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2013
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Selva del lamone
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€ 5,90
Mens. Anno XXIX numero 6 (340) Giugno 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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editoriale
il rumore dell’acqua Un museo di storia della scienza, il fiorentino Museo Galileo, e un’importante istituzione berlinese, il Max-Planck-Institut, hanno realizzato, ai Musei Capitolini di Roma, la prima rassegna mai dedicata alla figura di Archimede. Invitiamo i nostri lettori a visitarla: «Archimede. Arte e scienza dell’invenzione» è una mostra bellissima, e non solo, naturalmente, per lo straordinario splendore delle sale che la ospitano, ma perché è un’operazione di alta divulgazione culturale – scientifica, archeologica, storica – nata dall’intento di «ricordare» e far rivivere atmosfere, contesti ed episodi di un’epoca. Modelli funzionanti dei dispositivi meccanici e filmati con ricostruzioni tridimensionali delle invenzioni dello scienziato di Siracusa accompagnano, con elegante funzionalità didattica, il percorso espositivo scandito dalla presentazione di oggetti, personaggi, paesaggi: ad accogliere il visitatore è la Sicilia del III secolo a.C., con la storia di una città greca tra le piú belle e quella dei suoi protagonisti, sullo sfondo dei rapporti – e degli scontri – tra le grandi potenze del Mediterraneo antico. Nelle sale capitoline, il racconto di questo mondo procede di pari passo con la narrazione di un’altra riscoperta, quella dello stesso Archimede e della sua opera. Perché – vale la pena ricordarlo – fino al XIII secolo la memoria di Archimede fu assai debole in Occidente (nelle fonti medievali il suo nome apparirà storpiato, in forme derivate dall’arabo). Saranno gli umanisti del XV secolo – insieme all’invenzione della stampa – a restituire al geniale inventore la sua memoria e a diffonderla. Segnaliamo un altro particolare che caratterizza gradevolmente il percorso della mostra: il silenzio che necessariamente accompagna la visita è interrotto soltanto dai «rumori» dei congegni meccanici ricostruiti nell’esposizione; come quello che, grazie a un flusso d’aria costretto dalla pressione dell’acqua, riproduce il cinguettio di un uccello. Insieme a diversi altri meccanismi scaturiti dalle riflessioni dei filosofi sulla pneumatica (tra cui le fontane zampillanti, anch’esse riprodotte in mostra) questo era già in voga ad Alessandria, negli stessi anni in cui vi soggiornò Archimede. Andreas M. Steiner Ramo con volatili, scultura in bronzo, dalla Casa di M. Fabio Rufo a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. Forse l’opera era parte di uno di quegli alberi meccanici, funzionanti con acqua e aria (vedi disegno), di cui ci parla Erone di Alessandria nella Pneumatica.
Sommario Editoriale
Il rumore dell’acqua
3
di Andreas M. Steiner
Attualità
dalla stampa internazionale Gli scavi nel cuore di Colonia e una rivelazione inaspettata sulla fine di Giulio Cesare... 22
la notizia del mese
da atene
Dagli scavi in un sito dell’età del Bronzo in Calabria affiora un’eccezionale statuetta di produzione minoica
di Valentina Di Napoli
Addio al passato?
scavi 6
di Carlo Casi
notiziario
10
24
Missione in Pakistan 28 di Luca Maria Olivieri
28
scoperte Torna alla luce, a Buchères, in Francia, una ricca necropoli gallica, con corredi caratterizzati dalla copiosa presenza di armi e manufatti in bronzo 10 parola d’archeologo Guidato dai Musei Vaticani, il Vatican Coffin Project, svela tutti i segreti dei sarcofagi scoperti nel nascondiglio di Bab el-Gasus 12
52 civiltà cinese/6
Han. I «primi Cinesi» 38 di Marco Meccarelli
i luoghi della leggenda Gordion. La fortuna dei Frigi
52
di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
mitologia, istruzioni per l’uso/5 I terribili sette
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di Daniele F. Maras In copertina statua di filosofo (forse un cinico). Copia romana di un originale greco del III o II sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
Anno XXIX, n. 6 (340) - giugno 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.
Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia cristiana e medievale all’Università di Bologna. Giovanni Antonio Baragliu è direttore tecnico della Riserva Naturale Selva del Lamone. Antonio Becchi è Visiting Scholar presso il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte. Heinz-Jürgen Beste è architetto e membro scientifico dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Sonja Brentjes è ricercatore presso il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte. Jochen Büttner è direttore del progetto TOPOI presso il Max-PlanckInstitut für Wissenschaftsgeschichte. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Giovanna De Sensi Sestito è professore ordinario di storia greca nell’Università della Calabria. Valentina Di Napoli è archeologa. Giovanni Di Pasquale è collaboratore scientifico del Museo Galileo-Istituto e Museo Nazionale di Storia della Scienza di Firenze. Luciano Frazzoni è Direttore del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Galluzzi è direttore del Museo Galileo-Istituto e Museo Nazionale di Storia della Scienza di Firenze. Enrico Giusti è presidente del Giardino di Archimede di Firenze. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Giangiacomo Martines è architetto e responsabile della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Friuli-Venezia Giulia. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Dieter Mertens è stato direttore dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma. Luca Maria Olivieri è direttore e responsabile scientifico del progetto ACT. Claudio Parisi Presicce è direttore dei Musei Capitolini. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Matthias Schemmel è ricercatore presso il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio stampa mostra «Archimede. Arte e scienza dell’invenzione»: copertina e pp. 3, 82, 85, 89, 90 (basso), 93-103 – Cortesia Reinhard Jung e Marco Pacciarelli: pp. 6-8 – Cortesia INRAP/foto Denis Gliksman: p. 10 – Cortesia SBA Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 11 – Cortesia Vatican Coffin Project: pp. 12-14 – Römisch-Germanisches Museum der Stadt Köln: p. 22 (sinistra, alto e basso) – Colonia3D: p. 22 (basso, destra) – Katharina Hesse: p. 23 – Stefano Mammini: pp. 24-25 – Cortesia Progetto ACT/foto Edoardo Loliva: pp. 28-31, 32 (alto, sinistra e destra), 33 (alto; basso, sinistra), 34-37 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 38, 40
Rubriche
Scavare il medioevo Un’isola felice
il mestiere dell’archeologo La versione di Carver
l’altra faccia della medaglia
104
Il colpo di Venere
di Daniele Manacorda
110
di Francesca Ceci
antichi ieri e oggi
La scienza occulta dei Caldei
108
di Andrea Augenti
libri
106
112
di Romolo A. Staccioli
Lí, nella selva oscura...
82
speciale
parchi archeologici 72
di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni
72
Archimede. Arte e scienza dell’invenzione
82
testi di Antonio Becchi, Heinz-Jürgen Beste, Sonja Brentjes, Jochen Büttner, Giovanna De Sensi Sestito, Giovanni Di Pasquale, Paolo Galluzzi, Enrico Giusti, Giangiacomo Martines, Dieter Mertens, Claudio Parisi Presicce, Matthias Schemmel
(basso), 41-43, 48, 49; Picture Desk Images: p. 40 (alto); Leemage: pp. 60/61; Electa/Bruno Balestrini/ su concessione del MiBAC: pp. 70/71 – Doc. red.: pp. 39, 56, 64, 69, 86 (alto, sinistra e destra), 86 (basso, sinistra), 87 (basso, destra), 91, 104, 108, 109 – Da The Search for Immortality: Tomb Treasures of Han China (catalogo della mostra), Cambridge 2012: pp. 44-45 – Corbis: Imaginechina: p. 46; Asian Art & Archaeology: p. 47; Ellsworth Huntington/National Geographic Society: p. 54 (alto); Chris Hellier: p. 58 (centro) – Getty Images: Time Life Pictures: pp. 52/53, 54 (basso, sinistra e destra), 57 – Emanuela Solaroli: rielaborazioni grafiche alla p. 58 – Dick Osseman: pp. 58 (basso), 61 (alto e basso), 62, 63 – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: p. 66 – Archivi Alinari, Firenze: Bridgeman Art Library: pp. 67, 92; RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 68 (basso), 106 – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 68 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 72-81, 110, 111 (destra) – Tips Images: Luigi Nifosí: pp. 84, 90 (alto) – Da I Greci in Occidente (catalogo della mostra), Milano 1996: pp. 86 (centro), 87 (sinistra) – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: p. 111 (sinistra) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 7, 30, 40, 56, 75, 86, 108. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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la notizia del mese di Carlo Casi
MINOSSE approdA IN CALABRIA gli scavi di Punta di Zambrone, presso tropea, restituiscono un eccezionale reperto importato da Creta durante l’età del Bronzo
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l promontorio di Punta di Zambrone si protende sul Tirreno, poco a nord di Tropea, ed è famoso perché ospita la spiaggia di Marinella, una delle piú belle e incontaminate spiagge della Calabria. Recentemente la località è andata imponendosi all’attenzione anche per un grande progetto internazionale di scavo, dal quale stanno emergendo importanti novità per la piú antica storia d’Italia. Il sito è noto già dagli anni Novanta del secolo scorso, quando ricerche di superficie identificarono tracce certe della presenza di un centro abitato dell’età del Bronzo – in particolare dei secoli compresi tra il XVII e il XII a.C. – che intratteneva rapporti con il Mediterraneo orientale, testimoniati da frammenti di vasi dipinti micenei. Un piccolo scavo condotto nel 1994 permise di accertare la presenza di un fossato difensivo scavato nella roccia. Di recente Marco Pacciarelli, docente presso l’Università di Napoli «Federico II» – che aveva già condotto il primo scavo per conto
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A sinistra e in basso: la statuetta in avorio d’elefante, rinvenuta negli scavi a Punta di Zambrone. Produzione minoica, XVII-XV sec. a.C.
della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria – insieme a Reinhard Jung, dell’Università di Salisburgo, ha avviato nel sito un nuovo ciclo di intense ricerche archeologiche. Alla domanda sulle finalità della ricerca, Pacciarelli ha cosí risposto: «Lo scopo è quello di indagare il ruolo storico che i rapporti con il mondo miceneo e minoico hanno avuto per l’emergere di civiltà complesse nella penisola italiana.
Cosenza Lamezia Terme
M a r Ti r r e n o
Catanzaro
Punta di Zambrone Briatico Tropea Lipari
Vibo Valentia
Messina
N NO
NE
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Reggio Calabria
Ruolo che, soprattutto in area tirrenica, era poco studiato e considerato, in particolare per la fase cruciale tra XIII e XII secolo a.C., che corrisponde alla crisi e poi al crollo del regno miceneo, e in Italia all’età del Bronzo Recente. Si tratta di un momento che ha visto grandi conflitti e cambiamenti nel Mediterraneo, e durante il quale vi sono indizi anche del trasferimento in Egeo di piccoli gruppi di popolazioni provenienti dall’Italia». Le ricerche geofisiche hanno confermato la presenza di un fossato difensivo della lunghezza di 80 m, che fortificava l’intero lato accessibile del promontorio. Quest’opera impegnativa, scavata nella dura roccia granitica, era certamente unita a una fortificazione in pietrame, di cui sono emerse anche alcune tracce. L’impresa compiuta nell’età del Bronzo per difendere il promontorio si giustifica solo con un suo ruolo molto importante quale scalo marittimo. I recenti scavi appaiono di grande importanza e rivelano un quadro
storico del tutto nuovo. I rapporti con il mondo miceneo sembravano finora concentrati, durante l’età del Bronzo Recente, soprattutto nel basso Adriatico e nello Ionio, mentre nel Tirreno si pensava che fossero stati sporadici o addirittura indiretti. In realtà, gli strati di riempimento del fossato di Punta di Zambrone hanno restituito una notevole quantità di frammenti di ceramiche micenee tornite e dipinte, prodotte in Grecia e importate via mare tra il XIII e il XII secolo a.C. Nello stesso riempimento è stato rinvenuto un oggetto unico ed eccezionale, la piú antica rappresentazione della figura umana con caratteri naturalistici finora trovata in Italia. Si tratta di una statuetta realizzata – secondo l’identificazione degli archeozoologi Gerhard Forstenpointner e Gerald Weissengruber – in avorio di elefante, una materia prima molto pregiata che proveniva dall’Asia o dall’Africa. Benché piccola, è una vera e propria opera d’arte, scolpita
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Sulle due pagine: il mare antistante la Punta di Zambrone. Sullo sfondo si riconoscono le sagome delle Isole Eolie.
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secondo i canoni della civiltà minoica dell’età dei cosiddetti Secondi Palazzi (dal XVII al XV secolo a.C.). La scultura raffigura un uomo in piedi, con la gamba destra leggermente avanzata, con la parte superiore del corpo inarcata all’indietro, e con i pugni poggiati sui due lati del torace. La testa, le braccia e i piedi sono mancanti. L’uomo porta alla vita una cintura, ed è coperto sul davanti solo da un succinto perizoma. La vita è molto stretta, mentre il torso si allarga verso le spalle. Le gambe, finemente modellate, presentano cosce robuste e nello stesso tempo allungate. Statuette simili sono note a Creta fin dall’età dei Primi Palazzi (dal XX al XVIII secolo a.C.), ma solo in terracotta, bronzo o pietra. Nell’età dei Secondi Palazzi, accanto a statuette in bronzo, compaiono quelle di avorio, di proporzioni minori o simili a quella di Punta di Zambrone, e in quattro casi anche di grandi dimensioni (celebre è soprattutto
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l’esemplare di Palèkastro). In generale, per le statuette minoiche è evidente un legame con il culto, ma non è sempre facile stabilire se i personaggi raffigurati siano divinità oppure adoranti. Tuttavia, il tipo iconografico dell’uomo con perizoma e pugni sul torace è in diversi casi identificabile come rappresentazione divina. Per vari motivi la grande statuetta di Palèkastro è infatti ritenuta una vera e propria immagine di culto. E un personaggio con attributi simili è raffigurato su sigilli, in posizioni evocanti l’epifania di un dio. Dice Reinhard Jung: «Prodotti di avorio di questa elevata qualità sono rarissimi anche a Creta e Micene, e al di fuori di queste due aree erano finora del tutto assenti. È evidente, quindi, che queste statuette non erano prodotti per l’esportazione, ma manufatti di alto valore simbolico e religioso utilizzati soltanto all’interno dei centri del potere dell’Egeo. I soli due manufatti di avorio sicuramente importati dall’Egeo finora trovati nel Mediterraneo occidentale sono un piccolo rilievo con una testa di guerriero
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In alto: un settore dello scavo di Punta di Zambrone.
rinvenuto a Mitza PurdiaDecimoputzu in Sardegna e una testa di anatra da Roca in Puglia. Si tratta di oggetti di lusso, però, non di culto. La presenza della statuetta di tipologia minoica a Punta di Zambrone è molto interessante, considerando anche che a pochi chilometri di distanza, nel sito di Gallo di Briatico, è stato trovato anni fa un sigillo minoico di corniola – probabilmente piú o meno contemporaneo alla statuetta – in una tomba di rito indigeno. Come la statuetta, cosí anche il sigillo non ha altri confronti in Italia». La statuetta d’avorio minoica apre dunque molti interrogativi. Come e quando è arrivata fin lí? Quale funzione e quale significato aveva nel contesto locale? La risposta a questi e altri interrogativi potrebbe rappresentare una chiave per scrivere nuove pagine della storia del Mediterraneo. Le recenti ricerche di Punta di Zambrone sono frutto della sinergia tra Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca (PRIN: Progetti di Ricerca di Rilevante Interesse Nazionale), Università di Napoli «Federico II», Fondo per la Promozione della Ricerca Scientifica dell’Austria-FWF, Università di Salisburgo, Gerda Henkel Stiftung e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, con il coinvolgimento diretto del soprintendente Simonetta Bonomi e del funzionario Maria Teresa Iannelli.
Reperti rinvenuti durante gli scavi in corso nel sito di Punta di Zambrone. Qui sopra: un frammento di ceramica micenea con tracce di decorazione dipinta. A destra: un vago in faïence, verosimilmente facente parte di una collana.
n oti z i ari o SCoperte Francia
il riposo dei guerrieri
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na eccezionale necropoli gallica dell’epoca di La Tène (475-51 a.C.) è venuta alla luce a Buchères, presso Troyes, nella regione della Champagne (Francia nord-orientale). La maggior parte degli scheletri appartenevano a guerrieri della tribú dei Galli Treviri che, insieme alle loro famiglie, si erano insediati in questa zona, intensamente abitata fin dal Neolitico, grazie alla fertilità della terra e all’abbondanza di risorse essenziali, quali l’acqua e il legno. «Sono entusiasta di questo rinvenimento – confessa Emilie Millet, specialista in manufatti metallici dell’età del Ferro –, poiché non è facile trovare una necropoli con tanto materiale interessante, e, soprattutto, sono rare le occasioni di poterlo esaminare in situ». Osservare queste tombe appena rinvenute è davvero un’emozione. Gli uomini, sepolti con la loro spada in ferro infilata nel fodero, generalmente posta sulla destra con gli anelli destinati a sostenerla, portano anche due fibule al collo. «Le spade nel fodero – spiega Millet – appaiono corrose, ma in genere sono decorate, come sicuramente risulterà dopo la pulitura. L’elemento fondamentale per datare questo tipo di arma è il puntale del fodero, la cui forma ha conosciuto nel tempo un’evoluzione molto rapida. In questo caso siamo di fronte all’iconografia classica dei due draghi che si fronteggiano». In una delle sepolture, due piccoli oggetti sistemati all’altezza dei piedi e somiglianti a un ago con la cruna ricordano il banale gesto di allacciarsi le scarpe: il guerriero in questione li aveva portati con sé
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Buchères. Due delle tombe in corso di scavo, con una spada in ferro e manufatti in bronzo.
SCAVI Campania per servirsene nell’aldilà. La sua compagna, invece, deposta accanto a lui, in posizione rialzata, probabilmente su una lettiga di legno, era stata seppellita con i suoi bracciali serpentiformi in bronzo e lignite, arricchiti da una fibula in corallo che è prova degli intensi scambi commerciali intrattenuti dai Galli in tutto il Mediterraneo. I riflettori sono però puntati soprattutto sullo scudo che ricopre lo scheletro di uno dei guerrieri. Il legno e il cuoio con cui era stato fabbricato si sono disgregati, ma se ne conservano l’orlo e la spina centrale. «Questo – spiega ancora Millet – è il rinvenimento piú interessante. La cornice in ferro a forma ogivale dello scudo, assai rara, è molto sottile: appena 3/5 mm di spessore. Ma il quesito che mi appassiona, e del quale sono impaziente di venire a capo, nasce dal fatto che mancano i chiodi per bloccare il manico dello scudo. Vorrei arrivare a capire com’era la forma dell’impugnatura, e come veniva fissata». Vicino all’uomo dello scudo, all’altezza della spalle, c’è un deposito di ceneri, chiuse in un sacco di tela: forse i resti di un parente, della sposa o di un figlio. Si tratta, comunque, di una pratica che non appartiene ai costumi funerari dei Galli Treviri, e fu introdotta dal contatto con altre genti. Come verosimilmente non era di tradizione locale l’uso del rigido collare arricchito da una ghirlanda di semicerchi, venuto alla luce in una delle tombe femminili. «Sono costumi tipici – osserva Cécile Paresys, responsabile dello scavo – dei vicini Galli Senoni, la tribú alla quale apparteneva Brenno, noto per aver messo a sacco Roma nel 390 a.C. ». Daniela Fuganti
nella valle del sele
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n programma di archeologia preventiva curato dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici di Salerno ha portato alla scoperta, a Eboli, di una necropoli composta da sepolture databili porlopiú nel V-IV secolo a.C., sebbene vi siano anche tombe piú antiche, di epoca arcaica. «Il rituale utilizzato – spiega Giovanna Scarano, archeologo e direttore del Museo Archeologico Nazionale di Eboli – è quello dell’inumazione: i corredi maschili si caratterizzano per la presenza di armi e ceramica da mensa, quelli femminili comprendono invece ricchi ornamenti personali. Tra le tombe maschili di questo periodo spicca la n. 14, con un ricco corredo costituito da un cratere a figure rosse, un cinturone di bronzo, una cuspide di lancia di ferro e lo strumentario da fuoco in piombo (spiedi e candelabro). Per le sepolture femminili si segnala la tomba 2, da cui provengono una hydria (vaso per acqua), una lekane (coppa bassa e schiacciata) con coperchio e ceramiche a vernice nera; la
tomba 21, che ospitava invece i resti di un infante, ha restituito una preziosa statuetta di Hera in trono di tradizione pestana». Oltre al lembo di necropoli scoperto, gli scavi hanno messo in luce un acciottolato che attraversa l’area indagata: si tratta di un lungo asse stradale di servizio alla necropoli costituito da ciottoli fluviali, di varie dimensioni e forma, messi in opera a secco e tra i quali si sono recuperati frammenti ceramici a vernice nera e in bucchero del VI-IV secolo a.C. Ritrovamenti che contribuiscono a definire le antiche dinamiche insediative della Valle del Sele. Giampiero Galasso
In alto: la tomba 14, che custodiva i resti di un individuo di sesso maschile. A sinistra: la tomba 21, attribuibile invece a una donna.
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parola d’archeologo Flavia Marimpietri
dalla porta dei sacerdoti oltre un secolo fa, a luxor, venne alla luce uno spettacolare tesoro, composto da ben 153 sarcofagi. a essi è dedicato un incontro di studi, che si svolge ai musei vaticani dal 19 al 22 giugno
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el I millennio a.C. l’Egitto, come l’intero Vicino Oriente, attraversa una grande crisi economica. Per il Paese dei faraoni è l’epoca nota come Terzo Periodo Intermedio (XXI-XXV dinastia, 1070-712 a.C.), durante la quale la Valle dei Re viene abbandonata e le sue preziose tombe vengono saccheggiate. I sacerdoti del dio Amon-Ra di Karnak cercano di mettere in salvo i corpi dei loro sovrani e quelli della classe sacerdotale, e nascondono, all’interno di una tomba ormai razziata, centinaia di mummie con i relativi sarcofagi dipinti. Quasi tremila anni piú tardi, nel 1891, gli archeologi del Servizio delle Antichità dell’Egitto compiono una scoperta sensazionale, riportando alla luce quel ripostiglio segreto nell’antica Tebe Ovest (l’odierna Luxor). È il cosiddetto nascondiglio di «Bab el-Gasus», la «Porta dei Sacerdoti»: al suo interno vi sono 153 sarcofagi dipinti (ognuno composto da tre pezzi, l’uno dentro l’altro), oltre a diversi oggetti di corredo. A soli due anni dalla scoperta, alla fine dell’Ottocento, i sarcofagi sono già dispersi in musei e collezioni private di tutto il mondo. Questi straordinari reperti sono attualmente oggetto di studio da
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A destra e nella pagina accanto: il coperchio e l’interno della cassa del sarcofago di Djet-Mut, «cantatrice del dio Amon-Ra» e «nutrice del dio Khonsu bambino». XXI dinastia, 1070-945 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Trovato a Tebe, fu portato a Roma nel 1820 e acquistato da papa Gregorio XVI nel 1838 per abbellire il nuovo Museo Egizio. È uno degli esemplari piú belli del Terzo Periodo Intermedio ed è oggetto di studio del Vatican Coffin Project.
parte del Vatican Coffin Project, diretto da Alessia Amenta, Curatore del Reparto di Antichità Egizie dei Musei Vaticani, in collaborazione con il Laboratorio di Diagnostica per la Conservazione e il Restauro dei Musei Vaticani, diretto da Ulderico Santamaria e dall’assistente Fabio Morresi. I risultati finora raggiunti verranno discussi nell’ambito del primo congresso di egittologia in programma ai Musei Vaticani, dal 19 al 22 giugno, la First Vatican Coffin Conference, come anticipa ad «Archeo» la dottoressa Amenta... «Il convegno è promosso nell’ambito del Vatican Coffin Project, avviato dal 2008 per studiare i sarcofagi lignei policromi egizi datati al Terzo Periodo Intermedio – spiega la direttrice del progetto –. Oltre al Reparto di Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, allo studio partecipano il Museo del Louvre di Parigi, il Rijksmuseum van Oudheden di Leida, in Olanda, la restauratrice Giovanna Prestipino, la xilologa Victoria Asensi Amorós». Una ricerca importante, anche perché si focalizza su un gruppo di sarcofagi omogenei dal punto di vista cronologico e iconografico, non è vero? «Sí. Il primo nucleo di sarcofagi che abbiamo analizzato, nelle rispettive collezioni (Vaticano, Leida, Louvre), fa parte del corpus di Bab el-Gasus, il nascondiglio nel quale erano stati raccolti 153 sarcofagi dei sacerdoti del dio Amon-Ra di Karnak. Appartengono tutti a uomini vissuti durante la XXI dinastia (1070-945 a.C.), quindi coevi da un punto vista cronologico, nonché riferibili alla
stessa classe sociale e omogenei dal punto di vista artisticodecorativo». Qual è l’obiettivo dell’indagine? «Il progetto ha come scopo lo studio delle tecniche esecutive e dei materiali costitutivi originali dei sarcofagi (nonché dei vari interventi di restauro pregressi) e, al tempo stesso, l’identificazione di eventuali atelier o officine di fabbricazione e lavorazione. I sarcofagi del Terzo Periodo Intermedio sono veri e propri capolavori di “pittura su tavola”: raffinati nel dettaglio, eleganti nella composizione e scelta cromatica, puntuali nella descrizione. Con questo studio, vogliamo comprendere meglio il mondo clericale dell’antico Egitto in quell’epoca. Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, si sa ancora poco sul funzionamento delle officine di produzione e sugli effettivi esecutori dei sarcofagi, di cui tuttavia si riconosce la maestria. Sono numerosi, ancora oggi, gli interrogativi sugli aspetti tecnico-costruttivi. Chi realizzava, di fatto, i sarcofagi? Come era organizzato il lavoro degli artigiani coinvolti? C’era un maestro pittore? Chi seguiva il lavoro? Chi sceglieva l’apparato testuale e quello iconografico? Quanto costavano questi pezzi? Esisteva una produzione in serie? Dove si trovavano fisicamente le officine? Dove si acquistavano i pigmenti? Oppure, forse, i pigmenti si realizzavano direttamente nelle officine? E dove ci si procurava il legno? Sono queste le domande che ci poniamo e a cui speriamo di poter dare una risposta». Quanti sarcofagi avete studiato, finora, tra quelli recuperati nel nascondiglio della «Porta dei
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Un particolare della decorazione dell’interno della cassa del sarcofago di Djet-Mut. Nel registro qui illustrato, si vede una doppia immagine del sacerdote funerario, con la tipica pelle di pantera, che compie libagioni davanti alla mummia della defunta (a destra) e a quella del suo consorte (a sinistra).
la mostra di leida
Storia di una scoperta
Sacerdoti»? Ne parlerete in occasione del congresso di egittologia che si svolgerà tra pochi giorni ai Musei Vaticani? «Al momento sono sotto studio una quindicina di sarcofagi. Il First Vatican Coffin Conference, riunirà per tre giorni studiosi da tutto il mondo per discutere insieme, per la prima volta, dei diversi aspetti legati ai sarcofagi lignei che rappresentano un’espressione della cultura clericale di Tebe nel Terzo Periodo Intermedio (XXI-XXV dinastia, 1070-712 a.C.). Affronteremo il tema sia dal punto di vista dell’inquadramento storico che dell’apparato iconografico e testuale, delle simbologie o della
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ricostruzione del rituale funerario. Abbiamo inoltre inserito una sessione dedicata alle indagini scientifiche applicate allo studio della tecnica pittorica e costruttiva dei sarcofagi. Il Vatican Coffin Project, per esempio, ha permesso di evidenziare confronti significativi tra la tecnica utilizzata dagli artisti egiziani per decorare il sarcofago ligneo e quella impiegata dai loro colleghi attivi in epoca medievale nella pittura “su tavola”. La tecnica è la stessa, ma solo nell’Età di Mezzo si assiste alla sua teorizzazione all’interno delle corporazioni. La pittura su sarcofago può dunque essere intesa come l’antecedente della pittura su tavola del Medioevo».
Oltre al congresso in programma ai Musei Vaticani (19-22 giugno), i sarcofagi di Bab-el-Gasus sono oggetto di una mostra allestita al Rijksmuseum van Oudheden di Leida fino al prossimo 15 settembre. L’esposizione dà conto della sensazionale scoperta archeologica effettuata nel 1891. È esposta una decina di sarcofagi e sono presentati i primi risultati delle indagini scientifiche eseguite sui materiali della collezione del Rijksmuseum. Non è possibile, ancora oggi, ricostruire con esattezza la fotografia di quanto gli archeologi si trovarono di fronte agli occhi, nel giorno della scoperta. All’epoca, come spesso è accaduto in passato nel caso di ritrovamenti archeologici importanti, alla fretta del recupero dei reperti, dettata dalla paura dei furti, si accompagnavano una tecnica di scavo e una documentazione non accurata, comunque non rispondente ai moderni criteri scientifici. Oggi quei 153 sarcofagi si trovano sparsi in oltre 30 musei nel mondo e in collezioni private: di alcuni si sono perse completamente le tracce.
n otiz iario
archeofilatelia
Luciano Calenda
quel genio di archimede... Archimede è stato il piú grande scienziato dell’antichità e a lui è dedicato lo Speciale di questo numero (vedi alle pp. 82-103). Ecco dunque una scelta di francobolli che lo hanno raffigurato e che hanno documentato alcune delle sue invenzioni o intuizioni. Archimede è apparso su un francobollo di San Marino del 1982, in una serie 1 sui pionieri della scienza (1), in uno della Germania Orientale del 1973, che riproduce un celebre dipinto del 1620 di Domenico Fetti (2), e, ancora, in un foglietto del Mali del 2011, in cui compare nelle vesti di astronomo, insieme a Copernico (3). E ora passiamo agli episodi celebri. L’esclamazione «Eureka!» («Ho trovato!»), legata alla scoperta sulle 4 regole idrostatiche del galleggiamento dei corpi, è riportata su un intero postale rumeno (4) e su un foglietto della Guinea-Bissau del 2008 (5). E i principi sul «galleggiamento dei corpi» furono alla base anche dei primi studi sui dirigibili, come ricordato da un foglietto della Repubblica di Guinea del 2009 (6), che riprende anche il dipinto di Fetti. Sull’intero di Romania è riportata anche la frase: «Datemi una leva e solleverò il mondo», principio rappresentato visivamente sul foglietto del Gabon del 2010 (7). Quest’ultimo raffigura anche il Planetario e la scena, cosí come è stata 6 immaginata in un mosaico qui ripreso in versione cartolina maximum (8), dell’uccisione di Archimede, durante l’assedio a Siracusa, da parte di un soldato romano che non lo aveva riconosciuto. Il francobollo di Grecia del 1983 (9), usato per la cartolina, raffigura Archimede intento allo studio dell’idrostatica. Anche l’Italia ha ricordato il grande Siracusano con un valore del 1983 (10) che raffigura l’invenzione della 7 coclea, meglio nota come «vite di Archimede» per il sollevamento dell’acqua. Infine altre due invenzioni, l’artiglio meccanico per distruggere le navi e gli specchi ustori, sono state raffigurate non da francobolli, ma da due «etichette» inserite in un foglietto del Poligrafico dello Stato, stampato nel 1991 per una manifestazione filatelica a Siracusa (11). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
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Luciano Calenda, C.P. 17126 - Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
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n otiz iario
incontrI Toscana
archeologia al chiaro di luna
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al 1° al 31 luglio si svolgerà in Toscana la XIII edizione delle «Notti dell’archeologia», rassegna in occasione della quale i musei, i parchi e le aree archeologiche presentano un calendario ricco di eventi. Lo scopo primario è quello di favorire l’incontro del pubblico con l’immenso, variegato e diffuso patrimonio archeologico della Toscana, presentandone gli aspetti meno conosciuti e quasi segreti, ma offrendo anche un punto di vista nuovo e sorprendente su quelli piú celebri. I visitatori verranno invitati alla scoperta delle testimonianze di antiche epoche e civiltà, ivi comprese le vestigia delle attività industriali del secolo scorso, facendo leva sulla grande divulgazione e sulle nuove acquisizioni della scienza e delle tecniche archeologiche, ma anche mobilitando il linguaggio dell’arte contemporanea, del teatro, del cinema e della musica. Oltre 200 sono le iniziative in programma in tutta la Toscana, di cui diamo qui di seguito un saggio. Per gli amanti dell’antica Roma e del reenacting il 6 luglio si aprirà il sipario sulla quarta edizione del Festival dell’Antica Roma a Massaciuccoli (Lu). In provincia di Grosseto, gli antichi centri di Vetulonia (13-14 luglio) e Roselle (20-21 luglio) saranno al centro delle «Vie del commercio etrusco», il viaggio fisico di un carro trainato da cavalli, ricostruito secondo le indicazioni forniteci dalle testimonianze archeologiche e condotto da attori che impersoneranno reali «trasportatori» del VI-V secolo a.C. Numerose le iniziative di archeotrekking, in ambienti naturali di rara bellezza, come a Cetona (Si) il 14 luglio, con la visita alle grotte del monte Cetona e al parco archeologico naturalistico di Belverde. E infine le aperture straordinarie notturne di musei e parchi archeologici, che sono all’origine del nome delle «Notti dell’archeologia», con spettacoli e degustazioni, come ad Artimino (Po) dove si potrà assaggiare il vino etrusco e conoscerne le tecniche di preparazione. Per ulteriori info e per il programma completo: www.regione.toscana.it/nottidellarcheologia
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Da sinistra, in alto, in senso orario: una suggestiva veduta notturna di Sovana (GR); l’immagine-guida delle «Notti dell’Archeologia»; i resti della rocca medievale di San Silvestro (LI); una tomba della necropoli etrusca di San Cerbone, presso Populonia (LI).
calendario
Italia Roma Athena Nike: la vittoria della dea Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group Spazio Espositivo Tritone fino al 03.08.13
A sinistra: testa colossale di Costantino. In basso: fibula in oro e pietre preziose, da Montecassino.
Colosseo fino al 15.09.13
Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13
Da Orvieto a Bolsena
Un percorso tra Etruschi e Romani Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino all’01.09.13
serrapetrona (MC) La conquista del cielo
Il Tesoretto di Montecassino
Dalla preistoria al sogno di Icaro Palazzo Claudi fino al 30.06.13
Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30.09.13
Capolavori dell’archeologia
cortona Il tesoro dei Longobardi Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 30.06.13
modena Il mosaico riscoperto
Lapidario Romano dei Musei Civici, Palazzo dei Musei fino all’01.09.13 (prorogata)
Napoli Restituzioni 2013
Tesori d’arte restaurati Museo di Capodimonte e Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano fino al 09.07.13
novara Homo sapiens
La grande storia della diversità umana Complesso Monumentale del Broletto fino al 30.06.13
onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa
Un percorso tra Etruschi e Romani Sedi varie fino al 03.11.13
Padova Venetkens
Costantino. 313 d.C.
Recuperi, ritrovamenti, confronti Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 05.11.13
orvieto, bolsena, castiglione in teverina, san lorenzo nuovo Da Orvieto a Bolsena
Belgio A sinistra: particolare di una spilla longobarda in forma di colomba.
Tongeren Gli Etruschi. Una storia particolare Musée Gallo-romain fino al 25.08.13
Francia parigi L’arte del profilo
Il disegno nell’antico Egitto Museo del Louvre, Ala Richelieu fino al 22.07.13
A sinistra: grande sarcofago antropoide in legno policromo. XXV dinastia 750-526 a.C.
L’esposizione illustra, nelle sue linee essenziali, la necropoli di Bazzano a L’Aquila, specchio della società dei Vestini tra l’VIII e il I secolo a.C. Nel racconto della storia di questo territorio, si è scelto di allestire due delle sale della Casa della Cultura con manufatti che raccontano un periodo glorioso, in un momento in cui prende il via il restauro della chiesa di S. Pietro Apostolo, sempre a Onna, grazie al generoso contributo del Governo Federale di Germania in seguito al terremoto del 6 aprile 2009. Il percorso espositivo, articolato in due sale, 20 a r c h e o
In alto: particolare delle pitture della tomba Golini I. A sinistra: la «dea di Caldevigo». In basso: una urna funeraria in mostra a Tongeren.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Gran Bretagna saint-romain-en-gal Il design ha 2000 anni? Archeologia e design a confronto Musée gallo-romain de Saint-Romainen-Gal-Vienne fino all’01.09.13
Frammento di affresco con busto femminile su cornice modanata.
Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande Israel Museum fino al 05.10.13
Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13
In alto: mosaico con l’immagine di un cane da guardia, dalla Casa di Orfeo a Pompei.
Svizzera
Danimarca
berna Qin
copenaghen Viking
L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13
Nationalmuseet fino al 17.11.13
Germania 100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 04.08.13
The British Museum fino al 29.09.13
Israele
Strasburgo Un’arte dell’illusione
berlino Sotto la luce di Amarna
Londra Vita e morte a Pompei ed Ercolano
Qui sopra: fibbia bronzea in forma di nave vichinga.
Uruk
I 5000 anni di una megalopoli Pergamonmuseum fino all’08.09.13
Bonn Cleopatra
Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland L’eterna diva fino al 06.10.13 (dal 28.06.13)
hauterive Fiori dei faraoni
Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14
Qui sopra: un guerriero in terracotta di Xi’an.
zurigo Animali
Animali reali e fantastici dall’antichità all’epoca moderna Museo nazionale fino al 14.07.13
Qui sopra: elaborazione grafica di una foto di Elizabeth Taylor nei panni della regina Cleopatra.
A sinistra: urna etrusca con Ippolito ucciso dai suoi cavalli.
dove e quando comprende 13 corredi tombali, costituiti da 250 reperti di recente scoperta e restaurati per l’occasione, presentati al pubblico per la prima volta. Nella prima sala sono esposte le testimonianze comprese fra il IX e il IV secolo a.C., e sono posti a confronto corredi infantili, maschili – nei quali spiccano le armi – e femminili. La fase italico-romana è invece illustrata da corredi costituiti da vasellame a vernice nera e strumenti per il banchetto. Nella seconda sala trovano posto le testimonianze piú recenti, con due tombe nei cui corredi erano presenti dei letti funerari rivestiti con applique in osso.
Casa della Cultura fino al 31 dicembre Orario sabato, 16,00-20,00; domenica, 10,00-13,00 e 16,00-20,00 Info tel. 335 376899 o 368 3240419; e-mail: contatti@onnaonlus.org a r c h e o 21
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
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e origini di Colonia, una delle piú antiche città della Germania, risalgono a oltre duemila anni fa: intorno al 20 a.C. I Romani fondarono, sulla riva sinistra del Reno, un insediamento che denominarono Oppidum Ubiorum, dal nome di una tribú germanica stanziata in quell’area. Grazie ad Agrippina Minore, moglie dell’imperatore Claudio e natia di Oppidum Ubiorum, nel 50 d.C. il sito ottenne lo status di colonia, con il nome di Colonia Claudia Ara Agrippinensium, poi nota come Colonia, radice dell’attuale nome tedesco «Köln». Nell’84 d.C., la città In alto: il Duomo di Colonia con il Museo Romano Germanico e, in basso, la struttura dell’antico accesso al porto fluviale. Qui sotto, a destra: ricostruzione di Colonia nel I sec. d.C.
divenne capitale della Germania Inferior e, nel 240 d.C., capitale del secessionista impero delle Gallie, in seguito riconquistato all’impero, nel 274 d.C., dall’imperatore Aureliano. Agli inizi del V secolo, Colonia entrò definitivamente sotto il controllo dei Franchi. Numerose sono le testimonianze archeologiche di età romana nascoste nel sottosuolo della città moderna, alle quali si affiancano gli straordinari reperti conservati nel locale Museo Romano Germanico, una tra le piú importanti istituzioni museali del suo genere a livello mondiale. Da dieci anni, inoltre, una équipe di archeologi del Museo è impegnata in un ambizioso progetto di indagine che riguarda una zona della città destinata ad accogliere la nuova tratta della metropolitana, che collegherà la stazione ferroviaria alla parte meridionale della città. Dei primi risultati di questa indagine riferisce l’ultimo numero del bimestrale World Archaeology.
Foro Capitolium
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Praetorium La porta d’accesso presso l’odierna piazza Kurt Hackenberg
fronte del porto «La maggior parte dei 4 km della futura linea sotterranea – spiega Alfred Schäfer che, insieme a Marcus Trier, conduce le esplorazioni – corre a una profondità compresa tra i 20 e i 27 m sottoterra, ben al di sotto, dunque, dei livelli archeologici, che non vengono, cosí, compromessi dai lavori. Ben diversa è la situazione delle stazioni di servizio e di accesso: la loro costruzione richiede lavori di messa in opera di pilastri di fondazione che mettono in serio pericolo le testimonianze archeologiche». Le indagini degli studiosi del Museo Romano Germanico hanno interessato un’area, di 3 ettari circa, situata nelle immediate vicinanze della cattedrale di Colonia – la piú grande chiesa gotica dell’Europa settentrionale – e dove, duemila anni fa, correva la riva del fiume. Qui sono venuti alla luce i resti, magnificamente conservati, di una monumentale porta d’accesso a cui si accedeva dal porto fluviale. Si tratta di uno dei cinque accessi alla città romana che si aprivano nelle mura cittadine prospicienti il corso del Reno: situata in corrispondenza dell’odierna piazza Kurt Hackenberg, la porta messa in luce si apriva sulle strutture portuali della città del I secolo d.C., costruite lungo un antico canale secondario del fiume. Ma vi è di piú: «circa un milione e mezzo di reperti sono stati recuperati durante i lavori di scavo – spiegano Alfred Schäfer e Marcus Trier – tra cui numerosi frammenti di anfore (con iscrizioni dipinte), utilizzate per il trasporto di vino, garum e olio d’oliva – insieme ai resti lignei di una barca da trasporto fluviale». La costruzione della porta sul fiume Reno faceva parte degli imponenti lavori di fortificazione della città, intrapresi intorno al 90/91 d.C., verosimilmente sotto l’impero di Domiziano, in coincidenza con la promozione della città a capitale della provincia Germania Inferior.
legionari in cina?
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utto ebbe inizio nel 1955, quando il noto sinologo statunitense Homer Dubs tenne una memorabile conferenza alla China Society di Londra la cui tesi può essere riassunta cosí: contrariamente a quanto riferivano le cronache cinesi, secondo le quali un legato romano giunse alla corte imperiale cinese per la prima volta nel 166 d.C., i primi Romani vi arrivarono già 200 anni prima. Erano legionari, reduci della disfatta di Crasso contro i Parti (del 53 a.C.) e, come prigionieri di guerra, passati di mano in mano, dai Parti agli Unni, ai Cinesi (le fonti cinesi parlano dei 145 prigionieri come di «soldati unni», capaci di unirsi in una formazione di combattimento assai simile a quella della «testuggine» romana). Vi è, inoltre, la menzione del villaggio in cui furono esiliati questi prigionieri: Liqian, nel deserto di Gobi, provincia di Gansu, nel Nord-Ovest della Cina. Negli anni, studiosi (italiani), romanzieri (australiani), genetisti e storici (cinesi) hanno seguito, affascinati, le tesi di Dubs, visitando lo sperduto villaggio e analizzando i suoi abitanti, alcuni dei quali mostrano (palesi?) caratteristiche fisiche «occidentali» (occhi celesti, barbe rosse). Con quali risultati? All’inviata del settimanale tedesco Die Zeit, che lo scorso aprile ha visitato Liqian (dove sta sorgendo un grande parco turistico con edifici ispirati alle architetture dell’antica Roma) risponde Chen Wenjiang, direttore di studi sociali all’Università di Lanzhou che ospita anche il centro di studi italiani: «Non esistono prove, i confronti genetici sono inutili. Roma era un impero multietnico, i legionari provenivano da ogni parte d’Europa e del Vicino Oriente, non esiste un DNA «tipico» del legionario romano». Tuttavia, Chen è convinto dell’antica presenza romana in Cina: all’università insegna che lo stesso Giulio Cesare non sarebbe affatto stato assassinato a Roma. Il grande statista, a conoscenza del complotto, avrebbe ingaggiato una controfigura, organizzandosi la fuga a Liqian, dove lo attendeva un suo figlio. Dopo una lunga e serena vita, sarebbe morto proprio qui. Non prima, però, di essersi convertito al buddhismo.
Contemporanei legionari cinesi si allenano nei pressi di Liqian (Cina nordoccidentale).
Liqian Gansu CINA
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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli
addio al passato? per superare la crisi economica, la grecia è pronta a rimedi draconiani. mettendo a repentaglio la sopravvivenza stessa del suo patrimonio monumentale e archeologico
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he la Grecia sia nell’occhio del ciclone, in questo momento di crisi generalizzata, è un dato di fatto. Tagli continui, quasi sempre orizzontali, stanno portando a drastiche riduzioni di personale e, spesso, a scelte dolorose, ma anche, talvolta, scriteriate. Che sembrano non tenere conto della complessità di un patrimonio secolare, da salvaguardare e da proteggere. Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica, anche e soprattutto internazionale, sul futuro della cultura e della tutela del patrimonio culturale, si è mobilitato il comitato ellenico
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dell’ICOMOS, l’organizzazione non governativa internazionale che si occupa della salvaguardia dei monumenti e dei siti d’interesse storico, culturale, artistico, archeologico, paesaggistico. In una lettera indirizzata al presidente dell’associazione, Gustavo Araoz, il comitato ellenico dell’ICOMOS denuncia in maniera drammatica il tentativo sistematico di svilire il patrimonio culturale greco. Il Ministero Ellenico alla Cultura, non piú autonomo già dal 2009, è stato ora inglobato in un nuovo super-Ministero che si occupa di Educazione, Affari
Religiosi, Sport e Cultura, in seno al quale la Cultura è rappresentata semplicemente da un Segretario preposto alle questioni relative al patrimonio artistico, archeologico e culturale.
gli eccessi del rigore Una nuova legge, attualmente in discussione in Parlamento, prevede non solo di ridurre fino al 51,5% le strutture organizzative e le unità operative dell’ex Ministero alla Cultura, ma anche di distaccare Direzioni di importanza vitale, come quella preposta all’Amministrazione e alle Finanze,
nonché di ridimensionare ed eliminarne altre. Non è difficile immaginare che, se il nuovo piano di riorganizzazione del Segretariato Generale alla Cultura verrà messo in atto, lo Stato greco si troverà ad affrontare problemi enormi nel tentativo di salvaguardare il proprio patrimonio; e tutto ciò, in un frangente economico cosí difficile e in un Paese affaticato da problemi di gestione causati dalla sua stessa frammentazione geografica (numerosissime isole, molte catene montuose). I numeri parlano da soli. A tutt’oggi, il Segretariato Generale alla Cultura è responsabile della gestione di oltre 4000 siti archeologici e d’interesse storico su terraferma; le aree archeologiche protette coprono circa 9000 kmq, pari a circa il 10% del territorio greco. Inoltre, esso è responsabile di piú di 12 000 monumenti antichi, su terraferma e sottomarini, e di oltre 8000 monumenti moderni, siti storici, musei e paesaggi tutelati. Tale Segretariato si occupa dell’organizzazione logistica con 17 Scuole Archeologiche straniere che hanno sede in Grecia e si occupano di parte del suo patrimonio archeologico; gestisce inoltre 17 monumenti e siti
inclusi nella lista UNESCO del Patrimonio mondiale dell’Umanità (altri 8 sono in «lista d’attesa»).
tagli piú che drastici In questo momento, grazie a finanziamenti europei sono attivi 578 progetti, che impiegano oltre 3000 persone in tutta la Grecia, con un bilancio di 707 milioni di euro; ma i tagli drastici rischiano di portare al blocco di questi programmi, molti dei quali mirati a proteggere monumenti e migliorare aree archeologiche. Inoltre, alla fine del 2011, la Grecia ha già sperimentato un’ondata di pensionamenti obbligatori, a cui segue oggi una seconda ondata di esodati. Ma non è finita qui: nel nome di presunti «benefici economici», entro il 2013 si prevede il licenziamento di 25 000 dipendenti pubblici, ed entro il 2015 ne saranno licenziati altri 150 000. Il patrimonio culturale, storico, artistico, archeologico è una risorsa da sfruttare, specialmente in questi tempi di crisi, e non certo da svilire. I nuovi progetti di legge e la cieca applicazione di regole imposte dall’alto stanno avendo l’effetto di indebolire questa risorsa e di minarne per sempre le basi. Senza passato, quale futuro può avere questo Paese?
Sulle due pagine: alcuni esempi emblematici del ricchissimo patrimonio di cui la Grecia dispone. Nella pagina accanto: Atene. La Loggia delle Cariatidi. In alto: Pilo. I resti del palazzo di Nestore. In basso: Mistrà. La chiesa di S. Sofia.
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scavi • pakistan
missione in pakistan di Luca Maria Olivieri
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uando, ai primi di settembre del 2007, lasciammo lo Swat (Pakistan), non pensavamo di poterci tornare solo tre anni piú tardi. Pochi giorni dopo la nostra partenza, l’11 settembre, ignoti spararono colpi di arma automatica contro il volto del Buddha di Jahanabad, e il 23 dello stesso mese, si arrampicarono sul rilievo rupestre e vi praticarono alcuni fori, che furono poi riempiti di esplosivo. Alcune cariche distrussero il volto, mentre altre rimasero inesplose, lasciando cosí la gigantesca immagine mutilata del viso: una sorta di aberrante cicatrice abbandonata per cinque anni, a dominare il corso, non sempre sereno, del fiume Swat. Da lí in avanti, si sono succeduti eventi sempre piú drammatici, che hanno segnato la storia recente di una regione nota fino ad allora per la sua accogliente bellezza. Nel no-
che italiane erano state intense, in quel 2007 invece, tutto fu ridotto, fino alla sospensione totale. Ma facciamo un passo indietro. Le attività archeologiche italiane nello Swat erano cominciate nel 1955, quando Giuseppe Tucci, famoso tibetologo e orientalista – il maggiore che abbiamo avuto nel Novecento in Italia –, visitò per la prima volta la zona. Il Tibet era da poco chiuso agli stranieri e Tucci si rivolse allo Swat, regione importante nella storia tibetana per essere stata il luogo natale del sadhu Padmasambhava, che introdusse il buddhismo in Tibet nel VII secolo.
i primi grandi scavi Nel 1956 la missione archeologica italiana dell’allora IsMEO, l’istituto presieduto da Tucci, cominciò a operare, ottenendo, fin da subito, risultati di notevole rilievo, grazie ai grandi scavi di Domenico Faccenna
ta Archeologica che, in pochi anni, ha portato alla scoperta di un ricchissimo patrimonio d’arte rupestre (vedi «Archeo» nn. 216 e 246, febbraio 2003 e agosto 2005). Problemi di sicurezza sempre piú gravi ebbero come conseguenza il blocco totale delle attività archeologiche in tutta la regione. E, come già ricordato, dal 2007 in poi tale blocco fu particolarmente pesante per lo Swat, dove la missione italiana aveva anche responsabilità legate alla protezione di importanti aree archeologiche, come appunto quelle di Udegram e Barikot, nonché sulle collezioni di reperti (soprattutto ceramici) in deposito presso la casa della missione. Tale opera di protezione è stata comunque garantita grazie alla collaborazione delle maestranze locali, sebbene, nel 2009, fosse stato di fatto costituito un emirato pro-Taliban nello Swat e fosse stata avviata una massiccia
dopo l’abbandono a cui erano stati costretti dalla grave situazione politica interna, gli archeologi italiani sono tornati nel paese asiatico. per farsi promotori di un importante progetto di tutela, valorizzazione e formazione vembre dello stesso 2007 iniziò una pesante operazione militare contro formazioni sempre piú agguerrite di insorgenti pro-Taliban, che minacciavano i maggiori snodi commerciali e viari dello Swat. La partita era iniziata già nel luglio precedente, in seguito ai fatti della Moschea Rossa a Islamabad (teatro di scontri fra estremisti ed esercito governativo che fecero registrare decine di vittime, n.d.r.), con omicidi e attentati in serie nella valle. Se l’anno prima le attività archeologiNella pagina accanto, dall’alto, in senso orario: gli scavi nell’area sacra di Amluk-dara, II-IX sec. d.C.; operazioni di pronto intervento conservativo e messa in sicurezza del colossale rilievo del Buddha di Jahanabad, VII-VIII sec. d.C.; lo scavo del sito kushana di Barikot, livelli del III sec. d.C.
nei santuari buddhisti di Butkara I, Panr I e Saidu Sharif I. Presto si affiancarono altre indagini importanti: quelle delle necropoli protostoriche, degli insediamenti di età storica, dei monumenti dell’Islam; ricerche che videro la partecipazione, tra gli altri, di Giorgio Gullini, Giorgio Stacul, Massimo Taddei e Umberto Scerrato. Le attività proseguirono ininterrotte fino al 2007, attraverso fasi di grandi cambiamenti. Uno fra tutti, l’annessione al Pakistan, nel 1969, dell’allora indipendente Stato dello Swat. Nel 1984 Pierfrancesco Callieri iniziò l’esplorazione della città di Bazira (Barikot), fortificata in epoca indo-greca; nel 1985 Umberto Scerrato scoprí la terza piú antica moschea del Pakistan, di fondazione ghaznavide, a Udegram; nel 2000 Massimo Vidale, insieme a chi scrive, avviò la redazione della Car-
operazione militare che ha avuto come conseguenza l’esodo di quasi due milioni di persone. Le fazioni pro-Taliban non produssero danni intenzionali al patrimonio archeologico nello Swat, e i fatti di Jahanabad del 2007 non ebbero repliche. Ciò è in parte dovuto al disinteresse, ma anche – occorre dirlo – al fatto che, durante la dominazione pro-Taliban, tutte le attività criminali conobbero una sosta forzata. I veri danni al patrimonio dello Swat sono infatti quelli prodotti dagli scavi clandestini, organizzati, come altrove nel mondo, da vere e proprie mafie, legate all’esportazione e al commercio illegale dei beni archeologici.
ricerca e sviluppo Già dal 2007, quindi, la missione iniziò a pensare a un grande progetto integrato di archeologia e protea r c h e o 29
scavi • pakistan
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zione del territorio e creazione di posti di lavoro, avendo in mente che il modello fino ad allora utilizzato potesse essere replicato su grande scala, anche se per un periodo limitato, e servire da esempio per il futuro, nello Swat e altrove. Una grande lezione è venuta, infatti, proprio dalle aree in cui la missione ha continuato a essere presente anche negli anni piú difficili. Dovunque erano state coinvolte, tramite le nostre maestranze, le comunità locali, le aree e i siti archeologici sono rimasti intatti, perfettamente custoditi. Il modello di una protezione sostenibile si è dimostrato dunque vincente, addirittura sul piú duro dei banchi di prova. Il progetto fu chiamato «Archaeology-Community-Tourism Field School» (ACT) e fu elaborato dalla missione e dalla sua controparte pakistana, il Department of Archaeology and Museums del governo federale. La base finanziaria fu individuata nel quadro dell’accordo di restituzione del debito del Pakistan verso l’Italia. Il sistema del «debt swap», che permette al Paese debitore di rinegoziare parte del suo debito trasformandolo in progetti di sviluppo, è uno dei piú virtuosi strumenti di cooperazione bilaterale. Italia e Pakistan firmarono la ri30 a r c h e o
A sinistra: cartina del Pakistan, con la localizzazione della regione dello Swat. A destra: area sacra buddhista di Gumbat. Il volto di una statua del Buddha affiora dalla trincea di scavo. Nella pagina accanto, in alto: statua di offerente in scisto verde, dal cantiere di restauro e scavo dello stupa di Saidu Sharif, esplorato in passato da Domenico Faccenna e Pierfrancesco Callieri dell’IsMEO.
negoziazione del 50% del debito nel 2006 per un totale di 100 milioni di dollari, essendo già stato cancellato il restante 50%, come sostegno italiano alle spese affrontate dal Paese asiatico per la gestione di campi dei rifugiati afghani.
esempi virtuosi La Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri ha dato negli ultimi anni un tenore speciale al debt swap, inaugurando un filone di iniziative per lo sviluppo culturale, inteso come volano economico in senso diretto o indiretto. In questo senso l’Italia è capo-fila nel mondo, essendo suoi i primi progetti integrati di debt swap sperimentati in questo settore. Prima in Yemen ed Egitto, ora in Pakistan. Il caso dello Swat è emblematico: in termini di ritorno e scambio economico, il turismo (con l’archeologia) è la seconda risorsa della regione; o meglio lo era. Il progetto ACT punta proprio a questo: cioè a costituire un modello di intervento basato sul valore economico legato alla ripresa del turismo archeologico e sul coinvolgimento delle comunità locali. Nei cosiddetti «source countries» – come Turchia, Egitto, Afghanistan, Pakistan (ma anche Italia), ecc. – dove la protezione del patrimonio presen-
ta difficoltà considerevoli, la diffusione dell’idea che proteggere possa creare occupazione e ricchezza può anche portare ad alleggerire l’enorme carico di reponsabilità governativo, condividendolo a livello locale. Un concetto che può essere ben inteso in aree come lo Swat, nelle quali il ruolo dell’iniziativa comunitaria è tradizionalmente meglio percepito rispetto a una presenza eccessiva dello Stato. Il progetto puntava inizialmente anche all’acquisto dei terreni archeologici, fattore cruciale del sistema di protezione legale dei siti. Ora questo obiettivo è affidato all’intraprendenza governativa, sebbene rimanga uno dei risultati attesi alla fine del programma. Tra l’altro, si tratta del risultato che può dare maggiore continuità al modello proposto da ACT. Dal 2011 la protezione dei beni archeologici, da materia federale, è diventata di competenza provinciale. Le province in Pakistan sono grandi, importanti, paragonabili alle nostre macro-regioni. La devoluzione delle competenze, battaglia per cui le province hanno combattuto per trent’anni, è ora un fatto compiuto. Sebbene i siti dell’UNESCO, come Mohenjo-Daro o Taxila, rimangano sotto il controllo
In basso: un settore dello scavo nell’area sacra di Balo Kale-Gumbat. II-III sec. d.C. La datazione si basa sulle analisi al 14C delle travi ancora inserite nella costruzione originale.
centrale, ciò che accade nelle migliaia di siti archeologici del Pakistan è – nel bene e nel male – responsabilità delle province. L’acquisizione dei terreni è ora una doppia responsabilità del dipartimento archeologico della provincia del Khyber-Pakhtunkhwa. Il progetto ACT ha una duplice leva, quella socio-economica, come abbiamo già detto, e quella scientifica. Quest’ultima punta integralmente sui lavori in corso della missione italiana e forzosamente interrotti o mai avviati, ma in progetto da tempo. La leva socio-economica si basa sul coinvolgimento di comunità locali, e per questo abbiamo scelto i villaggi nei quali siamo attivi con lavori importanti con maggiore continuità: Barikot e Udegram. A sua volta, la leva scientifica si muove su tre piani: conservazione e restauro, scavo, formazione. Nel settore della conservazione e restauro, il progetto ha mirato innanzitutto a garantire l’accessibilità ai siti archeologici; abbiamo costruito – ove necessario – strade di accesso ai siti, avviato il restauro e lo scavo di emergenza in aree monumentali a rischio, come ad Amlukdara e a Gumbat. Nel restauro vero e proprio si sta intervenendo sullo stupa (monumento religioso in forma di cupola solida, contenente un piccolo reliquiario, n.d.r.) principale del sito buddhista di Saidu Sharif I e sulla conservazione del grande rilievo rupestre di Jahanabad. Infine, nel campo della conservazione pas-
siva, sono stati scelti tre siti protostorici di arte rupestre, due ripari dipinti e un grande monumento megalitico istoriato da coppelle. Nel campo dello scavo ci si è mossi su due linee di ricerca: l’esplorazione della città di Barikot e delle necropoli protostoriche. Della formazione parleremo piú avanti.
il cuore del progetto Tutto il programma si svolge in un’area di poco meno di 100 kmq e ha come centro, anche logistico, la ricostruzione del Museo dello Swat danneggiato dal terremoto del 2005 e dagli effetti indiretti di un tragico attentato che, nel 2008, causò oltre 70 vittime. Il progetto – salvo estensioni (che ci auguriamo) – ha una durata prevista di 3 anni e si concluderà nel 2014. Il finanziamento italiano è di poco inferiore ai 2 milioni di euro, in gran parte utilizzati per le costruzioni civili. Tutti i siti obiettivi del progetto presentano problematiche scientifiche di enorme portata per l’archeologia del Subcontinente indo-pakistano, che qui di seguito presentiamo. (segue a p. 37)
scavi • pakistan
Le necropoli di Udegram e Gogdara 4
Qui sopra e in alto: vedute di alcune delle tombe scavate nella necropoli protostorica di Udegram. Fine del II-inizi del I mill. a.C. In basso: fotomosaico zenitale dell’area scavata nella necropoli protostorica di Udegram. Fine del II-inizi del I mill. a.C. (rilievo e immagine di Francesco Genchi).
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Note già dagli anni Sessanta del Novecento, in seguito a vasti scavi, queste necropoli sono tornate di attualità. Il fenomeno si rivela piú complesso di quanto finora ritenuto, grazie ai nuovi dati provenienti da scavi in Chitral, nell’Hindukush, dove tombe con caratteristiche analoghe sarebbero databili all’età storica. I vecchi scavi italiani e pakistani nello Swat e nel Dir concordavano sia nel ritenere questo fenomeno tipico di tutto il I millennio a.C, sia nel definire le tipologie delle sepolture. Il problema fondamentale riguardava proprio queste tipologie, poiché dai dati di scavo non risultavano elementi utili alla ricostruzione dei monumenti sepolcrali, cosí come dovevano apparire quando le necropoli erano in uso. Inoltre mancavano elementi per la ricostruzione del rito funerario. I nuovi scavi diretti da Massimo Vidale nella piccola necropoli di Gogdara 4 e in quella piú grande di
Udegram ci hanno permesso di ricostruire – grazie alla microstratigrafia – le superfici di uso intorno alle tombe, le loro fasi di riapertura e quelle di abbandono. Le tombe venivano scavate in terrazzi artificiali e riutilizzate piú volte, e, in una delle fasi, dovevano avere un recinto ligneo ed essere infine chiuse da un monticolo di terra. La sequenza prevedeva l’esposizione del cadavere, la combustione delle ossa, infine la loro deposizione. In questa fase, almeno in due tombe è stato aggiunto un secondo inumato (quasi certamente di sesso femminile). I primi dati del C14 hanno dato una datazione piú antica di quanto atteso (fine del II millennio a.C.), mentre la presenza di un frammento di manufatto in ferro potrebbe risultare il piú antico mai rinvenuto nel subcontinente indo-pakistano.
Qui sotto e in basso: ripari di Sargah-sar e Kakai-kandao. Resti di pitture in ocra rossa. Fine dell’età del Bronzo, 1300-1000 a.C. circa.
I siti di arte rupestre presso Barikot
52 ripari dipinti sono stati documentati nelle montagne a sud di Barikot, testimonianza di popolazioni – certamente dominanti in passato – vissute poi ai margini dell’espansione del buddhismo. Due di essi (Sargah-sar e Kakai-kandao) sono stati datati all’età protostorica, e rappresentano cicli agricoli nei quali sono assenti sia i segni esteriori del buddhismo (gli stupa), sia l’icona del cavallo, che appare nello Swat solo nel I millennio a.C. Particolarmente impressionante è il riparo di Sargah-sar, che ricorda un volto umano. I dipinti si trovano alla base di una enorme lastra di roccia in una nicchia naturale (che appare come una «bocca»), mentre due cavità naturali al di sopra danno l’illusione di occhi giganteschi. Il progetto ha anche messo in protezione un enorme monolito coperto da centinaia di coppelle, nelle quali sono state riconosciute le icone di un eroe armato di mazza che affronta un demone anguiforme: potrebbe trattarsi di Indra che combatte il demone delle acque, un mito associato al Monte Aornos-Ilam, che domina sul panorama di Barikot.
Il sito di Barikot Nel 2010 la rivista Archaeology ha inserito la Bazira delle fonti di Alessandro Magno tra i 10 siti piú a rischio. Le testimonianze del passaggio del Macedone non sono state ancora trovate, ma è stata messa in luce una grande città, fortificata in età indo-greca nel II secolo a.C. Sono ancora ben visibili la cinta muraria e l’acropoli. Il sito, che conobbe un’occupazione già dal II millennio a.C., e continuò a essere in vita fino all’età tarda (sull’acropoli è stato scavato un tempio brahmanico del VII secolo d.C.), è a rischio a causa dell’espansione del moderno villaggio. Il progetto ACT ha messo in protezione circa 1 ettaro di area archeologica nel settore sud-ovest della città, avviando un programma di scavo in estensione (diretto da chi scrive) che intende mettere in luce innanzitutto le testimonianze monumentali tarde. Che non sono, in realtà, tanto tarde, poiché la città, di cui oggi appare finalmente il reticolo urbano, sembrerebbe essere stata abbandonata all’indomani del declino dell’impero kushana, sotto la spinta dell’espansione sassanide, alla fine del III secolo d.C. Un dato nuovo, che – se confermato – cambierà le nostre conoscenze sulla storia tarda dei Kushana e sull’urbanesimo nell’India antica.
Fotomosaico zenitale della grande trincea di scavo aperta dal progetto ACT sulla superficie del sito di Barikot (livelli del III sec. d.C.), l’antica Bazira (immagine di Francesco Genchi ).
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scavi • pakistan
i Santuari buddhisti di Gumbat e Amluk-dara
Il territorio intorno a Barikot è ricco di santuari buddhisti, le cui rovine, saccheggiate dagli scavi clandestini, ancora dominano un paesaggio archeologicamente unico al mondo. Il grande santuario di Gumbat, l’unico monumento con doppia cupola dell’architettura dal Gandhara, era a rischio di crollo. Il progetto, oltre a fornire le linee-guida per la conservazione preliminare (con una tecnica «leggera» di ricostruzione parziale in muratura a secco), ha messo in sicurezza l’area e condotto uno scavo parziale. Le analisi del C14 hanno rivelato che il santuario fu costruito al piú tardi nel II secolo d.C. e che l’area sacra – dominata da tre grandi santuari affiancati – rimase in vita fino alla tarda antichità. In questa fase tarda (V-VIII secolo d.C.) il grande stupa di Amluk-dara, il piú grande monumento dello Swat, conobbe una serie di rifacimenti coevi con la grande stagione degli stupa della regione di Kabul, segnati – come ad Amlukdara – da gigantesche nicchie frontali. Area sacra di Balo Kale-Gumbat. L’area di scavo dominata dal vihara (edificio coperto da cupola) del II-III sec. d.C.
Il santuario buddhista di Saidu Sharif I L’area sacra con il suo monastero fu esemplarmente scavata negli anni Settanta e Ottanta. Da qui proviene un fregio raffigurante la vita del Buddha unico nel suo genere. L’area sacra versava in relativo abbandono quando,
riprendendo un vecchio progetto di Pierfrancesco Callieri, è stato avviato il restauro del podio e della scala dello stupa principale. Qui si stanno formando nuove maestranze, sotto la guida di Giuseppe Morganti e Francesco
Martore. Si usano materiali vicini alla cultura materiale locale: lastre di scisto, argilla, paglia: si vuole proporre un modello di intervento replicabile a basso costo. Solo sulla cortina originale del podio si è intervenuti con prodotti importati. Area sacra di Saidu Sharif. Attività di restauro dello stupa scavato dalla Missione Archeologica Italiana dell’IsMEO.
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Il Buddha di Jahanabad
Di cosa sia successo a Jahanabad si è già detto in apertura di questo articolo. Gli archeologi italiani hanno studiato le centinaia di rilievi rupestri tardo-buddhisti dello Swat (VII-VIII secolo d.C.), e presto Anna Filigenzi ne pubblicherà il corpus completo. Non ci si poteva esimere da intervenire a Jahanabad, cogliendo l’occasione di creare un campo scuola specializzato per un minuscolo gruppo di operai già formatisi al sito di Saidu Sharif. Sotto la guida di Fabio Colombo si è provveduto innanzitutto a pulire la scultura e conservare la parete rocciosa, quindi a «medicare» la ferita prodotta dalle esplosioni. La scultura è scolpita secondo una accurata deformazione prospettica, che permette di percepirla come un tutt’uno armonico se vista dal basso (la testa è alta 1,60 m, un terzo del totale). Queste caratteristiche, unitamente agli scarsi frammenti disponibili, hanno impedito finora una ricostruzione dei volumi del volto, che verranno affrontati dopo la scansione 3D della scultura. Il colossale rilievo del Buddha di Jahanabad. VII-VIII sec. d.C.
Le immagini documentano vari momenti delle operazioni di pronto
intervento conservativo e messa in sicurezza del monumento.
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scavi • pakistan
La moschea ghaznavide di Udegram Il ponte costruito dall’esercito pakistano in collaborazione con ACT, per permettere l’accesso dei fedeli alla moschea di Udegram.
La ricostruzione del Museo dello Swat Cuore del progetto ACT è il nuovo Museo dello Swat. Costruito col contributo italiano nel 1956-1963, l’edificio, a seguito di un’analisi statica indipendente (Università UET di Peshawar), è risultato a rischio di crollo parziale. Si è voluto mantenere intatto il carattere storico della struttura, costruita quando lo Swat era uno Stato semi-autonomo, e che non si può annoverare tra gli esempi migliori di una poco conosciuta stagione di architettura post-coloniale. Una parte dell’edificio «antico» è stata
inserita in un nuova costruzione antisismica. Il nuovo Museo è progettato secondo una concezione, che – dal punto di vista strutturale – ne fa il piú avanzato edificio nel suo genere in Pakistan. Gli architetti Ivano Marati e Candida Vassallo (in collaborazione con ingegneri dell’Università «Federico II» di Napoli e della UET di Peshawar), sono ora impegnati nelle finiture e nei volumi espositivi. Nella nuova didattica del Museo figura un eccezionale modello 1:20 dello stupa principale di Saidu Sharif I.
Il nuovo Museo di Saidu Sharif risorge dalle rovine.
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La terza moschea piú antica del Pakistan è oggi oggetto di un programma ambizioso, che prevede, innanzitutto, il suo inserimento nella lista provvisoria dell’UNESCO per il Pakistan. A tale scopo è stato avviato un piano di conservazione, che ha previsto la costruzione di una strada di accesso e di un ponte in cemento con la collaborazione dell’esercito del Pakistan, nonché di infrastrutture per i visitatori. Se i fondi lo permetteranno, si provvederà anche a una copertura parziale del monumento, che è tornato a essere un edificio di culto in uso.
A destra e in basso: Saidu Sharif. Il cortile della casa della missione, dove il restauratore Akhtar Manir coordina gli interventi sui materiali archeologici.
Qui accanto: la moschea di Udegram (XI sec. d.C.), scavata dagli archeologi dell’IsMEO.
Il progetto ACT si propone di offrire un modello di intervento replicabile. Esso si basa innazitutto sulla collaborazione con università ed enti italiani e pakistani (Missione Archeologica in Pakistan dell’IsIAO; Bologna-Ravenna, Dipartimento di Conservazione dei Beni Culturali; Padova, Dipartimento di Archeologia; Lecce, CEDAD; Firenze, Facoltà di Architettura; Istituto Superiore di Conservazione e Restauro; Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Provincial Department of Archaeology and Museums, Hazara University, Quaid-e Azam University, UET University of Peshawar).
quali riceveranno un certificato che dovrà valere come accesso prioritario al lavoro, nel caso di nuovi cantieri di scavo e restauro, condotti da enti pakistani o stranieri. Altri 30, già impiegati come custodi nelle aree di cui è responsabile il progetto, saranno assunti dal dipartimento provinciale. 30, infine, daranno vita a un’associazione privata di guide archeologiche riconosciuta a livello provinciale. Condicio sine qua non per il raggiungimento di questi obiettivi è che le autorità provinciali e federali, secondo le diverse competenze stabilite dalle nuove leggi in materia, provvedano alla protezione legale dei siti e alla loro acquisizione. Attualmente il progetto provvede al pagamento degli affitti per i vari terreni archeologici. Ma, nel Pakistan del futuro, non dovrà piú essere possibile – per esempio – che la moschea fondata da Mahmud di Ghazna, o la città di Alessandro Magno, rimangano nelle mani di proprietari privati e che l’affitto dei terreni archeologici dipenda da fondi stranieri.
gli obiettivi finali Fa inoltre affidamento sul coinvolgimento delle comunità locali, sul loro impiego, sulla loro formazione, portando a eccellenza la scuola di scavatori formatisi negli ultimi decenni con gli archeologi italiani. Scavatori e restauratori ricevono una formazione stipendiata. Tra loro, alla fine, sarà selezionato un gruppo di 120 individui, 60 dei a r c h e o 37
civiltà cinese • le origini/6
HAN di Marco Meccarelli
i «primi cinesi»
Alla grande dinastia succeduta al regno di Qin Shi Huangdi spetta il compito di realizzare l’unificazione culturale del Paese. Cosí, nell’arco di ben quattro secoli, si assisterà al fiorire delle arti e delle scienze, alla nascita di invenzioni rivoluzionarie e, soprattutto, alla formazione di un’identità in cui, ancora oggi, si riconosce gran parte della popolazione cinese
C
on «la voracità dei bachi da seta che divorano le foglie del gelso», per citare lo storico Sima Qian (II-I secolo a.C.), l’irresistibile ascesa dello Stato dei Qin aveva fagocitato, uno dopo l’altro, i Regni rimasti ancora indipendenti, dando vita al primo impero centralizzato della Cina. Il formidabile processo di unificazione compiuto nel III secolo a.C. da Qin Shi Huangdi (vedi «Archeo» n. 339, maggio 2013), fu tale, secondo alcuni studiosi, da indurre gli occidentali a coniare il termine «Cina» proprio dal nome «Qin», che, grosso modo, si pronuncia cin. A Qin Shi Huangdi successe la gloriosa dinastia Han (206 a.C.-221 d.C.), che forní i fondamenti della prima grande unità culturale e sociale dai connotati imperiali. Se, dunque, gli occidentali fanno derivare «Cina» da Qin, «Han», che indica il gruppo etnico maggioritario, per i Cinesi, ancora oggi, designa il carattere 38 a r c h e o
fondativo della propria identità culturale. Qualcosa che potremmo definire «cinesità»: a significare che, se i Qin «hanno formato» la Cina, gli Han «hanno formato» i Cinesi.
arte e ideologia La considerevole varietà dei reperti della seconda dinastia imperiale svela il vigore straordinario di un’arte che presenta un’ampiezza di temi – letterari e guerrieri, cortesi e popolari – autoctoni, ma anche di provenienza straniera. Gli oggetti ritrovati divennero, inoltre, efficaci «strumenti» di un’ideologia che ebbe come vocazione l’unificazione di tutte quelle forme culturali preesistenti, alla luce di un modello istituzionale e sociale capace di perfezionare la potenza imperiale. Con gli Han venne infatti elaborato un sistema ideologico eclettico e durevole nel tempo, nato dal compromesso tra istituzioni legiste – già promulgate con il primo impero – e morale confuciana, su cui è stato forgiato il modello sociale cinese, senza dimenticare, però, le tradizioni taoiste e le speculazioni cosmologiche della religiosità popolare.
Lucerna in bronzo dorato sostenuta da una figura femminile inginocchiata, dalla tomba di Dou Wan, consorte del principe Liu Sheng, scoperta nel 1968 a Mancheng (Hebei). 173 a.C. Shijiazhuang, Museo Provinciale dello Hebei. Nella pagina accanto: boshan lu (bruciaprofumi) in bronzo dorato, dal mausoleo di Wudi, settimo imperatore degli Han. 137 a.C. Xi’an, Museo Storico Provinciale dello Shaanxi.
civiltà cinese • le origini/6 A sinistra: ritratto di Liu Bang, fondatore degli Han Occidentali, che fu al potere dal 206 al 195 a.C. XIX sec. Londra, British Library. Qui sotto: cartina della Cina con l’estensione dell’impero in epoca Han. In basso: modellino in terracotta raffigurante la porta monumentale di un palazzo. Epoca Han, 206 a.C.-220 d.C. Londra, British Museum.
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Popolazioni nomadi Confini dell’odierno Stato cinese La Grande Muraglia in epoca Han India
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Guangzhou
Giappone
Si è soliti distinguere il lungo periodo (quattro secoli circa) degli Han, in Occidentali (o Anteriori, 207 a.C.-9 d.C.), con capitale Chang’an (Shaanxi), e Orientali (o Posteriori, 25-220 d.C.), con capitale Luoyang (Henan). Fa da spartiacque l’effimera dinastia Xin (925 d.C.), sconfessata da tutta la storiografia ufficiale e fondata da un dignitario di corte, Wang Meng, tradizionalmente considerato come il prototipo dell’usurpatore. L’impero degli Han Occidentali nacque dalle gesta eroiche di Liu Bang (al potere dal 206 al 195 a.C.), che spodestò la prima dinastia e venne ricordato con il nome postumo di «sublime patriarca» (Gaozu). La sua ascesa sociale, dalle umili origini fino ai vertici del potere, fu irresistibile. Con lui s’inaugura uno dei capitoli piú avvincenti dell’archeologia cinese: i rapporti di interazione tra le culture appartenenti all’Estremo Oriente, manifestatisi già dalla media età neolitica (vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013), diventano prove evidenti.
gli albori della via della seta Le numerose missioni al di fuori dell’impero e la formazione di presidi stabili in aree sempre piú lontane, contribuirono a stipulare solidi legami politici, economici e culturali. Tra il II e il I secolo a.C., inoltre, grazie a guerre vittoriose e conquiste territoriali, si intensificarono, lungo le direttrici centro-asiatiche, i contatti commerciali di quella che, in tempi piú recenti, fu ribattezzata «Via della Seta», oggetto di studi e ricerche da oltre cento anni: un trait d’union ininterrotto, un importante collante culturale ed economico, che fece fiorire il commercio con la Persia, Palmira e la Siria, fino a raggiungere l’impero romano. Con la loro politica espansionista, i due «piú formidabili, piú compiuti, piú sofisticati imperi che il mondo pre-industriale abbia conosciuto» – come li definí lo storico John H. Plumb – stavano unendo l’Oriente estremo alle coste del Mediterra-
Frammento di un foglio di carta utilizzato per una lettera in kharoshthi, una scrittura in uso nel subcontinente indiano, da una tomba scavata a Yingpan (Lop Nur, Xinjiang). Ürümqi, Xinjiang Archaeological Institute.
neo. I Seres, «popoli della seta», come venivano chiamati dai Romani gli Han, e i Da Qin, i «grandi Qin», come venivano definiti, nelle fonti storiche cinesi, i discendenti di Romolo, si sarebbero forse congiunti, se soprattutto i Parti, decisi a mantenere il proprio dominio commerciale di intermediari, non si fossero adoperati per evitare le relazioni dirette tra i due imperi. Wudi (140-87 a.C,) si distinse, tra tutti i regnanti Han, perché, governando per un lungo periodo, fu artefice di una decisa politica centralizzata e di conquista: soprannominato «l’imperatore guerriero», promosse l’unità, ma anche l’uniformità culturale dell’impero, favorendo un’ideologia ufficiale fondata su un confucianesimo sincretico e gettando le basi di una burocrazia al servizio dello Stato. Le scoperte archeologiche continuano a documentare il fiorire e il perfezionarsi di importanti innovazioni tecnologiche, dalla fusione del ferro, della ghisa e dell’acciaio, alla lavorazione della lacca, dalla sericoltura fino alla proto-porcellana. Tali invenzioni caratterizzarono, da allora in poi, le culture e i commerci dell’intera Asia orientale.
A questo periodo risale, per esempio, una delle «quattro grandi invenzioni dell’antica Cina»: la carta, che, assieme alle successive scoperte della stampa, della polvere da sparo e della bussola, ha rivoluzionato il mondo. In precedenza si scriveva su strisce di legno o di bambú, oppure su seta, ovvero materiali costosi, di impiego non agevole e di diffusione limitata. L’invenzione della carta fu il risultato di esperienze accumulatesi fino ad allora, perfezionando la tecnica di trattamento e di filtraggio con l’uso di materie prime derivate dalla corteccia degli alberi, dagli stracci e dalle reti da pesca.
carta e trattati Secondo la tradizione, nel 105 d.C., l’ufficiale di corte Cai Lun presentò i risultati della sua opera all’imperatore. Tuttavia, i frammenti di un materiale organico cosí facilmente deperibile portati alla luce negli scavi archeologici in varie province della Cina, dal Xinjiang (Lop Nur) al Gansu (a Dunhuang e a Juyan) fino allo Shaanxi (Fufeng), suggeriscono che la lavorazione della carta fosse già nota da lungo tempo, retrodatando persino le prime produzioni di circa due secoli.
E non solo: le scoperte archeologiche testimoniano i notevoli successi raggiunti nei campi dell’astronomia, della matematica, della medicina, della letteratura, della storia e della pittura. Nella tomba n. 3 di Mawangdui (Changsha), del II secolo a.C., è stato scoperto un antichissimo trattato di astronomia, il Libro dei cinque astri (Wuxing shu), nel quale sono elencate le collocazioni di Giove, Saturno e Venere. Risale al periodo di Wudi, il primo calendario dettagliato della storia cinese (Taichu li), cosí come la prima cronaca storica completa, le Memorie di uno storico (Shiji) di Sima Qian; poco piú antichi sono i cosiddetti Dieci classici della matematica (Zhou bi suan jing), in cui il teorema di Pitagora viene applicato al calcolo astronomico, mediante l’uso del calcolo decimale e di complesse operazioni al quadrato. Agli inizi degli Han Occidentali si data anche l’Erbario di Shennong (Shennong Bencao), uno dei piú importanti testi di erboristeria, ritrovato in una versione su seta, nella stessa tomba n. 3 di Mawangdui, al cui interno sono state peraltro rinvenute tre carte geografiche su seta che ci forniscono informazioni sula r c h e o 41
civiltà cinese • le origini/6
la situazione politica e militare be, ma nessuna costruzione vera e torri, le gallerie sopraelevate, i giardell’epoca. Nel periodo degli Han propria al di fuori dell’ambito se- dini e i laghi. L’architettura Han Orientali visse poi uno dei piú polcrale. Gli edifici sono andati per- sembra divenire il simbolo piú sigrandi scienziati dell’antica Cina: duti soprattutto a causa della depe- gnificativo dell’autorità costituita, Zhang Heng (78-139), l’inventore ribilità dei materiali impiegati, pri- mentre il Tempio Ancestrale «si tradella sfera armillare e del primo si- mo fra tutti il legno. Fondamentali sforma» in mausoleo imperiale. risultano quindi i dati sull’urbanisti- I complessi tombali ci forniscono smografo. La considerevole ricchezza dei re- ca e l’architettura acquisiti grazie cosí il repertorio artistico piú signiperti archeologici di epoca Han, agli scavi delle due capitali, ficativo, grazie alla notevole ricchezza dei corredi e all’aspetto di riferibili a un lungo periodo storico Chang’an e Luoyang. e dislocati in un territorio molto Entrambe le città nacquero come veri e propri palazzi sotterranei vasto, rende difficile ogni tentativo centri di potere e fulcro dell’impe- conferito ai sepolcri, su modello di sintesi al cui interno considerare ro: dalle ricerche effettuate dal delle prime proposte architettonisia l’evoluzione artistica, sia i radi- 1956, Chang’an, ubicata circa 3 km che formulate durante gli Stati Combattenti (475-221 cali cambiamenti sociali e a.C.; vedi «Archeo» n. culturali. Nonostante l’eccezionale ricchezza Sulla scia di quanto aveva 338, aprile 2013), soprattutto nei Regni di Chu e documentaria, la nostra fatto Qin Shi Huangdi, di Qin. conoscenza dell’arte Han Durante gli Han si afferrimane spesso frammenanche gli Han avviarono mano nuove credenze taria. Sappiamo che si intraprese la costruzione di grandiose opere pubbliche nell’aldilà e nelle pratiche funerarie.Viene formulata grandi opere pubbliche una concezione dualista sul modello di quanto aveva fatto il primo imperatore, co- a nord-ovest dell’attuale Xi’an e dell’anima: se ne distingue una spime testimoniano l’ampliamento risalente al II secolo a.C., non sem- rituale (hun), che sale in cielo dopo della rete viaria e il completamento, bra seguire un piano prestabilito, ma la morte, e una corporea (po), che nel 129 a.C., di un canale, lungo piú rispetta piuttosto gli ampliamenti invece torna sulla terra.Tale separadi 100 km, che collegava il fiume dei palazzi imperiali che riunivano tra loro edifici costruiti su piattafor- Il tumulo funerario Wei col fiume Giallo. Dell’architettura, però, non riman- me e collegati con passaggi soprae- dell’imperatore Wudi, gono che descrizioni poco precise, levati coperti. presso Xi’an. Il sovrano limitate comunque alle capitali o ai Capitale degli Han Orientali dal I regnò dal 140 all’87 a.C. palazzi, resti di fondazione e pavi- secolo d.C., Luoyang ha un’estenmenti, lacerti di pareti decorate, sione inferiore e risulta piú austera, tegole, frammenti di canalizzazioni, anche se si mantengono le carattemodelli in scala di uso funerario, ristiche architettoniche del recente raffigurazioni sulle pareti delle tom- passato, come le alte terrazze, le
L’ultima dimora di una coppia di principi Nel 1968 a Mancheng (Hubei) sono state scoperte due grandi tombe Han, inviolate. Datate, sulla base di monete e iscrizioni, tra il 118 e il 104 a.C., appartenevano a un principe locale, Liu Sheng, che vi era stato inumato insieme alla consorte Dou Wan. Le sepolture e la disposizione degli oggetti riflettono la grandiosità dell’architettura palaziale del tempo: i manufatti piú preziosi sono stati collocati nella camera centrale delle due tombe, assieme a una serie di lucerne in bronzo dorato lavorate nelle forme piú varie. Una di esse, che un’iscrizione permette di datare intorno al 173 a.C., è particolarmente raffinata e presenta una figura femminile inginocchiata, che regge una lucerna (vedi foto a p. 39). Tra i reperti in bronzo, vi sono i recipienti del tipo hu, arricchiti da decorazioni in agemina o iscrizioni, soprattutto a carattere augurale. La stessa tecnica decorativa si ritrova in un incensiere in bronzo con delicate ageminature in oro e argento, eccezionalmente rifinito, che raffigura una delle mitiche «isole degli immortali». I reperti comprendono numerosi oggetti in giada e sudari. 42 a r c h e o
zione si riflette nella proposta di distinzione tra un mondo celeste e uno sotterraneo, gestito da una burocrazia incaricata di accogliere e accudire l’anima corporea. Diventano quindi esigenze primarie la realizzazione di ricchi corredi funerari e la conservazione del corpo del defunto, quest’ultima ottenuta mediante otturatori in giada, sudari e bare inserite l’una dentro l’altra e isolate da strati di carbone e argilla: misure adottate per evitare il processo di decomposizione. Ne è un esempio il corpo della donna sepolta oltre duemila anni fa, nella tomba n. 3 a Mawangdui, trovato ancora integro nella forma esterna, con pelle idratata e muscolatura elastica (vedi box a p. 47). La necessità di mantenere, nel mondo sotterraneo, il rango e lo stile di vita avuti nell’esistenza terrena è alla base della costruzione di tombe solide, decorate con figure apotropaiche e pitture murali, e al cui interno vengono deposte statuette destinate
a proteggere il defunto dagli influssi nefasti e, a partire dal I secolo a.C., talismani simbolici, come gli specchi, riccamente decorati con allegorie cosmologiche.
il culto funerario Lo sviluppo di un artigianato funerario sempre piú prospero favorisce, inoltre, il mutamento delle pratiche rituali: il culto incentrato sul Tempio Ancestrale, che faceva uso dei bronzi rituali ed esaltava il lignaggio (vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013),
lascia spazio al culto della tomba, con cui si celebra l’individuo attraverso le immagini raffigurate sulle pareti dell’intera sepoltura o solo della camera per le offerte. Possiamo suddividere le tombe Han in due modelli strutturali principali: alcune presentano una pianta centrale, con una fossa verticale e una camera funeraria per i sarcofagi lignei; altre sono invece impostate secondo una pianta assiale, con una fila di camere lungo l’asse del percorso di accesso e alcune camere laterali annesse. Col tempo si assiste a importanti cambiamenti negli usi funerari, come la sepoltura dei coniugi nella stessa tomba (precedentemente ve-
Cavallo in bronzo dorato rinvenuto in una delle tombe del complesso funerario dell’imperatore Wudi. 130 a.C. circa. Maoling, Museo.
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nel segno della giada Incontro con Elizabeth Childs-Johnson Archeologa e storica dell’arte cinese, Elizabeth Childs-Johnson ha concentrato i suoi interessi sul Neolitico, sull’Età del bronzo e sulla giada. Di quest’ultima ha analizzato il valore simbolico e sociale; studi confluiti in numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo il recente volume scritto con Gu Fang, The Jade Age & Early Chinese Jades in American Museums (Science Press, Pechino 2009). Un altro contributo importante è il tentativo di decifrare il significato dell’immaginario religioso nell’età del Bronzo in Cina, come si ritrova in The Meaning of the Graph Yi and Its Implications for Shang Belief and Art (East Asia Journal Monograph, Londra 2008): uno studio parallelo a quello sulla giada, propedeutico a future ricerche sulle credenze e culti riferibili alle età imperiali Han.
◆ Professoressa Childs-Johnson, in base alle sue
ricerche, quali ritiene siano i principali elementi di continuità dal Neolitico fino alla dinastia Han? Il periodo che va dal tardo Neolitico fino a tutti gli Shang è il fondamento dell’arte e della cultura dei periodi Qin e Han. Ne è un esempio lo specchio TLV (cosí denominato perché i simboli su di esso incisi ricordano le lettere maiuscole T, L e V, n.d.r.), con il suo disegno cosmologico e artistico che illustra la rotondità del cielo e il quadrato della terra. Il concetto del porsi in relazione con il centro, è nato durante l’epoca Longshan (3200-2200 a.C.) e si è evoluto come pratica importante durante gli Shang (XVI-XI secolo a.C.). Lo si può notare nelle enormi tombe a forma di croce a Xibeigang, Anyang, che dovevano costituire la dimora ultraterrena del sovrano. L’imperatore, cosí come il re Shang, era considerato l’intermediario fra il cielo e la terra. La continuità del sistema di credenze tra gli Shang e gli Han è probabilmente il fattore piú importante per sottolineare le relazioni fra le due dinastie. La «fede» nella metamorfosi, cosí come viene rappresentata sulle ossa oracolari e nell’arte Shang – come nel caso dell’onnipresente figura semi-umana con fattezze animali dei bronzi rituali –, continua a essere espressa, in epoca Han, nelle immagini sugli stendardi di seta dipinti che coprivano le bare e i corpi dei membri delle élite. Le immagini sullo stendardo di Mawangdui mostrano la trasformazione del defunto dal mondo terreno al contesto
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La giada dell’immortalità La giada, simbolo sacro e regale, è presente sin dal Neolitico (vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013). Il tema dell’immortalità, assai caro alla tradizione Han, è espresso in uno dei ritrovamenti piú spettacolari a oggi mai effettuati: quello di una veste di giada per contenere il corpo del defunto, formata da piú di 2000 tessere cucite tra di loro con fili d’oro, simbolo di regalità. Secondo le dottrine taoiste del periodo, in concomitanza con la divulgazione del culto degli immortali, la giada aveva il potere di impedire il deperimento del cadavere. Sin dall’epoca degli Han Occidentali si attesta l’uso di piccole giade da introdurre nella bocca del defunto e lavorate nella forma di cicale, probabilmente associate all’idea della rinascita, suggerita dal ciclo vitale di questo animale. Vi sono anche le «giade per i nove orifizi», che dovevano ostruire le aperture del corpo – occhi, orecchie, narici, bocca, apparato genitale e ano – evitando cosí la fuoriuscita del «fluido vitale» e preservando intatto il corpo. In epoca Han si rinnova anche la produzione di oggetti presenti sin dal Neolitico, come i dischi forati noti come bi, particolarmente diffusi nelle sepolture della cultura Liangzhu (3200-2200 a.C.).
Manufatti in giada rinvenuti negli scavi condotti a Shizishan e oggi conservati nel Museo di Xuzhou (Jiangsu). Da destra, in senso antiorario: un pendente in forma di dragone, un sarcofago e una veste funeraria. Dinastia degli Han Occidentali, II sec. a.C.
soprannaturale ultraterreno; in particolare, la figura centrale, incoronata, della marchesa di Dai rappresenta questa metamorfosi con l’immagine del suo corpo che è esteso e «attorcigliato» al tempo stesso, come quello di un serpente (vedi foto a p. 47).
◆N umerosi sono i suoi studi sulla giada: come viene
considerato questo materiale nell’epoca Han? Quando si pensa alla giada Han vengono in mente gli elaborati vestiti funerari di giada, i pettorali tintinnanti o i recipienti estremamente raffinati, con intricatissime immagini scolpite. La giada e la credenza nella vita dopo la morte sono intimamente correlati. Fin dall’età della Giada (3500-2000 a.C. circa), in età neolitica, la pietra fu riconosciuta e venerata per la sua qualità artistica e per le sue immutabili proprietà. Oltre il 90% degli oggetti funerari delle tre culture che seguirono e si accavallarono nell’età della Giada erano, appunto, in giada. La lavorazione della pietra raggiunse il suo secondo apice durante i periodi degli Stati Combattenti e degli Han Occidentali. Sebbene la veste funeraria Han sia l’esito di una lunga evoluzione che ha le sue radici nell’età della Giada, in quell’epoca quasi ogni oggetto poteva essere scolpito nella piú pregiata, traslucida nefrite bianca o verde chiaro. Interpretazioni di temi familiari o riletti in chiave rituale raggiunsero nuove vette di perfezione artistica. Un nuovo «naturalismo» e un nuovo ritmo formale permisero, a soggetti mitici e non, di girarsi e attorcigliarsi nello spazio, sia che fossero draghi e bixie oppure orsi e tigri. Gli elaborati pettorali di giada, gli ornamenti da cintura con i disegni piú complessi, le misture di trame diverse e gli eleganti insiemi creativi sono il simbolo di questo secondo nuovo apice nella lavorazione della pietra. La giada non ha smesso d’essere considerata come un’immutabile e indistruttibile energia vitale della natura: nell’arte Han, essa ha continuato a esprimere la dignità e il rango di una raffinata élite di potere.
nivano invece separati) o, soprattutto, la celebrazione dei riti funebri all’interno del sepolcro. Ciò comporta modifiche strutturali significative, come il riutilizzo della rampa o della via di accesso, facilmente individuabile, in occasione della riapertura della tomba per introdurre il feretro e il corredo della seconda salma; nella parte anteriore viene inoltre ampliato lo spazio funerario, che, sempre piú decorato, accoglie l’officiante dei riti funebri e i parenti del defunto. A partire dal I secolo d.C., l’uso della pietra si affianca a quello del mattone, in concomitanza con la moda delle sepolture fastose, laddove la tomba assume le sembianze di una modesta replica della dimora terrena. L’introduzione dell’usanza di disporre statue imponenti lungo la strada che conduce al sepolcro fino a formare la cosiddetta «via sacra» (Shendao), va collocata, secondo l’archeologa Michèle Pirazzoli-t’Serstevens, tra la metà del II e l’inizio del III secolo d.C. Nelle regioni cinesi in cui si registra la grande fioritura delle tombe decorate con lastre incise (Henan, Shandong, Shaanxi e Sichuan), sono stati scoperti sepolcri con i primi esempi di questa scultura monumentale.
gli oggetti splendenti I ricchi corredi funerari mutano ulteriormente e si arricchiscono: i vasi rituali vengono affiancati agli oggetti di vita quotidiana e ai mingqi (oggetti splendenti) – in luogo dei sacrifici umani –, che comprendono figurine antropomorfe e zoomorfe, modelli di strutture architettoniche e utensili in miniatura. Lo splendore e il vigore dell’arte Han sono espressi da reperti caratterizzati da una raffinatezza ricercata, di impronta imperiale, che tuttavia non disdegna le varianti locali e regionali; anzi, il «regionalismo» è un motivo di ricchezza nell’epoca Han, accentuato dagli apporti esterni dovuti all’espansione senza precedenti dell’impero: tecniche, idee e culti esteri vengono trasmessi, assieme a gioielli, vetri, tessuti, lane, a r c h e o 45
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Sulle tracce di Confucio A colloquio con Li Min Con gli Han, il confucianesimo divenne l’ideologia ufficiale dell’impero. Li Min, professore presso il Cotsen Institute of Archaeology dell’UCLA (University of California Los Angeles), è condirettore di un progetto di archeologia del paesaggio, incentrato sulla storia di Qufu, città natale di Confucio, nell’età del Bronzo.
◆ Professor Li Min, quali sono le
linee guida e gli scopi della ricerca da lei condiretta? Il progetto Archeologia del Paesaggio confuciano sta studiando una delle zone cruciali per la storia sociale e culturale cinese. Situata nel cuore dello Stato di Lu, Qufu divenne un centro rituale di primaria importanza, nel quale, durante il I millennio a.C., si sviluppò il pensiero filosofico dell’antica Cina. Il progetto prevede l’indagine archeologica intensiva delle trasformazioni che hanno definito il contesto storico di quest’area, e, in particolare, dell’entroterra rurale della città durante l’età del Bronzo. I dati finora acquisiti documentano lo sviluppo della città, partendo dall’insediamento di un centro rituale, durante i Zhou – all’inizio del I millennio a.C. –, fino alla
formazione urbana dal V secolo a.C. Il declino del centro, dopo il II secolo d.C., ha preceduto il graduale accrescimento del sito, favorito dalla pratica del culto tributato a Confucio e ai suoi discepoli. I resti della città e dei suoi significativi luoghi culturali si trasformarono in mete di pellegrinaggio. Il paesaggio leggendario, associato alla preistoria, il paesaggio archeologico di Qufu e del suo hinterland, e il paesaggio rituale, evolutosi intorno alla memoria della città, hanno creato una «struttura» ricca, che richiede un approccio capace di recuperare e valorizzare il sito e la sua potenza simbolica. Le ricerche precedenti, infatti, si erano concentrate su fasi specifiche della storia politica della città – il Neolitico, l’età del Bronzo e i primi periodi imperiali –, ricostruendo solo singoli segmenti del passato.
Il nostro studio sui cambiamenti a lungo termine del paesaggio archeologico vuole invece definire un quadro piú chiaro del contesto locale e dei mutamenti sociopolitici. Interessi principali del progetto sono le intersezioni tra il paesaggio e la memoria, in una prospettiva archeologica e storica. La ricerca sul campo si sviluppa a partire da questi interrogativi: qual è stato il modello di distribuzione dei siti ubicati attorno alla città? Qual era l’ambiente e quali sono i resti materiali del passato, legati ai contesti culturali, con cui sono state formulate ideologie, di ordine sociale e di continuità storica? Quali indizi offrono i reperti archeologici e la loro analisi? Per rispondere a queste domande adottiamo modalità di ricognizione diverse. L’indagine intensiva sta restituendo una documentazione archeologica completa sulle attività umane in relazione al peculiare ambiente locale. Segue il confronto tra i modelli archeologici e le informazioni fornite dalla storiografia, dalle iscrizioni, dai monumenti, e da tutto ciò che si riferisce al complesso rituale urbano, per approfondire le dinamiche sociopolitiche che hanno modellato il paesaggio storico.
seta e lacche per la marchesa di dai Negli anni Settanta la località di Mawangdui (Changsha, Hunan) è stata teatro di una delle piú importanti scoperte archeologiche cinesi: quella di una salma femminile perfettamente conservata, affiorata in una tomba al cui interno aveva riposato per oltre 2000 anni. La defunta era la moglie di un facoltoso governatore locale, la marchesa di Dai. Durante gli scavi è stato recuperato anche l’eccezionale corredo funebre, risalente al II secolo a.C., che comprende 120 manufatti in seta – tra cui 50 capi di vestiario e 50 di corredo –, 180 stoviglie di lacca nera e rossa, 59 contenitori di ceramica, strumenti musicali, centinaia di figurine dipinte raffiguranti servitori e inservienti, decine di casse di bambú con stuoie, cibarie, spezie, frutta, monete e un gran numero di testi compilati su seta o su tavolette di legno e bambú. Materiali che possiedono un fondamentale valore artistico, storico e culturale. Gli scritti su seta sono ricchi di contenuti importanti e provano le significative trasformazioni di molte concezioni accademiche e nozioni tradizionali. Da segnalare, inoltre, il recupero della piú antica e completa pittura su seta a oggi rinvenuta: uno stendardo dal ricco apparato iconografico che rappresenta il mondo sotterraneo nella parte inferiore, la terra nei due terzi superiori della banda verticale, e il mondo celeste in quella orizzontale.
feltri, nefriti che si confondono tra gli utensili in lacca, in giada, ma anche in legno e in pietra, mentre i caratteristici bruciaprofumi in bronzo, i boshan lu, assumono la forma della montagna sacra, tanto cara al culto taoista, laddove la tradizione vuole che vivessero gli eremiti immortali.
eleganza e volume Tra i corredi funerari non può essere dimenticata la lampada antropomorfa in bronzo dorato del II secolo a.C. scoperta a Mancheng (Hebei), un unicum per tematica e finezza dell’esecuzione. Da oggetto d’uso, la lampada diventa un oggetto funerario destinato a «illuminare» e ad abbellire la vita dell’oltretomba. L’estrema eleganza dell’arte Han, che si coniuga con un vigoroso senso del volume, trova conferma nel «cavallo volante» in bronzo, che con uno zoccolo sfiora un uccello (rondine o falco), rinvenuto a Leitai (Gansu), nella tomba di un generale della fine del II secolo.
Oggetti facenti parte del corredo funerario della marchesa di Dai, la cui tomba fu scoperta a
Mawangdui (Hunan). In alto: lo stendardo in seta dipinta con rappresentazioni allegoriche del mondo sotterraneo, della terra e dell’universo celeste. A sinistra: recipiente in lacca per il vino. II sec. a.C. Chansgsha, Museo Provinciale dello Hunan. Nella pagina accanto: una veduta di Qufu, città natale di Confucio. a r c h e o 47
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In basso, sulle due pagine: statuine in terracotta, prive delle braccia, perché verosimilmente realizzate in legno, e nude, in quanto vestite con abiti di seta, da Yangling. Si pensa formassero l’armata incaricata della «sorveglianza» del plesso funerario di Jingdi, sesto imperatore della dinastia Han, 156-141 a.C. Xi’an, Han Yang Ling Museum.
IL PICCOLO ESERCITO DI TERRACOTTA
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L’esercito di terracotta del primo imperatore non è l’unico caso del genere. Nel 1990, a Yangling (Shaanxi), alle porte di Xi’an, è stato rinvenuto un «piccolo esercito di terracotta», composto da statue esili, alte 60 cm circa, che presentano, come novità assoluta, i corpi nudi e privi di braccia. La tomba non è stata ancora scavata del tutto, ma si suppone possa contenere decine di migliaia di sculture, assieme a cavalli e carri. È probabile che l’armata facesse da guardia al plesso funerario di Jingdi (156-141 a.C.), sesto imperatore della dinastia Han. Il fatto che le statuine siano nude e prive di braccia va imputato al loro deperimento. L’esercito, infatti – e si tratta di una vera e propria novità per gli studiosi –, doveva essere verosimilmente il risultato dell’assemblaggio di materiali
diversi, come il legno (per le braccia), la terracotta (per i corpi) e la seta (per gli abiti). Il viso dipinto con differenti gradazioni di colori, tra il giallo e il rosso, cosí come il resto del corpo, presenta capelli dalle variegate acconciature e sopracciglia e pupille dipinte di nero. Sebbene il corpo fosse ricoperto da abiti in seta, è interessante sottolineare il realismo degli attributi sessuali. Tra i reperti sono state rinvenute piccole armi, tra cui balestre, lance, spade e frecce a tre punte, accuratamente rifinite. Come nell’esercito del primo imperatore, anche in questo caso si osserva la pluralità dei tratti somatici, ma si può notare che, rispetto all’espressione cupa e severa che pervade i volti dell’esercito di Qin Shi Huangdi, queste statuine hanno un aspetto piú sorridente e
In alto, sulle due pagine: statue in terracotta policroma di cavalieri e fanti, rinvenute nel 1965 a Yangjiawan, nei pressi del mausoleo dell’imperatore Liu Bang. Dinastia degli Han Occidentali, 207 a.C.-9 d.C. Xianyang, Museo Municipale.
rilassato: ciò potrebbe riferirsi alla natura benevola e mite dell’imperatore Jingdi, seguace del taoismo. Risulta inoltre interessante la presenza di numerose figure femminili rappresentate, per la prima volta, armate, e disposte talora su cavalli.
Col tempo, all’arte ornamentale legata al contesto mitologico, sembra affiancarsi un’arte piú interessata a raffigurare e narrare un mondo reale, o quanto meno umanizzato, a tratti umoristico. I tessuti Han non presentano innovazioni tecniche rispetto al passato, ma si distinguono per la qualità e la standardizzazione dei motivi, passando da quelli a dominante geometrica (losanghe e volute) all’introduzione di immagini e simboli beneauguranti (longevità, prosperità, felicità), che diventano elementi decorativi autonomi. Un’evoluzione analoga si riscontra nei decori degli specchi in bronzo. Un’analoga standardizzazione investe un antico codice figurativo, simbolo dell’unificazione politica e culturale della Cina:
l’immagine del drago, l’animale composito presente sin dal Neolitico, acquisisce un’iconografia uniforme, nel momento in cui viene istituito l’impero. La sua triplice natura (le zampe artigliate che rappresentano la terra, il corpo rettiliforme e squamato che evoca l’acqua e infine le ali, il cielo) si carica di un’ulteriore valenza sacra e ideologica, perché va a rappresentare i domini di pertinenza (terra, cielo e tutto ciò che è compreso nel mezzo) del garante supremo dell’ordine cosmico, cioè l’imperatore. Grazie agli Han, il drago si eleva, di fatto, a simbolo incontrastato dell’impero cinese. nella prossima puntata • La Via della Seta a r c h e o 49
gordion la fortuna dei frigi
novembre 1893. nel cuore dell’anatolia, durante i lavori per la ferrovia baghdad-berlino, vengono alla luce alcune rovine: appartengono alla mitica capitale della frigia, una delle corti piú raffinate e sfarzose dell’antichità. il luogo in cui, secondo la leggenda, regnò lo sfortunato re mida e alessandro magno sciolse il celebre nodo con un colpo di spada
M
di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
ito, geografia e scienze storiche raramente vanno d’accordo, almeno come vorrebbero le regole di un racconto semplice e lineare. Nel nome dell’attuale penisola di Crimea, per esempio, si nasconde la radice del nome dei Cimmeri, il bellicoso popolo che le fonti assire chiamavano Gimirrai (i Gomer dell’Antico Testamento), assimilandoli a tribú nomadiche di lingua iranica affini a quelle dei Saka o Sciti delle steppe centroasiatiche. Omero, invece, collocava la Cimmeria al di là dell’Oceano, in lande nebbiose e sconosciute del Settentrione; inoltre, poiché Ulisse, su indicazione di Circe, vi si era recato per la nekia, l’invocazione dei morti, gli antichi conoscevano altri Cimmeri, con tanto di propria Sibilla, ma di ceppo flegreo. Li localizzavano quindi ben lontano dall’Asia, in Campania, presso le sponde del Lago d’Averno, da tutti temuto come porta dei mondi infernali; e per qualche dotto del passato, Cuma deve a loro il suo nome. Muovendoci indietro nel tempo, di nome in nome, rischiamo di perderci in un passato frammentario, dominato da nebbie opache e ricordi, lingue e Paesi ormai cancellati per sempre. (segue a p. 56) 52 a r c h e o
Rodney Stuart Young (1907-1974), al lavoro all’interno del tumulo MM, da lui scoperto a Gordion nel 1957. Dopo le esplorazioni condotte da Alfred e Gustav Körte tra il 1893 e il 1900, l’archeologo statunitense aveva avviato, nel 1950, una nuova stagione di scavi, che diresse, per 17 campagne, fino al 1973.
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gordion • i luoghi della leggenda
Nella camera funeraria del sovrano, i resti accatastati di un sontuoso banchetto funebre, con 500 litri di vino speziato In alto: il villaggio, tra Afyon ed Eskisehir, noto come «Città di Mida», per il monumento rupestre (in secondo piano nella foto) su cui si legge il nome del sovrano. A sinistra: ancora una foto di Rodney Young a Gordion, nel 1957. Qui accanto: una donna e un bambino si affacciano all’ingresso della camera funeraria del tumulo MM.
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una storia lunga e travagliata Data Le fasi archeologiche
Gli eventi
3000 a.C. circa Tarda età calcolitica Primi insediamenti riconosciuti a Gordion. Fasi piú antiche si celano sotto la falda freatica. 2500-2000 a.C. Antica età del Bronzo Alla confluenza dei fiumi Porsuk e Sakarya sorge un villaggio fortificato in mattone crudo. Si usava ceramica fabbricata a mano. 2000-1500 a.C. Media età del Bronzo Cresce il popolamento dell’area, anche grazie all’irrigazione artificiale. Ceramica modellata al tornio. Contatti con la potenza ittita a est. 1500-1100 a.C. Tarda età del Bronzo Crisi demografica nella regione. Gordion, un piccolo centro isolato, sembra dipendere direttamente dallo Stato ittita, sino al suo crollo intorno al 1200 a.C. 1100-1000 a.C. Fine dell’età del Bronzo. A Gordion si continua a vivere in case seminterrate. Età tradizionalmente associata La ceramica torna a essere fabbricata a mano; alla migrazione dei Frigi da ovest cambiamenti radicali nella cultura materiale. 1000-800 a.C. Prima età del Ferro, Gordion diventa una città-stato. Sulla Cittadella, nuove o Antica Fase Frigia costruzioni su riempimenti massicci e fondazioni in pietra. Fortificazioni e prime porte monumentali costruite in pietra rossa, bianca e grigia, decorate con rilievi di stile siro-ittita. Sorge un complesso palaziale abitato da 300 persone, con un megaron (stanza ufficiale del signore della città) con pareti decorate e pavimenti colorati. 850 a.C. Compaiono i primi grandi tumuli funerari, presumibilmente della casa reale. Sono camere di assi e tronchi coperti da cumuli di argilla alti sino a 22 m. 800 a.C. Gordion, che si estende per piú di 10 ettari ed è divisa in una Cittadella e una Città Bassa, viene distrutta da un rovinoso incendio. Il tesoro reale viene depredato. Gordion verrà ricostruita in nuove forme monumentali. 800-700 a.C. Inizio della Media età del Ferro, Su grandi riempimenti artificiali, spessi 5-6 m, sorgono o Media Fase Frigia. nuovi palazzi e mura in pietra. La città bassa è circondata Età di Gordio e Mida, noti dai da un muro di 3,5 m di spessore con torri a distanze racconti greci regolari. Il tumulo MM e altre sepolture regali mostrano la grande ricchezza della casa reale frigia. 700-600 a.C. Media età del Ferro Inizia il declino della dinastia. Nel 696 Gordion cade in mano a invasori cimmeri. Sulla soglia del 600 a.C. Gordion si trova sotto il controllo dello Stato di Lidia. 540 a.C. Fine della Media età del Ferro La distruzione violenta della fortezza di Küçükhüyük segna l’annessione di Gordion all’impero persiano. 334-333 a.C. Prima età ellenistica Alessandro taglia il nodo di Gordion e procede all’invasione dell’Asia. 323-301 a.C. Lotte tra i diadochi Gordion, come città ellenistica, fa parte dei regni (successori di Alessandro) di Antigono prima, di Lisimaco poi. 250 a.C. circa Invasione dei Galati I celti Galati costruiscono a Gordion un grande edificio in pietra ed erigono nuove fortificazioni. Sepolture di parti animali e individui forse sacrificati mediante strangolamento e decapitazione, secondo rituali di tipo celtico. 189 a.C. Romanizzazione Il console romano Gneo Manlio Vulsone, su richiesta dei re di Pergamo, scaccia i Galati, ma trova Gordion ormai disabitata.
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gordion • i luoghi della leggenda
Sarebbero stati – abbastanza logicamente – i Cimmeri del primo e asiatico tipo a invadere il Paese dei Frigi, nell’Anatolia sud-occidentale, e a conquistarne la capitale, Gordion, ponendo fine al potere e all’indipendenza della nazione. A loro volta, anche i Frigi – come ci racconta Erodoto – avevano avuto origini e patrie discusse. Sappiamo dalle loro brevi iscrizioni che parlavano una lingua indoeuropea, estintasi intorno al VI secolo a.C., dopo una lunga contiguità col greco; se ne conoscono poche parole, spesso di interpretazione complessa. In realtà, non sappiamo nemmeno come i Frigi chiamassero la propria gente, tanto che utilizziamo ancora
Mar Nero
«Città di Mida» Sardi Efeso
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Mar Mediterraneo
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Yassihöyük Tumulo MM
Tumulo P Cittadella
Küçükhüyük
il sito in una foto aerea
Tumuli scavati Tumuli non scavati
quel che resta di gordion
resti della cittadella
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Il sito di Gordion si compone di tre parti distinte: al centro sorge Yassihüyük (letteralmente, in turco, «la collina dalla sommità piatta»), alta 16 m ed estesa per circa 13 ettari. Poiché gli strati archeologici continuano per 4 m al di sotto della piana attuale, prima di finire nella falda freatica, la sequenza stratigrafica, che si estende dal III millennio a.C. all’età medievale, è spessa almeno 20 m. Yassihüyük è considerata la Cittadella di Gordion; nel corso dei millenni, fu ricostruita e pesantemente fortificata piú volte. A fianco della Cittadella è la Città Bassa, a sua volta divisa in due settori fortificati (Küçükhüyük a sud e Kus Tepe a nord).
Una città favolosa alle porte dell’Asia, oggi come tremila anni fa, simboleggia uno sfarzo inaudito; ma la verità va cercata oltre la cortina dei miti Qui accanto: la camera sepolcrale del tumulo MM al momento della scoperta, nel 1957. Nella pagina accanto, in alto: cartina della Turchia, con la localizzazione di Gordion. Nella pagina accanto, al centro: pianta dei tumuli individuati intorno all’area dell’abitato di Gordion.
Infine, a nord-est vi è una Città Esterna completamente racchiusa da un grande bastione difensivo; ancora piú all’esterno, si trovano gruppi di camere sotterranee scavate nella roccia, probabilmente antiche tombe di età frigia (prima metà del I millennio a.C.). All’apogeo della sua potenza (800-700 a.C. circa) l’intera città fortificata si estendeva per un centinaio di ettari e ospitava alcune decine di migliaia di abitanti. Il fiume, che oggi separa il settore nord della Città Bassa dal resto delle rovine, in antico scorreva lungo il lato orientale. La grande fortuna della città, tra il IX e il VII secolo a.C., non è facile da spiegare.
Probabilmente Gordion era favorita dalla sua posizione di crocevia tra diverse rotte carovaniere (i Persiani vi collocarono un terminale della loro grande Via Reale), e la città sviluppò un fiorente comparto artigianale (ceramiche fini, metallurgia di lusso, produzione di finimenti per cavalli in osso e corno). Il periodo del suo apogeo sembra peraltro coincidere con una fase climatica particolarmente favorevole. Inoltre, in una regione tradizionalmente legata al pastoralismo, i re di Gordion sembrano aver investito nell’agricoltura irrigua, grazie alla disponibilità di masse di persone attirate nell’orbita urbana. a r c h e o 57
gordion • i luoghi della leggenda 1
2 Posizione delle iscrizioni
Quota originaria del piano di campagna
oggi l’arbitrario etnonimo greco. Proprio le fonti greche, come vedremo, ammantavano le vicende e la memoria della Frigia con un groviglio di allusioni e svariate favole, sospese tra il gusto dell’esotico, l’invidia un po’ gretta per la ricchezza e la prestigiosa cultura dei vicini orientali, e la consueta condanna moralistica dei costumi dissoluti e dell’indole incolta dei barbari asiatici. La tradizione omerica, con un altro caso di sdoppiamento etnico, aveva notizia di due terre dei Frigi, contigue ma diverse: una in Bitinia, a nord della penisola anatolica, tra le sponde del lago Ascanio e le spiagge del Mar di Marmara, e l’altra – quella della storia e dell’archeologia – nella valle del fiume Sangario, subito a ovest della grande ansa del fiume Halys.
l’avvento del primo Mida Molti ritenevano che i Frigi discendessero dal popolo balcanico dei Brigi, che i Greci consideravano imparentati con Traci e Macedoni. Dalla Tracia sarebbe giunto il primo Mida; in Frigia, avrebbe avuto le mani avvelenate dal tocco aureo (se le sarebbe infine lavate nel fiume Pattolo, presso Sardi, che sarebbe diventata – ironicamente – la principale fonte di oro ed elettro per la vicina e nemica nazione dei Lidi). Mida sarebbe stato adottato come successore dal primo Gordio (secondo i Greci, i sovrani di Frigia, sul trono, alternavano i due nomi canonici). I Brigi sarebbero migrati da ovest in Anatolia attraversando in armi l’Ellesponto, come alleati dei Troiani. I legami dei Frigi con Troia, secondo la tradizione, erano stretti. Omero ricorda infatti che Priamo stesso era giunto in soccorso dei Frigi, quando questi si erano scontrati con le Amazzoni; e una delle mogli di Priamo era considerata di stirpe frigia. Del resto Paride, uno dei protagonisti delle epopee troiane, fu sempre raffigurato, nell’arte greca e romana, in vesti e copricapo di tipo frigio. Certo è che il regno frigio, a partire dal XII secolo a.C. aveva trovato spazio e fortuna, piú che nei fumi del saccheggio troiano, nel contemporaneo, rapido collasso dell’impero ittita e negli epocali sommovimenti etnici 58 a r c h e o
perchÉ è importante Nella pagina accanto, in alto: 1. Sezione che mostra la prima fase della costruzione della camera sepolcrale all’interno del tumulo MM. 2. Sezione del monumento a costruzione ultimata. Sono indicati il piano di campagna originario e la trave sulla quale sono scritti i nomi NANA, MYKSOS, SITIDOS e KYRYNIS. Nella pagina accanto, al centro: il tumulo MM, che ancora si conserva in tutta la sua imponenza. In basso: un particolare degli elementi lignei impiegati per la costruzione della camera sepolcrale.
È il principale sito di riferimento per la nostra conoscenza della civiltà frigia, con architetture monumentali, un esteso livello di distruzione che si data intorno all’800 a.C., e una serie di ricche tombe appartenenti alla famiglia reale e a esponenti dell’aristocrazia.
I Frigi, una popolazione dell’Anatolia occidentale stabilitasi a Gordion intorno all’XI secolo a.C., raggiunsero la loro piena fioritura intorno all’VIII secolo a.C. Le fonti greche ce li descrivono in toni di grande magnificenza.
il sito nel mito
e Mida fu sovrano di Gordion e la sua figura storica è attestata dalle cronache R assire tra l’VIII e il VII secolo a.C. Numerose leggende attribuivano al suo regno grande sfarzo e ricchezza. In questo filone si inserisce la variante del suo tocco magico, narrata anche da Ovidio nelle Metamorfosi (XI libro): Dioniso, per ringraziarlo di avergli riportato il suo maestro Sileno che, ubriaco, si era allontanato e smarrito nel regno di Mida, gli aveva donato la proverbiale capacità di tramutare in oro tutto ciò che toccava. Il re, accortosi ben presto della maledizione che si era attirato, non potendo né mangiare né bere, implorò il dio di liberarlo e questi lo esaudí. Mida decise in seguito di stabilirsi nei boschi e diventare seguace di Pan. Un giorno presenziò al duello musicale tra Pan e Apollo e, poiché parteggiava per il suo dio, Apollo adirato lo puní, tramutandogli le orecchie in quelle di un asino.
Sull’acropoli della città si trovava il leggendario nodo di Gordion che simboleggiava la stabilità del potere reale e teneva saldamente legato a un palo il carro con cui il primo re Gordio era entrato in città. Una profezia narrava che solo chi fosse riuscito a scioglierlo avrebbe potuto regnare in Asia. Alessandro Magno, attraversando questi territori durante la sua marcia contro Dario III, decise di fare tappa nella città e cimentarsi nell’impresa. Lo recise di netto con un colpo di spada e proseguí alla conquista dell’Asia, assolvendo la profezia.
gordion nei musei del mondo
Un museo moderno, edificato poco distante dalle rovine della città, espone alcune tra le migliaia di reperti rinvenuti, offrendo un’ampia panoramica sulla storia del sito. Il museo conserva anche dei mosaici, un tumulo funerario di età ellenistica (Tumulo O) e campioni di vegetazione che aiutano a ricostruire l’antico ambiente naturale dell’area. Una galleria permette di accedere all’interno del tumulo MM, dove si può ammirare la camera funeraria lignea in ottime condizioni di conservazione.
eperti provenienti da Gordion sono conservati al Museo delle Civiltà Anatoliche R di Ankara, e anche il Museo di Archeologia e Antropologia dell’Università della Pennsylvania conserva numerosi frammenti di anfore, ciotole, piatti, pithoi e altri reperti restituiti dagli scavi.
informazioni per la visita Da Ankara si prende la strada o il treno per Polatli (un’ora di autobus) e quindi si prosegue per 18 km di strada sterrata verso il villaggio di Yassıhöyük. Non esiste un servizio regolare di trasporto tra Polatli and Yassıhöyük, pertanto è necessario prendere un taxi o disporre di un mezzo proprio. Una volta giunti sul sito in una visita di un’ora si riesce a vedere il museo ed esplorare il Tumulo MM. In alternativa si può esplorare il Tumulo della Cittadella. Una permanenza di tre ore permette di visitare tutto il complesso. a r c h e o 59
gordion • i luoghi della leggenda
quel re avido e sconsiderato... La vicenda del leggendario re Mida è stata raccontata da Ovidio, nelle Metamorfosi, una miscellanea di leggende che hanno in comune la trasformazione (da qui il titolo) di esseri mitici in animali, piante, pietre, disposte in una successione proliferante per cui un mito ne richiama per analogia un altro o è inserito in un altro come digressione. Il poeta latino dà conto della storia del sovrano frigio, nel Libro XI dell’opera ed esordisce narrando di come Bacco, nelle sue peregrinazioni orientali, avesse smarrito per strada il suo caro Sileno nei territori di Frigia: Barcollante per gli anni e per il vino, // l’avevano trovato i contadini di Frigia e, tutto inghirlandato, // l’avevano portato al re Mida, iniziato ai riti di Bacco // dal tracio Orfeo e dall’ateniese Eumolpo. // Riconosciuto l’amico caro e compagno di culto, // felice del suo arrivo, Mida aveva proclamato una gran festa, // in onore dell’ospite, di dieci giorni e dieci notti. Grato dell’aiuto, Bacco promise un premio al sovrano, ma... Il re non se ne avvalse con saggezza, dicendo: «Fa’ // che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in oro fulvo». // (...) Lieto, felice della sua sfortuna, se ne andò il signore di Frigia // e prese a toccare tutto per verificare la parola del dio. // Incredulo, stacca dal ramo di un basso leccio // un ramo verde, e questo diventa d’oro. // Da terra prende un sasso e anche quello assume il colore dell’oro. // Tocca poi una zolla: al suo magico tocco la terra diventa // un ciottolo d’oro; coglie aride spighe di grano: // un raccolto d’oro (...) e mentre esulta, i servi gli apparecchiano // il desco, imbandito di cibi e pane tostato. // Ma ora, ahimè, come tocca i doni di Cerere // con la mano, essi diventano rigidi; quando // avido coi denti afferra una vivanda, // e la addenta, una lamina d’oro ricopre il cibo Mida cercò di liberarsi dell’odiosa maledizione, supplicando il dio. Questi, mosso a compassione, lo indirizza a un bagno salvifico nelle acque del fiume Pattolo: Il re ubbidí e si recò all’acqua: il dono dell’oro // colorò la corrente e dal suo corpo passò al fiume. // Ancor oggi le sponde, assorbito il germe di quell’antica vena, // si ergono chiare e rigide, con zolle impregnate d’oro Ovidio dipinge Mida come un sovrano arrogante, avido e sconsiderato. Narra il poeta che il re, sazio di ricchezze e onori, amava vivere in campagna e nei boschi, dedicandosi al culto agreste di Pan e delle sue ninfe. Quando Pan osò sfidare Apollo in una gara di musica (zampogna e canti selvaggi contro la lira del dio del Sole) 60 a r c h e o
Mida fu l’unico a dare torto al giudice, e a riconoscere Pan come vincitore. Apollo era vendicativo: Il dio di Delo non poteva accettare // che quelle orecchie grossolane mantenessero forma umana, // e cosí le allungò, ricoprendole di pelame grigio, // e le fece mobili alla base, perché potessero agitarsi (...) // in quell’unica parte fu punito, con le orecchie di un pigro asinello. // Per nascondere la sua vergogna, // Mida nascose le tempie con una tiara rossa Mida fece di tutto per non essere scoperto. Il barbiere reale, che aveva visto le orecchie, incapace di mantenere un segreto tanto ghiotto, scavò una buca, e lo confidò al terreno. Ma sopra la buca spuntarono alcune canne che, agitate debolmente dal vento, continuavano a sussurrare al mondo le parole sepolte, e, con esse, la disgrazia del suo temerario re.
La leggenda del tocco aureo di Mida oscura le ragioni umane di una ricchezza impressionante, ma transitoria Nella pagina accanto, in basso: modello in scala della camera sepolcrale del tumulo MM, accanto al quale è collocato un ritratto ipotetico del re Mida. Tuttavia, l’analisi della tecnica costruttiva e i dati della dendrocronologia permettono di datare il sepolcro al 740 a.C. e dunque troppo presto perché possa trattarsi della tomba del leggendario sovrano.
A sinistra: il pittore fiammingo Gillis van Valckenborch (1570-1622) ha immaginato cosí la festa organizzata da Mida in onore di Bacco e Sileno. Olio su tavola. Mosca, Museo Puskin. In basso: il ricco corredo funebre rinvenuto nella camera sepolcrale del tumulo MM esposto nel museo di Gordion all’interno di una ricostruzione parziale della struttura.
e sociali degli ultimi tre secoli del II millennio a.C. Indipendentemente dai racconti greci, negli annali assiri (databili tra il 717 e il 709 a.C.) si menziona un sovrano di nome Mita, capo di un popolo chiamato Mushki, che si era alleato con il re Sargon. Anche quello dei Mushki, tanto per complicare le cose, era un etnonimo sdoppiato o addirittura triplicato: vi erano infatti i Mushki orientali, sull’alta valla dell’Eufrate, e quelli occidentali, stanziati in Cilicia; mentre altri racconti storici parlano di tribú di Moschoi collocate tra i contemporanei territori di Armenia e Georgia. Intorno alla metà del V secolo, Erodoto narra di aver visto, tra le offerte dedicate al santuario di Delfi, un vecchio trono appartenuto a Mida e dedicato come offerta ad Apollo. Era il trono dal quale il celebre re emetteva le sue sentenze, e si trattava della piú antica offerta mai giunta al grande santuario ellenico.Tornando alle cronache greche, un sovrano che portava lo stesso nome di Mida, forse proprio lo stesso che aveva
deciso di parteggiare per gli Assiri, si sarebbe suicidato nel 696 a.C. bevendo il sangue di un toro, al momendo della caduta di Gordion in mano cimmera. Dopo la drammatica caduta del 696 a.C., i Frigi avrebbero ceduto, in ordine di tempo, ai Lidi, ai Persiani, ad Alessandro e ai suoi successori, ai celti Galati, agli Attalidi di Pergamo, e infine allo Stato romano. Sono quindi poche (e molto parziali) le fonti storiche dirette; per converso, diversi sono i Mida, e altrettanti i Gordio; sovrabbondanti i riferimenti leggendari, e molteplici le possibilità di sovrapposizione e confusione. Piú concreti, ma anche, nella loro materialità, piú limitati, sono i dati forniti dagli scavi...
La scoperta e le prime ricerche Le rovine di Gordion furono identificate nel novembre 1893 un centinaio di chilometri a sud-ovest di Ankara, alla confluenza tra i fiumi Porsuk e Sakarya (l’antico Sangario). L’avevano segnalato gli ingegneri impegnati nella realizzazione della linea ferroviaria Baghdad-Berlino ad Alfred Körte, filologo e classicista berlinese (1866-1946), alla ricerca della città celebrata dai racconti greci. Alfred Körte tornò sul luogo sette anni dopo, insieme al fratello Gustav. Cominciò cosí uno dei primi grandi progetti di scavo scientifico del Vicino e Medio Oriente. In una iniziale campagna di tre mesi, i fratelli si dedicarono a saggi di scavo sulla sommità della principale collina artificiale, raggiungendo i livelli dell’abitato del VI secolo a.C.; aprirono anche cinque degli oltre duecento tumuli sepolcrali che costellano a r c h e o 61
gordion • i luoghi della leggenda Qui sotto: brocchetta in terracotta policroma, con decorazione a motivi geometrici. In basso: rilievo raffigurante la divinità femminile frigia che divenne poi la Cibele dei Romani.
la periferia di Gordion. Il tumulo maggiore aveva un diametro di oltre 300 m, e 53 m di altezza; molti, di dimensioni meno appariscenti, oggi sono stati quasi del tutto cancellati dalle attività agricole. Gli scavi ripresero mezzo secolo dopo, sotto la direzione di Rodney Stuart Young, per conto dell’University of Pennsylvania Museum di Philadelphia (USA). Per 17 anni, furono scavate due monumentali cittadelle fortificate di età frigia, sovrapposte l’una all’altra al centro della città (sito di Yassihüyük, prima metà del I millennio a.C.) e furono aperti altri trenta tumuli, datati tra il IX e il I secolo a.C.Young era interessato all’antica storia dei Frigi, e ne scavò rapidamente le fasi abitative, senza indagare in estensione quelle piú tarde.
il grande tumulo regale Due dei tumuli, uno denominato convenzionalmente MM e un altro noto come P, entrambi datati alla media età del Ferro (800-550 a.C. circa), risultarono eccezionalmente ricchi. Sotto ai tumuli l’archeologo trovò abitati e necropoli dello stesso periodo e una precedente necropoli di età ittita (1700-1500 a.C. circa). Inoltre, scoprí le rovine di un vasto sistema di fortificazione in mattone crudo di età lidia (VII-VI secolo a.C.). Quando, nel 1974, Rodney Stuart Young morí in un incidente stradale, lo scavo fu sospeso, per poi riprendere nel 1988, sotto la direzione dello stesso museo statunitense. I nuovi scavi sono stati dedicati a chiarire aspetti delle stratigrafie già stabilite da Young,
La religione Al di là dei racconti leggendari che ammantano la figura del suo sovrano piú celebre, la Frigia influenzò culturalmente il mondo greco (e quindi quello romano) in notevole profondità. La dea principale dei Frigi era una Grande Madre della Montagna e Signora degli Animali. Conosciuta da Greci e Romani con il nome di Cibele, nella sua canonica forma umana era immaginata come una imponente divinità femminile, con una lunga veste fissata da un cinturone e un alto copricapo conico (polos); suoi attributi principali erano una coppia di leoni o leopardi guardiani, che trainavano anche il suo carro, un toro lunare, e il tympanon, una sorta di tamburello. Equiparata a una Magna Mater o alla greca Rea, la dea conobbe una straordinaria popolarità nel mondo romano, dopo che il suo culto fu istituito ufficialmente sul Palatino agli inizi del II secolo a.C. Al culto di Cibele, nelle versioni greche, erano collegati i complessi miti dell’ermafrodito Agditis, generato involontariamente da Zeus mentre concupiva la dea, e di Attis, amante della stessa dea e figlio della ninfa Sangaride, legata al fiume di Gordion.
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Terracotta architettonica facente parte della decorazione dell’Edificio dei Mosaici, una costruzione realizzata nell’area della Cittadella intorno al 500 a.C. sfruttando due strutture a megaron precedenti.
ricostruendo l’economia e la topografia di Gordion, indagando settori della città ancora sconosciuti. Sino a ora sono stati scavati oltre 40 dei tumuli sepolcrali che circondano l’abitato. La ricchezza delle élite frigie, che tanto impressionava i loro vicini occidentali, appare pienamente rappresentata dai corredi funebri sinora rinvenuti. I tumuli frigi della regione di Antalya, databili tra il VII e il V secolo a.C., contengono calderoni e secchi di bronzo e argento, cucchiai, tazze ombelicate, cinture d’argento, figurine d’avorio, finimenti per cavalli in ferro e argento, gioielli in oro granulato. Mentre il tumulo P, che ospitava i resti di un bambino, custodiva figure di animali
Alcune versioni culminano nel racconto di una resurrezione di Attis o dell’incorruttibiltà del suo corpo. Sono racconti dolorosi e dominati spesso da una cupa componente sessuale, sublimata nell’idea della fertilità e della rigenerazione della vita. I sacerdoti di Cibele, che si eviravano ritualmente, erano detti «coribanti». Celebravano l’equinozio di primavera con riti orgiastici accompagnati da flauti e tamburi. Con il culto di Cibele fu introdotto a Roma anche quello di Sabazio, altra importante divinità di origine frigia. Immaginato come un cavaliere e associato a un serpente, Sabazio, come Cibele, era oggetto di culti orgiastici e misterici, celebrati di notte, che prevedevano simulate unioni sessuali con il rettile divino. Con l’appellativo di soter, «salvatore», Sabazio era venerato dalle classi popolari romane con accenti quasi monoteistici. Ai culti frigi erano associate importanti tradizioni musicali; questa relazione è adombrata nel legame che la mitologia greca stabiliva tra il sileno Marsia e l’omonimo affluente dello Halys, in Frigia. Come Pan, anche Marsia aveva osato sfidare, a caro prezzo, la competenza musicale di Apollo.
in bronzo e legno, forse giocattoli, e vasi in terracotta con altre figure animali. Il grande tumulo MM, che copriva una camera lignea fatta di assi ben conservate fino alla volta, conteneva i resti di un sovrano di 60-65 anni, deposto su una spessa pila di stoffe di lusso, vivacemente colorate, entro una bara ricavata all’interno di uno spesso tronco d’albero. Intorno alla bara reale, oltre a fibule e cinture in bronzo, erano stati impilati 14 mobili in legno, quasi certamente tavoli usati durante un banchetto funebre; ogni tavolo recava un incasso per una situla in bronzo che poteva contenere 5 l di vino.
il banchetto ricostruito Il corredo comprendeva anche altre situle bronzee a testa di leone e di ariete, e una ventina di brocche, con le quali il vino era prelevato dai tre calderoni, per essere versato, tavolo per tavolo, davanti ai convitati. In questa festa, a giudicare dalla capacità dei tre calderoni bronzei dotati di altrettanti tripodi in ferro, deposti a lato dei mobili, erano stati distribuiti quasi 500 l di vino, finalmente consumato all’interno di 120 tazze ombelicate, anch’esse in bronzo. I residui organici trovati nei vasi bronzei indicano una bevanda «forte», a base di vino d’uva, birra d’orzo, e miele fermentato. Le pietanze comprendevano uno stufato fatto di carne grigliata di pecore e capre, marinata in miele, olio e vino, cotto insieme a lenticchie fortemente speziate. Data l’eccezionale conservazione dei resti lignei, grazie all’analisi della tecnica costruttiva e ai dati offerti dalla dendrocronologia, la costruzione della camera tombale è stata datata con precisione al 740 a.C. , certamente troppo presto perché si tratti della tomba del Mida del mito greco; potrebbe però trattarsi di suo nonno o di suo padre. Nel 2007, un archeologo si accorse che sulle travi della camera spiccavano, ripetuti piú volte, i nomi incisi di NANA, MYKSOS, SITIDOS e KYRYNIS. Potrebbe trattarsi di importanti invitati al funerale del signore di Gordion, oppure di personalità di spicco, a vario titolo coinvolte nella cerimonia. a r c h e o 63
gordion • i luoghi della leggenda A sinistra: piccolo gruppo raffigurante due animali, dal tumulo P. In basso: un tavolino in legno intarsiato, recuperato all’interno della camera sepolcrale del tumulo MM, dopo la ricostruzione.
Per afferrare il bandolo della matassa – apprezzando appieno l’importanza storica e culturale del regno di Frigia nelle convulse vicende dell’Asia Minore e del Mediterraneo orientale – non possiamo far altro che entrare idealmente nei meandri delle vicende mitologiche. Possiamo farlo proprio a partire dal famoso episodio del nodo, che, pur nelle sue trasfigurazioni metaforiche e fantastiche, è forse quello che ha maggiori possibilità di verosimiglianza storica: nell’inverno 334-333 a.C., l’esercito macedone, in rapida avanzata verso il cuore dei possedimenti persiani di Asia Minore, dopo aver occupato Sagalassos, era giunto a Gordion.
la cintura nuziale dell’Asia Qui, in un baricentro cardinale per i destini prossimi d’Europa e Asia, immaginiamo il giovane Alessandro, circondato da generali, compagni armati, cortigiane, religiosi e filosofi, posto di fronte all’intreccio che nessuno era mai riuscito a sciogliere. La storia sino ad allora era stata questa: secondo l’oracolo di Telmesso, capitale del regno di Licia, il primo passante a varcare la porta della nuova città su di un carro trainato da buoi sarebbe divenuto re. Il primo carro a passare fu quello di un umile contadino, Gordio; il favore divino fu sancito da un’aquila, che si posò proprio sul veicolo dell’uomo. Mida, figlio adottivo di Gordio, aveva deciso di dedicare il fatale carro del padre al tempio del dio frigio Sabazio, assimilato dai Greci a Dioniso. Qui il timone fu legato a un palo mediante un complesso groviglio di fibre di corteccia di corniolo. L’indissolubilità del nodo simboleggiava il diritto, sancito dal divino, al potere regale; per questo l’oracolo aveva predetto che chi fosse riuscito a scioglierlo sarebbe divenuto signore dell’Asia intera. Nel IV secolo a.C. il regno era stato fagocitato dall’impero dei Persiani, del quale formava ormai una satrapia, e a nessuno sfuggi64 a r c h e o
vano le possenti implicazioni simboliche dell’intreccio frigio. Non sapremo mai se Alessandro, in quella primavera del 333 a.C., avesse prima tentato di sciogliere il nodo come avevano fatto gli altri, senza successo; o se, a questo punto, come riferí Plutarco, avesse semplicemente sfilato il nodo dal timone; o, ancora, se abbia avuto ragione dell’intrico a colpi di spada, secondo quanto riportato dalla maggioranza degli storici. Tuttavia, Alessandro affrontò la sfida del nodo con un radicale ricorso al cosiddetto «pensiero laterale» – la capacità di risolvere semplicemente un problema guardandolo da un nuovo e inedito punto di vista – e di lí si avviò alla conquista dell’Asia intera. Sciogliere il nodo, infatti, era anche l’atto che i mariti esercitavano sulla cintura della sposa, alla prima notte di nozze. Cosí, lo scioglimento della «cintura d’Asia» da parte del Macedone fu un atto di propaganda politica di straordinaria rilevanza, destinato a riverberarsi nella coscienza delle classi erudite del tempo e dei secoli successivi, grazie ai resoconti di Arriano, Curzio Rufo, Giustino, Claudio Eliano (non mancarono, naturalmente, anche i pedanti, secondo i quali, poiché il nodo era stato sciolto con un sotterfugio, Alessandro, che morí dieci anni dopo il leggendario episodio, sarebbe stato destinato a fallire nel suo sogno di conquista globale, ancor prima di intraprenderlo).
nel prossimo numero
alessandria il sogno sommerso
mitologia • istruzioni per l’uso/5
i terribili sette
l’ambiziosa spedizione organizzata da Adrasto, re di Sicione, per rimettere sul trono di Tebe uno dei figli di Edipo, era nata sotto una cattiva stella: non basta, infatti, il valore militare a garantire la vittoria in guerra. e, nella furia dello scontro, l’empietà umana si rivela in tutta la sua evidenza di Daniele F. Maras 66 a r c h e o
A sinistra: altorilievo raffigurante due episodi della saga dei Sette contro Tebe, dal tempio B di Pyrgi (in località Santa Severa, Roma), uno dei porti della città etrusca di Caere (Cerveteri). 470 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
U
na volta che lo scellerato (e sfortunato) Edipo fu allontanato da Tebe, la città sperava di ottenere finalmente la serenità, ma sulla casa regnante continuava a gravare l’antica maledizione divina, alla quale si era aggiunta quella scagliata dall’esule Edipo contro i suoi stessi figli, Eteocle e Polinice, colpevoli di non aver difeso il padre e di essersi schierati con lo zio Creonte. I due principi speravano di poter allontanare da sé l’anatema paterno, decidendo di comune accordo di dividere il potere, regnando a turni alterni di un anno ciascuno: per primo toccò al
maggiore, Eteocle, che sedette sul trono, mentre il fratello Polinice, secondo gli accordi, partiva in esilio temporaneo per tornare l’anno seguente e regnare a sua volta. L’espediente avrebbe tenuto lontani i fratelli, impedendo loro di litigare e cosí di uccidersi a vicenda, come pronosticato da Edipo. Sembrava una buona idea, ma i due non avevano fatto i conti con l’avidità umana, che colpí per primo Eteocle, il quale, ormai assuefatto al potere dopo un anno di regno, rifiutò di restituire il trono al fratello allo scadere del primo anniversario. Dopotutto, pensava, se Polinice resta fuori città, non saranno possibili occasioni di scontro diretto in cui rischiare di uccidersi l’un l’altro.
esuli di sangue reale Polinice, ridotto ormai a un esule perpetuo, si rifugiò a Sicione, dove giunse da supplice alla reggia del re Adrasto, in una notte di tempesta, contemporaneamente a un altro esule di sangue regale, Tideo, scacciato dalla città di Calidone, per aver commesso un omicidio. Adrasto, a sua volta, prima di diventare re di Sicione, era stato un esule argivo, e si convinse perciò che prestare aiuto a quei due principi reietti sarebbe stato un ottimo affare, creando le basi per future alleanze e ponendo se stesso in una condizione privilegiata, a un tempo di giudice e condottiero. Si affrettò pertanto a purificare il violento Tideo dal suo delitto – tramite riti di esorcismo delle Erinni, che nel mito sono di norma appannaggio dei soli re – e a dare in
moglie a lui e a Polinice le proprie figlie, rispettivamente di nome Deifile e Argía, stringendo cosí un legame di parentela. Subito dopo iniziò i preparativi per allestire assieme ai generi una grande spedizione per ripristinare i loro diritti di regnanti, a cominciare da Polinice, a cui spettava il regno su Tebe; per far questo, però, aveva bisogno di ingaggiare altri eroi – con i rispettivi eserciti – in grado di abbattere le potenti difese delle città che si preparavano ad assediare.
il reclutamento Per primi Adrasto reclutò il fratello Partenopeo, bello e coraggioso, e il nipote Ippomedonte, gigantesco re della vicina città di Lerna, ai quali si aggiunse il possente Capaneo, famoso per il valore in battaglia e per la statura fuori del comune. Ma il re di Sicione aveva in mente di coinvolgere a ogni costo il cognato Anfiarao, che regnava ad Argo sin da quando ne aveva usurpato il trono uccidendo Talao, padre dello stesso Adrasto e di Partenopeo. Infatti, nonostante si fosse in apparenza riconciliato con l’assassino di suo padre, Adrasto covava un sordo rancore e desiderio di vendetta. Secondo l’accordo di pace siglato dai due re, al momento del matrimonio di Anfiarao con la sorella di Adrasto, Erifile, in caso di controversia, i due avrebbero dovuto Illustrazione ottocentesca raffigurante il trasporto dei corpi di Eteocle e Polinice, che si batterono fino alla morte, facendo sí che si compisse la profezia di Edipo.
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rimettersi entrambi al giudizio della donna. Perciò, quando il re di Argo, che aveva doti profetiche e prevedeva l’esito disastroso della spedizione contro Tebe, rifiutò di prendervi parte, Adrasto, facendo leva sul patto di alleanza e sul rapporto di parentela, si appellò al giudizio di Erifile. Costei era stata segretamente corrotta da Polinice, che le aveva fatto dono della collana di Armonia, la mitica fondatrice di Tebe (dono di Efesto al momento del suo matrimonio con Cadmo). Il responso fu quindi favorevole ad Adrasto e Anfiarao, per non perdere l’onore, dovette capitolare; ma non prima di aver fatto giurare ai propri figli, Anfiloco e Alcmeone, che in futuro l’avrebbero vendicato uccidendo la madre infida e organizzando una seconda spedizione. Grazie all’adesione di Anfiarao, gli eroi, che avevano raggiunto il fatidico numero di sette, mossero in armi alla volta di Tebe, con l’obiettivo di riportare sul trono l’esule Polinice. Gli eroi erano il prototipo dei perfetti guerrieri dell’età arcaica, cioè di un’epoca in cui contavano la prestanza fisica e il valore delle armi del singolo, piuttosto che la tattica e lo schieramento. In alto: particolare di un cratere siculo figurato con la disputa tra Tideo e Polinice sotto le mura di Argo, alla quale cerca di porre fine il re Adrasto. 350-340 a.C. Lipari, Museo Archeologico Regionale Eoliano «L. Bernabò Brea». Sulla sinistra si vedono Deifile e Argía, le figlie del sovrano, che questi aveva deciso di dare in sposa ai due eroi. A sinistra: particolare della decorazione di una oinochoe a figure rosse con la scena di Polinice che dona a Erifile la collana di Armonia, mitica fondatrice di Tebe. Pittore di Mannheim, 450-440 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
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Per questo ciascuno si distingueva per particolari doti belliche e personali: Capaneo e Ippomedonte avevano dalla loro la forza e la gigantesca statura, Partenopeo il coraggio che sfiorava la temerarietà, Tideo e Polinice la ferocia e la sete di sangue, Anfiarao la preveggenza e l’abilità nel combattimento sul carro, Adrasto l’eloquenza e la velocità del suo cavallo fatato Arione, che sapeva parlare con voce umana.
distrazione fatale Lungo la strada la spedizione si fermò presso Nemea, dove risiedeva Erifile, figlia di Anfiarao e nipote di Adrasto, andata in sposa al re locale Licurgo: i due avevano un unico figlio, Archemoro, ancora lattante, al quale un oracolo aveva comandato che non poggiasse piede sulla terra fino a quando non avesse saputo camminare. Il bambino era per l’appunto in braccio a Issipile, la sua governante (ma in realtà una principessa esule dell’isola di Lemno), quando i guerrieri le si fecero incontro e chiesero dove trovare una fonte per dissetarsi e abbeverare i cavalli. Dimentica dell’oscura profezia, la donna pose a terra il piccolo Archemoro, per indicare meglio
i guerrieri alle porte Al conflitto tra Eteocle e Polinice è ispirata la tragedia di Eschilo I sette contro Tebe, rappresentata nel 467 a.C. come terza parte di una tetralogia comprendente Laio, Edipo e il dramma satiresco La sfinge, tutti perduti. Il drammaturgo immagina che, prima dello scontro, Eteocle riceva da un messaggero la notizia che gli uomini di Polinice sono nei pressi di Tebe, e hanno deciso di presidiare le sette porte della città con sette dei loro piú forti guerrieri. È quindi necessario che Eteocle scelga a sua volta sette guerrieri da contrapporre a quelli nemici, ognuno a difendere una porta.
Porte
Guerriero di Eteocle
Porta di Preto Porta di Elettra Porta Nuova Porta Atena Onca Porta Nord Porta Omoloide Settima Porta
Melanippo Polifonte Megareo Iperbio Attore Lastene Eteocle
la strada: subito un orrendo serpente spuntò dal nulla e soffocò nelle proprie spire il bambino. Alle grida della governante accorse il re Licurgo, che si gettò su di lei pazzo di dolore; ma si frappose Tideo, che avrebbe difeso la donna a costo di scatenare una guerra, se non fossero intervenuti Adrasto e Anfiarao a placare gli animi, promettendo di organizzare un solenne funerale per il piccolo principe scomparso, con grandiosi giochi pubblici, da ripetere periodicamente. Nel corso dei giochi ciascuno degli eroi si distinse in una specialità: Partenopeo vinse la gara di tiro con l’arco, Polinice quella di lotta, Tideo il pugilato coi cesti (sorta di guantoni di cuoio), Anfiarao il salto in alto e il lancio del disco. L’evento segnava l’atto di nascita dei Giochi Nemei: una ricorrenza religiosa ancora in auge in età classica, celebrata ogni due anni in concorrenza con i piú celebri Giochi Olimpici e con quelli Istmici di Corinto, Pitici di Delfi e Panatenaici di Atene. Il confronto con questi ultimi permette forse di gettare luce anche sul dettaglio macabro dell’orribile morte del piccolo Archemoro a causa di un serpente
Guerriero di Polinice Tideo Capaneo Eteoclo Ippomedonte Partenopeo Anfiarao Polinice
scaturito dalla terra. Infatti l’origine delle Panatenee, secondo una delle principali tradizioni, era legata alla figura di Erittonio, figlio della dea della terra Gea, che nella sua infanzia aveva causato la follia e la morte delle figlie di Cecrope, a cui era stato affidato, a causa della sua duplice natura umana e serpentina, ovvero perché guardato a vista da un orrido serpente. Vale la pena di notare che il rapporto tra bambino e serpente, nell’ambito religioso della fertilità della terra, è legato alla simbologia del genius loci, ancora nell’età romana imperiale, e rappresenta un richiamo a forme antichissime della religione nell’area mediterranea.
Un assalto glorioso Dopo questo infausto principio, che sempre di piú dava corpo alle fosche previsioni di Anfiarao, i sette eroi proseguirono verso Tebe, dove in un primo tempo si recò il solo Tideo, in veste di ambasciatore, per chiedere il rispetto dei patti stretti tra Eteocle e Polinice, allo scopo di evitare spargimenti di sangue. Com’era prevedibile, Eteocle rifiutò la proposta, decretando cosí l’inizio delle ostilità: anzi, sdegnato per
Particolare di un’anfora campana raffigurante Capaneo che scala le mura di Tebe. 340 a.C. circa. Malibu, The Getty Villa.
il secco rifiuto, Tideo depose le vesti di ambasciatore e da solo, in mezzo alla città nemica, sfidò a duello tutti coloro che avessero osato opporglisi, lasciando al suolo decine di Tebani. Come se non bastasse, quando sulla via del ritorno un contingente di cinquanta nemici lo assalí a tradimento, per privare gli assedianti di un cosí valido guerriero, riuscí a sconfiggerli tutti, risparmiando la vita soltanto a un certo Meone, che tornò in patria per annunciare il massacro. Galvanizzati da queste premesse, i Sette mossero guerra contro i Tebani che, come si usava all’epoca, uscirono allo scoperto per affrontarli in una battaglia campale. In un primo tempo gli dèi non si schierarono né con gli assediati, né con gli assalitori, forse ancora troppo sconvolti dalle vicende della famiglia di Edipo. Faceva eccezione Atena, che come sua abitudine, aveva scelto di proteggere Tideo, di cui apprezzava la ferocia implacabile in battaglia. a r c h e o 69
mitologia • istruzioni per l’uso/5 Particolare del rilievo sulla fronte di un’urna in terracotta policroma raffigurante il duello tra Eteocle e Polinice. II-I sec. a.C. Siena, Museo Archeologico Nazionale.
Con l’assistenza della dea, l’erculeo eroe si fece strada tra i nemici, sbaragliandoli ancora una volta e arrivando a catturare e uccidere la stessa sorella di Eteocle e Polinice, Ismene. Non fu da meno Capaneo, che per primo giunse a toccare le mura della città assediata, mettendo in rotta l’esercito tebano; lo seguivano da presso Ippomedonte e Partenopeo, mentre Anfiarao e Adrasto conducevano le operazioni dal proprio carro, come si conviene a dei generali vittoriosi. Ormai la guerra sembrava volgere al termine, solo dopo un unico terribile scontro.
La fine degli empi Ma non appena giunsero alle mura della città, la furia della battaglia mise in luce la vera natura dei feroci guerrieri che conducevano l’assalto vittorioso. Per primo Capaneo, che aveva saputo raggiungere le mura e scalarle soltanto con le proprie forze, ignorando i dardi che i Tebani terrorizzati scagliavano su di lui e torreggiando sugli spalti della cinta muraria, osò sfidare apertamente lo stesso padre degli dèi, gridando a gran voce che nemmeno Zeus in persona avrebbe ormai potuto fermarlo. La bestemmia provocò l’intervento immediato del signore dell’Olimpo, il quale si sostituí a un oscuro soldato tebano che cercava di arginare la furia distruttrice di Capaneo, e lo folgorò con un solo colpo di fulmine, mettendo fine alla sua avanzata vittoriosa. Il secondo a perdere l’appoggio degli dèi fu Tideo, che aveva portato avanti la sua inarrestabile carneficina fino alle mura della città: qui gli si oppose il tebano Melanippo, uno dei piú agguerriti difensori della città. Lo scontro fu terribile e lasciò a terra entrambi i contendenti, feriti a morte l’uno per mano dell’altro. 70 a r c h e o
Vedendo il suo protetto sul punto di morire, Atena corse in fretta sull’Olimpo per procurarsi il farmaco dell’immortalità (athanasía), che avrebbe salvato il feroce Tideo e lo avrebbe trasfigurato in una veste divina. Ma quest’ultimo, mostrando la bestiale violenza che covava dentro di sé, usò le sue ultime forze per infierire sul nemico già vinto, rodendogli il cranio per mangiarne il cervello! La dea Atena, che già giungeva con il farmaco miracoloso, fu costretta suo malgrado ad assistere al macrabro spettacolo, e inorridita si ritirò sull’Olimpo, lasciando Tideo al suo destino di morte. Per la verità esisteva anche un’altra versione, che voleva fosse stato Anfiarao a uccidere Melanippo, dopo che questi aveva lasciato Tideo in fin di vita. Subito dopo, aveva staccato la testa al nemico vinto e l’aveva portata all’eroe morente, ben
sapendo che vi avrebbe affondato con ferocia ferina i denti. Il re di Argo, infatti, grazie alle sue doti profetiche aveva previsto l’intervento di Atena per donare l’immortalità al suo protetto; perciò, per impedirne l’ascesa all’Olimpo, aveva escogitato l’orribile stratagemma che aveva portato alla luce la sua vera natura. Quest’ultima è la versione preferita dai ceramografi greci, che spesso rappresentano il momento del «fiero pasto», con Atena che assiste recando per mano una fanciulla di nome Athanasia, che rappresenta l’immortalità negata all’eroe. Ma l’arte etrusca ci ha lasciato una magistrale combinazione di entrambe le scene della sorte di Capaneo e Tideo, nello splendido altorilievo della fronte posteriore del Tempio B di Pyrgi, oggi conservato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, datato al 470 a.C. circa.
mi di Eteocle e Polinice giacevano sul campo e ancora una volta era Creonte, fratello di Giocasta, a conservare la reggenza del governo di Tebe, la città in cui la dinastia regnante non riusciva a trovare pace.
In questo capolavoro dell’arte antica, la sapiente disposizione dei piani mette in scena in basso il groviglio umano di Tideo che assalta alle spalle il morente Melanippo, cercando di sfondargli il cranio, mentre Atena si ritira disgustata sulla sinistra, tenendo in mano l’ampolla del farmaco dell’immortalità; in alto, sullo sfondo, campeggia Zeus, parzialmente sovrapposto al soldato tebano, che scaglia il suo fulmine su un sorpreso e spiritato Capaneo, che cade folgorato sulla destra.
Odio fraterno Mentre l’esito della battaglia veniva determinato dall’intervento dei numi, un altro piú terribile scontro si stava preparando: Polinice, infatti, slanciandosi avanti, era arrivato in vista del fratello Eteocle, che, dimentico di tutto, si gettò verso di lui per farla finita, da uomo a uomo. Il duello fu combat-
L’inevitabile disfatta Una volta persi i piú formidabili campioni, la sorte degli assalitori era segnata: i guerrieri caddero uno dopo l’altro, mentre i Tebani, rincuorati dai successi, passavano al contrattacco. Ippomedonte fu ucciso da un certo Ismario, mentre Partenopeo veniva schiacciato da un macigno che gli era stato scagliato dall’alto delle mura da Periclimeno, figlio del dio Poseidone. Quest’ultimo si rivelò il piú valoroso difensore della città guidando la sortita con cui i Tebani misero in rotta gli assalitori: privi dei propri potenti alleati, infatti, tanto Adrasto quanto Anfiarao si diedero alla fuga. Il primo, grazie alle qualità magiche del cavallo Arione, riuscí a guadagnare la salvezza, rifugiandosi in Attica presso il re Teseo. Anfiarao, invece, nonostante la rapidità del suo carro, lanciato a briglia sciolta dall’auriga Batone, stava per essere raggiunto dagli inseguitori quando, proprio di fronte al fiume Ismeno, cadde dal cielo una folgore di Zeus, che aprí nel terreno un’enorme voragine nella quale il re di Argo fu inghiottito con tutto il carro. Non è chiaro se con questa scomparsa miracolosa il padre degli dèi intendesse por fine alla vita del guerriero indovino, oppure se lo avesse salvato da morte certa: di fatto, alcune tarde leggende volevano che Anfiarao fosse stato accolto tra gli dèi e venisse annoverato tra i protettori della città di Tebe; ma non mancava una tradizione che immaginava che l’eroe continuasse a rilasciare oracoli e profezie, in un luogo di culto dell’Attica, la regione di Atene.
tuto con odio e ferocia piú che con valore militare e i due contendenti si scagliarono l’uno contro l’altro ignorando i colpi subiti e le ferite, con il solo obiettivo di uccidere colui che fino a poco tempo prima era stato un amato fratello. La maledizione di Edipo si compiva in modo inesorabile. L’arte antica ha lasciato molte testimonianze della scena, prototipo dell’odio fratricida: ancora una volta, nella casa di Edipo, la contesa per la successione aveva portato a un esito di sangue. Dopo aver sostituito la linea femminile dell’eredità con il diritto di discendenza per linea maschile, il passo successivo era lo scontro tra fratelli: il maggiore contro il minore, in un crescendo tragico che mostra gli eccessi a cui portano l’odio e la brama di potere, per nella prossima puntata ricordare quanto sia importante conservare l’armonia della famiglia. • I Centauri: gli eccessi della Al termine del duello i corpi esani«bestia umana»
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parchi archeologici • selva del lamone
S
e il concetto di inospitalità avesse un’origine si potrebbe ricercarla nella Selva del Lamone, che si sviluppa nella media valle del Fiora, tra i Comuni di Ischia di Castro e Farnese (in provincia di Viterbo), per 2500 ettari circa. Qui si conserva un paesaggio straordinario, dovuto a un’eruzione vulcanica recente (158-145 000 anni fa) che ha originato il plateau della Selva, costituito da una massa di pietre laviche grigie, che, accumulandosi, hanno creato piccole alture, note localmente con il nome di «murce». Una simile situazione ha influito anche sullo sviluppo della vegetazione: le rocce variamente ammucchiate permettono uno scarso accumulo di suolo fertile sulla superficie, dove va spesso a formarsi un intrico di specie spinose, arbustive e lianose. Singolare è la descrizione del luogo
lasciataci da Annibal Caro, il famoso traduttore dell’Eneide di Virgilio, nel 1537: «Entrammo poi in una foresta tale, che ci smarrimmo; tempo fu ch’io credetti di non aver mai piú a capire in paese abitato, trovandone rinchiusi e aggirati per lochi dove l’astrolabio e ‘l quadrante vostro non avrebbono calcolato il sito de’ burroni e gli abissi de’ catrafossi in che ci eravamo ridotti».
una frequentazione intensa Luogo quindi scomodo e inospitale per antonomasia, la Selva del Lamone sembrerebbe destinata a occupare una posizione marginale per ciò che concerne le scelte abitative. Le recenti ricerche archeologiche hanno invece dimostrato quanto il Lamone fosse intensamente frequentato, con un numero considerevole di vil-
laggi e un brulichio di genti che vivevano, lavoravano, si spostavano e, quando morivano, venivano seppellite nella Selva. Le caratteristiche ambientali hanno comunque influenzato il sistema insediativo, che si sviluppa principalmente sui margini dell’eruzione vulcanica recente, dove sono presenti i complessi abitativi, mentre le necropoli sono scavate nel piú morbido bancone tufaceo che la circonda.
Un paesaggio unico, caratterizzato da un bosco fitto e «inospitale» e cosparso da imponenti abitati etruschi, ruderi medievali, misteriosi specchi d’acqua: nella selva del Lamone, situata ai confini tra il Lazio e la Toscana, natura e archeologia si presentano al visitatore in un connubio dal fascino straordinario
Lí, nella selva
di Giovanni Antonio Baragliu, Carlo Casi e Luciano Frazzoni
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Storia e natura nel cuore del bosco Per la sola fase pre-protostorica si ipotizza l’esistenza di villaggi distanziati tra loro di soli 500 m (circa) in linea d’aria e disposti a corona intorno alla Selva del Lamone, insieme ad alcune necropoli monumentali, come le tombe a camera dell’età del Bronzo Medio di Prato di Frabulino e Roccoia o le tombe dolmeniche del Bronzo Finale di Crostoletto di Lamone. La scarsità di testimonianze riferibili (segue a p. 76)
L’insediamento di Sorgenti della Nova con l’area di scavo dell’età del Bronzo Finale in primo piano e, sullo sfondo, la torre medievale (XII-XIII sec.).
Istituita nel 1994, la Riserva Naturale Parziale Selva del Lamone occupa 2030 ettari nel territorio del Comune di Farnese (in provincia di Viterbo), al confine con la Toscana. Essa fa parte del Sistema dei Parchi e delle Riserve della Regione Lazio. Ente Gestore è il Comune di Farnese. Il territorio della Riserva è interessato dalla ZPS (Zona di Protezione Speciale per gli uccelli selvatici) Selva del Lamone-Monti di Castro e dai SIC (Siti d’Importanza Comunitaria) Selva del Lamone e Sistema Fluviale FioraOlpeta. Molte sono le specie rare e protette che vegetano nel Lamone, che per alcune è una delle poche, se non l’unica stazione del Lazio: asplenio settentrionale, ofioglosso delle Azzorre, cardamine parviflora, clipeola, lupino greco, veccia di Loiseleur, gamberaja calabrese. Anche la fauna è ricca e interessante, spesso per la sua rarità: gatto selvatico, martora, biancone, albanella minore, bigia grossa, tritoni, ecc. Tra le specie animali di importanza comunitaria vengono citate il lupo per i mammiferi; il falco pecchiaiolo, il nibbio bruno, il biancone, il succiacapre, la tottavilla, l’averla piccola, l’occhione, la ghiandaia marina, l’albanella minore, la calandrella, il calandro e la bigia grossa, tra gli uccelli; la testuggine comune e il cervone, tra i rettili; il tritone crestato, salamandrina dagli occhiali e l’ululone dal ventre giallo, tra gli anfibi.
dove e quando Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone Info tel. e fax 0761 458741; e-mail: lamone2005@libero.it Per alloggiare Locanda Lamone tel. 0761 458580, fax 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it; www.coopzoe.it
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parchi archeologici • selva del lamone
Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone Percorsi tematici
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Strade principali Acquapendente
Strade carrareccie
Orvieto
Piste Gradoli
Sentieri escursionistici Sentiero dei briganti Fiumi e torrenti aree boscate aree coltivate
Riserva
Manciano
Pitigliano
Bolsena
Lago di Bolsena
Valentano
Farnese
Bagnoregio
Montefiascone Marta
Canino Tuscania
Viterbo
Punto panoramico Sorgente o cascata Stagni temporanei «lacione» Sito di interesse naturalistico
«murcia» = cumulo di massi lavici «pila» = depressione causata da collasso lavico
Area di sosta Sosta cavalli Area archeologica Strutture d’accoglienza Museo civico «Rittatore Vonwiller» Uffici della riserva Centro visite del parco Ingressi al parco Laboratorio didattico Chiesa Sentieri principali 1.1. Area faunistica del capriolo 1.2. Complesso archeologico e naturalistico di «Valderico» 1.3. Fosso della Faggeta e Area di ripopolamento del Gambero di fiume 2. Sentiero dei Briganti 3. Sentiero dei Lacioni 4. Sentiero di Rosa Crepante 5. Sentiero sant’Anna-Rofalco 6. Sentiero della Strompia 7-7a. Sentiero dei Crateri 8. Sentiero della cascata di Salabrone 9. Sentiero della Nova 10. Sentiero dell’Olpeta 11. Sentiero degli Alberi monumentali 12. Sentiero di Rosceto 13 e 15. Itinerario etrusco 14. Sentiero di Cava l’inferno 16. Sentiero del Troccolo
sulle tracce DEI BRIGANTI
Il Sentiero dei briganti si snoda lungo percorsi polverosi e solatii, toccando gli aspetti panoramici, naturalistici e storico-archeologici della Selva del Lamone; attraverso un paesaggio tra i piú selvaggi e meglio conservati d’Italia. Decine di aree archeologiche vengono collegate e unite da questo tragitto, il cui motivo conduttore è quello dei briganti, oggi entrati nella leggenda di una terra «selvaggia e aspra e forte». Briganti intabarrati, con il trombone infallibile, il cappello floscio e la barba lunga, nera e ispida, come quelli delle favole. Briganti con i lunghi cosciali di pelle lanosa, simili ad antichi fauni o a esseri panici, che con la loro presenza inquieta e inquietante dominavano un tempo queste zone e che oggi, come animali totemici del territorio, ne compenetrano talmente la sua essenza, sí che ci potremmo aspettare di vederli balzare fuori all’improvviso. Briganti uomini, con il loro carico di miseria, dolore, odio, disperazione e anche umanità, la loro scelta di vita solitaria contro tutto e contro tutti, che si aggiravano in mezzo a una fauna umana altrettanto dolente di altri solitari affamati e disperati: eremiti, carbonai, pastori, cospiratori, contrabbandieri, rifugiati, donne perdute, che trascorrevano i loro giorni nell’inferno della Maremma. Un itinerario da percorrere a piedi, a cavallo o in mountain bike, toccando i luoghi dei loro misfatti (grassazioni, omicidi, scontri a fuoco con le forze dell’ordine). a r c h e o 75
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L’età del Bronzo
al Paleolitico e al Neolitico va imputata alla mancanza di ricerche sistematiche e a fattori ambientali, mentre sono numerosi i rinvenimenti relativi all’età del Rame (o Eneolitico). In questo periodo si registrano l’avvento della metallurgia e un notevole incremento demografico. Un fenomeno, quest’ultimo, ben testimoniato nella zona di confine tra Lazio e Toscana dal frequente rinvenimento di necropoli attribuite alla facies di Rinaldone (località presso Viterbo in cui è stata per la prima volta individuata una necropoli), costituite da strutture scavate nella roccia definite «tombe a forno».
A destra: colatoio in terracotta, da Sorgenti della Nova. Età del Bronzo Finale. Farnese, Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller». In basso: Roccoia. Due tombe a camera dell’età del Bronzo Antico-Medio, 2000-1500 a.C.
un richiamo alla vita Gli inumati vengono deposti in posizione rannicchiata, insieme agli oggetti di corredo, quali cuspidi di freccia in selce, accettine e pugnaletti di rame, e, soprattutto, i tipici vasi a fiasca. Spesso le tombe presentano un utilizzo plurimo, destinato a membri della stessa famiglia, e le ossa sono talvolta ricoperte di ocra
nel nome di un pioniere Intitolato a Ferrante Rittatore Vonwiller (1919-1976), l’archeologo al quale si devono i primi studi sulla preistoria del territorio compreso nella media valle del Fiora, il Museo Civico di Farnese raccoglie materiali che documentano l’evoluzione storico-culturale della zona, attraverso un percorso di tipo cronologico e topografico; una sezione è inoltre dedicata ai contesti naturalistici della Riserva Naturale della Selva del Lamone. La sezione di Preistoria e Protostoria presenta testimonianze della frequentazione umana durante il Paleolitico, il
Neolitico e l’Eneolitico, con materiali di corredo appartenenti alla facies di Rinaldone rinvenuti nelle necropoli di Palombaro e Fontanile del Raim. La sezione dedicata all’abitato di Sorgenti della Nova ricostruisce la vita quotidiana di un villaggio dell’età del Bronzo Finale. L’epoca etrusca è illustrata dai reperti provenienti dalla necropoli di Naviglione, con vasi in bucchero legati al rito del banchetto funerario, dalla tomba del Gottimo e, soprattutto, dall’abitato fortificato di Rofalco; gli oggetti esposti testimoniano la vita sociale e
religiosa del popolo etrusco dal VI agli inizi del III secolo a.C., prima della conquista romana. Le fasi medievali e rinascimentali di Farnese, centro da cui ha probabilmente avuto origine la potente omonima famiglia, sono documentate dai manufatti rinvenuti nei «pozzi da butto», che venivano usati come discariche, individuati nel centro storico. Il museo è uno dei poli del Sistema Museale del Lago di Bolsena (SiMuLaBo) e svolge anche funzione di Centro Visite della Riserva Naturale della Selva del Lamone. Materiali provenienti dagli scavi nell’insediamento etrusco di Rofalco ed esposti nel Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese. A sinistra: pesi da telaio, rocchetti e fuseruole; a destra: piedi votivi in terracotta. Metà del IV-inizi del III sec. a.C.
La tomba monumentale del Gottimo La pianta (a sinistra) della tomba monumentale del Gottimo, databile alla metà del VI sec. a.C., e, a destra, il dromos di accesso al sepolcro, al di sopra del quale si notano altre tre tombe della necropoli etrusca.
dove e quando Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» Magazzini dell’Ammasso, Via Colle di S. Martino, Farnese (VT) Orario sa-do, 9,30-12,30 e 16,30-18,30; gli altri giorni su richiesta Info tel. 0761 458849; e-mail: museofarnese@simulabo.it: www.simulabo.it; Comune di Farnese, tel. 0761 458381
o cinabro a richiamare la vita nelle membra esanimi dei defunti. Tra le molte testimonianze dell’età del Bronzo spicca la tomba del Bronzo Medio scavata nel 1992 in località Prato di Frabulino. Il corredo, relativo a quattro individui, due dei quali di sesso femminile, ha restituito, oltre ad alcuni vasi miniaturistici, una collana in faïence e tre fermatrecce in argento. La presenza di oggetti di lusso, testimonia il rango elevato degli individui sepolti ed è il probabile indizio dell’intensificazione degli scambi commerciali, soprattutto con il mondo egeo. Recentemente, nei pressi dell’insediamento di Roccoia, nella parte meridionale della Selva lungo il corso dell’Olpeta, è stata scoperta un’intera necropoli, databile tra il Bronzo Antico e il Bronzo Medio iniziale (2000-1500 a.C.). L’area, tuttora in corso di scavo da parte del Centro Studi di Preistoria e Archeologia di Milano in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etru-
ria Meridionale, ha restituito quattro tombe affiancate scavate nel tufo, forse disposte lungo una via sepolcrale.
un caso esemplare Nel Bronzo Finale, gli abitati si dispongono su alture e pianori tufacei ben difesi naturalmente, spesso circondati da fossati naturali. Un esempio tipico, sebbene si trovi immediatamente fuori la Selva, è l’abitato di Sorgenti della Nova. Scoperto da Ferrante Rittatore Vonwiller, il sito è oggetto da piú di trent’anni di regolari campagne di scavo condotte dall’Università di Milano. Si tratta di un villaggio posto su uno sperone tufaceo circondato da due torrenti (Varlenza e Porcareccia) e dalla sorgente del Fosso la Nova, uno degli affluenti del Fiora. Esso è caratterizzato da capanne poste sulla sommità e su terrazzamenti artificiali lungo i fianchi dello sperone tufaceo, dove sono scavate anche alcune grotte. Le capanne sono di diversa forma e dimena r c h e o 77
parchi archeologici • selva del lamone
L’abitato etrusco di Rofalco Qui sotto: pianta dell’abitato fortificato di Rofalco. In basso: un tratto della cinta muraria dell’insediamento, realizzata con la pietra lavica del Lamone. porta
Itinerario principale Itinerari secondari muro di cinta
torre
magazzini
quartiere
sione: grandi abitazioni a pianta ellittica con grotte artificiali retrostanti destinate a ricovero di animali e dispensa; capanne di forma circolare a base incassata, poste sulla sommità e destinate probabilmente alla classe dominante; e lunghe abitazioni a fossato disposte alla base della rupe. Lo scavo di alcune di queste strutture ha permesso di ricostruire la vita quotidiana delle genti che popolarono la media valle del Fiora alla fine del II millennio a.C. Tra i materiali rinvenuti nelle abitazioni, in cui lo spazio era suddiviso in modo razionale, spiccano i grandi
A destra: scarabeo in corniola, da Rofalco. Metà del IV sec. a.C. Farnese, Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller».
l’egitto rivisitato L’«egittomania» degli Etruschi si connota inizialmente attraverso l’importazione di oggetti egizi o egittizzanti e poi anche per la rielaborazione dei medesimi oggetti, ma con gusto e tematiche care agli antichi abitanti d’Etruria. A questa seconda categoria appartiene lo scarabeo in corniola rinvenuto a Rofalco: il tipico amuleto a forma di coleottero presenta sulla base piatta, una sorta di sfinge maschile e barbuta in posizione di agguato. Si riconosce anche un foro longitudinale passante per l’inserimento del perno che caratterizza gli anelli-sigilli. Il tipico stile «a globolo» e la conformazione della testa della sfinge consentono di attribuire lo scarabeo alla produzione etrusca della seconda metà del IV secolo a.C. Per ulteriori informazioni sugli scavi di Rofalco: e-mail rofalco@ gruppoarcheologico.it; www.gruppoarcheologico.it 78 a r c h e o
Il «lacione» (stagno stagionale) di Valderico nella Selva del Lamone.
contenitori per conservare i liquidi e le granaglie, i fornelli per la cottura dei cibi, un colatoio per la lavorazione del formaggio, ciotole per attingere le bevande, vasi biconici per la dispensa.
Il Periodo etrusco In epoca etrusca il territorio compreso tra Vulci e il lago di Bolsena, e tra le valli dei fiumi Fiora e Albegna con i loro affluenti, faceva parte dell’agro vulcente, controllato e gestito da membri dell’aristocrazia vulcente attraverso alcuni centri maggiori come Castro, Poggio Buco, Pitigliano, Sovana e Bisenzio. A partire dal VII secolo a.C. la zona viene sfruttata a fini agricoli con una rete capillare di insediamenti rustici, vici e fattorie, collegati da una rete viaria costituita da tagliate che assicurano la comunicazione tra l’entroterra e Vulci. Per il territorio di Farnese, sembra evidente l’influenza del vicino abitato di Castro. La tomba del Gottimo, unico esempio di struttura funeraria monumentale nella Selva del Lamone lungo il fiume Olpeta, databile alla metà del VI secolo a.C., denota infatti stretti legami con la Tomba delle Travi di Castro. Presso il lungo dromos è stato rinvenuto un
frammento di scultura in nenfro, rappresentante probabilmente una sfinge, originariamente collocata all’ingresso della tomba, e da ricollegare alla statuaria funeraria vulcente. Altra testimonianza del costume funerario etrusco è la necropoli del Naviglione, di età eneolitica, ma riutilizzata in epoca etrusca, che ha restituito ceramiche in bucchero legate al costume del banchetto funerario databili fra la prima metà del VI e il V secolo a.C., ora esposte nel Museo di Farnese (vedi box alle pp. 76-77). Tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. si assiste alla riorganizzazione del territorio da parte di Vulci, con la fondazione di molti siti sparsi e di limitate dimensioni a sfavore dei centri maggiori. Castro, che nella fase orientalizzante e arcaica aveva svolto un ruolo di primo piano nell’ambito di quest’area, sembra scomparire nel corso del V-IV secolo a.C., mentre l’interesse di Vulci si sposta piú a nord, facilitando lo sviluppo di centri come Pitigliano, Sovana, Saturnia, Ghiaccio Forte e Doganella. In età ellenistica, nella Selva del Lamone, si registra una notevole concentrazione di abitati lungo il medio corso del fiume Olpeta, ri-
flesso di un vero e proprio sistema di insediamenti produttivi facenti verosimilmente capo al piccolo sito fortificato di Rofalco, caposaldo militare a controllo della valle castrense, dove venivano raccolte le riserve alimentari prodotte nel territorio.
Una fortezza poderosa Posto su un’altura lungo il corso del fiume Olpeta, l’abitato fortificato di Rofalco fu attivo tra la metà del IV e i primi decenni del III secolo a.C. per il controllo militare del territorio dipendente politicamente da Vulci. L’insediamento è circondato da un’imponente cinta muraria semicircolare, dotata di torri quadrate, completamente realizzata in blocchi di pietra lavica del Lamone. La zona interna dell’abitato, a cui si accedeva tramite una doppia porta protetta da un bastione poderoso, è organizzata secondo uno schema urbanistico regolare, con una strada principale che lo attraversa in senso longitudinale, e assi stradali minori perpendicolari a essa. I quartieri erano occupati da edifici di carattere pubblico, probabilmente magazzini per lo stoccaggio di derrate alimentari, e da abitazioni private. a r c h e o 79
parchi archeologici • selva del lamone
Durante le ricerche sono state recuperate ceramiche da mensa e da cucina, grandi dolii per la conservazione delle derrate, pesi da telaio e rocchetti relativi ad attività tessili, macinelli e macine per la lavorazione di granaglie. Tracce di incendio, punte di lance e numerose ghiande-missili usate per le baliste, sono la prova della fine violenta di questo presidio militare etrusco da collocare intorno al 280 a.C., in seguito alla conquista da parte delle truppe di Roma del territorio vulcente, per opera del console Tiberio Coruncanio. Dopo la distruzione, il sito di Rofalco, come altri centri quali Poggio Evangelista e Ghiaccio Forte, non è piú rioccupato nelle epoche successive, il che ne ha permesso anche la conservazione, che fotografa un momento drammatico della storia di questo territorio.
la romanizzazione La conquista romana di Vulci del 280 a.C. comportò la confisca di tutto il territorio precedentemente posto sotto il controllo della città, la sua riorganizzazione giuridicoamministrativa e la realizzazione di interventi che trasformarono completamente il paesaggio, tra cui la deduzione della colonia latina di Cosa nel 273 a.C. e la centuriazione del territorio. Nel secolo suc-
S. Pantaleo Lo scavo della chiesa di S. Pantaleo, XI-XII sec. Si tratta di una costruzione ad aula unica, con abside, realizzata con blocchi squadrati di tufo, ciottoli e pietra lavica del Lamone. Nei pressi si trovano i resti di un villaggio e di un castello.
cessivo vengono poi fondate le colonie di Saturnia (183 a.C.), dove le fonti attestano la presenza di una praefectura, e di Heba, intorno alla metà del II secolo a.C., allo scopo di ripopolare il territorio attraverso l’assegnazione di appezzamenti agricoli. È probabile che l’organizzazione delle terre appartenute a Vulci, comprese tra il Fiora e l’Arrone fino al lago di Bolsena, dipendesse dalla praefectura di Saturnia, con centro amministrativo (forum) a Visentium, Cellere (vicus nel quale, in età tardo-repubblicana, erano presenti magistri pagi con gentilizi tipicamente romani e un centro santuariale dedicato a Iuno Regina), o Maternum (riportato sulla Tabula Peutingeriana e da localizzare presso i Monti di Canino), questi ultimi
Le acque che dissetarono i Longobardi La cascata sul fiume Olpeta in località Salabrone, toponimo la cui origine è riconducibile alla presenza longobarda nel territorio.
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posti sul percorso della via Clodia. Anche nel territorio di Farnese, in base all’esame delle foto aeree e ai ritrovamenti di superficie, si può ipotizzare la presenza di aree centuriate, probabilmente assegnate a veterani e occupate da fattorie e ville rustiche. Purtroppo, le fonti al riguardo sono pressoché inesistenti, a eccezione di alcune epigrafi funerarie rinvenute tra Ischia di Castro, Farnese e Arlena.
l’avvento del latifondo Agli inizi del I secolo a.C., in seguito alle devastazioni causate dalla guerra civile tra Mario e Silla, si registra l’abbandono di molti di questi insediamenti agricoli, ma, già dall’epoca augustea, il numero dei siti torna a crescere e, alcuni di essi sopravvivono fino al IV-V secolo d.C. Accanto a piccole fattorie rustiche, il territorio è occupato anche da ville di notevole estensione, specchio di un’economia agricola di tipo latifondistico, che, soprattutto dal IIIIV secolo d.C., sembra prevalere sulle piccole proprietà terriere. Nel II-III secolo d.C. il municipium di Visentium assume maggiore importanza rispetto a quelli di Castro (che probabilmente viene abbandonato) e di Vulci, che in questo periodo conosce una fase di decadenza. Il cambiamento degli equilibri politici sembra avere una ripercussione anche sulla viabilità: l’asse viario Tuscania-Piansano-Latera sembra prevalere sul tracciato della
Clodia e di Castro, favorendo al contempo lo sviluppo dei vici posti su questo tratto viario, in precedenza secondario. Nel V, e, soprattutto nel VI secolo d.C., si assiste al lento e progressivo spopolamento del territorio, molto probabilmente a causa delle guerre greco-gotiche, e delle carestie e pestilenze seguite al lungo periodo di conflitto. In questo periodo si ha una situazione diversa tra l’area costiera, dove, benché siano interrotti i trasporti per via di terra – come ci testimonia Rutilio Namaziano già agli inizi del V secolo – al porto di Cosa giungono ancora, fino al VII secolo, prodotti importati dall’Africa settentrionale attraverso il commercio marittimo, e le zone interne; le ceramiche rinvenute nel corso delle ricerche di superficie nella Selva del Lamone, sono prevalentemente di produzione locale, riflesso di un’economia rurale basata sull’autosussistenza. La ceramica da cucina, prodotta da officine dell’ager Cosanus o da centri dell’Etruria meridionale e databile tra il IV e il V secolo d.C., indica anche le abitudini alimentari delle popolazioni locali, il cui vitto era costituito prevalentemente da zuppe e carni bollite, cucinate in pignatte (forma piú diffusa). Nell’Alto Medioevo, la zona del Lamone rappresenta verosimilmen-
te una fascia di confine tra l’area controllata dai Bizantini e quella sotto il controllo longobardo. La presenza longobarda è testimoniata dai molti toponimi di origine germanica, e da scarsi ma significativi rinvenimenti archeologici, tra cui un pendente di cintura ageminato databile alla metà del VII secolo. È verosimile pensare che gruppi longobardi fossero collocati a controllo della zona di confine a nord della Selva del Lamone, lungo un asse viario collegato a ovest con il tracciato della via Clodia che da Tuscania, passando per Maternum, arrivava a Castro, Sovana e Saturnia, mentre, verso est, raggiungeva il lago di Bolsena.
L’assedio di sovana L’occupazione longobarda del territorio si colloca, con ogni probabilità, tra il 597, con l’assedio di Sovana, e il 607, quando, dopo un breve periodo di rioccupazione bizantina, Agilulfo prende nel 605 Orvieto e Bagnoregio, e probabilmente l’area castrense; la pace conclusa tra Agilulfo e i Bizantini nel 607, riconoscendo come longobardi i centri di Tuscania,Vetralla,Viterbo, Bagnoregio e Orvieto, dovette includere anche il territorio compreso tra questi centri. Intorno alla metà dell’VIII secolo, con la fine del dominio longobar-
do per opera dei Franchi, l’Alto Lazio venne donato alla Chiesa, e divenne parte del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia. Desideriamo ringraziare la Soprintendenza per Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, nella persona del soprintendente, Alfonsina Russo, per avere consentito l’effettuazione delle riprese fotografiche dei materiali archeologici. per saperne di piú
Luciano Frazzoni (a cura di), Carta archeologica del Comune di Farnese, Sistema Museale del Lago di Bolsena, Bolsena 2012. Il volume può essere richiesto a: museofarnese@simulabo.it
Il territorio vulcente visto dalla porta di accesso all’abitato di Rofalco.
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speciale • archimede
Archimede
arte e scienza dell’invenzione
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Protagonista, con le sue straordinarie intuizioni, della difesa di siracusa durante l’assedio del III secolo a.C., il geniale scienziato trovò la morte per mano di un soldato romano. Una fine tragica che ne interruppe l’inarrestabile vena speculativa, ma che non impedí al suo pensiero di attraversare i secoli. Ora, per la prima volta, una grande mostra ai musei capitolini di roma ne racconta la storia testi di Antonio Becchi, Heinz-Jürgen Beste, Sonja Brentjes, Jochen Büttner, Giovanna De Sensi Sestito, Giovanni Di Pasquale, Paolo Galluzzi, Enrico Giusti, Giangiacomo Martines, Dieter Mertens, Claudio Parisi Presicce, Matthias Schemmel
Ove non altrimenti indicato, tutte le opere e i reperti raffigurati in questo speciale sono esposti nella mostra «Archimede. Arte e scienza dell’invenzione» allestita ai Musei Capitolini di Roma.
di Paolo Galluzzi
P
er avere una percezione immediata dello straordinario contributo recato da Archimede all’avvento del mondo moderno, cosí profondamente caratterizzato dalla funzione centrale della scienza e della tecnologia, basterebbe dare anche solo uno sguardo al monumentale Archimedes in the Middle Ages di Marshall Clagett. Nei dieci volumi di quell’opera fondamentale, il grande studioso statunitense ha infatti tracciato in maniera puntuale le complesse traiettorie attraverso le quali l’opera e il mito del Siracusano filtrarono dal mondo romano, attraverso il Medioevo, fino ai padri fondatori della Rivoluzione Scientifica, che esaltarono Archimede quasi come una divinità. Prima del lavoro benemerito di Clagett non si aveva una percezione chiara della continuità e densità della presenza di Archimede anche durante i «secoli bui» dell’Età di Mezzo. Né si aveva consapevolezza dei vari modi nei quali vennero contrapponendosi o, viceversa, coniugandosi le due componenti fondamentali dell’attività di Archimede attestate dalla tradizione dossografica e, in particolare, dall’influente vita del Siracusano scritta da Plutarco: il grande studioso di questioni matematiche immerso in studi di elevato livello speculativo (al punto da non lasciarsi distrarre neppure dalla minaccia del gladio del soldato romano che gli tolse la vita) e l’inventore di dispositivi di straordinaria ingegnosità di uso militare e civile. Un Archimede bifronte, si potrebbe definire, quello consegnatoci da Plutarco: l’erede diretto, il piú autorevole, della tradizione euclidea e platonica, da un lato, e l’interprete piú eccezionale della lunga stagione di innovazione delle tecniche del mondo greco, che raggiunse il culmine nell’età alessandrina, dall’altro. Le due immagini di Archimede attraversarono, piú spesso separate che integrate, la tarda romanità e i secoli dell’età medievale. Nel corso del Quattrocento, grazie al ritorno in circolazione e alla traduzione in latino dei suoi scritti e al protagonismo di artefici di straordinaria ingegnosità, protesi a emulare le piú sensazionali realizzazioni tecniche dell’età classica, la duplice fisionomia tramandata del Siracusano venne progressivamente assumendo tratti unitari. L’Archimede di Galileo, ma già prima di lui quello di Leonardo, si impose come modello insuperato per le geniali opere di geometria e di statica e, al tempo stesso, prototipo della nuova professionalità di tecnici che non confidano piú soltanto sull’esperienza, ma avvertono il bisogno di sottometterla al calcolo e al ragionamento matematico. Le pagine di apertura dei Discorsi e dimostrazioni matematiche, nelle quali Galileo contrappose all’operare su basi puramente sperimentali dei proti dell’Arsenale di Venezia l’indispensabile apporto della conoscenza dei principi matematici che regolano i rapporti tra forza e resistenza nelle costruzioni materiali, vanno considerate uno dei manifesti piú eloquenti della nuova immagine di Archimede come profeta della trasformazione delle tecniche in tecnologia. La morte di Archimede, in un acquerello su carta di Francesco Bovi. 1683. Roma, Accademia Nazionale di S. Luca.
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speciale • archimede
SIRACUSA E LA SICILIA AL TEMPO DI ARCHIMEDE di Giovanna De Sensi Sestito
Veduta aerea dell’isolotto di Ortigia, su cui si sviluppò il nucleo piú antico della città di Siracusa.
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A
rchimede nacque a Siracusa verso il 287 a.C., quando il re Agatocle era morto da appena due anni. La città, capitale di un regno esteso su piú di metà della Sicilia, al centro di relazioni politiche ed economiche a raggio mediterraneo, era tornata a essere il piú importante polo culturale dell’Occidente: tra i tanti intellettuali che avevano frequentato la corte di Agatocle
Ritratto di Ierone II. Roma, Musei Capitolini. Proclamato re di Siracusa all’indomani della vittoria sui Mamertini, resse la città negli anni in cui Archimede realizzò le sue opere piú importanti, molte delle quali sollecitate dallo stesso sovrano.
doveva esserci anche l’astronomo Fidia, padre di Archimede e suo primo maestro. Fino a tutta la sua adolescenza, l’isola era stata attraversata da lotte di potere e nuove tirannidi, mentre ex mercenari denominatisi Mamertini («figli di Mamerte», nome osco del dio della guerra, corrispondente al Marte dei Latini, n.d.r.) si erano impadroniti di Messana (Messina) e i Cartaginesi avevano sferrato una grande offensiva, fino ad assediare Siracusa. Gli effimeri successi di Pirro, ex genero di Agatocle, erano svaniti dopo il suo rientro in Italia e in Epiro. Archimede non aveva ancora vent’anni quando Siracusa ripose le sue speranze nel giovane Ierone, amico e collaboratore di Pirro, e, quando vinse i Mamertini, lo proclamò sovrano (269 a.C.). Solo dopo gli opportuni preparativi Ierone si reputò pronto ad affrontare anche i Cartaginesi e strinse d’assedio Messana da essi presidiata, ma i Mamertini fecero appello ai Romani (264 a.C.). Per impedire loro di metter piede in Sicilia, Ierone e i Cartaginesi strinsero allora un’innaturale alleanza che s’infranse dopo le prime sconfitte. Cominciarono assedi e defezioni; Ierone, pressato dall’opinione pubblica, nel secondo anno di guerra fece con i Romani una pace separata e ristabilí un’amicizia che lasciò al riparo dalle devastazioni della guerra il suo regno, ormai circoscritto alla cuspide orientale dell’isola. Da quel momento Ierone dedicò le proprie energie alla riorganizzazione amministrativa, economica e culturale del regno.
un’oasi di grecità Nel resto dell’isola la prima guerra punica si protrasse per oltre vent’anni e alla fine furono i Romani a liberare la Sicilia dalla presenza punica. Unica oasi di grecità rimase il piccolo Stato ieroniano: il sovrano già ultrasessantenne si preoccupò di garantirne la sicurezza stringendo solo allora formale alleanza con i Romani; ma si premurò anche di rinsaldare la basileia con l’associazione al trono del figlio Gelone, sulla cui giovanile insofferenza presto si orientarono le speranze di rivalsa dei Siracusani. Ierone promosse anche il matrimonio del figlio con Nereide, discendente di Pirro, prima che una violenta rivoluzione democratica travolgesse la monarchia epirota. Archimede, che negli anni della giovinezza aveva viaggiato per poi soggiornare ad Alessandria, dove si era confrontato con i piú insigni matematici del tempo, al suo rientro a Siracusa dopo la guerra volle rendere omaggio al re Gelone dedicandogli L’arenario. Il vecchio a r c h e o 85
speciale • archimede
teatro greco
Il «sepolcro» dello scienziato
Costruito nel V sec. a.C., è uno dei piú grandi del mondo classico. L’aspetto attuale è il risultato dei rifacimenti promossi da Gerone II e poi in età romana.
La tomba «di Archimede», con facciata monumentale costituita da due colonne sorreggenti un frontone. È, in realtà, un colombario romano del I sec. d.C.
Presunta tomba di Archimede Teatro greco Anfiteatro romano
A ra n ero di I e
N
giochi e combattimenti Parzialmente ricavato nella roccia del colle Temenite, l’anfiteatro romano (databile al III o al IV sec. d.C.), ha dimensioni ragguardevoli, pari a 140 m di lunghezza e 120 di larghezza.
Qui sopra: la rete viaria antica identificata nella parte orientale dell’Achradina. In basso: planimetria schematica di Siracusa, con l’asse viario extraurbano. Neapolis Necropoli del Fusco Achradina
Lakkios Porto Grande
Ortigia
Foce del fiume Anapo
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A
B E F C D 1 3
Ierone, dagli interessi molto piú concreti, sollecitò invece Archimede, componente del consiglio di philoi kai syngheneis (amici e parenti), a mettere a frutto un poco della sua scienza a beneficio dello Stato. E cosí, in relazione alle molteplici applicazioni del principio della leva e di altre sue invenzioni, la poliorcetica (l’arte di assediare ed espugnare città fortificate, n.d.r.) greca, che aveva trovato il primo slancio nella Siracusa di Dionigi il Vecchio, tornò a registrare straordinari progressi con la costruzione di quegli incredibili dispositivi di difesa della città che i Romani avrebbero sperimentato durante l’assedio. Di torri, catapulte e sofisticati meccanismi per la difesa da possibili attacchi di pirati Archimede aveva dotato persino l’enorme nave da carico Syrakosía, che, inutilizzabile nella maggior parte dei porti per l’enorme stazza, fu regalata da Ierone con tutto il suo carico all’amico Tolemeo (probabilmente l’Evergete), in occasione di una carestia che aveva colpito l’Egitto, ribattezzandola Alexandrís. Del resto i rapporti con i Tolemei erano particolarmente stretti sin dai tempi di Agatocle. La costruzione della Biblioteca e del Museo aveva fatto di Alessandria il massimo centro culturale dell’ellenismo; la città divenne asilo sicuro per il genero di Ierone, Zoippo, e i nipoti minori quando i Siracusani nel 214 a.C. uccisero Ieronimo e gli altri membri della famiglia reale nel tentativo di ristabilire la pace con i Romani. tempio di apollo
La rete viaria dell’isolotto di Ortigia. Tracciato di strade antiche Probabile tracciato di strade antiche Strade medievali che ricalcano percorsi antichi 1. Tempio ionico-Artemision 2. Tempio di Apollo 3. Athenaion A. Via Resa libera B. Via Mirabella C. Via Maestranza D. Ronco I alla Giudecca E. Via Dione e, in continuazione a sud, via Roma F. Via Cavour
I resti del tempio in stile dorico innalzato agli inizi del VI sec. a.C. in onore di Apollo. Il monumento sorgeva nell’area dell’odierna piazza Pancali.
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speciale • archimede
Le relazioni commerciali del piccolo regno siracusano spaziavano da un capo all’altro del Mediterraneo e traspaiono anche dalle generose donazioni di grano e di altri prodotti a città e Stati amici in momenti di carestia o in circostanze particolari: oltre all’Egitto, avevano beneficiato dell’evergetismo del sovrano la Grecia tutta e le isole. Ierone aveva soccorso i Cartaginesi al tempo della rivolta dei mercenari (240-238 a.C.) e i Rodii, colpiti nel 227 a.C. da un terremoto; e ancora piú generoso di doni fu con i Romani, ai quali forní anche truppe per le guerre contro i Celti e contro gli Illiri, nonostante l’istituzione della provincia di Sicilia (227 a.C.) e l’applicazione della legge frumentaria avessero avviato il processo di romanizzazione dell’isola. Fino all’ultimo, il vecchio sovrano rimase convinto che la sopravvivenza del proprio regno fosse legata all’alleanza con Roma, anche se da tempo sentimenti antiromani agitavano persino la cerchia piú stretta della famiglia reale e il demos cittadino. Dopo lo scoppio della seconda guerra punica e i successi di Annibale alla Trebbia e al Lago Trasimeno, nel regno esplosero a suo sostegno tumulti, sedati con vigore da Ierone, nei quali perse la vita il figlio Gelone.
un conflitto inevitabile Il quindicenne Ieronimo, quando gli succedette sul trono (215 a.C.), si svincolò dai tutori ed entrò subito in trattativa con Annibale, confidando di estendere il regno su tutta la Sicilia. Un anno piú tardi una congiura oligarchica lo soppresse, ma prese il sopravvento il popolo filo-punico e la guerra contro Roma diventò inevitabile. La città era attrezzata da tempo per poter sostenere l’assedio per terra e per mare che Appio Claudio e Claudio Marcello avviarono nella primavera del 213. Torri, catapulte e bracci meccanici mai utilizzati prima risultarono allora preziosi, sotto la guida sapiente dell’artefice Archimede, per vanificare gli sforzi degli assedianti, travolgendo uomini e navi che osassero avvicinarsi alle mura. Una circostanza fortuita fece scoprire a Marcello come penetrare a sorpresa nella città, poi abbandonata al saccheggio dei suoi soldati. L’uccisione di Archimede per mano di un soldato divenne simbolo dell’insensato oltraggio a una delle piú belle e gloriose città del tempo. Nel 210 a.C., la conquista per tradimento di Agrigento, lasciata dal console Valerio Levino al saccheggio dei soldati numidi, avrebbe calato il sipario sulla storia della Sicilia greca. 88 a r c h e o
siracusa. una cronologia XIII a.C. Insediamenti neolitici IX a.C. Colonizzazione fenicia 734 o 733 a.C. Fondazione del primo nucleo della città per opera di coloni greci provenienti dall’area di Corinto guidati dal colonizzatore Archia. 485 a.C Con l’aiuto del signore di Gela, discendenti dei primi colonizzatori riprendono il potere in città, dopo un periodo di esilio. Gelone diventa tiranno della città. 474 a.C. Gerone succede al fratello Gelone, e affronta gli Etruschi nella battaglia di Cuma. 467 a.C. Trasibulo introduce un regime democratico. Inizi del Il tiranno Dionigi il Vecchio è ancora in guerra con IV secolo a.C. Cartagine, e scongiura la perdita dell’intera Sicilia. Dopo la fine del conflitto Dionigi costruisce una possente fortezza sull’isola di Ortigia e un’imponente cinta muraria intorno a Siracusa. 365 a.C Il suo successore, Dionigi il Giovane, è deposto da Dione, che instaura un regime dispotico. 347 a.C La città caccia Dione e Dionigi il Giovane reclama il trono. 345 a.C. Timoleone instaura un governo democratico. 339 a.C. Timoleone, cercando di ripristinare il potere di Siracusa, indebolito da lotte intestine, sconfigge i Cartaginesi vicino al fiume Crimiso, ma dopo la sua morte le lotte riprendono. 317 a.C. Agatocle prende il potere con un colpo di Stato e riprende la guerra contro Cartagine, che, dopo alterne vicende, si chiude con un trattato di pace. 287 a.C. circa Nasce Archimede. Il trattato con Cartagine non pone fine alle interferenze tra le città e i cittadini chiedono aiuto a Pirro re dell’Epiro. 269 a.C. Dopo un breve periodo sotto la giurisdizione di Pirro, sale al potere Gerone II, sotto il cui regno visse Archimede. 214-212 a.C. Assedio di Siracusa. 212 a.C. Dopo aver resistito per tre anni all’assedio Siracusa capitola. Nel saccheggio, ordinato dal generale Marco Claudio Marcello, anche Archimede viene ucciso. La città vede un progressivo ridimensionamento della sua influenza, pur continuando a mantenere il suo prestigio e rimanendo sede dei pretori romani. 76 a.C. Cicerone, questore in Sicilia, scopre a Siracusa il luogo di sepoltura di Archimede, dimenticato tra i cespugli dall’incuria degli abitanti. In età imperiale, nella città si diffuse il cristianesimo per opera di san Paolo e di san Marziano, che ne fecero uno dei maggiori centri di evangelizzazione dell’area occidentale. Risalgono a questo periodo le enormi catacombe scavate nel sottosuolo, seconde per dimensioni solo a quelle di Roma. 283 d.C. Nasce a Siracusa Santa Lucia, martire cristiana. 468 d.C. Siracusa passa sotto la dominazione dei Vandali.
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ARCHIMEDE E LE MURA DI SIRACUSA di Dieter Mertens e Heinz-Jürgen Beste
li storici che si occupano dell’assedio romano a Siracusa parlano di un grande armamentario navale, con 60 quinqueremi cariche di uomini dotati di armi di lunga gittata e, soprattutto, con grandi imbarcazioni composte da coppie di 8 quinqueremi unite a mo’ di catamarano, capaci di trasportare le altissime scale con le piattaforme d’assalto (sambuche) per attaccare dall’alto anche le mura piú elevate. Congegni tecnici di notevoli dimensioni, contro i quali la città era sorprendentemente ben preparata, grazie alle contromisure prese da Archimede. Di particolare efficacia erano le armi capaci di scagliare massi molto pesanti o proiettili del piú diverso calibro, costruiti o adattati per coprire ogni possibile distanza operativa. Le navi che riuscirono ad arrivare fin sotto le mura furono invece colpite dalla terribile manus ferrea (basata sul meccanismo di leva di scatto, un’invenzione nata dalle esperienze meccaniche di Archimede), una macchina che, appesa a una specie di altalena di grande portata (il tolleno), agganciava la prua delle imbarcazioni per rovesciarle disastrosamente in mare. In alto: frammento di un rilievo raffigurante una catapulta. Siracusa, Castello Eurialo. In basso: palle in calcare per catapulta, di diametro compreso tra i 15 e i 31 cm. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».
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speciale • archimede
I resti del Castello Eurialo, innalzato nel IV sec. a.C. sul vertice dell’altopiano dell’Epipoli.
In basso: elmo in ferro e bronzo. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».
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Le tradizioni sull’apporto tecnico e ingegneristico di Archimede alla difesa della sua città si concentrano sull’aspetto meccanico delle armature, sulla loro invenzione o sul loro adattamento alle specifiche condizioni delle fortificazioni di Siracusa. Le poche menzioni delle opere architettoniche sono relative all’installazione di macchine; mai si parla di strutture architettoniche nuove, né di opere di inventiva, particolarità ed efficacia confrontabili alle macchine stesse. È ricordato solo un adattamento delle mura al posizionamento di un’arma di dimensioni particolari, per mezzo di feritoie aperte nelle mura, che permettevano ai soldati appostati dietro di esse di operare ben protetti, con lance leggere e balestre (scorpioni) forse di nuova concezione. Ma com’erano i sistemi di difesa di Siracusa? Le straordinarie mura dionigiane sono
conservate abbastanza bene, assieme al grande Castello Eurialo sulla punta piú occidentale dell’enorme circuito. Delle mura della città, invece, e di conseguenza della loro estensione e definizione spaziale, non esiste quasi piú traccia: è uno dei problemi da affrontare, per comprendere e ricostruire molti degli eventi storici della città in rapporto alla realtà fisica dei luoghi.
Un duplice sistema difensivo Due i sistemi difensivi che s’integravano: essi, però, non solo avevano origini e funzioni diverse, ma richiedevano anche condizioni completamente differenti in caso di emergenza. La parte piú vitale – le mura urbane e quelle poste a sicurezza dei porti – esigeva altro impegno rispetto alle mura «di campagna» intorno al pianoro Epipole, da considerarsi quasi di riserva, nonostante l’evidente pericolo che avrebbe minacciato la città dall’alto, una volta che il nemico si fosse impossessato del pianoro. Era questo il
doppio problema che si poneva ai Siracusani nella loro difesa dai Romani. Infatti, dopo la resistenza sul mare grazie agli straordinari stratagemmi di Archimede, il nemico si concentrò sull’assedio di terra. Una volta raggiunto il pianoro, i Romani avevano certamente altri ostacoli da superare, dato che il Castello Eurialo, da piazzaforte qual era, lo dominava dalla sua altura e che le vere mura urbane del lato nord, erano ancora da conquistare. I rapporti di forza, però, qui erano chiaramente a favore dei Romani, e con essi le condizioni ambientali e topografiche, totalmente diverse rispetto alla situazione verso il mare (basti pensare che Marcello, fermatosi con le sue truppe sul ciglio del pianoro sopra la città, la pianse prima ancora di esservi sceso). Gli strumenti con i quali il grande Siracusano aveva aiutato i concittadini a difendersi negli stretti spazi sulle mura verso il mare non potevano servire durante l’attacco finale attraverso il grande pianoro.
un’ipotesi da rivedere L’ingegno di Archimede ha contribuito anche agli impianti architettonici? Nonostante il silenzio delle fonti, l’ipotesi è stata avanzata e ha avuto seguito, alimentata soprattutto dalla complessità architettonica del Castello Eurialo, che alcuni studiosi non potevano spiegarsi se non con l’apporto decisivo del suo genio; ma non è piú sostenibile. Il ruolo del grande scienziato rimane incentrato sul suo contributo meccanico, limitato alla difesa sul mare: questo, almeno, è quanto lo stato attuale della ricerca sulle mura permette di affermare. L’analisi dettagliata e minuziosa delle strutture, confrontata passo per passo con la conoscenza attuale della poliorcetica tardoclassica ed ellenistica, delinea un quadro piú articolato e complesso di quanto finora supposto. Le piú importanti tappe evolutive del processo di definizione e costruzione del sistema difensivo di Siracusa si svolsero durante i convulsi eventi del IV secolo a.C., per raggiungere l’apice agli inizi del III secolo, nel lungo operato di Agatocle, genio militare non inferiore al grande Dionigi I. Molto piú difficile, invece, risulta stabilire il contributo di Ierone II, nonostante la sua inclinazione alle grandi opere, in un settore del sistema difensivo che, come dimostrano anche le operazioni finali, era sempre meno importante. Certo, è ben nota la sua premura nel rendere sicura la città, come emerge
l’invenzione piú famosa Ricostruzione dell’utilizzo degli specchi ustori di Archimede per dare alle fiamme le navi romane che assediavano Siracusa. Illustrazione realizzata per il frontespizio di una edizione in latino del Thesaurus opticus dello scienziato arabo Alzahen.
dalla tradizione secondo la quale il re, dopo la dimostrazione della legge fondamentale della meccanica («datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo»), «attonito, comprese la forza della scienza e persuase Archimede a preparare per lui macchine, sia per la difesa, sia per l’attacco, in vista di ogni tipo di assedio». Ierone però «non ne fece uso, perché trascorse la maggior parte della vita in pace e fra continue feste; ma allora, per il bisogno dei Siracusani, tornò utile quell’allestimento, e insieme con l’allestimento anche il suo inventore». (Plutarco, Marcello, XIV, 14). Da Plutarco in poi, la descrizione delle gesta e delle invenzioni di Archimede è collegata a considerazioni generali sul rapporto conflittuale tra teoria e pratica nell’opera dello studioso; inoltre, ha avuto grande peso il racconto della sua morte quando era già lontano, nei suoi pensieri, dal destino della propria città: ultimo indizio, forse, del fatto che il suo ruolo si era ormai esaurito. a r c h e o 91
speciale • archimede
LE OPERE DI ARCHIMEDE Dalla geometria alla celebre legge dell’idrostatica, le numerose opere che il grande Siracusano ci ha lasciato approfondiscono le piú svariate branche della scienza di Enrico Giusti
A differenza dei grandi matematici dell’antichità classica (Euclide, Apollonio, Pappo, Diofanto), il cui nome è essenzialmente legato a un’opera singola, le opere di Archimede si presentano come un mosaico di ricerche settoriali, ognuna delle quali è dedicata a un singolo argomento e che non mostrano alcuna ricerca di sistematicità né pretendono di rivolgersi a principianti, ma sono destinate a matematici che possiedano una solida conoscenza di base. Questi caratteri hanno reso le opere di Archimede una costante fonte di ispirazione per gli scienziati del Cinquecento e del Seicento, e una componente essenziale della Rivoluzione scientifica.
– La misura del cerchio – La sfera e il cilindro (a Dositeo)
Archimede volle che sulla sua tomba venisse incisa una sfera con il cilindro circoscritto. Nelle Tusculanae Disputationes Cicerone narra che proprio questo indizio gli permise di ritrovare la tomba di Archimede di cui si era persa la memoria (XXIII, 64).
– Conoidi e sferoidi (a Dositeo) – La quadratura della parabola – L’arenario (a Gelone) Il titolo deriva dal sistema numerico qui inventato da Archimede, con il quale il Siracusano riesce a scrivere il numero dei granelli di sabbia che sarebbero contenuti nella sfera delle stelle fisse.
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– La spirale (a Dositeo) – L’equilibrio dei piani
Opera che ha esercitato una grande influenza sulla nascita della scienza moderna. Archimede vi dimostra la fondamentale legge della statica: in una leva si ha equilibrio quando i pesi sono inversamente proporzionali alle distanze dal fulcro.
«Eureka! Eureka!»
Nel libro IX del De architectura Vitruvio rivolge un elogio appassionato agli scriptores, affermando che a essi dovrebbero essere riservati onori non inferiori a quelli che di solito si attribuiscono agli atleti. La prima parte del libro è infatti dedicata ai talenti intellettuali, a coloro che si distinguono per le loro inventiones, piuttosto che per le prodezze ginniche: filosofi e matematici quali Pitagora, Democrito, Platone, Aristotele, Archimede, Archita, Eratostene. Tra i vari esempi ricordati quello riferito ad Archimede è certamente il piú noto e costituisce un’ode alle doti dell’ingegno: il re Ierone aveva affidato una certa quantità d’oro a un orafo, perché gli preparasse una corona votiva. L’artigiano esegue il lavoro, ma qualcuno fa sapere al sovrano che è stato ingannato: nella realizzazione del manufatto era stato usato anche dell’argento. Da qui la richiesta ad Archimede di verificare il misfatto: non era infatti sufficiente pesare la corona, perché questa, in caso di frode, avrebbe potuto avere lo stesso peso dell’oro consegnato all’orafo. Archimede riflette su una possibile soluzione e a un certo punto esce dalla vasca da bagno nella quale si trovava gridando «Eureka! Eureka!» («Ho trovato! Ho trovato!»). Aveva infatti compreso che, se la vasca è piena sino all’orlo, la quantità d’acqua che fuoriesce occupa lo stesso spazio del corpo che vi è entrato provocando la tracimazione. Per valutare se davvero la corona era tutta o solo parzialmente d’oro bastava determinarne il peso e il volume, per poi confrontare quest’ultimo con quello di un campione d’oro puro di egual peso. Archimede risolve brillantemente una delle tante frodi de ponderibus, cosí comuni sin
A destra: pagine di edizioni quattrocentesche delle opere di Archimede, conservate a Firenze, presso la Biblioteca Medicea Laurenziana e la Biblioteca Riccardiana. Nella pagina accanto: Cicerone e i magistrati scoprono la tomba di Archimede. Dipinto di Benjamin West (1738-1820). 1804. Collezione privata.
– I galleggianti
Archimede introduce la legge fondamentale dell’idrostatica: un corpo immerso in un fluido riceve una spinta dal basso in alto pari al peso di una quantità di fluido dello stesso volume. Da menzionare anche il primo tentativo di una spiegazione matematica della curvatura della superficie del mare.
dall’antichità in relazione all’uso delle bilance, spesso manomesse al fine di falsificare le pesate. La scoperta compiuta nella vasca permette di superare e smascherare l’astuzia dell’orafo, di svelare l’inganno senza compromettere la corona. L’attitudine all’indagine e alla scoperta dimostra di non avere bisogno di oggetti particolari per manifestarsi, strumenti complicati e riservati a pochi: anche un bagno può servire a liberare il pensiero e a vedere quello che è lí, a disposizione di tutti, evidente come l’acqua che fuoriesce dalla vasca, che attende solo di essere «interpretata» per mutarsi in veicolo di scoperta. Vitruvio descrive in modo efficace l’ingenium e lo pone in diretta connessione con l’attività dell’architetto. Questo episodio si lega – anche linguisticamente, attraverso l’uso del termine inventio, a sua volta derivato dal greco eurisko, da cui eureka – a un altro celebre racconto vitruviano,
– Il metodo (a Eratostene)
L’opera svela le tecniche usate da Archimede per arrivare a risultati che poi avrebbe dimostrato rigorosamente tramite la riduzione all’assurdo.
– Stomachion
Lo scopo di quest’opera, che tratta della divisione di un quadrato in quattordici tessere, resta oscuro: potrebbe
narrato nel libro IV del De architectura: in quel caso un semplice cesto posato sulla tomba di una fanciulla a Corinto,ricoperto nel tempo da foglie d’acanto, dà a Callimaco lo spunto per elaborare la forma del capitello corinzio. Anche in quel racconto si narra di un banale «incontro», che all’occhio dell’artista si trasfigura in scoperta di una nuova forma. di Antonio Becchi
In alto: coppia di orecchini in oro. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Qui sopra: vasca da bagno in terracotta. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».
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speciale • archimede A destra: particolare di un affresco in cui è raffigurata una vite idraulica. Napoli, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei.
A sinistra: stadera in bronzo con peso in forma di fanciullo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: Giovanni Battista Piranesi, sezione della Colonna Traiana. Roma, 1774.
sollevare la terra
«Datemi un punto d’appoggio e solleverò la Terra»: la famosa affermazione fu attribuita ad Archimede dallo studioso alessandrino Pappo, attivo circa cinquecento anni dopo. Fin da subito, la scena evocata da questa frase conquistò l’immaginazione popolare e divenne l’emblema del grande pensatore, superata per fama soltanto da quella, piuttosto curiosa, del genio che corre nudo per le strade di Siracusa gridando «Eureka! Eureka!». Nonostante la citazione sia incompleta, non sono mai stati espressi seri dubbi sul modo in cui, ottenuto un saldo appoggio, Archimede intendesse sollevare la Terra, ossia per mezzo di una leva. Gli affreschi di Giulio Parigi (1599-1600) nello Stanzino delle Matematiche alla Galleria degli Uffizi offrono una rappresentazione particolarmente suggestiva di questa scena. Tecnicamente, una leva è semplicemente un corpo rigido, per esempio una trave di legno, che può ruotare intorno a un fulcro, come un cuneo collocato
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LA COLONNA TRAIANA
Due fonti letterarie – Curiosum Urbis Romae e Notitia Urbis Romae – definiscono le Colonne di Traiano e di Marco Aurelio columna cochlis, letteralmente «colonna a chiocciola». Nel linguaggio tecnico, latino e greco, coclea era una macchina idraulica: la vite di Archimede. Essa consisteva in un elicoide inserito in un tubo di legno che, inclinato in acqua e fatto girare, consentiva all’acqua di scaturire piú in alto; si usava in agricoltura e nelle miniere, per prosciugare le gallerie. Quale relazione c’è tra la vite di Archimede e la vite di Apollodoro (che costruí per Traiano il Foro con la Colonna)? La scala si svolge all’interno della Colonna come una colossale vite di marmo, che attribuisce vantaggi alla struttura: è piú leggera di un’equivalente colonna piena, di 1/3, ed è piú rigida rispetto a un’equivalente colonna cava. L’elicoide conferisce alla struttura una particolare resistenza, anche a sollecitazioni orizzontali, come avviene nei terremoti. L’elica descritta da Vitruvio nel De Architectura (X, 6, 1-3), fatta di sottili listelli di salice e agnocasto, conferiva alla vite di Archimede elasticità e rigidezza, tali da resistere al calpestio di un uomo che effettuava il movimento calcatorio necessario: questa può essere stata la suggestione agli occhi dell’architetto, cioè il massimo della rigidezza e della resistenza col minimo della massa. La chiocciola di Apollodoro è la realizzazione in marmo della vite di Archimede e ha superato indenne i terremoti che devastarono Roma e il Colosseo. Giangiacomo Martines
trattarsi di un gioco analogo al tangram cinese o racchiudere un problema di analisi combinatoria.
– Il libro dei lemmi
Testo di attribuzione dubbia, pervenuto solo attraverso una traduzione araba.
sotto la trave. Se una data forza – una forza umana o un peso – agisce a un’estremità della leva, la forza applicata all’altra estremità, oltre ad agire in un’altra direzione, risulta anche inferiore o superiore a seconda della posizione del fulcro. Abbinato al braccio di un uomo, il manico di una scure di pietra è una leva. Come mostrano le rappresentazioni in nostro possesso, le antiche culture della Mesopotamia e dell’Egitto avevano perfezionato l’uso della leva. Per costruire edifici monumentali come templi e piramidi questi popoli utilizzarono, in aggiunta ad altri congegni meccanici, enormi leve per spostare pesi che altrimenti non avrebbero potuto essere mossi con le forze disponibili. L’idea che si possano spostare enormi carichi con forze ridotte grazie all’aiuto della leva non risale ad Archimede. È vero però che la Terra non è semplicemente un’enorme pietra e che l’ardito progetto di Archimede è caratterizzato da una straordinaria audacia di
– Il problema dei buoi
Formulato in versi, il problema (risolto completamente solo nel XIX secolo) richiede di trovare soluzioni intere di un sistema di sette equazioni con otto incognite.
– I solidi archimedei
pensiero. Questo da solo, tuttavia, difficilmente basterebbe a spiegare il significato attribuito alla famosa frase nel corso dei secoli. Eppure, Archimede descrisse la leva e forní una meravigliosa dimostrazione della sua principale proprietà – nota oggi come «legge della leva» – in una delle sue opere: è proprio su questa dimostrazione che si basano le lodi per la sua affermazione. Il titolo del libro in cui Archimede illustrò questa dimostrazione, Sull’equilibrio dei centri di gravità, offre un prezioso indizio per comprendere il contesto generale in cui il lavoro si colloca. Se si abbina la leva al concetto di equilibrio, si arriva inevitabilmente all’idea della bilancia. E anche se nel testo di Archimede non sono esplicitamente citate né la leva né la bilancia, è piú che evidente che un particolare tipo di strumento per pesare costituiva il riferimento fisico per le dimostrazioni teoriche dello studioso. Jochen Büttner
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speciale • archimede
TRA SIRACUSA E ALESSANDRIA: IL MEDITERRANEO COME NETWORK TECNOLOGICO di Giovanni Di Pasquale
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onsiderato il centro del mondo, costellato di isole e penisole che vi si addentrano, il Mediterraneo dell’antichità non è solo un «mare tra le terre», ma anche luogo di incontro e travaso di culture diverse. La vicenda di Alessandro Magno aveva inaugurato una nuova epoca: le sue marce verso l’Oriente avevano posto le condizioni per un concreto contatto tra le antiche società cresciute in quelle regioni e la cultura greca, mentre in Occidente si faceva sempre piú marcata la presenza di elementi propri delle civiltà egizia e mesopotamica. La nuova estensione del mondo conosciuto non determina solo la stesura di carte geografiche sempre piú aggiornate, ma anche un forte interesse verso la geografia matematica: la conoscenza della lunghezza dell’Egitto consente a
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Eratostene di calcolare con notevole precisione la circonferenza della Terra, mentre Aristarco, autore di una rivoluzionaria ipotesi eliocentrica dell’universo, determina le dimensioni del Sole e della Luna e la loro distanza dal nostro pianeta. Almeno dal VI secolo a.C., il Mediterraneo fu regolarmente attraversato non solo da mercanti, coloni ed eserciti, ma anche da personaggi capaci di mettere a frutto le stupefacenti novità della tecnica. Architetti, strateghi ed esperti costruttori di macchine avevano individuato nella rigorosa precisione delle misure e nella geometria degli ingrandimenti proporzionali il filo capace di legare ambiti solo apparentemente diversi: edifici, dispositivi da guerra e da cantiere ob-
bedivano alle medesime norme costruttive. Inoltre, rendendosi protagonisti di una svolta epocale nel panorama culturale del tempo, alcuni di loro erano divenuti autori di testi, sancendo cosí la nascita di un nuovo genere letterario: il trattato tecnico. Al linguaggio della geometria che disegna forme, architetti e costruttori di macchine abbinavano la capacità di raccontare il comportamento della materia con cui si costruisce.
la lezione del siracusano L’attenzione che Archimede rivolge alla tecnologia meccanica risulta ancora piú chiara soffermandosi, brevemente, sul peso che strumenti, dispositivi e macchine vanno acquisendo nelle ricerche portate avanti dagli studiosi attivi nel corso del III secolo a.C. Ctesibio, il fondatore della nuova meccanica alessandrina, e Filone di Bisanzio si occupano della costruzione di catapulte sempre piú potenti e realizzano dispositivi semoventi per i teatrini di automi; descrivono, inoltre, apparati idraulici la cui esistenza ha trovato interessanti conferme archeologiche proprio in Egitto, nella regione del Fayyum, già nel III secolo a.C. La componente strumentale è addirittura decisiva nella pneumatica, disciplina di punta della nuova meccanica alessandrina. Appositamente inventati, gli apparati di pneumatica offrono una conferma sperimentale dell’elasticità dell’aria in movimento, del rifiuto del vuoto da parte della natura e dei meravigliosi effetti della contiguità degli elementi sottoposti a determinate situazioni prodotte dalla tecnica. Destinata a grande popolarità, la pneumatica esercita una chiara influenza soprattutto sulle ricerche dei medici alessandrini, ai quali fornisce un modello di riferimento, ma anche la strumentazione a sostegno di alcune indagini. Approfondendo il tema del cambiamento di frequenza nel polso, il medico Erofilo si serve di un orologio ad acqua, dispositivo la cui ideazione è attribuita proprio a Ctesibio; nell’analizzare poi il ritmo cardiaco, Erofilo introduce anche un preciso riferimento musicale di cui troviamo conferma in Plinio (XXIX, 6). Questa informazione rimanda ancora una volta a Ctesibio, che secondo la tradizione sarebbe stato l’ideatore dell’organo idraulico, una delle piú straordinarie macchi-
ne dell’antichità. Evidenti legami con la pneumatica sono anche nell’opera del medico Erasistrato, il quale considera il corpo umano una macchina il cui funzionamento è riconducibile a tre sistemi di vasi cavi: arterie, vene e nervi, ognuno dei quali conduce una diversa sostanza vivificante. La componente strumentale aveva acquisito un posto di rilievo anche nell’attività degli astronomi. Mentre Eudosso suggerisce agli allievi della scuola di astronomia istituita a Cizico l’utilizzo della sfera armillare per comprendere il funzionamento dell’universo, per la lettura dei Fenomeni di Arato è di essenziale ausilio il globo celeste, al fine di precisare la fisionomia dei raggruppamenti stellari descritti. Lo stesso Archimede rimanda alla diottra per misurare il raggio dell’orbita del Sole, strumento già noto ad Aristarco e successivamente impiegato con successo da Ipparco.Tuttavia, la fama di Archimede astronomo si lega soprattutto a Cicerone e ai suoi espliciti riferimenti all’esistenza di uno straordinario planetario meccanico capace di raffigurare i moti dei pianeti attorno alla Terra e le eclissi: portato a Roma da Marcello come parte del bottino di guerra, verrà ancora ricordato da autori della tarda antichità. A chiudere questo sommario e parziale elenco resta una delle piú significative applicazioni strumentali tramandate dalle fonti. In un passaggio del trattato La sfera e il cilindro Archimede riferisce la possibilità, dichiarata già acquisita, di individuare due medie proporzionali tra due rette date (II, 1). Si tratta dunque del classico problema della duplicazione del cubo, non risolvibile con riga e compasso: sebbene Archimede non indichi se si stia riferendo alla soluzione fornita da Eudosso oppure a quella di Archita, è interessante osservare come egli ammetta, nel Metodo, il ricorso a mezzi meccanici per risolvere i piú complessi problemi di geometria. Non è dunque un caso che Il metodo sia dedicato proprio a quell’Eratostene che, ad Alessandria, affronta e risolve il problema della duplicazione del cubo grazie a uno straordinario dispositivo di sua invenzione, il mesolabio, capace di trovare tutte le medie proporzionali desiderate.
In basso: statua in granito raffigurante una scimmia, dal Campo Marzio. Produzione egiziana, 395-341 a.C. Roma, Musei Capitolini.
A sinistra: sfinge in granito rosso. Roma, Musei Capitolini. Le speculazioni scientifiche e le opere di molti grandi sapienti attivi ad Alessandria sono una sorta di eredità delle elaborazioni di Archimede.
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speciale • archimede
ARCHIMEDE E LE IMMAGINI DEGLI INTELLETTUALI NEL III SECOLO A.C. di Claudio Parisi Presicce
N
on abbiamo testimonianze sull’aspetto fisico di Archimede e le attribuzioni finora proposte si sono dimostrate insostenibili sia dal punto di vista iconografico che cronologico. Per tentare di avvicinarci all’immagine dello scienziato possediamo soltanto alcuni aneddoti, che ci offrono indizi significativi sulle caratteristiche psicologiche del personaggio. Secondo le fonti Archimede era dotato di tale profondità di pensiero e di tale sovrumana sagacia, che nulla volle scrivere sulle arti meccaniche, utili solo a soddisfare i bisogni materiali della vita. Egli dedicò tutti i suoi sforzi soltanto a quegli studi che non dipendono dalla necessità. La perfezione a cui Archimede si rivolgeva era dovuta alla sua straordinaria capacità di attenzione e di lavoro. Sembrano credibili, quindi, gli aneddoti che si raccontano di lui, ossia che egli spesso dimenticasse di mangiare e trascurasse la sua persona, o conducesse linee col dito intinto nell’olio con cui si ungeva il corpo. Si racconta che mentre l’esercito romano si abbandonava al saccheggio di Siracusa, Archimede stava studiando con gli occhi fissi sopra una figura geometrica. Non si era accorto dell’invasione e della caduta della città. Un soldato romano, avvicinatosi, lo uccise perché lo scienziato non voleva seguirlo. Plutarco narra tre diverse versioni della morte di Archimede (Marcello, 19). Secondo la prima, un soldato romano avrebbe intimato ad Archimede di seguirlo da Marcello; al suo rifiuto di farlo prima di aver risolto il problema a cui si stava applicando, il soldato lo avrebbe ucciso. Nella seconda, il soldato si sarebbe presentato per 98 a r c h e o
Statua di filosofo. Copia romana di un originale greco del III o II sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.
pitagora In questa pagina: busti di letterati e scienziati conservati anch’essi presso i Musei Capitolini e databili tra l’età augustea e il I sec. d.C..
pindaro
uccidere Archimede e quest’ultimo lo avrebbe pregato invano di lasciargli terminare la dimostrazione nella quale era impegnato. Nella terza, un gruppo di soldati avrebbe incontrato Archimede mentre portava a Marcello alcuni strumenti scientifici, meridiane, sfere e squadre, in una cassetta; i soldati, pensando che contenesse oro, lo avrebbero ucciso per impadronirsene. Secondo Tito Livio, Marcello fece dare onorevole sepoltura allo scienziato (XXV, 31). È probabile che tra gli onori resi vi sia stata, oltre alla sepoltura, l’erezione di una statua. In
antistene
diogene
platone
mancanza di testimonianze dirette, possiamo solo immaginarla. Sono entrate nella leggenda, tramandate ai posteri da Valerio Massimo, le ultime parole di Archimede, rivolte al soldato che stava per ucciderlo: «non rovinare, ti prego, questo disegno» (Fatti e detti memorabili, IX, VIII, 7, 7). Possiamo, quindi, supporre che l’immagine di Archimede, rifacendosi a quell’episodio, esprimesse in modo paradigmatico il momento finale della sua vita. Nel corso del III secolo a.C. fu fissato un vero e proprio vocabolario visuale dell’uomo di pensiero, in contrapposizione all’im-
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speciale • archimede
ERmarco
magine dell’uomo di azione: un volto concentrato, con sopracciglia contratte, una barba folta (quando ormai la norma imponeva il volto rasato) e una capigliatura spesso scompigliata; come unica veste il mantello (himation), indossato su una sola o su entrambe le spalle in modo da lasciare parzialmente scoperto il torace; la posizione prevalentemente seduta, talvolta chinata in avanti, accompagnata da un gesto o un attributo, come un rotolo (volumen), che rende piú o meno esplicito il richiamo all’esercizio dell’attività intellettuale.
zenone In alto: ritratti di filosofi. Roma, Musei Capitolini. A destra: statua acefala, forse raffigurante Archimede, rinvenuta nel Serapeion di Saqqara (Egitto). A sinistra: cammeo in pasta vitrea con ritratto di Archimede. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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epicuro-metrodoro
La fondazione delle biblioteche nelle metropoli ellenistiche e lo sviluppo della vita culturale e «accademica» che ruotava intorno a tali istituzioni determinarono l’esigenza di possedere i ritratti degli autori del ricco patrimonio di libri ivi raccolto. Nella biblioteca di Pergamo si ha il primo esempio documentato di arredo statuario con immagini bronzee di poeti e di storici: i ritratti di Omero, Alceo, Saffo, Timoteo di Mileto, Erodoto, Apollonio, Balakros divennero il prototipo di ermette e bustini collocati in seguito sugli scaffali delle biblioteche di epoca romana.
dal tempio di serapide All’ingresso principale del famoso Serapeion di Memphis (l’attuale Saqqara), in Egitto, si conservano, disposte a semicerchio su una fondazione tardo-antica, undici statue-ritratto in calcare di dimensioni superiori al vero, raffiguranti filosofi e poeti, insieme a sculture mitologiche connesse con il dominio di Serapide. Si tratta di un’importante composizione di ritratti, databili verosimilmente nella seconda metà del III secolo a.C., ossia durante il regno di Tolemeo III (246-221 a.C.) o Tolemeo IV (221-204 a.C.). I personaggi raffigurati – tra cui Platone, Prota(gora), Pind(aro), forse Omero, Demetrio di Falero (o un re tolemaico), Esiodo, Crisippo – non sono rappresentati come parte attiva di un gruppo, ma come singole entità, con pose che caratterizzano le figure come perse nei pensieri e assorbite nelle loro occupazioni. Tra le undici figure vi è un filosofo, accuratamente drappeggiato, con una verga nella destra che tocca il suolo con l’estremità (vedi l’immagine qui accanto). Il personaggio potrebbe essere identificato, per la specificità dell’azione, con Archimede. La posizione delle dita della mano indica che l’uomo non era appoggiato al bastone, ma aveva compiuto con esso un gesto rotatorio. Il personaggio è chinato in avanti e solleva il piede sinistro su un alto contenitore di rotoli, poggia il gomito sinistro sul ginocchio e doveva sorreggere il mento con la mano in un gesto di concentrata riflessione. La lunga verga era adoperata dai primi scienziati per disegnare figure geometriche nella sabbia o per mostrare punti nella sfera celeste. Nella raffigurazione della mano con le dita divaricate distese sulla verga l’enfasi è data all’arresto del gesto, che ricorda l’episodio della morte del Siracusano: la spada del soldato ha interrotto per sempre il tempo chiesto da Archimede per concludere il suo ragionamento.
Archimede nelle società islamizzate Archimede è stato un importante protagonista delle scienze matematiche antiche per molti studiosi nelle società islamizzate, in particolare dal IX al XIII secolo. La sua fama raggiunse il picco nel X secolo. Archimede era considerato da molti il piú grande matematico di tutti i tempi, un modello da imitare per gli studi di geometria e di meccanica. In quanto specialista e autore di testi di meccanica, era tenuto in particolare considerazione nell’Iran occidentale del X secolo, nel Khorasan degli inizi del XII secolo e nell’India nord-occidentale del XVII secolo. La sua centralità per l’insegnamento rimase indiscussa ancora per molti secoli, finché due delle sue opere autentiche, Sulla sfera e il cilindro e La misura del cerchio, oltre a uno dei lavori attribuitigli, ma dalle origini incerte, il Libro dei lemmi, furono integrati tra IX e XIII secolo nel corpus dei trattati greci noti come Piccola astronomia. Essi comprendevano in origine testi astronomici da studiare dopo gli Elementi di Euclide e propedeutici all’Almagesto di Tolomeo. Studiosi islamici aggiunsero a questo corpus testi di geometria, trigonometria e ottica. In quanto parte di questo insieme di trattati, l’opera di Archimede rimase conosciuta in varie società islamizzate fino al tardo XIX secolo o agli inizi del XX, in particolare in India, in Iran, nell’impero ottomano e in Nord Africa. Sonja Brentjes
È ESISTITO UN ARCHIMEDE CINESE? Joseph Needham, orientalista, grande studioso della storia della scienza cinese, sosteneva che l’antica scuola filosofica cinese dei Moisti doveva «conoscere in maniera approfondita la teoria degli equilibri secondo la formulazione di Archimede». E il Canone moista (300 a.C. circa) riporta riflessioni teoriche su fenomeni meccanici che non derivano dalla tradizione europea, ma non contiene una presentazione deduttiva, né una trattazione matematica della meccanica. Dopo che i Qin unificarono l’impero cinese, nel 221 a.C., la scuola moista fu soppressa. Nonostante una ricca tradizione cinese di ingegneria meccanica, cosí come di pratica matematica, la meccanica teorica fece il suo ingresso in Cina solo quando i missionari gesuiti, quasi duemila anni dopo i Moisti, la utilizzarono per diffondere la cultura europea. In un libro cinese sulle Macchine meravigliose dal lontano Ovest (1627), Archimede è definito il fondatore della meccanica, vi sono discussi il peso dei corpi immersi in acqua e il funzionamento di varie macchine, e viene enunciata la legge della leva. Tuttavia, la scienza meccanica rimase marginale in Cina finché la cultura europea non iniziò ad avere un impatto piú massiccio sulla vita intellettuale locale, nella seconda metà del XIX secolo. Matthias Schemmel a r c h e o 101
speciale • archimede
IN ANTEPRIMA MONDIALE IL GENIO DI ARCHIMEDE IN MOSTRA Una grande esposizione ai Musei Capitolini di Roma racconta la figura e le opere dell’eclettico personaggio siracusano
Archimede non era mai stato raccontato in una mostra. Lo fanno ora i Musei Capitolini di Roma, con un’esposizione che illustra i tanti aspetti del genio di Siracusa. La mostra si articola in due filoni principali: il primo ci fa capire la portata del contributo che Archimede ha dato alla crescita delle scienze in età ellenistica, mentre il secondo è imperniato sui trattati dello scienziato. Un percorso affascinante, arricchito da una selezione di reperti archeologici, che si articola in otto sezioni. Siracusa, la città di Archimede racconta lo splendore della sua città natale nel III secolo a.C. Siracusa e il Mediterraneo. La città siciliana e Archimede, i due principali centri del Mediterraneo per lo sviluppo del sapere scientifico e tecnico, descritti da reperti archeologici e apparati multimediali. Archimede e Roma. L’uccisione di Archimede da parte dei Romani durante l’assedio di Siracusa è un momento epocale. Proprio a Roma si creano le condizioni per la nascita di un vero e proprio mito legato alla vita e alle opere di Archimede. Archimede e l’Islam. La civiltà islamica – che gli attribuisce l’ideazione di congegni di straordinaria efficacia – studia e commenta le opere di Archimede. La riscoperta di Archimede in Occidente. Artisti, studiosi e principi gareggiano per il possesso delle opere del Siracusano, segnando un punto di svolta per la ripresa delle indagini di matematica e geometria. Leonardo e Archimede. L’interesse degli artisti nei confronti di Archimede è provato anche da un codice con i trattati di Archimede. Galileo e Archimede. L’opera di Archimede è un punto di riferimento costante per Galileo. La geometria di Archimede. In questa sezione si celebrano 102 a r c h e o
le geniali intuizioni geometriche e meccaniche di Archimede. Da segnalare, inoltre, la sezione allestita negli spazi di Palazzo Caffarelli, che presenta stazioni sperimentali ed exhibits che coinvolgono i visitatori di tutte le età, per rendere comprensibili i principi che determinano il funzionamento delle macchine ideate da Archimede, mentre un laboratorio didattico propone alcuni degli esperimenti compiuti dal talento siracusano. Promossa da Roma Capitale, Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico, Sovrintendenza Capitolina, dal Museo Galileo e da Zètema Progetto Cultura, l’esposizione è ideata dal Museo Galileo Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, con la collaborazione del Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino e con il contributo dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana e della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. In alto: rilievo con profilo di filosofo e, a destra, un particolare dell’opera in cui si legge il nome Archimede. Prima età imperiale. Roma, Musei Capitolini.
dove e quando «Archimede. Arte e scienza dell’invenzione» Roma, Musei Capitolini Palazzo dei Conservatori e Palazzo Caffarelli fino al 12 gennaio 2014 Orario martedí-domenica, 9,00-20,00; chiuso lunedí Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni,9,00-21,00); www.museicapitolini.org; http://mostre.museogalileo.it/archimede/ Note i testi di questo speciale sono riprodotti per gentile concessione dell’editore Giunti, per i cui tipi è pubblicato il catalogo della mostra
Orologio solare in calcare. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi».
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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda
La versione di Carver mettendo a frutto la lunga esperienza sul campo e nella divulgazione, uno dei piú autorevoli archeologi anglosassoni ragiona su cosa significhi, oggi, praticare lo studio del passato
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artin Carver è uno degli archeologi piú conosciuti ai quattro angoli del pianeta. La sua lunga, autorevole direzione della celebre rivista Antiquity ne ha portato la voce ovunque si pratichino le tante archeologie che compongono l’archeologia contemporanea. Per questo
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motivo, quando leggiamo i suoi scritti, ci sentiamo «aiutati» a uscire «dal nostro piccolo» per abbracciare il suo approccio planetario: una boccata d’aria fresca, che ci invita anche a praticare di piú il comparativismo, cioè il confronto tra situazioni ambientali e culturali diverse,
generalmente rifuggito dai piú timorosi. La lunga esperienza ha portato Carver ad alcune riflessioni, teoriche e operative, che ha consegnato a un recente libro, Making archaeology happen, che potremmo trasporre nell’italiano Far vivere l’archeologia. Per esistere, anzi, per continuare a esistere, l’archeologia deve sempre avere davanti agli occhi tre punti di riferimento, che Carver individua nell’agenda della ricerca, nel terreno e nel contesto sociale in cui si opera. L’agenda è l’obiettivo stesso della ricerca: quello che vogliamo conoscere attraverso
Martin Carver sullo scavo di Portmahomack, in Scozia, al quale ha dedicato un lungo progetto di ricerca, tra il 1994 e il 2007. l’archeologia e che ancora non sappiamo. Il terreno sono le condizioni materiali in cui si trova ciò che può fornirci nuova conoscenza e le sue potenzialità narrative. Il contesto sociale è l’insieme delle condizioni umane e culturali in cui la ricerca si svolge.
una risposta forte Queste tre variabili fanno sí che ogni sito archeologico sia sempre diverso e abbia particolarità tali da richiedere di volta in volta l’applicazione di metodi appropriati. Non è semplice empirismo di tradizione britannica, ma sano pragmatismo: una risposta forte alla complessità delle operazioni da svolgere, non dogmatica, ma argomentata, e quindi flessibile. Flessibilità e opportunismo – sottolinea Carver – sono fondamentali per il nostro mestiere. Una schiettezza che si comprende meglio leggendo il sottotitolo del libro: Design versus Dogma. Come dire che per praticare una buona archeologia non basta credere di possedere un metodo perfetto (anzi, come troppo spesso si dice, «corretto»), ma occorre avere un progetto in testa. La flessibilità per Carver non è quindi faciloneria metodologica (è uno dei migliori scavatori dell’ultima generazione), né, tanto meno, furbizia: è, al contrario, il riflesso di una visione culturale dell’insieme del lavoro dell’archeologo, che non si limita ad applicare regole universali (le leggi della stratigrafia esistono e vanno rispettate), ma osserva innanzitutto se stesso nel momento in cui fa ricerca, e si domanda: perché la faccio? Quali possibilità ho di ricavare le informazioni che cerco?Qual è l’impatto del mio lavoro nel contesto in cui opero? Insomma, fare archeologia non è
un semplice esercizio attraverso il quale raccogliere dati. L’archeologia ha bisogno di massimizzare la conoscenza proveniente da ogni opportunità che le si presenti; e, per farlo, deve praticare approcci differenti, adattando i suoi strumenti a ogni situazione. Con un certo scoramento, Carver si domanda se l’archeologia contemporanea non corra il rischio di fossilizzarsi, quasi che la costruzione e la diffusione di teorie e metodi condivisi non si risolva nell’applicazione asettica di procedure standardizzate, prive di domande, quasi rassegnate a una bassa qualità, priva di ambizione. L’archeologia, insomma, non è una tecnica che si fa sempre piú tecnologica. Senza le procedure, beninteso, non ci sarebbe un’archeologia moderna di cui discutere. Esse sono non solo importanti, ma confortanti, consolanti, rassicuranti; tuttavia si deve andare piú in là, perché spesso ci appagano e non ci fanno pensare. Qui è il punto: «fare archeologia richiede – infatti – sia arte che scienza»; è un’avventura scientifica alla ricerca di una storia, da documentare con precisione e da esporre con persuasione. Per far vivere l’archeologia occorre dunque che gli aspetti pratici e
quelli creativi sappiano convivere, senza perdere di vista il contesto sociale in cui ci si muove. E questo contesto oggi è la comunità che conduce la sua esistenza attorno ai siti che l’archeologo indaga e al tempo stesso la platea mondiale della comunicazione globale. Si lavora per gli uni e per gli altri: questa è la sfida, tanto piú quando gli uni e gli altri non parlano lo stesso linguaggio, non condividono le stesse culture.
paradigmi comuni Ecco allora che comprendiamo una presa di posizione che può lasciare interdetti quanti ritengano che l’archeologia non sia, in fondo, che una procedura scientifica applicata a un contesto culturale. «Quel che facciamo sul campo – scrive Carver – non è questione di giusto o sbagliato, ma di «appropriato». E non perché l’archeologia sia un’arte piuttosto che una scienza, ma perché è un’arte, una scienza e una scienza sociale». E infatti, mentre abbiamo bisogno di condividere paradigmi comuni nella costruzione del dato, abbiamo altrettanto bisogno della multivocalità nella sua interpretazione. Perché la pratica dell’archeologia pretende il massimo di libertà, anche se – ci ricorda Carver – non lavoriamo nel vuoto, ma sempre a casa di qualcuno e sul passato di qualcuno. Rispettare le tante culture che si dividono la superficie del pianeta non significa liquidare come una miope visione eurocentrica quella che ha tra le sue «pretese» la libertà della scienza: che è libertà per tutti, anche quando si presenta con il volto di quella forma particolare di conoscenza che è l’archeologia, se saprà parlare per tutti e con tutti. Facciamo nostro l’appello di Martin Carver: abbiamo bisogno di creatività, e per questo – anche se sono tempi duri, questi, per l’archeologia – il mondo ha bisogno di noi.
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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli
la scienza occulta dei caldei già in età romana, l’approccio nei confronti dell’astrologia fu spesso contraddittorio: pur riconoscendone la totale inconsistenza scientifica, pochi seppero rinunciarvi. Favorendo, cosí, il successo dei primi dispensatori di oroscopi e profezie...
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partire dal III secolo a.C., una nuova forma di interrogare il cielo andò progressivamente diffondendosi a Roma, fino a prendere il sopravvento su quelle piú tradizionali, e fu l’astrologia propriamente detta: una vera e propria «scienza degli astri», che presumeva di riconoscere e determinare gli influssi di quei corpi celesti sul mondo terreno, prevedendo avvenimenti futuri e dando spiegazione di quelli passati, rimasti sconosciuti.
Di lontane origini babilonesi (con documenti certi che risalgono fino all’VIII secolo a.C.) e passata in Grecia durante l’età ellenistica, l’astrologia fu importata a Roma nel corso delle guerre puniche.
un divieto inefficace Essa, tuttavia, incontrò la dichiarata avversità dello Stato che piú volte adottò drastici provvedimenti di repressione fino all’espulsione dall’Urbe (e da tutta l’Italia) di quelli che venivano chiamati,
genericamente, Caldei (Chaldei). Ciononostante, l’astrologia s’impose, anche perché finí col rivitalizzare l’antica tradizione della divinazione. Per esempio attraverso la preparazione degli oroscopi che, dapprima riservati a pochi privilegiati, per l’alto costo che comportavano le operazioni preparatorie, si fecero via via piú accessibili (oltreché approssimativi), fino a essere venduti agli angoli delle strade e nelle campagne. Le persecuzioni, Rilievo raffigurante un aruspice che esamina le viscere di un animale sacrificato, dal Foro di Traiano. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
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poi – come spesso succede – sortirono l’effetto contrario. E finirono con l’accrescere l’importanza e l’autorità di coloro che ne erano colpiti e anche di quelli che, proprio perciò, fingevano d’esserlo stati. C’erano però anche molti che apertamente dubitavano delle facoltà dei «caldei» e che ironizzavano su coloro che vi prestavano fede cieca. Come faceva Giovenale, a proposito delle donne che tremavano di spavento all’annuncio delle congiunzioni di Saturno o di quelle che non facevano nulla se prima non avevano consultato uno dei loro «testi sacri» (VI, 574 segg.): «Essa non interpella piú nessuno, ma è lei stessa a essere consultata. Non accompagnerà il marito che deve andare alla guerra o tornare in patria se sarà trattenuta dalle cabale di Trasillo» (un astrologo di Rodi, vissuto al tempo di Tiberio che se lo tenne al suo personale servizio). «Quando le verrà voglia di farsi una passeggiata in lettiga fino al primo miglio, sceglierà l’ora dopo aver interrogato l’oroscopo; se le dà prurito un occhio troppo a lungo sfregato, chiederà un collirio dopo aver consultato i suoi libri; quando è a letto ammalata, nessun momento le parrà migliore per prendere un po’ di cibo se non quello che le consiglierà il suo Petosiride» (un noto astrologo egiziano).
i nuovi «indovini» Ma Giovenale se la prende e inveisce direttamente anche contro gli astrologi, i nuovi «indovini», che godevano di assai maggior credito dei vecchi, anche se di origini orientali (ibid. 548 segg.): «Garantisce un tenero amante o la grossa eredità di un vecchio senza figli l’arúspice venuto dall’Armenia o dalla Commagene, dopo aver frugato nel polmone di una colomba ancora calda e scruterà cuori di polli e viscere di un cagnolino o magari di un fanciullo (...) Ma piú fiducia sarà data ai
Caldei. Qualunque cosa dirà l’astrologo sarà creduta come se fosse detta dalla fonte di Ammone, visto che ormai non sono piú di moda gli oracoli di Delfi e la caligine del futuro condanna il genere umano». Alla fine, la consultazione degli astrologi e dei loro oroscopi, nelle circostanze piú varie e singolari della vita quotidiana, divenne un’abitudine – e un’ossessione – sempre piú diffusa, specie tra le donne d’ogni ceto e disponibilità economica. Ma, all’influenza dell’astrologia non si sottraeva nessuno. Trimalcione, nel celebre «romanzo» di Petronio (Satyr. 39, 62 e 74), attribuiva la salute e la ricchezza delle quali godeva, «per mare e per terra», all’esser nato sotto la costellazione particolarmente favorevole del Cancro e faceva ornare la tavola della cena con un «trionfo» rappresentante lo zodiaco. La filosofia stoica, d’altra parte, che credeva nell’influenza degli astri sui destini degli uomini, avendo accolto il fatalismo astrale dei Caldei, favorí la diffusione dell’astrologia anche tra i ceti piú elevati e gli intellettuali, i quali preferivano la razionalità pseudoscientifica delle forme piú alte dello studio degli astri alle fantasie cialtronesche delle arti divinatorie della tradizione piú antica. E cosí essi contribuirono a dare all’astrologia dignità e credibilità di scienza. Tacito che, sia pur timidamente avanzava riserve sulla realtà dei prodigi, spingendosi talvolta fino a ironizzare su di essi, spiegava le vicende dell’impero e le vicissitudini dei suoi protagonisti come la conseguenza di una sicura predestinazione e in questa dimensione la fede negli astri generatori di forze che agiscono sulle cose e sugli uomini si confondeva con la credenza di una sorta di «provvidenza» governante il mondo e alla quale s’accompagnava la speranza della «fortuna». Una dea particolarmente
congeniale a un popolo di giocatori d’azzardo e di scommettitori quali furono gli antichi Romani.
i giorni dei pianeti Resta da dire come la fortuna dell’astrologia abbia contribuito – già nel III secolo d.C. (ma con precedenti, testimoniati dalle fonti letterarie e perfino da graffiti pompeiani, in alcuni casi risalenti all’età augustea) – all’affermazione di quella nuova scansione calendariale dei giorni che (in sostituzione di quella «nundinale») fu – e tuttora resta – la «settimana» (dal latino tardo septimana, dall’aggettivo septimanus, «in numero di sette»). Una settimana astrologica, dunque, o «planetaria», giacché i sette giorni, dapprima contraddistinti (come gli otto del vecchio calendario) con lettere (dalla A alla G), furono in seguito denominati con riferimento a ognuno dei sette pianeti allora conosciuti (compresi il Sole e la Luna) che, col loro movimento si riteneva governassero il mondo. Ed essendo quei pianeti chiamati col nome di uno dei grandi dèi dell’Olimpo (che in tal modo furono incorporati nel mondo degli astri), ogni giorno ebbe il nome del dio-pianeta corrispondente. Cosí, dopo il «giorno del Sole» (dies Soli) e quello «della Luna» (dies Lunae), si succedettero il «giorno di Marte» (dies Martis), quello di Mercurio (dies Mercurii), quello di Giove (dies Jovi), quello di Venere (dies Veneris) e quello di Saturno (dies Saturni). Quest’ultimo, fino a quando con l’affermazione del cristianesimo (peraltro sempre avverso alla «magia caldeica» e inizialmente riluttante verso quei nomi pagani), non fu «ribattezzato» col nome di «sabato», dall’ebraico shabat. Analogamente, il «giorno del Sole», cioè del dominus del pantheon celeste, divenne il «giorno del Signore» (dies dominica). Ma in inglese sono rimaste le vecchie denominazioni di Saturday e Sunday (col tedesco Sonntag)! (2 – fine)
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scavare il medioevo Andrea Augenti
un’isola felice nella val venosta, in alto adige, si concentrano importanti testimonianze dell’alto medioevo. e Una di esse, la chiesa di s. procolo a naturno, dopo essere stata indagata dagli archeologi, ha fatto da motore alla creazione di un museo esemplare
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Brunico Malles
Naturno
Müstair Silandro
Bolzano
Cortina d’Ampezzo
Trentino-Alto Adige Trento Rovereto Castelfranco Veneto
In alto: cartina del Trentino-Alto Adige con le località citate nel testo. In questa pagina: Naturno. La chiesa di S. Procolo, fondata nel VII sec. nell’area in precedenza occupata da un’abitazione. Nella pagina accanto, in alto: un particolare degli affreschi che ornano l’interno della chiesa; in basso: l’ingresso del museo che ricostruisce la storia del sito.
C’
è un luogo, anzi una zona, all’estremo Nord del nostro Paese, in cui si assiste a un fenomeno piuttosto inconsueto: una notevole concentrazione di chiese risalenti all’Alto Medioevo (cioè al periodo compreso tra il V e il X secolo). È un fatto raro, poiché solitamente gli edifici cosí antichi furono distrutti nel corso del tempo, oppure sono stati pesantemente ristrutturati. Sotto questo aspetto, quindi, l’Alto Adige è davvero un’isola felice. Per essere piú precisi, l’isola in questione è la Val Venosta, la vallata del fiume Adige, nella quale sopravvivono ben tre di questi monumenti. Per visitarli basta una giornata. Arrivando in automobile, si deve uscire al casello Bolzano Sud dell’autostrada del Brennero e imboccare la statale 38, che attraversa la valle. Incontrerete per prima la chiesa di S. Procolo a Naturno, poi quella di S. Benedetto a Malles, e infine, appena oltrepassato il confine con la Svizzera, il monastero di S. Giovanni di Müstair. Tre gioielli, allineati lungo la medesima direttrice e immersi in un paesaggio davvero straordinario. E tutti e tre sono stati indagati dagli archeologi, che ne hanno potuto ricostruire le storie nel dettaglio.
dalla casa alla chiesa Questa volta parliamo di S. Procolo a Naturno. La chiesa viene fondata nel VII secolo, lí dove in precedenza c’era un’abitazione. Gli scavi non sono stati molto estesi, cosí non sappiamo se la casa fosse isolata o facesse parte di un villaggio; sappiamo però che andò distrutta in un incendio intorno al 600, e che, una trentina d’anni piú tardi, iniziarono i lavori per la costruzione della chiesa. Questa è un piccolo edificio, una semplice aula con un’abside trapezoidale. Un monumento molto essenziale, che però ospita al suo interno pitture straordinarie: scene della vita di san Procolo (o forse di san
maniera intensiva. Insomma, una vera e propria microstoria. Un solo edificio, e le sue molte trasformazioni nel corso del tempo, per oltre 1400 anni. E adesso l’opera di valorizzazione del monumento è finalmente approdata alla costruzione di un museo. Chi visiti la chiesa, può quindi attraversare la strada e compiere un viaggio a ritroso nel tempo, grazie ai reperti esposti. Paolo) e alcune decorazioni geometriche a nastri intrecciati che ricordano i piú bei codici miniati dell’epoca, quelli prodotti nei monasteri dell’area irlandese. Una mescolanza di temi e motivi davvero straordinaria, come solo nell’Alto Medioevo era possibile… Intorno alla chiesa trovava posto un cimitero, con circa 60 tombe; secondo gli archeologi che le hanno scavate, si tratterebbe di una comunità mista, con elementi romani e germani sepolti fianco a fianco. Se cosí fosse, non ci sarebbe da stupirsi: la società altomedievale era fortemente multiculturale, soprattutto in aree di frontiera come questa, in cui interagivano, fianco a fianco, Romani, Longobardi, Franchi, Baiuvari. La vicenda della chiesa di S. Procolo continua poi nel Medioevo piú inoltrato, quando diventa la cappella sepolcrale di una importante famiglia della zona. In questo periodo viene decorata con nuovi affreschi, in stile gotico. E ancora, una volta esplosa una devastante epidemia di peste, nel 1636, la chiesa e l’area circostante vengono usate come cimitero, in
Un museo parlante Ed è un viaggio interessante quanto piacevole: il museo è all’avanguardia dal punto di vista della comunicazione, e racconta la storia nel migliore dei modi: con l’aiuto di ricostruzioni grafiche, plastici, filmati, e apparati didattici molto semplici ed efficaci. Un ottimo museo, capace di istruire intrattenendo, e che si rivolge agli adulti cosí come ai bambini. S. Procolo dimostra dunque come l’archeologia medievale possa dare vita ai musei. Non succede spesso (e questo è un male), soprattutto perché l’interesse archeologico per il Medioevo è un fatto piuttosto recente; ma quando capita, in genere, i risultati sono di alto livello (e questo è un bene, naturalmente). Quello di Naturno è un caso importante e, dopo la visita al monumento e all’esposizione, si esce davvero arricchiti; e con il pensiero che, una volta per tutte, si dovrebbe smettere di considerare l’Alto Medioevo come un’età oscura, visto che storici, archeologi, e musei come questo si adoperano con successo per illuminarla.
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
Il colpo di Venere il gioco degli astragali godeva di grande popolarità e divenne il motivo ispiratore di numerose produzioni artistiche, nonché di un magnifico conio monetale
L’
astragalo è una delle ossa che compongono il tarso nel piede umano e che si ritrova nella giuntura delle zampe posteriori di alcuni quadrupedi (perlopiú piccoli ruminanti e suini). Di forma grosso modo cubica, questo ossicino ha sempre avuto una duplice funzione, oracolare e ludica. E ne è stato messo in luce anche un aspetto apotropaico e protettivo, come suggeriscono i frequenti ritrovamenti all’interno di tombe. Gli astragali provengono perlopiú da contesti sacrali e funerari, mentre sono numerosissime le
Statere d’argento battuto dalla zecca di Tarso (Cilicia, Asia Minore), probabilmente dal satrapo Tiribazo, 386-380 a.C. Al dritto: Atena seduta con lancia e scudo, dietro un albero di olive; al rovescio: una giovane inginocchiata intenta al lancio di cinque astragali.
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riproduzioni artistiche di giovani, spesso fanciulle, intente al gioco. Le dimensioni ridotte e la conformazione consentivano la facile manipolazione di queste ossa anche da parte dei bambini, che con esse amavano divertirsi e le riponevano entro appositi cestini, spesso ricevuti in premio o in dono, anche dai loro pedagoghi. Gli ossicini erano inoltre riprodotti in molteplici materiali, quali piombo, argilla, cristallo, vetro, madreperla, avorio, oro, pietre preziose. Nella Grecia classica gli astragali fanno la loro apparizione con Omero (Iliade, 23, 83-88) che li menziona, e con Pausania (Periegesi, X, 30), che ne descrive il gioco. Giocare agli astragali, nelle sue molteplici forme, prevedeva l’uso di quattro ossa, che potevano essere anche leggermente modificate nella loro struttura. A ogni faccia si
attribuiva un valore numerico (1, 3, 4, 6), in modo che, una volta lanciati, potevano ottenersi ben 35 combinazioni differenti. Il lancio peggiore era quello che dava quattro facce eguali («colpo del cane»), mentre il piú fortunato era il «colpo di Venere», quando ogni astragalo presentava un lato diverso (Marziale, Apohoreta, XIV, 14; Pseudo-Luciano, Amores, 16). Vi era poi il gioco di abilità detto pentelitha (cinque sassi), preferito dalle fanciulle, che prevedeva l’uso di 5 ossicini. Si lanciavano gli astragali in aria, per poi raccoglierli con il dorso della mano destra rivolto verso l’alto (Polluce, Onomastikon IX, 126-127).
la giovane giocatrice Un magnifico statere in argento emesso in Cilicia, dalla zecca di Tarso, probabilmente a nome del satrapo Tiribazo (386-380 a.C.), rappresenta con grazia estrema, degna di una composizione ellenistica di genere, proprio questo gioco: una giovane donna a seno nudo, inginocchiata, con i capelli raccolti in alto e ricco collier, avvolta in un elegante panneggio, è intenta a giocare alla pentelitha. I leggeri ossicini sono rappresentati in movimento, due ancora in aria dopo il lancio, e gli altri tre mentre stanno toccando terra; la mano destra della donna è tesa, pronta a raccoglierli sul dorso e lo sguardo è concentrato in questo atto, che doveva richiedere molta attenzione e perizia. Oltre la linea di
esergo, sulla quale posa la giovane, cade un astragalo, conferendo profondità e movimento alla scena, certo ispirata da un prototipo statuario o a un dipinto. A destra si staglia un grande, romantico ramo fiorito, forse un loto o un anemone. Il significato e l’identificazione dell’immagine sono discusse: potrebbe trattarsi di Afrodite intenta al gioco, come ricorre su alcuni vasi attici, di una ninfa o semplicemente di una giovane e avvenente giocatrice, o addirittura di una consultazione oracolare.
A delfi e roma Come già accennato, gli astragali avevano infatti questa ulteriore funzione e il loro uso avveniva in ambito sacerdotale, anche ad alto livello, tanto che numerosissimi astragali sono stati ritrovati presso luoghi di culto. In Grecia, per esempio, dall’antro Coricio sul monte Parnaso, vicino al santuario di Delfi (VI-III secolo a.C.) provengono piú di 22 000 astragali, mentre in Italia sono stati rinvenuti in un deposito votivo del santuario etrusco di Pyrgi e nella stipe votiva sottostante il Lapis Niger, nel Foro Romano, luogo di altissima valenza sacra in quanto legato all’uccisione e all’ascesa tra le divinità di Romolo. Sono venuti alla luce associati a materiale del VI-I secolo a.C. almeno 164 astragali, alcuni dei quali modificati, tra i quali uno forato e piombato. È stato ipotizzato che gli astragali potessero avere un valore ponderale: certo è che compaiono come tipo su molte emissioni del
mondo greco, magno-greco e microasiatico e su monete in bronzo fuse (aes grave) italiche e di Roma della fine del III secolo a.C. Particolarmente interessante, infine, è l’uso degli astragali in ambito funerario, quando non intesi come corredo di gioco per il defunto, ma per la loro valenza apotropaica, beneaugurante e protettiva. Ne sono prova due sepolture eccezionali, nelle quali gli astragali svolgono certo una funzione magico-superstiziosa, come la tomba 101 della necropoli di Varranone (Poggio Picenze, l’Aquila), del IV-III secolo a.C., e le due sepolture di Locri Epizefiri (nn. 348-587), contrada Lucifero, in uso dal VII al II secolo a.C., entrambe con un numero elevatissimo di astragali e anche alcuni chiodi, che potevano formare una sorta di «cinta magica» per impedire l’uscita dei defunti dalla tomba, oppure assicurare loro un felice viaggio nell’aldilà.
Il rovescio di un altro esemplare di statere della zecca di Tarso raffigurante una giovane donna che gioca alla penthelita, e, a sinistra, un astragalo utilizzato come dado da gioco rinvenuto a Volubilis (Marocco). I-III sec. d.C.
per saperne di piÚ Barbara Carè, L’astragalo in tomba nel mondo greco: un indicatore infantile? Vecchi problemi e nuove osservazioni a proposito di un aspetto del costume funerario in L’enfant et la mort dans l’antiquité III. Le matériel associé aux tombes d’enfants, BIAMA, 12, 2012; pp. 403-416 Jacopo De Grossi Mazzorin, Claudia Minniti, L’uso degli astragali nell’antichità tra ludo e divinazione, in Atti del 6° Convegno Nazionale di Archeozoologia (Orecchiella, 2009), 2012, pp. 213-220.
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Giacomo Baldini, Marco Bezzini, Sofia Ragazzini (a cura di)
La collezione bargagli nel museo civico archeologico e della collegiata di casole d’elsa I materiali di proprietà comunale. I Salvietti & Barabuffi Editori, Siena, 336 pp., ill. col. 40,00 euro ISBN 8897082392 www.sienalibri.it
Frutto di un lungo lavoro di schedatura e studio analitico, il volume presenta il catalogo ragionato dei materiali facenti parte dell’ultimo lotto della collezione archeologica riunita nella seconda metà dell’Ottocento dai Bargagli e composta di materiali recuperati in massima parte nel territorio di Sarteano. A una prima parte di carattere introduttivo sulle vicende che hanno portato alla creazione della raccolta, seguono i capitoli che descrivono in dettaglio le diverse tipologie di materiali presenti all’interno del ricco corpus. Reperti
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che, dopo essere stati conservati nella villa che la famiglia Bargagli possedeva in località Querceto, a Casole d’Elsa, possono essere oggi ammirati nel Museo Civico Archeologico della stessa Casole, in virtú della loro donazione, attuata in piú fasi tra il 1996 e il 2010. Roberta Geremia Nucci
Il Tempio di Roma e di Augusto a Ostia «L’Erma» di Bretschneider, Roma, 330 pp. + XII tavv., ill. b/n 175,00 euro ISBN 978-88-8265-762-8 www.lerma.it
Opera di taglio specialistico, il volume è dedicato a quello che Fausto Zevi, in sede di Prefazione, definisce «fino alla costruzione del capitolium adrianeo, l’edificio forse piú imponente della colonia, certo il piú elegante e raffinato». Il tempio di Roma e di Augusto è stato l’oggetto della tesi di dottorato dell’autrice, che del monumento ripercorre sia la storia antica, sia le vicende di cui è stato protagonista
a partire dalla sua riscoperta, che si ebbe con gli scavi condotti negli anni Venti del Novecento. Indagini alle quali fece da corollario la ricomposizione del frontone postico del santuario e alla cui attendibilità Roberta Geremia Nucci dedica un’ampia disamina, confrontandola anche con le molte proposte di ricostruzione del tempio, finora formulate. A questo proposito, risulta di particolare interesse l’ampia documentazione grafica presentata e messa a confronto con una serie di nuovi elaborati, realizzati da Maria Antonietta Ricciardi per illustrare le possibili ipotesi sull’assetto originario della struttura e sul suo apparato decorativo. Elena Percivaldi
fu vero editto? Costantino e il cristianesimo tra storia e leggenda Ancora Editrice, Milano, 96 pp., ill. b/n 12,00 euro ISBN 978-88-514-1062-9 www.ancoralibri.it
A duemila anni dalla sua proclamazione, l’editto di Costantino continua a essere al centro di riletture e dibattiti. Tra i contributi piú recenti, si colloca l’agile volumetto di Elena Percivaldi, che, in una trattazione breve ma non superficiale, rilegge la storia di quel pronunciamento, soffermandosi, innanzitutto, sulla questione che, da sempre, suscita piú di un interrogativo: la mossa di Costantino fu un gesto di apertura dettato da una scelta religiosa davvero sentita o non fu piuttosto il frutto di un abile calcolo politico? Raymond Van Dam
costantino Un imperatore latino nell’Oriente greco. Tra ideologia romana e novità cristiana Edizioni San Paolo, Milano, 416 pp. 35,00 euro ISBN 978-88-215-7771-0 www.edizionisanpaolo.it
L’imperatore «cristiano» è tornato a godere di grande popolarità, rinnovata dalle celebrazioni organizzate, a Roma e non solo, in occasione del bimillenario della battaglia di Ponte Milvio (312) e del suo successivo editto di tolleranza (313). Raymond Van Dam, docente di storia presso l’Università del Michigan, traccia un profilo minuzioso di Costantino, ripercorrendone l’intera parabola e soffermandosi con particolare attenzione
proprio sulla caratura religiosa del personaggio. Tanto che il rapporto con il cristianesimo assorbe oltre la metà dell’intera trattazione. Nel tentativo, ancora una volta, di stabilire – posto che a noi moderni possa mai riuscire l’impresa – se l’adesione dell’imperatore alla nuova fede fosse stata davvero sincera. Carlo Tedeschi (a cura di)
graffiti templari Scritture e simboli medievali in una tomba etrusca di Tarquinia Viella, Roma, 308 pp., ill. col. e b/n 35,00 euro ISBN 978-88-8334-938-6 www.viella.it
Solo a scorrerne il titolo, il volume potrebbe sembrare, sulle prime, l’ennesimo frutto della fantasia di un qualche «fantarcheologo»: ci sono infatti gli Etruschi, popolo da sempre ritenuto «misterioso», nonché i cavalieri templari, la cui vicenda è uno dei topoi prediletti di molta letteratura pseudoscientifica. E, invece, come si legge nelle prime righe della presentazione, occorre saper tenere a freno l’irritazione, che l’autore stesso definisce «comprensibile e anzi in parte condivisibile», e andare oltre, riconoscendo la «buona fede e l’attendibilità» di Tedeschi. E, in effetti, superata la diffidenza, si scopre ben presto che il volume propone una trattazione ampia, documentata e articolata, che per sostenere le ipotesi avanzate, offre prove convincenti o quanto meno piú che ragionevoli. Ne scaturisce dunque uno scenario intrigante, in cui la Tomba Bartoccini di Tarquinia si trasforma nel teatro di un caso di riuso davvero inaspettato.
dall’estero Douglas J. Brewer
the archaeology of ancient egypt Beyond Pharaohs Cambridge University Press, New York, 200 pp., ill. b/n 29,99 USD ISBN 978-0-521-70734-3 www.cambridge.org
Population Dynamics in an Ancient Conquest Society, 201 BCE-14 CE Cambridge University Press, New York, 406 pp., ill. b/n 99,00 USD ISBN 978-1-107-00393-4 www.cambridge.org
Professore di antropologia all’Università dell’Illinois, Douglas J. Brewer propone un inquadramento della storia dell’antico Egitto alternativo rispetto alle piú tradizionali impostazioni storiografiche. Abbracciando un orizzonte cronologico molto ampio – l’analisi comprende anche la lunga e articolata fase preistorica – il volume si concentra in particolare sugli aspetti archeologici delle diverse epoche considerate e, dunque, sull’influenza che le tracce materiali possono e devono avere sull’approccio di chi scelga di dedicarsi allo studio delle culture che si succedettero nel Paese bagnato dal Nilo. Una trattazione compatta, ma ricchissima di indicazioni e di spunti, da poter sfruttare come piú che affidabile bussola per orientarsi in un ambito di studi potenzialmente sterminato.
Nell’immaginare le società antiche, le domande che piú spesso ricorrono sono quelle relative agli usi e ai costumi. Ma, non meno importante, è la definizione della loro consistenza numerica, un dato a cui si lega il rapporto dell’uomo con il territorio, cioè uno degli elementi essenziali di qualunque vicenda storica e che ha naturalmente intrecci non meno stretti con le questioni di carattere sociale ed economico. Saskia Hin lo analizza in riferimento a una delle fasi cruciali nello sviluppo dell’Italia antica, quando la potenza di Roma andava sempre piú consolidandosi ed ebbe inizio la lunga esperienza dell’impero. (a cura di Stefano Mammini)
Saskia Hin
the demography of roman italy
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