Archeo n. 331, Settembre 2012

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2012

ritorno a babilonia

Çatal hÖyÜk

petosiris

teatro di marcello

speciale anatolia. le origini

Mens. Anno XXVIII numero 9 (331) Settembre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 331 settembre

ÇATAL HÖYÜK, 9000 ANNI FA

l’inchiesta

ritorno a babilonia

ROMA

IL TEATRO DI MARCELLO

ETRUSCHI

EGITTO

NEL SANTUARIO DI DEMETRA

L’EREDITà DEL SACERDOTE DI THOT

PASSIONE PER LA STORIA

PASSIONE PER LA STORIA

€ 5,90

AST ST PPA

www.archeo.it



editoriale

la fortuna di mellaart Quando, dopo la scoperta alla metà del secolo scorso, l’archeologo britannico James Mellaart procedette allo scavo di Çatal Höyük, la doppia collina a forma di forchetta (dal turco çatal= forchetta e höyük= collina) nella parte meridionale dell’altopiano anatolico, la notorietà del piú vasto insediamento umano di epoca neolitica, una delle piú antiche città del mondo, era già decretata. Troppe e universali le suggestioni veicolate dai rinvenimenti di Mellaart per non essere subito recepite nel piú ampio contesto della cultura mondiale di allora, e non solo di quella archeologica: «a conclusione delle due campagne di scavo – scriveva l’archeologo – possiamo affermare con certezza che questa imponente collina non nascondeva i resti di un villaggio preistorico piú grande del solito, ma quelli di una città abitata da una comunità con un’economia fiorente, un’organizzazione sociale, attività artigianali specializzate, una complessa vita religiosa e un’arte assai sviluppata». Non solo, però, Çatal Höyük si rivela come la piú antica testimonianza di un «città» preistorica, definizione che, qualche anno prima, era già stata reclamata dal sito della leggendaria Gerico, esplorato da Kathleen Kenyon; dall’altopiano anatolico, infatti, erano emersi gli indizi di un modello di vita «diverso», di una diversa gestione degli spazi comunitari (caratterizzati da una palese assenza di luoghi pubblici), di una spiritualità che pervadeva i luoghi del vivere quotidiano, testimoniata dagli straordinari affreschi e rilievi murali raffiguranti animali (tori, leopardi…) e dalle numerose figurine in terracotta a soggetto femminile, variamente interpretate come dee della fecondità o capostipiti divinizzate di una società matriarcale. La ricostruzione alle pagine 44/45 ci offre una sintesi di questa «vita altra» che, negli anni in cui si proponeva all’attenzione dell’Occidente, venne caricata da piú di un’istanza idealizzante… La parabola di Çatal Höyük, sebbene il sito abbia dovuto cedere il titolo di «scoperta del secolo» (sfogliando lo speciale di questo numero i lettori potranno intuirne il nuovo detentore), non si è, però, affatto esaurita. Nello scorso luglio, il sito è stato incluso nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO e, in quell’occasione, è stato «ufficialmente» visitato dallo stesso Ministro della Cultura turco, Gunay Ertugrul (che, nelle immagini di questa pagina, vediamo in compagnia del direttore del progetto di scavo ed esplorazione di Çatal Höyük, l’archeologo Ian Hodder). Un riconoscimento a cui avrebbe voluto assistere anche James Mellaart. Che, però, proprio nello stesso mese di luglio, ha abbandonato la sua vita terrena… Andreas M. Steiner

Nelle foto: Ian Hodder (a destra) guida Gunay Ertugrul, Ministro turco della cultura, nella visita al sito di Çatal Höyük.


Sommario Editoriale

La fortuna di Mellaart

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di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

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scoperte La chiesa di S. Mamiliano, nel borgo toscano di Sovana, ha restituito uno straordinario tesoretto, composto da quasi 500 monete d’oro del V secolo d.C. 6

parola d’archeologo Continua la nostra inchiesta sulla gestione dei beni custoditi nei nostri musei e sulla tutela delle aree archeologiche 14 mostre Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia presenta, per la prima volta, una selezione dei reperti sequestrati a Ginevra nel deposito di uno dei maggiori trafficanti di antichità 20

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38 l’inchiesta

Ritorno a Babilonia

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a cura di Stefania Berlioz e Andreas M. Steiner, con interviste a Massimo Bellelli e Saywan Barzani e un contributo di Daniele Morandi Bonacossi

i luoghi della leggenda Çatal Höyük. L’era dei grandi sogni

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di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

antico egitto

Il «santo» di Tuna el-Gebel

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di Sergio Pernigotti

Anno XXVIII, n. 9 (331) - settembre 2012 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli

In copertina particolare del disegno ricostruttivo delle case neolitiche di Çatal Höyük

Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Lara Arcangeli è archeologa. Gabriella Barbieri è archeologo direttore coordinatore per le Province di Grosseto e Siena presso la Soprintendenza BA Toscana. Stefania Berlioz è archeologa. Alessandro Betori è ispettore archeologo presso la Soprintendenza BA Lazio. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Anna Depalmas è docente di protostoria europea e di archeologia del paesaggio presso l’Università di Sassari. Andrea De Pascale è archeologo conservatore del Museo Archeologico del Finale-IISL. Paola Di Silvio è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Mauro Lo Castro è archeologo della Società Cooperativa «Il Betilo». Angelo Luttazzi è direttore del Museo Archeologico del Territorio «Toleriense» di Colleferro. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Daniele Morandi Bonacossi è professore associato di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università di Udine. Daniela Rizzo è archeologo direttore coordinatore della Soprintendenza BA Etruria Meridionale. Sergio Pernigotti è egittologo, già professore di egittologia e civiltà copta all’Università di Bologna. Stefania Sapuppo è archeologa. Maria Angela Turchetti è funzionario archeologo presso la Soprintendenza BA Toscana. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Massimo Vitti è archeologo presso la Direzione del Museo dei Fori Imperiali di Roma. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: Disegno Enric Passolas: copertina e pp. 44/45, 51 (basso) – Cortesia Soprintendenza BA Toscana: pp. 6-7 – Cortesia Museo Archeologico del Territorio Toleriense di Colleferro (Roma): pp. 8-10 – Cortesia dell’autore: pp. 12; 28/29, 84/86, 88/97; 98/103; 104, 105 (alto); 112/113 (centro) – Servizio Stampa del Polo Museale Fiorentino: pp. 14 (alto; foto Anna Gianfaldoni), 14 (basso), 16 (foto Anna Gianfaldoni) – Foto Stefano Mammini: pp. 18-19 – Cortesia Soprintendenza BA Etruria Meridionale: pp. 20-21 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 22, 24 – Doc. red.: pp. 30/31 (cfr. «Le guide di Archeo» n.1, 2003 e «Archeo» n. 321, novembre 2011), 32, 54/55, 65, 105 (basso), 110 – Foto Andreas M. Steiner: pp. 33, 34 (alto), 36 – Foto Taha Omar Marif: p. 35 – Foto Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, Roma: p. 34 (centro e basso) – Foto MAIA, Università degli Studi di Udine: p. 37 – Foto Çatalhöyük Research Project: pp. 38/39, 40 (basso e sfondo), 41, 42 (alto), 48/49, 52 (alto), 53 (alto) – Corbis: Nathan Benn/Ottochrome: pp. 40 (alto a sinistra), 42 (basso); Vincent J. Musi/ National Geographic Society: p. 51; Mauricio Abreu/Jai: pp. 52/53 (basso); Blaine Harrington III: p. 70; Werner Forman: pp. 72/73; National Geographic Society: p. 87 – Magnum/Contrasto: p. 47 – Foto concessione Steven L. Kuhn e Mary C.


scavi

Un teatro sulla via dei trionfi

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di Massimo Vitti

storia

L’Etruria dei misteri

Demetra e i cavalli

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di Paola Di Silvio

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Rubriche il mestiere dell’archeologo Omaggio alla scienza

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di Daniele Manacorda

divi e donne

Minore, ma solo di nome

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di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Sacri fuochi

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di Francesca Ceci

libri Stiner: p. 56 – Disegno concessione Marcel Otte: p. 57 – Foto concessione Michael Rosenberg: p. 58 (sinistra) – Foto Körtik Tepe Archive: pp. 58 (destra)/60, 61 (sinistra) – Foto concessione Mehmet Özdogan: p. 61 (destra) – Euphrates Archive, Heidelberg – Harald Hauptmann: pp. 62/63, 66 – Foto concessione Klaus Schmidt: p. 64 – Foto A. De Pascale: p. 67 – Foto Yesilova Höyük Archive: pp. 68/69 (alto) – Foto concessione Istanbul Arkeoloji Müzeleri: p. 68 (basso) – Mondadori Portfolio: Akg Images: pp. 46, 71 – DeA Picture Library: G. Sioen: pp. 74, 76/77, 79, 80; S. Vannini: pp. 81, 108; A. Dagli Orti: p. 113 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: The Bridgeman Art Library: p. 75 (destra) – Getty Images: p. 78 – Marka: pp. 82/83, 106 – Cippigraphix: cartine alle pp. 28, 30, 41, 57, 59, 61, 67, 69, 72, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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speciale

Anatolia. Le origini 54 di Andrea De Pascale

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n oti z i ari o SCoperte Toscana

il tesoro di san mamiliano

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el borgo antico di Sovana (Grosseto), durante i lavori di restauro per la trasformazione della chiesa di S. Mamiliano in contenitore museale, è stata effettuata nell’ultimo decennio un’indagine archeologica che ha rivelato un sito di grande interesse. In particolare, lo scavo del 2004 ha permesso di evidenziare meglio la fase romana, primo-imperiale e tardo-antica, concentrandosi nell’angolo nord-occidentale dell’edificio, che non è risultato sconvolto dall’area cimiteriale rinascimentale individuata nel 1998 al di sotto del pavimento della chiesa. Qui sono comparse le strutture piú significative da riferire a un impianto termale. Nel corso degli scavi è stato rinvenuto inoltre un tesoretto di 498 monete d’oro, databili al V secolo d.C. casualmente individuato sotto il muro perimetrale nord della chiesa. La scoperta è di eccezionale importanza non solo per il valore numismatico del complesso, che si

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Qui sopra: Sovana (Grosseto), chiesa di S. Mamiliano. Il tesoretto al momento della scoperta e (nel riquadro) in corso di scavo.

In alto: diritto un solido di Valentiniano, della zecca di Ravenna (455), con il busto diademato dell'imperatore. A destra: diritto di un solido di Leone I, della zecca di Thessalonica (probabilmente 462 e/o 466): l’imperatore, con veste consolare, barbato e diademato, ha lo scettro e la mappa.

inserisce nella serie non numerosa di ripostigli di monete d’oro del V secolo d.C. in Italia, ma anche perché costituisce finora pressoché l’unica testimonianza archeologica riferibile all’età tardo-antica che possediamo per Sovana. Il tesoretto è costituito esclusivamente da solidi con una attestazione prevalente di monete coniate sotto l’imperatore Leone I, al potere tra il 457 e il 474, seguite da quelle coniate sotto l’imperatore Antemio che regnò tra il 467 e il 472. L’arco cronologico rappresentato è


compreso tra l’inizio del V secolo (regno di Onorio) e gli ultimi decenni dello stesso secolo (regno di Zenone, secondo regno dopo l’usurpazione di Basilisco nel 476 fino al 491). Sono presenti i tipi consueti della monetazione aurea del V secolo: sul diritto compare il busto dell’imperatore diademato e paludato di profilo a destra o a sinistra, oppure frontale con corazza, lancia e scudo. Sul rovescio i tipi sono quelli imperiali (uno o due imperatori stanti o in trono), quello della Vittoria alata e quello della personificazione di Costantinopoli in trono. Va comunque segnalata la presenza di materiali inediti, come un esemplare riconiato attribuibile ad Ariadne, e materiali barbarizzati, in corso di studio. Circa le zecche di emissione (34), va sottolineata la prevalenza di quella di Costantinopoli, l’unica zecca orientale rappresentata a eccezione di Thessalonica, documentata da pochi esemplari. Tra le zecche italiane spiccano Roma e Ravenna seguite da Milano, mentre non compare Aquileia, che sotto Teodosio II e Valentiniano III non fu molto attiva. È inoltre presente, con pochi esemplari, una zecca gallica, quella di Arles nella Narbonense, poco documentata nella seconda metà del secolo al tempo di G. Nepote e Romolo Augusto. Il ripostiglio di Sovana pertanto si contrappone, per la netta prevalenza di monete di Costantinopoli, a quanto finora documentato dai tesoretti del V secolo finora rinvenuti in Italia, che invece attestano una prevalenza delle zecche occidentali. Esso inoltre è di particolare rilevanza per la quantità dei pezzi rinvenuti e il

In alto: rovescio di un solido di Teodosio II della zecca di Costantinopoli, con la Vittoria che tiene asta crucigera. 423-424. In basso: rovescio di un solido di Onorio, emesso dalla zecca di Mediolanum. 402-403, 405-406. L'imperatore, con stendardo e Vittoria su globo, schiaccia con il piede un prigioniero davanti a lui.

numero degli imperatori rappresentati, superando quantitativamente i due soli ripostigli italiani di una certa consistenza, quello della Casa delle Vestali a Roma (397 pezzi), che risale però a un momento precedente ed è costituito in prevalenza da emissioni di un’unica zecca e di un unico imperatore, e il tesoretto di Comiso (423 pezzi conservati, anche se in origine composto di circa 1100 pezzi). A questi si può aggiungere il ripostiglio di Napoli, solo sommariamente noto, che è forse il piú simile al tesoretto

di S. Mamiliano perché occultato negli anni 476/480 e costituito di 255 solidi databili tra i regni di Arcadio e Basilisco, di Onorio e Romolo. È da presumere che il ripostiglio sovanese sia stato occultato negli ultimi anni del secolo, in un periodo di gravi difficoltà per la regione. Per l’intera Penisola italica il V secolo fu sicuramente un momento particolarmente difficile, caratterizzato da guerre, invasioni, carestie ed epidemie, in particolare dovute alla malaria. Le incursioni gote avevano interessato certamente la Tuscia e probabilmente anche la valle del Fiora fin dai primi anni del V secolod.C., ma la situazione rimase difficile per tutto il resto del secolo fino alla guerra gotica. Pur in un quadro di desolazione descritto da Rutilio Namaziano e Paolo Diacono, il percorso dall’Etruria interna al mare lungo la media valle del Fiora e dell’Albegna doveva tuttavia mantenere ancora il suo ruolo nella tarda antichità: il tesoretto di Sovana si colloca infatti a fianco di altri ritrovamenti numismatici nel territorio, la cui distribuzione indica come ancora attivo l’itinerario tradizionale dall’Amiata verso il mare. Il ripostiglio monetale di Sovana è una prova evidente della difficoltà dei tempi e, sebbene si possano solo proporre ipotesi sul suo possessore, sulle circostanze e il significato del suo occultamento nel sito che fu poi occupato dalla chiesa di S. Mamiliano, esso offre una documentazione straordinaria sulla circolazione monetaria nel V secolo d.C. Lara Arcangeli, Gabriella Barbieri, Maria Angela Turchetti

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n otiz iario

SCAVI Lazio

possidenti nell’agro signino

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nterventi di archeologia preventiva eseguiti nel territorio del Comune di Colleferro (Roma) nell’ambito del progetto d’impianto di pannelli fotovoltaici tra la via Palianese e l’autostrada A1 hanno riportato alla luce le fondazioni di un ampio edificio quadrangolare, due sepolture e, soprattutto, i resti di una grande villa rustica. La struttura muraria di forma quadrangolare, realizzata in blocchi parallelepipedi di tufo locale molto simile al peperino (lapis albanus), è conservata a livello di fondazione ed evidenzia in piú punti tracce del passaggio dell’aratro, probabile causa prima della sua distruzione. Allo stato attuale l’interpretazione della funzione del manufatto appare azzardata. Tuttavia, valutando il contesto di collocazione dell’opera – posta sul fondo di un declivio collinare, a poche decine di metri da un importante incrocio viario tra due strade di epoca romana: l’odierna via Palianese e il diverticolo di via Fontana Barabba che conduce sino alla via Labicana –, è possibile ipotizzare che fosse un luogo di culto (tempio, sacello, recinto sacro, ecc.). Le due sepolture, entrambe infantili, erano poste l’una accanto all’altra: la prima in enchytrismos (entro anfora), mentre la seconda è a fossa, con copertura di tegole.

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All’interno non è stato recuperato alcun reperto osteologico. A corredo della prima, posta in prossimità dell’orlo dell’anfora, era una brocca, forse destinata alla ritualità libatoria connessa alla sepoltura. Nella seconda, invece, il corredo – costituito da una piccola olla a due manici – era collocato all’interno del recinto di delimitazione della fossa costituito da piccoli blocchi di tufo giallo irregolari e frammenti di laterizi. Entrambe le tombe s’inquadrano tra il II e il III secolo d.C. La villa rustica è un complesso ampio, la cui attribuzione funzionale rustico-residenziale In alto: Colleferro (Roma). Resti degli ambienti della villa rustica scoperta tra la via Palianese e l’Autostrada A1. Fondato nella seconda metà del II sec. a.C., il complesso fu in uso fino al VI sec. d.C. A destra: un tratto del canale di scolo individuato lungo uno dei lati del Cortile orientale della villa.

appare certa. Venne fondata alla seconda metà del II secolo a.C., mentre il suo abbandono si colloca nel VI secolo d.C. La villa sorge su un leggero declivio e si sviluppa attorno a due grandi cortili di forma quadrangolare affiancati l’uno all’altro; il piú grande, posto a ovest, copre una superficie di circa 900 mq (30 x 30 m) mentre il piú piccolo, a est, si conserva per una lunghezza di 15 m per una larghezza di 16,50. La porzione meridionale è occupata da ambienti di forma rettangolare irregolare. Elemento attorno al quale si incardina la distribuzione strutturale e funzionale della villa è il lungo portico, composto da pilastri rettangolari e pseudocolonne che accomuna lo sviluppo planimetrico dei due cortili. Essi sono costruiti con blocchetti squadrati, allettati per testa e per taglio su piú filari mediante l’impiego di abbondante malta. Le pseudocolonne dei


doliarium cella vinaria

pozzo artesiano cortile occidentale

portico

podio rettangolare

In alto: due immagini della struttura individuata nel settore nord-orientale del Cortile occidentale e identificata come doliarium cantina della villa, vale a dire il deposito adibito alla conservazione del vino, negli appositi grandi contenitori, i dolii. In basso: uno dei pozzi individuati nel corso dell’esplorazione del complesso.

pozzo cisterna ipogea

canale di scolo

pozzo circolare foderato con blocchetti

podio circolare

cortile orientale

cisterna in opera reticolata

N

archeo 9


n otiz iario

due lati corti del pilastro rettangolare sono realizzate con la stessa pietra, lavorata in modo da ottenere tre spicchi di cerchio. Oltre che nel portico, tali blocchetti sono impiegati nella realizzazione di tre pilastri inglobati nelle strutture che compongono il muro ortogonale al portico, su cui si aprono gli ambienti della porzione meridionale della villa, nonché come blocchi angolari nella cisterna in opera reticolata collocata all’estremità orientale dell’edificio. Il Cortile occidentale è pressoché quadrato e ha in comune con il cortile orientale il lungo portico a pilastri. Al suo interno si trovava con ogni probabilità la pars fructuaria dell’impianto, cioè il luogo destinato alla lavorazione dei prodotti del fondo circostante, in particolare vino, grano e olio, e allo stoccaggio dei prodotti lavorati o semilavorati. La porzione nordorientale è caratterizzata dalla presenza di una piccola cisterna di

Le due tombe infantili individuate nel corso degli scavi: a sinistra quella in fossa, con copertura di tegole; a destra quella a enchytrismos, cioè dentro un’anfora.

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forma rettangolare, con pareti foderate di malta, mentre il fondo è in cocciopesto. Nelle sue vicinanze sono state individuate numerose tracce di dolia effossa o murati, oltre a numerose grappe in piombo connesse alle riparazioni. Elementi che suggeriscono che in quest’area fosse collocato il doliarium cantina della villa. La porzione centro-meridionale del cortile è caratterizzata da installazioni che, nonostante lo stato di conservazione non sempre diagnostico, posseggono elementi in grado di orientarne la determinazione funzionale. È il caso di un’area di forma irregolare, ricavata creando una depressione artificiale sul piano di quota del terreno. La «fossa» era colmata da un butto di materiale molto eterogeneo: coppi, tegole, laterizi e ceramica, con percentuali rilevanti di materiali attribuibili all’età tardo-imperiale (IV- VI secolo d.C.), sotto al quale si trovava un pozzo di forma rettangolare, realizzato in opera vittata, caduto in disuso al momento del butto. A poca distanza vi è un’altra installazione, costituita da una sorta di cisterna circolare ipogea costruita mediante l’impiego di cubilia disposti su file con andamento isolineare; le pareti non conservano tracce di intonaco mentre il fondo è costituito da un piano in cocciopesto. Lo scavo della struttura ha portato all’individuazione dei resti di una fornace, da cui proviene un frammento di laterizio con bollo epigrafo mutilo che riporta la dicitura MMLF, corrispondente probabilmente a MARCI LICINIANI FRATES, noti produttori di laterizi attivi in questo territorio nel I secolo d.C. Il cortile orientale era invece sgombro da installazioni produttive e rappresentava con ogni probabilità una sorta di giardino domestico. Una successione di ambienti di forma

quadrangolare si sviluppava lungo l’asse E-O della villa, addossati al muro meridionale. Gli ambienti costituivano la parte residenziale della villa, adiacente a un’area aperta porticata di forma rettangolare che probabilmente possedeva almeno un piano in elevato e che dava su una piccola aia. La villa subí nel tempo diverse modifiche strutturali, la piú significativa delle quali interessò il portico costituito dai 7 pilastri e 14 pseudocolonne, che fu inglobato in una struttura continua in bozze di tufo irregolare e reimpiego di cubilia, e che conserva tracce di intonaco dipinto in rosso. Il panorama circostante, caratterizzato da un piano collinare abbastanza dolce, con lievi variazioni altimetriche e ricco d’acqua, rappresentava un paesaggio ideale per l’impianto di ville rustiche destinate allo sfruttamento delle risorse del territorio. Non a caso, nelle immediate vicinanze, sono segnalate almeno altre due strutture tipologicamente simili a quella fin qui descritta. Ciò lascia supporre uno sfruttamento di tipo intensivo della campagna, un tempo fertile, dell’ager Signinus che lo scavo della villa contribuisce a inquadrare. Lo scavo è stato realizzato grazie alla collaborazione tra: la Flyren di Carlo Garuzzo e la società spagnola Sunedison, imprese coinvolte nella realizzazione dell’impianto fotovoltaico, che hanno finanziato i lavori di scavo; la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio; il Comune di Colleferro; il Museo Archeologico del Territorio Toleriense di Colleferro; e la Soc. Cooperativa Il Betilo, che ha condotto gli scavi. Sui cantieri hanno lavorato gli archeologi Mauro Lo Castro e Andreamario Chiatroni. Alessandro Betori, Mauro Lo Castro, Angelo Luttazzi



n otiz iario

SCAVI Spagna

dalle baleari alla sardegna

S

i è conclusa nello scorso giugno la decima campagna di scavo presso il complesso monumentale di Cap de Forma, nel territorio di Maó, capoluogo dell’isola di Minorca. Oggetto delle indagini è un sito di grande interesse, costituito da una fortificazione costiera e da una necropoli ipogea (vedi «Archeo» n. 219, maggio 2003). La struttura occupa un promontorio roccioso che si addentra nel mare con le

pareti tagliate a strapiombo. È menzionata frequentemente nella cartografia dei secoli XVIII e XIX per la sua posizione strategica, che ne fa un caso di studio esemplare per i contatti extrainsulari e per la navigazione di epoca protostorica. Infatti, la localizzazione del Cap de Forma in corrispondenza di un istmo che taglia un promontorio costiero e accanto a un ottimo approdo naturale sulla costa sudorientale dell’isola coincide con un punto di passaggio obbligato in relazione alla rotta ipotizzata tra l’isola e la Sardegna. Le ultime campagne di scavo si sono estese a una ampia zona antistante il lato meridionale dell’edificio e hanno confermato che il numero delle case talaiotiche (1500-1200 a.C. circa; il termine talaiot indica torri simili ai nuraghi sardi attestate tra l’età del Bronzo e l’età del Ferro, da cui prende nome una cultura suddivisa in quattro fasi) presenti a ridosso della muraglia ciclopica è di almeno tre unità, caratterizzate – secondo quanto suggerisce l’ambiente indagato integralmente – da grandi dimensioni, pianta rettangolare, con un’area di combustione (focolare) per usi domestici situata presso la parete di fondo. Lo scavo ha permesso di evidenziare la presenza di diversi vasi contenitori rotti in situ di cui è prevista la ricostruzione in laboratorio e di ulteriori livelli di ceneri e carboni indicativi di un’azione del fuoco continua e reiterata (area di combustione, finalizzata alla cottura dei cibi?). Le ricerche del 2012 hanno inoltre approfondito – ma non ultimato – le Dall’alto in basso: abitazioni addossate alla struttura in tecnica ciclopica di Cap de Forma; studenti impegnati nei lavori di scavo; un vaso di epoca talaiotica iniziale venuto in luce nel corso degli scavi.

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indagini in corrispondenza di una cavità aperta nel banco roccioso calcareo (forse una cisterna). Al momento non è però possibile affermare se si tratti di un pozzo per l’acqua o di una cisterna. La presenza di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana sarebbe di particolare importanza perché costituirebbe una conferma di quanto già osservato in altri complessi talaiotici dell’isola, dove le comunità insediate elaborarono strategie di sfruttamento delle risorse idriche pluviali fondamentali per la sussistenza, data l’assenza di corsi d’acqua e la scarsità di sorgenti naturali. Attraverso lo scavo sono state messe in luce nuove porzioni di muratura ed è stata recuperata una grande quantità di materiale archeologico, consistente in frammenti ceramici e ossei, che ha permesso di effettuare specifici campionamenti finalizzati alle analisi archeometriche. Quasi tutti i materiali archeologici rinvenuti nell’area sono pertinenti a un orizzonte riferibile al Talaiotico Iniziale (XVI-XI secolo a.C.). Le ricerche a Cap de Forma, attuate grazie al sostegno del Consell Insular de Menorca e della Fondazione Banco di Sardegna, sono condotte dall’Università di Sassari, in collaborazione con il Museu de Menorca. Le indagini sono dirette dalla scrivente, coadiuvata sul campo da Claudio Bulla e Giovanna Fundoni. Alla campagna 2012 hanno partecipato specializzande in archeologia (Isabella Atzeni, Gabriella Columbu, Letizia Lemmi) e studenti (Battistina Casula, Stefano Cherchi, Davide Fadda, Lucia Faedda, Francesca Idda, Valentina Onida, Giuseppina Ruggiu) del Dipartimento di Storia, Scienze dell’Uomo e della Formazione dell’Università di Sassari. Anna Depalmas



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

il «ritorno» dei soliti ignoti secondo la corte dei conti, i magazzini dei nostri musei sono ricolmi di materiali, spesso non inventariati: una situazione critica o fisiologica? ne abbiamo parlato con antonio natali, direttore della galleria degli uffizi, e luigi malnati, direttore generale per le antichità del ministero per i beni e le attività culturali

L

o avevano detto i tecnici del Consiglio Nazionale delle Ricerche, sulla base dello studio condotto dall’Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali (IBAM) nel Centro-Sud Italia: il 90% dei giacimenti archeologici presenti sul territorio risulta sconosciuto (vedi «Archeo» n. 330, agosto 2012). E lo ha ribadito piú di recente anche la Corte dei Conti, nelle pagine della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato per l’esercizio finanziario 2011, approvato il 28 giugno scorso, che dedica un capitolo alla gestione del patrimonio culturale in Italia. «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali – si legge nella relazione –, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute». Molti beni, poi, non sono fruibili, poiché rimangono nei magazzini, sottolinea la Corte dei Conti, e cita l’esempio degli Uffizi di Firenze: «espone 1835 opere e ne conserva in deposito circa 2300, offrendo in visione solo il 44% delle opere possedute». Un dato del tutto normale, secondo il professor Antonio Natali, storico dell’arte e Direttore degli Uffizi, a oggi il museo piú visitato d’Italia e uno dei piú frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie.

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A sinistra: l’ingresso dei depositi della Galleria degli Uffizi, e, in basso, una delle sale del museo fiorentino.

Sono davvero cosí tante le opere custodite nei magazzini degli Uffizi, professore? «Ma sono molte di piú di 2300!» chiarisce subito lo studioso. «Intanto, tutte le nostre opere, sia quelle esposte al pubblico, sia quelle conservate nei magazzini, sono catalogate, come si può vedere sul sito del Polo Museale Fiorentino (www.polomuseale. firenze.it), dove gli inventari

possono essere consultati negli archivi digitali. E poi è bene che si sappia che in tutti i grandi musei del mondo ci sono depositi, dal Louvre di Parigi al Metropolitan Museum di New York; anzi piú è grande il museo, piú sono vasti i magazzini. Agli Uffizi le opere esposte sono già collocate a 10 cm di distanza l’una dall’altra, sarebbe un sacrilegio esporne un numero maggiore. Si dovrebbe tirarne fuori dai depositi meno, non di piú. Nella Galleria stiamo ingrandendo, comunque, l’area espositiva, con le Sale degli stranieri e con quelle della Maniera Moderna, appena inaugurate». Ma che cosa si può fare, comunque, per valorizzare meglio il nostro patrimonio culturale, in particolare quello «nascosto» nei magazzini? «La cosa piú importante su cui agire è insegnare la storia dell’arte e smettere di dire che i beni culturali sono il nostro petrolio. Le opere degli Uffizi sono in numero cosí elevato che nei depositi ce ne saranno sempre tante. Per farle rendere da un punto vista economico, non si possono



parola d’archeologo certo aprire altri musei, che hanno costi paurosi di gestione. Chi grida allo spreco ci dia un’idea realistica su come renderle produttive economicamente». Lei, agli Uffizi, quale soluzione ha adottato per far sí che le opere nei depositi possano essere una risorsa, anche economica? «Io le ho sempre mandate in mostra all’estero: tutte le esposizioni nei Paesi stranieri sono realizzate con opere dei depositi. In Cina abbiamo allestito una mostra visitata da 1 milione e 300mila persone, interamente con opere dei magazzini: in tutto 82 dipinti, in trasferta per 18 mesi, in cambio di una contropartita In alto: una sala dei depositi della Galleria degli Uffizi. A sinistra: l’allestimento della Sala della «maniera moderna», ultimato nello scorso mese di giugno.

economica (circa 100mila euro da destinare alla manutenzione del patrimonio artistico della Galleria, n.d.r.). Sono opere di deposito anche quelle esposte nella mostra “Paesi, pastori e viandanti. Marmi antichi e Visioni dipinte dagli Uffizi a Santo Stefano di Sessanio”, allestita nel borgo abruzzese in provincia dell’Aquila fino al 30 settembre, come quelle delle esposizioni organizzate in passato in cinque Stati negli USA e in Spagna. Ritengo che sia giusto che chi viene in Italia a visitare gli Uffizi possa vedere le opere di cui ha letto sui libri, mentre quelle conservate nei magazzini possono partire dagli Uffizi per mostre concepite fin dall’origine come un complesso omogeneo sul tema dei depositi».

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Abbiamo voluto commentare le problematiche sollevate dalla Corte dei Conti in merito alla gestione dei beni culturali in Italia anche con Luigi Malnati, attuale Direttore Generale per le Antichità del ministero per i Beni Culturali e già Soprintendente archeologo dell’Emilia-Romagna. I magistrati contabili puntano il dito contro la mancanza di una catalogazione definitiva dei beni archeologici in Italia. Perché non è possibile una stima esatta del nostro patrimonio, direttore? «Ogni scavo produce migliaia e migliaia di reperti, dal seme alla statua: censire tutto in modo patrimoniale (cioè frammento per frammento), come dice la Corte dei Conti, è impensabile. Il valore

patrimoniale dei beni archeologici è un concetto nato nel secolo scorso e difficilmente rapportabile all’archeologia di oggi. La colpa, tuttavia, non è dei magistrati contabili, ma degli archeologi, che negli ultimi quarant’anni non sono riusciti a uscire dalla concezione antiquaria per esprimere, nel senso comune, che cosa significhi il lavoro dell’archeologo in tempi moderni. Nel Codice dei Beni culturali (che di fatto ricalca la legge del 1939, la quale a sua volta utilizza il regolamento del 1913) il concetto di reperto archeologico è rimasto selettivo, fermo all’epoca in cui si recuperavano solo corredi e pavimenti. Dalla seconda guerra mondiale in poi la concezione dello scavo archeologico è cambiata: adesso si raccoglie tutto, e pensare di poter fare un’inventariazione di dettaglio di tutto il materiale degli scavi diventa un’impresa non praticabile, anzi decisamente impossibile. Fatte queste considerazioni è certo che si devono inventariare almeno i reperti esposti al pubblico». Perché? Non tutti i reperti esposti nelle vetrine dei nostri musei sono inventariati? «Spesso no: capita che vengano esposti materiali rapidamente, dopo uno scavo archeologico,


magari non inventariati. E poi c’è la rivalutazione degli inventari, che hanno stime risalenti a decenni addietro. Ma sono in grado le nostre Soprintendenze di procedere alla rivalutazione di questi beni? Con le attuali risorse no: è un lavoro immane, mancano il personale e una reale cognizione del problema». Da quello che ci dice, quindi, una «conta» esatta del nostro patrimonio archeologico – e una traduzione in termini patrimoniali del suo valore scientifico – è in pratica impossibile. Eppure la Corte dei Conti prova a dare alcuni numeri: in Italia ci sono 3430 musei, 216 siti archeologici, 10mila chiese, 1500 monasteri, 40mila fra castelli, torri e rocche, 30mila dimore storiche, 4mila giardini, 1000 centri storici importanti... A cui vanno aggiunti i 4381 immobili del demanio storico artistico utilizzati come uffici pubblici. C’è chi dice che questi beni sono «troppi». Davvero è un problema di abbondanza, direttore?

«Una valutazione meramente quantitativa non è possibile, dal momento che tutte le città italiane giacciono su depositi antichi, quantomeno medievali. Non c’è area urbana che non cresca su giacimenti archeologici, tutti ugualmente interessanti e con pari diritto di essere tutelati. Innanzitutto, va cambiata la normativa che definisce cos’è un ritrovamento archeologico: il Codice dei beni culturali considera reperto quello che deriva da un ritrovamento fortuito oppure da una concessione di scavo. Ma non contempla affatto il caso di chi affonda una ruspa nel terreno di un’area urbana o cittadina, attraversando gli strati archeologici, che oggi costituisce l’occasione piú frequente di scavo». Un altro degli aspetti critici sollevati dalla Corte dei Conti, come si legge nella relazione, è la «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali, con

possibilità di deroga rispetto all’ordinaria amministrazione, che determinano poca trasparenza nelle procedure di spesa». Qual è la sua opinione in merito? «Qui la Corte dei Conti si riferisce a Pompei e non gli si può dar torto. Avranno i loro motivi per esprimere questo giudizio: il Commissario di Pompei non rispondeva alla Direzione generale del Ministero, non ne ho avuto esperienza diretta. Il problema della manutenzione delle aree archeologiche esiste, eccome. Le procedure di affidamento dei lavori sono cosí lente e i tempi di intervento si allungano tanto che, alla fine, si arriva a fare alcune operazioni di manutenzione, come il diserbo, in periodi dell’anno sbagliati. Gli stanziamenti necessari per i piccoli restauri e per la manutenzione costante dei siti archeologici sono passati dai fondi ordinari a fondi di investimento in conto capitale, cioè le opere e i lavori: questi presentano un meccanismo di spesa diverso che,

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parola d’archeologo se da un lato salva la manutenzione dei siti archeologici dai tagli continui che subiscono i fondi ordinari, dall’altro comporta alcune controindicazioni, come il fatto che i soldi arrivano piú tardi. I lavori devono essere appaltati, per legge, come per tutte le opere pubbliche, e questo allunga i tempi delle procedure». A questo proposito la Corte dei Conti sottolinea, peraltro, «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del MiBAC, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell’accreditamento dei fondi statali». In quali «casse» rimangono i denari che non si riescono a spendere per l’archeologia? «La giacenza di cassa sta nelle direzioni regionali del ministero dei Beni culturali che, da quattro che erano, sono diventate 17. A queste si aggiungono otto direzioni centrali, i Poli museali e le Soprintendenze speciali. Le stazioni appaltanti dei lavori sono le direzioni regionali, ma le procedure

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A sinistra: materiali archeologici provenienti da uno scavo. In basso: Roma, il Foro Romano. La manutenzione delle aree archeologiche è uno dei problemi del nostro patrimonio. di spesa sono estremamente complesse e presentano frequenti conflitti di competenza. Se vogliamo privilegiare controlli e trasparenza ci vuole piú tempo. Un mio collega ha contato 80 passaggi per l’affidamento di un lavoro». Quindi, in pratica, non si riescono a spendere i fondi disponibili per la manutenzione dei siti archeologici a causa della complessità del funzionamento stesso del ministero dei Beni culturali? «Sí, il problema della lentezza della spesa dipende principalmente da due motivi: dalla complessità delle strutture in cui è articolato il ministero e dalla complicazione

delle procedure. Basti pensare che un Soprintendente risponde in parte alla direzione regionale, in parte (per esempio sul deposito dei materiali archeologici) al Direttore Generale alle Antichità, in parte a quello del personale, in parte al Segretario generale… Attualmente le proposte dei lavori di manutenzione di siti archeologici e musei per l’anno successivo vengono impostate dal Soprintendente a giugno, vanno alla direzione regionale a luglio, alle direzioni generali a settembre, poi devono passare il parere del Segretariato e della direzione generale del personale.


Infine la programmazione dei lavori passa all’organo politico. Il risultato è che quello che un tempo, quando io ero Soprintendente archeologo dell’Emilia Romagna, facevo da settembre a ottobre, oggi si fa da giugno a novembre. La Corte dei Conti osserva cose giuste, ma il problema non sta nell’incapacità di gestione del personale, bensí nelle procedure e nell’organizzazione del ministero che, con le ultime tre riforme, è andata nella direzione della complessità, con grossi problemi di coordinamento dei poteri». E cosa è, invece, responsabilità degli archeologi? «A parole tutti gli archeologi condividono queste posizioni, ma è colpa nostra il fatto di non essere capaci di esprimere che cosa sia davvero l’archeologia oggi, per non parlare del fatto che non sappiamo divulgare… Nei musei ci sono pannelli leggendo i quali, il piú delle volte, io per primo mi annoio. Gli archeologi dovrebbero essere intanto piú uniti, e poi alzare lo sguardo dallo strato: quello che manca agli archeologi è una visione di insieme dell’archeologia piú legata alla realtà».

Portus (Ostia, Roma). Scavo di uno degli ambienti riferibili al «Palazzo Imperiale».

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n otiz iario

mostre Roma

il viaggio è finito!

I

n occasione delle Giornate del Patrimonio, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia presenta, per la prima volta, una piccola parte di un vero e proprio «patrimonio ritrovato»: materiali ceramici e bronzei scelti tra gli oltre 3000 reperti sequestrati nel 1995 in un deposito al Porto Franco di Ginevra, di proprietà di un trafficante italiano. Le indagini compiute dal 1995 al 2005 dalla Procura della Repubblica di Roma, affiancata dagli archeologi della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, hanno portato al sequestro degli archivi privati dei maggiori esponenti del traffico internazionale di materiale archeologico, che raccoglievano documenti e fotografie di oltre

quarant’anni di «attività». La mostra ricostruisce il lungo e complesso viaggio compiuto dai capolavori recuperati, perlopiú provenienti dall’Italia: dopo una breve storia degli scavi clandestini in Etruria e del conseguente traffico internazionale di reperti archeologici, vengono esaminate le rotte del traffico illecito, che consentivano il trasferimento degli oggetti dall’Italia alla prima importante tappa del percorso, la Svizzera, dove i materiali venivano trattenuti per i restauri e per la costruzione di una certificazione di legittima provenienza. Il sistema di «riciclaggio» e di «ripulitura» dei reperti messi in atto dall’organizzazione si avvaleva di note case d’asta e di famose collezioni private statunitensi, queste ultime con il ruolo di «transito temporaneo» dei reperti, destinati già in origine a incrementare le raccolte dei piú noti musei del mondo. Infatti, nell’articolata catena del traffico illecito, la meta finale era la vendita dei reperti ai musei stranieri, in particolare quelli statunitensi che, godendo di disponibilità economiche rilevanti, erano disposti a versare somme ingenti pur di accaparrarsi il pezzo migliore. Dopo il riciclaggio, l’organizzazione provvedeva al trasferimento dei beni dalla Svizzera verso le destinazioni finali: Inghilterra, Germania, Danimarca, Olanda, Belgio, Spagna, Francia, Stati Uniti, ma anche Australia e Giappone, dove sono stati rintracciati materiali venduti Particolare di un’antefissa in terracotta policroma con Menade e Sileno, da scavi clandestini. Inizi del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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Una delle Polaroid trovate negli archivi sequestrati presso il Porto Franco di Ginevra. Foto simili erano utilizzate nelle trattative per la vendita dei reperti trafugati dal trafficante italiano mediante noti mercanti internazionali. La documentazione raccolta dalla Procura di Roma ha consentito di delineare la portata del fenomeno del traffico illecito e il ruolo sostenuto dai principali esponenti del mercato internazionale; ma tale documentazione è anche una testimonianza dei metodi utilizzati dai maggiori musei del mondo per procacciarsi nuovi materiali archeologici, spesso nella consapevolezza della «illecita» provenienza dei beni e del nome italiano del vero venditore. Molti sono i musei coinvolti, dai piú grandi e conosciuti istituti europei e americani, alle piccole raccolte universitarie: istituzioni come il Museum of Fine Arts di Boston, l’University Museum of Art di Princeton, il Cleveland Museum of Art, il Metropolitan Museum of Art di New York e il J.P. Getty Museum di Los Angeles hanno dovuto restituire all’Italia i materiali che avevano acquistato dai trafficanti italiani che facevano parte dell’organizzazione. Tutti musei che, con i loro acquisti, hanno coperto attività illecite, hanno alimentato gli scavi clandestini e il mercato illegale con le loro esose proposte di acquisto, venendo meno ai loro codici di comportamento.


L’intenso lavoro compiuto in questi anni alla ricerca dei beni archeologici italiani dispersi ha ottenuto finora risultati positivi, che si possono cogliere non solo attraverso l’elevatissimo numero di reperti recuperati, ma, soprattutto, nel significativo calo degli scavi clandestini nelle aree archeologiche etrusche di Cerveteri, Vulci, Tarquinia, Veio, un tempo oggetto di vere e proprie razzie. La diminuzione degli scavi illeciti sembra quindi una diretta conseguenza delle importanti indagini aperte in Italia e in diversi Paesi stranieri, dei numerosi sequestri operati in Italia e all’estero, ma, soprattutto, dei processi penali aperti nei confronti di un noto trafficante internazionale, dell’ex curatrice della sezione antichità del Getty Museum e del trafficante italiano (quest’ultimo procedimento si è concluso con una pesante condanna). Tutto ciò ha inoltre

determinato il rallentamento delle acquisizioni di materiali archeologici italiani da parte delle istituzioni museali straniere, che non rischiano piú di comprare reperti privi di una provenienza certa. La mostra, aperta fino al 15 dicembre, è un’occasione per vivere il lungo e silenzioso «giro del mondo» compiuto dai capolavori archeologici recuperati, finito, fortunatamente, dove era iniziato. Daniela Rizzo

Dove e quando «I Predatori dell’arte e il Patrimonio ritrovato. ...le storie del recupero...» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 15 dicembre (dal 29 settembre) Orario martedí-domenica, 8,30-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 3226571; http://villagiulia.beniculturali.it

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torino

mostre Roma

L’UNESCO per l’Afghanistan

oltre il mito

Il Museo d’Arte Orientale di Torino ha ospitato il III UNESCO Expert Working Group, una piattaforma di lavoro e programmazione delle azioni intraprese e da intraprendere a tutela dei monumenti dell’antica Herat e del minareto di Jam, in Afghanistan. Per l’occasione è stata allestita la mostra fotografica «UNESCO’s Activities in Afghanistan», che, fino al 30 settembre, presenta una selezione di immagini realizzate dall’architetto Andrea Bruno, fin dai primi anni Settanta consulente UNESCO per il Paese asiatico. Un racconto illustrato di quanto fatto finora, non solo da parte degli esperti internazionali, ma anche dalle maestranze locali e dalla popolazione afgana, sempre piú consapevole della necessità di proteggere le testimonianze della propria storia.

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a storia dell’espansione politica e culturale dell’antica Roma viene raccontata per la prima volta attraverso una mostra. Un progetto ambizioso, che esplora due aspetti – dominio e integrazione – nell’intento di trasmettere una visione poliedrica del mondo romano. Il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo nel Foro Romano, sono le sedi in cui si articola il percorso espositivo: dalle origini di Roma alla conquista dell’Italia e delle province; gli influssi culturali e religiosi; schiavitú e melting pot etnico; visioni antiche e moderne. Oltre cento opere narrano una storia complessa e affascinante, percepita ancora oggi nell’immaginario collettivo secondo stereotipi ricorrenti. Un fenomeno che trova un riflesso immediato nei romanzi storici e soprattutto nel cinema, a cui è

dedicata un’intera sezione: i Romani sono regolarmente rappresentati come un popolo violento e sadico, razzista, privo di motivazioni che non siano l’esercizio e il rafforzamento del loro dominio, lo sfruttamento delle altre genti, la repressione del dissenso politico e delle religioni dissonanti. Il titolo della mostra, «Roma capitale del mondo» (caput orbis terrarum o caput mundi), riprende un concetto usato dagli antichi come metafora di una potenza universale. Ma i Romani insistevano anche sul fatto che fin dalle origini la loro era stata una «città aperta» alle altre genti. Infatti, essi praticarono una politica dell’integrazione che non trova riscontri di uguale entità nell’intera storia universale: ritenevano irrilevante la purezza della stirpe, concedevano facilmente la cittadinanza, liberavano gli schiavi con procedure semplici e lo schiavo liberato era un «quasi cittadino». La potenza bellica era dunque solo uno dei volti di Roma caput mundi. (red.)

Statua di imperatore divinizzato, rielaborato come Claudio. Forse di età claudia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Dove e quando «Roma caput mundi. Una città tra dominio e integrazione» Roma, Colosseo e Foro Romano fino al 10 marzo 2013 (dal 3 ottobre) Orario tutti i giorni, dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto; non si effettua chiusura settimanale. Info tel. 06 39967700; www.pierreci.it Catalogo Electa

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con

archeo in viaggio a

istanbul Dal 6 al 9 dicembre 2012

alla scoperta delle meraviglie della città sospesa tra europa e asia, crogiolo millenario di genti e culture Con la guida di Marco Di Branco, collaboratore di «Archeo» e professore di Storia Bizantina all’Università di Roma «La Sapienza».

DESCRIZIONE QUOTA IN EURO PER PERSONA Quota di partecipazione min. 10 partecipanti

€ 1490

Quota di partecipazione min. 15 partecipanti

€ 1350

Supplemento sistemazione in singola

da € 140

Tasse aeroportuali previste

€ 102

Assicurazione medico/bagaglio/ annullamento da

programma 1° giorno – giovedí 06.12 Roma/Istanbul Ritrovo all’aeroporto di Roma Fiumicino e partenza alle ore 11.00 per Istanbul. Arrivo alle ore 14.30. Trasferimento in città. Alle ore 16.00 passeggiata nell’Ippodromo. Alle ore 18.00 crociera sul Bosforo in battello. Cena in ristorante, situato sul Bosforo. Pernottamento in albergo.

2° giorno – venerdí 07.12 Istanbul Prima colazione in albergo. La mattina visita del Museo archeologico. Pranzo libero. Nel pomeriggio: la chiesa delle Pammakaristos, la chiesa di San Salvatore in Chora e il palazzo delle Blacherne (Tekfur Saray). Cena in ristorante nella zona di Santa Sofia. Pernottamento in albergo.

moschea di Solimano il Magnifico. Pranzo libero. Pomeriggio dedicato alla moschea di Sokollu, al Museo dei Mosaici del Grande Palazzo, alla moschea di Rustem Pasha, al Bazar delle Spezie. Passaggio dal Ponte di Galata e rientro in albergo. Cena con spettacolo sulla Torre di Galata. Rientro in albergo e pernottamento.

4° giorno – domenica 09.12 Istanbul/Roma Prima colazione in albergo. Visita alla chiesa di Santa Sofia e alla cisterna di Yerebatansaray. Pranzo in ristorante. Partenza per l’aeroporto e rientro a Roma Fiumicino con volo delle ore 16.30. Arrivo alle ore 18.05.

€ 21

La quota comprende: • Passaggi aerei internazionali in classe turistica con franchigia di un bagaglio a persona di Kg. 20 • Sistemazione in camera doppia presso l’Hotel PointTaxim (4* Sup.) o similare • Trattamento di pernottamento e prima colazione con pranzi o cene in ristorante come da programma • Trasferimenti aeroporto/hotel/aeroporto all’arrivo e alla partenza • Visite con guida parlante italiano • Ingressi ai monumenti menzionati nel programma • Assistenza dei nostri corrispondenti in loco • Accompagnamento specialistico dall’Italia La quota non comprende: • Pasti non indicati, bevande, mance e quanto non espressamente menzionato nel programma Condizioni Generali da cataloghi Lombard Gate Milano, 31 agosto 2012 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 – 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it

3° giorno – sabato 08.12 Istanbul Prima colazione in albergo. La mattina visita al Gran Bazar, alla

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mostre Roma

Il terzo «giorno» di roma

T

erzo capitolo del progetto espositivo «I giorni di Roma» (i precedenti erano stati «L’età della conquista» e «Ritratti. Le tante facce del potere»), la nuova esposizione allestita ai Musei Capitolini approfondisce la conoscenza di un periodo storico di splendore artistico e di grande equilibrio politico, quello compreso tra il 98 e il 180 d.C.:

dal principato di Traiano a quello di Marco Aurelio. Gli ottanta anni dei tempi aurei, o meglio definiti i felicia tempora: il periodo del massimo splendore dell’impero romano, raccontato attraverso le vite dei quattro imperatori scelti «per adozione», dunque in virtú delle loro qualità personali e non per diritto di nascita, che hanno determinato il successo di un incomparabile equilibrio tra il potere dell’esercito, il potere del senato e quello dell’impero. L’«Età dell’Equilibrio», che va da Traiano a Marco Aurelio, piú che una splendida gemma tra età di crisi, è un periodo in cui maturano i frutti positivi della politica di dominazione romana: in particolare, la pace mediterranea, l’unificazione dello spazio monetario, la diffusione del sistema legislativo e giudiziario e delle forme contrattuali proprie del diritto romano e la diffusione del modello di vita urbano anche nella periferia dell’impero. Al contempo, è l’età in cui cessano gli effetti drammatici e In alto: sarcofago con scena di Amazzonomachia. II sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. A sinistra: ritratto di Faustina Minore. 147-8 d.C. Roma, Musei Capitolini.

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negativi della conquista romana, come l’economia di rapina, le vessazioni tributarie che i provinciali avevano subito da parte dei publicani, le violenze della conquista e del controllo armato del territorio. Un generale miglioramento dei fattori di produzione e commercializzazione e in ultima analisi una crescita economica su scala globale. Attraverso la visione di statue in marmo, raffinate opere in bronzo e terracotta, interi cicli scultorei, fregi ed elementi di arredo domestico in bronzo e argento, del piú alto valore stilistico, si narra un’epoca del consenso. Consenso all’interno della classe di governo, tra senatori, cavalieri e imperatori, e consenso tra amministratori imperiali ed élite periferiche e provinciali, è un fenomeno di portata epocale indiscutibile. (red.)

Dove e quando «L’Età dell’Equilibrio Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio» Roma, Musei Capitolini fino al 5 maggio 2013 (dal 4 ottobre) Orario martedí-domenica, 9,00-20,00; chiuso lunedí Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); http://museicapitolini.org


incontri Paestum

fervono i preparativi...

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archeologo tunisino, già Ministro della Cultura, l’ingegner Giorgo Croci e l’architetto Andrea Bruno, tra i massimi esperti di conservazione e restauro architettonico. La Direzione Generale per le Antichità del MiBAC organizzerà il convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», con interventi degli Assessori Regionali al Turismo e ai Beni Culturali, dei Soprintendenti delle aree archeologiche del Sud Italia oltre che dei vertici delle Organizzazioni nazionali di categoria. «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo» sarà il tema del convegno a cura della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, previsto venerdí 16 con la partecipazione dei direttori delle missioni archeologiche impegnate nei Paesi dell’area: Turchia, Siria, Libano, Giordania, Israele, Palestina, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco. ArcheoVirtual, Mostra e workshop sull’archeologia virtuale a cura del Virtual Heritage Lab dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR con la direzione scientifica di Sofia Pescarin, farà scoprire le nuove frontiere della ricerca scientifica e tecnologica legate al mondo antico. Nell’ambito di ArcheoLavoro, le Università presenteranno i Corsi di Laurea e i Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre gli esperti del settore illustreranno le figure professionali e le competenze emergenti. I Laboratori di Archeologia Sperimentale, con la direzione scientifica di Mauro Casaretto del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, presenteranno la cultura antropologica e materiale dell’antichità, attraverso la riproduzione delle tecniche utilizzate per realizzare manufatti d’uso quotidiano. Per ulteriori informazioni e per il programma della manifestazione: www.borsaturismo.com a r c h e o 25

infor mazione pubblicitar ia

i è rimessa in moto la macchina organizzativa della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, la cui XV edizione è in programma a Paestum, dal 15 al 18 novembre. Paese Ospite ufficiale sarà quest’anno l’Armenia, mentre fra i Paesi esteri che parteciperanno al Salone Espositivo, vi saranno per la prima volta il Tatarstan e il Kenya. In occasione del trentennale della Domenica del Sole 24 Ore e del «Manifesto per la cultura» promosso dalla testata, domenica 18 avrà luogo l’incontro «Le Associazioni per la diffusione della cultura della conservazione, della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale», moderato dal direttore della Domenica, Armando Massarenti, e al quale partecipano Franco Iseppi, presidente del TCI, Enrico Ragni, presidente dei Gruppi Archeologici d’Italia, Claudio Zucchelli presidente degli Archeoclub d’Italia. Al VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione e l’occupazione» in collaborazione con ICCROM e «Archeo», parteciperanno i direttori delle principali testate archeologiche, Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, e Maurizio Melani, Direttore Generale DG per la Promozione del Sistema Paese Ministero degli Affari Esteri; sono stati inoltre invitati ad intervenire Snežana Samardžic-Markovic, Direttore Generale per la Democrazia del Consiglio d’Europa, Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale del Direttore Generale dell’UNESCO, Pier Luigi Celli, Presidente dell’ENIT, Antonia Pasqua Recchia, Segretario Generale del MiBAC, e Pasquale Muggeo, Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Modererà il direttore di «Archeo», Andreas M. Steiner. Nell’incontro «La rinascita del Mezzogiorno è nel passato», Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene e Presidente della Fondazione Paestum, Angela Pontrandolfo, Presidente Consulta Universitaria per l’Archeologia del Mondo Classico, Alessandro Laterza, Vice Presidente di Confindustria per il Mezzogiorno, dialogheranno con Andrea Carandini, già Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Modererà Paolo Conti giornalista del Corriere della Sera. All’Incontro con i Protagonisti «I grandi segni dell’uomo» Roberto Giacobbo, autore e conduttore di Voyager Rai 2, intervisterà Azedine Beschaouch,


calendario

Italia Roma Orti e giardini

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta

Il cuore di Roma antica Palatino fino al 14.10.12

Marmo, Latte e Biancospino

Mostra fotografica sull’Appia Antica Capo di Bove fino al 31.12.12

In alto: affresco con pittura di giardino, dalla Villa di Livia a Prima Porta.

Roma caput mundi

Una città tra dominio e integrazione Colosseo-Foro romano fino al 10.03.13 (dal 03.10.12)

asti Etruschi

L’ideale eroico e il vino lucente Palazzo Mazzetti fino al 14.10.12

Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13

montepulciano Una porta sull’aldilà

Dal mondo egizio agli Etruschi Museo Civico Pinacoteca Crociani fino al 30.09.12

Piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.

padova Le memorie ritrovate

In alto: particolare di statua loricata raffigurante Traiano.

Materiali dal monastero di S. Chiara di Cella Nova a Padova Palazzo Zuckermann fino al 18.11.12

piacenza Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

chianciano terme De Chirico Il ventre dell’archeologo Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

Splendori etruschi

pienza Tular-Tolle

chieti Tesori dell’età del Ferro dalle necropoli dell’Abruzzo antico

Roccapelago di Pievepelago (MO) Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII sec.)

Capolavori dal Museo Archeologico di Firenze Museo Civico Archeologico fino al 30.09.12

Testimonianze etrusche tra Val di Chiana e Val d’Orcia Conservatorio S. Carlo Borromeo fino al 30.09.12

Museo Archeologico Nazionale Villa Frigerj fino al 06.01.13 (dal 29.09.12)

Vita e morte di una piccola comunità dell’Appennino modenese Museo «Sulle orme di Obizzo di Montegarullo» e chiesa della Conversione di San Paolo fino al 14.10.12

chiusi Ori e gemme del Museo Nazionale Etrusco

spello Aurea Umbria

Museo Nazionale Etrusco fino al 30.09.12

Il Vaso François

Museo Civico «La Città Sotterranea» fino al 31.10.12

+110

Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13

Guidonia Montecelio (Rm) Archeologi tra ‘800 e ‘900 Città e monumenti riscoperti tra Etruria e Lazio antico Ex Convento San Michele fino al 05.11.12 26 a r c h e o

L’edificio neoclassico, sede del Museo Etrusco di Chiusi.

Una regione dell’impero nell’era di Costantino Palazzo Comunale fino al 09.12.12

tarquinia Il Tumulo della Regina

Immagini di una scoperta archeologica nella necropoli di Tarquinia Biblioteca Comunale, Sala Grande fino al 28.10.12

teramo Ashby e l’Abruzzo

Museo Civico Archeologico «F. Savini» fino al 30.09.12

Materiali dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia tivoli Antinoo

lione Il sottosuolo dell’Antiquaille

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12

venafro Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

vetulonia Il modello inimitabile

In alto: la testa dell’Antinoo Farnese. A sinistra: cimasa di candelabro in bronzo con Eos e Kephalos, da Ruvo del Monte.

Percorsi di civiltà fra Etruschi, Enotri e Dauni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.12

vulci (canino, vt) La Sfinge

La mostra presenta gli eccezionali rinvenimenti effettuati durante la campagna di scavo 2011-2012 nella necropoli dell’Osteria di Vulci, uno dei piú importanti centri dell’Etruria (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012). La necropoli, già nota a partire dall’Ottocento per gli straordinari complessi funerari riportati alla luce, come la Tomba del Sole e della Luna, la Panatenaica e quella dei Soffitti Intagliati, ha restituito, al termine della campagna di scavo, una monumentale sepoltura, la Tomba della Sfinge, risalente al VI secolo a.C. L’importanza della famiglia, a cui il sepolcro è dedicato, è testimoniata sia dalle eccezionali dimensioni del lungo corridoio di accesso (dromos), sia dalle caratteristiche architettoniche delle tre camere funerarie. Tra i primi reperti tornati alla luce è la magnifica scultura in nenfro raffigurante una sfinge, probabilmente collocata all’ingresso della sepoltura con lo scopo di proteggere i defunti e accompagnarli nell’aldilà. La testa di una seconda sfinge, proveniente da un’altra tomba della necropoli, a un primo intervento di restauro ha permesso di individuare le originarie tracce di colore rosso. Sono inoltre in esposizione corredi con ricchi materiali di produzione greca.

dove e quando

Reperti da un antico convento Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière fino al 30.11.12

A sinistra: statua in marmo della dea dell’Abbondanza. II-III sec. d.C.

Strasburgo Un’arte dell’illusione

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Germania Stoccarda Il Mondo dei Celti

Centri di potere-Tesori d’arte Kunstgebäude e Landesmuseum Württemberg fino al 17.02.13

Gran Bretagna Cambridge Alla ricerca dell’immortalità

Tesori dalle tombe della dinastia Han The Fitzwilliam Museum fino all’11.11.12

Svizzera Prangins Archeologia

Tesori del Museo nazionale svizzero Château de Prangins fino al 14.10.12

USA filadelfia Maya 2012: signori del tempo

University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13

Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31 ottobre Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; www.etruriameridionale. beniculturali.it; www.vulci.it

a r c h e o 27


corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

1240 sacchi di ceramica... il riesame delle indagini condotte da dimitrios Theocharis a Volos approfondisce le caratteristiche di un singolare centro amministrativo miceneo in Tessaglia

T

ra le celebrità dell’archeologia greca figura Dimitrios Theocharis, che, nel 1956-1961, intraprese ricerche sulla collina di Kastro-Paleà a Volos, in Tessaglia. Allora soprintendente della regione, nonché membro della Società Archeologica, lo studioso decise di scavare in quella zona alla ricerca di prove; prove della teoria esposta alcuni decenni prima da Christos Tsountas, altro illustre archeologo ellenico, secondo il quale la collina corrisponderebbe alla mitica Iolco, il sito connesso

alla leggenda di Giasone, Medea e gli Argonauti. Theocharis eseguí alcuni sondaggi sul lato settentrionale e su quello nordoccidentale della collina di KastroPaleà, ricavandone la conferma che l’area era stata abitata senza soluzione di continuità dal Protoelladico II (metà del III millennio a.C.) fino a oggi.

un palazzo miceneo Tra i rinvenimenti piú importanti, vi furono quelli dei resti di una struttura che Theocharis ritenne un

A destra: frammento di tavoletta con una iscrizione in Lineare B, da Kastro-Paleà. In basso: Kastro-Paleà, scavi Theocharis. L’esplorazione di una delle stanze dell’edificio amministrativo miceneo.

28 a r c h e o

Volos

Mare Egeo

GRECIA Atene

Mar Ionio

palazzo miceneo, costruito nel Tardo Elladico IIIB e distrutto da un incendio attorno al 1200 a.C., in contemporanea con i palazzi di Tirinto, Micene, Tebe e Pilo. I rinvenimenti di quegli scavi non furono mai pubblicati in maniera esaustiva. A oltre cinquant’anni di distanza, colma questa lacuna un progetto internazionale e interdisciplinare, finanziato dal Ministero Ellenico alla Cultura e dall’INSTAP (Institute for Aegean Prehistory); lo dirige un’archeologa del Museo di Volos, Evanghelia


Frammenti ceramici con rappresentazioni di navi.

Skafidà, coadiuvata da esperti greci e non, tra cui Jean-Pierre Olivier e Artemis Karnavà, specialisti di scritture egee. Alla studiosa abbiamo chiesto di illustrare i punti salienti del progetto. «In effetti, stiamo effettuando un secondo scavo nei dati archeologici e nel materiale d’archivio» ci spiega. «E una ricerca di questo genere riserva molte sorprese. A ogni passo sulla via dell’interpretazione del materiale, la nostra squadra riscopre il carattere pionieristico e previdente di Theocharis. Per esempio, grazie a lui si è conservato il complesso che stiamo studiando, perché provvide a reinterrare con cura tutte le aree che aveva scavato», dichiara. Il progetto vede i partecipanti attivi

Ma uno dei risultati piú interessanti è stato regalato proprio dallo «scavo» nei 1240 sacchi di ceramica recuperati da Theocharis: sono stati trovati, infatti, due frammenti di tavolette con testi in Lineare B, che, per forma, vocabolario e tipo di scrittura, si inseriscono perfettamente nel contesto delle tavolette note da altri centri palaziali micenei. «I rinvenimenti di Volos confermano con certezza l’unitarietà degli archivi in Lineare B, da un capo all’altro del mondo miceneo: non si può ormai negare che vi fosse una sola scuola di su vari fronti. Innanzitutto, scrittura Lineare B, nella quale tutti l’archivio Theocharis è stato gli scribi-impiegati amministrativi arricchito con materiale fornito apprendevano a leggere e scrivere, dalla coniuge dell’archeologo, come dimostrano le ricerche Maria, che scavò assieme a lui in paleografiche affidate a Jean-Pierre quest’area. Inoltre, si stanno Olivier e Artemis Karnavà», effettuando lavori di pulizia e sottolinea ancora Skafidà. restauro dell’unica sezione di scavo Insomma, quello di Kastro-Paleà fu conservata, la «Fossa III». un importante insediamento miceneo della Tessaglia; si trattava, per di piú, di un singolare centro scambi e commerci amministrativo, che costituisce il Ancora, si sta studiando la solo sito nel golfo di Volos ceramica rinvenuta durante le occupato ininterrottamente dalla indagini: sono stati individuati metà del III millennio a.C. frammenti di ceramica Il programma terminerà nel 2014 e d’importazione (da Egina, Creta, chissà che non riservi altre dall’Argolide, e perfino dalle coste importanti sorprese per il futuro. siro-palestinesi), fatto che indica che si trattava di un centro attivo capace di intrattenere relazioni con Veduta attuale della trincea di scavo altri centri mediterranei. Theocharis, con il palazzo miceneo.

a r c h e o 29


l’inchiesta • iraq

IRAN fr

at

e

IRAQ

ri Tig

SIRIA

Eu

Baghdad

Babilonia

ARABIA SAUDITA

Ur

ritorno

a babilonia KUWAIT

a cura di Stefania Berlioz e Andreas M. Steiner

Nell’estate del 2003, sull’onda del clamore suscitato dal saccheggio dell’Iraq Museum di Baghdad, «Archeo» usciva con un’edizione straordinaria, interamente dedicata all’Iraq, dal titolo «La civiltà fatta a pezzi». A quasi dieci anni da quei drammatici avvenimenti inauguriamo oggi, con due interviste a Massimo Bellelli, Ministro Plenipotenziario per il Medio Oriente, e a Saywan Barzani, Ambasciatore della Repubblica dell’Iraq in Italia, una serie di inchieste per far luce su quanto è stato fatto di concreto per la riabilitazione del patrimonio archeologico dell’Iraq e su quali siano gli obiettivi futuri. 30 a r c h e o


A destra: l’assedio di Baghdad del 1258, doppia pagina miniata da un’edizione del Jami al-Tawarikh (Compendio delle Storie) di Rashid ad-Din Fadl Allah. 1430 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto: un soldato iracheno posa davanti alla ziqqurat di Ur, nell’Iraq meridionale; la copertina dell’edizione speciale di «Archeo» dell’estate del 2003.

N

ei calendari romani di epoca imperiale il dies quartus decimus ante Kalendas Augustas – il 18 luglio – veniva registrato come nefasto a imperitura memoria di un episodio assai lontano nel tempo, ma ancora percepito come una ferita aperta, la pagina piú nera della storia di Roma: il 18 luglio del 390 a.C., alla confluenza del Tevere con il fiume Allia, l’esercito romano venne sbaragliato da un possente manipolo di Galli, guidati dal re Brenno. All’onta della sconfitta seguí, ancora piú oltraggiosa, la violazione delle mura cittadine: inebriati dalla vittoria i Galli entrarono a Roma senza incontrare resistenza alcuna – la città era deserta – dandosi al saccheggio e alla distruzione. Non venne risparmiato l’archivio di Stato, con tutti i documenti e le cronache ufficiali. Il passato di Roma non esisteva piú. Ci sono episodi nella storia dei popoli che, indipendentemente dalla loro reale portata distruttiva, rimangono impressi nella memoria collettiva come immani catastrofi, punti di non ritorno. Cosí il Sacco dei Galli: poco piú che una scorre-

ria se inquadrata nell’ambito delle migrazioni celtiche verso Occidente e il Mediterraneo del I millennio a.C.; una catastrofe senza precedenti e una lacerante cesura nella storia di Roma.

Baghdad, 10 febbraio 1258 Nella memoria del popolo iracheno, e piú in generale del mondo islamico, il dies nefastus, il punto di non ritorno, viene identificato con il 4 Safar 656 (il 10 febbraio 1258, secondo il calendario gregoriano). La furia dell’esercito mongolo guidato da Hulegu, nipote di Gengis Khan, si abbatte su Baghdad, la splendida capitale del califfato abbaside, la leggendaria città di Harun al Rashid e delle Mille e una Notte. Gli abitanti vengono trucidati, le case saccheggiate, i monumenti distrutti impietosamente. A quei tempi si contavano a Baghdad 36 biblioteche. Tutte vennero sistematicamente distrutte e i preziosi rotoli e antichi manoscritti dati alle fiamme o gettati nel Tigri. Talmente numerosi che l’inchiostro, sciogliendosi, tinse di nero le acque del

fiume. Talmente numerosi da formare un ponte, attraversato trionfalmente dalla fanteria e dalla cavalleria dei conquistatori. E poco importa che l’invasione mongola andava a colpire un califfato ormai esautorato dei suoi antichi poteri e un Paese che da tempo aveva perso la sua centralità politica, economica e culturale all’interno del mondo islamico. Quel giorno segnava la fine di un’epoca. È solo un flash, un batter di ciglia, ma l’immagine della distruzione mongola affiora alla mente di Saywan Barzani, Ambasciatore della Repubblica dell’Iraq in Italia, quando ci racconta del saccheggio, dell’incendio e del successivo allagamento della Biblioteca Nazionale di Baghdad, nell’aprile del 2003: «Assistevamo alla distruzione della nostra cultura, della nostra storia».

Anno zero... Baghdad, 12 aprile 2003. Le immagini, in tempo reale, del saccheggio dell’Iraq Museum fanno il giro del mondo, suscitando incredulità e sgomento. Nei giorni seguenti le notizie e i dispacci circa l’entità della a r c h e o 31


l’inchiesta • iraq

razzia si moltiplicano, in un crescendo di numeri. Si parla di 170 000 reperti trafugati, poi di 50 000, poi di 100 000. Lo sgomento iniziale cede il posto all’indignazione espressa da tutta la comunità internazionale. Il caos è totale. «Questo è l’anno zero», scrive il giornalista statunitense Robert Fisk in un articolo apparso nell’Independent del 15 aprile. Per un attimo tutti si dimenticano – o forse non ricordano, o proprio non sanno – che lo scempio del patrimonio culturale dell’Iraq ha radici profonde. L’ambigua politica culturale di Saddam Hussein, le guerre, il durissimo embargo decretato nel 1991 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (terminato nel maggio del 2003) hanno lasciato un’eredità pesantissima in termini di povertà e isolamento del

32 a r c h e o

Paese. Lo sfacelo del patrimonio culturale iracheno, delle sue istituzioni museali e dei siti archeologici – le spoliazioni sistematiche, gli scavi clandestini – si è consumato silenziosamente negli ultimi trent’anni. Le responsabilità dell’Occidente, che ha distrutto ciò che ha contribuito a costruire, sono enormi. Il 16 aprile le autorità militari statuniten-

si danno finalmente (e tardivamente) ordine di presidiare e proteggere il Museo di Baghdad. Mentre la polemica infuria, in un turbinio di accuse e giustificazioni, si cominciano a fare bilanci e a prendere i primi provvedimenti. Se viene ridimensionato, rispetto alle stime iniziali, il numero dei reperti trafugati nell’Iraq Museum (14-15 000, molti dei qua-

A sinistra: la monumentale scalinata della ziqqurat di Ur, innalzata alla fine del III mill. a.C., e dedicata al dio della luna Nanna, principale divinità cittadina. Della torre a gradoni, alta piú di 20 m, rimangono il primo e parte del secondo piano. In alto: l’immagine mostra l’attuale stato di degrado in cui versa l’antico monumento.

li restituiti spontaneamente dalla popolazione), si aprono i riflettori sui danni subiti dalle altre istituzioni museali e culturali irachene – a Baghdad come nel resto del Paese – e sul drammatico problema degli scavi clandestini e delle razzie sistematiche dei siti archeologici. Nell’ambito dell’Autorità Provvisoria Alleata in Iraq la guida del dicastero preposto alla gestione dei beni culturali dell’Iraq viene affidata all’Italia. Di quanto è stato fatto in questi anni e dei progetti in cantiere ci ha parlato Massimo Bellelli, Ministro Plenipotenziario per il Medio Oriente e Coordinatore della Task Force Iraq (l’unità interministeriale italiana preposta al coordinamento degli interventi di ricostruzione e stabilizzazione del Paese), durante un incontro avvenuto lo scorso luglio, nel suo ufficio al quinto piano della Farnesina, la sede del Ministero degli Affari Esteri. Stefania Berlioz


una task force per l’iraq incontro con Massimo Bellelli, Ministro Plenipotenziario per il Medio Oriente ◆M inistro, quando è nata la Task Force Iraq, e con quali finalità? La Task Force Iraq è stata istituita dal Governo italiano nel maggio del 2003, all’indomani degli eventi bellici, per mettere a punto un piano operativo di emergenza. Si tratta in sostanza di una unità interministeriale, coordinata dal Ministero degli Affari Esteri, il cui obiettivo prioritario è stato quello di guidare gli interventi italiani di ricostruzione e stabilizzazione del Paese. ◆E quali sono i principali ambiti di intervento? Al termine della fase di prima emergenza – nella quale abbiamo provveduto alla fornitura di apparecchiature mediche, generatori di elettricità, impianti di potabilizzazione delle acque – l’impegno della Task Force Iraq si è dispiegato a tutto campo, concordando con le controparti irachene interventi legati alla sanità, all’agricoltura e alle risorse idriche, alle infrastrutture, al recupero del patrimonio culturale, alla formazione e Institution Building. ◆P uò fare un bilancio dell’impegno italiano nel campo della salvaguardia del patrimonio culturale iracheno? Nella fase di emergenza è stata data priorità assoluta all’Iraq Museum di Baghdad. Primi interventi sono stati la messa in sicurezza del sito e l’allestimento di un nuovo, modernissimo laboratorio di restauro, già operativo agli inizi del 2004. Finita la fase di prima emergenza, l’Italia, tramite la Task Force Iraq, ha concordato con la controparte irachena (lo State Board of Antiquities and Heritage of Iraq) una strategia per la riabilitazione a medio-lungo termine del patri-

«Primi interventi sono stati la messa in sicurezza del museo archeologico e l’allestimento di un nuovo, modernissimo laboratorio di restauro» monio culturale iracheno. Sono state stanziate ingenti risorse finanziarie e coinvolte tutte le eccellenze italiane, tra cui l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, il Centro Ricerche Archeologi-

che e Scavi di Torino, il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Nel novembre del 2008 è stato ultimato il progetto di riapertura parziale dell’Iraq Museum: i lavori di riallestimento hanno interessato la galleria della scultura monumentale assira, la galleria della decorazione architettonica islamica e il grande cortile centrale. Sono stati progettati gli interventi di riabilitazione dei musei di Diwaniya, Nassiriya e Najaf al Sud, di Mosul e Suleymania al Nord. Intensa l’attività nel campo della conservazione e del restauro. Gli interventi si sono concentrati su numerosi reperti custoditi presso l’Iraq Museum di Baghdad, dagli avori di Nimrud al vaso di Warka, capolavoro dell’arte sumerica della fine del IV millennio a.C. Abbiamo puntato molto e continueremo a puntare sulla formazione, sul mettere a disposizione il nostro know how e le nostre esperienze per un’autonoma ripresa, da parte dell’Iraq, della gestione delle proprie risorse. ◆ L’impegno dell’Italia oggi: quali sono i nuovi progetti in cantiere? Con la chiusura, nel 2011, del Provincial Reconstruction Team di stanza a Nassiriya (l’unità a direzione italiana che ha coordinato gli interventi di aiuto internazionale nel Governatorato del Dhi-Qar), l’Italia non conta piú una grande unità operativa sul territorio. Abbiamo tuttavia mantenuto «sul campo» una nutrita squadra di esperti, a Baghdad e a Erbil. Sul fronte dei progetti siamo invece in piena attività. Il prossimo 18 ottobre si riunirà a Roma la commissione mista bilaterale ItaliaIraq presieduta dai due ministri degli Affari Esteri, Giulio Terzi e Hoshyar a r c h e o 33


l’inchiesta • iraq

Un capolavoro sumero In basso: il «Vaso di Warka», vaso rituale in marmo della fine del IV millennio a.C., proveniente dal santuario dell’Eanna di Uruk (Warka). Trafugato durante il saccheggio dell’Iraq Museum, il reperto è stato successivamente restituito in frammenti. Il restauro di questo capolavoro dell’arte sumerica è stato condotto da un’équipe dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, coordinata da Alessandro Bianchi. In alto: Stefania Berlioz con Massimo Bellelli, Ministro Plenipotenziario per il Medio Oriente.

l’Iraq Museum di Baghdad, sia nel campo del riallestimento che in quello del restauro. Importanti interventi di conservazione sono stati recentemente condotti nel sito archeologico di Ur, contestualmente ad attività di formazione. Sono stati finanziati progetti di ricerca archeologica: già attivo da un anno è lo scavo del sito di Abu Tbeirah, nel governatorato del Dhi-Qar (vedi «Archeo» n. 322, dicembre 2011); mentre è stato appena avviato «Terra di Ninive», un importante progetto multidisciplinare – sono previsti scavi, ricognizioni e la creazione di un parco archeologico – nella Regione Autonoma del Kurdistan (vedi box a p. 37). Zebari. Il nostro Paese ha deciso di concentrare l’attenzione sulla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale quale intervento qualificante dell’Italia a favore dell’Iraq. Sono state stanziate nuove risorse finanziarie e abbiamo offerto la disponibilità dell’utilizzo di una linea di credito d’aiuto per contribuire alla realizzazione di un importante progetto che gli Iracheni hanno in cantiere: la costruzione, a Baghdad, di un nuovo grandioso polo museale. Continua intanto l’attività italiana presso 34 a r c h e o

◆U n progetto di ricerca archeologica presuppone un intervento diretto sul territorio, spesso in aree isolate dai centri abitati. Quali sono oggi i problemi legati alla sicurezza? La situazione in Iraq è molto migliorata, ma il rischio c’è, sempre. Condizioni di sicurezza si hanno nel Nord, nella regione autonoma del Kurdistan, e nel Sud, tra Nassiriya e Bassorah. La cautela è comunque d’obbligo, soprattutto per i turisti occidentali ai quali consigliamo di girare sempre accompagnati da guide locali.


un patrimonio che sopravviverà incontro con saywan barzani, ambasciatore della repubblica dell’iraq in italia Nel 2003, all’indomani degli eventi bellici, l’Iraq ha intrapreso il difficile cammino della transizione democratica. I passi compiuti, sino a oggi, sono enormi. È stata approvata tramite referendum popolare una nuova costituzione; si sono svolte elezioni democratiche (nel 2005 e nel 2010), le prime dopo quarant’anni. L’attuale governo, pur tra mille difficoltà e polemiche, è solido e rappresentativo di tutte le componenti politiche. Il Paese sta riconquistando un ruolo di primo piano sia nell’ambito della regione araba (Baghdad ha ospitato l’ultimo summit dei capi di stato della Lega Araba) che a livello internazionale (ancora a Baghdad si è svolto il secondo round di negoziati sul nucleare tra Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite piú la Germania, per l’Unione Europea). Se tutti gli sforzi sono attualmente indirizzati alla riorganizzazione interna e alla ricostruzione dei servizi e delle infrastrutture di base, l’Iraq guarda con grande attenzione e sensibilità – in termini di tutela e conservazione – anche al settore dei beni culturali. «Un patrimonio che continuerà a sopravvivere quando le risorse petrolifere verranno meno», con queste parole Saywan Barzani, l’ambasciatore della Repubblica dell’Iraq in Italia introduce l’incontro con «Archeo», avvenuto, sempre lo scorso luglio, nella sede dell’ambasciata a Roma, in via della Camilluccia. Questo lungimirante ambasciatore non guarda al patrimonio culturale dell’Iraq come a un potenziale volano economico,

«A Baghdad il governo intende realizzare un nuovo grande polo museale, custode della storia millenaria del nostro Paese» ma come a un perno attorno al quale ricostruire l’identità del Paese, la sua coesione interna. Si diverte a enumerarci le tante ricorrenze e festività, civili e religiose, che segnano, oltre che il calendario iracheno, la sua agenda. Una lista interminabile: sembra che l’Iraq ne conti piú di ogni altro Paese al mondo. Ognu-

na è espressione di una delle tante confessioni religiose, etnie e minoranze che compongono l’universo Iraq, Paese che ha fatto della convivenza – non sempre pacifica, come tutte le convivenze – un modus vivendi, da millenni a questa parte. Solo se il bene culturale viene riconosciuto e vissuto dall’intera comunità come un bene comune diventa fruibile anche per gli altri, diviene patrimonio dell’umanità. Solo parole? Tra i tanti progetti che il Paese ha in cantiere uno sarà realizzato a Roma, presso la sede dell’Ambasciata. Nel progetto è prevista la ricostruzione integrale di Villa Petacci, di mussoliniana memoria, superba espressione dell’architettura razionalista italiana degli anni Trenta del secolo scorso. L’Iraq si fa carico di un pezzetto della nostra memoria storica, riconosce il valore di questo bene culturale e lo valorizza vivendolo come bene comune: qui avrà sede la prima Accademia Araba dell’Iraq d’Europa. ◆ Ambasciatore, dal 2003 a oggi l’Iraq ha fatto grandi passi in avanti in ogni settore della vita civile, a iniziare dal fronte politico-istituzionale. Quali sono le attuali priorità del governo? Le priorità sono tutte legate alla riorganizzazione interna e alla ricostruzione. Se molto è stato fatto, moltissimo resta ancora da fare, a iniziare da settori vitali quali i servizi: acqua, luce, gas. Nel sud del Paese l’erogazione di energia elettrica viene garantita per circa 9-10 ore al giorno, contro le 22-23 del nord. Un divario enorme, che va a r c h e o 35


l’inchiesta • iraq

colmato al piú presto. Priorità assoluta, insieme ai servizi, hanno le infrastrutture: ospedali, scuole, strade, linee ferroviarie; solo queste ultime richiederanno una risorsa finanziaria di 40 miliardi di dollari. Abbiamo bisogno di tempo: ci vorranno dai cinque ai dieci anni prima che la fase di ricostruzione possa essere completata. ◆Q uali le priorità nel campo dei beni culturali? Anche in questo campo la fase di emergenza non può ancora considerarsi conclusa. Prioritari sono gli interventi di monitoraggio, tutela e conservazione. L’immenso patrimonio archeologico e storico-artistico dell’Iraq è stato oggetto, negli ultimi decenni, di una sistematica distruzione. La dittatura di Saddam Hussein, le guerre e soprattutto gli anni dell’embargo hanno provocato danni irreparabili, ai quali si sono aggiunti quelli seguiti all’intervento della coalizione anglo-americana nel 2003. Pensiamo, per la sola Baghdad, al saccheggio dell’Iraq Museum o all’incendio e alle razzie effettuate nella Biblioteca Nazionale, cosí come in tutte le altre istituzioni bibliotecarie e culturali della città. Sono attualmente operative 88 missioni, sparse per il mondo, impegnate nel recupero di questo patrimonio. Dei circa 15 000 reperti archeologici trafugati nel museo circa 5000 sono stati recuperati in Europa e negli Stati Uniti. Lo stesso non può dirsi per il patrimonio librario: i preziosi manoscritti, le opere rare, le carte geografiche antiche transitano in canali sommersi che sfuggono a ogni controllo, risultando difficilmente recuperabili. Il governo iracheno e i governi dei Paesi amici stanno collaborando attivamente su questo fronte. ◆P arliamo dunque di cooperazione internazionale. Sono molti i Paesi scesi in campo: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, i paesi dell’Est Europa. Ma è soprattutto l’Italia che ha avuto e continua ad avere un 36 a r c h e o

ruolo veramente importante. Lo consideriamo un Paese amico, non esiste alcun contenzioso storico tra di noi, e i rapporti tra i due governi sono ottimi. L’Iraq possiede il petrolio, il gas, l’Italia l’industria, la tecnologia, la cultura. Una perfetta complementarietà. A unirci è anche la consapevolezza di appartenere a due Paesi che hanno alle spalle una cultura millenaria. A partire dal 2003 la Farnesina, tramite la Task Force Iraq, ha coordinato un programma di interventi che ha investito tutti i settori della vita civile. Sono arrivati nel nostro Paese squadre di medici, carabinieri, diplomatici, archeologi, restauratori che hanno messo a disposizione le loro competenze prodigandosi sia in interventi diretti sul territorio (penso ai tanti bambini operati in Iraq dai medici italiani) che in attività di formazione. ◆ Beni culturali: quali i progetti per il futuro? I progetti in cantiere sono molti, ma richiedono ingenti risorse finanziarie. A Baghdad il governo intende realizzare un nuovo grande polo museale, custode della storia milleA destra: Andreas M. Steiner accanto alla copia della Stele di Hammurabi (prima metà del XVIII sec. a.C.), donata da Saywan Barzani e collocata nel foyer dell’Ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Italia. Nella pagina accanto: il rilievo rupestre di Khinis fatto scolpire dal re Sennacherib (704-681 a.C.), che lo ritrae di fronte alle due divinità supreme del pantheon assiro, il dio Assur e la sua paredra, Mulissu.

naria del nostro Paese. L’intenzione è quella di realizzare il piú grande museo al mondo. Stiamo promuovendo la riabilitazione della cittadella storica di Erbil, che vanta 6000 anni di storia ininterrotta. Il master plan è italiano; la cittadella, dichiarata Patrimonio dell’Umanità da parte dell’UNESCO diventerà un centro polifunzionale con musei, teatri, biblioteche, laboratori artistici. L’Iraq ha bisogno di luoghi di aggregazione nei quali vivere e respirare cultura. Vogliamo anche potenziare l’immagine del Paese, non solo politicodiplomatica, ma anche culturale, a livello internazionale. È imminente l’avvio di un progetto di ristrutturazione della sede delle ambasciate irachene in Italia e presso la Santa Sede.Verrà integralmente ricostruita Villa Petacci (distrutta nel 1975 per far posto al corpo centrale dell’ambasciata), realizzata negli anni Trenta del secolo scorso dagli architetti Monaco e Luccichenti. Disponiamo di un’ampia documentazione d’archivio che consentirà di riprodurre sia gli esterni che gli interni, con gli arredi originari. Qui troverà sede appropriata la prima Accademia Araba realizzata dall’Iraq in Europa.


◆Q uando pensa che dei turisti occidentali potranno programmare in piena sicurezza e libertà un viaggio in Iraq? Potrebbero farlo sin da ora. Non è piú pericoloso viaggiare in Iraq di quanto non lo sia viaggiare in molti altri Paesi del mondo. Negli ultimi anni il turismo in Iraq ha ripreso grande vitalità, con flussi provenienti da tutti i Paesi della regione araba, soprattutto l’Iran, ma anche dall’India, dal Pakistan. Nel 2011

abbiamo concesso 10 000 visti turistici giornalieri. Mete privilegiate sono le città sante di Kerbala, Najaf. Sul turista occidentale pesa enormemente l’immagine negativa trasmessa dai mass media. Piuttosto che lo standard di sicurezza il problema attuale è la carenza di infrastrutture, soprattutto nel sud del Paese, o la mancanza di una organizzazione del turismo. Ma arriveremo anche a questo.

«TERRA DI NINIVE»: L’ARCHEOLOGIA ITALIANA RIPRENDE LA RICERCA NEL CUORE DELL’ANTICO IMPERO ASSIRO A vent’anni dagli scavi di David Stronach a Ninive (1987-1990), l’Iraq settentrionale, cuore geografico e politico dell’impero assiro, è di nuovo al centro di ricerche archeologiche sul terreno condotte da una missione italiana dell’Università di Udine. Si sta svolgendo in questi mesi la prima campagna di scavo e ricognizione di superficie nella regione immediatamente a nord di Ninive, nell’ambito di un ampio e articolato progetto di ricerca denominato «Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive». L’area in esame si estende per quasi 3000 kmq nel nord dell’Iraq, a cavallo delle province di Dohuk e Ninawa (Mosul). Si tratta di una regione chiave per investigare, sulla base di nuove ricerche sul campo di tipo interdisciplinare, alcuni temi assolutamente centrali nella storia e archeologia del Vicino Oriente antico quali il processo di neolitizzazione, ovvero le origini dell’economia produttiva, la nascita di strutture statali e lo sviluppo dei primi centri urbani e la formazione, espansione e organizzazione territoriale del primo impero globale della storia, l’impero assiro. La ricerca si basa su una ricognizione archeologica di superficie a carattere regionale, integrata dallo scavo archeologico del sito di Gerd-e-pan (insediato soprattutto nel II e I millennio a.C.) e da sondaggi di scavo in alcuni siti preistorici appositamente selezionati. Il progetto mira a ricostruire i modelli d’insediamento, utilizzo e gestione del territorio regionale, soprattutto nelle sue risorse fondamentali, acqua e suoli agricoli. A ciò si accompagnerà lo studio delle dinamiche insediative e demografiche e la ricerca sulla cultura materiale della regione e la sua evoluzione. Un ulteriore cruciale obiettivo del progetto sarà rappresentato dal I millennio. a.C., epoca in cui la regione costituiva il cuore geografico e politico dell’impero assiro. Molto poco si sa dell’entroterra di Ninive e dei modelli d’insediamento e uso del territorio

in questa regione cosí importante per il sostentamento della capitale. «Terra di Ninive» sarà la prima ricerca archeologica intensiva, sistematica e interdisciplinare a essere condotta nel cuore dell’impero assiro. In questo contesto, uno degli obiettivi piú importanti del progetto sarà costituito dalla ricostruzione geoarcheologica e topografica dell’imponente e ancora poco conosciuto sistema idraulico costruito fra VIII e VII secolo a.C. dal sovrano assiro Sennacherib per portare l’acqua a Ninive, captando le sorgenti pedemontane e deviando corsi d’acqua montani. Al ramificato sistema irriguo delle zone retrostanti a Ninive si collegano elementi edilizi e monumentali di grande importanza eretti da Sennacherib: il primo acquedotto monumentale della storia (Jerwan) e una serie di rilievi rupestri di grandi dimensioni raffiguranti il re e le principali divinità assire a Khinis, Shiru Maliktha, Faida e Maltai. Tali monumenti, esposti all’azione distruttiva degli agenti atmosferici e dell’uomo, saranno studiati in una prospettiva geoarcheologica, storico-artistica, storica e topografica, al fine anche di garantirne la conservazione e valorizzazione. La creazione di un parco archeologico-ambientale e la definizione sul territorio dei perimetri delle aree di protezione con vincolo archeologico costituiranno la base di un’importante iniziativa di valorizzazione e disseminazione della conoscenza rivolta al grande pubblico e al turismo nazionale e internazionale. Essa si fonderà sulla conservazione e musealizzazione dei siti menzionati, sull’elaborazione di una proposta per l’inserimento del sistema idraulico assiro e dell’intero paesaggio culturale a esso connesso nella World Heritage List dell’UNESCO e sulla creazione di un WebGIS, che, nella sua parte didattica e divulgativa, sarà accessibile al pubblico. Daniele Morandi Bonacossi

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Çatal Höyük di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

l’era dei grandi sogni 38 a r c h e o


Scoperto verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, l’antichissimo insediamento si affermò ben presto come una pietra miliare dell’archeologia preistorica. Ma a richiamare l’attenzione mondiale su questo sito neolitico dell’altopiano anatolico non fu soltanto la particolare disposizione delle sue abitazioni, assai simile a quella di una «prima» città…

I

l padiglione turco, nell’attuale Expo di Shangai, in Cina, è una costruzione davvero curiosa: una grande scatola color crema, rivestita in alto di una irregolare rete sospesa di color rosso vivo, con una griglia che appare quasi animata, nella quale si affacciano intricati simboli geometrici. Credo sia l’unico caso al mondo in cui un affresco neolitico, vecchio di quasi novemila anni, sia stato fatto risorgere e trasformato in una monumentale, eccitante trovata architettonica. Ma la scelta non è casuale. L’affresco neolitico in questione, infatti, viene da un sito che sta diventando di giorno in giorno piú famoso (risale allo scorso

Copia del rilievo in gesso raffigurante due leopardi affrontati dai corpi decorati con rosette, dal Santuario del Leopardo, uno degli ambienti scavati dall’archeologo britannico James Mellaart (1925-2012) a Çatal Höyük (Konya), nell’altopiano anatolico. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

«Ancora non disponiamo di risposte esaurienti sul significato di questa unica, straordinaria fioritura di espressioni artistiche a Çatal Höyük. Sino a ora abbiamo fatto solo piccoli passi. La nostra strategia è quella di contestualizzare l’arte (vederla nel complesso delle realtà in cui essa è immersa), e nel fare questo ci siamo resi conto che l’arte aveva un carattere chiaramente sociale» (Ian Hodder, 1999)

Il sito neolitico di Çatal Höyük fu scoperto alla fine degli anni cinquanta da James Mellaart (1925-2012; in alto) durante una ricognizione archeologica per conto del British Institute of Archaeology di Ankara. Nel corso di cinque campagne di scavo, tra il 1961 e il 1965, l’archeologo portò alla luce circa 160 edifici che permisero di ricostruire la struttura di un insediamento di dimensioni sorprendenti. Lo scavo venne chiuso nel 1966, e riaperto nel 1993 nel quadro delle attività del Çatalhöyük Research Project, diretto dallo studioso britannico Ian Hodder (in basso), pioniere della teoria «post-processuale».

mese di luglio la sua inclusione nella lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, n.d.r.): Çatal Höyük, una collina archeologica estesa per 13 ettari, situata circa 40 km a sud di Konya, nel cuore dell’altopiano anatolico. Qui, nel corso dei fortunati scavi condotti dall’archeologo inglese James Mellaart (1925-2012; una curiosa coincidenza ha voluto che la scomparsa dello studioso sia avvenuta proprio nello stesso mese in cui il sito ha ottenuto il già ricordato riconoscimento dell’UNESCO, n.d.r.), tra il 1961 e il 1965, in una casa denominata VII-14, era comparsa una pittura parietale completamente diversa dalle altre. È una sorta di scacchiera regolare, con celle quadrangolari (la «rete» del padiglione di Shangai), tutte molto simili e disposte in file regolari. Questa rete o scacchiera, nell’affresco di Çatal Höyük, è sormontata da una figura imponente e misteriosa, riempita da macchie scure e culminante in punte coniche. Poiché da queste estremità escono strane appendici curve, per Mellaart non vi erano stati dubbi: la scacchiera rappresentava lo stesso villaggio neolitico, minacciato da un vulcano in eruzione (altri, però, nel «mostro puntinato», riconoscono piuttosto il manto di un gigantesco, mitico leopardo).

Una vita migliore? L’affresco, in ogni caso, esprimerebbe l’idea della civiltà come istanza di ordine e protezione contro il caos della natura selvaggia; ma sarebbe anche la prima rappresentazione chiaramente e programmaticamente «urbanistica» giunta sino a noi. Immagine perfetta, quindi, perché gli architetti turchi la sfruttassero per esprimere a un tempo l’orgoglio nazionale per questo straordinario sito archeologico e il tema della stessa esposizione cinese odierna, riassunto dallo slogan «Città migliore, vita migliore». Ed è quasi inevitabile, a questo punto, chiedersi se, nell’Anatolia dei villaggi dei primi agricoltori seden40 a r c h e o


vulcano o leopardo? La riproduzione raffigura il dipinto murale rinvenuto da James Mellaart nella casa denominata VII-14, a Çatal Höyük: si tratta di una mappa dell’insediamento neolitico sovrastato, secondo l’archeologo britannico, dal vulcano Hasan Dag in eruzione. Altri studiosi hanno invece riconosciuto nella misteriosa figura a punte coniche, dipinta a macchie scure alle spalle del villaggio, il manto di un leopardo.

tari, 9000 anni fa, la vita fosse stata davvero migliore di quanto non lo fosse stata in periodi piú antichi, e, perché no, di quanto non lo sia oggi; o se la stessa scelta di abbandonare il «paradiso terrestre» dei cacciatori nomadi, 12 000 anni fa circa, per inventare le città, sia stata, in fondo, una scelta fortunata per la nostra specie. Domande che molti giudicherebbero oziose: il modo di vita odierno, con le sue cognizioni, condizioni materiali e aspettative, non è certo commensurabile – da alcun punto di vista – con quello preistorico. Eppure, esse mantengono un forte fascino; e alcuni degli archeologi piú preparati e rinomati al mondo vi si sono accostati «a mente aperta». Gli scavi condotti a Çatal Höyük nel passato (come

Mar Nero GEORGIA Istanbul

Samsun

Ankara

Izmir

Trabzon

TURCHIA Konya Antalya

Mar Mediterraneo

Çatal Höyük

IRAQ SIRIA

In alto: cartina della Turchia, con la localizzazione di Çatal Höyük. A sinistra: il disegno ricostruttivo dell’insediamento di Çatal Höyük, in epoca neolitica. Lo spazio, privo di strade, era caratterizzato da case addossate le une alle altre, alle quali si accedeva attraverso aperture sui tetti.

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

«Le sontuose rivelazioni dei santuari anatolici di Çatal Höyük, il sito neolitico meglio conservato di tutti quelli che evochiamo, mostrano l’influsso immenso del soprannaturale sulle comunità e la forza strutturante di una ideologia che possiede la sua specificità nella Sacra Famiglia – La Madre con la figlia e il figlio divino, e il toro ierogamico» (Pierre Léveque, 1991)

quelli ripresi a partire dal 1993 da Ian Hodder, il padre spirituale della cosiddetta «archeologia post-processuale») rafforzano un’immagine davvero particolare dell’antico villaggio neolitico. Per comprenderla appieno, occorre tenere presente che l’approccio archeologico di Hodder, in forte opposizione alle archeologie materialiste fiorite un po’ in tutte le accademie del modo tra il 1960 e il 1980, ha sempre privilegiato la sfera dei simboli, dell’indagine del loro significato spirituale, dei modelli mentali, della critica delle stesse interpretazioni fatte dagli archeologi, a scapito di interessi forse piú limitati ma concreti, come l’economia, le tecniche e le condizioni di vita delle popolazioni preistoriche. Sembra logico che Hodder abbia scelto questo sito proprio per le sue immagini, una scelta che, peraltro, ben si accorda con gli interessi delle numerose istituzioni scientifiche che hanno finanziato la ripresa degli scavi, tra le quali figura, per esempio, la John Templeton Foundation (Inghilterra). Il suo fondatore credeva nella necessità di porre alla civiltà moderna e al progresso tecnologico alcune Grandi Domande, incentrate sullo sviluppo e destini della spiritualità umana: dovremmo essere davvero cosí grati al destino di essere nati oggi? (segue a p. 46)


perchÉ è importante

oggi è il più grande e meglio conservato sito neolitico al mondo. Una profonda A stratificazione (sono stati catalogati 18 livelli) ha permesso di ricostruirne lo sviluppo su un ampio arco di tempo. Nel luglio del 2012 è stato iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

L e strutture rinvenute fanno pensare alle prime tracce di un’organizzazione sociale molto simile a quella di una città. Lo sviluppo architettonico di Çatal Höyük, tuttavia, non includeva spazi propriamente pubblici.

L e pitture di Çatal Höyük si caratterizzano per la rappresentazione di animali, cacciatori e divinità. Una di esse, in particolare, è stata oggetto di viva discussione tra gli archeologi: l’archeologo inglese James Mellaart l’ha interpretata come la prima pittura di paesaggio e di soggetto storico, raffigurante un vulcano in eruzione sopra una «mappa» di Çatal Höyük; altri studiosi, invece, vi hanno riconosciuto la raffigurazione della pelle di un grande leopardo.

il sito nel mito

In alto: Çatal Höyük, particolare della piattaforma di un edificio con due elementi in argilla sui quali sono inserite corna di bovini. Nella pagina accanto: scultura di epoca neolitica (6000 a.C. circa) raffigurante una coppia abbracciata, da Çatal Höyük. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

I ritrovamenti suggeriscono una ritualità che permeava fortemente i luoghi della vita quotidiana dove trovavano un posto di primo piano il culto della fertilità e quelli, collegati, della dea-madre e del dio-toro. Le pitture parietali ne sono una testimonianza, con le numerose figure di donne partorienti o che hanno appena partorito. I frutti della nascita sono spesso rappresentati da bucrani o tori, simboli di un’essenza maschile complementare, che chiude e riavvia il ciclo della procreazione. Allo stesso modo, la presenza, sulle pareti interne delle abitazioni, di teste taurine in argilla con inserti di vere corna animali, costituisce un altro persistente richiamo alla dimensione simbolica.

I l culto degli antenati e i riti legati alla morte erano altrettanto preminenti. Tra questi vi era l’uso di trasportare i corpi dei defunti in luoghi lontani dalle abitazioni e lasciare che gli avvoltoi e altri animali ne ripulissero le spoglie. I resti venivano poi recuperati per essere seppelliti con il corredo funebre dentro le abitazioni, solitamente sotto i giacigli o sotto le pietre dei focolari.

Çatal hÖyÜk nei musei del mondo

I reperti provenienti dagli scavi sono conservati al Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara e al Museo Archeologico di Konya, dove sono visibili sculture, collane, anelli e frammenti di decorazioni parietali. Presso il sito archeologico è stato inoltre realizzato un centro visitatori, nel quale sono esposte repliche dei ritrovamenti.

T ra i pezzi piú noti raccolti ad Ankara vi sono la statuetta femminile in argilla, una figura dalle forme generose, seduta su un trono con leopardi al posto dei braccioli, e le imponenti teste di toro modellate in argilla con inserti di corna vere.

informazioni per la visita

atal Höyük si trova circa 40 km a sud di Konya. Il sito è accessibile tutto l’anno, ma Ç la stagione degli scavi (giugno-luglio) offre l’occasione di una visita piú appagante.

onya è raggiungibile dall’Italia con voli di linea dai maggiori aeroporti. Da lí si K può noleggiare un’auto o utilizzare il servizio minibus dal terminal Eski Garaj fino a Çumra e quindi un taxi per coprire gli ultimi 20 km (il noleggio di un’auto risulta economicamente vantaggioso in 3-4 persone). Una volta raggiunto il sito archeologico, i custodi sono a disposizione per accompagnare la visita. Info: http://www.catalhoyuk.com/ (sito in inglese)

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

vivere a Çatal hÖyÜk, 9000 anni fa

Le case di Çatal Höyük erano costruite con grandi mattoni in argilla cruda coperti di intonaco. I tetti erano sorretti da travi che sostenevano strati di stuoie, frasche e stesure di argilla. Sulle pareti interne vi erano vistosi affreschi, che forse in qualche caso imitavano elaborati tessuti oppure kilim appesi in verticale. Gli abitanti ignoravano l’uso della lana, ma erano esperti nella tessitura del lino e di altre fibre. Tra le abitazioni si aprivano cortili dove si custodivano gli animali.

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sui tetti, come ancora oggi

avviene nelle città tradizionali del Vicino Oriente, si svolgeva buona parte della vita quotidiana, tra il lavoro delle donne e degli artigiani, la preparazione dei cibi, il gioco dei bambini e il riposo notturno. L’addensamento delle case favoriva anche la difesa e contribuiva alla climatizzazione delle stanze.


le case di Çatal

Höyük non avevano porte, né finestre. Secondo Mellaart, gli abitanti vi accedevano dall’alto, da aperture o botole ricavate direttamente nei soffitti. D is eg n o d i En r ic Pa s s o l a s

ogni casa era provvista di magazzini autonomi per le derrate alimentari e il combustibile, di forni per il pane (tradizionalmente chiamati tannur nel Vicino Oriente), e di bassi focolari collocati a terra, protetti da sponde di argilla cruda.

una tomba scavata all’interno di una abitazione viene chiamata «sepoltura intramurale». Questa tradizione aveva avuto inizio in età remote, tra il X e il IX millennio a.C., ma era ancora comune, mille anni dopo, a Çatal Höyük. Nel VII millennio a.C. i defunti erano posti in camere vuote sotterranee, quasi certamente lignee, che venivano riaperte per sottrarre il cranio dello scheletro e venerarlo con speciali cerimonie. Una delle più recenti ed emozionanti scoperte a Çatal Höyük è stata una tomba in cui il defunto abbracciava al petto il cranio di un altro individuo, cosparso di intonaco rosso.

gruppi di cinque o sei abitazioni condividevano

edifici particolari, ornati di rilievi in intonaco dipinto, grandi affreschi, nicchie e lunghe banchine in argilla cruda contenenti serie di corna bovine, forse a ricordo dei solenni sacrifici in cui gli animali erano stati uccisi. In piú d’una di queste stanze sono comparsi crani estratti dalle tombe. I vistosi rilievi erano stati restaurati o ricostruiti gli uni sugli altri a piú riprese. Secondo Ian Hodder, che ha riaperto gli scavi, tali rilievi – che celebrano nelle teste taurine il principio della sessualità maschile, e nell’immagine stilizzata della partoriente quello femminile – erano opera dell’intero gruppo familiare o clan nel corso delle cerimonie piú rilevanti, mentre gli affreschi potevano essere opere individuali.

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

Il graduale progresso del passato e la conoscenza umana stanno accelerando il passo? Stiamo davvero raccogliendo frutti importanti degli sforzi del passato? Che ne sarà dei nostri valori di creatività, amore, compassione e libero arbitrio nelle cruciali scelte che verranno nel prossimo futuro?

Una città di simboli Il villaggio neolitico di Çatal Höyük, 9000 anni fa, era un denso, compatto abitato di case in mattone crudo, privo di strade e porte. La sua comunità prosperava con attività di caccia e raccolta, e con le prime forme di agricoltura; oggetti in materiali preziosi trovati nelle case e nelle sepolture mostrano che vi era chi traeva vantaggio trovando e cedendo conchiglie marine, ossidiana e turchese. Alle case si accedeva probabilmente da botole costruite sul tetto. La città – si sarebbe tentati di chiamarla cosí, anche contro le comuni convenzioni degli archeologi – era letteralmente e profondaLa statua piú celebre della cosiddetta «Dea Madre» in trono con, ai lati, due felini. Scultura in terracotta rinvenuta a Çatal Höyük, livello II (5400-5220 a.C. circa). Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

mente intrisa di immagini e simboli impressionanti, che affollavano alcune delle sue costruzioni, forse una su cinque o sei: dalle pareti coperte di bassorilievi con bestie e divinità in intonaco colorato, alle grandi teste taurine negli stessi materiali, ma con grandi e vere corna inserite nel modellato, che sembrano quasi penetrare con prepotenza nelle stanze, in pareti e banchine in terra, da oscuri, ma contigui mondi sotterranei. Arte e preistoria, come è stato piú volte ed efficacemente affermato, qui non scorrono fianco a fianco, ma sono potentemente compenetrate. È la manifestazione palese di quella che Jacques Chauvin ha chiamato la «Rivoluzione dei simboli», spostando l’attenzione degli esperti del Neolitico dalle tematiche economiche a quanto concerne la comunicazione e la trasmisisone delle costruzioni ideologiche. Çatal Höyük, per lucida scelta accademica, è oggi un progetto di scavo aperto a ogni forma di comunicazione, e improntato a «pluriversi» di dialoghi e riflessioni che si ripercuotono ben oltre le consuete e comunque un po’ aride quinte degli esperti. Per comprendere l’immagine che di questo antico mondo neolitico si sta creando, può essere utile leggere il brano che segue – tratto dal fascicolo pubblicitario di una compagnia

La grande Dea e il Dio-toro Nell’immaginario grafico di Çatal Höyük, le grandi figure femminili, dee o Madri che esse siano, hanno un ruolo dominante e una «esuberante polisemia». Possono comparire in forma geometrica, stilizzata, a volte in coppia o con parti del corpo duplicate con variazioni minori. Secondo Jean-Daniel Forest, questa estensione geometrica e moltiplicazione potrebbe rappresentare la capacità della società neolitica di rigenerare se stessa seguendo norme ben precise. In altri casi le immagini sono naturalistiche, come statue steatopigie (con caratteristiche esagerate di grassezza), su troni che, al posto dei braccioli, mostrano leopardi; oppure come immagini dipinte sulle pareti dei sacelli, o di rilevi dipinti realizzati in intonaco. Secondo Ian Hodder, i grandi pannelli in intonaco dipinto, in altorilievo o con vere e proprie sculture tridimensionali a essi applicate (leopardi e teste di toro), piú volte restaurati e riplasmati sulle stesse pareti, sarebbero frutto di lunghi cicli di attività rituali gestiti da grandi famiglie estese; al contrario, decorazioni parietali piú semplici, per


esempio quelle dipinte con motivi geometrici, sarebbero attribuibili a occasioni formalmente meno impegnative, per esempio all’iniziazione o ai funerali di individui giovani. I personaggi femminili – e Madri – sono sempre in stretto rapporto con la procreazione. Rappresentate incinte o partorienti, spesso le Madri generano un toro o un bucranio, simbolo di fertilità maschile tanto ovvio quanto possente, che simbolicamente chiude e rinnova, con la Madre, il ciclo della rinascita. La ierogamia (l’unione sacra) della Madre con l’animale diviene metafora e garanzia del rinnovamento del mondo nel ciclo delle stagioni. A volte la Madre compare accoppiata a una divinità maschile, e in qualche caso con neonato in braccio; talvolta con motivi floreali e forse con rappresentazioni schematiche di cereali. Nei seni di alcune di queste immagini furono trovati crani di piccoli carnivori come volpi, donnole e avvoltoi, oppure mandibole di cinghiale, probabilmente a sottolineare il legame intrinseco tra la vita di questi predatori e la morte delle carcasse delle quali questi animali si cibano. Simbolicamente, tuttavia, questi segnali davano alla decomposizione dei corpi un ruolo positivo, riportandola come germe mutilo ma fertile nel corpo stesso della Madre. La Madre, come ha sottolineato Pierre Léveque, è una divinità intimamente ctonia.

Frammento di uno dei dipinti parietali con scena di caccia, rinvenuti a Çatal Höyük durante gli scavi condotti negli anni Sessanta del Novecento da James Mellaart. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

aerea, con l’esplicito intento di illustrare ai turisti «la culla della civiltà»: «Vi promettiamo nuove informazioni sul genere umano che metteranno alla prova i limiti della vostra mente, e vi daranno la possibilità di ridiscutere le vostre percezioni del tempo e della civiltà. Usate la vostra immaginazione per capire questa civiltà di migliaia di anni fa... Non vi era gerarchia, né guerra, né conflitti tra uomini e donne... Infatti non vi erano spazi particolari in cui potessero essere prese decisioni amministrative, o per annunciare al popolo le stesse decisioni, e nemmeno strade per recarsi a diffondere le decisioni stesse. Non vi sono segni di una classe dominante che mangiasse meglio degli altri... Non vi troviamo divinità, ma piuttosto ritratti di «donne grasse», il cui corpo massiccio è simbolo di potere e fertilità, a suggerire l’idea che qui si sperimentava un’era matriarcale. Comunque, gli uomini vivevano piú a lungo delle donne ed erano piú alti; e in confronto ai maschi, le femmine avevano la dentizione piú degradata... Tra i crani degli antenati che venivano trasmessi cerimonialmente da una generazione all’altra, ci sono sia donne che uomini, il che suggerisce che entrambi i sessi potessero essere ugualmente capi di case o lignaggi. In generale, tutto sommato, i dati suggeriscono l’uguaglianza dei sessi, piuttosto che un matriarcato vero e proprio». Quella di un modo di vita pacifico, egualitario, privo a r c h e o 47


Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

anche delle forme di oppressione e sfruttamento dei piú deboli o delle donne – che troviamo anche nelle società tradizionali del pianeta piú semplici e meno condizionate da contatti moderni – è un vecchio sogno dei filosofi e degli antropologi occidentali.

Una società egalitaria? Gli illuministi credevano che l’uomo «allo stato di natura» fosse saggio, pacifico e egualitario; Karl Marx e i pensatori socialisti ipotizzavano, alle soglie dell’evoluzione sociale umana, un felice stato di «comunismo primitivo», in cui mogli, figli, risorse naturali erano posseduti in comune in generale armonia, prima che un atto violento di «accumulazione primitiva» non avesse creato con la forza le prime disparità sociali.

quel che resta di çatal höyük I resti dell’insediamento di Çatal Höyük, di fondamentale importanza per la conoscenza della fase piú antica del Neolitico in Anatolia, si estendono per circa 13 ettari. L’abitato si compone di 18 livelli di occupazione, datati tra il VII e il VI millennio a.C., costituiti da un insieme di edifici in mattoni crudi, addossati gli uni agli altri. Dopo le prime ricerche di James Mellaart, le campagne di scavo sul sito, riprese a opera del Çatalhöyük Research Project, diretto da Ian Hodder, hanno portato alla luce una grande quantità di nuovi dati, raccolti in un database on-line, accessibile dal sito www.catalhoyuk.com.

Un edificio in corso di scavo. Nell’angolo a sinistra, in alto, si trova una piattaforma in argilla caratterizzata da un paio di elementi plasmati in cui sono inserite corna di bovini.

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Çatal Höyük. Il settore dell’area archeologica occupata dalle attuali indagini, in cui, nell’estate del 2011 è stato scoperto un dipinto parietale risalente a 9000 anni fa (in basso, il particolare).

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

Vista in questa luce, Çatal Höyük potrebbe essere addirittura chiamata a testimoniare che simili quadri idilliaci potevano aver prosperato non solo nell’avanzato mondo dei primi agricoltori sedentari del Vicino Oriente antico, ma anche in abitati che si avvicinavano, per ampiezza e complessità di tecnologia, commerci e comunicazione visiva, alla nostra stessa idea di città. Che cosa c’è di vero in simili ottimistiche ricostruzioni? Non poco, come vedremo, ma certamente non tutto. Innanzitutto, il Neolitico non fu un periodo semplicemente sereno, in cui l’agricoltura comportò un generale, tranquillo incremento del benessere economico. Nei primi villaggi ci si ammalava piú spesso, a causa della convivenza con nuovi ceppi di agenti patogeni portati dagli animali domestici e con il crescente contatto con i rifiuti domestici. Le donne erano probabilmente esposte a lavori quotidiani sempre piú pesanti. I denti degli agricoltori erano rovinati da amidi, zuccheri e dalla polvere delle macine in pietra; recenti scoperte in Pakistan indicano che, tra i vari mestieri che si affermavano, quello del guaritore fu in qualche caso affiancato dall’opera dei primi «dentisti». Il generale peggioramento degli standard di vita, espresso dalla forte riduzione della statura media, fu bilanciato da nuovi tassi di crescita demografica, eppure i bambini, in particolare, morivano in gran numero. La morte, e con essa l’angoscia, divenne in breve una compagna quotidiana. In secondo luogo, va detto che Çatal Höyük non è affatto «la culla della civiltà», espressione, questa, che in tempi (come quello attuale) di aspri conflitti, galoppanti e spesso tragici nazionalismi, ricorre ossessivamente nella propaganda di ogni Paese e città, dal Mediterraneo orientale all’India. Il villaggio, al contrario, se confrontato con altri centri dei primi cacciatori-raccoglitori e agricoltori incipienti (come per esempio Gerico, Çayönü, Nevali Çori e la stessa Göbekli Tepe) appare un’esperienza relativamente tardiva: abitato dal 6500 a.C. circa o poco prima, fu improvvisamente abbandonato un millennio piú tardi, come se l’esperimento sociale che lo aveva creato, insieme ai suoi connotati espressivi e artistici, fosse d’un tratto fallito e condannato all’estinzione.

Case come piccoli santuari Dopo la metà del VI millennio, l’intera regione del Vicino Oriente antico, a giudizio di molti studiosi, sembra essere stata investita da una vasta e lunga crisi demografica e politica, complice, forse, un significativo peggioramento climatico. Gli abitati, per quanto ne sappiamo, rifluirono per secoli in aggregati di modeste dimensioni. Del resto, non vi sono reali dimensioni di continuità tra i grandi centri del Neolitico Medio (7000-5500 a.C. circa) e le prime grandi città dell’antica età del Bronzo (3500-3000 a.C. circa). Vero è, invece, che il tessuto abitativo di Çatal Höyük, con le sue straodinarie creazioni visive e la sua cultura materiale, creano senza alcun dubbio un’immagine fortemente egualitaria. Come segnala l’opuscolo della 50 a r c h e o

Il cranio del capostipite A Çatal Höyük, il team di Hodder ha scoperto una sepoltura in cui il defunto era rannicchiato in posizione fetale, ma con un cranio umano dal volto rimodellato in intonaco rosso stretto al petto. Si tratta dell’attestazione piú occidentale delle pratiche funerarie di estrazione e manipolazione dei crani dei morti, comuni presso le contemporanee comunità neolitiche del Levante. I corpi erano deposti, spesso sotto i pavimenti delle abitazioni, a decomporsi in spazi vuoti. Prima che il processo di decomposizione fosse completo, le ciste o bare venivano riaperte, e il cranio veniva asportato, per entrare in una nuova fase e nuovi contesti delle cerimonie funebri. Spesso sul cranio gli artigiani rimodellavano, con intonaco di calce, bitume, conchiglie e sostanze coloranti, le fattezze del morto. Alcuni pensano che si tratti di forme di esibizione e venerazione di capi defunti, ma non ve ne sono prove certe. Dopo gli usi rituali, i crani erano deposti con cura, spesso in gruppo, in fosse scavate in aree aperte, ai margini delle abitazioni. A Çatal Höyük, il defunto forse affrontava l’ultimo viaggio ultraterreno, serrando al cuore la testa di un prestigioso antenato o di uno sciamano, come ultimo mediatore ultraterreno tra il mondo dei vivi e quello dei defunti.

compagnia aerea, non vi è traccia alcuna di templi, piramidi e palazzi. Al contrario, piccoli gruppi di case sembrano afferire ognuno alla propria casa-sacello, ciascuna decorata e affollata di pitture, bassorilievi in intonaco, banchine con corna. Queste costruzioni recano i segni di intense, ripetute attività rituali, e sembrano essere distribuite equamente e con regolarità nelle maglie del tessuto urbano. Non si tratta dell’unico caso di questo tipo nella storia dei primi, grandi centri sedentari. Ai piedi delle alture del Kopet Dag, oggi nel Turkmenistan meridionale, nei maggiori villaggi del IV millennio, gruppi di 5-6 case condividevano speciali edifici destinati a bagni di vapore o saune, con banchine in legno o argilla intonacata in rosso, affreschi policromi a tema cosmologico e focolari-altari, in cui sono state rinvenute statuette in pietra e preziosi oggetti in rame. Molto piú tardi e in un contesto del tutto remoto, i grandi pueblo delle culture del Sud-Ovest del continente nord-americano ospitavano, similmente, kiva: stanze circolari sotterranee distribuite regolarmente nell’abitato, sedi di società segrete maschili usate dai capi anziani per discutere e fare accordi tra i clan cittadini. In ogni caso, si tratta di soluzioni accorte per evitare che un gruppo, famiglia o clan potesse monopolizzare i culti dell’intera comunità. Forse nelle sale cerimoniali di Çatal Höyük si cantava la morte come «feconda», come necessario risvolto e percorso obbligato della


Una sepoltura infantile rinvenuta a Çatal Höyük. Accanto allo scheletro, deposto in posizione fetale, alcuni monili in pietra. In basso: disegno ricostruttivo raffigurante una sepoltura intramurale realizzata a Çatal Höyük sotto il piano pavimentale di un edificio.

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Çatal hÖyÜk • i luoghi della leggenda

vita, ma indirettamente, tramite gli stessi rituali, si esprimevano messaggi e opzioni politiche (l’archeologo francese Jean-Daniel Forest ha interpretato l’intero ciclo decorativo di Çatal Höyük come una rappresentazione visuale dei principi che regolavano la filiazione, la nascita, le alleanze matrimoniali su base esogamica, dal punto di vista della riproduzione dei lignaggi).

Per salvare l’ordine sociale L’archeologia, in realtà, sta dimostrando che tensioni sociali e contrasti per la supremazia erano esistiti da millenni nelle regioni del Vicino Oriente. A Göbekli Tepe (10 500-9000 a.C. circa; vedi, in questo numero, lo speciale alle pp. 54-69) grandi sale circolari affollate da pilastri antropomorfi «tatuati» con i simboli dei clan mostrano come questi ultimi competessero per il prestigio politico, costruendo ed esibendo immagini colossali dei propri capostipiti.Tutto questo avveniva all’epoca e nel contesto dei gruppi di cacciatori-raccoglitori, ben prima che l’agricoltura prendesse piede. In diversi siti contemporanei circolavano tavolette in pietra affollate di strane incisioni, che ci «sussurrano» di ignote pratiche di trasmissione delle informazioni. I cacciatori di gazzelle natufiani del Levante (10 500-8500 a.C. circa) avevano iniziato a seppellire i morti nei pavimenti delle capanne che ormai frequentavano per buona parte dell’anno, e ne disseppellivano i crani, per riti dei quali sappiamo assai poco; e alcuni defunti «speciali», come una probabile «sciamana» sepolta in una grotta a Hilazon Tachtit, in Galilea (10 000 a.C. circa), erano accompagnati dai resti di grandi pasti cerimoniali collettivi, e di oscuri rituali che comprendevano la deposizione di un’ala d’aquila, molti gusci di tartaruga, la coda di un bovino, parti di corpi umani e di animali predatori. Nel sito funerario neolitico di Kfar HaHoresh, anch’esso in Galilea, contemporaneo a Çatal Höyük, una persona era stata sepolta con le ossa di almeno otto uri selvatici; la quantità di carne che si stima fosse stata consumata nella festa funebre ammonta a 2000 kg, quanto bastava a saziare una folla davvero considerevole. Insomma, tutto ciò implicherebbe che l’età neolitica nel Vicino Oriente era lungi dall’essere un pacifico paradiso collettivista: la comunità neolitica di 52 a r c h e o

Çatal Höyük investiva probabilmente notevoli energie e risorse nel riproporre pubblicamente, forse in coincidenza dei grandi riti di passaggio di ciascun individuo, antiche mitologie e idee religiose di grande impatto emozionale, e mantenere cosí in vita tradizionali assetti egualitari, minacciati da nuove realtà nelle quali famiglie e persone si allontanavano sensibilmente le une dalle altre. Il fatto che queste cerimonie avvenissero all’interno delle sale cerimoniali presumibilmente gestite dai clan suggerisce che, proprio all’interno dei lignaggi, fossero percepite pericolose linee di fissione... E cosí, ancora oggi, Çatal Höyük alimenta – nel dilatarsi vasto e articolato dei confronti scientifici che fanno capo al progetto di ricerca (vedi www.catalhoyuk.com) – l’immagine di una contraddizione antica: quella tra il sogno di un mondo libero ed egualitario e una realtà gerarchica ed elitaria.


«Per mezzo della decorazione e dell’orientamento del suo habitat, vale a dire nel quotidiano, l’uomo si integra con l’armonia universale e iscrive l’ordine culturale nel prolungamento dell’ordine naturale. Fa apparire i principi fondatori della sua società come leggi naturali, e modella la sua stessa esistenza su un ordine che giudica trascendente» (Jean-Daniel Forest, 2003) A destra: l’interno di un edificio di Çatal Höyük ricostruito in base ai dati archeologici. Sulla sinistra, una fossa scavata in una piattaforma del pavimento per accogliere una sepoltura. Sulla parete soprastante è stata riprodotta una delle pitture ritrovate negli scavi di James Mellaart, con alcuni avvoltoi che attaccano figure umane prive di testa.

Il volo dell’avvoltoio Nella pagina accanto, in alto: copia di uno dei dipinti murali che decoravano le pareti delle abitazioni. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. A sinistra: un’altra delle abitazioni ricostruite in base ai dati di scavo. Da notare, la posizione del forno, in corrispondenza dell’apertura sul soffitto, utilizzata anche come accesso, che favoriva la fuoriuscita dei fumi.

Forse alla stessa donna-dea o Madre appartengono gli enormi avvoltoi che, in alcune raffigurazioni pittoriche di Çatal Höyük, scendono dal cielo per cibarsi di corpi decapitati e privi di mani. Se la Madre rappresentava, come molti suppongono, la terra, quindi la fertilità della semina, assimilata all’atto sessuale, l’avvoltoio, capace di calare sui morti, di nutrirsene, quindi di ripetere simbolicamente l’atto dell’estrazione dalla tomba dei crani e con tutti gli onori «riportarli in società», potrebbe simboleggiare, secondo una teoria, lo sciamano. In molte società tradizionali, questi personaggi sono in grado di entrare in comunione psichica e spirituale con gli animali sacri dei clan, e di usarli come veicoli per entrare in diretto contatto con il mondo degli antenati defunti, ai quali spetta il compito di guidare e proteggere dall’alto la comunità dei vivi. Secondo un’altra teoria, si tratterebbe invece di una personificazione della morte che si abbatte sugli esseri umani, quindi un altro riflesso del principio femminile, questa volta negativo, della Madre.

nel prossimo numero

pergamo la gloria degli attalidi a r c h e o 53


speciale • turchia preistorica

Göbekli Tepe (Sanliurfa), in Anatolia sud-orientale. Nella pagina accanto, l’area di scavo con i grandi pilastri di pietra scolpiti, eretti nei circoli megalitici a simbolo degli antenati totemici dei clan di cacciatori-raccoglitori. Le strutture sono opera di una comunità neolitica e risalgono al 10 000 a.C. circa.

Anatolia le origini

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ultima regione europea e prima terra asiatica, estrema propaggine dell’asia e ingresso all’europa: nella terra che gli antichi chiamavano «Asia minor» e che dal X secolo d.C. divenne l’«Anatolia», il «paese dove sorge il sole», hanno ben presto cominciato a stratificarsi tracce della lunga storia umana, tra le verdeggianti coste del Mar Nero e gli altopiani semidesertici dell’est, lungo la frastagliata costa mediterranea e le forme morbide e curiose dell’area centrale. Qui, fin dalla Preistoria, si sono sviluppate molte di quelle «innovazioni» della società che, diffondendosi a macchia d’olio verso terre lontane, hanno cambiato il corso della storia di Andrea De Pascale

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speciale • turchia preistorica

L’

immensa ricchezza culturale della Turchia, visitata ogni anno da milioni di persone in costante aumento (vedi «Archeo» n. 321, novembre 2011), è riconosciuta dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità attraverso undici luoghi simbolo, tra cui troviamo le aree storiche di Istanbul, Hattuša, la capitale degli Ittiti, Göreme e i siti rupestri della Cappadocia, Xanthos, capitale della Licia tra il 700 e il 300 a.C., le formazioni calcaree di Pamukkale con le rovine ellenistico-romane di Hierapolis e l’antica città di Troia. Nel luglio di quest’anno anche Çatal Höyük, la «piú antica città del mondo», risalente al Neolitico, è entrata nella lista UNESCO (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 38-53).

Le prime testimonianze Il Paleolitico della Turchia ha un’enorme potenzialità se si pensa che vi sono oltre 450 località nelle quali sono stati ritrovati manufatti di tale periodo. Del resto, per la sua posizione geografica, la penisola anatolica ha certamente avuto un ruolo cruciale nei processi di ominazione, in particolare riguardo l’emigrazione dall’Africa attraverso il Vicino Oriente e fino all’Europa di Homo ergasterHomo erectus prima e di Homo sapiens poi. È probabile che proprio la parte orientale dell’Anatolia sia stata una via di transito per la prima colonizzazione del continente euroasiatico da parte del genere Homo, come suggeriscono i resti di Dmanisi, nell’attuale Georgia meridionale, che provano tra 1,8 e 1,7 milioni di anni fa la presenza umana al di fuori dell’Africa, dove ebbero origine diverse specie.

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In base alle piú recenti datazioni disponibili, il Paleolitico Inferiore è attestato almeno da 900 000 anni fa nel cuore della Turchia a Dursunlu, in provincia di Konya. Piú recenti indagini a Kaletepe Deresi 3, in Cappadocia, hanno riportato alla luce un sito di produzione di strumenti scheggiati, tra i quali colpiscono, per qualità d’esecuzione, diversi bifacciali realizzati in ossidiana rinvenuti in livelli datati intorno agli 800 000 anni da oggi. Il primato di piú antico abitante di queste terre spetta al cosiddetto Uomo di Denizli, scoperto a poca distanza dalla celebre città ellenistico-romana di Hierapolis di Frigia e dalle bianche concrezioni calcaree di Pamuk-

In alto: il tratto di costa nella provincia di Hatay dove si apre la Grotta Üçagizli, punto di riferimento per il Paleolitico Superiore dell’Anatolia e del Levante. A sinistra: conchiglie forate usate come ornamento, provenienti dalla Grotta Üçagizli, livelli B-H del Paleolitico Superiore. Nella pagina accanto: riproduzione grafica di un ciottolo inciso con una figura di un bovide e di un uomo, risalente al Paleolitico Superiore, proveniente dalla Grotta Öküzini (Antalya).


Bulgaria

Yatak

Georgia

Domuzdere Gümüsdere

Yarimburgaz

Grecia

Mar Nero

Agaçli

Balitepe Kustepe

Armenia Kefken

Ankara

Iran Kaletepe Kocabas

Kapaliin Öküzini Belbasi

Dursunlu Sehremuz

Karain

Beldibi

Kadiini Kanal

r Tig i

Üçagizli

Siria

Mar Mediterraneo

Cipro

Eu

fra

Iraq te

Libano

Paleolitico (900 000-20 000 anni fa) I principali siti del Paleolitico della Turchia.

Sono oltre 450 le località della Turchia in cui sono state rinvenute testimonianze di epoca paleolitica

kale. Nel 2002, in una cava di travertino nei pressi della città di Kocabas, sono riemersi i resti di un cranio di un giovane maschio di Homo erectus, vissuto circa 500 000 anni fa. Le analisi compiute su questo ominide hanno rivelato come egli fosse affetto da Leptomeningitis tubercolosa, una forma di tubercolosi che aggredisce le strutture meningee. Questa eccezionale scoperta ha permesso di retrodatare le piú antiche prove di tale malattia, prima accertate su alcune ben piú recenti mummie egizie e peruviane. Le successive fasi del Paleolitico Medio (25047 000 anni fa, contraddistinto dall’Uomo di Neandertal) e del Paleolitico Superiore (4720 000 anni fa, con le testimonianze lasciate dalla nostra specie, Homo sapiens), sono documentate in Turchia da diversi tipi di strumenti in pietra scheggiata caratteristici delle differenti tecnologie necessarie alla sopravvivenza di gruppi umani che vivevano di caccia e della raccolta di frutti e vegetali spontanei. Tra i piú importanti siti del Paleolitico anatolico vi sono la Grotta Yarimburgaz, nei pressi di Istanbul, il complesso di cavità nell’area di Antalya, tra cui la Grotta Karain (vedi box a p. 58), la caverna Üçagizli e altre vicine nella provincia di Hatay, la grotta Kapaliin nella Regione dei Laghi. Durante l’Epipaleolitico Recente, cioè tra i a r c h e o 57


speciale • turchia preistorica

In epoca neolitica la cooperazione di gruppo divenne indispensabile e portò le unioni familiari al centro della società

la grotta karain

In alto: pestelli scolpiti in pietra risalenti al momento di transizione tra l’Epipaleolitico e il Neolitico preceramico, da Hallan Çemi (Batman). In alto, a destra: vaso in pietra finemente decorato con motivi geometrici incisi e due capre selvatiche contrapposte raffigurate al centro, risalente al momento di transizione tra l’Epipaleolitico e il Neolitico preceramico, da Körtik Tepe (Batman).

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A nord-ovest di Antalya, nei pressi del villaggio di Yagca, la Grotta Karain è un punto di riferimento per la sua stratigrafia con livelli del Paleolitico Inferiore, della cultura musteriana dell’Uomo di Neandertal e aurignaziana del Paleolitico Superiore. Le indagini condotte da Isin Yalçinkaya dell’Università di Ankara, hanno permesso di ottenere non solo una chiara sequenza culturale, ma, grazie a una ricerca di tipo interdisciplinare, di recuperare anche preziose informazioni sul paleoambiente. Per il Paleolitico Inferiore sono stati individuati strumenti scheggiati, realizzati tramite l’impiego di materie prime locali, risalenti ad almeno 350 000 anni fa associati a resti ossei di animali cacciati tra cui abbondano pecore e capre selvatiche, oltre che cervi. La Grotta Karain è il sito piú importante per il Paleolitico Medio della Turchia. Considerevoli le tracce di Homo neanderthalensis, che a partire da 250 000 anni fa circa in quest’area subentrò a Homo erectus. Oltre a utensili tipici della cultura musteriana, sono stati trovati resti scheletrici di Neandertaliani, adulti e bambini, risalenti a 125 000 anni fa. La loro presenza di poco precedente rispetto a quella documentata nel Vicino Oriente conferma la migrazione di questa specie umana dall’Europa verso Oriente, attraverso l’Anatolia.

13 000 e gli 11 000 anni fa circa, in Anatolia e nel Vicino Oriente ebbero origine tutti quei fenomeni che permisero le modificazioni culturali, sociali ed economiche alla base della diffusione del successivo Neolitico.

da selvatici a domestici Con la fine dell’età glaciale, intorno ai 13 000 anni da oggi, si innescarono una serie di mutamenti, connessi al riscaldamento globale, che modificarono profondamente l’ambiente: nelle regioni piú fredde iniziò lo scioglimento dei ghiacciai, nelle aree costiere aumentò il livello del mare, in territori già fertili come il Vicino Oriente si verificò un’ampia diffusione di animali e piante grazie al clima divenuto piú caldo e umido. Le popolazioni nomadi di cacciatori-raccoglitori di questo periodo iniziarono cosí a modificare la loro economia di sussistenza, andando a favorire la scelta di alcune prede – per esempio i caprovini – o la selezione di determinate piante selvatiche, quali graminacee e leguminose, lavorate con pestelli, macine e macinelli in pietra per ottenerne farine. Dapprima nel Levante (cultura natufiana) e poi nel Sud-Est dell’odierna Turchia alcune comunità nomadi iniziarono anche a limitare i loro spostamenti territoriali e a realizzare veri e propri insediamenti stabili. Proprio in queste fasi si instaurò e consolidò il rapporto tra l’uomo e il cane, dando vita a una delle prime domesticazioni animali compiute dalla nostra specie. Il Neolitico è una sinergia di piante, animali e persone. In quell’epoca, attraverso l’agricol-


In basso: vasi in pietra con motivi decorativi incisi risalenti al momento di transizione tra l’Epipaleolitico e il Neolitico pre-ceramico, da Körtik Tepe (Batman).

Bulgaria

Mar Nero

Agaçli Gümüsdere

Grecia

Georgia Armenia

Domali-Alaçali Haramidere

Ankara

Iran Hallan Çemi

Çayönü

Demirköy Öküzini Belbasi

Karain

Pinarbasi

Körtik Tepe

i

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Beldibi

Siria

Mar Mediterraneo

Cipro

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Iraq

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Libano

l’epiPaleolitico (20 000-11 000 anni fa) I principali siti dell’Epipaleolitico della Turchia.

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speciale • turchia preistorica

un sito di «passaggio» Con la sua posizione in prossimità del Tigri, circa 30 km a ovest della città di Batman, nell’Anatolia sud-orientale, Körtik Tepe si trova in un punto nevralgico per la preistoria anatolica. Qui, nel 2000, è iniziato un progetto di ricerca, che prosegue tutt’oggi, diretto da Vecihi Özkaya dell’Università Dicle di Diyarbakır, e che ha messo in luce un insediamento con diverse ed eccezionali testimonianze della transizione tra l’Epipaleolitico e il Neolitico pre-ceramico. In strati datati al 9800-9300 a.C. sono stati recuperati vasi in pietra di varia forma e dimensione, con motivi decorativi incisi che dimostrano una produzione di elevata qualità artigianale, con livelli estetici impressionanti, molto probabilmente destinata allo svolgimento di complesse funzioni rituali. Fitte linee parallele e zig-zag, oltre a figure geometriche e di animali incisi o a bassorilievo, impreziosiscono ciotole e

bicchieri in pietra, mentre migliaia di perline di varia foggia e colore componevano collane e bracciali che accompagnavano le sepolture rinvenute nel sito. Körtik Tepe rappresenta uno dei primi luoghi in cui avvenne il passaggio dalle comunità nomadi di cacciatori-raccoglitori alla vita dapprima seminomade e poi sedentaria.

tura e l’allevamento, l’uomo riuscí a «forzare» della domesticazione da parte dell’uomo. Il l’ambiente in cui viveva, raggiungendo vere miglioramento climatico ne favorí l’ulteriore e proprie forme di «controllo» e «gestione». diffusione e riproduzione. A queste specie, tra le piante, si possono aggiungere diversi tipi di noci e legumi, che certamente fornirono ulCoincidenze e teriore varietà di cibo. opportunismo umano Nella Mezzaluna Fertile (attuali Palestina, Le piú recenti scoperte archeologiche dimoIsraele, Cisgiordania, Giordania, Libano, Siria, strano il ruolo primario giocato dalle terre Turchia sud-orientale, Iran e Iraq), intorno a poste al vertice della Mezzaluna Fertile. Si 10 500 anni fa, per la prima volta si adottò tratta della regione collinare ai piedi della Catena del Tauro e dei monti Zagros, ossia pienamente tale sistema. Il Neolitico del Vicino Oriente è suddiviso in dell’area montuosa compresa tra l’alto Eufradue ampie fasi, in base alla presenza o all’as- te e il Tigri, nel Sud-Est della Turchia. senza della produzione ceramica: il Neolitico Gli studi genetici compiuti sul piccolo farro pre-ceramico (o aceramico), datato al 9600- suggeriscono che i monti Karacadag, nel di7000 a.C., seguito dal 7000 al 6000 a.C. circa stretto di Diyarbakir, siano quelli dove avvendal Neolitico ceramico, ripartito in una fase ne la prima domesticazione. Quindi, per una casuale serie di coincidenze, antica e una tarda. Durante il Neolitico pre-ceramico avvenne- come spesso è accaduto anche nella storia bioro cambiamenti nei modelli di vita che coin- logica evolutiva dell’uomo, una parte del terrivolsero sistemi insediativi, pratiche di approv- torio anatolico si ritrovò ad avere una notevole vigionamento, controllo e gestione del cibo, serie di elementi favorevoli per la nostra specie, aumento della complessità sociale e molti che iniziò a «reagire» a tali stimoli. Non lontano dai monti Karacadag si contano altri fenomeni. Gran parte dell’Anatolia, ma in particolare la vari siti del primo Neolitico (Cafer Höyük, zona sud-orientale, cosí come la Mezzaluna Çayönü e Nevali Çori) che hanno conservaFertile, già possedeva le «sette specie prima- to resti di piccolo farro sia selvatico, sia coltirie» vegetali e animali (grano duro, piccolo vato. La differenza genetica tra cereali selvatifarro, orzo, pecore, capre, bovini e suini selva- ci e domesticati risiede in pochi geni, che tici), forme selvatiche che furono oggetto furono favoriti inconsapevolmente dai primi 60 a r c h e o

In alto: frammenti di oggetti in osso decorati con motivi geometrici e animali incisi del Neolitico preceramico A, da Körtik Tepe (Batman). Nella pagina accanto: placchette e ciottoli in pietra decorati datati al Neolitico preceramico A, da Körtik Tepe.


Mar Nero

Bulgaria

Georgia Armenia

Grecia

Çamuslu-Yazilikaya

Ankara

Asikli Höyük Boncuklu Pinarbasi

Cafer Höyük

Iran

Çinaz

Boytepe

Hallan Çemi Yedisalkim Çayönü Demirköy Tirsin Körtik Tepe

Nevali Çori Göbekli Tepe Gürcütepe Karahan Tepe

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Siria

Mar Mediterraneo

Cipro

Eu

Iraq

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Libano

il neolitico (9600-7000 anni fa) I principali siti del Neolitico pre-ceramico e, in verde, le località con incisioni rupestri databili tra la fine del Paleolitico e il Neolitico.

raccoglitori mentre tagliavano le piante. In natura, infatti, i cereali hanno un fragile rachide, ossia l’asse principale dell’infiorescenza, che facilita la perdita delle cariossidi, comunemente detti chicchi, che contengono i semi, favorendone la dispersione nel terreno e, di conseguenza, permettendo la riproduzione della pianta stessa.

varietà «difettose» Negli esemplari coltivati, invece, si ha una spiga piú tenace, per cui è necessario estrarre i semi dall’involucro che li racchiude. Raccogliendo alcuni di essi e favorendone la riproduzione, i primi agricoltori hanno aiutato questa varietà «difettosa» di cereali, che in natura avrebbe avuto poche possibilità di prendere il sopravvento. Di fatto fu la prima modificazione genetica indotta dall’uomo sugli esseri viventi che lo circondano. Nei villaggi di cacciatori-raccoglitori del Sud-Est della Turchia, caratterizzati da capanne con basi in pietra e spazi ben organizzati, le comunità sperimentarono cosí nuove forme di produzione del cibo. Con le prime fasi del Neolitico pre-ceramico, A destra: Çayönü (Diyarbakir), veduta aerea del cosiddetto «edificio dei crani».

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speciale • turchia preistorica

la forte e indispensabile cooperazione di gruppo, necessaria per la sopravvivenza dello stesso, aumentò notevolmente e portò le unioni familiari al centro della società.

importanti legami I rapporti necessari alla crescita e al benessere del gruppo non erano piú basati su categorie, per esempio connesse al sesso e all’età degli individui (si pensi al ruolo dei giovani maschi da cui dipende quasi esclusivamente l’approvvigionamento della carne in società di cacciatori-raccoglitori), ma crebbero invece d’importanza i legami e le forme di collaborazione interni ai sottogruppi familiari. Alcune attività necessitavano dell’intervento di piú nuclei familiari per essere messe in pratica, come la costruzione di case e «infrastrutture» necessarie all’insediamento, che comportavano specifiche competenze tecnologiche, che non tutti aveA destra: disegno e visione laterale di un gruppo scultoreo ricomposto da diversi frammenti (altezza di 1 m circa), risalente al Neolitico preceramico, da Nevali Çori (Diyarbakir).

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DÈi e antenati di Nevalı Çori Nevali Çori è un importante sito del Neolitico pre-ceramico, indagato anni fa dall’Università di Heidelberg e dal Museo Archeologico di Sanliurfa, oggi sommerso nelle profondità del lago artificiale della diga Atatürk. Tra i resti architettonici di Nevali Çori (23 case di forma rettangolare con stanze parallele e un complesso cultuale caratterizzato da grandi pilastri a forma di T – simili a quelli piú recentemente scoperti a Göbekli Tepe – alcuni dei quali decorati da lunghe braccia piegate) riemersero vere e proprie sculture in calcare, tra le piú antiche della storia umana. Tali opere, prodotte tra l’8400 e l’8100 a.C., appartengono a grandi statue, forse totem, contraddistinti da un’elaborata simbologia: una testa umana di dimensione maggiore del vero con un serpente che la sormonta tra i capelli, una scultura raffigurante un uccello, forse un pellicano, il corpo di un altro volatile e diverse statue a tutto tondo, quale una figura con corpo e testa di uccello il cui becco termina però con un volto umano.


In alto: veduta aerea del sito del Neolitico pre-ceramico di Nevali Çori in corso di scavo. Si nota sulla destra il cosiddetto «edificio di culto». A destra: ricostruzione assonometrica del cosiddetto «edificio di culto» nella seconda e nella terza fase costruttiva. In entrambe le fasi, risalenti al Neolitico pre-ceramico, il complesso era caratterizzato da monoliti a T lungo il perimetro e al centro.

A sinistra: disegno del grande pilastro a T in pietra rinvenuto nel cosiddetto «edificio di culto» a Nevali Çori. Sulla faccia laterale è ben evidente un braccio piegato, mentre sul fronte si notano delle mani stilizzate.

In alto: frammento in pietra di testa umana con un serpente scolpito posteriormente (altezza di 37 cm), risalente al Neolitico pre-ceramico, da Nevali Çori.

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speciale • turchia preistorica

vano. Il diffondersi di nuovi modi di pensare e rapportarsi all’interno della comunità o tra gruppi diversi, diede origine, nel X millennio a.C., a una delle trasformazioni piú sorprendenti di questo periodo che sfociò nella creazione di spazi ed edifici pubblici, con opere monumentali dal vivido simbolismo: basti pensare a Göbekli Tepe.

Scelte insediative e tecniche di costruzione L’Anatolia è ricca di materie prime utili all’edificazione e, pertanto, anche questo elemento favorí la realizzazione di edifici anche di notevole complessità. I materiali da costruzione piú facilmente reperibili erano ciottoli fluviali e blocchi o lastre di pietra estratti dalla roccia viva, argilla, fango, terra, canne, erbe o paglia, oltre che legname, reperibile

In basso: Göbekli Tepe (Sanliurfa). Vista d’insieme dell’area di scavo con le strutture circolari e i monumentali pilastri a T. Nella pagina accanto: il pilastro 43, dalla struttura circolare D, scolpito con figure di avvoltoi e di un grande scorpione. Alto quasi 4 m, è una delle piú spettacolari stele di Göbekli Tepe.

nelle allora presenti foreste. Mescolando terra, sabbia e pula o altri materiali fibrosi, come lo sterco, vennero prodotti mattoni di fango lasciati essiccare al sole entro stampi di legno, che caratterizzano le architetture dei piú antichi edifici dell’Anatolia sud-orientale e centrale, come riscontrato a Pinarbasi, Asikli Höyük (vedi box a p. 66) e Çatal Höyük (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 38-53). L’uso di mattoni crudi ha avuto una lunghissima storia nell’architettura tradizionale anatolica, tanto che in molti piccoli villaggi della Turchia orientale si trovano ancora oggi edifici realizzati con tale tecnica, solo negli ultimi anni sostituita dall’impiego di blocchetti di cemento. La fortuna di questo sistema costruttivo è dovuta al fatto che i mattoni di fango sono poco dispendiosi e facili da realizzare – un uomo può produrre anche cento mattoni al giorno – sia dal punto di vista tecnico, sia economico, e, inoltre, gli edifici costruiti in questo modo hanno migliori caratteristiche di inerzia termica rispetto agli edifici in pietra e legno. Le indagini archeologiche intraprese in diversi siti dell’VIII-VII millennio a.C. hanno

Costruirono i primi templi Con questo titolo Klaus Schmidt ha pubblicato in italiano – per Oltre Edizioni – un libro dedicato ai suoi scavi in corso a Göbekli Tepe, nella provincia di Sanliurfa (vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008). Göbekli Tepe racchiude sorprendenti strutture monumentali di forma circolare, edificate e abbandonate tra il 9600 e l’8200 a.C., caratterizzate da pilastri monumentali a forma di T che arrivano anche a 5 m di altezza. Si tratta di rappresentazioni stilizzate di esseri umani, con la testa formata dalla parte sommitale e sporgente dei monoliti. In alcuni di essi braccia allungate scendono attraverso i fianchi e si piegano fino a raggiungere il lato frontale, all’altezza della vita, dove coppie di mani sono poste al di sopra del ventre, coperto da un perizoma o da una cinta scolpita a bassorilievo. Su quasi tutti i pilastri si trovano raffigurati, con una maestria notevole, animali singoli, o insiemi che formano scene complesse. È interessante notare come tali bestie siano, in molti casi, pericolose, ostili o addirittura letali: numerosi sono i serpenti, gli scorpioni, i ragni, leoni e leopardi, seguiti da cinghiali, tori, volpi, uccelli simili a gru e anatre.

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a r c h e o 65


speciale • turchia preistorica A destra: riproduzione grafica della grande scultura maschile realizzata in calcare risalente al Neolitico pre-ceramico, da Sanliurfa-Yeni Mahalle.

La prima città: Asıklı Höyük Asikli Höyük sorge a poca distanza dagli affioramenti di ossidiana del Göllü Dagi e del Nenezi Dagi, lungo il fiume Melendiz nei pressi del villaggio di Kizilkaya, in un paesaggio fertile con sorgenti d’acqua abbondanti, non lontano dalla Valle di Ihlara con le sue chiese rupestri di epoca bizantina, nel cuore della Cappadocia. Grazie alle ricerche condotte da Ufuk Esin dell’Università di Istanbul, Asikli Höyük – esteso per

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piú di 4 ettari – non solo è stato risparmiato dalla condanna a scomparire sotto le acque di un lago artificiale, ma è diventato da oltre vent’anni un centro di ricerca e valorizzazione del patrimonio preistorico anatolico. Gli scavi sono oggi al centro anche di un progetto internazionale di conservazione diretto da Mihriban Özbasaran. Il dedalo di edifici che caratterizza Asikli Höyük è assai simile a quello

di Çatal Höyük, con strutture in mattoni crudi addossate le une alle altre con accesso da aperture sui terrazzi di copertura. Ma le oltre 400 stanze di Asikli Höyük sono assai piú antiche della piú famosa Çatal Höyük. Quasi cinquanta date ottenute tramite il sistema del radiocarbonio, da differenti campioni prelevati in diverse aree del sito, permettono di collocare Asikli Höyük tra l’8200 e il 7400 a.C.


Mar Nero

Bulgaria

Georgia Grecia

Samsun

Istanbul Yaglar Bursa Kalabak Keçiçayiri Izmir

Kars Büyükdere Erzurum Agri Dagi Bingöl Dagi Tendürek

Sakaeli Sivas

Ankara Lago Salato Acigöl

Armenia Trabzon

Kayseri

Nenezi Dagi Erciyes Dagi Hasan Dagi Göllü Dagi Konya Lago di Beysehir

Iran Süphan Dagi Lago di Van Nemrut Dagi

Lago di Egirdir

Sanliurfa

Antalya

i

r Tig

Siria

Mar Mediterraneo

In basso: Asikli Höyük (Aksaray). Alcune delle case ricostruite sperimentalmente in base ai dati di scavo danno un’idea del tipo di insediamento del Neolitico preceramico con edifici addossati gli uni agli altri, privi di finestre e con accesso dai tetti.

Cipro

Eu

Iraq

fra

te

Libano

ossidiana Cartina della Turchia con i principali giacimenti di ossidiana, evidenziati dal colore azzurro.

per messo di dimostrare l’importanza dell’Anatolia nel processo di formazione del Neolitico nel Vicino Oriente e sul ruolo che ebbe per quello europeo.

L’Anatolia del Neolitico Hacilar, Can Hasan, Süberde, Erbaba, Yümüktepe e Çatal Höyük sono stati i primi luoghi ad animare le ipotesi e le osservazioni dei ricercatori, tra cui fondamentali rimangono le intuizioni di James Mellaart e David French, che già negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso riconobbero la rilevanza

della penisola anatolica per la neolitizzazione. Oggi, grazie al notevole numero di siti ulteriormente studiati, si può affermare che l’Anatolia centro-meridionale è stata una zona primaria di formazione del Neolitico e che nelle regioni piú occidentali dell’odierna Turchia si sviluppò la maturazione di quelle culture alla base della successiva diffusione, durata almeno un millennio via terra e via mare, nel mondo Egeo, nei Balcani e nell’intero continente europeo. Le culture neolitiche, pur nelle loro differenze, sono caratterizzate da un insieme di elementi che le contraddistingue e che viene generalmente indicato come «pacchetto neolitico»: presenza di animali domestici e piante coltivate, produzione e utilizzo di determinati manufatti quali le ceramiche, oggetti di prestigio o di culto, architettura, organizzazione e disposizione degli insediamenti.Tutti elementi che portano a intravedere differenti strutture sociali e veri e propri «stili di vita». Su questi si è concentrata la ricerca archeologica, attraverso progetti multidisciplinari di équipe turche e internazionali, tra cui la missione italiana diretta da Isabella Caneva a Yümüktepe (Mersin), sulla costa mediterranea tra Antalya e Adana, dove una collina artificiale formatasi per l’avvenuta sovrapposizione nel tempo e nello stesso luogo di a r c h e o 67


speciale • turchia preistorica

le orme di istanbul Dal 2004 Istanbul è al centro di sorprendenti scoperte archeologiche grazie al ritrovamento in pieno centro, nel quartiere di Yenikapi, sulla sponda europea, a due chilometri da Santa Sofia e dalla Moschea Blu, dei resti dell’antico porto di Teodosio. Qui, a seguito dei lavori per la costruzione della nuova linea metropolitana sono riemerse, perfettamente conservate, 36 navi di varie dimensioni e tipologie risalenti al V-XI secolo d.C. (vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012). Oltre agli scafi delle imbarcazioni, sono riaffiorate le intere dotazioni di bordo, con cordami e oggetti in legno, tessuti, avori, vetri, metalli e ceramiche che stanno gettando nuova luce sulla capitale dell’impero bizantino e piú in generale sul mondo mediterraneo di quel periodo. Con il proseguire dei lavori, a oltre 6 m di profondità sotto il livello del mare, nessuno si sarebbe aspettato di ritrovare i resti di un villaggio neolitico del 6500 a.C. (cultura di Fikirtepe arcaica). Frammenti ceramici, utensili in osso e in pietra scheggiata, oltre a ossa animali con segni di macellazione, sono stati ritrovati tra le basi in pietra di capanne rettangolari. A tali resti, nell’estate 2011, si è aggiunta una dozzina di sepolture. Due celavano lo scheletro del defunto, un adulto in posizione fetale, deposto in una fossa foderata e ricoperta da assi di legno perfettamente conservate. Eccezionale è anche il ritrovamento di nove sepolture a cremazione, le piú antiche mai scoperte, che retrodatano al 6200 a.C. le prove di tale pratica funeraria. Infine, su una superficie di argilla di circa 40 mq, sono incredibilmente tornate alla luce 390 impronte di piedi impresse nel fango essiccato, lasciate da adulti e bambini che abitavano nel villaggio neolitico. Queste orme, sigillate da sedimenti fini forse legati all’esondazione del vicino fiume, Istanbulprovocano un’emozione vibrante, Yenikapi. Alcune poiché sembrano appena delle impronte di lasciate da qualcuno, ma in piede rinvenute realtà si sono eccezionalmente nei livelli conservate per 8000 anni. neolitici.

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Bulgaria Asagi Pinar

Grecia

Hoca Çesme

Mar Nero

Yarimburgaz

Georgia

Küçükçekmece Istanbul-Yenikapi Fikirtepe

Armenia

Pendik

Ilipinar Demirci Höyük Aktopraklik Barçin Ugurlu-Zeytinlik Ankara Mentese Keçiçayiri Boytepe Ege Gübre Kaletepe Çinaz Ulucak Asikli Höyük Çayönü Hallan Çemi Yesilova Tepecik-ÇiftlikCafer Höyük Demirköv Çukurici Çine-Tepecik Salat Cami Yani Kuruçay Erbaba Boncuklu Kösk Höyük Besparmak Körtik Tepe Çatal Höyük Hacilar Pinarbasi Can Hasan Mezraa-Teleilat Nevali Çori Bademagaci Höyücek Süberde Akarçay Tepe Peynirçiçegi Yümüktepe r Tig i

Suluin

Siria

Mar Mediterraneo

In alto: Yesilova Höyük (Izmir), esempi di ceramiche risalenti al Neolitico, ritrovate nel sito e poste di fronte a una delle capanne ricostruite in base ai dati di scavo.

Iran

Cipro

Eu

Iraq

fra

te

Libano

neolitico ceramico (7000-6000 anni fa)

Cartina della Turchia con l’indicazione dei principali siti del Neolitico ceramico a oggi noti.

Anatolia. Le origini Anatolia. Le origini di Andrea De Pascale, pubblicato da Oltre Edizioni nella collana «Passato Remoto» è dedicato a chi desideri compiere un viaggio nella preistoria dell’odierna Turchia. Una guida e un racconto che, attraverso numerose immagini, conduce l’appassionato di archeologia, il viaggiatore curioso, ma anche lo studente universitario, alla scoperta della lunga e complessa preistoria dell’area anatolica, dalle piú antiche testimonianze del Paleolitico Inferiore fino agli esordi del Calcolitico, periodo che precede il sorgere delle grandi civiltà. Un’intera sezione del libro contiene, inoltre, schede e immagini su siti e musei archeologici, con approfondimenti e indicazioni necessarie alla visita, che potrà essere facilitata anche dalla presenza di un dizionario archeologico trilingue (italiano/turco/ inglese).

numerosi livelli di abitato documenta almeno 9000 anni di occupazione. Per le loro peculiarità alcuni siti hanno dato il nome ad altrettante culture, come la Grotta Yarimburgaz – importante anche per le testimonianze risalenti al Paleolitico – indagata dal Museo Archeologico di Istanbul e da Mehmet Özdogan dell’Università di Istanbul, che ha permesso di recuperare e inquadrare cronologicamente, grazie alla stratigrafia di riferimento, pregiate produzioni ceramiche che contraddistinguono l’omonima cultura. Nell’Anatolia occidentale interna (Demirci Höyük, Bademagaci, Kuruçay, Höyücek, Keçiçayiri), sulla costa mediterranea (Grotta Suluin, Antalya, e Grotta Peynirçiçegi, Bodrum), su quella egea (Ugurlu-Zeytinlik e Çoskuntepe a Çanakkale; Çukuriçi Höyük, Ege Gübre, Ulucak Höyük e Yesilova a Izmir; Çine-Tepecik ad Aydin; le grotte e le pitture rupestri sul monte Besparmak, l’antico Latmos, nella provincia di Mugla), nella regione di Marmara e nella Turchia europea nei dintorni di Istanbul (Fikirtepe, Pendik, Ilipinar, Mentese, Barçin, Aktopraklik, Hoca Çesme, Asagi Pinar), fino ad arrivare alle eccezionali scoperte di Yenikapi (vedi box alla pagina precedente) decine di siti aiutano a riscrivere questo momento fondamentale della storia umana. a r c h e o 69


antico egitto • petosiris

il «santo» di tuna el-gebel

di Sergio Pernigotti

Petosiris fu sommo sacerdote di Thot quando l’Egitto era sotto il dominio di Filippo Arrideo, fratellastro di Alessandro magno. Nella sua tomba si conserva una straordinaria «biografia» illustrata, testimonianza sapiente di un dialogo tra cultura egiziana e greca, tra tradizione e innovazione A sinistra: sarcofago antropoide ligneo di Petosiris, sommo sacerdote del dio Thot vissuto durante il regno di Filippo Arrideo (323-317 a.C.), successore di Alessandro Magno. Dalla Tomba di Petosiris, nella necropoli di età tolemaicoromana di Tuna el-Gebel, presso el-Ashmunein, l’antica Hermopolis greca. Il Cairo, Museo Egizio. Nella pagina accanto: un babbuino mummificato, nella necropoli sotterranea degli animali sacri al dio Thot, di Tuna el-Gebel.

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N

el Medio Egitto, nella zona compresa tra la città di el-Minya a nord e quella di Dairut a sud, si trovano numerosi siti archeologici di straordinaria importanza per la ricostruzione della storia della civiltà egiziana. Dalle tombe di Beni Hassan, scavate nella catena di basse colline sulla riva destra del Nilo e databili tra il

Primo Periodo Intermedio e l’inizio del Medio Regno, per giungere, qualche decina di chilometri piú a sud, a Tell elAmarna, dove Akhenaton ha fondato la sua capitale dando vita a una delle vicende storiche e artistiche piú straordinarie nella vita del Paese (vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012). Al centro di questo percorso,

attorno alla città di Mallawi, vi sono due siti che ci portano, almeno per quello che si è conservato sul terreno, a periodi e a vicende completamente diverse. Sulla riva destra del fiume si trova Antinoupolis, la città che prende il nome dal favorito dell’imperatore Adriano, Antinoo, che qui morí annegato: un sito di grande importanza per

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antico egitto • petosiris

Mar Mediterraneo Porto Said Alessandria El Alamein

Il Cairo Suez

Giza

Saqqara

Sinai

Menfi Ain Sukhna

Fayyum

Golfo di Suez

Nilo

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Akhmim el-Balyana

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Luxor

Egitto

Nilo

Edfu

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Assuan

lo studio dell’Egitto di età tolemaica e romana fino e oltre l’avvento del cristianesimo, ma che conserva anche un tempio di Ramesse II, e sul quale opera da molti anni la missione archeologica italiana dell’Isituto Papirologico «Vitelli» di Firenze, diretta da Rosario Pintaudi. Sulla riva sinistra si trovava una città di diversa e ben piú antica tradizione che, però, per la sua necropoli 72 a r c h e o

se si preferisce, «(La città degli) otto». Per comprendere la ragione di un nome cosí curioso, occorre risalire alla storia religiosa di cui Shmun è stata il centro. Secondo uno dei molti miti della creazione del mondo elaborati nell’Antico Egitto (si può dire che ogni centro importante aveva una sua teoria sull’argomento), il mondo è nato proprio in questa località: dalle acque del fiume è sorta un’isola –

tolemaica e romana, si salda, dal punto di vista cronologico, con il contesto storico testimoniato dalle rovine di Antinoupolis. Il sito prende oggi il nome arabo di el-Ashmunein, dietro il quale non è difficile riconoscere il copto Shmun (elAshmunein significa letteralmente «Le due Shmun»), che, a sua volta, discende dall’antico egiziano Khmwnw, che significa «Gli otto» o,

A sinistra: cartina dell’Egitto, con la posizione di Tuna el-Gebel e delle altre località del Medio Egitto citate nel testo. In basso: sarcofago per la mummia di un ibis, da Tuna el-Gebel. Epoca Tarda, XXX dinastia, 380-343 a.C. Torino, Museo Egizio.


città, infatti, era il piú importante centro di culto del dio Thot, che i Greci identificarono con il loro Hermes: per questo, coerentemente, la chiamarono Hermopolis, nome che appare regolarmente nei papiri e nelle iscrizioni in greco.

intellettuali connesse con la scrittura e le lettere, a cui gli scribi erano particolarmente devoti. A lui erano sacri due animali: l’ibis e il babbuino e non è un caso che nei pressi di Shmun si trovino immense necropoli sotterranee in cui è deposta un’enorme quantità di questi animali mummificati, sacrifimigliaia di Sacrifici Secondo la teologia egiziana, Thot cati dai pellegrini che si recavano a era un dio di prima grandezza, pa- visitare il tempio del grande dio. trono della scrittura e delle attività Per comprendere l’importanza di questa divinità (e di riflesso della città che ne ospitava il culto) nel babbuini mummificati mondo antico, basterà ricordare che essa viene menzionata da Platone

l’isola primordiale – sulla quale sono approdate quattro coppie di divinità (quattro a testa di rana e quattro a testa di serpente) che l’hanno fecondata; da questo atto creatore è nato un fiore di loto, che si è dischiuso, dando vita a un fanciullo divino dal quale avrà origine il resto della creazione; e da questi otto dèi ha preso nome la città. Shmun trae la sua importanza non solo da questa mitica vicenda. La

Ibis e popolano le necropoli sotterranee

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antico egitto • petosiris

lo scriba degli dèi Nella religione dell’antico Egitto Thot era il dio tutelare del nomo di Chnum (o Khnum), nell’Alto Egitto: proveniente forse dalla zona occidentale del delta, era innanzitutto un Salvatore, perché liberava la luna dall’assalto di Seth; grazie a questo suo intervento si trasformava in un dio lunare e notturno, venerato come «un toro in mezzo alle stelle». Nella zona del delta era adorato come un re seduto in trono e avente testa di ibis. Per le sue magie, la luna riacquistava ogni mese le parti perdute, ma per la sua saggezza Thot era il regolatore del tempo, il conservatore dell’ordine universale, fungeva da contabile e da scriba agli dèi, era il primo funzionario del grande dio solare, siedeva fra gli dèi come giudice e a questa funzione adempiva anche nel tribunale dei morti. Figura composita per le molte attribuzioni e l’importanza acquisita nel tempo, godette di un culto vastissimo come inventore della scrittura, delle scienze e delle arti. Sua paredra era Maat o Sesat. I Greci lo paragonarono a Ermete e lo chiamarono Trismegisto (tre volte grandissimo). Una sua seconda raffigurazione con testa di babbuino si deve forse a un altro dio lunare, piú tardi assimilato a Thot.

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In alto: un egiziano mostra una delle mummie di ibis, che, con quelle di babbuino, furono seppellite a migliaia nella necropoli di Tuna el-Gebel.

In basso: la necropoli di Tuna el-Gebel, sito di importanza fondamentale nella storia dell’Egitto tra l’ellenismo e l’età romana.


nel Fedro. È Socrate che parla: «Ho udito, dunque, narrare che presso Naucrati d’Egitto c’era uno degli antichi dèi di quel luogo, al quale era sacro l’uccello che chiamano Ibis, e il nome di questo dio era Theuth. Dicono che per primo egli abbia scoperto i numeri, il calcolo, la geometria e l’astronomia e poi il gioco delle tavolette e dei dadi e, infine, anche la scrittura. In quel tempo re di tutto l’Egitto era Thamus e abitava nella grande città dell’Alto Nilo. Gli Elleni la chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano Ammone il suo dio. E Theuth andò da Thamus, gli mostrò queste arti e gli disse che bisognava insegnarle a tutti gli Egizi» (traduzione di G. Reale).

piú settentrionale delle stele con cui Akhenaton delimitò il terreno sacro al «suo» dio, l’Aten, su cui fondò la sua capitale Akhet-Aten «L’orizzonte di Aten». La necropoli è uno dei siti piú importanti per lo studio della civiltà egiziana di epoca tarda e, in particolare, dell’epoca di transizione tra la prima e la seconda dominazione persiana, la conquista del Paese da parte di Alessandro, il costituirsi della monarchia ellenistica, e poi, il divenire l’Egitto una provincia romana. Un periodo cruciale in cui viene meno l’«indipendenza» del Paese e in cui le relazioni con altre civiltà non sono piú dettate dai rapporti internazionali, ora pacifici ora ostili, ma dal costituirsi, nella Valle del Nilo, di un gruppo dirigente, prima persiano o filo-persiano e poi di lingua e di cultura greca, destinato quest’ultimo a prendere il sopravvento. A Tuna el-Gebel possiamo assistere al passaggio dall’uno all’altro di questi momenti e al costituirsi di una società multietnica e multiculturale – come oggi diremmo – in cui le due civiltà, l’una antichissima e l’altra assai piú recente, convivono e hanno numerosi punti di contatto, anche linguistici, senza però mai fondersi realmente fino a costituire una cultura mista: ciascuna mantiene la propria individualità, pur non r ifiutando a pr ior i l’apporto dell’altra.

Tra due civiltà Poco a sud di questo venerando centro religioso si trova, sempre sulla riva sinistra del Nilo, la necropoli di Tuna el-Gebel che, nel percorso moderno per raggiungerla, è preceduta dalla

Statua in calcare raffigurante un sacerdote di Thot con un babbuino, da el-Ashmunein (antica Hermopolis), il maggiore centro di culto del dio. Nuovo Regno, XIX dinastia, 1292-1186 a.C. Oxford, Ashmolean Museum of Art and Archaeology.

il sacerdote di thot A Tuna i documenti piú antichi risalgono all’età persiana: in una giara rinvenuta tra le deposizioni dei babbuini è stato recuperato un importante gruppo di papiri del V secolo a.C. in aramaico (la lingua ufficiale dell’impero persiano). Per il resto, i ritrovamenti risalgono perlopiú all’epoca greca e romana: tra di essi spicca un grande papiro in demotico, contenente una lunga serie di norme giuridiche, una sorta di codice civile. La tomba piú importante di questa grande necropoli è quella di un eminente personaggio di Hermoa r c h e o 75


antico egitto • petosiris

polis, di nome Petosiris, e della sua famiglia: scoperta nel 1920 dal grande egittologo francese G. Lefebvre, essa si presenta come un unicum nell’Egitto di epoca tarda, non solo per la sua architettura e per la sua decorazione, ma anche per il tentativo, che qui appare testimoniato per la prima volta, di conciliare il linguaggio figurativo dei nuovi signori del Paese, i Greci, con quello, antico ormai di piú di tremila anni, degli Egiziani. La tomba è stata costruita poco tempo dopo la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno e si può datare piú precisamente al regno di Filippo Arrideo (323-317 a. C.), suo immediato successore: il suo interesse maggiore sta nel fatto che Petosiris, che ricoprí tra le molte sue cariche anche quella di sommo sacerdote del dio Thot a Hermopolis, tenta per primo di conciliare le due culture che per la prima volta venivano realmente a confronto. Vissuto in un periodo assai difficile, in cui l’Egitto era stato un campo di battaglia nella guerra tra i Persiani e l’esercito di Alessandro, l’uomo vede nel re macedone un liberatore e intuisce, da raffinato intellettuale quale certamente era, che l’Egitto è a una svolta nella sua storia e che un buon egiziano deve in primo luogo adoperarsi per aprire la strada alla convivenza tra i due popoli e le due culture.

il «tempio» DI FAMIGLIA Il sepolcro destinato ad accogliere lui e gli altri componenti della sua famiglia ha la forma di un tempio egiziano classico, con le colonne in facciata unite da pannelli in pietra, elemento tipico dell’architettura templare d’età tolemaica: all’interno presenta una struttura bipartita, vestibolo e cappella a pilastri. Petosiris aveva fatto costruire prima la cappella destinata al culto funerario del padre e del fratello maggiore, mentre aveva dedicato a se stesso il vestibolo. Le deposizioni si trovavano nel sottosuolo: il sarcofago del sacerdote è stato ritrovato e si può ora 76 a r c h e o

ammirare al Museo del Cairo. L’importanza della tomba non è data unicamente dalla sua struttura architettonica e dai temi svolti nelle decorazioni del vestibolo e della cappella, che, considerati nel loro insieme, non sono peraltro particolarmente originali e risalgono a una tradizione molto antica: nei pannelli che servono da intercolumni vi sono raffigurazioni relative alle arti e ai mestieri; nel vestibolo vero i

Nella tomba di Petosiris lo stile egiziano tradizionale si affianca a elementi figurativi greci


Tuna el-Gebel. La tomba di Petosiris, adibita ad accogliere il sacerdote e i membri della sua famiglia. Costruita in forma di tempio egiziano, l’imponente sepoltura era composta da un vestibolo e da una cappella a pilastri, piú antica, destinata al culto del padre e del fratello.

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antico egitto • petosiris

temi trattati riguardano soprattutto i lavori agricoli, mentre nella parete sud, che si trova in asse con l’entrata (la tomba è orientata nord-sud) sono rappresentati i figli e le figlie di Petosiris. Processione funebre (in basso), particolare di uno dei rilievi parietali della cappella; scena di vendemmia (nella pagina accanto), rilievo del vestibolo della tomba di Petosiris. 320-300 a.C. Nelle decorazioni, accompagnate da lunghe iscrizioni in geroglifico di buona fattura, lo stile tradizionale egiziano convive con il linguaggio figurativo greco.

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in lingua colta Nella cappella vi sono le scene piú propriamente funerarie, i cui protagonisti sono lo stesso Petosiris e, come già detto, il padre e il fratello maggiore. Possiamo cosí assistere alla processione del loro funerale e all’adorazione di diverse divinità con le relative scene di offerta. Tutte le raffigurazioni sono accompagnate da iscrizioni geroglifiche, che non contengono solo le didascalie che ne illustrano il contenuto e ci permettono di identificare i personaggi, ma anche lunghi testi di grande interesse per la ricostruzione dell’ambiente religioso e culturale in cui Petosiris è vissuto. Per quanto ci si trovi in un periodo molto «tardo» della civiltà egiziana, i testi sono scritti in geroglifici di buona fattura e in una lingua molto «classica»: del resto non ci si poteva

Un canto per la vigna Tra i testi scolpiti sulle pareti della tomba di Petosiris è famoso quello che accompagna una scena di vendemmia e che contiene un canto dei vignaioli: «Vieni, nostro signore, vedi le tue vigne e rallegrati per esse! Schiacciano i vendemmiatori l’uva davanti a te, molta uva è per terra: ha piú succo dell’anno passato. Bevi e sii ebbro, non cessare di fare ciò che ti piace [...] La notte viene, l’uva è pesante di rugiada. Si pigi in fretta e si porti alla casa del nostro signore! Tutto ciò che esiste viene da dio: beva in pace il nostro signore il suo succo e ne renda grazie a dio! Se ne faccia una libagione al genio della vigna, che dia molto vino quest’altr’anno». (traduzione di Edda Bresciani).

attendere altro da un personaggio che era stato sommo sacerdote del dio della scrittura, Thot, e che doveva essere un intellettuale raffinato. Benché in questo periodo storico fossero di uso corrente altre due


scritture, la ieratica e la demotica, e cominciasse a prospettarsi l’uso del greco – fatto certamente ben noto a Petosiris – qui la scelta del geroglifico era d’obbligo, trattandosi di testi funerari tracciati sulle pareti di una tomba egiziana.

convivenze di stile L’aspetto piú importante di questo singolare monumento si trova però altrove; alcune delle scene sopra descritte sono scolpite in uno stile puramente greco e si contrappongono ad altre che, invece, sono in uno stile egiziano del tutto tradizionale. Si badi bene: le scene in stile greco non sono composizioni che mescolano elementi egiziani, né quelle egiziane includono elementi greci. Vi è qui una netta distinzione tra i due linguaggi figurativi, nel tentativo non di contrapporre gli uni agli altri, ma di farli in qualche modo convivere. Tale circostanza è del piú grande interesse,

perché va ricordato che la tomba e la sua decorazione si datano proprio nella fase iniziale della dominazione greca, tra il 320 e il 300 circa a.C.: e l’Egitto era stato conquistato da Alessandro pochi anni prima. Con questa scelta Petosiris non solo prende atto che alla odiosa dominazione persiana era subentrata quella di una civiltà superiore che poteva coesistere con quella egiziana, ma ritiene che la presenza dei nuovi signori sarà duratura, cosa che non era affatto scontata, data la frammentazione dei regni ellenistici. Egli cerca quindi una strada nuova, quella della convivenza tra le culture: intuizione che si realizzerà solo parzialmente perché in realtà in Egitto, malgrado altri generosi tentativi, le due culture percorreranno strade parallele e non diventeranno mai una cultura mista. Tuttavia, la lezione di Petosiris non è andata del tutto perduta: nella necropoli di Tuna el-Gebel, dietro

la sua tomba-tempio, vi è una vasta zona, scavata dall’archeologo egiziano Sami Gabra, che forma una vera e propria «città dei morti», in cui elementi figurativi, architettonici e persino linguistici coesistono gli uni accanto agli altri e gli uni negli altri: ma, malgrado alcune tombe siano piuttosto antiche, anche di età persiana, esse sono da datare al II secolo d.C., in un periodo quindi piuttosto lontano da quella di Petosiris. Si è detto «città dei morti», perché le tombe sono spesso case vere e proprie, in cui i congiunti si recavano a passare qualche tempo con i loro defunti, come è tradizione ancora oggi nei cimiteri islamici. Chi dal Fayyum si rechi per l’autostrada verso il Cairo, scorge a circa mezza strada quella che sembra una città molto grande, fatta di case «normali»: cosí non è, si tratta in realtà del cimitero di October City, città nuovissima che si trova a pochi chiloa r c h e o 79


antico egitto • petosiris

metri dalla capitale egiziana. Da tutto ciò si ricava un’immagine particolarmente significativa della personalità di Petosiris, un’immagine che riceve una conferma e un arricchimento anche dai molti testi tracciati sulle pareti della tomba e che con ogni verosimiglianza sono opera sua. A parte le didascalie, vi sono anche testi di notevole valore letterario che però hanno poco a che fare con la persona del grande sacerdote.

Babbuini, pittura parietale nella necropoli tolemaicoromana di Tuna el-Gebel.

L’elenco dEi titoli Tuttavia, i testi piú interessanti sono quelli di carattere biografico, relativi al padre (che si chiamava Sishu) e al fratello (che portava il complicato nome di Djed-Thot-iuf-ankh), e quelli autobiografici, in cui Petosiris ripercorre la sua carriera ed esprime la sua concezione del mondo e della vita. Narrare vita e carriera (che spesso si identificavano) è una tradizione molto antica in Egitto: ne abbiamo esempi importanti a partire dall’Antico Regno, che continuano in tutte le epoche della storia egiziana. Per quanto siano talvolta un po’ ripetitive, sono tuttavia della piú grande importanza, perché permettono di ricostruire le biografie di personaggi di pri-

mo piano e, indirettamente, le strutture portanti dello Stato egiziano; ma, in esse, è facile leggere anche la concezione della vita del defunto, la sua visione del mondo e le sue idee morali, che variano notevolmente a seconda delle varie epoche. Cosí l’autobiografia di Petosiris ci mostra un personaggio dai molti meriti che si presenta a noi posteri come rassegnato al destino di vivere in un Egitto pieno di problemi e in tutto sottomesso alla volontà degli dèi e in particolare del suo dio Thot. In una delle iscrizioni piú lunghe vi è l’elenco dei suoi titoli che corrispondono alle tappe fondamentali della sua carriera: «il Grande dei Cinque, il Signore dei troni, Grande Sacerdote, Colui che vede il dio nel suo tabernacolo, Colui che penetra nell’adyton, Colui che celebra le sue funzioni in compagnia dei grandi sacerdoti, Sacerdote dell’Ogdoade, Capo dei sacerdoti di Sekhmet, Scriba regale, Contabile di tutti i beni del tempio di Hermopolis, Secondo sacerdote del tempio di Khnum-Ra signore di Antinoupolis e di Hathor signora di Neferusi». L’elenco ci mostra un uomo al culmine di una carriera prestigiosissima, non soltanto di carattere sacerdotale, ma anche di ambito «civile», saldamente incardinato nel territorio di Hermopolis: circostanze che ci aiutano a capire le fonti della sua ricchezza, perché egli doveva essere molto ricco se si è potuto permettere la costruzione di una tomba simile.

«appello ai vivi» Segue quello che chiamiamo «l’appello ai vivi», un’invocazione che il defunto rivolge a coloro che sono rimasti sulla terra e in cui si delineano i suoi meriti e il suo profilo morale. Dice Petosiris: «O voi che ora vivete sulla terra e voi che (ancora) dovete nascere, che verrete in questa montagna (= necropoli) e vedrete questa tomba, venite e io farò in modo che voi siate istruiti sulle volontà di dio: io vi guiderò sulla via della vita, la buona via di colui che obbedisce a dio: è felice 80 a r c h e o

Scena agricola, rilievo del vestibolo della tomba di Petosiris. 320-300 a.C.


colui il cui cuore conduce verso di essa. Colui il cui cuore è saldo sulla strada di dio, salda è la sua esistenza sulla terra; grande è la felicità sulla terra di colui la cui anima ha un grande timore di dio (…) Io passai sette anni come lesonis (sommo sacerdote) di Thot, signore di Khmunu, facendo tutte le cose (che dovevo fare) in modo eccellente nel suo tempio, aumentando l’importanza dei suoi sacerdoti, facendo grandi i suoi servitori, riempiendo i granai d’orzo e di grano, e i suoi magazzini di ogni cosa buona, molto di piú di quello che vi era prima: (allora) uomini dei paesi stranieri governavano l’Egitto. Io mi preoccupai di eseguire dei lavori nel tempio di Thot (…) tesi la corda per gettare le fondazioni del tempio di Ra (…) perché esso era in rovina da molto tempo. Io lo costruii in bella pietra bianca di calcare, completo di ogni tipo di lavori (…) Io ho fatto tutto ciò per far sí che la mia vita si prolunghi nell’allegria e io possa arrivare alla necropoli senza provare alcuna afflizione. Possa la mia casa continuare a esistere dopo che io

sono stato sepolto in questa tomba accanto a mio padre, per sempre».

degno del favore divino Petosiris riprende il tema dei suoi molti meriti in un secondo «appello ai vivi»: in un Egitto sotto una dura dominazione straniera, con il Sud in rivolta, mentre nel Nord era in corso una rivoluzione e i templi erano abbandonati e privi dei loro sacerdoti. Che cosa ha fatto per rimediare a questa tragica situazione? Ha restaurato riportandolo al suo antico splendore il tempio di Thot, ha costruito il tempio di Ra, il chiosco delle dee, il santuario di Hathor e di Nehmettauy, ha fatto recintare un’area sacra, «il parco», ha restaurato il muro del grande tempio di Thot e il tempio di Heqet. Come si vede, una vita dedita al culto degli dèi, al restauro dei templi esistenti e alla costruzione di nuovi edifici di culto, imprese in cui, come si premura di informarci, ha investito anche una parte dei suoi beni. Di tutto ciò il dio Thot l’ha abbondantemente ricompensa-

to in beni materiali e facendo in modo che, come egli dice, «io fossi oggetto dei favori del sovrano d’Egitto e che mi conquistassi l’amore dei suoi cortigiani». Ma Petosiris era anche, e soprattutto, un uomo di superiore levatura morale. Cosí si esprime ancora una volta rivolgendosi ai vivi. «Io sono un uomo onorato da suo padre, lodato da sua madre e amico dei suoi fratelli. Io ho costruito questa tomba in questa necropoli accanto agli spiriti superiori che sono là, perché sia pronunciato il nome di mio padre e quello del mio fratello maggiore: pronunciare il suo nome è far vivere un uomo. L’aldilà è la dimora di chi è senza peccato: felice l’uomo che vi giunge. Nessuno può raggiungerlo se non colui il cui cuore è esatto nel praticare la giustizia. Laggiú non vi è alcuna distinzione tra chi è povero e chi è ricco, tranne per chi è trovato senza peccato, quando la bilancia e il peso sono davanti al signore dell’eternità; nessuno è esente dal sentir pronunciare il suo verdetto, mentre Thotbabbuino in trono giudica ogni uomo in base a ciò che egli ha fatto sulla terra. Io ero un fedele del signore di Khmunu fin dalla nascita. Poiché tutti i suoi piani erano dentro il mio cuore, egli mi scelse per amministrare il suo tempio: infatti egli sapeva che il timore di lui era dentro il mio cuore». In un’altra iscr izione, infine, anch’essa diretta ai vivi dal padre di Petosiris, il quadro della santità dei maggiori componenti di questa famiglia sacerdotale viene cosí completato: «Se io sono giunto qui, nella dimora dell’eternità, è perché io ho fatto del bene sulla terra (…) dalla mia infanzia fino a oggi: tutta la notte lo spirito di dio colmava la mia anima, e dall’alba io facevo ciò che egli voleva: io ho praticato la giustizia e ho detestato l’iniquità (…) Io ho fatto tutto questo pensando che giungerò presso dio dopo la mia morte (...) Felice colui che ama dio perché egli arriverà alla sua tomba senza inconvenienti!». a r c h e o 81


scavi • teatro di marcello

un Teatro sulla via

dei trionfi

le recenti indagini in una delle aree archeologiche piĂş suggestive di roma sottolineano il suo stretto legame, simbolico e funzionale, con la sfilata dei cortei trionfali di Massimo Vitti

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L’

area del teatro di Marcello, compresa tra il Campidoglio e l’Isola Tiberina, quindi nel cuore di Roma, ha acquistato l’aspetto attuale solo nel 1940, dopo la demolizione del quartiere medievale sorto intorno all’edificio per spettacoli iniziato da Giulio Cesare, completato probabilmente nel 17 a.C., e dedicato appunto a Marcello, nipote di Augusto, nel 13 o nell’11 a.C. Nel Medioevo, data la sua posizione elevata nei pressi del fiume, in un punto in cui era facile il guado, il teatro fu trasformato in fortezza, di

proprietà dei Pierleoni e dei Fabi. Poi, nel Cinquecento, Baldassarre Peruzzi eresse il palazzo tuttora esistente per conto dei Savelli, che due secoli piú tardi fu acquistato dagli Orsini e che oggi, proprio per avere inglobato e ripreso la fisionomia del monumento romano è una delle presenze architettoniche piú caratteristiche della città. Indagini svolte in quest’area tra il 1995 e il 2000 hanno permesso di definire in maniera piú puntuale la topografia e la viabilità antica di questa parte della città, che com-

prende un tratto del percorso seguito dalla via riservata ai trionfi, e hanno arrichito i dati su alcuni monumenti «meno noti», quali il tempio della Pietas, il tempio di Apollo Roma. I resti del teatro di Marcello (inglobati nel cinquecentesco Palazzo Savelli-Orsini) e i quelli del tempio di Apollo Sosiano, costruito in età augustea sul luogo di un piú antico edificio templare dedicato ad Apollo Medico. Le tre colonne, rinvenute all’interno del teatro, furono rialzate intorno al 1940.

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scavi • teatro di marcello

Medico, il monoptero (o Perirrhanterion) e la Columna Bellica.

una strada speciale La via Trionfale, nota sin dall’epoca repubblicana, attraversava l’area del teatro di Marcello rivestendo particolare importanza in occasione della celebrazione dei trionfi (vedi box alle pp. 86-87). In questa zona, gli edifici vincolanti nel definirne il percorso medio- e tardo-repubblicano sono: il portico di Metello (143 a.C.; il futuro portico d’Ottavia), il tempio di Apollo Medico (431 a.C.), il tempio della Pietas (181 a.C.) e la Porta Carmentalis. Si può ipotizzare che la strada, proveniente dall’area del Circo Flaminio, con percorso parallelo alle facciate dei templi di Giove Statore e Giunone Regina, e diretta verso la porta Carmentale, in assenza del teatro di Marcello, lambisse il lato meridionale della platea del tempio di Apollo Medico, e, poco dopo, piegasse verso sud, prima del tempio della Pietas, per dirigersi verso la porta urbica. È probabile che in questo ultimo tratto la strada di età imperiale abbia ricalcato il percorso della via Trionfale di età repubblicana, e che quindi anche questa lambisse il Foro Olitorio, sul quale prospettavano quattro templi. È verosimile ipotizzare che, ove possibile, le variazioni di percorso tra la viabilità d’età repubblicana e quella d’età imperiale siano state contenute, cosí da lasciare per quanto possibile inalterati gli antichi percorsi processionali, e che eventuali cambiamenti siano stati imposti dalla costruzione di nuovi edifici che interferivano con il tracciato precedente. La costruzione del teatro di Marcello prima, la riedificazione del Perirrhanterion (dal greco antico per bacino lustrale, n.d.r.) e la costruzione del tempio di Apollo Sosiano dopo – attività riconducibili all’età augustea – interferirono con la rete stradale preesistente. Di conseguenza, anche la via Trionfale dovette adeguarsi alle nuove presenze monumentali, e il suo tracciato perse line84 a r c h e o

Piazza Montanara

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arità e ampiezza, poiché fu sottoposto a passaggi angusti, come, per esempio, quello tra lo spigolo sud-ovest del portico di Ottavia e il teatro di Marcello, dove lo spazio per il passaggio si riduceva a 2,5 m circa.Tale spazio diventava ancora piú esiguo pochi metri piú a est, dove lo scavo ha rimesso in luce la fondazione del monoptero, evidenziando che l’ampiezza utile per il passaggio tra questo e il tempio di Apollo superava di poco i 2 m, ed era perciò del tutto inadeguata al transito del corteo trionfale. A partire dall’epoca augustea, quindi, la pompa trionfale non poteva piú transitare da questa parte, ma, presumibilmente, come è stato già ipotizzato, passava all’interno del teatro di Marcello. L’area compresa tra i templi di Apollo e Bellona e il teatro perse le caratteristiche di una strada e assunse la connotazione di un’ampia piazza lastricata, la cui pavimentazione è l’esito di piú interventi succedutisi nel tempo, le cui pendenze furono progettate in maniera tale da far sí che le acque

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piovane confluissero attraverso caditoie nel grande collettore fognario anulare che fiancheggiava la platea di fondazione del teatro.

tra i templi e il teatro La lastricatura della piazza intorno al teatro presenta tipologie differenti, esito di interventi compiuti in epoche diverse. Le lastre rettangolari e quadrangolari di travertino rinvenute in superfici limitate tra il


Vi di a de Ot l P t av o rt ia ico

La romanità innanzitutto

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Sulle due pagine: planimetria dell’area del teatro di Marcello, con, evidenziati dalle zone colorate, gli isolati demoliti durante i lavori del 1926-1932. L’intervento si inquadra nella politica di valorizzazione delle vestigia della romanità perseguita dal regime fascista e fu accompagnato dall’acquisto, da parte del Comune di Roma, della parte inferiore del Palazzo Savelli-Orsini, cioè quella in cui si conservano le strutture del teatro.

Vicolo Teatro di Marcello

Casa Cinquecento

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In basso: pianta del Campo Marzio meridionale in età tardo-repubblicana (secondo Filippo Coarelli). In grigio sono indicati la platea del tempio di Apollo Medico (A) e il tempio della Pietas (B) e la porta Carmentale (C).

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tempio di Apollo e di Bellona e a ridosso del perimetro esterno del is n a teatro di Marcello sono riconduciAm roni t bili all’età augustea. e P La pavimentazione a tessitura irreAra golare realizzata con elementi di Martis reimpiego, prevalentemente lastre di travertino di dimensioni diverse, ma anche frammenti di marmo e basoli, appartiene invece a un’epoca assai piú tarda, ma mantiene la stessa quota di posa di quella precedenA te. Si possono riconoscere nell’ambito di questa pavimentazione due C differenti tipologie: la prima, molto B piú estesa, è stata rimessa in luce nel tratto compreso tra il tempio di (segue a p. 88) a r c h e o 85


scavi • teatro di marcello

il trionfo La pompa trionfale era una processione, decretata dal Senato, che si svolgeva quando un magistrato, rivestito di imperium, riportava una vittoria sul nemico e la campagna si concludeva positivamente. In origine la cerimonia aveva finalità solo religiose, come rito di indubbio valore catartico. Col tempo, l’aspetto politico prese il sopravvento e il punto culminante non fu piú lo scioglimento dei vota, bensí la sfilata del bottino, dei prigionieri, delle tabulae con il racconto figurato degli episodi bellici, dello stato maggiore e delle truppe con le uniformi da parata e le decorazioni. La pompa era aperta dai senatori e dai magistrati in toga accompagnati dagli squilli di tromba; seguivano gli animali da sacrificare, tori bianchi. La prima parte della processione era conclusa dalle spoglie dei vinti: il bottino veniva portato su carri e su ferculae (trofei), e il suo ammontare e la sua provenienza venivano annunciati da cartelli (tituli) che precedevano ciascun gruppo. Grandi dipinti narravano gli avvenimenti salienti della campagna o rappresentavano le regioni sottomesse; assieme a questi sfilavano grandi corone preziose (coronae triumphales) offerte al trionfatore dalle città provinciali.

86 a r c h e o

Inframmezzati tra i fercula, avanzavano a piedi o su carri i prigionieri di alto rango, seguiti dalla massa dei prigionieri umili. Una volta giunti sul Campidoglio, i prigionieri nobili erano uccisi o imprigionati a vita. La parte centrale del corteo era occupata dal gruppo del trionfatore, costituito dai littori con i mantelli rossi da guerra e

i fasci avvolti in corone di alloro, i flautisti e i citaredi e, infine, il carro trionfale tirato da quattro cavalli bianchi. Il trionfatore indossava gli abiti e portava le insegne di Giove Optimo Massimo (tunica palmata, toga picta, scarpe dorate, scettro, il ramo e la corona di alloro). Di valore apotropaico era la bulla portata al collo e la colorazione rossa del viso.

Alle sue spalle un servus publicus teneva sollevata sul capo una corona d’oro. Sul carro trovavano posto i figli e le figlie minori, mentre quelli adulti e i parenti piú vicini cavalcavano a lato. Dietro la quadriga venivano a piedi o a cavallo i legati e i tribuni e poi gli schiavi liberati. Il corteo trionfale era chiuso dalle truppe in ordine militare. Il condottiero trascorreva


la notte precedente il trionfo nella Villa Publica nel Campo Marzio, e il giorno successivo si svolgeva una seduta comune con il Senato nel portico di Ottavia, mentre dal limitrofo Circo Flaminio aveva inizio il corteo trionfale. Partita la pompa, questa passava tra il teatro di Marcello e i templi di Apollo Sosiano e di Bellona, percoreva la zona compresa tra il Campidoglio e il Foro Olitorio e usciva dal pomerium dalla Porta Triumphalis ubicata presso l’area sacra di S. Omobono. Da qui passava nel Circo Massimo, per percorrerlo tutto e immettersi sul lato opposto nella valle tra il Palatino e il Celio, da dove, superato l’arco di Costantino, si dirigeva verso il Palatino, lungo la via Sacra, fino all’arco di Settimio Severo, e saliva sul Campidoglio fino al tempio di Giove attraverso il Clivo Capitolino.

Nella pagina accanto: pianta dell’area centrale di Roma, con il tracciato del percorso seguito dai cortei trionfali. A destra: disegno ricostruttivo di un corteo trionfale, immaginato nel momento in cui, dopo aver lasciato la valle del Colosseo, imboccava la via Sacra in direzione del Campidoglio.

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scavi • teatro di marcello

Area del teatro di Marcello. La zona in cui, tra il 1995 e il 2000, sono stati messi in luce la fondazione in opera cementizia e due elementi in travertino del basamento del monoptero (o Perirrhanterion), un edificio circolare circondato da un colonnato, al cui interno era collocato un bacino con l’acqua lustrale.

Bellona e il tempio di Giano, ed è realizzata quasi esclusivamente con lastre di travertino di reimpiego tessute irregolarmente a causa delle differenti dimensioni delle lastre. La pavimentazione conservata tra il tempio di Apollo e il teatro è invece fatta con travertini e marmi bianchi di riutilizzo e con un maggior impiego di basoli; la tessitura è ancora piú irregolare con diffuse rinzaffature tra le lastre realizzate con materiali diversi (travertino, marmo, 88 a r c h e o

selce). L’eterogeneità dei materiali utilizzati e la stessa tessitura dei frammenti lapidei indicano che questa parte di pavimentazione fu eseguita in epoca tardo-antica. Successivo a questa, è un altro piano pavimentale, che si sovrappone a quello in lastre di travertino ed è costituito da scaglie di travertino (prevalenti) e marmo bianco allettate su di una gettata in malta rossa, con inserite saltuariamente alcune lastre di travertino di reimpiego. Si tratta, probabilmente, del restauro di alcuni tratti del precedente pavimento nei punti in cui aveva avuto dei cedimenti, cosí da rendere necessario il ripristino delle pendenze originarie per il deflusso delle acque piovane, mantenendo comunque lo stesso livello del piano di calpestio di epoca romana. La cura nella manutenzione della piazza, la sua parziale

obliterazione a seguito del crollo della fronte del tempio di Apollo, l’assenza di ceramica altomedievale nello strato di allettamento della pavimentazione lasciano ipotizzare che il piano della piazza in lastre lapidee irregolari e in scaglie di travertino possa essere stato realizzato in un’epoca anteriore al V secolo d.C.

La porticus Triumphi? Il limite orientale della piazza è stato definito grazie ai lavori di sistemazione eseguiti in occasione del Giubileo del 2000, quando è stato realizzato uno scavo sul lato est del tempio di Bellona, scoprendo la prosecuzione del portico e rinvenendo un basolato stradale, tuttora visibile. Ciò ha permesso di ricostruire, perlomeno a partire dall’età imperiale, la viabilità lungo le pendici del Campidoglio nel tratto tra


Piazza Campitelli

Planimetria dell’area del teatro di Marcello con evidenziati i due passaggi in corrispondenza dello spigolo del portico di Ottavia (A) e del monoptero (B) e l’area dello scavo eseguito nel 1957 tra il tempio di Apollo e quello di Bellona (C).

Via Montanara

Travertino Peperino Tufo Marmo Cortina Opera mista Muratura a sacco

Portico di Ottavia

C

Tempio di Apollo Tempio di Bellona

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Teatro di Marcello

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scavi • teatro di marcello

pietre calpestate per secoli

Tempio di Apollo Sosiano

Pianta dell’area antistante il teatro di Marcello, indagata negli anni 1996-1998: in grigio, il podio dei templi di Apollo e Bellona; in verde scuro, i resti della platea del tempio di Apollo Medico; in viola, le strutture in blocchi di tufo di Grotta Oscura; in verde chiaro, la pavimentazione romana; in rosa, la prima pavimentazione tardo-antica; in giallo, la seconda pavimentazione tardo-antica; in marrone, le fognature; in beige, la fondazione del monoptero; in celeste, la fondazione a plinti e, in rosso, la struttura a tufi con inserita la fistula di piombo.

La pavimentazione romana in lastre di travertino conservata lungo l’ambulacro del teatro di Marcello e tra il tempio di Apollo Sosiano e il tempio di Bellona.

l’area del teatro di Marcello e l’area sacra di S. Omobono. La strada presenta un orientamento NE-SO, risultando cosí divergente dal portico che la separa dal lato orientale del tempio di Bellona. Il basolato è conservato per una larghezza massima di 5,20 m circa, ma, presumibilmente, la carreggiata era almeno di 9 m ed era in discesa verso il Foro Olitorio, adeguandosi all’orografia della zona. Il basolato stradale si trova a una quota superiore a quella del porticato laterale, il che indica che il piano stradale appartiene a un’epoca posteriore a quella del portico. Essendo stato 90 a r c h e o

eseguito utilizzando materiale di reimpiego, possiamo supporre che il basolato risalga all’età imperiale avanzata o addirittura al tardo impero. L’utilizzo prolungato di questo livello è attestato dai solchi dei carri e dai numerosi interventi di restauro finalizzati al livellamento del manto stradale.

blocchi di reimpiego Tra il basolato e i pilastri del portico sono stati rinvenuti blocchi di travertino di reimpiego di diverse dimensioni, alcuni anche di 2 m di lunghezza, disposti con il lato lungo parallelo alla strada. Questi si trova-

no 40 cm circa al di sopra della quota di spiccato delle basi del portico. Fungevano probabilmente da contenimento del bordo occidentale della strada o come una sorta di grossolana crepidine, realizzata contemporaneamente al basolato. È interessante notare che prolungando l’allineamento di questi blocchi in travertino verso il Foro Olitorio se ne ritrovano altri lungo il tracciato: due in corrispondenza dell’attuale rampa di accesso all’area archeologica, e altri inglobati nel muro di recinzione in corrispondenza dello spigolo meridionale del teatro di Marcello. Ed è altresí signi-


Tempio di Bellona

Tufo di Grotta Oscura Tufo di Monteverde in pianta Tufo di Monteverde in prospetto con tracce di lavorazione Tufo granulare (Cappellaccio) in pianta Tufo granulare in prospetto con tracce di lavorazione Marmi Travertino Basalto Conglomerato

Teatro di Marcello

Opera laterizia Pavimentazione a scaglie di travertino Malta Terra

La pavimentazione tardo-antica

nel tratto compreso tra il tempio di Bellona e il tempio di Giano. In primo piano si riconosce il rifacimento del piano in scaglie di travertino e marmo; le frecce indicano gli elementi lapidei che la delimitavano sul lato orientale.

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scavi • teatro di marcello

ficativo rilevare che il basolato, ma soprattutto gli elementi lapidei a margine di questo, possono essere messi in relazione con i resti rinvenuti nel 1991 davanti alla chiesa di S. Nicola in Carcere. L’esistenza di una strada tra il basolato rinvenuto presso il tempio di Bellona e i resti individuati davanti alla chiesa di S. Nicola in Carcere è avvalorata anche da Rodolfo Lanciani, che ricorda come nel 1876, nello scavo di una trincea per una fognatura in via Montanara, si rinvenne un basolato lungo 50 m tra piazza Montanara e l’area dei templi del Foro Olitorio. Si conferma, quindi, l’esistenza di un’arteria stradale, larga all’incirca 10 m, tra il tempio di Bellona e la porta Carmentale, che rimase in uso fino al periodo tardo-antico senza varia92 a r c h e o

In alto: la pavimentazione tardo-antica nel tratto compreso tra il tempio di Bellona e il tempio di Giano. In basso: la pavimentazione di epoca

tardo-antica tra il tempio di Apollo Sosiano e il teatro di Marcello, realizzata con materiali lapidei di recupero.


zioni sensibili di quota e di larghezza della carreggiata. Questa strada era fiancheggiata sul lato ovest dalla piazza del Foro Olitorio e da quella del teatro di Marcello, mentre, su quello opposto, era delimitata dall’edificio di cui sono ancora visibili i resti sul lato occidentale di via Teatro di Marcello. La viabilità a nord dei templi di Apollo e Bellona proseguiva lungo le pendici del Campidoglio, fino a collegarsi con la via Lata (Flaminia), che incrociava in corrispondenza dell’area in cui oggi si trova la scalinata dell’Altare della Patria, dove intersecava anche il vicus Pallacinae, il cui percorso è ricalcato all’incirca dall’attuale via di San Marco.

uno snodo cruciale L’incrocio tra la via Flaminia, il vicus Pallacinae, il clivo Argentario e la strada proveniente dal teatro di Marcello formavano quindi un quadrivio; uno snodo di estrema importanza per la viabilità in questo settore dell’Urbe, perché da qui partivano assi viari fondamentali: uno verso il Campidoglio e i Fori Imperiali (Clivo Argentario), uno verso il Campo Marzio centrale (via Flaminia), un altro verso il Campo Marzio meridionale e il Foro Olitorio (la

A ridosso del tempio di Bellona Pianta dei resti rinvenuti sul lato orientale del tempio di Bellona durante la campagna di scavo del 2000: a tratteggio il percorso ricostruito della strada. La lettera A indica i due blocchi di travertino che separavano la strada dalla piazza; la lettera B la fondazione ottocentesca che ingloba un muro in opera vittata; la lettera C i blocchi in travertino del margine occidentale della strada; la lettera D il pilastro in laterizio rinvenuto sul lato orientale del basolato e la lettera E il solco causato dal passaggio dei carri.

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Portico

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In basso: i blocchi di travertino a delimitazione del basolato e i pilastri in travertino del lato orientale del portico. La quota di rasatura delle basi corrisponde alla quota del basolato.

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scavi • teatro di marcello

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Isola Tiberina

In alto: l’area del Foro Olitorio con la ricostruzione, a tratteggio, del tratto stradale individuato grazie agli scavi. A destra: pianta del Campo Marzio Meridionale con la ricostruzione del percorso stradale tra la Porta Carmentale e la via Lata. 1. via Lata; 2. vicus Pallacinae; 3. clivo Argentario; 4. basolato attestato nella Forma Urbis Romae; 5. diverticolo presso il portico dei templi di Apollo e Bellona; 6.-7. basolato e crepidine presso il tempio di Bellona; 8. crepidine della via Trionfale.

strada del «teatro di Marcello»), e, infine, uno in direzione della Crypta Balbi e l’area sacra di Largo Argentina (vicus Pallacinae).

i monumenti «minori» Le indagini archeologiche nelle aree limitrofe al teatro di Marcello hanno ampliato anche le nostre conoscenze riguardo al tempio della Pietas, al tempio di Apollo Medico, al monoptero e alla Columna Bellica. Per quanto concerne il tempio della Pietas, le strutture piú significative appartengono alla platea e al podio, di cui è stata rinvenuta una piccola porzione dell’angolo posteriore nord-ovest, al di sotto dell’Aula Regia, posta sul lato meridionale del teatro di Marcello. La struttura poggia su di un’ampia platea in blocchi di tufo di Grotta Oscura e se ne conservano due blocchi modanati della zoccolatura in tufo di Monteverde. Il tempio è stato rasato all’altezza della zoccolatura del podio per volontà di Giulio 94 a r c h e o

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Cesare nel 44 a.C., che aveva avviato le opere di demolizione in previsione della costruzione del suo teatro, edificato poi da Augusto, e dedicato al nipote Marcello. La cronologia dell’edificio può essere definita sulla base della coincidenza tra i dati delle fonti e il tipo di modanatura rinvenuta: elementi che rimandano entrambi al 181 a.C., data dell’inaugurazione dell’aedes. Sulla base dei resti del tempio della Pietas emersi dallo scavo, possiamo ricostruire l’ingombro dello stesso, che, ultimo dei templi del Foro Olitorio, si adeguò ai precedenti noti nella loro ricostruzione della metà del I secolo d.C. Dobbiamo quindi ipotizzare che la fronte del tempio della Pietas si allineasse agli altri templi del Foro Olitorio e che la larghezza, ricostruita sulla base della scoperta dell’angolo posteriore nord-occidentale e delle strutture della platea rinvenute sul lato attiguo al tempio di Giano, fosse di circa 30 piedi (9 m).

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Del tempio di Apollo Medico, le indagini del 1997-1999 hanno riportato in luce nuove strutture oltre quelle già scoperte da Antonio M. Colini nel 1940. Si tratta di una platea-podio alta 6,20 m, compresa la fondazione, il cui paramento è costituito da blocchi di tufo litoide marrone scuro, mentre l’interno è realizzato con blocchi di cappellaccio del Campidoglio. L’appartenenza della platea al tempio del 431 a.C. non è attestata da stratigrafie associate, ma è avvalorata dall’uso di blocchi di cappellaccio e di tufo litoide delle stesse dimensioni di quelli già individuati e pubblicati da Richard Delbrück sul lato postico del tempio di Apollo Medico. La platea era larga 21,45 m, mentre la lunghezza totale è ignota (quella massima oggi conservata è pari a 38,20 m), poiché il lato meridionale è stato tagliato dalle fondazioni del teatro di Marcello. Le indagini eseguite all’interno della platea hanno rivelato che lo spes-


Il tempio della Pietas Votato da Acilio Glabrione nel 191 a.C. per la vittoria riportata alle Termopili contro Antioco, fu inaugurato dal figlio omonimo nel 181 a.C. Il tempio è ricordato dagli autori antichi in Foro Olitorio e in Circo Flaminio; Cassio Dione narra che venne demolito da Cesare per far posto al teatro che il dittatore si accingeva a costruire. In alto: la platea e parte del podio del tempio della Pietas (a sinistra); particolare di uno dei blocchi modanati della zoccolatura del podio (a destra). In basso: l’ubicazione del tempio della Pietas, del quale è stata rinvenuta una piccola porzione dell’angolo posteriore nord-ovest, sul lato meridionale del teatro di Marcello, presso il tempio di Giano.

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scavi • teatro di marcello

sore del muro orientale era di 2,50 m, mentre quello del lato occidentale, del quale sono stati portati alla luce solo alcuni tratti, sembra essere stato di 5,70 m. I saggi eseguiti tra questi due muri non hanno messo in luce altre strutture appartenenti alla stessa fase, tranne una fondazione in blocchi di cappellaccio orientata est-ovest, posta in corrispondenza della fondazione della fronte del tempio di Apollo Sosiano, che impiega blocchi uguali per dimensione e lavorazione a quelli già rinvenuti sui lati lunghi. La constatazione che la fondazione sia stata inglobata da quella del tempio di C. Sosio avvalora l’ipotesi avanzata da Alessandro Viscogliosi secondo la quale la fronte del tempio piú antico si trovava in corrispondenza di quella del tempio di età augustea e che, pertanto, il tempio di Apollo Medico era largo 21,45 m (72 piedi) e lungo 25,05 m

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(85 piedi) e si ergeva su di un podio Bellona e utilizzata nella cerimonia alto almeno 6,20 m. delle dichiarazioni di guerra. Infatti, secondo il rito tradizionale, la guerra doveva essere dichiarata scaglianuna colonna per do una lancia dal territorio romano dichiarare guerra Tra gli edifici della piazza è attestata verso il territorio nemico. la presenza della Columna Bellica. Le Al momento della guerra contro indagini archeologiche, tuttavia, Pirro, re dell’Epiro, non essendo i non hanno fornito indicazioni utili due Stati confinanti, il rito sembraper individuare il sito di questo cu- va impossibile da svolgere. Un pririoso monumento. Si trattava di una gioniero di guerra fu quindi cocolonna, probabilmente di legno, stretto ad acquistare un piccolo inserita in un’area di terreno circo- lembo di terra nella zona in circo scritta e considerata territorio ne- Flaminio, dove fu eretta una colonna mico, posta davanti al tempio di (forse in legno), che poteva rappre-

ricostruito dopo la riconciliazione Le tre colonne rialzate oggi visibili (vedi foto) appartengono al rifacimento di epoca augustea del tempio ad Apollo Medico, inaugurato nel 431 a.C. dal console Gneo Giulio a seguito di una pestilenza. Il tempio fu restaurato nel 353 a.C. e forse subí importanti lavori nel 179 a.C., a opera del censore Marco Emilio Lepido. Una ricostruzione radicale fu iniziata da Gaio Sosio, probabilmente poco dopo un suo trionfo nel 34 a.C. I lavori dovettero tuttavia interrompersi presto, in seguito al conflitto tra Ottaviano e Antonio, per riprendere, probabilmente, solo qualche anno dopo, quando Augusto si riconciliò con Sosio, che si era schierato con Antonio. L’edificio fu infine dedicato a nome del princeps. Il frontone del tempio, attualmente ricomposto nella sede della Centrale Montemartini dei Musei Capitolini, era decorato con sculture asportate da un tempio greco classico e databili agli anni 450-425 a.C., raffiguranti un’amazzonomachia (lotta tra Greci e Amazzoni).


sentare simbolicamente il territorio nemico: la cerimonia si poté dunque svolgere scagliando la lancia contro la colonna.

un edificio enigmatico Le indagini del 1997 hanno messo in luce la fondazione del monoptero. Su di essa si conservano in situ solo due elementi in travertino del basamento dell’edificio, obliterato dalla pavimentazione tardo-antica che inglobò i due blocchi. L’analisi della superficie di allettamento degli ortostati ha permesso di evidenziare le impronte di altri, poi asportati. Questi erano costituiti da una fila esterna di blocchi di tufo trapezoidali disposti in maniera radiale (diametro esterno 6,40 m) intorno a un nucleo interno circolare in blocchi di travertino a cui appartengono i due tuttora conservati (diametro esterno 3,80 m). Le dimensioni del basamento sono compatibili con i resti architettonici di un edificio a pianta circolare del diametro ricostruito di 3,80 m rinvenuti nell’area del teatro di Marcello e ora parzialmente ricomposti presso i Musei Capitolini nella sede della Centrale di Montemartini. Gli elementi architettonici sono pertinenti a un edificio di ordine corinzio con fregio-architrave decorato all’interno con girali d’acanto e, all’esterno, da bucrani che sorreggono rami d’alloro, che però appartengono a due fasi costruttive, una giulio-claudia e l’altra flavia. La funzione di questo edificio è stata analizzata a fondo da Eugenio La Rocca il quale, sulla base delle fonti, ne ha evidenziato le funzioni religiose, da cui deriva anche l’attuale denominazione di Perirrhanterion. I resti delle fondazioni e dell’alzato rendono però piú corretta la denominazione di monoptero, vale a dire di un piccolo edificio a pianta circolare con colonnato esterno all’interno del quale vi era il bacino d’acqua. È probabile che il nuovo assetto urbanistico dell’area, a seguito della costruzione del teatro di Marcello, abbia previsto la ricostruzione in vesti monumentali del luogo in cui

La decorazione del monoptero (o Perirrhanterion), ricomposta e allestita presso la sede della Centrale Montemartini dei Musei Capitolini, Roma.

era collocato il bacino per le abluzioni. I dati archeologici indicano che l’operazione avvenne in età augustea, ma non confermano che il sito del monoptero corrisponda a quello del Perirrhanterion.Tuttavia, la sua collocazione in una posizione infelice a causa dello spazio molto ristretto, quasi a contatto con i pilastri del teatro di Marcello sul lato meridionale, ma in asse con il tempio di Apollo, sono elementi sufficienti per ipotizzare che nella ricostruzione imperiale sia stata mantenuta l’ubicazione originaria.

Un’ipotesi suggestiva Per quanto riguarda invece la suggestiva ipotesi che propone la coincidenza del Perirrhanterion con l’Apollinar (l’altare costruito nel 449 a.C. prima del tempio di Apollo Medico), sebbene avvalorata dalla comune presenza nel rito dell’acqua, quale elemento purificatore, al momento non è provata. Occorre

in proposito segnalare che non è stata rinvenuta alcuna conduttura idrica connessa con il monoptero e che quindi, in età imperiale, il Perirrhanterion doveva aver assunto una funzione puramente simbolica. La presenza di una sorgente salutare, al di là delle notizie delle fonti, può essere avvalorata solo dal ritrovamento di una fistula in piombo (diametro 5 cm) alloggiata in uno strato di argilla grigia, a sua volta protetta da una struttura in tufo. La fistula, rinvenuta presso l’angolo sud-ovest del tempio di Bellona nel 1995-96, è conservata solo per 1,50 m di lunghezza ed è stata tagliata a est dal podio del tempio. Si potrebbe quindi ipotizzare che, sia per la cura nella realizzazione del condotto che per la sua vicinanza al tempio di Apollo Medico, si tratti di un’opera legata alla regimazione della sorgente salutare realizzata prima del 296 a.C., data dell’edificazione del tempio di Bellona.

le mani insanguinate del dittatore Plutarco ci informa indirettamente dell’esistenza del Perirrhanterion, raccontando un episodio cruento che si svolse durante le guerra civile tra Mario e Silla. Quest’ultimo, trovandosi nel tempio di Bellona per una riunione con il Senato, fu raggiunto da Catilina, che portava in mostra la testa mozza di Mario Gratidiano, avversario politico del dittatore. Dopo aver mostrato il trofeo, Catilina si lavò le mani sporche di sangue nel vicino perirrhanterion, procedendo cosí a una sorta di purificazione rituale. Si trattava, probabilmente, di un grande bacino con acqua lustrale – da cui la denominazione con il termine greco di perirrhanterion – che in età giulio-claudia fu monumentalizzato con la costruzione di un piccolo edificio di pianta circolare. All’esterno il monoptero – cioè il vero e proprio edificio – aveva una peristasi di 9 colonne, con capitelli corinzi che sorreggevano un fregio-architrave coronato da una cornice con mensole alternate a rosette.

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storia • l’etruria dei misteri

Demetra e i cavalli Nell’etruria viterbese, in una fenditura della roccia, fu ricavato un misterioso santuario. sfuggito agli scavi clandestini, ha restituito una testimonianza significativa di quell’architettura sacra rurale impropriamente definita «minore». Tra suggestivi arredi di culto vegliati da Demetra, l’etrusca Vei, fin dal III secolo a.C. di Paola Di Silvio


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ei templi etruschi, soprattutto a causa della deperibilità delle strutture portanti, possediamo solo pochi resti, perlopiú limitati ai muri di fondazione e alle terrecotte architettoniche che ne decoravano la copertura. Per ricostruirne l’aspetto, ci si è spesso avvalsi di modellini votivi fittili, o della descrizione che ne ha fatto Vitruvio nel De Architectura. Questa documentazione, però, può essere utilizzata quasi unicamente per gli imponenti complessi templari urbani, mentre risulta molto meno applicabile a una architettura sacra «minore», dai tratti piú originali e autoctoni, diffusa nei piccoli centri e, soprattutto, nelle campagne d’Etruria.

La terrazza di culto del santuario rupestre di epoca etrusco-romana rinvenuto in località Macchia delle Valli, nel territorio di Vetralla (Viterbo). In basso: la statua della divinità femminile a cui era dedicato il santuario, identificabile con la greca Demetra – assimilabile all’etrusca Vei e alla romana Cerere – rinvenuta a ridosso della parete di fondo della cella. Il simulacro, in terracotta originariamente dipinta, è databile al III sec. a.C.

presso la sorgente Di recente, una scoperta sensazionale, quanto inaspettata, ha gettato nuova luce su questo aspetto sicuramente non marginale e secondario della religione etrusca. Nella primavera del 2006, i Carabinieri del comando TPC (Tutela Patrimonio Culturale) segnalarono alla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale scavi clandestini effettuati nel territorio di Vetralla Perugia

Chianciano Terme

Chiusi

Sarteano Marsciano

Monte Amiata

Orvieto

Pitigliano

Bolsena

ere

Tuscania

Viterbo

Vulci Castel d’Asso Tarquinia

A1

v Te

Lago di Bolsena

Spoleto

Vetralla

Barbarano Blera Romano San Giovenale

Civitavecchia Tolfa

Magliano Sabina

Nepi

Lago di Bracciano

Palombara Sabina

Bracciano Pyrgi

Cerveteri A12

Rieti

Veio

Roma

(Viterbo), in località Macchia delle Valli, in prossimità di una grotta naturale e di una sorgente d’acqua, elementi, in antico, già di per sé qualificanti in senso sacro un’area, e spesso associati a culti di divinità ctonie (sotterranee). Dal punto di vista ambientale ancora oggi la zona è molto suggestiva. Vi si arriva per un sentiero costeggiato da un boschetto di cerri e querce, che rivela, con le sue tagliate, l’antica origine etrusca. Nei secoli l’area è stata utilizzata come cava di peperino, un’attività che ha interessato in passato tutto il comprensorio, e da cui deriva il toponimo di «Pietrara» dato alla piccola frazione che si trova nelle vicinanze. Il luogo era noto agli archeologi, soprattutto per i resti di una cisterna romana, e ai locali per la presenza di un bel fontanile, ormai prosciugato, noto con il nome di Fontana Asciutta. In questo ambito, naturalmente predisposto a un contatto con il divino, l’intervento della Soprintendenza, diretto da Maria Gabriella Scapaticci, ha consentito di riportare alla luce i resti di un santuario, di epoca etrusco-romana, dall’articolata planimetria. All’interno di una cavità rupestre, trasformata in epoca moderna in ricovero agricolo, è stata individuata una piccola cella cultuale, lunga 2 m circa e larga poco piú di 1, costruita con blocchi di peperino, sfuggita agli scavatori clandestini. Il sacello ha eccezionalmente restituito gli arredi di culto e la statua in terracotta di una divinità femminile. Date le condizioni estreme dell’intervento, dovute all’esiguità dello spazio in cui operare, si è proceduto con un metodo molto singolare, cioè smontando i lastroni della copertura a doppio spiovente della cella, e rimuovendo l’interro dall’alto. Il piccolo edificio, che dal punto di vista architettonico richiama i modelli votivi del tipo a oikos (casa), era stato inserito in a r c h e o 99


storia • l’etruria dei misteri

una fessura della roccia, come a costituire un tutt’uno con quella cavità naturale, che, probabilmente, era stata la prima e piú semplice dimora della divinità.

la dea in trono Non sono state rinvenute decorazioni pittoriche all’interno, ma un sobrio intonaco color crema. Molto elaborata è risultata la struttura della copertura, con un timpano al centro del soffitto, decorato su entrambe le facce da un disco scolpito a rilievo, e un secondo timpano, con stesso motivo decorativo, impostato sulla fronte del sacello. A ridosso della parete di fondo della cella, sopra un banco monolitico di peperino, è stata trovata adagiata, ancora nella sua posizione originaria, la statua di culto, identificabile, per la sua iconografia, con la Demetra dei Greci, assimilata all’etrusca Vei e venerata poi dai Romani come Cerere. Il simulacro, datato al III secolo a.C., in terracotta, in origine dipinta, è di piccole dimensioni (alto 50 cm circa), e rappresenta la dea in trono, che tiene nella mano

destra una patera umbilicata, mentre nella sinistra, mancante di alcune dita, doveva sorreggere un mazzo di spighe, oggi disperso. Indossa un chitone con vita alta, tipicamente italico, e un mantello (himation) che dalla spalla destra sale verso la testa e la ricopre. Sullo stesso bancone è stata ritrovata una testina femminile fittile, forse attribuibile alla divinità solitamente collegata al mito di Demetra, vale a dire sua figlia Kore (Persefone o Proserpina). L’aspetto dell’introduzione di elementi di culti greci sul sostrato indigeno etrusco è sempre stato al centro dell’interesse di molti studiosi. L’etrusca Vei, il cui culto è documentato in var i contesti d’Etruria, soprattutto centro-meridionale, si configura come una divinità fortemente autoctona, dai caratteri che in genere si pongono nella sfera femminile, come la riproduzione, e in quella dei cambiamenti di status, che si estendono anche al passaggio tra città e campagna, e a quello tra la vita e la morte (vedi anche «Archeo» n. 307, settembre 2010). Demetra è nota in

L’area sacra era frequentata probabilmente dal ceto contadino

Etruria sin dal VI secolo a.C., come attestano i vasi greci con sue raffigurazioni, ma gli elementi di connotazione demetriaca del culto di Vei si fanno particolarmente evidenti a partire dai primi decenni del V secolo a.C., fino alla sostituzione del culto di Demetra a quello della divinità indigena, cosí come documentato dal santuario di Macchia delle Valli.

fecondità e salute Lo scavo all’interno del sacello ha portato anche al rinvenimento, al centro della parete destra, di un tavolino rituale, sotto il quale erano stati deposti, in posizione rovesciata, forse proprio a sottolineare il carattere sotterraneo del culto praticato, alcuni reperti in ceramica. Su un piccolo altare di peperino, è stata infine recuperata una moneta di bronzo, un asse di Domiziano, emessa dalla zecca di Roma nell’anno 86 a.C., ma che dall’usura rivela una lunga circolazione. La moneta data perciò tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. l’ultima fase di frequentazione della cella. Tra questa e la grotta, un’area all’aperto costituiva una zona di passaggio (antecella) di grande importanza per il culto. Qui è stata rinvenuta una base di peperino, usata come sostegno per un strano e suggestivo donario di argilla, incompleto, a forma di torso umano, di fattura modestissima, che rappresenta forse un embrione umano e quindi allude alla fertilità che qui si veniva a propiziare. Lo scavo eseguito in grotta ha consentito il recupero di ceramica e oggetti votivi di età etrusca e romana. Un lastrone staccatosi dalla parete rocciosa e adagiatosi sopra la cavità naturale, era stato utilizzato come «terrazza» di culto, con apprestamenti per celebrazione il rito: libagioni verso la cella, che si disperdevano poi Disegno ricostruttivo del santuario rupestre. All’interno della cella, addossato alla parete di fondo, è un banco di peperino monolitico che costituiva il piano d’appoggio per la statua di culto.

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nascosto tra le rocce La terrazza di culto Deposito votivo

Terrazza di culto

Un grande lastrone di peperino, poggiato orizzontalmente sopra la cavità naturale, costituisce la terrazza di copertura, utilizzata a scopi cultuali. Nell’anfratto sottostante è stato rinvenuto un deposito votivo, caratterizzato da ex voto anatomici di propiziazione della fertilità e della sanatio.

Cava antica

Deposito di fondazione Antecella

Grotta naturale con deposito votivo

La cella

Vetralla-macchia delle valli Planimetria generale Peperino Blocchi e lastroni di peperino

La piccola cella, lunga 2 m e larga poco piú di 1, orientata secondo i punti cardinali, fu realizzata con grandi blocchi di peperino e coperta da lastroni a doppio spiovente. Davanti alla cella è stata rinvenuta una base di peperino con un donario di ceramica.

Peperino rifinito con scalpellature Cavità naturale nel peperino con rifiniture Terracotta

L’antecella

Scasso clandestino

Quest’area all’aperto era molto importante per il culto, in quanto faceva da tramite tra la cella e la grotta naturale.

Muro di età industriale Pavimento di età moderna Da indagare

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storia • l’etruria dei misteri

L’ingresso al sacello. Si nota il timpano, decorato su entrambe le facce con un disco acroteriale a rilievo. Il complesso, costituito da vari ambienti sia all’aperto che in grotta, fu in uso tra la fine del IV sec. a.C. e gli inizi del II sec. d.C.

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nella terra.Anche nell’anfratto sottostante la terrazza e nell’area aperta prospiciente è stato recuperato numeroso materiale votivo. Le caratteristiche dei reperti rinvenuti, con prevalenza di ex voto anatomici, soprattutto uteri, ma anche piedi, teste, gambe, e l’associazione con statuette di argilla rappresentanti figure femminili (tanagrine), indirizzano il culto qui praticato verso la sfera della fecondità e della guarigione (sanatio). Nei pressi della grotta si sono inoltre radunate importanti testimonianze dei riti svolti, legati alla presenza dell’acqua, che veniva raccolta in una vasca monolitica in peperino e poi riutilizzata in un labrum (bacino) lapideo per cerimonie lustrali.

tempio di campagna Per la sua collocazione extraurbana, rispetto agli antichi insediamenti noti nel territorio vetrallese, il complesso si configura come un santuario di campagna, connesso a un contesto sociale rurale e frequentato prevalentemente da un ceto contadino. In base alla datazione del materiale recuperato è possibile collocare la frequentazione dell’area tra la fine del IV secolo a.C e gli inizi del II secolo d.C. Ma per quale motivo il santuario rupestre di Macchia delle Valli fu abbandonato? A causa di un evento bellico? Per un’epidemia? O forse in seguito al prosciugamento della sorgente d’acqua? Quel che è certo è che l’abbandono fu voluto e intenzionale: tutta l’area, infatti, venne occultata e sigillata con un consistente strato di residui di cava, lasciando intatte solo cella e antecella, e spargendo in varie zone, le piú significative del santuario, una grande quantità di una sostanza all’apparenza liquida, rilevata da uno strato nel terreno di colore piú scuro. Un’ipotesi molto suggestiva vorrebbe riconoscere in questo liquido del latte, o meglio ancora il famoso ciceone, la bevanda composta da acqua, farina di orzo e menta, legata al mito e quindi al culto di Demetra.

un modello diffuso Nel 2002, l’inventariazione e la schedatura dei reperti di una raccolta privata conservata a Cura di Vetralla portarono a una scoperta sorprendente. Tra molti oggetti di scarso valore scientifico fu individuato un gruppo di frammenti pertinenti a una lastra di terracotta architettonica, in argilla rosa, con altorilievo, raffigurante una coppia di cavalli alati. Lo stile e l’elaborazione di alcuni particolari – la posizione delle zampe, la resa degli zoccoli, delle bocche semiaperte, la ricca bardatura, la presenza di piume sulle ali – non lasciavano spazio a dubbi: si trattava dell’unica replica antica a oggi nota della lastra con cavalli alati, proveniente dall’Ara della Regina di Tarquinia. Le dimensioni sono ridotte rispetto all’originale e anche la qualità dell’opera è di livello inferiore. Ma l’indubbio confronto con il modello tarquiniese suggerisce l’esistenza di cartoni di riferimento che dovevano circolare nel territorio della grande metropoli etrusca. Quello dell’Ara della Regina è il piú grande tempio etrusco sinora scoperto e aveva una rilevanza nazionale. È perciò logico ipotizzare che la magnifica opera che ne decorava il frontone fosse molto nota e ammirata dai contemporanei e che esistessero nell’entroterra tarquiniese botteghe che si cimentavano in repliche del celeberrimo capolavoro fittile. Ma da dove poteva provenire la copia conservata a Vetralla? Sicuramente dall’Etruria meridionale interna, poiché i possedimenti della famiglia che è ancora proprietaria del reperto ricadono in questo ambito territoriale. Forse da un piccolo luogo di culto, afferente a un centro minore del comprensorio. Nel santuario scavato a Macchia delle Valli, sono stati notati tre incassi sulla parete che chiude a sud l’area cultuale, forse destinati ad alloggiare tre travi, la cui disposizione disegna la forma inclinata di un tetto: può darsi che questa copertura a spiovente fosse funzionale a un edificio antico. Se cosí fosse, non solo gli archeologi avrebbero per la prima volta la possibilità di misurare l’altezza di un tempio etrusco, ma forse saremmo anche di fronte all’originaria collocazione dell’altorilievo con cavalli alati conservato a Vetralla, che, quindi, non si sarebbe mai allontanato piú di tanto dal luogo per cui era stato commissionato e realizzato. Frammenti di una lastra architettonica in terracotta, replica in scala dell’altorilievo che decorava il frontone dell’Ara della Regina di Tarquinia. Cura di Vetralla, collezione privata.

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

omaggio alla scienza la personificazione della sapienza che orna la facciata della biblioteca di celso, a efeso, sembra una statua come tante altre. e, invece, osservando l’abnorme consunzione di una delle mani, si rivela destinataria di una forma di venerazione particolare...

L

a metodologia stratigrafica, sulla quale ogni tanto torniamo in questi nostri incontri periodici, rivolge la sua attenzione anche alle parti immateriali della stratificazione. Con queste intendiamo quelle tracce delle attività umane e naturali che non apportano sedimenti o accumuli di materiali, ma – al contrario – ne documentano la perdita. L’interpretazione archeologica, infatti, riconosce in quelle perdite di materia – per rottura, erosione, scalpellamento e via dicendo – il risultato di azioni, di piccola o grande portata, che possono svelare fenomeni storici piú o meno vasti e complessi. Spesso queste perdite di materia sono il prodotto di azioni anche minime, ma lungamente ripetute nel tempo, che denotano l’uso particolare di uno spazio o di un manufatto, che può essere riconosciuto solo osservandone il suo esito «negativo». Nel corso degli scavi, ma anche visitando monumenti e siti archeologici, non è raro trovare simili tracce, per esempio, nell’usura delle soglie, che può indicare il modo in cui si entrava o si usciva da un ambiente e l’intensità della sua frequentazione, o in quella delle strade, dove solchi anche profondi testimoniano del continuo passaggio dei carri. Queste osservazioni si applicano anche agli oggetti, le cui usure denunciano le forme d’uso, per esempio di un coltello consunto o di una pentola scrostata o di una

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maniglia levigata. Le troviamo perfino nelle ossa umane e nei denti, la cui consunzione ci parla di tecniche produttive basate sul loro impiego, per esempio, per la lavorazione dei vimini. Le tracce d’uso aprono strade interpretative anche nell’archeologia cognitiva, cioè la branca di studi che cerca nelle tracce materiali qualche informazione sul modo in cui chi ci ha preceduto percepiva il tempo e lo spazio e il proprio rapporto con la natura, attraverso l’arte, per esempio, o la religione e i suoi riti.

Nella pagina accanto: Efeso, biblioteca di Celso. La replica della personificazione di Epistème (sapienza), collocata, come in antico, in una nicchia della facciata. A destra: il particolare della mano sinistra dell’originale di Epistème, consunta sulle dita per il tocco dei «pellegrini». Inizi del II sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. In basso: Roma, basilica di S. Pietro. La statua bronzea dell’Apostolo, oggetto di una venerazione che si esprime anche attraverso i baci e le carezze dati ai piedi della scultura.

le tracce del culto

plurisecolare venerazione. Una venerazione testimoniata dalla quasi patologica consunzione delle dita dei suoi piedi, lucidati dalle carezze e dai baci, che le hanno involontariamente ridotte a sorprendenti moncherini (che sono stati per questo motivo piú volte ricoperti). Simili forme di culto, che lasciano una traccia archeologicamente rilevabile, non sono rare: esse sono tipiche di una religiosità di natura superstiziosa che associa – come nel culto delle reliquie – gli aspetti spirituali della fede con quelli della magia e della speranza in interventi miracolosi generati dal contatto fisico con l’oggetto del culto.

Non è infatti raro trovare sugli scalini degli antichi templi, cosí come sulle soglie delle nostre chiese, profondissime consunzioni di soglie e di pavimenti, seguendo le quali ripercorriamo i movimenti dei fedeli e i loro passi, capaci di cancellare, uno dopo l’altro, anche le iscrizioni e le immagini presenti sulle lastre tombali che ancora oggi incontriamo in tanti edifici dalla lunga storia. Le tracce d’uso non risparmiano le statue. Basti pensare alla celeberrima statua bronzea di San Pietro, opera di Arnolfo di Cambio, esposta da secoli nella Basilica Vaticana e oggetto di una

Questi gesti ripetuti infinite volte non sono estranei agli ambienti profani: valga tra tutti il caso della statua di Giulietta, che quarant’anni dopo la sua collocazione nel cortile della casa di Verona che la ospita, si presenta consunta nel seno sinistro, che milioni di turisti toccano quando si fanno fotografare in una posa che si pensa porti fortuna a chi la assume.

la «sapienza» di celso Queste forme di culto, non importa se di un santo come Pietro o di un simbolo dell’amore terreno come Giulietta, non erano certamente estranee al mondo antico: le polemiche dei primi pensatori cristiani contro l’idolatria si scagliavano, infatti, anche contro il rapporto diretto che legava i fedeli non solo al concetto espresso dalla statua di culto quanto alla sua stessa materialità. Stupisce semmai – ma non piú di tanto se si conosce lo spirito del mondo antico – la presenza di queste forme di approccio «morboso» alle immagini applicate non solo a idoli divini, ma ad allegorie profane. È il caso della Biblioteca di Celso a Efeso.

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Verona. Turisti toccano i seni della statua di Giulietta, posta nel cortile della sua casa. Una tradizione recente vuole che poggiare la mano sul seno sinistro della scultura, opera di Nereo Costantini del 1972, porti fortuna.

Il celebre edificio fu costruito all’inizio del II secolo d.C. in onore di un illustre personaggio del tempo, il senatore Tiberio Giulio Celso Polemeano, primo console di origine orientale al tempo di Domiziano e poi proconsole della provincia d’Asia sotto Traiano. La biblioteca fu innalzata in una zona centralissima di Efeso, per iniziativa del figlio di Celso, Tiberio Giulio Aquila, anch’egli console nel 110 d.C., che lasciò in eredità alla città anche le somme necessarie per l’acquisto dei libri (si calcola che gli scaffali della biblioteca contenessero circa 12 000 rotoli di papiro con testi in lingua greca e latina). La sua facciata si erge oggi in tutta la sua monumentalità dopo l’accurata ricostruzione progettata dall’équipe di archeologi e architetti austriaci alcuni decenni fa. Presenta piú colonnati di vario ordine, sovrapposti l’un l’altro, riproducendo in qualche misura lo schema tipico delle scene teatrali. A essa si accede tramite una scala di nove gradini che conduce a tre ingressi alternati a quattro nicchie, che accoglievano altrettante statue allegoriche raffiguranti le qualità caratteristiche di Celso, e cioè la

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sophía (saggezza), l’areté (virtú), la éunoia (benevolenza) e la epistème (sapienza). Da tempo, le statue sono conservate a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum, ma alcune ottime copie sono state ricollocate nelle nicchie dopo la ricostruzione del monumento.

devoti alla cultura Se si guarda con attenzione la mano sinistra di Epistème, adagiata lungo il fianco sinistro della figura, salta agli occhi la particolare consunzione del dorso delle dita, strette nell’atto di sollevare un lembo della veste. È una consunzione che ha progressivamente allisciato e lucidato il marmo, come se migliaia di dita altrui avessero per lungo tempo accarezzato quella mano. Ci troviamo cosí a constatare che anche in età antica c’era l’usanza di toccare ripetutamente e – potremmo dire – devotamente alcune parti significative di una statua (come i piedi di San Pietro o il seno di Giulietta); ma quello che piú colpisce la nostra mente è il fatto che questa devozione era applicata, almeno in questo caso, non a una divinità protagonista del

mito e della religione pagana, né a un personaggio letterario, connesso al sentimento universale dell’amore, ma addirittura a quella entità astratta a cui i Greci davano il nome di Epistème, che incarnava il senso proprio della Conoscenza stabilita su solide certezze, cioè di quella che il mondo moderno avrebbe chiamato Conoscenza scientifica o Scienza. Pur nelle forme allegoriche di una statua, che dava al concetto l’immagine di una divinità, il mondo romano erede della grande tradizione scientifica greca tributava cosí alla Scienza il suo omaggio, materializzato in questa pratica devozionale interpretata dai tanti «pellegrini» che si recavano nella Biblioteca a leggere e a studiare o anche solo a lasciare sulla sua facciata una traccia del loro passaggio. Tuttavia, se osserviamo la statua nel suo contesto, ci accorgiamo che la sua mano sinistra non poteva essere raggiunta da chi le passasse accanto. Alta sul piedistallo della nicchia in cui era collocata, la statua poteva essere toccata solo per tramite di una scala che permettesse di salire e allungare la propria mano per raggiungere e accarezzare quella di marmo su in alto: segno questo che tale pratica devozionale doveva risultare tanto frequente da dover essere assistita. La traccia materiale di questo laico amore per la cultura espresso nel gesto superstizioso del contatto tattile ci parla di un mondo lontano nel tempo, cancellato dal crollo della civiltà antica e faticosamente ritrovato dalla cultura rinascimentale: un mondo in cui l’individuo e il suo amore per il sapere trovavano uno spazio che gli sarebbe stato a lungo negato nei secoli a venire.



divi e donne Francesca Cenerini

minore, ma solo di nome Moglie di Druso maggiore, fratello di Tiberio, antonia ebbe un ruolo cruciale nella propaganda imperiale come madre di germanico e del futuro imperatore claudio

A

ntonia Minore è la secondogenita di Marco Antonio, il console romano sconfitto assieme a Cleopatra nella battaglia di Azio nel 31 a.C., e di Ottavia, sorella di Ottaviano, il vincitore di quello scontro. Il matrimonio tra Marco Antonio e Ottavia era stato celebrato per sancire, secondo l’uso aristocratico del tempo, gli accordi tra le due famiglie, in questo caso tra Marco Antonio e Ottaviano, che si contendevano la leadership su Roma che era stata di Cesare. Tale accordo era stato stipulato a Brindisi nell’autunno del 40 a.C. e fu rinnovato a Taranto nel 36 a.C. Dal matrimonio nacquero due figlie: Antonia Maior e Antonia Minor, cosí chiamate per distinguerle. Dopo la sconfitta del padre, entrambe le ragazze furono allevate dalla madre e divennero parte integrante e importante della domus Augusta, la corte imperiale: furono infatti pedine fondamentali delle strategie matrimoniali volute da Augusto. Antonia Maggiore sposò il ricchissimo Lucio Domizio Enobarbo e, per il tramite del figlio Cneo Domizio Enobarbo, fu la nonna dell’imperatore Nerone (Lucio Domizio Enobarbo che, adottato dall’imperatore Claudio, assunse il nome di Nerone Claudio

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Statua in marmo di Antonia Minore come Venere Genitrice, dal ninfeo-triclinio di Punta Epitaffio a Baia (Napoli). I sec. d.C. Baia, Museo Archeologico dei Campi Flegrei.


Cesare). Antonia Minore sposò Druso Maggiore, il secondo figlio che Livia, moglie di Augusto, aveva avuto dal primo marito,Tiberio Claudio Nerone. Druso Maggiore, dopo la morte del padre, fu allevato alla corte augustea e aveva raggiunto una posizione di rilievo, soprattutto al comando delle legioni che combattevano in Germania.

e Druso Maggiore nacquero tre figli, destinati ad avere ruoli di spicco (nel bene e nel male) nella corte di Tiberio, fratello di Druso Maggiore che successe ad Augusto nel 14 d.C. I tre figli sono Germanico, Livia Giulia, altrimenti nota come Claudia Livilla, e il futuro imperatore Claudio. Antonia Minore rimase vedova nel 9 a.C., quando il marito, al culmine di una carriera brillantissima, morí per i postumi di una caduta da cavallo sul fronte renano-danubiano. In questa occasione furono esaltati soprattutto il ruolo della madre di Druso, Livia: a lei si indirizzarono le consolationes, vale a dire quelle opere scritte per confortare le madri in seguito al lutto per la morte di un figlio e che contribuirono a creare modelli di comportamento femminili. Come sappiamo da Seneca (Consolazione per Marcia, 2) e come abbiamo già visto nel profilo dedicato a Ottavia (vedi «Archeo» n. 327, maggio 2012), Livia rappresentò il modello retorico della madre in grado di sopportare stoicamente il dolore della perdita di un figlio, antitetico a quello, parimenti retorico, della madre inconsolabile, rappresentato da Ottavia dopo la morte del figlio Marcello. Antonia, però, ottenne da Augusto la possibilità di non risposarsi (il matrimonio, anche per le vedove in età fertile, era infatti obbligatorio in seguito all’approvazione delle leggi sul diritto di famiglia, fortemente volute

matrona influente La posizione delle due Antonie a corte fu in sintonia con quella di Augusto: tra le altre iniziative, è documentato un loro concreto contributo al progamma di rinnovamento edilizio della città di Roma voluto dallo zio. Vollero, infatti, con un loro donativo – forse una pittura murale – contribuire alla decorazione del Foro di Augusto. Il fatto attesta le elevate disponibilità economiche delle due donne, ma, soprattutto, la loro attiva partecipazione all’ideologia sottesa all’edificazione del Foro stesso. Nel complesso monumentale e nel suo apparato architettonico, come hanno ben documentato gli studi di Paul Zanker, si dava particolare risalto alla figura del nuovo princeps, inteso come il vendicatore di Cesare e della sconfitta romana contro i Parti, padre della patria: Augusto e la sua famiglia allargata, per cosí dire, sarebbero stati i garanti dello splendido futuro di Roma. Dal matrimonio fra Antonia Minore

madre di imperatori Ottavia 2 Livia Drusilla Augusta 1

Tiberio Claudio Nerone Druso

Tiberio Germanico

Marco Antonio

Claudia Livilla

(1, 2...: numero del matrimonio)

Antonia Claudio

da Augusto). Fu matrona molto influente e ascoltata alla corte di Tiberio, di cui era cognata, e le fonti ci parlano di un suo ruolo fondamentale in occasione della cosiddetta «congiura di Seiano», nella quale ebbe parte attiva anche sua figlia, Livia Giulia. Antonia poteva godere di una rete di relazioni internazionali, basata soprattutto sull’amicitia con principi orientali (ereditata dal padre) e poteva contare su un apparato di liberti e schiavi fidati, tra cui Marcus Antonius Pallas, che divenne il famoso consigliere dell’imperatore Claudio, e Antonia Cenide, futura concubina dell’imperatore Vespasiano. Di quest’ultima si è conservata la splendida ara funeraria postale da un suo liberto, Aglaus, e dai suoi figli, all’interno della lussuosa residenza che la donna possedeva sulla via Nomentana, nei pressi dell’attuale Porta Pia, nell’area oggi occupata dal Ministero dei Trasporti.

contro il prefetto In occasione della «scalata al potere» di Seiano (il prefetto del pretorio di Tiberio, di origini tutt’altro che nobili), Antonia Minore incaricò la sua segretaria personale Antonia Cenide di recapitare una lettera (oppure, ma non è chiaro dal racconto delle fonti, Cenide ne imparò a memoria il contenuto per evitare intercettazioni) indirizzata al cognato imperatore. Nella missiva Antonia accusava esplicitamente Seiano di aspirare al potere e l’intervento della nobildonna, stando al racconto delle fonti, sancí la fine di Seiano, che fu condannato a morte nel 31 d.C., e della stessa Livia Giulia, che morí per volontà di Tiberio o della stessa madre Antonia Minore (Cassio Dione, 58, 11, 6-7). Secondo il racconto tradizionale delle fonti letterarie, Seiano e i suoi tre figli furono strangolati in carcere il 18 ottobre del 31 d.C. La moglie divorziata di Seiano, Apicata, si uccise il 26 ottobre del 31 d.C. a causa della

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morte del figlio primogenito (gli altri due furono, in realtà, giustiziati in seguito), come è registrato anche nei Fasti Ostienses. Prima, però, scrisse una lettera a Tiberio nella quale lo informava che il figlio Druso Minore non era morto di morte naturale nel 23 d.C., ma che era stato avvelenato da Seiano e dalla sua amante Livia Giulia, moglie di Druso Minore. Secondo Tacito (Annali, 4, 11, 2) questa accusa sarebbe stata confermata dalle confessioni strappate con la tortura al medico Eudemo e all’eunuco Ligdo. La storica Barbara Levick ha scritto che «l’accusa di Apicata era dettata dal desiderio di vendetta di una donna il cui marito aveva divorziato per aspirare a un matrimonio migliore e la cui famiglia fu di conseguenza rovinata». È difficile

riscostruire l’esatta dinamica di questi avvenimenti e i complessi intrighi di una corte. L’unica cosa certa è che la condanna di Seiano e del primogenito e il suicidio della moglie sono stati percepiti come avvenimenti di tale rilevanza politica da essere registrati in un calendario ufficiale (quello di Ostia), a riprova che la congiura dello stesso Seiano aveva rappresentato un reale e concreto pericolo per il governo di Tiberio.

erede di augusto Svetonio (Vita di Caligola, 15) racconta che Caligola, divenuto imperatore, volle che fossero tributati alla nonna Antonia Minore (nella cui casa aveva vissuto dopo l’esilio della madre Agrippina) tutti gli onori con cui era stata omaggiata Livia Augusta. Sempre Svetonio

(Vita di Caligola, 23) adombra successivi contrasti con l’anziana matrona, che l’avrebbero portata alla morte per il dispiacere o indotta al suicidio nel 37 d.C. Antonia Minore, che aveva già assunto un notevole ruolo nella propaganda imperiale di età tiberiana come madre di Germanico, ricevette un riconoscimento ufficiale dal figlio Claudio, già nel suo primo anno di regno, il 41 d.C. Claudio, infatti, onorò la memoria dei suoi genitori, Druso Maggiore e Antonia Minore, con coniazioni in oro, argento e bronzo, che ricordavano la madre come sacerdotessa del culto del divo Augusto e con la significativa legenda Antonia Augusta. Tale propaganda aveva lo scopo di legittimare il potere di Claudio attraverso i genitori, esponenti di spicco della famiglie giulia e claudia, eredi diretti di Augusto. Questo intento di celebrazione dinastica si riscontra nei numerosi Augustea, nei quali erano raffigurati i principali esponenti della domus Augusta, e nei cicli decorativi delle residenze imperiali, per esempio quella marittima di Punta dell’Epitaffio nel golfo di Baia. In questi cicli statuari ad Antonia Minore è assegnato un ruolo chiave, che in effetti ebbe nella costituzione della dinastia giulio-claudia. agli dèi mani di Antonia cenide, liberta di un’augusta, ottima padrona

il liberto aglao con i figli aglao, glene e aglaide

Ara funeraria di Antonia Cenide, fidata schiava, poi liberata, di Antonia Minore e futura concubina di Vespasiano, dalla sua residenza su via Nomentana, presso Porta Pia.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

fuochi sacri

Dirham in argento del re di Persia Shapur I (241-272 d.C.), con legenda in lingua pahlavi. Al dritto, il busto coronato del sovrano sassanide; al rovescio, l’altare del fuoco tra due attendenti armati e legenda in lingua pahlavi. Collezione privata.

L’altare acceso, sia per forma devozionale, sia in occasione di sacrifici, è una presenza costante nella ritualità antica e anche in numerose emissioni monetali

D

a sempre il fuoco ha attinenza con il sacro: il bagliore che sprigiona, il pericolo e la difesa che può costituire, il caldo che dona, la possibilità di cuocere, l’importanza vitale che rappresenta per l’uomo ne fanno uno dei simboli principali della potenza del sacro, cosí come un mezzo di espressione della divinità stessa. Anche nella Bibbia è celeberrimo il colloquio tra Mosè e il Dio degli Ebrei sulla montagna sacra dell’Oreb: «E l’Angelo dell’Eterno gli apparve in una fiamma di fuoco, di mezzo a un roveto. Mosè guardò ed ecco il roveto bruciava col fuoco, ma il roveto non si consumava. […] Dio lo chiamò di mezzo al roveto e disse: «Mosè, Mosè!». Egli rispose: «Eccomi». […] «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe». E Mosè si nascose il volto, perché aveva paura di guardare Dio» (Esodo, 3, 1-6). Tra le possibili forme che l’Essere Supremo avrebbe potuto scegliere per comunicare con l’uomo, è il

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fuoco l’elemento degno di esprimerlo, in una trasposizione metafisica in cui il divino e la materia infuocata si congiungono in un unico significato.

simbolo regale Il fuoco sacro, e quindi la sua dislocazione su un altare quale luogo di venerazione, contraddistingue la monetazione sassanide, cioè della dinastia dell’antico Iran che governò la Persia tra il 226 e il 651 d.C., sino alla conquista islamica. La religione ufficiale dei Sassanidi,

lo zoroastrismo, monoteistico e ancora oggi praticato, era incentrata sul culto del fuoco quale manifestazione del dio Ahura Mazda, adorato in templi specifici e con un clero differenziato secondo i vari rituali. Il fuoco, insieme all’acqua, è veicolo di purezza; esso, inoltre, è simbolo regale, in quanto la nomina del re avveniva nei sacri templi del fuoco e solo cosí acquisiva valore, in quanto sancita dalla divinità. I Sassanidi emisero numerose e belle monete, dalle elaborate iconografie, molte delle quali dedicate principalmente, nel rovescio, all’altare del fuoco, come quella scelta dal re Shapur I. Affiancato da due attendenti armati con pantaloni a sbuffo e articolato copricapo, il fuoco arde sulla sommità di un complesso altare a forma di colonna su piedistallo, sormontato da quello che sembra una sorta di braciere, reso con una perlinatura da cui si innalza una fiamma molto evidente, che significa appunto la divinità, ma anche la legittima investitura del principe al potere. Sul dritto campeggia l’imponente busto del sovrano con corona turrita, complicata acconciatura ed emblemi regali, il tutto reso con una particolare cura descrittiva dei piú minuti particolari, che ne esaltano nel tondello la sacrale sovranità. L’ara e l’altare divengono i luoghi destinati a onorare gli dèi


pressoché in ogni religione, e tanto piú nel mondo greco-romano, dove in qualunque casa, tempio, incrocio stradale, negozio, taverna erano innalzati fuochi e luci devozionali. Gli altari si ritrovano numerosi sulla monetazione greca e in quella romana, e vi campeggiano come tipi principali del rovescio e come elemento pregnante di scene sacrificali, sia in quelle che prevedono la presenza di una vittima animale, sia quelle in cui avviene una libagione, simboleggiata da una patera, effettuata sulla fiamma ardente dell’ara.

la fiamma di roma In età imperiale queste raffigurazioni si moltiplicano in piú varianti, piú o meno articolate, sia sui conii dell’imperatore che delle Auguste. Tra di esse si segnalano alcune emissioni di Giulia Domna, in cui la raffinata e colta moglie di Settimio Severo, nell’ambito dell’uso della moneta come strumento di esaltazione della dinastia e di devozione religiosa

della stirpe imperiale, celebra Vesta designata come Mater. Vesta, dea preposta al focolare domestico, incarna il fuoco salvifico, il simbolo dell’unità della famiglia e della casa, nucleo imprescindibile e fondante dello Stato romano stesso. Quindi Vesta è definita come mater dei Romani, in una trasposizione ideologica che accomuna alla dea l’imperatrice, madre anch’essa della dinastia regnante e quindi anche del popolo romano. E ancora una volta il fuoco, riprodotto tramite sottili lingue di fiamma sull’ara antistante il tempio di Vesta, simboleggia in questo caso il principio primo di Roma: fuoco vivificatore che

sempre deve bruciare per assicurare continuità al contesto civile dell’Urbe, e posto sotto le cure attente del collegio delle Vestali, che per amore e timore ne custodivano accuratamente la fiamma ardente.

Aureo di Giulia Domna, emesso nel 207 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatrice e legenda IVLIA AVGVSTA; al rovescio, sei vestali, tre per lato, di cui una con simpulum e una con la patera, sacrificano su un altare davanti al tempio di Vesta, legenda VESTA MATER.

Mosaico raffigurante una scena di sacrificio. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Antonio Alberti ed Emanuela Paribeni (a cura di)

archeologia in piazza dei miracoli Gli scavi 2003-2009 Felici Editore, Ghezzano (PI), 640 pp., ill. b/n e col. 50,00 euro ISBN 978-88-6019-553-1 www.felicieditore.it

ponderoso volume, sono stati condotti secondo una logica sistematica e con metodi di indagine di tipo moderno. Queste ricerche, eseguite tra il 2003 e il 2009, hanno permesso di acquisire una mole considerevole di dati, che vengono ora presentati, all’indomani degli studi di laboratorio che hanno fatto seguito alle indagini sul campo. Ne scaturisce un quadro ricco e articolato, che getta nuova luce sulla storia della città di Pisa dall’antichità al Medioevo e che, in piú d’un caso, ha permesso di ricontestualizzare le acquisizioni precedenti. Leonardo Abelli (a cura di)

archeologia subacquea a pantelleria Che cosa nasconde il meraviglioso prato verde sul quale si stagliano il Duomo, la Torre e il Camposanto di Pisa? Molto, anzi moltissimo: l’area oggi coperta dal tappeto erboso coincide infatti con una delle zone centrali della città antica ed era stata densamente sfruttata per un lungo periodo di tempo, fino a quando, nell’Ottocento, non si decise di darle l’assetto che tuttora conserva e che, per merito di Gabriele d’Annunzio, è oggi universalmente noto con il nome di Piazza (o Campo) dei Miracoli. Nel corso degli ultimi settant’anni, il prato è stato piú volte «bucato» dagli archeologi, anche se solo gli interventi piú recenti, che sono l’oggetto di questo

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«... de Cossurensibus et Poenis navalem egit ...» Ante Quem, Bologna, 288 pp., ill. col. e b/n 35,00 euro ISBN 978-88-7849-072-7 www.antequem.it

Il volume è stato realizzato con l’intento di dare conto dei risultati ottenuti dal «Progetto di Fruizione e Valorizzazione degli itinerari archeologici

subacquei in prossimità delle infrastrutture dell’Isola di Pantelleria», ma, per farlo, propone un riepilogo della storia dell’isola, fin dalle sue piú antiche fasi di frequentazione. I dati ricavati grazie a indagini subacquee che vengono condotte da piú di un ventennio sono perciò messi a confronto e integrati con i risultati delle ricerche svolte a terra, contribuendo a definire un quadro molto articolato, dal quale emerge l’importanza di Pantelleria, soprattutto nell’ambito delle rotte che interessavano il Canale di Sicilia. Una realtà importante, che ebbe uno dei suoi momenti piú significativi all’epoca delle guerre puniche, alla quale risale, peraltro, una delle scoperte piú importanti ottenute dagli archeologi che hanno esplorato i fondali panteschi: quella di quasi 3500 monete puniche, recuperate, nell’estate 2011, presso Cala Tramontana.

dall’estero Karina Croucher

death and dying in the neolithic near east Oxford University Press, Oxford, 372 pp., ill. b/n 80,00 GBP ISBN 978-0-19-969395-5 www.oup.com

Protagonista di questo numero è la preistoria del Vicino Oriente (vedi l’articolo alle pp. 38-53 e lo speciale alle pp. 54-69) e a quel mondo si lega anche il saggio di Karina

Croucher, che sceglie di analizzare le pratiche funerarie attestate, in particolare, nel corso del Neolitico. Si possono cosí ritrovare, naturalmente, molti dei siti citati negli articoli segnalati, come Çatal Höyük o Göbekli Tepe, le cui

testimonianze, insieme a quelle di numerosi altri insediamenti, sono analizzate non soltanto per ciò che riguarda gli aspetti della cultura materiale. Obiettivo di Croucher, infatti, è quello di esaminare il patrimonio dei dati offerti dai contesti funerari – dal trattamento riservato ai cadaveri fino a quello di cui erano spesso oggetto i crani degli individui sepolti – per mettere a fuoco l’universo ideologico e simbolico delle comunità dei primi agricoltori e allevatori della Mezzaluna Fertile. Una disamina che ribadisce l’esistenza di un culto dei morti e, con ogni probabilità, degli antenati, ormai pienamente codificato e affermato. (a cura di Stefano Mammini)



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