2013
niobidi
BAALBEK
ANTICA CINA / 2 GIADA
MITI GRECI / 2 AMAZZONI
speciale SELINUNTE
€ 5,90
Mens. Anno XXIX numero 2 (336) Febbraio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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archeo 336 febbraio
Ba albek i giganti di
scoperte
il ritorno dei niobidi
CIVILTà DELLA CINA
l’età della giada
MITI GRECI
www.archeo.it
speciale
le amazzoni
selinunte
una città greca in sicilia
AST ST PPA
PASSIONE PER LA STORIA
PASSIONE PER LA STORIA
editoriale
La chiave di volta La straordinaria scoperta di cui parliamo nell’articolo di apertura è stata resa possibile grazie a una legge che, in seguito a ritrovamenti archeologici avvenuti in questa zona periferica di Roma già nell’Ottocento, ha imposto alla medesima un vincolo paesaggistico. Sono stati i sondaggi preventivi, infatti, effettuati – come impone la legge – dagli archeologi della Soprintendenza, ad aver portato in luce un insieme di sculture marmoree di grandissimo pregio e significato storico-artistico. Il rinvenimento è avvenuto in una zona ad alta «intensità archeologica» (siamo a poche decine di chilometri dalla celebre Villa Adriana) e di altrettanto alto «interesse edile» (la zona, come ormai ampie parti della periferia di Roma, è al centro di progetti di costruzione). Poche decine di centimetri di scasso da parte di un caterpillar e una delle sculture, come spiega nell’intervista il direttore scientifico dello scavo, «sarebbe finita in frantumi per sempre». Questa volta – e ce ne rallegriamo con gli scopritori – la (inevitabile?) partita tra cementificazione e conservazione dei beni archeologici ha sortito una vittoria a favore della seconda. Ora si tratterà di trarne i frutti per il futuro, di coglierne tutte le potenzialità… Veniamo all’illustrazione di questa pagina: è una litografia tratta da un originale che il celebre pittore e orientalista scozzese David Roberts realizzò nel 1841, dopo un lungo soggiorno in Egitto, Terra Santa, Siria e Libano. Ritrae l’entrata al tempio di Bacco a Baalbek in Libano (vedi alle pp. 38-53), con la grande pietra centrale dell’architrave pericolosamente in procinto di crollare: un evento che, fortunatamente, non si è mai verificato, grazie ai numerosi interventi di restauro che, a partire dalla sua riscoperta archeologica, hanno interessato l’edificio. Quando, nel 1995, visitammo per la prima volta Baalbek (erano passati pochi anni dalla fine di una guerra civile che per oltre un decennio aveva devastato il Paese dei Cedri, vedi «Archeo» n. 131, gennaio 1996) la pietra era infatti inserita ben salda nell’architrave, e lo è ancora oggi, dopo altri decenni trascorsi non certo all’insegna della tranquillità. Per noi, quella pietra di Baalbek rappresenta la metafora della fragile eternità dei grandi monumenti del passato, che ci sollecita a riflettere e ricordare. Andreas M. Steiner
Didascalia da fare Didascalia da fare Didascalia da fare Didascalia da fare Didascalia da fare
Sommario Editoriale La chiave di volta
3
di Andreas M. Steiner
Attualità notiziario
6
scoperte Dalle acque del fiume Stella, in Friuli, riemerge un’imbarcazione dell’anno Mille: in esclusiva le prime immagini 6 scavi Importanti novità dagli scavi nella grotta di Tiberio, a Sperlonga: ben prima dei fasti imperiali, il sito fu occupato dall’Uomo di Neandertal
28 dalla stampa internazionale Un misterioso santuario alle porte di Gerusalemme
24
scoperte
La vendetta dei Niobidi 8
parola d’archeologo Si rinnovano gli appelli per scongiurare la chiusura della Scuola Archeologica Italiana di Atene, ancora una volta minacciata dalla drastica riduzione dei finanziamenti 10
28
incontro con Elena Calandra e Alessandro Betori, a cura di Mimmo Frassineti
i luoghi della leggenda
38
I giganti di Baalbek
38
di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale
In copertina particolare della decorazione architettonica del tempio di Giove Eliopolitano a Baalbek (Libano), in una foto degli inizi del Novecento.
Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Anno XXIX, n. 2 (336) - febbraio 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,
Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Alessandro Betori è funzionario archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Franco Bruni è musicologo. Elena Calandra è soprintendente ai Beni Archeologici del Lazio. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Marisa de’ Spagnolis è direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga. Valentina Di Napoli è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Clemente Marconi è professore di storia dell’arte greca e archeologia presso l’Institute of Fine Arts della New York University. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Giovanna Quattrocchi è giornalista. Carmelina Rubino è responsabile dell’Ufficio Stampa e Comunicazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: copertina - Cortesia Soprintendenza BA Friuli-Venezia Giulia: pp. 6 (alto), 7 (alto) – Cortesia LADA (Laboratorio di Archeologia delle Acque), Università degli Studi di Udine: pp. 6 (alto), 7 (basso) – Doc. red.: pp. 8, 10 (centro e basso), 12, 42 (alto), 54, 55, 61 (basso), 63 (alto), 64, 65, 72 (sinistra), 76, 79 (alto), 83 (sinistra), 93, 99, 104 (sinistra), 108-110 – Cortesia Soprintendenza BA Lazio: pp. 9, 28, 31, 32, 34-37 – Stefano Mammini: pp. 10/11 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 13-15 – Cortesia dell’autore: pp. 16 (alto e centro), 18, 98, 107 (foto Gianluca Iori, Irsa) – Cortesia Soprintendenza BA Liguria: pp. 16 (basso), 17 – Cortesia Clara Amit/Israel Antiquities Authority: p. 24 – Cortesia Istituto Archeologico Germanico, Abteilung Athen: R. Senff: pp. 26 (alto), 27(alto); K. Fuchs: p. 27 (basso) – Cortesia Ministero Ellenico dell’Istruzione e degli Affari Religiosi, della Cultura e dello Sport: p. 26 (basso) – DeA Picture Library: pp. 30, 69, 90; G. Nimatallah: pp. 29, 33; G. Dagli Orti: pp. 70, 74, 75, 76/77; A. Dagli Orti: pp. 82, 83 (destra) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 32/33, 44, 53 (alto); Picture Desk Images: pp. 49, 52, 53 (basso) – The American Colony and Eric Matson Collection, Todd Bolen: pp.
54 civiltà cinese/2
L’età della giada
54
di Marco Meccarelli
mitologia, istruzioni per l’uso/2
Quando gli uomini restavano a casa
Rubriche
libri
il mestiere dell’archeologo
«Miracolo» sull’Appia antica 98 di Daniele Manacorda
66
di Daniele F. Maras
speciale
Selinunte. Storia di una città greca di Sicila
74
di Stefania Berlioz; con contributi di Clemente Marconi, Caterina Greco e Mimmo Cuticchio
scavare il medioevo Luce sui secoli bui
112
100
di Andrea Augenti
vite di archeologi
Il ragazzo di Veroli 102 di Giovanna Quattrocchi
l’ordine rovesciato delle cose Un perpetuo saliscendi
106
di Andrea De Pascale
divi e donne
66
Madre amatissima, ma infine ripudiata 108 di Francesca Cenerini
38/39, 40/41, 42/43, 46, 47 – Corbis: Roger Wood: p. 43 (alto); Atlantide Phototravel: p. 48; Gavin Hellier/JAI: p. 50; Wang Yongli/Xinhua Press: p. 56; Heritage Images: p. 57 (alto); Royal Ontario Museum: pp. 57 (basso), 62 (basso); Imaginechina: pp. 58, 59; Asian Art & Archaeology: pp. 60 (basso), 62 (alto), 63 (basso); Xu Yu/Xinhua Press: p. 61 (alto); Araldo de Luca: p. 68; Werner Forman: p. 71; Massimo Borchi/SOPA: pp. 74/75; Richard T. Nowitz: p. 78; Ocean: p. 79 (basso); Franck Guiziou/Hemis: p. 96 – Emanuela Solaroli: disegni alle pp. 45, 46/47 – Archivi Alinari, Firenze: p. 102; The Granger Collection, NYC: pp. 72 (destra), 73 (sinistra); The Bridgeman Art Library: p. 73 (destra) – Francesco Corni: disegno ricostruttivo alle pp. 80/81 – Marka: Franco Pizzochero: pp. 84/85; Danilo Donadoni: p. 85 (riquadro); Yadid Levy: p. 94 – Cortesia IFA, New York University: pp. 86-89, 91 – Tips: Mark Edward Smith: pp. 92/93 (sfondo) – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBAC: p. 104 (destra) – Cortesia Centro Studi Sotterranei, su concessione Soprintendenza BA Liguria: p. 106 – Cippigraphix: cartine alle pp. 26, 31, 41, 56, 77, 79. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Archeo è una testata del sistema editoriale
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n oti z i ari o SCoperte Friuli-Venezia Giulia
un tesoro di legno
U
n vero tesoro, di legno ma non per questo meno prezioso, è emerso da quel sorprendente giacimento archeologico che è il fiume Stella, la piú importante arteria di risorgive del Friuli-Venezia Giulia. Era immersa nel fango, con la parte sommitale appena visibile, quando, nel settembre del 2012, in occasione di alcuni lavori di sistemazione delle sponde, è stata rinvenuta, presso l’abitato di Precenicco (Udine), sulla riva destra del fiume: si tratta di un’imbarcazione datata all’XI secolo, un unicum a livello nazionale e internazionale per la storia della costruzione navale. Non è la prima volta che l’antico Anaxum citato anche da Plinio riserva agli archeologi interessanti sorprese. Il suo asse idroviario, in epoca antica, intersecava, infatti, sia la via Annia, sia la rotta endolagunare che collegava Aquileia a Ravenna e sono già numerosi i resti archeologici individuati nelle sue acque. Ma questa volta il ritrovamento è veramente eccezionale: l’imbarcazione di Precenicco è la prima imbarcazione fluviale dell’anno Mille mai rinvenuta e, in quanto tale, racchiude in sé tutto il fascino e il mistero della scoperta. La prima operazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del FVG, che ha diretto scientificamente i sondaggi nella persona dell’archeologa Marta Novello, è stata quella di definire, attraverso una prima osservazione della tecnica costruttiva e, successivamente, grazie alle analisi con il carbonio 14 effettuate su alcuni campioni lignei, l’epoca a cui risale il relitto.
6 archeo
Sulle due pagine, in alto: Precenicco (Udine). Il relitto dell’imbarcazione medievale ancora in situ, poco dopo la sua scoperta, nell’alveo del fiume Stella, l’antico Anaxum. In basso, a sinistra e a destra: due immagini del fiume Stella nei pressi dell’area in cui ha avuto luogo la scoperta.
È stata quindi effettuata la perimetrazione, che ha consentito di definire le dimensioni complessive, pari a 2 m di larghezza per circa 10 di lunghezza, e il posizionamento rispetto alla riva antica. In base a questi dati è stato possibile ipotizzare che l’imbarcazione sia stata abbandonata, già in stato di degrado, lungo la sponda del fiume. Il relitto, al momento, non è stato ancora portato completamente alla luce, una procedura che richiederà enorme attenzione da parte degli
archeologi in quanto il legno tende facilmente a collassare quando l’acqua che lo impregna evapora, ma si sa già che lo scafo è piatto, senza chiglia, dunque, e che le ordinate sono ben definite e fissate con tasselli a incastro in legno. È quanto ha potuto appurare l’archeologo navale Massimo Capulli, docente presso l’Università di Udine, al quale ne è stato affidato lo studio, coordinatore anche del «Progetto Anaxum» in cui questa eccezionale scoperta viene ora a inserirsi; un progetto che riguarda proprio il fiume Stella, avviato nel 2011, con l’obiettivo scientifico di
una ricostruzione del paesaggio archeologico fluviale e di una sua valorizzazione, anche dal punto di vista naturalistico e turistico. Le analisi geomorfologiche e sedimentologiche del sito effettuate, invece, da Alessandro Fontana, geologo del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, hanno permesso di stabilire che, all’epoca del relitto, la sponda del fiume Stella aveva una configurazione abbastanza simile all’attuale, ma con un’area golenale piú ampia di quasi 10 m. Questa zona è stata poi rimodellata dall’evoluzione fluviale e,
n otiz iario
SCoperte Lazio soprattutto, dall’azione antropica, che ne hanno causato il progressivo interramento. Il rinvenimento apre la strada a sviluppi storicamente interessanti: lo Stella fu vitale non solo in epoca romana, ricca di traffici e di commerci, ma anche in un’epoca «buia», quale quella medievale. Un lungo e affascinante corso quello dello Stella, un’oasi naturalistica di pregio, «un museo involontario della storia del Friuli», a partire dal Neolitico e avanti fino all’età romana e oltre, attraverso il Medioevo, verso le imprese e i traffici commerciali dei Cavalieri Teutonici con la Terra Santa. Lo testimonia anche la «nave di Chiarmacis», una sinopia, cioè un semplice disegno preparatorio di un affresco forse andato distrutto, venuto alla luce durante i lavori di risanamento della chiesetta di S. Andrea di Chiarmacis (frazione del Comune di Teor), situata sempre in prossimità del fiume Stella e per il quale sono ancora in corso studi interpretativi. In questo caso si tratta di una imbarcazione con propulsione sia a vela, con due alberi, sia a remi: sicuramente una nave da guerra, quindi, caratterizzata dalla presenza, a poppa, ancora dei due governali laterali in luogo del timone unico. Una nave che potrebbe rimandare proprio a quei Cavalieri Teutonici, che a Precenicco avevano una delle loro comunità piú importanti. Ancora non è stato deciso il luogo in cui conservare l’imbarcazione rinvenuta nei pressi di Precenicco, ma l’idea della Soprintendenza è quella di dare vita a un Museo delle acque, nell’ambito del parco fluviale dello Stella, nel quale raccogliere tutto ciò che questo corso d’acqua, finora l’unico cantiere di archeologia fluviale d’Italia, ha donato e continuerà a donare al mondo della conoscenza e alla storia stessa di questa regione. Carmelina Rubino
8 archeo
l’uomo di neandertal e l’imperatore
L
a grotta di Tiberio, a Sperlonga, è stata teatro di una importante scoperta, frutto degli scavi condotti da chi scrive a partire dalla primavera del 2012. Nel mese di aprile avevo iniziato, avvalendomi della collaborazione del personale del Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, una serie di piccoli saggi all’interno della grotta, in piú punti, volti a definire le fasi precedenti i lavori di allestimento del monumentale ninfeo voluto da Tiberio (14-37 d.C.) per esaltare il mito di Ulisse, visto come In alto: Sperlonga (Latina). La grotta di Tiberio, nella quale l’imperatore volle collocare un gruppo scultoreo che celebrava il mito di Ulisse. A destra: disegno ricostruttivo di un insediamento neandertaliano in grotta.
fondatore della gens Claudia, a cui l’imperatore apparteneva. Nel corso di uno di questi saggi, effettuato in agosto, in una fascia di terreno molto stretta, compresa tra la roccia e la piscina circolare, nei pressi dello sperone ovest, che conserva ancora parte del basamento del gruppo di Ulisse con il corpo di Achille – uno dei quattro gruppi di soggetto omerico che celebravano gli exempla virtutis di Ulisse –, al di sotto di un primo strato sconvolto, sembrava essersi conservato un livello del deposito originario,
che ha cominciato a restituire reperti litici e ossei. Lo strato rivelava una situazione ancora miracolosamente intatta. I reperti recuperati sono ascrivibili al Paleolitico Medio, e, in particolare, al Pontiniano, una facies culturale a sua volta compresa nel Musteriano (vedi box qui accanto). Sono stati raccolti strumenti in selce, raschiatoi, lameraschiatoi, denticolati e bulini. Cospicua è la presenza di ossa di animali, quali il cervo e il cavallo, nonché quella di resti ossei combusti. I materiali presentano analogie significative con quelli rinvenuti nelle vicine Grotte Guattari e del Fossellone di San Felice Circeo, riferibili anch’essi a una facies pontiniana, databile tra i 75 000 e i 35 000 anni fa. L’arco cronologico, tuttavia, potrà essere precisato con maggior precisione, solo grazie a esami piú approfonditi sui reperti. Secondo alcuni autori, l’origine del Pontiniano è da ricercarsi in una tradizione culturale autonoma, condizionata dalla particolare materia prima utilizzata, ed è caratterizzato dall’uso di piccoli ciottoli silicei scheggiati con tecnica bipolare. Gli strumenti sono cosí ricavati da spicchi, da calotte e mezzi ciottoli, e sono documentati raschiatoi su ciottolo e piccoli chopper (strumenti da taglio), sia unifacciali che bifacciali. L’area a piú alta concentrazione degli insediamenti «pontiniani»va dal Circeo a Gaeta e, pertanto, in tale fascia bene si colloca l’insediamento del Paleolitico della grotta di Sperlonga. Nel Paleolitico Medio i frequentatori della grotta erano gli uomini di Neandertal e i reperti recuperati offrono uno spaccato
Un frammento d’osso rinvenuto in livelli databili al Paleolitico Medio negli scavi nella grotta di Tiberio.
il pontiniano
Tipico del Circeo, ma non solo
Il termine «Pontiniano» fu proposto dal paletnologo Alberto Carlo Blanc (1906-1960), nel 1939, per designare inizialmente le industrie rinvenute nella grotta del Fossellone al monte Circeo; fu quindi esteso alle industrie musteriane del litorale pontino e del promontorio del Circeo. Si tratta di manufatti ricavati sui piccoli ciottoli silicei localmente disponibili. Il Pontiniano è stato tipologicamente accostato da Mariella Taschini al Musteriano del gruppo Charentiano di tipo Quina, ed è caratterizzato dalla scarsa utilizzazione della tecnica Levallois, dalla frequenza di raschiatoi, spesso trasversali, da poche punte, da piccoli manufatti su ciottolo (chopper e chopping-tool, talvolta ritoccati), oltre che da nuclei unipolari e discoidali. Secondo alcuni autori tali industrie non sono limitate alla costa meridionale del Lazio, ma si rinvengono anche in altre regioni italiane, come la Toscana, la Campania e la Puglia. I giacimenti piú importanti finora studiati, oltre al Fossellone, sono le grotte Guattari, Breuil e dei Moscerini sul monte Circeo, quella di Sant’Agostino vicino a Gaeta e il sito del Canale delle Acque Alte sulla Pianura Pontina. (red.)
Strumenti riferibili alla cultura pontiniana rinvenuti in occasione dei recenti scavi nella grotta di Tiberio.
eccezionale del modus vivendi e delle tecniche di lavorazione della pietra adottati da questo nostro antenato. Le genti neandertaliane si dedicavano alla caccia durante la buona stagione, vivendo in accampamenti all’aperto, e durante il periodo invernale in grotte,
alcune delle quali in prossimità del mare. Queste caverne potevano talvolta essere anche utilizzate come luoghi di culto. La scoperta della parte terminale del giacimento preistorico, che in origine doveva essere molto piú consistente, conferma che la grotta di Tiberio era dunque frequentata, in epoche antichissime, dall’uomo di Neandertal, stanziatosi sulla fascia di costa, allora molto piú avanzata rispetto all’attuale. Una selezione dei materiali rinvenuti è stata appena presentata, mentre le ricerche continueranno per comprendere meglio l’interessante situazione venuta alla luce e approfondire le modalità della prima frequentazione del sito. Marisa de’ Spagnolis a rr cc h h ee o o 99 a
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
ci salvi chi può È di nuovo allarme per la scuola archeologica italiana di atene e, ancora una volta, si levano numerose le voci per il suo salvataggio. ma, come spiega l’attuale direttore della saia, emanuele greco, la fine, questa volta, sembra davvero vicina...
«È
scandaloso che nel mare di sprechi, brutture e volgarità finanziate con denaro pubblico si tolgano i fondi ai pochi presidi della cultura e bellezza», scrive una firmataria, Paola Slaviero, sul web. «Con orgoglio firmo questa petizione (…) per il privilegio di esser stata parte, seppur per breve periodo, della grande famiglia della Scuola Archeologica Italiana di Atene (SAIA). Sí, perché la SAIA è un fiore all’occhiello della ricerca italiana che non ha eguali, ma è anche casa, formazione, accoglienza, didattica, studi secolari, maturazione scientifica,
istituzione, è scuola nel suo valore piú nobile. Parola di allieva adottiva», aggiunge una studentessa, Francesca Labonia. «Scienza, cultura, consapevolezza (...) linfa dell’adesso quindi, del futuro», scrive Zec Asja... Ecco solo alcuni degli oltre 4mila commenti pubblicati in rete, in diverse lingue, dai firmatari della petizione promossa della Scuola Archeologica Italiana di Atene, per lanciare un appello contro la paventata chiusura di questa importante istituzione culturale (www. scuoladiatene.it).
In alto: Haghia Triada (Creta), uno dei primi siti indagati dagli archeologi italiani attivi in Grecia. Qui accanto: Emanuele Greco, attuale direttore della SAIA e la sede della prestigiosa istituzione (in basso).
Da oltre 100 anni (l’istituzione venne fondata nel 1909) la SAIA porta avanti, ad altissimo livello, una preziosa attività di formazione e di ricerca archeologica, storica e filologica in Grecia e nel Mediterraneo centro-orientale, rappresentando l’eccellenza della cultura italiana all’estero: a oggi, tuttavia, rischia seriamente di dover chiudere i battenti. Non è la prima volta che accade, ma potrebbe essere l’ultima. In passato, infatti, la Scuola Archeologica Italiana di Atene aveva già visto due tentativi
10 a r c h e o
di decretarne la chiusura, nel 2009 e nel 2010, quando un comma di legge, poi abrogato, ne prevedeva in modo esplicito la cancellazione. Oggi la situazione della SAIA è diversa nella forma, ma non nella sostanza: il rischio di chiudere, sulla carta, non c’è piú, ma rimane nei fatti. I finanziamenti pubblici sono stati decurtati gradualmente, anno dopo anno, tanto da non essere piú sufficienti a garantire il funzionamento e, in pratica, l’esistenza stessa della Scuola. Nel 2001 i fondi disponibili ammontavano a 1 milione di euro, nel 2013 arriveranno ad appena 370mila euro: poco piú di un terzo. «L’Istituzione deve vivere con un bilancio talmente esiguo, che decretarne la morte per legge sarebbe un sollievo», afferma Emanuele Greco, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene dal 2000 e professore ordinario di archeologia classica
presso l’Università «L’Orientale» di Napoli, esperto di topografia e urbanistica del mondo greco e di colonizzazione greca dell’Occidente. Professore, non c’è dunque alcuna chiusura in vista per la SAIA, ma un lento «morire» di stenti… Una soluzione piú raffinata, rispetto alla cancellazione ex lege, ma non meno subdola, forse. Come è stato possibile arrivare a questo punto? «Semplice: tra il 2001 e il 2012 il finanziamento alla Scuola Archeologica Italiana di Atene è passato da 1 milione di euro a 400mila euro. E diminuirà ancora con la tranche del 2013, che deve ancora arrivare. Fino a quando abbiamo potuto, siamo andati avanti con qualche aiuto provvidenziale, una tantum, con i risparmi accumulati negli ultimi anni e, soprattutto, grazie alla gestione oculata del bilancio: sempre meno scavi, meno
convegni, meno borse di studio, meno pubblicazioni… ma adesso i risparmi sono finiti e non si riesce piú a sopravvivere. Per una vita grama, cioè riducendo i pagamenti alle spese fisse, avremmo bisogno di circa 750mila euro l’anno, invece tiriamo avanti con neanche la metà di questa cifra. Nessuno ha capito, ancora, che i tagli lineari alla cultura non funzionano: come già mi dissero ben dieci anni fa alla Ragioneria di Stato, alcuni istituti vanno tagliati, altri invece incrementati. Se si decurtano i fondi a tutti allo stesso modo, c’è chi, come noi, viene fortemente penalizzato». Insomma, nell’era dello spread e dell’alta finanza, alla fine non si fanno i conti con le piú importanti istituzioni culturali che il nostro Paese possiede, come la Scuola di Atene: un patrimonio, peraltro, difficilmente «monetizzabile». Quanto è difficile quantificare, in termini di costi-benefici, il valore di uno strumento di formazione culturale come la SAIA? «Difficilissimo, io non saprei farlo. Ho scritto una lettera alla Corte dei Conti, tempo fa, che ragiona di archeologia in termini di valori monetali. Provate a monetizzare ogni anno 4-5 dottori che poi diventano direttori, soprintendenti o professori... come si fa a monetizzare la formazione? I magistrati contabili monetizzano il numero di disegni e fotografie che immettiamo ogni anno nella Scuola, attraverso la nostra attività di ricerca (al momento coordiniamo una decina di scavi archeologici tra Creta, Lemnos e il Peloponneso). Ma come si può monetizzare la mole di cultura prodotta? Soprattutto negli ultimi due anni, siamo stati completamente dimenticati. Un esempio: quest’anno riceverò 378mila euro di fondi pubblici; solo gli stipendi fissi della Scuola mi costano 388mila euro. Poi ci sono le utenze, le borse di studio, l’attività istituzionale, gli archeologi, la pubblicazione di libri,
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i convegni… Con il contributo ordinario non arrivo neanche a pagare gli stipendi. Io non sto mai fermo, lavoro 12 ore al giorno e se, tra attività imprenditoriale e istituzionale, riesco a raccogliere qualche contributo in piú, appena sopravvivo. Sono tutti escamotage precari, non soluzioni strutturali. È una questua continua, una volta a una banca, una volta a una società, un’altra a un privato che sponsorizzi le borse di studio: è una vita grama». Ma si è fatto sentire, con le istituzioni, direttore? «Sí, ma non ho ricevuto mai risposta. Il consiglio scientifico dei docenti è scaduto a dicembre del 2010: ho mandato due lettere, una al Ministero dei Beni Culturali, l’altra a quello dell’Istruzione, e il consiglio non è stato mai rinnovato. Faccio lavorare gli insegnanti con il contratto scaduto, persone che si pagano anche il viaggio per andare a fare i sopralluoghi sul campo. Io ho 20 studiosi che occupano altrettanti
posti letto (16 allievi e 4 professori), piú 53mila libri, 150mila foto e diapositive, migliaia di disegni in archivio: gli studiosi vengono ad Atene a lavorare, i professori a scrivere i libri, gli studenti a imparare. Ci sono tre tipi di allievi: dottorandi, specializzandi e post dottori di ricerca. Nella nostra biblioteca si può studiare anche di In alto: resti di strutture comprese nel quartiere bizantino di Gortina (Creta), un altro dei siti in cui operano missioni coordinate dalla SAIA. A sinistra: la Grande Iscrizione di Gortina, scoperta da Federico Halbherr nel 1884.
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notte, tutti i giorni: ci sono professori che “abitano” nella biblioteca. Nessuno, d’altro canto, legge nella bottega del droghiere…» Quindi la Scuola Archeologica Italiana di Atene riceve maggiore considerazione, a livello istituzionale, in Grecia piuttosto che in Italia? «Sembra di sí. I Greci ci sono molto vicini in questo momento, come anche le altre scuole archeologiche straniere presenti nel Paese, in tutto 15, che stanno preparando un appello congiunto in nostro sostegno. La chiusura della SAIA sarebbe un grave vulnus per l’archeologia: è uno degli istituti di ricerca piú prestigiosi per la ricerca antichistica nell’Egeo, insieme a quelli di Inglesi, Francesi e Tedeschi. Non ci chiudono, a noi Italiani, ma ci stanno tagliando ogni anno pezzo a pezzo, come per eutanasia. Se si mette la chiusura nero su bianco, tutti strillano. Ma se ci tolgono pian piano la terra da sotto ai piedi, cosí da farci cadere nel baratro, nessuno apre bocca: questa è la Repubblica Italiana. Si ascoltano solo i “kapno-poleta”, cioè venditori di fumo: un neologismo che ho inventato per definire coloro ai quali oggi è affidata la divulgazione dell’archeologia al grande pubblico».
mostre Torino
dall’altra sponda dell’adriatico
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rganizzata per celebrare il centenario dell’indipendenza dell’Albania (1912), la mostra propone un itinerario attraverso il patrimonio storico-culturale albanese dalla preistoria al XVII secolo e consente di riscoprire le componenti europee di alcune delle civiltà formatesi sulla costa orientale del mare Adriatico. Le opere e i reperti selezionati, oltre Qui sotto: vaso antropomorfo policromo. Tardo Neolitico, IV-III mill. a.C. Kamnik, Museo.
150, raccontano la millenaria vicenda della sedimentazione e della trasformazione della cultura di un popolo che affonda le sue radici nell’età preistorica per poi aprirsi alle influenze greco-ellenistiche, a quelle della Roma imperiale e, nel Medioevo, accogliere i segni della civiltà dei comuni italiani, fino all’ingresso nell’orbita dell’impero ottomano (1479). L’esposizione è, da un lato, un’occasione per riscoprire le radici europee dell’Albania, e, dall’altro delinea l’antico e profondo rapporto con l’Italia, che da secoli dialoga e collabora con l’Albania e ne accoglie le comunità in diaspora. Il percorso, organizzato cronologicamente, prende avvio dalla preistoria, con oggetti in In basso: spilla in forma di Sfinge. Seconda metà del III sec. a.C. Antigonea, Museo.
Dove e quando «Tesori del patrimonio culturale albanese» Torino, Palazzo Madama fino al 7 aprile Orario ma-sa, 10,00-18,00; do, 10,00-19,00; lu chiuso Info tel. 011 4433501; www.palazzomadamatorino.it
Bracciale in bronzo con terminazione in forma di testa di serpente. Seconda metà del IV sec. a.C. Radhime, Museo. ceramica, gioielli, armi, statue del Neolitico Antico, dell’età del Bronzo, dell’età del Ferro e del periodo arcaico; vasi, manufatti, statue, ritratti, monete, stele istoriate illustrano l’antichità, dal periodo ellenistico e romano, sino ad arrivare all’Alto Medioevo. Gran parte di questo tesoro è stato portato alla luce grazie all’opera di ricerca e scavo di archeologi albanesi ed europei, tra cui anche alcuni italiani, come Luigi Ugolini (1895-1936). La storia narrata dalle quattro sezioni in cui la rassegna è articolata si chiude con l’epoca bizantina, presentando una selezione di oggetti della liturgia, molti dei quali esposti per la prima volta in Italia e realizzati tra il XII e il XVIII secolo: pur nella fissità dei modelli figurativi, le icone illustrano la ricezione della pittura italiana del Trecento e le trasformazioni apportate dal maestro Onufri e dalla sua scuola, confermando l’estrema permeabilità della cultura albanese. (red.)
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n otiz iario mostre Svizzera
nel mondo dei nabatei
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In alto: Petra. La facciata del monumento rupestre denominato Ed Deir (il «Monastero»). II sec. d.C. Qui sopra: recipiente per libagione in argilla dipinta. I sec. d.C. A sinistra: busto in bronzo del dio Serapide, dal Tempio dei Leoni alati. I sec. d.C.
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iete ancora in tempo per visitare «Petra. Meraviglia del deserto», la mostra allestita all’Antikenmuseum di Basilea (fino al 17 marzo) in occasione del duecentesimo anniversario della scoperta della leggendaria capitale dei Nabatei da parte dell’orientalista e viaggiatore svizzero Johann Ludwig Burckhardt (vedi «Archeo» n. 329, luglio 2012). Incentrata solo in parte sulle vicende dell’avventuroso personaggio (ricordiamo che Burckhardt giunse nelle terre del Vicino Oriente perché incaricato dalla britannica African Association di esplorare le potenzialità economiche del continente nero), l’esposizione presenta i risultati delle piú recenti indagini archeologiche nel sito giordano, svolte da studiosi della Confederazione. Circa 150 reperti di straordinaria importanza storico-artistica
Una sala della mostra in corso al Museo di Antichità di Basilea fino al 17 marzo.
e archeologica, dai piú antichi recipienti domestici (spicca tra tutti un piatto con decorazioni vegetali, realizzato con la tipica tecnica ceramica dei Nabatei, in grado di produrre oggetti dallo spessore sottilissimo) agli splendidi rilievi dell’arte greco-romana (lo stile che connota i celebri monumenti rupestri di Petra), raccontano la storia delle origini dei Nabatei e di come una cultura di nomadi del deserto sia stata in grado di costruire, al centro di un deserto arido e ostile, una grande e florida città. (red.) Qui sopra: iscrizione in pietra arenaria in cui è menzionato il nome di un militare della cavalleria nabatea. I sec.d.C. A sinistra: stele in pietra arenaria con volto umano e iscrizione dedicatoria, dal Tempio dei Leoni alati. I sec. d.C.
Dove e quando «Petra. Meraviglia del deserto» fino al 17 marzo Basilea, Antikenmuseum Orario ma-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info www.antikenmuseumbasel.ch
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n otiz iario
musei Genova
il passato in metropolitana
A sinistra: Genova, stazione Brignole della metropolitana. Le due porzioni di acciottolati del sagrato della chiesa di S. Maria degli Incrociati collocate all’interno della struttura. XVI sec.
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l Natale 2012 ha portato a Genova un regalo particolare: dopo anni di attesa, è stata aperta al pubblico la nuova tratta della linea metropolitana, da De Ferrari a Brignole, e con essa la città si è dotata, oltre che di un utile mezzo di trasporto, anche di un nuovo tassello del progetto ArcheoMetro, voluto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria per illustrare gli eccezionali risultati di anni d’indagini di archeologia urbana. L’iniziativa fa seguito a quella, già realizzata qualche tempo fa, dell’allestimento nella stazione Darsena di un percorso di visita dedicato alle vestigia del porto medievale, e rientra nell’ambito di un piú ampio programma che la Soprintendenza sta portando avanti, mirato alla creazione di un Museo archeologico diffuso della città. E di cui, già in passato (vedi A sinistra: Genova. L’allestimento dei resti archeologici nella nuova stazione Brignole della metropolitana. In basso: ascia in pietra verde levigata rinvenuta nel corso degli scavi condotti nell’area di piazza Brignole. Neolitico Medio, 4800-4300 a.C.
«Archeo» n. 299, gennaio 2010) avevamo dato notizia, illustrando le interessanti e inaspettate scoperte avvenute nei pressi della stazione ferroviaria di Brignole. Le indagini archeologiche, condotte fino a oltre 13 m di profondità, hanno fatto riemergere il passato piú remoto del
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capoluogo ligure, riportando alla luce oggetti e tracce di attività agro-pastorali del Neolitico Medio (4800-4300 a.C.) e le piú antiche strutture murarie note in città, che consistono in una grande struttura in pietra datata all’età del Bronzo Antico (2200-1900 a.C.), riferibile a un villaggio, di cui doveva delimitare e proteggere uno dei confini in corrispondenza di un corso d’acqua stagionale. La sequenza stratigrafica ha inoltre conservato livelli agricoli di età romana, alcune sistemazioni urbanistiche con tracciati stradali del Cinquecento e i resti di un
monastero del XVII secolo. Gli scavi, condotti dalla Soprintendenza e diretti da Piera Melli, a cui hanno fatto seguito analisi paleobotaniche e geoarcheologiche utili a ricostruire anche l’assetto paesaggistico antico, hanno trovato ora ampio spazio nella nuova stazione di Brignole della metropolitana. Qui, nell’area di accesso ai binari, una grande vetrina racchiude due porzioni di «risseu», la caratteristica pavimentazione con motivi geometrici e figurati realizzata a mosaico impiegando piccoli ciottoli bianchi e neri, che appartenevano al sagrato della chiesa di S. Maria degli Incrociati (XVI secolo). Alcuni pannelli illustrano la storia dell’insediamento religioso e i ritrovamenti di oggetti sacri e d’uso quotidiano effettuati nel corso dei lavori per la realizzazione della stazione. L’allestimento presenta
La sistemazione urbanistica degli spazi di piazza Brignole, con il tracciato stradale acciottolato, risalente al Cinquecento, nel corso degli scavi condotti per la realizzazione della metropolitana.
inoltre la ricostruzione del muro dell’età del Bronzo antico, smontato dalla sua collocazione originaria, dove è stato necessario realizzare un pozzo di aerazione della metropolitana, che ha impedito di conservarlo in situ, ed è stato qui ricollocato per dare un’adeguata valorizzazione ai
risultati dello scavo. Anche in questo caso diversi pannelli, con fotografie e testi, di fatto una mostra permanente, sono dedicati ai reperti ceramici, ai resti in legno, a carboni e ossa di animali macellate, inequivocabili tracce dell’insediamento che l’imponente muro doveva proteggere, formando cosí nella stazione un vero e proprio percorso di visita per scoprire le origini preistoriche della città e l’evoluzione dell’area nei secoli attraverso gli importanti risultati delle indagini archeologiche. Andrea De Pascale
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n otiz iario
mostre Campania
l’ultimo viaggio alla maniera greca
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i possono ammirare per la prima volta alcuni dei preziosi reperti selezionati tra i corredi di oltre 600 sepolture di età sannitica recuperati, nell’ultimo trentennio, tra le località Cesine, Parretti e Faggiano e provenienti da necropoli riferibili all’antica città di Saticula, nei pressi dell’odierna Sant’Agata de’ Goti (Benevento). I sepolcreti erano organizzati in insiemi di tombe pertinenti a gruppi familiari: si tratta di sepolture a cassa di tufo, costituite da lastre combacianti, con copertura piana o a spiovente. Chiaro è il rituale funerario, soprattutto per le tombe maschili: comune a tutte le sepolture è la presenza di offerte all’esterno della
deposizione, con ceramica comune e resti di pasto rituale, mentre il corredo, deposto generalmente ai piedi del defunto, era sempre costituito dalle forme ceramiche legate a servizi da mensa che sottolineavano l’assimilazione, da parte dell’élite locale, della tradizione greca del simposio. Cosí troviamo numerosi crateri, in varie dimensioni e forme, oinochoai (brocche) trilobate e kylikes (coppe con due manici) acrome, a vernice nera o a figure rosse. Le tombe femminili sono caratterizzate invece da monili e oggetti di ornamento personale in bronzo, da forme ceramiche piú semplici (brocchette, ollette), talvolta associate a un cratere, a
Dove e quando «Sulle tracce di Saticula» Sant’Agata de’ Goti (BN), chiesa di S. Francesco fino all’8 dicembre 2013 Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 339 9238541 testimonianza di come anche la donna partecipasse talvolta alla pratica del banchetto tirrenico. Peculiare la Tomba 442, da cui proviene un prezioso specchio di bronzo con manico decorato da incisioni inserito tra i reperti
Luciano Calenda
archeofilatelia
misteri del libano... A circa 70 km da Beirut, nella tristemente famosa (per motivi bellici) valle della Beqaa, si conservano i resti dell’antica città di Baalbek. Il sito, che merita certamente l’appellativo di «luogo della leggenda» (vedi, in questo numero, alle pp. 38-53), è stato proclamato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1984, e può essere definito, a ragione, anche un «luogo del mistero»… La presenza di manufatti enormi, di dimensioni ben superiori a quelle degli obelischi egiziani, ha infatti scatenato le piú fervide fantasie su fantomatiche civiltà extraterrestri che avrebbero realizzato i quattro megaliti presenti nel sito: tre inseriti nelle strutture piú antiche del Tempio di Giove (trilithion) e uno rimasto ancorato al terreno (indicato dalla freccia su questa cartolina del Novecento – 1 – che regala una suggestiva visione d’insieme del sito). Certamente questi grandi blocchi di pietra devono aver influenzato i popoli che dominarono la zona, come fu
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per i Romani, che qui innalzarono, o completarono, il tempio di Giove con colonne che sono le piú alte mai realizzate per un edificio di culto (20 m circa). Molte sono le emissioni filateliche, soprattutto libanesi, qui raggruppate in riferimento ai vari monumenti presenti nel sito archeologico: le rimanenti 6 possenti colonne del tempio di Giove viste da varie angolazioni (2, 3, 4, 5); in quest’altro francobollo si vede anche il megalite interrato (6), mentre questo mette in evidenza la cornice superiore (7). Poi il tempio di Bacco (8, 9) con l’ingresso (10) e il soffitto (11). Infine il tempio di Venere (12, 13). Diverse di queste emissioni ricordano il Festival di Baalbek, il piú importante appuntamento internazionale del Medio Oriente con la musica, la danza, le tradizioni popolari, ecc., nato nel 1922 e svoltosi prima saltuariamente e poi annualmente dal 1955 fino a oggi, salvo la lunghissima pausa dovuta alla guerra
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esposti. Tra gli altri reperti in esposizione si segnalano un grande cratere a campana a figure rosse, alcune kylikes, un cratere a calice a vernice nera, oinochoai trilobate, fibule in bronzo di varia tipologia e forma, una hydria (vaso per acqua) a vernice nera. Risulta assai interessante la ricostruzione in scala 1:1 di due tombe a cassa di tufo: la prima ospitava i resti di un neonato, mentre la seconda l’inumazione di un defunto di sesso maschile di giovanissima età, ma già accompagnato da un tipico corredo saticulano, composto da anelli a castone di piombo, una collana, due craterischi a figure rosse accompagnati da un’oinochoe acroma e una kylix a vernice nera. Giampiero Galasso
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Nella pagina accanto: specchio in bronzo con manico decorato, dal corredo della Tomba 442. Età sannitica.
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civile libanese (1975-1997); esso si tiene tra i resti del complesso archeologico, analogamente a quanto avviene in altri siti famosi dei Paesi mediterranei, come, per esempio a Pompei,Taormina, Roma, Epidauro, Luxor o Delfi. IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
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calendario
Italia Roma Luce dalle Terre dell’Ambra
Dalle rive del Baltico al Mediterraneo Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10.03.13
Roma caput mundi
Una città tra dominio e integrazione Colosseo-Foro romano fino al 10.03.13
milano Costantino. 313 d.C. In alto: pettorale in ambra e oro, da Palestrina. VII sec. a.C.
Antichi sentieri tra Oriente e Occidente Palazzo delle Esposizioni fino al 10.03.13
Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13
L’Età dell’Equilibrio
Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13
parma Storie della prima Parma
adria Scripta manent
Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 02.06.13
I documenti Bocchi per l’archeologia di Adria Museo Archeologico Nazionale fino al 15.03.13
Una necropoli dell’età del Ferro a Urago d’Oglio Santa Giulia, Museo della Città fino al 31.03.13
modena 1897-2012. Il mosaico riscoperto Il pavimento musivo di Savignano sul Panaro Lapidario Romano dei Musei Civici fino al 12.05.13
Sulla Via della Seta
brescia Terre di confine
Palazzo Reale fino al 17.03.13
Qui sopra: l’interno di una coppa figurata, in un disegno di Antonio Bocchi.
L’età del Rame
La Pianura padana e le Alpi al tempo di Ötzi Museo Diocesano fino al 15.05.13
chiusi +110
Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13
serrapetrona (MC) La conquista del cielo
Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13
Qui sopra: piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.
siena Vino fra mito e storia
Complesso Museale S. Maria della Scala fino al 05.05.13 In basso: kantharos in forma di protome di sileno con integrazioni ottocentesche.
cortona Restaurando la storia
L’alba dei principi etruschi A pochi anni dalla scoperta dei due Circoli orientalizzanti del Sodo, e all’indomani degli studi e dei restauri che li hanno interessati, vengono esposti per la prima volta gli straordinari reperti recuperati. Si tratta dei corredi del Secondo Circolo, costituito da oltre 15 tombe, trovate intatte, databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., e di materiali rinvenuti nei siti del 22 a r c h e o
territorio. Tra gli oltre 200 oggetti in mostra, si segnalano vasi in bucchero, gioielli e collane in ambra, monili in avorio, armi e suppellettili in bronzo che raccontano la vita delle élite etrusche della Cortona del VII secolo a.C., connotata da aristocrazie guerriere, ma anche da una solida economia basata su commercio, agricoltura e allevamento.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Gran Bretagna torino Tesori del patrimonio culturale albanese
Figura femminile in terracotta. Fine del VI sec. a.C.
Palazzo Madama fino al 07.04.13
londra Arte delle ere glaciali
L’avvento di un pensiero moderno British Museum fino al 26.05.13
Austria
Grecia
innsbruck Armi per gli dèi
Atene Principesse del Mediterraneo all’alba della storia
Guerrieri, trofei, santuari Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum fino al 31.03.13
Museo d’Arte Cicladica fino al 10.04.13
Francia
Israele
parigi L’arte del gioco, il gioco nell’arte
Gerusalemme Il viaggio finale di Re Erode il Grande
Da Babilonia all’Occidente medievale Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 04.03.13
Israel Museum fino al 05.10.13
Spagna
Saint-romain-en-gal e lione Peplum L’antichità al cinema Musées Gallo-Romains fino al 07.04.13
Strasburgo Un’arte dell’illusione
Frammento d’osso su cui è incisa la figura di una renna, da La Madeleine. 13 000 anni fa circa.
madrid Pompei Frammento di affresco con busto femminile su cornice modanata.
Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13
Germania Berlino Sotto la luce di Amarna
100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 13.04.13
dove e quando Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 5 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; lu chiuso Info e prenotazioni tel. 0575 637235; www.cortonamaec.org; e-mail: prenotazioni@corotnamaec.org
Catastrofe sotto il Vesuvio Centro de Exposiciones Arte Canal fino al 05.05.13
Alcalá de Henares (Madrid) Arte senza Artisti Uno sguardo sul Paleolitico Museo Archeologico Regionale fino al 07.04.13
Statua bronzea raffigurante un corridore, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C.
lérida Mummie egizie
Il segreto della vita eterna Caixa Forum fino al 21.04.13
Svizzera basilea Petra. Meraviglia del deserto
Johann Ludwig Burckhardt come Sheikh Ibrahim.
Sulle tracce di J.L. Burckhardt Antikenmuseum Basel fino al 17.03.13
zurigo Chavín
Il tempio misterioso delle Ande peruviane Museum Rietberg fino al 10.03.13 a r c h e o 23
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
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reziose testimonianze delle pratiche religiose in uso durante i primi anni del regno di Giuda sono stati scoperti dagli archeologi della Soprintendenza Archeologica di Israele (Israel Antiquities Authority), nel corso di scavi di emergenza per la costruzione di un tratto autostradale nei pressi dell’area archeologica di Tel Motza, un sito identificato con il villaggio di Moza menzionato nell’Antico Testamento (Giosué 18, 26) al confine tra il territorio della tribú di Beniamino e la Giudea.
un santuario alle porte di gerusalemme Le indagini a Tel Motza hanno portato alla luce una vasta struttura muraria, risalente agli inizi del cosiddetto «periodo della monarchia» (caratterizzato dalla creazione di un governo centrale sotto forma, appunto, di monarchia come espressione dell’unità delle tribú israelitiche, n.d.r.), databile all’Età del Ferro II
In alto: veduta aerea del sito di Tel Motza, a ovest di Gerusalemme. (X-IX sec. a.C.). I resti appartengono a un edificio templare il cui accesso è rivolto verso oriente (in conformità alla tradizione dell’architettura sacra vicino-orientale). All’interno dell’edificio, nei pressi di una struttura rettangolare identificabile come quella di un altare, è stato scoperto un «tesoretto» di oggetti rituali in terracotta, tra cui numerose figurine animali e, soprattutto,
In alto e qui accanto: due delle figurine rituali in terracotta rinvenute a Tel Motza.
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rappresentazioni di teste umane barbute e munite di un copricapo. Il ritrovamento rappresenta una delle rarissime prove dell’esistenza di strutture templari – o, perlomeno, di spazi sacri adibiti a pratiche religiose – nelle vicinanze di Gerusalemme in un periodo che precede la fine della monarchia (ai tempi del re Ezechia e del profeta Isaia). In seguito, infatti, le riforme religiose attuate abolirono la presenza di centri rituali in tutto il territorio del regno per concentrare tutte le pratiche cultuali e religiose in un unico, grande santuario, quello del tempio di Gerusalemme.
corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli
Buone nuove da Olimpia La restituzione dei reperti trafugati nel febbraio scorso fa da contrappunto ai lavori di anastilosi del tempio di Zeus
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n anno fa, la notizia del furto di 77 reperti dal Museo dei Giochi Olimpici di Olimpia aveva fatto il giro del mondo in poche ore (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012). Giustificato lo sdegno, comprensibili i dubbi sollevati circa la sicurezza del patrimonio culturale greco. Sembra perciò davvero inspiegabile che, invece, sia passata del tutto inosservata una notizia risalente al dicembre scorso: tutti i reperti trafugati sono stati ritrovati e ricollocati nel museo a cui appartenevano, mentre i responsabili sono stati individuati e consegnati alla giustizia. La sobria cerimonia con cui l’evento è stato celebrato non ha suscitato alcuna eco nella stampa greca (si registra solo una laconica notizia su un quotidiano locale) e, di conseguenza, neppure
In alto: Olimpia. Veduta del tempio di Zeus, da ovest, al termine dell’intervento di ricostruzione da poco ultimato. A destra: cartina della Grecia con l’ubicazione di Olimpia. In basso: un momento della cerimonia di restituzione dei reperti trafugati nel febbraio 2012 dal Museo dei Giochi Olimpici di Olimpia.
GRECIA Olimpia
Mare Egeo
Atene
Mar Ionio
in quella estera. Un’occasione mancata, perché forse, in questo caso, non sono puramente retoriche le parole del Sottosegretario alla Cultura, Kostas Tzavaras: «Oggi è stata riparata la profonda ferita inferta alla cultura dalla profanazione dello scorso febbraio». Perché proprio di questo si tratta nel caso del furto di reperti archeologici: di una profanazione del patrimonio culturale. E se proprio nell’antica Olimpia fu coltivata l’idea che è possibile competere con lealtà, il messaggio che traspare dalla notizia del ritrovamento degli oggetti e
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A destra: un capitello viene collocato sul rocchio superiore e quello inferiore della colonna meridionale dell’opistodomo del tempio di Zeus. In basso: un momento della lavorazione delle scanalature della colonna meridionale dell’opistodomo, completata con pietra artificiale. dell’arresto degli autori del crimine è proprio questo: nella Grecia di oggi, nella Grecia della crisi, possono essere ancora validi gli stessi princípi e gli stessi valori che ispirarono gli antichi abitanti di questa terra; il patrimonio culturale ellenico, anche in questi momenti difficili, non è alla mercé di chi vorrebbe saccheggiarlo impunemente.
una statua colossale E proprio nei giorni in cui da Olimpia arrivava quest’ottima notizia, nel sito del santuario si completava la seconda fase dell’anastilosi del tempio di Zeus, intrapresa dall’Istituto Archeologico Germanico. L’elevato e le dimensioni di questo tempio, uno dei monumenti principali del santuario, il luogo in cui era esposta la statua di culto colossale di Zeus, potevano finora essere apprezzati solo dagli specialisti del settore. Alcuni interventi di restauro e parziale anastilosi, cominciati nel 1992, avevano portato, nel 2004, a ricollocare al suo posto una colonna intera, permettendo cosí al tempio di riguadagnare la dimensione dell’altezza. La fase conclusasi nel novembre 2012 ha avuto come oggetto la zona dell’opistodomo (vano posteriore della cella, n.d.r.) occidentale del tempio. Criteriguida di questi interventi sono stati l’impiego di elementi originali, ove possibile, di materiali resistenti, come il titanio e una pietra artificiale, e di macchinari all’avanguardia, quale una enorme gru del peso di 108 t. Le scanalature dei rocchi di colonna, integrati nelle parti mancanti con una particolare miscela di cemento, sono state
lavorate seguendo le tecniche antiche. La gru è stata manovrata con precisione millimetrica, a dispetto del fatto che le pesanti membrature architettoniche (un capitello dell’opistodomo raggiunge un peso di 7 t) dovessero coprire una distanza di 35 m di lunghezza e si trovassero a un’altezza di ben 7 m. Si è reso anche necessario rimuovere ben 38 elementi architettonici, rimasti nell’area dopo gli scavi ottocenteschi. Al termine dei lavori, l’opistodomo del tempio ha riacquistato le dimensioni volumetriche originarie e due
capitelli in buone condizioni di conservazione, notevoli anzitutto per le loro dimensioni, possono essere osservati da vicino. L’anastilosi del tempio di Zeus nel santuario di Olimpia fa da cornice alla buona novella del rinvenimento dei reperti rubati. Da un lato, il risultato del lavoro di archeologi tedeschi, ormai da molti decenni dediti allo studio di Olimpia; dall’altro, il frutto degli sforzi del Ministero Ellenico alla Cultura e della Polizia greca. E se il messaggio sotteso a tutto ciò fosse proprio che è la collaborazione a dare i risultati piú fruttuosi?
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la vendetta dei niobidi
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vittime di un mitico massacro e di un oblio storico durato duemila anni, i figli della leggendaria (e sfortunata) niobe ritornano in vita grazie a un sensazionale ritrovamento avvenuto a pochi chilometri da roma
di Mimmo Frassineti
F
ra i miti greci piú traboccanti di crudeltà e violenza c’è quello di Niobe e dei suoi figli, 12 o 14 secondo le tradizioni, sterminati dalle frecce di Apollo e di Artemide per vendicare la madre Latona, che Niobe aveva schernito per la scarsa prolificità, vantandosi della propria.Testimoniato per la prima volta nell’Iliade, il mito ispirò poeti e artisti. La versione oggi piú celebre ce l’ha consegnata Ovidio, nelle Metamorfosi, ed è anche per tale motivo che ha destato vivissimo interesse il ritrovamento, in una villa che Ovidio frequentava, del gruppo scultoreo che mette in scena gli attimi della strage. La villa, sulla via dei Laghi, a pochi chilometri da Roma, apparteneva a Marco Valerio Messalla Corvino, nato nel 64 a.C., che combattè con Bruto e Cassio nella battaglia di Filippi e si schierò in seguito con Ottaviano, a fianco del quale partecipò alla battaglia di Azio. Vittorioso contro gli Aquitani in Gallia nel 28 a.C., nel 27 celebrò il trionfo. Ormai pago di gloria militare, creò, sull’esempio di Mecenate, nella sua villa a sud dell’Urbe un circolo di poeti e letterati – Tibullo, Ligdamo, Sulpicia, Emilio Macro – che anche il giovane Ovidio frequentava. Per lui quelle sculture potrebbero essere state fonte d’ispirazione, o forse fu il poeta stesso a suggerire a Messalla la drammatica scenografia che ornava la lussuosa piscina. Dalla quale l’archeologa Aurelia Lupi ha estratto sette grandi statue integre o quasi e una quantità di frammenti che, come spiegano nell’intervista la soprintendente ai Beni Archeologici del Lazio, Elena Calandra, e il direttore scientifico degli scavi, Alessandro Betori, porteranno, una volta ricomposti, almeno a 10, ma forse addirittura a 15, il numero delle figure rappresentate. Altre volte in passato sono state rinvenute statue dei Niobidi, ma mai cosí numerose tutte insieme. Si levano intanto voci che sollecitano la valorizzazione della villa e chiedono che sia scongiurata la cementificazione del sito. A sinistra: Ciampino (Roma), villa di Marco Valerio Messalla Corvino. L’archeologa Aurelia Lupi impegnata nello scavo dei resti di una piscina decorativa dalla quale sono state recuperate le statue di un gruppo raffigurante la strage dei figli di Niobe, verosimilmente databile alla tarda età ellenistica. A destra: particolare di una statua di Niobide inginocchiata (vedi a p. 33). Età augustea. Roma, Museo Nazionale Romano.
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«Dobbiamo vigilare sempre – spiegano gli archeologi protagonisti della scoperta – per tutelare i diritti del pubblico, ma anche dei privati»
La strage dei Niobidi dipinta su un cratere a calice a figure rosse, da Volsinii. 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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In alto, a destra: Ciampino (Roma), villa di Messalla. Statue e frammenti di statue facenti parte del gruppo raffigurante la strage dei Niobidi in corso di scavo. Nella pagina accanto, in basso: cartina con la localizzazione del sito di provenienza delle statue.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Colle Salario GRA
Monte Sacro
Santa Gemma
Roma
Tiburtino GRA
Casale Lumbroso aA Vi
Morena
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pp
effettuato lo scavo di Ciampino che ha portato alla scoperta delle statue? «Il Piano Regolatore del Comune di Ciampino impone sondaggi archeologici preventivi su tutte le nuove edificazioni. I sondaggi, in questo caso, erano anche determinati dal fatto che la zona ha un vincolo paesaggistico in forza dei ritrovamenti avvenu◆ Dottor Betori, perché è stato ti nell’Ottocento». ◆Q ual è l’area di competenza della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio? «Tutto il Lazio – spiega Calandra – meno la provincia di Viterbo, il Comune di Roma, Ostia e la parte della provincia di Roma posta a nord della capitale e a ovest del Tevere. In totale ci occupiamo di 289 Comuni».
Acilia
Ciampino
Vitinia Selcetta
Villa di Messalla
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scoperte • lazio
◆ Il ritrovamento avrà conseguenze sul progetto edilizio? «I vari soggetti interessati del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – ci dice la soprintendente – arriveranno a una decisione finale: al momento stiamo studiando la situazione». ◆ In un Comune, quando si vuole costruire, in base a quali criteri si decide l’esecuzione di sondaggi archeologici? «Il Comune – spiega Betori–, sulla base di un rapporto con la Soprintendenza Archeologica recepito nei Piani Regolatori, può prevedere sondaggi archeologici su tutte le nuove edificazioni, sull’intero territorio o soltanto su zone particolari; vincoli ministeriali o la pianificazione paesaggistica regionale possono inoltre imporre inedificabilità assoluta o l’esecuzione di sondaggi al di là della pianificazione comunale». ◆È sempre il Comune a stabilire se procedere con i sondaggi, oppure la Soprintendenza ha la facoltà di imporli? «Noi dobbiamo vigilare sempre – aggiunge Calandra. In caso di opere pubbliche c’è una legge specifica che ci obbliga, non solo per le attività edilizie, ma anche in altre circostanze – come, per esempio, la posa di tubi o di cavi –, a effettuare sondaggi preventivi e, prima ancora, a documentarci se la zona sia a rischio archeologico. E la committenza è obbligata a finanziare lo scavo. Inoltre noi possiamo imporre anche al privato di effettuare sondaggi o di far seguire i lavori da un archeologo, qualora i terreni siano vincolati o avvengano rinvenimenti durante le fasi dell’edificazione.
A destra: la strage dei Niobidi raffigurata sulla fronte di un sarcofago romano. 160-170 d.C. Monaco, Glyptothek. In basso: statua di Niobide inginocchiato, del tipo degli Uffizi, da via Aurelio Saffi (Roma), nell’area degli Horti di Cesare. III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
In basso: statua di Niobide, da via Collina (Roma), nell’area degli Horti Sallustiani. Età augustea. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Raffigura la giovane nel momento in cui tenta invano di estrarre la freccia che l’ha colpita alle spalle.
la madre che diventa roccia Niobe è un’eroina della mitologia greca, figlia di Tantalo, che, come il padre, peccò di superbia, proclamandosi superiore alla dea Leto (o Latona), in quanto aveva avuto 12 figli (o 14, secondo un’altra tradizione) mentre Leto aveva avuto soltanto Apollo e Artemide. I figli della dea vendicarono l’offesa fatta alla loro madre uccidendo a colpi di freccia tutti i figli di Niobe, che, impietrita dal dolore, si trasformò in una roccia. Una versione piú antica faceva di Niobe, figlia del primo uomo, una specie di madre dell’umanità: la morte dei suoi figli rappresenterebbe la sorte mortale dell’uomo e la sua condizione subordinata agli dèi. Il tema della strage dei figli di Niobe (Niobidi) e del dolore della madre è uno dei piú elaborati della classicità. Perduto il dipinto di Polignoto e noto solo in fredde redazioni il fregio fidiaco del trono dello Zeus di Olimpia, ci restano numerose rappresentazioni scultoree (la cosiddetta Niobide del Museo delle Terme di Roma e le due statue della Ny Carlsberg Glyptotek, originali del primo classicismo provenienti dagli Orti Sallustiani; le statue ellenistiche degli Uffizi; rilievi di stile fidiaco dell’Ermitage, sarcofagi romani), vascolari (cratere di Orvieto del Pittore dei Niobidi, Parigi, Louvre) e pittoriche (affresco di Pompei, colombario di villa Pamphili). Un gruppo statuario dei Niobidi, che Plinio riteneva fosse opera di Prassitele o di Scopa, era nel tempio di Apollo Sosiano eretto a Roma, nel Campo Marzio, nel 32 a.C. (red.)
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È una forma di tutela anche per il privato. Non si tratta di una vessazione, e non siamo dunque noi quelli che ostacolano, quelli che “bloccano”».
A sinistra: Ciampino (Roma), villa di Messalla. La statua raffigurante una Niobide che corre nel tentativo di scampare alla strage. Nella pagina accanto: una delle statue meglio conservate tra quelle recuperate nella piscina decorativa della villa di Messalla: si tratta della Niobide del tipo detto «Chiaramonti» (dal nome dell’esemplare conservato presso i Musei Vaticani). Sul basamento, è stata individuata una didascalia, fatto di eccezionale importanza, che permette di identificare il personaggio con Ogigia.
◆ Nell’area della villa di Messalla come si presentava il paesaggio in antico? E come ci si arrivava da Roma? «Era una zona – spiega Betori – ben servita dalle grandi arterie di comunicazione antiche, a breve distanza dal percorso dell’Appia – all’altezza dell’ottavo miglio – e della via Latina, che erano collegate dalla via Cavona, un’antica via di transumanza che, dal territorio di Gabii, portava alla zona costiera, divenendo poi, all’altezza dell’incrocio con l’Appia, la via Anziatina, cioè che portava ad Anzio. Una strada che, come sappiamo da un’elegia di Tibullo, fu pavimentata da Valerio Messalla». ◆S i ha notizia della presenza di altre ville nella zona? «Subito accanto – aggiunge ancora Betori – si trova la villa detta “di Voconio Pollione”, dal nome di colui che la possedette nel II secolo d.C., scavata alla fine dell’OttocenIn basso: testa di una statua di Niobide giacente.
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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to, e che restituí una serie di statue molto pregevoli. A poche centinaia di metri si trovano altre ville molto importanti, che abbiamo scavato parzialmente e che saranno oggetto di prossime comunicazioni». ◆Q uali procedure avete adottato per lo scavo? «Come dicevamo – spiega Calandra –, la legge che regola l’archeologia preventiva impone che, prima ancora di aggredire il terreno, si faccia uno studio sulla documentazione d’archivio e sulla bibliografia. Già conoscevamo da pubblicazioni ottocentesche varie testimonianze epigrafiche con il nome di Messalla su fistule di piombo, cioè tubature dell’acqua, provenienti da
«È stata una felice intuizione della collega che ha materialmente recuperato le statue, Aurelia Lupi». ◆S e la prima statua trovata era Psiche, cioè una delle sette figlie di Niobe, avrete subito immaginato che potessero essercene altre, a questa abitualmente associate... «A dire il vero – risponde Calandra –, associate piú idealmente che nei fatti. È sempre successo che di queste statue se ne trovassero una o due, ma non cosí tante come nel nostro caso». ◆ Anche le altre figure sono state identificate, hanno tutte un nome? «Una delle grandi novità di questo ritrovamento – spiega Betori – consiste nel fatto che una delle statue meglio conservate, la cosiddetta “Chiaramonti” (perché l’esemplare piú bello si trova ai Musei Vaticani, nel Museo Nuovo, costruito da Pio VII Chiaramonti), conserva la didascalia sul basamento, con il nome Ogigia, che, secondo la tradizione letteraria, è uno dei nomi delle figlie di Niobe. In futuro queste statue si dovranno chiamare non piú Chiaramonti, bensí Ogigia». «Quando ho visto queste statue – aggiunge Calandra – ho subito pensato che sarebbero entrate nei manuali, non solo perché le abbiamo trovate tutte insieme, ma anche perché la didascalia epigrafica è rarissima nella statuaria antica, particolarmente in quella romana. D’ora in poi, anche agli esami, non sarà piú la “fuggente Chiaramonti” (la figura è rappresentata nell’atto di fuggire), ma “Ogigia fuggente”».
«Quella che pensavamo fosse una cisterna – è ancora Betori a rispondere – era in effetti una piscina decorativa, legata al quartiere termale: un luogo di massima ostentazione della cultura e della ricchezza. Probabilmente per un evento calamitoso, forse un terremoto, le statue sono crollate, in parte dentro e in parte fuori della piscina. Quelle cadute all’esterno sono andate perdute, o distrutte dai lavori agricoli, o forse trovate e trafugate. Quelle rovinate all’interno si sono salvate. Il gruppo ◆ Oltre a Psiche e Ogigia, avete identificato anche le altre doveva contarne 15 o 16. La prima a statue? emergere è stata una statua femminile ammantata, la cosiddetta Psiche». «In Omero – spiega Betori – i figli di Niobe sono 12, in altre fonti 14, ◆ Contavate di trovare la villa di ◆ Quindi, dottor Betori, avete e spesso è presente il cosiddetto subito identificato il soggetto, “pedagogo”. Apollo e Artemide fiMessalla ma non forse di recugurano nelle rappresentazioni vail mito di Niobe? perare cosí tante statue... quella zona. Per cui non è stata una sorpresa, ci aspettavamo che in quel luogo si trovasse la villa di Messalla. «Per quanto riguarda le modalità dello scavo – aggiunge Betori – ci trovavamo di fronte a due possibilità: o procedere a una valutazione non invasiva attraverso la geognostica oppure aggredire direttamente il terreno. In questo caso il terreno non si prestava a una indagine geognostica e quindi abbiamo cominciato aprendo alcune trincee. Nell’estate del 2012 ci siamo concentrati sul recupero delle statue affiorate da quella che ci era sembrata una cisterna, anch’essa intercettata dalle trincee».
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scolari, ma, di norma, non nella scultura. Dobbiamo immaginare che i due gemelli divini saettassero dal cielo. Dei figli di Niobe ne abbiamo soltanto alcuni. Abbiamo una testa colossale, alta piú di 40 cm, che sembrerebbe proprio quella di Niobe. I 65 cm di profondità della piscina sono stati sufficienti per proteggere le statue dalle arature. La Psiche era sul bordo della piscina. Sarebbero bastati altri 30 cm o gli scassi con il caterpillar, come si fanno attualmente per i vigneti, perché finisse in frantumi, mischiata con la terra. Una delle due figure maschili rinvenute pressoché integre è ricostruita nel gruppo degli Uffizi in atto di allungarsi in modo incongruo. Grazie alla nostra statua riusciremo a capire come quelle degli Uffizi (ce ne sono infatti due pressoché identiche) avrebbero dovuto essere integrate. Anche la Psiche, che agli Uffizi è rappresentata mentre si protegge dalla freccia che sta per colpirla, ora sappiamo che è una figura cadente, anche perché ha il foro della freccia». «Abbiamo numerose attestazioni di queste statue sparse in vari musei – Frammento di una statua di Niobide inginocchiata.
dice Calandra –, spesso provenienti da Roma, come il gruppo degli Uffizi. Originariamente c’è stato un archetipo, un modello, creato in ambito greco e la cui datazione rappresenta una questione filologica molto complessa. Quelle conservate sono copie, di varie altezze cronologiche, in ambito romano». «Tornando all’identificazione – aggiunge Betori –, abbiamo, oltre a Psiche e Ogigia, due Niobidi fanciulle che figurano una nel gruppo di Firenze, l’altra in un gruppo dei Musei Vaticani. Di esse una conserva la testa, ma è priva delle braccia, molto sciupata a causa della terra acida, l’altra risulta meglio conservata, ma acefala. Poi ci sono, come dicevamo, due statue di Niobidi maschi, di dimensioni pressoché naturali. Uno figura sicuramente anche nel gruppo degli Uffizi anche se, come abbiamo detto, è da verificarne la ricostruzione, mentre l’altro potrebbe rappresentare una relativa novità, sebbene sia prossimo a un’altra statua del gruppo fiorentino. È acefalo, ma una testa, probabilmente maschile, gli si potrebbe adattare, ottenendo cosí una statua pressoché integra. C’è poi un grosso frammento di un gruppo di due figure maschili, un fanciullo colpito e moren-
te, sostenuto probabilmente da un fratello. Infine abbiamo la testa di una Niobide giacente, che agli Uffizi invece è testimoniata nella variante maschile, e la probabile testa di Niobe. Dunque le figure sono sicuramente dieci. Abbiamo poi una testa che forse è di Psiche, ma non è ancora certo. Se non fosse di Psiche apparterrebbe a una undicesima figura. Infine abbiamo raccolto piú di 10 cassette piene di frammenti di arti e di panneggi, fra i quali il piedino di un bimbo piccolissimo, che avvicineranno probabilmente a 15 il numero dei personaggi raffigurati». ◆P arti di questo gruppo potrebbero già essere state recuperate in passato e trovarsi in qualche museo? «Abbiamo notizia da un colono, un signore di 80 anni – dice Betori –, che abita nella zona, di una testa ritirata dai nostri colleghi delle Belle Arti negli anni Sessanta, probabilmente depositata nel Museo Nazionale Romano». ◆ Dottoressa Calandra, a questo punto contate su ulteriori ritrovamenti nel sito? «No, ormai non c’è piú nulla, tutto è stato recuperato». ◆ Ed è prevedibile che in futuro la villa possa essere aperta al pubblico? «Il sito – spiega la soprintendente – non conserva resti tali da attirare i visitatori. Anche le arature hanno fatto la loro parte nel distruggere i muri. Insomma non è un complesso paragonabile, per esempio, a Villa Adriana. Piuttosto la valorizzazione sarà connessa con le vicende di tutta l’area, quindi con i provvedimenti che verranno presi e i pareri che verranno dati dalle autorità del MiBAC. Siamo ancora agli inizi». ◆ Si sente spesso ripetere che i
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In alto: Ciampino (Roma), villa di Messalla. La piscina al cui interno sono state rinvenute le statue del gruppo dei Niobidi al termine dello scavo.
beni culturali sono la nostra maggiore risorsa e che potrebbero produrre benessere e lavoro, se solo si mettessero a frutto. Ma poi il flusso dei turisti si orienta sempre verso gli stessi limitati obiettivi, trascurando la gran parte del territorio. Come si fa a valorizzare
questa enorme ricchezza? «Le grandi linee strategiche – spiega Calandra – vengono date dalla Direzione Generale per laValorizzazione. A noi, come Soprintendenza, spetta il compito di accrescere la sensibilità verso il territorio con tutte le modalità possibili. Noi abbiamo un forte attrattore, che è Villa Adriana, ma
anche numerose realtà museali importanti in tutto il territorio, come Minturno, Cassino, Palestrina, per citarne solo alcune. Fermo restando che i nostri sono tutti musei nazionali, cerchiamo di fare rete con tutte le presenze sul territorio, di operare di concerto con le istituzioni locali, gli studiosi locali, con i musei civici. Per gli studiosi, ogni anno, si tiene un convegno dedicato al Lazio e alla Sabina, nel quale vengono anche presentati gli atti del convegno tenuto l’anno precedente. Cerchiamo di creare una maggiore sensibilità attraverso la comunicazione, che non è soltanto il boom inopinato dei Niobidi, ma anche e soprattutto un lavoro capillare sistematico e costante, di cui un esempio è il nostro sito web (www.archeolz.beniculturali.it), una costola del quale è il sito di villa Adriana (www.villaadriana.beniculturali.it). Per il grande pubblico questo è lo strumento piú potente».
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i giganti di
di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale
baalbek
Piú grande degli stessi templi di Roma e costruito con immensa perizia tecnica e artistica, il santuario dedicato a Giove Eliopolitano sembra quasi progettato per durare in eterno. E ancora oggi le sue maestose rovine, tra le meglio conservate di tutta l’età imperiale, suscitano stupore e ammirazione…
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essun altro tipo di rovina evoca ai nostri occhi la grande parabola di gloria e decadenza delle civiltà del mondo classico quanto le colonne dei templi greci e romani. Pressoché integre e «in compagnia» come quelle del Partenone, dei grandi santuari di Paestum e della Sicilia, solitarie e sopravvissute a metafora del proprio passato come i resti del tempio di Poseidone a Capo Sunion, l’ormai singola testimonianza di quello di Hera Lacinia protesa sul Golfo di Taranto, le colonne dei monumenti repubblicani e imperiali del Foro Romano. Nessun’altra rovina della classicità, però, eguaglia in potenza evocativa le colonne superstiti del grande Tempio di Giove Eliopolitano a Baalbek: sei giganti che, ancora oggi, si stagliano magnifici su uno sfondo dominato dalle alture dei monti del Libano. Tra i numerosi siti archeologici sparsi nella valle della Beqaa, il fertile altipiano racchiuso tra le catene del Libano e dell’Antilibano, quello di Baalbek-Heliopolis è certamente il piú famoso. Una descrizione tuttora valida del complesso monumentale (miracolosamente sopravvissuto ai millenni e, in ultimo, alla guerra civile che per oltre quindici anni, dal 1975 in poi, ha segnato le sorti del paese vicino-orientale) è offerta da Robert Wood, il viaggiatore inglese che insieme al suo compagno d’avventura James Dawkins, nel 1751 aveva visitato la regione: «Se confrontiamo le rovine di Baalbek con quelle di molte altre città antiche che abbiamo visitato in Italia, Grecia, Egitto e in altre parti dell’Asia, non possiamo (segue a p. 43)
Baalbek, tempio di Giove. Le sei colonne lungo il peristilio sud-occidentale: alte oltre 20 m, sono le uniche ancora in piedi delle 54 che, in origine, delimitavano la cella. Le foto in bianco e nero riprodotte in questo articolo (con l’eccezione dell’immagine a p. 42 in alto) sono state scattate nei primi anni del Novecento da fotografi della Colonia Americana di Gerusalemme. Sono pubblicate per la prima volta e in esclusiva per i nostri lettori.
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baalbek • i luoghi della leggenda
Particolare della ricca decorazione architettonica del tempio di Giove. La trabeazione sorretta dalle colonne raggiunge i 5 m di altezza e comprendeva un fregio decorato con teste di tori e di leoni e con ghirlande.
il sito e il suo nome Baalbek, il toponimo corrente con cui oggi viene chiamato il sito e la cittadina sorta sul luogo del santuario di Giove Eliopolitano, è un cosiddetto theophorikon, è cioè composto in parte dal nome della divinità semitica Baal, l’Hadad cananeo. E anche l’originaria denominazione geografica del luogo è, verosimilmente, cananea. Similmente a quanto si è verificato in molti altri luoghi del Vicino
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Il santuario di Giove Eliopolitano Il sito di Baalbek sorge a metà della valle della Beqaa, un altipiano a circa 1000 m sopra il livello del mare, racchiuso tra le montagne del Libano e dell’Antilibano. In epoca romana, seguaci di Giove Eliopolitano e della cosiddetta «triade eliopolitana» (Giove, Venere e Mercurio) giungevano in questo luogo lontano della provincia orientale da ogni parte dell’impero romano, per tributare il culto alle divinità. In seguito, durante la dominazione araba, il luogo venne trasformato in una cittadella fortificata capace di resistere ai piú feroci attacchi nemici. 2900-2300 a.C. Frammenti di ceramica dipinta e strumenti e schegge in ossidiana (età del Bronzo Antico) e selce sono i primi segni di occupazione umana del sito. 1900-1600 a.C. Resti di fondamenta di abitazioni in pietra. Sepoltura di un (età del Bronzo Medio) personaggio databile al periodo della dinastia egizia degli Hyksos (1730-1580 a.C.). Il luogo ospita un antico santuario dedicato alla divinità Baal-Hadad. 301 a.C. La Siria diventa dominio dei Tolomei. Baalbek assume il nome di Heliopolis, la «città del sole». II secolo a.C. L’antico santuario di Baal viene trasformato nell’area sacra del dio Helios. 15 a.C. Augusto fonda la Colonia Iulia Augusta Felix Berytus (l’odierna Beirut). A Baalbek-Heliopolis iniziano i primi lavori di ampliamento del santuario. Fine del I secolo d.C. Il tempio di Giove Eliopolitano è già in funzione, ma continuano i lavori di decorazione. Fine del II secolo d.C. Sotto l’imperatore Antonino Pio inizia la costruzione del cosiddetto «tempio di Bacco». Inizi del III secolo d.C. Sono completati i Propilei, il monumentale ingresso al santuario. Metà del III secolo d.C. Filippo l’Arabo costruisce la corte esagonale. Viene eretto il cosiddetto «tempio di Venere». IV-V secolo d.C. Sul piazzale antistante il tempio di Giove Eliopolitano sorge una grande basilica cristiana, i cui resti saranno rimossi definitivamente nel 1935.
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Oriente, anche nel caso di Baalbek, una volta cessato il dominio greco e romano, si è nuovamente imposto il suo originario e antichissimo nome. Ciò non toglie che, durante il quasi millenario dominio ellenistico e romano nel Vicino Oriente (IV secolo a.C.-VII secolo d.C.), il sito era conosciuto sotto il nome di Heliopolis, «la città del sole».
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baalbek • i luoghi della leggenda
Dalla riscoperta ai primi scavi Nel 1860 il Libano divenne teatro di feroci lotte tra Drusi e Cristiani Maroniti, determinando l’intervento della Francia di Napoleone III a protezione di questi ultimi. Insieme all’esercito si recò in Libano una spedizione scientifica, guidata da Ernest Renan, allo scopo di censire i siti archeologici del Paese. Come conseguenza, gli studiosi di tutto il mondo incominciarono a interessarsi alla storia antica del Paese dei Cedri. La rinascita archeologica di Baalbek, però, non sarebbe dipesa dalla Francia, quanto da un’altra nazione europea che, allo scorcio del XIX secolo, si affacciava sulla scena geopolitica del Vicino Oriente dominata da un agonizzante impero ottomano e cioè la Germania dell’imperatore Guglielmo II. Nell’autunno del 1898 il kaiser intraprese un memorabile viaggio nei paesi del Vicino Oriente, approdando al porto di Haifa e, sabato 29 ottobre, fece la sua spettacolare entrata a cavallo nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il viaggio proseguí verso Beirut e Damasco. Il 10 novembre 1898 l’imperatore e la sua vasta delegazione giunsero a Baalbek. In seguito, il Sultano autorizzò la Germania a inviare i suoi archeologi per «gettare luce sull’oscura storia di questa venerata città». Con grande disappunto dei circoli scientifici francesi (fino a quel momento, la Francia deteneva il monopolio degli scavi archeologici in Siria e in Libano), dalla Germania partí immediatamente un’équipe composta dai migliori tecnici, guidati da un famoso archeologo, il professor Otto Puchstein. I lavori iniziarono subito, partendo dai resti del grande tempio di Giove per passare, poi, a quelli del tempio Minore, quello detto «di Bacco». Venne eseguito un minuzioso lavoro di raccolta e di classificazione degli innumerevoli blocchi di pietra sparsi nell’area intorno ai due monumenti. Il tempio Minore venne liberato dalla massa di detriti che ne ostruivano l’accesso. Vennero approntate le piante degli edifici insieme a un elenco accurato delle originali strutture romane nonché delle aggiunte di età musulmana.
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Dopo la morte di Puchstein, avvenuta nel 1911, i lavori a Baalbek furono proseguiti da altri archeologi tedeschi, fino al 1917. Dopo la prima guerra mondiale, con la sconfitta della Germania e della Turchia, il Libano e la Siria divennero mandato francese e le rovine di Baalbek furono nuovamente terreno di studio da parte di eminenti archeologi francesi. Studiosi di fama – tra cui René Dussaud e Daniel Schlumberger – si succedettero alla guida dei lavori di scavo e di restauro dei monumenti. In seguito e fino alla seconda metà del XX secolo, le antichità di Baalbek furono restaurate e mantenute dalla Direzione Generale delle Antichità del Libano. In quest’ultimo secolo, le imponenti rovine sono sopravvissute anche alla guerra civile che per oltre quindici anni, dal 1975 in poi, ha segnato le sorti del Paese vicino-orientale. Oggi, le indagini archeologiche di Baalbek sono svolte dall’Istituto Archeologico Germanico, che ha esteso le sue esplorazioni anche all’area e alle campagne che circondano il complesso monumentale.
fare a meno di pensare che quelle di Baalbek siano i resti del piú ardito progetto architettonico che abbiamo mai visto». In effetti, la decisione di costruire a Baalbek il piú grande complesso templare del mondo romano, fu certamente l’inizio di un’impresa quasi sovrumana: blocchi di pietra dal peso di centinaia di tonnellate (alcuni addirittura di 1000 t l’uno) vennero trasportati dalla vicina cava per costruire la vasta acropoli su cui sarebbero poi stati eretti i magnifici templi, in maniera tale che essi potessero essere visti già da molto lontano. Un progetto coronato da un successo «millenario», se si pensa che ancora oggi, provenendo da sud (per chi
In alto: veduta aerea degli edifici compresi nel santuario di Giove Eliopolitano. Nella pagina accanto: l’archeologo Otto Puchstein (al centro) con i suoi collaboratori nel tempio di Bacco.
Sulle due pagine: il monolite noto come hagar al-hubla («pietra della gestante»): si tratta di un blocco di proporzioni colossali, del peso di oltre 800 t, che ancora giace nella cava da cui era stato tratto.
baalbek • i luoghi della leggenda
parte da Beirut o da Damasco), le sei gigantesche colonne in calcare superstiti del grande Tempio di Giove Eliopolitano s’impongono alla vista del viaggiatore già a molti chilometri di distanza. Eppure, anche se di una grandiosità che veramente conosce pochi confronti, i sei giganti di pietra (le colonne sono alte 20 m) rappresentano solo un ricordo, un accenno, di quello che doveva essere stato l’edificio nella sua interezza. Secondo il destino comune a tutti i monumenti dell’antichità, nel corso dei secoli anche i giganti di Baalbek dovettero cedere alle distruzioni causate dai terremoti e al saccheggio da parte dell’uomo.
Dai primi visitatori agli scavi archeologici Le rovine di Baalbek non vennero comunque mai dimenticate del tutto. Certo, si perse il ricordo di chi le aveva, un tempo, costruite e, per lunghi secoli, la storia del piú grandioso complesso templare del mondo romano rimase circondata dal mistero. Secondo una diffusa opinione popolare, l’origine dei monumenti era dovuta addirittura all’opera di giganti o di personaggi leggendari. Il geografo arabo della prima metà del XIV secolo, al’Umari, sosteneva, per esempio, che Baalbek fosse stata eretta nientemeno che dal biblico re Salomone, un’attribuzione prontamente ripresa dagli Europei che, nel XVI secolo, avevano riscoperto e iniziato a visitare il sito. Era già scoccato l’anno 1583, quando un nobile tedesco, il principe Nicola Radzivil, si chiedeva se le imponenti rovine fossero quelle del palazzo di Salomone di cui parlava la Bibbia nel I Libro dei Re (7, 2-7). Il primo tentativo di stilare un resoconto dettagliato (segue a p. 48) Le rovine di Baalbek in un acquerello di David Roberts, realizzato per l’opera The Holy Land, Syria, Idumea, Arabia, Egypt and Nubia, pubblicata a Londra tra il 1842 e il 1849.
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i monumenti La visita al complesso di Baalbek avviene, oggi come nell’antichità, da est, attraverso i Propilei costruiti sotto l’imperatore Caracalla e composti da 12 colonne, in origine terminanti con capitelli in bronzo dorato. Da qui si entra in una corte esagonale (costruita sotto Filippo l’Arabo nella prima metà del III secolo d.C.), che si apre sul piazzale rettangolare (110 x 135 m) chiuso sui tre lati da un portico colonnato articolato a esedre. Sul lato aperto verso ovest, un’ampia scalinata, larga piú di 40 m, conduce al podio del tempio vero e proprio, la cui fronte, costituita da 10 colonne che reggevano il timpano, raggiungeva i 40 m dal piano della corte. Il tempio di Giove è il piú grandioso edificio di Baalbek. Conserva 6 delle 19 colonne corinzie che ne ornavano il peristilio sud-occidentale. In origine, senza contare le scalinate e le terrazze che lo circondavano, il tempio misurava circa 90 m in lunghezza e 50 in larghezza, e 54 colonne ne segnavano il perimetro. Per i muri esterni della sua enorme piattaforma, i Romani impiegarono blocchi monolitici, ognuno del peso di circa 400 t. Sopra sei di essi, posti lungo il muro occidentale del podio, sono stesi due dei tre giganteschi monoliti, dal peso di oltre 1000 t l’uno, i famosi trilithon, un termine coniato in età bizantina e, da allora, divenuto sinonimo dell’edificio. Il terzo trilithon (detto «pietra della gestante») giace ancora oggi nella grande cava di Baalbek (vedi alle pp. 42/43). Scendendo le scale sul lato meridionale del santuario di Giove si trova il tempio Minore, chiamato anche «di Bacco», il piú intatto e meglio conservato di tutti i templi romani. Ai primi del Novecento venne attribuito al dio per le rappresentazioni di vigneti, nonché di una processione dionisiaca posta all’ingresso. In seguito, fu assegnato a Venere o, ancora, a Bacco-Mercurio. Rispetto al tempio di Giove, l’edificio è di dimensioni decisamente inferiori eppure è notevolmente piú
Tempio di Giove Eliopolitano
Eretto durante il I sec. d.C. sul luogo di un antico santuario semitico. Le sue dimensioni erano enormi (90 x 50 m) e il suo perimetro era segnato da 54 colonne di 20 m d’altezza.
Propilei Entrata monumentale al Santuario di Giove Eliopolitano, completata all’inizio del III sec. d.C.
torre quadrata
gr re and tt e an pi go azz la al re e
piccola torre
Costruito verso la fine del II sec. d.C., l’edificio, anch’esso di dimensioni gigantesche, presenta – sulle pareti, sul soffitto della cella e del peristilio – una straordinaria decorazione scolpita.
grande, per esempio, del Partenone. La cella misura 35 m in lunghezza per 19 di larghezza; la monumentale porta d’accesso è larga 6,5 m e alta quasi 13. Il tempio è costruito sopra un basamento alto 5 m e vi si accede per una scalinata di 33 gradini. In origine il peristilio era composto da 46 colonne, 15 su ogni lato lungo e 6 su quelli corti. L’aspetto piú rilevante dell’edificio è la sovrabbondante, fastosa decorazione a rilievo delle pareti e del soffitto della cella e del peristilio, una decorazione che, in origine, doveva caratterizzare l’intero complesso eliopolitano. Il terzo tempio di Baalbek, situato un centinaio di metri a est dei santuari principali, detto «di Venere», è un grazioso edificio circolare dedicato alla dea Fortuna di Heliopolis. Il nome gli venne dato dai primi viaggiatori occidentali perché alcune nicchie esterne dell’edificio erano decorate con motivi a conchiglia e a colombe, elementi generalmente associati con il culto, appunto, di Venere. All’avvento dell’Islam, il tempio di
sc
Tempio minore, detto «di Bacco»
al
a
d’ ac
ce
ss
o
cortile esagonale
Tempietto detto «di Venere»
Innalzata nel III sec. d.C., la graziosa costruzione sorge al di fuori del recinto del santuario.
Giove e quello «di Bacco» vennero racchiusi da potenti fortificazioni, mentre il piccolo santuario circolare, posto ormai al di fuori dell’originario perimetro sacro, fu assorbito nell’impianto urbanistico medievale. Il tempietto, cosí come lo si può ammirare oggi, è stato interamente riesumato dagli scavi tedeschi che lo hanno liberato dalle case che, nei secoli, gli erano state costruite addosso. a r c h e o 45
baalbek • i luoghi della leggenda
quel che resta di baalbek Il disegno illustra la situazione attuale, con le parti tuttora conservate degli edifici compresi nel santuario della città.
tempio di bacco . porta d ’ entrata
In alto e in basso: tre immagini del tempio di Bacco, il piú piccolo, ma meglio conservato tra i luoghi di culto sorti a Baalbek. II-III sec. d.C.
tempio di giove eliopolitano
tempio di bacco
tempio di bacco . colonnato sud
tempio di bacco . cella
piazzale rettangolare
In alto: il grande piazzale rettangolare e, sullo sfondo, i templi di Bacco e di Giove.
torre quadrata
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cortile esagonale
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piccola torre
cortile esagonale
A sinistra: la corte esagonale. Costruita al tempo di Filippo l’Arabo, nella prima metà del III sec. d.C., è la struttura piú recente del santuario.
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baalbek • i luoghi della leggenda
dei resti monumentali venne però intrapreso dai già citati Robert Wood e James Dawkins, i quali giunsero a Baalbek nel 1751 muniti di un firmano del sultano e di una lettera di raccomandazione del pascià di Tripoli. I due iniziarono il loro lavoro prendendo misure e facendo disegni dei grandi monumenti. A quell’epoca erano ancora in piedi ben nove colonne del Tempio di Giove Eliopolitano. Quando, meno di quarant’anni dopo, arrivò a Baalbek lo storico e filosofo illuminista Constantin-François de Chasseboeuf conte di Volney (autore, tra altre opere, del Voyage en Egypte et en Syrie pendant les années 1783, 1784 et 1785), le colonne erano ridotte a sei. Le altre, molto probabilmente, erano cadute in seguito al violentissimo terremoto abbattutosi sulla regione nel 1759. Anche il piú piccolo dei due templi, quello cosiddetto «di Bacco», era stato fortemente danneggiato dal sisma; delle ventinove colonne ancora in piedi descritte da Wood e Dawkins, il Volney ne contò solo venti. Inoltre, la pietra che, come un grande perno, fa da chiave di volta nell’architrave dell’ingresso al tempio,
«Ancora qualche scossa di terremoto e un paio di inverni particolarmente rigidi e anche le sei regali colonne giaceranno prostrate nella polvere. Beati allora quei viaggiatori cui sarà concesso di vedere Baalbek, anche nella sua attuale gloria in decadenza, prima che le implacabili forze della natura e la non meno implacabile mano dell’uomo ne avranno completata l’opera di distruzione» (Samuel Jessup, un missionario americano residente a Baalbek, 1881)
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si era staccata ed era pericolosamente sospesa (oggi la grande pietra scolpita è stata nuovamente inserita al suo posto, al centro dell’architrave). Sempre secondo il Volney, non erano però soltanto gli eventi naturali a distruggere Baalbek, ma anche l’avidità degli uomini, che avevano spogliato i monumenti delle grappe di metallo prezioso che per secoli avevano unito i blocchi di pietra. Sprovvisti di questi fondamentali elementi costruttivi, gli edifici divennero sensibili anche alla piú piccola scossa tellurica, capace di causare il distaccamento dei grandi blocchi scolpiti. Nel corso del XIX secolo furono numerosi i visitatori che si recarono a Baalbek, attratti dalla fama dei grandiosi monumenti che, ormai, si era diffusa negli ambienti colti del mondo occidentale. Tra i nomi piú illustri figurano quelli di Léon de Laborde, William Henry Bartlett e David Roberts. Quest’ultimo, artista famoso per i suoi disegni dei monumenti archeologici del Vicino Oriente, descrisse con le seguenti parole il monumentale ingresso al tempio di Bacco: «Si tratta forse del piú elaborato manufatto – e il piú squisita-
La Triade Eliopolitana «È molto verosimile che a Baalbek non fu venerata una sola divintà, ma una triade divina. In linea con la tradizione cultuale del Vicino Oriente – che venera una divinità maschile (personificazione delle forze naturali), la sua consorte (una dea della fertilità) e un giovane dio – la presenza di questa triade è confermata anche, a Baalbek, da iscrizioni rinvenute su tre basi di colonne dei Propilei: si tratta di iscrizioni dedicatorie a Giove, Venere e Mercurio. Il culto della triade di Eliopoli si diffuse, a partire dal II secolo d.C., oltre i confini della Fenicia e della Siria e in tutto l’impero romano, specialmente dove erano di stanza guarnigioni siriane o negli empori raggiunti e frequentati dai mercanti di Beirut» (da Nina Jidejian, Baalbek Heliopolis. City of the Sun, Beirut 1975).
Bronzetto raffigurante Giove Eliopolitano, da Baalbek. Produzione fenicia, I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
In basso, sulle due pagine: veduta della città con, in primo piano, sulla sinistra, il tempio detto «di Venere»: un edificio circolare dedicato alla dea Fortuna di Heliopolis. III sec. d.C.
mente curato nei suoi dettagli – di questo genere in tutto il mondo. La matita può restituire solo una vaga impressione della sua bellezza».
La storia La storia di Baalbek (Heliopolis) inizia negli anni successivi alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) quando la regione dell’alta Beqaa divenne parte dei territori della dinastia tolemaica. Un sovrano locale, il cui nome è rimasto sconosciuto, costruí nel luogo dell’odierna Baalbek la sua capitale regionale, dal nome greco di Heliopolis, la «città del sole» (il toponimo semitico Baalbek non è attestato prima degli inizi del V secolo d.C., sebbene non si possa escludere una sua maggiore antichità). Nel 64 a.C. il luogo cadde sotto il controllo di Roma e nel 15 a.C. Augusto trasformò la città in una colonia di veterani, Colonia Iulia Augusta Felix Berytus, con il compito di assicurare l’ordine nella nuova provincia romana di Siria. Ed è a questo periodo che si può far risalire l’inizio dei lavori di costruzione dell’enorme complesso, che si sarebbero protratti per oltre due secoli. Le fonti antiche non ci offrono molte informazioni sulla storia di Baalbek prima dell’arrivo dei Romani, salvo la nozione che il luogo era stato il centro di un culto dedicato al dio Baal-Hadad. Scavi archeologici svoltisi a Baalbek negli anni precedenti allo scoppio della guerra civile, all’interno del grande cortile antistante il tempio di Giove Eliopolitano hanno portato in luce importanti tracce di età preromana. Fondazioni di case databili all’età del Bronzo Medio (1900-1600 a.C.) erano poste al di sopra di un livello ancora piú antico, riferibile all’età del Bronzo Antico (2900-2300 a.C.). Nel terreno a breve distanza dai resti di questi antichissimi insediamenti è stata scoperta una crepa naturale, profonda circa 50 m, sul fondo della quale si trova un piccolo altare scavato nella roccia. Si tratta di un luogo sacro di antichissima memoria che, in seguito,venne ampliato e munito di un cortile recintato: questo nuovo santuario era dedicato al culto del dio Baal-Hadad, la divinità semitica della pioggia e della tempesta. Proprio sopra a questo antichissimo luogo sacro sorse, in epoca romana, il gigantesco podio che ancora oggi sorregge i resti del grande tempio di Giove Eliopolitano. Baal-Hadad, il Signore della Tempesta Il temine fenicio «Baal», corrispettivo dell’ebraico «Adon», significa semplicemente «signore» ed è il nome con il quale era designata la divinità celeste adorata in tutta l’area del Vicino Oriente antico. Esso è menzionato anche nell’Antico Testamento in cui si fa riferimento al culto di Baal, diffusosi dalla città di Tiro anche nella terra di Israele, in seguito a matrimoni stipulati tra le casate reali dei due regni (I Libro dei Re 16,31-33; 18,19). Hadad è il dio della tempesta a r c h e o 49
baalbek • i luoghi della leggenda
delle genti semitiche. Dispensatore di piogge o, se adirato, di siccità e inondazioni, il culto tributatogli era essenzialmente un culto della fertilità della terra. I santuari a lui eretti erano ovunque. Luciano di Samosata (II secolo d.C.) descrive il sacro scrigno all’interno del tempio di Heliopolis, la città sacra a sud di Karkemish, nella Siria settentrionale, in cui erano venerati Hadad e la dea Atargatis: «Nello scrigno – scrive Luciano – sono esposte le statue, una di esse è Hera (Atargatis), l’altra Zeus, anche se viene chiamato con un nome diverso. Entrambe le statue sono d’oro, entrambe sedute. Hera è accompagnata da leoni, Zeus è assiso su tori». Come dio celeste, Hadad fu in seguito identificato con il dio-sole assumendo, nel mondo greco-romano, il ruolo di Zeus e Giove. Ad Ambrosio Teodosio Macrobio, scrittore latino del V secolo d.C., dobbiamo l’unica testimonianza piú estesa e di un qualche rilievo a proposito del dio che, secondo appunto Macrobio, era chiamato Giove Eliopolita-
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no: «La statua è d’oro – scrive – rappresenta una persona sbarbata che nella sua destra tiene una frusta, come un auriga, e nella sua sinistra un fulmine».
quando traiano interrogò l’oracolo Macrobio narra anche delle straordinarie doti divinatorie proprie del dio che risiedeva a Baalbek: in occasione di pubbliche cerimonie la statua aurea di Giove Eliopolitano veniva esposta alle masse convenute sull’acropoli. La fama dell’oracolo di Baalbek di diffuse in tutto l’impero. Quando l’imperatore Traiano attraversò la provincia della Siria nel corso della campagna militare contro i Parti, i suoi compagni lo convinsero a interrogare l’oracolo circa l’esito della campagna. Alcuni membri dell’ambiente intorno all’imperatore non si fidavano dei sacerdoti del tempio e, pertanto, misero alla prova l’oracolo: fecero inviare a Baalbek una pergamena sigillata e la richiesta che alla domanda in essa contenuta fosse ri-
perchÉ è importante
Particolare di un gocciolatoio in forma di testa di leone, inserito nella decorazione che ornava il tempio di Giove (vedi anche a p. 52), e, sulla sinistra, il tempio di Bacco.
aalbek (il cui nome in epoca romana era Eliopoli, da non confondere con B l’omonima città dell’Egitto) rappresenta uno dei piú estesi e meglio conservati complessi sacrali di tutto il mondo romano, anche se del suo principale santuario – quello dedicato a Giove Eliopolitano – rimangono solo sei colonne, alte 20 m, divenute il simbolo della cittadina nonché, insieme all’albero del cedro, di tutto il Libano. Nel 1984 il sito è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
Notevolmente ben conservato è il secondo edificio templare, denominanto «di Bacco» per via degli elementi della sua ricchissima decorazione a rilievo. Un terzo tempio, di forma circolare, è impropriamente attribuito al culto di Venere.
Il piú antico insediamento, situato all’interno dell’area oggi occupata dal grande tempio di Giove, risale al Neolitico preceramico. Qui gli scavi archeologici hanno portato in luce strumenti litici e resti organici risalenti all’VIII millennio a.C. Il sito è stato abitato, quasi ininterrottamente, fino all’età ellenistica.
il sito nel mito
L e notevoli dimensioni delle colonne e degli altri elementi impiegati per la costruzione del complesso hanno, sin dal Medioevo, alimentato la leggenda che i monumenti fossero opera di giganti.
Il nome preclassico «Baalbek» viene tradotto con «il Signore della Sorgente», forse un riferimento alla presenza di una fonte che potrebbe essere alle origini stesse del santuario.
L a notevole continuità dell’importanza cultuale del santuario è sottolineata anche dalle tre divinità – Giove, Venere e Mercurio – in esso venerate, e che rappresentano la versione «classica» del preesistente culto di una triade divina, tipico della tradizione religiosa del Vicino Oriente.
baalbek nei musei del mondo
Un museo locale, inaugurato nel 1998 e che raccoglie reperti restaurati o venuti in luce dagli scavi recenti, è allestito negli stessi criptoportici, perfettamente conservati, del tempio di Giove e all’interno di una fortificazione di età medievale situata nei pressi del santuario.
Parigi (Museo del Louvre) è conservata, insieme a numerosi altri reperti, la A celebre statua raffigurante Giove Eliopolitano (vedi a p. 49). Altri oggetti di età classica e medievale si trovano a Berlino (Antikensammlung e Museo per l’Arte Islamica) e al Museo Archeologico dell’Università Americana di Beirut.
informazioni per la visita
Dalla capitale Beirut, la città di Baalbek dista circa 85 km in direzione nord ed è raggiungibile in due/tre ore di automobile. La zona di Baalbek risente della situazione di instabilità che caratterizza questa zona del Vicino Oriente: sebbene la visita al sito archeologico e alla cittadina sia possibile senza alcun tipo di pericolo è consigliabile, tuttavia, viaggiare con una guida o con un gruppo organizzato. Info: www.viaggiare sicuri.it
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baalbek • i luoghi della leggenda
Quando la Missione Archeologica Germanica iniziò le esplorazioni a Baalbek, tra il 1898 e il 1905, Otto Puchstein, uno degli scienziati che fece parte della spedizione, sostenne che il tempio era dedicato al dio Bacco: la decorazione scultorea dell’altare, infatti, raffigurava una processione dionisiaca, e il motivo dell’uva e della vite era presente ovunque sul fregio del tempio
La testimonianza di un rabbino spagnolo Tra le piú antiche testimonianze relative al santuario di Baalbek vi è quella, preziosissima, lasciataci dal rabbino Beniamino di Tudela (1130 circa-1175 circa), il quale, dalla Spagna, si recò nel Vicino Oriente e vi soggiornò negli anni tra il 1160 e il 1173. Scrive il viaggiatore spagnolo: «Il palazzo [che gli abitanti dell’epoca sostenevano essere i resti della città di Balaath, costruita da Salomone per sua moglie, la figlia del faraone] è costruito con
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pietre di enormi dimensioni, che misurano venti spanne in lunghezza e dodici in larghezza; nessun materiale collante lega insieme queste pietre». Quello che stupí Beniamino di Tudela sorprende anche il visitatore di oggi: i grandi blocchi di pietra con i quali sono eretti i monumenti del santuario non sono legati da alcun tipo di malta o altro collante, ma semplicemente sovrapposti l’uno sull’altro e stretti da grappe di ferro o bronzo.
Qui sopra: il gocciolatoio in forma di testa di leone (vedi a p. 50) facente parte dell’apparato ornamentale del tempio di Giove. In alto: testa di Satiro a rilievo facente parte di una trabeazione, dalla Grande Corte. II sec. d.C.
In alto: tempio di Bacco: il soffitto cassettonato del peristilio, e, in basso, un particolare della sua decorazione, con l’immagine di Igea, personificazione greca della salute, considerata come una figlia di Asclepio.
sposto. Nello stupore generale, l’oracolo rispose ordinando che gli venisse portata una pergamena vuota e che questa venisse sigillata e rinviata all’imperatore.Traiano ne rimase molto impressionato, dal momento che anche lui, come prova, aveva inviato all’oracolo una pergamena sigillata ma…senza contenuto. Traiano inviò subito un secondo messaggio all’oracolo, chiedendo questa volta se egli sarebbe tornato vivo a Roma dopo la campagna contro i Parti. L’oracolo rispose inviando all’imperatore il bastone di un centurione, una delle offerte dedicatorie del tempio, rotto in piú pezzi e avvolto in un panno. Il sinistro presagio impressionò tutti e a buona ragione: per quanto Traiano riuscí a conquistare rapidamente l’Armenia e la Mesopotamia settentrionale, raggiungendo cosí il Golfo Persico, nel 116 d.C. i Parti sferrarono un micidiale contrattacco. Poco dopo l’imperatore si ammalò gravemente, abbandonò la campagna e tornò verso casa. Morí lungo il percorso a Selinus, in Cilicia, l’8 agosto del 117. Le sue ossa, come aveva vaticinato l’oracolo di Baalbek, furono portate a Roma. Proprio sopra a questo luogo sacro i Romani costruirono il gigantesco podio che ancora oggi sorregge i resti del grande tempio di Giove Eliopolitano. nel prossimo numero
siria i misteri di tell halaf a r c h e o 53
civiltà cinese • le origini/2
L’età della
giada Simbolo di regalità e lavorato con grande perizia, il prezioso materiale diventa il simbolo stesso delle civiltà del neolitico nel territorio cinese
di Marco Meccarelli
D
elicata e untuosa al tatto, ma dura quasi come il quarzo, la giada è annoverata tra i simboli sacri della Cina antica. Usata, almeno dal Neolitico Tardo (30002000 a.C.), soprattutto come oggetto rituale ed emblema di regalità, è profondamente connessa con le rappresentazioni derivate dal piú arcaico contesto mitologico cinese. Varia è la gamma di colorazioni, dal bianco opalescente al verde, anche se può presentare altre tonalità cromaFigurina di dragone in giada (il «drago-maiale»), rinvenuta nel 1984 nlla tomba 4 del tumulo 1 a Niuheliang (Jianping, provincia di Liaoning). Cultura Hongshan, 4700-2900 a.C. Shenyang, Liaoning Provincial Institute of Archaeology.
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tiche, in base alle percentuali di ferro, cromo o manganese di cui è composta. Col tempo le sono state attribuite qualità taumaturgiche e magicosacrali sempre maggiori, tanto da diventare a talismano prediletto del popolo cinese che l’ha poeticamente definita «morbida come la rugiada del mattino, calda e liscia come la carnagione di un bambino, fine e compatta come una stoffa di seta».
una pietra difficile A dire il vero, il termine «giada» indica due tipi di minerali non propriamente riferibili alla Cina antica: la nefrite (in cinese yu), silicato di calcio e magnesio, è stata importata soprattutto dal Turkestan Orientale (attuale Xinjiang), mentre la giadeite (feicui), silicato di sodio e alluminio, dalla Birmania e solamente dalla seconda metà del XVIII secolo. Perciò, quando si
A sinistra: anello in giada. Dinastia Shang, XVI-XI sec. a.C. Taiwan, National Palace Museum. In basso: figurina in giada di una tartaruga. Cultura Hongshan, 4700-2900 a.C. Taiwan, National Palace Museum.
Nella pagina accanto, in alto: pendente in giada in forma di dragone, proveniente da un sito della cultura Hongshan, nella Mongolia interna. 3000 a.C. circa. Taiwan, National Palace Museum.
parla di giada nell’antica Cina, si fa riferimento alla nefrite, chiamata col termine onorifico di «vera giada» (zhenyu) per le sue spiccate virtú e la straordinaria compattezza che la rendeva una delle pietre piú difficili da lavorare. Ancora piú stupefacente è l’abilità degli artigiani del Neolitico, veri e propri specialisti, la cui capacità sconfina spesso nel virtuosismo, nel forgiare oggetti dalle molteplici forme, utilizzando sabbie abrasive (come la quarzite) o pietre piú dure. I tempi di lavorazione erano lunghi e richiedevano l’impiego di abbondante manodopera, dalle funzioni specifiche e diversificate (ma non sempre è possibile individuare con precisione strumenti e tecniche di lavorazione utilizzati). L’intensificarsi delle scoperte archeologiche, soprattutto nelle regioni (segue a p. 58) a r c h e o 55
civiltà cinese • le origini/1
le culture neolitiche Il Neolitico cinese (età della Pietra Recente, 8000-2000 a.C. circa) viene tradizionalmente suddiviso in due macrogruppi di siti archeologici: uno a nord, specializzato nella coltivazione del miglio, che si stanzia lungo la valle del Fiume Giallo (Huanghe) e uno a sud del Fiume Azzurro (Yangzijiang), specializzato nella coltivazione del riso. È tuttora difficile stabilire le tipologie regionali e determinare l’estensione temporale e la distribuzione spaziale delle diverse culture. La teoria su un’origine mononucleare della civiltà in Cina (nella valle del Fiume Giallo) è stata ormai abbandonata, in favore di un’ipotesi basata sulla confluenza di tradizioni culturali sviluppatesi secondo traiettorie comparabili, ma in condizioni ambientali, sociali ed economiche differenti. Il periodo neolitico viene suddiviso, dalla maggior parte degli studiosi, in tre fasi: il Neolitico Antico (8000-5000 a.C.), il Neolitico Medio (5000-3000 a.C.) e il Neolitico Tardo (3000-2000 a.C.). Qui accanto: cartina nella quale sono indicate le principali culture neolitiche cinesi citate nel testo. In arancione, le aree la cui sussistenza si basava sul miglio; in verde, invece, quelle in cui l’elemento base della dieta alimentare era il riso. La linea tratteggiata indica invece l’area in cui è attestata la diffusione della cultura Longshan.
1
Hongshan Xinglongwa
Xinle
Zhaobaogou
Majiayao
4 Qijia
Cishan
Laoguantai Yangshao
Anyang Peiligang
Dadiwan
Beixin Dawenkou
2 Baodun
3
Houli
Majiabang
Daxi Qujialing Pengtoushan
Liangzhu 6 Hemudu
5
1 Baiyangeun 1. Nella Cina nord-orientale (province di Liaoning, Mongolia Interna e Hebei), nell’ultima fase del Neolitico Antico e durante il Neolitico Medio si sviluppano le culture Xinglongwa, Zhaobaogou e Hongshan, nelle quali la qualità della produzione di oggetti in giada raggiunge livelli artistici sempre piú alti.
A destra: restauro di una scultura in terracotta trovata nel sito di Aohanqi (Mongolia Interna). Cultura Hongshan, 4700-2900 a.C.
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Fuguodun Dabenkeng Shixia
2 2. Nella Pianura Centrale, lungo la media valle del Fiume Giallo si insediano, nell’ultima fase del Neolitico Antico, le culture Cishan (Hebei), Peiligang (Henan) e Laoguantai (Shaanxi). Particolarmente interessante e dibattuta è la collocazione di Jiahu (Henan meridionale), risalente al 7000-5800 a.C., che apparterrebbe, per alcune fasi di vita del sito, alla cultura Peiligang. Nel Neolitico Medio fiorisce la cultura Yangshao (5000-3000 a.C.), la piú studiata in Cina. Dal III millennio a.C. si afferma la Longshan, fenomeno complesso a cui
6 6. Nella bassa valle del Fiume Azzurro (nel Jiangsu e nel Zhejiang) si sviluppano importanti sistemi culturali, nel Neolitico Medio e Tardo, nelle subregioni del Lago Tai e della piana di Ningshao. La prima zona viene occupata dalle culture Majiabang, Songze e Liangzhu. Quest’ultima si segnala per la quantità e la qualità dei manufatti in giada. Nella pianura di Ningshao si distingue, nel Neolitico Medio, la cultura Hemudu, la cui scoperta ha dimostrato l’esistenza, nella valle del Fiume Azzurro, di centri coevi e altrettanto avanzati rispetto ai siti Yangshao, nel bacino del Fiume Giallo.
È opportuno segnalare, nel Neolitico Medio, altre culture insediatesi al di là delle due principali valli fluviali cinesi: le Xinkailiu nello Heilongjiang, Xinle nel Liaoning, Lingjiatang sul fiume Huai, Shixia nel Guangdong, Dabenkeng a Taiwan e, nel Tardo Neolitico, le culture Karuo e Qugong in Tibet. Altre culture riferibili al Neolitico piú antico sono state identificate sia nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, come attestano a nord gli scavi a Nanzhuangtou (Hebei) e a sud evidenze di riso coltivato e di ceramica provenienti da Yuchanyan (Hunan) e Xianrendong (Jiangxi).
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5 4. Nell’alto corso del Fiume Giallo (Gansu e Qinghai) si distinguono, nella fase di passaggio tra il Neoltico Antico e Medio, la cultura Dadiwan e quella Yangshao del Gansu e del Qinghai. Famosa, tra il Neolitico Medio e Tardo, è la cultura Majiayao, che produce vasi fittili dipinti profondamente diversi dai coevi esemplari monocromi di altre regioni. Tra il Neolitico Tardo e l’Età del Bronzo sembra essere rilevante il ruolo della cultura Qijia (nello Shaanxi), per la presenza di piccoli manufatti di rame/bronzo, tra i piú antichi rinvenuti in Cina.
5. Nella media valle del Fiume Azzurro (Hunan, Hubei e Sichuan) si distinguono, nell’ultima fase del Neolitico Antico, le culture Chengbeixi, Pengtoushan e, nel Neolitico Medio, la cultura Daxi. Durante l’ultima fase del Neolitico, con le culture Qujialing e Shijiahe, nascono numerosi insediamenti cinti da mura di terra battuta.
In alto: ascia cerimoniale in giada. Cultura Liangzhu, 3200-2200 a.C. circa. Bath, Museum of East Asian Art.
3 3. Nello Shandong nell’ultima fase del Neolitico Antico e nella prima fase del Neolitico Medio si distinguono la cultura Houli e la successiva Beixin. Nel Neolitico Medio fiorisce la Dawenkou che si caratterizza per la manifattura di vasi di ceramica bianca, per la presenza di oggetti in giada e di caratteri pittografici incisi su diversi materiali. La Longshan dello Shandong, nel III millennio, è famosa soprattutto per i vasi di ceramica nera a guscio d’uovo e per gli insediamenti cinti da mura di terra battuta.
sono state riferite numerose manifestazioni regionali. Molti archeologi cinesi concordano nel riconoscere almeno sette varianti regionali (o tipi, leixing) di questa cultura, datate tra il 2600 e il 1900 a.C. Si tende a utilizzare anche la definizione di «stile Longshanoide», per segnalare il dominio, prevalentemente di carattere culturale, raggiunto da Longshan nella zona centro-settentrionale (Shandong, Henan e Shaanxi) della Cina, dove la civiltà storica si sarebbe poi geograficamente insediata.
A destra: brocchetta zoomorfa in terracotta. Fase tarda della Cultura Dawenkou, 2900-2300 a.C. Toronto, Royal Ontario Museum.
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Pantian (provincia di Zhejiang, Cina orientale). Lo scavo di un sito neolitico in cui si conservano tracce di un’area destinata alla lavorazione della giada. 3000 a.C. circa.
che si estendono dal Nord-Est della Cina fino alla fascia costiera e lungo il corso del Fiume Azzurro (Yangzi), ha permesso di ridefinire il livello di produzione raggiunto dalle numerose culture neolitiche che sembrano condividere un’avanzata industria della giada. Tale attività pare mantenersi nel tempo, fino a raggiungere livelli di produzione tanto alti da indurre diversi studiosi, soprattutto cinesi, a creare una nuova categoria nella periodizzazione della Cina antica. La classica tripartizione in età della Pietra, età del Bronzo ed età del Ferro, proposta per la prima volta nel 1836 da Christian Jurgensen Thomsen (1788-1865), con cui
vengono tradizionalmente sintetizzate le fasi di sviluppo delle civiltà antiche, in Cina è stata «rivista», con l’inserimento di un’età tipica, se non esclusiva, di questa civiltà: l’«età della Giada», collocabile tra il 3500 e il 2000 a.C., che coincide cronologicamente col la fase di transizione tra il Neolitico Medio (50003000 a.C.) e Tardo, fino alle origini dell’età del Bronzo (2000 a.C.).
un’ipotesi recente L’ipotesi di un’età della Giada ha ottenuto un particolare successo e soprattutto in Cina solo dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, quando il quadro di sviluppo delle varie culture neolitiche, tradizionalmente considerate «periferiche», è risultato piú chiaro grazie a sequenze stratigrafiche piú complete e accurate, e alle datazioni al radiocarbonio. Occorre precisare che, sebbene possa risultare una forzatura ricono-
scere un’età della Giada per tutte le culture tardo-neolitiche cinesi, è tuttavia fuori discussione che l’uso di questa pietra abbia avuto una diffusione in un’area molto vasta (soprattutto tra le regioni orientali e meridionali) e sia fiorito in un preciso periodo cronologico. Lo testimonia proprio la considerevole quantità di materiale rinvenuto nelle attività di scavo, che per numero, tipologie ed elaborate superfici decorate, ha rivelato aspetti eclatanti, fino ad allora considerati insospettabili. Le particolari proprietà della pietra, difficile da lavorare e resistente nel tempo, hanno portato gli studiosi a una serie di riflessioni e a «rivedere» in parte lo sviluppo di varie culture, spesso distanti tra loro, soprattutto quelle del Neolitico Tardo. La notevole difficoltà di lavorazione della giada e la sua considerevole presenza all’interno delle sepolture lasciano, infatti, presupporre che tale at-
gli shang La dinastia Shang o Yin (XVI-XI sec. a.C.) succede alla semileggendaria Xia (XXI-XVI sec. a.C.) e precede la Zhou (XI-III sec. a.C.) ed è quindi la seconda delle Sandai, le Tre Dinastie precedenti alla fondazione dell’impero. Con gli Shang – che regnano sulla Cina nord-orientale, nella valle del Fiume Giallo –, emergono le piú evidenti conquiste culturali della civiltà cinese, come testimoniano i reperti riferibili alla vita urbana, all’organizzazione statale, alla metallurgia e non ultimo alla scrittura. La dinastia attua una prima forma di unificazione di terre e agglomerati umani e urbani, in cui popoli, idee, costumi e credenze vengono inglobati dalla civiltà preesistente. Imponendo una rigida osservanza del culto degli antenati, gli Shang elevano i bronzi e le loro decorazioni a simboli indiscussi della loro arte e del potere religioso e politico.
tività abbia costituito una rilevante, se non esclusiva, fonte di sostentamento per intere comunità di lavoratori, gestite da un’élite detentrice del potere politico ed economico.
simboli del potere La progressiva sedentarizzazione di queste culture determina, a sua volta, una graduale stratificazione sociale, riscontrabile dalla qualità oltre che dalla quantità della produzione artistica, nella quale gli oggetti intagliati destinati all’élite riproducono motivi attinti dal ricco vocabolario figurativo dei culti ancestrali. La classe al potere fonda e legittima la propria autorità anche attraverso il possesso di tali manufatti, emblemi del dominio politico congiunto alla sfera del sacro, pertanto l’interesse degli studiosi si è rivolto all’analisi delle peculiari funzioni e dei valori di ordine sociale e cultuale di cui la giada fu investita.
Tali valenze verranno riproposte successivamente, almeno con la dinastia Shang (XVI-XI sec. a.C.), su un altro materiale: il bronzo. Con questo metallo, risultato di una lega di rame e stagno, verranno forgiati oggetti di varie dimensioni, con decorazioni che attingono alla sfera mitologica, per sancire il potere religioso e temporale raggiunto dalla classe dominante. In questo modo si attesta, nel processo di civilizzazione della Cina antica, la prima effettiva costituzione di un’entità statale di carattere dinastico. L’eredità delle «culture della In alto e a destra: reperti recuperati in tombe riferibili all’epoca degli Shang, scavate nei pressi del villaggio di Jinsha (provincia di Sichuan, Cina sud-occidentale). 1000 a.C. circa.
giada», accolta nell’opera di unificazione sociale, ideologica e religiosa attuata dagli Shang, ha contribuito a mettere in discussione l’ipotesi, considerata valida almeno fino agli anni Settanta del XX secolo, di un’«area nucleare», collocabile lungo le regioni della media valle del Fiume Giallo (Huanghe). In queste zone, nella Pianura Centrale (Zhongyuan) che viene tradizionalmente considerata la «culla della civiltà cinese», si stanziarono le Tre Dinastie (Sandai): la semileggendaria Xia, la Shang e la Zhou (2100 circa-221 a.C.). I ricchi reperti che attestano l’elevato livello raggiunto sia sul piano tecnologico che sociale, religioso e artistico, dalle culture convenzionalmente considerate «periferiche», rispetto a quelle stanziate lungo il
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guardare al passato senza preconcetti Intervista a Paola Demattè Paola Demattè, sinologa, insegna arte e archeologia della Cina presso il Dipartimento di Storia dell’arte e Cultura visuale della Rhode Island School of Design di Providence. Il suo campo di ricerca verte da anni in modo particolare sul Neolitico, soprattutto per quanto
riguarda le problematiche relative ai primi segni grafici e all’età della Giada, a proposito della quale, nel 2006, ha pubblicato sul Journal of Social Archaeology, un articolo dal titolo «The Chinese Jade Age: Between archaeology and antiquarianism».
◆ L ’ipotesi di un’Età della Giada si è
◆ I n base ai suoi studi, quali sono
diffusa solo a partire dalla fine degli anni Ottanta, soprattutto tra studiosi e archeologi cinesi. In che modo sta evolvendosi il dibattito in corso? «Il concetto di età della Giada non è necessariamente un’ipotesi concernente una realtà oggettiva, ma un concetto per pensare e rivedere il passato al di fuori di schemi preconcetti. Considero l’età della Giada una risposta attendibile che scardina idee ormai fissate, come quella delle Tre Ere (Pietra, Bronzo, Ferro), non sempre adattabili a contesti archeologici appartenenti a culture diverse. Altri la vedono in maniera differente, come molti archeologi e studiosi cinesi; anche Elizabeth Childs-Johnson ha approfondito il discorso sull’età della Giada proponendo idee diverse dalle mie. Trovo comunque che le varie proposte costituiscano un modo interessante e quanto mai articolato di riflettere su aspetti e fenomeni appartenenti a culture differenti.
Bracciale in giada sul quale sono scolpite quattro teste zoomorfe, dalla provincia del Zhejiang. Cultura Liangzhu, 3200-2200 a.C. circa.
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le peculiarità che accomunano le culture neolitiche specializzate nella produzione della giada rispetto alle altre? È difficile rispondere a questa domanda perché ogni cultura neolitica ha le sue peculiarità indipendentemente dalla giada, e inoltre quasi tutte le culture neolitiche cinesi hanno usato la giada, chi piú chi meno. Quindi non è possibile dare una effettiva risposta a riguardo.
◆Q ual è il suo punto di vista sulle
relazioni tra le culture neolitiche specializzate nella giada e la formazione dell’entità statale nella Pianura Centrale (Zhongyuan)? Le culture neolitiche Liangzhu, Dawenkou e Longshan hanno avuto un importante impatto sulla società dell’età del Bronzo, sia nella Pianura Centrale, lungo il corso del Fiume Giallo, sia piú a est, come per esempio nella provincia dello Shandong.
◆ S i è a lungo dibattuto sul ruolo
svolto dalla cultura Hongshan all’interno del Neolitico, anche per la ricchezza dei suoi reperti in giada che offrirebbero significativi indizi sulle origini della civiltà cinese. Su cosa vertono le ultime indagini? In realtà la cultura Hongshan non ha un grandissimo numero di oggetti in giada, piú che altro questi piccoli manufatti appaiono essere stati di grande importanza. Il ruolo di Hongshan è stato a mio avviso meno significativo di quello di culture come Dawenkou e Liangzhu. Un elemento importante è comunque il simbolo del zhulong, drago-maiale, che appare come pendente in giada e in altri materiali, e continua in epoca Shang, sia come oggetto in giada sia come pittogramma.
◆ C ome lei ha recentemente
segnalato, i numerosi reperti di Liangzhu hanno fatto emergere un elevato livello di sviluppo della cultura neolitica, testimoniato non solamente dalla raffinatezza degli oggetti in giada e dagli elaborati soggetti decorativi, ma anche dalle attestazioni di segni grafici che risultano stilisticamente simili a quelle presenti in altre culture. Come procedono gli studi a riguardo? A questa domanda non posso rispondere. Data la quantità di dati provenienti dalle scoperte archeologiche che possono fornire informazioni nuove sulle testimonianze di segni grafici in Cina, attendo di avere l’occasione di effettuare ulteriori studi per comprovare le mie idee a riguardo.
◆Q uale altra cultura neolitica
specializzata nella lavorazione della giada ritiene importante segnalare? Trovo molto interessante la cultura Shijiahe (2600-2000 a.C. circa) appartenente al Neolitico Tardo, che si sviluppa nella provincia dello Hubei e ha prodotto numerosi oggetti in giada di pregiato valore. Queste evidenze archeologiche, unite ai reperti di altre culture, testimoniano come, fin dal Neolitico Medio-Tardo e in misura considerevole nel Neolitico Tardo, la giada abbia avuto un ruolo significativo all’interno della struttura socio-economica cinese e abbia anche rappresentato un elemento di raccordo tra le culture estese lungo la costa della Cina e delle zone limitrofe, come la media valle del Fiume Azzurro. Confrontando questi dati con quelli forniti da altre culture vicine, come quelle Dawenkou e Liangzhu, si può avere un quadro molto piú articolato degli elementi che definiscono la civiltà della successiva Età del Bronzo.
In alto: scavi in un sito della cultura Liangzhu (3200-2200 a.C. circa) presso Hangzhou, nella provincia del Zhejiang. In basso: manufatto in giada con figura antropomorfa. Cultura Shijiahe, 2600-2000 a.C. circa. Taiwan, National Palace Musuem.
Fiume Giallo, hanno ribaltato l’ipotesi di un’irradiazione dall’area nucleare-centrale. Riesaminando gli apporti e i rapporti intercorsi tra il «centro» e la «periferia», le culture neolitiche piú esterne, infatti, sarebbero state tutt’altro che subalterne a quelle stanziate nel cuore della Cina. Ne consegue che il processo storicoculturale di formazione della «civiltà cinese» deve essere interpretato come il risultato di una vera e propria rete di interscambi e relazioni tra culture neolitiche che, manifestando evidenti affinità, entrarono in contatto tra loro in modo interdipendente.
Nuove prospettive Come conseguenza di questa ipotesi, le regioni che si affacciano lungo il percorso del Fiume Giallo, anziché sede di un’area nucleare, si presentano come «centro di attrazione» e aggregazione geografica e culturale di elementi provenienti da contesti regionali differenti e lontani, preludio alla formazione delle Tre Dinastie. Il riconoscimento di un’età della Giada contribuisce quindi a offrire nuovi spunti di riflessione sui processi di formazione della civiltà cinese, le cui peculiari a r c h e o 61
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fasi di sviluppo impongono, tra l’altro, una rettifica del modello teorico delle «Tre età». Gli studiosi cinesi propongono una ripartizione in quattro fasi, affidandosi anche a un’importante fonte scritta, il Yuejue shu, del I-II secolo, nel quale si fa riferimento alle epoche in cui le armi e gli utensili furono realizzati prima in pietra (durante la fase dei mitici Tre Imperatori), successivamente in giada (durante il regno del leggendario Imperatore Giallo), poi in bronzo (con la dinastia Xia) e, infine, in ferro.
rivedere il modello D’altra parte, molti sinologi occidentali, come Jessica Rawson, considerano questa quarta età come un’imposizione di carattere nazionalista da parte della Cina, adducendo come prova soprattutto la mancanza di utensili per la vita quotidiana. Altri studiosi, come l’archeologa e storica dell’arte Paola Demattè, ribattono precisando che, per esempio, le lame e le asce in giada possono essere state utilizzate per usi non esclusivamente rituali, e mettono in evidenza la necessità di rendere molto piú flessibile il rigido modello delle Tre Età. L’età della Giada andrebbe intesa, come sottolinea anche lo studioso Filippo Salviati, come una «una categoria culturale» e non solamente archeologica, perché segnala una fase cruciale di transizione delle culture neolitiche verso forme piú complesse di organizzazione sociale. Per comprendere la molteplicità dei fenomeni che contraddistinguono quest’epoca, l’approccio metodologico non può prescindere da due presupposti fondamentali: l’analisi costante delle informazioni provenienti da contesti regionali differenti con cui definire le peculiari fasi di sviluppo locale, e il riconoscimento di quegli elementi distintivi dell’età del Bronzo che derivano dall’interazione fra le culture neolitiche. I confini geografici e temporali delle popolazioni specializzate nella lavorazione della giada sono spesso 62 a r c h e o
difficili da stabilire. Le prime testimonianze neolitiche (6000-5000 a.C. circa) comprendono oggetti che appartengono a uno specifico status sociale oppure monili, lavorati probabilmente con tecniche solo in parte differenti da quelle utilizzate per la lavorazione della pietra. Nelle fasi piú tarde (dal 4000 al 2000 a.C.) queste tecniche diventano altamente specializzate, in concomitanza con una progressiva espansione, nella maggior parte delle culture neolitiche cinesi, di centri di lavorazione della giada; quest’ultima si eleva a materiale prediletto per oggetti rituali.
due casi emblematici Prendiamo in esame due culture neolitiche, a considerevole distanza geografica, che si sono distinte per la particolarità dei manufatti in giada realizzati: la Hongshan (47002900 a.C. circa), fiorita nelle odierne provincie del Liaoning occidentale e della Mongolia interna sudorientale, e la Liangzhu (3200-2200 a.C.), sviluppatasi nell’area del delta del Fiume Azzurro. Il nome della cultura Hongshan deriva dal sito di Hongshanhou, scoperto nel 1908 da Torii Ryuzo, ma
In alto: bi (disco cerimoniale) in giada. Cultura Liangzhu, 3200-2200 a.C. circa. A destra: ascia pugnale in giada della fase Anyang della dinastia Shang, XIII sec a.C. Toronto, Royal Ontario Museum. Nella pagina accanto, in basso: cong (strumento cerimoniale) in giada. Cultura Liangzhu, 3200-2200 a.C. circa.
gli strumenti sacri Tra i numerosi oggetti rituali in giada scoperti durante le campagne di scavo, si distinguono i bi (dischi con un foro al centro) che nella fase piú antica non presentano alcuna decorazione, mentre successivamente hanno ornati a rilievo. Sono stati trovati nelle sepolture di defunti di rango elevato e sono particolarmente presenti nella cultura di Liangzhu. Gli cong (leggi zong; parallelepipedi quadrangolari con un ampio foro al centro) sono di varie proporzioni e spesso decorati con volti simili a maschere antropomorfe e zoomorfe. Anche questi manufatti sono stati scoperti in grande quantità nella cultura Liangzhu e la persistenza nel tempo è documentata dai ritrovamenti che ne attestano l’uso funerario, sebbene in maniera sporadica, fino al periodo Han (206 a.C.-220 d.C.). Anche se vengono di solito considerati oggetti per riti religiosi, le funzioni e i significati originari di questi strumenti sono ancora sconosciuti. Alcune fonti sostengono che gli cong, per la loro forma quadrangolare, simboleggino la terra, mentre i bi, per la loro forma circolare, rappresentino il cielo. Tra i reperti sono da segnalare anche le insegne rituali a forma di tridente, asce yue, ornamenti rituali dal profilo definito «a copricapo». Le asce presentano spesso una diffusa alterazione o calcificazione della pietra, probabilmente dovuta all’esposizione al fuoco durante i riti. Della cultura Hongshan si distinguono soprattutto i pendenti in giada in diverse forme, prima fra tutte quella del zhulong, figura mitica precursore del drago, solitamente di giada bianco-verde, con il corpo avvolto ad anello e il muso simile a quello di un maiale. Il rinvenimento di numerose ossa di suino seppellite assieme a resti umani negli stessi siti Hongshan, ha indotto molti studiosi come l’archeologa Sara Milledg Nelson, docente presso l’Università di Denver, a considerare l’animale probabile simbolo di prosperità. Non mancano, tra i reperti, i ciondoli huang, ascepugnali ge e zhang, ritrovati in diverse zone della Cina. Particolarmente preziosi ed elaborati sono anche gli spilloni per capelli, rinvenuti a Longshan, che si compongono di un lungo stelo di giada verde a forma di bambú e di un’elaborata placca di giada bianca ornata di turchesi. Simili ornamenti, sia in giada che in osso, sono stati trovati anche nelle tombe Shang, come quella di Fu Hao del 1200 a.C.
In alto: ancora un’ascia pugnale in giada della fase Anyang della dinastia Shang, XIII sec a.C. Già collezione Max Loher.
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la sua area di diffusione (che si ipotizza enorme) non risulta ancora del tutto chiara. Oltre a vasellame decorato e oggetti in terracotta, tra cui le figure femminili simbolo di fertilità, a questa cultura si possono attribuire importanti esempi di lavorazione della giada, i cui soggetti principali si riferiscono al mondo faunistico.
il drago-maiale I reperti includono cerchi, anelli, manufatti a forma di nuvola o dal piú caratteristico motivo del «dragomaiale» (zhulong), una figura sinuosa dalla testa suina che si morde la coda. Questo animale composito viene tradizionalmente considerato tra le prime rappresentazioni del drago cinese che, dall’epoca Han (206 a.C.-220 d.C.) in poi, oltre alla valenza sacrale e regale del passato, si configura come emblema dell’imperatore e dei suoi domini, fino a divenire il principale simbolo della Cina. Le conoscenze della cultura Hongshan si riferiscono, come nel caso di Niuheliang (contea di Jianping), ai dati che emergono dalle strutture identificate come «luoghi di culto», dalla complessa organizzazione spaziale, che include altari ed
i motivi decorativi Particolarmente interessanti sono i motivi iconografici zoomorfi e antropomorfi, risultato della fusione di attributi di piú soggetti. La maschera presente sulle giade Liangzhu sembrerebbe ritrarre uno sciamano in veste da cerimonia mentre cinge con le mani i grandi occhi di una figura composita. Secondo diversi studiosi, il motivo sarebbe l’archetipo del taotie, maschera zoomorfa priva di mandibola, con grandi occhi, corna e grandi fauci su di un corpo spiraliforme, presente sui manufatti Shang. Significativi della cultura Hongshan
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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sono i proto-draghi, soggetto mitico spesso raffigurato, con modalità e su supporti differenti, anche in altri contesti geografici della Cina neolitica, come testimonia, per esempio, il drago-serpente arrotolato in spire di Taosi (Shanxi), riferibile al 2500-1900 a.C. Questa caratteristica dell’unione di due o
tre animali, con una testa piuttosto pronunciata, su un corpo semicircolare o avvolto a spirale, è tipico dei motivi iconografici di molte culture neolitiche: sebbene questa composizione non raffiguri un animale reale, il motivo è il risultato dell’unione di piú attributi, ottenuti da un repertorio faunistico reale. Queste immagini
In alto: un esemplare di cong (strumento cerimoniale) in giada. Cultura Liangzhu, 3200-2200 a.C. circa. Hong Kong, Collezione privata. L’oggetto, come evidenziato nel riquadro, è decorato da una maschera probabilmente interpretabile come il ritratto stilizzato di uno sciamano che cinge i grandi occhi di una creatura composita. Nella pagina accanto: manufatti in giada da un sito neolitico scoperto a nord del Tibet. Cultura Qijia, 2400-1900 a.C. Si riconoscono le figure di un drago-maiale (al centro) e di una cicala (in basso).
simbolico, come attestano le molteplici decorazioni dalle articolate figure composite che rievocano il ricco patrimonio mitologico e sacrale della Cina antica.
vengono sempre raffigurate rispettando una ricercata vitalità e un dinamismo espressivo, in cui si incontrano realismo e astrazione. Tra i motivi non mancano raffigurazioni di cicale e fenici, altro animale composto da piú volatili, come attestano, per esempio, i rinvenimenti di Luojiabailing, riferibili alla tarda cultura Shijiahe (Hubei), databile tra il 2600 e il 2000 a.C.
elementi in pietra per officiare le cerimonie. Gli studiosi sono propensi a ipotizzare che le popolazioni appartenenti a questa cultura avessero credenze religiose locali, tra cui una forma iniziale di culto degli antenati officiato da una classe sacerdotale. La cultura di Liangzhu comprende oltre 300 siti distribuiti molto piú a sud, nel delta del Fiume Azzurro e nella regione del Lago Tai (Taihu, tra le attuali province del Zhejiang e del Jiangsu). In queste zone la quantità di giada rinvenuta è impressionante, tanto da comporre fino al 90% dei corredi funerari. La cultura coincide con la fase piú significativa della lavorazione della pietra, che raggiunge un alto grado di raffinatezza non solamente da un punto di vista stilistico, ma anche
una distinzione netta La netta distinzione tra ubicazione, tipologie e corredi funerari delle sepolture comuni, poste vicino alle abitazioni, e quelli delle sepolture destinate ai membri dell’élite, lontane dai centri abitati, provviste inoltre di ricchi corredi con una prevalenza di articoli in giada (armi, monili e strumenti rituali), attesta l’alto livello di stratificazione sociale raggiunto dalla cultura neolitica. Gli oggetti si elevano chiaramente a emblema di rango, autorità e ricchezza, inalienabili anche dopo la morte. L’utilizzo di queste giade era probabilmente quasi esclusivamente cerimoniale, come lascia intendere anche la loro precisa distribuzione all’interno delle sepolture. La scoperta e lo studio della cultura Liangzhu sembrano confermare che la regione del Lago Tai sia diventata, almeno nel III millennio a.C., un importante e autonomo nucleo culturale nella Cina neolitica. Giacimenti di nefrite erano presenti nei territori occupati da questa cultura, ma probabilmente si esaurirono già in epoche antiche. Alcuni dei principali tratti distintivi della cultura Liangzhu sono confluiti nelle società protostoriche dell’età del Bronzo, quali per esempio la comparsa su alcuni manufatti di segni incisi, analoghi alla forma di scrittura cinese attestata in epoca Shang, e l’elaborazione di soggetti iconografici dai motivi teriomorfi che presentano, sul piano
stilistico, forti analogie con quelli diffusi nella bronzistica e nell’arte dei successivi periodi. Nel frattempo, nella Cina centrale, lungo il medio e basso corso del Fiume Giallo, si assiste, con la cultura Longshan (3000-2000 a.C. circa), all’intensificarsi dei processi di crescita della complessità sociale, fino alla formazione di unità politiche regionali di tipo proto-statale. Oltre al continuum culturale tra le popolazioni neolitiche precedenti, tutte le evidenze sembrano indicare un progressivo consolidamento della classe sacerdotale-sciamanica, che impone nuovi materiali per i raffinati oggetti rituali.
prestigio in declino La giada non scompare, ma si affianca ai metalli, unita a tutte quelle forme di organizzazione proto-statale che prendono piede con l’insorgere, in ambito politico e militare, di contrasti fra entità culturali distinte per il controllo dei territori lungo la Pianura Centrale: la «nobile pietra» inizia a perdere la propria privilegiata esclusività nel momento in cui il Neolitico lascia progressivamente il posto all’età del Bronzo. Da quel momento verranno assegnate alla giada ulteriori valenze magico-taumaturgiche, calmanti, rasserenanti e lenitive degli stati d’animo, ma anche culturali e sociali, perché espressione di virtú, longevità e fortuna. Il segno grafico della parola «giada» in cinese mantiene tuttora una valenza regale, infatti il carattere che esprime il vocabolo yu («giada») si scrive aggiungendo un semplice tratto al carattere utilizzato per wang («re») e, nel sapere comune, rappresenta per eccellenza l’attributo della regalità. La sua arcaica funzione di culto si adatta quindi alle esigenze storiche del momento, ma, da simbolo legato indissolubilmente alla civiltà cinese, ne diventa una delle principali icone. nella prossima puntata • Gli Shang e l’età del Bronzo a r c h e o 65
mitologia • istruzioni per l’uso/2
quando gli
uomini restavano a casa Donne che rinunciano alla propria femminilità per contendere agli uomini il ruolo di guerrieri e padroni. ma che cosa si cela, in realtà, dietro a quell’inattesa «nota femminista» proposta dal mito delle amazzoni?
di Daniele F. Maras
A sinistra: statua in marmo raffigurante un’Amazzone ferita, da un originale di Fidia, da Villa d’Este. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto: anfora attica a figure nere, con Achille che uccide Pentesilea, regina delle Amazzoni, da Vulci. Opera di Exekias, 540-530 a.C. circa. Londra, British Museum.
C
on la guerra dei Giganti – e con quella per molti versi affine contro i Titani, predecessori degli dèi al governo dell’universo – abbiamo visto all’opera un mito di fondazione dell’ordine cosmico in cui personaggi mostruosi, portati all’eccesso, rappresentano l’opposto di ciò che ci si aspetta dal mondo civile e ben organizzato (vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013). Una volta garantito l’equilibrio delle forze della natura, la mitologia si prestava facilmente a fornire una giustificazione dell’ordine sociale, presentando esempi di situazioni incresciose, opposte all’uso comune,
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mitologia • istruzioni per l’uso/2
proiettate in un passato piú o meno lontano, a dimostrazione degli obbrobri causati da un comportamento non civile. Il caso forse piú eclatante è quello delle Amazzoni: le celeberrime donne guerriere, la cui esistenza favoleggiata costituiva una sfida aperta alla società maschilista dei Greci.
Discendenti di ares Racconta la leggenda che il popolo delle Amazzoni traeva origine dalla stirpe di Ares, dio della guerra, e Armonia, una ninfa che personificava l’ordine e la concordia, da non confondere con l’omonima moglie del tebano Cadmo. La società di queste donne guerriere era dominata dalle figure femminili, che avevano il sopravvento sui loro compagni e detenevano il comando, personificato dalle diverse regi-
ne che furono loro attribuite dal mito in vari contesti, regolarmente definite «figlie di Ares». Sin da bambine le Amazzoni si esercitavano nella caccia e nelle arti militari, con particolare riguardo all’equitazione e al maneggio delle armi, mentre agli uomini venivano lasciati i lavori domestici e agricoli. Secondo Strabone, invece, non vi erano uomini presso le Amazzoni, che ogni anno si recavano presso i propri vicini Gargarei per accoppiarsi (nel corso di un rito notturno al buio, perché nessuna conoscesse il proprio partner). Dopo il parto, lasciavano i figli maschi ai Gargarei, trattenendo invece con sé e allevando le femmine. Qualcuno insinuva che le terribili guerriere usassero storpiare o accecare i propri figli maschi per renderli inabili alla guerra, ma sembra evidente che questa diceria era sta-
ta messa in circolazione per far apparire le Amazzoni come spietate e mostr uose, incapaci per sino dell’amore materno e familiare: uno spauracchio da temere e ricacciare in un’epoca remota, come a sanzionare con un mito le assurdità che si sarebbero potute verificare se fossero state le donne a comandare e a impugnare le armi!
una patria dibattuta Le fonti antiche non sono concordi nell’indicare le regioni in cui vivevano le Amazzoni, anche se in genere si preferivano collocazioni orientali rispetto al mondo greco: in Anatolia (dove sarebbero state responsabili del famoso santuario di Artemide a Efeso) o nel Vicino Oriente, oppure, piú frequentemente, in Tracia o nella Scizia, a nord del Mar Nero. Da questi luoghi piú o meno remoti, in tempi antichissimi, le temibili guerriere avrebbero condotto campagne militari fino ai confini del mondo, non conoscendo rivali, né sconfitte. Secondo una tradizione tarda, della quale però qualche a c c e n n o c o m p a re g i à nell’Iliade omerica, un’antica regina delle Amazzoni, con un nome divino Mirína, e uno umano, Batèa. Forte di un esercito di ventimila guerriere a cavallo e tremila a piedi, si era spinta a far guerra al popolo degli Atlantidi, stanziato lungo le rive dell’Oceano che da essi prese il nome, ovviamente in un’epoca precedente al A sinistra: Ercole e un’Amazzone, rilievo su una metopa del tempio E di Selinunte. 470 a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». Nella pagina accanto: rilievo con scena di amazzonomachia, dal mausoleo di Alicarnasso. 350 a.C. Londra, British Museum.
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cataclisma narrato da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia. Una volta conquistata la loro capitale, le Amazzoni sopraffecero il vicino popolo delle Gorgoni, avendo al loro fianco i nemici appena vinti. Dopo questo successo Mirína guidò le sue guerriere alla conquista della Libia (nome che anticamente indicava tutta l’Africa settentrionale) e giunta alle porte dell’Egitto, scese a patti con il dio Horus dalla testa di falco, che all’epoca vi regnava in prima persona. L’avanzata trionfale lungo le coste del Mediterraneo, che sembra ripercorrere all’inverso le terre toccate dai navigatori fenici, proseguí poi in Siria e nella Penisola anatolica, attraverso la Cilicia, la Frigia e l’isola di Samo, per giungere infine in Misia, dove la sanguinaria regina fu uccisa in battaglia dal trace Mopso. Con queste gesta gloriose, compiu-
te in tempi antichissimi, il popolo delle donne guerriere si era guadagnato una fama imperitura, che serví da richiamo e da sfondo per le imprese di molti altri eroi del mito.
sconfitte a ripetizione Dopo le campagne militari dell’invincibile regina Mirína, infatti, tutte le leggende che chiamano in causa le Amazzoni si risolvono in una sequela di sconfitte per mano dei piú grandi eroi combattenti della mitologia classica. A esse si opposero vittoriosamente il corinzio Bellerofonte, già vincitore della Chimera, e l’ateniese Teseo, che aveva rapito una di loro, Antiope, per farne la sua sposa. Nell’elenco non poteva mancare l’eroe che piú di tutti incarnava in Grecia il valore guerriero e il modello di virilità: il figlio di Zeus, Eracle. Alle feroci donne guerriere era de-
dicata una delle celebri dodici fatiche del semidio, che fu incaricato da Euristeo di impadronirsi della cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni e anch’essa figlia di Ares. Eracle chiese udienza alla regina e, secondo una versione, riuscí a convincerla a cedere la cintura pacificamente, anche se le era stata donata dal padre divino e simboleggiava il proprio rango regale al di sopra delle compagne. Ma la dea Era, nemica dell’eroe e ispiratrice di tutte le sue fatiche, sparse la voce che Eracle intendeva rapire Ippolita e le guerriere quindi assaltarono in massa la nave prima che prendesse il largo: il semidio fu costretto pertanto a reagire con violenza, facendo strage delle avversarie, tra le quali, a quanto pare, cadde anche la stessa Ippolita. Un’altra variante voleva invece che ad accompagnare Eracle ci fosse Teseo e che quest’ultimo si fosse a r c h e o 69
mitologia • istruzioni per l’uso/2
attirato l’ira delle Amazzoni rubando il cinto, sequestrando la regina, ovvero rapendo un’altra delle compagne. Per questo motivo, anche se sconfitte, le guerriere meditarono vendetta e in seguito tentarono l’assedio di Atene, dove Teseo era divenuto re succedendo al padre Egeo. Quanto alla cintura regale faticosamente conquistata, Eracle la portò infine a Euristeo, che ne fece dono a sua figlia Admeta, sacerdotessa di Era argiva, che l’aveva chiesta per sé fin dall’inizio, presumibilmente su ispirazione della dea. La leggenda delle Amazzoni era già nota a Omero, che però le dedicò solo qualche accenno, ma si integrò poi nell’epica troiana grazie all’opera di Arctino di Mileto, uno dei continuatori della tradizione omerica, autore di un’opera in versi intitolata Etiopide, in cui si narrano le vicende della guerra di Troia dopo la morte di Patroclo e di Ettore (che conclude la trama dell’Iliade) e fino alla morte di Memnone, giunto in aiuto di Priamo alla testa di un esercito di Etiopi.
la bella regina In questo frangente, fra i potenti alleati dei Troiani, che si opposero all’assedio acheo, si distinsero le Amazzoni, comandate dalla bellissima regina Pentesilea, anch’ella – guarda caso – detta «figlia di Ares». I Greci furono presto messi in difficoltà dalle prove di valore offerte dall’esercito delle donne guerriere, che si dimostrarono inarrestabili fino all’inevitabile scontro tra la loro regina e il campione indiscusso degli Achei: Achille. Il duello fu combattuto ad armi pari e all’ultimo sangue, durando a lungo, prima che l’invulnerabile figlio di Teti potesse aver ragione dell’avversaria. Ma proprio nell’ultimo istante, mentre la lancia dell’eroe affondava nel petto di Pentesi70 a r c h e o
lea, l’elmo della donna cadde in terra, rivelando agli occhi di Achille il bellissimo viso e lo sguardo incredulo che accompagnava la prima sconfitta e la morte della guerriera. In quello stesso istante l’eroe fu folgorato da un amore improvviso, che Pentesilea portò con sé nella tomba, lasciando dietro di sé il suo uccisore sgomento e addolorato.
onore alla vinta L’imprevista svolta romantica forní ovviamente un soggetto ideale per l’arte classica, di cui abbiamo numerosi esempi nella pittura vascolare e nei rilievi, che di regola immortalano il momento supremo della tragica sfida, oppure, specialmente in epoca romana, il momento immediatamente successivo, quando l’eroe greco solleva il
corpo della bella avversaria per restituirlo ai Troiani affinché abbia una degna sepoltura. Come era stato per la Gigantomachia, le guerre delle Amazzoni, come ulteriore esempio di scontro vittorioso degli eroi civilizzatori greci contro le usanze barbare dei popoli d’Oriente, furono spesso scelte a soggetto di opere pittoriche e scultoree in contesti diversi. La maggioranza delle attestazioni
È l’abito che fa l’Amazzone Fin dalle prime raffigurazioni, le Amazzoni compaiono in combattimento come arcieri a cavallo, con pelle ferina e berretto frigio, oppure appiedate con corazza e pantaloni sciti (vedi disegno a destra). Dal V sec. a.C. si diffonde il tipo di Amazzone vestita di un corto chitone (vedi disegno in alto). A sinistra: unguentario su cui è raffigurato un personaggio verosimilmente identificabile con un’Amazzone che indossa un corto chitone, corazza e pantaloni, dalla tomba 266 della necropoli di Fikellura (Rodi). 480 a.C. circa. Londra, British Museum.
vengono dalla pittura vascolare, che conosce lo schema del duello tra un guerriero greco (spesso identificabile con Eracle) e un’Amazzone sin dalla fine del VII secolo a.C., nella ceramica a figure nere. L’Amazzonomachia continuò poi la propria fortuna anche nelle figure rosse e, parallelamente, nella scultura, specialmente in composizioni di ampio respiro che permettevano di rappresentare diverse scene di una A destra: decorazione interna di un piatto a figure rosse con un arciere a cavallo, da Chiusi. Opera del pittore Paseas, 520-510 a.C. Oxford, Ashmolean Museum. Il personaggio indossa un costume analogo a quello tradizionalmente attribuito alle Amazzoni.
Le guerre delle Amazzoni furono scelte come soggetto di un gran numero di opere di scultura e pittura
A sinistra e nella pagina accanto, in alto: disegni raffiguranti Amazzoni variamente abbigliate, ispirati alle pitture che ricorrono nella ceramica figurata di produzione greca.
stessa battaglia. Alcuni celebri esempi sono offerti dalle metope del tempio di Zeus a Olimpia e di quello di Apollo a Bassae (in Arcadia), in Sicilia da quelle del Tempio E di Selinunte; piú tardi il celebre Scopa scelse una grandiosa Amazzonomachia come soggetto del lato orientale del Mausoleo di Alicarnasso, che gli era stato affidato. L’iconografia delle Amazzoni ebbe nel tempo un’evoluzione, che rende l’idea di come le leggendarie guer r iere fossero considerate nell’immaginario dell’epoca. Ecco cosí che inizialmente tanto i a r c h e o 71
mitologia • istruzioni per l’uso/2
guerrieri maschi, quanto le femmine, hanno identico aspetto e armamento, e solo il colore della pelle, resa a sovraddipintura bianca per i personaggi femminili, permette di riconoscere le Amazzoni. In seguito, nel corso del VI secolo a.C., queste ultime indossano una veste corta (chitone) sopra la quale fa mostra di sé la corazza da oplita o a volte una pelle ferina che le caratterizza come guerriere irregolari e selvatiche, al pari dei Giganti.
l’evoluzione dell’iconografia Dopo la metà del secolo, invece, iniziano le caratterizzazioni etniche, che vedono le guerriere del mito rappresentate in vesti e armi tipiche dei Traci o degli Sciti, ben note nell’Atene dell’epoca, dove i mercenari di tale origine svolgevano funzioni di polizia urbana. Ma solo con il passaggio al V secolo le Amazzoni assumono il loro aspetto tradizionale, perdurato fino all’epoca romana, venendo identificate con quello che all’epoca era il nemico per eccellenza: i Persiani – infidi, barbari e dediti a strane
usanze –, dai quali l’iconografia delle guerriere trae l’abbigliamento e l’armamento. Nella pittura a figure nere, l’avversaria di Eracle presenta spesso una didascalia che la identifica con il nome ripetuto di Andromache, che in greco significa letteralmente «colei che combatte gli uomini», a dimostrazione del fatto che il piú grave «peccato» delle Amazzoni era per i Greci quello di sfidare gli uomini proprio in quell’arte militare che era considerata prerogativa maschile per eccellenza. Quasi a voler ribadire la superiorità del maschio e restituire a ciascuno il proprio ruolo, le scene rappresentate vedono sempre le donne guerriere soccombere di fronte ai loro avversari. Non è un caso, quindi, se il motivo che conosce la maggiore fama, ripetuto incessantemente su vasi e rilievi dall’epoca classica all’età romana imperiale, è quello dell’Amazzone atterrata, strattonata per i capelli dal suo nemico, mentre tenta invano di ribellarsi alla sconfitta. Uno psicologo oggi potrebbe facilmente osservare come l’umiliazione imposta all’Amazzone sconfitta servisse al maschio greco adulto, cui queste immagini si rivolgevano, per esorcizzare la propria paura di venire sopraffatto da figure femminili forti, proprio nell’ambito di quella virtú guerriera che si considerava esempio di virilità. In effetti, la figura leggendaria delle Amazzoni sembra disegnata apposta per rappresentare, sotRilievo con scena di Amazzonomachia ispirata a quella raffigurata sullo scudo della statua colossale di Atena Parthenos scolpita da Fidia per il Partenone. II sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Scena di combattimento tra Greci e Amazzoni scolpita sulla fronte di un sarcofago rinvenuto nel 1836 a Salonicco. 180 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
se alla guerra di Troia dove avrebbe trovato la morte: in quel periodo l’eroe si faceva chiamare Pirra, «la rossa». In seguito, per stanarlo, Odisseo gli tese un tranello, nascondendo delle armi tra le stoffe pregiate che fingeva di vendere come mercante, in modo che tra tutte le fanciulle che si deliziavano a provare le stoffe, spiccasse la sola Pirra, che, brandendo le armi, rivelò il proprio sesso maschile. Il ripristino del ruolo subordinato della donna è chiaro nel caso di Teseo, che dopo aver rapito Antiope (da altri detta Melanippe o Ippolitea), la portò con sé ad Atene e la rese madre di Ippolito, futuro sacerdote e amante di Artemide.
to forma di personaggi mitologici, una sorta di caricatura delle prerogative maschili, usurpate da un popolo di incivili donne guerriere che rinnegavano la propria femminilità e rifuggivano il proprio giusto ruolo sociale e familiare (cosí com’era codificato nella rigida società greca).
il destino nel nome Già in passato abbiamo avuto modo di osservare come la libertà delle donne fosse temuta dai Greci e considerata potenzialmente sovvertitrice dell’ordine sociale (vedi «Archeo» n. 326, apr ile 2012): le Amazzoni proiettavano questa funzione al tempo del mito e degli eroi, perfino nel proprio nome, derivante da a-mazos, «senza seno», a sottolineare il rifiuto della femminilità e della maternità (ovvero, come suggeriscono al-
«sciogliere la cintura» Piú sottile, infine, ma forse ancor piú significativo, è l’aspetto erotico che informa il mito di Eracle e Ippolita, dal momento che «sciogliere la cintura» è l’espressione con cui nella letteratura greca si allude ai preliminari di un atto sessuale. Probabilmente si tratta di un’allusione, come spesso accade (soprattutto nel caso di Eracle): i poeti che narrarono la storia intendevano suggerire che nel suo colloquio con il semidio la regina delle Amazzoni aveva acconsentito a cedersi a lui, rinunciando al proprio ruolo di guerriera indipendente di fronte al campione della virilità militare. Non era quindi andata cosí lontana dal vero Era, quando insinuò alle compagne di Ippolita che Eracle avrebbe «rapito» la loro regina, scatenando cosí la loro reazione furiosa contro quell’ennesimo tentativo di sottomissione da parte maschile.
cuni autori antichi, per alludere a una mutilazione che facilitava il tiro con l’arco). Non per niente i miti degli eroi che le affrontarono e sconfissero sono spesso caratterizzati da una particolare carica erotica, evidente nel caso di Achille che si innamora di Pentesilea per il fatto stesso di essere stata in grado di tenergli testa pur mantenendo intatte le proprie attrattive femminili (e spesso la regina è riprodotta sui vasi in seducenti vesti femminili, inadatte a una guerriera in combattimento). Il mito consentiva, inoltre, di leggere un vero e proprio gioco degli specchi tra le Amazzoni e Achille. Se le prime preferivano la guerra e la caccia alle occupazioni femminili, dal canto suo il giovane Achille fu nascosto dalla madre in vesti nella prossima puntata femminili tra le figlie di Licomede, re di Sciro, perché non partecipas- • Gli Argonauti
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speciale • selinunte
selinunte storia di una cittĂ greca di sicilia
Per i primi coloni che sbarcarono nel VII secolo a.C. era la terra del selinon. oggi, la piú occidentale delle fondazioni elleniche torna alla ribalta, grazie a nuovi scavi, condotti dalla missione della new york university, e all’istituzione di un grande parco archeologico
di Stefania Berlioz; con contributi di Clemente Marconi, Caterina Greco e Mimmo Cuticchio
«Q
uesta città, abitata dalla sua fondazione per un periodo di 242 anni, fu dunque conquistata». Con queste parole Diodoro Siculo conclude la sua memorabile descrizione della presa di Selinunte da parte dei Cartaginesi, nel 409 a.C. (Hist., XIII, 54-59). Una frase lapidaria, che sintetizza ciò che, agli occhi di uno storico greco del I secolo a.C., era fondamentale sapere – e trasmettere ai posteri – sulla storia dell’antica colonia dorica di Sicilia: la sua nascita e la sua fine. Per quanto impossibile possa sembrare, volgendo lo sguardo alle sue rovine, cosí imponenti da sembrare opera di giganti, o contemplando le straordinarie testimonianze della sua cultura figurativa, della storia di Selinunte conosciamo assai poco. Le fonti antiche sono avare di notizie: qualche dettaglio sulla sua fondazione; i nomi – e poco altro –
dei due, forse tre tiranni che si imposero sulla scena politica locale nel corso del VI secolo a.C.; i rapporti conflittuali con la vicina Segesta, sfociati in epoca classica in conflitti di portata «internazionale».
Lacune e interrogativi Un quadro storico generale per noi prezioso, perché consente di ancorare la storia della città ad avvenimenti e date precise, ma che lascia ampie lacune, soprattutto per le epoche piú antiche: quali le cause che portarono alla fondazione di Selinunte? Quale l’impatto dei nuovi coloni con le popolazioni locali, indigene e non? Quando e in che modo è stato organizzato il territorio, come sono state distribuite le terre, pianificati gli spazi urbani? A queste domande contribuisce a rispondere l’archeologia, con il linguaggio che le è proprio: fornendo un quaSelinunte. I resti del tempio F. Creduto in passato opera del 550-540 a.C., l’edificio sembra invece databile, sulla base dei risultati acquisiti grazie alle ricerche piú recenti, al 520 a.C.
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speciale • selinunte
dro concreto – che per Selinunte, come vedremo, si fa sempre piú ampio e articolato – all’interno del quale interrogarci sui dati offerti dalla tradizione storiografica e letteraria relativamente alle prassi delle fondazioni coloniali greche in Occidente. Nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., con la fondazione di Cuma sul golfo di Napoli (757 a.C.) e di Nasso (Naxos) sulla costa orientale della Sicilia (734 a.C.), prende avvio uno dei piú avvincenti e complessi capitoli della storia greca, a cui si dà il nome convenzionale di «colonizzazione d’Occidente». Per iniziativa di singole città greche (della Grecia propria, d’Asia Minore e poi delle stesse colonie), nell’arco di circa 250 anni vennero fondate colonie in tutto il bacino del Mediterraneo occidentale: in Italia meridionale e in Sicilia; lungo le coste meridionali della Francia e quelle orientali della Penisola iberica; in Libia, nome con cui i Greci indicavano il territorio a ovest dell’Egitto.
«Fuori di casa» Un fenomeno cosí ampio nello spazio e nel tempo da non poter essere analizzato globalmente: ogni fondazione, quanto a cause, sviluppi interni ed esiti finali, ha una storia a sé, che va ricostruita sulla base del contesto «di partenza» da cui mossero i coloni, ovvero la madrepatria, e al contesto «di arrivo», il luogo dello stanziamento della nuova comunità. Alla partenza allude la parola apoikía (letteralmente «fuori di casa»), termine con il quale le fonti greche di epoca classica indicano l’allontanamento di un gruppo di cittadini da una polis, una città, e il loro successivo insediamento in nuove terre. L’accento posto sul distacco dalla metropolis – la città madre – indica l’irreversibilità dell’evento: di fatto, al momento della partenza, la comunità assumeva piena autonomia politica e amministrativa. Sulla base della tradizione antica è possibile ricostruire, in linea generale, le tappe organizzative di un’impresa coloniale. Una volta presa la decisione politica di fondare una colonia, la comunità metropolitana provvedeva alla scelta dell’ecista (il fondatore), generalmente di estrazione aristocratica, e al reclutamento del primo nucleo di coloni, cittadini di tutti i mestieri e appartenenti a tutti i ceti sociali. Raggiunta la meta, i coloni provvedevano all’organizzazione razionale del territorio: venivano fissati i luoghi destinati al culto degli dèi; delimitati gli 76 a r c h e o
quel profumo di sedano selvatico...
Didramma di Selinunte al cui dritto è effigiata una foglia di selinon, pianta da cui probabilmente trae origine il nome della città, mentre al rovescio si osserva una partizione in dieci spazi dell’incuso, cioè dell’area che, come accade di frequente nella monetazione delle colonie magno-greche, si presenta incavata, invece che a rilievo. L’emissione è databile al 480-460 a.C. Collezione privata.
spazi a uso comunitario; suddiviso in lotti il resto del territorio (sia urbano che rurale) da distribuire, secondo un criterio di sostanziale uguaglianza, ai privati cittadini.
La madrepatria Selinunte è quella che si definisce una «sottofondazione», cioè un abitato sorto per iniziativa diretta di una colonia, Megara Iblea (Megara Hyblaea), a sua volta fondata, nel 728 a.C., da Megara, città greca presso l’istmo di Corinto. La data precisa della fondazione di Selinunte è controversa: Diodoro Siculo la pone al 651 a.C., 242 anni prima della conquista della città, avvenuta nel 409 a.C.;Tucidide al 628 a.C., cento anni dopo la fondazione di Megara Iblea. La questione, da molti decenni al centro di un acceso dibattito, non è mai stata definitivamente risolta, ma vedremo come i recenti scavi condotti sulla
fondazione calcidese
Materiali appartenenti a corredi funerari recuperati nella necropoli presso il torrente Santa Venera, a Nasso (Naxos). IV sec. a.C. Giardini-Naxos, Museo Archeologico Regionale. La città venne fondata da coloni calcidesi nel 736 a.C., sulla costa orientale dell’isola, in un’area di precedenti insediamenti neolitici, eneolitici e della prima Età del Ferro.
Cuma (1) Neapolis (15) Pithecusa Posidonia (2) Cartina nella quale sono indicate le piú importanti colonie di fondazione greca in Italia meridionale e Sicilia. In grassetto sono le città che, a loro volta, diedero vita a «sottofondazioni», come nel caso di Megara Iblea con Selinunte. La numerazione indica la provenienza dei coloni: 1. Calcide ed Eretria; 2. Acaia; 3. Focide; 4. Locride; 5. Colofone; 6. Mileto; 7. Rodii e altri; 8. Megara; 9. Corinto; 10. Thera; 11. Sparta.
Taranto (11)
Metaponto (2) Siri (5)
Elea (3)
Laus (2) Sibari (2)
Mar Tirreno
Crotone (2) Terina (2)
Hipponium (4) Medma (4)
Lipari (7)
Zancle (1)
Caulonia (2) Metauro (4)
Milazzo (1)
Locri Epizefiri (4) Reggio (1)
Nasso (1)
Imera (1)
Mar Ionio
Catania (1)
Selinunte (8)
Lentini (1) Agrigento (7)
Gela (7)
Megara Iblea (8) Akrai (9)
Siracusa (9)
Casmene (9)
Eloro (9)
Camarina (9)
N 0
100 Km
colonie greche in sicilia
Madrepatria
Colonia
750 a.C. 700 a.C. 650 a.C. 600 a.C.
Calcide Corinto Cuma e Calcide Naxos Megara Zancle Rodii e Cretesi Siracusa Megara Iblea Zancle Siracusa Siracusa Gela Cnido
Nasso (734) Siracusa (733) Zancle (730) Lentini e Catania (729) Megara Iblea (728) Milazzo (716) Gela (688) Akrai (663) Selinunte (651 o 628) Imera (649) Casmene (643) Camarina (598) Agrigento (580) Lipari (580-576)
a r c h e o 77
speciale • selinunte
dalle origini alla distruzione 651-650 580-570 570 ca. 511-510
510 ca.
480
444 416
Fondazione di Selinunte da parte di Megara Iblea (628 secondo la tradizione tucididea). Con un colpo di Stato, Terone, figlio di Milziade, instaura un regime tirannico a Selinunte. Fondazione della sub-colonia di Minoa. Spedizione in Sicilia dello spartano Dorieo. Cacciato dai Cartaginesi si rifugia a Minoa che, in memoria dell’avvenimento, muta il nome in Eraclea Minoa. Aiutati dallo spartano Eurileonte, i Selinuntini si liberano del tiranno Peitagoras e poi dello stesso Eurileonte, proclamatosi a sua volta tiranno. Nella battaglia di Himera, che vede contrapposta la grecità coloniale alla potenza cartaginese, Selinunte non partecipa alle azioni belliche, assumendo un atteggiamento filo-punico. Il filosofo Empedocle guida la bonifica dei fiumi della città. Segesta chiede aiuto ad Atene per risolvere
415-413
410
409 407
397
278
250
una controversia territoriale e giuridica con Selinunte. Spedizione ateniese in Sicilia, a cui si oppone tutto il fronte greco-coloniale, con l’eccezione di Agrigento. Segesta, dopo il fallimento della spedizione ateniese, chiede aiuto ai Cartaginesi contro Selinunte. Dopo un assedio di nove giorni Selinunte viene conquistata e distrutta dai Cartaginesi. Il siracusano Ermocrate riconquista la città; alla sua morte (406) Selinunte torna in mano punica. Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, conquista Selinunte; nei successivi trattati con Cartagine la città è posta sotto controllo punico. Selinunte si allea alle altre colonie siceliote fautrici della venuta di Pirro in Italia. Definitiva distruzione di Selinunte da parte cartaginese, nel corso della prima guerra punica.
1
collina detta «dell’Acropoli» sembrino avvalorare la datazione «alta», al 651. Nella seconda metà del VII secolo a.C. Megara Iblea, sulla costa orientale della Sicilia, è una città fiorente e in piena espansione. Non mancano certo i problemi, primo fra tutti la mancanza di terra: la popolazione è in continuo aumento ma, contestualmente, si è innescato un processo di accentramento delle terre disponibili nelle mani di una ristretta cerchia di possidenti, i pachéis, i grassi. L’entroterra di cui la colonia dispone è assai vasto, ma non suscettibile di ulteriori ampliamenti: a nord è il (segue a p. 82) 78 a r c h e o
Tempio e Dedicato a Era, l’edificio, rispecchia oggi la fisionomia assunta intorno alla metà del V sec. a.C. Le fronti della cella del tempio erano ornate con metope figurate realizzate con calcarenite locale e con marmo, utilizzato per le parti nude delle figure femminili. È una delle realizzazioni piú significative della grande stagione vissuta dall’architettura templare selinuntina all’indomani della vittoria riportata dai Greci sui Cartaginesi nel 480 a.C. a Himera; una stagione che si protrae sino alla prima distruzione della città, nel 409 a.C.
dolce come il miele
Strutture comprese nel recinto sacro dedicato a Zeus Meilichios («dolce come il miele»), appellativo che connotava il padre degli dèi come divinità infera. Il complesso si trova nei pressi del santuario di Demetra Malophoros («portatrice di frutti»).
2
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Santuario di Demetra Malophoros
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Baglio Florio (Antiquarium)
Marinella di Selinunte
Tempio G Tempio F Tempio E
Piazzale Iole Bovio Marconi
1
Acropoli Necropoli
Foce del Fiume
Ingresso Parco Archeologico
Tempio D 3 Tempio C Tempio B Tempio A Porto Tempio O (interrato) Torre Polluce Foce del Fiume
Stazione Piazza Stesicoro
P.le Martiri Selinuntini Piazzale Dune delle Metope
Piazzale Efebo
Piazza Empedocle
Mar Mediterraneo
3
tempio c I resti del tempio C,
uno dei primi innalzati a Selinunte, e oggetto di una parziale ricostruzione nel 1924-26. È uno dei piú antichi esempi di architettura templare dorica esistente, essendo datato intorno alla metà del VI sec. a.C.
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speciale • selinunte
la città tra due fiumi Disegno ricostruttivo ipotetico della città di Selinunte, cosí come potremmo immaginarla prima del 250 a.C.,
anno della sua distruzione da parte dei Cartaginesi, nel corso della prima guerra punica.
In un periodo collocabile tra il IV e il III sec. a.C., il santuario dedicato a Zeus Meilichios viene ri-consacrato a Tanit e Baal Hammon, divinità del pantheon cartaginese.
Sul lato meridionale, l’acropoli di Selinunte era lambita dal mare: era stata perciò cinta da mura poderose e le porte disponevano di apprestamenti difensivi molto avanzati, cosí da poter resistere anche ad assedi portati a oltranza.
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L’abitato si sviluppò in due comprensori principali: il primo nella zona immediatamente a ridosso del porto e il secondo, piú vasto, nell’altopiano compreso tra i corsi del Modione e del Gorgo Cottone.
L’ampia disponibilità di terre coltivabili fu una delle motivazioni che indussero i coloni di Megara Iblea a scegliere il sito di Selinunte per la fondazione del nuovo insediamento.
Innalzato nella zona piú settentrionale della collina orientale di Selinunte, il tempio G è uno dei piú grandi dell’antichità classica. Le dimensioni colossali inducono a ritenere che fosse dedicato a Zeus.
All’indomani della conquista cartaginese di Selinunte, nel 409 a.C., l’area orientale della città fu abbandonata.
Per la divinità titolare del tempio F sono state avanzate diverse proposte di identificazione: Atena, Dioniso o forse anche Fobo, demone della religione greca personificante la paura.
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speciale • selinunte
territorio della colonia calcidese di Lentini (Leontinoi), a sud quello della potente Siracusa, città di fondazione corinzia; a ovest, a chiudere la piana costiera su cui è stanziata Megara, sono gli insediamenti dei Siculi. Non c’è possibilità di espansione, se non attraverso un pericoloso intervento militare. Ma i nuovi coloni, che a ondate continuano a sopraggiungere dalla madrepatria greca, si aspettano l’assegnamento di un lotto di terra. È un loro diritto, lo dice la legge, il sacro e inviolabile principio dell’isomoira, «l’uguaglianza nel possesso». Cresce il malcontento popolare, foriero, come sempre succede, di disordini sociali e instabilità politica. Una nuova impresa coloniale potrebbe essere una soluzione, una vera e propria valvola di sfogo: la madrepatria si alleggerirebbe di qualche problema
due acropoli per la città madre Centro politico della Megaride, piccola regione della Grecia centrale posta fra Attica, Beozia e l’Istmo di Corinto, la città di Megara conosce la sua massima fioritura tra l’VIII e il VI secolo a.C. Insieme alle città euboiche di Calcide ed Eretria, e alla vicina Corinto, riveste un ruolo di primo piano nella piú antica fase della colonizzazione greca, indirizzando i suoi interessi in Sicilia e in Propontide. Il contrasto fra la documentazione archeologica megarese e quella delle colonie di Megara Iblea e Selinunte è quasi scioccante: la cittadina moderna, sovrapposta all’antica, ha reso impossibili indagini estensive. Tutto quel che conosciamo della topografia urbana lo desumiamo dalla tradizione letteraria. La piú ampia e articolata descrizione della città e dei suoi monumenti è offerta da Pausania (I. 39-44), che raggiunge Megara da Eleusi, attraverso la grande arteria di collegamento che unisce l’Attica al Peloponneso. La città si estendeva (come ai nostri tempi) su una vasta pianura dominata da due modeste alture che fungono da acropoli: detta «caria» quella orientale, «di Alcatoo» quella occidentale. La sella di collegamento tra le due acropoli era probabilmente sede dell’agorà cittadina. Particolarmente interessante la descrizione della topografia
interno; chi parte potrebbe coltivare la speranza di una vita migliore, nuove terre e, con un po’ di fortuna e spirito di iniziativa, una posizione sociale non subalterna.
nuove prospettive La decisione coinvolge tutta la comunità megarese, sia coloniale che metropolitana: gli interessi in gioco sono molti, non ultimi quelli commerciali. Il luogo prescelto per il futuro insediamento – probabilmente già oggetto di perlustrazioni – si trova sulla costa sud-occidentale della Sicilia, lontano dalle aree di addensamento delle colonie greche. Si aprono nuove prospettive, sia per i traffici transmarini che per quelli diretti al mercato interno. A suggello della decisione, e della comunanza di interessi, la madrepatria Megara invia in Sicilia il fondatore della colonia, Pammilo. Tutto è pronto per la partenza: la flotta, con il suo prezioso carico di uomini esce dal porto di Megara Iblea. Non esistono bussole o carte nautiche cui fare affidamento; le tecniche di navigazione del tempo si basano sostanzialmente sulla conoscenza delle linee costiere e dei fondali, sulla capacità di prevedere e interpretare i fenomeni naturali, sul buon senso del comandante della spedizione. Si fa rotta verso sud, costeggiando il territorio della nativa Megara, a cui segue quello di Siracusa, con (segue a p. 86) 82 a r c h e o
cultuale delle due acropoli, per i rapporti, spesso invocati nella letteratura archeologica, con quella delle colonie siceliote di Megara Iblea e soprattutto Selinunte. Sull’acropoli caria il Periegeta segnala un tempio dedicato a Dioniso Nyktelios (in riferimento alle orge notturne celebrate per la morte e resurrezione del dio), un santuario di Afrodite Epistrophia («colei che spinge gli uomini verso l’amore») e il megaron di Demetra. Sull’acropoli di Alcatoo nota invece un tempio di Atena, un tempio di Apollo Pizio e un santuario di Demetra Thesmophoros. Demetra, con i due luoghi di culto acropolitani ai quali va aggiunto quello extraurbano della Malophoros, in prossimità del porto di Nisea, sembra rivestire un ruolo di primo piano nel pantheon cittadino. Lo stesso nome della città, secondo una tradizione locale riportata da Pausania, deriverebbe dai megara, le cavità sotterranee impiegate nei misteriosi rituali, tutti al femminile, celebrati in onore della dea. Nella pagina accanto: maschera votiva, dal santuario di Demetra Malophoros. V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
Statua votiva in terracotta, dal santuario di Demetra Malophoros. V sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
In basso: veduta aerea dei resti di Megara Iblea, città da cui partirono i coloni che, nel 651 (o 628) a.C. diedero vita a Selinunte.
I coloni guidati da Pammilo fanno rotta verso sud, navigando, come diceva Omero, «verso la notte» a r c h e o 83
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Il Parco delle meraviglie La storia di Selinunte è segnata da una duplice fondazione: quella del megarese Pammilo, ovvero della nascita; quella della creazione del Parco Archeologico di Selinunte, ovvero della rinascita. Quest’ultima ha posto fine allo scempio provocato dall’abusivismo edilizio, giunto a lambire i templi della collina Orientale. Ciò insegna che un «bene» non è di per sé «culturale». Lo diventa solo se percepito e vissuto come tale da tutta una comunità. Come possiamo intuire leggendo il contributo del Direttore del Parco Archeologico, Caterina Greco, occorrono impegno, entusiasmo e creatività. Allora tutto può succedere... «Dal settembre del 2010 il Parco di Selinunte e Cave di Cusa “Vincenzo Tusa”, che l’amministrazione regionale ha voluto significativamente intitolare allo studioso e soprintendente archeologo che in tempi non facili assicurò al pubblico demanio una della aree archeologiche piú vaste del Mediterraneo, è una nuova realtà istituzionale dotata di autonomia gestionale e scientifica. Con i suoi 270 ettari, piú i 40 delle Cave di Cusa (dove si possono ancora ammirare i rocchi di colonna pronti per essere trasportati e messi in opera nelle imponenti architetture templari selinuntine), il Parco di Selinunte è, dopo quello della Valle dei Templi di Agrigento, il piú ampio e articolato della Sicilia. Ma, emergendo su tutti gli altri luoghi del Mediterraneo, il sito emana una suggestione unica e incomparabile, giacché comprende l’intero ambito topografico e urbanistico di tutta una città antica, compresi i santuari extramurari, le aree portuali e brani delle un tempo immense necropoli; compendiando, insomma, e al suo 84 a r c h e o
di Caterina Greco massimo livello, l’esperienza stessa dell’incontro con la civiltà greca. Sulla base delle normative in vigore presso la Regione Siciliana, che ha piena autonomia legislativa e organizzativa nel settore dei beni culturali e ambientali, il Parco, oltre alle zone demaniali di naturale pertinenza di Selinunte e Cave di Cusa, include un’area assai piú vasta che assorbe le aree archeologiche sia dei Comuni eponimi di Castelvetrano e Campobello di Mazara che di quelli limitrofi. La fase di definizione e perimetrazione del territorio del Parco, che prevede un iter complesso, è tuttora in corso, ma a nostro avviso per potere dispiegare al meglio le sue enormi potenzialità in termini di valorizzazione culturale esso dovrà aggregare funzionalmente varie realtà culturali, secondo un’impostazione interdisciplinare direttamente discendente dall’art. 101 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 che amplia (sia in senso geografico che storico-culturale), la definizione di «parco» individuata dagli attuali strumenti legislativi (legge regionale n. 20/2000). Ne dovranno far parte in primo luogo i territori comunali del Trapanese legati, fin dalla sua fondazione, all’area di penetrazione della colonia greca: quindi le porzioni meridionali della Valle del Belíce, significativamente emergenti nelle dinamiche insediative sin dal Neolitico e soprattutto nelle età del Medio e Tardo Bronzo che costituiscono «l’antefatto» della successiva esperienza coloniale, e l’area rivolta verso la cuspide sud-occidentale della Sicilia, dove la nascita dell’emporium portuale di Mazara, promossa dai coloni selinuntini, rappresentava la punta avanzata
Sulle due pagine: una veduta dell’area archeologica di Selinunte, oggi compresa nel Parco di
Selinunte e Cave di Cusa «Vincenzo Tusa». Nel riquadro:
Cave di Cusa (Campobello di Mazara). Rocchi di colonna semilavorati, ancora attaccati al banco roccioso dal quale erano stati ricavati.
dell’elemento greco lungo la frontiera, politicamente e militarmente instabile, nell’area popolata dai Greci di Selinunte, dai Fenici di Mozia, dai nuclei sicani dell’entroterra e dagli Elimi di Erice, Segesta, della vicinissima Entella. A oriente, invece, lungo la sponda sinistra e oggi agrigentina di quello stesso fiume Belíce (Hypsas) che costituisce il principale asse di penetrazione della viabilità antica in questo settore della Sicilia occidentale, l’area di pertinenza «selinuntina» si spinge alla limitrofa Menfi, dalle cui cave di Misilbesi veniva estratta la pietra utilizzata per le sculture architettoniche selinuntine, e fino a Sciacca, l’antica statio delle Thermae Selinuntinae sorta sulla grande via di comunicazione greca (la selinuntina odòs di cui parlano le fonti classiche e l’Itinerarium Antonini) che da Akrai giungeva sino a Selinunte, collegando tutte le fondazioni greche della costa meridionale della Sicilia e gli insediamenti immediatamente limitrofi al litorale mediterraneo (come il sito di Rocca Nadore e il Monte Kronio nel comprensorio saccense). Lo sviluppo di vari tipi di itinerari archeologici, relativi alla preistoria e protostoria, al periodo greco-romano, alle epoche musulmana e medievale, che si intersecano all’interno dell’ambito territoriale delineato disegnando ulteriori tappe di altrettanti percorsi culturali, è la prima e naturale vocazione del Parco. Ma, oltre a questa connotazione, l’area annovera numerose e pregevoli valenze paesaggistiche, tra le quali spiccano diverse Riserve Naturali (quella della Foce del fiume Belíce, il complesso delle «sciare» della Riserva dei Gorghi Tondi e Lago Preola che si
estendono tra Capo Granitola (Campobello di Mazara) e Cave di Cusa; la Riserva Naturale di Monte Finestrelle e delle Grotte di Santa Ninfa, da cui nasce il fiume Selinos-Modione), mentre non meno importante è la testimonianza offerta dalla straordinaria sperimentazione di arte e architettura contemporanea dei paesi belicini distrutti dal terremoto del 1968, in un territorio in cui anche il verificarsi di sismi violentissimi costituisce un elemento di significativa «continuità» fenomenica, dall’antichità ai nostri giorni. Oggi l’intensa attività culturale del Parco si snoda tra ricerca scientifica (nel sito operano le missioni archeologiche della New York University e dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma), restauri e opere di valorizzazione (sono in dirittura d’arrivo i bandi dei progetti del parco finanziati con fondi europei per quasi 9 milioni di euro), convegni e conferenze a tema (i nostri cicli di «Incontri del Baglio Florio»). Altrettanto prioritaria è l’attenzione per ogni forma di contaminazione culturale che unisca l’archeologia al contemporaneo (nell’architettura, nelle arti visive, nel teatro, nella poesia), da cui scaturiscono le molteplici iniziative svolte in collaborazione stabile con la Fondazione Orestiadi di Gibellina, con l’AIAC (Associazione Italiana di Architettura e Critica), con quello straordinario aedo-teatrante che è Mimmo Cuticchio: in nome di un dialogo «oltre il tempo» che può costituire un’occasione di riappropriazione della cultura classica in grado di fornire, soprattutto alle nuove generazioni, spunti originali di interesse, di scoperta e di confronto. Contro ogni tentazione di staticità, e di omologazione». a r c h e o 85
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l’avamposto di Eloro a segnarne il confine meridionale. Oltrepassato Capo Pachino (Capo Passero), estrema punta della Trinacria sul Mediterraneo, si veleggia verso Occidente. Una rotta battuta sin dai tempi antichi, ma pur sempre piena di incognite. Si va «verso la notte», diceva un tempo Omero. Non doveva essere molto diverso per i coloni greci del VII secolo. L’ultimo avamposto della grecità in Sicilia è Gela, città fondata da coloni rodii e cretesi. Altri abitano le terre che seguono, sono barbari: le tribú guerriere dei Sicani, i misteriosi Elimi arroccati nelle città di Erice e Segesta, e poi i Fenici, commercianti e grandi esperti nell’arte della navigazione. Hanno basi a Mozia, Solunto, Panormo (Palermo), ma il loro regno è il mare, su cui dominano incontrastati. La nuova colonia megarese, la piú occidentale di Sicilia, si preannunzia da subito come una città di frontiera.
Lo smarrimento dei coloni Possiamo solo immaginare lo stato d’animo dei partecipanti all’impresa, quel senso di smarrimento che coglie l’uomo quando lascia il proprio mondo e s’avventura per mare, verso l’ignoto. Tutti, dall’aristocratico Pammilo sino al piú umile dei servi, sono accomunati da uno stesso destino, forse da uno
stesso sentire. Il poeta Archiloco di Paro, che nel VII secolo a.C. visse personalmente un’analoga esperienza coloniale, ci ha lasciato questi versi indimenticabili, che val la pena condividere: «In bilico tenevano la barca // sul filo dell’onda e del vento. // Oh, quante volte // su le bianche ricciute onde del mare // implorammo il dolce ritorno (traduzione
Una mescolanza di genti, culture e popoli Le popolazioni indigene della Sicilia non hanno lasciato una tradizione letteraria scritta. Quel poco che conosciamo sulle loro vicende storico/politiche lo dobbiamo agli storici greci che manifestano un certo interesse per quel mondo «altro» solo nel momento dell’incontro o dello scontro. Tucidide ci ha lasciato un celebre excursus geografico ed etnografico sulla Sicilia pre-greca e greca (Hist., VI, 2). Questa «divagazione» è funzionale allo specifico argomento trattato nel VI libro della sua Storia del Peloponneso, ovvero la spedizione di Atene in Sicilia, condotta tra il 415 e il 413 a.C. Gli Ateniesi, a suo dire, andarono incontro al fallimento perché non avevano la
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piú pallida idea dell’estensione dell’isola e del numero dei suoi abitanti. Da questa constatazione prende avvio il lungo excursus. Furono i Ciclopi e i Lestrigoni, secondo lo storico greco, i primi leggendari abitatori dell’isola, dei quali «non sono in grado di indicare la stirpe, né il luogo di provenienza né la fine che fecero». Dopo di loro sopraggiunsero i Sicani, cui si deve il nome dell’isola: Sikania. Lo storico li considera di origine iberica, ma prende nota del fatto che essi stessi si consideravano autoctoni. Ai tempi della colonizzazione greca dell’isola, i Sicani, sotto la spinta della popolazione dei Siculi, sopraggiunta dalla Penisola italica, si ritirarono nel settore centro-occidentale
dell’isola. Qui si unirono a fuggiaschi troiani e focesi formando il nuovo ethnos degli Elimi, le cui roccaforti, Erice e Segesta, erano collocate nell’estrema punta occidentale dell’isola. Una mescolanza di genti, culture e popoli, tutti provenienti da fuori. La storicità di questa ricostruzione è stata spesso messa in discussione. Ma questo racconto – uno dei tanti sulle origini delle popolazioni anelleniche – piú che preso alla lettera, va interpretato. Per i Greci, dare un’identità e una precisa origine (spesso greca o troiana) ai popoli con cui venivano in contatto corrispondeva a un bisogno profondo, un modo per sottrarli alla loro alterità e integrarli in un mondo conosciuto.
Materiali provenienti dallo scavo nel tempio R della missione statunitense che opera a Selinunte (vedi alle pp. 88-89): un frammento di una grande oinochoe (brocca per vino) con fregio animale, databile al 630 a.C. circa (in alto, a sinistra); un flauto in osso (in basso).
di ManaraValgimigli). Ma ormai non c’è piú tempo per la malinconia. La costa si apre in un vasto golfo, compreso fra gli attuali Capo San Marco e Capo Granitola. Pammilo fa un cenno ai suoi compagni: la meta è raggiunta. Visto dal mare, il luogo scelto per il nuovo insediamento appare favorevole, sotto tutti i punti di vista: un promontorio a picco sul mare, delimitato su entrambi i lati da profonde insenature, sbocco naturale di due fiumi, il Gorgo Cottone a est, il Modione – antico Selinos – a ovest. Un sito facilmente difendibile da attacchi esterni, con due baie perfette per l’attracco delle navi e valli fluviali attraverso le quali penetrare agevolmente nell’entroterra. Completate le operazioni di sbarco, ha inizio la perlustrazione del sito. Ad attirare l’attenzione dei primi coloni è una pianta, l’appio palustre, una specie di sedano selvatico che cresce spontaneamente lungo il corso dei fiumi locali. Il suo nome greco è selinon. Non sappiamo per quale motivo – ne conoscevano forse le proprietà terapeutiche, o era sacra a un dio –, ma proprio dal selinon deriva il nome della colonia, Selinunte, e la stessa pianta verrà adottata come simbolo della città nelle prime emissioni monetali.
un sito ideale Risalito il pendio della collina, Pammilo e i suoi compagni raggiungono la sommità del promontorio prospiciente il mare (la collina detta dell’Acropoli). Quello che da lontano sembrava solo uno sperone roccioso è in realtà un ampio pianoro, dal quale si ha una visione completa di tutta l’area circostante: alle spalle un secondo e ancora piú vasto plateau (la collina di Manuzza), collegato all’Acropoli attraverso una lingua di terra piana, futura sede dell’agorà (la piazza pubblica) cittadina. All’orizzonte, oltre le valli fluviali, sono due dorsali collinari altrettanto sopraelevate rispetto al livello del mare: a est la collina Orientale, a ovest le morbide colline di contrada Gaggera.Tutto intorno distese di fertili terre, a perdita d’occhio. Il primo quesito riguarda l’identità delle genti che i Greci potrebbero aver trovato al momento del loro arrivo: le aree di stanziamen-
Particolare di un bracciale in bronzo, recuperato anch’esso nel corso degli scavi condotti nell’area del tempio R dalla missione dell’Institute of Fine Arts della New York University.
to delle colonie erano raramente eremos chora, una terra incolta, abbandonata. Nel settore piú settentrionale del pianoro di Manuzza sono stati rinvenuti, al di sotto dei livelli riferibili al VI secolo a.C., resti di capanne dalla pianta absidale associati a ceramica di produzione indigena. Questi resti sono stati interpretati come la prova dell’esistenza di un abitato «sicano» nell’area di stanziamento della colonia. Ma non si può escludere, in verità, che si tratti delle abitazioni dei primi coloni: ceramica indigena mista a ceramica di produzione greca è stata infatti rinvenuta in altri contesti, sicuramente attribuibili alla prima fase di vita della colonia. La presenza di ceramica indigena indica comunque che esistevano contatti e scambi fra Greci e le comunità locali – sicane ed elime – stanziate nell’entroterra. I coloni sono arrivati con la precisa intenzione di conquistare e prendere possesso di un territorio ma, almeno in un primo momento, i rapporti sembrano impostati sul piano di una pacifica convivenza. Incombevano, del resto, altre priorità: c’è una comunità da organizzare, una città da costruire. Ma dei primi e fondamentali passi ci racconta Clemente Marconi, direttore della missione archeologica statunitense che ha recentemente indagato il settore piú meridionale (segue a p. 90)
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nel solco di una tradizione prestigiosa Intervista a Clemente Marconi Docente alla New York University, Clemente Marconi (foto qui accanto) guida la missione archeologica alla quale si devono acquisizioni di primario interesse per la storia di Selinunte. Lo abbiamo perciò incontrato, invitandolo a tracciare un bilancio delle ricerche piú recenti.
◆ P rofessore, dopo quasi 200 anni
di ricerche archeologiche, Selinunte riserva ancora grandi sorprese. Quali sono stati i risultati delle ultime indagini? La campagna di scavo dell’estate 2012, all’interno della cella del tempio R, presso l’entrata, ha permesso di stabilire che, verso la fine del IV secolo a.C., l’interno di questo edificio è stato oggetto di uno spesso riempimento, alto piú di 1 m, accuratamente formato da livelli successivi di anfore da trasporto, terra e tegole. Nel rialzare in misura considerevole il pavimento all’interno dell’edificio, questo riempimento ne ha anche sigillato le fasi arcaica e classica, rimaste finora inesplorate. Abbiamo cosí potuto individuare tre piani pavimentali, databili rispettivamente all’età tardo-classica (quando si mettono in opera i pilastri di sostegno del tetto al centro della cella), all’età classica (con tracce di incendio e distruzione plausibilmente associabili con la violenta presa cartaginese di Selinunte nel 409 a.C.), e all’età arcaica (con buona parte delle offerte votive deposte contro i muri della cella: vasi per libagione, ceramica fine, oggetti di ornamento personale, armi, terrecotte figurate, e un flauto in osso). Al di sotto del livello di fondazione del tempio dei primi decenni del VI secolo a.C., sono stati poi identificati due fori di palo che, in base all’orientamento e alle dimensioni, sono meglio interpretabili come i supporti centrali di un edificio di culto, di cui, negli anni passati, abbiamo messo in luce tracce del pavimento e dei muri perimetrali. Tale edificio può datarsi al terzo quarto del VII secolo a.C., grazie al rinvenimento di ceramica corinzia, in particolare una grande oinochoe
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conica con fregio animale (630 a.C. circa) che trova confronti puntuali con vasi del Protocorinzio Tardo e del principio della fase Transizionale (foto a p. 86).
◆ C he cosa implicano questi nuovi
dati dal punto di vista della ricerca su Selinunte e, piú in generale, sulla storia delle colonie greche in Sicilia? Con ogni probabilità, abbiamo identificato il luogo di culto piú antico della colonia greca di Selinunte, riferibile al momento stesso della fondazione (se si segue la datazione tucididea al 628-627), o comunque ai primi decenni di vita (seguendo la datazione alternativa al 651-650 proposta da Diodoro). Non c’è dubbio che il proseguire delle nostre ricerche porterà un contributo significativo al tanto discusso problema della data di fondazione di Selinunte. Al momento, possiamo già dire che, come era da aspettarsi leggendo le fonti letterarie, nel VII secolo la definizione delle principali aree sacre delle colonie, e la costruzione dei templi delle divinità, erano effettivamente uno dei primi atti eseguiti dai coloni dopo la fondazione. ◆ P arliamo di culto: che cosa si può dire, alla luce delle nuove scoperte, circa la divinità venerata nel tempio R? Nei nostri scavi abbiamo identificato, all’interno e all’esterno del tempio R, una quantità significativa di materiali votivi e di resti ossei di animali sacrificati. Non c’è dubbio che la divinità del tempio R fosse femminile: ce lo indicano i numerosi frammenti di pissidi con funzione votiva, e le terracotte figurate, tra le quali un bel
busto policromo femminile della prima età severa e una statuetta di dea con polos (copricapo di forma cilindrica, n.d.r.)e mantello in stile dedalico, databile ai primi decenni del VI secolo a.C.; quest’ultima è stata rinvenuta accuratamente incastrata nel pavimento del tempio arcaico, e rappresenta al meglio l’immagine della dea al momento della costruzione del tempio R. La divinità aveva un carattere poliadico (cioè di protettrice della città, n.d.r.), dato il rinvenimento di un cospicuo numero di armi, principalmente lance in ferro. Dovendo proporre un nome, le principali candidate sono Artemide e Demetra: propendiamo per quest’ultima, anche in base alla netta prevalenza di maiali tra i resti ossei di animali sacrificati, rinvenuti all’interno e all’esterno dell’edificio. L’identificazione del tempio R come luogo di culto dedicato a Demetra ha il suo fascino, considerato che gli altri grandi templi del santuario, C e D, sono attribuibili, rispettivamente, ad Apollo e ad Atena, e che la stessa triade di divinità – Demetra, Apollo e Atena – è documentata sull’acropoli principale di Megara, in Grecia. Si avrebbe perciò nel principale santuario urbano di Selinunte la replica della topografia dei culti della madrepatria.
◆ L a missione statunitense da lei
diretta opera dal 2006. In quale settore del sito archeologico si sono concentrate le ricerche? La missione dell’Institute of Fine Arts-NYU ha intrapreso, in
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In alto: planimetria dell’area indagata dalla missione statunitense diretta da Clemente Marconi. A sinistra: veduta aerea dei resti del tempio R.
convenzione prima con la Soprintendenza di Trapani e ora con il Parco Archeologico di Selinunte, una nuova indagine topografica, architettonica, e archeologica del settore meridionale del grande santuario urbano della colonia megarese. Il grande santuario urbano occupa grosso modo il centro della cosiddetta Acropoli, una delle due colline che formavano il nucleo della città di età arcaica e classica. L’area del santuario è segnata da un notevole numero di edifici sacri, compresi due templi peripteri – C e D – e diversi altari. In particolare, il settore meridionale del grande santuario include, oltre a uno dei principali luoghi di accesso all’area, il tempio B (300 a.C. circa) e il relativo altare – uno dei principali luoghi di culto di Selinunte in età ellenistica –, il tempio R, collocato a ovest del precedente, e a sud un grande edificio a gradini meglio identificabile come un teatro rettilineo realizzato per assistere a spettacoli associati principalmente al tempio R.
◆Q uale intuizione l’ha spinta a
riprendere gli scavi sull’acropoli? Selinunte è meglio nota per i suoi templi, indagati soprattutto nel corso dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento. Lo studio e la pubblicazione di questi edifici sono stati in genere limitati all’indagine architettonica e alla decorazione scultorea. Meno si è fatto in termini di scavo stratigrafico e di studio della dimensione rituale attraverso l’analisi dei manufatti e dei resti faunistici. Di fatto, molti templi di Selinunte sono privi di contesto archeologico e antropologico: è questa una delle grandi ironie del nostro sito, e un vuoto di conoscenza al quale stiamo cercando di ovviare con le nostre ricerche.
dell’archeologia. L’interesse per l’archeologia classica ha una lunga tradizione, che risale a Karl Lehmann (1894-1960), il grande archeologo di Samotracia, al quale si deve anche la creazione dell’Archaeological Research Fund della New York University. Il santuario dei Grandi Dèi nella greca Samotracia, Afrodisia in Turchia, Abido in Egitto e ora Selinunte sono le missioni dell’IFA: l’importanza assegnata all’archeologia nasce dalla profonda convinzione che lo studio della storia dell’arte e dell’architettura debbano partire da un esame diretto e contestuale delle opere. In questo senso, l’archeologia è parte essenziale della nostra missione intellettuale ed educativa. La Duke House, che dal 1958 ospita l’Institute of Fine Arts della New York University.
◆ L a New York University è uno
dei piú prestigiosi atenei statunitensi. Quali sono, secondo lei, i punti di forza e le eccellenze di questa istituzione? L’Institute of Fine Arts è uno dei principali centri al mondo per lo studio della storia dell’arte e
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Bronzetto fenicio proveniente dalle acque al largo di Sciacca. XIII sec. a.C. Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas».
del grande santuario urbano, sulla collina dell’Acropoli (vedi l’intervista alle pp. 88-89). Abbiamo lasciato Pammilo e i suoi compagni a radunare le forze dopo le fatiche del viaggio. Le prime energie vengono spese per la costruzione di case. Le testimonianze archeologiche sono, al proposito, estremamente frammentarie e di problematica interpretazione. Si ipotizza che il primo stanziamento fosse caratterizzato da nuclei sparsi di abitazioni, dislocati sul pianoro di Manuzza e, probabilmente, sulla valle del Gorgo Cottone, non lontano dal luogo dello sbarco: al di sotto della cinta muraria del VI secolo a.C. sono stati rinvenuti lacerti di muri pertinenti a strutture rettangolari, interpretate come abitazioni monocellulari. Una piccola necropoli (detta «arcaica»), con sepolture a incinerazione entro olle, si estendeva alle pendici meridionali della collina di Manuzza, nell’area poi occupata dall’agorà.
un rapporto privilegiato Abitazioni per gli uomini, dunque, e sepolture per i defunti. Ma non solo: non si può fondare una città senza la tutela degli dèi, che vanno onorati celebrando sacrifici e costruendo per
I Fenici in Sicilia Secondo la tradizione tucididea, l’arrivo dei Fenici in Sicilia precede quello dei coloni greci di epoca storica. Essi strinsero relazioni commerciali con i Siculi, ottenendo il permesso di insediarsi nei promontori e nelle isolette disseminate lungo le coste dell’intera isola. «Ma quando i Greci cominciarono ad arrivare in massa dal mare ne abbandonarono la maggior parte e, concentratisi nei pressi del territorio degli Elimi, occuparono Mozia, Solunto e Panormo, fidando nell’alleanza con gli Elimi, nonché nel fatto che in quel punto Cartagine si trova alla minima distanza, via mare, dalla Sicilia»(Thuc., Hist., VI, 2, 6). Dal punto di vista archeologico la presenza fenicia in Sicilia diventa tangibile, a livello di insediamenti, solo in concomitanza dell’arrivo dei coloni greci, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. Prima di questa data, le testimonianze che suggeriscono una frequentazione dell’isola da parte fenicia sono costituite da materiali di importazione, soprattutto perline in pasta vitrea, rinvenuti in contesti indigeni. Questa frequentazione, riferibile a un arco cronologico compreso tra il X e l’VIII secolo a.C., è stata messa in relazione con la fine della talassocrazia micenea in Occidente (XII-XI secolo a.C.), che avrebbe aperto le vie dei mari al commercio fenicio. A un orizzonte ancora piú antico (XIII secolo a.C.) si riferisce una statuetta bronzea di divinità fenicia rinvenuta al largo di Sciacca. Si tratta, al momento, dell’unico, isolato indizio di una precoce frequentazione fenicia dell’isola, fatto su cui insistono le fonti letterarie antiche.
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loro una casa. Il tempio – indipendentemente dalla sua forma architettonica – è la piú alta espressione dell’identità e dell’affermazione politica, culturale ed economica della città greca e delle sue élite dirigenti. Selinunte, oggi possiamo dirlo, non sfugge a questa regola. Il piú antico edificio di culto è, come si legge nell’intervista a Marconi, dedicato a Demetra, divinità conosciuta e venerata in tutto il mondo greco, siceliota in particolare. Ma tra Demetra, Megara e Selinunte sembra esistere un rapporto privilegiato: la dea riveste un ruolo di primo piano nel pantheon della metropoli greca, come mostrano le aree di culto collocate sulle due acropoli cittadine e in area extraurbana, in prossimità dell’insediamento portuale di Nisaea. A Selinunte sembrerebbe profilarsi una situazione analoga, con il sacello sull’acropoli e il santuario extraurbano di Demetra Malophoros («portatrice di frutti»), sulla collina della Gaggera, non lontana dalle foci del fiume Selinos (attuale Modione). Le colonie non sono create a immagine e somiglianza delle città d’origine ma, a giudicare dalla topografia cultuale di Selinunte cosí come appare codificata nel VI secolo a.C., sembra esserci stato un fedele trapianto dei culti della madrepatria greca da cui, ricordiamo, proveniva Pammilo, il fondatore. La triade ApolloAtena-Demetra, dominatrice del «santuario urbano» sulla collina dell’Acropoli, incarna perfettamente questo legame, allacciando la nuova fondazione all’universo delle origini.
Disegnare una città Gli scavi condotti nell’area del tempio R ci svelano, inoltre, che il settore meridionale del grande santuario urbano rappresenta il punto di partenza per la progettazione della futura città, nella sua estensione complessiva. Questo «disegno» viene tradotto sul terreno tra il volgere del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Dal punto di vista della storia politica, questo è uno dei periodi piú oscuri della storia della città, come della storia di tutta la grecità coloniale. A un regime sostanzialmente ugualitario (quale si ipotizza per le primissime – se non solo per la prima – generazioni di coloni) dovette seguire una sempre maggiore
Statuetta femminile con polos (copricapo cilindrico) e mantello. 570 a.C. La figurina, molto probabilmente identificabile con Demetra, è stata rinvenuta accuratamente incastrata nel pavimento della fase arcaica del tempio R, e rappresenta al meglio l’immagine della divinità al momento della costruzione dell’edificio (vedi alle pp. 88-89).
stratificazione sociale, causa di conflitti interni sfociati in regimi tirannici, come quello instaurato a Selinunte da Terone, figlio di Milziade, tra il 580 e il 570 a.C. Ma è questo anche il periodo in cui la colonia conosce uno straordinario sviluppo. Lo testimonia il suo grandioso piano urbanistico e la contestuale politica di espansione territoriale. Già al volgere del VII secolo la città, o meglio il suo spazio urbano, risulta esteso sulle due colline (cosiddetta Acropoli e Manuzza) comprese tra il corso del Gorgo Cottone e del Modione, vale a dire sull’intera area su cui si sviluppò la città del VI e V secolo a.C. Un progetto unitario e lungimirante: l’intero spazio viene suddiviso secondo un schema rigoroso, basato sul principio dell’ortogonalità degli assi stradali. L’area urbana viene cosí ad articolarsi in due settori distinti, caratterizzati da sistemi stradali dal diverso orientamento che corrisponde a quello, naturale, dei due pianori: la collina dell’Acropoli, dominata dal grande santuario urbano; il pianoro di Manuzza, occupato dalle unità abitative e dalle strutture artigianali. Nel punto di intersezione tra i due settori viene risparmiato un ampio spazio di forma trapezoidale occupato dall’agorà, la piazza pubblica cittadina. Una cinta muraria imponente, realizzata nei primi decenni del VI secolo a.C., va a definire ulteriormente lo spazio urbano, separandolo dalle terre agricole circostanti. Ma, quasi a sancire l’inscindibi(segue a p. 94)
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Li cunti di Omero Durante il suo soggiorno a Scheria, leggendaria isola dei Feaci, Odisseo indossa gli insoliti panni di Omero, improvvisandosi aedo: le peripezie del suo viaggio diventano la trama del racconto, la corte di re Alcinoo il suo pubblico. L’empatia che si viene a creare tra il cantore e i suoi ascoltatori è resa da un essenziale, splendido verso: «stavano lí, incantati, nel megaron ombroso». Quella dell’aedo, ovvero del cantore, è una professione senza tempo, inscindibilmente legata alla trasmissione orale di una cultura, di una tradizione. E cosí, a distanza di secoli, questo stesso verso riesce a introdurci nella magica atmosfera creata dal «canto» – o meglio dal «cunto» – di Mimmo Cuticchio, puparo e cuntore della tradizione siciliana. Teatro della sua irripetibile esibizione sono state, in una calda notte d’estate, le rovine dei templi di Selinunte. Al maestro la parola. «Il festival La Macchina dei Sogni nasce nella primavera del 1984, come omaggio ai cinquant’anni di attività artistica di mio padre, Giacomo Cuticchio. Ideato per fare il punto sul teatro dei pupi, il festival si è subito esteso a pratiche contigue: cunto e altre tecniche di narrazione orale, teatro da strada e di figura. Sin dalla prima edizione, attori e pubblico sono stati coinvolti in una grande festa del teatro che ha indotto lo spettatore a essere parte attiva nell’elaborazione delle storie, che si arricchiscono e si completano nella sua immaginazione. La XXIX edizione, ideata per il Parco Archeologico di Selinunte, possiamo davvero considerarla «speciale». Concentrandoci su un unico evento, come un articolato mosaico dalle molte tessere, abbiamo invitato il pubblico a intraprendere un viaggio singolare in cui si sono fusi leggenda, storia
di Mimmo Cuticchio e cunto. Un racconto coinvolgente, che ha portato gli spettatori a ripercorrere il «sentiero» della memoria: dal mito della nascita della Sicilia al parallelismo tra la fine di Troia, assediata e distrutta dagli Achei, e quella di Selinunte, devastata dai Cartaginesi. Un lungo racconto per suoni, immagini e «apparizioni», con narratori-sacerdoti che hanno esposto le vicende umane e con gli dèi-pupi che hanno fatto da contraltare sonoro. Un mondo fantastico, in cui attori e pupi si sono armonicamente mescolati, materializzandosi tra le rovine del tempio G, portando le testimonianze, di Achille, Agamennone, Priamo, Ecuba, Elena, Menelao, Paride e degli dèi Atena, Teti, Febo, Era, Efesto, Tanit, narrando dalla fondazione di Selinunte, nella seconda metà del VII secolo a.C., da parte dei coloni di Megara Iblea, alla venerazione per Demetra, Era e Dioniso, sino al suo annientamento, nel 409 a.C. Non solo uno spettacolo, dunque, ma un percorso rituale che ha inizio all’ingresso del sito, dove sono state collocate delle installazioni – simboli e figure mitologiche – che trasportavano gli spettatori nella dimensione del racconto. Primo tra tutti quello di Giovanni Guarino, che narrava la nascita della Sicilia; poco distante, il percorso di canne, in cui Mario Crispi, nel descrivere la loro sonorità, introduceva al mito di Eolo; e, piú avanti ancora, Bruno Leone, che, parlando della prima maschera greca, coinvolgeva i piú piccoli e conduceva il pubblico davanti al tempio di Era, dove l’attrice Paola Pace introduceva alle vicende di Selinunte. Io, come narratore-guida, tenevo le fila del racconto realizzato dagli allievi attori-narratori – Sergio Beercooch, Marco Bertarini, Giancarlo Bloise, Chiara Casarico,
Floriana Patti, Donato Pichi, Giusepe Sciarratta, Sabrina Sproviero – e a conclusione cuntavo della distruzione di Troia e quella di Selinunte. Tutto il racconto, organizzato attorno alle rovine del tempio G, era articolato con il suono dei tamburi di Alfio Antico, che restituiva la drammaticità della vicenda raccontata, resa ancora piú intensa dalla scultura di fuoco di Paolo Buggiani che, a fine percorso, accompagnava il pubblico verso l’uscita, mentre attori, narratori e musici si ritiravano dentro il tempio di Era. Nonostante l’assenza di contributi da parte di enti pubblici locali, (abbiamo contato solo su quello ministeriale), La Macchina dei Sogni, arrivata alla XXIX edizione, ha testimoniato, ancora una volta, che l’Opera dei pupi è un teatro vivo
e creativo, che ha saputo determinare una sua storia. Piú volte ho affermato che la tradizione non è per me lettera morta, ma un albero i cui rami continuano a germogliare, lasciando intravedere le nuove foglie che crescono; recuperare le tensioni, le tecniche implicite ed esplicite, gli usi e le tendenze, che, sin dalle origini, sono diventate vita di questo teatro, non è stato mai, per me, un dovere, ma anzi una ricchezza. Ebbene, La Macchina dei Sogni nasce per fare il punto sul teatro dei pupi attraverso i cinquant’anni di attività artistica di mio padre e far conoscere la profonda teatralità dello stesso teatro; a distanza di trent’anni, il mio desiderio di provare a inquadrare da una diversa prospettiva l’universo dell’Opera dei Pupi non è cambiato. Quest’anno, grazie alle sensibilità di
Il maestro Mimmo Cuticchio e alcuni attori della sua compagnia durante una delle azioni sceniche presentate in occasione della XXIX edizione del festival La Macchina dei Sogni, svoltosi nel 2012 a Selinunte. Servendosi di varie forme di espressione artistica, la rassegna ha ripercorso la storia della colonia megarese, mescolando tradizioni leggendarie e realtà storica.
Caterina Greco, direttrice del Parco Archeologico di Selinunte, ho potuto immaginare questo viaggio, sperimentando una messa in scena nuova che, nelle intenzioni, aveva la pretesa di offrire al visitatore un’esperienza culturale che interagisse con la fantasia di chi osservava, muovendo una tastiera espressiva elementare e metaforica, a un tempo».
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le unità tra nucleo urbano e territorio, è una sorta di «cintura sacra» di collegamento e protezione: a est, oltre la valle del Gorgo Cottone, i grandiosi templi dorici della collina Orientale (denominati E, F, G); a ovest, sulle dune lambite dal corso del Modione, la linea dei recinti sacri dedicati a Demetra Malophòros e Zeus Meilichios («dolce come il miele»), divinità dalle forti connotazioni agrarie e infere. Ancora oltre, tutto intorno alla città, le necropoli cittadine, a cui seguono, senza soluzione di continuità, le infinite distese agricole.
in memoria del fondatore? Pammilo non fu testimone dello straordinario sviluppo della città da lui fondata, ma la sua memoria dovette essere gelosamente custodita dai cittadini di Selinunte. Al centro dell’agorà è stata recentemente rinvenuta una struttura a cassa, circondata da un recinto, interpretata dagli scavatori come un cenotafio (sepoltura onoraria, non contenete i resti del defunto), destinato a celebrare e perpetrare la memoria di un personaggio di altissimo rango. Che si trattasse di Pammilo è solo un’ipotesi. Di certo la monumentalità della struttura e la sua posizione enfatica nello spazio pubblico per 94 a r c h e o
eccellenza, l’agorà, indicano un personaggiosimbolo che doveva incarnare l’identità stessa della città. Chi meglio del fondatore? Nel corso del VI secolo a.C. la punta piú occidentale della Sicilia diviene mira dell’espansione coloniale di altri contingenti greci: gli Cnidii e i Rodii guidati da Pentatlo e gli Spartani di Dorieo che tentano rispettivamente di insediarsi a Lilibeo, fondamentale postazione marittima limitrofa all’emporio fenicio di Mozia (580 a.C. circa), e nei pressi della città elima di Erice (510 a.C.). Tutti tentativi fallimentari: la risposta fenicio-punica ed elima è immediata e aggressiva. Solo Selinunte, estremo avamposto della grecità in questo angolo di Sicilia, riesce a sopravvivere e, anzi, ad accrescere il suo prestigio e la sua potenza. Lo testimonia l’audace politica di espansione lungo la fascia costiera: nel corso del VI secolo a.C. la città estende i suoi confini orientali sino alle foci del fiume Platani, dove viene fondata, per arginare l’espansione della colonia greca di Agrigento, la sub-colonia di Minoa; verso occidente i confini si estendono sino al corso del Mazaro, area di pertinenza elima. Doveva averlo ben compreso Pammilo, sin dal momento della fondazione, che il destino
Palermo, Museo Archeologico Regionale «Antonio Salinas». Una delle sale in cui sono esposte le metope in origine appartenenti alla decorazione del tempio C di Selinunte. Sulla sinistra sono riconoscibili Perseo e la Medusa; a destra, Ercole e i Cercopi. Il museo è attualmente chiuso al pubblico per lavori di ristrutturazione dell’edificio.
gli scavi nella necropoli Sono ripresi gli scavi nella necropoli selinuntina di Manicalunga Timpone Nero, che si estende per oltre 5 Km a ovest del fiume Modione, subito dopo il santuario della Malophoros. Un sepolcreto vastissimo, di cui, già negli anni Sessanta, grazie al sostegno del Banco di Sicilia, erano state esplorate 5000 tombe. Dallo scorso ottobre, la Fondazione Kepha onlus, proprietaria dei terreni nei quali ha sede il Campo Archeologico Museale di Timpone Nero, ha iniziato, in regime di concessione dalla Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani e in collaborazione con il Parco Archeologico di Selinunte e Cave di Cusa, una campagna di scavi della durata di due anni, diretta da Rossella Giglio, responsabile dell’Unità Operativa Beni Archeologici della Soprintendenza trapanese, e condotta sul campo dall’archeologo Ferdinando Lentini, allo scopo di riportare alla luce le strutture funerarie e i loro corredi. Difficilmente, infatti, le tombe erano prive di oggetti. La pietas dei congiunti e degli amici accompagnava quasi sempre il
defunto con oggetti forse a lui cari che poi lasciava nella tomba. Si trattava piú spesso di lucerne che dovevano squarciare il buio dell’oltretomba, di statuette di divinità destinate a proteggerlo e infine di vasi per far perdurare la vita nell’aldilà. Oggetti destinati ai morti per soddisfare quei bisogni che avrebbero avuto nella loro vita ultraterrena, ma che ci offrono una testimonianza degli usi e costumi dei nostri predecessori e della loro vita di ogni giorno. Fino a tempi relativamente recenti l’archeologia è stata dominata dal desiderio di trovare, di estrarre dal suolo l’oggetto bello da tenere per sé, o, peggio, da sottrarre alla comunità tramite commerci illeciti. Questa mentalità è stata fortunatamente messa al bando dall’archeologia moderna, che ricerca nel terreno i segni della vita di chi ci ha preceduto, belli o brutti
In alto e in basso: due immagini degli scavi nella necropoli selinuntina di Manicalunga Timpone Nero.
che siano. Che i reperti provenienti dalle tombe ci diano la possibilità di conoscere qualche aspetto della vita dell’individuo a cui essi si riferiscono può essere testimoniato già dal confronto che possiamo stabilire con la realtà che ci circonda. Chiunque vada in un cimitero, infatti, attraverso segni, simboli, iscrizioni può farsi un’idea della personalità del defunto quando era in vita. L’opera di schedatura, classificazione e catalogazione che è stata avviata sarà il punto di partenza per l’utilizzazione razionale dei dati archeologici, che costituiscono una fonte primaria di storia e cultura intesa come facoltà di comprendere: un’intelligenza del presente sorretta dalla conoscenza del passato.
speciale • selinunte
I resti del tempio E, dedicato a Era. V sec. a.C. L’edificio, che nel suo assetto attuale è, in parte, frutto di un intervento di ricostruzione operato in età moderna, è considerato, per l’armonia delle forme e le proporzioni, come uno dei migliori esempi di architettura dorica in Sicilia.
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della colonia megarese sarebbe stato segnato, nel bene e nel male, dalla sua stessa posizione geografica, dal suo sorgere isolata in un territorio contrassegnato da presenze fenicie, sicane ed elime. La storia di Selinunte, nei due secoli di massimo splendore (VI-V secolo a.C.), è la storia di una città di frontiera, ricca e cosmopolita. Una storia fatta di incontri – nelle sue maglie vengono accolti elementi elimi, siculi, italici, etruschi, punici – e di inevitabili scontri, di cui sono eco, nelle fonti antiche, le continue dispute territoriali e i conflitti con l’elima Segesta. Questa esuberanza, e la ricchezza che sottende – frutto dei floridi commerci che vengono ad accentrarsi nei due porti cittadini – non è pensabile in quest’angolo di Sicilia senza la condiscendenza dei Fenici e soprattutto di Cartagine, che, nel corso del VI secolo, estende il suo controllo (eparchia) sui centri fenici dell’isola. Una «condiscendenza utilitaristica», come sempre ricordava Antonino Di Vita, profondo conoscitore della grecità siciliana: una volta venuto meno, da parte di Cartagine, l’interesse ad appoggiare questo partner commerciale, il destino della città fu segnato. Al volgere del V secolo a.C. la potenza di
Cartagine è tale da poter fare a meno dell’intermediazione greca. Alla richiesta di Segesta di intervenire contro l’eterna nemica, Selinunte, Cartagine risponde con un deciso intervento militare. Un cambiamento di rotta improvviso: «I Selinuntini non immaginavano affatto che sarebbero stati costretti a sopportare un’aggressione cosí tremenda da parte di un popolo che dalla loro alleanza aveva tratto tanti benefici» (Diod.Sic., Hist., 55,1). Nel 409 a.C., a due secoli e mezzo dalla sua fondazione, Selinunte viene conquistata e distrutta dalle forze cartaginesi. dove e quando Parco archeologico di Selinunte e Cave di Cusa «Vincenzo Tusa» e delle aree archeologiche di Castelvetrano, Campobello di Mazara e dei Comuni limitrofi Marinella di Selinunte, Castelvetrano (Trapani) Orario Selinunte: tutti i giorni, 9,00-17,00; festivi, 9,00-12,30; Cave di Cusa: tutti i giorni, 9,00-12,30 Info 0924 46277; fax 0924 46540 www.regione.sicilia.it/beniculturali/pda.html
il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda
«miracolo» sull’appia antica un tratto della regina viarum nel territorio di itri è stato salvato da un degrado decennale. ed è ora una meta di eccezionale valore paesaggistico e archeologico
L
a via Appia è uno dei monumenti stradali piú affascinanti dell’antichità. Aperta nel 312 a.C., collegava Roma a Capua, e fu poi prolungata fino a Taranto, per raggiungere Brindisi, dove il suo percorso aveva termine. Come tutte le strade romane, anche l’Appia patí gli effetti della crisi dell’età tardo-antica, ma, per la sua importanza strategica, molti suoi tratti rimasero in funzione. Uno di questi correva nell’immediato interno della costa tirrenica tra Terracina e Formia, che segnava il mutevole confine tra Lazio e Campania. Per molti secoli il confine ufficiale tra lo Stato Pontificio e il regno di Napoli correva sulle montagne retrostanti Terracina; ma il vero passaggio strategico era, in realtà, un poco piú a sud di Fondi, in quel valico di Itri che si prestava a essere ben fortificato, garantendo cosí un controllo militare dell’accesso al Regno. In età antica qui si sarebbe fermato Annibale; alle soglie del Medioevo qui Gregorio Magno fantasticava sulla presenza dei diavoli; e sempre qui Gioacchino Murat costruí il forte di S. Andrea, che chiudeva la valle dominando la piana di Fondi e i cui resti si possono ancora oggi vedere. La strada verso il passo risaliva la valle percorsa da un torrente sottostante i Monti Aurunci.
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Spettacolari sostruzioni di contenimento del tracciato stradale, il suo solido basolato, i ponti ancora in piedi, i miliari, i mausolei a bordo della via hanno sfidato secoli e secoli di storia giungendo a noi in condizioni talora davvero eccezionali.
L’uso conserva Il motivo è semplice: la strada non cessò mai di esistere. Nel tempo il suo tracciato fece da base ai tanti altri tracciati che sul piú antico si svilupparono. L’uso certamente trasforma, ma assai spesso mantiene le strutture piú di quanto non faccia l’abbandono. E quando,
alla fine dell’Ottocento, anche questo tratto di Appia antica fu abbandonato, il disuso distolse l’interesse dalla via, che venne lentamente inghiottita dalla vegetazione. Questa obliterazione è durata piú di un secolo, e non è stata indolore. Le pendici del monte, dagli anni Cinquanta del Novecento, sono parse il luogo ideale per le discariche pubbliche dei Comuni limitrofi. Dove si erano sovrapposti i tracciati stradali nelle diverse epoche storiche si sono andati accumulando ogni tipo di rifiuti. Migliaia di metri cubi di immondizie hanno sepolto la strada, le strutture al suo fianco, i
A destra: l’Appia Antica nella zona di Fondi, in una incisione di Carlo Labruzzi. Fine del XVIII sec. Nella pagina accanto: la via Appia Antica nel segmento interessato dal progetto promosso dal Comune di Itri. fossati del forte napoleonico. Degrado porta degrado. Visto che la strada era pur sempre terreno di proprietà pubblica, ecco che la SIP vi impianta i pali in cemento per le sue linee telefoniche, poi abbattuti e abbandonati sul posto, per sostituirli con una conduttura interrata che ha tranciato per tutta la sua lunghezza il basolato antico, nel frattempo sezionato anche dalle condotte dell’acquedotto degli Aurunci. Mezzo secolo di abbandono e di riuso scellerato – nella latitanza degli organi di controllo del paesaggio e dei suoi monumenti – avevano creato, alla fine degli anni Novanta, una situazione riprovevole e sconfortante. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, ci si poteva consolare che la discarica pubblica a cielo aperto aveva almeno frenato la speculazione edilizia. È a questo punto che, per iniziativa del Comune di Itri, parte nel 1999 un progetto di recupero di un primo tratto della strada antica sepolta dalle immondizie. Insieme con il Parco naturale dei Monti Aurunci e con la guida scientifica dell’Università di Bologna, nella persona di Lorenzo Quilici, il progetto parte dalla prima cosa da fare: il decespugliamento e la rimozione – per quanto possibile – dei rifiuti. Il risultato è stata la ricomparsa della strada antica, riemersa in uno stato di conservazione tanto spettacolare da favorirne il recupero nel suo bellissimo contesto ambientale. In realtà – e questo è il valore aggiunto – dobbiamo parlare delle strade antiche. L’analisi archeologica del tracciato ha infatti rivelato una fase piú antica della via, per una larghezza utile di oltre 6 m. Negli scassi della condotta telefonica è emerso poi un piancito
in piccoli basoli calcarei, a sua volta coperto dal possente lastricato in pietra basaltica con i suoi comodi marciapiedi. È questa la strada di cui parla un miliario già noto nelle vicinanze, che ne attribuisce il rifacimento all’imperatore Caracalla, nel 216 d.C. Lungo la strada era anche stata apprestata una piazzola di sosta, con tanto di cisterna, ricavata sbancando la roccia sul lato verso monte. Sopra il livello imperiale restavano tratti di un battuto stradale fatto con rattoppi di pietrame di piccola taglia, forse traccia di sporadiche manutenzioni di età medievale, seguite da piú importanti rifacimenti databili al XVI secolo, quando l’Appia – la strada per Roma – fu rimessa in sesto dal duca di Alcalà, viceré di Filippo II.
il recupero borbonico L’intervento di maggior impegno fu però quello effettuato nel 1767-68 dal re Ferdinando IV di Borbone: la strada fu livellata, smussandone le asperità con adeguati riporti di breccia; furono rifatti i marciapiedi, piú ampi a valle piú stretti a monte; e furono anche ricostruiti alcuni ponti di attraversamento dei torrenti. Un miliario stradale, collocato in posto dopo il 1840 e lí ritrovato, sta a testimoniare che la cura per la grande arteria non era cessata ancora pochi decenni prima del suo lungo abbandono. I sorprendenti risultati dell’indagine che aveva accompagnato il recupero dell’invaso stradale hanno permesso di elaborare un progetto di valorizzazione di questo eccezionale palinsesto stradale.
L’idea progettuale è stata quella di presentare i diversi interventi medievali, rinascimentali e settecenteschi là dove i loro resti si prestavano meglio a una esposizione comprensibile, ma anche a un concreto riuso da parte dei visitatori del nuovo parco. Grazie anche a un cofinanziamento dell’Assessorato all’ambiente della Regione Lazio, il recupero della strada, dopo aver risanato una situazione ambientale miseramente compromessa, ha infatti dato la spinta per la creazione di un Parco archeologico dell’Appia che si offre oggi come una mèta piena di fascino per chi vuole godere le bellezze di una natura molto generosa insieme con le sensazioni suscitate da un paesaggio cosí ricco di storie. La sinergia tra diverse istituzioni e l’asse portante generato dalla ricerca archeologica hanno quindi dato vita a una esperienza positiva sotto ogni punto di vista: quella passeggiata sui basoli dell’antica strada merita davvero di essere goduta in qualunque stagione dell’anno. A metà del percorso, in corrispondenza del forte di S. Andrea, ci si troverà davanti a un complesso di rovine nel quale Lorenzo Quilici ha riconosciuto i resti del celebre santuario di Apollo, noto da una lettera di Gregorio Magno: una scoperta inattesa, derivata dalle sole opere di decespugliamento e asporto delle immondizie che nascondevano le strutture antiche, ma tale da far sperare che il recupero della via Appia riservi ancora altre sorprese.
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scavare il medioevo Andrea Augenti
luce sui secoli bui l’archeologia medievale ha cominciato a muovere i suoi primi passi in tempi relativamente recenti. Ma, in pochi anni, ha saputo colmare il divario che la separava dalle discipline «sorelle». un settore in continua evoluzione, anche nel nostro paese
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ondata nel 1957, la Society for Medieval Archaeology è stata la prima associazione europea dedicata all’archeologia medievale, e, nello stesso anno, ha dato vita alla rivista Medieval Archaeology, la prima nel suo genere in Europa. Da allora, le iniziative di quel tipo si sono moltiplicate: in Francia
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Archéologie Médiévale nasce nel 1971 e poco dopo, nel 1973, segue la tedesca Zeitschrift für Archäologie des Mittelalters; nel 1974 è finalmente la volta dell’Italia, con il primo numero di Archeologia Medievale. L’ultima nata è catalana, s’intitola Arqueología Medieval. E poi in tutte le nazioni europee (e ora anche negli USA!) fioriscono gli insegnamenti universitari, i manuali, i progetti. Insomma, un vero contagio, un successo a livello continentale e oltre. Un movimento che, in poco tempo, sta recuperando il ritardo – quasi inspiegabile – con cui l’archeologia è riuscita a farsi carico dell’eredità materiale di un periodo
storico fondamentale. Un’epoca che ha lasciato tracce davvero sostanziose sul nostro paesaggio, per qualità e quantità. E qual è, allora, lo stato di salute dell’archeologia medievale europea? La prima impressione è piú che buona, forse persino ottima. In pochi decenni sono stati approfonditi temi di grande rilievo, grazie al vorticoso moltiplicarsi di scavi e ricerche.
i grandi temi della ricerca Solo per fare alcuni esempi: il dibattito sulle trasformazioni delle città dall’Antichità al Medioevo; la nascita dei nuovi centri urbani nel Nord-Europa (un tema associato a quello del commercio sulla lunga distanza, lanciato piú di settant’anni fa dal grande storico belga Henri Pirenne e ancora oggi molto attuale); le trasformazioni delle campagne, con la nascita dei villaggi; il tanto discusso problema dell’origine e della spettacolare diffusione dei castelli; il commercio e la produzione artigianale; e, ancora, la diffusione del culto cristiano: un fenomeno che ha lasciato testimonianze materiali di grande rilievo, come le molte chiese e i monasteri; le differenti strategie utilizzate dall’uomo di fronte alla morte. E molti altri argomenti di grande
interesse, sui quali avremo modo di tornare a discutere. Insomma: il momento è proficuo per l’Europa, che inizia a raccogliere i frutti sempre piú maturi di una ricerca ormai pluridecennale ed è pronta per elaborare le prime sintesi, i primi bilanci. E infatti è uscito di recente il secondo dei due volumi dal titolo The Archaeology of Medieval Europe (Aarhus University Press, 2011): un ottimo lavoro di sintesi dedicato ai secoli dal XII al XVI, curato dal britannico Martin Carver e dal ceco Jan Klapste.
sembrare scontato, ma in realtà non lo è. E non è nemmeno semplice: gli storici hanno spesso altre leve di pensiero rispetto agli archeologi, altri modi di categorizzare e interpretare le informazioni. Tuttavia, quella tra storici e archeologi è una relazione che va perseguita, perché può rivelarsi spesso proficua, quando è gestita con intelligenza, senza tendenze ad assoggettare l’altro
1974, e a volere la Società degli Archeologi Medievisti Italiani, nel 1996. Ed è stato ancora lui a indicare alcuni dei piú importanti indirizzi della ricerca italiana, oltre a creare un’intera scuola di studiosi articolata su ben due generazioni.
Una situazione incoraggiante
Il caso italia Ma direi che il momento è proficuo anche per l’Italia. Anche qui la ricerca ha compiuto progressi notevoli negli ultimi decenni, dopo la fondazione della rivista. L’archeologia medievale si è inoltre sempre distinta per l’attenzione al metodo negli studi, per la scelta di temi e di approcci sempre nuovi. Valga per tutti il caso dell’archeologia dell’architettura, vale a dire l’analisi degli edifici superstiti mediante l’applicazione del metodo stratigrafico, che porta l’archeologo a interagire con il tema della documentazione e della conservazione dei monumenti. Ma l’archeologia medievale italiana si è anche distinta per altri motivi. Per esempio, per l’apertura precoce a un massiccio ingresso dell’informatica nel lavoro sul campo e in laboratorio, il che permette di gestire ed elaborare quantità di dati prima assolutamente impensabili. E poi si è distinta per una forte propensione al confronto con gli storici impegnati in biblioteca e in archivio. Parlando di una disciplina che si occupa dell’epoca storica, questo confronto potrebbe
Sulle due pagine: le copertine delle piú importanti riviste di archeologia medievale attualmente edite in Italia e all’estero e quella del primo volume di The Archaeology of Medieval Europe, opera di sintesi sul periodo compreso tra l’VIII e il XVI sec.
campo di studi e perseguendo un dialogo costruttivo. Se l’archeologia medievale italiana brilla oggi per tutte queste caratteristiche è in buona parte grazie al dinamismo e alla spinta propulsiva di chi ha contribuito piú di ogni altro alla sua affermazione in ambito europeo. Sto parlando di Riccardo Francovich, maestro di molti di noi archeologi medievisti, purtroppo prematuramente scomparso nel marzo 2007. Fu lui a fondare Archeologia Medievale, nel
Insomma, lo stato di salute dell’archeologia medievale italiana è piuttosto buono. Si può discutere di quanti e quali spazi trovi effettivamente la disciplina in un panorama in cui l’archeologia classica continua a dominare la scena dal punto di vista accademico e – piú in generale – culturale. Se ne può discutere, certo, e si può fare ancora molto di piú; ma la mole dei dati sul Medioevo prodotta e discussa nel nostro Paese negli ultimi anni è davvero notevole. E allora… Allora è il momento giusto per una nuova rubrica per «Archeo» dedicata a questo tema. Una rubrica che dia conto della grande vivacità dell’archeologia medievale, tenendo aggiornati i lettori sugli sviluppi piú recenti della ricerca. Ci occuperemo dei grandi temi, ma anche di scavi e altre indagini, pubblicazioni significative, mostre, musei, oggetti; e dei protagonisti della ricerca, del presente e del passato. Faremo tutto questo con una particolare attenzione all’Italia, ma cercando sempre di mantenere uno sguardo attento all’Europa. Buon lavoro a noi, buona lettura a voi!
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vite di archeologi Giovanna Quattrocchi
il ragazzo di veroli
i nomi di amedeo maiuri e di pompei sono legati da un filo indissolubile. ma, oltre ai lunghi anni dedicati alla città vesuviana, lo studioso si impegnò anche su molti altri fronti
L
o scavatore per eccellenza di Pompei, colui che fece della città antica la ragione della sua esistenza, era un ragazzo di provincia, con molti sogni e una grande volontà di affermarsi nella vita. Amedeo Maiuri nacque in Ciociaria, a Veroli, il 7 gennaio 1886. Frequentò le scuole elementari a Ceprano, poi fu mandato ad Alatri presso il seminario degli Scolopi. Amedeo, però,si mostrò ben presto insofferente all’ambiente e volle tornare a Ceprano, dove compí studi un po’ disordinati di latino, greco e letteratura. Superò l’esame per l’accesso al liceo e si recò a Roma, dove fu iscritto all’istituto intitolato a Ennio Quirino Visconti.
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Terminato il liceo, si iscrisse a Lettere, e qui incontrò la donna della sua vita: Valentina Maffei, una ragazza bella e brillante, estroversa, figlia del conte Ludovico Maffei e di Maria Giovannini, quasi l’opposto del timido compagno di università. Gli studi volgevano al termine e Amedeo scelse di laurearsi in filologia greca e bizantina con il professor Nicola Festa.
«esilio» in olanda Nel frattempo l’amicizia con Valentina si era trasformata in un legame diverso, cosa che però non piacque ai genitori della ragazza, i quali, per allontanare la figlia da Amedeo decisero di mandarla in
Olanda, presso uno zio. La famiglia fece in modo che le lettere scritte al giovane da Valentina non venissero spedite, e quando Amedeo si recava a casa Maffei per chiedere sue notizie gli veniva detto di non presentarsi piú e di rinunciare alla ragazza. Determinato a rivederla, Amedeo partí per l’Olanda, ma non la trovò perché era stata condotta a Bruxelles. Si recò allora nella capitale belga e riuscí finalmente a incontrare Valentina: i due scoprirono quel che la famiglia di lei aveva architettato ai loro danni, al che Valentina si recò dallo zio, dal quale pretese un biglietto per il ritorno in Italia. I due innamorati partirono da soli e riannodarono il
Nella pagina accanto, in alto: Pompei. La Casa di Publio Cornelio Tegete (o dell’Efebo), in una foto del 1930. Qui sotto, nell’ovale: Amedeo Maiuri a Capri, nel 1938. loro legame, questa volta clandestinamente. Amedeo frequentava il corso di perfezionamento, e quando sembrava che per lui non si profilasse altro futuro che l’insegnamento conobbe Federico Halbherr (vedi «Archeo» n. 334, dicembre 2012), che si interessò a lui e, nel 1908, lo incoraggiò a concorrere per un posto alla prestigiosa Scuola Archeologica Italiana ad Atene. Maiuri vinse il concorso e partí per la Grecia. Non aveva ancora la vocazione archeologica (era soprattutto un bravo epigrafista), ma si aprí alla conoscenza diretta delle antichità e partecipò agli scavi della Missione Archeologica Italiana a Creta. Tornato in Italia, visse con Valentina in una stanzetta vicino a Ponte Sisto. Il matrimonio avvenne in totale solitudine, nella primavera del 1911 con testimoni raccolti all’ultimo momento. Valentina era già in attesa della prima figlia, Ada, e la coppia viveva con l’esiguo appannaggio della borsa di studio. Finalmente, però, si ebbe la svolta: Amedeo partecipò al concorso per ispettore alle Antichità e ottenne un posto a Napoli, dove si trasferí con la famiglia.
nuove metodologie La Soprintendenza di Napoli era allora retta da Vittorio Spinazzola, il quale, dopo il periodo difficile e discusso delle precedenti direzioni, tentava di imporre sistemi piú trasparenti nella gestione dell’immenso territorio a lui sottoposto (l’intera Campania e la provincia di Campobasso). Aveva anche introdotto metodi nuovi nella conduzione degli scavi di Pompei, mediante l’esplorazione e la conservazione dei piani superiori e il recupero di tutti i frammenti pittorici. Negli anni trascorsi come
ispettore alla Soprintendenza, Maiuri, che era un provetto epigrafista, studiò e trascrisse tutte le epigrafi da lui rinvenute. A Pietrabbondante esplorò il tempio di Bovianum Vetus. Alle mansioni dell’ufficio, per lui poco soddisfacenti, alternava l’esplorazione del territorio, che considerava ben piú gratificante. Improvvisamente, Halbherr lo chiamò a Roma e gli propose di recarsi a Rodi, dove operava la Missione Archeologica Italiana. Maiuri partí nel febbraio del 1914, con la moglie e le figlie, ad appena un mese dalla nascita della
secondogenita, Laura, per una difficile avventura. Sull’isola l’attività dei clandestini era dilagante. Maiuri si mise all’opera con impegno su tre direttrici: repressione degli scavi abusivi e del conseguente commercio di antichità, campagna di esplorazioni nei centri archeologici e di restauro dei monumenti postclassici. Iniziò anche a progettare un museo archeologico e, nel contempo, avviò esplorazioni nelle necropoli che circondavano la città e su tutto il territorio, con una capillare ricerca nelle case e nelle campagne e mediante trattative con gli isolani, per recuperare are, iscrizioni, frammenti architettonici, capitelli,
sculture destinate al Museo. Dopo dieci anni di permanenza a Rodi, nel 1924, Maiuri fu chiamato a dirigere la Soprintendenza di Napoli. La situazione non era migliorata da quando, dieci anni prima, aveva lasciato quegli uffici: Vittorio Spinazzola era stato destituito, travolto da accuse roventi, a dispetto della sua onestà personale, maturate in un ambiente saturo di intrighi e di congiure. Maiuri reagí con fermezza e lavorò per riportare nella Soprintendenza un clima piú tranquillo. Con una decisa opera di pacificazione e di rinnovamento riuscí a rimettere in sesto l’intero istituto burocratico. Il territorio della Soprintendenza era, lo abbiamo già detto, enorme e comprendeva innumerevoli siti antichi. Maiuri esplorò, dal 1924 al 1932, l’antica Cuma, riportando alla luce la terrazza superiore con il cosiddetto «tempio di Giove» e la via dell’Acropoli. Concentrò i propri sforzi anche nella ricerca dell’antro della Sibilla, sulla base dei versi dell’Eneide che narrano l’arrivo di Enea presso l’oracolo cumano. Lo speco, prima individuato in un cunicolo presso il lago di Averno, poi in un tunnel, fu identificato nel 1932 in una grotta scavata nel tufo e preceduta da un corridoio usato anche in età romana.
un’attività indefessa Maiuri si dedicò anche alla ricerca delle origini della colonizzazione greca sul promontorio di Pizzofalcone a Napoli e poi a Pozzuoli. Nel territorio campano si occupò anche degli scavi di Velia, l’antica Elea greca e di Paestum, nota fin dal Settecento per i suoi templi, ma non ancora conosciuta nella pianta urbana all’interno delle mura antiche. Maiuri percorse in tutta la sua ampiezza il territorio a lui affidato, studiando poi a tavolino i risultati delle ricerche. Centri come Aufidena, Bovianum, Tereventum, Aesernia e Venafrum furono portati alla luce grazie alla sua indefessa attività. Nei Campi
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nella casa di publio cornelio tegete
Un divino adolescente
«Ma la sorpresa più grande s’ebbe nell’atrio. Mentre si procedeva allo sterro, affiorò improvvisamente, accanto al pilastro del tablino, la testa d’una statua in bronzo che si rivelò per opera di grande bellezza (maggio 1925). Rimosso febbrilmente lo strato di lapilli e di cenere, apparve tra quelle mura maciullate e in mezzo al grigio ceneroso dei lapilli, un efebo ignudo nella sua calda patina di bronzo, di altezza naturale, con il volto e lo sguardo nobile e severo d’un giovane dio. Era in verità un divino adolescente uscito appena di puerizia, nell’atto di reggere con religiosa compostezza da una delle mani un’offerta sacra o un attributo di vittoria. (…) La statua era ancora diritta sulla sua base circolare in bronzo, con le gambe fessurate all’ altezza dei ginocchi dalla pressione del terreno, poggiata a terra sul pavimento dell’atrio; e accanto alla base, erano depositati due pesanti bracci di candelabro a girali d’acanto che, come si vide, appartenevano anch’essi alla statua e un’arula e quattro piedi torniti in bronzo. Circostanza singolare: la scultura appariva essere stata coperta e avvolta da un ampio tessuto perché ai suoi piedi, e ancora aderenti alla figura, si osservarono e si raccolsero brandelli marciti di un tessuto di canapa o di lino fissati dall’ossido di bronzo. Non potendosi pensare a un tentativo di trafugamento dopo l’eruzione, si dové concludere che la scultura era stata posta deliberatamente in quel luogo, sotto il tetto del compluvio e a ridosso d’uno dei pilastri del tablino, al riparo cioè da qualche pericolo che la minacciava» (da Amedeo Maiuri, Mestiere d’archeologo, Scheiwiller, Milano 1978).
La statua dell’efebo al momento della scoperta nella Casa di Publio Cornelio Tegete a Pompei (in alto) e cosí come si può ammirarla oggi, nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli (a destra). L’opera si data al I sec. a.C. Flegrei progettò lo scavo di Baia. A Pompei, fin dai primi anni, applicò un metodo di scavo stratigrafico che avanzava seguendo una direttrice di strade, case, botteghe. Grande emozione
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destò il ritrovamento della statua in bronzo nella Casa di Publio Cornelio Tegete (detta poi «dell’Efebo» proprio in seguito alla scoperta), ancora avvolta nel panno che doveva servire a proteggerla da lapilli e ceneri (vedi box in questa pagina).
il tesoro dei poppei Ma forse il momento culminante dei ritrovamenti di Maiuri fu durante lo scavo della Casa forse appartenuta ai Poppei e detta «del Menandro» per la pittura che mostra il commediografo greco: in una stanza del quartiere servile, infatti, furono rinvenuti molti bronzi e, in un cassone, gioielli, monete e uno splendido servizio da tavola in argento, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Maiuri scavò anche a Ercolano, ma in misura minore per le difficoltà date dalla durezza del materiale lavico che l’aveva sepolta. Durante la guerra lo studioso dovette occuparsi della messa in salvo del patrimonio artistico del Museo. Napoli fu bombardata dal dicembre 1942, e molte incursioni si susseguirono durante il 1943. Con l’arrivo degli Anglo-americani, il Museo e altri edifici furono requisiti dalle truppe di occupazione. Poi, lentamente, tornò la quotidianità, ma in una Napoli devastata. Soltanto nel 1950 la Cassa per il Mezzogiorno concesse i mezzi per un lento recupero, e l’archeologo poté tornare agli amati scavi. Con il passare degli anni, lo studioso si rifugiò sempre piú spesso nella sua casa di Anacapri, e arrivò anche il distacco dal lavoro, con il pensionamento. Aveva sperato di proseguire la sua attività, ma la salute malferma non gli consentiva piú di dedicarsi a Pompei. Dopo trentasette anni di lavoro dovette dare l’addio agli scavi. L’ultimo discorso fu quello pronunciato al I Congresso di Studi sulla Magna Grecia, a Taranto. Si spense il 7 aprile del 1963, dopo una breve malattia, in una clinica napoletana.
l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale
un perpetuo saliscendi
L’acqua tende a disporsi orizzontalmente in equilibrio. ma l’uomo, per le sue necessità, fin da tempi remoti ha trovato il modo di farla viaggiare anche in verticale…
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I
l controllo e lo «spostamento» delle acque sono sempre stati aspetti di particolare importanza. Si pensi alla realizzazione di condotte sotterranee a scopo potabile, ma anche industriale, per esempio per azionare ruote di mulini e opifici. E anche le cosiddette acque «nere» sono state, nel corso del tempo, regimentate e spesso convogliate nel sottosuolo. Tra queste ultime, famose sono le égoute di Parigi, che, già nell’Ottocento, furono oggetto di valorizzazione, con tour organizzati con grandi zattere, spinte da addetti, dove i visitatori
stavano comodamente seduti, ascoltando la musica di un’orchestrina, e le signore erano fornite di boccette di profumo da tenere sotto il naso per attenuare gli effluvi maleodoranti. Ma la «fogna» per antonomasia è la ben piú antica Cloaca Massima, realizzata a Roma. La tradizione ne attribuisce la costruzione a Tarquinio Prisco (VI secolo a.C.), ma le sue volte di tufo risalgono al II secolo a.C. Scopo originario del condotto, che nella sua prima fase correva a cielo aperto, fu quello di drenare le acque per bonificare l’area paludosa nella quale si
Nella pagina accanto: il recupero di uno dei numerosi reperti ceramici, ancora intatto, ritrovato all’interno di un pozzo di età romana scoperto a Vado Ligure. (Savona). In basso: Pistoia. Il tratto della Gora di Scornio al di sotto dell’Ospedale del Ceppo (1277). sviluppò il complesso degli edifici civili e religiosi del Foro Romano, ma poi divenne anche il collettore degli scarichi fognari. Ancora oggi convoglia nel Tevere le acque defluenti dai colli circostanti il Foro.
chi scava un pozzo, scava un tesoro... I pozzi sono ben noti agli archeologi per essere contesti particolarmente interessanti. Essi, infatti, conservano praticamente intatte ceramiche e suppellettili in legno o metallo, cadute accidentalmente o gettate intenzionalmente per sottrarle alle razzie. L’esplorazione di questi ambienti richiede precauzioni e accorgimenti che, chi pratica l’Archeologia delle cavità artificiali, ha da tempo perfezionato. Un recente caso riguarda un pozzo romano a Vado Ligure (in provincia di Savona), in un’area scavata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria. Il pozzo, completamente occluso dai detriti, è stato indagato dal Centro Studi Sotterranei di Genova con l’ausilio di una pompa a immersione e la collocazione progressiva di gabbie modulari di rete termosaldata, necessarie a reggere la spinta dell’acqua di falda sulle pareti costruite in pietra a secco duemila anni fa, mano a mano che il riempimento veniva scavato. Nonostante lo spazio esiguo (80 cm di diametro) si è potuto scendere sino al fondo, a una profondità di oltre 6 m, riportando alla luce una quantità eccezionale di reperti databili tra il I-II e il IV-V secolo d.C, tra cui brocche in bronzo, ceramiche, pedine d’osso, numerosi resti di semi e frutti e frammenti di tessuti.
le gore di pistoia
Frammenti di vita quotidiana
Il sottosuolo di Pistoia cela un complesso e arcaico sistema di rifornimento idrico, noto con il nome di gore, che per secoli ha permesso alla città non solo lo sviluppo di un’agricoltura specializzata, ma anche la presenza di importanti opifici mossi dalla forza dell’acqua. Oltre vent’anni di indagini condotte dal Gruppo di Ricerche Storiche e Archeologiche di Pistoia, oggi IRSA, hanno permesso un attento intervento di studio e documentazione, che ora ha portato al recupero di parte di tali strutture e alla loro valorizzazione. La Gora di Scornio è un ampio tratto recuperato e aperto al pubblico dell’antico percorso sotterraneo di canalizzazione del torrente Brana: l’opera costeggia la collina dove si era sviluppato l’oppidum di epoca romana, forse in un sito già abitato da popolazioni liguri-etrusche. Il sotterraneo, oltre a racchiudere resti architettonici del Duecento, l’imponente voltone su cui fu poi costruito il medievale Ospedale del Ceppo e un antico mulino, ha restituito centinaia di resti ceramici ritrovati nei butti (pozzi per lo scarico dei rifiuti, n.d.r.), legati soprattutto alla vita del soprastante ospedale, tra cui pappine, utelli (vasetti in terracotta invetriata usati per conservare l’olio, n.d.r.), brocchette nere degli appestati, unguentari, set di cura e assistenza, incluse le borracce dei pellegrini (per visite e informazioni: tel. 0573 368023; www.irsapt.it).
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divi e donne Francesca Cenerini
madre amatissima, ma infine ripudiata esponente di spicco della dinastia giulio-claudia, agrippina minore fu una delle signore piú influenti della corte imperiale. fino a quando al potere non salí suo figlio, nerone
A
grippina Minore è figlia di Germanico (figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore) e di Agrippina Maggiore (figlia di Agrippa e di Giulia, quest’ultima l’unica figlia di sangue di Augusto). Poteva quindi vantare una discendenza diretta dal fondatore dell’impero (della madre di
Agrippina, di Antonia Minore e di Giulia, abbiamo già tracciato i profili nelle puntate precedenti). L’imperatore Tiberio l’aveva fatta sposare in prime nozze con Cneo Domizio Enobarbo, console nel 32 d.C., figlio di L. Domizio Enobarbo e di Antonia Maggiore (la primogenita di Marco Antonio e
di Ottavia, sorella di Augusto), e da questo matrimonio era nato Lucio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone. L’imperatore Caligola, succeduto al potere nel 37 d.C., accorda onori speciali a lei e alle sorelle Giulia Livilla e Giulia Drusilla, con un’apposita emissione monetaria, arrivando a divinizzare post mortem Drusilla (38 d.C.). Le altre due, Agrippina Minore e Livilla, invece, finiscono per essere esiliate dallo stesso imperatore, perché sospettate di essere coinvolte nelle congiure di Cn. Cornelio Lentulo Getulico e di M. Emilo Lepido (39/40 d.C.).
sete di potere Secondo le parole di Tacito (Annali, 14, 2, 2), Agrippina Minore è mossa fin dall’inizio da spes dominationis, cioè da una vera e propria «sete di potere». Caligola viene ucciso durante una congiura e sale al potere Claudio, fratello minore di Germanico (41 d.C.), la cui terza moglie è Valeria Messalina (vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013). Dopo la condanna di Messalina, nel 49 d.C. Claudio sposa Agrippina Minore, nonostante fosse sua nipote di sangue. Ancora Tacito (Annali, 12, 1 ss.) racconta dei tre partiti, capitanati dai piú potenti liberti di corte, che si Ritratto in marmo probabilmente identificabile, sulla base dell’acconciatura, con Agrippina Minore. 44 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
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scontrano per dare una nuova moglie a Claudio: Narciso avanza la candidatura di una precedente moglie di Claudio, Elia Petina; la ricchissima Lollia Paolina, già moglie di Caligola, è appoggiata da Callisto; Agrippina Minore, che infine prevalse, è sostenuta da Pallante, che ne sottolinea abilmente la doppia nobiltà: giulia per parte di madre e claudia per parte di padre. Al di là della caratterizzazione storiografica di Claudio come uomo zoppo e balbuziente, asservito ai liberti e alle mogli, io ritengo che, con questo matrimonio, Claudio volesse sottoporre a un piú stretto controllo Agrippina Minore, che aveva pur sempre un figlio, Lucio Domizio Enobarbo, nelle cui vene scorreva il carismatico sangue di Augusto, e che si fosse reso conto di come madre e figlio godessero dell’appoggio popolare e dei militari, come discendenti diretti dell’amato Germanico.
Nello stesso 49 d.C. Agrippina Minore affida l’educazione del figlio a uno piú famosi intellettuali del tempo, L. Anneo Seneca, già esiliato da Caligola.
dinastia acquisita L’anno successivo la donna ottiene un notevole successo, sempre attraverso la longa manus di Pallante: il 25 febbraio del 50 d.C. Claudio ne adotta il figlio, L. Domizio Enobarbo, che assume il nome di Tiberio Claudio Nerone Cesare, oppure anche Nerone Claudio Cesare Druso Germanico. Nerone entra cosí a far parte della famiglia di Claudio, con tutti gli A sinistra: testa di una statua che ritrae Nerone bambino, da Gabii (o Anzio). I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra: ritratto di Claudio con corona civica, dall’Augusteo di Roselle. I sec. d.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma.
effetti legali del caso, anche in ambito patrimoniale. In questa occasione, come moglie e come madre del figlio adottivo dell’imperatore regnante, ad Agrippina Minore viene conferito il titolo di Augusta (Tacito, Annali, 12, 26) e i media del tempo (monete, ritratti, iscrizioni) ne attestano la posizione influente a corte. Nel 53 d.C. Nerone, la cui carriera è stata notevolmente accelerata ai danni di Britannico, il figlio di Claudio e di Messalina, sposa Ottavia, ugualmente figlia di Claudio e Messalina. Si tratta dell’ennesimo matrimonio dinastico. Domizia Lepida Minore, madre di Messalina, ma anche cognata di Agrippina Minore e zia paterna di Nerone, cerca di contrastare la sempre maggiore influenza di Agrippina Minore a corte, ma sarà fatta condannare da Claudio nel 54 d.C., a causa della sua immensa ricchezza e del temibile esercito di schiavi alle sue dipendenze, nonché della
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sua possibile influenza su Nerone, da lei allevato durante l’esilio di Agrippina Minore. Poco tempo prima dell’acquisizione della toga virilis da parte di Britannico (una sorta di maggiore età: nel febbraio del 55 d.C. avrebbe compiuto 14 anni), Claudio muore il 13 ottobre 54 d.C. E ci sono state illazioni (antiche e moderne) sul fatto che Agrippina Minore, preoccupata della rivalità tra Britannico e Nerone, abbia avvelenato Claudio con un piatto di funghi. La morte del principe è sicuramente funzionale ai desideri di Agrippina Minore, ma non vi è alcuna certezza di un volontario avvelenamento. L’Augusta, comunque, non perde tempo e predispone immediatamente la successione di Nerone, attraverso l’accordo con il prefetto del pretorio Sesto Afranio Burro. Il figlio viene acclamato imperatore dai pretoriani, il senato ratifica questo pronunciamento militare e il giovane viene investito dei pieni poteri. Le prime monete coniate da Nerone raffigurano Agrippina Minore assieme al figlio nello schema iconico dei ritratti affrontati (per esempio su un aureo del 54/55 d.C.). La legenda qualifica Agrippina Minore come Augusta, moglie del divo Claudio (Claudio era stato, infatti, divinizzato post mortem) e madre di Nerone Cesare.
la morte di britannico Nel 55 d. C. muore avvelenato Britannico (Tacito, Annali, 13, 16). Tutti, antichi e moderni, concordano sul fatto che Britannico sia stato ucciso per volontà di Nerone. I sospetti sono acuiti dal fatto che Britannico viene sepolto rapidamente, in forma del tutto privata: con ogni probabilità, Nerone non voleva che il suo funerale si trasformasse in un’occasione per manifestare il
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dissenso al suo potere, come era già accaduto in occasione dei funerali di Germanico contro Tiberio. Comunque, l’intesa tra madre e figlio non dura a lungo e l’influenza di Agrippina su Nerone è destinata a finire. L’imperatore, infatti, comincia a fare il vuoto intorno a lei, indubbiamente patendo il suo prestigio e il suo ruolo «politico»: si sbarazza di Pallante, le toglie l’appoggio di
si renderebbe conto che Agrippina Minore può essere un ostacolo al suo progetto matrimoniale.
Rapporti incestuosi?
Gli storici antichi, detrattori di Nerone e di sua madre, ventilano addirittura un incesto tra madre e figlio, per desiderio o dell’una o dell’altro (Tacito, Annali, 14, 2). In tutte le fonti Agrippina è posseduta dall’ardor dominandi e Nerone è piú che mai deciso a Moneta di Nerone con i profili liberarsi della madre. Il liberto dell’imperatore e della prima moglie Aniceto, capo della flotta di Miseno, Ottavia. 55 d.C. Londra, British Museum. organizza un naufragio, ma Agrippina Minore riesce a salvarsi a nuoto (Tacito, Annali, 14, 3-69; Svetonio, Vita di Nerone, 34). Il popolo le manifesta il suo appoggio e la sua felicità per lo scampato pericolo. Nerone, allora, manda Aniceto a ucciderla. È tramandato il coraggio che Agrippina Minore avrebbe opposto ai suoi sicari: «ventrem feri» («colpisci il ventre»), avrebbe detto a chi stava per colpirla con il pugnale (Tacito, Annali, 14, 8). Si tratta, ancora una volta, dell’espediente retorico usato dalle fonti per esecrare la mostruosità del matricidio. Dal «mostro» Agrippina Minore, cioè la donna che aveva valicato i limiti della femminilità ideale, era nato il Seneca e di Burro, fino ad «mostro» Nerone che era giunto al allontanarla dalla corte. Il segnale è chiaro: ogni influenza di matricidio, tra i delitti piú esecrabili. La riflessione sul potere è Agrippina Minore da quel sicuramente al centro delle tragedie momento sarebbe cessata. senechiane: per l’intellettuale Nel marzo del 59 d.C., però, decide di farla uccidere. Ma perché Nerone Seneca, che, sappiamo bene, era diverso dal politico, la clemenza, arriva a compiere un gesto cosí la razionalità, la liberalità sono le estremo? Secondo Tacito (Annali, 13, 45), il contrasto finale tra madre virtú da esercitare. La Medea di Seneca mette in scena e figlio sarebbe stato causato il disastro causato dal non controllo ancora una volta da una donna, delle passioni, in particolare dal Poppea Sabina: Agrippina Minore superamento dei limiti del teme l’unione tra Nerone e Poppea comportamento dei generi sessuali: (era stata lei a caldeggiare il maschio e femmina, madre e figlio, matrimonio dinastico tra Nerone e Ottavia e detestava cordialmente la il tutto aggravato dal ruolo pubblico occupato dagli attori. concubina Atte) e la stessa Poppea
i libri di archeo
DALL’ITALIA
Marco Chioffi, Giuliana Rigamonti
Stéphane Bourdin
Màstabe, stele e iscrizioni rupestri egizie dell’Antico Regno
Les peuples de l’Italie préromaine Identités, territoires et relations inter-ethniques en Italie centrale et septentrionale (VIIIe-Ier s. av. J.-C.) École française de Rome, Roma, 1201 pp., 28 tavv. 150,00 euro ISBN 978-2-7283-0907-8 www.ecole-francaise.it
Stéphane Bourdin affronta una tematica delicata, attraverso la disamina di un vasto numero di fonti letterarie e storico-geografiche, di fonti epigrafiche – queste ultime meno numerose –, senza escludere, ovviamente, la ricca documentazione archeologica. D’altronde è evidente quanto le fonti letterarie siano talvolta lontane dal fornire una immagine fedele della realtà, ponendosi, come fanno le fonti storiche romane nel descrivere i popoli italici, nell’ottica dei «vincitori», e offrendo una visione distorta di una popolazione e, comunque, «ricostruita» da un occhio esterno; senza contare poi lo scarto cronologico che spesso intercorre tra queste fonti e i fatti narrati. Dallo studio di Bourdin emerge chiaramente quanto l’idea di «popolo» e di identità etnica siano piuttosto fluide e derivanti, semmai, da circostanze esterne che non da una realtà oggettiva.
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Libro II/IV Editrice La Mandragora, Imola, 327 pp., 34 figg. col. e ill. b/n 30,00 euro ISBN 978-88-7586-356-2 www. editricelamandragora.it
Altro argomento cruciale affrontato è il concetto di territorialità di un popolo e/o di organizzazione territoriale a esso legata. Lo studio si sofferma a lungo anche sulle relazioni tra i popoli, prendendo in esame differenti situazioni di confine tra gli Etruschi e i Liguri, o tra gli Etruschi e gli Umbri, tra i Reti e i Veneti, e analizzando le dinamiche migratorie e belliche di genti che si sono ritrovate a occupare una medesima area geografica. Completano lo studio un ampio numero di appendici, dedicate, rispettivamente, al vocabolario utilizzato dalle fonti letterarie nel descrivere le realtà istituzionali dell’Italia preromana, alla documentazione epigrafica disponibile nelle varie lingue preromane (etrusco, paleo-osco, osco, umbro, piceno), alla documentazione storico-etnografica ricavata dalle fonti letterarie; il tutto accompagnato da un ricco apparato iconografico composto da mappe e grafici. Franco Bruni
Marco Chioffi e Giuliana Rigamonti offrono un altro importante contributo allo studio della documentazione letteraria tramandata dai grandi monumenti religiosi e funerari dell’Egitto, con lo svolgimento naturale dell’opera avviata con il primo volume
di questa serie sui testi dell’Antico Regno (vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013). Analoga è l’impostazione, con la riproduzione del testo originale, a cui fanno seguito la traduzione di tipo letterario e quella critica. Quest’ultima è, ancora una volta, la fonte forse piú interessante, in quanto, oltre la mera esegesi, cerca di individuare i risvolti, per
esempio storici o sociali, che rappresentano il valore aggiunto di questi documenti. Al di là delle frasi di rito o delle formule laudative, infatti, le iscrizioni si confermano un osservatorio importante per la ricostruzione del contesto in cui vissero i personaggi di volta in volta analizzati. Giorgio Cosmacini, Paola Cosmacini
Il medico delle mummie Vite e avventure di Augustus Bozzi Granville Editori Laterza, Roma-Bari, 208 pp. 19,00 euro ISBN 978-88-581-0442-2 www.laterza.it
Il nome di Augustus Bozzi Granville non è ignoto ai nostri lettori, che, proprio grazie a uno degli autori di questa biografia, Paola Cosmacini, avevano avuto modo di conoscerne alcune delle sue imprese piú importanti (vedi «Archeo» n. 301, marzo 2010). Quella del «medico delle mummie» è una vicenda che, scorrendo le pagine del volume, si ripercorre con notevole divertimento. Al di là
degli aspetti e dei meriti scientifici – che non sono pochi –, molti, infatti, sono i tratti quasi romanzeschi della vita del personaggio, a cominciare dalla scelta di anglicizzare e conferire una patina d’antico al proprio nome. Bozzi, peraltro, assecondò la sua voglia d’Inghilterra non soltanto dal punto di vista onomastico, ma con la decisione di trasferirsi oltremanica, dove costruí la sua carriera e vide crescere la sua reputazione di paleopatologo ante litteram. Alcune sue interpretazioni dei dati acquisiti grazie alle ricerche compiute sulle mummie sono state oggi confutate, ma il contributo dato all’evoluzione degli studi in questo campo resta indiscussa. Livio Zerbini, Gela Gamkrelidze, Temur Todua
I Romani nella terra del Vello d’Oro La Colchide e l’Iberia in età romana Rubbettino, Soveria Mannelli, 144 pp., ill. b/n 14,00 euro ISBN 978-88-498-3610-3 www.rubbettino.it
La Georgia moderna coincide con le regioni storiche della Colchide e dell’Iberia, che, per la loro posizione di cerniera tra l’Europa e l’Asia, furono a piú riprese teatro di vicende importanti, soprattutto nel corso dell’età imperiale romana. Ne propone un riepilogo questo agile volume, che non solo dà conto delle
imprese militari e dei loro protagonisti, ma illustra anche le ragioni per le quali il controllo di quelle regioni fu cosí duramente conteso. Protagonisti eccellenti sono, tra gli altri, i vari re del Ponto e, in particolare, Mitridate VI Eupatore, e alcuni grandi generali romani, primo fra tutti Gneo Pompeo Magno. Prima e dopo di loro, però, c’è un denso palinsesto di eventi, che gli autori del volume descrivono in maniera sistematica e dettagliata.
del fenomeno che di questo corposo volume costituisce il cuore. L’opera abbraccia un arco cronologico di circa 10 000 anni, dando conto delle piú importanti manifestazioni culturali succedutesi tra le fasi in cui la scena era ancora dominata dalle comunità di cacciatori-raccoglitori e l’epoca in cui si registra l’avvento della dinastia Shang. Tra questi due estremi si sviluppa, appunto, il ricco mosaico delle culture neolitiche, che, accomunate dalla pratica dell’agricoltura
A leggere il saggio di Bradley, si ha la conferma che il caso di Stonehenge, che pure ne rappresenta una delle interpretazioni piú spettacolari, è solo la punta di quell’«iceberg» che si compone delle architetture a pianta circolare. Che si tratti di strutture a scopo civile, difensivo o cultuale, le costruzioni di forma rotonda sono diffusissime in tutto il continente europeo (e non solo) e caratterizzano molte culture pre- e protostoriche. Nella consapevolezza della
e dell’allevamento ai fini della sussistenza, declinano in forme assai variegate le manifestazioni materiali, prime fra tutte la fabbricazione del vasellame ceramico e la lavorazione della giada.
specificità dei singoli contesti di appartenenza, lo studioso inglese si interroga sulla possibile esistenza di tratti comuni e, in particolare, sull’eventualità che la scelta di questi modelli costruttivi risponda a istanze ideologiche particolari. Ne scaturisce una disamina articolata, che propone intepretazioni stimolanti e argomentate di un fenomeno vistoso eppure ancora oggi sfuggente. (a cura di Stefano Mammini)
dall’estero Li Liu, Xingcan Chen
The archaeology of china From the Late Paleolithic to the Early Bronze Age Cambridge University Press, New York, 482 pp., ill. b/n 115,00 USD ISBN 978-0-521-66432-7 www.cambridge.org
Richard Bradley
L’avvento dell’economia produttiva ha rivoluzionato il modus vivendi dell’uomo e la Cina, naturalmente, non fa eccezione a questa regola. Ne è prova l’ampia trattazione
The Idea of Order The Circular Archetype in Prehistoric Europe Oxford University Press, Oxford, 264 pp., ill. b/n 60,00 GBP ISBN 978-0-19-960809-6 www.oup.com
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