2013
ANTICA CINA / 1
ORACOLO DI DELFI
MITI GRECI / 1
CINEMA E ARCHEOLOGIA
SPECIALE ROMA CAPUT MUNDI
Mens. Anno XXIX numero 1 (335) Gennaio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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ARCHEO 335 GENNAIO
CAPUT MUNDI L’IMPERO VISTO DAGLI ALTRI
CIVILTÀ DELLA CINA
IL MISTERO DELLE ORIGINI
ARCHEOLOGIA E CINEMA
DA «QUO VADIS?» A «IL GLADIATORE»
PASSIONE PER LA STORIA
PASSIONE PER LA STORIA
€ 5,90
AST ST PPA
MITI GRECI
ISTRUZIONI PER L’USO
www.archeo.it
EDITORIALE
LA PATRIA COMUNE
Una mostra in corso a Roma e un volume che raccoglie contributi di studiosi italiani e stranieri, entrambi curati dallo storico Andrea Giardina e dall’archeologo Fabrizio Pesando, presentano al grande pubblico la rilettura di un argomento solo in apparenza scontato: quello dell’espansione bellica, politica e culturale dell’antica Roma. Titolo della mostra (e del volume): Roma Caput Mundi. Una città tra dominio e integrazione. In cosa consiste la novità, il «messaggio» dell’iniziativa? Soprattutto nel fare i conti con una serie di stereotipi ricorrenti (ripresi e ampliati da televisione e cinema) che ancora oggi informa l’opinione comune e che ritrae i Romani come un popolo dedito esclusivamente al rafforzamento del proprio dominio, allo sfruttamento degli altri e alla repressione del dissenso politico e religioso. Un quadro alimentato dal confronto continuo, cui la grande metafora di Roma imperiale è sottoposta, con le esperienze rivoluzionarie dell’età moderna, con i totalitarismi del Novecento, e, infine, con il contemporaneo «impero» americano. Nello speciale di questo numero, gli ideatori della mostra illustrano il percorso delle loro ricerche, restituendo al tema evocato dal titolo dell’esposizione la sua necessaria complessità. Un percorso che – senza voler occultare gli aspetti violenti e drammatici del dominio imperiale romano – ne evidenzia le caratteristiche «universali»: la politica dell’integrazione, il concetto di cittadinanza (concessa anche agli schiavi e ai loro figli), l’assenza di un’ideologia «razzista» nel senso moderno del termine. Cosí, se nel celebre discorso di Calgaco (fine del I secolo d.C.) riportato da Tacito, il capo dei Caledoni descrive i Romani come rapinatori del mondo, che al loro impero danno un «falso nome: fanno un deserto e lo chiamano pace» («auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant»), ben diversamente suonano le parole del retore greco Elio Aristide (II secolo d.C.), secondo il quale «né il mare, né le enormi distanze di terre impediscono di essere cittadini romani (…) Ciò che è una città per i suoi confini e per il suo territorio, questo è oggi Roma per tutta l’ecumene, come se fosse stata proclamata patria comune a tutta la terra». Andreas M. Steiner
SOMMARIO EDITORIALE
La patria comune
3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
Cina. Le origini
24
di Marco Meccarelli
6
SCOPERTE Usare i teschi come coppe per bere? Sembrava una macabra esclusiva della regina longobarda Rosmunda e invece in una grotta inglese abitata da una comunità dell’età paleolitica... 6 PAROLA D’ARCHEOLOGO La grandiosa tomba del Gladiatore scoperta a Roma, sulla via Flaminia, è forse salva. Grazie a Russel Crowe! 10 MOSTRE La storia di Parma in età preromana raccontata dalle scoperte piú recenti
CIVILTÀ CINESE/1
I LUOGHI DELLA LEGGENDA Delfi, l’ombelico del mondo
34
di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
MITOLOGIA, ISTRUZIONI PER L’USO/1
56 MOSTRE
Ciak, si fa storia
56
di Hélène Lafont-Couturier
Quando la terra sfidò il cielo 48
ARCHEOTECNOLOGIA
di Daniele F. Maras
di Flavio Russo
Rugiada da bere
88
34
14
DALLA STAMPA INTERNAZIONALE I cento anni della scoperta di Nefertiti e una riunione nella casa di Howard Carter 22
Anno XXIX, n. 1 (335) - gennaio 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768507
In copertina ritratti di Augusto (al centro), di Giulio Cesare (a sinistra) e dell’imperatore Lucio Domizio Aureliano (a destra)
Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.
Hanno collaborato a questo numero: Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è archeologo conservatore del Museo Archeologico del Finale-IISL. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Hélène Lafont-Couturier è commissario della mostra «Peplum» e direttore del Musée des Confluences di Lione. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Giovanna Quattrocchi è giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Stefania Sapuppo è archeologa. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 10 (basso), 27 (alto e centro), 34/35, 51 (alto), 74, 77, 86, 94-97, 107, 108 – Getty Images/Bernard Jaubert: copertina (sfondo, alto) – Cortesia Silvia M. Bello/The Natural History Museum, London: pp. 6-7 – Cortesia Mélanie Salque/University of Bristol: p. 8 – Cortesia dell’autore: pp. 9, 10 (alto), 11, 12, 110-111 – Cortesia SBA Emilia-Romagna: p. 14, 16 – Cortesia SBA Umbria: p. 15 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 17, 64/65 (sfondo), 66, 71-73, 78, 81 – © Staatliche Museen zu Berlin: pp. 22 (foto Sandra Steiß), 23 (foto Achim Kleuke) – DeA Picture Library: pp. 100, 102; A. De Gregorio: pp. 24, 55; G. Nimatallah: p. 52; E. Lessing: p. 53; G. Dagli Orti: pp. 54, 101 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 25 (sfondo) – Corbis Images: Wang Yongji/Xinhua Press: p. 25 (alto); Sture Traneving/Nordicphotos: p. 27 (basso); Lowell Georgia: p. 29 (alto); Royal Ontario Museum: pp. 29 (basso), 31; Christie’s Images: p. 30; Wolfgang Kaehler: p. 45; Ocean: p. 46/47; Atlantide Phototravel: p. 70 (basso) – Ufficio stampa Penn Museum/cortesia Juzhong Zhang e Zhiqing Zhang, Institute of Cultural Relics and Archaeology of Henan Province, Zhengzhou, China: pp. 25 (basso), 32 (alto) – Contrasto: Andrew Hetherington/Redux: pp. 32 (basso), 33; Erich Lessing: p. 85 (alto) – Stefano Mammini: pp. 34, 36, 40, 41, 42 (alto, destra), 42 (centro), 42 (basso), 46 (alto), 47, 68, 69 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 37, 38, 44, 65, 70 (alto), 84, 106; Picture Desk Images: pp. 39, 42 (alto, sinistra), 76, 85 (centro); Album: p. 75; Leemage: pp. 80 (basso), 98 – Archivi Alinari: RMN-Grand Palais/Hervé Lewandowski: pp. 48, 50, 82 – RMN-Grand
SPECIALE Roma. Il mondo in una città
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a cura di Stefania Berlioz, con testi di John Thornton, Andrea Giardina, Fabrizio Pesando, Cecilia Ricci, Massimo Brutti, Aldo Schiavone, Paolo Desideri, Giulio Firpo
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Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
Conservare l’oro blu 104
Il messaggio di quel «piccolo professore» 94 di Daniele Manacorda
ANTICHI IERI E OGGI Pomeriggio alle terme
L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE di Andrea De Pascale
DIVI E DONNE
La malafemmina dell’impero 106 di Francesca Cenerini
di Romolo A. Staccioli
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
VITE DI ARCHEOLOGI
di Francesca Ceci
98
Una storia siciliana 100 di Giovanna Quattrocchi
Chi ben comincia... 110
LIBRI
Palais/Hervé Lewandowski/Thierry: p. 51 (basso) – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBAC: p. 83 – Flavio Russo: foto e disegni alle pp. 88-93 – Cortesia R. Bixio/Centro Studi Sotterranei, Genova: p. 104/105 – Cortesia Marco Santi/Associazione I Poligonali: p. 105 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 26, 36, 45, 46, 67, 79, 80/81.
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n otiz iari o SCOPERTE Gran Bretagna
TRISAVOLI DI ROSMUNDA? Estensione della calotta glaciale
Antica linea di costa (14 500 anni fa circa) Gough’s Cave
Le Placard Isturitz
Siti maddaleniani con resti umani Siti maddaleniani con resti umani recanti tracce di lavorazione Siti maddaleniani con resti umani lavorati e teschi modellati
Qui sotto: uno degli studiosi che hanno analizzato i teschi da Gough’s Cave ne «illustra» il possibile utilizzo come coppa per bere.
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L
A sinistra: cartina con l’ubicazione di Gough’s Cave e degli altri siti da cui provengono reperti che conservano tracce di lavorazione di ossa umane e teschi. Nella pagina accanto: uno dei teschi rinvenuti a Gough’s Cave sul quale sono presenti tracce di lavorazione interpretate come esito della volontà di ricavarne una coppa per bere.
a Gough’s Cave, nella contea del Somerset (Inghilterra sud-occidentale) è da tempo una rinomata attrazione turistica, che fa leva sulla sua spettacolare geologia e sulla «presenza» di uno dei primi Anglosassoni, familiarmente ribattezzato Cheddar Man. La grotta, infatti, si trova nel cuore della regione in cui si produce l’omonimo formaggio, e, anzi, offre parte dei suoi spazi proprio alla sua stagionatura. Da qualche tempo, però, il sito si è imposto all’attenzione grazie ai risultati di una ricerca compiuta su resti umani riferibili a una frequentazione ben piú antica di quella che portò nell’antro il Cheddar Man: lo scheletro di
quest’ultimo si data infatti a 7150 anni da oggi, mentre i resti in questione appartengono a una comunità maddaleniana, che occupò il sito ben prima, intorno ai 15 000 anni fa. Ricerche all’interno di Gough’s Cave furono condotte già nel XIX secolo, ma sono le indagini piú recenti, condotte dal Museum of Natural History di Londra tra il 1987 e il 1992, ad avere offerto i materiali su cui sono state condotte le indagini da poco pubblicate. In particolare, l’attenzione degli studiosi si è concentrata su alcuni resti di scatole craniche, accomunate dalla presenza di tracce senza dubbio attribuibili a manipolazioni operate dopo la morte degli individui.
Il dato, in sé, non è eccezionale o insolito, poiché sono noti casi di trattamento post mortem di scheleltri o parti di essi, o anche di modellazione dei crani a scopo, per esempio, rituale o apotropaico. Tutte pratiche che, oltre alla documentazione archeologica, trovano riscontro anche in campo entografico. A Gough’s Cave, però, sembra che l’utilizzo dei crani avesse un fine ben preciso: esaminando il tipo di intervento praticato, appare certo che l’intento fosse quello di trasformare i teschi in altrettante coppe per bere. Un responso che gli autori dello studio ritengono senz’altro valido per almeno tre degli esemplari osservati. In generale, è stato comunque rilevato che la comunità maddaleniana che occupò il sito
effettuava in maniera sistematica interventi post mortem sui resti dei propri congiunti. Al pari di quello che avvenne molto tempo dopo in Egitto con l’imbalsamazione, i cacciatori di Gough’s Cave avevano saputo mettere a punto tecniche molto sofisticate, grazie alle quali, per esempio, erano in grado di estrarre le parti molli racchiuse nella scatola cranica e i tessuti senza causare danneggiamenti eccessivi o rotture dell’insieme osseo. Appare altrettanto significativo il dato secondo il quale la trasformazione dei crani in coppe rappresentasse l’ultimo stadio di una pratica rituale che prevedeva il consumo delle carni del defunto. Stefano Mammini
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n otiz iario
SCOPERTE Gran Bretagna
IL FORMAGGIO HA UN GUSTO ANTICO...
I
l primo produttore di formaggio del Nord Europa visse intorno ai 7000 anni fa. È questo il risultato degli studi condotti da una équipe dell’Università di Bristol su alcuni frammenti di vaso rinvenuti in Polonia, nella regione storica della Cuiavia, e provenienti da siti riferibili alla cultura della Ceramica Lineare, uno dei principali orizzonti del Neolitico centro-europeo. L’ipotesi che quei frammenti fossero legati alla produzione del formaggio è nata dal ritrovamento, sulla superficie della ceramica e all’interno dei fori, di tracce di acidi grassi derivanti dal latte. A questa scoperta si sono aggiunte considerazioni di carattere funzionale: i frammenti, infatti,
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Confronto tra due frammenti di ceramica forata (b, d) provenienti dalla regione di Cuiavia (Polonia) e databili intorno ai 7000 anni fa e i disegni di altrettanti colini (a, c) provenienti anch’essi da siti scoperti in territorio polacco. La scoperta di residui di latte ha suggerito l’ipotesi che possa trattarsi di manufatti impiegati per la produzione di formaggio, lavorazione di cui costituirebbero, a oggi, la piú antica attestazione per l’area nord-europea e una delle prime in assoluto.
appartengono a contenitori provvisti di numerosi fori, e sono dunque paragonabili ai colini che tuttora vengono impiegati nell’attività casearia. E, in una prospettiva piú vicina alla realtà italiana, non può non risultare evidente la somiglianza con i bollitoi con coperchio forato attestati, per esempio, nella cultura appenninica, un orizzonte databile all’età del Bronzo e fortemente connotato da un’economia di sussistenza basata sulla pratica della pastorizia e di attività a essa legate, come appunto lo sfruttamento dei prodotti derivati dal latte. Prima della scoperta effettuata a Bristol si conoscevano attestazioni altrettanto antiche, ma
riferibili a contesti geografici e culturali diversi: residui di latte lavorato erano infatti stati individuati in Anatolia (8000 anni fa circa) e Libia (7000 anni fa circa). Ma, prima d’ora, non si era mai riusciti a provare se il latte fosse stato lavorato allo scopo di ricavarne formaggio. Servendosi di analisi chimiche di varia natura, i ricercatori dell’ateneo inglese hanno esaminato anche un gran numero di frammenti ceramici riferibili a forme non forate e hanno in piú casi rilevato la presenza di residui grassi del latte. Una circostanza che suggerisce il loro impiego in associazione con i probabili colini. Le stesse indagini hanno accertato anche la presenza di altri tipi di residui, riferibili alla cottura delle carni o, per esempio, alla conservazione dei liquidi, come nel caso di alcuni frammenti su cui sono state trovate tracce di cera d’ape, verosimilmente utilizzata per sigillare i contenitori. Dati che permettono di definire un quadro assai puntuale delle comunità neolitiche, ormai capaci di basare la propria sussistenza su una gamma assai variegata di soluzioni, e tra le quali la produzione del formaggio poteva senz’altro avere un ruolo di rilievo. Quel che si è potuto accertare a Bristol non ha fatto altro che offrire un riscontro concreto a un’ipotesi a lungo accarezzata, ma che mai prima d’ora era stato possibile dimostrare. S. M.
SCOPERTE Campania
ROMA
PER LO SVAGO E IL RISTORO
Tesori non piú nascosti
N
el centro storico di Salerno, in via Adelperga, scavi archeologici condotti durante i lavori di restauro del duecentesco Palazzo Fruscione hanno portato alla luce resti di un impianto termale del II secolo d.C. Nel corso dell’indagine sono state distinte due aree, denominate saggio A e saggio B, poste rispettivamente nelle zone nord-est e sud-est dell’edificio signorile. «Nel saggio A – spiega Paolo Peduto, professore di archeologia medievale all’Università di Salerno e responsabile dell’intervento – è stato rilevato, all’interno di un ambiente-officina del VI secolo d.C., un vano di età romana: abbandonato e parzialmente interrato, esso aveva conservato gran parte della decorazione a fresco e a stucchi dipinti, tant’è che i residui della lavorazione erano ancora visibili sulle pareti romane. La struttura affrescata, di cui rimane un angolo, è il frutto di interventi costruttivi stratificati. Sono visibili infatti muri giustapposti, caratterizzati da tecniche e materiali costruttivi diversificati. Nell’angolo meridionale è visibile un muro in opera reticolata a cui fu addossato un pilastro in opera mista di tufi e mattoni, forse per realizzare un varco. La parete nord, invece, è costituita da tre elementi in laterizio di forma quadrata.
Con l’asportazione di uno strato di laterizi, forse non crollati, ma sistemati volutamente uno vicino all’altro, è emerso un mosaico in opera tessellata con motivo decorativo geometrico bianco e nero, probabilmente databile tra la fine del I e il II secolo d.C.». Nel saggio B, dopo lo smontaggio del pavimento e la scoperta di una piccola cisterna di età sveva, sono emersi una falsa colonna in laterizi e tufi, ancora in situ, e un muro costituito da blocchetti di tufo su cui si conservava un affresco – una rappresentazione floreale – databile tra fine del I e gli inizi del II secolo d.C. La presenza di un fascio di stucco a rilievo, la pavimentazione musiva, i canali di deflusso per le acque e le colonne in laterizio confermano che le indagini hanno localizzato un importante edificio pubblico di età imperiale della Salerno romana, forse facente parte del vicino plesso termale su cui si fonda l’edificio di culto longobardo di S. Pietro a Corte e di cui gli ambienti oggi messi in luce rappresentano la naturale estensione. Giampiero Galasso Salerno, Palazzo Fruscione. Resti di mosaico con motivo decorativo geometrico bianco e nero. Fine del I-II sec. d.C.
Sono stati aperti per la prima volta al pubblico i sotterranei delle terme di Caracalla. L’evento fa seguito alla riapertura – nello scorso ottobre, dopo dieci anni di chiusura – del mitreo compreso all’interno del complesso termale. La nuova apertura ha anche salutato l’inaugurazione, nei sotterranei, della musealizzazione permanente di circa 45 reperti marmorei mai esposti prima e tutti restaurati per l’occasione. Provenienti dalle stesse terme, i reperti marmorei sono suddivisi in 7 isole espositive a creare un Antiquarium. Oltre ai due piani in alzato, che in alcuni punti misurano ben 37 m d’altezza, delle Terme di Caracalla restano tre livelli sotterranei, di cui si aprono al pubblico, per ora, solo due gallerie dei circa 2 km conservati. È nei sotterranei il fulcro della vita delle terme, il luogo dove lavoravano centinaia di schiavi e di operai specializzati per far funzionare la complessa macchina tecnologica delle terme. Lí erano collocati i forni necessari per il riscaldamento delle acque destinate al calidarium e alle saune. Il complesso monumentale è visitabile, dal martedí alla domenica, dalle 9,00 a un’ora prima del tramonto; il lunedí dalle 8,30 alle 13.00. Per informazioni e visite guidate: tel. 06 39967700; www.coopculture.it archeo 9
PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
IL GLADIATORE SALVATO DAL GLADIATORE?
IL MAUSOLEO DI MARCO NONIO MACRINO, SCOPERTO NEL 2008 SULLA VIA FLAMINIA, STAVA PER ESSERE RICOPERTO. POI È INTERVENUTO RUSSEL CROWE E PER IL GRANDIOSO MONUMENTO, FORSE, SI APRONO PROSPETTIVE DIVERSE...
A
lla fine, per salvare il prezioso monumento archeologico, è sceso in campo Il Gladiatore in persona. Direttamente da Hollywood, infatti, l’attore Russel Crowe, che al cinema aveva vestito i panni da premio Oscar del generale di Marco Aurelio, ha preso posizione sul futuro dell’eccezionale mausoleo del II secolo d.C. scoperto a Roma, già ribattezzato la «tomba del Gladiatore». Si tratta del monumento funebre di Marco Nonio Macrino, venuto alla luce alla periferia romana, lungo la via Flaminia, su via Vitorchiano: nell’area è considerato il ritrovamento piú importante degli ultimi trent’anni, per la potenza architettonica dei marmi giunti a noi pressoché intatti. La tomba monumentale, scoperta nel 2008, fino a pochi giorni fa rischiava di essere reinterrata per sempre, visti i problemi di tutela e la mancanza di fondi. Ma cosí non sarà, a quanto pare. Russel Crowe, infatti, già immortalato nel ruolo dalla pellicola del regista Ridley Scott, si è battuto da vero «gladiatore» in nome della tutela archeologica, con un appello, lanciato al di fuori del set, a non ricoprire di terra il monumento. Il gesto del divo ha avuto come primo risultato quello di fare breccia a livello mediatico, almeno a giudicare dai titoli che ha strappato sui quotidiani di tutto il mondo. Il domenicale del quotidiano inglese The Guardian pochi giorni fa apriva con la notizia in copertina: «La tomba del gladiatore vittima delle misure di austerità finanziaria adottate dall’Italia (Gladiator general’s tomb falls victim to Italy’s austerity cuts)». A La Repubblica Russel Crowe dichiarava: «Di tutte le grandi nazioni del mondo, l’Italia dovrebbe essere una guida nel promuovere l’importanza di esplorare e conservare il passato antico». Mentre on line si può sottoscrivere la petizione promossa
Nella pagina accanto, in alto: Roma, via Flaminia. L’area in cui sono venuti alla luce i resti del grandioso mausoleo di Marco Nonio Macrino, attraversata anche da un tratto di antico basolato; in basso: Russel Crowe, in una scena del film Il Gladiatore: l’attore ha lanciato un appello per il salvataggio del monumento, raccolto con entusiasmo a livello internazionale. In basso: resti della ricca decorazione architettonica che ornava il mausoleo.
da studiosi e ricercatori di tutto il mondo, Save the Gladiator Tomb in Rome (www.ipetitions.com). Ma l’uscita a sorpresa dell’attore ha pesato, a quanto pare, anche sulle decisioni italiane in merito alla futura destinazione del monumento. Ne parliamo con Daniela Rossi, archeologa responsabile dello scavo per la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Dottoressa, ci vuole spiegare innanzitutto perché la tomba «del Gladiatore» è cosí importante, dal punto di vista archeologico? «Poiché, per un caso fortuito, conserva gran parte dei rivestimenti marmorei: questo tratto dell’antica via Flaminia, infatti, che cade alla confluenza tra il Tevere e il Fosso della Crescenza, si trova in una depressione di circa 7 m, soggetta in antico a frequenti esondazioni. Gli strati alluvionali, che sono ben databili, hanno “sigillato” i resti archeologici fino a
quando, nel 1500, la via Flaminia venne spostata all’altezza di Saxa Rubra, per essere appunto piú protetta dalle esondazioni. Nell’area archeologica i mausolei sono quattro, tutti riferibili a militari: uno a edicola, due a tamburo e uno a tempio. Il monumento di Marco Nonio Macrino, la cosiddetta “tomba del Gladiatore”, è il piú imponente e sontuoso, con le sue quattro colonne interamente in marmo in facciata, largo 8 m e lungo 20, con un’altezza stimata di 15 m senza podio. Gli altri mausolei, alcuni dei quali appartengono a soldati pretoriani, che conosciamo dalle iscrizioni dedicatorie, hanno recinti sacri (databili al I secolo d.C.) e letti in osso molto particolari». Il Marco Nonio Macrino sepolto nella «tomba del Gladiatore» era dunque un personaggio importante, nella Roma del II secolo d.C.: ma era veramente Il Gladiatore, cioè quel Massimo
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Decimo Meridio interpretato da Russel Crowe? «Tra i due personaggi ci sono molte somiglianze, ma anche differenze. Il militare a cui è dedicata la tomba scoperta sulla Flaminia, designato come Marco Nonio Macrino nell’iscrizione, è senatore e generale di Antonino Pio e poi di Marco Aurelio. Ciò che lo fa somigliare al personaggio del film è il fatto che – come narrano le fonti – fosse molto intimo dell’imperatore: era un comes, un amico. Poi c’è l’epoca, ad accomunarli: vissero entrambi nel II secolo d.C. Inoltre, come il Gladiatore cinematografico, anche il nostro generale aveva partecipato alle campagne del Nord ed era molto amato dai suoi soldati. A Brescia abbiamo trovato iscrizioni dedicate a Marco Nonio Macrino, da cui emerge come fosse molto ben accetto dalle sue truppe e dai suoi imperatori. Questi tratti lo assimilano al personaggio del film, con cui c’è una certa verosimiglianza soprattutto nell’inizio della carriera e nella personalità militare, ma la storia di Massimo Decimo Meridio è inventata. E poi, le cose, per i due, vanno diversamente nella vita: Il Gladiatore fa una brutta fine, cade in disgrazia sotto Commodo… Mentre sembra che il nostro generale abbia avuto sorti decisamente migliori: Marco Nonio Macrino fa carriera, diventa
senatore, poi proconsole d’Asia, una delle cariche piú importanti del cursus honorum, attorno ai 65-70 anni. Possedeva una villa sontuosa a Brescia, era proprietario di cave di marmo, disponeva di una villa sul Garda: era molto ricco. Non sapevamo dove fosse sepolto, fino alla scoperta della tomba sulla via Flaminia: lo abbiano trovato lí, in quello splendido mausoleo». Come ha reagito la Soprintendenza alla mobilitazione del divo a favore del monumento? Che ruolo ha giocato l’ingresso del Gladiatore, già vincitore di cinque Oscar e campione di incassi nel 2000, nel dibattito sulla tutela di questo bene archeologico? «La presa di posizione dell’attore
ha avuto una vasta eco e ha fatto balzare il caso agli onori della cronaca. Abbiamo accolto l’intervento di Russel Crowe in maniera molto positiva: se aiuta la causa, ben venga che una star di Hollywood, dall’altra parte del mondo, si adoperi in favore dei beni archeologici italiani. D’altro canto, si tratta di un patrimonio dell’umanità: è la storia di tutti». Veniamo alla questione che ha scatenato il dibattito: alla fine, la «tomba del Gladiatore» non verrà ricoperta di terra, ma «impacchettata»? «Si è scelto di mettere in sicurezza in primis i marmi: stiamo già realizzando la copertura in geotessuto, con teloni particolarmente resistenti e impermeabili, che consentirà la conservazione per i prossimi mesi». Niente terra, quindi? «No, si è deciso di non ricoprire. Per ora stiamo lavorando a una messa in sicurezza che possa consentire di affrontare la stagione piú rigida, in attesa delle decisioni sulla destinazione futura dell’area. Siamo su un terreno di proprietà privata, non demaniale, che ha una L’iscrizione che ha permesso di identificare con Marco Nonio Macrino il proprietario del mausoleo scoperto sulla via Flaminia.
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A sinistra e a destra: due elementi della decorazione architettonica del mausoleo di Marco Nonio Macrino, senatore e generale degli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio. Il monumento è databile al II sec. d.C. destinazione urbanistica dalla quale non si può prescindere. L’area di scavo attualmente aperta è di circa 3500 mq, ma oltre non si può andare, perché ci sono gli edifici moderni. Il sito archeologico è stretto tra una carrozzeria, due grandi palazzi e una ferrovia. È un’area fortemente degradata dal punto di vista ambientale, che andrebbe bonificata prima di musealizzare il monumento». Dunque la «tomba del Gladiatore» non verrà sotterrata. Ma la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma ha fatto sapere che mancano i 3 milioni di euro necessari per musealizzare l’area archeologica… «Cercheremo di trovare una soluzione definitiva; ci sono diverse opzioni, ma, al momento, non
possiamo dire nulla di certo. Siamo in una fase di dibattito costruttivo sulla destinazione futura di tutta l’area, inclusi i quattro mausolei, e lo scenario è piú positivo rispetto a due settimane fa. Occorre però coinvolgere diversi soggetti, dal momento che l’area non è demaniale. Nell’ipotesi di
sponsorizzazioni private si aprirebbero altri canali, anche finanziari». Lo sponsor per il restauro e la valorizzazione del monumento potrebbe essere proprio Il Gladiatore, Russel Crowe? «Perché no… Però dovrebbe prima comprare l’area, che è privata».
n otiz iario
MOSTRE Parma
INCONTRI Umbria
LE MOLTE STORIE DI UNA CITTÀ
BICENTENARIO CON SORPRESA
U
na grande esposizione a Parma restituisce all’attenzione del pubblico le piú recenti scoperte sulle origini della città. Si tratta dei risultati, in qualche caso davvero eccezionali, di una serie di fortunati scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna negli ultimi dieci anni. Parma si rivela una città dalle molte storie, nata piú volte a partire dall’età del Ferro, quando una serie di villaggi sorgevano tutto attorno all’area urbana moderna (via Saragat, S. Pancrazio, Casalora, Petrignano). La documentazione archeologica mostra una cultura eterogenea in cui componenti di chiara influenza etrusca, come i buccheri stampigliati, si uniscono ad altre di matrice locale, ligure e celtica. Queste sono particolarmente evidenti in alcuni corredi funerari a livello di rituali, di ornamenti personali e di elementi dell’abbigliamento.
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In alto: statuetta in ceramica di figura femminile, da viale Tanara. III sec. a.C. In basso: resti di quadrupedi in deposizione rituale in corso di scavo, da via Saragat. Epoca arcaica. L’esposizione illustra anche gli scavi di abitato, ricostruendo gli aspetti della vita quotidiana nei villaggi del VI e V secolo a.C. Dopo un intervallo di circa due secoli, che segna l’abbandono degli insediamenti arcaici, gli scavi hanno portato alla luce le tracce di un insediamento gallico del III secolo a.C., attestato sia da resti di abitato che da manifestazioni di culto, che prelude alla fondazione della colonia romana del 183 a.C. Esemplare in questo senso il deposito di offerte metalliche del guado di piazza Ghiaia, uno degli accessi alla città, che ha accompagnato la crescita della città fino all’età imperiale. Altri scavi illustrano invece le prime fasi di vita di Parma in età repubblicana, fino al periodo delle guerre civili. Con questa iniziativa la Direzione
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ell’aprile del 1812 viene diffusa la notizia della scoperta di una grande quantità di bronzi, casualmente venuti alla luce nella zona di Castel San Mariano (Perugia): vi fu subito un interesse molto ampio, che però si tradusse nell’immediata dispersione della maggior parte dei materiali, forse ancor prima che Giovanni Battista Vermiglioli, allora direttore del Museo di Perugia, potesse fare qualcosa per l’acquisizione nel patrimonio del museo. E cosí i bronzi vennero dispersi in numerose collezioni, tra cui le Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera, il British Museum di Londra, la Bibliothéque Nationale e il Louvre di Parigi, il Thorvaldsen di Copenhagen, oltre al Museo di Perugia. Nel corso di una recente
DOVE E QUANDO «Storie dalla prima Parma. Etruschi, Galli, Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche» Parma, Museo Archeologico Nazionale fino al 2 giugno Orario ma-ve, 9,00-17,00; sa, do e festivi, 12,30-19,30 Info tel. 0521 233718; e-mail: sba-ero.museoarchparma@ beniculturali.it Generale per le Antichità e la Fondazione Cariparma intendono restituire ai cittadini il patrimonio di notizie storiche scaturite dal lavoro della Soprintendenza, un’attività che è stata resa possibile dalla capacità di accordare le esigenze dell’archeologia moderna con le necessità di scavo derivanti da lavori pubblici e dall’attività edilizia. (red.)
Statuetta decorativa a fusione piena raffigurante un essere marino giovanile, da Castel San Mariano (Corciano, Perugia). 550-525 a.C.
ricognizione nell’Archivio di Stato di Perugia, è emerso un prezioso documento che getta nuova luce sia sul sito della scoperta, sia sulle prime vicissitudini dei materiali, anche in considerazione delle coeve vicende di tipo politico che coinvolsero il territorio perugino.
E il bicentenario della scoperta è stato celebrato con un seminario di studi presso l’Antiquarium di Corciano, nel corso del quale è stato fatto il punto sulle conoscenze finora raggiunte sul deposito di San Mariano. Una introduzione di Paolo Bruschetti, archeologo della Soprintendenza, ha ripercorso le vicende della fase arcaica del
territorio fra Perugia e Chiusi. A Mafalda Cipollone, archeologa del Museo Nazionale di Perugia, autrice delle scoperte presso l’Archivio di Stato perugino, si deve un articolato intervento sui luoghi e le forme dell’indagine che portò due secoli fa alla scoperta e all’acquisizione dei materiali. Ursula Hockmann, da molti anni attenta studiosa dei materiali di San Mariano, ha riproposto l’origine culturale e la realizzazione dei bronzi, con nuove proposte e stimolanti confronti. Adriana Emiliozzi, archeologa del CNR-ISCIMA, ha dato una nuova e interessante analisi sui tre, o forse addirittura quattro carri, di vario tipo, che il deposito conteneva. Giampiero Galasso
RIMINI Luciano Calenda
ARCHEOFILATELIA
NELLA CITTÀ DELL’ORACOLO
Venere è tornata! È stata riconsegnata alla Città di Rimini la Venere da San Giovanni in Perareto, un pregevole bronzetto di età romana imperiale individuato presso un gallerista antiquario di New York dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Il reperto era tra gli oggetti trafugati nel 1962 dal Museo Civico di Rimini. Il gallerista (possessore in buona fede del bronzetto), di fronte all’evidente provenienza furtiva, ha deciso spontaneamente di restituire il bene. Alta circa 18 cm, la statuetta, raffigura una Venere ignuda in posa «parzialmente pudica» con il braccio sinistro (mutilo) che doveva essere piegato a coprire il pube; il viso è incorniciato da un’alta capigliatura probabilmente completata da un diadema. (red.)
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Delfi non è solo un luogo da leggenda ma è un luogo magico. Salire per la Via Sacra, raggiungere lo stadio dal quale si domina la valle sottostante è un’esperienza unica. Numerose sono 2 le testimonianze filateliche del sito, dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1988; e proprio con una cartolina cinese (1) che ricorda l’evento apriamo la nostra rassegna. Uno dei monumenti piú significativi lungo la 5 Via Sacra è il Tesoro degli Ateniesi (2), ricostruito con molti dei resti originali. Continuando a salire si passa davanti alla roccia dalla quale, secondo la tradizione, una sacerdotessa, la Pizia (3), riferiva gli «oracoli» del dio Apollo. Subito sopra, dopo l’ultimo tornante, c’è il tempio di Apollo (4), il cuore del complesso votivo con accanto il teatro (5) e situato in posizione dominante, come si vede da un bel francobollo greco (6). Piú in alto, si giunge allo Stadio (7), che ospitava i Giochi Pitici, in onore proprio della Pizia; la 8 sibilla di Delfi è stata immortalata da Michelangelo nella Cappella Sistina (8-9). Normalmente la visita si conclude nel magnifico museo di Delfi, pieno di veri tesori; il clou è la statua dell’Auriga, di cui abbiamo 11 l’intero (10) e i particolari della testa (11) e della mano che tiene le briglie (12). Uscendo dal sito, a valle della strada di accesso al paese moderno, si trova l’ultima meraviglia: il tempio circolare di Atena 13 raffigurato cosí come è oggi (13) e ricostruito virtualmente nel francobollo francese (14) emesso per i 150 anni della École Française d’Athènes: proprio quell’istituzione francese, infatti, 14 avviò il recupero di Delfi nel 1889.
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
MUSEI Roma
I TESORI DEL MAESTRO
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a vocazione «archeologica» dell’Auditorium Parco della Musica di Roma si rafforza: dopo gli spazi dedicati ai materiali recuperati negli scavi della villa romana individuata durante la costruzione del complesso, è stato inaugurato il Museo Aristaios, denominazione scelta per la collezione del Maestro Giuseppe Sinopoli, acquistata dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nel 2010. Le opere, 161 in tutto, sono state allestite nella Sala del Peduncolo, uno spazio di oltre 300 mq. Si tratta prevalentemente di ceramiche che coprono un arco cronologico compreso fra il XIX e il III secolo a.C., esemplari della produzione minoica, micenea, geometrica, corinzia, laconica, greco-orientale, attica a figure nere e rosse, italiota a figure rosse e produzioni ceramiche indigene della Daunia. E comprendono anche esposti un vaso in marmo di produzione cicladica (3200-2700 a.C.), vasellame in bronzo etrusco e magno-greco e terrecotte dall’età minoica e micenea a quella ellenistica. (red.)
DOVE E QUANDO Museo Aristaios Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala del Peduncolo Orario tutti i giorni, 11,00-18,00 Info tel. 06 80241281; www.auditorium.com
Scena di komos (danza) nel tondo di una kylix a figure nere. Produzione laconica, 540 a.C. circa. Roma, Museo Aristaios.
CALENDARIO
Italia ROMA Il Trono della Regina di Saba Cultura e diplomazia tra Italia e Yemen: la collezione sudarabica del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 13.01.13
Roma caput mundi Una città tra dominio e integrazione Colosseo-Foro romano fino al 10.03.13
Sulla Via della Seta
Antichi sentieri tra Oriente e Occidente Palazzo delle Esposizioni fino al 10.03.13
ROMA Luce dalle Terre dell’Ambra
Dalle rive del Baltico al Mediterraneo Considerata dagli antichi come una «pietra» preziosa e magica, con la sua luce calda simile a quella del sole, l’ambra era la materia prima da cui ricavare preziosi gioielli e amuleti in grado di assicurare fortuna e da utilizzare per guarire numerose malattie. Per la prima volta vengono presentati raffinati gioielli in ambra realizzati in Etruria, tra cui alcune preziose collane da Vulci, Veio e Capena. Nella mostra, a confermare l’eccezionalità dell’esposizione figurano, quale importante elemento di raffronto, gioielli contemporanei, prodotti nell’ambiente culturale baltico e straordinari testimoni della continuità nella tradizione millenaria di intagliare questa «pietra» preziosa per ricavarne veri e propri capolavori d’arte.
DOVE E QUANDO Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10 marzo 2013 Orario martedí-domenica, 8,30-19,30; lunedí chiuso Info tel. 06 3226571; fax 06 3202010; www.villagiulia.beniculturali.it
L’Età dell’Equilibrio
Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13
ADRIA Scripta manent
I documenti Bocchi per l’archeologia di Adria Museo Archeologico Nazionale fino al 15.03.13
BRESCIA Terre di confine
Una necropoli dell’età del Ferro a Urago d’Oglio Santa Giulia, Museo della Città fino al 31.03.13
Qui sotto: vaso campaniforme, da Santa Cristina di Fiesse (Brescia).
L’età del Rame
La Pianura padana e le Alpi al tempo di Ötzi Museo Diocesano fino al 15.05.13 (dal 26.01.13)
CHIUSI +110
Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13
MILANO Costantino. 313 d.C. Palazzo Reale fino al 17.03.13
MODENA 1897-2012. Il mosaico riscoperto
Il pavimento musivo di Savignano sul Panaro Lapidario Romano dei Musei Civici fino al 12.05.13
MONTEFIORE CONCA (RN) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13
OSTIA (ROMA) Mosaici romani Ex [de] Po’ fino al 13.01.13 20 a r c h e o
L’interno di una coppa, in un disegno di Antonio Bocchi.
Qui sopra: disegno ottocentesco del mosaico di Savignano.
Piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
SERRAPETRONA (MC) La conquista del cielo
STRASBURGO Un’arte dell’illusione
SIENA Vino fra mito e storia
Danimarca
Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13
Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13
Complesso Museale S. Maria della Scala fino al 05.05.13
COPENAGHEN Naufragio
Il Tesoretto dei sei imperatori da Camarina Ny Carlsberg Glyptotek fino all’01.02.13
TRENTO Homo Sapiens
La grande storia della diversità umana Museo delle Scienze fino al 13.01.13
Germania
VENEZIA Lynn Davis al Museo Archeologico Nazionale di Venezia.
STOCCARDA Il Mondo dei Celti
Centri di potere-Tesori d’arte Kunstgebäude e Landesmuseum Württemberg fino al 17.02.13
Modern View of Ancient Treasures Museo Archeologico Nazionale fino al 13.01.13
Gran Bretagna
Austria
LONDRA Arte delle ere glaciali: l’arrivo di un pensiero moderno
INNSBRUCK Armi per gli dèi
Guerrieri, trofei, santuari Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum fino al 31.03.13
Belgio BRUXELLES Cipro antica
Dialogo tra culture Musée du Cinquantenaire fino al 17.02.13
British Museum fino al 26.05.13 (dal 07.02.13) Qui sotto: piatto in argento, dal tesoro di Lambousa.
Grecia ATENE Principesse del Mediterraneo all’alba della storia
Svizzera
PARIGI Cipro
BASILEA Petra. Meraviglia del deserto
SAINT-ROMAIN-EN-GAL E LIONE Peplum L’antichità al cinema Musées Gallo-Romains fino al 07.04.13
Qui sotto: Johann Ludwig Burckhardt come Sheikh Ibrahim.
Museo d’Arte Cicladica fino al 10.04.13
Francia Tra Bisanzio e l’Occidente, IV-XVI secolo Musée du Louvre, Aile Richelieu fino al 28.01.13
Frammento di affresco con busto femminile.
Sulle tracce di J.L. Burckhardt Antikenmuseum Basel fino al 17.03.13
ZURIGO Chavín
Il tempio misterioso delle Ande peruviane Museum Rietberg fino al 10.03.13
A sinistra: vaso policromo in forma di dragone. a r c h e o 21
L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner
E
sattamente cento anni fa, nel dicembre del 1912, emerse dalle sabbie del deserto egiziano il busto di una donna, destinato a diventare il piú celebre ritratto femminile di tutto il mondo antico: quello di Nefertiti, la moglie del faraone «eretico» Akhenaton. Al personaggio «Archeo» ha dedicato un ampio servizio nel numero 316 (giugno 2011), quando il reperto è stato esposto nel rinnovato allestimento al Neues Museum di Berlino. Che oggi le dedica una mostra «personale»… A sinistra e sulle due pagine: il busto di Nefertiti, in pietra calcarea e stucco dipinto, rinvenuto nel 1912 a Tell el-Amarna. XVIII dinastia, 1352-1334 a.C.
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LA SIGNORA DI AMARNA Sulla copertina di Antike Welt figura una delle rare immagini che documentano la scoperta del busto di Nefertiti, argomento centrale
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l 2 dicembre scorso, pochi giorni prima che a Berlino si inaugurasse la mostra dedicata a Nefertiti, nel villaggio di Qurna (sulla riva occidentale del Nilo, nei pressi di Luxor), le massime autorità egiziane – tra cui il ministro per il turismo Hisham Zaazou, il ministro per l’archeologia Mohamed Ibrahim e il governatore di Luzor Ezzat Saad – si sono riunite nella casa appartenuta a Howard Carter per celebrare il novantesimo anniversario della scoperta della tomba di Tutankhamon. Tra gli invitati vi erano anche alcuni nipoti di Lord Carnarvon, insieme a rappresentanti di numerose missioni archeologiche internazionali che scavano a Luxor. La cronaca dell’avvenimento è riportata dal quotidiano in lingua inglese The Egyptian Gazette in un articolo dal titolo «Il turismo riprenderà nonostante la crisi»…
dell’ultimo numero del bimestrale tedesco. Numerose sono le novità rivelate dalle recenti indagini sul famoso reperto e di cui i nostri lettori sono già stati, in ampia misura, informati (vedi sopra). Vi sono, però, due aspetti particolari, approfonditi dalla rivista, a cui vale la pena accennare. Il primo riguarda una ricerca effettuata negli archivi francesi dalla studiosa Bénédicte Savoy: essa ha fatto luce su una serie di dati – fino a ieri «ignorati» – a proposito del caso Nefertiti, che dimostra come i rapporti diplomatici tra Francia e Germania, prima e dopo la prima guerra mondiale, abbiano giocato un ruolo rilevante nella contesa intorno al busto. Insomma, secondo la studiosa, che all’argomento ha dedicato un recente libro (Nefertiti. Un’affaire
franco-tedesco, 1912-1913), le stesse polemiche che alimentano la richiesta di restituzione del reperto da parte delle autorità egizie, sarebbero, in ultima analisi, da ricondurre a quella, europea, inimicizia… Il secondo approfondimento riguarda il dibattuto rapporto di parentela che lega la regina Nefertiti alla complessa rete familiare del «clan» di Amarna. Questa volta sono le indagini genetiche e craniometriche, effettuate sulle mummie reali di età amarniana, a confermare un’ipotesi da tempo avanzata dagli studiosi: che Nefertiti e il marito Akhenaton sono, effettivamente, i genitori del piú celebre (e sfortunato) dei sovrani egizi, il faraone-fanciullo Tutankhamon. Per calarsi nell’affascinante e
tuttora misterioso mondo evocato dal ritratto di Nefertiti, non rimane altro che andare a Berlino. La mostra per il centenario della sua riscoperta, in corso fino al 13 aprile, rappresenta, certo, un’occasione unica. Sul nostro sito (www.archeo.it), invece, sono, sin d’ora, disponibili tutti i principali contributi pubblicati sull’argomento dalla nostra rivista.
DOVE E QUANDO «Sotto la luce di Amarna. 100 anni dal ritrovamento di Nefertiti» Berlino, Neues Museum. fino al 13 aprile Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (gio, apertura serale fino alle 20,00) Info www.neues-museum.de; www.imlichtvonamarna.de
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CINA.
di Marco Meccarelli
LE ORIGINI LE ISCRIZIONI RINVENUTE DI RECENTE SU GUSCI DI TARTARUGA E OSSA ORACOLARI NEL SITO DI JIAHU SONO DAVVERO LA TESTIMONIANZA DI UNA PRIMA FORMA DI SCRITTURA, PIÚ ANTICA DI DUEMILA ANNI RISPETTO ALLE PRIME ATTESTAZIONI MESOPOTAMICHE? INIZIA CON L’APPROFONDIMENTO DI UNA SCOPERTA CONTROVERSA QUANTO AFFASCINANTE UNA NUOVA SERIE SU STORIA E ARCHEOLOGIA DEL GRANDE PAESE ASIATICO
I
l dibattito sulle origini della civiltà cinese verte, oggi piú che mai, sul tentativo di identificare e riconoscere i valori e gli apporti materiali, culturali e spirituali che possiamo considerare come elementi qualitativi della sua identità: una premessa che spesso condiziona gli studiosi, stimolando non poche suggestioni e fantasie. Il quadro culturale della Cina preistorica costituisce, infatti, una sfida entusiasmante, carica di incognite, per i numerosi dubbi scaturiti dall’emergere di nuovi dati e scoperte che, a ritmo incessante, gettano nuova luce sul nucleo formativo della civiltà e restituiscono lembi di un passato difficile da interpretare. Piú d’una volta, gli studiosi sono stati costretti a modificare, se non a rivoluzionare, le pro-
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prie conoscenze e metodologie di studio, considerate inconfutabili fino a poco tempo prima; a tal proposito, non è da sottovalutare anche l’influenza esercitata, in ambito storico-archeologico, da un approccio talvolta ideologizzato, a opera di una parte della dirigenza politica cinese, attraverso il quale plasmare un sentimento nazionalista, utile per la competizione politica internazionale e che ha piú volte minato la serena valutazione dei dati emersi. Quella cinese, in effetti, è una civiltà che vanta non solo un’origine antica e ancora molto dibattuta, ma anche una sorprendente complessità e continuità storica. La sua «riscoperta», dunque, deve fare i conti con un assunto da cui non si può prescindere: che l’antica Cina rap-
In alto: olla funeraria, con decorazioni in rosso e nero, da Yangshao, nella provincia cinese del Gansu. Età neolitica, Cultura Yangshao, 5000-3000 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale. Sullo sfondo: foto satellitare dei territori della Cina orientale, con la localizzazione del sito di Jiahu. Nella pagina accanto, in alto: il restauro di un ritratto (3290 a.C. circa), scoperto nel sito di Aohanqi (Mongolia interna): raffigura, forse, un sovrano della cultura neolitica Hongshan, sviluppatasi nelle regioni nord-orientali della Cina tra il 4700 e il 2920 a.C. Nella pagina accanto, in basso: lo scavo di un’area cimiteriale nel sito neolitico di Jiahu, nella provincia dello Henan, in Cina.
PECHINO
JIAHU
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CIVILTÀ CINESE • LE ORIGINI/1
Hongshan (4700-2900 a.C.) Xinle Xinglongwa (6200-5400 a.C.) (5500-4800 a.C.) Zhaobaogou (5400-4500 a.C.)
Majiayao (3100-2700 a.C.)
Cishan
Houli
(8000-5500 a.C.) (6500-5500 a.C.) Qijia Yanghao 2400-1900 a.C. (5000-3000 a.C.) Anyang XII-XI secolo a.C. Dadiwan (5800-5400 a.C.)
Baodun (2800-2000 a.C.)
Beixin Peiligang (5300-4100 a.C.) (7000-5000 a.C.) Dawenkou Jiahu (4300-3500 a.C.)
Daxi (4500-3000 a.C.)
Qujialing (3100-2700 a.C.)
Pengtoushan (7500-6100 a.C.)
Baiyangeun (3000-1700 a.C.) Shixia (3000-1000 a.C.)
presentò, in tutta la sua straordinaria complessità, un unicum dal punto di vista storico e culturale. In nessun altro luogo al mondo, probabilmente, la simbiosi che si è instaurata, sin dagli albori, tra la natura e l’uomo appare cosí evidente: lo testimonia il pensiero ancestrale cinese e lo spiegano, forse, la vastità sconfinata e la sorprendente conformazione morfologica del territorio, tanto generosa quanto tormentata, che va dalle grandi pianure fluviali agli alti lembi di deposito argilloso chiamato loess, dai ripidi declivi delle pendici himalayane ai deserti che hanno conquistato l’Asia centrale, senza contare la grande varietà di micro-climi, dal sub-tropicale nel Meridione al subartico nel Settentrione. Fin dalle origini, la Cina rappresenta un mosaico culturale che, nell’arco dei millenni, ha seguito un percorso storico molto diverso da quello occidentale, fino a sfociare in una gamma di opzioni, di risposte e di temi comuni che 26 a r c h e o
Majiabang (5000-3000 a.C.)
Liangzhu 3200-2200 a.C. Henudu (5000-4500 a.C.)
Fuguodun (5000-2500 a.C.) Dapenkemg (5000-2500 a.C.)
compongono un patrimonio cul- Cartina delle culture attestate in Cina turale sconfinato e in gran parte nel corso del Neolitico. Il colore inesplorato. arancione indica le aree in cui la
MIGLIO E RISO Ancora oggi, le culture che dal tardo Paleolitico (antica età della Pietra 40 000-10 000 a.C. circa) iniziarono a levigare utensili in pietra, a produrre terracotta e a inglobare all’interno della propria dieta piante coltivate e animali domestici, vengono convenzionalmente suddivise in due grandi gruppi di siti archeologici appartenenti al Neolitico (età della Pietra recente 8000-2000 a.C. circa): uno a nord, lungo la valle del Fiume Giallo (Huanghe) e del suo affluente Wei verso occidente, che per il clima secco si specializza nella coltivazione del miglio; e un gruppo a sud del Fiume Azzurro (Yangzijiang), dove l’agricoltura si basa, per il clima piú umido e piovoso, sulla coltivazione del riso. La ricognizione archeologica in un territorio cosí esteso rende complicata una periodizzazione comune
sussistenza dei vari gruppi si basava sulla coltivazione del miglio; in verde, invece, quelle in cui era il riso a costituire l’elemento base della dieta alimentare.
attendibile delle varie fasi neolitiche, caratterizzate da differenti livelli di sviluppo tra le culture che, nello stesso momento, mantengono stadi e caratteri fortemente distintivi. In genere, però, si evidenzia un continuum culturale dal tardo Paleolitico al Neolitico piú recente, espresso nel passaggio – sul piano sociale – da un sistema relativamente semplice e omogeneo a uno complesso e fortemente stratificato. Nell’ultima fase, soprattutto dal III millennio in poi, si registra un considerevole aumento delle aree di distribuzione e delle reti di comunicazione tra le culture della Cina settentrionale e quelle meridionali, preludio alla formazione delle élite
A sinistra: macina in pietra per cereali, con il suo macinello, da Xinzheng. Cultura Peiligang, 7000-5000 a.C. circa. Zhengzhou, Museo provinciale dello Henan.
dominanti, grazie al controllo e alla gestione della sfera del sacro. Lo stanziamento di numerose culture e sub-culture all’interno di una vasta e continua sfera geografica, di cui risulta complicato perfino tracciare i confini, ha generato una serie di ipotesi, spesso contrastanti tra di loro, sui processi formativi della civiltà cinese. Il modello marxista, per esempio, adottato dagli anni Trenta del Novecento in poi, prevedeva che le facies neolitiche rientrassero nello schema di sviluppo unilineare della suddivisione in tre periodi principali (Primitivo, Schiavista e Feudale). Nonostante la sua rilevanza, la teoria ignorava, però, i processi di sviluppo interni propri della
complessità socio-economica della Cina preistorica. Alcuni studi recenti, invece, si sono soffermati soprattutto sulle problematiche derivanti dalla particolare collocazione storico-geografica della Cina antica, un territorio di estensione considerevole, «inserito» tra il Vicino Oriente da una parte, e il Nuovo Mondo, dall’altra.
In basso: alcuni dei flauti ricavati da ossa di Grus japonensis, rinvenuti a Jiahu, databili tra i 9000 e i 7000 anni fa, considerati tra gli strumenti musicali piú antichi al mondo.
Per affrontare questo complesso problema delle origini, sono state a lungo postulate – e talvolta riaffiorano ancora oggi – teorie circa un’improbabile «derivazione occidentale» della civiltà cinese; studiosi cinesi e non solo, poi, propongono un approccio che si avvale, in un quadro multidisciplinare, dell’apporto del vasto contesto mi-
Una musica ancestrale Durante le indagini effettuate tra il 1984 e il 1987 vi fu la sorprendente scoperta di un flauto dai sette fori, primo di una fortunata serie di ritrovamenti analoghi (a oggi, fra esemplari completi e frammenti, Jiahu ha restituito almeno 30 flauti). Lo strumento è ricavato da ossa della cosiddetta «gru della Manciuria» (Grus japonensis, foto a sinistra), una tra le specie piú rare al mondo. È conosciuta in Asia come simbolo di fortuna e fedeltà e, in Cina in particolare, come la «gru fatata» (xianhe), tanto da essere spesso evocata nei racconti mitici. Secondo gli archeologi che hanno scavato a Jiahu, altri reperti trovati nelle tombe ne confermerebbero la funzione di strumento musicale, come i numerosi gusci di tartaruga, che contenengono piccole pietre con foro passante, varie per dimensioni, colore e numero, verosimilmente usati come sonagli. Insieme ai flauti, avrebbero prodotto una melodia scandita dal forte ritmo, con cui accompagnare la danza rituale. È stato possibile anche ricostruire la scala musicale, che va dalla tetratonica e pentatonica di una coppia di flauti del periodo piú antico, all’esatonica, attestata nella fase intermedia, fino all’innovazione dell’ultimo periodo, che comprende anche l’uso della scala eptatonica.
CIVILTÀ CINESE • LE ORIGINI/1
DALLA CINA CON STUPORE Le ultime novità da Jiahu in un colloquio con l’archeologo Zhang Juzhong Nel 1987 a Jiahu fu scoperto lo scheletro di uomo adulto privo della testa, con otto gusci di tartaruga e un osso a forma di forcella. Nella parte inferiore di un carapace quasi intatto era inciso un segno a forma di occhio (vedi foto a destra e in basso). Dell’importanza di quel ritrovamento e degli sviluppi negli studi di quello e di altri segni simili abbiamo parlato con Zhang Juzhong dell’Università della Scienza e della Tecnologia della Cina (USTC), Hefei, Anhui.
◆A che punto siamo con l’indagine
finora svolta a Jiahu? Quali sono le nuove prove? Sono ancora in fase di analisi e di studio i materiali rinvenuti nell’ultimo scavo (il settimo) del sito, effettuato nel 2001, che ha restituito nuovi elementi interessanti, riferibili al contesto faunistico, alla flora, alle tecniche agricole, agli usi alimentari ma anche all’interazione tra Jiahu e le altre culture.
◆ S ono quindi emersi dei contatti con culture diverse? Certamente, gli antenati di Jiahu erano in stretto collegamento con altri esseri umani vicini.
◆D agli ultimi studi, come quelli
condotti dalla sinologa Paola Demattè, pare che i segni rinvenuti a Jiahu non presentino un valore di scrittura. Qual è il
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suo punto di vista? E sono state trovate altre iscrizioni? Fino al 2001 sono stati riconosciuti almeno 16 segni su 14 frammenti di gusci di tartaruga, terrecotte, ossa oracolari e pietre. Dal mio punto di vista, i segni sono stati causati da interventi umani intenzionali, che riflettono un certo modo «fantasioso» di esprimersi tra gli antichi abitanti del luogo. Tuttavia, essi non hanno mostrato la funzione di caratteri veri e propri. In altri siti archeologici, lungo il fiume Huai, ne sono stati identificati altri – anche se in numero di gran lunga inferiore –, che testimoniano come fosse in uso tra la popolazione un sistema di tracciare segni molto simile a Jiahu. Durante gli scavi sono stati scoperti anche flauti in osso, residui di bevande alcoliche, strumenti rituali e altri reperti che testimoniano come gli
abitanti di Jiahu fossero in grado di inventare e utilizzare i caratteri originali. Tutto ciò sembrerebbe attestare che vi fosse un originale sistema preistorico di tracciare segni, perlomeno lungo il fiume Huai, ma a Jiahu, in particolare, si registrerebbe forse una prima manifestazione di questo lungo ed elaborato sistema di scrittura.
◆ C ome possiamo chiamare oggi i
segni incisi sui gusci di tartaruga e sulle ossa oracolari di Jiahu? Attualmente si tende a definirli in maniera generica «segni incisi», ma sono anche conosciuti come «caratteri originali» oppure «segni da cui derivano i caratteri originali».
◆Q ual è la piú grande difficoltà
che state riscontrando? Al momento l’ostacolo maggiore è costituito dal fatto che i segni non
LA DIVINAZIONE: UNA PRATICA ELITARIA Nel periodo Shang (1600-1100 a.C.) il livello di stratificazione sociale era assai avanzato e il rituale della divinazione su ossa oracolari (scapulomanzia) e su gusci di tartaruga (plastromanzia) acquisí un’importanza tale da legittimare il potere del sovrano nei confronti del popolo, laddove lo stesso re era spesso il capo-sciamano. La divinazione soggiaceva a rituali elaborati controllati da specialisti preposti a incidere, in punti precisi, le iscrizioni contenenti una domanda riferita alla sfera politica, religiosa e culturale; in base alla direzione delle screpolature causate dall’esposizione al fuoco, l’indovino deduceva il tenore della risposta. La pratica divenne uno strumento indispensabile per i membri della classe che aveva conquistato tale privilegio: in pratica, politica, religione e cultura erano strettamente integrate. Malgrado l’aspetto grafico, ancora relativamente primitivo, i caratteri cinesi incisi di quest’epoca rivelano già un’alta capacità d’astrazione e di sistematizzazione. Si è soliti considerare le iscrizioni Shang, infatti, piú che un punto di partenza, il primo risultato di una lunga elaborazione che testimonia come, sin dall’antichità, i princípi costitutivi della scrittura cinese appaiano già definitivamente fissati. risultano totalmente chiari e comprensibili; non si può effettivamente parlare, a oggi, di un vero e proprio fenomeno in quanto non è stato finora trovato altrove un considerevole numero di segni incisi sugli stessi reperti scoperti a Jiahu.
◆A suo giudizio quale ruolo ha
avuto Jiahu tra le culture del Neolitico cinese? Gli insediamenti a Jiahu e, nello stesso periodo, in altri siti a Occidente, testimoniano uno sviluppo simultaneo, ma anche un livello raggiunto estremamente avanzato nelle arti, nelle tecniche agricole, nell’addomesticamento e negli antichi reperti dell’Asia orientale.
Guscio di tartaruga iscritto, utilizzato a scopo divinatorio, in epoca Shang (1600-1100 a.C.). Toronto, Royal Ontario Museum.
In alto: osso oracolare iscritto di epoca Shang (1600-1100 a.C.), da Luoyang, nella provincia dello Henan.
tologico come fonte primaria di spiegazione scientifica. Fino a quasi tutti gli anni Settanta è prevalsa la teoria secondo cui la civiltà cinese avrebbe avuto origine da una vera e propria «area nucleare», localizzata nell a P i a nu r a C e n t r a l e (Zhongyuan), lungo la media valle del Fiume Giallo, e che da lí si sarebbe ir radiata verso zone geografiche cosiddette «periferiche».
NELLA PIANURA DELLE ORIGINI Ancora oggi l’elevato livello di sviluppo conseguito dalle culture in questa vasta zona centrale viene giustamente riconosciuto almeno a partire dal tardo Neolitico oppure dall’età del Bronzo (dal 2000 a.C.), ma c’è chi ne anticipa l’importanza fin dalla cultura Yangshao (50003000 a.C.), la prima a essere identificata e studiata, e di cui sono stati ritrovati oltre mille siti nel bacino del Fiume Giallo e nel Gansu, l’area in cui sarebbe avvenuto il passaggio dall’organizzazione sociale matriarcale a quella patriarcale. Al di là di tutto, è fuori discussione che proprio nella Pianura Centrale si siano stabilite le tre dinastie preimperiali: la semileggendaria Xia, la Shang e quella Zhou (2100-221 a.C. circa). In questi secoli l’unifia r c h e o 29
CIVILTÀ CINESE • LE ORIGINI/1
cazione di terre e agglomerati umani e urbani coincise con un’elevata tecnologia del bronzo, una scrittura già pervenuta a uno stadio di piena maturità e un apparato statale complesso. Ma quando la ricerca archeologica ha iniziato a prendere in esame aree piú vaste, fino ad allora considerate «periferiche», ci si è resi conto della necessità di abbandonare l’ipotesi di una cultura centralizzata e monolitica, apparentemente omogenea, un quadro che mal si accorda con il complesso e articolato mosaico cinese. Protagonisti di un vivace dibattito scientifico che ha visto mettere in discussione la teoria dell’«area nucleare» sono stati due studiosi cinesi, gli archeologi Su Bingqi (19091997) e Kwang-chih Chang (19312001): quest’ultimo, in un primo momento, ne era stato un fervente sostenitore.
SVILUPPO INDIPENDENTE O INTERAZIONE? Su Bingqi ha ipotizzato la formazione di sei divisioni regionali, piú o meno coesistenti con gruppi etnici distinti, che hanno dato origine a diverse culture locali, fino a integrarsi tra di loro, pur mantenendo una propria specificità (la cosiddetta teoria dello «sviluppo multiregionale indipendente»). Kwang-chih Chang, a sua volta, ha rilevato come l’antica civiltà cinese abbia incorporato diverse culture regionali e gruppi etnici, sorti separatamente in vari territori entrati in contatto tra di loro in modo interdipendente, mantenendo le proprie risorse ambientali e storiche. Quest’ultima teoria viene definita «sfera di interazione culturale comune» o «sfera di interazione cinese o protocinese»; talvolta viene indicata anche con «stile Longshanoide», perché si riferisce in particolare alla tarda cultura Longshan (3000-2000 a.C. circa), che avrebbe dominato la zona centro-settentrionale (Shandong, Henan e Shaanxi), all’inter no 30 a r c h e o
L’ETÀ DELLA GIADA Grazie ai continui ritrovamenti archeologici, si è potuto ridefinire il profilo degli orizzonti neolitici e tardo-neolitici della preistoria cinese, soprattutto nelle regioni che si estendono dal Nord-Est fino alla fascia costiera e lungo il corso del Fiume Azzurro, dove sono state scoperte numerose culture. Queste ultime sembrano condividere un’avanzata industria della giada che si è mantenuta nel tempo, tanto da indurre alcuni studiosi, soprattutto cinesi, a proporre l’adozione di una nuova categoria nella periodizzazione della Cina antica, con cui classificare un fenomeno, se non esclusivo, comunque tipico di questa civiltà: l’«età della Giada», intermedia tra l’età della Pietra e l’età del Bronzo, collocabile tra il 3500 e il 2000 a.C. Rinvenuti in quantità considerevoli, i manufatti di questo materiale, prezioso e difficile da lavorare, si presentano come simboli dell’autorità religiosa e politica che si legittima anche attraverso il loro possesso. Caratteristiche analoghe si ritrovano nella successiva età del Bronzo, quando alla simbologia espressa dai manufatti in giada si sovrappone quella dei bronzi rituali. Sebbene non possa essere estesa alla totalità delle culture neolitiche, l’età della Giada testimonia l’importanza di cui fu investita la pietra quale strumento per legittimare funzioni e valori di ordine sociale e religioso.
della quale si sarebbe poi conformata la civiltà cinese storica. Il processo di assimilazione proposto dallo «sviluppo multiregionale indipendente» o dalla «sfera di interazione», viene attestato, grosso modo, tra il 3500-3000 e il 2000-1700 a.C. ed emerge da comparazioni cronologiche e stilistiche. Anche i piú recenti dati archeologici sembrano attestarne la validità, in quanto l’interazione comprende non solo il prestito, fra culture neolitiche, di stili e tipi
ceramici, ma anche la diffusione interregionale di competenze tecniche (come la coltivazione del riso a settentrione). È opportuno precisare che, in questo modo, il ruolo della Pianura Centrale non viene messo in discussione, ma ne viene rivoluzionata la portata: l’ampia zona, infatti, si pone come centro di aggregazione (processo «implosivo»), piuttosto che, secondo quanto suggerisce la «teoria nucleare», come esclusivo centro propulsivo (pro-
rone, liscio o decorato, evidenziano la presenza di una produzione agricola già avanzata. A questa cultura appartiene il sito di Jiahu (distretto di Wuyang), lungo la valle del fiume Huai, nel Sud della provincia dello Henan, scoperto nel 1962 dall’archeologo Zhu Zhi. Lo studio delle stratig rafie e l’analisi stilistica dei materiali, unitamente alle datazioni al radiocarbonio, hanno permesso di riconoscere tre distinte fasi di frequentazione (tra il 7000 e il 6600 a.C., tra il 6600 e il 6200 a.C., e tra il 6200 e il 5800 a.C.), seguite dall’abbandono, forse causato da inondazioni.
In alto: asce (in alto e in basso) e dischi cerimoniali (al centro), noti con il nome di bi. Età neolitica, IV-II mill. a.C. Toronto, Royal Ontario Museum.
Nella pagina accanto: ancora un bi, disco cerimoniale in giada. Databile tra la fase tarda della cultura Longshan (3000-2000 a.C.) e l’età degli Zhou orientali (770-256 a.C.).
cesso «esplosivo»), per la formazione della civiltà cinese. Quest’ultima, dunque, incorporerebbe e conserverebbe nella propria identità, sin dalle origini, diverse realtà regionali, portatrici di risorse ambientali e storiche peculiari. Situata propr io nella Pianura Centrale, la cultura di Peiligang viene annoverata tra le piú antiche del Neolitico della Cina: essa comprende un centinaio di insediamenti lungo il bacino del fiume Luo, soprattutto nella parte
centrale della provincia dello Henan. In base alle misurazioni al radiocarbonio, la cultura è datata approssimativamente fra il 7000 e il 5000 a.C. e viene di solito assimilata alla vicina cultura Cishan, oltre a essere una delle antenate della cultura Yangshao. Il sito eponimo, Peiligang (distretto di Xinzheng), è stato scoperto nel 1976. I reperti in esso rinvenuti, da macine, mole e falcetti in pietra a vasellame in terracotta grigio e mar-
UN ANTICO PRIMATO Il sito di Jiahu ha rivelato tracce inattese di coltivazione del riso (seppur non esclusiva fonte di sostentamento), nonostante appartenga alla sfera geografica settentrionale della Cina, specializzata nella piantagione del miglio (vedi la cartina a p. 26). Questo fenomeno ancora dibattuto, perché quasi isolato, impone un r iesame sull’ipotesi che il miglio e il riso siano stati prodotti da comunità tutt’altro che separate. A Jiahu, inoltre, tracce di riso combinato con miele e frutta, mediante un particolare procedimento di saccarificazione dell’alcol, sono state rinvenute sui residui organici di alcuni frammenti di terracotta databili al 70005000 a.C. circa: secondo l’archeologo molecolare Patrick McGovern (Università di Pennsylvania), probabilmente il sito detiene, per questo, il primato delle piú antiche attestazioni di bevande alcoliche. Circondato da un fossato che copre un’area di 55 000 mq, di cui è stata al momento scavata una superficie pari a 2700 mq, Jiahu sembra testimoniare, almeno dalla fase media e tarda, una considerevole stratificazione sociale; lo testimoniano i resti di 45 fondazioni abitative, 9 forni per la proa r c h e o 31
CIVILTÀ CINESE • LE ORIGINI/1
duzione fittile, 436 cinerari e 349 tombe, contenenti oggetti di culto con manufatti, ornamenti rituali e strumenti musicali. Nel 2001 il sito è stato scavato per la settima volta e, in quell’occasione, sono state ritrovate altre 8 fondazioni di case, 3 forni, 96 tombe, 32 urne funerarie e 12 fosse sacrificali per animali. Tra i reperti piú significativi, sono stati rinvenuti circa trenta flauti, databili tra i 9000 e i 7000 anni fa, utilizzati probabilmente per i rituali cerimoniali, ormai considerati tra i piú antichi strumenti musicali al mondo (vedi box a p. 27).
a.C.), l’antica Anyang, ovvero l’ultima capitale della dinastia Shang (XVI-XI a.C.), quando il sistema di scrittura risulta già pienamente sviluppato. Studiosi dell’Università della Scienza e Tecnologia (USTC) di Pechino, ricercatori come Garman Harbottle (Brookhaven National Laboratory, New York) e archeologi come Zhang Juzhong e Wang Changsui
dell’USTC di Hefei (Anhui), guidati da Li Xueqin, si sono uniti per dimostrare – in un articolo pubblicato sulla rivista Antiquity nel 2003 – come i segni grafici di Jiahu mostrino molte affinità stilistiche con le iscrizioni utilizzate, alcuni millenni dopo, in epoca Shang. Con esse condividerebbero la stessa pratica divinatoria su ossa oracolari (scapulomanzia) e su gusci di tarta-
QUEI SEGNI SU GUSCI E OSSA... Come se non bastasse, la scoperta nelle tombe di segni incisi su gusci di tartaruga e su ossa oracolari, risalenti al 6600-6200 a.C., rivoluzionerebbe le testimonianze delle piú antiche forme di scrittura divinatoria, ritrovate molto piú tardi, ma sempre nello Henan, soprattutto a Yinxu (XIII-XI
Le prime bollicine? In alto: fiasche a collo svasato, da Jiahu. 7000-6000 a.C. Analisi sulle pareti interne dei contenitori hanno rivelato la presenza di tracce di bevande ottenute dalla fermentazione di riso, miele e frutta. Potrebbe trattarsi della piú antica testimonianza di produzione di bevande alcoliche. L’archeologo molecolare Patrick McGovern (nella foto alla pagina accanto) ha preso le mosse dai risultati di queste analisi per replicare sperimentalmente il processo di fermentazione messo a punto dalla comunità neolitica di Jiahu, ottenendo una sorta di birra (foto qui accanto).
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ruga (plastromanzia). I reperti rin- bevande alcoliche rafforzerebbero, deposizione o forse da un intervenuti all’interno di 24 tombe atte- però, l’ipotesi secondo cui a Jiahu si vento umano piú tardo. Ciò non toglie il fatto che la studiosterebbero cosí una continuità sto- praticavano rituali sciamanici. rica tale da precedere di oltre 2000 Il dibattito piú recente si è spostato sa abbia esteso il campo di ricerca anni i rinvenimenti delle piú anti- soprattutto sull’autenticità dei se- sulle origini della matura scrittura che testimonianze di scrittura fino- gni. Nel 2010, la sinologa Paola Shang, verso altre culture neolitiche Demattè, in un articolo pubblicato successive a Jiahu. Le iscrizioni rira conosciute in Mesopotamia. La straordinaria scoperta ha inne- sul Cambridge Archaeological Journal venute a Dawenkou (4300-3500 scato un confronto accademico: («The Origins of Chinese Writing: the a.C.), Liangzhu (3200-2200 a.C.) e Shijiahe (2500-2000 William Boltz (Università a.C.), infatti, su materiali di Washington, Seattle) evidenzia la mancanza di Le ricerche piú recenti e, in differenti (dalla terracotta alla giada) e in zone dialtre iscrizioni in un periodo di tempo (i circa particolare, il caso di Jiahu stanti tra loro (tra la bassa 5000 anni che intercorro- confermano la complessità valle del Fiume Giallo e la media e bassa valle del no tra i reperti di Jiahu e le iscrizioni Shang) tropdel dibattito in corso sulle Fiume Azzurro) attestano il lungo e torpo lungo; David N. origini della civiltà cinese comunque tuoso «cammino» della Keightley (Università di scrittura cinese. Berkeley), forse il piú Alla luce delle attuali ingrande studioso di ossa oracolari, invita alla prudenza e mi Neolithic Evidence»), rileva dall’ana- dagini, solo lo studio metodico e ha personalmente confidato che: lisi di tre segni sulle ossa oracolari nuove scoperte archeologiche po«non è affatto chiaro se le tracce si di Jiahu (databili al 5500 a.C.) tranno avvalorare l’ipotesi che la riferiscano alla divinazione. Potrei un’incomprensibile mescolanza di scrittura Shang, prima di raggiunsolo esortare a considerarne l’au- forme di scrittura; inoltre il taglio gere la sua uniformità stilistica, abtenticità con estrema cautela, finché a «V» e il colore estremamente bia assorbito o soppiantato sistemi non avremo altre prove». Gli stru- chiaro dell’incisione suggeriscono grafici già distinti e preesistenti, menti musicali (flauti) e i resti di che le tracce siano state causate da all’interno della «sfera d’interazione comune». Lo sviluppo è forse avvenuto in luoghi anche molto distanti tra loro, con tempi di gestazione lenti, ma graduali; al di là delle ipotesi, la continua scoperta di protocaratteri, come vengono definiti, lo testimonierebbe. Le problematiche fin qui esposte e le ricerche piú recenti, riferibili anche al caso di Jiahu, confermano dunque la complessità del dibattito in corso sulle origini della civiltà cinese. Ciò che emerge in maniera evidente tra gli studiosi è l’attitudine a considerare, con rigore metodologico, le massicce correnti di interazione, piú o meno geograficamente circoscritte, che hanno legato tra loro le diverse aree culturali, in una proficua rete di interscambi. Sembrerebbe risiedere proprio qui la chiave interpretativa della coscienza culturale cinese sin dalla sua preistoria. (1 – continua) NEL PROSSIMO NUMERO • L’età della Giada a r c h e o 33
DELFI
L’OMBELICO DEL MONDO di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
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Qui sopra: l’interno di una coppa a figure rosse con Zeus che interroga l’oracolo di Delfi. 440 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen. Sulle due pagine: Delfi, il teatro. Costruito nel IV sec. a.C., l’edificio fu restaurato dal sovrano attalide Eumene II nel 159 a.C. e poi ancora in età romana.
ZEUS IN PERSONA SVELÒ ALL’UOMO DOVE SI TROVASSE IL CENTRO DEL MONDO: ERA AI PIEDI DEL PARNASO, TRA ARGENTEE DISTESE DI ULIVI. QUI SORSE IL LUOGO SACRO AD APOLLO CHE, TUTTORA, CUSTODISCE I SEGRETI DI UN CULTO ANTICO E «VISIONARIO», LEGATO ALLA MISTERIOSA FIGURA DEGLI ORACOLI
D
elfi non è soltanto un simbolo della storia della cultura dell’uomo occidentale, è anche un luogo che suscita, ancora oggi, un’emozione forte, unica. Occupa un posto particolare nell’elenco dei grandi siti archeologici della Grecia, e vediamone il perché. Innanzitutto, forse, per la sua posizione all’interno di un paesaggio grandioso, che colpisce il visitatore per la sua bellezza drammatica, creata da ripide montagne, ampie valli digradanti, lontane insenature del mare. Delfi sorse distante da ogni grande centro abitato – una caratteristica che gli è tuttora propria – a 550 m di altitudine, sulle pendici meridionali del Monte Parnaso. Alle spalle del santuario, in direzione nord, lo sguardo del visitatore viene frenato dalla mole delle Fedriadi, imponenti pareti rocciose che s’innalzano quasi in verticale; voltandosi a sud, lo sguardo si perde in uno spettacolo senza confronti: uno scintillante e ininterrotto tappeto grigio-verde, formato da una miriade di alberi d’ulivo, si estende dal sito archeologico fino alla piana di Anfissa e al Golfo di Corinto.
LE AQUILE DI ZEUS Il sito del tempio era stato scelto dallo stesso dio Apollo: era un luogo ai piedi del Parnaso, la dimora delle Muse, presso la limpida fonte Castalia, tra le due rupi Fedriadi, ardui e splendenti spuntoni di roccia che si innalzavano a creare una vera, titanica porta del sacro. Qui si trovava, nel pensiero ellenico, l’ombelico del mondo, che Zeus aveva segnalato all’uomo facendovi atterrare una coppia di aquile giunte dai confini estremi dell’universo. L’ombelico, od omphalos, era una pietra ogivale cava, scolpita come se fosse
a r c h e o 35
DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA
coperta da una spessa rete annodata, custodita, in origine, insieme a un inestinguibile fucoco sacro, nel tempio di Apollo.Tradizioni successive identificarono l’omphalos di Delfi come il masso che Rea aveva fatto inghiottire a Crono, facendogli credere, beffandone gli appetiti, che si trattasse del piccolo Zeus. Certo è che nel santuario si celava la Pizia (o Pitonessa), la potente sacerdotessa che pronunciava gli oracoli nel nome di Apollo. Tracce del culto sono state ricondotte a età micenea, nel tardo II millennio a.C. Il santuario di Delfi era centro di politiche e progetti aristocratici. All’oracolo si attribuivano predizioni epocali, quali il diluvio universale e la rigenerazione del mondo operata da Decaulione, l’impresa degli Argonauti e l’esito della guerra di Troia. Piú concretamente, tra il VII e il VI secolo a.C., esso favorí con i suoi responsi l’espansione coloniale ellenica nel Mediterraneo.
ORACOLI: ISTRUZIONI PER L’«USO» Sebbene fossero spesso insopportabilmente ambigui, gli oracoli di Apollo avevano una tale influenza che le case aristocratiche avevano stabilito una apposita istituzione, l’Anfizionia di Delfi, per regolarne l’«uso». Era un’alleanza formale tra dodici tribú elleniche, che doveva garantire la neutralità degli esiti e la portata degli oracoli: non senza che contrasti e dissapori sfociassero a volte in gravi conflitti e scontri armati (le Guerre Sacre), e addirittura, come avvenne intorno alla metà del VI secolo a.C., nell’incendio e nella distruzione generale del luogo di culto. In onore del dio e delle sue imprese, in alternanza alle Olimpiadi, si tenevano i Giochi Pitici, che comA destra: cartina della Grecia con la localizzazione di Delfi. In basso: una veduta del tempio innalzato in onore di Apollo.
prendevano competizioni artistiche, danza, gare atletiche e corse con quadrighe disputate nell’apposito stadio (vedi box a p. 47). L’importanza dell’oracolo pizio cominciò a declinare all’epoca delle prime spedizioni persiane, in corrispondenza del tracollo delle principali case aristocratiche e del trionfo della politica democratica ateniese, che focalizzò il culto di Apollo sull’isola di Delo. Tuttavia, il culto delfico si perpetuò, senza interruzione, per quasi duemila anni, fino a che i decreti teodosiani (391-392 d.C.), una decina d’anni dopo aver dichiarato il cristianesimo religione ufficiale dell’impero, non proibirono di fatto gli antichi credi pagani. Delfi decadde rapidamente, mentre il santuario era coperto dai detriti e dalle frane del Parnaso. Secondo la Passione di Artemio, un’opera agiografica altomedievale di Giovanni il Monaco che descrive in modo romanzato la vita di Sant’Artemio, che sarebbe stato perseguitato da Giuliano l’Apostata, quest’ultimo avrebbe mandato Oribasio (320-400 d.C. circa), il suo medico personale, a consultare la Pizia delfica. Costei si sarebbe espressa, per l’ultima volta, in modo insolitamente chiaro: «Dí al re che le sale splendide sono cadute, e che Febo (Apollo) non ha piú una capanna, o un alloro profetico, nè la fonte mormorante; anche l’acqua parlante è muta». Nel 279 a.C., quando un’armata celtica comandata dal capo Brenno giunse alla porta del santuario di Delfi, questo doveva essere già in decadenza; ma è difficile che gli invasori fossero mossi da qualcosa di diverso dal miraggio delle grandi ricchezze che il tempio di Apollo e l’intero santuario dovevano ancora custodire. I Greci, con l’aiuto «soprannaturale» di frane, tuoni e fulmini scagliati dallo stesso Apollo ebbero la meglio e respinsero gli assalitori. Alle soglie del tramonto del mondo classico, il santuario doveva allora conservare quasi intatta l’opulenza originaria, attorniato da una folla di sacelli e tempietti tra i quali spiccavano le sagome delle statue bronzee e di altre offerte. Fu Silla (138-78 a.C.), nell’86 a.C., a impadronirsi del santuario e a saccheggiarne i tesori, e Nerone (37-68 d.C.) rubò e trafugò a Roma altre 500 statue bronzee. Malgrado tali razzie, quando Pausania, nel II secolo d.C., visitò Delfi, la lista delle statue ancora presenti ci appare impressionante.
LA SCOPERTA DI UNA CAPRA Racconta Diodoro Siculo di come Kouretas, un pastore, attirato dagli strani belati di una delle sue capre, avesse scoperto l’accesso di un antro sotterraneo. Penetrato nella grotta, si sentí pervadere dalla presenza divina ed ebbe istantanee visioni del passato e del futuro. 36 a r c h e o
ASCESA E DECLINO DEL SANTUARIO 1400 a.C. circa Prime tracce di insediamento umano, individuate nell’area in cui sorse poi il futuro santuario di Apollo. VIII-VII secolo a.C. Vengono costruiti i primi edifici sacri. Il rinvenimento di numerosi ex voto in bronzo, databili all’VIII secolo, attestano la presenza del culto tributato ad Apollo Pizio. VI-IV secolo a.C. Età di massima fioritura del santuario. Riorganizzazione dei Giochi Pitici. Nel santuario, le città greche dedicano sacelli votivi, i cosiddetti «tesori», in cui si custodiscono preziosi ex voto in oro, argento, avorio e legno. La fama dell’oracolo varca i confini del mondo greco ed egli viene consultato anche da sovrani stranieri. III-II secolo a.C. Durante l’età delle conquiste di Alessandro e dell’espansione di Roma, il santuario di Delfi subisce il contraccolpo della perdita di potere politico delle città greche. Per il complesso religioso inizia un periodo di sopravvivenza. I secolo a.C.-III secolo d.C. Divenuta provincia dell’impero romano, la Grecia conosce un lungo periodo di pace. Il santuario di Delfi partecipa al generale declino culturale e intellettuale del Paese. L’imperatore Adriano visita due volte Delfi. Il santuario subisce la spoliazione dei suoi preziosi doni e dei monumenti. IV-VI secolo d.C. Fine del culto di Apollo e trionfo del cristianesimo.
Tavola che illustra il ritrovamento di un busto di Apollo durante gli scavi condotti nel 1892 dall’équipe francese guidata da Teophile Homolle.
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DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA
Poiché divenne chiaro che i maschi penetrati nella grotta perivano, l’accesso fu ristretto alle ragazze di giovane età, e, quando il luogo divenne un santuario, fu gestito con regole molto rigide da un gruppo di appositi sacerdoti. I piú antichi miti di fondazione di Delfi parlavano di una dragonessa (drakaina) posta a guardia dell’oracolo. Il mostro si chiamava Delfina e il suo nome sopravviverebbe in quello antico e moderno della località (altre versioni, invece, imputavano il toponimo alle sembianze del delfino sotto le quali si celava Apollo quando avrebbe accompagnato una nave cretese al porto naturale della città). In strati mitologici successivi, alla drakaina, a volte confusa con i tratti del mostro serpentiforme Echidna, si
«Di là pieno d’ira, tu [Apollo] procedesti rapidamente verso la montagna e giungesti a Cresa, collina rivolta a Occidente, ai piedi del Parnaso coperto di neve. Su di essa incombe una rupe, e sotto si estende una valle profonda e scoscesa. Là Febo Apollo, il signore, decise d’innalzare l’amabile tempio» (cosí, nell’Inno omerico ad Apollo, viene raccontata la scelta del luogo in cui il dio fece sorgere il suo santuario)
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sovrappose l’immagine di un altro rettile mostruoso, Pitone. Il nome, secondo alcuni studiosi, si collegherebbe alla radice di un verbo greco, pythein, che significa «corrompere, far imputridire». Si tratterebbe della trasformazione di una creatura cosmologica della notte e dell’oscurità, avversaria del fulgore del sole, quindi del potere di Apollo. Pitone divenne poi la vittima, quasi sacrificale, dell’arco e delle frecce del dio, che simboleggiavano, appunto, i raggi solari. Apollo, con la morte del mostro, divenne Pizio; e, in qualità di sauroktonos – «uccisore della serpe» –, il dio sembra aver rifondato la sacralità stessa dell’oracolo nei termini delle nuove generazioni divine, dominate da principi maschili. In questo straordinario gioco di inversioni tra l’animale e l’uomo, il maschio e la femmina, l’antica sacralità
Nella pagina accanto: tavola raffigurante la Pizia, la sacerdotessa addetta al culto oracolare di Apollo, du un dipinto di Henri-Paul Motte. 1890 circa.
femminile del luogo di culto è ricordata dalla figura stessa della Pizia. Le piú antiche statuette di culto trovate nel sito risalgono all’XI-X secolo a.C., e, invece di Apollo, sembrano celebrare una ignota dea arcaica. Singolare è che nell’arte greca alcune raffigurazioni mostrino Apollo convivere pacificamente con il terribile nemico Pitone, tranquillamente acciambellato, come una vipera al sole, sull’ombelico del mondo.
FOGLIE D’ALLORO? Come i pittori rinascimentali, i ceramografi attici rappresentavano la profetessa di Delfi come una attraente giovanetta, ma «assurdamente» seduta in un braciere bronzeo. Posizione e atteggiamento erano del tutto inconcepibili e sconvenienti per una donna delle classi elevate della Grecia antica, ma si riferivano forse al fatto che la profetessa parlava per Apollo, dopo essersi inebriata inalando i vapori di sostanze psicotrope emanati dalle braci. Per alcuni, si sarebbe trattato semplicemente di foglie di alloro, pianta sacra ad Apollo: mentre le sue proprietà aromatiche sarebbero dovute a limitati contenuti di acido cianidrico, la farmacopea popolare ancora attribuisce alle sue foglie proprietà allucinogene e la capacità di suscitare sogni profetici. Il ruolo di Pizia, che secondo le fonti classiche, al culmine del prestigio del santuario, poteva essere contemporaneamente svolto da tre diverse sacerdotesse, richiedeva la castità e una purezza rituale assoluta. Diodoro Siculo (II secolo d.C.) racconta nella sua Biblioteca Storica (16.26.1-4) di come Echecrate di Tessaglia, un generale di Tolomeo IV Filopatore (III secolo a.C.) avesse rapito e violentato la Pizia di Delfi; dopo questo crimine, fu deciso di sostituire le giovani con donne anziane.Vecchie o giovani che fossero,
Testa femminile in avorio con corona e orecchini in oro, forse raffigurante la dea Artemide, da Delfi. VI sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico.
le prescelte rivestivano un ruolo politico di straordinaria rilevanza, tanto piú che ciò avveniva in una società profondamente maschilista, che alle donne, di regola, riservava una vita di sostanziale prigionia e scarso valore. Il portale del santuario delfico era sormontato dal celebre motto «gnothi seautòn» («conosci te stesso»), fatto proprio da Socrate. Come fare a conoscere se stessi e i propri destini? Non era cosa facile. La profetessa, nelle fasi piú antiche, parlava un solo giorno all’anno; successivamente, inziò a vaticinare nel settimo giorno di ogni mese, ma per soli nove mesi all’anno. Per interrogare la Pizia, i fedeli dovevano innanzitutto purificarsi con un bagno nella fonte Castalia e fare una sostanziosa offerta e contendere con una lunga «coda» l’ordine di accesso. Una capra veniva poi aspersa dell’acqua della fonte divina, e dai brividi dell’animale si traevano i primi auspici sulla divinazione. La capra veniva poi uccisa sull’altare e le viscere, soprattutto il fegato, erano lavate nella magica fonte che ancor oggi sgorga presso le rovine del tempio, per essere finalmente interpretate dagli aruspici. Se il vaticinio degli indovini era favorevole, il supplicante era ammesso nell’adyton, la camera sotterranea segreta del tempio di Apollo. La tradizione considerava l’antro una cavità naturale della roccia, probabile sede di culti di remota antichità. Qui la profetessa, a mala pena visibile nell’oscurità, doveva apparire avvolta di un’aura di mistero e paura – e cosí paludata, tramite responsi piú o meno chiari, spesso tradotti e interpretati da sacerdoti specializzati, aveva il potere di influenzare, per bocca del suo dio, le scelte di potenti famiglie, sovrani ed eserciti. (segue a p. 44) a r c h e o 39
DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA
UNO SCENARIO INCANTATO Oggi il sito archeologico di Delfi, fortemente trasformato dalle ricostruzioni di età romana, è una delle mete piú frequentate del turismo archeologico greco. Si presenta come una straordinaria scenografia romantica di rovine – di cui, nella pagina accanto, presentiamo il plastico, esposto nel Museo Archeologico di Delfi –, dovuta in parte agli scavi ottocenteschi della Scuola Archeologica Francese, in parte a limitati interventi di anastilosi (ricostruzione critica degli alzati degli edifici). Al santuario si accede risalendo i pendii del Parnaso lungo la Via Sacra, affiancata da resti di tombe e mausolei di età romana (I secolo a.C.-II secolo d.C.).
IL TEATRO
Sul lato occidentale del tempio la Via Sacra sale fino al magnifico teatro (del IV-III secolo a.C.), da cui si gode di una vista grandiosa su tutta l’area sacra. Insieme al vicino stadio, era sede dei Giochi Pitici. L’edificio poteva accogliere 5000 spettatori e oggi è uno dei monumenti meglio conservati dell’antica città.
IL TEMPIO DI APOLLO
Cuore del santuario delfico era il grande tempio di Apollo, di fronte al quale era posto il piú famoso e venerato dono votivo di Delfi: una colonna in bronzo a forma di serpenti che, in cima, recava un tripode dorato, in ricordo della battaglia di Platea del 479 a.C. Nella stessa area era ubicato il cosiddetto Altare di Apollo, rivestito con lastre di marmo policrome, donato nella prima metà del V secolo dagli abitanti di Chio.
I DONI DELLE POLIS
La Via Sacra costeggia una serie di monumenti dedicati dalle città-stato greche, tra cui il porticato dei Lacedemoni e il monumento degli Ateniesi. Seguono i circa venti «tesori», monumenti votivi che contenevano preziosi doni: il tesoro di Sicione, quello dei Sifni, il tesoro dei Tebani. Proseguendo sulla via si giunge al tesoro degli Ateniesi, un armonioso edificio in marmo pario a forma di tempietto dorico, eretto verso il 490 a.C., e oggi ricostruito. Le metope del monumento (i cui originali si trovano all’interno del Museo) raffigurano il mito di Eracle e Teseo e la lotta contro le Amazzoni. La Via Sacra continua fino a diventare un piccolo slargo su cui si affaccia una serie di monumenti votivi, tra cui la roccia della Sibilla, antenata della Pizia. L’intera area è delimitata a settentrione dall’imponente terrazzamento del Tempio di Apollo, sorretto dal Muro Poligonale, coperto da innumerevoli iscrizioni dedicatorie e votive. Davanti al muro si scorgono i resti di un portico lungo 28 m e sorretto da colonne ioniche.
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DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA A sinistra: testa in oro e avorio, forse raffigurante il dio Apollo. VI sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico. A destra: Delfi. I resti del tempio di Apollo, perlopiú appartenenti alla ricostruzione del IV sec. a.C.
LA CASA DEI CAPOLAVORI Fondato nel 1903, il Museo Archeologico di Delfi si rivelò ben presto insufficiente ad accogliere i copiosi materiali restituiti dagli scavi della Scuola Francese di Atene. Un primo ampliamento si ebbe nel 1938 e poi, nel 1958, l’edificio venne interamente ristrutturato e ingrandito. Un ulteriore intervento si è avuto in anni recenti, in vista delle Olimpiadi disputate ad Atene nel 2004, ed è stato ultimato nel 1999: è stata ridisegnata la facciata dell’edificio e il Museo si è arricchito di nuovi spazi per servizi aggiuntivi, come la caffetteria e il bookshop. La ricchezza della sua collezione è tale da farne uno dei musei archeologici piú belli e importanti della Grecia. Oltre all’Auriga – una delle opere piú affascinati –, tra i capolavori che vi si possono ammirare figurano i due grandi kouroi, esempi della prima scultura monumentale «dorica» (600 a.C.), la Sfinge alata, posta in origina su una colonna alta 10 m, sotto il tempio di Apollo, il Fregio del Tesoro dei Sifni, con la rappresentazione di una Gigantomachia, nonché i frammenti di statue crisoelefantine (in oro e avorio), recuperate nel santuario di Delfi negli anni 1938/39.
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PERCHÉ È IMPORTANTE
Nella pagina accanto, al centro: il rilievo del frontone orientale del Tesoro dei Sifni, raffigurante Zeus che cerca di porre fine alla contesa per il tripode tra Eracle e Apollo. 530 a.C. circa. Delfi, Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in basso: la sfinge che sormontava la colonna votiva dei Nassi, consacrata nel 550 a.C. Delfi, Museo Archeologico. Nell’immagine della mostruosa creatura si combinano concetti fantastici (donna alata, cagna alata) e realistici (viso femminile, ovale, con grandi occhi triangolari, espressione triste, ecc.).
elfi è forse il piú famoso santuario del mondo greco. Luogo di culto dedicato al D dio Apollo e al suo oracolo, esso sorge nell’antica Focide, a 550 m di altitudine e riunisce in sé due particolarità: un grandioso scenario paesaggistico accanto a luoghi e monumenti legati al tempo del mito.
I l pellegrinaggio a Delfi era uno dei momenti piú importanti nella vita religiosa di un greco. L’esperienza mistica del pellegrino iniziava con l’ascesa al santuario, attraverso un percorso montano, alle pendici del Monte Parnaso, scandito da rocce e ulivi dai riflessi argentati, e, al crepuscolo, si concludeva con lo spettacolo dell’ultimo raggio di sole sul golfo di Corinto.
I l santuario di Apollo ebbe una rilevante importanza politica oltre che religiosa sia nella fase greca che durante quella romana. I vaticini dell’oracolo potevano essere interpretati e strumentalizzati nei giochi di potere e in casi di conflitto.
el 1892 gli archeologi della scuola francese d’Atene iniziarono gli scavi del N santuario, dopo avere «spostato» l’intero villaggio moderno di Kastri, che sorgeva sull’area archeologica, nel suo sito attuale. Oggi il santuario di Delfi è uno dei pochi scavi greci completamente visitabile. Dal 1988 è stato inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ancora oggi è la Scuola francese a occuparsi delle ricerche nel santuario.
IL SITO NEL MITO
er i Greci, Delfi era il centro del mondo; qui, per volere di Zeus, si erano P incontrate due aquile partite da due estremità opposte della terra. Nel Museo Archeologico di Delfi si può vedere una riproduzione tarda della pietra conica (omphalos, ombelico) che segnava il luogo mitico dell’incontro dei rapaci.
La tradizione racconta che prima del tempio di Apollo sorgeva qui il tempio di Gea,
È probabile che già nel culto di Gea ci fosse un oracolo che venne mantenuto quando il santuario fu dedicato ad Apollo. Il dio parlava attraverso la sacerdotessa Pizia la quale vaticinava seduta su un tripode, dai sotterranei del tempio.
pollo e la Pizia fecero la fortuna del luogo in tutto il mondo antico allora A conosciuto, Greci e «barbari» venivano in pellegrinaggio a Delfi per consultare l’oracolo. Molti portavano doni o dedicavano monumenti votivi detti «tesori».
la grande madre, difeso dal serpente Python. Forse questo primo luogo di culto era nel luogo dove oggi sorge la fonte Castalia. Apollo uccise il serpente (per cui l’appellativo «pizio») e sostituí il suo culto a quello di Gea e fece costruire un primo tempio, un santuario di legno rivestito di lamine di bronzo.
IL MUSEO DI DELFI
Il primo Museo Archeologico fu costruito nel 1903 e da allora ha subito varie ricostruzioni e ampliamenti. Conserva veri capolavori dell’arte greca, come la statua dell’Auriga, le sculture in avorio con applicazioni in oro (crisoelefantine), le statue in pietra dei gemelli Kleobi e Bitone, la grande Sfinge alata.
INFORMAZIONI PER LA VISITA
Delfi si trova a 169 km da Atene, da dove è raggiungibile con la superstrada
Atene-Corinto fino al bivio di Tebe; da qui si devono poi seguire le indicazioni per Levadia e per la stessa Delfi. Il sito e il museo sono aperti tutti i giorni, dalle 8,00 alle 15,00. Info http://odysseus.culture.gr e www.visitgreece.gr a r c h e o 43
DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA
In un passo dei suoi Moralia, lo storico greco Plutarco (50-125 d.C. circa) – che dal 95 d.C. fino alla morte serví come sacerdote al tempio di Delfi, e quindi dovrebbe essere considerato un testimone piú che attendibile – scrive che la Pizia, per ottenere le visioni, si rinchiudeva in un antro dove «dolci vapori» fuoriuscivano dalle pareti rocciose. Ma di quali sostanze poteva mai trattarsi? Nel 2000, alcuni geologi italiani sottolinearono che il tempio di Delfi sorge in corrispondenza di una importante e pericolosa faglia sismica (cosa ben nota, dato che il santuario era stato distrutto in antico da rovinosi terremoti). Proposero quindi che la grotta o fenditura naturale nel terreno che ospitava il vaticinio della Pizia si fosse aperta per effetto di un violento sisma, e che i misteriosi vapori che inebriavano le profetesse altro non fossero che emissioni carboniose e solforose, a volte causate da simili fenomeni; infatti, se respirati intensamente, tali gas sarebbero stati capaci di indurre torpore, stati ipnotici ed estatici, allucinazioni.
I FUMI DELL’ESTASI Sulla scia di questa ipotesi, negli anni successivi, un team interdisciplinare formato da geologi, archeologi ed esperti di tossicologia analizzò l’acqua della fonte sacra e – poiché chi cerca in genere trova – vi rilevò tracce di metano ed etilene. L’idea fu che questi gas potessero essere stati liberati e diffusi nell’acqua e nell’atmosfera da faglie geologiche apertesi in calcari ricchi di sostanze bituminose. Specialisti in chimica e mineralogia hanno in seguito smentito queste ardite
QUEL CHE RESTA DI DELFI I resti oggi visibili del grande tempio di Apollo – la cui pianta misura 24 x 60 m e la cui cella era cinta, in origine, da 6 x 15 colonne – risalgono al IV secolo a.C. e sorgono sui resti di un edificio precedente, distrutto da un violento terremoto nel 373 a.C. Di una costruzione ancora piú antica, risalente all’età arcaica, sono stati trovati alcuni resti di colonne, capitelli e architravi. Secondo la tradizione mitologica, il tempio venne costruito sul luogo in cui lo stesso Apollo aveva posto un santuario di legno, rivestito di lamine di bronzo. All’interno del tempio, in origine riccamente decorato con preziosi avori, statue e crateri in oro e argento, era la sede, inaccessibile ai profani, in cui la Pizia pronunciava i suoi oracoli. A est del santuario di Apollo, all’imbocco di una profonda gola che si insinua tra le rocce delle Fedriadi, un piccolo cortile pavimentato segna il luogo della leggendaria sorgente della Castalia, la cui acqua serviva al culto e per le abluzioni rituali dei pellegrini. Da uno dei quattro lati del cortile sgorgava l’acqua da tre fontanelle a protome di leone. Una seconda, piú grande fonte fu scolpita nella parte superiore della roccia. Le nicchie scavate nella parete rocciosa, ancora oggi ben visibili, servivano per accogliere i doni votivi. In basso: i resti della sacra fonte Castalia, presso la quale i pellegrini potevano effettuare le abluzioni ritenute indispensabili per la loro purificazione.
In basso: il muro in opera poligonale lungo la StoĂ occidentale, sottostante il tempio di Apollo.
muro poligonale
1. Ingresso 2. Toro di Corcira 3. Monumento votivo degli Ateniesi 4. Monumento votivo degli Spartani 5. Monumento votivo di Argo 6. Tesoro di Sicione 7. Tesoro dei Sifni 8. Tesoro di Megara 9. Tesoro di Tebe 10. Tesoro dei Beoti 11. Tesoro di Potidea 12. Tesoro degli Ateniesi 13. Tesoro dei Cnidi
14. Bouleuterion 15. Asclepieion 16. Rocce e sorgenti sacre 17. Colonna dei Nassi 18. Tesoro di Corinto 19. Tesoro di Cirene 20. Prytaneion 21. Tripode dei Plateesi 22. Monumento votivo di Rodi 23. Altare di Chio 24. Monumento votivo dei Siracusani 25. Tesoro di Acanto 26. Temenos di Neottolemo 27. Monumento votivo dei Tessali
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DELFI • I LUOGHI DELLA LEGGENDA
LA TERRAZZA DEI MARMI Qualche centinaio di metri piú a est della fonte Castalia, in una zona che nel Novecento venne chiamata Marmarià per i numerosi blocchi di marmo che la costellavano, si trovano i resti del secondo recinto sacro di Delfi, quello dedicato ad Atena. Un grande altare (sul quale si sacrificava alla dea) accanto a un tempio dorico di età tardo-arcaica (VI-V secolo a.C.) – il tempio di Atena Pronaia («custode del tempio»), con ancora alcune colonne in piedi – accolgono il visitatore. Pochi passi in direzione ovest e si incontrano le fondamenta, ben conservate, di due «tesori», risalenti alla prima metà del V secolo a.C. Il monumento immediatamente contiguo a essi è forse il piú noto di Delfi, anche a coloro che ancora non si siano recati in «pellegrinaggio culturale» al santuario: si tratta di una tholos, un elegante tempietto dorico dalla pianta rotonda, databile alla prima metà del IV secolo a.C. Delle originarie venti colonne che si elevavano su un basamento composto da tre scalini ne sono state rialzate solo tre, delle restanti restano i frammenti in situ. All’interno, la cella era decorata con semicolonne corinzie e pavimentata con lastre di marmo nero. L’esterno della cella era ornata da un fregio con triglifi e metope (conservate nel Museo di Delfi).
tholos del santuario di atena pronaia
I resti, in pietra calcarea, di un secondo edificio templare di epoca piú recente (IV secolo a.C.), il cosiddetto «nuovo» tempio di Atena Pronaia, concludono l’itinerario di visita al recinto sacro dedicato alla dea. 1. Tempio arcaico o tesori 2. Altari 3. Primo tempio di Atena Pronaia (500 a.C. circa) 4. Tesoro dorico 5. Tesoro ionico dei Massalioti 6. Tholos 7. Ultimo tempio di Atena Pronaia (innalzato dopo il terremoto del 373 a.C.) 8. Casa dei sacerdoti (?)
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I GIOCHI PITICI Prima che Delfi – insieme a Olimpia, Istmia presso Corinto e Nemea – divenisse una delle sedi dei Giochi Panellenici, il santuario doveva già ospitare gare musicali. I Giochi Pitici, comunque, divennero vieppiú frequentati da concorrenti provenienti da ogni parte del mondo greco, sia per partecipare alle gare, sia per godersi quei magnifici giorni di festa, scanditi da rappresentazioni musicali e teatrali. Tra i monumenti che testimoniano l’importanza delle gare delfiche figurano il teatro e, soprattutto, il grande stadio, costruito al di sopra del santuario di Apollo, ancora oggi mirabilmente conservato. All’interno del Museo, inoltre, si può ammirare uno dei capolavori della statuaria in bronzo di stile severo, l’Auriga. L’opera ritrae il conduttore di un carro tirato da quattro cavalli (di cui si sono conservati solo pochi frammenti), dedicato al santuario dal tiranno di Gela, nel 475 a.C., dopo una sua vittoria ottenuta nei Giochi Pitici di quell’anno.
ipotesi, negando che i locali substrati rocciosi potessero generare significative emissioni di etilene e metano, e l’incertezza è tornata a dominare. Occorre inoltre considerare che, nel pensiero degli antichi, e sino al fiorire della «scienza» dell’alchimia, la terra, sotto l’azione dei raggi del sole, emetteva continuamente vapori benefici e malefici, come se fosse stata un organismo vivente; ma non vi era alcuna concezione precisa sulla composizione e sull’effettiva diversità dei vari tipi di tali gas. L’informazione di Plutarco potrebbe ben essere stata generica e di seconda mano. È divertente constatare come in simili casi, alla lunga, miti e leggende abbiano sempre la meglio sulla pretesa oggettività delle analisi scientifiche. NEL PROSSIMO NUMERO
baalbek il mistero dei templi giganti
A destra: la statua bronzea dell’auriga, uno dei simboli di Delfi. Grazie alla dedica, l’opera si data al 475 a.C. Delfi, Museo Archeologico. A sinistra: l’area del santuario di Atena Pronaia, sulla terrazza di Marmarià. Si riconoscono, da sinistra: i resti del Tesoro dei Massalioti, la tholos, i resti del tempio di Atena Pronaia e quelli di un edificio forse destinato ad abitazione dei sacerdoti.
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MITOLOGIA • ISTRUZIONI PER L’USO/1
QUANDO LA TERRA SFIDÒ IL CIELO
Cratere a calice a figure rosse detto «di Anteo», con la lotta tra Eracle e il gigante, da Cerveteri. Opera del pittore Eufronio, 515-510 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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di Daniele F. Maras
La mitologia greca, con la sua ricchezza di trame e storie e la sua immutata efficacia narrativa, conserva il potere di catturare l’immaginazione delle persone e di guidarla attraverso temi e argomenti che, a distanza di millenni, risultano ancora oggi attuali. Questa capacità affabulatrice, aiutata dal talento dei grandi della letteratura classica – da Omero ai tragici, e dai mitografi agli storici – ha colpito e continua a colpire tanto gli scrittori di narrativa, quanto gli studiosi, sia in ambito storico e archeologico che nell’antropologia, e perfino nella psicanalisi. La teoria di Sigmund Freud, che individua nei personaggi «forti» del mito classico altrettanti archetipi delle pulsioni umane e dei relativi conflitti, per quanto dibattuta e non sempre interamente accettata (perché proprio la mitologia greca e non, per esempio, quella mesopotamica, quella egiziana o quella indiana?), continua a mantenere la propria efficacia e presa sul pubblico. Chi non conosce il «complesso di Edipo» o quello «di Narciso»? Ma se nel profilo dei personaggi «problematici», dai tratti psicologici ben definiti, si può riconoscere l’intervento di autori dalla profonda capacità di introspezione, come Sofocle o Euripide, le situazioni e le storie in cui questi personaggi compaiono hanno una tradizione piú antica alle spalle, da ricercare nella letteratura orale, e che, di fatto, rappresentano la produzione corale di un intero popolo, in cui narratori e pubblico interagivano per comporre la «storia perfetta». L’analisi storica e antropologica del Novecento ha ben individuato la fonte della produzione mitologica nel rapporto dialettico tra rito e mito, ovvero tra i codici di comportamento dell’attività religiosa e il racconto delle vicende leggendarie che li giustificano. Nella maggior parte dei casi, le origini di miti e riti si perdono nella notte dei tempi, ma le loro storie seguono percorsi diversi, a volte del tutto slegati: mentre i comportamenti rituali si cristallizzano, perdendo nel tempo il proprio significato o acquistandone altri, e a volte scompaiono, l’efficacia narrativa del mito ne conserva la vitalità ben oltre il proprio contesto culturale, e attraverso la letteratura sfida i secoli, arrivando intatta fino a oggi. Gli schemi della narrativa orale, dai quali dipende la codificazione originaria dei miti, sono stati analizzati in modo magistrale dalla scuola formalista russa, di cui Vladimir Propp è stato uno dei maggiori esponenti. La struttura dei miti equivale in molti casi a quella delle fiabe, tramandate oralmente fino a tempi recentissimi e penetrate nella letteratura nelle forme raccontate dai fratelli Grimm, da Charles Perrault o da Italo Calvino. Il confronto tra queste strutture formali, il rapporto con i riti conosciuti attraverso l’archeologia e le fonti letterarie, le relazioni tra diversi racconti mitologici, analizzati da una ormai millenaria tradizione di studi, continuano a fornire nuovo materiale per l’interpretazione dei miti e del loro significato storico, che assume forme diverse nei diversi contesti storici. Nelle pagine che seguono daremo il via a una breve serie di contributi dedicati ad alcuni episodi del mito, che hanno avuto particolare fortuna nelle produzioni figurate antiche: cercheremo di individuare i motivi di tale fortuna e di raccontare la vasta gamma di significati e accezioni che ognuno di questi episodi racchiude e che ne ha causato la fama. Non sarà naturalmente possibile raccontare e analizzare l’intero repertorio mitologico classico, troppo esteso perfino per essere solo elencato; può essere utile invece scegliere un taglio tematico e abbiamo, cosí, optato per la scelta di un taglio tematico e, nelle prime puntate, ci occuperemo delle grandi battaglie della mitologia greca. E cominciamo dalla grande contesa che vide opporsi gli dèi e i Giganti e alla quale partecipò anche Eracle. a r c h e o 49
MITOLOGIA • ISTRUZIONI PER L’USO/1
N
ella Teogonia (opera in cui descrive la nascita dell’universo e la genealogia degli dèi, n.d.r.), il poeta greco arcaico Esiodo ha affrontato in modo sistematico, già nel VII secolo a.C., la grande massa di materiale mitologico di cui si era servito Omero, come sfondo e ambientazione leggendaria per la guerra di Troia e le peregrinazioni di Ulisse. In realtà la Grecia, lungi da essere abitata da un popolo omogeneo e culturalmente unito, mostrava una congerie di tradizioni mitologiche e religiose, appartenenti alle varie città e gruppi etnici, diversificata e stratificata almeno quanto i dialetti e gli aspetti della cultura materiale, e sparsa su tutto il territorio, comprese le isole e le colonie oltremare. L’operazione di Esiodo, quindi, fu artificiosa e in parte arbitraria, dal momento che ricucí e unificò in un quadro unitario queste tradizioni, scegliendone alcune a danno di altre (meno conciliabili), e riunendo in una narrazione unica le genealogie divine ed eroiche dall’origine dei tempi fino alle soglie dell’epoca storica. Ciononostante, il potere unificante e identitario di questa mito-
logia comune, cosí come era stato per i trascorsi eroici cantati dall’epica omerica, forniva un motivo di fratellanza e coesione alle diverse comunità greche; e, ancora oggi, questa letteratura comune delle origini contribuisce a creare il «mito» moderno di una tradizione classica unitaria, che eleva la cultura greca a modello di civiltà di fronte al resto del mondo barbaro.
DIVINITÀ RIBELLI Proprio l’opposizione ai barbari e la difesa della civiltà, intesa come baluardo dell’ordine di fronte al caos primigenio, è un motivo ricor-
Piccolo gruppo bronzeo forse raffigurante Eracle che uccide un gigante, dal Basso Egitto. Età ellenistica. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto, in basso: il gigante Encelado vinto da Atena, che lo schiacciò sotto l’Etna alla fine del duello, particolare della decorazione di un piatto a figure rosse, attribuito al pittore Oltos. 525 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
rente nelle narrazioni mitologiche greche, che, spesso e volentieri, raccontano i conflitti tra la cultura ellenica in evoluzione, verso forme sempre piú ordinate e raffinate, e le forze degli elementi e della natura selvaggia, anche umana, che si ribella all’ordine e viene soggiogata dall’intervento di dèi ed eroi. Il mito poneva i primi passi verso la creazione dell’equilibrio cosmico da cui doveva scaturire la civiltà greca già alle origini dell’universo, quando le forze primordiali dominavano ancora la scena ed erano impersonate da dèi potentissimi e imperscrutabili, fra i quali spiccava Gea, la madre «terra», origine di tutte le cose. La storia degli inizi del mondo era organizzata in diverse tappe, corriIn alto: particolare di una spondenti al dominio di dèi supre- Gigantomachia, da Afrodisia di Caria, mi, che si sarebbero succeduti al antica città dell’Asia Minore (oggi in controllo di un universo sempre piú Turchia). II sec. d.C. Istanbul, Museo ordinato. Dall’unione di Gea con Archeologico. La rappresentazione dei Urano, il «cielo», erano nati i Ciclogiganti come mostri dalle gambe pi, i Centimani, e i dodici Titani, serpentiformi è l’esito di una comandati da Crono, il «tempo», evoluzione della loro iconografia, che rovesciò il regno del padre, colche tende ad accentuarne pevole di aver incatenato tutti i figli il carattere «barbarico».
nel Tartaro, e si sostituí a lui nel dominio assoluto. Dal matrimonio di Crono e Rea nacquero gli dèi, che venivano regolarmente inghiottiti dal padre, nel timore che potessero spodestarlo come lui aveva fatto con Urano, fino alla nascita di Zeus, che, salvato con uno stratagemma, insorse contro il padre e liberò i fratelli, ponendosi a sua volta a capo dell’universo. A questo punto tornò in scena Gea che, indispettita dalla sorte toccata ai Titani, suoi figli, suscitò dalla terra i Giganti, incaricandoli di assalire i numi e rovesciare il governo di Zeus.
LA MINACCIA DEL CAOS Tra tutte le «guerre delle origini», il sanguinoso scontro con i Giganti colpí maggiormente la fantasia degli artisti antichi, che ce ne hanno lasciato numerose rappresentazioni, in luoghi e contesti ben diversi. Il motivo di questa fortuna è facilmente spiegato: si trattava, infatti, dell’unico caso in cui gli dèi attualmente in carica, ovvero quelli venerati nei templi e nei santuari dell’epoca storica, avevano dovuto lottare per difendere il proprio ruolo di dominatori dell’universo. La storia ricordava pertanto il racconto della piú grave minaccia all’equilibrio cosmico, sventata soltanto grazie alla superiorità acquisita dai garanti dell’ordine nei confronti dei rappresentanti del caos selvaggio primordiale. A questo aspetto si aggiunse anche un altro importante valore culturale, grazie alla partecipazione di Eracle: l’uomo che seppe diventare un dio. Il Fato aveva infatti decretato che i Giganti avrebbero potuto essere sconfitti solo se un dio e un mortale li avessero combattuti fianco a fianco: con questo mito, pertanto, gli uomini reclamavano il proprio ruolo di garanti dell’ordine naturale accanto agli dèi, sia pure nella forma potenziata e idealizzata di Eracle. È difficile dire se la partecipazione del figlio di Zeus alla battaglia intendesse proiettare il forzuto eroe a r c h e o 51
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al tempo primordiale oppure se la guerra dei Giganti (o «Gigantomachia», come viene definita in greco con un’unica parola) fosse considerata vicina nella storia mitica dei Greci: in fin dei conti Eracle era considerato piú antico solo di qualche generazione rispetto alla guerra di Troia. Stando al mito, la Gigantomachia fu una lotta senza esclusione di colpi, che richiese anche espedien-
ti di astuzia e spregiudicatezza. Conoscendo la profezia dell’intervento dei mortali, Gea aveva generato da se stessa (essendo la madre terra) un’erba che aveva il potere miracoloso di proteggere i Giganti, suoi figli, dai colpi degli uomini. Ma Zeus aveva già pronta la contromossa e in una notte artificiale – provocata ordinando a Elio, Selene ed Eos (rispettivamente dèi del sole, della luna e dell’aurora) di
Particolare della Gigantomachia scolpita a rilievo sul fregio nord del Tesoro dei Sifni a Delfi. 525 a.C. circa. Delfi, Museo Archeologico. Un gigante, qui raffigurato con l’elmo, viene assalito da uno dei leoni che tirano il carro della dea Cibele.
non illuminare il mondo – raccolse tutte le piante e le distrusse, privando i nemici di quella preziosa «assistenza medica». I Giganti dettero allora la scalata al cielo, utilizzando al proprio meglio le incredibili doti di possanza fisica che li caratterizzavano: misero infatti una sopra l’altra le montagne dell’Olimpo, dell’Ossa e del Pelio, giungendo cosí ad altezze inimmaginabili. Si battevano come selvaggi, brandendo macigni, tronchi incendiati e qualunque arma «naturale» avessero a disposizione, contrapposti all’armamento organizzato degli dèi, che usavano lance, frecce e corazze, nonché armi speciali, come il fulmine di Zeus e il tirso di Dioniso (il bastone avviticchiato di pampini e sormontato da una pigna che era uno degli attributi del dio, n.d.r.).
IL RACCONTO DI APOLLODORO Probabilmente esistevano diverse opere epiche o poetiche dedicate alla battaglia dei Giganti, ma, in realtà, l’unico resoconto dettagliato giunto fino a noi è quello della Biblioteca del filologo Apollodoro di Atene (II secolo a.C.), che racconta la lotta come un insieme di scontri singolari e duelli tra i mostruosi sfidanti da un lato e gli esponenti dell’Olimpo dall’altro, fra i quali a Eracle toccava la parte del leone. Ognuno degli dèi combatteva secondo la sua natura, utilizzando le proprie capacità e competenze: fu cosí che Efesto, il fabbro divino, abbatté il gigante Mima bersagliandolo con palle di ferro fuso; Ecate, dea delle tenebre, stese Clizio con la sua torcia; Dioniso fulminò Eurito con un colpo di tirso, e combatté sotto forma di leone, meritandosi il nome di Euios (dall’esclamazione «Eu, hyié», «Bene, figlio!», che gli rivolse il padre Zeus). Ermes, dio famoso per la sua astuzia, indossò l’elmo di Ade, che donava l’invisibilità, per sopraffare il gigante Ippolito, mentre Poseidone, che sovraintendeva al mare e ai terremoti, inseguí Polibote fin nell’Egeo e gli rovesciò sopra l’isola di Nisiro (combattendo, in realtà,
piú come un gigante che come un campione dell’ordine). La natura selvaggia dei Giganti, figli della terra e prodigi di potenza e di fuoco, era legata nell’immaginario degli antichi alla violenza degli eventi vulcanici e all’asprezza delle montagne, che spesso venivano considerati i resti del loro antico potere. È comprensibile, perciò, che i piú evidenti fenomeni eruttivi del Mediterraneo fossero collegati in qualche modo al ricordo della battaglia: è il caso dell’Etna, che si diceva ospitasse la prigione di Encelado, schiacciato sotto l’intera isola di Sicilia dalla dea Atena a conclusione del duello. Il monte Athos, invece, prendeva il nome da uno dei Giganti, che lo aveva «raccolto» in Tracia e scagliato contro gli dèi, nella posizione in cui ancora si trova. Tornando ad Atena, patrona della ragione e della città di Atene, vero campione dell’ordine civile, in occasione della Gigantomachia rivelò un proprio lato feroce e insospettato, allorché si lanciò nella mischia e scorticò vivo il gigante Pallante, per farsi una corazza con cui continuare la lotta, oppure quando, rimasta disarmata, staccò un braccio al suo avversario per poi mulinarlo come una mazza. Ma una menzione speciale, come si è detto, meritava l’intervento di Eracle, che partecipò alla battaglia sia in collaborazione con gli altri dèi (come richiedeva l’oracolo del Fato), sia in singolar tenzone, rivelando la propria attitudine a combattere mostri smisurati. L’eroe si distinse soprattutto per le proprie qualità di arciere, colpendo nell’occhio destro Efialte, mentre il sinistro era trafitto da una freccia di Apollo, e salvando con un tiro preciso Era, insidiata dal gigante Porfirione, che intendeva usarle violenza. Il nemico fu poi finito da Zeus con il suo fulmine, ma l’intervento a favore della dea, sua antica nemica, valse a Eracle l’ascesa all’Olimpo. Ma il piú spettacolare intervento del figlio di Zeus fu il duello combattuto con il piú grande e forte dei
Giganti, l’antico Alcioneo, che lottava senza staccarsi dalla terra della sua patria, la penisola di Pallene in Macedonia, perché, come scrive il già citato Apollodoro, «non sarebbe morto finché avesse combattuto sulla terra dove era nato». Allora Eracle, consigliato da Atena, ricorse a tutte le sue forze e trascinò il nemico lontano, dove poteva aver ragione di lui, e lo finí ricorrendo alle sue inesauribili frecce; ma non prima che Alcioneo fosse riuscito con un sol colpo a schiacciare sotto un masso enorme ben dodici carri e ventiquattro dei compagni dell’eroe.
DUELLI DIVINI Come si vede, il racconto della Gigantomachia si trasformò ben presto in una scusa per dimostrare il valore bellico degli dèi, illustrando in che modo le diverse capacità di ciascuno potevano trasformarsi in armi invincibili e in strumenti di giustizia. Non per niente, proprio per il dio della guerra, Ares, che pure si sa prese parte alla battaglia e si distinse tra le schiere degli dèi, non si conoscono avversari o episodi specifici di combattimento. Lo schema di narrazione della battaglia è lo stesso che troviamo nell’epica omerica e deriva dal modello eroico di combattimento, risalente a un’epoca in cui il valore di un guerriero era provato nello scontro individuale. Evidentemente, al momento della sua codifica, ancora non era entrata nell’uso l’innovazione tattica dello schieramento oplitico: una forma di guerra di gruppo che rappresentava al meglio la trasformazione oligarchica (e poi democratica) della polis greca. L’ordine sociale, naturale e militare che gli dèi difendevano, quindi, era quello delle aristocrazie guerriere dell’età eroica, piuttosto che quello classico della libera città dei filosofi e degli oratori. Lo schema a coppie contrapposte si prestava bene alle rappresentazioni figurate, sotto forma di scontri isolati o meglio di un quadro d’insieme che illustrava la strage dei Giganti. Questi ultimi erano
Il gigante Alcioneo soccombe nella lotta contro Atena, particolare del fregio est dell’altare di Pergamo. Fine del II sec. a.C. Berlino, Pergamonmuseum.
colpevoli di aver attentato all’equilibrio cosmico finalmente raggiunto dalla terza generazione di dèi, per ripristinare il diritto basato sulla violenza, che la brutalità primordiale conferiva loro. Di conseguenza, pertanto, non potevano che essere sconfitti da quell’ordine costituito che avevano osato sfidare. Ma la loro sfida al potere di Zeus non fu senza risultato: fruttò infatti all’Olimpo un nuovo dio, proprio quell’Eracle che, campione di forza come loro, usò la sua clava e le sue braccia per domare la natura e incarnò l’ideale di eroe civilizzatore per eccellenza. La rappresentazione della Gigantomachia, su vasi ateniesi a figure nere e rosse cosí come in terrecotte architettoniche, e su bronzi incisi o sbalzati ovvero in quadretti dipinti a r c h e o 53
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(pinakes, come quelli rinvenuti a Corinto e a Eleusi) aveva il chiaro intento di alludere all’eterna lotta del bene contro il male o, meglio, nell’ottica dei Greci, della ragione contro la forza bruta. Dietro alla figura dei Giganti si cela di volta in volta un’allusione ai barbari che osavano sfidare la cultura ellenica ed erano destinati per la loro stessa brutale inferiorità a soccombere sotto l’ondata civilizzatrice (o almeno questo era l’augurio che gli artisti greci e i loro committenti facevano a se stessi). Un uso ufficiale del mito avveniva regolarmente ad Atene, a partire dal 566 a.C., nella ricorrenza quadriennale delle Grandi Panatenee, le grandiose feste cittadine in onore di Atena, che celebravano il valore atletico e militare e la versatilità della dea patrona della città. Nel corso della cerimonia una solenne proces-
Un gigante colpito a morte da una freccia scagliata da Eracle, particolare del mosaico pavimentale del triclinio della Villa Romana del Casale a Piazza Armerina (Enna). Metà del IV sec. a.C.
sione di fanciulle portava in dono alla dea un peplo ricamato, sul quale campeggiavano le scene della Gigantomachia, che avrebbero costituito poi il modello costantemente imitato dai pittori di vasi.
DA GUERRIERI A MOSTRI Piú tardi, anche Fidia non resistette a inserire l’epico scontro fra le scene che decoravano lo scudo della statua di Atena Parthenos sull’Acropoli e fra le metope del Partenone. Nel tempo l’iconografia dei Giganti vide un’evoluzione, coerentemente con il loro ruolo «barbarico»:
dall’immagine di guerrieri in armatura, distinti dagli dèi solo grazie agli attributi e alle armi, si giunse alle figure di colossi nudi e barbuti, che esibiscono muscoli possenti e scagliano pietre o tronchi d’albero. Piú tardi acquisirono la caratteristica delle gambe serpentiformi, che completarono la trasformazione in mostri orribili e contronatura. Un mito di carattere tanto universale non poteva però rimanere confinato alla sola Grecia, e tramite le colonie d’Occidente, fu presto accolto anche in Italia, dove trovò fortuna anche presso alcuni di quei
Eracle uccide Alcioneo, metopa dall’Heraion alla Foce del Sele, presso Paestum. Prima metà del VI sec. a.C. circa. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. Il gigante, invulnerabile finché avesse combattuto sulla terra natia, Pallene, in Macedonia, fu trascinato oltre confine da Eracle e sconfitto, su consiglio di Atena.
barbari che i Greci intendevano esorcizzare. È il caso, per esempio, degli Etruschi, che accolsero i Giganti nel proprio immaginario e, nel caso di una raffigurazione su uno specchio inciso da Populonia, recepirono anche la loro filiazione dalla madre terra: l’avversario di Ares, che fugge scagliando un gigantesco masso, viene chiamato infatti letteralmente cels clan, il «figlio della terra» (vedi «Archeo» n. 301, marzo 2010). Ma ancora piú interessante è l’accoglienza del mito nell’apparato decorativo del tempio di Satricum (antica città laziale, situata nella Pianura pontina, nei pressi della località Le Ferriere, in provincia di Latina, n.d.r.) costruito alla vigilia dell’invasione volsca, al principio del V secolo a.C. (completato subito dopo, secondo alcuni). Tra i Latini ellenizzati, amici di Cuma (si ricordi l’intervento di Aristodemo ad
Ariccia contro l’invasore etrusco Porsenna nel 504 a.C.) e desiderosi di essere riconosciuti come parte dell’universo culturale greco, la guerra dei Giganti non poteva che alludere alla minaccia dei «barbari» Volsci – da altri autori paragonati ai Lestrigoni cannibali dell’Odissea –, che, di lí a poco, rovesciò l’ordinamento cittadino di Satricum, per farla ripiombare nella barbarie. In realtà si trattava di propaganda politica, che in antico si serviva spesso della mitologia, e i Volsci non erano selvaggi bruti, come volevano farli apparire. Ma è interessante vedere come un mito greco, nato in tutt’altro contesto, poteva essere accolto e riproposto anche in terre lontane e con esiti diversi. (1 – continua) NELLA PROSSIMA PUNTATA • Le Amazzoni a r c h e o 55
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Foto di scena del film I dieci comandamenti, girato da Cecil B. De Mille nel 1956, con Yul Brinner nel ruolo di Ramesse e Anne Baxter in quello di Nefertari. La pellicola narra la storia di Mosè, ispirandosi innanzitutto ai fatti narrati nella Bibbia.
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CIAK,
di Hélène Lafont-Couturier
SI FA STORIA IL RAPPORTO FRA CINEMA E ANTICHITÀ È ORMAI ULTRACENTENARIO. UN FENOMENO RICCO E AVVINCENTE, SCELTO COME SOGGETTO DI UNA DUPLICE MOSTRA ALLESTITA IN FRANCIA, NELLA QUALE SI RINCORRONO EROI DELL’OLIMPO E DEL GRANDE SCHERMO...
I
Musei gallo-romani di Lione-Fourvière e di Saint-Romain-en-Gal – nel Dipartimento francese del Rodano – hanno dato vita al progetto Peplum, una doppia esposizione con la quale si è voluto rendere omaggio a un genere cinematografico che riscuote il favore del pubblico da oltre un secolo. Sulla falsariga dell’espressione «film in costume», adottata per indicare le pellicole a soggetto storico, la definizione di «peplum» comincia a circolare agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, grazie a qualche cinefilo, che la conia prendendo a prestito il nome del tipico abito femminile greco, il peplos. Il Museo di Lione, attingendo alle sue collezioni permanenti, affronta il tema dell’antichità
come spettacolo, mentre a Saint-Romain-en-Gal viene ripercorsa la storia del genere peplum: prima ancora di decifrarne le immagini, se ne analizzano le fonti di ispirazione e se ne individuano gli ingredienti, cosí da proporre un’analisi dell’antichità nel cinema, da Quo Vadis? al Gladiatore.
45 SECONDI CELEBRI Nel 1897 Alexandre Promio, capo operatore dei fratelli Lumière girò Neron essayant des poisons sur des esclaves (Nerone sperimenta veleni su alcuni schiavi), ben sapendo che, fin dalla loro prima proiezione pubblica, quei 45 secondi di immagini non avrebbero lasciato indifferenti gli spettatori. Da quel momento in poi ven-
Sontuoso abito in seta utilizzato nel film comico francese Due ore meno un quarto avanti Cristo, pellicola girata nel 1983 che ironizza sulle opere del genere peplum, proponendone una rivisitazione in chiave farsesca.
gono portati sullo schermo romanzi, melodrammi, quadri famosi e perfino operette. Un fenomeno che si inscrive in un vasto movimento culturale espresso anche attraverso l’iconografia della Chiesa cattolica o della Repubblica, che fa propri motti e simboli dell’antica Roma per manifestare il proprio potere (berretto frigio, fasci e littori). Il progetto della mostra rende omaggio al peplum rivisitando questa memoria collettiva che a r c h e o 57
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parla sempre di un momento storico preciso – gli anni Venti e Trenta, la guerra fredda, la fine del XX secolo –, vestendolo di una toga e ponendogli sul capo un elmo. Inaugurato nel 1975, il Museo gallo-romano di Lyon-Fourvière racconta la storia dei primi secoli di vita di Lione, l’antica Lugdunum, fondata dai Romani nel 43 a.C. L’irruzione del peplum nel cuore delle collezioni permanenti di un museo che ha una forte vocazione didattica, e dunque un po’ austera, non corre il rischio di sembrare un’operazione iconoclasta? Non sarebbe stato piú opportuno separa-
Il responso che vale una vita In alto: il dipinto di Jean-Léon Gérôme Pollice verso. 1872. Phoenix (USA), Phoenix Art Museum. L’artista immagina il momento in cui il gladiatore, al termine del combattimento, si rivolge al pubblico nella speranza che la vittoria gli valga la grazia. Il soggetto ebbe grande successo e numerose rielaborazioni, come in questa fotoincisione (in basso), realizzata nel 1899.
Le ricostruzioni storiche dei peplum seppur discutibili, riescono a «parlare» con molta maggiore efficacia dei reperti esposti nei musei 58 a r c h e o
In basso: Elizabeth Taylor nei panni di Cleopatra, protagonista dell’omonimo film firmato da Joseph L. Mankiewicz nel 1963, uno dei piú celebri kolossal a soggetto storico.
re nettamente storia e cinema, per non esporsi al rischio di svalutare la scienza, dando credito a immagini spesso giudicate fantasiose? Accettare questo rischio significa innanzitutto avere fiducia nel pubblico, che oggi dispone di nozioni sufficienti per distinguere ciò che appartiene al reale da ciò che è frutto di finzione. E significa anche riconoscere al cinema il potere di trasportare lo spettatore in un mondo ormai scomparso, che il museo si sforza, a suo modo, di far rivivere.
PECCATI VENIALI In generale, i registi dei peplum non hanno cercato di realizzare opere di carattere storico. Né il punto è quello di considerare questo genere di pellicole come ricostruzioni fedeli del passato o di confondere le ricostruzioni cinematografiche con l’archeologia sperimentale! Sebbene alcune recenti pellicole tengano conto della realtà storicamente accertata, sappiamo che, nel dettaglio, non sono esenti da errori. Gli specialisti di gladiatura e armamenti hanno rilevato numerose incongruenze, per esempio, nell’equipaggiamento e nelle tecniche di combattimento degli attori impiegati sul set del Gladiatore. Anche se gli stessi esperti hanno riconosciuto che le prime scene del film – lo scontro tra le legioni romane e i Germani – restituiscono la violenza e l’orrore dei combattimenti con efficacia ben maggiore di quanto non riescano a fare le armi, scrupolosamente didascalizzate, esposte nelle vetrine dei nostri musei. In termini concreti sono stati selezionati otto punti del percorso permanente del museo: il cinema vi è integrato all’interno di «folies», prendendo a prestito un termine che designa i piccoli padiglioni residenziali che sorsero nelle campagne, nel XVIII secolo. Queste strutture ospitano schermi sui quali scorrono scene di film attinenti all’argomento della collezione, cosí come le vetrine presenteranno manifesti e abiti di scena.
Gli eroi delle arene I giochi gladiatorii hanno ispirato, oltre a sceneggiatori e registi, pittori e scultori. Ne è un esempio questo bronzetto dell’artista francese Jean-Léon Gérôme (foto qui accanto e in alto, a destra), realizzato nel 1901 e oggi conservato nel Musée Fabre di Montpellier. La piccola scultura raffigura un mirmillone, gladiatore che combatteva armato di una spada corta e scudo. In alto, a sinistra, è invece un elmo originale, rinvenuto a Pompei e oggi conservato a Parigi, nel Museo del Louvre. Risale al I sec. d.C. e conserva tracce dell’argentatura applicata sulla Gorgone nella parte frontale.
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Infine, in alcuni punti, lo spazio è animato da scenografie in 3D. Si comincia con l’anfiteatro, anche perché la ricerca di quello dell’antica Lugdunum è stata per molto tempo il motore dell’archeologia lionese. Al cinema l’anfiteatro (spesso confuso con il circo) è un luogo emblematico del mondo romano. Gli spettacoli cruenti che in esso si svolgono suscitano ribrezzo e attrazione al tempo stesso. L’eroe deve sottoporsi al giudizio del pubblico e dell’imperatore, espresso dal famoso pollice levato verso l’alto, che significa la concessione della grazia (missio) al combattente. Le sequenze sono tratte da Spartacus (1960) di Stanley Kubrick e dal film I Gladiatori (1954) di Delmer Davis. Nella città che, tra gli altri, diede i natali all’imperatore Claudio, la sicurezza era garantita dalla coorte urbana, una unità d’élite presente anche a Roma e Cartagine. Conosciamo il nome di molti militari, soldati semplici e graduati, grazie alle loro epigrafi funerarie: la maggior parte di essi, dopo vent’anni di servizio prestato in tempo di pace, venivano integrati nella vita civile come veterani. In questo caso, però, il cinema, piut60 a r c h e o
tosto che dedicarsi a questa situazione idilliaca, preferisce portare in scena le truppe in azione: grandi scene di battaglia, movimenti di masse realizzati con grande profusione di comparse ed effetti speciali, di cui si può avere un saggio attraverso scene tratte da Masada (di Boris Sagal, 1981) e Il Gladiatore (di Ridley Scott, 2000).
FOLLE IN DELIRIO Ancor piú dell’anfiteatro, il circo (o ippodromo) è il luogo di spettacoli piú popolare del mondo romano, come si può vedere nel mosaico che raffigura con grande realismo i vari momenti di una corsa di carri: l’imminenza della partenza, con la tribuna ufficiale da cui sarà gettata la sciarpa bianca che dà il segnale per l’apertura dei carceres (le gabbie di partenza), la violenza della competizione, con i concorrenti che, secondo la formula latina, «fanno naufragio» in corrispondenza delle curve, la promessa della ricompensa, con i due personaggi centrali che tengono la palma e la corona del futuro vincitore. Quest’ultimo guadagnava soprattutto una somma consistente, derivante dalle scommesse giocate dagli
spettatori su uno dei quattro colori delle squadre in gara. Scene tratte dalle varie versioni di Ben Hur (Sidney Olcott, 1907; Fred Niblo, 1925; William Wyler, 1959) offrono la rappresentazione migliore dell’intensità drammatica di questi spettacoli. Varie ricostruzioni di quadrighe evocheranno la scena certamente piú famosa di tutta la storia del peplum. Non manca il tema del viaggio per mare e dei pericoli che esso comporta, onnipresente nella tradizione mitologica e nella letteratura antica, che trova un’eco nel museo grazie ai molti prodotti importati dal Mediterraneo – vino, olio d’oliva, conserva e salse di pesce –, di cui le anfore sono il simbolo. Alcuni di questi carichi non arrivarono mai a destinazione: i loro relitti sono tasselli preziosi per ricostruire le rotte commerciali. Lugdunum era in contatto diretto con il mare, via Arles e il corso del Rodano, grazie alle numerose compagnie di navigazione, i nautes, che avevano fissato la propria sede nella penisola di Lione. Al cinema il viaggio è perlopiú quello di carattere mitologico, con Ulisse (Mario Camerini, 1953), Giasone e gli Argonauti (Don Chaffey, 1963),
che il visitatore incontra all’interno di una scenografia che evoca la prua di un’imbarcazione. E, a proposito di produzione, oggi va di moda l’archeologia del vino. Gli studi piú recenti sottolineano il ruolo della vitivinicoltura nella vita politica nella Gallia indipendente, territorio in cui il vino, prodotto di lusso, cominciò a essere massicciamente importato dal II secolo a.C. Alcuni decenni dopo la conquista, il rapido sviluppo della viticoltura conquistò anche le regioni piú interne, sotto la protezione di Dioniso-Bacco, una delle divinità piú rappresentate del pantheon greco-romano. Nelle ricche domus romane le dimensioni del triclinium, la sala per i convivi, e la sua decorazione a mosaico confermano l’importanza del banchetto nella vita sociale degli abitanti. Questo banchetto, uno dei luoghi comuni del peplum, utilizzato per sottolineare il lusso e la dissolutezza di un’antichità presentata spesso come decadente.Tra le scene: Ulisse (Mario Camerini, 1953), Le Baccanti (Giorgio Ferroni, 1960), Cleopatra (Joseph Leo Mankiewicz, 1963) e Il ratto delle Sabine (Richard Pottier, 1961).
Lione, infine, si vanta di avere accolto la piú antica comunità cristiana della Gallia, nota grazie al resoconto del martirio del 177. Le prime tracce archeologiche del culto cristiano a Lione sono piú recenti: i primi edifici risalgono alla fine del IV secolo, posteriori all’editto di Milano che pose fine alle persecuzioni nel 313. Al cinema, non di rado, gli eroi incontrano Gesú o devono confrontarsi, in qualità di vittime o carnefici, con le prime persecuzioni. Tra i titoli indimenticabili di questo filone figurano Quo Vadis? (nelle versioni di Enrico Guazzoni, 1913; e di Mervyn LeRoy, 1951) e Fabiola (Alessandro Blasetti, 1947).
DIETRO LE QUINTE Al museo di Saint-Romain-enGal-Vienne viene invece proposto un percorso che permette di seguire una piccola storia della finzione cinematografica sull’antichità dalle origini del cinema ai giorni nostri. Addentrandosi tra le quinte del peplum, l’esposizione individua le molteplici fonti di ispirazione, che sono soprattutto quelle espresse dalla cultura del XIX secolo. La mostra affronta anche il modo in cui sullo schermo viene percepita la
Lione-Fourvière, Museo gallo-romano. La sezione dedicata ai commerci, nella quale sono riuniti, tra gli altri, documenti epigrafici e vari esemplari di anfora, il contenitore che può ben essere considerato l’emblema delle attività mercantili.
differenza di genere fra uomo e donna o come queste pellicole non siano solo una testimonianza di momenti storici lontani, ma anche una rappresentazione dell’epoca in cui vedono la luce. Fin dall’esordio, con il quadro di Lionel Royer che rappresenta Vercingetorige che depone le proprie armi ai piedi di Cesare, il visitatore è invitato a immergersi nell’universo del peplum. E, nella sala delle esposizioni temporanee, la rotonda dei «referenti», una sorta di grande «bolla» documentaria, si apre su undici cellule autonome che ciascuno può esplorare secondo il proprio ritmo e interesse. In questo spazio sono riuniti gli elementi «didattici» relativi all’origine del peplum, al rapporto con le fonti, con l’archeologia e con l’immagine dell’archeologia. Nel XIX secolo, in un Occidente intriso di cultura classica fin dal a r c h e o 61
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Rinascimento, il mondo antico diviene fonte di ispirazione. Scrittori, compositori, drammaturghi, novellieri e caricaturisti se ne impadroniscono. Nel campo del melodramma, è il caso dell’Aida (1871) o della Norma (1831); in letteratura si susseguono Salammbô (1862), Ben Hur (1880) e Quo Vadis? (1896). Mentre Berlioz esalta i Troiani (1863) prima che Offenbach non susciti ilarità con La bella Elena (1864). Gli eroi del peplum assumono sembianze diverse. I registi si ispirano alla storia, in particolare a quella dei grandi conquistatori, ma anche alla mitologia o alla Bibbia. La donna, che sia un personaggio di potere, una creatura fatale o, piú semplicemente, una compagna rispettosa del suo eroe, è un personaggio quasi indispensabile per il peplum. La figura di Cleopatra, regina d’Egitto il cui destino si legò a quello di Roma, ha ampiamente ispirato i cineasti (primo fra tutti Mankiewicz), dai peplum di impronta tradizionale, alle commedie, ai cartoni animati, fino alle serie televisive e agli spot pubblicitari. Quando l’eroe è un ribelle, come nel caso di Spartaco, esso viene spesso visto, in particolare dal cinema italiano, come un giustiziere che lotta contro un tiranno che riesce infine a eliminare (anche se si tratta di un imperatore). È un personaggio «lirico», che prende spesso le sembianze di un capo carismatico. Di lui, gratificato della qualifica di gigante, conquistatore, titano o colosso nei titoli dei film, vengono esaltati il trionfo, l’invincibilità o anche la collera.
FORZA SOVRUMANA Talvolta gli eroi cedono il passo ai supereroi mitici, mitologici o biblici, spesso creati in epoca moderna (Maciste, per esempio, fu concepito nel 1913, per il film Cabiria di Giovanni Pastrone). Dotato di forza e 62 a r c h e o
poteri sovrumani, di fatto soprannaturali, deve cimentarsi in prove che solo lui è in grado di superare. Un eroe del genere è al tempo stesso un personaggio semplice e vicino al popolo, di cui prende spesso le difese, e lo vediamo reclutare la maggior parte dei suoi amici tra le file del popolino. L’eroe può peraltro cambiare nome in funzione del Paese: Maciste, per esempio, diventa Ercole nel momento in cui attraversa l’Atlantico in direzione degli USA. Questi personaggi ipermuscolosi
Personificazione della Primavera, particolare del mosaico delle Stagioni, rinvenuto nel 1911 nell’area di Fourvière, la collina che domina il centro storico di Lione sulla quale i Romani fondarono il primo nucleo dell’antica Lugdunum. III sec. d.C. Lione-Fourvière, Museo gallo-romano.
viaggiano molto, a volte nello spazio dei mondi antichi, ma anche in epoche che spesso non hanno nulla a che fare con l’antichità greco-romana. Gli Americani, per esempio, fanno combattere Ercole contro la mafia newyorchese nel 1969 oppure lo troviamo contro Tarzan negli studios indiani alla metà degli anni Sessanta. E, spesso, i supereroi sono interpretati da star del culturismo cosicché, di riflesso, si diffonde la passione per questa disciplina.
Un altro elemento pressoché irrinunciabile in alcuni peplum è la catastrofe, la cui origine naturale (eruzioni vulcaniche, terremoti, inondazioni…) o divina (Piaghe d’Egitto, Sodoma e Gomorra) può sembrare una prova dalla quale l’eroe deve uscire vincitore riuscendo a scamparvi. I registi si sono ampiamente ispirati ai cataclismi d’origine vulcanica, tanto piú che la storia ha fornito loro un esempio celebre con l’eruzione vesuviana del 79 d.C. Questa tragica vicenda ha fornito il soggetto tanto al cinema quanto alla letteratura, come nel caso del romanzo di Edward BulwerLytton Gli ultimi giorni di Pompei, scritto nel 1834.
MOMENTI CLOU Scena ricorrente nei peplum, anche la battaglia può essere un episodio storicamente attestato, mitico o, piú semplicemente, frutto dell’invenzione di sceneggiatori e registi. La sua posizione varia: può essere l’elemento che innesca la vicenda dell’eroe (nel Gladiatore la prima scena di combattimento dà avvio al racconto che si conclude con il passaggio di Maximus dallo stato di generale delle armate di Roma a quello di schiavo); può costituire uno degli elementi che imprimono una svolta alla storia (lo scontro con i pirati in Ben Hur permette al giovane protagonista di affrancarsi dalla sua condizione di galeotto per trasformarsi in eroe, dopo aver salvato la vita del comandante della flotta), oppure può segnare la conclusione della vicenda dell’eroe (in 300 le battaglie trasformarono trecento spartiati in altrettanti eroi mitici). In ogni caso, al di là dell’importanza loro assegnata, le battaglie costituiscono sempre il pretesto per la realizzazione di scene di massa, in larga parte giocate sulla spettacolarità: masse di comparse (in carne e ossa oppure virtuali, secondo l’epoca del film), campi lunghi, effetti speciali.
Senza veli per scampare alla condanna In alto: Frine davanti al tribunale, fotoincisione da un dipinto di Jean-Léon Gérôme. 1880. Bordeaux, Fonds Goupil. Cortigiana del IV sec. a.C., Frine fu processata per
Ancora due esempi di rivisitazione dell’antico. In alto: Cleopatra sulla sua nave, in una incisione acquerellata di Louis-Adolphe Gautier. 1875. Bordeaux, Fonds Goupil. A destra: Antonio, morente, viene portato a Cleopatra, olio su tela di Eugène-Ernest Hillemacher. 1863 circa. Grenoble, Musée de Grenoble.
avere cercato di diffondere il culto di una nuova divinità; difesa da Iperide, secondo la tradizione fu assolta quando mostrò ai giudici il suo corpo nudo.
DOVE E QUANDO Peplum Lione, Musée gallo-romain de Lyon-Fourvière Saint-Romain-en-Gal, Musée gallo-romain de Saint-Romain-en-Gal – Vienne fino al 7 aprile Orario valido per entrambi i musei: ma-do, 10,00-18,00; lu chiuso Info www.musees-gallo-romains.com
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SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI
ROMA
a cura di Stefania Berlioz, con testi di Massimo Brutti, Paolo Desideri, Giulio Firpo, Andrea Giardina, Fabrizio Pesando, Cecilia Ricci, Aldo Schiavone e John Thornton
IL MONDO IN UNA CITTÀ «Roma Caput Mundi»: tre scarne parole che evocano immediatamente l’immagine dell’impero universale di Roma costruito, con una sconcertante rapidità, attraverso le armi e la guerra, la rapina e la schiavitú, ma anche – rovescio della medaglia – attraverso una politica di integrazione dei vinti che non trova riscontri nella storia. Questi due volti di Roma vengono descritti in una straordinaria mostra, «Roma Caput Mundi. Una città tra dominio e integrazione», allestita a Roma (fino al 10 marzo), che si snoda tra il Colosseo, la Curia Iulia e il Tempio del Divo Romolo, nel Foro Romano. Una storia complessa e affascinante, che raccontiamo ai nostri lettori attraverso le riflessioni sull’argomento dei maggiori specialisti italiani e stranieri
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Qui accanto: statua di Claudio, imperatore dal 41 al 54 d.C., da Leptis Magna. I sec. d.C. Tripoli, Museo Archeologico.
Sulle due pagine: particolare delle pitture parietali della Tomba François di Vulci, con scene ispirate agli eventi del VI sec. a.C. che ebbero per protagonisti una coalizione guidata dalla stessa Vulci, Roma e altre città etrusche. Riproduzione eseguita da Augusto Guido Gatti nel 1931. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.
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SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI
S
ulla questione dell’imperialismo romano – l’emergere e il rapido consolidarsi del dominio di Roma su tutta l’area mediterranea – ci si interrogava in antico, cosí come ai nostri tempi. Nella ricerca contemporanea, le interpretazioni di questo complesso fenomeno storico hanno continuato a muoversi fra le ragioni dell’avidità e quelle della difesa, le legittime aspirazioni alla sicurezza e la sete di bottino. Il ciclico alternarsi delle due posizioni, sempre legato al clima culturale e politico (il tema dell’impero ha ovvie e inevitabili risonanze contemporanee), può far pensare alle oscillazioni di un pendolo: l’ortodossia di una generazione può divenire eresia minoritaria nella generazione successiva. Alla complessità del fenomeno dell’imperialismo romano ci si potrà avvicinare solo sforzandosi di liberarsi dall’alternativa fra l’identificazione e la condanna, per conferire pari dignità a tutte le diverse testimonianze della multiforme esperienza dell’impero. Non si tratta di un compito facile. La visione dei vinti, delle vittime dell’espansione romana in Italia e nel Mediterraneo, non è facile da recuperare: se Greci e Giudei hanno lasciato documenti scritti della loro reazione all’impero, un irreparabile silenzio avvolge e nasconde quella di tanti popoli d’Italia e dell’Occidente.
IL MANIFESTO DELL’INTEGR AZIONE di Andrea Giardina
Nel 48 d.C. l’imperatore Claudio tenne un discorso in senato. Racconta Tacito (Annali, XI 23-25,1) che nei giorni precedenti c’era stata grande agitazione a palazzo, a causa dell’allarme suscitato da un’iniziativa politica del principe. Molti senatori erano preoccupati e opinioni divergenti si contrastavano. Il principe si accingeva infatti a proporre l’ammissione in senato – e quindi alle magistrature – dei maggiorenti (primores) della Gallia Comata: cosí veniva definito, dalla lunga chioma che usavano portare i Galli, l’insieme delle cosiddette «Tre Gallie», l’Aquitania, la Lugdunense, la Belgica. Gli aspiranti che reclamavano quel diritto eradi John Thornton no cittadini romani appartenenti al tempo stesso alle élite delle città federate di quelle province. Al tempo di Claudio, l’interdizione IN MEMORIA DI PATROCLO dagli honores (le «cariche»), intesa come divieto di candidarsi, valeva per tutte le comunità che Ancora una scena facente parte delle pitture della Tomba François non fossero né di diritto romano né di diritto di Vulci: il sacrificio dei prigionieri troiani per onorare la memoria latino, in primo luogo appunto le città legate di Patroclo. Riproduzione eseguita da Augusto Guido Gatti nel a Roma da un foedus, ovvero da un vincolo di 1931. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Achille, al centro, tra la dea Vanth e il demone Charun, affonda la spada nel collo di uno dei prigionieri.
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Cartina della Penisola italiana, con i centri principali e le colonie fondate da Roma nel II sec. a.C.
Centri principali
Bergomun
Aquileia (181)
Eporedia Brixia Verona (100) Patavium Mediolanum Cremona Padus (218, poi 190) Atesis Placentia Pad (218, poi 190) us Parma Mutina Genua (183) (183) Ravenna Luna (177)
Mar L igure
Olbia Nura
Bononia (189) Ariminum
Pisaurum (184) Ancona Arretium Auximum (157) Volaterrae Iguvium Potentia Populonium (184) Perusia Ilv a Vetulonia Volsini Spoletum Saturnia (183) Interamnia Cosa Vulci (197) Corfinium Graviscae (181) Roma T Tusculum Ardea Sipontum Fregellae (194, poi 186) Cora Fabrateria Nova (125) Circei Venusia Volturnum Capua (200) (194) Liternum Brindisium Salernum (194) Puteoli (194) Neptunia (Tarentum) (194) Paestum (122) Pisae Arnus
Ma re A d ria tic o
ris
Aleria
Pola
e Tib
Corsica
Luca (178)
Colonie fondate nel sec. II a.C. (tra parentesi l’anno di fondazione)
Sardinia
Velia
Ma r Tirre n o
Buxentum (194, poi 186) Thurii Copia (193)
Croton (194) Castrum Hannibalis (199) Minervium (Scolacium) (122)
Tempsa (194) Vibo Valentia (192)
Ust ica
Lipar a
Messana
Panormus Segesta
Mar Mediterraneo
Lilybaeum
Himera
Entella
S i c i li lia
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Agrigentum
Tyndaris
Locri Epizephirii Rhegium
Catana N Syracusae 0
alleanza (formale e non sostanziale, perché quelle città erano ormai parte stabile del dominio romano). Già in passato alcuni provinciali avevano raggiunto il rango senatorio e i massimi onori. Dovevano dunque esserci motivi particolari se il progetto di Claudio suscitò una simile inquietudine. È logico, anzitutto, immaginare che la promozione di qualche provinciale nel clima di una guerra civile o di un grave evento bellico potesse essere ritenuta eccezionale come eccezionali erano state le circostanze che l’avevano determinata, mentre il medesimo atto, se compiuto in momenti di pace, fosse percepibile come anomalo: la drammaticità di un contesto storico, in altre parole, rendeva normale ciò che in circostanze normali risultava drammatico. Come affermò lo stesso Claudio, Romani originari della Gallia Comata, e in particolare della città di Lugdunum (l’odierna Lione),
Ma r Ionio
150 Km
erano già da qualche tempo presenti in senato (Claudio stesso era nato a Lugdunum, nel 10 a.C., n.d.r.). Non sappiamo quanti fossero questi individui, a quale epoca risalisse la loro entrata in senato, quali motivi l’avessero giustificata, quale fosse il preciso statuto personale di ciascuno di essi. È dunque impossibile apprezzare pienamente il valore di questo argomento. Ma ai senatori italici che si opponevano alla proposta del principe esso doveva apparire irrilevante perché Claudio non si limitò a proporre l’avanzamento politico di un certo numero d’individui, ma impostò la questione in termini generali, sottolineando il carattere esemplare della sua proposta e attribuendo di conseguenza alla sua idea un significato di principio valido per il governo dell’impero, senza limiti temporali. Claudio invita i senatori a non inorridire, di fronte alla sua proposta, come se si trattasse di a r c h e o 67
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una res nova, una «cosa nuova». Permaneva, nella cultura romana di quell’epoca, un antico pregiudizio, che portava a valutare negativamente, soprattutto sul piano delle istituzioni e della morale, l’introduzione di novità che apparissero come un eccessivo allontanamento dal mos maiorum, espressione impossibile da tradursi ma che si è soliti rendere con «costume degli antenati». Con una trovata brillante, Claudio invita i senatori a considerare piuttosto il fatto che fin dalle origini la civitas romana era mutata in molti aspetti, innumerevoli volte: con questo artificio retorico, egli trasformava dunque le res novae in mos maiorum. La disponibilità al cambiamento era a suo avviso un carattere profondo della storia romana, che dissolveva la banale antitesi fra novità e tradizione. In età regia, afferma il principe, il trono non veniva trasmesso necessariamente per via
ereditaria all’interno della stessa famiglia, ma accadeva di frequente che i successori fossero scelti non solo tra individui appartenenti ad altre casate, ma anche provenienti da altre genti. Cosí a Romolo era succeduto Numa, che era di stirpe sabina, e il trono di Anco Marcio aveva accolto Tarquinio Prisco, di origine etrusca. Claudio contrapponeva dunque il carattere aperto della società romana arcaica, che guardava al merito piú che alla stirpe e al lignaggio, all’orientamento delle città etrusche, bloccate da sbarramenti di ordine etnico e sociale: ciò che altrove era impossibile, a Roma era normale.
TRADIZIONI A CONFRONTO Il principe ricorda quindi la figura di Servio Tullio e mette a confronto la tradizione romana con quella etrusca. Secondo i Romani, Servio era stato il figlio di una captiva, ovvero
QUANDO ROMA CHIAMAVA A SÉ GLI DÈI DEGLI ALTRI Quel complicato intreccio di dominio e d’integrazione che contraddistingue la storia di Roma si ritrova, com’è inevitabile, nella sfera religiosa. Secondo una celebre definizione di Festo erano chiamati peregrina sacra quei culti stranieri che furono portati a Roma durante gli assedi, tramite il rituale dell’evocatio («evocazione, chiamata»), oppure in periodo di pace, «ob quasdam religiones» («per taluni motivi religiosi»). Il rituale piú antico e «drammatico» di cui si abbia ricordo è quello dell’evocatio. Soprattutto in occasione di assedi, il comandante romano recitava una preghiera che invitava la divinità tutelare dei nemici, che fosse nota o ignota, ad abbandonare i suoi attuali devoti e a trasferirsi a Roma, dove avrebbe ricevuto un tempio e maggiori onori. L’episodio piú antico riguarda la presa di Veio, nel 396 a.C. Secondo la testimonianza di Livio,
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il dittatore Marco Furio Camillo avrebbe recitato questa invocazione, che si rivolgeva in particolar modo alla Giunone Regina che proteggeva la città etrusca: «Pitico Apollo» disse «sotto la tua guida e l’incitamento del tuo nume mi volgo a distruggere la città di Veio, e a te da questo momento faccio voto della decima parte del bottino. E te pure, Giunone Regina, che ora risiedi a Veio, supplico di voler seguire noi vincitori nella nostra città che presto sarà la tua: qui ti accoglierà un tempio degno della tua maestà». Nel 392 lo stesso Marco Furio Camillo votò alla dea un prestigioso tempio situato sull’Aventino, che ospitava la statua lignea della dea asportata da Veio. Secondo Macrobio i Romani compivano questo rito o perché temevano di non poter altrimenti riuscire nell’impresa bellica o perché ritenevano sacrilego prendere prigionieri gli dèi. Come formula tipica di
di una schiava, di nome Ocresia. Secondo gli Etruschi era stato invece un compagno fedelissimo di Celio Vibenna, un avventuriero etrusco che avrebbe occupato, a Roma, il monte Celio, che da lui prese il nome. Servio Tullio, che in etrusco era chiamato Mastarna, divenne quindi re di Roma, con grande beneficio per la comunità. Il maggiore spazio attribuito alla figura di Servio Tullio si giustifica per il fatto che si trattava di un personaggio caro alla memoria dei Romani, una straordinaria figura di monarca cui si dovevano alcune tra le piú importanti istituzioni repubblicane. Ma nella strategia del discorso di Claudio era anche rilevante la circostanza che la madre di quel personaggio – secondo la tradizione romana – fosse di origine schiavile: questa notizia consentiva al principe di ribadire e di rafforzare l’immagine di una città che ignorava i pregiudizi sociali.
Nella pagina accanto: antefisse facenti parte della decorazione del tempio di Apollo in località Portonaccio, Veio. Arte etrusca, 510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
evocatio, egli cita quella che fu pronunciata prima della presa di Cartagine nel 146 a.C.: «Se c’è un dio o una dea sotto la cui protezione si trovano il popolo e lo stato cartaginese, e massimamente tu, che hai accettato la tutela di questa città e di questo popolo, io prego e venero, e vi chiedo grazia, affinché abbandoniate il popolo e lo stato cartaginese, lasciate i loro luoghi, i loro templi, i loro riti sacri e la loro città, andiate lontano da essi e incutiate timore, paura e oblio a quel popolo e a quello stato, e veniate propizi a Roma, da me e dai miei, e i nostri luoghi, templi, riti sacri e la città vi siano piú graditi e cari, e siate propizi a me, al popolo romano, ai miei soldati. Se farete ciò in modo tale che sappiamo e comprendiamo, vi prometto in voto templi e giochi».
Statua in terracotta policroma raffigurante Apollo, dal tempio a lui dedicato in località Portonaccio, a Veio. Arte etrusca, 510 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
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UN CASO DI DEPORTAZIONE DI MASSA
di Stefania Berlioz
Attaccati improvvisamente all’inizio della primavera del 180 a.C., i Liguri Apuani si arresero ai consoli Publio Cornelio e Marco Bebio che, consultato il senato, stabilirono di deportarli «lontano dalle loro terre, perché non vi fosse speranza di ritorno», insediandoli nel Sannio. Del modo in cui gli Apuani vissero il trauma dello sradicamento, e la destrutturazione della loro società, non ci si dice nulla. Lo storico Tito Livio si limita ad attribuire ai loro ambasciatori la supplica di non costringerli ad abbandonare i loro culti, la terra in cui erano nati, le tombe degli antenati; erano disposti piuttosto a consegnare le armi e fornire ostaggi. Inascoltati, e privi delle forze necessarie a riprendere la guerra, gli Apuani furono costretti ad abbandonare le loro case, con i figli e le mogli, portando con sé tutti i loro beni. Del loro tragico esodo attraverso l’Italia appenninica vengono registrati solo i dati logistici, il numero enorme dei deportati – 40 000 uomini, con le mogli e i figli –, la somma del denaro messo a loro disposizione perché potessero acquistare il necessario nelle nuove sedi, le forme della distribuzione della terra nel Sannio. Fra i moderni, qualcuno ha parlato di «natura umanitaria della deportazione», altri hanno preferito il piú asettico termine «trasferimento» («forzato», si specifica), attribuendo ai Romani «concessioni veramente strabilianti», o «condizioni molto favorevoli», e spingendosi fino a ipotizzare una «politica di cooperazione con i Liguri». Del carattere pacifico dell’operazione, in verità, è lecito dubitare. In assenza di ogni traccia della prospettiva dei deportati, oltre all’ovvia indicazione della loro resistenza alla misura nelle parole attribuite da Livio ai loro ambasciatori, può essere utile confrontare il caso degli Apuani con gli analoghi spostamenti di popolazione organizzati negli stessi anni dal re di Macedonia Filippo V. La reazione dei Macedoni delle città costiere deportati in Peonia con i figli e le mogli, registrata evidentemente in filoni della tradizione ostili al re macedone, ci è pervenuta attraverso Polibio e Livio: le vittime della politica demografica del re non esitavano a maledirlo apertamente. Le loro voci disperate possono aiutarci a cogliere, per analogia, i sentimenti degli Apuani vinti, che nessuno si è curato di trasmetterci.
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Qui sotto: ritratto del generale cartaginese Annibale, frutto di un pastiche che combina una testa di età imperiale romana con un busto scolpito nel XVI sec. Madrid, Museo del Prado.
In alto: lastra dipinta con ludi funebri, dalla tomba 58A della necropoli in località Andriuolo, a Paestum. 340 a.C. circa. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: Luni, La Spezia. Uno scorcio dell’anfiteatro che sorge all’esterno dell’area urbana dell’antica città. II sec. d.C. Nel 177 a.C. i Romani fecero di Luni un avamposto contro i Liguri Apuani e Augusto vi dedusse una colonia di veterani.
Chi ascoltava l’imperatore doveva aver necessariamente capito, a questo punto, a che cosa mirasse tutto ciò: se i Romani delle origini avevano nominato loro re individui di oscuro lignaggio o addirittura di origine schiavile, chi mai avrebbe potuto respingere l’idea che dei rispettabili e benestanti cittadini romani di provincia accedessero regolarmente in senato e alle cariche pubbliche?
ROMOLO E IL DIO ASILO Il discorso di Claudio aveva risonanze antiche, nell’autorappresentazione romana come nelle visioni esterne. Con un anticonformismo su cui non s’insisterà mai abbastanza, i Romani valorizzavano il fatto che Roma fosse nata da un amalgama primordiale, e al mito della consanguineità e della purezza della stirpe contrapponevano quello del miscuglio etnico, come attesta soprattutto la leggenda dell’asilo romuleo: racconta Plutarco che dopo aver abbattuto Amulio, che aveva usurpato il trono di Alba Longa ai danni del fratello Numitore, Romolo e Remo decisero di allontanarsi e di fondare una nuova città nei luoghi in cui erano stati allevati. Questa decisione sarebbe stata influenzata anche dal fatto che alla loro impresa avevano collaborato «molti servi e ribelli». In mancanza di un numero adeguato di coloni, i gemelli avevano fatto ricorso a una particolare ed efficace forma di protezione religiosa, che garantiva l’immunità e l’accoglienza: «Appena fu realizzata la prima fondazione della città, istituirono un luogo sacro
come asilo per i ribelli, e lo intitolarono al dio Asilo: vi accoglievano tutti, non restituendo lo schiavo ai padroni, né il plebeo ai creditori, né l’omicida ai magistrati; affermavano anzi che per un responso dell’oracolo di Delfi potevano garantire a tutti il diritto d’asilo, in modo tale che la città si riempí presto di gente...» (Plut., Vita di Romolo, 9,3). È da notare come l’atteggiamento di questi primi Romani fosse rappresentato in termini radicalmente opposti a quello degli Albani, che avevano rifiutato qualsiasi tipo di promiscuità sociale: «gli abitanti di Alba – precisa Plutarco – non ritenevano giusto mescolarsi con i ribelli né accoglierli come cittadini» (Plut., Vita di Romolo, 2). L’originalità della città di Roma si coglieva dunque, fin dai primordi, per differenza rispetto alle piú prossime comunità latine. È stato giustamente detto che questa tradizione rappresentava l’ispirazione etica dell’apertura del corpo civico che i Romani praticarono lungo l’intero arco della loro storia. Quel racconto primordiale esprimeva infatti una costante della storia romana, che molti autori romani non mancarono di valorizzare, e che l’imperatore Claudio indicò come una prospettiva per il successo dell’impero nei secoli futuri: l’inclusione nel corpo civico non discriminava né etnicamente né socialmente. Nella sua coerenza e nella sua forza, questa immagine che gli autori antichi ci hanno lasciato rischia tuttavia di essere ingannevole. Essa potrebbe infatti dare l’impressione di un processo naturale, privo di punti critici, stema r c h e o 71
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perato. Sappiamo invece che esso non è rappresentabile come una linea retta. Ci furono anche eventi drammatici come la guerra sociale, che provocò decine di migliaia di morti, e riaffiorarono periodicamente resistenze, ostacoli, pregiudizi nei confronti dell’integrazione degli stranieri e degli schiavi. Ma sono proprio queste scabrosità – come quella che dovette affrontare Claudio – a farci apparire ancora piú forte, proprio perché venata di colori non complementari, la vocazione estroversa di Roma.
L’ETÀ DELLA CONQUISTA di Fabrizio Pesando
Il momento cruciale della spinta espansionistica di Roma nei confronti delle popolazioni italiche si colloca fra gli ultimi decenni del IV e il primo quarto del III secolo a.C. Le scansioni di questo processo ci sono purtroppo poco note nel dettaglio. Tuttavia quanto si è venuto a conoscere con sempre maggiore nitidezza sulle modalità insediative e sulle manifestazioni monumentali ed artistiche dell’età della conquista, grazie alla ricerca archeologica, inizia oggi a compensare questa dolorosa lacuna documentaria. All’apparenza, l’annalistica superstite non sembra registrare alcuna interruzione fra gli scontri che chiusero il conflitto fra Roma e le principali etnie residenti nelle
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ACCOGLIERE, MA ANCHE REPRIMERE Pur rimanendo sempre una città aperta e cosmopolita, Roma promosse un certo numero di repressioni ed espulsioni che colpirono periodicamente alcuni gruppi. In alcune circostanze la motivazione religiosa era esplicita e unica. Essa riguardava in particolare gruppi come gli astrologi, i maghi, i Giudei. Nel 139 a.C. un editto del pretore peregrino ingiunse ai caldei di lasciare Roma e l’Italia entro dieci giorni. Le accuse, ripetute anche in alcuni provvedimenti successivi, erano due: la fallacia delle predizioni (implicitamente contrapposta alla veridicità delle predizioni ottenute attraverso le procedure ufficiali e consuetudinarie), la speculazione sulla credulità della gente comune. In quella medesima occasione furono rispediti nel loro paese i predicatori del culto di Giove
Sabazio, con l’accusa di corrompere i costumi romani. Astrologi e maghi furono cacciati da Agrippa nel 33 a.C. e da Tiberio nel 16 e nel 17 d.C. Nel 19 fu la volta dei seguaci delle superstitiones egizia e giudaica, in parte deportati in Sardegna, in parte espulsi. Claudio colpí gli astrologi e, forse nel 49, allontanò da Roma i «Giudei» che creavano problemi di ordine pubblico su istigazione – come dice Svetonio – di un certo Chrestos: ne deduciamo che si trattasse di cristiani e che all’epoca la distinzione tra Ebrei e cristiani non fosse agevole per le stesse autorità. Astrologi e maghi furono cacciati anche da Vitellio, astrologi da Vespasiano e da Marco Aurelio. Vere e proprie repressioni di carattere religioso, prima di quelle che colpirono il cristianesimo, furono quanto mai rare. Il caso piú noto è la
di Andrea Giardina dura repressione del culto dei Baccanali a Roma e in Italia, sancita da un senatoconsulto del 186 a.C. Il culto di Bacco era ampiamente diffuso da tempo a Roma e nella Penisola, ma non aveva avuto riconoscimenti ufficiali. In seguito a qualche evento che dovette rappresentare tuttavia solo la causa scatenante, il senato decise di intervenire per placare un’inquietudine diffusa tra i ceti dirigenti della città. Si riteneva che i culti dionisiaci, per il loro svolgersi di notte, per l’abbondante uso di vino, per la promiscuità dei sessi, degli adulti e dei giovani, per il loro carattere orgiastico, per il grande numero dei partecipanti, per il ruolo preminente assunto dalle donne, per l’appartenenza degli adepti a ceti sociali diversificati, per l’indebolimento dell’autorità del paterfamilias a vantaggio di quella esercita dai capi delle associazioni, e per l’alto grado di organizzazione che sfuggiva al controllo delle
Lastra in bronzo con il testo del Senatus consultum de Bacchanalibus, da Tiriolo (ager Teuranus), nell’odierna Calabria. 186 a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Il provvedimento mirava alla repressione dei culti in onore di Bacco.
autorità romane, rappresentassero un fenomeno di grave corruzione. Il provvedimento del senato prevedeva la distruzione dei santuari bacchici, il divieto del culto generalizzato e di forme organizzative stabili, la punizione dei colpevoli secondo pene comminate in base alla gravità dei crimini.
aree appenniniche interne e la conquista del Sud, vale a dire fra la fine della Terza Guerra Sannitica (Battaglia del Sentino nel 295, con l’appendice della rapida sottomissione di tutta la Sabina, di soli cinque anni successiva) e la conquista di Taranto del 272, ma in pochi anni è lo scenario complessivo a essere mutato. Nella pagina accanto: rilievo con corteo bacchico, da Ercolano. Età augusteotiberiana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
CONTRO LE GRANDI POTENZE Se l’espansione «difensiva» dei decenni centrali del III secolo verso la Pianura padana – ancora popolata da tribú galliche sostanzialmente ostili, ancorché ripetutamente sconfitte – rappresentò l’esito ultimo di questo fenomeno, la spinta verso il Meridione d’Italia pose Roma al centro di intrecci politici molto piú ampi, nei quali protagoniste di assoluto rilievo erano le grandi potenze coloniali
greche stanziate fra il Golfo di Napoli e la Sicilia orientale e, soprattutto, Cartagine, la cui sfera d’influenza si estendeva fino alle piú remote località del Mediterraneo occidentale. Ma quando ciò avvenne, Roma aveva già sperimentato e perfezionato un adeguato sistema di controllo delle aree sottomesse. Nell’impossibilità di esercitare con successo un governo diretto su aree troppo vaste con le sole istituzioni e magistrature di Roma, la strategia consisté da un lato nel rispettare le tradizioni locali delle città già evolute che entravano a far parte dello Stato romano, favorendo quanto piú possibile solide alleanze con gli esponenti di maggiore spicco di ciascuna comunità e, dall’altro, nel potenziare quei centri che autonomamente stavano evolvendo verso forme urbane. Gli strumenti fondamentali per il compimento di questo complesso disegno di sottomissione e integrazione furono le fondazioni coloniali (strettamente legate alla creazione di una rete viaria di collegamento con Roma e gli accordi (foedera) stipulati con le comunità già strutturate e pacificate, nella piena consapevolezza che la conquista militare, se aspirava a conseguire risultati duraturi, doveva essere immediatamente seguita dalla riorganizzazione amministrativa e che, in una parola, la romanizzazione non poteva realizzarsi se non attraverso l’urbanizzazione. Nei pochi decenni compresi fra il 334 e il 298 furono create ben undici «colonie di a r c h e o 73
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diritto latino», fase iniziale di un fenomeno che continuò fino alla prima metà del II secolo sia in Italia meridionale, che in Cisalpina. Capaci di ospitare migliaia di persone in un territorio piuttosto vasto, le colonie latine introdussero un modello insediativo «maturo», quello del centro urbano, in aree in cui ancora si viveva in modo disperso e senza alcun tipo di organizzazione amministrativa, favorendo la diffusione di quella «Italia delle città» che costituirà nei secoli a venire la caratteristica saliente della civiltà occidentale. Alla creazione di colonie di diritto latino si affiancarono altri tipi di interventi sul territorio: le colonie romane, le assegnazioni individuali di lotti di terra ai cittadini roma-
LE «VIE» DELLA CONQUISTA È cosa nota che i Romani furono costruttori di ponti e di strade; ma il dato diviene piú sostanziato se notiamo come il tracciato viario serví a collegare uomini e merci nei territori progressivamente conquistati: dal 312 a.C. le strade che partono da Roma non sono piú definite dai nomi della località di arrivo (Tiburtina, Labicana) o dalla funzione assolta nel collegamento di merci (Salaria) o popolazioni (Latina), ma con quello del magistrato che, per conto della comunità, aveva appaltato e collaudato i lavori. La prima strada di questo nuovo genere, non a caso definita regina viarum, è l’Appia, che, limitata in un primo tempo a Capua fu estesa progressivamente fino a Taranto e Brindisi, scandendo in tal modo tutte le tappe dell’espansione romana in Magna Grecia. La sottomissione delle popolazioni interne e adriatiche fu immediatamente seguita dalla creazione delle vie Valeria e Cecilia, dirette rispettivamente verso la piana del Fucino e lo sbocco adriatico controllato in precedenza da stirpi di origine sabellica; la fine delle ostilità con i territori etruschi costieri dall’apertura dell’Aurelia, la sottomissione dell’agro gallico adriatico da quella della Flaminia e, infine, la «riconquista» della Gallia Cisalpina dopo la vittoria su Annibale dai lavori di costruzione della Via Emilia (187 a.C.).
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ni di pieno diritto (nei territori conquistati ai nemici) e l’istituzione delle praefecturae iure dicundo, che esercitavano il potere giurisdizionale su ampie porzioni di territori. Le colonie romane, fondate fra il IV e la prima metà del III secolo a.C. (per esempio Ostia e Minturno), erano dirette emanazioni di Roma ed erano costituite da un nucleo di soli 300 coloni provvisti della cittadinanza romana; di finalità essenzialmente militare, quasi piccoli Fort Apache, posti a controllo del territorio costiero a rischio di incursioni, avevano una forma urbana fortemente condizionata dalla sacralità dell’atto di fondazione e dalle norme procedurali e tecniche che presiedevano alla divisione degli spazi urbani e agrari: un impianto di forma quadrangolare con assi stradali ortogonali incrociantisi al centro che alludeva alla Roma quadrata di Romolo.
UN TERRITORIO «GIURIDICAMENTE» ROMANO Il risultato ultimo di questa serie di operazioni fu la creazione di un territorio coerente, giuridicamente romano, la cui difesa era assicurata dalle colonie, disposte lungo i margini di quella che di volta in volta era l’area romanizzata. Naturalmente, questo schema «ideale» non fu sempre applicato: alla piena e precoce integrazione di comunità considerate affini talvolta anche sul piano delle ricostruzioni
mitistoriche delle origini (come nel caso dei Veneti o degli Elimi, riconducibili a un comune sostrato troiano), fecero da contraltare le distruzioni e le devastazioni di città e territori (come nel caso di molti centri della Magna Grecia, colpevoli di essersi schierati con i Cartaginesi di Annibale) e le deportazioni di massa di intere popolazioni, come i Piceni, ribellatisi ai Romani nel 268 a.C., o come i Liguri Apuani, cui toccò un’analoga sorte nel 180 a.C., nonostante le loro assicurazioni di fedeltà a Roma (vedi box a p. 70). Una significativa mutazione nel rapporto fra Roma e le varie comunità ancora autonome dell’Italia antica può collocarsi negli anni centrali del II secolo a.C., a conquista o
Un formidabile elemento di coesione fu la progressiva condivisione di modelli comportamentali, culturali e linguistici inclusione ormai quasi completata dei grandi regni ellenistici d’Oriente. Un formidabile legante di coesione fu certamente rappresentato dalla partecipazione attiva a quelle campagne militari di conquista, che portò a una forma di condivisione di modelli comportamentali, culturali e, infine, anche linguistici fino ad allora mai realizzatasi. Questa tendenza all’assimilazione fra Romani e Italici sembra essere stata percepita dall’esterno come un dato di fatto: a Delo, il grande centro del commercio transmarino fra Oriente e Occidente, solo in pochi casi i Romani compaiono nelle iscrizioni dedicatorie come separati dagli Italici, mentre è molto piú frequente trovare riuniti sotto la definizione di Italici sia Romani in senso stretto sia esponenti di comunità alleate del Lazio, della Campania e del Sannio, i quali, nelle iscrizioni bilingui, utilizzano non il proprio idioma di origine, ma il latino. Con la fine della guerra sociale e il pieno inserimento delle comunità italiche nelle
Statuetta in bronzo raffigurante un personaggio maschile togato e interpretata come una personificazione del Senato, dal tempio di Diana di Emerita Augusta (l’odierna Mérida, in Spagna). II sec. d.C. Mérida, Museo Nacional de Arte Romano.
Nella pagina accanto: un tratto della strada consolare «delle Gallie» nei pressi di Donnas, in Val d’Aosta. Il tracciato fu realizzato, tagliandolo nella roccia, nel I sec. a.C.
a r c h e o 75
Una guarnigione di soldati romani acquartierata sulle sponde del Nilo, particolare del mosaico nilotico scoperto nell’area del santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina. II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
dinamiche politiche della fine della Repubblica, la Tota Italia celebrata nelle Res Gestae di Augusto diviene uno strumento politico al servizio di una fazione, quella del figlio adottivo di Cesare, creando le premesse per la formazione di quello stato sovranazionale noto come impero romano.
VERSO L’INTEGR AZIONE
di Cecilia Ricci
La creazione dell’impero, che è ormai avviata da secoli quando Augusto inizia la sua opera e che noi moderni siamo tentati di vedere come un processo evolutivo e continuo, conosce nel suo svolgersi sospensioni e retrocessioni, inter76 a r c h e o
ruzioni e pause di consolidamento. In ogni tappa di questo lunghissimo processo, le élite di governo romano scelsero, o furono costrette da particolari circostanze a scegliere, le forme di governo piú opportune per i territori via via annessi. L’inizio del principato coincide con il momento in cui, sovvertendo una tradizione secolare, il senato e il principe iniziarono a contemplare la possibilità di includere come attori, nella società e nella politica di Roma, accanto agli abitanti dell’Urbe e dell’Italia romana, anche alcuni provinciali. Premessa necessaria del processo di piena integrazione è l’acquisizione della civitas Romana di pieno diritto (optimo iure), una sorta di lasciapassare per l’accesso a diritti di cittadinanza «minima», quali la partecipazione alle assem-
LA «GIUSTA GUERRA» VISTA DA UN FILOSOFO GRECO Quella di Carneade, vissuto nel II secolo a.C., fu certamente ciò che oggi si definirebbe una provocazione. Il filosofo approfittò dell’occasione di una missione ufficiale a Roma per conto della città di Atene per tenere delle conferenze di argomento filosofico vario; ma non si trattò di argomenti innocui: in particolare, egli mise freddamente in discussione, in incontri pubblici molto frequentati, specialmente da giovani, uno dei pilastri etico-giuridico-religiosi della politica estera romana: il principio (e la prassi) del bellum iustum. Si trattava di un insieme di procedure e di rituali connessi alla guerra che, da età remota, avevano sottolineato che il ricorso alla violenza pubblica contro un altro popolo fosse in qualche modo legittimato da una ingiuria da quello commesso ai danni del popolo romano: una situazione della quale Giove veniva invocato come testimone, a garantire che la responsabilità iniziale della violenza non ricadeva sulla parte romana, ma sull’altra, quella del nemico. È vero che la spregiudicatezza e l’opportunismo di comandanti e legati aveva negli ultimi anni (o decenni) ridotto a pura formalità, a volte neppure osservata come tale, il rispetto di queste procedure; ma nessuno a Roma aveva mai osato irridere pubblicamente, come fece in quella circostanza Carneade, l’idea che esistesse una giustizia nei rapporti fra i popoli (gli Stati), dichiarando che «gli uomini sancirono il diritto per il proprio utile, … e di conseguenza o non esiste affatto la giustizia, o se esiste in qualche modo è il colmo della stoltezza, perché in servizio del
blee cittadine, il diritto di voto, gli scambi commerciali e i contratti secondo il diritto romano, la trasmissione dell’eredità, il matrimonio more Romano, l’adozione, un trattamento piú tollerante in materia di diritto penale.Tale obiettivo era stato raggiunto dagli alleati latini e italici da poco meno di un secolo, al termine della guerra sociale, e dai Galli cisalpini da qualche decennio, per interessamento di Cesare. Quando, alla fine del III secolo a.C., Caecilius Statius, un gallo insubre trapiantato a Roma, aveva fatto fortuna con le sue commedie, affiorava ancora l’ombra del pregiudizio nei confronti del provinciale. Tale pregiudizio è ormai ampiamente superato nel I secolo a.C., quando è un suo collega di Bononia (Bologna), Lucius Pomponius, a conoscere
di Paolo Desideri
vantaggio altrui si nuocerebbe a se stessi»; e che dunque «tutti i popoli fiorenti per domini, e in particolare i Romani che dominano su tutto il mondo, se volessero essere giusti, cioè restituire le cose altrui, dovrebbero ritornarsene alle capanne e giacersene in povertà e miseria». In effetti, per Carneade, era lo stesso popolo romano che dimostrava quanto sia distante l’utile dal giusto: quel popolo che «con l’indire guerre servendosi dei feziali e commettendo legalmente dei soprusi e sempre bramando e rapinando l’altrui si era procacciato il dominio di tutto il mondo». Carneade concludeva la sua requisitoria affermando che dunque i Romani non avevano agito e non agivano in base alla giustizia – che «ordina di essere clementi con tutti, di provvedere al genere umano, di restituire a ciascuno il suo, di non toccare le cose sacre, le cose pubbliche, le cose degli altri» – ma, come tutti gli altri popoli, in base alla sapienza, l’accortezza – che «impone di accrescere i propri mezzi, di aumentare le ricchezze, di estendere il proprio territorio (…), di comandare a quanti piú è possibile, di godersi i piaceri, di essere potenti, di regnare, di dominare». Ce n’era piú che a sufficienza per spingere Catone, forse il piú influente dei senatori del tempo, a richiedere l’immediato rientro in Grecia dell’ambasceria ateniese: «andassero a fare scuola ai figli dei Greci, e lasciassero che i giovani Romani continuassero a obbedire alle leggi e ai magistrati».
Testa del filosofo Carneade. Copia romana dall’originale greco del 150 a.C. collocato nell’agorà di Atene. Monaco, Glyptothek.
un discreto successo con le sue farse atellane. La strada è ormai aperta e l’esempio isolato e contestato di Cecilio viene di lí a breve seguito da artisti, letterati, oratori, storici e poeti sempre di origine cisalpina: Gaio Rusticelio, Marco Antonio Gnifone, Alfeno Varo, Elvio Cinna, Cornelio Nepote e il piú celebre di tutti,Valerio Catullo. Diviene per tutti costoro motivo di vanto, non piú marchio d’inferiorità, ricordare di essere Romani di Verona, Mantova o Bologna. L’accesso alla civitas Romana, l’acquisizione della formula onomastica tipica del cittadino e la registrazione nelle strutture territoriali garantivano la messa in regola ai fini burocratico-amministrativi dell’apparato di governo. a r c h e o 77
SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI Nella pagina accanto: cartina della Penisola con la divisione in XI regioni attuata da Augusto. In basso: ritratto di Caracalla, imperatore dal 211 al 217 c.C., da Roma, villa sulla via Cassia. 212-215 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
Tutt’altra cosa era «diventare romano»: per uscire dai confini della città e della provincia di provenienza, per mettere in moto il vero e proprio processo d’integrazione, bisognava assorbire i molteplici strati della cultura (greco)romana, conoscere i meccanismi della politica, possedere i mezzi necessari per penetrarne i segreti, avere i giusti contatti e godere di appoggi. Se si veniva dalla «provincia», uscire dall’anonimato e crearsi una posizione di rilievo nella vita di Roma erano, insomma, obiettivi difficili, che solo in casi eccezionali potevano essere conseguiti nell’arco di una sola generazione. Per alcuni tuttavia il nuovo corso della politica, la creazione del principato, aprí prospettive fino a quel momento inimmaginabili; e, nei casi in cui tali prospettive divennero realtà, i risultati furono non di rado sorprendenti.
L’ASCESA DEI PROVINCIALI «Secondo me, devi innanzitutto selezionare e scegliere con cura l’intero senato, dal momento che ci sono alcuni elementi non degni che, a causa dei disordini, sono diventati senatori… Al posto (di questi) nomina i piú nobili d’origine, i migliori cittadini e piú facoltosi scegliendoli non solo dall’Italia, ma anche dagli alleati e dai sudditi: in questo modo potrai disporre di numerosi collaborator i, ter rai sotto controllo i notabili piú importanti di tutte le province, le quali, non avendo alcuna guida carismatica, non si ribelleranno e i loro notabili ti tratteranno con riguardo, essendo chiamati a par-
tecipare insieme a te al potere» (Cassio Dione, LII, 19, 1-3). Il discorso che Mecenate, nel 29 a.C. rivolge a Ottaviano (futuro imperatore Augusto), ci è trasmesso da Cassio Dione, un homo nobilis d’Oriente che aveva raggiunto il consolato agli inizi del III secolo d.C. Si è parlato di quali fossero le modalità di accesso alla cittadinanza romana per i provinciali e come in particolare ne avessero diritto i membri dell’élite locale. Altra cosa tuttavia era il passaggio successivo, dal governo locale all’amministrazione dello stato romano, nella veste di funzionari degli uffici imperiali o come magistrati. L’accesso alle magistrature nell’Urbe di nobiles delle province piú romanizzate è un portato del regime augusteo, anche se solo pochi nomi di senatori provinciali sono noti tra il 27 a.C. e il 14 d.C. È tuttavia durante il regno di Claudio che i provinciali iniziano un’ascesa destinata a non interrompersi mai del tutto. Paradigmatico dell’avvenuto cambiamento nei confronti dei ceti dirigenti provinciali è il discorso pronunciato da Claudio e riportato da Tacito (vedi alle pp. 66-67). È certo che, da questo momento in poi, la quota dei provinciali in senato conobbe un incremento via via piú sensibile fino ad arrivare, alla fine del I secolo, a rappresentare poco meno di un terzo dell’assemblea dello Stato romano. Sembra quasi che le parole di Mecenate al futuro Augusto, piú che un consiglio, siano state la profezia della direttrice politica seguita dai suoi immediati successori e, con particolare sollecitudine, dalla dinastia flavia. Numerose le ragioni di questo aumento esponenziale: la pace interna, l’indirizzo della nuova amministrazione, ragioni e interessi politici, non ultima probabilmente la necessità del reintegro del senato (e dell’ordi(segue a p. 82)
LUNGIMIRANZA O INTERESSE? Figlio di Settimio Severo e Giulia Domna, Lucio Settimio Bassiano, che già aveva voluto acquisire il nome di Marco Aurelio Antonino per suggerire una parentela appunto con Marco Aurelio, è passato alla storia con il soprannome di Caracalla, derivato dall’omonima veste, originaria della Gallia, che era solito indossare. Nato a Lugdunum (l’odierna Lione) nel 186, nel 211 succedette al padre, assieme al fratello Geta. Un anno piú tardi emanò la Constitutio Antoniniana de civitate, provvedimento che concedeva la cittadinanza romana a tutti quanti ancora non la possedevano, a eccezione dei dediticii (probabilmente abitanti le comunità rurali d’origine barbarica). A consigliare questa concessione non ultima causa erano le immense spese che la cura delle strade, le fortificazioni, le costruzioni, il fasto della corte e l’apparato burocratico richiedevano.
78 a r c h e o
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SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI
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A sinistra: Maktar (Tunisia). L’arco di trionfo eretto in onore di Traiano nell’antica Mactaris. Nella pagina accanto: statua loricata con ritratto, non pertinente, di Traiano, da Minturno. Fine del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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NON TUTTE LE PROVINCE SONO UGUALI Le province imperiali istituite dall’imperatore Augusto non erano tutte uguali. La designazione stessa aveva seguito una logica centrifuga: i nomi erano assegnati a seconda della distanza dalla capitale dell’impero. Cosí Roma registrava la sua visione del mondo e dei rapporti tra centro e periferia, distinguendo tra Gallia cisalpina e transalpina, rispettivamente al di qua e al di là delle Alpi; individuando una Spagna (o una Mesia) ulteriore, piú lontana a Occidente, rispetto alla citeriore; e ancora, tra una Germania (o una Dacia) superiore piú lontana a Settentrione, rispetto alla inferiore. La distanza fisica progressiva marcava una diversità culturale che, nella mente dei Romani, diventava abisso quando si usciva anche dai territori sotto il controllo di regni amici e clienti. t
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Differente era dunque lo statuto delle province e molteplice al loro interno era la condizione personale degli abitanti: solo alcuni di loro godevano della cittadinanza romana perché risiedevano in colonie romane, o perché beneficiari individuali, o perché L’impero romano soldati ausiliari congedati. a Traian La condizione relativamente piú diffusa da era Augusto quella dei cives peregrini («cittadini stranieri»), (30 a.C.-117 d.C.) che godevano di una cittadinanza I territori di Roma alla vigili altra rispetto a quella romana. della battaglia di Azio (31 a Le popolazioni di molte aree rurali dell’Asia Minore, Conquiste e annession dell’Egitto, della Siria, ma anche di Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.) di zone alpine – sia gli abitanti di degli imperatori giulio-clau villaggi, sia i nomadi delle zone (14-68 d.C.) desertiche – erano escluse da degli imperatori flavi (69-96 d.C.) qualsiasi diritto di cittadinanza. di Traiano (98-117 d.C.)
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ne dei cavalieri) dopo le esecuzioni di numerosi senatori volute da Nerone e dopo le perdite delle guerre civili. Quando, nei primi decenni del II secolo d.C., Adriano viaggiava nel Mediterraneo, la maggior parte delle province dell’impero (l’Asia, la Narbonese, la Betica, la Tarraconese, piú timidamente l’Africa) aveva già i suoi rappresentanti in senato, in proporzioni diverse, a seconda del grado di urbanizzazione del territorio, del numero e del livello di «acculturazione» romana degli abitanti.
UN’ISTITUZIONE TOTALE di Aldo Schiavone
Bronzetto raffigurante un giovane africano con le mani legate dietro la schiena, da Menfi. II-I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: collare in ferro per schiavi con piastrina in bronzo contenente un’epigrafe relativa a una promessa di ricompensa per chi, in caso di fuga, avesse riportato lo schiavo al padrone Zonino. IV-V sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano.
82 a r c h e o
La schiavitú era a Roma un’istituzione totale. La sua presenza penetrava e trasformava ogni aspetto della vita, dal lavoro nelle botteghe o nelle campagne all’organizzazione domestica, dall’educazione alla sessualità, dall’intrattenimento alla socialità urbana. Solo la guerra e la politica non ne erano toccate, almeno in modo diretto e in via di principio: quelle erano faccende che riguardavano esclusivamente i maschi liberi. Un’invasività cosí capillare era tuttavia considerata dai Romani come del tutto scontata, mai come un problema. Un dato di fatto su cui era inutile soffermarsi piú di tanto, e non una questione aperta. Una civiltà senza schiavi era inconcepibile per il senso comune dell’epoca, compreso il senso comune degli schiavi. Aristotele aveva scritto che, per una parte degli umani, essere schiavi doveva ritenersi una condizione del tutto «secondo natura»: il loro destino, insomma. E l’affermazione, sebbene mai incontrastata fra i dotti, e in particolare non condivisa fino in fondo dalla cultura romana – che preferiva guardare alla schiavitú piuttosto come a una dura necessità della storia che a uno stato naturale –, aveva finito col riflettersi in un consenso quasi unanime verso una pratica giudicata irrinunciabile: era cosí che andavano le cose. A Roma, schiavi c’erano sempre stati, per quel che sappiamo, sin dalle lontane origini della città, fra i boschi e le valli dell’ultimo tratto del Tevere. Ma erano pochi, e vivevano integrati – anche per ragioni di identità etnica – all’interno delle famiglie dei padroni, che mantenevano su di essi un potere quasi indistinguibile rispetto a quello esercitato sui figli. Era una schiavitú «domestica», praticata in tutta l’arcaicità
Il modello dell’integrazione dello schiavo è rappresentato con efficacia dalla figura letteraria di Trimalcione, immaginata da Petronio, che cosí lo fa parlare in un passo del suo Satyricon:
«Amici, anche gli schiavi sono uomini. Hanno bevuto lo stesso latte, anche se poi un cattivo destino li ha oppressi. Tuttavia, che io possa perdere la vita se non è vero che presto gusteranno l’acqua della libertà. Nel mio testamento li affranco tutti. A Filargito do un legato, un fondo e la sua compagna; a Carione un isolato urbano, l’equivalente dell’imposta che dovrà pagare e un letto comodo. Nomino mia erede Fortunata e la raccomando a tutti i miei amici. Rendo note tutte queste cose affinché i miei servi comincino fin d’ora ad amarmi come se fossi già morto».
mediter ranea, dalla Grecia alla Ionia, all’Etruria. Poi, con le grandi guerre di conquista, a partire dal III secolo a.C., lo scenario cambiò nel giro di pochi decenni. Il succedersi delle campagne militari vittoriose rovesciarono su Roma e sull’Italia romana un’enorme massa di schiavi, risultato di razzie sistematiche ai danni delle popolazioni sconfitte, quando non addirittura di deportazioni di massa – nell’ordine prima di centinaia di migliaia di uomini e donne, successivamente addirittura di milioni: mai s’era visto niente di simile fino ad allora. Ai mercanti di esseri umani, che quasi sempre seguivano le truppe d’invasione, si affiancava l’attività di autentiche compagnie di trafficanti, da un capo all’altro del Mediterraneo: il commercio di schiavi risultava una delle attività piú redditizie del tempo. Il porto di Delo era forse il mercato piú importante per la tratta: secondo Strabone in una sola giornata vi si potevano vendere anche diecimila prigio-
nieri. Alla schiavitú patriarcale di un tempo si sostituiva cosí la nuova schiavitú-merce, dove lo schiavo era illimitatamente comprabile e vendibile al pari di un qualunque bene o di un animale domestico, con il corpo spesso marchiato a fuoco, come una ceramica.
DA SCHIAVI A CITTADINI di Massimo Brutti
Le regole giuridiche della schiavitú costituiscono un’originale creazione dei Romani. Legate alla vita e alla molteplicità dei casi concreti, esse mutano nel tempo e la loro storia rivela una fondamentale ambiguità. Da un lato legittimano la sopraffazione, dall’altro limitano le sue forme piú crude e prevedono un percorso di emancipazione, che i padroni possono attivare a vantaggio dei servi leali e disciplinati. Lo schiavo può passare dallo stato servile alla libertà, per decisione del dominus. L’atto che produce questo mutaa r c h e o 83
SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI
mento si chiama manumissio («manumissione»). Il diritto civile fissato nei costumi tradizionali ne stabilisce rigorosamente le modalità. Anzitutto, l’affrancamento si realizza mediante disposizione testamentaria (manumissio testamento). Il testatore dichiara libero lo schiavo e può contemporaneamente istituirlo erede.Vi è poi la manumissio vindicta: è la messa in scena fittizia di una procedura simile a quella dei giudizi di libertà: l’adsertor, in questo caso un ausiliario del magistrato, tocca il servo con una piccola verga (simbolo del potere) e dichiara solennemente che lo schiavo è libero, mentre il padrone non fa nulla per resistere. Ultima è la manumissio censu: con la registrazione quinquennale, il servo viene inserito nella lista dei liberi, assumendo il nomen gentis del capofamiglia. Questi atti producono un esito paradossale, senza uguali negli altri ordinamenti antichi. Spazzano via la differenza: al dominio si sostituisce l’integrazione. Infatti, nei casi di manumissioni secondo il diritto civile, gli schiavi non solo diventano liberi, titolari dei beni che costituivano il peculium e capaci di disporne autonomamente; ma nello stesso tempo acquistano anche la cittadinanza romana. Sono detti liberti o libertini (termine quest’ultimo I resti della sinagoga di Cafarnao, località della Galilea, sulla sponda nord-occidentale del lago di Tiberiade. Secondo quanto si legge nei Vangeli, qui Gesú insegnò e tentò di diffondere il suo messaggio, ma senza successo.
specificamente usato in opposizione a ingenui: coloro che mai sono stati in servitú). Sono tenuti al rispetto verso i patroni, ossia gli ex proprietari da cui dipendevano, e si obbligano alla prestazione di opere in loro favore. Pur avendo molto spesso un’origine straniera (i catturati in guerra), sono cittadini romani. Finché regge la repubblica, sebbene vi sia nelle masse servili una tensione crescente, la mobilità derivante dall’affrancamento non
ROMA, GLI EBREI, L’APOCALISSE
di Giulio Firpo
La piú antica rappresentazione di Roma da parte giudaica risale a poco dopo la metà del II secolo a.C.; un ampio elogio dei Romani, contenuto nel Primo Libro dei Maccabei (8, 1-16), costituisce la premessa e la motivazione del trattato di alleanza chiesto nel 161 a.C. da Giuda Maccabeo e prontamente concesso dal senato. I Giudei si trovavano in guerra con il regno seleucide di Siria da quando il re Antioco IV, tra il 169 e il 167 a.C., aveva vietato l’osservanza del loro culto e dei costumi tradizionali e saccheggiato il Tempio di Gerusalemme, oltretutto profanandolo con l’introduzione di un simulacro di Zeus. In questo elogio viene descritta con ammirazione la grande potenza terrestre e navale dei Romani, con l’elenco delle loro vittorie, in rapida successione, su tutte le maggiori potenze dell’epoca, in un arco di tempo che va dall’ultimo venticinquennio del III secolo a.C. al 146 a.C. La ragione di tale potenza è individuata nell’eccellenza della loro costituzione, moderatamente democratica e non dispotica, sostenuta dalla concordia dei cittadini. A ciò si aggiungono giudizi di valore che riflettono piuttosto le attese prioritarie da parte della resistenza giudaica: le guerre dei Romani sono sempre una risposta a un’aggressione esterna, e non derivano da avidità di conquista; soprattutto, i Romani vengono descritti come il popolo della fides, della fedeltà ai patti. Questa «lettura» di Roma – l’unica da una prospettiva esterna all’ordinamento romano – mutò rapidamente a datare dal 63 a.C., in conseguenza dei drammatici eventi che si verificarono
Monete in bronzo con un’iscrizione riferibile al sommo sacerdote e re di Giudea Giovanni Ircano II, I sec. a.C. (qui accanto), e con l’immagine di una menorah (a sinistra), battuta al tempo di Antigono Mattatia, ultimo re degli Asmonei, I sec. a.C. Gerusalemme, Israel Museum. In basso: Cafarnao. Un pentagramma, pentagono regolare stellato, inciso su un capitello della sinagoga.
in quell’anno. L’attacco romano alla Giudea, nel 63 a.C., era avvenuto in modo inaspettato e senza che nulla l’avesse provocato o fatto presagire: la fides romana, di cui l’entourage maccabeo aveva tessuto l’elogio circa un secolo prima, aveva mostrato i suoi limiti, e adesso non si vedeva all’orizzonte un’altra potenza capace di ridurre questo nuovo oppressore a piú miti consigli. C’era quanto bastava per suscitare, almeno in certi ambienti, la percezione d’esser tornati a vivere una storia già vissuta, di essere ostaggio di una maledizione che periodicamente si abbatteva sulla Giudea e sui suoi abitanti, dall’assiro Sennacherib al babilonese Nabucodonosor al greco Antioco IV e ora ai Romani; si fece cosí ricorso a una chiave di lettura della storia ampiamente collaudata in passato, capace di offrire conforto e consolazione per il presente e speranza per il futuro: Israele ha peccato contro Dio, che lo punisce abbandonandolo alla merce’ di eserciti stranieri e pagani, rappresentati come strumento inconsapevole dell’ira divina. Essa, tuttavia, non è per sempre, sí che il pentimento degli Israeliti può placarla e far sí che i pagani vengano a loro volta annientati, insieme a quanti, all’interno di Israele, si sono allontanati dall’osservanza della Legge. Questo schema era inserito in un’unica dimensione qualitativa del tempo, concepita come un susseguirsi di premi e punizioni divine a seconda dei comportamenti del popolo (i «giudizi di Dio»), ma comunque garantita, in un futuro indefinito, dalla certezza dell’intervento finale (in prospettiva escatologica, cioè «alla fine del tempo» o «alla fine dei giorni», dal greco éschaton) di un re-messia che avrebbe liberato una volta per tutte Israele dall’oppressione esterna. Fu dunque da una prospettiva messianica che si tornò a guardare ai rapporti tra Israele e l’oppressore straniero di turno, questa volta i Romani. Essa è espressa chiaramente, per esempio, in testi prudenzialmente databili nella seconda metà del I secolo a.C. quali i Salmi di Salomone. Nei Salmi 8 e 17, Roma è una potenza empia e superba, feroce e violenta, a cui Dio concede potere su Israele per punirla dei suoi grandi peccati; per liberarsi dalla sua oppressione viene invocato l’invio, da parte di Dio, di un re-messia di
forza e di giustizia, che stermini non solo i nemici pagani, ma anche i nemici dei pii all’interno di Israele e ristabilisca le sorti dei giusti. A questo antico schema messianico si aggiunsero, in molti casi, immagini, tensioni, attese elaborate in tempi piú recenti, appartenenti al filone apocalittico. L’apocalittica si caratterizzava per una visione dualistica della storia e dell’umanità e per l’idea dell’imminenza di uno scontro globale e decisivo, in cielo e in terra, tra le forze del bene guidate da Dio e quelle del male guidate dal principe dei demoni, Satana o Belial o Mastema o il diavolo, che avrebbe liberato Israele dall’oppressione e impresso una svolta qualitativa alla storia, inaugurando l’età messianica: diventava perciò fondamentale il computo del tempo escatologico, quello mancante al momento preciso della «fine dei giorni», che sarebbe stato preceduto da un crescendo di catastrofi (la grande tribolazione) e preannunciato da segni. Sul piano terreno, la lotta era affidata a quanti, pieni di ardore e di zelo, intendessero collaborare con Dio «accorciando i tempi» della venuta del messia; lo sprezzo del pericolo, l’indifferenza verso l’enorme sproporzione delle forze in campo, la totale disponibilità a mettere in gioco la propria vita caratterizzava, fra le altre cose, l’agire di costoro. a r c h e o 85
SPECIALE • ROMA CAPUT MUNDI
DA ROMOLO... VIII-V secolo a.C.
IV secolo a.C
III secolo a.C
II secolo a.C.
753 a.C. Fondazione di Roma
390 Sacco di Roma
298-290 Terza guerra sannitica
200-196 Seconda guerra macedonica
343-341 Prima guerra sannitica
291 Fondazione della colonia di Venosa
192-189 Guerra siriaca
340-338 Guerra latina e scioglimento della Lega latina
283 Fondazione della colonia di Senigallia 282-272 Guerra tarantina
183 Fondazione delle colonie di Parma e Modena
338 circa Fondazione della colonia di Ostia
268 Fondazione delle colonie di Rimini e Benevento
181 Fondazione della colonia di Aquileia
264-241 Prima guerra punica
177 Fondazione della colonia di Luni
753-509 Monarchia 509 Nascita della repubblica 494 circa Battaglia del lago Regillo tra Romani e Latini 449-448 Guerra contro Equi, Volsci e Sabini 406-396 Conquista di Veio
329 Fondazione della colonia di Terracina 326-304 Seconda guerra sannitica 306 Trattato romanocartaginese. L’Italia è attribuita a Roma, la Sicilia a Cartagine
241-227 Istituzione delle prime province di Sicilia e Sardegna-Corsica 225-222 Sottomissione dei Galli Boi e Insubri; battaglie di Talamone e Casteggio 218-201 Seconda guerra punica 218 Fondazione delle colonie di Piacenza e Cremona 215-205 Prima guerra macedonica
189 Fondazione della colonia di Bologna
172-167 Terza guerra macedonica 149-146 Terza guerra punica: distruzione di Cartagine e nascita della provincia romana «Africa» 147 Istituzione provincia di Macedonia 133 e 123-121 I Gracchi tentano la riforma agraria 120 Conquista della Gallia Narbonese che diviene provincia romana 102 Mario sconfigge i Teutoni e, l’anno successivo, i Cimbri
Particolare di un rilievo con soldati della guardia pretoriana, il corpo incaricato della difesa permanente dell’imperatore istituito da Ottaviano nel 27 d.C. Metà del I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
viene limitata. Le rivolte sono soffocate nel sangue, ma le manumissiones aumentano. Il quadro cambia, invece, quando nasce il principato. Porre un freno all’integrazione accelerata è uno degli obiettivi di Augusto.Vengono varate due prescrizioni legislative, volte a limitare il numero dei liberti: la lex Fufia Caninia (2 a.C.) stabilisce che le manumissioni testamentarie siano disposte nominativamente (non riferite quindi in modo indistinto a un’intera collettività di schiavi, come si usava) e che non superino determinate quantità. La lex Aelia Sentia (4 d.C.) esclude dalla cittadinanza gli schiavi che abbiano avuto comportamenti turpi e li colloca nella condizione di peregrini dediticii
...A ROMOLO AUGUSTOLO
I secolo a.C.
I secolo d.C.
II e III secolo d.C.
IV secolo d.C.
V secolo d.C.
91-89 Guerra sociale
14 d.C. Morte di Augusto
117-138 Adriano è imperatore
306-307 Terza tetrarchia
90-89 Concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati rimasti fedeli
14-37 Tiberio è imperatore 138-192 Dinastia degli Antonini
306-337 Costantino è imperatore
408-450 Teodosio Il è imperatore d’Oriente
83-82 Guerra civile
41-54 Claudio è imperatore
192-193 Pertinace è imperatore
308-311 Quarta tetrarchia
60 Primo triumvirato di Cesare, Pompeo e Crasso
54-68 Nerone è imperatore 193 Didio Giuliano è imperatore
313 Editto di Tolleranza
193-235 Dinastia dei Severi
337 L’impero è diviso tra Costante (337-350), Costanzo Il (337-361) e Costantino Il (337-340)
37-41 Caligola è imperatore
68 Galba è imperatore 58-51 Cesare conquista la Gallia 48 Dittatura di Cesare; Battaglia di Farsalo
69 Nello stesso anno sono proclamati imperatori Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano 69-79 Vespasiano è imperatore
44 Morte di Cesare 43 Secondo triumvirato di Ottaviano, Antonio, Lepido; scontro di Modena
79 Eruzione del Vesuvio e distruzione di Pompei
81-96 Domiziano è imperatore
41-40 Guerra di Perugia
90 Istituzione delle province di Germania Inferior e Germania Superior 96-98 Nerva è imperatore
27 Ottaviano riceve il titolo di Augusto 16-15 Norico e Rezia diventano province
284-305 Diocleziano è imperatore
79-81 Tito è imperatore
42 Battaglia di Filippi
31 Vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio
235-284 Anarchia militare; sono eletti diversi imperatori
293-305 Prima tetrarchia (Diocleziano, Galerio Massimiano, Costanzo Cloro) 305-306 Seconda tetrarchia
360-363 Giuliano l’Apostata è imperatore 363-364 Gioviano è imperatore 364-392 Dinasta valentiniana
410 I Goti di Alarico saccheggiano Roma 452 Papa Leone Magno arresta la marcia di Attila su Roma 455 I Vandali di Genserico saccheggiano Roma 476 Deposizione di Romolo Augustolo ad opera di Odoacre. Fine dell’impero romano d’Occidente
379-395 Teodosio I è imperatore
98-117 Traiano è imperatore 395 Morte di Teodosio e divisione dell’impero romano
DOVE E QUANDO ovvero degli stranieri, che non soggiornano nella città e non usano il diritto civile. È inoltre vietato al dominus minore di venti «Roma caput mundi. Una città anni l’affrancamento di schiavi, cosí come è tra dominio e integrazione» vietata la manumissio di uno schiavo al di Roma, Colosseo e Foro Romano sotto dei trent’anni. fino al 10 marzo Si rafforza cosí il controllo pubblico; preOrario tutti i giorni,dalle 8,30 vedendo che i liberti siano necessariamenalle 16,30 (non si effettua chiusura te adulti e che si siano comportati bene settimanale) quando erano servi, li si sottopone a una Info e visite guidate disciplina; si evita che la conquista della tel. 06 39967700; www.pierreci.it cittadinanza sia automatica. Gli interventi Catalogo Electa normativi sono volti, insomma, ad accentuare il carattere premiale e selettivo dell’af- I testi di questo speciale sono tratti dal catalogo realizzato in occafrancamento, piú che a metterne in discus- sione della mostra, il cui editore, Electa, ne ha gentilmente autorizzato la pubblicazione. sione le regole costitutive. a r c h e o 87
ARCHEOTECNOLOGIA • ACQUA DALL’ARIA
RUGIADA DA BERE
di Flavio Russo
UNA SERIE DI SINGOLARI CAVITÀ ARTIFICIALI, SOLITAMENTE INTERPRETATE COME APPRESTAMENTI DIFENSIVI, SONO, IN REALTÀ, TRACCE DI UN ANTICO E INGEGNOSO SISTEMA DI APPROVVIGIONAMENTO IDRICO. BASATO SUL SEMPLICE PRINCIPIO DELLA CONDENSAZIONE
S
ulla piana di Telese, ad appena 50 m slm e a ridosso dei ruderi delle mura della Telesia romana, iniziano le pendici di monte Acero, un tozzo rilievo conico che, con i suoi 736 m, sovrasta l’intera contrada, separato dai contrafforti del massiccio del Matese dalla netta incisione erosa sul versante orientale dal torrente Titerno. Una connotazione ideale per esaltare potenzialità difensive passive di tipo arcaico e, infatti, il luogo non sfuggí alla visione tattica dei Sanniti, che ne fecero il sito ideale
per la collocazione di una delle loro maggiori fortificazioni. Tecnicamente si tratta, e i cospicui ruderi lo lasciano facilmente concludere, di una cerchia apicale, che si sviluppa intorno alla cima bicuspide, con un circuito di oltre 3 km di mura poligonali, alte in origine 3-4 m di media, e provviste di un paio di varchi. Per molti studiosi la cinta appartenne alla Telesia sannita, ricostruita a valle dai Romani al termine delle guerre. L’ipotesi, suffragata dal vistoso arroccamento, a una piú ponderata riflessione e proprio per tale impervia ubicazione
Una veduta aerea della sommità di monte Acero, nella Valle Telesina (Campania), cinta per oltre 3 km da una cerchia di mura poligonali di età sannita (in dettaglio, nella pagina accanto).
non sembra congrua a un abitato stabile, ma, al massimo, a un ricetto di ragguardevoli capacità, un recinto per salvaguardare greggi e uomini dalle stragi e dalle razzie belliche. Una struttura ostativa, in definitiva, certamente di enorme sviluppo, ma non per questo diversa dalle centinaia di matrice sannita e italica, disseminate sulle propaggini degli Appennini e delle Alpi. Recinti, ricetti, cerchie poligonali, arce, castellieri, e ancora altre denominazioni persino piú saccenti, che però nulla aggiungono alla comprensione della loro funzione, in
ogni caso connessa con una belligeranza rudimentale. Appare, infatti, difficile attribuirgli tattiche d’impiego meno rozze e resistenze ossidionali piú prolungate, dal momento che sono sprovviste persino del requisito basilare per un uso di quel genere: la disponibilità di un’adeguata riserva d’acqua.
ALLA FAME SI RESISTE, MA NON ALLA SETE Le concavità artificiali, peraltro di modesto volume e immancabili tra quelle cerchie, pur essendo state sistematicamente interpretate come altrettante conserve per la raccolta e la conservazione dell’acqua, lasciano fondati dubbi sul reale apporto, quale che fosse il contesto cronologico. Non esistendo fonti che garantissero il reintegro dell’acqua prelevata, infatti, l’accumulo dipendeva esclusivamente dalla pioggia, convogliata alla meno peggio, e dalla tenuta dell’impermeabilizzazione di fango o argilla. Ma quanti giorni di sopravvivenza avrebbero garantito ad armenti e uomini chiusi in quelle cerchie cisterne tanto arcaiche? La fame, infatti, non comprometteva la resistenza né degli uni né degli altri: il pascolo non mancava all’intorno e gli stessi animali, acuendosi l’inedia, si sarebbero trasformati in
alimenti! Ma nessun aiuto adeguato sarebbe venuto dalle piogge in quelle regioni rare e misere in estate, la stagione della guerra e delle razzie, mentre si sarebbe avuta un’evaporazione costante e cospicua, con una conseguente e grave decurtazione della conserva, pur senza considerare l’abbeverata degli animali. Che, tuttavia, non era affatto trascurabile: una vacca da latte beve circa 200 litri al giorno, un bovino o un cavallo circa 50, un maiale almeno 20 e solo 10, si fa per dire, una pecora, quantità minima equivalente a quella ritenuta indispensabile per un uomo. Un modesto assembramento di rifugiati e di bestiame, pertanto, di concerto col calore e le dispersioni, avrebbe prosciugato i circa 300 mc di una conca del genere, in meno di un paio di settimane. Acqua scarsa per quantità e ributtante per qualità, soprattutto dopo i primi giorni, quando la conserva si trasformava in una fangosa pozzanghera e la fortificazione in trappola. Ma fu realmente cosí? Nell’antichità classica, sfruttando un unico fenomeno, si conoscevano, da secoli, almeno due modi per estrarre l’acqua dall’aria in discreta quantità, una procedura apparentemente «magica» ai nostri occhi. In realtà, tutti ne abbiamo quotidiana
esperienza, specialmente in estate, quando giudichiamo l’accattivante freddezza di una bibita dal velo d’acqua intorno al suo contenitore; o quando, dopo una notte stellata trascorsa all’aperto, la nostra auto somiglia al mattino a un pesce appena pescato; o, ancora, restando a confabulare nella stessa auto in pochi minuti se ne appannano i vetri, lasciando colare piú di un rivoletto! Acqua estratta, in tutti i casi, dall’aria, che sempre ne contiene, ma in quantità variabili. Definendosi «punto di rugiada» la temperatura limite sopra la quale il vapore nell’aria è alla saturazione e, sotto la quale, si condensa in minute goccioline sulle superfici piú fredde, la produzione di acqua per deumidificazione fu denomina «stagno di rugiada» se ottenuta con ampie conche e «pozzo ad aria» se in alte torri. Al di là delle etichette, si trattava, in pratica, di lambire o di ostacolare il moto dell’aria con ampie superfici piú fredde dell’ambiente circostante, per farvi condensare il vapore acqueo: strutture prive di parti metalliche o comunque complesse, per la cui costruzione erano sufficienti pietre grezze, argilla, paglia e, quando disponibili, bitume o calce spenta.Va osservato che tanto gli stagni di rugiada che i pozzi d’aria producevano acqua purissima, per l’esattezza distillata, la quale pur fluendo in tubi, di cotto o di piombo, a bassa pressione non sedimentava.
COSTRUZIONE A STRATI La realizzazione di uno stagno di rugiada, nota probabilmente dalla preistoria, iniziava con lo scavo di una conca, di una trentina di metri di diametro, di primo acchito piú ampia del necessario, e profonda un paio. La costruzione propriamente detta constava di vari strati sovrapposti, a cipolla, collocati a partire dal fondo della conca. Il primo consisteva in un vespaio di pietrisco, spesso una decina di centimetri, sul quale era steso un mantello di calce spenta o argilla battuta, per omogea r c h e o 89
ARCHEOTECNOLOGIA • ACQUA DALL’ARIA
neizzarne la superficie e interdire le risalite per capillarità. Seguiva un secondo strato, spesso una trentina di centimetri, di paglia secca ben costipata, per coibentare la conca. Quindi un terzo strato, di argilla impastata e sagomata a calotta sferica, detto «crosta», spesso una ventina di centimetri, eseguito per comodità a spicchi. Su questo, per proteggerlo dagli zoccoli degli animali, poggiava un ultimo strato di lastre di pietra, simili a scandole. Intorno alla conca, il terreno si rialzava come un piccolo argine, per impedire all’acqua piovana di raggiungere la paglia: per lo stesso scopo, il bordo della stessa era accuratamente coperto d’argilla, in quanto si aveva consapevolezza del fatto che il funzionamento dell’impianto dipendeva dalla sua assoluta secchezza. Il diametro della conca scendeva perciò intorno ai 20 m, con una profondità effettiva di appena 1,2 m al centro, e un volume complessivo oscillante fra i 300-600 mc, spesso anche inferiore, dunque una cubatura in genere minore delle anzidette conserve. Dal punto di vista funzionale, la conca di argilla, isolata termicamente dalla paglia, pur ricevendo la medesima insolazione del terreno circostante, si manteneva a temperatura alquanto piú bassa. L’argilla, infatti, seccandosi per l’evaporazione dell’acqua d’impasto, si raffreddava, per cui, sopraggiunta la notte, risultava sensibilmente piú fredda del terreno. Essendo la quantità di vapo-
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UNA STRUTTURA «A CIPOLLA» Ricostruzione planimetrica parzialmente sezionata (in alto) e ricostruzione assonometrica sezionata (nella pagina accanto) di uno «stagno di rugiada». In basso: uno «stagno di rugiada», ampia conca artificiale contenente acqua ottenuta per condensazione del vapore acqueo atmosferico, utilissimo laddove non si disponga nelle vicinanze di sorgenti o di pozzi.
Bordo della conca di argilla allargato orizzontalmente per proteggere gli strati sottostanti dalle eventuali infiltrazioni di acqua piovana. Cordolo di mattoni, posto al di sotto del battuto di calce – non sempre presente –, necessario per irrobustire la conca e formare una sponda per la paglia, a sua volta collocata sopra un vespaio di pietrisco.
re che l’aria può contenere direttamente proporzionale alla sua temperatura, come questa scendeva per il contatto con la conca, cosí il vapore vi si condensava. Le goccioline d’acqua depositate sulla sua superficie scivolavano, perciò, verso il centro, depositandosi sul fondo, e, per facilitarne lo scorrimento, alcune conche ebbero un’incisione a spirale. Nel corso della giornata parte di quell’acqua evaporava, ma la quantità era minore di quella che nella nottata successiva vi si sarebbe ancora condensata. Pertanto, notte dopo notte, nonostante le perdite e i prelievi quotidiani lo stagno si riempiva, al contrario delle conserve, quasi come un pozzo artesiano. È però probabile proprio per quanto delineato, che le supposte conserve fossero in realtà l’alloggiamento, scavato nella roccia, di una conca, dissoltasi in seguito completamente:
Per sfruttare meglio il fenomeno della condensazione, la conca doveva essere abbastanza larga e poco profonda, obbligando a costruirla a sezione ellittica, cosí da poterle conferire una discreta cubatura.
si restituirebbe cosí una logica fruizione per quelle fortificazioni, altrimenti assurde! Gli stagni di rugiada non sono mai stati del tutto abbandonati, tanto che in Inghilterra, agli inizi del secolo scorso, giravano ancora squadre specializzate nella loro costruzione.
UN MISTERO IN CRIMEA Vi era poi, come accennato, un secondo deumidificatore per estrarre acqua dall’aria, il pozzo ad aria: il primo a darne notizie, nell’estate del 1900, fu l’ingegnere forestale ucraino Friedrich Zibold. Effettuando rilievi sul monte Tepe-Oba, in Crimea, presso gli scavi di Theodosia (l’attuale Feodosiya), s’imbatté in enormi cumuli di pietre, ciascuno di oltre 600 mc. Dell’antica città, fondata intorno al VI secolo a.C. dai Greci di Mileto sulle coste del Mar Nero, e distrutta un millennio dopo
Intorno al bordo di argilla col terreno di riporto dello scavo si formava una sorta di argine, a sezione triangolare, indispensabile per impedire alle acque piovane di infiltrarsi fino allo strato isolante di paglia compromettendone la coibenza.
dagli Unni, restavano ormai solo i ruderi e un misero villaggio, adiacente alla colonia genovese di Caffa. Gli scavi, condotti fra il 1900 e il 1907 e gratificati da una certa risonanza internazionale, ne avevano portato alla luce una parte, insieme a una articolata rete di tubi di terracotta, di una decina di centimetri di diametro. Alcuni partivano dai cumuli e terminavano nelle cisterne e nelle fontane della città, di cui si disse che Theodosia fosse ben dotata, pur non ritrovandosi nei paraggi tracce di torrenti o sorgenti, anche seccati da tempo: un’anomalia che forse suggerí allo Zibold l’interpretazione dei cumuli. Quelli ancora osservabili erano una decina, conoidi alti 10 m e con una base di circa 20 m di diametro, formati con pietre di piccola pezzatura. Ciascuno di essi insisteva su una piattaforma concava di circa 300 a r c h e o 91
ARCHEOTECNOLOGIA • ACQUA DALL’ARIA
IL «PRODIGIO» DELL’INGEGNER ZIBOLD Ricostruzione assonometrica di un «pozzo ad aria» secondo la concezione dell’ingegnere forestale ucraino Friedrich Zibold.
La sommità dei cumuli di pietrisco aveva al centro un incavo imbutiforme, che facilitava la circolazione dell’aria e quindi la successiva condensazione del vapore in essa contenuto, che, gocciolando verso l’interno, contribuiva ad abbassare ulteriormente la temperatura del pietrisco medesimo. Intorno al cumulo correva un basso muretto di pietra volto a impedire l’avvicinamento alla sua base di uomini e di animali, per evitare che inquinassero l’acqua, e, al contempo, che l’acqua piovana fangosa finisse nella conca.
Al di sotto del cumulo di pietrisco stava una sorta di piattaforma concava di conglomerato impermeabile, suddiviso in spicchi per comodità di realizzazione, munito al centro di un foro che convogliava l’acqua in un collettore.
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Il collettore era costituito da un sottile solco che, dopo aver raccolto tutta l’acqua condensata dal pietrisco, la conduceva all’esterno della base del cumulo, immettendola in una tubatura o in una canaletta.
Il terreno su cui veniva costruito l’impianto doveva essere abbastanza saldo e privato di qualsiasi vegetazione, idoneo perciò a sopportare senza cedimenti parziali il peso del cumulo di pietrisco.
mq, simile a quella degli stagni di rugiada, dal centro della quale si dipartiva una canalizzazione. Il funzionamento di quelle collinette artificiali risulta abbastanza semplice: l’aria calda e umida esterna, infiltrandosi nell’ammasso di pietre, entrava in contatto con quelle interne, piú fredde perché al riparo dai raggi solari, e vi si condensava sopra, gocciolando nella conca, da dove un collettore l’immetteva nelle tubature. Stando ai calcoli dell’ingegnere, l’intero impianto, in condizioni ottimali, doveva produrre
In basso: il deumidificatore a torre realizzato dal belga Achille Knapen nel 1930, sulla cima di una collina a Trans-en-Provence, in Francia, sulla base dei progetti di Friedrich Zibold. A destra: il nucleo interno della «torre» costruita a Trans-en-Provence, che, rimanendo piú freddo, avrebbe dovuto potenziare la deumidificazione.
50 000 litri di acqua al giorno, in pratica 4 mc per cumulo.
LA CONFERMA DECISIVA Per verificare quanto ipotizzato, Zibold facendosi aiutare dai contadini locali, costruí in cima al vicino monte Tepe-Oba, a 228 m di altezza, un similare condensatore, poggiando su una conca di conglomerato un cono di ciottoli marini, compresi fra i 10 e i 40 cm, di 8 m di diametro di base e 6 m di altezza. La verifica ebbe successo e, dal 1912, l’impianto produsse 360 l di acqua al giorno, fino al 1915, quando, rottasi la conca, che si può ancora osservare, fu smantellato. Dal condensatore Zibold derivarono vari progetti di pozzi ad aria: il piú appariscente fu realizzato nel 1930 su di una collina di Trans-en-Provence in Francia, su progetto del belga Achille Knapen. Un corpo turriforme di 14 m di altezza e 3 m di spessore, simile a una colombaia per le sue innumerevoli feritoie, con un nocciolo interno di cemento, che, restando piú freddo, avrebbe dovuto esaltare la deumidificazione. Tuttavia, poiché la superficie laterale complessiva del nocciolo era di gran lunga minore di quella delle pietre dei cumuli, il risultato fu un fallimento, non ricavandosi piú di una ventina di litri al giorno. a r c h e o 93
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
IL MESSAGGIO DI QUEL «PICCOLO PROFESSORE»
In basso: l’archeologo Nino Lamboglia (1912-1977), pioniere dell’archeologia stratigrafica e subacquea, nel 1972. Nella pagina accanto: l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) di fronte all’Arco di Costantino, nei primi anni Settanta.
NINO LAMBOGLIA NON È STATO SOLTANTO IL «PADRE» DELL’ARCHEOLOGIA SUBACQUEA ITALIANA. FONDAMENTALE È STATO ANCHE IL SUO CONTRIBUTO ALLE MODERNE METODOLOGIE DI SCAVO, BASATE SULLA STRATIGRAFIA
L’
Istituto Internazionale di Studi Liguri ha voluto ricordare, nel centenario della nascita, il suo fondatore Nino Lamboglia, uno dei padri dell’archeologia italiana del Novecento. Ci sono infatti ancora tanti buoni motivi per tornare a parlare e a riflettere sull’operato di quel piccolo professore, dall’aria cosí inusuale, da italiano del dopoguerra, con quel suo sorriso a 48 denti e quel suo modo di fare cosí diverso dai professori d’un tempo. Una persona dal tratto umano semplice, che anche per questo si faceva rispettare dai tanti ragazzi che andavano a seguire i suoi corsi teorici e pratici di archeologia nella sede fascinosa del Museo Bicknell di Bordighera, dove l’Istituto ha tuttora sede. Ebbi occasione anch’io di andarci, tanti anni fa, ed ebbi poi modo di incontrarlo altre volte: l’ultima a Lipari, in occasione di uno di quei convegni di archeologia subacquea
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(o sottomarina, come si diceva allora) che furono una delle sue tante creazioni innovative del panorama dell’archeologia italiana del tempo. La sua morte improvvisa e tragica nel 1977 impedí a me – e a tanti altri ragazzi della mia generazione – di crescere con lui e gli impedí di invecchiare (aveva 65 anni) e di vederci crescere.
UN CONTRIBUTO DECISIVO Mi sono domandato a volte quale sarebbe stato il suo ruolo in quel decennio in cui (gli anni Ottanta) l’archeologia italiana cambiava a rotta di collo, e spesso lungo i
binari che lui stesso aveva tracciato. Ma i miei ricordi sono poca cosa. Ben piú intenso è il ricordo che ne tracciò un quarto di secolo fa Andrea Carandini, forse l’interprete piú vero dell’eredità metodologica di Lamboglia. A partire dal contributo decisivo che aveva dato al «mestiere dell’archeologia», andando al sodo e insegnando a «stare» sullo scavo e a distinguere gli strati, a numerarli, a disegnarli, là dove – scriveva Carandini – «generazioni di studiosi si erano autopromossi scavatori». A Ventimiglia si imparava anche a maneggiare la
ceramica, a riconoscerla e a classificarla, praticando la cooperazione sul terreno di scavo e in laboratorio. Certo, in quegli anni, nei cantieri diretti da Lamboglia lo scavo, inteso come pratica manuale, era ancora affidato alle mani abili di operai qualificati, ma «andare da Lamboglia» significava acquistare una prima competenza artigianale e permetteva di cogliere il fascino di uno dei piú grandi privilegi dell’archeologia, che è quello della naturale integrazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale: quella integrazione – scrisse ancora Carandini – che ti fa capire che «non si può essere al tempo stesso impeccabili nell’erudizione e arretrati nella raccolta dei dati sul terreno». A Bordighera, nelle brevi settimane dei corsi aperti a studenti di varia provenienza, si imparava il gusto per il lavoro di gruppo e si comprendeva l’importanza, anzi la
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A sinistra e in basso: Nino Lamboglia sulla Daino, nave con cui condusse, nel 1958, con il Centro Sperimentale di Archeologia Sottomarina di Albenga, le prime indagini sistematiche sul giacimento dell’isola di Spargi, nell’arcipelago della Maddalena. Qui, un anno prima, era stato recuperato il relitto di una nave oneraria romana, con il suo carico di anfore vinarie intatto.
centralità della cultura scientifica, cioè della cultura degli indizi, e della tecnica a essa correlata. Cultura e tecnica che erano mirate, l’una e l’altra, a quella finalità storica e antropologica della ricerca che sfuggiva a chi, in quegli stessi anni, si abbandonava a certe scorciatoie tecnologiche, moderne nella forma, ma nella sostanza ancora deboli e intrise di cultura antiquaria. Carandini veniva dalla scuola dell’archeologia storico-artistica e storica di Ranuccio Bianchi Bandinelli, il grande maestro formatosi nel cuore della cultura idealista, che aveva saputo tuttavia reinterpretare alla luce del materialismo storico (di qui il suo impatto sulla cultura italiana del tempo, non solo d’ambito archeologico). Non era facile per Bianchi Bandinelli, l’aristocratico
europeo che aveva saputo spogliarsi del sangue in nome di un ideale di eguaglianza sociale, intendersi a prima vista con lo studioso locale intriso di una cultura nazionalistica contaminata dall’adesione al fascismo. Ma il nazionalismo di Lamboglia, nella onestissima lettura che ce ne ha proposto Carandini, può anche essere letto come il modo di essere del suo «internazionalismo», se con questa parola vogliamo intendere il superamento, da lui non tanto predicato quanto praticato, dei
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confini delle scuole nazionali. Era quella – se ci pensiamo bene – una intuizione abbastanza contro corrente nel panorama dell’archeologia internazionale del tempo, ancora pervaso, in fondo, da un’atmosfera post-coloniale, poco incline a una visione internazionale della cultura.
TECNICA E «CULTURA» Possiamo piuttosto domandarci se fosse valida l’apparente contrapposizione Bianchi Bandinelli versus Lamboglia. La mia risposta è no. E lo abbiamo capito da tempo, tanto piú se rileggiamo, a quarant’anni di distanza, alcuni passaggi di una celebre prolusione che Bianchi Bandinelli tenne all’Accademia dei Lincei (poi divenuta premessa alla sua postuma Introduzione all’archeologia classica), nella quale il seme gettato da Lamboglia sui suoi stessi scolari sembra giunto anche al Maestro. Quel seme è còlto, infatti, in poche righe,
COS’È L’ARCHEOLOGIA?
Indagine storica
In alto: Bordighera. La sede dell´Istituto Internazionale di Studi Liguri, fondato da Nino Lamboglia nel 1937 e dallo stesso diretto fino alla morte, nel 1977. In basso: la lapide commemorativa dell’archeologo ad Albenga. che sono il segno dell’apertura dell’archeologia classica italiana a una archeologia che Lamboglia aveva prefigurato stando ai margini dell’ufficialità accademica, negli anni in cui nelle aule universitarie non era affatto facile studiare gli strati archeologici e i loro cocci, che non avevano gran diritto di cittadinanza nella disciplina. Mettendo assieme i muri delle architetture, le terre degli strati e i relativi reperti, il contesto archeologico occupava invece il centro del palcoscenico, rendendo piú chiara la necessità di una formazione professionale dell’archeologo, sottovalutata in un mondo in cui l’idealismo spicciolo di tanti colleghi – alcuni dei quali intrecciavano penose polemiche antistratigrafiche con Lamboglia – non coglieva alcuno dei due corni del problema: contesto, appunto, e professionalità. Per questo motivo vale la pena di rileggere le righe con le quali
Carandini chiudeva – era il 1985 – il suo ricordo di Nino Lamboglia: «Lui era modesto e forse non lo sapeva, ma dalla tecnica stratigrafica nasceva la cultura stratigrafica, che è poi la cosa piú importante».
«Si è andato perfezionando cosí lo scavo stratigrafico con l’esatta osservazione delle varie successioni e lo studio dei reperti ceramici, anche privi di qualsiasi ornamento (…). L’archeologia si è maturata cosí a vera e propria scienza storica, non piú ”scienza ausiliaria“ della storia. Essa rappresenta un modo diverso, particolare, di indagine storica; ma il fine è il medesimo, dopo che anche la storia non è piú solo la storia dei grandi uomini e delle loro guerre, ma la storia dei popoli. Anziché sulle fonti scritte, essa si basa sui dati materiali che una civiltà produce, accumula e lascia dietro di sé. E ciò vale non solo per la storia di quelle età che chiamiamo ”preistoriche“ perché mancano le fonti scritte, ma che sono età nelle quali gli uomini ebbero, anche in esse, una storia; ciò vale anche per le età piú vicine, giacché le fonti letterarie sono sempre in doppio modo parziali: parziali nel senso che si limitano a determinati periodi, parziali nel senso che rappresentano sempre una determinata interpretazione dei fatti, spesso una determinabile corrente di interessi. Il dato archeologico, invece, è di per sé imparziale, ma si tratta di saperlo interpretare». (Ranuccio Bianchi Bandinelli, Introduzione all’archeologia, Roma-Bari, Laterza 1976, p. XXV)
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ANTICHI IERI E OGGI Romolo A. Staccioli
POMERIGGIO ALLE TERME
CENTRO DI VITA MONDANA, GLI IMPIANTI PER IL RISTORO DELLE MEMBRA OFFRIVANO OGNI GENERE DI INTRATTENIMENTO, DALL’ARTE ALLO SPETTACOLO, PASSANDO PER I MOMENTI CONVIVIALI. FINO ALLA DODICESIMA ORA, QUANDO IL RIENTRO A CASA ERA D’OBBLIGO...
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a frequentazione delle terme, soprattutto in età imperiale, era l’occupazione pomeridiana preferita dalla maggior parte della popolazione, d’ogni ceto e d’ogni età. I piú arrivarono a considerare inconcepibile il solo pensiero di poter passare altrove il proprio tempo libero. Alle terme non s’andava, infatti, solamente per fare il bagno e un po’ di ginnastica. Con l’aggiunta ch’era stata fatta, allo stabilimento balneare vero e proprio, di grandi aree aperte con portici e viali, giardini e fontane, e di «spazi alternativi» con biblioteche, auditori e sale per
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conferenze ed esposizioni, esedre per incontri e convegni e persino stadi e spazi teatrali (o, comunque, luoghi attrezzati per spettacoli), le terme erano diventate autentici «centri polivalenti» di cultura fisica e intellettuale, di incontro, di divertimento e di mondanità, capaci di polarizzare per ore l’interesse del pubblico e tali da sostituire, tutti insieme, gli altri luoghi di frequentazione e di ritrovo della vita quotidiana. C’era, insomma, di che soddisfare le esigenze di igiene e di benessere fisico, ma anche il piacere dello spirito e ogni desiderio di svago e
Terme romane, olio su tela di Fedor Andreevich Bronnikov (1827-1902). 1858. Sadrinsk (Russia), Museo di Studi Regionali. di divertimento: giocare e assistere a uno spettacolo, mangiare e bere o ammirare opere d’arte, ascoltare musica, conferenze, letture e declamazioni poetiche. O anche, genericamente, «socializzare» – come si direbbe oggi –, cioè incontrare gente, fare nuove conoscenze, discutere, trattare di affari, cercare raccomandazioni e appoggi politici, apprendere le ultime novità
e commentare i fatti del giorno, discutere di aurighi e gladiatori e scommettere sulle corse del circo o sui combattimenti dell’anfiteatro, fare pettegolezzi e combinare matrimoni, persino procurarsi il solito invito a cena.
DAI BAGNI AL CIRCO Fino al tempo di Traiano, ossia agli inizi del II secolo della nostra era, le donne erano ammesse a frequentare le terme insieme con gli uomini. E se quelle che non gradivano la promiscuità avevano a disposizione stabilimenti balneari riservati, in un periodo che non si distingueva piú per rigore morale e rigidità di costumi, non erano poche le donne che preferivano le grandi terme aperte a tutti. Anche per mettere in mostra la loro condizione di assoluta libertà o, semplicemente, per fare sfoggio di comportamenti snobistici o per rivendicare, di proposito, ulteriori conquiste di emancipazione e di «progressismo» femminista. Fino a che, per far cessare gli scandali inevitabilmente seguiti all’eccesso di libertà, l’imperatore Adriano non decise di «separare i bagni secondo i sessi (come c’informa la Historia Augusta), introducendo il sistema dei doppi turni e riservando al turno delle donne le ore antimeridiane. Tutto quello che abbiamo detto accadeva nei giorni comuni: quelli che noi chiamiamo «feriali». Nei giorni che erano «feriali» per gli antichi, cioè in quelli festivi (dies festi o feriati, dal verbo ferior, «essere in riposo») – sia che si trattasse di feste fisse (feriae stativae) oppure mobili (feriae indictivae o conceptivae), sia che si trattasse di festeggiamenti speciali per eventi particolari (grandi vittorie, trionfi, inaugurazioni di monumenti, assunzioni al trono, anniversari imperiali, ecc.) – a occupare le ore del giorno, a parte le immancabili cerimonie religiose, c’erano il circo e l’anfiteatro. Questo poi, fin dal mattino, quando nell’arena si
svolgevano le cacce alle fiere (venationes), mentre i gladiatori combattevano di pomeriggio, dopo un intervallo meridiano durante il quale chi restava sulle gradinate rinunciando alla siesta poteva assistere a spettacoli leggeri e d’intermezzo. È appena il caso di aggiungere che, nell’antica Roma, di giorni festivi ve ne erano diverse decine nel corso dell’anno, spesso in rapida successione: erano già una sessantina durante la repubblica e si moltiplicarono nel periodo imperiale.
AL CALAR DEL SOLE Dopo il tramonto – cioè al compimento della dodicesima ora (o frazione) del giorno – non essendoci alcuna possibilità di condurre un qualsiasi tipo di vita notturna, tutti s’affrettavano a rientrare nelle proprie abitazioni. Al calar delle tenebre, le strade, prive di qualsiasi illuminazione, si facevano deserte e diventavano pericolose. Prima di tutto – anche in senso... cronologico – per l’usanza diffusa di gettare dalle finestre ogni sorta di rifiuti domestici. Sicché Giovenale, dopo aver accennato alla caduta di «vasi crepati o rotti» che «lasciano il segno sul selciato» (III, 268 segg.), aggiunge: «Potresti passare per un negligente o per uno che non si preoccupa degli imprevisti, se vai fuori a cena senza aver fatto testamento: tanti saranno i pericoli di morte, in una notte, quante le finestre aperte sopra di te che passi». Poi, come se non bastasse (e con evidente allusione all’altra abitudine di disfarsi, gettandoli in strada, anche dei... rifiuti derivanti dalla mancanza, nella maggior parte degli alloggi, dei piú elementari servizi igienici), conclude: «E spera e fatti il miserevole augurio che quelle finestre s’accontentino di rovesciarti addosso il contenuto dei loro catini». Ma di notte, in strada, c’era pure il pericolo dei cattivi incontri. «Intanto viene avanti un ubriaco –
continua Giovenale – di quelli che si danno pena se per caso non hanno ancora bastonato nessuno: a certa gente solamente una rissa concilia il sonno (...) Egli si guarderà bene dall’importunare chi indossa un mantello di porpora che consiglia di starne alla larga, cosí come fa la folta schiera d’accompagnatori, con un gran numero di torce e di lanterne di bronzo. Con me, che solo la luna m’accompagna o il fioco lume d’una candela alla quale devo continuamente attizzare lo stoppino, se la potrà prendere con tutta libertà». «Ma non devi aver paura solo di questo. Infatti, allorché le case sono ben chiuse e dopo che, sprangate con catene le taverne, d’ogni parte è silenzio, non manca chi ti spoglia completamente. E talvolta il grassatore, piombato all’improvviso, se la sbriga con un coltello». Una volta chiusi in casa, dopo la cena (che, solo nelle case dei ricchi, poteva prolungarsi fino a notte inoltrata, quando veniva seguita dalla commissatio: un dopocena dedicato al vino, alla conversazione, all’intrattenimento, al gioco e allo svago), non c’era altra possibilità che quella di andarsene a dormire. La mancanza d’una illuminazione decente che non fosse quella, scarsa e ondeggiante, di una qualche fumosa – e costosa – lucerna a olio (o di quella sorta di candela fatta con un lungo stoppino ricoperto di cera chiamato lucubrum) e, nella stagione fredda, la necessità di risparmiare il combustibile per il riscaldamento, impedivano – o rendevano assai difficile e fastidioso – ogni altro lavoro od occupazione che non si svolgesse... nel letto. Cosí, levatisi, all’alba, praticamente col sole, gli antichi Romani, col sole, piú o meno, si coricavano: d’estate, subito dopo quelle che per noi sono le ore venti; d’inverno, subito dopo le diciotto. (2 – fine)
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VITE DI ARCHEOLOGI Giovanna Quattrocchi
UNA STORIA SICILIANA COME GIÀ FEDERICO HALBHERR, ANCHE PAOLO ORSI NASCE A ROVERETO. E, PROPRIO COME LO SCOPRITORE DELLE LEGGI DI GORTINA, DEVE ANCH’EGLI LA SUA FAMA ALLO STUDIO DEL PIÚ ANTICO PASSATO DI UNA GRANDE ISOLA...
N
ato a Rovereto il 18 ottobre del1859, Paolo Orsi, studioso di fama internazionale, crebbe nella città natale, che, fino alla prima guerra mondiale, era sotto l’impero austro-ungarico. Il clima politico che animava l’élite cittadina univa l’idea mazziniana, propagandata nella regione da Egisto Bezzi, a quella patriottica e confederale dell’abate Antonio Rosmini, a cui il prozio di Paolo, prefetto del liceo roveretano, era legato da lunga amicizia. Il fratello maggiore di Paolo, Luigi, aveva fatto parte dei volontari di Garibaldi nella guerra del 1866. La deludente conclusione del conflitto non aveva, però, spento le speranze dei patrioti, anzi aveva riacceso il desiderio di cambiamento. Frequentatore di casa Orsi era Fortunato Zeni, naturalista e numismatico, fondatore del Museo di Rovereto e anch’egli acceso fautore dell’unione con l’Italia. L’archeologo Paolo Orsi (1859-1935) a Locri, in Calabria, nel 1889. Rovereto, Museo Civico.
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comunità dedite all’agricoltura e all’allevamento. Le necropoli, piú dei rari e spogli abitati esplorati, restituivano il materiale che forniva all’Orsi le informazioni necessarie per ricostruirne la storia. Le innumerevoli tombe individuate nelle grotte delle pareti rocciose rivelavano camere circolari che accoglievano fino a 40-50 scheletri, coperti di pelli e ornati di modesti gioielli fatti con conchiglie, ambra, pietre dure colorate. Intorno agli scheletri, armi di pietra, talismani, vasi grezzi e acromi o colorati di giallo, rosso, bruno e decorati con semplici figure geometriche.
L’ISOLA E L’EGEO Coppo di colmo di tetto in terracotta a forma di cavaliere, dal tempio di Camarina, antica colonia dorica situata sulla costa meridionale della Sicilia, la cui esplorazione fu condotta da Paolo Orsi a cavallo tra il XIX e il XX sec. VI sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Questi diede a Paolo i primi rudimenti di numismatica e l’amore per le testimonianze del mondo antico. Il ragazzo, insieme con i fratelli, girava per la regione, rilevando piante degli antichi castelli e scavava intorno alle rovine in cerca di armi e di monete, che conservava accuratamente come primo nucleo di una piccola collezione.
UNA SECONDA PATRIA All’epoca i giovani trentini potevano frequentare solo le università di Innsbruck, Graz e Vienna, e a quest’ultima s’iscrisse Paolo Orsi, che però, ben presto, chiese la nazionalità italiana (1884) e si trasferí a Padova, dove completò gli studi. Gli inizi furono incerti: prima un periodo di insegnamento nella scuola secondaria di Alatri, nel Lazio, poi un breve tirocinio come vicebibliotecario nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Infine il suo destino fu segnato dal trasferimento al Museo Archeologico di Siracusa, che rimase per tutta la vita il centro
della sua attività archeologica. La Sicilia divenne la sua seconda patria, oggetto di un amore continuo e di una ricerca senza soste. Piú che al grandioso passato greco, si interessò fin dall’inizio alla preistoria dell’isola, allora quasi sconosciuta; piú di tutto lo avvincevano i popoli indigeni dei Sicani e dei Siculi. Cominciò presto a battere le campagne per cercare tracce delle antiche genti indigene; in tre anni, dal 1889 al 1892 trovò ed esplorò le necropoli sicule di Pantalica e di Melilli, del Plemmirio, di Castelluccio, la necropoli presso Noto, la stazione neolitica di Stentinello e iniziò l’esplorazione di Megara Hyblaea. Di ogni ritrovamento dava ampia relazione, cosí come della raccolta e decifrazione delle epigrafi siracusane che portava avanti nel frattempo. L’ampiezza del progetto di Paolo Orsi si può misurare dalla vastità delle ricerche, che si allargavano a siti archeologici sempre diversi. Esplorava i siti di villaggi preistorici del III-II millennio a.C., abitati da
Piú tardi, gli scambi che questi gruppi intrattennero con i naviganti fenici ed egeo-micenei determinarono una lenta trasformazione: i villaggi si fecero piú grandi e Orsi lo constatò meglio che altrove nel sito di Pantalica. Qui, oltre alle vaste necropoli con tombe a grotticella artificiale, aveva rinvenuto sulla sommità della collina i resti di un grande edificio rettangolare, costruito con tecnica megalitica, un anàktoron (reggia, tempio, casa del signore), che faceva supporre una gerarchia e la presenza di un capo: egli vi trovò analogie con il megaron di tipo miceneo; all’interno di un locale furono rinvenuti alcuni bronzi, armi e forme di fusione, segno di una attività metallurgica appartenente al signore. Lo studioso roveretano ampliò successivamente le ricerche a due siti che gli permisero di conoscere piú a fondo la vita di queste comunità: il villaggio di Cannatello, dell’età del Bronzo, alla cui scoperta contribuí l’amico e collega Giulio E. Rizzo. Collegando le varie scoperte, egli presupponeva una intensa cooperazione tra gli indigeni dell’età del Bronzo e i navigatori egei e micenei. Le intuizioni di Orsi circa le affinità con il mondo egeo piú avanzato e già in possesso della tecnica metallurgica sono state confermate
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dagli studi successivi. Affinità rinvenute anche nelle fortificazioni di Thapsos, uno dei luoghi chiave per la protostoria siciliana, scavato da Orsi nel 1894-95. In una delle tombe della necropoli l’archeologo trovò due coppe proto-corinzie geometriche, mentre i resti dell’abitato, datato a partire dalla prima età del Bronzo fino al X-IX secolo a.C., restituirono una quantità impressionante di materiale miceneo, reperti ciprioti e maltesi, ambre, oggetti di lusso che dimostrarono inequivocabilmente i continui contatti con i Micenei. Con il trascorrere degli anni, Orsi non rallentò l’attività di ricerca, facendo oggetto della sua attenzione Megara Hyblaea, Leontini, S. Aloe, Licodia Eubea, Monte Casale, Noto, Eloro; scavò
poi a Gela e Camarina. Né abbandonò gli scavi effettuati in Calabria, tanto che quando, nel 1908, fu creata la Soprintendenza della Calabria, gliene venne offerta la direzione. Una delle maggiori glorie di Paolo Orsi fu la scoperta del sito della colonia greca di Caulonia (antica Kaulon), di cui era rimasta solo la testimonianza nelle fonti antiche. Alcuni eruditi locali avevano voluto individuarla a Castel Vetere, che
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Paolo Orsi nel 1927 (in alto), durante gli scavi al tempio arcaico di Apollo Aleo, presso Cirò Marina, in Calabria, e, con i suoi operai (in basso), nella necropoli di Contrada Diana a Lipari, in Sicilia, nel giugno del 1928. Rovereto, Museo Civico.
infatti cambiò il nome medievale in quello antico di Caulonia che conserva tuttora, ma l’archeologo la localizzò nel 1890 nel sito di Monasterace, presso Punta Stilo (Reggio Calabria), dove mise in luce i resti di un grandioso tempio greco dorico del V secolo, resti delle mura, vasi corinzi e terrecotte architettoniche pertinenti a un altro tempio suburbano. Orsi fu membro dell’Accademia dei Lincei dal 1896 e poi di numerose
accademie archeologiche. Fu senatore del Regno dal 1924. Le ricerche sulla preistoria della Sicilia hanno compiuto progressi enormi anche grazie al rigore con cui egli ne impostò le premesse e la passione con cui ne ricercò le tracce. Come docente si impegnò nell’aiutare i giovani archeologi, prodigando idee e appunti con la liberalità di chi non si considera un individuo al di sopra degli altri, ma solo il tassello di una piú grande impresa scientifica alla quale tutti possono, e debbono, partecipare. La sua stessa abnegazione, il rifiuto di ogni agio, la fatica e i disagi affrontati con pazienza e sacrificio sono la prova di quanto egli si sentisse al servizio di un’idea, e non l’artefice di essa. Chiunque lo avvicinasse subiva il fascino della sua personalità, solitaria ed elitaria per scelta di vita. La sua dimora rimase fino all’ultimo, in Sicilia, la piccola stanza nei pressi del museo nella quale aveva iniziato il suo lavoro. Alla sua terra natale tornava tutti gli anni, per breve tempo, a ritemprarsi: vi tornò anche quando la malattia gli impedí di continuare l’impresa iniziata tanti anni prima. Morí a Rovereto l’8 novembre 1935, dopo una lunga malattia.
L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale
CONSERVARE L’ORO BLU TROVARE SORGENTI E FALDE ACQUIFERE È RELATIVAMENTE SEMPLICE. PIÚ DIFFICILE È IMMAGAZZINARNE IL PREZIOSO LIQUIDO. PER QUESTO, FIN DALL’ANTICHITÀ, L’UOMO HA ESCOGITATO DIVERSI SISTEMI PER L’ACCUMULO DELLE RISORSE IDRICHE, IN GRAN PARTE REALIZZATI NEL SOTTOSUOLO
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on il progredire delle conoscenze, la tecnica per la raccolta e il trasporto dell’acqua si è arricchita di soluzioni sempre piú evolute. Queste hanno permesso di mutare la «filosofia» di prelievo, sviluppando opere sotterranee che, dalla raccolta diffusa dell’acqua di falda e relativo trasporto (i qanat descritti nella puntata precedente, vedi «Archeo» n. 334, dicembre 2012), sono passate al puro trasporto da un punto determinato (sorgente) a un altro (vasche di raccolta e distribuzione) per mezzo di acquedotti in senso stretto. La prima immagine che ci viene in mente è quella dei monumentali acquedotti romani di età imperiale, sospesi su arcate aeree. Ma spesso il loro tracciato è costituito da
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altrettante porzioni nascoste nel sottosuolo. Basti pensare all’acquedotto Appio (o Aqua Appia), il primo costruito per l’approvvigionamento idrico di Roma che, fino ad allora, si serviva delle acque del Tevere, di pozzi e di sorgenti. Realizzato nel 312 a.C., scorreva per 16 km interamente nel sottosuolo, a 15 metri di profondità, e aveva una portata giornaliera di 841 quinarie, equivalenti a poco piú di 34 000 mc.
CISTERNE E CUNICOLI Le destinazioni finali degli acquedotti sono normalmente le cisterne, ambienti tipicamente (anche se non sempre) sotterranei utilizzati per l’accumulo dell’acqua. Il modo piú semplice per produrre bacini idrici sotterranei fu quello di
scavare e impermeabilizzare agglomerati cunicolari, ottenendo cisterne «a corridoio», cioè formate da una rete di cunicoli (o da un unico cunicolo) lunghi e stretti. Questi svolgevano contemporaneamente la funzione di captazione e conservazione delle acque, per esempio quello di Cori (Latina), di età repubblicana. Esistono anche cisterne «a campana», come quelle dei Sassi di Matera, ma non c’è dubbio che la forma piú tipica è quella di un parallelepipedo, con coperture realizzate con volte di vario tipo (piatte, a botte, a crociera), con o senza pilastri, in funzione della ampiezza delle volumetrie sotterranee. La piú spettacolare di queste strutture è sicuramente la Yerebatan Saray di
Istanbul. Yerebatan Saray significa «il palazzo sommerso». Questa cisterna, in effetti, è una sorta di palazzo che si estende nel sottosuolo dell’antica Costantinopoli, sotto un intero isolato, con una superficie di 10 000 mq. L’ingresso è a pochi passi da S. Sofia, nel cuore del centro storico. Voluta da Costantino (306-337) e ampliata da Giustiniano (527-565), ha 336 colonne alte 8 m e si estende per 143 m di lunghezza e 70 di larghezza, con un volume totale di 90 000 mc, e può quindi contenere 90 milioni di l d’acqua. La cisterna era alimentata dagli acquedotti costruiti dagli imperatori Adriano e Valente, per le necessità del palazzo imperiale e le sue colonne, con capitelli dorici e corinzi, provengono dal recupero di edifici piú antichi. Due splendide teste di medusa, scolpite nel marmo, sono state utilizzate come piedistalli. La leggenda vuole che siano state messe capovolte affinché chi le guardasse non rimanesse pietrificato! Oggi è visitabile dal pubblico (www.yerebatan.com), come la vicina cisterna Binbirdirek, della medesima epoca, con le sue 224 colonne, alte 15 m. In alto: Istanbul. La Yerebatan Saray con alcune delle sue oltre trecento colonne. In basso: Amelia. Uno scorcio delle cisterne romane.
IL CASO DI AMELIA
Un sistema di sale comunicanti Anche in Italia si trovano monumentali cisterne di età romana aperte al pubblico. Quelle che si conservano nel centro umbro di Amelia (l’antica Ameria, oggi in provincia di Terni) furono edificate tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e sono in
grado di ricevere fino a 4400 mc di acqua piovana. Il percorso sotterraneo si snoda attraverso varie sale, con dimensioni di circa 19 m in lunghezza e 5 in larghezza ciascuna, disposte consecutivamente e comunicanti tra loro per via di passaggi posizionati sulle pareti interne. Ciascun ambiente è formato da una muratura perimetrale di contenimento realizzata con la tecnica dell’opus incertum e paramento interno in opus reticolatum; il fondo è stato impermeabilizzato con l’uso di una malta idraulica definita opus signinum, altrimenti detta «cocciopesto», utilizzata anche per rivestire le basi delle pareti fino a 1 m circa di altezza dal pavimento; le volte a botte sono, invece, realizzate in opus caementicium, con gettata su centina di sostegno, di cui rimangono ben visibili i segni della carpenteria lignea. La visita è curata dall’Associazione «I Poligonali» (www.ameliasotterranea.it, tel. 0744 978436).
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DIVI E DONNE Francesca Cenerini
LA MALAFEMMINA DELL’IMPERO PER VALERIA MESSALINA, GLI STORICI DELL’ANTICHITÀ HANNO EMESSO UN GIUDIZIO SENZA APPELLO. MA, ANCORA UNA VOLTA, È LECITO IPOTIZZARE CHE LA DONNA, PUR ANIMATA DA PASSIONI FORTI, SIA STATA VITTIMA DI UNA DAMNATIO MEMORIAE DETTATA DA RAGIONI POLITICHE
V
aleria Messalina è l’Augusta su cui maggiormente si sono appuntati gli strali della critica storica antica e moderna. Già Giovenale l’aveva bollata con il marchio di meretrix Augusta («prostituta imperiale», Satire, 6, 118): l’aveva descritta mentre, nottetempo, dopo avere lasciato l’ignaro marito Claudio nel talamo nuziale, andava a prostituirsi, mascherata con una parrucca bionda, in un lupanare compiacente, con il nome di battaglia di Lycisca, offrendo a tutti il ventre che aveva generato
Brtitannico. Ancora oggi, Messalina può essere il nome dell’eroina di un fumetto a marcato contenuto erotico e va detto che alcuni storici hanno impiegato il loro tempo a disquisire sulla ninfomania della stessa Messalina, oppure si sono interrogati sul tipo di patologia che le provocava una costante insoddisfazione sessuale. Se, però, vogliamo tentare di fare un fattivo discorso storico, possiamo provare a interrogarci sulle motivazioni che sono alla base della costruzione di questo modello femminile imperiale cosí negativo. Cammeo in pietra sardonica con l’imperatore Claudio e Messalina, sua terza moglie, assimilati a Trittolemo e Cerere. I sec. d.C. Parigi, Bibliothèque nationale.
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Se il ritratto di Messalina come «dark lady» o «femme fatale» è già presente in Giovenale, Tacito, Svetonio e Cassio Dione, nella fonte cronologicamente piú vicina a Messalina, invece, e cioè nella praetexta Octavia, attribuita a Seneca, di lei non si parla in termini cosí negativi, segno evidente che non si era ancora perfezionato il ritratto di Messalina ninfomane. Io credo che questa caratterizzazione cosí negativa sia dovuta a un fatto oscuro, che mise seriamente in crisi la corte di Claudio, un fatto grave, ancora oggi non spiegabile con sufficiente chiarezza, che si concluse con la condanna a morte di Messalina. Si tratta del suo adulterio-matrimonio con Caio Silio, console designato, l’uomo piú affascinante di Roma, secondo la definizione di Tacito.
CON VIZI DA TIRANNO Non dobbiamo dimenticare che Messalina apparteneva alla piú alta aristocrazia di corte, in quanto discendeva, sia per parte di padre che di madre, da Antonia Maggiore (figlia di Ottavia e di Antonio), che aveva sposato il nobilissimo L. Domizio Enobarbo. Gli storici antichi sopra ricordati ci dicono che in Messalina erano compresenti i tria vitia che caratterizzavano l’immagine del tiranno, cioè avaritia, saevitia e libido: Messalina era cioè avida di denaro, crudele e sessualmente disinibita. Da un punto di vista storico, possiamo ritenere che, inizialmente, la posizione di Messalina a corte
fosse forte, e questo può avere alimentato le voci sulla sua avidità vera o presunta: infatti, per la prima volta, la moglie dell’imperatore aveva partorito un figlio maschio «in porpora», vale a dire dopo l’ascesa al potere dello stesso imperatore. Questa posizione è ben esemplificata dalla famosa statua, conservata al Museo del Louvre, che ritrae Messalina, capite velato, che ha in braccio il piccolo Britannico. La fecondità di Messalina è celebrata come apportatrice di benessere all’impero: per esempio, una moneta coniata a Cesarea in Cappadocia (Roman Provincial Coinage, I, 3627) reca sul dritto il ritratto di Messalina con la legenda Messallina Augusti (uxor) e, al rovescio, i ritratti dei figli Ottavia e Britannico che si tengono per mano, e, separata da questi, dell’altra figlia di Claudio, Claudia Antonia. Il 47 d.C. è l’anno in cui Messalina sembra rafforzare ulteriormente la propria posizione a corte, anche se può essere un espediente retorico usato dalle fonti per preannunciarne la catastrofe. Cassio Dione (60, 14 e 29) ci dice che Messalina e i liberti facevano ciò che volevano e che potevano far condannare a morte chiunque, allo scopo di impadronirsi dei suoi beni, e abbindolavano il credulone Claudio come volevano. Ma la caduta è dietro l’angolo: Messalina, ci raccontano le fonti, perde la testa per C. Silio. Chi è costui? È il console designato nel 48 d.C. ed è figlio di quel C. Silio, console ordinario nel 13 d.C., condannato daTiberio in quanto fedele all’amicitia per Germanico, e che era rimasto al fianco di Agrippina Maggiore nel suo scontro con Seiano-Tiberio. L’azione politica di Silio sembra volta alla repressione dei delatori e dei giudici corrotti, che si arricchivano a dismisura
Statua in marmo raffigurante Messalina dal capo velato con in braccio il figlio Britannico. 45 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
grazie ai loro traffici. Silio, con un vibrante discorso in senato, prende posizione contro il ruolo sempre piú preminente di cui godevano persone vicine all’imperatore, anche di bassa estrazione, che emergevano a scapito delle prerogative dei senatori aristocratici, soggetti alle epurazioni di Claudio, che procedeva a un rigido controllo delle liste del senato stesso (Tacito, Annali, 11, 25).
PASSIONE O POLITICA? In questo quadro politico, Tacito scrive che Messalina è sempre piú irritata e crudele, soprattutto quando la plebe mostra di apprezzare maggiormente, tra i giovani aristocratici che sfilavano nel corso dei Ludi Secolari organizzati da Claudio nel 47 d.C., L. Domizio Enobarbo, figlio di Agrippina Minore e futuro imperatore Nerone, invece di Britannico, figlio di Claudio e della stessa Messalina, il naturale erede al trono, per cosí dire. In questo contesto politico e narrativo, Messalina sarebbe vittima della passione incontrollabile per Caio Silio. A questo punto mi sembra lecito porsi alcune domande: se si tratta di un banale adulterio, dovuto al fatto che il matrimonio di Claudio e Messalina era infelice, oppure alla ninfomania o, addirittura, alla patologia sessuale di Messalina, perché sono condannati a morte, oltre che i diretti interessati, anche parecchi altri personaggi di spicco, tra cui un senatore, il prefetto dei vigili, il medico di corte, un procurator della scuola gladiatoria...? Se ne può dare una spiegazione emotiva, come è stato fatto: Messalina era «innamorata alla follia» e sarebbe una sorta di eroina romantica ante litteram, che
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si scontra contro l’ottuso razionalismo dei consiglieri del principe. Ma, a mio parere, non si spiegano le condanne di cui sopra. Analogamente, penso che sia fuorviante una lettura in chiave femminista, secondo la quale la libera sessualità di Messalina viene interpretata anche come scelta volutamente trasgressiva, mossa dalla volontà di sottrarsi al controllo maschile, una scelta che finisce per diventare antagonista al potere maschile dominante e simbolo della totale negatività femminile agli occhi degli uomini romani. C’è chi ha invece sostenuto, a mio parere con ragione, la teoria del complotto politico: il matrimonio tra Silio e Messalina si deve in realtà interpretare come una congiura che mirava a spodestare Claudio, oppure come un complotto dei liberti imperiali ai danni di Messalina, che fecero credere a Claudio che fosse un matrimonio quello che, in realtà, era la celebrazione di un Baccanale da parte di Silio e Messalina. Ritengo che Silio e i suoi sostenitori volessero spodestare Claudio e che, pertanto, avessero bisogno di Messalina per legittimare il nuovo princeps attraverso il matrimonio con l’Augusta. Secondo il piano dei congiurati, Claudio deve essere deposto da un nobile che ne sposi la moglie e che si dichiari disposto ad adottarne il figlio Britannico (Tacito, Annali, 11, 26, 2). È evidente che la successiva propaganda di Claudio ha cancellato i reali contorni della congiura e che questo fatto non ci permette di saperne di piú: Silio, che conservava ancora nell’atrio della propria casa la statua del padre, vittima della repressione diTiberio, viene condannato a morte e la condanna viene eseguita velocemente, nei castra praetoria, con una sentenza extragiudiziaria. Se possiamo comprendere le motivazioni di Silio, dobbiamo chiederci ora perché Messalina scelga di appoggiare i congiurati, rischiando in prima persona. Credo che la risposta vada cercata
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UNA SUCCESSIONE DIFFICILE
VALERIA MESSALINA Gneo Domizio Enobarbo
Poppea Sabina Statilia Messalina
2
1
Agrippina Minore
Nerone
3
2
4
2
Claudio
Claudia Ottavia
3
Britannico
(1, 2...: numero del matrimonio)
A sinistra: busto di Nerone, da Olbia. 54/55-59 d.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. In alto: ritratto di Messalina con corona turrita e corona laureata. 41-48 d.C. Dresda, Staatlichen Kunstsammlungen. nella successione di Claudio: se, in un primo momento, pare che egli consideri a tutti gli effetti suo erede Britannico, è evidente che deve essere successo qualcosa che induce Messalina a non ritenere piú sicura la posizione del figlio.
L’EREDE LEGITTIMO È probabile che lo stesso Claudio avesse cominciato a vedere in Agrippina Minore uno strumento di esaltazione, rispetto a Messalina, del suo legame con il fratello Germanico e la cognata Agrippina Maggiore, sempre amati dalle truppe e dal popolo di Roma, basi fondamentali del potere e delle manifestazioni di consenso al principe. Si può quindi proporre
l’ipotesi che Silio fosse a capo di una congiura aristocratica contro Claudio e i suoi amici, e che Messalina volesse assicurare la posizione di Britannico contro gli emergenti Nerone e Agrippina Minore, il cui ruolo a corte si faceva ogni giorno piú forte grazie agli appoggi di cui godevano e alla discendenza da Germanico (di cui, dice Tacito, Nerone era l’ultimo erede, reliqua suboles virilis) e di Agrippina Maggiore. La propaganda imperiale ha poi scelto di presentare, secondo schemi collaudati già al tempo di Augusto, una congiura politica come un piú banale «affaire» legato al sesso, e Messalina è passata alla storia come meretrix Augusta.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
CHI BEN COMINCIA... LA TESTA DI GIANO, IL DIO BIFRONTE DEGLI INIZI E DEI PASSAGGI, È UN «CLASSICO» NELL’ICONOGRAFIA DELLA MONETAZIONE ROMANA. CON UNA SOLA E INTERESSANTE VARIANTE, REALIZZATA PER COMMODO
Asse in bronzo, con testa di Giano barbuto al dritto, e prua di nave al rovescio. Zecca di Roma, III sec. a.C.
G
iano, una tra le piú antiche divinità del pantheon romano arcaico e originariamente mitico re del Lazio, è il dio di ogni inizio, dei passaggi, dei limiti, e da lui deriva il nome del primo mese dell’anno, Ianuarius, stabilito quale primo della serie intorno al 153 a.C. Le sue vicende di «eroe civilizzatore» lo vedono anche come originario della Tessaglia e successivamente, una volta approdato alla futura Roma, come fondatore di un abitato sulla collina che da lui prese nome, il Gianicolo. Egli, inoltre, introdusse nel suo regno usanze felici e utili all’uomo, tra cui la navigazione, che contraddistinguono la sua epoca come una età dell’oro. Chiamato con gli attributi di geminus e bifrons, Giano fu associato nel culto anche a Romulus/Quirinus, essendo stati entrambi divinizzati alla loro morte. In quanto divinità preposta a ogni momento di passaggio, materiale e immateriale, il dio fu rappresentato con due facce, secondo un’immagine familiare già al mondo etrusco e propria del dio Culsans, preposto anch’esso ai passaggi e ritratto in forma bifronte ma con volti giovanili (vedi «Archeo» n. 292, giugno 2009; anche su www.archeo.it).
IL DOPPIO VOLTO Sin dal suo primo apparire nella monetazione romana, la testa a due volti ha trovato un posto di eccellenza in tutte le monete, nei vari metalli. L’asse, il primo dei nominali ad aprire la serie in bronzo della prua, emessa a Roma dal III secolo a C., è contraddistinto al dritto dall’erma barbuta di Giano e, al rovescio, dalla prua di una nave. Altre teste bifronti compaiono sui
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Statere in oro, con erma bifronte dei Dioscuri al dritto, e tre personaggi sacrificanti in abito militare al rovescio. Zecca di Roma, seconda metà del III sec. a.C.
pezzi di età repubblicana, ma sono di tipo diverso, come quelle imberbi e giovanili dei quadrigati romano-campani del III secolo a.C. o quelle, bellissime, sugli stateri in oro emessi da Roma nella seconda metà del II secolo d.C.; in quest’ultimo caso si tratta, meglio, della giustapposizione delle teste dei Dioscuri, i gemelli divini. In età imperiale Giano compare a figura intera sul rovescio di monete di Adriano, Antonino Pio, Pertinace e Gallieno. Tuttavia, troviamo la rappresentazione del dio senz’altro piú interessante e complessa su un
raffinato e raro medaglione di Commodo, emesso a Roma nel 186-187 d.C., la cui iconografia ben si adatta a celebrare, anche oggi, l’inizio beneaugurante legato al primo mese dell’anno. I medaglioni, quali doni imperiali per particolari ricorrenze e destinati a un pubblico limitato e di corte, proponevano sempre immagini celebranti il principe e la bontà del suo governo, realizzate con uno stile aulico e ricercato, favorito anche dal maggiore spazio a disposizione dell’incisore.
IL DIO E L’IMPERATORE Il rovescio del medaglione di Commodo è dedicato all’immagine della Tellus raffigurata a seno nudo, mollemente sdraiata a terra, sotto un ramo frondoso, di vigna, con un braccio adagiato su un cesto, mentre con l’altra mano tocca un globo stellato, intorno al quale si dispongono, rendendole omaggio, quattro figurine rappresentanti le stagioni dell’anno. Insieme alla titolatura imperiale, la legenda definisce la scena Tellus stabil(ita est), concetto già legato al «buon governo» di Adriano e ripreso da Commodo, relativamente alla stabilità e all’abbondanza assicurate da Roma e dall’imperatore a tutta la terra, una sorta di Felicitas temporum (davvero mal riposta se riferita all’imperatore-gladiatore). L’ignoto incisore del conio volle realizzare sul dritto, certo su precisa indicazione dell’entourage legato alla propaganda imperiale, un ritratto inedito e anche ardito dal punto di vista iconografico. Dal consueto busto imperiale con corazza e manto emerge il profilo imperiale volto a sinistra, con i tratti riconoscibili di Commodo, ma dalla nuca di questi, con un certo effetto abnorme, fuoriesce il profilo, sempre barbuto, ma inconfondibile, del dio Giano, il bifronte. La legenda chiarisce senza dubbio chi sia il personaggio:
Medaglione in bronzo di Commodo, con, al dritto, l’erma composta da Giano e Commodo e legenda M. Commodus Antoninus Pius Felix Aug Brit; al rovescio, Tellus e le Quattro Stagioni e legenda PM TR P XII IMP VIII COS V PP, in esergo, TELLVS STABIL. Zecca di Roma, 186-187 d.C. M. Commodus Antoninus Pius Felix Aug, l’imperatore, dunque, con la sua titolatura completa. Questo ritratto ibridato, tra i piú originali dell’età romana, mirava a rendere una sintesi tra la natura umana e l’essere divino, accoppiando la testa di Commodo, ovviamente preminente anche nelle dimensioni, a quella di Giano, dio degli inizi e antico regnante di un età felice persa nel mito. Questa immagine è un chiaro esempio di hybris, termine greco che compare nella Poetica di Aristotele e che definisce quella tracotanza, eccesso, superbia, quella colpa compiuta dall’uomo direttamente contro gli dèi, violando i netti confini imposti dalle leggi divine. Probabilmente Commodo, particolarmente devoto a Ercole,
scelse Giano per la possibilità di creare una nuova erma, in cui il dio e il regnante si pervadono finanche nel corpo, divenendo l’uomo una sorta di mostro bicefalo dall’effetto sicuramente straniante per chi doveva ricevere in dono, in quella particolare occasione dell’anno, questo medaglione. Commodo non aveva certo previsto e neppure pensato alla tracotanza insita nel volersi compenetrare fisicamente in un dio, dimenticando che all’atto di superbia dell’uomo corrispondeva la giusta vendetta degli dèi, ovvero la nemesi. Cosí, per le sue stravaganze e i suoi comportamenti crudeli l’imperatore fu ucciso in un complotto di corte nel 192 d.C. ed esecrato come hostis publicus, cioè nemico di tutto il popolo.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti
MÀSTABE, STELE E ISCRIZIONI RUPESTRI EGIZIE DELL’ANTICO REGNO Editrice La Mandragora, Imola, 194 pp., ill. b/n 28,00 euro ISBN 978-88-7586-315-9 www. editricelamandragora.it
Quali sono i messaggi che gli Egiziani, intendendo per essi i faraoni e gli alti dignitari, vollero affidare alla pietra? Se ne può avere un eccellente saggio grazie a questo volume, che passa in rassegna, in particolare, una serie di testimonianze riferibili all’Antico Regno, periodo compreso tra la III e l’VIII dinastia (2649-2134 a.C.). Molti e ricorrenti sono, come è facile aspettarsi da iscrizioni ufficiali, le formule di rito e gli stereotipi, ma non mancano indicazioni piú personali e interessanti. È il caso di Uni, che sulla sua stele fece incidere una vera e propria autobiografia: un racconto vivace e puntuale della sua ascesa sociale, dal ruolo
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di semplice ispettore di magazzino fino alla prestigiosa carica di governatore dell’Alto Egitto. Monica Salvini (a cura di)
IL MUSEO NAZIONALE ETRUSCO DI CHIUSI TRA STORIA E COLLEZIONI Salvietti&Barabuffi Editori, Siena, 254 pp., ill. b/n e col. 20,00 euro ISBN 978-88-97082-37-8 www. salviettiebarabuffieditori. com
Pubblicato in occasione dei festeggiamenti per il suo 110° anno di vita, il volume sul Museo Nazionale Etrusco di Chiusi dà conto di una vicenda esemplare, a cominciare dalla decisione di allestirlo in un edificio realizzato appositamente a tale scopo (e che, nelle sue linee neoclassiche, è ancora oggi l’inconfondibile «logo» della collezione). I contributi confluiti nella pubblicazione ripercorrono dunque i momenti salienti della storia dell’istituzione e propongono anche la schedatura sistematica di numerosi insiemi di
reperti. L’insieme degli scritti e dei documenti offre una testimonianza puntuale delle iniziative che maggiormente contribuirono al formarsi della raccolta chiusina ed è, anche per questo, una documentazione preziosa sulla storia degli studi di archeologia e di etruscologia in particolare. Rosanna Friggeri, Maria Grazia Granino Cecere, Gian Luca Gregori (a cura di)
TERME DI DIOCLEZIANO. LA COLLEZIONE EPIGRAFICA Electa, Milano, 758 pp., ill. col. 49,00 euro ISBN 978-88-370-8934-4 www.electaweb.it
Informazioni che, all’occhio del non addetto ai lavori rimarranno appunto nascoste, ma che, nel volume, vengono strappate alla loro segretezza grazie alle ricche schede di commento che corredano ciascun reperto. L’opera segue l’ordinamento assegnato alla collezione all’interno del Museo delle Terme e propone dunque una suddivisione di carattere tematico, al cui interno è interessante osservare, per esempio, come i supporti scelti per fermare nomi ed eventi o per riportare citazioni e frasi amorose potessero essere i piú vari, con soluzioni non di rado di grande piacevolezza grafica. Olof Brandt e Philippe Pergola
MARMORIBUS VESTITA
La collezione epigrafica di cui il volume dà conto è una delle piú ricche oggi esistenti e, al di là dell’indubbio valore documentario, può davvero porsi come osservatorio privilegiato degli usi e dei costumi romani. Il patrimonio di iscrizioni è infatti sterminato e, spesso, anche dietro formule all’apparenza scarne ed essenziali possono nascondersi informazioni di eccezionale interesse.
Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi Studi di antichità cristiana 63, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano, 2 voll., 1406 pp. complessive, ill. b/n e col. 180,00 euro ISBN 978-88-85991-53-8 www.piac.it
Poco meno di un centinaio di colleghi e allievi si sono riuniti per rendere omaggio a Federico Guidobaldi, uno dei piú insigni studiosi di archeologia cristiana, al quale si devono, per esempio, importanti ricerche nel complesso romano di S. Clemente. I contributi riuniti nella silloge, che è opera di taglio prettamente specialistico, spaziano da riletture e riflessioni su documenti noti alla presentazione di materiali e contesti inediti. Federica Boschi
TRACCE DI UNA CITTÀ SEPOLTA Aerofotografia e geofisica per l’archeologia di Classe e del suo territorio Ante Quem, Bologna, 286 pp., ill. b/n e col. + 1 tav. 29,00 euro ISBN 978-88-7849-073-4 www.antequem.it
Il volume è l’esito naturale della tesi di dottorato svolta dall’autrice e porta un contributo importante alla conoscenza di un sito, quello dell’antica città di Classe, che negli ultimi anni sta
letteralmente rinascendo, grazie alle indagini sistematiche che lo stanno interessando (e di cui «Archeo» ha piú volte e anche recentemente dato conto) e ai progetti che lo vedono inserito nella creazione di un parco archeologico. In un quadro del genere, il contributo di Federica Boschi risulta di eccezionale interesse e utilità, proprio perché permette di integrare i dati che vanno emergendo dalla ricerca sul campo con quelli acquisiti «dal cielo» e grazie alle indagini di carattere geofisico. In una prospettiva metodologica moderna e interdisciplinare.
anche dopo avere assolto ai compiti per i quali fu concepito. Si viene cosí a scoprire quanto l’opera abbia per esempio influito nella formazione della cultura britannica dei primi secoli del Medioevo o come il Vallo avesse spesso assunto connotati quasi mitici. E, fortissima, è sempre stata la consapevolezza della sua natura di barriera, di confine. Fino allo «sfruttamento» dell’età moderna, che ne ha fatto una delle maggiori attrazioni turistiche della Gran Bretagna.
DALL’ESTERO Richard Hingley
HADRIAN’S WALL: A LIFE Oxford University Press, Oxford, 394 pp., ill. b/n 75,00 GBP ISBN 978-0-19-964141-3 www.oup.com
Professore di archeologia alla Durham University, Richard Hingley dedica al Vallo di Adriano un saggio corposo e documentatissimo, il cui fine non è tanto – o non solo – quello di ricostruire la storia della celebre opera difensiva, quanto quello di ripercorrerne la storia all’indomani dell’età romana. Il punto di partenza, infatti, è la considerazione che, grazie al suo essersi eccezionalmente ben conservato, il Vallo di Adriano ha avuto (e ha) una vita significativa
William Andrefsky, Jr.
LITHIC TECHNOLOGY Measures of Production, Use and Curation Cambridge University Press, New York, 340 pp., ill. b/n 23,99 GBP ISBN 978-1-107-64663-6 www.cambridge.org
Ristampa in versione economica di un’opera pubblicata per la prima volta nel 2008, questo saggio affronta uno dei temi classici dell’archeologia
preistorica e del Paleolitico in particolare. Le tecniche di lavorazione della selce (o altre pietre) sono infatti, per convenzione, la «carta d’identità» delle numerose culture che si succedettero nei periodi piú remoti della nostra storia ed è dunque naturale che a esse si dedichi un’attenzione particolare. Nel saggio, Andrefsky si avvale dei contributi di numerosi colleghi, grazie ai quali vengono passati in rassegna temi di carattere metodologico generale – quali, per esempio, quelli in cui si analizzano le possibili applicazioni di modelli matematici allo studio degli strumenti – e casi di studio specifici – come quelli di un contesto neolitico del Vicino Oriente in cui è attestata una particolare tecnica di perforazione dei manufatti o di alcuni gruppi dell’America nord-occidentale capaci di mettere in atto una catena operativa assai articolata e sosfisticata. (a cura di Stefano Mammini)
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