una grande espansione anche con l’applicazione delle tecniche di indagine non-morfologica; cosí, per esempio, attraverso la ricerca sui capelli, si definiscono le caratteristiche biologiche delle popolazioni antiche. Oltre alle preziose informazioni di carattere medico e antropologico, le analisi consentono di indagare anche la tecnica di mummificazione, verificando la veridicità delle fonti. In questo rinnovato contesto, si inserisce il Mummy Project di Mila-

no, centro di ricerca votato allo studio delle mummie. Il suo primo progetto, battezzato Ankhpakhered Mummy Project, riguarda lo studio della mummia e del sarcofago di Ankhpakhered, conservati al Civico Museo Archeologico di Asti. I reperti fanno parte della raccolta archeologica di Ernesto Maggiora Vergano, donata dai figli Tommaso e Arnaldo nel 1920 al nascente museo astigiano. Lo studio inizia nel 2008 quando i reperti vengono esposti nella mo-

stra «Ur Sunu, Grandi Dottori dell’Antico Egitto» (Casale Monferrato, 27 settembre 2008-10 gennaio 2009). Prima dell’esposizione, i reperti sono stati sottoposti a restauro conservativo. In tale occasione la mummia è stata oggetto di analisi radiologiche, che hanno immediatamente evidenziato la particolarità del reperto. Le prime indagini risalgono alla pubblicazione del catalogo della collezione egizia del museo astigiano.

IL «bambino vivente» Il nome e il titolo di Ankhpakhered sono scritti in una linea di geroglifici che segue l’imbastitura perimetrale del sarcofago. Il nome è fondamentale perché rappresenta la persona stessa ed è considerato dagli Egiziani un elemento essenziale dell’essere umano, necessario quanto lo spirito immortale Akh, il «doppio» o forza vitale Ka, e l’anima Ba. Come l’ombra, Chaut, il nome è ritenuto una delle parti viventi dell’uomo e deve essere assegnato al momento della nascita, in quanto senza di esso l’individuo non esisterebbe. Il testo recita: «il giustificato presso Osiride, dio grande, il seme di Ipu, Ankhpakhered». In base al titolo, si può ipotizzare che il proprietario ricoprisse, verosimilmente, una funzione sacerdotale legata al culto di Min, con mansioni relative all’abbigliamento quotidiano del dio, presso Ipu, identificabile con Akhmim, sede centrale di tale culto. Il dio Min era venerato principalmente a Koptos e ad Akhmim, dove era il

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antico egitto • mummy project A destra: un’immagine scattata durante l’esecuzione della tomografia computerizzata sulla mummia. In basso: tre sezioni assiali. Il cranio, che si presenta integro, normoconformato e senza segni di traumi; l’arcata dentaria superiore, anch’essa regolare, e le canne visibili all’interno del cranio, penetrate attraverso il forame occipitale; l’area toracica, in cui sono visibili le canne, le vertebre, il bacino e le ossa lunghe delle braccia.

protettore della fecondità e della fertilità e patrono delle vie carovaniere; viene normalmente raffigurato come un uomo, mummificato, con una corona adornata di due lunghe piume, mentre tiene in una mano il pene eretto e nell’altra un flabello. Come dio della fertilità era evocato durante le festività che rinnovavano il «mistero del concepimento divino». Il nome di Ankhpakhered può essere tradotto con «il bambino è vivente» oppure «possa il bambino vivere». Con il termine «bambino» si fa riferimento al figlio di Iside, Horus.

come una crisalide La mummia associata al sarcofago (vedi box alle pp. 26-27), è lunga 165 cm e ha una bella forma crisaliforme. A un primo esame, si nota un bendaggio molto semplice, che segue un percorso spiraliforme, con bende di tessuto non fine. La mummia non è avvolta nel consueto sudario esterno, un lenzuolo stretto alle bende tramite strisce di stoffa. Non è possibile determinare se il sudario non sia stato fornito o se sia andato perduto. Non è conservata inoltre alcuna iscrizione recante il nome del defunto. In corrispondenza della parte supe28 a r c h e o

riore destra del torace si rilevano chiare tracce di disturbi, dovuti forse all’opera dei profanatori in cerca di amuleti; in questa posizione dovrebbe infatti essere collocato lo scarabeo del cuore. La mummia era già stata oggetto di un intervento conservativo negli anni Ottanta del secolo scorso, a cura di Gianluigi Nicola. In quell’occasione si erano effettuate la pulitura dei bendaggi superficiali e la riparazione di alcune bende lacerate. A distanza di anni si è provveduto a una nuova manutenzione: una cauta pulitura e una revisione delle puntature di contenimento sulle bende. Poiché il reperto era molto fragile, si è costruito un vassoio di forma anatomica in vetroresina foderato di tela di lino per permettere trasporti piú sicuri.


FASE 0 In occasione del restauro, la mummia, sottoposta ad analisi radiologica, ha subito rivelato una situazione complessa e inaspettata, in cui spicca non solo la totale assenza di amuleti tra le bende, ma, soprattutto, la scomposizione della struttura scheletrica. Sotto le bende non vi è un corpo, bensí uno scheletro e le ossa sembrano sconvolte, forse per la comprensibile difficoltà di tenerle nella loro sede naturale. Sotto allo scheletro, si intravedono alcune canne. Tale insolita situazione ha indotto a sottoporre la mummia a studi piú approfonditi. FASE 1 Come primo intervento, si è scelto l’esame non invasivo della TAC (tomografia computerizzata). Lo strumento utilizzato è stato un apparecchio TC multistrato Siemens Sensation 16 (Siemens AG, Erlangen, Germania), che ha effettuato scansioni volumetriche creando sezioni di 1 mm di spessore, per un totale di circa 2950 immagini. Queste sono poi state utilizzate per ottenere ricostruzioni elettroniche in post processing dello scheletro e rielaborate per ottenere la ricostruzione in 3D. L’analisi tomografica ha permesso una visione piú completa della situazione della mummia rispetto alle radiografie e alla ricostruzione 3D del tronco e degli arti inferiori, ottenendo una visione di insieme

dello stato di disordine anatomotopografico che lo scheletro manifesta nel suo insieme: è un corpo scheletrizzato, piuttosto che un cadavere imbalsamato, con una presenza di tessuti scarsa e con una situazione ossea alquanto sorprendente. A una rapida osservazione, già evidenziata dalle prime immagini radiografiche, si rileva che i piedi non sono in posizione, ma collocati tra i femori, il bacino è dislocato all’altezza delle spalle, la colonna vertebrale è smembrata nelle singole vertebre, sparse nella cassa toracica, unitamente a parte delle ossa delle mani e dei piedi. Al di sotto dello scheletro, per tutta la sua lunghezza, si individuano 21 canne, alcune delle quali entrano nel cranio attraverso il forame occipitale. Gli spazi vuoti sono riempiti da bende arrotolate.

fratture molteplici Operando un’analisi dalla testa ai piedi, si riscontrano numerose fratture post mortem. Il cranio è integro, normoconformato, senza anomalie e senza lacune; non ci sono segni di traumi o altri elementi che possano far pensare ad atti criminosi. Nella cavità nasale, le cellette etmoidali sono intatte, ossia non sono state danneggiate da un intervento esterno. Anche la mandibola è regolare e senza anomalie, ma spostata in

avanti e lussata dal lato sinistro. La dentatura non è completa: alcuni denti sono stati persi in vita, molto prima della morte, altri invece sono stati persi post mortem e sono visibili frammisti al resto dello scheletro. Al fondo delle cavità orbitarie e all’esterno delle ossa squamose del cranio vi è un materiale denso e sedimentato, identificabile come materia cerebrale. Tutte le 24 vertebre sono presenti, seppur sparse e alcune con segni di un’osteocondrosi giovanile, patologia che si manifesta nei ragazzi tra i 10 e i 14 anni e che porta alla cifosi della colonna. Alcune vertebre toraciche e lombari conservano segni di infiammazione cronica, forse dovuta a piú fattori, come l’invecchiamento e un lavoro fisico. Le scapole e gli omeri non si trovaQui sotto: la radiografia della mummia effettuata in occasione del restauro, che ha rivelato, oltre all’assenza di amuleti tra le bende, la presenza di uno scheletro con pochi tessuti molli (invece che di un corpo mummificato) e la mancanza di connessione anatomica tra le ossa. Si nota, inoltre, la presenza di 21 canne sotto lo scheletro, utilizzate come supporto per garantire stabilità alla mummia. In basso: la mummia, avvolta con bende di tessuto spesso, non presentava il sudario esterno.

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antico egitto • mummy project La ricostruzione tridimensionale del cranio, visione laterale e frontale (qui sotto), e del corpo, fino alle ginocchia (in basso). Secondo i dati raccolti dalle analisi effettuate, l’individuo svolgeva attività lavorative pesanti, usuranti per le parti inferiori dello scheletro. A destra: il posizionamento della mummia sul tavolo operatorio.

no in posizione e non mostrano tracce di patologie causate dall’età. A questo livello troviamo il bacino, che è stato spinto all’altezza delle spalle ed è posizionato sopra le scapole. Nello spazio antistante i due elementi del bacino, sono raccolte, in modo disordinato, coste, frammenti costali per rotture post mortem e vertebre dei tre tratti principali della colonna, nonché elementi ossei delle mani e dei piedi, tra cui due astragali, un calcagno e alcuni metatarsi. Il resto delle mani, dei piedi e alcune ossa, sacro compreso, si ritrovano nello spazio delimitato dai femori. Le ossa del braccio destro, radio e ulna, sono ancora parallele, ma si trovano, sorprendentemente, sotto il femore. L’ulna di sinistra invece si appoggia sulla regione del ventre. A livello delle ginocchia, in corrispondenza della tibia e del femore, si notano calcificazioni causate sia da una degenerazione cronica, sia da lesioni dovute a sovraccarico. Bende ripiegate e arrotolate in grande quantità riempiono gli spazi e le discontinuità di superficie, rendendo omogeneo l’aspetto di crisa30 a r c h e o

lide che la mummia assume vista dall’esterno, senza visualizzare e definire l’anatomia di superficie di un corpo umano.

le prime certezze Lo studio delle immagini tomografiche conferma la valutazione seguita a quelle radiografiche panoramiche: la mummia è stata realizzata con un assemblaggio di elementi ossei di uno scheletro adulto, frutto di una grossolana ricomposizione e ricollocazione. La situazione sconvolta delle ossa non dipende, quindi, da riassestamenti spaziali tra le ossa, causati da trasporti o spostamenti: la mummia appare ben diversa da come dovrebbe presentarsi un corpo mummificato! L’esame ha confermato, inoltre, che, sebbene a oggi non sia possibile stabilire l’esatta causa della morte, l’individuo non è morto in seguito alle lesioni che lo scheletro evidenzia. Risulta, inoltre, che la rimozione del cervello non è avvenuta attraverso il naso, poiché le celle nasali sono intatte. I dati raccolti suggeriscono poi che le abitudini lavorative del soggetto fossero abba-


stanza pesanti e volte a stressare le parti inferiori dello scheletro, in modo particolare le ginocchia e la zona lombare. Questi elementi non sembrano essere compatibili con il ruolo sacerdotale, che, come recita il testo sul sarcofago, avrebbe dovuto ricoprire il suo proprietario. È, inoltre, evidente che il processo di imbalsamazione non è iniziato poco tempo dopo la morte, quando il corpo era integro, ma quando era ormai già scheletrizzato con pochissimi tessuti molli. L’instabilità dello scheletro e la difficoltà di tenerlo insieme deve aver indotto gli imbalsamatori a utilizzare canne come supporto, per poter realizzare la mummia e garantirle una certa stabilità. Dalla TAC si sono inoltre ricavate le informazioni per le misure antropologiche che permettono di stimare altezza e peso corporeo: l’individuo era alto tra i 173 e i 178 cm e pesava tra i 68 e i 73 kg. Agli aspetti anatomo-patologici si aggiungono alcune osservazioni di carattere piú squisitamente egittologico: si rileva infatti la totale mancanza di amuleti che avrebbero dovuto formare una sorta di corazza magica a ulteriore difesa del corpo, sia dagli agenti esterni che avrebbero potuto causarne la decomposizione, sia dai pericoli di cui l’aldilà è ricco. Dal punto di vista del rituale funerario, una tale mancanza appare piuttosto grave: l’inserimento degli amuleti tra le bende è infatti stabilito nel capitolo 155 del Libro dei Morti, in cui si specificano la tipologia, il materiale e la posizione sul corpo di ogni amuleto e la formula magica da recitare su ognuno di essi. Tuttavia in epoca tarda, non è infrequente la mancanza di amuleti. Sulle bende non si conserva il nome, probabilmente scritto sul sudario, suhet, che forse è andato perduto. Considerando tali mancanze, si sarebbe tentati di immaginare una volontà di dannazione eterna, che contrasta, però, con la preoccupazione di mummificare un individuo ormai ridotto a scheletro,

un progetto interdisciPlinare Il Mummy Project è un centro di ricerche per lo studio dei reperti organici, in particolare mummie umane e di animali, attraverso le piú moderne tecniche di indagine medica e investigativa, senza alcun rischio per i reperti. Ha sede presso l’Ospedale Fatebenefratelli di Milano ed è sostenuto dall’Associazione Culturale «Mummy Project», di cui è presidente Alice Durando. Lo scopo è quello di restituire un’identità alle mummie oggetto di indagine, completando il quadro storico e culturale da cui provengono. Diretto dall’autrice dell’articolo, archeologa ed egittologa, specialista di medicina dell’antico Egitto, curatrice della sezione egizia del Castello del Buonconsiglio di Trento, e da Luca Bernardo, direttore del dipartimento materno infantile del Fatebenefratelli di Milano e dell’Ospedale Macedonio Melloni di Milano, giornalista e scrittore, è costituito da un’équipe multidisciplinare. Gli specialisti medici prestano la loro opera al di fuori degli impegni lavorativi, senza sottrarre tempo e attenzione ai loro pazienti. Le sale e le apparecchiature della struttura ospedaliera sono impegnate in giorni in cui non sono utilizzate per le normali attività. Info: www.mummyproject.it Al suo interno si avvale della collaborazione di vari enti e istituti, tra cui: l’AMSC (Akhmim Mummy Studies Consortium), centro di ricerca della Pennsylvania, diretto da Jonathan Elias, che si occupa sia di elaborare dati forensi e ricostruzioni facciali, sulla base di scansioni tomografiche computerizzate effettuate su mummie egizie, sia di archiviare dati provenienti dalle ricerche sulle mummie. A oggi l’AMSC ha indagato oltre 25 mummie degli Stati Uniti e dell’Europa e ha ricostruito il volto di 14 mummie dell’antico Egitto. Il CEDAD, CEntro di DAtazione e Diagnostica, dell’Università del Salento, diretto da Lucio Calcagnile, ordinario di Fisica Applicata, realizzato a partire dal 1999 dal gruppo di Fisica Applicata del Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione. È specializzato nella ricerca e nel servizio di datazione con il radiocarbonio mediante la tecnica nota come Spettrometria di Massa con Acceleratore (AMS). Il suo nucleo fondamentale è il laboratorio Tandetron (acceleratore di particelle da 3 milioni di volt utilizzato per la datazione con il radiocarbonio). Ha contribuito finora all’inquadramento cronologico di centinaia di siti archeologici, ha datato le insegne di Massenzio, i bronzi di Riace, la Lupa Capitolina, ha contribuito agli studi su importanti uomini del passato tra cui Caravaggio e Pico della Mirandola. È stato inserito dal rapporto EURISPES tra le 100 eccellenze italiane per l’innovazione tecnologica. La Facoltà di Veterinaria dell’Università di Milano, nelle persone di Cinzia Domeneghini, Ordinario di Anatomia degli Animali Domestici; Mauro Di Giancamillo, Associato Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria; Alessia Di Giancamillo, Simone Borgonovo e Melania Moioli, della Facoltà di Medicina Veterinaria, Dipartimento di Scienze Veterinarie per la Salute, la Produzione Animale e la Sicurezza Alimentare dell’Università degli Studi di Milano. Il laboratorio Nicola Restauri, fondato oltre sessant’anni fa da Guido Nicola, ad Aramengo (Asti), continua oggi la sua attività grazie ai discendenti: il figlio, Gianluigi, e il nipote, Alessandro. Organizzato in reparti dedicati ai diversi settori del restauro (dipinti su tela, tavole, sculture lignee, stucchi, pergamene, reperti archeologici ed etnografici, ecc.), ha un’équipe affiatata di tecnici specializzati. Il laboratorio si distingue per la lunga esperienza maturata su reperti egiziani, sia per musei che per missioni archeologiche. a r c h e o 31


antico egitto • mummy project L’estrazione di un frammento osseo (qui sotto), poi inserito (a destra) in un contenitore sterile per le analisi al radiocarbonio. Da sinistra, Michele Vignali, Sabina Malgora e Luca Bernardo. In basso: l’interno della mummia, visto attraverso la telecamera dell’endoscopio, durante il recupero di un frammento di tessuto. Nella pagina accanto: la facciata della rotonda romanica e, a destra, l’ingresso al chiostro e al Civico Museo Archeologico di Asti.

cercando di creare le condizioni per la realizzazione di un corpo eterno, quali, per esempio, il già citato supporto di canne e l’inserimento di rotoli di bende per una salma alla quale si desidera restituire la forma che ha ormai perso. A tutto questo si aggiunge la sottrazione del sarcofago a un altro proprietario, non potendo o non volendo realizzarne uno apposito. Si può quindi affermare che la mummia non è chi pretende di essere, quanto piuttosto una persona, di

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origini forse modeste, sepolta in un secondo momento nel sarcofago appartenuto ad Ankhpakhered, sacerdote del tempio del dio Min ad Akhmim.

quesiti irrisolti A questo punto della ricerca, però, non era possibile stabilire quando la sepoltura fosse avvenuta, cioè quanto tempo dopo fosse avvenuto il riutilizzo del sarcofago, né per quali ragioni. In conclusione, sebbene la TAC abbia restituito moltissime informazioni, non ha permesso di comprendere se la mummia fosse un falso creato da imbalsamatori o da antiquari. Rimane la stranezza di vedere sotto le bende uno scheletro e non un corpo vero e proprio. FASE 2 La TAC ha quindi sollevato non pochi interrogativi, per rispondere ai quali le ricerche sono proseguite. Si è subito compreso che occorreva prelevare frammenti ossei e di altri materiali da analizzare. Il Mummy Project decise quindi di proseguire il progetto e di affrontare un’endoscopia per effettuare i prelievi necessari. Gli strumenti usati a questo fine sono stati un video-broncoscopio STORZ (61 cm di lunghezza, 5,9 mm di diametro esterno, con canale operativo di 2,2 mm) e un broncoscopio STORZ (44 cm in lun-


ghezza, 10,5 mm di diametro esterno con 3 canali operativi). L’équipe del Mummy Project questa volta coinvolse specialisti diversi. L’endoscopia fu effettuata con la supervisione di Michele Vignali, professore di ostetricia e ginecologia. Il piccolo strumento dotato di pinza fu fatto entrare all’interno della mummia sfruttando le lacerazioni presenti sulle bende nella parte destra del torace. La presenza della telecamera ha permesso di vedere direttamente l’interno della mummia. Sono stati prelavati campioni di ossa, canne e di bende di riempimento, con il fine di eseguire una datazione al radiocarbonio C14 e una analisi tossicologica.

la datazione Dopo mesi di attesa e di intenso lavoro arrivano i risultati. Le datazioni sono state effettuate dal CEntro di DAtazione e Diagnostica (CEDAD), dell’Università del Salento. I vari materiali prelevati dalla mummia tra cui frammenti di ossa, denti, lino, provenienti dai bendaggi e alcuni frammenti di canne sono stati portati dai tecnici del CEDAD presso il loro centro di ricerca per effettuare le opportune analisi, a cura di Carla Corvaglia. I campioni sono stati datati con la tecnica della spettrometria di massa con acceleratore (la stessa utilizzata per datare la Sindone), ma sono state utilizzate anche altre tecniche di indagine analitica per il riconoscimento dei contaminanti, presenti nel collagene estratto dalle ossa, nella dentina dallo smalto dei denti e nei frammenti di lino. I contaminanti sono stati rimossi prima dell’analisi per la datazione. Sono state effettuate 12 datazioni con il radiocarbonio su campioni di natura diversa per determinare il periodo storico dello scheletro e verificare l’età degli altri materiali ritrovati all’interno. Per ogni campione è stata determinata prima l’età radiocarbonica (Radiocarbon Age) dalla misura degli isotopi 12, 13 e 14 del carbonio. Successivamente è stata effettuata la

nella casa dei cavalieri di san giovanni Le collezioni del Civico Museo Archeologico di Asti sono ospitate all’interno del complesso monumentale di S. Pietro, che comprende la chiesa rotonda, la contigua cappella Valperga, il chiostro e parte della casa priorale, databili tra il XII e il XV secolo. Dal XII secolo fino al 1798 il complesso appartenne ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Il museo è costituito in gran parte da quattro collezioni private donate al Comune nei primi decenni del Novecento. Comprende metalli preromani, ceramiche greche, magnogreche ed etrusche, e una consistente raccolta di reperti romani: vasellame e lucerne in terracotta, urne cinerarie, vetri, bronzi. Parte dei materiali romani proviene da corredi funebri di tombe del I secolo d.C. rinvenute dall’astigiano Giuseppe Fantaguzzi nel 1879 alla periferia ovest di Asti. Nella significativa sezione egizia (la seconda del Piemonte) sono presenti due mummie, i relativi sarcofagi lignei antropomorfi, vasi canòpi e una raccolta di amuleti, ushabti, statuine di divinità e altri oggetti di carattere religioso-funerario. Info il Museo è aperto nei giorni di sabato e domenica, dalle 16,00 alle 19,00; per visite su prenotazione: tel. 0141 592091.

calibrazione in anni di calendario. Tutti i campioni sottoposti ad analisi sono risultati praticamente coevi e appartenenti a un periodo compreso tra il 400 e il 100 a.C., con un livello di confidenza del 95%. Alcuni frammenti ossei sono stati inviati al laboratorio di Tossicologia Forense del Dipartimento di Fisiologia Umana dell’Università degli Studi di Milano, diretto da Franco Lodi, Ordinario di Tossicologia Forense, Istituto di Medicina Legale, Università degli Studi di Milano, per mano di Marina Caligara, per essere sottoposti a una serie di indagini tossicologiche. Le indagini sono state orientate al rilievo di sostanze di origine naturale, sia inorganiche, che organiche. La ricerca delle sostanze inorganiche ha riguardato i metalli tossici come l’arsenico, il mercurio, il piombo, il tallio e metalli essenziali come lo zinco, il rame, il calcio, il manganese, il magnesio. Il rilievo

di valori normali di concentrazione nel tessuto osseo esaminato escludono, da un lato, l’accumulo di metalli tossici e, dall’altro, una carenza nutrizionale. Un altro piccolo campione di tessuto osseo è stato usato per la ricerca specifica di oppiacei, cocaina e cannabinoidi. Sono state considerate queste tre classi di sostanze poiché sono le uniche che hanno un’origine vegetale; la morfina, che è l’oppiaceo principale, è prodotta dal Papaverum Somniferum; la cocaina è contenuta nelle foglie di Eritroxilon coca, arbusto originario non solo del Sudamerica, ma anche di Ceylon e Giava; il delta-9-THC costituisce invece il principio attivo della Cannabis Indica. Le analisi sono proseguite sui composti organici volatili, dove sono stati evidenziati elementi di origine naturale quali, la benzaldeide, l’heptanal, lo stirene. La benzaldeide è contenuta a r c h e o 33


antico egitto • mummy project

la ricostruzione del volto Il soggetto di questa ricostruzione è un egiziano, presumibilmente vissuto nei pressi di Akhmim (466 km a sud del Cairo). Il processo di ricostruzione facciale, a cura dell’ AMSC (Akhmim Mummy Studies Consortium) della Pennsylvania, si è sviluppato in diversi momenti. I dati raccolti con la TAC sono stati elaborati da software specifici e con un procedimento chiamato Rapid prototyping. Il gruppo di immagini assiali della TAC che riguardano il cranio sono state «stampate» grazie a un sistema di 3D Printing, usando una polvere di resina e un sistema adesivo a bassa viscosità. In questo modo si è ottenuta una copia in resina del cranio in dimensioni reali, dal quale è stato possibile iniziare la ricostruzione del volto vera e propria. Lo scultore ha analizzato le caratteristiche antropologiche del cranio, rilevando tutti i dettagli che possono avere influito sull’aspetto di questo individuo. Per esempio, l’arcata sovraorbitale sinistra è piú pronunciata che a destra; la cavità orbitale destra è posizionata leggermente piú in basso rispetto alla sinistra, e il suo mento presenta un’eminenza focale in punta. Inoltre, osservando la mandibola, si nota che il lato sinistro è senza denti. Le osservazioni rilevate sui denti, in particolare il riassorbimento dell’osso in cui essi sono ancorati,

Sabina Malgora presenta il volto della mummia dopo la ricostruzione effettuata grazie ai dati raccolti con la tomografia computerizzata. A sinistra: una fase della ricostruzione del volto: la determinazione dello spessore dei tessuti.

Spesso, per abbassare la temperatura, si ponevano nel condotto discendente stracci inzuppati d’acqua

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unitamente all’estensione generale dell’abrasione e alla quantità di ascessi suggeriscono un’età non inferiore ai 40 anni. L’età è essenziale per la valutazione dello spessore dei tessuti molli e l’aspetto della pelle su cui hanno inciso anche le condizioni ambientali e climatiche. Uno dei punti piú difficili della ricostruzione è stato il naso: manca l’osso nasale, la superficie da cui si determina l’angolo e la forma del naso; nonostante questo, la struttura ossea circostante, in particolare l’apertura piriforme, è stata sufficiente per ricostruire la forma del naso. L’ampiezza di tale apertura suggerisce che fosse abbastanza largo e senza una grande sporgenza. Completata questa fase di studio, cilindretti indicanti i corretti spessori di tessuto sono stati fissati al modello del cranio. Gli spessori utlilizzati sono stati quelli derivati da misure ottenute per mezzo di ultrasuoni su un ampio campione di popolazione moderna egiziana. Graduali apporti di plastilina hanno conferito al volto una realtà anatomica. Il colore della pelle è basato su quello degli abitanti di Akhmim nel 2005-2007. La ricostruzione comprende anche i capelli, la cui probabile presenza è stata notata nelle immagini della TAC, assieme ai resti dello scalpo e forse di ciocche di capelli mescolati a resine, ancora aderenti sul retro del cranio, sul lato sinistro. Lo stile della pettinatura è invece una congettura.

nell’olio di mandorle amare del quale determina l’odore caratteristico; l’heptanal è un olio incolore o giallo pallido, estratto dai semi della pianta del ricino ed è usato sia come addolcente della pelle sia come lassativo; lo stirene, detto anche cinnamene, è contenuto nello Storax, essudato resinoso della pianta Liquidambar, usato come incenso o come fissativo aromatico ancora oggi in profumeria. Alla luce della TAC, dell’endoscopia e dei risultati delle altre analisi, possono essere fatte alcune riflessioni sull’identità dell’individuo che riposa all’interno del sarcofago del sacerdote.

canne), per comporre una mummia ed è stato trattato con olii. Infine, grazie alla ricostruzione del volto (vedi box in queste pagine), il Mummy Project ha potuto restituire un’identità alla mummia che riposa nel sarcofago di Ankhpakhered e ci ha permesso di vedere il volto di un uomo vissuto piú di 2000 anni prima di noi. Oggi, dunque, grazie agli studi e alle pubblicazioni scientifiche, alla mummia è stata assicurata quell’eternità che il sapiente lavoro degli imbalsamatori aveva cercato di garantirgli. Mancava solo il nome! E cosí, in occasione di questa r inascita, gliene è stato dato uno nuovo: un uomo piú «giovane» Wehem-ef-ankh («colui che torLe datazioni con il radiocarbonio na a vivere»). confermano che non si tratta di una mummia falsa, realizzata in tempi L’Ankhpakhered Mummy Project recenti, ma di un reperto autentico, non si sarebbe realizzato senza il sostesolo piú tardo rispetto al sarcofago: gno di alcune figure, che qui vogliamo da un minino di 350 anni a un mas- ringraziare: Egle Micheletto, Soprintendente per i Beni Archeologici del Piesimo di 700 anni. Non è stato possibile comprendere monte e del Museo Antichità Egizie, pienamente la causa della morte, Elisa Fiore Marochetti, Direttore Coorsebbene sia probabilmente da esclu- dinatore della Tutela collezioni egittolodere una morte violenta. Lo schele- giche Musei civici, tutela beni egizi di tro è stato sottoposto a manipola- proprietà privata, e il restauratore Angezione, con l’impiego di supporti (le lo Campana che hanno seguito il pro-

getto; Elvira D’amicone, ex Direttore Coordinatore della Tutela collezioni egittologiche Musei civici, tutela beni egizi di proprietà privata per le prime fasi di ricerca; Anna Pieri, egittologa e co-curatore della «fase TAC»; l’équipe medica che ha operato nella «fase TAC»: Giosuè Ceriani, Dirigente Medico della S.C. Radiologia, Antonio Pieri, Dirigente Medico S.C. Neurochirurgia, Antonio Giancarlo Oliva, Direttore della S.C. Radiologia e Paolo Scali (Tecnico della S.C. Radiologia); l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Luciano Bresciani; l’Ospedale Fatebenefratelli-Macedonio Melloni di Milano; il dirigente del settore Cultura del Comune di Asti Gianluigi Porro; l’assessore alla cultura Gianfranco Imerito; tutto il personale dell’Ufficio Musei, in particolare Giuseppe Ponzone; il fotografo del progetto, Igor Furlan; le riprese con telecamera di Giacomo Armani e Matteo Inzani della Mustache Film; il fotografo Livio Bourbon della Spin360 di Milano; Michele Vignali, Professore associato Divisione di Ostetricia e Ginecologia II, Istituto di Clinica Ostetrica Ginecologica I, Università degli Studi di Milano-P.O. Macedonio Melloni; Davide Bertocco, chirurgo generale d’urgenza, responsabile revisione aspetti medici della «fase TAC»; Chantal Milani, odontoiatra forense e membro del Mummy Project. Gli sponsor: per la TAC: Caffè Cellini; per l’endoscopia: AlleanzaToro Assicurazioni e Storz; per il trasporto della mummia: l’impresa funebre Cardinal Massaia di Asti. per saperne di piú • Enrichetta Leospo, Museo Archeologico di Asti. La Collezione Egizia, Torino1986. • Sabina Malgora (a cura di), Ur Sunu. Grandi dottori dell’Antico Egitto. Malattie e cure nella terra dei Faraoni, catalogo della mostra. Vercelli 2008. • Sabina Malgora, Un Corpo per l’Eternità, in My life is like a Summer rose. Maurizio Tosi e l’archeologia come modo di vita, a cura di B. Cerasetti e K. LambergKarlovsky, British Archaeological Report, Oxford 2012. a r c h e o 35


verghina

e l’oro dei re macedoni

«8 novembre 1977. Sebbene fosse d’obbligo restare freddo, calmo e concentrato, per essere all’altezza della situazione e delle responsabilità del momento, l’archeologo restò intimamente colpito e stupefatto, nel vedere una ricca camera funebre rimasta intatta nei secoli». cosí Manolis Andronikos descrive i primi momenti di una scoperta che subito fece il giro del mondo. Ma appartengono davvero a Filippo II il Macedone, padre di Alessandro Magno, i resti umani rinvenuti insieme agli straordinari tesori all’interno del Grande Tumulo?

di Massimo Vidale

U

na vita intera spesa contro i settentrionali Macedoni: ne fu protagonista Demostene (384-322 a.C.), un vero cavallo di razza della politica ateniese. Forgiatosi, suo malgrado, nei tribunali e nelle lunghe cause intentate agli amministratori disonesti del suo patrimonio familiare, Demostene era diventato, per amore o per forza, uno dei logografi (avvocati) piú in vista della città.Ventiquattrenne, aveva abbracciato la carriera politica entrando nell’amministrazione urbana come trierarco, o amministratore navale, incarico che comportava una pericolosa esposizione finanziaria personale. Era il 360 a.C. In quegli anni Filippo II (382-336 a.C.) aveva appena preso il potere a (segue a p. 40)

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Corona d’oro a foglie di quercia e ghiande, dall’urna d’oro (nella pagina accanto) decorata con la stella a 16 raggi, rinvenuta nel sarcofago marmoreo della cosiddetta «Tomba di Filippo II» (o Tomba II). IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali. La sepoltura fu portata alla luce dall’archeologo greco Manolis Andronikos durante lo scavo del Grande Tumulo di Verghina, una delle due capitali della dinastia macedone. La corona era ripiegata sopra le ossa combuste attribuite al sovrano.

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verghina • i luoghi della leggenda

un piccolo regno conquista il mondo VIII secolo a.C. C arano, figlio di Timeno re di Argo, riconosciuto come uno dei tre capi dorici che invasero i possedimenti micenei del Peloponneso, è ricordato come primo sovrano macedone; la dinastia fu chiamata argeade da questa discendenza. Inizi del VII Regno di Perdicca I. La Macedonia sec a.C. estende il suo territorio a spese dei vicini Peoni e Traci, e fino alle coste del Golfo Termaico. Di Perdicca e dei suoi discendenti Erodoto (V, 22, 1) afferma le piene origini elleniche. VI secolo a.C. Argeo I, Filippo I, Aeropo I, Alceta I si succedono sul trono di Macedonia. Aminta I, successore di Alceta I, Fine del VI sec a.C. è vassallo di Dario I di Persia (550-486 a.C.), e in questa veste inizia a interferire con le vicende politiche greche, sostenendo le parti aristocratiche e filo-tiranniche contro quelle democratiche. 498-454 a.C. Alessandro I rovescia la politica del predecessore e contrasta i Persiani durante i conflitti. Riprende una forte politica espansionistica, sfruttando anche le vie di comunicazione costruite dai Persiani, ma si accredita come Greco quando i Macedoni partecipano per la prima volta ai giochi olimpici. Ad Atene viene dichiarato proxenos kai evergetes, ambasciatore e benefattore della città. I rapporti con Atene divengono gradualmente piú conflittuali. 454-413 a.C. La Macedonia entra in decadenza. Dopo un breve regno di Aminta II, Perdicca II affronta i convulsi avvenimenti della guerra del Peloponneso con una spregiudicata e mutevole strategia di alleanze e interventi, prima con Sparta, poi con Atene. 413-399 a.C. Archelao I, salito al trono con un complotto dinastico e omicidi in famiglia, fa partecipare i Macedoni

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392-369 a.C. 369-359 a.C.

359-336 a.C.

alla battaglia di Siracusa (fine del 413 a.C.). La tragica perdita della flotta ateniese costringe la città a richiedere il legname per nuove navi proprio ai Macedoni. Archelao sfrutta il predominio militare e politico per riorganizzare completamente le infrastrutture dello Stato e dell’esercito e trasforma Pella in un importante centro culturale, ospitandovi Euripide e il famoso pittore Zeusi. Dopo sette anni di lotte intestine, Aminta III ristabilisce l’unità del regno. Un altro decennio vede diversi sovrani salire al trono e morire assassinati. Nel 359 a.C. Filippo II diviene tutore di Aminta IV, giovane erede legittimo al trono, ben presto spodestato. Regno di Filippo II di Macedonia. Riorganizza radicalmente l’esercito, sconfigge gli Illiri e riprende l’espansione verso le città greche della costa nord-orientale, il che lo pone in guerra con Atene. Sfruttando la perenne ostilità tra le città greche, rafforza il regno di Macedonia, come sancito dalla pace di Filocrate (346). Conclude un trattato con la Persia (343) e, nel 338 a.C., travolge a Cheronea Tebani e Ateniesi. La linea politica di Filippo è elementare: unificare la Grecia, attaccare la Persia e derubarne le immense ricchezze. Creata la Lega di Corinto, a cui partecipa ogni città greca tranne Sparta, Filippo invia nel 336 un primo corpo di spedizione in Asia Minore, per studiare la capacità di risposta dei Persiani. Filippo è ucciso nello stesso anno, secondo alcune fonti a causa di un complesso intrico di vicende amorose omosessuali. Il figlio, Alessandro (356-323 a.C.), è pronto a tradurre in realtà il visionario, incredibile sogno paterno.


Kallatis Odessos

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Euxeinus Pontus

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Idomenai Alkomenai Lychnidos Eidomene Styberra Dikaia Stryme Bragylai Edonia Neapolis Kyrrhos p Herakleia Amphipolis Abdera A Lincestide Bottiea Lete Bisaltia Dimale Apollonia Thasos Edessa Pella Migdonia Arethousa A Methone Argos Akanthos Byllis Beroia Pydna Calcidica Aigai Aiane (Verghina) Olynthos Singos Potidaia Pieria

Epidamnos

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Locrid e Focide Beozia Ithake Kalydon Thebes Patrai Aigion Acai a Sikyon Megara

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Persia

Magnesia Smyrne Klazomenai

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Magnesia Priene Miletos

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Karpathos

Il regno macedone e gli Stati della Grecia alla fine del regno di Filippo, nel 336 a.C. Regno di Macedonia e Stati vassalli

Kydonia

Creta Knossos Gortyn

Tessaglia, dominio personale di Filippo Regno dei Molossi, alleato di Filippo Stati greci membri della Lega di Corinto Stati greci neutrali a r c h e o 39


verghina • i luoghi della leggenda

«Se uno schiavo o un figlio bastardo sperperassero il patrimonio altrui, quanto piú grave e irritante, per Eracle, tutti considererebbero il loro comportamento! Ma su Filippo e la sua strategia odierna, nessuno parla in questi termini: eppure non solo egli non è un Greco e non ha nessuna affinità con noi, ma non è neppure un barbaro originario di una regione che è onorevole menzionare, ma è una peste di Macedone, di una regione dalla quale prima non era nemmeno possibile acquistare uno schiavo di valore» (Demostene, Terza Filippica, 31) Pella, anche se informalmente, come tutore del nipote ancora minorenne, Aminta IV. Solo cinque anni piú tardi fu riconosciuto come re di Macedonia dal popolo in armi. Forse solo l’originaria, totale identificazione di Demostene con la vita e le sorti di Atene, e, in definitiva, con un mondo ormai sulla soglia dell’estinzione, può spiegare l’ossessione del politico per Filippo II e per il suo espansionismo, come la sua dedizione totale al forte partito anti-macedone ateniese. Questa coerente e inflessibile vocazione politica portò infine l’oratore ateniese alla catastrofe personale e al suicidio. Dal 351 al 341 a.C., Demostene aveva scritto le celeberrime Filippiche, estenuanti e accorate orazioni rivolte agli Ateniesi per ridestarne l’orgoglio, suggerire

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perchÉ è importante

igai, l’antica Verghina, fu la magnifica capitale del regno di Macedonia dal VII A al I secolo a.C., da quando Perdicca I, re della dinastia argide, abbandonò Argo per fondare un nuovo regno nella parte settentrionale della Grecia. Tracce di questo splendore rimangono nel palazzo reale.

Verghina ha suscitato l’interesse degli archeologi fin dall’Ottocento, quando il francese Leon Heuzey, finanziato da Napoleone III, iniziò i primi scavi nell’area, ipotizzando che l’antica città di Aigai dovesse trovarsi nelle vicinanze. Dopo aver rinvenuto i resti di un palazzo reale (nell’odierna Palatitsia), le ricerche furono sospese per rischio di malaria e riprese solo nel Novecento. Dal 1996 il sito è stato iscritto dall’UNESCO nella lista dei beni Patrimonio dell’Umanità.

il sito nel mito

Qui sopra: il fregio con l’affresco della caccia, particolare della facciata della «Tomba di Filippo». Nella scena, ambientata in inverno, in un paesaggio boschivo, tre cavalieri e sette figure a piedi cacciano animali selvaggi. In alto: il disegno ricostruttivo dell’affresco. Nella pagina accanto: la «Tomba di Filippo» coperta da una tettoia di protezione, in una delle prime fotografie scattate dopo la scoperta.

I l nome Aigai deriva dal greco e significa «capra». La leggenda vuole che il re Perdicca I fuggendo da Argo avesse ricevuto in sogno una visione che lo esortava a fondare la capitale del proprio regno nel luogo in cui un gregge di capre l’avesse guidato.

ei primi anni Novanta del secolo scorso, il Sole di Verghina è stato al centro di N un’accesa disputa diplomatica. Considerato fin dalla sua scoperta un simbolo delle origini greche della regione, la sua effigie fu inserita dalla neocostituita Repubblica Indipendente di Macedonia nella propria bandiera. La scelta suscitò la dura reazione della Grecia, che, per impedire l’adozione del simbolo, presentò un reclamo alle Nazioni Unite e dichiarò l’embargo con la neonata repubblica dal 1994 al 1995. La vicenda si ricompose solo nel 1995 con la presentazione di una nuova bandiera e il ripristino dei rapporti tra i due Stati.

L ’importanza del simbolo del sole risale alla versione narrata da Erodoto sull’origine del regno di Macedonia (Storie V.22.1). Il giovane Perdicca I insieme ai due fratelli maggiori, dopo essere fuggito da Argo verso nord, entrò, per sostentarsi, al servizio del sovrano locale. La regina, che preparava il pane per i servitori, si accorse presto che la pagnotta destinata a Perdicca lievitava in modo quasi miracoloso, e il re, interpretandolo come un segno soprannaturale, decise di cacciare Perdicca e i fratelli dalla reggia. Questi chiesero allora di essere pagati per il tempo che avevano lavorato. In quel momento un raggio di sole entrava dalla finestra, disegnando una sagoma sul pavimento. Il sovrano, adirandosi, indicò il raggio ed esclamò che quello sarebbe stato il loro pagamento. Perdicca estrasse la spada e tracciò sul terreno la circonferenza disegnata dal sole, fece tre volte il gesto di prenderne la luce, dichiarò di appropriarsi della terra del regno e riscosse le tre paghe del sole, dopo se ne andò dalla reggia con i fratelli.

verghina nei musei del mondo

l termine degli scavi, si è scelto di ricostruire i tumuli che coprivano le tombe reali. A In questo modo è stato possibile musealizzare gli ambienti ricavati dalla realizzazione delle collinette artificiali, nei quali sono ora esposti i ricchi corredi funerari recuperati da Andronikos. Tra gli oggetti di maggiore pregio, la magnifica urna d’oro rinvenuta nella Tomba II, che reca sul coperchio il cosiddetto «Sole di Verghina», nonché un numero di suppellettili funerarie e armi, secondo alcuni studiosi, appartenute allo stesso Alessandro Magno.

informazioni per la visita

er raggiungere il sito archeologico, l’aeroporto piú vicino si trova a Salonicco ed è P collegato all’Italia con numerosi voli di linea. Da qui è disponibile un servizio autobus extraurbano per Veroia (tempo di percorrenza 1,30 h circa) e da Veroia per Verghina un servizio autobus urbano o taxi. Orario estivo: martedí-domenica, 8,00-20,00, lunedí, 10,0018,00; invernale: martedí-domenica, 10,00-17,00, lunedí chiuso Info http://odysseus.culture.gr a r c h e o 41


verghina • i luoghi della leggenda

strategie e coordinarne la resistenza contro lo strapotere dilagante della nazione settentrionale. Chi vi ricerchi disquisizioni culturali o linguistiche sull’estraneità dei Macedoni all’Ellade rimarrà parzialmente deluso: le orazioni del nostro sono quasi integralmente prediche nazionalistiche, alternate a lucide esposizioni di strategia politico-militare, con suggerimenti pratici sui passi piú urgenti da intraprendere contro il pericoloso nemico. E per Demostene, era scontato che Filippo e le sue genti non fossero Greci. Anzi, non erano nemmeno Barbari degni di una nomea rispettabile. L’arroganza e il cieco etnocentrismo di Demostene lasciano allibito un osservatore odierno (la Macedonia era talmente «infame» da non essere nemmeno degna di fornire schiavi ai possidenti terrieri dell’Attica). Eppure, proprio le «pesti di Macedonia», nell’arco di una sola generazione, conquistarono non tanto i sassosi uliveti ateniesi, ma tutto il mondo allora conosciuto, schiantarono l’Asia e il Gran Re, e innestarono mille temi e valori della cultura ellenica in popoli remoti e dinastie possenti, cambiando in tal modo le sorti del pianeta.

le due capitali Lampi della straordinaria vicenda di Macedonia sono stati rinvenuti dagli archeologi nelle rovine di Verghina, l’antica Ege (Aigai), una delle due capitali, con Pella, della dinastia di Filippo II. Il sito archeologico diVerghina si trova presso l’omonimo villaggio e l’altro vicino centro di Palatitsia. I villaggi formano un agglomerato di poche migliaia di abitanti, a 75 km da Salonicco, capoluogo della regione, e a 515 km da Atene, sulle pendici nord occidentali dei Monti della Pieria, dove essi si estinguono nella pianura dell’Emazia. In queste remote montagne la mitologia greca collocava la terra di origine delle Muse e la nascita di Orfeo da Calliope, la Musa della poesia epica. Diverse versioni mitologiche attribuiscono il ruolo di capo della dinastia macedone degli Argeadi a Carano, uno dei figli di Timeno, discendente di Eracle, oppure ai successivi sovrani macedoni Perdicca e Archelao. In questi racconti mitologici, i capi sono invitati dall’oracolo di Delfi a cercare un luogo a nord ricco di animali («Tu troverai il ruo regno laddove troverai abbondanza di animali domestici e selvatici»: questo il pronostico della Pizia) e i Macedoni cessano il loro peregrinare solo quando giungono a una verde valle, ricca di selvaggina e capre. Qui, in obbedienza all’oracolo, fondano la città di Ege, Aigai – nel cui nome si celerebbe il riferimento alle capre (il nome dell’animale è, in greco, 42 a r c h e o

In basso: testa in avorio di Filippo II, dalla sua presunta tomba. IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali. Nella pagina accanto: veduta aerea del sito archeologico di Verghina. Sulla destra, i resti del palazzo reale macedone; al centro, il teatro di Aigai dove, nel 336 a.C., Filippo II fu assassinato; in basso a sinistra, accanto alla strada, il santuario di Eucleia.

Aix, aigos)–, come prima capitale dinastica. Il centro moderno prende il nome da una mitica regina, che sarebbe vissuta nel grande palazzo le cui rovine affioravano tra i campi, annegatasi volontariamente nel fiume Aliacmone per non cadere nelle mani dei Turchi.

prima di filippo L’archeologia oggi dimostra che l’area di Verghina, lungi dall’essere un insediamento tardo su suolo vergine, era stata sede di società stratificate ed elitarie sin dal III millennio a.C., come provano alcuni tumuli sepolcrali eretti sui banchi del vicino fiume Aliacmone. Sempre di tumuli, a centinaia, è fatta l’archeologia di Ege, per un un lungo periodo che va dal tracollo dei Micenei (1100 a.C. circa) al periodo arcaico (800-500 a.C. circa), quello a cui alludono le vicende di fondazione tramandate dal mito, sino alle sepolture di età classica e al grande tumulo di periodo ellenistico scavato da Manolis Andronikos. Ege era diventata la capitale dell’aggressiva dinastia argeade, e tale rimase anche dopo il trasferimento della corte e dei suoi intrighi a Pella. L’acropoli era la costruzione piú elevata; sulle colline circostanti sono state messe in luce tracce delle antiche mura urbiche e di una porta monumentale. Il resto delle rovine di Ege scende gradualmente lungo i piedi della montagna, sino a toccare le grandi necropoli della pianura antistante. L’edificio piú importante è il vasto palazzo reale macedone, una costruzione sontuosa, di 100 x 90 m circa, in origine alta due e forse tre piani. Definito da Andronikos «meravigliosamente semplice, un simbolo tangibile della potenza reale», il palazzo rappresenta una versione aristocratica e monumentale della tradizionale casa greca. Era infatti incentrato su un ampio cortile, fiancheggiato da portici con colonne doriche, e abbellito da mosaici fatti di piccoli ciottoli fluviali bianchi, neri, grigi, rossi e gialli, da pavimenti in marmo policromo, superfici intonacate e dipinte e decorazioni architettoniche in terracotta. Un’enigmatica sala circolare, prospiciente il portico a est


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6 5 4 3

2 NO

N

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SO

Grande Tumulo Mura dell’acropoli Palazzo ellenistico Teatro

5. 6.

Posizione dell’agorà («santuario di Eucleia» e Metròon) Tomba di Romàios

Il palazzo monumentale è l’edificio piú importante finora scoperto, si trova nella piana immediatamente sotto l’acropoli. Utilizzato per funzioni religiose, amministrative e politiche, esso presentava una decorazione sontuosa, con pavimenti a mosaico e dipinti parietali. Includeva anche un teatro, databile alla seconda metà del IV secolo a.C. e un santuario, poco piú a nord, in cui si trovano basi di statue con inscritti i nomi di alcuni membri della dinastia macedone. Un’estesa necropoli circonda la città e si allarga per oltre 3 km, il cimitero dei tumuli, al centro, contiene oltre 300 sepolture, alcune risalenti all’XI secolo a.C. Un importante gruppo di tombe, databili al VI e V secolo a.C., riconducibili a membri della dinastia macedone e alle loro corti, è stato rinvenuto a nord-ovest della città vecchia, contenente ricchi corredi funerari.

E S

1. 2. 3. 4.

quel che resta di verghina

SE

7. 8.

Sepolcreto di età arcaica e classica Tomba di Euridice

9. Necropoli a tumuli di età geometrica 10. Tomba Heuzey 11. Tumulo Bèlla

a r c h e o 43


verghina • i luoghi della leggenda

la scoperta Nel 1977 l’archeologo Manolis Andronikos riprese gli scavi interrotti dal 1940 per il rischio malaria e, dentro quello che chiamò il Grande Tumulo, scoprí quattro tombe – due delle quali intatte e perfettamente conservate –, che identificò come le sepolture dei re macedoni, tra queste quella di Filippo II, padre di Alessandro Magno. In Grecia la scoperta ebbe un enorme risalto nazionale anche per il significato simbolico che le veniva attribuito. Dal 2000, l’identificazione della Tomba II con quella di Filippo II è stata messa in discussione da alcuni archeologi, che ne hanno invece proposto l’appartenenza al fratello di Alessandro Magno, Filippo III Arrideo.

Tomba del Principe

Tomba di Filippo Tomba di Persefone

Altre sepolture minori Tomba dorica anonima Non ancora esplorato

Heròon


dell’ingresso principale, conteneva un’iscrizione dedicatoria a Eracle, considerato, tramite la discendenza di Timeno, l’antenato fondatore della casa reale macedone. Sul lato nord, il palazzo dominava il teatro, divenuto nel tempo parte integrante del complesso palaziale. Scoperto nel 1981, il teatro era provvisto di due file di sedili (negli ordini principali), della scena, di passaggi laterali e dell’altare a Dioniso. Si apriva sul lato nord, in modo da offrire agli spettatori una splendida panoramica della piana macedone. Proprio nel teatro di Ege era avvenuta la tragica e misteriosa morte di Filippo, e qui nello stesso anno – il 336 a.C. – il giovanissimo Alessandro fu acclamato dalle truppe suo successore. Un’ottantina di metri a nord, il palazzo confinava con il santuario di Eucleia, un antico spirito femminile della gloria e della buona fama, virtú essenziale delle donne dell’aristocrazia greca. Eucleia, a volte assimilata ad Artemide, era anche considerata la piú giovane delle tre Grazie. Il santuario conteneva templi abbelliti da statue le cui basi riportano i nomi di membri della famiglia reale. Una base, in particolare, reca quello di Euridice, figlia di Sirra, che dedica una statua alla dea: dovrebbe trattarsi dell’Euridice figlia di Aminta III e madre di Filippo II. Dopo l’immediato crollo dell’effimero regno di Alessandro, la città risentí gravemente degli intrighi e delle lotte tra i successori del re, ma riuscí a sopravvivere, come riuscí a superare il disastro della definitiva conquista romana, avvenuta nel 168 a.C.

La scoperta del grande tumulo La grande necropoli a nord dell’insediamento palatino si estende per almeno 3 km e sembra contenere non meno di 300 sepolture. Un importante gruppo di tombe del VI-V secolo a.C., a nord-ovest, contiene i resti di diversi membri della casa reale argeade, ma non vi sono iscrizioni o altre testimonianze certe sull’identità di ciascun individuo. Una tomba particolarmente ricca, datata al 340 a.C., conteneva un trono di marmo, ed è stata attribuita a Euridice, la già citata madre di Filippo II. Il cosiddetto Grande Tumulo, invece, teatro dell’epocale scoperta di Andronikos, sorge all’estremo angolo nord-orientale dell’area funeraria. Largo 110 m, e ancora alto, dopo le distruzioni e secoli di arature, piú di 13 m, era ed è il monumento piú visibile dell’intero complesso. Era ben noto agli archeologi già a partire

In basso: corazza in ferro con ornamenti in oro, dalla camera della «Tomba di Filippo». IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali. Nella pagina accanto, in alto: Manolis Andronikos davanti alla Tomba Romaios, che prende il

nome dal suo scopritore, l’archeologo Konstantinos Romaios. Nella pagina accanto, in basso: la necropoli di Verghina all’epoca dello scavo. In basso, la zona del Grande Tumulo con le tombe reali poste sotto le coperture di protezione.

dalle prime esplorazioni del sito, compiute nel 1855 dall’archeologo francese Léon Heuzey (1831-1922), lo scopritore di Delfi. Manolis Andronikos (1919-1992) è riconosciuto come uno dei maggiori archeologi greci. Professore di archeologia classica all’Università di Salonicco, continuò a studiare a Oxford con Sir John Beazley (1885-1970), uno dei piú autorevoli storici dell’antica arte greca, per poi tornare a Salonicco. Il sito di Ege (Verghina). come già detto, era stato oggetto di ricerche preliminari già nell’Ottocento, da parte di Léon Heuzey. La missione dell’Università di Salonicco a Verghina era stata fondata nel 1937. Quarant’anni piú tardi, Andronikos, che aveva concentrato le sue attività di scavo nei tumuli di una grande necropoli del IV secolo a.C., comprese di avere portato alla luce, tra quattro sepolture aristocratiche, due tombe inviolate, una delle quali era una grande tomba regale certamente appartanente a uno dei familiari di Alessandro il Grande. Il Grande Tumulo aveva ospitato in passato un accampamento militare e le trincee scavate dai soldati avevano casualmente portato in luce frammenti di stele funerarie in marmo, originariamente dipinte a colori vivaci, databili alla seconda metà del IV secolo a.C. Il monumento funerario era ancora coperto da un boschetto e Andronikos aveva iniziato, nei primi anni Cinquanta, dal punto piú ovvio: una grande depressione nella zona centro-orientale del tumulo che, logicamente, doveva segnare il punto dello sprofondamento del tetto di una struttura sotterranea, probabilmente una grande tomba monumentale macedone. Dati gli scarsi risultati, lo scavo fu interrotto, e l’archeologo poté riprenderlo solo nel 1962. Anche se lo scavo scese a oltre 11 m di profondità, continuava a essere deludente, malgrado il continuo ritrovamento, nel riempimento del tumulo, di altri frammenti di stele fua r c h e o 45


verghina • i luoghi della leggenda

nerarie dipinte, di qualità eccezionale, con i nomi dei defunti (Eracleide figlio di Archippo, Clesitera figlia di Licofrono, e altri). 11 m di profondità possono sembrare pochi sulla carta o in fotografia, ma in una trincea di medie estensioni significano centinaia se non migliaia di metri cubi di terra da rimuovere e spostare. L’estenuante scavo fu nuovamente sospeso, ma Andronikos sapeva che, per trovare la tomba, doveva scendere ancora piú in basso. Riuscí a tornare sul Grande Tumulo solo nel 1976, questa volta decsio – a mali estremi, estremi rimedi – a usare mezzi meccanici, una scelta sempre difficile per un archeologo professionista. Altri frammenti di stele di marmo vennero alla luce, portando il novero delle tombe distrutte per ricoprire il tumulo a una ventina.

Storie di un antico saccheggio Perché mai un ricco cimitero appartenente a case aristocratiche era stato «sacrificato» e usato come terra di riporto per un unico tumulo sepolcrale? Andronikos ricordò la Vita di Pirro scritta da Plutarco (26.II) in cui lo storico racconta del saccheggio delle tombe reali di Macedonia da parte di un contigente di Galli al soldo del re (274-273 a.C.). Il Grande Tumulo era stato probabilmente «restaurato» e ricoperto con i residui delle tombe distrutte dagli stranieri a opera di Antigono II Gonata (319-239 a.C.) come pia riparazione per lo scempio. Il 30 agosto 1977, lo scavo aveva raggiunto in due trincee la profondità di 12 m. Altre trincee, con grande frustrazione dell’archeologo, avevano tagliato solo il suolo vergine. Ma un nuovo scavo, in un settore prima risparmiato dalle indagini, rivelarono un muro in mattoni crudi e, nei pressi, una vasta area circolare costellata di cenere, ossa e resti ceramici bruciati. Affiorarono gradualmente alcune costruzioni funerarie adiacenti; due di esse erano tombe sotterranee, e si trattava di sepolture monumentali macedoni, accompagnate da un probabile heroon, per il culto funerario di un eroe o fondatore dinastico (lo scavatore pensò immediatamente ad Aminta III o a suo figlio Filippo II). Una tomba, immediatamente a nord dell’heroon, era stata distrutta dai saccheggiatori, e solo frammenti di vasi e resti della decorazione dipinta su intonaco, con scene del ratto di Persefone, ne ricordavano l’antica grandezza. La datazione stimata era sempre la metà del IV secolo a.C. A ovest, emergevano la cornice e la volta di un’altra tomba a camera. La facciata, ben conservata, mostrava un fregio dipinto intatto, alto piú di 1 m, con una scena di caccia; tra i personaggi impegnati nella battuta, gli esperti riconobbero in seguito un ritratto del giovane Alessandro. La rarità assoluta di opere pittoriche dell’antica Grecia rendeva la scoperta, da sola, degna di tutto il lavoro sino ad allora svolto. L’anno successivo, Andronikos scoprí che le porte della facciata erano ancora intatte al loro posto. La tomba era probabilmente integra. Lo scavo continuò dalla 46 a r c h e o

volta della costruzione, mentre le mura venivano liberate. Sul lato ovest, furono trovate spade, finimenti da cavallo e una punta di lancia, forse i resti di armi e cavalcature sacrificati sulla pira del defunto. La volta della tomba fu aperta dall’alto il giorno 8 novembre 1977, e Andronikos potè scrutarne l’interno. Cosí scrisse, in terza persona: «Sebbene fosse d’obbligo restare freddo, calmo e concentrato, per essere all’altezza della situazione e delle responsabilità del momento, l’archeologo restò intimamente colpito e stupefatto, nel vedere una ricca camera funebre rimasta intatta nei secoli, dal momento che le porte in marmo erano state sigillate, dopo gli ultimi riti in onore del defunto. I lunghi anni passati a studiare gli antichi costumi funebri, invece di attutire la sua sensibilità, l’avevano affinata, al punto che egli affrontò quegli indimenticabili attimi di eccitazione, quando gli fu permesso di viaggiare indietro per millenni, sino alla verità vivente del passato, come esperienza diretta». La stanza era completamente priva di sedimenti, e tutto giaceva al suo posto, alterato solo dalla corrosione, dal degrado dei materiali organici (e forse, come si scoprí in seguito, dalle cadute causate dai (segue a p. 50)

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la «tomba di filippo»

il fregio della caccia

In basso: modellino ricostruttivo dell’area della necropoli reale di Verghina, con la sezione dell’interno della «Tomba di Filippo». Verghina, Museo e Tombe Reali. 1. Camera principale 2. Anticamera 3. Fregio della Caccia 4. Tomba III

In alto: l’imponente facciata della «Tomba di Filippo», posta al centro del Grande Tumulo. Due pilastri angolari e due semicolonne doriche sorreggono l’architrave, al di sopra del quale è dipinto il fregio della caccia. La tomba è costituita da due grandi vani quadrangolari, il vestibolo e la camera principale, coperti da una volta a botte. Presso il muro meridionale del vestibolo si trovava il sarcofago di marmo contenente una piccola urna d’oro, entro cui erano i resti combusti di una defunta. La grande urna d’oro, contenente i resti cremati attribuiti a Filippo II, si trovava nel sarcofago vicino al muro occidentale della camera. In basso: la piccola urna d’oro, decorata con la stella macedone a 12 raggi, contenuta dentro il sarcofago marmoreo del vestibolo della «Tomba di Filippo». Al suo interno erano le ossa combuste di una defunta, avvolte in un tessuto d’oro e porpora.

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la piccola urna

3 2

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verghina • i luoghi della leggenda

L’interno della camera principale della «Tomba di Filippo». Pella, Museo Archeologico. Sotto: i vasi d’argento come furono trovati, ammucchiati lungo il muro settentrionale della camera principale.

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4. i vasi d’argento


il tesoro

1. scudo e schinieri

A sinistra: gli oggetti trovati nell’angolo sud-occidentale della camera principale. Si distinguono il grande rivestimento in bronzo dello scudo, alcuni vasi da bagno in bronzo, il tripode in ferro e gli schinieri. In basso: la corazza di ferro, come fu trovata, sul pavimento della camera.

2. la corazza

3. «urna di filippo »

A sinistra: l’urna d’oro rinvenuta nella camera principale con le ossa combuste attribuite a Filippo II, originariamente avvolte in un tessuto porpora. Tutte le ossa mostravano tracce di un accurato lavaggio. A sinistra, accartocciata, la corona di foglie e bacche di quercia.

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verghina • i luoghi della leggenda Verghina, «Tomba di Filippo», anticamera. Cosí si presentarono, addossati a uno dei battenti della porta, il rivestimento d’oro della faretra e, accanto, gli schinieri dorati.

terremoti). Sul pavimento si trovavano lo scudo in bronzo e i resti di un secondo scudo in legno e avorio di un re, insieme ai vasi in bronzo e alle lampade metalliche; una pila di sontuosi vasi d’argento; al centro della parete opposta all’ingresso, un sarcofago in pietra; una corazza in ferro fortemente danneggiata dalla corrosione. Ovunque si vedevano resti di rivestimenti lignei, ridotti a tracce di fibre pulverolente, tra le quali luccicavano frammenti di lamine e foglie auree. In questo meraviglioso «incubo archeologico» fu difficile persino trovare lo spazio per poggiare la base di una scala a pioli, per entrare nella camera. Di fronte al sarcofago si videro i resti decomposti di mobili in legno (un letto funebre finemente decorato e un tavolino); a sinistra era stata posta la spada del defunto. Nei frammenti di avorio scolpito che dovevano far parte del letto funebre si rinvennero anche due piccoli ritratti innegabilmente riferibili a quelli «ufficiali» di Filippo II e di Alessandro. Nel sarcofago comparve una splendida urna d’oro o larnax con una stella sbalzata a rilievo all’interno, la quale a sua volta conteneva una pila di ossa combuste, in origine avvolte in un tessuto di porpora, e, ripiegata, una pesante corona di foglie d’oro.

una magnifica faretra d’oro Rimaneva da scavare l’anticamera. Gli archeologi, dopo aver rimosso gli oggetti della camera principale, in due settimane di duro lavoro, vi entrarono rimuovendone le porte marmoree. Venne in luce un secondo sarcofago, vicino al quale giaceva una seconda corona aurea. Anche questo sarcofago era accompagnato dai resti di mobilio coperto di foglie d’oro e intarsi in avorio. Contro uno stipite della porta d’ingresso giaceva un magnifico gorytos (una faretra) in oro di manifattura scitica, bottino di guerra o dono di un re della sponda settentrionale del Mar Nero, che ancora conteneva i resti delle frecce.Vicino vi erano alabastra (vasi per unguenti) e gli schinieri in bronzo del sovrano. Il sarcofago custodiva un secondo larnax, in cui le ossa combuste erano state avvolte in un tessuto purpureo filato in oro; e, a lato, il diadema aureo di una regina. La cremazione è un processo traumatico, e in larga misura, in senso scientifico, ancora poco conosciuto. I corpi umani, esposti su pire di combustibile vegeta50 a r c h e o

le a temperature di 700-950° per intervalli di tempo variabili, perdono acqua, carbone e zolfo e le componenti organiche, per ridursi infine a resti ossei frammentati e fortemente distorti, composti chimicamente da fosfati di calcio, sali di sodio e potassio. Nelle cremazioni antiche, spesso il processo di combustione era incompleto, permettendo cosí la sopravvivenza di ossa meglio conservate. Le schegge ossee, discolorate in sfumature di bianco, grigio e azzurro, rappresentano solo il 3,5% dell’originale massa corporea, variando da individuo a individuo (il peso medio per l’uomo è di 2,7 kg, per le donne di 1,8 kg). Le condizioni esatte della cremazione rimangono spesso misteriose: rituali come la dispersione sui corpi di oli, grassi e profumi possono creare ondate irregolari di calore; la pira può essere rapidamente raffreddata con acqua o vino; e la stessa posizione del corpo sulla pira può variare, con effetti ancora poco noti sulla conservazione dei frammenti combusti delle ossa. In queste condizioni, lo studio dei resti può rivelarsi un vero rompicapo.

A Chi appartengono i resti delle urne di Verghina? Nel 1984, Jonathan Musgrave, uno specialista di anatomia di Bristol, insieme a John Prag e Richard Neave (entrambi dell’Università di Manchester), dopo un difficile studio dei resti contenuti nel larnax d’oro della Tomba II, li aveva attribuiti a Filippo II. Le prove: la traccia dell’impatto di una freccia, riscontrate nell’orbita dell’occhio destro, che corrisponderebbe alla notizia di una simile lesione subita dal re durante l’assedio alla piazzaforte ateniese di Metone, sul Golfo Termaico (355 a.C.); e i segni di


Il rivestimento in oro della faretra, di manifattura scitica, decorato a rilievo con la presa di una cittĂ , dalla ÂŤTomba di FilippoÂť. IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali.

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verghina • i luoghi della leggenda

il museo La pianta del Museo delle Tombe Reali di Verghina (qui sotto) e l’entrata del museo (in basso). La struttura misura 110 m circa di diametro e ha un’altezza di 12 m circa. A destra: due sale in cui sono esposti i reperti rinvenuti durante gli scavi; la ghirlanda e l’urna d’oro provenienti dalla camera della tomba attribuita a Filippo II. 3 2 heroon

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1. 2. 3. 4.

tomba tomba tomba tomba

entrata al tumulo e al museo

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di persefone di filippo ii principesca distrutta


di Filippo II, secondo alcuni studiosi sarebbe ben riflessa nella cronologia dei tratti stilistici degli oggetti deposti nella grande sepoltura regale. Contro questa ipotesi vi è il fatto che la tomba non contiene i resti di Kynna, la madre di Euridice che le fonti indicano essere stata sepolta insieme alla figlia; e il fatto che la donna della seconda sepoltura risulta essere piú vecchia dei 18-19 anni che Euridice doveva avere all’atto della sua uccisione.

una ricrescita ossea che avrebbe causato una forte distorsione dell’arcata zigomatica e dell’intero lato destro del volto del sovrano. Se le ossa dell’urna principale sono quelle di Filippo II, quelle delle seconda sepoltura apparterrebbero a Cleopatra, la sua ultima, giovane moglie, uccisa o costretta al suicidio da Olimpiade, madre di Alessandro (375-316 a.C.). Ma la scoperta, eccitante e clamorosa è stata anche l’inizio di una controversia scientifica ancora aperta. Nel 2000, il paleoantropologo greco Antonis Bartsiokas, della Democritus University della Tracia, dopo il riesame dei resti, ha affermato che le ossa sarebbero state prima scarnificate, poi bruciate sul rogo. Inoltre le tracce descritte dagli Inglesi sarebbero normali tratti anatomici deformati dal calore della combustione.

Nessun segno di guarigione In particolare, Bartsiokas nega che nelle ipotetiche ferite dell’orbita oculare destra vi siano segni di guarigione, che dovrebbero invece essere chiari, dato che la freccia colpí Filippo II diciotto anni prima della sua morte. Piú in generale, ha affermato lo studioso: «Dato il carattere disomogeneo della curvatura e della contrazione della massa ossea nel processo di cremazione, e le trasformazioni successive, la ricerca nelle schegge di simili traumi ante mortem diviene pressoché impossibile». Inoltre, le fonti parlano anche di un colpo di lancia subito dal re alla clavicola, e di una seria ferita al femore destro che lo avrebbe azzoppato; e di queste famose ferite non vi sarebbe prova alcuna. Bartsiokas ha proposto un’altra teoria, certo molto meno affascinante e appagante di quella precedente. Le ossa apparterrebbero a Filippo III Arrideo (359-317 a.C.), fratellastro di Alessandro il Grande, proclamato re alla morte di quest’ultimo da una parte dell’esercito; la seconda sepoltura sarebbe quella della moglie Euridice, anch’essa costretta al suicidio. Malato di epilessia e forse affetto da problemi mentali, Filippo III sarebbe stato variamente manipolato dai seguaci dei diadochi (i generali di Alessandro in lotta per la spartizione del regno) e infine fatto assassinare dalla stessa Olimpiade. La data della morte di Filippo III, posteriore a quella

una terza ipotesi Malgrado il fatto che tanti aspetti della sua storia siano stati «cronografati» con la massima precisione da storici antichi e moderni, l’Egitto continua a rappresentare per molti un «oscuro mare del tempo». La terra del Nilo restituisce tuttora non solo mummie e città scomparse, ma anche frammenti di miti duri a morire. Avviene cosí che, con scadenze regolari, «avventurosi» ricercatori riportino alla stampa di avere rinvenuto i resti dell’armata perduta del re persiano Cambise, che, come racconta Erodoto (3, 26), si perse sulla via di Siwa (senza che poi di tali sensazionali scoperte si abbia alcuna conferma scientifica); e che altri riferiscano di aver trovato prove certe sulla localizzazione della tomba perduta di Alessandro Magno, ad Alessandria o nella stessa oasi di Siwa. Ma vi è chi cerca di sottrarre quest’ultimo mistero alle sabbiose scene egiziane. Secondo lo studioso greco Triantafyllos Papazois, infatti, la tomba di Alessandro non andrebbe piú cercata in Egitto, ad Alessandria o nell’oasi di Siwa, ma proprio nell’urna d’oro della Tomba II di Verghina. I resti di Alessandro sarebbero stati trasportati a Verghina sotto il regno di Antigono II Gonata (319-239 a.C.). Papazois sostiene, sulla base delle analisi di Bartsiokas e della propria interpretazione del fregio dipinto sulla Tomba II, che, essendo state tutte le tombe reali di Verghina saccheggiate da Pirro nel 274 a.C., solo Antigono Gonata, in un periodo di grande autorità e prosperità della Macedonia, poteva aver ottenuto dai Tolomei il permesso di riportare in patria e riseppellire sontuosamente i resti del grande conquistatore in una nuova prestigiosa tomba. L’ipotesi sembra piuttosto azzardata: perché mai i Tolomei dovrebbero aver permesso una simile iniziativa? Papazois, inoltre, per far quadrare le cose, deve ipotizzare che tutte le fonti storiche di età ellenistico-romana che riferiscono delle visite al corpo del conquistatore ad Alessandria, sino ai tempi del regno di Caracalla (188-217 d.C.) si siano riferite a un altro corpo. Ai corpi scomparsi, nell’ipotesi di Papazois, si aggiungono cadaveri sostituiti; un quadro troppo ingarbugliato per poter essere minimamente credibile. nel prossimo numero

çatal hÜyÜk

la prima città a r c h e o 53


mostre • gli etruschi

un ponte tra

e occidente una selezione di reperti straordinari, in mostra ad asti, in palazzo mazzetti, è l’occasione per tracciare un nuovo profilo della civiltà etrusca. e seguire il percorso lungo il quale, insieme a manufatti di pregio, nella nostra penisola si diffusero ideali e costumi caratteristici del mondo greco e orientale

di Alessandro Mandolesi e Maurizio Sannibale

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er una consuetudine radicata, che ormai rientra nei luoghi comuni, agli Etruschi si continua ad associare la parola «mistero», un binomio quasi inscindibile, che sovente riemerge e resta diffuso nel sentire del grande pubblico. In realtà, di «mistero» oggi non si può piú parlare (vedi anche «Archeo» n. 329, luglio 2012), ma resta il fascino esercitato da una civiltà dai caratteri peculiari, tra le piú evolute dell’Italia antica e dell’intero bacino del Mediterraneo, la cui parabola attraversa tutto il I millennio a.C. L’approccio al processo formativo della civiltà etrusca è sempre stato contrassegnato dal dilemma tra Oriente e Occidente, tra quanto sia giunto 54 a r c h e o

nelle terre tirreniche dal nord Europa e quanto da suggestioni egee. Superata la parentesi dell’approccio statico alla civiltà etrusca ha ripreso corpo, nel corso degli ultimi decenni, un esame comparato inteso a indagare le interrelazioni culturali in prospettiva storica.

un’etruria a due facce La realtà bifronte dell’Etruria villanoviana, Didascalia da fare continentale e mediterranea, connota sin dalIn questo periodo Atene non corse le origini il suo ruolo in didecisivi ponte gravi rischi, né fu coinvolta tra Mediterraneo ed Europa. conflitti militari. L’egemonia sui mari e Lesicurezza interrelazioni conducono la dell’Attica non furono mai alla definizione modelli seriamente minacciate. di Nonostante la pan-europei tra artigianato e temporanea rinuncia


oriente Maschera-visiera di guerriero in bronzo, scoperta a Vulci nel 1837. 460-450 a.C. CittĂ del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

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mostre • gli etruschi Corredo dalla cosiddetta «Tomba dei Re» di Seddin (Brandeburgo). La sepoltura, databile verso la fine del IX sec. a.C., conteneva tre deposizioni a cremazione, la principale delle quali, maschile, era accompagnata da armi, ornamenti, utensili vari e vasellame cerimoniale, tra cui un’anfora in bronzo confrontabile con gli esemplari di area etrusca.

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cultura – fondamentale è il ruolo mappatura del genoma della vite e le mativo che affonda le sue radici connettivo dei metallurghi –, che sempre piú numerose testimonianze alla fine dell’età del Bronzo: a parpassa attraverso la condivisione di archeologiche aprono prospettive tire dal 1000 a.C., le comunità di rituali «eroici», la ricezione di in- promettenti per ricostruire il proces- villaggio comprese fra l’Arno e il segne del potere, l’universale ado- so di domesticazione della vite e la Tevere sono coinvolte da profonde zione di simboli religiosi quale la storia del vino, bevanda che, secondo trasformazioni sociali ed economila tradizione, finí per sostituire il che e, in breve tempo, si formano barca solare. Il secondo polo della questione so- latte nelle libagioni ai tempi del re grandi agglomerati insediativi vilno le relazioni tra il Levante e il Numa Pompilio, cioè nell’Orienta- lanoviani che prefigurano le memondo etrusco tirrenico. Il Medi- lizzante Antico, quasi in sincronia tropoli di età storica. La formazione delle città in Etruterraneo, nel quale interagiscono le con l’arrivo dei vitigni greci. popolazioni indigene delle grandi La convivialità, con le sue forme e ria è un evento pressoché immuisole, come Sardegna, Cipro e poi simboli, assurge a elemento distin- ne da influenze esterne, che trova Rodi, appare come uno spazio di tivo per le nascenti e future aristo- similitudini nella Grecia di età mediazione culturale. L’elemento crazie etrusche, lasciando tracce ar- geometrica, dove allo stesso modo levantino, che trova comoda sintesi cheologiche evidenti, costituite da si formano grandi concentrazioni nella galassia fenicia fatta di naviga- servizi da mensa e da vasi per bere, di insediamenti (come quelle di Argo, Corinto, Atene), talora zione, artigianato specializzasuddivisi in tribú, ma territo e trasmissione di modelli Secondo la tradizione, torialmente e civicamente assiri, si combina con la preuniti tra loro. coce presenza greca ed egea ai tempi del re Numa Le ragioni che avviano il fesulle coste levantine. Empori greci si insediano sulla costa Pompilio, il vino sostituí nomeno dell’urbanizzazione nell’Etruria tirrenica non sosiriana e cosí il mondo elleniil latte nelle libagioni no del tutto chiare; tuttavia, è co è a sua volta recettore e possibile attribuire le prime mediatore di culture altre. spinte in tal senso a gruppi Forse mai come per i secoli intorno a Omero appare artificiosa inizialmente importati come quelli elitari con forti poteri politico-mila divisione tra Oriente e Occiden- greci di stile geometrico, e poi pro- litari e religiosi, che gestiscono e sfruttano le potenzialità di ambiti te. Un’invenzione semitica come dotti localmente. l’alfabeto diede forma definitiva ai Con questo scenario interagisce sempre piú vasti, attraverso una geprimi versi della cultura occidenta- l’Etrur ia dell’età del Fer ro e rarchizzazione dei territori: a un le e, sempre dal Levante, deriva la dell’Orientalizzante, che argina la grande capoluogo, sede verosimilconcezione del mangiare carne e colonizzazione greca in Occiden- mente dei clan protagonisti dei bere vino in un’atmosfera comuni- te, saldamente insediata nei suoi cambiamenti sociali, fanno da cotaria, cosí come la ritroviamo nella territori e già efficacemente prote- rollario diversi abitati in posizione subordinata. convivialità di tradizione eroica, sa sui mari. (M. S.) Un insediamento protourbano – fra non priva di valenze religiose e di il IX e l’VIII secolo a.C. – doveva trascendenza, quando la porta attraLa formazione verso il potere sciamanico della be- Il paesaggio urbano dell’Etruria apparire come un grande agglomevanda a esplorare e a varcare il con- tirrenica fra il VII e il VI secolo a.C. rato di capanne, ben definito topofine dell’Aldilà. è l’esito di un lungo processo for- graficamente, ma discontinuo nella trama interna, con nuclei di abitaA questo proposito rivestono partizioni intervallati da spazi liberi decolare interesse le recenti indagini Spada e fodero in bronzo con stinati al ricovero del bestiame e sull’introduzione del vino in Etruria, decorazione geometrica incisa, da alle attività domestiche. nella prospettiva di retrodatare la Poggio Baroncio (Vetulonia). Fine del Il processo di urbanizzazione avviepresenza dei primi vinaccioli in Italia IX-inizi dell’VIII sec. a.C. Firenze, centrale all’età del Bronzo Medio. La Museo Archeologico Nazionale. (segue a p. 60)

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mostre • gli etruschi

la civiltà etrusca, dalle origini agli scontri con roma X sec. a.C.

Età del Bronzo Finale: prodromi della

civiltà etrusca in diversi siti compresi nel territorio dell’Etruria. IX-VIll sec. a.C. Età del Ferro, detta in Etruria facies villanoviana. Formazione del popolo etrusco. Occupazioni dei siti, che poi diventeranno grandi metropoli. Stanziamenti etruschi nella Pianura Padana (Bologna), in Romagna (Verucchio), Marche (Fermo), Campania (Capua, Pontecagnano, Sala Consilina). Arte geometrica. Arrivo in Etruria di bronzisti centro-europei. Contatti tra i centri della costa tirrenica dell’Etruria e quelli della Sardegna. 775 a.C. circa Fondazione dell’emporio di Pithecusa da parte degli Eubei. Fondazione di Roma da parte di Romolo. 753 a.C. 750 a.C. circa Fondazione della colonia di Cuma da parte degli Eubei. Seconda metà Arrivo in Etruria di vasi (da vino) e di dell’VIll sec. a.C. ceramisti euboici, dei primi manufatti vicino-orientali e dell’ambra baltica. Arrivo in Etruria dell’alfabeto, probabilmente dai centri euboici della Campania. Nascita di un ceto aristocratico, che sfrutta le risorse locali, in particolare le miniere metallifere. Ultimo quarto Secondo le fonti, primi scontri tra dell’VIll sec. a.C. le città di Roma e di Veio che si contendono il possesso delle saline alla foce del Tevere. VIll-VI sec. a.C. Presenza di manufatti etruschi, in genere bronzi, nei santuari ellenici di Olimpia, Delfi, Dodona, Samo, Perachora, Atene-Acropoli. Fine dell’VIll-inizi Facies orientalizzante. del VI sec. a.C. Prima metà Arrivo in Etruria di ceramica corinzia e del VII sec. a.C. greco-orientale e di manufatti di tipo vicino-orientale e hallstattiano. Ceramica, oreficeria, bronzistica di stile orientalizzante. Inizio della produzione di buccheri. Prime case a pianta quadrangolare con fondazioni in pietra. Nascita della grande scultura e della grande pittura. Prime epigrafi, perlopiú su beni suntuari, con indicazione di possesso o di dono. 670-60 a.C. circa Arrivo a Caere (Cerveteri) di Aristonothos, ceramista-ceramografo. 657 a.C. circa Arrivo a Tarquinia del mercante Demarato con un seguito di artisti. 630 a.C. circa Arrivo a Vulci del Pittore delle Rondini 58 a r c h e o

dalla Grecia orientale e del Pittore della Sfinge Barbuta da Corinto. 615 a.C. Inizio del governo etrusco a Roma con l’ascesa al potere di Lucumone, figlio di Demarato, che assume il nome di Lucio Tarquinio Prisco. Seconda metà Inizio dell’esportazione di vino (e dei del VII sec. a.C. relativi contenitori) e di profumi (e dei relativi vasi) dall’Etruria verso le regioni del Mediterraneo occidentale e, in misura piú contenuta, verso quello orientale. Residenza principesca di Murlo (fase antica). Primi bronzetti etruschi a figura umana. 600 a.C. circa Fondazione della colonia di Marsiglia da parte dei Focei. Inizi del VI-inizi Facies arcaica. del V sec. a.C. Prima metà Residenza principesca di Murlo (fase del VI sec. a.C. recente). Ceramica etrusco-corinzia. Primi templi etruschi. Prime tombe dipinte di Tarquinia. Fondazione del santuario emporico di Gravisca. Presenze etrusche in centri della Campania. Inizio dell’arrivo in Etruria della ceramica attica. 578-534 a.C. Regno di Servio Tullio a Roma e riforme «democratiche». 565 a.C. Fondazione della subcolonia di Alalia (Corsica) da parte dei Focei di Marsiglia. Seconda metà Arrivo in Etruria di maestri del VI sec. a.C. (e manufatti) greco-orientali. Fondazione del santuario emporico di Pyrgi. Templi etruschi tripartiti. Ceramica etrusca a figure nere. Produzione bronzistica etrusca: carri, tripodi, armi, figurine umane. Graduale abbandono dei piccoli centri con conseguente processo di inurbamento. Espansione etrusca nella Pianura Padana e in Campania. Inizio del movimento commerciale del porto di Spina, che riceve e ridistribuisce ceramica attica nei centri padani di Marzabotto, Bologna, Mantova. 540 a.C. circa Battaglia del Mare Sardo e affermazione della talassocrazia etrusca. 534-509 a.C. Regno di Lucio Tarquinio il Superbo a Roma. 525 a.C. Vittoria di Aristodemo di Cuma su un esercito di Etruschi dell’Italia settentrionale, Umbri, Dauni e altri «barbari». 509 a.C. Dedica del tempio di Giove Capitolino a Roma, per il quale avevano lavorato lo


504 a.C. Primo quarto del V sec. a.C. Inizi del V- IV sec. a.C. 480 a.C. 474 a.C.

453 a.C.

428 a.C. 426 a.C. 415-413 a.C. 405-396 a.C.

Inizi del IV sec. a.C. 390 a.C. circa 384 a.C.

scultore Vulca di Veio e altri artefici etruschi. Espulsione di Lucio Tarquinio il Superbo da Roma e istituzione della repubblica. Arrivo a Roma di Porsenna, re di Chiusi e di Volsinii, in aiuto di Tarquinio, ma con il chiaro intento di impossessarsi del potere. Vittoria di Aristodemo di Cuma e dei Latini sull’esercito di Arrunte figlio di Porsenna, ad Ariccia. Tentativi (non riusciti) degli Etruschi di occupare le Lipari. Facies classica.

Vittoria dei Siracusani sui Cartaginesi a

Himera. Vittoria navale dei Siracusani e Cumani sugli Etruschi a Cuma e dedica di bottini di guerra da parte di Ierone di Siracusa a Zeus a Olimpia. Inizio di una crisi delle città costiere. Potenziamento del movimento commerciale dei porti adriatici (Spina, Numana). Incursione vittoriosa dei Siracusani nell’area mineraria dell’Etruria settentrionale: blocco dei porti delle metropoli meridionali (Caere, Tarquinia, Vulci) e potenziamento di quello di Populonia, legato all’attività metallurgica. Calo della produzione di ceramica attica dipinta per la chiusura dei mercati etruschi. Inizio di contatti diretti (arrivo in Etruria di scultori e ceramografi) tra il mondo magnogreco e le città etrusche dell’interno, caratterizzate da un’economia agricola (Veio, Falerii, Volsinii, Chiusi, Perugia, Arezzo). Guerra tra Roma e Veio e morte in battaglia del re veiente Tolumnio. Conquista di Fidene da parte di Roma e tregua tra Roma e Veio. Partecipazione degli Etruschi (tre navi) a fianco degli Ateniesi all’assedio (fallito) di Siracusa. Guerra tra Roma e Veio, che si conclude con l’occupazione e la distruzione della città etrusca e l’annessione del suo territorio a quello di Roma. Discesa dei Galli in Etruria, istigati da Arrunte di Chiusi, e sacco di Roma. Fondazione da parte dei Siracusani delle subcolonie adriatiche di Ancona, Adria e Issa. Saccheggio dei santuari di Pyrgi.

383 a.C. 373 a.C. 358-351 a.C. Metà del IV sec. a.C.

338 a.C. 308 a.C. 302 a.C. Fine del IV- II sec. a.C.

Fondazione della colonia di diritto latino a Sutri. Fondazione della colonia di diritto latino a Nepi. Guerra tra Roma e Tarquinia, che si conclude con una tregua di quaranta anni. Rinascita delle grandi metropoli costiere e affermazione di una nuova aristocrazia terriera. Grandi tombe dipinte o scolpite a Caere, Tarquinia, Vulci. Ripopolamento della regione delle necropoli rupestri. Scioglimento della Lega latina da parte di Roma. Rinnovo della tregua quarantennale tra Roma e Tarquinia. Insurrezione popolare ad Arezzo e intervento di Roma a favore della classe aristocratica. Facies ellenistica. Arruolamento di Etruschi e Italici nell’esercito romano. Costruzione delle grandi strade consolari che attraversano l’Etruria (Aurelia, Clodia, Cassia, Amerina, Flaminia). Produzione di sarcofagi nell’Etruria meridionale e di urnette nell’Etruria settentrionale.

Cratere etruscogeometrico, da Bisenzio (Viterbo). 725-700 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.

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mostre • gli etruschi

ne con modalità diverse nelle varie zone dell’Etruria tirrenica: il fenomeno è piú rapido e immediato nel comparto meridionale, dove i mutamenti territoriali, fra l’altro, sono facilmente r icostruibili grazie all’abbondanza delle testimonianze archeologiche.

Le grandi fondazioni Fra gli insediamenti principali dell’Etruria meridionale possiamo citare Veio, che controlla la riva destra del basso Tevere e i guadi verso la Sabina e il Lazio e che, con

i suoi 185 ettari di estensione, è il centro piú vasto di tutta la regione; Cerveteri, che nel corso dell’VIII secolo è caratterizzata da una rapida crescita economica e da un profondo riassetto della comunità, che preannuncia l’exploit di età orientalizzante; Tarquinia, con lo scalo villanoviano delle Saline, il piú vasto sito costiero finora noto, che costituisce presumibilmente la base di una delle piú antiche marinerie tirreniche da dove prendono le mosse le prime attività sul mare; Vulci, il cui pianoro è situato al

Nel corso dell’VIII secolo si diffonde il rito dell’inumazione e si assiste all’aumento della ricchezza nei corredi 60 a r c h e o

centro di una vasta e fertile campagna, che si sviluppa a ridosso della costiera costellata da lagune, estesa dall’Arrone all’Argentario. Piú problematica è la ricostruzione del processo di urbanizzazione nell’Etruria settentrionale, sia per lo svolgimento piú graduale, che per le coperture urbane di età medievale e moderna. Nella fascia costiera i due centri primeggianti all’inizio del I millennio a.C. sono Populonia e Vetulonia, che presentano fra loro analogie economiche basate in primo luogo sullo sfrut-

Olla decorata con il motivo del «Signore dei cavalli», da Vulci. 675-625 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Nella pagina accanto: cartina dell’Etruria con l’indicazione delle piú importanti località citate nel testo.


tamento dei giacimenti minerari e sui rapporti privilegiati con la Sardegna e la Corsica. Significativi addensamenti demografici si registrano anche a Volterra, cresciuta su un’altura ben difesa in posizione dominante su un circondario ricco di risorse minerarie, e a Pisa, che però pare assumere aspetti protourbani solo verso la fine dell’VIII secolo a.C.

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Bologna Marzabotto Rimini

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verso le città Una fase villanoviana è attestata anche nei magg ior i centr i dell’Etruria interna, sebbene per alcuni si tratti di processi meno radicali rispetto al Meridione, segnati da una maggiore gradualità verso la definizione urbana, e le testimonianze archeologiche siano piuttosto labili. Fra gli insediamenti principali vi sono Orvieto e Chiusi, cresciuti entrambi in relazione all’importante corr idoio Tevere-PagliaChiana; Orvieto si sviluppa su un pianoro tufaceo unitario, piú piccolo ma del tutto assimilabile m o r f o l og i c a m e n t e a q u e l l i dell’Etruria meridionale, mentre Chiusi si distende su un’area collinare discontinua. Perugia, che sorge su un ampio e distinto rilievo a doppia prominenza, che domina l’alta valle tiber ina e l’adiacente Valle umbra, si sviluppa solo negli ultimi decenni del VI secolo. Anche Cortona, Arezzo e Fiesole presentano un netto r itardo nello sviluppo urbano, che del resto è difficilmente ricostruibile per la carenza della documentazione archeologica. Un «archivio» eccezionale per la conoscenza delle prime comunità protourbane è rappresentato dalle grandi necropoli, di dimensioni variabili, che circondano gli insediamenti villanoviani. Nel rituale funerario del IX secolo a.C. predomina l’incinera­zione. I corpi sono bruciati su pire la cui temperatura oscilla fra i 600° e i 900° e le ceneri vengono deposte di norma in vasi biconici, in impasto o in bronzo. Nelle sepoltu-

Mantova

Acquarossa

Tarquinia

Gravisca

Lago Nepi di Bracciano

Pyrgi Veio Cerveteri

ROMA

re maschili di rango elevato la copertura dell’urna può essere costituita da un elmo. Il copricapo, carico di una forte valenza simbolica, testimonia il rango elevato del defunto. I dati emersi dagli scavi piú recenti fanno supporre l’esistenza, fin da questa prima fase, di rituali funerari elaborati e diversificati, che sembrano rispecchiare una significativa stratificazione sociale all’interno delle comunità. Da Tarquinia e da Vulci provengono alcune sepolture, sia maschili che femminili, con r icchi cor redi, che attestano l’emergere di una élite potente, impegnata nel controllo del territorio e nella gestione delle risorse e dei mezzi di produzione. Nel corso dell’VIII secolo, si diffonde il rito dell’inumazione. Il defunto è sepolto in una grande

fossa rettangolare, accompagnato da armi e suppellettili. Si assiste all’aumento progressivo della ricchezza dei corredi: in particolare, le sepolture femminili di alto rango restituiscono oggetti di eccezionale splendore, a sottolineare il livello sociale raggiunto dalla famiglia. L’uso della cremazione, in questo periodo, è limitato a pochi casi: si tratta, soprattutto, di membri di gruppi gentilizi importanti, che si rifanno a sistemi rituali piú antichi per legittimare la propria posizione di potere. (A. M.)

rapporti multidirezionali L’Etruria villanoviana, con i suoi grandi centri protourbani, è aperta ai contatti con l’esterno: fin dal IX secolo, le élite locali emergenti intrecciano rapporti culturali ed ecoa r c h e o 61


mostre • gli etruschi

nomici in diverse direzioni. È possibile delineare un’interessante rete di connessioni a largo raggio, a partire dall’analisi dei simboli del potere attraverso cui l’aristocrazia etrusca in formazione rafforza la propria identità. Il principale elemento che qualifica la dignità di guerrieri dei proto-principi è l’elmo. Copricapi in bronzo, sia crestati che a calotta, compaiono nei corredi di sepolture di alto rango, a sottolineare la preminenza militare e sociale del defunto, secondo una modalità che i gruppi villanoviani ereditano dalla grande tradizione dell’età del Bronzo europea.

nelle acque del fiume Significativo in tal senso è l’elmo di Asti, ritrovato nel letto del fiume Tanaro. Il perfetto stato di conservazione prova come l’oggetto non sia stato perso casualmente o gettato nell’acqua, ma seppellito intenzionalmente in una buca scavata nel greto del fiume. Si tratta, con ogni probabilità, di un’offerta rituale, un dono a una divinità delle ac­que verosimilmente connessa con il mondo degli Inferi, secondo una pratica diffusa fra le popolazioni dell’Europa centrosettentrionale e dell’Italia cisalpina e adriatica. L’elmo, prodotto in un centro dell’Etruria meridionale

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In alto: la necropoli villanoviana di Villa Bruschi Falgari, a Tarquinia, scoperta casualmente nel 1998. Il sepolcreto, in cui predomina il rito funerario dell’incinerazione, fu utilizzato nella prima età del Ferro, tra il 950 e l’850 a.C. In basso: bronzetti di produzione sarda: uno scettro-sonaglio, una piccola cesta, e una statuetta maschile, dalla tomba «dei Bronzetti Sardi», in cui furono sepolte due defunte d’alto rango, rinvenuta nella necropoli di Cavalupo a Vulci. Fine del IX sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.


valore simbolico, poiché alludono al passaggio del defunto dalla vita terrena a quella ultraterrena. Questi legami culturali fra i gruppi preminenti dell’Etruria villanoviana e dell’Europa transalpina attestano, probabilmente, l’esistenza di rapporti anche di tipo economico: alcuni studiosi hanno ipotizzato che le reti di scambio fossero incentrate sui metalli, l’ambra e il sale, il cosiddetto «oro bianco». Del resto i grandi centri villanoviani dell’Etruria sono estremamente ricettivi e disponibili ai contatti con l’esterno: molto significative a questo riguardo si rivelano le relazioni con la Sardegna nuragica, espressione di una innovativa spinta verso il mare. Ben presto, infatti, i personaggi di spicco che, in età villanoviana, gestiscono il controllo economico dell’Etruria, rivolgono la loro attenzione al commercio marittiagli inizi dell’VIII secolo a.C., è la mo, e si trasformano in veri e piú importante testimonianza dei propri armatori di navi deprimi contatti fra il mondo etru- stinate al trasporto delle sco e le comunità dell’Italia nord- merci, avviandosi a esercitare una duratura taoccidentale. D’altra parte, il tipo di deposizio- lassocrazia sul Tirreno. ne attesta l’esistenza di relazioni con l’ambito centro e nord-euroVino a mensa peo. Questi legami sono provati Le influenze levantine anche dalla diffusione di alcune in Etruria divengono piú forme di vasellame in lamina di sensibili a partire dall’VIII bronzo e del motivo iconografico secolo a.C., quando i codella «barca solare a protomi orni- loni euboici e i mercanti tomorfe». Il suo utilizzo è comune fenici introducono non al mondo centro-europeo e ricor- solo manufatti, ma anche re come decorazione in una vasta ideologie di stampo orientale. gamma di manufatti, il piú celebre Da questo momento nei corredei quali è l’urna a capanna in la- di delle sepolture etrusche mina di bronzo decorata a sbalzo, compaiono sigilli, scarabei e dalla necropoli dell’Osteria di Vul- pendagli di tipo levantino e ci, uno dei capolavori della toreu- anche vasi, come la broctica villanoviana. chetta fenicio-cipriota da Da Oriente a Occidente il riferi- Tarquinia. Insieme a quemento al viaggio del sole assume sti oggetti fanno la loro connotazioni funerarie: in alcune apparizione le prime copsepolture di alto rango sono stati pe da vino d’importazione persino ritrovati modellini di im- greca, soprattutto euboiche barcazioni in impasto, che, se per e cicladiche. l’accuratezza di certi particolari, Euboici e Fenici introducono forniscono preziose informazioni in Etruria innovazioni imporsulle navi realmente utilizzate per tanti: in primo luogo l’alfabeto e gli scambi e il controllo del mare, poi il consumo del vino ritualizrivestono comunque un profondo zato, con le nuove forme vascola-

Urna con elmo fittile crestato dalla Tomba «Romanelli 66» del sepolcreto della Fontanaccia, a Monterozzi (Tarquinia). Seconda metà del IX sec. a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale. Nelle sepolture maschili di alto rango, le ceneri del defunto, potevano essere deposte all’interno di urne coperte da una imitazione in ceramica di un elmo metallico.

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mostre • gli etruschi

ri a esso connesse e la pratica del simposio e del banchetto. Il momento conviviale del bere insieme è visto come un’occasione per ostentare prestigio e potere e per stringere o rinsaldare alleanze fra gruppi dominanti, alla maniera dei poemi omerici. La conoscenza dell’epica greca si diffonde in Etruria probabilmente grazie ai canti degli aedi, che giunti in Italia proprio al seguito dei coloni g reci, tramandano oralmente le gesta degli antichi eroi. Le ar istocrazie etrusche emergenti, sempre piú alla ricerca di una affermazione sociale e di una esaltazione del proprio rango, si appropriano di nuovi modelli di vita e comportamento, rielaborati secondo le esigenze locali. (A. M.)

un vero e proprio «salto» epocale L’Orientalizzante (circa 730-580 a.C.) è un vasto fenomeno culturale che coinvolge l’intero bacino del Mediterraneo, con spostamenti di uomini e di beni, scambi tecnologici e contatti, che in Etruria determinarono una notevole crescita economica e un vero e proprio «salto» epocale. Una funzione determinante in questo fenomeno fu esercitata dalla rinnovata ondata espansiva fenicia, indotta dalla pressione assira verso la costa siro-palestinese nel periodo compreso tra i regni di Tiglat-pileser III (744-727 a.C.) ed Esarhaddon (680-669 a.C.), nonché dalla diaspora coloniale dei Greci verso Occidente. In tale contesto culturale in Grecia avviene, tra l’altro, la compilazione dei poemi omerici, che narrano a posteriori

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avvenimenti ben piú antichi, ma inevitabilmente condizionati dal presente nell’ambientazione. È dunque un periodo cruciale l’Orientalizzante, che vede la civiltà etrusca ai suoi fastosi primordi, in una fase di rapidi e significativi cambiamenti che segnano l’intera cultura occidentale: la nascita della città, le grandi colonizzazioni, la diffusione della scrittura. L’aristocrazia etrusca, affermatasi nel suo ruolo guida e consolidata nelle proprie ricchezze, guarda al fasto delle corti orientali come a un modello. La pratica del dono tra pari, attorno alla quale ruotano le relazioni commerciali e diplomatiche, determina una larga diffusione di beni, creando legami di reciprocità non solo tra gli uomiIl corredo della tomba femminile villanoviana a pozzetto 160 della necropoli scoperta in località Poggio Sopra Selciatello (Tarquinia). Metà dell’VIII sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

ni, ma anche tra uomini e divinità, come avviene nel mondo greco per le offerte destinate ai santuari.

beni d’importazione Gli oggetti presenti nei corredi tombali, realizzati in bronzo, ma anche in argento, oro e materiali esotici come l’avorio e le uova di struzzo, nonché ambra, paste vitree, legno, ferro, documentano le attribuzioni e la cerimonialità riservate al sovrano nel corso della vita e in qualche modo garantiti anche dopo la morte. I nuovi beni, importati o


A destra: coppa euboica da vino, dalla necropoli di Poggio Sopra Selciatello (Tarquinia). Metà dell’VIII sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Il consumo ritualizzato del vino e i manufatti a esso connessi, vengono introdotti in Etruria a partire dall’VIII sec. a.C. in seguito ai primi contatti con mercanti e coloni provenienti dal Mediterraneo Orientale, soprattutto euboici.

A sinistra: lebete (vaso utilizzato per cuocere la carne, per fare sacrifici e abluzioni) in bronzo con corpo decorato a sbalzo da repertorio animalistico e sei terminali a testa di leone, dalla Tomba RegoliniGalassi di Cerveteri. Metà del VII sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Un terminale di calderone analogo, che reca inciso il nome del re di Urartu, Sarduri II (764-730 a.C. ), è stato rinvenuto a Karmir-Blur, nella periferia di Erévan, in Armenia.

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mostre • gli etruschi

prodotti localmente da artigiani immigrati, sono caratterizzati da virtuosismi ed eclettismi che tendono a sperimentare tutte le potenzialità della materia. Insieme ai beni di prestigio, vengono cosí introdotte tematiche, iconografie e tecnologie provenienti dal Mediterraneo orientale (Egitto, Siria, Cipro, Rodi e Grecia in genere) e dal Vicino Oriente, che giungono sino all’Urartu e alla Mesopotamia. Contemporaneamente oggetti di produzione etrusca, soprattutto bronzi e buccheri, raggiungeranno i santuari greci e diversi siti dell’area mediterranea. Il fenomeno orientalizzante in Etruria si manifesta principalmente a partire dalle città meridionali. In questo periodo giunge a maturazione il processo di definizione della realtà urbana che investe in forma monumentale e piú duratura anche le necropoli, come nel caso eclatante di Cerveteri, dove si registra l’imGrattugia in bronzo. VII sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Insieme ai recipienti usati per bere, le grattugie ricordano la pratica greca di mescolare il vino al formaggio.

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provvisa fortuna del tumulo monumentale, forse di diretta derivazione vicino orientale, che si diffuse poi anche altrove. Da sempre hanno colpito l’imponenza e la durevolezza di queste strutture, a fronte della relativa deperibilità delle vere abitazioni. Le recenti scoperte delineano per queste tombe monumentali una funzionalità estesa, che non si limita al rituale funerario. Culti, riti e giochi stabiliscono una comunione duratura del gruppo gentilizio con gli antenati e la stessa tomba che, aprendosi nelle viscere della terra, mette in comunicazione con il mondo infero, e con le terrazze di culto si proietta verso il cielo.

La merce piú preziosa Tra le innovazioni piú importanti recepite in Etruria nell’Orientalizzante, figura l’acquisizione dell’alfabeto e della tecnica scrittoria che deve essersi verificata già verso la fine dell’VIII secolo a.C. L’alfabeto adottato dagli Etruschi è sostanzialmente quello greco occidentale, di tipo calcidese, quale dovette essere acquisito a seguito dei contatti delle città dell’Etruria meridionale con gli Euboici stanziati nel Golfo di

Napoli. La scrittura è forse la merce piú preziosa scambiata nel Mediterraneo: con essa assumono valore beni immateriali. La scrittura registra, è memoria e magia, fa parlare gli oggetti che raccontano – come nei versi omerici – per quali mani sono passati, accrescendone il valore. È il valore dell’individuo, sia egli nobile eroe o sodale, uomo o donna. Nasce la statuaria monumentale, che fissa le immagini degli antenati. Anche i vasi cinerari si fanno persona, assumono fattezze umane, si individualizzano con vesti, ornamenti e attributi. La pittura monumentale che inizia a decorare le tombe, come forse le abitazioni, non si limita a decorare: introduce simboli e narrazioni. I contatti a cavallo della colonizzazione in Occidente determinarono l’acquisizione non solo di beni, ma anche di modelli culturali.Tra questi assume centralità la pratica del banchetto offerto a corte, secondo l’uso greco di derivazione orientale, a cui riportano gli oggetti piú preziosi e gran parte dell’arredo: calderoni in bronzo a terminazioni animali, originari dell’Anatolia orientale e dell’area nord-siriana e


un pezzo di levante in etruria Nel 2008 è stato avviato un importante progetto di scavo archeologico e di valorizzazione di un settore inesplorato della necropoli etrusca di Tarquinia, dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO. Le ricerche riguardano in particolare il settore della Doganaccia, caratterizzato dalla presenza di due maestosi tumuli del VII secolo a.C., denominati «del Re» e «della Regina». Il Tumulo della Regina è stato indagato scientificamente per la prima volta. Si tratta della piú grande struttura a tumulo di Tarquinia finora nota, con un diametro di 40 m circa, pertinente a un personaggio di spicco della comunità tarquiniese del VII secolo a.C. Le prime quattro campagne di scavo hanno dato esiti inaspettati: in particolare, nella parte anteriore del sepolcro, è emerso un piazzale accessibile attraverso una larga scalinata scavata nella roccia, utilizzato per le celebrazioni in omaggio al nobile defunto e originariamente coperto da una tettoia in legno di cui sono stati rinvenuti gli ancoraggi. In questo ambiente sono stati scoperti i resti di un rarissimo intonaco in gesso alabastrino: si tratta di un esempio di

rivestimento murario pressoché sconosciuto in Italia, presumibilmente realizzato da maestranze specializzate provenienti dal Levante mediterraneo. Del resto la struttura del sepolcro trova significativi confronti con le tombe reali di Salamina di Cipro. Sull’intonaco sono ancora visibili tracce di pittura in rosso e nero, con motivi geometrici, vegetali e animali. Una scoperta veramente eccezionale, poiché si tratta, probabilmente, della piú antica manifestazione di pittura funeraria tarquiniese. Su questo spazio cerimoniale si affacciano due camere laterali (una in parte crollata, l’altra integra) e una centrale. Nel corso dell’ultima missione è stato rimosso il pesante lastrone che sigillava l’ingresso della camera laterale. Inoltre sono stati rinvenuti i resti di un calesse e di un carro veloce (currus), il primo addossato alla banchina destra del «piazzaletto», il secondo all’interno della camera laterale sinistra. Alessandro Mandolesi In alto: il Tumulo della Regina a Tarquinia, durante gli scavi del 2011.

Vasellame in argento, dalla Tomba Regolini Galassi, di Cerveteri. Metà del VII sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. Su molti dei vasi, sia d’importazione che di produzione locale, è incisa l’iscrizione etrusca «larthia» o «mi larthia», «io sono di Larth».


mostre • gli etruschi

alla scoperta degli etruschi, guidati da omero Alla civiltà etrusca e alla diffusione dei costumi «omerici» in Etruria è dedicata la mostra «Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente» ospitata ad Asti, che presenta oggetti etruschi e greci provenienti dai Musei Vaticani e dalle principali raccolte italiane. Proprio ad Asti fu ritrovato, nel 1875, un pregevole elmo crestato villanoviano in bronzo, ritualmente deposto nelle acque del Tanaro. Simbolo del primo contatto fra Etruschi e comunità del Piemonte meridionale, l’elmo è il punto di partenza per approfondire le relazioni piú remote fra Mediterraneo greco e orientale e Occidente etrusco, con inevitabili riverberi nell’Italia settentrionale e nell’Europa celtica. I racconti omerici sono il «filo rosso» dell’itinerario: le prime fasi della civiltà etrusca, illustrate da una

serie di temi (commercio, mito, oplitismo, atletismo, costume, cura del corpo); i convivi aristocratici di età micenea (XV-XIII secolo a.C), documentati da vasi del periodo; il contatto iniziale fra Oriente e Occidente italico. Grande spazio è dedicato alla pratica del banchetto fra gli Etruschi, con l’esposizione di servizi di pregio, arredi e immagini di pittura e scultura. Il tema è illustrato anche nella ricomposizione della Tomba della Scrofa Nera di Tarquinia (le cui pitture furono staccate dall’ipogeo a scopo conservativo), con una vivace scena di convivio del V secolo a.C., restaurata per l’occasione.

dove e quando Etruschi. L’ideale eroico e il vino lucente Asti, Palazzo Mazzetti Orario tutti i giorni, salvo il lunedí, 9,30-19,30 Info tel. 02 43353522, www.etruschiadasti.it In alto: l’elmo crestato villanoviano in lamina di bronzo rinvenuto nel letto del fiume Tanaro, presso Asti nel 1875. Inizi dell’VIII sec. a.C. Torino, Museo di Antichità. L’elmo, prodotto in un centro dell’Etruria meridionale testimonia i primi rapporti tra gli Etruschi e le comunità dell’Italia nordoccidentale. A sinistra: flabello in bronzo decorato a sbalzo, dalla Tomba dei Flabelli nella necropoli della Porcareccia a Populonia (Livorno). 675-625 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: scena di banchetto, particolare degli affreschi della Tomba della Scrofa nera di Tarquinia. 475-450 a.C. Tarquinia, Museo Archeologico Nazionale.

Flabelli, incensieri e ornamenti evocano il fasto dei palazzi 68 a r c h e o


spiedi utilizzati nella preparazione della carne che veniva poi spartita secondo precisi codici gerarchici tra coloro ammessi a corte. Anche il consumo ritualizzato del vino, bevanda esotica e preziosa, si conferma come una prerogativa dei gruppi gentilizi. Attorno alla ritualità del bere tra pari nell’evento conviviale maturano decisioni e alleanze, si stabiliscono rapporti con stranieri: a essa vengono destinati brocche, coppe e calici in materiale prezioso o di pregio, come vetro e ceramica di qualità. La stesso consumo del vino nel simposio ha caratteri molteplici per la presenza contemporanea di accessori che riportano al mondo greco e vicino-orientale: le grattugie metalliche, associate al vasellame potorio, ricordano l’antica usanza greca di mescolare formaggio al vino, mentre certi tripodi fittili, rinvenuti in Etruria e nel Lazio, usati come mortai per sostanze aromatiche destinate a esaltare il gusto del vino, riportano alla Siria settentrionale e alle colonie fenicie del Mediterraneo centrale. Inoltre flabelli,

incensieri, plettri o cucchiai per cosmetici, preziosi ornamenti per le vesti e gioielli evocano eloquentemente il fasto della vita di palazzo. Le vere armi, invece, sono poco diffuse nelle tombe, nelle quali compaiono piuttosto esemplari impreziositi e in versione leggera in veste sicuramente simbolica, come gli scudi appesi alle pareti o il carro da guerra, elemento da parata privo di un reale impiego tattico. Lo stesso avviene per l’ascia, strumento sacrificale piuttosto che arma, connessa alla funzione religiosa del sovrano, talvolta ribadita dal tridente, quale simbolo del fascio di fulmini e dell’attività divinatoria.

Ori e... fusi La donna del principe, in quanto figura fondamentale nella trasmissione ereditaria del potere, condivideva status e ricchezze del consorte, conservando però la prerogativa nell’ambito della casa che tanto caratterizza anche le regine omeriche, da Penelope a Elena: la tessitura, come, per esempio, la rappresenta il tintinnabulo dalla

tomba degli Ori di Bologna. Cosí, insieme ai gioielli e ai vasi preziosi, nelle sepolture delle donne di rango ritroviamo anche i fusi per la lavorazione della lana, riprodotti però in materiale prezioso. A questo panorama materiale restituitoci dalle scoperte archeologiche degli ultimi due secoli si accompagnano oggi riflessioni sull’economia del dono, sulle forme e la rappresentazione del potere, sui simboli e sulla religione, che nel mondo antico costituisce un insieme organico con tutte le manifestazioni della vita, al punto che nulla può essere considerato veramente profano. Gli Etruschi non furono semplici recettori di modelli importati: in posizione centrale, tra Mediterraneo ed Europa, essi esercitarono un ruolo di ponte tra Oriente e Occidente. Ben presto il fasto e la cerimonialità delle loro corti finirono per sedurre i principi celti dell’area transalpina che accolsero oggetti di fabbricazione etrusca nei loro rituali e nei loro corredi funerari. (M. S.) a r c h e o 69


speciale • giuliano l’apostata

Assisi, basilica inferiore di S. Francesco, cappella di S. Martino. L’imperatore Flavio Claudio Giuliano, detto «l’Apostata», particolare dall’affresco Rinuncia alle armi di San Martino, di Simone Martini (1284-1344). 1315-1318 circa.

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giuliano dall’utopia alla storia GRAN PARTE DELLA STORIOGRAFIA MODERNA AVALLA L’IMMAGINE TRAMANDATACI DAI CONTEMPORANEI DEL NIPOTe DI COSTANTINO: QUELLA DI UN SOGNATORE ANACRONISTICO, DI UN UOMO AVULSO DALLA REALTà DEL SUO TEMPO. MA FU VERAMENTE TALE? IN QUALE MISURA LA SUA SCELTA NEO-PAGANA RAPPRENSENTò REALMENTE UNA ROTTURA CON LA POLITICA DEL PRIMO IMPERATORE CRISTIANO? E QUALE RUOLO HA SVOLTO, NEL PROCESSO DI IDEALIZZAZIONE DELL’«APOSTATA», IL SUO SOGGIORNO NELLA CITTà DI ATENE?

di Marco Di Branco

I

l 22 maggio del 337 si concluse a Nicomedia, città della Bitinia (oggi presso Izmit, in Turchia), l’avventura terrena di Costantino I il Grande. Alcuni mesi piú tardi furono acclamati imperatori i suoi tre figli, mentre i fratellastri e i nipoti del sovrano, per i quali egli aveva previsto un ruolo importante nella successione, furono eliminati dalla scena con violenza.Vennero risparmiati solo i due piccoli figli di Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino: Gallo, di undici anni, e Giuliano (il futuro «apostata») di sei. Quest’ultimo fu esiliato prima a Nicomedia, poi a Macellum, nella lontana Cappadocia. I tre figli di Costantino si riunirono a Viminacium, in Mesia (l’odierna Kostolac, in Serbia) e si spartirono l’impero come un bene ereditario: al primogenito, Costantino II, si attribuirono le Gallie; al fratello piú piccolo, Costante, posto sotto la tutela del maggiore, furono date l’Italia, l’Africa e la Macedonia. A Costanzo II toccarono invece la parte orientale dell’impero e la Tracia.

una breve parabola • 331 d.C. Giuliano nasce a Costantinopoli, il 6 novembre. Viene esiliato a Costantinopoli e mandato a • 337

Nicomedia, in Anatolia. Viene mandato a Macellum, in Cappadocia, insieme al fratello Gallo. Gallo diventa Cesare dell’Oriente, Giuliano ritorna a • 348 Costantinopoli. Sospettato di cospirazione da parte di Costanzo II, • 355 viene esiliato ad Atene. Richiamato, viene inviato in Gallia con il titolo di Cesare. Sconfigge ad Argentoratum (odierna Strasburgo) gli • 357 Alamanni. • 358-360 Vive a Lutetia Parisiorum (Parigi). Viene acclamato imperatore dai propri soldati; il 5 • 360 novembre muore Costanzo II, Giuliano diventa l’unico imperatore dell’impero romano; l’11 dicembre Giuliano entra a Costantinopoli. • 361-362 Giuliano sposta la capitale dell’impero ad Antiochia. Muore in Mesopotamia, il 26 giugno, durante la • 363 campagna contro i Sassanidi. • 342

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speciale • giuliano l’apostata

l’impero nel iv secolo

Ritratto in marmo dell’imperatore Costantino I. 305-306 circa. Copenhagen, Ny Carlsberg Glyptotek.

(le date tra parentesi indicano gli anni di regno)

Elena

Flavio Costanzo (305-306)

Costantino I

Minerva

Fausta

(306-337)

Costantino II

Crispo

(337-340)

Costante (337-350)

Costanza

Costanzo II

Faustina

(337-360)

Graziano (367-383)

Costanza Elena

Qui sopra: solido di Graziano con, al dritto, la testa diademata dell’imperatore. 375-383 circa. Collezione privata. A destra: medaglione in oro di Costanzo II, con elmo, lancia e scudo.

353-361 circa. Parigi, Bibliothèque nationale. Qui accanto: solido di Giuliano l’Apostata, con diadema di perle, corazza e paludamento. 361-363 circa. Collezione privata.

Ma la spartizione fu di breve durata: Costantino e Costanzo, i due fratelli maggiori, erano divisi da una forte rivalità, che aveva tra i suoi fondamenti anche il problema religioso, poiché Costantino II era saldamente ancorato all’ortodossia nicena, mentre Costanzo aveva ripreso dal padre una certa simpatia per le dottrine ariane. All’inizio del 340 Costantino II attaccò il giovane fratello Costante, allo scopo di impadronirsi della sua zona di influenza, unificando cosí la parte occidentale dell’impero. Ma la sorte gli fu avversa: cadde in un agguato e fu ucciso presso Aquileia. Signore dell’Occidente divenne, in vece sua, Costante, ma anche il suo potere ebbe breve durata: contro di lui si scatenò infatti una rivolta popolare che ebbe il suo epicentro nelle Gallie. 72 a r c h e o

Giuliano (360-363)


Cosí, il 18 gennaio del 350, Costante fu rovesciato e il suo posto fu preso da un ribelle semibarbaro, Magnenzio. A questo punto intervenne Costanzo II, che sconfisse Magnenzio sulle rive della Drava, mise fine alla rivolta gallica e divenne unico signore dell’impero, i cui confini erano ora minacciati a Nord dalle popolazioni barbariche dei Franchi, degli Alamanni, dei Quadi e dei Sarmati e, a Oriente, dalla grande offensiva persiana portata avanti dall’imperatore sassanide Shapur II (vedi box alle pp. 82-83). Costanzo si dedicò personalmente alla guerra contro la Persia e decise di affidare la difesa della Gallia al giovane Giuliano. Cosí, quest’ultimo, che, nel frattempo, grazie all’intervento della moglie di Costanzo, Eusebia, era stato assolto da ogni accusa ed era stato mandato ad Atene per un soggiorno di studio, nell’autunno del 355 fu richiamato a Milano, dove il 6 novembre dello stesso anno ricevette il titolo di Cesare.

Acclamato dalle truppe Quattro anni dopo, nel 359, avvenne la resa dei conti: Costanzo II chiese a Giuliano di inviargli delle truppe sul fronte persiano, ma i soldati non vollero abbandonare il loro giovane leader, e nel febbraio del 360, a Parigi, lo acclamarono imperatore. Costanzo mosse guerra contro l’usurpatore, ma il 3 novembre del 361 morí. Giuliano era ora l’unico sovrano dell’impero romano, impero che egli si apprestava a riformare radicalmente, sia in campo socio-economico (con una politica di deflazione tesa a lenire gli effetti catastrofici della riforma monetaria costantiniana) sia nella sfera religiosa (con il tentativo di restaurare il paganesimo). Proprio a causa della politica religiosa neopagana di Giuliano i suoi contemporanei e i posteri hanno visto in lui l’«apostata» per eccellenza (è cosí chiamato chi compie apostasia, cioè ripudio pubblico e solenne della propria religione, n.d.r.), dipingendolo spesso come un mostro reazionario o, nel migliore dei casi, come un outsider, una figura atipica e anacronistica di sognatore e utopista, del tutto avulsa dalla realtà del suo tempo. Ancora oggi, molti studiosi tendono ad avallare questo paradigma, individuando nell’educazione classica dell’imperatore il fondamento della sua futura apostasia. Si tende spesso, cosí, a enfatizzare l’importanza del soggiorno ateniese del 355, visto come una sorta di grand tournant della formazione religiosa e culturale giulianea. Se-

condo noi, però, vale la pena di approfondire meglio l’argomento. A questo proposito, dunque, è necessario fare un lungo passo indietro e, con l’aiuto delle fonti letterarie, dell’epigrafia e dell’archeologia, immergersi nell’Atene della metà del IV secolo, sulle tracce di uno studente dal grande e tragico destino: la lettera al retore Temistio, scritta da Giuliano subito dopo – o subito prima – il suo trionfale ingresso a Costantinopoli del 361 d.C., si apre con la suggestiva e nostalgica evocazione dei tempi felici degli «studi attici» (Attikà dieghémata), quando, durante il suo soggiorno di studio ad Atene, egli era solito cantare per gli amici, «come chi, portando gravi pesi, alleggerisce cosí la fatica lungo la strada». Pochi anni prima – nell’elogio dell’imperatrice Eusebia – Giuliano, ricordando la felicità dei suoi anni ateniesi, si era addirittura paragonato ai coribanti in preda all’esaltazione sacra. Queste pagine giulianee hanno notevolmente influenzato gli storici antichi e moderni, che hanno sempre considerato l’esperienza ateniese del futuro imperatore come un momento chiave della sua «educazione sentimentale». Si era trattato, in verità, di un soggiorno molto breve – Giuliano era giunto ad Atene nell’estate del 355 d.C. e fu richiamato a Milano da Costanzo nell’autunno dello stesso anno – ma, come suole accadere nella sfera del mito, sembra che agli occhi di storici e biografi l’elemento temporale non rivesta una grande importanza.

nostalgie attiche Un alone mitico avvolge anche il resoconto del soggiorno ateniese di Giuliano incluso dal celebre sofista Libanio (retore greco di Antiochia, amico dell’imperatore Giuliano, a cui lo legavano anche gli ideali di difesa della grecità e di restaurazione del paganesimo, n.d.r.) nella sua orazione funebre per l’imperatore, che può essere letto come a un vero e proprio racconto di fondazione della figura giulianea per come essa è costruita dai suoi seguaci e ammiratori. Non a caso, la narrazione si conclude – saltando molti passaggi – con la salita al trono di Giuliano, e Libanio termina la sua orazione funebre affermando che l’imperatore avrebbe dovuto essere seppellito nell’Accademia, accanto alla tomba di Platone, in modo da poter ricevere anch’egli gli onori tributati al filosofo dalle successive generazioni di studenti e professori. D’altra parte, il mito della capitale dell’Attia r c h e o 73


speciale • giuliano l’apostata

L’attenzione per i piú «umili» nella politica economica Cosí lo storico Santo Mazzarino (1916-1987) descrive la politica economica di Giuliano, volta a migliorare le condizioni delle classi piú umili, attraverso la riduzione dei prezzi: «Egli perseguiva la sua politica economica di deflazione, già chiaramente concepita durante il cesariato. Aveva alleviato (in Dalmazia) gli enormia pretia di aderazione (dal latino adaeratio, il termine indica la conversione in denaro delle tasse richieste dallo Stato in natura, n.d.r.) dei cavalli; aveva rimesso l’aurum coronarium, con grande beneficio delle municipalità; sempre a vantaggio delle municipalità, ha pensato a una restituzione generale dei vectigalia e dei fundi a esse, con l’agevolazione di un autogoverno cittadino abbastanza indipendente dal controllo dei governatori. Questa politica intesa ad aiutare le curie comportava anche – con un tipico richiamo alla tradizione

giuridica romana (auctoritas), che egli sempre contrapponeva alla tendenza rivoluzionaria della legislazione di Costantino – l’imposizione della munizione delle vie (de itinere muniendo) ai possessores anziché alla municipalità. D’altra parte non si trattava di una politica di classe, volta ad agevolare le borghesie cittadine contro i possessores piú ricchi; al contrario la politica di Giuliano cercava di conciliare, sotto il comune denominatore delle necessità dello Stato, i contrapposti interessi di classe. Ad Antiochia egli ha tentato addirittura – con grave scontento della borghesia e dei piccoli proprietari – la riduzione del prezzo dei grani, in congiuntura di carestia, da 5 modii un solido a 15 modii un solido. Sempre ad Antiochia egli tentò un’equa distribuzione di 3000 klêroi di territorio incolto; ma poi, accortosi che i klêroi erano stati

ca come città della cultura e della filosofia è attivo e presente nella stessa «autobiografia» di Libanio, il quale descrive lo struggente desiderio di vedere a ogni costo «il fumo di Atene» e narra vividamente le vicende degli studenti e dei professori dell’unico luogo in cui era veramente possibile colmare le lacune dello spirito. Ma il soggiorno ateniese del futuro «apostata» non manca di suggestionare anche i suoi nemici: il grande teologo cappadoce Gregorio di Nazianzo afferma di aver previsto sin dai tempi di Atene (Giuliano e Gregorio ebbero modo di conoscersi e frequentarono gli stessi maestri) che Giuliano sarebbe stato fonte di grandi mali per l’impero romano, e sostiene che i motivi del suo viaggio sarebbero stati due: il primo – e piú onorevole – quello di conoscere la Grecia e le sue scuole; il secondo – tenuto segreto – quello di consultare i «sacrificatori» e i pagani. Ad Atene, dunque, si rivela la vera natura dell’«apostata» , perché da questa città emana una forza malvagia e tentatrice. È difficile resistere al fascino perverso di Atene, e solo anime ben salde e fortificate nei loro propositi come quella di Gregorio (e 74 a r c h e o

distribuiti tra persone agiate e per giunta esonerate dalle tasse, li destinò al mantenimento dei cavalli dell’ippodromo: anche qui con un procedimento che certo non fu gradito ai curiali, ma fu gradito alla plebe. In tal modo curiali e humiliores erano considerati senza pregiudiziali distinzioni di classe, e Giuliano non esitava a sacrificare interessi dei curiali alla sua politica deflazionistica volta a migliorare le condizioni degli humiliores. Sempre all’interesse dei contribuenti si volge inoltre Giuliano in quei casi in cui consente l’opzione fra corresponsione aderata e corresponsione in natura delle tasse. Di fronte ai senatori egli ha tenuto una posizione di profondo rispetto, concedendo pur a essi, nei limiti del possibile, delle agevolazioni economiche» (da L’impero romano, Editori Laterza, Roma-Bari 1973¹).

dell’altro grande padre cappadoce, Basilio di Cesarea, che fu anch’egli compagno di studi del futuro imperatore) sono in grado di opporsi alla sua «malvagia ricchezza»: Giuliano ne sarebbe rimasto sopraffatto.

Costantino, un precedente? Nella sua prima orazione a Costanzo (Or. I 8 c-d.), Giuliano, dopo aver ricordato Costantinopoli e Roma, sofferma la propria attenzione sull’«illustre Atene» e fornisce una serie di informazioni molto interessanti a proposito di Costantino: «È opportuno forse, a questo punto, ricordare anche l’illustre Atene che egli (Costantino, n.d.A.) non cessò mai di onorare con i fatti e con le parole. Re e signore di ogni cosa, non disdegnava infatti di essere nominato stratego di Atene, e l’aver ricevuto da questa città una bella statua munita di iscrizione gli procurava una gioia maggiore di quella che gli avrebbe dato l’essere insignito delle piú alte onorificenze. Per ricambiarla, le concesse di fruire gratuitamente di molte migliaia di medimni di grano all’anno, cosa che consentí ad Atene di godere dell’ab-


Il Partenone di Atene, città in cui Giuliano, futuro imperatore, soggiornò, dedicandosi allo studio della filosofia neoplatonica, dall’estate all’autunno del 355, prima di ricevere il titolo di Cesare. L’atteggiamento filoateniese dell’imperatore fu enfatizzato dagli autori antichi e moderni che vollero individuarvi le origini della sua azione politica e religiosa.

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speciale • giuliano l’apostata

bondanza, e a lui delle lodi e del rispetto dei migliori cittadini». Emerge, dunque, un tratto inaspettato della politica costantiniana: un particolare interesse verso Atene, che si esplicita in alcuni atti evergetici nei suoi riguardi e provoca una reazione molto positiva nella classe dirigente della città. Secondo Giuliano, Costantino avrebbe accettato il titolo di stratego, una carica che in età imperiale è essenzialmente connessa con l’approvvigionamento cittadino, e si sarebbe fatto promotore di distribuzioni gratuite di grano agli Ateniesi.

Un atteggiamento tollerante Questo provvedimento costantiniano, che si inscrive nell’ambito della crisi annonaria che colpisce Atene dal momento della fondazione di Costantinopoli, e trova riscontro in un’analoga concessione di Costante I, può comprendersi solo alla luce della piú generale attitudine del primo imperatore cristiano nei confronti delle aristocrazie greche pagane: l’atteggiamento di Costantino verso il paganesimo si caratterizzò, infatti, per equili-

mostro o filosofo? Nel breve ritratto dello storico romano del IV secolo Eutropio, la maschera del mostro che la pubblicistica cristiana ha inevitabilmente sovrapposto al volto di Giuliano si stempera in un’immagine quasi totalmente positiva: «Giuliano divenne allora padrone del potere, e, dopo immensi preparativi, portò la guerra presso i Parti, spedizione a cui io stesso presi parte. Ricevette la sottomissione di numerosi luoghi e piazzeforti dei Persiani, o le prese d’assalto; dopo aver devastato l’Assiria, si accampò per qualche tempo presso Ctesifonte, e ritornava da vincitore, quando, esponendosi troppo imprudentemente nei

combattimenti, fu ucciso dalla mano di un nemico, il sesto giorno delle calende di luglio, nel suo settimo anno di regno e nel suo trentunesimo anno di età; entrò nel numero degli dèi. Fu uomo eminente, e avrebbe amministrato lo stato in modo notevole se il destino glielo avesse permesso. Fu molto versato nelle discipline liberali, sapiente soprattutto in greco, al punto che la sua erudizione latina non poteva bilanciare la sua scienza del greco. Aveva un’eloquenza brillante e pronta, una memoria molto sicura. Da un certo punto di vista era piú simile a un filosofo che a un principe; era liberale nei

Spesso, per abbassare la temperatura, si ponevano nel condotto discendente stracci inzuppati d’acqua

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confronti dei suoi amici, ma meno scrupoloso di quello che conveniva a un cosí grande principe: in tal modo certi invidiosi attentarono alla sua gloria. Molto giusto nei confronti dei provinciali, diminuí le imposte per quello che si poté fare; affabile con tutti, avendo mediocre preoccupazione per il tesoro, avido di gloria, e, tuttavia, di un ardore spesso immoderato, perseguitò troppo vivamente la religione cristiana, senza tuttavia spargere il sangue. Ricordava molto Marco Aurelio, che d’altronde desiderava ardentemente di prendere a modello» (Eutropio, Breviarium Historiae Romanae, VIII).


brio e tolleranza, e in molti casi gli intellettuali pagani incontrarono da parte sua disponibilità e amicizia. La simpatia per le élite urbane pagane concorre al consolidamento della società rigidamente divisa in «classi», obiettivo della rivoluzione costantiniana nel quadro dell’esaltazione dell’ideale della civilitas (termine che significa propriamente «l’essere cittadino», n.d.r.), in cui si riconoscono i ceti privilegiati cristiani e pagani, favoriti dalla politica economica imperiale. L’ammirazione per Atene dichiarata da Costantino non è dunque diversa dalla sua ammirazione per Roma o Costantinopoli. Gli Ateniesi avevano piú di un motivo di gratitudine nei confronti di Costantino: oltre a favorire la loro città con le distribuzioni gratuite di grano, l’imperatore aveva infatti emanato un provvedimento che estendeva i privilegi dei professori, sicuramente molto apprezzato dai numerosi sofisti e filosofi che ad Atene si guadagnavano da vivere con l’insegnamento. Va poi ricordato l’intervento in favore di un sacerdote di Eleusi, Nicagora, al quale Costantino, nel 326 d.C., concesse la possibilità di visitare l’Egitto sulle tracce di Platone, come ci attestano due note iscrizioni delle Tombe dei Re a Tebe. Questo atto costantiniano assume un valore particolare: Nicagora, infatti, appartiene a una delle famiglie piú nobili di Atene, profondamente imbevuta di neoplatonismo e in rapporto diretto da molti secoli con l’ambito eleusino. Anche la recente ipotesi dello storico Garth Fowden, secondo il quale Nicagora avrebbe avuto il compito di negoziare per conto dell’imperatore la rimozione del cosiddetto «obelisco del Laterano» con le autorità di Tebe (evidentemente piú disponibili a trattare con un pagano affidabile e rispettato), non contraddice il dato di fatto dell’ottimo rapporto intrattenuto da Costantino con l’élite pagana ateniese, rapporto che trova il suo fondamento nel comune ideale della civilitas. Restano elementi sufficienti per poter affermare che Atene seppe apprezzare la benevolenza costantiniana: un giovane pagano ateniese, Prassagora, compose una Storia di Costantino il

Nella pagina accanto: busto in marmo cosiddetto «di Giuliano l’Apostata». IV sec. Roma, Musei Capitolini.

Grande in due libri, in cui narrava la sua ascesa al potere e ne esaltava le molteplici virtú; lo stesso Giuliano – come si è visto – attesta l’erezione di una statua in onore di Costantino da parte degli Ateniesi, e l’iscrizione su un epistilio di provenienza sconosciuta, conservato al Museo Nazionale di Atene, mostra che all’imperatore (o, meno probabilmente, a suo figlio Costante) era anche dedicato un importante monumento cittadino; negli ultimi anni, per giunta, sono state pubblicate varie epigrafi onorarie provenienti da Atene e dall’Attica relative a Costantino e a membri della sua famiglia.

Ipotesi e fraintendimenti Appare dunque chiaro come l’atteggiamento filoateniese di Giuliano sia saldamente radicato nel sistema di valori costantiniano e non costituisca un’innovazione dipendente dalla personalità e dagli ideali dell’imperatore «apostata», il cui unico contributo originale consiste nell’esplicita adesione ai culti pagani (per giunta rivendicata solo a posteriori): al contrario, il momento del rifiuto della visione politica di Costantino segnò per Giuliano un pur doloroso distacco – materiale, ma anche e soprattutto spirituale – dalla città della sua breve giovinezza. Per comprendere da dove si originino quelle prese di posizione che, ignorando il contesto, tendono a considerare il rapporto fra Giuliano e Atene come un unicum riconducibile esclusivamente alla personalità eccezionale dell’ultimo degli imperatori pagani (e finiscoTyche di Antiochia, copia in marmo di epoca romana da un originale bronzeo greco del III sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Pio Clementino. Giuliano visse ad Antiochia di Siria dall’agosto del 362 al marzo dell’anno successivo. La popolazione, perlopiú cristiana, che lo aveva inizialmente accolto con entusiasmo, divenne presto ostile all’imperatore pagano, che nell’opera satirica Misopógon, dallo stesso composta, accusò gli Antiocheni di ingratitudine.

a r c h e o 77


speciale • giuliano l’apostata Nella pagina accanto: testa in opus sectile di Helios-Sol, da un modello ellenistico di AlessandroHelios. Dal mitreo di S. Prisca sull’Aventino (Roma). 200-230 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Fu Alessandro Magno il modello ideale di Giuliano, che, nel 363, muovendo guerra contro i Sassanidi, volle portare a termine le imprese del Macedone, con l’intento di unificare in un solo impero Oriente e Occidente.

no per sovrainterpretare i termini stessi di tale rapporto) è necessario tenere presenti due testi fondamentali: il primo è un passo del già menzionato epitaffio di Giuliano composto da Libanio, il secondo un brano del panegirico di Giuliano pronunciato da Claudio Mamertino in occasione dell’assunzione del suo consolato. Nell’orazione funebre in onore di Giuliano, Libanio (Or. XVIII 114), riassumendo i tratti salienti della biografia dell’imperatore, scrive: «Il tempio di Atena e quelli degli altri dèi furono riaperti dall’imperatore, ed egli li onorò con doni, offrendo sacrifici di persona e invitando gli altri a fare altrettanto». Mamertino (Grat. Act. 78 a r c h e o

In alto: particolare di un mosaico policromo raffigurante il dio Dioniso accompagnato da una menade e da un giovane satiro, da Antakya (antica Antiochia di Siria). II sec. d.C. Antakya (Turchia), Museo Archeologico.

Iul., IX 3-4.) elogia invece Giuliano per aver «riportato alla vita» Atene e altre città della Grecia e dell’Illirico. Il tono celebrativo di questi passi è del tutto indiscutibile, come lo è il fatto che in essi vi è molta esagerazione panegiristica, e tuttavia ciò non sempre è stato compreso.

Un restauro «fantasma» In un intervento del 1973, il grande architetto e archeologo John Travlós, basandosi unicamente su queste due testimonianze letterarie, ha sostenuto che, durante il suo impero, Giuliano avrebbe addirittura ricostruito il Partenone, danneggiato durante il sacco degli


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speciale • giuliano l’apostata

reintrodurre il paganesimo? che ridicola Il breve regno di Giuliano l’Apostata (361-363) sembrò segnare una svolta nella politica religiosa di Roma. Questa figura cosí aristocratica e affascinante tentò di riportare indietro le lancette dell’orologio della storia, sforzandosi di ridare prestigio alla vecchia religione pagana con una vera e propria «riforma» che prevedeva – a imitazione dell’aborrito cristianesimo – la creazione di una gerarchia di sacerdoti e di un sistema assistenziale che si prendesse cura dei poveri e dei bisognosi. Naturalmente, la pretesa di sostituire alla religione cristiana – profondamente radicata nelle masse sin dal III secolo – questa sorta di paganesimo «riformato», non poteva che rivelarsi del tutto illusoria, anche per il carattere esclusivo ed Statua in marmo raffigurante un sacerdote di Serapide, una tra le diverse sculture a lungo erroneamente identificate con ritratti dell’imperatore Giuliano l’Apostata. Copia del 1790 da un originale di età adrianea. Parigi, Museo del Louvre.

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elitario della teologia giulianea, ispirata a motivi filosofici difficilmente comprensibili ai piú. Lo stesso Giuliano si rese lucidamente conto del suo fallimento, e nel Misopógon (Il nemico della barba, un brillante pamphlet rivolto agli Antiocheni; vedi a p. 85) esprime con notevole senso dell’umorismo la sua disperazione e il suo disprezzo per quel mondo che non aveva saputo comprendere i suoi ideali: «È terribile – dissi – che una simile città (Antiochia, n.d.A.) trascuri a tal punto gli dèi, come non farebbe nessun piccolo villaggio: pur possedendo in proprio miriadi di lotti di terra, ora che per la prima volta cade la festa annuale del dio patrio da quando gli dèi dissiparono la bruma dell’ateismo, la città di per sé non offre che un pollo, essa che doveva appunto sacrificare un bue per tribú o, se questo non era possibile, offrire al dio a nome

Eruli del 267 d.C., allegando una minuziosa analisi archeologica del supposto intervento giulianeo. A prescindere dal fatto che non esiste la benché minima testimonianza storica di una sia pur parziale distruzione del Partenone da parte degli Eruli, la tesi di Travlós è difficilmente sostenibile proprio sulla base di quegli stessi documenti che egli utilizza a sostegno della propria interpretazione, dal momento che in essi manca qualsiasi accenno ai fantomatici restauri giulianei. Nel 1979, l’archeologa statunitense Alison Frantz esponeva le motivazioni del suo dissenso nei confronti di Travlós, affermando per prima cosa che non ci sono indizi per determinare l’epoca del danneggiamento del Partenone, sostenendo poi che è difficile credere che il tempio principale di Atene, se mai fosse stato danneggiato dagli Eruli, potesse essere stato lasciato in rovina per un secolo, per concludere – dopo un’analisi dei testi addotti da Travlós e della documentazione archeologica – che mentre non esiste alcun elemento concreto a favore di un intervento di Giuliano, dati storici e archeologici permetterebbero di


illusione... della città tutta, in comune, almeno un toro. In privato ciascuno di voi gode a spendere in banchetti e feste; per voi stessi invece e per la salvezza della città nessuno sacrifica, né per proprio conto i cittadini, né la città in comune; lo ha fatto solo il sacerdote, che a mio avviso aveva pieno diritto di tornarsene a casa con una parte della moltitudine delle offerte da voi recate al dio. Gli dèi, infatti, esigono dai sacerdoti di essere onorati con una vita bella e buona, esercitando la virtú e servendoli per quanto loro compete; penso che spetti alla città di sacrificare in privato e in pubblico. Ora, però, ciascuno di voi permette alla moglie di portare tutto da casa ai Galilei (i cristiani, n.d.A.) e cosí, nutrendo i poveri con i vostri beni, esse suscitano grande ammirazione per l’ateismo in quanti hanno bisogno di simili

aiuti (questo tipo di uomini, credo, sono la maggioranza). Voi stessi per primi credete di non far nulla di strano trascurando gli onori dovuti agli dèi. Nessun bisognoso si accosta ai templi; penso, infatti, che non c’è nulla di cui possa nutrirsi. E invero, quando uno invita per i banchetti di compleanno, appresta un pranzo ottimo, intrattenendo gli amici a una tavola sontuosa; invece, in occasione della festa annuale, nessuno ha recato al dio olio per la lampada, né libagioni, né vittime, né incenso. Io non so cosa proverebbe un uomo dabbene vedendo quanto accade presso di voi, ma credo da parte mia che ciò non piaccia neppure agli dèi» (Giuliano imperatore, Alla madre degli dèi e altri discorsi, a cura di Jacques Fontaine, Carlo Prato e Arnaldo Marcone, trad. it. di Arnaldo Marcone, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 1987).

avanzare l’ipotesi che i restauri del Partenone vadano attribuiti all’iniziativa di Erculio, prefetto dell’Illirico dal 408 al 410. Sebbene la stessa Frantz sia molto cauta nell’avanzare quest’ultima ipotesi, ciò che conta è soprattutto la pars destruens del suo discorso, che sgombera definitivamente il campo dalla teoria di un restauro giulianeo del Partenone, e, piú in generale, dalla diffusa credenza di attività edilizie promosse ad Atene dall’«apostata».

la lettera agli Ateniesi Un altro equivoco, derivante dalla sovrainterpretazione da parte degli studiosi moderni dell’interesse di Giuliano nei confronti di Atene, è legato alla lettura di un’iscrizione pubblicata nel 1919 e ritenuta una dedica dell’ultimo imperatore pagano. In effetti, negli ultimi anni, si è giustamente affermata la tendenza a escludere la possibilità che l’epigrafe in questione vada connessa con Giuliano e l’iscrizione è stata esclusa dalla silloge di epigrafi tardo-antiche di Atene e dell’Attica recentemente pubblicata dall’epigrafista finlandese Erkki Sironen.

In alto: frammento di epigrafe in lingua latina (ma scritta in caratteri greci), rinvenuta sull’isola greca di Amorgos, riproducente una lettera dell’imperatore Giuliano l’Apostata all’amico Saturnino Salustio Secondo. IV sec. d.C. Atene, Museo Epigrafico.

La sopravvalutazione del rapporto di Giuliano con Atene non ha indotto in errore solo gli archeologi e gli epigrafisti, ma anche gli storici dell’arte, che per lungo tempo hanno interpretato una testa ritratto dalla Biblioteca di Adriano come una rappresentazione dell’imperatore apostata. In uno studio approfondito, Jutta Meischner ha ora dimostrato come, in realtà, il personaggio rappresentato sia, piú semplicemente, un sacerdote. Nell’autunno del 361 d.C., quando era già in corso lo scontro finale con Costanzo, Giuliano scrisse alcune epistole alle città dell’Illirico, della Macedonia e della Grecia e al Senato romano allo scopo di giustificare la propria azione politica e militare. La lettera «Al Consiglio e al Popolo ateniese» è l’unica a essere stata tramandata per intero, e costituisce un documento fondamentale per la comprensione della personalità di Giuliano e del suo rapporto con Atene. Nella lettera, l’imperatore si rivolge agli Ateniesi, invitandoli a giudicarlo dopo aver ascoltato la sua apologia, cioè il racconto delle sofferenze inflittegli da Costanzo e dalla sua famiglia. a r c h e o 81


speciale • giuliano l’apostata

i sassanidi di persia, la dinastia nemica Fondata da Ardashir I (dagli autori occidentali citato anche come Artaserse) nel 224 d.C., la dinastia dei Sassanidi (o Sasanidi) prese il nome da Sasan, un antenato di Ardashir, ultimo sacerdote del tempio di Zarathustra a Persepoli prima della distruzione compiuta Le rovine del palazzo reale di Ctesifonte (Iraq), capitale dell’impero sassanide.

da Alessandro Magno. Sotto la guida di Ardashir I, i Sassanidi spodestarono i Parti e crearono un impero che, al tempo della sua massima espansione sotto Shapur II (309-379), andava dalla Georgia alla Penisola arabica, dall’Indo alla Mesopotamia. Fu proprio contro questo sovrano che l’imperatore Giuliano mosse le sue truppe da Antiochia nel 363. Sull’impresa persiana ascoltiamo, ancora, le parole di Santo Mazzarino: «La guerra si trasformò, per qualche giorno, in una caccia snervante al fantomatico esercito persiano (...) Informatori persiani gli avevano detto che l’esercito di Shapur era non molto lontano, verso l’interno, a oriente del Tigri. Nonostante le incertezze dei suoi stessi sacerdoti, credette di avere in pugno la vittoria (...) Nell’impossibilità di distaccare migliaia e migliaia di uomini per il trasporto della flotta (circa 1250 navi) sul Tigri contro corrente, ricorse a un


espediente estremo: bruciò quelle sue mirabili imbarcazioni, tutte, navi onerarie, da guerra, del genio; solo ne conservò dodici (o ventidue?), che potevano essere trasportate per terra. L’inaudito sacrificio, che a prima vista sembrerebbe inspiegabile, diventa senz’altro chiaro se riflettiamo che i 35 000 uomini di Giuliano non potevano dare a un tempo forze sufficienti per il trasporto (e la difesa) della flotta sul fiume contro corrente, e per la grande battaglia campale che l’imperatore considerava imminente e necessaria. Ma proprio il miraggio di questa battaglia campale, che lo costrinse ad allontanarsi momentaneamente dal Tigri e perciò a bruciare la flotta, si dimostrò subito una vana illusione. L’esercito di Shapur era sparito: gli informatori persiani avevano detto il falso. Lungi dal dare battaglia campale, i Persiani si limitavano a disturbare l’esercito romano con azioni di guerriglia. Man mano che avanzavano i Romani trovavano la terra bruciata (...) L’imperatore passò il Douros (Dialas); si avvicinò di nuovo al Tigri; conquistò una località (Hucumbra) sulla riva del Tigri (...) Continuò a marciare sulla riva orientale. Arrivò ad Akkad (...) Al solito, i guerriglieri persiani facevano il deserto intorno a sé. Gli dèi di Giuliano cedevano (...) Il 21 giugno, nel villaggio di Maranga, riportò una splendida vittoria su truppe catafratte persiane; anche questa, una vana vittoria, in mezzo alla calura e ai pascoli incendiati, mentre i suoi uomini e i cavalli morivano di fame. (...) Ma ancora una volta, nella marcia degli affamati vittoriosi, l’imperatore dava l’esempio, contentandosi di un rancio vilissimo (...) Il 26 giugno un ennesimo attacco persiano alle spalle; egli si muoveva per tutto l’esercito, a rincuorare i suoi uomini; una lancia di cavaliere lo colpí (...) Morí il 27 giugno. Di lí a qualche giorno, i suoi uomini raggiunsero, sotto la guida del nuovo imperatore Gioviano, la cittadella di Samarra (Sumere), una delle piú antiche sedi della civiltà mondiale: sull’Oriente antichissimo si era infranta l’impresa dell’ultimo epigono di Alessandro Magno» (da L’impero romano, Editori Laterza, Roma-Bari 1973¹).

L’Atene dell’epistola è in tutto e per tutto un’Atene immaginaria, un artificio letterario, la polis di Aristide e Temistocle, non quella – concreta e reale – delle élite cittadine tanto amate da Costantino. Giuliano non mette in particolare risalto la sua valenza di polo culturale, richiamandosi invece alla caratteristica della giustizia dei suoi abitanti, e non accenna minimamente alle proprie esperienze religiose e filosofiche ateniesi. Se questa circostanza può attribuirsi alle particolari finalità della lettera, non altrettanto può dirsi del fatto che il soggiorno ad Atene, descritto nel panegirico di Eusebia come un periodo di gioia e di serenità, qui viene appena ricordato, e solo per rivelare le ansie che l’hanno caratterizzato. Sembra quasi che Giuliano voglia marcare una distanza dal suo vecchio mondo e dai suoi miti.

Una nuova visione del mondo L’epistola segna un cambiamento importante persino nello stile del futuro imperatore, venendo a esprimere la nuova visione del mondo di Giuliano nel momento del suo primo fiorire, e costituisce un’evidente cesura fra i panegirici a Costanzo ed Eusebia e le opere piú mature, nelle quali è ormai evidente la sua svolta politica anticostantiniana. Giuliano si sta allontanando dal mondo ideale della sua adolescenza e giovinezza, e tuttavia, per l’ultima volta, si rivolge, sia pur trasfigurandola nella finzione letteraria, alla città che pochi anni prima lo aveva ospitato: ne riceverà una cocente delusione. Pur se Libanio, nell’orazione funebre in onore dell’imperatore, affermerà che l’epistola raggiunse gli effetti sperati, la realtà fu invece molto diversa. In quella che resta la migliore biografia giulianea, lontana da ogni idealizzazione, Glen W. Bowersock dedica solo poche righe al soggiorno ateniese del futuro imperatore, e – non a caso – concentra la sua attenzione sulla lettera a Temistio, nella quale Giuliano giustifica le proprie esitazioni davanti al potere, ma, nello stesso tempo, afferma decisamente la sua scelta di immergersi nella lotta politica e militare: Giuliano – scrive Bowersock – era devoto ai suoi dèi, ai suoi maestri e ai suoi libri. Ma questo non significa che egli fosse indifferente al destino dell’impero o al suo proprio ruolo nel determinarlo. Nella lettera a Temistio, l’imperatore annuncia una rottura netta con il passato: non è piú possibile preferire la vita contemplativa degli epicurei, «i giardini e i sobborghi di a r c h e o 83


speciale • giuliano l’apostata

da leggere • Glen W. Bowersock, Julian the Apostate, Harvard University Press, Cambridge 1978. • Ignazio Tantillo, L’imperatore Giuliano, Laterza, Roma-Bari 2001. • Marco Di Branco, La città dei filosofi. Storia di Atene da Marco Aurelio a Giustiniano, L.S. Olschki, Firenze 2006. • Alessandro Pagliara, Per la storia della fortuna dell’imperatore Giuliano tra Umanesimo ed età barocca, Ediz. Nuova Cultura, Roma 2010.

Giuliano intraprese la campagna sassanide al fine di conquistare il regno di Shapur II. Il 5 marzo 363, l’imperatore mosse da Antiochia, con 65 000 uomini. Poco meno di due settimane piú tardi, a Carre, divise le forze in due corpi d’armata, uno dei quali, guidato da Procopio, si sarebbe dovuto unire alle forze del re d’Armenia e quindi scendere lungo il Tigri. Dopo aver preso diverse città e fortezze nemiche, Giuliano, giunto fino a Ctesifonte, si ritirò per l’impossibilità di porre sotto assedio la capitale sassanide. Sulla strada del ritorno in patria, l’esercito romano sconfisse ancora le truppe di Shapur II, ma l’imperatore morí negli scontri. M ar N ero

Costantinopoli 10 giugno 362

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16 giugno Ritirata verso Corduene

3 giugno Partenza verso i territori interni della Persia


nio – egli intendeva trasformare in una «città di marmo»; è Antiochia che accusò disperatamente di ingratitudine nella sua satira dal titolo Misopógon (Il nemico della barba, allusione autoironica al fastidio che i cittadini di Antiochia provavano nei confronti della barba da filosofo dell’imperatore, il quale aveva scelto la città come principale residenza imperiale), rivelando tutta la profondità del suo sentimento verso questa città. E quando, nello stesso Misopógon, Giuliano si sofferma a lodare la giustizia degli Ateniesi, dal contesto è evidente che questa volta ciò è detto esclusivamente in polemica con gli Antiocheni, nella vana speranza di suscitarne l’invidia o la gelosia.

Atene, i mirti e la casetta di Socrate» alla fatica del regnare (Ad Them.,VI 41-46). Da Atene si deve partire: chi si ferma troppo a lungo in questa città rischia di raggiungervi la vecchiaia senza esprimere il proprio talento. Ciò era ben chiaro a Libanio, che nella sua «autobiografia» menziona proprio questo pericolo e ringrazia la Fortuna di avergli fatto lasciare la città al momento giusto. Pericolo che era evidente anche al grande avversario di Giuliano, Gregorio di Nazianzo, il quale pure – per sua stessa ammissione – subí a lungo il dolore del distacco dalla terra della sua giovinezza e celebrò Atene in versi appassionati e pieni di rimpianto.

il sogno di Antiochia Dopo l’assunzione dell’impero, Atene scompare dall’orizzonte di Giuliano, liberatosi del suo passato costantiniano. Un’altra città, Antiochia, è ora al centro dei suoi pensieri. Il rapporto dell’imperatore con la città sull’Oronte è certamente imparagonabile, per intensità e coinvolgimento pratico e spirituale, a quello con Atene: è Antiochia, e non Atene, che egli volle come sua nuova capitale imperiale (e non solo per motivi strategici); è Antiochia che – secondo Liba-

La morte di Giuliano. Bassorilievo, di scuola sassanide, scolpito sulla roccia a Taq-e Bostan, in Iran, raffigurante Ardashir II (379383), al centro, che riceve la corona sacra dal fratello Shapur II, a destra; sulla sinistra è raffigurato il dio Mitra. Il sovrano sassanide calpesta l’imperatore Giuliano l’Apostata, morto durante la campagna di Persia, contro Shapur II.

ai confini dell’impero Piú tardi, ormai disgustato da Antiochia e dai suoi abitanti, l’imperatore annunciò a Libanio che, dopo la sua campagna, non sarebbe piú tornato ad Antiochia, ma si sarebbe stabilito a Tarso. La morte gli impedí di fare di questa città la sua residenza, ma vi fu seppellito, lontano dall’Accademia e dalla tomba di Platone, presso cui, secondo Libanio, sarebbe stato degno di riposare. In conclusione, vale la pena di ribadire un dato essenziale: la breve esperienza ateniese di Giuliano appartiene a una fase in cui egli non ha ancora fatto i conti con il proprio passato, ed ebbe una scarsissima influenza sul suo pensiero politico e sulla sua prassi di governo. Da imperatore, Giuliano non favorí concretamente Atene in alcun modo, e sostenere che la sua azione amministrativa si sarebbe basata sulla perdurante forza della polis non appare altro che un’assurdità. Libanio stesso, nell’epitaffio giulianeo, sembra in qualche modo voler sminuire l’influenza ateniese sul suo «eroe», affermando che egli, unico fra i giovani che giungevano ad Atene, se ne andò di là avendo insegnato, piuttosto che avendo appreso qualcosa. Fu il mito dell’imperatore filosofo, che Giuliano medesimo contribuí a costruire, a enfatizzare il suo legame con la città dei filosofi e della cultura, e tale mito si tramandò dai suoi contemporanei fino ad alcuni studiosi moderni. In realtà, il vero modello di Giuliano – sebbene egli stesso avesse sostenuto che la salvezza veniva da Socrate e non dalle vittorie di Alessandro – fu proprio quello del Macedone, sulle cui tracce l’imperatore si recò con la sua campagna contro i Sassanidi guidati da Shapur II, trovando la morte nelle pianure desertiche dell’impero persiano. a r c h e o 85


storia • storia dei greci/17

Tebe, l’ultima egemonia

Il IV secolo a.C. è «l’attimo fuggente» della Grecia delle poleis: troppo intente a guerreggiare tra loro, incapaci di cogliere le ultime occasioni per realizzare una propria unità di intenti, non poterono che affidarsi alla nascente potenza di Filippo il Macedone, padre del grande Alessandro di Fabrizio Polacco

I

l IV secolo a.C. vede il mondo ellenico trasformarsi vorticosamente. Secondo alcuni, l’epoca si caratterizza soprattutto per la fine della libertà delle poleis a opera di un potente vicino (i Macedoni), ed è quindi da considerarsi come un’età di crisi. Tuttavia, a ben guardare, tale trasformazione rappresenta uno sviluppo piuttosto che un declino del mondo greco; e se i complessi eventi politico-militari del periodo si risolsero in una marginalizzazione della polis, è altrettanto vero che essi non erano stati affatto casuali. A provocarli furono l’allargarsi della sfera di influenza della grecità, ma anche gli stessi limiti strutturali delle città-stato, ben individuati da Aristotele: se si volevano mantenere l’alternarsi al governo dei cittadini, la 86 a r c h e o

partecipazione diretta alle decisioni comuni, il ruolo centrale di assemblee popolari e di consigli, una città non poteva avere che poche decine di migliaia di abitanti con pieni diritti. Quando questi piccoli organismi statali, all’indomani della vittoria nelle guerre persiane, si trovarono ad agire su un palcoscenico internazionale via via piú allargato, vennero a confronto con entità assai piú vaste: regni su base territoriale e di lunga tradizione, molto popolosi, forniti di ampie risorse produttive e finanziarie. E le poleis, alla lunga, non ressero alla sfida.

sparta, gendarme del gran re Come se non bastasse, i rapporti tra città erano improntati al piú accanito particolarismo, e la tendenza si accentuò


La morte di Epaminonda. Olio su tela di Louis Gallait (1810-1887). XIX sec. Tournai, MusĂŠe des Beaux-Arts. Epaminonda, generale e politico tebano, a cui si devono le innovazioni tattiche adottate dall’esercito, sconfisse gli Spartani a Leuttra (371 a.C.) e a Mantinea, nel 362 a.C., dove trovò la morte, trafitto da una freccia.

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storia • storia dei greci/17

nel corso del IV secolo. La pace generale che negli anni Ottanta era stata stipulata presso il Gran Re di Persia con l’appoggio di Sparta, città egemone in quel momento, lasciava scontenti molti. Era costata la sottomissione dei Greci d’Asia alla Persia, e, per di piú, aveva trasformato la stessa Sparta da capofila dei Greci nella contesa contro il «Barbaro» in una sorta di gendarme della volontà del Gran Re: e costui mirava, soprattutto, a evitare che l’egemonia di una singola polis creasse un sistema di alleanze tanto grande da minacciarlo. Pur considerata invincibile sul campo, Sparta non costituiva certo una tale minaccia per i Persiani: i suoi cittadini di pieno diritto erano una élite di poche migliaia di opliti, piú preoccupata di tenere assoggettati gli Iloti che non di andare alla conquista di un impero. E fu proprio con l’intento di dissolvere una lega locale nel Nord della Grecia – che riuniva le poleis della Penisola calcidica sotto la guida di Olinto – che Sparta inviò una sua spedizione di «polizia», nel 382 a.C. Ma durante il trasferimento dal Peloponneso l’armosta che la guidava, un certo Febida, decise di propria iniziativa di

occupare con un colpo di mano la rocca di Tebe, la Cadmea, spinto a ciò dalla complicità degli oligarchici filo-spartani della città. Questa mossa rivolta contro la piú illustre polis della Beozia, la mitica patria di Edipo e di Eracle, della Sfinge e di Pindaro, si spiegava con un’ostilità di lunga data: Tebe non aveva mai rinunziato al tradizionale ruolo di dominatrice della Lega Beotica, ora formalmente vietata dalla Pace del Re con il pretesto del rispetto della «autonomia» di tutte le città.

in esilio ad atene Ma fu lampante per l’intera Grecia che, semmai, era stata l’occupazione ingiustificata di Febida a costituire un attentato a tale principio. Tanto piú che Sparta condannò solo blandamente l’iniziativa (inflisse una multa all’ufficiale troppo intraprendente); e, col cinismo che la contraddistingueva, si accinse a mantenere ben salda la sua guarnigione all’interno di Tebe. Alcuni fuoriusciti tebani di orientamento democratico si erano però

rifugiati ad Atene, dove trovarono sostegno e appoggio in una città che guardava sempre con simpatia agli esponenti di regimi popolari anti-spartani. E da lí questi esuli ripartirono tre anni dopo riuscendo a scacciare gli occupanti dalla Cadmea e a liberare la patria. Gli insorti avevano agito sotto la guida di due capi, Epaminonda e Pelopida, che, in seguito, furono chiamati piú volte a ricoprire la carica di «beotarchi», i magistrati della ricostituita Lega Beotica. In tale veste, essi si diedero a riorganizzarne le forze in vista della prevedibile rivalsa spartana. Di lí a poco Sparta diede un’altra prova della sua inaffidabilità tentando un blitz contro Atene, che mirava a occuparne il porto del Pireo. Il tentativo, maldestro, fallí; ma la mossa scosse gli Ateniesi a tal punto da rimettere in moto il meccanismo delle lotte di Greci contro Greci, e da innescare cosí l’ennesima serie di guerre. Atene ricostituí una lega navale con le isole e le città dell’Egeo e della Propontide: un’alleanza che però prevedeva con chiarezza il ruolo paritario tra i suoi membri e che i tributi da versare fossero stabiliti di comune accordo (378/77 a.C.); la


Odessus Odessus

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Ponto Eusino Eusino Ponto (Mar Nero) Nero) (Mar

Apollonia Apollonia

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Egemonia di Sparta (404-371 a.C.) Dominio diretto di Sparta Alleati e vassalli di Sparta Atene e il suo dominio

Tebe Città alleate contro

l’egemonia spartana

Confine della pace di Antalcida imposta dai Persiani (386 a.C.)

Egemonia tebana (370-361 a.C.)

Battaglie ee data data Battaglie

L’assetto geopolitico della regione ellenica e dell’Asia Minore nel periodo in cui maturarono gli eventi descritti nell’articolo.

della Macedonia Macedonia Ascesa della di Filippo II

Massima estensione dell’egemonia tebana

La Macedonia Macedonia all’avvento all’avvento La di Filippo Filippo IIII (360 (360 a.C.) a.C.) di

Lega marittima di Atene

Limite delle delle conquiste conquiste Limite macedoni (338 (338 a.C.) a.C.) macedoni

Nella pagina accanto: il monumento dedicato alla vittoria di Leuttra, antica città della Beozia, dove, nel 371 a.C. l’esercito tebano, guidato da Epaminonda, inflisse una dura sconfitta agli Spartani di re Cleombroto, mettendo fine all’egemonia di Sparta nel mondo greco.

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storia • storia dei greci/17

La potenza di eros e il «colpo mancino» Secondo Plutarco, il corpo d’élite La battaglia di Leuttra, 371 d.C. dell’esercito tebano era costituito Gli schieramenti da coppie di uomini innamorati Campo dei Tebani l’uno dell’altro, che perciò estremo371 valore La combattevano battaglia di con Leuttra, d.C. per non mettere a rischio la vita del Gli schieramenti Campo dei Tebani Tebani compagno o per non fare brutte figure ai suoi occhi. Platone afferma che a Tebe questo genere di Epaminonda rapporti erano addirittura «stabiliti Tebani per legge», e Plutarco spiega che avevano il fine di «rilassare e Spartani Epaminonda La battaglia dieLeuttra, addolcire l’istintività la rigidità 371 d.C. Gli natura schieramenti della dei giovani» in una Campo dei Tebani (Battaglione Sacro) Beozia notoriamente chiusa e Spartani Campo degli Spartani tradizionalista. Non a caso il termine «beota» era usato dagli (Battaglione Sacro) Cleombroto Tebani N Ateniesi, come da noi oggi, in un Campo degli Spartani senso dispregiativo. Il corpo Leuttra 0 1 Km speciale fu detto Battaglione Sacro Cleombroto Epaminonda N in quanto consacrato al dio Eros. Leuttra L’ordine obliquo, ideato da 0 1 Km Sulle due pagine: schema della Epaminonda, consisteva nel colpiti con vigore nella loro ala piú Spartani Movimenti battaglia di Leuttra. Le truppe tebane disporre a sinistra, anziché a forte a causa deliniziali netto furono schierate da Campo Epaminonda in destra, la parte piú forte delle sbilanciamento (Battaglione degli avversari. dei Tebani Sacro) formazione obliqua, con, sulla sinistra, truppe, distribuendole in profondità I Tebani, collocando inoltre a Movimenti iniziali Campo degli Spartani la falange del Battaglione Sacro, al con un numero maggiore di file del sinistra proprio il Battaglione Campo dei Tebani comando del generale Pelopida. consueto (fino a 50); i nemici, che si Sacro, contavano sull’effetto Cleombroto Nella pagina accanto: l’armamento di attendevano di avere di fronte uno sorpresa per sferrare un Ncolpo un oplita greco in un acquerello di schieramento specularmente «mancino» che poteva mandare Leuttra 0 epoca moderna. inverso al proprio, venivano cosí subito «al tappeto» il nemico. 1 Km

Movimenti iniziali Campo dei Tebani Campo degli Spartani Direzione dell’attacco

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lega era intesa espressamente in funzione antispartana. I Tebani, decisi a non rivivere l’ignominia di un’occupazione, avevano nel frattempo ristrutturato l’esercito, costituendo tra l’altro il famoso Battaglione Sacro: il quale inflisse una prima, sonora sconfitta agli Spartani a Tegira, in Beozia (375 a.C.). L’anno precedente, nelle acque dell’isola di Nasso, anche la ricostituita lega ateniese aveva affrontato la flotta spartana, affondandone circa la metà delle navi. L’Ellade, insomma, ribolliva di nuovo: le città principali, Tebe, Atene, Sparta, innescarono un gioco altalenante di alleanze e di scontri a cui si cercò di porre fine con una nuova pace, anch’essa voluta dal Gran Re, e che stavolta prendeva atto anche della rinascita di una tradizionale sfera di interessi ateniese.Tuttavia dal congresso che si tenne a tal fine a Sparta nel 371,Tebe si ritirò sdegnata, poiché non le era stato concesso di firmare l’accordo a nome di tutti i Beoti: in sostanza venivano respinte le sue pretese perfino a una egemonia su scala regionale. Sparta, decisa a porre fine una volta per tutte alle ambizioni tebane, inviò in Beozia un esercito peloponnesiaco di ben 10 000 uomini, tra

cui 700 Spartiati (quasi un terzo di tutti i «cittadini guerrieri» di cui la città si era ridotta a disporre), e, sotto la guida di uno dei due re, Cleombroto, affrontò le milizie avversarie nella pianaDirezione di Leuttra. Nell’occadell’attacco sione Epaminonda adottò sul campo il cosiddetto «ordine obliquo»: i Tebani, inaspettatamente, sbaragliarono gli avversari, che lasciarono a terra migliaia di vittime, tra cui lo stesso re (vedi box sulle due pagine).

Crolla il mito La battaglia di Leuttra (371 a.C.) mutò decisamente l’equilibrio delle forze nel mondo greco. Pose termine all’egemonia spartana e diede slancio all’ascesa di Tebe, che da quel momento divenne la nuova potenza egemone. Quella tebana fu invero una meteora (durò appena un decennio), ma provocò conseguenze durature. Sparta, infatti, non si riprese mai piú: pur mantenendo ancora per secoli il prestigio conferitole dal passato e una fiera indipendenza, il suo non fu che un lungo inarrestabile declino. E l’aura di invincibilità che aveva avvolto sino ad allora il suo esercito svaní, mettendo a nudo le fragili basi su cui poggiava: ciò accadde «in un colpo solo», come sottolineò Aristotele. Infatti, a partire da quello stesso anno, i Tebani passarono a piú riprese nel Peloponneso, fecero sollevare contro i Lacedemoni gli Arcadi e altri loro ex alleati; e, per la prima volta, invasero la Laconia, giungendo in vista della stessa Sparta, la città «priva di mura». Fu il segnale della riscossa anche per gli Iloti della Messenia, che riuscirono finalmente, dopo secoli, a liberarsi dai padroni. Essi fondarono ai piedi del monte Itome la nuova capitale di Messene. La stessa cosa fecero i popoli arcadi, che si riunirono in lega erigendo ex novo, tra il 371 e il 368 a.C., la capitale comune di Megalopoli, non lontana dai confini della Laconia. Per un decennio, le poleis elleniche continuarono a combattersi. Tebe non solo divenne padrona di gran parte della Grecia centrale, ma creò alleanze con molte città del Peloa r c h e o 91


storia • storia dei greci/17

La sorte, l’afrodite nuda e l’attimo fuggente A destra: rilievo in marmo con personificazione di Kairos, il dio greco dell’«occasione», raffigurato secondo la tipologia elaborata dallo scultore greco Lisippo, attivo nel IV secolo a.C. Frammento di un sarcofago romano del II sec. d.C. Torino, Museo di Antichità.

L’eccezionale mutevolezza e instabilità degli eventi del IV secolo certo favorí l’affermarsi in Grecia di divinità concettuali e razionali come la Tyche (Sorte), e il Kairos (Occasione), raffigurati rispettivamente come una donna assisa («Perché non sta in piedi!» spiegò Apelle che cosí la raffigurava), e un ragazzo calvo sulla nuca, alato, recante una bilancia in precario equilibrio su una lama (a indicare la difficoltà di cogliere «l’Attimo fuggente»). All’instabilità del reale si accompagnava la scoperta, nell’arte come nel pensiero, della pluralità e relatività dei punti di vista. A Prassitele si deve una statua di culto come l’Afrodite Cnidia (prima divinità femminile nuda della storia greca), concepita perché le sue grazie fossero ammirate «a 360 gradi» entro un’edicola circolare. A Lisippo va invece riferito l’Apoxyomenos (l’atleta «che si deterge»), strutturato secondo un canone di misure apparenti e non piú reali (testa piú piccola, proporzioni slanciate, ecc.). A sinistra: Afrodite Cnidia, copia romana in marmo di epoca imperiale da un originale greco di Prassitele del 364-363 a.C. Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino. Nella pagina accanto: lo schema della battaglia di Mantinea, nel Peloponneso, combattuta nel 362 a.C., che segnò la fine del breve periodo di predominio tebano in Grecia.


Sangue tra gli atleti In quel caos di guerre tra vicini, venne trasgredita perfino la «tregua sacra» che da sempre tutelava gli agoni sportivi panellenici del santuario di Olimpia. Cosí, tra gli sguardi allibiti e poi terrorizzati di pellegrini e spettatori, la 104° Olimpiade vide le competizioni interrotte da combattimenti furiosi tra Elei e Arcadi, che ebbero luogo in mezzo agli impianti atletici, ai templi, agli altari e alle statue degli dèi. Sempre nel corso delle sue spedizioni in Tessaglia, Pelopida, pur combattendo valorosamente, cadde ucciso. Fu perciò il collega Epaminonda a guidare i Tebani nella battaglia decisiva che aveva come posta in gioco la supremazia sull’Ellade, a cui presero parte da un lato gli Spartani e i loro alleati Achei, Elei e Ateniesi; dall’altro, i Tebani affiancati da Arcadi, Eubei, Locresi, Argivi, Messeni e Tessali. Nella piana di Mantinea, situata nel cuore del Peloponneso, tutti i contendenti si affrontarono in questa che potremmo definire la «battaglia delle poleis» (362 a.C.). Il risultato fu il peggiore che la Grecia potesse augurarsi. Entrambi gli schieramenti, come racconta Senofonte: «innalzarono il trofeo della vittoria, senza che nessuno potesse impedirlo all’altro; con una tregua entrambi

La battaglia di Mantinea

L’ultima vittoria di Epaminonda

Lega Beotica Tebe

Achei

Golfo di Corinto

Eleusi

Peloponneso

Atene

1 Epaminonda cerca di far cadere

ei

in una imboscata a Nemea i rinforzi ateniesi

El

ponneso per tenere a bada Sparta; inoltre si inserí nelle lotte dinastiche che, nel Nord della Grecia, intercorrevano tra i potentati della vicina Tessaglia, e spinse la sua influenza fino alla Macedonia. Su queste due regioni, considerate marginali della Grecità, Pelopida, nel corso di ripetute spedizioni, tentò di imporre una precaria pax Thebana, per garantire la quale si fece consegnare come ostaggi alcuni giovani principi reali macedoni (368 a.C.).Tra questi, un ragazzo di circa quattordici anni di nome Filippo: il futuro padre di Alessandro Magno. Infine, Tebe costruí una flotta di 100 triremi, per contrastare sui mari la rinascente potenza ateniese (364 a.C).

Golfo Saronico

Nemea Cleone Mantinea

Argo

4 Battaglia

di Mantinea (362 a.C.) Tegea

2 I Tebani e i loro alleati si concentrano nella città di Tegea

Golfo Argolico

Megalopoli

Mar Egeo

Mesenia

3 I Tebani vengono Sparta

Beoti

respinti di fronte alla città e si ritirano

Eserciti in campo

Rinforzi ateniesi Battaglia

restituirono i morti come vincitori e li ricevettero come vinti. Pur sostenendo tutti e due di aver conseguito la vittoria, nessuno di essi ebbe piú territorio, città o potere di prima della battaglia. In seguito, anzi, ci furono in Grecia piú confusione e disordine di prima». Epaminonda, ferito, perí al termine dello scontro; con lui scomparve l’unico statista ancora in grado di tener vivo l’ultimo tentativo egemonico attuato in Grecia da una polis, quello di Tebe.

L’ascesa MacedonE Mentre le città elleniche si combattevano senza costrutto tra loro, appena fuori dalla penisola altri eventi maturavano, altre forze si stavano

Beoti e alleati Beoti, Tegei, Meseni, Megalopoliti, Tessali, Locresi, Tessali di Alessandro ed Eubei Spartani e alleati Spartani, Mantinei, Ateniesi, Achei ed Elei

mobilitando. Nel 359 a.C. salí al trono di Macedonia Filippo, ormai maggiorenne. Dimostrandosi accorto, ma deciso, questo erede della dinastia degli Argeadi pose ben presto fine alle lotte per la successione, e si diede poi a rafforzare i domini del regno contro i potenti e minacciosi vicini (vedi box a p. 94, in basso). Anche al di là dell’Egeo, in Caria, un satrapo del Gran Re, Mausolo, manifestava grandi ambizioni (vedi box a p. 94, in alto). Pur mantenendosi sempre fedele ai Persiani, allora in crisi per una serie di gravi rivolte locali, da essi ebbe in cambio mano libera in Asia Minore, ove arrivò a dominare come un sovrano su Lidia, Licia e Ionia. Giunto inevitabilmente a contrasto sul mare con gli Atea r c h e o 93


storia • storia dei greci/17

la meraviglia di alicarnasso Se il nome di un singolo manufatto è rimasto fino a oggi per indicare una tipologia di edifici, vuol dire che esso ha interpretato e prefigurato svolte epocali. Fu questa la sorte del monumento funebre oggi pressoché scomparso fatto erigere da Mausolo ad Alicarnasso per sé e poi continuato dalla moglie Artemisia II, denominato Mausoleo. Considerato una delle Sette Meraviglie del mondo per l’originalità della concezione e per la bellezza delle decorazioni architettoniche, divenne il prototipo delle tombe monumentali erette ai sovrani, dei quali, in tal modo, si sottolineava la grandezza quasi sovrumana. Alla categoria appartengono i Mausolei di Augusto e di Adriano (Castel Sant’Angelo) a Roma.

niesi, soffiò con astuzia sul fuoco dei risentimenti che sempre covavano tra i loro alleati, sospettosi che la città egemone coltivasse come un tempo ambizioni imperialistiche, e li indusse alla ribellione. Questa guerra sociale (357-355 a.C.), vide in prima fila le tre grandi isole di Rodi, Chio e Cos, a cui si aggiunse la strategica Bisanzio: si risolse nella sconfitta di Atene e in un ridimensionamento della sua influenza. Nello stesso tempo, nel Settentrione dell’Egeo, Filippo si impadroniva della fondazione ateniese di Anfipoli (357 a.C.), mossa che gli diede accesso allo sfruttamento dei giacimenti auriferi del Pangeo. Atene comprese che l’ascesa del suo regno, basato su un numeroso e coeso esercito nazionale, ricco di foreste 94 a r c h e o

In alto: Il Mausoleo di Alicarnasso. Incisione da Sette Meraviglie del Mondo Antico di Ferdinand Knab (1834-1902). 1886. Collezione privata. Nella pagina accanto: statua in marmo di Alessandro Magno detta Alessandro Rondanini. Copia romana del I sec. d.C. da un originale greco di Eufranore del 338336 a.C. Monaco, Glyptothek.

i macedoni: barbari o greci? Collocata ai confini settentrionali della Penisola ellenica ed esposta, attraverso le vallate di fiumi come l’Axios e l’Aliakmonas, all’afflusso di popoli balcanici (Illiri, Traci e Peoni), la Macedonia costituí fin dall’antichità un crogiuolo etnico. Anche a causa delle odierne implicazioni politiche, il tasso di «grecità» degli antichi Macedoni è oggetto di una disputa inesauribile tra storici ed etnologi. Dai Greci stessi erano considerati semibarbari, sebbene i loro monarchi (Argeadi) si vantassero di essere successori di Ercole, attraverso un suo pronipote originario di Argo. Ma, in definitiva, contarono la volontà e gli sforzi costanti, da parte delle élite macedoni, di ellenizzarsi nella cultura, nelle arti, nello stile di vita: tendenza che trova espressione nei tumuli di Verghina (l’antica Aigai; vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 36-53) e nell’eccellenza artistica dei manufatti ivi ritrovati.


di legname utile per la costruzione di una flotta, e adesso dotato anche di ingenti risorse finanziarie, rischiava di smantellare la vitale via di comunicazione che collegava l’Attica agli Stretti e al Mar Nero. Iniziò cosí una lunga, sfibrante partita a scacchi tra il sovrano macedone e la democrazia ateniese, che, tra conflitti e tregue, portò alla graduale ingerenza della Macedonia negli affari interni della Grecia. Nel 356 a.C. a Pella, la nuova capitale macedone, era nel frattempo nato a Filippo il figlio Alessandro, destinato a imprimere una svolta decisiva alla vicende di tre continenti e alla storia del mondo antico.

Retori e politica Se re Filippo decise di affidare il suo erede, ormai tredicenne, ad Aristotele, affinché lo educasse (la cosa avvenne a Mieza, amena località della Macedonia, dove il principe e alcuni nobili coetanei trascorsero un «ritiro» educativo di un paio d’anni), fu perché nel IV secolo il prestigio raggiunto dalla cultura ellenica era altissimo. Questo stretto rapporto fiduciario tra un re e un filosofo

segna il culmine del processo di ellenizzazione della Macedonia, e prepara, attraverso le memorabili imprese di cui Alessandro si rese protagonista, quella di tutto l’Oriente e – attraverso la mediazione di Roma – dell’Occidente antico. Se la paideia era ambita dalle classi dirigenti dei popoli venuti a diretto contatto con l’Ellade, tuttavia i suoi contenuti e il suo indirizzo generale erano allo stesso tempo terra di contesa tra due categorie di educatori: filosofi e retori. Il grande rispetto che oggi accompagna la filosofia, e la diffidenza che invece avvolge la retorica, rivela che fu la prima a vincere e a imporre il proprio punto di vista, dopo una lotta durata alcuni secoli e che ebbe fine solo con l’avvento del cristianesimo, che inglobò la prima e condannò senza mezzi termini la seconda. Ma in quel IV secolo a.C. la concorrenza era ancora aperta, e alle scuole piú dottrinali dei filosofi si contrapponevano i corsi a pagamento dei retori, che non solo educarono molti dei politici del tempo, ma esercitarono spesso in prima persona un forte ruolo pubblico. Ad

Atene Demostene si proponeva come tenace alfiere della indipendenza e dell’autonomia della città contro le mire egemoniche di Filippo, visto come vero nemico dell’Ellade e della libertà. Le sue Filippiche, orazioni in cui denigrava l’avversario cercando di mobilitargli contro non solo gli Ateniesi, ma l’intero mondo greco, divennero poi nell’antichità il modello per tutti coloro che si opponevano a un tiranno. Ma altri retori, come l’ateniese Isocrate, mantennero decisamente la barra della propaganda politica contro il tradizionale nemico persiano. Erano sostenitori di un ideale di coesione panellenica basato sulla condivisione di una stessa cultura e di una stessa paideia, il cui centro spirituale rimaneva sí la fulgida Atene, ma la cui guida politica e militare poteva benissimo essere assunta dal nascente astro di Filippo: l’unica personalità, per i mezzi di cui disponeva e per la indiscussa base del suo potere, in grado di porre fine ai contrasti e alle divisioni tra le poleis e di unificarle in vista della vittoria definitiva contro il Barbaro. Per alcuni anni parve che ad avere la meglio fosse la linea particolaristica e antimacedone di Demostene, che riuscí a creare un’alleanza tra Atene e Tebe al fine di sbarrare a Filippo l’accesso alla Grecia centrale. Ma nello scontro decisivo di Cheronea, in Beozia, la compatta falange macedone e la cavalleria guidata da un giovanissimo Alessandro sbaragliarono le schiere degli opliti cittadini, nonostante il Battaglione Sacro si fosse fatto interamente massacrare sul posto pur di non arretrare (338 a.C.). L’anno, dopo a Corinto, in un congresso panellenico, al quale mancò solo la diffidente e retriva Sparta, Filippo si fece nominare «egemone» di tutti i Greci, in vista dell’assalto decisivo che stava ormai preparando contro la Persia. (17 – continua) nella prossima puntata • Alessandro e l’impero persiano a r c h e o 95


archeotecnologia • porte automatiche

il «miracolo» di erone

al piú valente fra gli ingegneri attivi nel Museo di alessandria va attribuita l’invenzione di un congegno capace di spalancare le porte del tempio di serapide. un comando a distanza ante litteram, che funzionava a... fuoco e acqua di Flavio Russo

L

a parola «taumaturgo», dal greco composto di thauma, «miracolo», e dalla radice erghein, «fare», se letteralmente tradotta, definisce un fabbricante di miracoli, un «illusionista» capace di produrre fenomeni apparentemente soprannaturali. Proprio per la supposta capacità di operare guarigioni miracolose da malattie inguaribili, in particolare dalla scrofola, furono chiamati «taumaturghi» i sovrani francesi e inglesi tra il IX e il XVIII secolo. In età ellenistica, invece, ebbero questo nome progettisti e costruttori di macchine automatiche, automata, che, compiendo azioni che esulavano dalle coeve esperienze meccaniche, sembravano realizzare veri e propri miracoli. A differenza degli illusionisti, però, siffatti portenti non scaturivano da un volgare trucco, ma da complesse sequenze meccaniche, che rievocavano comportamenti fino ad allora precipui dell’uomo. Per noi, chi progetta e costruisce macchine,

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In alto: la colonna fatta erigere da Diocleziano presso il tempio di Serapide ad Alessandria. A sinistra: l’ara di Erone, meccanismo capace di aprire e chiudere automaticamente le porte di un tempio. Xilografia dall’edizione del 1589 della Pneumatica di Erone di Alessandria, trattato del I sec. d.C. Le lettere indicano: A. lato sinistro del vano per il congegno alla quota del sagrato del tempio; B. lato destro; C. lato sinistro della base del vano; D. lato destro della base; E. ara cava; F. tubo di comunicazione interno dell’ara e serbatoio dell’acqua; G. foro di passaggio del tubo sulla base dell’ara; H. manicotto del serbatoio dell’acqua; K. serbatoio dell’acqua; L. contrappeso.

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archeotecnologia • porte automatiche

congegni e ingegni, è definito «ingegnere» e tali devono essere considerati i docenti del Museo di Alessandria, la massima istituzione scientifica dell’antichità. Fra tutti, ebbe un ruolo preminente Erone, sebbene alcune sue macchine fossero semplici migliorie di meccanismi da tempo esistenti e ben noti. Una meticolosa ricerca, infatti, ha evidenziato che tra i congegni esposti nella sua Pneumatica, 44 erano già stati descritti da Filone, ripresi poi

da Ctesibio, 8 fornivano soluzioni alternative e soltanto 23 possono reputarsi del tutto nuovi. Il piú originale e, per noi, privo di qualsiasi analogia precedente e anche successiva è l’eolipila, il primo motore termico a combustione esterna, posto in rotazione dalla reazione alla violenta espansione del vapore.

gliata descrizione lasciataci, e fortunosamente pervenutaci, di una delle sue piú stupefacenti invenzioni: il meccanismo ideato per aprire in modo automatico le porte di un sacello, poco dopo l’accensione sull’antistante ara di un fuoco sacrificale, e per farle poi richiudere all’estinguersi delle fiamme. Un congegno, per inciso, che anticipa di venti secoli gli attuatori radiocoun genio multiforme Il riscontro della multiforme genia- mandati che ci spalancano cancelli lità di Erone si coglie nella detta- e porte, e che forse neppure allora

il fuoco scalda l’aria... Ricostruzione grafica del gruppo motore nell’ara di Erone, per l’apertura del portone.

Le fiamme accese sull’ara servivano alla combustione delle vittime sacrificali: alimentate inizialmente da legna o carbone e poi anche dal grasso delle stesse, si devono immaginare di non breve durata.

La base su cui avveniva la combustione non poteva essere di marmo, isolante termico, ma quasi certamente di rame. Una sorta di scatola chiusa, un polmone incastrato nell’ara, che, riscaldandosi rapidamente, faceva aumentare la temperatura dell’aria contenuta al suo interno.

Un manicotto metallico collegava il polmone con un serbatoio d’acqua, entrambi a tenuta ermetica. Questo era collegato, con un secondo tubo a sifone, a un serbatoio mobile in cui l’aria calda, dilatandosi, vi travasava l’acqua.

Il serbatoio mobile, una sorta di secchio sospeso a una catena, ricevendo l’acqua, aumentava di peso e, vincendo cosí la resistenza dei cardini dei battenti e del relativo contrappeso, ne provocava la rotazione.

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...e la magia si compie Ricostruzione grafica dell’attuatore per l’apertura e chiusura dei battenti del portone. I montanti dei battenti delle porte, attraversati i cardini ad anello, erano fissati a due grosse pulegge, poste sotto la soglia, alle quali erano avvinte due catene che da una estremità si andavano a unire a quella del serbatoio mobile. Dall’altra estremità le catene delle pulegge erano vincolate a un contrappeso, che si abbassava in un apposito pozzetto, chiuso in superficie da una lastra di pietra analoga alla pavimentazione.

Titolo per disegni tecno

Le pulegge, azionate dalla catena messa in movimento dalla discesa del serbatoio mobile, spalancavano i battenti. Risalendo, il contrappeso prevaleva e, tirando la catena al contrario, li chiudeva.

fu un’assoluta novità! Lo scienziato, infatti, concludeva la relazione esplicativa affermando che altri tecnici: «al posto dell’acqua usano il mercurio perché piú pesante e di migliore reazione al calore». Una precisazione che testimonia non solo l’esistenza di congegni analoghi, ma anche la consapevolezza motivata circa la loro migliore efficienza, anche se di certo, aggiungiamo noi, essi dovevano essere molto piú costosi. Una tecnologia dunque piú antica che, come si deduce dalle altre sue proposizioni, rimonta all’età ellenistica e a Ctesi-

bio, in particolare. Quanto al congegno in questione, sebbene Erone sembri reputarlo idoneo esclusivamente per un naiskos, cioè un tempietto chiuso da una leggera porta a due ante e con un’antistante ara sacrificale, lo si è attribuito da sempre al tempio di Serapide di Alessandria, che, stando alle narrazioni piú o meno coeve, non era affatto tale.

role possono solamente sminuirlo, è talmente ornato di grandi sale colonnate, di statue che sembrano vive e tanta moltitudine di altre opere, che niente altro, eccetto il Campidoglio, simbolo dell’eternità della venerabile Roma, può essere considerato piú fastoso al mondo» (Res Gestae XXII, 16). Nulla però aggiunge circa le porte automatiche di Erone, che, qualora esistenti, non sarebbero di certo una meraviglia passate inosservate, per cui o si eraindescrivibile Ammiano Marcellino, per esempio, no nel frattempo irreparabilmente cosí lo descriveva: «Il Serapeo, il cui guastate ed erano state perciò risplendore è tale che le semplici pa- mosse, o, in realtà, non erano mai a r c h e o 99


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state montate in quel tempio, serrato peraltro da pesanti battenti di bronzo. In conclusione, sembrerebbe trattarsi di un progetto con tanto di modello in scala perfettamente funzionante, forse un potenziamento di congegni minori, magari a mercurio, installati su altri edifici. In ogni caso resta intatta la notevole rilevanza della concezione, l’unica conosciuta, di macchina termica automatica a ciclo reversibile. Il congegno è descritto nella Incisione a colori del XIX sec. raffigurante l’eolipila, il primo motore termico a combustione esterna inventato da Erone di Alessandria.

XXXVIII proposizione della Pneumatica, tradotta dal greco in latino col titolo di Heronis Alexandrini Spiritalium liber da Federico Commandino nel 1575. A corredo del testo, vi è una chiara illustrazione, da reputarsi, piuttosto che un’attendibile raffigurazione, uno schema meccanico e, come tale, riproposto nel tempo senza modifiche, come per esempio nell’edizione del 1680 di Joan Battista Aleotti intitolata Spiritalia. L’ara non ebbe nell’antichità una dimensione prestabilita e univoca,

ma fu costruita secondo un ampio repertorio e due sole caratteristiche: alta per le divinità celesti, bassa per tutte le altre. Poiché Serapide era una divinità celeste per antonomasia, l’ara in questione si deve presumere di discreta altezza, connotazione propizia all’installazione del congegno di cui, in base a considerazioni discordanti dal suddetto schema rinascimentale, è logico supporre che fossero collocati proprio in essa la caldaia e il motore. Ciò premesso, la descrizione di Erone illustra i componenti del suo progetto che, in base all’odierna meccanica, possono raggrupparsi in un gruppo motore, posto nell’ara, e in un attuatore applicato ai cardini dei battenti. Riguardo al primo, interpretato in molti testi come un’antesignana macchina a vapore, va ridotto, invece, a un dispositivo che, sfruttando la dilatazione dell’aria calda, travasa mediante un sifone l’acqua contenuta in un serbatoio fisso in uno mobile e viceversa, al termine del ciclo. Banalizzandolo, un congegno affine allo sciacquone del water, eccezion fatta per l’irreversibilità del secondo.

Il secchio che sale e scende In pratica nel piano superiore dell’ara stava incastrata un’ampia scatola ermetica, forse di rame, che comunicava mediante un breve tubo con un serbatoio sferico sottostante, in parte colmo d’acqua. Un secondo tubo, a U rovesciata, come un sifone, collegava il suo interno con quello del serbatoio mobile, una sorta di secchio sospeso con una catena. Acceso il fuoco sacrificale sull’ara, l’aria dentro la scatola si dilatava spingendo, attraverso il tubo, l’acqua contenuta nella sfera che, rimontando il sifone, si riversava quasi interamente nel secchio. Il secchio cosí appesantito dall’acqua prevaleva sul contrappeso a cui era avvinto e, scendendo, lo costringeva a salire. Spentosi il fuoco, l’aria nella scatola e nella sfera si raffreddava e, contraendosi, aspirava sempre attraverso il sifone, l’acqua dal secchio. Tornato 100 a r c h e o


piú leggero del contrappeso il secchio saliva, recuperando la posizione iniziale, mentre il secondo scendeva. Una serie di pulegge e di catene rendeva solidale al saliscendi del contrappeso la rotazione dei battenti, facendoli aprire durante l’ascesa e chiudere nella discesa. Il congegno era azionato dall’energia termica, prodotta dal fuoco sull’ara e recuperata da una scatola di lamiera affiorante sulla sua superficie, chiusa ermeticamente e unita con un tubo alla sfera. Tenendo conto delle dimensioni medie delle are, la si può supporre di circa 100 x 40 x 15 cm, ovvero di una sessantina di litri. Ciò premesso, il dimensionamento del congegno parte dalla stima della forza necessaria per far girare un battente: reputandola di 10 kg, per la coppia di un portone ne sarebbero occorsi 20 kg, per cui, considerando gli attriti, il contrappeso che li chiudeva doveva pesare almeno 25 kg. Per aprirli, però, occorreva vincere sia la loro resistenza che quella del contrappeso, ovvero sollevare 45 kg, lavoro delegato alla discesa del secchio. Zavorrando quest’ultimo con 45 kg di pani di piombo, il sistema era in equilibrio, per cui bastava fornire una minima preponderanza al contrappeso per mantenere serrati i battenti e versare un po’ d’acqua nel secchio per vederlo scendere aprendo i battenti. In pratica appena una decina di litri d’acqua travasati dalla sfera! Una sfera di 30 cm di diametro contiene 14,5 l, cioè una quantità congrua a tale esigenza. Discreta doveva essere la sezione del tubo di raccordo con l’interno della scatola, lasciandone la bocca inferiore sopra il livello dell’acqua, come precisava Erone. Modesta, invece, la sezione del sifone fatto penetrare nella sfera e nel secchio per una ventina di centimetri, in modo da trovarsi sempre immerso nell’acqua, sia nel

Busto di Serapide, copia romana, da un originale scolpito intorno al 320-310 a.C. da Briasside per il Serapeo di Alessandria. II sec. d.C. Città del Vaticano, Museo Pio-Clementino.

primo travaso, dalla sfera, che nel secondo, dal secchio.

aria calda, aria fredda... Venendo al funzionamento concreto, acceso il fuoco sopra la scatola, l’aria al suo interno, riscaldandosi notevolmente, si dilatava, e il conseguente aumento di pressione, tramite il tubo di raccordo, si comunicava all’interno della sfera, costringendo l’acqua a uscire dal sifone, riversandosi nel secchio. Esaurito il travaso, la bocca del sifone dentro la sfera restava all’asciutto, mentre il secchio, ormai pieno, vincendo la resistenza, scendeva, e tramite la catena faceva

alzare il contrappeso e ruotare i battenti. «Miracolosamente», perciò, la porta si spalancava, rimanendo aperta finché l’acqua restava nel secchio, ovvero finché bruciava il fuoco sull’ara. Spentesi le fiamme, l’aria si raffreddava e contraeva, aspirando l’acqua dal secchio, e, facendola tornare nella sfera, alleggeriva il secchio, provocandone la risalita e la simmetrica discesa del contrappeso, con la conseguente chiusura dei battenti. Il congegno tornava pertanto alla configurazione iniziale, pronto per un nuovo ciclo. Ma di quanto sarebbe dovuto scendere e poi salire il serbatoio? Anche in questo caso occorre partire dai battenti. Per ridurre lo sforzo del rispettivo cardine, si deve immaginare sotto la sua flangia, del tipo di quelle rinvenute a Pompei, una puleggia di almeno 40 cm di diametro, con una catena vincolata nella gola, le cui due opposte estremità erano solidali rispettivamente al contrappeso e al secchio. Dovendo ogni battente ruotare di 90°, appena 30 cm per il bordo della puleggia, per ovvia conseguenza identica sarebbe risultata l’escursione della catena, identica a sua volta alla corsa del secchio, che, per non disinnescare il sifone, doveva avere all’interno non meno di 30 cm d’acqua. Ora per un volume di 10 l, che lato deve avere un serbatoio quadrato riempito per 30 cm? Il calcolo é facile: circa 18 cm, 20 se si voleva lasciare un bordo asciutto: in pratica una spanna! A questo punto l’apriporta di Erone funziona perfettamente e reversibilmente a spese dell’energia termica del fuoco sull’ara. Va infine osservato che, nel caso dell’impiego del mercurio, il quantitativo necessario sarebbe stato appena di un litro, consentendo di utilizzare perciò una sfera e un secchio molto piú piccoli, e tempi di attivazioni molto piú brevi. a r c h e o 101


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

l’enigma delle terme perdute A che cosa allude l’anonimo autore dell’itinerario di einsiedeln quando menziona una «chiocciola spezzata», da lui avvistata nei pressi della via appia?

I

paesaggi urbani sono il prodotto delle trasformazioni operate dal tempo e dagli uomini, e Roma, da questo punto di vista, è un palcoscenico senza pari. La ricostruzione dei suoi paesaggi si basa sui documenti piú diversi e le cose si complicano nei secoli in cui le fonti si diradano. In particolare, per l’Alto Medioevo, occorre affidarsi a ben poche testimonianze, spesso incerte, talora ambigue, se non fantasiose. È il caso del cosiddetto Itinerario di Einsiedeln, una raccolta di percorsi attraverso la città attribuita a un anonimo visitatore della fine dell’VIII secolo. Per il tratto urbano della via Appia, l’autore, partendo dalla porta di S. Sebastiano, elenca i principali monumenti visibili, percorrendo la via in direzione del centro della città, sia sulla destra che sulla sinistra del viandante.

Tra questi ultimi compare la coclea fracta (letteralmente, chiocciola spezzata), un ignoto edificio che ha costituito per decenni un vero e proprio «indovinello» (la definizione fu di Rodolfo Lanciani) per gli studiosi della topografia di Roma.

rovine imponenti Questa indefinibile coclea fracta risulta compresa tra la Forma Iobia (si tratta, forse, del cosiddetto arco di Druso) e l’Arcus Recordationis, un ignoto monumento che sorgeva non lontano dalle Thermae Antoninianae (o terme di Caracalla). L’edificio doveva quindi avere una certa monumentalità, che ne faceva un elemento di spicco nel paesaggio di quella parte di città che nell’VIII secolo doveva essere ormai in abbandono: il viandante non avrebbe dunque potuto ignorarlo. Rodolfo Lanciani pensava che la

Roma. Il bivio tra via di Porta S. Sebastiano, a destra, e via di Porta Latina, a sinistra; sulla destra, la facciata di S. Cesareo. Incisione di Carlo Labruzzi per la raccolta La via Appia da Roma a Capua illustrata.

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coclea fracta potesse essere ciò che restava di «un mausoleo di bizzarra architettura», da lui collocato con tanto di punto interrogativo accanto alla odierna chiesa di S. Cesareo, dunque circa a metà strada tra le Mura Aureliane e le grandiose terme di Caracalla. Christian Huelsen pensò, invece, che fosse un rudere pertinente a un antico impianto termale: sappiamo infatti che in quei paraggi sorgevano sia le terme di Commodo che quelle di Settimio Severo, entrambe scomparse, quasi inghiottite nel paesaggio della città medievale. Una giovane archeologa, Giulia De Palma, ha ripreso in esame la questione, interrogandosi sul significato della parola coclea: un termine che in latino significa, innanzitutto, chiocciola. Coclea significa, però, anche «spirale»: una forma presente

Fine del XVIII sec. Roma, Biblioteca Romana Sarti. In quest’area sorgeva la «coclea fracta», citata nell’Itinerario di Einsiedeln, forse identificabile con i resti di una torre legata a un edificio termale di età antonina.


in vari strumenti e macchinari, anche nelle terme (per esempio per il sollevamento dell’acqua). Ma significa anche «scala a chiocciola» e, a guardar bene, non è raro trovare questo tipo edilizio negli edifici romani di una certa mole, perfino all’interno delle celebri colonne marmoree di Traiano e di Marco Aurelio, chiamate appunto «coclidi». Incontriamo scale a chiocciola all’interno di strutture circolari o quadrate, oppure nascoste nello spessore dei muri, come quella ancora presente in una grande esedra delle terme di Caracalla o in quelle di Diocleziano o nella basilica di Massenzio. Nei grandi edifici le cocleae avevano, infatti, una funzione di servizio per il personale addetto alla gestione degli impianti, permettendo rapidi spostamenti dalle cantine ai tetti. Nel Medioevo la coclea indica anche la torre in cui si sale per mezzo di una scala circolare, tanto che l’indovinello sembra cominciare a sciogliersi: la coclea fracta ricordata nell’Itinerario di Einsiedeln potrebbe essere il rudere imponente di un antico alto edificio, all’interno del quale si poteva ancora distinguere quanto restava di una grande scala a chiocciola, oggetto di sicura ammirazione per gli occhi di un visitatore del tempo di Carlo Magno. A questo punto la denominazione attribuita in età medievale alla chiesa di S. Cesareo, detta «in Turrim», diventa un elemento in piú per ritenere che l’alta scala a chiocciola in rovina sorgesse proprio nelle vicinanze della chiesa attuale, nel luogo in cui Lanciani – pensando a tutt’altro – l’aveva pur sempre collocata.

un indizio prezioso Ecco che allora prende tutt’altro rilievo il fatto che, come pochi sanno, sotto la chiesa di S. Cesareo sarebbero ancora oggi ammirabili (se fosse permesso l’accesso) due grandi aule con uno splendido pavimento in mosaico a soggetto marino (si riconosce Nettuno su un

Roma, terme di Caracalla. I resti di una scala a chiocciola, realizzata in una delle grandi esedre del complesso.

carro trainato da cavalli e circondato da un corteo di Nereidi), che è stato riferito a un possibile e piú vasto edificio termale risalente all’età antonina. A questo punto la notizia che poneva da qualche parte in quei paraggi le perdute terme Commodiane acquista una nuova concretezza. Lo studio di Giulia de Palma non può spingersi piú in là. Ma tutto lascia pensare ormai che, negli anni in cui l’anonimo viaggiatore componeva il suo Itinerario, i ruderi monumentali del grande complesso termale fossero ancora ben visibili agli occhi del passante e che, tra le strutture emergenti, la scala a chiocciola riconoscibile nello squarcio delle pareti antiche, per la sua forma inusitata, attirasse

ancora lo sguardo in un paesaggio in cui ben poco di monumentale restava ormai in piedi tra le necropoli d’un tempo. Gli anni successivi avrebbero portato ancora abbandono, distruzioni e crolli. Le terme antiche da tempo deserte saranno state smantellate un po’ alla volta per il recupero dei materiali e anche l’alto rudere della coclea fracta sarà finito al suolo, disperso dalle arature e fra i filari delle vigne. A volte, solo la comprensione del senso di una parola permette di dipingere – come in un quadro – un paesaggio perduto, che ha in sé l’immagine fantasiosa di un sogno e quella realistica di una fotografia: l’archeologia dei paesaggi urbani ha bisogno dell’una e dell’altra.

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

e venne il tempo dei fornai

l’introduzione delle mole per la farina rivoluzionò la dieta dei romani, sulle cui mense fece la sua comparsa il pane. che, però, quale che fosse la sua qualità, fu sempre – e inesorabilmente – duro...

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l pane dei Romani è ampiamente documentato, oltreché dalle fonti letterarie, da affreschi e bassorilievi che ne rappresentano le fasi di preparazione e la vendita, e perfino dalle pagnotte carbonizzate trovate tra le rovine di Pompei. Nelle sue varie forme se non soppiantò del tutto la «polenta» (vedi «Archeo» n. 329, luglio 2012), ne divenne presto una valida alternativa.Tanto piú che l’introduzione della mola – la grande macina di pietra mossa a braccia o azionata da asini e cavalli (e, nelle grandi fattorie, anche ad acqua) – e quindi del mulino, agevolò e raffinò la macinazione, mentre i progressi nelle tecniche di setacciatura consentirono di differenziare le qualità della farina. Ciò, nonostante la ferma opposizione dei tradizionalisti – come Catone – che non vedevano di buon occhio il pane, ritenendolo, come altri generi d’importazione, fautore di decadimento dei costumi ancestrali. Ma è appena il caso di osservare, al contrario, come piú tardi, con la

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nota espressione panem et circenses (Giovenale X, 81), esso finisse col diventare emblematicamente allusivo, insieme ai «giochi» del circo, delle imprescindibili esigenze primarie della plebe romana. A Pompei, del resto, in uno dei tanti «manifesti» elettorali dipinti sui muri delle strade piú frequentate, il candidato all’edilità, Caio Giulio Polibio, è indicato dai suoi sostenitori, come «quello che dà il pane La cottura del pane in forno (a destra) e la presentazione dei pani ai magistrati della Repubblica (in alto). Copia dei rilievi dal sepolcro del fornaio Marco Virgilio Eurisace, presso Porta Maggiore, a Roma. 30 a.C. circa. Roma, Museo della Civiltà Romana.


buono» (panem bonum fert), probabilmente come titolare di un’impresa di panificazione (una «benemerenza» che dovette dare successo al candidato, visto che poco tempo dopo egli ritorna come aspirante alla carica, successiva, di duoviro). In linea generale, il pane romano – raramente mangiato fresco – era caratterizzato da una durezza, divenuta proverbiale. E questo sia per la qualità scadente della farina (che assorbiva meno acqua del necessario), sia per la scarsa qualità del lievito impiegato, preparato una volta l’anno, al tempo della vendemmia, con mosto d’uva nel quale si lasciava fermentare un po’ di pasta. Proprio per la sua durezza,

di solito si consumava bagnato, con olio o vino oppure intinto in salse e minestre. Esistevano, tuttavia, numerose varietà di pane, a seconda delle differenti farine impiegate, degli impasti e dei metodi di cottura.

differenze... di classe Con farina di qualità superiore (siliga) si produceva il panis siligineus. A seconda del modo con cui la farina veniva setacciata, si avevano panis cibarius, secundarius, plebeius, rusticus. Ma c’era anche il panis militaris o castrensis, riservato ai soldati, e il panis nauticus, per i marinai, entrambi in forma di «gallette» che si conservavano a lungo. E anche il

panis autopyrus, integrale, e perfino il panis furfureus, destinato... ai cani! Un tipo piú morbido, ma poco diffuso, era infine il panis parthicus, detto anche aquaticus, in quanto spugnoso e in grado di assorbire una quantità d’acqua maggiore del solito. Tra i diversi tipi d’impasto, quelli in uso nelle zone rurali includevano leguminose, ghiande, castagne e altri elementi «poveri», mentre quelli in uso nelle zone urbane, piú raffinati e costosi, erano a base di spezie, latte, uova, miele, olio. Un pane di lusso era l’artolaganus, con miele, vino, latte, olio, pepe e canditi. Per quel che concerne i metodi di cottura, essi variavano dando

Il libum di Catone Cosí scrive Catone nel De agri cultura (LXXV): «Farai così il libum. Sciogli bene in un mortaio due libbre di formaggio. Quando lo avrai reso del tutto liscio impasta bene col formaggio una libbra di farina o, se lo vuoi più leggero, mezza libbra. Aggiungi un uovo e di nuovo impasta tutto attentamente. Forma la pagnotta, ponila sopra un letto di foglie e falla cuocere lentamente in un forno caldo». Secondo Ateneo questa ricetta che ci viene data da Catone il Censore è l’unica preparazione veramente romana. Bisogna dire che è squisita. • Ricotta gr 400, • Farina gr 100, • Uovo 1 • Sale 1 pizzico Catone prescriveva di cuocere una pagnotta unica, ma oggigiorno è molto più pratico farne piccole focaccine, che, oltre a servire come pane, possono anche esser servite bollenti con gli aperitivi. Quindi conviene farne panini di 4 cm di diametro. Dato che essi poi gonfieranno in forno, è bene ricordarsi di metterli un po’ distanti l’uno dall’altro. L’impasto che si consiglia di usare risulta molto morbido e tende ad appiccicarsi alle mani. Se però si fanno rotolare i cucchiaini di preparato in un po’ di farina, lavorarli diventa molto più semplice. Si fanno così una serie di palline che poi si appiattiscono leggermente e si pongono ognuna su una foglia di alloro unta di olio. Poi, dopo averle allineate su una piastra anch’essa oliata, si mettono in forno a 180° di calore per 25 minuti.

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A sinistra: riproduzione di un affresco raffigurante il fornaio, da Le case ed i monumenti di Pompei di Fausto e Felice Niccolini. 1854-1896. Parigi, Bibliothèque des Arts dÊcoratifs. A destra: la macinazione del grano, copia dei rilievi dal sepolcro del fornaio Eurisace. 30 a.C. circa. Roma, Museo della Civiltà Romana. La mola era azionata a mano, attraverso un braccio di legno, da due schiavi o da asini e cavalli. In basso: disegno ricostruttivo di un pistrinum (panetteria) di Ercolano, in cui avveniva anche la macinazione del grano.

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origine al panis furnaceus, cotto al forno, all’artopticus, cotto in casa sotto una «campana», al subcinerinus o fucacius, cotto sotto la cenere, e al clibanicus, che era piuttosto una focaccia, cotta sulla parete esterna di un vaso arroventato. Quanto alle forme, esistevano pani di forma allungata e pagnotte rotonde, con incisioni a croce per favorirne la divisione in quattro parti (o quadrae), da cui la denominazione di panis quadratus. Man mano che le tecniche di macinatura e setacciatura della farina e di preparazione e cottura della pasta s’andavano complicando, la produzione del pane si trasferí dall’ambito familiare a quello «industriale», a opera di artigiani specializzati che cominciarono a operare, secondo Plinio (N.H. XVIII, 107), a partire dal 174 a.C. A indicarli venne usato il nome di pistores (al singolare pistor) che in origine veniva dato ai servi adibiti alla triturazione, nel mortaio domestico, dei grani di farro, e che può essere tradotto, letteralmente, «pestatori» o

«macinatori» (dal verbo pistare che, oltre a pigiare e battere, significava anche macinare, triturare, ridurre in polvere). Pistura fu detta, per conseguenza, la macinazione del grano e pistrinum o pistrina il mulino e la panetteria. Persino Giove ebbe, tra i tanti (ma con palese anacronismo!), l’appellativo di Pistor, in ricordo della leggenda secondo la quale avrebbe ispirato ai Romani, assediati in Campidoglio dai Galli, l’idea di gettare pane agli assedianti per fingere di averne in abbondanza.

uniti in corporazioni I pistores furono in origine principalmente liberti o cittadini di bassa condizione sociale, ma, in seguito, ottennero dalla pubblica amministrazione privilegi e immunità e perfino un contributo dallo Stato per avviare la loro attività. Ebbero una propria festa annuale, il 9 di giugno, giorno dei Vestalia, come attesta Ovidio (Fasti, VI, 311 e segg.) che scrive di «pani appesi ad asinelli inghirlandati», per l’occasione, e di «serti di fiori che coprono le scabre pietre delle

macine». Finalmente, come altre categorie di artigiani, si organizzarono in una una propria corporazione, il collegium pistorum, giungendo a stipulare proficui contratti di fornitura del pane alle autorità per le periodiche distribuzioni gratuite al popolo. Un fornaio, in fin dei conti, poteva anche fare fortuna, come accadde, per esempio, al liberto Marco Virgilio Eurisace, il cui sepolcro, subito fuori Porta Maggiore (databile attorno al 30 a.C.), «racconta», nei rilievi ben conservati del fregio, le fasi della panificazione, dalla pesatura del grano, in una grande bilancia, alla macinatura e setacciatura della farina, dalla preparazione della pasta, in un grande recipiente cilindrico (a cui si allude con una serie di elementi, pure cilindrici, disposti verticalmente attorno alla parte superiore del manufatto), alla confezione dei pani e alla loro cottura nel forno: un monumento singolare per celebrare una delle professioni piú popolari e... redditizie. (2 – fine)

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divi e donne Francesca Cenerini

vincoli di sangue e trame di potere

anche giulia minore – come già era accaduto a sua madre, giulia maggiore –, morí lontano da quella roma dove, per anni, aveva vissuto a strettissimo contatto con la «sala di comando» dell’impero

G

iulia Minore, figlia di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia Maggiore, quest’ultima unica figlia naturale di Augusto, aveva sposato, nel 4 a.C., Lucio Emilio Paolo, nipote di Scribonia (la madre di Giulia Maggiore), attraverso la madre Cornelia, la figlia che la seconda moglie di Augusto aveva avuto da un precedente marito, Publio Cornelio (Scipione?). La loro figlia, Emilia Lepida, sposò Marco Giunio Silano Torquato, appartenente a una gens di ascendenza nobilissima, la cui acquisita parentela con la famiglia imperiale rendeva teoricamente capax imperii, provocandone la falcidie progressiva, fino all’età neroniana. A partire da Augusto, infatti, il nuovo potere imperiale si era trovato nella necessità di avere un erede che appartenesse biologicamente alla famiglia. La tragica vicenda di Giulia Maggiore (che abbiamo trattato il mese scorso; vedi «Archeo» n. 329, luglio 2012), è sufficientemente

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emblematica di tutte le difficoltà e ambiguità del passaggio tra vecchie e nuove forme di potere, tra le istituzioni e il sangue carismatico di Augusto che circolava nelle vene dei suoi discendenti naturali, ultimi, appunto, i poveri Giuni Silani, che furono eliminati, come già accennato, da Nerone, anch’egli discendente, per parte della madre Agrippina Minore, da Augusto.

nozze e adozioni La domus Augusta diventa quindi una sorta di «circolo chiuso», nel quale, in cronica carenza di eredi maschi, si entrava grazie al matrimonio con una «principessa di sangue reale», tale da legittimare la trasmissione e la discendenza del potere. L’uso del matrimonio e dell’adozione per allargare la domus Augusta continuò per tutto il II secolo, fino ai complicatissimi intrecci della famiglia antonina, dove la cosiddetta «adozione del migliore» come successore da

parte dell’imperatore nascondeva, in realtà, il prevalere, anche economico, di un ramo della famiglia imperiale su un altro. Anche Giulia Minore fu accusata di adulterio e condannata a essere esiliata ad insulam, come la madre, in quanto anche lei fu esponente di spicco di quella parte della corte divenuta antagonista non piú tanto di Augusto, quanto del suo successore designato Tiberio, figlio del già da tempo defunto nobilissimo Tiberio Claudio Nerone e di Livia, terza moglie dell’imperatore. Infatti, a distanza di due anni l’uno dall’altro erano morti Lucio e Caio Cesari (figli naturali di Agrippa e di Giulia Maggiore, adottati poco tempo dopo la loro nascita dal nonno Augusto e avviati alla sua successione): la loro prematura scomparsa, avvenuta rispettivamente nel 2 e nel 4 d.C., aprí la successione al figlio di primo letto di Livia: Tiberio. Ancora una volta fu l’elemento femminile a garantire, per cosí dire, la trasmissione del carisma di Augusto. Questa necessità è immediatamente esemplificata da un atto giuridico: all’indomani della morte di Augusto, nel 14 d.C., Livia venne adottata per via testamentaria dal defunto marito Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto e assunse il nome di Giulia Augusta, entrando a far parte a tutti gli effetti dell’illustre famiglia. Cosí, attraverso la madre Livia, anche Tiberio si collegava direttamente alla gens Iulia e la sua successione ad Augusto ne venne legittimata, come attestano In alto: restituzione grafica delle scene sul lato B del Vaso Portland: gli ultimi tre personaggi sulla destra (corrispondenti a quelli della foto alla pagina seguente) potrebbero essere identificati con Tiberio, Giulia Maggiore e Livia.


In basso: vaso in vetrocammeo, detto Portland perché appartenuto alla collezione degli omonimi duchi. 5-25 d.C. circa Londra, British Museum. Le figure sono state variamente interpretate, ma è assai probabile che, seppur ispirate a personaggi della mitologia greca, alludano a membri della casa giulio-claudia.

numerosi documenti ufficiali. Nell’ 8 d.C., Giulia Minore e il marito Lucio Emilio Paolo furono condannati. Contestualmente, ad Agrippa Postumo, l’ultimo figlio di Agrippa e di Giulia Maggiore e quindi l’ultimo erede maschio diretto dei Giulii, venne revocata l’adozione già concessagli da Augusto e il giovane principe fu esiliato a Sorrento: siamo di fronte, evidentemente, a un acceso scontro dinastico fra i due rami della dinastia giulio-claudia.

Il supposto comportamento immorale e arrogante attribuito dalle fonti ad Agrippa Postumo come causa del suo allontanamento (Svetonio, Vita di Augusto, 65, 3: «ingenium sordidum ac ferox»), pertanto, va interpretato, a mio parere, alla luce di questo dissidio all’interno della corte, cosí come i presunti adulteri della madre e della sorella. I progetti del circolo politico che faceva capo a Giulia Minore dovevano puntare su Agrippa Postumo come successore di Augusto, contro Tiberio, appoggiato dall’entourage di Livia.

Le colpe del poeta Come la madre, Giulia Minore poteva contare su un forte sostegno popolare e militare. Nella congiura di Giulia Minore e di Lucio Emilio Paolo fu implicato in qualche modo il poeta Ovidio, che, per questo motivo, fu esiliato da Augusto a Tomi, sul Mar Nero, e che non fu mai piú fatto rientrare a Roma, nonostante i numerosi e accorati appelli all’imperatore, suoi personali e attraverso intermediari, tra cui la moglie del poeta. Ovidio stesso si riteneva colpevole di due crimini, un carmen e un error. Il carmen può essere l’Ars amatoria, non troppo ben vista dal rinnovato moralismo augusteo. Non a caso i provvedimenti sul diritto di famiglia di Augusto, miranti a incentivare la natalità, sono stati definiti come l’iniziativa sociale piú invasiva della sua politica (Mario Pani, La corte dei Cesari, Roma-Bari 2003). L’error ovidiano, invece, è tuttora ignoto, ma va collegato al comportamento di Emilio Paolo e di Giulia Minore, anche se tutti gli aspetti di questa congiura non sono noti. Sicuramente erano antagonisti di Tiberio, di cui criticavano abbastanza

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Rilievo con gruppo familiare in corteo, frammento del fregio sul lato nord dell’Ara Pacis Augustae di Roma, costruita tra il 13 e il 9 a.C. per celebrare la pace augustea in seguito alle vittorie dell’imperatore sulle province occidentali. Parigi, Museo del Louvre.

apertamente il comando militare (Cassio Dione, 55, 31, 1). Queste critiche a Tiberio e al suo entourage, unitamente al loro stile di vita lussuoso in un periodo di guerre, carestie e pestilenze, li rese indubbiamente vulnerabili e li portò alla rovina: probabile condanna a morte per Emilio Paolo e per gli altri aristocratici implicati, esilio per Giulia Minore. Svetonio (Vita di Augusto, 19, 1) scrive che Emilio Paolo fu autore di una cospirazione (coniuratio), scoperta prima che diventasse pericolosa grazie all’opera di delatori. Le analogie fra i due episodi, che vedono implicate le due Giulie, sono forti, non soltanto perché erano coinvolte in accuse simili madre e figlia, ma anche perché c’è un’indubbia continuità tra i circoli politici a cui facevano capo gli amici delle due Giulie, ostili alla tradizione repubblicana e aperti alla cultura orientale, soprattutto a quegli aspetti che, forti del sostegno popolare, costituivano il supporto ideologico per un principato caratterizzato da una decisa spinta autocratica. L’entourage politico che faceva

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capo a Giulia Minore, evidentemente, promuoveva un modello di Stato antitetico al conservatorismo tiberiano e puntava su un avvicinamento fra monarca e popolo, a spese della politica di mediazione con il senato portata avanti da Augusto.

amate dal popolo Con ogni probabilità, queste due opposte fazioni erano divise anche in tema di politica estera orientale: diplomatica quella augustea, che vantava la riconsegna a opera dei Parti delle insegne perdute da Crasso, aggressiva ed espansionistica l’altra, in linea con la politica cesariana e antoniana. Gli esponenti del partito delle due Giulie, per cosí dire, accusavano infatti Augusto di avere tradito l’eredità del padre adottivo Giulio Cesare e di avere impresso alla politica romana in Oriente una forte impronta restauratrice. Per questo motivo, il futuro imperatore Claudio, ultimogenito di Druso Maggiore (secondogenito di Tiberio Claudio Nerone e di Livia) e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio e di Ottavia), ruppe

il fidanzamento con Emilia Lepida, figlia di Emilio Paolo e Giulia Minore, a riprova, ancora una volta, dell’importanza delle strategie matrimoniali nella definizione della domus Augusta. Le due Giulie, però, godevano del successo popolare, quasi fossero una sorta di «principesse del popolo» ante litteram. Come si può ben vedere, siamo ben lontani da quella buona predisposizione dei padri romani nei confronti delle figlie femmine del tutto immaginata da certa contemporanea storiografia statunitense. Le donne romane non sono importanti di per sé e meno che mai su di esse si «focalizzava» la benevolente attenzione del padre. Le donne romane sono sempre e comunque strumento della successione del potere maschile. L’influenza che, eventualmente, una donna poteva avere esercitato su un uomo di potere a lei vicino non ha nulla a che fare con la definizione dei ruoli di genere nella società romana che è e rimane, per tutta la sua secolare storia, patriarcale, patrilocale e patrilineare.



l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

una luce nella notte da sempre elementi di primaria importanza per i naviganti, I fari ricorrono anche sulle monete romane. come simbolo del dominio dei mari, ma anche delle capacità progettuali degli antichi ingegneri

L

a potenza raggiunta da Roma in ogni campo annoverava anche il dominio del Mediterraneo. Sconfitti i pirati, assicuratasi il controllo anche militare degli scali marittimi, signora dei commerci, l’Urbe poteva contare su allestimenti portuali d’avanguardia, al cui interno non potevano certo mancare i fari, che da sempre garantivano la sicura navigazione. Queste imponenti strutture architettoniche a forma di torre erano veri e propri monumenti, che simboleggiavano anche la potenza della città che li aveva innalzati. Celeberrimi i due che venivano annoverati tra le sette meraviglie del mondo antico: il Colosso di Rodi e il faro di Alessandria, voluto

quest’ultimo dai Tolomei intorno al 300-280 a.C. sull’isolotto di Pharos e tanto rinomato da dare il suo nome a queste strutture. Simili meraviglie della tecnica non potevano non ricorrere sulle monete, e, sebbene questa

Lampade in terracotta a forma di faro realizzate per Tolomeo II Filadelfo (308-246 a.C.). III sec. a.C. Alessandria d’Egitto, Museo Greco-Romano.

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Sesterzio di Nerone, zecca di Roma, 64 d.C. Al dritto: testa dell’imperatore e legenda NERO CLAVDIVS CAESAR AVG GERM PM TR P IMP PP; al rovescio: veduta a volo d’uccello del porto di Ostia, con navi, faro e statue e legenda PORT OST AUGUST SC. iconografia non sia molto diffusa per i conii emessi a Roma, quando utilizzata, raggiunse interessanti soluzioni artistiche e prospettiche. Il primo faro su monete romane illumina un denario di Sesto Pompeo (42-40 o 37-36 a.C), sul cui dritto compare il segnalatore di Messina, sormontato dalla statua di Nettuno, e, in basso, una nave con l’aquila legionaria, tridente e bandiera; al rovescio la vorticosa e virtuosistica Scilla, quasi un polipo avviluppato tra i suoi stessi tentacoli. L’immagine allude ai tumultuosi eventi connessi al secondo triumvirato e ai contrasti tra il figlio di Pompeo Magno, Sesto, che attraverso scorrerie manteneva il controllo della Sicilia e delle sue acque in aperta contrapposizione a Ottaviano con il secondo triumvirato e quindi a Roma stessa. Nel 39 a.C. vi fu un accordo con Sesto, che ebbe il


comando della flotta e il governo della Sicilia, un’intesa celebrata anche con questa emissione, nella quale Sesto Pompeo Magno si aggiunge il cognome Pius, segno di pietas filiale verso il grande Pompeo suo padre. Il faro, sormontato dalla statua di Pompeo Magno come Poseidone, enfatizza l’allusione, insieme a Scilla, al dominio di Sesto sulla zona e alla sconfitta inferta a Ottaviano a Messina nel 38 a.C. La gloria del figlio di Pompeo non fu di lunga durata: dopo la sconfitta a Nauloco, Sesto venne giustiziato nel 35 a.C.

A volo di uccello Riferimenti meno drammatici e prettamente celebrativi hanno invece le emissioni di età imperiale: molto belli e innovativi nella resa artistica sono i conii voluti da Nerone per celebrare l’inaugurazione del porto di Ostia già iniziato da Claudio, allestito per coadiuvare il porto di Pozzuoli ben lontano da Roma e dove sino ad allora venivano convogliate tutte le navi provenienti dal bacino mediterraneo. La realizzazione del porto ostiense fu un’opera enorme per l’epoca, e comprese naturalmente la costruzione di un faro, sormontato dalla statua di Nerone come Helios, tanto grande da sovrastare la torre stessa. Sicuramente l’incisore avrà avuto precise indicazione da parte dello staff imperiale in merito all’enfasi da dare ai particolari. Comunque affascinante è la prospettiva a volo d’uccello e «sdraiata» usata dall’anonimo artista: sono cosí visibili le arcate dei moli che sintetizzano la grandiosità del complesso portuale, le enormi navi onerarie provenienti dall’Africa e da altri porti lontani. L’intenso traffico commerciale è stato ben reso con le navi che affollano il bacino, che nei diversi conii, battuti tra Roma e Lugdunum, variano da 7 a 12 esemplari. Famosa e tra le piú grandi tra quelle provenienti dall’Africa, la

per saperne di piú Baldassarre Giardina, La rappresentazione del faro nelle emissioni numismatiche del mondo antico in Rivista italiana di numismatica e scienza affini, 108, 2007, pp. 145-168.

Dracma di Adriano emessa ad Alessandria, 132-133 d.C. Al dritto: busto di Adriano con corazza e legenda AVT KAIC TPAIAN • AΔPIANOC CΕB; al rovescio: Iside Pharia stante, con sistro e vela distesa, davanti il faro di Alessandria sormontato da una statua affiancata da tritoni; in esergo la datazione in lettere L IZ.

nave Iside ci fa veleggiare verso Alessandria, il cui porto, il secondo del bacino mediterraneo, è descritto da Giuseppe Flavio, vissuto nel I secolo d.C. (IV, 612615): «Il porto di Alessandria è difficilmente accessibile alle navi anche in tempo di pace perché ha l’ingresso stretto e tortuoso a causa di scogli sottomarini. Il suo fianco sinistro è protetto da moli artificiali, mentre sulla destra c’è l’isola chiamata Faro ove sorge una torre grandissima che fa luce ai naviganti in arrivo fino a 300 stadi di distanza, in modo che essi nella notte si fermino lontano per la difficoltà di entrare. Attorno a quest’isola sono stati alzati immensi bastioni, e il mare,

battendovi contro e infrangendosi sulle scogliere antistanti, fa ribollire il canale e per la strettezza rende difficile l’ingresso. Dentro, però, il porto è quanto mai sicuro e lungo 30 stadi; ivi confluiscono tutti i prodotti che mancano al benessere del paese e di lí partono per tutto il mondo i prodotti locali sovrabbondanti».

meraviglia del mondo Numerose monete imperiali riportano il faro di Alessandria, che, opera di Sostrato di Cnido, fu la piú longeva tra le sette meraviglie del mondo per aver resistito sino al XIV secolo, quando fu distrutta da un paio di terremoti. Tecnologicamente avanzato e di complessa struttura, fu riprodotto su monete, in particolare degli Antonini e poi di Commodo. Quest’ultimo fece battere complessi medaglioni, di eccezionale valore artistico. Al dritto compare il busto elegante di Commodo, mentre al rovescio è una scena, all’ingresso del porto, con l’imperatore sacrificante su un tripode assistito da un sacerdote, mentre la vittima giace al suolo. Nel campo veleggiano alcune navi onerarie e, sulla destra, si innalza il faro formato da torri sovrapposte sormontate da una statua. L’emissione del medaglione è stata anche ricollegata alla celebrazione dell’annuale festività di Iside a Roma, il navigium Isidis, che si teneva intorno all’equinozio di primavera e celebrava la dea egiziana, la quale, con l’appellativo di Pharia, proteggeva il faro simbolo di Alessandria, e come tale viene celebrata sulle monete provinciali quale materna tutela dei naviganti e dei loro commerci.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Stefano De Caro

la terra nera degli antichi campani Guida archeologica della provincia di Caserta Arte’m, Napoli, 280 pp., ill. col. e b/n 25,00 euro ISBN 978-88-569-0224-2 www.arte-m.net

vasto contesto culturale dell’Italia antica. Oltre alla ricognizione sistematica di quanto ancora visibile in situ, è di particolare interesse il capitolo dedicato alle antichità provenienti dal Casertano e oggi custodite al di fuori dei suoi confini o, purtroppo, perdute. Caterina Paola Venditti

le villae del latium adiectum Aspetti residenziali delle proprietà rurali Ante Quem, Bologna, 348 pp., ill. b/n 35,00 euro ISBN 978-88-7849-066-6 www.antequem.it

La fertilità della terra nera evocata dal titolo, stando alle testimonianze degli autori antichi, era eccezionale e ciò fu certamente una delle principali motivazioni che spinsero l’uomo ad abitare questi territori. Una frequentazione lunga e intensa, che ebbe i suoi prodromi già nella preistoria, e di cui nella guida si possono ripercorrere tutte le vicende principali. Ne scaturisce un itinerario che ha fra le sue tappe molti siti di primaria importanza, basti solo pensare a Capua, che hanno restituito testimonianze di grande rilievo, non soltanto nel quadro della storia locale, ma anche nel piú

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Le ville extraurbane sono un segno distintivo della romanizzazione e la loro diffusione fu ampia e capillare. L’autrice ha qui censito e analizzato quelle sorte nel territorio oggi corrispondente a gran parte del Lazio meridionale e a una piccola porzione della Campania settentrionale. L’impianto di una villa poteva rispondere a esigenze di carattere imprenditoriale, soprattutto agricolo, oppure soddisfare la

ricerca di un confortevole e spesso lussuoso rifugio dal caos cittadino. E, in tal senso, è significativo il dato del grafico pubblicato a p. 39: si può infatti constatare che un terzo delle proprietà sorgevano lungo la costa, dove i personaggi della Roma che contava, compresi gli imperatori, amavano realizzare le proprie «seconde case».

successori dell’epoca moderna.

dall’estero William E. Metcalf (a cura di)

the oxford handbook of greek and roman coinage Oxford University Press, New York, 688 pp., ill. b/n 150,00 USD ISBN 978-0-19-530574-6 www.oup.com

Clara Frontali

virus, microbi e vaccini Viaggio nella storia della medicina: le malattie infettive Editoriale Scienza, FirenzeTrieste, 112 pp., ill. col. 12,90 euro ISBN 978-88-7307-548-6 www.editorialescienza.it

Pensato per il pubblico dei lettori piú giovani, il volume dà conto della lunga battaglia che l’uomo ha combattuto e combatte contro gli organismi che causano l’insorgere delle malattie infettive. Un problema con il quale già si cimentarono i medici dell’età antica, di molte delle cui osservazioni fecero tesoro anche i loro

L’opera intende offrire una raccolta di elevato livello scientifico, ma accessibile anche ai non addetti ai lavori e, in particolare, ai numerosi appassionati di numismatica. L’obiettivo può dirsi centrato, in quanto gli oltre 30 contributi del volume presentano una panoramica vasta e articolata, esposta sempre con chiarezza e linearità. Dalle prime emissioni dell’Asia Minore nel VII secolo a.C. fino ai pezzi di età tardo-imperiale, si possono dunque trovare tutte le notizie essenziali, che, come è nella filosofia degli Oxford Handbook, sono aggiornate sulla scorta delle acquisizioni piú recenti. (a cura di Stefano Mammini)



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