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2013
PARMA
ANTICA CINA / 4 statI COMBATTENTI
TELL HALAF
MITI GRECI / 4 EDIPO
BEMBO
speciale ANTICITERA
€ 5,90
Mens. Anno XXIX numero 4 (338) Aprile 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
w. ar
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archeo 338 aprile
CIVILTà DELLA CINA
L’ETà DEgli stati COMBATTENTI
LUOGHI DELLA LEGGENDA
I MISTERi DI TELL HALAF
MOSTRE
LE ANTICHITà DI PIETRO BEMBO
SPECIALE
emersi dal gli
eroi
mare
www.archeo.it
editoriale
novecento
Tra coloro che si affrettarono a rendere omaggio al nuovo museo inaugurato dall’orientalista Max von Oppenheim vi furono il re dell’Iraq e della Siria Faisal I, il drammaturgo Samuel Beckett e perfino la già celebre Agatha Christie. Nel luglio del 1930, in un edificio industriale abbandonato nel quartiere berlinese di Charlottenburg, il barone aveva allestito le enormi statue in basalto, da lui stesso scoperte vent’anni prima a Tell Halaf, una località della Siria settentrionale, e trasportate, caricando 13 vagoni ferroviari e poi via mare, da Aleppo fino in Germania. Tra le sculture vi era quella di una donna seduta, dai tratti severi, con due lunghe trecce che le scendevano ai lati del volto, segnato da un naso aquilino: «la mia Venere», cosí von Oppenheim la introduceva ai suoi ospiti. L’incredibile vicenda degli «dèi» di Tell Halaf attraversa il Novecento come una sinistra metafora del secolo stesso che li ha visti riemergere dalla polvere: con l’avvento delle leggi razziali, von Oppenheim fu costretto a difendere le «sue» sculture con le unghie e con i denti, affrontando insinuazioni antisemite – era di origini ebraiche – da parte di coloro che volevano impadronirsene (tra cui il direttore dei musei berlinesi) e, addirittura, perorando di fronte a un comitato di gerarchi nazisti la presunta «arianità» degli antichi reperti. Sarà la seconda guerra mondiale, infine, con un bombardamento nel novembre del 1943, a ridurre le grandi sculture, vissute nascoste ma integre per tremila anni, a un cumulo di macerie. Eppure, l’esistenza degli «dèi» non finirà qui, varcherà addirittura la soglia del secolo nuovo. Già due anni prima della sua morte, avvenuta nel 1946, Max von Oppenheim aveva scritto con profetico ottimismo che «sarebbe cosa straordinaria se i singoli pezzi potessero, un giorno, essere ricomposti...». E cosí, come possiamo leggere nel nostro servizio (alle pp. 52-64) l’emblematica parabola degli «dèi di Tell Halaf» si prolunga fino ai giorni nostri; mentre un’altra, grande avventura archeologica, anch’essa tornata alla ribalta proprio in questi mesi e che raccontiamo nello speciale di questo numero, ci riporta nuovamente indietro nel tempo, a un limpido giorno di primavera del 1900… Andreas M. Steiner La «Venere» di Tell Halaf oggi, insieme agli scienziati della Technische Universität di Berlino, protagonisti del suo resaturo.
Sommario Editoriale
Novecento
i luoghi della leggenda
3
Tell Halaf, il ritorno degli antenati perduti
di Andreas M. Steiner
Attualità notiziario
6
scavi Interventi di archeologia preventiva a Savona svelano importanti testimonianze dell’età romana, tra cui tracce di una intensa attività vitivinicola 6 parola d’archeologo Il Sovrintendente Capitolino Umberto Broccoli spiega le ragioni dell’abbandono in cui versa Villa Aldobrandini
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di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
mitologia, istruzioni per l’uso/4 L’enigma della successione
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di Daniele F. Maras
38 12
mostre La magia di Ercolano rivive nelle fotografie di Luciano Pedicini eposte nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli 16
dalla stampa internazionale Il nuovo corso politico imboccato dall’Egitto mette a rischio la tutela del patrimonio? 26
da atene
Sulla strada della discordia
28
di Valentina Di Napoli
scoperte Parma
Scavando s’impara
32
di Giuseppe M. Della Fina
civiltà cinese/4
Stagioni di guerra
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di Marco Meccarelli In copertina la testa della statua bronzea nota come Efebo di Anticitera, recuperata nel 1900-1901 nelle acque al largo dell’isolotto greco. 340-330 a.C.
Anno XXIX, n. 4 (338) - aprile 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo
Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Daniele Arobba è direttore del Museo Archeologico del Finale. Andrea Augenti è professore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Bologna. Francesca Bulgarelli è direttore archeologo presso Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Rosanna Caramiello è professore ordinario di botanica forestale all’Università di Torino. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Stephen Fox è archeologo e docente di storia dell’arte. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Mimmo Frassineti: copertina e pp. 72/73, 74/75 (sfondo), 76/77, 77, 78-85 – Cortesia TU-Pressestelle/Dahl: p. 3 – Cortesia Soprintendenza BA Liguria: pp. 6-10 – Doc. red.: pp. 12 (alto), 13-15, 26, 27, 38, 40, 43 (alto), 45, 47, 48, 56, 57, 70, 104, 105, 107, 111 (centro) – Cortesia Sovrintendenza Capitolina/Ufficio Comunicazione e Relazioni Esterne: p. 12 (basso) – Cortesia Arsenale Editrice/Luciano Pedicini: pp. 16-18 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 19, 20, 86, 88-102 – Cortesia 9a Soprintendenza Bizantina (Ministero Ellenico alla Cultura, Educazione, Sport e Affari Religiosi): pp. 28-29 – Cortesia Soprintendenza BA Emilia-Romagna: pp. 32-37 – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: pp. 39, 44 – Corbis: STR/Epa: p. 40/41; Liu Liqun: p. 42; Todd Gipstein: p. 43 (basso); Asian Art & Archaeology: p. 46, 49; Araldo de Luca: p. 103 – DeA Picture Library: pp. 41, 106; G. Dagli Orti: pp. 58/59, 66/67, 68, 69; S. Vannini: p. 87 – Cortesia Staatliche Museen zu Berlin: pp. 54 (sinistra), 64; Olaf M. Teßmer: pp. 52, 63 (alto, sinistra e destra), 63 (basso, destra); Max Freiherr von Oppenheim-Stiftung, Köln: pp. 53, 54 (alto), 55, 60, 63 (basso, sinistra); Stefan Geismeier: p. 62; Nadja Cholidis: p. 63 (centro) – Mondadori Portfolio: Picture Desk
mostre/1 Cortona
Il restauro e la storia 86
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di Giuseppe M. Della Fina
mostre/2
Pietro Bembo
Il diletto delle anticaglie
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di Stephen Fox
Rubriche scavare il medioevo
Damnatio memoriae in terra vichinga 106 di Andrea Augenti
l’ordine rovesciato delle cose
La fede nella roccia 108 di Andrea De Pascale
l’altra faccia della medaglia
Feste e scudi sacri
speciale 110
di Francesca Ceci
libri Images: p. 71 – Da The Antikythera Shipwreck (catalogo della mostra), Atene 2012: pp. 74, 76 (basso) – Griff Wason e Tony Freeth: ricostruzione grafica alle pp. 84/85 – Andrea De Pascale: pp. 108/109 – Niels Elgaard Larsen: p. 109 (basso) – Cortesia dell’autore: pp. 110, 111 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 28, 40, 57, 74/75, 105.
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Anticitera
Quegli eroi emersi dal mare
Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1
Con riferimento all’articolo Veneti antichi (vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013), desideriamo precisare che le foto degli oggetti pubblicati alle pp. 88-90 sono di Fabrizio Ragazzi.
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di Valentina Di Napoli
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n oti z i ari o SCAVI Liguria
i romani a savona
D
a tempo è riconosciuto lo straordinario rilievo del territorio savonese sotto l’aspetto archeologico, con attestazioni comprese tra la preistoria – basti ricordare le grotte del Finalese – e il Medioevo; in questi ultimi anni, anche in virtú dell’applicazione delle norme sull’archeologia preventiva, è stato possibile ampliare le conoscenze anche nel campo della protostoria e dell’età romana. Scoperte fondamentali sono state compiute nei territori dei due municipia romani che interessavano l’attuale provincia savonese, Albingaunum (Albenga) e Vada Sabatia (Vado Ligure); in particolare, il rinvenimento di
6 archeo
In alto: Legino, Savona. L’area indagata, in cui sono emersi resti di un impianto rustico produttivo. Nel riquadro, la struttura identificata come recinzione. In basso, da sinistra: due immagini della recinzione in corso di scavo; il mosaico bicromo scoperto in un ambiente adiacente alla cella vinaria; mosaico in calcare grigio riferibile alla fase di frequentazione piú antica del complesso.
insediamenti a carattere rustico produttivo nel tratto oggi compreso tra Albisola e Vado Ligure ha consentito di mettere a fuoco la rete insediativa sul territorio e gli aspetti del popolamento e della produzione in età romana. Proprio a Savona era ancora scarsamente documentata un’eventuale fase di età romana, misconosciuta anche per il relativo silenzio delle fonti antiche, limitate alla citazione di Livio (Savo oppidum alpino) in relazione al ruolo esercitato dal territorio sabazio alleato di Cartagine nella seconda guerra punica, e all’elenco delle città distrutte da Rotari stilato dal presunto Fredegario. Dal 2006 la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria svolge indagini preliminari e assistenza archeologica che hanno affiancato i lavori per la realizzazione di un nuovo complesso residenziale a Legino, quartiere a ponente della città. Il riconosciuto interesse archeologico della zona ha portato a specifiche prescrizioni sin dall’avvio della procedura edilizia. Legino, infatti, è uno dei poli storicamente e paesaggisticamente piú rilevanti del sistema urbano, sede nel Medioevo e nel Rinascimento di ville – insieme
residenze di villeggiatura e aziende agricole – edificate dalle nobili famiglie savonesi e genovesi in questa conca, prediletta per le coltivazioni specializzate e per la prossimità alla costa e ai rilievi che portavano alla Val Bormida e quindi al Piemonte, attraverso una rete stradale di antica origine. Lo scavo estensivo su un’area di 2000 mq circa, saggi e prospezioni geognostiche hanno portato in luce vani e strutture riferibili a un esteso impianto a carattere rustico produttivo, articolato con ambienti dislocati su piani a quote decrescenti lungo il pendio collinare. Nella parte inferiore sono stati individuati ambienti quadrangolari a destinazione prevalentemente artigianale e produttiva, uno dei quali conservava una vasca realizzata con laterizi, forse funzionale alla depurazione dell’argilla. Gli ambienti insistevano sui resti di una fase piú antica, documentata da ampie porzioni di mosaico a tessere in calcare grigio; reperti ceramici (nella tradizione della ceramica grezza decorata a incisioni) e numismatici consentono una datazione tra la fine del I secolo a.C. e il successivo. Singolare, in questo livello, è il ritrovamento di tre fibule in bronzo
in buone condizioni di conservazione: diffusi nell’Europa settentrionale e in area alpina – e secondo parte della critica assegnabili all’abbigliamento militare e quindi alla presenza di legionari –, questi accessori indicherebbero piuttosto il rinnovarsi della moda secondo valori sociali e culturali trasmessi dalla romanizzazione, favoriti dal relativo benessere economico raggiunto in età augustea. Gli ambienti del complesso si affacciavano verso il fondo della valletta dove una bassura, soggetta a impaludarsi a seguito delle piene dei numerosi corsi d’acqua, presentava sistemazioni messe in atto per bonificare il terreno, con gettate di pietrame, ciottoli e frammenti di laterizi e fittili. Materiali assegnabili al IV-V secolo d.C., tra cui anfore e recipienti in pietra ollare, datano al tardo-antico le ultime, sporadiche frequentazioni dell’area. Eccezionale è la scoperta, nel corso delle indagini preventive all’ampliamento del cantiere edile, di una cortina muraria in pietra, conservata per una lunghezza di circa 80 m e un’altezza di 2; la struttura è stata interpretata come recinzione della proprietà ed è relativa a una fase del II-III secolo
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n otiz iario
A sinistra: resti del torchio vinario. In basso, a sinistra: resti di una vasca e di una colonnetta in laterizi. In basso, sulle due pagine: il nuovo quartiere di Legino con, al centro, l’area di scavo. del complesso. Per motivi di conservazione e salvaguardia, considerata l’ubicazione sul fondo della conca, la muratura, dopo opportuni consolidamenti e protezioni, è stata reinterrata. Ulteriori e inattesi rinvenimenti sono inoltre apparsi con la prosecuzione delle indagini verso la sommità della collinetta, ai margini della quale è in costruzione il nuovo quartiere: si tratta di un settore caratterizzato da ambienti adibiti alla lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli in cui è riconoscibile un vano che per la presenza della base di un torchio potrebbe essere identificato come locale per la premitura. Tra i macroresti vegetali rinvenuti sul piano di calpestio appartenenti a forme coltivate, numerosi vinaccioli e pedicelli di Vitis vinifera
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ssp vinifera, attribuibili a resti della pigiatura, potrebbero convalidare l’ipotesi che nel vano si svolgessero attività di torchiatura dell’uva (vedi box a p. 10). Uno spazio allungato adiacente al vano del torchio era forse destinato ad accogliere i dolia per la conservazione del vino o dei cereali, come attestano frammenti di pareti e di orlo dei grandi contenitori fittili. L’attività vitivinicola del sito, menzionata nei documenti medievali e ancora attiva sino a pochi anni or sono, anche grazie a particolarità climatiche piú favorevoli all’impianto della vite che all’oliveto, trova riscontro anche per l’età romana, confermando i numerosi rinvenimenti che portano a ravvisare una spiccata, e precoce, vocazione vitivinicola proprio nel settore orientale del Savonese: impianti per la produzione del vino sono stati riconosciuti nel settore rustico della grande villa-mansio di Alba Docilia ad Albisola Superiore, oggetto di scavi negli anni Cinquanta del secolo scorso, e, di recente, nello scavo di una fattoria a S. Ermete nella Valle di Vado presso Vado Ligure. In aderenza alla cella vinaria, ricavata a una quota ribassata, è stato rinvenuto un vano ancora dotato di pavimento musivo in tessellato bianco, profilato da cornici nere. È una scoperta di grande rilevanza, in quanto, benché
in bicromia, il mosaico al momento è l’unico rinvenuto ancora in situ nella Liguria marittima tra Genova e Albenga. Realizzato con tecnica accurata in piccole tessere in calcare bianco di dimensioni costanti (1 x 1 cm), stese su una preparazione in cocciopesto retrostante la malta di allettamento, il mosaico riveste l’intero ambiente a pianta rettangolare (4 x 3 m) corredato nei due lati brevi da altrettanti piccoli vani pavimentati in cementizio bianco, in uno dei quali è individuabile un armadio e nell’altro uno spazio di servizio. La conservazione del manto musivo appare buona, benché alcune lacune apparentemente superficiali abbiano intaccato in
realtà gli strati preparatori. Le pareti dell’ambiente mosaicato erano decorate a vivace policromia, di cui si mantengono tracce di colore rosso, rosa e azzurro nei crolli degli intonaci sopra il pavimento, mentre la disposizione del crollo dei laterizi di copertura suggerisce l’esistenza di un tetto a unico spiovente. Resti di colonne in laterizio rinvenuti oltre la soglia, nei vani alle quote inferiori, sono indizio di un’apertura con colonnato verso una corte interna. La vita dell’insediamento, secondo i dati stratigrafici e i reperti archeologici, può collocarsi tra lo scorcio del I secolo a.C. e il III secolo d.C., quando il sito viene abbandonato, con sporadiche
frequentazioni tarde, limitate agli interventi di ripristino della bonifica sul fondo dell’avvallamento. L’assenza di sepolture tarde, che in altri casi sfruttavano i resti collassati degli abitati romani, ha favorito la buona conservazione delle strutture antiche. La possibilità di proseguire le indagini, una volta assicurate le necessarie risorse, potrà meglio precisare la tipologia del vasto impianto, che al momento possiamo riferire a una villa a corte con economia agricola e produttiva, composta da piú edifici e strutture e ubicata sui primi rilievi collinari della conca leginese. Il fitto popolamento in età romana con nuclei a carattere agricolo, ville
rustiche e fattorie è testimoniato dalla persistenza di toponimi prediali come Lusignano, attestato nel Savonese anche ad Albenga, e Viriano, citati nei documenti medievali, e dalla presenza di poli emergenti sul territorio rappresentati da edifici di culto di antica dedicazione (S. Anastasia, SS. Pietro e Paolo, S. Ambrogio). Tra le specifiche caratteristiche del sito, che giustificano il precoce interesse insediativo, spicca la valenza stradale: l’intero settore era interessato da direttrici di collegamento tra la costa e il valico e di qui passava la viabilità parallela alla costa che collegava Savona con Vado, dove si congiungeva con la via Aemilia
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produttivo e pars urbana, a Vado Ligure e nell’insediamento leginese. Le analisi hanno confermato per questi laterizi la produzione con argille locali, presenti in natura nell’area tra Quiliano, Vado Ligure e Legino, dove sono state localizzate officine produttrici di ceramica comune da cucina e da dispensa. Nell’alveo del rio, presso i resti di una struttura con paramento eseguito a piccoli elementi litici regolari, secondo la tecnica galloligure detta petit appareil, è stata messa in luce una nuova tomba alla cappuccina, in parte sconvolta dall’attività torrentizia. Dell’inumato si conservavano parzialmente le estremità inferiori, mentre il resto dello scheletro era stato asportato dalle acque. Accanto alla gamba sinistra era collocata una lucerna a disco, recante l’effigie di un personaggio maschile con lunga barba e copricapo di foggia egittizzante, simile alla rappresentazione di Dioniso barbato coronato dalla nemes. Sotto alla lucerna appariva
Vite e vino nel Ponente ligure
Nella Liguria di Ponente, l’interesse alimentare per l’uva da parte dei primi agricoltori della regione è documentato già agli inizi del VI millennio a.C., ma solo con la romanizzazione dell’area, nel II secolo a.C., si diffonde la coltivazione della vite domestica. La ricerca archeobotanica nel sito di «Legino-Villette» ha riguardato micro- e macroeresti vegetali contenuti nei sedimenti (polline e spore, carboni lignei e semi/frutti). Lo studio dei carboni lignei ha evidenziato la presenza di piante fruttifere, in particolare di prunoidee e maloidee (susini, peri e meli), olivo e carrubo, che possono essere l’esito di piccole accensioni di ramaglie ottenute da potature di alberi. L’indagine sui semi e frutti ha messo in luce sia cariossidi di cereali, sia resti di ortive (bietola) e di piante da frutto e anche di vite. Di particolare interesse è il ritrovamento di numerosi semi di vite non carbonizzati, conservati nel terreno reso umido da una falda freatica superficiale. Sono state individuate tre categorie di vinaccioli: alla prima appartengono pochi semi tozzi riferibili alla specie selvatica; alla seconda si ascrivono resti di forma intermedia e infine alla terza, vinaccioli allungati tipici della vite domestica appartenenti a cultivar già ben selezionate. Tali rinvenimenti sono una prova ulteriore delle operazioni di torchiatura dell’uva che si svolgevano nel sito. Daniele Arobba, Rosanna Caramiello
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Vite domestica
paleobotanica
Vite selvatica
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Scauri, poi Iulia Augusta, proveniente da Acqui attraverso il Colle di Cadibona. Alcuni tra gli itinerari antichi – la Tavola Peutingeriana, l’Anonimo Ravennate e Guido – collocano tra Albisola Superiore e Vado Ligure la località di Vico Virginis, che già Nino Lamboglia identificava proprio con Legino. Sulla medesima direttrice era allineato, a poche centinaia di metri dal nucleo insediativo, un vasto sepolcreto, portato in luce a piú riprese tra la metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento dalle piene del torrente Molinero. Dalle relazioni delle Notizie degli Scavi di Antichità sappiamo trattarsi di tombe a cassa laterizia e alla cappuccina; i materiali sono dispersi, ma si conservano alcuni laterizi caratterizzati dal bollo M.P.SCRIBON, diffuso nel vicino complesso di S. Pietro in Carpignano a Quiliano, parco archeologico naturalistico istituito nel 2010 su delibera della Regione Liguria, dove è stato esplorato un insediamento con settore
una massa metallica degradata, la cui sagoma rammentava la suola di una calzatura. Il restauro, eseguito presso il Laboratorio di restauro della Soprintendenza, ha confermato che la crosta di ossidazione inglobava i clavi disposti a file longitudinali sulle suole delle robuste calzature, ordinatamente collocate, sovrapposte, accanto al defunto. L’intento della Soprintendenza di conservare almeno in parte le strutture dell’area archeologica individuata a Legino mediante un’azione di tutela e valorizzazione ha trovato adesione nella volontà dell’amministrazione comunale di Savona, intenzionata a restituire alla città il tassello mancante nel suo nobile percorso storico. Lo scavo, finanziato/sostenuto dal Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna, è diretto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria ed è condotto da Cooperativa Archeologia di Firenze. Francesca Bulgarelli
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Dall’8 al 13 giugno ALLA SCOPERTA DI UN PARADISO ARCHEOLOGICO E STORICO-ARTISTICO: DAI SANTUARI MEGALITICI ALLE CATACOMBE CRISTIANE, DALLE CATTEDRALI BAROCCHE ALLE ARCHITETTURE MILITARI DEI CAVALIERI DI SAN GIOVANNI Il viaggio sarà accompagnato e guidato da un archeologo e collaboratore di «Archeo»
programma 1° giorno – sabato 8 giugno Roma/Malta Partenza da Roma Fiumicino con volo Air Malta KM 613 delle 11,00 con arrivo a Malta alle ore 12,25. Pranzo libero. Trasferimento con pullman privato all’hotel Golden Tulip Vivaldi e check in. Nel pomeriggio breve giro della capitale, La Valletta. Al termine, rientro in hotel. Cena e pernottamento.
2° giorno – domenica 9 giugno Malta Prima colazione in albergo. Mattinata dedicata alla visita del Museo Nazionale Archeologico della Valletta. Pranzo in ristorante. Escursione a sud di Malta per una visita del complesso dei templi di Hagar Qim, il sito preistorico piú importante dell’isola. Si prosegue poi con la visita dei resti di un altro gruppo di templi, quelli di Mnajdra, situati su un scogliera, a poche centinaia di metri dal tempio principale. Rientro in hotel per la cena e il pernottamento.
3° giorno – lunedí 10 giugno Malta In mattinata visita all’ipogeo di Hal Saflieni. Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, è un complesso di camere sotterranee, forse utilizzato sia come luogo di sepoltura che come tempio. Proseguimento con i templi megalitici di Tarxien, risalenti al 3600-2500 a.C. Sono costituiti da quattro strutture e sono famosi per i dettagli dei loro intagli, che includono animali domestici scolpiti in rilievo, altari e paraventi decorati con motivi a spirale e altri disegni. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio visita di Ghar Dalam, sito neolitico in cui sono state scoperte le tracce del piú antico insediamento umano di Malta, risalente a 7400 anni fa
circa. Proseguimento con il sito fenicio-punico di Tas Silg, scavato da una missione italo-maltese. Rientro in albergo per la cena e il pernottamento.
4°giorno – martedí 11 giugno Malta/Gozo/Malta Prima colazione in albergo. Escursione a Gozo, la vicina isola dell’arcipelago maltese (20 min. circa per la traversata). La visita inizia con i templi megalitici di Ggantija (3600-3000 a.C.): complesso inserito anch’esso nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Si tratta di due templi racchiusi all’interno di un muro perimetrale megalitico. Si raggiunge poi la capitale Victoria, al centro dell’isola, e si visita il Museo Archeologico. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio escursione naturalistica nella parte nord-occidentale, dove si potranno ammirare alcune caratteristiche formazioni come il Fungus Rock, che prende il nome da un fungo particolarmente noto per le sue proprietà medicinali. Quindi per Dweijra Bay, dove si trova l’enorme arco di 50 m che si protende nel mare detto «Finestra Azzurra». Rientro a Malta e da qui in albergo per la cena e il pernottamento.
5° giorno – mercoledí 12 giugno Malta Prima colazione in albergo. Escursione che porterà alla parte centrale di Malta, dominata dalla cittadella antica di Mdina. Passeggiata per i vicoli della «citta silenziosa» e impareggiabile vista dell’isola dai suoi bastioni. Si procede per Rabat. Breve giro della città e visita del Museo Archeologico, della Villa Romana e delle catacombe paleocristiane. Pranzo in ristorante. Pomeriggio a disposizione per il relax o per eventuali escursioni facoltative. Cena e pernottamento in albergo.
6° giorno – giovedí 13 giugno Malta/Roma Prima colazione in hotel. In tempo utile trasferimento in pullman privato in aeroporto per la partenza del volo KM 612 delle ore 8,35 per Roma. Arrivo all’aeroporto di Fiumicino alle ore 10,00.
DESCRIZIONE Quota di partecipazione per persona (minimo 15 partecipanti) € 1.400,00 Supplemento singola Tasse aeroportuali
€ 100,00 € 43,00
Assicurazione Allianz Global Assistance, medico, bagaglio e annullamento € 21,00 Servizi compresi: • Passaggi aerei internazionali Air Malta in classe economy con franchigia bagaglio di 20 kg a persona • Sistemazione in camera doppia nell’hotel di categoria 4* indicato o similare •Trattamento di pensione completa, dalla cena del 1° giorno alla colazione del 6° giorno: mezza pensione (prime colazioni e cene) in albergo, con pranzi in ristorante •Trasferimenti da/per aeroporto e trasporti come indicato in programma con pullman privato • Visite come da programma con guida in italiano • Ingressi ai luoghi di visita indicati in programma • Assistenza dei Corrispondenti in loco • Accompagnatore specialistico dall’Italia Non sono inclusi: • mance, bevande, spese di carattere personale e tutto quanto non espressamente indicato nei servizi compresi Condizioni Generali da cataloghi Lombard Gate 2012/13 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
la triste storia di villa aldobrandini
Al centro di Roma si trova uno storico – e bellissimo – giardino (da cui si gode di una straordinaria vista sulla città), che accoglie sculture e altri reperti antichi all’interno di un parco di piante rare e alberi d’alto fusto (tra cui un maestoso Ginco Biloba). Ma com’è possibile che un luogo di tale pregio e, per giunta, in questa posizione, versi da anni in uno stato di deprecabile abbandono? Lo abbiamo chiesto al Sovrintendente Capitolino, Umberto Broccoli
A
pochi passi dai Mercati di Traiano a Roma, e non lontano dalla piazza del Quirinale, sorge una pregiata villa del XVI secolo, immersa in vasto parco alberato: Villa Aldobrandini. Un luogo ameno, nel cuore del rione Monti, ma dall’aria dimenticata. Che, a dispetto della centralità topografica e dell’importanza storica, rimane isolato e poco curato. La villa, secondo lo schema cinquecentesco, comprendeva un edificio, un giardino segreto e un
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parco, arricchito poi con alberi d’alto fusto ancora oggi esistenti. Il giardino della villa è puntellato, oltre che da rovine archeologiche, da marmi e arredi antichi (originali o in copia), parte della collezione che la famiglia Aldobrandini iniziò a raccogliere già dai primi del Seicento, come documentano gli inventari. La collezione archeologica comprende quadri, statue, sarcofagi, marmi, fontane, persino panchine da giardino. E pitture di epoca romana, come le
cosiddette «Nozze Aldobrandini»: raro affresco originale di età augustea (seconda metà del I secolo a.C.), oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. I pezzi piú significativi della collezione sono custoditi all’interno di Villa Aldobrandini, nel padiglione del Cinquecento realizzato dall’architetto Lambardi (quello che si affaccia su largo Magnanapoli). Negli anni Venti del secolo scorso, la villa fu ridotta per fare spazio al tracciato viario della
Nella pagina accanto, in alto: una veduta di Villa Aldobrandini, ubicata a Roma, non lontano dai Mercati di Traiano; in basso: Umberto Broccoli, Sovrintendente Capitolino. In questa pagina: un coperchio di sarcofago (in alto) e la replica di una statua d’età classica. costruenda via Nazionale, e lasciata a quota superiore rispetto al nuovo piano stradale. Durante gli scavi per l’apertura della strada, emersero muri antichi e resti archeologici ancora oggi visibili nel parco della villa. Fu allora che gli Aldobrandini persero interesse per la residenza e, nel 1926, la vendettero. Oggi ne è proprietario il Comune di Roma, ma l’aspetto della luogo è decisamente meno ameno del passato. Ne parliamo con il Sovrintendente Capitolino, Umberto Broccoli. Villa Aldobrandini è un luogo forse poco conosciuto, ma significativo dal punto di vista storico e artistico: ci vuole, per prima cosa, spiegare l’importanza del sito, Sovrintendente? «È una villa che ha una storia antichissima, che arriva fino ai nostri giorni: inizialmente apparteneva alla famiglia Vitelli. I primissimi documenti che la citano, nel 1566, parlano di hortus cum vinea et casamentis: una vigna con orti ed edifici, acquistata da monsignor Giulio Vitelli. In quegli anni l’architetto Carlo Lambardi arricchí la residenza, ampliandone il portone d’ingresso con una loggia». Nel Seicento il nuovo proprietario, il cardinale Pietro Aldobrandini, grazie al suo architetto di fiducia, Giacomo della Porta, abbellí il palazzo con scalinate e logge, e decorò il giardino con alberi d’alto fusto, ancora oggi esistenti. I viali furono arredati con statue (attualmente in copia), vasi, cippi, sedili, alcune fontane e una peschiera, oggi non piú conservata… «La villa è uno di quegli insediamenti suburbani,
collocati però nel centro della città di Roma: queste ville di campagna, site all’interno delle Mura Aureliane, nascono proprio nel Medioevo e daranno il volto alla Roma del Rinascimento. Le ville di campagna ubicate in mezzo alla città sorgono a partire da quando i Goti, durante le invasioni barbariche, tagliano gli acquedotti e “desertificano” Roma». Oggi, invece, a essere «desertificata» sembra sia proprio Villa Aldobrandini, almeno a
giudicare dall’aspetto di desolato abbandono con cui si presenta al visitatore. Manca una sorveglianza fissa, il giardino e gli arredi non sono curati, la zona è frequentata in prevalenza da bande di giovani, ladruncoli, spacciatori. Qualche residente col cane. Insomma, non è uno di quei parchi dove le mamme porterebbero i bambini a giocare, eppure è un luogo splendido… «Sí, è una villa fuori percorso. Anche perché l’ingresso, situato sul lato della Banca d’Italia, in via
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Mazzarino, non è molto visibile: è periferico. Eppure siamo nel cuore di Roma: la villa ha un affaccio incredibile sui mercati di Traiano e sulle Mura Serviane, è architettonicamente pregiata e custodisce una collezione archeologica». Ma pone un problema di decoro urbano. Non è un luogo custodito, né sicuro... «Diciamo che non è quasi sicuro… Comunque sí. Questo è un problema reale, che riguarda non solo Villa Aldobrandini, a Roma. Anche il Campidoglio era un luogo problematico, prima che lo bonificassimo. Non aiuta la villa in questione il suo essere “periferia” all’interno della città: si entra di lato, è a quota soprelevata rispetto alla strada, sembra distaccata dal resto, a causa del taglio di via Nazionale». Non sarebbe il caso di stabilire un presidio continuo di custodia della villa, vista anche la vicinanza della Banca d’Italia e del Quirinale? Inoltre, pensa che, a questo fine, si
possa coinvolgere in qualche modo la cittadinanza, attraverso associazioni di volontari, per esempio? «Abbiamo sperimentato questo modello al Campidoglio e a Villa Torlonia, dove facciamo lavorare i detenuti in semilibertà. Avrei voluto includere anche Villa Aldobrandini nel progetto, ma non abbiamo fatto in tempo. Arrivo fin dove posso. Il resto, lo rimando al prossimo anno». La passata amministrazione aveva avviato un progetto in collaborazione con l’Auser, un’associazione di anziani volontari che aveva offerto gratuitamente il servizio di presidio di Villa Aldobrandini. Cosí potevano essere presenti sul posto due custodi al giorno. Non si potrebbe recuperare dal cassetto un progetto del genere, per esempio? «Noi altrove utilizziamo i vigili in pensione. I volontari, per l’amministrazione, sono comunque un costo, non sono mai gratis: a ciascuno, per legge, vanno
garantiti un’assicurazione e un rimborso spese, anche simbolico. Non è possibile organizzare ronde di volontari a costo zero». Allora, qual è il suo progetto, Sovrintendente? «La programmazione potrebbe essere la seguente: faccio ripulire tutta l’area della villa dai detenuti in semilibertà inseriti nei programmi di lavoro del Comune di Roma, poi allargo la convenzione con la Polizia Locale di Roma Capitale per l’impiego dei pensionati per la custodia della villa. Senza nulla togliere all’Auser, preferisco un Carabiniere in pensione, con uniforme e fischietto, a vigilare sul luogo…». A proposito di controlli: mi trovo spesso a passare nei pressi di Villa Aldobrandini, ma sono rare le occasioni in cui si incontrano pattuglie delle forze dell’ordine… le avete mai sollecitate, come Comune? «Sí, ma ci sono altre esigenze. La Polizia in questo momento, a livello comunale, è impegnata con
allarme degrado
La bellezza ferita
Quello di Villa Aldobrandini non è, purtroppo, un caso isolato. Non per questo, però, si può tollerare o considerare meno grave che un complesso del genere, ubicato nel cuore di Roma, possa essere abbandonato al suo destino. Le foto che qui pubblichiamo sono una prova eloquente della situazione che, se va in primo luogo addebitata all’inciviltà di quanti scelgono colonne e fontane per esprimere la propria «creatività», è anche figlia della scarsa manutenzione e vigilanza assicurate al sito.
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l’abusivismo nel centro della città. A tutto non ci si arriva. Le forze ci sono, ma sono sufficienti appena per quello che serve». Nei prossimi mesi Villa Aldobrandini resterà chiusa per un intervento di restauro e di sistemazione dei giardini, anche da un punto di vista botanico, a cura del dipartimento Ambiente del Comune di Roma. Ma se, al momento della riapertura, la villa rimarrà senza custodia, calerà nuovamente l’abbandono e i denari spesi andranno perduti? Per esempio, da quanto mi risulta, per pulire le scritte dai monumenti e dai marmi antichi, a Villa Aldobrandini, il Comune invia restauratori circa tre volte l’anno: un costo che si potrebbe risparmiare, se il luogo fosse maggiormente sorvegliato… «Ho anche pensato di dislocare alcuni uffici della Sovrintendenza all’interno della villa, per renderla
In alto: ancora una delle numerose sculture distribuite a scopo ornamentale nel parco della villa. In basso: una veduta del giardino; sullo sfondo si riconosce Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia.
piú frequentata. Ma il concetto è un altro, secondo me. Ferma restando la tutela, occorre superare il concetto di bene culturale come spesa: deve diventare una risorsa che produce reddito. Noi dal 2010 abbiamo accantonato e reinvestito 14 milioni di euro, grazie alla Delibera sulla redditività del bene culturale. Villa Aldobrandini dovrebbe essere presidiata, senz’altro: ci vorrebbe un’associazione no profit, per esempio, che metta a reddito la villa, come bene culturale, organizzandovi un’attività per trarne dei ricavi. Cosí la si potrebbe mantenere sempre pulita, nel rispetto del decoro urbano. Un po’ come nella Villa Venaria Reale a Torino, dove oggi le serre vendono i prodotti di casa Savoia. Si potrebbero anche affittare i locali del palazzo, per ricavarne un utile, a condizione che vengano utilizzati nel rispetto dei criteri di tutela». Come giudica il ruolo degli sponsor privati nella manutenzione dei beni culturali? «Le forme di mecenatismo sono ben accette. Fendi ha appena stanziato 2,5 milioni di euro per il restauro della fontana di Trevi, per fare un esempio. Ferma restando la tutela, il bene culturale deve essere identificato come bene da mettere a reddito».
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gorizia
Storie di banditi
I banditi sono i protagonisti della IX edizione di èStoria, Festival internazionale della storia, in programma a Gorizia da venerdí 24 a domenica 26 maggio. In un momento storico segnato dalla forte crisi economica in atto, la scelta di «Banditi» significa spingersi a indagare il confine oggi esistente tra legalità e illegalità, giustizia e devianza, potere e opposizione al potere. Banditi perché messi al bando e allontanati dalla società o banditi perché al di fuori della legge, gli uomini e le donne su cui si concentrerà il focus di èStoria 2013 non saranno meramente confinati al dato biografico, ma contestualizzati nelle epoche storiche, dall’evo antico alla contemporaneità. «Sui poveri, la storia getta ben poche luci, ma essi sanno, a modo loro, attirare l’attenzione dei potenti, e di rimbalzo anche la nostra», scriveva Fernand Braudel negli anni Quaranta del Novecento nel saggio Miseria e banditismo, rovesciando quella che era stata fino ad allora la nozione di «bandito». In tal modo si sottraeva il fenomeno della criminalità alla semplice avventura dell’uomo contro l’uomo, per inserirlo in un contesto di contrapposizione del piú debole rispetto al piú forte, di rivincita di classe contro i soprusi. Ed Eric Hobsbawm, lo storico marxista scomparso di recente, riprese questi concetti in Banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, amplificandoli ulteriormente fino ad affermare che per tutti i deboli e i poveri del mondo in qualsiasi epoca Robin Hood rappresenta un paradigma. Un punto di vista storiografico che èStoria sonderà criticamente, senza rifiutarlo del tutto, ma anche senza sposarlo. Info: tel: 0481 539210; e-mail: eventi@leg.it; www.estoria.it
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mostre Napoli
«vedere» ercolano
N
el 79 d.C. il Vesuvio pose fine all’esistenza di Pompei ed Ercolano. Una catastrofe che, a posteriori, ha offerto agli archeologi una situazione altrove inimmaginabile, caratterizzata da uno stato di conservazione eccezionale, come se il tempo si fosse fermato. Non si ferma, invece, l’attività di studio, che a Ercolano sta anzi vivendo una stagione particolarmente intensa, soprattutto da quando, poco piú di dieci anni fa, ebbero inizio le attività dell’Herculaneum Conservation Project, un programma di conservazione e valorizzazione voluto e finanziato dal Packard Humanities Institute e attuato d’intesa con
Dove e quando «Ercolano» Napoli, Museo Archeologico Nazionale fino al 15 giugno Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso martedí Info tel. 081 4422149
la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei e in collaborazione con la British School at Rome. I risultati conseguiti dall’HCP sono una delle basi su cui si fonda la recente iniziativa editoriale curata da Maria Paola Guidobaldi e Domenico Esposito, per i tipi di Arsenale Editrice, Ercolano, colori da una città sepolta (352 pp., 300 ill., 122,00 euro; www.arsenale.it). Del volume parliamo in questa sede (e non nelle pagine abitualmente dedicate alle recensioni), in quanto l’opera si avvale delle fotografie realizzate ad hoc da Luciano Pedicini, una cui ampia selezione è esposta, fino al prossimo 15 giugno, nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La scelta si pone come legittimo riconoscimento di un intervento che va ben oltre l’accuratezza che una simile documentazione deve possedere: osservando le immagini, si coglie infatti la
sensibilità del suo autore, grazie al quale la visita della mostra (e la consultazione del volume) divengono un’esperienza viva, quasi paragonabile a una passeggiata tra i resti veri e propri di Ercolano. E, anzi, non sono rari i casi in cui la ripresa fotografica A destra: statua di peplophoros («portatrice di peplo»), dal padiglione sul mare della Villa dei Papiri. Nella pagina accanto: Achille e Chirone, affresco in IV stile dall’Augusteum. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
n otiz iario evidenzia particolari che possono sfuggire alla semplice osservazione. Il progetto non va tuttavia considerato come un mero esercizio di stile e la sua qualità estetica può essere invece lo stimolo a scoprire (o riscoprire) le meraviglie dell’antica città vesuviana, le cui vicende vengono ripercorse da Guidobaldi ed Esposito. La città sorgeva in posizione incantevole: sulla cima di un promontorio a picco sul mare e fu uno dei centri prediletti dalle classi piú agiate per dimore principali e secondarie. L’elevato livello sociale di molti degli antichi abitanti è testimoniato dalla raffinatezza delle architetture e delle decorazioni di molti degli edifici liberati dal «mantello» steso dal Vesuvio quasi 2000 anni fa. Basti ricordare, tra gli altri, la Casa Sannitica, la Casa dei Cervi, quella dell’Atrio a Mosaico o quella del Tramezzo di Legno: strutture che restituiscono un’immagine dell’antica Ercolano straordinariamente vivida e che, a loro volta, vivono anche nelle fotografie attualmente in mostra. Stefano Mammini
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A sinistra: una veduta del decumano massimo di Ercolano. A destra: Casa del Rilievo di Telefo. Una delle sale della lussuosa residenza, con pittura a fasce
orizzontali, zoccolo in marmi policromi e pavimento in opus sectile. In basso: l’atrio della Casa del Tramezzo di Legno: in primo piano, la struttura che dà nome alla dimora.
incontri Agrigento
i greci d’occidente e la musica
D
al 14 al 16 maggio Agrigento ospita il VI Meeting di MOISA, The International Society for the Study of Greek and Roman Music and its Cultural Heritage, nella sede del Corso di laurea magistrale in Archeologia e del Polo didattico dell’Università di Palermo di Villa Genuardi. Tema dell’incontro è Musica, culti e riti dei Greci d’Occidente. Verranno esaminate, da una parte, la documentazione letteraria e figurativa relativa alle particolari tradizioni musicali delle comunità italiote e siceliote; dall’altra, le testimonianze che evidenziano punti di contatto e divergenze con le elaborazioni teoriche e musicali della madrepatria. Gli argomenti saranno affrontati con l’apporto di studiosi che operano in diversi campi: filologico-letterario, teorico-musicale, storico-religioso, storico-artistico, antropologico, etnomusicologico, archeologico e iconografico. Agrigento si prepara, dunque, ad accogliere studiosi provenienti da tutto il mondo nella Valle dei Templi, patrimonio dell’UNESCO, e a pochi passi dall’Agorà e dal Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo», nel quale sono conservati anche preziosi reperti di interesse musicale. A queste testimonianze è dedicata l’esposizione tematica Musica e Archeologia, allestita nello stesso Museo «Pietro Griffo», che presenta una selezione di immagini, reperti e strumenti musicali. La mostra apre i battenti il 18 aprile 2013 e rimarrà allestita per tutta la durata del Meeting di MOISA. Per informazioni sull’evento, si può consultare il sito: www.moisasociety.org (red.)
Statuetta in terracotta di suonatrice di aulos a canne doppie, dall’abitato ellenistico di Monte Raffe di Mussomeli (Caltanissetta). IV sec. a.C. Agrigento, Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo».
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n otiz iario
incontri Roma
l’archeologia guarda al futuro
L’
archeologia e la ricerca storica possono diventare strumento per comprendere il presente. È questo il fil rouge di RomArché 2013, IV edizione del Salone dell’Editoria Archeologica, in programma dal 20 al 26 maggio negli spazi di Villa Giulia, a Roma, sede del Museo Nazionale Etrusco. Attraverso strumenti culturali quanto mai diversi tra loro, la manifestazione approfondirà, tre temi di grande attualità: «Politica Economia Società». Al centro dell’indagine le relazioni che intercorrono tra meccaniche di governo, processi economici e sviluppo socio-culturale in una prospettiva che pone l’esperienza storica come strumento di riflessione e di approfondimento su quanto accade nel presente, stimolando conoscenza, comprensione e curiosità. RomArché 2013 non sarà solo Salone dell’editoria: il programma prevede infatti diversi momenti e modalità di confronto, esperienza e didattica che andranno dal
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convegno specialistico al ciclo di incontri, dagli appuntamenti con l’archeologia sperimentale alle visite guidate e alle lezioni fino al cinema e allo spettacolo. Nel ricco calendario degli appuntamenti, pensato per raccogliere un pubblico eterogeneo, spicca il convegno specialistico in programma dal 20 al 22 maggio. L’incontro intende promuovere una nuova riflessione sui rapporti, e perciò sulle alterità e sulle interferenze, che definiscono, separano, ma anche mettono in comunicazione il campo dell’economia e quello della politica nel mondo greco. I temi del convegno confluiranno, nell’ultima giornata, nella tavola rotonda Esperienze e teorie degli antichi e dei moderni, volta a dare una dimensione diacronica al confronto anche con la partecipazione di giornalisti, economisti e storici contemporaneisti, oltre che degli specialisti antichisti. (red.)
Roma. Una veduta di Villa Giulia, sede del Museo Nazionale Etrusco, che si accinge a ospitare la IV edizione di RomArché, Salone dell’Editoria Archeologica.
Dove e quando «RomArché» dal 20 al 26 maggio Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Orario lu, 15,00-19,00; ma-me, 9,00-19,00; gio-sa, 10,00-22,00; do, 10,00-19,00 Info tel. 06 90282729; www.diacultura.org
n otiz iario
archeofilatelia
Luciano Calenda
edipo e dintorni Anche per questo mese ci occupiamo di una «leggenda» legata a un singolo personaggio. È la volta di Edipo, la cui storia è stata raccontata da Sofocle (1) in due delle sue poche tragedie che sono arrivate fino ai nostri giorni: l’Edipo re, la piú famosa, e l’Edipo a Colono. Al di là delle singole vicende narrate nei due lavori teatrali, il nome di Edipo è stato utilizzato per semplificare le teorie psicoanalitiche di Freud e Jung; quando si parla del «complesso di Edipo», infatti, si fa riferimento alla storia dell’Edipo re, nella quale il principe, in virtú di un vaticinio fatto dalla Pizia (2) di Delfi a suo padre Laio, avrebbe ucciso quest’ultimo e sposato Giocasta, sua madre naturale e vedova di Laio. Nello sviluppo della storia Edipo giunge a Tebe e, prima di entrare in città, incontra la terribile Sfinge che divorava tutti i passanti che non risolvevano i suoi due indovinelli, quelli famosi sulle «tre età» dell’uomo e quello sulla successione del «giorno e della notte». L’episodio è stato magistralmente ricordato da artisti di ogni epoca, a partire dai ceramisti greci e fino al pittore neoclassico francese Ingres; queste due cartoline maximum del Vaticano (3) e del Dahomey (4) sono alcune tra le testimonianze filateliche dell’incontro tra Edipo e la Sfinge. Per il prosieguo della vicenda, Edipo risolve i due indovinelli; la Sfinge si uccide, il re Creonte, fratello di Giocasta, cede il regno a Edipo e gli dà in moglie Giocasta: cosí si completa la profezia. Altro aiuto filatelico, nel commentare tematicamente i personaggi di questa storia, può essere fornito da un altro francobollo greco (5) che raffigura il re 5 Creonte che si confronta con la nipote Antigone, entrambi personaggi di una terza tragedia di Sofocle, l’Antigone appunto, che narra delle vicende successive all’arrivo di Edipo a Tebe, sebbene fosse stata scritta molto prima delle altre due. L’Edipo re è un lavoro chiave nella drammaturgia greca ed è stato sempre rappresentato, in tutte le epoche, quasi sempre in scenari di prestigio, come il Teatro greco di Siracusa (6) come si deduce da questa cartolina maximum del 1914 o nell’annullo del 2000 (7) e il teatro antico di Delfi (8).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
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calendario
Italia Roma L’Età dell’Equilibrio
A sinistra: ritratto di Faustina Minore.
Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio Musei Capitolini fino al 05.05.13
Costantino. 313 d.C. Colosseo fino al 15.09.13
A destra: torso di statua in marmo raffigurante Athena Nike. 430 a.C. circa.
roma Il Tesoretto di Montecassino
Scoperto nel 1898, il Tesoretto di Montecassino viene esposto per la prima volta. L’insieme è costituito da una fibula aurea e da 29 monete d’oro, databili tra i secoli XI-XII, e, all’indomani del ritrovamento, fu diviso tra il Medagliere del Museo Nazionale Romano e il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. Il recente accorpamento tra le Soprintendenze Archeologiche di Ostia e Roma ha ora favorito la riunificazione del complesso, in attesa della sua definitiva sistemazione. Per via del loro pregio e della squisita fattura, le fibule, impiegate per la chiusura di capi di vestiario e di mantelli, fanno pensare a una committenza di alto rango e sono grosso modo coeve con le monete, databili tra l’XI e il XII secolo. Queste ultime rappresentano uno spaccato della monetazione aurea dei Normanni di Sicilia: si tratta di 29 tari in oro, emessi dalle zecche siciliane di Palermo e Messina sotto tutti i signori normanni che in quegli anni si sono avvicendati.
dove e quando Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30 settembre Orario tutti i giorni, 9-00-14,00; lu chiuso Info tel. 06 54228199 24 a r c h e o
La Pompei di fine ‘800 nella pittura di Luigi Bazzani Fondazione del Monte fino al 26.05.13
Qui sotto: la statua-stele Arco I. Età del Rame.
brescia L’età del Rame
Athena Nike: la vittoria della dea
Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group Spazio Espositivo Tritone fino al 03.08.13
bologna Davvero!
La Pianura padana e le Alpi al tempo di Ötzi Museo Diocesano fino al 15.05.13
cortona Restaurando la storia
L’alba dei principi etruschi Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 05.05.13
formia Formiae. Una città all’inizio dell’impero Museo Archeologico Nazionale fino al 24.06.13
modena Il mosaico riscoperto
Lapidario Romano dei Musei Civici, Palazzo dei Musei fino al 12.05.13
Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta
Qui sotto: piatto in maiolica istoriata con satiro a pesca.
Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13
novara Homo sapiens
La grande storia della diversità umana Complesso Monumentale del Broletto fino al 30.06.13
Padova Venetkens
Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13
parma Storie della prima Parma
Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 02.06.13
Bronzetto della «dea di Caldevigo». V sec. a.C.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
serrapetrona (MC) La conquista del cielo
Vita e morte a Pompei ed Ercolano
Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13
The British Museum fino al 29.09.13
Israele
siena Vino fra mito e storia
Gerusalemme Il viaggio finale di Re Erode il Grande
Complesso Museale S. Maria della Scala fino al 05.05.13
In alto: mosaico con l’immagine di un cane da guardia, dalla Casa di Orfeo a Pompei.
Israel Museum fino al 05.10.13
Belgio
Spagna
Tongeren Gli Etruschi. Una storia particolare
madrid Pompei
Musée Gallo-romain fino al 25.08.13
Francia saint-romain-en-gal Il design ha 2000 anni? Archeologia e design a confronto Musée gallo-romain de Saint-Romain-en-Gal-Vienne fino all’01.09.13
Frammento di affresco con busto femminile su cornice modanata.
Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13
berna Qin
Un guerriero in terracotta di Xi’an.
zurigo Animali
Germania berlino Sotto la luce di Amarna
100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 04.08.13 I 5000 anni di una megalopoli Pergamonmuseum fino all’08.09.13 (dal 24.04.13)
Svizzera L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13
Strasburgo Un’arte dell’illusione
Uruk
Catastrofe sotto il Vesuvio Centro de Exposiciones Arte Canal fino al 05.05.13
Statua bronzea raffigurante un corridore, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. a.C.
Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna Museo nazionale fino al 14.07.13
In basso: urna etrusca con Ippolito ucciso dai suoi stessi cavalli.
A sinistra: il celebre busto policromo di Nefertiti.
Gran Bretagna Londra Arte delle ere glaciali
L’avvento di un pensiero moderno British Museum fino al 26.05.13
A sinistra: frammento d’osso con figura di renna. 13 000 anni fa circa. a r c h e o 25
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
Sulle due pagine: Abu Simbel. Il Tempio Grande, dedicato a Râ, Ammone, Ptah e a Ramesse II (in alto), e il Tempio Minore, innalzato in onore di Hathor e Nefertari (a destra). Minacciati dalla costruzione della diga di Assuan, i monumenti furono salvati spostandoli dalla loro collocazione originaria.
E
sattamente duecento anni fa, il 22 marzo del 1813, l’esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt (che poco tempo prima aveva messo piede, come primo europeo, nella città rupestre di Petra, nell’odierna Giordania) riscoprí i templi rupestri di Abu Simbel, nell’Egitto meridionale, non lontani dalla frontiera con il Sudan. Poiché la decifrazione dei geroglifici da parte
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del francese Jean-François Champollion sarebbe avvenuta circa un decennio dopo (nel 1822), il Burckhardt non poteva rendersi conto che le gigantesche sculture (all’epoca ancora in massima parte coperte dalla sabbia) erano parte di due santuari dedicati al grande faraone Ramesse II (1279-1213 a.C.). I monumenti di Abu Simbel entrarono ben presto a far parte del bagaglio immaginario
dell’Occidente, grazie anche all’opera degli inventori della fotografia, Niépce e Daguerre, per i quali le sculture faraoniche divennero un soggetto privilegiato, o a quella di un altro pioniere della macchina fotografica, Maxime Du Camp che, tra il 1849 e il 1851 aveva percorso l’Egitto in compagnia di Gustave Flaubert. Le colossali sculture tornarono, poi, a far parlare di sé negli anni
Sessanta del secolo scorso, quando l’opinione pubblica mondiale fu scossa dalla notizia dei lavori per la creazione di un grande bacino artificiale che minacciava di sommergere interamente i faraoni scolpiti di Abu Simbel. Come è noto, al grido di «Il mondo salvi Abu Simbel», un’impresa altrettanto faraonica, promossa a livello internazionale e sotto l’egida dell’UNESCO, mise in sicurezza l’intero complesso, prelevando pezzo per pezzo le sculture e ricomponendole dopo averle spostate in una posizione piú alta, al riparo dalle acque del costituendo lago Nasser (un’operazione – come ricorda lo studioso Joachim Willeitner in un articolo pubblicato sul quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung – costata l’equivalente di circa 190 milioni di euro).
il mondo salvi abu simbel. parte II Una memoria salvata, si direbbe, se all’orizzonte non si profilasse un nuovo pericolo, e di ben altra natura. È sempre il professor Willeitner a riferirne: alla fine di gennaio il segretario generale alle antichità egizie, Adel Abdel Sattar, si è visto recapitare una richiesta da parte del Ministero delle Finanze, che, ai fini di risanare la crisi finanziaria in cui versa il Paese,
proponeva di appaltare la gestione delle antichità egizie (leggasi le piramidi e la sfinge di Giza, i complessi templari di Luxor e Karnak nonché i monumenti di Abu Simbel) a società di operatori turistici internazionali. «Impossibile» è stata la tonante e indignata risposta del segretario generale, «l’eredità culturale dell’Egitto è proprietà pubblica e non può essere alienata in alcun modo». L’episodio, però, è solo l’ultimo di una serie di avvisaglie che segnalano il crescente disprezzo da parte delle forze islamiste nei confronti dell’eredità culturale preislamica del Paese del Nilo. La proposta arrivata sulla scrivania del segretario Sattar, infatti, era stata lanciata da un attivista della rete, Abdallah Mahfouz, attraverso il suo sito religioso Al-Kitab al-Mounir («Il libro illuminato»). Nel novembre dell’anno scorso, invece, in una trasmissione televisiva, il predicatore salafita Murgan Salem al-Gohari, per il quale i monumenti di età faraonica rappresentano pericolosi idoli sacrileghi e blasfemi, ne aveva preteso la distruzione, senza che vi fosse stata alcuna reazione da parte delle autorità statali. E ancora prima, in un’altra trasmissione televisiva pubblica, nel gennaio del 2012, il portavoce di un altro gruppo religioso islamista, Abdel Moneim El-Shahat, aveva apertamente additato la «depravazione» insita nelle antichità faraoniche. Non vi fu alcuna reazione a livello ufficiale. Davvero preoccupante – spiega ancora Willeitner – è il fatto che al-Gohari potrebbe rappresentare una minaccia concreta per le antichità egiziane: il predicatore, infatti, si vanta pubblicamente di aver partecipato, nel marzo del 2001, alla distruzione delle statue dei Buddha di Bamiyan (Afghanistan), anch’esse scolpite, similmente ai faraoni di Abu Simbel, in una morbida pietra arenaria…
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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli
sulla strada della discordia Nel centro di Salonicco si ripropone il dilemma della convivenza tra passato e presente Salonicco
GRECIA
Mare Egeo
Atene
Mar Ionio
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S
alonicco, la seconda città greca per numero di abitanti, ha salutato con gioia la realizzazione di una linea metropolitana. I lavori hanno preso il via alcuni anni fa e dovrebbero concludersi nel 2016, con un ritardo di ben 4 anni sulla tabella di marcia iniziale: uno slittamento dovuto al gran numero di resti archeologici che sono venuti e continuano a venire alla luce. Ma veniamo ai fatti: nell’area di alcune fermate della linea metropolitana situate nel centro della città stanno tornando alla luce testimonianze di valore unico. In particolare, nella zona della fermata all’incrocio tra due arterie centrali moderne, le vie Venizelou ed Egnatia, gli archeologi hanno localizzato, a una profondità
di 6 m circa, un tratto della via Egnazia lungo ben 76 m. La strada è lastricata di marmo, ha una larghezza di quasi 5 m (ampliata poi a oltre 7) ed è bordata da un canale per lo scolo delle acque; nella fase venuta alla luce, che risale soprattutto al IV e al VI secolo d.C., la bordavano edifici pubblici, abitazioni, botteghe; si distinguono chiaramente perfino le tracce dei solchi lasciati dalle ruote dei carri. Notevolissimo è il rinvenimento di un tetrapylon, un quadriportico monumentale che marcava l’incrocio con la via che conduceva al porto. Insomma, una «Pompei bizantina», come da piú parti è stata definita. Per difendere questi resti, l’Associazione degli Archeologi
Greci (SEA) si sta mobilitando con ogni mezzo: dalla creazione di un gruppo su Facebook a comunicati stampa, fino a manifestazioni e alla creazione di una petizione on line che, al momento in cui scriviamo, ha raccolto oltre 12 000 firme (http://www.avaaz.org/en/petition/ Breaking_the_heart_of_ Thessaloniki_through_time_Save_ citys_byzantine_center_the_citys_ memory_and_identity/?cBAIgeb).
Un dilemma antico La vicenda ripropone il dilemma della coesistenza tra un passato che ha lasciato tracce monumentali e le esigenze di una città moderna: si stima che 250 000 passeggeri al giorno utilizzeranno la metropolitana, con comprensibili effetti benefici sul traffico e l’inquinamento della città. Molti sono i pareri che abbiamo finora, ciascuno dei quali contiene un nucleo di ragione. C’è innanzitutto la decisione del Consiglio Archeologico Centrale (KAS), l’organismo ministeriale deputato a dirimere questioni di natura archeologica, che ha decretato la
rimozione dei resti e il loro trasferimento. Michalis Tiverios, professore di archeologia classica all’Università di Salonicco, chiede che sia il buonsenso a prevalere: ridisegnare la metropolitana richiederebbe tempo e denaro che non sono disponibili. Vi sono poi problemi di ordine pratico: la creazione di una fermata della metropolitana in quel punto è di vitale importanza per dare respiro al congestionato traffico cittadino, come sa bene chiunque conosca la topografia di Salonicco. Intanto, i proprietari dei
Sulle due pagine, da sinistra: Salonicco. Il tratto della via Egnazia tornato alla luce nel corso dei lavori per la nuova metropolitana; resti del portico monumentale (tetrapylon); un’altra immagine del lastricato.
negozi del centro sono stati danneggiati da anni di cantieri e di transenne, in una congiuntura economica già difficile.
soluzioni alternative Ma la direttrice del Museo Archeologico di Salonicco, Polyxeni Adam-Veleni, ha dichiarato che una strada antica non è un monumento che possa essere rimosso: spostarla è come annullarne l’essenza stessa, privarla della sua ragion d’essere. C’è poi la recente decisione del Consiglio Comunale di Salonicco, che chiede al KAS di recedere dal verdetto e annullare il trasferimento dei reperti. Nel frattempo, i lavori sono stati bloccati e 370 tra operai e archeologi rischiano il licenziamento da parte della ditta appaltatrice, che procede sulla base della decisione del KAS e, soprattutto, denuncia l’assenza di progetti alternativi concretamente realizzabili. Il sindaco di Salonicco, Yannis Boutaris, da tempo pronunciatosi a favore della creazione di una linea di tram in luogo della metropolitana, chiede con pacatezza che si formi una commissione di esperti, scelti tra tecnici e accademici, per proporre una soluzione tecnica. E, mentre le posizioni si stanno facendo sempre piú rigide, sono poche le voci che chiedono di trovare un accordo concreto e attuabile, accettato da entrambe le parti. Nel mezzo, c’è il futuro di un pezzo del passato.
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mostre • parma
scavando s’impara di Giuseppe M. Della Fina
Resti di villaggi, necropoli e luoghi di culto emergono dagli interventi di archeologia preventiva condotti a parma nell’ultimo decennio. e riscrivono la storia piú antica della città, soprattutto quella dell’epoca che precedette la romanizzazione 32 a r c h e o
F
ino a ieri sapevamo che Parma era stata fondata nel 183 a.C. come colonia di diritto romano per volontà dei triumviri M. Emilio Lepido, T. Ebuzio Parro e L. Quinzio Crispino che vi avevano inviato 2000 capifamiglia provvisti della cittadinanza romana, assegnando 8 iugeri di terra a ciascuno di loro (lo iugero era una unità di misura di superficie agraria pari a 0,252 ha, n.d.r.). Nelle intenzioni dei triumviri, i coloni avrebbero dovuto costituire un presidio nella zona che i Romani avevano strappato ai Galli Boi. Indagini portate avanti nell’ultimo decennio dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’EmiliaRomagna in occasione d’interventi di archeologia preventiva hanno mutato completamente il quadro, suggerendo un’antichità maggiore per la città e ridisegnandone le origini. A queste novità è dedicata la mostra allestita negli spazi del Museo Archeologico Nazionale. I dati recuperati suggeriscono, in estrema sintesi, una realtà vivace già a partire dagli ultimi decenni del VII secolo a.C., quando nella zona erano presenti diversi villaggi, posizionati solo a qualche chilometro di distanza dal centro attuale e non lontani tra loro. Una forma d’insediamento che sembra entrare in crisi nel V e IV secolo a.C. Una ripresa di vitalità si può datare al III secolo a.C., quando l’area era già sotto il controllo dei Galli e il nuovo insediamento appare come il precedente diretto della colonia romana, destinata a divenire una città di notevole importanza e capace di Qui accanto: statuetta femminile, da un pozzo votivo individuato in viale Tanara. III sec. a.C. A sinistra: una sezione della mostra allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Parma.
Qui sotto: pendente a rotella in bronzo, dalla tomba 11 della necropoli scoperta in località Baganzola. Fine del VI sec. a.C. In basso, a destra: figura plastica femminile, dalla località Pedrignano.
di un centro egemone, ma una serie di villaggi distinti e dotati di necropoli e impianti produttivi (vedi box a p. 35). Gli abitati sembrano connessi soprattutto all’attività agricola e sul terreno gli archeologi hanno trovato le tracce dei primi tentativi di trasformazione del paesaggio, che prevedevano, per esempio, la bonifica delle aree umide attraverso un sistema di canali e la realizzazione di vasche per la raccolta delle acque. L’incremento delle zone coltivate – sempre nella ricostruzione degli archeologi – non avrebbe impedito che estese aree fossero lasciate a prato e riservate al pascolo degli animali dei quali sono state trovate tracce dei possibili ricoveri. Il bestiame era in larga parte composto da bovini, utilizzati
riprendersi anche dopo le distruzioni provocate dai soldati di Marco Antonio nel 43 a.C.
gallica parma In quest’ottica assume una valenza nuova l’osservazione del poeta Marziale che – in un suo epigramma (V, 13) – aveva definito la città Gallica Parma. Cosí come ne esce avvalorata la testimonianza dello storico Tito Livio (XXXIX, 55), il quale aveva affermato che la colonia romana era stata fondata in un territorio già appartenuto agli Etruschi e ai Galli Boi. Molti sono i motivi d’interesse lungo il percorso espositivo: i curatori si sono soffermati, per esempio, sul primo modello d’insediamento che non sembra prevedere – come ha osservato uno di loro, Daniela Locatelli (che ha curato il progetto della mostra insieme a Luigi Malnati e Daniele F. Maras) – a meno di ulteriori rivoluzionarie scoperte, la presenza a r c h e o 33
mostre • parma
via saragat Indagini condotte nell’area di via Saragat hanno permesso di localizzare resti di un abitato occupato dalla fine del VII a tutto il VI sec. a.C. Sono state rinvenute abitazioni a fondo sottoscavato, di tradizione villanoviana, come la capanna g, qui fotografata nel corso delle indagini.
nell’attività agricola e macellati soltanto in età avanzata. Lo stretto legame tra questi villaggi e l’attività agricola non esclude che gli abitati avessero un ruolo anche nella rete di scambi e commerci esistente: lo suggerisce il fatto che gli insediamenti sorsero in prossimità di percorsi terrestri e fluviali, che collegavano la zona con il mondo ligure, etrusco e celtico.
A sinistra: due delle deposizioni di animali localizzate in via Saragat: in primo piano, i resti di un bue; in secondo, una fossa con resti di un equide e di due bovini. I capi di bestiame furono forse sottoposti a un rituale di carattere sacrificale.
Gli scavi hanno anche consentito – pur nella limitatezza degli spazi indagati – di seguire l’evoluzione degli abitati. Il caso di quello rinvenuto in via Saragat è esemplare. Gli archeologi hanno potuto riscontrare la compresenza di due capanne a fondo sottoscavato, di tradizione villanoviana, e di un edificio – piú innovativo – a pianta ortogonale e zoccolo in ciottoli. Va segnalato che – pur nella varietà della tipologia – le unità abitative presentano un orientamento nord-sud con l’ingresso aperto sul lato meridionale. Tale uniformità 34 a r c h e o
ha portato a ipotizzare l’esistenza di un piano urbanistico condiviso. Per l’edificio con zoccolo in ciottoli – per il quale si adottarono nuove soluzioni planimetriche e costruttive – gli scavatori hanno ipotizzato un ruolo non limitato alla sola funzione residenziale. Il villaggio – sempre nel giudizio di chi lo ha scavato – dovrebbe essere stato caratter izzato inoltre da un’articolazione sociale sviluppata.
una dieta ricca e variata Per questa fase cronologica – la piú antica di Parma – i curatori della mostra hanno scelto di soffermarsi anche su aspetti della vita quotidiana, ricostruiti sulla base delle documentazioni archeologica, archeozoologica e paleoambientale raccolte. Attenzione, per esempio, è stata prestata all’alimentazione: accanto ai cereali e ai legumi, è attestato l’uso di ortaggi, frutta e miele. La dieta era integrata da carne, latte, formaggi e uova. Ai fini del nutrimento venivano allevati, oltre ai già ricordati bovini, suini – meno presenti che negli altri insediamenti etrusco-padani –, pecore, capre, polli, galline e bovini. Scarse – negli scavi parmensi – sono le testimonianze relative alla caccia e alla pesca, che dovevano comunque essere praticate. Uno sguardo attento è rivolto al ruolo della donna, che non sembra differire da quello ricorrente nella realtà etrusco-italica: al centro della sua attività erano la gestione della casa e le attività di filatura e tessitura. Nel sito di Baganzola, nelle vicinanze del fiume Parma, è stato rinvenuto un contenitore di notevoli dimensioni, interrato, che custodiva alcuni vasetti e, soprattutto, dodici pesi da telaio di un tipo detto «a ciambella», tipico dell’Etruria padana. Gli scopritori hanno ipotizzato che si tratti del ripostiglio di una tessitrice. Come già accennato, nel V-IV secolo a.C. il modello insediativo descritto entrò in crisi e una ripresa nella zona si coglie soltanto nel III
A destra: ricostruzione del paesaggio padano, cosí come doveva presentarsi nell’età del Ferro, epoca durante la quale anche l’area in cui sorgerà Parma è interessata dalla presenza di abitati villanoviani. In basso: frammento di una ciotola di tipo etrusco-padano, da Monte Santa Maria. V sec. a.C. Sul reperto è graffita l’iscrizione mi thanus, cioè «io sono di Thanu». Il nome indica un personaggio di sicura origine etrusca, dal momento che lo si ritrova in epoca arcaica in Campania e, nelle varianti Thane, e al femminile Thana e Thanacvil, in tutte le aree di frequentazione etrusca.
una «terra di frontiera» Salvo poche sporadiche testimonianze, il territorio a ovest dell’attuale provincia di Modena – quest’ultimo a piú stretto contatto con Bologna e forse sotto la sua influenza – comincia a essere popolato in maniera consistente solo a partire dall’avanzato VII secolo a.C. Si tratta di un popolamento a carattere sparso, che sembra orientarsi soprattutto verso obiettivi di carattere itinerario e commerciale: gli insediamenti si dispongono, infatti, lungo gli assi di fiumi e torrenti che scendono dall’Appennino, presidiando punti strategici per il controllo del territorio e del sistema di comunicazioni che lo attraversa, in gran parte rappresentato da quelle vie che – dopo aver valicato i passi appenninici – si proiettano verso il Po e dalle ulteriori possibilità di smistamento dei prodotti che il grande fiume offre. Nel corso del VI secolo a.C. gran parte di questo territorio appare sostanzialmente etruschizzato: le iscrizioni provano la presenza di gruppi e individui che parlavano e scrivevano in etrusco, mentre il vasellame in bucchero indica l’esistenza di stretti rapporti commerciali, a cui facevano seguito acquisizioni di carattere tecnologico, che consentivano lo sviluppo di produzioni locali di imitazione. Forme e decorazioni di gran parte di questi buccheri richiamano analoghi
di Daniela Locatelli prodotti delle botteghe dell’Etruria settentrionale, in particolare dell’area pisano-versiliese, suggerendo contatti con quest’area tirrenica settentrionale diretti e indipendenti dalla mediazione di Bologna; contatti avvenuti sfruttando le valli del Serchio e/o del Magra e, oltre Appennino, quelle del Secchia e dell’Enza. Forse per una di queste vie transappenniniche era giunto anche l’alto magistrato (uno zilath) citato nell’iscrizione di uno dei due cippi rinvenuti a Rubiera (RE), e da sempre considerato come il monumento funerario di un personaggio responsabile della colonizzazione di parte del territorio o della sua difesa militare, soprattutto in relazione ai primi movimenti e attacchi di tribú celtiche. Questa presenza va dunque letta in parallelo con il possibile carattere di «multietnicità» del territorio emiliano-occidentale: non solo i Celti si affacciavano all’orizzonte, ma, per la sua collocazione geografica, esso era esposto a molteplici rapporti con le aree culturali circostanti (veneta, ligure, golasecchiana) di cui poteva subire le influenze, e da cui potevano anche provenire individui o piccoli gruppi di persone. E proprio questi rapporti, le cui dinamiche non risultano del tutto chiare, ma che vengono indicati da alcuni contesti archeologici presentati per la prima volta in mostra, determinano le peculiarità di quest’area, nella quale nascono e si sviluppano i villaggi della Parma preromana, nonché una sua parziale estraneità/diversità dall’orizzonte etrusco-padano piú vicino alla sua «capitale» Felsina.
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mostre • parma
piazza ghiaia
Gli scavi condotti nell’area dell’alveo del torrente Ghiaia hanno permesso di localizzare una stipe votiva legata al passaggio nei pressi di un guado del corso d’acqua: gli oggetti ritrovati al suo interno, perlopiú metallici, vi sarebbero stati gettati come offerta di risarcimento per l’attraversamento alla divinità fluviale.
A sinistra: statuetta in argento raffigurante una divinità maschile con patera, da piazza Ghiaia. Si tratta, forse, dell’elemento accessorio di una suppellettile preziosa.
Qui accanto: bronzetto votivo raffigurante Giove/Sole con corona radiata, da piazza Ghiaia. II sec. a.C. A sinistra: ricostruzione di un settore dell’area di piazza Ghiaia, con reperti di varia tipologia.
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secolo a.C., in un quadro culturale completamento diverso. Gli scavi in piazza Ghiaia hanno riportato alla luce una stipe votiva trovata in corrispondenza di quello che doveva essere il guado principale del Parma (nella zona in cui si trova ora il Ponte di Mezzo): il culto doveva prevedere la consacrazione di un’offerta alla divinità che proteggeva il passaggio del fiume.
monete per la dea A essa venivano donate, per esempio, monete: ne sono state trovate di greche, puniche e romane a indicare che la zona era frequentata con assiduità e attorno a essa ruotavano scambi di una dimensione non solo locale. Altre offerte in metallo (perlopiú in bronzo) sono rappresentate da chiodi, borchie, chiavi, serrature, figurine animali, piccoli oggetti di abbigliamento. Sono state rinvenute anche statuette bronzee raffiguranti la divinità venerata. Un’altra sede di culto è stata individuata con ogni probabilità nell’area dell’attuale palazzo della Cassa di Risparmio di Parma e la sua costruzione sembra attribuibile – in base all’analisi della decorazione in terracotta – al III secolo piuttosto che al II a.C. e quindi prima della fondazione della colonia. Nella zona occidentale della città attuale, in viale Tanara, è stato riportato alla luce un santuario extraurbano, dedicato a una divinità femminile, probabilmente Demetra/Cerere, la cui frequentazione iniziale sembra risalire alla fine del III secolo a.C., se non prima. Di esso è stato recuperato parte del materiale votivo, tra cui statuette femminili in terracotta e una palla di legno esposta in mostra. Le offerte sembrano rinviare a riti d’iniziazione delle fanciulle nel passaggio alla pubertà. Luoghi di culto preromani si trovavano probabilmente anche nella zona meridionale della Parma moderna, dato che in Borgo Tomassini, al di sotto degli strati romani, sono state scoperte tre grandi falci in ferro deposte intenzionalmente secondo un rito di consacrazione
degli strumenti di lavoro ben attestato nel mondo celtico. La stessa collocazione del teatro fuor i dall’area urbana – come ha osservato Luigi Malnati – può fare ipotizzare la precedente presenza sul posto di un luogo di culto, come si è riscontrato a Bologna e forse a Milano e a Verona. I dati archeologici raccolti e riferibili al III secolo a.C. suggeriscono che nel nuovo insediamento abbiano convissuto persone di origine etrusca, ligure e celtica (Boi e Anari), in un amalgama di genti attestato già nella fase piú antica, anche se con rapporti numerici e di potere differenti. L’insediamento del III secolo a.C. deve aver fatto parte della confederazione guidata dai Galli Boi e su di esso deve essersi insediata la colonia romana.
nell’orbita di roma Il viaggio nelle storie della prima Parma prosegue con la presentazione della fase romana: sino alle scoperte degli ultimi anni l’epoca repubblicana era poco nota, al punto che alcuni studiosi avevano ipotizzato che il sito originario della colonia non coincidesse con quello della città ricostruita dopo le distruzioni causate dai soldati di Marco Antonio. Ora la situazione è mutata, i caratteri dell’insediamento sono emersi con chiarezza e si è osservata la continuità tra i decenni pre e post-coloniali: d’altronde, la via Emilia, aperta nel 187 a.C., deviava verso Parma nonostante la colonia fosse stata fondata quattro anni piú tardi, a testimoniare la presenza di un insediamento già vitale. Di tutto questo viene data puntuale documentazione, grazie a reperti che testimoniano la permanente vitalità delle aree sacre già ricordate e la presenza di domus patrizie come le due scoperte al di sotto di Palazzo Sanvitale, che avevano ambienti pavimentati in opus signinum decorato con motivi geometrici. Il legame tra la storia locale e i grandi personaggi del tempo è affidato a un’iscrizione venuta alla luce nel 1844, durante gli scavi che
portarono alla scoperta fortuita del teatro romano ed entrata nelle collezioni del museo. Nell’iscrizione si ricorda Lucio Mummio, il console trionfatore di Corinto nel 146 a.C. e il conquistatore della Grecia, che doveva avere un rapporto speciale con la città. La fortuna duratura di tale rapporto è suggerita dal fatto che l’iscrizione in questione, scolpita probabilmente nei primi decenni del I secolo a.C., ne riprendeva una piú antica e coeva agli avvenimenti. Attraverso la presentazione di numerosi reperti solo apparentemente minori, l’esposizione ricostruisce dunque una storia suggestiva della prima Parma, ribadendo l’importanza dei dati che possono derivare dall’indagine archeologica. dove e quando «Storie dalla prima Parma. Etruschi, Galli, Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche» Parma, Museo Archeologico Nazionale fino al 2 giugno Orario ma-ve, 9,00-17,00; sa, do e festivi, 12,30-19,30 Info tel. 0521 233718; e-mail: sba-ero.museoarchparma@ beniculturali.it Catalogo «L’Erma» di Bretschneider
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civiltà cinese • le origini/4
stagioni di guerra di Marco Meccarelli
Elementi decorativi in giada originariamente applicati su una veste, dalla tomba M 31 della necropoli di Tianma-Qucun (Shanxi). Epoca Jin, VI sec. a.C.
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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Primavere e Autunni e Stati Combattenti : questi nomi, nelle fonti storiche cinesi, descrivono un’epoca di cambiamenti nella storia del paese, in cui «invasioni barbariche» e forze centrifughe portano alla frammentazione dei regni. ma è un periodo che vede uno sviluppo demografico e culturale senza precedenti e che inaugura, con la nascita del confucianesimo e del taoismo, un nuovo corso del pensiero filosofico
U
na rivoluzione politica e culturale sconvolge la Cina nell’VIII secolo a.C.: il potere centrale dei Zhou Occidentali (XI secolo-771 a.C.) mostra segni di cedimento, perché il sovrano, capo sacrale indiscusso, non riesce piú a detenere il controllo sui numerosi principati periferici, che iniziano a eludere la periodica visita a corte e, sotto la spinta di incursioni nomadi, fondano regni indipendenti con forme autonome di organizzazione sociale, gestione militare, e diffusione di monete, pesi, misure e persino sistemi di scrittura locali. La gloriosa fase delle Tre Dinastie ereditarie (Xia, Shang e Zhou; vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013), che dal II millennio a.C. aveva dato vita alla prima forma di entità statale in Cina, giunge al suo epilogo: nel 771 a.C. un feudatario chiede aiuto ai «barbari» dell’Ovest per conquistare la capitale Hao (Shanxi), che viene messa a ferro e fuoco; il re viene massacrato, cosí come buona parte della popolazione. I Zhou sono costretti a ritirarsi verso Oriente, dove a Luoyang (Henan), viene stabilita la nuova capitale, e si dissolvono in un coacervo di principati feudali, in cui prevalgono forze centrifughe, malgrado i tentativi di imbrigliarle e contenerle. I privilegi dei vassalli erano consacrati dal re dei Zhou attraverso un protocollo fortemente gerarchizzato di do-
nazione e scambio di oggetti rituali; ora, invece, i capi dei nuovi Stati rivendicano persino il diritto di guidare le cerimonie precedentemente riservate al capo sacrale. Questa complessa fase storica viene spesso definita dei Zhou Orientali (770-221 a.C.), ma tale periodizzazione mal si adatta all’evoluzione artistica e ai radicali cambiamenti sociali e culturali che la caratterizzano; si tratta, infatti, di un periodo di divisione complesso e articolato, che non può essere ricondotto a una sola dinastia. I Zhou, passando da Occidentali a Orientali, mantenIn basso: un dui, vaso per contenere cibi, ageminato in oro e argento. Epoca dei Zhou Orientali, IV-III sec. a.C. Londra, British Museum.
gono un ruolo nominale e religioso, ma perdono la propria autorità politica e il dominio culturale. Ecco perché la suddivisione nelle due fasi Primavere e Autunni (Chunqiu, 770-475 a.C.) e Stati Combattenti (Zhanguo, 475-221 a.C.), che ritroviamo nelle fonti storiche cinesi, descrive meglio l’effettivo stravolgimento e fornisce una collocazione piú chiara per quelle opere che escono dal tracciato ordinario, in quanto espressione di caratteristiche locali, difficili, se non impossibili, da datare con precisione.
radici neolitiche Per quanto «anarchica», la multiforme costellazione degli Stati, da un lato, trae origine dalla varietà di culture regionali e gruppi etnici del Neolitico (8000-2000 a.C.; vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013); dall’altro, consolida l’indiscutibile multi-etnicità che caratterizza, ieri come oggi, la civiltà cinese. In questo caso, l’interazione dialettica tra i nuovi regni deter mina la «contaminazione» con cui viene definita, nel III secolo a.C., l’arte del primo impero centralizzato. Collocandosi tra la tarda età del Bronzo (1100600 a.C. circa) e la nascita dell’impero cinese, questo periodo rappresenta la prima «fase di transizione» della Cina, la prima delle «invasioni barbariche», in cui l’intensificarsi del processo di frammentazione dell’autorità politica coincide a r c h e o 39
civiltà cinese • le origini/4
Choson 7
Xianyum
6 8
9
3 1 2
5 4
Baoji
11
10
Qiang
Sui
Viet
Stati cinesi 1. Zhou 2. Zheng 3. Wei
4. Sing 5. Lu 6. Qi
7. Yan 8. Jin 9. Qin
In alto: vasi in bronzo rinvenuti nella tomba di un aristocratico scoperta a Suizhou (Hubei). Epoca dei Zhou Occidentali, 1046-771 a.C.
10. Chu 11.Wu
In alto: cartina con l’indicazione degli Stati cinesi nell’ultimo periodo delle Primavere e Autunni. A destra: cartina con l’indicazione degli Stati combattenti. In basso: vaso rituale (he) in bronzo, dalla necropoli di Tianma-Qucun (Shanxi). Epoca Jin, VI sec. a.C.
o
Dai
Yan
Ji
Golfo di Jili
Fi
um
e
Gi all
Zhao
lo ial Linzi
Handan
Wei Anyi
Qin Nanzheng
Yong
Wei
Xianyang
Han
Han
Chen Cai
Chu Shu Ba
Ying
Qi
Mar Giallo
Daliang
Yangzhai
Danyang
Fiu
Ye Wei
Luoyang
G me
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Hu
Shouchun
Wuxi
ze
gt
n Ya
Nella pagina accanto, in basso: ritratto di Confucio, fondatore della dottrina che, con gli Han, divenne ideologia di Stato. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
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CONFUCIANESIMO E TAOISMO
con un sorprendente incremento demografico, economico e culturale, che pone le premesse allo sviluppo del pensiero filosofico. Per una società che vive una profonda confusione spirituale e ideologica, la definizione di un sistema di valori capace di costituire il fondamento del nuovo ordine, funzionale al controllo sociale e alla pratica di governo, diviene un’istanza primaria. Nascono i «pensatori erranti», intellettuali che veicolano una pluralità di opinioni davvero sorprendente, alla ricerca di un sistema etico-filosofico con cui regolamentare le principali correnti di pensiero della Cina, come attesta l’emergere delle cosiddette Cento Scuole. Tra tutte si distinguono il confucianesimo e il taoismo, nati approssimativamente nel VI secolo a.C., che diverranno le ideologie ufficiali dell’impero (vedi box in questa pagina). È interessante evidenziare che, dagli inizi della fase Primavere e Autunni, si assiste a un processo di «semplificazione», per cui gli Stati, dapprima molto numerosi, si riducono gradualmente a poche decine, con l’assorbimento dei piú deboli da parte dei piú forti. La dinastia dei Zhou Orientali resiste solo nominalmente, poiché era interesse di tutti man-
tenerla tale, fino a quando il regno piú potente non fosse stato in grado di assumerne l’effettiva successione, come accadde pochi secoli piú tardi con i Qin, la prima dinastia imperiale (III secolo a.C.).
cronache romanzate A partire dal V secolo a.C., gli Stati combattenti (Zhao, Han, Wei, Qi, Qin,Yan e Chu), in lotta per l’egemonia, si riducono a sette. Non è un caso che vada fatta risalire a questi secoli la prima attestazione scritta con cui i Cinesi definiscono oggi la propria nazione: Zhongguo, traducibile, perlomeno in questo frangente storico, in «Stati centralizzati», laddove si vanno affermando nuovi equilibri tra i regni della Pianura Centrale (Zhongyuan) e quelli periferici, sempre piú estesi e potenti. La letteratura e le cronache storiche si dilettano spesso nella descrizione minuziosa e talora romanzata di questo periodo, caratterizzato da continui scontri militari, alleanze che mutano al variare degli eventi, intense attività negoziatrici, ma anche tradimenti, colpi di mano ed assassini efferati. Dall’VIII secolo a.C., l’unitarietà stilistica, precedentemente imposta dalle fonderie regie, si disgrega, alla
Il termine confucianesimo (rujia), deriva da Confucio (Kongfuzi, 551-479 a.C.), il quale propose un saldo sistema rituale e un’efficace dottrina morale e sociale. L’uomo deve praticare nei confronti dei suoi simili la rettitudine (yi), l’umanità (ren) e la pietà filiale (xiao), e adempiere ai riti (li) che scandiscono i rapporti tra gli individui e la società. Proponendo un sistema fortemente relazionale, il confucianesimo divenne, dagli Han in poi, ideologia di Stato. Il taoismo (daojia) affonda le sue radici nell’antica cultura cinese e si fa risalire al probabilmente leggendario Laozi (VI secolo a.C.?). A differenza del confucianesimo, tende a evitare i chiari codici comportamentali in favore di un’etica fondata su valori correlati all’approcciarsi naturale dell’uomo al mondo. Secondo il taoismo trovare la via (dao) significa seguire la propria natura rispettando un agire spontaneo. Se il confucianesimo pone l’accento sulla relazione gerarchica dell’uomo con la comunità, il taoismo privilegia invece il rapporto spontaneo dell’individuo con il mondo fenomenico.
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stregua del potere politico centrale, in molteplici correnti regionali: alcune presentano caratteri fortemente innovativi, mentre altre si dicono depositarie della tradizione. La sferzata al sistema di discendenza dinastica, grazie all’incremento dei conflitti interni che impone l’utilizzo di risorse per soddisfare le necessità belliche, fa registrare notevoli progressi tecnologici che interferiscono direttamente con lo sviluppo artistico; il bronzo perde la sua esclusiva regalità conseguita nei secoli, per la comparsa, tra il VII e il V secolo a.C., di un nuovo materiale, il ferro, e dei suoi derivati, la ghisa bianca e l’acciaio, che permettono la realizzazione di armi piú maneggevoli ed efficaci, e forniscono all’agricoltura nuovi attrezzi. Non solo. Alcune tecniche messe a punto nel IV secolo a.C., o poco prima, rendono possibili nuove espressioni artistiche, la cui utilizzazione assume aspetti differenti a seconda delle regioni e dei relativi laboratori di specializzazione: l’arte dell’agemina e la lacca, per esempio, rientrano in quest’epoca fertile di 42 a r c h e o
64 campane per iL MARCHESE La tomba del marchese Yi di Zeng, databile al 433 a.C. (intorno al 420 a.C. secondo analisi al 14C), viene considerata il ritrovamento singolo piú importante del periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.) e una delle piú importanti scoperte dell’archeologia cinese del XX secolo. Rinvenuta nel settembre del 1977 a Leigudun (Hubei), la tomba, che si sviluppa verticalmente, all’interno di una piccola collina, a una profondità di circa 13 m, copre una superficie di 19,7 × 15,7 m. Il marchese, che gestiva una piccola entità politica in gran parte sotto il controllo del regno di Chu, era stato sepolto dentro sarcofagi laccati e dipinti (posti uno dentro l’altro), con altri otto sarcofagi di accompagnamento, oltre a una bara contenente un cane. Il corredo della sepoltura era costituito da ben 15 404 manufatti, tra bronzi, tessuti, ori, giade, legni laccati, pelli e ceramiche. La camera centrale simboleggia la sala delle cerimonie di un’abitazione aristocratica ed era colma di 125 strumenti musicali di bambú, bronzo, pietra e legno, comprendenti campane, tamburi, strumenti a corda, organi a fiato, flauti, affiancati da ben 1851 accessori, tra cui telai, bacchette e supporti per la sospensione e vasi rituali di bronzo. Particolarmente interessante è l’imponente gruppo formato da 19 campane niuzhong, 45 campane yongzhong e una campana bozhong. Ognuna presenta iscrizioni (3755 caratteri in totale), perlopiú con caratteri intarsiati in oro, che riportano i toni di ogni campana e registrano la complessa corrispondenza tra le note musicali e i loro corrispettivi negli Stati di Chu, Jin, Qi, Shen, Zhou e Zeng. Non mancano altri reperti di rilievo, come, per esempio, una scultura di legno laccato raffigurante un cervo, un pendente di giada decorato da un motivo intrecciato e una mappa astronomica su una cassetta di legno laccato
invenzioni, la cui sperimentazione ha interessato tutte le tecniche utili allo sviluppo dell’arte, come la pasta vitrea o i tessuti. E la contaminazione di queste innovative scoperte incoraggia la tendenza all’ornamentazione.
stili e tendenze Il succedersi delle scoperte archeologiche chiarisce sempre meglio l’orizzonte culturale derivato dalla varietà di stili e tendenze che si affermano in questa fase storica. È quindi possibile rintracciare alcune caratteristiche delle tradizioni artistiche del Nord e del Sud della Cina che si ritrovano in due Stati in particolare: i Jin e i Chu, i piú potenti. Risultano particolarmente significativi, in questa prospettiva, i dati provenienti dal ducato di Jin, situato nella Cina settentrionale (Shanxi) e costituitosi alla fine dell’XI secolo a.C. Sono stati individuati i resti di Xintian (a
Modello in scala della tomba del marchese Yi di Zeng, esposto nell’Hubei Provincial Museum di Wuhan.
che riporta le 28 dimore lunari e l’Orsa Settentrionale, fiancheggiata da un drago e da una tigre. I manufatti rinvenuti in questa sepoltura mostrano forti influssi Chu, mentre la tipologia e le associazioni dei bronzi rituali sono profondamente influenzate dalle culture della Pianura Centrale.
Nella pagina accanto: parte delle 64 campane in bronzo rinvenute nella tomba del marchese Yi di Zeng a Leigudun. 420 a.C. circa. Wuhan, Hubei Provincial Museum.
Qui accanto: vaso in bronzo, dalla tomba del marchese Yi. 420 a.C. circa.
Houma), una delle capitali, fondata nel VI secolo a.C. e abbandonata nel 376 a.C. In un esteso cimitero (3800 × 2800 m), a Tianma-Qucun (Shanxi), sono state rinvenute oltre 600 tombe, i cui corredi mostrano un particolare gusto per il dettaglio e per la precisione dell’esecuzione, che rivelano una vera e propria «rivoluzione del cerimoniale»: le figure di animali compositi a tutto tondo, cosí come le sculture aggiunte sui vasi di forma piú classica, che riproducono il mondo faunistico (anatre, pesci, tartarughe, ma anche un uccello col serpente tra gli artigli o un ariete che calpesta un rettile), vengono ritratte assieme a motivi geometrici, che assumono le forme di trecce, tortiglioni, collane di cauri, raffigurati con estremo realismo. I vasi sacrificali dalle bizzarre tipologie e dagli eccentrici motivi decorativi potrebbero volgersi al recupero di modelli molto piú antichi, di cui si è persa l’effettiva valenza simbolica. Ai bronzisti dell’epoca Jin vengono comunemente attribuite una grande padronanza tecnica e una profonda a r c h e o 43
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vena creativa, ma i reperti mostrano anche un altro aspetto non secondario: la produzione di questi laboratori sembra essere il fulcro creativo di molteplici correnti di ispirazione che comprendono decori piú astratti, combinati talvolta con la maschera zoomorfa del taotie, l’animale composito diffuso sui manufatti Shang (XVI-XI secolo a.C.) e forse derivato dai contatti o dagli scambi tra i Jin e le regioni orientali. Trapela una vivace «rigenerazione» di motivi piú specificatamente cinesi, assieme a un carattere quasi prosaico degli accessori e a un naturalismo nella resa degli animali a tutto tondo che nasconde qualcosa di inaspettato: l’arte dei Jin sembra, infatti, attestare la contaminazione dei contributi provenienti dalle popolazioni nomadi stanziate nelle frontiere settentrionali, le cui frequenti incursioni hanno da sempre rappresentato una minaccia per gli insediamenti cinesi. Le prime costruzioni di «grandi muraglie» difensive, ai confini settentrionali e occidentali, miravano a delimitare due «mondi nemici»: quello del pastore nomade, tra le steppe e i pascoli, e quello dell’agricoltore sedentario, tra le terre del loess e delle colture.
l’arte delle steppe Nella sua immensa area di estensione, dal cuore dell’Eurasia al NordOvest della Cina fino alla Siberia meridionale, l’arte delle steppe è al servizio di un’aristocrazia guerriera che ostenta un gusto marcato per i metalli preziosi, come l’oro, subordinando i motivi zoomorfi a un Scultura che raffigura forse uno sciamano, ai cui poteri alluderebbero le corna. Epoca dei Zhou Orientali, IV sec. a.C. Londra, British Museum.
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acuto senso del ritmo e del disegno, quasi a voler conferire all’oggetto, in una dinamica simbiosi delle forme, la potenza ferina del mondo animale. Non devono stupire, quindi, gli elementi comuni tra i manufatti Jin e quelli delle popolazioni delle steppe: li riscontriamo nell’attenzione alla riproposizione fedele dell’aspetto naturalistico che si distacca dalla tendenza cinese a scombinare e ricomporre piú soggetti faunistici, con ogni sorta di artificio, ai limiti dell’astrattismo. Derivato dai nomadi è anche il contrasto cromatico delle diverse tecniche di ageminatura, nelle varianti in rame e in argento, con cui viene affrontato il tema della caccia o del combattimento tra animali selvaggi, anche quando occupa una posizione marginale nella narrazio-
LE «FASI DI TRANSIZIONE» DELLA CIVILTÀ CINESE È tipico, nella civiltà cinese, l’emergere di fasi storiche di transizione in cui il sistema dinastico viene sconvolto dall’incursione di popolazioni straniere, definite «barbare» dagli storiografi ufficiali, che contribuiscono anche a provocare un fermento culturale senza precedenti. Numerosi sono gli aspetti in comune, per esempio, tra la prima (771-221 a.C.) del periodo 1000
Dinastia Zhou Occidentali 1046-771 a.C. circa
ne figurativa o si colloca accanto a temi cinesi, dal chiaro rigore compositivo. A tal riguardo, Charles D. Weber ha evidenziato come tali motivi, presi in prestito dai nomadi, siano stati immediatamente adattati al gusto dei cinesi, a testimonianza di come forme decorative e tecniche straniere si siano facilmente amalgamate con le esigenze locali.
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una cultura raffinata È piuttosto complesso definire la sfera di influenza delle manifestazioni artistiche riferibili alla cultura Chu, fiorita tra l’VIII e il III secolo a.C. nelle regioni della media valle del Fiume Azzurro (Yangzi). Sappiamo che le relazioni tra lo Stato di Chu (475-221 a.C.) e gli altri regni, portarono a prolifici scambi culturali, come testimoniano i numerosi manufatti, ma è fuori discussione che l’eredità Chu sia stata accolta successivamente nella tradizione artistica della dinastia imperiale Han (206 a.C.-220 d.C.). Per questo motivo si preferisce oggi considerare la cultura in questione non in senso
«statico», ma come il risultato di Elemento in forma di testa di dragone, contributi molteplici, sedimentati originariamente appartenente alla nel corso dei secoli. decorazione di un carro, da Jincun. Il nucleo originario di provenienza Bronzo con inserzioni d’oro, argento e corrisponde alle odierne province pasta vitrea. Fine del periodo dei Zhou dello Hubei e dello Hunan, nelle Orientali, 300-250 a.C. Washington, quali sono stati rinvenuti numerosi Smithsonian Institution. recipienti in bronzo riferibili alla fase Tardo-Shang (XIII-XI secolo a.C.), in cui la produzione metallurgica presenta chiare divergenze – per dimensioni, decorazioni e tenori delle leghe metalliche – rispetto alle produzioni attestate nella Cina settentrionale. La prosperità di Chu si manifesta in modo particolare nella realizzazione di tombe dalle dimensioni variabili, con piú camere, mentre i defunti vengono seppelliti in sarcofagi di legno laccato, incastrati l’uno dentro l’altro, con ricchi corredi funebri. L’insieme è ricoperto da materiali diversi: stuoie di bambú, carbone di legna e strati di argilla. Nelle strutture piú complesse, ogni camera ha una funzione specifica, come a voler rievocare le stan-
Primavere e Autunni e Stati Combattenti e la seconda «fase di transizione» (221-581 d.C.), attestata tra la caduta degli Han e la riunificazione dell’impero, con la dinastia Sui. I due periodi sono accomunati dal frazionamento territoriale in regni piú o meno potenti e spesso di origine straniera, che manifestano un peculiare carattere regionale.
Durante le Primavere e Autunni e gli Stati Combattenti, oltre alla nascita delle cosiddette Cento Scuole, è da segnalare anche il «legismo», dottrina con cui Qin Shi Huangdi fonderà l’impero, nel III secolo a.C. Nella successiva fase di transizione, antecedente la riunificazione della dinastia Sui, il buddhismo, dottrina nata in India, nel VI secolo a.C., penetra in Cina, anche come
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Dinastia Zhou Orientali 771-256 a.C.
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Primavere e Autunni 770-475 a.C. circa
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strumento di legittimazione di popoli stranieri; dopo aver attraversato l’Asia Centrale, dove accoglie l’eredità delle numerose culture che vi si sono stanziate, la dottrina indiana assimila, nei primi secoli dell’era volgare, i caratteri propri della visione del mondo e dei culti ancestrali della Cina attraverso un processo di «sinizzazione», e diviene la terza dottrina (sanjiao) ufficiale.
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Stati combattenti 475 circa-221 a.C. Dinastia Qin 221-206 a.C.
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Dinastia Han Occidentali 206 a.C.-9 d.C. a r c h e o 45
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Gruppo in bronzo ageminato raffigurante una tigre che attacca un cerbiatto, dal cimitero reale del regno di Zhongshan. IV sec. a.C. La scultura si rifà alla tradizione dell’arte animalistica.
ze di un’abitazione nobiliare, costruita attorno alla sala delle cerimonie. L’esempio piú significativo proviene dall’eccellenza e dall’originalità del mobilio della tomba del marchese Yi di Zeng (Hubei, V secolo a.C.; vedi box alle pp. 42-43). Tra i bronzi rinvenuti nelle tombe di Xiasi (Henan, metà VI secolo a.C.), invece, vi sono sette shengding (tripodi a fondo piatto), recanti l’iscrizione «Principe reale Wu» («Wangzi Wu»). È un vaso tipico, 46 a r c h e o
valenza di figurazioni mitiche o apotropaiche di derivazione faunistica, mediante l’ampio ricorso all’ageminatura. Straordinario è stato il ritrovamento di reperti organici, quali legno, bambú e seta, risalenti al III secolo a.C., conservatisi grazie alle particolari condizioni anaerobiche determinate dalle tecniche costruttive impiegate nelle tombe piú importanti. I reperti in legno comprendono statuette funerarie, elaborati supporti per tamburi cerimoniali, strumenti musicali e piccoli oggetti d’uso. Non mancano immagini scolpite di guardiani della tomba, che si possono considerare i prototipi di quelle simili, in ceramica, rinvenute nelle sepolture piú tarde, di epoca Sui e Tang (581-907 d.C.).
realizzato anche in ceramica, fino al II secolo a.C., e riservato ai nobili di rango elevato. Caratterizzato da una forma massiccia e da un’imponente decorazione, il tripode attesta il pomposo culto degli antenati nelle alte sfere della società. Tema particolarmente ricorrente è il cosiddetto «stile Huai», definizione un tempo riferita alla tendenza artistica adottata nella Cina meridionale e che si basa in particolare su ornamenti a intreccio, con pre-
la fenice, animale totemico I temi ritratti nei reperti archeologici sono riferiti, non senza contestazioni da parte degli studiosi, ai culti sciamanici, come attestano anche alcuni componimenti dell’antologia poetica Le canzoni di Chu (Chu Ci) del IV-III secolo a.C. La fenice era il principale animale totemico e aveva il ruolo di portare l’anima del defunto nell’aldilà; non a caso è frequentemente raffigurata sui corredi e nelle sue varianti che spesso la vedono sia nello stile composito (corna di cervo), sia accostata ad altri animali (serpenti e tigri): tra i simboli sacri dell’iconografia della Cina classica, l’animale mitico si elevò poi a emblema dell’imperatrice. I volatili hanno svolto un ruolo significativo nell’arte e nell’iconografia di Chu, ma non mancano immagini e decorazioni del mondo celeste, delle sue costellazioni e dei suoi astri, cosí come di animali, cari alla mitologia Han, che fungo-
no da emblemi dei punti cardinali (il drago dell’Est e la tig re LA PLACCA DI ZHONGSHAN dell’Ovest). La tomba, in pratica, adotta le dimensioni di una dimora terrena, ma va anche oltre, perché intende rappresentare il mondo e tutto l’universo. Il bronzo, spesso decorato con intarsi ad agemina di vari minerali e pietre dure, è utilizzato soprattutto per vasellame che contempla tipologie differenti, come lampade, campane e specchi, questi ultimi realizzati per scopi funzionali e magico-rituali. Il vasellame per i riti, che tanta fortuna aveva avuto nell’età del Bronzo (2000-600 a.C. circa), lascia progressivamente il po- Tra il 1974 e il 1978 è stato rinvenuto il cimitero reale del regno di sto a recipienti e utensili destinati Zhongshan (Hebei), stabilito nel IV secolo a.C. da una popolazione alla vita quotidiana delle famiglie discendente da genti seminomadi, insediatasi nella Cina settentrionale tra aristocratiche: è la strada verso ri- l’VIII e il V secolo a.C. Secondo le fonti, il re Cuo (320-308 a.C. circa) cerche decorative e stili meno for- pianificò per sé e le sue consorti un grandioso complesso funerario, mai mali e piú creativi. completato. Ne rimane il progetto, documentato su una placca di bronzo La giada, considerata, almeno nel rinvenuta nella tomba dello stesso re Cuo, considerato il piú antico Tardo Neolitico (3000-2000 a.C.; progetto architettonico dell’Asia Orientale a oggi noto. La placca presenta vedi «Archeo» n. 336, febbraio la pianta delle tombe, le misure e commenti in agemina d’oro e d’argento, 2013), un esclusivo oggetassieme ai ricchi elementi del corredo funerario. to rituale, viene ormai Sono evidenti i richiami a tradizioni differenti da utilizzata prevalentemenquelle presenti lungo la media valle del Fiume te per dischi, accessori di Giallo (Huanghe). L’origine settentrionale di spade, fermagli, fibbie, Zhongshan è evidente dai numerosi manufatti pendenti a forma di drache richiamano il mondo nomadico. go, tigre, uccelli e pesci. Particolarmente interessanti sono i cinque Cosí come la lacca, l’oro, grandi tridenti e i numerosi vasi rituali di bronzo, la giada, anche l’arte della che presentano lunghe iscrizioni celebrative del seta raggiunge a Chu alte sovrano. Non mancano i richiami all’arte espressioni sia a livello animalistica, tra cui una coppia di mitici animali tecnico che formale, coalati di bronzo ageminato in argento. me attesta, per esempio, l’arredo funerario di una tomba del IV e III secolo a.C., scoperta a Mashan (presso Jiangling, Hubei) nel 1982. I resti in seta ricamati e tessuti presentano una decorazione simile a quella di molti oggetti dell’epoca, indirizzata verso l’alternanza di motivi geometrici e regolari con quelli di ispirazione umana, vegetale e animale. Lo straordinario rinvenimento mostra che almeno le popolazioni della Cina centro-meridionale erano in grado di padroneggiare, sin dalla fine degli Stati Combattenti, tutte le fasi tecnologiche della filatura della seta. In alto: la placca in bronzo con la pianta della tomba del re Cuo. L’arte delle Primavere e Autunni e Al centro: sezione ricostruttiva della tomba del re Cuo. degli Stati Combattenti, nella sua Qui sopra: disegno ricostruttivo delle tombe reali di Zhongshan. a r c h e o 47
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un’epoca di trasformazioni Intervista a Sarah Allan Sarah Allan, sinologa di fama internazionale, insegna lingua e letteratura dell’Asia Centrale e Orientale presso il Dartmouth College (Hanover, USA). La sua indagine verte in particolare sulle prime forme culturali, di scrittura e di testi riferibili alla Cina antica, con particolare interesse allo sviluppo dell’antico sistema filosofico cinese. Numerose sono le sue pubblicazioni al riguardo. Ha curato, tra l’altro, The Formation of Chinese Civilization: An Archaeological Perspective, pubblicato nel 2005 dalla Yale University.
◆ Quali possono essere considerati gli elementi di
continuità con le epoche precedenti che si attestano durante le Primavere e Autunni e gli Stati Combattenti? Nel periodo delle Primavere e Autunni e degli Stati Combattenti il sistema sociale della dinastia dei Zhou Occidentali si interruppe e si affermò una classe sociale il cui potere dipendeva dalla ricchezza acquisita. Questo periodo attesta anche un notevole sviluppo culturale al di fuori della corte e l’emergere del shi, una nuova classe di piccoli aristocratici, che permette la diffusione delle idee di filosofi e dei loro discepoli. Il collasso dell’antico sistema politico, religioso e sociale, stimola la ricerca di nuovi sistemi di teoria politica e di etica. Queste idee divennero la base della piú tarda tradizione filosofica cinese. Molte personalità di spicco, come Confucio e i suoi seguaci, erano specialisti dei rituali antichi e rafforzarono l’autorità derivata dalla profonda conoscenza del passato. Tuttavia trasformarono molte idee religiose antiche, per creare nuovi sistemi etici, secondo le esigenze del momento.
◆ Quali sono gli elementi di rottura rispetto al
passato? I cambiamenti delle credenze religiose testimoniano il mutare delle pratiche riferite al culto delle tombe, come mostrano le costruzioni dei sepolcri, ma anche i manufatti. Durante gli Shang e i Zhou Occidentali, le tombe contenevano soprattutto oggetti rituali, come bronzi e giade. I manufatti Shang erano di carattere religioso, quelli dei Zhou Occidentali sembrano iniziare a porre l’accento sull’autorità politica e la posizione sociale del defunto, anche se i vasi di bronzo rimangono le testimonianze piú significative. Nel periodo degli Stati Combattenti, i vasi in bronzo sono ancora presenti nelle tombe, che cominciano a essere trasformate in modelli sotterranei del mondo
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dei vivi. Verso la metà del V secolo a.C., questi cambiamenti testimoniano una crescente attenzione per gli oggetti di lusso e quelli legati alla vita quotidiana, rispetto ai corredi rituali. I vasi di bronzo sono spesso intarsiati con oro e argento: sono diventati oggetti importanti soprattutto per la loro bellezza estetica.
◆ Quali sono gli elementi principali di questo periodo
di transizione che entreranno a far parte della produzione artistica dell’impero? Le tombe imperiali, per esempio, a partire dalla dinastia Han, seguono la tradizione, consolidata nel periodo degli Stati Combattenti, della tomba come luogo di dimora dopo la morte. I soldati di terracotta – e, come scoperto piú di recente, i funzionari civili – associati alla tomba del primo imperatore dei Qin seguono lo stesso modello di riferimento.
◆ A suo avviso, quali Stati hanno avuto maggiore
rilevanza in questo periodo e perché? È difficile rispondere a questa domanda. Noi sappiamo molto di piú dei Qin e dei Chu. L’importanza dei Qin, per esempio, che risiede nell’aver mantenuto molte tradizioni dei Zhou Occidentali, è assai evidente. La regione di Chu è stata molto studiata perché presenta reperti in legno, bambú e lacca che non sono stati trovati altrove. I Chu avevano molte caratteristiche locali, ma sono stati anche assai influenti nelle epoche successive, per il rapporto che si è instaurato, sin dalle origini, con la dinastia imperiale degli Han.
◆ Lei si è molto interessata anche ai soggetti
rappresentati sui reperti del Neolitico e ai manufatti in bronzo. Quale valore hanno le «decorazioni» in questo particolare periodo storico? Ritroviamo molti dei motivi decorativi del Neolitico e del periodo Shang sui manufatti degli Stati Combattenti, in particolare sulle giade. In questo periodo, questi oggetti volevano richiamare probabilmente antichi rituali e un forte potere spirituale. Tuttavia, attestano anche altre valenze autoctone, appartenenti anche al pensiero cosmologico locale.
◆ Quali sono, secondo lei, le scoperte archeologiche
piú significative di questo periodo e perché? È stata a dir poco straordinaria la scoperta dei manoscritti su liste di bambú, scavate nella Tomba 1 di Guodian (Hubei), o quelli ora conservati presso il Museo di Shanghai e l’Università di Tsinghua. Il contenuto di questi manoscritti è strettamente legato ai classici di base e ai testi filosofici della tradizione cinese e sono stati sepolti, piú o meno, nel momento in cui morí il piú famoso discepolo di Confucio, Mencio (370-289 a.C.). Pertanto, questi reperti si riferiscono a un periodo precedente la persecuzione del confucianesimo e il «rogo dei libri», durante la dinastia Qin (III secolo a.C.). Alcuni sono prime versioni di opere famose, come il Daodejing di Laozi e il Libro dei Mutamenti (Yijing). Altri erano precedentemente sconosciuti e forniscono un saggio del background culturale del periodo. Questi reperti sono stati paragonati, per importanza, ai Rotoli del Mar Morto, ma, in termini di comprensione dello sviluppo della cultura cinese, credo siano anche piú significativi.
Nella pagina accanto: manoscritti su liste di bambú, dalla Tomba 1 di Guodian (Hubei). Periodo degli Stati Combattenti, 475-221 a.C. In basso: chimera in bronzo con inserti in oro e argento, dalla tomba del re Cuo. 320-308 a.C. Pechino, Museo di Storia della Città.
varietà e nella sua ricchezza, è testimone dei tempi e offre un contributo notevole allo sviluppo tecnologico di tutti i materiali, dal bronzo alla metallurgia, dalla giada alla lavorazione della pietra, senza contare la lacca e il filo di seta. Proficua è stata la contaminazione fra culture, che ha determinato la coesistenza di motivi e stili ibridi, siano essi naturalistici, compositi, geometrici o puramente grafici, in un dinamismo di ritmi che deflagra nell’arditezza di figure dai tratti sorprendenti.
alle soglie dell’impero Ma la storia continua il suo percorso: nel III secolo a.C., dei tanti regni formatisi durante le Primavere e Autunni, rimangono solo Chu,Yan, Qi e Qin. I Qin provano per ben due volte a invadere lo Stato di Chu, che nella prima occasione riesce a difendere i propri confini, ma, nel 223 a.C., dopo aver tentato una vana resistenza, viene definitivamente conquistato. La vendetta dei Chu non tarda: i Qin, depositari di un’altra cultura regionale, dai caratteri piú sobri rispetto all’esuberanza che pervade la grande tradizione meridionale, fondano la prima dinastia imperiale (221-206 a.C.), di vita breve. Fu invece un uomo della terra di Chu, ovvero Liu Bang (III-II secolo a.C.), a guidare la ribellione contro il primo imperatore e a fondare la gloriosa dinastia Han, regnante per ben 400 anni! Tutto è pronto per la nascita del millenario impero cinese. nella prossima puntata • L’esercito del primo imperatore a r c h e o 49
tell halaf il ritorno degli antenati perduti
Un ricco intellettuale tedesco arruolato nei servizi segreti alla vigilia della Prima Guerra mondiale, una collina che custodisce rovine e tesori di un antico regno dell’alta Siria, la misteriosa statua di una regina di 3000 anni fa che riemerge intatta dal terreno‌ Quella della riscoperta del centro neo-ittita di Tell Halaf è la storia di una straordinaria passione per la ricerca, calata nel contesto dei drammatici eventi storici e militari del Novecento di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner 52 a r c h e o
«Seguii lo stretto, pietroso sentiero che iniziava al margine della pianura. Una potente lampadina tascabile mi mostrava la via. All’improvviso il sentiero si allargò, e mi trovai di fronte a dei gradini. Involontariamente trattenni il passo. E come se in questo istante la natura avesse voluto un effetto teatrale, melodrammatico, le nuvole scomparvero dal cielo e una luna splendente inondò di pallida luce una scalinata, formata di pesanti lastre logorate dal tempo, una scalinata che dolcemente inarcandosi si slanciava verso il raggio di luna. La salii titubante. Essa si allargava, a destra e a sinistra vidi ortostati di pietra, quasi dell’altezza di un uomo, disposti in processione, l’uno a ridosso dell’altro, ricoperti di immagini meravigliosamente chiare. Poiché si trattava di rozzi rilievi, la luce della luna creava con i loro contorni un giuoco d’ombre vivissimo. Uomini e animali mi guardavano. Forse dèi, forse re?» (C.W. Ceram, Il libro delle rupi. Alla scoperta dell’impero degli Ittiti)
In questa pagina: la cosiddetta «Venere di Halaf» al momento della sua scoperta, il 12 marzo 1912. Nella pagina accanto: la statua, in realtà la raffigurazione funeraria di una regina dell’antica Guzana, oggi Tell Halaf (Siria), alla fine della recente opera di ricomposizione. X sec. a.C. circa. Ove non altrimenti indicato, tutte le opere illustrate sono attualmente conservate a Berlino nel laboratorio di restauro del Pergamonmuseum.
N
el passo riportato qui sopra, C.W. Ceram descrive il suo incontro con il sito neo-ittita di Karatepe, a una ventina di km dall’odierna città turca di Kadirli, presso il confine siriano. C.W. Ceram (1915-1972) fu lo pseudonimo che il giornalista e divulgatore di archeologia Kurt Wilhelm Marek assunse nel dopoguerra, per far dimenticare la sua opera di propagandista del Terzo Reich. Le scelte politiche sbagliate non ne avevano certo compromesso la penna. La fascinazione che emanano queste righe fu probabilmente la spinta che convinse molti dei suoi giovani lettori a intraprendere la carriera archeologica, mentre oggi improbabili manuali di mitologia celtia r c h e o 53
tell halaf • i luoghi della leggenda A destra: il barone Max von Oppenheim nella sua tenda, nel 1929. L’ambientazione e il casco in primo piano ben riflettono la cultura coloniale dell’epoca.
Nell’ombra del tracollo dell’impero ottomano, sculture colossali riemergono dalla polvere e rivelano le vicende di un regno dimenticato ca, erbari degli gnomi ed enciclopedie delle fatine stanno inesorabilmente erodendo, nelle grandi librerie, gli spazi prima occupati da libri di archeologia. Sembra, infatti, che il fantastico non possa piú convivere con l’oggettività e un minimo di serietà (per non parlare dell’etica dell’informazione di massa). Invece l’archeologia di storie fantastiche ne ha avute e ne ha ancora «da vendere». Eppure la realtà delle Civiltà Sepolte (per citare il titolo del piú famoso libro di Ceram, che vanta ben cinque milioni di copie vendute in tutto il mondo) finisce spesso per travalicare anche le fantasie piú fervide, come dimostra l’avventurosa vicenda che stiamo per raccontare. Quella di Tell Halaf è la storia della riscoperta di un antico regno e delle sue impressionanti divinità perdute: una vicenda «fantastica», alla quale non mancano, peraltro, risvolti paradossali, segnata come fu dal divagare, benigno ma anche rovinoso, delle ali della fortuna...
La vocazione del barone Max Max von Oppenheim era nato a Colonia nel 1860. Rampollo di una secolare dinastia di ricchi banchieri di origine ebraica, Max aveva deciso di abbandonare la diretta cura dei consistenti interessi familiari e di fare tutt’altro. Mentre oggi, vi sono archeologi che lasciano la carriera accademica – considerata poco remunerativa – per entrare nel corpo diplomatico, la A sinistra: statua (restaurata) di grande rapace in posizione eretta, dal bit-hilani (una sorta di tempio-palazzo) di Tell Halaf, X sec. a.C. circa
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strada percorsa dal barone von Oppenheim fu del tutto opposta: abbandonò senza rimpianti i fasti dell’alta finanza e la scintillante vita dei privilegiati nel nuovo, aggressivo Stato prussiano, poi entrò in diplomazia e nella complicata scacchiera della politica internazionale, per approdare, infine, ai polverosi cantieri di scavo del Vicino Oriente, che divennero la vera passione di una vita intera. Una vita vissuta pienamente: von Oppenheim, oltre che abile diplomatico, fu un agente segreto – una delle versioni prussiane del celeberrimo Lawrence d’Arabia –, un viaggiatore ed esploratore dell’Oriente, collezionista d’arte ed eccezionale fotografo – attività che non gli impedirono di apprezzare, nel contempo, le gioie della buona cucina e di una intensa vita... sentimentale. Nel 1896, troviamo Max impiegato al Consolato Generale tedesco al Cairo. Erano i tempi del «grande banchetto» organizzato dalle potenze occidentali sulle spoglie degradate dell’impero ottomano. Tra il 1850 e il 1870, la Sublime Porta aveva perduto lo Yemen e il controllo del traffico sul Mar Rosso, il predominio sulle coste del Mar Nero e il complicato mosaico degli stati balcanici; e si avvicinavano i tempi del primo conflitto mondiale, nel quale gli Ottomani avrebbero fatalmente preso le parti dei perdenti, firmando la propria condanna storica. Il giovane diplomatico – che in un clima di crescente antisemitismo non era certo favorito dalle sue origini – ebbe una parte importante nello sforzo germanico di limitare e contrastare la dilagante presenza britannica nel Nord-Africa e nel Vicino Oriente. Il barone diresse, infatti, la Nachrichtenstelle für den Orient, un ufficio di intelligence per gli affari orientali, che cercava di organizzare atti sovversivi e rivolte anti-inglesi in Egitto, in Persia e in India, in collaborazione con i locali movimenti nazionalisti, religiosi e socialisti. Nel corso di queste attività il giovane coltivò e maturò i suoi interessi etnografici e archeologici. Max von Oppenheim ci ha lasciato infatti una raccolta di ben 75 album, con 13 000 fotografie dei suoi viaggi ed esplorazioni, che documentano l’Oriente del tempo meglio di tanti rapporti scritti. Tre anni dopo il suo arrivo al Cairo, il barone, nel corso di un viaggio esplorativo nell’alta Mesopotamia per i lavori di costruzione della linea ferroviaria Baghdad-Berlino, fu condotto da una guida araba sulle rovine di Tell Halaf, sulle sponde del fiume Khabur. Come Karatepe, il sito si trova sull’attuale confine siro-turco, in una porzione di territorio oggi appartenente alla Siria nord-orientale, nel Governatorato di al-Hasaka, presso Ra’s al-’Ayn.
Una enorme «venere cubista» in basalto grigio emerge miracolosamente intatta dalla trincea di scavo
In alto: Tell Halaf, scavi 1913. La «Venere», nel luogo della scoperta, dove era stata posta a coronare una tomba regale costruita lungo il lato meridionale della Cittadella. A destra: 1930. Max von Oppenheim posa orgogliosamente davanti alla sua scoperta nel Tell Halaf Museum di Berlino.
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tell halaf • i luoghi della leggenda
disegno ricostruttivo di zincirli
Lo scopritore allora ignorava cheTell Halaf coprisse le rovine di un importante sito preistorico, fondato nel Neolitico (VII-VI millennio a.C.), e poi evolutosi nei due millenni successivi (la cultura calcolitica di Halaf – 6000-5400 a.C. circa –, celebre per la sua finissima ceramica coperta di intricati simboli, prese il nome dalla stessa località). Dopo il crollo dell’impero ittita, nel 1200 a.C., tribú aramee avevano attraversato l’Eufrate per occupare vaste regioni dell’attuale frontiera turco-siriana. Agli inizi del X secolo a.C., l’abitato di Tell Halaf era stato rifondato come capitale di uno di questi piccoli regni, il cui re piú importante, di nome Kapara (forse vissuto tra il 950 e il 900 a.C.) aveva speso grandi energie e risorse per abbellire la sua capitale. Era una città di forma rettangolare, cinta da mura spesse quasi 30 m e difese da torrioni quadrangolari, meno che sul lato naturalmente difeso dal corso del Khabur; comprendeva una città bassa affollata di edifici privati e una cittadella monumentale dove i re avevano concentrato le proprie residenze. Tra queste si trovava il bit-hilani, un massiccio palazzo in stile neo-ittita (la facciata del palazzo voluto da Kapara oggi è ricostruita come entrata monumentale al Museo di Aleppo, in Siria).
La scoperta e i primi scavi Giunto sulla superficie del tell, a von Oppenheim fu indicata la presenza, lungo i pendii polverosi della collina, di alcune sculture misteriose, parzialmente tornate alla luce in seguito all’erosione. Il loro stile era cosí «primitivo» da evocare un’impressione di remota, e arcana, antichità. Il 19 novembre del 1899 ebbero inizio gli scavi, in corrispondenza di ben quattro punti del tell, dove alcune grandi sculture affioravano dalla superficie. 56 a r c h e o
gli scavi di tell halaf
le citta-stato neo-ittite Le città-stato sorte nel Nord della Siria alla fine del II millennio a.C. sono variamente definite come neoittite, siro-ittite, o luvio-aramaiche (in quanto usavano a volte il prestigioso geroglifico luvio delle iscrizioni ufficiali ittite, pur essendo di cultura aramaica). I nomi dei re imitavano spesso quelli dei grandi sovrani degli ultimi tempi dell’impero ittita, e le loro grandi costruzioni emulavano ed elaboravano le idee degli architetti dei secoli passati, in particolare nelle porte monumentali di palazzi, templi e cinte urbane, affollate di immagini di leoni, grifoni, sfingi; mentre nei rilievi gli dèi – in particolare il dio della tempesta, Adad, la piú importante divinità della regione – scendevano a celebrare le imprese vittoriose dei sovrani locali. Gli Stati neo-ittiti promossero una nuova urbanizzazione. Le città, vaste da 20 a 50 ettari, erano munite di mura imponenti, e organizzate in settori murati concentrici. La città di Zincirli, come Tell Halaf/ Guzana, era protetta da torri, e aveva una cittadella pesantemente fortificata che racchiudeva i palazzi principali. Altre città dello stesso periodo, ricche di impianti monumentali, si trovano a Tell Taynat (l’antica Kinalua), ‘Ain Dara, Hama e nella stessa Aleppo. Tra queste città-stato vi era anche Karkemish, che, prima dell’indipendenza, era stata la capitale provinciale ittita della Siria settentrionale; qui porte, palazzi ed edifici di culto furono decorati con statue e rilievi in pietra lungo un arco di diversi secoli. A Tell Taynat, nelle rovine di Kinalua, capitale del regno neo-ittita di Patina (1000-700 a.C. circa), sono state recentemente scoperte sculture paragonabili a quelle di Tell Halaf/Guzana: in particolare, la parte superiore di una effigie umana in basalto, con barba, capelli ricci ed enormi occhi spalancati in pietre bianche e nere, che, integra, doveva innalzarsi per piú di 4 m.
Hattusa
Frigia Kiz
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7
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6
Tuwana
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8
5
Karatepe Zincirli
3
Adana
4
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Tigri
10
1
9 1Karkemish
2
Til-Barsip Nampigi
Assiria Tell Halaf/Guzana
Bit Bahyani
Halab (Aleppo) Qarqar
11
Hatarikka
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fra
12
Eu
Hama
Biblo
Fenicia Mar Maditerraneo
Damasco
1. Bit Adini 2. Bit Agusi 3. Yaudi 4. Pattina / Unqi 5. Gurgum 6. Kammanu
7. Tabal 8. Hilakku 9. Karkemish 10. Kummuh 11. Hatarikka-Luhuti 12. Hama
Nella pagina accanto, a sinistra: vista assonometrica dell’impianto murario della città neo-ittita di Zincirli (1000 a.C. circa). Si possono notare le porte interne munite di torri e la cittadella superiore, con il massiccio bit-hilani a coronare l’intera città. Nella pagina accanto, al centro: le rovine in mattone crudo scavate a Tell Halaf. In alto: carta geografica con la localizzazione dei principali centri urbani di cultura neo-ittita. A sinistra: una possente statua leonina recentemente rinvenuta negli scavi della cittadella neo-ittita di Taynat. X-VIII sec. a.C. circa.
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tell halaf • i luoghi della leggenda
Tell Halaf/Guzana, storia di una città potente 6000-5400 a.C. circa La cultura calcolitico-antica di Halaf prende il nome dalle bellissime ceramiche trovate da von Oppenheim in strati rimescolati del sito. Si distingue anche per l’uso di antichi sigilli a stampo e di case a pianta rotonda con corridoio di accesso. Affascinato dalla qualità delle ceramiche, von Oppenheim inizialmente crede che esse siano contemporanee alle grandi sculture. 5400-4000 a.C. circa A Tell Halaf si sviluppa un insediamento della cultura detta di Ubaid, protagonista dei primi stadi della «rivoluzione urbana» in Mesopotamia. L’insediamento però viene abbandonato per tre millenni. 1200 a.C. L’impero ittita crolla sotto la spinta di sommovimenti sociali e forse delle invasioni dei Popoli del Mare. Diverse tribú aramee occupano il confine meridionale dell’impero e vi stabiliscono una serie di piccole città-stato indipendenti, ancora fortemente influenzate dalla cultura ittita. 1100 a.C. circa Tribú pastorali nomadiche aramee sono menzionate come popolo nemico nelle iscrizioni del re assiro Tiglatpileser I (1114-1076 a.C.).
«Palazzo di Kapara, il figlio di Khadianu. Quello che mio padre e mio nonno, che sono diventati dèi, non hanno fatto, l’ho fatto io. Se uno infangherà il mio nome, sostituendolo con il suo, possano sette dei suoi figli essere bruciati davanti ad Adad, il dio della tempesta, e sette delle sue figlie possano essere dedicate alla dea Ishtar, come prostitute sacre. Abdi-il ha scritto il nome del Re. (Tell Halaf/Guzana, iscrizione su statua regale) Le iscrizioni aramaiche rinvenute permisero di attribuire al re Kapara, della casa di Bahyani, le grandi costruzioni, risolvendo anche un piccolo enigma biblico: alcune identificavano infatti Tell Halaf come Guzana, una città sotto il dominio assiro incidentalmente nominata in alcuni passi dell’Antico Testamento: «Nel nono anno di Hoshea, il re di Assiria prese Samaria e deportò gli Israeliti in terra Assira. Li stanziò a Halah, a Gozan sul fiume Khabur e nelle città dei Medi» (Libri dei Re, 17.6). Lo scavo del 1899 durò solo tre giorni, comunque sufficienti a confermare l’entità della scoperta. Per proseguire sarebbe stato necessario ottenere una regolare licenza di scavo alle autorità di Istanbul; e, soprattutto, la politica aveva le sue priorità. Solo nel 1910 von Oppenheim, spinto anche dalla notizia che i musei inglesi e francesi si mostravano molto interessati alle «sue» rovine, diede formali dimissioni dal corpo diplomatico, per dedicarsi interamente allo scavo di Tell Halaf.Tra il 1911 e il 1913, con l’aiuto degli architetti Felix Langenegger e Karl Müller, che avevano abilmente scavato a Babilonia per Robert Koldewey, von Oppenheim con58 a r c h e o
Ortostato con due tori androcefali che innalzano un disco solare alato sopra a un eroe, da Tell Halaf. X sec. a.C. circa. Aleppo, Museo. Il rilievo è solitamente interpretato come una raffigurazione dell’eroe mesopotamico Gilgamesh.
1000 a.C. circa La dinastia Bit Bahyani («Casa di Bahyani») sceglie il luogo di Tell Halaf come capitale. Nella Bibbia la città è chiamata Gozan (Guzana). 950-900 a.C. circa Sotto il re Kapara, Guzana viene fortificata e munita di una poderosa cittadella, che ospita templi-palazzo e mausolei ricchi di straordinarie sculture in calcare e basalto. 900-800 a.C. Lo stato di Guzana perde gradualmente la sua autonomia, cadendo sotto l’influenza dell’impero assiro. 800 a.C. circa Guzana è sede di un governatorato neo-assiro. La città neo-assira si chiama Sikan, e il governatore abita in un nuovo palazzo nella porzione sud-orientale della cittadella. Per alcuni, Sikan sarebbe il nome di Washukanni, la misteriosa capitale perduta del regno dei Mitanni (prima metà del II millennio a.C.). 600 a.C.-300 d.C. Guzana sopravvive alle crisi politico-militari e alla caduta del potere assiro, perdurando in età ellenistica, romana e partica.
centrò i suoi sforzi sulla cittadella quadrangolare, che sorgeva di fronte alla sponda fluviale. Portò in luce due palazzi, le statue dei re defunti, lunghi tratti delle mura urbane, due porte monumentali. Il bit-hilani o «tempio-palazzo» di Gozan era un complesso imponente provvisto di bastioni quadrangolari e torri. Gli accessi erano guardati da statue di aquile e dai cosiddetti «uomini-scorpione». Una scalinata e un’ampia terrazza conducevano a un portico alto piú di 6 m, con tre colossali statue-cariatidi in basalto (due uomini e una donna), montate su animali (due leoni e un toro), e protette sui lati da sfingi, sul retro da grifoni. Dato che le figure umane sono prive di attributi divini, esse rappresentavano forse antenati della famiglia reale.
Guerrieri, leoni e sovrani defunti Malgrado l’aspetto arcaico ed essenziale dei rilievi, come notò il grande storico dell’arte orientale Henri Frankfort nel 1956 «l’audacia della concezione del portico supera ogni sforzo intrapreso dagli scultori della Mesopotamia». Alla base del muro esterno e nelle stanze della costruzione correvano bassorilievi con immagini di guerrieri, leoni, scene di caccia, creature fantastiche. Molti pannelli scolpiti erano stati riutilizzati da edifici precedenti. Nei pressi del bit-hilani si trovavano, isolate o in coppia, statue colossali dei sovrani defunti, poste sopra i mausolei dinastici. La data del 12 marzo 1912 è cosí ricordata nel rapporto di scavo: «Fu uno dei miei personali momenti di esaltazione sul sito, quando, preso dalla gioia della scoperta, vedevo le forme della scultura che lentamente emergevano dal terreno» (Der Tell Halaf, 1931). L’archeologo stava guardando per la prima volta il volto, incredibilmente intatto, della cosiddetta «Venere di Halaf», la scultura che gli sarebbe rimasta piú cara. I testimoni del tempo ria r c h e o 59
tell halaf • i luoghi della leggenda
cordano come von Oppemheim, nel corso delle visite al suo futuro museo, non riusciva a trattenersi dal toccarla, quasi affettuosamente. Era l’immagine di una regina, eretta sulla camera tombale a volta che ne proteggeva le ceneri. Un volto triangolare, affilato, con naso e zigomi prominenti e incorniciato da due spesse trecce verticali, il tutto emergente, con una spinta davvero vitale, dal corpo cubico assiso in trono, scandito solo da una ciotola di offerta posta sul ginocchio destro. Esteticamente, questa possente ed inquietante immagine gioca tra la stasi di un cubo e la sua rottura verso l’alto operata da piccole forme triangolari e coniche.
La grande dispersione Gli scavi di Tell Halaf furono forzosamente interrotti per lo scoppio della prima guerra mondiale. Quando von Oppenheim riuscí a tornare sul tell, si era ormai giunti al 1929, e, dissoltosi lo Stato ottomano, il territorio del sito archeologico faceva ormai parte del Mandato franco-siriano. Purtroppo le lastre con i rilievi, alla luce dei criteri antiquari del tempo, erano troppe, e troppo affascinanti, perché si potessero evitare i rischi della loro dispersione. Le sculture trovate nel corso dei primi due anni di scavo, secondo le leggi allora vigenti, erano state in precedenza divise tra la parte tedesca e quella turca. Il primo lotto di sculture era stato dichiarato proprietà personale di von Oppenheim, mentre il secondo costituí una raccolta museale con sede ad Aleppo. Qui un nuovo allestimento museale fu curato personalmente dallo scavatore. Nel 1913 la legislazione ottomana era cambiata, vietando definitivamente l’esportazione di opere d’arte. Ma la collezione scultorea già giunta in possesso tedesco era ingente, e conteneva alcune delle opere piú importanti emerse dalle trincee di scavo. Lo scopritore mercanteggiò, e, nel 1930, riuscí a trasferire a Berlino le sculture che gli spettavano. Delle circa 200 lastre (segue a p. 64) 60 a r c h e o
Dopo il primo conflitto mondiale, gli ortostati di Tell Halaf vengono divisi come carte da gioco sparpagliate, e dispersi in diverse collezioni museali
perchÉ è importante Nella pagina accanto, in alto: due immagini del Tell Halaf Museum di Berlino, in Franklinstrasse 6. Nel 1943 il Museo fu centrato da una bomba al fosforo lanciata da un bombardiere alleato. Le sculture – una sessantina circa – furono letteralmente sbriciolate dall’impatto. In basso: nei sotterranei del Pergamon Museum, i frammenti scultorei recuperati dopo il disastroso evento.
T ell Halaf/Guzana è un esempio tipico di quelle piccole città-stato sorte nella Siria settentrionale, fondate da genti di stirpe aramea che nell’area erano giunte da oriente verso la fine del II millennio a.C. Questi cosiddetti «regni neo-ittiti» colmavano cosí il vuoto creatosi in seguito al crollo dell’impero ittita intorno al 1200 a.C.
Esplorato per la prima volta da Max von Oppenheim tra il 1911 e il 1913, il sito di Tell Halaf deve la sua celebrità soprattutto alla straordinaria decorazione architettonica del suo palazzo occidentale, il cosiddetto bit-hilani («casa a portico»), tipica forma di palazzo dei regni neo-ittiti, caratterizzato da un portico a colonne che immetteva in un atrio. L’accesso al bit-hilani di Tell Halaf era sorvegliato da grandi colonne figurate e sculture raffiguranti il dio della tempesta Hadad trasportato da un toro, affiancato dalla moglie e dal figlio, e numerose altre sculture di dimensioni imponenti. Non meno impressionanti sono, inoltre, due figure femminili sedute, scoperte da von Oppenheim sopra l’accesso di una tomba.
il sito nel mito
Una serie di elementi suggerisce un nesso tra il sito di Tell Halaf/Guzana con la regione di Gozan menzionata nell’Antico Testamento (2 Libro dei Re 17,6; 18,11) in cui si riferisce come gli Israeliti siano stati deportati – dopo la distruzione di Samaria nel 721 a.C. da parte degli Assiri – in Media, ma anche a Gozan. In testi da Tell Halaf e in una lettera da Guzana indirizzata ad Asarhaddon, re di Assiria dal 681 al 669 a.C., appaiono, inoltre, numerosi nomi ebraici.
In 2 Cronache 5,26 viene riferito che già Tiglatpilesar III, re di Assiria dal 745 al 727 a.C. avrebbe deportato gli Israeliti nella regione di Gozan, ma è probabile che si faccia riferimento, in verità, alle deportazioni sotto Sargon II (722-705 a.C.).
Il re assiro Adad-Nirari II (911-891 a.C.) sconfisse il re arameo Abisalamu (Assalonne) di Gozan. Un’ iscrizione dal sito di Tell Fekheriye (un sito non lontano da Tell Halaf e forse da identificare con Washukanni, capitale del regno di Mitanni) conferma che la regione era considerata parte della provincia assira già nel IX sec.. Negli anni 808 e 759-755 alcune rivolte aramee vennero represse dai re assiri Adad Nirari III e Assur Dan. È probabile cha a questi eventi si riferisca il passo nel Libro di Isaia 37, 12.
tell halaf nei musei del mondo
In un lavoro di quasi dieci anni i 27 000 frammenti basaltici facenti parte delle sculture rivenute da Max von Oppenheim nel palazzo di Tell Halaf (e andate distrutte durante la seconda guerra mondiale) sono stati ricomposti ed esposti in una recente mostra al Vorderasiatisches Museum di Berlino, dove sono tuttora conservati.
Numerosi reperti provenienti da Tell Halaf sono, inoltre, esposti al Museo Nazionale di Aleppo (Siria) il cui ingresso riproduce la facciata monumentale del palazzo bit-hilani di Tell Halaf.
informazioni per la visita
Tell Halaf si trova nella Siria settentrionale, ai confini con la Turchia. Nell’estate del 2006 sono ripresi, dopo 77 anni, i lavori di scavo condotti da una missione congiunta dei Musei Statali di Berlino e la Direzione delle Antichità e dei Musei di Damasco. Le vicende belliche in corso hanno interrotto tutte le attività archeologiche ed è sconsigliabile intraprendere alcun viaggio nell’area. L’Ambasciata Italiana a Damasco ha sospeso le proprie attività dal marzo del 2012. Info: www.viaggiaresicuri.it a r c h e o 61
tell halaf • i luoghi della leggenda
quel che resta di tell halaf Si deve a Walter Andrae, al tempo direttore di uno dei dipartimenti del Pergamonmuseum, la decisione di raccogliere meticolosamente i 27 000 frammenti delle sculture di Tell Halaf, e di depositarli, con un vero atto di fede, nei sotterranei del Museo, in attesa di tempi migliori. Alla fine del conflitto, il Museo passò alla Germania Est, e i frammenti furono dimenticati per mezzo secolo. Dopo la caduta del Muro di Berlino, il Museo fu in un certo senso «riscoperto», e con esso la
strana raccolta di sculture sbriciolate, che occupavano non meno di 80 mc. Lutz Martin e Nadja Cholidis nel 2001 iniziarono a considerare la possibilità di ricomporre parte delle statue, con fondi messi a disposizione dal Ministero degli Esteri tedesco e della Fondazione von Oppenheim. Oggi lo sforzo «impossibile» ha dato ottimi risultati. In basso: la sala dedicata alla ricerca degli attacchi tra le migliaia di frammenti recuperati.
In alto: un restauratore ritocca le integrazioni (le zone di colore bianco) applicate per sostituire le parti distrutte di un leone in basalto. A destra: l’opera di ricostruzione delle trecce verticali della «Venere di Halaf», troppo fragili per sopravvivere al bombardamento del Museo.
Tentare l’impossibile: la ricomposizione di un gigantesco rompicapo di 27 000 pezzi fa risorgere le statue di regine, re e mostri compositi
In alto: gli ultimi ritocchi alle superfici di una sfinge guardiana, anch’essa efficacemente ricomposta da una moltitudine di frammenti apparentemente informi.
In basso: un ortostato con un leone incedente: prima del disastro (a sinistra), e dopo la paziente ricomposizione di oltre 900 minute schegge (a destra).
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tell halaf • i luoghi della leggenda Le sculture di Tell Halaf, risorte a nuova vita, in esposizione temporanea al Pergamonmuseum.
scolpite che dovevano decorare in origine le costruzioni di Kapara, 59 presero la via della Germania, e solo 35 rimasero in Siria. Otto rilievi raggiunsero gli Stati Uniti, 15 andarono al British Museum di Londra, Parigi ne ebbe solo tre; delle sorti di un’altra ottantina di rilievi non si sa piú nulla. A Berlino, von Oppenheim cercò di donarle al Pergamonmuseum, in cambio di un’offerta monetaria, anche per recuperare parte degli ingenti capitali familiari investiti nella sua avventura archeologica. Ma il museo non volle, o non fu in grado, di sostenere l’esborso richiesto. A questo punto il barone decise di creare un suo museo privato, il Tell Halaf Museum, e lo fece, in tempi brevissimi, ristrutturando una vecchia fonderia abbandonata a Charlottenburg, un quartiere centro-occidentale di Berlino. Il Museo fu inaugurato nel luglio del 1930, forte di una spettacolare ricostruzione dell’intera facciata del portico del bit-hilani di Kapara.
Distruzione e rinascita Il Tell Halaf Museum divenne una celebre attrazione culturale, visitato da tutti gli intellettuali del tempo, ma visse solo per 13 anni. Poiché si trattava di una struttura privata, non fu incluso nel programma di protezione dei beni culturali berlinesi al tempo dei disastrosi bombardamenti anglo-americani. Max von Oppenheim deve aver pensato di contare ancora sulla sua buona sorte, ma questa volta non fu favorito. Nel novembre del 1943 l’edificio fu centrato in pieno da una bomba al fosforo. Mentre gli ambienti devastati ardevano, le statue in basalto, i rilievi in calcare e i calchi in gesso delle collezioni furono coperti dal bitume fuso che colava dal tetto e dai resti delle coperture in fiamme. Le 64 a r c h e o
statue si fessuravano, e il bitume ardente penetrava nelle crepe. La temperatura dell’incendio superò i 900° C. Se il basalto delle grandi statue aveva retto queste temperature elevatissime, l’effetto improvviso dei getti d’acqua usata per spegnere le fiamme fu devastante: per lo shock termico le statue andarono in mille pezzi. Una collezione di circa quaranta opere si trasformò in 80 t di schegge informi disperse sui pavimenti e sigillate dai crolli; il caso aveva distrutto quanto aveva prima donato. A merito di von Oppenheim va detto che riuscí a reagire positivamente e operativamente al disastro: nello scetticismo generale, ottenne infatti che i frammenti fossero accuratamente recuperati e portati definitivamente al Pergamonmuseum; e in uno dei suoi ultimi scritti, l’archeologo si augurò esplicitamente che le statue di Tell Halaf potessero essere un giorno ricostruite. Aveva visto giusto, ma non l’avrebbe mai saputo.Von Oppenheim morí infatti nel 1946, a 86 anni, tre anni dopo la distruzione del suo museo, mentre i Russi consolidavano il proprio possesso della capitale del Reich abbattuto, e per Berlino si preparavano quattro decenni di divisione. Ciò che sarebbe potuto diventare uno dei vanti del museo rimase abbandonato e dimenticato nell’oscurità, come un mucchio di pietre informi, sino a che, dopo la riunificazione delle due Germanie, nei primi anni Novanta, ci si rese conto che l’«impossibile» poteva essere infine tentato. I restauratori si sono trovati di fronte a circa 27 000 frammenti, spesso di dimensioni minime (vedi box alle pp. 62-63), e non vi sono stati computer e programmi praticolari a guidare l’opera di ricomposizione – solo vecchie fotografie, la pazienza degli operatori, occhi addestrati, e il sostegno economico dei discendenti attuali della famiglia dello scopritore. Alcune opere sono state ricomposte riassemblando piú di 1000 parti; altre – specie gli oggetti di minori dimensioni – sono risultate perdute per sempre. Ma una trentina di statue sono risorte, in forme che, malgrado l’integrità perduta, fanno rivivere i volumi colossali e le forme surreali che ispiravano i culti perduti degli antichi re. E, tra le prime, è rinata anche l’enigmatica «Venere» tanto amata dal nostro immaginifico barone. nel prossimo numero
gordio la fortuna dei frigi
mitologia • istruzioni per l’uso/4
l’enigma della successione 66 a r c h e o
A
bbiamo già avuto modo di osservare come spesso, nella mitologia, le contese per la successione al trono siano alla base di scontri, guerre e grandi imprese: si può dire che nella maggior parte dei casi la vera motivazione che spinge gli eroi del mito all’azione è la ricerca del potere o del riconoscimento del proprio rango elevato, sia esso di origine divina oppure umana. Partendo da questo punto di vista, in questo e nei prossimi numeri passeremo in rassegna l’epopea mitica designata complessivamente come «ciclo tebano», che prende le mosse dall’infelice storia di Edipo – eroe scellerato, seppure inconsapevole – e si conclude solo con la riconquista del trono da parte di suo nipote Tersandro.
di Daniele F. Maras
Vittima inconsapevole del fato, edipo, abbandonato in fasce, torna in patria da eroe, per poi scoprire solo dopo anni la terribile colpa di cui si è macchiato, uccidendo suo padre e sposando sua madre. Da Freud a Propp, i molti aspetti dell’interpretazione di uno dei miti piú famosi della letteratura greca
Una finestra sull’inconscio Esiste una interpretazione ormai tradizionale della vicenda di Edipo, che deriva dalla teoria rivoluzionaria di Sigmund Freud, il quale, alla fine dell’Ottocento, ipotizzò che i miti di tutto il mondo (e specialmente quelli classici) corrispondessero ad altrettanti archetipi delle pulsioni e delle spinte emotive piú profonde dell’animo umano. Da questa ottica, la leggenda del principe condannato dal destino a uccidere il proprio padre e sposare la propria madre, permise al padre della psicanalisi di codificare il «complesso di Edipo», da porre accanto al «complesso di Narciso» (o narcisismo) e ai meno noti complessi «di Fedra» e «di Elettra». Ma, come abbiamo cercato di dimostrare nelle puntate precedenti, nei miti c’è molto di piú: sono possibili diversi livelli di lettura e criteri di interpretazione di una stessa narrazione leggendaria, corrispondenti ai molteplici aspetti Edipo al cospetto della Sfinge, particolare della decorazione di un cratere apulo a figure rosse. Attribuito al Pittore della nascita di Dioniso, secondo quarto del IV sec. a.C. Taranto, Museo Nazionale Archeologico di Taranto.
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mitologia • istruzioni per l’uso/4
dell’animo umano e alle numerose bocche attraverso le quali il mito è stato raccontato e arricchito di particolari. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che le versioni letterarie giunte fino a noi degli eventi della mitologia greca – attraverso l’epica, i poeti tragici o i mitografi in prosa – hanno dietro di sé una lunga storia di tradizione orale, che a volte attingeva a memorie risalenti alla preistoria. Nel caso di Edipo, vorremmo privilegiare in questa sede una lettura del mito in chiave storica, inaugurata dallo studioso russo Vladimir Propp (1895-1970), a partire dal suo ormai classico Edipo alla luce del folclore (prima edizione, 1930).
Il bambino abbandonato Il racconto delle vicende di Edipo, in fin dei conti, è piuttosto semplice e lineare, nonostante i sottintesi e i retroscena, ignorati dal protagonista, rendano la narrazione piuttosto intricata, cosí come è stata raccontata dal tragediografo Sofocle nell’Edipo re. Edipo era destinato a essere l’erede al trono di Tebe, essendo figlio del re Laio e della regina Giocasta; ma una profezia del grande indovino Tiresia, che aveva predetto la morte del re per mano di suo figlio, causò la violenta reazione di Laio, il quale strappò il piccolo dalle braccia della madre e lo fece esporre in un luogo selvaggio sul monte Citerone, appeso per le caviglie. Il dettaglio raccapricciante della ferita ai piedi, necessaria ad appendere il piccolo, è in realtà un semplice espediente «eziologico», destinato a spiegare il nome dell’eroe, che in greco si traduce letteralmente «dai piedi gonfi». Per fortuna il bambino scampò al suo triste destino grazie all’intervento di Peribea, regina di Corinto, che lo salvò e che, non avendo figli, lo adottò assieme al marito Polibo. Edipo crebbe sano e forte fino alla maggiore età, quando in seguito a una disputa, qualcuno insinuò che non fosse veramente figlio di Poli68 a r c h e o
Il «fumetto» della tragedia
1 Sulle due pagine: affresco raffigurante il mito di Edipo, da una tomba di Hermopoulis. 200 d.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. 1. Edipo interroga la Sfinge; 2. da sinistra, si vedono
bo. Non soddisfatto dalle vaghe risposte del padre adottivo, l’eroe si risolse a interrogare l’oracolo di Delfi per chiedere di conoscere la verità. Ma, non appena giunse nell’antro della Sibilla, la sacerdotessa lo cacciò fuori inorridita, gridando di non poter tollerare la presenza di qualcuno che stava per uccidere suo padre e sposare sua madre.
Lite per la precedenza Turbato dalla terribile profezia, Edipo decise di non tornare in patria, per non rivedere mai piú Polibo e Peribea, e scelse a caso la direzione di Tebe. Lungo la strada Edipo si imbatté proprio in Laio, il suo padre naturale, in viaggio verso Delfi, preceduto dall’araldo Polifonte, che intimava agli altri viandanti di sgomberare la strada al passaggio del re. Il giovane non si af-
frettò a obbedire, causando l’ira dell’araldo e una lite sulla precedenza, che degenerò quando il carro di Laio avanzò fino a schiacciare il piede di Edipo: l’eroe infuriato si scagliò contro gli assalitori e li uccise tutti, compiendo cosí il proprio terribile fato e quello di Laio, caduto alla fine per mano di quel figlio che aveva scacciato. Il re di Tebe era diretto all’antro della Pizia per chiedere consiglio su come allontanare dalla sua città la minaccia della Sfinge, il mostro dal volto di donna e dal corpo di leone alato, che infestava le vicinanze. La creatura, comparsa improvvisamente dal nulla, sottoponeva ai malcapitati viandanti i suoi enigmi e, nel caso non sapessero rispondere – cosa che avveniva regolarmente – li divorava sull’istante. Perciò, nel giungere a Tebe, Edipo fu immediatamente apostrofato dal
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Zetema – personificazione dell’aspirazione alla conoscenza, nelle forme di un giovinetto –, che assiste alla soluzione dell’enigma, la personificazione della città di
mostro, che gli espose il celebre indovinello: «Qual è l’animale che al mattino cammina con quattro zampe, a mezzogiorno con due e alla sera con tre, e, contrariamente agli altri animali, ha meno forza quante piú sono le zampe che usa?». Non si sa in virtú di quale chiaroveggenza (dal momento che non è mai stato un eroe famoso per la propria saggezza), Edipo fu in grado di rispondere a colpo sicuro: «L’uomo, che all’infanzia cammina a quattro zampe, nel pieno delle forze con due e da vecchio si aiuta con il bastone». La sfinge, sconfitta, si gettò dalla rupe su cui era appollaiata, maledicendo Edipo e la sua stirpe e liberando cosí la città dalla sua nefasta presenza. L’eroe fu quindi accolto come un salvatore dalla cittadinanza in festa, pur rattristata dalla notizia appena giunta della morte di Laio
Tebe, e Agnoia – ovvero la mancanza di conoscenza – che incita il principe di Tebe a uccidere Laio; 3. il parricidio è il tema della parte finale della pittura.
per mano di ignoti briganti: il trono vacante fu offerto pertanto a Edipo, che sposò la regina vedova, Giocasta, completando il proprio rovinoso fato, secondo la profezia di Tiresia e della Sibilla delfica.
La scoperta della verità L’orrore degli dèi per il tremendo misfatto di cui Edipo si era macchiato tardò però a manifestarsi, dal momento che passarono diversi anni di buon regno da parte del nuovo re, che ebbe da Giocasta due figli maschi (Eteocle e Polinice) e due femmine (Antigone e Ismene). Quando i ragazzi erano ormai adolescenti, una serie di pestilenze colpí Tebe, fino a spingere Edipo a inviare a Delfi Creonte, fratello di Giocasta, per implorare una soluzione. Il responso della Sibilla fu lapidario: la
maledizione sarebbe cessata solo vendicando la morte di Laio. Edipo comandò che si svolgessero indagini e decretò che chiunque fosse il colpevole sarebbe stato condannato all’esilio perpetuo. Subito dopo, si rivolse all’ormai anziano veggente Tiresia, per conoscere il nome dell’assassino. L’indovino, cosciente dell’orrenda verità, cercò di rispondere in modo evasivo, al punto di insospettire il re, che arrivò a credere che Laio fosse caduto per un complotto tra lo stesso Tiresia e Creonte. A quel punto intervenne anche Giocasta, deridendo le capacità divinatorie di Tiresia, che un tempo aveva predetto la morte di Laio per mano di suo figlio, mentre invece era stato ucciso da comuni briganti di strada a un crocicchio. Udendo queste cose, Edipo iniziò a intuire la verità, ma a fugare ogni a r c h e o 69
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Visioni di un mito
Sigmund Freud (1856-1939) si serví del mito di Edipo per definire la fase di vita in cui, tra i due e i sei anni di età, gli individui elaborano fantasie incestuose nei confronti del genitore di sesso opposto. A riprova dell’interesse per l’argomento è questo ex libris dello studioso, nel quale ritroviamo Edipo e la Sfinge (vedi foto in alto).
Vladimir Jakovlevic Propp (1895-1970), figlio di un ex colono tedesco, insegnò lingua tedesca all’Università di Leningrado. Nello stesso ateneo passò poi all’insegnamento del folclore, di cui divenne uno dei massimi specialisti.
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dubbio allo sventurato eroe fu l’arrivo di un messaggero da Corinto che, nell’annunciare la morte del re Polibo, rivelò anche che Edipo era suo figlio adottivo. Giocasta fu piú rapida del figlio nel comprendere la gravità del fatto e, prima che qualcuno potesse fermarla, fuggí nelle proprie stanze e si tolse la vita. A quel punto, Edipo, ormai distrutto, pianse sul corpo della madre e, presa una delle sue spille, si accecò per punirsi della propria incosciente colpa.
Un eroe in esilio Ormai disgustato dalla vita, Edipo abdicò dal regno, e, in attesa della maggiore età dei figli, lasciò la reggenza a Creonte. Quest’ultimo cercò in un primo momento di mantenere nascosta la scabrosa vicenda; ma non riuscí a evitare che i principi, Eteocle e Polinice, venissero a conoscenza dell’incesto. Inorriditi, i due chiesero a gran voce che il padre venisse bandito, eseguendo la condanna che egli stesso aveva pronunciato nei confronti dell’assassino di Laio. Per questo motivo Edipo partí in esilio, accompagnato dalla devota figlia Antigone (e forse anche dalla timorosa Ismene), ma non prima di aver maledetto i due figli maschi, predicendo che sarebbero morti l’uno per mano dell’altro. L’esilio di Edipo durò a lungo e lo portò a vagare senza meta, fino a trovare riposo nella regione di Atene, come ospite del re Teseo, dove il suo rimorso fu finalmente placato nel bosco sacro delle Erinni. Le Furie che perseguitavano gli animi colpevoli erano infatti disposte a trasformarsi in benevole Eumenidi, di fronte a un sincero pentimento. Fu cosí che, nel demo di Colono (come raccontava un’altra tragedia di Sofocle) Edipo scomparve misteriosamente alla vista dei mortali, dopo aver sentito una voce che lo chiamava dagli Inferi. Al di là delle possibili allusioni ad aspetti oscuri della psiche umana, si può osservare che il mito di Edipo ruota fondamentalmente attorno al
tema della successione, dal momento che si tratta di un principe, allontanato perché non uccidesse suo padre, il re, presumibilmente per prenderne il posto. L’analisi di Propp, alla quale accennavamo all’inizio, è partita dal presupposto che la struttura di un mito non è fondamentalmente diversa da quella di una fiaba tradizionale (e anzi si può dire che una fiaba non sia altro che un mito scaduto, ovvero privato del suo originario valore religioso e istituzionale). In questa prospettiva, la contorta sequenza della successione al trono di Tebe, con il principe che viene allontanato e dato per morto, ma che poi torna senza esserne consapevole, conquistandosi il regno con i propri meriti e sposando la regina rimasta vedova, si confronta con innumerevoli altri esempi di cavalieri e principi che sconfiggono un mostro o trovano la chiave di un problema e ottengono la mano della principessa per poi salire al trono. La differenza fondamentale è che in questo caso il re e la regina rimasta vedova (che qui sostituisce la piú tradizionale principessa), sono i genitori dello sventurato eroe, che ignora di essere stato abbandonato in fasce.
la trasmissione del potere La conclusione che ne è stata tratta è che questo sistema di miti e leggende alluda a un’epoca in cui la trasmissione dell’eredità – specialmente nelle famiglie regali – avveniva per linea femminile: è la regina a conservare il ruolo di titolare del regno, sebbene sia suo marito a comandare. L’eroe che conquista la mano della principessa diviene erede del regno, perché genero del re; Edipo, giunto da eroe a Tebe, dopo la morte di Laio, diviene re sposando la regina vedova. Ma è proprio qui che sorge il problema: nell’epoca storica la trasmissione dell’eredità avveniva esclusivamente per linea maschile; e se mai era esistita un’epoca in cui la trasmissione seguiva la linea femmi-
Particolare della decorazione di un’anfora a figure rosse raffigurante Antigone, Eteocle e una giovane donna che recano offerte sulla tomba di Edipo. Produzione apula, 380-70 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
nile, cosa poteva essere successo al momento del cambiamento da una tradizione all’altra? Il mito di Edipo risponde a questa domanda: per giustificare il paradosso di una linea ereditaria sia femminile che maschile, si configurava lo spettro di un incesto, aggravato dall’allusione a pratiche di uccisione del vecchio re da parte di quello nuovo.
Il demone della morte violenta L’intera narrazione, se ci si fa caso, ruota intorno agli uomini della famiglia di Giocasta: il crudele re Laio, che allontana da lei il figlio neonato; il fratello Creonte, che assume la reggenza in ogni caso di vacanza del regno; il giovane Edipo, tornato senza saperlo a rivendicare i propri diritti dinastici, in modo poco ortodosso. In questo quadro si inserisce l’enigmatica figura della Sfinge, che me-
rita ancora qualche considerazione. Nel 1960 una coppia di studi iconografici indipendenti da parte di Hans Walter e Roland Hampe ha dimostrato che la figura della donna-leone alata, ripetuta incessantemente nelle pitture vascolari e in numerosi rilievi e sculture, non fosse da identificare sempre con la Sfinge tebana, ma corrispondeva alla rappresentazione di una Ker. Le Keres (o Chere, nella versione italianizzata) erano antiche figure greche di demoni della morte violenta, ricordate da Omero e da altri poeti, che si immaginava volteggiassero sui campi di battaglia – come le Valchirie della tradizione nordica – per rapire i guerrieri feriti e morenti. Ma, in fin dei conti, la funzione della Sfinge non è molto diversa: anch’essa «aleggia» attorno alla città di Tebe in attesa della rovina annunciata dal fato, tendendo un agguato a Edipo, che si avvicina ignaro della sua colpa e del suo futuro. Il collegamento del mostro con il trascorrere del tempo, che porta inesorabilmente verso il compimento del fato e verso la morte inevitabile, traspare anche attraverso gli enigmi, che si diceva fossero
stati inventati dalle Muse. Infatti, oltre al piú celebre indovinello, che descrive la bestia umana in base alla sua parabola discendente verso la vecchiaia, alludendo alla progressiva perdita delle forze, c’era un altro enigma, che la Sfinge poneva alle proprie vittime in alternativa: «Ci sono due sorelle che si generano a turno l’una dall’altra: chi sono?» La risposta corretta era il giorno e la notte (dal momento che in greco entrambe le parole sono al femminile): ancora una volta il riferimento è al trascorrere incessante del tempo, che tutto divora e tutto cancella. Anche la terribile colpa di Edipo, che alla fine della sua vita viene perdonata dalle Erinni, e l’eroe, ormai vecchio e stanco, trova finalmente la pace negli Inferi. Per saperne di piú: Vladimir J. Propp, Edipo alla luce del folclore, Einaudi, Torino 1975.
nella prossima puntata • L’assurdo odio di due fratelli: Eteocle e Polinice a r c h e o 71
speciale • anticitera
di Valentina Di Napoli; reportage fotografico di Mimmo Frassineti
quegli eroi
emersi dal mare
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Una mostra al Museo Archeologico Nazionale di Atene presenta per la prima volta, nel loro insieme, tutti i reperti restituiti dal relitto di Anticitera. una nave da trasporto del I secolo a.c., stracolma di opere d’arte di qualità eccelsa, avvistata nel 1900 da un pescatore di spugne...
M
ancavano pochi giorni alla Pasqua del 1900, quando due battelli di pescatori di spugne di Symi individuarono un relitto nelle acque a nord-est dell’isola di Anticitera, a una distanza di appena 25 m dalla costa. Il pescatore Ilias Stadiatis, immersosi a una profondità di 42 m, riferí di aver visto statue di marmo e di bronzo, vasi di diversi tipi e i resti di una grande imbarcazione e, per dimostrare la veridicità delle sue affermazioni, riportò in superficie il braccio destro di una statua bronzea.
Poco tempo dopo, a informare la Soprintendenza Generale alle Antichità del rinvenimento fu il capitano Eleutherios Kontòs, il quale, come attestano documenti dell’epoca, ottenne assicurazioni che, nel caso in cui fosse riuscito a recuperare il carico del relitto, «la ricompensa sarebbe stata generosa». Sono proprio documenti dell’epoca a dispiegare davanti ai nostri occhi la storia del recupero di quel relitto: in aiuto dei pescatori di spugne furono inviate dapprima una nave da guerra, quindi un (segue a p. 76)
Particolare di una statua in marmo pario raffigurante un giovane. Inizi del I sec. a.C. È probabile che si tratti del ritratto di un lottatore o di un pugile nel momento in cui sta per dare inizio al combattimento.
Tutte le opere e i reperti riprodotti in queste pagine sono attualmente esposti nella mostra sul relitto di Anticitera allestita ad Atene.
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Mare Adriatico
speciale • anticitera Roma
le fasi del recupero Qui sotto: foto scattata a bordo della nave militare Mykali, inviata ad Anticitera per partecipare alle operazioni di recupero effettuate tra il 1900 e il 1901.
Ostia
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Qui sotto: il batiscafo della Calypso, la nave uitlizzata dal capitano Cousteau.
Sicili
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In alto, sulle due pagine: cartina del Mediterraneo sulla quale è indicata la possibile rotta che la nave affondata ad Anticitera avrebbe seguito. In basso, sulle due pagine: alcune delle anfore restituite dal relitto di Anticitera. Prima metà del I sec. a.C.
In basso: Jean-Yves Cousteau (al centro), con i subacquei A. Falco e L. Kolonas, mostra alcuni bronzetti recuperati dal relitto.
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speciale • anticitera
piroscafo, ma le operazioni erano rallentate dal maltempo. Nel gennaio 1901 viene rinvenuta la scultura bronzea che divenne in seguito celebre col nome di «Efebo di Anticitera»; le operazioni si arrestarono nell’ottobre del 1901, poiché ormai i pescatori di spugne non riuscivano a riportare alla superficie altri reperti, e l’equipaggio fu ricompensato con la cifra di 150 000 dracme, oltre a un premio di 500 dracme per ciascuno dei sette pescatori impegnati nel recupero.
dove e quando «Il naufragio di Anticitera. La nave, i tesori, il meccanismo» Atene, Museo Archeologico Nazionale fino al 31 agosto Orario tutti i giorni, 8,00-15,00; lunedí, 13,00-20,00 Info www.namuseum.gr
uomini straordinari Il loro contributo, appassionato e incondizionato, al punto da costare la vita a un membro dell’equipaggio e la paralisi ad altri due, fu decisivo nelle operazioni di recupero, segnando un momento cruciale nella storia dell’archeologia sottomarina: basti pensare che questi pescatori erano in grado di immergersi fino a una profondità di 65-70 m e di rimanervi fino a un massimo di 5 minuti, impiegando altri 3 minuti per le operazioni di immersione ed emersione. Non è certo una coincidenza che siano stati pescatori di spugne a individuare il relitto di Mahdia, nel 1907; e fino al 1942, quando Émile Gangan e Jacques-Yves Cousteau perfezionarono le tecniche di immersione, gli unici a visitare le profondità del mare erano proprio i pescatori di spugne, tra cui i greci erano i piú famosi di tutto il Mediterraneo. Si deve al capitano Cousteau la ripresa delle indagini nell’area del relitto, nel 1976. Cousteau si trovava allora in Grecia, con il com-
il relitto ruota di prua
ruota di poppa
scafo
chiglia
Il relitto di Anticitera si data al secondo quarto del I secolo a.C., un’epoca in cui le rotte commerciali e il trasporto via mare di opere d’arte dal Mediterraneo orientale verso l’Italia era già in piena fioritura. Il carico della nave è una chiara testimonianza del commercio 76 a r c h e o
costole
marittimo tra un Oriente ellenistico cosmopolita e una repubblica romana in via di estinzione, nel quadro di una crescente tryphè (espressione che indica un ideale di vita imperniato sui piaceri mondani, n.d.r.) adottata dalla ricca aristocrazia della Penisola italiana.
A sinistra: una delle sale della mostra dedicata al relitto di Anticitera. In primo piano è la statua marmorea forse raffigurante un pugile o un lottatore (vedi anche alle pp. 72/73). Nella pagina accanto: le principali fasi costruttive di un’imbarcazione con la tecnica «shell-first», consistente nel realizzare dapprima lo scafo e poi le parti interne del legno. In basso: frammento della plancia della nave e alcuni chiodi in bronzo utilizzati per l’assemblaggio.
Oltre alla dimora di città (domus), gli esponenti delle classi piú agiate d’Italia, spesso membri di famiglie di senatori e cavalieri, possedevano anche residenze in campagna o presso il mare (villae rusticae, villae maritimae), fornite di ale per il personale di servizio. Le sale per ricevere amici e clientes (communia) e quelle destinate a rilassarsi e a godersi gli agi di una vita privilegiata erano spesso riccamente decorate da dipinti parietali, marmi e stucchi, statue e rilievi, mosaici, sull’esempio dei palazzi dei re ellenistici, dei boschetti sacri dei santuari greci, delle scuole di filosofia. Attorno al 70-60 a.C., quando la nave che trasportava questo carico affondò al largo di Anticitera, Cicerone intratteneva una corrispondenza epistolare con l’amico Tito Pomponio Attico, un facoltoso banchiere romano residente ad Atene, al quale commissionava sculture di marmo e di bronzo e altri capolavori greci da acquistare e trasportare a Roma, per ornare una delle sue otto ville. Il carico della nave che affondò al largo di Anticitera era
probabilmente destinato a essere smerciato in Italia, in un contesto di tal genere. E che esso provenisse dal porto dell’isola di Delo, come potrebbe indicare l’impiego esclusivo del marmo pario per le sculture contenute nel carico, deve restare un’ipotesi suggestiva e perfino probabile, ma non dimostrabile. a r c h e o 77
speciale • anticitera
Testa della statua bronzea di un personaggio barbato, forse identificabile con un filosofo cinico, quali, per esempio, l’ateniese Antistene o Bione di Boristene. 230 a.C. circa.
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A sinistra: la testa del «filosofo», esposta con altri frammenti attribuiti alla stessa scultura: il braccio destro, la mano sinistra, i piedi e parti dell’himation, una sorta di mantello che si indossava sopra il chitone. In basso: bronzetto raffigurante un efebo, collocato su duplice basamento rotante. Fine del II sec. a.C.
pito di realizzare una serie di documentari finalizzati a promuovere un Paese appena uscito da anni di devastante dittatura. Nel quadro di questi documentari, la sua leggendaria nave Calypso arrivò ad Anticitera nel giugno del 1976 e quando ripartí, nel novembre successivo, riportò ad Atene numerosi reperti di piccole dimensioni, tra cui spiccavano la statuetta bronzea di un pugile e quella, anch’essa bronzea, di un efebo che poggia su doppia base rotante, simile a un antico carillon.
un carico da 300 t La mostra attualmente in corso al Museo Nazionale di Atene può vantarsi di esporre alcune parti della nave naufragata; e va detto che esse sono alquanto ridotte, se si considerano le dimensioni originarie dell’imbarcazione, il cui pesante carico, di circa 300 tonnellate, fu rinvenuto disperso su una superficie pari ad almeno 30 × 10 m. Quella che affondò era una navis oneraria, destinata quindi al trasporto com-
merciale e dotata di cinque ancore; interessante è il rinvenimento di elementi di piombo destinati a sondare la profondità del fondale marino, denominati in greco katapeirateria. Lo studio tecnico del relitto ha permesso di appurare che la nave era stata costruita con la tecnica nota come «shell-first»: vale a dire, si era prima costruito lo scafo e poi si era realizzato lo scheletro interno, una tecnica ampiamente in uso nel Mediterraneo tra il IV e il I secolo a.C. e del tutto opposta rispetto alla pratica successiva. La nave affondata davanti alle coste di Anticitera fu realizzata con legno di olmo, ma i giunti e i chiodi erano di bronzo e di legno di quercia; analisi al radiocarbonio condurrebbero a una datazione del legno dell’imbarcazione al 220 a.C. (con un’oscillazione di ±40 anni), il che significherebbe che al momento del naufragio, avvenuto attorno al 70-60 a.C., la nave era già molto vecchia; un dato che però contrasta con l’opinione di molti studiosi, secondo cui gli organismi xilofagi non permettevano alle navi antiche di vivere per piú di 60 anni.
segni della vita di bordo Il rinvenimento di tubature di piombo tra i resti del relitto è stato messo in relazione con la necessità di distribuire e soprattutto aspirare l’acqua sull’imbarcazione, mentre numerose tegole e coppi di tipo corinzio attestano che almeno parte del ponteggio disponeva di copertura. Infine, ceramica da cucina e anfore, gusci di lumache, noccioli di olive, lucerne recanti tracce d’uso, vasellame di vetro, ma anche astragali e pedine per giochi da tavolo permettono di ricostruire la vita dell’equipaggio e di immaginare che cosa si mangiasse e bevesse a bordo, come si cucinassero i pasti, come trascorresse il tempo libero. Quando la nave affondò, come detto intorno al 70-60 a.C., il suo carico era costituito essenzialmente da sculture, sia di bronzo che di marmo. Alcune erano creazioni originali, risalenti all’età classica ed ellenistica, mentre altre sono opere classicistiche del tardo periodo ellenistico, le une e le altre destinate a essere vendute sul mercato italiano. Le sculture di marmo si trovano in condizioni di conservazione peggiori rispetto a quelle bronzee, poiché sono ricoperte da incrostazioni e molluschi.A salvarsi dal lavorio degli organismi litofagi, che ne hanno determinato l’attuale aspetto «spettrale», sono state solo le superfici sotterrate nella sabbia. Proprio a causa a r c h e o 79
speciale • anticitera A sinistra: statua in marmo di un personaggio maschile, identificabile con un ritratto di Achille che si prepara a sguainare la spada. Databile entro la metà del I sec. a.C. A destra: statua marmorea di guerriero elmato, di cui è stata proposta l’identificazione con l’eroe Protesilao. Possibile replica di un originale del 440-430 a.C.
un capolavoro in cerca di identità Una delle sculture piú celebri del relitto, riportata alla luce durante le operazioni del 1900-1901, fu subito battezzata «Efebo di Anticitera». Rinvenuta in frammenti, la statua bronzea fu restaurata, dapprima da uno scultore greco, poi, nel 1902, dall’artista parigino Alfred André, che ne pulí la superficie e vi costruí uno scheletro interno in metallo per tenerne salde le parti. Giudicato non del tutto soddisfacente, questo restauro fu rimosso nel 1948; la scultura fu smontata e, tra il 1952 e il 1953, una commissione di esperti, sotto la guida dell’allora direttore del Museo Nazionale, Christos Karouzos,
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restituí al pezzo la struttura, l’altezza e, soprattutto, il movimento originari, alterati dagli interventi precedenti. Cosí restaurato, l’Efebo fu nuovamente esposto al pubblico nell’aprile 1954. Questa splendida figura di giovane nudo alto 1,94 m, con il peso del corpo poggiato sulla gamba sinistra, la destra leggermente flessa, il braccio destro proteso di lato a reggere un attributo perduto, è stata oggetto di un vivace dibattito che ne riguarda l’interpretazione piú che la cronologia. Se infatti la maggior parte degli studiosi concorda su una datazione attorno al 340-330 a.C., i
delle loro cattive condizioni, molti di questi pezzi sono andati perduti durante il recupero: in molti casi, infatti, i pescatori di spugne, scambiando le sculture per rocce, le agganciarono con le ancore dei propri battelli, per spostarle in aree piú profonde e liberare il fondale, cosí da agevolare ulteriori ritrovamenti. Un espediente che provocò la dispersione di numerose opere. I documenti dei primi del Novecento attestano una fitta corrispondenza tra le autorità greche ed esperti di tutta Europa, per individuare le figure piú adatte a il restauro dei pezzi che emergevano dai fondali; e cosí chimici, restauratori e artisti, greci e non, collaborarono a piú riprese al fine di restituire ai reperti il loro aspetto iniziale.
il filosofo senza nome Tra le opere originali recuperate dal relitto si distingue il già citato Efebo di Anticitera, realizzato nel terzo quarto del IV secolo a.C., la cui interpretazione è ancora, a un secolo dal ritrovamento, ampiamente discussa (vedi box qui sotto); la statua fu oggetto di particolari attenzioni subito dopo il rinvenimento, perché la superficie fu dapprima pulita chimicamente e poi ricoperta con una patina di colofonia. Anche lo splendido ritratto in bronzo di filosofo è un’opera originale dell’età ellenistica; datato all’ultimo terzo del III secolo a.C., esso era probabilmente pertinente a una statua stante, che recava un bastone nella sinistra e protendeva la destra nel gesto tipico degli oratori. Le diverse proposte interpretati-
nomi avanzati per questa figura sono i piú svariati: Apollo, Hermes Logios che recherebbe un caduceo, Eracle con clava o leonté, un atleta vincitore che protende il premio; vi è perfino chi ha proposto che si tratti di una statua funebre destinata alla tomba di un giovane. A grandi linee, le opinioni prevalenti sono al momento due: che si tratti dell’eroe argivo Perseo nell’atto di esibire la testa di Medusa (una proposta avanzata già da Ioannis Svoronos agli inizi del Novecento, che trova un ostacolo sia nell’assenza di certi attributi, sia nel dettaglio che Perseo
ve avanzate conducono tutte a figure di filosofi cinici, come suggerisce l’aspetto mosso della capigliatura e della barba; che si tratti di Antistene o di Bione di Boristene, è senza dubbio un’opera che riflette la corrente barocca della prima età ellenistica e infonde nell’osservatore un senso di penetrante realismo. Le sculture marmoree, che erano perlomeno in numero di 36, raffigurano dèi, eroi e mortali, seduti o stanti, nudi, seminudi o panneggiati, in posizione di riposo o in vivace movimento; tre cavalli, infine, sono ciò che è sopravvissuto di una quadriga. In nessun caso si è conservata la base delle statue, mentre in pochi, rari, casi è presente il plinto a cui esse aderi-
A destra e nella pagina accanto, in basso: veduta integrale e testa dell’Efebo di Anticitera. 340-330 a.C. Recuperata nel 1900-1901, la statua è stata variamente interpretata e anche la sua paternità è tuttora oggetto di dibattito tra gli studiosi.
guarderebbe proprio in direzione della testa che lo potrebbe pietrificare), oppure del principe troiano Paride, che nella destra avanzerebbe il pomo della discordia. E un vero e proprio pomo della discordia è quello che non permette di trovare l’unanimità circa l’attribuzione della scultura a un artista ben preciso; i nomi di Scopa ed Eufranore ricorrono di frequente, anche se una larga fetta di studiosi preferisce quello di Cleone di Sicione, scultore della «terza generazione» della scuola argivosicionia di Policleto, ma che già si muove in direzione di Lisippo.
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speciale • anticitera
vano; frammenti di puntelli e di basi anepigrafi, sempre di marmo pario, completano questo nutrito insieme scultoreo. Tra di esse, una statua nel tipo dell’Eracle Farnese di dimensioni maggiori del vero, dalla superficie quasi totalmente corrosa eppure ancora leggibile dal punto di vista compositivo, va annoverata tra le prime repliche di questo tipo statuario, realizzato da Lisippo attorno al 330-320 a.C.; nella replica di Anticitera, l’eroe pare poggiarsi mollemente alla clava, anziché fare forza su di essa con decisione. Tra le creazioni originali della tarda epoca ellenistica, invece, si possono ricordare cinque pezzi interpretati da Peter Bol come eroi omerici: un Odisseo barbato con il tipico pilos e in forte movimento, che apparteneva allo stesso gruppo al quale è ascritta una statua di giovane Achille il quale, muscoloso e coi capelli scompigliati, si prepara a estrarre la spada dal fodero; un’altra statua di Odisseo, stavolta in atto di retrocedere come a difen-
Le sculture imbarcate dalla nave erano state probabilmente realizzate da artisti operanti a Delo dersi, forse in gruppo con una probabile statua di Diomede; e, infine, una figura di guerriero elmato, nudo, in posa vivace, che si distingue dalle restanti statue per la netta tridimensionalità e la concezione estremamente dinamica che lo pervade: forse un eroe, vi è chi ha pensato a Protesilao. Questi gruppi scultorei d’ispirazione omerica, che comparirebbero per la prima volta proprio in questa occasione, erano forse destinati fin dalla loro creazione a decorare ricche ville romane in Italia, assecondando una moda frenetica di età tardo-repubblicana? Come è naturale, molti studiosi si sono interrogati sulla possibile provenienza di questo singolare carico di sculture. Il fatto che tutti i pezzi marmorei siano realizzati in marmo bianco pario di eccezionale qualità, trasparente e brillante, ha condotto a supporre che il carico sia frutto del lavoro di botteghe attive a Delo, saccheggiate in occasione dei due assalti all’isola nell’88 (da parte delle truppe 82 a r c h e o
Veduta integrale e particolare della testa di una statua marmorea di Hermes. Inizi del I sec. a.C. Come le altre opere restituite dal relitto di Anticitera, la scultura era verosimilmente destinata ad abbellire le prestigiose residenze della ricca aristocrazia di Roma.
di Silla in lotta contro Mitridate del Ponto) e nel 69 a.C. (quando l’isola fu messa a ferro e fuoco dai pirati, alleati di Mitridate).
un mistero in 30 ingranaggi Un reperto particolarmente celebre tra quelli restituiti dal relitto, oggetto di numerose discussioni, è il cosiddetto «meccanismo di Anticitera»; la sua storia è davvero singolare, se si pensa che quei frammenti informi di metallo corroso non avevano suscitato alcun interesse e che fu l’allora ministro alla Cultura, Spyridon Stais, a notarlo per la prima volta, nel corso di una sua visita al Museo Nazionale, in mezzo ai resti recuperati dal relitto, oltre otto mesi prima. Le lunghe discussioni sulla destinazione e sul funzionamento di questo meccanismo possono ancora considerarsi non del tutto concluse; esso è stato identificato con un astrolabio, una sfera celeste, uno strumento per la navigazione, un meccanismo per calcolare le rotte
percorse, un orologio, uno strumento di tipo astronomico, fino ad arrivare a proposte ben piú fantasiose e poco verificabili. Dal 1925, quando ne fu costruito il primo modello a scopo di studio, la ricerca ha fatto notevoli progressi; analisi a raggi X, tomografie assiali e altri tipi di indagini hanno chiarito la struttura di questo complesso meccanismo, ma la sua funzione è ancora oggetto di dibattito. Oggi il meccanismo di Anticitera si presenta come una serie di ingranaggi in forma di ruote dentate e di lancette (vedi box alle pp. 84-85); sulla maggior parte delle superfici reca iscrizioni in greco: ciò che resta di una macchina di bronzo montata in una cornice lignea. La storia degli studi registra due opinioni fondamentali relative alla sua funzione: quella del matematico e fisico inglese Derek de Solla Price, il quale ha dedicato una vita di studi a questo oggetto per concludere che si tratta di un calendario astronomico che, indicando la posizione del Sole e della Luna, permetteva di calcolare i movimenti dei pianeti e di prevedere alcuni cicli astronomici; e quella dell’ingegnere e storico Michael Wright, anch’egli inglese, che dopo lunghi anni di studio è giunto alla conclusione che si tratti di un sofisticato planetario, in grado di prevedere non solo gli spostamenti del Sole e della Luna, ma anche di fornire la posizione dei cinque pianeti conosciuti nel II-I secolo a.C. perché visibili a occhio nudo.
verso la soluzione? Un progresso decisivo nelle ricerche su questo complesso strumento dell’antichità è segnato dal lavoro di una équipe internazionale, composta da ricercatori delle Università di Atene e di Salonicco, dell’Università di Cardiff, del Museo Archeologico Nazionale di Atene e della Fondazione Culturale della Banca Nazionale di Grecia. Questo gruppo di ricerca, nato nel 2000 e denominato AMRP (Antikythera Mechanism Research Project: www.antikythera-mechanism.gr), si è servito di strumenti all’avanguardia in grado di fornire immagini dettagliatissime del meccanismo, cosa che ha per esempio permesso di scoprire nuove iscrizioni non visibili a occhio nudo e di superare alcune delle teorie di Price, ritenute troppo complesse per poter soddisfare il canone metodico di semplificazione noto come «rasoio di Occam» (pluralitas non est ponenda sine necessitate ponendi). La conclusione a cui è giunta l’équipe è che il meccanismo di Anticitera era un calendario meccanico e uno strumento astronomico a r c h e o 83
speciale • anticitera
ideato nella seconda metà del II secolo a.C., impiegato principalmente per calcolare la posizione del Sole e della Luna, nonché dei cinque pianeti allora noti. Sulla parte anteriore, in cui è raffigurato il cerchio zodiacale e solare, si trovava un primo disco che, quando mosso manualmente, attraverso apposite lancette indicava la posizione del Sole e della Luna, nonché le fasi lunari. Girando il disco esterno e scegliendo, con una lancetta, un giorno ben preciso sulla parte anteriore e un ben preciso mese e anno sulla parte posteriore, altre lancette fornivano informazioni di tipo astronomico relative a quel giorno, passato o futuro che fosse. Inoltre, il meccanismo di Anticitera poteva prevedere le eclissi solari e lunari e permetteva di calcolare alcuni eventi dell’antichità, come per esempio le ricorrenze dei Giochi Olimpici.
anni di grandi scoperte Indipendentemente dai dettagli della sua funzione, ormai a grandi linee decodificati, il meccanismo di Anticitera era regolarmente in uso, come dimostrano le tracce di riparazione che esso reca. Particolarmente difficile è l’identificazione del luogo di produzione della macchina. Se la scuola di Posidonio di Rodi sembra il luogo piú naturale da proporre per la creazione di questo raffinato strumento, vi è anche il dato del calendario, che indirettamente rimanda a Siracusa, madrepaDall’alto in basso: tria di Archimede. Ma siamo anche negli anni di Ipparco di Nicea, uno degli astronomi una coppia di piú celebri dell’antichità, attivo a Rodi, inorecchini in oro, somma nel periodo in cui l’astronomia greca perle, smeraldi, da un lato sviluppa la tradizione dell’astronogranati con pendenti in forma mia babilonese e, dall’altro lato, la trasforma in una serie di teorie nuove. di amorino; un altro orecchino in Se gli studiosi sottolineano che i Babilonesi si interessavano soprattutto ai modelli mateoro con lo stesso matici, mentre i Greci a quelli geometrici, tipo di pendente, non si può fare a meno di notare che entramma privo delle be queste tradizioni si materializzano nel pietre preziose che in esso erano meccanismo di Anticitera, un calcolatore meccanico dotato di ingranaggi ruotanti su incastonate. assi eccentrici: un passo a metà tra le teorie di I monili sono Ipparco e quelle successive di Tolomeo. databili tra la Se si pensa, infine, quanto i Romani amasseseconda metà ro gli orologi solari e le macchine simili, del II e gli inizi come per esempio le sfere, si può supporre del I sec. a.C. che il meccanismo di Anticitera non fosse Nella pagina uno strumento impiegato durante la navigaaccanto: zione, bensí facesse parte del carico e fosse ricostruzione destinato anch’esso a essere venduto sul mergrafica del cato del collezionismo, assieme alle splendide meccanismo statue di bronzo e di marmo. di Anticitera. 84 a r c h e o
calendari e astri celesti: La figura esplosa del meccanismo mostra 29 dei 30 ingranaggi conosciuti, oltre ad alcuni che sono stati ipotizzati. Girando una manovella posta sul lato, si attivavano tutte le parti del congegno e le lancette sui quadranti anteriori e posteriori: le frecce in blu, rosso e giallo indicano come il moto veniva trasmesso da un ingranaggio Quadrante zodiacale Mostrava le 12 costellazioni lungo l’eclittica, il percorso del sole nel cielo.
Quadrante del calendario egizio Mostrava i 365 giorni dell’anno.
Lancetta della data Lancetta solare
Manovella
D E
Lancetta lunare Mostrava la posizione della Luna rispetto alle costellazioni del quadrante zodiacale.
Lancette planetarie (ipotetiche). Avrebbero indicato la posizione dei pianeti sul quadrante zodiacale.
Iscrizioni sulla piastra frontale Descrivevano i periodi dell’anno in cui sorgevano e tramontavano stelle importanti.
il meccanismo di anticitera all’altro. Chi lo consultava poteva scegliere una data sul quadrante del calendario egiziano di 365 giorni posto sul pannello anteriore o di quello metonico sul retro, e leggere le previsioni astronomiche per quella data – come le posizioni e le fasi lunari – sugli altri quadranti. In alternativa, si poteva ruotare la manovella per indicare
un evento particolare su di un quadrante astronomico e leggere quando si sarebbe verificato. Altri ingranaggi, ormai perduti, potevano calcolare le posizioni del sole e di alcuni o di tutti e cinque i pianeti conosciuti nell’antichità e mostrarle per mezzo di lancette sul quadrante zodiacale.
meccanismo metonico
Calcolava il mese nel calendario metonico, composto di 235 mesi lunari, e lo indicava attraverso una lancetta (A) sul quadrante posteriore. Una spina (B), posta all’estremità della lancetta percorreva il solco a spirale e la lancetta si allungava man mano che indicava mesi segnati su anelli sempre piú esterni. Ingranaggi supplementari (C) facevano girare una lancetta (D) su un quadrante più piccolo che indicava i cicli quadriennali delle Olimpiadi e di altri giochi. Altri ingranaggi facevano muovere una lancetta su un altro piccolo quadrante (E) che probabilmente indicava un ciclo di 76 anni.
Ruota principale Quando messa in moto dalla
manovella, azionava tutte le altre ruote. Spostava anche direttamente una lancetta che indicava la data sul quadrante del calendario egizio. Un giro completo di questa ruota rappresentava il trascorrere di un anno.
E
Quadrante del calendario metonico Indicava il mese su un ciclo di 235 mesi lunari segnati su una linea a spirale.
A E
D
C D
Quadrante delle Olimpiadi Indicava gli anni delle antiche Olimpiadi e di altri giochi.
A
B
C A D
Spina
B
Scanalatura
B A
meccanismo lunare
Sistema che includeva un ingranaggio a epiciclo che simulava le variazioni del moto lunare (oggi attribuite ai cambiamenti della velocità orbitale). L’ingranaggio a epiciclo era unito a uno più grande (A) in un sistema di rotazione-rivoluzione. Una ruota muoveva l’altra per mezzo di un sistema «spina e scanalatura» (B). Il movimento era quindi trasmesso attraverso i vari ingranaggi fino al pannello frontale. Qui un altro meccanismo a epiciclo (C) muoveva una sfera per metà bianca e per metà nera (D), per mostrare le fasi lunari, e una lancetta (E) indicava la posizione della Luna sul quadrante zodiacale.
A B
Quadrante delle eclissi lunari nel ciclo di Saros Le iscrizioni su questa spirale indicavano i mesi in cui potevano verificarsi eclissi lunari e solari.
meccanismo delle eclissi
Calcolava il mese all’interno del ciclo di Saros (composto da 223 mesi lunari) riguardante le eclissi ricorrenti. Indicava il mese sul relativo quadrante con una lancetta allungabile (A), simile a quella del quadrante metonico. Ingranaggi supplementari muovevano una lancetta (B) su di un quadrante più piccolo. Tale lancetta ruotava di un terzo ogni ciclo di 223 mesi per indicare che il verificarsi dell’eclissi corrispondente sarebbe stato posticipato di otto ore. a r c h e o 85
mostre • cortona A sinistra: veduta dall’alto di una tomba a cassetta appena aperta del circolo II del Sodo. Si distingue il cinerario con il coperchio a terra e alcuni vasi del corredo, tra i quali una oinochoe in bucchero.
il Restauro e la storia una mostra al museo dell’accademia etrusca e della città di cortona documenta antiche acquisizioni e scoperte recentissime, molte delle quali inedite. testimonianze importanti, che gettano nuova luce sulle vicende della grande città etrusca
T
re fili conduttori possono essere individuati nella mostra «Restaurando la storia. L’alba dei principi etruschi» allestita nel Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona (MAEC). Un primo motivo d’interesse va ricercato nella ricostruzione del ruolo avuto dall’Accademia Etrusca di Cortona – sin dalla sua fondazione, nel 1726 –, nella tutela del patrimonio archeologico e storicoartistico della città e del suo territorio. Un secondo nella presentazione dell’intensa attività di ricerca portata avanti localmente negli ultimi decenni in una collaborazione davvero esemplare tra Comune di di Giuseppe M. Della Fina Cortona, Soprintendenza per i Be-
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Tutti gli oggetti illustrati sono attualmente esposti nella mostra «Restaurando la storia. L’alba dei principi etruschi» allestita, fino al prossimo 5 maggio, nel Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona (MAEC).
Lampadario in bronzo recuperato nel 1840, in localitĂ Fratta. Seconda metĂ del IV sec. a.C.
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mostre • cortona
ni Archeologici della Toscana e Accademia Etrusca. Un terzo, infine, nell’importanza del restauro quale strumento di piena restituzione di un reperto archeologico come documento utile a ricostruire la storia. L’impegno dell’Accademia Etrusca è testimoniato bene dai tempi e dai modi dell’acquisto di uno dei vanti del museo cortonese, vale a dire il lampadar io etr usco in bronzo. Il manufatto fu scoperto nel 1840 e depositato nei locali dell’Accademia tra il 1842 e il 1846, grazie a un accordo con la proprietaria Luisa Bartolozzi vedova Tommasi. Piú tardi la gentildonna decise di mettere in vendita l’opera al prezzo di 2000 scudi fiorentini: uno dei capolavori della bronzistica etrusca avrebbe cosí potuto lasciare Cortona e la Toscana ed essere acquistato da un museo straniero.
uniti per il lampadario Gli Accademici riuscirono a evitare che ciò accadesse: ottennero una riduzione del prezzo sino a 1600 scudi e aprirono una sottoscrizione tra i soci. La raccolta dei fondi non permise comunque di raggiungere la cifra concordata e allora si decise di accendere un mutuo col Monte dei Paschi di Siena, con la garanzia offerta dal Comune di Cortona. Fu inoltre dato fondo al bilancio dell’Accademia, decidendo di sospendere per qualche tempo ogni altra iniziativa e d’investire tutto sull’acquisto del lampadario. Piú tardi, una nuova battaglia fu condotta per difendere la Musa Polimnia, un’altra delle opere piú note del museo, a prescindere dal dibattito intorno alla sua natura e alla sua datazione. La Musa Polimnia venne depositata nel museo negli anni Quaranta del Settecento e vi rimase con questa formula sino al 1851 quando – ancora una volta – Luisa Bartolozzi la donò all’Accademia 88 a r c h e o
COME UNA CATENA DI MONTAGGIO A Paolo Giulierini, conservatore del MAEC abbiamo chiesto di illustrare alcuni dei tratti salienti del progetto espositivo al quale ha collaborato
◆Q uali motivazioni hanno ispirato
In alto: vaso cinerario appena scoperchiato di una tomba a cassetta del circolo II del Sodo: si intravvedono frammenti di ossa combuste mescolati ad oggetti metallici relativi al corredo personale del defunto. In basso: l’interno di un cinerario durante il microscavo in laboratorio: tra gli oggetti in bronzo del corredo del defunto, si riconoscono una fibula a navicella, quattro pendenti a doppia protome di ariete, un fermatrecce, un elemento a rotella traforata.
«magie» di laboratorio
Nella pagina accanto, a sinistra: uno dei pendagli in bronzo conformati a doppia protome di ariete in fase di ripulitura con bisturi. Nella pagina accanto, a destra: il reperto al termine dell’intervento. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C.
la progettazione e la realizzazione della mostra «Restaurando la storia»? A pochi anni dall’apertura del Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona e delle clamorose, recenti scoperte, la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e il MAEC espongono per la prima volta al pubblico i corredi del secondo circolo funerario del Sodo, costituito da oltre 15 tombe intatte databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., e una serie di oggetti mai visti rinvenuti nei siti archeologici del territorio (dal palazzo principesco di Fossa del Lupo alla villa romana di Ossaia), esaminati sotto un nuovo punto di vista, quello della filosofia del restauro. In questo modo, grazie ai nuovi reperti, presentati a vari stadi del recupero, si illustrano le fasi di quella «catena di montaggio» che va dallo scavo archeologico, al recupero dei materiali, alla diagnostica, fino al completamento del restauro, in vista di una definitiva esposizione nel «Museo che verrà»: di qui la prima parte del titolo, «Restaurando la storia», che pone senza mezzi termini il recupero completo dei materiali come premessa indispensabile dello studio e della comprensione dei fatti, e
vuole valorizzare le fondamentali attività del Centro di Restauro Archeologico di Firenze del nuovo Laboratorio di Restauro del Parco Archeologico di Cortona. La presentazione di tanti inediti di età Orientalizzante consente di far luce, evidentemente, anche sulle fasi piú antiche di Cortona, quelle che precedono l’avvento dei principi (da qui il richiamo all’alba, nel senso di inizio della loro cultura), benché, in realtà, se ne possano cogliere anche i massimi sviluppi di età arcaica (grazie agli spettacolari reperti relativi a vecchi scavi mai pubblicati provenienti dal tumulo II del Sodo) e il progressivo smantellamento dell’identità e delle tradizioni, pur con certe resistenze, con l’avvento di Roma (come testimoniano i materiali della villa rustica di Ossaia).
◆ C ome è articolato il percorso
della mostra? Dopo un inquadramento di cosa abbia significato il tema del riutilizzo e del restauro nel mondo antico in uno spirito teso a far durare piú a lungo possibile la vita di oggetti e utensili o a tramandare oggetti di lusso, si prosegue con una carrellata di esempi di restauro moderno, eseguito tra Ottocento e Novecento, su oggetti antichi (un candelabro in terracotta a vernice nera e un kantharos conformato a testa di satiro), nei quali si possono apprezzare importanti interventi integrativi di difficile identificazione, che hanno compromesso nel tempo
la lettura distinta delle parti autentiche, fino ad arrivare al concetto di restauro applicato nell’ambito dell’archeologia contemporanea. Esso viene spiegato al pubblico attraverso la presentazione dei materiali relativi ai 15 corredi tombali del II circolo orientalizzante del Sodo. Si tratta complessivamente di oltre 200 oggetti inediti, databili al VII secolo a.C. In mostra è possibile osservare anche alcune ricostruzioni dei circoli tombali con i corredi funerari collocati direttamente all’interno della tomba ricostruita.
◆A suo giudizio, quali sono state le
scoperte piú interessanti avvenute a Cortona negli ultimi decenni? Tre rinvenimenti hanno determinato un cambio di rotta per la ricostruzione della storia della città. Primo tra tutti il grandioso altareterrazza del tumulo II del Sodo, che manifesta la volontà di un princeps, forse un sovrano, non solo di ribadire il proprio ruolo politico all’interno del territorio, ma di allinearsi – per programma decorativo e costruttivo del monumento – ai monumenti funerari di quei dinasti dell’Anatolia (Lidia e Frigia) a cui rimandano tutti i miti di fondazione di Cortona. In secondo luogo ricorderei la Tabula Cortonensis, per il fondamentale contributo che ha apportato alla conoscenza della lingua etrusca, in termini di parole nuove e di approfondimento
specifico dei rapporti sociali tra vecchie classi dominanti e nuovi ceti emergenti in una polis etrusca di età tardo-ellenistica. Infine, naturalmente, i corredi dei due circoli orientalizzanti, che dimostrano come l’esplosione culturale dei tumuli di Cortona non sia altro che l’esito finale di un processo di arricchimento di clan che affonda le radici nel pieno Orientalizzante e, forse, nel Villanoviano.
◆Q uali sono le iniziative previste
dal MAEC per i prossimi anni? Per l’immediato futuro si prevede la conclusione dei lavori al parco archeologico di Cortona, con la riunificazione dell’area del tumulo I e del tumulo II del Sodo, già entro il 2013; la messa a sistema dei 15 siti archeologici piú rilevanti del territorio con il MAEC, nel 2014; il relativo passaggio di gestione dei beni statali al Comune e all’Accademia Etrusca e l’istituzione di un biglietto unico. Inoltre è prevista una grande mostra con il British Museum, a partire dal 21 marzo 2014, che vuole celebrare l’interesse degli Inglesi per gli Etruschi e che riporterà a Cortona, per tre mesi, pezzi straordinari, sul solco del programma «Cortona e i grandi musei europei», che ha già ottenuto fondamentali successi attraverso il coinvolgimento dell’Ermitage prima e del Louvre poi.
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mostre • cortona
UN CIRCUITO VIRTUOSO Paolo Bruschetti, Vice Lucumone e Segretario dell’Accademia Etrusca di Cortona, ci illustra le attività che maggiormente caratterizzano l’impegno della storica istituzione In alto: fibula in oro ad arco configurato in forma di pantera accovacciata, dal Tumulo II, To. 1. Inizi del VI sec. a.C. A sinistra: kantharos configurato in forma di testa di satiro. Inizi del VI sec. a.C. In basso: calice in bucchero con sostegno a traforo su cui è modellata la sagoma di un guerriero, dal Circolo II del Sodo. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C.
◆ Quale è stato l’impegno
dell’Accademia Etrusca di Cortona a favore della tutela del patrimonio archeologico locale? Fin dall’inizio della sua attività, nel Settecento, l’Accademia ha operato per la diffusione della cultura storica e archeologica, con acquisto di materiali bibliografici e artistici, acquisizione per lasciti o donazioni di opere di vario tipo da destinare alla Biblioteca e al Museo; tale forma di attività si configura come un’embrionale azione di tutela rivolta alla conservazione delle testimonianze del passato. Con il trascorrere dei secoli, l’azione si è perfezionata e organizzata: si rammenti che, a piú riprese, l’Accademia ha investito somme ingenti per assicurare alla città testimonianze importanti della cultura antica (per esempio, l’acquisizione del lampadario etrusco o della Musa Polimnia),
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o ha rifiutato offerte anche cospicue da parte di enti e istituzioni straniere per la cessione di parti del proprio patrimonio. Si può considerare una forma attiva di tutela anche l’acquisizione, per lascito, di alcune delle principali tombe etrusche del territorio (Melone I del Sodo, Tanella di Pitagora), sulle quali l’Accademia si è direttamente impegnata – sia nel passato che in epoche a noi piú prossime – in opere di restauro e sistemazione, non dimenticando la necessità di mettere tali strutture a disposizione del pubblico dei visitatori e degli studiosi. L’organizzazione di mostre e manifestazioni culturali (convegni, conferenze, incontri, ecc.) è finalizzata proprio a garantire la conoscenza presso un pubblico sempre piú ampio e, in tal modo, a consentire una piú mirata forma di tutela dei beni.
◆Q uali sono attualmente i rapporti
tra l’Accademia Etrusca, il Comune di Cortona e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana? I rapporti tra Accademia e Comune sono sempre stati molto stretti e costruttivi sin dagli inizi allorché sottoscrissero convenzioni per l’acquisizione della raccolta bibliografica Maccari e in pratica per l’apertura della Biblioteca «pubblica» in un’epoca in cui tale condizione non era molto frequente. Negli ultimi decenni, poi, il rapporto si è fatto ancora piú stretto, con protocolli d’intesa per la gestione condivisa del nuovo MAEC, sorto nel 2005 come evoluzione del vecchio Museo dell’Accademia Etrusca; con il nuovo soggetto si è costituito un museo di grandi dimensioni, in cui, alla nota sezione «collezionistica», si è affiancata una sezione «topografica», in cui sono esposti i materiali provenienti dagli scavi recenti della necropoli e della città. Quanto al rapporto con la Soprintendenza esso è sempre stato strettissimo, soprattutto nel secondo dopoguerra. Dopo la stasi bellica, Guglielmo Maetzke, allora ispettore, organizzò il museo, in collaborazione con Ugo Procacci, per la parte storicoartistica: entrambi poi furono Lucumoni dell’Accademia. Dal 1990 fu ancora piú intensa la collaborazione con l’allora soprintendente Francesco Nicosia,
grazie al quale fu avviato quel rapporto che avrebbe portato negli anni all’istituzione del MAEC. Senza poi dimenticare l’intensa relazione con la Soprintendenza per i Beni Artistici di Arezzo, che cura la tutela delle innumerevoli opere d’arte medievale e moderna conservate nel museo. Si è cosí innescato un circuito virtuoso fra soggetti vari (l’ente locale, la pubblica amministrazione, l’associazionismo privato) che ha come scopo la conservazione di un livello elevato di cultura per la città di Cortona e la sua diffusione sempre piú ampia, non solo fra i visitatori, ma, in primo luogo, tra i cittadini del territorio.
per la gloria del princeps
Immagini relative all’altare-terrazza monumentale del tumulo II del Sodo. Qui sotto: l’area della scoperta, sul lato orientale del tumulo, con la struttura in corso di scavo. In basso: la gradinata, decorata con rilievi e gruppi scultorei, che portava all’altare-terrazza, scoperta nel 1990.
Etrusca. Ne scaturí una lunga vicenda giudiziaria per l’opposizione del figlio della signora, che ne rivendicò la proprietà. Ma, alla fine, la causa fu vinta dall’Accademia. Quelli appena rievocati non sono casi isolati e Paolo Bruschetti, in uno dei saggi del catalogo della mostra, ha potuto segnalare: «la mancanza, o comunque il numero molto limitato di materiali da Cortona nelle collezioni dei grandi musei centrali europei, in confronto, per esempio, del numero elevatissimo di oggetti provenienti dagli altri centri della Toscana». L’impegno dell’Accademia Etrusca a difesa dei beni culturali della città ha dato nel tempo buoni risultati.
le prospettive future Interessante appare anche la ricostruzione delle fortunate campagne di scavo portate avanti negli ultimi decenni e culminate con la scoperta del grandioso altare-terrazza del tumulo II del Sodo, che ha avuto la forza di portare nuovamente l’attenzione del mondo archeologico su questo territorio. I rinvenimenti si sono accompagnati a progetti di riqualificazione del museo – in gran parte già ultimati – e all’impegno verso la creazione di un parco archeologico ormai prossimo a una sua piena realizzazione. Tra i prota-
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mostre • cortona A sinistra: la Tomba 8 del circolo II del Sodo al momento dell’apertura. In basso: vaso cinerario in impasto con coperchio a coppa, dopo il restauro, da una tomba del circolo II del Sodo. Fine del VII sec. a.C.
L’esposizione cortonese documenta l’evoluzione dei criteri che hanno ispirato la pratica del restauro gonisti scomparsi di questa intensa stagione di ricerca e di impegno civile, i curatori della mostra (Paolo Bruschetti, Franco Cecchi, Paolo Giulerini, Pasquino Pallecchi) hanno voluto ricordare Paola Zamarchi Grassi e Francesco Nicosia: due figure alle quali l’archeologia cortonese deve davvero molto. Spazio viene dato anche a una scoperta casuale e dai contorni non ancora completamente chiariti, ma eccezionale: il ritrovamento della Tabula Cortonensis, il documento epigrafico che con le sue 40 righe di testo e le sue 206 parole costituisce il terzo per lunghezza dei testi etruschi giunti sino a noi. Infine, partendo da reperti rinvenuti negli ultimi scavi, viene illustrato il lavoro dei restauratori, che ha accompagnato quello degli archeologi. Seppur sinteticamente, 92 a r c h e o
vengono presentati i diversi criteri di restauro che hanno segnato l’età moderna e contemporanea: da quello pienamente integrativo, che ha portato talora alla realizzazione di veri e propri pastiche, ubbidendo spesso a dettami legati al mercato di antichità, agli interventi di tipo critico di questi anni affermatisi sulla scia della lezione di Cesare Brandi. Una mostra che parla dunque di Cortona, ma, piú in generale, della ricerca archeologica e di stagioni diverse di impegno a favore dei beni culturali del nostro Paese. dove e quando «Restaurando la storia. L’alba dei principi etruschi» Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona, Palazzo Casali, piazza Signorelli fino al 5 maggio Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info e prenotazioni tel. 0575 637235; e-mail: prenotazioni@cortonamaec.org; www.cortonamaec.org Catalogo Tiphys Editoria e Multimedia
mostre • pietro bembo
Tiziano, Ritratto di Pietro Bembo cardinale. 1539-1540, Washington, National Gallery of Art. Nella pagina accanto, da sinistra: ritratto di Domiziano, 75 d.C. circa (Napoli, Museo Archeologico Nazionale); Danese Cattaneo, medaglia ritratto di Pietro Bembo, XVI sec. (Firenze, Museo Nazionale del Bargello); ritratto di Caracalla, 212-217 d.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale).
il diletto delle
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«Sembra proprio che Roma si sia trasferita in Padova», ebbe a dire Pietro Aretino di fronte alla collezione d’arte, antica e «contemporanea», riunita dal cardinale pietro Bembo. una grande mostra allestita a padova permette ora di rivivere la straordinaria stagione culturale legata alla figura del grande umanista
anticaglie D di Stephen Fox
elineare e fornire una definizione di una delle piú grandi stagioni culturali in assoluto – quale fu il Rinascimento – è esercizio da far tremare i polsi a piú di uno studioso. Appare dunque affascinante e impegnativo insieme il titolo scelto per la mostra padovana Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento (allestita nel Palazzo del Monte di Pietà fino al prossimo 19 maggio). Da un punto di vista storiografico, l’«invenzione» (nell’accezione latina di inventio, intesa sia come atto del trovare sia come capacità inventiva) del termine Rinascimento quale «denotazione» culturale si deve a Jules Michelet. Nella sua monumentale storia della Francia, lo storico pubblicò nel 1855 gli studi
Histoire de France au XVIe siècle: La Renaissance e Réforme; cosí quella soave parola (l’«amiable mot»), «Rinascimento», fece la sua comparsa sulla ribalta della esegesi storica.
Una visione nuova La novità sostanziale dell’opera di Michelet (senza entrare in una disamina la cui complessità sarebbe fuori luogo in questa sede) fu quella di indicare le linee generali di un’interpretazione del fenomeno che, pur nella ancora rigida e positivistica svalutazione del Medioevo come epoca «buia», ebbe il merito di guardare oltre il consueto orizzonte del Rinascimento inteso solo come umanistica instauratio studiorum, a favore di una visione in scala europea che tenesse conto anche
dei rivolgimenti religiosi, quali appunto la Riforma, e delle scoperte della scienza. La concezione antropocentrica del Rinascimento di Michelet è figlia del suo tempo, la metà dell’Ottocento, e certamente già ben prima di Michelet ci si era interrogati su quale fosse lo «spirito» degli anni di Donatello, Machiavelli, Raffaello e Michelangelo. Ma la strada verso una diversa posizione critica, di superamento del Romanticismo, era ormai aperta. Già nel 1859 usciva la prima edizione del Die Wiederbelebung des classischen Altertums. Oder das erste Jahrundert des Humanismus, (Il risorgimento dell’antichità classica, ovvero il primo secolo dell’Umanismo) di Georg Voigt. Il taglio filologico dell’opera conduceva alla rivalutaa r c h e o 95
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zione di una nuova generazione di intellettuali (gli umanisti) per i quali Petrarca diviene modello imprescindibile. Cicerone e il concetto stesso di humanitas, quale eredità del mondo classico, insieme a quello della dignitas hominis, sono visti come le basi su cui si fonda la rinascita delle lettere del Rinascimento.
A destra: statuetta in bronzo di Giove seduto. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
la cultura dei «cortigiani» Nel 1860 usciva a Basilea Die Kultur der Renaissance in Italien (La civiltà del Rinascimento in Italia) di Jacob Burckhardt. L’opera rappresentò, pur nei confini determinati dal momento storico in cui fu scritto, un
affresco affascinante di quei caratteri che verranno attribuiti anche in seguito al concetto stesso di Rinascimento – e segnatamente del Rinascimento italiano – nel suo delinearne aspetti quali il ruolo delle corti e la concezione politica e giuridica dello Stato, l’affermazione delle individualità letterarie, filosofiche e artistiche, il ruolo della riscoperta dell’antichità, delle scienze, del teatro, la vita sociale, la morale e la religione. Nella visione di Burckhardt, il letterato e il «cortigiano» scalzano il monaco medievale nella custodia e nella diffusione delle conoscenze. Come ha osservato Eugenio Garin: «Accanto ai difetti dell’opera sua, all’insufficienza del suo concetto di storia della cultura, Burckhardt ri96 a r c h e o
A sinistra: intaglio in corniola con l’immagine di Marte (o di Alessandro come Achille). Opera di Dioscuride, il piú celebre tra gli incisori di gemme dell’antichità, 65-30 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
La collezione ritrovata Promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo in collaborazione con il Centro Internazionale Andrea Palladio e con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, l’esposizione è curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura, sostenuti da un Comitato scientifico comprendente i massimi esperti italiani e internazionali. La mostra mira a ricostruire nel Palazzo del Monte di Pietà – a cinquecento anni dalla sua dispersione – la celebre raccolta di arte e antichità che Pietro Bembo aveva riunito nella sua dimora patavina.
Statua in marmo di Erote dormiente. Arte romana, 130-150 d.C. Firenze, Galleria degli Uffizi.
dove e quando «Pietro Bembo e l’invenzione del Rinascimento» Padova, Palazzo del Monte di Pietà fino al 19 maggio Piazza Duomo, 14 Orario feriali, 9,00-19,00, sabato e festivi: 9,00-20,00; chiuso i lunedí non festivi; aperture straordinarie 25 aprile e 1° maggio Info e prenotazioni tel. 049 8779005 (attivo lu-ve, 9,30-18,30; sa, 9,30-13,00); e-mail: info@coopbembo.com; www.mostrabembo.it
vela però una fecondità illuminante (…) il suo libro non fu un commosso manifesto di impianto nostalgico. Fu il chiaro proporre l’emblema di un mito, il mito della rinascita degli studia humanitatis come educazione dell’uomo integrale». In una sorta di empatia, «Burckhardt portò a un distacco estremo la “ribellione” rinascimentale accettando in pieno i miti che il Rinascimento stesso aveva elaborato. Staccato e contrapposto al Medioevo, il nuovo mondo trova il suo tono nell’imitazione dell’antichità, riscoperta e rinnovata soprattutto nel piano dell’arte. Quello che gli umanisti ci dissero e il mondo in cui si videro, Burchkardt accetta e ripete. Egli vede (…) il mondo classico con gli occhi dei dotti del Quattrocento e
del Cinquecento. La Chiesa romana e i Pontefici, le Repubbliche e i Signori, i poeti e gli astrologi, sono rievocati in quadri eleganti e “fedeli”» (dall’Introduzione a Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1975).
come un mosaico Se questa breve disamina (necessariamente incompleta e parziale, ci scuseranno i lettori) può esser forse d’aiuto alla definizione «storiografica» del fenomeno, altrettanto difficile se non piú arduo è definirne la genesi effettiva in termini storici e filologici. In quel multiforme opificio che fu l’Italia tra XV e XVI secolo, sarebbe sterile e presuntuoso tentare di individuare a quale contesto sociale, geografico o culturale
spetti la primogenitura del Rinascimento. Come in un policromo mosaico, accanto alle grandi città «dominanti» – la Firenze dei Medici, la Roma dei papi, la Venezia del patriziato – fioriscono corti e centri ugualmente floridi e altrettanto, se non ancor piú, ricchi di fermenti culturali innovativi: Urbino, Parma, Ferrara, Mantova, Padova, solo a citarne le piú celebri. Proprio nel versante nord-orientale dell’Italia, tra Quattrocento e Cinquecento, si definisce un tessuto dal carattere peculiare, composito ma strettamente interconnesso, come ben testimoniano l’attività «incrociata» di artisti come Mantegna e Giovanni Bellini prima, quella di Giorgione e quella – di respiro europeo – di Tiziano successivamente. a r c h e o 97
mostre • pietro bembo
Fioriscono, certo qui come altrove, ma con qualità intrinseche non inferiori a quelle delle grandi città, le collezioni di antichità, sboccia quel «diletto de le anticaglie» che fu alla base delle moderne discipline filologiche, archeologiche, numismatiche.
Tre uomini in barca Un episodio «marginale», ma indicativo di tale temperie culturale è la gita in barca sulle rive del Garda alla caccia di iscrizioni compiuta nel settembre del 1464 da Mantegna (il celebre pittore dei Gonzaga, di cui è nota la passione per le antichità) in compagnia di tre amici,
vestiti «all’antica»: il pittore Samuele da Tradate, l’umanista veronese Felice Feliciano (detto l’Antiquario; epigrafista e poeta in volgare, celebre calligrafo, tipografo e alchimista) e il medico-mecenate veneziano – ma di cultura padovana – Giovanni Marcanova (a cui si deve uno straordinario codice con una ricca silloge di iscrizioni e vivaci disegni di antichità, ora alla Biblioteca Estense di Modena). Accanto all’erudizione antiquaria, ancor di piú si sviluppa la ricerca letteraria e la filologia che qui sarebbe tedioso riassumere, se non nei nomi – per maggiore attinenza al
Capelli di Lucrezia Borgia, teca con supporto in malachite (teca: 1928 circa). Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.
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campo di nostro interesse – dell’anconetano (ma cosmopolita e gravitante verso il Mediterraneo orientale «veneziano») Ciriaco de’ Pizzicolli (a cui si deve la prima testimonianza «moderna» del Partenone), di Flavio Biondo, di Fulvio Orsini, di Baldassar Castiglione, di Poliziano, di Paolo Giovio. A Venezia trionfa l’attività a stampa di Aldo Manuzio, le cui celebri, accuratissime edizioni dei classici greci e latini «costruirono» letteralmente l’ossatura dell’Umanesimo europeo. Dalla sua tipografia usciva nel 1499 il celeberrimo Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, una delle piú enigmatiche e pregiate fonti della imagerie del Rinascimento. Usciva nel 1501 il Virgilio in formato 8° piccolo, con cui Manuzio inaugurava, forse, il primo esemplare di libro moderno. Nel 1502 fondò l’Accademia Veneta, centro propulsivo della cultura greca. È dunque sulla linea di questo orizzonte che si profilano, e certo non in secondo piano, Pietro Bembo e la città di Padova: analizzandone il particolare carattere potrà apparire forse piú chiara l’implicazione del titolo della mostra.
i rapporti con venezia Nel 1405 Padova era passata nelle mani dei Veneziani: i Carraresi, antica famiglia che poteva vantare la riconoscente amicizia di Petrarca, che aveva protetto artisti come Guariento, Altichiero, Giusto de’ Menabuoi, erano stati sconfitti e imprigionati. Ma ciò non significò affatto la fine della città. L’Università patavina divenne orgoglio e vanto anche per la Serenissima, con cui, malgrado tutto, Padova intrattenne sempre strettissimi rapporti di carattere culturale e artistico. Scrive Fritz Saxl: «L’influenza di Venezia, con le sue componenti di origine orientale, conferí all’Università di Padova una grande ampiezza di vedute in cui l’antichità non fu considerata un fatto eminentemente “latino”. Si potrebbe pensare a una certa somiglianza con Oxford, in quanto sede universita-
A sinistra: frammenti di una tavola opistografa (scritta su ambo le facce) in bronzo. Fine del II sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
ria medievale, ma bisogna aggiungere che Padova era anche una sorta di Canterbury, quale sede della basilica del Santo e meta di pellegrinaggi. Il centro universitario e quello ecclesiastico crearono cosí rapporti stretti tra gli studiosi e gli artisti di Padova e quelli di altre parti di Italia, in particolare della Toscana. Intorno alla metà del Quattrocento, Padova era la piú toscana, dunque la piú moderna e classicheggiante tra le città dell’Italia settentrionale. Donatello, Filippo Lippi e Paolo Uccello vi lasciarono la loro impronta» (La storia delle immagini, Bari 1965). Ma certo non vi furono solo i Toscani: aleggia costantemente nella cultura padovana, la città di Tito Livio e anche di Petrarca, tutta quella conoscenza antiquaria – veneta e centro-italiana insieme – del secolo XVI, di cui Bembo fu supremo rappresentante, icona egli stesso di un modo di intendere l’antichità e la storia. Quando, nel 1521, si stabilí a Padova per la seconda volta, Pietro Bembo (1470-1547) aveva cinquantuno anni. Il Papa di cui era stato segretario dal 1513, Leone X Medici, era
A destra: manoscritto che riporta testi del poeta greco Pindaro. Seconda metà del XII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.
appena morto; l’anno prima era anche scomparso, a soli 37 anni d’età, Raffaello. L’urbinate era stato suo amico e, come conservatore delle antichità romane nominato proprio da Leone X, rappresentante di un nuovo atteggiamento verso le vestigia del passato con cui Bembo fu certo in piena sintonia. Ci si avviava – e drammaticamente – alla fine di un’epoca.
«fiorentino» nella lingua Veneziano di nascita, Bembo divenne padovano per elezione culturale, come fu romano per carriera ecclesiastica. Umanista elegantissimo, «ciceroniano» nella forma del latino, nello spirito e nella concezione della politica, fu «fiorentino» nella lingua, con la quale aveva avuto modo di familiarizzare già da ragazzo, quando (tra il 1478 e il 1480) aveva seguito nella città toscana suo padre Bernardo, senatore e ambasciatore per la Serenissima nonché ammiratore di Dante. Letterato, poeta appassionato e precoce, dopo aver studiato filosofia a Padova, Bembo si spostò nel 1498 a Ferrara, dove
intrecciò una appassionata relazione amorosa con Lucrezia Borgia; lasciata questa città, scampando anche alla incipiente epidemia di peste che la stava per colpire, nel 1506 fu a Urbino, dove restò fino al 1511, conoscendo una stagione prolifica e felice, ricordata esemplarmente dalle pagine de Il Cortegiano di Baldassar Castiglione. L’anno precedente l’arrivo di Bembo a Urbino, nel 1505, era uscita a Venezia, per i tipi di Aldo Manuzio, la prima edizione dei suoi tre libri degli Asolani: era il suggello di un fruttuoso sodalizio. Gli Asolani, libro dedicato proprio a Lucrezia Borgia, in forma di dialoghi in prosa allusivi all’amor platonico di stampo petrarchesco e ambientati nel borgo trevigiano di Asolo, alla corte della regina di Cipro Caterina Cornaro, divennero presto implicita fonte di ispirazione per la recettiva pittura veneta dell’epoca. In questo periodo Bembo concepí l’opera per cui è piú noto, quelle Prose della volgar lingua (pubblicate poi nel 1525), che dettero forma compiuta alla volontà di configurare una lingua nazionale, basata sui a r c h e o 99
mostre • pietro bembo A destra: tetradramma d’argento con l’Artemide di Perge, di cui è riprodotta la testa laureata al dritto e la figura intera al rovescio. Zecca di Perge, 255240 a.C. Londra, British Museum.
riferimenti di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa, nel senso di una riconsiderazione critica del primato delle lingue classiche sul volgare; le Prose sono non solo la prima grammatica della lingua italiana, ma anche un impegno e una esortazione civile, alla vigilia del Sacco di Roma. L’impegno morale e il neoplatonismo non impedirono a Bembo di intrattenere rapporti importanti, e non solo sentimentalmente, con alcune delle figure femminili che, non dimentichiamolo, rappresentarono uno degli assi portanti della cultura del Rinascimento italiano. Sappiamo quanto donne come Simonetta Vespucci o Vittoria Colon100 a r c h e o
na abbiano influito sulle vicende politiche e culturali di Firenze e di Roma, su personaggi come Giuliano de’ Medici o Michelangelo. Anche su Bembo, come muse amiche e dialoganti, committenti esigenti o amate compagne, influirono le conoscenze muliebri.
signore illustri Oltre a quella di donne controverse e passionali, come Lucrezia Borgia (una sua ciocca di capelli è esposta, con gusto forse un po’ reliquiario, in mostra), o umili e modeste come la Morosina, madre dei suoi figli, aleggia la presenza di figure elevate come quelle di Caterina Cornaro, di Isabella Gonzaga Montefeltro, di
Qui sopra: mensa d’altare in bronzo intarsiato con argento e rame, forse dall’Iseo Campense, nota come Mensa Isiaca o Tavola Bembina. I sec. d.C. Torino, Museo Egizio.
Isabella e di Beatrice d’Este. La carriera di Bembo doveva però presto rientrare nell’orbita romana, sia pur attraversoVenezia. Nominato bibliotecario di S. Marco nel 1530 e storiografo ufficiale della Serenissima (di cui scrisse gli Annali sul modello storiografico di Livio), Bembo divenne cardinale per volere di Paolo III Farnese e nel 1539 è a Roma. A questo periodo deve risalire il nervoso ritratto eseguito dall’amico Tiziano (Washington, National Gal-
A sinistra: aureo di Domiziano con il ritratto di Giulia, figlia di Tito. 88-89 d.C. Londra, British Museum. In basso: Hans Memling, Calice di San Giovanni Evangelista, verso. 1483 circa. Washington, National Gallery of Art.
lery of Art) che lo raffigura, con il profilo aquilino e la folta barba, mentre indossa le vesti del suo grado – la berretta scarlatta e la mozzetta – colto nel gesto antico e non dimenticato del retore. Bembo prese la sua nuova dimora romana in Palazzo Baldassini in Campo Marzio, a due passi dal Pantheon, dove sulla sepoltura di Raffaello era inciso il celebre epitaffio da lui stesso composto in memoria dell’antico sodale degli anni urbinati e di quelli condivisi nella Città Eterna, sotto i fasti di Leone X: «Ille hic est Raphael, timuit quo sospite vinci / rerum magna parens et moriente mori» («Qui giace Raffaello: da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire»). Ora, nella sua nuova veste ecclesiastica, Bembo rimase figura centrale anche nella Roma farnesiana di Paolo III, dove pose le basi per lo sviluppo della Biblioteca Vaticana. Settantasettenne, si spense nel 1547, quando Michelangelo andava completando gli affreschi della Cappella Paolina, inquieto, controverso manifesto del Manierismo romano. Tornando agli anni di Padova, nel 1527 Bembo riuscí ad acquistare una proprietà con orto e giardino ai margini della città. È la casa in via Altinate nella quale Bembo stabilí la sua dimora delle Muse, il celebre «Musaeum». Scrigno prezioso delle sue collezioni antiquarie e soprattutto librarie, questa «casa della vita» è stata identificata nel 1924 dallo studioso padovano Oliviero Ronchi all’interno di Palazzo Camerini in via Altinate, dietro la chiesa degli
Eremitani. Attualmente sede del Museo della Terza Armata, la dimora, con le sue ricchissime collezioni che comprendevano anche opere d’arte «contemporanea», quali dipinti di Bellini, Giorgione, Raffaello (il doppio ritratto degli amici Andrea Navagero e Agostino Beazzano della Doria Pamphili di Roma) e Mantegna (il drammatico e aspramente «düreriano» San Sebastiano della Ca’ d’Oro di Venezia), divenne rapidamente centro irradiatore di cultura e di erudizione, soprattutto archeologica, tanto che Pietro Aretino, dopo aver ammirato la raccolta delle «anticaglie», avrebbe affermato: «Sembra proprio che patavina, temperata dalle suggestioRoma si sia trasferita in Padova». ni provenienti dalla Repubblica veneziana. Proprio negli anni di Bemarte e collezionismo bo, Venezia e l’area veneta conobNon stupisce dunque che in quegli bero raccolte della portata dello anni tale ricostruzione idealizzata Statuario Grimani, la cui donazione dell’antico sia avvenuta a Padova, alla Repubblica, affinché si costitudove non solo gli eruditi, ma spesso isse un museo, fu celebrata con una anche gli artisti furono «collezioni- epigrafe dal Bembo stesso. Oppure sti» e antiquari: su tutti giganteggia come quelle, piú curiose (come ben Mantegna, anche se non è da di- riassunto da Irene Favaretto, in Arte menticare che tra la congerie di antica e cultura antiquaria nelle collemarmi, calchi e modelli in gesso e zioni venete al tempo della Serenissima, cera ammassati nella bottega-studio Roma 2002), di Marco Benavides o del suo maestro, lo Squarcione (se- di Leonico Tomeo, descritte grazie condo il cui insegnamento Mante- alla puntigliosità di Marcantonio gna giovanissimo tentava le prime Michiel, a cui si deve anche la coambientazioni ricostruttive dell’ar- noscenza della stessa collezione del chitettura romana imperiale pro- Bembo, mentre comparvero antiprio negli affreschi della vicina quari quali Andrea Odoni, celebrachiesa degli Eremitani), ebbe em- to dallo splendido dipinto di Lobrione il gusto archeologizzante renzo Lotto. della pittura settentrionale italiana. Se tra gli influssi irradiati da Venezia Il substrato culturale del pre-uma- vi fu anche il gusto per la pittura nesimo petrarchesco fu inoltre hu- nordica o «ponentina» – come ben mus fertilissimo per lo sviluppo del- testimonia il dittico di Hans Memla cultura antiquaria e archeologica ling (ora smembrato tra Washington a r c h e o 101
mostre • pietro bembo
e Monaco di Baviera) che figurava già nella quadreria di Bernardo Bembo – al legame con la Serenissima si deve non solo la presenza a Padova di codici manoscritti del Mediterraneo orientale, ma anche di quei pochi, veri originali di scultura greca (conosciuti in anticipo sui tempi delle prime scoperte tardo-settecentesche). Come, per esempio, i frammenti raccolti dallo stesso Marco Mantova Benavides (che assieme a Domenico Grimani e Gabriele Vendramin possedeva anche rari esemplari di vasi dipinti magno-greci) o le antichità riunite dai Maggi di Bassano o dai Quirini al Portello, sintomo di un fenomeno le cui radici, osserva Giulio Bodon, «penetrano profondamente nel substrato storico culturale del centro veneto, segno tangibile di un legame ancestrale che Padova mantenne con le memorie della propria origine» (Veneranda antiquitas: studi sull’eredità dell’antico nella Rinascenza veneta, Bern 2005).
un intuito formidabile Fiorenti furono all’interno di questo circuito gli scambi e il commercio, segnatamente degli oggetti di piccole dimensioni: bronzetti e monete. La raccolta numismatica fu per Bembo terreno su cui esercitare la sua esegesi storico-filologica, giovandosi anche dell’esperienza per farsi consulente in materia epigrafica. Ma non mancò di intuizioni formidabili nei confronti della scultura: degno d’essere riportato, è l’episodio del ritrovamento, a Padova, di un piede di bronzo che Bembo comprese essere pertinente a una statua della collezione antiquaria veneziana di Andrea Martini (ora a Berlino e nota come L’Adorante), il quale la aveva prelevata a Rodi, essendo egli cavaliere gerosolimitano di stanza nell’isola. Studi moderni hanno confermato la bontà di quella intuizione, probabilmente corroborata dall’esperienza della scuola di bronzisti che a Padova all’epoca era fiorente. Ancora le epigrafi, in quel di Padova, sulla scorta dell’insegnamento 102 a r c h e o
La Testa Lamberti, ritratto in bronzo forse raffigurante Gaio Servilio Ahala. Metà del I sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
rappresentato da Ciriaco d’Ancona e Giovanni Marcanova, costituirono l’arena del confronto tra eruditi: il lapidario di Alessandro Maggi da Bassano, antiquario, studioso e numismatico, raccoglieva uno dei piú importanti nuclei di epigrafi del Veneto. Il collezionismo padovano si configura allora piú come segno di identità condivisa non tanto per il censo, quanto per affinità e comune elezione intellettuale. La collezione del Bembo appare dunque sintomatica di un eclettismo in cui ai libri, alle pitture, alle «anticaglie» e alle amate monete e medaglie si affiancava anche la curiosità botanica. La dimora vantava giardini abitati sia da statue, sia da rare e preziose essenze arboree raccolte in un orto botanico, precursore di quello dell’Università di Padova e testimonianza dell’interesse tutto rinascimentale anche per le
specie vegetali, che sfociò negli studi del bolognese Ulisse Aldrovandi. Benedetto Varchi la definí «Un tempio consacrato a Minerva», dea della Sapienza. Ed è propr io nell’Orazione funebre scritta dal Varchi per la morte del Bembo stesso che si ha una precisa testimonianza di quel poliedrico «studiolo» padovano: «Dilettavasi sommissimamente di tutte l’arti ingegnose (…) et chiunque vide mai lo studio suo in Padova il mi crederà (…) oltre la gran quantità d’ogni sorte di nobilissimi libri antichi et moderni (…) era di tante statue, et cosí perfette, di tante pitture et cosí nobili ricco et adorno, senza l’infinita moltitudine di diverse medaglie, vasi, gioie, et altre cose preziosissime (…) onde pure nel suo bellissimo giardino si potevano vedere infinite herbe». Si trattava dunque di un vero e proprio «museo», che scaturiva, come impone la genesi di tale categoria collezionistica, dall’unione di biblioteca, medagliere, studiolo di meraviglie e giardino di delizie. Tra i meriti della mostra vi è dunque la ricostruzione di buona parte di tale raccolta, poi sciaguratamente dispersa nel tempo e sul mercato, nonostante le disposizioni testamentarie dettate da Bembo al figlio Torquato, con il vincolo accorato di: «non vendere, né impegnare, né donare per nessun caso alcuna delle mie cose antiche o di pietra o di rame o d’argento o d’oro, o di altro ch’elle siano o fossero; ma di tenerle care ed in guardia siccome l’ho tenute io: e parimenti sia tenuto di fare cosí dei libri e delle pitture che sono nel mio studio e casa in Padova e che io ho qui meco» (Bodon, op. cit.).
ospite impeccabile Nella sua casa padovana, Bembo riceveva con magnanima ospitalità amici e visitatori; si deve a uno di essi, l’umanista Ludovico Beccadelli, la testimonianza della presenza nella raccolta bembesca di un pezzo eccezionale. Scrive il prelato, in visita intorno agli anni Trenta del Cinquecento: «Messer Pietro cortesemente [gli ospiti] intratteneva (…) e d’altre cose gentili sapeva benissimo render conto, come di Medaglie, et Scolture et Pit-
ture antiche e moderne; delle quali cose havea uno studio cosí ben istrutto, ch’in Italia forse pochi pari havea: fra l’altre cose tenea una Tavola di rame assai ben grande lavorata d’argento a figure egittie, cosa meravigliosa a vedere». Si tratta di un reperto curioso e di enorme rilevanza, sia archeologica sia nel contesto del primo collezionismo di antichità, quasi un caso di egittologia ante litteram: è la cosiddetta «Mensa Isiaca», che Bembo fece acquistare a Roma nel contesto delle vicende legate al Sacco dei Lanzichenecchi (forse nell’anno stesso o poco dopo) prelevandola, pare, da un fabbro ferraio. Lo straordinario oggetto, noto infatti anche come «Tavola Bembina», è una mensa d’altare di fattura imperiale romana in bronzo intarsiato con altri metalli (argento e rame), proveniente probabilmente dall’Iseo Campense.
un’ipotesi fuorviante Tra Seicento e Ottocento essa fu oggetto di appassionate indagini da parte dei piú celebri studiosi e archeologi, da Kircher a Montfaucon, da Caylus a Mackenzie. Su di essa si appuntò l’attenzione di studiosi di esoterismo e occultologia come William W.Westcott, che la chiamò «Tabula Bembina». Nulla di piú lontano dall’atteggiamento dell’umanista Bembo. Il suo interesse verso la Mensa è piuttosto testimonianza di quel peculiare riguardo nei confronti degli antichi oggetti «egittizzanti» romani (si tratta infatti di una rielaborazione fantasiosa di motivi egizi), come gli obelischi, già avvertito nella cerchia di Bembo e di quel Piero Valeriano, bellunese di nascita, ma padovano di studi e attivo alla corte di Leone X che, nel contesto dell’entusiasmo provocato dalla riscoperta di Horapollo, pubblicò gli Hieroglyphica, in cui la scrittura egizia è interpretata in chiave simbolica, ma sistematica. Lungi, infatti,
L’Antinoo Farnese, ritratto collocato su un torso antico forse pertinente. 130-138 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
dall’essere un’apertura precoce alla «egittomania» da parte di Bembo (che pure possedeva alcuni papiri), l’alta considerazione in cui tale oggetto veniva tenuto nella sua collezione ci parla di un interesse affatto nuovo nei confronti di una civiltà certo misteriosa, ma avvertita come autorevole e da affiancare a quella, a lui piú nota, greca e latina.
il salvatore della repubblica? Un’altra interessante opera della collezione Bembo, presente in mostra, è un busto maschile in bronzo di età repubblicana, noto anche come Testa Lamberti (oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove giunse nel 1829, venduta dal cavalier Lamberti, da cui il nome). Il busto è di particolare pregio, non solo perché si tratta di una delle poche opere antiche in bronzo in larghissima parte originale (fatta salva la calotta cranica) e sopravvissute alla prassi medievale di fusione al fine di ottenere metallo; esso spicca anche per la splendida caratterizzazione fisiognomica del volto barbato e dai lineamenti affilati, da a r c h e o 103
mostre • pietro bembo
BEMBO
cui traspare un raffinato modello formale di origine ellenistica. Già ritenuto ritratto di Antonino Pio dal Bembo e in seguito catalogato genericamente come «filosofo», se ne propone oggi l’identificazione con un leggendario eroe romano, il Magister equitum di Cincinnato Gaio Servilio Ahala che, come narra Livio, nel 439 a.C. salvò la repubblica romana dalle ambizioni tiranniche di Spurio Melio, uccidendolo con un pugnale.
scelte emblematiche Oggetto di grande bellezza è poi la testa-ritratto di Antinoo, una tra le piú eleganti tra quelle conosciute. Essa, forse già nota nella cerchia raffaellesca intorno al 1520, fu poi acquistata nella vendita dell’eredità di Pietro Bembo dal cardinal Alessandro Farnese, nipote di Paolo III e grandissimo collezionista. Alla fine del Cinquecento la testa fu poi adattata al torso di una statua antica, forse addirittura pertinente, dal restauratore di casa Farnese, lo scultore Giovanni Battista de’ Bianchi. L’Antinoo Farnese (oggi nel Museo Archeologico di Napoli) fu tra i pezzi piú pregiati della collezione romana e, dopo il 1600, venne esposta nella celebre Galleria Carracci del palazzo di famiglia. Anche da queste scelte, emerge dunque la statura del Bembo – ben al di là dell’orizzonte letterario che pure lo rese celebre – come uno dei principali, se non il piú versatile, tra i promotori di una rinascita della cultura e delle arti in Italia al volgere di un complesso periodo che vide, col tramonto dei papi medicei, con il sacco di Roma e le trasformazioni urbanistiche e politiche di Paolo III Farnese, un’epoca concludersi e un’altra, il Manierismo, aprirsi. Ben si attagliano all’universalità culturale e spirituale del Bembo le parole della orazione funebre a lui dedicata dal Varchi, che in risposta a chi sosteneva il primato culturale, tutto nordico e implicitamente germanico, di Erasmo da Rotterdam, affermava, laconico: «et noi havemo il Bembo». 104 a r c h e o
E LA PADOVA DEL RINASCIMENTO
La mostra «Bembo e l’invenzione del Rinascimento» è anche l’occasione per conoscere aspetti di Padova meno noti rispetto ai luoghi tradizionalmente frequentati dal visitatore quali La Cappella degli Scrovegni e la Basilica del Santo. Nel contesto dell’esposizione è infatti previsto l’itinerario «Bembo e la Padova del Rinascimento», che permette di ammirare alcune delle piú importanti realizzazioni architettoniche e artistiche dell’epoca dell’umanista, quando la città conobbe un profondo rinnovamento sulla spinta delle nuove classi sociali e delle nuove famiglie. Questi alcuni dei monumenti considerati: 1
Sala dei Giganti
Fu chiamata Sala degli Eroi nel Trecento, su suggerimento di Francesco Petrarca, per le raffigurazioni di personaggi illustri. Lo stesso poeta vi venne raffigurato alla sua morte. Purtroppo gli affreschi originali andarono perduti in un incendio ma, per volere di Gerolamo Corner, nella prima metà del Cinquecento si provvide a dipingere un altro ciclo di affreschi dello stesso soggetto. 2
Palazzo del Bo
Si tratta di un gruppo di edifici, residenza originaria della famiglia Papafava, che nel 1405 divenne proprietà di un macellaio. Questi vi aprí una locanda (Hospitium Bovis) che aveva come insegna un teschio di bue. Nel 1539 la proprietà dell’«Albergo del Bove» passò all’Università, che riuní in un’unica sede le diverse scuole aperte nella città. L’appellativo di «Palazzo del Bo» è però rimasto fino ai nostri giorni, perché l’ateneo volle conservare nel proprio emblema il teschio di bue.
A destra: carta della città di Padova con l’indicazione dei luoghi suggeriti dall’itinerario legato a Pietro Bembo. Sulle due pagine, da sinistra, in senso antiorario: il Palazzo del Monte di Pietà (sede della mostra), la Sala dei Giganti, la basilica di S. Giustina e la chiesa intitolata a sant’Antonio da Padova, piú nota come basilica del Santo.
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Loggia e Odeo Cornaro
La Loggia e l’Odeo Cornaro furono commissionati da Alvise Cornaro, uno dei maggiori mecenati del Cinquecento padovano.
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Padova
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Basilica del Santo
Celeberrimo monumento e meta religiosa per eccellenza (è la chiesa innalzata sulla tomba di Antonio da Padova, patrono e protettore della città), ospita il monumento celebrativo al cardinale Pietro Bembo, eseguito su progetto di Andrea Palladio. Notevole il riassetto cinquecentesco della Cappella dell’Arca, mentre colpiscono i numerosi monumenti funebri, molti dei quali sempre del Cinquecento che, nella lettura delle cariche ricoperte dai loro destinatari, sono un interessante spaccato della vita civile e culturale della città. 5
Scoletta del Santo
Ospita la Sala Priorale dell’Arciconfraternita di Sant’Antonio, affrescata nel primo ventennio del Cinquecento dai piú importanti pittori che gravitavano in area veneta, tra cui Girolamo dal Santo, Bartolomeo Campagna e il giovane Tiziano Vecellio. 6
Basilica di S. Giustina
Chiesa realizzata nel 1502 per sostituire quella colpita dal terremoto del 1117. Nella navata di destra, dietro l’Arca di San Mattia, si trova il Pozzo dei Martiri che raccoglie le reliquie dei martiri padovani. Il coro cinquecentesco ospita una pala d’altare con il Martirio di Santa Giustina, di Paolo Veronese.
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Oratorio del Redentore
Adiacente alla chiesa di S. Croce, l’edificio era la sede della Confraternita del Corpo di Cristo di Santa Croce che si occupava dell’assistenza ai poveri e agli ammalati. L’Oratorio conserva un ciclo di affreschi eseguiti da importanti artisti locali del XVI secolo. 8
Palazzo Mantua Benavides
Era la casa padovana di Marco Mantova Benavides, giurista di fama ed eclettico collezionista di antichità, oggetti rari e curiosi, ma anche di strumenti musicali. Artisti, padovani e non, contribuirono alla decorazione del suo palazzo eretto intorno al 1540: Domenico Campagnola affrescò numerose sale, mentre Bartolomeo Ammannati fu l’autore del gruppo scultoreo dell’Ercole e dell’arco di trionfo nel giardino del palazzo. 9
Palazzo Bembo
Identificato nel 1924 grazie alle ricerche di Oliviero Ronchi, il palazzo del Bembo è oggi sede del Museo della Terza Armata. La costruzione è quel che rimane della fastosa residenza originaria dello scrittore, passata successivamente ai Gradenigo e infine venduta alle Forze Armate. Già modificato nel Seicento, l’edificio ha subito rimaneggiamenti considerevoli negli anni Trenta del secolo scorso: il fronte posteriore mantiene ancora qualche elemento originale, mentre nulla resta dei famosi giardini che accoglievano le antichità. 10
Villa dei Vescovi
Progettato da Giovanni Maria Falconetto sotto la guida dell’erudito veneziano Alvise Cornaro, questo splendido esempio di architettura civile fu realizzato tra il 1535 e il 1542 come casa di villeggiatura del vescovo padovano, Francesco Pisani. Divenne dunque sede di un importante cenacolo intellettuale della cultura umanista. a r c h e o 105
scavare il medioevo Andrea Augenti
damnatio memoriae in terra vichinga all’indomani della loro scoperta, si pensò che Le straordinarie sepolture di oseberg e gokstad, in norvegia, fossero state violate in età moderna. nuove ricerche hanno smentito questa ipotesi, aprendo uno scenario del tutto nuovo e piú convincente...
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arafrasando una delle regole d’oro del romanzo giallo, potremmo dire che anche l’archeologo «torna sempre sul luogo del delitto». Fatti i debiti cambiamenti, infatti, capita spesso di tornare sul sito di una grande scoperta. Gli archeologi possono condurre nuove indagini in una località già esplorata per molti motivi, ma soprattutto nel caso in cui chi ha scavato per primo non lo abbia fatto con la dovuta attenzione; o anche perché il metodo e le attrezzature disponibili oggi allora non esistevano; o ancora, perché con il passare del tempo (e con l’accumulo delle conoscenze) cambiano le domande da porre a quello stesso sito. Insomma, perché quel luogo ha, evidentemente, ancora qualcosa
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da raccontare, come nei casi che affrontiamo in queste pagine. Oseberg e Gokstad sono due scavi fondamentali per la nascita dell’archeologia medievale scandinava ed europea. Si tratta di due sepolture straordinarie, trovate nella zona meridionale della Norvegia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. Straordinarie, perché sono il risultato di investimenti grandiosi, tra le piú alte espressioni di strategie di perpetuazione della memoria mai prodotte dalla società vichinga.
le navi sepolte Entrambe le tombe sono realizzate in una camera funeraria ricavata all’interno di una nave, portata appositamente a terra e poi sepolta sotto un tumulo. Dentro la
nave di Oseberg sono state trovate due donne, che alla luce delle ultime analisi avevano rispettivamente 60/70 anni l’una e circa 50 l’altra. Assieme ai cadaveri furono sepolti molti oggetti preziosi: un carro e tre slitte in legno finemente intagliate, vesti ricamate e alcuni arazzi di grande valore. La nave di Gokstad, invece, ospitava un uomo sulla sessantina, anche lui con un corredo piuttosto ricco (soprattutto di reperti in metallo). La sepoltura di Oseberg si data intorno all’830, mentre quella di Gokstad risale all’incirca all’anno 900. Quando furono scavate per la prima volta, ci si rese conto che entrambe erano state profanate; e si pensò che l’episodio fosse avvenuto qualche secolo dopo la costruzione dei tumuli, nel corso
del Medioevo. Una conclusione un po’ sbrigativa, verosimilmente dettata dal fatto che, a fronte alla grande scoperta, questo dettaglio fu considerato poco importante. Tuttavia, alla fine, qualcosa proprio non quadrava. Perché i corredi delle tombe erano stati rubati solo in parte? Chi aveva potuto scavare, indisturbato, grandi trincee attraverso i tumuli, per arrivare alle camere funerarie e distruggere parte delle navi? E infine, la domanda piú inquietante: perché le persone sepolte nelle navi avevano tutte il cranio fratturato in mille pezzi, e il resto delle ossa era stato disperso nelle trincee aperte dai presunti tombaroli?
le pale, prova regina Le ultime analisi di dettaglio eseguite su alcuni reperti permettono finalmente di rispondere a questi interrogativi. L’oggetto dei nuovi studi sono alcune semplici pale trovate nelle due tombe: proprio quelle usate dai profanatori. Poiché le pale sono in legno, è stato possibile sottoporle ad analisi dendrocronologiche; e si è scoperta una cosa molto interessante: entrambi i saccheggi dei tumuli avvennero verso la metà del X secolo. Non molto tempo dopo la chiusura delle sepolture, quindi: circa cento anni dopo quella di Oseberg, una cinquantina dopo quella di Gokstad. A questo punto la trama del giallo si infittisce: nella Norvegia dei Vichinghi, due tombe monumentali costruite a molti chilometri di
distanza l’una dall’altra vengono profanate nello stesso periodo, non subiscono furti notevoli, ma i distruttori si accaniscono con la stessa violenza sui morti. Perché mai? Ci troviamo in quella complessa terra di mezzo nella quale la Storia (con la S maiuscola) può intersecarsi con l’archeologia. Un’analisi delle fonti scritte superstiti ci aiuta forse a sciogliere l’enigma. In effetti, la metà del X secolo è un momento di grandi trasformazioni in Scandinavia. Sale ora al trono di Danimarca Harald Gormson, soprannominato «Harald dal Dente Blu»: uno dei piú famosi sovrani vichinghi, il primo a convertirsi al cristianesimo. Fin dall’inizio del suo regno, Harald tenta di estendere i possedimenti della corona fino a includere la Norvegia. Ma che cosa c’entra tutto questo con i nostri tumuli? C’entra, eccome. Costruire tombe cosí elaborate e ben visibili da lontano equivaleva a creare veri e propri monumenti celebrativi, attraverso i quali la stirpe del sepolto rivendicava e legittimava il suo primato politico e il controllo sul territorio (lo stesso ragionamento vale, del resto, per gli Etruschi, e per molti altri popoli che adottarono questa forma di sepoltura). I tumuli di Oseberg e Gokstad furono evidentemente allestiti da
famiglie che governavano la Norvegia tra il IX e il X secolo.
la scelta di harald Le trasformazioni del panorama politico ne resero possibile (forse necessaria) la distruzione; se le attribuiamo a Harald dal Dente Blu, non facciamo fatica a immaginare che questo re avesse deciso di voltare pagina in modo programmatico: penetrare nei tumuli e saccheggiarne le sepolture significava screditare, azzerare la dinastia precedente dal punto di vista simbolico. Cosí si spiega la possibilità per i suoi uomini di entrare nella tomba scavando grandi trincee senza suscitare alcune reazione, e si spiega anche l’accanimento – che ha davvero qualcosa di agghiacciante – contro i cadaveri. La profanazione dei tumuli di Oseberg e Gokstad non fu dunque l’atto di semplici tombaroli, ma un gesto di matrice politica: piú o meno l’equivalente di una damnatio memoriae tra Vichinghi. Nel corso della storia, profanare o cancellare la memoria dei predecessori scomodi è stato spesso considerato un atto lecito, e vantaggioso. Ma questa vicenda dimostra, ancora una volta, che non esiste memoria davvero cancellabile fino in fondo; e che tornare sul luogo del delitto può avere molto senso, anche per l’archeologo.
Nella pagina accanto: la nave vichinga scoperta a Oseberg (Norvegia) in corso di scavo, in una foto del 1903. 830 circa. All’interno dell’imbarcazione, tirata in secca e quindi ricoperta da un tumulo, fu ricavata una camera funeraria in cui vennero sepolte due donne, con ricchi corredi. A destra: la nave di Gokstad, nella quale fu seppellito un uomo, provvisto anch’egli di un ricco corredo. 900 circa. Oslo, Museo delle Navi vichinghe. Come a Oseberg, la sepoltura fu violata e sconvolta, verosimilmente per attuare una sorta di damnatio memoriae.
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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale
la fede nella roccia in diverse aree del mondo, singoli asceti e intere comunità religiose cristiane in cerca di solitudine, di protezione e di un miglior contatto con Dio, realizzarono opere di culto sotterranee di inestimabile fascino 108 a r c h e o
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olte religioni hanno utilizzato grotte naturali o hanno costruito architetture all’interno delle rupi, perlopiú scavando nelle pareti di emergenze rocciose o, dove le caratteristiche geologiche lo permettevano, ricavando sotto il livello del suolo strutture piú o meno ampie e complesse da adibire a luogo di culto. Il cristianesimo, in particolare, ha prodotto nella roccia innumerevoli ambienti di preghiera: cripte, eremi, cappelle e vere e proprie chiese rupestri, spesso dotate di raffinati elementi
I Sassi di Matera, sito rupestre che l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1993, sul ciglio della gravina.
architettonici, archi, cupole, pilastri, lesene, non strutturali, ma a semplice imitazione delle chiese costruite in muratura, ottenuti per risparmio nello scavo della roccia e non di rado arricchiti da elementi decorativi dipinti o da splendidi cicli con scene sacre.
Tesori fragili
In basso: Matera. Il complesso rupestre del Convicinio di S. Antonio.
Tale fenomeno ha dato vita a un patrimonio culturale di ampie proporzioni, oggi estremamente fragile, che pone sfide difficili per la sua conservazione. Questi particolari ambienti ipogei, infatti, presentano spesso problemi di statica, a causa dei processi di disgregazione delle rocce in cui sono contenuti, amplificati da secolari periodi di abbandono o da successive e improprie destinazioni d’uso, oltre a essere generalmente afflitti da umidità e infiltrazioni d’acqua che ne compromettono gli apparati decorativi. Proprio come accaduto nella ben piú nota architettura in elevato, anche tra le chiese rupestri si rilevano notevoli differenze nell’impostazione generale, nello sviluppo planimetrico e nella presenza di alcuni elementi piuttosto che altri – per esempio nella posizione dell’altare e nel rapporto tra l’ubicazione di questo e l’ingresso – riconducibili a diverse epoche di realizzazione e, alle volte, all’influenza di tradizioni di rito orientale. Tuttavia, occorre considerare che l’architettura ipogea è legata alle necessità imposte dalla massa rocciosa nella
quale si andava scavando, o meglio «costruendo in negativo». La presenza di materiale piú incoerente, o l’eccessiva prossimità alle pendici esterne che avrebbe compromesso la stabilità a causa dell’originarsi di pareti troppo sottili, potevano determinare modifiche nei progetti originali e l’adozione di scelte architettoniche e stilistiche singolari, che oggi fanno spesso discutere gli studiosi.
La tradizione orientale Molte chiese ipogee dell’Italia meridionale presentano diversi elementi costruttivi legati alle necessità del rito greco, poiché tra il IX e l’XI secolo qui si stanziarono comunità religiose provenienti dal Mediterraneo orientale. Caratteristica è l’iconostasi, tipica delle chiese bizantine successive al IV secolo, ossia una tramezza in legno o in pietra (nelle chiese rupestri una parete risparmiata nella roccia viva), arricchita da affreschi e icone, con alcune finestre e uno o piú accessi, che divideva l’area piú sacra del tabernacolo, cui accedeva solo il clero officiante il rito, dalle navate nelle quali si trovavano i fedeli. Nelle chiese di tradizione orientale, e quindi anche in quelle rupestri ricadenti sotto tale influsso, l’area riservata al clero era caratterizzata da due piccole absidi, poste ai lati di quella centrale, dette prothesis (in cui si conservavano le ostie consacrate) e diaconicon (contenente i paramenti sacri).
i sassi di matera
Dall’abbandono alla valorizzazione
Nel 1993 l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità i Sassi di Matera, cioè la parte antica della città, interamente scavata nella roccia calcarenitica, nota come «tufo». In un ambiente incantevole, con caratteristiche naturali singolari e sorprendenti, affacciati su di un canyon – la gravina –, che rende la zona di estremo fascino, si trovano migliaia di ambienti sotterranei adibiti, nel passato, ad abitazioni e botteghe. Oggi, a seguito di attenti restauri e iniziative di valorizzazione, i quartieri rupestri sono tornati a nuova vita, dopo anni di incuria e degrado. Gioiello dei Sassi sono le oltre 130 chiese ipogee, ricche di preziosi dipinti, alcune delle quali, ormai sconsacrate, sono spesso reimpiegate come suggestivi luoghi per esposizioni d’arte contemporanea e concerti (per informazioni www.sassidimatera.it).
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
feste e scudi sacri al primo mese di primavera è legata la memoria delle idi e dell’assassinio di giulio Cesare. ma nei giorni di marzo si celebravano anche cerimonie remote, legate ad armi leggendarie, ricordate da rare emissioni monetali
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er i Romani, il mese di marzo appena trascorso rappresentava, in origine, l’inizio dell’anno stabilito da Romolo, e tale rimase sino alla metà del II secolo a.C.; la sua importanza, legata anche al risveglio primaverile della natura, derivava da antiche ricorrenze sacre connesse a Marte, ai culti piú remoti della Roma delle origini e al
In alto: denario di P. Licinio Stolo, 17 a.C. Al dritto, testa di Augusto con legenda AVGVSTVS TR. POT; al rovescio, apex tra ancilia e legenda P STOLO III VIR. A destra: l’altra versione delle monete di P. Licinio Stolo con gli scudi sacri: al dritto, statua equestre di Augusto con corazza e patera, e legenda AVGVSTVS TR. POT; al rovescio, apex tra ancilia e legenda P STOLO III VIR. 17 a.C.
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suo spirito belligerante, celebrate dal sacerdozio dei Salii. Il nome di questo collegio deriva dal verbo latino salire, cioè saltare (Ovidio, Fasti, III, 387), riferito al passo saltellante tenuto dai sacerdoti durante le cerimonie religiose. La tradizione voleva che, in età monarchica, durante una processione indetta il primo di marzo per scongiurare una
pestilenza in corso nel regno di Numa Pompilio, fosse stato inviato dal cielo, direttamente da Marte, uno scudo di bronzo bilobato, vale a dire a forma a otto, chiamato ancile, che fermò improvvisamente il flagello (Ovidio, Fasti, III, 351 ss.; Plutarco, Numa, 13).
repliche perfette Il re Numa intratteneva diretti rapporti con le divinità e, su indicazione della ninfa Egeria, seppe che il possesso dello scudo avrebbe assicurato a Roma la vittoria in campo bellico: ne fece quindi fabbricare altri undici eguali, in modo che fosse difficilissima l’asportazione da parte dei nemici dell’Urbe, e li ripose nella Regia nel Foro Romano, affidandoli, per i riti religiosi, al nuovo sacerdozio dei Salii. Quest’ultimo, consacrato direttamente a Marte Gradivo e preposto all’apertura e alla
chiusura del periodo che poteva essere dedicato alla guerra (tra marzo e ottobre), si componeva di dodici aitanti giovani scelti tra la nobiltà, il cui compito precipuo era vegliare sui dodici scudi. Il primo di marzo i Salii, vestiti di una ricca e antica armatura, portavano in processione le lance sacre (hastae Martiae) e gli scudi, saltellando, intonando antichi canti in latino arcaico (il Carmen Saliare, in seguito incomprensibile anche agli stessi sacerdoti) e battendovi sopra le lance in modo ritmico, per risvegliare la vis bellica dei Romani. I sacri scudi ricorrono sulla
monetazione romana in due casi, il primo in età repubblicana e il secondo durante il principato antonino. Fu infatti soltanto il monetiere di Augusto, P. Licinio Stolo, a scegliere per i suoi denari questo tipo nel 17 a.C., con evidente riferimento alla virtus di Augusto: al dritto è effigiata la testa di Augusto o una sua statua equestre, mentre al rovescio campeggiano gli ancilia, in mezzo ai quali vi è l’apex, il particolare caschetto indossato dai Salii, sormontato da una punta in legno d’olivo e annodato al mento con due stringhe. In età imperiale il tipo fu ripreso da Antonino Pio sulle emissioni in bronzo: al dritto è delineato il consueto profilo imperiale, mentre al rovescio si stagliano due scudi sacri con la legenda Ancilia. Si può ricordare a questo proposito come Marco Aurelio, adottato poi da Antonino Pio, alla tenera età di otto anni fosse stato fatto sacerdote nel collegio dei Salii, nel 129 d.C.
a veio e norchia In alcuni casi fortunati esiste una felice convergenza tra fonti letterarie, iconografia e ritrovamenti archeologici. Infatti, la riproduzione degli scudi, formata da due dischi rastremati al centro con un terzo disco di raccordo piú piccolo al centro, decorazione a sbalzo e borchie a facciavista, tramandata dalla letteratura e dalle monete, è veritiera. Sebbene di esemplari
romani non se ne conservino, sono giunti sino a noi alcuni tipi molto simili di tali scudi di bronzo ritrovati in sepolture etrusche e laziali. Famoso è l’esemplare dalla necropoli di Veio da Casale del Fosso (tomba 1036), deposto nella ricca sepoltura di un aristocratico guerriero con l’intera panoplia, databile al 750-730 a.C., data che sorprendentemente si avvicina a quella del regno di Numa e all’apparizione del sacro ancile (715-673 a.C.); a questo si affiancano gli scudi bilobati miniaturizzati da una sepoltura di Norchia (Viterbo), esposta al Museo Nazionale della Rocca Albornoz a Viterbo. Scudo sacro, pegno di vittoria donato direttamente da Marte, l’ancile si configura come oggettosimbolo di eccezionale dignità e potere politico-religioso per chi lo poteva detenere e custodire, alla cui conoscenza hanno contribuito anche le due emissioni romane giunte sino a noi che lo raffigurano proprio come lo volle forgiato Marte per donarlo a Roma.
per saperne di piÚ Giovanni Colonna, Gli scudi bilobati dell’Italia centrale e l’ancile dei Salii, in Archeologia Classica, XLIII, 1991, pp. 55-122. Luciana Aigner Foresti, Oggetti di profezia politica: gli ancilia del collegium Saliorum, in CISA, Milano 1993, pp. 159-168.
In alto: Roma, Ara Pacis. Particolare della processione sul lato sud del monumento, in cui si vedono alcuni sacerdoti che indossano lo stesso copricapo dei Salii, l’apex. A destra: asse di Antonino Pio, 143-144 d.C. Al dritto, testa dell’imperatore; al rovescio, una coppia di ancilia.
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Umberto Sansoni e Silvana Gavaldo (a cura di)
lucus rupestris Sei millenni d’arte rupestre a Campanine di Cimbergo Edizioni del Centro, Capo di Ponte (BS), 416 pp., ill. b/n e col. + 15 tavv. 40,00 euro ISBN 88-86621-33-8 www.ccsp.it
solo la catalogazione sistematica delle incisioni, ma anche considerazioni di tipo stilistico e culturale, di volta in volta riferite ai diversi ambiti cronologici. Come è consuetudine per le pubblicazioni del CCSP, ampio e accurato è il corredo iconografico, grazie al quale è possibile «leggere» i messaggi che per oltre sei millenni l’uomo volle affidare alle formazioni rocciose dell’area di Campanine. Daniela Castaldo
Musiche dell’Italia antica
Incluso nell’area della Riserva Naturale delle Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo, in Val Camonica, il sito di Campanine di Cimbergo è tra quelli che hanno finora restituito uno degli insiemi piú ricchi di queste manifestazioni. Un corpus che si caratterizza, inoltre, per l’eccezionale ampiezza dell’orizzonte cronologico abbracciato: le rocce di Campanine, infatti, conservano testimonianze che vanno da una fase tarda del Neolitico (V millennio a.C.) fino al XX secolo. A questo ricco contesto il Centro Camuno di Studi Preistorici ha dunque dedicato l’ultima uscita della collana Archivi, che mette a disposizione degli studiosi non
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Introduzione all’archeologia musicale Ante Quem, Bologna, 144 pp., ill. b/n 14,00 euro ISBN 978-88-7849-074-1 www.antequem.it
Tra i filoni sempre piú spesso seguiti negli studi di antichità, la musica occupa un posto di primo piano. Una tendenza in cui si inserisce il saggio di Daniela Castaldo, che fa dunque il punto sull’archeologia musicale e sulle sue possibili prospettive. Dopo un’introduzione di
carattere metodologico, l’argomento viene affrontato attraverso le documentazioni offerte da quattro contesti principali, definiti sulla base di confini cronologici e culturali: l’Etruria, il Veneto e l’Etruria padana, la Magna Grecia e Roma. L’analisi si sviluppa sulla scorta di dati archeologici «diretti», cioè strumenti musicali o parti di essi, e indicazioni «indirette», che consistono nelle raffigurazioni a soggetto musicale reperibili su vasi, bronzi, monete, ma attestate anche, per esempio, dalla pittura parietale. Nel complesso, si dispiega agli occhi del lettore un panorama assai ampio e articolato – la cui ricchezza non mancherà forse di sorprendere – a riprova di quanto la pratica musicale fosse diffusa e apprezzata. A suggello della trattazione è l’ampia bibliografia, che include anche la segnalazione di incisioni discografiche e siti web che possono permettere ulteriori approfondimenti. Luciano Frazzoni (a cura di)
Carta archeologica del Comune di Farnese Sistema Museale del Lago di Bolsena, Bolsena, 170 pp., ill. col. e b/n 10,00 euro ISBN 978-88-95066-29-5
Il territorio del Comune di Farnese (Viterbo) è compreso in un’area di rilevanza primaria dal punto di vista archeologico: in
esso si concentrano, infatti, numerosi insediamenti, testimoni di una frequentazione che, a partire dall’età preistorica, non ha quasi conosciuto soluzioni di continuità. Solo per citare alcuni dei casi piú significativi, basterà ricordare l’abitato protostorico di Sorgenti della Nova, il centro etrusco di Rofalco e Castro, la città che papa Paolo III eresse a capitale dell’omonimo ducato per il figlio Pier Luigi Farnese e che venne rasa al suolo da Innocenzo X nel 1649. I tre siti, come dimostra la Carta curata da Luciano Frazzoni, non furono esperienze isolate, ma risultano inseriti in un tessuto storico dalla trama straordinariamente fitta, definita grazie alle numerose ricerche condotte nella zona. Esplorazioni che, oltre a interventi di scavo vero e proprio, sono consistite in larga parte nelle campagne di ricognizione di superficie svolte dai volontari del Gruppo Archeologico Romano.
Stefan Zweig
il candelabro sepolto Postfazione di Fabio Isman Skira Editore, Milano, 192 pp. 15,00 euro ISBN 978-88-5721536-5 www.skira.net
Pubblicato per la prima volta nel 1937, Il candelabro sepolto non è, come lascia facilmente intendere il nome del suo autore, un testo di archeologia. È però un racconto dai tratti fortemente «archeologici», in quanto Zweig, al di là delle implicazioni ideologiche e religiose che la vicenda di Beniamino Marnefesch – il protagonista – certamente contiene, costruisce una storia ricca di riferimenti storici e che, nel suo svolgersi, mostra piú di un’analogia con tante epiche imprese che hanno segnato la storia degli studi sul nostro passato. Tutto ruota intorno al tentativo, da parte della comunità ebraica di Roma, di recuperare la Menorah (il candelabro d’oro a sette bracci del tempio di Gerusalemme, simbolo della presenza di Yahwèh), che, razziata
dalle truppe guidate da Tito nel 70 d.C. e portata in trionfo a Roma (episodio che l’imperatore volle anche eternare nei rilievi dell’arco trionfale che tuttora si staglia all’inizio della via Sacra), è oggetto di un secondo saccheggio, questa volta da parte dei Vandali di Genserico, che presero la capitale dell’impero nel 455. Ma, per non guastare la sorpresa, non andiamo oltre, raccomandando la lettura del racconto per scoprire quali siano gli esiti della vicenda. Qui ci limitiamo ad aggiungere che, pur mescolando elementi storicamente accertati e finzione letteraria, Zweig, imbastisce una trama che, oltre a essere davvero avvincente, risulta sempre pienamente verosimile. A corollario della novella, l’editore Skira ha inserito una postfazione di Fabio Isman, che si rivela non meno interessante. Il giornalista, infatti, ripercorre la storia narrata dallo scrittore, per evidenziarne, appunto, i riferimenti a fatti effettivamente accaduti e gli adattamenti o le invenzioni basati, comunque, sulla realtà storica. A questo si aggiunge il riepilogo degli studi e delle ricerche finora condotti sulla Menorah, da archeologi e non solo, in molti casi motivati dall’idea che il candelabro a sette bracci possa essere sopravvissuto alle molte peripezie di cui fu protagonista e si trovi
nascosto da qualche parte nel mondo. Una caccia che non ha mancato di far registrare episodi singolari, come quando, nel 1996, l’allora ministro per gli Affari Religiosi del governo israeliano, Shimon Shetreet, durante una visita ufficiale, chiese notizie della Menorah a Giovanni Paolo II, seguendo l’ipotesi – piú volte sostenuta – che il candelabro sia custodito in Vaticano. E, nelle righe finali, Isman non manca di riportare la notizia di una scoperta che, pochi anni or sono, sembrava aver offerto la prova di una reale presenza a Roma del prezioso manufatto. Una sorta di giallo nel giallo, che rinforza la già sottolineata componente archeologica del volumetto e ne rende ancor piú appagante la lettura...
dall’estero Jean MacIntosh Turfa
Divining the etruscan world The Brontoscopic Calendar and Religious Practice Cambridge University Press, New York, 432 pp., ill. b/n. 99,00 USD ISBN 978-1-107-00907-3 www.cambridge.org
Il monaco ed erudito bizantino Giovanni Lido, attivo nella prima metà del VI secolo, compose un’opera sui segni celesti, il De Ostentis, nella quale riportò il testo di un calendario, noto come Brontoscopico,
che si vuole sia tratto da un’opera etrusca sulla divinazione, a sua volta raccolta da un erudito contemporaneo di Cicerone, Nigidio Figulo. Al di là della vicenda storica, il testo è una testimonianza di eccezionale valore (se se ne fosse conservata la versione originale, si sarebbe trattato dell’opera in lingua etrusca di senso compiuto piú lunga tra quelle a oggi note) e getta luce sulla pratica della divinazione, che di quella grande civiltà preromana fu uno dei tratti distintivi. Sono queste le premesse da cui muove lo studio di MacIntosh Turfa, che riesamina il prezioso documento e lo pone a confronto con analoghe testimonianze riferibili all’area vicino-orientale, che potrebbero averne costituito una delle fonti di ispirazione. A conferma di quanto la società e la cultura degli Etruschi si fossero formate anche grazie ai proficui scambi con le principali realtà coeve della regione mediterranea e non solo. (a cura di Stefano Mammini)
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