Archeo n. 339, Maggio 2013

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2013

ANTICA CINA/5 IL PRIMO IMPERATORE

occhiolà

CHEFREN

STORIA DEI GRECI / 21

speciale colonna traiana

€ 5,90

Mens. Anno XXIX numero 5 (339) Maggio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 339 maggio

CHEFREN EGITTO

e il mistero

del

falco

CINA

www.archeo.it

SPECIALE

L’ESERCITO DEL PRIMO IMPERATORE

LA COLONNA TRAIANA



editoriale

il faraone e l’imperatore Il ritratto in copertina appartiene a Chefren, quarto faraone della IV dinastia dell’Antico Regno, e figlio e successore di Cheope, costruttore della piú grande delle piramidi di El-Giza. Per un’illusione ottica, invece, la sua piramide – sebbene sia leggermente inferiore rispetto a quella del padre (di appena 3 m) – appare piú alta: posta al centro tra quelle di Cheope e Micerino, essa fu eretta, infatti, su una porzione di terreno rialzata di una decina di metri. La camera sepolcrale del faraone si trova al centro della piramide: quando, nel 1818, Giovanni Battista Belzoni vi penetrò da primo esploratore occidentale, la trovò completamente depredata. E un altro celebre monumento, che alcuni studiosi attribuiscono allo stesso Chefren, la Sfinge, sorge circa 500 m a est della piramide. Di tutti i sovrani dell’Antico Regno, Chefren è rappresentato dal maggior numero di statue, perlopiú provenienti dall’area di El-Giza. Qui, in un ambiente del tempio a valle, nei pressi della Sfinge, furono individuate 23 fosse che, in origine, dovettero contenere altrettante sculture a grandezza naturale del faraone. Una delle fosse era piú larga, forse per contenerne due, dando adito all’ipotesi che le 24 statue fossero in una qualche relazione con le ore del giorno. Dopo il regno di Chefren le statue vennero rimosse dalla loro collocazione originaria. Nel 1860, l’egittologo Auguste Mariette ne ritrovò ben nove, oggi conservate al Museo del Cairo. Tra queste, appunto, il ritratto riprodotto in copertina e al quale è dedicato l’articolo dello studioso Sergio Pernigotti (vedi alle pp. 60-67), che ci spiega perché la scultura rappresenti uno dei vertici dell’arte non solo egiziana, bensí universale. A un altro capolavoro mondiale dell’arte scultorea, la Colonna Traiana, è dedicato, invece, il nostro speciale. L’occasione è offerta da una ricorrenza: la Colonna venne inaugurata esattamente 1900 anni fa, il 12 maggio del 113. Della decorazione del vicino Foro di Traiano faceva parte lo splendido fregio riprodotto in questa pagina: è attualmente conservato, insieme a molti altri rilievi simili, in un deposito (vedi a p. 86), ma ci auguriamo che possa essere presto esposto al pubblico. Andreas M. Steiner

Frammento di un rilievo facente parte della decorazione scultorea del Foro di Traiano.


Sommario Editoriale

Il faraone e l’imperatore

3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

6

scoperte Una ricca tomba della necropoli vulcente dell’Osteria restituisce uno scarabeo-sigillo egiziano, segno dei rapporti tra l’Etruria e la terra dei faraoni 6

parola d’archeologo I «castellieri» sono una presenza diffusa anche in Friuli. Ma quali erano le funzioni di questi abitati? Risponde Susi Corazza, responsabile del Laboratorio di Preistoria e Protostoria dell’Università di Udine 12

dalla stampa internazionale L’invenzione dei Germani

22

da atene

scavi Tra i materiali recuperati dal relitto del Pozzino c’era anche un collirio, forse simile a quello descritto da Plinio il Vecchio 10

AAA: vendesi tempio 24

AVVISO AI LETTORI

di Giuseppe M. Della Fina, Enrico Pellegrini ed Emanuele Ioppolo

In questo numero, per motivi di spazio, non compare la serie «Mitologia/Istruzioni per l’uso», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.

38

di Valentina Di Napoli

mostre

Velzna delenda est. Una città tra Etruschi e Romani 28

civiltà cinese/5

Il sogno del primo imperatore

38

di Marco Meccarelli In copertina il profilo della statua in diorite raffigurante Chefren, quarto faraone della IV dinastia, da El-Giza. 2520-2494 a.C. Il Cairo, Museo Egizio

Anno XXIX, n. 5 (339) - maggio 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.

Hanno collaborato a questo numero: Simona Barberi è archeologa e collabora con la Soprintendenza ai BB.CC. di Catania. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Claudio Capotondi è scultore. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Giulia Coli è giornalista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Emanuele Ioppolo è docente presso l’Accademia di Belle Arti «Lorenzo da Viterbo». Paolo Leonini è storico dell’arte. Saverio Giulio Malatesta è Digital developer presso il Museo dei Fori Imperiali-Mercati di Traiano. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Marina Milella è curatore dei beni culturali presso il Museo dei Fori Imperiali-Mercati di Traiano (Sovrintendenza Capitolina, Direzione Musei). Andrea Patanè è archeologo funzionario della Soprintendenza ai BB.CC. di Catania. Enrico Pellegrini è archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Sergio Pernigotti è stato professore di egittologia e civiltà copta all’Università di Bologna. Patrizia Petitti è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Vulci. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Maria Randazzo è archeologa e collabora con la Soprintendenza ai BB.CC. di Catania. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Elenia Spagna è direttore organizzativo del Festival Internazionale di Archeologia per ragazzi Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Lucrezia Ungaro è responsabile del servizio valorizzazione del patrimonio dei musei archeologici e del polo Grande Campidoglio (Sovrintendenza Capitolina, Direzione Musei). Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 55 (alto), 108; G. Dagli Orti: copertina e pp. 54 (sinistra), 60, 61, 63 (alto, centro), 63 (basso), 66, 67, 94 (destra); N. Grifoni: p. 35 (alto, sinistra); A. Jemolo: p. 63 (alto, sinistra); S. Vannini: p. 63 (alto, destra); C. Sappa: 65 (centro); G. Nimatallah: pp. 95, 104; A. Dagli Orti: p. 96 (basso); G. Veggi: p. 98 – Cortesia Soprintendenza BA Etruria Meridionale/Mastarna srl: pp. 6-8 – Cortesia Soprintendenza BA Toscana: pp. 10-11 – Cortesia Laboratorio di Preistoria e Protostoria dell’Università di Udine: pp. 12-14 – Cortesia Festival Internazionale di Archeologia per ragazzi: p. 16 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 22,23, 28 (sinistra), 29 (alto), 30, 32-34, 35 (alto, destra e basso), 36, 42/43 (alto), 43 (basso), 47-49 – Cortesia To Pontiki: pp. 24 (alto), 25 (basso) – Valentina Di Napoli: pp. 24 (basso), 25 (alto) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 28/29, 31 (basso), 70, 74, 81; Picture Desk Images: pp. 64 (basso), 111 (basso) – Corbis Images: O. Louis Mazzatenta/


Rubriche il mestiere dell’archeologo

L’antico spiegato a mio figlio

102

di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi

Il futuro nel cielo

60

l’ordine rovesciato delle cose

parchi archeologici Nella città «delle donne»

52

Tra canyon e pinnacoli

106

di Simona Barberi, Carlo Casi, Andrea Patanè, Maria Randazzo

di Andrea De Pascale

antico egitto

Un’Augusta fatale

Chefren e il mistero del falco

divi e donne 60

di Sergio Pernigotti

storia dei greci/21

I «barbari» alla conquista del mondo 94 di Fabrizio Polacco

104

di Romolo A. Staccioli

68 108

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia

Apollo e il serpente 110 di Francesca Ceci

libri

National Geographic Society: pp. 38/39, 44 (basso), 45; Gordon Sinclair/Eye Ubiquitous: p. 39; Frans Lemmens: p. 41; Keren Su: p. 42 (basso); Imaginechina: p. 46; Yann Arthus-Bertrand: pp. 62/63; Bruno Morandi/Hemis: p. 100; Christel Gerstenberg: p. 101 – Da I due imperi. L’aquila e il dragone, catalogo della mostra, Milano, 2010: p. 40 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Bridgeman Art Library: p. 42 (centro) – Giuseppe Barbagiovanni: pp. 52-53, 56-59 – Doc. red.: pp. 54 (destra), 55 (basso), 94 (sinistra), 96 (alto), 99, 109 –Da L’antico Egitto di Ippolito Rosellini, Novara 1993: 64 (alto, 65 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 68/69, 71-73, 76-80, 82-93, 110, 111 (alto) – Andrea De Pascale: pp. 106, 107 (alto) – Cortesia Università degli Studi della Tuscia: p. 107 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 24, 30, 40, 42/43, 53, 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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speciale Una colonna per Roma e per l’impero

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testi di Lucrezia Ungaro, Marina Milella, Saverio Giulio Malatesta e Claudio Capotondi

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n oti z i ari o scoperte Vulci

l’«egittomania» di un principe etrusco

L

a città etrusco-romana di Vulci, antica metropoli dell’Etruria marittima, è oggetto da alcuni anni di un importante intervento finalizzato al recupero, alla valorizzazione e alla fruizione del patrimonio storico-archeologico, nonché naturalistico, dell’area. Le indagini archeologiche in corso interessano un settore della necropoli dell’Osteria, una vasta area sepolcrale situata a nord-ovest dell’abitato e nota agli studiosi per gli eccezionali ritrovamenti effettuati sin dall’Ottocento. Lo scavo ha fornito risultati considerevoli sin dalle prime battute con la scoperta, avvenuta alla fine del 2011, della Tomba della Sfinge, l’ipogeo etrusco risalente

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alla fine del VII-VI secolo a.C. presso il quale è stata recuperata la scultura in nenfro che ha dato il nome al monumento (in mostra al Museo Nazionale di Vulci fino al 31 maggio; www.etruriameridionale. beniculturali.it; vedi anche «Archeo» n. 325, marzo 2012).

In alto: Vulci, necropoli dell’Osteria. Una tomba monumentale indagata nel corso dell’ultima campagna di scavo, con parte del corredo ancora in situ. In basso: veduta del settore della necropoli vulcente dell’Osteria nel quale si sono concentrate le indagini piú recenti.


A sinistra: Vulci. Un sopralluogo nell’area in corso di scavo: da sinistra, Alfonsina Russo, Sergio Caci (sindaco di Montalto di Castro), Patrizia Petitti e Carlo Casi. Nell’area prossima alla Tomba della Sfinge, gli archeologi hanno successivamente riportato alla luce un cospicuo numero di tombe a fossa, alcuni piccoli recinti connessi a riti funerari, e un secondo ipogeo di notevoli dimensioni, risalente alla fine del VII secolo a.C. e formato da piú camere. Solo in parte saccheggiata dall’attività clandestina, questa seconda tomba monumentale ha restituito ricchi corredi, composti da eleganti manufatti: olle a rete, tazze in bucchero, ceramica etrusco-corinzia e un tripode fittile di fabbricazione fenicia (o di imitazione), che, già negli anni Venti del Novecento, l’archeologo Raniero Mengarelli aveva associato a sepolture femminili. Completano il sontuoso corredo i frammenti di un cinturone in bronzo e materiali in legno e tessuto. Assai interessanti sono anche i dati provenienti dallo scavo delle diverse tombe a fossa che occupano l’intero banco roccioso, disponendosi in modo assai irregolare intorno agli ipogei piú grandi. Si tratta di una tipologia funeraria caratteristica dell’area vulcente: le fosse sono a pianta quadrangolare, profonde oltre 1 m, e, spesso, presentano nel settore superiore le tracce dell’alloggiamento delle lastre di copertura. Tra quelle indagate nel corso dei recenti scavi, due sepolture – fortunatamente in parte risparmiate dall’attività clandestina – risalgono alla prima metà del VII secolo a.C. e potrebbero riferirsi a un unico nucleo familiare.

La tomba 16 della necropoli dell’Osteria in corso di scavo.

I corredi connotano i due defunti come personaggi dell’aristocrazia locale: nella sepoltura maschile sono stati rinvenuti una punta di lancia in ferro, una kotyle in lamina di bronzo, un anellino in bronzo e alcuni elementi in ferro, forse pertinenti a spiedi; da quella femminile provengono invece fuseruole, grani sferici di collana in oro e frammenti pertinenti a fibule in bronzo e in ferro; in entrambe le deposizioni, infine, il corredo era completato da olle a rete di produzione locale, ceramiche d’impasto (kyathos, holmos, pisside, coppa) e vasi con decorazione geometrica (coppa, skyphos, lekythos). Prossima a queste, una terza sepoltura a fossa ha restituito, oltre ad alcuni frammenti di lama in ferro, anche ceramiche d’impasto (kyathoi, lebete, tazza), una coppa a decorazione geometrica, alcuni piattelli rossi e le frequenti e

caratteristiche olle a rete. In alcuni settori della necropoli le sepolture si intersecano tra di loro, rendendo l’indagine assai complessa; ed è proprio durante lo scavo di una di queste tombe, una piccola camera con banchina, che gli archeologi hanno effettuato un ritrovamento davvero eccezionale: un piccolo ma preziosissimo scarabeo-sigillo egizio. Il reperto, in corso di studio, risalirebbe con molta probabilità alla XXV-XXVI dinastia (746-525 a.C.): esso riporta sul verso un cartiglio e il segno «hr», indicante il dio falco Horus munito di flagello, seguito dal segno «nb». A una prima analisi, il cartiglio potrebbe essere un trigramma amoniano (Men-Kheper-Ra); lo scarabeosigillo parrebbe anche poter rimandare al faraone Nekao I (672-664 a.C.) o a Psammetico I (664-610 a.C.): il dato concorda perfettamente con la cronologia

archeo 7


n otiz iario

In questa pagina: varie immagini dello scarabeo-sigillo egiziano rinvenuto in una tomba della necropoli vulcente dell’Osteria. I forellini, uno dei quali è ben visibile nella foto qui accanto, provano che l’oggetto era stato montato su un anello.

del contesto di rinvenimento. Simili oggetti erano utilizzati per imprimere i decori su bolli di argilla destinati a sigillare, per esempio, giare, cofanetti, casse o rotoli di papiro: i forellini sullo scarabeo dimostrano che l’esemplare di Vulci doveva essere montato su un anello. La presenza di manufatti di fattura egizia nelle tombe etrusche, di certo non frequente, è indice del ruolo aristocratico del defunto. Si tratta dunque di una conferma non solo dell’importanza del settore della Necropoli dell’Osteria in corso di scavo, ma anche della straordinaria ricchezza che caratterizzava la vita dell’aristocrazia vulcente tra l’ VIII e il VI secolo a.C., periodo di massima fioritura della nobile metropoli etrusca. Il panorama delle conoscenze sulla città di Vulci va cosí estendendosi: l’ampia messe di dati raccolti nel corso delle ultime indagini richiederà un necessario periodo di

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Qui sopra e a destra: il verso dello scarabeo-sigillo, sul quale compaiono un cartiglio e il segno «hr», indicante il dio falco Horus, seguito dal segno «nb». L’oggetto risalirebbe all’epoca del faraone Nekao I (672-664 a.C.) oppure di Psammetico I (664-610 a.C.).

studi e di approfondimenti che non mancherà di appassionare, oltre gli specialisti del settore, anche il ben piú vasto pubblico che rivolge sempre maggiore attenzione alle scoperte archeologiche, dimostrando una nuova sensibilità verso i temi della salvaguardia e della tutela dei beni culturali. Ed è proprio in questa ottica e prospettiva che la felice esperienza del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci (www.vulci.it), che ospita ogni anno circa 25mila visitatori, diventa esempio per l’intera collettività. Le ricerche nella necropoli dell’Osteria sono frutto della sinergia tra le istituzioni coinvolte – Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, Regione Lazio, Provincia di Viterbo, Comuni di Montalto di Castro e di Canino e Scuola di Restauro dell’Accademia di Belle Arti di Viterbo –, e sono attualmente dirette dal Soprintendente Alfonsina Russo e coordinate dagli scriventi. Carlo Casi, Patrizia Petitti



n otiz iario

scoperte Toscana

Un collirio per plinio

C

hissà se Plinio il Vecchio per curarsi gli occhi o le malattie della pelle usava lo stesso medicinale ritrovato nel bagaglio di un medico che viaggiava lungo le coste del Mediterraneo su una nave naufragata nel II secolo a.C. nelle acque del Golfo di Baratti (sito dell’antica città etrusca di Pupluna, Populonia, Livorno)? È un medicinale, infatti, di 2200 anni fa, quasi sicuramente un collirio, quello recuperato all’interno di un contenitore di stagno mantenutosi sigillato all’interno del relitto del Pozzino e portato alla luce, sotto la direzione di Antonella Romualdi, dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, guidata ora da Andrea Pessina. Per la prima volta in Italia e la seconda al mondo (uno studio analogo è stato realizzato a Lione) è stato possibile, con un accurato lavoro analitico, individuare la composizione di un medicamento antico. Quella sostanza che già Plinio il Vecchio, e successivamente Dioscoride, illustravano come curativa per gli occhi e per le malattie della pelle, trova ora riscontro nella composizione delle

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A sinistra: un momento del recupero dei materiali ritrovati a bordo del relitto del Pozzino, nel Golfo di Baratti (Livorno).

A destra: una campana per salassi, rinvenuta insieme ad altri strumenti che provano la probabile presenza di un medico a bordo della nave colata a picco presso Populonia. In basso: una delle compresse oftalmiche, utilizzate a scopo terapeutico. compresse, pressappoco circolari e di colore grigio (spesse 1 cm, con un diametro di 4) che facevano parte del bagaglio di un medico a bordo della nave. L’indicazione terapeutica ha trovato conferma da una ricerca multidisciplinare che ha portato alla caratterizzazione chimica, mineralogica e botanica del medicamento. La sorprendente scoperta arriva, infatti, dalle indagini iniziate al momento del ritrovamento da Gianna Giachi e

Pasquino Pallecchi, del Laboratorio di analisi della Soprintendenza toscana, e portate a termine di recente dagli stessi mediante strumentazioni d’avanguardia e la collaborazione di Marta Mariotti Lippi, del Dipartimento di Biologia dell’Università di Firenze, e di Maria Perla Colombini, Erika Ribechini e Jeanette J. Lucejko, del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa. Le analisi condotte sulle compresse hanno evidenziato che il principio attivo era dato da due diversi composti di zinco (smithsonite e idrozincite, rispettivamente carbonato e idrossicarbonato di zinco), usati per scopi dermatologici e oftalmici. I particolari del ritrovamento e delle analisi realizzate sul farmaco antico verranno messi a fuoco in occasione di una giornata di studio in programma per mercoledí 12 giugno, a Firenze, nella Sala de’


Dugento, in Palazzo Vecchio, a partire dalle 9,30. Lo studio dei resti archeologici lascia supporre che il naufragio della nave sia avvenuto fra il 140 e il 130 a.C. Numerosi reperti di grande interesse sono stati recuperati: fra questi spiccano coppe di vetro di forma semisferica di produzione siro-palestinese, una coppa del tipo «West Slope Ware», unguentari fusiformi, vasi in bronzo e in stagno e una lucerna di bronzo con l’ansa a forma di vite che costituisce un unicum. Reperti che connotano l’origine grecoorientale del materiale. Il ritrovamento di una serratura posta a chiusura di una cassetta di legno andata distrutta e, inoltre, quello di numerose fiale di bosso, di un mortaio in pietra, di una campana per salassi in bronzo, di uno strumento chirurgico in ferro e di svariate pissidi in stagno, hanno da subito suggerito che a bordo del relitto del Pozzino viaggiasse un

medico con il proprio bagaglio professionale. Nel medicamento del Pozzino sono presenti anche grasso animale, olio vegetale – molto probabilmente olio di oliva – e resina di pino, che, proprio in base alle loro caratteristiche, erano stati aggiunti per amalgamare al meglio il preparato e per conferirgli maggiore stabilità. Il ritrovamento del Pozzino, con la sua eccezionalità, ha dato modo, inoltre, di evidenziare gli ingredienti vegetali del sorprendente medicinale: al suo interno, infatti, sono presenti numerosi microresti vegetali, quali granuli pollinici, in

Una delle pissidi in stagno riferibili al bagaglio del medico recuperato negli scavi del relitto del Pozzino.

cui si distingue la forte predominanza dell’olivo, fibre di lino e granuli di amido. È interessante notare come lo stesso termine italiano «collirio» derivi dal greco kollyra, che indica piccoli panetti rotondeggianti, come è appunto la forma delle compresse del Pozzino e come uno specialista molto attivo nell’antichità fosse proprio l’oculista, come sembrano far supporre i numerosi ritrovamenti archeologici di strumenti per la chirurgia dell’occhio. Giulia Coli


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

castellieri senza segreti villaggi protetti da poderosi terrapieni, i castellieri sono insediamenti tipici dell’età del bronzo. recenti ricerche ne hanno rivelato la fitta presenza anche in territorio friulano: una realtà di cui ci parla l’archeologa susi corazza, dell’università di udine

I

l Friuli-Venezia Giulia è una realtà poco nota dal punto di vista archeologico, eppure, da una quindicina d’anni, gli scavi condotti dall’Università di Udine hanno portato alla scoperta di numerose tombe a tumulo e di centinaia di insediamenti tipici dell’età del Bronzo: i «castellieri», villaggi fortificati databili tra il 1800 e il 1100 a.C. circa. Ne parliamo con Susi Corazza, archeologa responsabile del Laboratorio di Preistoria e Protostoria dell’Università di Udine, che ha curato il volume

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Di terra e di ghiaia. Tumuli e castellieri del Medio Friuli tra Europa e Adriatico, edito dall’Associazione culturale «La Grame», che pubblica per la prima volta i risultati di 15 anni di scavi: «Nell’ultimo decennio, con l’Università di Udine, grazie a finanziamenti della Regione, abbiamo condotto indagini sui tumuli e sui castellieri: ne abbiamo scavati una decina, nel medio Friuli. Una ricerca che ci ha permesso di acquisire una mole di dati prima sconosciuta». Ha dunque preso forma una realtà che forse non immaginavate… «Sí, abbiamo avuto finalmente un quadro completo del contesto, con testimonianze documentate durante tutta l’età del Bronzo». Ci vuole spiegare, innanzitutto, che cosa sono i «castellieri»? «Abitati fortificati che ricordano, in parte, le terramare dell’Emilia, circondati da un terrapieno in terra e ghiaia. I castellieri possono avere forme diverse: circolare, triangolare (nel caso il sito sia alla confluenza di due fiumi) o quadrangolare (se in pianura). Solitamente racchiudono un’area dai 2 ai 5 ettari, che possono arrivare anche a 25, come nel caso del castelliere di Udine. L’argine di terra è di grandi dimensioni: le cinte si sono conservate per un’altezza di 4 m circa, e per uno spessore medio di ben 20-25 m». Strutture difensive cosí imponenti fanno pensare a conflitti fra popoli o gruppi di potere sul territorio… «Senz’altro, all’epoca, questi

In alto: la sepoltura datata all’età del Bronzo Antico all’interno del nucleo in ciottoli del tumulo di S. Osvaldo. Nella pagina accanto, in alto: il tumulo di S. Osvaldo in corso di scavo da parte dell’Università degli Studi di Udine (2001). Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione grafica del circuito difensivo di un castelliere di pianura friulano in fase di costruzione (disegno di G. Almerigogna).


terrapieni dovevano essere difficilmente valicabili, anche perché all’esterno c’era un fossato che arrivava a 15 m circa di larghezza. La cosa interessante, però, è che tutti i terrapieni presentano due grandi fasi costruttive: una fase iniziale, che corrisponde a una struttura difensiva piú piccola, e una seconda, che vede il potenziamento dell’argine, con cassoni di ghiaia e terra, e la sistemazione del fossato. I terrapieni sono costruiti tutti alla stessa maniera e le fasi di potenziamento della cinta difensiva sono coeve, tra i vari castellieri della regione». A quale tipo di insediamento dobbiamo pensare, quindi, per questi castellieri? «A un sistema confederato di abitati, che costruisce e ricostruisce negli stessi periodi, nel corso dell’età del Bronzo. Non è ancora un insediamento di tipo protourbano. Inoltre, altro dato interessante emerso dagli scavi, i castellieri del medio Friuli sono equidistanti, situati a circa 8-10 km l’uno dall’altro. E le tecniche costruttive sono le stesse. Se inizialmente si pensava a una conflittualità fra siti diversi, quello che fa riflettere, oggi, è lo scambio di conoscenze tra i castellieri: sia nel campo dell’idraulica che delle tecniche costruttive». È vero che gli argini che cingevano i villaggi erano costruiti con una tecnica molto particolare, in modo da poter resistere al meglio – e fino a oggi – alla pioggia? «Sí, costruivano alternando materiali fini e grossi, in modo tale che l’acqua piovana, nel cadere

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sull’argine, si rompesse in mille rivoli, senza mai danneggiarlo. La cosa straordinaria è che, 4000 anni fa, siano riusciti a costruire, con materiali cosí poco coerenti come la terra e la ghiaia, opere che durano fino a oggi. Grazie alle ricerche archeologiche, inoltre, sono disponibili nuovi dati sul fronte della cronologia. Abbiamo retrodatato le fortificazioni: le cinte murarie sono state fondate alla fine dell’età del Bronzo Antico, intorno al 1800 a.C., mentre prima pensavamo risalissero al Bronzo Finale (1150-1100 a.C.)». E che cosa può dirci dei tumuli? «Alcune sepolture avevano un significato legato alla fondazione. Ne abbiamo trovato un gruppo di 4-5 all’interno del terrapieno di uno dei castellieri, ovvero dentro le mura di terra. Erano prive di corredo, oppure questo era deperibile. Con il 14C abbiamo potuto datare i corpi dei personaggi sepolti nelle tombe tra il 1880 e il 1540 a.C., a partire quindi dall’età del Bronzo Antico. Si cibavano di miglio ed erano piuttosto alti (in media 1,76 m). Ma, soprattutto, abbiamo potuto colmare la lacuna cronologica che avevamo per l’età del Bronzo in Friuli: prima di queste scoperte, mancavano testimonianze archeologiche tra il Bronzo Antico e il Bronzo Finale». Le sepolture all’interno della cinta dei castellieri fanno pensare a un atto fondante, legato al rituale di fondazione dell’abitato. Un po’ come nella Roma «romulea» nell’VIII secolo a.C., dove, al di sotto delle mura piú antiche sul Palatino, sono state trovate

Ricostruzione grafica del terrapieno di Sedegliano (disegno di F. Zendron). sepolture probabilmente legate alla nascita della città… «Sí, la sepoltura è un atto fondante. In Friuli abbiamo compreso che, dal Bronzo Antico, i personaggi eminenti venivano sepolti all’interno della cinta difensiva e che c’era un culto dell’antenato: nel caso di Mereto di Tomba, uno dei siti meglio indagati, sono documentate deposizioni o offerte per oltre quattrocento anni, dal 1880 al 1440 a.C. circa. Queste popolazioni, quando iniziarono ad abitare il Friuli con insediamenti stabili, nel Bronzo Antico, prima ratificavano il possesso del territorio con la tomba dell’antenato illustre, quindi realizzavano il monumento funebre, poi, nell’arco di pochi decenni, costruivano il castelliere». Ci sono in Italia strutture con cui confrontare i castellieri del Friuli? «Le terramare emiliane, poiché sono abitati fortificati. Poi ci sono castellieri del Carso, della zona di Gorizia, della Slovenia. I castellieri del Friuli, cronologicamente, si allineano a quelli dell’Istria, che però sono costruiti in pietra a secco, non in terra. Ma si sta perdendo la memoria storica di queste testimonianze. Per questo abbiamo deciso di pubblicare questo libro, che ha un carattere prettamente divulgativo, rivolto non solo agli specialisti: molti non sanno neppure cosa sia un castelliere, anche se in Friuli è presente ancora oggi nella toponomastica (esiste, per esempio, una via del Castelliere)».



n otiz iario

incontri Puglia

giocare con l’archeologia

T

orna, dal 4 al 13 luglio, il Festival Internazionale di Archeologia per ragazzi di Poggiardo, nel Salento, iniziativa che si rivolge a ragazzi dai 6 ai 16 anni, provenienti dall’Italia e dall’estero. Nel corso della manifestazione i partecipanti sono coinvolti in uno scavo archeologico vero e proprio (il contesto è quello di Vaste: una delle piú importanti città messapiche del Salento del IV secolo a.C.). Inoltre, grazie ai laboratori di archeologia sperimentale, i piccoli archeologi imparano le tecniche di lavorazione dei materiali utilizzati nell’antichità: pietra, selce e argilla, con cui realizzano strumenti simili a quelli preistorici utilizzati per la caccia e per l’uso domestico oppure vasi d’argilla, che poi decorano con le tecniche della pittura e dell’incisione. Una sezione del Festival è dedicata anche all’archeometallurgia: durante questi incontri, i ragazzi sono impegnati in un’eperienza di archeologia sperimentale, che prevede la costruzione di una

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fornace simile a quelle antiche e la fusione del metallo per la fabbricazione di strumenti. Il ricco programma della manifestazione si avvale anche delle esperienze maturate nel corso delle edizioni precedenti. Nel 2011, per esempio, nell’area archeologica, insieme ai gladiatori, i ragazzi sono stati coinvolti nella preparazione di un accampamento romano. Hanno cosí avuto la possibilità di rivivere momenti legati alla vita quotidiana, hanno appreso la tecnica del lancio del giavellotto e hanno conosciuto i costumi e le armi antiche. Lo scorso anno, grazie alla collaborazione di Alfio Tomaselli, sono state ripercorse le principali tappe dell’evoluzione umana, organizzando laboratori di archeologia sperimentale nei quali sono stati utilizzati pelli, pietra, legno e osso per riprodurre gli strumenti dei nostri antenati. Come sempre, sono previste anche numerose escursioni, mirate a far conoscere il suggestivo e importante Parco dei Guerrieri di Vaste e le aree archeologiche della Provincia di Lecce. Inoltre, la replica fedele di una capanna dell’età del Ferro (realizzata in occasione della I edizione del Festival) diventa la

location per le attività didattiche, ma anche la suggestiva scenografia per spettacoli di cinema, teatro e concerti, come quelli che in questi anni hanno visto avvicendarsi, tra gli altri, artisti del Teatro Kismet Opera di Bari e del Conservatorio Tito Schipa di Lecce. Lo scopo del Festival è quello di richiamare l’attenzione dei ragazzi sull’importanza del nostro patrimonio storico e paesaggistico, attraverso le visite guidate ad ambienti naturalistici come le serre o le cave, e la rivalutazione di aree sorico-archeologiche come contenitori culturali per spettacoli (Teatro Romano di Lecce, Palazzo Baronale di Pisignano, ecc.). Perché conoscere il patrimonio è condizione indispensabile per imparare a rispettarlo. Il programma completo della manifestazione è disponibile on line sul sito ufficiale del Festival: www.archeologiaperragazzi.it Per ulteriori informazioni, ci si può rivolgere a: tel. 339 4005751 o 333 4950510; e-mail: chora.c@libero.it Elenia Spagna

Alcune immagini delle attività organizzate nell’ambito del Festival Internazionale di Archeologia per ragazzi, a Poggiardo (Lecce), giunto nel 2013 alla sua XVI edizione.


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Dall’8 al 13 giugno ALLA SCOPERTA DI UN PARADISO ARCHEOLOGICO E STORICO-ARTISTICO: DAI SANTUARI MEGALITICI ALLE CATACOMBE CRISTIANE, DALLE CATTEDRALI BAROCCHE ALLE ARCHITETTURE MILITARI DEI CAVALIERI DI SAN GIOVANNI Il viaggio sarà accompagnato e guidato da un archeologo e collaboratore di «Archeo»

programma 1° giorno – sabato 8 giugno Roma/Malta Partenza da Roma Fiumicino con volo Air Malta KM 613 delle 11,00 con arrivo a Malta alle ore 12,25. Pranzo libero. Trasferimento con pullman privato all’hotel Golden Tulip Vivaldi e check in. Nel pomeriggio breve giro della capitale, La Valletta. Al termine, rientro in hotel. Cena e pernottamento.

2° giorno – domenica 9 giugno Malta Prima colazione in albergo. Mattinata dedicata alla visita del Museo Nazionale Archeologico della Valletta. Pranzo in ristorante. Escursione a sud di Malta per una visita del complesso dei templi di Hagar Qim, il sito preistorico piú importante dell’isola. Si prosegue poi con la visita dei resti di un altro gruppo di templi, quelli di Mnajdra, situati su un scogliera, a poche centinaia di metri dal tempio principale. Rientro in hotel per la cena e il pernottamento.

3° giorno – lunedí 10 giugno Malta In mattinata visita all’ipogeo di Hal Saflieni. Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, è un complesso di camere sotterranee, forse utilizzato sia come luogo di sepoltura che come tempio. Proseguimento con i templi megalitici di Tarxien, risalenti al 3600-2500 a.C. Sono costituiti da quattro strutture e sono famosi per i dettagli dei loro intagli, che includono animali domestici scolpiti in rilievo, altari e paraventi decorati con motivi a spirale e altri disegni. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio visita di Ghar Dalam, sito neolitico in cui sono state scoperte le tracce del piú antico insediamento umano di Malta, risalente a 7400 anni fa

circa. Proseguimento con il sito fenicio-punico di Tas Silg, scavato da una missione italo-maltese. Rientro in albergo per la cena e il pernottamento.

4°giorno – martedí 11 giugno Malta/Gozo/Malta Prima colazione in albergo. Escursione a Gozo, la vicina isola dell’arcipelago maltese (20 min. circa per la traversata). La visita inizia con i templi megalitici di Ggantija (3600-3000 a.C.): complesso inserito anch’esso nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. Si tratta di due templi racchiusi all’interno di un muro perimetrale megalitico. Si raggiunge poi la capitale Victoria, al centro dell’isola, e si visita il Museo Archeologico. Pranzo in ristorante. Nel pomeriggio escursione naturalistica nella parte nord-occidentale, dove si potranno ammirare alcune caratteristiche formazioni come il Fungus Rock, che prende il nome da un fungo particolarmente noto per le sue proprietà medicinali. Quindi per Dweijra Bay, dove si trova l’enorme arco di 50 m che si protende nel mare detto «Finestra Azzurra». Rientro a Malta e da qui in albergo per la cena e il pernottamento.

5° giorno – mercoledí 12 giugno Malta Prima colazione in albergo. Escursione che porterà alla parte centrale di Malta, dominata dalla cittadella antica di Mdina. Passeggiata per i vicoli della «citta silenziosa» e impareggiabile vista dell’isola dai suoi bastioni. Si procede per Rabat. Breve giro della città e visita del Museo Archeologico, della Villa Romana e delle catacombe paleocristiane. Pranzo in ristorante. Pomeriggio a disposizione per il relax o per eventuali escursioni facoltative. Cena e pernottamento in albergo.

6° giorno – giovedí 13 giugno Malta/Roma Prima colazione in hotel. In tempo utile trasferimento in pullman privato in aeroporto per la partenza del volo KM 612 delle ore 8,35 per Roma. Arrivo all’aeroporto di Fiumicino alle ore 10,00.

DESCRIZIONE Quota di partecipazione per persona (minimo 15 partecipanti) € 1.400,00 Supplemento singola

€ 100,00

Tasse aeroportuali

€ 43,00

Assicurazione Allianz Global Assistance, medico, bagaglio e annullamento € 21,00 Servizi compresi: • Passaggi aerei internazionali Air Malta in classe economy con franchigia bagaglio di 20 kg a persona • Sistemazione in camera doppia nell’hotel di categoria 4* indicato o similare •Trattamento di pensione completa, dalla cena del 1° giorno alla colazione del 6° giorno: mezza pensione (prime colazioni e cene) in albergo, con pranzi in ristorante •Trasferimenti da/per aeroporto e trasporti come indicato in programma con pullman privato • Visite come da programma con guida in italiano • Ingressi ai luoghi di visita indicati in programma • Assistenza dei Corrispondenti in loco • Accompagnatore specialistico dall’Italia Non sono inclusi: • mance, bevande, spese di carattere personale e tutto quanto non espressamente indicato nei servizi compresi Condizioni Generali da cataloghi Lombard Gate 2012/13 Per informazioni e prenotazioni: Lombard Gate Srl via della Moscova, 60 20121 Milano Tel.: 02 33105633 E-mail: info@lombardgate.it


n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

un’armata... friabile Alla domanda «Quale è la piú imponente testimonianza archeologica della Cina» tutti rispondono «La Grande Muraglia» (1). Ma pochi sanno che l’imperatore cinese a cui si devono 1 l’unificazione e il potenziamento dell’imponente opera difensiva, Qin Shi Huangdi, è lo stesso che fece realizzare quella che è considerata una delle meraviglie del mondo, l’«esercito di terracotta», scoperto nel 1974 e la cui storia viene ripercorsa in questo fascicolo (vedi alle pp. 38-49). Qui ne parliamo dal punto di vista filatelico ed è facile comprendere quanto numerose siano state le emissioni vista la eccezionalità del ritrovamento. Cominciamo naturalmente con la Cina, che emise la prima serie solo dopo nove anni; una serie molto bella, costituita da un libretto (2) contenente 4 valori (3) e un foglietto, in questo caso raffigurato con l’annullo 1° giorno (4). Le emissioni, anche di altri Paesi, sono state numerose e si impone una selezione. La serie cinese ha mostrato contemporaneamente una visione d’assieme del sito e particolari dei guerrieri e dei cavalli e cosí ha fatto anche la Repubblica di San Marino, nel 1986, con una serie di tre valori, raffiguranti due guerrieri e un cavallo, e un foglietto che li riunisce tutti e tre, ma con un’altra visione d’assieme (5). Gli scavi hanno portato alla luce anche alcune sculture di bronzo, come quelle raffigurate da altri due francobolli cinesi del 1990 (6-7). Poi c’è un francobollo dello Zambia (8), con una visione d’assieme e un guerriero in primo piano. Chiudiamo con un’emissione molto numerosa delle Nazioni Unite (24 francobolli e 6 libretti), cosí congegnata: ognuna delle tre sedi dell’ONU ha emesso due francobolli con relativo annullo 1° giorno (Ginevra, 9; Vienna, 10; New York, 11). Poi ciascuna di esse ha emesso un 9 libretto contenente tutti e sei i valori emessi dalle varie sedi con facciale diverso e con cornice rosso scuro, uguale per tutti; qui ci sono la copertina (12) e le due pagine interne di uno di essi (13). Infine ogni ufficio ONU ha emesso un altro libretto, ancora contenente 6 minifoglietti da 4 valori ciascuno degli stessi 6 francobolli! IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

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Italia Roma Athena Nike: la vittoria della dea

A sinistra: torso di statua in marmo raffigurante Athena Nike. 430 a.C. circa.

Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group Spazio Espositivo Tritone fino al 03.08.13

Costantino. 313 d.C. Colosseo fino al 15.09.13

Il Tesoretto di Montecassino Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30.09.13

A destra: testa colossale di Costantino.

bologna Davvero!

La Pompei di fine ‘800 nella pittura di Luigi Bazzani Fondazione del Monte fino al 26.05.13

cortona Il tesoro dei Longobardi

formia Formiae. Una città all’inizio dell’impero Museo Archeologico Nazionale fino al 24.06.13

Montefiore Conca (Rn) Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 23.06.13

In basso: Achille e Chirone in un affresco da Ercolano.

Napoli Ercolano

Colori da una città sepolta (mostra fotografica) Museo Archeologico Nazionale fino al 15.06.13

novara Homo sapiens

La grande storia della diversità umana Complesso Monumentale del Broletto fino al 30.06.13

Nata dal dialogo tra la Consulta dei Produttori Orafi e Argentieri di Arezzo e il MAEC, la mostra si inserisce nel programma degli eventi previsti dal protocollo d’intesa tra Comune di Cortona e Comune di Cividale del Friuli per la valorizzazione della storia longobarda in Toscana e della storia etrusca in Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione si divide in tre parti. La prima propone un inquadramento generale del popolo longobardo, dai tempi dell’arrivo in Italia fino alla conversione al cristianesimo. In questa prima parte sono esposti 56 oggetti relativi alle due sepolture, una maschile e una femminile, della Necropoli «della Ferrovia» di Cividale, e reperti di età longobarda provenienti dal territorio di Cortona. La seconda parte presenta oggetti diversi provenienti da scavi ottocenteschi della necropoli di Cividale del Friuli, nonché la copia del celebre disco in oro con figura del cavaliere e oggetti provenienti dal monetiere del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La terza parte presenta una trentina di pezzi di altissimo artigianato, ispirato al mondo longobardo, creati dai maestri orafi aretini.

dove e quando Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 30 giugno Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info tel. 0575 637235; www.cortonamaec.org 20 a r c h e o


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Danimarca Padova Venetkens

Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13

parma Storie della prima Parma

copenaghen Viking A sinistra: la «dea di Caldevigo». In basso: pendente in bronzo, dalla necropoli di Baganzola.

Nationalmuseet fino al 17.11.13 (dal 22.06.13)

Germania

Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 02.06.13

100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 04.08.13

Uruk

serrapetrona (MC) La conquista del cielo

I 5000 anni di una megalopoli Pergamonmuseum fino all’08.09.13

Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13

Gran Bretagna

Belgio

Londra Arte delle ere glaciali

L’avvento di un pensiero moderno British Museum fino al 26.05.13

Tongeren Gli Etruschi. Una storia particolare Musée Gallo-romain fino al 25.08.13

Vita e morte a Pompei ed Ercolano The British Museum fino al 29.09.13

Francia saint-romain-en-gal Il design ha 2000 anni?

Archeologia e design a confronto Musée gallo-romain de Saint-Romain-en-Gal-Vienne fino all’01.09.13

In alto: fibbia bronzea in forma di nave vichinga. A sinistra: il celebre busto policromo di Nefertiti.

berlino Sotto la luce di Amarna

Una delle immagini elaborate per la mostra Archeodesign.

Frammento d’osso con figura di renna. 13 000 anni fa circa.

Israele Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande Israel Museum fino al 05.10.13

Un guerriero in terracotta di Xi’an.

Svizzera berna Qin

L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13

zurigo Animali

Strasburgo Un’arte dell’illusione

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna Museo nazionale fino al 14.07.13 Urna etrusca con Ippolito ucciso dai suoi stessi cavalli. a r c h e o 21


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

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on è una novità che gli Stati moderni, nel processo di autodefinizione della propria identità sul piano ideologico e politico, abbiano fatto ampiamente ricorso alla storia antica e, pertanto, alla disciplina che materialmente ne sostanzia gli enunciati, cioè l’archeologia (che, di conseguenza, può trasformarsi in una sorta di indicatore dello stato di salute del sentimento nazionale, o anche transnazionale). Cosí, se negli anni Novanta del secolo scorso, in un periodo di forte entusiasmo europeista, si è voluto guardare alla civiltà celtica come espressione di una comune «europeicità» ante litteram («I Celti. La prima Europa» era il titolo di una grande mostra archeologica allestita a Venezia nel 1991), oggi sembra di assistere a un processo di segno inverso: la rivalutazione o, perlomeno, la rinnovata presa in considerazione – sebbene in termini spesso critici e documentati – di alcune realtà storico-culturali fino a ieri «ibernate». Ecco, allora, che in Germania si torna a parlare di… Germani, il misterioso popolo delle origini europee (come recita il

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In alto: un’immaginaria celebrazione germanica del solstizio, in una illustrazione degli anni Trenta. sottotitolo dell’edizione speciale del settimanale Der Spiegel, attualmente in edicola), mentre una mostra in corso a Brema («Scavare per Germania. L’archeologia sotto la croce uncinata») svela i meccanismi di un’operazione politico-culturale finalizzata alla giustificazione storico-archeologica dell’ideologia nazionalsocialista.

sono pazzi questi germani! Leggiamo nell’editoriale che apre il numero speciale dello Spiegel: «Biondi, dagli occhi celesti e amanti della pace, ma anche rissosi, ubriaconi e imprevedibili: fino a cento anni fa, di nessun altro popolo senza scrittura credevamo di sapere tanto quanto dei

Germani. Ma due guerre mondiali e la revisione critica delle fonti hanno lasciato ben poco dell’immagine che avevamo degli originari abitanti della Germania». Contrariamente a quanto viene documentato dalla mostra di Brema (che riferisce di un periodo in cui le scoperte archeologiche erano asservite all’ideologia politica), gli archeologi di oggi indagano la ragion d’essere stessa dell’etnonimo: ha ancora senso – si chiede lo Spiegel – e, semmai, adottando quali cautele, applicare il termine utilizzato dai Romani (i primi a usarlo furono, appunto, Cesare e Tacito)? Intervistato in proposito, lo storico antico Mischa Meier (Università di Tubinga) risponde: «Con un po’ di esagerazione, potremmo affermare che è stato proprio Cesare a inventare i Germani. Anche se la prima menzione del nome risale a un’iscrizione


In alto: lezione di alfabeto runico a membri delle SS. A destra: suonatori di lur (antico strumento musicale dei popoli nordici) durante una festa popolare in Germania nel 1937. In basso: un antico lur esposto nella mostra «Scavare per Germania», in corso a Brema.

calendariale del III secolo a.C. che riporta il nome di un tale Marcello, un condottiero romano vincitore di “Galli e Germani”. È assai probabile, però, che quel nome sia stato aggiunto in quella posizione molto piú tardi, al tempo di Augusto, per ovvi motivi politici».

DOVE E QUANDO «Scavare per Germania. L’archeologia sotto la croce uncinata». Brema, Focke Museum, fino all’8 settembre Info www.focke-museum.de

«Al termine “Germania” – afferma Karin Walter, curatrice della mostra in corso a Brema – sono state associate le idee e i concetti piú diversi, laddove, nell’antichità, non è mai esistito un popolo che si è denominato tale o che abbia chiamato con tale nome la propria terra. L’idea diffusa, invece, durante il nazionalsocialismo, quella di un popolo germanico superiore a Greci e Romani, è il prodotto di un nefasto connubio tra politica e archeologia. Un connubio che ha contribuito in maniera determinante alle fondamenta ideologiche del nazionalsocialismo e alla sua idea di una superiore “razza ariano-germanica”».

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

aaa: vendesi tempio

un’associazione di cittadini si è attivata per cercare di salvare un importante santuario di età arcaica… messo all’asta!

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uella che vogliamo raccontare è la storia di un tempio, anzi di un santuario. Una storia che comincia alla fine del VI secolo a.C. e si svolge nell’antico demo attico di Halai Aixonides, attualmente corrispondente all’area di VoulaVouliagmeni, comuni residenziali alle porte di Atene, apprezzati per la loro prossimità al mare. Proprio alla fine del VI secolo, dunque, qui, a poca distanza dalla costa, viene costruito un tempio, dedicato ad Apollo Zoster. Costituito da una cella a cui si aggiunge un adyton posteriore, il tempio era dotato di tre statue di culto (le basi furono rinvenute in situ all’interno dell’adyton): si tratta di Apollo, Artemide e Latona, come

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GRECIA

Mare Egeo

Atene Vouliagmeni Mar Ionio

Sulle due pagine: alcune immagini dei resti del tempio di Apollo Zoster a Vouliagmeni. Il sito, compreso in una proprietà della Banca Nazionale di Grecia, potrebbe essere alienato per via delle operazioni di privatizzazione avviate dallo Stato ellenico.


un terreno privato, inglobato in un albergo di lusso con spiaggia privata: l’Astír Palace, di proprietà della Banca Nazionale di Grecia. Ciò significa che chi sia interessato a visitarlo deve chiedere il permesso all’albergo, permesso che, finora, i proprietari non erano particolarmente inclini a concedere. Il problema si è complicato in maniera drammatica negli ultimi mesi, poiché, nell’ambito piú generale della privatizzazione delle proprietà dello Stato ellenico, l’organismo deputato a questo genere di operazioni (Hellenic Republic Asset Development Fund: HRADF) ha messo in vendita l’Astír Palace e tutto il golfo di Mikrò Kavouri a Vouliagmeni! E, poiché si tratta di uno dei siti piú belli e ambíti di tutta l’Attica, è stato ampiamente pubblicizzato, come si evince bene dal sito http://www.hradf.com/en/ real-estate/astir-vouliagmenis.

mobilitazione per l’esproprio

testimonia Pausania, il quale vide il santuario otto secoli dopo la sua costruzione. Nell’adyton erano anche una tavola destinata a sacrifici e il trono del sacerdote di Apollo. Inoltre, davanti all’ingresso al tempio si trovava un altare, destinato alla parte pubblica dei sacrifici. Nella seconda metà del IV secolo a.C., all’edificio fu aggiunta una peristasi composta da 4 colonne sui lati brevi e 6 sui lunghi.

nel boschetto sacro Rimodellato in età imperiale, il tempio fu poi abbandonato e rimase nascosto, finché non venne individuato e scavato da Konstantinos Kourouniotis, per conto della Società Archeologica di Atene, nel corso di due campagne (1926-1927). Fin qui, forse, non ci sarebbe molto di strano. Se non fosse che il tempio, una delle

pochissime attestazioni del culto di Apollo Zoster, era uno dei principali santuari attici. Era collocato all’interno di un boschetto sacro (alsos) e nei pressi di una linea di costa da cui erano visibili le Cicladi; qui facevano sosta i pellegrini prima di partire per Delo, qui dimorava una casta di sacerdoti le cui abitazioni si sono conservate a poca distanza dal tempio. Il sacerdote di Apollo Zoster aveva diritto a un trono speciale nel teatro di Dioniso ad Atene; e le fonti antiche raccontano che qui si organizzavano feste con sacrifici alla triade apollinea, celebri anche al di fuori dei confini dell’Attica. Ma ancora non siamo arrivati al cuore del problema, che rimonta all’epoca moderna. Del tutto «anomalo» è il fatto che questo luogo di culto, con l’altare e i resti del santuario, si trova all’interno di

I pericoli di un’operazione del genere sono evidenti. L’area archeologica potrebbe infatti finire nelle mani di privati, che potrebbero disporne a loro piacimento. Per fortuna, la società civile non è rimasta a guardare e l’associazione di cittadini Enallaktikí Drasi ha promosso un’iniziativa, richiedendo che il sito sia reso autonomo rispetto alla proprietà privata, in modo da poter essere espropriato dallo Stato ed essere dotato di un ingresso indipendente. La questione è arrivata in Parlamento e, da qui, al Consiglio Supremo Archeologico. Le lunghe operazioni di esproprio andrebbero naturalmente a complicare la vendita della proprietà privata, cosa poco gradita a chi desidera far cassa, e subito, grazie a questo gigantesco affare. Ma, almeno per ora, i cittadini sembrano aver avuto la meglio. E noi, naturalmente, non mancheremo di tenervi aggiornati sugli sviluppi della vicenda.

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mostre • da orvieto a bolsena

velzna

di Giuseppe M. Della Fina, Enrico Pellegrini ed Emanuele Ioppolo

delenda est una città tra Etruschi e Romani

una mostra allestita in piú sedi offre l’occasione di viaggiare nella storia. tema portante dell’itinerario, da roma al lago di bolsena, è orvieto, il fiorente centro dell’etruria sopravvissuto e rinato all’indomani dell’annientamento decretato da roma nel 264 a.C. 28 a r c h e o


U

na storia avvincente fa da filo conduttore alla mostra «Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra Etruschi e Romani». Una vicenda di cui conosciamo – pur con limiti e contraddizioni – numerosi particolari, narrati soprattutto da Zonara, un erudito vissuto alla corte dell’imperatore Alessio I Comneno e quindi a molti secoli di distanza dagli avvenimenti, ma che aveva la possibilità di consultare fonti greche e latine poi perdute. Si tratta del racconto dell’ultima e disperata resistenza etrusca all’avanzata di Roma. Ne sono protagonisti gli abitanti della polis etrusca di Velzna (Orvieto) e quelli della città romana di Volsinii (Bolsena). Zonara ci informa

che dopo una serie di sconfitte patite dagli Etruschi – tra le quali quelle maturate nei campi di Sentino (295 a.C.) e presso il lago Vadimone (283 a.C.) –, Velzna fu scossa da una rivolta servile, o meglio – secondo la ricostruzione proposta dallo storico di epoca bizantina – l’orgogliosa aristocrazia locale, provata dai ripetuti insuccessi, lasciò spazio alle rivendicazioni dei servi. Essi progressivamente riuscirono a conseguire il diritto a guidare le spedizioni militari, a sposare le donne aristocratiche, a esercitare le magistrature fino ad assumere il potere e a usarlo con protervia prendendosi «la rivincita sugli oltraggi e i maltrattamenti che avevano un tempo subito». (segue a p. 32) A sinistra: Orvieto. I resti del tempio del Belvedere. In alto e nella pagina accanto: una testa di Menade e una testa di Sileno, provenienti entrambe da Orvieto, dall’area sacra nei pressi della chiesa di S. Giovanni Evangelista.

a r c h e o 29


mostre • da orvieto a bolsena

Orvieto Nelle sedi del Museo «Claudio Faina» e del Museo Archeologico Nazionale sono presentate opere che documentano, rispettivamente, la storia della ricerca archeologica nell’area volsiniese e i risultati delle piú recenti campagne di scavo.

Le sedi della mostra La mostra Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra Etruschi e Romani si articola su piú sedi e, salvo il caso di Roma, è aperta fino al 3 novembre.

Museo «Claudio Faina» Orario tutti i giorni, 9,30-18,00 (dall’01.10, 10,00-17,00) Info fainaorv@tin.it Museo Archeologico Nazionale Orario tutti i giorni, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0763 341039

Città della Pieve

A1

UMBRIA SS2

Acquapendente

San Lorenzo Nuovo Orvieto

Grotte di Castro

San Gemini

Lago di Bolsena SS71

Manciano

Valentano

Giove

SS2

Tuscania

Terni

Amelia

Montefiascone

Canino

TOSCANA

Orte

Narni SS3

Viterbo

Bolsena

Vignanello

Montalto di Castro

Mar Ti r r e n o

Castiglione in Teverina

Bolsena

LAZIO

Tarquinia

Vetralla

Ronciglione SS2

Monte Romano Allumiere

A12

A1

Fiano Romano

Campagnano

Bracciano

Civitavecchia Santa Marinella

Civita Castellana SS3

Lago di Bracciano

Presso il Museo Territoriale del Lago, è illustrata la vicenda della Volsinii romana.

Poggio Mirteto

Monterotondo

Cerveteri Ladispoli

Tivoli A90

Roma

Roma

Frascati

Nel Museo di Villa Giulia, viene affrontato il tema dei culti nella Volsinii etrusca e romana.

Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Orario tutti i giorni, 8,3019,30; lu chiuso Info tel. 06 3226571; e-mail: sba-em@beniculturali.it; www.villagiulia.beniculturali.it Note la mostra è in programma fino al 1° settembre

30 a r c h e o

In alto: ara con iscrizione etrusca, dal transetto del Duomo di Orvieto. A sinistra: collana con vaghi di pasta vitrea, da Orvieto. IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. A destra: Bolsena (Volsinii), area archeologica di Poggio Moscini. La «via tecta».

Museo Territoriale del Lago di Bolsena Orario lu-sa, 10,00-13,00 Info tel. 0761 796914 o 798630; e-mail: museo@ comunebolsena.it Area archeologica di Poggio Moscini Orario ma-gio, 14-19,30; me-ve-sa, 8,00-18,30; II e IV do, 8,00-18,30


La riscoperta di Velzna Le sedi orvietane della mostra – il Museo «Claudio Faina» e l’Archeologico Nazionale – rievocano la riscoperta di Velzna: dalle iniziali scoperte casuali, alla formazione d’importanti collezioni archeologiche, ai tentativi d’impedire la dispersione del patrimonio archeologico locale e, infine, ai risultati di scavi stratigrafici, condotti con successo in tempi recenti e che hanno portato una luce nuova sulla fase villanoviana e orientalizzante della città-stato. Un interesse particolare rivestono i disegni preparatori – esposti per la prima volta al pubblico – eseguiti da Adolfo Cozza per realizzare copie delle tombe etrusche dipinte Golini I e II rinvenute nel 1863. Suggestiva appare anche l’idea di affiancare i due cippi a testa di guerriero rinvenuti nella necropoli di Crocifisso del Tufo, uno dei quali è conservato normalmente nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze. G. M. D. F.

Nella Tuscia etrusca Punti espositivi sono allestiti anche a Castiglione in Teverina, nel Museo del Vino, a Grotte di Castro, nel Museo «Civita» e nel Palazzo Comunale di San Lorenzo Nuovo: in essi viene dato conto della vivacità del territorio volsiniese attraverso la presentazione di reperti di nuovo e antico ritrovamento.

Castiglione in Teverina MUVIS, Museo del Vino e delle Scienze Agroalimentari Orario sabato, 10,00-13,00 e 15,00-19,00 Info www.muvis.it Grotte di Castro Museo Civita Orario me-do, 8,30-13,00 e 16,30-19,00 Info tel. 0763 796983 o 797173 San Lorenzo Nuovo Palazzo Comunale Orario do, 17,00-19,00

In alto: un sarcofago della necropoli di Vigna la Piazza, a Grotte di Castro. Qui sopra: particolare di una delle pitture parietali della Tomba Golini I, raffigurante un suonatore di doppio flauto e un inserviente che prepara pietanze per un banchetto. IV sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».

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mostre • da orvieto a bolsena

Le famiglie aristocratiche – «gli antichi cittadini» – decisero allora di chiedere l’aiuto di Roma, che ormai controllava l’Etruria. Loro rappresentanti si recarono nell’Urbe presso la domus di un personaggio di spicco – di cui non viene fornito il nome – per convincerlo a chiedere, in Senato, un intervento militare in loro soccorso. Zonara definisce l’incontro «segreto e notturno». Ma – sempre Zonara – ci informa che nascosto non rimase, dato che nella casa si trovava un altro ospite di origine sannita che vi si era trattenuto per via delle cattive condizioni di salute. L’uomo ebbe modo di ascoltare quello che si tramava contro i nuovi capi di Velzna e decise di avvertirli del pericolo che correvano. Lasciò Roma e, invece di tornare verso il Sannio, raggiunse la città, dando l’allarme.

l’assedio Cosí i componenti della delegazione che erano andati a chiedere l’intervento romano, al ritorno vennero individuati e arrestati. Sotto tortura confessarono e furono uccisi insieme agli altri congiurati. Il Senato di Roma decise comunque l’intervento militare e un corpo di spedizione, guidato dal console Quinto Fabio, si diresse verso Velzna. Un esercito etrusco gli andò incontro e, in un primo combattimento, ebbe la peggio. I superstiti si ritirarono all’interno della città, che si trovava su un pianoro facilmente difendibile, pronti a sostenere l’assedio. Durante un tentativo di assalto il console romano trovò la morte. Di nuovo fiduciosi gli assediati tentarono una sortita, che non dette i risultati sperati. L’assedio durò quindi a lungo sino a quando gli abitanti di Velzna, ridotti alla fame, furono costretti ad arrendersi. L’azione successiva – avallata sicuramente dal Senato – del console Fulvio Flacco, subentrato nel comando delle operazioni, fu di una durezza estrema: fece morire tra i tormenti i rivoltosi, saccheggiò e de32 a r c h e o

Dall’alba degli Etruschi all’età arcaica I risultati delle indagini archeologiche e di una campagna di scavo condotta nel 2012 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli

«Federico II», sul Poggio di Sermugnano, situato 8 km a sud-est di Orvieto, sono presentati negli spazi del Museo del Vino e della Scienza alimentare a Castiglione in Teverina (VT). Le ricerche hanno dimostrato che sul Poggio di Sermugnano fiorí un insediamento sviluppatosi senza interruzioni per un arco di tempo di almeno otto secoli (dall’età del Bronzo alla piena fase etrusca) e che manifesta un fortissimo legame con Orvieto. Della fase etrusca rimangono resti cospicui soprattutto nella necropoli arcaica costituita da tombe a camera – in un caso con architettura dipinta – databili entro


duro e che trova pochi confronti almeno nella penisola italiana va spiegato con il desiderio di vendicare la morte del console Quinto Fabio, ma soprattutto con la volontà di terrorizzare le genti etrusche affinché non si rivoltassero mentre Roma era impegnata in un nuovo confronto decisivo per le sorti della sua politica espansionistica.

A sinistra: Poggio di Sermugnano (Orvieto). Un settore dell’area in corso di scavo. Nel sito sono stati individuati i resti di un insediamento sviluppatosi, senza interruzione, dall’età del Bronzo all’epoca etrusca. A destra: il frammento di un’anfora con tracce di decorazione dipinta e la ricostruzione grafica del vaso di cui doveva far parte. Nella pagina accanto, in basso: fibula in bronzo recuperata nello scavo dell’insediamento di Poggio di Sermugnano.

l’ultimo quarto del VI secolo a.C., epoca in cui l’insediamento venne abbandonato, e nei sepolcri riferibili alla fase di rioccupazione del sito risalente all’età ellenistica (IV-II secolo a.C.). L’insediamento di Poggio di Sermugnano appare – anche per le eccezionali condizioni di conservazione – uno dei rarissimi centri abitati dell’Etruria interna in cui si presentano le condizioni per indagare il processo di trasformazione che, dalle culture protostoriche della fine del II-inizio del I millennio a.C., condusse alla civiltà etrusca d’età orientalizzante e arcaica. E. P.

vastò la città e deportò in un altro luogo – sulle alture nei pressi del lago di Bolsena – «i cittadini nativi e i servi che erano rimasti fedeli ai padroni». Era il 264 a.C. Non si tratta di un episodio di storia locale, ma di un avvenimento inserito a pieno nelle dinamiche politiche e militari del tempo. Si deve ricordare, infatti, che nel 264 a.C. ebbe inizio la prima guerra punica e lo scontro tra Roma e Cartagine per il controllo del Mediterraneo. Ai piedi della rupe orvietana si trovava con ogni probabilità il Fanum Voltumnae, il santuario federale degli Etruschi, di cui le campagne di scavo dirette da Simonetta Stopponi stanno restituendo le strutture, e quindi le vicende di Velzna erano legate a quelle dell’intera Etruria. L’intervento romano estremamente

nel nome il ricordo Lungo il percorso espositivo, articolato in piú sedi (Roma, Orvieto, Bolsena, Grotte di Castro, San Lorenzo Nuovo, Castiglione in Teverina) si è cercato di narrare l’accadimento, ma anche di gettare uno sguardo sui secoli precedenti, che videro la formazione e l’affermazione di una polis di prima grandezza nel panorama etrusco, e verso quelli successivi, che portarono al superamento della gravissima crisi politica, economica e sociale e alla nascita di una prospera città capace di conservare la memoria del suo passato, al punto che, quando – crollati gli equilibri assicurati dall’impero romano – gli uomini e le donne del posto decisero di tornare al di sopra della rupe orvietana per essere piú protetti, chiamarono l’insediamento Urbs Vetus, la «città vecchia». Spazio notevole è prestato anche all’illustrazione del territorio volsiniese, dotato di spiccati caratteri unitari già dal VII-VI secolo a.C., che dette un contribuito decisivo al benessere dei due centri, grazie alla sua feracità e alla sua centralità geopolitica. Un’attenzione che inoltre, da un lato, consente di comprendere la vivacità economica e culturale del distretto territoriale del lago già prima della fondazione della Volsinii romana e, dall’altro, di riconoscere una significativa presenza di età romana nelle zone piú prossime alla rupe con significativi interventi sia all’interno delle aree sacre, per esempio, in località Campo della Fiera, che nelle infrastrutture, e, in proposito, si può ricordare la costruzione di un porto alla confluenza del fiume Paglia nel Tevere. a r c h e o 33


mostre • da orvieto a bolsena

la nuova volsinii L’archeologia continua a gettare nuova luce sulla storia della città fondata all’indomani del trasferimento coatto degli Etruschi di Velzna. Acquisizioni che sono uno dei capisaldi dell’attuale progetto espositivo di Enrico Pellegrini

I

ncerte e poco conosciute restano le prime fasi di vita della nuova Volsinii, fondata nel 264 a.C. sugli scoscesi pendii che sovrastano le rive del lago di Bolsena in seguito al forzato e doloroso trasferimento della popolazione etrusca dall’acrocoro di Orvieto. Le indagini archeologiche dell’École Française de Rome (1946-1986) hanno evidenziato come sia stato necessario un lungo periodo di tempo, oltre un secolo, prima che il nuovo insediamento assumesse, favorito dall’apertura della via Cassia, una funzione di guida per l’intero comprensorio e si arricchisse dei grandi edifici pubblici che caratte-

Qui sotto e nella pagina accanto, in basso: interventi di restauro nella domus delle Pitture di Bolsena.

34 a r c h e o

rizzavano le città romane, come le terme, e del centro propulsore dell’abitato, il Foro. Piú tardi, con l’inizio dell’età imperiale, Volsinii e le sponde del lago divennero ambite mete di villeggiatura per i ricchi cittadini di Roma, mentre personaggi locali raggiunsero le piú alte cariche dell’ordine senatoriale ed equestre, come Lucio Elio Seiano favorito dell’imperatore Tiberio, ma poi da questo fatto giustiziare nel 31 d.C.

il nuovo foro La realizzazione del forum di età flavia (70-80 d.C.) in località Poggio Moscini, situato nelle vicinanze del borgo medievale e dal 1985 area

demaniale aperta al pubblico, comportò la demolizione delle strutture esistenti (portici e negozi) e la modifica della viabilità. L’area, con una superficie calcolata in 4450 mq circa, veniva delimitata a sud dall’imponente edificio della basilica civile con portico in granito rosa (nel IV secolo d.C., fu trasformata in chiesa cristiana), ed era in origine completamente lastricata. Al Foro si accedeva da ovest attraverso un passaggio pedonale costituito da un corridoio coperto terminante con una scalinata, che proveniva da un terrazzamento situato a quota inferiore, dove sono stati riportati alla luce e sono tuttora

un corso per giovani restauratori In occasione della mostra sono state restaurate alcune sculture sinora mai esposte al pubblico: la spessa patina presente sui reperti ha richiesto la pulitura dei depositi superficiali incoerenti e l’eliminazione delle

incrostazioni carbonatiche. Dopo la pulitura, in una delle sculture, una figura femminile acefala, si sono evidenziate tracce di pigmento rosso, che dimostrano come questa in origine fosse completamente policroma. La collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti «Lorenzo da Viterbo» e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale ha consentito di avviare anche interventi conservativi e di restauro finalizzati al recupero delle pitture e della pavimentazione della domus delle Pitture nell’area demaniale di Poggio Moscini. Infatti, dopo gli ultimi interventi di restauro realizzati tra il 1982 e il 1983 e a causa della mancanza di finanziamenti, l’intera area archeologica versa oggi in un precario stato di conservazione. In particolare, avendo constatato che il degrado degli affreschi della domus delle Pitture aveva subíto una forte accelerazione, è stato avviato un tempestivo


Un santuario per Monte Landro Nel Palazzo Comunale di San Lorenzo Nuovo è allestita la sezione della mostra che illustra il recente rinvenimento di un tempio sull’altura di Monte Landro, la cima piú elevata dei monti Volsini, sul versante

nord-orientale del bacino del lago di Bolsena. In questa località, dalla quale è possibile avere una panoramica di tutto il bacino lacuale, intorno alla metà circa del V sec. a.C. fu fondato un piccolo tempio probabilmente dedicato a Hercle e Menerva. Il momento di massima fioritura e frequentazione dell’area sacra è da collocarsi tra il IV e il I secolo a.C. mentre l’abbandono, violento, del luogo di culto sembra databile nel tardo II secolo d.C. Tra la grande quantità di materiale fittile risultante dalla distruzione del tempio sono state rinvenute numerose terrecotte architettoniche che costituivano il rivestimento fittile dell’edificio e che spesso hanno conservato l’originale e vivace policromia. I modelli sono ben identificabili nei contemporanei santuari di Orvieto, in particolare nel tempio del Belvedere. E. P.

In alto: antefissa con testa di sileno, da Monte Landro (San Lorenzo Nuovo). Fine del IV-inizi del III sec. a.C. A sinistra: figura in terracotta policroma, dal tempio del Belvedere di Orvieto. IV sec. a.C. Orvieto, Museo «Claudio Faina».

di Emanuele Ioppolo intervento di manutenzione straordinaria, con lo scopo di rallentarne al massimo gli effetti, cosí da restituire alla collettività un bene di rarissimo valore storico e culturale. Il restauro sulle pitture ha consentito, per esempio, di recuperare particolari decorativi, come la lucerna situata nella porzione esterna della parete destra. Un vero e proprio gruppo di lavoro, del quale sono protagonisti gli allievi del Corso di Restauro dell’Accademia di Viterbo, sta procedendo nei complessi lavori, eliminando le sostanze non idonee utilizzate in precedenza, effettuando nuove stuccature, risarcendo coesione alle malte, ristabilendo adesione tra gli strati di intonaco e intervenendo sulle stuccature mediante reintegrazioni cromatiche. Alcune operazioni di restauro si sono rese necessarie anche sul pavimento della «Sala E» realizzato in opus signinum, e caratterizzato da tre strati e da una

decorazione regolare con tessere lapidee bianche e nere su fondo rosso, disposte a file parallele, a formare un reticolo secondo un andamento regolare con un punto di incontro a «rosette», la cui lettura era fortemente compromessa.

a r c h e o 35


mostre • da orvieto a bolsena

culti e riti a Volsinii

visitabili numerosi ambienti pertinenti a due domus. Nel triclinium (sala da pranzo) della domus denominata «ad atrio» resta, tra l’altro, un pregevole pavimento in lastre di marmo colorato, mentre nella cosiddetta domus delle Pitture, due ambienti, dei quali i muri s’innalzano ancora intatti fino al soffitto, conservano importanti affreschi che riflettono modelli creati a Roma. I pregevoli reperti rinvenuti nello scavo dell’École Française de Rome a Poggio Moscini costituiscono dal 1991 la Sezione «Volsinii Romana» del Museo Territoriale del lago di Bolsena ospitato nella Rocca Monaldeschi. In occasione della mostra altri importanti manufatti andranno ad arricchire, in modo permanente, il percorso espositivo; tra questi si segnalano alcune sculture in marmo, del tutto inedite, riportate all’aspetto originario dagli allievi dall’Accademia di Belle Arti «Lorenzo Da Viterbo», che hanno eseguito il restauro presso il Laboratorio di Diagnostica e Restauro della Società «Mastarna» di Montalto di Castro (VT). 36 a r c h e o

La sezione della mostra allestita nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma raccoglie oggetti legati alla sfera religiosa e ai culti praticati a Volsinii nel corso delle tormentate vicende vissute dalla città durante le fasi etrusca e romana. I materiali esposti evidenziano una religiosità strettamente legata alla terra e ai suoi frutti cosí come ai cicli della vita, della riproduzione e della morte. Un culto in onore di una divinità ctonia, attinente anche alla sfera salutare, Demetra/Cerere, è testimoniato dai depositi votivi del santuario del Pozzarello fondato a Volsinii dopo il 264 a.C. Il culto di Selvans/Silvano è anche ben attestato a Volsinii come mostra, per esempio, un noto bronzetto votivo. Un commovente tentativo di ripristinare, nella nuova sede presso il lago di Bolsena, il mondo religioso che aveva protetto l’etrusca Velzna è costituito invece dal ciclo di antefisse a figura intera della collezione Saulini, i cui personaggi rappresentano elementi di storie collegate alle antiche divinità della città e ai loro santuari. Al mondo degli inferi riconducono le ceramiche da corredi funerari con riferimenti ai giochi atletici svolti in occasione delle esequie, o con la rappresentazione delle divinità infernali Charun e Vanth. La rappresentazione della medesima coppia di demoni infernali costituisce il motivo insolito di una nutrita serie di lastre architettoniche pertinenti al santuario della necropoli di Poggio Pesce a Bolsena. Una produzione vascolare non funzionale, ma prodotta esclusivamente per il corredo che accompagnava i defunti nella sepoltura, è rappresentata dalla cosiddetta «ceramica argentata», che riproduce forme proprie della bronzistica. Vasellame pregiato di bronzo è comunque attestato nei corredi di personaggi di rango piú elevato nel corso dell’età ellenistica ed è caratterizzato dall’iscrizione della parola uthina, che trasferisce l’oggetto all’ambiente della tomba (etrusco uthi). Oggetto dell’omaggio alla famiglia imperiale sono infine i ritratti di Costantino e di Domizia Longina rinvenuti negli scavi del Foro romano della nuova Volsinii. E. P. Particolari di lastre di un tempio innalzato nella necropoli di Poggio Pesce (Bolsena), decorate con testa della coppia di divinità infernale Charun (in alto) e Vanth (a destra). Metà circa del IV sec. a.C.



civiltà cinese • le origini/5

Il sogno del primo

di Marco Meccarelli

imperatore

Nel III secolo a.C. Ying Zheng, della dinastia qin, sale al potere. è l’inizio di una nuova era, in cui all’eliminazione dell’antica aristocrazia segue una sistematica opera di accentramento amministrativo. ma come nacque la straordinaria visione politica del fondatore dell’impero cinese, sulla cui tomba veglia un esercito unico al mondo?

38 a r c h e o


S

eres, cioè «popolo della seta», per i Romani, Catai ai tempi di Marco Polo...: tanti sono i nomi con cui la Cina è stata definita nel corso della storia, e non sono mancati epiteti, spesso ancora in uso, come l’impero «celeste» o «del drago». Viaggiando nel tempo, si scopre che agli occhi degli Europei, la Cina è stata un impero grandioso (nel XIV secolo), una terra di sconfinate ricchezze (XVII secolo) oppure un modello d’impeccabile amministrazione (XVIII secolo), ma anche un territorio di conquista per l’Occidente e il cristianesimo (XIX secolo), e cosí via, fino al giorno d’oggi, in cui essa appare come la locomotiva dell’economia mondia-

le, ma anche la fucina del denaro facile e, per molti, il simbolo di una colonizzazione imminente.

la scelta del nome Proviamo allora a rintracciare le origini del millenario impero cinese, risalendo fino al 221 a.C., quando Ying Zheng, assunse il titolo onorifico di Primo Imperatore dei Qin, Qin Shi Huangdi. La scelta cadde su un epiteto solenne, che nasce dall’unione di diversi appellativi consacrati dalla storia: di designava la massima divinità Shang, venerata anche successivamente, huang si

Sulle due pagine: Xi’an. La fossa n. 1 del complesso funerario dell’imperatore Qin Shi Huangdi. Al suo interno sarebbero contenuti almeno 6000 guerrieri in terracotta. A destra: una delle statue che compongono l’esercito. È stato osservato che i volti delle sculture differiscono l’uno dall’altro ed è perciò probabile che siano ritratti di soldati reali, provenienti dalle diverse province dell’impero.


civiltà cinese • le origini/5

Liaoxi

Liaodong

Yunzhong Shanggu Yuyang Jiuyuan Yiubeiping Yanmen Dai Guangyang Hengshan

Jiaodong Linzi Langye Xue Beidi Hedong Henei Dang Donghai Longxi Sanchuan Sishui Xianyang Yingchuan Chen Nanyang Hanzhong Jiujiang Shang

Taiyuan

Julu Handan

Kuaiji Shu

Nan

Ba

Qianzhong

Hengshan

Changsha Minzhong

Nanhai Xiang

Grande muraglia Strade principali

In alto: cartina dei territori dell’impero dei Qin, caratterizzati dal colore piú scuro. Il colore piú chiaro indica i confini attuali della Cina. In basso: Ritratto del Primo Augusto Imperatore dei Qin. Artista coreano del XIX sec. Londra, British Library.

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utilizzava per onorare i propri antenati o per le piú alte divinità (Huangdi compare sulle iscrizioni nei bronzi cerimoniali Zhou per esprimere il concetto del «divino»), mentre shi, «inizio», voleva essere un richiamo agli albori mitici della civiltà e venne preposto a Huangdi per segnalare l’esordio di una nuova era. Per attuare l’unificazione di un territorio vasto come gran parte dell’attuale Cina centro-orientale e meridionale, Qin Shi Huangdi adottò una serie di misure molto rigorose che investirono l’organizzazione sociale, l’economia e la cultura. Secondo le fonti a nostra disposizione, prima fra tutte le Memorie di uno storico (Shiji) di Sima Qian (145-86 a.C. circa), sembra che solo nel 770 a.C. la casata dei Qin, da cui proveniva il futuro imperatore, fosse entrata prepotentemente nella storia, quando, cioè, le incursioni di popolazioni nomadi costrinsero i Zhou Occidentali (XI secolo-771 a.C.) – l’ultima delle gloriose Tre Dinastie ereditarie (Xia, Shang e Zhou; vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013) – a spostare la capitale dalla

media valle del fiume Wei alla media valle del Fiume Giallo. E sono le testimonianze archeologiche a fornirci le maggiori informazioni in proposito, attestando una chiara appropriazione, da parte dei Qin, della ritualità regale dei Zhou, soprattutto lungo la valle del fiume Wei, in concomitanza con una costante espansione dei territori, conquistati durante il periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.; vedi «Archeo» n. 338, aprile 2013).

nelle terre delle tigri e dei lupi Stupisce che a fondare l’impero cinese sia stata proprio una popolazione dalle probabili origini nomadi (forse proveniente dal NordOvest) o comunque esterna alla piú antica tradizione culturale delle dinastie ereditarie. Il complesso processo di affermazione dei Qin, in cui affiora anche la commistione di elementi culturali propri delle regioni annesse, è da intendersi come un costante e tutt’altro che statico assembramento di carattere culturale, prima ancora che politico, non scevro comunque da forza e ferocia militare, cosí come ci tramanda la tradizione: le loro terre di origine vengono descritte dalla storiografia ufficiale come «abitate da tigri e da lupi», ostiche e selvagge per un popolo ritenuto rozzo, feroce e primitivo. Tale pregiudizio è smentito dalle recenti scoperte archeologiche, grazie alle quali emergono i caratteri propri di una cultura avanzata. I reperti databili tra il VII e il IV secolo a.C. segnalano il progressivo consolidamento del regno dei Qin, che, nella sua espansione, ridefinisce il proprio sistema di potere, secondo il modello della regalità Zhou, come testimonia, per esempio, l’uso dell’arte fusoria con finalità politico-rituali. Con l’abbattimento dell’antica aristocrazia, con la suddivisione del territorio in circoscrizioni amministrative e con le unificazioni di pesi, misure, moneta e scrittura, ma anche delle leggi, viene fondato il


critiche. Qin Shi Huangdi è passato alla storia come un tiranno spietato, a causa della maggiore enfasi con cui gli studiosi antichi hanno descritto i disumani sacrifici inflitti al popolo: un’interpretazione ormai smentita dagli studi di archeologia piú recenti, immuni da pregiudizi di sorta.

Un tratto della Grande Muraglia. Qin Shi Huangdi provvide all’unificazione della grandiosa opera difensiva, nata allo scopo di contenere le incursioni dal Nord e tracciare una linea di demarcazione tra i territori dell’impero, occupati da comunità stanziali, e le popolazioni nomadi.

primo impero della storia cinese con potere centralizzato. L’impeccabile funzionalità dell’apparato amministrativo, l’utilità sociale di gran parte delle opere realizzate e la lucidità con cui esso ha perseguito una visione politica grandiosa, ma non priva di megalomania e crudeltà, non hanno sottratto il primo imperatore ad aspre

opere colossali Grazie a una grandiosa opera di consolidamento e all’espansione politico-militare, l’imperatore applicò alcuni sistemi di affermazione e conferma del potere, basati sull’uso simbolico dell’architettura e dell’urbanistica. Oltre all’imponente rete stradale (6800 km circa) e allo scavo del Canale Ling (per il commercio e l’irrigazione), ne sono testimonianza anche l’unificazione della Grande Muraglia, la fondazione della capitale Xianyang e, soprattutto, la costruzione del proprio mausoleo. La Grande Muraglia, pur non avendo assunto le caratter istiche dell’opera oggi visibile, aveva la funzione di contenere le incursioni dal Nord e tracciava una linea di demarcazione tra i territori dell’impero, occupati da comunità stanziali, e le popolazioni nomadi. La capitale, secondo le fonti, avrebbe incluso al suo interno la riproduzione (o persino lo spostamento) delle architetture caratteristiche dei sei regni conquistati dall’imperatore, divenuti simboli di magnificenza e stabilità, materializzazioni del potere autonomo e assoluto. L’appropriazione degli edifici legati al potere dei regni sconfitti fu concepita per superare ogni provincialismo, attraverso l’ambizioso intento di rispecchiare la completezza dell’universo, che riflette adeguatamente la potenza e lo splendore del sovrano. Il mausoleo ha assunto i connotati dell’esatta controparte dei palazzi imperiali e della visione universale dell’imperatore e del suo ruolo sulla terra, il quale progetta in vita la sua tomba che si configura come un’incredibile opera di esaltazione a r c h e o 41


civiltà cinese • le origini/5

del suo potere sacrale e politico, ma anche come lo strumento per raggiungere l’immortalità. La strategica collocazione della sepoltura, rinvenuta nell’attuale pro- 10 vincia dello Shaanxi, è stata scelta in base ai principi della geomanzia, 700 000 operai al lavoro per l’imperatore vale a dire di quella disciplina anti«Dopo la creazione dell’impero [nel 221 a.C.] da ogni parte della Cina chissima che interpreta come rigiunsero qui ben 700 000 persone per lavorare. Vennero scavati tre canali spettare gli equilibri sottili (energie sotterranei per versare rame fuso all’esterno del sepolcro, mentre la della terra, telluriche, ed energie camera mortuaria veniva riempita con modelli di palazzi, torri, edifici del cielo, cosmiche), per rendere pubblici, nonché utensili pregiati, pietre preziose e oggetti rari. Gli artigiani favorevoli agli insediamenti umani fissarono all’esterno balestre automatiche capaci di uccidere sul colpo gli le energie del luogo. La tomba, ineventuali ladri di tombe. All’interno invece vennero fatti scorrere fiumi fatti, risulta protetta, in tutti e quatartificiali di mercurio a imitazione del Fiume Giallo, dello Yangzi e persino tro i punti cardinali, dal monte del dello stesso oceano. In alto venne dipinta la volta celeste con tutte le Cavallo Nero (Lishan), dal fiume costellazioni, mentre in basso era raffigurata la terra. L’illuminazione era Wei, dai monti Qinlinginning e dai ottenuta mediante lampade alimentate con olio di balena (...). passi che portano alla grande Pianura Centrale (Zhongyuan), fino ai (segue a p. 47)

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Le quadrighe imperiali Nel 1980 20 m circa a ovest del mausoleo, in una fossa di poco piú di 3000 mq, furono rinvenuti due carri in bronzo con decorazioni policrome di dimensioni inferiori a quelle reali. Avevano probabilmente la funzione di trasportare l’imperatore nell’aldilà e sono trainati da quattro cavalli, dipinti di bianco, alti 72 cm, sontuosamente bardati, con una struttura ad asse unico con due ruote. Gli aurighi presentano gli abiti tipici degli ufficiali Qin di grado elevato. Il «carro alto» (gaoche), è il piú piccolo dei due (2,25 m di lunghezza) ha anche un parasole per consentire di viaggiare in posizione eretta, mentre il secondo (3,17 m di lunghezza), il «carro della tranquillità» (anche), era stato progettato per i viaggi di piacere perché permetteva di stare seduti. La carrozza ha una forma trapezoidale e comprende una parte posteriore con una cabina a quattro pareti, sulla cui parte anteriore si trova una finestra con balaustra, mentre sul retro è raffigurata una porta. Su ciascun lato della cabina vi sono altre due finestre e la decorazione policroma presenta motivi floreali e geometrici in blu, verde, rosso e bianco.

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Il secondo imperatore [nel 210 a.C.] decretò che le concubine di suo padre che non avevano avuto figli lo seguissero nella tomba. Quando poi esse ebbero la dovuta sepoltura un alto dignitario pensò che gli artigiani che avevano inventato tutti questi artifici meccanici conoscessero troppe cose riguardo al sepolcro e che non si potesse essere sicuri della loro discrezione e perciò, non appena il Primo Imperatore venne deposto nella camera mortuaria circondato dai suoi tesori, le porte interne e quelle esterne vennero sbarrate, imprigionando tutti coloro che vi avevano lavorato. Nessuno ne uscí. Piú tardi sul mausoleo vennero piantati degli alberi e venne coltivato un prato, affinché la località assumesse l’aspetto di una normale collina» (dalle Memorie di uno storico di Sima Qian).

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A sinistra: il complesso funerario di Qin Shi Huangdi, presso Xi’an. Si riconosce al centro il tumulo dell’imperatore, che attende ancora d’essere scavato. Sulle due pagine: pianta del complesso funerario di Qin Shi Huangdi a Xi’an, con le immagini di alcuni dei settori piú importanti: 1. Fossa n. 1; 2. Fossa n. 2; 3. Fossa n. 3; 4. Fossa n. 4; 5. Grande tomba di accompagnamento; 6. Area delle fosse delle Stalle orientali; 7, 32. Tombe satelliti (piú grandi) e fosse di accompagnamento; 8. Primo recinto; 9. Secondo recinto; 10. Tumulo; 11-18, 34. Fosse sacrificali; 19. Fossa dei carri di bronzo; 20, 36. Tombe satelliti; 21. Sala del riposo; 22-26. Sepolture dei beni d’accompagnamento conosciute anche come Fosse sacrificali; 27. Necropoli delle concubine; 28. Area della Sala laterale; 29-30. Residenze degli addetti al Giardino Funerario del Monte Li; 31. Sala dei Banchetti; 33. Fosse del Serraglio; 35. Fossa delle Stalle Occidentali; 36. Necropoli del Lishan; 37. Cimitero dei coscritti; 38, 39. Strutture di servizio alle porte monumentali; 40. Zona di lavorazione e cottura di tegole e mattoni del giardino funerario del Monte Li; 41. Zona degli atelier e di residenza delle maestranze.

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«ritualizzare lo spazio politico» Un incontro con Roberto Ciarla Specialista di archeologia pre-protostorica dell’Estremo Oriente, Roberto Ciarla è coordinatore del Dipartimento Estremo Oriente del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci», nonché direttore del progetto Thai-Italiano denominato Lopburi Regional Archaeological Project. Ha partecipato a convegni di arte e archeologia dell’Asia orientale

e sud-orientale, ha curato mostre sull’archeologia e l’arte di tali regioni ed è autore di numerose pubblicazioni. Tra queste ricordiamo L’Armata Eterna. L’archeologia Qin e la scoperta dell’esercito di terracotta (White Star, Vercelli 2005), e, in collaborazione con Maurizio Scarpari, La Preistoria e le Origini della Civiltà Cinese (Einaudi, Torino 2011).

◆ È lecito affermare che

Shi Huangdi, sviluppi le sue radici sin dalle origini della civiltà cinese. Del resto, il concetto di «civiltà cinese» è alquanto elusivo, ha molte sfaccettature e, soprattutto, si è sviluppato in tempi recentissimi, parallelamente alla trasformazione, all’epoca della dinastia mancese dei Qing (1644-1911), dell’impero cinese in Stato-nazione delimitato da confini riconosciuti da trattati internazionali (in primis il trattato di Nerchinsk del 1689) e in parallelo, soprattutto nel secolo scorso, alla crescita di un

il grandioso processo di unificazione del primo impero affonda le sue radici nelle origini stesse della civiltà cinese?

Non ci sono indicazioni nei dati archeologici, come nelle testimonianze testuali, che l’unificazione politico-rituale e amministrativa degli Stati Combattenti, iniziata dai sovrani del regno di Qin e conclusa da Qin

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sentimento di orgoglio nazionale fortemente patriottico in seno ai circoli degli intellettuali (in particolare storici, filologi, archeologi) sia vicini al Guomindang che al PCC.

◆ Quali sono, secondo lei, i piú

importanti elementi di continuità con il passato che si manifestano? Tra molti, il concetto di spazio politico ritualizzato. Mi spiego. I dati archeologici e le iscrizioni su ossa oracolari fanno intuire che nella fase


Yin (1280-1050 a.C. circa) della prima dinastia storica, Shang (1600-1050 a.C. circa), lo spazio politico, ovvero lo Stato, era fisicamente inconfinato, il che non implica che non fosse delimitato. Il limite era culturale: entro uno spazio ideale sancito dall’officio dei riti ancestrali dell’élite Shang era il territorio del regno, oltre il quale erano «gli altri», «i diversi», «i barbari» delle quattro direzioni. Questa concezione, che, ripeto, possiamo solo intuire, dal momento che ci sono pervenuti solo testi oracolari, fu in larga parte fatta propria e articolata dai pensatori della dinastia Zhou occidentale (1050-771 a.C.), i quali elaborarono un concetto di spazio politico visualizzabile come un cosmogramma fatto di una gerarchia di cerchi concentrici, al centro della quale, fulcro dell’intero Universo civile, era il Tianzi, il Figlio del Cielo. Trattandosi di uno spazio rituale, l’adesione ai riti dei Zhou, in altre parole all’ideologia dell’élite dominante, permetteva a chiunque fosse stato «altro» in una qualunque delle quattro direzioni, di avvicinarsi al fulcro, il Tianzi e di godere della superiorità culturale data dal far parte del «regno/paese del centro» (Zhongguo). Quando nel 221 a.C. assunse il titolo di Qin Shi Huangdi, il re Zhen di Qin, non si discostò da questa concezione ereditata dalla tradizione politicofilosofica, condivisa sia dalla scuola confuciana che da quella legista (vedi box a p. 46).

◆ Rispetto al passato, invece, quali

sono gli elementi di rottura? Uno tra i pochi elementi di rottura si ricollega al discorso precedente. Vale a dire l’aver applicato alla lettera uno dei principi chiave della tradizione politico-filosofica del periodo «Stati Combattenti» (475-221 a.C.): «come nel Cielo non ci possono essere due Soli, cosí al Mondo (Tianxia= Sotto il Cielo) non possono esserci due Figli del Cielo». La rottura sta nel pragmatismo con cui il Primo Imperatore applicò

A destra e nella pagina accanto: interventi di consolidamento e restauro all’interno di una delle fosse del complesso funerario dell’imperatore Qin Shi Huangdi.

questo principio: distruggendo i templi ancestrali (nessuno prima aveva osato tanto) di tutti i sovrani dei «Regni Combattenti» man mano sottomessi, Qin Shi Huangdi crea un unico spazio politico ritualizzato, con un unico Sole/Centro/Figlio del Cielo, elimina ogni possibilità di rinascita delle casate feudali (vive e legittimate solo se in grado di officiare i riti ancestrali), consegnando cosí alla storia quel modello centralizzato di spazio politico aperto, fluido e dinamico, che caratterizzò l’impero cinese fino alle soglie dell’età contemporanea.

◆ Come stanno procedendo le

scoperte archeologiche del famoso mausoleo del primo imperatore? Procedono inesorabili, ma con grande cautela e, soprattutto, rispetto al passato recente, con un maggiore senso della pianificazione.

◆ In base alla sua esperienza, quali

sono i problemi piú rilevanti da segnalare per quanto concerne lo scavo e la conservazione dei reperti del mausoleo?

Non vedo problemi particolari, sia per quanto concerne la metodologia di scavo, sia per quanto riguarda l’applicazione di moderne tecniche di conservazione/restauro. Forse il problema piú impegnativo, in quel piú che particolare sito archeologico risiede nella quantità dei reperti che ogni singolo cantiere può potenzialmente restituire.

◆ L’esercito di terracotta,

l’«ottava meraviglia del mondo» ha prodotto ipotesi bizzare, sin dall’epoca del suo «casuale» rinvenimento. Nel 2002 fu pubblicato un libro dal titolo L’empire de la poudre aux yeux (L’Impero della polvere negli occhi; Flammarion, Paris 2002), scritto da Jean Leclerc du Sablon, corrispondente a Pechino dell’Agence France Presse, tra i pochissimi occidentali in Cina negli anni Settanta, che definí la famosa armata di terracotta una grande mistificazione, da leggere come strategia propagandistica di

un pugno di ferro per combattere l’egoismo Il legismo è una dottrina dalle origini oscure e controverse che si basa sull’autorità e il potere concentrati nella persona del sovrano, come garante del funzionamento dello Stato. Gli strumenti di governo dovevano essere la «legge» e la «tattica». Si partiva dal presupposto che la natura umana fosse incorreggibilmente egoista e che l’unico modo di mantenere l’ordine sociale fosse l’imposizione di leggi dall’alto, applicate con severità. I legisti esaltavano il potere dello Stato e si concentravano prevalentemente sulla prosperità e sulla forza militare.

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Mao Zedong in un momento delicato della sua esperienza politica. Quale è la sua interpretazione al riguardo? Diciamo subito che gli occidentali in Cina nella prima metà degli anni Settanta non erano proprio pochissimi, c’ero persino io, e devo confessare che c’è voluto un bel po’ per lenire gli occhi irritati da «quella polvere». In ogni caso, piú oggi che allora, nutro qualche dubbio sul fatto che la scoperta dell’esercito di terracotta sia stata un evento imprevisto. Guarda caso, la scoperta capitò al culmine di una lotta di potere all’interno del PCC, di cui si captava l’andamento attraverso l’aspro dibattito della campagna di «Criticare Lin BiaoCriticare Confucio» (Bi Lin Bi Gong; 1973-1974). In questo movimento di critica, orchestrato dalla moglie di Mao, Jiang Qing, per eliminare il primo ministro Zhou Enlai, la figura di Lin Biao – ex delfino del Grande Timoniere – «precipitato» nel 1971 con il suo aereo mentre (sembra) stava fuggendo dalla Cina, era accostata a quella di Confucio, sia l’uno che l’altro campioni di forze retrograde, feudali e antiprogressiste. Per contro erano esaltati gli eroi della filosofia politica opposta a quella confuciana, quella della scuola legista. E quale figura storica avrebbe potuto essere campione del legismo? Qin Shi Huangdi, vituperato dalla storiografia confuciana, si prestava benissimo; dopo un piccolo restyling, l’imperatore vestí i panni del paladino delle forze sociali animate dalle idee del Legismo, perfetto alter ego del Presidente Mao, quintessenza delle idee progressiste, rivoluzionarie e antifeudali avversate dai biechi confuciani e dai loro epigoni, quali Lin Biao (e il mai apertamente nominato Zhou Enlai). Sappiamo oggi che dietro, come dicevo, c’era una lotta di potere che si concluse nel modo che conosciamo.

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Un intervento di consolidamento sul volto di una statua, appena riportata alla luce in una delle fosse di Xi’an.

Che cosa c’entra in tutto ciò la scoperta dell’esercito di terracotta? Politici e storiografi avevano compiuto l’operazione di omologazione Qin Shi Huangdi-Mao Zedong, gli archeologi fornirono l’evento mirabile, il segno del Cielo: la scoperta della fossa n. 1 dell’esercito di terracotta. Paradossalmente, ma quasi nessuno se ne accorse, si fece ricorso all’antica tradizione imperiale, ovviamente adattandola all’occasione, per cui il buon governo (in questo caso quello di Mao, in verità già prossimo alla dipartita) era «benedetto» dal Cielo con il verificarsi di fausti eventi portentosi. Tutto si incastra troppo bene per pensare alla banale casualità in quel lontano marzo del 1974.

◆ Quali sono le altre scoperte di

epoca Qin che reputa importanti da segnalare? Ce ne sono a decine e tutte hanno una loro importanza. Nel mio libro L’Armata Eterna sono descritte tutte quelle pubblicate fino al 2005. Dopo questa data, direi che una tra le piú interessanti è quella avvenuta presso il villaggio di Shanren (a un paio di chilometri dal tumulo dell’imperatore) dove è stato scavato un gruppo di fornaci per cuocere le statue dei vari personaggi e animali deposti nelle fosse di accompagnamento al tumulo. Nel riempimento di alcune, abbandonate durante la realizzazione del complesso funebre, sono stati trovati i resti di 121 coscritti ai lavori

di costruzione, alcuni sepolti nella posizione rannicchiata tipica delle genti Qin, altri in quella supina, prevalente nelle regioni di antica tradizione Zhou. Questa scoperta testimonia in concreto la multiculturalità dell’impero Qin e suffraga quanto detto in risposta alla prima domanda. Inoltre, dei 121 individui rinvenuti, uno solo, di 30-35 anni di età, era di sesso femminile, gli altri erano maschi tra i 15 e i 45 anni. I resti scheletrici hanno permesso di osservare le tracce di malattie (per esempio l’artrite) e di ferite dovute ai pesanti lavori che probabilmente li portarono alla morte. Questo è uno dei pochi casi in cui la grandiosità e l’obiettiva importanza delle scoperte presso la tomba dell’uomo che creò la Cina non ha offuscato la mente e gli occhi degli archeologi, costringendoli allo studio dei dettagli della vita quotidiana della gente comune, vissuta e morta per portare a termine il disegno politico tracciato dagli avi del Primo Augusto Sovrano di Qin. Ma molte altre sono le scoperte effettuate in diverse parti dell’antico regno di Qin e poi dell’impero, coeve al Primo Imperatore o ai sovrani di Qin che lo precedettero nel corso di almeno cinque secoli, tanto che si può asserire che l’archeologia Qin comincia ad assumere la fisionomia di una vera e propria «specializzazione» nell’ambito dell’archeologia della Cina preimperiale.


regni conquistati verso cui «guarda», non a caso, il famoso esercito di terracotta, l’«ottava meraviglia del mondo».

IL PARCO FUNERARIO Il mausoleo del primo imperatore, piú precisamente il Parco Funerario del monte del Cavallo Nero (Lishan Lingyuan), è la sintesi di un’esasperata ritualità che sfocia, come sostiene l’archeologo Roberto Ciarla, nella «rappresentazione iperbolica di una concezione centralizzata del potere, maturatasi nel periodo degli Stati Combattenti». Scoperto nel 1974, il complesso sepolcrale si estende ai piedi del monte del Cavallo Nero, a piú di una trentina di km a est di Xi’an.Venne progettato con l’idea di far sorgere altri templi e luoghi di culto, residenze per addetti alle cerimonie sacre e soprattutto alla conservazione, cosí che i vivi potessero dedicarsi alla venerazione dell’imperatore, propiziandone il soggiorno ultraterreno. Sotto un tumulo alto in origine 150 m (oggi ridottisi a 50), in posizione leggermente eccentrica, nel piú interno dei recinti che racchiudevano anche i templi per i culti ancestrali, giace il fulcro del complesso, ovvero la camera sepolcrale, la cui mole è tale da avere indotto le autorità cinesi a procrastinarne gli scavi. Le indagini preliminari sembrano comunque attestare la presenza di manufatti in bronzo, ceramica e legno e di un complesso sistema di drenaggio, mentre i rilevamenti geologici confermano la presenza di un’alta concentrazione di mercurio. Nelle Memorie di uno storico si allude a una tomba protetta da canali sotterranei, in cui scorrono piombo o bronzo fuso, e nel suo soffitto, dipinto come il cielo, gemme incastonate brillerebbero come costellazioni alla luce di lampade eterne, mentre rigagnoli di mercurio scorrerebbero, simulando i fiumi e l’oceano, in un immenso modello dell´impero (vedi box alle pp. 42-43). Nelle Memorie, però, non si trova menzione delle innumerevoli fosse sacrificali e sepolture di accompa-

gnamento che, per un raggio di 15 km, circondano il tumulo e definiscono, riproducendolo, il mondo terreno e l’aldilà del primo imperatore, con stalle, terreno di caccia, sepolture delle concubine e dei membri del clan reale. Scoperte in tempi piuttosto recenti, le fosse, molte delle quali sono ancora da esplorare, coniugano il sorprendente connubio tra grandiosità e segretezza, che pervade l’ideale mitico dell’intero complesso sepolcrale.

38 anni di lavoro La colossale costruzione avrebbe coinvolto oltre 700 000 operai, tra prigionieri e lavoratori coatti, in 38 anni di incessante attività (dal 246 al 208 a.C.): e si tramanda che gli operai siano stati sepolti al suo interno, portando con sé i segreti dell’opera. Di notevole importanza sono le ormai famose tre strutture ipogee

(n.1, 2, 3), situate 1,5 km a est del tumulo ancora inviolato, che presentano, con il loro esercito di terracotta, l’ordinamento glorioso di un’arte della morte nella quale l’intento politico, l’affermazione della potenza imperiale e le credenze religiose si confondono. A queste tre fosse se ne aggiunge una quarta che risulta vuota al suo interno. La maniacale aspirazione all’immortalità dell’imperatore sembra trovare conferma nella scelta di affidare la custodia del suo mausoleo a uno sterminato e spettacolare esercito di terracotta invece che a guerrieri mortali. Si narra, d’altronde, che l’imperatore avesse accolto a corte adepti di oscuri ambienti esoterici e avesse fatto compiere apposite indagini nelle direzioni loro indicate. Fallendo per ben due volte la ricerca delle Isole degli Immortali, egli traspo-

la tecnica di realizzazione Le sculture dell’esercito di terracotta presentano una comune tecnica di lavorazione, assai elaborata, divisibile in tre fasi: si partiva dalla preparazione dell’argilla, cavata in una zona a nord est del tumulo e poi mescolata con loess e quarzo; dopo aver liberato il loess dalle impurità, per raggiungere l’adeguato grado di finezza, la creta veniva modellata per dare forma alla statua che, una volta essiccata, veniva cotta a 950-1050 gradi. La lavorazione prevedeva, innanzitutto, la realizzazione del piedistallo su cui venivano modellati i piedi e le gambe. Il torso era ottenuto avvolgendo a mano strisce spesse di creta, mentre le braccia, la testa e le mani, erano realizzate a parte, usando uno stampo in gesso e unite ai busti con colli cilindrici allungati. Per dare stabilità alla scultura, il peso era bilanciato tra la parte inferiore, piena al suo interno, e la sezione superiore, vuota.

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I guerrieri di terracotta approdano a Berna Il Museo storico di Berna (Bernisches Historisches Museum), tra i piú importanti e interessanti musei dedicati alla storia e alla cultura della Svizzera, ha inaugurato la mostra: «Qin. L’imperatore eterno e i suoi guerrieri di terracotta», visitabile fino al 17 novembre 2013. L’esposizione include dieci statue dell’esercito di terracotta ritrovate nella tomba del primo imperatore Qin Shi Huangdi, assieme a 220 reperti originali provenienti direttamente dai maggiori musei e istituti archeologici cinesi.

Da sinistra, in alto: immagini dei guerrieri e dei cavalli dell’esercito di terracotta. In basso: il museo realizzato per accogliere le statue, nei pressi di Xi’an.

dove e quando «Qin. L’imperatore eterno e i suoi guerrieri di terracotta» Berna, Museo Storico fino al 17 novembre Orario tutti i giorni, 9,00-18,00; lu chiuso Info tel. +41 31 3507711; e-mail: info@bhm.ch; www.qin.ch

se in pratica il sogno di sfuggire alla condizione umana vagheggiando di aver dato inizio a una dinastia eterna e immaginando di ampliare il proprio potere persino ai domini ultraterreni. L’idea della morte viene dunque affrontata da Shi Huangdi concentrando le proprie ambizioni verso la realizzazione di una vita postuma, attraverso la creazione di un vero e proprio mondo parallelo, nel quale mantenere e difendere tutte le sue prerogative. Le strutture ipogee conterrebbero circa 8000 statue di guerrieri, di dimensione superiore a quella naturale, e centinaia di cavalli in terracotta, assieme ai resti di numerosi carri da guerra in legno e armi in bronzo. La fossa piú ampia, la n. 1 scoperta nel 1974, comprende una 48 a r c h e o

serie di undici corridoi paralleli, separati da strutture murarie in terra battuta, pavimentati con mattoni e in origine provvisti di coperture in legno: all’interno sarebbero contenuti almeno 6000 guerrieri e resti di carri da battaglia.

«pronti» alla difesa La disposizione dell’esercito presenta l’avanguardia composta da tre file orizzontali di soldati, a cui segue il corpo principale, suddiviso in piú file longitudinali di fanti e carri da combattimento; i fiancheggiatori sono disposti in due file orizzontali, con statue rivolte verso l’esterno e, dietro al corpo principale della truppa, è schierata la retroguardia, costituita da due ordini di soldati: l’armata presenta una

disposizione tattica di difesa su ogni lato, con un corpo di comando controllato da ufficiali, riconoscibili per i caratteristici copricapo e per i nastri colorati. Distanziata dalla prima di 20 m circa, la fossa n. 2, a forma di «L», è stata scoperta nel 1976. Al suo interno sono conservate formazioni di generali, disposti davanti alla fossa, numerosi balestrieri, alcuni dei quali in ginocchio con indosso l’armatura, cavalieri, carri da battaglia e vari fanti. Secondo l’archeologo Yuan Zhongyi, le fosse 1 e 2 rappresentano rispettivamente i fianchi destro e sinistro del nucleo centrale costituito dalla piú piccola tra tutte, la fossa n. 3, scoperta nel 1977, che potrebbe essere la riproduzione del quartier generale. Qui sono stati


La seconda vita dell’esercito All’indomani della scoperta, nel 1975, le autorità cinesi disposero la musealizzazione delle fosse funerarie al cui interno erano venuti alla luce i guerrieri dell’esercito di terracotta. Piú di recente, nel 2010, l’area è stata associata a quella del mausoleo vero e proprio, dando vita a un unico grande parco archeologico. Il sito, che l’UNESCO ha dichiarato Patrimonio dell’Umanità nel 1987, è aperto tutto l’anno ed è raggiungibile con facilità dal vicino aeroporto internazionale di Xi’an, dal quale è disponibile un servizio di navette.

portati alla luce guerrieri, cavalli e un carro in legno, ossa di animali e corna di cervidi, da considerarsi probabilmente come resti di sacrifici propiziatori. Scoperta nel 1995, la fossa n. 4 è situata a poca distanza dalle altre, e, sempre secondo Yuan Zhongyi, sarebbe stata riservata ai soldati in carne e ossa, secondo l’antica usanza Shang di sacrificare vittime umane al defunto: l’assenza di resti umani, però, potrebbe riferirsi all’impiego dei soldati in carne e ossa nelle battaglie, contro i nemici della dinastia, o piú probabilmente all’incompiutezza della costruzione. Una volta ultimate, tutte le statue furono dipinte, anche se della pittura originale si sono conservate ben poche tracce.Tra i colori piú utiliz-

zati vi erano toni particolarmente accesi e contrastanti, come rosso scuro, verde, blu e viola. L’impatto visivo dell’esercito, quindi, doveva provocare uno stupore ancor maggiore di quello che suscita oggi.

Han (206 a.C.-220 d.C.), sostituirono i sacrifici umani compiuti nelle epoche precedenti. Si tratta però, in questo caso, di «oggetti» di proporzioni e numero colossali! Nessuno dei corredi funerari finora scoperti in Cina può essere considerato il precursore delle statue del mausoleo di Qin Shi Huangdi, e si deve anche aggiungere che, dopo di lui, altri generali e imperatori vennero seppelliti assieme ai soldati di terracotta, ma nessun tumulo ha raggiunto finora l’effetto spettacolare e imponente per proporzioni, varietà e numero delle statue del primo imperatore.

oggetti dello spirito La meticolosa precisione con cui gli artigiani modellarono le armature, le fibbie, le scarpe e altri dettagli testimonia inoltre l’abbondante manodopera, con funzioni specifiche e diversificate, necessaria per la realizzazione delle statue. I soldati rievocano inoltre quegli «oggetti luminosi» o «oggetti dello spirito» (mingqi) che, appartenenti al corredo funebre e ritrovati in gran nella prossima puntata numero in quasi tutte le sepolture, perlomeno a partire dal periodo • L’impero degli Han

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parchi archeologici • occhiolà

nelLA CITTà «DELLE DONNE»

di Simona Barberi, Carlo Casi, Andrea Patanè, Maria Randazzo

S

nel Parco Archeologico di Occhiolà, presso Grammichele, la ripresa degli scavi getta nuova luce sulla storia dell’insediamento. E, in particolare, rivela la presenza di un luogo di culto che testimonia dei cambiamenti di status dell’universo femminile, nel corso del III secolo a.C.

iamo a Echetla, antica città indigeno-ellenizzata, poi conosciuta con il nome di Ocula e infine come Occhiolà, devastata dal terribile terremoto del Val di Noto nel 1693. Salendo per la strada che s’inerpica dalla pianura, oggi ombreggiata dagli agrumeti, e che conduce verso Grammichele, si viene colpiti dalla vista delle due alture gemelle e affiancate, completamente brulle, che ricordano vagamente paesaggi mediorientali. Ci troviamo alle pendici dell’insediamento antico: una, l’altura di Poggio dei Pini, ha restituito, grazie a ricerche condotte dalla Soprintendenza BB.CC.AA. di Catania, una capanna intagliata nella roccia della fine dell’età del Bronzo; l’altra è caratterizzata dagli imponenti resti di un castello di probabile origine medievale. L’invidiabile posizione occupata dal centro abitato non lo ha purtroppo preservato dai tristi eventi che, seppur segnandone la fine, hanno di fatto impedito che nuove costru52 a r c h e o

zioni distruggessero la sua antica Occhiolà. Pendici sud-occidentali quanto ricca storia. Infatti, all’indo- di Poggio del Rullo. Panoramica mani del sisma che rase al suolo la generale dell’Edificio 1. città e molti centri della Sicilia orientale, i superstiti di Occhiolà furono guidati dal principe Carlo Maria Carafa Branciforti a ricostruire il nuovo sito su una delle colline poste piú a sud, ritenuta piú sicura, indicata dalle fonti come chianu di li purrazza (piano degli asfodeli).

impianto esagonale La pianta della nuova città, disegnata dallo stesso principe insieme a fra’ Michele da Ferla su una lastra in ardesia, di recente restaurata dal Centro Regionale del Restauro e restituita alla città in occasione del 315° anniversario della fondazione, era caratterizzata da un originale impianto esagonale e fu chiamata Grammichele, mentre quella abbandonata assunse poco a poco il nome di Terravecchia. Si deve a Paolo Orsi l’intuizione che, al di sotto delle rovine della città pre-terremoto, si celassero i


resti di civiltà piú antiche; a seguito di ricognizioni di superficie e scavi condotti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ipotizzò sui crinali di Terravecchia l’esistenza di un centro indigeno-ellenizzato, già identificato dal geografo Cluverius con la città di Echetla ricordata dalle fonti antiche e ne realizzò una prima carta topografica. Oltre alla necropoli protostorica di Madonna del Piano-Mulino della Badia, Orsi individuò i santuari di Madonna del Piano e Poggio dell’Aquila, da cui provengono le famose statue di divinità femminili esposte al Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» di Siracusa, di alcune porzioni dell’abitato di età arcaica ed ellenistica, e delle relative aree sepolcrali, tra cui si distingue la monumentale necropoli di Casa Cantoniera. Il monumento piú suggestivo del Parco è il Castello, arroccato sulla parte nord-occidentale dell’abitato, in diretto collegamento visivo con le colline di Caltagirone a ovest e la rupe di Mineo a est. Di esso, mai

A destra: cartina con l’ubicazione del sito di Occhiolà. Nella pagina accanto: una foto della campagna del 2011. Le indagini sono riprese nell’area nel 2010, grazie ai finanziamenti del Gioco del Lotto.

Messina Trapani

Palermo

Cefalù

Reggio Calabria

Marsala Caltanissetta

Acireale

Enna

Catania

Occhiolà

Agrigento

Ma r Me di te r r a ne o

indagato in modo sistematico, si hanno poche notizie storiche e risale alla fine del XIII secolo il piú antico documento in cui ricorre per la prima volta il nome di «Alchila», inviato da re Pietro d’Aragona al Giustiziere delVal di Noto (1282).

passaggi di proprietà Nel 1398 il feudo e il castrum di Occhiolà vengono concessi ai Santapau, signori di Licodia, e rimangono proprietà della famiglia fino al 1591, quando diverranno possedimenti di Fabrizio Branciforti, principe di Bu-

Siracusa

Gela Ragusa

tera, nipote di Antonia, sorella di Francesco, deceduto senza figli. Del maniero, utilizzato negli anni precedenti il sisma del 1693 come palazzo signorile, restano in piedi i muri perimetrali del corpo centrale a pianta rettangolare che raggiungono in alcuni punti anche i 2 m di spessore. A ponente, lungo il ripido fianco che volge verso il vallone delle Canne, si conservano consistenti porzioni di un potente contrafforte realizzato con blocchi di pietra calcarea perfettamente squadrata.

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2003: la ripresa degli scavi

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ra il giugno 2003 e il settembre 2005 un finanziamento europeo ha permesso di eseguire una prima indagine sistematica all’interno del Parco.

Sulle pendici settentrionali di Poggio del Rullo, sistemate a terrazze per la coltivazione del terreno, in prossimità dell’area nota nella tradizione come «Rione dello Spirito Santo», è stato realizzato un vasto intervento di scavo archeologico, che ha consentito di portare alla luce tre edifici di dimensioni considerevoli, distinti come Edificio A, Edificio B ed Edificio C. L’Edificio A, a pianta rettangolare e con forte sviluppo longitudinale, presenta uno dei lati lunghi prospiciente la strada di accesso al castello che dominava le colline di Terravecchia.

un edificio misterioso L’edificio si articola in otto ambienti, con pareti interne intonacate in gesso e pavimenti costituiti da vespai di pietre ricoperti da uno spesso rivestimento gessoso. Questa pavimentazione permetteva il continuo rifacimento dei piani d’uso con un modesto impiego di risorse. Le caratteristiche e le dimensioni dell’edificio suggeriscono che esso avesse una funzione pubblica, che la non specificità del materiale archeologico recuperato non permette di precisare. L’Edificio B, ubicato piú a monte dell’Edificio A e separato da quest’ultimo da un piano stradale largo 2, 50 m, era organizzato in ambienti distribuiti su A sinistra: statua in terracotta di Demetra o Kore, da Terravecchia. VI sec. a.C. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».

il Museo Civico di Grammichele Il Palazzo Municipale, costruito nel 1896 dall’architetto Carlo Sada, ospita dal 1996 il Museo Civico di Grammichele, nel quale è illustrata la storia della ricerca archeologica locale, dalle prime annotazioni di Tommaso Fazello (1498-1570) e di Filippo Cluverio (1580-1623), alle indagini di Paolo Orsi (1859-1935) fino alle piú recenti scoperte archeologiche. Il materiale esposto ripercorre le tappe principali dell’insediamento umano in quella che è stata un’area strategica della Valle dei Margi. L’esposizione si apre con suggestive riproposizioni di deposizioni a enchytrismos (con il defunto riposto entro grandi vasi) provenienti dalla necropoli della Madonna del Piano-Molino della Badia, datata fra la fine dell’età del Bronzo e l’inizio dell’età del


A destra: disegno a volo d’uccello della piazza Carlo M. Carafa di Grammichele.

Ferro (XI-IX secolo a.C.). Tra i reperti piú interessanti, anche un raro esemplare di calcofono, strumento musicale legato a riti religiosi. La conoscenza del territorio prosegue attraverso le testimonianze materiali provenienti dall’abitato indigeno di Echetla (VII-III secolo a.C.), dal quale provengono pesi da telaio, oscilla fittili, lucerne e altri oggetti di uso comune. La presenza greca emerge con forza grazie all’esposizione dei corredi di tombe provenienti dalle necropoli di Terravecchia e di Casa

Cantoniera, che – accanto a materiali di produzione locale – presentano anche kylikes attiche «a occhioni» e coppe ioniche dell’ultimo quarto del VI secolo a.C., alcune delle quali riportano sulla superficie delle iscrizioni in lingua sicula. L’esposizione si conclude con le testimonianze dell’abitato medievale e rinascimentale di Occhiolà, borgo distrutto dal terremoto del 1693: dal sito provengono meravigliosi esemplari di maioliche prodotte a Caltagirone tra il XV e XVI secolo.

dove e quando Museo Civico Archeologico Grammichele (CT), piazza Carlo M. Carafa Orario martedí-sabato, 9,00-13,00 e 15,00-19,00; domenica, 9,00-13,00; chiuso il lunedí Info tel. 0933 941536; http://catania.spacespa.it/musei/25museo-civico/A/A1/A1.1

Qui accanto: coppe ioniche, dalla necropoli di Terravecchia. Fine del IV sec. a.C. Grammichele, Museo Civico Archeologico. Nella pagina accanto, a destra: statuetta femminile, da Poggio dell’Aquila. Età ellenistica. Grammichele, Museo Civico Archeologico.

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piú livelli. Anche in questo caso resta incerta la destinazione d’uso dell’intero edificio, ma sono da segnalare, in particolare, la grande concentrazione di vasellame da fuoco rinvenuta all’interno di un ambiente interpretato come cucina e la scoperta di una girella di tornio in granito rosso all’interno di un altro vano destinato ad attività artigianali. Di eccezionale rilievo è da considerarsi il ritrovamento di alcune statuine di terracotta pertinenti a un presepio, sigillate da uno strato di crollo del terremoto del 1693. Dell’Edificio C, a pianta poligonale, dotato di un piano superiore, sono stati messi in luce solo i muri perimetrali e uno strato di crollo, non ancora del tutto asportato. A nordest dei suddetti edifici è stato indagato un importante edificio di culto, forse identificabile con la chiesa di S. Leonardo. La chiesa, a un’unica navata e con abside rettilinea, presenta una pianta rettangolare, e, all’interno, le pareti laterali scandite da una partizione a semipilastri su basamento modanato. I semipilastri inquadravano nicchie rettangolari 56 a r c h e o

che sormontavano altari di cui in qualche caso sono visibili i resti. Oltre a diversi frammenti architettonici pertinenti all’alzato dell’edificio, sono stati rinvenuti in mezzo alle macerie del terremoto moltissimi frammenti di mattonelle in maiolica, riferibili al pavimento della chiesa, decorate con motivi geometrici, vegetali e zoomorfi che rimandano alla produzione calatina della seconda metà del XVII secolo.

maioliche colorate Piú numerosi sono i frammenti di piastrelle decorate con un motivo geometrico a doppio intreccio dipinto in bianco su fondo blu cobalto. Nel corso del XVII secolo l’uso del pavimento in maiolica sostituisce, soprattutto nell’area del Calatino, i precedenti e piú antichi pavimenti in terracotta con elementi di forma quadrata o ottagonale. Negli anni, per interrompere la monocromia dei pavimenti in terracotta, si diffonde l’uso di inserire piccole mattonelle policrome maiolicate, cosí come dimostrano i ritrovamenti di Sciacca e Licata, oltre che

Area della fase ellenistica. L’ingresso all’ambiente I dell’edificio 1. Sul fondo, l’edicola votiva.

di Caltagirone, fino a produrre pavimenti interamente maiolicati. Nell’area pianeggiante posta a nord-ovest della cosiddetta chiesa di S. Leonardo, alle pendici sud-orientali di Poggio del Castello, è stato scavato un ampio settore di un quartiere residenziale organizzato intorno a un’imponente cisterna con arcate di sostruzione a conci calcarei di carattere pubblico. Durante gli ultimi giorni di scavo della calda estate del 2005, in un piccolo saggio aperto in una zona del Parco che non era mai stata esplorata in modo sistematico, furono messe in luce alcune strutture che sul momento sembrarono essere abitazioni di età ellenistica; ma come spesso avviene nelle ricerche archeologiche, l’approssimarsi della chiusura del cantiere per l’esaurimento dei fondi non permise di continuare e approfondire la scoperta.


le ultime scoperte A sinistra: testa con il capo velato di una statuetta femminile policroma in fase di scavo. In basso: il borgo di Occhiolà visto dall’altura su cui si conservano i resti del castello. Sulla destra, il crinale settentrionale di Poggio del Rullo.

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el 2010, alla ripresa dello scavo, finanziato con gli introiti del Gioco del Lotto, non speravamo di scoprire un cosí interessante spaccato di vita del centro di Terravecchia nel pieno del III secolo a. C. Le ricerche hanno consentito di portare alla luce tre edifici, di cui solo uno indagato completamente. La natura dei ritrovamenti e la monumentalità di alcune parti dell’edificio 1, che occupa complessivamente una superficie pari a 100 mq circa, hanno suggerito l’identificazione della struttura con un santuario. Il complesso si articola in sei ambienti disposti intorno a un vestibolo centrale caratterizzato da una

profonda cisterna a campana; uno degli ambienti piú significativi è quello isolato come vano I, che si distingue per le pareti interne rivestite con intonaci di colore bianco,

Il Parco Archeologico di Occhiolà Il terremoto che nel 1693 devastò la Sicilia orientale, costrinse gli abitanti sopravvissuti di Occhiolà a spostarsi e fondare un nuovo abitato poco piú a sud: nacque cosí Grammichele, dove oggi è possibile fare un viaggio nel tempo e ammirare – nel Parco Archeologico Comunale di Occhiolà, istituito nel 1997 – una stratificazione sorprendente, che va dall’età preistorica al XVII secolo. Il Parco custodisce infatti importanti testimonianze archeologiche, riferibili a un importante centro abitato originariamente indigeno, poi fortemente ellenizzato, sviluppatosi tra il VI e il III secolo a.C., da molti identificato con l’antica città di Echetla. Qui il paesaggio è comunque segnato dai resti del castello, arroccato a dominare la valle sottostante, e circondato da quanto rimane delle chiese, case e cisterne dell’abitato di Occhiolà. Solo a partire dal 1408 gli archivi restituiscono documenti relativi al castello: nel 1591 passa di proprietà dalla famiglia Santapau ai Branciforti e nel 1693, al momento del terremoto, il borgo faceva parte delle proprietà di Carlo Maria Carafa Branciforti, principe di Butera e Roccella e barone dell’oppidum di Ocula. Dal 1999 all’interno del Parco Archeologico sono stati allestiti percorsi di visita, ed è stato attivato un centro servizi, grazie al recupero di alcuni casolari rurali.

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A destra: materiali rinvenuti all’interno di uno dei vani dell’edificio 2. Nella pagina accanto: operazioni di consolidamento dei reperti rinvenuti sul pavimento nei pressi dell’altare dell’ambiente IV dell’edificio 1.

A sinistra: bacino in terracotta con beccuccio di sgrondo configurato a protome leonina. Il fusto scanalato ha subito, in antico, un restauro con grappe di piombo.

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azzurro e rosa carico e per la presenza di un imponente muro di fondo, non rivestito e conservato fino a un’altezza di oltre 3,50 m, realizzato in opus africanum, tecnica muraria diffusa dapprima in Africa e da qui in tutto il Mediterraneo.

come Un tabernacolo Accentua la monumentalità della struttura una nicchia imponente, sormontata da un architrave monolitico, ricavata nello spessore dello stesso muro. Nella parete di fondo della nicchia, foderata con fitti filari di pietrame, se ne apre un’altra piú piccola scavata nel tenero banco roccioso che, come testimoniano gli incassi perfettamente conservati, doveva essere protetta da una lastra verticale, a sua volta serrata da un’altra orizzontale. Ma che cosa custodiva questo «tabernacolo pagano»? Ci piace pensare che il busto in terracotta di divinità femminile finemente dipinto, rinvenuto in frammenti proprio


davanti alla nicchia, potesse costituire il prezioso tesoro. «Ci piace pensare», perché, purtroppo, la storia di questo scavo è stata tormentata da ripetute manomissioni di scavatori clandestini che hanno reso piú complessa l’interpretazione del rito che si celebrava in questo ambiente. Il rinvenimento del basamento di un altare, di due grandi louteria (plurale di louterion, cioè piccolo altare, n.d.r.)e di un deposito votivo di terrecotte femminili, poste ai piedi della nicchia e lungo il muro di fondo, confermano la natura cultuale del vano. Immetteva in questo spazio un corridoio che reca i segni della preparazione dei rituali praticati negli ambienti intorno al cortile; è probabile che tali cerimonie si svolgessero nelle ore notturne, illuminate da torce, come dimostrerebbero i resti di carboni rinvenuti e le lucerne, di cui sono stati trovati numerosi esemplari, soprattutto nell’ambiente I, oltre che nel corridoio. Attraverso il vestibolo centrale si accedeva a ovest all’ambiente IV

Il ritrovamento di carboni e lucerne suggerisce che le cerimonie venissero praticate nelle ore notturne

che ha restituito una stratigrafia perfettamente integra. Sotto imponenti crolli e un «tappeto» di tegole ben conservato si sono trovati ancora in posto moltissimi oggetti che documentano gli ultimi momenti di vita del santuario; attorno a un altare modanato, sparsi sul pavimento, sono stati rinvenuti abbondanti oggetti votivi, fra cui spiccano forme miniaturistiche, piccole arule e molte terrecotte femminili, tra cui alcuni piccoli busti; un grosso coltello in ferro in prossimità dell’altare testimonierebbe la pratica di sacrifici di piccoli animali.

un culto femminile Il proseguimento delle ricerche dovrebbe permettere di chiarire meglio gli «attori» del culto praticato nel santuario rurale, assimilabile al cosiddetto tipo a cortile, noto anche nella vicina Morgantina. La prima ipotesi condurrebbe a identificare quale destinataria del culto la coppia Demetra e Kore, venerata in molti siti sicelioti, come suggerirebbero le numerose statuette fittili femminili con fiaccola e porcellino presenti nell’area sacra. Lo studio dei materiali, appena iniziato, potrebbe d’altra parte offrire nuovi elementi per verificare se l’edificio, immerso in un ambiente silvano, si connoti piuttosto come luogo destinato alla venerazione di divinità ninfali; indurrebbe a questa lettura la tipologia dei ritrovamenti e delle ricche suppellettili che rimandano a pratiche votive prevalentemente femminili, che dovevano avvenire all’interno del santuario, abbandonato nell’ultimo ventennio del III secolo a.C., come dimostra il rinvenimento di alcune monete sul battuto dei vani. Un santuario dedicato dunque ai cambiamenti di status dell’universo femminile e all’istituto matrimoniale, considerato elemento fortemente aggregante in un momento di crisi delle comunità siciliane che stanno per essere travolte e trasformate dall’ormai inarrestabile potere romano, che ha in mano le redini della politica dell’isola. a r c h e o 59


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Due immagini della statua in diorite raffigurante Chefren, quarto faraone della IV dinastia, da El-Giza. 2520-2494 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.

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cHEFREN


e il mistero del falco

di Sergio Pernigotti

la statua del faraone sepolto al centro di una delle tre celebri piramidi di el-giza rappresenta un capolavoro universale. ma come possiamo comprendere appieno il significato di un prodotto artistico cosí lontano nel tempo? La risposta, forse, risiede proprio in ciò che non si vede…

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crivere una storia dell’arte dell’antico Egitto è un compito tra i piú difficili che si possano immaginare per chiunque si occupi, per motivi professionali o per una propria esigenza culturale, di quella remota e per molti aspetti assai complessa civiltà. L’impressione generale che si ricava osservando le opere d’arte anticoegiziane (statue, pitture, arti minori) è quella di una sconcertante uniformità: la statuaria, in particolare, sembra costituita da opere tutte uguali, che si differenziano soltanto per pochi e forse trascurabili particolari, e che si ripetono, tali e quali, verrebbe voglia di dire, per centinaia e, in qualche caso, per migliaia d’anni. Se noi confrontiamo una statua regale della IV dinastia (2575-2465 a.C.) con una statua regale dell’età tolemaica (304-30 a.C.), potremmo constatare che tale impressione è tutt’altro che priva di fondamento. Occorre innanzitutto chiarire che l’arte dell’antico Egitto risponde a concezioni profondamente diverse dalle nostre, collocate all’interno di contesti sto-

rico-culturali difficili da decifrare, talvolta perfino da individuare. Eppure, a differenza di quanto accade per altre civiltà antiche, gli studiosi non possono certo lamentare la scarsità di opere di cui possono disporre per studiare l’arte dell’antico Egitto; anzi, soprattutto per la scultura, si è conservata una grande quantità di reperti che si dispongono, si potrebbe dire, ordinatamente, per un periodo di tempo straordinariamente lungo: le lacune sono veramente poche e perlopiú dovute a eventi particolari e inusitati, quali le crisi politiche interne o la presenza di stranieri sul suolo egiziano, accadimenti che sconvolsero entrambi la vita nel Paese.

arte di routine Anzi, potremmo paradossalmente affermare che di sculture egiziane ne abbiamo fin troppe e non tutte sono capolavori, come è evidente: accanto a questi, che sono tanti, vi è molta routine, in cui, al massimo, si può apprezzare l’abilità dello scultore nel trattare il materiale di cui dispone, pietra o altro. Quanto poi alla continuità dello stile nel tempo, essa corrisponde a una tendenza generale del pensiero egiziano e della sua visione della vita,

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secondo il quale il passato ha un valore da conservare accuratamente e al quale tutti devono guardare per trarne ispirazione, a partire dal sovrano. Soprattutto quando il Paese esce da un periodo di crisi e deve «ripartire» con programmi nuovi per il futuro, come avviene, per esempio, all’inizio della XII dinastia (1991-1783 a.C.), dopo la crisi del Primo Periodo Intermedio (2134-2040 a.C.). Se si vuole costruire un nuovo Egitto si deve prendere ispirazione dal passato: questo alternarsi di continuità e di innovazione è una delle caratteristiche fondamentali della storia egiziana ed è naturale che l’arte ne sia una delle manifestazioni piú visibili e significative. Prima di affrontare lo studio di una qualsiasi tra le sculture conservate nei musei, occorrerebbe anche domandarsi che cosa gli

una scultura a tutto tondo, in diorite, alta 168 cm, che raffigura seduto in trono il re Chefren, con le mani appoggiate sulle ginocchia, il capo coperto dal nemes, mentre guarda in modo inespressivo di fronte a sé; nella parte posteriore del copricapo è raffigurato il dio Horus in forma di falco, con le ali dispiegate ad avvolgerne la testa in un gesto che appare di protezione. L’identificazione del sovrano con Chefren è sicura, perché il nome del re è inciso in bellissimi geroglifici sulla base su cui la statua si trova e l’attribuzione trova conferma nel fatto che la scultura è stata trovata nel tempio a «valle» della piramide di El-Giza, costruita da Chefren come proprio regale sepolcro e situata nella sequenza delle tre piramidi ivi costruite dai tre sovrani della IV dinastia, Cheope, Chefren stesso e Micerino. L’opera si colloca

Al tempo di Cheope, Chefren e Micerino l’arte egiziana tocca vertici rimasti ineguagliati Egiziani pensassero di quello che noi definiamo «arte», se cioè avessero un’estetica – se cosí possiamo chiamarla, attingendo alla terminologia filosofica –, o almeno quale fosse il loro scopo nel momento in cui davano forma, nella pietra o nella pittura, alla realtà che li circondava: qualche passo in questa direzione può essere fatto, forse, prendendo in esame un esempio concreto. Parallelamente sarebbe altrettanto interessante conoscere quale fosse il ruolo degli artisti in una società cosí complessa e piú ricca di «speculazione» intellettuale di quanto di solito si possa pensare. Al Museo del Cairo, nella sezione relativa all’Antico Regno (IV-VI dinastia) si conserva una statua che può considerarsi uno dei massimi capolavori non solo dell’arte egiziana ma anche, senza tema di esagerare, di quella universale. Si tratta di 62 a r c h e o

quindi in un periodo particolarmente importante della storia dell’arte egiziana, in cui la scultura soprattutto, raggiunge vette che, salvo rare eccezioni, non furono eguagliate dagli artisti dei due millenni successivi. I sovrani della IV dinastia a cui si devono le tre piramidi di El-Giza – i cui nomi e la cui fama hanno attraversato i secoli, se Erodoto li menziona nelle sue Storie – sono di per sé delle figure sbiadite dal punto di vista storico, ma hanno avuto in sorte di avere costruito opere imper iture nella stor ia dell’architettura, e, soprattutto nel caso di Chefren e Micerino, anche alla scultura. Il destino ha voluto che del costruttore della piú grande delle piramidi, Cheope, ci sia giunta solo una staEl-Giza. Le piramidi dei faraoni Cheope, Chefren e Micerino.

tuetta, ma ciò è dovuto piú che altro al caso: e del resto non è neanche del tutto sicuro che la suddetta statuetta (vedi foto nella pagina accanto, in alto) sia da datare al regno di questo sovrano; vi sono infatti studiosi che la attribuiscono all’età tolemaica.

volti conosciuti Per Chefren e Micerino ci muoviamo invece su un terreno molto piú sicuro e, accanto alle opere che ritraggono i due sovrani, vi sono quelle che rappresentano funzionari e sacerdoti a cui i re avevano concesso di porre statue personali nelle loro sepolture. A identificare le statue non sono soltanto le iscrizioni, ma anche i lineamenti dei sovrani che gli scultori riproducevano con grande cura: conosciamo dunque il volto di Chefren e di Micerino, nonché quello di molti altri personaggi.


Cheope (2551-2528 a.C.) Figlio di Snofru, Cheope (che qui vediamo in una statuetta in avorio conservata nel Museo Egizio del Cairo) fu il secondo sovrano della IV dinastia. Del suo regno le fonti storiche ricordano soltanto spedizioni alle miniere di turchese del Sinai e alle cave di diorite del deserto nubiano. Si può arguire che egli esercitasse un dominio assoluto su un territorio unificato e amministrato centralmente attraverso funzionari in massima parte legati alla casa regnante. La piú vistosa testimonianza del suo regno è la monumentale piramide fatta edificare nella piana di El-Giza come sua sepoltura, affiancandola con le piramidi delle regine e le mastabe dei figli e dei funzionari. Accanto alla piramide di Cheope sono state rinvenute le «barche solari», monumentali imbarcazioni usate dal faraone nei suoi viaggi e, come altri oggetti, sepolte vicino a lui nella convinzione che gli servissero nel suo viaggio verso l’eternità.

Micerino (2490-2472 a.C.) Figlio e successore di Chefren (di cui vediamo un particolare della statua custodita nel Museo Egizio del Cairo), fu il costruttore della terza piramide di El-Giza, la piú piccola, rimasta incompiuta (non ebbe infatti il previsto rivestimento in granito rosso). Dal tempio funerario provengono numerose statue di Micerino che lo raffigurano sia da solo sia in compagnia di varie divinità. I volti, pur non essendo veri e propri ritratti, hanno caratteristiche che ne permettono l’identificazione: viso rotondo, naso ampio, bocca piccola con labbra carnose, guance cascanti.

Chefren (2520-2494 a.C.) Figlio e secondo successore di Cheope, al quale è accomunato da Erodoto nella fama di tiranno. Come per il padre, la prosperità del regno di Chefren (del quale riproponiamo un particolare della statua descritta nell’articolo) è testimoniata dalla piramide funeraria, di poco piú piccola di quella paterna, composta di blocchi di calcare che sono i maggiori mai impiegati in costruzioni egizie e ora ben visibili data la caduta della maggior parte del rivestimento.


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Su questo aspetto si deve però precisare che, almeno per quanto concerne il III millennio (secondo alcuni anche in seguito), non si può parlare di «ritratti»; per alcuni studiosi, infatti, il ritratto nell’arte egiziana semplicemente non è mai esistito, se per esso intendiamo ciò che l’arte classica ci ha consegnato sotto questo nome, vale a dire non la semplice riconoscibilità del trattamento dei lineamenti del viso, ma il poter cogliere, nei tratti del volto, la personalità piú profonda del personaggio raffigurato. Nel caso di Chefren siamo alle prese con l’immagine di un uomo giovane, non ancora toccato dal trascorrere del tempo: i suoi tratti sono certo quelli del sovrano, come confermano le iscrizioni sulla base, ma non si deve dimenticare la somiglianza con altre raffigurazioni, prima tra tutte quella del volto della sfinge di El-Giza.

creature immortali Tale trattazione del volto del sovrano risponde a un preciso disegno dello scultore: il personaggio da lui raffigurato sulla pietra altri non è che il dio che regna sull’Egitto, quindi non un uomo destinato a sopportare il peso dell’età e legato a un destino a cui nessuno può sfuggire.Tutto ciò, però, non è una scelta stilistica di un singolo scultore o di una scuola di scultura, ma è la realizzazione dell’ideologia dominante nel Paese circa la natura della regalità. È ciò che pensa il sovrano di se stesso e della sua funzione, ma è ugualmente il frutto del pensiero degli intellettuali della corte nel quale agevolmente si riconosce l’intero Egitto, il quale comprende pienamente il significato della regalità divina quando volge lo sguardo verso le piramidi, e può cogliere in maniera concreta nella loro mole immensa il significato della sepoltura del re-dio. L’intera società egiziana si riconosce in tale raffigurazione del sovrano. Una delle caratteristiche fonda64 a r c h e o

Qui sotto e nella pagina accanto, in alto: riproduzione di scene dipinte in vari monumenti civili che mostrano la lavorazione della statua monumentale di un sovrano in trono e di altre sculture, da Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Ippolito Rosellini. Nelle immagini in questa pagina, gli artigiani, in bilico sui ponteggi che incastellano le opere, rifiniscono la superficie del corpo, eseguono i particolari del volto e infine levigano e stendono il colore.

In basso: uno dei magnifici vasi in pietra, in questo caso alabastro, facenti parte del corredo funerario del faraone Djoser (2630-2611 a.C.). Il Cairo, Mohamed Mahmoud Khalil Museum.

mentali della scultura e, potremmo dire, dell’arte egiziana sta nel fatto che gli artisti non firmavano le loro opere: esse ci sono giunte tutte anonime, e non possiamo mai dire quale artista le abbia ideate, né chi, in concreto, le abbia tradotte nella pietra.

maestri senza nome Esistevano gli atelier di scultura, e alcuni di essi sono stati trovati con opere lasciate in diversi stati di lavorazione, ma chi fossero coloro che vi lavoravano ci è del tutto ignoto, come ci è preclusa la possibilità di riconoscere le diverse mani e le idee che animavano gli artisti. Perciò non potremo mai parlare di un «Maestro di Chefren», in quanto non è mai esistito, almeno non nell’accezione attuale di questa espressione. Dietro questo capolavoro vi è senza dubbio il pensiero di un grande artista, di un genio, che ne ha proposto la realizzazione al sovrano (tutto era sottoposto al suo vaglio), e che lo ha realizzato


In basso: rilievo dipinto raffigurante un atelier di scultori nella mastaba di Ni Ankh-Khnum e Khnumhotep a Saqqara.

nell’atelier di scultura regale di Menfi, ma non sapremo mai chi fosse. Nell’antico Egitto l’opera d’arte è anonima perché rispecchia le idee di una società che vi si identifica totalmente; in un certo senso si potrebbe parlare di opere «collettive», nelle quali mai si riconoscono la personalità dell’artista e dell’individuo che le hanno materialmente create. È sempre stato cosí, per millenni: un’eccezione, se pure, si può trovare durante il regno di Akhenaton.Tuttavia, anche in quel periodo, per molti aspetti atipico, il raccordo con la corte e il sovrano non venne meno, ma abbiamo almeno un paio di nomi di artisti collegabili con le loro opere. Il celebre busto della regina Nefertiti, oggi al Museo di Berlino, è certamente opera dello scultore Thutmosis, ma ciò non significa che l’opera possa dirsi firmata! Ma le opere d’arte in Egitto sono collettive anche in termini piú concreti. Nella decorazione delle tombe ci sono scene che raffigurano atelier in cui gli artisti sono colti in attività: squadre di uomini che lavo-

to del maturare di un’esperienza che aveva alle proprie spalle una capacità di lavorare la pietra (dal «facile» e docile calcare alla diorite appunto) acquisita nel corso dei secoli lungo la Valle del Nilo. Né si deve dimenticare che anche gli umili scalpellini che lavoravano oggetti di lusso – come i vasi in pietra (ne sono stati trovati tantissimi, magnifici per la loro perfezione, nel corredo funerario di re Djoser nella piramide a gradoni di Saqqara) – hanno contribuito con il loro oscuro lavoro a raggiungere il dominio della materia ostentato dai rano a piú mani su singole statue, sí grandi maestri e che tanto suscita la che ciascuna di esse non è, e non nostra ammirazione. può essere, opera esclusiva di nessuno di loro, neppure dal punto di un confronto vista materiale. Il lavoro degli sculilluminante tori somiglia dunque molto a quel- Si aggiunga anche che lo studio lo di abili artigiani che lavorano delle proporzioni del corpo umano insieme per preparare opere che il come qui è stato raffigurato risponloro committente ha ordinato e di de a precise esigenze ideologiche: cui si degnerà di compiacersi a la- sotto questo punto di vista gli sculvoro ultimato. tori della IV dinastia, a partire dal Ciò vuole anche dire che il loro regno di Chefren, hanno profondaruolo sociale non era cosí elevato mente innovato rispetto al periodo come potremmo pensare, anche se precedente. La struttura formale nomi e monumenti (quali le tom- della statua del sovrano non presenbe) costruiti per loro ce ne fanno ta in apparenza alcuna novità rispetconoscere piú d’uno; ma di nessuno to a quella di Djoser, che si trova possiamo scrivere una vera biogra- anch’essa al Museo del Cairo (vedi fia, né possiamo conoscere la perso- foto a p. 67). nalità e il rapporto ideologico con Entrambi i sovrani sono seduti in le sculture che ha creato. Possiamo trono, hanno il capo coperto dal però pensare che gli scultori capaci nemes e guardano di fronte a sé: ma fossero ricercati dai sovrani negli mentre nella statua di Djoser l’atatelier attivi presso le grandi zone tenzione degli artisti si concentra monumentali. sul volto e la fisionomia del re in Osservando la statua di Chefren, una franca adesione alla realtà (che colpisce la perfezione tecnica con la si può definire «sentimentale») in quale è stata tratta dalla pietra, la quella di Chefren (e dovremmo diorite, che è particolarmente diffi- dire, anche dei suoi successori imcile da scolpire.Tale maestria è frut- mediati) tale atteggiamento è del a r c h e o 65


storia • chefren

analisi di un capolavoro La statua in diorite del faraone Chefren assomma in sé numerosi significati e messaggi. Al di là della squisita fattura, ben testimoniata dalla lavorazione della pietra scelta come materia prima, la diorite, essa è una sorta di «manifesto» dell’ideologia regale egiziana.

Horus

Copricapo

Posato sullo schienale del trono, il falco Horus, dio del cielo e della regalità, cinge la testa di Chefren con le sue ali, a significare che il re è il suo rappresentante sulla terra e che il dio si manifesta nella persona del faraone, l’Horus vivente.

Chefren indossa il nemes, tipico copricapo regale in stoffa, che avvolgeva la testa aprendosi lateralmente in due ampie ali per poi ricadere sul petto e sulle spalle. Simboleggiava la natura divina del faraone, venuto in terra a proteggere il suo popolo e la sua terra.

La postura Il faraone siede in posa ieratica: nella mano destra tiene il proprio sigillo, mentre la sinistra è distesa e poggiata sul ginocchio; guarda davanti a sé, con un’espressione che sembra perdersi nel vuoto. Uno schema che ricorre anche in altri ritratti regali.

Loto e papiro Sui due lati del trono compare l’immagine araldica del sematawy, «l’unione delle due terre»: una pianta di papiro, simbolo del Basso Egitto, e lo stelo di un loto, simbolo dell’Alto Egitto, si intrecciano intorno al geroglifico della trachea con i polmoni, il segno sema, che significa appunto «unione».

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tutto superato, in nome di una concezione della regalità trasportata interamente nel mondo degli dèi, uguale solo a se stessa, imperturbabile e al di sopra delle vicende umane. Mentre Djoser è ancora un uomo, Chefren non lo è piú. Sia che riguardi i sovrani, sia che ritragga personaggi privati ma comunque legati alla corte, da Chefren in poi l’arte diventa elitaria. La distanza con la III dinastia è piccola temporalmente, ma la nuova concezione dell’arte gioca tutte le sue carte sulla capacità di assumere in sé la realtà, per trascenderla in forme di arduo intellettualismo. Rispetto a quanto accadeva prima, si afferma un nuovo approccio intellettuale di fronte ai medesimi dati di partenza (sovrano in trono/regalità, per esempio). La figura umana viene racchiusa entro schemi che sono definibili in termini volumetrici, rigidamente predeterminati.

oltre la realtà e... Può sembrare, e in un certo senso lo è, un’arte astratta: e certo alle sue spalle c’è un’opera di superamento della realtà sensibile in nome di valori che si sentono piú veri e piú profondi della semplice rappresentazione della natura. Quest’arte, cosí raziocinante, non è affatto fredda come si potrebbe pensare: al contrario, ci appare animata da un entusiasmo per la sua capacità di tradurre sulla pietra le idee nelle quali crede fermamente, cosí sincero da riuscire a esprimere i suoi valori anche a distanza di quasi cinque millenni. Quali siano tali valori è presto detto: innanzitutto, la fede nella natura divina del soStatua in calcare dipinto raffigurante il faraone Djoser (2630-2611 a.C.), da Saqqara. Il Cairo, Museo Egizio.

vrano, la convinzione che l’Egitto sia governato da un dio disceso dal cielo per guidare un popolo eletto. Poi c’è la fiducia nell’organizzazione rigidamente gerarchica della società e nel trionfo dell’ordine e della razionalità sulle forze oscure che possono in ogni istante insidiare l’unità del Paese e la sua stessa

esistenza, fino a ricacciarlo nelle condizioni in cui si trovava nella piú remota preistoria. Questa straordinaria temperie artistica trova conferma nella piú singolare e insieme straordinaria caratteristica di questa scultura. Come già detto, nella parte posteriore della testa di Chefren è raffigurato un falco che, con le ali spiegate, avvolge la testa del faraone. Di per sé ciò non rappresenta niente di eccezionale: ma il falco, che non è altro che il dio Horus, si scorge solo nella visione laterale della statua. Dunque per l’artista antico il falco non si doveva vedere.

...oltre l’apparenza Sabatino Moscati ha dato un’interpretazione molto bella di questo fatto apparentemente inesplicabile. Leggiamo le sue parole: «L’immagine (…) corrisponde solo in parte all’apparenza. Il falco non entra in questa, rappresenta il dio Horus che protegge il sovrano. Né l’artista né i fedeli lo vedevano fisicamente; ma lo vedevano intellettualmente, sapevano che c’era e che costituiva insieme al faraone, al di là dell’apparenza, la realtà autentica». Questa interpretazione appare tanto piú vera se si pensa che il sovrano, dal punto di vista teologico, era il dio Horus medesimo, con il quale si identificava. «Horus vivente» era l’espressione con la quale veniva designato all’inizio della sua titolatura, «Horus nel suo palazzo» era un’altra espressione corrente con la quale se ne indicava la presenza nel palazzo regale, quasi che il volto umano che i sudditi vedevano riprodotto nella statua fosse solo apparenza rispetto a una realtà piú profonda e piú vera (anzi, l’unica vera) costituita dalla natura divina (il falco) che si celava dietro di esso: inconoscibile per mezzo dei sensi degli esseri umani, ma non per questo meno vera e meno presente. Quello che vediamo sembra un uomo, ma è un dio, celato ai nostri sensi imperfetti, che per rendersi conoscibile deve assumere sembianze umane. a r c h e o 67


speciale • colonna traiana

1900 anni fa, nel foro realizzato grazie al ricchissimo bottino delle campagne daciche, traiano suggellava il suo programma autocelebrativo con l’innalzamento di uno straordinario racconto di marmo. un’opera che, ancora oggi, spicca tra i massimi capolavori dell’arte romana

Roma, Foro di Traiano. Una delle scene del fregio elicoidale della Colonna Traiana, innalzata esattamente 1900 anni fa, il 12 maggio del 113 d.C. Il personaggio seduto al centro è l’imperatore stesso, accanto al quale (a destra per chi guarda) siede il piú importante dei suoi luogotenenti, Lucio Licinio Sura.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


Una colonna per Roma e per l’Impero

testi di Lucrezia Ungaro, Marina Milella, Saverio Giulio Malatesta e Claudio Capotondi


dalla spagna M alla dacia capta Originario di Italica, Traiano si distinse, fin da subito, come valente uomo d’azione. Le campagne contro le genti del re Decebalo ne esaltarono il valore e furono un viatico formidabile alla sua consacrazione di Lucrezia Ungaro

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arco Ulpio Traiano è il primo imperatore «adottato» (dal predecessore Nerva) e il primo proveniente dalla Hispania, la regione baluardo dell’impero, dalla potente provincia senatoria della Baetica, dalla ricca città di Italica (presso l’attuale Siviglia).Traiano è l’imperatore che non risiede a Roma volentieri: condottiero in armi al fianco dei suoi soldati, vi giunge due anni dopo la nomina, pianifica opere pubbliche che seguono il solco dell’imperatore Domiziano, ma razionalizzando servizi pubblici e sviluppo urbanistico della capitale. Poi «fugge» di nuovo, questa volta sul fronte dacico, torna vittorioso da due campagne, si ferma giusto il tempo di portare a compimento un’opera ciclopica in pochi anni: il piú grande Foro della capitale. Poi... ancora al fronte, questa volta partico, da cui non tornerà piú.


Da un uomo cosí non ti aspetti una Colonna cosí! «Scopo della colonna era di essere innalzati sopra ogni altro mortale» dice Plinio il Vecchio già prima del 79 d.C. riferendosi alle colonne onorarie: e questo doveva essere l’effetto scenografico del piú celebre esemplare scolpito dell’arte romana. Una spirale di 23 avvolgimenti (coclide da cochlis, chiocciola, in forma di guscio di chiocciola) che sembrano perdersi verso l’infinito, incastonata in un angusto ma raffinatissimo cortile tra le biblioteche, la basilica e l’ingresso monumentale al Foro di Traiano, e, sul suo culmine, la statua dell’imperatore. Traiano affida al programma figurativo del Foro il messaggio propagandistico della sua strepitosa vittoria militare (cataste d’armi sulla facciata della Basilica Ulpia, cataste d’armi sull’enorme basamento della sua statua equestre, file di statue e altorilievi di Daci fieri ma ormai sottomessi, in marmi policromi, su tutti gli edifici che si affacciano sulla piazza, scudi tramutati in imagines clipeatae per ospitare ritratti di personaggi illustri): tutto

Nella pagina accanto: una delle scene del fregio, raffigurante un dace che s’inginocchia ai piedi di Traiano, invocandone la clemenza. In basso: veduta della Colonna Traiana. Sulla sua sommità, dal 1580, svetta una statua di san Pietro, in sostituzione di quella dell’imperatore.

già parla della guerra e della pace raggiunta: perché allora la Colonna col suo fregio? Per narrare con ritmo incalzante, appassionato, ma al tempo stesso rigorosamente studiato «a tavolino», che cosa furono davvero due campagne belliche in territorio ostile, contrastando un popolo molto evoluto dal punto di vista militare, socialmente strutturato, capitanato da un re capace e stratega, Decebalo.

un fregio come un libro Il fusto scolpito doveva stupire (e tuttora stupisce, a 1900 anni dalla sua inaugurazione, il 12 maggio del 113 d.C.), per l’eccezionalità della sua costruzione: enormi blocchi di marmo di Carrara, da far combaciare perfettamente l’uno sull’altro, e sul quale, dopo la posa in opera, si scolpisce idealmente un volumen che nasce dalla base della colonna con toro avvolto da una corona di quercia e termina sotto l’echino del capitello. La colonna è piantata su un dado quadrato decorato sulle quattro facce da cataste di armi dei vinti ormai deposte; su quella rivolta a sud e quindi verso la Basilica, si apre la porta di accesso a quella che divenne la camera funeraria con le urne per le ceneri di Traiano e Plotina, sua moglie. La massima espressione del rilievo storico romano racconta per immagini, simili ai fotogrammi di un film, l’epopea dell’esercito romano guidato dal suo generale,Traiano, per la conquista della lontana Dacia. Ma la narrazione è precisa e dettagliata negli aspetti topografici e geografici, nella rappresentazione dei cruenti scontri, e, soprattutto, delle attivi-

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speciale • colonna traiana

tà civili che la «macchina» dell’esercito romano (i legionari fabri) porta avanti: disboscare per aprire strade, impiantare accampamenti, costruire ponti, tra cui quello celeberrimo sul Danubio, pubblicizzato con apposite emissioni monetali, ponte fisico e politico tra Occidente e Oriente. Al ponte è certamente legato uno dei pochi nomi di architetti-ingegneri dell’antichità, Apollodoro di Damasco. In definitiva, tutto quanto avremmo voluto leggere nel De bello Dacico, il diario delle campagne scritto da Traiano e andato disperso, lo possiamo «leggere» nel volumen svolto attorno al fusto della Colonna. Il generale Traiano compare per 59 volte, sempre con la medesima statura dei suoi luogotenenti e soldati, uomo tra uomini. Il rilievo è complesso, fino a cinque piani di lettura;

era probabilmente dipinto e sicuramente era A destra: completato dalle armi in metallo inserite tra particolare le mani delle figure in primo piano. di un’incisione

le pitture per i trionfi I precedenti di un cosí complesso impianto narrativo si trovano nelle pitture su grandi pannelli dipinti anche sovrapposti fino a quattro registri, che venivano portati in «processione» durante i trionfi: abbiamo la fortuna di avere la descrizione di quelli realizzati per il trionfo sui Giudei nel 79 d.C. Ma la Colonna è piú di questa dettagliata descrizione di eventi con scene di genere ricorrenti. Ci sono, infatti, anche i luoghi descritti con altrettanta precisione: altra tradizione quella degli itineraria picta, ovvero delle mappe, delle cartografie militari, il ruolino di marcia che i

del 1569 raffigurante la Colonna Traiana. Si può osservare come il basamento risultasse quasi del tutto interrato, per effetto del rialzamento del piano di campagna.

L’iscrizione dedicatoria Senatus populusque romanus / imp caesari divi nervae f nervae / Traiano aug Germ dacico pontif / Maximo trib pot XVII imp VI Cos VI P P / Ad declarandum quantae altitudinis / mons el locus tan(tis oper)ibus sit egestus

Il Senato e il Popolo Romano (dedicano questa colonna) / all’imperatore Cesare Nerva Traiano, figlio del divo Nerva, / Augusto, Germanico, Dacico, Pontefice / Massimo, rivestito di potere tribunizio per la XVII volta, acclamato imperatore per la VI volta, console per la VI volta, Padre della Patria, / per mostrare [dichiarare] di quanta altezza / fosse il monte e il luogo che fu sgombrato per opere cosí grandi

L’iscrizione ricorda tutta la titolatura acquisita da Traiano e, soprattutto, perché egli voglia elevarsi verso gli dèi attraverso una colonna, la cui altezza deve ricordare l’opera di sbancamento di un rilievo per far posto al Foro piú grandioso nella decorazione e ampio nell’estensione. In realtà, oggi sappiamo che si deve essere trattato di un declivio dal Quirinale (dove ancora oggi sorgono i cosiddetti Mercati di Traiano) verso il Campidoglio, ma nell’immaginario collettivo dei contemporanei e per lunghi secoli resta l’opera ciclopica del taglio della collina. Da uno storico molto ben informato dell’inizio del III secolo d.C., Dione Cassio, sappiamo anche che uno scopo non dichiarato della costruzione della Colonna è quello funerario: infatti nel basamento verranno conservate le urne della coppia imperiale, Traiano e la moglie Plotina. Il messaggio di Traiano è quindi onnicomprensivo: voglio essere ricordato e voglio elevarmi agli dèi per il mio valore (la virtus), per quello delle mie imprese con il mio esercito, la sapienza (di sovrano perfetto e sensibile alla cultura), sepolto nella Colonna che ho voluto a testimonianza dell’opera ingegneristica affrontata per fare spazio al Foro.

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La Colonna Traiana... resta sempre in piedi La Colonna è il solo «segno» permanente nel paesaggio urbano in continua trasformazione. Al basamento, infatti, si addossa nell’XI secolo l’oratorio di S. Niccolò, che deturpa la celebre iscrizione, tanto che il governo cittadino, nel 1162, emette un decreto per la sua protezione. Seguono decenni di abbandono e isolamento, accentuati dal progressivo rialzamento del piano di calpestio intorno al monumento. Nel 1508 Raffaello, giunto a Roma, viene incaricato da Leone X della custodia e della registrazione dei marmi antichi. Cosí la Colonna diviene finalmente oggetto di attenzione e cura fino a che, nel 1535, papa Paolo III provvede alla sua reintegrazione nel contesto urbano. L’effettiva sistemazione si deve a Sisto V (1585-1590), che colloca sulla sommità del monumento la statua di san Pietro: la Colonna entra cosí a far parte del sistema urbano sistino e da monumento profano diviene sacro. Gli interventi del governatorato francese (1812-1813) comportano l’abbattimento di edifici sacri e civili, per alimentare scavi archeologici nell’area della Basilica Ulpia. Ma è con papa Pio VII che si attua non il progetto di Giuseppe Valadier, bensí quello di Pietro Bianchi; la percezione della Colonna cambia, inserita com’è nello scavo della Basilica Ulpia, concepito modernamente come un museo all’aperto. Ma da area in osmosi con la città, soprattutto per motivi di ordine pubblico e decoro, diviene area confinata e chiusa. Nel secolo scorso i grandi sterri e scavi del ventennio fascista portano alla «creazione» dei Fori Imperiali e la Colonna è inserita nella nuova scenografia «imperiale». Dopo decenni di cristallizzazione e di aumento dell’inquinamento ambientale, solo negli anni Ottanta il Ministero per i Beni Culturali-Soprintendenza Archeologica di Roma avvia restauri che salvano dallo sfarinamento del marmo il fregio della Colonna. Nel 2011 si ha la nuova sistemazione dovuta alla Sovrintendenza Capitolina, con il ritorno al progetto di Valadier, che disegna alle spalle della Colonna un’area di rispetto a forma di emiciclo, una scelta dettata ancora una volta da esigenze non solo urbanistiche, ma anche di protezione del monumento.

soldati portavano con sé e che era preparato a tavolino dai capi. Si sommano cosí strumenti di trasmissione dell’informazione ben noti e in uso al pubblico dell’epoca che a noi sfuggono completamente. Già, perché del pubblico di Traiano dobbiamo parlare a questo punto: a lui è destinata una summa di messaggi ben comprensibili, anche perché supportati dalle costanti informazioni sull’andamento delle campagne belliche. Si combatte molto lontano da Roma, ma per Roma, e la città partecipa agli eventi, e sulla Colonna, alla fine della guerra, «legge» la cronistoria, srotolando il volumen attorcigliato sul fusto, quasi come un drappeggio. Qui sopra, sulle due pagine: tre immagini del basamento della Colonna, sul quale è apposta l’iscrizione dedicatoria e al cui interno furono deposte le ceneri di Traiano e di Plotina.

I protagonisti del racconto Decebalo e Traiano sono i due protagonisti. Il primo porta il tipico copricapo dei nobili, il pileus, e compare nella prima scena importante di battaglia, quella di Tapae (località presso le Porte di Ferro, a ovest di Sarmizegetusa, capitale dei Daci, n.d.r.): osserva questa prima sconfitta del suo popolo, che prelude alla tragica fine della guerra e del re. Infatti, al termine della seconda campagna, al colmo della Colonna, Decebalo si suicida, sgozzandosi con una lama ricurva, scena in

corrispondenza verticale con la Vittoria che segna il passaggio tra le due campagne. Traiano tra i suoi si presenta in scene ufficiali di adlocutio ai soldati, di sacrificio agli dèi, ma anche di pacato confronto con il suo luogotenente Licinio Sura o di controllo dei lavori in corso sul territorio. I legionari romani (contraddistinti sempre dalla corazza segmentata) e il popolo dacico, nelle categorie dei nobili pileati, col caratteristico copricapo a punta, e dei chiomati dai lunghi capelli e con mantelli frangiati: protagonisti anch’essi in scene di guerra dove le immagini cruente non vengono risparmiate, e in quelle della fuga verso le montagne, con l’abbandono e lo smantellamento delle città daciche, il sacrificio delle donne che difendono i figli, ma seguono i loro uomini, donando la loro vita. La scena che chiude la prima campagna già prelude alla fine della guerra: la sottomissione dei Daci caratterizzati dalle linee oblique e la massa confusa dei loro corpi inginocchiati con gli scudi a terra e le braccia protese a invocare la clemenza imperiale; le linee verticali e la calma solenne del gruppo disposto intorno a Traiano con ufficiali e insegne, che assistono impassibili. a r c h e o 73


speciale • colonna traiana

il principe «perfetto» di Marina Milella

Traiano è passato alla storia come l’optimus princeps, il migliore dei principi, per le sue qualità di comandante militare e di amministratore. Alla morte di Domiziano, nel 96 d.C., era uno dei generali piú brillanti dell’esercito romano. La sua popolarità presso le legioni contribuí alla decisione dell’imperatore Nerva, anziano senatore, di sceglierlo come proprio successore, adottandolo come figlio nel 97. Alla morte di Nerva, nel 98, la notizia lo raggiunse a Colonia, dove era governatore della provincia di frontiera della Germania, impegnato sul confine del Reno. Raggiunse Roma solo dopo due anni, alla conclusione delle operazioni militari che aveva avviato. Si considerava un servitore dello Stato, secondo la tradizione romana, e non si ritenne mai al di sopra della legge. In opposizione al comportamento «tirannico» di Domiziano e proseguendo la politica moderata di Nerva, rispettò le prerogative del Senato e abolí alcuni rituali di origine orientale che introducevano un’aura di sacralità per la figura imperiale. La massima estensione dell’impero Da buon militare considerava suo primo dovere assicurare la sicurezza dei confini dell’impero e, sotto il suo governo, questo si espanse fino a raggiungere la sua massima estensione. Sotto Domiziano, tra l’85 e l’89, cinque legioni avevano invaso la Dacia, la regione che corrisponde grosso modo all’attuale Romania, a seguito di uno sconfinamento dei Daci, che avevano devastato la confinante provincia romana della Mesia. Domiziano aveva posto a capo dell’esercito romano Cornelio Fusco, il quale, fidando nella superiorità tecnica del proprio esercito, era penetrato nel territorio nemico senza precauzioni. Le legioni romane furono accerchiate dai nemici, al comando del re dace Decebalo, e Fusco rimase ucciso in battaglia. Solo a costo di gravissime perdite l’esercito romano riuscí a mettersi in salvo al di qua del Danubio e nella pace successiva i Romani furono costretti a riconoscere un pagamento ai Daci, perché non invadessero nuovamente il territorio romano. Dopo il suo rientro a Roma, Traiano passò dunque quasi immediatamente ai preparativi per una spedizione contro i Daci e, il 25 marzo del 101, diede il via alle operazioni. Non commise l’errore di penetrare in territorio ostile senza avere sicure retrovie e salde posizioni di retroguardia, garantite dalla costruzione di una serie d’infrastrutture. La Colonna Traiana mostra come probabilmente l’esercito romano fosse avanzato in due colonne distinte, per evitare gli accerchiamenti. 74 a r c h e o

Particolare di un busto marmoreo di Traiano, imperatore dal 98 al 117 d.C. Sotto di lui, l’impero romano raggiunse la sua massima estensione.


La Colonna che porta il suo nome ne esalta le doti di condottiero, ma, come apprendiamo dalle fonti, Traiano fu anche un illuminato uomo di Stato, fautore di provvedimenti di rilevante valore sociale Il primo vero scontro avvenne nei pressi di Tapae, e si concluse con una vittoria non risolutiva dei Romani. L’anno successivo, alla ripresa delle ostilità dopo la pausa invernale, Decebalo passò al contrattacco, utilizzando la medesima tattica adoperata con Domiziano: l’impresa questa volta non gli riuscí, grazie alla resistenza del governatore della Mesia, Manio Liberio Massimo. Traiano, corso in suo aiuto, sconfisse duramente i Daci in una località presso Adamclisi: a memoria della vittoria, fece erigere il celebre monumentale tropaeum, tuttora visibile. Dopo aver espugnato diversi avamposti, la strada per la capitale della Dacia, Sarmizegetusa, era ormai aperta: Decebalo preferí allora capitolare, accettando pesanti condizioni. La seconda campagna di Dacia Dopo nemmeno tre anni, la guerra scoppiò nuovamente: nel 105 Decebalo attaccò gli Iazigi, alleati dei Romani, e Traiano decise per una nuova campagna militare. La strenua resistenza dei Daci non serví ad arrestare l’avanzata dell’imperatore, accompagnata dalla costruzione di forti, ponti e strade. Traiano arrivò alle porte di Sarmizegetusa, che espugnò, e Decebalo cercò scampo fuggendo nei Carpazi, ma, raggiunto dalle truppe romane, preferí suicidarsi: è il momento piú alto della rappresentazione del fregio della Colonna Traiana, l’evento che pone termine definitivamente alla guerra. La monetazione del 106, infatti, portò incisa la dicitura Dacia Capta (Dacia conquistata). Al 106 risale anche un altro evento: alla morte del re Rabel II, il governatore della Siria Cornelio Palma ricevette dall’imperatore l’ordine di annettere il regno dei Nabatei, uno Stato vassallo, confinante con la provincia di Siria: la decisione, che portò all’istituzione della provincia dell’Arabia Petrea, fu dovuta all’importanza tattica dei nuovi territori quale base per una campagna militare contro i Parti a cui Traiano aveva cominciato a pensare. Nel 113 i Parti, storici nemici dei Romani, posero sul trono dell’Armenia un re loro fedele. Traiano, che considerava il regno armeno un protettorato romano, interpretò l’atto come una provocazione: depose il re e annetté l’Armenia all’impero. Quindi si diresse verso sud, contro la Partia, arrivando a conquistarne la capitale, Ctesifonte, nel 116, e giungendo fino al Golfo Persico. La vastità delle nuove conquiste, tuttavia, non consentí il permanere di una stabile presenza romana in tutte le terre conquistate. Traiano preferí nominare in Partia un re vassallo, Partamaspate, e si dedicò a reprimere sacche di rivolte e resistenza. Tuttavia, mentre era in Cilicia pianificando la strategia di attacco per una

conquista definitiva, si ammalò e morí, dopo alcuni mesi, l’8 agosto del 117 d.C. Gli interventi di Traiano, tuttavia, non furono solo di carattere militare: si preoccupò del miglioramento delle infrastrutture e numerosi provvedimenti furono dedicati alle vie di comunicazione e ai porti, per favorire gli scambi commerciali. Portò a conclusione i lavori del bacino portuale ottagonale di Portus, dotando cosí finalmente Roma di un approdo sicuro, dopo il porto voluto da Claudio, ormai insabbiato; fece realizzare un canale per permettere il deflusso delle piene del Tevere e costruí un nuovo porto a Centum Cellae (Civitavecchia). Ampliò e mise in sicurezza il porto di Ancona, erigendovi anche un arco di trionfo a celebrazione dell’impresa. Per raggiungere piú rapidamente il porto di Brindisi, creò una variante della via Appia, a partire da Benevento, dove un altro arco ne rappresenta il monumentale portale di accesso, e a Terracina fece tagliare una collina (Pisco Montano) per abbreviare di un miglio il percorso della strada. Ancora fece scavare un canale in Egitto per collegare il Nilo al Mar Rosso ed evitare la circumnavigazione dell’Africa. Interventi a favore dei cittadini L’enorme bottino ricavato dalla conquista della Dacia gli permise la realizzazione anche di grandiose opere pubbliche a Roma: oltre al Foro e alla Colonna di Traiano, con i cosiddetti «Mercati», costruí terme pubbliche sul Colle Oppio, di cui faceva parte una colossale cisterna, nota oggi come le «Sette Sale». Un nuovo acquedotto, l’Acqua Traiana, realizzato nel 109 dall’ingegnere Sesto Giulio Frontino, riforní i quartieri del Gianicolo e di Trastevere a Roma. Si preoccupò inoltre delle condizioni dei piccoli contadini, minacciati dalla diffusione del latifondo e, nel 103, introdusse l’institutio alimentaria, facendone uno dei primi interventi di «stato sociale» nella storia: attingendo dal proprio patrimonio personale, forniva ai contadini prestiti ipotecari (obligatio praediorum) a basso interesse, le cui rendite erano utilizzate per l’assistenza ai fanciulli poveri e agli orfani. Impose ai senatori di investire in Italia almeno un terzo dei loro capitali e avviò la bonifica delle paludi pontine. Diminuí la pressione fiscale, condonando le tasse arretrate ed eliminò alcune tassazioni provinciali. Le sue qualità militari e amministrative gli valsero la stima dei posteri: nel tardo impero, il Senato salutava i nuovi imperatori al loro insediamento con l’augurio «Felicior Augusti, melior Traiani», ovvero «che tu possa essere piú fortunato di Augusto e migliore di Traiano». a r c h e o 75


speciale • colonna traiana

cronache di guerra Il fregio che avvolge la Colonna Traiana offre un resoconto vivido e dettagliato delle vicende di cui la Dacia fu teatro. Storie di grandi personaggi e anonimi soldati, quasi come in un reportage dal fronte di Lucrezia Ungaro

D

adlocutio

Traiano, in alto, al centro, si rivolge all’esercito, una scena che si ripete piú volte nel fregio. Già valente generale, l’imperatore fu piú volte acclamato dalle truppe, e, dopo la vittoriosa conclusione della prima campagna in Dacia, ottenne l’appellativo di Dacicus.

uemilacinquecento figure animano le scene che illustrano la prima e la seconda campagna di Dacia, il cui «racconto» è intervallato dall’immagine di una Vittoria tra trofei che scrive le Res Gestae, le vittorie di Traiano e del suo esercito, sul suo scudo. L’altezza del fregio cresce man mano che esso sale, in maniera da correggere la deformazione prospettica verso l’alto. A succedersi sono le concitate scene centrali delle battaglie, accompagnate però da quelle di marcia e trasferimenti di truppe (12 episodi) e da quelle di costruzione degli accampamenti e delle infrastrutture (ben 17, anche di notevole complessità). Dominano gli avvenimenti significativi dal punto di vista politico, come il consilium, il consiglio di guerra, nel quale, a fianco di Traiano, compare il suo luogotenente piú importante, Lucio Licinio Sura, costantemente presente (a volte sembra quasi di percepire il colloquio tra i due); l’adlocutio, quando Traiano si rivolge all’eser76 a r c h e o

cito; la concessione degli ornamenta militaria, per compensare i soldati delle vittorie; le immagini di legatio (ambascerie, soprattutto dei Daci, che cercano in alcuni momenti il compromesso o supplicano clemenza); di lustratio (sacrifici augurali), nei quali l’imperatore compare in abiti sacerdotali col capo velato; di proelium (battaglie o guerriglia), in cui Traiano figura a volte direttamente impegnato nella conduzione dell’attacco; di obsidio, l’assedio alle complesse fortificazioni nemiche.

la prima battaglia All’inizio della prima campagna l’esercito è già in territorio nemico e costruisce subito fortificazioni e disbosca per aprirsi strade nelle foreste della Dacia e preparare la prima grande battaglia a Tapae: qui compare per la prima volta Decebalo, mentre osserva la prima dolorosa sconfitta. Ma la strada verso la vittoria è ancora lunga e si susseguono scene di ambascerie presso


lustratio

Nella scena in basso, Traiano è al centro, con il capo velato, intento ad assistere al sacrificio, la lustratio, di inaugurazione dell’accampamento, la cui costruzione è descritta nella scena soprastante.

il ponte di barche L’attraversamento del Danubio

Con i Daci si ingaggia un corpo a Traiano, a immagini di attacco ai a mezzo di un ponte galleggiante corpo, fino alla loro resa con donvillaggi con l’uccisione degli uo- è una delle scene piú celebri ne, vecchi e bambini. Prosegue la mini e deportazione di donne e del fregio e testimonia delle battaglia campale di Mesia, con bambini. Raffigurazioni tutt’altro capacità ingegneristiche concitate scene di scontri disposti che di genere: i rilievi documenta- e tecniche dei Romani, in grado su piú registri: mancano le armi no la realtà di tutte le guerre di di elaborare soluzioni adeguate che dovevano essere aggiunte al conquista, con la progressiva occu- a ogni tipo di ostacolo naturale. fregio scolpito. pazione del territorio. Cumuli di scudi e cadaveri richiaL’esercito dacico tenta una conmano la catasta di armi rappresentata sulle troffensiva in Mesia Inferiore ma finisce facce del basamento della Colonna, mentre travolto nel Danubio e, ciò malgrado, tenta Traiano rivolge parole di stima e approvaziol’attacco ai Romani grazie anche alla prene al suo esercito e distribuisce ricompense. senza degli alleati Sarmati (e Roxolani?) con le caratteristiche armature squamate. Traiano, intanto, dal suo quartier generale il ponte sul danubio in Mesia Superiore (Viminacium?) si imbarMa gli impegni militari non sono finiti: si ca sul Danubio (in abiti civili), per portare ricomincia con un nuovo attraversamento sostegno alla provincia invasa: è interessandel Danubio, da una città fluviale, su un ponte «vedere» come tutto venga caricato sulle te di barche che consente ai legionari di navi, compresi i cavalli. La flotta arriva in avanzare su un percorso appositamente fortiMesia, in una località fortificata, e l’impeficato: gli uomini davanti, e i carri, con tutto ratore si mette alla testa delle truppe contro l’occorrente, a seguire. In una scena molto la cavalleria sarmata, appesantita dall’armaricca di dettagli, Traiano con i suoi incontra tura squamata che copre uomini e cavalli. le truppe lasciate di stanza in Dacia in mona r c h e o 77


speciale • colonna traiana

lontano, i Daci, che si sono dati alla fuga e si tagna e una composizione successiva mostra nascondono, li osservano, mentre davanti in modo concitato e dinamico l’organizzaall’accampamento romano in costruzione zione degli spazi e delle strutture da parte dei Traiano riceve uno di loro che si prostra legionari. Si presentano alcuni Daci a trattare: supplice: è un nobile pileatus, con il copricasono «chiomati», senza copricapo, e con manpo e il mantello. telli frangiati, come quelli che vediamo in alcune statue di Daci del repertorio scultoreo del Foro: non ottengono nulla. cavalieri africani In una bella scena, invece, Traiano col capo Le scene ora si sviluppano al loro interno su velato (come una delle statue piú grandi del due registri per raccontare quel che accade vero sempre dal Foro) procede col rito del dentro e fuori gli accampamenti, disegnando sacrificio propiziatorio e si vede la procesanche edifici rotondi non meglio identificati, sione degli animali, tra i quali il toro: un e mostrano la preparazione alla nuova battamotivo che richiama lo splendido fregio del glia, a cui prenderanno parte i cavalieri afriprimo ordine interno della Basilica, con la cani della Mauretania, al comando di Lusio raffigurazione di vittorie alate che sacrificaQuieto: sono ben caratterizzati dalla capigliano tori. In una pacifica scena di tura a trecce, dai piccoli scudi rolegionari al lavoro, colpisce la pretondi, dalle vesti corte cinte in vita senza di teste mozzate di Daci di- l’incendio Forti dell’aiuto e dall’assenza di selle e briglie. sposte davanti all’accampamento: divino di Giove, che compare a Avranno la meglio sui Daci, che per monito ai nemici. Agli ausilia- sinistra, in alto, i Romani attaccano fuggono nei boschi. Le fortificaziori è assegnato il compito di avan- un villaggio dei Daci, che cercano ni in montagna sono rese piú sicure zare, occupando il territorio, dan- scampo gettandosi nel fiume. anche da fossati e si prepara un nuodo fuoco a villaggi abbandonati; da Traiano, al centro della scena, dà vo scontro, questa volta anche con ordine ai suoi di appiccare il fuoco alle case del nemico.

i sarmati Traiano si mette alla testa delle truppe e attacca la cavalleria sarmata, appesantita dall’armatura squamata che copre uomini e cavalli e ne rallenta la fuga. Antica popolazione iranica, inizialmente stanziata nelle vaste pianure della Russia meridionale a est del Don, i Sarmati erano affini agli Sciti. Divisi in vari gruppi, i piú importanti dei quali erano i Roxolani e gli Iazigi, nel II sec. d.C. fecero parte della vasta coalizione barbarica che sconvolse per anni il confine danubiano.

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Traiano riceve l’atto di sottomissione di l’apporto di frombolieri spagnoli, di Germaquanto resta dell’esercito dacico, davanti alla ni a torso nudo e di arcieri orientali con sua guardia pretoriana che sostiene le insegne: copricapo a forma di cono. È l’immagine di tre pileati si inginocchiano davanti a lui (i una grande organizzazione militare... mulcapi nobili?), segue un gruppo in piedi, con tietnica, che sapientemente impiega diversi le mani legate dietro la schiena, e il resto de«corpi speciali» in contesti particolarmente gli uomini si prostra a terra, questi sono tutti difficili, come è appunto la Dacia. chiomati, e si dispongono su vari registri. Nel frattempo, anche i Daci come i Romani cercano di migliorare le loro difese. Si giunge cosí all’assalto alla fortificazione dacica che l’esodo dei vinti dovrebbe proteggere la capitale SarmizegetuCompare anche Decebalo, che, alto e fiero, fa sa e vediamo la linea obliqua degli scudi degli un gesto verso Traiano, ma non si umilia: cerarcieri orientali che travolgono i Daci; ne ca una pace negoziata per il suo popolo, che segue un nuovo accumulo di corpi senza segue con donne e bambini che abbandonano vita, mentre i legionari romani disposti a tele proprie case e si allontanano dalla loro terstuggine penetrano nelle difese nera, senza piú scampo, né salvezza. miche e Traiano, di lí a poco, riceve All’esodo dei Daci si contrappone il le teste mozzate dei Daci: sono sce- vestiti frangiati saluto di Traiano ai soldati che restane molto realistiche. L’ultima azio- Un’ambasceria si presenta no: torna in Italia, forte della prima ne bellica della prima campagna si a Traiano: l’episodio è inserito acclamazione dell’esercito, che gli risolve in uno scontro selvaggio e nel racconto della prima campagna vale il titolo di Dacicus. disorganico, nel quale i Daci vengo- e ne sono protagonisti alcuni Daci, La prima campagna dacica termina no sterminati o si danno alla fuga; la che compaiono al cospetto nel 102 d.C. ed è segnata da una loro fortezza viene espugnata. coppia di grandi trofei con le tipidell’imperatore «chiomati», senza copricapo, e con mantelli frangiati. La loro mossa non ha successo.

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un omaggio macabro Una delle scene

gruppo di uomini e bambini in che armi daciche e corazza sarma- piú drammatiche del fregio: mentre abiti simili a quelli dei Daci – forse tica (che ritroviamo sul basamento i soldati romani sfondano la difesa la popolazione locale dei Dalmati, e sui grandi pannelli con cataste avversaria, all’imperatore vengono che convivono con i Romani (semd’armi che dovevano essere sulla mostrate le teste mozzate dei Daci pre in abiti civili) – e, infine, comfacciata della Basilica Ulpia e sul sconfitti. Si avvicina l’epilogo della paiono donne con bambini che basamento del monumento eque- prima campagna dacica. sembrano anch’esse dalmate: tutti stre: abbiamo oltre 300 frammenti presenziano ai riti sacrificali. appartenenti a questi pannelli), ai Riprende il faticoso ma indispensabile lavoro lati della Vittoria che, come già detto, scrive di disboscamento per aprire la strada alla pesul suo scudo le gesta vittoriose di Traiano e netrazione militare. Ma ecco comparire i del suo esercito. Daci pileati (con il capo coperto dal tipico Il racconto introduce drasticamente alla seberretto a punta, il pileus) e chiomati, guidati conda campagna, senza dare conto delle ceda Decebalo, che riprende le ostilità per un lebrazioni organizzate a Roma, né dei prepanuovo attacco e va incontro all’ennesimo dirativi di riscossa di Decebalo: si riparte dal sastro: il confronto concitato tra gli eserciti in porto di Ancona riconoscibile per il Tempio scene su piú registri, rese complesse dalle linee di Venere in collina e l’arco trionfale sul modi forza del loro svolgersi, culmina nell’arrivo lo. Si attraversa l’Adriatico in mare aperto (lo provvidenziale di Traiano, questa volta in armi, dimostrano i delfini): siamo nel 105 d.C. e a capo dell’esercito romano. Seguiranno anTraiano guida le navi nell’oscurità, sostenencora l’organizzazione della battaglia finale da do una lanterna. Il luogo dello sbarco dovrebparte dei Romani con la celebre scena di sabe essere sulla costa dalmata e l’accoglienza è crificio davanti al ponte sul Danubio e lo amichevole; nella processione in città, l’attensbarco a Drobeta sulla riva dacica del fiume; zione è concentrata sull’imperatore: si proceuna nuova adlocutio dell’imperatore all’esercito de a un rito sacrificale complesso e solenne. (sempre con Licinio Sura a fianco); un nuovo consiglio di guerra; la marcia dell’esercito che cavalli al galoppo comprende ausiliari germani a torso nudo e Sinteticamente si allude a una nuova tappa arcieri dagli abiti orientali, con la scena dello con la presenza di navi: sul molo (caratterizsfalcio del grano a segnalare che siamo giunti zato da arcate continue e immerse nel mare) all’estate del 106 d.C. si prepara un nuovo sacrificio; sullo sfondo la Di qui si susseguono scene di battaglie e asstruttura di un teatro. Il viaggio adesso prosedi a fortificazioni nemiche complesse, per cede via terra a cavallo: le scene sono movile quali i Romani si servono di macchine mentate dai cavalli al galoppo e dai mantelli belliche molto articolate. Una scena vede svolazzanti. Traiano viene accolto da un 80 a r c h e o


una provincia turbolenta uerre daciche di Domiziano, concluse G da un trattato di pace con Decebalo. 99 d.C. Traiano visita le province danubiano-balcaniche. 101-102 d.C. Prima guerra dacica di Traiano. 102 d.C. Sconfitta dei Daci nella battaglia di Adamclisi. Si conclude la pace fra Roma e il regno daco. 105-106 d.C. Seconda guerra dacica di Traiano. Conquista definitiva della capitale Sarmizegetusa Regia. Suicidio di Decebalo. La Dacia diventa provincia romana. 108-110 d.C. Fondazione della capitale Ulpia Traiana Augusta Dacica. 85-89 d.C.

il suicidio Pur di non cadere nelle mani del nemico, Decebalo, che ormai è consapevole della disfatta subita, si dà la morte. L’immagine del re dei Daci, che aveva cercato di resistere strenuamente a Traiano, compare piú volte nel fregio della Colonna.

protagonista un dace che, posto sui cadaveri dei suoi compagni, ancora si scaglia contro i Romani e sembra evocare un passo del De bello Gallico di Giulio Cesare.Visto il precipitare degli avvenimenti, i Daci addirittura danno fuoco alle proprie case e si giunge cosí alle scene piú drammatiche della Colonna, quelle del suicidio collettivo dei capi daci ormai sconfitti, per mano di un nobile pileato, che offre loro il veleno in una coppa. Seguono scene di fuga dei superstiti, prostrazione davanti a Traiano di alcuni Daci e una nuova acclamazione imperatoria da parte dell’esercito.

il suicidio di decebalo La città nemica assediata ha una cinta muraria ondulata caratteristica e una grande porta monumentale; Decebalo tenta un ultimo attacco da un’altra fortificazione, ma inutilmente: ancora una volta non può far altro che assistere alla sconfitta dei suoi. Ormai i Romani organizzano addirittura il trasporto del bottino di guerra, il tesoro dei Daci, mentre Decebalo pronuncia l’ultimo discorso alle sue esigue truppe, che in parte fuggono, in parte si uccidono con le armi. Mentre un nobile si rivolge supplice a Traiano, che qui compare per l’ultima volta, i soldati romani a cavallo inseguono i fuggiaschi daci in alcune scene concitate, nel tentativo di catturare vivo Decebalo, ma il dramma culmina con il suicidio dello stesso Decebalo, mentre vengono catturati gli ultimi fuggiaschi, tra cui giovani forse

di alto rango. Una scena dalla superficie degradata mostra però il macabro rito della presentazione a Traiano della testa e della mano di Decebalo come trofei: la grandezza del nemico esalta la virtus dei Romani, come aveva già scritto la Vittoria che segna il passaggio tra la prima e la seconda campagna. L’ ultima spira mostra l’occupazione del territorio da parte dei veterani, mentre i Daci si dirigono verso le terre loro assegnate: qui si racchiude il dramma del popolo sconfitto, che non viene integrato, ma allontanato e confinato. Secondo molti studiosi, primo fra tutti Ranuccio Bianchi Bandinelli, completava il rilievo un’abbondantissima policromia, spesso piú espressiva che naturalistica, probabilmente con nomi di luoghi e personaggi. Questa rapida e non esaustiva rassegna permette comunque di comprendere la complessità del progetto narrativo, che non si limita al racconto militare, ma ci fa viaggiare in terre impervie e ostili, conquistate grazie al lavoro dei fabri romani, ci fa conoscere il valore degli avversari e intuire anche le falle del sistema di intelligence di Traiano. E poiché i piani di lettura del fregio sono stratificati come quelli fisici delle scene su piú registri, stiamo incoraggiando la creazione di una piattaforma multimediale che permetta lo srotolamento e la navigazione multidirezionale della Colonna, per ottenere una Hypercolumna (vedi alle pp. 82-83). a r c h e o 81


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In questa e nella pagina accanto: due delle immagini elaborate nell’ambito del progetto multimediale HyperColumna, mirato alla fruizione interattiva della Colonna Traiana.

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la colonna a portata... d’occhio Oggi che non possiamo piú disporre delle terrazze che su di essa s’affacciavano, come possiamo scoprire tutti i segreti della Colonna Traiana? La risposta in un innovativo progetto multimediale di Saverio Giulio Malatesta

Comunicare il passato trasmettendo il messaggio archeologico presso il pubblico non specializzato: è questa la sfida che negli ultimi anni ha visto cimentarsi diverse realtà culturali. Analizzando i processi di intermediazione tra offerente e destinatario finale, ripensando l’idea di divulgazione intesa come flusso unidirezionale di informazioni, è nato il progetto HyperColumna: esso ha come base una nuova concezione del fruitore culturale, considerato non piú come una tabula rasa da influenzare, ma come un’entità attiva del processo cognitivo, di cui si deve assecondare l’essenza e che va accompagnata in un itinerario personalizzato di scoperta dell’antichità. Il Museo dei Fori Imperiali, all’interno della suggestiva cornice dei Mercati di Traiano, si è sempre contraddistinto per l’utilizzo di tecnologie multimediali per raccontare l’architettura dei complessi imperiali forensi; mancava tuttavia, come nella stragrande maggioranza delle esperienze museali, un sistema incentrato sull’utente. È dunque apparso il luogo idoneo per la sperimentazione di HyperColumna, implementandone la struttura a seconda delle esigenze man mano emerse. Chiave di volta è la Colonna Traiana: la narrazione scolpita su di essa offre la possibilità di raccontare una storia collegata a tante altre storie, connessioni che costituiscono la Storia stessa. Facendo proprio il concetto di digital storytelling, HyperColumna parte dalle scene del fregio per affrontare diversi aspetti dell’epoca traianea, quelli precedenti o riprese successive: la Colonna diviene cosí un portale virtuale per accedere liberamente, in base ai propri interessi o curiosità, a una conoscenza a tutto campo derivata da un accurato spoglio delle fonti antiche, documentarie, archivistiche, iconografiche, fotografiche, archeologiche. Costruire narrazioni corrette e contestualizzate, ma al contempo avvincenti, interagibili e personalizzate: in tal modo si viene a realizzare un racconto dialogante, da un lato in grado di rendere esaurientemente quanto si va a raccontare, e dall’altro tenendo presente della specificità di ciascun utente. Grazie alle moderne tecnologie di applicazioni per dispositivi mobili, schermi sensibili al tocco, proiezioni, l’utente può approfondire determinati argomenti o scoprire collegamenti di cui non sospettava l’esistenza, interagendo continuamente con il

sistema: animazioni, video, letture audio, tutte accessibili a partire dal fregio scorrevole della Colonna restituito ai suoi colori, consentono di realizzare un’esperienza museale innovativa. Per esempio, seguendo uno dei fili tematici, partendo dalla Colonna come monumento, si potrà apprenderne il signi­ficato, scorrerne il fregio srotolato, soffermarsi sulle scene di battaglia, scoprire come fosse composto l’esercito, quale cultura avessero i nemici, fin dove arrivò l’espansione romana, quale fosse l’organizzazione economica e sociale dell’impero. L’utente potrà indagare le tracce di un passato cosí grandioso da non essere ancora scomparse a duemila anni di distanza, sorprendendosi di quanto alcune di esse siano lontane e quante, invece, siano inaspettatamente vicine, magari situate nei pressi di un luogo spesso frequentato, grazie anche a una specifica applicazione, i «Luoghi Traianei». L’ambizione del sistema HyperColumna è quella di fare una divulgazione che sia davvero tale, non limitandosi a of­frire un racconto strutturalmente rigido e unidirezionale, bensí proponendosi come una sorta di Virgilio virtuale, accompagnando il visitatore alla scoperta di quell’affascinante mondo che è l’antichità, libero anche di condividere le sue esperienze grazie alle possibilità crossmediali della piattaforma. «L’antichità non ci è data in consegna di per sé, non è lí a portata di mano; al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare», scriveva il poeta Novalis. Ed è quanto HyperColumna ha intenzione di fare.

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uno sfarzo mai visto Il Foro voluto da Traiano oscurò, per ricchezza e imponenza, i suoi predecessori. Un complesso sontuoso, scintillante di marmi preziosi e bronzi lucenti di Marina Milella

I

l Foro di Traiano fu un complesso grandioso, edificato in pochissimi anni, tra la conclusione della conquista della Dacia (oggi Romania), nel 106 d.C., e l’inaugurazione della Colonna di Traiano, il 12 maggio del 113. La vastità degli spazi interessati (300 m di lunghezza per 185 m di larghezza) cambiò l’assetto urbanistico del centro politico e amministrativo dell’Urbe, chiudendo la serie delle monumentali piazze dei Fori imperiali, erette in poco piú di un secolo e mezzo presso l’antico Foro Romano. Essendo lo spazio disponibile ormai insufficiente era stato necessario sbancare la sella montuosa situata tra le pendici del colle Quirinale e il Campidoglio, collegando l’area dei Fori con il quartiere monumentale del Campo Marzio. Il taglio delle pendici del colle Quirinale fu regolarizzato e sfruttato per la costruzione del complesso di edifici in laterizio (mattoni) dei cosiddetti Mercati Traianei, i cui sei livelli di ambienti vennero utilizzati come uffici e archivi. Gli edifici del Foro splendevano invece di marmi bianchi e colorati, provenienti dalle piú lontane regioni dell’impero, come espressione della potenza di Roma e del suo dominio sulle province. L’apparato decorativo trasmetteva il messaggio propagandistico e celebrativo voluto dall’imperatore per mezzo dei fregi con figure mitologiche, dei personaggi raffigurati nelle sculture, dei rilievi narrativi e delle iscrizioni, con un significato che poteva essere colto dall’osservatore antico piú facilmente che da noi.

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Ricostruzione assonometrica dei Fori imperiali: il cerchietto rosso indica quello di Traiano. In basso: disegno ricostruttivo della piazza del Foro di Traiano.


La piazza L’enorme piazza (116 x 95 m) era dominata da una colossale statua dell’imperatore a cavallo, in bronzo dorato, grande oltre una volta e mezzo il cavallo di Marco Aurelio del Campidoglio. Faceva da sfondo alla scultura una scenografica facciata con ali oblique, decorata da colonne gigantesche (1,50 m di diametro alla base). Alle spalle un’ampia aula ne riprendeva l’andamento spezzato. Dietro il settore centrale rettilineo si apriva un cortile quadrangolare porticato, anch’esso splendente di marmi colorati, sul fondo del quale si apriva l’accesso verso il Foro di Augusto. Ai lati della piazza, sopra le facciate dei portici, si moltiplicavano in file interminabili le statue dei Daci, alternate a clipei (scudi) rotondi con una lunga galleria di ritratti. Sul lato opposto la piazza era chiusa dalla facciata

dell’immensa Basilica Ulpia, che si innalzava per tre piani e aveva il tetto coperto da tegole di bronzo dorato, nascondendo a quasi tutta la piazza la vista della Colonna di Traiano, posta alle sue spalle. I tre ingressi erano sottolineati da avancorpi sporgenti colonnati e sopra questi si ripeteva una nuova serie di statue di Daci, alternate a rilievi con cumuli di armi deposte. Le sculture sorreggevano iscrizioni in onore delle legioni che avevano partecipato alle campagne militari in Dacia e le loro insegne. Come il fregio della Colonna, la decorazione della piazza celebrava la conquista della Dacia, grazie al cui bottino il Foro era stato edificato, e della gloria dell’esercito e dell’imperatore. Questa glorificazione tuttavia non assumeva il carattere di una contrapposizione brutale tra la potenza dei vincitori e

l’annientamento dei vinti, chiamati piuttosto a integrarsi e a rendere ancora piú grande l’impero. L’atteggiamento dei Daci, nelle statue e nel fregio della Colonna, mostra un nemico vinto, ma non privato della dignità, e la statua equestre di Traiano, rappresentata sulle monete, ha la punta della lancia rivolta in basso, in segno di pacificazione. La piazza era uno spazio celebrativo e di rappresentanza, nel quale si innalzarono statue fino a epoca tarda e dove si tenevano cerimonie pubbliche: Adriano vi bruciò le tavolette dei debiti condonati nei confronti del fisco, Marco Aurelio vi tenne una vendita all’asta delle suppellettili preziose dei palazzi imperiali per finanziare le campagne a difesa dei confini e anche Aureliano vi bruciò i registri dei debiti verso lo Stato.


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i portici laterali e la Basilica Ulpia Gli spazi interni degli edifici che si affacciavano sulla grande piazza erano ancora piú ricchi di colore e di decorazioni: i pavimenti erano in lastre di marmo colorato che formavano disegni geometrici di grande formato, riprendendo il ritmo dei colonnati. Nel profondo spazio interno dei portici, i colonnati delle facciate erano rispecchiati dalle lesene sul muro di fondo. Nel settore centrale una fila di fitti pilastri rettangolari schermava le vaste esedre semicircolari, che si espandevano anche in altezza per ricevere la luce ed erano ornati sul fondo da due ordini di lesene. Una nicchia centrale era inquadrata da due colonne che sorreggevano un fregio con grifoni e candelabri. La Basilica Ulpia, cosí chiamata dal nome di famiglia dell’imperatore, Marco Ulpio Traiano, era la piú grande basilica civile costruita fino ad allora (170 m di lunghezza complessiva, e 60 m di larghezza). Entrando, una selva di colonne divideva l’ampio spazio centrale (25 m di larghezza) dalle due navate laterali, che lo circondavano sui quattro lati. Sui lati corti una terza fila di colonne creava un diaframma davanti ai vasti spazi semicircolari

Disegno ricostruttivo della facciata dei portici che circondavano la piazza del Foro e sezione della facciata della Basilica Ulpia.

delle absidi. Un secondo e un terzo ordine di colonne rialzavano in altezza la navata centrale. Il fregio del primo ordine ripeteva gruppi di Vittorie alate intente a decorare candelabri o nell’atto di sacrificare tori costretti a terra. Nelle absidi era invece un fregio con sfingi accovacciate. Le basiliche civili romane si erano formate come spazi pubblici coperti, utilizzati soprattutto come sede dei tribunali e per lo svolgimento dei processi. Nella Basilica Ulpia le navate laterali assicuravano la circolazione del pubblico, mentre le attività giudiziarie avevano probabilmente luogo negli spazi della

navata centrale e delle absidi. Gli spettatori potevano assistere ai processi dal secondo piano sopra le navate laterali. Sappiamo inoltre da un frammento della Forma Urbis, la pianta marmorea di Roma di età severiana, che in una delle absidi si erano trasferite le funzioni dell’antico Atrium Libertatis, sede dei censori, dove erano custodite le liste dei cittadini e dove si svolgeva la cerimonia di manomissione degli schiavi, il cui nome, una volta divenuti liberti, doveva essere iscritto nei registri. Attività pubbliche dovevano svolgersi anche negli spazi dei portici e delle esedre: potevano forse esservi

dal deposito al museo Lo straordinario puzzle tridimensionale costituito dai materiali della decorazione architettonica e scultorea del Foro di Traiano è perlopiú conservato nei depositi: non solo le migliaia di frammenti piú piccoli, ma anche molti degli splendidi fregi, capolavori raffinatissimi della scultura romana, portati al coperto per una loro migliore salvaguardia. Si tratta di una sistemazione temporanea, in attesa di poter allestire la sezione del Museo dei Fori Imperiali dedicata al complesso, prevista nelle grandi aule semicircolari dei Mercati di Traiano al livello stesso del Foro, oggi in corso di restauro. Nel frattempo stiamo anche intervenendo nel deposito stesso che ospita questi blocchi marmorei: si tratta di un ambiente sotterraneo, ricoperto negli anni Trenta del Novecento con una soletta in cemento armato, corrispondente ai resti di parte della Basilica Ulpia e della Biblioteca occidentale. Il risanamento di questi suggestivi spazi e la loro riapertura al pubblico come parte del Museo dei Fori Imperiali sono il nostro obiettivo. 86 a r c h e o


ospitate letture poetiche e lezioni scolastiche, che sappiamo si svolgevano nel Foro in epoca tarda. Nella decorazione di questi spazi interni sembrano tuttavia mancare riferimenti diretti ai successi militari dell’imperatore celebrati sulle facciate: le immagini dei fregi con le loro figure mitologiche sono piú sottilmente allusive e dal significato meno evidente e piú genericamente decorativo: è probabile che fossero piuttosto riferite alla celebrazione delle virtú civili dell’imperatore, in collegamento con le funzioni che in questi spazi si svolgevano.

In alto: modello della Basilica Ulpia, alle cui spalle si vede la parte sommitale della Colonna Traiana. A sinistra: disegno ricostruttivo e sezione della facciata della Basilica Ulpia, ornata da statue di Daci.

Qui accanto e a sinistra: due delle migliaia di frammenti pertinenti alla decorazione scultorea del Foro di Traiano.


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L’ubicazione della Colonna La Colonna di Traiano sorgeva alle spalle della Basilica Ulpia, in uno stretto cortile, chiuso verso la Basilica da un muro continuo, che forse accoglieva il fregio delle imprese di Traiano, poi reimpiegato nell’arco di Costantino. Ai lati del cortile erano portici che precedevano due ambienti, normalmente interpretati come sedi della Biblioteca Ulpia. La collocazione di un monumento cosí significativo, separata dalla piazza e in uno spazio cosí ristretto, è per noi sorprendente, dato che impedisce di apprezzarne l’imponenza e ostacola la visione dal basso dei rilievi. Si deve però ricordare che le terrazze accessibili sopra la navata laterale della Basilica e sopra i portici delle Biblioteche dovevano permettere un’osservazione piú ravvicinata. Il fregio della Colonna era assimilato a un rotolo di papiro arrotolato intorno al fusto, quasi fosse uno dei volumi presenti nelle due Biblioteche.

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Sul basamento della Colonna si ripetevano i cumuli di armi presenti anche sulla facciata della Basilica Ulpia e al fregio dei portici laterali è stato attribuito un motivo con grifoni come quello delle esedre dei portici. La decorazione figurata è nuovamente legata alla funzione onoraria della Colonna, con la statua dell’imperatore sulla sommità e i fregi che ne celebrano le imprese, ed è il culmine del discorso celebrativo sviluppato dal suo Foro. Dopo la morte dell’imperatore, le sue ceneri furono sepolte in una camera ricavata nel basamento della Colonna, che assunse allora anche una funzione di monumento funerario e di sacrario. La sua posizione rispetto alla Basilica Ulpia si può, in questo senso, ricollegare al modello vitruviano delle piú antiche basiliche forensi, in cui un aedes Augusti, cioè un sacrario per l’imperatore regnante, era posto in un’esedra rettangolare sporgente dal fondo e in asse con l’ingresso.


l’omaggio di un figlio

se la colonna dà i numeri...

Le fonti antiche narrano che Adriano eresse un tempio per i suoi genitori adottivi, divinizzati dopo la morte, Traiano e sua moglie, l’imperatrice Plotina: il racconto riferisce che si trattò dell’unico edificio da lui ricostruito nel quale volle tramandare il suo nome tramite un’iscrizione. Proprio alle spalle della Colonna di Traiano furono rinvenuti nel Settecento enormi fusti di colonna del diametro di poco meno di 2 m, che sono tra i piú grandi fusti monolitici in marmo del mondo romano (le colonne della facciata del Pantheon sono solo i 4/5 di queste). Il ritrovamento suggerí che il Tempio voluto da Adriano sorgesse nella zona non scavata alle spalle della Colonna Traiana, in corrispondenza di Palazzo Valentini (oggi sede della Provincia). In seguito, nei sotterranei del palazzo, furono viste strutture in laterizio, che sembravano incompatibili con la presenza di un edificio templare e le gigantesche colonne furono interpretate come appartenenti invece a un monumentale ingresso al Foro di Traiano dal Campo Marzio, mentre varie ipotesi sono state formulate sulla possibile collocazione del Tempio. Piú recentemente Andrea Carandini ha riesaminato le strutture nei sotterranei di Palazzo Valentini, suggerendo di nuovo la presenza del Tempio in questa posizione, alle spalle della Colonna Traiana, circondato da un porticato che si chiudeva ad abside sul retro dell’edificio.

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Nella pagina accanto: la Colonna Traiana in una tavola tratta da Foro di Traiano, Demolizioni e Sterramenti dell’anno 1813.

l ’iscrizione celebrativa del monumento 2 le Biblioteche ai lati della Colonna 2 le campagne militari per la conquista della Dacia raffigurate nel fregio 3 i lati del basamento che presentano rilievi con trofei di armi 3,83 i metri di diametro dei singoli blocchi che compongono il fusto 4 le aquile poste agli angoli sulla sommità del basamento 17 i colossali rocchi cilindrici che compongono il solo fusto 19 i blocchi di marmo bianco di Luni (oggi noto come marmo di Carrara), comprendendo il basamento 23 gli avvolgimenti in senso antiorario del fregio intorno al fusto 39,86 i metri di altezza totale (basamento, fusto, piedistallo e statua alla sommità) 40 le tonnellate in media dei singoli blocchi del fusto 43 le feritoie che illuminano la scala a spirale ricavata all’interno del fusto 59 le volte in cui viene raffigurato nel fregio l’imperatore Traiano 89 i centimetri di altezza del fregio nella parte inferiore del fusto 100 i piedi romani dell’altezza del solo fusto («colonna centenaria»; corrispondono a 29,64 m) 113 d.C. l’anno di inaugurazione della Colonna 114 circa le scene rappresentate nel fregio 125 i centimetri di altezza del fregio nella parte superiore, per compensare la distanza dall’osservatore 185 i gradini della scala a spirale che dalla base porta alla sommità della Colonna

200 metri, all’incirca, la lunghezza del fregio 1032 l’anno in cui viene citata la chiesa che sorse ai piedi della Colonna 1162 l’anno in cui il Senato della Roma medievale emanò un decreto per proteggere la Colonna 1588 l’anno in cui venne posta in cima la statua di san Pietro 1810 l’anno di inaugurazione dell’imitazione moderna, la napoleonica Colonna Vendôme 2500 le figure rappresentate nel fregio

Incisione che presenta il prospetto e la sezione della Colonna Traiana, evidenziando la scala elicoidale che si snoda al suo interno.

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speciale • colonna traiana

i veri artefici di un capolavoro La realizzazione della Colonna Traiana non fu soltanto l’esito di un ambizioso progetto artistico. Essa fu anche il frutto del lavoro, oscuro ma prezioso, di cavatori e scalpellini straordinari di Claudio Capotondi

il taglio dei blocchi

la discesa a valle

l’imbragatura di un capitello 90 a r c h e o

Negli anni giovanili, a Roma, ho convissuto con il paesaggio archeologico della città, inclusa la Colonna Traiana. Allora non potevo comprendere quel monumento e solo dopo quarant’anni di lavoro sul marmo, ho percepito all’improvviso l’immane sfida costruttiva affrontata da Apollodoro di Damasco e dai suoi uomini: una presa di coscienza che mi ha emozionato e dalla quale è scaturito il desiderio di capire come fosse stato realizzato quell’irripetibile miracolo ingegneristico ripercorrendone le diverse difficili fasi operative. Il mio vuole essere un tributo al genio e alla fatica di quegli uomini dimenticati, capaci di realizzare la Colonna con gli strumenti e l’energia animale di quel tempo sapientemente sfruttati grazie a una conoscenza ormai perduta delle leggi della fisica meccanica. A me non interessa il magnifico film che s’avvolge ad altorilievo per 200 m, all’esterno del fusto per raccontare ed esaltare le vittorie di Traiano contro i Daci (e del quale si è già detto ampiamente in questo speciale, alle pp. 76-81), ma come i suoi artefici siano riusciti in quell’impresa in soli cinque anni, dal 108 al 113 d.C. Come tutti i potenti, anche Traiano ha voluto tramandare la memoria di sé, innalzando la Colonna come sua ultima dimora eterna e come simbolo di elevazione e dominio di Roma dall’alto. L’imperatore, però, non era certo in grado di scolpire il marmo e senza l’ingegno degli uomini che per lui hanno lavorato, anche la genialità di Apollodoro sarebbe rimasta inespressa. Come per ogni impresa umana di cui si conserva solo il nome del faraone o dell’imperatore che l’ha voluta e, nel migliore dei casi, pagata con salari di sopravvivenza, cosí anche di quest’opera colossale ignoriamo l’identità di quanti vi hanno duramente lavorato. Osservando la Colonna, che, muta, sta lí a sfidare ancora il futuro con l’impareggiabile equilibrio statico delle sue 1130 t, nonostante i tre terremoti e i vari danneggiamenti subiti, ne ricavo la conferma della decadenza e pochezza del nostro tempo dominato dall’apparenza e dalla simulazione degli effetti speciali. In quei cinque anni furono cavati almeno 30 monoliti di marmo, di peso oscillante tra le 60 e le 120 t ciascuno, che poi, dopo essere stati fatti scendere lungo il ripido pendio, arrivarono


al molo di Luni, trainati da cinque-sei coppie di buoi per essere quindi caricati con difficili manovre sulle immense naves lapidariae. Queste, dopo la navigazione lungo le coste del Tirreno fino al porto di Claudio-Traiano e poi attraverso la Fossa di raccordo, proseguirono il loro tragitto, risalendo il Tevere, per approdare infine all’Emporium della Marmorata di Testaccio, dove i blocchi furono scaricati con manovre altrettanto difficili. Nel vasto cantiere sotto l’Aventino, rinforzato da un grande muraglione, gli enormi blocchi di marmo venivano lavorati a ritmi serrati, in sincronia di sequenza, servendosi di macchine perfezionate, come argani, capre a tre piedi o semoventi a due piedi, verricelli polispasti a piú rimandi, enormi ruote calcatorie e inventando, per sollevarli e accostarli senza uso di funi, la geniale olivella (un congegno costituito da due elementi sagomati a cuneo, che venivano alloggiati in una cavità a coda di rondine scavata nel masso, e da un terzo elemento a spessore costante opportunamente interposto; ai tre elementi, resi solidali da un bullone, era infine fissato un gancio o un anello, n.d.r.).

Sulle due pagine: cosí Claudio Capotondi ha immaginato alcune fasi della lavorazione del marmo impiegato per la Colonna Traiana. A sinistra: modellino di una delle macchine utilizzate per la lavorazione dei blocchi.

il carico a bordo della nave

ancoraggio di un blocco

livellatura dei rocchi a r c h e o 91


speciale • colonna traiana

Ritengo piú probabile l’ipotesi che l’altorilievo fosse stato scolpito sovrapponendo due blocchi per volta, in successione progressiva per la sequenza elicoidale, ma lasciando i bordi dei rocchi solo sbozzati, cosí da poter essere raccordati dopo averli portati al Foro e assemblati uno sull’altro, in perfetta verticalità, fino al capitello di 45 t issato lassú a 33,50 m d’altezza. Disabituati come siamo, soprattutto nelle città, a vedere all’opera fabbri, falegnami e marmisti, ci è difficile

scalpellini al lavoro

ipotesi di assemblaggio

In questa pagina: schizzi, disegni e modellini elaborati da Claudio Capotondi con i quali vengono ricostruite varie fasi di realizzazione della Colonna Traiana e alcune delle sue caratteristiche strutturali.

92 a r c h e o

il basamento della colonna


anche solo immaginare il sacrificio e la sagacia inventiva di quegli uomini, che faticarono sotto il sole o al gelo; chi arrampicandosi sulle pareti di marmo a strapiombo sul vuoto; chi tirando funi con mani piagate ma forti come tenaglie; chi picchiando con picconi per spaccare trincee in cava; chi, ancora, in bilico sulla torre-impalcatura o dentro le ruote calcatorie al Foro. Uomini dimenticati e morti per la gloria di Traiano che, essendo uomo d’arme assuefatto anche lui alla fatica, voglio pensare ne abbia riconosciuto la bravura e sofferenza e dentro di sé gliene sia stato riconoscente. Non conosciamo fonti storiche che riferiscano di come sia avvenuto il montaggio della Colonna nel Foro e quindi la mia ipotesi della doppia torre-impalcatura, con carroponte terminale in alto, è frutto dell’esperienza che ho maturato sul campo, soprattutto di quella vissuta per la realizzazione, nel 2000, della Portaroma, all’uscita Roma Nord dell’autostrada A1. La Colonna nasconde il segreto di una scala elicoidale di 185 scalini, scavati con fatica e maestria all’interno degli 8 blocchi del piedistallo e dei 18 rocchi del fusto piú il capitello, ed è composta da 29 blocchi sovrapposti, in perfetta assialità, per un’altezza totale originaria di 39 m circa, mancando oggi il pezzo terminale semisferico che sorreggeva la statua di Traiano (alta, si può supporre, 5,50 m circa). Questo blocco fu sostituito nel 1580 da quello attuale, al quale è ancorata la statua di san Pietro voluta da Sisto V. È possibile che il papa abbia fatto abbattere la statua di Traiano per riutilizzarne il bronzo e, che, nello strappo del distacco, si sia spaccato il blocco originario di sostegno, nel quale rimase incastrato solo un piede della scultura, poi ritrovato insieme alla testa (frammenti che, successivamente, sono entrambi scomparsi). Ogni aggettivo è per me inadeguato per descrivere l’ardita concezione e la realizzazione di quest’opera, che testimonia l’ineguagliata capacità creativa di uomini straordinari, nel contesto di quel particolare momento storico. E anche Michelangelo, che aveva uno studio nel borgo (poi distrutto) attiguo al Foro, chissà quante volte avrà ammirato la Colonna da vicino e ne avrà compreso l’audacia costruttiva.

gli 8 blocchi del basamento

la calata dei rocchi

In questa pagina: altre ricostruzioni di Claudio Capotondi, tra cui, qui accanto, un modellino di uno dei rocchi della Colonna, al cui interno è ricavata la scala elicoidale che risaliva l’intero monumento.

a r c h e o 93


storia • storia dei greci/21

barbari mondo

I« » alla conquista del di Fabrizio Polacco

Qui sopra: calco di un busto di Pirro, re dell’Epiro, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. Copia romana da un originale greco. I sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. A destra: particolare di una metopa raffigurante un cavaliere, forse identificabile con Alessandro Magno, che atterra un nemico. III sec. a.C. Taranto, Museo Archeologico Nazionale di Taranto. Nella pagina accanto: particolare del busto bronzeo noto come «Bruto capitolino». III sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

94 a r c h e o


mentre alessandro magno coltiva il suo sogno egemonico, roma si avvia a diventare una delle maggiori potenze del mondo antico. un processo che la porta all’incontro/scontro con la grecia, che, per i discendenti di enea, mostra, in piú d’un caso, rispetto e ammirazione

I

Romani inviarono davvero un’ambasciata ad Alessandro Magno, come ricordano sparute fonti storiche? E quale ne fu l’oggetto? E, seppure non citati espressamente, furono anch’essi tra i popoli italici che si recarono a Babilonia per rendere omaggio al re, all’apice della sua potenza (323 a.C.)? Il clamore delle imprese del sovrano macedone aveva certo avuto una vasta eco anche in Occidente. Non dimentichiamo poi che, al tempo della spedizione antipersiana di Alessandro (334324 a.C.), Roma stava già estendendo il proprio dominio sulle città abitate da Greci della Campania (Cuma, Neapolis) contendendole ai Sanniti nel corso di durissime guerre. D’altro canto, anche in Grecia e in Macedonia doveva essere pervenuta notizia della costante ascesa della città del Lazio. Inoltre, mentre Alessandro partiva


storia • storia dei greci/21

le campagne di pirro 390 a.C. Sacco di Roma da parte dei Galli di Brenno. 340-338 a.C. Guerra di Roma contro la Lega latina e i Campani. 295 a.C. Vittoria romana a Sentino (contro Galli, Etruschi e Sanniti). 282 a.C. Guerra di Roma contro la greca Taranto. 280 a.C. Pirro, re dell’Epiro, sbarca in Italia portando con sé 20 elefanti da guerra. 278-276 a.C. Campagna militare di Pirro in Sicilia. Nominato re di Sicilia, il nuovo sovrano dovrà abbandonare l’isola dopo aver inutilmente assediato i Cartaginesi a Lilibeo. 275 a.C. Pirro fugge verso l’Italia dove viene definitivamente sconfitto dai Romani a Maleventum, ribattezzata dopo la vittoria Beneventum, ed è costretto a tornare in patria.

Qui accanto: statere epirota in bronzo. 295-272 a.C. Al dritto, testa di Zeus Dodoneo; al rovescio, fulmine e monogramma di Pirro. A sinistra, in basso: piatto a figure rosse sul quale è raffigurato un elefante da guerra, simile a quelli impiegati da Pirro, da Capena. III sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

per l’Oriente, il suo zio e cognato, Alessandro il Molosso, re dell’Epiro, sbarcava nella Magna Grecia in soccorso della principale polis ellenica, Taranto, per liberarla dalla pressione a cui la sottoponevano le circostanti popolazioni italiche, tra cui i Lucani, i Bretti e gli stessi Sanniti. Quella spedizione finí malamente, prima con la rottura dei rapporti tra il Molosso e i Tarantini e poi con l’uccisione dello stesso re (330 a.C.).

un’assemblea di re Ma traspare un legame strategico tra la spedizione del nipote in Oriente e dello zio in Occidente: il progetto era probabilmente quello di realizzare un impero greco-macedone davvero «universale». Del resto, si ricordi che Alessandro, una volta spinte le sue conquiste fino all’Indo, si apprestava poi ad affrontare e a sottomettere Cartagine e gli altri popoli barbari del Mediterraneo occidentale. Tra questi «barbari» dell’Occidente i Greci comprendevano anche i Romani? E quale risultato avrebbe sortito, se avesse avuto il tempo e il modo di verificarsi, uno scontro tra l’invitto condottiero macedone e le già collaudate legioni di Roma? Tito Livio, il grande storico contemporaneo di Augusto, affronta questa ipotesi nel libro IX delle Storie, e risponde senza incertezze: in quel caso, Roma avrebbe sicuramente prevalso sulla falange e sulla cavalleria di Alessandro. L’autore argomenta per esteso la sua opinio96 a r c h e o


seguirono furono, per il sovrano, vittorie pagate a un prezzo durissimo («vittorie di Pirro», appunto); tanto che, dopo una campagna militare durata fino al 275 a.C., il re si risolse ad abbandonare le città greche d’Italia al loro destino: in pratica, nelle mani di Roma (vedi box a p. 99).

me spesso nel corso della storia, la loro inguaribile tendenza al particolarismo e alle divisioni intestine. Mai, infatti, nei due secoli e mezzo successivi, il mondo greco fu unito nel contrastare i Romani; mai nemmeno due dei grandi regni ellenistici si coalizzarono nel tentativo di fermarne l’avanzata. divisi contro i romani Roma, dall’altro lato, si dimostrò Dopo la dipartita di Pirro, Roma sempre estremamente compatta. inglobò tutte le poleis elleniche Contrariamente a una polis ellenidell’Italia meridionale, in genere ca, seppe trovare per un lungo attribuendo loro il titolo di socii L’Italia meridionale (alleati), con diverso grado di diritti o di limitazioni politiche a seconda prima della conquista romana dell’atteggiamento dimostrato nei Lo Stato romano e gli alleati nel 282 a.C. confronti della nuova potenza italica. Tanto che a un certo punto la Territori greci indipendenti contesa con Taranto vide alcune Umbri Popoli indipendenti da Roma colonie della Magna Grecia, come Thurii, schierate al fianco di Roma, Guerra contro Taranto e conquista che infine conquistò la città nel 272 dell’Italia meridionale (282-264 a.C.) a.C. A sfavore dei Greci giocò, coDominio mamertino Annessioni dirette a Roma Um

Vulci

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Spoleto

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Ascoli Truento (S. Benedetto del Tronto)

Colonie di diritto latino

Regno di Siracusa

Federati e alleati

Spedizioni di Pirro (280-275 a.C.)

Dominio cartaginese nel 264 a.C.

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Invasione romana, 280 battaglie e data

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Rieti Falerii Fre nt Alba FucenziaP e l i g n Tivoli Preneste Roma (Palestrina) Ap Aufidena Ostia u Atina Lucera Ardea Isernia Mar Adriatico Fregelle Anzio n 279 Ascoli (Ceprano) Bojano Canosa i Alife Circei Minturno Capua t cezi Peu i M Nola 275 Benevento Venosa e Ponza s Napoli Nocera r p i n i I s Brindisi a Enaria Pompei

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ne; ma il motivo di fondo, quello decisivo, è il seguente: Alessandro, pur grande e geniale, era un singolo re, un solo uomo, e senza di lui tutta la potenza dispiegata dai Macedoni si sarebbe dissolta, come del resto gli eventi posteriori alla sua morte avevano dimostrato. Il Senato romano, invece, era «un’assemblea di re»: fra i loro duci ve ne erano molti che per valore ed eccellenza di imprese potevano essere considerati pari ad Alessandro; inoltre ciascuno di essi avrebbe potuto vivere o morire indifferentemente, senza che per ciò ne risultasse alcun danno alla potenza di Roma. Esagerava Tito Livio, magari per orgoglio nazionalistico? In verità, i Greci che i Romani combatterono e infine sottomisero (tra il 280 e il 146 a.C. se ci limitiamo alla penisola ellenica; fino al 30 a.C. se includiamo l’annessione dell’Egitto tolemaico) non erano piú quelli dei tempi gloriosi di Sparta, Atene e Tebe, delle lotte per la supremazia nell’Ellade e della vittoriosa contesa con l’impero persiano: Roma non si confrontò con la grecità classica, ma con quella ellenistica, che aveva visto il progressivo declino delle poleis; e i regni che le avevano soppiantate erano, nella maggior parte dei casi, privi di coesione, mentre i loro eserciti erano costituiti perlopiú da professionisti, spesso mercenari, raccolti tra etnie diverse. Quello della città laziale era invece un esercito di cittadini, per combattività e determinazione non diverso proprio da quelli messi in campo dalle poleis greche dei tempi d’oro. Infatti quando, per la prima volta, a Eraclea in Lucania un sovrano ellenistico se lo trovò davanti, fu sorpreso dall’armonia e dall’ordine della sua disposizione (280 a.C.). È Plutarco a riportarci la frase che Pirro, nuovo re dell’Epiro chiamato in soccorso sempre da Taranto – ma questa volta contro i Romani – avrebbe pronunziato nell’occasione: «L’ordine di questi barbari, Megacle, non è di per sé barbarico; ma li vedremo alla prova». Come è noto, quella e le altre che

Ipponio (Vibo Valentia) Messina

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Sicilia Catania Enna Akragas Megara Iblea (Agrigento) Gela Camarina

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storia • storia dei greci/21

té perseguire una politica estera coerente e non soggetta alla variabilità degli umori popolari; soprattutto, poteva ampliare gradualmente il numero dei propri cittadini senza per questo dover stravolgere le istituzioni politiche; seppe attribuire ai popoli vinti un grado differenziato di partecipazione alla res publica (che andava dall’annessione diretta allo Stato romano, con o sistemi a confronto Non vincolata ai metodi e alle for- senza diritto di voto, alla cittadinanme della democrazia diretta tipiche za latina, ai vari «patti» di alleanza per esempio dell’Atene classica, po- piú o meno favorevoli), riuscendo a periodo una stabile composizione dei suoi conflitti sociali interni: in effetti, non fu mai una vera e compiuta democrazia, ma un’oligarchia basata sul censo e sulla car r iera politico-militare, alla quale si dedicava, in maniera quasi esclusiva, il suo ceto dominante (vedi box in questa pagina).

prevenire a lungo una loro ribellione generalizzata, e anzi avvalendosi delle loro truppe ausiliarie nei conflitti in cui l’Urbe fu costantemente impegnata. Per un confronto, può essere utile riflettere su quanto invece avveniva, appena fuori dalla penisola italica, in Sicilia. Anche lí una città greca, Siracusa, aveva creato, già nel IV secolo, a.C. una potente macchina da guerra nel corso delle continue lotte contro i Cartaginesi. Dopo aver rischiato la totale espulsione

L’ammirazione di Polibio Polibio, storico greco trasferitosi a Roma, è una delle fonti migliori per quest’epoca. Egli osservava che in cinquant’anni (dal 221 al 168 a.C.) Roma si era trasformata da potenza italica in padrona del Mediterraneo. Alla base di questo exploit individuava l’eccellente costituzione (peraltro non scritta) dello Stato romano, che contemperava elementi monarchici (nella figura dei due consoli), aristocratici (nel Senato), e democratici (nei Comizi, le assemblee popolari), ponendoli tutti in reciproco equilibrio. Per questo Roma si sarebbe forse sottratta al ciclico destino di corruzione istituzionale che, altrimenti, portava in genere la monarchia a trasformarsi in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia imbelle e privilegiata, la democrazia in instabile dominio delle masse: una sorte che aveva colpito molte poleis elleniche.

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Calco di un rilievo raffigurante soldati pronti al combattimento su una nave da guerra, da Palestrina. I sec. a.C. Albenga, Museo Navale Romano.


Gruppo in terracotta raffigurante Enea in fuga da Troia, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

I Romani erano «barbari»? Al di là della loro riconosciuta eccellenza in battaglia, i Romani rimanevano comunque «barbari» per i Greci? «Barbari», etimologicamente, erano tutti coloro che non parlavano greco. Il termine è usato da Erodoto in senso ancora non spregiativo, e deriva da un bar-bar onomatopeico che imitava un balbettio incomprensibile. Ma proprio in seguito alle guerre vinte contro i Persiani i Greci iniziarono a usarlo in un’accezione negativa, come se i popoli dell’Oriente fossero portatori di una civiltà inferiore, in quanto imbelli, effeminati e costituzionalmente servili. Tuttavia, non va dimenticato che, secondo leggende antichissime, i primi abitatori del colle capitolino, prima ancora che i profughi troiani guidati da Enea vi arrivassero, erano Arcadi, quindi Greci del Peloponneso, governati da Evandro. Inoltre anche i Romani, per nobilitare le proprie origini, facevano riferimento alla ospitalità e poi alla fusione che i Latini avrebbero concesso, dopo uno scontro iniziale, ai Troiani di Enea. E va aggiunto che in Omero gli abitanti di Troia veneravano gli stessi dèi e parlavano la stessa lingua degli invasori achei. Infine, Eraclide Pontico, filosofo e scienziato del IV secolo a.C. vicino a Platone, si sbilanciò definendo addirittura Roma una «polis ellenica». Il riconoscimento era dovuto forse alla costituzione repubblicana della città, che in qualche modo l’assimilava alle colonie della Magna Grecia. Insomma, a seconda del punto di vista adottato, anche il giudizio dei Greci sul grado di «barbarie» dei Romani oscillava sensibilmente.

Secondo un’antichissima tradizione, i primi abitatori del colle capitolino sarebbero giunti dal Peloponneso dall’isola, i Greci reagirono militarmente sotto la guida di Dionisio I, il quale, dopo lotte feroci, pervenne a un precario equilibrio, che prevedeva la spartizione delle zone d’influenza con i Punici. Ma il prezzo di questo sforzo bellico era stato l’instaurazione di una tirannide da parte dello stesso Dionisio. Sottomesse le piú prossime città greche, attraverso trasferimenti di massa delle loro cittadinanze, distruzioni generalizzate, eccidi, egli aveva creato un vasto stato territoriale – il piú antico, nel mondo ellenico – che si espanse infine al di là dello Stretto, inglobando la Calabria meridionale (con Reggio, conquistata nel 386 a.C.), e sfidando la «lega degli Italioti» fondata da Crotone. Si era spinto poi sulle acque dell’Adriatico colonizzando alcune

isole dalmate e partecipando alle E neppure vi riuscí, sulla fine del IV fondazioni delle colonie di Ancona secolo, un nuovo condottiero, Agatocle, che pure ebbe l’audacia di e di Adria sul delta del Po. sbarcare con un esercito in Africa (un secolo prima dell’impresa di instabilità Scipione l’Africano) e di mettere a della tirannide Tuttavia, come accade per ogni regi- repentaglio la stessa sopravvivenza me personale, anche la stabilità della di Cartagine. Egli si era fatto nomitirannide siracusana era legata alle nare nel 316 a.C. «stratego con piecapacità dell’individuo; sicché il suc- ni poteri»; ma poi, consolidato il cessore di Dionisio, Dionisio II il proprio prestigio, si fece proclamare Giovane, assai meno abile del padre, re, a imitazione dei contemporanei fu defenestrato da un condottiero sovrani ellenistici (306 a.C.). corinzio chiamato, per liberarli, dagli Ma neppure la monarchia sopravstessi Siracusani: Timoleonte (344 visse alla scomparsa di colui che a.C.). Costui pochi anni dopo sbara- l’aveva creata, e cosí, nel 289 a.C., il gliò i Cartaginesi al fiume Crimiso, potere tornò al popolo. Siracusa e le e instaurò nella città un regime oli- altre città siceliote, rimaste prive di garchico moderato. Questa costitu- un condottiero di valore, chiesero zione politica, però, non risultò sta- allora aiuto appunto a Pirro, che in bile, né egli del resto riuscí ad allon- quel frangente stava combattendo tanare i secolari avversari dall’isola. in Italia contro i Romani. Il sovrano a r c h e o 99


storia • storia dei greci/21

In alto: il teatro greco di Siracusa. Nella pagina accanto: mosaico seicentesco, ispirato a un originale di epoca antica, raffigurante la morte di Archimede. Francoforte, Städelsches Kunstinstitut.

epirota abbandonò temporaneamente un teatro di operazioni per l’altro, e riuscí in breve tempo a ricacciare quasi completamente i Cartaginesi dall’isola; ma a tal punto scontentò con la durezza della propria disciplina, anche fiscale, i Greci locali, che costoro si rifiutarono infine di seguirlo, e la sua opera rimase a metà; cosí egli ripassò in Italia per tentare di condurre a termine, anche stavolta senza successo, la lotta contro i Romani. Le poleis elleniche d’Occidente non 100 a r c h e o

specchi, ordigni e morte di archimede Nella Vita di Marcello Plutarco in verità non cita tra le micidiali macchine da guerra ideate da Archimede, gli «specchi ustori», cioè lenti gigantesche che, concentrando i raggi solari, avrebbero incendiato le navi degli assedianti. Tuttavia, egli ci mostra queste sollevate in aria per la prua e fatte precipitare in mare da colossali braccia meccaniche, che applicavano il principio della leva, oppure fatte girare e sballottate qua e là mediante cavi, finché andavano a sfracellarsi sugli scogli posti sotto le mura. Il console Marcello definí Archimede un «Briareo geometra» (Briareo era il mitico gigante centimane), mentre i poveri marinai romani, appena avvistavano una fune o uno strano legno sporgersi dalle mura gridavano: «Eccolo, Archimede sta puntando qualcuno dei suoi ordigni su di noi!», e fuggivano a gambe levate. Sempre Plutarco narra che, mentre ormai gli assalitori erano penetrati in città, un soldato si presentò con il gladio sguainato a casa di Archimede: costui, che non si era accorto di nulla, era assorto nello studio di una figura geometrica. Il soldato gli intimò di seguirlo ma, poiché lo scienziato rispose che prima voleva concludere la sua dimostrazione, senza tanti complimenti lo uccise.


seppero insomma trovare stabilità interna né coesione tra loro. Anche per questo, a cacciare una volta per tutte i Cartaginesi dalla Sicilia riuscí, pochi decenni piú tardi, soltanto la potenza di Roma. Quando i Romani, sconfitti nella prima guerra punica i Cartaginesi (264-241 a.C.), trasformarono la Sicilia nella loro prima provincia, vollero però salvaguardare l’indipendenza di Siracusa, che a quel tempo aveva trovato un nuovo sovrano nella figura di Ierone II. Ormai impossibilitate a fare la guerra tra loro poiché controllate dalle legioni romane, le città siceliote conobbero quindi un periodo di ripresa, e nella stessa Siracusa rifiorirono, assieme all’agricoltura e al commercio, scienze e arti. Originario della città fu per esempio Teocrito, il creatore degli Idilli

di ambientazione pastorale, un genere letterario senza il quale non vi sarebbero state, per esempio, le Bucoliche di Virgilio.

la fine di Siracusa Della vicina polis di Taormina (Tauromenion) era Timeo, il primo grande storico dell’Occidente greco. Collaboratore diretto di Ierone – il quale governò per un periodo lunghissimo, dal 275 al 215 a.C. – fu invece lo scienziato Archimede, che condivise le sorti della sua illustre città sino alla caduta nelle mani di Roma nel 212 a.C. Egli ne curò le imponenti fortificazioni e divenne, con i suoi spettacolosi marchingegni, l’inatteso protagonista dell’assedio mosso dai Romani. Ierone II, infatti, si era mantenuto alleato di Roma per tutta la prima parte della seconda guerra punica, perfino quando Annibale,

Nonostante le geniali invenzioni di Archimede, Siracusa cadde in mano romana nel 212 a.C.

dopo la vittoria di Canne (216 a.C.), pareva dover avere la meglio. Tuttavia, alla morte del sovrano, Siracusa passò dalla parte dei Cartaginesi, sicché la flotta romana la strinse d’assedio sotto la guida del console M. Claudio Marcello, senza che Annibale dall’Italia potesse in alcuno modo soccorrerla. La piú grande città ellenica d’Occidente, una delle piú importanti e popolose del mondo antico, resistette eroicamente per due anni, finché fu presa e saccheggiata (vedi box alla pagina accanto). L’aneddoto sulla morte di Archimede, celebre nell’antichità, prefigura la tragica fine degli Stati greci ed ellenistici, destinati nei decenni successivi a cedere alla forza degli eserciti di Roma e alla straordinaria sagacia politica della sua classe dirigente. nella prossima puntata • Il fascino dei vinti

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

l’antico spiegato a mio figlio S

ulla mia scrivania giace un libricino colorato, scritto da Giovanna Baldasarre e intitolato Il mestiere dell’archeologo (Gelsorosso, Bari 2011), un titolo forse non originalissimo, ma chiaro. Scelgo di parlarne, perché in questo caso i destinatari del titolo non sono gli archeologi bell’e fatti, ma i bambini, anzi i ragazzi dai 9 ai 14 anni, a cui questo quaderno didattico, ben illustrato dai disegni di Domenico Sicolo, è espressamente dedicato. Non è la prima volta che l’editoria per ragazzi si interessa dell’archeologia. Se dobbiamo dirla tutta, lo fa da molto tempo, piú di quanto gli archeologi si interessino delle pubblicazioni di carattere divulgativo.

la curiosità innanzitutto Fatta questa doverosa autocritica a nome degli «archeologi di mestiere», vi segnalo questo libricino anche per il fatto di essere introdotto da alcune belle pagine di Giuliano Volpe, dalla cui presentazione traggo due o tre temi, che innervano un po’ tutta la struttura del volume e gli danno uno spessore non comune in questo genere di pubblicazioni: 1. per fare l’archeologo si deve essere curiosi, altrimenti sarà difficile scoprire le tracce e gli indizi che ci permettono di capire che cosa è successo, e perché e quando; 2. questa curiosità va applicata (ecco il fascino

102 a r c h e o

dell’archeologia) a tutte le facce del grande poliedro della storia dell’umanità, perché per comprendere come vivevano le popolazioni del passato, occorre capire che cosa mangiavano, come costruivano le loro povere abitazioni o i templi e i palazzi del potere, come producevano i beni di consumo, come interpretavano il mondo, la vita, la morte; 3. il mestiere dell’archeologo per certi versi è veramente unico, perché mette insieme lo studio sui libri nelle biblioteche e degli oggetti nei laboratori con le attività fisiche sul campo, dove il lavoro intellettuale e quello manuale vanno di pari passo, come vanno insieme il rigore metodologico,

cosa rispondere a un bambino che annunci di voler fare l’archeologo quando sarà grande? risposte utili e chiare si possono trovare in alcune recenti pubblicazioni e, in un caso, corredate anche da un gioco da tavolo senza il quale non si raccolgono i dati, e il coraggio interpretativo, senza il quale non li si fanno parlare; 4. quindi – conclude Volpe – «che straordinaria fortuna per un ragazzo avere un bravo professore!». È una verità che vale per ogni disciplina, beninteso, dalla scuola materna all’università, e che in archeologia significa che si può anche fare gli archeologi senza domandarsi il come e il perché delle cose; ma quello sarebbe davvero un ben misero modo di occuparsi del passato!

lo scavo: come e perché Il libricino condensa efficacemente tanti diversi aspetti dell’archeologia cosí come oggi è intesa, concentrandosi sullo scavo, pratica principe della nostra disciplina e certamente capace di attrarre la curiosità dei ragazzi: la scelta del luogo in cui scavare, lo scavo di ricerca e quello di emergenza, la stratigrafia, gli attrezzi, la documentazione e il trattamento


dei reperti, cocci, ossa o resti vegetali che siano. Informazioni in pillole, beninteso, ma sempre rigorose ed esposte in modo comprensibile, senza lesinare i dettagli organizzativi che del «mestiere» fanno parte tanto quanto quelli piú apparentemente paludati. Anche mediante il ricorso a domande che aiutano a capire perché ci si affanni tanto a cercare di far parlare gli oggetti muti: quando è stato prodotto, da chi? Come? Per farne quale uso? Per quanto tempo? Quando ha smesso di essere utilizzato ed è entrato nella terra tra le cose ormai inutili? «Se un bambino – scrive l’autrice dimostra maggiore interesse per un gioco elettronico e scarso entusiasmo per un libro di storia o un documentario sull’archeologia ciò dipende, spesso, dalla quantità e qualità di tempo e attenzione che gli adulti sono capaci di dedicargli». Non c’è dubbio che sia cosí.

contadini della storia Ma non tanto perché – come si sostiene altrove – quello dell’archeologo sia un mestiere fuori moda, svolto «da studiosi appassionati, che, pur guadagnando poco e lavorando tra mille difficoltà, ogni giorno scrivono una pagina nuova della nostra storia, senza che nessun telegiornale o quotidiano ne dia notizia». Quanto perché – io credo e mi domando – questo interesse per il passato troppo spesso sembra (è l’impressione piú facile ad aversi e piú superficiale) fine a se stesso, quasi un gioco, un divertimento, un’avventura (nel senso del celeberrimo Indiana Jones, che appunto diverte e attrae, ma che con il mestiere dell’archeologo ha tanta affinità quanto Dulcamara poteva averne con la medicina). Mentre l’archeologo – lo leggiamo qualche riga dopo – «studia il passato e i suoi resti per capire meglio il presente», come ci ricorda la definizione che ne ha dato Andrea Carandini, come di «un contadino della storia», nel senso

cioè di chi dissoda il terreno per trarne i suoi frutti carichi di narrazioni, o di «un artigiano al servizio della memoria». Sono concetti di non immediata comprensione per un pubblico di ragazzi, ma le pagine colorate del libricino li rendono a poco a poco familiari, con un tono colloquiale che non ha paura di dire verità, anche un po’ scomode: il lavoro dell’archeologo, si insiste a piú riprese, è molto faticoso (può esserlo: è vero), ma in compenso «non ci si annoia mai» (ed è vero anche questo, se se ne coglie quel fascino creativo che la mente dei ragazzi può forse intuire meglio di un adulto).

leggere e giocare La collana dei Gelsomini si è intanto arricchita di un secondo volume sugli scavi della villa di Faràgola, in Puglia, sui quali dovremo tornare in questa nostra rubrica. Concludo, invece, ricordando che le iniziative editoriali dedicate all’archeologia per i piú giovani sono davvero tante, e spesso di buona qualità. Come quella messa in piedi dalla Rete dei Musei archeologici delle Province di Brescia, Cremona e Mantova, che nella collana Mettiti in gioco con l’archeologia hanno

pubblicato un bel volumetto (associato a un gioco da tavolo per bambini) dal titolo Da grande farò l’archeologo, curato da Francesca Morandini con i suoi collaboratori e ben illustrato da Margherita Allegri. La struttura del libricino è diversa dal precedente, come diverso è lo stile della narrazione, ma i contenuti non sono dissimili: segno che l’Italia archeologica è una, dal Nord al Sud, e che i modi di praticare la disciplina e di concepirne il senso nella società di oggi hanno ormai un denominatore comune. Un esempio? «Ogni reperto – leggiamo nel volumetto lombardo – è un documento della nostra storia e quindi, quando possibile, viene restituito a tutti. Come? Viene esposto in un museo nel quale tutti lo possono vedere grazie al lavoro di chi l’ha scoperto, di chi l’ha restaurato e di chi l’ha studiato e ce lo spiega con parole semplici». Ecco: questa esigenza, innanzitutto morale, di farsi capire, di comunicare con parole piane ma non banali il senso delle cose, non è certamente ancora rispettata nella maggioranza dei nostri musei archeologici, ma è entrata nel patrimonio comune degli archeologi piú giovani e attenti, e questo è un grande passo in avanti che ci fa ben sperare per il futuro.

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

il futuro nel cielo conoscere in anticipo il proprio destino era un anelito comune a tutte le civiltà del mondo antico. veri esperti in materia furono, però, gli etruschi, che a questo fine elaborarono un’autentica «disciplina», poi fatta propria anche dai romani

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uella di rivolgersi al mondo celeste, lontano e misterioso, ma altamente suggestivo e capace di esercitare una forte attrazione, per cercare di conoscere il futuro – magari con un buon anticipo – è stata, da sempre, una pratica molto seguita dall’uomo. Nell’antica Roma l’abitudine di osservare con attenzione il cielo e di «interpretarne» i segni era naturale per gente dedita all’agricoltura (e alla pastorizia). Ne nacque una sorta di astrologia primitiva, fatta di credenze e di convinzioni elementari (ma non del tutto fantasiose), dovute essenzialmente all’esperienza. Come quella, per esempio, che aveva portato a rilevare il coincidere di certi fatti col ripetersi di determinati fenomeni: tipici quelli delle fasi lunari o quelli dello scomparire e del riapparire delle costellazioni. Il precoce e profondo contatto col mondo etrusco, poi, aveva fatto sí che, presto, a prevalere di gran lunga su tutte le altre, fossero le pratiche divinatorie legate al cielo che gli Etruschi avevano organizzato e «sistemato» in una vera e propria «arte della divinazione»: la disciplina etrusca, come era detta in latino, peraltro fatta risalire alla «rivelazione» di personaggi semidivini, come il genietto Tagete e la ninfa Vegoia. Tutto era fondato sul principio della «corrispondenza mistica» tra mondo celeste e mondo terrestre,

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cioè tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, e sulla convinzione che gli stessi dèi – ritenuti normalmente intenti a occuparsi delle umane vicende – amassero inviare sulla terra «messaggi» attraverso «segni» che gli uomini dovevano riconoscere e interpretare. Ciò, nell’ambito di un preciso sistema unitario nel quale importanza primaria avevano la definizione e la delimitazione dello spazio. A partire da quello del cielo, ossia dalla volta celeste. Questa, sulla base dell’orientamento determinato dai quattro punti cardinali idealmente congiunti da due linee rette tra loro perpendicolari, era immaginata come suddivisa in sedici caselle – o «case» (casae) – considerate dimore degli dèi.

di padre in figlio Speciali sacerdoti, detti «àuguri» – che spesso si tramandavano in famiglia l’arte della divinazione – potevano riconoscere, in prima istanza, dalla posizione o dalla provenienza dei «segni» che si manifestavano in cielo (fulmini, uccelli, prodigi di varia natura) da quale divinità il «segno» fosse inviato e se esso fosse di buono o di cattivo auspicio. Le sue caratteristiche intrinseche, poi, Bronzetto etrusco raffigurante un aruspice, da Roma. IV sec. a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.


aiutavano a precisare la natura del messaggio e a specificare, volta a volta, il suo valore di annuncio, di richiamo, di comando, di condanna, ecc. In base al principio della «corrispondenza mistica», la divisione del cielo aveva precisi riscontri sulla terra dove essa si rifletteva in qualsiasi parte della superficie in uno spazio (detto templum) che fosse deliberatamente individuato, delimitato e consacrato. E ciò valeva anche per cose e oggetti. In particolare – e soprattutto – per il fegato di certi animali appositamente sacrificati (soprattutto pecore), che veniva esaminato e interrogato dagli arúspici (haruspices, da haru, «interiora», e dal verbo arcaico specio, «guardo, osservo») mediante l’ausilio di «modelli», in terracotta o in bronzo, sui quali erano schematicamente riprodotte, a incisione, la suddivisione della volta celeste e, ciascuna al suo posto, le «caselle» col nome delle divinità che le occupavano.

segni particolari Tenendo d’occhio i «modelli», segni particolari rilevati nell’organo, qualsiasi anomalia, eventuali malformazioni o altro (colore, grossezza, la stessa mancanza di... irregolarità), registrati in corrispondenza delle «caselle», davano le medesime indicazioni offerte dai segni che si manifestavano direttamente in cielo. Tra questi, i piú importanti erano i fulmini. Per essi, oltre la provenienza, il giorno e l’ora, valevano la forma, il colore, la durata, l’intensità e gli effetti. Stando a quel che dice Seneca (Quaest. Nat. 2,41), il primo che appariva nel cielo era interpretato come un avvertimento; il secondo come una dimostrazione d’ira della divinità; il terzo, detto «perentorio», era presagio di annientamento e di trasformazione: «esso devasta tutto quello su cui cade e modifica ogni stato di cose, sia pubbliche sia private». Lo stesso Seneca, pur

senza mettere in discussione il carattere ostentatorio dei fulmini, rileva però in proposito una diversità di concezione tra Etruschi e Romani. «Tra noi e gli Etruschi – egli scrive (ibid. 2,32) – i piú abili tra gli uomini nell’arte d’interpretare i fulmini, c’è questa differenza. Noi pensiamo che il fulmine scocca perché c’è stata una collisione di nuvole, secondo loro la collisione s’è verificata per consentire al fulmine di scoccare. Riferendo ogni cosa alla divinità, essi sono convinti non già che i fulmini diano dei segnali nel momento in cui si producono, ma che quelli si producono perché loro hanno qualcosa da mostrare». Altri «segni» importanti venivano dagli uccelli, osservati in volo. La pratica, detta «auspicio» (auspicium, dal tema av- di avis, «uccello», e dal verbo già ricordato specio, «guardo, osservo») – prendeva in considerazione, oltre alla loro provenienza, il numero, il colore, la «formazione», la direzione, la velocità, i versi, ecc. E, a questo punto, sembra appena il caso di sottolineare come un «auspicio» sia stato, secondo la tradizione, tra gli immediati precedenti della fondazione di Roma. Tito Livio, infatti, (I, 6,7), dopo aver ricordato che Romolo e Remo decisero di rivolgersi agli dèi per sapere, attraverso un segno augurale, chi dei due dovesse dare il nome alla città che essi s’accingevano a fondare per poi regnare su di essa, scrive che «Romolo, per prendere gli auspici si pose, come luogo d’osservazione, sul Palatino e Remo sull’Aventino». E aggiunge: «Si dice che per primo a Remo apparvero come segno sei avvoltoi, e, dopo che l’augurio era stato reso pubblico, a Romolo ne apparvero il doppio». Quindi conclude: «I rispettivi sostenitori li acclamarono entrambi re: gli uni dando priorità al tempo, gli altri al numero degli uccelli». I Romani adottarono la «disciplina etrusca» anche a livello ufficiale,

cioè con l’intervento dello Stato che assumeva àuguri provenienti dall’Etruria per l’ufficio dei magistrati. Alla fine della repubblica, a uno di essi, Tarquizio Prisco (vissuto a Roma per oltre un trentennio), fu affidata la traduzione in latino dei libri sacri degli Etruschi.

indovini di stato E la sua «vulgata» fu consultata durante tutta l’età imperiale, fino all’inoltrato IV secolo della nostra era. E anche oltre, visto che, ancora nell’anno 408 (col cristianesimo ormai trionfante), all’approssimarsi a Roma dei Goti di Alarico, il prefetto della città e, a quanto pare, lo stesso papa Innocenzo I, non disdegnarono di ricorrere all’aiuto degli «indovini ufficiali». Tanto piú che, a quelli di loro presenti in città per incarico istituzionale, se n’erano aggiunti molti altri fuggiti dall’Etruria già investita dall’orda dei barbari. Lo Stato volle sempre mantenere ad alto livello l’arte della divinazione, al punto che nel II secolo a.C., essendo essa caduta nelle mani poco affidabili di gente di «condizione servile», il Senato prescrisse con un decreto che le città etrusche depositarie della tradizione piú genuina consegnassero, ognuna, alcuni rampolli delle loro migliori famiglie perché potessero seguire gli studi specialistici. E Augusto, da parte sua, per regolamentarne la professione e combattere l’uso invalso delle prestazioni private, occasionali e remunerate, proibí che gli àuguri ricevessero clienti in casa, a porte chiuse, e che si facessero pronostici circa la salute e la vita delle persone. Anche grazie a questi – e ad altri – provvedimenti, piú volte ripetuti fino all’epoca di Costantino, gli àuguri poterono continuare a esercitare la propria funzione, legalmente riconosciuta, durante tutta l’età imperiale e a ogni livello, compreso quello della corte e del governo centrale. (1 – continua)

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

tra canyon e pinnacoli in cappadocia, nel cuore della turchia, monaci eremiti e piccole comunità cristiane hanno scavato nella roccia centinaia di luoghi di culto, monasteri e rifugi sotterranei

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a Cappadocia è un altopiano dell’Anatolia centrale che si sviluppa a una altitudine compresa tra 1000 e 1500 m sul livello del mare. Il paesaggio è formato soprattutto da rocce di origine vulcanica, che, grazie alla loro tenerezza, sono state modellate dagli agenti meteorici in forme molto caratteristiche e hanno dato vita a paesaggi da fiaba, formati da canyon, falesie, calanchi, pinnacoli – noti come «camini delle fate» – e butte, cioè basse colline a cima piatta. All’interno di queste masse rocciose l’uomo ha scavato strutture di molti tipi, sviluppando una architettura «in negativo», con abitazioni sotterranee, spazi di lavoro,

In basso: Soganli (Turchia). In questa valle della Cappadocia vi sono decine di chiese scavate nella roccia, alcune ricavate all’interno di pinnacoli di tufo che furono scolpiti anche esternamente, a imitazione degli edifici tradizionali costruiti in elevato.

In alto: Karanlik Kilise, Göreme (Turchia). Gli elementi architettonici delle chiese rupestri non hanno generalmente funzione statica, ma esclusivamente decorativa, come appare chiaro dalla volta di questa struttura ancora in posto nonostante il crollo di oltre metà del vano.


della terra si trovano cucine, refettori, librerie, celle per i monaci e sistemazioni per i pellegrini.

Le chiese rupestri

sepolture, acquedotti e chiese. Queste ultime, che suscitarono l’ammirazione dei primi viaggiatori ed esploratori del XIX secolo, sono uno dei piú alti esempi di chiese rupestri al mondo.

un uso prolungato Gli insediamenti rupestri religiosi della Cappadocia, realizzati per un lungo periodo di tempo, certamente dal V al XIII secolo, ma forse anche in precedenza, sono stati uno degli elementi di forza per il riconoscimento da parte dell’UNESCO di questa zona a Patrimonio dell’Umanità nel 1985. La maggior parte dei complessi ecclesiastici ipogei è rimasta in uso sino al XVI-XVII secolo, ma alcuni anche oltre, fino al XX secolo, come nel caso della Karsi Kilise presso Gülsehir, abbandonata soltanto all’epoca dello scambio di popolazione tra Greci e Turchi dopo il trattato di Losanna del 1923. Questi capolavori di architettura e arte «al contrario», scavati nella roccia sottraendo materia prima per realizzare ambienti ed elementi decorativi, invece di aggiungerla come nell’edilizia tradizionale, si trovano all’interno dei pinnacoli, nelle pareti di anfiteatri naturali, o sotto il livello del suolo. In genere questi insediamenti sono composti da chiese e servizi per la vita cenobitica. Per questo, nelle viscere

In alto: Eski Gümüs (Turchia). La decorazione pittorica della chiesa rupestre è uno dei capolavori dell’arte bizantina della Cappadocia. In basso: Tokali Kilise, Göreme (Turchia). La missione dell’Università della Tuscia è qui impegnata nel restauro delle pitture della «Cappella Sistina» della Cappadocia.

Chiese e cappelle possono trovarsi sia nei monasteri, sia isolate. Sono spesso associate ai villaggi scavati nelle pareti, o ai rifugi e agli insediamenti sotterranei. Nelle chiese rupestri sono presenti gli elementi architettonici tipici delle chiese in muratura, ma si tratta, ovviamente, di elementi ornamentali e non strutturali, scavati in «negativo». Gli spazi possono essere articolati, con colonne, navate, cupole, nartece, iconostasi, e decorati con pitture murali e bassorilievi. In Cappadocia si trovano anche chiese in muratura, costruite in superficie, ma la quantità e le caratteristiche degli edifici ecclesiali scavati nelle rupi sono una eccezionalità presente in poche altre aree al mondo, tra cui la Puglia, di cui ci occuperemo nella prossima puntata.

un progetto italiano

La Cappella Sistina della Cappadocia

L’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, sotto la direzione di Maria Andaloro, svolge in Turchia dal 1996 uno dei progetti ufficiali di ricerca italiana all’estero, sostenuto dalle autorità locali e dal nostro Ministero degli Affari Esteri. Dal 2006 la missione opera in Cappadocia. L’attività, che coinvolge storici dell’arte, restauratori, architetti, archeologi, chimici, geologi e speleologi, è dedicata allo studio, conservazione e valorizzazione di decine e decine di chiese rupestri dipinte comprese fra il VI e il XIII secolo, al rapporto fra pittura e chiese scavate nella roccia, alla comprensione dei programmi iconografici, e alla varietà delle strutture ipogee che caratterizzano il paesaggio cappadoce. Cuore del progetto è, poi, il restauro delle pitture delle chiese dei Quaranta Martiri a Sahinefendi e della Tokali Kilise, all’interno dell’Open Air Musem di Göreme, nota per il suo eccezionale ciclo pittorico del X secolo che ha suggerito la definizione di «Cappella Sistina della Cappadocia».

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divi e donne Francesca Cenerini

un’augusta fatale al fianco di nerone, l’imperatore «maledetto», si avvicendarono claudia ottavia e poppea sabina. donne sulla cui reputazione influí senza alcun dubbio la cattiva fama del marito

Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone. Scuola di Fontainebleau, XVI sec. Ginevra, Musée d’art et d’histoire.

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C

laudia Ottavia è figlia dell’imperatore Claudio e della sua terza moglie Valeria Messalina. Agrippina Minore, madre di Nerone, volle che il figlio, sedicenne, prendesse in moglie Ottavia nel 51 d.C. (Tacito, Annali, 12, 58), allo scopo di consolidare la sua posizione dinastica, ma, a detta di tutte le fonti, questo matrimonio fu tutt’altro che felice e il principe si rifiutava di avere rapporti sessuali con la giovane sposa. La triste sorte di Ottavia fu causata da un’altra donna, Poppea Sabina, che, nel resoconto di Tacito, si comporta da donna oltremodo crudele nei confronti di una ragazza indifesa. Poppea aveva sposato in prime nozze un prefetto del pretorio di Claudio, Rufrio Crispino, si era quindi unita a Salvio Otone, il futuro imperatore, uomo ben visto e ben introdotto a corte, e aveva iniziato la relazione con Nerone, incoraggiata dallo stesso marito, sempre secondo Tacito. Nel 58 d.C. Nerone nomina Otone governatore della Lusitania (odierno Portogallo) e lo invia nella lontana provincia. Agrippina Minore teme l’unione tra Nerone e Poppea, la quale, a sua volta, si rende conto che Agrippina Minore può essere un reale e serio ostacolo al suo progetto matrimoniale. Come è già stato ricordato (vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013), Nerone fa uccidere la madre nel 59 d.C. e, nel 62 d.C.,


dapprima divorzia da Ottavia e la manda in esilio, accusandola di sterilità, poi sposa Poppea. Spaventato dal sostegno popolare per la «principessa triste», Nerone accusa Ottavia di adulterio e procurato aborto e la fa giustiziare il 9 giugno. Nel 63 d.C. nasce la figlia di Nerone e di Poppea, Claudia Augusta, che, però, muore pochi mesi dopo la nascita (Svetonio, Vita di Nerone, 35, 2). In seguito alla maternità di Claudia, Poppea ottiene il titolo di Augusta, mentre la bambina è divinizzata post mortem (Tacito, Annali, 15, 23) e assume il nome di diva Claudia.

versioni a confronto Della narrazione dell’incontro e del matrimonio fra Nerone e Poppea esistono almeno due versioni. La prima, identica nella sostanza e difforme in pochi particolari, è presente nelle Storie di Tacito (1, 13), nella Vita di Otone di Svetonio (3), nella Vita di Galba di Plutarco (19) e in Cassio Dione (61, 11, 2). Sulla base di questa narrazione, Nerone, amante di Poppea, l’aveva affidata al suo compagno di dissolutezze Otone, il futuro imperatore, finché non fosse riuscito a liberarsi di Ottavia. Poi, sospettando una relazione tra i due, Nerone aveva allontanato Otone, affidandogli il governo della Lusitania. La seconda versione, invece, presente negli Annali dello stesso Tacito (13, 45-46), presenta Poppea secondo il solito cliché della donna, bella, ricca, nobile, intelligente, ma dissoluta, che, sposata a Otone, decide di sedurre Nerone per elevare la sua posizione a corte. Essendo fermamente decisa a diventare sua moglie, gli si concede con parsimonia, elogia i meriti del marito Otone e, soprattutto, disprezza la relazione del nobile Nerone con la liberta Atte. E, come abbiamo già detto, riesce a farsi sposare. Anche questa seconda versione, però, risente dei giudizi degli storici su Nerone: un

Ritratto di Ottavia, prima moglie di Nerone, da Roma, via Varese. Età imperiale. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Figlia dell’imperatore Claudio e di Valeria Messalina, la giovane fu ripudiata da Nerone, il quale, accusandola di sterilità, dopo il divorzio, la mandò in esilio. assassino calcolatore oppure un debosciato vittima delle sue libidini incontrollabili. Mi sembra evidente, invece, che anche con questo nuovo matrimonio l’imperatore coltivi nuove alleanze politiche. Nel 65 d.C. muore Poppea, uccisa, sembra, da Nerone dopo un violento litigio. Secondo il racconto delle fonti (Svetonio, Vita di Nerone, 35, 3; Tacito, Annali, 16, 6), Poppea è vittima di un attacco di collera del marito che colpisce con un calcio il suo ventre gravido. Per Cassio Dione (62, 28, 1), il calcio può essere stato volontario o accidentale.

l’ambizione di una dark lady Poppea è dipinta come femme fatale o dark lady, astuta e calcolatrice, decisa a servirsi della sua bellezza e del suo potere seduttivo per arrivare il piú in alto

possibile non solo dagli autori antichi ma anche da una parte della storiografia moderna. Piú di recente, invece, è emersa la tendenza a ritenere che il ritratto letterario negativo di una Augusta abbia il preciso scopo narrativo di mettere in evidenza la perversione del potere imperiale in quanto tale. Se volessimo difendere Poppea, potremmo farle pronunciare le parole di Jessica Rabbit, personaggio-fumetto del fortunato film che combinava animazione e recitazione, Chi ha incastrato Roger Rabbit? (1988): «Io non sono cattiva, è che mi disegnano cosí». Ma, come al solito, le fonti epigrafiche parlano un altro linguaggio. Il nome di Poppea, moglie dell’imperatore Nerone, compare su alcuni graffiti pompeiani. In particolare due graffiti acclamano alcuni iudicia dell’Augusto e dell’Augusta. Varie ipotesi sono state avanzate riguardo all’interpretazione di questi e di altri graffiti che menzionano Poppaeenses o Neropoppaeenses. Se paiono abbandonate quelle relative all’origine pompeiana di Poppea e alla sua mediazione per fare riaprire l’anfiteatro di Pompei chiuso dopo gli sconti tra Pompeiani e Nucerini, oppure quella relativa a un preciso intervento politico-istituzionale del tutto improbabile per una donna, sia pure Augusta, va rilevato che sicuramente l’imperatore e la moglie avevano notevoli interessi nella città e nel territorio (la famosa villa di Oplontis, per esempio); questi interessi potevano mobilitare lobby (per adoperare una parola oggi molto di moda) per fini elettorali locali. In ogni caso, a Pompei ci sono numerose dediche non ufficiali graffite e dipinte sui muri che ricordano Nerone e Poppea: è a mio parere evidente che nell’immaginario popolare il potere imperiale sia identificato nella domus Augusta, di cui era diventata parte integrante anche la componente femminile.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Apollo e il serpente «trono» della pizia e oggetto di contesa divina, il tripode, simbolo dell’oracolo di delfi, ricorre sulle monete della città di crotone

«S

tizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua crudeltà dei Greci, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ascoltò le domande del giovane Edipo, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro». Con questo incipit lo scrittore e drammaturgo svizzero Frederich Dürrenmatt (1921-1990) apre il suo La morte della Pizia (1976), ironico racconto incentrato sulla celeberrima profetessa dell’antichità. Recentemente «Archeo» ha ripercorso la storia del culto oracolare di Apollo a Delfi (vedi n. 335, gennaio 2013), il piú importante e influente del mondo antico, consultato da Greci e popolazioni straniere dall’VIII secolo a.C. sino al V d.C., tanto che Delfi era considerata l’«ombelico del mondo». Simbolo del culto delfico è il tripode sacro ad Apollo, il grande braciere in bronzo su cui sedeva la Pizia, che, inebriata da sacri vapori sprigionati dalla grotta misti a foglie d’alloro, vaticinava incomprensibilmente in una forma di sconvolgente e convulsa possessione. Lungo il bordo del

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Dritto di uno statere in argento di Crotone. 420-390 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. Eracle, seduto su una roccia, tiene un ramoscello nella mano destra e un’asta nella sinistra; dietro di lui l’arco, la leontea e la clava e, davanti, un altare; in esergo, due delfini. tripode si trovavano una lastra circolare, che permetteva l’appoggio, e tre maniglie, atte al trasporto, ma anche a far sí che la sacerdotessa, quando stravolta divinava, potesse reggersi.

La furia di eracle Al tripode è legato poi Eracle, il quale, in un accesso di follia per essersi visto negare un oracolo al santuario, contese ad Apollo il sacro manufatto, forse per divenire egli stesso il titolare del culto delfico: un episodio ampiamente rappresentato su ceramiche e rilievi.

Esiste un forte legame, esemplificato dall’iconografia monetale, tra Crotone, Delfi, Apollo ed Eracle: si tratta di un magnifico statere d’argento emesso dalla città magno-greca nel 420 a.C. circa. Sul dritto è raffigurato Eracle quale ecista (fondatore) della città, mentre sul rovescio campeggia il grande tripode delfico, con Apollo che scaglia una freccia verso il serpente Pitone. L’incisore ha mirabilmente sintetizzato nel tondello la storia mitica di Crotone, una delle piú importanti colonie greche in Italia, fondata intorno alla fine dell’VIII secolo a.C. La tradizione riferisce piú versioni della sua nascita, fatta risalire a un gruppo di Achei di ritorno dalla guerra di Troia, o a Kroton, ucciso per errore da Eracle che aveva ospitato. Per ripagare l’errore fatale, l’eroe volle la creazione di un grande abitato a nome del defunto, sulle sponde del fiume Esaro, lí dove eresse il monumento funerario in onore dell’amico. Un altro racconto vedeva infine nell’acheo Myskellos di Ripe il fondatore di Crotone su ordine dell’Apollo Delfico. Ovidio (Metamorfosi, 15, 12 ss.) unisce i due miti, ovvero quello che vede Eracle ospite di Kroton, e quello di Myskellos, al quale il semidio stesso impone in sogno di impiantare l’abitato sulle rive dell’Esaro. E anche lo statere sintetizza l’origine comunque


divina dell’abitato: Eracle giovanile, sul dritto, è seduto in nudità eroica su una roccia con accanto leontea, arco, frecce e clava. In mano tiene un rametto e davanti ha un altare, che potrebbe alludere a quello eretto in onore di Kroton. In esergo due delfini, riferibili alle trasformazione di Apollo in questo mammifero quando, dopo l’uccisione del serpente Pitone, il dio rientrò a Delfi.

un soggetto di successo La perizia calligrafica del soggetto, che ricorre, sempre a Crotone, anche con diverso dritto, denuncia chiaramente un prototipo statuario del soggetto, certo famoso, riprodotto anche su conii piú tardi, come per esempio sugli stateri di Heraclea in Lucania (380-300 a.C.) e sui tetradrammi di Eutidemo di Battrina (205-190 a.C.). Sul rovescio il piccolo Apollo, nato solo da quattro giorni ma già

In alto: rovescio dello statere argenteo di Crotone con Apollo bambino che saetta il pitone e, nel mezzo, il tripode delfico. 420-390 a.C. Berlino, Staatliche Museen, Münzkabinett. In basso: la contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

muscolosissimo quanto e piú di Ercole, saetta il serpente Pitone, primo custode del culto oracolare e ctonio delfico, che si svolgeva entro una grotta riempita da miasmi naturali, nella quale si trovava anche l’omphalos, una pietra scolpita ricoperta da una rete che rappresentava l’ombelico del mondo, centro della terra. Pitone, figlio di Gea (la Terra), insieme a Era perseguitò la rivale di questa, Leto, con la quale Zeus aveva generato Apollo e Diana. Il pargolo divino uccise Pitone e lo seppellí sotto l’onfalo di Delfi. Tra i due si staglia, imponente, il tripode inghirlandato con i tre cerchi che fungevano da maniglie. Il tripode di Delfi è il simbolo principe di quasi tutta la monetazione crotoniate perché colonia voluta proprio dall’oracolo, a simboleggiare la volontà e il favore delle divinità accordati alla città sin dalla sua origine dal piú solare, ma a volte anche molto crudele, tra gli dèi dell’Olimpo.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Ugo Fantasia

la guerra del peloponneso Quality Paperbacks, Carocci editore, Roma, 223 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-430-6638-4 www.carocci.it

che non ha mancato di condizionare il dibattito storiografico in materia. Nei capitoli successivi, si entra nel vivo della vicenda, della quale non si stenta a cogliere la già citata complessità, che emerge, per esempio, dall’intricato gioco delle alleanze e degli schieramenti che ebbero a formarsi in quel trentennio cruciale. La ricostruzione è chiara e ben articolata e si avvale di un ampio e aggiornato repertorio bibliografico, utile per approfondire la conoscenza dell’argomento e delle sue molte implicazioni di carattere sociale e geopolitico. Stefania De Vido

le guerre di sicilia Tra il 431 e il 404 a.C., Atene e Sparta diedero vita a un conflitto fratricida, destinato ad avere riflessi decisivi nella storia dell’antica Grecia, ma non solo. L’importanza acquisita dalle due maggiori città-stato dell’Ellade era infatti tale che quel lungo scontro, come si legge anche nelle prime pagine di questo saggio, può essere considerato come una vera e propria «guerra mondiale». Si tratta, dunque, di un evento complesso, di cui Ugo Fantasia ripercorre le diverse fasi, aprendo la sua disamina con l’analisi delle fonti storiche che ne hanno dato conto, prima fra tutte, naturalmente, la testimonianza di Tucidide, che continua a essere un termine di riferimento imprescindibile, ma

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Quality Paperbacks, Carocci editore, Roma, 188 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-430-6788-6 www.carocci.it

Isola grande, ricca e geograficamente situata in una posizione cruciale, la Sicilia fu, fin da tempi remoti, meta di coloni e di conquistatori. Mire che non poterono

non risolversi, a piú riprese, in episodi violenti, come accadde, per esempio, tra il V e il III secolo a.C., l’ambito cronologico scelto da Stefania De Vido per questa sua trattazione. Protagonisti delle vicende belliche descritte sono, innanzitutto, Siracusa – una delle maggiori colonie del Mediterraneo, fondata nell’VIII secolo dai Corinzi – e Cartagine, che prima d’essere annientata da Roma, fu una delle maggiori potenze del Mare Nostrum e che, di quel mare, ambiva a imporsi come realtà egemone. Il conflitto si accese piú volte e gli scontri furono sempre molto piú di un «fatto privato» tra i due contendenti. Intrecci articolati, che videro coinvolte genti indigene e condottieri provenienti dalla madrepatria ellenica, fino a quando, nel 264 a.C., non ebbe inizio la prima guerra punica, evento che annunciava l’irruzione sulla scena della superpotenza capitolina. Fabrizio Frongia

Le torri di Atlantide Identità e suggestioni preistoriche in Sardegna Il Maestrale, Nuoro, 311 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-6429-115-4 www.edizionimaestrale. com

Nuraghi, tombe di giganti, case delle fate…: la preistoria della Sardegna, già dalla sua terminologia, sembra voler evocare un passato

sospeso fra realtà e leggenda. E, invece, come la ricerca archeologica va sempre meglio precisando, quel che accadde nell’isola nei millenni che precedettero l’avvento della storia è un insieme di fatti, spesso molto peculiari, ma tutt’altro che misteriosi. Ciononostante, i monumenti megalitici o le grandi torri di pietra che ancora oggi caratterizzano il paesaggio sardo non hanno mancato di suscitare fantasie e congetture a dir poco bizzarre. L’argomento scelto da Fabrizio Frongia è, dunque, «scivoloso», ma l’autore prova a evitare cadute rovinose e offre un’analisi puntuale e ben documentata delle ricerche finora condotte dai maggiori studiosi della materia, primo fra tutti Giovanni Lilliu. Ne risulta un libro di lettura interessante e gradevole, suggellato da un capitolo, Un’altra storia è possibile?, che offre un saggio brillante dell’approccio scelto dall’autore nei confronti della materia.


Andrea Augenti, Marilisa Ficara, Enrico Ravaioli

Atlante dei beni archeologici della provincia di ravenna I. Il paesaggio monumentale del Medioevo Ante Quem, Bologna, 299 pp., ill. b/n + 3 tavv. 35,00 euro ISBN 978-88-7849-075-8 www.antequem.it

seguito da contributi sulle principali tipologie di siti presenti nell’area analizzata: i siti fortificati e le pievi (entrambi firmati da Enrico Ravaioli) e i monasteri (a cura di Marilisa Ficara). Segue l’apparato del catalogo vero e proprio, forte di una schedatura che ha finora censito piú di 300 presenze, di cui sintetizzano la distribuzione le 3 tavole topografiche in allegato.

dall’estero J. Rasmus Brandt e Jon W. Iddeng (a cura di)

Greek and roman festivals

Ormai da alcuni anni, l’archeologia medievale a Ravenna si identifica, innanzitutto, con le ricerche sistematiche condotte nel sito di S. Severo: una realtà di eccezionale interesse, che si è trasformata in un’autentica miniera di informazioni sull’epoca che vide tramontare l’impero romano e sui primi secoli dell’Età di Mezzo. Ma, come questo Atlante dimostra, il patrimonio archeologico e storico artistico del territorio ravennate è ben piú ricco e diffuso, a conferma della sua vitalità e del suo dinamismo. L’opera, di taglio prettamente specialistico, si apre con un saggio di inquadramento storico a firma di Andrea Augenti,

Content, Meaning and Practice Oxford University Press, Oxford, 432 pp., ill. b/n 89,00 GBP ISBN 978-0-19-969609-3 www.oup.com

Frutto di un seminario internazionale svoltosi in Norvegia nel 2006, il volume, arricchito da ulteriori contributi, propone un’analisi interdisciplinare delle grandi celebrazioni

civili e religiose che caratterizzarono la cultura greca e poi quella romana. Al di là degli aspetti esteriori – che pure, per il loro valore simbolico, erano uno degli elementi piú significativi di quegli eventi –, riti e cerimonie, come si legge fin dall’introduzione firmata dai curatori dell’opera, furono momenti cruciali della vita di quelle civiltà. Riunirsi in occasione delle feste panatenaiche celebrate ad Atene o delle feriae Latinae istituite nella Roma arcaica era qualcosa di piú della semplice ricorrenza: si trattava, infatti, di situazioni che innescavano processi sociali e politici decisivi per la vità delle comunità coinvolte, la cui unità veniva rinsaldata dal senso di appartenenza a valori comuni e dall’identificazione con luoghi e simboli altrettanto condivisi. L’analisi del fenomeno è perciò uno strumento prezioso per affinare la comprensione dell’universo religioso e culturale della Grecia e di Roma. David M. Pritchard

Sport, Democracy and War in Classical Athens Cambridge University Press, New York, 432 pp., ill. b/n. 99,00 USD ISBN 978-1-107-00733-8 www.cambridge.org

Che la disputa di una competizione potesse avere risvolti ben piú complessi del mero

valore sportivo del suo risultato fu chiaro già ai popoli dell’antichità e a quello greco in particolare (al quale peraltro si deve l’ideazione della piú importante manifestazione sportiva di sempre, le Olimpiadi). Una consapevolezza che ispira il saggio di Pritchard, nel quale le dinamiche sociali e culturali legate allo svolgimento delle gare vengono lette, appunto, in chiave «extrasportiva». L’autore, per esempio, si sofferma sul fenomeno che vide i campioni delle diverse discipline generalmente selezionati tra gli esponenti di una classe elitaria, eppure sempre assai apprezzati e osannati anche dal popolino. Oppure su quanto spesso vicende belliche e atletiche si fossero dipanate su binari paralleli. Una disamina attenta e originale, che mette a fuoco un aspetto meno noto, ma non per questo secondario, dell’Atene di epoca classica. (a cura di Stefano Mammini)

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