Archeo n. 337, Marzo 2013

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2013

giudei e cristiani

ANTICA CINA / 3 SHANG

ETà DEL RAME

MITI GRECI / 3 ARGONAUTI

speciale VENETKENS

€ 5,90

Mens. Anno XXIX numero 3 (337) Marzo 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

w. ar

ch

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archeo 337 marzo

giudei e cristiani il punto sulle origini

civiltà della cina

shang. l’età dei grandi bronzi

MITologia

alla conquista del vello d’oro

VENETKENS

www.archeo.it

alla riscoperta dei veneti antichi



editoriale

il veneto prima della conquista Copertina e speciale di questo numero sono dedicati a un’iniziativa espositiva – in verità ancora in fase di allestimento quando questo numero sarà già in edicola – di grande significato culturale, nell’ambito delle attività (purtroppo sempre piú scarne, in questi ultimi tempi) rivolte alla diffusione di un aspetto di immutato valore civile del nostro Paese, quello della conoscenza del suo passato. La mostra «VENETKENS», che si inaugurerà il prossimo 6 aprile a Padova è, per alcuni di noi, un evento molto atteso: dal 1976, diremmo, quando una bella esposizione allestita nel Museo Civico agli Eremitani fece conoscere per la prima volta al grande pubblico le testimonianze archeologiche di una «Padova preromana» (era questo il nome dell’iniziativa) e, insieme a essa, di un’intera civiltà dell’Italia prima di Roma. Allo stesso anno, infatti, risale una scoperta sensazionale (vedi alle pp. 88-90) che portò alla ribalta l’esistenza di un’antica civiltà veneta dai tratti particolarissimi; seguirono numerosi altri rinvenimenti, sia nel territorio patavino, nella pianura, ma anche nelle aree collinari e nelle montagne. Oggi, dunque, questo straordinario universo degli antichi Veneti, emerso – grazie alle esplorazioni archeologiche – nei suoi caratteri specifici di individualità culturale, profondamente permeati da una vasta rete di rapporti intessuti con le popolazioni italiche limitrofe, è presentato in una mostra sí scientifica, ma che – come recita il sottotitolo – vuole proporre, soprattutto, un «viaggio nella terra dei Veneti antichi». Un viaggio che, non è il caso di dimenticarlo, si snoda all’interno di uno dei piú spettacolari edifici storici del Medioevo e del Rinascimento italiani, il Palazzo della Ragione di Padova. Andreas M. Steiner

Cavallino votivo, da Oderzo. V-IV sec. a.C. Oderzo, Museo Archeologico «Eno Bellis». È uno dei reperti selezionati per la mostra «Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi», che si inaugura il prossimo 6 aprile, a Padova, nel Palazzo della Ragione (vedi lo speciale alle pp. 68-91).


Sommario Editoriale

Il Veneto prima della conquista

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di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

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scoperte Lo studio di alcuni pozzi in legno d’età neolitica scoperti in Germania prova le eccellenti capacità tecniche dei carpentieri preistorici 6

dalla stampa internazionale Preah Vihear, la battaglia per il tempio di Shiva

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storia

Figli di Pietro e Paolo

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di Geza Vermes

36 civiltà cinese/3

I bronzi del potere

parola d’archeologo Dal mondo militare arriva la proposta di un corso che insegni agli archeologi come organizzare alla perfezione la logistica di un cantiere di scavo 8

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di Marco Meccarelli

mostre

Gli anni del rame e del miele

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di Stefano Mammini

incontri Ferrara ospita la XX edizione del Salone del Restauro, occasione di confronto preziosa e importante vetrina delle novità piú significative del settore 10

mitologia, istruzioni per l’uso/3

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I viaggi della prima nave

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di Daniele F. Maras

In copertina particolare del bronzetto raffigurante la «dea di Caldevigo», dalla stipe scoperta nella località omonima, presso Este. V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino

Anno XXIX, n. 3 (337) - marzo 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Alessia Pozzato, Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,

Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Bologna. Davide Banzato è direttore dei Musei Civici e Biblioteche del Comune di Padova. Stefano Buson è restauratore presso il Museo Nazionale Atestino di Este (PD). Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Claudio Capovilla è presidente del Gruppo Icat-Creative Company Strategies. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea Colasio è assessore alla Cultura del Comune di Padova. Michele Cupitò è ricercatore presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Mariolina Gamba è coordinatore del settore Servizi Educativi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. Giovanna Gambacurta è direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Adria. Giovanni Leonardi è professore di metodologia della ricerca archeologica all’Università di Padova. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Silvia Paltineri è docente di protostoria delle Venezie all’Università di Padova. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Benedetta Prosdocimi è collaboratore del Laboratorio di Preistoria e Protostoria del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova. Angela Ruta è archeologa della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. Vincenzo Tiné è soprintendente per i Beni Archeologici del Veneto. Geza Vermes è stato professore di studi ebraici all’Università di Oxford. Francesca Veronese è funzionario culturale presso i Musei Civici di Padova, Museo Archeologico. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 3, 12-14, 68-71, 74-78, 80, 84-87 – Cortesia Willy Tegel, Università di Friburgo: pp. 6-7 – Doc red.: pp. 8 (sinistra), 9, 22/23, 35, 38, 39 (alto), 43, 45 (destra), 65, 79, 97 (alto), 99, 101 (alto), 102-105, 109 – Cortesia dell’autore: pp. 8 (centro), 82, 83, 88-91, 110 – Cortesia Soprintendenza per i Beni Archeologici


storia dei greci/20

Un’età senza fine

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speciale

Veneti antichi

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di Andrea Colasio, Vincenzo Tiné, Davide Banzato, Mariolina Gamba, Giovanna Gambacurta, Angela Ruta, Francesca Veronese, Claudio Capovilla; con contributi di Stefano Buson, Michele Cupitò, Giovanni Leonardi, Silvia Paltineri, Benedetta Prosdocimi

di Fabrizio Polacco

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scavare il medioevo Il monastero «perfetto»

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Gocce di dolore di Daniele Manacorda

l’ordine rovesciato delle cose Rituali sotto terra

Rubriche il mestiere dell’archeologo

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di Andrea Augenti

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di Andrea De Pascale

divi e donne 102

Arrivederci Roma... 110

La liberta piú fedele

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di Francesca Cenerini

di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 10 – Corbis: Melvyn Longhurst: p. 26; Brooklyn Museum: pp. 28/29, 31; Royal Ontario Museum: p. 44 (alto); Xiaoyang Liu: p. 46 (basso); Asian Art & Archaeology: p. 47 (basso); Nik Wheeler: pp. 48, 49; Roger Wood: p. 97 (basso); Peter Barritt/Robert Harding World Imagery: p. 108 – Mondadori Portfolio: Picture Desk Images: p. 30; AKG Images: pp. 34, 95, 101 (basso); Album: p. 96 – DeA Picture Library: pp. 36/37, 44 (basso); A. Dagli Orti: pp. 33, 62; G. Dagli Orti: pp. 45 (sinistra), 60/61, 63; E. Lessing: p. 47 (alto) – Getty Images: Tao Images Limited: p. 39 (basso) – Stefano Mammini: pp. 52/53, 54 (basso), 55 (alto), 56 (centro), 57, 58, 59 – Cortesia Ufficio Stampa/Foto F. Zaina e Masi per il Museo Archeologico di Bergamo, da Le pietre degli Dei. Menhir e stele dell’età del Rame in Valcamonica e Valtellina, Catalogo della mostra, Bergamo 1994: pp. 54 (alto), 55 (basso), 56 (alto) – Museo Archeologico dell’Alto Adige, Bolzano: p. 56 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Bridgeman Art Library: pp. 64, 98 – Magnum/Contrasto/Erich Lessing Archive: pp. 66, 100 – Tips: Mark Edward Smith: p. 72 – Marka: Alessandro Villa: p. 73 – Da Afghanistan. Crossroads of the ancient world, catalogo della mostra, Londra 2011: p. 93 – Cortesia Centro Studi Sotterranei di Genova/grafica Roberto Bixio: pp. 106/107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 23, 39, 40, 41, 42, 71, 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

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l’altra faccia della medaglia di Francesca Ceci

libri

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n oti z i ari o SCoperte Germania

gli antenati neolitici di mastro geppetto

A

lle comunità neolitiche sono stati nel tempo attribuiti molti meriti: si è detto che si trattava di genti pacifiche, capaci di vivere senza ricorrere a dispute e conflitti; è stato loro riconosciuta la paternità delle prime forme di economia produttiva, basate sull’agricoltura e l’allevamento; sono state viste come incubatrici di sviluppi tecnologici formidabili, primo fra tutti la produzione ceramica… Uomini, insomma, quasi eccezionali, anche se, soprattutto in tempi recenti, l’archeologia ha sí fornito molte conferme

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importanti, ma ha spesso imposto alcune significative revisioni. L’ultima in ordine di tempo viene dalla Germania e, in particolare, dagli studi condotti dall’équipe guidata da Willy Tegel su un campione di 151 travi di legno riferibili ad antichi pozzi e recuperate in scavi condotti in siti ascrivibili alla cultura definita LBK (Linear Band Keramik), che è una delle manifestazioni piú significative del Neolitico centro-europeo. Ebbene, lo studio di questi reperti, che le analisi di laboratorio hanno

permesso di datare tra il 5500 e il 5000 a.C. circa, dimostra che i carpentieri neolitici, pur non potendo ancora disporre di attrezzi in metallo, avevano acquisito una padronanza della materia prima tale da consentire la realizzazione di strutture anche assai complesse. È venuto dunque a cadere l’assunto secondo il quale, per costruire con il legno, fosse indispensabile ricorrere, appunto, a utensili forgiati per esempio in bronzo o ferro. Quegli antichi mastri falegnami seppero elaborare sistemi di giunzione assai efficaci, tali da permettere la realizzazione


di strutture destinate a contenere masse d’acqua anche considerevoli, come pozzi e vasche per l’accumulo di riserve idriche, e che dovettero rivelarsi determinanti anche nell’edificazione delle strutture residenziali. Tra gli aspetti peculiari di molti insediamenti della LBK vi sono infatti le «case lunghe», grandi dimore la cui solidità e Sulle due pagine: immagini che si riferiscono alla struttura per la conservazione dell’acqua scoperta ad Altscherbitz (Germania orientale), databile tra il 5200 e il 5100 a.C. In basso e nella pagina accanto: due

foto del pozzo in corso di scavo. In alto, a sinistra: un particolare dei sistemi di giunzione delle travi. In alto, a destra: una elaborazione tridimensionale della parte che costituiva la base dell’impianto.

stabilità poté senz’altro giovarsi dei progressi tecnici raggiunti nella lavorazione del legno. I pali e le travi esaminati provengono da vari siti localizzati nei territori della Germania orientale, tra cui Altscherbitz, Brodau ed Eythra, che si trovano nei dintorni di Lipsia. Oltre alle determinazioni cronologiche, sono state effettuate analisi paleobotaniche che hanno permesso di accertare le specie impiegate – prima fra tutte la quercia – e di osservare, per esempio, come vi fosse una selezione accurata delle piante da utilizzare – con una predilezione per gli esemplari stagionati o addirittura secolari: è stato trovato un elemento ricavato da una quercia di oltre 300 anni! – e come, nonostante la già citata assenza di attrezzi in metallo, venissero svolte lavorazioni molto sofisticate, per esempio ricorrendo all’uso del fuoco per tagliare, sagomare o imprimere curvature particolari. Un insieme di dati che, come sottolineano gli autori dello studio, dimostra, al di là degli aspetti tecnici, notevoli capacità di gestione del territorio e di sfruttamento ottimale delle sue risorse, tra cui quelle forestali. Stefano Mammini

archeo 7


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

se l’arma si fa... archeologica La sicurezza e i metodi di indagine compatibili con il territorio sono alcuni dei temi oggetto di un corso di logistica dell’archeologia, organizzato dall’Associazione Arma di Cavalleria di Livorno

In alto: Luca Bilanceri, presidente dell’ANAC e di Assoarma Livorno. A sinistra: un cantiere di scavo archeologico. A destra: strutture archeologiche dell’età del Ferro rese visibili da una foto aerea.

I

l sapere del genio militare, quello dell’artiglieria, della cavalleria o dei paracadutisti, si mette a disposizione del mondo dell’archeologia. L’Associazione Arma di Cavalleria (ANAC) della provincia di Livorno, che fa parte di Assoarma, ovvero della confederazione che riunisce gli operatori d’Arma dei diversi settori, organizza infatti un corso in «logistica dello scavo» per futuri direttori archeologi. Sulle Alpi Apuane: 450 ore, tra teoria e pratica, per 120 allievi. Il corso partirà ai primi di maggio e avrà come obiettivo la costruzione di un campo base per scavo archeologico «perfetto» ed efficiente, in cui tutte le risorse siano ottimizzate, nel pieno rispetto delle norme sanitarie e della sicurezza sul lavoro. E in cui

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l’archeologo impari a muoversi nel bosco al pari di Indiana Jones… Ce ne parla il presidente dell’ANAC e di Assoarma Livorno, Luca Bilanceri, Tenente dell’Artiglieria semovente da campagna nella riserva complemento... «Il corso non si occuperà di archeologia, ma di logistica dell’archeologia: sicurezza sullo scavo, norme sulla sussistenza, logistica in particolari aree climatiche, normativa sanitaria e fund raising». Perché l’Associazione Arma di Cavalleria (ANAC), che rappresenta un mondo completamente diverso rispetto a quello dell’archeologia, ha scelto di organizzare un corso per archeologi? «Noi siamo una confederazione di associazioni d’Arma: io rappresento la cavalleria. Siamo intervenuti sui

bunker della seconda guerra mondiale, in provincia di Livorno; i nostri paracadutisti scavano da anni nel deserto egiziano, nella depressione del Qattara, dove il rudere piú vicino dista 9 ore di automobile, per recuperare i siti della battaglia dell’El-Alamein, minacciati dalle compagnie petrolifere. Quando ci siamo rapportati al mondo dell’archeologia, nel corso delle nostre consulenze, abbiamo constatato carenze gravissime sui cantieri di scavo. In materia di sicurezza sul lavoro, capita di non trovare i caschi sullo scavo, ma nemmeno nei magazzini. Per non parlare delle scarpe antinfortunio, delle mascherine antipolvere, della cassetta del pronto soccorso che, laddove esiste, è spesso poco attrezzata. I problemi in tema di


sicurezza sul lavoro, in alcuni casi, possono costare la reclusione al direttore dello scavo, nonché il pagamento di ammende pesanti. Anche perché, in caso di incidente sul lavoro, in mancanza dei requisiti sulla sicurezza, l’assicurazione non paga e, a risponderne, è il direttore stesso». Ma a chi è rivolto, questo corso di logistica dell’archeologia, solo ai direttori di scavo?

«No, a tutti gli archeologi e ai potenziali, futuri, direttori di scavo. A tutti gli studenti in possesso di laurea triennale che, al termine dell’università, potrebbero dirigere scavi. Al momento, il corso è in fase di sperimentazione, e gli sviluppi futuri dipendono da quanti studenti avremo: le iscrizioni sono ancora aperte». E in che cosa consiste, in pratica, la logistica dello scavo archeologico? «Reperimento delle risorse, tecniche di identificazione topografica, aerofotogrammetria, innanzitutto. Per esempio, in campo militare, si può scoprire un bunker seppellito a centinaia di metri sottoterra, come quello di Saddam Hussein, identificandolo grazie all’ombreggiatura del terreno. Oppure, come ci è accaduto nell’identificare il luogo

di sepoltura di alcuni rifiuti tossici, si può localizzare un castello medievale che si trova sott’acqua, all’interno di un ansa dell’Arno. Poi c’è la logistica in condizioni particolari: per esempio, per restaurare un forte della fine dell’Ottocento, lungo la linea gotica, sulle Alpi Apuane, il Forte Bastione, abbiamo dovuto utilizzare gli elicotteri. Se, per esempio, si volesse scavare l’abbazia sull’isola di Montecristo, in Toscana, a cui si arriva solo con una mulattiera, occorrerebbero una nave di appoggio e un mezzo aereo. Oppure, se si dovesse scavare un mammut in Siberia, servirebbe un container surgelatore per trasportare fino al laboratorio l’intero blocco di permafrost con l’animale…». Nel corso insegnate soluzioni per scavi decisamente estremi, in luoghi difficili e spesso inaccessibili, ma per la maggior parte degli scavi archeologici, in Italia, che cosa proponete? «Rimanendo in Italia, quando si deve intervenire in aree vincolate, come per esempio un parco naturale, in cui è vietato l’uso di mezzi meccanici, ci si deve organizzare: noi, sui monti livornesi, utilizzeremo i muli alpini quando, per la prova finale del corso, costruiremo un campo base con tutti i crismi, nei pressi di un eremo del XIII secolo. In un accampamento a regola d’arte, inoltre, ci devono essere una cambusa e una mensa provvista di certificato del veterinario da ispezione, come la legge prevede per tutti i cibi forniti dalla pubblica amministrazione; gli archeologi, poi, devono avere i certificati medici, i vaccini obbligatori, e sullo scavo devono essere disponibili i sieri antivipera». Quindi il vostro obbiettivo è mettere a disposizione i metodi e i mezzi dell’Arma per ottimizzare lo scavo archeologico: ma funziona, l’uso di mezzi cosí lontani dal mondo dell’archeologia? «Eccome. Il genio minatori scava in

condizioni ben piú delicate di quelle che l’archeologo trova per prelevare un’anfora! Per esempio, i barometri a spillo che si usano per le tubazioni del gas e per accertare eventuali fughe possono essere usati per misurare la pressione all’interno di un sarcofago, evitando cosí di far svanire le spoglie al contatto con l’aria. In questi casi, strumenti che non sono stati pensati per l’archeologia posso essere di grande aiuto per lo scavo archeologico». Scavi archeologici cosí attrezzati e «futuristici» richiedono parecchi denari: dove e come trovare le risorse necessarie? Che cosa suggerite, nel vostro corso, a proposito di fund raising? «Non tutti sanno, per esempio, che in qualità di direttore di scavo, si può richiedere la quota dell’8 per mille che lo Stato destina ai beni culturali. Molti archeologi non pensano alle fondazioni bancarie, o all’uso degli spin off… C’è, poi, la soluzione delle donazioni, che sono deducibili dalle tasse, di cui possono beneficiare alcune realtà sancite per legge, come gli “amici del museo” o simili. A noi, come Assoarma, la Asl di Livorno ha offerto in donazione 480 t di materiale tra cui tavoli, lampade, armadi, che a un laboratorio di restauro potrebbero essere molto utili. Invece di comprare l’attrezzatura, la si può ricevere in donazione da altre amministrazioni che, altrimenti, sarebbero costrette a pagare per disfarsene. Lo Stato ancora è costretto a pagare per smaltire le attrezzature dismesse dopo la fine della leva obbligatoria: se, su 70mila guanti, se ne regalassero 20mila alle università… Noi abbiamo avuto 450 sacchi a pelo e zaini dai magazzini militari. Si dice che il rospo, per non parlar, non ebbe coda…» Quindi vorreste insegnare all’archeologo a non comportarsi come il rospo di Esopo? «Sí, il rospo era timido e, poiché non la chiese, la coda non gli venne data».

archeo 9


n otiz iario

SCAVI Campania

calce di prima qualità

I

l moderno cimitero di Battipaglia (Salerno), ubicato in via della Pace, si trova in una zona in cui era stata in passato accertata la presenza dei resti di una villa rustica di età romana, e dove si erano avuti ripetuti rinvenimenti fortuiti. In occasione dei lavori di ampliamento della struttura la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno ha perciò disposto l’esecuzione di indagini preliminari, che hanno confermato l’interesse archeologico della località. Gli interventi di scavo, effettuati nell’autunno scorso, hanno portato alla luce, nella fascia nord-orientale dell’area, un impianto legato alla produzione della calce del II-I secolo a.C. «È stata subito individuata la camera in cui avveniva la cottura della pietra – spiega Giovanna Scarano, archeologo e direttore del Museo Archeologico Nazionale di Eboli –, composta da una struttura a pianta circolare ricavata nel piano di argilla, rivestita internamente da uno spesso strato di pietre di media grandezza disposte lungo le pareti, e la cui altezza massima conservata è di circa 80 cm. Il fondo della stessa presenta un piano costituito da tegole, parzialmente conservato, che doveva ricoprire e chiudere lo spazio destinato alla combustione; sul lato est è stata evidenziata l’apertura quadrangolare – la bocca – per il caricamento della brace, chiusa da una tegola fermata esternamente da alcuni sassi. Sullo stesso livello era il prefurnio, fossa di forma allungata ugualmente chiusa da una grossa tegola, e delimitata lateralmente da una tessitura in pietre con l’inserzione, in un brevissimo tratto, di laterizi. Quest’ultimo, conservato per una lunghezza di 4 m e una larghezza massima di 2,40, rappresentava la vera e propria

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camera da fuoco nella quale veniva introdotto il combustibile e dove avvenivano le prime fasi di riscaldamento». All’interno del forno sono stati rinvenuti terreni argillosi, con vistose tracce di fuoco, che dovevano ricoprire la fodera in pietre per impedire la dispersione di calore, e pietre calcinate. La ceramica recuperata, rappresentata da un numero modesto di frammenti, permette comunque di datare l’impianto all’età tardo-repubblicana. Il rinvenimento di Battipaglia non sembra isolato: dalla stessa area, infatti, provengono indizi che potrebbero far ipotizzare l’esistenza in loco di ulteriori ambienti legati ai processi di lavorazione e/o di altre e

Battipaglia. La struttura identificata come fornace per la cottura della calce in corso di scavo. diverse simili strutture, e rappresenta al momento l’unico esempio noto di fornace per la produzione della calce, utilizzata come legante nelle costruzioni, scoperta in Campania. La sua presenza, documentata a Roma almeno dal 300 a.C. nell’Acquedotto Appio, dovette diffondersi rapidamente nel territorio della valle del Sele, come dimostra il fervore dell’attività edilizia documentata in tale importante territorio, non solo nella parte costiera, ma anche nell’entroterra. Giampiero Galasso



n otiz iario

mostre Roma

atena ritrovata

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ostre e musei mettono spesso a dura prova le capacità di immaginazione del visitatore, perché non è sempre facile intuire quale fosse la forma di un oggetto o di un’opera d’arte conservati in frammenti. Cosí, negli ultimi anni, si è cercato di aggirare l’ostacolo grazie all’informatica e, tra le ultime in ordine di tempo, ecco la ricostruzione virtuale di una pregevole statua di Athena Nike, attualmente esposta a Roma. Si tratta di una scultura realizzata intorno al 430 a.C. da un blocco unico di marmo pario, individuata sul mercato antiquario e acquisita dalla Fondazione Sorgente Group. Lo studio del reperto ha permesso

Dove e quando «Athena Nike: la vittoria della dea. Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group» Roma, Spazio Espositivo Tritone di Fondazione Sorgente Group fino al 3 agosto Orario martedí e giovedí, 10,30, 12,30 15,30 e 17,30 su appuntamento Prenotazioni tel. 06 90219051; e-mail: segreteria@ fondazionesorgentegroup.com Info www. fondazionesorgentegroup.com

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di identificarlo con una statua votiva, collocata su una colonna o pilastro, a circa 5 m di altezza, all’interno di un santuario attico o di ambiente filo-ateniese, che rappresentava appunto la divinità, alata, nell’atto di atterrare su uno sperone di roccia per celebrare le vittorie dell’esercito. Basandosi sul confronto con statue analoghe e meglio conservate e con l’iconografia attestata per questo soggetto, si può ipotizzare che Atena tenessa nella mano sinistra una corona di alloro o ulivo destinata al vincitore della battaglia, mentre nella destra un ramo di palma. La tradizionale egida, collocata sul petto completava e caratterizzava la dea quale Athena, mentre le ali la connotavano come una Nike. È possibile che in età augustea l’Athena sia stata trasferita dalla sua sede originaria a Roma, dove fu restaurata e dove, in età antoniniana, sarebbe stata realizzata la sua copia marmorea, oggi conservata nel Glencairn Museum vicino Philadelphia in Pennsylvania (USA). (red.) La ricostruzione virtuale dell’Athena Nike e, in alto, il frammento dell’opera originale. 430 a.C. circa


incontri Ferrara

l’unione fa il restauro

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on il 2013, anno che ne tiene a battesimo la XX edizione, il Salone del Restauro di Ferrara, oltre a confermarsi come manifestazione che mira a «fotografare» un anno di impegno, lavoro e ricerche, introduce un importante spunto di riflessione: la necessità di una strategia uniforme e studiata per un recupero consapevole del patrimonio edilizio di valore storico-artistico distrutto a seguito di eventi catastrofici, sia che si tratti di reintegrare parti perdute di un monumento significativo per la comunità, sia che si tratti di ricostruire parte dei tessuti urbani distrutti. In questo preciso momento storico e culturale si rende necessario riconoscere l’importanza che recupero architettonico e restauro acquisiscono alla luce dei tragici eventi sismici che hanno funestato il nostro territorio negli ultimi anni. L’imperativo morale, sociale e professionale è quello di costituire un network di cooperazione e di comunicazione, un fronte comune unito sulla

necessità di riconoscere il valore della salvaguardia e del recupero dei beni architettonici, artistici e ambientali. Dopo gli eventi sismici che hanno colpito l’EmiliaRomagna nella scorsa primavera, il Salone del Restauro non poteva non focalizzare l’edizione 2013 su questo argomento, tragicamente riportato all’attualità. Un altro dei temi principali a cui si dedica la manifestazione è la grande operazione di catalogazione, recupero e restauro attualmente in corso presso il Palazzo Ducale di Sassuolo, trasformato in un grande cantiere in cui sono state temporaneamente trasportate le circa 1250 opere d’arte danneggiate dal sisma, per poi agevolarne la reintegrazione nel loro tessuto d’appartenenza una volta riportate alle condizioni ottimali. Questa iniziativa è stata istituita e coordinata dalla Direzione Regionale dei Beni Culturali in collaborazione con L’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (ISCR) di Roma e l’Opificio delle Pietre Dure (OPD) di Firenze. (red.)

A sinistra: restauratori al lavoro in uno dei laboratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. In basso: Kutaisi (Georgia). La cattedrale di Bagrati, capolavoro dell’architettura medievale georgiana dell’XI sec. Sul monumento è in corso un progetto di restauro promosso dall’UNESCO.

Dove e quando XX Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali Ferrara, Quartiere Fieristico, via della Fiera, 11 dal 20 al 23 marzo Orario 9,30-18,30 Info tel. 051 6646832; www.salonedelrestauro.com

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n otiz iario

mostre Londra

i primi artisti

Dove e quando «Arte delle ere glaciali. L’avvento di un pensiero moderno» Londra, British Museum Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 (venerdí apertura serale fino alle 20,30) Info www.britishmuseum.org

L’

esposizione si propone di dimostrare come lo sviluppo intellettivo dell’uomo fosse stato tale, già in epoche molto lontane, da favorire la creazione delle prime forme d’arte. Disporre di un cervello capace di ragionamenti complessi, infatti, non favorí soltanto l’attuazione di modi di vita piú sofisticati, ma aprí la strada alle prime espressioni simboliche, sotto forma, appunto, di manifestazioni artistiche. Da questo assunto prende il via un percorso di forte impatto visivo, che si apre con le testimonianze riferibili al momento in cui, intorno ai 40 000 anni fa, i primi rappresentanti della specie umana anatomicamente moderna si diffusero in Europa, provenienti dall’Africa. I nuovi arrivati scoprirono di non essere soli, poiché, come ormai ampiamente dimostrato, vi fu un periodo in cui si trovarono a convivere con i «cugini» neandertaliani. E il possibile incontro fu uno dei molti stimoli creativi.

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È, in ogni caso, l’inizio di una stagione straordinaria, che ha i suoi esiti nelle pitture parietali delle grotte franco-cantabriche, ma anche nella produzione di un gran numero di opere d’arte mobiliare, scolpite per esempio su osso e corno, che rappresentano in forme realistiche o simboliche il paesaggio in cui l’uomo vive e gli animali che lo popolano. Una sezione importante è quella dedicata alle rappresentazioni della figura femminile, una delle caratteristiche piú tipiche dell’arte preistorica. Si possono ammirare opere realizzate con varie materie prime (non solo avorio, corno, osso, ma anche argilla cotta), che

offrono immagini di donne in varie fasi della vita e, spesso, in momenti significativi, come per esempio la gravidanza e il parto. Tra di esse, vi è anche la statuina in argilla cotta rinvenuta a Brno, nella Repubblica Ceca, che, datata intorno ai 26 000 anni fa, è una delle piú antiche figure in ceramica a oggi note. L’epilogo riprende il tema delle suggestioni esercitate dall’arte primitiva su pittori e scultori della nostra era, con opere di alcuni fra quelli che hanno maggiormente fatto proprie e rielaborato le creazioni dei loro antichissimi precursori, come Picasso, Henry Moore e Henri Matisse. (red.)

In alto: cervi scolpiti su una zanna di mammut, da Montastruc (Francia). 13 000 anni fa circa. Al centro: frammento d’osso con figure di cervo, dal riparo de La Madeleine (Francia). A sinistra: propulsore in forma di mammut, ricavato da un corno di cervo, da Montastruc. 14-13 000 anni fa circa.


con

archeo in viaggio a

malta

Dal 25 al 30 aprile ALLA SCOPERTA DI UN PARADISO ARCHEOLOGICO E STORICO-ARTISTICO: DAI SANTUARI MEGALITICI ALLE CATACOMBE CRISTIANE, DALLE CATTEDRALI BAROCCHE ALLE ARCHITETTURE MILITARI DEI CAVALIERI DI SAN GIOVANNI Il viaggio sarà accompagnato e guidato da un archeologo e collaboratore di «Archeo»

programma 1° giorno – giovedí 25 aprile Roma/Malta Partenza da Roma Fiumicino con volo Air Malta KM 613 delle 11,00 con arrivo a Malta alle ore 12,25. Pranzo libero. Trasferimento con pullman privato all’hotel Golden Tulip Vivaldi e check-in. Nel pomeriggio breve giro della capitale, La Valletta. Al termine, rientro in hotel. Cena e pernottamento.

2° giorno – venerdí 26 aprile Malta Prima colazione in albergo. Mattinata dedicata alla visita del Museo Nazionale Archeologico della Valletta. Pranzo in ristorante. Escursione a sud di Malta per una visita del complesso dei templi di Hagar Qim, il sito preistorico piú importante dell’isola. Si prosegue poi con la visita dei resti di un altro gruppo di templi, quelli di Mnajdra, situati su un scogliera, a poche centinaia di metri dal tempio principale. Rientro in hotel per la cena e il pernottamento.

3° giorno – sabato 27 aprile Malta In mattinata visita all’ipogeo di Hal Saflieni. Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, è un complesso di camere sotterranee, forse utilizzato sia come luogo di sepoltura che come tempio. Proseguimento con i templi megalitici di Tarxien, risalenti al 3600-2500 a.C. Sono costituiti da quattro strutture e sono famosi per i dettagli dei loro intagli, che includono animali domestici scolpiti in rilievo, altari e paraventi decorati con motivi a spirale e altri disegni. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio visita di Ghar Dalam, sito neolitico in cui sono state scoperte le tracce del piú antico insediamento umano di Malta, risalente a 7400 anni fa

circa. Proseguimento con il sito fenicio-punico di Tas Silg, scavato da una missione italo-maltese. Rientro in albergo per la cena e il pernottamento.

4°giorno – domenica 28 aprile Malta/Gozo/Malta Prima colazione in albergo. Escursione a Gozo, la vicina isola dell’arcipelago maltese (20 min. circa per la traversata). La visita inizia con i templi megalitici di Ggantija (3600-3000 a.C.): complesso inserito anch’esso nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Si tratta di due templi racchiusi all’interno di un muro perimetrale megalitico. Si raggiunge poi la capitale Victoria, al centro dell’isola, e si visita il Museo Archeologico. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio escursione naturalistica nella parte nordoccidentale, dove si potranno ammirare alcune caratteristiche formazioni come il Fungus Rock, che prende il nome da un fungo particolarmente noto per le sue proprietà medicinali. Quindi per Dweijra Bay, dove si trova l’enorme arco di 50 m che si protende nel mare detto «Finestra Azzurra». Rientro a Malta e da qui in albergo per la cena e il pernottamento.

5° giorno – lunedí 29 aprile Malta Prima colazione in albergo. Escursione che porterà alla parte centrale di Malta, dominata dalla cittadella antica di Mdina. Passeggiata per i vicoli della «citta silenziosa» e impareggiabile vista dell’isola dai suoi bastioni. Si procede per Rabat. Breve giro della città e visita del Museo Archeologico, della Villa Romana e delle catacombe paleocristiane. Pranzo in ristorante. Pomeriggio a disposizione per il relax o per eventuali escursioni facoltative. Cena e pernottamento in albergo.

6° giorno – martedí 30 aprile Malta/Roma Prima colazione in hotel. In tempo utile trasferimento in pullman privato in aeroporto per la partenza del volo KM 612 delle ore 8,35 per Roma. Arrivo all’aeroporto di Fiumicino alle ore 10.00.

DESCRIZIONE Quota di partecipazione per persona (a partire da 10 partecipanti) € 1.180,00 Supplemento singola Tasse aeroportuali

€ 100,00 € 42,00

Assicurazione Allianz Global Assistance, medico, bagaglio e annullamento € 21,00 Servizi compresi: • Passaggi aerei internazionali Air Malta in cl. economy con franchigia bagaglio di Kg. 20 a persona • Sistemazione in camera doppia nell’hotel di categoria 4* indicato o similare •Trattamento di pensione completa, dalla cena del 1° giorno alla colazione del 6° giorno: mezza pensione (prime colazioni e cene) in albergo, con pranzi in ristorante. •Trasferimenti da/per aeroporto e trasporti come indicato in programma con pullman privato • Visite come da programma con guida in italiano • Ingressi ai luoghi di visita indicati in programma • Assistenza dei Corrispondenti in loco • Accompagnatore specialistico dall’Italia Non sono inclusi: • mance, bevande, spese di carattere personale e tutto quanto non espressamente indicato nei servizi compresi Condizioni Generali da cataloghi Lombard Gate 2012/13 Milano, 29 gennaio 2013 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 – 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it


n otiz iario

Luciano Calenda

archeofilatelia

alla ricerca del vello d’oro 1

Questa volta non parliamo di «luoghi della leggenda», ma di una singola leggenda, che ha un ruolo di primo piano nella mitologia greca e a cui si sarebbe addirittura ispirato Omero per alcune delle avventure di Ulisse. Si tratta della spedizione di Giasone nella Colchide per impadronirsi del vello d’oro, ma di questo ne leggerete nelle pagine successive. Qui è divertente verificare come questo mito sia stato interpretato dalle Poste greche e come lo abbiano fatto anche le Poste della Repubblica di Georgia (ex URSS) che si è parzialmente «impadronita» della storia di Giasone, visto che la Colchide viene identificata con una regiona posta sulla costa orientale del Mar Nero, oggi appunto territorio georgiano. Innanzitutto presentiamo la nave Argo in questo bel francobollo (1) emesso dalla Grecia nel 1958, in una serie che parlava di marineria greca. Ecco gli «Argonauti» del 1995: gli Argonauti si imbarcano sulla nave Argo alla presenza della dea Atena (2); i gemelli alati figli di Borea liberano re Fineo dalle arpie (3); Giasone combatte contro un toro con l’aiuto di Medea e della dea Nike (4); mentre Medea distrae il dragone Giasone si impossessa del vello d’oro (5); Giasone consegna a re Pilia il vello d’oro sotto lo sguardo di Medea e della dea Nike (6). Il blocco foglietto della Georgia (7) emesso nel 1998 mostra, al centro, la mappa del viaggio di Giasone. I francobolli raffigurano: una galea greca dell’isola di Rodi (8); la preparazione alla battaglia (9); un’altra libera interpretazione dell’episodio di Fineo salvato dalle arpie (10); l’uccisione del re Amico (11); gli Argonauti nella Colchide (12); il dragone vomita Giasone con l’aiuto di Medea (13; variante dell’episodio di cui al n. 5).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



calendario

Italia Roma L’Età dell’Equilibrio

Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13

A sinistra: ritratto di Faustina Minore.

Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group Spazio Espositivo Tritone fino al 03.08.13

Viaggio nella terra dei Veneti antichi» Palazzo della Ragione fino al 17.11.13 (dal 06.04.13)

parma Storie della prima Parma

Costantino. 313 d.C.

Colosseo fino al 15.09.13 (dall’11.04.13)

La Pompei di fine ‘800 nella pittura di Luigi Bazzani Fondazione del Monte fino al 26.05.13 (dal 29.03.13)

In alto: torso di statua in marmo raffigurante Athena Nike. 430 a.C. circa.

Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13

Una necropoli dell’età del Ferro a Urago d’Oglio Santa Giulia, Museo della Città fino al 31.03.13 La Pianura padana e le Alpi al tempo di Ötzi Museo Diocesano fino al 15.05.13

In basso: kantharos a figure nere in forma di sileno.

chiusi +110

Esposizione per i 110 anni dell’edificio che ospita il Museo Nazionale Etrusco Museo Nazionale Etrusco fino al 30.04.13

cortona Restaurando la storia

L’alba dei principi etruschi Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 05.05.13

modena 1897-2012 Il mosaico riscoperto

A 115 anni dal suo primo ritrovamento, il mosaico tardoromano di Savignano sul Panaro – riscoperto e restaurato – torna a vedere la luce. L’opera era stata scoperta alla fine dell’Ottocento, ma, al termine dello scavo, venne lasciata in posto e ricoperta. L’occasione per il recupero si è presentata tra il 2010 e il 2011, durante i lavori per la realizzazione di una rotatoria. È stato disposto il controllo 20 a r c h e o

Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 02.06.13

In alto: piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca. A sinistra: statuetta in ceramica di figura femminile. III sec. a.C.

serrapetrona (MC) La conquista del cielo

brescia Terre di confine

L’età del Rame

Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13

Padova Venetkens

Athena Nike: la vittoria della dea

bologna Davvero!

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta

siena Vino fra mito e storia Complesso Museale S. Maria della Scala fino al 05.05.13

torino Tesori del patrimonio culturale albanese Palazzo Madama fino al 07.04.13

Austria innsbruck Armi per gli dèi

Guerrieri, trofei, santuari Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum fino al 31.03.13 archeologico del sito e i resti del complesso architettonico a cui il mosaico appartiene sono stati nuovamente individuati. Completate le indagini, si è proceduto al distacco del mosaico di uno degli ambienti. Il tappeto musivo misurava originariamente circa 7 x 4,50 m; è decorato con elementi a treccia, geometrici e vegetali stilizzati alternati al nodo di Salomone, con un tondo centrale incorniciato da una corona di lauro che delimita una decorazione figurata forse di natura simbolica.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia

Israele

Saint-romain-en-gal e lione Peplum

Gerusalemme Il viaggio finale di Re Erode il Grande Israel Museum fino al 05.10.13

L’antichità al cinema Musées Gallo-Romains fino al 07.04.13

Spagna

Strasburgo Un’arte dell’illusione

madrid Pompei

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Catastrofe sotto il Vesuvio Centro de Exposiciones Arte Canal fino al 05.05.13

Alcalá de Henares (Madrid) Arte senza Artisti

Germania Berlino Sotto la luce di Amarna 100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 13.04.13

Frammento di affresco con busto femminile su cornice modanata.

Museo d’Arte Cicladica fino al 10.04.13

lérida Mummie egizie

Il segreto della vita eterna Caixa Forum fino al 21.04.13

Grecia Atene Principesse del Mediterraneo all’alba della storia

Uno sguardo sul Paleolitico Museo Archeologico Regionale fino al 07.04.13

Svizzera In basso: frammento d’osso con figura di renna. 13 000 anni fa circa.

berna Qin

Gran Bretagna

L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13 (dal 15.03.13)

Londra Arte delle ere glaciali

zurigo Chavín

L’avvento di un pensiero moderno British Museum fino al 26.05.13

Vita e morte a Pompei ed Ercolano The British Museum fino al 29.09.13 (dal 28.03.13)

dove e quando Lapidario Romano dei Musei Civici, Palazzo dei Musei fino al 12 maggio Orario lu-ve, 8,00-19,00; sa-do, 9,30-19,00 Info tel. 059 2033125

Statua bronzea raffigurante un corridore, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C.

Il tempio misterioso delle Ande peruviane Museum Rietberg fino al 10.03.13

In alto: un guerriero in terracotta di Xi’an. A sinistra: vaso in forma di dragone.


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

T

empi duri, questi, per le vestigia del passato, in diversi angoli del globo. E non parliamo solo dei grandi monumenti della Siria o del saccheggio della biblioteca dell’Istituto Ahmed Baba, a Timbuctu (Mali), in cui lo scorso mese di gennaio sono stati dati alle fiamme, per mano di terroristi islamici, alcuni tra i preziosissimi manoscritti (islamici, per l’appunto!), i piú antichi conservati nel continente africano (un recente

lancio dell’agenzia Associated Press informa che, fortunatamente, il numero dei manoscritti andati distrutti è inferiore a quanto si era temuto in un primo momento, grazie anche all’impegno del settantaduenne custode della biblioteca, Abba Alhadi, il quale, già a partire dall’estate scorsa, aveva iniziato a nascondere i preziosi reperti in sacchi di riso per poi trasportarli, a rischio della propria vita, nella capitale Bamako, distante oltre 1000 km da Timbuctu). In queste pagine, però, alziamo lo sguardo per andare piú lontano e approdare in un sito archeologico incantato,

Veduta dei resti del complesso religioso di Preah Vihear, in Cambogia. Si tratta di un tempio indú, costruito tra il X e il XII sec., durante l’impero dei Khmer. L’UNESCO lo ha inserito nel 2008 tra i beni del Patrimonio dell’Umanità.

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sconosciuto ai piú, vittima di un conflitto di frontiera violentissimo…

la battaglia per il tempio di shiva L’archeologo Pheng Sam Oeun stava scambiando due parole con una guardia forestale quando son partiti i colpi dell’artiglieria. Erano le 18 e 15 del 4 febbraio 2011. Pheng aveva appena terminato la sua giornata di lavoro negli uffici amministrativi ai piedi della montagna su cui si erge il complesso templare khmer, antico di 1100 anni: «prima abbiamo visto


i bagliori di luce – racconta Pheng – poi è seguito il suono secco degli spari». Inizia cosí il reportage, datato febbraio 2013, di Brendan Borrell, pubblicato dal bimestrale statunitense Archaeology. Il sito di Preah Vihear («il sacro convento»), un complesso templare indú costruito durante l’impero dei Khmer tra il X e il XII secolo, sorge su un altipiano roccioso di 525 m, dal quale si gode di una vista mozzafiato sulla sottostante pianura della Cambogia. Si trova a meno di 100 m dalla frontiera con la Thailandia, in territorio cambogiano. L’archeologo Pheng è incaricato della conservazione del sito e svolge anche piccole indagini di scavo:«Dopo mezz’ora dall’inizio

dei combattimenti – racconta – la pioggia di proiettili divenne cosí intensa che la guardia e io ci riparammo nel nostro “bunker”, un pezzo di tubo in cemento destinato all’impianto di fognatura. Ci siamo nascosti lí per tre ore, combattendo a nostra volta con le zanzare malarifere. A un certo punto, un mortaio da 81 mm ha centrato la soglia decorata di un edificio e le schegge hanno colpito il fotografo del tempio, uccidendolo sul posto». Secondo fonti ufficiali, l’attacco di cui racconta Pheng ferí dozzine di persone, tra militari e civili, causando almeno sette morti. A quel 4 febbraio del 2011 seguirono sei mesi di combattimenti ininterrotti intorno al sito.

Cambogia e Thailandia si sono contesi Preah Vihear da piú di cento anni (nel 1904 un accordo tra il governo coloniale francese e il regno di Siam tracciò la frontiera tra quelle che oggi sono Cambogia e Thailandia, n.d.r.) ma, paradossalmente, le tensioni si sono accentuate quando, nel 2008, il complesso templare è stato incluso dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Da quel momento, le antiche vestigia sono state rivendicate da nazionalisti di entrambi i Paesi del Sud-Est asiatico, mettendo cosí a rischio proprio la sopravvivenza stessa di questo luogo straordinario, legato al patrimonio culturale e religioso comune a tutta la regione.

Laos

Thailandia

Bangkok

Preah Vihear Angkor

Cambogia Phnom Penh

Vietnam

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figli di pietro e paolo di Geza Vermes

«Giudei», «cristiani», «giudeo-cristiani»: quale rapporto si nasconde dietro a questi termini, quali processi ne hanno determinato le differenze? Risponde Geza Vermes, professore dell’Università di Oxford, studioso dei Manoscritti del Mar Morto e storico di fama internazionale del cristianesimo delle origini

L’

espressione «giudeo-cristiano» è apparentemente formata da due concetti antitetici. Infatti, come è possibile che qualcuno sia un seguace di Mosè e nello stesso tempo di Gesú? Eppure, agli inizi del cristianesimo, nei primi cento anni dopo la morte di Gesú, la possibilità di incontrare giudeo-cristiani e, distinguibili da loro, cristiani gentili (i giudeo-cristiani sono i cristiani di origine giudaica, mentre i cristiani gentili sono quelli di origine non giudaica, n.d.r.) era una circostanza all’ordine del giorno tanto in Terra Santa quanto nelle terre della diaspora. Gesú di Nazareth, nelle sue predicazioni, si rivolgeva soltanto ai giudei, «le pecore smarrite della casa d’Israele» (Matteo 10,5; 15,24), ordinando ai suoi discepoli di non avviPietro e Paolo si abbracciano in un mosaico nella cappella Palatina di Palermo. 1143 circa. Entrambi furono discepoli di Cristo, ma, quando la comunità dei fedeli crebbe fino a includere i non ebrei, i due apostoli divennero protagonisti della prima grande frattura all’interno del cristianesimo.

cinarsi ai pagani (gentili) e ai Samaritani (Mt 10,5). Nelle poche occasioni in cui Gesú predicò oltre i confini della sua terra natia, non proclamò mai la sua parola ai pagani e lo stesso fecero i suoi discepoli fintanto che egli era in vita. La missione degli undici apostoli rivolta «a tutte le nazioni» (Mt 28,19) è un concetto subentrato dopo la resurrezione. Sembra essere stato ispirato da Paolo ed è assente nei Vangeli, con l’eccezione della lunga parte finale spuria di Marco (Mc 16,15), che manca in tutti i manoscritti piú antichi. La prospettiva di Gesú, dunque, era soltanto giudaica, dal momento che egli rivolgeva la sua parola soltanto a quel popolo. Dagli Atti degli Apostoli apprendiamo che la primitiva comunità dei discepoli di Gesú contava 120 giudei, compresi gli undici apostoli, la madre e i fratelli di Gesú (Atti 1,1415). In essi è contenuto l’ultimo riferimento a Maria nel Nuovo Testamento, sebbene negli Atti e nelle lettere di Paolo vi siano ulteriori allusioni ai fratelli di Gesú. Giacomo, «il fratello del Signore», secondo una definizione che ne ha dato Paolo, è presentato come il

capo della Chiesa di Gerusalemme (Atti 15,19; Galati 1,19). In un altro passaggio, sempre in Paolo, anche i fratelli sposati di Gesú erano missionari del Vangelo (1 Corinzi 9,5).

il riscatto dei vigliacchi Nella festa della Pentecoste, che seguí la crocifissione, Pietro e gli altri apostoli furono trasformati per influenza dello Spirito Santo da gruppo di vigliacchi fuggitivi a campioni della fede in Gesú. La loro carismatica proclamazione alla folla di Gerusalemme fece aumentare il nucleo originario dei discepoli di Gesú da 120 a 3000 nuovi giudei convertiti. A costoro era chiesto di credere nell’insegnamento di Pietro riguardo a Gesú e di essere battezzati nel suo nome. I singoli membri di questo movimento non portavano alcun nome specifico, mentre esso stesso era conosciuto come «la Via» (Atti 9,2; 19,9; 24,14), abbreviazione di «la Via di Dio». Solo successivamente, con la nascita di una comunità in Antiochia, nella Siria settentrionale, compare la designazione specifica christianoi («cristiani» o messianisti), a r c h e o 27


storia • giudei, cristiani, giudeo-cristiani

riferita ai membri di questa particolare chiesa (Atti 11,26). Ma che cosa distingueva i giudeocristiani di Gerusalemme dai loro vicini giudei? Sostanzialmente, non vi erano differenze particolari. I giudeo-cristiani si consideravano giudei: il comportamento esteriore e le abitudini alimentari erano giudaiche, e osservavano scrupolosamente tutte le regole della Legge mosaica. Gli apostoli e i loro discepoli continuarono a frequentare il

Tempio di Gerusalemme, centro religioso del giudaismo, per il culto privato e pubblico. Lí ebbero luogo le guarigioni miracolose (Atti 3,110; 5,12,20,25,42) e qui ogni giorno si riuniva in preghiera il gruppo di Gesú (Atti 2,46). Persino Paolo, principale oppositore all’adesione obbligatoria ai costumi giudaici nelle sue chiese, era solito frequentare il Tempio in occasione delle sue visite a Gerusalemme. Una volta fu rapito in estasi durante una pre-

Al tempo di Gesú

ghiera nella Casa di Dio (Atti 22,17), in un’altra occasione si sottopose ai rituali di purificazione prescritti prima di delegare i sacerdoti a compiere sacrifici in sua vece (Atti 21,24-26). Oltre all’osservanza della Legge di Mosè, compreso il culto nel Tempio, la pratica religiosa prevedeva anche l’atto di «spezzare il pane» (Atti 2,46), che non era soltanto un gesto simbolico, bensí un pasto vero e proprio. Aveva il duplice scopo di nutrire i partecipanti e di unirli simbolicamente con il loro Maestro Gesú e con Dio. Non si hanno in-

James Tissot, Ricostruzione di Gerusalemme e del Tempio di Erode. Acquerello, 1886-1894. New York, Brooklyn Museum. L’opera dell’artista francese risulta molto dettagliata e la città, «fotografata» all’epoca in cui è attestata la predicazione di Cristo, è vista dal Monte degli Olivi. Si possono riconoscere le mura, provviste di torri (1); il complesso del Tempio erodiano (2); la fortezza Antonia (3); il palazzo di Erode (4); la strada che portava verso Gerico (5).

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dicazioni circa la frequenza del rito, ma è verosimile che esso avesse luogo quotidianamente, non diversamente dal pasto sacro degli Esseni, descritto dagli autori giudei Filone e Giuseppe Flavio, nonché dalla Regola Comunitaria riportata nei Rotoli del Mar Morto: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (Atti 2,46). D’altro canto, secondo gli Atti, Paolo a Troade spezzò il pane nel primo giorno della settimana (20,7), e la Didaché, il primo trattato cristia-

no (fine del I secolo), prescrive anche che il rito del pane e il ringraziamento debbano essere celebrati ogni domenica (Didaché 14,1).

beni in comune I giudeo-cristiani di Gerusalemme praticavano anche la condivisione dei beni: «nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune» (Atti 4,32). Formalmente non erano obbligati a rinunciare alla proprietà, come accadeva per gli Esseni a Qumran, ma era imposta loro una forte pressione morale; non

agire conformemente sarebbe stato giudicato improprio. Cosí, prima dell’ammissione dei candidati non giudei (gentili), i membri del gruppo di Gesú apparivano agli occhi della gente di Gerusalemme come i rappresentanti di un movimento o di una setta giudaica. Erano paragonabili per numero agli Esseni e mostravano abitudini analoghe, come il solenne pasto quotidiano e l’istituzione di una cassa comune. Alla fine degli anni Cinquanta del I secolo, i seguaci di Gesú erano infatti chiamati «la setta (hairesis) dei Nazorei»

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storia • giudei, cristiani, giudeo-cristiani

(Atti 24,5,14), mentre nella piú tarda letteratura patristica i giudeocristiani erano chiamati gli Ebioniti o «i poveri». Lo storico della chiesa Eusebio (260-339) riferisce che fino alla guerra di Bar-Kohba (la seconda rivolta giudaica contro Roma, avvenuta nel 132-135) i tredici vescovi di Gerusalemme, a partire da Giacomo, il fratello di Gesú, provenivano dalla «circoncisione» (Storia ecclesiastica 4.3,5). Gli Atti individuano uno spartiacque demografico riguardo alla composizione del movimento di Gesú, databile intorno all’anno 40 con l’ammissione, nella chiesa, della famiglia del centurione romano Cornelio in Cesarea (Atti 10). Successivamente si unirono i membri gentili della chiesa mista greco-giudea in Antiochia (Atti 11,19-24; Galati 2,11-14) e i molti pagani convertiti da Paolo in Siria, Asia Minore e Grecia. Con ciò ebbe termine il monopolio giudaico e nacquero il cristianesimo «giudaico» e quello dei «gentili». Ma analizziamo piú da vicino questi eventi. Nell’episodio di Cornelio (Atti 10), l’estasi del centurione e della sua famiglia persuase Pietro a battezzarli senza ulteriori obblighi. Tuttavia, tale evento sembra essere 30 a r c h e o

rimasto un’eccezione, dal momento che nel Nuovo Testamento non sono ricordate altre conversioni di pagani in Terra Santa.

barnaba a tarso Fu nella città siriana di Antiochia, alla fine degli anni Quaranta del I secolo, che eventi simili divennero frequenti. I membri emigrati della chiesa di Gerusalemme furono raggiunti dai pagani evangelizzati e battezzati dai giudeo-cristiani originari di Cipro e di Cirene (in Africa del Nord). La chiesa madre di Gerusalemme inviò Barnaba a guidare la nuova comunità mista ed egli corse a Tarso, in Cilicia, per persuadere il suo amico Saulo/Paolo, già credente in Cristo, a unirsi a lui per occuparsi della nuova chiesa. I giudeo-cristiani e i cristiani gentili di Antiochia convivevano felicemente e mangiavano insieme. Visitando la comunità, Pietro partecipò spontaneamente ai pasti comuni. Tuttavia, quando alcuni membri particolarmente fanatici della chiesa di Gerusalemme presieduta da Giacomo, il fratello di Gesú, arrivarono ad Antiochia, il loro atteggiamento di disapprovazione costrinse tutti i giudeo-cristiani, compresi Pietro e Barnaba – ma con la significativa

eccezione di Paolo – a separare i loro compagni di mensa dai fratelli di origine greca (Atti 11,2). L’esito di questo episodio fu il venir meno dell’unione, della fraternità e dell’armonia all’interno della nuova chiesa mista. Paolo, indignato, si presentò a Pietro, chiamandolo pubblicamente ipocrita (Galati 2,11-14), determinando cosí la prima grande frattura all’interno del cristianesimo. Dopo la prima missione di successo di Paolo in Asia Minore, l’ingresso dei pagani nel gruppo di Gesú divenne un problema particolarmente acuto. A Gerusalemme ebbe luogo un concilio di apostoli, presenziato da Paolo e Barnaba, nel quale Giacomo, fratello del Signore e capo della comunità madre, respinse le richieste dei membri estremisti della sua congregazione e propose una soluzione di compromesso (Atti 15,19-21): i pagani che desideravano unirsi alla chiesa erano esonerati dal seguire il rigore della Legge di Mosè, inclusa la circoncisione, ed era richiesta loro soltanto l’astensione dal cibo sacrificato agli idoli, dal consumo del sangue, dal mangiare carne macellata in modo non rituale e da certe pratiche sessuali giudicate particolarmente odiose dai giudei. Queste regole erano previste sol-


Chi è l’apostolo? «Apostolo» è la traslitterazione del termine greco che significa «inviato». Un apostolo è un messaggero o inviato personale, incaricato di trasmettere il messaggio o altrimenti compiere le istruzioni dell’agente commissionario. Nei Vangeli il termine è comunemente associato con il particolare circolo ristretto dei discepoli di Gesú, da lui scelti e incaricati di accompagnarlo durante il suo ministero, di ricevere i suoi insegnamenti e osservare le sue azioni, e di seguire le sue istruzioni. Cosí essi soli sono qualificati sia ad autenticare il suo messaggio sia a continuare il suo lavoro attraverso il ministero della Chiesa. Le liste apostoliche appaiono nei Vangeli di Marco, Matteo e Luca, nonché negli Atti degli Apostoli. Ogni lista contiene dodici nomi, che non sempre, però, sono gli stessi. Il numero dodici probabilmente si riferisce agli eletti di Dio, le dodici tribú d’Israele che si stanziarono in Canaan dopo l’Esodo. A sinistra: Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico raffigurante l’Ultima Cena. V sec.

tanto per i pagani convertiti nella diaspora. A Gerusalemme prevalsero condizioni diverse, poiché ai cristiani di origine pagana (gentili) non era concesso di frequentare il Tempio a fianco dei loro correligionari giudeo-cristiani, poiché era proibito ai non giudei, pena la morte istantanea, di mettere piede nell’area sacra, riservata esclusivamente ai giudei.

affinità e divergenze Il concilio di Gerusalemme segnò l’inizio della separazione tra il cristianesimo dei giudei e quello dei gentili. Entrambi i gruppi erano concordi su alcuni punti essenziali e aspettavano ardentemente l’imminente seconda venuta di Cristo, la resurrezione dei morti e l’inaugurazione del Regno di Dio. Lo stesso Paolo insisteva che ciò sarebbe avvenuto durante la sua vita (1 Tessalonicesi 4,15-17). Su altri aspetti, invece, i punti di vista differivano. L’originario battesimo giudeo-cristiano (un rito di purificazione) e la divisione del pane (un pasto solenne in comune) furono trasformati, nella chiesa dei gentili, per influenza di Paolo: il battesimo divenne una partecipazione mistica alla morte, alla sepoltura e alla resurrezione di Gesú;

ad alcuni dei testi del Nuovo Testamento. Il suo programma religioso rappresenta essenzialmente un sunto della Legge mosaica, l’amore di Dio e del prossimo, al quale si aggiunge la cosiddetta «regola d’oro» nella sua forma giudaica «negativa»: «Tutto quello che non vorresti fosse fatto a te, anche tu non farlo agli altri» (Didaché 1.2; cfr. la versione positiva del Vangelo: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» [Mt 7,12; Lc 6,31]). Lo stile di vita raccomandato nella Didaché è quello della comunità primitiva di Gerusalemme descritta negli Atti, inclusa la condivisione dei beni:

il pasto comune una ripetizione rituale dell’Ultima Cena. Tali differenze condussero presto ad animosità e a un sentimento anti-giudaico da parte della chiesa dei gentili. Due dei piú antichi testi cristiani illuminano magnificamente queste divergenze tra i due gruppi di seguaci di Gesú. La Didaché, o Dottrina dei dodici apostoli, probabilmente composta in Palestina o in Siria, è il nostro ultimo piú importante documento giudeo-cristiano completamente preservato. Mentre la lettera di Barnaba è una delle espressioni piú antiche del cristianesimo dei gentili, e contiene numerose critiche anti-giudaiche. La Didaché viene generalmente datata alla seconda metà del I secolo, pertanto è probabilmente anteriore

Un volto per Cornelio Ancora un’opera di James Tissot, appartenente alla serie a soggetto biblico realizzata dall’artista. 1886-1894. New York, Brooklyn Musuem. Qui vediamo il ritratto di un centurione romano, che possiamo identificare simile al Cornelio che, secondo gli Atti degli Apostoli, dopo essere stato folgorato dalla fede in Cristo, fu il primo non giudeo battezzato da Pietro.

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«Condividi tutte le cose con il tuo fratello e non dire che nulla è tuo» (Didaché 4,8). La Didaché sembra raccomandare l’osservanza dell’intera Legge mosaica o almeno di quanto è possibile (Didaché 6,2).

nel giorno del Signore Nella Didaché il battesimo è presentato come una abluzione, un rito di purificazione; uno spruzzo di acqua può sostituire l’immersione se non sono disponibili vasche o fiumi. La preghiera comune imponeva la recitazione del Padre nostro tre volte al giorno. L’eucaristia (il pasto di ringraziamento) era celebrato la domenica, nel giorno del Signore (Didaché 14,1). Era una vera e propria cena e simbolo del cibo spirituale. Nessuna allusione è contenuta alla versione paolina dell’Ultima Cena del Signore. Nella Didaché l’autorità dottrinale era nelle mani di profeti itineranti dei quali ci parlano anche gli Atti (11,27-28). Essi erano integrati da vescovi e diaconi. Tuttavia, non erano nominati dai successori degli apostoli, come di norma avveniva nelle chiese dei gentili, ma erano democraticamente eletti dalla comunità. L’elemento piú significativo della dottrina della Didaché riguarda probabilmente l’interpretazione della figura di Gesú. Questo antico scritto giudeo-cristiano non contiene alcuna delle idee teologiche di Paolo circa la redenzione di Cristo o della parola divina o del Logos di cui parla Giovanni. Gesú non è mai chiamato il «Figlio di Dio». Paradossalmente, questa espressione si trova un’unica volta nella Didaché, dove appare come autodenominazione dell’Anticristo, chiamato «il seduttore del mondo» (Didaché 16,4). L’unico titolo attribuito a Gesú nella Didaché giudeo-cristiana è il termine greco pais, che significa sia «servo», sia «bambino». Tuttavia, poiché Gesú condivide questa designazione in rapporto con Dio con il re Davide (Didaché 9,2; Atti 4,25), è chiaro che essa 32 a r c h e o

debba essere tradotta come «Servo» di Dio. Se è cosí, la Didaché utilizza soltanto la piú bassa qualificazione cristologica riguardo a Gesú. Il Gesú della Didaché è, essenzialmente, il grande maestro escatologico che riapparirà presto per riunire insieme i membri dispersi della sua chiesa e trasferirli al regno di Dio. Le idee di Paolo e di Giovanni riguardo alla penitenza e alla redenzione non sono presenti in questo piú antico ricordo della vita giudeo-cristiana. L’immagine di Gesú, trasmessa dai maestri giudei agli ascoltatori giudei, rimane, cosí, vicina alla tradizione piú antica soggiacente ai Vangeli sinottici, e la congregazione cristiana della Didaché somiglia alla chiesa di Gerusalemme ritratta negli Atti.

la «gentilizzazione» Il passaggio nella percezione di Gesú da profeta carismatico a essere sovrumano coincide con un cambiamento geografico e religioso, quando la predicazione cristiana del Vangelo si sposta dalla cultura galileo-giudaica agli ambienti pagani del mondo greco-romano. Nello stesso tempo, per influenza del genio organizzativo di Paolo, la chiesa acquisisce una struttura gerarchica governata da vescovi, assistiti da presbiteri e da diaconi. La scomparsa dell’apporto giudaico apre la strada a una galoppante «gentilizzazione» e per conseguenza, alla «degiudaizzazione» e alla «anti-giudaizzazione» del nascente cristianesimo, come si può osservare nella lettera di Barnaba, la prima opera del cristianesimo dei gentili. Questa lettera, erroneamente attribuita a Barnaba, compagno di Paolo, è opera di un autore cristiano non giudeo, probabilmente della città di Alessandria e fu redatta intorno al 120. È inclusa nel Codex Sinaiticus, il piú antico codice del Nuovo Testamento, risalente al IV secolo, dichiarato non canonico dalla chiesa. Il riferimento alla distruzione del Tempio di Gerusalemme lo pone senza dubbio a dopo l’anno 70, ma l’assenza di riferi-

Ravenna, Battistero degli Ariani. Mosaico che orna l’interno della cupola, con il Battesimo di Cristo e, tutto intorno, il corteo degli Apostoli. V sec.


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storia • giudei, cristiani, giudeo-cristiani

un uomo virtuoso Secondo gli Atti degli Apostoli (4,36-37), Barnaba era un levita di Cipro il cui cognomen era Giuseppe; divenne membro della comunità cristiana primitiva di Gerusalemme e fu soprannominato dagli apostoli Barnabas (cioè «figlio dell’incoraggiamento» in aramaico). Era un ebreo della diaspora (ossia nato in un Paese fuori della Palestina), che forse era andato a Gerusalemme per i suoi contatti con i sacerdoti; cugino di Giovanni Marco, divenne ben presto una guida per la comunità. Secondo gli Atti, fece conoscere Saulo (Paolo), un fratello ebreo di lingua greca credente in Gesú, agli apostoli a Gerusalemme; questo fa pensare che gli Atti conoscessero Barnaba come un uomo ben inserito nelle attività del movimento cristiano in Siria, dove Saulo era divenuto cristiano. Dopo la persecuzione degli «ellenisti» (Ebrei cristiani che parlavano il greco come lingua madre) a Gerusalemme, Barnaba si presentò ad Antiochia sull’Oronte, come rappresentante della chiesa di Gerusalemme. Là si dedicò alla missione ai gentili e lavorò con Saulo come compagno piú anziano e responsabile di una missione cristiana in SiriaCilicia. Gli Atti riferiscono che lui e Paolo portarono le offerte raccolte per la carestia da Antiochia a Gerusalemme. Se i racconti degli Atti sono attendibili, Barnaba deve avere avuto un ruolo formativo nello sviluppo teologico di Paolo, il quale lo considera come uno degli apostoli. Negli Atti si racconta inoltre che sia Paolo sia Barnaba scelsero di lavorare come commercianti, sebbene le loro famiglie fossero agiate. Secondo gli Atti, Paolo e Barnaba lavorarono insieme nella missione a Cipro e nella regione di Iconio in Asia Minore, si presentarono insieme al concilio di Gerusalemme, ma poi nacque un disaccordo e si divisero sulla questione se permettere a Giovanni Marco di accompagnarli in un secondo viaggio dopo che questi aveva interrotto la sua partecipazione a un viaggio precedente. Non si sa con certezza quale ruolo abbia avuto Barnaba nella disputa di Antiochia sulla questione se credenti circoncisi e non dovessero mangiare insieme. Secondo gli Atti, Barnaba difendeva strenuamente l’idea di non circoncidere i gentili convertiti. Eppure evidentemente aveva grande rispetto per Pietro e si schierò con lui (e Marco) nella disputa con Paolo. Gli Atti parlano di Barnaba come di un «uomo virtuoso [ ... ] e pieno di Spirito santo e di fede» (11,24). Alcune tradizioni al di fuori degli scritti canonici lo considerano autore della Lettera agli Ebrei. (red.)

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Miniatura raffigurante Barnaba, da un’edizione della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze. 1400 circa. Rennes, Bibliothèque municipale.

menti alla seconda rivolta giudaica contro Roma (132-135) suggerisce che la lettera fu scritta prima dell’anno 135. È un’opera ibrida, nella quale gli insegnamenti morali (Barnaba 18-21), basati su di un trattato giudaico sulla via della luce e la via dell’oscurità, attestati anche nella Didaché (1-5) e nelle Regole Comunitarie dei Rotoli del Mar Morto del I secolo, sono precedute da una lunga diatriba anti-giudaica (Barnaba 1-17). L’autore presenta due gruppi in opposizione fra loro, designati semplicemente come «noi» e «loro»; il primo rappresenta i cristiani, il secondo i giudei. La disputa verte sull’Antico Testamento in lingua greca (Septuaginta o Settanta), considerato da entrambe le fazioni di loro proprietà. Barnaba desidera istruire i suoi lettori alla «perfetta conoscenza» (gnosis), rivelando loro il vero significato dei concetti biblici fondamentali di Alleanza, Tempio, sacrificio, circoncisione, Sabato e leggi alimentari. Egli insiste che i giudei sbagliano nel prendere alla lettera le istruzioni e i precetti dell’Antico Testamento, i quali, al contrario, devono essere interpretati in senso allegorico in conformità all’esegesi in voga ad Alessandria.


Di fatto, la nuova legge voluta da Gesú (Barnaba 2,5) «spiritualizza» le leggi di Mosè: il sacrificio non deve equivalere a una uccisione cultuale ma richiede un cuore spezzato, e neppure il perdono dei peccati è ottenuto dall’uccisione di animali, ma attraverso la mistica aspersione del sangue di Cristo (Barnaba 5,1-6). Le idee di Paolo, ignorate dall’autore della Didaché, sono in prima linea nel pensiero di Barnaba. Secondo lui, coloro che sono dotati di gnosis sanno che la grazia della vera circoncisione del cuore è offerta non dalla mutilazione della carne ma dalla croce di Gesú (Barnaba 9,3-7).

il cuore spezzato Per Barnaba e i suoi seguaci cristiani gentili, l’alleanza tra Dio e i giudei era una falsità, non essendo mai stata ratificata. Quando Mosè, di ritorno dal Monte Sinai con le tavole della Legge, vide che gli Ebrei erano impegnati a venerare il vitello d’oro, fece a pezzi le due tavole iscritte dalla mano di Dio, rendendo cosí nullo il patto d’alleanza. Doveva essere sostituita da una alleanza siglata dal sangue redentore dell’ «amato Gesú» nel cuore dei cristiani (Barnaba 4,6-8; 14,1-7). La figura di Gesú cosí come è tracciata in Barnaba appare notevolmente piú avanzata rispetto al «Servo» di Dio della Didaché. Barnaba chiama Gesú «il Figlio» o «il Figlio di Dio» non meno di una dozzina di volte. Questo «Figlio di Dio» è esistito fin da sempre e agiva già prima della creazione del mondo. È a questo Gesú preesistente che Dio indirizza, al tempo della «creazione del mondo», le parole «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Barnaba 5,5; 6,12). Il carattere quasi divino di Gesú è implicito quando Barnaba spiega che il Figlio di Dio assunse forma umana, poiché altrimenti nessuno sarebbe stato capace di guardarlo e restare in

vita (Barnaba 5,9-10). Il sommo proposito della discesa del «Signore di tutto l’universo» tra gli uomini era di permettere a lui di soffrire «per distruggere la morte e mostrare che esiste la resurrezione» (Barnaba 5,5-6). La divisione tra il cristianesimo dei giudei e quello dei gentili è chiara già in questa fase: l’Epistola di Barnaba segna l’inizio di una futura evoluzione dottrinale che procederà esclusivamente sulla falsariga del cristianesimo «gentile». Mezzo secolo dopo Barnaba il vescovo di Sardi, Melito, dichiarò che gli Ebrei erano coplevoli di deicidio: «Dio è stato ucciso (…) dalla mano destra di Israele» (Omelia Pasquale 96). Il cri-

La versione contesa Una pagina del Codex Sinaiticus, oggi conservato al British Museum di Londra. Si tratta di una versione manoscritta della Bibbia, compilata da piú di uno scriba, in greco, alla metà del IV sec. Nell’opera è compresa la piú antica copia completa del Nuovo Testamento. Dell’Antico Testamento compare la traduzione nota come Septuaginta o Settanta, la cui proprietà fu oggetto di una disputa tra cristiani e giudei di cui dà conto Barnaba.

un’autorità indiscussa Primo studioso ad avere ottenuto, nel 1952, un dottorato sui Rotoli del Mar Morto, a Lovanio (Belgio), Geza Vermes ha insegnato a lungo in Inghilterra, dove è stato professore di studi ebraici a Oxford, dal 1965 al 1991. La sua attività accademica ha avuto come obiettivi, oltre allo studio dei Rotoli, l’interpretazione della Bibbia ebraica, la ricerca sul Gesú storico e sulle origini del cristianesimo.

stianesimo giudaico aveva ormai perso ogni significato. Cosí la Didaché è l’ultima espressione del cristianesimo giudaico, che, con la repressione della seconda rivolta giudaica nell’anno 135 da parte dell’imperatore Adriano, si avviò al suo declino. Il martire Giustino (ucciso nel 165) osserva orgogliosamente che, al suo tempo, i non giudei superavano di gran lunga i membri giudei della chiesa (Prima apologia). Fu cosí che il cristianesimo giudaico, la sorella maggiore, aderendo all’osservanza dei precetti mosaici e combinandoli con una antiquata forma di fede in Gesú, divenne progressivamente un fenomeno marginale. I giudeo-cristiani scomparvero progressivamente, facendo ritorno all’ovile degli Ebrei o venendo assorbiti nella chiesa dei gentili. Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta dalla rivista inglese Standpoint Magazine (www.standpointmag.co.uk) e, in forma ridotta, dalla rivista statunitense Biblical Archaeology Review. La traduzione in «Archeo» appare in esclusiva per l’Italia, per gentile concessione di Standpoint Magazine e dell’Autore. a r c h e o 35


civiltà cinese • le origini/3

Set di vasi in bronzo utilizzati per il banchetto sacro durante i riti sciamanici. Troviamo contenitori per cottura, conservazione e presentazione dei cibi, ma anche vasi da vino e da libagione.

i bronzi del potere

di Marco Meccarelli

Occhi sbarrati e minacciose bocche spalancate a mostrare i denti: sono gli elementi ricorrenti dell’iconografia riportata sui manufatti in bronzo dell’epoca shang. Simboli sciamanici e dominio politico si fondono, mentre sorgono i primi agglomerati urbani. È forse l’alba della Cina antica da cui, molto piú tardi, nascerà l’impero 36 a r c h e o


R

imane ancora oggi nel mistero dove e quando sia effettivamente iniziata in Cina la produzione di manufatti ottenuti con quel sofisticato processo di lavorazione rappresentato dalla fusione del bronzo. Sappiamo con certezza, invece, che nel passaggio dall’età della Giada (3500-2000 a.C.

circa; vedi «Archeo» n.336, febbraio 2013) all’età del Bronzo (2000-600 a.C. circa), vale a dire nel momento in cui la metallurgia finalizzata prevalentemente ai rituali sciamanici diviene emblema del dominio politico congiunto alla sfera del sacro, il metallo accoglie tutta la regale eredità di cui era stata investita la giada

nell’ultima fase del Neolitico (30002000 a.C. circa). Nel frattempo nella vasta area della Pianura Centrale (Zhongyuan), lungo il corso del Fiume Giallo (Huanghe), con la cultura Longshan (3000-2000 a.C. circa) si assiste all’intensificarsi dei processi di crescita della complessità sociale che a r c h e o 37


civiltà cinese • le origini/3

ebbero, come esito finale, la formazione di unità politiche regionali di tipo proto-urbano e proto-statale. Molti studiosi tendono a considerare questa cultura la progenitrice delle sandai, vale a dire le Tre Dinastie ereditarie (Xia, Shang e Zhou) che, a partire dal II millennio a.C., portarono alla prima effettiva costituzione di entità statale della Cina antica, attuando una colossale unificazione di popoli, idee, costumi e credenze varie, fino a fornire le basi per l’edificazione dell’impero, molti secoli piú tardi (III secolo a.C.).

Erlitou, la prima città Per comprendere la complessità delle problematiche appena esposte, possiamo prendere in esame le tracce dello sviluppo culturale che si registra nei tre siti archeologici di Erlitou, Zhengzhou e Anyang. Per «cultura di Erlitou» si intende un insieme composto da un centinaio di siti, ubicati nell’attuale Cina centro-settentr ionale (Henan, Shanxi, Shaanxi e Hubei), nei quali si afferma una complessa forma di società urbana. Il nome deriva dal sito eponimo – Erlitou, nella contea di Yanshi (Henan) – scoperto nel 1959 e localizzato tra gli antichi corsi dei fiumi Yi e Luo, nel quale sono state messe in luce fondazioni di strutture abitative e sacrali, tombe, forni, e rinvenuti manufatti in bronzo, giada, pietra, osso e ceramiche con marchi incisi. Sembrerebbe verosimile riconoscervi la prima capitale della Cina antica. L’analisi degli scavi attesta almeno quattro fasi distinte di vita del sito (dal 1900 al 1500 a.C. circa), durante le quali emerge la formazione di un sistema amministrativo internamente differenziato, perlomeno a partire dalla fase III (1700 a.C.). Al centro di un’estesa area abitativa, infatti, un’imponente «zona palaziale» indica la sede del potere statale, che segnala una chiara forma di centralizzazione: un impianto urbanistico riscontrato anche nelle capitali successive. Gli studi effettuati, inoltre, attestano 38 a r c h e o

L’organizzazione degli spazi In basso: disegno ricostruttivo del Palazzo I di Erlitou (fase III, 1700 a.C. circa) nella contea di Yanshi (Henan). Nella pagina accanto: cartina del sito di Erlitou, la prima capitale, dove è visibile una prima forma di separazione tra la zona palaziale, sede del potere statale, e il cimitero, le botteghe artigiane e le abitazioni. La città divenne un centro importante per la produzione di contenitori in bronzo per scopi rituali.


Drago musivo di circa 70 cm di lunghezza, costituito da circa 2000 pezzi di turchese. È stato rinvenuto all’interno di una sepoltura maschile a Erlitou e appartiene alla fase II, XVIII sec. a.C.

Nella pagina accanto: placca in bronzo con intarsi in turchese, che riproduce un volto mostruoso con occhi circolari, naso piccolo e orecchie (o corna) elaborate. Cultura di Erlitou, 1900-1500 a.C. circa. L’immagine è uno dei modelli di riferimento per il motivo decorativo del taotie presente su gran parte dei manufatti Shang.

Fiume Luo

Area dei sacrifici

Area scavata Mura e strada palaziale Case Pozzi Sepolture Confini del sito Area di lavorazione della ceramica Area di lavorazione dell’osso Area di fusione del bronzo

Laboratorio per la lavorazione del turchese Area di fusione del bronzo 0

N 400 m

l’esistenza di relazioni di tipo sociale, economico e politico, sia gerarchico che eterarchico, tra Erlitou e i centri periferici, perlomeno quelli localizzati nella regione dei fiumi Yi e Luo.

una controversia tra studiosi La città capitale è stata oggetto di incessanti analisi e riletture da parte degli studiosi perché costituisce la concreta manifestazione del primo processo formativo di entità statale in Cina. Tradizionalmente l’inizio dell’età del Bronzo viene fatto risalire alla dinastia Xia (2070?-1600? a.C.), emanazione delle facies regionali della cultura Longshan nella provincia dello Henan, ma l’effettiva attestazione della dinastia rimane alquanto controversa, nonostante l’entusiasmo degli studiosi cinesi nel sostenerne la realtà storica. Allo stato dei fatti, non esistono evidenze scritte del periodo Xia, che ne provino inconfutabilmente l’esistenza. Sulla base dei dati disponibili, dunque, le piú consistenti attestazioni delle conquiste culturali con cui si definiscono gli elementi fondanti la civiltà cinese – vita urbana,

Vaso jue in bronzo, coppa da vino tripode dalla bocca circolare con decoro molto semplice, già presente nella cultura di Erlitou (1900-1500 a.C.). Questo tipo di vaso è stato molto popolare e piú volte riproposto nel corso della storia della Cina.

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civiltà cinese • le origini/3

Sale Miniere di rame Miniere di piombo Miniere di stagno Siti principali Insediamento Insediamento fortificato Città moderne

XIII XII XI

Beijing

X

XIV XV

Fiume Giallo Antica linea di costa

8

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3 5 Fiume

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4

Xi’an 7

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Mar Giallo Antica linea di costa

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XVIII II

Lago Poyang

13

III N

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organizzazione statale, metallurgia e non ultima la scrittura – devono ancora oggi essere riferite ai siti Shang (cronologia lunga: 17511122 a.C.; cronologia breve: 15231027 a.C.), eredi delle manifestazioni regionali della stessa cultura neolitica di Longshan, ma della provincia dello Shandong. L’area di distribuzione della cultura di Erlitou, però, coincide significativamente con quella che la tradizione assegna al dominio dei Xia, come anche la sua datazione che corrisponde, in parte, con quella della prima dinastia. Si è cosí acceso negli ultimi cinquant’anni un vivace dibattito tra gli studiosi, in modo particolare sul riconoscimento delle prime due fasi di vita di Erlitou: la maggioranza degli archeologi cinesi concorda nell’ascriverle al periodo Xia (c’è chi le fa risalire 40 a r c h e o

Shanghai

tutte e quattro a quest’epoca) e per la precisione all’ultima capitale Zhenxun, descritta dagli antichi storiografi. Molti studiosi occidentali, invece, sono piú cauti al riguardo: in mancanza di dati ulteriori, preferiscono considerarle appartenenti a una cultura locale, quella di Erlitou per l’appunto. Si tratterebbe, quindi, di una fase «proto-Shang» che avrebbe fortemente influenzato la dinastia cinese, prima di esserne definitivamente soppiantata.

Riscrivere la storia La controversia si è inasprita anche in seguito al risultato del monumentale «Progetto di periodizzazione storica dei Xia, degli Shang e dei Zhou» (Xia Shang Zhou duandai gongcheng) che, sotto lo stimolo dei successi registrati dall’archeologia in Egitto e in Mesopotamia negli anni

300 km

Cartina di distribuzione dei siti della prima epoca Shang (XVI-XIV sec. a.C.), il cui dominio si estendeva tra il Fiume Giallo (Huanghe) e il Fiume Azzurro (Yangzi). I numeri romani indicano le culture: I. Erligang; II. Panlongcheng; III. Wucheng; IV. Baota; V. Ceramica a impressioni della regione del fiume Xiang; VI. Sanxingdui; VII. Kayue; VIII. Siba; IX. Guangshe; X. Zhukaigou; XI. Datuotou; XII. Xiajiadian Inferiore; XIII. Gaotaishan; XIV. Miaohoushan; XV. Shuangtuozi II; XVI. Yueshi; XVII. Maqiao; XVIII. Hushu. I numeri arabi indicano invece i siti: 1. Zhengzhou; 2. Yanshi; 3. Fucheng; 4. Nanguan; 5. Dongxiafeng; 6. Donglongshan; 7. Laoniupo; 8. Zhukaigou; 9. Daxinzhuang; 10. Shijia; 11. Qianzhangda; 12. Panlongcheng; 13. Wucheng; 14. Zaoshi; 15. Sanxingdui.

novanta, ha riunito in Cina un team di 200 esperti in astronomia, archeologia, storia, paleografia e molte altre discipline. Il progetto è nato con lo scopo di eliminare ogni dubbio sulla storicità delle tre dinastie, dando conferma all’unicità della Cina e alla sua millenaria storia, al pari di altre civiltà del mondo antico. La pubblicazione, nel 2000, dei primi risultati di questo colossale progetto, ha ricevuto in patria unanimi consensi, mentre a livello internazionale, è stata oggetto di aspre critiche, per l’approccio giudicato troppo ideologizzato, soprattutto in mancanza di fonti oggettivamente attendibili; trapelano, inoltre, evidenti divergenze tra i circoli accademici cinesi e quelli stranieri, sia nel campo dei criteri scientifici adottati che in quello della metodologia di ricerca da seguire.


Una separazione rigorosa

Fiume Jinshui

DUE CITTÀ DI EPOCA XIA E SHANG Circuito interno delle mura

Palazzi

Fiume Xion

g’er

Circuito esterno delle mura

Ripostiglio di bronzi Fonderia per il bronzo Laboratorio di lavorazione dell’osso Laboratorio di lavorazione della ceramica Necropoli Area residenziale

Fossato N 0

Cartina del sito Zhengzhou, capitale degli Shang, appartenente alla fase Erligang (1500-1300 circa a.C.). La città è situata 81 km a est di Erlitou e presenta un assetto urbano molto piú rigoroso che separa chiaramente la zona adibita ai palazzi dal resto dell’insediamento.

Solo l’indagine archeologica potrà offrire un quadro piú chiaro delle problematiche appena esposte, che vanno rilette, a mio giudizio, in un’ottica estesa alle interazioni politiche, economiche e culturali tra entità diverse, le quali, probabilmente e perlomeno per un certo periodo, sembrano anche coesistere: per esempio è oramai accertato che durante gli Shang, in altre zone della Cina, convivono culture differenti, come quella di Sanxingdui (provincia del Sichuan; vedi box a p. 49), lungo il percorso occidentale del Fiume Azzurro (Yangzi). In questo senso ci vengono in aiuto anche gli studi piú recenti sul Neolitico cinese, il cui orizzonte culturale offre preziosi spunti di riflessione sulla nascita e sullo sviluppo delle Tre Dinastie. I Xia, gli Shang e i Zhou, cosí come le precedenti culture neo-

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L’Istituto di Ricerca dei Beni Culturali e Archeologici di Zhengzhou ha comunicato nel 2011 il ritrovamento dei resti di due città sul sito della Torre di Wangjing, a Xincun (Henan), non distante da Zhengzhou. L’insediamento urbano piú antico sarebbe riferibile al periodo Xia (tarda fase Erlitou) e si tratterebbe della capitale di uno Stato membro, mentre l’altro piú recente sarebbe ascrivibile alla dinastia Shang, ma della fase Erligang, e sembra avere la struttura di una città militare. Le rovine di quest’ultima sono ben conservate: le mura settentrionali misurano 602 m circa, quelle orientali 590 m circa, quelle meridionali 630 m circa, mentre le mura occidentali 560 m. La superficie di forma quadrangolare copre un’area complessiva di 370 000 mq. Nel tratto sud-orientale delle mura sono stati scoperti i resti di una porta, forse a carattere difensivo, ampia 4,5 m. Il sito, scoperto nel 1965, ha già portato alla luce vari recipienti in bronzo, tra cui un’ascia di grandi dimensioni e oggetti in giada. La città della fase Xia si troverebbe al di là di un fossato esterno e sembra avere un’estensione minore rispetto a quella Shang.

Per fugare i dubbi sulla storicità delle prime tre dinastie, è stato avviato un ambizioso progetto interdisciplinare litiche e in una visione tutt’altro che statica e isolata, furono coinvolti, sin dalle origini, in un complesso processo di interazione tra culture e persino gruppi etnolinguistici diversi. Inoltre, la recente dichiarazione, da parte dell’Istituto di Ricerca di Zhengzhou (2011), sulla scoperta di due grandi resti di città adiacenti, nel sito della Torre di Wangjing (a Xincun, Henan), sembrerebbe fornire motivi fondati per attribuire caratteri storici alla dinastia Xia: lo studio dei reperti, infatti, potrebbe gettare nuova luce sulle relazioni o sulla coesistenza delle prime due dinastie, se si

considera che il primo insediamento urbano sembra risalire ai tardi Xia, o, se si vuole, all’ultima fase Erlitou (1565-1530 circa a.C.), mentre il secondo ai primi Shang, o, meglio, a quella che è conosciuta come prima fase Erligang (1510-1425 a.C. circa). Un dato rimane certo: quella di Erlitou fu una cultura stratificata e complessa, con un artigianato e un’agricoltura avanzati, tanto da rendere l’insediamento urbano un fulcro basilare per la produzione di contenitori in bronzo per scopi rituali. La stratificazione sociale è evidente dalle abitazioni, che prea r c h e o 41


civiltà cinese • le origini/3

campagne finora hanno permesso di riconoscere i resti di una massiccia cinta muraria in terra battuta, che si snoda per circa 7 km e separa l’insediamento urbano da siti specializzati nella produzione del bronzo e di articoli in osso e vasellame: prove del raggiungimento di una struttura sociale ancor piú stratificata rispetto a Erlitou, se si considera inoltre che il bronzo prodotto in questa zona viene attestato anche in altre provincie (Shaanxi, Hubei e Henan). Nella sua progressiva espansione verso Meridione e soprattutto verso Oriente, alla ricerca di uno sbocco sul mare, la fase Erligang sembra rafforzare le relazioni tra le popolazioni stanziate tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, a cui si accompagna la ricezione della prolifica eredità delle avanzate culture neolitiche costiere, tutt’altro che subalterne a quelle della Cina centrale. Zhengzhou diventa, di conseguenza, un importante modello di riferimento per la città capitale, nel quale emerge quello che divenne un elemento costante dell’impianto urbano: cimitero, botteghe artigiane e abitazioni di contadini e gente del popolo sono collocati al di là delle mura. Dalle evidenze archeologiche viene attestata una considerevole va-

sentano caratteristiche molto diverse tra loro, e dalle tombe, i cui corredi funebri indicano l’agiatezza del defunto. Tra i reperti piú significativi vanno segnalati i recipienti in bronzo, tra cui un jue (vedi foto a p. 39), coppa da vino tripode dalla bocca circolare con decoro molto semplice con borchie e strisce a rilievo, e una serie di placche in bronzo con intarsi in turchese, che riproducono un volto mostruoso con occhi circolari, naso piccolo e orecchie o corna elaborate (vedi foto a p. 38). L’iconografia piú prossima sembra essere quella del taotie, maschera zoomorfa pr iva di mandibola dai grandi occhi, corna e fauci enormi su di un corpo spiraliforme, presente sui manufatti Shang.

il modello di Zhengzhou Momento fondamentale dell’età del Bronzo cinese, la cultura di Erlitou si colloca in una fase intermedia tra la cultura Longshan e la già citata fase Erligang (1500-1300 circa a.C.), a cui appartiene Zhengzhou (Henan), considerata, per lo meno dagli archeologi cinesi, la prima capitale della dinastia Shang. La città situata 81 km a est di Erlitou, è oggetto di scavi dal 1952. Le

Le due capitali

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rietà di vasellami in bronzo (jue, jia, lei, pan, fanding, zun, gu, you, ding) con decorazioni dai motivi geometrici e zoomorfi, come il taotie che richiama iconograficamente i volti scolpiti sulle giade neolitiche (cultura di Liangzhu 3200-2200 a.C.) o gli intarsi sulle placche di Erlitou. Il motivo iconografico risulta sempre piú complesso e in qualche caso sembra smembrarsi per poi ricomporsi, sulla superficie dello stesso vaso, dando origine, a seconda dell’angolo visuale, a nuove figure singolari. Ciò testimonia un’evidente specializzazione delle capacità di forgiatura del bronzo e della fortuna della sua arte, per la realizzazione di oggetti rituali eseguiti da officine specializzate in raffinate tecniche e decorazioni.

Anyang, la «capitale sacra» Anyang, sulle rive del fiume Huan (Henan settentrionale), è invece identificata in modo unanime co-

Città di Huanbei in epoca Shang Fiu

Area palaziale

m

eH

ua

Cartina delle due capitali scoperte presso Anyang (Henan). Huanbei si riferisce al periodo Shang medio (1400-1200 a.C.), mentre Yinxu è considerata l’ultima capitale della dinastia Shang e risale a un periodo compreso tra il 1300 e il 1050 a.C. circa.

Nella pagina accanto, in alto: una rara coppa in avorio intarsiato, risalente al 1200 a.C. e decorata con motivi tipici della bronzistica Shang, appartenente alla regina Fu Hao. Nella pagina accanto, a destra: statua raffigurante la regina Fu Hao.

n

Necropoli reale di Xibeigang

Complesso palaziale

Yinxu Estensione approssimativa del sito archeologico di Yinxu Laboratorio per la lavorazione dell’osso Laboratorio per la lavorazione della giada Fonderia per il bronzo Tombe Abitazioni Sepolture sacrificali

N 0

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Nella pagina accanto, in basso: una fossa rinvenuta ad Anyang (1300-1050 a.C.), contenente ossa oracolari e gusci di tartaruga, prediletti strumenti di divinazione nell’epoca Shang. Molti di questi reperti contengono anche iscrizioni che hanno storicamente attestato l’esistenza della dinastia cinese.


LA regina degli specchi Scoperta nel 1976 a Xiaotun, la tomba di Fu Hao, consorte del re shang Wuding, risale al 1200 a.C. ed è stata identificata grazie alle numerose iscrizioni su ossa oracolari. Di dimensioni modeste (5,6 x 4 m e 6,2 m di profondità ), il sepolcro presenta i resti di una camera funeraria in legno e un ricchissimo corredo funebre, costituito da 460 oggetti in bronzo, 750 giade e numerosissimi manufatti in osso, pietra, avorio, ceramica, ecc. Tra i bronzi, oltre a utensili rituali di varie tipologie, sono da segnalare gli specchi, considerati i piú antichi mai ritrovati. Per la prima volta sono stati rinvenuti anche i recipienti zoomorfi (gong) in bronzo per offrire vino, solitamente a forma di tigri e uccelli. Interessanti sono anche: le numerose placche e figurine, sia umane che animali, minuziosamente lavorate, un pendente a forma di fenice dalla lunga coda, che si ritrova proposto iconograficamente in alcuni bronzi dello Hubei, e, infine, un singolare boccale cilindrico in avorio, con manico zoomorfo, completamente decorato con taotie ed elementi geometrici con intarsi in turchese.

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civiltà cinese • le origini/3

una tipologia ricca e variegata Gli scavi archeologici hanno restituito numerose tipologie di bronzi rituali Shang, che possono essere raggruppati secondo la funzione che avevano durante le cerimonie sacre. I recipienti piú comuni per preparare i cibi sono: ding (coppa rituale a tre piedi o vaso rettangolare a quattro piedi), li (coppa a tre piedi dal corpo lobato) e xian (recipiente a due compartimenti sovrapposti). Contenitori per il cibo sono: gui (vaso con o senza coperchio e con un piede circolare) e fu (recipiente rettangolare con coperchio). Alla conservazione delle bevande alcoliche sono destinati: fangyi (vaso rettangolare), you (recipiente con un’ansa mobile), zun (vaso solitamente cilindrico),

guang (sorta di salsiera provvista di una divisione interna), hu (grande vaso di forme diverse), zhe (vaso dalla forma sinuosa), lei (recipiente dalla pancia larga con collo piú stretto) e gong (recipiente zoomorfo). I recipienti piú comuni per bere sono: jue (coppa tripode con becco e due anse verticali) e gu (calice). Infine ci sono i vasi per l’acqua: pan (sorta di bacile), he (vaso con tre/quattro piedi, con coperchio e becco tubolare) e yi (vaso con becco). La tecnica di fusione del bronzo si basa su matrici a sezioni (stampi composti), ottenute con argilla refrattaria.

jue

me un importante centro urbano degli Shang. Conosciuta già dal I secolo a.C. come «le rovine di Yin» (Yin Xu), la città è tradizionalmente considerata l’ultima capitale della dinastia cinese che viene, non a caso, ricordata anche come dinastia Yin. La città sembra celare un glorioso passato di imponente centro religioso che, scavato a partire dal 1928, risale a un periodo compreso tra il 1300 e il 1050 a.C. circa. Le sue considerevoli dimensioni (24 kmq), assieme alla struttura 44 a r c h e o

Sulle due pagine: bronzi Shang utilizzati nei riti sciamanici. In alto: tre esempi di jue, vaso tripode presente sin dalle origini della dinastia Shang. A destra: un vaso guang, una sorta di salsiera. Nella pagina accanto: due ding. Il primo è un fangding, vaso rettangolare a quattro piedi, l’altro, invece, è a tre piedi ed è decorato da un vistoso taotie.

Guang


piuttosto rigorosa, sono un’ulteriore prova dell’alto livello di sviluppo raggiunto in questo periodo. La distribuzione delle abitazioni, solitamente quadrate o rettangolari, offre l’indicazione di un asse nord-sud, unito a una tendenza, seppur non costante, di orientamento della facciata verso il meridione: è un chiaro antecedente della rigorosa pianificazione geometrica che si ritroverà nella capitale imperiale e che aveva già avuto una sua prima e chiara formulazione almeno a Zhengzhou. Al centro di Anyang, nel sito di Xiaotun, con palazzi e templi innalzati su alte piattaforme, c’è il cuore di Yin. Qui trapela chiaramente la volontà di divisione funzionale della città: l’effettivo centro religioso è rappresentato dalla zona residenziale, distaccata dai quartier i industr iali che sono sempre controllati dalla classe dirigente. Il nucleo urbano si configura quindi come il centro di produzione e allo stesso tempo di ridistribuzione. Tra i ricchissimi corredi funerari, quello di Fu Hao, scoperto nel 1976, è il piú rappresentativo perché, eccezionalmente intatto, comprende migliaia di utensili di

fangding

IL MITO DEI NOVE TRIPODI Del mito dei nove tripodi si conoscono varie redazioni. Riportiamo di seguito il racconto presente nel Commentario di Zuo (Zuo Zhuan), probabilmente scritto durante gli Stati Combattenti (475-221 a.C.): «In passato, quando la dinastia Xia si distingueva per la sua virtú, le regioni distanti riprodussero, dipingendoli, i loro wu tipici e i nove pastori mandarono i metalli dalle loro province. Furono fusi i tripodi ding e su di essi furono raffigurati questi wu. Furono rappresentati tutti i wu e furono date istruzioni [perché la preparazione] fosse fatta in conformità a essi; in questo modo il popolo poteva conoscere [la differenza tra] gli spiriti che aiutavano e gli spiriti che facevano del male. Cosí, quando gli uomini si inoltravano tra fiumi e paludi, foreste e colline, non si imbattevano in cose che facessero loro del male; e gli spiriti della collina, questi esseri mostruosi, e gli elfi delle acque, non sarebbero andati loro incontro. Cosí era assicurata l’armonia tra l’Alto e il Basso [ovvero Cielo e Terra] e tutti godevano la benedizione del Cielo.»

cui numerosissimi in bronzo (vedi posite», dal drago al taotie, che invabox a p. 43). dono tutte le decorazioni degli oggetti rituali e sono il risultato della contaminatio, cioè della fusione di decorare il bronzo Gli studiosi hanno proposto diverse attributi di piú animali, già caricati interpretazioni sulle origini della la- singolarmente di valenze simboliche, vorazione del bronzo in Cina, essen- tra cui quella di totem di un clan. do piú tarda rispetto ad altre culture. Ciò fa perdere il valore ornamentale C’è chi, per esempio, appoggia l’ipo- del motivo ibrido che, entrato nel tesi dell’importazione della tecnica, repertorio decorativo dei bronzi rima, comunque, è inevitabile l’impat- tuali, assurge piuttosto a simbolo di to che tale arte ha avuto sul processo aggregazione, ideologica e culturale, di formazione statale della civiltà della civiltà Shang, durante la quale cinese: lo attestano le figure «com- si attua una vera e propria politica di

ding

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civiltà cinese • le origini/3

i caratteri di una transizione Intervista a Sarah Milledge Nelson Sarah Milledge Nelson è archeologa e professoressa emerita presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Denver (Stati Uniti). È nota per le sue ricerche sull’archeologia dell’Asia orientale, in particolare della Corea e della Cina nord orientale, a cui ha dedicato numerose pubblicazioni.

◆ Il dibattito sull’effettiva storicità ◆ Quali sono stati i cambiamenti della dinastia Xia è tuttora aperto. Qual è il suo punto di vista a riguardo? Le testimonianze archeologiche provano l’esistenza di una società di carattere locale che costeggia il Fiume Giallo, probabilmente riferibile alla dinastia Xia. Mi sembra ragionevole definirla Xia, anche se, fino a questo momento, non si hanno prove scritte che possano farla uscire definitivamente dal mito.

◆ Secondo lei, quale ruolo ha

avuto la dinastia Shang, nel contesto storico cinese? Preferisco considerare la dinastia come la prima a essere chiaramente documentata attraverso la scrittura, cosí come indicano le tombe e i numerosi manufatti rinvenuti. Ciò che va evidenziato è il fatto che essa testimonia a tutti gli effetti una continuità e non una rottura con tutto ciò che è avvenuto prima.

piú significativi che emergono tra il Neolitico e l’età del Bronzo in Cina? Il tardo Neolitico in Cina coincide con quella che alcuni studiosi chiamano «età della Giada», come testimoniano i numerosissimi oggetti in giada rinvenuti nelle tombe. Sembra essere un’età relativamente tranquilla, anche se alcune città cinte da mura suggeriscono che vi fosse la necessità di difesa, perlomeno da parte di alcune popolazioni. L’età del Bronzo, invece, coincide con la grande produzioni delle armi, sebbene il metallo venga usato prevalentemente per forgiare i vasi cerimoniali. I reperti, però, indicano che vi erano guerre tra le popolazioni, combattute allo scopo di estendere i propri domini. Alcune testimonianze antiche dimostrano che casi di guerre combattute per la conquista di territori fossero presenti anche in età neolitica.

◆ Quali sono invece i piú evidenti

elementi di continuità secondo lei, tra il Neolitico e l’età del Bronzo? Tantissimi. La scrittura, per esempio, inizia a formarsi nel Neolitico e, durante la dinastia Shang, risulta piuttosto complessa. Le città cominciano a definirsi e, come ho osservato in precedenza, alcune presentano cinte murarie, sin dal Neolitico. Lo sciamanesimo era già stato probabilmente fissato nel Neolitico e ha avuto un peso determinante durante gli Shang, e, naturalmente, continua anche fino ai giorni nostri!

◆ Lei si è particolarmente

interessata allo sviluppo della cultura neolitica Hongshan (4700-2900 a.C.) che si è distinta, tra l’altro, per la lavorazione della giada. Quale è stato secondo lei il principale contributo offerto dalla cultura in questione all’età del Bronzo? La cultura Hongshan a Niuheliang faceva sicuramente uso del rame e ciò suggerisce che la tecnologia del bronzo si è sovrapposta in maniera naturale, poiché si tratta di un metallo ottenuto da una lega di rame e stagno. Non abbiamo al momento prove di guerre. Le tombe di grandi dimensioni, gli emblemi e ornamenti A sinistra: uno dei numerosi carri ritrovati nei pressi di Anyang (1300-1050 a.C.). Gli Shang disponevano infatti di un’elaborata macchina militare basata sui carri da guerra, con cui poterono estendere il proprio dominio.

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in giada, il cosiddetto «Tempio della Dea» suggeriscono che la cultura neolitica vantasse una complessa organizzazione sociale, ma non abbiamo ancora l’effettiva prova dell’esistenza di una gerarchia di carattere politico. Probabilmente l’interesse per i fenomeni astronomici stava contribuendo a fornire interpretazioni di grande rilevanza sulle varie configurazioni celesti da rapportare agli eventi umani, che poi andranno sempre piú raffinandosi col tempo.

In alto: armi in bronzo di epoca Shang, XVI-XI sec. a.C. In basso: essendo piuttosto rare le raffigurazioni umane nei motivi decorativi dei bronzi Shang, i volti ritratti sulle pareti rendono eccezionale questo contenitore per cibi, fangding, vaso rettangolare a quattro piedi.

omogeneizzazione fra popoli ed etnie. Né si deve dimenticare che la funzione e lo sviluppo della produzione artistica nella Cina antica nascono in un contesto profondamente legato alle manifestazioni sacrali della vita sociale, laddove politica, religione e arte risultano indissolubilmente integrate. La decorazione zoomorfa dalla valenza composita dei bronzi arcaici mantiene un valore fortemente totemico: «imprigionare» l’effigie dell’animale, tributo di un clan, all’interno di un oggetto utilizzato in specifici riti consente allo sciamano di controllare anche la potenza che incarna; non a caso l’iconografia punta su occhi sbarrati, sguardi feroci, ampie bocche e denti digrignanti, quasi a conferire un carattere misterico e innaturale, di cui i detentori del potere, gli sciamani, si servono per incutere timore e mantenere cosí inalterati i propri privilegi all’interno di una «società schiavistica», cosí come è stata definita quella Shang.

I nove tripodi Il re sciamano durante il banchetto sacro (vasi in bronzo per cottura, conservazione e offerta dei cibi ma anche per vino e libagione), in stato di trance entrava in comunicazione con gli spiriti degli antenati, o dell’Antenato Supremo (Shangdi), successivamente identificato con il Cielo, perché fosse guidato nelle sue azioni terrene. Il possesso del vasellame in bronzo che implica anche le materie prime e la forza lavoro necessaria alla sua fabbricazione, diventa cosí il fondamentale strumento politico della classe dominante. Si narra che il potere supremo fosse rappresentato anche dal possesso dei Nove Tripodi (jiuding), la cui leggenda tramanda in che modo il capostipite della dinastia Xia, Yu-il-Grande (Da Yu), abbia fatto assemblare i tripodi ding, a partire da un tributo (wu) di metallo, portato dai nove angoli del Paese. La conservazione e il trasferimento dei Nove Tripodi di dinastia in dinastia, legittima e conferisce a r c h e o 47


civiltà cinese • le origini/3

Maschere in bronzo scoperte a Sanxingdui nel 1986, contemporanee agli Shang. È stato ipotizzato che alcune di esse si riferiscano al primo re degli Shu, regno fiorito nella seconda metà del II mill. a.C.

persino equilibrio sociale ai Xia, cambiamenti nel quadro sociale e sacrificali, di imprese, di spedizioni o agli Shang e ai Zhou, almeno fino culturale della Cina antica. su fenomeni naturali legati sopratal periodo storicamente definito A partire dal 1899, si ha la scoper- tutto al mondo agricolo. Appositi delle Primavere e Autunni (Chun- ta delle prime iscrizioni su ossa scribi e sacerdoti incidono le iscriqiu 770-476 a.C.) e degli Stati oracolari (scapulomanzia) e su gu- zioni in punti precisi dell’osso o del Combattenti (Zhanguo 476-221 sci di tartaruga (plastromanzia), guscio, mentre l’indovino deduce il a.C.), quando il bronzo tenore della risposta, in baperde la sua privilegiata se alla direzione delle screLe iscrizioni Shang sono polature formatesi con esclusività per la comparsa di un nuovo materiale al fuoco. l’esito di un’elaborazione l’esposizione che determina una vera e Le iscrizioni rinvenute sopropria rivoluzione tecno unanimemente consiavviata già nel Neolitico nologica: il fer ro. In derate le prime testimoquest’ultima f ase, lo nianze scritte riconosciusmembramento del tradizionale or- che, assieme a quelle sulla produ- te in Cina, e, almeno nell’ultima dine dinastico dei Zhou Occiden- zione fittile e bronzea e ai dati fase Shang, risultano regolarmente tali (XI sec.-771 a.C.) coincise con forniti dalla tradizione letteraria, tracciate sugli strumenti divinatori. lo sviluppo economico e l’aumento costituiscono le attestazioni della Malgrado il loro aspetto grafico demografico di grandi Stati che seconda dinastia ereditaria. ancora relativamente primordiale, è cominciarono a combattersi per L’oracolo Shang viene interrogato in sorprendente che i caratteri Shang l’egemonia, portando a radicali occasione di importanti cerimonie indichino già concetti astratti ed 48 a r c h e o


una società complessa Nel 1986, le conoscenze relative all’età del Bronzo in Cina furono sconvolte dalla sensazionale scoperta di centinaia di oggetti in bronzo, giada, e oro appartenenti al sito, periodicamente indagato sin dal 1930, di Sanxingdui, sulla riva sud del fiume Yazi (Chengdu, Sichuan). I reperti comprovarono, infatti, l’esistenza di una società complessa precedentemente sconosciuta e in pratica contemporanea (1500-1100 a.C. circa) alla dinastia Shang, ma collocata molto piú a meridione, al di fuori del dominio culturale e geografico del Fiume Giallo. La cultura di Sanxingdui è associata all’antico regno di Shu e, sebbene non venga citata dagli storici cinesi, presenta forti caratteri regionali, come testimoniano, per esempio, le grandi maschere e teste in bronzo (alcune laminate d’oro) dagli occhi accentuatamente a mandorla, alcune persino con pupille, e dalle grandi orecchie, che non hanno nulla a che spartire con la produzione dinastica Shang finora rinvenuta. La scoperta di questa cultura confuta ulteriormente la teoria secondo la quale il Fiume Giallo sia da considerarsi l’unica «culla della civiltà cinese».

evoluti e presentino una chiara proposta di uniformità stilistica: il livello di scrittura quindi, sin dalle sue prime testimonianze, risulta pervenuto – eccezionalmente – a uno stadio di piena maturità. Le iscrizioni Shang sono state perciò considerate, piú che come un punto di partenza, come il primo risultato visibile di un lungo periodo di elaborazione che affonda le sue radici nel Neolitico, almeno nelle culture del IV millennio a.C.

scrittura e divinazione C’è chi le rintraccia, non senza contestazioni, persino nel VII millennio a.C., come testimonierebbero i segni incisi su ossa oracolari e gusci di tartaruga, rinvenuti a Jiahu (Henan;

vedi «Archeo» n.335 gennaio 2013). Al di là delle ipotesi che solo l’archeologia potrà confermare, l’apparire della scrittura in Cina sembra consolidare il legame che unisce, sin dalle origini, i segni grafici cinesi alle pratiche divinatorie: è una virtú che si preserverà nel tempo, laddove il carattere scritto, non formulando un codice alfabetico e legato ai vertici del potere, assume e conserva la valenza di immagine, simbolica e sociale, ma anche «magica» e regale. La fisionomia dell’urbanizzazione, i motivi zoomorfi sui bronzi, la trasmissione dei Nove Tripodi e le iscrizioni divinatorie, permettono di attestare il complesso processo formativo dell’entità statale della civiltà cinese. Le formazioni delle prime dinastie sembrano presentare

un carattere multipolare e le loro relazioni non sono da intendersi tanto in senso verticale, lungo una linea ideale di successione dinastica, ma in senso prevalentemente orizzontale, come rapporti tra entità diverse, in cui momenti di conflitto si alternano a fasi di supremazia. In questo modo lo Stato ha consolidato, attraverso il tenace accentramento del potere regale, l’unità sia sociale che sacrale, e ha segnalato nel tempo, in maniera sempre piú evidente, quell’identità burocratica e centralizzata, che si preciserà successivamente con la nascita dell’impero. nella prossima puntata • Primavere, Autunni e Stati combattenti a r c h e o 49


mostra • l’età del rame

gli anni del rame e del miele di Stefano Mammini

tra il IV e il III millennio a.C. l’uomo compie passi decisivi verso la definizione di caratteri sociali e culturali che preludono alla storia. una sorta di rivoluzione, raccontata in una mostra in corso a brescia, con il contributo di un protagonista d’eccezione...

I

n un giorno di primavera (o d’inizio estate) di 5300 anni fa, tra le cime delle Alpi Venoste, a oltre 3000 m di quota, un uomo di circa 45 anni viene colpito alla spalla da una freccia: la ferita non lede alcun organo vitale, ma causa una forte emorragia, che, di lí a poco, si rivela fatale. Sono questi gli ultimi attimi di vita di un personaggio allora forse anonimo e oggi celeberrimo: si tratta infatti di Ötzi, noto anche come Uomo del Similaun, la cui mummia fu trovata nel 1991 da una coppia di escursionisti tedeschi.

Da allora a oggi, quelle spoglie sono state oggetto di una quantità di analisi e di studi impressionante, hanno alimentato una ridda di ipotesi non di rado fantasiose e hanno perfino assistito alla creazione di un intero museo che alla loro vicenda si è deciso di dedicare. Ma oggi, perché si torna a parlarne? Perché, sebbene sia morto in alta montagna, l’Uomo del Similaun era probabilmente un figlio della grande pianura padana e, in particolare, delle comunità allora stanziate nel territorio di Remedello, nei pressi di Brescia.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Qui accanto: replica di una stele maschile da Pontevecchio (Lunigiana). Bergamo, Museo Civico Archeologico. La figura mostra un pugnale del tipo di quelli attestati a Remedello, l’importante necropoli dell’età del Rame scoperta nei pressi di Brescia. A sinistra: la stele Cornal 1, da Teglio (Valtellina, Sondrio). 2900-2500 a.C. Sulla pietra è incisa una figura femminile, rappresentata dal «motivo a tre raggi», con orecchini e un fascio di linee a U che forse alludono a una collana.

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mostre • l’età del rame A sinistra: la tomba 78 della necropoli di Remedello di Sotto (Brescia). Reggio Emilia, Museo Chierici. È la sepoltura a inumazione di un personaggio maschile, deposto con un pugnale in rame, numerose punte di freccia in selce, un pendaglio di pietra e alcune piastrine di Cardium rusticum, originariamente cucite su un mantello o un abito. 2900-2500 a.C. In basso: lama di pugnale in selce, da Binanova (Gabbioneta, Cremona). 3400-2900 a.C. Milano, Civiche Raccolte Archeologiche.

Questo suggestivo assunto è uno dei motivi ispiratori della mostra che, nella città lombarda, ricostruisce il quadro storico e archeologico dell’età del Rame, uno dei periodi piú significativi della preistoria, durante il quale, al di là della vicenda di Ötzi – che, pur nella sua eccezionalità, resta quella di un singolo individuo – si registrano mutamenti, innovazioni e fenomeni culturali di eccezionale importanza. L’idea che le radici dell’Uomo del Similaun vadano ricercate sulle sponde del Chiese, il subaffluente del Po che scorre nei pressi di Remedello, è scaturita dalla constatazione che alcuni degli oggetti trovati nei pressi della sua mummia presentano affinità tipologiche con quelli recuperati nei corredi funebri delle sepolture eneolitiche scavate nel sito lombardo.

risalendo la valle Il fiume, peraltro, potrebbe essere un altro degli indizi decisivi, perché, a prendere una carta geografica, si può constatare che, risalendone il corso, si finisce in Trentino, e non è dunque inverosimile che Ötzi conoscesse quel percorso o magari avesse provato a sperimentarlo, in cerca di aree adatte, per esempio, a nuovi insediamenti o all’approvvi-

quando si dice «età del rame»... L’età del Rame, indicata anche come Eneolitico o Calcolitico, è il periodo considerato come la tappa di transizione tra la tarda preistoria e la protostoria, cioè tra le piú antiche civiltà di agricoltori e allevatori (Neolitico) e le prime civiltà urbane. Nell’età del Rame vengono acquisite importanti innovazioni in campo tecnologico: innanzitutto una metallurgia pienamente sviluppata e poi lo sfruttamento della forza di trazione animale grazie all’aggiogamento del bue, l’invenzione della ruota e dell’aratro, la costruzione dei primi carri a quattro ruote. Lo sviluppo della metallurgia non ha determinato un declino della produzione di manufatti in selce scheggiata o in pietra levigata, anzi in questo periodo si sono

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prodotti cuspidi di freccia e pugnali in selce di accuratissimo ritocco piatto bifacciale. Tra le altre caratteristiche delle culture europee dell’età del Rame grande importanza riveste l’emergere della figura del guerriero, correlata alla formazione di differenze sociali e di ruoli di potere e controllo, come testimoniano i dati provenienti dai contesti funerari e dall’iconografia figurativa delle statue-stele e delle statue-menhir e composizioni monumentali dell’arte rupestre, in particolare quella della Valcamonica, in provincia di Brescia. Dal punto di vista cronologico l’età del Rame in Italia come in gran parte dell’Europa centrale e occidentale si sviluppa tra il 3400 e il 2200 a.C. (red.)


gionamento di materie prime particolari. L’archeologia, a oggi, non è in grado di fornire ulteriori riscontri, ma l’ipotesi resta affascinante ed è senza dubbio una delle carte vincenti dell’esposizione bresciana. Che, soprattutto nelle sezioni iniziali, offre testimonianze eloquenti di quanto l’età del Rame abbia rappresentato un passaggio cruciale nel cammino dell’uomo verso la storia. Nella sua essenzialità, ne è prova, per esempio, l’aratro in legno che dà il via al percorso espositivo. Ai nostri occhi, un simile attrezzo appare scontato, ma non è difficile immaginare quanto possa invece essersi trattato di una novità davvero r ivoluzionar ia: l’uso dell’aratro, e dunque la pratica dell’agricoltura, misero l’uomo in condizioni di affrancarsi dall’incertezza di una sussistenza basata sulla caccia e sulla raccolta e di diventare, per la prima volta, un produttore. Si tratta, a dire il vero, di un passaggio già sperimentato con successo nel Neolitico, ma che nell’età del Rame si conferma come prassi consolidata e si applica anche ad ambiti diversi da quello meramente produttivo. Gli

Qui sotto, a sinistra: pugnale in selce di forma foliata, da Casaleone (Verona). Al centro: pugnale in selce a base espansa, da Gorgo (Padova). Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini». A destra: lama di pugnale in selce a base semplice, a forma foliata stretta e allungata. 2500-2200 a.C. Asola, Museo Civico «G. Bellini».

Punte di freccia in selce, ascia in pietra levigata e pugnale a lama triangolare in rame rinvenute in una sepoltura a Volongo (Cremona). 2900-2500 a.C. Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini».

scavi nell’area megalitica aostana di Saint-Martin-de-Corléans, per esempio, hanno rivelato le tracce di un’aratura rituale, effettuata prima che il luogo venisse consacrato alla deposizione dei defunti. E che l’aratro fosse un elemento di rilievo nella visione della vita da parte delle comunità eneolitiche è confermato anche dalla sua rappresentazione in piú di una incisione rupestre dell’epoca.

messaggi di pietra I segni su pietre e rocce sono anche uno dei fili conduttori della prima parte della mostra: affidandosi a reperti originali e repliche, sono state infatti riunite stele e statue stele – provenienti per esempio dal Trentino e dalla Lunigiana –, che, al di là degli aspetti formali ed estetici, introducono un altro dei temi forti dell’esposizione, vale a dire quello del sacro. Da non intendersi come una scoperta – pratiche rituali e cultuali sono attestate già in età paleolitica –, ma come la messa a punto di nuove declinazioni del rapporto con una (o piú) entità superumane. Le grandi pietre scolpite, infatti, trasmettono messaggi che non possono essere letti unicamente come celebrazione del potere o delle doti guerresche di singoli personaggi: si tratta, infatti, di raffigurazioni che, per esempio ipotizzando l’esistenza di un culto degli antenati, riflettono il desiderio di attribuire loro un carattere trascendente. Immagini che hanno al contempo un grande valore documentario: sebbene stilizzate e allusive, le figure offrono dettagli preziosi sugli usi e i costumi e, soprattutto, su alcune classi di manufatti, prime fra tutte le armi. Le spade, i pugnali o le asce che vediamo disegnati sulle stele si ritrovano, questa volta a tutto tondo, fra i reperti recuperati negli scavi. Armi che venivano fabbricate sia scheggiando la selce, nel solco di una tradizione plurimillenaria, sia affidandosi al metallo che dà nome a r c h e o 55


mostre • l’età del rame

a questo momento della nostra storia e che, questo sí, rappresenta una novità assoluta. La diffusione del rame e la scoperta delle sue potenzialità aprono orizzonti fino ad allora insospettati e cosí l’uomo, che già era stato cacciatore, raccoglitore, agricoltore e pastore, diventa anche metallurgo. In mostra si possono vedere numerosi manufatti in metallo, la cui qua-

Qui sotto: lama di alabarda in rame, da una sepoltura a Villafranca Veronese. Seconda metà del III mill. a.C. Verona, Museo Civico di Storia Naturale. Nella pagina accanto: particolare della statua-stele Arco I. Fine del IV-inizi del III mill. a.C. Riva del Garda, Museo Civico. La scultura presenta elementi tipici dell’epoca, come per esempio i pugnali e le asce.

A sinistra: la «carta d’identità» di Ötzi, presentata nella sezione dedicata all’Uomo del Similaun dalla mostra in corso a Brescia. Oltre ai dati anagrafici, è stata inserita la fotografia della ricostruzione del volto del personaggio. In basso: la mummia dell’Uomo del Similaun, rinvenuta nel 1991. Il prezioso reperto è oggi conservato a Bolzano, nel Museo Archeologico dell’Alto Adige.

lità dimostra con quale rapidità gli uomini avessero imparato a padroneggiare la nuova materia prima. La selce e altri tipi di pietra non vengono comunque accantonati, anzi, le punte di freccia o le lame eneolitiche sono senza dubbio uno degli esiti piú alti della produzione litica di ogni tempo. Manufatti dei quali non è difficile cogliere, in molti casi, l’eccezionale valore, che doveva farne altrettanti segni del prestigio sociale. In tema di materie prime, è comunque Ötzi a essere ancora una volta protagonista: nella sezione che gli è stata dedicata – e della quale fa parte anche una replica perfetta della mummia, che, per garantirne la conservazione, non può essere trasferita dalla cella frigorifera che la ospita nel museo di Bolzano – sono stati infatti riuniti alcuni degli oggetti ritrovati nel luogo in cui fu ucciso. Per motivi ancora oggi difficilmente spiegabili, l’assassino (o gli assassini) di Ötzi non lo privarono del suo equipaggiamento e cosí, grazie 56 a r c h e o

all’azione conservante dei ghiacci del Similaun, gli archeologi hanno potuto disporre di un vero e proprio tesoro: indumenti, scarpe, accessori per il lavoro e la caccia, un arco con frecce e faretra, un contenitore in legno di betulla… Un insieme spettacolare e che, a oggi, non trova confronti, in quanto i materiali organici di cui si compone – legno, cuoio, fibre vegetali – non resistono alla decomposizione in condizioni di giacitura normali.

paure ancestrali Come si è detto, gli scavi condotti nell’area della scoperta della mummia hanno provato che, all’apparenza, nulla di tutto ciò fu trafugato: forse qualcosa aveva fatto supporre che Ötzi fosse un personaggio speciale, per esempio uno sciamano, e che un furto ai suoi danni avrebbe potuto avere ripercussioni nefaste. Del resto, l’ipotesi che l’Uomo del Similaun potesse avere un ruolo particolare è stata avanzata anche all’indomani della scoperta di ta-


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mostre • l’età del rame

In alto: vaso campaniforme proveniente da una sepoltura scoperta a Santa Cristina di Fiesse (Brescia). 2500-2200 a.C. A destra: pettorale formato da quattro giri di vaghi, con elementi in osso, denti, conchiglie e rame, da una sepoltura a La Vela di Valbusa (Trento). Età del Bronzo, 2100-2000 a.C. Trento, Museo delle Scienze.

A sinistra e a destra: vaso campaniforme e brocchetta appartenenti al corredo di una tomba della tarda età del Rame scoperta nel 1886 a Ca’ di Marco (Brescia). 2500-2200 a.C. circa.

A sinistra: scodella con decorazione campaniforme nella quale erano collocati un vaso campaniforme e un boccale inornato, parte del corredo di una tomba scoperta in via Guidorossi, a Parma. Fine dell’età del Rame, 2200 a.C.


un tesoro ritrovato Come spesso accade, anche le ricerche d’archivio condotte per allestire l’esposizione di Brescia hanno permesso di riscoprire materiali che si credevano dispersi. Tra i reperti presentati al Museo Diocesano ci sono infatti anche i reperti che appartengono al fondo preistorico dell’età del Rame del conte Tommaso Caprioli, individuati presso il Museo di Scienze di Via Ozanam, grazie a un intervento di ricerca e di confronto con i Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1875. Nei Commentari veniva infatti presentato l’elenco del materiale presente all’Esposizione Bresciana del 1875, relativa ai reperti della preistoria e dell’epoca romana di Brescia. Paolo Schirolli, responsabile del Museo di Scienze Naturali di Brescia e Mauro Brunetti hanno rintracciato nei cataloghi del Museo l’importante

tuaggi praticati su varie parti del corpo. Una pratica forse non solo ornamentale. Dopo la morte, nessuno si prese dunque cura di Ötzi – il che, per gli archeologi, si è trasformato in una circostanza piú che fortunata –, mentre tutt’altra e piú amorevole sorte ebbero i defunti sepolti nella necropoli di Remedello. Il sepolcreto è, a oggi, uno dei contesti piú importanti dell’Eneolitico italiano e la mostra offre un’ampia selezione dei materiali recuperati nel corso degli scavi che lo hanno interessato. Indagini che ebbero inizio nel 1884 per iniziativa di Gaetano Chierici e dalle quali, fin da subito, emerse l’eccezionalità del contesto. E, oltre a vasellame in ceramica e manufatti in selce e metallo, è possibile anche vedere un paio di sepolture che nel XIX secolo furono trasferite nel Museo di Brescia all’indomani della loro scoperta. Eccezionale per il numero delle tombe individuate, il sepolcreto bresciano non fu comunque una realtà isolata, ma si inserí nella piú ampia koiné culturale affermatasi nell’area padana. E, a dimostrarlo, concorrono i materiali di alcune necropoli coeve – come Volongo, Fontanella, Cumarola – localizzate tra l’area bresciana e quella emiliana. Nella parte finale del percorso c’è naturalmente spazio per un altro dei

fondo Caprioli, che non era piú individuabile. Le località da cui provengono i reperti dell’età del Rame sono situate nei pressi di Brescia: Fornaci, S. Nazaro Mella, ma anche Flero e Castelmella. Sono cosí esposti cuspidi di frecce di selce di vari colori, triangolari, con alette e pedicello, una sega di selce giallognola, un magnifico punteruolo di selce rossiccia e un pugnale raccolti «lungo la sinistra del Mella dove le argille da mattoni formano uno strato da tre a quattro metri, al quale sottostà un letto di marna calcarea friabile contenente spesso conchiglie terrestri; lí si rinvengono sporadiche le selci lavorate, e precisamente nella parte inferiore delle suddette argille e sulle stesse marne». (red.)

simboli dell’età del Rame: il bicchiere campaniforme. Si tratta di un recipiente per bere, che ha anche dato nome a una cultura, e che, da decenni, è al centro di dibattiti e speculazioni. Alcuni degli elementi che caratterizzano questi vasi appaiono certi e indiscutibili, come, per esempio, la sua diffusione capillare in quasi tutto il continente europeo.

la bevanda degli dèi Eppure, a fronte di una presenza cosí massiccia, non c’è accordo unanime sul possibile significato di questi manufatti e sul loro uso. Appare tuttavia probabile che il bicchiere campaniforme fosse connesso ad attività rituali e fosse un recipiente destinato a contenere, e a simbolizzare, particolari bevande fermentate. In questa direzione vanno anche i curatori della mostra bresciana, a giudizio dei quali questi vasi erano utilizzati per il consumo dell’idromele, bevanda alcolica che si ottiene dalla fermentazione del miele e alla quale si attribuiva un valore sociale particolare. E, in questo senso, come sfuggire alla tentazione di associare il bicchiere campaniforme alla definizione tradizionale che si dava dell’idromele, cioè quella di «bevanda degli dèi». Le suggestioni proposte dall’esposizione bresciana, come si vede, sono dunque molte, ma l’epilogo del

percorso è invece piú asciutto e al tempo stesso benaugurante: la sezione finale è infatti dedicata alla transizione tra Eneolitico ed età del Bronzo. Forse con l’intento di introdurre a quella che è stata auspicata come la naturale seconda puntata di questa avventura: una grande rassegna sull’epoca che, fra le altre, vide affermarsi le grandi culture delle terramare. dove e quando «L’età del Rame. La pianura padana e le Alpi al tempo di Ötzi» Brescia, Museo Diocesano fino al 15 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-12,00 e 15,00-18,00; chiuso mercoledí Info tel 030 40233; e-mail: info@ etadelrame.it; www.etadelrame.it

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MITOLOGia • ISTRUZIONI PER L’USO/3

i viaggi

della prima

nave

Una fantastica traversata per mare e per fiume portò i primi navigatori greci, capeggiati da Giasone, alla conquista del vello d’oro. un’avventura durante la quale non mancarono incontri con terribili mostri, popoli selvaggi e streghe potenti...

di Daniele F. Maras

L

a narrazione delle guerre del mito non si esaurisce sempre nella presentazione di un nemico da battere o di una serie di epici scontri, come nei casi dei Giganti e delle Amazzoni. Piú spesso, anzi, le battaglie sono inserite nel contesto di una cronaca piú ampia, che prende la forma di una vera e propria saga. L’esempio piú classico e completo sono i grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, ma in questo numero ci occupia-

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mo di una storia meno famosa, eppure altrettanto complessa ed epica, che coinvolse molti eroi già alcune generazioni prima della guerra di Troia. Si tratta del lungo viaggio di Giasone alla ricerca del vello d’oro, conservato nella lontana Colchide, sulle sponde orientali del Mar Nero. Il racconto dell’epica traversata è giunto fino a noi in una versione completa e ricca di dettagli nell’opera Argonautiche di Apollonio Rodio, composta nel

III secolo a.C., ma già altri autori erano a conoscenza del mito, sin dagli inizi della letteratura greca. Contrariamente ad altri esempi della mitologia, in cui sono valorizzate le gesta di un solo eroe, la narrazione del viaggio di Giasone prende la forma di un epopea corale. Infatti, per compiere l’impresa, l’eroe si avvalse dell’aiuto di un equipaggio di tutto rispetto, composto dai maggiori guerrieri della sua epoca, che prese posto nella prima grande nave


Pannello a intarsio di madreperla e pasta vitrea (opus sectile) raffigurante il rapimento del giovane Ila da parte delle Ninfe, dalla basilica di Giunio Basso sull’Esquilino a Roma. IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

che avesse mai solcato i mari: la mitica Argo, la «veloce», costruita per l’occasione da un artigiano dallo stesso nome.

Una spedizione in grande stile L’avventura, come spesso accade nelle grandi imprese del mito greco, ebbe origine da una contesa dinastica sorta tra il padre di Giasone, Esone e lo zio, Pelia, che aveva spodestato il fratellastro dal trono di Iolco in Tessaglia.

Il giovane Giasone fu mandato a studiare presso il centauro Chirone, leggendario maestro di molti grandi eroi, e tornò in patria solo a vent’anni d’età, per reclamare il proprio diritto al trono. Per l’occasione l’eroe indossava una bizzarra tenuta, rivestito di una pelle ferina, con il solo piede destro calzato e brandendo una lancia in ciascuna mano. Qualche tempo prima, però, un oracolo aveva messo lo zio usurpatore in guardia contro chi portava un

solo sandalo; questi perciò promise al nipote di riconoscergli il diritto a salire sul trono, a patto di compiere un’impresa impossibile: recuperare il vello dell’ariete d’oro che anni prima aveva raggiunto in volo il regno del re Eeta in Colchide, recando in groppa i giovani Frisso ed Elle, perseguitati dalla regina di Tebe. Pelia credeva di spingere cosí Giasone verso morte certa, ma non aveva considerato l’intraprendenza del nipote, che organizzò una a r c h e o 61


MITOLOGia • ISTRUZIONI PER L’USO/3

spedizione in grande stile, chiedendo l’aiuto dei piú grandi eroi del suo tempo e facendo costruire una speciale imbarcazione, in grado di compiere un viaggio cosí difficile. Le fonti sono concordi nell’indicare in cinquantacinque il numero dei compagni dell’eroe, fra i quali si contavano alcuni dei nomi piú prestigiosi della mitologia greca, come i Dioscuri, Castore e Polluce, e i loro rivali Ida e Linceo; il giovane e saggio Nestore di Pilo; il medico divino Asclepio; l’impareggiabile cantore Orfeo; il primo timoniere della storia, Tifi, al quale la stessa Atena aveva insegnato l’arte della navigazione; gli indovini Mopso e Idmone; i figli alati del vento del Nord, Calai e Zete; uno stuolo di valenti e famosi guerrieri provenienti da ogni parte della Grecia, come Tideo, Anceo, Piritoo, Adme62 a r c h e o

to, Anfiarao, Ascalafo, Peleo,Telamone, Meleagro e l’«infaticabile» Atalanta, unica donna a bordo (eccezione alla regola di una superstizione marinaresca, ancora diffusa in tempi moderni). Né poteva mancare l’onnipresente Eracle, che si uní all’equipaggio assieme agli amici Ila e Polifemo (non l’omonimo ciclope, ma un guerriero lapita).

In alto: particolare della cista Ficoroni (cofanetto portagioielli in bronzo decorato) raffigurante la nave Argo. 350-330 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A destra: cratere a calice a figure rosse raffigurante Eracle e gli Argonauti, da Orvieto. Pittore dei Niobidi, 460-450 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

l’isola delle donne La nave salpò da Pagase, in Tessaglia, e attraversò agevolmente l’Egeo (con una piacevole sosta nell’isola di Lemno, popolata di sole donne!), in direzione dell’Ellesponto: l’odierno stretto dei Dardanelli, da cui si accede al Mar di Marmara, che separa l’Asia dall’Europa. Ma ben presto la spedizione si rivelò irta di difficoltà e di scherzi della sorte avversa. Infatti, al loro arrivo nell’isola di

Cizico, gli Argonauti (cosí si chiamavano i partecipanti alla spedizione) furono ben accolti e ospitati dall’omonimo re; ma quando, dopo essere ripartiti, una tempesta li respinse di nuovo in porto nel cuore della notte, furono scambiati per pirati e respinti dagli abitanti. Nella battaglia che seguí Giasone uccise il re Cizico, per poi pentirsi una volta chiarito l’equivoco, rinviando la partenza per partecipare al suo solenne funerale.


Alla tappa successiva il giovane Ila venne mandato in perlustrazione in Misia per cercare una fonte d’acqua dolce e fu rapito dalle Ninfe della sorgente, affascinate dalla sua incredibile bellezza. Al momento di ripartire, Eracle e Polifemo non vollero accettare la scomparsa del compagno e rimasero a terra, per continuare le ricerche. In un colpo solo Giasone aveva perso tre compagni formidabili. La sosta presso i selvaggi Bebrici, in Bitinia, costrinse gli eroi a inviare un campione, per rispettare l’usanza

di sfidare alla lotta il re locale Amico, inventore del pugilato e nemico di tutti gli stranieri. Fu designato a sfidarlo il figlio di Zeus Polluce, che lo sconfisse facilmente e, secondo la la versione meno dura, gli risparmiò la vita, in cambio del giuramento di rispettare in futuro i doveri dell’ospitalità. Toccò infine ai Boreadi Calai e Zete mettersi in mostra, scacciando le Arpie che perseguitavano il povero re Fineo, privo della vista, e ottenendone in cambio utili consigli per la navigazione: in particolare il re av-

vertí i naviganti del pericolo delle rocce Simplegadi, che si chiudevano di scatto sui naviganti che osavano varcare la soglia del Ponto Eusino (l’odierno Mar Nero). Anche questa prova fu superata, grazie allo stratagemma di inviare per prima una colomba tra le rocce, per poi filare veloci attraverso il varco mentre questo si riapriva dopo aver schiacciato (per fortuna) solo le penne posteriori dell’uccello. Da allora le Simplegadi, beffate, perdettero il loro potere magico e rimasero immobili a segnare la porta d’accesso al Mar

Tra i cinquantacinque compagni che riuní per l’impresa, Giasone poteva contare su alcuni dei nomi piú prestigiosi della mitologia greca

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MITOLOGia • ISTRUZIONI PER L’USO/3

Nero, che anticamente era chiamata con il nome di Bosforo, e oggi corrisponde al canale di Istanbul. Ma, prima della fine del viaggio, anche altri compagni di Giasone rimasero indietro o persero la vita, come l’indovino Idmone (che aveva previsto la propria morte nel corso di una caccia) e il prezioso nocchiero Tifi, che per fortuna aveva fatto in tempo a insegnare ad Anceo il proprio mestiere.

nascita della boxe Le imprese di ciascuno dei singoli eroi della nave Argo furono tra i soggetti preferiti degli artisti greci, specialmente dei pittori di vasi: ebbe particolare successo la lotta tra Polluce e il barbaro Amico, che, di fatto, costituiva l’atto di nascita del pugilato, uno degli sport preferiti 64 a r c h e o

dell’antichità. Ma il mito era anche un’esortazione a rispettare le usanze della buona ospitalità, che per i navigatori greci erano indispensabili ad assicurare l’assistenza nelle tappe dei lunghi viaggi per mare: la violenza e l’aggressività delle genti barbare venivano cosí ricondotte a un semplice confronto sportivo, in cui Polluce dava prova di grande «fair play» lasciando in vita l’avversario, in cambio dell’impegno a non compiere mai piú ingiustizie contro gli stranieri. Un altro soggetto che compare spesso nelle raffigurazioni dei vasi è la lotta tra i Boreadi e le Arpie, nella forma di un duello aereo tra creature alate, che vede le seconde in fuga inseguite dai giovani armati. Solo raramente la scena comprende anche Fineo, rappresentato molto

vecchio e magro, dal momento che i mostri gli impedivano di nutrirsi, insozzando il suo cibo prima che potesse toccarlo. Il rapimento del giovane Ila, infine, trova ancora fortuna presso i Romani in età tardo-antica, come dimostra un intarsio di madreperla e pasta vitrea (opus sectile), proveniente dalla basilica di Giunio Basso sull’Esquilino a Roma e conservato nel Museo Nazionale Romano (vedi foto alle pp. 60/61). Si dice che Eracle non si fosse dato per vinto della scomparsa dell’amico e che costringesse i Misii, che abitavano quella regione, a proseguire le ricerche anche dopo la sua partenza. Gli Argonauti sono presentati come eroi civilizzatori, che bonificano le terre selvagge toccate per la prima volta da una nave costruita dall’uo-


Ai quattro angoli del mondo conosciuto A sinistra: carta con le località e le regioni toccate dagli Argonauti nel corso del loro viaggio, da un’edizione del Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius. 1603. Collezione privata. Secondo la tradizione, Giasone e i suoi compagini avrebbero coperto un percorso che li avrebbe perfino portati a risalire il Danubio e il Po. In basso: particolare della decorazione di un cratere apulo a figure rosse con Giasone che consegna a Pelia il vello d’oro. 340-330 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

mo e che pongono rimedio ai pericoli che minacciavano i viaggiatori, rendendo cosí sicuri i futuri viaggi lungo le coste.

un «manuale» per i naviganti Anche se meno famose delle colonie d’Occidente, fondate in Italia e in Sicilia, le coste del Mar Nero ospitavano alcune delle piú antiche e importanti fondazioni dei navigatori greci, che visitarono l’Anatolia e il Caucaso prima di affrontare viaggi in terre ancor piú lontane. Il percorso di andata della nave Argo, perciò, illustrava ai navigatori, con l’espediente della narrazione mitica, i pericoli e le tappe di quella rotta antica, a r c h e o 65


MITOLOGia • ISTRUZIONI PER L’USO/3 Particolare di un vaso figurato con la scena dell’incontro tra Giasone e Medea, tra i quali è ritratto Eros, dio dell’amore, che trafisse il cuore della figlia del re Eeta, facendo scoccare in lei la passione per l’eroe. Produzione sicula, 350-340 a.C. Lipari, Museo Archeologico Regionale Eoliano «Luigi Bernabò Brea».

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che si immaginava frequentata sin dal tempo del mito. Nonostante tutte le difficoltà incontrate, Giasone godeva del favore degli dèi, anzi delle dee in realtà, dal momento che sul suo viaggio vegliarono Atena ed Era, mentre al momento dello sbarco in Colchide, intervenne in suo aiuto anche Afrodite, la dea dell’amore. Per suo comando, infatti, Eros trafisse con la sua freccia il cuore di Medea, figlia del re Eeta e potente maga, esperta di filtri e sortilegi: la principessa si innamorò all’istante del

giovane greco e lo aiutò a portare a termine la sua impresa. Infatti, Eeta impose a Giasone una serie di prove, per avere il permesso di prendere il vello d’oro. Per prima cosa l’eroe avrebbe dovuto aggiogare all’aratro due mostruosi tori dall’alito di fuoco; fatica che poté superare solo grazie all’unguento che Medea spalmò su di lui, in grado di rendere invulnerabile chiunque ne facesse uso. Con questa formidabile pariglia di buoi, Giasone dovette poi arare un campo e seminarvi i denti di un


drago, figlio di Ares, che aveva avuto una parte importante nel mito di Cadmo, fondatore di Tebe: la semina prodigiosa avrebbe avuto come conseguenza la comparsa di altrettanti feroci guerrieri armati di tutto punto, pronti a scagliarsi contro l’incauto aratore. Ma Medea rivelò a Giasone che sarebbe bastato gettare una pietra in mezzo ai guerrieri, perché essi si mettessero a litigare fra loro e si uccidessero a vicenda (stratagemma che aveva già usato Cadmo ai suoi tempi).

quell’epoca si chiamava Eridano. Il funzionamento del corso dei fiumi navigabili, evidentemente, non era molto chiaro agli antichi scrittori di mitologia greca, i quali immaginarono che risalire il fiume dalla sua foce adriatica avrebbe portato i navigatori a superare le Alpi francesi – attraversando le regioni abitate dai Liguri e dai Celti – e a congiungersi con il Rodano (il cui nome era effettivamente simile a quello dell’Eridano), per poi sfociare di nuovo nel Mar Mediterraneo nei pressi di Marsiglia. Con questo viaggio iperbolico, la nave di Giasone aveva completato il giro delle misteriose terre del Nord, congiungendo idealmente l’Oriente all’Occidente e portando gli Argonauti ai confini del mondo allora conosciuto.

indenne lo stretto di Messina, passando tra Scilla e Cariddi, e raggiunse la terra dei Feaci, dove gli Argonauti furono ben accolti dal re Alcinoo. A questo punto la benevolenza degli dèi terminò e una terribile tempesta portò la Argo fuori strada, dapprima sulla costa della Libia e poi a Creta, dove il gigante meccanico Talo – posto da Minosse a guardia dell’isola – cercò di impedirle l’approdo.

l’uccisione del mostro La strega dell’Est Intervenne allora Medea, che rese folle il mostro di bronzo, causandoSuperate cosí le prove, l’eroe si pregli visioni da incubo, finché non si sentò al re Eeta per reclamare il fracassò da solo contro le rocce, premio, ma ottenne un rifiuto, caurompendo l’unica vena di cui era sando l’aperta ribellione di Medea. dotato. Fu questo l’ultimo evento Costei addormentò con le sue arti rilevante del viaggio, che, poco magiche il drago che custodiva il tempo dopo, si concluse finalvello d’oro e fuggí con Giasomente con il rientro al porto di ne e gli Argonauti alla volta La complicità Pagase, da dove era cominciato. della Grecia, inseguita dal paaveva compiuto l’imdre infuriato al comando di un nel delitto compiuto Giasone presa, ma con perdite tali e drappello di soldati. da Medea incrinò macchiandosi di colpe cosí Da questo momento in poi, il grandi, che non riuscí a otteviaggio degli Argonauti si macchiò di un terribile delitto, il rapporto privilegiato nere pacificamente il trono: scacciato da Iolco e si per opera della stessa Medea, tra Giasone e gli dèi venne rifugiò a Corinto assieme a che rivelò la propria natura Medea, che nel frattempo avemaligna (per cui si credeva che fosse figlia della dea Ecate, patrona Riprendendo finalmente la via del va anche sposato. dell’oscurità). La maga, infatti, ucci- ritorno, Giasone toccò con largo Le oscure arti magiche della prinse il proprio fratellino Absirto e ne anticipo alcune delle future tappe cipessa orientale, però, non tardagettò le spoglie in mare per costrin- dei viaggi di Ulisse, fermandosi in rono a causare nuovi terribili svigere il padre a recuperarle, rallen- un primo tempo nel Lazio presso luppi della vicenda; ma questa è la maga Circe (che contendeva a una lunga storia, che merita di estando l’inseguimento. Dopo questo delitto, il rapporto Medea il ruolo di maggiore incan- sere raccontata un’altra volta. Qui privilegiato di Giasone con gli dèi tatrice del mito greco). A Circe basterà ricordare che la nave Argo si incrinò, dal momento che l’eroe toccò purificare Giasone dalla par- finí le sue peregrinazioni a Corinsi era reso complice della sua terri- tecipazione all’assassinio di Absirto, to, dove fu consacrata da Giasone bile compagna. Per prima cosa, la facendogli riguadagnare, almeno in nel santuario di Poseidone, come nave sbagliò strada e imboccò la parte, il favore degli dèi: infatti, per ringraziamento per il felice ritorfoce del Danubio (che allora porta- incarico di Era, la dea marina Teti no della spedizione degli Argonauti: ma non mancò una variante va il nome di Istro), invece di diri- vegliò sul viaggio della nave. Gli Argonauti riuscirono a supe- della storia in cui, ironicamente, fu gersi verso il Mar di Marmara. L’assurda navigazione fluviale por- rare il mare delle Sirene con l’aiu- proprio la mitica nave a causare la tò gli Argonauti nel cuore dell’Eu- to del cantore Orfeo, che con la morte dell’eroe, cadendogli addosropa, per poi deviare su un affluen- dolcezza del suo canto impedí che so un giorno in cui, ormai vecchio te del Danubio (probabilmente la i compagni fossero irretiti dalle e stanco, si era addormentato sulla Sava in Slovenia), che, inspiegabil- voci delle mitiche creature (il solo spiaggia accanto a essa. mente, li portò a incrociare Bute si gettò in mare, ma venne nell’Adriatico, da dove pensarono salvato da Afrodite, che lo portò nella prossima puntata bene di imboccare un’altra grande in Sicilia). foce: quella dell’odierno Po, che a Successivamente la nave attraversò • Edipo: il principe maledetto a r c h e o 67


speciale • venetkens

A sinistra: particolare del bronzetto raffigurante la «dea di Caldevigo», dalla stipe scoperta nella località omonima, presso Este. V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino (vedi foto a p. 78). Nella pagina accanto: laminetta raffigurante una processione. V sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona.

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veneti antichi

Prima d’essere assoggettato da roma, il territorio veneto vide fiorire una delle realtà culturali piú dinamiche dell’Italia antica. Alla storia, agli usi e ai costumi di quelle genti è ora dedicata una grande rassegna allestita a Padova, nel Palazzo della Ragione. che ne tratteggia un profilo inedito e suggestivo, attraverso una ricca selezione di reperti e supporti audiovisivi e multimediali

di Andrea Colasio, Vincenzo Tiné, Davide Banzato, Mariolina Gamba, Giovanna Gambacurta, Angela Ruta, Francesca Veronese, Claudio Capovilla

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ul finire del II millennio a.C., e nel corso del I, l’Italia nord-orientale vide fiorire la civiltà dei Veneti antichi, una popolazione che la mitologia classica voleva originaria dell’Asia Minore, giunta in Occidente tra il XIII e il XII secolo a.C. al tempo della guerra di Troia e delle successive peregrinazioni degli eroi achei e troiani. Secondo la tradizione, i Veneti, alleati dei Troiani, dopo la caduta di Troia, sarebbero approdati sulle coste dell’alto Adriatico e qui, cacciate le popolazioni locali – identificate con gli Euganei – si sarebbero stanziati. A questo quadro mitografico, come per i contemporanei Etruschi e gli altri popoli dell’Italia alle soglie della storia, la a r c h e o 69


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ricerca archeologica accosta un processo di formazione locale significativamente influenzato da apporti culturali esterni. I dati archeologici parlano di una realtà culturale con remote radici nelle società preistoriche locali, le quali, dopo un periodo di crisi che nel XII secolo a.C. aveva coinvolto l’intero mondo mediterraneo, rifiorirono intorno al 1000 a.C. Questa nuova civiltà si articolò su un territorio corrispondente alle attuali regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia, e a parte del Trentino. L’areale è delimitato da confini naturali costituiti dal Po a sud, dal Mincio e dal Garda a ovest, dalla valle dell’Adige a nord-ovest e dall’arco alpino a nord e nord-est. Era una realtà geografica molto vasta e dalla morfologia eterogenea, che comprendeva aree planiziali, collinari e montane, ma anche estesi ambiti paludosi, concentrati soprattutto nella bassa pianura veneto-friulana prospiciente la gronda lagunare. Un territorio con pianure fertili e ampie aree boschive, solcato da importanti corsi d’acqua e situato in una posizione strategica, proiettato verso il centro dell’Europa. Grazie alla presenza di lunghe lagune litoranee, la terra dei Veneti antichi era anche favorita da una navigazione sicura, con facili approdi per i naviganti cosmopoliti che solcavano l’Adriatico. Se il nucleo fondamentale del mondo veneto antico può essere individuato nella pianura centrale, non meno importanti sono la valle del Piave, il Cadore, i territori piú orientali al confine con l’Istria e la zona del Polesine, tra Adige e Po, dove i contatti con il mondo etrusco ebbero esiti culturali molto peculiari. In un quadro cosí articolato, i Veneti appaio-

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In alto: collane in pasta vitrea, da Fratta Polesine. XII-X sec. a.C. Rovigo, Museo dei Grandi Fiumi. In basso: pettine in osso, dall’abitato di Frattesina. XII-X sec. a.C. Rovigo, Museo dei Grandi Fiumi.

no come una realtà culturale ben definita, stanziata in un territorio dai confini precisamente delineati, e dotata di un consapevole senso dell’identità ribadita dall’etnico Venetkens, orgogliosamente citato da un’iscrizione databile al IV secolo a.C., rinvenuta in territorio vicentino.

il perché di una mostra La civiltà dei Veneti antichi è nota solo a partire dal 1876, anno in cui a Este, nel fondo Boldú-Dolfin, nel corso di operazioni di aratura si ebbe la prima, casuale, scoperta di alcune sepolture, due delle quali dotate di un ricco corredo di vasellame bronzeo decorato. Fecero seguito anni di intense ricerche e studi, i cui risultati confluirono in una pubblicazione del 1882, a firma di Alessandro Prosdocimi, allora conservatore del Museo Civico di Este. È questo il primo lavoro scientifico sull’antica cultura veneta, i cui assunti generali sono tuttora un punto di riferimento per gli studiosi. Erano finalmente superate le nozioni dell’erudizione medievale e umanistica, e la convinzione che nulla si fosse conservato delle fasi piú antiche della storia del territorio. All’inizio del Novecento, la conoscenza della civiltà dei Veneti divenne sempre piú dettagliata grazie al susseguirsi delle scoperte, alle relative pubblicazioni e ai convegni, tanto che nell’arco di pochi decenni agli studiosi fu chiaro che se Este era stato il centro piú antico, e per molto tempo il meglio documentato, non era stato certo il solo: furono gra-


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In alto: cartina del territorio veneto in età preromana, con l’indicazione degli insediamenti piú importanti. Qui sopra: alare in terracotta a testa di ariete, da Este. V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino. L’oggetto è un’espressione tipica del mondo veneto protostorico. Posto sul focolare, serviva per il sostegno della legna o dello spiedo ed era considerato come un vero e proprio custode del fuoco. A sinistra: stele con iscrizione veneta rinvenuta a Isola Vicentina. IV sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Al centro della prima riga si legge, da destra verso sinistra, la parola Venetkens, che termina all’inizio della seconda riga.

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speciale • venetkens

dualmente riportate in luce le complesse fasi protostoriche di Padova, di molti centri della valle del Piave e del Cadore, e poi di Vicenza, di Altino, di Treviso, di Oderzo, di Concordia e del territorio compreso tra Tagliamento e Isonzo. Il territorio, in altre parole, appariva cosí vasto che l’iniziale denominazione di «civiltà atestina» fu abbandonata a favore della piú ampia denominazione di «civiltà paleoveneta», a sua volta oggi sostituita da «civiltà veneta antica». Quest’ultimo termine recupera pienamente il valore dell’etnonimo di «Veneti» con il quale le fonti letterarie indicavano in modo univoco la popolazione residente in questa vasta area prima dell’arrivo dei Romani. Nella seconda metà degli anni Novanta, l’affinarsi dei metodi di indagine e l’evoluzione disciplinare dell’archeologia hanno portato a radicali revisioni dei vecchi dati. Sono stati pubblicati nuovi studi sulle dinamiche territoriali e commerciali, sul rapporto gerarchico tra i diversi insediamenti, sulla loro articolazione topografica, sulle necropoli e l’organizzazione sociale che esse riflettono, sulla realtà del sacro e la sua proiezione sul territorio; come sulla cultura materiale e la sua evoluzione nel tempo, sulla lingua e sulla scrittura dei Veneti antichi. Scavi piú recenti e aggiornati in senso metodologico, tanto all’interno dei centri storici quanto nelle aree marginali o periferiche, hanno gettato nuova luce sulle conoscenze

del mondo veneto antico. Oggi sappiamo molto sullo sviluppo insediativo dei vari centri protostorici – di Padova, come di Este e di molti altri – e meglio si conosce la scansione cronologica con cui le varie fasi si sono susseguite dal X-IX secolo a.C. al II secolo a.C., al momento, cioè, che vede il concludersi della realtà veneta in seguito alla sua fusione con il mondo romano. L’obiettivo della mostra è quindi di presentare la civiltà dei Veneti antichi offrendo un quadro nuovo, aggiornato e complessivo delle conoscenze: un quadro che non è mai stato offerto al grande pubblico, a fronte di una produzione scientifica che si è invece negli ultimi anni enormemente accresciuta. A partire dagli anni Settanta, erano state organizzate molte mostre, ma sempre con tagli specifici: risalgono al 1962 la mostra sull’arte delle situle tenutasi a Padova,Vienna e Lubiana; al 1976 la grande mostra su Padova preromana; al 1996 la mostra sulla Protostoria tra Sile e Tagliamento; al 1998 la mostra «… presso l’Adige ridente», incentrata su rinvenimenti archeologici tra Este e Montagnana; al 2002 «Akeo», sul tema della scrittura; mentre nel 2004 era stata tenuta la mostra «Alle origini di Treviso». La nuova mostra espone manufatti abitualmente conservati in diversi musei nazionali e civici del Veneto, nei depositi della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto, in musei di altre Regioni italiane e in musei

Padova, il Palazzo della Ragione, sede della mostra «Venetkens». Una veduta della facciata (a destra) e il grande cavallo ligneo realizzato per una scenografia (o un torneo) della famiglia Capodilista nel 1466 (in basso). Sullo sfondo, si vedono alcuni degli affreschi che compongono il grandioso ciclo dedicato all’influsso degli astri e dei cicli cosmici sui vari aspetti della vita umana.

il palazzo della ragione Il Palazzo della Ragione, sede della mostra «Venetkens», è uno dei piú spettacolari edifici del Medioevo e Rinascimento italiano. Fu eretto nel 1218 sui resti di un precedente, vasto edificio pubblico che, nel XII secolo, sorgeva tra altre sedi del governo cittadino, circondate da piazze e canali. Questa zona di Padova, allora come oggi, ospitava un vasto «centro commerciale». Tra il 1306 e il 1309 il palazzo fu sopraelevato con un progetto di fra Giovanni degli Eremitani (detto anche Giovanni da Padova), straordinaria figura di ingegnere e architetto del XIII secolo. In questa ristrutturazione, il palazzo, sorretto da 90 pilastri, fu coperto da un vasto tetto a forma di carena di nave, con capriate in larice e ricoperto da piastre di piombo. In origine, il Palazzo della Ragione era stato suddiviso in tre ambienti: una Cappella dedicata a san Prosdocimo a est, la sala delle udienze dei giudici al centro e le 72 a r c h e o


stranieri. Tutti questi oggetti – quasi 2000 – vengono per la prima volta riuniti e messi a confronto, proponendo una visione articolata ed esaustiva del mondo veneto in cui i vecchi dati risultino integrati con i nuovi. Territorio, insediamenti, mondo dei vivi e dei morti, commerci, religione, espressioni artistiche: il Veneto antico viene inteso come grande crocevia del passato, un territorio aperto agli scambi culturali e non come territorio-fortezza arroccato entro confini chiusi e invalicabili.

un viaggio immaginario Approdare sulle coste del delta padano nel lontano X secolo a.C., inoltrarsi nelle nebbie di un territorio nel quale l’acqua del mare e delle lagune si intreccia con la terra fino a confondersi, spaziare nelle pianure solcate dai fiumi, entrare negli insediamenti costruiti dall’uomo tra l’VIII e il V secolo a.C., lasciarseli alle spalle per attraversare le città dei morti, costellate di tumuli e monumenti. Proseguire quindi verso le alture per esplorare gli abitati arroccati nelle aree collinari del V, del IV e del III secolo a.C., entrare nei santuari di montagna, sperduti e quasi inaccessibili, ma ricchi di mistero. Abbandonare, infine, il territorio abitato dagli antichi Veneti nel momento in cui, nel II secolo a.C., con l’arrivo dei Romani tutto cambia: questo è il percorso offerto al pubblico. (segue a p. 76)

prigioni sul lato ovest. L’edifico, dalla sua costruzione fino all’età della signoria carrarese e tutta la dominazione veneziana, fino al 1797, fu infatti usato come tribunale e sede delle istituzioni fiscali della città. L’interno era stato affrescato da Giotto con figure religiose e allegoriche e temi astrologici. I dipinti giotteschi andarono perduti a causa di un disastroso incendio scoppiato nel 1420. Dopo la distruzione, il palazzo fu ricostruito, e oggi ospita un grandioso ciclo, composto da ben 500 affreschi, realizzato tra il 1425 e il 1440 da Nicolà Miretto e Stefano da Ferrara, sulle tracce delle pitture precedenti. Ispirati, secondo la tradizione, a un programma di Pietro d’Abano (un medico, astrologo e filosofo condannato dopo la morte per eresia) i nuovi dipinti si soffermano sull’influsso degli astri e dei cicli cosmici sui vari aspetti della vita dell’uomo. Nell’enorme ambiente sospeso (la piú vasta sala pensile del mondo) si conservano: la Pietra del Vituperio, sulla quale dovevano sedersi i debitori insolventi prima di

essere espulsi da Padova; un enorme cavallo ligneo creato per una scenografia o un torneo della famiglia Capodilista nel 1466; e due sfingi egiziane rubate in Egitto da Giovanni Belzoni. Recentemente, per sottolineare il legame tra Padova e le scienze, vi è stato posto un pendolo di Focault.

dove e quando «Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi» Padova, Palazzo della Ragione fino al 17 novembre (dal 6 aprile) Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso lunedí Info www.venetiantichi.it La mostra è promossa da Assessorato alla CulturaComune di Padova e Ministero per i Beni CulturaliSoprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto e organizzata da Gruppo Icat-Creative Company Strategies. a r c h e o 73


speciale • venetkens

cronologia 1350-1150 a.C.

Età del Bronzo Recente

Nel Veneto

Nel mondo di allora

I villaggi terramaricoli delle basse pianure venete entrano in vasti circuiti commerciali che coinvolgono le coste del Baltico, l’area danubiano-carpatica, l’Egeo e il Mediterraneo orientale.

I ntorno al 1200 a.C. il Mediterraneo orientale è investito da una grande crisi politico-sociale. Crollo dell’impero degli Ittiti, distruzione di Ugarit e invasione dell’Egitto da parte dei «Popoli del Mare» (forse con gruppi armati provenienti dalla penisola italiana). Distruzione delle cittadelle micenee.

Crollo della civiltà delle Terramare, rarefazione degli insediamenti in Veneto.

1200 a.C. circa

1150-900 a.C. circa

Età del Bronzo Finale

Nelle pianure del Veneto meridionale sorge il grande sito preurbano di Frattesina, crocevia di traffici dal Baltico alle Alpi orientali a Cipro, con sistema socio-politico fortemente gerarchizzato; quindi si sviluppano Villamarzana, e poi Montagnana. Nel corso del X secolo a.C. crescono anche Treviso, Oderzo e Concordia.

Diffusione della tecnologia del ferro e delle prime scritture alfabetiche. Crisi sociali e forse invasioni in Grecia.

900-800 a.C. circa

Fase antica della prima età del Ferro

In Veneto continuano a svilupparsi i centri protourbani. La civiltà villanoviana getta le basi di quella etrusca, mentre si definiscono progressivamente anche altre culture e popoli dell’Italia preromana.

Secondo la tradizione, Omero compone l’Iliade e l’Odissea. Nell’841 a.C., il re assiro Salmanassar III occupa la Siria, il regno d’Israele, Tiro e Sidone. Nell’814 a.C. Cartagine viene fondata da parte di coloni provenienti dalla città fenicia di di Tiro.

Alcuni grandi centri del Veneto meridionale (Frattesina, Villamarzana e Montagnana) sono abbandonati; parallelamente sono fondate Este e Padova, future capitali dei Veneti; anche Oderzo, Treviso e Concordia assumono forme protourbane.

La confederazione dei Medi domina l’Iran occidentale. In Grecia si diffonde lo stile geometrico.

800 a.C.

In alto: spada ad antenne, da Casier. IX-VIII sec. a.C. Treviso, Museo Civico. Nella pagina accanto, in alto: cippo confinario, da Padova, via Cesare Battisti. V sec. a.C. Padova, Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. Nella pagina accanto, in basso: stele funeraria di Ostiala Gallenia, da via San Massimo, Padova. I sec. d.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico.

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Nel Veneto

Nel mondo di allora

800-600 a.C.

Fase piena e avanzata della prima età del Ferro

I centri egemoni del Veneto sono dominati da potenti gruppi aristocratici. Prime necropoli monumentali ai margini delle città.

Regno di Lidia in Anatolia, prime monete. Nel 775 a.C., coloni eubei fondano Pithecusa, nell’isola di Ischia, primo stanziamento coloniale greco in Italia. Nel 753 a.C. viene fondata Roma. Lo stile «orientalizzante», tramite l’Etruria, influenza anche l’arte delle situle. Fondazione degli stati principeschi di Hallstatt in Europa centrale.

600-400 a.C.

Media età del Ferro

Le potenti città-stato venete hanno territori ben definiti; le aree collinari e montane sono organizzate invece in distretti di tipo «cantonale». Le città-stato di pianura hanno sistemi viari ortogonali simili a quelli dell’Etruria padana. Este ha importanti rapporti con il mondo etrusco, Padova con il mare e la frontiera nord-orientale. Ad Altino, nella laguna di Venezia, ad Adria e a Spina i Veneti incontrano mercanti greci ed etruschi. Introduzione, intorno al 600 a.C, della scrittura, con un alfabeto etrusco settentrionale.

In Grecia, età dei tiranni (650-500 a.C. circa). Nel 612 Medi e Babilonesi prendono Ninive e pongono fine al potere Assiro. Nel 547 a.C. il re persiano Ciro conquista la Lidia. Nel 509 Bruto e Collatino cacciano Tarquinio il Superbo, l’ultimo re etrusco di Roma, e viene fondata la repubblica. Invasioni persiane in Grecia (499-479 a.C.). Nel 484 nasce Erodoto. Apogeo della potenza Ateniese e sua sconfitta finale per opera di Sparta nella guerra del Peloponneso (404 a.C.).

400-200 a.C.

Tarda età del Ferro

Intorno al 390 a.C. popolazioni celtiche invadono l’Italia settentrionale e parte del litorale adriatico. Nel 302 a.C. il re spartano Cleonimo, alleato di Taranto contro Romani e Lucani, viene battuto alle foci del Brenta dall’esercito patavino. I Veneti alleati di Roma partecipano alla battaglia di Clastidium del 222 contro Insubri, Boi e Gesati. Pacifico ingresso del mondo veneto nell’orbita politica e culturale di Roma.

Nel 396 a.C. Roma conquista Veio e inizia l’annessione dei territori etruschi. Nel 390 a.C. il capo senone Brenno mette a sacco Roma; nel 354 i Galli Boi conquistano Felsina che diventa Bononia. Nel 343 a.C. scoppia la prima guerra sannitica. Nel 334 Alessandro Magno invade l’Asia. Intorno al 300 a.C., invasioni celtiche in Grecia e nei Balcani; nel 264 a.C. scoppia il primo conflitto tra Roma e Cartagine. Nel 212 a.C. Roma conquista Siracusa.

200-100 a.C.

Romanizzazione

Nel 181 a.C., ai margini orientali del territorio dei Veneti, viene fondata la colonia di Aquileia. Forte sviluppo del sistema viario romano in Veneto: nel 148 a.C. la via Postumia, da Genova ad Aquileia; nel 131 la via Annia, da Adria ad Aquileia; Roma interviene come mediatore in contese confinarie tra i centri veneti.

Roma si proietta verso le miniere di ferro del Norico (attuale Austria centrale, con parte delle Baviera, delle Alpi orientali e della Slovenia). Nel 146 a.C. Roma distrugge Corinto e Cartagine e crea le province di Acaia e Africa.

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speciale • venetkens Bronzetto di fabbricazione etrusco-padana raffigurante Paride arciere. V sec. a.C. Venezia, Museo Nazionale di Altino.

Il viaggio immaginario procede lungo coordinate spazio-temporali che consentono di scoprire il mondo dei Veneti antichi, di comprenderne l’evoluzione culturale lungo l’arco del I millennio a.C., dalle origini al contatto con il mondo romano, nella variabilità dei luoghi e degli ambienti. Centinaia di reperti raccontano come viveva questo popolo antico, in che modo costruiva le abitazioni, come si procurava il cibo, come seppelliva i propri defunti, come si rivolgeva alle divinità, quali erano i suoi rapporti con i popoli confinanti e con quelli piú lontani con cui entrava in contatto. Ne vengono messi in luce aspetti di grande rilevanza culturale: la pratica della scrittura e il suo legame con la realtà del sacro, ma anche la padronanza della tecnologia del bronzo e la sua traduzione, sul piano dell’espressione artistica, nei repertori decorativi dell’arte delle situle, in cui animali fantastici si intrecciano a scene di vita quotidiana, a

momenti rituali, a processioni e a teorie di guerrieri. Grande attenzione è dedicata al cavallo, animale importantissimo nella cultura protostorica della regione. I cavalli dei Veneti, celebrati dalle fonti letterarie, erano effigiati su lamine votive, su monumenti funerari, riprodotti in forma di bronzetti e, non di rado, sepolti in apposite aree di necropoli. Nel viaggio ultraterreno dei morti, i cavalli erano anche deposti insieme alle persone che di essi si erano occupate in vita. Il percorso è arricchito, infine, da postazioni multimediali per una navigazione virtuale, che permette approfondimenti attraverso monitor touch screen, e da alcune ricostruzioni. Vedere l’interno di un’abitazione, con arredi e suppellettili; entrare in un santuario e percepirne l’atmosfera mistica attraverso la suggestione di una voce che invoca gli dèi, sentire il fluire dell’acqua, elemento spesso presente nelle aree sacre in una molteplicità di forme; vedere un imponente tumulo funerario con sepolture di cavallo: sono tutti momenti di grande impatto emotivo, a completamento di una visita dal profondo valore scientifico.

Fra le nebbie del delta Il percorso prende avvio dall’area del delta padano, grande crocevia di culture in area alto adriatica. Il periodo da cui inizia il nostro viaggio corrisponde all’età del Bronzo Recente e Finale (XIII-X secolo a.C.), momento che precede la vera e propria formazione della civiltà dei Veneti antichi. Un’immagine suggestiva, in apertura, accoglie il visitatore nel delta del Po, immerso nella nebbia. Uno scenario, dunque, dai connotati volutamente indefiniti, che suggerisce un tempo e uno spazio dai contorni remoti e evanescenti. Questa sezione infatti illustra il «territorio dei Veneti prima dei Veneti». Materiali dell’età del Bronzo Recente (XIII-XI secolo a.C.) provenienti dai siti del Polesine e dell’area basso-veronese quali Adria, Grignano Polesine, Fondo Paviani, Castello del Tartaro illustrano un’economia fiorente e vivace. Ecco quindi paste vitree e ambre – provenienti in quantità straordinaria dal sito di Grignano Polesine – che ben testimoniano come l’area del delta fosse al centro di scambi con zone anche molto lontane. L’idea della preziosità dei beni commerciati è sottolineata da alcuni effetti speciali, tra cui quello di una «pioggia d’ambra», realizzata mediante una videoproiezione. Si tratta di un’evocazione del mito di Fetonte e delle sue 76 a r c h e o


sorelle, le Eliadi. Racconta infatti il mito che Fetonte, dopo aver rubato il carro al padre Elios (il Sole) e aver causato catastrofi sulla terra a causa della sua imperizia alla guida, fu dal padre stesso precipitato nel fiume Eridano (il Po). Le Eliadi, sue sorelle, ne piansero a lungo la morte, fino a che gli dèi, mossi a pietà, le trasformarono in pioppi, mentre le loro lacrime si mutarono in ambra. Per la successiva età del Bronzo Finale (XI-X secolo a.C.) è dato particolare rilievo ai due siti di Frattesina e Montagnana, sia abitati, sia necropoli. Conclude la visita alla sezione una proiezione multimediale che racconta in che modo si svolgeva il rito di sepoltura di un guerriero.

dal fiume ai villaggi Il viaggio prosegue quindi dall’area costiera verso l’entroterra, nel territorio planiziale, in un graduale avvicinamento agli abitati. Il viaggio è nello spazio, ma anche nel tempo: da qui infatti, lasciata l’età del Bronzo, si entra nella prima età del Ferro (IX-VI secolo a.C.). Ad accogliere il visitatore è una seconda, grande immagine, che lega simbolicamente, in generale, gli insediamenti dei Veneti antichi

ai corsi d’acqua: un fiume che campeggia a tutta parete, affiancato a una palizzata. L’immagine suggerisce come il rapporto tra il fiume e i villaggi avesse una duplice valenza: da un lato ragion d’essere, garanzia di difesa e protezione dei centri abitati, dall’altro, a volte, nemico insidioso, pronto a esondare e a travolgere ogni cosa. Ricercato e al contempo temuto, il fiume era anche oggetto di offerte votive. Di questo parlano i manufatti rinvenuti nelle acque dei fiumi veneti: doni a entità soprannaturali dell’acqua sono molto probabilmente alcune spade; all’acqua riconducono anche piccole lamine conformate a barchetta. Il complesso rapporto tra fiumi e città è sottolineato da una voce narrante che, nelle parole del geografo greco Strabone, descrive le città dei Veneti come altrettante «città isole», circondate in tutto, o per gran parte, dall’acqua. Il visitatore sta per avvicinarsi alla città. Incontra dapprima il territorio trasformato e sfruttato dall’uomo in prossimità delle aree urbane. Zappette e picconcini in osso e/o corno, un vomere, alcuni denti di cinghiale, ami da pesca e lische di lucci, macine e macinelli da vari siti del Veneto parlano delle

«Fiere» in terracotta, da Oderzo. V sec. a.C. Oderzo, Museo Archeologico «Eno Bellis». I due manufatti, che rappresentano animali fantastici, sono di dimensioni imponenti, ma di funzione incerta: si tratta di elementi di arredo interno, o piú verosimilmente di terrecotte architettoniche, facenti parte della decorazione esterna di un edificio monumentale.

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speciale • venetkens

pratiche agricole, di allevamento, di caccia e pesca. Con l’approssimarsi della città, si incontrano le attività svolte nelle aree periferiche, la metallurgia e la produzione ceramica per prime. La lavorazione dei metalli è ben attestata a Este, ma anche a Padova, a Oderzo e nel Veronese. Nelle vetrine la faticosa produzione dei metalli è ben illustrata da ugelli di mantice, matrici per la fusione, punteruoli, crogioli, scorie, materiali semilavorati e lingottini di rame. Ognuno di questi oggetti funzionali, nella sua apparente semplicità, racchiude dettagli e segreti, che l’occhio attento può cogliere un po’ per volta: per esempio, motivi decorativi che, individuati sulle matrici di fusione, poi si scoprono sugli oggetti di ornamento.

Dentro le «città-isole» Dai margini della città si raggiunge l’interno di un centro urbano ideale di pianura. Gli insediamenti protostorici, a partire dall’VIII secolo a.C., stanno acquisendo una dimensione protourbana: i gruppi di abitazioni, con piccoli spazi scoperti e aree adibite ad attività artigianali, si alternano a strade, sentieri e canali di scarico ben progettati, con una netta separazione tra un «dentro» e un «fuori» rispetto allo spazio abitato. Gli spazi pubblici si distinguono sempre piú dagli spazi privati, a riflettere l’esistenza di una comunità socialmente e politicamente strutturata. In diversi siti del Veneto compaiono segnacoli ufficiali di confine: cippi confinari sono stati rinvenuti a Padova, Este e Oderzo. In alcuni casi questi piccoli monumenti determinano il confine di una comunità rispetto all’esterno, in altri tracciano confini interni rispetto agli spazi di una stessa comunità. Un gruppo di cippi di varia provenienza e dal diverso significato accoglie dunque il visitatore al momento del suo approssimarsi alla città, ricordandogli che si sta avviando in uno spazio ormai completamente strutturato. Sullo sfondo, compare l’immagine di una antica strada – elemento che nello stesso tempo unisce e separa gli spazi urbani – individuata nel corso di uno scavo archeologico a Este. La vita all’interno della città è illustrata dal comune lavoro domestico, come da attività di carattere artigianale, prima fra tutte la lavorazione dell’argilla per la produzione della ceramica. La ricchezza delle forme e delle funzioni, e l’evoluzione nel tempo degli og78 a r c h e o


A sinistra: bronzetto raffigurante la «dea di Caldevigo», dalla stipe scoperta nella località omonima, presso Este. V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino. In basso: una delle sepolture della necropoli scoperta a Pian de la Gnela, caratterizzata da tombe di eccezionale ricchezza.

getti sono enfatizzati sottolineandone apparati decorativi e tecniche di realizzazione. La ceramica, semplice materiale legato alla quotidianità, alla preparazione e al consumo dei cibi e poi riproposto nei corredi funerari, è anche uno degli strumenti piú utili agli archeologi nella comprensione delle fasi di vita degli insediamenti. Antichi vasi accompagneranno il visitatore fino a uno dei punti piú emozionanti della visita, entro gli ambienti di una abitazione protostorica di ambito urbano, con pavimento in battuto, montanti lignei, tetto di paglia e pareti a graticcio. All’interno sono visibili il focolare con gli alari, le suppellettili da cucina, i contenitori per la conservazione delle derrate alimentari, qualche mensola, una panca, un telaio.

Temi e simboli della vita urbana La mostra si sofferma su quattro temi di profondo valore simbolico e pratico della vita in città. Il primo è dedicato a un oggetto di arredo: l’alare, una tipica espressione del mondo veneto protostorico che, posto sul focolare, serviva per il sostegno della legna o dello spiedo. Vero e proprio custode del fuoco, in pietra o terracotta, l’alare poteva assumere le forme piú diverse. I piú antichi erano a semplice mattonella rastremata, mentre a partire dal VI secolo a.C. si diffu-

sero alari piú elaborati, a forma di testa di animale (ariete, cavallo, cane). Segue un secondo approfondimento sulle cosiddette «fiere» rinvenute nel centro di Oderzo. Si tratta di due manufatti tra loro molto simili, in terracotta, a forma di animale fantastico in postura accovacciata. Sono due oggetti imponenti, ma di funzione incerta: elementi di arredo interno, o piú verosimilmente terrecotte architettoniche, parte della decorazione esterna di un edificio monumentale. All’interno delle case degli antichi Veneti, un terzo tema è quello dei depositi votivi.Vengono infatti presentati due depositi – correntemente denominati «stipi» – rinvenuti a Padova e a Vicenza: si tratta di offerte rituali alle divinità custodi della casa al momento della fondazione della casa stessa. Comprendono una serie di vasetti miniaturistici da fuoco e da mensa e piccoli oggetti metallici, tra i quali modellini di spiedi. Queste stipi, sepolte sotto il pavimento delle case in prossimità della soglia di ingresso, costituiscono una rara testimonianza sulla realtà del sacro di ambito privato nel mondo veneto protostorico. L’ultimo approfondimento riguarda la presenza di «cittadini» stranieri all’interno di centri veneti. Ne sono testimoni alcuni enigmatici ciottoli fluviali in porfido: di forma ovale, i ciottoli recano iscrizioni incise sulla massima

scoperte ai piedi delle alpi Nella mostra «Venetkens» è esposta per la prima volta una scoperta davvero unica: una nuova situla bronzea del V secolo a.C., decorata a sbalzo, nella grande tradizione dell’arte delle situle dei Veneti, con complesse figurazioni. La situla faceva parte del corredo di una necropoli di altura, piccola, ma eccezionalmente ricca, rinvenuta nell’agosto del 2002 a Pian de la Gnela (Pieve d’Alpago, Belluno), grazie alla puntuale segnalazione di alcuni volontari del Circolo Amici del Museo dell’Alpago. A loro si deve non solo una scoperta del tutto imprevista, ma anche il salvataggio di un oggetto tanto prezioso. Alla scoperta ha fatto seguito lo scavo scientifico della necropoli, condotto dalla Soprintendenza per il Beni Archeologici del Veneto. Le tombe dell’età del Ferro erano contenute in cassette di lastre di pietra, ed erano insolitamente ricche di manufatti bronzei. Una di esse conteneva la situla figurata. Nelle due fasce superiori del contenitore bronzeo compaiono processioni di personaggi in vesti rituali, mentre in basso figurano scene di rapporto sessuale e parto. Le immagini e lo stile legano questo nuovo capolavoro ad altre opere contemporanee dei territori limitrofi, dalla pianura padana all’Austria e alla Slovenia.

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A sinistra e in alto: restituzione grafica della situla Benvenuti e della sua ricca decorazione a sbalzo, che mostra scene di vita alternate a figure di animali fantastici e motivi vegetali.

circonferenza, il piĂş delle volte con nomi di personaggi di provenienza celtica. Sono spesso riconducibili ad ambito funerario.

Traffici e mercati Il visitatore prosegue il suo viaggio scoprendo quanto gli abitati e le necropoli hanno rivelato sui rapporti dei Veneti antichi con gli altri popoli, vicini e lontani. Traspare un mondo di traffici, commerci, contatti e scambi di beni e di idee che fino a non molti anni addietro si riteneva piuttosto limitato. Nuovi scavi hanno invece rivelato forti contatti con il mondo greco, sia diretto sia mediato dai

La situla Benvenuti e, nel riquadro a sinistra, un particolare della sua decorazione a sbalzo. 600 a.C. circa. Este, Museo Nazionale Atestino. Il magnifico manufatto fu scoperto a Este, nel 1880, all’interno della ricca tomba Benvenuti 126.

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popoli dell’Italia meridionale, con l’Etruria e con le realtà vicino-orientali. Mentre raffinati bronzetti giungevano dall’Etruria e dalla Grecia, coloratissime perle in pasta vitrea raccontano di contatti con l’area caucasica, e i pendenti in faïence testimoniano contatti con l’Egitto. Manufatti in ceramica – daunia, ionica, attica a figure nere e a figure rosse – con ricchi, inconfondibili apparati figurativi mostrano come le coste dell’alto Adriatico fossero frequentate con regolarità da naviganti provenienti dai piú lontani lidi del Mediterraneo. E la provenienza di questi oggetti sia da abitato, sia da necropoli dimostrano come il mondo veneto li avesse accolti nella vita quotidiana come nella ritualità funeraria.

l’arte delle situle Il cuore della mostra è un ambiente raccolto: al centro, il visitatore viene a contatto con una delle piú importanti manifestazioni artistiche dai Veneti antichi: l’arte delle situle. Contenitori bronzei lavorati a sbalzo a forma di secchi, e decorate a sbalzo con immagini di rara potenza e suggestione, le situle non erano i soli oggetti su cui i Veneti incidessero le loro visioni aristocratiche: vi sono anche cinturoni, elmi, laminette, sulle cui superfici motivi decorativi legati alla vita quotidiana, ai commerci, alle attività agricole, alla ritualità, alla guerra si intrecciano con grande naturalezza ad animali fantastici di derivazione orientale, indice di contatti e scambi culturali attraverso vie non sempre di immediata comprensione. Il visitatore può quindi immergersi nei racconti e nelle immagini di una significativa serie di manufatti di varia provenienza, alcuni dei quali esposti qui per la prima volta. Esempi di arte delle situle sono note in tutto il territorio abitato dai Veneti, fino all’estrema propaggine orientale, oltre il Friuli nell’area slovena. Al centro campeggia la situla Benvenuti, il pezzo forse piú noto; mentre tutt’intorno, lungo le pareti, la riproposizione grafica dei repertori decorativi presenti sugli oggetti aiuta a leggere questo mondo fantastico. Un filmato illustra, passo per passo, la tecnica con cui si sbalzavano le superfici di questi manufatti eccezionali. La scrittura Oltre le situle, incontriamo la scrittura e il suo insegnamento, realtà correlate entrambe alla dimensione del sacro. In mostra, una fotografia a tutta parete riproduce una delle (segue a p. 84)

riproducendo un capolavoro La situla Benvenuti è tra le espressioni piú alte dell’omonima arte. Ma come si giungeva alla realizzazione di un’opera del genere? Ecco, passo dopo passo, la ricostruzione dell’antico procedimento di Stefano Buson

Durante questo lavoro mi è parso di entrare nella vita degli antichi artigiani, di spiarli per carpire i loro segreti, di rivivere i loro gesti e, infine, di gustare la loro arte. In una vasta area geografica che comprende l’Italia del nord, l’Austria e la Slovenia, tra il VII e V secolo a.C. si sviluppò una raffinata produzione di vasi, coperchi e cinturoni cesellati e sbalzati con scene figurate, che va sotto il nome di «arte delle situle». Questa forma di artigianato artistico, in una società basata sulla tradizione orale, dove la scrittura era ancora appannaggio di pochi, comunicava importanti messaggi ideologici con le immagini. Grazie alle situle decorate esposte nella mostra «Venetkens», disponiamo ora di una nuova rappresentazione del mondo in cui vivevano le aristocrazie dei Veneti antichi. Nel quadro di una piú ampia ricerca sulle tecniche metallurgiche dell’età del Ferro, ho scelto di condividere tale rappresentazione «da artigiano», cioè ripercorrendo, passo per passo, il modo in cui gli affascinanti vasi bronzei dei Veneti antichi venivano progettati e materialmente creati. Una sperimentazione importante è stata la riproduzione della situla Benvenuti, scoperta a Este (Padova) nel 1880 all’interno della ricca tomba Benvenuti 126, datata attorno al 600 a.C. Questo vaso istoriato, considerato uno dei capolavori dell’arte delle situle, è formato da due lamine di bronzo sagomate a tronco di cono. Manca il fondo campanato (di cui si conserva qualche frammento), mentre lungo la spalla sono presenti riparazioni in corso d’opera. Restauri antichi ne avevano rappezzato la lamina, rotta per l’uso. La situla mostra scene di vita reale, alternate con animali fantastici e motivi vegetali di tradizione orientalizzante. I contorni delle figure sono definiti da linee ottenute con cesello profilatore. Osservando la decorazione al microscopio, si scopre la traccia del disegno preparatorio (sinopia) tracciato con una fine punta metallica. Le figure sono lavorate a rovescio, con ceselli (segue a p. 82) a r c h e o 81


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da sbalzo, sulla lamina ancora piana, prima della costruzione del vaso mediante assemblaggio con chiodi ribattini. Ho cercato di riscoprire le sequenze tecnologiche antiche attraverso la sperimentazione di strumenti costruiti in base alle informazioni raccolte sul reperto, confrontando i dati con le tradizioni tecniche e l’esperienza dei bronzisti di oggi. Prima di procedere alla riproduzione ho esaminato nei minimi particolari la situla individuando le caratteristiche della lamina e dei ribattini, la traccia del cesello profilatore e dei punzoni. Ha fatto seguito la progettazione dei due «ventagli» piani, in base al calcolo dello sviluppo del tronco di cono della situla originale. Gli artigiani tagliarono due ventagli da una lastra di rame dello spessore di quattro decimi di millimetro (foto 1).

3. Sbalzo La lamina doveva poi essere capovolta per eseguire lo sbalzo delle figure, modellando ciascuna immagine o elemento decorativo con diversi punzoni, secondo le caratteristiche delle forme (foto 4).

4. Ventaglio cesellato e sbalzato 1. disegno e ventaglio Poi procedettero con il disegno e l’incisione sulla lamina con uno stilo, quindi con la decorazione con cesello profilatore (foto 2, 3).

2. Decorazione a cesello

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Terminata la decorazione, essi tracciarono le linee divisorie delle tre zone decorate con due punzoni di diverso diametro. A questo punto si procedeva con la sagomatura della lamina per ottenere una forma troncoconica (foto 5) e con la saldatura meccanica delle lamine con chiodi ribattini. Il tronco di cono era posto su un’incudine sporgente (oggi chiamato «tassetto») per l’imbutitura.

5. F ormatura della lamina a tronco di cono


vaso di bronzo in grado di raccontare a chi assisteva agli eventi cerimoniali la sua ricchezza, le sue gesta o quelle dei suoi antenati (foto 9).

6. Imbutitura su tassetto L’operazione (foto 6) consisteva nel vibrare una serie di colpi con martello a penna rettangolare sulla lamina appoggiata al tassetto, ruotando poco alla volta il pezzo da sagomare. Dopo ogni imbutitura (l’esperimento ne ha richieste dieci) veniva eseguita la ricottura, scaldando il rame al rosso vivo ( 650°C). La decorazione sulla spalla e sul collo era realizzata con cesello profilatore sul diritto e con punzone sul rovescio. Per dare sinuosità al corpo si modellava dal lato interno, fino a ottenere la forma richiesta. Il fondo era poi innestato facendolo aderire saldamente al corpo della situla tramite il ribadimento del cordone circolare (foto 7).

8. Particolare del signore in trono

9. Copia sperimentale e situla originale 7. Corpo della situla e fondo campanato La situla, alla fine del montaggio, doveva acquistare un affascinante colore dorato, che nulla ha a che vedere con il verde scuro delle attuali superfici ossidate. A tal fine, era ripulita dalle ossidazioni con una semplice mistura di aceto e sale, quindi patinata con olio. Un’ultima operazione, indispensabile perché la situla potesse contenere fino a nove litri di liquidi, era il rivestimento dell’interno con uno strato di cera vergine e resina di pino per sigillare la saldatura meccanica. La resina, oltre a rivestire il vaso, lasciava al vino un aroma in piú. L’artigiano aveva assecondato abilmente la richiesta del ricco committente (foto 8) producendo un

Per replicare la situla Benvenuti a partire da una lamina preformata (come probabilmente avevano fatto i suoi creatori) sono state necessarie 113 ore di lavoro. Calcolando la raffinazione e la spianatura del metallo in lamina, i tempi di produzione vanno naturalmente considerati ben maggiori. L’esperimento di replicazione ha inaspettatamente rivelato che i bronzisti effettuarono notevoli sforzi e complicati adattamenti tecnici per far sí che la situla in lamina bronzea riproducesse esattamente la forma di un comune vaso ceramico locale per servire il vino. In questo caso, è evidente il tentativo di aderire simbolicamente a una forma e a un’idea profondamente radicate nella cultura locale, esprimendo al tempo stesso, con il passaggio a un materiale costoso e di pregio, il potere economico e i valori dei ceti dominanti. a r c h e o 83


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In alto: laminetta raffigurante una processione. V sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Nella pagina accanto: vaso a bande rosse e nere, dalla necropoli «Casa di Ricovero» di Este. V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino.

tavolette alfabetiche rinvenute a Este. Dal santuario di Este dedicato alla dea Reitia, infatti, provengono numerose tavolette con alfabetari e centinaia di stili scrittori: punte per incidere le tavolette cerate, con un’estremità a spatola per cancellare. Gli stili, prima di essere offerti alla dea come ex voto, erano stati effettivamente in uso, e mostrano come, all’interno di talune aree sacre, la scrittura fosse non solo praticata dagli esperti, ma anche oggetto di insegnamento. Santuario come centro scrittorio, dunque, e santuario come centro di trasmissione della conoscenza. Chi fossero gli insegnanti e chi gli allievi è ancora incerto. Che la scrittura non fosse preclusa al mondo delle donne (sacerdotesse?) è comprovato da una serie di stili scrittori su cui compaiono iscrizioni con nomi femminili di dedicanti. Vari gli oggetti iscritti che raccontano le diverse valenze della scrittura e le particolarità scrittorie locali: iscrizioni di carattere pubblico, privato, funerario, religioso. Diversi anche i materiali su cui le iscrizioni erano realizzate: si tratta infatti di oggetti in pietra, in terracotta, cosí come in bronzo o in metallo prezioso, anche in questo caso provenienti da diverse aree del territorio abitato dai Veneti – da Cartura ad Altino, da Padova, a Este, a Montegrotto, a Vicenza, a Oderzo – a sottolineare la diffusione e l’unitarietà del fenomeno, sia pure con varianti locali. Al termine, uno schermo con la riproduzione dell’alfabeto venetico invita il visitatore a riprodurre il proprio nome con gli antichi caratteri. Con il foglio in mano, il visitatore accede poi a un nuovo spazio dedicato al sacro, dove viene invitato a depositare, quasi si trattasse di una offerta votiva, il suo nome agli dèi.

circondata di vegetazione. Al centro sorge un altare a cenere, il punto su cui venivano bruciate le offerte.Tutt’intorno, a terra, sono visibili frammenti di vasi di terracotta, resti di altre offerte votive. A ter ra, una videoproiezione riproduce l’effetto visivo di un corso d’acqua corrente – l’acqua era infatti molto spesso presente nelle aree sacre – a cui è abbinato l’effetto sonoro del fluire. Una voce narrante evoca il nome delle divinità e recita alcune preghiere. Sempre a terra, accanto all’altare, una videoproiezione traccia le impronte degli animali portati al sacrificio. Un velario leggero, adagiato su opportuni sostegni, funge da copertura, contribuendo a creare un’atmosfera raccolta e suggestiva; lo stesso tessuto avvolge qua e là gli elementi verticali creando suggestivi giochi chiaroscurali. Lungo il perimetro dell’area sacra, oggetti di varia natura, rinvenuti nelle diverse aree sacre del Veneto, sono altrettante offerte votive: ceramiche per le libagioni (coppe, tazzine), bronzetti, bronzetti su pilastrini, piccoli cippi, rocchetti e fusaiole per i filati.

le necropoli di pianura Il visitatore continua a seguire il filo conduttore del sacro anche nella sezione successiva: una sorta di via processionale cupa e oscura, ravvivata dal colore del fuoco di una pira proiettato sulle pareti, lo conduce infatti verso il mondo dei morti. Lungo la via processionale, la riproduzione di sei alti cippi monumentali rinvenuti a Este trasmette l’idea di una netta separazione degli spazi. Il mondo dei vivi era infatti fisicamente distinto dal mondo dei morti. Lo spazio espositivo dedicato alle necropoli di pianura propone una cospicua serie di corredi funerari (circa una trentina), rinvenuti a Padova, a Este, nel Veronese, ad Altino e a Oderzo, scelti per mostrare alcuni aspetti uno splendido privilegio L’area destinata al sacro, evocativa del santuario dell’evoluzione nel tempo delle sepolture. di pianura, è il culmine emozionale della mo- La sequenza inizia con le piú antiche sepolstra. Di forma circolare, l’area è delimitata da ture del IX-VIII secolo a.C., con una tomba elementi verticali che richiamano una radura a inumazione rinvenuta a Padova, in via Tie84 a r c h e o


polo, e prosegue con sepolture dei secoli seguenti, sia a inumazione sia a incinerazione. I corredi sono esposti nella loro interezza, in alcuni casi ricostruendo i diversi tipi di tombe: tombe entro cassetta lignea, entro cassetta lapidea, tombe terragne. Sono tombe maschili e femminili, di adulti e di bambini, di persone appartenenti al medesimo gruppo famigliare; mettono in evidenza come gli oggetti del corredo connotino il sesso del defunto e la sua appartenenza a un preciso ceto/rango sociale e come particolari riti di sepoltura, come per esempio la vestizione dell’ossuario, riflettano le dinamiche sociali. Il VI secolo a.C. è rappresentato dalle due statue-stele funerarie rinvenute a Gazzo Veronese, al confine sud-occidentale del territorio veneto. Le statue, in una posizione di rilievo, appartenevano in realtà a un complesso funerario monumentale, il piú antico attestato nel Veneto, riferibile a un gruppo aristocratico locale che doveva avere contatti con il mondo etrusco. Infatti sia le statue, sia alcuni manufatti sono simili a reperti presenti in Etruria settentrionale. Tra essi vi è un’ascia bipenne, confrontabile con oggetti affini di ambito etrusco, ma totalmente sconosciuta in area veneta. Appartenente a un corredo funerario, peraltro piuttosto modesto, la bipenne va forse interpretata come parte di un bottino di guerra deposto come offerta al defunto. Alla fine del percorso dedicato alle necropoli di pianura, incontriamo le sepolture del VI e di parte del V secolo a.C., alcune entro grandi dolii. Sulla parete di fondo del corridoio spicca una stele – la cosiddetta stele di Camin – con una scena di commiato tra un uomo e una donna: all’uomo, in partenza per il suo viaggio ultraterreno, la donna regala un piccolo volatile, probabile allusione all’anima del defunto. Da qui, il visitatore raggiunge lo spazio ai piedi del grande cavallo ligneo realizzato nel XV secolo per volere di Annibale Capodilista. Vi incontrerà una nuova pratica rituale tipica della cultura dei Veneti antichi: la sepoltura del cavallo.

Stili per scrivere che recano nomi di donna provano che la pratica della scrittura non era preclusa all’universo femminile

Ekvo: il cavallo Il cavallo, Ekvo – come era chiamato dai Veneti antichi – vero e proprio animale totemico della protostoria europea – giocò nella loro cultura un ruolo di prim’ordine. Allevaa r c h e o 85


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Disco votivo, da Montebelluna. IV sec. a.C. Treviso, Museo Civico.

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ti per la loro valenza economica e come simbolo di predominio aristocratio e militare, i cavalli dei Veneti erano noti anche per la loro abilità nella corsa, ed erano spesso riprodotti, sotto forma di ex voto, nelle aree piú sacre. Centinaia di bronzetti a forma di cavallo o di cavaliere su cavallo provengono dai luoghi di culto di tutto il territorio abitato dai Veneti antichi. Al cavallo erano riservati spazi di sepoltura in apposite aree di necropoli. In alcune sepolture, come in quella scoperta nella necropoli del Piovego (VI-V secolo a.C.) il cavallo era deposto assieme all’uomo che di lui si era preso cura in vita. Come immagine simbolica ed elemento decorativo, il cavallo compare infine su manufatti di vario tipo. All’ingresso dell’area dedicata al cavallo si

trovano due stele patavine – monumenti funerari forse riconducibili al ceto equestre – sul cui specchio compare, nella sua potenza espressiva, questo animale: la stele di Albignasego (IV secolo a.C.), sulla quale sono perfettamente leggibili due cavalli con i relativi finimenti (notevoli per la precisione nella resa soprattutto i morsi) e la stele Loredan (III secolo a.C.) dove è raffigurato un cavallo impennato, montato da un cavaliere loricato nell’atto di sconfiggere un fante nudo: una scena di grande potenza che denota, dal punto di vista stilistico, possibili contatti con maestranze greco-ellenistiche. Segue un imponente complesso funerario, databile al VI secolo a.C., rinvenuto nella necropoli orientale di Padova (via Tiepolo/ via S.Massimo), qui parzialmente ricostruito:


un grande tumulo familiare, comprensivo di 6 sepolture a incinerazione entro dolio con i relativi corredi, ciascuno composto da circa una ventina di oggetti fittili e metallici. Le tombe sono posizionate su un podio semicircolare a piú piani. Ai lati compaiono due eccezionali sepolture dello stesso complesso: una di cavallo, una seconda di uomo e cavallo sepolti insieme. Sulla grande parete di fondo una ricostruzione grafica del tumulo comunica al visitatore tutte le informazioni necessarie. Sulla parete a fronte, in una grafica ispirata dall’arte delle situle con un effetto sonoro che ripropone lo scalpitio degli zoccoli equini, sono esposti manufatti funzionali all’equitazione (morsi provenienti da Altino, Este, Oderzo, Caporetto, testa di cavallo in gesso con morso posizionato) o evocativi dell’animale, provenienti soprattutto da santuari. Sono bronzetti raffiguranti cavallini e cavalieri (da Montegrotto, Oderzo, Altino, Padova e territorio padovano) e lamine decorate (Lagole), ma anche oggetti meno comuni in cui il cavallo diviene un elemento decorativo, come nel caso della chiave bronzea rinvenuta a Trichiana.

un altro mondo Da qui in poi, percorrendo un ampio corridoio, iniziamo a risalire verso gli abitati di altura, in un orizzonte cronologico che si estende tra il V e il III secolo a.C., nella seconda età del Ferro. Il mondo venetico arroccato sulle alture è completamente diverso da quello stanziato nelle pianure. Un altro tipo di economia, altri tipi di abitazioni, contatti con altre realtà, sia pure nell’ambito di una stessa matrice culturale. Un’iscrizione ricorda al visitatore che, pur nella diversa morfologia del paesaggio, sta ancora viaggiando nella terra dei Veneti: Venetkens, appunto, come recita il testo iscritto proveniente da Isola Vicentina. Una lunga parete a sinistra descrive innanzitutto gli abitati di altura del Vicentino: Archi di Castelrotto, Colognola ai Colli, Sant’Anna di Alfaedo, Montebello, piccoli abitati situati sulla sommità o lungo i primi pendii. Una vetrina propone al visitatore una scelta di materiali provenienti dagli abitati, che mostrano i modi della vita quotidiana (boccali e tazze ombelicate, vasi a peducci, pesi da telaio, alari in pietra), il confronto con culture diverse (ceramica retica), ma anche fiorenti attività produttive (metallurgia). Un plastico e altri reperti

illustrano la scoperta a Montebello della cosiddetta «casa del vasaio», un laboratorio di ceramisti del IV secolo a.C. eccezionalmente conservato dal crollo dell’edificio. Una seconda sezione è invece dedicata ai siti di Trissino, Santorso e Rotzo. Qui è collocata anche la ricostruzione di un telaio – la tessitura dipendeva infatti dall’allevamento di ovini, praticato nell’altopiano – e la ricostruzione di una porta apribile con una chiave da inserire in apposita serratura, secondo le scoperte effettuale nel sito di Rotzo. Sulla parete opposta il visitatore può esplorare le necropoli, i riti funerari dei siti di altura (secoli VI-V e IV-III-I), nelle scoperte fatte a Borso del Grappa, Pieve d’Alpago (Pian de la Gnela), dove è stata rinvenuta l’eccezionale situla bronzea sbalzata presentata per la prima volta al pubblico in questa mostra (vedi box a p. 79); e ancora a Mel, Limade, Montebelluna, Posmon, Montebello e Misincinis, in Friuli. La ricchezza di alcuni corredi maschili e femminili, con materiali celtici, e la raffinatezza di alcuni oggetti – monili, ma anche fibule, ganci, coltelli traforati, perle – mostrano che la realtà collinare era un mondo dinamico, in costante dialogo con le società circostanti.

Cavallino votivo, da Oderzo. V-IV sec. a.C. Oderzo, Museo Archeologico «Eno Bellis».

La voce degli oracoli Si giunge cosí al cospetto del sacro sulle alture pedemontane: realtà spesso legate a pratiche mantiche o oracolari, come lasciano intendere i diffusi ritrovamenti di sortes, ovvero di tavolette/piccoli ossi animali con (segue a p. 91) a r c h e o 87


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il palafreniere e il principe Nel 1976 gli archeologi dell’Università di Padova fecero una scoperta sensazionale. Mentre scavavano un vasto sepolcreto in prossimità di quella che doveva essere la periferia orientale della Padova preromana, nel punto dove il Brenta usciva dai quartieri urbani per inoltrarsi verso la Laguna, si imbatterono nella piú ricca tomba mai trovata nel territorio degli antichi Veneti, datata al VI secolo a.C. Le ceneri del defunto erano state collocate in un vaso ossuario di ceramica riccamente decorato da lamine di stagno; quest’ultimo era stato inserito in un prezioso vaso di lamina di bronzo, con coperchio sbalzato. Intorno, disposti su due piani lignei sovrapposti a formare una doppia camera funeraria, si trovavano piú di cinquanta vasi ceramici – anch’essi in gran parte decorati con lamine di stagno – spille per fissare le vesti, anelli, pendagli e un cinturone; un

sepoltura doppia In alto e a sinistra: due immagini della tomba, scoperta nella necropoli di Piovego nel 1988 e trasferita in laboratorio nel 1989 per essere sottoposta a microscavo. Vi erano deposti un giovane di età compresa tra i 16 e i 20 anni e un cavallo, ucciso intenzionalmente per essere sepolto insieme all’uomo. V sec. a.C.

di Giovanni Leonardi, Michele Cupitò, Silvia Paltineri, Benedetta Prosdocimi


Indagata a piú riprese, la necropoli padovana del CUS-Piovego ha restituito contesti di eccezionale interesse, tra cui la ricca tomba di un importante capo politico e la sepoltura di un giovane, deposto insieme al suo cavallo servizio di vasi bronzei per il consumo del vino, con secchielli, tazze, colini, coppe su alto piede. Vi erano anche gli spiedi in ferro per la cottura delle carni, coltelli, alari e molle da fuoco usati in un sontuoso banchetto funebre; infine una serie di armi e di «insegne di comando» in bronzo, del tutto insolite nel rituale funerario dell’epoca. La tomba, in origine coperta da un grande tumulo in terra e databile alla metà del VI secolo a.C. – quando, per intenderci, Atene era sotto la tirannide di Pisistrato e a Roma regnava Servio Tullio –, era la sepoltura monumentale di un importante capo politico, forse un principe che voleva connotarsi come un eroe. La sua carriera politica e militare era stata l’epilogo della scalata al potere di un gruppo gentilizio fondato da Tival-Bellen, capostipite, forse di origine celtica, al quale era dedicato un ciottolo di porfido iscritto, sepolto ritualmente

in una grande fossa posta al centro della necropoli. Anche se del principe sepolto con tanto sfarzo sulle rive del Brenta, fiume che rappresentava la spina dorsale di Padova, non sapremo mai il nome, la sua sepoltura segna un momento storico cruciale nelle vicende di questo centro. Negli anni in cui egli esercitò il suo potere e la sua influenza, infatti, Padova, nell’ambito di una grande partita politica giocata simultaneamente da Greci, Etruschi, Celti e dalle popolazioni della costa adriatica, si stava trasformando in una potente città-stato. La tomba principesca è compresa nella necropoli del CUS-Piovego, un ampio sepolcreto individuato in località S. Gregorio, nei pressi dell’odierno Piazzale della Stanga. Il contesto era stato scavato nel 1975-1977 e nel 1986-1989 dall’allora Istituto di Archeologia dell’Università di Padova. Sviluppatosi tra l’inizio del VI e la metà circa del IV secolo a.C.,

un ricco corredo

Oggetti appartenenti al corredo recuperato nella tomba della necropoli del Piovego scoperta nel 1976, riferibile a un importante capo politico della Padova preromana. Metà del VI sec. a.C. A sinistra: vasi in ceramica con decorazione a foglia di stagno. In basso e a destra: recipienti in bronzo di varia foggia.

il complesso si estendeva alla periferia orientale della città. I defunti erano sepolti con una netta prevalenza delle incinerazioni sulle inumazioni. Comuni sono anche le sepolture di cavalli – sempre congiunte a una o piú tombe a incinerazione. Le inumazioni erano tutte in semplice fossa e, di norma, prive di corredo. Gli incinerati potevano essere deposti in una tomba «a dolio», all’interno della quale l’ossuario e gli oggetti di corredo erano contenuti all’interno di un grande vaso da derrate, o in una tomba cosiddetta «terragna», in cui ossuario e corredo erano posti all’interno di una fossa – perlopiú circolare – strutturata con pareti lignee. Quasi tutte le incinerazioni erano dotate inoltre di un piú o meno consistente deposito esterno di carboni, resti della pira sulla quale era stato bruciato il defunto. Grazie a una nuova metodologia di microscavo in laboratorio, elaborata e applicata fin dal 1976, l’équipe padovana ha ricostruito in grande dettaglio i processi di deposizione e (segue a p. 90)

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ferro e bronzo

Armi in ferro e fibule in bronzo dalla tomba n. 2 della necropoli del Piovego. Il sepolcreto fu in uso tra il VI e il IV sec. a.C. ed è caratterizzato dalla prevalenza delle incinerazioni sulle inumazioni.

del successivo crollo nel tempo delle offerte e dei sedimenti circostanti nel vuoto della tomba, giungendo cosí a ricostruire particolari dei rituali funebri che sarebbero stati inevitabilmente perduti nel corso di scavi piú tradizionali. Un’altra scoperta di eccezionale portata dell’équipe patavina è l’inumazione contemporanea di un uomo e di un cavallo situata presso il margine nord-orientale del sepolcreto. La sepoltura era stata individuata nel 1988 e asportata dal campo nel 1989, in vista dello scavo in laboratorio e della musealizzazione. Parte di un ampio gruppo funerario composto sia da

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inumazioni, sia da incinerazioni, era connessa a una grande tomba a incinerazione a dolio, svuotata in antico e riutilizzata da una seconda tomba dello stesso tipo, piú piccola, con un ricco corredo femminile (V-IV secolo a.C.). I resti ossei combusti parlano di una donna e di un bambino tra uno e tre anni. Una seconda incinerazione, piú modesta e in pozzetto semplice, era stata posta all’interno del piccolo tumulo che copriva la deposizione dell’uomo e dell’animale. In questa fossa, il cavallo è prono, con le zampe rannicchiate sotto al corpo, il collo piegato innaturalmente e il capo quasi verticale; l’uomo,

deposto sopra l’animale, è invece supino e appare molto composto. Il cavallo, un maschio adulto di non meno di 6 anni, era stato ucciso intenzionalmente. Sulla fronte è presente infatti un’ampia lesione triangolare, causata da un colpo di mazza. Lo scavo miscrostratigrafico ha dimostrato che l’animale era stato collocato sul fondo della fossa in posizione volutamente accovacciata, e ucciso sul luogo. L’uomo, un giovane di sesso maschile di età compresa tra 16 e 20 anni, era stato invece deposto subito dopo sul dorso dell’animale, steso su una lettiga in materiale deperibile. Se si esclude un ciottolo collocato presso il collo del cavallo, la sepoltura è priva di corredo. Lo scheletro non presenta traumi inflitti. La doppia deposizione sembra potersi collocare con buon margine di sicurezza nell’ambito del V secolo a.C. La sepoltura dei cavalli è una pratica assai diffusa nel Veneto dell’età del Ferro e prosegue, in quest’area, anche in epoca romana. Le deposizioni contestuali di cavalli e uomini sono invece rare. Sembra trattarsi di sepolture di individui di condizione servile – forse proprio i palafrenieri – che, non diversamente dal cavallo cui attendevano, erano sacrificati sulle tombe dei loro «signori» nel corso dei solenni funerali dell’aristocrazia.


tomba a dolio

Le sepolture della necropoli del Piovego comprendono anche tombe costituite da grandi vasi in ceramica, i dolii, come quella qui illustrata, trasferita in laboratorio dopo la scoperta e qui scavata.

vasi lucenti Alcuni vasi in ceramica con decorazione a stralucido, effettuata per conferire maggiore pregio agli oggetti.

iscrizioni, gettati dagli indovini per trarne auspici. Il visitatore può salire idealmente al santuario di Magré di Schio, su una collina isolata in località Castello. Databile al III secolo a.C. e dedicato a una divinità femminile, il luogo di culto ha restituito corna di cervo, forate per essere appese, con iscrizioni retiche. Come in contesti del mondo retico (Santorso, Trissino e Montorio Veronese) questo suggerisce forme di ritualità legate a pratiche oracolari. Il visitatore viene introdotto al mistero delle sortes, sulle alture di Asolo dove, nell’area poi occupata dal teatro romano, è stato portato in luce un deposito votivo con vari ossicini di maiale iscritti, di interpretazione ambigua. Sul Monte Summano, nel Vicentino, si incontra un luogo sacro con altre sortes, ma anche un pane di incenso, un boccaletto retico, statuette in argento e monete greche: un nuovo punto di incontro tra culture di-

verse – la veneta e la retica– entrambe sotto la protezione divina.Vi sono, infine, i luoghi di culto nei quali erano dedicati i dischi votivi in bronzo, decorati a sbalzo secondo la tecnica dell’arte delle situle, di cui possono essere considerati una tarda espressione: Musile, Ponzano, Isola Vicentina, Rosà, Montebelluna.

Boschi sacri, folti di alberi Il viaggio volge, a questo punto, verso le ultime tappe. Il visitatore intraprende idealmente un’ultima salita dai luoghi sacri della

fascia pedemontana a quelli dell’area alpina, la cui vita, iniziata nel corso della seconda età del Ferro, si protrasse fino a epoca romana inoltrata. Una lunga lamina votiva, proveniente da Vittorio Veneto, funge da elemento introduttivo. Seguono materiali di recente rinvenimento (lamine e bronzetti) del santuario di Villa di Villa. Il percorso culmina in due grandi santuari, rispettivamente nell’alta valle del Piave e nel Cadore: Lagole di Calalzo e Monte Calvario di Auronzo. L’uno era sorto in un luogo ricco di fascino, presso una sorgente e un laghetto – il lago delle Tose –, l’altro era situato su un terrazzamento sommitale. Simpula (plurale di simpulum, una sorta di mestolo utilizzato nel corso delle libagioni, n.d.r.), bronzetti, armi e dischi votivi, strumenti di macelleria, evocativi di sacrifici in onore delle divinità, mostrano le attività di sacerdoti e fedeli.Tra questi oggetti, fanno la loro comparsa elementi che riconducono al mondo romano: dediche a divinità romane (Apollo), statuette di divinità romane (Mercurio) e monete di età repubblicana. Si tratta di contatti tra popoli diversi, ma anche di una progressiva integrazione con il mondo romano. Il percorso si conclude nel santuario friulano di Raveo.

L’ombra di Roma Ogni viaggio – vero o immaginario che sia – ha un momento conclusivo. Il mondo dei Veneti viene assimilato, apparentemente senza traumi, dalla cultura romana. Roma infatti, a partire dal II secolo a.C., espande il suo potere politico nei territori della Cisalpina, assorbendo le realtà locali e dando vita a nuove forme di civiltà. Il Venetorum angulus diviene quindi mondo romano a tutti gli effetti. Il territorio veneto viene rivoluzionato dalla costruzione di strade e dalle divisioni centuriali. L’ultimo oggetto del percorso espositivo, che accompagna il visitatore all’uscita, è la stele patavina di Ostiala Gallenia, sulla quale iconografia, apparato epigrafico, resa stilistica parlano di un nuovo viaggio, un viaggio verso gli orizzonti della romanità. E percorrendo una strada romana – una via silice strata – proiettata sul pavimento, il visitatore esce definitivamente dal mondo dei Veneti antichi, mentre riecheggiano le parole di Tito Livio, che molto dei Veneti ha raccontato, e i versi di Catullo, che della romanità ha espresso la piú profonda identità. a r c h e o 91


storia • storia dei greci/20

un’età senza fine

all’ellenismo dobbiamo i primi libri, la specializzazione, lo sviluppo delle scienze, un’arte scenografica ed esaltante: sono questi i caratteri salienti di un’epoca non ancora pienamente rivalutata e che, tuttavia, possiamo considerare come l’incubatrice di tanti sviluppi moderni della cultura, della religione e perfino... della globalizzazione di Fabrizio Polacco

D

ue verità vengono spesso trascurate sull’ellenismo: la prima è che la sua diffusione geografica andò ben oltre quella dell’impero di Alessandro e dei regni dei suoi successori; la seconda, piú sorprendente, è che, dal punto di vista culturale, esso non può dirsi ancora esaurito. Noi oggi viviamo in un mondo segnato dall’affermazione del razionalismo, al quale si accompagnano, quasi per contrappeso, intense reazioni tradizionalistiche e religiose. E, a grandi linee, fu questa la vicenda vissuta anche in età ellenistica: dopo una prima fase (conclusasi con la definitiva conquista romana dell’Oriente grecizzato) in cui fiorirono e si diffusero le scienze – anche quelle esatte, si pensi agli Elementi di Euclide – cosí come la retorica e la filosofia, ne seguí una seconda, culminante dopo vicende secolari, con la soppressione dell’Accademia platonica di Atene da parte di Giustiniano (529 d.C.), che vide la progressiva affermazione nella società di culti dal carattere misti-

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co e di origine orientale, sui quali il cristianesimo risultò alla lunga il vincitore, installandosi, infine, al vertice del potere. Oggi assistiamo a un intenso sviluppo, basato sulla tecnologia, la ricerca umanistica e scientifica, l’accumulo del sapere e la conseguente specializzazione delle competenze disciplinari. Un simile processo si realizzò già al culmine dell’ellenismo: allora si affermò e si diffuse quello straordinario strumento che è il libro, e furono create le prime strutture destinate a raccogliere volumi in grande quantità, le biblioteche. Non si trattava di locali destinati solo alla conservazione dei testi, poiché essi vi erano letti, consultati, commentati e discussi dagli intellettuali.

i primi studiosi Fu la prima volta che il genere umano poté fruire di una tale occasione. Il definitivo passaggio da una cultura trasmessa prevalentemente per via orale (quale era ancora quella della polis classica) a una basata sul testo scritto determinò una rivoluzione nel campo della conoscenza.

Medaglione in stucco con figura maschile, da Begram (nell’odierno Afghanistan). I sec. d.C. Kabul, Museo Nazionale. Nel sito afgano sono stati individuati i resti della capitale di uno dei regni greco-indiani formatisi all’indomani della dissoluzione dell’impero di Alessandro.

Divenne da allora possibile non solo conservare nel tempo e diffondere nello spazio tutte le conoscenze acquisite precedentemente, da chiunque e in ogni luogo; ma divenne altresí agevole confrontarle, sistematizzarle, compierne una ricognizione complessiva. Nacque cosí la figura dello studioso: cioè colui che, apprendendo anche e soprattutto dai


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storia • storia dei greci/20 Lago dell’Oxo (Lago di Aral)

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Altri territori ellenistici

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Regno attalide di Pergamo (188-133Ia.C.) regni

greca contro gli Antigonidi degli Lega Epigoni Signoria autonoma di Pergamo (240

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Conquiste dei Parti e data

Tolomei d’Egitto

Battaglie e date di Siria Conquiste del Regno greco-battriano e data Seleucidi69

libri, è in grado di acquisire e valutare tutto quanto è stato precedentemente ricercato o pensato su un dato argomento o in un certo ambito disciplinare, per poi procedere oltre sul cammino della conoscenza. Anzi, a essere precisi, nacque anche l’idea stessa di disciplina: un ambito conoscitivo in cui la sapienza non è frutto solo di educazione o di trasmissione diretta tra maestro e allievo, ma di ricerca e studio personale, meditato, approfondito e razionale. Questo straordinario e progressivo accumulo di conoscenze in ogni campo – tale che i frutti delle riflessioni e le conquiste culturali successive non espellevano le precedenti in quel piccolo spazio di memoria che è disponibile entro un cervello 94 a r c h e o

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Tolomei d’Egitto

umano, ma via via sempre si accrescevano – rese inevitabile l’avvento dei primi specialisti: meccanici, ottici, astronomi, matematici, filologi, polemologi, architetti, grammatici, meccanici, medici, ecc. Sorsero cosí anche le prime «storie» settoriali: dell’arte, dell’architettura, dell’eloquenza, della filosofia, della letteratura, ecc. E, con esse, quell’impianto culturale storicistico che è tuttora alla base dei nostri studi superiori.

scoperte prodigiose Di conseguenza, divennero sempre piú rare, dopo Aristotele (non a caso il primo a fondare un’ampia biblioteca presso il suo «Liceo»), le figure di intellettuali capaci di spaziare nei campi piú di-

Regno attalide di Pergamo (188-133 di Roma e date 69 Conquiste Conquiste dei Parti e data

Conquiste del Regno greco-battrian

sparati. E non è sempre un caso che uno di essi, Eratostene di Cirene, fosse anche uno dei direttori della prestigiosa biblioteca di Alessandria (vedi box a p. 97). L’ellenismo elaborò strumenti e conoscenze fino ad allora ignoti all’umanità. Per la gran parte risultarono tanto avanzati, anche rispetto alla loro epoca, che fu poi sin troppo facile dimenticarli. Basti pensare alla teoria eliocentrica di Aristarco di Samo, elaborata diciotto secoli prima di Copernico. O alla capacità di Eratostene di Cirene di calcolare, con buona approssimazione, la circonferenza del globo terrestre. O, già in età ellenistico-romana, alle macchine a vapore progettate e costruite da Ero-


una scoperta dell’ottocento

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Il termine «ellenismo» fu utilizzato per la prima volta a indicare l’ultima grande fase della civiltà greca dallo storico tedesco dell’Ottocento Johann Gustav Droysen. Egli rivalutò un periodo che in precedenza era visto come un lungo declino della grecità classica, e lo denominò con un termine derivante dal verbo ellenizo: «parlo greco», «mi comporto da greco». L’ellenismo politico si concluse nel 30 a.C., con la sottomissione a Roma dell’Egitto, ultimo dei regni nati dall’impero di Alessandro. Ma come fenomeno culturale, letterario e artistico esso non vede vere soluzioni di continuità sino alla fine del mondo antico.

di Asoka

185

G e drosia

(Dinastia Maurya fino al 232 a.C.)

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Altri territori ellenistici In alto: cartina che indica i diversi regni formatisi Lega greca contro gli Antigonidi -133 a.C.) all’indomani dell’esperienza egemonizzante dell’impero Città greche libere di Alessandro. e date colosso di Rodi 69 Conquiste di Roma e date 69 ilBattaglie triano e data A destra: in una fantasiosa ricostruzione grafica della fine del Settecento, realizzata per un’opera sulle Sette Meraviglie del mondo. (240 a.C.)

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storia • storia dei greci/20

esplicare liberamente e con risorse adeguate le proprie capacità e sviluppare innovative ricerche. Le conquiste di Alessandro e le condizioni di relativa sicurezza interna create poi da quei regni avevano inoltre assai ampliato la sfera dei commerci e facilitato gli spostamenti delle persone, che avvenissero per affari o a fini conoscitivi. In gran parte del Mediterrano e nel un’epoca di meraviglie Medio Oriente fino all’India fu Non è poi tanto vero, come spesso possibile per alcuni secoli scambiare si ripete, che i Greci fossero poco prodotti materiali ed esperienze interessati agli aspetti pratici, oggi culturali con relativo agio. Inoltre, si diremmo tecnologici, delle loro scoperte. Non dimentichiamo che alcune delle Sette Meraviglie del mondo antico, come il colosso bronzeo del porto di Rodi, alto oltre 30 m, e il faro di Alessandria, la cui luce poteva avvistarsi dal mare a fenomenale distanza poiché si levava oltre i 120 m, furono create in questo periodo. Ma anche certe imbarcazioni colossali di cui ci riferiscono le fonti dove t t e ro e s s e re prodigi di tecnica navale. L’enorme sviluppo del sapere e delle sue applicazioni pratiche fu reso possibile dalle particolari condizioni storicopolitiche ed economiche dell’ellenismo, che ancora una volta possiamo riconoscere, mutatis mutandis, nella nostra età moderna. La nascita affermò una lingua internazionale di grandi Stati centralizzati – i regni (la koiné dialektos, il greco standardei diadochi – ebbe come conse- dizzato), che permetteva a tutte le guenza l’accumulo di grandi dispo- persone ragguardevoli di intendersi, nibilità economiche nelle casse sta- di dialogare e di trasmettere infortali. Fu merito di quei sovrani – mazioni e conoscenze. Insomma, perlopiú macedoni imbevuti di l’ellenismo vide nascere la prima cultura ellenica – l’aver destinato globalizzazione commerciale e culparte delle entrate fiscali, per motivi turale della storia. di prestigio e di potenza, alla crea- Furono tempi di grandi migrazioni: zione di centri culturali (quale il a partire dagli stessi Greci e MaceMuseo di Alessandria), nei quali doni, i quali – poiché le conquiste di scienziati, letterati e artisti potevano Alessandro e dei successori avevano

ne (operante ad Alessandria d’Egitto) e alle approfondite conoscenze anatomiche di un Galeno. Il fenomenale ritrovamento, ancor oggi per certi aspetti incompreso, del «meccanismo di Anticitera» rivela l’altissimo livello raggiunto dalla strumentazione meccanica, in questo caso probabilmente volta a riprodurre i moti celesti.

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In basso: particolare della tazza Farnese, decorata dal piú grande cammeo esistente al mondo, che reca una scena allegorica di soggetto egittizzante. III-II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in alto: papiro con un brano di Callimaco di Cirene, da Ossirinco. II sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: Cirene, Libia. I resti dell’odeon della città, costruito in età ellenistica.

aperto immense prospettive alle persone piú intraprendenti – sciamarono in un’area che andava dalla Valle del Nilo alla Sogdiana centroasiatica, dalla Scizia meridionale sul Mar Nero alle foci del Tigri e dell’Eufrate, popolando città, coltivando campagne, fondando imprese commerciali e artigianali. Tali grandi spostamenti, che videro i Greci abbandonare in massa le loro amate ma un po’ soffocanti poleis, determinarono la nascita di un nuovo ceto imprenditoriale, militare e intellettuale che non si sentiva piú legato a un determinato luogo, ma, per la prima volta, poteva definirsi cosmopolita.

fratellanza universale Ne derivò una mentalità piú aperta, svincolata da remore tradizionali o localistiche, che generò, tra l’altro, un piú accentuato sentimento di fratellanza umana universale, favorito anche da alcune religioni e scuole filosofiche: la «filantropia». Il successivo sorgere di religioni universalistiche, come il mitraismo, il cristianesimo e perfino l’Islam, sarebbe impensabile senza il portato culturale di questo periodo. Il patriottismo e il sentimento di appartenenza etnica e nazionale


la nascita della filologia Oltre alla biblioteca istituita ad Alessandria dai Tolomei, che pare contenesse 500 000 volumi (volumen, dal latino volvo, «avvolgo», riferito ai rotoli papiracei), va ricordata la sua rivale di Pergamo (voluta dai sovrani attalidi, che crearono un piccolo ma fastoso regno in Anatolia occidentale). Da questa città deriva il termine «pergamena», pelle lisciata usata in sostituzione al papiro e rilegata in «codici», che ebbero finalmente la stessa forma dei nostri libri. Dalla necessità di mettere a confronto piú copie manoscritte di una stessa opera, talvolta erronee o discordanti tra loro, nacque la filologia, disciplina che ha per fine la ricostruzione della versione originaria di un’opera nonché la sua corretta interpretazione. Alcuni dei bibliotecari di Alessandria furono grandi autori letterari dell’epoca (detta perciò anche «alessandrina»), come Callimaco e Apollonio Rodio.

vennero sempre piú a decadere nei grandi regni spesso multietnici, come quello seleucide o quelli degli Indo-greci: questi ultimi sorprendentemente non solo sopravvissero alla frantumazione dell’impero di Alessandro, ma si svilupparono con notevole successo tra la Battriana e la valle del Gange (vedi box a p. 99). Inoltre, come si è già accennato, l’ellenismo si estese ben oltre i limiti delle conquiste orientali di Alessan-

dro. Nell’odierna Bulgaria, l’antica Tracia, il re Seute III, che pure combattè duramente contro il dominio macedone, fondò una capitale di tipo greco, Seutopoli (cosí come Lisimaco aveva fondato Lisimachia, Demetrio Demetriade e Seleuco Seleucia): da un suo ritratto in bronzo ritrovato presso il tumulo di sepoltura, quel sovrano ci osserva ancor oggi con le indiscutibili fattezze di una scultura di età ellenistica. Il cartaginese Annibale, che non a

caso negli ultimi anni della sua esistenza visse e collaborò alla corte di Antioco III il Grande re di Siria, allora in conflitto con i Romani, manifestava secondo i testimoni del tempo la cultura e i modi di un aristocratico ellenizzato. Ma soprattutto Roma, con la sua letteratura e cultura che trasmise poi al resto d’Europa, fu profondamente e sempre piú intensamente permeata dalla grecità ellenistica, tanto che il suo primo letterato fu

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storia • storia dei greci/20

Capitello decorato con figure di leoni e destinato a coronare una delle colonne innalzate per volere del re maurya Ashoka a Sarnath, nell’Uttar Pradesh (India). III sec. a.C. Sarnath, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: tetradramma in argento con l’effigie di Agatocle, re di Battriana, con un copricapo a testa d’elefante. 190-180 a.C. Londra, British Musuem.

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I REGNI GRECO-INDIANI Nonostante i tentativi di riconquista dei Seleucidi, alcune parti orientali dell’impero di Alessandro caddero nelle mani della dinastia ellenizzante dei Maurya, i cui sovrani furono ben noti ai Greci, come Chandragupta e Ashoka, regnanti a cavallo tra la fine del IV e il III secolo a.C. A loro volta, poi, i Greci rimasti in Battriana approfittarono della caduta dell’impero maurya per espandersi nel Nord-Ovest dell’India: il piú intraprendente di essi, Menandro, oltrepassò le conquiste di Alessandro, percorrendo la valle del Gange sino alla sua capitale Pataliputra (oggi Patna, India orientale). Menandro (130-75 a.C.) e gli altri re del suo tempo, raffigurati talvolta nelle monete con un copricapo a testa d’elefante, possono essere considerati a tutti gli effetti degli indo-greci. La fusione di civiltà sognata da Alessandro ebbe cosí realizzazione per opera di sovrani come questi (sembra che Menandro si fosse convertito al buddismo). Si diffusero cosí in quel lontano Oriente anche le forme e l’estetica dell’arte greco-ellenistica, le cui migliori testimonianze ci sono offerte dalla regione pakistana del Gandhara.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

un colto schiavo greco da Taranto, Livio Andronico, e la piú antica opera letteraria latina fu la traduzione di un dramma teatrale greco. Sempre in greco, per farsi leggere presso un pubblico piú vasto, scrissero i primi storiografi romani. I trionfi celebrati tra il II e il I secolo a.C. vedranno sfilare alle pendici del Campidoglio, assieme ai prigionieri incatenati e alle armi dei vinti, lunghe processioni di statue, quadri e oggetti d’arte strepitosi provenienti dal mondo ellenistico, spesso accompagnati dal contenuto di intere biblioteche.

Ebrei ellenizzati L’intensificarsi dei contatti e dei rapporti tra culture determinò anche il diffondersi a livello di massa delle traduzioni. Il ceto intellettuale romano tradusse in latino, imitò ed emulò praticamente l’intera letteratura greca. Presso la corte dei Tolomei ad Alessandria venne tradotta in greco la Bibbia (la famosa Traduzione dei Settanta, poi tra le basi di quella latina di san Gerolamo): non si trattava tanto del desiderio del sovrano di acquisire nella propria biblioteca anche il sapere di quel popolo compreso nei suoi domini,

quanto dell’esigenza, da parte della numerosa comunità giudaica che viveva nella capitale, di non dover piú leggere i testi sacri in un ebraico a essa ormai poco noto. Una delle etnie che piú assimilò e fece propri lingua greca e spirito ellenistico fu appunto quella ebraica. I re macedoni dell’epoca praticavano non solo la tolleranza culturale e religiosa, ma si ponevano come scopo la convivenza pacifica tra i popoli, le religioni e le culture dei loro regni. Purché fossero rispettate le leggi, versati i tributi e obbedito il sovrano, non fu in genere mai avviato un processo di assimilazione forzata. Al contrario, i ceti piú colti ed evoluti delle varie nazioni cercarono di fare proprie la lingua e le abitudini dei dominatori. Gli stessi libri biblici «dei Maccabei», pur ferocemente antimacedoni, ammettono che a Gerusalemme era stata richiesta e ottenuta l’apertura di un ginnasio, e che gran parte degli Ebrei urbanizzati ambivano ad assumere la cultura degli «infedeli» abbandonando le avite tradizioni, comprese quella del sabato e della circoncisione. Questo processo, nato

spontaneamente, si interruppe a causa di contrasti sorti all’interno della comunità ebraica.

Quando Gerusalemme divenne Antiochia Da poco tempo il regno seleucida di Antioco III il Grande si era sostituito ai Tolomei nel dominio della Palestina (200 a.C. circa). A guidare il processo di ellenizzazione a Gerusalemme, anzi a richiedere la costituzione nella stessa città di una polis greca di nome Antiochia, fu un sommo sacerdote, capo religioso e politico della comunità giudaica, per il quale si alterna il nome ebraico di Yehoshua (Giosuè) con quello grecizzante di Giasone.Tale polis lasciava intatte le pratiche religiose tradizionali ancora seguite da molti Ebrei, ma non subordinava piú la partecipazione alla vita politica degli individui alla loro adesione alla Torah. Giasone aveva letteralmente comprato la carica dal nuovo re Antioco IV Epifane: una pratica diffusa nel mondo greco, in cui i sacerdoti erano poco piú che i custodi dei templi, ma che per la teocrazia ebraica risultava indegna e assumeva inevitabilmente risvolti politici. Due faa r c h e o 99


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zioni ebraiche – quella dei ceti medio-alti ellenizzati, e quella dei piú umili, legati al rispetto della Legge – convissero tuttavia per qualche tempo pacificamente, senza intolleranze, né sopraffazioni reciproche. È probabile che alla lunga anche gli Ebrei si sarebbero ellenizzati, con un processo non dissimile da quello che stava avvenendo per i Fenici e per altri popoli della valle del Giordano. Piccolo gruppo in terracotta raffigurante una vittoria alata e un amorino, da Israele. Età ellenistica. Haifa, Univeristà, Collezione Reuben e Edith Hecht.

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Zeus nel Sancta Sanctorum A provocare i primi gravi dissidi fu la corruzione operata nei confronti di Antioco IV da un nuovo aspirante al Sommo Sacerdozio, Menelao. Promettendo al sovrano un aumento dei tributi (di cui il re aveva bisogno per rifarsi dell’indennizzo dovuto ai Romani, che avevano sconfitto la Siria nel 190 a.C.), costui ottenne la sospirata carica e la destituzione di Giasone. Per mantenere la promessa, si diede poi a vendere i sacri arredi del Tempio. Lo scandalo che ne seguí innescò la reazione dei tradizionalisti, ma spaccò al suo interno anche il partito dei filelleni. Si ebbero sommosse in città, represse dalle truppe siriache chiamate in soccorso dai seguaci di Menelao. Il re ne approfittò per continuare a spogliare a sua volta il tempio, cosa che provocò ulteriori rivolte, finché un tentativo militare di rivalsa da parte di Giasone, che per questo era passato a chiedere l’appoggio dei «tradizionalisti», si concluse con la cacciata del Sommo Sacerdote. Per i filelleni piú oltranzisti era ormai facile equiparare, agli occhi di Antioco Epifane, il rispetto della legge giudaica all’insubordinazione al potere. Nel 167 a.C. un esercito reale invase Gerusalemme, la sottomise e la trattò da città ribelle. A quel punto furono probabilmente i partigiani ebraici del re a chiedere che fosse sradicata, una volta per tutte, la religiosità tradizionale. Essi spinsero il sovrano a promulgare un decreto ecce-


zionale per il mondo antico greco: fu proibita la pratica dei precetti giudaici e nel Tempio venne introdotto il culto di Zeus Olimpio, il piú facilmente assimilabile al trascendente Yahveh.

Una svolta storica La reazione all’ellenizzazione forzata non si fece attendere, e, incredibilmente, conseguí un pieno successo anche militare. Un vecchio sacerdote di nome Mattatia, membro della famiglia degli Asmonei (o Maccabei), non esitò a uccidere sul posto un altro ebreo che, aderendo al decreto di Antioco, si accingeva a sacrificare su di un altare pagano. Fu il segnale della rivolta – guidata poi da suo figlio Giuda – determinata da motivi allo stesso tempo religiosi, etnici e patriottici. Questa conseguí una prima vittoria parziale nel 164 a.C., anno in cui la mor te dell’Epifane coincise con il ritiro del decreto e quindi la rilegittimazione del culto ebraico; e una finale nel 142 a.C., quando gli Ebrei si resero nuovamente indipendenti dopo cinque secoli e costituirono un regno guidato dagli

A destra: frammento di papiro con un brano della Bibbia dei Settanta, traduzione in greco dell’Antico Testamento realizzata nella Biblioteca di Alessandria in età tolemaica (vedi anche l’articolo alle pp. 26-35).

Moneta con Antioco IV Epifane, sovrano del regno seleucide dal 175 al 164 a.C. Il pezzo è stato rinvenuto tra i materiali accumulati durante il saccheggio del Tempio di Gerusalemme da parte del re.

Asmonei. Fu questo un evento di portata stor ica incalcolabile: l’ebraismo si sottrasse all’ellenizzazione e preservò quel carattere esclusivo e nazionalistico – e quindi antiuniversalistico – che avrebbe determinato i suoi effetti anche in età romana. La Palestina poté cosí divenire, piú tardi, anche la culla del cr istianesimo, mentre si preparava da parte ebraica il rifiuto di quella apertura ai «gentili» (i pagani) propugnata da Paolo di Tarso, che venne vista anch’essa dai tradizionalisti come un cedimento allo straniero: premessa alla frattura tra le due affini religioni monoteistiche. Davvero l’ellenismo, come affermò lo storico tedesco Johann Gustav Droysen (1808-1884), costituisce «l’evo moderno dell’antichità»: ma ciò va opportunamente inteso anche nel senso che esso prefigura, con le sue contraddizioni non meno che con le sue conquiste, importanti aspetti del mondo contemporaneo. nella prossima puntata • I Greci d’Occidente e Roma a r c h e o 101


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

gocce di dolore le espressioni immateriali della vita sfuggono all’indagine archeologica. È il caso delle lacrime, una manifestazione della tristezza e del dolore che possiamo comunque rintracciare, per esempio grazie a testimonianze artistiche e documenti epigrafici

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ià in passato abbiamo invitato i nostri lettori a considerare quanta parte delle testimonianze materiali che fanno da contorno alla vita umana vada perduta, non per l’inevitabile usura del tempo, ma per la sua stessa natura, per esempio, di alimento (è il caso del miele), o per le sue caratteristiche fisiche (come la neve accumulata nelle ghiacciaie). È il caso anche delle lacrime, questa componente cosí intima delle secrezioni del nostro corpo e al tempo stesso cosí manifesta, capace di esprimere ciò che le parole e i gesti a volte non riuscirebbero a dire. Gli antiquari avevano già cercato le tracce delle lacrime, credendo di identificarne i loro contenitori, cioè i «lacrimatoi»: delicate fialette di vetro presenti nei corredi sepolcrali, nelle quali oggi tendiamo piú semplicemente a riconoscere contenitori per unguenti o profumi.

una prova svanita Abbandonata quella via, ci si è dovuti rassegnare al fatto che non esistono molte strade per dare una prova archeologica alle lacrime, inesorabilmente svanite con la sofferenza che le ha prodotte. La rappresentazione del dolore fisico e psicologico non fu Scena di commiato su di un’urna dipinta dalla necropoli di Strozzacapponi (Corciano, PG). III-I sec. a.C. Corciano, Antiquarium.

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certo estranea all’arte antica, che seppe esprimere il senso del terrore, dello strazio, della disperazione nelle figure, per esempio, dei guerrieri abbattuti. Il dolore traspare anche nelle scene di commiato per i defunti rappresentate sulle pareti delle tombe o sulle urne con le loro ceneri, ma si tratta solitamente di scene assai composte (come nel celebre Sarcofago delle piangenti del Museo di Istanbul), che eternano la raffigurazione del dolore profondo per la perdita di un proprio congiunto. Le lacrime però non ci sono. Eppure c’erano: ce ne parlano i versi immortali di Catullo o di Ovidio, come le tante struggenti espressioni dell’epigrafia sepolcrale. Ce ne parla assai prima Omero nell’Odissea. Quando Ulisse sente Demodoco cantare la guerra di Troia «come una donna si getta piangendo sul corpo del marito ferito e morente e per lo straziante dolore sono spossate le guance, cosí una lacrima straziante versava sotto le ciglia». E quando travestito parlava di sé a Penelope: «lei, ascoltando, versava lacrime, la pelle le si scioglieva. Come si scioglie sul sommo dei monti la neve, e col suo sciogliersi i fiumi scorrendo s’ingrossano, cosí si sciolsero a lei le belle guance spargendo lacrime».

colori ancora vivaci Per questo restiamo affascinati e attratti da un’urna sepolcrale etrusca nella quale la scena del commiato scolpita sulla sua fronte ha conservato quasi intatti i colori originali e con essi la traccia evidentissima di alcune lacrime, dipinte in colore scuro sulle gote di un uomo e di una donna che si accommiatano stringendosi la mano. Quell’urna proviene dalla necropoli etrusca di

Epigrafe sepolcrale di Hateria Telete, da Roma. Nel testo, tramandato da un manoscritto del XV sec. conservato a Firenze nella Biblioteca Marucelliana, si accenna al ruolo delle lacrime nell’espressione del dolore per la morte della figlia.

Strozzacapponi, una piccola frazione tra Perugia e Corciano, in Umbria. L’area archeologica venne casualmente alla luce durante lavori edilizi presso l’incrocio principale dell’abitato ed è oggi visitabile al di sotto di un supermercato, dove si conservano una ventina di tombe a camera scavate nel banco di travertino. Connessa a un modesto villaggio sorto lungo la via che da Perugia conduceva a Chiusi, questa piccola necropoli ellenistica fu organizzata secondo precisi schemi urbanistici. Le sue tombe, concentrate nel tempo, avevano caratteri e dimensioni molto uniformi. Le camere erano dotate di banchine sulle quali venivano deposti i cinerari e i loro corredi, piuttosto omogenei e di modesto livello, oggi ammirabili nell’Antiquarium di Corciano. Le urne, perlopiú non decorate, recano il nome del defunto scolpito o dipinto sul coperchio. Del nucleo urbano non restano tracce. È plausibile, peraltro, che le case, di livello piuttosto modesto, fossero costruite in materiali in gran parte deperibili. Quel piccolo cimitero ci racconta dunque degli abitanti di una comunità composta

prevalentemente di artigiani dediti alla lavorazione del travertino estratto dalle vicine cave. Riflette, insomma, i nuclei familiari di un gruppo di gente comune: una umanità normale, che trascorreva la sua vita non lontano dalle sponde del lago Trasimeno, quando la «grande storia» accompagnava quel complesso passaggio che vide la civiltà etrusca dissolversi nell’ambito dell’Italia romana. Da questo borgo di gente semplice ci giunge però un messaggio universale, quello della rappresentazione realistica del dolore umano, capace di trasmettere, con il naturalismo della resa delle lacrime, la profonda umanità dei sentimenti.

la versione di giotto Un filo sottile e affascinante collega questo umile borgo di cavatori di pietra a uno dei santuari dell’arte di tutti i tempi: la Cappella degli Scrovegni di Padova. Lí i lunghi restauri coordinati da Giuseppe Basile hanno riportato alla vista, sui volti delle madri dipinti da Giotto nella scena della Strage degli innocenti, le lacrime che rigano le loro gote di fronte, di profilo, di spalle, come frecce. In uno dei capolavori pittorici piú straordinari al mondo, Giotto, voltando le spalle alla rigidità di tradizione bizantina, riportava in primo piano la centralità della condizione umana attraverso il racconto delle sue emozioni, come un ignoto pittore etrusco di provincia aveva tentato prima di lui millecinquecento anni prima. Non conosceremo mai il nome di chi ha decorato l’urna di Strozzacapponi: questo toponimo cosí plebeo è forse, per un’astuzia della storia, il maggiore omaggio che possiamo fare all’arte misconosciuta di un mondo che certa critica tende sussiegosamente a classificare come artigianato, pensando cosí di declassarla.

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scavare il medioevo Andrea Augenti

il monastero «perfetto» qual era l’assetto canonico dei complessi religiosi abitati dai monaci? Molte risposte vengono dall’archeologia, ma indicazioni preziose si trovano anche in un’antica pianta...

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l monachesimo è una delle piú importanti «invenzioni» del Medioevo e non è dunque sorprendente che l’indagine dei monasteri sia un settore di punta dell’archeologia medievale. In Europa conosciamo ormai molti di questi complessi grazie agli scavi: tra i piú importanti e meglio indagati, vi sono Wearmouth, Jarrow e Iona in Gran Bretagna, Fontenay e Landevennec in Francia, Corvey in Germania, Müstair in Svizzera. Anche Italia cominciamo ad avere un numero rilevante di informazioni e uno scavo che ha svolto il ruolo di apripista, per questo settore e, in generale, per l’archeologia medievale italiana, è quello del monastero di S. Vincenzo al Volturno, in Molise, che ebbe uno sviluppo eccezionale in età carolingia. Ma vanno ricordate – tra le altre – anche le indagini presso le abbazie della Novalesa, in Piemonte, e di Nonantola e S. Severo a Classe, in EmiliaRomagna. Ciascuno di questi scavi conferma che i monasteri erano veri e propri microcosmi, che per gli archeologi si trasformano in lenti di ingrandimento attraverso le quali è possibile osservare nel dettaglio il mondo medievale. Basti pensare ai molti temi che consentono di approfondire: l’architettura, la vita quotidiana, le pratiche funerarie, l’alimentazione, l’artigianato, il commercio… In poche parole: scavare un monastero significa

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entrare in contatto con l’essenza stessa del Medioevo. Ma proviamo a prendere in considerazione uno di questi temi: la forma dei monasteri, la loro struttura. Istintivamente saremmo portati a rispondere che è ben conosciuta: essa consta, di solito, di una chiesa abbaziale, affiancata da un chiostro attorno al quale si dispongono i vari edifici (quando poi si tratta di organismi piú grandi, i chiostri e gli edifici possono moltiplicarsi). Ma non è sempre stato cosí. In una fase originaria, neanche troppo breve (tra il V e l’VIII secolo), questo schema non si era ancora consolidato, e i vari monasteri adottavano planimetrie molto diverse tra loro.

Il caso di s. vincenzo Ne è un esempio il già citato complesso di S. Vincenzo al Volturno. Gli studi piú recenti di Richard Hodges – che ha diretto lo scavo per molti anni – hanno portato alla conclusione che il primo chiostro (VIII secolo) aveva una forma trapezoidale, e, in realtà, non era altro che uno spazio compreso tra una delle due chiese del monastero e il refettorio. Ancora piú estrema la situazione a Jarrow, uno dei piú importanti monasteri d’Inghilterra, anch’esso indagato a piú riprese: qui, nell’ VIII secolo, il monastero è composto da due blocchi distinti di edifici paralleli tra loro e il chiostro, semplicemente, non c’è. Le cose cambiano dal IX secolo, e possiamo ancorare la svolta a un documento miracolosamente

La Pianta di San Gallo. Primi decenni del IX sec. St Gallen, Stiftsbibliothek. Il documento è disponibile sul sito web: www.stgallpan.org sopravvissuto per quasi 1200 anni: la Pianta di San Gallo. È una pergamena composta da cinque fogli, che misura in tutto 112 x 77 cm, sulla quale, nei primi decenni del IX secolo, è stata riprodotta in inchiostro rosso la pianta di un monastero, con tutti i suoi edifici. Sono in totale 40 strutture, identificate da 333 didascalie. Ed è qui che vengono sancite la posizione e la forma «standard» del chiostro, quelle a cui siamo ormai abituati. Per chi voglia approfondire il tema dello stile di vita delle comunità monastiche del tempo di Carlo Magno la Pianta di San Gallo è una vera miniera di informazioni. Per decenni gli studiosi hanno discusso su questa raffigurazione: è la pianta di un vero monastero, quello appunto di S. Gallo (in Svizzera), o si tratta di un complesso ideale? Ha finito con il prevalere la seconda interpretazione, soprattutto perché non c’è coerenza tra la pianta e le caratteristiche del sito dell’abbazia. Sta di fatto che il prezioso documento fu disegnato proprio quando i monasteri iniziarono ad aderire in blocco a questo schema, e da allora hanno continuato cosí per secoli. E l’archeologia, a sua volta, conferma questo dato: i piú antichi chiostri «regolari» di cui si trova traccia risalgono proprio al IX secolo, in tutta l’Europa.


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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

rituali sotto terra

che cosa accomuna i santuari preistorici dell’isola di malta e i mitrei che si diffusero a roma e nelle province dell’impero? l’essere scavati (o costruiti) nel sottosuolo, una dimensione per sua natura destinata a favorire il «sentimento» del sacro

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ra le complesse componenti che contraddistinguono le forme del culto ricorrono parti caratterizzate da segretezza, come, per esempio, la trasmissione di determinate informazioni ai soli adepti o lo svolgimento di riti iniziatici. Di conseguenza, il sottosuolo ha sempre rappresentato un luogo ideale in cui praticare riti al riparo da occhi indiscreti, ma è anche stato sfruttato a tale scopo sia per il Rappresentazione assonometrica dei tre livelli del complesso sotterraneo di Hal Saflieni (Malta).

fascino che ha sempre esercitato sull’uomo, sia per i diversi significati mitologici che spesso gli sono stati attribuiti. Nel mondo greco-romano si diffuse, tra il II secolo a.C. e il V secolo d.C., il mitraismo, una delle maggiori religioni misteriche. Mitra era una divinità dello zoroastrismo persiano, ma un culto per un dio cosí denominato appare nel 1200 a.C. anche nei Veda (raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii dell’India settentrionale), dove è una delle divinità solari responsabile dell’onestà, dell’amicizia e dei contratti. Miti vivaci e un simbolismo oscuro esasperato erano alla base di questa religione, che aveva il suo luogo d’elezione nel «mitreo», una struttura sotterranea.

L’uccisione del toro Nel mondo romano il mitreo conservava una raffigurazione della tauroctonia, l’uccisione del toro del cielo la cui morte promuove la vita e la fecondità dell’universo. Greci e Romani pensavano che Mitra fosse la potenza celeste capace di causare la precessione degli equinozi (e anticamente, nell’equinozio di

malta

L’Hypogeum di Hal Saflieni A 5 km dal centro di La Valletta, sull’isola di Malta, si trova una antichissima opera di culto sotterranea. In questo piccolo punto, nel centro del Mediterraneo, si sono incrociate le rotte di remote civiltà. Tra il 4000 e il 2500 a.C. sull’isola si sviluppò una spettacolare architettura megalitica: vennero eretti numerosi templi e scavato il suggestivo sito sotterraneo di Hal Saflieni. Similmente ai templi megalitici di superficie, il motivo del trilite (un architrave sostenuto da due pilastri, costituiti da enormi blocchi di pietra) è qui ampiamente rappresentato, sia come decorazione scolpita, che come struttura portante. Al suo interno sono state ritrovate migliaia di sepolture, ma anche statuette della Madre Terra e dipinti spiraliformi. Probabilmente si celebravano riti ierogamici, sacrifici di animali e, forse, il culto dei serpenti. L’aspetto piú curioso di questo sito è che l’Hypogeum si estende su tre livelli per 10 m sotto alcune abitazioni degli inizi del Novecento, trasformate in un museo molto particolare. Una parte della pavimentazione è infatti stata «scoperchiata», ottenendo una spettacolare vista in sezione del livello superiore. Le visite sono limitate a 80 persone al giorno allo scopo di preservarne il microclima (info: www.heritagemalta.org).

primavera, il sole si trovava proprio nella costellazione del Toro), scoperta dall’astronomo greco Ipparco di Nicea. Un bell’esempio di mitreo si trova nel cuore di Roma, sotto la chiesa di S. Prisca sull’Aventino. Il complesso è formato da un’aula con volta a botte, stretta e lunga, con due lunghe banchine in muratura sulle quali si accomodavano i fedeli rivolti verso l’altare di fondo. Questo era sovrastato da una grande nicchia con altorilievi in stucco rappresentanti Mitra che uccide il toro. La struttura sotterranea conserva ancora la fossa sanguinis, un pozzetto con canaline di scolo, utilizzata per il sacrificio di animali durante il rito in cui si rievocava l’uccisione del toro da parte del dio. Molti templi sotterranei, dal Sud America all’Asia, cosí come in Europa, sono invece incentrati sul culto dell’acqua. La civiltà nuragica, per esempio, diede un forte valore religioso a questo elemento naturale al quale erano stati attribuiti poteri taumaturgici. Per questo in Sardegna si trovano ancora oggi numerose fonti e templi a pozzo, architetture sacre preposte alla raccolta di questa sostanza particolarmente preziosa nell’isola. Chi partecipava ai riti presso i pozzi sacri poteva materialmente scendere nelle viscere della terra. I templi sono generalmente formati da un atrio, a livello del suolo, dal quale, tramite una scala, si raggiungeva una camera scavata nel sottosuolo contenente il pozzo sacro. Un noto esempio è quello di Santa Cristina a Paulilatino, in provincia di Oristano. La struttura, datata all’età del Bronzo (XII secolo a.C. circa), conserva una ripida scalinata discendente coperta da un soffitto che riproduce una sorta di scala rovesciata e una tholos sotterranea, che custodisce la sorgente, costituita da grandi blocchi in basalto. Nei pressi del pozzo sacro si trovano altre strutture tra cui un nuraghe monotorre.

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divi e donne Francesca Cenerini

la liberta piú fedele quella tra nerone e claudia atte fu un’intesa fortissima. e la donna non smise d’amare il principe anche dopo esserne stata allontanata Affresco raffigurante una donna che si pettina, dalla Villa di Arianna a Stabia. Fine del I sec.a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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L

e parole che Tacito (Annali, 13, 46) fa dire a Poppea, futura moglie di Nerone, non lasciano scampo: l’imperatore era da tempo soggiogato da una concubina che era stata schiava, e da questa frequentazione servile non aveva tratto altro che abiezione e ignominia. Ma chi è questa concubina, cosí male apostrofata? Si tratta di Claudia Atte, liberta imperiale. Nerone, sposato con Ottavia, figlia del predecessore Claudio e di Messalina, invece di assecondare la politica dinastica della madre, Agrippina Minore, e di cercare di ottenere un erede che avrebbe conferito maggiore legittimità al suo regno, inizia una relazione molto appagante con Claudia Atte, di probabile origine asiatica, che gli rimane fedele fino alla morte. Forse Nerone, provocatoriamente, a un certo punto pensa addirittura di sposarla e, a tale scopo, fu costruita la presunta discendenza regale di Atte, nientemeno che dagli Attalidi, gli antichi sovrani di Pergamo (Svetonio, Vita di Nerone, 28, 2; Cassio Dione, 61, 7, 1). La relazione non può non essere osteggiata da Agrippina Minore, consapevole dell’importanza dinastica del matrimonio tra il figlio e Ottavia e della necessità di un erede legittimo. Ma Nerone non demorde. Tacito spiega questo


attaccamento di Nerone ad Atte con il solito motivo imputabile all’eccessiva libidine dello stesso Nerone che, evidentemente, Atte era in grado di soddisfare con confacenti prestazioni sessuali (non cosí Ottavia).

regali e latifondi Ed è ancora Tacito (Annali, 13, 13, 1) a dirci che Agrippina Minore non può tollerare di avere una liberta come rivale e una serva come nuora. Nerone, invece, si garantisce la complicità di Seneca, che induce Anneo Sereno, un suo parente, a fingersi innamorato di Atte e a dichiararsi l’autore dei regali che il principe faceva di nascosto alla liberta. Forse Nerone è veramente innamorato di Atte. In ogni caso le dona vasti latifondi in Lazio (a Velletri), in Campania (a Pozzuoli) e soprattutto in Sardegna (nell’entroterra di Olbia), assecondando un comportamento in uso presso i potenti di allora. Il rinvenimento di marchi di fabbrica, in massima parte su mattoni, e di iscrizioni funerarie di liberti e di schiavi di Atte documentano la proprietà e l’attività delle officine manufatturiere (che producevano mattoni, anfore e altre categorie di instrumentum) della liberta imperiale, dislocate soprattutto in Gallura. Su questi prodotti la proprietà di Atte è indicata dal bollo: Actes Aug(usti) l(iberta): «Atte liberta imperiale». Inoltre, Atte possedeva alcune residenze a Roma, una delle quali sul Celio, in cui prestavano servizio numerosi schiavi e liberti, anch’essi attestati dalle iscrizioni. Tacito ricorda ancora Atte quando descrive il deteriorarsi definitivo dei rapporti fra Nerone e Agrippina. Il quadro è sufficientemente fosco: madre e figlio sono a una passo dall’incesto e Seneca pensa di ricorrere all’aiuto di Atte che riesce a convincere Nerone che i soldati (fondamentale

base del potere imperiale) non avrebbero tollerato il governo di un principe incestuoso, profani principis imperium (Tacito, Annali, 14, 2). Lo scopo di Tacito è intuibile: per lo storico romano sia Agrippina Minore che Nerone sono due «mostri», da cui non possono che originarsi azioni mostruose, come ho avuto modo di ricordare in una delle rubriche precedenti. In questo preciso contesto l’azione di Atte è meramente strumentale

tempietto (aedicula), oggi conservato nel camposanto monumentale di Pisa, è dedicato in Sardegna, precisamente a Olbia, alla dea Cerere da parte di Claudia Atte, che, evidentemente, si era ritirata in Sardegna dopo il matrimonio tra Nerone e Poppea nel 62 d.C. Tale tempietto è stato interpretato come segno di ringraziamento a Cerere da parte di Atte, perché Nerone era riuscito a scampare a questa congiura. E proprio Atte, rimastagli fedele anche dopo la tragica fine del suo potere, seppellí Nerone, nel 68 d.C., assieme a due nutrici.

obblighi di casta

Busto di Nerone, da Olbia. 54-55/59 d.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. alla morale del racconto. Ma torniamo ai fatti storicamente documentati: nel 65 d.C. Nerone sventa la congiura ordita da C. Calpurnio Pisone, che vedeva coalizzati numerosi e diversi oppositori: aristocratici, ufficiali della guardia pretoriana, intellettuali e liberti. Il piano dei congiurati prevedeva di uccidere Nerone il 19 aprile 65 d.C., durante le feste in onore della dea Cerere (ludi Ceriales). Un piccolo

Quale giudizio possiamo dare, noi oggi, di Atte? Di sicuro, la donna si è dovuta muovere all’interno dei rigidi schemi che la sua origine servile le imponeva e che possiamo ben comprendere, leggendo, per esempio, l’elogio funebre della liberta perugina Allia Potestas, databile al I-II secolo d.C., conservato al Museo delle Terme di Diocleziano a Roma. Il suo patrono Aulo Allio, forse l’autore del testo, ne evidenzia le doti, sia quelle proprie della matrona ideale, sia il suo fascino sessuale (poco matronale), ma il merito che spicca sopra ogni altro è quello di non essersi mai considerata libera. Atte è stata la concubina preferita di un imperatore e questo le ha permesso di essere una donna ricca. La sua intelligenza e le sue capacità imprenditoriali le hanno aperto la possibilità di essere una manager, proprietaria di imprese e di una nutrita familia di schiavi e liberti. Ma la sua origine servile ha condizionato il suo essere donna nella società romana del tempo: il suo ruolo era legato soltanto al desiderio e alla volontà dell’imperatore (da lei riconosciuto anche nel momento estremo della sepoltura) e la sua permanenza a corte non poteva che essere sacrificata alla «ragione di Stato».

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Arrivederci roma...

una moneta gettata nella fontana di trevi per auspicare il ritorno: È quanto fanno, da sempre, i visitatori che si recano nella città eterna. un rito curioso, frutto di una «invenzione» moderna, attestato anche in altri luoghi dell’urbe

«E

siccome, come si suol dire, aiutati che il ciel t’aiuta, dal momento che sto iniziando la stesura dei libri sul mondo agricolo, invocherò dapprima non le Muse – come Omero ed Ennio – ma gli Dèi Consenti, e tuttavia non quelli protettori di città le cui immagini dorate sono nel Foro, bensí quelli che, in particolar modo, guidano gli agricoltori». Cosí, in una versione libera del testo latino, Varrone apre il De re rustica (I, 4), composto nel 37 a.C. Ma chi sono gli Dèi Consenti

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(Dei Consentes in latino, da con-sentio: «decidere di comune accordo») invocati dal letterato romano come auspicio per la riuscita della sua opera?

I magnifici dodici Le fonti parlano di un consiglio di divinità, sei maschili e sei femminili, presieduto da Giove, cosí accoppiate: Giove-Giunone, Nettuno e Minerva, Marte e Venere, Apollo e Diana, Vulcano e Vesta, Mercurio e Cerere. Questo consiglio deriva probabilmente da

un analogo raggruppamento venerato nel mondo etrusco, retto da Tinia (assimilabile a Iuppiter/ Giove); anche il mondo greco aveva i suoi Dodekatheon, ovvero i dodici principali dèi olimpii. Peraltro, analoghi gruppi con il medesimo nome dovevano coinvolgere anche altre divinità preposte a specifici ambiti di protezione, come dimostrano le parole dello stesso Varrone, che non invoca i Consentes cittadini, bensí quelli che si occupavano del mondo agricolo.


Il divino consesso era venerato a Roma in un portico (Porticus Deorum Consentium) situato lungo la via Sacra nel tratto che saliva dal Foro Romano al Campidoglio proprio ai piedi del Tabularium, nel quale erano posti in bella mostra dodici simulacri in bronzo dorato, alloggiati nel portico a coppia e, in determinate occasioni, venivano trasportati in pompa magna in processione. L’edificio sacro loro destinato, scoperto nel 1834, presenta una planimetria e una struttura architettonica alquanto inconsuete: si tratta di sette ambienti su due lati formanti un angolo ottuso e preceduti da un portico colonnato, e sei vani dovevano essere destinati a ospitare le coppie divine. L’insolito tempio, originariamente forse di età repubblicana (III-II secolo a.C.), risale a una Nella pagina accanto: Roma. I resti del portico degli Dèi Consenti, con le monetine gettate dai turisti.

ristrutturazione di epoca flavia, e fu poi nuovamente restaurato nel 367 d.C. dal praefectus urbi Vettio Agorio Pretestato, come riporta l’incisione sull’architrave soprastante le colonne con la dedica agli Dèi Consenti e celebrante la risistemazione sia dell’edificio che delle statue, restituite all’antico splendore.

Il lascito dei turisti Osservando la sommità del portico, restaurata, dall’affaccio del Campidoglio sul Foro Romano, si nota immediatamente una gran quantità di monete moderne – gettate quotidianamente perlopiú da turisti –, che si sono raggruppate in particolare nei fori per il piombo delle grappe antiche che legavano i blocchi tra loro e ad altri elementi sovrastanti, negli interstizi tra blocco e blocco e su tutta la testata dell’architrave. Questo atto, come si può intuire, si ricollega alla nota tradizione di gettare una monetina nella Fontana di Trevi a Roma da parte dei turisti che, cosí facendo,

auspicavano scaramanticamente di tornare quanto prima nella Città Eterna, offrendo un obolo in una delle piú belle fontane della città. È curioso ricordare come quel rituale sia stato «inventato» dall’archeologo Wolfgang Helbig (1839-1915), e come esso derivi, a sua volta, dall’uso antico, testimoniato dai ritrovamenti archeologici, di gettare una moneta nelle acque di fiumi, stagni, pozzi per propiziarsi le divinità preposte a quei luoghi, soprattutto in occasione di viaggi e passaggi fluviali. La riattualizzazione in tempi moderni di questo antico rito, dunque, ebbe, a partire da Helbig, una fortuna notevole. E il caso del portico degli Dèi Consenti ne è uno tra i numerosi esempi.

per saperne di piÚ Lucia Travaini, Le monete a Fontana di Trevi: storia di un mito, in Rivista Italiana di Numismatica, 101, pp. 251-259.

LO LEGGI COME TI PARE

IN ORIZZONTALE...


i libri di archeo

DALL’ITALIA Henner von Hersberg, Paul Zanker (a cura di)

Architettura romana. Le città in italia Storia dell’architettura italiana, Electa, Milano, 444 pp., ill. b/n 120,00 euro ISBN 978-88-370-8411-0 www.electaweb.it

La storia dell’architettura italiana curata da Francesco Dal Co per Electa si arricchisce di un nuovo contributo, che ne analizza le forme assunte durante l’età romana. E si tratta, dunque, di un capitolo fondamentale, anche perché, come scrivono gli autori nell’Introduzione, fatti salvi i casi delle città di nuova fondazione, come quelle sorte in epoca rinascimentale o fascista, non c’è centro abitato della Penisola che non conservi tracce di quel periodo storico. Tracce che possono essere individuate sia sotto forma di edifici, sia nell’assetto urbanistico, che spesso ricalca quello definito in epoca antica. La trattazione dell’argomento è ordinata in tre sezioni: nella prima vengono discussi temi

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di carattere tipologico, con contributi che, per esempio, analizzano i casi delle città portuali o quelli delle grande ville residenziali; si passa quindi a un’analisi delle strutture a oggi note, suddivisa per regioni; mentre l’ultima parte del volume scende nel dettaglio di alcuni casi particolarmente significativi, tra cui quelli di Pompei ed Ercolano, Rimini, Brescia e Aquileia. Se ne ricava un quadro assai articolato e dettagliato, che permette di cogliere gli aspetti caratterizzanti dell’architettura romana. E questa, a dispetto di una generalizzazione piú volte sostenuta – secondo la quale i Romani sarebbero stati soprattutto eccellenti ingegneri, piú che architetti – si può apprezzare, oltre che nella fissazione di canoni eccezionalmente duraturi, anche nella sua poliedricità e nella capacità di rispondere con soluzioni «su misura» ai problemi derivanti dalle diverse tipologie ambientali. Altro elemento giustamente sottolineato è l’importanza dei messaggi affidati agli edifici civili e religiosi, i cui apparati decorativi non rispondevano unicamente al gusto, ma erano concepiti come veicoli dell’ideologia imperiale. Un’opera, dunque, che offre molteplici chiavi di lettura e può condurre a guardare con occhi diversi monumenti che

sono presenze familiari nel paesaggio urbano italiano. Isabella Baldini, Anna Lina Morelli (a cura di)

luoghi, artigiani e modi di produzione nell’oreficeria antica Ornamenta 4, Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, Ante Quem, Bologna, 385 pp. ill. col. e b/n 20,00 euro ISBN 978-88-7849-077-2 www.antequem.it

Avvalendosi dei contributi di una ventina di studiosi italiani e stranieri, il volume offre una panoramica di notevole interesse, spaziando all’interno del vasto mondo dei gioielli e della numismatica. Due mondi peraltro interrelati, non solo

archeologici e, dal punto di vista geografico, si concentrano soprattutto sull’area italiana, ma includono anche casi riferibili alla Grecia e al mondo bizantino. È importante sottolineare anche il taglio interdisciplinare con cui l’argomento viene affrontato: gli autori, infatti, forti delle rispettive esperienze, approcciano il tema dell’oreficeria antica secondo punti di vista diversi, utilizzando per la lettura delle testimonianze di volta in volta descritte l’epigrafia, la storia, l’archeologia, la numismatica, ma anche l’analisi delle tecniche adottate nei laboratori degli orafi e nelle zecche. Maurizio Pasquero

i celti della valle del po negli eserciti di roma Ausiliari, legionari, pretoriani dal II secolo a.C. al III secolo d.C. Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini, 132 pp., ill. b/n 19,00 euro ISBN 978-88-8474-337-4 www.ilcerchio.it

perché monete e monili erano spesso realizzati con le medesime materie prime, ma anche per la diffusione e il successo delle oreficerie monetali. Gli studi proposti abbracciano un orizzonte cronologico che dall’età antica giunge fino alle elaborazioni ottocentesche di materiali

Per un impero come quello romano, che visse in uno stato quasi perenne di belligeranza, disporre di milizie numerose ed efficienti fu un’esigenza vitale. Alla quale si rispose con arruolamenti di massa, che fecero dell’esercito una vera e propria comunità multietnica. Tra quelli che prestarono servizio come legionari molti furono uomini di origine celtica ed è a loro che Pasquero


dedica il suo studio. Una ricostruzione attenta e dettagliata, che rintraccia la presenza di elementi celtici sulla base delle testimonianze offerte dall’archeologia, dall’epigrafia e dalla letteratura antica.

dall’estero Manuel Domínguez-Rodrigo

stone tools and fossil bones Debates in the Archaeology of the Human Origins Cambridge University Press, Cambridge, 376 pp., ill. b/n 65,00 GBP ISBN 978-1-107-02292-8 www.cambridge.org

Il curatore del volume, docente all’Università Complutense di Madrid, ha riunito idealmente intorno a un tavolo colleghi spagnoli e stranieri per discutere del valore da attribuire ai piú antichi strumenti lavorati dall’uomo e, soprattutto, verificare se le ipotesi fin qui sostenute possano essere ancora ritenute valide. Tradizionalmente, infatti, lo studio dei primi utensili riconducibili agli

Ominidi non ha costituito soltanto una speculazione di carattere materiale, ma è stato anche considerato come la strada da seguire per giungere alla ricostruzione del carattere e del comportamento di questi nostri antichissimi predecessori: una sorta di «fammi vedere in che modo lavori la pietra e ti dirò chi sei». E, soprattutto, i reperti normalmente rinvenuti insieme agli utensili, vale a dire i resti di fauna, sono stati spesso considerati come una realtà associata, ma comunque distinta. L’operazione di Domínguez-Rodrigo e degli studiosi che hanno contribuito al volume muove invece verso la considerazione globale degli strumenti e dei fossili, vista come chiave di lettura decisiva. Un approccio, insomma, che potremmo definire di tipo «olistico», capace di offrire spunti di riflessione di notevole interesse e che cerca di afferrare i contorni di un fenomeno affascinante e sfuggente al tempo stesso. (a cura di Stefano Mammini)


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