Archeo n. 332, Ottobre 2012

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battaglia di harzhorn

PERGAMO

pergamo

l’età di alessandro

la gloria degli attalidi

OSTIA

UN viaggio nel tempo

frecce senza arco

speciale ostia antica

AST ST PPA

PASSIONE PER LA STORIA

PASSIONE PER LA STORIA

www.archeo.it

2012

Mens. Anno XXVIII numero 10 (332) Ottobre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 332 ottobre

una scoperta sensazionale

legio•IV la battaglia dimenticata GRECIA

verso i confini del mondo

israele l’oro dei cananei

€ 5,90



editoriale

lotta tra giganti Quando vidi per la prima volta l’Altare di Pergamo fui colpito dal suo bianco grigiore, accentuato dall’atmosfera solennemente vigile del museo che l’ospitava. Erano gli anni Settanta del secolo scorso e le mie conoscenze di storia e storia artistica del monumento appena scolastiche. Per quello che possono contare le impressioni di un visitatore adolescente nell’allora città oltrecortina, l’Altare mi appariva freddo (complice, forse, l’inclemente illuminazione della sala) e, soprattutto, fuori luogo. Che cosa ci faceva quell’architettura «classica», mediterranea, sotto il plumbeo cielo berlinese? Con il passare degli anni (e della storia), l’Altare ha riconquistato – per me, come per decine di migliaia di nuovi visitatori – il ruolo che gli spetta: infinite sono le storie legate alle esplorazioni del suo messaggio artistico, politico e religioso. Il Pergamonmuseum stesso – dopo i restauri e il rinnovato allestimento messi in atto all’indomani della riunificazione tedesca – è diventato un esempio della museologia contemporanea. È la storia recente ad avere ridato vita al piú grande monumento dell’arte ellenistica, e non c’è da stupirsi se proprio la sua rinascita, a partire dalla fine degli anni Novanta, abbia acceso la miccia di una contesa finalizzata a rivendicarne la «proprietà» (vedi «Archeo» n. 328, giugno 2012, e, in questo numero, l’articolo alle pp. 38-53). Accade cosí, dunque, che l’Altare, le cui raffigurazioni mitologiche (come è stato autorevolmente dimostrato dallo studioso Bernard Andreae) rispecchiano le strategie politiche dei signori di Pergamo della prima metà del II secolo a.C., a piú di duemila anni dalla sua creazione venga investito di un nuovo, inedito, significato simbolico. Andreas M. Steiner

Un gigante serpentiforme, azzannato da un cane di Artemide, particolare del fregio est dell’Altare di Pergamo. Berlino, Pergamonmuseum.


Sommario Editoriale

Lotta tra giganti di Andreas M. Steiner

La spedizione dimenticata

Attualità

di Michael Geschwinde e Petra Lönne

notiziario

3

scoperte

6

scavi Nuove importanti scoperte dell’INRAP, in Francia: un sito abitato dall’Uomo di Neandertal e un forte per l’addestramento delle truppe del Re Sole 6 parola d’archeologo Il soprintendente archeologo della Liguria racconta la scoperta di un relitto di epoca romana al largo di Varazze 10

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i luoghi della leggenda Pergamo. La gloria degli Attalidi di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

38

30 storia dei greci/18 Verso i confini del mondo

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di Fabrizio Polacco

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mostre La Sfinge di Vulci è già una celebrità: prorogata sino alla fine dell’anno la mostra che la presenta per la prima volta 14

dalla stampa internazionale Il tell di Megiddo restituisce un tesoro e un frammento di papiro annuncia le «nozze» di Gesú... 28

Anno XXVIII, n. 10 (332) - ottobre 2012 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507

In copertina punte di lancia usate dai Germani nella battaglia dell’Harzhorn. Metà del III sec. d.C.

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna srl, società di gestione del Parco di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è archeologo conservatore del Museo Archeologico del FinaleIISL. Valentina Di Napoli è archeologa. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Michael Geschwinde è archeologo del Niedersächsisches Landesamt für Denkmalpflege (Soprintendenza della Bassa Sassonia). Paolo Leonini è storico dell’arte. Petra Lönne è archeologa del Servizio Archeologico Provinciale di Northeim (Kreisarchäologie Northeim). Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Patrizia Petitti è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Vulci. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Giovanna Quattrocchi è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Stefania Sapuppo è archeologa. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova.

Illustrazioni e immagini: Foto T. Schwarz: copertina e pp. 31 (basso), 33 (alto e basso) – DeA Picture Library: E. Lessing: pp. 3, 53; Archivio: p. 56; A. Dagli Orti: p. 110 – Cortesia INRAP/foto David Hérisson: pp. 6, 6/7 – Cortesia INRAP/foto Michel Assezat: pp. 7, 8 – Cortesia Soprintendenza BA Umbria: p. 9 (basso) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 9 (destra), 18, 21, 108 – Cortesia Soprintendenza BA Liguria: pp. 10, 11, 12 (alto) – Cortesia Soprintendenza BA Etruria Meridionale: p. 14 – Cortesia Museo dell’Acropoli, Atene: p. 16 – Cortesia autore: pp. 20, 96/98; 104/105; 111 – Cortesia Tel Aviv University: pp. 28 (alto, a sinistra e basso), 29 (alto) – Cortesia Harvard University, Karen L. King: p. 29 (basso) – Foto P. Lönne: pp. 30/31 (alto) – Foto M. Geschwinde: p. 32 – Foto L. Grünewald, Göttingen: p. 33 (centro) – Doc. red.: pp. 35, 36 (basso), 40 (alto), 41 (alto), 44 (centro e basso), 48, 50/51, 109 – Foto T. Deutschmann (NLD): p. 36 (alto) – Foto C.S. Fuchs (NLD): pp. 36/37 (sfondo) – Corbis: Yann Arthus-Bertrand: pp. 38, 42; Ladislav Janicek: p. 44 (alto); The Gallery Collection: p. 54; Araldo De Luca: pp. 55, 107 – Tips Images: Walter Zerla: pp. 39, 46, 52 – Archivi Alinari, Firenze: Grenville Collins Postcard Collection/ © Mary Evans: p. 40 (basso); The Granger


Archeotecnologia Frecce senz’arco di Flavio Russo

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Rubriche il mestiere dell’archeologo Nelle spire del mistero

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di Daniele Manacorda

vite di archeologi

Il gigante del Nilo

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di Giovanna Quattrocchi

l’ordine rovesciato delle cose Il buio plasmato dall’uomo

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di Andrea De Pascale

divi e donne

Moglie fedele e madre infelice

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di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Un funerale... divino

speciale 110

di Francesca Ceci

libri Collection: p. 45; Imagno: p. 49 (basso) – Mondadori Portfolio: Akg Images: pp. 49 (centro), 90/91 (Peter Connolly), 59, 103; Picture Desk: p. 57, 92 (A. Dagli Orti; centro), 100/102; Leemage: p. 58; Electa/Sergio Anelli: p. 60 – Marka: p. 50 (sinistra), 66 (Marco Scataglini), 67 (Zoonar/Fabrizio Rugg) – Getty Images: pp. 62/63 – Mimmo Frassineti: pp. 64/65, 68/89 – Foto e disegni Flavio Russo: pp. 92 (alto e basso), 93/95 – Cippigraphix: cartine alle pp. 7, 41, 61, 73, 74/75, 80 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 34/35, 43, 58/59. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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Ostia. Quella città tra il fiume e il mare

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di Mimmo Frassineti

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n oti z i ari o SCAVI Francia/1

al tempo delle ultime glaciazioni

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el 1872, il paletnologo Gabriel de Mortillet, con il termine «Acheuleano», designò le piú antiche industrie allora conosciute, risalenti a 300-250 mila anni fa. Erano state scoperte a Saint-Acheul, vicino ad Amiens, nel dipartimento della Somme, in Piccardia. Terra pioniera della preistoria, la valle della Somme continua a restituire rare e preziose testimonianze sull’origine delle popolazioni d’Europa. All’epoca di Mortillet avvenivano spesso per caso, e in seguito – fino a vent’anni fa – venivano effettuate nell’ambito di scavi di ricerca programmati; oggi, invece, la Francia realizza oltre la metà di questi lavori nell’ambito di interventi di archeologia preventiva, affidati all’INRAP (Institut national de recherches archéologique préventives), che nel 2012 ha compiuto dieci anni. Il compito è immenso, e la posta in gioco ambiziosa: salvaguardare gli «archivi del suolo» che l’odierna pianificazione del territorio

Errata corrige con riferimento all’articolo Çatal Höyük. L’era dei grandi sogni (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012), desideriamo precisare che: la copia del rilievo raffigurante due leopardi affrontati (pp. 38-39) è conservata presso il Centro Visitatori del sito e non al Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara; a p. 49 è stata omessa la didascalia del disegno riprodotto in basso, a sinistra, che è una planimetria dell’insediamento. Del tutto ci scusiamo con gli autori dell’articolo e con i nostri lettori.

6 archeo

distruggerebbe qualora non si intervenisse. Una recente indagine, eseguita sulla tratta del futuro canale SeineNord Europe, lungo i 106 km che percorrono le regioni dell’Oise, la Somme e il Pas-de-Calais, ha dato risultati inattesi e spettacolari. Il giacimento localizzato nella zona di Etricourt-Manancourt ha svelato, infatti, cinque livelli preistorici che abbracciano un orizzonte compreso fra i 300mila e gli 80mila anni, coprendo un periodo nel quale si succedono tre grandi processi climatici, distribuiti tra l’era l’interglaciale Mindel-Riss e l’era glaciale Würm. «Un luogo simile non si era mai visto – spiega David Hérisson, responsabile delle operazioni –, poiché il caso e la fortuna hanno voluto che ci trovassimo di fronte a una successione sistematica di tre cicli sovrapposti, ciascuno dei quali corrisponde a una presenza umana. Una straordinaria istantanea nella quale i vari pezzi, fissati dalla sedimentazione, non si sono mai mossi!». Va sottolineato che le ricerche condotte con mezzi meccanici su superfici cosí vaste favoriscono le scoperte, altrimenti impossibili, di dati inediti. I due tipi di diagnosi effettuati abitualmente – sondaggi di superficie con pala idraulica, e sondaggi in profondità

con pala-giraffa – sono stati perfezionati dall’INRAP, con la creazione di un metodo capace di toccare anche profondità mai raggiunte di 14 m. Nel caso dello scavo di Etricourt-Manancourt, eseguito su un’area di 3500 mq, la profondità è limitata a 7 m, poiché al di sotto – come spiegano gli archeologi – non c’è piú nulla. Il livello piú vicino alla superficie risale all’uomo di Neandertal, vissuto in quest’area 80mila anni fa, ed è seguito da altri due strati, anch’essi riferibili alla presenza di neandertaliani, appartenenti alla fase piú remota del Paleolitico medio, fra i 190 e i 240mila anni, particolarmente interessante per gli archeologi, poiché le vestigia di


SCAVI Francia/2 questo tipo e di quest’epoca, Nella pagina soprattutto cosí ben conservate, accanto: quattro sono molto rare. strumenti Tuttavia, viene considerato bifacciali, eccezionale il livello piú profondo, da un livello antico di almeno 300mila anni, e acheuleano del appartenente all’Acheuleano: ha sito di Etricourt. conservato numerosissimi 300 000 anni fa strumenti in selce, fabbricati sia circa. dagli ultimi Homo Heidelbergensis In basso: lo per le truppe che dai primissimi Neandertaliani. splateamento del del re sole «Tutta questa pianura è sito, effettuato caratterizzata da una bella con un mezzo stratigrafia – sottolinea ancora meccanico, per ggi nota per aver fatto da David Hérisson – legata ad facilitare il «madrina» alla firma del abbondanti depositi di löss raggiungimento Trattato sull’Unione Europea, la (pulviscolo finissimo trasportato dei livelli città olandese di Maastricht, in dal vento nelle regioni steppiche e interessati dalla quanto importante piazzaforte circumdesertiche) in periodo frequentazione di frontiera, fu ripetutamente glaciale. Si seguono in questo sito paleolitica. assediata nel corso della sua le migrazioni delle storia. Nel 1673 venne Inghilterra popolazioni che si presa di mira dalle truppe Germania installano e partono di Luigi XIV di Francia Etricourt secondo le variazioni del ed è a quell’episodio che Achères Parigi clima. E che gradualmente riportano le scoperte affinano i propri strumenti compiute nella piana di di sopravvivenza in Achères, nel dipartimento Oceano Francia un’evoluzione che vede delle Yvelines, 30 km Italia Atlantico l’abbandono degli circa a nord-ovest di strumenti bifacciali in Parigi. Qui sono infatti favore di utensili litici piú venuti alla luce i resti del Corsica sofisticati». forte di Saint-Sèbastien, Mar Spagna Mediterraneo Daniela Fuganti utilizzato come base per l’addestramento delle truppe del Re Sole destinate appunto all’assedio di Maastricht. Si tratta di una scoperta di grande importanza, perché il complesso era a oggi ignoto e perché la sua esplorazione ha offerto una testimonianza eccezionale sulla poliorcetica, l’arte dell’assedio, cosí come veniva praticata alla metà del XVII secolo. Ed è la prima volta che informazioni in materia vengono dall’archeologia e non dagli studi d’archivio. Si tratta, peraltro, di un momento cruciale nell’evoluzione dell’arte della guerra: in questa fase, infatti,

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Reperti rinvenuti nel corso degli scavi del forte di Saint-Sèbastien, presso Achères. In alto: monete in lega di rame, probabilmente utilizzate per le paghe dei militari. Seconda metà del XVII sec. In basso: dadi da gioco in osso. Seconda metà del XVII sec. È stato calcolato che nel suo periodo di attività, il forte abbia ospitato 30 000 soldati.

archeo 7


n otiz iario

In alto: scavo di un’area in cui sono emerse buche di palo riferibili all’impianto delle scuderie. la storia militare della Francia fa registrare una importante transizione, con la comparsa dei primi soldati di mestiere, che, per la prima volta, vengono reclutati e non piú arruolati, dotati di uniformi, retribuiti e addestrati. Gli scavi hanno permesso di accertare che il forte di SaintSèbastien, edificato nel 1669, era

Altre suppellettili provenienti dal forte di Saint-Sèbastien, tra cui pipe (in alto), una medaglia da pellegrino (qui sopra) e vasi.

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un ampio quadrilatero di 600 x 380 m, composto da un terrapieno, con fossati e palizzate, in modo da simulare le condizioni di fronte alle quali solitamente si andava incontro nella presa di una piazzaforte. I fossati, larghi 7 m e profondi 3, erano provvisti di bastioni, mentre le pareti interne a scarpa del terrapieno erano rivestite con un paramento di mattoni in argilla cruda, una soluzione adottata per meglio assorbire l’impatto delle palle di cannone. Le aree destinate all’esercitazione sono formate da ampie griglie di trincee per l’approccio, una tecnica d’assalto che fu poi utilizzata su vasta scala a Maastricht. Nell’arco di due anni, a SaintSèbastien furono impegnati nelle manovre fino a 30 000 soldati. Le indagini archeologiche hanno riportato alla luce aree di accampamento e di acquartieramento delle

truppe, riconoscibili nell’area del forte per la presenza di costruzioni, cantine, pozzi e focolari. I molti reperti recuperati (ceramica, resti di animali, vetri, dadi da gioco, pipe in terracotta…) offrono uno spaccato della vita quotidiana dei militari, danno informazioni sulla loro dieta e sui rifornimenti assicurati all’esercito reale. Testimonianze di vita quotidiana e dell’organizzazione sociale e spaziale di una comunità fortemente gerarchizzata, nella quale convivevano fantaccini, gendarmi, cavalieri e moschettieri. Nell’agosto 1670 le truppe di Luigi XIV, ormai ben addestrate, mossero alla volta del loro obiettivo e il forte di SaintSèbastien fu spianato, restituendo all’agricoltura i terreni occupati dalle sue strutture. Stefano Mammini


SCoperte Umbria

roma

un grande abitato preromano

Trenta per i Trenta

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L’Aula Ottagona delle Terme di Diocleziano, sede dello storico Planetario, accoglie la mostra «L’antico nel moderno. Scultura italiana degli anni Trenta». Trenta opere, appartenenti alle collezioni di scultura del primo Novecento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, sono esposte per la prima volta in un insieme organico per illustrare come negli anni Trenta l’arte etrusca e romana fossero punto di riferimento imprescindibile cui attingere nelle forme e nei materiali per rappresentare l’attualità. Anzi, la sfida degli artisti dell’epoca è stata quella di dimostrare di saper infondere alle creazioni moderne lo spirito antico, rivisitandone la cultura, la sapienza, la perizia tecnica e il valore, andando ben oltre gli usi politici e propagandistici che della romanità fece il regime fascista. La mostra, aperta fino al 6 gennaio 2013, osserva il seguente orario: tutti i giorni, 9,00-19,30; lu chiuso; per informazioni: tel. 06 39967700; www. coopculture.it

Terni, in località Maratta Alta, nella piana alluvionale del fiume Nera, circa 4 km a ovest della città, indagini archeologiche connesse ai lavori per la realizzazione di un raccordo stradale extraurbano hanno portato in luce consistenti tracce di un insediamento di età orientalizzante-arcaica. I resti dell’abitato, che si estendono per un’ampia fascia della lunghezza di oltre 400 m, sono rappresentati da cavità scavate nel paleosuolo, costituito da uno spesso banco di sabbia di origine alluvionale e giacente alla profondità di circa mezzo metro rispetto all’attuale piano di campagna. Le fosse, di diversa forma e dimensione, non sono tutte di certa e immediata interpretazione: tra queste si individuano, comunque, alcune buche di palo, fosse riconducibili a depositi per la conservazione di derrate e a scarichi di materiale e una probabile fornace a forma di «8». Non sembrano al momento riconoscibili con certezza strutture abitative di tipo capannicolo e del tutto assenti sono resti murari, battuti pavimentali o livelli di frequentazione antichi, obliterati dagli interventi di natura agricola e di bonifica succedutisi nell’area nel corso dei secoli. Notevole, invece, è la quantità di materiale fittile di copertura, tegole e coppi, che costituisce il riempimento precipuo di alcune buche. Il materiale ceramico recuperato, tra cui frammenti di vasi di impasto sottile, bucchero, bucchero grigio, ceramica italo-geometrica, oltre a ceramica di uso comune, frammenti di fornello e pesi da telaio, rientra in un orizzonte cronologico compreso tra la metà del VII e il VI secolo a.C. I rinvenimenti attuali sono da porre in relazione con i resti di abitato indagati tra il 1999 e il 2002 in

località Casanova, poche centinaia di metri a sud dell’area attualmente in corso di scavo: il complesso testimonia dunque l’esistenza di un insediamento di notevole estensione (la cui unità è oggi interrotta dai tracciati della linea ferroviaria Roma-Ancona e del raccordo autostradale Terni-Orte), ubicato tra il fiume Nera, in posizione leggermente sopraelevata rispetto a questo, e le propaggini meridionali della catena dei Monti Martani, dominato dal massiccio di Monte Torre Maggiore, sede di un importante santuario, le cui origini risalgono alla seconda metà del VI secolo a.C. Ma tutto il territorio di Terni, dagli inizi dell’età del Ferro (X secolo a.C.) fino all’avvento della cultura orientalizzante (VII secolo a.C.), è frequentato da numerosi gruppi umani, come attestato anche dalle ricche necropoli delle Acciaierie, di San Pietro in Campo ed ex Poligrafico Alterocca. Durante questo lungo periodo, infatti, qui si afferma un modello di insediamento stabile e organizzato, supporto fondamentale per lo sviluppo della cultura ternana, una delle piú importanti dell’Italia protostorica. Altri recenti scavi in località Maratta Bassa e in contesto urbano, hanno confermato, inoltre, un processo di proto-urbanizzazione decisamente precoce rispetto ad altre realtà umbre. Giampiero Galasso

In alto: Mirko Basaldella, Edipo, bronzo, 1940-1941. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna. A sinistra: lo scavo in località Maratta Alta, presso Terni.

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

la pesca miracolosa di pluto in un tratto di mare antistante la cittadina ligure di varazze sono stati localizzati i resti di una probabile nave da carico di età romana. il racconto dell’importante scoperta nelle parole di bruno massabò, soprintendente archeologo della regione

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a tempo, le reti dei pescatori recuperavano frammenti di vasi e di anfore. E giravano voci che in quel tratto di mare davanti alle coste della Liguria, al largo di Varazze, in provincia di Savona, ci fossero dei resti archeologici sommersi. Gli anziani parlavano spesso di quei pezzi di antichi vasi che si impigliavano nelle reti, ma il luogo esatto del presunto deposito archeologico era sconosciuto. Già dieci anni fa il pescatore di Varazze Francesco Torrente aveva trovato i primi resti di anfore: ma poi, nel marzo scorso, nella rete a strascico del suo peschereccio, il Padre Pio, ha visto spuntare il lungo collo di un’altra anfora, e ha avvertito i Carabinieri. Sulla base di quella segnalazione,

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ci sono voluti cinque mesi per individuare il punto esatto in cui giacciono i resti archeologici, immersi nei fanghi marini, a una profondità di 65 m circa. E, alla fine, il robot sottomarino Pluto ha afferrato con le sue pinze e portato in superficie il collo dell’anfora, indicando la posizione esatta dei resti antichi sommersi. Il ritrovamento potrebbe appartenere al carico di una nave, ma indicazioni piú precise potranno venire, forse, dal bollo della fornace sull’anfora, qualora affiori al termine delle operazioni di desalinizzazione e restauro del reperto, al momento in corso. Della scoperta ci parla Bruno Massabò, Soprintendente ai Beni Archeologici della Liguria e già

Soprintendente ai Beni archeologici di Sassari e Nuoro: «Si sapeva da anni che, in quel tratto di mare, c’era un presunto relitto di epoca romana. I pescatori, negli anni passati, avevano fatto diverse segnalazioni. Con le loro reti a strascico avevano intercettato piú volte materiali archeologici e frammenti di anfore. Quindi c’era testimonianza che, in qualche zona antistante la città di Varazze, ci fosse un deposito archeologico non meglio identificato. Adesso conosciamo il punto esatto, che non diremo per motivi di sicurezza: ci siamo arrivati, non senza difficoltà, vista la profondità a cui giace, grazie alle indagini condotte con il Centro Subacquei della Legione Carabinieri “Liguria”, coordinato dal tenente colonnello Francesco Schilardi, e con il supporto del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri della Liguria, comandato dal capitano Salvatore Lutzu». Che cosa sappiamo, per ora, di questa presunta nave romana, al largo di Varazze? «Dal nostro punto di vista, come Soprintendenza, dobbiamo saperne di piú, per cui possiamo solo avanzare ipotesi. L’anfora Dressel 1B dà un inquadramento cronologico approssimativo al relitto all’età tardo-repubblicana. Dal primo controllo effettuato con il robot Pluto nell’agosto scorso, i resti giacciono a una profondità tra i 60 e 70 m. Le ricerche si sono


In alto: Bruno Massabò, Soprintendente ai Beni Archeologici della Liguria. Nella pagina accanto: il recupero di un frammento d’anfora.

protratte per molto tempo: per verificare l’attendibilità delle indicazioni ricevute, tra il 2011 e il 2012, sono state effettuate numerose prospezioni subacquee, inizialmente con l’ecoscandaglio, anche grazie all’ausilio del catamarano Dedalus, che utilizza il sonar a fascio laterale. Ma per individuare la posizione esatta dei resti archeologici è stato dirimente l’intervento dei Carabinieri dell’agosto scorso. Il giorno 2 di quel mese, alle 10 del mattino, Paola Bottini, coordinatrice del Servizio tecnico per l’Archeologia Subacquea della Soprintendenza ai Beni archeologici della Liguria, e Francesca Bulgarelli, direttore archeologo responsabile della zona di Varazze, hanno visto per la prima volta sul monitor le immagini del fondo marino realizzate dal veicolo subacqueo filoguidato chiamato Pluto, in dotazione al reparto subacqueo dei Carabinieri di Genova: frammenti di vasi, frammenti e orli di anfore, alla

profondità di 63 m e a una distanza dalla costa di 0,7 miglia, in una zona battuta dalle reti a strascico dai pescatori. Il 3 agosto, nel corso di un’altra ispezione, Pluto ha recuperato dal giacimento archeologico un’anfora del tipo Dressel 1B, attualmente nel nostro laboratorio per la dissalatura. Ma è solo una della tante scoperte… c’è un vero e proprio ammasso di anfore, riferibile a un probabile relitto». Tutte quelle anfore potrebbero appartenere davvero a un relitto? «È probabile che si tratti del relitto: è ragionevole pensarlo, anche se con alcune riserve. Con l’ecoscandaglio si vede un monticello, una sorta di cumulo di materiali sommerso, ricoperto di fanghiglia, che in effetti fa pensare alla forma di una nave». Quale tipo di nave? Ci sono confronti con relitti già noti? «Il tipo Dressel 1B, ritrovato a Varazze, è in uso dal I secolo a.C. al I secolo d.C., cioè in età tardo-


parola d’archeologo repubblicana e primo-imperiale. Per quest’epoca, in questa zona, sono già documentati altri resti di navi onerarie romane, come il relitto A di Albenga, caratterizzato dallo stesso tipo di carico ritrovato nel relitto di Varazze. In questo periodo, nella regione, i relitti romani sono relativamente diffusi». Quali erano le rotte battute dai commerci, all’epoca? E dove era diretta, presumibilmente, la nave forse naufragata a largo di Varazze? «Probabilmente proveniva dall’Italia centro-meridionale ed era diretta in Gallia e Spagna, a ogni modo sembra riconducibile all’insieme di eventi riferibili ai traffici del I secolo a.C. Si tratta di rotte di cabotaggio tra l’Italia centro-meridionale e il Mediterraneo occidentale, che passavano lungo la costa, solcando il Mar Ligure, utilizzate fino alla prima età imperiale. Piú tardi per raggiungere la sponda nord-ovest del Mediterraneo, si preferiscono altre rotte, che anziché cabotare la

mostre Padova

vivere nel mito

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èi ed eroi, mortali e immortali arricchivano con le loro storie d’amore, di tradimenti, di vendetta, di morte, ma, soprattutto, di fantasiose trasformazioni, la vita quotidiana dell’uomo romano. Si viveva letteralmente circondati dai personaggi del mito: rappresentati all’interno delle case in articolate composizioni parietali o sulle gemme che impreziosivano i gioielli, o, ancora, eternati sulle casse dei sarcofagi o all’interno delle tombe. Le numerosissime leggende che circolavano in età romana sono per buona parte raccolte nelle Metamorfosi di Ovidio (fine del I secolo a.C.-inizi del I secolo d.C.): in XV libri, che

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assumono quasi la forma di una vera e propria «enciclopedia di miti», sono narrate oltre duecento storie in cui i diversi protagonisti, alla fine di rocambolesche vicende, si trasformano in piante, rocce, fiori, animali, costellazioni… Questo grande poema ispira il percorso della mostra «Metamorfosi. Miti d’amore e di vendetta nel mondo romano», allestita, fino al prossimo 1° dicembre, presso il Centro di Ateneo per i Musei di Padova. Ad accogliere il visitatore nelle prime sale sono i protagonisti della Roma augustea (tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.): l’imperatore, la sua famiglia e il grande poeta. Attraverso opere originali, vengono quindi illustrati gli stessi miti di metamorfosi che anche Ovidio canta nel suo poema.


Il trasferimento a bordo della nave appoggio di una delle anfore recuperate nello scorso agosto in un tratto di mare antistante la città di Varazze.

costa facevano la traversata da un capo all’altro della Liguria, oppure passavano attraverso le Bocche di Bonifacio: per questo è piú difficile trovare relitti tardo-romani in Liguria». Che cosa fa pensare che il presunto relitto di Varazze provenga dall’Italia centro-meridionale? «L’anfora che abbiamo trovato: il tipo Dressel 1 B veniva prodotto nella zona tirrenica, ne siamo abbastanza sicuri perché l’impasto ceramico contiene cristalli di augite e materiali vulcanici di cui sono ricche le sabbie dell’area campanolaziale. Forse anche quest’anfora viene da lí. Anche perché la grande produzione di vino, in quel periodo, è concentrata tra Lazio e Campania e gli approvvigionamenti avvenivano da qui verso le province, quindi presumibilmente i carichi di vino venivano trasportati dall’Italia peninsulare verso la Gallia e le altre province occidentali, passando lungo costa tirrenica settentrionale».

Per l’occasione Padova accoglie per la prima volta gli affreschi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, provenienti dall’area vesuviana; l’esposizione prevede inoltre l’immancabile presenza di gemme, avori, piatti, sarcofagi per finire con codici miniati medievali e affreschi di epoca rinascimentale, che illustrano la fortuna goduta dalle Metamorfosi anche in epoca post-antica. (red.)

Dove e quando Metamorfosi. Miti d’amore e di vendetta nel mondo romano Padova, Centro di Ateneo per i Musei fino al 1° dicembre Orario ma-ve, 9,00-13,00 e 14,30-17,30; lu e sa, 9,00-13,00 Info tel. 049 2010270; e-mail: metamorfosi.dbc@unipd.it


n otiz iario

mostre Lazio

La guardiana del sonno eterno

A sinistra: la statua di Sfinge recuperata di recente a Vulci. 560-550 a.C. A destra: una fase dello scavo del complesso funerario da cui proviene la Sfinge.

Dove e quando «La Sfinge» Museo Archeologico Nazionale di Vulci Castello della Badia, località Vulci, Canino (VT) fino al 31 dicembre Orario tutti i giorni, 8,30-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 0761 437787; http://etruriameridionale.beniculturali.it, www.vulci.it

A

l Castello della Badia di Vulci (Canino, Viterbo) una raffinata scultura etrusca accoglie i visitatori della mostra «La Sfinge», allestita nella sala al pianterreno del Museo Nazionale. Esposizione che, vista la grande affluenza di pubblico, è stata prorogata fino al prossimo 31 dicembre. I reperti esposti provengono dai recenti scavi condotti nel territorio dell’antica città (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012). Nel novembre 2011 è stata infatti avviata una campagna di scavo, volta a indagare un settore della necropoli dell’Osteria, l’area sepolcrale a nord-ovest del pianoro urbano, in cui, già a partire dall’Ottocento, furono messi in luce importanti monumenti funerari etruschi, quali la Tomba dei Soffitti Intagliati e la Tomba del Sole e della Luna. Tra le numerose sepolture scavate nel banco roccioso, è stata riportata alla luce la «Tomba della Sfinge», un monumentale ipogeo funerario caratterizzato da un dromos (corridoio d’accesso) lungo ben 27 m e un ampio vestibolo, sul quale si aprono tre porte: da quella centrale si accede a quattro ambienti disposti a croce

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mentre le due porte laterali immettono in una sola camera. L’articolato complesso risale al VI secolo a.C.: le misure eccezionali del dromos e la presenza, nei riempimenti del vestibolo, della scultura raffigurante una sfinge, oggi protagonista dell’esposizione, indicano l’importanza della famiglia che qui seppelliva i suoi defunti. Con la mostra, si è voluto mettere a disposizione del pubblico una prima informazione sui risultati della ricerca che, data la complessità e la ricchezza dei dati raccolti, richiederà uno studio approfondito. A guardia del sonno eterno dei defunti, la sfinge di Vulci impressiona ancora oggi per l’eleganza delle sue fattezze: una linea morbida raccorda il corpo di leone e le ali di rapace al sereno volto di donna; alla morbidezza del volumi della figura corrisponde la raffinata capigliatura dalle lunghe e morbide ciocche che scendono incorniciando l’enigmatico sguardo. La scultura è uno dei migliori esempi della produzione di Vulci che a partire dal 600 a.C., sviluppò una fiorente attività

specialistica: leoni, pantere, sfingi e altri esseri appartenenti al modo immaginario, erano scolpiti nella pietra locale per allontanare quanti volessero turbare la quiete dei defunti. In mostra è anche il frammento di una seconda scultura, rinvenuta in una tomba prossima a quella «della Sfinge»: si tratta, forse, del volto di una seconda sfinge sul quale, nel corso di un primo studio delle superfici, i restauratori hanno riscontrato tracce di pigmento di colore rosso la cui natura sarà verificata con la prosecuzione delle analisi di laboratorio. La mostra presenta anche alcuni corredi funerari pertinenti a sepolture secondarie scavate lungo il dromos o in corrispondenza del vestibolo della «Tomba della Sfinge»: si tratta di inumazioni e incinerazioni risalenti alla metà–fine del VI secolo a.C., che hanno restituito sia materiali di importazione, tra i quali spicca un’anfora ionica utilizzata come contenitore delle ceneri del defunto, che prodotti ascrivibili a fabbriche locali, come i numerosi oggetti in bucchero. Carlo Casi e Patrizia Petitti



friuli-venezia giulia

musei Grecia

Un fienile per i mosaici

le cariatidi in diretta

Il fienile di una villa settecentesca ospita il nuovo Antiquarium comunale di Ronchi dei Legionari (Gorizia), nato per valorizzare i reperti archeologici provenienti dalla villa romana scoperta, in maniera fortuita, nel 1987. Due le vetrine, una per i materiali da costruzione e l’altra per quelli di uso comune, mentre, restaurati e collocati su pannello, sono i due tappeti musivi recuperati nel corso degli scavi. Al primo piano dell’edificio, inoltre, una postazione informatica consente la visione di un documento multimediale sulla villa romana. La nascita dell’Antiquarium rientra in un piú ampio Progetto Territoriale che investe tutto il territorio di Ronchi e, piú in generale, quello del mandamento monfalconese, e che mira a creare un parco storico/archeologico/ paesaggistico, concepito come un museo diffuso, facente capo al neonato museo. L’Antiquarium osserva i seguenti orari: lu, 15,30-20,00; ma, 15,30-19,30; me-gio, 9,00-12,00 e 15,30-19,30; ve, 15,30-19,30; per informazioni: tel. 0481/477205; e-mail: biblioronchi@yahoo.it

L

o scorso 14 settembre il Museo dell’Acropoli di Atene è stato insignito del Premio Keck 2012, conferito a Vienna, nel corso del Convegno organizzato a cadenza biennale dall’Istituto Internazionale per la Conservazione (IIC). Il prestigioso riconoscimento è stato attribuito al museo ateniese per il programma di restauro e di conservazione delle Cariatidi della loggia meridionale dell’Eretteo. Si tratta di un restauro che viene effettuato con l’impiego di tecnologia laser e la cui applicazione è stata ideata appositamente per il Museo dell’Acropoli dall’Istituto di Struttura Elettrica e Laser della Fondazione per la Tecnologia e la Ricerca di Creta (FORTH-IESL). In alto e in basso: Atene, Museo dell’Acropoli. Due immagini dell’intervento di restauro in corso su una delle Cariatidi dell’Eretteo, osservabile in diretta dai visitatori.

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Il Premio Keck è stato istituito nel 1994, per iniziativa di due mecenati e pionieri del restauro, Sheldon e Caroline Keck; viene assegnato «alla persona o al gruppo di lavoro che abbia contribuito nel miglior modo possibile a promuovere la comprensione e l’apprezzamento della professione del restauro». Il Museo dell’Acropoli lo ha ottenuto proprio per essere riuscito con successo a informare il pubblico dei suoi visitatori su quali procedure seguano i lavori di restauro e di conservazione delle celebri Cariatidi. Infatti, chiunque abbia visitato il museo dal dicembre 2010 in poi, avrà senz’altro visto una delle Cariatidi, a turno, sollevata su una piattaforma e «fasciata» da pannelli che hanno la funzione di proteggerla ma anche di schermare le radiazioni; in tal modo, ancora al proprio posto, ognuna delle statue viene pulita e restaurata, poiché all’interno della cabina cosí creata lavorano restauratori, la cui opera è poi trasmessa (in diretta o tramite filmati registrati) su schermi posti proprio vicino alle statue. Il risultato è sorprendente: fino a oggi, piú di 2 milioni di persone hanno potuto seguire in diretta il lavoro dei restauratori, un intervento che un tempo era confinato all’interno di inaccessibili laboratori. Valentina Di Napoli



n otiz iario

mostre Bologna

la lunga storia della contraffazione

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pproda al Museo Civico Archeologico di Bologna, la mostra «Il Vero e il Falso. La moneta, la banconota, la moneta elettronica, 2500 anni di storia del falso monetale». L’iniziativa è nata con l’idea di attirare l’attenzione dei «non addetti ai lavori» sulla diffusione e sulle caratteristiche della falsificazione e sui relativi rischi. Un progetto che, partito nel 2008 con la realizzazione di una prima esposizione a Roma, si è sviluppato passo passo, sull’onda del successo riscosso, con altre edizioni tenutesi in diverse città italiane. Fin dall’inizio di questa esperienza, unica nel suo genere, è stato concepito un percorso espositivo che, prendendo spunto dalle operazioni condotte dalla Guardia di Finanza, cerca di ricostruire la lotta alle diverse forme di falsificazione dei mezzi di pagamento. In questo senso, ripercorrendo la storia del falso monetale dall’antichità a oggi, si è creata un’esposizione che, oltre al valore storico-culturale, ha una specifica funzione «didattica» per il pubblico. La mostra è strutturata per aree tematiche, all’interno delle quali i casi di falso principali e piú

A destra: decadramma d’argento fatto battere da Tolomeo II per Arsinoe II. Zecca di Alessandria, 267-266 a.C. In basso: un esemplare contraffatto della moneta.

rappresentativi possono essere ammirati attraverso il raffronto, per ciascun pezzo esposto, dell’esemplare originale con il suo corrispondente contraffatto. Nell’edizione bolognese sono state aggiunte alcune specifiche sezioni: la prima, dedicata alla Zecca di Bologna e alle sue falsificazioni, documenta sia l’attività di una delle piú importanti zecche italiane dal

Medioevo all’unità d’Italia, sia le numerose falsificazioni e frodi di cui le produzioni monetali bolognesi erano oggetto; la seconda riunisce alcuni reperti falsi o con copie di età antica presenti tra le collezioni del Museo. Tra gli oggetti, sono davvero degne di nota le due collane del Dono Tabarroni, composte da false monete greche e romane, nonché il dittico in avorio scolpito che richiama preziosi manufatti di età tardo-antica, o ancora la copia di età romana (fine del I-inizi del II secolo d.C.) della famosa Afrodite in bronzo di età ellenistica opera dello scultore Doidalsas (III secolo a.C.). Presenti anche alcuni falsi dalla sezione Egizia del Museo, come il disco ipocefalo da porre sotto il capo delle mummie e curiosi vasi canopi frutto di un abile pastiche del passato. (red.)

Dove e quando «Il vero e il falso» Bologna, Museo Civico Archeologico fino al 2 dicembre Orario ma-ve, 9,30-14,30; sa, do e festivi, 10,00-18,30 Info tel. 051 2757212; www.comune.bologna.it/ museoarcheologico

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n otiz iario

musei Campania

dalla preistoria alla terza dimensione Reperti conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Volcei: un elmo di tipo corinzio (a sinistra) e il frammento di un cratere di Assteas.

I

l Museo Archeologico Nazionale di Buccino (Salerno), dedicato all’archeologo e papirologo Marcello Gigante, custodisce importanti reperti provenienti dagli scavi archeologici eseguiti nella zona dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici di Salerno dal 1980. All’ingresso si viene accolti dalla sala didattica, da cui si accede al primo piano dell’edificio: qui, nella Sala della preistoria, corredati da postazioni multimediali e pannelli didattici, sono esposti materiali provenienti dall’insediamento di Fossa Aimone di Atena Lucana (seconda metà del III millennio a.C.) e dalla necropoli di Sant’Antonio di Buccino, a cui si riferiscono ceramiche d’impasto e armi della cultura eneolitica del Gaudo. Nelle vetrine successive sono collocate ceramiche recuperate prevalentemente durante lo scavo di tombe del VII secolo a.C. dislocate in area urbana comunale. Interessante è una fornace dello stesso periodo, esposta integralmente, fornita di una camera di combustione circolare e

Antefissa in terracotta policroma. Buccino, Museo Archeologico Nazionale di Volcei «Marcello Gigante».

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«prefurnio» funzionale alla produzione di ceramica locale. Al secondo piano sono esposti i corredi funerari del VI secolo a.C., tra cui spicca quello della tomba 117, caratterizzato dalla presenza di armi da difesa-offesa come un elmo di tipo corinzio, schinieri, spada e cinturone in bronzo accompagnati da speroni e un morso equino. Si passa quindi alla sala dei preziosi reperti recuperati in località Santo Stefano, in una necropoli che conteneva i resti di una famiglia aristocratica degli inizi del IV secolo a.C. Emerge il corredo della tomba della «Signora degli Ori», una donna di circa 25 anni seppellita con gli oggetti tipici della sua condizione femminile, ma anche con manufatti riferibili al banchetto e al mondo della palestra. Il sepolcro era collocato

nell’area sacra a cui appartiene anche la splendida Sala del banchetto, ricostruita con i materiali originali, incluso il piú antico pavimento musivo dell’Italia continentale. Al suo interno un’animazione in 3D fa rivivere la storia dei due personaggi rappresentati nella Tomba del Tuffatore di Paestum, mentre un gioco di luci, musica e testi ne esalta i dettagli ambientali. Ricostruzioni in 3D e schermi a cristalli liquidi accompagnano, infine, a una passerella multimediale lungo la quale sono esposti i reperti relativi alla fase lucana del sito di Buccino, tra la fine del IV e il III secolo a.C., con una parentesi sul ruolo della città in età tardo-repubblicana e del suo territorio in età augustea. Giampiero Galasso

Dove e quando Museo Archeologico Nazionale di Volcei «Marcello Gigante» Buccino (SA), piazza Municipio 1 Orario martedí-domenica, 9,00-13,00 e 15,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0828 951815; e-mail: info@volcei.net; www.volcei.net


mostre Londra

una lega di successo

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al Satiro danzante di Mazara del Vallo al gruppo di Picasso raffigurante una femmina di babbuino con il suo cucciolo: è questo solo uno dei molti possibili percorsi che la nuova esposizione allestita alla Royal Academy of Arts di Londra è in grado di offrire. Nel nome del bronzo, una delle materie prime piú usate dall’uomo, già all’indomani della sua scoperta, sono state riunite oltre 150 opere, che abbracciano un orizzonte cronologico di oltre cinque millenni. L’intuizione che l’unione di rame e stagno potesse dare vita a un metallo ancor piú duttile e resistente fu infatti molto antica e segnò una svolta cruciale (non solo dal punto di vista tecnologico), tanto che, in età moderna, si è voluto dare il nome della lega a quella che è stata una delle epoche piú importanti della nostra storia. Il percorso della mostra è articolato in sezioni tematiche – la figura umana, gli animali, i gruppi, i rilievi, le divinità, i ritratti, ecc. –, al cui

Dove e quando «Bronzo» Londra, Royal Academy of Arts fino al 9 dicembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (ve apertura serale fino alle 22,00) Info www.royalacademy.org.uk

In alto: testa coronata in zinco e ottone. Fine del XIV-inizi del XV sec. Lagos, The National Commission for Museums and Monuments. In basso: modellino di carro in bronzo e oro noto come il Carro del Sole, da Trundholm (Danimarca). Antica età del Bronzo, XIV sec. a.C. Copenaghen, Museo Nazionale di Danimarca.

interno sono confluite opere provenienti da ogni parte del mondo e in larga parte riferibili all’età antica, tra le quali spiccano importanti testimonianze di età greca, etrusca e romana, come il già citato Satiro, la Chimera di Arezzo o una delle statue di corridori rinvenute a Ercolano. E le influenze della tradizione classica si possono osservare anche in molte delle opere piú moderne, come nel caso dei bronzi di artisti quali Ghiberti, Donatello o Benvenuto Cellini. L’esposizione di creazioni di primissimo piano non è però finalizzata al soddisfacimento del solo gusto estetico, perché ampio spazio è stato dato anche ai metodi di lavorazione del bronzo messi a punto nel corso del tempo. Si apprende cosí che la lega era sempre a base di rame, ma che, oltre allo stagno, poteva contenere piccole percentuali di zinco o piombo. Cosí come vengono illustrate le diverse tecniche, come per esempio quella della fusione a cera persa. Oltre a opere celebri, sono state anche selezionate acquisizioni recenti, come il pregevole ritratto del re Seute III, di età ellenistica, scoperto in occasioni di scavi condotti pochi anni fa in Bulgaria, o l’elmo Crosby Garrett, appartenuto a un cavaliere romano e trovato in Inghilterra nel 2010, eccezionalmente concesso in prestito dal collezionista che ne è l’attuale proprietario. (red.)

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infor mazione pubblicitar ia

n otiz iario

mostre Umbria

spello e costantino: un rapporto privilegiato

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ono passati quasi duemila anni dal regno di Costantino il Grande (306-337 d.C.) e l’Umbria moderna riflette su una pagina della propria storia: la concessione fatta alla città di Hispellum del nome di Flavia Constans per dimostrare la sua fedeltà alla famiglia imperiale. In tre secoli (III-VI d.C.), grazie alla riorganizzazione promossa da Costantino, l’impero espresse infatti una forte vitalità, prima della devastante guerra greco-gotica scatenata da Giustiniano. La mostra «Aurea Umbria», allestita nel Palazzo Comunale, si propone di raccontare la vita in Umbria durante questi trecento anni, attraverso un cospicuo insieme di materiali archeologici, che spaziano dalle manifestazioni dell’arte ufficiale (ritratti e iscrizioni) e dalle espressioni della vita delle aristocrazie (mosaici, arredi) agli oggetti della quotidianità dei ceti medi e subalterni. La ricerca storica e archeologica, infatti, è in grado oggi di configurare il volto di un’età tardoIn alto: sarcofago con raffigurazioni di Muse e clipeo centrale con Cristo giudice. IV sec. d.C. Spoleto, Museo del Ducato. A sinistra: ritratto femminile noto come Elena di Fossombrone. IV sec. d.C. Fossombrone, Museo Civico.

antica, che fu «aurea» per la sua vitalità, e non di «ferrea» decadenza, come a lungo la storiografia moderna ha proposto. Mentre il potere carismatico degli imperatori si rispecchia nei ritratti e il rango delle aristocrazie si rivela nella ricchezza delle decorazioni a mosaico e nelle argenterie, i modi in cui la religione e i culti cristiani vennero a sostituirsi alla tradizione e alla ritualità del politeismo parlano di convivenza, sincretismo, commistione. Anche in una regione come l’Umbria tardo-antica, pagani e cristiani provarono in vario modo a dialogare: lo mostrano le immagini poste sui sarcofagi, i corredi delle sepolture, gli oggetti preziosi e i diversi manufatti artistici, che accompagnavano le attività sociali e quotidiane, le feste e i rituali politici vissuti dagli abitanti di città e campagne del territorio, ma, soprattutto, il Rescritto di Spello, un documento che attesta il permanere, durante tutto il regno di Costantino, di un istituto politico e religioso «tradizionale» quale il culto dell’imperatore e della sua famiglia. «Aurea Umbria» si propone di portare alla ribalta il peso e l’importanza delle culture regionali accanto alle manifestazioni dominanti delle capitali e dei centri politici dell’Impero, certamente piú documentate nelle fonti letterarie e storiche. Gli oggetti in mostra vogliono inoltre testimoniare il modo di essere di una società che vive in una serrata dialettica tra stili di vita aristocratici basati sul sumptus, l’aurea mediocritas delle classi medie e la povertà dei ceti subalterni.

Dove e quando «Aurea Umbria. Una regione dell’Impero nell’era di Costantino» Spello (PG), Palazzo Comunale fino al 9 dicembre Orario fino al 30.11: venerdí, sabato e domenica, 10,30-13,00 e 14,30-17,00; dall’01 al 09.12: tutti i giorni, 10,30-13,00 e 14,30-17,00 Info e prenotazioni Call Center Sistema Museo 199.151.123 (dal lunedí al venerdí, 9,00-17,00); e-mail: callcenter@sistemamuseo.it; www.aureaumbria.it; www.comune.spello.pg.it


con

archeo in viaggio a

istanbul Dal 6 al 9 dicembre 2012

alla scoperta delle meraviglie della città sospesa tra europa e asia, crogiolo millenario di genti e culture Con la guida di Marco Di Branco, collaboratore di «Archeo» e professore di Storia Bizantina all’Università di Roma «La Sapienza».

DESCRIZIONE QUOTA IN EURO PER PERSONA Quota di partecipazione min. 10 partecipanti

€ 1490

Quota di partecipazione min. 15 partecipanti

€ 1350

Supplemento sistemazione in singola

da € 140

Tasse aeroportuali previste

€ 102

Assicurazione medico/bagaglio/ annullamento da

programma 1° giorno – giovedí 06.12 Roma/Istanbul Ritrovo all’aeroporto di Roma Fiumicino e partenza alle ore 11.00 per Istanbul. Arrivo alle ore 14.30. Trasferimento in città. Alle ore 16.00 passeggiata nell’Ippodromo. Alle ore 18.00 crociera sul Bosforo in battello. Cena in ristorante, situato sul Bosforo. Pernottamento in albergo.

2° giorno – venerdí 07.12 Istanbul Prima colazione in albergo. La mattina visita del Museo archeologico. Pranzo libero. Nel pomeriggio: la chiesa delle Pammakaristos, la chiesa di San Salvatore in Chora e il palazzo delle Blacherne (Tekfur Saray). Cena in ristorante nella zona di Santa Sofia. Pernottamento in albergo.

3° giorno – sabato 08.12 Istanbul Prima colazione in albergo. La mattina visita al Gran Bazar, alla

moschea di Solimano il Magnifico. Pranzo libero. Pomeriggio dedicato alla moschea di Sokollu, al Museo dei Mosaici del Grande Palazzo, alla moschea di Rustem Pasha, al Bazar delle Spezie. Passaggio dal Ponte di Galata e rientro in albergo. Cena con spettacolo sulla Torre di Galata. Rientro in albergo e pernottamento.

4° giorno – domenica 09.12 Istanbul/Roma Prima colazione in albergo. Visita alla chiesa di Santa Sofia e alla cisterna di Yerebatan Saray. Pranzo in ristorante. Partenza per l’aeroporto e rientro a Roma Fiumicino con volo delle ore 16.30. Arrivo alle ore 18.05.

€ 21

La quota comprende: • Passaggi aerei internazionali in classe turistica con franchigia di un bagaglio a persona di Kg. 20 • Sistemazione in camera doppia presso l’Hotel PointTaxim (4* Sup.) o similare • Trattamento di pernottamento e prima colazione con pranzi o cene in ristorante come da programma • Trasferimenti aeroporto/hotel/aeroporto all’arrivo e alla partenza • Visite con guida parlante italiano • Ingressi ai monumenti menzionati nel programma • Assistenza dei nostri corrispondenti in loco • Accompagnamento specialistico dall’Italia La quota non comprende: • Pasti non indicati, bevande, mance e quanto non espressamente menzionato nel programma Condizioni Generali da cataloghi Lombard Gate Milano, 31 agosto 2012 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 – 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it


firenze

Una settimana per i beni culturali

Luciano Calenda

archeofilatelia

simbolo dell’ellenismo

Firenze ospita, dal 3 all’11 novembre, Florens 2012, seconda edizione della Biennale Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali. Il programma (www.florens2012.it) prevede il Forum Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali, convegni e dibattiti; lectio magistralis; mostre; appuntamenti musicali. Tutti gli eventi sono gratuiti e aperti al pubblico e coinvolgono l’intera città, dai luoghi del sacro (Battistero, Cattedrale) a quelli delle istituzioni civiche (Palazzo Vecchio), dalle piazze (piazza Santa Croce, piazza San Giovanni) ai Musei, all’Università. Florens 2012 può essere seguita anche in diretta streaming, con possibilità di intervenire con contributi tramite diversi social network e l’animazione di 57 blogger da tutto il mondo.

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

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Come si può non considerare Pergamo un «luogo della leggenda»? Il mito dice che il primo insediamento fu opera del nipote di Achille, Pergamo, dal quale prende il nome, ma raggiunse il massimo splendore in età ellenistica sotto Eumene II, il re che ne fece un importantissimo centro artistico, secondo solo ad Atene. A lui si deve la costruzione del piú famoso monumento del sito, l’Altare di Zeus; altri monumenti famosi sono il tempio di Atena e, di epoca romana, il tempio di Traiano. Molti sono i ricordi filatelici che riguardano le vestigia di Pergamo emessi dalla Turchia, naturalmente, ma anche dalla Grecia in ricordo della forte influenza esercitata sulla città durante l’età ellenistica e infine dalla Germania, dal momento che la scoperta e la valorizzazione del sito sono state essenzialmente opera di archeologi tedeschi. Non per niente il Pergamonmuseum di Berlino ospita la piú ricca collezione al mondo di reperti provenienti dalla città, tra i quali spicca il fregio dell’Altare di Zeus. Ecco, di seguito, alcuni dei pezzi che hanno celebrato l’antica città. Innanzitutto le emissioni tedesche, tutte delle Poste dell’allora Germania Orientale, perché il Pergamonmuseum era nel settore orientale di Berlino. Nel 1959 uno dei valori dedicati a tutte le collezioni del museo raffigura il celebre altare (1) e, l’anno precedente, un altro valore aveva ricordato alcuni dei fregi del monumento restituiti dall’URSS al museo stesso: si tratta del particolare della Gigantomachia in cui Atena abbatte Alcioneo (2). La scena compare anche su di un francobollo greco del 1968 (3) a testimoniare il legame tra la Grecia e la città di Pergamo. Ancora dal museoLuciano una statua di Atena (4). Poi le emissioni turche: le colonne del Calenda tempio di Traiano sono state raffigurate dal valore di una serie ordinaria del 1952 (5), successivamente riemesso con nuovo valore e in un colore diverso (6). Nel 1957 la Turchia ha poi emesso una serie che ricorda il tradizionale Festival delle rappresentazioni classiche e folcloristiche che si svolge annualmente tra maggio e giugno; i due valori raffigurano alcuni danzatori e uno scorcio del restaurato teatro di Esculapio che ospita la manifestazione, ripreso anche dallo speciale annullo 1° giorno (7). Infine, lo stretto legame che unisce Pergamo e la Germania è dimostrato anche da questo annullo di Ingelheim sul Reno del 1972, che raffigura un frammento di statua o del fregio dell’altare (8).

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Incontri Paestum

dall’ararat alla piana del sele

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rende il via tra poco piú di un mese la XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma a Paestum (Salerno) dal 15 al 18 novembre. Paese Ospite ufficiale è l’Armenia, a cui si affiancano, oltre 30 Paesi esteri, tra i quali figurano per la prima volta il Tatarstan e il Kenya. Segnaliamo, qui di seguito, alcuni degli appuntamenti previsti dal ricco calendario della rassegna. Giovedí 15 la Direzione Generale per le Antichità del MiBAC organizza il convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», con gli interventi degli Assessori Regionali al Turismo e ai Beni Culturali, dei Soprintendenti delle aree archeologiche del Sud Italia, e dei vertici delle Organizzazioni nazionali di categoria. Venerdí 16 si tiene il VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione e l’occupazione», in collaborazione con ICCROM e «Archeo». Parteciperanno i direttori delle principali testate archeologiche, nonché Stefano De Caro, Direttore Generale dell’ICCROM, Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, Maurizio Melani, Direttore Generale DG per la Promozione del Sistema Paese, Ministero degli Affari Esteri; sono stati invitati a intervenire Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale Direttore Generale dell’UNESCO, Pier Luigi Celli, Presidente dell’Enit, Antonia Pasqua Recchia, Segretario Generale del MiBAC, Pasquale Muggeo, Comandante Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Modererà Andreas M. Steiner, direttore di «Archeo». Venerdí 16 è previsto il convegno «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo» a cura della Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, con la partecipazione dei

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infor mazione pubblicitar ia

Direttori delle missioni archeologiche impegnate nei Paesi dell’area:Turchia, Siria, Libano, Giordania, Israele, Palestina, Egitto, Libia,Tunisia, Algeria, Marocco. Sabato 17 nell’incontro «La rinascita del Mezzogiorno è nel passato», Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica di Atene e Presidente Fondazione Paestum, Angela Pontrandolfo, Presidente Consulta Universitaria per l’Archeologia del Mondo Classico, dialogheranno con Andrea Carandini, già Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, autore del recente libro Il nuovo dell’Italia è nel passato. Modererà Paolo Conti, giornalista del Corriere della Sera e coautore del libro. Sabato 17 all’Incontro con i Protagonisti, «I grandi segni dell’uomo» Roberto Giacobbo, autore e conduttore televisivo, intervisterà l’archeologo tunisino, già Ministro della Cultura, Azedine Beschaouch, l’ingegnere Giorgio Croci e l’architetto Andrea Bruno, tra i massimi esperti di conservazione e restauro architettonico. Domenica 18, per il trentennale della Domenica, avrà luogo l’incontro «Il Manifesto de Il Sole 24 Ore per la diffusione della cultura, della conservazione, della tutela e della valorizzazione: le Associazioni per il patrimonio culturale», con la moderazione del direttore della Domenica, Armando Massarenti, al quale partecipano Franco Iseppi, Presidente del Touring Club Italiano, Enrico Ragni, Presidente Gruppi Archeologici d’Italia, Claudio Zucchelli, Presidente Archeoclub d’Italia. A questi incontri si affiancano iniziative ormai «tradizionali» per la Borsa, come ArcheoVirtual, mostra e workshop Armenia. Le colonne della sull’archeologia virtuale; la Cattedrale di Zvartnots presentazione di corsi di laurea e master (643-655) e, sullo sfondo, in archeologia, beni culturali e turismo il Monte Ararat. culturale nell’ambito di ArcheoLavoro; la proiezione dei film vincitori della XXIII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto e dei filmati di Rai Educational per ArcheoFilm; laboratori di archeologia sperimentale. Per ulteriori informazioni e per il programma completo, si può consultare il sito: www.borsaturismo.com


calendario

Italia Roma I Predatori dell’Arte e il Patrimonio ritrovato

montepulciano Una porta sull’aldilà

Dal mondo egizio agli Etruschi Museo Civico Pinacoteca Crociani fino al 30.09.12

...le storie del recupero... Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 15.12.12

padova Le memorie ritrovate

Marmo, Latte e Biancospino

Mostra fotografica sull’Appia Antica Capo di Bove fino al 31.12.12

Materiali dal monastero di S. Chiara di Cella Nova a Padova Palazzo Zuckermann fino al 18.11.12

Roma caput mundi

piacenza Abitavano fuori porta

Una città tra dominio e integrazione Colosseo-Foro romano fino al 10.03.13

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

L’Età dell’Equilibrio Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13

chieti Tesori dell’età del Ferro dalle necropoli dell’Abruzzo antico

Qui sopra: particolare di statua loricata raffigurante Traiano. A sinistra: ritratto di Faustina Minore.

Museo Archeologico Nazionale Villa Frigerj fino al 06.01.13

Roccapelago di Pievepelago (MO) Le Mummie di Roccapelago (XVI-XVIII sec.)

chiusi Il Vaso François

Museo Civico «La Città Sotterranea» fino al 31.10.12

+110

Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13

Guidonia Montecelio (Rm) Archeologi tra ‘800 e ‘900 Città e monumenti riscoperti tra Etruria e Lazio antico Ex Convento San Michele fino al 05.11.12

milano Costantino. 313 d.C.

Palazzo Reale fino al 17.03.13 (dal 25.10.12)

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13 26 a r c h e o

Materiali dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.

Qui sopra: il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. In basso: ritratto in bronzo di Costantino.

Vita e morte di una piccola comunità dell’Appennino modenese Museo «Sulle orme di Obizzo di Montegarullo» e chiesa della Conversione di San Paolo fino al 14.10.12

spello Aurea Umbria

Una regione dell’impero nell’era di Costantino Palazzo Comunale fino al 09.12.12

tarquinia Il Tumulo della Regina

Immagini di una scoperta archeologica nella necropoli di Tarquinia Biblioteca Comunale, Sala Grande fino al 28.10.12

tivoli Antinoo

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12

A sinistra: la testa dell’Antinoo Farnese.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia trento Homo Sapiens

La grande storia della diversità umana Dopo il successo della prima edizione al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Homo Sapiens si presenta in un allestimento rinnovato al Museo delle Scienze di Trento. Una grande mostra per raccontare una grande storia, forse la storia piú bella di tutte: la nostra. A partire da una piccola valle africana, qualche milione di anni fa, un gruppo di primati di grossa taglia comincia a muoversi sugli arti posteriori in posizione eretta e da allora il nostro cammino non si è piú fermato. Homo sapiens è il racconto di questo cammino, fatto di ripetute uscite fuori dall’Africa di gruppi umani via via piú simili a noi, da incontri e incroci tra le diverse popolazioni sparse sui diversi continenti, da un progredire di conquiste tecnologiche e culturali fino al giorno d’oggi e al futuro che ci stiamo preparando. Un’esposizione che apre a nuovi orizzonti di pensiero e che ci aiuta a comprendere la trama profonda delle affinità e delle diversità dei popoli del mondo. Ed è anche un’occasione speciale, perché Homo Sapiens è l’ultima grande mostra nella sede storica del Museo di via Calepina. Una sorta di arrivederci prima del trasferimento nel nuovo avveniristico edificio del Muse, progettato da Renzo Piano.

Germania Stoccarda Il Mondo dei Celti

Centri di potere-Tesori d’arte Kunstgebäude e Landesmuseum Württemberg fino al 17.02.13

La Chimera di Arezzo. 400 a.C. circa

Cambridge Alla ricerca dell’immortalità

Tesori dalle tombe della dinastia Han The Fitzwilliam Museum fino all’11.11.12

Svizzera

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.12 (prorogata)

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Royal Academy of Arts fino al 09.12.12

venafro Splendori dal Medioevo

vulci (Canino, VT) La Sfinge

A sinistra: statua in marmo della dea dell’Abbondanza. II-III sec. d.C.

Strasburgo Un’arte dell’illusione

londra Bronzo

Museo delle Scienze fino al 13 gennaio 2013 Orario ma-do, 10,00-18,00; chiuso lu non festivi, 25.12 e 01.01 Info tel. 0461-270311; www.homosapiens.net; www.mtsn.tn.it

Percorsi di civiltà fra Etruschi, Enotri e Dauni Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 04.11.12

Reperti da un antico convento Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière fino al 30.11.12

Gran Bretagna

dove e quando

vetulonia Il modello inimitabile

lione Il sottosuolo dell’Antiquaille

basilea Petra. Splendore del deserto Sulle tracce di J.L. Burckhardt Antikenmuseum Basel fino al 17.03.13 (dal 23.10.12) In alto: testina in avorio di un monaco. A sinistra: cimasa di candelabro in bronzo con Eos e Kephalos, da Ruvo del Monte.

USA filadelfia Maya 2012: signori del tempo University of Pennsylvania Museum of Art and Archaeology fino al 13.01.13

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l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

LIBANO

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egiddo è, per l’archeologia del Vicino Oriente antico, un vero «luogo della leggenda». Da tempo immemore, nelle pianure che circondano il sito nella valle di Jezreel (Israele) i piú diversi eserciti si sono dati battaglia. Ecco perché, secondo l’Apocalisse (16:16), Armageddon (dall’ebraico Har Megedon, la «montagna di Megiddo») è il luogo dove si svolgerà l’ultima di tutte le battaglie, quella in cui Dio sconfiggerà il Male. Città-stato cananea fino ai primi del X secolo a.C. e importante centro del regno di Israele nei secoli XI e VIII a.C., il tell di Megiddo è da molti decenni indagato da una équipe dell’Università di Tel Aviv, diretta da Israel Finkelstein. Che, in un’antica abitazione nella zona settentrionale del sito, ha effettuato una scoperta sorprendente…

L’oro dei Cananei Nel 2010, un recipiente di ceramica emerse dagli scavi di un’abitazione del XII secolo a.C. nella parte nord di Tel Megiddo. L’oggetto, interamente ricoperto da incrostazioni di terra, venne inizialmente lasciato cosí come era, in attesa di essere sottoposto all’analisi molecolare del suo contenuto. Ma, una volta pulito, un intero tesoro – tra cui anelli, orecchini e perle – fuoriuscí dall’interno del vaso. Tra i preziosi – in origine avvolti in un telo – figurano alcuni orecchini «a lunetta», di tipica produzione cananea, ma anche un gran

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Tel Aviv

Gaza

Lago di Tiberiade

Megiddo

CISGIORDANIA

Giordano

Mar Mediterraneo

Gerusalemme

Mar Morto

STRISCIA DI GAZA

GIORDANIA

ISRAELE A destra: l’ubicazione di Tel Megiddo, in Israele. Sul sito, indagato dall’Università di Tel Aviv, è stato rinvenuto un tesoro composto da gioielli in oro e argento, datato intorno al 1100 a.C. In alto e in basso: particolare dei reperti, ancora fasciati nel tessuto che in origine li avvolgeva.

EGITTO (Sinai)


numero di reperti in oro e perline di corniola di produzione egiziana, a ulteriore conferma dei contatti, già ampiamente documentati, che intercorrevano tra il sito palestinese e la terra del Nilo, dall’età del Bronzo all’età del Ferro. Straordinario e unico, tra i gioielli rinvenuti, è un orecchino in oro decorato con figure di capre selvagge. Lo strato in cui sono emersi i gioielli restituisce una datazione intorno al 1100 a.C., un’età che coincide con la fine del dominio egiziano della zona. Sarà l’analisi del tessuto in cui il tesoro era avvolto, nonché quella della stessa composizione chimica dei gioielli, a rivelarne l’origine, insieme a qualche indizio in piú sul loro, a oggi ignoto, proprietario.

I gioielli rinvenuti a Megiddo dopo la rimozione del tessuto: orecchini aurei a lunetta e perline in corniola (a sinistra), un anello con incisa la figura di un pesce e il particolare della decorazione di un orecchino con figure di capre selvatiche (in basso).

Ma Gesú aveva una moglie?

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he cosa serve perché un frammento di papiro, piú piccolo di una carta di credito, conquisti le pagine di tutti i piú autorevoli e diffusi – a livello mondiale – giornali del mondo, tra cui il Time? Semplice: basta che ci siano gli ingredienti giusti. E, nel caso del reperto presentato a Roma lo scorso settembre, in occasione del 10° Congresso Internazionale di Studi Coptici, dalla studiosa americana Karen L. King, questi ci sono tutti: il papiro (vedi nell’immagine qui accanto) – che misura 7,6 x 3,8 cm ed è datato al IV secolo – reca poche righe di un’iscrizione in copto sahidico in cui sono menzionati Gesú, sua madre, una moglie, il nome «Maria». Il testo sembra riferirsi a un dialogo tra Gesú e i discepoli in cui si dibatte se tale Maria sia degna di diventare discepola di Gesú. La frase che ha fatto sobbalzare l’opinione pubblica mondiale recita: «Gesú disse loro: “mia moglie…”». La rivelazione del «Vangelo della moglie di Gesú» (come il papiro è stato, forse affrettatamente, chiamato) riapre discussioni storiche e teologiche mai sopite: Gesú era sposato? Quale era la posizione

delle comunità cristiane delle origini sul tema del celibato? Vi è poi la questione dell’autenticità del documento, di proprietà di un collezionista privato che ha preferito rimanere anonimo... Se però, come ritiene molto probabile Karen L. King, il documento non è un raffinatissimo «falso», si tratterebbe, verosimilmente, di una trascrizione in copto di un testo gnostico greco del II secolo. L’autore originario, dunque, non poteva aver conosciuto Gesú «di persona». Ma, allora, sarà mai possibile sapere se Gesú abbia avuto una moglie, per di piú di nome Maria? Come conclude Jon Meacham del Time, citando la domanda che Pilato ha posto a Gesú in un’altra, piú drammatica, conversazione – «Qual è la verità?» –, il quesito continuerà a tormentarci, forse fino alla fine dei tempi.

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scoperte • battaglia dell’harzhorn

la spedizione

di Michael Geschwinde e Petra Lönne

dimenticata TRACCE DI UN’ANTICA BATTAGLIA RIEMERGONO DAL SUOLO DI UNA FORESTA NEL CUORE DELL’EUROPA CENTRALE. L’EVENTO, SCONOSCIUTO ALLE FONTI STORICHE, RIVELA COME L’ESERCITO DI ROMA, A DUE SECOLI DALLA GRANDE OFFENSIVA CONTRO I GERMANI DEL 16 D.C., FOSSE ANCORA BEN PRESENTE E ATTIVO AL CENTRO STESSO DEL TERRITORIO NEMICO. A CENTINAIA DI CHILOMETRI DALLA FRONTIERA DELL’IMPERO…

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Qui sopra: l’Harzhorn, area boschiva nei pressi di Kalefeld, in Bassa Sassonia, un’ottantina di km a sud di Hannover. Scavi condotti dal 2008 da una équipe della Libera Università di Berlino hanno restituito reperti relativi a uno scontro armato, testimoniato dalle fonti storiche, legato alle attività militari dell’imperatore Massimino il Trace (235-238 d.C.). A destra, in alto: documentazione fotografica di un proiettile in situ rinvenuto durante la campagna di scavo del 2011. A destra: punta di lancia germanica, uno tra i reperti rinvenuti sul campo di battaglia dell’Harzhorn.

e scoperte archeologiche possono essere talvolta quasi... irritanti, perché mettono in discussione le nostre presunte certezze riguardo a interi capitoli storici. In questo senso, uno dei casi piú clamorosi si è verificato in occasione degli scavi intrapresi dal Servizio Archeologico Provinciale di Northeim e dalla Soprintendenza della Bassa Sassonia in un’area boschiva – nota con il nome di Harzhorn – situata al margine occidentale della catena montuosa dell’Harz. Qui, nel cuore della Germania moderna (80 km circa a sud di Hannover) e molto lontano dalle frontiere dell’impero romano, sono stati portati alla luce, dal 2008, reperti destinati a suscitare l’interesse della comunità scientifica internazionale. Le ricognizioni e gli scavi diretti da Michael Meyer, della Freie Universität di Berlino, hanno permesso di indagare un campo di battaglia straordinariamente ben conservato. La sorpresa maggiore riguarda la datazione dello scontro armato, da porre intorno al 235 d.C.: una «expeditio Germaniae» che, nel pieno del III secolo, ha portato l’esercito romano a combattere a piú di 400 km di distanza dal margine settentrionale del limes. Le campagne finora condotte han-

no permesso di riconoscere due aree principali in cui si sono concentrati i combattimenti. La ricognizione sistematica del terreno, eseguita con l’ausilio di metal detector, ha fornito informazioni accuratissime e complete riguardo ai vari contesti indagati e ai singoli reperti.

proiettili e punte di freccia Per la prima volta è possibile ricostruire, grazie all’analisi e documentazione dei proiettili di catapulta e delle punte di freccia, l’esatto svolgimento della battaglia. Al momento sono attestati due distinti attacchi alle salmerie romane, condotti simultaneamente o a breve distanza l’uno dall’altro, e sembra che in entrambi i casi gli assalti delle forze germaniche avessero avuto un discreto successo. Ciò rese necessario un potente contrattacco delle truppe ausiliarie romane, composte da arcieri persiani e lanciatori di giavellotto, con il massiccio sostegno dall’artiglieria leggera. Una controffensiva che dovette riuscire nell’intento di respingere gli attaccanti. Le unità romane rientravano probabilmente da una spedizione militare di ampia portata, che le aveva condotte forse fino all’Elba, e poterono

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scoperte • battaglia dell’harzhorn

in seguito continuare il ripiegamento lungo il fiume Leine. È verosimile ipotizzare che poi, seguendo gli itinerari già sperimentati in epoca augustea, abbiano attraversato l’Assia e raggiunto Mogontiacum, l’odierna Magonza. Una simile operazione militare, condotta a piú di duecento anni dall’offensiva di Germanico del 16 d.C., ci costringe a riscrivere completamente interi capitoli di storia.

una missione punitiva La precisa datazione della battaglia, sotto questo punto di vista, è di fondamentale importanza. I numerosi ritrovamenti numismatici – il cui studio è stato affidato a Frank Berger dell’Historisches Museum di Francoforte – permettono di stabilire un terminus post quem per l’anno 228 d.C. L’analisi al carbonio 14 dei resti lignei conservatisi nelle immanicature di varie punte di lancia ha fornito una cronologia molto precisa dei reperti, che oscilla tra il 225 e il 245 d.C. Questo importantissimo elemento di indagine sembra far coincidere il contesto storico con una campagna militare attestata sia da Erodiano (metà del III secolo) che dalla Historia Augusta (IV secolo) e condotta nell’estate del 235 d.C. dall’imperatore Gaio Giulio Vero Massimino, al quale, dalla tarda antichità, fu attribuito il soprannome di «Trace». Si trattava di una dimostrazione di forza dei Romani, in reazione alle scorrerie alemanne del 233 d.C. nel medio corso del Reno. In alcune varianti dei manoscritti si legge che la spedizione si addentrò per circa 400 miglia romane nel territorio germanico, ciò che spiegherebbe perfettamente i r itrovamenti dell’Harzhorn. Un ulteriore indizio in questo senso è fornito dal rinvenimento di una dolabra (una sorta di piccone) con iscrizione graffita della legione IIII Flavia Felix, di stanza a Singidunum, l’odierna Belgrado. Il grande fascino dell’Harzhorn è dato dalla straordinaria possibilità di ricostruire esattamente lo svolgimento dello scontro. Con l’ecce32 a r c h e o

zione dei famosi assedi di Alesia, Masada e Dura Europos, solo in pochissimi casi si può analizzare cosí esaurientemente un antico campo di battaglia. Solitamente i metodici saccheggi compiuti subito dopo l’evento bellico, che si concentravano in particolare sugli elementi metallici di armi e corazze, riducono lo spettro di informazioni. I teatri delle maggiori battaglie dell’antichità sono inoltre situati, conformemente alle tecniche militari dell’epoca, in ampi spazi aperti, cosicché le successive attività agricole hanno quasi sempre portato alla perdita completa delle testimonianze archeologiche. Ben diversa è la situazione nel bosco dell’Harzhorn: i drammatici fatti del terzo decennio del III secolo d. C. si sono qui conservati come in un fermo-immagine. Possono essere distinte le singole salve di frecce degli arcieri romani, cosí come l’utilizzo concentrato dei

pezzi di artiglieria a torsione. Si riconoscono i luoghi esatti in cui i carri delle salmerie sono stati saccheggiati e distrutti. Uno dei carriaggi, per esempio, è stato rinvenuto lungo un pendio scosceso, dove i muli che lo tiravano, presi dal panico e sfuggiti al controllo del carrettiere, l’avevano probabilmente portato a schiantarsi.

attimo dopo attimo La documentazione dei ritrovamenti permette dunque di ricostruire, momento per momento, lo svolgimento dello scontro, e, per la prima volta, le testimonianze archeologiche consentono di definire le varie fasi di una battaglia tra Romani e Germani. Ci sono però anche alcuni limiti in questo senso: fino a ora è stato possibile indagare solo due aree distinte, distanti circa 3 km l’una dall’altra. In entrambi i casi si tratta di zone boschive, il cui terreno calcareo favorisce la conserva-


La conferma dalla scienza Particolare dei resti lignei conservati nell’immanicatura di una punta di lancia romana. L’analisi al carbonio 14 effettuata su tali resti ha consentito di datarli tra il 225 e il 245 d.C., fornendo un sostegno all’ipotesi che i ritrovamenti sull’Harzhorn si riferiscano alla battaglia combattuta nell’estate del 235 d.C. dall’esercito di Massimino il Trace in risposta alle scorrerie alemanne del 233 d.C.

In alto: picchetti numerati indicano la fitta concentrazione dei materiali archeologici in una delle aree esplorate.

zione degli oggetti metallici. Negli spazi circostanti, a vocazione agricola, le condizioni sono invece estremamente svantaggiose, cosicché sinora non sono stati trovati reperti di quest’epoca. Per questo motivo non si può ancora stabilire con certezza se siano stati localizzati due settori di un unico, esteso campo di battaglia, oppure se si tratti di due eventi distinti, avvenuti simultaneamente o a brevissima distanza di tempo l’uno dall’altro. I ritrovamenti effettuati forniscono anche uno spaccato della vita quotidiana dei soldati durante una campagna militare del III secolo d.C. Sinora sono stati rinvenuti principalmente reperti romani, probabilmente a causa del fatto che i Germani, a parte le armi eventualmen-

A sinistra: denario dell’imperatore Alessandro Severo, dal bosco dell’Harzhorn, datato al 228 d.C. La moneta segna il terminus post quem per lo svolgimento dello scontro. In basso: altri reperti numismatici risalenti alla dinastia severiana rinvenuti sul campo di battaglia.

te raccolte e riutilizzate durante la battaglia, non si sono dedicati a un sistematico saccheggio del teatro dello scontro. Ciò distingue l’Harzhorn da Kalkriese, dove furono distrutte le legioni di Varo (vedi «Archeo» n. 295, settembre 2009; anche su www.archeo.it). In questo caso i resti della battaglia a r c h e o 33


scoperte • battaglia dell’harzhorn

hanno costituito a lungo, per le popolazioni germaniche dei villaggi circostanti, una fonte pressoché inesauribile di materie prime. Quasi tutte le possibili testimonianze archeologiche dell’evento sono state dunque riciclate nel corso dei decenni. L’Harzhorn, invece, può essere indagato dagli archeologi come se la battaglia avesse appena

Abusina (oggi Eining, in Baviera), abbandonato verso il 260 d. C. Anche le testimonianze provenienti da Dura Europos, assediata e conquistata dai Sassanidi nel 256/57 d.C., mostrano forti somiglianze con l’Harzhorn. Tra i reperti piú notevoli venuti alla luce durante gli scavi si annoverano due pila (plurale di pilum,

avuto termine; un fatto piú unico che raro in un territorio cosí densamente popolato come l’Europa centrale. Il materiale recuperato durante gli scavi, la cui analisi è eseguita in collaborazione con Günther Moosbauer dell’Università di Osnabrück, corrisponde in gran parte allo spettro dei ritrovamenti attestati nel castello ausiliario di

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giavellotto) perfettamente conservati, per uno dei quali si conosce un esemplare analogo proveniente da Eining. Entrambi sono piegati e presentano punte schiacciate, attestandone cosí l’utilizzo durante la battaglia. Di grande interesse sono anche i frammenti di tre elmi del tipo «Niederbieber», per il quale non esistevano finora attestazioni

nella Germania Magna. Frammentarie sono le testimonianze delle diverse forme di corazza utilizzate in quest’epoca dall’esercito romano: lorica segmentata, lorica squamata e lorica hamata. Questi reperti fanno supporre che le perdite nelle file delle truppe imperiali siano state ingenti. Durante gli scavi è stato spesso portato alla luce un tipo di

Contro gli «uomini» del Nord La cartina illustra l’estensione dei territori occupati dall’impero romano nelle regioni centro-europee alla metà del III sec. d.C. e le direttrici delle incursioni che, a partire dalla seconda metà dello stesso secolo, furono compiute da numerose popolazioni di origine germanica. Fra di esse vi furono gli Alemanni – verosimilmente coinvolti nella battaglia combattuta all’Harzhorn – che ebbero un primo scontro con l’impero romano nel 213 d.C., quando Caracalla li respinse dal confine retico, battendoli sul atMeno. Piú tardi, nel 258, valicato il limes a difesa Prip j della Rezia, gli Alemanni occuparono ampie zone tra il Reno superiore, il Meno e il Danubio, invadendo l’Italia settentrionale, dove furono sconfitti, a Milano, dall’imperatore Gallieno. Intorno alla metà del IV sec. passarono nuovamente il Reno, ma vennero respinti da Giuliano, che li vinse a Strasburgo nel 357.

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Ritratto di Gaio Giulio Vero Massimino, noto come Massimino il Trace. Nato intorno al 173 d.C., fu imperatore dal 235 alla sua morte, avvenuta ad Aquileia nel 238.

punta di lancia a forma di lancetta, con l’estremità squadrata, pertinente ad armi da lancio leggere e forse appartenute a quei «lanciatori di giavellotto mauri» ricordati nelle fonti scritte.

unità multietniche Le punte di freccia a tre alette fanno supporre la presenza, nello schieramento romano, di arcieri orientali, che, al contrario dei Germani, utilizzavano l’arco composito. Un ulteriore reperto potrebbe essere parte di un cosiddetto «contus Sarmaticus», la pesante lancia, impugnata a due mani, utilizzata dai cavalieri catafratti persiani che prestavano servizio nell’esercito romano. I reperti sottolineano dunque l’eterogenea composizione delle unità impegnate, costituite, come testimoniato dalle descrizioni della spedizione del 235 d.C., da truppe reclutate nelle diverse province dell’impero.


scoperte • battaglia dell’harzhorn

Una legione «fortunata» La Legio IIII Flavia Felix («Flavia fortunata») – il cui simbolo, come testimonia la documentazione monetale, era il leone – fu organizzata dall’imperatore Vespasiano nel 70 d.C., con i componenti della IIII Macedonica, sciolta durante la rivolta di Batava nel 69-70. I primi castra della legione furono Burnum, in Dalmazia, e Singidunum, in Mesia Superiore, nel corso delle campagne daciche di Domiziano (85-89) e Traiano (101-106). Alcune vexillationes (distaccamenti della legione) combatterono in Oriente in occasione delle campagne partiche di Lucio Vero (161-166), altre parteciparono alle guerre marcomanniche (166/167-189), contro le tribú germaniche. Nel III sec. la IIII Flavia combatté, probabilmente, contro i Sassanidi in Oriente e contro gli Alemanni durante le campagne di Massimino il Trace, nel 235. Le ultime testimonianze della legione risalgono alla prima metà del IV sec., quando il campo-base è ancora attestato in Mesia Superiore.

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Le analisi finora condotte non consentono ancora di chiarire tutti i dettagli della battaglia dell’Harzhorn: certamente non si trattò di uno scontro in campo aperto, visto che la morfologia del terreno ha caratteristiche poco adatte alla manovra delle unità militari dell’epoca. Con ogni probabilità il teatro dello scontro venne scelto con cura dai Germani, cosí da sfruttare al meglio i vantaggi tattici loro offerti dalla conformazione dei luoghi, contraddistinti appunto da vie poco praticabili e disagevoli. I resti dei carriaggi mostrano che, in due occasioni, furono attaccate le salmerie di una grande unità romana, che marciava verso sud. Essa riuscí a respingere i nemici solo con un grande sforzo delle unità ausiliarie. Apparentemente la tattica militare romana e la superiorità tecnologica le permisero di compensare l’iniziale vantaggio di cui godevano i Germani, rovesciando cosí l’esito dello scontro.

A sinistra: dolabra (un arnese simile al piccone) con iscrizione graffita della legione IIII Flavia Felix, di stanza a Singidunum, odierna Belgrado, dal campo di battaglia dell’Harzhorn.


La scoperta dell’Harzhorn rappresenta una pietra miliare nello studio delle relazioni tra Roma e i Germani prima delle invasioni barbariche L’importanza da attribuire al campo di battaglia dell’Harzhorn va però ben oltre la particolareggiata ricostruzione dell’evento bellico.

oltre confine Esso ci obbliga infatti a riconsiderare, sotto un nuovo punto di vista, le testimonianze relative a operazioni militari romane al di fuori dei territori dell’impero. Dopo le guerre marcomanniche combattute sotto Marco Aurelio, è attestata per il 213 d.C. una spedizione di Caracalla fin nel cuore della Germania. Un trofeo eretto a Bonn dalla legione I Minervia ricorda l’attacco che questa unità, insieme a truppe ausiliarie, aveva sferrato nell’estate del 231 d.C. al di là del Reno. Una «expeditio Germaniae» per l’inizio del III secolo d.C. è ricordata su di una lapide rinvenuta a Budaörs, in Ungheria

(riutilizzata nella tomba 238 della necropoli), cosí come su di una stele commemorativa eretta per Aurelius Vitalis, caduto durante l’impiego della sua legione di appartenenza, la IIII Flavia Felix, attestata anche all’Harzhorn, in territorio germanico. Questa importante testimonianza, proveniente da Speyer e oggi purtroppo dispersa, potrebbe fare riferimento alla campagna del 213 oppure a quella del 235 d.C. Ma l’elenco delle operazioni dell’esercito romano in questo territorio fino alla fine del III secolo potrebbe essere ancora piú lungo. Da ciò si evince che, nonostante l’instabilità politica e la minaccia che i Parti e piú tardi i Sassanidi costituivano per le province orientali, Roma continuava le puntate offensive contro i Germani. Queste importanti considerazioni permettono di valutare

Sulle due pagine, da sinistra: reperti recuperati nell’area dell’Harzhorn: antoniniano coniato da Carausio (imperatore in Britannia e Gallia dal 286 al 293), con, al dritto, il busto radiato dell’imperatore e, al rovescio, un leone, simbolo della IIII Flavia Felix; un ipposandalo, una sorta di «calzatura» che precedette l’impiego dei ferri di cavallo veri e propri; un elemento in bronzo facente parte di un giogo; un’ascia.

sotto un nuovo punto di vista anche gli sviluppi interni della Germania Magna. Apparentemente gli influssi ben attestati in questo territorio non si limitano all’importazione di prodotti di lusso di produzione romana o agli oggetti che i Germani al soldo dell’impero riportavano nella loro terra d’origine dopo la fine del servizio militare. Nel III secolo le interazioni tra queste due sfere culturali sembrano essere ancora piú complesse di quanto finora ipotizzato e la testimonianza dell’Harzhorn aggiunge dunque una nuova tessera a questo interessante mosaico.

una Pietra Miliare L’Harzhorn costituisce inoltre un esempio innovativo anche a livello metodologico. Per la prima volta un campo di battaglia è stato analizzato come contesto archeologico, rendendo necessario lo sviluppo di un nuovo strumentario, adatto alla comprensione di un simile evento, che in futuro potrebbe essere utilizzato anche per lo studio di siti analoghi. È improbabile, in effetti, che quello dell’Harzhorn rimanga un caso isolato. Ricognizioni sistematiche di terreni con caratteristiche analoghe potrebbero portare a scoperte del tutto simili e gettare cosí nuova luce su questo periodo storico ricco di conflitti. L’Harzhorn è dunque destinato a diventare una pietra miliare nello studio delle relazioni tra Romani e Germani prima dell’inizio delle invasioni barbariche. E i risultati delle analisi in corso sono perciò attesi con grande impazienza dagli studiosi. a r c h e o 37


pergamo la gloria degli attalidi Sulle balze di una collina poco fuori la moderna città turca di bergama fiorí una delle piú fastose capitali dell’ellenismo. ma come mai uno dei suoi grandiosi monumenti si trova, da quasi un secolo, in un museo di berlino? di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner 38 a r c h e o

V

i fu una città antica, all’interno della costa dell’Asia Minore, che si ergeva su una roccia immensa a centinaia di metri d’altezza, stagliandosi su di essa con la perfezione dei mattini piú nitidi. Una città simile a una danzatrice: le braccia arcuate in movimento erano le cinte murarie, costruite a quote diverse, in diversi eventi della sua storia, e i suoi ritmici balzi erano vaste terrazze di marmo bianco, costellate di lunghi portici ombrosi, facciate di templi, mercati e palestre, scale e gallerie sotterranee, acquedotti arditi, vivi e fruscianti di acque montane, e splendidi teatri, poggiati sui loro pendii come enormi conchiglie fossili. La musica della danza è stata la trama di una storia affollata di genti, battaglie, leggende e divinità, incardinate alla porta tra Asia ed Europa. Pergamo – pensata e vissuta come una seconda Atene d’Asia – rappresenta l’altro lato dell’urbanistica greca: oltre le griglie razionali, illuminate dal sole e socialmente condivise, degli impianti attribuiti a Ippodamo di Mileto (V secolo a.C.), sorgono le invenzioni continue e le sorprendenti scenografie della successiva sensibilità ellenistica. Un agglomerato urbano nel quale i palazzi dei signori erano poca cosa, rispetto alla gloria divina dei templi e ai «contenitori» delle istituzioni pubbliche della polis: in questo senso, Pergamo era una città intimamente classica, e una contraddizione vivente


Nella pagina accanto: veduta dell’acropoli di Pergamo, antica città dell’Asia Minore, nei pressi dell’attuale centro turco di Bergama. Sotto la dinastia degli Attalidi, Pergamo, capitale del regno, divenne uno dei maggiori centri culturali del mondo ellenistico.

Particolare del fregio dell’Altare di Pergamo, dedicato a Zeus e Atena Nikephoroi (portatori di vittoria), ricostruito, agli inizi del XX sec., all’interno del Pergamonmuseum di Berlino.

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pergamo • i luoghi della leggenda

dall’acropoli alle case private: la storia degli scavi Condotte tra il 1876 e il 1878 dall’ingegnere tedesco Carl Humann (1839-1896) e dall’archeologo Alexander Conze (1831-1914), le prime campagne di scavo, permisero il recupero delle lastre dell’Altare di Zeus e Atena e l’esplorazione di ampi settori dell’acropoli, con la scoperta del tempio di Atena Nikephoros, dei palazzi degli Attalidi, del tempio di Traiano, del teatro e del tempio di Dioniso. Agli inizi del secolo scorso, Wilhelm Dörpfeld (1853-1940) e Alexander Conze scavarono il ginnasio maggiore e i santuari di Era e Demetra nella città media. Dopo un’interruzione causata dallo scoppio della prima guerra mondiale, Theodor Wiegand (1864-1936) scavò gli arsenali dell’acropoli, la Corte Rossa, e un Heroon all’inizio della via Sacra coperta, che portava al santuario di Asclepio. Dopo la seconda guerra mondiale, le ricerche di Eric Böhringer (1897-1971) si concentrarono sul tempio di Asclepio e sui quartieri residenziali inferiori. Nelle ultime decadi, gli archeologi tedeschi hanno scavato soprattutto la zona urbana dell’acropoli, scoprendo case private, negozi e laboratori artigianali della città ellenistica.

In alto: le fondazioni dell’Altare di Pergamo dopo i primi scavi di Alexander Conze e Carl Humann in una fotografia del 1880 circa.

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In alto: la pianta dell’acropoli disegnata da Carl Humann nel 1881. In basso: l’acropoli di Pergamo in una foto scattata durante gli scavi del 1908.


dell’assolutismo architettonico delle signorie asiatiche; almeno fino a quando le politiche di Roma, nel II secolo d.C., non alterarono per sempre questo antico equilibrio. Fu un chiaro paradosso che la superpotenza romana, dopo essersi fatta erede culturale universale dell’Ellade, si fosse «asiatizzata» verso nuove ere, dichiarando la divinità dei propri imperatori, in primo luogo del grande Traiano, attirandosi in tal modo la crescente ostilità delle prime comunità cristiane. Il mito greco attribuiva la fondazione di Pergamo (il nome, pre-greco, sembra significare «Il forte») a Telefo, figlio di Eracle, in un nodo di leggende che gli storici amano collocare alla fine dell’età del Bronzo, ai tempi indistinti della guerra di Troia e dei successivi secoli oscuri. In quasi mille anni di costruzioni e adattamenti, Pergamo si era trasformata da piccolo insediamento di età arcaica annidato sulla vetta di un monte, in roccaforte di un piccolo satrapo al servizio del Gran Re persiano (VI-V secolo a.C.), poi in città di conquista per i Diadochi (i successori macedoni di Alessandro Magno) e i loro uomini.

all’origine del regno Proprio uno di essi, Filetero (343-263 a.C.), un generale in origine al servizio di Lisimaco, poi alleatosi con Seleuco I Nicatore, era riuscito abilmente a impossessarsi di un tesoro di 200 tonnellate d’argento, con il quale aveva gettato le basi di un suo piccolo principato. Il suo successore Eumene I, morto nel 241 a.C., staccò Pergamo dai Seleucidi, e, in qualche modo, riuscí a tenere lontani i Galati; sotto di lui la città iniziò a battere monete con l’immagine del fondatore Filetero, un modo di proclamarsi, almeno formalmente, Stato indipendente. Il primo signore di Pergamo a dichiararsi re fu Attalo I (269-197 a.C.) il quale, alleatosi con i Romani, continuò la politica dinastica di lotta ai Galati e ai Seleucidi. La stessa politica permise al suo primogenito, Eumene II (221-159 a.C.), di estendere il regno di Pergamo dalle coste dei Dardanelli al cuore dell’Anatolia, e, verso sud, ai confini di Efeso. Anche se questo crescente potere destò non poche preoccupazioni a Roma, fu questo il periodo di massima prosperità del regno ellenistico, che vide la coIn alto: Alexander Conze e Carl Humann a Pergamo, dove, su incarico dei Musei di Berlino, condussero scavi dal 1878 al 1886. Nel 1873, durante la costruzione di una strada per conto dello Stato turco, Humann fu il primo a notare,

inglobati nelle murature della fortificazione di epoca bizantina, i resti di un fregio scolpito, che si rivelò appartenere all’Altare di Zeus e Atena. A destra: carta della Turchia, con l’indicazione del sito di Pergamo.

«I Galli sono alti di statura, con muscoli ben sviluppati, e capigliature bionde non solamente naturali, ma anche tinte: infatti sciacquano di continuo i capelli in una soluzione di acqua e calce, e li tirano indietro, dalla fronte alla nuca col risultato finale di assomigliare ai Satiri e a Pan. Le ciocche, cosí appesantite, ricordano la criniera dei cavalli» (Diodoro Siculo, 5.28)

struzione del famosissimo Altare di Zeus e Atena, una generale ristrutturazione edilizia dell’acropoli cittadina, l’erezione del piú grande ginnasio del mondo greco e di una nuova cinta di mura difensive. Il successore, Attalo II (220-138 a.C.), ebbe vita piú facile del padre, aiutando fattivamente i Romani nella conquista dell’intera Penisola greca, mentre Attalo III (170 circa-133 a.C.), figlio di Eumene II, che ci è stato descritto come uno studioso, poco interessato alle politiche nazionali, gestí tra oscure faide familiari una complessa transizione politica, lasciando in eredità l’intero regno di Pergamo ai cittadini di Roma. Il senato

BULGARIA

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pergamo • i luoghi della leggenda

proclamò subito l’annessione di Pergamo alla provincia d’Asia, creata nel 129 a.C. Le motivazioni e le congiunture politiche dell’eredità di Attalo III sono sempre state considerate un mistero dagli storici, tanto piú che l’atto non fu certo approvato da parte della popolazione, che, sotto le insegne di Aristonico, un usurpatore, si ribellò, opponendosi validamente agli eserciti romani per ben due anni. Dopo la rivolta, la comunità cittadina di Pergamo deve aver perso buona parte della sua influenza politico-militare.

Un immenso dono per la regina Molti risvolti di questa complessa storia devono essere stati accuratamente trascritti e archiviati nell’immensa biblioteca, di piú di 200 000 volumi, che i signori di Pergamo avevano costruito e gradualmente ampliato, con il patrimonio della corona, nell’arco di due secoli. Era la seconda del Mediterraneo, dopo quella di Alessandria, e all’ingresso, con chiaro simbolismo, vi campeggiava una copia in scala minore dell’Atena Parthenos realizzata da Fidia sull’acropoli di Atene. Forse Attalo III, che deve aver amato profondamente i suoi libri, pensava che il lascito all’autorevole Stato romano avrebbe preservato l’integrità della biblioteca. Ma questa non sopravvisse a un ennesimo, epocale rivolgimento politico: come racconta Plutarco, dopo l’incendio della biblioteca di Alessandria del 47 a.C., nelle feroci lotte politiche che finirono con il trasformare l’antica repubblica di Roma in un impero, l’intera biblioteca degli Attalidi fu acquistata da Marco Antonio e (segue a p. 46)

«L’urbanistica di Pergamo obbedisce alla sola logica dell’esaltazione dei monumenti eretti a gloria del re e degli dèi... con un’intensità nell’espressione architettonica che non ha uguali nel mondo greco, se non nell’Acropoli di Atene, concentra le immagini e i simboli del potere divino e del potere terreno, che da esso riceve la sua legittimità» (Christian Le Roy) 42 a r c h e o

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quel che resta di pergamo La pianta qui a destra mostra l’odierna Bergama, con i monumenti dell’antica Pergamo ellenistica. A nord-est sorgeva l’acropoli con i maggiori monumenti; a ovest, l’Asklepieion, il grande complesso sacro dedicato al dio della medicina Asclepio (in basso una veduta aerea), in cui operò, nel II secolo d.C., il medico Galeno, nativo di Pergamo. L’articolato santuario e centro terapeutico, visitato da migliaia di fedeli in cerca di guarigione, comprendeva oltre al tempio circolare del dio, edificio principale del complesso, la rotonda di Telesforo, un teatro, una biblioteca, una fonte sacra e servizi igienici. 1. Rotonda di Telesforo 2. Tempio di Asclepio 3. Propilei 4. Biblioteca 5. Fonte sacra 6. Teatro 7. Porta occidentale di accesso alla città 8. Teatro romano 9. Tempio di Atena 10. Anfiteatro romano 11. Stadio 12. Quartiere del Bazar 13. Minareto selgiuchide 14. Corte Rossa 15. Porta dell’acropoli

16. Agorà inferiore 17. Ginnasi 18. Terme 19. Tempio di Era 20. Strada antica 21. Tempio di Demetra 22. Agorà superiore 23. Tempio di Zeus 24. Altare ionico 25. Teatro 26. Tempio di Atena 27. Grande biblioteca 28. Tempio di Traiano 29. Giardino della Regina 30. Caserma


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pergamo • i luoghi della leggenda

quel che resta... dall’antica città... Oltre al complesso dell’Asklepieion, della passata grandezza della città ellenistica rimangono le rovine dei monumenti sorti in pianura, nella cosiddetta «città media», e sull’acropoli, dove si concentrano i principali resti archeologici: qui sorgevano i palazzi reali degli Attalidi, la grande biblioteca e i piú importanti luoghi di culto cittadini, costruiti su terrazze a diversi livelli, tra cui il tempio corinzio di Traiano (a destra), edificato, in marmo bianco, nella prima metà del II secolo d.C., e il santuario di Atena, risalente agli inizi del III secolo a.C., su cui in epoca bizantina fu eretta una chiesa.

il tempio di traiano

...al museo di berlino

il colonnato ionico

L’Altare, ricostruito al Pergamonmuseum di Berlino (a sinistra e in basso), fu eretto a Pergamo da Eumene II (221-159 a.C.) per celebrare la propria vittoria sui Celti Galati e completato sotto il regno del fratello Attalo II, tra il 166 e il 156 a.C. L’alto podio, fiancheggiato da due avancorpi, cui si accedeva tramite una scalinata monumentale, era decorato da un altorilievo con Gigantomachia – la lotta dei giganti contro gli dèi – simboleggiante la vittoria della civiltà sulla barbarie. Il muro di fondo del cortile era ornato da un fregio continuo raffigurante il mito di Telefo, figlio di Eracle e leggendario fondatore di Pergamo.

la monumentale facciata

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Berlino, Pergamonmusem. Il plastico che riproduce l’acropoli di Pergamo cosí come doveva apparire nel II sec. a.C. La terrazza piú alta è occupata dal tempio di Traiano, piú in basso sorgeva il grande altare dedicato a Zeus e Atena.

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pergamo • i luoghi della leggenda

portata in dono in Egitto all’amata Cleopatra. Ma come si presentava Pergamo al culmine del potere di Roma? Era una città di circa 160 000 abitanti, che godevano di standard architettonici che difficilmente possono essere immaginati in base alle rovine odierne. Sul lato nord dell’acropoli, il primo teatro cittadino era stato costruito su un pendio davvero ardito, e sfociava su una piattaforma lunga e stretta, che si sviluppava per 250 m, e terminava a nord in un piccolo tempio di Dioniso (divinità del teatro e delle rappresentazioni sacre, ma anche, come Kathegemon, «guida» dell’intera dinastia degli Attalidi) incassato nella viva roccia. Il teatro, per funzionare in spazi tanto limitati, era stato fornito di complessi apparati scenici in legno, dei quali sopravvivono tracce e incassi scavati nella roccia.Tutto intorno alla cavea, le sedi dei piú importanti culti cittadini erano state costruite su terrazze a diversi livelli, unite da scalinate, contenimenti, passaggi e porticati: il grande tempio di Traiano (prima metà del II secolo), quindi, a un livello inferiore, a est della cavea, il santuario di Atena Nikephoros (portatrice di vittoria), circondata da un cortile porticato 46 a r c h e o

pieno di ex voto. Sul lato nord del cortile si trovavano una dozzina di ambienti addossati gli uni agli altri, la sede della grande Biblioteca.

l’altare della vittoria Era stato Eumene II a progettare, a un nuovo livello, il grande altare ellenistico dedicato a Zeus e Atena Nikephoroi (portatori di vittoria), aperto, come il teatro, verso i pendii occidentali dell’acropoli. A pianta quasi quadrata, era un grande podio fiancheggiato da due avancorpi, a cui si accedeva tramite una scalinata monumentale ampia una ventina di metri. L’intera costruzione ospitava un fregio colossale, fatto di pannelli ad altorilievo, con uno sviluppo totale di piú di 110 m. Le lastre del rilevo erano alte circa 2,30 m, e rappresentavano la sconfitta dei Giganti ribellatisi agli dèi dell’Olimpo, per vendicare la sorte dei Titani da questi rovesciati e imprigionati nel Tartaro. Sul ciglio orientale dell’acropoli, in posizione chiaramente secondaria, si trovavano le residenze reali degli Attalidi, e, all’estremità nord, gli annessi arsenali e i magazzini. Nei pendii sottostanti l’acropoli di Pergamo – la cosid-


perchÉ è importante

ergamo fu la capitale di uno dei maggiori regni ellenistici e un centro culturale P di primaria grandezza. La dinastia degli Attalidi (282-133 a.C.) ne fece un capolavoro di architettura e arte, in cui germogliò una scuola caratterizzata da un ricercato virtuosismo plastico e da un’espressività ricca di pathos.

F u sede della seconda piú grande biblioteca del mondo antico, inferiore solo a quella di Alessandria. Nel corso di un secolo di regno la dinastia attalide riuscí a raccogliere oltre 200 000 volumi. La città era anche dotata di infrastrutture avanzate, come le condotte idriche lunghe fino a 80 km che la rifornivano di acqua corrente dai monti circostanti.

il sito nel mito

Il mito di Pergamo, è orientato a legittimarne l’origine divina, facendola risalire a Eracle e al figlio Telefo, entrambi discendenti da Zeus. Le vicende che la collegano con i due eroi sono scolpite nei rilievi del tempio di Zeus e Atena.

Di Telefo sono narrati gli eventi prodigiosi della vita, dai presagi divini prima della nascita, al concepimento dall’unione di Eracle e Auge, fino al combattimento con i Greci e all’incursione nella città di Argo. La figura di Eracle è invece al centro dell’imponente Gigantomachia, in cui l’eroe combatte al fianco degli dèi per sconfiggere i Giganti. Questi esseri invincibili potevano infatti essere uccisi, ma solo se ad abbatterli erano contemporaneamente un essere divino e un mortale, come era appunto Eracle.

La ricostruzione dell’Altare di Zeus e Atena nel Pergamonmuseum di Berlino ha trasposto l’antichità pergamena in una dimensione mitica, sigillandola in una cornice ideale che, pur rispondendo filologicamente all’originale, rispecchia oggi il gusto e le inclinazioni di un preciso momento storico-culturale degli inizi del secolo scorso. Il passare del tempo ha caricato questa splendida opera di ulteriori significati storici che oggi pongono quesiti di non facile soluzione.

pergamo nei musei del mondo La lotta di Atena, affiancata dalla Nike ad ali spiegate, contro il gigante Alcioneo. Particolare del fregio est dell’altare di Pergamo. Berlino, Pergamonmuseum.

Roma, si trovano il cosiddetto «Galata morente», conservato nei Musei Capitolini A e il «Galata suicida», nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Sono entrambe copie romane in marmo del I secolo d.C. di originali bronzei provenienti dal Donario di Attalo I. Le statue celebravano la vittoria del sovrano contro la tribú celtica dei Galati che, stanziatasi in Asia Minore e minacciando il regno, era stata attaccata da Attalo e sconfitta nel 240 a.C.

Il grande altare dedicato a Zeus e Atena fu eretto a Pergamo nell’ultimo quarto del II secolo a.C. per volere di Eumene II. Scavato nel corso dell’Ottocento da missioni archeologiche tedesche, è stato ricomposto nel Pergamonmuseum di Berlino.

informazioni per la visita

I resti di Pergamo si trovano su una collina (l’antica acropoli) dell’odierna cittadina turca di Bergama. Voli di linea collegano l’Italia a Smirne (Izmir) situata circa 100 km a sud. Da qui si può risalire verso nord attraverso la strada E 87 e poi, oltrepassato il villaggio di Kurfalli, imboccare la strada D 240 che conduce in città.

Il Pergamonmuseum, appositamente costruito a Berlino agli inizi del secolo scorso per ospitare le antichità pergamene, riunisce i rilievi originali del tempio di Zeus e di Atena e numerosi altri reperti provenienti dagli scavi dell’area. Info sul sito dei Musei Statali di Berlino http://www.smb.museum (in tedesco e inglese). a r c h e o 47


pergamo • i luoghi della leggenda

detta «città media» – si estendevano, intorno a un’ampia agorà, anch’essa costruita su una terrazza nella roccia, i quartieri delle botteghe, delle abitazioni private e dei magazzini, e tre grandi ginnasi: il piú elevato per gli adulti, quello intermedio per gli adolescenti, l’inferiore per i bambini. Qui sorgevano anche i santuari di Era e Demetra. I pendii naturali erano stati modificati con vasti contenimenti architettonici, a volte realizzandovi ampie gallerie coperte. La parte di Pergamo che giunse a espandersi nella pianura ai piedi della rocca raddoppiò la superficie costruita nelle parti piú elevate. Ancora in gran parte celata sotto l’attuale centro di Bergama, la Pergamo di pianura ospitava un altro teatro, un anfiteatro, e uno stadio.

sognare per guarire Grandi folle di pellegrini visitavano un celebre tempio di Asclepio (Esculapio), costruito sotto il regno di Adriano (117-138 d.C.).Vi giungevano attraverso una imponente via Sacra coperta, che sboccava nei Propilei, un piccolo cortile porticato (vedi foto e pianta alle pp. 42/43). Muovendo dal cortile, i malati potevano effettuare i rituali di abluzione in speciali vasche costruite presso una fonte, e praticare il rito dell’incubazione (la ricerca del sogno ispirato dal dio che suggerisse la guarigione) dormendo in vaste sale collettive. Il luogo di culto principale era il tempio a pianta circolare di Zeus-Asclepio, oggi mal conservato. I fedeli in cerca di guarigione potevano poi partecipare a processioni sacre in un criptoportico, una via sacra sotterranea, che portava, in una atmosfera mistica, alla cosiddetta Rotonda di Telesforo, uno stabilimento di cura a pianta circolare costruito su due piani. Un altro santuario importante, detto la «Corte Rossa» per le sue murature in mattoni, era stato dedicato ad alcune divinità egiziane, tra le quali vi erano probabilmente Iside o Serapide. L’intera città era provvista di acqua corrente, di livello in livello, grazie a sistemi idraulici che catturavano sorgenti di acqua fresca a quasi 2000 m di quota nelle montagne circostanti, e le portavano a Pergamo con percorsi di oltre 80 km di lunghezza.

«Contro la Grecia leveranno la spada barbara, nel nome del loro dio della guerra (...) gli ultimi Titani nella tempesta dell’estremo Occidente. Giungeranno come fiocchi di neve, in massa, come le stelle che affollano i campi del cielo (...) Presso il mio tempio si vedranno gli eserciti nemici, e accanto ai miei tripodi ci saranno le spade e i cinturoni, e gli scudi odiosi della razza folle dei Galati» (Callimaco, Inni, IV) 48 a r c h e o

la lunga storia di un monumento conteso Prima metà Eumene II (221–159 a.C.) ristruttura del II radicalmente la città alta di Pergamo, secolo a.C. costruendovi il grande altare sacrificale in onore di Zeus e Atena, per celebrare la propria vittoria sui Celti galati. L’altare, abbellito dal colossale fregio della Gigantomachia e da un secondo fregio ispirato al mito di Telefo, è collegato al vicino piccolo tempio di Atena, il piú antico dell’acropoli cittadina. 90 d.C. Le influenti comunità pagane di Pergamo suscitano il sospetto e l’ostilità delle prime comunità cristiane, al punto che nell’Apocalisse (terza lettera destinata alla Chiesa di Pergamo) l’apostolo Giovanni definisce la città «dimora di Satana», nella quale il demonio «ha il suo trono». Molti vi leggono un’allusione al grande Altare di Zeus e Atena, forse stigmatizzato per l’estrema suggestione delle sue immagini. 663-676 d.C. Tra queste date, corrispondenti a due attacchi arabi, l’Altare viene frettolosamente smontato per costruire con le lastre marmoree un nuovo bastione delle mura urbane, limitato alla sommità dell’acropoli. 1864 L’ingegnere tedesco Carl Humann (1839-1896), impiegato dall’amministrazione ottomana per costruire strade, nota nelle murature della fortificazione bizantina resti di un grande fregio scolpito. Contatta il Museo di Berlino segnalando la scoperta e proponendo ricerche archeologiche sul posto, ma viene inizialmente ignorato. 1870-1871 La Prussia, a capo di una confederazione di Stati tedeschi, sconfigge la Francia nella guerra franco-prussiana. Guglielmo II viene incoronato imperatore mentre Parigi è cinta d’assedio. Berlino, ora capitale imperiale, vuole munirsi di un polo museale che possa rivaleggiare con il Louvre e il British Museum. 1878-1886 Su incarico del Museo di Berlino, e sotto la supervisione di Alexander Conze (1831-1914; direttore del Museo di Scultura antica e segretario generale dell’Istituto Archeologico Germanico), Carl Humann finalmente ottiene autorizzazioni e fondi, smonta parte del bastione bizantino e porta (all’inizio di


nascosto) le lastre scolpite e altri elementi architettonici a Berlino, da rimontare come un gigantesco rompicapo. Sembra che il permesso di asportare le sculture sia stato accordato dietro un compenso di 20 000 marchi. 1907-1930 Prima stesura del progetto del Museo di Pergamo da parte dell’architetto Alfred Messel (1853-1909). L’Altare dovrà essere ospitato dalla piú vasta sala museale al mondo, come simbolo ultimo della perfezione della cultura ellenica (e del neoclassicismo). Dopo la morte dell’autore, il progetto viene modificato a piú riprese; il Museo di Pergamo viene inaugurato nel 1930. Per molti, si tratta di una «cittadella prussiana», con chiari intenti elegiaci della supremazia tedesca in Europa. 1948 Il fregio dell’Altare viene confiscato dall’Armata Rossa e portato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) come parte del pagamento dei debiti di guerra contratti dalla Germania nazista.

Con l’occhio degli antichi Romani, siamo soliti pensare alle invasioni barbariche come a ondate di conquistatori provenienti dall’Est, ma c’è chi sostiene che l’attacco di Alessandro Magno all’impero achemenide sia stato una vera e propria «invasione barbarica», che procedette in senso contrario. Conquistatori occidentali, nel III secolo a.C. i Macedoni furono, a loro volta, pesantemente attaccati da altri «barbari» occidentali. Nel 280 a.C. imponenti armate di guerrieri celtici si erano radunate nella valle del Danubio, e iniziarono a riversarsi in territorio macedone e greco. I Galati (come i Celti furono chiamati dai Greci), batterono i Macedoni e ne giustiziarono il re, il giovane Tolomeo Cerauno. Guidati da un condottiero di nome Brenno (come il conquistatore di Roma), giunsero ai piedi del santuario di Apollo a Delfi, il piú sacro luogo dell’Ellade; si narra che desistettero dal saccheggio solo perché spaventati da portenti naturali: terremoti, tuoni e fulmini, un’epidemia. Altri gruppi armati, procedendo verso nord, si erano spinti in Tracia e in Bulgaria, dove avevano dato vita a regni effimeri.

La vittoria sulla «barbarie» Respinti a Delfi, i Galati si ricongiunsero ai propri connazionali di Tracia e si riversarono in Anatolia, alcuni attraverso il Bosforo, altri attraverso l’Ellesponto. Immediatamente coinvolti come mercenari nelle feroci lotte dinastiche del tempo, dopo alterne vicende i Galati si erano ritirati nel cuore dell’Asia Minore, nella grande ansa dell’antico Halys (il Kizil Irmak). Qui si erano coalizzati in un’ampia confederazione tribale di lingua e cultura celtica, nel territorio chiamato Galazia, con capitale ad Ankyra (oggi Ankara). L’Altare di Zeus A sinistra: le condizioni in cui versava l’Altare all’interno del Pergamonmuseum, danneggiato dai bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, in una foto del 1949. In basso: l’arrivo a Berlino delle sculture provenienti da Pergamo in una foto d’epoca.

1958 I Russi restituiscono il fregio al Museo berlinese, come segno di amicizia nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca (DDR). 1990 Riunificazione delle due Germanie e delle collezioni dei patrimoni museali berlinesi. Nuovi progetti di ristrutturazione del Museo di Pergamo e degli altri musei. Inizia un’aspra polemica sulla restituzione del monumento alla Turchia. 2012 Occupazione simbolica dei militanti di Occupy Museums del Museo di Pergamo, nel nome della causa della restituzione. a r c h e o 49


pergamo • i luoghi della leggenda

gli espedienti espressivi trasportano magicamente lo spettatore nel cuore della battaglia, coinvolgendolo in prima persona nei sensi e nelle emozioni. I Giganti, per essere uccisi, devono essere abbattuti contemporaneamente da un dio e da un essere umano, cosa che rende gli intrecci dei combattenti complessi e convulsi. Sul lato orientale combattono gli dèi dell’Olimpo, insieme a Eracle; a nord gli dèi del cielo notturno, a sud quelli del sole e del giorno; a ovest Dioniso e gli dèi del mare. I Giganti, figli di Gea (la Terra), e di Urano (il Cielo), sono espressioni demoniache della natura incontrollabile: esseri colossali, con barbe e capigliature selvagge e arti serpentiformi, teste di toro o leone, arti pieni di artigli. Nelle immagini traspira il chiaro timore delle selvagge tribú dei mercenari celtici, giunti a minacciare la razionalità della civiltà e della polis greca.

a chi appartiene l’altare? L’Altare di Pergamo, ormai inesorabilmente gravato, suo malgrado, di duemila anni di significati storici accumulatisi gli uni sugli altri, spesso senza alcuna continuità semantica, è al centro di un insanabile contrasto politico e culturale. Negli ultimi vent’anni, la RepubL’ingresso al Pergamonmuseum di Berlino (a sinistra) e il plastico dell’Altare di Pergamo all’interno del museo (in basso). Il fregio, costituito da pannelli ad altorilievo, aveva uno

e Atena Portatori di Vittoria celebra il trionfo del re di Pergamo Eumene II Sotere (221-159 a.C.) contro di loro, dopo una pericolosa aggressione che aveva avuto luogo nel 183 a.C. I lavori per la costruzione dell’Altare di Zeus iniziarono per opera di Eumene II e proseguirono sotto il regno del fratello Attalo II. In quel tempo gli Attalidi erano caduti in disgrazia presso i Romani, che di lí a poco, nel tentativo di limitare l’autonomia del regno di Pergamo, avrebbero riconosciuto l’indipendenza dei Celti. Le immagini dell’Altare, quindi, celebrano, oltre alla sconfitta dei Galati, anche un nuovo afflato di nazionalismo. Tra il 166 a.C. e il 156 a.C., l’Altare fu quasi totalmente completato. Le sculture furono opere collettive, come rivelano le firme degli autori – Dionisiade, Menecrate, Melanippo, Oreste, Teorreto e Taurisco –, mentre secondo alcuni studiosi altare e sculture sarebbero da attribuire a Firomaco. Sulla parete di fondo si trovava un fregio minore che, narrando il mito di Telefo, stabiliva «storicamente» il legame di discendenza tra Eracle e gli Attalidi. Come ha notato Francesca Ghedini, nella Gigantomachia le proporzioni del fregio, le dimensioni di corpi e volti, e 50 a r c h e o

sviluppo totale di 110 m, con lastre alte 2,30 m circa. Nella pagina accanto: testa in marmo, forse un ritratto di Attalo I (241-197 a.C.), dall’acropoli di Pergamo. II sec. a.C. Berlino, Pergamonmuseum.


gli attalidi, signori di pergamo Capostipite degli Attalidi fu Filetero di Tios (che regnò dal 282 al 263 a.C.), figlio di Attalo, che, nel 282 a.C., fondò un piccolo principato attorno alla fortezza di Pergamo. Gli succedette il nipote Eumene I (263-241), che ne affermò la piena indipendenza. Solo il suo successore, Attalo I (241-197), però, assunse per sé e per i suoi discendenti il titolo di re, dopo aver vinto i Galati. Nel suo lungo regno ebbe tra i principali avversari Filippo V di Macedonia, del quale contrastò il disegno espansionistico, alleandosi, nella II guerra macedonica, con i Romani. La corte pergamena adottò una politica filoromana ed Eumene II (197-159), figlio maggiore di Attalo, fu alleato di Roma contro Antioco III di Siria e nella III guerra macedonica, alla fine della quale fu però sospettato di accordi con il vinto re di Macedonia. Altri sospetti lo colpirono a causa della sua politica verso Antioco IV, cosicché il fratello Attalo II (159-138), succedendogli, preferí rinunciare a una politica estera indipendente. Il suo successore Attalo III (138-133), figlio di Eumene II, lasciò per testamento il proprio regno ai Romani, che, domata l’insurrezione di un altro figlio di Eumene, Aristonico (morto nel 129 a.C.), costituirono con esso la provincia d’Asia. (red.)

«Le analogie storiche tra l’antica Pergamo e la Germania moderna sono immediate ed evidenti: proprio come il regno di Pergamo unificava le città-stato dell’Anatolia sotto il suo comando sull’onda delle conquiste di Alessandro Magno, cosí l’impero prussiano, vincitore del conflitto del 1871, era a capo dei piccoli Stati tedeschi, e un nuovo potere emergente in Europa» (Can Bilsel, Zeus in Exile: Archaeological Restitution as Politics of Memory, Princeton, 2000) blica turca ha messo in atto, con sostanziosi finanziamenti statali, una vigorosa politica finalizzata alla restituzione delle opere d’arte sottratte nel secolo scorso al morente impero ottomano: una politica giudicata molto aggressiva dai principali musei americani ed europei, le cui collezioni furono abilmente – e non di rado disonestamente – costituite proprio in quel frangente storico. Le pressioni turche, giunte sino al ritiro delle concessioni di scavo a missioni archeologiche «storiche» condotte nel proprio territorio dai principali musei e accademie europee, hanno ottenuto, come prima, epocale vittoria, la restituzione ad Ankara di una delle sfingi ittite delle porte di Hattusas, che era stata «deportata» al Louvre (vedi «Archeo» n. 328, giugno 2012). Recentemente, politici e partiti turchi hanno richiesto con insistenza la restituzione dell’Altare di Pergamo e del suo fregio ellenistico, raccogliendo un generale consenso popolare in patria (con 16 milioni di firme raccolte per il ritorno immediato del monumento) e vaste adesioni in ambito internazionale. Ora, se la restituzione sull’Acropoli di Atene dei celebri marmi fidiaci portati da Lord Elgin al British Museum rientra, da ogni punto di vista – anche se su tempi a r c h e o 51


pergamo • i luoghi della leggenda

Due statue femminili, rinvenute nell’area dell’Altare di Zeus e Atena. Berlino, Pergamonmuseum. Realizzate a grandezza maggiore del vero, appartenevano forse alla decorazione acroteriale del monumento.

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«Vi è un famoso tesoro a Berlino (...) l’Altare di Pergamo. Il suo gigantesco fregio scolpito in stile greco rappresenta la battaglia tra i Giganti e gli dèi olimpici, chiamato Gigantomachia (...) Scolpito dai tagliapietra di una cultura che celebrava la vittoria e il senso dell’etica, nel tardo XIX secolo l’Altare fu sottratto dal suo sito originale in quella che oggi è la Turchia e portato all’Isola dei Musei a Berlino. Da allora il monumento è stato usato (e se ne è abusato) – in termini simbolici – per rappresentare il potere delle nazioni, prima della Germania, poi dell’URSS. Ora l’Altare è giunto a simboleggiare la sottrazione dei beni culturali e l’appropriazione della cultura da parte delle élite, e si è cominciato a chiedere che sia restituito alla Turchia». (Dichiarazione letta in pubblico sulle scale del Museo di Pergamo dai militanti di Occupy Museums, 12 giugno 2012)

Un gigante serpentiforme, azzannato da un cane di Artemide, particolare del fregio est dell’Altare di Pergamo. Berlino, Pergamonmuseum.

lunghi – nella logica delle cose, il caso di Pergamo è altra faccenda: si tratta di architettura, e non di pannelli. I risvolti scientifici, etici e legali della controversia aprono quinte complicate, piene di doppi fondi. A rigor di logica, l’Altare non è stato asportato dalla sua originaria collocazione, ma recuperato dagli ingegneri e archeologi tedeschi, distruggendo irrimediabilmente importanti murature medievali, nelle quali altri ingegneri bizantini lo avevano spensieratamente riciclato come materiale da costruzione e sepolto nelle malte.

della restituzione virtuale: ma queste ultime, comunque si ponga la questione, finiscono per sostituire scenografie impermanenti ai segni materiali della storia. Mentre vi sono pochi dubbi sul fatto che i grandi musei europei, nella pretesa – verosimile o reale, poco importa – di farsi depositari legali della cultura mondiale, continuino a perpetrare atteggiamenti colonialisti, i dubbi sulla restituzione sono molteplici. Come hanno notato alcuni tra gli stessi protagonisti dell’azione di «Occupy Museums», che senso ha che un gruppo di attivisti (nessuno dei quali, peraltro, era turco) abbia cercato di occupare – nel nome di una moderna nazione islamica – un antico manufatto profondamente greco, per contestare una vecchia «appropriazione inappropriata»? Tanto piú che tale appropriazione fu messa in atto da una Germania prussiana – oggi scomparsa – e in un momento cruciale della storia dell’intera Europa occidentale. L’Altare, nel suo destino di diverse sistemazioni architettoniche e continue reinterpretazioni, sembra destinato a restare un «nodo gordiano» difficilmente risolvibile, almeno sul piano scientifico e culturale. Di solito, simili questioni languono, sino a che non vengono risolte, con scrupoli molto minori, dalle teste meno critiche degli interessi politici, della finanza e degli eserciti.

«appropriazione inappropriata»? Oggi l’Altare non è un oggetto contenuto in se stesso e maneggevole, che possa essere semplicemente preso e rimontato altrove. Come ha notato Can Bilsel, docente di storia dell’arte e dell’architettura a San Diego «La ricostruzione (...) è una installazione in un moderno interno, un edificio in mattone e ferro tipico della Berlino dell’inizio del secolo scorso, circondata da muri dal colore chiaro senza aperture verso l’esterno se non un soffitto traslucido». In altre parole, è ormai una ricreazione neoclassica e filoellenica perfettamente integrata nel proprio contenitore, inscindibile dal Museo. L’intera installazione è frutto e testimonianza di un momento storico ben preciso, che dovremmo decidere lucidamente di sacrificare e perdere per sempre, se sposassimo senza indugi – come il cuore vorrebbe – la causa della restituzione. A meno di non intraprendere la strada della copia e

nel prossimo numero

ugarit alle origini dell’alfabeto a r c h e o 53


storia • storia dei greci/18

verso

i confini del mondo «Discendente di Zeus» e cultore del mito di Achille, il giovane Alessandro si impone ben presto grazie alla sua intraprendenza e alle sue capacità strategiche. Qualità che piú tardi si trasfigureranno in un ambizioso disegno di conquista dai contorni trascendenti

di Fabrizio Polacco

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L

a forma politica della cittàstato aveva mostrato tutti i suoi limiti nelle vane lotte per l’egemonia del V-IV secolo a.C. Ma anche il «potere di uno solo» di una monarchia come quella macedone era esposto a rischi e incidenti di percorso. Non è stato ancora chiarito chi o che cosa abbia spinto un giovane, un certo Pausania, a uccidere Filippo nel teatro di Ege (Aigai), in pieno giorno, davanti agli occhi costernati dei Macedoni, lí

riuniti per assistere al matrimonio della figlia del re (336 a.C.). Era stata forse Olimpiade, madre di Alessandro, l’ispiratrice del gesto? Pur essendo sorella del re dell’Epiro e quindi erede di una dinastia che si voleva discendesse da Neottolemo, il figlio di Achille, era stata ripudiata poco tempo prima da Filippo, il quale aveva sposato Cleopatra, nipote del nobile macedone Attalo, ormai incinta di un altro futuro «pretendente» al trono. Op-

pure l’autore del gesto aveva agito autonomamente, poiché vittima di un oltraggio sessuale subito da parte degli etaíroi (i «compagni») di Filippo? O, addirittura, si era mossa dietro le quinte la longa manus del Gran Re, allora Dario III, il quale vedeva con preoccupazione i generali macedoni Attalo e Parmenione già passare in Asia per preparare la progettata spedizione contro la Persia? Lo stesso giorno del regicidio, tra

Il re Dario III in fuga (in basso) e Alessandro Magno in sella al cavallo Bucefalo (nella pagina accanto), due particolari del mosaico pavimentale raffigurante la battaglia di Isso, dalla Casa del Fauno di Pompei. Copia romana del II-I sec. a.C. di un’opera pittorica di epoca ellenistica realizzata da Filosseno d’Eretria. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. La battaglia, combattuta nel 333 a.C., segnò la fine dell’impero persiano di Dario III.


storia • storia dei greci/18

l’altro, aveva destato sconcerto veder sfilare, nella processione religiosa che apriva i festeggiamenti nuziali, la statua di Filippo assieme a quelle dei «Dodici Dèi» dell’Olimpo; il re dunque a essi osava assimilarsi: una pratica a cui non solo i Greci, ma gli stessi Macedoni non erano affatto abituati. In quello stesso giorno e in quello stesso teatro Alessandro venne chiamato a succedere al padre. Era solo l’inizio di un breve, ma intenso periodo di guerre contro nemici esterni e interni alla dinastia, che rialzarono il capo non appena si sparse la voce che al governo del regno vi era ora un ventenne poco esperto, dall’indole impetuosa, e guidato, forse addirittura diretto, da una madre subdola e ambiziosa. Olimpiade era nota per praticare i culti dionisiaci, per attorniarsi di serpenti sacri, e aveva lasciato capire di essere stata fecondata, nell’occasione in cui era rimasta gravida di Alessandro, non da Filippo, ma da un dio: forse Zeus in persona. Il giovane re, comunque, reagí

prontamente a tutte le difficoltà. Con alcune spedizioni nei Balcani ridusse alla ragione Traci e Illiri e attraversò il Danubio per intimidire i piú lontani Geti. Quando i suoi avversari in Grecia diffusero la falsa voce che egli fosse perito in una di quelle battaglie, i Tebani si ribellarono, assediando la guarnigione macedone lasciata sulla Cadmea.

punizione esemplare Il re non esitò a cambiare fronte e piombò a marce forzate dal settentrione sulla città, che riconquistò e puní in modo esemplare per tutti i Greci: Tebe fu svuotata dei suoi abitanti, trucidati o venduti come schiavi, e rasa al suolo. Ciò spiega perché la terza piú potente città dell’Ellade dopo Sparta e Atene sia pressoché priva di testimonianze monumentali di età classica. Alessandro fece una sola eccezione: risparmiò la casa di Pindaro (518-438 a.C. circa; vedi box nella pagina accanto). Questo episodio rivela già alcune costanti del suo carattere: egli era spietato e colto; senza scrupoli, ma

capace di grandi gesti; bellicoso, ma sensibile nell’animo. Eliminati poi fisicamente anche i rivali interni alla corte di Pella,Alessandro, riconfermato nel ruolo di «condottiero» (eghemon) dei Greci già attribuito a Filippo dalla Lega di Corinto, si accinse quindi a realizzare l’impresa del padre, che aveva rischiato d’essere soffocata sul nascere per un mero incidente dinastico. Convinto di discendere per parte materna da Achille e per quella paterna da Eracle – se non addirittura, come non si stancava di sostenere la madre, direttamente da Zeus –, Alessandro si sentiva il campione della grecità, e si accinse alla sua impresa con la piena coscienza di dare il via a una svolta che poteva segnare il corso della storia, e con la volontà di sfruttarne i risvolti che oggi considereremmo propagandistici. Suo ispiratore era Omero (si diceva che tenesse sempre una copia dell’Iliade sotto il suo guanciale); il maestro dell’adolescenza era stato Aristotele, uno dei piú grandi intellettuali e filosofi dell’antichità.

l’età d’oro dei macedoni 359 a.C. Filippo II sale sul trono di Macedonia. 352 a.C. Filippo II estende il proprio dominio su Tessaglia e Tracia. 346 a.C. Filippo II impone alle città greche la pace; entra nel consiglio dell’Anfizionia Delfica; conclude con Atene la pace di Filocrate. 340 a.C. Atene dichiara guerra a Filippo II. 338 a.C. A Cheronea, in Beozia, Filippo II sconfigge la lega antimacedone composta da Ateniesi e Tebani e impone agli sconfitti l’adesione alla Lega di Corinto in funzione antipersiana. 336 a.C. Assassinio di Filippo II; sale al trono il figlio Alessandro, che conferma il potere sulla Grecia, scossa da ribellioni. 335 a.C. Tebe è rasa al suolo.

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IL LIRICO AMATO Dal sovrano Oggi vanno per la maggiore Saffo o Alceo, forse per le tematiche apparentemente piú individuali (amore, odio, esilio, i piaceri e dolori della vita) quindi piú vicine al nostro concetto di «lirica». Eppure per i Greci il piú grande dei lirici era Pindaro: autore di una poesia cantata non a una voce sola («monodica»), ma corale, a piú voci e danzata (choros è il gruppo dei danzatori), destinata a rappresentazioni pubbliche. Ciò spiega perché fosse una poesia «a pagamento», i cui committenti erano ricchi aristocratici, città vincitrici agli agoni panellenici, o addirittura tiranni come quelli di Sicilia: altra circostanza che fa a pugni con l’idea di poesia che oggi abbiamo. Eppure davvero Pindaro fu il piú sublime dei lirici antichi: ce lo confermano non solo la qualità altissima dei versi, ma anche l’ammirazione incondizionata dei suoi imitatori di tutti i tempi (dal latino Orazio al tedesco Hölderlin). Non è un caso che sia l’unico lirico greco di cui la tradizione ci abbia tramandato opere complete, come gli Epinici, dedicati agli atleti vincitori nelle competizioni sportivo-religiose. Alessandro amava Pindaro, oltre a Omero, poiché cantava il destino, la gloria e le imprese di grandi individualità, ma secondo una concezione che potremmo definire «tradizionale», legata alla sapienza apollinea emanata dal santuario di Delfi e rappresentata da massime aristocratiche come «Nulla di troppo» o «Conosci te stesso».

334 a.C. A primavera la spedizione contro l’impero persiano varca l’Ellesponto; Alessandro riporta la prima vittoria al fiume Granico. 333 a.C. A Isso l’esercito guidato dal re Dario III viene sconfitto; il re fugge, lasciando la sua famiglia nelle mani di Alessandro. 332 a.C. Alessandro si dirige verso le coste mediterranee: le città fenicie si sottomettono tutte tranne Tiro, assediata e distrutta. In Egitto (sotto il dominio persiano) riceve la corona di faraone e, all’oracolo di Ammone, viene proclamato «figlio del dio». Fondazione di Alessandria. 331 a.C. Nuova sconfitta di Dario III a Gaugamela; Alessandro entra a Babilonia e viene acclamato «Re delle quattro parti del mondo». Marcia sulle capitali persiane:

Susa, Persepoli, Pasargade ed Ecbatana. 330-327 a.C. Proclamatosi re dei Persiani, Alessandro avanza nell’altopiano iranico per conquistare le satrapie orientali. 327-325 a.C. Alessandro avanza nella valle dell’Indo e dei suoi affluenti; giunto all’Ifasi è costretto dai soldati a tornare indietro. 325 a.C. Per il rientro il corpo di spedizione si divide in tre gruppi, guidati da Cratero, dall’ufficiale Nearco e da Alessandro. 324 a.C. Nozze di massa tra i soldati macedoni e le donne persiane a Susa; Alessandro chiede alle città greche che gli siano tributati onori divini. 323 a.C. Dopo una breve e violenta malattia Alessandro muore a Babilonia.

In alto: tondo in marmo raffigurante il poeta greco Pindaro (522/518438 a.C.). II sec. d.C. Afrodisia, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: Alessandro Magno al cospetto del dio Amon-Min. Particolare di un bassorilievo del tempio di Amon a Karnak, presso Luxor, nell’Alto Egitto.

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storia • storia dei greci/18

ALESSANDRO MINACCIA CARTAGINE Collocata su un’isoletta nei pressi della terraferma, Tiro era la piú potente città marinara dei Fenici; aveva fondato Cartagine (oggi in Tunisia), ai tempi della colonizzazione condotta da quel popolo all’apice della sua espansione (814 a.C.). In occasione dell’assedio di Alessandro, i Cartaginesi non poterono intervenire con la flotta per salvare la madrepatria, ma tentarono di soccorrerla in vari

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Ma il modello umano era senza dubbio Achille. Intendeva ripeterne le imprese non solo muovendo guerra all’Asia – cosí come il principe acheo aveva fatto con Troia –, ma anche emulandolo in valore ed eroismo: Alessandro in effetti partecipò sempre in prima persona ai numerosissimi scontri campali, inseguimenti e assedi che punteggiarono la sua campagna militare (che durò oltre un decennio, dal 334 al 324 a.C.), rimanendo ferito e rischiando piú volte la vita. Fu quanto avvenne anche nella prima battaglia contro i Persiani, presso il fiume Granico, nella Propontide, dove guidò di persona il primo assalto, conducendo la cavalleria macedone a guadare il corso d’acqua: egli fu salvato solo dalla prontezza di un compagno, Clito, da un colpo d’ascia potenzialmente mortale. Alessandro aveva varcato l’Ellesponto pochi giorni prima, separatamente dal grosso delle truppe (traghettate da Sesto e approdate ad Abido), salpando da Eleunte, porticciolo del Chersoneso Tracico da cui si ammira la piana di Troia, per mettere piede in Asia proprio sotto le rovine della mitica cittadella. Lí

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A sinistra: lamina in argento dorato raffigurante Cibele su un carro trainato da leoni e guidato da una Vittoria alata, da Ai-Khanum, in Afghanistan. III sec. a.C. Kabul, Museo Nazionale. Le conquiste di Alessandro Magno in Asia Centrale favorirono la penetrazione della civiltà greca influenzando anche le arti figurative locali.

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UZBEKISTAN

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modi, consentendo, tra l’altro, l’evacuazione della popolazione civile. L’ira per l’accanita resistenza di Tiro, che prima di arrendersi aveva fermato a lungo la sua travolgente avanzata, indusse Alessandro a una rappresaglia spietata: 2000 nemici superstiti furono condannati a morte e crocifissi sulle rive del mare. Allo stesso tempo, come riferisce lo storico Curzio Rufo, il re inviò una formale dichiarazione di guerra a Cartagine, che non ebbe alcun seguito.

Ma sappiamo che egli, una volta conquistato l’impero persiano, intendeva muovere dalla Siria verso la nemica, già tradizionale avversaria dei Greci di Sicilia, per conquistarla e avanzare poi lungo l’Africa settentrionale; passato in Europa a Cadice, attraversate l’Iberia e la Penisola italica, intendeva infine rientrare in patria approdando in Epiro. Un’idea grandiosa che, se attuata, avrebbe fatto di Alessandro l’anticipatore di Annibale e il padrone dell’intero Mediterraneo.

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Il nodo dell’Anatolia Una sola, lunga digressione compí Alessandro nell’interno dell’Anatolia, verso Gordio e poi Ancyra (Ankara). A Gordio, capitale del regno di Frigia, fece un altro gesto significativo: sciogliere il celebre «nodo» del giogo del carro collocato in un tempio della città. Si diceva che chi avesse sciolto quel complicatissimo viluppo sarebbe divenuto padrone dell’Asia. Piuttosto che rischiare un malaugurante fallimento, lo tagliò di netto con la spada. E sempre con la spada, in effetti,

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aveva reso omaggio alla memoria di Achille, denudandosi e ungendosi d’olio per poi correre attorno al cippo funebre dell’eroe, come era costume negli agoni funebri cantati nell’Iliade. Altrettanto aveva fatto l’amico prediletto, Efestione, presso il cippo di Patroclo. Era il primo di una serie di gesti simbolici e propagandistici che costellarono l’intera impresa. Ma l’attenzione ai simboli non andava disgiunta in Alessandro da una efficace concretezza e da una lucida visione strategica. Dopo il Granico, infatti, egli non puntò direttamente a Oriente, al cuore dell’impero nemico, ma seguí le coste mediterranee fino all’Egitto: lo scopo era non solo liberare le città-stato elleniche dell’Asia Minore, ma anche privare gradualmente delle basi la flotta fenicio-persiana, che si temeva contrattaccasse nell’Egeo colpendo alle spalle l’invasore.

Pattala P

L’ITINERARIO DI ALESSANDRO MAGNO

Carta geopolitica che illustra l’estensione dell’impero macedone ai tempi di Alessandro Magno. Nella pagina accanto, in alto: stele votiva a Tanit, dea punica. IV sec. a.C. Tunisi, Museo del Bardo.

Spedizione marittima di Nearco, 325 a.C.

Battaglie

Territorio d’origine di Alessandro Magno

Città fondate da Alessandro Magno

Massima espansione dell’impero di Alessandro Magno

Itinerario di Alessandro Magno, 334-324

Territori dipendenti

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storia • storia dei greci/18

risolse il lungo conflitto tra Occidente e Oriente, cominciato centocinquant’anni prima con le guerre persiane. Mentre sul Granico s’erano opposti ad Alessandro solo satrapi persiani (alla guida, particolare curioso, di un esercito composto anche da mercenari greci, poi cadu-

ti prigionieri del vincitore), all’uscita dall’Anatolia il re Dario lo affrontò in persona, alla testa di un esercito immenso e accompagnato dalla sua fastosa corte al completo. Decise di attenderlo sulla piana di Isso: poco piú a sud si leva il valico montagnoso detto «Porte di Siria»,

Metopa con scena di combattimento, da un monumento funerario rinvenuto a Taranto. 200 a.C. circa. Taranto, Museo Archeologico Nazionale. Nell’altorilievo, raffigurante un condottiero a

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da sempre uno dei passaggi piú agevoli per accedere alle terre d’Oriente. Nel 333 a.C. i due sovrani si trovarono cosí per la prima volta di fronte in battaglia. L’esercito greco-macedone, pur inferiore di numero (40 000 uomini circa), sbaragliò gli avversa-

cavallo nell’atto di uccidere un uomo riverso al suolo, l’artista ha adottato un modello iconografico che richiama le soluzioni figurative elaborate alla corte di Alessandro Magno.


ri; lo stesso Alessandro, cavalcando il suo amato Bucefalo, si spinse fino ad attaccare il cocchio di Dario. Il Gran Re reagí con la fuga, abbandonando l’accampamento e i carriaggi con un dovizioso equipaggiamento. Nelle mani di Alessandro caddero inoltre la regina madre, la moglie e tre figli di Dario (un fanciullo e due giovinette), che il vincitore rispettò e trattò con grandi onori (tra l’altro una delle figlie, Statira, divenne sua moglie nove anni dopo), non pensando in alcun modo a farne una merce di scambio. Fu il Gran Re, invece, a proporgli, in cambio della pace e della loro liberazione, tutto il territorio dell’Anatolia tra l’Elle-

La battaglia di Isso Battaglia di Isso

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1. La carta illustra le operazioni di avanzamento dell’esercito macedone guidato da Alessandro (in blu) e le manovre delle truppe persiane di Dario III (in rosso) verso il luogo della battaglia. 2. Assetto iniziale delle forze in campo. Le armate nemiche si fronteggiano divise dal fiume Pinaro. L’esercito persiano risulta quattro volte piú numeroso di quello macedone. 3. Mentre la falange macedone reggeva l’urto della cavalleria persiana oltre il fiume, Alessandro sferrava l’attacco decisivo caricando il fianco sinistro dello schieramento avversario con la cavalleria pesante e aprendo un varco tra le linee nemiche.

3

sponto e il fiume Alys (l’odierno Kizil Irmak). Alessandro rifiutò, dicendo che quello «gli offriva cose che ormai non erano piú sue».

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verso l’egitto Scendendo lungo la costa assira e fenicia, l’esercito macedone assalí due importanti piazzeforti nemiche: la fenicia Tiro (vedi box a pp. 58-59), che cadde dopo un terribile assedio per terra e per mare durato sette mesi ed effettuato con sofisticate macchine da guerra; e Gaza, in Palestina, che fu invece presa scavando cunicoli nel suo friabile sottosuolo. Era aperta ormai al vincitore la strada per l’Egitto.

Golfo di Isso

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storia • storia dei greci/18

Il Paese vide nei Macedoni soprattutto i liberatori dal giogo a cui, a fasi alterne, la Persia lo aveva sottoposto per quasi due secoli. Alessandro entrò quindi senza praticamente combattere nella valle del Nilo e fu accolto con favore dalla potente classe sacerdotale della vecchia capitale Menfi. Il re trattò quell’augusta civiltà con profondo rispetto, e, come riportano gli storici antichi, «non cambiò in nulla i suoi costumi tradizionali». Per questi motivi venne proclamato nuovo «faraone», e, recatosi con una durissima traversata del deserto fino all’oasi di Siwa, ove sorgevano il santuario e l’oracolo di Ammone (identificato dai Greci con Zeus), ne uscí proclamato «figlio del Dio». La permanenza in Egitto fu decisiva per il futuro corso degli eventi: la prestigiosa investitura contrastava con ogni convinzione politico-religiosa dei Greci e dei Macedoni e anche questi ultimi, pur assuefatti alla monarchia, erano lontanissimi dall’attribuire una qualche forma di divinità al proprio sovrano. In una fascia di litorale a ovest del delta del Nilo, nei pressi dell’isoletta di Faros, prima di ripartire, il re macedone fondò Alessandria, destinata a divenire una delle piú grandi e importanti città del mondo antico (332/31 a.C.).

l’ultimo tentativo di dario Privato di tutte le satrapie piú occidentali dell’impero e di ogni accesso al Mediterraneo, Dario tentò di salvare il salvabile. Puntò sul successo di una sollevazione di alcune poleis greche, guidate dal re di Sparta, Agide III, contro il reggente lasciato in Macedonia da Alessandro, Antipatro. Ma costui sgominò gli oppositori greci a Megalopoli (430 a.C.). Il Gran Re inviò quindi ad Alessandro una ulteriore proposta di pace, questa volta offrendogli tutta l’Asia Anteriore fino all’Eufrate. Ma ne ottenne un nuovo rifiuto. Radunò allora tutte le forze residue, facendole arrivare dalle province piú lontane dell’impero. 62 a r c h e o

Il nuovo, imponente esercito affrontò i Macedoni – penetrati in Mesopotamia – presso Gaugamela, appena al di là del Tigri (331 a.C.). Anche questa volta a nulla valsero ai Persiani la superiorità numerica, né l’uso dei temibili carri falcati. Dopo una battaglia durissima, la loro disfatta fu totale, e le vittime lasciate sul campo furono parecchie decine di migliaia. Niente piú impedí ad Alessandro di impadronirsi della «Terra tra i fiumi», sede di una antichissima civiltà. Entrò trionfalmente in Babilonia e vi fu proclamato, secondo la titolazione di quelle genti, «Re delle quattro parti del mondo», con riferimento alla universalità del suo dominio. Dario era ormai in fuga, tentando un’ultima resistenza presso i satrapi di province estreme come la Battriana (Afghanistan settentrionale). Alessandro, inseguendolo, entrò nella Persia, impadronendosi cosí del cuore dell’impero nemico. Giunto a Persepoli, ne depredò le immense ricchezze.

Il Macedone mirava a conquistare i territori che erano stati degli Achemenidi e a sostituirsi a essi Da Susa, capitale estiva del Gran Re, Alessandro rimandò poi agli Ateniesi due statue celeberrime che i Persiani avevano sottratto dalla loro agorà: si trattava della prima versione dei Tirannicidi realizzata dallo scultore Antenore. Alessandro voleva intendere che, con questo gesto, restituiva ai Greci la libertà e li vendicava degli oltraggi subiti. Giunto alla capitale dell’antica Media, Ecbatana, Alessandro congedò la cavalleria dei Tessali e gli opliti greci che l’avevano accompagnato in esecuzione del mandato della Lega di Corinto. Molti di essi decisero di restare comunque al suo servizio, ma il messaggio lanciato era ugualmente chiaro: assolto il ruolo affidatogli dalle poleis elleniche, ora Alessandro era deciso ad

andare ben oltre. Mirava a conquistare tutti gli immensi territori che erano stati degli Achemenidi, e a sostituirsi a essi come signore di un impero che andava dall’Adriatico all’Oceano Indiano. Ciò rappresentava un deciso ampliamento delle finalità della spedizione e comportava quindi una trasformazione dei metodi del conquistatore e della natura del suo potere. Perciò, dopo che seppe che Dario era stato ingannato e ferito a morte da Besso (330 a.C.), suo satrapo della Battriana, il quale sperava cosí di salvare la vita e ingraziarsi il nemico, Alessandro catturò e processò costui e lo fece giustiziare come traditore: appare evidente che il re macedone, d’ora in poi, si considerava legittimo successore degli


Le rovine di una città ellenistica (qui i resti di alcune colonne) di cui non si conosce il nome, furono scoperte negli anni Sessanta dello scorso secolo presso il villaggio di Ai-Khanum, nel Nord dell’Afghanistan. La fondazione della città, da alcuni identificata con Alessandria sull’Oxus, attribuita ad Alessandro Magno, fu opera, piú probabilmente, del generale macedone Seleuco I, intorno al 300 a.C.

Achemenidi. Cominciò a indossare alcuni degli abiti barbari e cercò di introdurre a corte il cerimoniale persiano, facendosi adorare dai sudditi attraverso il rituale tipicamente orientale della proskynesis (la prostrazione). Giunto in Battriana, sposò la figlia di un nobile locale, Rossane, indicando con ciò la strada verso un’unione con i popoli conquistati, che egli collocò su un piano di parità coi Macedoni.

aI confini del mondo Tra il 330 e il 327 a.C. Alessandro assoggettò i territori corrispondenti all’attuale Afghanistan, Uzbekistan, e Tagikistan, superando i fiumi Oxus e Iaxartes (odierni Amur Daria e Syr Daria) e stabilí il suo quartier generale a Maracanda (Samarcanda). Fu in quel tempo che i malumori e risentimenti sorti tra i Macedoni si coagularono in vere e proprie congiure, a cui il re rispose con spietatezza, giungendo a sospettare dei suoi amici piú stretti. Cosí il suo «compagno» Filota fu

condannato a morte assieme al padre, il generale Parmenione; Clito, il caro Clito, fu ucciso personalmente dal re ubriaco, irato con quello poiché aveva negato la sua superiorità nei confronti del padre Filippo. Anche il filosofo Callistene, discepolo di Aristotele che aveva accompagnato la spedizione fin dall’inizio, fu messo a morte a conclusione della cosiddetta «congiura dei paggi», poiché apertamente critico della divinizzazione del sovrano. Alessandro stava per giungere, come egli desiderava, ai «confini del mondo»; ma la sua scelta di «escludere ogni differenza tra vinti e vincitori» lo stava trasformando in qualcosa di diverso dall’adolescente ambizioso che ascoltava Aristotele invitarlo a trattare «i Greci come uomini liberi, i Barbari come animali o piante». Una grandiosa spedizione militare si stava tramutando in un viaggio verso una nuova concezione dell’umanità. Dopo aver attraversato, tra indicibili tormenti suoi e dei suoi uomini,

i valichi innevati del Parapamiso (l’Hindukush); dopo aver avvistato la scoscesa rupe sulla quale, secondo la leggenda, era stato legato il titano Prometeo, per il supplizio impostogli dagli dèi per aver donato il fuoco agli uomini; dopo essere entrato nella zona dell’attuale Punjab, tra i «cinque fiumi» che confluiscono nell’Indo, e aver sconfitto in battaglia perfino i paurosi pachidermi del re indiano Poro, Alessandro era pronto a scendere nella piana del Gange, nella sua estenuante volontà di impadronirsi di tutto il favoloso Oriente e di raggiungere l’Oceano, inteso come confine del Mondo. Fu allora che l’esercito, pur adorandolo, si rifiutò di seguirlo. Come gli disse qualcuno dei suoi amici piú cari «tu cerchi un’India che neppure gli Indi conoscono». Cosí, giunto al limite estremo delle sue conquiste, innalzati in quel punto altari ai Dodici Dèi, Alessandro si accinse al lungo viaggio di ritorno. (18 – continua) a r c h e o 63


speciale • ostia

quella città tra il fiume e il mare nei libri di storia, ostia è ricordata, soprattutto, per essere stata il porto di roma. in verità è, oggi, molto di piú: le sue rovine, eccezionalmente ben conservate, offrono al visitatore la possibilità di immergersi nella realtà di un grande centro urbano nei secoli dell’impero

di Mimmo Frassineti, con un reportage fotografico dell’autore 64 a r c h e o


Ostia Antica. Particolare degli affreschi parietali della Casa di Lucceia Primitiva, dal nome della presunta proprietaria graffito su una parete, nota anche come Insula ÂŤdelle IeroduleÂť, per la presenza nel decoro di figure di sacerdotesse sacre. EtĂ adrianea (117-138 d.C.).

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speciale • ostia

A sinistra: veduta aerea di Ostia Antica, in prossimità della foce del Tevere. In alto, sulla destra, la porzione meridionale dell’Isola Sacra, un’isola artificiale delimitata a nord dalla fossa Traianea (il canale di Fiumicino, non visibile nella foto) a est e a sud dal Tevere e a ovest dal mare.

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opo la grande stagione della pittura romana a Pompei, arricchita in anni recenti degli affreschi salvati nell’edificio dei Triclini a Moregine (vedi «Archeo» n. 183, maggio 2000), per vederne l’evoluzione non a Roma si deve guardare, ma a Ostia. Se a Pompei l’eruzione del Vesuvio ha fermato il tempo al 24 agosto del 79 d.C., a Ostia l’abbandono totale e l’oblio durato oltre un millennio ci hanno consegnato l’antica città quasi intatta. Porto militare della Roma repubblicana alla foce del Tevere, Ostia fu la base navale da cui, nel 211 a.C., salpò alla conquista di Cartagine la flotta di Publio Cornelio Scipione. Poi il ruolo commerciale prevalse su quello militare, tanto che lo scalo fluviale risultò inadeguato alla gestione dell’imponente traffico di

merci. Per farvi fronte, l’imperatore Claudio (41-54 d.C.) costruí Portus (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009; anche su www.archeo. it), 3 km a nord dalla foce del Tevere, uno scalo marino dove scaricare agevolmente le merci dalle grandi naves onerariae sulle chiatte fluviali che risalivano il Tevere fino a Roma trainate da coppie di buoi. Traiano, fra il 106 e il 113, vi aggiunse un bacino piú interno a forma di esagono, collegato al mare da un canale artificiale. Mentre Portus monopolizzava le attività commerciali, la vocazione di Ostia si trasformava in residenziale, con raffinate dimore ornate di ninfei e giardini. La decadenza si annunciò nel V secolo e si compí rapidamente – quando anche la potenza dell’impero stava declinando – con il Tevere non piú navigabile,

Un settore della Regio I di Ostia. In primo piano i resti dei caseggiati noti come portici di Pio IX, perché scavati sotto questo pontefice. In secondo piano, da destra: l’Insula di Bacco Fanciullo, l’Insula dei Dipinti e il Caseggiato dei Dolii.

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speciale • ostia

l’acquedotto fuori uso, la via Ostiense inghiottita dalla vegetazione, l’avanzamento della linea di costa, l’impaludamento, la malaria: Ostia fu completamente abbandonata. È quella che oggi attraversiamo visitando gli scavi: una città romana con mura, strade, case, teatro, edifici pubblici, templi, monumenti, magazzini, terme, mercati, tintorie, panifici, mulini, osterie, locande, caserme.

la grande pittura Nella classifica dei siti archeologici piú frequentati d’Italia gli scavi di Ostia occupano la quarta posizione, con 300 000 visitatori all’anno, dopo il Colosseo, Pompei ed Ercolano. La grande pittura la incontriamo in quattro case, nel complesso chiamato delle Case a Giardino. Espressione del benessere e delle ambizio-

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ni di una classe mercantile emergente, furono costruite fra il 117 e il 138 d.C., durante il regno di Adriano. Nella Casa di Lucceia Primitiva (nome della proprietaria, tramandatoci da un graffito), architetture dipinte con ghirlande appese e riquadri gialli e rossi fanno da sfondo a figure maschili e femminili, delfini, strumenti musicali. I pavimenti sono in mosaico bianco e nero a motivi geometrici. Nella Casa delle Muse, Apollo, che indossa un manto blu, appare circondato dalle Muse mentre, in una sala attigua, satiri e danzatrici danno vita a scene dionisiache. Nella Casa delle Volte Dipinte, le figure che volteggiano sui soffitti e una scena erotica nella camera da letto appartengono alla metà del II secolo d.C. Nella Casa delle Pareti Gialle, affreschi del III seco-


Ostia Antica. La Casa delle Volte Dipinte (in basso), databile alla metà del II sec. d.C., è cosí chiamata per via delle volte affrescate con le tonalità del rosso e del giallo degli ambienti privati. All’interno di una di queste stanze (a destra) si conserva l’unico esempio di pittura erotica ostiense.

lo simulano superfici di marmi colorati. «È il ciclo di affreschi del II e del III secolo d.C. piú importante al mondo – asserisce Angelo Pellegrino, l’archeologo direttore degli scavi –. Colma il vuoto, del quale tradizionalmente soffrivamo, fra Pompei e l’epoca tarda, che invece a Roma è ben rappresentata anche dai primi esempi di arte cristiana nelle catacombe». I ritrovamenti risalgono al secolo scorso, fra gli anni Trenta e Sessanta, ma le pitture le hanno viste finora soltanto gli studiosi. Una novità molto positiva è che adesso il pubblico è ammesso su prenotazione (06 56358099): la visita guidata è inclusa nel prezzo del normale biglietto. Sono ambienti delicati che soffrirebbero per un afflusso eccessivo. La necessità della prenotazione aiuta a filtrare i visitatori, per cui arrivano soltanto quelli realmente interessati. «Il ministro Melandri – racconta Pellegrino – alla fine degli anni Novanta mise a disposizione un miliardo e mezzo di lire con il quale abbiamo effettuato i restauri e creato strutture di protezione. Nella Casa di Lucceia Primitiva mancava il tetto, la Casa delle Muse era assalita dai piccioni. Siamo ricorsi al falconiere, ma con effetti limitati – i piccioni ostiensi non si sono lasciati impressionare –, poi abbiamo deciso di fasciare l’intera casa con una sottile rete verde che invece ha fermato i volatili. Pitture importanti ci sono anche altrove nella città. Stiamo lavorando nella Casa di Giove e Ganimede, vicino al museo, anch’essa destinata ad aprire al pubblico». Pittura a parte, a Ostia si dispiega in tutta la sua ricchezza un tessuto urbano che a Roma è stato cancellato o ricoperto dalla continuità

di vita fino ai nostri giorni. «Chi voglia vedere com’era realmente fatta Roma o una grande città romana deve venire a Ostia – non esita ad affermare Pellegrino – Ostia è la Pompei della media età imperiale. È grande come la città vesuviana: in origine occupava 100 ettari, e 60 non sono ancora stati scavati».

un contesto unico «A proposito: scriva che io preferisco conservare ciò che è stato scavato, piuttosto che scavare ciò che non potrò conservare! Ostia è una delle aree archeologiche piú vaste del mondo, anzi la piú vasta, se la uniamo a Portus. Ostia e Porto sono una sola infrastruttura portuale in un contesto unico (purtroppo tagliato dalla strada per l’aeroporto Leonardo da Vinci), nato e sviluppatosi in funzione di Roma, nel quale si concentravano merci da tutto il mondo, smistate alla capitale attraverso la via Ostiense, la via Portuense e la navigazione fluviale. Una realtà che cerchiamo di rendere disponibile al pubblico con qualche difficoltà dovuta alla scarsezza di personale. Si è calcolato che a Ostia e Porto vi fossero capacità di stoccaggio delle merci superiori a quelle degli attuali porti di New York o di Rotterdam. Il piazzale delle Corporazioni è la rappresentazione visibile di questa vocazione commerciale e non ha riscontro in altre città antiche. Nei mosaici pavimentali i privati pubblicizzavano le loro attività commerciali, verosimilmente acquistando gli spazi con modalità che però non conosciamo esattamente». A Ostia i primi scavi ebbero luogo alla fine del Settecento, quando la città giaceva sotto (segue a p. 72) a r c h e o 69


speciale • ostia

Ostia Antica. Particolare del mosaico pavimentale a tessere bianche e nere della Casa delle Pareti Gialle, abitazione signorile di età adrianea, in cui dominano decori parietali di colore giallo, a tema mitologico, databili al III sec. d.C.

la città di anco marzio: da castrum a porto di roma 650-600 a.C. Secondo una tradizione semileggendaria, Anco Marzio, quarto re di Roma, fonda Ostia nei pressi della foce del Tevere. IV secolo In seguito alla vittoria su Veio (396), Roma estende i suoi domini fino al mare. In una data ancora imprecisata, coloni romani occupano Ostia. Di poco posteriore è la creazione di un castrum sulla sponda sinistra del fiume (forse tra il 334 e il 305). 298 Di ritorno dalla Grecia, dove si era recata per cercare i sacerdoti richiesti dal culto di Esculapio, una nave risale il Tevere fino a Roma. 267 Prima menzione storica di Ostia: la città è promossa al rango di centro annonario, nel quale risiede uno dei quattro quaestores classici, i magistrati preposti alla manutenzione della flotta e alla difesa delle coste. 237 Gerone II, re di Siracusa, si reca a Roma per assistere ai Ludi Romani. Attracca a Ostia a bordo di una grande imbarcazione di rappresentanza. 217 Ostia, che ha un ruolo di primo piano nel conflitto tra Roma e Cartagine, invia un convoglio di rifornimenti in Spagna. 211 Scipione salpa da Ostia alla volta della Spagna, dove, tra il 209 e il 208, sconfigge per tre volte l’esercito cartaginese (seconda guerra punica). 191 Nel quadro dell’estensione della leva militare, gli Ostiensi vengono obbligati a prestare servizio in marina. 87 Durante le guerre civili, Mario, di ritorno dall’Africa, prende possesso della città di

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Ostia, che si era schierata con Silla, e la saccheggia. 67 Pirati della Cilicia penetrano nella foce del Tevere e distruggono la flotta alla fonda. 63-58 Viene realizzata una nuova cinta muraria, che amplia la superficie edificabile da 25 a 69 ettari. 12 Durante il principato di Augusto viene costruito il teatro di Ostia e si ha una politica di rinnovamento e di estensione dell’area urbana. Cominciano ad arrivare da Alessandria le prime grandi navi adibite al trasporto dei cereali. 14-37 d.C. Il Foro di Ostia viene ristrutturato all’epoca di Tiberio. Durante il regno di Caligola viene ultimata la costruzione dell’acquedotto. 54 Nerone inaugura il nuovo porto di Ostia, fatto costruire dall’imperatore Claudio, tra il 42 e il 54. 64 In seguito all’incendio di Roma, Nerone fa appello alla solidarietà dei cittadini di Ostia per l’invio di materiale destinato ai senza tetto. L’imperatore dispone la bonifica della palude che circonda la città (paludes Ostienses), che viene colmata con i detriti provenienti da Roma, che giungono a Ostia a bordo di battelli fluviali. 98-117 Traiano fa ampliare il porto di Claudio, che minacciava d’insabbiarsi, e restaura il canale che collega lo scalo al Tevere e al mare (100-112). La città si arricchisce di grandi depositi e di edifici pubblici. 117-138 L’imperatore Adriano interviene sull’assetto urbanistico di Ostia (con un


vero e proprio piano regolatore) e moltiplica le costruzioni monumentali, come la Curia e la Basilica del Foro, con un impiego massiccio di laterizio. È il momento di massima fioritura della città, che conta 50 000 abitanti. 161-180 Sotto Commodo (180-192), figlio di Marco Aurelio, Ostia assume temporaneamente il nome di Colonia Felix Commodiana. 193-217 Con Settimio Severo (193-211) e il suo successore Caracalla (211-217), in città e nei porti si hanno solo interventi di restauro. Viene realizzata la via Severiana, che collega Ostia a Terracina (Anxur), in direzione sud. 222-235 Durante il regno di Alessandro Severo si costruisce il tempio rotondo, ultima opera monumentale della città. 308-309 Massenzio, rivale di Costantino, apre a Ostia una zecca. 312-337 Costantino, pur facendo restaurare alcuni edifici pubblici, priva Ostia dei suoi poteri municipali per assegnarli ai quartieri che si trovano nei pressi dei porti imperiali e che vengono ribattezzati Civitas Flavia Constantiniana Portuensis. Piú nota con il semplice nome di Portus, questa nuova città finisce con il soppiantare Ostia, che perde il suo ruolo di centro commerciale, a causa dell’insabbiamento del porto fluviale. Mentre Costantinopoli diviene capitale dell’impero, Ostia, cosí come Roma, imbocca la via del declino. Tuttavia, nei dintorni della città sorgono alcune sontuose residenze private (domus).

367 Santa Monica, in partenza per l’Africa, muore a Ostia, assistita dal figlio, Sant’Agostino. 392 Il restauro del tempio di Ercole dimostra la sopravvivenza del paganesimo. 402 Ravenna diviene capitale dell’impero d’Occidente e il declino di Ostia accelera. 410 I Visigoti di Alarico prendono Roma, ma disdegnano Ostia, città ormai priva di importanza. 455 I Vandali di Genserico mettono a ferro e fuoco la capitale, ma si ignora se Ostia abbia subito la medesima sorte. 514 Il vescovo di Ostia partecipa al concilio indetto nella città francese di Arles. 537 Nel corso delle guerre che Giustiniano combatte per riconquistare l’Italia, i Goti occupano Ostia con il fine di tagliare i rifornimenti di cibo per Roma. Ostia viene privata dei suoi bastioni. Procopio di Cesarea, che vi si trova a passare, ne descrive le miserevoli condizioni. 827-844 Papa Gregorio IV costruisce a Ostia un borgo fortificato, in funzione antisaracena, nel quale trasferisce gli ultimi abitanti. Portus sopravvive a Ostia ancora per qualche anno. XI secolo Ha inizio il saccheggio sistematico delle rovine di Ostia. 1461 Papa Pio II Piccolomini descrive cosí la città, nei suoi Commentarii: «Che fosse un tempo una grande città lo testimoniano i suoi resti che si estendono su un territorio vastissimo (…) Si vedono ancora portici in rovina, colonne abbattute e frammenti di statue».

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speciale • ostia

uno spessore di terra di parecchi metri, dal quale affioravano soltanto i monumenti maggiori, come il Capitolium e il Teatro. Gli scavi continuarono sotto Pio VII (1800-1823) e Pio IX (1846-1878). Dopo il 1870, quando Ostia era passata allo Stato italiano, a dirigerli fu chiamato Rodolfo Lanciani. Limitate campagne si intrapresero nei primi anni del XX secolo, ma fu nel 1938 che l’allestimento dell’Esposizione Universale – prevista a Roma nel 1942 e poi disdetta a causa della guerra – diede impulso al ritrovamento di buona parte della città antica. Di pari passo con la costruzione dell’E 42, l’attuale quartiere dell’EUR, si procedette a

Una veduta del Foro di Ostia. Sulla sinistra, i resti del Capitolium di epoca adrianea, consacrato, come per tutte le colonie di Roma, alla triade capitolina Giove, Giunone e Minerva, e posto all’incrocio tra il cardo e il decumano massimo.

tappe forzate negli scavi che, sotto la direzione dell’archeologo Guido Calza e dell’architetto Italo Gismondi, furono completati in soli tre anni. Cosí il pubblico dell’Esposizione avrebbe potuto ammirare una città romana appena portata alla luce. Montagne di resti, che allora sembrò impossibile collocare, furono mandati alla discarica. Gismondi (autore tra l’altro del grandioso plastico della Roma di Costantino nel Museo della Civiltà Romana), procedette alla ricostruzione di numerosi edifici con gusto e competenza indubbi, ma anche con una disinvoltura oggi impensabile.

ricostruzioni attendibili Di quella impresa Angelo Pellegrino traccia un bilancio: «Se Calza e Gismondi non l’avessero in buona parte ricostruita, Ostia si presenterebbe come un complesso di ruderi con pochi spazi di fruibilità e, probabilmente, anche con ridotte possibilità di studi e di ri-


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cerche da parte degli specialisti. La maggior parte degli edifici, come si vede dalle foto scattate durante gli scavi, erano conservati per un’altezza di circa 1 m. Fu ricreato un contesto architettonico e urbanistico, strade incluse, recuperando i basoli sparsi qua e là. Gismondi conosceva bene l’architettura antica: c’è da pensare che le ricostruzioni, effettuate con materiali recuperati nello scavo, dai cumuli delle macerie, siano in buona parte attendibili, anche se alcuni particolari non sono esenti da critiche. Se oggi possiamo farci un’idea di come si presentava la città nel II secolo d.C. lo dobbiamo a questa ricostruzione, che fu un lavoro titanico. E il fascino della città ricostruita coinvolge anche gli studiosi, che sono portati a tornare, ad approfondire gli studi. Qui a Ostia hanno scavato tutte le università del mondo e i piú prestigiosi istituti stranieri di cultura, attirati dalla realtà fisica della città romana». (segue a p. 76)


Portus

Isola Sacra

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speciale • ostia

Navalia(?) Faro(?) Porto fluviale

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28 (1) Piazzale della Vittoria (2) Caserma dei Vigili (3) Terme di Nettuno (4) Horrea (magazzini) di Ortensio (5) Piazzale delle Corporazioni (6) Teatro (7) Collegio degli Augustali (8) Grandi Horrea (9) Casa della Fortuna Annonaria (10) Terme del Foro (11) Piazza della Statua eroica (12) Casa di Diana (13) Mulino (14) Insula delle Pitture (15) Termopolio (16) Capitolium (17) Curia (18) Basilica Civile (19) Casa dei Pesci (20) Campo della Magna Mater (21) Mercato

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(22) Horrea Epagathiana (23) Casa di Amore e Psiche (24) Tempio di Ercole (25) Mitreo delle Terme di Mitra (26) Basilica cristiana (27) Schola di Traiano (28) Terme dei Sette Sapienti (29) Insula degli Aurighi (30) Casa delle Muse (31) Insula delle Volte Dipinte (32) Casa del Ninfeo (33) Tomba fuori Porta Marina (34) Casa Fulminata (35) Tomba di Cartilio Poplicola

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speciale • ostia

Un contributo scientifico imponente che, tuttavia, non ha portato a risolvere uno dei piú inattaccabili misteri dell’archeologia, che riguarda proprio le origini di Ostia. Le fonti storiche attribuiscono la sua fondazione al quarto re di Roma, Anco Marzio, nel 620 a.C., al fine di sfruttare le saline alla foce del Tevere e di tenere sotto controllo gli Etruschi sulla riva destra. Originario della Sabina, nipote di Numa Pompilio, Anco Marzio avrebbe regnato fra il 641 e il 616 a.C. Livio gli attribuisce quella capacità di assorbire le popolazioni sconfitte che lo storico già vedeva in Romolo, una forza inclusiva che, nei secoli, fece grande l’impero. «Anco (...) prese d’assalto Politorio, città dei Latini e, seguendo l’uso dei re precedenti che avevano accresciuto lo Stato romano accogliendo i nemici nel novero dei cittadini, trasferí tutta la popolazione a Roma (…). Né la città sola si ingrandí sotto questo re, ma anche l’agro e tutto il territorio (...) il dominio fu esteso fino al mare e alla foce del Tevere fu fondata la città di Ostia, vi furono costruite intorno saline» (traduzione di Guido Vitali).

una questione irrisolta Ma quell’antico insediamento non è mai stato scoperto. Il nucleo piú antico della città è un avamposto militare, un castrum risalente al IV secolo a.C., i cui resti si trovano al centro dall’abitato – all’incrocio di cardine e decumano – dominati dal Capitolium di epoca adrianea. Chiediamo a Pellegrino dove possa trovarsi l’Ostia del VII secolo. «Abbiamo testimonianze che però non ci danno la certezza che l’attuale sito di Ostia fosse anche un insediamento arcaico: ceramiche dell’età del Ferro rinvenute vicino a Porta Romana, ceramiche arcaiche nella zona del castello di Giulio II. La mia opinione è che l’Ostia arcaica poteva giacere nell’area attualmente occupata dal castello, che è il punto piú elevato, anche se sono soltanto 18 m sul livello del mare. Altri studiosi optano per la zona attualmente attraversata dalla via Statua in marmo di Apollo, dalla Domus del Protiro. II sec. d.C. Ostia, Museo Archeologico Ostiense.

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di Castelfusano, dove però testimonianze non sono state rinvenute. A ogni modo queste ceramiche arcaiche dimostrano che un insediamento a Ostia doveva esserci, come affermano le fonti. Giustino racconta che la gioventú romana, intorno al 600 a.C., si recò alla foce del Tevere a incontrare amichevolmente i coloni focesi che vi sostavano prima di andare a fondare Marsiglia. Quanto alle saline, c’era sicuramente una situazione naturale che ne favoriva la formazione. Erano due, sul lato sinistro del Tevere e sul lato destro, cioè sul lato etrusco del fiume.

Ma Roma, già alla fine del VII secolo a.C., aveva il controllo della foce del Tevere, anche se il territorio era di Veio, e quindi poteva sfruttarle entrambe». Pellegrino non manca di ricordare i Romagnoli che bonificarono il litorale, infestato dalla malaria. «Se la situazione fosse quella di cento anni fa qui non si potrebbe vivere, tantomeno ci arriverebbero i turisti. Inoltre molti degli operai che hanno lavorato negli scavi di Ostia erano figli di quei coloni. Ancora negli anni Ottanta si parlava romagnolo un po’ dappertutto».

Una veduta degli scavi di Ostia Antica. La tradizione fa risalire la fondazione della città al quarto re di Roma, Anco Marzio, intorno al 620 a.C., ma i resti piú antichi sono riferibili a un castrum del IV sec. a.C.

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speciale • ostia

e la nave non va I relitti di Ostia: un tesoro negato

S

e stiamo percorrendo la via del Mare da Roma verso Ostia, superato l’incrocio che, a destra, ci conduce al borgo di Ostia Antica, possiamo imboccare, sempre sulla destra, via della Scafa, una strada ampia e veloce che costeggia nel suo primo tratto il confine occidentale degli scavi di Ostia, collimando all’incirca con l’antica linea di costa. Scavalcato il Tevere entriamo nell’Isola Sacra, un’isola artificiale delimitata a nord dalla fos78 a r c h e o

sa Traianea (il canale di Fiumicino) a est e a sud dal Tevere e a ovest dal mare. Dopo circa 1 km, in assenza di qualunque segnalazione, ci infiliamo in una stradina a destra, via di Cima Cristallo, quindi prendiamo a sinistra via di Monte Spinoncia, in fondo alla quale si apre, tra pini e cipressi, un sito archeologico dal fascino particolare. La Necropoli di Porto fu scoperta negli anni Venti del Novecento, durante i lavori di bo-

Le imbarcazioni esposte nel Museo delle Navi, in una foto del 2002. I relitti furono rinvenuti nel Porto di Claudio, durante la costruzione dell’aeroporto di Fiumicino.


Oggi chiuso al pubblico, il museo ospita resti di imbarcazioni di età imperiale, utili alla conoscenza degli antichi metodi costruttivi nifica del territorio per l’uso agricolo dei terreni che l’Opera Nazionale Combattenti assegnava ai reduci della Grande Guerra.Vennero alla luce tombe con pitture, stucchi, mosaici e statue. L’affiorare della falda rendeva difficoltoso lo scavo e la conservazione dei reperti, per cui parte delle pitture e dei mosaici furono staccati e trasferiti nei depositi della Soprintendenza. In seguito fu attuato un completo risanamento idraulico, che garantisce la conservazione e l’accessibilità del sito. Sul cancello chiuso un foglio affisso dalla Soprintendenza avverte che la necropoli «è visitabile il primo giovedí e l’ultimo giovedí di ogni mese, su prenotazione telefonica obbligatoria al numero 0656358054 e conferma via fax al numero 065651500». A destra, in alto: l’ingresso al Museo delle Navi di Fiumicino, al cui interno sono conservati i resti di cinque imbarcazioni databili tra il II e il V sec. d.C.

la «flotta» di Fiumicino Riprendiamo via della Scafa in direzione dell’aeroporto di Fiumicino. Superato il ponte sulla fossa Traianea, uscendo cosí dall’Isola Sacra, poco prima di raggiungere l’aeroporto incontriamo il Museo delle Navi, in via Alessandro Guidoni 35. Nel traffico intenso che circonda l’aerostazione il Museo è ben segnalato e dispone di un comodo parcheggio

«destinato ai visitatori del museo durante l’orario di apertura del medesimo», come avverte un cartello. Peccato che l’orario di apertura non esista, poiché il museo è chiuso da 10 anni per lavori in corso. In realtà qui nessuno sta lavorando, ma resta il fatto che, essendo un cantiere, accedervi è vietato. Il museo, che abbiamo visitato e fotografato prima del 2002 quando ancora era aperto, si compone di un unico ambiente di 20 x 30 m circa che contiene cinque imbarcazioni. Furono trovate durante la costruzione dell’aeroporto Leonardo da Vinci fra il 1958 e il 1965 lungo il molo destro del Porto di Claudio, i cui resti attraversano un vasto prato alle spalle del museo. Una centinatura lignea fu costruita per sorreggere le fiancate e trasportare i relitti all’interno, dove l’Istituto Centrale del Restauro li sottopose a consolidamento mediante una miscela di resine. Inaugurato il 10 novembre del 1979, il Museo delle Navi è considerato di rilevante importanza ai fini della conoscenza delle tipologie navali di età imperiale e dei metodi di costruzione utilizzati dagli antichi maestri d’ascia. Dal museo raggiungiamo la vicina via Portuense incontrando subito al n. 2360, l’ina r c h e o 79


speciale • ostia

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In alto: pianta del Porto di Claudio e del Porto di Traiano. Il primo fu realizzato racchiudendo un tratto di mare tra due moli curvilinei; il secondo, piú interno e di forma esagonale, era collegato al mare e al Tevere attraverso un canale artificiale. In basso: particolare del fondo dello scafo di uno dei relitti custoditi all’interno del Museo delle Navi.


gresso agli scavi del Porto di Claudio. Nel 42 d.C. l’imperatore Claudio avviò la costruzione di un grande porto marino, 3 km a nord dalla foce del Tevere per far fronte alle necessità di approvvigionamento dell’Urbe che lo scalo fluviale di Ostia, dotato di una sola banchina, non riusciva piú a esaudire. Ampio circa 150 ettari, fu ricavato in parte nella terraferma, in parte racchiudendo un tratto di mare fra due moli curvilinei che convergevano verso l’ingresso, dove su un’isola artificiale s’innalzava un faro gigantesco che emulava quello di Alessandria d’Egitto. Fu una grande opera di ingegneria, subito però minacciata dall’insabbiamento causato dal Tevere. Inoltre, nel 62 d.C., una tempesta affondò 200 imbarcazioni ancorate nel porto, evidenziando la scarsa sicurezza dell’impianto.

l’«esagono» di traiano Per tali motivi, tra il 100 e il 112 d.C., Traiano fece scavare piú all’interno un bacino a forma di esagono, esteso per 33 ettari, collegato al mare da un canale artificiale. Era circondato da edifici per lo stoccaggio delle merci e la manutenzione delle navi. Oggi il bacino esagonale, perfettamente conservato, si alimenta dal braccio artificiale del Tevere, la fossa Traianea o canale di Fiumicino. Leggiamo sulla cancellata il cartello della Soprintendenza che ci invita a prenotare la visita al n. 06 6529192. Chiamando, apprendiamo che le visite si svolgono il primo sabato e l’ultima domenica del mese, ma che per grandi gruppi è possibile concordare anche altre date. Ci viene dato appuntamento al vicino Museo delle Navi, che dista pochi minuti. Varcato l’ingresso incontriamo un imponente colonnato, vari magazzini, una basilica cristiana e, soprattutto, un’alta recinzione di rete metallica che include il bacino esagonale e impedisce di accedervi. Il lago di Traiano infatti è proprietà privata e ci è concesso di ammirarlo attraverso le maglie della rete. Una lunga vertenza per l’esproprio che ha visto confrontarsi lo Stato italiano e gli Sforza Cesarini si è conclusa con il prevalere di questi ultimi. Quindi, se vogliamo ammirare il lago di Traiano al di là della rete dobbiamo prenotare una visita guidata all’Oasi di Porto, il giovedí e la domenica da metà ottobre a metà giugno, allo 06 5880880 ed entrare da un altro ingresso, sempre sulla via Portuense, al

Una veduta del Porto di Traiano, costruito dall’imperatore tra il 100 e il 112 d.C. Il bacino è alimentato dalla fossa Traianea o canale di Fiumicino, un braccio artificiale del Tevere.

km 9,100, nel tratto tra Ponte Galeria e Fiumicino. In compenso la visita si effettua su carri trainati da cavalli. Necropoli di Porto, Museo delle Navi, Porto di Claudio e Porto di Traiano: tappe di un unico contesto che, con normali orari d’apertura, si potrebbero agevolmente toccare in un giorno. Di fatto, sono fuori dalle possibilità del turista che si ferma a Roma per un tempo limitato. a r c h e o 81


speciale • ostia

dove e quando • Museo delle Navi Non visitabile. Alle sue spalle si può fare una breve passeggiata fino ai resti del molo destro del Porto di Claudio, dove le navi furono rinvenute. • Porto di Claudio Per singoli o piccoli gruppi il primo sabato e l’ultima domenica del mese sempre la mattina prenotando al numero 06 6529192. Gruppi piú grandi possono concordare altre date. • Porto di Traiano La visita all’Oasi di Porto avviene dietro prenotazione al numero 06 5880880 tra metà ottobre e i primi di giugno dalle 10,00 alle 16,00 il giovedí e la domenica. • Necropoli di Porto La visita può aver luogo il primo e l’ultimo giovedí del mese prenotando al numero 06 56358054 con conferma via fax, al numero 06 5651500. 82 a r c h e o

Sorta presso la foce del Tevere, la necropoli custodisce preziose indicazioni sui mestieri esercitati dagli abitanti di Porto


La necropoli di porto L’area cimiteriale, che comprende oltre 200 edifici funerari, si sviluppò ai lati della via Flavia Severiana, a partire dalla fine del I sec. d.C. fino al IV sec. d.C. Le tombe, a pianta quasi quadrata con fronti architettoniche e coperture a botte o a terrazza, conservano iscrizioni che testimoniano la composizione della popolazione portuense formata in prevalenza da commercianti, liberti e piccoli imprenditori.

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«una città ricca e tollerante...» A colloquio con l’archeologo Carlo Pavolini

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arlo Pavolini insegna all’Università della Tuscia. Autore di saggi sulla città tardo-antica e sulla produzione e il commercio della ceramica romana, ha pubblicato Ostia, nella collana Guide Archeologiche di Laterza e, per lo stesso editore, Vita quotidiana a Ostia. ◆O stia, il porto dell’Urbe. Subito ci vengono in mente i traffici, le grandi navi da carico, i capaci magazzini cui affluivano merci da ogni angolo del mondo. E il piazzale delle Corporazioni... «Il piazzale delle Corporazioni è unico nel suo genere, un luogo simbolo. Però la sua natura non è cosí scontata come sembrò in

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una prima fase. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando fu scavato, l’ideologia dominante volle vedere nei mosaici e nelle epigrafi che designavano i collegi – collegia o corpora – un riferimento all’attualità e quindi al corporativismo fascista. Come se quel piazzale fosse la resa visiva dell’amministrazione statale di Roma nella gestione dei rapporti con tutte queste corporazioni – cosí furono allora chiamate – per assicurare l’annona romana, cioè soprattutto l’approvvigionamento di grano per la plebe di Roma, e di altri beni che affiancavano il commercio del grano. Poiché si vedono navi, moggi di grano (la misura standard dei Romani), il faro di Porto, epigrafi che designano le varie attività, tutto


fu interpretato in questa funzione. È indubbio che il piazzale delle Corporazioni ci restituisce l’immagine del commercio di Ostia con l’intero Mediterraneo, però, nel tempo, il suo significato si è fatto meno univoco. Si è constatato che questi ambienti, ornati di mosaici, sono troppo piccoli per essere veri e propri uffici dei collegia, come quelli degli armatori o dei commercianti. Si è trovato inoltre che, come singoli vani, furono delimitati piuttosto tardi, cioè in età severiana, nei primi decenni del III secolo d.C. Da tutto ciò gli studiosi hanno tratto la conclusione che alla visione strettamente commerciale vada affiancata un’altra ipotesi: che questi collegia, queste associazioni, bisognose di autopromuoversi, abbiano ottenuto con donazioni, in particolare al teatro, spazi da utilizzare per la loro immagine, scritta o figurata». ◆ Oggi si chiamerebbero sponsor... «Infatti. Il legame del teatro con quel piazzale porticato è conforme ai dettami di Vitruvio, secondo il quale il teatro deve sempre avere dietro la scena un quadriportico o un triportico, affinché gli spettatori possano passeggiare. Era un piazzale alberato, ricco di statue, delle quali restano le basi, dedicate ai personaggi del commercio e dell’annona, sia locali che romani. Su tutti dominava il prefetto dell’annona, con i suoi procuratori e i suoi impiegati. Forse questi collegia versavano delle quote, facevano atti di mecenatismo –

che oggi si chiamerebbero sponsorizzazioni – a favore del teatro, della sua manutenzione e degli spettacoli, per ottenere il diritto di avere questi riquadri». ◆ Una novità, per l’epoca? «Niente affatto, le sponsorizzazioni sono sempre esistite, almeno a partire dal mondo ellenistico: personaggi molto ricchi o, come in questo caso, associazioni facoltose, che fanno donazioni talvolta impressionanti, fino a costruire interi edifici pubblici, e ne ricevono in cambio prestigio e contatti. Nulla vieta che poi, negli intervalli degli spettacoli teatrali, iscrizioni e mosaici rappresentassero un punto di riferimento dove i commercianti di Sabratha o di Cartagine si incontravano». ◆ Colpisce la varietà dei culti presenti nella città. Accanto a quelli importati da fuori continuavano a esserne praticati di autoctoni e antichissimi... Sul piano religioso c’erano un’enorme molteplicità di culti e una tolleranza assoluta, in una città in cui si intrecciavano le provenienze e quindi le credenze piú varie. Andare d’accordo era fondamentale e nessuno si sognava di perseguitare o emarginare qualcun altro per le sue scelte religiose, naturalmente a patto che omaggiasse formalmente il culto imperiale. Culti molto antichi, addirittura arcaici, della colonia di Ostia, nel quadro del pantheon greco-romano, che era quello di

In alto: il teatro di Ostia Antica visto dal piazzale delle Corporazioni. Nella pagina accanto: particolare dei mosaici pavimentali del piazzale delle Corporazioni. I soggetti delle decorazioni musive testimoniano le attività commerciali ostiensi.

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speciale • ostia

Mitra in atto di sacrificare il toro, statua in marmo, dal Mitreo delle Terme di Ostia Antica. Ostia, Museo Archeologico Ostiense.


Stato, convivevano con quanto era arrivato dopo, portato dalle etnie che frequentavano la città. Riguardo ai culti indigeni, italici, ostiensi in particolare, è una grande croce degli archeologi non essere riusciti a localizzare il tempio di Vulcano, che era il dio protettore dell’intera città fino dai tempi mitici e semileggendari delle origini, della Roma dei re e della primissima repubblica. Non si sa dove venisse venerato. Forse nel tempio al centro del piazzale delle Corporazioni, dato che Vulcano era il dio protettore del commercio? Ma anche Cerere, o Dioniso, o Venere, potrebbero esserne plausibili titolari. O in un altro presso il Capitolium antico (che poi cristiani. Entro le mura, dopo che Costantino fu sostituito da quello attuale di epoca adria- Il simbolo della riconobbe il culto cristiano, si stabilí una nea), o in un santuario all’aperto, a Porta menorah grande basilica cattedrale, nota anche dalle Marina? Tante ipotesi, ma nessuna certezza. (candelabro a Incontriamo divinità molto antiche e molto sette braccia che fonti, trovata di recente. Qui, da Costantino in poi, risiedette il vescovo di Ostia. Ma non romane come la Bona Dea, legata al femmi- si trovava nel si può visitare perché è stata scavata, pubblinile, alla fecondità, a cui sono dedicati due Tempio di cata e ricoperta. D’altra parte, quando non ci templi. Il Capitolium, come in tutte le città Gerusalemme) sono i mezzi per restaurare e valorizzare, la romane, era intitolato alla triade capitolina, inciso su una ricopertura è una scelta obbligata». Giove, Giunone e Minerva. mensola della Poi ci sono gli dèi orientali, Cibele, dalla Sinagoga di ◆ A un certo punto la città comincia a Magna Grecia, Iside e Serapide, dall’Egitto, Ostia, decadere. Cosa succede a Ostia nel Mitra, con 18 mitrei sparsi nella città, dalla probabilmente la Medioevo? Persia. E la sinagoga, che sembra sia la piú piú antica in «La città fu totalmente abbandonata, non ci antica d’Occidente, cioè la prima testimo- Occidente. fu una continuità di occupazione come a nianza della diaspora degli Ebrei. O potrebbe Roma, e questa, paradossalmente, è la fortuna addirittura precedere la distruzione del Temdegli archeologi. Quando non fu piú possibipio da parte di Tito nel 70. Ostia era una le continuare a viverci, anche a causa delle città piena di schiavi, liberti, commercianti di scorrerie saracene, la popolazione si ritirò nel origine orientale, che avevano luoghi di culborghetto che, piú tardi, sarà fortificato, prima to spesso ragguardevoli, venerati e onorati. Da con un torrione poi con il castelun certo momento in poi, inilo di Giulio II. Nella città deserzialmente come gemmazione ta, nei secoli del pieno Medioedalla comunità ebraica, come riLa sinagoga di vo e del Rinascimento, l’unica sulta dalle epigrafi, fa la sua comparsa la comunità cristiana che Ostia è, forse, la piú attività è rappresentata dalle cal– ne sono state trovate una diventa molto importante, dapantica d’Occidente, care quindicina – e i soli a frequenprima in zone periferiche accanto alle tombe dei martiri, fuori le prima testimonianza tare Ostia sono i calcarari. Gli erano molto semplici, mura». monumentale della impianti costituiti da una fossa alimentata ◆ Chi sono i martiri ostiensi? diaspora degli Ebrei con un prefurnio, un fuoco sotto, che cuoceva cataste di mar«Santa Aurea innanzitutto, una mi, statue e decorazioni archigiovinetta che fu martirizzata a tettoniche, prelevate da tutta la città. Nel Ostia al tempo dell’imperatore Claudio. A lei primo dopoguerra quando, dopo gli scavi è dedicata la chiesa rinascimentale nel bordegli anni Trenta e Quaranta, si trattò di sighetto di Ostia Antica, edificata sul luogo stemare Ostia per il turismo – e la cosa fu della tomba. Altro martire ostiense è Sant’Erfatta indubbiamente molto bene – parecchie colano, la cui cappella si trova nel vecchio statue furono ricollocate senza sapere dove cimitero del Borghetto. Fuori le mura, a sud esattamente si trovassero in origine, anche est, c’era la basilica di Pianabella, sul luogo di perché numerose furono trovate proprio una grande necropoli pagana dove, con il accanto alle calcare. cristianesimo, furono seppelliti anche martiri a r c h e o 87


speciale • ostia

Contro l’acqua e la malaria Le rovine salvate dai braccianti romagnoli A sinistra: la lapide celebrativa che ricorda i lavori di bonifica compiuti sul litorale romano dai braccianti romagnoli alla fine del XIX sec. In basso: il castello di Giulio II nel borghetto di Ostia Antica.

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el borghetto di Ostia Antica una lapide ricorda la bonifica di queste terre a opera dei braccianti romagnoli che, sullo scorcio del XIX secolo, liberarono il litorale romano dalla palude e dalla malaria. Il sito archeologico di Ostia si trovava all’interno dell’area da risanare. L’Associazione Generale degli Operai Braccianti, costituitasi a Ravenna l’8 aprile 1883 per aiutare i suoi iscritti nella ricerca del lavoro, è considerata la prima cooperativa di braccianti agricoli del mondo. Ottenne in subappalto dal governo Depretis i lavori di bonifica degli stagni di Maccarese, Camposalino, Ostia e Isola Sacra. Alla cooperativa si iscrissero in 400, fra cui 50 donne, che partirono il 24 novembre dalla stazione di Ravenna, salutati dal prefetto, dal sindaco e dalla giunta comunale e acclamati dalla folla. A Roma l’accoglienza non fu altrettanto calorosa e a quel treno di anarchici e socialisti non fu consentita la sosta. I Ravennati raggiunsero

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Ostia il 25 novembre. Si aprí davanti ai loro occhi un paesaggio desolato, nel quale i rari esseri umani erano segnati dalla malaria. All’epoca non si conosceva l’origine della malattia, attribuita alla insalubrità dei luoghi, e solo nel 1898 il medico Giovan Battista Grassi (a cui è intitolato l’ospedale di Ostia) scoprí che era causata dal Plasmodium trasmesso dalla zanzara anofele.

contro gli allagamenti La foce del Tevere ha subito, nei secoli, profondi cambiamenti, che hanno visto lo spostamento del fiume, l’avanzamento della costa, la trasformazione in palude di vaste aree acquatiche e l’arrivo della malaria, che, verosimilmente, ai tempi dello splendore di Ostia, e cioè sino al IV secolo inoltrato, non doveva imperversare. Nel XIX secolo la malaria era segnalata anche a Roma varie zone della città. Dubbi furono espressi in Parlamento sull’opportunità di trasferire da Firenze a Roma la Capitale del regno proprio a causa della persistenza malarica nell’Urbe.


Fu certamente questa una delle ragioni che spinsero il governo a promuovere la bonifica, realizzata a forza di braccia, senza l’uso di macchine, largamente impiegate, invece, nella Pianura Pontina. La terra passava al volo da una pala all’altra, per finire nelle carriole il cui modello era stato elaborato dai coloni. Per tagliare e asportare la vegetazione che ostruiva i canali si utilizzava il «falcione», una grande lama arcuata di un paio di metri – un esemplare è esposto al museo con altri attrezzi – provvista alle estremità di due anelli nei quali venivano inserite funi tirate da uomini sui due lati. La comunità dei Romagnoli, mentre portava a termine la straordinaria impresa idraulica – senza la quale non vedremmo oggi la moderna Ostia, gli stabilimenti balneari, gli scavi archeologici o le fiorenti colture di Maccarese –, restò fedele nella organizzazione della sua vita interna agli ideali socialisti che l’avevano animata fin dall’inizio. Sul lato di Ostia la bonifica era già completata all’inizio degli anni Novanta, mentre si prolungò per i primi due decenni del XX secolo sul versante di Maccarese. Conclusi i lavori, i coloni chiesero in affitto i terreni, dove impiantarono coltivazioni soprattutto di cereali e di cocomeri. A Maccarese e Isola Sacra le terre non furono distribuite ai coloni ma, tramite l’Opera Nazionale Combattenti, ai reduci della Grande Guerra. Ancora oggi nell’area bonificata le idrovore continuano a entrare in funzione quando

l’acqua supera un determinato livello. Se si fermassero, in poche settimane vaste zone sarebbero nuovamente allagate, come già avvenne durante la guerra, quando i Tedeschi sabotarono gli impianti. A raccontare l’epopea della bonifica è un museo privato, l’Ecomuseo del Litorale Romano, con due sedi, una a Castelfusano presso l’Impianto Idrovoro della Bonifica, in via del Fosso di Dragoncello 172, aperta il sabato e la domenica mattina (tel. 06 5650609), l’altra a Maccarese nel Castello di S. Giorgio a piazza della Pace, aperta il giovedí pomeriggio e il sabato mattina (tel. 06 5650609).

Castelfusano. L’edificio dell’Impianto Idrovoro di Ostia Antica, presso il quale è allestita una delle sedi dell’Ecomuseo del Litorale Romano.

un «capanno» per il sole L’attuale Cooperativa Ricerca sul Territorio, che ha dato vita all’Ecomuseo, è stata fondata nel 1978 da Maria Pia Melandri e Paolo Isaia, che accolgono i visitatori del museo e ne illustrano i contenuti. Il bisnonno di Maria Pia, Achille Melandri, fu uno dei 400 coloni, mentre la bisnonna,Virginia Signani, è stata la fonte di storie e di informazioni preziose. Per esempio, i particolari dell’abbigliamento femminile, cosí come viene ricostruito nel museo, caratterizzato da un doppio fazzoletto con una intercapedine di cartone, il «capanno», che creava una visiera per proteggere il volto dai raggi del sole, e da due manicotti che proteggevano le mani, poiché all’epoca la pelle abbronzata denunciava la condizione contadina. In determinate circostanze, come la mietitura e la trebbiatura, si indossavano spessi guanti e calze di lana, quasi insopportabili per il calore, che proteggevano dal morso delle vipere talvolta celate sotto il grano. I denti dei rettili si impigliavano nello spessore del tessuto e davano alle donne il tempo di ucciderli con il falcetto. Nella colonia ogni donna aveva una squadra di 10 uomini della quale occuparsi. Fra i compiti anche quello di tenere i soldi, per evitare che fossero dilapidati all’osteria. I Ravennati battevano moneta propria – il museo conserva alcune di quelle singolari banconote – a uso interno nella comunità, in attesa che arrivassero i sospirati soldi veri dal Ministero dei Lavori pubblici, nei quali il danaro della colonia poteva essere cambiato. a r c h e o 89


archeotecnologia • kestrosphendone

frecce senz’arco di Flavio Russo; disegni ricostruttivi dell’autore

nel 168 a.C., a pidna, i romani ebbero la meglio su Perseo, re dei Macedoni. ma non fu una vittoria facile e i legionari patirono i colpi di un’arma Economica e di ridotto ingombro, che, simile a una fionda, scagliava dardi a grande distanza e con precisione notevole

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ochi anni fa, presso la cittadina abruzzese di Magliano dei Marsi, lungo la via Tiburtina Valeria – l’arteria piú importante che collegava Alba Fucens a Roma – i resti di un sepolcro monumentale sono stati attribuiti alla tomba apprestata per il re Perseo di Macedonia (212-165 a.C. circa). Sconfitto dal console Lucio Emilio Paolo nel 168 a.C., nella

battaglia di Pidna, in Tessaglia, il sovrano era stato condotto prigioniero a Roma e quindi esiliato proprio ad Alba Fucens, dove morí pochi anni piú tardi, trovandovi, dunque, onorata sepoltura. La battaglia pose fine alla terza e ultima guerra macedonica per via della disastrosa sconfitta subita dai Macedoni, ma fu vinta a caro prezzo dai Romani.

In quello scontro risolutivo, infatti, tanto Livio (XLII, 65) che Polibio (XXVII, 11) evidenziano le forti perdite inflitte ai legionari da una nuova arma da lancio individuale, la kestrosphendone. Si trattava di un ibrido fra l’arco e la frombola, poiché del primo conservava la freccia, ma con la cuspide del giavellotto – in greco kestros, nome col quale i Romani la definirono bre-

Acquerello che ricostruisce un momento della battaglia di Pidna, combattuta nel 168 a.C. e vinta dal console romano Lucio Emilio Paolo contro il re Perseo di Macedonia.

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archeotecnologia • kestrosphendone A destra: Magliano dei Marsi (L’Aquila). I resti del monumentale sepolcro attribuito a Perseo, lungo la via Tiburtina Valeria. Dopo la battaglia di Pidna il re macedone fu esiliato ad Alba Fucens, dove morí pochi anni dopo. In basso: tetradramma in argento di Perseo di Macedonia, con l’effigie del sovrano al dritto. Zecca di Pella, 179-168 a.C.

vemente – e del secondo ne sono stati rinvenuti numerosi la fionda, sempre in gre- esemplari, piú o meno mutili. Stando a Polibio, dunque, la kestroco sphendone. sphendone: «era stata inventata durante la guerra contro Perseo.Aveva una una lunga cuspide di ferro lunga due palmi assenza In seguito dell’arma non pari a circa 15 cm, divisa in due parsi trova piú menzione e so- ti uguali, un puntale e una gorbia. In lo nel IV secolo ricompare questa si infilava un’asta di legno, qualcosa di simile, la plumbata, lunga una spanna (23 cm circa) e che però non richiedeva alcun spessa un dito (1,9 cm circa). In propulsore per il lancio. A differen- prossimità del suo centro vi stavano za del kestros, oltre alla descrizione fissate tre piccole alette di legno, di Renato Flavio Vegezio, e molto corte. Le due corde della fiondell’Anonimo del De rebus bellicis, da erano di lunghezza diversa, e si

la kestrosphendone Ricostruzione grafica del dardo di una kestrosphendone, un’arma da lancio utilizzata per la prima volta dall’esercito macedone nella battaglia di Pidna.

La cuspide del dardo (kestros) era in realtà una cuspide di giavellotto, quindi piú lunga e piú pesante con un alloggiamento per l’asta a gorbia, leggermente conico e spaccato per favorirne l’incastro.

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La gorbia bloccava l’asta in essa infilata mediante un ribattino, spesso di rame e quasi sempre passante, in rari casi solo penetrante. L’innesto doveva assicurare il perfetto allineamento tra la cuspide e l’asta e doveva risultare piú robusto che in un normale dardo per sopportare la sollecitazione laterale impressa dalla rotazione.

Gli impennaggi erano costituiti da tre alette sottili di legno, collocate in posizione piú avanzata rispetto alla coda dell’asta per meglio bilanciare la preponderanza della cuspide dell’arma durante il suo volo.


collocava il dardo fra di esse per mezzo di una cintura, per liberarsi piú facilmente. Durante la rotazione, quando entrambe le corde erano tese, il dardo restava fermo, ma, al momento del lancio, una delle due corde si allentava e il dardo, violentemente espulso, partiva come una palla di piombo, e per l’energia del tiro, feriva profondamente chi incontrava nella sua corsa».

inventata ad hoc Il racconto di Livio, a sua volta, cosí descrive la kestrosphendone: «Questa era un nuovo tipo di freccia inventata per questa guerra. Si trattava di un ferro di lancia lungo due palmi, montato su di un’asta di legno lunga un mezzo cubito (22,5 cm circa), e spessa un dito. Per conservare l’equilibrio era dotata di tre alette, come quelle che si mettono alle frecce: il dardo si poneva in mezzo a una fionda, che aveva due corregge di diversa lunghezza, mantenendolo in equilibrio nella maggiore delle due tasche della fionda; sfuggiva, quindi, per il movimento rotatorio impresso alla corda, e partiva come una palla». I due brani, per molti studiosi interdipendenti, concordano per un dardo lungo 38 cm circa, dei quali 23 per l’asta e circa 15 per la cuspide di ferro, alquanto piú lunga

la tecnica di lancio La cuspide del dardo era inserita in un’apposita tasca di cuoio, fissata alla corda lunga C e alla breve corda di raccordo B. Questa, a sua volta, andava a unirsi alla corda corta A mediante una sorta di cappio, in cui era inserita la coda del dardo, che veniva perciò trascinato nella rotazione.

La corda lunga C, esattamente come nella fionda pastorale, era quella che, al momento del lancio, dopo la rotazione, veniva lasciata dal tiratore, facendo perciò aprire la fionda e partire il dardo per la sua tangente.

La corda corta A, diversamente dalla fionda, non terminava fissata alla tasca, ma a un anello o a un cappio nel quale si inseriva la coda del dardo fino all’impennaggio. Al momento del lancio, restava nella mano del tiratore, imprimendo cosí l’ultima spinta propulsiva.

In alto: ricostruzione grafica di una kestrosphendone. A destra: modalità di lancio del dardo della kestrosphendone.

La rotazione che la fionda impartiva al dardo serviva a imprimergli una sufficiente velocità iniziale, piú o meno analoga a quella impressa da un arco. Ma, a differenza di questo, non era fornita dalla cessione di energia potenziale elastica accumulata durante la messa in tensione precedente, ma dall’energia cinetica prodotta dalla velocità di rotazione.

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archeotecnologia • kestrosphendone

delle usuali, che non eccedevano la decina di cm. L’adozione della gorbia, una sorta di cono cavo in cui entrava l’asta che un ribattino passante bloccava, era una delle due modalità praticate per il fissaggio della cuspide, consistendo l’altra nell’infiggere nell’asta il lungo codolo terminale del puntale. La prima maniera risultava molto piú robusta, poiché non indeboliva l’asta con il foro longitudinale, ma, anzi, la rafforzava con quella sorta di collarino, ed era preferita per proietti di maggiore energia o, al contrario, di piccole dimensioni, incompatibili con il codolo. Le lunghezze medie del codolo, come della gorbia, possono reputarsi pari a quella del puntale, ovvero di circa In alto: cuspidi di giavellotti e dardi di catapulta, tutti con innesto sull’asta a gorbia. A sinistra: cuspidi di ferro con innesto a codolo.

5-6 cm per le frecce, di 7-8 per i dardi di catapulta da un cubito. Per la freccia in questione si ricavano 7,5 cm che, considerando la massa della punta, assicuravano una leggera preponderanza anteriore, ottimale per il corretto assetto di volo. L’asta, a sua volta, risulta di 19 cm, per una lunghezza complessiva di circa 30, compresi i 7,5 che, appuntiti, finivano nella gorbia. Circa le tre alette, fungenti da governali, sia Polibio che Livio le ricordano poste al centro, senza però precisare se dell’asta o dell’intera freccia. La razionalità porta a preferire la prima interpretazione, ritrovandosi altrimenti ad appena 4 cm dietro la cuspide, collocazione assurda per l’aerodinamica e il bilanciamento. Le alette, perciò, si sarebbero trovate a 10-12 cm dall’estremità posteriore dell’asta. Quanto al ribadirne la 94 a r c h e o

piccolezza, si deve immaginare relativa non alla loro lunghezza, ma alla larghezza, cioè a quanto esse fuoriuscivano dall’asta, che una serie di considerazioni porta a stimare in un paio di cm, pari a quella delle penne delle tradizionali frecce. Il dettaglio, poi, che fossero di legno non deve ritenersi derivante da esigenze aerodinamiche, bensí meccaniche, di robustezza nel trasporto, evitando cosí la faretra.

piú pesanti delle frecce L’accorto dimensionamento della cuspide, metà al puntale e metà alla gorbia, la posizione delle alette e la lunghezza dell’asta, sembrano scaturire da una stringente condizione di equilibrio in fase di volo, indispensabile per il corretto assetto dopo il lancio per rotazione. Il peso

complessivo è stato calcolato in circa 120 g, oltre il doppio delle frecce normali, peculiarità che sembra ricercata proprio con l’allungamento della cuspide. La fionda, che sarebbe piú esatto chiamare propulsore flessibile, ricordata da entrambi gli storici, doveva tale anomalia alla diversa connotazione del proietto. Come fosse realizzata non trova d’accordo tutti gli studiosi del settore e l’ipotesi piú condivisa la vuole di un’unica correggia, ma spartita in tre segmenti. Il primo, A, la cui estremità restava nella mano, terminava con un piccolo cappio, o un anello, nel quale si infilava la coda della freccia. Il secondo, B, lungo poco meno della freccia, terminava a sua volta con una sorta di tassello di cuoio, contro il quale si sistemava la punta della freccia. Il terzo, C,


la plumbata I resti di una plumbata (a destra) e la sua ricostruzione grafica (in basso).

La coda della plumbata era costituita da una breve asticciola di legno, necessaria soprattutto per sostenere l’impennaggio, indispensabile per stabilizzarne il volo in modo da percuotere il bersaglio sempre di punta.

La cuspide della plumbata era forgiata ad arpione, in modo da renderne difficoltosa e dolorosa l’estrazione, mettendo in tal modo fuori combattimento il colpito, anche quando non in pericolo di vita.

infine, piú lungo del primo, terminava nella mano e si mollava per il lancio (vedi disegno a p. 93). Supponendo una correggia di 1 m e una rotazione di 5 giri al secondo, al momento dello sgancio la freccia avrebbe avuto una velocità di 30 m/sec. Per dedurne le prestazioni pratiche è interessante ricordare che frecce di circa 50 g scagliate dagli archi impattano, a 50 m/sec, a 150 m, mentre palle di piombo di 120 g scagliate dalle fionde, impattano, a 30 m/sec, a 120 m. È probabile, quindi, che fra questi due estremi vi fosse la potenzialità balistica del kestros. A prima vista, sembrerebbe un’arma tecnicamente scadente rispetto all’arco tradizionale, ma, per valutarla correttamente, occorre esaminarne, come per tutte le armi, il rapporto costo/beneficio, che ostenta a suo vantaggio varie peculiarità. Innanzitutto il costo, modestissimo e incomparabilmente minore di quello di un mediocre arco. Poi la validità, sintesi della leggerezza, resistenza e minimo ingombro. Infine la letalità degli impatti, per il suo maggior peso. Non sappiamo se l’arma nei secoli che seguirono conobbe ulteriori impieghi, ma, considerando che i Romani in genere disdegnavano le armi da lancio individuali, lasciandole ad appositi

La massa centrale, generalmente di piombo, serviva ad accrescere l’energia cinetica residua al momento dell’impatto, quindi a incrementare la letalità dell’arma.

reparti ausiliari, si deve presumere che entrò in una lunga fase di quiescenza, dalla quale uscí, come accennato, col nome di plumbata.

lancio... a mano La plumbata era una freccia, con una lunga cuspide di ferro, in ciò simile alla precedente ma un po’ piú lunga, circa 50 cm, munita presso la sua estremità posteriore, poco prima dell’innesto con l’asta di legno, di un ingrosso di piombo fusiforme o sferico di varie dimensioni, non eccedente i 200-300 g. L’arma acquistava cosí una discreta violenza d’impatto, pur essendo scagliata solo con la mano. Essendone stati ritrovati alcuni esemplari, ovviamente limitati alla sola parte metallica, con le descrizioni delle fonti è stata possibile una puntuale ricostruzione. Stando a Renato Vegezio Flavio di «dardi piombati, chiamati “martiobarboli”…[erano armate] due legioni di seimila effettivi di stanza in Illiria (…) capaci di scagliarli con rara potenza e abilità. (…) Questi legionari portarono a termine con grande capacità tutte le guerre ingaggiate, tanto che Diocleziano e Massimiliano (…) a premio del loro valore disposero che avessero gli appellativi di Gioviani ed Ercoliani e avessero rango preminente su tutte le altre legioni (…) erano soliti

portare all’interno degli scudi cinque dardi piombati che, se lanciati con la dovuta efficacia, consentivano a essi di svolgere la funzione degli arcieri» (Lib I, XVII). A sua volta l’Anonimo del De rebus bellicis cosí la descriveva: «questo tipo di proietto, che appare dotato di penne come la saetta, solitamente non viene scagliato né dall’impulso dell’arco, né da quello della ballista; lanciato invece dall’impeto e dalla forza della mano, piomba sul nemico a breve distanza (…) È fatto di legno lavorato a mo’ di saetta, su cui viene accuratamente conficcato un ferro forgiato a forma di spiedo; l’estremità cava [gorbia] di questo ferro sporge un po’ (…) Nella parte superiore di questo proietto sono fissate le penne per accrescerne la velocità, lasciando al di sopra delle stesse tanto spazio quanto basta alle dita di chi l’impugna». Da entrambe le descrizioni risulta evidente la somiglianza della plumbata con il kestros, lasciando propendere per una derivazione ottenuta tramite una ulteriore semplificazione. Abolita la fionda e appesantito il kestros con un pezzo di piombo, la plumbata veniva scagliata roteando il braccio teso, con una velocità prossima ai 20m/sec, provocando per la sua massa gravi lesioni nei colpiti, non di rado mortali. a r c h e o 95


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

nelle spire del mistero due oggetti in ceramica che li hanno fatti letteralmente impazzire per giungere a una spiegazione plausibile della loro funzione. Sono stati raccolti entrambi alla superficie del suolo, dove erano stati portati probabilmente da qualche moderna aratura. Anche se alcune scheggiature impedivano di osservare i due manufatti nella loro integrità (il frammento piú grande è lungo 14 cm), se ne potevano apprezzare la forma troncoconica e la superficie esterna segnata da una profonda solcatura a spirale, che conferiva agli oggetti l’aspetto di una grossa vite fittile. Su uno di essi, in corrispondenza della base, restava l’impronta di due ditate (un pollice e un indice) impresse sull’argilla ancora fresca, evidentemente nel maneggiare l’oggetto. La ceramica era di un colore rosso piuttosto vivo lungo metà della sua superficie e piú chiaro lungo l’altra metà.

a che cosa servivano i due enigmatici tappi rinvenuti negli scavi di una fornace presso brindisi? per trovare la risposta – come già accessori avvitabili? insegnava il conte di caylus – basta A prima vista non era possibile cercare un confronto. che, in questo definire la funzione originaria dei due frammenti, probabilmente caso, viene da un’isola dell’egeo

I

lettori di «Archeo» sanno bene che l’archeologia moderna non è fatta di misteri o di enigmi, ma, piú semplicemente, di domande, molte delle quali aspettano ancora una risposta plausibile. Il suo fascino sta in questa ricerca continua, i cui percorsi non sono affatto lineari, perché il piú delle volte i «misteri» altro non sono che usi e funzioni di oggetti o spazi appartenenti a un mondo passato del quale stentiamo a rintracciare i fili. Talvolta il costume giornalistico indugia su questi aspetti misteriosi per attrarre l’attenzione del

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pubblico; altre volte sono gli archeologi stessi che, di fronte alla reticenza di alcuni oggetti, cioè alla loro apparente inspiegabilità, confessano a se stessi di trovarsi di fronte a qualcosa di enigmatico, come le caselle di un cruciverba per il quale non si rintraccia alcuna soluzione. È quanto è accaduto negli scavi delle fornaci romane di Giancola, presso Brindisi, su cui abbiamo avuto modo di informare in passato i nostri lettori. Tra le migliaia di frammenti catalogati, disegnati e interpretati, gli scavatori si sono trovati tra le mani

utilizzati come accessori in qualcuno dei processi produttivi degli impianti. La loro struttura spiraliforme lasciava supporre che venissero impiegati per qualche uso che richiedeva un’operazione di avvitamento/svitamento. Quando vennero raccolti sul terreno e portati nei depositi del locale Museo archeologico, qualcuno ne propose un’interpretazione molto suggestiva. Partendo infatti dall’osservazione che le anse delle anfore prodotte a Giancola sono per lo piú molto standardizzate, anche nel loro diametro, era sorta la domanda se il manufatto in questione non potesse appartenere


Nella pagina accanto: i due enigmatici manufatti in terracotta, di forma troncoconica con superficie a spirale, rinvenuti sugli scavi delle fornaci romane di Giancola (Brindisi), e interpretati come tappi avvitabili. In basso: riproduzione grafica di un oggetto troncoconico spiraliforme e cavo, in ceramica, rinvenuto in un impianto per la produzione delle anfore del II sec. d.C., sull’isola di Chios.

al meccanismo interno di uno strumento usato per fabbricare le anse delle anfore. In altri termini, questa macchina avrebbe dovuto consistere, oltre che della spirale interna, anche di una manovella, di una vasca di alimentazione e di un foro di uscita che avrebbe svolto la funzione di una trafila di sezione circolare. L’idea che gli impianti ceramici di Giancola avessero adottato uno strumento appositamente predisposto per la fabbricazione meccanica delle anse delle anfore era tutt’altro che peregrina. Non mancano infatti altri elementi, di natura topografica (organizzazione degli spazi), archeologica ed epigrafica (processo di bollatura delle anse e loro successiva applicazione al corpo dell’anfora), che consentirebbero di

inquadrare l’uso di sia pur semplici macchine all’interno in un processo produttivo che ha alcune caratteristiche proprie delle manifatture (produzione in serie e divisione del lavoro tra le maestranze). Tuttavia, anche se dagli autori antichi sappiamo che il meccanismo della vite senza fine sarebbe entrato nell’uso per la fabbricazione dei torchi vinari già nella prima età augustea, l’assenza di confronti provenienti da altri impianti lasciava del tutto impregiudicata questa soluzione.

ceramica da forno

Veduta dello scavo di Giancola (Brindisi). Gli impianti si datano tra il I sec. a.C. e gli inizi dell’età imperiale.

L’ipotesi si prestava, peraltro, a piú di un’osservazione critica: non si spiegavano, per esempio, l’uso della ceramica per un manufatto che avrebbe svolto meglio il suo compito se prodotto in legno duro, per esempio d’olivo, o l’assenza su entrambi i manufatti di tracce interpretabili come alloggi per l’imperniatura della eventuale manovella. D’altra parte, interpretazioni alternative piú praticabili non sembravano a portata di mano. Si è allora

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avanzata l’ipotesi che il meccanismo a vite potesse servire come tappo per la chiusura di vasche o altri tipi di contenitori. Anche in tal caso non si capirebbe però la preferenza accordata alla ceramica rispetto al legno, benché la fabbricazione di parti di meccanismi in ceramica sia sporadicamente attestata. È stata quindi proprio la preferenza per la fabbricazione in ceramica a orientare la ricerca verso una funzione collegata alle arti del fuoco. In un impianto caratterizzato dalla presenza di molte grandi

fornaci, un tappo avvitabile come quello di cui stiamo parlando avrebbe potuto svolgere, infatti, il ruolo di una valvola per la regolazione del tiraggio e della temperatura dei forni in attività e per il controllo dei loro scarichi.

Il confronto greco Il tappo a vite troncoconica sarebbe stato alloggiato in una madrevite da esso stesso creata per avvitamento nella struttura argillosa temporanea con cui si apprestavano le coperture delle camere di cottura. Inserito forse ancor crudo (come possono testimoniare le impronte di presa nell’argilla fresca), si sarebbe poi cotto con l’uso. In questo senso potrebbe anche orientare lo stato di conservazione dei manufatti, che, se non si possono definire ipercotti, sembrano comunque aver subito alte temperature in particolare da un lato (quello eventualmente piú esposto verso

l’interno della fornace). Ecco dunque che la differenza di colore riscontrata sui due lati degli oggetti acquisterebbe un senso plausibile. Su questa possibile interpretazione gli archeologi hanno lavorato, mettendosi alla ricerca di quei confronti che potessero dare un po’ di sostanza all’ipotesi, sulla scia di quanto oltre duecento anni fa insegnava il conte di Caylus (vedi box in questa pagina). Ma, per molto tempo, nessun impianto produttivo sembrava offrire materiali a sostegno dell’idea. La sorpresa è venuta da un’isola dell’Egeo. Di recente tra i materiali raccolti in un impianto per la produzione delle anfore di Chios gli archeologi hanno infatti recuperato anche un piccolo oggetto troncoconico – cavo invece che pieno – caratterizzato da un segno a spirale sulla superficie esterna: forse – hanno pensato anche loro – uno strumento per regolare il tiraggio delle fornaci… Ecco allora il confronto mancante. L’enigma forse è risolto, a meno che qualcuno non trovi una soluzione migliore.

Il metodo del conte Già nel XVIII secolo Anne-Claude-Philippe de Caylus – archeologo, critico d’arte, collezionista e incisore francese (1692-1765) – aveva teorizzato la «pratica del confronto»: «Vorrei che si cercasse non tanto di impressionare quanto di istruire, e di unire piú spesso alle testimonianze degli antichi la pratica del confronto, che per l’antiquario è come l’osservazione e l’esperimento per il fisico. L’ispezione di numerosi monumenti posti accuratamente a confronto permette di scoprirne la funzione, cosí come l’esame di numerosi fenomeni naturali, accostati secondo un ordine, ne svela il principio: questo metodo è cosí efficace, che il miglior sistema per convincere l’antiquario o il fisico è mostrare al primo nuovi documenti e al secondo nuovi esperimenti (…). Tuttavia, mentre il fisico ha sempre, per cosí dire, la natura ai suoi ordini e gli strumenti a portata di mano, quindi può verificare e ripetere l’esperimento in qualunque momento, l’antiquario è sovente costretto a cercare lontano i pezzi di cui ha bisogno per il confronto» (A.-C.-Ph. de Caylus, Recueil d’antiquités égyptiennes, étrusques, grecques et romaines, I, Paris 1752, pp. III-IV).

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vite di archeologi Giovanna Quattrocchi

il gigante del nilo

la prima puntata di questa nuova serie sui grandi archeologi italiani è dedicata a Giovanni battista belzoni: nato a padova nel 1778, personaggio dall’ingegno poliedrico e dalla vita avventurosa, divenne uno dei pionieri della nascente egittologia

A

lla fine del XVIII secolo la spedizione in Egitto di Napoleone (1798-99), aprí all’Europa la scoperta dell’antica civiltà delle piramidi. Bonaparte, infatti, aveva affiancato all’esercito una quantità di scienziati, incaricati, nelle sue intenzioni, di studiare le origini della storia egiziana e i grandi monumenti antichi. La fama della spedizione e le antichità che da quel momento invasero l’Europa portarono l’opinione pubblica a una vera passione per tutto ciò che era, o appariva, egiziano. Una follia egittomane percorse gli Stati europei in tutte le accezioni: storia, archeologia, pittura, scultura ma anche costume e moda in ogni manifestazione della vita quotidiana. Ciò portò anche a un accrescimento continuo dei viaggi, che indussero molti Europei alla «conquista» dell’Egitto per sete di conoscenza, per spirito di avventura oppure in cerca di

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fortuna e di arricchimenti. Anche gli Italiani non mancarono di seguire questa moda, che furoreggiava soprattutto a Parigi e a Londra, e sfidarono la sorte in fortunate esplorazioni e ricerche.

un barbiere mancato Tra i tanti spicca il nome di Giovanni Battista Belzoni, per la personalità incisiva e la singolarità delle sue avventure. Nato a Padova il 5 novembre del 1778 da un padre barbiere di nome Bolzon, Giovanni Battista era dotato di un poliedrico ingegno e di molto spirito inventivo, e la professione di barbiere, che gli era stata assegnata dalla sorte nel negozio paterno, gli riusciva estremamente sgradita. Dopo una prima fuga a 13 anni, con il fratellino di 9, rapidamente rientrata, con il consenso del padre si recò a Roma presso un padovano che lo iniziò agli studi di meccanica idraulica. L’arrivo dei Francesi lo indusse a

partire per Parigi, dove iniziò un piccolo commercio di reliquie e immagini sacre; passò poi in Olanda, dove approfondí le sue conoscenze idrauliche, che non mancò di sfruttare in Inghilterra, dove era arrivato nel 1803, organizzando giochi d’acqua nei circhi. Divenuto un giovanotto di proporzioni erculee, alto due metri e dotato di notevole forza fisica, si esibiva anche in esercizi ginnici. In Inghilterra risiedette nove anni, prese la cittadinanza inglese e sposò una giovane scozzese, Sarah Banne; organizzava con la moglie quadri viventi di argomento biblico e ottenne grande successo come «Sansone patagonico». Data la grande forza fisica, si esibiva in spettacoli in cui si caricava sulle spalle una piramide di 10-12 persone, e con esse passeggiava per la sala tenendo in mano due bandiere. Portò questi spettacoli in giro per l’Europa: Spagna, Portogallo, Italia, Sicilia,


Nella pagina accanto: Le rovine del grande tempio di Karnak, da Viaggi in Egitto e in Nubia dell’esploratore padovano Giovanni Battista Belzoni (1778-1823). 1820.

Giovanni Battista Belzoni nelle vesti di «Sansone patagonico» sostiene una piramide umana, in un acquerello del 1803. In Inghilterra, dove risiedette per nove anni, Belzoni si guadagnò da vivere esibendosi appunto con quel curioso soprannome in circhi e teatri.

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Riproduzione di una pittura murale dalle Tombe Reali di Tebe, da Viaggi in Egitto e in Nubia. 1820. Belzoni, durante le esplorazioni in poi passò a Malta. Qui avvenne la svolta della sua vita: nel 1815 conobbe un diplomatico egiziano, dal quale apprese che il pascià Mohammed Ali, approfittando della crisi del regime mamelucco innescata dalla spedizione napoleonica, aveva preso il sopravvento nel Paese, annientando definitivamente i Mamelucchi e diventando di fatto sovrano dell’Egitto. Il re, sulla base delle nuove idee introdotte dagli scienziati napoleonici e sulla scia del progresso tecnico propugnato dall’Encyclopédie, progettò un programma grandioso di vaste bonifiche e costruzione di dighe e canali nella valle del Nilo, sfruttando la meccanica idraulica. Belzoni, sempre pronto ad afferrare le occasioni, pensò di offrirgli una ruota idraulica di sua invenzione. Si recò ad Alessandria dove sbarcò

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Egitto, portò alla luce la tomba di Sethi I, l’ingresso della piramide di Chefren a Giza, e il tempio di Abu Simbel eretto da Ramesse II. con la moglie Sarah e con passaporto inglese, ed ebbe modo di intrecciare varie relazioni con importanti personalità europee residenti in Egitto, interessate alle antichità del Paese; tra queste l’orientalista svizzero – e scopritore di Petra – Johann Ludwig Burckhardt (1784-1817). Burckhardt presentò Belzoni al diplomatico inglese Henry Salt, console d’Inghilterra al Cairo, che lo introdusse, sotto la protezione inglese, presso il governo di Mohammed Ali.

cacciatori di tesori L’invenzione idraulica non ebbe successo presso il sovrano, ma Belzoni entrò a far parte di quella società di avventurieri e archeologi in cerca di fama in Egitto. Fra di essi c’era anche un altro italiano, Bernardino Drovetti (1776-1852),

colonnello dell’esercito francese poi console generale di Francia al Cairo, uno dei personaggi piú in vista tra coloro che cercavano di penetrare i segreti dei faraoni, ma anche in cerca di fama e di oggetti da collezione. Il collezionismo e quindi il desiderio di scavare nei luoghi archeologici si erano diffusi rapidamente e continuarono fino a quando, nel 1850, l’Egitto varò una legge per la tutela del patrimonio. Salt, intuite le capacità d’ingegno e di organizzazione di Belzoni, gli affidò la difficile impresa, tentata da altri inutilmente, di recuperare un busto colossale di Ramesse II che giaceva nel tempio funerario del sovrano a Tebe e di trasportarlo fino ad Alessandria per spedirlo a Londra. Belzoni riuscí nell’impresa e conquistò la stima del console inglese, che lo introdusse nel giro dei permessi di scavo. Tuttavia, ottenere una licenza non era facile, perché doveva essere rilasciata dalle autorità turche rappresentanti del sovrano. Con l’aiuto di Salt e lottando contro mille difficoltà dovute ai bey arabi, all’inaffidabilità e alla riottosità degli operai, alle promesse non mantenute, alle continue richieste di denaro e di regali, Belzoni riuscí a scalzare il potente Drovetti dalla sua posizione di privilegio nei riguardi delle concessioni. Il padovano girò il Paese in lungo e in largo al servizio di Henry Salt, aiutandolo ad arricchire il British Museum. In quattro viaggi, dal 1816 al 1819, acquisí sedici reperti di gran pregio per Londra: oltre al busto di Ramesse, altri colossi reali come Tutmosi II, Amenofi II e Sethi II. Nel contempo recuperava il sarcofago di Sethi I e il coperchio del sarcofago di Ramesse III, attualmente esposti nei Musei Soane e Fitzwilliam di Londra, due obelischi di File, ora nella tenuta di un lord a Kingston Lacey, e due statue della dea Sekhmet con testa di leonessa, che donò alla sua città natale, Padova. Durante il soggiorno a Tebe, nella Valle dei Re, Belzoni scoprí e scavò


la tomba di Sethi I; a Giza trovò l’entrata della piramide di Chefren e fu il primo a penetrare all’interno del monumento. Scoprí il sito della città di Berenice sul Mar Rosso e le rovine del tempio di Amon nell’isola di Siwa, luoghi a cui arrivò dopo un lungo e periglioso viaggio nel deserto. Ma la riscoperta piú eclatante, avvenuta nel 1817, fu quella del tempio di Abu Simbel (in verità già visitato, nel 1813, da Burckhardt, che della sua scoperta aveva riferito a Belzoni, n.d.r.), dove le grandi rocce che dominano il corso del Nilo celavano i maestosi templi del faraone Ramesse II. Qui le sabbie ostruivano quasi del tutto le facciate dei templi e le grandi statue faraoniche che le ornavano.

la damnatio memoriae Ci volle un lungo lavoro per eliminare la sabbia e far riemergere le architetture scavate nella roccia. Il console Salt aveva espresso le sue perplessità verso l’impresa e la sua fiducia in Belzoni era fortemente diminuita: gli affiancò quindi il suo segretario Henry William Beechey, una mossa che il padovano prese come una prova di sfiducia nelle sue capacità, malgrado il Beechey, sedotto dalla sua personalità, avesse collaborato subito con entusiasmo. Nel 1818 Salt si recò ad Abu Simbel con William Bankes, collezionista e antiquario inglese, e in quell’occasione fece cancellare il nome del padovano dall’iscrizione posta a ricordo della sua impresa, segno della rottura dei rapporti con Belzoni. In seguito una mano ignota scalpellò anche il nome di Salt su due iscrizioni poste sul santuario, mentre il nome di Belzoni fu, con un bel gesto, reinserito dal francese Frédéric Cailliaud nel 1822. Belzoni rimase in Egitto fino al 1820, poi tornato a Londra scrisse una relazione dei suoi viaggi dal titolo Narrative of the Operations… in Egypt and Nubia (stampata in Italia, a Milano, nel 1825 con il titolo

Viaggi in Egitto ed in Nubia contenenti il racconto delle ricerche e scoperte archeologiche fatte nelle piramidi, nei templi, nelle rovine e nelle tombe, di que’ paesi...), corredata da 44 incisioni colorate, edita a Londra nel 1820 e accolta con successo in tutta Europa.

intuizioni brillanti Pur lavorando al soldo di coloro che di fatto spogliavano i monumenti egiziani per i musei europei, Belzoni era pervaso da un reale e sincero interesse scientifico nei confronti delle antichità, interesse provato dalla sua inesausta ricerca di nuovi siti e dall’attività di scavo e di testimonianze del suo lavoro: disegni, rilevamenti di piante, elevati e pitture, descrizioni e ricalchi di rilievi e di particolari architettonici. Egli prevenne molti sistemi della tecnica archeologica e dell’esplorazione del suolo; fu il primo a capire l’importanza non solo della scoperta, ma della relazione di essa e il suo libro è la tipica prova della diffusione verso il pubblico di una operazione scientifica. La divulgazione a livello popolare fu una sua intuizione, che esprimeva la volontà di far partecipe un piú vasto pubblico. Naturalmente, vi sono errori nella sua relazione: nel riconoscimento dei personaggi, nelle attribuzioni dei templi, delle statue e delle Giovanni Battista Belzoni vestito da arabo, in un’illustrazione tratta da Viaggi in Egitto e in Nubia. Il libro, edito a Londra nel 1820, fu stampato in Italia, a Milano, cinque anni piú tardi.

tombe, nell’assenza di datazioni. Si deve pensare che allora i geroglifici erano appena stati decifrati (vi riuscí Jean-François Champollion nel 1822, grazie alla Stele di Rosetta) e quindi le cronologie dei faraoni erano ancora da stabilire. L’opera fu lanciata anche grazie a un’esposizione dei reperti e disegni di Belzoni, allestita nel 1820 nella Egyptian Hall di Piccadilly, costruita in stile «antico Egitto» nel 1812 dall’architetto Peter Frederick Robinson. Tuttavia la voglia di avventura non si era ancora placata nell’anima assetata di conoscenza di Belzoni, e questa volta gli fu fatale: nel 1823 egli progettò un viaggio avventuroso alla scoperta del corso del fiume Niger: ma a Gwato, in Nigeria, si ammalò gravemente e morí il 3 dicembre 1823.


l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

Il buio plasmato dall’uomo

da millenni il sottosuolo attira l’interesse del genere umano. per abitarvi, rifugiarsi, raccogliervi e trasportare acqua, seppellirvi e onorare i defunti, praticare culti religiosi, prelevare minerali…

A

lcuni oggetti in pietra scheggiata risalenti a circa 2 milioni di anni fa, probabilmente lasciati da individui appartenenti alla specie Homo habilis, ritrovati a Wonderwerk Cave (Sud Africa), sono la piú antica prova dell’utilizzo di una grotta da parte dell’uomo. È difficile spiegare perché, a parte la facilità di adattamento quale luogo in cui ripararsi e proteggersi, gli ambienti sotterranei naturali abbiano da sempre attratto l’uomo. Risulta altrettanto complesso comprendere perché l’uomo abbia avviato la realizzazione di opere ipogee laddove le condizioni climatiche o le vicende storiche lo richiedevano e le caratteristiche morfologiche e litologiche lo permettevano. Un vero e proprio costruire «in negativo», per sottrazione, modellando spazi non per accumulo di materia – come quando si innalza una qualsiasi struttura «in elevato», con i piú vari materiali –, bensí eliminando ciò che costituisce la massa rocciosa che si desidera edificare.

vivere nel «vuoto» Creare il vuoto per riempirlo di vita, per dare origine alle «cavità artificiali». Una sorta di «ordine rovesciato delle cose», titolo scelto per questa rubrica, prendendo in prestito una frase di Claudio Costa (1942-1995), l’artista che è stato il massimo esponente, se non il fondatore, dell’arte antropologica. In ogni angolo del globo si trovano opere sotterranee diverse per epoca, realizzazione e destinazione

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Gravina in Puglia (Bari). Ispezione dell’acquedotto settecentesco nell’ambito di un progetto promosso dall’UNESCO.


d’uso. Strutture costruite in profondità per procurare acqua e minerali, sfruttare la naturale inerzia termica degli ambienti ipogei per sopravvivere a condizioni climatiche esterne avverse, sopperire alla scarsità di materiale da costruzione, seppellire i morti, trovare condizioni di isolamento ascetico, difendersi da razzie, persecuzioni o eventi bellici, nascondersi alla giustizia, sfruttare la facilità di escavazione di alcuni tipi di roccia rispetto ad altre tecniche costruttive. L’ampia tipologia delle strutture scavate nel sottosuolo è specchio, oltre che delle necessità, delle capacità produttive e organizzative delle società che le hanno create. Per esempio, gli insediamenti sotterranei racchiudono non solo funzionalità abitative, ma anche opifici, magazzini, stalle, piccionaie e apiari, mentre i complessi idraulici comprendono opere di bonifica, captazione, trasporto, raccolta (cisterne e pozzi), scarico (fognature), transito (canali navigabili).

Una scienza giovane Ai confini tra speleologia e archeologia, l’esplorazione-studio delle cavità artificiali è un settore della ricerca nato negli ultimi trent’anni. Dalla speleologia provengono le tecniche di progressione basilari per chi pratica questo tipo di indagini in ambienti spesso angusti e pericolosi. Dall’archeologia deriva la metodologia per analizzare questi particolari prodotti dell’ingegno umano, con apporti da diverse specializzazioni (archeologia del paesaggio, ambientale, dell’architettura, della produzione...). Geologi, architetti, ingegneri contribuiscono a tali ricerche, conferendo un carattere multidisciplinare e sistematico, ormai praticato in tutto il mondo. La Società Speleologica Italiana ha costituito nel 1981, a Narni (TR), la Commissione Cavità Artificiali, interlocutore privilegiato degli enti

In alto: Cappadocia (Turchia). Discesa, con tecniche speleologiche, di un pozzo, nella città sotterranea di Derinkuyu.

In basso: la piccionaia rupestre di Tsaghkadzor, presso Ani (Turchia), capitale del regno di Armenia nell’anno Mille.

di tutela del patrimonio storico e archeologico, che svolge attività scientifica con musei, università e soprintendenze. La Commissione ha elaborato una catalogazione tipologica delle opere ipogee artificiali, cura il catasto ufficiale, la conservazione dei dati acquisiti nelle varie regioni italiane e, dal 1999, attraverso la rivista Opera Ipogea raccoglie e divulga i risultati degli studi svolti. Con questa nuova rubrica vogliamo condurre i lettori di «Archeo» alla scoperta di questi mondi sotterranei, presentando i piú recenti ritrovamenti in Italia e nel mondo, suggerendo itinerari di visita, ponendo riflessioni sul dialogo tra archeologia e speleologia – purtroppo ancora troppo autoreferenziate – e segnalando congressi, corsi, pubblicazioni, mostre, documentari e altre manifestazioni. Si ringrazia la Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana per la collaborazione.

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divi e donne Francesca Cenerini

moglie fedele e madre infelice FIGLIA DI AGRIPPA E nipote di augusto, L’AMBIZIOSA AGRIPPINA MAGGIORE SPOSÒ GERMANICO E GLI DIEDE numerosi FIGLI. TRA CUI figura il FUTURO IMPERATORE CALIGOLA, CHE ALLA MADRE – DOPO LA SUA MORTE in ESILIO SULL’ISOLA DI VENTOTENE – tributò GRANDI ONORI

A

grippina Maggiore è figlia di Marco Vipsanio Agrippa, il valoroso generale e fedele collaboratore di Augusto, e di Giulia Maggiore. Il sodalizio tra i due uomini fu ulteriormente rinforzato dal matrimonio, avvenuto nel 21 a.C., fra lo stesso Agrippa e l’unica figlia di sangue di Augusto, Giulia, nata dall’unione di quest’ultimo con Scribonia. Furono nozze prolifiche: la coppia ebbe cinque figli, tra cui appunto Agrippina, detta Maggiore per distinguerla dall’omonima figlia, Agrippina Minore, madre di Nerone. Dopo la morte del padre e l’esilio della madre (avvenimento traumatico per la corte augustea di cui si è già parlato nel corso di questa rubrica), Agrippina Maggiore andò a vivere nella casa di Augusto e di Livia, dove fu educata. Sposò Germanico, figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore, e anche questo

matrimonio fu molto prolifico: i due, infatti, ebbero nove figli. Sei di loro raggiunsero l’età adulta e svolsero un ruolo di primo piano nella corte imperiale: Nerone e Druso Cesari, Caio Giulio Cesare Germanico (il futuro imperatore Caligola), le Giulie Agrippina, Livilla e Drusilla.Quest’ultima, molto amata dal fratello imperatore, fu divinizzata post mortem nel 38 d.C., ma il suo culto non sopravvisse all’età di Caligola.

congiure a corte Agrippina Maggiore seguí il marito durante le sue campagne militari, sul fronte renano e in Oriente, in particolare in Siria. Come è noto, gli storici romani accusarono Tiberio di avere fatto avvelenare Germanico, in quanto l’imperatore sarebbe stato geloso dei successi militari e della popolarità del nipote, ma la recente scoperta di un documento epigrafico ci aiuta a

comprendere meglio la vicenda. Si tratta della cosiddetta Tabula Siariensis, cioè del testo di due provvedimenti del senato (senatus consulta) emanati nel 19 d.C., relativi alle pubbliche onoranze funebri da tributare a Germanico, nei quali Tiberio, Livia, Antonia Minore (la madre di Germanico), Druso Minore (il figlio di Tiberio) e Agrippina Maggiore occupano una posizione di primo piano all’interno della domus Augusta. Germanico era morto in circostanze misteriose durante una missione ufficiale in Oriente e Tacito racconta che di questa morte erano responsabili Tiberio e Livia, per il tramite del legato di Siria, Cneo Calpurnio Pisone e della di lui moglie Munazia Plancina, amica intima di Livia. Pisone era un tradizionalista, amico di vecchia data di Tiberio, contrario a ogni deriva autocratica e del tutto ostile ai costumi filoorientali di Germanico. Agrippina

i sei «gioielli» di agrippina Giulia Maggiore

Marco Vipsanio Agrippa

Agrippina Maggiore

Drusilla

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Caio Cesare (Caligola)

Druso Cesare

Germanico

Nerone Cesare

Giulia Livilla

Agrippina Minore


Ritratto in marmo di Agrippina Maggiore. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. Nata nel 14 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa e Giulia Maggiore, Agrippina, accusata di tradimento da Tiberio, morĂ­ in esilio a Pandataria (odierna Ventotene), nel 33 d.C., la stessa isola in cui era stata confinata la madre.


Maggiore tornò a Roma recando con sé l’urna con le ceneri del marito. L’anno successivo, nel 20 d.C., Pisone, assieme alla moglie Plancina, fu accusato di omicidio, estorsione e tradimento. Il senatus consultum de Cn. Pisone patre, parimenti noto per via epigrafica, ci informa che il legato fu condannato per non avere rispettato la maiestas della domus Augusta. Pisone fu indotto al suicidio, mentre il figlio fu scagionato e Plancina potè salvarsi grazie all’intervento di Livia. In questo testo ufficiale, esempio perfetto dei filtri adottati dalla propaganda imperiale, viene lodata la famiglia di Germanico per la moderazione che ne ha caratterizzato il comportamento durante questa fase cruciale per la sicurezza di Roma. Nella famiglia hanno uno specifico rilievo le donne ricordate nel testo del decreto: Agrippina Maggiore (di cui viene elogiata la prolificità, legata alla continuità della stessa famiglia imperiale), Antonia Minore e Livia Giulia, rispettivamente moglie, madre e sorella del defunto Germanico. Gli studiosi si sono chiesti il motivo per cui Tiberio abbia abbandonato al suo destino il fedele amico di una vita, e abbia fatto condannare Pisone. Come ha scritto Giuseppe Zecchini (in Fazioni e congiure nel mondo antico, Milano 1999, pp. 309-335), Tiberio dovette fronteggiare una plebe inferocita per la morte del suo idolo Capitello di lesena di tipo corinzieggiante in marmo bianco di Carrara, dalla cosiddetta domus del Gianicolo. I sec. d.C. Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. La lussuosa residenza, rinvenuta durante i lavori del Giubileo del 2000, è stata identificata con gli horti Agrippinarum – ereditati da Agrippina e, in seguito, entrati in possesso di Caligola e Nerone – che si estendevano tra il Gianicolo e il Vaticano.

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(opportunamente manovrata dagli amici dello stesso Germanico e di Agrippina Maggiore), che minacciava di farsi giustizia da sola: l’imperatore dovette sacrificare un capro espiatorio per timore che la protesta di piazza si estendesse all’esercito, parimenti sensibile al fascino di Germanico, ma di importanza vitale per il mantenimento del potere imperiale.

le accuse di tiberio Dopo la morte di Germanico e di Druso Minore, il figlio di Tiberio (23 d.C.), a corte si ebbe un violento scontro tra Seiano, il potente prefetto del pretorio di Tiberio, e Agrippina Maggiore e l’entourage degli amici suoi e del marito, per altro molto composito. Secondo Tacito (Annali, 1, 33, 3), l’amore per il marito Germanico era stato in grado di temperare l’innato carattere arrogante della donna: «l’onestà e l’amore per il marito addolcivano un animo

indomito». Invece, dopo la sua morte, pur mantenendosi fedele alla sua memoria (la sua pudicitia è definita impenetrabilis), Agrippina Maggiore, sempre nelle parole di Tacito, cominciò ad avere un interesse ossessivo per la politica, ad avere smanie di potere (dominandi avida) e, quindi, a comportarsi molto male, secondo i consueti parametri maschili del corretto comportamento femminile. I suoi rapporti con Tiberio si deteriorarono molto, stando al racconto delle fonti. Nei primi anni Venti del I secolo d.C. alcuni amici di Germanico avevano incominciato a prendere le distanze da Agrippina e dalla sua cerchia piú stretta: sono quelli che si allearono con Seiano e che, pertanto, all’inizio poterono avvalersi dell’appoggio di Tiberio. Agrippina Maggiore e il suo gruppo, invece, cercarono consensi tra i circoli piú tradizionalisti del senato. I suoi


Particolare dell’iscrizione sull’urna che conteneva i resti di Agrippina Maggiore, che la ricorda come figlia di Agrippa, nipote di Augusto, moglie di Germanico e madre di Caligola. Roma, Musei Capitolini.

rapporti con Tiberio si fecero sempre piú tesi: gli amici di Agrippina Maggiore, tra cui il console del 13 d.C., Caio Silio, trionfatore in Germania e amico personale di Germanico, vennero accusati di laesa maiestas. Nel 26 d.C. Tiberio rifiutò ad Agrippina Maggiore il permesso di risposarsi, evidentemente per non rafforzare la sua posizione. Una delle armi vincenti di Agrippina era, infatti, la diretta discedenza dal sangue carismatico di Augusto e quindi il fatto che poteva giocare un ruolo importante all’interno della domus Augusta, profondamente divisa, nella scelta del successore dell’imperatore. Fu questo il ruolo fondamentale di tutte le future Augustae nella corte imperiale romana. In questo caso, la fonte di Tacito sono le Memorie di Agrippina Minore, lette anche da Plinio il Vecchio e da Seneca, ma di cui non ci è giunta neppure una riga. Ritiratosi in volontario esilio a Capri, Tiberio, su

istigazione di Seiano, fece incriminare nel 29 d.C. Agrippina Maggiore e il figlio Nerone. La donna morí in esilio pochi anni dopo, il figlio venne ucciso e la stessa sorte toccò al fratello Druso, che fu arrestato nel 30 d.C. e che morí in prigione nel 33 d.C.

il solo superstite Caligola rimase l’unico superstite dei figli maschi di Germanico e di Agrippina Maggiore e diventò imperatore dopo Tiberio. È possibile che lo stesso Caligola abbia mutuato proprio dalla madre il senso della legittimità del potere imperiale su base familiare e dinastica: se cosí è, Agrippina Maggiore può essere considerata una figura che ha avuto un ruolo fondamentale nella progressiva evoluzione del principato. Non a caso Tacito la descrive in termini negativi, soprattutto per il fatto che avrebbe trasmesso alla figlia omonima la volontà di diventare «imperatrice», contando sul fatto

che nelle sue vene scorreva il sangue di Augusto, tramite una discendenza tutta al femminile. Agrippina Maggiore e la sorellastra Vipsania Agrippina (nata da un precedente matrimonio di Agrippa) avevano ereditato dal padre gli horti Agrippinarum, che si estendevano sulla riva destra del Tevere, tra il Gianicolo e il Vaticano: questi horti entrarono successivamente nella disponibilità di Caligola e di Nerone. Una lussuosa dimora extraurbana, la cosiddetta domus del Gianicolo, riccamente decorata di preziosi marmi colorati, è stata di recente indagata ed è stata avanzata l’ipotesi che possa essere identificata proprio con gli horti Agrippinarum: si tratta di una conferma del lusso e dello sfarzo delle residenze aristocratiche suburbane, a maggior ragione se appartenenti ai membri della corte imperiale. I ritratti di Agrippina Maggiore presentano, sostanzialmente, un’unica tipologia iconografica, che si mantenne costante nel tempo, anche dopo la sua riabilitazione a opera del figlio Caligola e del cognato Claudio (dopo che questi ne sposò in quarte nozze la figlia Agrippina Minore) e che risale al momento del riconoscimento del suo ruolo pubblico come moglie di Germanico. Nel 37 d.C. il figlio Caligola fece trasportare con tutti gli onori l’urna funeraria della madre, ancora oggi visibile nei Musei Capitolini, nel mausoleo di Augusto: l’iscrizione (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 886) la ricorda, secondo la logica aristocratica del tempo, come figlia di M. Agrippa, nipote del divo Augusto, moglie di Germanico Cesare, madre del principe C. Cesare Augusto Germanico.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

un funerale... divino L’apoteosi di un imperatore, cioè la sua consacrazione a divinità, era un momento fondamentale per il consenso sociale e la continuità all’interno del Principato. un passaggio puntualmente registrato dall’iconografia monetale

«È

uso dei Romani divinizzare gli imperatori che muoiono lasciando successori ed essi chiamano questo rito apoteosi. In tale occasione si vedono per la città forme di lutto unite a celebrazioni e riti religiosi». Cosí scrive Erodiano, storico greco vissuto tra il 170 e il 255 d.C., nella sua Storia dell’Impero dalla morte di Marco (IV, 2), a proposito della cerimonia funebre tributata a Settimio Severo dai figli Caracalla e Geta, descrivendo con dovizia di particolari sia il rituale che gli apprestamenti scenografici che sancivano il passaggio post mortem dell’imperatore da uomo a dio. Momento fondamentale e tipico della vita politica e religiosa romana, la cerimonia funeraria del regnante con la connessa apoteosi interessa già Romolo in età regia e quindi Giulio Cesare, immediatamente trasformati alla loro morte in divinità e quindi a numi tutelari di Roma stessa.

simboli del divino La stella (o la cometa) del divus Iulius, simbolo del nuovo stato divino, la cui apparizione nel cielo era stata ratificata da un rappresentante del Senato quale segno dell’ascensione di Cesare, compare su diverse monete dedicate al divus Iulius emesse sotto Augusto. La valenza politica del complesso rituale riservato al principe e alla sua consacrazione, il funus imperatorum, è dunque da subito evidente nell’ideologia romana legata al culto imperiale:

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Scena di apoteosi su una valva di un dittico eburneo dell’inizio del V sec. Londra, British Museum.

divinizzando il predecessore, chi gli succede al regno riceve da un lato una vera e propria legittimazione divina, e dall’altro, imparentandosi al novello dio per sangue o per adozione piú o meno effettiva, si avvicina anch’esso alla divinità e si allontana, impercettibilmente, dalla massa degli altri uomini. Nel contempo, il momento critico della morte e del vuoto di potere che la segue è colmato subito da riti e prescrizioni che assicurano stabilità alla compagine sociale. Fondamentali, per l’avvenuto passaggio del principe nella sfera celeste, erano la cremazione del corpo (crematio) e un decreto del Senato che ratificava con un atto formale la trasformazione in divinità (Plutarco, Quaestiones romanae, 14). Se non condannati all’oblio dalla damnatio memoriae, gli imperatori e le loro consorti erano di regola inseriti nel pantheon romano, e il momento eccezionale è immortalato da rilievi, cammei, avori e monete. Mentre nei monumenti piú grandi è rappresentata l’ascesa al cielo dei principi in scene di grande complessità e valenza insieme artistica e propagandistica, accompagnati dal Genius o da un’aquila come nel caso della base della colonna di Antonino Pio con apoteosi di Antonino e Faustina (oggi ai Musei Vaticani), nel tondello circoscritto dei conii l’evento è sintetizzato e reso esplicito dalla legenda. Consecratio, memoria aeterna o, semplicemente, divus o diva


A sinistra: sesterzio di Marco Aurelio per Antonino Pio divinizzato. 161 d.C. Al dritto, la testa di Antonino Pio con legenda DIVVS ANTONINVS; al rovescio, la rappresentazione di una pira funeraria, adorna di statue e ghirlande e sormontata dall’imperatore su quadriga, con legenda CONSECRATIO.

circondano l’immagine dell’avvenuta consacrazione del regnante: può trattarsi di un semplice altare con la fiamma guizzante, oppure di un’aquila che nell’ambito del cerimoniale funerario veniva effettivamente liberata quale simbolo dell’imperatore divinizzato, di un pavone per le imperatrici, di una quadriga trainata da cavalli o elefanti.

A destra: denario di Augusto emesso per Gaio Giulio Cesare, divinizzato dopo la morte. 19-18 a.C. Al dritto, la testa di Augusto e legenda CAESAR AVGVSTVS; al rovescio, la cometa a otto raggi, simbolo del nuovo stato divino di Cesare, e legenda DIVVS IVLIV[S].

dalla pira al cielo O, ancora, dell’articolata «miniatura» della pira funebre, perfettamente corrispondente all’accurata descrizione che ne fa sempre Erodiano (IV, 2), evidentemente affascinato da questa cerimonia cui aveva dovuto aver assistito: «Portano il letto funebre attraverso la città fino al Campo Marzio, nella parte piú larga del quale viene costruita una catasta quadrata di legname della misura piú grande, a forma di camera, riempita di fascine e all’esterno ornata con festoni intrecciati con immagini d’oro e d’avorio. Sopra questa una camera simile ma piú piccola, con porte e finestre aperte, e sopra ancora, una terza e una quarta, sempre piú piccole, cosí che si può paragonarla a un faro (...) Al primo piano mettono un letto, e raccolgono incenso e ogni sorta di aromi, frutta, erba, succhi. Quando è stato fatto tutto questo, appiccano il fuoco, che prende facilmente grazie alle fascine e agli aromi; e dal piano piú alto e piú piccolo, come da un

per saperne di piÚ Javier Arce, Imperatori divinizzati, in Aurea Roma, Dalla città pagana alla città cristiana (catalogo della mostra), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2000, pp. 244-248. pinnacolo, un’aquila viene lasciata libera di volare in cielo mentre il fuoco sale, aquila che i Romani credono porti l’anima dell’imperatore dalla terra al cielo e da quel momento viene adorato con gli altri dèi». Belle monete di consacrazione battute in tutti i metalli e contraddistinte dalla pira funebre simile alla descrizione di Erodiano si ritrovano a partire dall’età antonina, caratterizzate da queste articolate architetture effimere, simili quasi a una moderna torta nuziale, rese con dovizia di particolari con i quali gli anonimi

incisori romani si cimentarono. Tra i tanti esempi, un sesterzio di Commodo per il padre Marco Aurelio, nel quale la pira è adorna di statue, ghirlande, torce, festoni e sormontata dal defunto in quadriga. L’immagine dell’apoteosi e la consacrazione ufficiale del Senato a divus del regnante continuò anche nel IV e V secolo d.C., seguendo un contesto iconografico di grande complessità che poi verrà ripreso, rivestito di un trasposto significato religioso e con rinnovati protagonisti, nelle ascensioni al cielo oramai fatte proprie dal cristianesimo.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Manfred Clauss

Ramesse il Grande Salerno Editrice, Roma, 216, 8 tavv. f.t. 22,00 euro ISBN 978-88-8402-722-1 www.salernoeditrice.it

della parabola terrena del vincitore di Qadesh, attraverso le cui imprese è possibile ripercorrere una delle fasi cruciali della storia egiziana. Carlo Beltrame

Archeologia marittima del Mediterraneo Navi, merci e porti dall’antichità all’età moderna Carocci editore, Roma, 295 pp., ill. b/n 24,00 euro ISBN 978-88-430-6585-1 www.carocci.it

Traduzione italiana di un’opera pubblicata per la prima volta in Germania nel 2010, questa biografia è frutto di una ricerca lunga e minuziosa, grazie alla quale Clauss ci presenta un profilo piú che verosimile del piú grande faraone dell’antico Egitto. Con l’avvertenza, esplicitata dall’autore stesso, che la pur cospicua mole di documenti a cui si può attingere per studiare il personaggio si compone esclusivamente di testimonianze ufficiali, elaborate nel quadro della accorta politica di autocelebrazione promossa da Ramesse medesimo. Non abbiamo, a oggi, testimonianze dirette, quali potrebbero essere carteggi privati o resoconti di storici dell’epoca in questione. Il che, tuttavia, nulla toglie all’eccezionalità

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Dai primi tentativi di recupero delle navi di Nemi o dalle pionieristiche ricerche di Nino Lamboglia, molta strada è stata fatta dall’archeologia subacquea e dagli studi sulla navigazione antica, e questo manuale ne è un’ottima testimonianza. Dopo i capitoli introduttivi di carattere metodologico, l’autore, docente di archeologia marittima, illustra le peculiarità di questa branca degli studi di antichità seguendo un percorso cronologico, che, dal relitto dell’età del Bronzo di Uluburun (in Turchia), si svolge

sino alle attestazioni riferibili all’età moderna. In ogni sezione vengono illustrati alcuni casi di studio particolarmente significativi, grazie ai quali si può oggi definire un quadro assai particolareggiato dell’arte della marineria e della sua storia, nonché delle formidabili implicazioni politiche, economiche e sociali che l’andar per mare ha sempre avuto.

numerose illustrazioni. Una schedatura su cui poggiano le considerazioni finali, nelle quali l’autore esamina i contesti produttivi, le provenienze – con particolare attenzione ai materiali di importazione –, i luoghi di ritrovamento, il fenomeno del reimpiego, nonché quello dell’apposizione di iscrizioni su alcuni degli esemplari.

Alessandro Teatini

Enrico Giovannini

repertorio dei sarcofagi decorati della sardegna romana

nel nome, la storia: toponomastica di roma antica

«L’Erma» di Bretschneider, Roma, 478 pp., ill b/n 300,00 euro ISBN 978-88-8265-632-4 www.lerma.it

Archeologia, storia e tradizione tra le strade dell’Urbe a cura di Benedetto Coccia, Editrice APES, Roma, 156 pp., ill b/n 12,00 euro ISBN 978-88-7233-081-4

Opera di taglio prettamente specialistico, questo repertorio riprende e amplia lo studio sui sarcofagi romani di Gennaro Pesce pubblicato nell’ormai lontano 1957. Rispetto a quel primo censimento, il numero degli esemplari è cresciuto di una dozzina di unità, toccando quota 85. Per ciascuno di essi, Teatini ha realizzato ampie ed esaurienti schede di catalogo, corredate da

Chissà quanti Romani (ma anche molti di quelli che all’ombra del Cupolone non sono nati o vi si trovano da turisti) si chiedono, girando per le vie del centro, quale sia l’origine di molti dei nomi che vedono indicati sulle targhe di strade e piazze. A tutti loro ha probabilmente pensato l’autore di questo volume, che propone un viaggio nel cuore della Capitale, articolato in



quattordici tappe, cioè tante quante sono le regioni in cui Augusto suddivise Roma e di cui i moderni rioni sono i diretti «discendenti». Scorrendo le pagine del volume, si coglie subito la volontà di Giovannini, che è archeologo, di andare ben oltre la semplice raccolta di aneddoti, poiché ciascuno dei toponimi viene illustrato con note di carattere storico, archeologico e topografico, grazie alle quali non solo si scoprono origini e motivazioni dei singoli nomi, ma si può ricostruire il tessuto urbano e monumentale della città antica. Ed è particolarmente interessante anche il capitolo finale dell’opera, nel quale vengono documentate le dinamiche della straordinaria sopravvivenza del patrimonio toponomastico, che in molti casi ha resistito assai meglio delle testimonianze materiali a cui erano legate le sue espressioni. Mogens Herman Hansen

Polis Introduzione alla città-stato dell’antica Grecia Frontiere, Università Bocconi Editore, Milano, 352 pp. 26,00 euro ISBN 978-88-8350-181-4 www.egeaonline.it

Come sta raccontandoci Fabrizio Polacco (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 54-63), la storia dell’antica Grecia è stata

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una sorta di palestra della civiltà occidentale (e non solo), nella quale hanno visto la luce istituzioni che ancora oggi ispirano gli assetti amministrativi e politici di molte nazioni. Uno dei casi piú emblematici e da sempre oggetto di particolare interesse è quello delle città-stato, alle quali è dedicato questo saggio di Mogens Herman Hansen, uno dei piú autorevoli studiosi della democrazia ateniese e della polis.

il volume, che dà conto dell’omonimo convegno svoltosi a Roma nel 2007, offre una panoramica ampia e articolata e ha tra le sue prerogative anche quella di analizzare i risvolti sociali legati all’uso delle latrine e, piú in generale, degli impianti igienici, dimostrando come molte delle loro peculiarità fossero, per dirla con termini piú attuali, decisamente trasversali. Per il resto, si può osservare come l’attenzione riservata dal mondo romano a questo aspetto della vita quotidiana fosse notevole, e potesse, soprattutto nel caso dei ceti piú elevati, essere l’ennesima occasione di sfoggio delle proprie disponibilità economiche.

dall’estero Gemma C.M. Jansen, Ann Olga Koloski-Ostrow ed Eric M. Moormann (a cura di)

roman toilets Their Archaeology and Cultural History Peeters, Leuven-ParisWalpole MA, 224 pp., ill. col. e b/n 72,00 euro ISBN 978-90-429-2541-0 www.peeters-leuven.be

Per una volta, si è tentati di scherzare, citando l’antico e popolare adagio «Saranno grandi i papi, saran potenti i re…», anche se, a ben vedere, la citazione non è poi cosí irriguardosa. Infatti,

Can Bilsel

Antiquity on display Regimes of the Authentic in Berlin’s Pergamon Museum Oxford University Press, Oxford, 304 pp., 99 ill. b/n n.t. e 8 tavv. col. 70,00 GBP ISBN 978-0-19-957055-3 www.oup.com

Ampia parte di questo numero è dedicata a Pergamo e ai suoi

monumenti (vedi alle pp. 38-53). Può dunque essere di grande interesse la lettura di questo saggio, che si interroga su quali effetti abbia avuto la musealizzazione del celebre monumento dopo il suo trasferimento a Berlino. Can Bilsel osserva infatti che la creazione del Pergamonmuseum e la ricostruzione dell’Altare hanno finito con il creare un’immagine iconica, che ha preso il posto di quello che doveva essere il reale aspetto originario di questo e di altri momumenti antichi, imponendosi come realtà assoluta e non come ipotesi ricostruttiva. Analizzando il contesto culturale nel quale maturarono il progetto dell’Isola dei Musei di Berlino e l’operazione di ricomposizione dei monumenti pergameni, l’autore ripercorre un capitolo saliente nella storia dell’uso a fini ideologici e propagandistici delle testimonianze del passato. (a cura di Stefano Mammini)



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