Archeo n. 334, Dicembre 2012

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2012

l’italia in arabia felix

MAYA

STRANIERI IN ETRURIA

gioielli monetali

speciale energia nel mondo antico

Mens. Anno XXVIII numero 12 (334) Dicembre 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 334 dicembre

schiavi ed energia

nel mondo antico una nuova ipotesi

maya

il «mistero» svelato

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storie di uomini coraggiosi

ecco il trono della regina di saba

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scoperte

la prima volta di betlemme

PASSIONE PER LA STORIA

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editoriale

il nostro oriente «Aleppo è un concentrato di colori, vi aspiri l’Oriente a pieni polmoni (…) Oggi, una lunga carovana di cento muli proveniente da Baghdad è entrata nel bazar, marciando in fila e al ritmo scandito dal suono di due campane legate sotto la pancia del capofila». Scriveva cosí, un secolo fa, un giovane ed entusiasta archeologo di nome Thomas Edward Lawrence, destinato a essere ricordato nella storia come Lawrence d’Arabia. Oggi, quel bazar – il piú vasto e forse il piú bello di tutto il mondo islamico, dato alle fiamme alla fine dello scorso settembre – e quella città – la cui grandiosa cittadella è oggetto di scavi archeologici rilevantissimi e di restauri tra i piú impegnativi – sono alla mercé di distruzioni e saccheggi. Diventeranno per noi, insieme a tanti altri luoghi della memoria storica del Vicino Oriente (e non solo della Siria martoriata dalla guerra civile) mete lontane, irraggiungibili? La primavera araba ha dato l’avvio a una nuova fase di quel processo di «estinzione archeologica di massa» – per usare l’espressione dell’archeologo Alexander H. Joffe – che sembra contraddistinguere il secolo XXI (e che, è necessario ricordarlo, ha registrato il suo funesto esordio con il saccheggio del Museo Archeologico di Baghdad durante l’invasione del 2003). Si tratta di un capitolo di storia appena aperto, di cui è difficile prevedere sviluppi ed esiti futuri. Suggeriamo, allora, di rivolgere lo sguardo al passato: agli anni in cui la scoperta archeologica dell’Oriente muove i suoi passi, con i primi viaggiatori ottocenteschi nelle terre dell’Arabia e le grandi epopee di scavo del Novecento. In questi giorni, due raffinate mostre ne tracciano un racconto di grande suggestione: al Museo di Antichità di Basilea, «Petra. Splendore del deserto» rievoca la straordinaria avventura di cui, duecento anni fa, fu protagonista Johann Ludwig Burckhardt (fino al 17 marzo 2013; vedi anche «Archeo» n. 329, luglio 2012); al Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma, «Il Trono della Regina di Saba» ripercorre una storia, altrettanto affascinante e che, per di piú, ci riguarda molto da vicino (ne parliamo in apertura di questo numero). Entrambe le esposizioni, incentrate sul grande tema del rapporto tra noi e l’Oriente, assumono, alla luce degli avvenimenti di questi mesi, un ulteriore e particolare significato. Buona visita, dunque, e buona lettura. Con i migliori auguri per il Natale e per l’Anno Nuovo. Andreas M. Steiner

Petra (Giordania). Il Gebel al-Khubtah con le cosiddette «tombe reali» scolpite nella roccia (I sec. d.C.). Alla scoperta della città nabatea è dedicata una grande mostra in corso all’Antikenmuseum di Basilea.


Sommario Editoriale

Il nostro Oriente

3

da atene

Sorprese a Eretria

di Andreas M. Steiner

di Valentina Di Napoli

Attualità

mostre

notiziario

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scoperte Indagando i resti di un abitato gallo-romano, archeologi francesi si sono imbattuti nello scheletro di un mammut vissuto ai tempi dell’uomo di Neandertal 6 parola d’archeologo Andrea Carandini ha curato una nuova opera sulla topografia di Roma antica. Il suo racconto di un progetto ambizioso, destinato certamente ad arricchirsi 10

Yemen. I nostri anni in Arabia felice

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di Paola D’Amore

La regina e i dottori

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di Sabina Antonini

Ecco il trono di Bilqis!

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di Michael Jung

26

maya

21.12.12

La vera storia della fine del mondo 44 di Antonio Aimi e Raphael Tunesi

museo Il Museo Civico Archeologico di Bologna presenta il nuovo allestimento della sezione di antichità etrusche e italiche 13

italia preromana Storie di uomini coraggiosi

dalla stampa internazionale 7000 anni fa in Bulgaria, e le tasse di Betlemme

gioielli monetali La seconda vita dei soldi 22

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it

Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507

In copertina Prometeo in catene e condannato al supplizio per avere rubato il fuoco agli dèi, opera di NicolasSébastien Adam. Parigi, Museo del Louvre

Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

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di Anna Lina Morelli

Anno XXVIII, n. 12 (334) - dicembre 2012 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it

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di Giuseppe M. Della Fina

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Antonio Aimi è professore a contratto di civiltà precolombiane all’Università degli Studi di Milano. Sabina Antonini è archeologa. Franco Bruni è musicologo. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Paola D’Amore è funzionario archeologo e curatore del Dipartimento di Vicino e Medio Oriente antico-Periodo del Ferro presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è archeologo conservatore del Museo Archeologico del Finale-IISL. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giovanna Gambacurta è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Adria (RO). Michael Jung è curatore della sezione islamica del Museo Nazionale d’arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Anna Lina Morelli è docente di numismatica all’Università degli Studi di Bologna. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Giovanna Quattrocchi è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Stefania Sapuppo è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Raphael Tunesi è epigrafista. Illustrazioni e immagini: Erich Lessing Archive/Magnum/Contrasto: copertina – Cortesia Ufficio stampa: pp. 3, 13-15, 18 – Cortesia INRAP/foto Denis Gliksman: pp. 6 (alto), 7 – Cortesia Soprintendenza BA dell’Umbria: p. 8 – Cortesia Soprintendenza BA Etruria Meridionale/Università degli Studi di Torino: p. 9 (alto) – Cortesia Parco Naturalistico Archeologico di Vulci/Mastarna s.r.l.: p. 9 (centro) – Da Atlante di Roma antica, Electa, Milano 2012: pp. 10 (alto), 11, 12 – Cortesia autore: pp. 10 (centro), 60 – Cortesia Soprintendenza BA del Veneto: p. 16 – AFP: p. 22 (basso) – Doc. red.: pp. 22 (alto), 23, 34 (basso), 57, 67, 96/97, 106 – Cortesia Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia, Atene: pp. 24, 25 (centro e basso) – Da Il Trono della Regina di Saba (catalogo della mostra), Edizioni Artemide, Roma 2012: pp. 26 (sinistra), 28, 31, 40 – Foto Stefano Mammini: pp. 26/27 (alto), 29, 30, 32, 33, 36-39, 41-43 – Cortesia Missione Archeologica Italiana in Yemen: pp. 34 (alto), 35 – Corbis Images: pp. 44745 (J. Ritterbach), 52 (Peter Langer/Design Pics), 53 (Publishers Photo Service/National Geographic Society), 100/101 (Guido Cozzi) – Cortesia The University of Texas at Austin: pp. 46/47 – Archivi Alinari, Firenze: The Bridgeman Art Library: pp. 48, 76, 87, 88 (centro), 89, 90, 105 – Mondadori Portfolio: Album: p. 64; Akg Images: pp. 74, 77, 88 (alto), 92-94, 102; Picture Desk: p. 50/51, 104 – Foto Steve Minicola: p. 54 (alto) – Foto Alexandra Fleischman per il


Rubriche il mestiere dell’archeologo

(Quasi) un decalogo per l’innovazione 100 di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi

44 92

Tutte le ore del giorno

102

di Romolo A. Staccioli

vite di archeologi Un uomo di lettere

106

di Giovanna Quattrocchi

l’ordine rovesciato delle cose Acque nascoste

108

di Andrea De Pascale

divi e donne storia dei greci/19

Mirabili frantumi di Fabrizio Polacco

Quel «mostro» di Livia 92

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di Francesca Cenerini

libri

Penn Museum: pp. 54 (basso), 55 – Sven Gronemeyer: disegno a p. 56 – Da La Grande Roma dei Tarquini (Catalogo della mostra), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1990: pp. 58, 59 (alto) – Cortesia Museo Civico Archeologico di Orvieto «Claudio Faina»: p. 59 (basse) – Da Orvieto. La necropoli di Cannicella, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1993: p. 60 (disegno in alto) – Da Roma e l’Italia. Radices imperii, Milano 1990: p. 62 – Cortesia Soprintendenza BA dell’Umbria: pp. 63 – DeA Picture Library: pp. 66, 83 (A. Dagli Orti), 78 (G. Wright), 82 (Archivio), 110 (J.E. Bulloz) – Da L’ oro dei romani. Gioielli di età imperiale, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 1992: pp. 68-72 – Foto e disegni di Flavio Russo: pp. 75, 79-81, 84-86 – Da Afghanistan, les trésors retrouvés, RMN, Parigi 2006: p. 95 – Getty Images: p. 99 – Foto Vittorio Castellani: p. 108 – Foto Ezio Fiorenza: p. 109 (alto) – Foto Stefano Saj/Centro Studi Sotterranei di Genova: p. 109 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 6, 25, 35, 50, 61, 96/97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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74 speciale Il motore del mondo

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di Flavio Russo

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n oti z i ari o SCoperte Francia

un mammut a parigi

A

ffiorato inaspettatamente, nel corso di indagini preventive su un sito gallo-romano del III e IV secolo, a Changis-surMarne (50 km a est di Parigi), lo scheletro perfettamente conservato di un mammut ha entusiasmato i suoi scopritori. «Un ritrovamento fortunato, il sogno di molti archeologi!», confessa Gregory Bayle, che dirige lo scavo. L’avventura comincia Inghilterra Germania Changis-sur-Marne Parigi

Oceano Atlantico

Spagna

6 archeo

Francia

Italia

Corsica Mar Mediterraneo

l’estate scorsa: effettuando un sondaggio, un’équipe dell’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) incappa in ossa di grandi dimensioni, chiaramente appartenenti a un elefante antico o a un mammut. Per saperne di piú, si decide di ampliare l’esplorazione. Ed ecco la sorpresa: agli occhi degli archeologi si presenta la carcassa di un animale intero, con ossa in ottimo stato di conservazione – grazie alla giacitura in sedimenti ricchi in calcio –, alcune delle quali ancora in connessione anatomica. In ottobre, dopo aver portato alla luce tutto l’animale, è stato accertato che si tratta dei resti di un mammut lanoso (Mammuthus primigenius). Un rinvenimento eccezionale per la Francia, che in centocinquant’anni aveva avuto solo due precedenti, il primo dei

quali nel 1859. A quell’epoca, soltanto i musei di San Pietroburgo e di Bruxelles possedevano uno scheletro completo di questa specie che visse nelle nostre regioni fra 250 000 e 10 000 anni fa. Pachidermi abituati al clima siberiano che durante l’era glaciale regnava anche in queste zone, coperte da steppe erbose e solcate da una Marna che allora doveva essere un fiume gelido e tumultuoso. E, infatti, come spiega Vincet Charpentier archeologo dell’Inrap, la lunga zanna d’avorio rimasta attaccata alla mascella del nostro eroe, che mostra ancora due potenti molari, grazie alla sua particolare conformazione ricurva verso l’alto e avvolta a spirale, permetteva all’animale di spostare agevolmente la neve accumulata al suolo, cosí da potersi cibare dell’erba sottostante. La pelliccia era composta da peli lunghi oltre 1 m e da un folto sottopelo. In prossimità delle vertebre cervicali e delle spalle, i mammut avevano una sorta di gobba, destinata a conservare il grasso adiposo, come nei cammelli. Una gobba che conosciamo grazie alle molte pitture in cui è raffigurata: per esempio, quelle nelle grotte della Madeleine o di Rouffignac, entrambe situate in Dordogna, nella valle della Vézère, dove ancora oggi si possono ammirare disegni di mammut sulle pareti, risalenti alla fine dell’era glaciale (13 000 anni fa circa), quando gradualmente i giganteschi pachidermi si estinsero a causa del riscaldamento climatico. L’esemplare di Changis-sur-Marne, che doveva pesare almeno 5 o 6 t, era dunque contemporaneo dell’uomo di Neandertal, anche se


Sulle due pagine: Changis-surMarne. Foto dello scavo dello scheletro di un mammut lanoso (Mammuthus primigenius), vissuto nel Paleolitico Medio. In particolare, nella foto qui a sinistra, segnalate da piccoli pioli colorati, si vedono le schegge di selce lavorate che provano la frequentazione del sito da parte dell’uomo. molto raramente è capitato di ritrovare prove di un contatto di quest’ultimo con il mastodontico animale. E qui interviene l’aspetto piú esaltante della scoperta: vicino al cranio del bestione, sono state trovate due schegge di selce, lavorate con la tecnica tipica del Paleolitico Medio (300 000-30 000 anni fa). «Queste due selci sono la vera scoperta – spiega l’archeozoologo Stéphane Péan –, poiché attestano la presenza dell’uomo sul sito. Una volta terminata l’analisi dei dati che ha offerto, questo ritrovamento potrebbe aiutare a capire meglio chi erano i neandertaliani contemporanei ai mammut». Ma come sono stati utilizzati i due strumenti litici? Come armi da caccia o solo per staccare pezzi di carne dall’animale già morto? La scoperta, per il momento, solleva non pochi interrogativi. Certo è che

un rinvenimento simile rimane rarissimo, poiché finora l’associazione fra pachidermi e oggetti umani è stata provata in Europa solo in due siti tedeschi del Paleolitico Medio (Gröbern, in Sassonia-Anhalt, e Lehringen nella Bassa Sassonia), e in una località francese (Tourville-la-Rivière, in Seine Maritime). Dopo averne realizzato il calco, lo scheletro verrà smontato, per essere analizzato al Museo Nazionale di Storia Naturale di Parigi da specialisti di varie discipline: palinologi, malacologi, geomorfologi, archeozoologi, sedimentologi, paleontologi. Lo studio delle ossa dovrebbe permettere di precisare la datazione, che non sarà realizzata sullo scheletro – il carbonio 14 non è efficace per ossa cosí antiche – ma sui sedimenti, attraverso l’uso della termoluminescenza. L’analisi

stratigrafica dei depositi alluvionali già indica tuttavia che il nostro Helmut (cosí l’hanno battezzato i suoi scopritori, benché se ne ignori ancora il sesso) dovrebbe avere almeno 130 000 anni. «In particolare, i ricercatori cercheranno sulle ossa eventuali tracce di lancia – spiega Pascal Depaepe, direttore scientifico dell’Inrap – che proverebbero l’ipotesi secondo la quale l’uomo di Neandertal aveva la capacità di dare la caccia ai grandi mammiferi». Sarà dunque risolto l’enigma della coabitazione fra il grande mammut lanoso e l’uomo di Neandertal, sulle steppe ghiacciate dei bordi della Marna? E ancora, come spiegheranno gli studiosi la presenza, sullo stesso sito di Changis, di elementi di un secondo scheletro di mammut: un omero e un frammento di zanna? Daniela Fuganti

archeo 7


n otiz iario

restauri Vulci

Il carro della regina

I

l tumulo tarquiniese della Regina, nella necropoli della Doganaccia, è oggetto, dal 2008, di scavi condotti dall’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Nel 2011, le indagini hanno avuto esiti particolarmente felici, tra cui il ritrovamento, nel vestibolo del monumento funerario – che risale al VII secolo a.C. –, dei resti di un carro. Del prezioso manufatto si sono conservati frammenti del cerchione di una ruota di ferro, un mozzo e parte della fasciatura della cassa, recuperati con estrema perizia, anche grazie alla collaborazione dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. In seguito è stato possibile stabilire che si tratta di

SCoperte Umbria

un bicchiere per l’ultimo viaggio

U

n intervento di archeologia preventiva condotto a Norcia (Perugia), in località Coranoni della frazione Campi, ha portato alla luce tombe a fossa di epoca ellenistico-repubblicana (III-I secolo a.C.). Lo spazio funerario rientra nella necropoli della civitas Cample, piccolo agglomerato urbano di età repubblicana sviluppatosi nelle vicinanze. Le sepolture, a inumazione con resti ossei di adulti in buono stato di conservazione, erano tutte orientate nord-sud e collocate a distanze piú o meno regolari tra loro, con una profondità media costante di circa 3 m: elementi che fanno pensare a una pianificazione preventiva della necropoli. «Le fosse di perimetro rettangolare – spiega Gabriella Sabatini, funzionario archeologo della

8 archeo

Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria – erano affiancate a est da una nicchia contenente un’olla in ceramica comune. Le deposizioni, supine e con braccia distese, erano bordate dal corredo ceramico sistemato in tutti i casi lungo la parte inferiore del defunto (dal bacino in giú): questo comprendeva elementi di un certo pregio, che rimandano alla tradizione del banchetto – tra cui situle, brocche, coppe e, in due casi su quattro, un’olpe miniaturistica –, sempre accompagnati da un bicchiere in ceramica comune

Norcia (Perugia), località Coranoni della frazione Campi. In alto: una delle tombe a fossa recentemente scoperte. III-I sec. a.C. A sinistra: cesoie da lana appartenenti a uno dei corredi tombali.

presente in ogni deposizione. Interessanti gli elementi in metallo rinvenuti: tutti in ferro – a parte una moneta in bronzo –, tra cui uno strigile, due anelli digitali con incastonatura, cesoie da lana e un coltello, una probabile arma corta ancora contenuta nel relativo fodero. Di particolare interesse è il contesto di una delle tombe per la presenza di un sudario, probabilmente in cuoio, che copriva il defunto e per alcuni elementi che farebbero pensare a qualche rito di deposizione». Giampiero Galasso


Diagnostica del Parco di Vulci. A guidare il lavoro è Emanuele Ioppolo, dell’Accademia di Belle Arti «Lorenzo da Viterbo», il quale – insieme agli studenti del Corso di Diploma in Restauro dell’ABAV coordinati da Anna Gruzzi – interverrà per garantire la conservazione del reperto e la possibilità di esporlo finalmente al pubblico. (red.) materiali pertinenti a un calesse. Quest’ultimo è il carro piú frequentemente associato alle sepolture femminili: era, del resto, il mezzo di trasporto piú comodo, poiché poteva essere condotto da seduti ed era usato non solo per gli spostamenti quotidiani, ma anche nelle cerimonie, in particolare quelle nuziali. I resti del veicolo sono ora oggetto di un intervento condotto a Montalto di Castro, presso il Laboratorio di Restauro e

In alto: Tarquinia. Il Tumulo della Regina in corso di scavo. A destra: i resti del carro trovato nel tumulo tarquiniese, ora in corso di restauro presso il laboratorio del Parco di Vulci.


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

roma antica in un gis andrea carandini ha tenuto a battesimo la pubblicazione di un atlante che raccoglie una mole enorme di notizie e dati sulla città di romolo e degli imperatori. nelle sue parole, la storia e le caratteristiche del progetto

D

opo anni di lavoro, nonché di indagini archeologiche condotte nel cuore della Roma antica, è apparsa la prima pubblicazione di un progetto scientifico di vasto respiro promosso dall’Università «La Sapienza» di Roma, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma e il Ministero per i Beni e le Attività Culturali: si tratta del volume Atlante di Roma antica. Biografia e ritratti della città, edito da Electa, a cura di Andrea Carandini, coadiuvato da Paolo Carafa. Ne parliamo con il professor Carandini, già ordinario di archeologia e storia dell’arte greca e romana presso l’Università «La Sapienza», da un paio di anni in pensione, e Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali fino allo scorso maggio. Professore, come nasce questa ambiziosa impresa? «Mancava a oggi uno strumento di conoscenza globale dell’antica Roma, aggiornato con mezzi e tecnologie moderne: c’era la Forma Urbis di Rodolfo Lanciani (edita tra

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il 1893 e il 1901 sotto gli auspici dell’Accademia dei Lincei, n.d.r.), che raccoglieva i dati sulla topografia della città secondo le conoscenze e i metodi dell’epoca. Da allora, sono passati 120 anni senza che quest’opera fosse aggiornata con le nuove scoperte e gli ultimi sviluppi dell’archeologia. Per questo, con Paolo Carafa, grazie a un folto gruppo di lavoro composto da studenti, ricercatori e specialisti dell’Università «La Sapienza», abbiamo tentato l’impresa: la grande passione, la disciplina e il metodo hanno supplito alla scarsità di mezzi e risorse a disposizione e, dopo 10 anni di impegno, siamo finalmente riusciti ad arrivare in porto. In questo sono stati fondamentali la collaborazione del Comune e

dello Stato, nonché i fondi erogati da Arcus, che sono diventati piú consistenti negli ultimi sette anni. In quest’opera ci sono piú di 15 anni passati a conoscere il ventre di Roma sul Palatino: abbiamo scavato un ettaro di area archeologica e imparato a capire come va affrontato un contesto diacronico e pluristratificato come questo, che va dal IX secolo a.C. al VI d.C. Con lo stesso criterio, abbiamo studiato gli altri monti della città antica all’interno delle Mura Serviane e delle 14 regioni augustee». Un tratto fondamentale dell’Atlante è il supporto informatico fornito ai dati archeologici attraverso il GIS (Geographic Information System), che ha permesso di raccogliere su base topografica una gran quantità di informazioni sulla Roma antica… «Sí, questa è la vera novità. L’Altante non è che un sottoprodotto editoriale del vero lavoro, che è un GIS, cioè un sistema informativo territoriale, concepito per contenere tutte le informazioni, a livello alfanumerico e cartografico, sulla realtà di Roma:


da una parte c’è una banca dati, dall’altra un insieme di cartografie storiche e attuali che consentono di combinare i dati organizzandoli per luoghi, cioè unità topografiche, ovvero i singoli monumenti. Cliccando su questi emergono tutte le informazioni relative. Abbiamo voluto affrontare l’archeologia in senso globale e prendere in considerazione le fonti piú diverse: iscrizioni, opere d’arte, iconografia. Tutte le informazioni sono inserite nella banca dati e referenziate sulle cartine. Nell’Atlante ci sono una sessantina di paesaggi rurali ricostruiti in pianta e ben 255 monumenti ricostruiti anche nella terza dimensione, cioè nell’elevato». E come si possono distinguere le testimonianze archeologiche dalle ricostruzioni, dedotte in base a fonti indirette? «Con colori diversi, a seconda della fonte di provenienza. Per esempio, se sappiamo da fonti letterarie che sulla sommità di quel tempio c’era una quadriga, nel disegno la inseriamo con un certo colore; se l’informazione proviene da una moneta, la quadriga ha il colore usato per le fonti numismatiche.

In alto, sulle due pagine: immagini tratte dall’Atlante di Roma antica; il triclinium della Casa dei Grifi, sul Palatino (a sinistra), decorato da affreschi di II stile iniziale, a cui fa da pendant l’emblema in opus sectile al centro del pavimento a mosaico, 100 a.C. circa; ricostruzione grafica del complesso delle costruzioni augustee rivolte al Circo Massimo (a destra), 36-12 a.C. Nella pagina accanto, al centro: Andrea Carandini, curatore dell’opera.


Il rosso indica l’esistente, il nero il ricostruito, altri colori le fonti letterarie, l’iconografia antica, l’iconografia moderna, i confronti. Osservando l’immagine, si comprende subito con quali informazioni è stata realizzata ed è verificabile se la ricostruzione è possibile oppure inverosimile. Anzi, tutti sono invitati a scriverci per segnalare errori o avanzare proposte ricostruttive: se utili, correggeremo le ricostruzioni, come speriamo di poter fare in futuro attraverso il web». Quindi l’Atlante si presenta come uno strumento aperto, passibile di modifiche e ripensamenti? «Sí, il GIS può sopravvivere agli stessi autori attraverso molte generazioni, perfezionandosi nel tempo. Gli apparati scientifici non sono immortali: se muoio io, non deve morire anche il sistema. L’istituzione responsabile dovrebbe farlo progredire con nuovi scienziati. È come un libro da continuare a scrivere. La ricerca scientifica, per sua natura, non termina mai. Alcuni credono che la verità sia raggiungibile, mentre è solo un processo: una verità relativa che ulteriori scoperte o riflessioni possono migliorare. Molti non pubblicano nulla, perché raggiungono conoscenze relative: ma le verità sono sempre relative. Come è stata superata la fisica di Newton, potrà esserlo anche l’Atlante». A proposito di interpretazioni dei dati archeologici: alcuni studiosi non concordano con le sue ipotesi sostenendo che, in alcuni casi, si sia spinto un po’ troppo oltre… Come risponde a queste obiezioni? «L’importante è avere coraggio, sia nell’indovinare che nello sbagliare un’interpretazione. La ricerca è sempre un intreccio tra cose positive, che si salvano, e negative, che vengono eliminate: il processo conoscitivo è un prendere e lasciare continuo». E che cosa ha «lasciato» delle interpretazioni archeologiche fatte

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Andrea Carandini (a cura di)

Atlante di Roma antica 1. Testi e immagini 2. Tavole e indici Electa, Milano, 1248 pp. compl., 33 ill. e 333 tavv. 150,00 euro ISBN 978883708510 www.electaweb.it

Qui sopra: una delle tavole realizzate per l’Atlante di Roma antica, con la ricostruzione del Macellum magnum. Come si legge nell’intervista, l’uso di colori diversi indica il tipo di fonte a cui si è fatto ricorso per definire le verie parti del monumento. in passato? «Quando pubblico un monumento, fino al minuto prima

di finirlo ho cambiato già mille volte la mia idea, ho tentato e ritentato… anche una volta che il testo è stampato, a volte, mi viene un’idea per migliorarlo. E allora dico “pazienza, presenterò una modifica alla volta successiva”. Soprattutto per i monumenti complessi, se dovessi aspettare di essere assolutamente certo non scriverei un riga. Oltretutto di certo non c’è nulla, perché un collega potrebbe pensarla diversamente: l’interpretazione è sempre soggettiva, anche quando i dati sono oggettivi. La stessa fonte, per esempio, uno la intende in un modo, uno in un altro. Io ho realizzato questo volume anche per sottoporlo alla discussione degli altri». Che cosa la convince di piú, e cosa meno, tra le interpretazioni archeologiche sulla Roma antica contenute nell’Atlante? «Mi convince il fatto di essere stati cosí essenziali da riunire in due volumi quindici secoli del contesto archeologico piú difficile che esista al mondo, essere riusciti imbrigliare tutto in un quadro conoscitivo globale. Tutto è stato discusso: era un continuo confronto con collaboratori e studenti, mentre correggevo disegni tramite il web… A volte erano discussioni accanite, volavano urla da una parte e dall’altra. È merito di questi giovani se Roma antica è rinata». Non mi ha ancora detto cosa non la convinceva delle ricostruzioni da lei avanzate su Roma… «Per esempio, sto scoprendo cose sulla Sacra Via che già implicano una modifica di una certa rilevanza, di cui però ancora non voglio parlare… Poi posso già dire che modificherò l’orientamento del Templum Novum sulla Via Augusti, in base alla conoscenza di un papiro che mi ha dato un’informazione che non avevo. Ecco, questi sono due casi di aggiustamenti da apportare in futuro, insieme ad altre modifiche che possano rendersi necessarie».


musei Bologna

il ritorno degli etruschi

Dove e quando

N

el quadro del progetto di riallestimento delle sale storiche avviato nel 2005, e che già aveva interessato la Collezione greca e poi quella romana, il Museo Civico Archeologico di Bologna ha aperto le porte della rinnovata sezione dedicata alle antichità etrusche e italiche. La Collezione – completamente riallestita, dotata di un nuovo apparato informativo e di approfondimenti didattici per i piú piccoli – ospita i materiali archeologici relativi agli Etruschi e alle altre genti che popolarono la nostra Penisola fra la prima età del Ferro (IX secolo a.C.) e la dominazione romana. Il percorso della nuova sezione si articola secondo aree tematiche, per meglio comprendere la vita quotidiana, il rapporto con la divinità e con la morte dei popoli dell’Italia antica. Il mondo dei vivi si apre con gli strumenti della quotidianità e con gli oggetti propri del guerriero, figura centrale nelle società antiche. All’abbigliamento personale rimandano invece i

Lo staff del Museo Civico Archeologico di Bologna in una delle sale della rinnovata sezione dedicata alle antichità etrusche e italiche. pendagli, le armille, le collane e le fibule, le cui forme si differenziano grandemente a seconda dei territori e delle popolazioni. Ampio è lo spazio dedicato al tema del banchetto, fondamentale momento della convivialità aristocratica, con vasi in bucchero di altissima qualità, arredi in bronzo e vasellame ceramico e metallico. La devozione per i defunti è rappresentata da corredi funerari e urne cinerarie, tra le quali spiccano i vasi canopi, tipici del territorio di Chiusi, mentre numerosissimi ex voto in bronzo e terracotta testimoniano una storia secolare di preghiere e richieste agli dèi. Al centro dell’allestimento si colloca un settore dedicato al mito. Le storie di dèi ed eroi, riproposte su monumenti e oggetti della vita quotidiana, sono forse il segno piú chiaro dell’impatto profondo e duraturo che ebbe su tutte le

Museo Civico Archeologico Bologna, via dell’Archiginnasio 2 Orario ma-ve, 9,00-15,00; sa-do e festivi, 10,00-18,30; chiuso i lunedí feriali, Capodanno, 1° Maggio e Natale Info tel. 051 2757211; www.museibologna.it/archeologico popolazioni dell’Italia antica l’incontro con i Greci, mercanti artigiani e coloni, giunti alle coste della Penisola italica. Per salutare il nuovo allestimento della Collezione Etrusco-italica è stato anche programmato un ciclo di conferenze sulle popolazioni e i materiali archeologici dell’Italia centrale prima della conquista di Roma. Il compito di presentare Etruschi, Umbri, Piceni, Latini, Pentri, Frentani, Marrucini e tutta la composita schiera di popoli italici è affidato a relatori di grande esperienza, dialettica e capacità espositiva, archeologi e studiosi. Il programma completo degli incontri, tutti a ingresso libero, è disponibile sul sito web del Museo (vedi box info qui sopra). (red.)

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n otiz iario

mostre Roma

sulle orme di marco polo

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li ultimi anni hanno visto moltiplicarsi, anche in Italia, i progetti espositivi dedicati alla Via della Seta e, dunque, di fronte a quello proposto dal Palazzo delle Esposizioni di Roma, si potrebbe essere tentati di pensare che si tratti di un deja vu, magari non imperdibile. E, invece, non è cosí. La mostra, che costituisce l’adattamento di un allestimento ideato e realizzato dall’American Museum of Natural History di New York, merita senz’altro una visita e offre una visione accattivante e suggestiva, ma non banale, dell’antico itinerario e dei molteplici risvolti culturali, politici ed economici scaturiti dalla sua frequentazione. Una frequentazione che abbraccia un orizzonte cronologico vastissimo – dal II secolo a.C. all’età moderna – e che, soprattutto, costituí un’occasione di confronto tra Oriente e Occidente che, forse, non ha avuto e non ha eguali.

Fin dalla sezione iniziale, tra i cui protagonisti spicca Marco Polo, si coglie una delle soluzioni espositive che piú e meglio caratterizzano l’allestimento: i materiali, di qualunque natura essi siano, sono corredati da testi molto ampi ed esaurienti, che sono però articolati su piú livelli, cosí da permettere al visitatore il grado di approfondimento fino al quale desidera spingere la propria esperienza di fruitore. Altra peculiarità è l’impiego costante di modelli in scala reale: dalla riproduzione di un telaio al banco di un ipotetico venditore di spezie ed essenze, dall’astrolabio alla spettacolare stiva di una nave, carica di giare ricolme di mercanzie, fino alla ricostruzione di uno degli oltre 1000 canali

Dove e quando «Sulla Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente» Roma, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 marzo 2013 Orario ma-do, 10,00-20,00 (ve-sa, apertura serale fino alle 22,30); lu chiuso Info e visite guidate tel. 06 39967500; e-mail: info.pde@palaexpo.it; www.palazzoesposizioni.it

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sotterranei, i karez, che assicuravano l’irrigazione dell’oasi di Turfan, in Cina, e dei quali ci parla, proprio in questo numero, Andrea De Pascale (vedi alle pp. 108-109). Al di là del forte impatto scenografico, la mostra, come già detto, è l’occasione per scoprire (o riscoprire) quanto profondi e duraturi siano stati gli scambi culturali che la Via della Seta seppe veicolare. L’antica carovaniera non fu solo il nervo di un sistema economico capace di movimentare ricchezze ingenti, ma mise in contatto tra loro genti diversissime, che diedero vita a scambi reciproci di conoscenze, usi e tradizioni. Se ne ha prova, per esempio, nella produzione di ceramiche e porcellane, dei manufatti in metallo, degli oggetti in vetro. Oppure nella scelta, fatta da piú di un pittore italiano del Medioevo e del Rinascimento, di «vestire» Madonne, sante e signore con abiti cuciti nelle preziose sete di fabbricazione orientale. O, ancora, nella diffusione della coltivazione dei bachi da seta o nella produzione della carta, due delle molte «invenzioni» di un Oriente lontano che la Via della Seta rese eccezionalmente vicino. Stefano Mammini


mostre Brescia Nella pagina accanto, in alto: coppa in pasta vitrea turchese, dall’Iran, X sec., con montatura in argento dorato, smalto cloisonné d’oro e pietre preziose del tardo X sec. e XV (?) sec. Venezia, Procuratoria di San Marco. Nella pagina accanto, in basso: tamburo decorato. Produzione cinese, fine del XIX sec. New York, American Museum of Natural History.

BRE-BE-MI: UN’AUTOSTRADA «ARCHEOLOGICA»

I

ndagini condotte durante i lavori di realizzazione del collegamento autostradale Brescia-Bergamo-Milano (BreBeMi) hanno riportato alla luce, nel territorio a sud di Urago d’Oglio (Brescia), tombe dell’età del Ferro, resti di strutture riferibili a epoche diverse – una strada glareata, un fossato legato ad attività agrarie –, e un’ampia necropoli a inumazione. Da queste importanti scoperte è nata la mostra allestita nel Museo di Santa Giulia, che presenta una selezione dei materiali piú significativi e illustra la storia del popolamento antico del territorio indagato. Le testimonianze dell’età del Ferro sono il contesto piú significativo e ricco di elementi di novità: il sito è collocato infatti in prossimità di un tracciato fluviale importante quale il fiume Oglio, in una terra di confine, ai margini di importanti gruppi culturali presenti in questa fase nell’Italia settentrionale e ciò si riflette nella varietà dei materiali archeologici dei corredi funebri. Nel corso dello scavo sono state identificate sette sepolture, di cui cinque a incinerazione con raccolta delle ceneri del defunto in un contenitore ceramico e due a inumazione in tombe a fossa

In alto: bicchiere su piede, dalla tomba a incinerazione n. 4 di Urago d’Oglio (BS). Fine del VI sec. a.C. A destra: Urago d’Oglio (BS). La tomba a inumazione n. 56, in corso di scavo. V sec. a.C. In basso: il grande boccale (al centro) utilizzato come urna nella tomba a incinerazione n. 53. La ciotola (a destra) fu impiegata come coperchio del cinerario, al cui interno era anche un bicchiere (a sinistra), a sua volta contenente alcune fibule in bronzo. V sec. a.C.

terragna, mentre la presenza di pietre e ciottoli utilizzati sia come rivestimento, sia come coperture dei pozzetti ha fatto ipotizzare l’esistenza di piccoli tumuli di copertura. Il piccolo sepolcreto venuto alla luce permette di ricostruire attraverso le sepolture e gli oggetti in esse deposti uno spaccato della società della pianura bresciana in questo periodo protostorico e, soprattutto, il riscontro di un rituale di sepoltura misto, a cremazione e inumazione, che, per l’Italia settentrionale, costituisce senza dubbio una novità in questo periodo. Giampiero Galasso

Dove e quando «Terre di confine. Una necropoli dell’età del Ferro a Urago d’Oglio» Brescia, Museo di Santa Giulia fino al 31 marzo 2013 Orario ma-do, 9,30-17,30; chiuso tutti i lunedí non festivi Info tel. 030 2977.833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com; www.bresciamusei.com

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n otiz iario

mostre Adria

quel «domestico museo»...

A

coronamento delle celebrazioni per il cinquantenario del Museo Archeologico Nazionale di Adria, è stata allestita la mostra «Scripta manent», un esperimento di valorizzazione dell’archeologia adriese a partire dai documenti lasciati dalla famiglia Bocchi. I Bocchi, infatti, appassionati cultori delle antichità di Adria, lasciarono non solo una collezione di reperti archeologici di rilevante bellezza e pregio, ma, cosa piú straordinaria, un patrimonio di «memorie», scritti e disegni, a riprova della loro passione e di una precoce tensione verso la scientificità della ricerca. Questo patrimonio, oggetto di interesse da parte di molti studiosi e in uno stato ormai molto precario, necessitava di interventi di restauro conservativo. L’esposizione rende conto dei risultati dei restauri, oltre a sottolineare e a ribadire l’importanza di questa documentazione, ancora oggi di assoluto rilievo. La mostra espone alcuni documenti, tra i quali i volumi dell’inventario del «domestico museo», nella redazione iniziata da Francesco Antonio Bocchi nel 1868, contenuti in un cofanetto originale. I tre volumi riportano il prezioso elenco dei reperti, a volte corredato

Dove e quando «Scripta manent. I documenti Bocchi per l’archeologia di Adria» Adria, Museo Archeologico Nazionale fino al 15 marzo 2013 Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel./fax 0426 21612; e-mail: sba-ven.museoadria@ beniculturali.it; www.smppolesine.it/adria da schizzi e note. Una selezione di disegni ottocenteschi è esposta, ove possibile, accanto ai rispettivi reperti, oggetti preziosi in ceramica greca a figure nere e rosse. Veri antesignani delle nostre fotocopie, questi disegni, che raffigurano anche piú volte lo stesso oggetto per farlo conoscere ai cultori di antichità del tempo, sono all’origine del lavoro di ricerca e di riscontro condotto ancora oggi dagli archeologi, di cui Francesco Girolamo e Francesco Antonio Bocchi furono precursori. Nei disegni, redatti da mani diverse, a volte perfettamente rispondenti all’originale, a volte piú imprecisi e cursorii, è quasi sempre possibile riconoscere il reperto. Non mancano casi in cui il disegno è l’unica fonte utile a ricomporre In alto: uno dei disegni di Antonio Bocchi, raffigurante la decorazione interna di una coppa. A sinistra: vetrina che mette a confronto una lekythos a figure nere con la sua documentazione grafica realizzata da Bocchi.

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vasi ormai frammentari, a volte anche l’unica immagine che è conservata dei reperti originali. Si intende altresí illustrare come le tecniche di riproduzione fossero diversificate, per esempio il disegno di un vaso ossuario a rilievo di epoca romana è reso con l’ausilio di uno stampino di legno, metodo che ne consentiva la rapida realizzazione in numerose copie. Da ultimo sono esposti disegni che si rifanno alla serie dei rilievi delle strutture monumentali; ne è esempio la sequenza delle planimetrie del teatro che, in età romana imperiale, faceva parte delle strutture pubbliche del municipium di Adria. Questi rilievi hanno consentito agli studiosi attuali di trarre delle deduzioni sulla topografia di Adria in età romana e sulla sua connotazione monumentale. L’iniziativa è stata realizzata grazie al sostegno dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo; molti documenti, patrimonio del Comune e del Museo, sono fruibili dopo il restauro, effettuato dal Laboratorio di Restauro del Libro dell’Abbazia di Praglia, a cui hanno contribuito generosamente l’Amministrazione Comunale di Adria, la Fondazione Scolastica nob. Carlo Bocchi, nonché molte associazioni e cittadini adriesi. Giovanna Gambacurta



firenze

mostre Zurigo

L’archeologo del futuro

cerimonie ad alta quota

Si è svolto a Firenze il I Congresso nazionale di Archeologia Pubblica. Occasione di incontro e discussione sul rapporto tra archeologia e società, l’incontro ha assunto la forma di un talk show, con sei sessioni di dibattito che hanno avuto un comune denominatore nella domanda: può l’archeologia essere interpretata come un fattore di sviluppo sociale ed economico per la società civile? Questione già posta da Guido Vannini, ordinario di archeologia medievale all’Università di Firenze, in Archeologia Pubblica in Toscana, e condivisa da molti relatori, alcuni dei quali hanno illustrato gli incoraggianti risultati dei primi casi di studio. L’archeologia pubblica dialoga con i suoi fruitori, li coinvolge nel suo sviluppo, e, come ha affermato Michele Nucciotti, curatore del congresso con Chiara Bonacchi, intende ri-presentare l’archeologo e l’archeologia alla società civile. Nei progetti esposti è poi emerso il valore dell’archeologia nella sua capacità di riscoperta dell’identità collettiva. A differenza di un Indiana Jones, che dopo avere restituito alla «collettività» i tesori del passato torna alla sua cattedra universitaria, l’archeologo «pubblico» rimane in campo e offre strumenti culturali e manageriali per una migliore gestione dei beni archeologi. Cristiano Bernacchi

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S

coperto nel 1873 dal viaggiatore, naturalista e geografo milanese Antonio Raimondi (1826-1890), il sito di Chavín (presso l’odierna Chavín de Huantar, in Perú) è considerato la culla della civiltà andina, tanto da essere divenuto eponimo della cultura-madre delle Ande Centrali. Dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1985, Chavín, che fu un importante centro cerimoniale, fondato intorno al XIII secolo a.C., è per la prima volta oggetto di una mostra, grazie al Museum Rietberg, i cui responsabili hanno anche deciso di farsi carico delle prossimi scavi nel sito e degli interventi di conservazione del suo patrimonio monumentale. L’esposizione offre quindi anche una testimonianza concreta dell’accordo di collaborazione

Dove e quando «Chavín. Il tempio misterioso delle Ande peruviane» Zurigo, Museum Rietberg fino al 10 marzo 2013 Orario ma-do, 10,00-17,00 (me-gio, apertura serale fino alle 20,00); lu chiuso Info www.rietberg.ch

Chavín (Perú). L’area archeologica, con i resti del complesso templare monumentale. Si tratta di una costruzione imponente, fondata intorno al XIII sec. a.C.: era il fulcro dell’abitato, che fu certamente un importante centro cerimoniale.

scientifica raggiunto da Perú e Svizzera: tra i suoi frutti vi sono il rilievo integrale del sito, in 3D, con un livello di precisione millimetrica, ottenuto grazie all’impiego di tecnologie avanzate, nonché l’allestimento in loco di un laboratorio per il restauro delle sculture in pietra, nel quale, dallo scorso agosto, gli specialisti svizzeri lavorano con personale locale, al quale viene fornita la formazione necessaria a poter proseguire autonomamente, in futuro, l’attività di recupero. Un simile impegno è stato ricompensato con la concessione in prestito di circa 200 oggetti e opere d’arte: dai rilievi in pietra nei quali compaiono creature fantastiche, per metà umane e per metà animali ai pregiati vasi in ceramica provenienti dagli ambienti sotterranei del tempio, o, ancora, grandi manufatti in tessuto dai colori sgargianti. S. M. Vaso polciromo con corpo in forma di dragone. 1200-500 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.


incontri Paestum

una formula vincente

G

iunta alla XV edizione, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico ha vinto ancora una volta la sua scommessa, confermando la bontà della sua formula. Per quattro giorni, dal 15 al 18 novembre, Paestum si è trasformata in una vera e propria cittadella dell’archeologia, qui intesa non solo come studio del passato, ma anche come veicolo di sviluppo economico. E tra le maggiori potenzialità del patrimonio, vi è naturalmente quella di essere una meta turistica di straordinario interesse, fenomeno da cui nasce l’idea stessa della Borsa, che, in questo quadro, ha avuto quest’anno come ospite ufficiale l’Armenia e ha tenuto a battesimo le partecipazioni di Indonesia, Kenya e Tatarstan (Federazione Russa). Il calendario dei lavori della rassegna, come sempre fittissimo, ha offerto importanti momenti di dibattito. Come nel caso del convegno «Conservazione ordinaria e valorizzazione intelligente nelle aree della Magna Grecia», organizzato dalla Direzione Generale per le Antichità e la Direzione Generale per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale del MiBAC, o anche dell’incontro sul tema «Etica, innovazione e sostenibilità: come può cambiare l’approccio al turismo», in occasione del quale è stato anche illustrato, come esempio di best practice, il Progetto «Pompei». E le «buone prassi» sono state al centro anche del VI Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, «Patrimonio culturale e turismo: best practices per lo sviluppo locale, la formazione, la promozione», che, moderato da Andreas M. Steiner, direttore di «Archeo», ha visto la partecipazione dei responsabili delle piú importanti riviste d’archeologia. Di particolare rilevanza è stato anche il convegno «Prospettive per le missioni archeologiche alla luce degli sviluppi nella sponda Sud del Mediterraneo», curato dalla Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese del Ministero degli Affari Esteri, al quale hanno partecipato i direttori delle missioni archeologiche impegnate in Algeria, Egitto, Giordania, Israele, Libia, Palestina, Siria, Tunisia, Turchia.

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infor mazione pubblicitar ia

Una finestra sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie è stata aperta dal workshop «Patrimonio dell’Umanità e Musei Virtuali: nuovi modelli per il futuro del turismo culturale», in occasione del quale esperti del settore si sono confrontati sulla possibilità di creare un’offerta turistica capace di valorizzare risorse artistiche e culturali meno note, anche attraverso l’arte digitale, la virtualità, circuiti di piattaforme turistiche con i Musei Virtuali accessibili in rete e su smartphone/tablet. Ampia è stata la presenza del pubblico, che ha potuto apprezzare le iniziative ormai tradizionali della Borsa, come ArcheoVirtual, mostra e workshop sull’archeologia, i laboratori di archeologia sperimentale, mirati a far conoscere la cultura antropologica e materiale dell’antichità attraverso la riproduzione delle tecniche utilizzate dall’uomo per realizzare manufatti di uso quotidiano, e, soprattutto, ArcheoLavoro, sezione nella quale le Università hanno presentato i Corsi di Laurea e i Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre esperti del settore hanno illustrato le figure professionali e le competenze emergenti. Il XV anniversario della Borsa è stato celebrato anche con un annullo filatelico, emesso da Poste Italiane. Foto e materiali informativi sulla XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico sono disponbili sul sito ufficiale della manifestazione: www.borsaturismo.com


calendario

Italia Roma Marmo, Latte e Biancospino

chiusi +110

Mostra fotografica sull’Appia Antica Capo di Bove fino al 31.12.12 A sinistra: pecore al pascolo nei pressi della Villa dei Quintili, sull’Appia Antica.

L’antico nel moderno

Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13

Il Trono della Regina di Saba

Sulla Via della Seta

Antichi sentieri tra Oriente e Occidente Palazzo delle Esposizioni fino al 10.03.13

L’Età dell’Equilibrio

Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13

adria Scripta manent

I documenti Bocchi per l’archeologia di Adria Museo Archeologico Nazionale fino al 15.03.13

brescia Terre di confine

Una necropoli dell’età del Ferro a Urago d’Oglio Santa Giulia, Museo della Città fino al 31.03.13 20 a r c h e o

Qui sotto: piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta

Scultura italiana degli anni Trenta Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, Aula ottagona, ex Planetario fino al 06.01.13

Una città tra dominio e integrazione Colosseo-Foro romano fino al 10.03.13

Palazzo Reale fino al 17.03.13

Il pavimento musivo di Savignano sul Panaro Lapidario Romano dei Musei Civici fino al 12.05.13 (dal 16.12.12)

Palazzo del Quirinale, Sala delle Bandiere fino al 05.01.13

Roma caput mundi

milano Costantino. 313 d.C.

modena Il mosaico ritrovato

Cipro. Isola di Afrodite

Cultura e diplomazia tra Italia e Yemen: la collezione sudarabica del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 13.01.13

Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13

ostia (roma) Mosaici romani Ex [de] Po’ fino al 13.01.13 Qui sotto: statuetta in terracotta di cavallerizza con animale, dallo Shaanxi.

piacenza Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12

serrapetrona (MC) La conquista del cielo Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13

siena e altre sedi Vino fra mito e storia

Organizzata come evento diffuso, la mostra ha il suo nucleo principale a Siena, nella sede di Enoteca, dove è allestito un percorso espositivo sulla storia del vino, mentre nei musei dei cinque territori maggiormente rappresentativi dell’eccellenza vitivinicola senese sono allestite mostre collaterali, integrate nelle collezioni permanenti. Nella città del Palio, inoltre, nei suggestivi ambienti del S. Maria della Scala, è esposto un oggetto unico, il cinerario di

Qui sopra: mosaico policromo con nave e faro.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

trento Homo Sapiens

La grande storia della diversità umana Museo delle Scienze fino al 13.01.13

Un mausoleo sulla strada verso Yazd (Iran).

Venezia Lynn Davis al Museo Archeologico Nazionale di Venezia.

Saint-romain-en-gal e lione Peplum L’antichità al cinema Musées Gallo-Romains fino al 07.04.13

Strasburgo Un’arte dell’illusione

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Modern View of Ancient Treasures Museo Archeologico Nazionale fino al 13.01.13

Danimarca

vulci (Canino, VT) La Sfinge

Copenaghen Naufragio

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.12

Austria

Il Tesoretto dei sei imperatori da Camarina Ny Carlsberg Glyptotek fino all’01.02.13

innsbruck Armi per gli dèi

Germania

Guerrieri, trofei, santuari Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum fino al 31.03.13

Stoccarda Il Mondo dei Celti

Belgio

Centri di potere-Tesori d’arte Kunstgebäude e Landesmuseum Württemberg fino al 17.02.13

bruxelles Cipro antica

Svizzera

Dialogo tra culture Musée du Cinquantenaire fino al 17.02.13

Francia parigi Cipro

zurigo Chavín

Montescudaio, e vengono presentati, per la prima volta, anche alcuni degli oggetti appartenenti a un corredo funebre rinvenuto nella necropoli di Bosco Le Pici, a Castelnuovo Berardenga. In luoghi legati al mondo vitivinicolo i visitatori possono quindi ripercorrere, attraverso le testimonianze archeologiche, le tappe fondamentali dell’evolversi della cultura del vino in tutto il bacino del Mediterraneo e, in particolar modo, sul territorio toscano e su quello della provincia di Siena. Tappe di un lungo viaggio che,

Qui sotto: Johann Ludwig Burckhardt come Sheikh Ibrahim.

basilea Petra. Meraviglia del deserto Sulle tracce di J.L. Burckhardt Antikenmuseum Basel fino al 17.03.13

Tra Bisanzio e l’Occidente, IV-XVI secolo Musée du Louvre, Aile Richelieu fino al 28.01.13

A sinistra: il tesoretto monetale recuperato nelle acque di Camarina.

Modellino in terracotta di carro.

Il tempio misterioso delle Ande peruviane Museum Rietberg fino al 10.03.13

partito piú di cinquemila anni fa nel Vicino Oriente, passando per i Greci, i Romani e gli Etruschi, arriva fino all’Italia medievale e moderna. Nel progetto sono coinvolti: il Museo Archeologico del Chianti Senese a Castellina in Chianti; il Museo del Paesaggio di Castelnuovo Berardenga; i Musei di Montalcino; il Museo Civico Pinacoteca «Crociani» di Montepulciano; il Museo Archeologico, la Spezieria di S. Fina, la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea «Raffaele De Grada» di San Gimignano.

dove e quando Complesso Museale S. Maria della Scala Siena, Piazza Duomo, 1 fino al 5 maggio 2013 Orario tutti i giorni ore 11.00 - 16.00 Info tel. 0577 534511 oppure 534571; e-mail: infoscala@comune.siena.it a r c h e o 21


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

quello che, per convenzione, possiamo chiamare una città del V millennio a.C.». Ma vediamo che cosa hanno portato alla luce le indagini degli archeologi bulgari, attentamente seguiti anche da studiosi giapponesi, inglesi e tedeschi.

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a scoperta di quello che, forse con un eccesso di disinvoltura, è stato definito «la piú antica città d’Europa», il sito archeologico nei pressi delle saline di Provadia, nella regione di Varna (in Bulgaria), è stata diffusa dai principali mezzi di informazione internazionali, tra cui il quotidiano britannico The Telegraph (che sul suo sito ha pubblicato anche anche un video, con un’intervista al professor Vasil Nikolov, dell’Istituto Nazionale di Archeologia bulgaro, che a Provadia ha scavato per molti anni). «Non si tratta – ha spiegato Nikolov – di una città nel senso delle poleis greche, dell’antica Roma o dei grandi agglomerati urbani di età medievale, ma di

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la fortuna dell’oro bianco

In alto: Vasil Nikolov (a sinistra) sullo scavo di Provadia (Bulgaria), e, in basso, una veduta dell’abitato, con resti di edifici a due piani, mura di cinta e una porta fortificata.

I resti dell’insediamento scavato includono edifici a due piani, mura di cinta fortificate e parte di una porta urbica, databili tra il 4700 e il 4200 a.C. Il numero degli abitanti del sito (noto con il nome di Provadia-Solnitsata) è stato calcolato in 350 unità. La ragion d’essere di questa piccola «città» preistorica risiede, secondo Vasil Nikolov, nella ricca presenza, intorno all’abitato, delle saline: «La differenza tra il nostro sito e gli


Qui sotto: il frammento di bulla, trovato a Gerusalemme, che menziona la città di Betlemme.

In alto: sepolture scoperte nel sito di Provadia, in Bulgaria. altri villaggi antichi del Sud-Est europeo risiede nella straordinaria ricchezza generata dall’estrazione e dal commercio del sale proveniente dai depositi minerali naturali di Provadia, tra i piú antichi d’Europa». Il sale veniva estratto e trasportato, lavorato e trasformato in pani, e messo al sicuro all’interno delle mura di Provadia-Solnitsata. Ma perché tanta attenzione per questo materiale, oggi di modesto valore? «Nell’antichità – ricorda Nikolov – il sale era un bene preziosissimo, serviva come alimento e per la conservazione dei cibi, ed era pertanto utilizzato come moneta di scambio e di commercio a partire dal VI millennio fino agli ultimi secoli a.C.». E frammenti di ornamenti in bronzo, infatti, sono stati trovati tra i resti scheletrici venuti alla luce nel sito. Ma una conferma indiretta della ricchezza a cui, forse in maniera determinante, ha contribuito questa antichissima attività estrattiva, è rappresentata dal celebre ritrovamento della vicina necropoli eneolitica di Varna, in cui, quarant’anni fa, furono scoperti oltre 3000 raffinatissimi reperti in oro, databili tra il 4600 e il 4200 a.C. e considerati il piú antico tesoro di oreficeria a oggi noto.

la prima volta di betlemme

U

no straordinario reperto è venuto in luce durante il setacciamento dei materiali emersi negli scavi condotti dagli archeologi dell’IAA (Israel Antiquities Authority) nell’area della Città di David, a Gerusalemme. Si tratta di una bulla, un sigillo in terracotta che veniva impresso su documenti o oggetti per garantirne l’integrità e evidenziarne il destinatario. La bulla, che misura 1,5 cm circa, riporta tre righe (frammentarie) in ebraico, il cui testo è stato cosí ricostruito:

Bishv’at [B]at Lechem [Lemel]ech

nel settimo [anno del regno] [tasse dalla città di B]etlemme [da o per] il re

Si tratta della piú antica testimonianza materiale della menzione della città natale di Gesú a oggi nota. Secondo l’archeologo Eli Shukron, direttore degli scavi, il reperto potrebbe riferirsi al sistema di tassazione vigente al tempo dei re Ezechia (727-697 a.C.) o Manasse (697-642 a.C.), che prevedeva versamenti in natura (olio, grano) a favore dell’amministrazione centrale del palazzo di Gerusalemme.

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

sorprese a eretria le ultime ricerche nella città dell’eubea dipingono un quadro inatteso: anche dopo la romanizzazione, essa continuò a prosperare e offrí ai suoi abitanti il ristoro di un grande impianto termale

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retria, situata in Eubea, proprio davanti alle coste dell’Attica, è nota per il notevole sviluppo raggiunto in età geometrica. I suoi abitanti, infatti, furono pionieri della colonizzazione greca dell’VIII secolo a.C., fondando, tra l’altro, Pitecusa e Cuma in Campania, nonché Zancle in Sicilia. Inoltre, Eretria fu uno dei centri propulsori per la diffusione dell’alfabeto nel mondo greco (vedi «Archeo» n. 310, dicembre 2010; anche su

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www.archeo.it). Ben conosciuta è anche l’Eretria di età classica ed ellenistica, mentre della città romana, fino a pochi anni fa, si sapeva ben poco; si riteneva, tra l’altro, che il sacco di Silla, nella primavera dell’86 a.C., avesse apportato distruzioni cosí ingenti da non consentire al centro di proseguire una vita degna di nota. Assumono pertanto un enorme valore, per la conoscenza di un centro greco in una provincia romana, sia gli scavi della fine del

secolo scorso al tempio del culto imperiale (Sebasteion), sia i recenti scavi di un edificio monumentale situato nel cuore della città antica, in gran parte conclusi l’estate scorsa.

piscine al posto delle case Effettuati dalla Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia, tali scavi, inaugurati nel 2009 e proseguiti nel triennio 2010-2012, hanno infatti portato alla luce un complesso termale, costruito alla metà del II secolo d.C. Le Terme di Eretria non erano lontane dal Sebasteion e da un quartiere a vocazione artigianale e andarono a installarsi in un’area occupata, in età classica ed ellenistica, da abitazioni private. Queste Terme erano composte da


un ingresso costituito da un vestibolo ad atrio, dal quale si accedeva all’ampio apodyterium (spogliatoio; 40 mq circa), ornato da un bel pavimento a mosaico di ciottoli bianchi e neri che formano motivi geometrici. Lo spogliatoio, provvisto di banchine marmoree con piedi configurati a zampe animali, conduceva al frigidarium, dotato di una vasca quadrangolare con banchine. Dalla sala per abluzioni fredde si passava quindi a quella temperata (tepidarium) e poi al calidarium, una larga sala quadrangolare (25 mq) poggiante su ambiente a ipocausto; è anche possibile che vi fosse un laconicum, vale a dire una seconda sala intermedia tra gli ambienti caldi e quelli freddi.

l’abbandono Le trasformazioni che, a un certo momento della vita dell’edificio, interessarono perlomeno una parte degli ambienti, potrebbero giustificarsi con necessità di maggiore economia, oppure con un mutamento nell’uso degli spazi termali intervenuto nel corso del tempo. È comunque certo che le Terme di Eretria caddero in disuso nella seconda metà del III secolo d.C.: lo conferma il rinvenimento di

Qui sotto: cartina della Grecia, con la localizzazione di Eretria, situata sulla costa occidentale dell’isola di Eubea. Al centro: l’apodyterium (spogliatoio) delle terme recentemente scoperte.

Mare Egeo

GRECIA

Eretria Atene Mar Ionio

un tesoretto di ben 201 antoniniani, nascosti nella canalizzazione del vestibolo. La costruzione del monumento, da porsi, come detto, alla metà del II secolo d.C., presenta dettagli interessanti, come il riutilizzo di elementi architettonici da monumenti vicini. Per esempio, i piedi delle banchine dello spogliatoio sono stati ricavati dal non lontano Ginnasio Nord, che a quel tempo era ormai andato in disuso; inoltre, alcuni blocchi della Stoà Est, di età classica, furono riutilizzati per lo stilobate dell’impluvium del vestibolo, mentre frammenti di colonne scanalate, murate nel calidarium,

In basso: Eretria. Veduta generale del cantiere di scavo della Scuola Svizzera di Archeologia. Nella pagina accanto: la vasca del calidarium, con i pilastrini del sistema a ipocausto che assicurava il riscaldamento dell’acqua. potrebbero essere pertinenti al santuario di Apollo Dafneforo, uno dei monumenti principali di Eretria. Tutto ciò avvalora l’ipotesi che il centro della città antica fosse ormai stato smantellato in età romana e attesta la pratica, frequente presso i Romani, del riutilizzo di membrature architettoniche. Se gli scavi delle Terme di Eretria possono considerarsi conclusi con la campagna del 2012, inizia ora una nuova fase: quella del restauro del monumento e della sua valorizzazione, in vista dell’apertura al pubblico. L’evento, previsto per il 2014, consegnerà alla storia un nuovo, fondamentale frammento del mosaico urbano di questo centro, oggi cosí piccolo, ma un tempo cosí importante.

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yemen

di Paola D’Amore

i nostri anni in arabia felice il trattato di amicizia firmato negli anni Venti del secolo scorso tra Italia e Yemen è all’origine della donazione di quattro importanti collezioni sudarabiche, ora parte del patrimonio del Museo nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci»

V

isitando il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma, ci si potrebbe chiedere che cosa c’entri S.M. Vittorio Emanuele III con la raccolta sudarabica che nelle sue sale si conserva. C’entra, eccome! La storia inizia nel 1926 quando il Governatore dell’Eritrea, Jacopo Gasparini, per conto del re d’Italia, firmò con l’imam Yahya amir alMu’minin, re dello Yemen, il Trat-

tato di amicizia e di relazioni economiche tra l’Italia e lo Yemen. Fortemente voluto sia dal Regio Governo italiano – perché lo Yemen costituiva il piú ampio ed economico mercato dell’Eritrea, colonia italiana fin dal 1890 –, sia da quello yemenita – del quale per la prima volta in un atto internazionale veniva riconosciuta l’indipendenza –, il trattato fu firmato a San’a il 2 settembre


Statuette funerarie in calcare di figure femminili sedute e stanti, dal Jawf, nel Nord dello Yemen. Di datazione incerta, sono forse ascrivibili alla metà del I mill. a.C. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» (collezione Zoli-Ansaldi).

Nella pagina accanto: la regina di Saba, particolare dalle Storie della Vera Croce, di Agnolo Gaddi. 1380-90. Firenze, Santa Croce, Cappella Maggiore.

1926 ed entrò in vigore il 22 dicembre dello stesso anno. Rinnovato nel 1937, l’accordo prevedeva importazioni di caffè, gomma, datteri, olio di sesamo, bestiame, petrolio, perle e ambra in cambio di mezzi e materiali tecnici, la realizzazione di stazioni radio, un collegamento telegrafico, l’apertura di ambulatori medici, la costruzione di strade e il potenziamento della linea marittima con l’Eritrea, oltre all’ad-

destramento tecnico. Grazie all’apertura di ospedali italiani in diverse città del Paese, si formarono le raccolte di antichità, portate in Italia.

un abile tessitore Il lavoro diplomatico di Jacopo Gasparini ci è noto grazie a un carteggio composto da telegrammi, note, scritti riservati, lettere ufficiali, articoli di giornale, attraverso i quali si segue l’evoluzione del negoziato.

L’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri conserva anche la dettagliata relazione compilata dallo stesso Gasparini, protagonista indiscusso di questo brillante risultato. Nato nel 1879 a Volpago del Montello (Treviso), Jacopo Gasparini ricoprí giovanissimo importanti cariche, fino a diventare, nel 1923, il Governatore dell’Eritrea. Inizia cosí la sua lunga permanenza africana. Al suo arrivo in Eritrea trovò un a r c h e o 27


yemen • l’italia in arabia felix

Paese economicamente al collasso e fortemente provato dai due terremoti del 1921. La sua attività di Governatore si concentrò sulla ricostruzione di Massaua, nell’apertura di nuove strade per incrementare i commerci con il Sudan e l’Etiopia, nel completamento della ferrovia Cheren-Agordat, pianificando la sua prosecuzione fino a Tessenei, dove avviò e completò la bonifica agraria della piana.

la politica degli indigeni Uomo di grande carisma politico, Gasparini fu l’ultimo governatore a praticare la cosiddetta «politica degli indigeni» cara alla vecchia Italia prefascista e osteggiata dai funzionari coloniali, che consisteva nel tessere buoni rapporti con i notabili e i capi tribú. Dopo tre anni di sottile lavoro diplomatico, Gasparini convinse l’imam Yahya a firmare il Trattato con l’Italia, che riconosceva per la prima volta la sovranità del Paese. Lo Yemen manteneva dalla fine della prima guerra mondiale una marcata autonomia dalla Gran Bretagna e dalla Francia e alla diplomazia

italiana era ben chiaro il significato strategico di un buon rapporto con San’a. Gasparini fu facilitato, nella sua missione diplomatica, dalla diffidenza del governo locale nei confronti della Gran Bretagna, che occupava ‘Aden e aveva mire sui sultanati dell’ Hadramawt. Nominato senatore nel 1928 (sostituito in Eritrea da Corrado Zoli), Gasparini divenne presidente dell’Azienda agricola di Tessenei. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Gasparini tornò in Africa, richiamato dal duca di Aosta come commissario per l’economia e gli approvvigionamenti presso il governo dell’Africa Orientale Italiana (AOI). Circondata dalle colonie inglesi, l’AOI era condannata a soccombere; la decisione del duca d’Aosta di abbandonare i bassopiani e l’azienda agricola di Tessenei fu un grave colpo per Gasparini, che non voleva lasciare il piú grande e riuscito progetto di bonifica al quale aveva dedicato tutte le sue energie. Nel gennaio 1941 quando il generale inglese William Platt entrò in Eritrea e occupò Tessenei, Gasparini abbandonò il Paese, imbarcandosi sull’ultimo aereo per Addis Abeba, ma, arri-

vato ad Asmara, si rifiutò di continuare il viaggio verso l’Italia. Colpito da una grave crisi cardiaca vi morí il 16 maggio 1941, a soli 52 anni.

da plinio a marco polo I Greci e i Romani chiamavano lo Yemen Arabia Felix, per la ricchezza delle spezie prodotte ed esportate lungo le vie carovaniere che attraversavano la Penisola arabica fino ai porti del Mediterraneo. A queste prime notizie, riportate da Plinio, seguono quelle citate ne il Milione di Marco Polo con la descrizione delle città costiere e del commercio dell’incenso, ancora florido nel 1298; ulteriori informazioni si ricavano dall’Itinerario di Ludovico de Verthema Bolognese, diario del viaggio compiuto dal suo autore tra il 1500 e il 1508. Dopo tre secoli, nel 1800 in Italia si torna a parlare dello Yemen. All’alba dell’Unità d’Italia, infatti, il nostro Paese è praticamente assente in questa regione dell’Asia, con l’unica eccezione di Renzo Manzoni, nipote di Alessandro, che visse in Yemen tra il 1877 e il 1880.

A destra: ritratto di Jacopo Gasparini (1879-1941), Governatore dell’Eritrea dal 1923 al 1928, olio su tela di Giuseppe Balbo (1902-1980). In basso: Gasparini e la delegazione italiana in marcia verso San’a, in una foto del 1926.

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yemen, archeologia e storia 400 000 anni fa Paleolitico Inferiore Gruppi di Ominidi usciti dal Bab al-Mandeb (Stretto di Aden) si spostano nell’entroterra della Penisola arabica. 50 000 anni fa Paleolitico Medio Popolamento da parte di umani moderni. 10 000-3000 a.C. Neolitico Vita di villaggio. Alla caccia ad asini, gazzelle e struzzi e allo sfruttamento delle risorse marine si accompagnano l’agricoltura e la domesticazione di capriovini, bovini e suini. Inizia la domesticazione dell’asino. 3000-1200 a.C. Età del Bronzo Domesticazione del dromedario. Prima ceramica, scambio intensificato di ossidiana, calcedonio, conchiglie, uova di struzzo. La statuaria in pietra indica il culto degli antenati tribali. 1200-1000 a.C. Inizio dell’età Primi esempi di scrittura alfabetica, contemporanei agli alfabeti di Ugarit del Ferro e a quelli fenici. 1000-900 a.C. Qui la Bibbia colloca Importanti carovaniere percorrono la costa arabica meridionale. Salomone e la vicenda della regina di Saba 900-500 a.C. Periodo degli Stati Stati su base confederativa tribale: Saba, Main, Qataban, Hadramaut. carovanieri I Sabei sono menzionati da fonti reali assire. Penetrazione e conquiste e dei signori sudarabiche sulla costa del Mar Rosso e sull’altopiano etiopico. (mukarrib) di Saba Grandi città fortificate. 500-100 a.C. Dinastia dei re Lotte per la supremazia tra Stati indipendenti. Nel 24 a.C., sotto Augusto, (malik) di Saba un esercito romano penetra senza duraturo successo nello Yemen. Inizia il declino del regno di Saba. 100 a.C.-200 d.C. Periodo dei regni Crisi delle carovaniere, sviluppo del commercio via mare. Crisi di Saba, ascesa Periplo del Mare Eritreo, «portolano» o guida del commercio delle tribú himyarite indo-romano. 200-300 d.C. Fine del regno di Saba Crescente pressione di tribú nomadi dall’interno. Temporanea conquista dello Yemen da parte degli Etiopici. 300-528 d.C. Impero himyarita Diffusione del cristianesimo e del giudaismo. 528 d.C. Conquista abissina dello Yemen. 570 d.C. Conquista persiana (impero sassanide). 628 d.C. Conversione all’Islam.

Geografo, etnologo, botanico, Renzo Manzoni nacque nel 1852. Nel 1876 si uní alla spedizione in Marocco dell’ingegnere Giulio Adamoli. La sua conoscenza dell’arabo e la sua esperienza come fotografo gli permisero di partecipare, su invito di Cesare Correnti, Presidente della Società Geografica, alla missione di Orazio Antinori, che l’Istituto stava inviando in Etiopia. Intenzionato a unirsi nel 1877 alla spedizione di Sebastiano Martino Bernardi e di Antonio Cecchi nello Scioa, a causa di una serie di imprevisti, fu costretto a fermarsi ad ‘Aden, dove il console italiano lo incoraggiò a effettuare un viaggio verso San’a. Ariete in calcare, di provenienza ignota. Roma, Museo Nazionale d’Arte La sua spedizione, partita da ‘Aden Orientale (collezione Zoli-Ansaldi). L’ariete, raro nell’iconografia sudarabica, il 20 settembre, si articolò in tre potrebbe essere un elemento decorativo, forse un bracciolo di seggio. a r c h e o 29


yemen • l’italia in arabia felix

Frammenti di rilievi in alabastro e arenaria, appartenenti alla collezione dell’arabista Ettore Rossi, formata durante un viaggio in Yemen nel 1938, esposti in una vetrina del Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.

Due vetrine del museo romano, allestite con pezzi della collezione ZoliAnsaldi: stele funerarie in alabastro e calcare con volti maschili scolpiti in rilievo e un bassorilievo frammentario con teoria di guerrieri (in alto), e alcuni reperti appartenenti alla collezione del medico Mario Livadiotti: sigilli e figurine antropomorfe e zoomorfe in bronzo (in basso).

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itinerari distinti: il primo lo condusse a San’a, attraverso le montagne, spingendosi nella vallata del Wadi Bana, raggiungendo Yarim e Dhamar; con la seconda (18 giugno 1878) toccò Mawiyah, Ta‘izz, Mukha’e al-Hudaydah e poi nuovamente San’a. Tornato ad ‘Aden, il suo desiderio di visitare l’Arabia Interna sembrò avverarsi, grazie alla partecipazione alla missione somala finanziata da Manfredo Camperio. Arrestato sulla costa somala e condannato per aver difeso un Italiano al servizio degli Egiziani contro il governatore locale, fu liberato l’11 gennaio 1880. Di ritorno ad ‘Aden, ripartí verso l’interno del Paese, grazie alla richiesta di formare una collezione naturalistica per il Museo Civico di Storia Naturale di Milano. Le sue precarie condizioni di salute lo costrinsero a interrompere il viaggio e a tornare ad ‘Aden e da qui a San’a, utilizzando un terzo itinerario in parte già conosciuto. Stanco e ammalato, Manzoni raggiunse al-Hudaydah, per imbarcarsi sul Singapore alla volta di Genova. Rientrato in Italia, vi morí nel 1918.

tre anni irripetibili La sua lunga permanenza yemenita è raccontata in El Yemen. Tre anni nell’Arabia Felice, opera di grande interesse scientifico per le osservazioni accurate e inedite, scritte con prosa vivace, a volte un po’ pedante, come si conviene a uno scrittore della fine dell’Ottocento che deve raccontare e descrivere tutto quel che vede perché tutto è ignoto. Ancora oggi di notevole interesse sono la carta geografica annessa, la planimetria della capitale (redatta nei primi mesi del 1879) e le numerose fotografie eseguite dallo stesso Manzoni, conservate a Roma presso l’Archivio Fotografico della Società Geografica Italiana. Il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» conserva quattro collezioni sudarabiche, portate in Italia grazie al Trattato firmato da Jacopo Gasparini. La piú importante è quella formata nel 1933


da Corrado Zoli, Governatore dell’Eritrea e da Cesare Ansaldi, archeologo, medico e viaggiatore. Ansaldi si trovava in Cirenaica, come medico coloniale. Fu lo stesso Zoli che lo chiamò in Yemen, affidandogli l’ospedale di al-Hudaydah, dove lavoravano già due medici che avevano in cura non solo la popolazione della capitale, ma anche la numerosa famiglia dell’imam. Ansaldi fu per tre anni il medico personale della famiglia reale, oltre che rappresentante politico italiano; grazie al suo incarico, poté visitare vari distretti del Paese e la sua esperienza di curioso viaggiatore fu raccolta in due volumi, Il Yemen nella storia e nella leggenda (1933) e Nell’Arabia Felice (1937). La sua ricca raccolta di antichità sudarabiche fu donata a Corrado Zoli, che, nel 1933, grazie alla benevolenza dell’imam, la portò in Italia con l’idea di cederla ai Musei Vaticani. Fu il decisivo intervento di Carlo Conti Rossini («sebbene molto meno ricca delle raccolte di Londra, Parigi, Berlino e Vienna, è pur sempre notevole ed è la sola che si abbia in Italia!»), che convinse Zoli a destinarla al Museo Nazionale Romano. La raccolta sudarabica fu poi ampliata con la donazione della piccola collezione dell’arabista Ettore Rossi, formata durante un viaggio in Yemen, nel gennaio 1938. La Collezione Zoli-Ansaldi fu esposta al pubblico nel 1935 in concomitanza con l’inaugurazione del XIX Congresso Internazionale degli Orientalisti e nel 1984, onorando un articolo del decreto istitutivo del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci», fu as-

segnata insieme alla Collezione Rossi al nostro museo. Le ultime due raccolte sudarabiche del Museo appartenevano rispettivamente a Lamberto Cicconi, originario di Macerata, che lavorò in Yemen nel 1939, e a Mario Livadiotti, medico personale dell’ultimo imam. Manzoni, Ansaldi, Cicconi e Livadiotti non furono gli unici italiani a vivere ed esercitare in Yemen. Tra i medici ricordiamo Romualdo Ganora, che studiò le specie arboree del Paese, Goffredo Tassi in servizio a Ta‘izz, che studiò le malattie endemiche dello Yemen meridionale, Tommaso Sarnelli, che si interessò alla farmacopea indigena. La sua raccolta di antichità e manoscritti yemeniti fu donata all’Istituto per l’Oriente «C.A. Nallino» di Roma.

dalla brianza all’arabia A San’a, alla fine dell’Ottocento, punto di riferimento per gli Italiani e gli esploratori era l’azienda dei fratelli Giuseppe e Luigi Caprotti, originari di Pobiga, una frazione di Besana Brianza, dove Giuseppe era nato nel 1862 e Luigi nel 1858. Nel 1880 Giuseppe aveva iniziato a fare pratica nel commercio, mentre Luigi era a Massaua come agente della Società di Esplorazione Commerciale di Milano. Spostatosi a San’a, aprí una filiale della Casa di Commercio Italiana di Sante Mazzucchelli e Augusto Lopez Pereira, con sede ad al-Hudaydah. Qui fu raggiunto da Giuseppe che, dopo la morte di Luigi, continuò da solo l’attività commerciale, mettendosi in proprio e lavorando sette anni con la Regia Ottomana dei

La pianta di San‘a disegnata dal geografo e naturalista Renzo Manzoni (1852-1918), nel 1879. Roma, Società Geografica Italiana, Archivio Storico.

Tabacchi, dedicandosi anche all’esportazione di caffè e all’importazione di beni di consumo. Nel corso dei trentaquattro anni passati in Yemen, Caprotti aveva raccolto una ricca collezione, comprendente monete, materiale etnografico e moltissimi manoscritti, questi ultimi affidati nel 1903 a Eugenio Griffini per lo studio e la vendita che si concretizzò nel 1909 con l’offerta alla Biblioteca Ambrosiana. Ci furono giornalisti come Giovanni Battista Rossi, in Yemen nel 1891 per raccontare l’insurrezione contro i Turchi, della quale fu testimone; come Salvatore Aponte nel 1936 e Sandro Volta nel 1938, uomini di partito come Massimo Rava o geologi come Probo Camucci che accompagnarono Jacopo Gasparini nel suo viaggio verso San’a. Pur rimanendo attiva la Missione sanitaria, dopo il 1938 la presenza italiana si limita a poche e importanti missioni scientifiche, finalizzate allo studio della flora e della fauna (Massimo Mancioli e Antonio E. Parrinello nel 1955 per lo studio del qat; Giuseppe Scortecci nel 1962 e nel 1965 per la flora), dei minerali e delle materie prime (Tino Lipparini nel 1953). Come si noterà, mancano gli studiosi delloYemen preislamico – unica eccezione è l’arabista Ettore Rossi –, cosí come gli archeologi. Questi due rami della conoscenza dovranno attendere ancora molti anni per (ri)scoprire l’Arabia Felix. a r c h e o 31


la regina e i dottori

evocando la leggendaria sovrana di saba, una mostra allestita al museo nazionale d’arte orientale di roma ripercorre la storia dei rapporti tra l’italia e lo yemen di Sabina Antonini

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opo 12 anni dalla fortunata mostra a Palazzo Ruspoli, lo Yemen torna a far parlare di sé con «Il Trono della Regina di Saba». È questo il titolo della piccola, ma preziosa mostra sul Paese sudarabico inaugurata presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Alla regina di Saba è riservata una sala, l’ultima del nostro itinerario, che percorriamo all’inverso, del prestigioso Palazzo Brancaccio. Al

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centro della sala spicca un trono su un’alta pedana, ricostruito, con molta verosimiglianza, sulla base di diversi frammenti archeologici (vedi oltre, alle pp. 36-43).

l’incontro con salomone Possiamo immaginare che su un trono simile a questo abbia preso posto anche una regina di Saba, il cui nome non ci è dato di conoscere, ma che è Bilqis nella tradizione

Sulle due pagine, da sinistra a destra: una vetrina con abiti tradizionali e oggetti dell’artigianato yemenita; collane in ambra, copale e argento, da San’a (XX sec.); una delle vetrine originali del Museo delle Colonie, con vasi in vetro contenenti campioni di grani di caffè, incenso e mirra, vale a dire prodotti tipici dello Yemen; iscrizioni incise su pietra calcarea, di dedica a divinità o di commemorazione per la costruzione di opere pubbliche e private. II sec. a.C.-III sec. d.C.

araba, e Makeda nella tradizione etiopica. La regina di Saba fa il suo ingresso nella storia nel X secolo a.C., quando si reca alla corte del re Salomone, e le leggende ispirate intorno a questo incontro ce la presentano come una donna di potere, di sapienza, di saggezza e di curiosità, oltre che di meravigliosa bellezza femminile. Che si voglia credere o meno alla sua storicità, la visita a Gerusalemme di un’ambasciata dal regno di Saba è del tutto


plausibile nel contesto del commercio internazionale dell’incenso in quell’epoca. Inoltre, sebbene le iscrizioni sudarabiche non citino nomi di regine – fatta eccezione per un riferimento occasionale nel I secolo d.C. a una regina dell’Hadramawt, Malikhalik, moglie del re Il’azz Yalut – gli Annali Assiri citano diverse regine arabe, fin dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. Nella stessa sala sono esposti Il corteo della regina di Saba, opera di Emanuele Luzzati, e alcuni dipinti etiopici, già nelle collezioni dell’ex Museo delle Colonie, che rappresentano la storia della regina in serie di vignette, accompagnate ciascuna da una didascalia in amarico. L’allestimento di questa sezione è completato da alcuni oggetti che testimoniano il fascino esercitato da questa figura femminile nella memoria collettiva della cultura occidentale; tra questi, il flacone, in puro stile déco, che conteneva il profumo Regina di Saba prodotto nel 1927 dalla Antica Casa Borsari di Parma in occasione della visita in Italia del principe ereditario dello Yemen.

Nelle due sale contigue, accompagnate da disegni di paesaggi yemeniti e vedute di San’a dell’artista americana Patricia Glee Smith, sono esposte le collezioni storiche del Museo. Si tratta di statuette a tutto tondo, cosiddette «degli antenati», stele e ritratti simbolici funerari, incensieri, tavole offertorie, rilievi con soggetti di vario genere, oggetti in bronzo, monete e iscrizioni monumentali. Queste opere sudarabiche provengono dalle zone del Jawf (dove era il regno di Ma’in), di Marib (capitale del regno di Saba) e Zafar (capitale del regno di Himyar), e coprono un arco cronologico che va dal VII-VI secolo a.C. al III-IV secolo d.C.

manoscritti preziosi Accanto ai materiali archeologici, figurano pregiati e rari manoscritti yemeniti (dal XIV al XIX secolo), con legature in cuoio finemente decorate, appartenenti alla Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, e concessi in prestito al Museo per questa speciale occasione. Su una parete sono le testimonianze epistolari di Ettore Rossi, rinomato

accademico orientalista, a proposito della donazione delle collezioni yemenite alla Biblioteca dell’Accademia dei Lincei (63 manoscritti) e al Museo Nazionale Romano (i materiali archeologici, che furono poi assegnati, nel 1984, al Museo Nazionale d’Arte Orientale). Alcune lampade a olio in steatite e alabastro, esposte in una vetrina, erano utilizzate fino a pochi decenni fa nelle case degli Yemeniti non ancora raggiunte dall’elettricità. Il visitatore che percorre il corridoio di accesso a questa sala è accompagnato da suggestive fotografie di scorci e di interni di San’a, realizzate da Rosetta Messori. La prima sala della mostra è riservata ai documenti e alle immagini che legano il nostro Paese allo Yemen. Sono trascorsi 86 anni dal trattato di amicizia e di relazioni economiche e diplomatiche tra l’Italia e lo Yemen, firmato il 2 settembre 1926 a San’a tra Sua Eccellenza il cavaliere Jacopo Gasparini, Governatore dell’Eritrea, e Sua Maestà il re dello Yemen, l’imam Yahya. Il trattato segnò per entrambi i Paesi l’inizio di «un’era feconda di vantaggiosi risultati». a r c h e o 33


yemen • l’italia in arabia felix A destra: Tamna’. Stele di granito iscritta con le leggi che regolavano le attività commerciali cittadine. In basso: testa femmnile in alabastro, stucco e lapislazzuli, dalla tomba 10 della necropoli di Hayd bin ‘Aqil di Tamna’. Inizi del I sec. d.C. Falls Church (Virginia), American Foundation for the Study of Man.

Diverse fotografie dell’epoca, una lettera dell’imam e un album che raccoglie la rassegna stampa dell’accordo citato documentano le relazioni dello Yemen con l’Italia nei primi decenni del secolo scorso. Per la prima volta, su concessione della Società Geografica Italiana, è esposto al pubblico il manoscritto del libro El Yèmen. Tre anni nell’Arabia felice pubblicato a Roma nel 1884 da Renzo Manzoni, geografo e naturalista (nipote del celebre Alessandro Manzoni), che trascorse tre anni nel Paese sudarabico tra il 1877 e il 1880; sono in mostra anche alcune fotografie da lui scattate a San’a e la pianta originale della città, da lui disegnata nel 1879. Un

Scoperte nella terra della regina di Saba Le ultime campagne di scavo condotte in Yemen, dalla Missione Archeologica Italiana si sono concentrate a Tamna‘ e Yathill, due delle piú grandi città dell’Arabia antica, rispettivamente capitali dei regni di Qataban e Ma’in. In collaborazione con un’équipe di epigrafisti francesi, nel 1999, a Tamna‘ (odierna Hajar Kuhlan), fu organizzata una missione archeologica congiunta italo-francese. Le indagini, condotte fino al 2006, hanno riguardato lo scavo di un vasto edificio templare, dedicato ad Athirat, fondato intorno al IV-III sec. a.C. e rimasto in uso fino al I-II sec. d.C.; dieci case private nella cosiddetta «Piazza del mercato», al centro della città; la necropoli di Hayd bin ‘Aqil, situata 2 km a nord-est di Tamna‘, caratterizzata da deposizioni multiple, in tombe a camera. Le ricerche hanno inoltre consentito di acquisire ulteriori conoscenze sul cosiddetto «Palazzo reale» o «Grande tempio», colossale costruzione già

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indagata da una missione statunitense negli anni Cinquanta del secolo scorso. Nella città minea di Yathill (odierna Baraqish), nella valle del Jawf, la Missione Italiana, nel corso di tre campagne di scavo (2004, 2005, 2006), ha riportato alla luce un tempio dedicato ad ‘Athtar dhu-Qabd («Tempio B»), divinità maggiore dei Minei, che costituisce, insieme al tempio del dio Nakrah («Tempio A»), scavato in due precedenti campagne (1989-1990, 1992), e al cosiddetto «Tempio C», un’area sacra nella zona meridionale della città. Negli stessi anni, sono state inoltre messe in luce alcune tombe di una necropoli di piccole dimensioni, posta a ovest, fuori dalla principale porta urbica di Yathill. Per la prima volta, nel corso di questi scavi, sono state trovate in situ numerose stele funerarie iscritte, che dovevano segnare ciascuna tomba.


B A destra: ipotesi ricostruttiva dei templi «A» e «B» dell’antica Yathill. I santuari, entrambi ipostili (spazi chiusi, con il tetto sostenuto da colonne), presentano lo stesso schema planimetrico e i medesimi materiali costruttivi. Qui sotto: il «Tempio A» dedicato a Nakrah, dopo il restauro. In basso: carta dello Yemen con i principali siti archeologici.

A

esemplare di El Yèmen, con firma autografa dello stesso Manzoni, è esposto in una vetrina, con altre pubblicazioni di medici e viaggiatori che frequentarono lo Yemen nei primi decenni del XX secolo.

Yathrib/al-Madîna

Golfo Persico

Gerrha

Penisola Arabica hâ

La Mecca

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Mar Rosso Najran Sihi

Da’mat Aksum Mouza

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Yathill (Baraqish) Marib

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Moscha

Shabwa Qani

Golfo di Aden

Somalia

Mare Arabico

caffè, incenso e mirra In altre vetrine sono esposti una raccolta di campioni di grani di caffè e di resine, tra cui l’incenso e la mirra, raffinatissimi gioielli yemeniti in argento, corallo e ambra, vestiti femminili da cerimonia finemente tessuti e caffettiere del periodo dell’occupazione turca dello Yemen. Vorrei concludere sottolineando l’importanza dell’evento, che fa parte di un piú ampio programma promosso dal nostro Ministero degli Affari Esteri per la stabilizzazione dello Yemen e il sostegno alla società civile in questo non facile periodo di transizione. Con questa mostra il Ministero, che l’ha finanziata, e il Museo Nazionale di Arte Orientale, che l’ha organizzata e allestita, con la collaborazione dell’Ambasciata dello Yemen a Roma, della Missione Archeologica Italiana in Yemen, dell’Associazione di Amicizia Italo-Yemenita e dell’Associazione Monumenta Orientalia, hanno voluto illustrare a un pubblico piú ampio l’azione che l’Italia da decenni porta avanti con successo per la valorizzazione e la salvaguardia del patrimonio culturale e archeologico dello Yemen. a r c h e o 35


yemen • l’italia in arabia felix

ecco il trono di bilqis! di Michael Jung

come ogni regnante che si rispetti, anche la regina di saba aveva un trono che le fonti raccontano fosse cosí grande e prezioso da non poter essere trasportato. qual era l’aspetto di questi sontuosi sedili? in queste pagine, ecco la risposta dei curatori della mostra allestita a roma


La ricostruzione in scala 1:1 di un trono sudarabico «a decorazione architettonica con il motivo a nicchia e finestre false», realizzata con struttura metallica interna, rivestita da materiali plastici, multistrato, polvere di marmo e travertino e resine. L’opera è stata eseguita seguendo il modello proposto nel 1965 dall’archeologa belga Jacqueline Pirenne, e sulla base di diversi frammenti archeologici, due dei quali appartenenti alla collezione permanente del museo romano (vedi alle pagine seguenti). Sullo sfondo, la ricostruzione di uno dei troni di as-Sawda’, oggi perduti (vedi box a p. 41).

«L

a regina di Saba, sentita la fama di Salomone, venne per metterlo alla prova con enigmi.Venne in Gerusalemme con ricchezze molto grandi, con cammelli carichi di aromi, d’oro in grande quantità e di pietre preziose». Cosí racconta l’Antico Testamento (1 Re, 10,1-2). E, nel Corano, si legge che l’upupa, inviata da Salomone come messaggera, dice al suo signore: «ti porto da Saba notizie sicure. Ho trovato che regna sul suo popolo una donna, alla quale è stato dato di ogni cosa: possiede un trono stupendo» (Sura delle Formiche, 27:15-44). Gli Arabi chiamano la regina Bilqis, mentre in Etiopia è invocata come Makeda e concepisce con Salomone il figlio Menelik, capostipite della dinastia regale. È lei la sovrana che venne dalle lontane contrade dell’Arabia Felix, attraversando con il suo seguito e le sue favolose ricchezze gli inospitali deserti per ossequiare il saggio re Salomone.

10 000 iscrizioni per un solo nome Col passar dei millenni, il racconto biblico ha conosciuto numerose rielaborazioni nel mondo ebraico, cristiano e musulmano. Teologi e mistici, letterati e cantastorie hanno variamente interpretato l’incontro tra i due sovrani. Pittori e scultori, come Piero della Francesca, Agnolo Gaddi, Claude Lorrain e Lorenzo Ghiberti, e compositori come Georg Friedrich Händel o Charles Gounod, musicisti rock come The Queen Makedah and the Sheba Warriors Band e cineasti hanno subito il fascino di questa donna misteriosa. Sebbene appaia scontato presumere che questa regina sia realmente vissuta nell’Arabia meridionale, per lo storico rimane aperta la domanda: è esistita davvero? Archeologi ed epigrafisti che si dedicano all’assai ristretto e specialistico campo degli studi sudarabici hanno decifrato, nello Yemen, oltre 10 000 iscrizioni: ebbene, abbiamo solo un riferimento marginale a una regina del Hadramawt, Malikhalik, moglie di un re Il’azz Yalud

nel I secolo d.C.! Ma è possibile che l’esistenza della regina sia solo l’esito di una favola scaturita dall’inventiva poetica ebraica, successivamente sposata con entusiamo dagli Arabi musulmani e dai cristiani? Se ammettiamo che dietro a ogni leggenda si nasconda un nucleo di verità, dobbiamo tentare di dare una risposta a questo dilemma. Forse la soluzione del problema può essere trovata nella storia delle popolazioni arabe del Nord della Penisola. Gli annali degli Assir i dell’VIII secolo a.C. fanno infatti riferimento a questa regione menzionando diverse regine. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che i Sabei fossero stanziati originariamente nella parte settentrionale della Penisola arabica prima di scendere verso sud. È dunque possibile che la nostra regina si nasconda dietro una di queste sovrane settentrionali, le cui tribú popolavano regioni non lontane dai regni di Giuda e di Israele. E, in questo senso, è possibile che la storia biblica contenuta nel Libro dei Re, essendo databile al 550 a.C. circa – cioè ben quattro secoli dopo il regno di Salomone, tradizionalmente collocato intorno alla metà del X secolo a.C. – sia la prova del persistere di un’antica tradizione leggendaria, riferita in origine alle genti dell’Arabia del Nord e poi fatta propria da quelle del Sud.

prezioso e inamovibile Che la regina di Saba non possa essere solo una creazione fantastica pare inoltre provato dal ricco bagaglio di tradizioni legato a essa e dall’influsso esercitato sul pensiero religioso, sulla poesia e sulle arti visive nelle tre grandi religioni monoteistiche, fino ai nostri giorni. Una rilevanza particolare riveste anche, nell’Islam, il trono della regina. «Cosí grande era questo trono e cosí immenso, che non poteva essere portato con sé durante un viaggio, di lavoro finissimo, e non smontabile, connesso come le membra di un corpo»: cosí il mistico persiano Jalalu’dDin Rumi descrive il famoso trono della regina di Saba. a r c h e o 37


yemen • l’italia in arabia felix Porta in miniatura, in calcare. II-III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale (collezione Zoli-Ansaldi). La decorazione del pezzo, ornato con il tipico motivo a nicchie, con pannelli che rientrano progressivamente a gradini e finestrature dette false o cieche, è simile a quella dei frammenti di trono apppartenenti alle collezioni del Museo.

Punto di partenza della ricostruzione, i due frammenti appartenenti alla collezione Livadiotti del museo romano. Il primo, in alabastro (a destra), è un pannello di rivestimento decorato da una serie di finestre cieche entro nicchie a piani rientranti che poggiano su una zampa bovina. Faceva parte di un mobile in pietra, riferibile alla tipologia dei «Troni a decorazione architettonica con il motivo a nicchia e finestre false», ed è stato collocato, seguendo le ipotesi della Pirenne, sulla parte posteriore del basamento su cui poggiava il trono.

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Il secondo pezzo utilizzato per la ricostruzione è una gamba di trono a forma di zampa bovina, in calcare alabastrino, di provenienza ignota. La gamba, anch’essa parte di un mobile in pietra, presenta lo stesso motivo a nicchia e falsa finestra del pannello.

Nella tradizione islamica Bilqis, la regina, viene sottoposta da Salomone a diverse prove. Una consiste nel riconoscimento del suo trono, su cui ci fornisce maggiori particolari al-Ta’labi, commentatore del Corano dell’XI secolo. Al-Ta’labi cosí lo descrive: «la parte anteriore era d’oro, tempestata di rossi rubini e di smeraldi verdi; la parte posteriore era d’argento, adorna di vari tipi di pietre preziose». Le piastre del trono erano d’oro. Il trono sarebbe stato trasportato dagli angeli sotto la superficie della terra scavando una galleria nel terreno, finché la terra fu trapassata e il trono spuntò davanti a Salomone. Il trasferimento segreto del trono da Saba a Gerusalemme sarebbe servito a provare la sagacia di Bilqis; infatti, commenta al-Ta’labi, la regina «lo confrontò: l’aveva lasciato dietro di sé nello Yemen in un palazzo chiuso con sette porte, e aveva portato via le chiavi. Non poté confermare quanto le veniva chiesto né negarlo». E, a quel punto, la sovrana si cavò brillantemente d’impaccio rispondendo «sembra che lo sia». Una risposta che, scrive ancora al-Ta’labi permise a Salomone di rendersi conto «di quanto fosse acuta la sua intelligenza». Nella versione araba del racconto, la sottrazione del trono alla regina di Saba ne prepara la conversione e la sottomissione a Salomone, di cui sarebbe divenuta la sposa. Al-Ta’labi racconta che avrebbe costruito per Salomone tre castelli nello Yemen, e, nel XIII secolo, lo scrittore Yaqut ricordava a Marib grandiose colonne chiamate il «trono di Bilqis».

la genesi del progetto La ricostruzione sperimentale di un trono sudarabico, che si deve a Roberto Boccardelli, è ora il cardine della mostra allestita presso il Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma. Ecco dunque una breve storia degli studi e delle ricerche che hanno permesso tale operazione. Vari frammenti di rilievi o di sculture a tutto tondo custoditi a r c h e o 39


yemen • l’italia in arabia felix

nei musei di Istanbul o di San‘a, e altri documentati a Marib, furono considerati per molto tempo rappresentazioni di case o palazzi sudarabici. Nel 1959 l’archeologo statunitense Gus Van Beek pubblicò però un articolo nel quale, per la prima volta, si affermava che tali manufatti fossero stati interpretati in modo errato. Non si sarebbe trattato, infatti, di palazzi o facciate provviste di merli e di torri a forma conica, bensí di elementi di arredi o di imitazioni di essi realizzate in pietra. Pur senza avanzare una sicura identificazione di tali arredi, proponeva di riconoscervi elementi di cassoni o sarcofagi. In seguito a tale studio l’archeologa belga Jacqueline Pirenne decise di analizzare i frammenti fino ad allora conosciuti. Combinando tali elementi con altri, già identificati dall’egiziano Ahmed Fakhry a Marib come parti di un trono in alabastro, e utilizzando come paragone e modello i famosi troni del re, del 40 a r c h e o

vescovo e dei giudici della città di Axum in Etiopia, l’archeologa ricostruiva sulla carta, virtualmente, un trono sudarabico.

il futuro cuore della raccolta La sezione sudarabica del Museo d’Arte Orientale di Roma, particolarmente attratta da questa ipotesi, ha cominciato a studiare la possibilità di stabilire una relazione tra la ricerca della Pirenne e due dei frammenti custoditi nella propria collezione. È nata in questo modo l’idea della mostra, anche nella prospettiva che, in un secondo momento, la ricostruzione divenga l’elemento chiave dell’esposizione permanente di una parte dei reperti sudarabici e permetta di rinnovare e rilanciare l’interesse del pubblico per questa collezione. Gli studiosi del museo hanno seguito il modello ricostruttivo proposto dalla Pirenne. È comunque opportuno rilevare che la sua ricostruzione è tuttora ipotetica: a oggi, infatti,

non è stato rinvenuto alcun trono intatto che corrisponda alla tipologia proposta dalla Pirenne, che i curatori della mostra romana hanno denominato «trono con decorazione architettonica». Nel suo saggio, Jacqueline Pirenne afferma di aver ravvisato analogie significative tra alcuni frammenti scultorei, in parte di alabastro, che riproducono piedi di mobili in forma di zampe di animale, e una grande lastra a rilievo, ora a Istanbul, inviata nel lontano 1882 dal wali Isma‘il Pasha al Museo Ottomano. Questa lastra è decorata con il tipico motivo a nicchia e con una serie di pannelli che rientrano progressivamente a gradini, con finestrature dette false o cieche, e termina in basso con la raffigurazione a rilievo di una serie di piedi, anch’essi a zampa animale. La lastra era stata finora letta in posizione capovolta, vedendovi la riproduzione di una facciata architettonica con torri. Essa trova riscontro in due grandi


Due tesori scomparsi Nel luglio del 1996, due troni in pietra interi, e i frammenti di un terzo (di cui rimaneva solo parte della spalliera), furono scoperti da un beduino presso il villaggio di al-Maslub, non lontano da as-Sawda’ e mostrati a Vincenzo Francaviglia Romeo, che poté, al momento, solo scattare delle foto e ottenere dall’uomo la promessa che il ritrovamento sarebbe stato presto denunciato alle autorità di San‘a. Si tratta di manufatti monolitici (nella foto a sinistra, in primo piano l’esemplare in alabastro, dietro quello in calcare) con lo schienale ornato da stambecchi stilizzati dalle grandi corna, due per lato. Purtroppo, poco piú di un anno dopo, i due troni erano già apparsi sul mercato clandestino, presso un mercante che voleva venderli al Louvre, sostenendo di averli acquistati nel Regno Unito. Dei due manufatti si sono ormai perse le tracce. Forse, come già accaduto per altri pezzi di pregio, sono stati smembrati per essere venduti piú facilmente.

La riproduzione del trono mineo in calcare di as-Sawda’ all’interno del Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.

blocchi con pannelli presenti a Dar al-Beida presso Marib, su cui compaiono le consuete raffigurazioni di zampe di animali. Questi elementi, la lastra di Istanbul e i blocchi di Marib, sono stati fra loro associati dalla Pirenne nella ricomposizione di un grande piedistallo. Sul lato lungo, destinato a rimanere in vista, in cui a tre piedi si alternano due zone non decorate ma provviste di fessure per l’incastro, sarebbero stati addossati i gradini di due scale di accesso. La grande lastra di Istanbul occuperebbe, secondo la studiosa, il fronte posteriore del piedistallo, raggiungendo con la sua altezza massima il piano superiore della piattaforma.

nuove acquisizioni Gli elementi a forma di zampa animale, su cui sono visibili resti di traverse decorate, andrebbero invece riferiti a troni, ornati da un disegno analogo a quello delle lastre a rilievo del basamento, realizzati in pietra, ma a imitazione di mobili di legno o materiali pregiati. Secondo Fakhry, ci sarebbero indizi che pomi e zoccoli dei frammenti in alabastro di Dar al-Beida fossero originariamente coperti da incrostazioni d’oro applicate su superfici scabre. La Pirenne individua altre opere riferibili a troni sudarabici: si tratta dei rilievi, provenienti dallo Yemen, con figure sedute su imponenti seggi e con i piedi su sgabelli. Spostandosi nelle culture artistiche limitrofe, ed esaminando manufatti che presentino affinità con troni e mobili sudarabici, la Pirenne trova infine riscontri in Egitto, in Assiria e, soprattutto, nella Persia achemenide. Infine la studiosa non trascura le evidenti analogie con i troni dell’Etiopia, regione la cui cultura artistica era in stretto contatto con quella dell’Arabia meridionale. Quasi cinquant’anni sono ormai passati dal contributo della studiosa. Nel frattempo ulteriori scavi e ricerche hanno consentito di rinvenire numerosi frammenti di mobili sudarabici in pietra; siamo inoltre venuti a conoscenza di ben a r c h e o 41


yemen • l’italia in arabia felix

tre troni, provenienti dal Jawf, due dei quali però, sono con ogni probabilità da considerarsi perduti (vedi box a p. 41). Come abbiamo accennato, due frammenti importanti appartengono alla collezione del Museo Orientale e costituiscono il punto di partenza della ricostruzione. Il primo, in calcare bianco, è un piede in forma di zampa animale; l’altro, in alabastro, è parte di una lastra a rilievo, simile a quella che la Pirenne colloca sulla parte posteriore del basamento.

tre classi principali I numerosi ritrovamenti evidenziano che questi oggetti erano abbastanza comuni nell’Arabia meridionale: si tratta di manufatti tipici, a cui fa eco il famoso racconto del trono della regina di Saba. Mobili in pietra, che riproducono senz’altro manufatti simili realizzati in legno, erano diffusi in buona parte dello Yemen a partire dall’VIII secolo a.C. (o forse anche in epoca precedente) sino alla fine del periodo antico. Dopo tale epoca essi trovano la loro continuazione nelle sedi vescovili e forse anche nel minbar (una specie di pulpito) islamico. Tre tipi pr incipali sono finora emersi nell’Arabia del Sud. Il primo è quello del trono monolitico con decorazione Banat ‘Ad, di cui abbiamo finora una sola testimonianza, dal Jawf. Si tratta di un trono recentemente scoperto e oggi custodito nel Museo di San‘a. La decorazione Banat‘Ad consiste in incisioni molto fini, con rappresentazioni stilizzate di stambecchi, antilopi, tori, struzzi, ecc., che rivestono l’intera superficie; tali caratteristiche ne rivelano la probabile derivazione dall’arte tessile. Si tratta di una tipologia decorativa ampiamente impiegata, in particolare come decorazione architettonica nei templi del Jawf dei secoli VIII-VII a.C. Con ogni probabilità il trono è da datare approssimativamente al medesimo periodo. Anche il secondo tipo, il trono monolitico con raffigurazioni di stambecchi stilizzati in altorilievo 42 a r c h e o

sullo schienale, a cui appartengono i tre esemplari di as-Sawda’ e di cui il museo offre la ricostruzione, era conosciuto nella stessa regione. E ce n’è forse anche un quarto esempio, probabilmente proveniente dalla zona di Marib, se si presume che un pezzo del Louvre rappresenti effettivamente lo schienale di un trono segato, com’è stato recentemente suggerito. I quattro troni recano iscrizioni che menzionano re e che permettono di datarli approssimativamente alla seconda metà dell’VIII e all’inizio del VII secolo a.C. Il terzo tipo è il trono a decorazione architettonica con motivo a nicchia e false finestre, di cui fanno parte anche i frammenti della collezione del Museo. Mobili in pietra di questa tipologia sono diffusi in buona parte dello Yemen, ma è possibile incontrare la decorazione che li caratterizza anche su altarini per l’incenso, stele e altri oggetti. Lo stesso motivo a nicchia è riscontrabile in altre culture artistiche del Vicino Oriente. In Egitto e in Mesopotamia esso appare frequen-

temente nell’architettura religiosa, seppure di epoca piú antica. Il numero consistente dei ritrovamenti ci fa riflettere sulla funzione dei troni sudarabici, e varie proposte sono state avanzate a questo proposito. La finalità piú ovvia è quella di fungere da sedile, ma da essa non può essere disgiunta l’allusione simbolica al sovrano e alla sua regalità, finalizzata alla sua celebrazione. Tale significato è provato dalle iscrizioni minee dei troni provenienti dal Jawf. La molteplicità dei reperti e le iscrizioni provano che ciascun re possedeva il suo trono individuale.

il caso di axum Frammenti di trono, in parte riutilizzati come materiale di spoglio in epoca islamica, sono però stati scoperti anche in centri minori, che non erano sedi monarchiche.Anche il gran numero dei troni (o meglio dei loro basamenti), disposti anche in fila, conservati ad Axum in Etiopia, testimonia che non erano utilizzati solo dai re, ma anche da dignitari, giudici e capi tribali, e indu-


Diversi oggetti che testimoniano il fascino esercitato dalla figura della regina di Saba nell’immaginario collettivo occidentale, esposti in una vetrina del Museo Nazionale d’Arte Orientale di Roma.

ce a ritenere probabile una precisa funzione di questo elemento di arredo in ambito giuridico. Leggiamo in proposito, nella Topografia cristiana di Cosmas Indicopleustes del VI secolo d.C., che ad Adulis, in Etiopia, le esecuzioni capitali avvenivano davanti a un trono vuoto. Ad Axum numerosi troni, detti «dei giudici», si trovano vicino al trono del re e al trono del vescovo. La Deutsche Axumexpedition dell’inizio del secolo scorso, avanzando un confronto con un’epoca piú recente, descrive i sedili rozzamente scolpiti, disposti in semicerchio al centro del villaggio Galab in Eritrea, utilizzati per il consiglio degli anziani della tribú. Troni vuoti servivano forse anche per commemorare eventi particolari, o come richiamo simbolico a una presenza divina o religiosa. Il fenomeno del trono vuoto era assai diffuso nel mondo classico e orientale: concepito come seggio di un’entità invisibile, o come simbolo della presenza del sovrano, è da collegare al culto delle divinità e degli

eroi. A Roma e a Bisanzio si rendeva infatti omaggio al trono vuoto dell’imperatore. Anche alcune sette sciite attribuivano, nel primo Islam, una santità particolare a un kursi (= trono, sedia) vuoto.

ipotesi suggestive Un altro significato importante del trono vuoto è quello funebre: Giovanni Garbini ha proposto che il trono sudarabico potesse anche servire, dopo la morte del possessore, per il suo culto funerario. Informazioni utili sulla funzione dei troni potrebbero essere desunte dalla loro sistemazione originaria, di cui purtroppo, per l’Arabia del Sud, conosciamo pochi elementi. Ad Axum erano eretti vicino alla chiesa di Zion. Si presume che il trono fosse utilizzato per la cerimonia d’intronizzazione del re. Grande fascino presenta l’idea, già avanzata a suo tempo per i troni axumiti, di considerare quelli sudarabici come i predecessori del minbar islamico. Tenendo conto che anche il mihrab (la nicchia di preghiera islamica) avrebbe un’origine sudarabica, indicante un luogo elevato, o nobile, o isolato, o di preghiera, e considerando inoltre che è stata supposta la discendenza di certe tipologie di moschea dall’architettura templare, appare sempre piú chiaro l’apporto sudarabico allo sviluppo dell’architettura religiosa dell’Islam. Statuetta frammentaria in calcare di donna seduta, di provenienza ignota. Prima metà del I mill. a.C. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale.

dove e quando Il Trono della Regina di Saba Cultura e diplomazia tra Italia e Yemen: la collezione sudarabica del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 13 gennaio 2013 Orario ma-me-ve, 9,00-14,00; gio-sa-do e festivi, 9,00-19,30; lu chiuso Info tel. 06 469748; www.museorientale.beniculturali.it Catalogo Editoriale Artemide srl (al prezzo speciale di 35,00 euro per i visitatori della mostra)


21.12.12

Palenque (Chiapas, Messico). Il Tempio delle Iscrizioni, monumento funebre di Pakal il Grande (603-683 d.C.), maggiore sovrano di Palenque, importante centro economico e cerimoniale della civiltĂ maya nel Periodo Classico (300-900 d.C.). La piramide a gradoni, risalente alla fine del VII sec. d.C., deriva il suo nome dai testi incisi ritrovati al suo interno, che raccontano la storia della cittĂ e del re.

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vera la storia della

fine del mondo di Antonio Aimi e Raphael Tunesi

Una grande civiltà scomparsa, un grande equivoco. Ecco come l’americanista Antonio Aimi e l’epigrafista Raphael Tunesi chiariscono l’enigma «dell’anno», spiegandoci, nelle pagine che seguono, il reale significato di alcune recenti scoperte... a r c h e o 45


storia • i maya e il 21.12.12

la data è scritta, ma non è una profezia... A porre (forse) fine al dibattito sulla predizione di un’imminente apocalisse ha contribuito un’iscrizione scoperta nel sito de La Corona. Ecco una breve cronaca del ritrovamento e del suo reale significato

Da sinistra a destra, gli archeologi Marcello Canuto, David Stuart, Tomás Barrientos Quezada e Jocelyn Ponce, sul sito archeologico guatemalteco maya di La Corona, esaminano le iscrizioni incise sui blocchi della cosiddetta Scalinata Glifica 2, scoperta la scorsa primavera, in cui comparirebbe un riferimento alla «fine del mondo».

C

ome leggerete nelle pagine che seguono, uno degli eventi da alcuni preso a pretesto per rinnovare le congetture e le speculazioni sulla presunta previsione della fine del mondo da parte dei Maya è stato il rinvenimento di un blocco iscritto – il n. 5 della Scalinata Glifica 2 – nel sito di La Corona (oggi in Guatemala). Al di là del dibattitto sull’interpretazione del documento, che lasciamo naturalmente ad Antonio Aimi e Rapahel Tunesi, ma che, comunque, sgombra finalmente il campo da fantasie apocalittiche, vogliamo qui riepilogare brevemente la storia dell’insediamento e della scoperta. È una storia che ha inizio alla metà degli anni Sessanta del Novecento, con la comparsa, sul mercato antiquario, di un rilievo del periodo Tardo Classico raffigurante due 46 a r c h e o

giocatori di palla. In assenza di indicazioni sulla provenienza del reperto, si decide di assegnarlo a un sito che viene semplicemente denominato «Q», proprio per esprimere il mistero che lo circonda (la lettera viene infatti scelta in quanto iniziale di «qué?», cioè «che cosa?»). Da quel momento in poi, ha inizio una vera e propra caccia, che vede coinvolti numerosi americanisti, le cui ricerche arricchiscono di tasselli decisivi il quadro dell’indagine.

La testa di serpente Fra questi, la ricorrenza, su altri reperti riferibili al Sito Q, del glifo sormontato dalla testa di un serpente. E, negli ultimi anni, molti studiosi sono giunti alla conclusione che l’insediamento misterioso possa essere identificato con La Corona.

Il sito guatemalteco è oggetto di ricerche condotte dal Proyecto Regional Arqueológico La Corona (PRALC, diretto da Marcello Canuto, della Tulane University, e Tomás Bar r ientos Quezada, dell’Universidad del Valle de Guatemala) alle quali collabora anche l’epigrafista David Stuart, della University of Texas di Austin. È lui che, nello scorso maggio, ha lavorato alla decifrazione parziale del testo del Blocco 5, appartenente a una struttura, la Scalinata Glifica 2, oggetto di quelle spoliazioni che, come già detto, portarono alla comparsa di numerosi reperti, poi assegnati al misterioso Sito Q. Il testo, di cui «Archeo» propone in esclusiva la prima traduzione integrale, eseguita da Rapahel Tunesi, si inserisce in un corpus già molto ricco: a oggi, infatti, le ricerche con-


La Scalinata Glifica 2, in cui si ricorda la visita a La Corona del re di Calakmul, Yuknoom Yich’aak K’ahk’, il 29 gennaio del 696 d.C.

Particolare delle incisioni del Blocco 5 che, nell’angolo in basso a destra, indica la cosiddetta «data finale» del calendario maya, 13.0.0.0.0, coincidente con il nostro 21 dicembre 2012.

dotte a La Corona hanno restituito numerose iscrizioni, ma il Blocco 5 è considerato di gran lunga il piú prezioso documento finora ritrovato nel sito e uno dei piú importanti in assoluto nella storia degli studi sulla cultura maya. Come spiegano anche Aimi e Tunesi, l’iscrizione fu scolpita per commemorare la visita fatta a La Corona dal re di Calakmul Yuknoom Yich’aak K’ahk’, il 29 gennaio del 696 d.C. Prima della scoperta, gli studiosi ritenevano che il sovrano fosse morto in battaglia, quando la sua città fu sconfitta dalla rivale Tikal (importante insediamento, anch’esso nell’odierno territorio guatemalteco). Ma il testo del Blocco 5 prova invece che Yuknoom, all’indomani del rovescio patito, stava compiendo un giro di visite nei centri dei suoi alleati – com’era

appunto La Corona –, forse per rassicurarli e dimostare che la débacle militare non avrebbe avuto ripercussioni particolarmente pesanti.

cosí parlarono i maya Ecco dunque cosa si può leggere sul monumento: «[...] il giorno 13 Chickchan 18 Woh fu stabilito il regno di Calakmul [...] dopo che ebbe giocato a palla Yuknoom Ch’een (Signore di Calakmul) nel centro di La Corona, poi arrivò lui, Yuknoom Yich’aak K’ahk’ Sacro Signore di Calakmul, accompagnato dal giocatore [...], Rosso Tacchino Sacro Signore di Wahyis. Costui è il figlio della Signora del Sesto Cielo, Sacra Signora Chahk è la Rossa Nuvola ed è figlio di Serpente dello Stagno di Chakaw Sacro Signore di Wahyis.

Tra tre giorni e un mese, 16 anni e 6 ventine d’anni accadrà, il giorno 7 Ajaw 17 Sip questo giorno sarà il compimento del decimo baktun. Questo è, nel centro di La Corona, il suo pannello di Rosso Tacchino Signore del katun. Yuknoom Yich’aak K’ahk è il signore dei 13 katun, allora sarà il giorno 4 Ajaw 3 K’ank’in e saranno passati 3 baktun (cioè sarà il 13.0.0.0.0, il compimento del tredicesimo baktun)». L’allusione alla fatidica data del 13.0.0.0.0 (il nostro 21 dicembre 2012) non va dunque interpretata come una predizione della fine del mondo. Al contrario, dimostra che per i Maya di La Corona e Calakmul sarebbe stato l’anniversario di avvenimento positivo. (red.) a r c h e o 47


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corti o lunghi, i conti tornano I Maya seppero elaborare un sistema calendariale assai articolato e straordinariamente preciso. E quello che a molti è sembrato il suo giorno finale, è, invece, la data liminare di un calendario di miliardi di anni, forse destinato a ripetersi all’infinito

48 a r c h e o


Nella pagina accanto: Ovale dell’Incoronazione, raffigurante il re Pakal che riceve la corona di Palenque dalla madre. Particolare dello schienale del trono rinvenuto nell’edificio E del Palazzo di Palenque. VII sec. d.C. circa.

«[I

n una discussione] sulla generalità dei temi morali, i grandi saggi ateniesi non si sarebbero sentiti fuori posto in un consesso di sacerdoti e capi maya; ma si sarebbero trovati a terra se la conversazione» si fosse spostata sul «tema del tempo nei suoi aspetti filosofici (e matematici). E come gli Ateniesi, cosí i saggi di qualunque altro Paese e periodo della storia. Nessun’altra nazione ha mai dedicato al tempo un interesse cosí intenso; e anzi nessun’altra civiltà ha prodotto una specifica concezione di un tema, parrebbe, cosí poco popolare». Con queste parole, nel 1954, John Eric Sidney Thompson (1898-1975), all’epoca il piú autorevole studioso dei Maya, presentava «il concetto del tempo» e i calendari della civiltà precolombiana nel saggio The Rise and Fall of the Maya Civilization (pubblicato in Italia con il titolo La civiltà maya, nel 2006, per i tipi di Einaudi, Torino). Da allora sono passati quasi sessant’anni e, all’indomani della decifrazione della scrittura maya – la piú grande rivoluzione antropologica degli ultimi tempi – ci si potrebbe chiedere se il giudizio di Thompson sia ancora valido, considerando che le nuove generazioni di americanisti ricordano puntualmente e giustamente i gravi errori dello studioso inglese: il rifiuto della base astronomica del calendario rituale di 260 giorni; l’invenzione di una società pacifica, guidata da sacerdotifilosofi; la convinzione che i testi maya tramandassero «dati cronologici e i nomi e gli influssi degli dèi»; l’ostracismo riservato al russo Yuri Knorosov, che aveva intuito il valore fonetico dei glifi maya. Se a questo aggiungiamo l’atteggiamento di sufficienza verso i colleghi, i diffusi

Cronologia dei Maya 1542

Conquista spagnola

900-1542

Postclassico

300-900

Classico

300 a.C.-300 d.C.

Preclassico tardo

900-300 a.C.

Preclassico medio

2000-900 a.C.

Preclassico iniziale

7000-2000 a.C.

Arcaico

30 000 (?)-7000 a.C.

Paleoindiano

pregiudizi ideologici e una concezione dei processi storici che, forse senza aver mai letto Benedetto Croce, riproponeva il peggio dello storicismo crociano, si comprende perché oggi pochi tendano a perdonare gli errori di Thompson. Il quale, tuttavia, pur borioso e accecato dall’egocentrismo, non era uno stupido e, in alcuni casi, aveva individuato snodi che, col tempo, sono stati dimenticati. E quello della particolare e specifica enfasi dei Maya per il tempo è uno di questi. Appare innegabile, infatti, che se la decifrazione della scrittura maya permette di ricostruire le «cronache dei re e delle regine maya», come recita il titolo del felice libro di Simon Martin e Nikolai Grube (Chronicle of the Maya Kings and Queens, Thames & Hudson 2000), smentendo l’ipotesi di testi utilizzati solo per lo scorrere del tempo e adorare le divinità a esso collegate, è altrettanto vero che questi testi mostrano una ridondanza di date sorprendente.

il re «legittimo» Esaminiamo, per esempio, due passi di due testi di Palenque, una città maya che, per l’abbondanza di iscrizioni glifiche e di date col Conto Lungo (sistema del calendario che calcola i cicli di tempo – baktun, katun, tun, uinal, k’in – trascorsi dalla data-era di riferimento, il 3114 a.C.; vedi box alle pp. 52-53), rappre-

senta l’osservatorio privilegiato per comprendere «il concetto del tempo» dei Maya. Cosí recitano le prime frasi del Pannello della Croce, un testo collocato all’interno del Tempio della Croce, per celebrare e legittimare il lignaggio reale della città: «Il giorno 12.19.13.4.0 8 Ajaw 18 Tzek [= 31 dicembre del 3121 a.C.], 5 giorni dopo la seconda legatura della Luna, [glifo «X»] è il suo nome, in un mese lunare di 29 giorni, nacque il dio del Mais [nel suo aspetto di Padre Progenitore]. E venti giorni prima, nel giorno 1 Ajaw 18 Sotz, fu collocato il dio K’awiil, nel grande Sud, nei cieli e nelle grotte [metafora per esprimere il concetto di totalità]. Cinque ventine di giorni e otto anni dopo che era nato il dio del Mais, c’è stato il rito della legatura dello zoccolo di cervo [rituale di passaggio per bambini]. Il giorno 4 Ajaw 8 Kumk’u, finí il tredicesimo baktun [il giorno 13.0.0.0.0]. Due giorni e nove ventine di giorni e un anno dopo che il focolare al limite del cielo era stato cambiato, nel luogo delle tre pietre, GI [dio principale di Palenque e figlio del dio del Mais nel suo aspetto di Padre Progenitore] discese dal Cielo. Il giorno 13 Ik alla fine del mese di Mol GI salí al Sesto [?] Cielo, alla Casa del Nord, la Casa degli Otto GI è il nome della sua casa nel Nord». Questo, invece, è l’incipit del Pana r c h e o 49


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nello Ovest del Tempio delle Iscrizioni, la piramide a gradoni in cui fu sepolto Pakal il Grande, l’artefice della grandezza di Palenque: «Il giorno 9.4.0.0.0 13 Ajaw 18 Yax [= 14 ottobre del 514 d.C], Ahku’l Mo’ Naahb I, re di Palenque, diede le insegne a GI, GII e GIII [le divinità della Triade di Palenque], tredici anni, dieci mesi e tre giorni dopo essere asceso al potere. Cinque anni, sette mesi, e sedici giorni dopo l’incoronazione, K’an Joy Chitam, [nuovo] re di Palenque, fece il rituale del quinto katun, in un giorno 11 Ajaw 18 Tzec, in quell’occasione diede le insegne a GI, GII e GIII. Due anni e diciassette giorni prima del 9.6.0.0.0 9 Ajaw 3 Wayeb [= 18 marzo del 554], nel giorno 13 Akbal 16 Kumk’u [= 11 marzo del 552 d.C.] il dio della Pioggia Chaahk divenne il dio del periodo. Il giorno 8 Ajaw 13 Pax [9.6.10.0.0]), fu fatta una cerimonia per gli dèi della Triade di Palenque».

Piú avanti, inoltre, cosí viene celebrato Pakal: «Il giorno 10 Ajaw 13 Yaxk’in, accadrà l’evento del primo piktun 1.0.0.0.0.0 10. K’inich Janaab Pakal fu incoronato il giorno 5 Lamat 1 Mol all’età di 12 anni 3 mesi [qui lo scriba fa un errore, in realtà i mesi sono 9] e 8 giorni, era nato in un giorno 8 Ajaw 13 Pop, allora erano passati 2 anni, 4 mesi, 8 giorni dal giorno 9.9.0.0.0 ed erano passati 7 kalabtun 18 piktun 2 baktun 9 katun 2 anni 12 mesi e un giorno [455 393 761 giorni prima, circa 1 246 826,79 anni] dopo che era stato incoronato re il Mostro Sacro. In futuro, tra 10 baktun 11 katun 10 anni 5 mesi e 8 giorni, il giorno 1.0.0.0.0.8 sarà un giorno [di nuovo] 5 Lamat 1 Mol, allora sarà l’anniversario della sua incoronazione e saranno passati 8 giorni dal giorno 1.0.0.0.0.0 10 Ajaw 13 Yaxk’in». I brani evidenziano l’enfasi dei Maya del Periodo Classico (300-900 Izamal Chichén Itzá

Golfo del Messico

Mayapán

Uxmal

Chacmultun Tulum Edzna Tres Zapotes La Venta

Comalcalco

Tortuguero San Lorenzo

Hochob

Rio Bec Calakmul Cuello

Messico

Palenque Xultun Teapa La Corona Tikal Toniná Yaxchilan

M ar dei Caraibi

Belize

Bonampak Machaquila Chincultic Aguateca Pusilha

Guatemala

Izapa

Oceano Pacifico

Puerto Barrios Chamá Quiriguá San Agustin Acasaguastian Copán Kaminalluyu Honduras El Baúl

El Salvador

A destra: Palenque. Il Tempio del Sole, che, con quelli della Croce Fogliata e della Croce, forma il cosiddetto «Gruppo della Croce», il massimo centro spirituale della città maya, dedicato dal re Serpente Giaguaro II alla Triade di Palenque.

50 a r c h e o

d.C.) per le date, che, come abbiamo visto, sono utilizzate in un continuo gioco di rimandi e associazioni, per legare le vicende dei re agli eventi mitici del passato, soprattutto quelli avvenuti nel giorno stesso della creazione o alcuni anni prima o milioni di anni prima.

discendenti dagli dèi In questo modo i sovrani cercavano di dimostrare la legittimità del sistema politico della monarchia divinizzata, imperniata sulla figura del k’uhul ajaw (= sacro signore), che, in sostanza, era consustanziale con le divinità creatrici e discendeva da un lignaggio che derivava direttamente da antenati vissuti anche prima della creazione.Thompson, dunque, aveva ragione a sottolineare con forza la passione dei Maya per il tempo, ma sbagliava totalmente a collocarla nell’empireo della filosofia e a non vedere come si fondasse, piú banalmente, su esigenze politiche.

A sinistra: cartina dei territori occupati dai Maya, con l’indicazione di alcuni dei loro siti piú importanti.


Città del Messico, Museo Nazionale di Antropologia. La replica della tomba del re di Palenque Pakal il Grande, scoperta nella cripta del Tempio delle Iscrizioni della grande città maya.

Infatti, la monarchia divinizzata del Periodo Classico, che ha le sue radici negli ultimi secoli del Preclassico, rappresentò un’eccezione nell’ambito dei sistemi politici della Mesoamerica, i quali, a parte le notevoli differenze tra una città e l’altra e tra un periodo e l’altro, vedevano nel re e, a maggior ragione nel capo di un chiefdom, una sorta di primus inter pares che era espressione delle oligarchie dominanti e che non era molto diverso dal leader dei governi duali o plurimi. I re maya, invece, rovesciando una tradizione che privilegiava la funzione della sovranità rispetto alla persona del sovrano, crearono un sistema politico che, enfatizzando la centralità del lignaggio reale e del monarca, non aveva precedenti nella Mesoamerica e, dopo la fine del Classico, non ebbe seguito. Per raggiungere tale scopo, tra i tanti strumenti che, in teoria, avevano a disposizione, scelsero di costruire imponenti centri cerimoniali, con monumenti sui quali immagini, te-

sti e date con il Conto Lungo mostravano e proclamavano la loro sacralità e il loro rapporto con gli dèi della creazione, dei quali reiteravano le gesta e il ruolo.

concezioni lineari Il fatto che si potessero utilizzare testi e immagini a tale scopo non stupisce, ma perché ricorrere alle date con il Conto Lungo? Non sarebbero stati sufficienti gli altri calendari maya (vedi box alle pp. 5253)? No, non sarebbero bastati, perché gli altri due piú importanti calendari maya – essendo espressione di una concezione iperciclica del tempo – presentavano ogni 52 anni la stessa data e quindi non consentivano di collocare un evento mitico in una «alterità» temporale precisa e immediatamente percepibile. Il Conto Lungo, probabilmente inventato dai loro vicini mixe-zoque di cultura epiolmeca, si prestava benissimo a questo scopo, perché mostrava subito, a persone che vivevano tra la fine del settimo baktun e

l’inizio del decimo, la radicale alterità temporale che li separava dal baktun iniziale (semplicisticamente definibile come «baktun zero») o addirittura dall’era precedente, prima che il loro computo degli anni fosse azzerato. Certo, per sottolineare questa irriducibile alterità, i re maya avrebbero potuto dire mille o millanta volte 52 anni; invece, ritenendolo forse piú efficace, scelsero di dirlo con date del Conto Lungo. Questo calendario, inoltre, presentava un vantaggio perché, pur essendo ciclico nelle sue componenti e nelle sua struttura complessiva, contava i giorni con una progressione lineare, veicolando pertanto una concezione altrettanto lineare del tempo, che si specchiava perfettamente con la serie regale che, come si è visto piú sopra a Palenque, aveva scandito il tempo fin da prima della creazione. Il Conto Lungo e gli altri calendari non erano, dunque, strumenti neutri di registrazione del tempo, bensí i protagonisti dello scontro tra due visioni contrapposte del sistema politico, che opponevano il sovrano alla sovranità, la filografia (l’utilizzo massiccio di testi nei monumenti) alla misografia (il rifiuto dei testi nei monumenti), il tempo lineare al tempo ciclico. Come già detto, il Conto Lungo consentiva ai re maya di ricollegarsi agli eventi dei tempi del mito in un gioco di citazioni e di analogie numerologiche. A volte, però, in questo gioco di rimandi non si guardava solo al passato, ma anche verso il futuro. E in alcuni casi, in realtà non molto frequenti, i re maya o, per meglio dire, le loro «essenze» o le loro «anime» (si può usare questa categoria anche nel mondo maya, sebbene il termine rinvii a una categoria ben diversa da quella del mondo prima greco e (segue a p. 54) a r c h e o 51


storia • i maya e il 21.12.12

il conto lungo Come tutte le culture della Mesoamerica, i Maya avevano un sistema di computo del tempo basato sull’interazione tra due calendari: lo haab’, l’anno solare di 365 giorni senza bisestile e lo tzolk’in, il calendario rituale di 260 giorni, che era di gran lunga il piú importante. Il primo era formato da 18 mesi di 20 giorni ciascuno e da un periodo di cinque giorni, i giorni «dormienti» o «senza nome». Il secondo era formato dalle combinazioni tra 13 numeri (da 1 a 13) e i 20 segni del giorno e si basava sulle osservazioni astronomiche effettuate a Izapa o in altri importanti siti del Preclassico (quali, per esempio, Kaminaljuyu, Takalik Abaj) collocati lungo la linea del 15° parallelo, vale a dire lungo quella stretta fascia di terra in cui è possibile osservare il fenomeno dei passaggi zenitali del Sole separati da periodi di 260 e 105 giorni. Per evitare ambiguità, di solito un giorno era chiamato sia col nome che aveva nel calendario rituale, per esempio 1 Ajaw, sia con quello che aveva nell’anno solare, per esempio 0 K’umku’ (i venti giorni del mese andavano da 0 a 19). In questo modo era possibile definire senza ambiguità un giorno all’interno di un ciclo di 18 980 (minimo comune multiplo di 260 e 365) giorni, vale a dire di un periodo di 52 anni, che gli studiosi chiamano Calendar Round. Dopo di che si sarebbe ripresentato un giorno con lo stesso nome. È evidente, dunque, che il Calendar Round era espressione di Glifi dei periodi una concezione iperciclica del tempo e che baktun presentava non pochi (20 katun = problemi per chi avesse 144 000 voluto mantenere annali o giorni) registri genealogici con un minimo di spessore storico. katun Per ragioni che non si (20 tun = conoscono o, forse, per 7200 giorni) ovviare a questo tipo di problemi, le culture epiolmeche affiancarono tun al Calendar Round il Conto (anni di Lungo, un ciclo che, nella 18 uinal = sua versione tradizionale, 360 giorni) forse una versione ridotta, era composto da cinque uinal numeri che nelle (mesi di rappresentazioni moderne 20 giorni) presentano da destra verso sinistra: i k’in (giorni), gli uinal (mesi di 20 k’in giorni), i tun (anni di 18 (giorni) uinal, cioè di 360 giorni), i katun (periodi di 20 tun,

52 a r c h e o


A destra: resti del sito Quiriguá, in Guatemala, fotografati durante una missione della National Geographic Society nel 1922. La città, fiorente nel Periodo Classico dei Maya, è nota per le sue grandi stele. Su una di esse, la Stele C (nella pagina accanto) compare la data della creazione: 13.0.0.0.0.

cioè di 7200 giorni) e i baktun (periodi 20 katun, cioè di 144 000 giorni). Nelle stele, però, i Maya scrivevano i numeri del Conto Lungo dall’alto in basso, seguendo l’ordine inverso, cioè cominciando dai baktun e terminando coi k’in. Inoltre, anche se riportati raramente, esistevano cicli ancora superiori: 20 baktun formavano un piktun, 20 piktun 1 kalabaktun e cosí via, probabilmente fino a 19 cicli oltre il baktun. Nella sua versione ridotta, il Conto Lungo aveva cominciato a «girare» nel giorno della creazione, il 6 settembre 3114 a.C., se si utilizza, come è piú corretto fare, il calendario giuliano, che corrisponde all’11 agosto 3114 a.C. del calendario gregoriano. Era il giorno 13.0.0.0.0 del Conto Lungo, 4 Ajaw del calendario rituale, 8 K’umku’ dell’anno solare. Il giorno dopo, però, secondo una logica che ancora in parte non si comprende, il Conto Lungo si era azzerato, passando dal 13.0.0.0.0 allo 0.0.0.0.1, mentre gli altri calendari avevano continuato a girare normalmente. Dato che nei testi maya appare quasi sempre la versione ridotta del Conto Lungo, per mostrane lo spessore, si potrebbe dire che è costituito da un ciclo di 1 872 000 giorni, che corrispondono a circa 5125,3661 anni. Negli ultimi anni, però, l’esame delle pochissime date del Conto Lungo con piú di cinque numeri ha indotto gli studiosi ad alcune correzioni di tiro. In primo luogo, la rivisitazione delle poche date maya che si riferiscono a giorni successivi al 21 dicembre 2012, mostra chiaramente che, diversamente da quello che era avvenuto dopo il giorno della creazione, il prossimo 13.0.0.0.0 (= 21 dicembre 2012), la fine del tredicesimo baktun, non sarà seguito dallo 0.0.0.01, ma dal 13.0.0.0.1, fino al completamento del ventesimo baktun, dopo di che si passerà al primo piktun. Poi, quando anche i 19 cicli del piktun saranno completati, si passerà al primo kalabaktun e cosí via, fino a cicli che contengono un numero di anni, miliardi e miliardi, che non può essere espresso perché le nostre lingue sono prive delle parole adatte. Tuttavia, il numero di anni a cui può arrivare il Conto Lungo non è infinito, ma, probabilmente, corrisponde a venti cicli superiori al

katun, ossia a diciannove cicli superiori al baktun. Il totale corrisponde a 9 814 671 360 000 000 000 000 miliardi di giorni, vale a dire a circa 27 262 976 000 000 000 000 miliardi di anni di 360 giorni, cioè 26 871 679 559 481 300 000 miliardi di anni solari di 365,2422 giorni. L’ipotesi di questo Grande Conto Lungo (useremo d’ora in avanti questa espressione per distinguerlo dalla sua versione ridotta; in tutti gli altri casi, quando si scrive Conto Lungo, si fa riferimento alle due versioni di questo calendario) si ricava per analogia dalle Stele 1 e 2 di Coba (un centro cerimoniale del Periodo Postclassico, situato nello Yucatán nord-orientale, in Messico, n.d.r.), due documenti che indicano la data della creazione scrivendola non 13.0.0.0.0, bensí: 13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.13.0.0.0.0, inserendo quindi il 13 baktun della creazione in diciannove cicli superiori. Il merito di aver riproposto recentemente l’ipotesi del Grande Conto Lungo è dell’epigrafista David Stuart, il quale per primo ha provato a prendere alla lettera le Stele di Coba e fare un po’ di calcoli. Prima di lui i numerosi cicli delle due Stele di Coba, che pure erano ben noti, non erano stati collegati alle altre che andavano oltre il Conto Lungo ridotto, forse ritenendoli una sorta di metafora maya dell’infinito. Tuttavia, l’ipotesi del Grande Conto Lungo, pur accettabile, appare abbastanza fragile, perché: 1. risulta curioso, anche se possibile, che tutte le città maya conoscessero il Grande Conto Lungo e lo scrivessero quasi sempre nella sua versione ridotta; 2. l’impossibilità di collocare tutte le date del Conto Lungo con piú di cinque numeri all’interno di un modello coerente di computo dei giorni lascia aperta anche l’ipotesi che le date del Grande Conto Lungo fossero calcolate e scritte in modo diverso nella varie città maya.

a r c h e o 53


storia • i maya e il 21.12.12

poi cristiano) partecipavano a rituali che si celebravano parecchi anni dopo la loro morte. Ma qual era il senso di queste «scorribande», avanti e indietro attraverso i millenni? Probabilmente i sovrani volevano ribadire la loro sacralità, mostrando che gli eventi reali o immaginari legati alla loro persona sfidavano lo scorrere del tempo e si collocavano sul piano metatemporale, ma non atemporale, delle divinità stesse. In questi rimandi, di solito, i testi, che spesso non esitavano a rievocare eventi del passato, non si sbilanciavano a predire gli eventi del futuro, anche se una previsione di ciò che sarebbe successo dopo migliaia di anni certamente non sarebbe stata rischiosa, Non si trattava di profezie, dunque, e nemmeno di profezie autoavverantesi. Di solito si trattava di passi come quello che abbiamo presentato piú sopra: «tra 10 baktun 11 katun 10 anni 5 mesi e 8 giorni, il giorno 1.0.0.0.0.8 sarà un giorno [di nuovo] 5 Lamat 1 Mol, allora sarà l’anniversario della sua incoronazione e saranno passati 8 giorni dal giorno 1.0.0.0.0.0 10 Ajaw 13 Yaxk’in».

guardando al futuro Naturalmente il fatto che i testi di cui si dispone non parlino di profezie non significa che durante il Classico non venissero fatte, anzi i testi coloniali come i cosiddetti Libri di Chilam Balam e i tratti generali del-

54 a r c h e o

oltre la profezia La mostra allestita dal Museo di Archeologia e Antropologia della University of Pennsylvania potrebbe sembrare uno dei molti capitoli della «saga» sulla fine del mondo che i Maya hanno inconsapevolmente alimentato. E invece, ed è bene evidenziarlo, i curatori del progetto hanno solo strizzato l’occhio alla presunta e catastrofica profezia, perché l’obiettivo primo di «Maya 2012. Signori del tempo» è quello di offrire un altro contributo al ristabilimento della verità e di tracciare un profilo aggiornato e puntuale della grande civiltà precolombiana. La mostra, che si avvale di un ricco apparato multimediale e propone anche spettacolari repliche in scala 1:1 di alcuni celebri monumenti maya, riunisce circa 150 oggetti, tra cui figurano anche reperti provenienti dagli scavi che

una missione della stessa università statunitense conduce nel sito di Copán (oggi in Honduras), uno dei piú importanti insediamenti dei Maya. Che, del resto, è il protagonista principale del percorso espositivo. Da Copán provengono, per esempio, i monili in giada e il raffinato vasellame in ceramica appartenente al corredo funebre trovato nella tomba del primo sovrano della della città – K’inich Yax K’uk’ Mo –, che, nel 426 d.C., diede inizio a una dinastia di 16 re, che rimase al potere fino all’822. E i ritratti dei regnanti si possono ammirare anche sull’Altare Q, una delle strutture di cui è stata proposta la replica, il cui originale fu scoperto nel 1886 ai piedi della gradinata della Struttura 16 ed è oggi conservato nel museo allestito presso l’area archeologica. I materiali da Copán e quelli provenienti da altri importanti siti maya esposti a Filadelfia concorrono a ribadire lo straordinario fermento culturale dei Maya, che si dimostrarono capaci di eccellere non solo nell’arte, ma anche nell’architettura, nell’astronomia e nelle scienze matematiche. Figli di queste ultime discipline furono anche i sistemi calendariali, che ancora oggi ci sorprendono per la loro complessità e precisione e dalla cui (errata) interpretazione è nata la leggenda della fine del mondo. (red.)


dove e quando «Maya 2012. Signori del tempo» Filadelfia, University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 13 gennaio 2013 Orario ma-ve, 8,45-17,00; sa-do, 10,00-17,00: lu chiuso Info www.penn.museum/sites/2012/

le culture mesoamericane fanno pensare che i vaticini, cosí come i presagi e le visioni dei sacerdoti e degli sciamani, caratterizzassero la vita politico-religiosa dei Maya (i Libri di Chilam Balam sono uno dei documenti piú importanti della letteratura indigena maya; scritti dopo la conquista spagnola, contengono materiale molto eterogeneo e narrano le varie fasi che attraversò il popolo maya dello Yucatán; tra gli

Sulle due pagine: immagini della mostra allestita a Filadelfia dal Museo di Archeologia e Antropologia della Pennsylvania University. Molti dei materiali selezionati, come l’incensiere nella foto qui sopra, provengono da Copán, uno dei siti piú importanti della civiltà maya.

argomenti trattati, ci sono temi di carattere religioso – indigeno e cristiano tradotti in maya –, storico, medico, cronologico, rituale, astronomico e astrologico). Seguendo il metodo dell’analogia etnografica si potrebbe sostenere, come ha fatto l’etnologo francese Jacques Soustelle (1912-1990), che anche i Maya pensavano di vivere in un «universo instabile e minacciato» e che le profezie servivano un po’ a scongiurare eventi infausti o a prepararsi per affrontarli. Il problema è che, se anche furono elaborate, le profezie non vennero scritte, forse anche per le caratteristiche del supporto (monumenti in pietra o vasi di terracotta) a cui dobbiamo la quasi totalità dei testi giunti fino a noi. Applicando, tuttavia, il criterio dell’analogia etnografica ed estendendo ai Maya del Classico le profezie dei testi coloniali del Conto Corto (sistema del calendario maya le cui date vengono composte da un numerale e dal glifo del giorno e da un numerale e dal glifo del mese corrispondente, n.d.r.) si osserva che simili previsioni erano sbagliate. «Ci sono capi supremi benevoli, capi benevoli. Benevolenza e gioia sono la legge del mondo intero. Gli uomini poveri diventano ricchi. Abbondanza di pane è la parola del katun»: queste, per esempio, sono le profezie maya del dodicesimo katun, il ciclo che prima comprese il collasso del Periodo Classico, che vide l’abbandono di gran parte delle città maya dei Bassipiani Meridionali e poi le due guerre mondiali» (Chilam Balam di Chumayel).

la fine di un’era? In ogni caso, dopo aver chiarito che, molto probabilmente, anche i Maya del Classico facevano profezie, i soli testi che facciano riferimento alla fine del tredicesimo baktun, sono il già citato Blocco 5 della Scalinata Glifica 2 di La Corona (sito archeologico nel distretto di Petén, in Guatemala) e il MON 6 (Monumento 6) di Tortuguero (sito archeologico nello Stato del Tabasco, in a r c h e o 55


storia • i maya e il 21.12.12

Messico). E, solo il secondo si sbilancia su quello che accadrà. Ciononostante, ancor prima che gli epigrafisti si ponessero il problema della traduzione del MON 6, avevano cominciato a diffondersi ipotesi e congetture che associano la fine del tredicesimo baktun, cioè la data del 13.0.0.0.0 [= 21 dicembre 2012] alla fine del mondo, alla rigenerazione prossima ventura e alle piú svariate correlazioni astronomiche previste appunto per il 21 dicembre dell’anno che sta per chiudersi. Chi scrive non intende confutare simili teorie, ma cogliere l’occasione della fatidica data per cercare di ricostruire le connotazioni antropologicamente corrette a proposito della fine del tredicesimo baktun nella cultura maya. Occorre innanzitutto osservare, come ha già sottolineato Mark Van Stone – docente al Southwestern College di San Diego (California, USA) –, che i Maya mostrano un interesse sorprendentemente basso per i solstizi e che non sono state confermate le ipotesi fatte in passato sul fatto che la Via Lattea rappresenti una scena dei miti cosmogonici legata alla rinascita del dio del Mais.

«TRa due giorni...» Come si è detto, l’unico testomonumento che si sbilanci su ciò che accadrà il 21 dicembre 2012 è il MON 6 di Tortuguero: «Tra due giorni, nove ventine di giorni, tre anni, otto katun e tre baktun, si completerà il tredicesimo baktun, in un giorno 4 Ajaw 3 K’ank’in. [Allora] accadrà che sarà visto, che sarà adorato Bolon Yookte’ in… [qui il testo diventa illeggibile, perché manca buona parte del glifo, che potrebbe voler dire: in un grande o rosso rituale]». Seppur meno esplicito, anche il Blocco 5 della Scalinata Glifica 2 di La Corona è importante per capire che cosa i Maya si aspettassero per il 13.0.0.0.0 (vedi anche alle pp. 46-47). Questo testo, infatti, raccontando della visita di Yuknoom Yich’aak K’ahk’, re di Calakmul, la collega a eventi passati e futuri, dapprima as56 a r c h e o

Il testo piú controverso

sociando il re alle imprese di un suo predecessore e poi presentandolo come «Signore del tredicesimo katun», dato che quattro anni prima aveva celebrato i rituali del 9.13.0.0.0 (16.3.692). Facendo perno su questa data il testo presenta anche due date del futuro: il 10.0.0.0.0 (= 9.3.830) e il 13.0.0.0.0 (= 21.12.2012). Quest’ultima, però, non è indicata direttamente, ma si ricava dalla somma di 10.0.0.0.0 e 3.0.0.0.0, senza dire nulla di piú. La data, dunque, non doveva avere connotazioni apocalittiche o sfavorevoli, essendo legata a un contesto celebrativo. Oltre a questi due testi, per comprendere la visione maya della fine

del tredicesimo baktun, si possono tuttavia utilizzare altri elementi, sebbene appaia poco verosimile che i Maya l’abbiano considerato come una scadenza epocale, dato che avrebbe riproposto la stessa data del Conto Lungo del giorno della creazione, che pure era avvenuta, come si è visto, in un giorno 13.0.0.0.0 Ajaw 8 Kumku’, cioè circa 5125 anni prima.

i pro e i contro Considerando la logica e il significato dei loro calendari, della loro religione e dei loro miti, si può osservare che per i Maya ci sarebbero stati elementi pro e contro una vi-


«Tra due giorni, nove ventine di giorni, tre anni, otto katun e tre baktun, si completerà il tredicesimo baktun, in un giorno 4 Ajaw 3 K’ank’in. [Allora] accadrà che sarà visto, che sarà adorato Bolon Yookte’ in…[qui il testo diventa illeggibile, perché manca buona parte del glifo, che potrebbe voler dire: in un grande o rosso rituale]». sione apocalittica del prossimo 21 dicembre 2012, che qui riassumiamo brevemente: A favore 1. al 13.0.0.0.0 4 Ajaw 3 K’ank’in due dei tre calendari maya presentano le stesse date (tra queste la piú importante, cioè quella del calendario rituale 4 Ajaw) e quindi le stesse influenze del giorno della creazione; 2. Bolon Yookte’, pur essendo un dio poco conosciuto, in alcuni casi, è associato alla creazione; 3. la concezione che in passato c’erano state altre creazioni dell’umanità.

A sfavore 1. l’evento della creazione, quello del giorno 13.0.0.0.0 4 Ajaw 8 K’umku’ è unico e irripetibile; 2. la concezione di creazioni cicliche è il risultato di un’influenza mexica e non è presente nel pensiero maya del Periodo Classico; 3. alla data del 21.12.2012 non si azzera il Conto Lungo, ma dal 13.0.0.0.0 si passa al 13.0.0.0.1; 4. non si ripresentano esattamente tutte le stesse influenze del giorno della creazione, perché il giorno del mese solare è diverso: è, infatti, 3 K’ank’in invece di 8 K’umku’.

Qui accanto: il frammento del MON 6 di Tortuguero nel quale compaiono i glifi che alludono al completamento del tredicesimo baktun, data equivalente al nostro 21 dicembre 2012. Villahermosa (Messico), Museo Regional de Antropologia «Carlos Pellocer». Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo del pannello del MON 6 a cui appartiene il frammento conservato a Villahermosa. Le altre parti sono oggi note solo grazie a fotografie, sulle quali si è basato l’autore della restituzione grafica, Sven Gronemeyer. Come scrivono Antonio Aimi e Raphael Tunesi, il testo può essere considerato dirimente in merito al presunto annuncio di una fine del mondo da parte dei Maya.

In definitiva, si tratta di elementi che, dunque, si bilanciano e quindi avrebbero dato a ciascuno la possibilità di vedere la fine del tredicesimo baktun a partire dalla propria soggettività. Chi scrive, a partire dalla propria, è convinto che, se i Maya non fossero stati deprivati della loro cultura e della loro indipendenza cinquecento anni fa, tra i contadini sarebbe prevalsa la visione apocalittica, tra gli scribi quella opposta, mentre i re maya, dal canto loro, non avrebbero resistito alla tentazione di approfittare della scadenza per inventare qualcosa attraverso cui autocelebrarsi. a r c h e o 57


storia • italia preromana

storie di uomini coraggiosi

Parte da una scoperta solo in apparenza banale un nuovo e straordinario racconto dell’archeologia: si svolge nell’Italia centrale del I millennio a.C. e ha, come protagonisti, stranieri immigrati da terre lontane, ma destinati a lasciare il proprio segno nelle vicende della nostra Penisola

L

a storia di Avile Katacina è avvincente e parla di uomini in movimento nell’Italia prima della romanizzazione. Illustra le loro ambizioni, le loro mete, i loro sforzi, le loro sconfitte, i loro successi. Avile Katacina non è ricordato da uno storico o da un poeta greco o romano, ma il suo nome è inciso con cura sull’architrave d’ingresso di una tomba rinvenuta nella necropoli orvietana di Cannicella. È stato poi un antichista, Carlo De Simone, a permetterci di ricostruire la sua vita: l’archeologia è anche (e, forse, soprattutto) la scienza che consente di r ipercorrere l’avventura umana di personaggi «minori» vissuti nel passato, di narrare – in una qualche misura – il romanzo della loro esistenza.

un celta in etruria Avile Katacina non si era chiamato sempre cosí: il suo nome, quando si trovava nel paese natale, tra i Celti, era Catacus, un appellativo individuale abbastanza comune all’interno di quel popolo. Insolite e coraggiose invece furono le sue sceldi Giuseppe M. Della Fina te: nei decenni iniziali del VI secolo a.C., decise, infatti, di lasciare il villaggio in cui era nato e di scendere in Italia, ragA sinistra: antefissa giungendo l’Etruria. in terracotta a testa Quale molla lo spinse? Il desidi Sileno, dal tempio derio di raggiungere una terra dei Castori, Roma. di cui si decantava la feracità? Inizi del V sec. a.C. Essere tra i guerrieri protagonisti di una spedizione e che avrebbe consentito di guadagnare un ricco bottino? Non lo sappiamo. Sappiamo, invece, che gli eventi presero una piega diversa da quella che aveva probabilmente immaginato. Tra gli Etruschi si sarebbe dovuto fermare per poco tempo, per poi tornare vittorioso tra i Celti. Non andò cosí: giunto in Etruria, Catacus decise di rimanervi. Era arrivato a Velzna

58 a r c h e o


A destra: frammento di antefissa in terracotta a testa di menade, dal tempio dei Castori, Roma. Inizi del V sec. a.C. Già in epoca regia Roma era una città aperta agli stranieri. La tradizione ricorda, infatti, tra gli ultimi re, Tarquinio Prisco, un etrusco figlio di un mercante originario di Corinto, e il vulcente Servio Tullio, di nascita servile.

Il cippo del sabino Nel 1880, nella necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo, all’interno di una tomba a dado, articolata in due camere, fu rinvenuto un cippo a testa di guerriero (foto a sinistra) recante il nome di Larth Cupures,

personaggio di probabile origine sabina, trasferitosi a Velzna (Orvieto) intorno alla metà del VI secolo a.C. Il cippo, databile al

530-520 a.C., è conservato nel Museo Civico Archeologico di Orvieto ospitato all’interno di Palazzo Faina. Con esso gli scopritori ne rinvennero altri dodici: tutti, con ogni probabilità, erano all’origine posizionati sulla sommità della tomba. Nella stessa necropoli fu trovato un secondo cippo a testa elmata, molto simile a questo, ma di dimensioni lievemente inferiori, oggi custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

a r c h e o 59


storia • italia preromana

1

Avile Katacina Di origine celtica, si trasferí nella polis etrusca di Velzna (Orvieto) agli inizi del VI sec. a.C., mutando il suo nome da Catacus in Avile Katacina. Testimonianza della sua presenza in Etruria è l’iscrizione all’ingresso della sua tomba, nella necropoli orvietana di Cannicella (a sinistra e nei particolari in alto), che ne restituisce il nome.

larth cupures

2

Uomo d’armi, forse d’origine sabina, si spostò da Veio, che già aveva accolto il padre, a Velzna, alla metà del VI sec. a.C. Il suo nome è inciso su un cippo a testa di guerriero proveniente dalla necropoli di Crocifisso del Tufo (vedi a p. 59).

porsenna

3

Di origini umbre, nel VI sec. a.C. seguí a Velzna il padre, del quale ereditò il gentilizio, derivante dalla trasformazione dell’originario Purze in Purzena (o Pursena). Porsenna è ricordato come re di Chiusi, città in cui si trasferí, prendendo il potere.

tarquinio prisco

4

Quinto re di Roma secondo la tradizione (616-579 a.C.), era figlio di Demarato, un mercante di Corinto giunto a Tarquinia per affari e unitosi con una donna etrusca. Originariamente chiamato con il nome etrusco di Lucumone, giunto a Roma, fu ribattezzato Tarquinio Prisco.

attus clausus Sabino, fu il capostipite della gens dei Claudii, accolta a Roma intorno al 500 a.C. Un suo discendente divenne imperatore nel 41 d.C.

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5


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(Orvieto) – una polis ancora in formazione in quei decenni, abitata da una comunità aperta all’apporto di genti straniere – e lí si fermò. La scelta si rivelò felice, come suggerisce il suo inserimento nell’aristocrazia locale; e in quel frangente mutò il suo nome, lo rese etrusco: a Catacus aggiunse il suffisso na, che in Etruria caratterizzava l’individuo in senso aristocratico, e prese come

nuovo nome individuale l’etrusco Avile. Da celta Catacus, divenne cosí l’etrusco Avile Katacina. All’interno della nuova comunità raggiunse una posizione di rilievo grazie alle sue doti di guerriero, o a quelle di abile mercante in grado di avviare ai mercati della Gallia i prodotti di Velzna, in particolare quelli dei suoi bronzisti. Potrebbe avere agevolato anche il commercio del

Carta dell’Italia preromana con gli spostamenti effettuati dai personaggi elencati nella pagina accanto.

vino locale verso il mondo celtico, veicolando con esso l’ideologia del banchetto aristocratico che gli Etruschi, a loro volta, avevano preso dai Greci. Questa seconda eventualità non deve sorprendere, alla luce del dinaa r c h e o 61


storia • italia preromana

mismo e della forza economica dell’aristocrazia orvietana, legata anche ai commerci, oltre che alla proprietà della terra. Non sappiamo se Avile Katacina, in Etruria, abbia soggiornato soltanto a Velzna, o se talvolta sia tornato tra i Celti. Ma sappiamo che scelse di farsi seppellire in una delle necropoli della cittàstato che lo aveva accolto.

il «buon» sabino Un altro personaggio di origine diversa, qualche decennio piú tardi, fece la stessa scelta: si tratta di Larth Cupures, figlio di Arath. Anche lui è r icordato da un’iscrizione incisa su un cippo conformato a testa di guerriero e rinvenuta in un’altra necropoli di Velzna, quella di Crocifisso del Tufo. Le sue vicende sono state ricostruite da Adriano Maggiani, che ha ipotizzato l’arrivo di un italico, probabilmente un sabino, nella prima metà del VI secolo a.C., a Veio. Quest’uomo, il padre di Larth Cupures, fu accolto nella cittadinanza e mutò il suo nome originario come aveva fatto il celta Catacus all’incirca negli stessi anni. Egli scelse per gentilizio un aggettivo significativo nella sua lingua di origine (il «bello», il «buono») – divenuto in etrusco Cupures – e Arath come nome individuale. Suo figlio – il nostro Larth Cupures – lasciò la città che aveva accolto il padre e si trasferí a Velzna, che stava vivendo un periodo di grande espansione. Con ogni probabilità, Larth era un uomo d’armi e lo possiamo immaginare impegnato in missioni militari contro Perugia e il mondo degli Umbri. Le sue capacità belliche gli assicurarono il pieno inserimento nell’aristocrazia locale e un benessere considerevole, ben testimoniato dalla ricchezza del corredo funerario rinvenuto nella tomba che si fece costruire e che venne utilizzata 62 a r c h e o

A sinistra: corazza bronzea anatomica, dalla Tomba del Guerriero di Lanuvio. 470 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano. L’oggetto prova la diffusione dell’ideologia aristocratica greca, veicolata dal mondo magno-greco e rafforzatasi all’indomani della battaglia navale di Cuma del 474 a.C. Nella pagina accanto: schinieri in bronzo, dalla necropoli del Palazzone di Perugia. Seconda metà del VI sec. a.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale. Secondo Giovanni Colonna, gli oggetti potrebbero essere una memoria della battaglia di Ariccia (504 a.C.), che vide la sconfitta degli Etruschi di Porsenna contro le forze congiunte dei Latini e dei Cumani.

– per alcuni decenni – dai suoi discendenti, anch’essi legati, probabilmente, al mestiere delle armi. Il ricordo delle origini si ritrova proprio nel cippo funerario che si fece scolpire affidandone la realizzazione a un maestro a noi ignoto, ma di grandi capacità scultoree: nel manufatto si avverte l’eco di esperienze sabine e della zona del basso Tevere e l’iscrizione risulta incisa da uno scriba formatosi in una scuola di scrittura ceretano-veiente.

un umbro, re di chiusi Un caso di integrazione dai risultati particolarmente felici è poi quello di Larth Purzenas o Pursenas (Porsenna), cioè del personaggio piú noto – almeno ai nostri occhi – dell’intera storia etrusca. Lo studioso Giovanni Colonna, sulla base delle fonti letterarie antiche, soprattutto latine, ha ricostruito la sua quasi romanzesca vicenda.

A Colonna, infatti, si deve l’intuizione che Porsenna fosse di origini umbre e la sua storia trova confronti nelle vite dei personaggi di cui si sono appena narrate le vicende. Il padre di Porsenna era un umbro che decise di lasciare la propria regione di origine e di spostarsi in Etruria attratto dalle possibilità che essa offriva. Con ogni probabilità, si stabilí a Velzna e lí – per i suoi meriti – entrò nell’aristocrazia locale, rendendo etrusco il proprio nome: l’originario Purze con l’aggiunta del suffisso na fu trasformato in Purzena (o Pursena) e divenne un gentilizio. Lo stesso gentilizio che ereditò Porsenna, affiancandolo al nome individuale etrusco Larth. Da Velzna, Porsenna si trasferí a Chiusi, dove riuscí – appoggiandosi a un gruppo di homines novi – a prendere il potere, fino a esercitare un’influenza politica notevole sulla stessa città da cui era partito: Plinio


il Vecchio, nella Naturalis Historia (II, 140) lo ricorda come re di Chiusi e di Velzna. A questa ultima cittàstato, in ogni caso, sembra sia rimasto molto legato: un racconto leggendario – tramandato sempre da Plinio – vuole che l’abbia salvata da un mostro terribile, Olta, che ne saccheggiava le campagne e che era pronto ad attaccarla. Il re per fermarlo e folgorarlo, avrebbe evocato un fulmine, concessogli dal dio Tinia, che aveva ascoltato ed esaudito le sue preghiere. Può l’origine umbra avere influenzato le scelte politiche di Porsenna?

Probabilmente sí. Quando, per esempio, cercò di dare vita a uno Stato sovracittadino, esteso dalla Valdichiana alla media Valle del Tevere e nato dalla saldatura tra Chiusi e Velzna, vi era probabilmente in lui l’intuizione dei limiti della cittàstato etrusca. Limiti che potevano essere compresi meglio da chi veniva da un’esperienza diversa come quella umbra, legata a un modello d’insediamento differente e piú diffuso nel territorio. Con ogni probabilità Porsenna si spese per una maggiore coesione della lega tra le dodici poleis prin-

cipali dell’Etruria (la ben nota dodecapoli, composta dalle città di Cerveteri,Tarquinia,Vulci, Roselle, Vetulonia,Veio, Volsinii, Chiusi, Perugia, Cortona, Arezzo e Volterra, n.d.r.) e forse ebbe un ruolo significativo nello sviluppo del Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi: anche in questa sua azione politica si può leggere la comprensione della necessità di superare divisioni che non avrebbero portato lontano. Una sensibilità che può essere scaturita da una lettura della realtà portata avanti con occhi «stranieri».

un uomo di ampie vedute Il suo essere un uomo di armi può averlo spinto ad assediare Roma e a esercitare un controllo per alcuni anni sulla città, scossa dalla cacciata del re Tarquinio il Superbo e dall’instaurazione della Repubblica (509 a.C.). La sua conoscenza – da «umbro» – del mondo italico può averlo spinto, invece, a tentare di creare un corridoio via terra per saldare i territori dell’Etruria propria con quelli che gli Etruschi controllavano in Campania, per renderli piú sicuri rispetto all’avanzata di genti di origine sannitica che poi – nel giro di qualche decennio – conquistarono l’etrusca Capua (423 a.C. ) e l’intera Etruria campana. L’azione aveva sicuramente anche lo scopo di fronteggiare la pressione esercitata dai Greci, divenuti sempre piú aggressivi e intenzionati a sostituire gli Etruschi nel controllo dei traffici commerciali del Mar Tirreno, come poi avvenne dopo la sconfitta nella battaglia navale di Cuma (474 a.C.). Il progetto militare e politico del monarca etrusco fu fermato dai Cumani e dai Latini nella battaglia di Ariccia (504 a.C.): sul campo di battaglia rimase ucciso Arrunte, il figlio di Porsenna, che comandava le truppe. La storia di Porsenna appare dunque quella di un uomo dalle ampie visioni, di un grande riformatore, capace di intuire alcuni limiti della struttura politica e soa r c h e o 63


storia • italia preromana

ciale del mondo etrusco grazie alla sua origine «straniera» e che non riuscí a realizzare a pieno i suoi progetti per l’opposizione degli avversari, ma anche per la loro, almeno parziale, incomprensione da parte degli stessi Etruschi. Ci si è concentrati su esempi di persone di origine celta, sabina e umbra giunti in Etruria, ma la capacità di portare avanti l’integrazione selettiva di genti diverse non era una prerogativa etrusca: si pensi, per esempio, al caso di Roma.

un «greco» sul trono Il re Tarquinio Prisco che – secondo la tradizione – avrebbe tenuto a lungo il potere, dal 616 al 579 a.C., non era nato a Roma. Era il figlio di Demarato, un ricco mercante di Corinto giunto a Tarquinia, con un seguito di artigiani qualificati, per seguire da vicino la sua attività commerciale. Nell’importante città-stato l’uomo decise

Claudio, l’«Etrusco» Nato a Lugdunum (Lione) nel 10 a.C., Claudio divenne imperatore, un po’ casualmente, nel 41 d.C., in un’età già avanzata per il tempo. In precedenza aveva coltivato studi di antichità e di storia che portò avanti anche negli anni di governo. Fu autore di un’opera, Tyrrhenika, scritta in lingua greca e purtroppo non giunta sino a noi, in cui si narrava una storia degli Etruschi. A destra: statua in marmo raffigurante l’imperatore Claudio divinizzato. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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di fermarsi e di sposare un’etrusca inserendosi cosí nella comunità locale. Dalle loro unione nacque un figlio, Lucumone, il quale – divenuto adulto – sposò Tanaquilla, una donna dell’aristocrazia tarquiniese. La sposa – secondo il racconto dello storico latino Tito Livio – suggerí al marito di lasciare Tarquinia e di raggiungere insieme Roma: una città nella quale Lucumone avrebbe avuto maggiori possibilità di costruirsi un futuro migliore. Durante il viaggio verso la nuova città di residenza, un’aquila avrebbe tolto il copricapo dalla testa dell’uomo e subito dopo glielo avrebbe posato di nuovo sul capo. Dal singolare episodio Tanaquilla trasse auspici positivi e immaginò che il marito sarebbe potuto divenire un re. La sua intuizione si rivelò giusta e Lucumone – mutato il proprio nome in Tarquinio Prisco – riuscí a salire sul trono. Questa narrazione ci restituisce un doppio esempio di mobilità e integrazione: Demarato dalla polis greca di Corinto si trasferisce a Tarquinia, la città-stato in cui si concentrano i miti di fondazione del mondo etrusco, e qui raggiunge una posizione di rispetto. Il figlio – sulla spinta della tarquiniese Tanaquilla – compie una seconda migrazione: lascia Tarquinia per raggiungere una città in formazione come Roma, nella quale trova spazi di azione politica maggiori. La sua storia, che ha diversi punti d’incontro con quella dei personaggi che abbiamo ricordato in precedenza, segnala due aspetti importanti: da un lato, la capacità delle aristocrazie locali di integrare al proprio interno personaggi di cui si riconoscono le capacità belliche e/o le doti politiche; dall’altro, la maggiore capacità di integrazione delle comunità in fase di espansione e con assetti politicoistituzionali e sociali non ancora pienamente definiti. Nel caso di Porsenna si sono evidenziati i contributi offerti allo sviluppo del mondo etrusco da parte di un uomo che portava con sé an-

che esperienze «diverse»; nell’azione di Tarquinio Prisco si può osservare la stessa tendenza, se si pensa, in particolare, al suo impegno nella realizzazione d’imponenti opere pubbliche, quali la costruzione della Cloaca Massima o il prosciugamento della palude del Foro, rese possibili da una sensibilità progettuale e da conoscenze tecniche tipiche del mondo etrusco e greco. «Straniero» fu anche il suo successore sul trono, un etrusco probabilmente di origine servile (in questo caso ci troveremmo di fronte a un caso di mobilità sociale oltre che geografica) di nome Mastarna e di origine vulcente. Questi, dopo l’assassinio di Tarquinio Prisco e col sostegno della regina Tanaquilla, che tenne nascosta la morte del re agli altri possibili pretendenti, r iuscí a prendere il potere salendo sul trono col nome di Servio Tullio.

gli avi dell’imperatore La capacità d’integrazione selettiva della società e della politica di Roma non venne meno con la cacciata di Tarquinio il Superbo e la conseguente caduta della monarchia e l’istituzione della Repubblica (509 a.C.): nei decenni iniziali del V secolo a.C. un’intera gens – i Claudi – coi suoi clienti, guidata da Attus Clausus (o Appius Claudius Sabinus) e originaria del-

a orvieto, per parlare di mobilità Il XX Convegno Internazionale di Studi sulla Storia e l’Archeologia dell’Etruria, organizzato a Orvieto dalla Fondazione per il Museo «Claudio Faina» (14-16 dicembre 2012), è dedicato al tema della mobilità geografica e sociale nell’Italia preromana. Sarà animato da archeologi e storici che proveranno a ricostruire un quadro storico di grande vivacità e interesse (si veda il programma dettagliato in www.archeo.it).

la Sabina, venne accolta a Roma intorno al 500 a.C. L’integrazione di Attus Clausus fu cosí rapida che, nel 495 a.C., l’uomo divenne console, raggiungendo quindi la massima carica negli assetti repubblicani della città; il figlio, a sua volta, raggiunse il consolato nel 471 a.C. e si scontrò con i tribuni della plebe Duilio e Siccio. È interessante osservare che secoli dopo, quando Roma era divenuta la potenza egemone del Mediterraneo, l’imperatore Claudio nel 48 d.C. – nell’ambito di un discorso tenuto al Senato durante la discussione intorno alla possibilità o meno per esponenti della Gallia di entrare nell’assemblea in cui si decideva la politica romana – si schierò a favore dell’apertura, prendendo spunto dal passato che abbiamo analizzato, e affermando: «il fondatore di Roma, Romolo, fu tanto saggio da trattare, nello stesso giorno, molti popoli prima da nemici, poi da cittadini. Su di noi hanno regnato stranieri [allude ai Tarquinii e a Servio Tullio] … Ormai per i costumi, i mestieri, le parentele si sono fusi con noi; è meglio che portino il loro oro, le loro ricchezze da noi, piuttosto che se le godano da soli. Tutte le cose, Padri Coscritti, che oggi ci appaiono tanto antiche, furono nuove un giorno; le magistrature sono passate dai patrizi ai plebei, dopo dai plebei ai latini e dopo dai latini a tutte le altre popolazioni dell’Italia. Anche questo diventerà tradizione e ciò che noi oggi sosteniamo citando esempi, diventerà a sua volta un esempio» (Tacito, Annales, XI, 24). In fondo lo stesso Claudio era un discendente di quell’Attus Clausus che dalla Sabina era venuto a Roma attorno al 500 a.C. come, nella stessa occasione, l’imperatore ebbe modo di ricordare: «I miei avi, il piú remoto dei quali Clausus, venuto dalla Sabina, fu accolto contemporaneamente nella cittadinanza romana e tra le famiglie dei patrizi, mi esortano ad applicare nel governo della cosa pubblica i loro stessi provvedimenti». a r c h e o 65


costume • gioielli monetali

la seconda vita dei soldi Una moneta d’oro o d’argento, una sottile catena, ed ecco uno degli «accessori» piú alla moda nella Roma del tardo impero. semplici o elaborati, erano lo status symbol delle nuove classi sociali in ascesa 66 a r c h e o

P

arlare di oggetti ornamentali e di gioielli in particolare significa entrare in un campo che, al di là del fascino dettato da un approccio di tipo estetico, sottende molteplici significati: dal valore affettivo a quello economico, dai riflessi sociali a quelli tecnico-artistici, dalle valenze religiose a quelle politico-ideologiche. In ambito romano l’oreficeria, erede dei modelli e delle tecniche che avevano caratterizzato la gioielleria greca, ellenistica ed etrusca, assume una connotazione originale solo in epoca piuttosto tarda. Uno dei settori in cui questa originalità si manifesta in modo piú evidente è quello della gioielleria monetale,

di Anna Lina Morelli

termine che designa un’ampia categoria di manufatti, appartenenti a diverse tipologie – anelli, fibule, bracciali, cinture, pendenti e collane – che utilizzano esemplari monetali come elemento costitutivo e/o decorativo. L’approccio scientifico al suo studio è complesso, poiché nella sua interpretazione entrano in gioco fattori specifici, derivanti dall’oggettomoneta e dalle sue caratteristiche in termini di valore economico, ma anche dai significati simbolici che le sono propri. Infatti, nel mondo antico, come in epoche piú recenti, dopo un periodo piú o meno lungo di circolazione, le monete potevano essere riutilizzate. In particolare, la


Nella pagina accanto: collana in oro che ha come pendente un aureo di Caracalla, impreziosito grazie all’inserimento, nella cornice, di pietre preziose rosse e verdi. Dal tesoro di Nikolaevo (Bulgaria), dove fu rinvenuta con altri monili e un migliaio di monete romane, le piú tarde a nome di Filippo l’Arabo. III sec. Sofia, Natsionalen Istoritcheski Muzej.

Ritratto femminile dal Fayum, in cui il personaggio indossa una collana con pendente monetiforme. 130-161 d.C. Detroit, The Detroit Institute of Arts.

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costume • gioielli monetali

Collana con pendente realizzato con un aureo di Domiziano emesso nel 91 d.C., racchiuso entro una cornice liscia, e catena d’oro, lunga 50,8 cm, arricchita da elementi rotondi in chiusura. Londra, British Museum.

pratica di inserire monete nei gioielli è testimoniata da un passo di Sesto Pomponio (Dig. VII, I, 28), giurista attivo fra l’età di Adriano e quella di Marco Aurelio, che menziona il reimpiego di esemplari d’oro o d’argento in alternanza o in sostituzione di pietre incise, attestando l’esistenza, già in antico, di interessi di tipo numismatico. Questo reimpiego in funzione ornamentale poteva essere dettato, innanzitutto, da scelte personali nell’attribuire alle immagini e alle scritte presenti sugli esemplari una funzione apotropaica, di protezione contro il male, in relazione a predilezioni particolari, per esempio di tipo religioso, ma anche in rapporto alle credenze diffuse sulle virtú difensive e protettive dei metalli in genere, in particolare dell’oro, rafforzate, per cosí dire, dalla forma rotonda, ritenuta impenetrabile per gli spiriti maligni. Immagini e scritte monetali potevano, inoltre, essere rivestite di una forte connotazione ideologica, che 68 a r c h e o

si evidenziava in modo particolare in corrispondenza di momenti politicamente instabili, ma che era insita nella natura stessa del documento monetale, come attesta bene la assoluta prevalenza della scelta di incastonare le monete in modo da mostrare il lato recante l’effigie dell’autorità emittente.

potere e prestigio A questi aspetti di tipo simbolico si aggiungeva un significato concreto, legato al valore intrinseco dell’esemplare, normalmente d’oro o d’argento, che poteva connotare chi lo esibiva, sottolineandone il potere economico e il prestigio sociale; oltre a ciò, va tenuto conto che la moneta rappresentava un elemento già decorato, quindi pronto per essere inserito in un monile. Queste motivazioni potevano dar luogo a creazioni talvolta assai ricche e raffinate, ma si può intravvedere il medesimo intento anche in esemplari monetali dotati di un semplice foro passante per consentirne la sospensione tramite una ca-

Pendente realizzato con un quinario d’argento di Adriano, proveniente dalla necropoli scoperta sulla via Ostiense a Roma. II sec. d.C. Roma, Medagliere del Museo Nazionale Romano. Il pendente è il piú antico tra quelli rinvenuti in territorio italiano.

tenella o un laccetto, il che rende a volte difficoltoso stabilire il momento del passaggio a un uso alternativo a quello di mezzo di scambio. Le piú antiche testimonianze di un chiaro e consapevole utilizzo di monete in funzione ornamentale sono inquadrabili in epoca ellenistica e risalgono al IV secolo a.C., ma è forse possibile riconoscere ancora piú precocemente espressioni del gusto per decorazioni di stretta derivazione monetale, come pure un uso ornamentale semplificato, attestato dal semplice foro per la sospensione. Nel mondo romano, l'uso di inserire monete nei gioielli sembrerebbe estraneo alle consuetudini di età repubblicana, mentre è attestato,


Collana ornata con undici aurei montati in cornice e tenuti separati da nove elementi distanziatori; la chiusura è realizzata con un altro aureo. Il termine post quem per la datazione del gioiello, proveniente dall’Egitto, è dato dall’esemplare di Gordiano III, emesso tra il 238 e il 244 d.C. Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art.

seppure attraverso una documentazione discontinua, fin dalla prima età imperiale, con una intensificazione a partire dal II secolo, che diventa assai consistente nel corso del III secolo d.C. Tale tradizione prosegue poi durante il basso impero e anche in epoca bizantina, come espressione di prestigio all’interno di una società sempre piú gerarchizzata, immersa in una realtà profondamente condizionata dall’espressione di emblemi politico-ideologici e di simboli religiosi. Nel quadro della documentazione di gioielli monetali in nostro possesso va sottolineata la complessiva rarità di ritrovamenti sul territorio italiano, nel quale si osserva un allineamento con il generale intensificarsi delle attestazioni in età imperiale avanzata, che risulta tuttavia piú evidente altrove, soprattutto nei territori periferici e, per l’epoca piú tarda, in contesti culturali diversi da quello prettamente romano.

Tra le categorie di gioielli monetali, quella piú rappresentativa e diffusa, sia cronologicamente che geograficamente, è costituita dai pendenti, attestati sia nell’uso singolo, che in quello di piú esemplari nella stessa collana.

isolati o multipli I pezzi piú antichi attualmente noti per l’età romana sono due pendenti: il primo racchiude un denario di Augusto e il secondo è realizzato con un aureo di Domiziano, emesso nel 91 d.C. Entrambi presentano una montatura con semplici cornici lisce, ma il secondo gioiello è completo della catena, ornata con due elementi rotondi, che vanno ad arricchire la chiusura, costituita da

un semplice gancio. Sebbene discontinua, la documentazione prosegue nel II secolo, talvolta connessa al rinvenimento di tesori, cioè di gruppi di oggetti accomunati dalla caratteristica di rappresentare beni preziosi, solitamente nascosti allo scopo di salvaguardarli da pericoli imminenti di vario genere. A questa categoria appartiene il pendente realizzato con un quinar io d’argento dell’imperatore Adriano, che è uno dei pochissimi rinvenimenti dal territorio italiano e il piú antico fra essi; la moneta è racchiusa in una semplice cornice d’oro con appiccagnolo, che riflette ancora il gusto della prima età imperiale. Il pendente faceva parte del corredo di una tomba femminile della necropoli scoperta sulla Via Ostiense a Roma, comprendente anche un orecchino, un anello e due stili di bronzo dorato. Privo di catenella o di altri elementi utili a indossarlo, è stato a r c h e o 69


costume • gioielli monetali

rinvenuto sul collo della defunta, il che farebbe propendere per una sua fruizione femminile. A fronte di una certa rarità di gioielli monetali attribuibili ai primi due secoli dell’impero, si osserva una vera e propria esplosione del loro uso nel III secolo, in concomitanza con il manifestarsi di nuovi gusti estetici e in parallelo con l’introduzione di nuove tecniche di lavorazione, ma anche in rapporto a eventi che determinano situazioni di crisi sia politica che economico-finanziaria. In questi momenti di grande instabilità, che vedono il succedersi di usurpazioni del potere imperiale, fino al completo distacco dell’Imperium Galliarum, i gioielli monetali, connotati dall’immagine imperiale, vengono ad assumere la funzione di emblemi di lealismo politico.

vistose elaborazioni All'aumento di attestazioni nel III secolo fa riscontro anche il notevole ampliamento della loro tipologia, grazie all’introduzione di nuovi motivi decorativi e sistemi di montaggio degli elementi monetali, il che consente di individuare una, seppur labile, sequenza cronologica utile alla datazione dei monili. Nell’ambito delle collane, uno degli elementi innovativi introdotti è l’impiego di piú pendenti nello stesso monile, talvolta associati a ornamenti in altri materiali. Di conseguenza, i gioielli monetali di questo periodo costituiscono realizzazioni di grande effetto, come la collana, proveniente dal territorio egiziano, forse da una tomba di Abukir, che rappresenta l'esemplare con il maggior numero di ciondoli monetali a noi noto. Si tratta di un gioiello straordinario, in eccellente stato di conservazione, composto da una doppia catena, nella quale sono infilati undici pendenti alternati a tubetti distanziatori, inseriti allo scopo di impedire la sovrapposizione dei vari elementi, una volta indossata la collana. Le monete sono rappresentate da aurei, coniati a nome di Adriano (due esemplari), An70 a r c h e o

tonino Pio (due esemplari), Faustina Maggiore, Faustina Minore, Pertinace, Caracalla, Macrino, Elagabalo e Gordiano III. Infine, un aureo di Severo Alessandro costituisce il fermaglio della chiusura. Di provenienza egiziana è anche un altro collier eccezionale, composto da una catena d’oro alla quale sono sospesi pendenti con aurei appartenenti a emissioni a nome di Lucio Vero, di Giulia Domna e di Severo Alessandro (vedi foto a destra). A un tesoro rinvenuto in Francia a Naix-aux-Forges, composto da un nucleo assai consistente di monete e da altre sette collane non monetali, appartengono quattro pendenti con aurei di Adriano, Settimio Severo, Geta e Caracalla, ai quali sarebbero da associare due ciondoli con cammei raffiguranti Minerva e una figura femminile, forse da identificare con Giulia Domna; a questi elementi si aggiungono cinque di-

Dal III secolo l’ornamentazione in metallo prezioso per gli uomini è espressione di rango e segno di vicinanza al potere stanziatori poligonali e un aureo di Antonino Pio, montato in una cornice ad archetti e munito di due attacchi laterali, che doveva servire da chiusura. In linea con il gusto per ornamenti sfarzosi dei gioielli monetali del III secolo, anche i pendenti singoli potevano essere resi piú appariscenti con montature particolarmente elaborate, talvolta arricchite con altri mater iali, come mostra bene l’esemplare appartenente al tesoro rinvenuto a Nikolaevo in Bulgaria, in cui il pendente, realizzato con un aureo di Caracalla è impreziosito da un’ampia cornice circolare, decorata con otto pietre preziose, disposte lungo il bordo esterno. La difficoltà di contestualizzare l’uso e la funzione dei gioielli monetali all’interno della società

romana e di fissarne il sesso dei fruitori riguarda anche gli anelli. Nel complesso, questa categoria presenta modelli piuttosto uniformi, accomunati dall’allargamento della spalla, necessario per consentire l’inserimento della moneta, caratteristica del resto ricorrente in tutti gli anelli con castone, anche quando realizzato con pietre; il risultato è quello di oggetti di notevoli dimensioni, certamente piú adatti all’uso e al gusto maschile, sebbene non manchino esempi con montature piú leggere e anche con diametri inferiori. Come nelle altre categorie di gioielli monetali si riscontra la messa in evidenza del lato della moneta contenente l’effigie imperiale, con l’unica variabile della scelta di inserire la moneta con


Catena d’oro a cui sono sospesi pendenti con aurei di Lucio Vero, Giulia Domna e Severo Alessandro, alternati a elementi distanziatori; due bobine permettono lo scorrimento della catena quadrupla, proveniente da Menfi (Egitto). L’aureo di Severo Alessandro fissa il termine post quem per

l’asse perpendicolare oppure allineato con il piano dell’anello. Un’altra categoria di gioielli monetali è rappresentata dai bracciali, anche se la documentazione antica risulta decisamente limitata e in alcuni casi oggi nota soltanto attraverso disegni; mentre una classe particolare è infine rappresentata dalle fibule, accessori dell’abbigliamento, che, pur traendo origine da un uso romano consolidato, come gioielli monetali sono attestate soltanto per l’epoca avanzata e prevalentemente in contesti non romani. Le conclusioni a cui si giunge nell’analisi interpretativa dei gioiel-

l’utilizzazione ornamentale al 227 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Testimoniata fin dalla prima età imperiale, nel mondo romano la consuetudine di reimpiegare monete a scopo ornamentale si intensificò nel corso del III sec. d.C., epoca in cui furono introdotti nuovi motivi decorativi e sistemi di montaggio.

li monetali scaturiscono dalla piú generale comprensione del contesto storico-archeologico di provenienza, affiancata dalla lettura delle fonti letterarie.

funzioni e simboli Ma un limite spesso invalicabile nell’interpretare il significato di questi manufatti deriva dalla loro frequente dispersione e dalla conseguente decontestualizzazione, che impedisce l'inquadramento sia della tradizione artigianale di riferimento, sia della funzione e quindi dei comportamenti sociali che ne motivavano la realizzazione e l’utilizza-

zione. Innanzitutto va sottolineato che la nostra conoscenza di questi materiali è strettamente connessa al fenomeno della tesaurizzazione: l’occultamento come elementi di tesori non piú recuperati in antico e la deposizione funeraria, tendente a valorizzare uno stretto rapporto tra il/la defunto/a e l’oggetto, che viene cosí sottratto alla trasmissione ereditaria, costituiscono le principali modalità di conservazione fino ai nostri giorni, tenuto conto che la maggior parte della produzione rimasta in circolazione è stata oggetto di una continua trasmissione di proprietà, con frequenti fenomeni di reimpiego attraverso la fusione e la realizzazione di nuovi prodotti, non necessariamente appartenenti alla medesima categoria di manufatti. a r c h e o 71


costume • gioielli monetali

Nuove prospettive di studio Gli studi piú recenti nel campo della gioielleria monetale tendono a rivalutare l’importanza dell’informazione tecnica per analizzare le caratteristiche della produzione e riconoscere le diverse tradizioni artigianali. Ciò implica un recupero piú corretto del significato storico degli oggetti di oreficeria in genere e dei gioielli monetali in particolare; di qui l’esigenza di mettere a punto strumenti e metodi di studio adeguati. In questa prospettiva, risulta fondamentale il recupero delle associazioni di rinvenimento, che permettono di collocare i reperti all’interno del contesto di appartenenza. Per superare questi limiti e nella convinzione che l’analisi filologica dei gioielli monetali, inseriti nel quadro piú ampio dell’oreficeria e dei manufatti di ornamento, rivesta un’importanza fondamentale nello studio delle società antiche, l’Università degli Studi di Bologna sta sviluppando un progetto che coinvolge i Dipartimenti di Storia Antica e di Archeologia, con l’obiettivo di creare un circuito di studi con competenze specifiche e di realizzare possibilità concrete di dialogo tra studiosi di varia estrazione e operatori dello specifico settore artigianale. Incontri seminariali, a cui partecipano esperti italiani e stranieri, e la parallela serie editoriale Ornamenta (ed. Ante Quem, Bologna), che raccoglie i contributi di studiosi e specialisti, costituiscono un impegno concreto, volto a favorire un reale progresso in questo campo di studi, ma anche a divulgare e a condividere i risultati raggiunti. A queste iniziative si collega, inoltre, il progetto Jewellery in Context (JiC)-An interactive Data-base on the Web (www.jic-online.net/), ideato con l’obiettivo di ricostruire e di analizzare i contesti di rinvenimento e di creare repertori di riferimento.

L’esibizione della ricchezza, rilevabile come uno dei comportamenti costanti all’interno di diversi sistemi sociali e di differenti culture, ha determinato la diffusione dell’uso di ornamenti preziosi in ambito sia maschile che femminile, ma indubbiamente il lusso muliebre assume una maggiore evidenza tra le forme di autorappresentazione delle classi abbienti. All’ipotesi di un uso femminile, quanto meno di alcune tipologie di gioielli monetali, condurrebbe in qualche caso il contesto di rinvenimento, a cui si può affiancare il confronto con dipinti del Fayum, databili tra II e III secolo d.C., alcuni dei quali ritraggono donne e fanciulle con un collare al quale è fissato un pendente circola72 a r c h e o

re aureo, la cui parte centrale appare decorata con una testa, richiamando l’uso di ciondoli monetali. Per contro, le peculiarità di alcune scelte nella selezione degli esemplari monetali, sembrano evidenziare forti connessioni con il contesto politico-ideologico, suggerendo una piú probabile pertinenza maschile. In generale, si può osservare che, all’interno delle dinamiche sociali, l’uso di questi oggetti di ornamento corrisponde all’emergere di una classe dirigente che definisce nuovi parametri di autorappresentazione e, in questo senso, i gioielli monetali offrivano la possibilità di associare all’esibizione della r icchezza l’espressione di precisi significati

Collana composta da quattro pendenti monetali realizzati con aurei di Adriano, Settimio Severo, Caracalla e Geta, alla quale sono probabilmente da associare due cammei, cinque elementi distanziatori e un fermaglio, ottenuto con un aureo di Antonino Pio (in alto). Il gioiello faceva parte del tesoro rinvenuto a Naix-aux-Forges, a cui appartengono altre sette collane e un consistente nucleo di monete. Parigi, Cabinet des Médailles.

simbolici. Dunque, pur tenendo conto che alla donna erano certamente riservate specifiche occasioni di ostentazione del lusso, a partire dall’epoca imperiale avanzata, nel III, ma soprattutto nel corso del IV secolo d.C., si creano anche le condizioni per una diffusione dell’ornamentazione in metallo prezioso destinata agli uomini, come espressione di rango e come segno di vicinanza al potere.



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il motore del mondo Le nozioni di «fabbisogno» e «rendimento» sono concetti esclusivamente moderni o erano noti anche agli antichi? E le crisi economiche, anche quelle del passato, non furono – in fin dei conti – riconducibili a squilibri energetici? Insomma, è possibile scrivere una «storia archeologica» dell’energia? Il nostro autore sostiene di sí, a patto che si faccia piazza pulita di un grosso equivoco (di cui caddero vittima gli stessi Romani): quello di aver scambiato il motore umano – ovvero gli schiavi – per una «riserva energetica»... Nella pagina accanto: Prometeo incatenato da Vulcano, dipinto di Dirck van Baburen. 1623. Amsterdam, Rijksmuseum. Il titano viene ridotto in schiavitú dal dio-fabbro, su ordine di Giove, perché reo di aver rubato il fuoco agli dèi. A destra: combustione di metano in affioramento naturale. Il gas, eccellente combustibile fossile che fuoriesce spontaneamente dal sottosuolo, rientra tra le fonti d’energia «esauribili».

P

er i Greci il termine energheia definiva il lavoro, la forza, la fatica fisica, un concetto che si ritrova ancora quando riferito alla persona umana, come struttura biologica o psicologica. Per la fisica classica, invece, si tratta della potenzialità della materia a compiere un lavoro, data dal prodotto della forza per lo spostamento: ed è significativo che i termini lavoro e forza sopravvivano anche in questa formulazione scientifica. Tuttavia, al di là di tale sintetica definizione, la natura concreta dell’energia sfugge alla nostra intima comprensione. Una esemplificazione scolastica, evidenziandone le suddette peculiarità, la immagina come un qualcosa contenuto nella materia in varia quantità. Un po’ come l’energia elettrica in una batteria, anch’essa in attesa di essere sfruttata in una vasta gamma di modalità, tra cui far girare un motorino, accendere una lampadina, far funzionare un cellulare, ecc. Un ventaglio di estrinsecazioni meccaniche, termiche, magnetiche, ottiche, chimiche, da noi distinte in altrettante forme di energia, alle quali si è aggiunta, in tempi piú recenti, quella nucleare.

di Flavio Russo

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gia non sono costituite da fenomeni in atto, ma da eventi solo possibili, come per esempio la caduta di un macigno in bilico su un’altura o l’eventuale esplosione di un candelotto di dinamite, si parla di energia potenziale. Una sorta di «promessa» diffusissima nel nostro vissuto quotidiano: solo per citarne alcune, sono forme di energia potenziale la benzina nel serbatoio dell’auto, il gas nel tubo dei fornelli, la batteria nel telefonino, o i fiammiferi nella scatola. L’energia, dunque, si distingue in cinetica e potenziale, evidente la prima, nascosta la seconda.

Schiavi, forse prigionieri di guerra, legati con un collare a una lunga corda tirata da un milite, bassorilievo di scuola greca da Smirne (Turchia). III sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.

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In realtà, andando piú a fondo nella identificazione, ci si accorge che tutte le forme suddette si riducono, in sostanza, a una soltanto, relativa al moto dell’intero corpo o delle particelle elementari che lo compongono. Per cui, quando qualcosa muta la sua posizione o la sua velocità, muta la sua quantità di energia, fornendola o ricevendola dall’ambiente, in una delle anzidette tipologie. Se dunque il moto può essere considerato come la sorgente dell’energia, il calore ne è per certi versi la forma piú immediatamente utilizzabile, la sua peculiarità piú versatile: non a caso il fuoco fu ritenuto il bottino di un furto sacrilego, che innescò l’evoluzione umana! Quando le diverse manifestazioni dell’ener-

l’intuizione di einstein Per la fisica della relatività, l’energia è l’altra faccia, ovvero l’altra «essenza» della materia, e la corrispondenza è data dalla nota formula E=mc² (l’equazione con la quale Albert Einstein, nel 1905, sintetizzò l’intuizione che a ogni energia, E, è associata una massa, m, secondo un valore pari alla velocità della luce al quadrato, c2, n.d.r.). Purtroppo, questa stretta interdipendenza tra energia, o, per meglio dire, tra la sua esigenza, e l’umanità si coglie alla base della civiltà e del progresso e, ovviamente, della guerra. Perché il vero nocciolo della questione è che l’energia non ha solo alimentato l’evoluzione tecnologica, ma, poiché si è rivelata sempre piú indispensabile e in quantitativi crescenti, e dal momento che dalla sua entità dipende il cosiddetto tenore di vita quando non la vita stessa, ha finito per innescare rivalità e aggressività. Sotto questo profilo, anche il detestato oro può essere considerato solo una cedola per l’acquisizione di una determinata quantità di energia, perlopiú sottoforma di risorse alimentari, il cui apporto nutritivo si misura, non a caso, in calorie, come il petrolio. E può risultare emblematico constatare che i culti religiosi furono, e sono, sistematicamente finalizzati all’incremento delle disponibilità energetiche e al loro indisturbato possesso. Preghiere – «dacci oggi il nostro pane» – e sacrifici, infatti, avevano quale scopo fondamentale quello di esaltare la fertilità dei campi, la prolificità delle greggi e degli uomini, per accentuarne la riproduzione. Ma l’abbondante raccolto, il moltiplicarsi della progenie animale e umana sono, in ultima analisi, un incremento delle risorse energetiche, che oggi definiremmo rinnovabili, e delle braccia necessarie a trarne profitto, al pari di una vittoria militare, che ampliava i terreni coltivabili e incrementava gli aiuti. Va ancora osservato che l’energia non può


essere creata e neppure distrutta, ma soltanto Uno schiavo trasformata, e che quella reperibile in natura, trasporta due poiché deriva nella sua quasi totalità dall’iranfore, copia raggiamento solare, può essere distinta in tre acquerellata di branche. La prima è la solare remota, fornita epoca moderna dai cosiddetti combustibili fossili, quali car- della decorazione bone, petrolio e metano per citarne i princi- di un vaso greco pali; la seconda è la solare recente, fornita a figure rosse del dallo spostamento delle masse d’acqua e VI sec. a.C. d’aria, capaci di far girare le moderne turbine idrauliche ed eoliche e le antiche ruote dei mulini idraulici e le pale di quelli a vento, come pure il calore prodotto dalla combustione della legna, che può considerarsi una sorta di accumulatore solare; la terza, infine, è la solare attuale, data ogni istante dall’irraggiamento solare, che ci riscalda, determina la sintesi clorofilliana che ci nutre o si trasforma

in energia elettrica nei pannelli fotovoltaici. Tranne il solare remoto, furono le restanti due disponibilità energetiche a soddisfare pressoché interamente la domanda del mondo antico, che se ne appropriò in vari modi e in vari ambiti, che, nelle pagine che seguono, tenteremo di approfondire.

rendimento e consumo La storia, paradossalmente, potrebbe per molti aspetti essere vista come la risultante dei bisogni energetici, dal momento che sia il ciclo esistenziale di uno Stato, sia i conflitti, sono sempre riconducibili a squilibri energetici, piú noti come crisi economiche. E spesso, nello studio dell’antichità, le fonti energetiche sono state confuse con i motori, determinando non poche in-

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congruenze ed errate conclusioni. Per fonti energetiche si devono intendere, al pari di oggi, tutte le materie suscettibili di cedere l’energia potenziale che contengono o tutti quei fenomeni che ne liberano nell’attuarsi. Per motore, invece, diversamente da oggi, si intendeva un qualcosa capace di provocare un moto, per cui erano tali un arco, ma anche un calcio o un pugno, e, piú in generale, l’intero corpo umano: macchine e congegni che per funzionare avevano bisogno di essere alimentati, spesso letteralmente. Pertanto, una guerra vittoriosa che gettava sul mercato migliaia di schiavi, non procurava altrettante sorgenti energetiche, ma soltanto altrettanti motori, i quali, per fornire un lavoro, richiedevano un’adeguata alimentazione energetica, ovvero la somministrazione del cibo. Spesa, quest’ultima, inferiore al costo del lavoro libero, ma, tenendo conto del deprezzamento del valore degli schiavi e

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degli oneri connessi con la loro sorveglianza – senza contare i sabotaggi e le fughe –, il lavoro servile risultava quasi sempre scarsamente conveniente. Il vantaggio del lavoro servile, perciò, ammesso che vi fosse stato, consisteva nell’utilizzare il carburante piú abbondante e meno costoso che potesse esistere, a patto che quanto assorbito superasse in valore quanto fornito, cioè che il valore di quanto prodotto dagli schiavi superasse quello della loro alimentazione. Tale fenomeno finí con il definire uno spietato rapporto tra consumo-nutrizione e rendimento-lavoro, un concetto che, sebbene non fosse compreso neppure vagamente nell’antichità, conobbe piena applicazione pratica. Quando Catone suggeriva di disfarsi degli schiavi anziani o malati (servum senem, servum morbosum et si quid aliut supersit, vendat), non faceva altro che anticipare l’odierno criterio della... rottamazione, adottato per le


Le suspensurae sotto il calidarium delle terme romane di Bath, in Inghilterra. Per raggiungere temperature elevate, il sistema di riscaldamento a ipocausto – consistente nella circolazione di aria calda, prodotta da una caldaia a legna, sotto il pavimento e all’interno delle pareti – prevedeva un consumo ingente di legna da ardere.

l’energia elettrica secondo scribonio Le scariche delle torpedini (vedi foto a destra e testo a p. 80), che nelle specie mediterranee non sono mortali, furono usate per la cura dell’epilessia e dei dolori artritici – attualmente definita galvanoterapia – con esiti positivi. Del suo uso troviamo conferma in un ricettario di Scribonio Largo – medico romano del I secolo d.C. –, che in almeno due delle sue Compositiones cosí le prescriveva: 11. Capitis dolorem quamvis veterem et intolerabilem protinus tollit et in perpetuum remediat torpedo nigra viva inposita eo loco, qui in dolore est, donec desinat dolor et obstupescat ea pars. Quod cum primum senserit, removeatur remedium, ne sensus auferatur eius partis. Plures autem parandae sunt eius generis torpedines, quia nonnumquam vix ad duas tresve respondet curatio, id est torpor, quod signum est remediationis. (Il dolore di testa sebbene antico e intollerabile lo toglie subito e definitivamente la torpedine nera viva posta su quel luogo che è nel dolore, finché il dolore non cessi e quella parte non diventi intorpidita. E appena sarà avvertito ciò, sia rimosso il rimedio, perché non sia tolta la sensibilità di quella parte. Invero bisogna procurarsi piú torpedini di quel genere, poiché talvolta a stento a due o tre risponde la cura, vale a dire il torpore, che è indizio di guarigione). 162. Ad utramlibet podagram torpedinem nigram vivam, cum accesserit dolor, subicere pedibus oportet stantibus in litore non sicco, sed quod adluit mare, donec (5) sentiat torpere pedem totum et tibiam usque ad genua. Hoc et in praesenti tollit dolorem et in futurum remediat. Hoc Anteros Tiberii libertus supra hereditates remediatus est. (Per l’una e l’altra podagra una torpedine nera viva, quando si sarà presentato il dolore, occorre mettere sotto i piedi, stando sul litorale non secco, ma che il mare bagna, finché senta intorpidirsi tutto il piede e la tibia, fino alle ginocchia. Questa cura sia sul momento toglie il dolore, sia per il futuro lo guarisce…).

automobili ancora funzionanti, ma provviste di un motore che consuma molto e rende talmente poco da non compensare nemmeno il costo del carburante! E quando Plinio sottolineava che nelle miniere d’oro spagnole lavorano 60 000 minatori liberi, non lo faceva per avallare una bonomia peraltro inesistente all’epoca, ma per evidenziare la convenienza del lavoro libero che, restando all’esempio, consumava molto meno di quello che produceva!

il peso della schiavitú Al di là dei rendimenti il vero interrogativo resta quello sulla stima del bilancio energetico della società romana, abbastanza evoluta e in fase di costante avanzamento materiale. Quale fu, in merito, il peso della schiavitú? E qual era l’effettivo fabbisogno energetico medio di un cittadino romano del I secolo, a Roma e in provincia? Per valutare quanto esso fosse lontano dall’attuale disponibilità di un abitante del primo mondo, si possono suggerire alcune significative equivalenze: il motore di una vettura di media cilindrata sviluppa una potenza di un centinaio di hp,

espressione impropria ma efficace che, paragonata alla potenza massima che un uomo medio può sviluppare, corrisponde a circa 300 schiavi; l’energia assorbita da uno scaldabagno domestico equivale, grosso modo a quella fornita da 5 uomini; mentre per far funzionare un asciugacapelli o illuminare un appartamento ce ne vorrebbero 4 (vedi anche le tabelle a p. 91). Risulta dunque logico concludere che le disponibilità energetiche, sia naturali che servili, persino per i piú facoltosi, fossero ben lontane dal nostro standard. Considerando, poi, che, allora come ora, l’energia, oltre a non essere illimitata, aveva anche un costo, va rilevato che con il ridursi delle fonti piú comode – per l’epoca le piú vicine – il suo costo andò progressivamente crescendo, innescando antesignane crisi energetiche. Emblematico è il caso del consumo della legna da ardere, che nel giro di alcuni decenni levitò in maniera esponenziale. Per farsi un’idea delle quantità in gioco, basti considerare che per cuocere 1 kg di pane ne occorre quasi altrettanto di legna, e, tenendo presente una razione quotidiana media pro capite di almeno a r c h e o 79


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250 g, si deve concludere che quando Roma superò il milione di abitanti, richiedeva 250 t di pane al giorno, con un consumo di legna equivalente, pari a sua volta al trasporto di 2-300 carri. Se a questa quantità si aggiunge quella bruciata dalle terme, dai privati per riscaldarsi e per cuocere il cibo, dalle fornaci per produrre anfore e mattoni – che l’enorme incidenza dei trasporti costringeva a una ubicazione limitrofa – dalle officine metallurgiche, ecc., si deve supporre un ammontare complessivo giornaliero di oltre un migliaio di carri di legna da ardere. Una tendenza che ampliò rapidamente il raggio del disboscamento, con la conseguenza di incrementare dapprima i costi unitari, quindi di obbligare a scelte sempre piú onerose, quali l’approvvigionamento lontano e il trasporto fluviale e, soprattutto, a soluzioni architettoniche finalizzate al risparmio energetico. Infatti, agli inizi del I secolo, presero a diffondersi sistemi di riscaldamento ambientale che non necessitavano di un eccessivo bisogno di combustione, ma si basavano sull’effetto serra, e che Plinio il Giovane definí, con un indovinato neologismo, Heliocaminus, una soluzione che trovò ampia adozio- ciò anche definita «fossile». La rinnovabile fu ne nelle terme e nelle case. ovviamente impiegata in abbondanza sin dalla preistoria, vista la sua ampia disponibilità sotto forma di venti, correnti d’acqua, incendi l’energia Rinnovabile In conclusione, non si può escludere che la o caduta di massi, tanto da essere etichettata dissoluzione dell’impero d’Occidente possa «energia primaria». L’altra, pur non essendo aver avuto fra le molte concause anche il ra- affatto sconosciuta – come nel caso del carborefarsi o la grave insufficienza delle risorse ne e della nafta – per le difficoltà connesse energetiche, proprio quando la domanda di- alla sua estrazione conobbe modesti utilizzi, venne impellente. Ne derivò la crisi degli limitati peraltro ai luoghi di affioramento assetti sociali e della complessa istituzione spontaneo, perlopiú nel Vicino Oriente. Anmilitare, un rischio che sembra riproporsi, cor meno ne conobbe il metano, al di là delle con esiti che sarebbero enormemente piú combustioni accidentali. catastrofici, anche ai nostri giorni. Ora, se è Un discorso a parte merita l’energia elettrica per lo meno azzardato stimare quanta energia che, in quanto tale, nonostante fosse del tutto fosse indispensabile, nelle sue varie manifesta- ignota e non si avesse alcun mezzo per prozioni, all’immenso organismo statuale durla, ebbe applicazioni mediche, sfruttando dell’impero, è però possibile individuarne le quella generata da alcune torpedini (vedi box diverse tipologie utilizzate, a partire da quelle a p. 79). All’osservazione di fenomeni elettrici è riconducibile anche una delle rare testimopiú agevolmente disponibili in natura. Tutta l’energia disponibile sulla Terra e nel nianze dirette di Plinio il Vecchio, una scarica suo immediato sottosuolo, a eccezione di elettro-luminescente prodotta dalla ionizzaquella nucleare, è frutto del riscaldamento zione dell’aria durante un violento temporale, solare e, dal punto di vista antropico, può all’interno di un forte campo elettrico. In distinguersi in rinnovabile ed esauribile. La seguito ribattezzata «fuoco di Sant’Elmo», fu prima, sfruttando gli effetti dell’irraggiamen- cosí descritta nella Storia Naturale (II, 101): to, si rigenera continuamente, per cui è anche «Vidi nocturnis militum vigiliis inhaerere pilis pro definita naturale, a differenza della seconda, vallo fulgorem effigie ea; et antennis navigantium che, utilizzando risorse formatesi nel corso aliisque navium partibus» («Ho visto di notte, delle ere geologiche e non potendo in alcun attaccarsi alle cuspidi dei giavellotti dei militi modo reintegrarsi, tende a esaurirsi ed è per- di guardia al fossato, qualcosa a forma di fol80 a r c h e o

In alto: Veduta di un eliocamino per abitarvi l’inverno, il quale era riscaldato dal sole, che s’introduceva per le finestre, esposte al mezzodí. Incisione di Giovanni Battista Piranesi (17201778) dalla serie Vedute di Roma, pubblicate nel 1778 circa.


gore; si fissano pure alle antenne dei naviganti e su altre parti delle navi»).

dal sole agli elementi Eccezion fatta per queste esperienze, nell’antichità non si andò oltre l’impiego delle sole sorgenti naturali, nei tre ambiti riconducibili ai quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. Ambiti che, coincidendo con i nostri quattro stati di aggregazione – solido, liquido, aeriforme e del plasma –, sembrano suggerire, già in origine, una distinzione energetica piú che materiale. A ogni buon conto le quantità di energia fornite dal sole e trasformate nelle varie forze naturali sono immense, pari a circa 200 W/m2: per i diversi livelli di riscaldamento si originano i venti; dall’evaporazione si formano le dense coltri di nubi, che, a loro volta, originano le piogge e i corsi d’acqua. Fluidi aeriformi e liquidi che furono dunque le sorgenti energetiche primarie; e le macchine che vennero con essi alimentate permisero il debutto della meccanizzazione, tramite l’adozione di congegni archetipali, detti anche «motori primari».

I ruderi del cosiddetto eliocamino di Villa Adriana a Tivoli. L’ampia sala circolare era riscaldata dal calore dei raggi solari, catturato e trattenuto per l’effetto serra tramite l’apertura superiore munita di vetrata.

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Tuttavia, per un periodo straordinariamente lungo, la sola macchina capace di trasformare un po’ di energia primaria in lavoro fu la macchina umana, solo in seguito affiancata, e per poche prestazioni, da alcuni animali.

Il motore secondo i Greci La quasi totalità delle pubblicazioni e delle ricerche sulla storia della tecnica o sui livelli di sviluppo tecnologico raggiunti nell’antichità ribadisce l’inesistenza del motore. Il concetto, sebbene erroneamente formulato, risulta comunque fuorviante e richiede perciò una sua piú aderente definizione. Per la meccanica greca, infatti, il motore era l’organo destinato a imprimere il moto a oggetti e congegni altrimenti statici e fermi, una precisazione che apparentemente coincide con quella attuale e suggerisce come piú calzante la definizione di macchina motrice. Una macchina, cioè, che fornisce lavoro meccanico alimentandosi da adeguate fonti energetiche, innescando quindi una trasformazione che era però sempre gravata da forti perdite, del tutto trascurate nell’antichità. In questa accezione, la comparsa del motore risulta remotissima, forse persino antecedente al Neolitico, dal momento che se ne trova ampia applicazione nelle trappole. In quei meccanismi si ravvisa addirittura un motore che accumulava energia in fase di deformazione e la restituiva in fase di recupero di forma. E in età preistorica si colloca anche un’altra tipologia di motore, di scarsa adozione coeva ma di straordinaria rilevanza futura, che funzionava grazie all’espansione di un gas, cioè secondo lo stesso principio delle armi da fuoco e di tutti i nostri motori a scoppio. Può essere senza dubbio considerato il piú antico, poiché persino lo sputo si espelle per espansione di gas, e tale procedura si trasforma in arma nella cerbottana. Tornando al concetto di motore, appare evidente che la sua interpretazione archeologica contrasta con quella odierna. Nel passato, invece, esistettero macchine piú o meno automatiche e dotate di motore, inventate dai Greci prima e dai Romani poi, ma quasi nessuna di esse era di tipo rotativo. Se per azionare una serratura la mano è costretta a girare, non per questo può considerarsi un vero motore. Se mai lo è l’intero corpo umano, che, fin quasi all’inizio del Novecento è stato il motore per antonomasia. Va poi osservato che un gran numero di congegni fatti funzionare direttamente dalla forza umana, disponevano di piccoli motori

secondari, alimentati anch’essi dalla stessa energia muscolare. Per restare ancora alla serratura, una parte dell’energia cedutale dal moto di pronazione o supinazione della mano veniva accumulata in una molla che, al cessare della forza, diveniva a sua volta il motore che riportava il catenaccio al punto di partenza. Per noi si tratta di una banale molla, ma è un perfetto esempio di motore secondario, presente in quasi tutte le macchine dell’antichità.

acqua, fuoco, vento e terra Far funzionare un orologio per giorni o una balista per un istante, implica l’adozione di dispositivi capaci d’immagazzinare un po’ di energia, traendola dalle fonti primarie, per un tempo piú o meno lungo, per trasformarla lentamente o istantaneamente, al momento prescelto o prestabilito, in lavoro meccanico. Questo fu il motore meccanico nell’accezione piú aderente e stringente dell’antichità, includendo, primi fra tutti, per ovvie ragioni, i muscoli. Posta cosí la questione, non è difficile rintracciare i riscontri e le conferme esplicite e implicite nella letteratura e nell’iconografia. Motori primari, invece, furono le macchine azionate dalla forza dell’acqua o del vento, dall’energia del fuoco o dalla gravità terrestre. In breve, da tutte le potenzialità dinamiche già presenti in natura nei quattro ambiti delle radici filosofiche. Classificandoli in base all’energia di alimentazione furono: motori a energia potenziale, idraulici, pneumatici e termici (vedi alle pp. 84-85). Nell’antichità classica, quindi, fatta salva la suddetta precisazione, i motori già esistevano ed erano di diversa tipologia, con precipue connotazioni strutturali e funzionali. La vera e vistosa differenza con gli odierni,

In alto: una macina per il grano, azionata da due schiavi, replica del rilievo sul sarcofago romano di Annio Ottavio Valeriano, da Casal Rotondo, sull’Appia Antica. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto: particolare di un bassorilievo dal Sepolcro degli Haterii, raffigurante una grossa gru romana azionata da una ruota calcatoia fatta girare dal continuo arrampicarsi degli schiavi al suo interno. II sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Profano.

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causa non ultima della mancata equiparazione, consiste nel non essere trasportabili o per meglio dire, non alimentabili con sorgenti mobili, come combustibili o batterie. Un motore che poteva, invece, spostarsi con grande facilità e che utilizzava come combustibile una vasta gamma di sostanze, tutte di ampia reperibilità e basso costo, era il motore umano o «parlante», come era definito. Come accennato, alle spalle del lavoro coatto e della sua rilevanza nell’economia antica in generale e romana in particolare, vi è un grosso equivoco, ovvero l’aver scambiato un semplice motore per una riserva energetica.

i quattro tipi di motore 1. motori a energia potenziale, accumulata nei solidi, quale deformazione elastica per motori a molla o a gravità nei motori a peso; trattandosi comunque di energia sviluppata mediante una massa solida, sono ascritti allo stato solido, già della terra; rientrano in questa categoria, oltre alle artiglierie elastiche, i congegni a contrappeso, come i sipari, i montacarichi e i veicoli semoventi.

2. motori idraulici

o ad acqua, in grado di sfruttare l’energia cinetica o potenziale di una massa d’acqua; in quanto tali, sono ascritti allo stato liquido, già dell’acqua; ne fanno parte, oltre alle ruote idrauliche che azionano i mulini e altre macchine utensili, anche le mine idrauliche.

Ricostruzione virtuale di una delle prime ruote idrauliche ad asse verticale azionate dalla corrente dell’acqua.

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A sinistra: ricostruzione virtuale di un sipario di teatro romano, funzionante a contrappesi.

3. motori pneumatici o ad

aria, capaci di sfruttare l’energia cinetica del moto di una massa aeriforme; in quanto tali, sono ascritti allo stato aeriforme, già dell’aria; appartengono a questa classe le vele delle imbarcazioni e i primi mulini ad asse verticale, nonché alcuni congegni ad aria compressa.

In basso: ricostruzione dell’eolipila di Erone: l’acqua contenuta nella sfera, portata a ebollizione dalla fiamma sottostante, fuoriesce dagli ugelli laterali, facendoli ruotare. Può considerarsi la prima turbina a vapore a reazione.

In basso: rilievo con una corbita romana, piccola imbarcazione commerciale a due alberi, da Cartagine. 200 d.C. circa. Londra, British Museum.

4. motori termici, in grado di

sfruttare l’energia data dall’innalzamento della temperatura di un corpo, perlopiú fluido, con la somministrazione di calore dall’esterno; in quanto tali, si potrebbero considerare legati concettualmente allo stato del plasma, già del fuoco, definizione odierna dei gas ad altissime temperature; oltre all’eolipila, rarissimo esempio di motore rotante a vapore, sono motori termici anche gli apri-porte automatici.

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speciale • energia Un indio Achuar (comunità indigena stanziata nella foresta amazzonica, al confine tra Ecuador e Perú) con cerbottana. La cerbottana è forse l’unica arma antica funzionante per espansione di gas, criterio informatore identico a quello delle attuali armi da fuoco.

Il disporre di un gran numero di schiavi non significava affatto disporre di una cospicua risorsa energetica, per la semplice ragione che lo schiavo aveva, a sua volta, bisogno di essere alimentato con risorse energetiche esterne, di certo a basso costo, ma non a costo zero. Un gran numero di autoveicoli, privi però di carburante, resta inevitabilmente inchiodato sulla strada.

macchine parlanti A conti fatti, lo schiavo era un semplice motore, o, per dirla con i Romani, una «macchina parlante», e in questa definizione brutale vi è la perfetta consapevolezza della questione. Non un generatore, né un contenitore di energia, bensí un organo che, operando, la consuma, richiedendone di nuova; una macchina, appunto, e che, in quanto tale, non attenuava in alcun modo il fabbisogno energetico, ma ne consentiva soltanto la trasformazione, al pari delle bestie da soma, e come queste con consumi niente affatto trascurabili, deperibilità accelerata e costi significativi. Prescindere da queste realtà falsa il problema perché tende a prospettare come gratuito il lavoro coatto – o servile che dir si voglia – mentre in realtà risultava persino piú oneroso di quello libero. Molti studiosi della storia della tecnologia ritengono che, al grandioso salto compiuto dalla meccanica applicata tra il IV e il III 86 a r c h e o

In basso: Hama, Siria. Antiche norie, costituite da grandi ruote idrauliche coassiali per il sollevamento dell’acqua, sul fiume Oronte. Nella pagina accanto: vaso in bronzo a forma di busto di schiavo siriano. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.


secolo a.C., fece seguito un rigido blocco, che determinò non solo il rapido arresto delle eccezionali premesse, ma anche il definitivo abbandono delle rispettive promesse. Alcuni di essi vedevano la questione in modo semplice: nella civiltà ellenistica tutto era ormai disponibile per un’ampia meccanizzazione del lavoro, ma non essendo avvenuta quell’auspicata rivoluzione, la causa fu imputata alla schiavitú che, con la grande disponibilità di manodopera quasi gratuita, ne vanificò i vantaggi.

dello sterminio. Inoltre i disgraziati schiavi moderni non hanno un valore di mercato, dal momento che la schiavitú è stata abolita, per cui la loro morte non determina alcun danno.

i valori di mercato Se non aizzato da sentenze o da fanatismi ideologici, il lavoro servile restò innanzitutto compatibile con la sopravvivenza dello schiavo, altrimenti sarebbe costato comunque troppo per tornare competitivo con una produzione quantitativamente inferiore che però non lo massacrava. Senza contare che l’esistenza di un avido mercato interno per merce del genere ne determinò sempre, costi e benefici quale che ne fosse l’origine e l’entiTale ragionamento è solo apparentà, un valore per nulla trascurabile. temente sensato per via della banale Anche quando guerre spietate ne semplificazione economica. Al di là producevano in enorme nudella asserita rilevanza numemero, il prezzo di un uorica degli schiavi – peralmo robusto e giovane tro tutta da verificare se non fu mai irrilevante, relativa a uomini roné tale abbondanza ne busti nel pieno della ridusse la spesa di manvigoria fisica – non si tenimento. Quanto cospipuò trascurare il dettacua fosse la domanda, del resto, lo glio che in una economia testimonia l’accaparramento dei servile proprio quel tipo di merce A conti fatti, fuggiaschi da parte di molti possiaveva un rilevante costo di acquisto e, per intuibili ragioni, un costo il lavoro servile denti, senza alcuno scrupolo sulla loro provenienza. di mantenimento altrettanto rilenon era in grado Considerando il costo iniziale e il vante. Lo sfruttamento della schiasuo ammortamento, la spesa dell’alivitú insisteva sul presupposto che di competere, mentazione, della sorveglianza e l’utile prodotto dal singolo schiavo «stimolazione» sul lavoro, tenendo fosse superiore alla spesa del suo in termini conto degli immancabili sabotaggi, mantenimento, un rapporto che in economici, con delle resistenze passive e degli incimeccanica si definisce «rendimendenti gravi, risulta evidente che il to positivo». E, finché tale, restava quello libero lavoro servile non poteva competeconveniente, ovvero fino a quando re economicamente con quello lile condizioni fisiologiche ottimali bero. Con cinico ragionamento, lo garantivano. quando un libero operaio moriva sul lavoro, La realtà è però piú complessa e occorre conil proprietario non perdeva nulla, mentre siderare molti piú fattori e la concorrenza del subiva un grave danno quando era uno schialavoro libero.Tentare, per esempio, di ricavare vo. Inoltre, solo dai liberi col miraggio di parametri di rendimento e convenienza dal maggior compenso si potevano estorcere lavoro coatto nell’antichità, a partire da quelrendimenti esasperati, laddove la frusta, usata lo estorto nei tanti lager, e in particolare in per incitare gli schiavi, rischiava di dannegquelli nazisti, è assolutamente fuorviante, giarli, abbattendone rendimento e valore. È perché del tutto errato. I moderni aguzzini, certamente emblematico che Vespasiano infatti, hanno come finalità primaria l’elimiavesse vietato l’istallazione di una potente nazione tramite l’esasperata fatica fisica dei gru, per evitare la perdita di lavoro per le loro schiavi e non l’utile economico che ne classi umili, ma non l’impiego degli schiavi! deriva. Questo, se mai, andrebbe reputato come una sorta di parziale rimborso spese (segue a p. 91) a r c h e o 87


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una breve storia del «lavoro servile» La schiavitú fu il fondamento delle varie convivenze sociali in Europa e nel Vicino Oriente: nei loro ideogrammi, i Sumeri rappresentavano lo schiavo come uno straniero, rivelando cosí la presenza della schiavitú nel loro contesto sociale e la provenienza degli schiavi dai prigionieri di guerra (almeno in larga parte). A Babilonia il Codice di Hammurabi introdusse diverse novità, distinguendo gli schiavi secondo la loro derivazione: prigionieri di guerra, debitori insolventi, comperati, nati in schiavitú; a tutti riconosceva il diritto di sposarsi con donne libere, di commerciare e possedere beni, di convivere con concubine che avevano dato loro dei figli. Tuttavia il Codice non giungeva a riconoscere allo schiavo la qualifica di uomo, come nel codice ittita. A Babilonia e in tutto il mondo 88 a r c h e o

schiavi in catene, particolare di una zanna d’elefante intagliata, dalla costa occidentale dell’Africa. 1870 circa. Collezione privata. semitico lo schiavo poteva riscattare la propria condizione con la manomissione, l’adozione e il riscatto. Nella società ebraica lo schiavo per debiti era liberato dopo sette anni, se ebreo; se i maltrattamenti lo avevano reso inabile al lavoro, veniva liberato (nel caso di uno schiavo ebreo o straniero) e il padrone che uccideva lo schiavo veniva punito. Fino alle guerre espansionistiche della XVIII dinastia (1550-1307 a.C.) in Egitto gli schiavi di guerra furono

poco numerosi e perciò si aveva cura della loro vita: chi uccideva uno schiavo era punito con la morte. In Grecia gli schiavi erano la base del sistema economico agricolopastorale: erano in genere prigionieri di guerra e venivano trattati con umanità; tra l’VIII e il VI secolo a.C., con il diffondersi dell’uso dei metalli e l’espansione dei commerci, la richiesta di schiavi fu fortissima e le zone di caccia furono le etnie


Collare in ferro a quattro punte (a destra), utilizzato per impedire la fuga agli schiavi. Hull (Inghilterra), Wilberforce House. A sinistra: ferri da polso appartenenti a mercanti di schiavi. XVIII-XIX sec. Lione, Museo Africano. straniere, trattate dal cittadino della polis come barbaroi; fiorentissimo il commercio di schiavi, venduti o affittati come merce-lavoro. Il lavoro dello schiavo era di solito a tempo pieno, ma poteva anche lavorare in proprio, versando al padrone una parte del guadagno; di privilegi particolari (fra i quali agire in tribunale) godevano gli schiavi che esercitavano il commercio o ricoprivano incarichi amministrativi. Le pene erano a discrezione del padrone, ma per la morte occorreva l’assenso del giudice. E la polis puniva gli eccessi di pena. Oggetto e non soggetto di diritti, lo schiavo doveva tuttavia ricevere un sostentamento sufficiente, godere del necessario riposo ed essere rispettato come persona. essere schiavi a roma Nel mondo romano la schiavitú diventò un fenomeno generale con le guerre di conquista in Italia: i liberi impegnati nei conflitti erano sostituiti con gli schiavi e questi divennero sempre piú numerosi con l’intensificarsi delle campagne anche fuori d’Italia. Dalla nemica Cartagine, che partecipava a un florido commercio di schiavi su tutte le coste del Mediterraneo, i Romani appresero a impiegare gli schiavi anche come soldati. Per la coltivazione dei latifondi, che diventavano sempre piú estesi, Roma ricorse anche a metodi piú brutali, come le catture di uomini abili al lavoro nelle regioni occupate o il

ricorso ai mercati pubblici (a Delo funzionava un mercato che vendeva fino a 10 000 schiavi al giorno); si aggiungevano a questo l’allevamento di bambini abbandonati e la concessione di privilegi agli schiavi che procreavano figli (futuri schiavi). Il trattamento riservato loro era piuttosto duro e ne sono testimonianza le frequenti insurrezioni, che interessavano intere regioni: Roma stessa fu minacciata da ribellioni di schiavi, capeggiati da Enno (136-132 a. C.) e da Spartaco (72-70 a. C.). Dal lato giuridico lo schiavo non poteva avanzare nessun diritto e il suo padrone aveva su di lui il diritto di vita e di morte; lo stesso suo sostentamento non costituiva un obbligo de iure, ma piuttosto un interesse o, al massimo, una tradizione. Si valutavano però attentamente le qualità degli schiavi e, se si trattava di persona colta, poteva essere adibita a lavori di segreteria o utilizzata come amanuense, bibliotecario o pedagogo. Gli si concedeva anche, per antichissima tradizione, di poter tenere un piccolo peculio privato, in deroga al principio che tutto ciò che era acquistato dallo schiavo apparteneva al suo padrone. Lo schiavo giungeva alla liberazione: per riscatto, con l’adozione, con la manomissione da parte del padrone che costituiva l’ex

schiavo nella condizione di «liberto». In età imperiale si concesse allo schiavo di poter essere venduto a un altro padrone se sistematicamente maltrattato; di essere venduto assieme alla moglie, se sposato; di possedere ed ereditare. L’economia fondata sul lavoro servile fu a Roma una delle cause della sua scarsa produttività e lo aveva ben compreso Columella, che considerava la schiavitú «distruggitrice della fecondità del terreno», mentre Varrone faceva osservare che l’interesse del libero coltivatore era la vera causa della maggiore produttività della terra. Diocleziano rese il lavoro servile ancora piú costrittivo. Nel campo delle idee, gli stoici e Plinio il Vecchio dichiaravano uguali tutti gli uomini – e quindi la schiavitú contro il diritto naturale –, ma nella pratica, pur di puntellare il sistema schiavistico, si ricorreva alla distinzione fra ius naturale e ius gentium: il primo condannava la schiavitú, il secondo la ammetteva come prassi generale e quindi come diritto. Lo stesso cristianesimo nulla poté contro la schiavitú, anzi, la patristica ne legittimò l’esistenza come punizione dei peccati, trovando un sottile quanto capzioso argomento: il corpo dello schiavo apparteneva al padrone per diritto di proprietà, la sua anima a Dio, perché sua creatura. La schiavitú continuò anche fra i popoli germanici, che s’insediarono nelle terre dell’ex impero. La condizione giuridica degli schiavi non mutò, perché dove mancavano tradizioni germaniche subentrava il diritto romano: in particolare era concesso allo schiavo di sposarsi, ma solo con una schiava; numerose norme regolavano la vita degli schiavi dello Stato e dei conventi, ma identica era la sostanza della loro posizione giuridica: una cosa nelle mani del padrone. (red.) a r c h e o 89


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Sansone gira la macina, olio su tela di Giacomo Zampa. 1754. Bologna, Pinacoteca Nazionale. Secondo la tradizione, il mitico «giudice» d’Israele fu sopraffatto dai Filistei, dopo che, con la complicità di Dalila, era stato privato della sua capigliatura, da cui traeva origine la sua forza sovrumana. Messo in condizioni di non nuocere, Sansone fu ridotto in ceppi e catene e condannato a far funzionare la macina della prigione.

Risulta non meno assurdo attribuire alla mancata meccanizzazione il perdurare della schiavitú, ipotesi che fa da contrappunto alla precedente e che si conferma altrettanto poco plausibile. La smentita viene dalla constatazione che proprio le società schiaviste stimolarono maggiormente la produzione di macchine. È il caso dei progressi tecnici registrati in Egitto, dove abbondava la schiavitú, o di Roma, dove se ne registrarono in maggior numero nel periodo antecedente a quello delle frequenti emancipazioni. Ma l’esempio piú probante, perché meglio conosciuto, è forse quello degli Stati Uniti d’America, dove la tratta dei neri fa da sfondo al grande progresso tecnologico. È errato, quindi, rapportare la meccanizzazione mancata alla schiavitú, come, piú in generale, diminuirne la portata e la potenzialità.

servi «accessori» Un discorso completamente diverso è quello relativo alla schiavitú domestica, che sta alla precedente come i nostri elettrodomestici stanno ai macchinari industriali. Trattandosi di un utilizzo che si potrebbe definire d’affezione, e comunque svincolato dalla legge di mercato, non ebbe le stesse limitazioni e marginalizzazioni dell’anzidetto lavoro coatto. Ma poiché si trattava pur sempre di sfruttamento di manodopera servile, si finí per confondere le sue peculiarità con quelle, nettamente diverse, del lavoro schiavistico, con

Forse non tutti sanno che... Irradiazione solare L’insolazione sull’Italia mediata sulle 24 ore e sulle quattro stagioni è di 200 W/m². Supponendo 12 ore di sole al giorno: 400 W/m².

Potenza di picco sviluppata da un uomo Un uomo che solleva 30 kg all’altezza di 1 m compie un lavoro = 30*9,81*1 ≈ 300 J e se per farlo impiega 0,75 s eroga una potenza = 300/0,75 = 400 W.

conclusioni inverosimili, alle quali ha purtroppo contribuito una deleteria produzione letteraria e cinematografica. Esattamente come per i nostri elettrodomestici, dei quali apprezziamo l’utilità piú ancora dei consumi, di cui ammiriamo l’estetica piú ancora della funzionalità, e dei quali ci circondiamo, convinti che agevolino la nostra esistenza, cosí avvenne per la schiavitú domestica. La case dei ricchi possidenti si popolarono di stuoli di servi, di gradevole aspetto e di pronta disponibilità, che difficilmente potevano trovare un concreto impiego. Esemplari al riguardo le varie raffigurazioni di matrone circondate da ancelle durante la preparazione mattutina: tante braccia, tanti pareri, tanti suggerimenti potevano soltanto complicare l’evento, trasformandolo in una lunga tortura che non poteva avvenire ogni mattina! Ed è seriamente credibile che quelle ancelle fossero sempre giovani o che venissero sostituite ogni lustro, svendendo o adibendo a compiti incerti le piú anziane? Allo stesso modo, il signore circondato da un codazzo di servi, altrettanto superflui, finiva per doversi preoccupare di trovare loro una qualche occupazione, per evitare ulteriori danni. Non a caso, il mantenimento di quelle mandrie umane fu reputato un indicatore di censo e non un ammirevole esempio di gestione domestica. Il motore parlante, insomma, seppure parlasse (forse) molto, rendeva poco!

Comparazione utenze-uomo potenza Utenza Lampadina Ferro da stiro Lavatrice Automobile Motore di tram Motori di locomotore

Potenza 80 W 1 kW 2 kW 70 kW 100 kW 6000 kW

Uomini 0,2 2,5 5 175 2500 15000

Lavoro fornito da un uomo

Energia Utenza Energia in 1 ora Giorni di lavoro uomo

Fabbisogno calorico di un uomo che compie un lavoro pesante = 3500 kcal/giorno = 14653,8 kJ. Supponendo che il rendimento, cioè l’aliquota che si trasforma in lavoro utile nelle 24 ore (tenuto conto del fabbisogno per il metabolismo basale) sia non superiore al 15%, si ha: lavoro = 14654*0,15 ≈ 2200 kJ di lavoro utile al giorno.

Lampadina Ferro da stiro Lavatrice Automobile Motore di tram Motori di locomotore

288 kJ 3600 kJ 7200 kJ 252000 kJ 360000 kJ 21600000 kJ

0,13 1,65 3,3 115 164 9818

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storia • storia dei greci/19

mirabili frantumi nel 323 a.C. una malattia pone fine ai giorni di alessandro magno. Molti dei suoi ambiziosi progetti rimangono incompiuti, ma a lui sopravvive la temperie culturale fiorita sulla scia dei successi ottenuti. in una parola, è l’inizio dell’ellenismo di Fabrizio Polacco

A

lessandro aveva percorso con il suo esercito migliaia di miglia dalla Macedonia all’Indo; era apparso come una meteora sorprendente, inarrestabile e abbagliante; dopo aver sconfitto e abbattuto il piú grande impero mai sorto fino ad allora, si era spinto tanto lontano nel cuore dell’Asia quanto nessun altro aveva mai osato in precedenza. Ma la sua impresa, contrariamente all’effimero volo di una meteora, non rimase priva di conseguenze. Alessandro mutò la vicenda stor ica di gran parte dell’Oriente e dell’Occidente, segnando il destino dell’umanità in misura almeno pari a quella dei fondatori di grandi religioni. Il fatto è che egli non fu solo un condottiero: ebbe la curiosità intellettuale e l’audacia dell’esploratore e dello scopritore; si dimostrò, nel brevissimo tempo in cui sopravvisse alla sua conquista, un sagace e accorto governante; fu mosso e animato, via via che procedeva, da uno spirito d’intraprendenza sempre piú innovatore, per certi versi sognante e utopico. E seppure la morte – inter-

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venuta all’età di non ancora trentatré anni (323 a.C.) – gli impedí di realizzare gran parte dei suoi ambiziosi progetti, quanto aveva già fatto fu piú che sufficiente per trasformare il mondo di allora. «Io non conto i miei anni, ma le mie vittorie: se conto bene i doni della fortuna, ho vissuto a lungo», gli fa dire, con una sfumatura di malinconica preveggenza, lo storico Curzio Rufo. Dopo la vittoria contro il re indiano Poro (326 a.C.), Alessandro era giunto in vista della sterminata pianura del Gange e avrebbe voluto proseguire nella conquista dell’inte-


Dioniso cavalca una pantera, particolare di un mosaico pavimentale dalla Casa di Dioniso di Pella, antica capitale del regno macedone. Fine del IV sec. a.C. Pella, Museo Archeologico. Secondo Plutarco, Alessandro Magno celebrò il suo trionfo in Oriente come novello Dioniso, seguito da un corteggio di uomini e animali.


storia • storia dei greci/19

ro Paese. Solo i suoi soldati, gli amati Macedoni e i Greci che lo seguivano ormai da quasi dieci anni, riuscirono a fermarlo, sfiniti, con le loro lacrime.

«ritorno» a babilonia La strada del ritorno verso occidente non comportava piú l’affrontare potenti regni ostili, né ingenti eserciti nemici; e tuttavia non pareva certo facile. Anche perché Alessandro – cosa non sempre sottolineata a sufficienza – non pensò in alcun modo di tornare sui propri passi, ripercorrendo lo stesso tragitto dell’andata. Dalla grande vallata del Punjab, nella quale si trovava (la «terra dei cinque fiumi», nel Nord dell’odierno Pakistan), egli decise al contrario di allestire una flotta e di scendere fino al mare verso cui quei fiumi portavano, dopo essere confluiti tutti nell’odierno Indo; si trattava dell’Oceano Indiano, e precisamente del Mare Arabico. Insomma, il re si rassegnò a non procedere nelle conquiste, ma non rinunciò a farsi esploratore di quei territori che ormai costituivano il suo dominio, e decise quindi di rientrare attraverso le estese e inospitali regioni meridionali dell’ex impero persiano. La discesa dell’Indo avvenne tra ambienti ignoti e tribú pericolose, dai costumi insoliti. L’arrivo all’amplissimo delta del fiume pose gli ignari legni macedoni di fronte all’inattesa, travolgente potenza delle maree oceaniche: prima queste respinsero con impeto le navi all’indietro rispetto alla corrente fluviale; poi, quando il loro flusso si invertí, le lasciarono in secca, spesso rovesciate. Raggiunto cosí a fatica l’oceano, Alessandro si diresse a occidente: si pose a capo delle truppe di terra che avrebbero affrontato le regioni desertiche e selvagge della Gedrosia e della Carmania (Pakistan e Iran meridionali) per giungere poi, attraverso la Perside, in Mesopota94 a r c h e o

mia. All’ammiraglio Nearco affidò invece la flotta, con l’incarico di raggiungere via mare la foce del Tigri e dell’Eufrate, esplorando la rotta che collega la Penisola indiana al Golfo Persico e al Mar Rosso. Altro dettaglio significativo, ma poco sottolineato: il «ritorno a casa» per Alessandro, non significava piú rientrare in Macedonia, a Pella, bensí a Babilonia, una delle città piú celebri e antiche dell’Asia, posta al centro dell’impero appena conquistato, dove egli intendeva fissare la propria corte. Aveva ben chiaro che non solo il mondo era cambiato: ma che anche lui, Alessandro, non era piú quello di prima.

alessandro come dioniso Come narrano gli storiografi antichi, quello di Alessandro e dei suoi, che procedeva sulla strada del ritorno, non era piú un esercito in marcia, ma un corteo festante e trionfale. Il re procedeva alla sua testa come il dio Dioniso dopo le sue imprese in Oriente, e quello che lo contornava era una sorta di corteo bacchico (vedi box nella pagina accanto). A sinistra: statua in marmo di Alessandro Magno, dalle Grandi Terme di Cirene (Libia). II sec. a.C. Cirene, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: Dioniso e Arianna, spillone in oro con incrostazioni in turchesi, dal corredo della Tomba VI della necropoli principesca di Tillia Tepe (Afghanistan). I sec. d.C. Kabul, Museo Nazionale.


un «corteo bacchico» dall’oriente Narra il mito che Dioniso, figlio di Zeus e dio del vino e dell’ebbrezza, fosse tornato in trionfo dall’India, ove aveva diffuso la coltura della vite, ritto su un carro trainato da pantere ammansite e seguito dalle Baccanti, travolte da una danza orgiastica al suono di una musica frenetica. È certo un riferimento tenuto presente da Plutarco, nella Vita di Alessandro: «Ristorato l’esercito in Gedrosia, riprese il cammino attraverso la Caramania, e furono sette giorni di baldoria per tutti. Il re stava seduto coi suoi compagni su una piattaforma oblunga, montata sopra un alto palco aperto in tutte le direzioni e recato a passo d’uomo da otto cavalli: là sopra banchettò ininterrottamente giorno e notte coi suoi compagni. Dietro venivano numerosissimi carri (...) Su di essi

stavano, incoronati di fiori e intenti a bere, gli altri amici e capitani del re. Lungo tutto il cammino non si sarebbe potuto vedere una sola targa o un elmo o una picca; non c’era altro che soldati intenti ad attingere vino da grandi orci e crateri (...) e scambiarsi brindisi l’un l’altro, o mentre proseguivano e camminavano tuttavia, o sdraiati a terra. E una vasta musica di zampogne e di flauti, canzoni e balli forsennati di donne, accompagnati dal suono dei liuti, si diffondeva nelle località che il corteo percorreva. Perché c’era, in quella marcia disordinata ed errabonda, anche l’intenzione di parodiare la licenza del baccanale, come se il dio in persona fosse presente e accompagnasse il tripudio» (traduzione di Carlo Carena).

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storia • storia dei greci/19

Ma quale poteva essere – se, come pare, fu volontaria – il senso di questa ulteriore sua identificazione, non piú con Zeus, ma con Dioniso? Il fatto è che il dio era divenuto estremamente popolare nel mondo greco post-classico: l’estasi, l’ebbrezza, l’oblio dato dal vino, dalla danza e dalla musica, nonché i sacri riti aperti a uomini e donne, a ricchi e poveri, senza distinzione di razza o di ceto, ne facevano un patrono utile alla realizzazione del progetto universalistico che già Alessandro aveva in mente. Il re diede un chiaro segno delle sue intenzioni nel 324 a.C., quando giunse, a Susa, la vecchia capitale achemenide: dispose che gli ufficiali e i soldati macedoni sposassero, in nozze di massa, altrettante donne

Volto in argilla cruda, dal santuario del tempio a celle di Ai-Khanum, nel Nord dell’Afghanistan. II sec. a.C. Kabul, Museo Nazionale. Estremo avamposto della cultura greca in Asia centrale, la città di Ai-Khanum, in Battriana, fu fondata intorno al 300 a.C., probabilmente dal generale macedone Seleuco I Nicatore.

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I domini dei dei Diadochi allaalla vigilia della battaglia di Curupedio (281(281 a.C.)a.C.) I domini Diadochi vigilia della battaglia di Curupedio 96 a r c h e o

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Lisimaco Lisimaco

Tolomeo I Tolomeo I

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Battaglie e date e date 69 Battaglie


persiane. Egli stesso prese in moglie una figlia dello sconfitto e defunto Dario III, Statira. Un altro segno, ricordato da Plutarco, fu l’aver egli messo a scuola 30 000 ragazzi persiani, affinché fossero «addestrati alle armi e imparassero la lingua greca». L’obiettivo era quallo di formare una classe dirigente mista greco-persiana, destinata a reggere in futuro l’impero. Si trattava di una rivoluzione per la mentalità e l’opinione pubblica greca, che, solo pochi anni prima, aveva visto sprezzantemente nello stesso Alessandro, in Filippo e nella loro ascesa il deprecabile avvento di una monarchia semibarbara, pronta a sottrarre alle poleis la libertà. E in effetti, soprattutto dalla Penisola ellenica, non mancarono manifesta-

zioni di contrarietà al nuovo corso del sovrano. Si dice che il suo acerrimo avversario ateniese, quel Demostene che pure era stato graziato dopo la battaglia di Cheronea, quando pervenne da Babilonia l’ordine per tutti i Greci di tributare onori divini ad Alessandro, commentasse ironicamente: «Lasciamolo essere, se vuole, figlio di Zeus, e pure di Poseidone».

tietnico e multiculturale? Certo, dopo un decennio straordinario di imprese e di conquiste attraverso i piú svariati popoli e territori, al monarca dovevano apparire decisamene sorpassati gli insegnamenti ricevuti nell’adolescenza da Aristotele, soprattutto quella raccomandazione di trattare «i Greci come uomini liberi, i Barbari come animali o piante». Invece egli ora faceva propri i poteri e i cerimoniali di un sovrano orientale, pretendeva la prostrazione di fronte alla sua persona anche da parte dei Macedoni; e la divinizzazione del monarca dovette sembrargli un passo ineludibile per tenere uniti popoli e civiltà tanto diversi tra loro. Eppure, le cose non sono cosí semplici: innanzitutto, Lago

un dibattito irrisolto La seguente questione non finirà mai di appassionare gli storici: veramente Alessandro voleva, come afferma Curzio Rufo quattro secoli dopo, «escludere ogni differenza tra vinti e vincitori»? Era davvero il fautore ante litteram di un impero che oggi diremmo mul-

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dell’Oxus (Lago di Aral)

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Fanagorea le «alessandrie» del re

Ponto Eusino (Syrdarja), in greca vi riporta Secondo (Mar Nero)Plutarco (A O Mare Sogdiana (l’odierno ancora, leggibili, mudxaus furono addirittura 70, Cassandria Bisanzio d’Ircania rja ) Crannone onia è forse Tagikistan). ma la cifra (Mar alcune massime Frigia d’Ellesponto Paflag Trebisonda 322 Ad Ai-Khanum, esagerata: i moderni Caspio)sapienziali trascritte Curupedio a Eschate n a Alessandria Lidia ci 281 sull’Oxus (Amudarja), migliaia di chilometri enumerano piuttosto a (Hodzent) o Atene Armenia d i Marakanda Ipso 301 Sardi a d e le trenta g è stata rinvenuta una piú a occidente, tra le venti p (Samarcanda) Mileto indipendenti So F r i g ilea «Alessandrie» ap città ellenistica. Una dal santuario di dal 321 a.C. C M Caria a a Ai-Khanum a n a i colonna con iscrizione Apollo a Delfi. fondate dal re r t Tarso t a B r ni Cirrestica a C re t a MBattra M Cmacedone ilicia Atropatene nel 283 corso c Alessandria es ed I r Ecatompilo Margiana o della sua conquista. it po Salamina Arbela Ma Epifania er 306 rgi ta Oltre a quella, ia Alessandria Eu Cirene (Ecbatana) r C i p r o an fra Parz m a (Ghazni) a ne famosissima, in Egitto, te ia Triparadiso Media o (Spartizione delle Alessandria C d’Aria ir satrapiericordiamo nel 321 a.C.) (Herat) en 311 Seleucia Seleucia Alessandria A r a c oasi i a Regno Gabiene (Susa) (Opi) a c 316 in bronzo d’Aracosia (oggi Manico a Alessandria r i Gerusalemme Alessandria Carmana Babilonia A S u s i a n a d’Aracosia di recipiente, dal Kandahar) e di (Spartizione delle (Kandahar) Gaza santuario del tempio Alessandria d’Aria satrapie nel 323 a.C.) Persepoli 312 Alessandria Menfi Carmania Proftasia a celle di Ai-Khanum. Candragupta (Herat), entrambeAin P e r s i a r N II sec. a.C. Kabul, a b E g Maurya) i t t o Afghanistan. Ma i (Dinastia Museo Nazionale. greco-macedoni si i a Golfo 0 400 Km Mar stabilirono fino ad Persico Gedrosia Rosso Alessandria Eschàte Tebe Pura (cioè «Ultima») presso il fiume I domini dei Diadochi alla vigilia della battaglia di Ipso (301 a.C.) Jaxartes Lisimaco M a r Seleuco A r aI b i c o J (S axa yr rt da es rja )

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egli riservò il privilegio di condivi- Perdicca – fedele e buon generale, dere il potere solo ai nobili Persiani, ma privo di capacità politiche – e nonostante avesse lasciato nella sua non alle altre etnie. Macedonia un reggente, Antipatro, quell’immensa compagine di terrimultietnico, tori e di popoli, ancor priva di un ma «alla greca» Inoltre, i matrimoni misti contem- collaudato apparato amministrativo, plavano un marito greco-macedo- subito si frantumò. ne e una moglie orientale, non il I piú autorevoli e abili dei suoi gecontrario: e non certo solo perché nerali si spartirono le truppe e le gli invasori non avevano inizial- «reggenze» regionali: tutti formalmente donne tra loro; ma perché mente pronti a riconoscere l’autorisultasse chiaro a tutti, in una so- rità superiore del reggente di Macietà patriarcale come quella elleni- cedonia, in attesa che l’erede perveca, quale dovesse rimanere comun- nisse all’età della ragione, ma in reque l’elemento dominante. E se altà decisi a crearsi una propria base pure fece educare molti giovani territoriale di potere per arrivare, persiani «alla greca», mai, tuttavia, infine, a impadronirsi dell’intera egli, né alcuno dei suoi successori, i eredità imperiale. Emblematica, a cosiddetti «diadochi», avrebbe con- tale proposito, è la contesa per la cepito l’inverso. Infine, le città fon- salma di Alessandro: destinata da date a cui diede il suo nome, tutte Perdicca a essere ricondotta in pale «Alessandrie» che disseminò tra tria, essa attraversò il Medio Orienl’Egitto e l’Afghanistan (vedi box a p. te su un fastoso e solenne catafalco, 96), erano strutturate sotto l’aspetto ma fu intercettata e rapita da Tolourbanistico come poleis dotate di meo figlio di Lago, il reggente ginnasio, teatro, palestre, edifici dell’Egitto, che la fece seppellire ad pubblici consiliari o assembleari, Alessandria, la città di cui voleva templi alle divinità olimpiche, sep- fare la capitale di un futuro regno e pur affiancati da quelle locali: strut- che cresceva sempre piú splendida ture, insomma, destinate alla fre- alle foci occidentali del Nilo. quentazione di un pubblico greco, o, al piú, di individui delle varie il regno conteso etnie locali «cooptati» tra i cittadini Alla supremazia universale miravaperché magari profondamente «el- no innanzitutto l’ambizioso e intralenizzati». prendente diadoco Antigono, detto Eppure, già tutto questo era un «Monoftalmo», e suo figlio Demeprogresso rispetto ai limiti tradizio- trio, detto «Poliorcete». Dalle loro nali della polis. Infatti, il figlio che province nell’Anatolia – Frigia, nacque postumo ad Alessandro Panfilia e Licia – costoro si diedero (Alessandro IV, figlio della prima a guerreggiare sia in Asia che in moglie Rossane), sarebbe stato nel- Europa contro gli altri pretendenti. le intenzioni un erede al trono di Ma il loro obiettivo piú alto fallí: sangue misto macedone-battriano. nel 301 a.C. una coalizione di diaInsomma, se egli non aveva proprio dochi li sconfisse a Ipso, in Frigia in mente una fusione di culture, (una battaglia in cui ebbero un ruoquanto meno pose le basi di una lo decisivo gli elefanti importati compagine imperiale tendenzial- dall’India), ponendo fine alla vita mente multietnica. dello stesso Antigono. Tuttavia DeLa grandiosa visione che Alessandro metrio non si arrese, e, dopo alterne aveva in mente non divenne realtà. vicissitudini, divenne il capostipite La sua scomparsa precoce lasciò il della dinastia degli Antigonidi: la trono imperiale senza eredi (Ales- quale, fino alla conquista di Roma, sandro IV era ancora nel grembo regnò sulla Macedonia e controllò materno). Nonostante in punto di la Penisola ellenica. morte avesse donato l’anello con il Chi, invece, giunse piú vicino di sigillo reale al suo «primo ministro» tutti a riassemblare gli estesi fram98 a r c h e o

menti dell’impero di Alessandro fu il diadoco Seleuco I Nicatore (il «Vittorioso»): tra gli artefici della sconfitta di Antigono, ridusse in suo potere la Siria, la Mesopotamia e gran parte dell’Anatolia, e si spinse nuovamente fino all’Indo, dove, pur fermato dal re Chandragupta, riprese alcune province orientali che si erano ribellate alla morte di Alessandro. Anche a settentrione, eliminò e uccise in battaglia (a Curupedio, 281 a.C.) l’altro diadoco Lisimaco, il quale, muovendo dalla Tracia, si era abilmente creato un regno a cavallo tra i Balcani e l’Anatolia. Fondò come capitali Seleucia sul Tigri, e Antiochia sull’Oronte. Fu l’unico, tra gli ufficiali delle nozze collettive di Susa, a restare fedele sino alla morte alla moglie Apama, da cui anzi trassero nome le varie «Apamee» da lui fondate. Dall’anno

Il sito dell’antica Seleucia sul Tigri (odierna Tell Omar), città fondata intorno al 312 a.C. da Seleuco I Nicatore – iniziatore della dinastia seleucide –, come capitale del suo regno, sulla riva del Tigri.


in cui si impadroní di Babilonia, il 312 a.C., prese avvio il sistema di computo cronologico detto «era seleucide»: i diadochi iniziarono ben presto a comportarsi come re – re divinizzati ovviamente – e, in quanto tali, si arrogavano il diritto di segnare il corso del tempo, di dare un nuovo «inizio» al fluire degli anni.

un’epoca nuova Sotto questo punto di vista fu decisiva, poiché fece cadere ogni ipocrisia, la notizia giunta dalla Macedonia che il figlio di Antipatro, Cassandro, aveva soppresso l’ormai tredicenne Alessandro IV e sua madre Rossane. Si era estinta cosí la discendenza diretta del grande Alessandro: Demetrio, Seleuco e Tolomeo non ebbero piú alcuno scrupolo a proclamarsi «re» a tutti gli effetti. Iniziava l’epoca storica – tanto splendida e feconda cultural-

mente quanto politicamente travagliata – dei «regni ellenistici». Che cosa rimase, dunque, della grande idea concepita da Alessandro? Egli si era fatto seguire, nella spedizione asiatica, da uno stuolo di studiosi, filosofi, naturalisti, scienziati e letterati. Costoro ebbero l’occasione di compiere un viaggio straordinario, che li pose a contatto con una varietà fino ad allora inconcepibile di ambienti geografici, naturali, climatici, nonché con una quantità di popoli mai conosciuti prima, i cui costumi e modi di vivere costituivano una novità spesso assoluta. Ai soldati e agli studiosi tennero dietro, attirati dalle nuove terre e dalle facili prospettive di guadagno e di ricchezza, molti immigrati da tutto il mondo greco: essi andarono a stabilirsi anche nelle piú remote zone conquistate, stabilendosi soprattutto nelle città

erette per volontà di Alessandro o dei suoi diadochi piú lungimiranti, come Seleuco. Sebbene non sia sempre ricordata con questo nome, si trattò della terza colonizzazione e migrazione dei Greci, dopo le prime due avvenute in età preclassica. Cosí, se anche non conservò una unità politica, il mondo lasciato da Alessandro costituí una indubbia unità culturale. Dallo Ionio all’Indo le élite parlavano ormai una sola lingua, il greco; vivevano «alla greca» in città concepite in modo omogeneo; erano rette da sovrani di origine e di formazione ellenica: soprattutto, si muovevano all’interno di un variegato e amplissimo mondo nuovo. Fenomeni a cui noi oggi diamo il nome di «ellenismo». Un’epoca che, per certi versi, come vedremo, non è ancora del tutto finita. (19 – continua)

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

(quasi) un decalogo per l’innovazione Nel nostro Paese, teorie e pratica della «tutela dei beni culturali» sono arrivate a un punto di svolta: perché tornino a rispondere adeguatamente alla loro attuale funzione culturale e sociale, occorre sottoporle a uno svecchiamento radicale. E non mancano le capacità e le idee per farlo…

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l ruolo di quelli che oggi chiamiamo «beni culturali» è cambiato continuamente nella storia. Oggi crediamo che il passato serva a vivere piú consapevolmente, curiosamente e piacevolmente il presente; e ci diciamo che il suo studio, superando una cultura identitaria che vive il futuro come imitazione del passato, può nascere solo da progetti sul presente. Sentiamo quindi ancora piú forte la necessità di innovare le idee e le attività che ruotano attorno al mondo dei beni culturali. L’archeologia si è rinnovata radicalmente nell’ultimo mezzo

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secolo, modificando i suoi obiettivi. E oggi, in una fase storica in cui le risorse per la ricerca si sono drasticamente ridotte, non è diminuita la capacità di pensare e di produrre idee di rinnovamento, che ne investano il ruolo culturale e sociale.

la paura del nuovo Proprio perché ne siamo consapevoli, dovremmo avvalerci della ricchezza e qualità delle nostre tradizioni di studi per guardare avanti. E, invece, ci scopriamo abbarbicati a certezze sulle quali non osiamo riflettere, per paura di vederle vacillare.

Come se quei vacillamenti non fossero segni vitali, di idee e problemi in movimento. Non ci stancheremo mai di valorizzare l’enorme lavoro fatto in Italia nel campo della salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico, ma non ci possiamo adagiare su un passato ormai trascorso. Occorre modificare presupposti teorici e ideali e agire di conseguenza sulle strutture. Innovare nella tutela significa ribaltare una visione che osserva i monumenti, le opere d’arte al loro interno e le stratificazioni al disotto, le une separate dalle altre, sullo sfondo di una «tappezzeria» che


Come abbiamo detto piú volte, innovare significa quindi rifondare il sistema della tutela, mandando in soffitta una deleteria frammentazione disciplinare delle soprintendenze (archeologia, arte, monumenti, ognuno per sé!), basata su una concezione del sapere accademica e obsoleta, rimuovendo potentissimi ostacoli di inerzia intellettuale e burocratica. Innovare significa – al di là di scelte sul decentramento regionale o l’accentramento statale (dilemma a mio modo di vedere mal posto) – fare degli uffici di tutela centri di un sistema permeabile, volto all’interesse generale nella conoscenza, salvaguardia e valorizzazione dei beni culturali.

al «capezzale» del patrimonio

Roma, via dei Fori Imperiali. Uno dei percorsi che consentono di osservare una delle aree scavate durante gli interventi attuati negli ultimi anni. Sullo sfondo, si riconoscono i Mercati e la Colonna di Traiano. chiamiamo territorio. Ribaltarla significa mettere il paesaggio storicamente determinato, ma non imbalsamato, al centro della tutela, con le sue stratificazioni, le sue architetture, i suoi arredi e corredi d’ogni tempo, gli uni legati agli altri. Innovare significa cancellare una tradizione secolare che separa pitture e sculture dai muri delle loro stanze, dalle strade e dai campi per cogliere come oggetto della tutela l’insieme contestuale delle opere umane storicamente stratificate, per dare un senso alle continuità e alle cesure che incontriamo nel nostro Paese, e che dovrebbero dettarne gli sviluppi urbanistici.

Ma anche agire sulla formazione, se fossimo capaci di fare dell’università il luogo in cui i giovani vengono formati operando direttamente nelle realtà del patrimonio, per risolvere problemi concreti, come fanno gli aspiranti medici nei policlinici. Innovare significa abbandonare l’illusione che si possa tutelare la materia di ogni testimonianza storica, perché le testimonianze di civiltà sarebbero tutte di uguale importanza; vuol dire essere consapevoli del fatto che tutelare è conoscere, selezionare, ricostruire e, soprattutto, comunicare i frammenti dell’esistenza ricomposti in insiemi significativi e comprensibili. Innovare significa smetterla di applicare acriticamente ai resti architettonici, e soprattutto a quelli archeologici, i principi di una teoria del restauro elaborata per tutt’altra categoria di manufatti. E dunque innovare significa anche abbandonare la considerazione dell’originale come un feticcio: un problema, peraltro, tutto nostro,

ignoto ad altre culture, e tanto piú a quelle antiche. Quando l’approccio feticistico all’originale si riversa sulla copia – è il caso della replica del Marco Aurelio a Roma (vedi «Archeo» n. 252, febbraio 2006) – dobbiamo preoccuparci davvero, cosí come dovremmo irritarci quando nei siti archeologici che valorizziamo non possiamo tornare a camminare sulle strade antiche (per non consumarle!), ma dobbiamo ammirarle dall’alto di improbabili passerelle, come quadri in una pinacoteca. L’elenco potrebbe continuare ancora a lungo, ma – facendo ancora un passo in avanti – possiamo concludere affermando che innovare vuole anche dire assumersi la responsabilità di una dismissione di potere, che solo uno Stato forte può permettersi, ideando un processo di adozione collettiva di siti, di affidamento di aree e monumenti ai cittadini, alla società civile organizzata, ai non specialisti. Soggetti che andranno certo aiutati e monitorati, in una sfida per scoprire come una eredità culturale, che appartiene a tutti e riguarda tutti, possa essere rinnovata, cioè sostanzialmente conservata, anche dai suoi margini. Queste innovazioni sono di carattere teorico e ideale, ma hanno ricadute immediate nella gestione del patrimonio e nella formazione di chi sarà domani chiamato a gestirlo. È un’impresa faticosa, perché prevede scelte politiche e organizzative, si scontra con i poteri delle burocrazie e con l’inerzia del quieto vivere. Ma le competenze per questa impresa cominciano a esserci, anche grazie alle nuove professionalità in grado di esaltare consapevolmente il ruolo delle tecnologie applicate alla comunicazione. E questo è un buon viatico per il futuro delle scienze umane. (2 – fine)

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

tutte le ore del giorno la giornata degli antichi romani seguiva ritmi decisamente piú dilatati dei nostri. ma, a ogni «giro» della meridiana, corrispondeva un’attività ben precisa, tra cui anche quella dell’ora «sesta», dedicata al... riposo

I

Romani moderni – che la praticano sempre meno – la chiamano «pennichella» ed è, notoriamente, la dormitina (o, in ogni caso, il riposino) che si fa subito dopo il pranzo, specie nelle calde giornate d’estate, prima di riprendere le attività, nel pomeriggio. In forma piú correttamente letteraria si dovrebbe dire – con un iberismo – «siesta», che i vocabolari definiscono «breve riposo pomeridiano, che si fa generalmente in poltrona nelle

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stagioni calde» (Devoto-Oli). Gli Spagnoli si vantano d’esserne gli «inventori» e ne parlano come di un «grande contributo iberico alla civiltà». In realtà, si tratta di un’abitudine che, per evidenti ragioni climatiche, è diffusa tra tutti i popoli del Mediterraneo. E dura da secoli! Nell’antica Roma la chiamavano somnus meridianus o meridiatio (da meridies, «mezzogiorno»,

donde pure il verbo meridiare o meridiari). Era diffusa soprattutto nei ceti medio-alti e alti della società, e non veniva disdegnata da molti imperatori, un paio dei quali (secondo la Historia Augusta) ne pagarono le conseguenze, rimanendo vittime di attentati


compiuti approfittando del sonno che si erano concessi. C’era, naturalmente, chi faceva eccezione, come, per esempio, Cicerone. Ma Varrone scrive, senza mezzi termini (De re rust. I, 2,5) «se non potessi interrompere una giornata estiva con la mia naturale dormitina pomeridiana, non potrei vivere». Molti, prima della siesta, amavano compiere una piccola passeggiata «igienica» e magari prendere un po’ di sole o leggere. Come faceva Plinio il Vecchio il quale – secondo quello che riferisce il nipote, in una lettera all’amico Macro (III, 5,10) – «dopo il pasto che, alla maniera antica, consumava (...) leggero e semplice, se ne aveva il tempo, si stendeva al sole e si faceva leggere un libro (...) Dopo aver preso il sole, quasi sempre si lavava con acqua fredda, quindi si rifocillava e faceva un sonnellino».

Riposo per tutti... In effetti, tutti quelli che potevano si concedevano la meridiatio. E, compatibilmente con le loro incombenze, veniva riconosciuta anche agli schiavi e ai gladiatori durante gli allenamenti (e persino nel giorno del combattimento, quando, nell’anfiteatro si sospendevano gli spettacoli o se ne davano di molto leggeri, tanto per colmare un lungo intervallo). In tempi tranquilli ne godevano gli stessi soldati, talvolta incautamente, tant’è vero che, il 24 agosto dell’anno 410, i Visigoti di Alarico entrarono in una Roma «addormentata» Statuetta in marmo per fontana raffigurante un pescatore dormiente, dalla Casa della Fontana Piccola di Pompei. I sec. d.C. Pompei, Depositi della Soprintendenza Archeologica.

nella calda giornata d’estate, anche approfittando della siesta dei difensori, come riferisce Procopio (Bell. Vand. I,2,17). Si trattava per tutti di una vera e propria cesura nella giornata che, in linea di massima (e a parte gli impegni urgenti e straordinari) era per metà dedicata al lavoro e alle occupazioni della professione (o della politica) e per metà agli svaghi del tempo libero. La giornata – rigidamente basata sul corso del sole – iniziava, di regola, assai presto. Soprattutto nella bella stagione; praticamente all’alba, in coincidenza con la prima frazione del giorno, indicata come hora prima. Ma Plinio – sempre secondo la testimonianza del nipote (Ep. cit. 9) – soleva recarsi «a rapporto» da Vespasiano ancora prima dell’alba (ante lucem), giacché anche l’imperatore «approfittava della notte». Marziale ricorda (IV, 8) come le prime due ore erano quelle durante le quali i clientes si recavano presso la dimora del loro patronus per la salutatio mattutina con la quale, reso il dovuto omaggio, ricevevano gli incarichi e le incombenze della giornata e ritiravano la sportula, il sacchetto dei viveri: «La prima e la seconda ora logorano i salutatori», scrive il poeta, che aggiunge altresí come l’ora terza impegnasse gli avvocati. Di primo mattino uscivano, peraltro, di casa anche quelli che non avevano nulla da fare e che perciò sarebbero andati a zonzo per la città «vagando per le case, i fori, i teatri – come scrive Seneca (De tranq. an. 12,2,4) – sempre pronti a occuparsi degli affari degli altri, sempre con l’aria degli indaffarati. E girano per di qua e per di là senza uno scopo al mondo e non fanno quello che hanno deciso di fare, ma quello che capita. Alcuni ti fanno pena: li vedi correre come se andassero a spegnere un incendio, tanta è la furia con la quale urtano quelli che incontrano. S’affrettano per andare a salutare uno che non ricambierà il saluto; o per mettersi

in coda al funerale di uno sconosciuto; o per assistere al processo di uno che ha la mania di attaccare briga; o alle nozze di una donna che ogni tanto si risposa. Appena incontrano una lettiga le vanno dietro e in certi tratti afferrano le stanghe e la portano sulle spalle».

...all’ora sesta Nel corso della mattinata la gente si distribuiva in lavori sostanzialmente simili a quelli esercitati dai cittadini dei nostri giorni: dai bottegai ai maestri di scuola, dai professionisti agli artigiani, dagli ambulanti agli impiegati della sempre piú complessa e complicata burocrazia statale. Con una grande animazione per le strade, ma secondo un ritmo di vita certamente piú calmo e meno pressante di quello odierno. Gli impegni cessavano per tutti a mezzogiorno, cioè all’ora sesta (ed ecco l’origine della parola «siesta»!), o, meglio, tra l’ora sesta e la settima (cioè tra le nostre 12 e le 13). Marziale (cit.), dopo aver precisato che «fino all’ora quinta Roma svolge varie attività», scrive che «l’ora sesta offre il riposo agli affaticati, mentre la settima ne segna la fine». E qui occorre ricordare che per gli antichi, diversamente da quanto facciamo noi, l’ora non indicava un preciso istante della giornata, ma un certo arco di tempo che, per giunta, aveva una durata variabile nel corso dell’anno. Essendo la giornata suddivisa, dall’alba al tramonto, in dodici parti o frazioni (le horae), a seconda delle stagioni (e, quindi, del giorno piú o meno lungo), le horae avevano una durata diversa. Questa variava dal minimo, nel solstizio d’inverno, il 21 dicembre, al massimo, nel solstizio d’estate, il 21 giugno. Di conseguenza, l’ora diurna estiva era piú lunga, e piú corta quella invernale, con una escursione di quasi trenta minuti. Sicché, per esempio, se la hora septima, nel

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mese di giugno, andava – per dirla alla nostra maniera – dalle 12 alle 13,15, in dicembre essa s’accorciava tra le 12 e le 12,45. Ciò significa anche che un appuntamento preso all’ora settima poteva essere «soddisfatto» nell’arco di 45 minuti, d’inverno; addirittura di un’ora e un quarto, d’estate (e cosí via). La puntualità per gli antichi Romani godeva insomma di una legittima elasticità (e chissà che non dipenda da questa tradizione la fama – spesso peraltro immeritata – di poco puntuali della quale godono, notoriamente, i Romani di oggi). Cessati gli impegni, chiuse le botteghe e le scuole (che spesso riaprivano di pomeriggio), gli uffici Una processione di magistrati in viaggio, con al seguito uomini che trasportano lettighe a spalla. Copia di un rilievo del II sec. d.C., da Aquileia, Roma, Museo della Civiltà Romana. In epoca romana, solo i personaggi piú influenti potevano permettersi il privilegio di circolare comodamente sdraiati sulle lettighe, veri e propri letti portatili.

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e i laboratori artigiani, a mezzogiorno (proprio nel senso di «metà giornata») tutti consumavano – anche fuori di casa e in piedi – un pasto leggero (prandium), generalmente freddo, a base di formaggio, uova, verdure, olive, funghi, frutta, accompagnati da vino, preferibilmente mulsum, cioè con aggiunta di miele. Se disponibili, potevano essere utilizzati, riscaldandoli, gli avanzi della cena del giorno precedente.

«due passi» ai portici Al pranzo seguiva la siesta, normalmente di circa un’ora (ma si poteva arrivare fino a due). Poi cominciava il pomeriggio, cioè un lungo periodo di «tempo libero», che ognuno utilizzava a proprio piacere. C’era chi si dedicava al passeggio (ambulatio) distensivo e salutare, senza una meta precisa, fermandosi ogni tanto a sedere, magari incontrando e conversando piacevolmente con amici e conoscenti. In città non mancavano luoghi ameni e accoglienti, come i giardini e i boschetti, ma soprattutto i portici. Elemento tra i piú

caratteristici dell’urbanistica romana, questi sorgevano assai numerosi: attorno alle grandi piazze dei fori e lungo le facciate delle basiliche, ai piani terreni dei teatri, del circo e dell’anfiteatro e di molti caseggiati privati. Per non dire di quelli costruiti appositamente, come edifici a sé stanti, freschi d’ombra l’estate, al riparo dalle intemperie d’inverno, adorni d’opere d’arte e di fontane, dotati di sale d’esposizione e di vendita e di auditori per declamazioni e conferenze. Ovidio ne consigliava la frequentazione ai giovani «in caccia» di fanciulle (Ars am. I, 489 segg.): «Se lei se ne va con passo indolente per un portico spazioso, affianca al suo il tuo vagabondare e ora fai in modo di precederla, ora di andarle dietro, ora accelera ora rallenta. E non vergognarti di seguirla tra le colonne e di metterti al suo fianco». Marziale, fingendo di parlare al suo ultimo libro di versi per esortarlo a farsi conoscere dal pubblico, gli dice (XII,1): «Dove vai libro mio? Va’ al portico di Quirino qui vicino. Né il portico di Pompeo né quello di


Botteghe artigiane sotto i portici dell’antica Roma. Le strade e i mercati, animati nelle prime ore della giornata, si svuotavano tra l’ora sesta e la settima (tra le 12 e le 13 odierne), quando i Romani amavano concedersi una pausa di riposo, il somnus meridianus o meridiatio, prima di riprendere le attività pomeridiane.

Europa o quello di colui che per primo guidò una nave leggera hanno una folla piú oziosa. Ci saranno due o tre amatori che sfoglieranno le nostre inezie, ma solo quando saranno finiti i discorsi e le scommesse sui cavalli Scorpo e Incitato».

per un invito a cena Alla passeggiata poteva essere abbinata una qualche meta particolare, come, per esempio, il mercatino di oggetti rari e di antiquariato dei Saepta Iulia, in Campo Marzio. Oppure uno scopo preciso, quale era quello di cercare qualcuno da cui rimediare un invito a cena. In quel caso, la passeggiata era tutt’altro che tranquilla e distesa, ma, anzi, concitata e ansiosa. Come capitava a quel Selio di cui parla Marziale (II, 14): «Tutto tenta, tutto osa Selio ogni volta che si vede minacciato di cenare da solo a

casa sua. Corre al portico di Europa e loda senza misura te, Paolino, e i tuoi piedi rivali di quelli di Achille. Se Europa non fa niente per lui, si dirige ai Saepta, se mai lo aiuterà il figlio di Filira o quello di Esone. Deluso anche qui, va al tempio di Iside e si installa sui tuoi seggi, o mesta giovenca. Di là raggiunge il teatro poggiato su cento colonne, poi il magnifico portico di Pompeo e i suoi giardini. Non trascura le terme di Fortunato e di Fausto né le piscine tenebrose di Grillo né quelle di Lupo aperte a tutti i venti. Si bagna cento volte nelle terme. E quando ha tentato tutto, se il destino gli rimane avverso, torna di corsa, ben lavato, ai boschetti tiepidi di Europa, se mai qualche amico vi diriga tardi i suoi passi. Tu almeno, amoroso toro, te ne scongiuro, per te stesso e per la tua fanciulla, invita Selio a mangiare». (1 – continua)

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vite di archeologi Giovanna Quattrocchi

un uomo di lettere Nel 1884, a Creta, viene alla luce il testo di un codice legislativo antichissimo. Autore della scoperta è un giovane studioso di origine svizzera, Federico Halbherr...

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L’archeologo ed epigrafista Federico Halbherr (1857-1930) in un ritratto (qui sopra), e, a Gortina (Creta), davanti alla Grande iscrizione (in alto), da lui scoperta nell’estate del 1884.

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ederico Halbherr rivelava nel nome la sua origine svizzera; ma, come cittadino di Rovereto, si considerò sempre e soltanto italiano. Nato nel 1857, quando la città era ancora sotto il dominio austriaco, dimostrò fin da giovanissimo una forte passione per la cultura classica. Laureato in lettere classiche nel 1880 all’Università di Roma, Federico si iscrisse al prestigioso Istituto di Studi Superiori di Firenze, per seguire un corso di perfezionamento e dove Domenico

Comparetti, insigne filologo, lo introdusse allo studio dell’epigrafia greca. Nel 1883 ottenne un sussidio per recarsi in Grecia e iscriversi a un corso di epigrafia greca all’Università di Atene. Halbherr completò il soggiorno visitando i siti del Peloponneso e le Cicladi. Nel 1884, ancora una volta su suggerimento di Domenico Comparetti, il governo italiano inviò Halbherr a Creta. Federico arrivò sull’isola il 9 giugno. Visitò molti siti archeologici, come Axos,


Eleutherna, Lebèna, Presòs, trovando un gran numero di iscrizioni, anche arcaiche, da leggere e copiare. Poi, nel mese di agosto, la sua guida, Manoli Iliàkis, lo condusse in un podere di sua proprietà a Gortina, l’antica città situata nel settore centromeridionale dell’isola, non lontano dall’odierna Agi Deka. Qui, presso un canale che alimentava un mulino, Manoli gli mostrò, lungo la sommità di un muro circolare interrato, alcune lettere greche. Fatta scavare una fossa per mettere in luce il muro, Federico copiò diverse colonne di una lunga iscrizione di tipo arcaico.

La legge di gortina Quel giorno Halbherr aveva rinvenuto la Grande iscrizione di Gortina, la piú lunga e forse la piú antica iscrizione greca, contenente un testo legislativo di grandissima importanza, un complesso di leggi che regolavano i rapporti sociali e privati degli abitanti. Scritto in un alfabeto arcaico di una lingua dorico-cretese, il testo si compone di 17 000 lettere disposte su dodici colonne che si sviluppano con andamento bustrofedico (cioè simile al percorso di un bue durante l’aratura di un campo: una riga si legge da destra a sinistra e la successiva da sinistra a destra). Conscio dell’importanza dell’iscrizione Halbherr, tornato a Iraklion, sapendo di non poter agire da solo, contattò Ernesto Fabricius, dell’Istituto Archeologico Germanico di Atene e gli chiese di aiutarlo a completare il lavoro, a patto di pubblicare insieme l’intero testo nello stesso tempo, in Italia e in Germania. Fabricius rispettò l’accordo e il testo delle leggi di Gortina apparve sulla rivista Museo di Antichità Classica a cura di Halbherr e sulle Athenische Mittheilungen a cura di Fabricius. La scoperta fece scalpore in tutto il mondo scientifico e fece nascere l’ipotesi che quello portato alla luce fosse solo un capitolo delle antiche leggi. E dunque si ponevano diversi

problemi: qual era l’edificio su cui era stata scritta? E dove si trovava la parte mancante del testo? Halbherr comprese che l’iscrizione, in realtà, era una versione di leggi piú antiche già esistenti e che non aveva rinvenuto il testo nella sua integrità. Tornato a Creta nel 1885, riuscí a mettere allo scoperto altri settori del muro. Si rese conto che esso apparteneva a un piccolo edificio teatrale (odeon) di epoca romana, per la cui costruzione erano stati reimpiegati molti altri blocchi con icrizioni arcaiche. Quelli su cui era iscritta la grande epigrafe appartenevano a un edificio molto piú antico, un bouleuterion (o un pritaneion) di forma circolare; l’iscrizione era stata poi ricomposta nello stesso modo sul muro periferico dell’odeon romano. Halbherr intuí, inoltre, che l’area in cui si trovava l’edificio era quella dell’agorà di Gortina. In questo fervido periodo della sua vita cretese, Federico era introdotto nell’alta società dell’isola, e frequentando la casa di Minos Kalokerinòs, un ricco mercante e possidente di Iraklion, ne aveva incontrato la nipote, figlia del fratello Lisimachos, Skevò, con la quale aveva intrecciato una storia d’amore. I due giovani volevano sposarsi e Halbherr si recò da Lisimachos Kalokerinòs, per chiedere la mano della figlia. Ma il padre non volle saperne e il rifiuto pesò sulla vita di Halbherr: perduta Skevò, non si sposò neppure in seguito e non ebbe figli. La vicenda tuttavia non fermò i successi archeologici: nel 1887 Halbherr rinvenne ancora piú di 150 blocchi iscritti, contenenti frammenti di leggi che appartenevano al piú antico periodo della legislazione scritta di Creta. Le iscrizioni erano state riutilizzate nella costruzione del tempio di Apollo Pizio. Divenuto nel frattempo professore di epigrafia greca all’Università di Roma, Halbherr, grazie alla fama ottenuta, si recò per due volte

negli USA, e l’Archaeological Institute of America gli offrí la direzione di una spedizione a Creta. Cosí, nel novembre del 1893, tornò sull’isola con John Alden, dell’Università di Harvard, e Antonio Taramelli, e scoprí altre iscrizioni, visitò e rilevò importanti siti e condusse scavi in varie località. Poi, nel 1899, Halbherr poté finalmente dare vita alla Missione archeologica italiana a Creta e, nel giugno del 1900, diede inizio agli scavi di Festo, nella piana di Messarà. Un’altra importante tappa degli scavi cretesi fu quella della cosiddetta «villa» di Haghia Triada, un sito a 2 km da Festo esplorata tra il 1901 e il 1905, con brevi ritorni fino alla guerra mondiale.

Nel nord africa L’attività di Halbherr, però, non si limitò a Creta: nel 1903 avviò contatti diplomatici con le autorità degli Stati della sponda africana del Mediterraneo, regione su cui puntavano gli interessi coloniali del giovane Stato italiano, al fine di iniziare scavi anche in quel territorio. Nell’estate del 1910 affrontò una ricognizione topografica con Gaetano De Sanctis, attraverso l’Altopiano cirenaico, da Bengasi a Derna. L’obiettivo era quello di individuare i resti della pentapoli cirenaica e di tracciare una mappa della zona, che sarebbe stata utile anche per le future operazioni militari. Dopo l’occupazione italiana della Cirenaica, furono istituite subito, su suggerimento di Halbherr, le soprintendenze alle antichità di Tripoli e di Bengasi, a cui si debbono i grandi scavi effettuati nel Novecento sulla costa africana. Gli ultimi anni di Federico Halbherr furono dedicati al completamento della rete di rapporti e di relazioni che aveva istituito. All’età di 73 anni stava preparandosi a tornare ancora una volta nell’amata Creta, quando una breve malattia ne stroncò la vita e l’attività, il 17 luglio del 1930.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

Acque nascoste in anatolia, ma anche in cina o in persia, non è difficile incontrare oasi e terre verdeggianti anche nel mezzo di steppe e deserti. uno scherzo della natura? tutt’altro: sono «miracoli» resi possibili dall’ingegno e dalla caparbietà dell’uomo

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e comunità umane hanno sempre cercato di incrementare la propria disponibilità idrica, con opere finalizzate alla raccolta, al trasporto e alla distribuzione dell’acqua. In una grotta naturale ai piedi della collina di Troia, nella Turchia egea, un’équipe di archeologi tedeschi ha individuato un cunicolo scavato artificialmente con la tecnica dei fronti contrapposti, e una serie di pozzi collegati alla superficie della città murata, databili a partire dal III millennio a.C. Ancora in Anatolia, condotti sotterranei furono realizzati dagli Ittiti nel II millennio a.C., e dighe artificiali e canali furono prerogativa anche del regno di Urartu, nella prima metà del I millennio a.C.

la «cattura» idrica...

Uno dei 1156 karez (qanat) scavati nel deserto del Taklimakan (Xinjiang, Cina nord-occidentale), che alimenta l’oasi di Turfan.

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Il Medio Oriente, ma anche l’Asia Centrale, hanno visto la costruzione dei primi sistemi sotterranei di captazione delle acque, ossia di «cattura» idrica. Si tratta dei cosiddetti qanat, file di pozzi collegati a un canale sotterraneo, molto diffusi nell’attuale Iraq e in Iran, dove il 75% delle risorse idriche è raccolto ancora in questa maniera. In un censimento del 1981 risultavano ancora attivi 18 400 qanat, per un totale di circa 80 000 km di condotti sotterranei e un gettito d’acqua di 239 000 l al secondo. Si tratta del piú antico sistema organizzato di approvvigionamento idrico, nato in Persia 2500 anni fa. Osservando una foto aerea del sito di Persepoli, capitale dell’impero persiano, fondata nel 518 a.C. da Dario, si notano vari crateri disposti in file piú o meno parallele. Ogni cratere coincide con la bocca di un pozzo e ogni fila di pozzi corrisponde a un qanat. I qanat si differenziano dai piú noti acquedotti in quanto questi ultimi


Palermo sotterranea

non catturano l’acqua direttamente nel sottosuolo, ma sono alimentati da acque di superficie (sorgenti, fiumi, laghi).

Gli «ngruttati»

Anche il sottosuolo italiano nasconde i suoi qanat. Si tratta dei «ngruttati» di Palermo (vedi foto a sinistra), nome attribuito nel capoluogo siciliano a queste opere, la cui realizzazione è probabilmente dovuta alle dinastie arabe che dominarono la città tra il IX e l’XI secolo. Grazie all’esplorazione condotta dal Gruppo Speleologico del CAI di Palermo e all’opera di recupero intrapresa dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali, oggi sono visitabili il Qanat Gesuitico Alto, in contrada Altarello di Baida, il Qanat Gesuitico Basso o della Vignicella e quello dell’Uscibene. Per informazioni, ci si può rivolgere alla Cooperativa Solidarietà (tel. 091 580433).

...nelle zone aride La realizzazione di queste strutture consiste nell’aprire, a monte della zona da servire, un «pozzo madre», atto a verificare la presenza della falda acquifera. Si scava quindi una successione di pozzi, da valle a monte, che permette di realizzare in profondità un cunicolo coincidente con il massimo flusso della falda. I pozzi servono per l’allineamento, l’evacuazione del materiale scavato, l’immissione di strutture di sostegno, oltre che per la ventilazione e la manutenzione. Ma perché scavare nel sottosuolo per chilometri, con rischio e fatica, anziché realizzare canalizzazioni esterne? Se osserviamo la collocazione dei maggiori sistemi di qanat (o karez, o rhettara), ci accorgiamo che questi si trovano nella fasce aride o semiaride, dove In basso: Marocco. Alcuni rilievi terrosi, allineati per chilometri nel deserto, celano la presenza nel sottosuolo di un rhettara (qanat).

l’acqua non può scorrere in superficie a causa della fortissima evaporazione. I canali sotterranei, dunque, proteggono il prezioso liquido dalla temperatura eccessiva e raccolgono i minimi flussi della falda lungo tutto il loro percorso. Ciò permise la creazione di grandi oasi in vaste aree altrimenti desertiche. Per esempio l’oasi di Turfan, nel Xinjiang (Cina nord-occidentale),

esiste grazie a una rete di piú di 1000 canali, ciascuno dei quali misura mediamente 3 km, per un totale di 3000 km di cunicoli sotterranei. Anche nell’inospitale deserto del Taklimakan vi sono almeno 25 oasi artificiali come quella di Turfan, che hanno consentito l’esistenza di una delle piú importanti arterie di commercio e cultura dell’antichità: la Via della Seta.

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divi e donne Francesca Cenerini

Quel «mostro» di livia accusata di aver avvelenato il marito, Druso minore, su istigazione dell’amante Seiano, prefetto del pretorio, Giulia Livilla rimase intrappolata in una spirale di corruzione e perdizione. Almeno stando al giudizio degli storici antichi... Gran Cammeo di Francia, in onice. Prima metà del I sec. d.C. circa. Parigi, Bibliothèque nationale. La gemma ritrae vari membri della dinastia giulio-claudia, tra cui Livilla (7), moglie del defunto Druso Minore (11), scomparso nel 23 d.C. Al centro è l’imperatore Tiberio (1) in trono, con la madre Livia (2), vedova di Augusto. Attorno a loro compaiono, probabilmente, i tre figli di Germanico: Nerone Cesare (3) con la moglie Giulia (8), Druso Cesare (4) e Caio Cesare (5), il futuro imperatore Caligola, e la loro madre, Agrippina Maggiore (6). Nel registro superiore, oltre al già citato Druso Minore, sono ritratti il divo Augusto (9) nelle vesti di pontefice massimo, e Germanico (10), fratello di Livilla. In quello inferiore si vede un gruppo di prigionieri «barbari».

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laudia) Livia Giulia, detta anche Livilla, fu donna di spicco nella corte imperiale della prima età giulio-claudia. È infatti figlia di Druso Maggiore e di Antonia Minore (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012) e quindi sorella di Germanico e del futuro imperatore Claudio. Come tutte le donne della domus Augusta, anche Livia Giulia fu strumento della politica matrimoniale attuata dall’imperatore, per rafforzare la dinastia al potere. Suo primo marito fu Caio Cesare, uno dei figli

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naturali di Marco Vipsanio Agrippa, fedele e influente braccio destro di Augusto, e di Giulia, l’unica figlia che il principe aveva avuto da Scribonia. Rimasta vedova, Livia Giulia sposò Druso Minore, il figlio che Tiberio aveva avuto dalla prima moglie, Vipsania Agrippina. Ma anche Druso Minore morí in giovane età, nel 23 d.C. A questo punto la corte giulio-claudia fu interessata da un fatto nuovo: il prefetto del pretorio Seiano, estraneo alla famiglia, ma forte della sua funzione, pensò di


sposare Livia Giulia per consolidare la propria posizione nella successione al principato di Tiberio. Livia Giulia, infatti, è la sorella di Germanico, valente generale, morto in Siria in circostanze oscure, la cui memoria godeva di un larghissimo seguito presso l’esercito. Inoltre è madre dei tre figli di Druso Minore, nipoti dell’imperatore: la bambina Giulia Livilla e i due gemelli Tiberio Nerone (Gemello), che morí giovane nel 38 d.C., e Tiberio Germanico, deceduto in tenera età nello stesso anno del padre.

Seduzione e morte La politica di Seiano non poteva non scontrarsi con una parte della corte imperiale, che trovò il suo portavoce nella figura di Antonia Minore, molto potente e rispettata. L’anziana matrona fece pertanto recapitare dalla sua segretaria personale, Antonia Caenis, una lettera (oppure Cenide ne imparò a memoria il contenuto per evitare intercettazioni) al cognato Tiberio, in cui accusava esplicitamente Seiano di aspirare al potere. L’intervento di Antonia segnò la fine della vicenda politica del pretorio, condannato a morte nel 31 d.C., e di Livia Giulia, che morí per volontà di Tiberio o della stessa Antonia Minore, cioè di sua madre: la lotta per il potere, quindi, è piú forte di qualsiasi legame familiare. Della vicenda dà conto Tacito negli Annali, secondo il quale Seiano

indusse Livia Giulia ad avere una relazione con lui: dopo avere ceduto la prima volta, ella non gli potè negare piú nulla, dato che una donna che ha perduto l’onore (amissa pudicitia) non ha piú alcun freno inibitore, in una spirale sempre piú perversa. Tacito accusa Livia Giulia di avere ucciso il marito, per compiacere Seiano, indotta dal desiderio di regnare accanto al suo nuovo marito, spinta, cioè, dalla brama di potere. Quel che fa davvero inorridire Tacito è che la nobildonna Livia Giulia, nipote di Augusto, nuora di Tiberio, madre dei figli di Druso Minore, abbia contaminato se stessa e il suo aristocratico genere con un amante venuto dal nulla, da un oscuro municipio, sia pure un prefetto del pretorio, affascinata dalla torbida atmosfera del delitto e dalla perversione: è un’unione innaturale da cui, per lo storico romano, non possono che originarsi mostri. Noi non sappiamo se Livia Giulia abbia veramente ucciso il marito oppure no. Apicata, da cui Seiano aveva divorziato nel 23 d. C., accusò Seiano e Livia Giulia di avere avvelenato Druso Minore e, stando a quel che ci dice ancora Tacito, si credette di trovare conferma a questa accusa nelle confessioni, strappate con la tortura, al medico Eudemo e all’eunuco Ligdo. Svetonio (Vita di Tiberio, 62, 1) è molto piú esplicito: Tiberio aumentò e intensificò ancora di piú

la sua crudeltà, inasprito dalla denuncia sulla morte di suo figlio Druso. Se prima lo aveva creduto morto di malattia e a causa degli stravizi, quando venne a sapere che era stato avvelenato dalla moglie Livilla e da Seiano, non risparmiò piú a nessuno né sevizie né torture.

Donne da condannare In una sola frase il biografo di età adrianea svela il comportamento illecito di tutti i principali esponenti della corte tiberiana. Nell’ambiente di per sé negativo della corte imperiale, le donne, al pari degli uomini, si sono macchiate dei piú orrendi delitti. Tutte le Augustae, per gli storici antichi, furono donne da condannare, in misura maggiore o minore, perché hanno occupato uno spazio a loro precluso dalla tradizione: quello del potere politico. Questo è il giudizio degli autori antichi, anche se l’effettivo ruolo dell’Augusta a corte è ancora tutto da valutare e la sua (effettiva o supposta) influenza politica trova gli studiosi contemporanei in disaccordo. Le iscrizioni ci dicono che hanno promosso attività edilizie, fondazioni benefiche e attività culturali e che, nella stragrande maggioranza dei casi, erano amate dai sudditi in ogni angolo dell’impero. Di ogni Augusta possediamo un numero notevole di ritratti, non solo iconografici, ma anche morali. Sta a noi scegliere quello che ci pare piú verosimile.

la casata di augusto Scribonia

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Augusto 3

Claudio Marcello Marco Vipsanio Agrippa Agrippa Postumo

Giulia

1 2

Giulia

2

Livia Drusilla Augusta Tiberio

Caio Cesare

Lucio Cesare

(1, 2...: numero del matrimonio)

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Vipsania

Druso Agrippina

Tiberio Claudio Nerone

1

Germanico Tiberio Germanico

Druso

livia giulia (livilla) Tiberio Gemello

Antonia

Claudio

Giulia Livilla

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Angela Bellia

Strumenti musicali e oggetti sonori nell’Italia meridionale e in Sicilia (VI-III sec. a.C.) Funzioni rituali e contesti Aglaia, 4, LIM, Lucca, 156 pp., ill. b/n 30,00 euro ISBN 978-88-7096-674-9 www.lim.it

La musica è l’arte che, piú di ogni altra, ha rischiato, anticamente, di far perdere ogni sua traccia. Per determinati periodi storici qualche informazione ci viene solo dunque dalle fonti iconografiche, dai testi teorici, dalle cronache, o dalla sopravvivenza fortuita degli strumenti musicali. A quest’ultimi è dedicato il lavoro di Angela Bellia, incentrato sull’indagine delle testimonianze conservate nei musei siciliani e del Sud Italia. Il quadro che si ricava dall’ampio esame degli oggetti in questione fornisce, oltre che un «catalogo» sistematico di quanto è sopravvissuto, anche uno spaccato dei contesti in cui la musica legata alla cultura magnogreca è stata utilizzata,

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analizzandone l’impiego sia nell’ambito della vita quotidiana, sia in quello del culto. Incentrato sui tre dei principali gruppi in cui l’organologia suddivide le famiglie degli strumenti, lo studio si concentra su quelli che hanno potuto preservarsi integralmente o in parte: gli strumenti a percussione (campane, sistri, cimbali, ecc.), i cordofoni (lire e chiavi di arpa), e gli aerofoni (auloi, ocarine e trombe-conchiglia). Tra i pregi dello studio è l’accostamento tra l’aspetto squisitamente musicologico, interessato in primis al fenomeno musicale, e quello archeologico. Le puntuali descrizioni tecniche degli oggetti, l’esame dei contesti di ritrovamento, le frequenti comparazioni con aree geografiche diverse e con il materiale iconografico tratto dalla produzione ceramica magnogreca permettono di avvicinarsi al complesso fenomeno della musica, visto nelle sue piú varie sfaccettature, dando «voce» a oggetti nati per dilettare l’udito ma destinati, nella maggior parte dei casi, a un «muto» oblio. Franco Bruni Tommaso Braccini

Prima di Dracula Archeologia del vampiro Il Mulino, Bologna, 272 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-15-23363-9 www.ilmulino.it

Evocando Dracula, che ne è il rappresentante

di gran lunga piú celebre, Tommaso Braccini ricostruisce una inaspettata storia «archeologica» del vampiro, che si ricollega a quella del revenant, il morto che torna sulla terra per tormentare i viventi. Già nel mondo antico greco e romano le fonti letterarie raccontano di streghe succhiasangue, soprattutto di bambini, e del minaccioso risveglio di alcuni defunti, mentre recenti ritrovamenti archeologici di età romana avvenuti in vari contesti necropolari dell’Emilia-Romagna hanno restituito modi di trattamento del cadavere assolutamente anomali, consistenti nella mutilazione di arti e testa, come per impedire materialmente al morto di rialzarsi e di ritornare sulla terra, alterando cosí pericolosamente l’ordine sociale (vedi «Archeo» n. 299, gennaio 2010; anche su www.archeo.it). Come ben evidenzia l’autore, spesso ciò che accomuna la tradizione sul ritorno dei morti è uno stato di crisi che colpisce una comunità

e l’attribuzione del problema a un cadavere anomalo che deve essere annientato per uscire dalla crisi stessa. Tra il mondo antico e il Secolo dei Lumi, il libro traccia una coinvolgente quanto terribile storia della miseria umana riguardo le credenze sui morti che ritornano, descrivendone aspetto e azioni nefaste, basandosi su fonti documentarie di grande interesse, anche strettamente connesse, nel mondo greco ortodosso, a violente dispute religiose tra ortodossi ed eretici che utilizzavano finanche i cadaveri e il loro disseppellimento, con tanto di pubblica ostentazione, per avvalorare ciascuno le proprie posizioni religiose. Forte anche di un stile personale avvincente e di piacevolissima lettura, Braccini traccia una puntuale e documentata storia del «morto che ritorna», un vero e proprio identikit del vampiro, descrivendone le varie tipologie, il tipo di azioni, gli espedienti messi in atto per neutralizzarlo e quindi ricondurlo alla pace eterna. Concludono il volume quattro appendici di carattere archeologico e antropologico, con descrizioni di alcune modalità legate alla figura del vampiro, compresa una fisiologia della decomposizione umana e una raccolta delle fonti letterarie. Francesca Ceci



Elena Calandra

Elena. All’ombra del potere Electa, Milano, 96 pp., ill. col. 19,00 euro ISBN 978-88-370-9374-7 www.electaweb.com

oggi note – attestate perlopiú da sculture, rilievi e monete –, che permette anche di seguire l’evoluzione del gusto e dei canoni elaborati nella tarda età imperiale per la rappresentazione dei potenti e, in questo caso, delle potenti. Stefano Mammini Fabrizio Pesando

Pompei. Le età di Pompei 24 ORE Cultura, Pero (MI), 96 pp., ill. col. 22,90 euro ISBN 978-88-6648-102-7

Presentato in occasione della grande mostra su Costantino allestita a Milano, in Palazzo Reale, il saggio, come scrive l’autrice, intende affrontare il personaggio di Elena «attraverso le immagini, cercando di far emergere da queste il carattere e i modi di una donna altrimenti inafferrabile dalle poche menzioni delle fonti». Un dato quasi sorprendente, se si considera che la donna, pur di umili origini, mise al mondo uno dei piú importanti imperatori della storia, divenne essa stessa imperatrice, contribuí in maniera decisiva alla diffusione della fede cristiana con le «scoperte» in Terra Santa ed ebbe infine l’onore della canonizzazione. Il tentativo di scrivere una nuova biografia della madre di Costantino si dipana, dunque, attraverso la ricognizione delle iconografie a

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Cinzia Dal Maso

Pompei. L’arte di amare 24 ORE Cultura, Pero (MI), 96 pp., ill. col. 22,90 euro ISBN 978-88-6648-103-4

viene da questi volumetti. Quello affidato a Fabrizio Pesando ripercorre la storia della città (nella prima parte), per poi guidare il lettore nel riconoscimento dei vari capitoli di questa vicenda, attraverso le testimonianze che ancora oggi si conservano. Cinzia Dal Maso si cimenta invece con un altro dei «grandi classici» dell’archeologia pompeiana: la multiforme, fantasiosa e spesso licenziosa declinazione del sentimento amoroso, nonché, piú prosaicamente, dello sfruttamento mercantile delle pulsioni maschili e femminili. Entrambi i titoli si avvalgono di un buon corredo iconografico e propongono apparati che inquadrano le vicende del sito vesuviano nel piú ampio contesto storico dell’età romana. S. M.

dall’estero Anne Porter

mobile pastoralism and the formation of near eastern civilizations Weawing Together Society Cambridge University Press, New York, 390 pp., ill. b/n 120,00 USD ISBN 978-0-521-76443-8 www.cambridge.org

Pompei è una sorta di «miniera» a cielo aperto e l’ennesima conferma

La pastorizia è, da decenni, uno dei fenomeni piú studiati in archeologia. Tanta attenzione si deve alla natura «rivoluzionaria» della domesticazione degli animali (e delle piante) e al ricco bagaglio di usi e costumi

progressivamente accumulato dai gruppi dediti a questa forma di economia produttiva. Il saggio di Anne Porter rinnova l’interesse nei confronti del fenomeno, concentrandosi su quanto dovette accadere in Mesopotamia tra il 4000 e il 1500 a.C.: siamo dunque in una delle aree cruciali nello sviluppo storico e culturale dell’umanità e in una delle sue fasi piú significative, trattandosi di un orizzonte cronologico in cui sono compresi eventi come la diffusione della scrittura o l’avvento della città di Uruk. La studiosa ipotizza che le comunità di pastori che conducevano un’esistenza basata sul nomadismo e quelle sedentarie, nonostante la differenza del modus vivendi, fossero parti integranti dei medesimi contesti sociali e politici. La teoria viene sviluppata sulla scorta dei dati archeologici e di vari testi cuneiformi: testimonianze che sembrano accreditare la volontà di conservare un’identità e integrità culturale anche in presenza di modelli di sussistenza differenziati. S. M.



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