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bavay
costantino a roma trento museo delle scienze
città deltufo
speciale uruk
€ 5,90
Mens. Anno XXIX numero 7 (341) Luglio 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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archeo 341 luglio
speciale
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UNA MEGALOPOLI DI 5000 ANNI FA
PARCHI ARCHEOLOGICI
in toscana NELLa CITTÀ DEL TUFO
ARCHEOPOLITICA
A CHI APPARTIENE IL TESORO DI PRIAMO?
una grande mostra a roma
costantino
www.archeo.it
editoriale
in viaggio con archeo Da Roma a Berlino, passando per Trento e la Toscana meridionale, con una breve puntata nella Francia del Nord: ecco, in sintesi, l’itinerario estivo, all’insegna dell’archeologia e della storia, che proponiamo in questo numero. La bellissima mostra «Costantino 313» allestita al Colosseo (che celebra e conclude i due anni costantiniani, vedi «Archeo» n. 323, gennaio 2012) permette di rivisitare, fisicamente e mentalmente, i luoghi di una significativa trasformazione della Città Eterna, testimoni di una rivoluzione la cui onda d’urto si sarebbe propagata in tutto il mondo antico. Nello speciale di questo numero – a cui il lettore giunge non prima di aver sfogliato le pagine dedicate a un nuovissimo museo, che si inaugura proprio in questi giorni, e quelle riservate alla visita di un parco archeologico nella Maremma del tufo – il viaggio si fa piú impegnativo: la meta, infatti, è la bassa Mesopotamia del IV millennio a.C., una terra che vide nascere e fiorire la prima vera megalopoli dell’antichità… Potremmo, naturalmente, moltiplicare all’infinito le proposte. Molti nostri lettori, infatti, e ne abbiamo le prove, hanno già percorso in lungo e in largo – rivista alla mano – la nostra Penisola e i Paesi vicini. Come l’anonima lettrice della foto, scattata pochi giorni fa. Ma dove si trova? E qual è il reperto che ha catturato la sua attenzione? Alcuni di voi (se lettori fedeli!) dovrebbero saperlo. Agli altri lo riveleremo in un numero prossimo… Buona estate e buon viaggio! Andreas M. Steiner
Sommario Editoriale
In viaggio con Archeo 3 di Andreas M. Steiner
Attualità notiziario
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scoperte Scoperto ad Anzio il primo insediamento di Homo sapiens del Lazio 6 parola d’archeologo A tre anni dal nostro grido d’allarme, siamo tornati a Pianosa e qualcosa è cambiato! 10
mostre Il Museo di Antichità di Torino si rinnova e arricchisce la documentazione sulla storia della città, dalla preistoria all’età sabauda
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dalla stampa internazionale Il «tesoro di Priamo» scatena un incidente diplomatico tra Germania e Russia 24
scavi
Ritorno a Bagacum
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di Daniela Fuganti
AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compaiono le serie «Civiltà cinese» e «Mitologia, istruzioni per l’uso», né le rubriche «Il mestiere dell’archeologo» e «Scavare il Medioevo», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.
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In copertina ricostruzione virtuale di una cerimonia religiosa celebrata nella città mesopotamica di Uruk intorno al III mill. a.C.
Anno XXIX, n. 7 (341) - luglio 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.
Hanno collaborato a questo numero: Lara Arcangeli è archeologa e direttore del Parco Archeologico «Città del Tufo». Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Mariarosaria Barbera è soprintendente ai Beni Archeologici di Roma. Anna Buccellato è funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Fulvio Coletti è assistente tecnico scientifico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Donato Colli è collaboratore esterno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Vincenzo Fiocchi Nicolai è professore ordinario di Archeologia cristiana all’Università di Roma Tor Vergata. Daniela Fuganti è giornalista. Ada Gabucci è archeologa. Alessandro Guidi è professore di paletnologia all’Università Roma Tre. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Egle Micheletto è soprintendente ai Beni archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie. Luisella Pejrani Baricco è funzionario archeologo presso la Soprintendenza per i Beni archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie. Enrico Pellegrini è archeologo presso la Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Massimo Pennacchioni è cultore della materia presso la cattedra di paletnologia dell’Università Roma Tre. Giovanna Quattrocchi è giornalista. Stefania Ratto è funzionario archeologo presso la Soprintendenza per i Beni archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Artefacts-berklin.de/Scientific Equipment/Deutsches Archäologisches Institut: copertina e pp. 82/83, 90/91 (alto), 102, 103 – Andreas M. Steiner: pp. 3, 35, 40, 55, 62 (alto) – F. Nomi: pp. 6/7 – D. Renzulli: pp. 6 (basso), 7 (alto), 8 – M.Benedetti e F.Silvestri: p. 7 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 10, 72, 73, 74 (alto), 75 (destra), 76, 78 (basso), 79, 80, 81, 110, 111 – Cortesia Soprintendenza BA Piemonte e Museo Antichità Egizie: pp. 1213 – Cortesia Musei Civici di Imola: p. 14 – Doc. red.: pp. 24, 25, 41, 43 (centro e basso), 47 (destra), 68 (basso), 85, 86, 90/91 (basso), 98/99, 108 (alto) – Cortesia D.R.: pp. 28, 31 (basso), 33 – Cortesia Département du Nord, Forum antique de Bavay: P. Houzé: p. 29; E. Watteau: pp. 30/31; J. Pilch: p. 32 (destra) – Musée royal de Mariemont: M. Lechien: p. 32 (sinistra) – Cortesia Ufficio stampa mostra: pp. 34, 37-39, 42, 43 (alto), 44-46, 47 (sinistra), 50-54, 56, 57, 58 (basso), 59, 60, 61 (alto), 62 (basso), 84, 92, 93 – Cortesia A. Buccellato e F. Coletti:
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parchi archeologici Dove cantano le sirene
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di Lara Arcangeli, Carlo Casi ed Enrico Pellegrini
Uruk. Una megalopoli dell’età del Bronzo 82 di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner
Rubriche antichi ieri e oggi
Un impero fondato... sull’aglio 104 di Romolo A. Staccioli
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vite di archeologi
mostre
di Giovanna Quattrocchi
Costantino e Roma, Costantino a Roma
Due vite per la Magna Grecia 34
di Mariarosaria Barbera, con contributi di Andrea Augenti, Anna Buccellato, Fulvio Coletti, Donato Colli, Vincenzo Fiocchi Nicolai
musei
Le gaie scienze di Stefano Mammini
divi e donne
Donne in ombra
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di Francesca Cenerini
l’altra faccia della medaglia
Bello come il sole 64
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di Francesca Ceci
libri
pp. 48-49 – Foto Scala, Firenze: p. 58 (alto) – Archivi Alinari: Bridgeman Art Library: p. 61 (basso) – Stefano Mammini: pp. 64 (sinistra e basso), 64/65 (alto), 65 (alto), 67 (alto e centro, a sinistra) – Cortesia MUSE, Trento: pp. 66 (centro, sinistra e destra), 70, 71; Alessandro Gadotti, Archivio Trento Futura: pp. 64/65 (centro), 65, (basso), 66/67, 67 (centro, a destra); Claudia Corrent: pp. 68 (alto), 69 – Marka: Marco Scataglini: p. 74 (basso, a sinistra); Ulysses: p. 74 (basso, a destra); Danita Delimont Stock: p. 78 (alto) – DeA Picture Library: pp. 104, 106, 108 (basso); S. Vannini: pp. 75 (sinistra), 77 – Shutterstock: pp. 80/81 – Staatliche Museen zu Berlin, Vorderasiatisches Museum/Olaf M. Teßmer: pp. 87, 89, 94-96, 100 – The Trustees of the British Museum: p. 97 – Deutsches Archäologisches Institut, Orient Abteilung: p. 98 (sinistra) – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 105 – Da Umberto Zanotti Bianco (1889-1963), Associazione per il Mezzogiorno, Roma 1980: p. 107 – Cippigraphix: cartine ed elaborazioni grafiche alle pp. 30, 42/43, 73, 74/75, 84 (riquadro). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
Archeo è una testata del sistema editoriale
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n oti z i ari o SCOPERTE Anzio
i primi sapiens del lazio?
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area costiera a sud di Roma continua a stupire per la quantità e la qualità dei dati che fornisce ogni qualvolta si attuino ricerche archeologiche. In questi ultimi anni, Anzio, già conosciuta per le possenti rovine della «villa di Nerone», è stata teatro di scoperte clamorose effettuate sul sito di Colle Rotondo, posto alle spalle della cittadina laziale. Nella stretta lingua di terra posta tra Lavinio e il mare, sfuggita all’aggressione edilizia per la presenza di una grande tenuta privata, uno dei pionieri della fotografia aerea, Dinu Adamesteanu, aveva individuato, alla metà del secolo scorso, il grande pianoro di Colle Rotondo che mostrava le tracce di due fortificazioni arcaiche.
6 archeo
Mentre altri sopralluoghi permettevano di individuare sul sito tracce di frequentazioni di un periodo compreso tra il Paleolitico e l’età repubblicana, a pochi chilometri veniva alla luce ed era oggetto di un fortunato scavo, in località Cavallo Morto, la piú antica necropoli a incinerazione dell’Italia centrale, databile all’età del Bronzo
Qui sopra: Colle Rotondo (Anzio). Sezione in cui è evidente la posizione dei manufatti paleolitici sulla superficie dello strato. Recente (XIII secolo a.C.), sicuramente collegata all’abitato. Nel 2009 quest’area e il territorio circostante sono stati oggetto di ricognizioni di superficie e scavi,
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condotti dalle tre Università romane (La Sapienza, Roma-Tor Vergata e RomaTre) con finanziamenti del Ministero per l’Università e la Ricerca e del Comune di Anzio, con l’appoggio del Museo Civico Archeologico di Anzio e in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Dopo la prima campagna di ricognizioni di superficie, effettuata nel 2009, dal 2010 l’intero pianoro è oggetto di scavi. E una delle prime trincee esplorative della campagna 2011 ha portato a una scoperta davvero sensazionale. Presso il bordo orientale del sito, la ruspa aveva iniziato ad asportare la coltre di terreno arato, quando,
In alto: una semiluna a dorso abbattuto, tipica della facies uluzziana, rinvenuta a Colle Rotondo (Anzio). 35 000 anni fa circa. Qui sopra, sulle due pagine: foto aerea del sito con le aree di scavo: 1. area del Paleolitico; 2. aggere occidentale; 3. aggere orientale.
A destra: ricostruzione ipotetica della struttura scoperta nell’area dell’aggere orientale e databile tra la fine dell’età del Bronzo e l’età del Ferro.
archeo 7
n otiz iario
improvvisamente, la pala meccanica toccava una superficie dura. Fermato il mezzo, bastarono pochi minuti di lavoro per mettere allo scoperto numerosi ciottoli e schegge di selce che sembravano formare uno strato continuo a una profondità di 60 cm circa. La pulizia della trincea, su un’area di circa 3 m di lunghezza per 1 di larghezza, mise allo scoperto oltre un centinaio di reperti litici che vennero posizionati in pianta e in quota, numerati e quindi rimossi per lo studio. Sebbene si trattasse di pochi reperti, l’analisi tipologica permise di stabilire che si trattava dei resti di un aspetto culturale mai rinvenuto prima nel Lazio. L’Uluzziano, datato a 35 000 anni da oggi circa, fa parte di quei complessi litici che gli studiosi definiscono «di transizione», perché si collocano alla fine del Paleolitico Medio e indiziano un cambiamento epocale che segna l’inizio del Paleolitico Superiore. Fino a non molti anni fa questa industria veniva attribuita agli ultimi esemplari dell’uomo di Neandertal, che, venuti a contatto con i primissimi Homo sapiens, poco tempo prima della loro definitiva estinzione, avevano carpito loro le nuove tecniche di scheggiatura della selce. Ultimamente, studi approfonditi, tendono ad assegnare l’industria uluzziana proprio alla nuova specie destinata a soppiantare i Neandertaliani e a costituire il ceppo umano di cui siamo diretti discendenti: l’Homo sapiens geneticamente moderno! Nel 2012, la zona degli scavi in cui erano state trovate le tracce di questa presenza, è stata allargata, rivelando cosí che si tratta di un’ampia area subcircolare nella quale si scheggiavano i ciottoli di selce per poi trarne strumenti. Il numero dei reperti raccolti ha
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A destra: paleosuperficie del Paleolitico Superiore arcaico (Uluzziano). In basso: lavori di consolidamento di uno dei pali lignei.
superato i 1500 e ha permesso analisi approfondite. Gli strumenti veri e propri sono pochi, ma significativi: tra questi le semilune a dorso abbattuto, tipiche dell’Uluzziano. Le indagini con il georadar hanno segnalato, a qualche metro di distanza da questo primo saggio, importanti ed estese anomalie, forse le tracce dell’insediamento vero e proprio. Servono ulteriori ricerche per completare il quadro. Ma se questa industria è opera dei primi Homo sapiens, allora Anzio potrà vantare su tutto il Lazio il primato della frequentazione di questi nostri progenitori diretti. Una seconda scoperta di grande rilevanza è quella effettuata ripulendo il fronte di ciò che resta del grande aggere che difendeva l’accesso orientale del sito (2009) e concentrando in quest’area le successive indagini stratigrafiche (2010-2012). Quelle che in un primo tempo sembravano tracce tipiche di un villaggio capannicolo (buche di palo, pareti crollate di intonaco bruciato, ecc.), in parte contraddette dalla quasi totale assenza di ceramiche
protostoriche, anche in seguito al rinvenimento di veri e propri pali lignei (alcuni assai ben conservati) si sono presto rivelate i resti di ben altra struttura, caratterizzata da una armatura interna di pali verticali e orizzontali, costituita da un consistente nucleo in terra, ricoperto e foderato da un livello di carboni e concotti, internamente provvisto di una struttura a graticcio, e infine ricoperto da uno spesso deposito di terra compatta (vedi il disegno ricostruttivo a p. 7). Le datazioni al C14 degli elementi lignei (effettuate dal laboratorio CEDAD dell’Università di Lecce) tra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro confermano la presenza di un sistema di fortificazione antichissimo, precedente i classici sistemi «a fossa e ad aggere» dell’età del Ferro, che trova confronto con altre coeve fortificazioni a Bologna e in Europa centrale. Colle Rotondo, abitata ininterrottamente dal Paleolitico all’età romana, si conferma, dunque, come uno dei migliori laboratori per lo studio dei modelli insediativi antichi; e solo il proseguimento delle ricerche potrà darci altre risposte ai quesiti, spesso affascinanti, che le ultime scoperte ci pongono. Alessandro Guidi, Massimo Pennacchioni
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
ritorno a pianosa il patrimonio archeologico della magnifica isoletta tra l’elba e la corsica È stato strappato al degrado e torna a offrirsi all’ammirazione dei turisti
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re anni fa, sull’isola di Pianosa – un fazzoletto di terra situato tra l’Elba e la Corsica, circondato da acque cristalline – avevamo potuto constatare come i siti archeologici fossero chiusi al pubblico (vedi «Archeo» n. 306, agosto 2010). La nostra rivista aveva avuto accesso, in via esclusiva, ai cosiddetti «bagni di
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Agrippa», sulla scogliera che borda cala San Giovanni: la lussuosa residenza marittima in cui, nel 7 d.C., venne esiliato – e 7 anni piú tardi assassinato – l’ultimo nipote di sangue di Augusto, Agrippa Postumo. La villa romana, allora, non era visitabile e giaceva in uno stato di semi-abbandono; dimenticata a
Pianosa come, duemila anni prima, era successo a quel giovane dal carattere intemperante e dalla passione smodata per la pesca, figlio del piú noto Marco Vipsanio Agrippa e dell’unica figlia di Augusto, Giulia Maggiore, che proprio il nonno volle imprigionare sull’isola, e poi qualcuno (forse Tiberio?), eliminare per sempre.
a colloquio con franca zanichelli, direttrice del parco...
Un invito alla scoperta dell’isola
Per oltre un secolo e mezzo Pianosa è stata colonia penale: negli anni di piombo, ha ospitato il carcere di massima sicurezza per i reati di mafia e terrorismo (di cui oggi rimane il poderoso muro costruito per isolare i detenuti in regime di 41 bis). Dalla chiusura del carcere, nel 1998, l’isola è diventata riserva marina e area protetta all’interno del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, come ci spiega la direttrice Franca Zanichelli, che ha fortemente voluto la mostra «Ritorno a Pianosa», ospitata nella Casa del Parco: «Finalmente il pubblico può tornare a visitare l’isola e conoscere i materiali archeologici scavati da don Gaetano Chierici, chiamato a Pianosa nel 1874 e 1875 dall’allora direttore del carcere, Leopoldo Ponticelli. Anche quei reperti, che io ricordo all’interno di una vetrina dei Musei Civici di Reggio Emilia, a distanza di
Su queste pagine avevamo notato come il sito archeologico, deserto, versasse nel degrado: muri e pavimenti erano coperti da erbacce, oltre che da una discutibile e massiccia tettoia moderna, con vele e pali in acciaio ormai arrugginito. Perciò oggi siamo lieti di dare una buona notizia in proposito: i bagni di Agrippa sono finalmente visitabili e parte dei materiali archeologici scoperti sull’isola sono esposti nell’ambito Nella pagina accanto, in alto: veduta del complesso dei bagni di Agrippa; in basso: busto di Marco Vipsanio Agrippa, da Gabii. 25-24 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
quasi centoquarant’anni, sono tornati a Pianosa. Riapriamo cosí la Casa del Parco, in passato chiusa dalla Soprintendenza: un centro visite sull’isola, con custodia fissa». Ma i bagni di Agrippa sono aperti al pubblico? «Sí, ora sono visitabili grazie a una passerella di legno, che noi come Parco, con il Comune di Campo nell’Elba, abbiamo risistemato e reso agibile. Non si può entrare all’interno degli scavi archeologici, ma si possono ammirare le strutture dall’alto». E le erbacce che coprivano i muri, sono ancora lí? «No, le abbiamo tagliate con l’aiuto dei detenuti della Cooperativa San Giacomo (attualmente l’isola di Pianosa ospita alcuni detenuti in semilibertà del carcere di porto Azzurro sull’Elba) e di quelli messi recentemente a disposizione dal Ministero della Giustizia».
della mostra «Ritorno a Pianosa», appena inaugurata all’interno della Casa del Parco (dove sarà visitabile fino al prossimo 13 ottobre), realizzata dal Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e i Musei Civici di Reggio Emilia. A «tornare» sono i reperti scavati a Pianosa da don Gaetano Chierici, uno dei padri fondatori della preistoria italiana, nel corso dei suoi soggiorni sull’isola, nel 1874 e 1875: reperti fino a oggi conservati nei Musei Civici di Reggio Emilia e ora, per la prima volta, esposti al pubblico nel loro luogo di origine.
...e con lorella alderighi, della soprintendenza archeologica
I ricordi di un grande archeologo Quando la raggiungiamo al telefono, Lorella Alderighi, archeologa della Soprintendenza per i Beni archeologici della Toscana, è sull’isola di Pianosa. È lí con Roberto Macellari, conservatore delle collezioni archeologiche dei Musei Civici di Reggio Emilia, insieme al quale ha curato la mostra Ritorno a Pianosa. Stanno completando l’allestimento delle vetrine: e ricordano di come don Gaetano Chierici definisse quel soggiorno a Pianosa, come «il mese piú bello della sua vita». Ma che cosa trovò l’archeologo? Quali materiali archeologici sono esposti oggi sull’isola? «Si tratta di reperti scavati durante i due viaggi del 1874 e del 1875 dal Chierici: appartengono a diversi periodi cronologici e siti archeologici di Pianosa. Dalle grotte preistoriche e protostoriche (lo studioso ne conta 111), concentrate sul lato orientale di Pianosa e risalenti fino a 12mila anni fa, ai bagni di
Agrippa. Della villa romana ancora oggi si conserva un complesso con teatro da 200 spettatori, terme, zona di rappresentanza, area residenziale, piscina con isolotti all’interno e giochi d’acqua, nonché due vasche per l’allevamento di specie esotiche di pesci. Era la parte a mare di una residenza piú ampia: il nucleo centrale doveva essere all’interno dell’isola, dove ora ci sono le strutture del carcere di massima sicurezza, chiuso e inaccessibile. Chierici dice di aver visto la villa di Agrippa al centro dell’isola e chiama “Bagno” le strutture che vediamo. Tra i materiali archeologici esposti ci sono una sessantina di monete in bronzo, databili dall’epoca augustea fino al tardo impero, rinvenute dal Chierici sulla spiaggia. Solo di un oggetto abbiamo la provenienza certa: si tratta di una valvola idraulica in bronzo, e sappiamo che fu trovata nella vasca con gli isolotti del bagno di Agrippa».
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mostre Torino
una storia ritrovata
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on la mostra inaugurata il 31 maggio si apre la terza sezione del Museo di Antichità di Torino, dedicata alla lunga storia della città. Il trasferimento della Galleria Sabauda nella Manica Nuova di Palazzo Reale e la creazione di un unico ingresso per i due musei hanno offerto l’occasione alla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo Antichità Egizie per l’allestimento dei locali al piano seminterrato, direttamente affacciati sul teatro romano. Qui trovano sistemazione i materiali archeologici torinesi, che da molti decenni attendono di essere restituiti al pubblico, insieme alle nuove acquisizioni, frutto degli scavi recenti e mai esposte. Introducono la visita due sale esemplificative delle origini del collezionismo sabaudo e della successiva istituzione del Regio Museo di Antichità, il cui nucleo piú antico è costituito prevalentemente dal materiale epigrafico e scultoreo di età romana raccolto dagli eruditi cinquecenteschi, incrementato dagli antiquari dei secoli successivi e confluito nelle collezioni regie. L’allestimento si propone di restituire voce a personaggi vissuti a Torino nel corso dei secoli,
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In basso: fibula a disco in oro, granati e paste vitree, facente parte del corredo funerario di una dama longobarda, la cui tomba fu scoperta nel 1910 nell’area del Lingotto. VI-VII sec. Torino, Museo di Antichità.
dall’età romana al Cinquecento, e di affidare loro il racconto di alcuni momenti storici, attraverso la lettura di epigrafi e scritti originali. Cosí «appaiono» lungo il percorso Cozio, nipote dell’omonimo re delle genti alpine che strinse un patto di alleanza e di pace con Augusto, Gavio Silvano, torinese illustre che, coinvolto nella congiura contro Nerone, ma non
scoperto, fu incaricato di consegnare la condanna a morte a Seneca e infine si uccise, e poi Tettieno Vitale un mercante originario di Aquileia e attivo lungo le rotte commerciali tra la Pianura padana e le regioni danubiane. Massimo, primo vescovo di Torino, recita alcuni passi vibranti delle omelie scritte tra la fine del IV secolo e i primi decenni del successivo, al tempo della difficile cristianizzazione della città, tra paganesimo perdurante e incursioni barbariche e, infine, Emanuele Filiberto Pingone, storico di casa Savoia e grande antiquario racconta un episodio di storia cittadina: la fuga del duca di fronte ai Francesi, che nel 1536 conquistano la città. È la testimonianza diretta di un momento di grave insicurezza, che spinge un ignoto personaggio a nascondere due pentole piene di monete d’argento e in mistura nelle cantine del Palazzo Vecchio di San Giovanni. Il prezioso «tesoro», ritrovato negli scavi del 1996, è ora esposto a lato della guida narrante. Audiovisivi e sussidi interattivi consentono inoltre di approfondire la conoscenza degli oggetti esposti e di recuperarne il contesto di ritrovamento, i processi di analisi,
In alto, sulle due pagine: immagini delle nuove sale del Museo di Antichità di Torino, il cui allestimento, tenuto a battesimo con la mostra «Archeologia a Torino», permette di esporre numerosi materiali finora mai presentati al pubblico. restauro e studio fino alla loro interpretazione storica. Un altro importante medium di collegamento, non solo tra forme di rappresentazione distanti nel tempo, ma anche tra i reperti in mostra e i siti di provenienza, è un «tavolo» di grandi dimensioni con l’ortofoto della città attuale sulla quale appare in sequenza l’evoluzione dell’impianto urbano, evidenziando luoghi ed edifici salienti per ogni epoca e le aree oggetto di scavo. Oltre ai numerosi reperti lapidei, i materiali archeologici esposti comprendono esempi notevoli di scultura in bronzo, un eccezionale nucleo di mantelli di fusione per grandi statue realizzate nelle officine cittadine attive per oltre due secoli, mosaici, oggetti della vita quotidiana e corredi funerari di età romana. Alcuni allestimenti scenografici sono dedicati alla ricostruzione di una tomba ipogea con sarcofagi di piombo, agli ingenti accumuli di manufatti
raccolti nelle discariche addossate alle mura in età imperiale e a uno spazio rituale approntato in connessione con la costruzione e l’inaugurazione delle mura. L’Alto Medioevo è rappresentato dai prestigiosi gioielli della tomba femminile longobarda del Lingotto e dai corredi goti e longobardi dei nuovi siti di Collegno e Testona, che segnano una svolta decisiva e di rilevanza internazionale negli studi sui popoli dell’età delle migrazioni barbariche. Di grande impatto e interesse è l’esposizione del vasto repertorio altomedievale degli arredi liturgici in marmo, scolpiti a intrecci e motivi vegetali, prodotti per le tre basiliche del primo complesso episcopale torinese, ubicato al di sotto dell’attuale Duomo rinascimentale: il folto gruppo è per la prima volta presentato quasi interamente dopo il recupero dei pezzi dispersi a seguito della ricostruzione della cattedrale, di alcuni emersi in tempi successivi in scavi occasionali e di altri ancora ritrovati durante le recenti indagini archeologiche. La vita cittadina dei secoli che vanno dal tardo Medioevo al Settecento è rappresentata dal vasellame raccolto negli interventi di archeologia urbana, mentre
chiude la mostra, segnando un limite ideale con l’età moderna, il ripostiglio monetale ritrovato nelle cantine del palazzo di San Giovanni. Il corridoio centrale che percorre gli spazi espositivi accoglie, infine, materiali i lapidei venuti alla luce nella demolizione dei bastioni della fortezza sabauda e, in particolare, le epigrafi che, recuperate abbattendo nel 1722 il bastione della Consolata, sono diventate il primo nucleo del Regio Museo di Antichità. Inoltre è qui esposta la planimetria della città antica disegnata da Alfredo d’Andrade, insostituibile punto di partenza e fino a poco fa unico riferimento per la conoscenza della Torino romana. Egle Micheletto, Luisella Pejrani Baricco, Ada Gabucci e Stefania Ratto
Dove e quando «Archeologia a Torino» Torino, Museo Archeologico, Manica Nuova di Palazzo Reale Orario martedí-sabato, 8,30-19,30; do, 14,00-19,30; lunedí chiuso Info tel. 011 195244; fax 011 5213145; e-mail: sba-pie@beniculturali.it; http://archeo.piemonte. beniculturali.it
a r c h e o 13
campania
Scrivi Stabiae 2013
Una palestra di narrazione tra le vie delle città vesuviane, un laboratorio per raccontare il passato in forme moderne e originali: questo, e non solo, è la scuola residenziale di scrittura creativa Scrivi Stabiae, in programma dal 7 al 15 settembre 2013 al Vesuvian Institute di Castellammare di Stabia, su iniziativa della Fondazione Restoring Ancient Stabiae, e curata dalla scrittrice Carmen Covito insieme alla giornalista Cinzia Dal Maso. I partecipanti a Scrivi Stabiae saranno chiamati a cercare ispirazione da tutto ciò che ruota attorno alle rovine, per scrivere un racconto di genere storico o di taglio contemporaneo che faccia rivivere in forme inedite il passato. Lezioni e laboratori di tecnica narrativa si alterneranno a passeggiate nei siti e nei musei vesuviani, a conferenze sulla vita quotidiana nell’antichità e i modi in cui noi guardiamo al passato, a letture commentate di narrativa «pompeiana» e visioni di film peplum. Il corso è aperto a chiunque voglia misurarsi con la scrittura creativa e approfondire i rapporti tra l’archeologia e la letteratura. Alla fine del corso, i racconti migliori saranno pubblicati in un e-book. Info: www.officinascriptoria.it; e-mail: scrivistabiae@ officinascriptoria.it. Scrivi Stabiae è anche su FB, alla pagina https://www. facebook.com/ScriviStabiae
musei Emilia-Romagna
con lo spirito del fondatore
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opo una chiusura durata sette anni, è stato recentemente inaugurato, all’interno del polo museale di San Domenico, il nuovo Museo «Giuseppe Scarabelli» di Imola, che espone oltre 25 000 reperti di geologia, archeologia, scienze naturali, nonché materiali etnografici precolombiani e africani, compresa una piccola mummia egizia. Peculiarità di grande valore scientifico e di forte suggestione, è il nucleo originale del Museo – il cosiddetto Gabinetto di Storia Naturale fondato nel 1857 da Giuseppe Scarabelli insieme ad altri tre studiosi, collezionisti e concittadini imolesi – che ha sempre mantenuto l’ordinamento originale, costituendo un raro esempio di museo ottocentesco giunto integro fino a noi. L’allestimento attuale è strutturato in due sezioni. La prima, Una storia a ritroso, propone un viaggio nel tempo che partendo dall’oggi arriva alle origini del Museo, attraverso i momenti piú salienti della sua vita narrati da immagini, documenti, oggetti e reperti. Un itinerario per avvicinarsi alla
figura e al pensiero di Scarabelli e al clima ottocentesco nel quale nacque il primo museo. Tra i materiali possiamo ricordare la bellissima fascia in mosaico policromo di età repubblicana ritrovata in una domus del centro di Imola, il modello di una maschera comica in bronzo di età imperiale o, ancora, la testina di Dioniso ebbro, esempio di produzione di altissima qualità esecutiva. La seconda tappa del percorso ripropone il Gabinetto di Storia Naturale nell’allestimento originale, secondo il progetto scientifico ed espositivo di Giuseppe Scarabelli. Nelle vetrine ottocentesche restaurate e dotate di una nuova illuminazione sono esposte le collezioni di Geologia, Archeologia e Scienze Naturali che costituiscono le tre sezioni dell’itinerario. I materiali sono corredati dai cartellini del 1930, mentre le postazioni multimediali offrono uno strumento e una chiave attuale di comprensione dell’antico museo e si può scegliere di «entrare» nelle vetrine e analizzarne i pezzi piú significativi. (red.)
Dove e quando Museo di San Domenico Museo «Giuseppe Scarabelli» Imola, via Sacchi 4, Orario sa, 15,00-19,00, do, 10,00-13,00 e 15,00-19,00 Info tel. 0542 602609; e-mail: musei@comune.imola.bo.it; http://museicivici.comune.imola.bo.it/
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Una vetrina del Museo «Giuseppe Scarabelli» allestita a imitazione della sua sistemazione originaria.
n otiz iario
archeofilatelia
Luciano Calenda
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l’imperatore dell’editto La vita e le imprese di Flavio Valerio Aurelio Costantino, 3 meglio noto col solo nome di Costantino, sono ampiamente raccontate in questo numero (vedi alle pp. 34-62).Qui, oltre che presentarlo filatelicamente con un francobollo iugoslavo del 1971 (1), ci limitiamo a documentare con francobolli e 2 annulli due tra le vicende piú significative che hanno legato 4 questo imperatore al nostro Paese: la battaglia di ponte Milvio del 312 e l’editto di Milano del 313. Nello scorso ottobre è caduto il 1700° anniversario della vittoria di Costantino su Massenzio, che gli 6 7 consentí di essere nominato, dopo il suo ingresso trionfale in Roma, unico imperatore d’Occidente. 5 La battaglia finale, passata alla storia per la leggenda della visione «in hoc signo vinces», avvenne in località Saxa Rubra nei pressi di ponte Milvio, a Roma, ed è stata ricordata da un’emissione congiunta di Italia e Vaticano del 9 2012: francobollo e foglietto dallo stesso bozzetto (2), ma con i rispettivi annulli 1° giorno diversi (3-4). Prima di parlare del secondo grande avvenimento è interessante far notare che in 8 onore dell’imperatore vittorioso fu eretto, nei pressi del Colosseo, un magnifico arco di trionfo, 10 detto appunto di Costantino, spesso ricordato in anni precedenti come, per esempio, dal francobollo olimpico del 1959 (5) o da alcuni annulli che lo raffigurano come quello italiano del 1977 (6) 11 o quello di San Marino del 1985 (7). Ed eccoci all’evento il cui 1700° anniversario cade nel 2013: si tratta del cosiddetto «editto di Milano», noto anche come «editto di Costantino» o «editto di tolleranza». In realtà esso fu promulgato a Nicomedia da 12 13 14 Licinio, imperatore d’Oriente, in nome anche di Costantino con il quale lo aveva discusso e concordato a Milano; l’editto poneva ufficialmente termine a tutte le persecuzioni religiose, proclamando la neutralità dell’impero nei confronti di qualsiasi fede. L’evento è stato ricordato dall’Italia con un altro francobollo in foglietto (8), e da San Marino con 2 francobolli riuniti in foglietto che raffigurano i due imperatori (9) e Costantino con sullo sfondo una mappa dell’Europa e la piantina di Milano (10). Il Vaticano non ha provveduto ancora alla sua emissione, ma ha ricordato l’editto con un annullo nello 15 scorso mese di aprile (11). Viste le sue origine balcaniche, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro anche la Bosnia-Erzegovina (12) e la Serbia (francobollo e Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o foglietto 13-14) hanno ricordato l’editto di Milano. informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al Un ultimo riferimento tematico. L’editto di Milano viene CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: anche definito «rescritto», perché secondo alcuni storici Segreteria c/o Alviero Luciano Calenda, Batistini C.P. 17126 esso non fu altro che la riproposizione dell’editto di Serdica Via Tavanti, 8 Grottarossa sulla tolleranza verso i cristiani emesso da Licinio e Galerio 50134 Firenze 00189 Roma. due anni prima. L’editto di Serdica è stato ricordato dalla info@cift.it, lcalenda@yahoo.it Bulgaria, nel 2011, con un foglietto (15). oppure www.cift.it
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infor mazione pubblicitar ia
n otiz iario
SCAVI LibiaToscana incontrI
nuova luce per archeologia al ichiaro capolavori di luna
E
stato inaugurato, nello scorso dicembre, il nuovo allestimento del primo piano del Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo. Un rinnovamento che ha interessato le sale che ospitano i maggiori capolavori della scultura antica. Sin dall’inizio, colpisce la ricchezza delle opere riunite nell’ampia sala dell’ex teatro (V), un’opulenza che riflette quella delle ville imperiali romane da cui le statue provengono e che fa da filo conduttore di questo primo nucleo. Le sculture sono distribuite in modo armonioso lungo la profondità dell’ambiente, con sufficiente spazio per apprezzare singolarmente ciascun capolavoro. Come nell’allestimento precedente, sono presentate in coppia le due Afroditi accovacciate e i due Discoboli, secondo un uso in voga nelle al grandi imperiale. La sala 1° al residenze 31 luglio sidell’età svolgerà in Toscana la VI è incentrata sull’immagine dell’atleta come ideale XIII edizione delle «Notti dell’archeologia», estetico, dai già citati discoboli. rassegnaincarnato in occasione della quale i musei, i parchi Nella salaarcheologiche VII si incontra il riallestimento piú e le aree presentano un calendario importante: qui,Lo infatti, è stato alzato un parapetto nel ricco di eventi. scopo primario è quello di favorire senso delladel lunghezza, creato un corridoio l’incontro pubblicoche conha l’immenso, variegatoe una ampia sala adiacente.archeologico Nel corridoiodella trovaToscana, posto una e diffuso patrimonio sezione tematicagli incentrata sulla conosciuti figura di Dioniso: presentandone aspetti meno e quasi colpisce, sullo sfondo,anche la grande protome del dio, in segreti, ma offrendo un punto di vista nuovo marmo pentelico, campeggia sopra la porta di e sorprendente suche quelli piú celebri. I visitatori uscita, mentre lungo corridoiodelle sonotestimonianze allineate verranno invitati alla ilscoperta di numerose sculture di dimensioni piú contenute. antiche epoche e civiltà, ivi comprese le vestigiaNella delle sala vengono invece i temi del mito e delle attività industriali delsviluppati secolo scorso, facendo leva divinità dell’Olimpo nell’immaginario romano. Lo sulla grande divulgazione e sulle nuove acquisizioni sguardo correesubito alla statua bronzea di Dioniso, della scienza delle tecniche archeologiche, ma anche sistemata in posizione centrale, nonché al torso del mobilitando il linguaggio dell’arte contemporanea, Minotauro, posto accanto al varco che collega con le del teatro, del cinema e della musica. sale e X. OltreIX200 sono le iniziative in programma in tutta la L ’ambiente (sale e X), dedicato alle navi di Toscana, di successivo cui diamo qui diIX seguito un saggio. Nemi, il visitatore in una coerente atmosfera Per gli trasporta amanti dell’antica Roma e del reenacting il 6 acquatica, evocata dalle sulla luci e quarta dai colori scelti, del nonché luglio si aprirà il sipario edizione dal sottofondo sonoro del afilmato multimediale. Festival dell’Antica Roma Massaciuccoli (Lu). Vetrine allineate su due lati mostrano gli arredi in bronzo delle In provincia di Grosseto, gli antichi centri di Vetulonia navi, lunga teca, alluglio) centro,saranno espone al i resti di (13-14mentre luglio)una e Roselle (20-21 centro una finemente cesellata. disponibile dellebalaustra «Vie del commercio etrusco»,È ilinoltre viaggio fisico di un approfondimento multimediale, consecondo un audiovisivo carro trainato da cavalli, ricostruito le indicazioni forniteci dalle testimonianze archeologiche e condotto da attori che impersoneranno reali «trasportatori» del VI-V secolo a.C. Numerose le iniziative di archeotrekking, in ambienti naturali di rara bellezza, come a Cetona (Si) il 14 luglio, con la visita alle grotte del monte Cetona e al parco archeologico naturalistico di Belverde. E infine le aperture straordinarie notturne di musei e parchi archeologici, che sono all’origine del nome delle «Notti dell’archeologia», con spettacoli e degustazioni, come ad Artimino (Po) dove si potrà assaggiare il vino etrusco e conoscerne le tecniche di preparazione. Per ulteriori info e per il programma completo: www.regione.toscana.it/nottidellarcheologia
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sulla storia delle navi e del loro recupero. L’ultima sala (VIII) presenta il volto d’avorio recuperato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 2003 ad Anguillara (Roma) e frammenti di altre sculture. Qui la penombra favorisce un’atmosfera raccolta e sospesa, mentre i reperti sono efficacemente presentati nella vetrina centrale – il volto – e in quella laterale – i frammenti. Pannelli a parete forniscono informazioni e approfondimenti sui manufatti e raccontano la storia del recupero. Dal punto di vista museografico e museotecnico questo nuovo allestimento presenta vari punti di forza. Gli spazi sono adeguati, né dispersivi, né sovraffollati. Gli sfondi neutri, di tonalità scura, creano una quinta efficace, su cui si stagliano bene i profili delle sculture, anche per un osservatore distante. L’illuminazione, profondamente rinnovata, si avvale di un impianto incassato nel soffitto, che crea uno spazio piú netto e favorisce la concentrazione sulle opere. L’adozione di lampade a led risulta efficace, irradiando una luce abbondante, allo stesso tempo diretta e morbida. Durante la visita, abbiamo anche avuto modo di constatare l’accessibilità dell’allestimento per utilizzatori di sedie a rotelle. museo dispone di Da sinistra, in alto, in sensoIlorario: una suggestiva proprie chedi mette a disposizione Il museo delle vedutasedie, notturna Sovana (GR); l’immagine-guida dispone proprie sedie, che mette a disposizione Il «Notti di dell’Archeologia»; i resti della rocca medievale museo dispone di(LI); proprie sedie,della che mette a etrusca di San Silvestro una tomba necropoli disposizione dei visitatori, e il piano è raggiungibile di San Cerbone, presso Populonia (LI). sori, che collegano al livello. La disposizione dei piedistalli nelle sale non presenta problemi di spazio per il passaggio, cosí come le didascalie delle opere, tutte ben leggibili per un visitatore in posizione seduta, collocate sui bordi delle pedane o a parete ad altezza P. L.
calendario
Italia Roma Athena Nike: la vittoria della dea Marmi greci del V e del IV secolo a.C. della Fondazione Sorgente Group Spazio Espositivo Tritone fino al 03.08.13
A sinistra: torso di statua in marmo raffigurante Athena Nike. 430 a.C. circa.
Colosseo fino al 15.09.13
Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13
Da Orvieto a Bolsena
Il Tesoretto di Montecassino Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30.09.13
Capolavori dell’archeologia
Recuperi, ritrovamenti, confronti Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 05.11.13
Un percorso tra Etruschi e Romani Sedi varie fino al 03.11.13
Padova Venetkens
Costantino. 313 d.C.
Un percorso tra Etruschi e Romani Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino all’01.09.13
orvieto, bolsena, castiglione in teverina, san lorenzo nuovo Da Orvieto a Bolsena
Collana e pendente in pasta vitrea, da Orvieto, IV sec. a.C.
In alto: particolare delle pitture della tomba Golini I.
parma Storie della prima Parma Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 29.12.13 (prorogata)
Qui sopra, a destra: pendente in bronzo, dalla necropoli di Baganzola.
Archimede. Arte e scienza dell’invenzione Musei Capitolini fino al 12.01.14
milano Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14
modena Il mosaico riscoperto
Lapidario Romano dei Musei Civici, Palazzo dei Musei fino all’01.09.13
onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa Casa della Cultura fino al 31.12.13 22 a r c h e o
trento Sangue di drago squame di serpente
Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio Il successo che le loro storie riscuotono nel cinema e nella cultura popolare dimostra quanto gli animali, reali o fantastici, siano saldamente ancorati nel nostro immaginario. Organizzata in collaborazione con il Museo Nazionale svizzero di Zurigo, è l’occasione per ammirare sfingi e centauri dipinti su vasi greci a figure rosse e nere, cosí come nelle tele dei maestri bolognesi del Seicento, il gatto mummificato egiziano, la fontanella rinascimentale in bronzo con il mito di Atteone, il rhyton a forma di becco d’aquila, il Laocoonte proveniente dal Museo del Bargello di Firenze, un prezioso falco in bronzo, una rarissima casula (veste del prete) decorata,
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Germania Vetulonia (Castiglione della Pescaia) Vetulonia, Capua, Pontecagnano
berlino Sotto la luce di Amarna
Vite parallele di tre città etrusche Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.11.13
100 anni dal ritrovamento di Nefertiti Neues Museum fino al 04.08.13
Bonn Cleopatra
Belgio
Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland L’eterna diva fino al 06.10.13
Tongeren Gli Etruschi. Una storia particolare Musée Gallo-romain fino al 25.08.13
Gran Bretagna
Francia
Londra Vita e morte a Pompei ed Ercolano
saint-romain-en-gal Il design ha 2000 anni?
Archeologia e design a confronto Musée gallo-romain de Saint-Romain-en-Gal-Vienne fino all’01.09.13
Strasburgo Un’arte dell’illusione Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13
The British Museum fino al 29.09.13 In alto: un’urna funeraria in mostra a Tongeren. A sinistra: frammento di affresco con busto femminile su cornice modanata.
Danimarca copenaghen Viking Nationalmuseet fino al 17.11.13
Israele Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande
Israel Museum fino al 04.01.14 (prorogata)
In alto: il celebre busto policromo di Nefertiti. Qui sopra: mosaico con l’immagine di un cane da guardia, dalla Casa di Orfeo a Pompei.
Paesi Bassi leida I sarcofagi dei sacerdoti di Amon Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.09.13
Svizzera dove e quando Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014 (dal 10 agosto) Orario tutti i giorni, tranne i lunedí non festivi, 10,00-18,00 Info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it o, ancora, sculture di san Giorgio e il drago. Dagli animali sacri della tradizione cristiana alla mitologia con Diana cacciatrice a quelle care agli dèi: il cigno, il toro e l’aquila per Giove, il leone per Sansone ed Ercole. E ancora i veri mostri delle leggende: draghi, chimere, unicorni, sfingi, mostri marini, centauri e sirene.
berna Qin
L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13
hauterive Fiori dei faraoni
Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14
La figura di un cavallo incisa sul bastone forato di Schweizersbild. 13 000 a.C. circa.
zurigo Archeologia
Tesori del Museo nazionale svizzero Museo nazionale svizzero fino al 21.12.2014 a r c h e o 23
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
A sinistra: la foto, ormai celebre, di Sophia Engastromenou, seconda moglie di Heinrich Schliemann, con indosso i gioielli del tesoro di Priamo. In basso: il cosiddetto «tesoro di Eberswalde», ritrovato in territorio tedesco. L’insieme si data al X-IX sec. a.C. ed è attualmente esposto nella mostra «L’età del Bronzo. L’Europa senza frontiere», allestita all’Ermitage di San Pietroburgo.
A
inasprire i già delicati rapporti diplomatici tra le nazioni ci si mette ora, anche, l’archeologia. In verità, come sanno bene i nostri lettori, non si tratta di un fenomeno nuovo, eppure il caso che ha visto protagonisti i capi di Stato di Germania e Russia ha tutta l’aria di un episodio piuttosto eccezionale. Ma veniamo ai fatti: lo scorso 21 giugno, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, si trovano insieme a San Pietroburgo per assistere al vernissage di una grande mostra dal titolo «Età del Bronzo. L’Europa senza frontiere», allestita al Museo dell’Ermitage. L’atmosfera è solenne: l’esposizione riunisce una straordinaria quantità di reperti archeologici, provenienti da un vasto territorio che si estende dalla Germania settentrionale fino alla Russia meridionale, tale, appunto, da trasmettere il messaggio di un’ideale Europa senza frontiere. Ma, pochi minuti prima della cerimonia, accade il fattaccio:
Angela Merkel annulla la propria partecipazione all’inaugurazione. Quale il motivo di un tale sgarbo diplomatico? Per la cancelliera – riferiscono fonti informate sui fatti
e citate dal primo quotidiano tedesco, Frankfurter Allgemeine Zeitung –, la mostra sarebbe «politicamente sbagliata»: molti dei tesori archeologici esposti – tra cui il famoso «tesoro di Priamo» – sarebbero frutto di saccheggi perpetrati, alla fine della seconda guerra mondiale, dall’Unione Sovietica ai danni della Germania. E, in quanto tali, andrebbero restituiti. «Tutto il resto – pare abbia sentenziato Angela Merkel – è secondario…».
ANGELA, VLADIMIR e il «tesoro di priamo» Scoperto da Heinrich Schliemann a Troia (in Turchia nord-occidentale) il 31 maggio del 1873, l’affascinante tesoro è protagonista di una storia avventurosa: trafugati in Grecia
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Vasi d’argento e altri reperti del tesoro di Priamo esposti al Neues Museum di Berlino. dallo stesso Schliemann nel giugno del 1873, nel 1881 gli ori approdano nelle sale dell’appena costruito Museo Etnografico di Berlino, come dono «al popolo tedesco». Nel 1939, con lo scoppio della guerra, i reperti vengono riposti in tre casse di legno che, nel 1941, per proteggerle dalle incursioni aeree, sono nascoste nei sotterranei della Banca di Prussia. Le casse superano indenni le vicissitudini belliche, fino alla presa di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Nel marzo del 1945, l’allora direttore del Museo decide, in accordo con le autorità sovietiche, di trasferire il tesoro che, nel luglio dello stesso anno, raggiunge il Museo Pushkin, insieme a una quantità di altri reperti archeologici e opere d’arte provenienti dai musei berlinesi. Ma la nuova collocazione viene tenuta segreta e, con il passare degli anni, il ricordo svanisce, il tesoro è dato per disperso… Si arriva cosí al settembre del 1987 prima di sentirne nuovamente parlare: un funzionario del Ministero della Cultura si trova tra le mani alcuni vecchi faldoni, destinati a essere distrutti, tra cui un documento che reca la seguente dicitura: «Oggetti straordinari facenti parte del grande tesoro di Troia, Berlino, Museo Etnografico». Gli ori scoperti da Schliemann, dunque, dovevano trovarsi ancora al Museo Pushkin! Alla notizia, la direttrice del Museo, Irina Antonowa, reagisce irritata e richiede di archiviare il caso. Nell’ottobre del 1991, a due anni dalla caduta del Muro di Berlino, il ministro della cultura Nicolai Gubenco dichiara ancora, in una conferenza stampa, di non sapere dove si trovi l’oro di Troia che, piú probabilmente, potrebbe essere in possesso degli Alleati. Ma ormai il nuovo corso della storia ha preso la via della trasparenza: il 26 ottobre del 1994,
Irina Antonowa accoglie tre rappresentanti dei Musei di Berlino e li conduce in un vano sotto il tetto del Museo Pushkin: vi giacciono, esposti in bell’ordine, tutti i reperti del famoso tesoro di Priamo (tra gli studiosi tedeschi invitati vi era l’archeologo Klaus Goldmann, che da oltre un quarto di secolo si era messo sulle tracce degli ori; vedi i nostri servizi in «Archeo» nn. 84 e 93, febbraio e novembre 1992)! Tornati alla luce del giorno, gli ori diventano parte dell’esposizione permanente del Museo Pushkin. Ai Musei di Berlino sono visibili, dal 2009, copie dei reperti piú celebri. Ma di restituirlo, il vero tesoro, non se ne parla. Anche per
non risvegliare i risentimenti di un’altra nazione «emergente», la Turchia, che lo reclama, e certo non a minor diritto… L’irritazione della cancelliera Merkel è stata, però, alimentata anche dalla presenza, in mostra, di un altro insieme di reperti aurei, proveniente questa volta dalla stessa Germania: il cosiddetto «tesoro di Eberswalde», datato al X-IX secolo a.C. e considerato il piú vasto ritrovamento di oro protostorico in territorio tedesco. Scoperto nel 1913 venne trasferito in Russia nel 1945 e, poi, come accadde per gli ori di Priamo, «riscoperto» nel 2004. Insomma, qualche motivo di risentimento nei confronti di Putin Angela Merkel forse lo ha.
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scavi • francia
ritorno a bagacum di Daniela Fuganti
la romanizzazione fece di uno dei principali centri della gallia belgica una città fiorente. testimoni della sua prosperità sono i resti del foro e i molti reperti recuperati in oltre due secoli di scavi, in gran parte dispersi in musei e collezioni di tutto il mondo. e che ora hanno ritrovato la propria casa 28 a r c h e o
In alto e a sinistra: foto delle campagne di scavo del 1944-45 e 1947-48. In basso: una visita del sito di Bavay guidata nel 1950 dal canonico Henri Biévelet, che diresse gli scavi dal 1936 al 1976.
È
un luogo fantastico e inatteso: il piú grande foro romano della Gallia, uno dei piú vasti dell’impero, inferiore soltanto a quelli di Roma e Costantinopoli. Ma non siamo sulle rive del Mediterraneo, né del Bosforo. Siamo a Bavay, una cittadina dell’estremo Nord della Francia, al confine con il Belgio. Un sito noto agli addetti ai lavori, ma non al grande pubblico, anche perché fuori mano. Non era cosí ai tempi dei Romani. A quell’epoca, nel Nord-Est dell’impero si poteva ben dire che tutte le strade portavano a… Bavay! L’antica Bagacum, capitale dei Nervi – un popolo di ceppo celtico tra i popoli piú «selvatici» della Gallia Belgica – era in effetti uno snodo stradale strategico per le operazioni militari di conquista, e in seguito di difesa dei limes: un luogo in cui si incrociavano le strade provenienti da Treviri (Augusta Treverorum), da Reims (Durocortorum) e da Amiens (Samarobriva). Ma soprattutto era il passaggio obbligato fra Colonia, in Germania, e Boulogne-sur-Mer (Gesoriacum), testa di ponte verso la Gran Bretagna. Un’iscrizione ritrovata nel foro di Bavay nel XVIII secolo, e oggi distrutta, commemorava il passaggio di Tiberio nel 4 d.C.: in arrivo da
Boulogne, si dirigeva verso il Reno, per prendere il comando dei suoi eserciti dislocati in Germania. Già ai tempi del passaggio di Tiberio, la città era certamente un grande e ben munito insediamento militare, dotato di strutture degne di accogliere il futuro imperatore. Per almeno tre secoli, fino a quando la riorganizzazione amministrativa attribuita a Diocleziano (284-305) fece perdere a Bagacum il rango di capoluogo a favore della vicina Cambrai (Camaracum), la capitale politica dei Nervi ha ospitato cittadini romani importanti, magistrati e militari che possedevano abitazioni all’altezza del loro rango, decorate con opere di pregio. Alcune di queste sono oggi disperse nei musei di mezzo mondo, attraverso la vendita delle collezioni private costituite fin dal Settecento.
Piú bronzi che foglie Perché la scoperta di manufatti antichi non è certo una novità da queste parti: nel 1844 Isidore Labeau scriveva che «c’erano piú bronzi a Bavay che foglie nella vicina foresta». Si mormorava che ogni abitante della cittadina possedesse il suo piccolo «gabinetto di antichità», fatto di bronzi, monete, vetri, ceramiche, anfore: spuntati dai campi, op-
pure dalle cantine, veri labirinti nel sottosuolo del centro storico. L’avventura delle eccezionali scoperte archeologiche di questo piccolo centro della Francia settentrionale è intimamente legata alle vicende degli illustri e singolari personaggi – collezionisti, intellettuali, archeologi, conservatori di musei, storici o mercanti – che nei secoli hanno contribuito a riportare in vita un passato gallo-romano ormai scomparso da tempo dalla memoria collettiva. Documenti risalenti al XV secolo provano come la nascita della capitale dei Nervi si fondasse su tradizioni leggendarie. Salvati dall’oblio grazie al religiosostorico Jacques de Guyse, che li aveva raccolti e riscritti, i racconti scaturiti dall’immaginario di autori medievali descrivono le avventure di Bavo, cugino di Priamo, che, fuggendo da Troia, avrebbe raggiunto dopo molte avventure una terra ospitale nella quale fece costruire una città che chiamò Belges: l’attuale Bavay. Secondo tali narrazioni, sette strade – dedicate ai pianeti Giove, Marte, Venere, Saturno, Mercurio, al Sole e alla Luna – partivano dai sette templi dell’agglomerato. L’instaurazione di una monarchia elettiva sarebbe stata all’origine del declino della città. Cosí i Belgi avrebbero perduto la loro unità e finito per soccombere all’invasione romana. Il primo a rendersi conto del valore storico-archeologico dei pezzi bavesiani fu senz’altro il conte di Caylus (1692-1765). Di stirpe nobilissima, nipote di madame de Maintenon, amante e poi moglie morganatica segreta di Luigi XIV, il personaggio è considerato come il fondatore dell’archeologia moderna. Il suo interesse non si limitava, infatti, al semplice collezionismo, ma si allargava all’analisi e alla classificazione sistematica degli antichi manufatti – celtici, etruschi, greci o romani – che raccoglieva, e che andaResti di un edificio a tre navate nel foro di Bagacum (oggi Bavay).
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scavi • francia
vano spesso ad arricchire, dopo essere stati illustrati nel suo Recueil d’Antiquités (l’opera di una vita, in sette volumi), il «cabinet des Antiques» del re di Francia. Spesso i piú interessati alle vicende storiche del passato erano gli ecclesiastici. Per un ricco, colto e appassionato d’arte quale era Augustin Carlier, curato di Bavay dal 1775 fino alla sua morte nel 1818, trovarsi in quel luogo fu una vera fortuna: essendo praticamente il solo in quei tempi a essere affascinato dalle antichità, il suo ruolo di pastore d’anime attirava la fiducia dei parrocchiani che gli portavano, dietro modesta ricompensa, gli oggetti trovati nei campi. Fino all’entrata in vigore della legge Carcopino del 1941 per la protezione dei beni archeologici in Francia, vigeva l’abitudine di acquisire legittimamente gli oggetti trovati nelle proprietà private. Il primo tentativo di scavi predisposto nel 1790 (sono gli anni delle scoperte di Ercolano e Pompei) su iniziativa di Jean-Baptiste Lambiez, ecclesiastico anche lui, attratto dall’arte, e probabilmente non indifferente agli elementi speculativi legati al progetto, si collocava quin- In alto: resti dell’edificio occidentale di nel solco di questa consuetudine. a tre navate, che comunica con l’ala
dai campi «gibbosi» Il successo dell’operazione attira la cupidigia di molti (lo storico Franz Cumont scriveva all’inizio del Novecento: «Da secoli Bavay, la capitale dei Nervi, viene saccheggiata») e la curiosità scientifica di alcuni. Cosí una prima esplorazione del criptoportico del foro viene iniziata nel 1826 dall’architetto Antoine Nivelau, passando dalle cantine delle case costruite sopra le vestigia antiche, in quello che era stato denominato champs à bosses (campi gibbosi), a causa delle rotondità del terreno che nascondeva le antiche pietre. Nivelau realizza acquerelli, testimonianze preziose e uniche, raffiguranti la struttura del criptoportico e la sua decorazione, senza però riuscire a identificare l’enigmatica natura delle affascinanti costruzioni. Nel frattempo Bavay assurge a una 30 a r c h e o
ovest del criptoportico. In basso: cartina della Francia con la localizzazione di Bavay. Nella pagina accanto: ritratto di Augustin Carlier, abate di Bavay dal 1775 al 1818, che raccolse un primo importante nucleo di reperti recuperati a Bagacum. 1813. Douai, Musée de la Chartreuse.
Inghilterra Bavay
Germania
Parigi
Oceano Atlantico
Spagna
Francia
Italia
Corsica Mar Mediterraneo
tale fama da essere, nella seconda metà dell’Ottocento, al centro di un vero e proprio traffico di oggetti (fra cui parecchi falsi), condotto nella piú totale anarchia. I primi taccuini di scavo, pieni di informazioni utilissime tuttora valide, vennero finalmente redatti da un archivista di Valenciennes, Maurice Hénault, il quale, dal 1906, dedica le sue energie a proteggere gli oggetti scoperti e a mettere fine alla loro dispersione. Crea il primo museo archeologico e la rivista Pro Nervia, pubblicata per dieci anni. Esegue qualche sondaggio nel centro dell’abitato e intuisce per primo l’esistenza di un foro. Le bombe della seconda guerra mondiale, radendo al suolo gli edifici situati sopra l’area archeologica, confermarono in seguito la sua ipotesi, ben oltre ogni immaginazione. La struttura classica di un monumentale foro tripartito non lasciava piú spazio a dubbi.
A questo punto entra in gioco un altro personaggio fondamentale: l’abate Henri Biévelet, direttore del collegio di Notre-Dame-del’Assomption, un palazzo distrutto insieme agli altri dalle operazioni belliche. Instancabile ed entusiasta, il canonico fa in modo che gli edifici sopra il foro non siano ricostruiti, che gli abitanti vengano spostati in altri alloggiamenti, e che i terreni siano acquistati dallo Stato. Cosí Biévelet può finalmente iniziare lo sgombero del criptoportico, elemento essenziale di quello che veniva chiamato il «grande insieme», pubblicare il risultato delle sue ricerche e allestire un museo prefabbricato sul sito stesso. In paese, i piú vecchi ancora lo ricordano.Veniva soprannominato il «Corvo» e molti lo detestavano perché, appena aveva notizia di una scoperta, piombava sul luogo esigendo la consegna degli ogget-
lard-Raineau, responsabile della ricerca e conservazione del foro antico di Bavay, la quale – insieme a Véronique Beirnaert-Mary, direttrice del museo – sta portando avanti un ambizioso progetto di consolidamento, protezione e riscoperta delle vestigia ancora nascoste dalla vegetazione. «Il foro, veramente maestoso e unico, fu edificato in una prima fase verso la seconda metà del I secolo d.C. – spiegano le due nuove e dinamiche “protettrici” dell’antica Bagacum – per essere poi allargato e completato nel II secolo, quando la capitale dei Nervi era al suo apogeo, secondo lo schema architettonico dei fori tripartiti romani che associavano le funzioni dell’amministrazione, della giustizia e del culto. A est, un vasto piazzale rettangolare lastricato (240 m di lunghezza per 98 di larghezza) dava accesso alla basilica, una delle piú imponenti dell’Occidente romano; a ovest, si trovava l’area sacra che accoglieva il tempio; ai lati, sorgevano i porticati, gli uffici e i negozi. Una prima cinta muraria venne successivamente innalzata per proteggere la città, tra ti ritrovati: una procedura alla la fine del III e l’inizio del IV secoquale gli abitanti del posto non lo, quando i tempi erano ormai diventati difficili a causa della pressioerano abituati! ne nemica sui luoghi vicini alle frontiere dell’impero». Il tesoro nel sacco Nel 1960, durante gli scavi della basilica, venne alla luce un vero e proprio tesoro. Era stato sotterrato in un sacco di tela, sotto il pavimento del corridoio di accesso al monumento, probabilmente dopo l’abbandono di quest’ultimo tra la fine del III e l’inizio del IV secolo d.C., e conteneva centinaia di bronzi, alcuni eccezionali. La varietà dei pezzi – statuette di divinità o animali, maniglie di bauli o di porte, ornamenti o applique di mobili, chiavi, lampade, candelabri, bruciaprofumo, vassoi e pesi da bilancia – e il fatto che fossero un po’ rovinati, indicava tuttavia che i bronzi erano destinati alla rifusione. «Sono comunque la testimonianza della presenza di un’élite locale romanizzata», spiega Isabelle Bola r c h e o 31
scavi • francia A destra: il bronzetto identificato con un ritratto di Antinoo. I-II sec. d.C. Douai, Musée de la Chartreuse. A sinistra: statuetta in bronzo raffigurante una Mater, scoperta a Bavay nel 1913. Mariemont, Musée Royal.
Non c’è finora traccia di un teatro, né di terme, benché in una delle cantine del paese sia stato rinvenuto un ipocausto destinato forse al riscaldamento di bagni pubblici. «Una delle zone meglio conservate del sito – precisa Beirnaert-Mary – resta naturalmente il criptoportico, che in epoca romana era una loggia sotterranea ricoperta da un altro portico innalzato attorno all’area sacra, sulla quale si erigeva il tempio di cui conosciamo l’ubicazione e del quale ancora si conservano alcuni capitelli: come quello dedicato a Giunone, proveniente probabilmente dalla facciata. Pensiamo che il tempio di Bavay dovesse essere stato di grandi dimensioni, paragonabile per esempio alla Maison Carrée (tempio romano) di Nîmes». Scarsi sono i resti delle abitazioni civili: alcune domus, decorate con mosaici e intonaci dipinti, e qualche traccia di piú modeste insulae.
Tra i ritorni eccellenti, spicca quello dell’Antinoo, trafugato nel 1901 e recentemente restituito dagli USA 32 a r c h e o
tesori dispersi Se si considerano la quantità e la qualità degli oggetti trovati, molto piú numerosi rispetto ai centri vicini, si arriva alla conclusione che Bavay doveva essere una città fiorente. Gran parte dei materiali rin-
venuti, come già ricordato, è stata dispersa da tempo con la vendita delle collezioni create fra Sette e Ottocento. Per questo il nuovo Museo archeologico della città, inaugurato ufficialmente nel 1976, possiede soltanto una piccola parte dell’incalcolabile numero di bronzi restituiti nei secoli dalle necropoli, dai campi, dai giardini, dalle cantine dei privati. Riunire per una volta le raccolte sparse in Francia e all’estero, e raccontare le loro peripezie, è lo scopo della mostra «Voyage à travers les collections», organizzata dal Museo archeologico di Bavay. Un centinaio di pezzi provenienti dal British Museum di Londra, dal Museo archeologico nazionale di Saint-Germain-en-Laye, dal Louvre di Parigi, dal Museum of Fine Arts di Boston, dal Palais des Beaux Arts di Lille, dai musei di Péronne e Valenciennes, nonché da collezioni private, raccontano le vicende di questa cittadina del Nord della Francia, divenuta una piccola capitale dell’archeologia romana. È un’occasione unica per ammirare alcuni autentici capolavori. Dall’Ercole del British Museum, trovato nel 1881 dal sarto del paese nelle sue terre, alla raffinata statuetta di Minerva venduta all’asta nel 1995, fino alla magnifica Mater, prestata dal Museo reale belga di Mariemont, scoperta nel 1913 in una località chiamata Sablières (cave di sabbia), dove in epoca ro- opere adatte ad allestire la mostra, mana sorgeva una necropoli. ecco infine la sorpresa: confrontando l’Antinoo di Boston con l’unica immagine esistente dell’opera baval’antinoo ritrovato Senza contare il ricercato Antinoo, siana trafugata all’inizio del ventesirecuperato nel 1780, e rapidamente mo secolo, ci si accorgeva che si acquisito da Augustin Carlier. Ven- trattava dello stesso bronzo! duta – insieme al resto della colle- Restituita al Museo della Chartreuzione – dagli eredi del curato al se di Douai dai musei americani, Museo della Chartreuse di Douai, conformemente agli accordi fra i che la considerava come il proprio due Paesi in materia di opere d’arte pezzo piú pregiato, la statuetta ven- trafugate, l’immagine del giovanisne trafugata nel 1901 e mai piú ri- simo prediletto dell’imperatore trovata. Era stata in effetti comprata Adriano è finalmente ritornata a nel 1904 dal Museum of Fine Arts Bavay dopo oltre cent’anni di asdi Boston su proposta di un colle- senza, e potrà essere ammirata in zionista ed esteta, Edward Perry anteprima dai visitatori di questa Warren, per la somma di 74 000 esposizione davvero affascinante fidollari. Durante la ricerca delle no al 27 agosto 2013.
Qui sopra: l’ingresso all’area archeologica di Bavay in una foto scattata nel 1951. In alto: un’altra visita guidata del sito condotta dal canonico Biévelet.
dove e quando «Voyage à travers les collections» fino al 27 agosto Forum antique de Bavay Allée Chanoine Biévelet, Bavay Orario tutti i giorni, 9,00-12,00 e 13,00-18,00; chiuso me (mattino) e sa (mattino) Info tel. +33 (0)3 59731550; e-mail: forumantique@cg59.fr a r c h e o 33
La grande mostra dedicata all’«imperatore cristiano», allestita al Colosseo, chiude il ciclo di iniziative per i duemila anni dalla leggendaria battaglia di ponte Milvio e dall’editto di Milano. Torniamo a parlare di uno dei personaggi piÚ dibattuti della storia con un contributo di Mariarosaria Barbera, Soprintendente per i Beni archeologici di Roma, insieme alla presentazione delle piÚ recenti scoperte nella città d’epoca costantiniana
Costantino e Roma
di Mariarosaria Barbera
Costantino a Roma
C
ostantino nacque a Naissus, la moderna Niš, in Serbia; suo padre Costanzo Cloro, di origine balcanica, dopo aver trascorso anni in Oriente aveva fissato la sua residenza a Treviri. Il ragazzo crebbe a Nicomedia (città dell’Asia Minore situata in corrispondenza dell’attuale Izmit, in Turchia, n.d.r.), alla corte di Diocleziano, forse insieme a una madre che le fonti dicono originaria della Bitinia; a Eburacum (York), in Britannia, fu acclamato dalle truppe di suo padre, nel 306; morí infine nel 337 nei pressi di Nicomedia e non lontano da Costantinopoli, la città che lui stesso aveva (ri)fondato sulle rive dell’Ellesponto. Ce n’è abbastanza per capire perché il rapporto dell’imperatore con Roma non fosse cosí stretto, anzi tanto distaccato da fargli esclamare orgogliosamente «Serdica è la mia Roma» (la città corrisponde all’attuale Sofia, in Bulgaria).
roma e le altre In realtà all’Urbe, che pure rimaneva capitale cerimoniale e legata a una veneranda e antichissima tradizione, si aggiungeva un numero crescente di residenze imperiali assimilabili, per molti aspetti, a capitali: nel solo Occidente, Arelate (Arles), Eburacum, Mediolanum (Milano), Augusta Treverorum (Treviri); in Oriente brillava soprattutto la stella di Nicomedia, sede della corte dioclezianea. All’aumento inevitabile delle spese per il mantenimento della corte, si univa un assetto profondamente diverso, che prendeva le mosse dalle riforme di Diocleziano, al quale si doveva la divisione nelle due parti orientalis e occidentalis di un impero, la cui enorme estensione costituiva forse il suo piú grande problema. La tetrarchia, cioè il sistema di due Augusti e due Cesari che li affiancavano fino a sostituirli, non sopravvisse all’abdicazione
Calchi ricostruttivi in gesso alabastrino patinato in bronzo della testa, dell’avambraccio sinistro completo della mano e del globo di una statua colossale di Costantino. Roma, Museo della Civiltà Romana. Gli originali, conservati nei Musei Capitolini, provengono dal Laterano, da dove furono trasferiti sul Campidoglio nel 1471: è pressoché certo che appartenessero a un’unica scultura, raffigurante l’imperatore, alta tra i 10 e i 12 m. È peraltro probabile che si tratti del colosso dedicato in occasione dei tricennalia (trent’anni di regno) di Costantino, nel 335 (vedi scheda a p. 62).
mostre • costantino 313 d.c.
L’editto di Milano Nel febbraio del 313 Costantino Augusto di Occidente e Licinio Augusto di Oriente si incontrarono nel palazzo imperiale di Milano per celebrare le nozze di Costanza, sorellastra di Costantino, con Licinio. Nell’occasione, ai funzionari periferici fu dato l’incarico di attuare il decreto, promulgato da Galerio a Salonicco nel 311, che concedeva per la prima volta al cristianesimo lo status di religione lecita. I due Augusti ordinavano inoltre che si provvedesse a restituire alle comunità cristiane tutti i loro beni. La tradizione storica ha poi attribuito al documento, divenuto noto come «editto di Milano», la concessione della libertà ai cristiani e ai fedeli di tutte le religioni nell’impero. Il testo del rescritto ci è pervenuto nell’opera di Lattanzio De mortibus persecutorum (Sulla morte dei persecutori). Le parole usate esprimono con grande nobiltà il concetto di libertà religiosa e di tolleranza per tutti, allo scopo di assicurare all’impero pace e prosperità sotto la protezione divina.
volontaria del vecchio soldato illirico divenuto imperatore (Diocleziano, n.d.r.); e il periodo di torbidi che ne seguí vide tutti contro tutti – il vecchio collega Massimiano e suo figlio Massenzio, Galerio, Massimino Daia, Severo, per citare solo gli attori principali. Una prima semplificazione derivò dall’alleanza sancita dal matrimonio fra Costantino e la sorella di Massenzio, la giovanissima Fausta (307). Il periodo piú turbolento si concluse infine nel 312, con la sfolgorante vittoria di Costantino su Massenzio, al ponte Milvio.
l’ultima basilica civile I pochi anni di pace fra Costantino e il cognato videro il primo percorrere i territori dell’impero in una condizione giustamente definita «itinerante», finalizzata a difendere i
fronti dell’immenso territorio affidato al suo governo. Massenzio si concentrò invece su Roma, proclamandosi orgogliosamente conservator urbis suae.A lui si deve la costruzione dell’ultima e piú grande basilica civile adiacente al Foro e attigua al tempio di Venere e Roma, e del vasto complesso sull’Appia che, in coerenza con una linea quasi ininter-
Minervina
Elena
Costantino II Faustina
Graziano
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Fausta
costantino I
Crispo
Costante
Costanzo II
Costanza
alleanze matrimoniali Dopo la battaglia di ponte Milvio, che da 1700 anni l’immaginario collettivo riassume efficacemente nella frase «in hoc signo vinces», nuove alleanze matrimoniali portarono a una ripartizione degli immensi territori dell’impero fra Licinio, a Occidente, e Costantino, a Oriente; e a un periodo di tregua che, fra alterne vicende, resse per una dozzina d’anni. Ma Costantino era dotato di una
Dopo l’abdicazione di Diocleziano, l’impero fu dilaniato da lotte intestine che videro scatenarsi una sorta di «tutti contro tutti»
la dinastia dei costantinidi Costanzo Cloro
rotta di articolate residenze imperiali, coniugava edifici privati e pubblici al servizio della famiglia e della corte con imponenti strutture agonistiche. In realtà e per molti aspetti, come ha osservato Filippo Coarelli, Costantino «mise la firma» su parecchie realizzazioni già progettate e avviate da Massenzio, non ultimo – probabilmente – il cosiddetto tempio di Minerva Medica sull’Esquilino; si è anche parlato di un vero e proprio «latrocinio» iconografico perpetrato da Costantino su monumenti e statue di Massenzio.
Costanza Elena
Giuliano
sistematica e spietata volontà di dominio, il cui ultimo atto fu la battaglia di Crisopoli (324), dove la sconfitta del coimperatore Licinio – anch’egli cognato prima tollerato e poi fieramente combattuto – consegnò al figlio di Costanzo Cloro tutto l’impero nella sua impressionante estensione. Falliva cosí temporaneamente il modello dioclezianeo, destinato però a rivivere nelle generazioni seguenti e, almeno per l’Oriente, fino alla presa di Costantinopoli nel 1453; e si poneva drammaticamente l’esigenza di ripensare il sistema delle sedi imperiali e la stessa Roma, culla e storica capitale dell’impero. Molto si è scritto sull’ingresso a Roma di Costantino, che il giorno dopo la battaglia di
Statua in marmo greco raffigurante Elena seduta. Età costantiniana. Roma, Musei Capitolini. La madre di Costantino è ritratta secondo un modello classico creato da Fidia per un’immagine di Afrodite.
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mostre • costantino 313 d.c.
ponte Milvio (28 ottobre 312) entrò nella capitale che non aveva mai visto; e che certo dovette impressionarlo con i suoi splendidi monumenti e la sua vivace popolazione. Ma tutto questo splendore non fu sufficiente a creare un rapporto positivo e duraturo con la città, tanto che la presenza che Costantino assicurò a Roma in ben 31 anni di regno si quantifica in pochi mesi, rispettivamente subito dopo ponte Milvio, nel 312; per i decennalia (celebrazioni per i dieci anni di regno) del 315 e per i vicennalia (celebrazioni per i venti anni di regno) tardivamente celebrati nel 326.
simile agli apostoli I veri vicennalia, in realtà, si tennero a Nicomedia nel 325, in contemporanea con il concilio di Nicea che celebrò Costantino come simile agli apostoli (isapostolos) e «vescovo di quelli di fuori». Di contro, le cerimonie nell’Urbe dell’anno dopo furono funestate dalla spaventosa tragedia dell’assassinio di Crispo, figlio di Costantino, e della prima moglie Minervina e, a catena, dell’uxoricidio di Fausta. I commentatori cristiani sono orientati a tacere al riguardo, ma la piú loquace delle fonti, il pagano Zosimo, ipotizza un sospetto di adulterio fra Crispo e la quasi coetanea Fausta (sospetto ingiusto, a quanto sembra), e riconduce al dolore e al rimorso del mandante Costantino la sua decisione di cercare altrove una capitale che facesse da «contrappeso» a Roma, individuandola infine sul Bosforo, a Bisanzio. La condizione cristiana di Costantino si definí progressivamente, segnando un lento ma continuo allontanamento dall’aristocrazia e forse dal tessuto umano dell’Urbe. Ancora nel 310, come ci racconta uno dei Panegirici latini, una divinità pagana sarebbe apparsa al giovane Costantino al tempio di Apollo, dopo la presa di Marsiglia, per offrirgli corone di alloro, e nei primissimi anni di regno, il dio protettore del principe è Sol Invictus. Già nel 312, però, il sogno precedente alla 38 a r c h e o
tempio di minerva medica Il padiglione decagonale noto come tempio di Minerva Medica è una delle realizzazioni piú originali dell’architettura costantiniana. Sorse nei primi decenni del IV secolo e il riferimento al culto di Minerva Medica nasce da un’errata indicazione di Pirro Ligorio (1510 circa-1583), che attribuí al sito il ritrovamento di una statua di «Minerva con dracone» e lo identificò con la sede della Schola Medicorum. Secondo le ipotesi piú recenti si tratterebbe invece di un’aula compresa in un grandioso complesso residenziale, costruito nel settore orientale dell’Esquilino. Sulle due pagine, da sinistra: il tempio di Minerva Medica in una veduta del Piranesi; una ricostruzione virtuale degli interni; il monumento oggi.
battaglia di ponte Milvio è di segno chiaramente cristiano. Lattanzio racconta che il Chi-Rho, «celeste segno di dio», fu apposto sugli scudi, e l’iniziale vantaggio di Massenzio si tradusse in un’epica disfatta. Piú articolata è la narrazione del vescovo Eusebio, che direttamente dall’imperatore aveva appreso dell’apparizione di un «trofeo luminoso a forma di croce» e di un sogno, in cui era Cristo a spiegare il significato della visione. Da allora, il segno cristiano rimase sull’elmo del vincitore.
un’immagine ben studiata Per i decennalia del 315, celebrati a Roma, la formula che prudentemente il Senato decise di eternare sull’arco dedicato a Costantino fu un non compromettente «instinctu divinitatis», ribadendo poi che la stessa guerra (seppure contro altri Romani) era stata condotta «con giuste armi» – espressione generale e generica. L’immagine che il Senato dà di Costantino, sull’arco, è quella di un valentissimo comandante (battaglie di Verona e ponte Milvio), che molto opportunamente si astiene dal celebrare un trionfo ottenuto su altri Romani (il carro è privo di insegne trionfali, quindi si tratta di un adventus e a r c h e o 39
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non di un triumphus); è comunque in sintonia con gli dèi della tradizione pagana (quadrighe del sole e della luna) ed entra in città per riportare ordine e giustizia. L’intero arco è un ricercato pot pourri, nel quale trionfano i reimpieghi – rilievi di Traiano, tondi adrianei; sull’attico sono otto pannelli riferibili a Marco Aurelio e otto prigionieri daci, certamente prelevati da un monumento traianeo – piegati a raffigurare Costantino vittorioso mediante il ricorso a un espediente tanto banale quanto efficace, la rilavorazione del volto dell’imperatore. È stato proposto che la scelta del reimpiego – già diffusa prima di Costantino e non estranea a valutazioni di natura tecnica ed economica – sia stata caricata anche di una valenza ideologica, trasformando nel volto di Costantino le immagini di imperatori gloriosi del II secolo che il popolo, ma soprattutto il Senato, continuava a r icordare e r impiangere. Ai reimpieghi si uniscono elementi autenticamente costantiniani, ideati e realizzati espressamente per l’arco, come i tondi con le quadrighe del sole e della luna e 40 a r c h e o
i rilievi rettangolari, che narrano con un linguaggio semplice e immediatamente comprensibile episodi delle guerra contro Massenzio, dalla partenza da Milano alle celebrazioni svoltesi nell’Urbe dopo la vittoria. Peraltro, come osserva Paul Zanker, il modello della scena di ponte Milvio è quello delle battaglie fra Romani e barbari, e i nemici massacrati sono solo pretoriani «del tutto impotenti e incapaci di opporre resistenza». Il corpo militare, fedele a Massenzio, verrà sciolto immediatamente dal vincitore. Costantino è raffigurato in atto di parlare (adlocutio) al Senato e al popolo dai Rostra del Foro, con grande soddisfazione dei senatori; infine mostra la sua generosità elargendo un donativo (congiarium). Insomma, l’intero arco è un omaggio all’antica tradizione romana.
un gesto inusitato La verità è che il 29 ottobre del 312, all’indomani di ponte Milvio, Costantino era entrato nella vecchia capitale, ma, con un gesto inusitato e per certi versi imbarazzante, non era salito al tempio di Giove Capitolino, dirigendosi invece in gran
fretta al palazzo: in questo modo si rifiutava di rendere grazie al principale dio di un pantheon pagano e aboliva di fatto il trionfo, rompendo deliberatamente un’antichissima tradizione. Nello stesso periodo l’Urbe vide comparire la «prima attestazione del generale vittorioso nel nome di Cristo», una statua d’oro nel Foro, con il labaro a forma di croce ornato dal simbolo cristiano (chrismòn), dove – racconta il vescovo Eusebio – l’imperatore precisava di avere «con questo segno di salvezza (...) restituito al popolo dei Romani lo splendore antico e la gloria». Nell’anno 313 gli Augusti Costantino e Licinio s’incontrarono a Milano per celebrare la nozze di quest’ultimo con Costanza; ed è significativo che la divinità in nome della quale si sarebbe promulgato il cosiddetto «editto» sia rimasta un po’ vaga: è la «suprema divinità» per Lattanzio, «divinità» e basta per il vescovo Eusebio. In realtà non vi fu alcun editto, ma i due Augusti si limitarono, con una lettera indirizzata al governatore della Bitinia, a confermare le previsioni di una disposizione promulgata il 30 aprile 311 da Galerio, a Serdica.
L’arco di Costantino (nella pagina accanto) e, in alto, un particolare dei rilievi del fianco est, raffiguranti l’entrata trionfale dell’imperatore in Roma (nella fascia in basso) e la quadriga di Helios che ascende al cielo (nel tondo).
La scelta di evitare il Campidoglio e il suo tempio fu confermata nel 315, per i decennalia, anzi, riferisce Eusebio, in quella occasione l’imperatore indirizzò «al Signore universale preghiere di ringraziamento, come sacrifici senza incenso e senza fumo». Il rapporto con l’aristocrazia pagana continuò a essere complicato: nel 319, riferendosi ai culti pubblici romani, l’imperatore ricorreva ai termini «superstizione» e «avanzi della tirannide di Massenzio». Nel 321 il panegirista Nazario invitava Costantino e i figli a risiedere piú
spesso a Roma, ma l’invito non venne mai raccolto: la famiglia imperiale non amava Roma, con la sola eccezione della madre dell’imperatore, Elena.
il rispetto del paganesimo Se nel 323 l’imperatore ancora definiva aliena superstitio quello stesso sistema religioso tradizionale del quale però continuava a essere pontefice, l’anno dopo si celebrarono i riti di fondazione di Costantinopoli, ai quali era regolarmente presen-
in questo segno vincerai... La sera del 27 ottobre del 312 d.C. Costantino, accampato a pochi chilometri da Roma lungo la via Flaminia, nei pressi di Prima Porta, preparandosi allo scontro del giorno dopo con Massenzio, ricevette secondo il racconto di due autori antichi (Lattanzio ed Eusebio di Cesarea, che descrivono l’episodio in maniera diversa) una visione che lo invitava a utilizzare il segno di Cristo (uno staurogramma secondo Lattanzio, il classico Chi-Rho del monogramma costantiniano secondo Eusebio) per ottenere il trionfo contro il rivale, con la profezia «In hoc signo vinces» («In questo segno vincerai»). Il giorno dopo Costantino, accolto il suggerimento, secondo la tradizione, affrontò le truppe di Massenzio sconfiggendole nella zona di Saxa Rubra. Massenzio, tentando la fuga, morí affogato nel Tevere presso il ponte Milvio: recuperato il cadavere, la sua testa fu esposta su una picca e portata in giro per la città.
te un campione indiscusso del paganesimo tradizionale come Vettio Agorio Pretestato. Al divieto di sacrificare del rescritto di Hispellum (Spello), fa riscontro la statua, ancora pagana, di Costantino come Helios, a Costantinopoli. Né, fino alla fine del suo regno, il primo sovrano cristiano spostò il Palladio dalla sua abituale collocazione, il tempio rotondo del Foro. Ma nel gennaio del 325, infine, Costantino impose all’Urbe un prefetto cristiano, Acilio Severo, con una scelta certamente non condivisa dalla classe dirigente pagana ancora dominante. Nello stesso anno – quello del concilio di Nicea – nel Discorso all’Assemblea dei Santi, sostenne di aver liberato i cristiani «dall’uomo tristo», il cognato Licinio e, come si è detto, preferí celebrare i vicennalia nella sua Nicomedia, come osserva piú tardi anche Girolamo. In realtà e per quanto possibile, Costantino rimase formalmente garante di tutte le religioni ammesse (licitae) nell’impero, sottraendo però di fatto ai culti pagani prestigio e anche risorse che contribuivano a incrementare la circolazione monetaria; e che, in caso di chiusura di templi pagani (Gerusalemme, per edificare la basilica del S. Sepolcro) e requisizione di statue e oggetti preziosi, venivano restituite alla comunità sotto forma di arredi urbani. L’imperatore sarebbe diventato un cristiano perfetto (ma fortissimamente tentato dall’arianesimo) negli ultimi anni di vita. Alle molto ossequiose fonti cristiane sull’argomento fa riscontro uno degli ultimi scrittori pagani, Zosimo, autore agli inizi del VI secolo di una Storia Nuova che getta una luce inquietante su un imperatore elevato addirittura agli altari dalla Chiesa ortodossa. Secondo la nostra fonte l’assassinio del figlio Crispo, amorevolmente educato dalla nonna Elena e dal cristianissimo precettore Lattanzio, pesava orrendamente su Costantino che, divorato dal rimorso, si sarebbe convertito soltanto a r c h e o 41
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mostre • costantino il grande
Mausoleo di Santa Costanza
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Basilica circiforme di Sant’Agnese
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Terme di Costantino Basilica di San Pietro
Castro Pretorio
Terme di Diocleziano
Castel S. Angelo
Basilica circiforme di San Lorenzo
Piazza della Repubblica
Basilica di San Marco Piazza Navona
Tempio di Minerva Medica
Piazza Venezia
Basilica Nova (Basilica di Massenzio) Foro Romano
Piazza Vittorio Emanuele II
Isola Tiberina
Via Aurelia
Arcus Novus (C. d. Arco di Giano)
Piazza S. Croce in Gerusalemme Piazza S. Giovanni in Laterano
Circo Massimo
Porta Maggiore Sessorium (Residenza imperiale di Costantino)
Arco di Costantino Battistero Lateranense
Basilica del Salvatore Porta S. Paolo
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Basilica circiforme di papa Marco
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Basilica circiforme di Papa Marco
un uomo malvagio I delitti commissionati dal padre e dal marito nell’estate del 326, in connessione con una «festa patria» identificabile con i ludi Romani, spiegano forse perché, come conferma un’altra fonte, Libanio di Antiochia, Costantino a Roma non fosse troppo amato. E un certo disorientamento nell’immagine del
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marito, al quale aveva dato ben cinque figli e addirittura denunciato anni prima gli intrighi del suo stesso padre, condannandolo.
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perché un «egiziano» proveniente dall’Iberia (in realtà il vescovo Ossio di Cordova) gli aveva confermato che «la religione cristiana annullava tutte le colpe». Per Zosimo, Costantino era un uomo «dalla natura malvagia», che «celebrava i riti patrii (…) per convenienza» e non teneva «in alcun conto le leggi della natura». Tanto piú che all’assassinio di Crispo (è incerto se a Roma o a Pola, in Istria) seguí quello della moglie Fausta, estratta cadavere da un bagno troppo caldo predisposto per lei al Laterano dal
primo imperatore cristiano si coglie nelle leggende fiorite dalla fine del IV-inizi del V secolo. Nel colorito racconto degli Atti di S. Silvestro, Costantino compare come un uomo malvagio che, su consiglio dei «pontefici del Campidoglio», cerca di guarire dalla lebbra che lo affligge ordinando una piscina piena del sangue di fanciulli innocenti in cui bagnarsi; e solo di fronte alle madri piangenti si rende conto dell’enormità del delitto che sta per compiere. Abbandonato l’orrendo proposito e molto opportunamente consi-
Tempio di Minerva Medica
Via Tiburtina
Basilica circiforme anonima della Via Prenestina
Mausoleo imperiale
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Basilica circiforme dei SS. Pietro e Marcellino
Mausoleo di Elena Proprietà imperiali intra duas lauros
gliato dagli apostoli Pietro e Paolo (ancora un’apparizione!), si fa battezzare da papa Silvestro nella «piscina di pietà», cioè nel battistero annesso alla basilica constantiniana, oggi di S. Giovanni. D’altra parte, si osserverà che l’insegnamento impartito dall’imperatore cristianissimo ai figli avuti da Fausta non evitò le lunghe e sanguinose guerre fra i tre maschi; e produsse da una parte due ortodossi cattolici – Costantino II e Costante – dall’altra un convintissimo filoariano, Costanzo II, un uomo
In alto, sulle due pagine: pianta schematica dell’area urbana di Roma e di una parte del suo suburbio tra il III e il IV sec. d.C. Sono evidenziate le piú importanti opere realizzate per volontà di Costantino, la cui attività edilizia si concentrò soprattutto al di fuori del circuito delle mura aureliane.
acclamato dalle truppe 280-85 circa Costantino nasce a Naisso (Niš), in Illiria, dal generale Flavio Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, un’ex ostessa. 293 Il padre di Costantino, che aveva sposato la figliastra dell’imperatore Massimiano, viene adottato da quest’ultimo, ed eletto Cesare. 305 Abdicazione di Diocleziano e Massimiano. Il padre di Costantino diventa imperatore della pars occidentalis. 306 Morte di Costanzo Cloro presso Eburacum (York), in Britannia. Le truppe acclamano imperatore Costantino. A Roma, viene eletto imperatore Massenzio, figlio di Massimiano. 310 Morte di Massimiano, dopo un duro conflitto con il figlio. 28 ottobre 312 Costantino e Massenzio si scontrano presso ponte Milvio. Massenzio, sconfitto, annega nel Tevere. 313 Alleanza fra Costantino (Augusto per l’Occidente) e Licinio (Augusto per l’Oriente). Eliminazione di Massimino Daia, l’altro imperatore d’Oriente eletto da Galerio. A Milano, Costantino e Licinio emanano il celeberrimo «editto di tolleranza». 324 Scontro tra i due Augusti. Costantino sconfigge Licinio a Crisopoli (18 settembre 324) e assume su di sé tutto il potere. 11 maggio 330 Inaugurazione di Costantinopoli. 22 maggio 337 Battesimo in articulo mortis e morte di Costantino presso Nicomedia. a r c h e o 43
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Il palazzo imperiale Il 29 ottobre 312, all’indomani della battaglia di Ponte Milvio, Costantino diventa l’unico Augusto dell’impero d’Occidente e viene accolto a Roma come liberatore dall’usurpator Massenzio. L’imperatore intraprese subito una serie di interventi nella zona sud-orientale di Roma, che ne determinarono poi lo sviluppo in epoca altomedievale. Come primo provvedimento sciolse il corpo degli equites singulares, la guardia imperiale schieratasi con Massenzio; sul luogo delle loro caserme fu eretta la prima basilica cristiana di Roma (l’attuale S. Giovanni in Laterano), consacrata al Redentore appena due settimane dopo l’ingresso trionfale nella capitale, a cui in seguito venne annessa anche la sede papale. Quindi trasformò in palazzo, in seguito noto come Sessorium, la villa suburbana degli Horti Variani nell’area immediatamente a est del Laterano. La residenza, già appartenuta a Elagabalo, costituiva anche il vertice verso la città delle retrostanti proprietà imperiali ad Duas Lauros, che secondo le fonti antiche si sarebbero estese «dalla porta Sessoriana fino al III miglio della via Labicana» (da Porta Maggiore a Torpignattara, n.d.r.). Qui, sul cimitero degli equites singulares, fece erigere il mausoleo destinato a celebrare la dinastia dei Costantinidi, che poi per le mutate condizioni storiche ospitò solo le spoglie dell’imperatrice madre Elena, ivi sepolta nel 329. Una certa fretta edificatoria, con grande riutilizzo di materiali e alcuni ripensamenti in corso d’opera, Sulle due pagine, da sinistra: ricostruzione virtuale degli interni del Sessorium; i resti dell’edificio in una incisione del Piranesi; gli stessi resti cosí come si presentano oggi.
sospettoso e crudele destinato a sopravvivere a tutti i suoi fratelli. Con l’assassinio del figlio e della moglie si spezzò del tutto il rapporto di Costantino con Roma, alla quale preferí definitivamente la sua capitale, Costantinopoli, anch’essa disposta su sette colli e organizzata in 14 regiones. Nessun membro della famiglia imperiale comparve nell’Urbe per i tricennalia, il cui vero inizio coincise con la dedica della basilica del S. Sepolcro a Gerusalemme. Ma nella capitale storica l’imperatore dalla «condizione itinerante» 44 a r c h e o
decise, probabilmente sin dal 312, di lasciare una sorta di luogotenenza alla madre Elena, quae Augusta cum filio conregnabat. La donna è degna della massima ammirazione: da semplice stabularia (proprietaria o serva di locanda) in Bitinia, divenne compagna del cesare Costanzo Cloro, che la ripudiò – sembra nel 289 – solo perché l’Augusto d’Occidente, Massimiano, aveva deciso di dargli in moglie la figlia Teodora.
il rancore di elena Verso la rivale e i figli da lei avuti, la madre di Costantino covò per tutta la vita un rancore incancellabile. Ritiratasi con Costantino alla corte di Diocleziano, Elena continuò a vigilare su di lui e, dopo Livia, fu la seconda madre di un imperatore a essere nominata Augusta, nel 324, in
una parabola superba che alla fine del IV secolo, in un’Orazione rimasta famosa, il vescovo Ambrogio riassume nella vivida espressione «de stercore ad regnum». Il pellegrinaggio in Terra Santa suggerito dal vescovo di Gerusalemme, piuttosto un viaggio politico commissionato dall’imperatore, si svolse fra il 327 e il 328, quando Helena, nobilissima femina, aveva circa ottant’anni; e produsse risultati mirabolanti, aprendo la strada all’immenso filone della ricerca e commercio delle reliquie, per la cui ostensione concepí la rivitalizzazione e radicale trasformazione di un vasto complesso imperiale, già realizzato a Roma dagli imperatori Severi negli Horti Spei Veteris e abbandonato da decenni. Per Ambrogio, Elena è un personaggio assai piú significativo di Co-
caratterizzò i lavori di adeguamento della villa in palazzo imperiale, che probabilmente avrebbero dovuto esser terminati entro il 1° marzo 321, data in cui a Roma furono celebrati con grande sfarzo i quinquennali dei giovani Cesari d’Occidente, Crispo e Costantino il Giovane, insieme al quindicennale di Costantino Augusto. Tra i lavori si annoverano il restauro delle vicine terme di età severiana, che da questo momento si chiameranno Eleniane, e la trasformazione di un atrio della precedente villa in cappella palatina e quindi in basilica cristiana con il titolo di Hierusalem, destinata ad accogliere le reliquie della Santa Croce. Il nuovo palazzo doveva essere un vasto complesso polifunzionale, esteso su una superficie pari a circa 122 500 mq, una sorta di enclave incastonata nell’angolo sud-orientale delle mura Aureliane, da cui
stantino: è illuminata dallo Spirito Santo, ha riconosciuto dall’iscrizione la vera Croce; interpreta e realizza i disegni provvidenziali, insomma si pone quasi in parallelo con la vergine Maria. La madre dell’Augusto, e Augusta ella stessa, può vantare un numero non trascurabile di raffigurazioni su solidi d’oro, dove compare alternatamente diademata e come Securitas velata, cosí come su medaglioni insieme con Costantino e altri membri della famiglia; invece su un nummus rinvenuto a Roma, nello scavo della Crypta Balbi, l’anziana imperatrice diademata è associata a Pax, con ramo d’olivo e scettro. Ma di Elena si ricordano soprattutto le due celebri statue sedute dei Capitolini (Sala degli Imperatori) e degli Uffizi, ognuna delle quali recupera una statua antonina – proba-
era protetta su tre lati, col solo prospetto occidentale affacciato sulla città tramite un’ampia piazza porticata. Da documenti d’archivio e dai resti ancora visibili nel comprensorio archeologico di S. Croce in Gerusalemme si può ricostruire la struttura del complesso palatino. Accanto agli appartamenti imperiali, situati a est dell’attuale basilica, si trovavano i quartieri residenziali dei funzionari di corte, di cui sono tuttora visibili in situ tre domus, situate nell’area nord del comprensorio archeologico a ridosso delle mura Aureliane, che mostrano notevoli affreschi parietali e pavimenti musivi. Non meno importante era il settore pubblico del palazzo, in cui si concentravano gli uffici dell’amministrazione di corte, che si suppone ubicati nella parte ovest del complesso, intorno a una piazza porticata su cui si affacciava anche l’ambiente piú importante del palazzo: la basilica civile o regia, dove l’imperatore si manifestava ai sudditi secondo un preciso rituale. Nel 324, dopo la vittoria sul rivale Licinio, Costantino riunifica l’impero sotto il suo dominio e decide di fondare la nuova capitale a Costantinopoli; il Sessorio rimane pertanto la residenza dell’imperatrice Elena. Il prestigio del palazzo continua fino all’Alto Medioevo: nel 433, infatti, vi si tenne un concilio alla presenza del papa Sisto III e dell’imperatore Valentiniano III; e, nel 501, vi risiedeva Odoino, alto ufficiale di Teodorico, qui giustiziato in quanto sospettato di alto tradimento. Nei secoli successivi prevalse infine la valenza religiosa della basilica cristiana che ospitava le sacre reliquie, meta di devoti pellegrinaggi. Donato Colli
bilmente una Faustina Minore – rilavorandone la testa: anche qui si coglie un voluto richiamo al periodo dei «buoni imperatori» già proposto nell’Arco dedicato dal Senato. Una terza celebre statua è la Sant’Elena della basilica di S. Croce, rimaneggiamento di una probabile statua dell’imperatrice su corpo forse di Giunone, ancora oggi offerta al culto e alle preghiere dei devoti nella cappella omonima.
un linguaggio nuovo I ritratti di Costantino introducono un linguaggio figurativo realmente nuovo, che presenta un autocrate, spesso di dimensioni colossali, caratterizzato da una lontananza siderale dai mortali, che prende la forma di una fissità ieratica, talvolta amplificata da un nimbo. È l’impe-
ratore «isapostolos» in contatto diretto con la divinità, colui al quale si deve l’adoratio; ma è anche quello che riprende forme piú naturalistiche, ispirandosi all’arte di Augusto e dei «buoni imperatori», i cui ritratti vengono rilavorati «in modo programmatico», come ha notato Claudio Parisi Presicce. Caratteristica tipica della ritrattistica costantiniana è la colossalità, espediente banale ma efficace per superare i predecessori nelle dimensioni delle raffigurazioni, quand’anche si fossero riutilizzati ritratti di imperatori precedenti, per scelta, praticità o damnatio memoriae; la finalità era quella di mostrarsi negli edifici e nelle strade, insomma nel corpo vivo della città, come l’imperatore piú grande di tutti, «l’unico in grado di competere con a r c h e o 45
mostre • costantino 313 d.c.
le immagini degli dèi». I ritratti di Costantino variano nel tempo, passando progressivamente dal giovane alla ricerca della legittimazione, acclamato dai soldati in Britannia, all’uomo maturo con pieghe sul volto e grandi occhi fissi, in contatto con il Cielo piú che con i mortali, incarnando ciò che sempre Parisi Presicce ha definito «il nuovo volto dei potenti». Il fervore edilizio di Costantino e di sua madre Elena può definirsi stupefacente, tanto che, malgrado i complessi rapporti intercorsi con la città e i suoi abitanti, si giustifica pienamente l’immagine di una Roma costantiniana. La cifra è soprattutto religiosa, anche se la serie si apre con un monumento «laico», espressione del Senato piú che dell’imperatore: l’arco di Costantino, dedicato in occasione dello scioglimento dei vota per i decennali del 315 e connessa formulazione di quelli per i ventennali. Nel tetrapylon realizzato dal vincitore nel luogo dell’accampamento la notte precedente la battaglia, fatidica perché quella del sogno premonitore della vittoria, si identifica invece l’arco detto di Malborghetto, situato al XIX km della via Flaminia. Fra le altre realizzazioni civili, vanno ricordate le terme sul Quirinale, con l’ampia cupola triabsidata forse del calidarium, il rifacimento di quelle di Agrippa (oggi ne resta l’arco detto della Ciambella), la via colonnata alla base del Quirinale nota come Porticus Constantini e i settori residenziale e pubblico del Sessorium; nell’area monumentale centrale, i restauri del palazzo imperiale sul Palatino e della casa delle Vestali, oltre ai piú noti interventi al cosiddetto tempio di Romolo e la trasformazione della basilica di Massenzio. Quest’ultima, sorta sugli horrea Piperataria di età flavia, aveva dimensioni enormi (100 x 65 m; h. max 35 m) e una maestosa navata centrale coperta da tre volte a crociera, retta da colonne alte piú di 14 m (l’unica conservata adorna oggi piazza S. Maria Maggiore). Nel progetto ori46 a r c h e o
ginario l’edificio era orientato estovest, con ingresso a est e grande abside a chiusura sul lato opposto, dalla quale peraltro provengono i grandi frammenti dell’acrolito colossale, oggi ai Conservatori, in cui i tratti di Massenzio sono rilavorati come quelli di Costantino.
un portale magnifico Il cosiddetto tempio di Romolo, sorto su un tempio di Giove Statore e forse legato alla morte del figlio di Massenzio (ma non mancano ipotesi di segno diverso), sarebbe stato ristrutturato e ridedicato da Costantino ai Penati. Gli studiosi si sono soffermati sulla novità e gradevolezza di un’architettura in cui la facciata dissimula la struttura interna circolare coperta a cupola, il portale abbaglia per la sua ricchezza decorativa e la pianta è movimentata da due lunghi ambienti absidati e da un’ul-
teriore sala rettangolare, oggi corrispondente alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano. Almeno per questi due edifici, Costantino si pose in continuità con Massenzio il quale, come si è detto, lasciò ampia traccia di sé anche nel suburbio, con la costruzione sull’Appia del grande complesso palazzocirco-mausoleo. Ma l’imperatore che a Cristo doveva la sua vittoria diede grandissimo impulso a un’edilizia monumentale che avviò e sviluppò un forte processo di cristianizzazione dell’Urbe, erigendo un gran numero di chiese. Tra esse, spicca una vera e propria «corona» di sei basiliche cimiteriali extraurbane, finalizzate soprattutto al culto dei martiri, quattro delle quali, ricordando la planimetria degli antichi circhi, sono dette circiformi: attuale S. Sebastiano, S. Agnese, S. Lorenzo al Verano, SS. Marcellino e Pietro, erette sui luoghi di venerazione dei mar-
Il Mausoleo di elena Il sepolcro monumentale innalzato sulla via Labicana per ospitare le spoglie della madre di Costantino è uno dei mausolei tardo-antichi realizzati nell’Urbe in età tetrarchica. In età moderna è stato ribattezzato «Torpignattara» (da pignatta, pentola molto capace, perlopiú in terracotta), per via delle anfore utilizzate nella costruzione, allo scopo di alleggerirla, e rese visibili dal crollo parziale della struttura. Si ignora se il mausoleo fosse stato fin dall’inizio destinato a Elena, né sappiamo se il sarcofago in porfido fosse stato realizzato in origine per Costanzo Cloro, per Costantino o forse per Massenzio. È invece certo che la tomba era stata concepita come sepolcro di rango imperiale.
tiri omonimi. Per tutte le basiliche, cimiteriali e non, si scelsero opportunamente terreni periferici (con l’unica eccezione della zona di S. Croce, piú centrale) e di proprietà imperiale, per evitare di «urtare la sensibilità» di un senato ancora in gran parte pagano. Tratto distintivo dell’architettura costantiniana è il suo carattere innovativo. È un’architettura dai contenuti fortemente simbolici e dalle soluzioni intelligenti e ardite (per tutte, le finestre inserite nelle nicchie che riducono lo spessore dello stipite), tanto che si è parlato giustamente di «miracolo statico», che in piú d’un caso costrinse a ingegnarsi per trovare soluzioni in corso d’opera. Le innovazioni r iguardano l’architettura religiosa come quella civile, entrambe peraltro caratterizzate da un elemento destinato a «segnare» profondamente la città: le splendi-
de e vaste cupole che si stagliavano contro il cielo. A ragione si è affermato che al figlio di Elena si deve l’invenzione della basilica cristiana a piú navate, nonché una consistente trasformazione del paesaggio urbano e periurbano di Roma. L’elenco delle realizzazioni parte dal Laterano – la basilica constantiniana poi del Salvatore e oggi di S. Giovanni; prosegue sul colle Vaticano con S. Pietro, sull’Ostiense con S. Paolo, si estende sull’Appia con S. Sebastiano e sull’Ardeatina con la basilica di papa Marco, nonché sulla Labicana con Pietro e Marcellino. «Con diverso grado di probabilità» (Paolo Liverani), è attribuita all’imperatore S. Lorenzo al Verano; mentre le donne della famiglia contribuirono con le fondazioni della basilica di S. Croce, opera di Elena e di S. Agnese, voluta da Costanza sulla via Nomentana. Sono realizzazioni imponenti e magnifiche, nelle quali i caratteri
dell’architettura civile di tradizione romana vengono ripresi e trasformati in relazione alle esigenze del culto cristiano, mostrando una forte carica innovativa e una grande capacità di sperimentazione.
la prima basilica La piú antica, la basilica constantiniana del Laterano – consacrata verosimilmente fra il 318 e il 323 – misurava 105 x 56 m e si articolava in 5 navate, con una soluzione planimetrica a «pseudo transetto» non piú replicata dalle basiliche successive. La navata centrale, piú larga e alta, consentiva un’efficace illuminazione naturale e si concludeva con una vasta abside, verso la quale si convogliava l’attenzione degli spettatori. Si è ricostruito un fastigium a inquadramento del presbiterio, con 4 colonne bronzee e una sontuosa decorazione interna, con le statue d’argento di Cristo e dei
Sulle due pagine, da sinistra: il mausoleo di Elena in una incisione del Piranesi; una ricostruzione virtuale del monumento; i resti dell’edificio cosí come si presentano oggi.
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mostre • costantino 313 d.c.
il tesoretto e il lare danzante di via laurentina In seguito alla presa del potere da parte di Costantino ai danni dell’usurpatore Massenzio (battaglia di ponte Milvio del 312 d.C.) e alla duplicazione del baricentro politico-finanziario verso oriente nella nuova capitale dell’impero, Costantinopoli, fondata da Costantino nel 330 d.C., si assiste a una contrazione economica delle attività produttive del suburbio. Un esempio di tale fenomeno è documentato dall’edificio polifunzionale (locanda o stabulum) rinvenuto tra il V e il VI miglio dell’antica via Laurentina, vissuto per ben cinque secoli, dalla tarda repubblica alla prima età costantiniana. La struttura fu repentinamente abbandonata e distrutta, per un evento traumatico a noi ignoto, che ha comportato l’abbandono delle suppellettili private, come gli oggetti del tabernacolo dedicato ai Lari, e il nascondimento di un tesoretto monetale di 50 monete di uso corrente insieme a oggetti di pregio contenuti in una cassa lignea. Esteso per 1380 mq circa, il complesso architettonico è interessato da numerose fasi di vita e ristrutturazione dal II secolo a.C. alla piena età imperiale, con murature in opera quadrata, incerta e reticolata, e presenta un’articolazione planimetrica a corte collegata alla strada da vani di servizio (verosimilmente alloggi e cucine); qualifica la corte un ambiente polifunzionale contraffortato, con parte scoperta per il passaggio e il parcheggio per veicoli, e secondo piano ligneo per l’immagazzinamento delle derrate. Tali peculiarità, ripetute nelle diverse fasi con le caratteristiche fisse della presenza di un accesso ai carriaggi per trasporto delle merci, uscita sul lato opposto e disponibilità di stoccaggio, unite al collegamento con il tracciato viario, evidenziato da porticati nella fase piú antica e da collegamenti strutturali nel periodo imperiale, suggeriscono il riconoscimento di una struttura di servizio ai viaggiatori. All’interno del vano cucina, originariamente incassati in una nicchia quadrangolare nel muro ovest, si conservavano i resti di un tabernacolo domestico, costituiti da una casseruola in ceramica da fuoco, un’anforetta a botticella, una patera in bronzo, tre lucerne fittili, due cunei in ferro e la statuina enea di Lare danzante. Il ritrovamento della raffigurazione del genio familiare (il Lare) ha carattere di rarità nell’ambito dei contesti antichi e, pertanto, conferisce parametri di particolare rilevanza, sia all’edificio para-pubblico in cui era collocato, sia all’episodio che ha determinato l’abbandono di un patrimonio privato caro alla famiglia, in quanto rappresentazione del passato atavico di essa, che la accompagnava in tutti i suoi trasferimenti.
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Per quanto riguarda il gruzzolo recuperato nel vano attiguo a quello del Larario – costituito da folles attribuibili a emissioni della seconda e terza tetrarchia (305-312 d.C.) e alle prime coniazioni di Costantino del 313 d.C. –, oltre a confermare il carattere di eccezionalità per la presenza preponderante di monete spicciole coniate da Massenzio, circolanti ancora durante la prima età costantiniana, rappresenta il caso di un tesoretto sottratto alla devastazione non piú recuperato per il sopraggiungere della distruzione e dei crolli dell’edificio che lo conteneva. In merito alla tutela, al fine di preservare le strutture antiche nella loro interezza, sono state prescritte varianti al programma urbanistico «EUR-Castellaccio». Data l’incompatibilità del mantenimento delle quote antiche a causa del cospicuo innalzamento del sistema idrico superficiale e del livello di falda, il tracciato viario e le strutture monumentali, protette da un reinterro conservativo, sono state preservate con rilettura dell’andamento in superficie e inserimento all’interno di un percorso didattico informativo della topografia dell’area e di destinazione d’uso dei manufatti. Anna Buccellato e Fulvio Coletti
12 apostoli. Adiacente ma separato era il battistero, che inglobò un complesso termale severiano e che fin dall’impianto costantiniano ebbe fondazioni circolari ed elevato a ottagono. Fra il 319 e il 322 iniziarono i lavori per la basilica di S. Pietro, quasi pronta nel 326, per le celebrazioni romane dei ventennali di Costantino. La volontà di erigerla nel punto preciso della tomba del santo portò a spianamenti, interri e terrazzamenti, per superare le notevoli difficoltà tecniche dovute a un’orografia del tutto sfavorevole; oltre che alla presenza di una vasta area di necropoli prevalentemente pagana, che fu spietatamente distrutta con l’approvazione di Costantino in qualità di pontefice massimo. Le dimensioni erano anche maggiori della basilica lateranense: 123 x 66 m, con transetto di 90 m a cui si aggiungeva un ampio atrio d’ingresso. Una serie di 4 + 2 colonne tortili prelevate dall’Oriente sosteneva il baldacchino nel punto dove
Il deposito monetale (qui sotto) e un bronzetto raffigurante un Lare danzante (nella pagina accanto) rinvenuti in un edificio scoperto tra il IV e il V miglio della via Laurentina (foto aerea in basso). Si tratta di un complesso articolato, con fasi di frequentazione comprese tra il II sec. a.C. e il IV sec. d.C.
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si conservava l’antica edicola realizzata sulla tomba di Pietro, mentre sul mosaico dell’arcone trionfale fra la navata centrale e il transetto, Costantino Vincitore (dunque dopo Crisopoli, del 324) offre a Cristo e san Pietro il modellino della chiesa, avviando la serie infinita di analoghe raffigurazioni. Sulla via Ostiense la basilica di S. Paolo, costruita sul «trofeo di Gaio», costituiva un elemento importantissimo della topografia cristiana della città. Le ricerche, benché insufficienti, indiziano un edificio lungo 17 m, con un’abside sul lato opposto a quello odierno e ingresso sulla strada. Significativi ampliamenti furono realizzati piú tardi, a partire da papa Damaso e fino ad Arcadio (nuova basilica dei tre imperatori).
le reliquie della Croce S. Croce è la seconda basilica intramuranea dopo il Laterano e, secondo il Liber Pontificalis, avrebbe fin dall’inizio accolto le reliquie della Croce. Di fondazione comunemente riportata a Elena, la grande aula basilicale riutilizzava il maestoso atrio del palazzo dei Severi (36 x 25 m, altezza suoperiore ai 22 m), ruotando di 90° l’asse dell’edificio con l’apertura di una grande abside sul lato est e trasformando in porte le finestre originarie. Anche qui rimane senza confronti una soluzione innovativa e inusitata, cioè la tripartizione interna dello spazio mediante due setti trasversali a tre arcate, finalizzata verosimilmente a scandire gli spazi della liturgia. Un elemento di eccezionale significato consisteva nelle reliquie della «vera Croce», riportate dal viaggio «politico» dell’anziana Augusta in Terra Santa e conservate dietro all’abside nella cappella detta di S. Elena, collegata con l’aula di culto da un passaggio laterale. La connessione con il battistero fu ricreata realizzando un’ampia vasca di marmo, la cui datazione è posta tra gli anni di Elena e il V o VI secolo. La basilica, sostentata da cospicue rendite delle proprietà costantiniane – a r c h e o 49
mostre • costantino 313 d.c.
Scena di parata circense in opus sectile, dalla basilica di Giunio Basso sull’Esquilino. III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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puntigliosamente elencate, come negli altri casi, dal Liber Pontificalis – non era una cappella di Palazzo, ma svolgeva funzioni pastorali e aveva autonomia funzionale. Ai poli cosí costituiti si aggiunse quello della via Appia, con la Basilica Apostolorum, nel complesso di S. Sebastiano al II miglio. L’edificio circiforme di Costantino si presenta come una chiesa a deambulatorio, con ampia navata centrale a pilastri e archi, illuminata da numerose finestre estese anche all’abside. L’area presbiteriale dedicata alle tombe di maggior rilievo era delimitata da un setto trasversale ad arcate, ideologicamente in linea con
la serie dei molti mausolei disposti in facciata e lungo i lati; tra cui, forse, era il mausoleo dinastico di un costantinide.
sulla via ardeatina Il novero delle basiliche «cimiteriali» a deambulatorio si arricchí con quella detta di papa Marco, eretta sull’Ardeatina in corrispondenza con le catacombe di Balbina; della chiesa urbana, anch’essa dedicata a Marco, sappiamo che ottenne da Costantino ricche rendite terriere e arredi liturgici, come attesta immancabilmente il Liber Pontificalis. I recenti scavi di Vincenzo Fiocchi Nicolai hanno restituito molte im-
na, probabilmente circostante la basilica, che faceva parte delle ampie proprietà disposte a «pelle di leopardo» in una enorme fascia che si estendeva da porta Maggiore fino a Monte Cavo. Qui, infatti, vi fu sepolta la stessa Augusta, in un sarcofago di porfido, che la presenza di scene di guerra ha fatto ipotizzare destinato in origine a Costantino, prima che i suoi interessi e affetti si trasferissero con lui a Costantinopoli. Si è giustamente rilevato che l’associazione dei defunti della famiglia imperiale al culto dei santi, da essi promosso, doveva rispondere a un intento politico dichiarato di fatto e comunque molto efficace.
la tomba di elena Nel caso della distrutta e ricostruita chiesa dei SS. Pietro e Marcellino, anche qui in adiacenza con le omonime catacombe, la tomba di Elena
portanti informazioni sull’edificio, nel cui presbiterio trovò collocazione il sepolcro del papa. Di S. Agnese su via Nomentana sopravvivono invece pochi ruderi, in parte riferiti al poderoso recinto esterno; la basilica, realizzata nei pressi della tomba della martire da Costantina, figlia dell’imperatore, che ne fece il suo monumentale sepolcro, fu in seguito ristrutturata e trasformata. La sepoltura di un eminentissimo membro della stessa famiglia imperiale definisce una stretta connessione con la basilica dedicata ai SS. Pietro e Marcellino, eretta sull’antica via Labicana, fra il 326 e il 330, nell’ambito del fundus di Ele-
fu monumentalizzata con un grande mausoleo a pianta circolare, costituito da due cilindri sovrapposti, del quale resta la parte inferiore, con gli attacchi di una cupola di grande arditezza costruttiva (è il caso del progressivo alleggerimento con anfore, da cui il toponimo tipicamente romanesco di «Torpignattara»), in linea con l’architettura innovativa del periodo costantiniano, e in particolare con il cosiddetto tempio della Tosse a Tivoli e, nell’Urbe, il cosiddetto tempio di Minerva Medica. Un segno politico eccezionalmente forte fu dato dalla scelta del luogo, fino ad allora destinato al sepolcreto degli equites singulares, il corpo scelto fedele a Massenzio, massacrato con lui a ponte Milvio e per questo definitivamente sciolto da Costantino vittorioso. Alla morte di Elena, tutta la proprietà ad duas lauros (piú (segue a p. 54)
Testa di Helios in opus sectile, dal Mitreo di S. Prisca sull’Aventino. Prima metà del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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il tesoro della basilica di papa marco di Vincenzo Fiocchi Nicolai
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I corredi sono venuti alla luce nel luglio 2012 in una della tombe pavimentali della basilica «circiforme» della via Ardeatina, oggetto dagli anni Novanta di indagini archeologiche condotte dall’Università degli Studi di Roma «Tor Vergata» e dal Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, in collaborazione con la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. La chiesa è stata identificata con quella fatta costruire da papa Marco nell’anno 336 sulla via Ardeatina di cui ci parlano il Liber Pontificalis e altre fonti topografiche e agiografiche. L’edificio fu realizzato, grazie anche al contributo finanziario dell’imperatore Costantino, con la funzione di luogo di sepoltura (coemeterium) Gioielli provenienti dai corredi venuti alla luce in una tomba scoperta nella basilica di papa Marco sulla via Ardeatina: 1. Orecchini in oro a pendente, con granati, smeraldi e perle ; 2. collana con smeraldi, perle e vago vitreo; 3. anello a verga piatta con castone quadrangolare includente una gemma in vetro verde; 4. anello a verga ritorta con castone includente un granato. IV-V sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
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della comunità e ospitò anche la tomba del pontefice. L’identificazione si basa sulla ubicazione della costruzione, coincidente con quella indicata dalle fonti, sulla sua cronologia, determinata in base agli scavi, sulla planimetria «a deambulatorio» della chiesa, tipica dell’età costantiniana, sul suo carattere eminentemente funerario, corrispondente a quanto riferito dal Liber Pontificalis; infine sulla probabile individuazione della tomba del fondatore in un sepolcro monumentale situato nel settore absidale. I corredi aurei erano collocati accanto al corpo di una donna sepolta sul piano di un vano sepolcrale di grandi dimensioni aperto sul pavimento della chiesa. Il sepolcro venne adattato nella parte sommitale di un preesistente pozzo di ispezione di un acquedotto romano sotterraneo, che verosimilmente riforniva una delle ville presenti nell’età medio-imperiale in prossimità della via Ardeatina. Al momento della realizzazione della tomba, il pozzo fu parzialmente interrato e allargato nella parte sommitale per creare la camera sepolcrale, profonda circa 6 m dal pavimento della chiesa e accessibile attraverso un «tombino» quadrato, probabilmente dotato di una lastra di chiusura amovibile. La donna venne sepolta sul piano della stanza proprio in corrispondenza del tombino, deposta su un fianco, in posizione rannicchiata. Le analisi antropologiche hanno permesso di fissarne l’età di morte tra i 30 e i 35 anni. I corredi erano costituiti da due gruppi di gioielli collocati ai lati del bacino: il corredo 4 n. 1 consisteva in una collana d’oro con fermaglio dotato di disco ornato da un chrismon, una seconda collana con perle e smeraldi e una coppia di orecchini con perle, granati e smeraldi; il corredo n. 2 in quattro anelli e in una serie di elementi in oro, smeraldi, pietre e paste vitree pertinenti a gioielli smembrati. I monili sono stati ritrovati raggruppati: dovevano pertanto essere stati collocati in contenitori di materiale deperibile. La tomba fu violata nel tardo Medioevo: in quell’occasione venne asportata parte dell’interro a nord dei resti della donna. Ciò impedisce di stabilire se la posizione della defunta fosse dovuta alla contemporanea inumazione di altri individui, i cui corpi
Il Chrismòn simbolo di fede Collana in oro con fermaglio a disco decorato con Chrismòn, dalla basilica di papa Marco sulla via Ardeatina. Fine del IV-metà del V sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Il simbolo scelto da Costantino per celebrare la profezia della vittoria a ponte Milvio è il Chrismòn, segno grafico formato dalla sovrapposizione delle prime due lettere del nome di Cristo in greco, X (Chi) e P (Rho). La rappresentazione della croce, cosí come le prime scene di martirio, non fu inizialmente utilizzata dai primi cristiani, restii a raffigurare apertamente scene o simboli legati a momenti cruenti. Il Chrismòn, riprendeva una simbologia solare, efficace sia per i cristiani, sia per i pagani adepti del culto di Sol Invictus, particolarmente numerosi nell’esercito. Con Costantino il Chrismòn si diffonde in tutto l’Impero, divenendo il simbolo per eccellenza della fede cristiana.
sarebbero andati perduti nella violazione. Le analisi antropologiche ci dicono invece con certezza che, a poca distanza di tempo, sopra la donna vennero deposti altri due individui maschi, uno sopra l’altro, questa volta nel regolare senso della lunghezza della tomba, i cui resti sono in gran parte stati asportati dalla violazione tardo-medievale. Le analisi con il metodo del C14 sui resti ossei dei tre inumati, condotte dal Laboratorio del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Roma «La Sapienza» sotto la direzione di Gilberto Calderoni, hanno fornito una cronologia compresa tra il 390 e il 450, un risultato perfettamente in linea con la datazione delle altre sepolture nella chiesa e con quella degli oggetti di corredo dell’inumazione femminile. Il recupero dei gioielli è da ritenersi del tutto eccezionale nel panorama dei corredi restituiti dalle tombe della basilica dell’Ardeatina, caratterizzati dalla presenza di oggetti ben piú modesti. La notevole qualità dei monili di cui era dotata la sepoltura femminile suggerisce l’appartenenza della donna (ed evidentemente della famiglia proprietaria della tomba) a una classe sociale verosimilmente agiata. Veduta aerea dell’area indagata della basilica di papa Marco sulla via Ardeatina. Il cerchio rosso indica la tomba che ha restituito i corredi comprendenti i gioielli.
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correttamente inter duas lauros) passò alla Chiesa, che nell’XI secolo ne trasferí nella basilica Lateranense il sarcofago, oggi ai Musei Vaticani. La serie delle basiliche cimiteriali si chiude con S. Lorenzo fuori le Mura, al Verano, nei pressi delle catacombe dedicate all’omonimo martire lí sepolto. La fondazione costantiniana (basilica maior), con un piccolo oratorio sulla tomba del santo, fu ristrutturata nella seconda metà del VI secolo da papa Pelagio (basilica minor), per essere abbandonata qualche secolo dopo. Dell’impianto originario circiforme, a tre navate, facevano parte verosimilmente la trabeazione e le colonne, che si sono conservate con le loro basi.
satelliti delle catacombe Escludendo le chiese urbane (Laterano, S. Croce), le basiliche cimiteriali legate a Costantino e alla sua famiglia erano in realtà edifici polifunzionali, strettamente connessi alla sfera funeraria, veri e propria coemeteria coperta, in cui un disegno unitario di monumentalizzazione del culto dei martiri (basilica ad corpus) convogliava l’attenzione sui sepolcri eminenti/eccezionali e sui refrigeria disposti nell’abside/ esedra centrale, per essere arricchito e amplificato dalla disposizione «avvolgente» delle sepolture correnti sistemate nelle navatelle. Di fatto, la liturgia restava concentrata (e limitata) nella navata centrale, meglio illuminata rispetto al resto, secondo un modello derivante ideologicamente dalle catacombe, tanto da suggerire a Fabrizio Bisconti le belle espressioni «satelliti delle catacombe» e «giganteschi contenitori funerari». Non tutti i martiri delle basiliche costantiniane sono presenti nella Depositio Martyrum del 336, ispirata alla liturgia fissata non molti anni prima da papa Milziade dopo le persecuzioni di Diocleziano. In realtà tutti gli edifici religiosi legati a Costantino ri54 a r c h e o
Le basiliche cimiteriali costantiniane erano edifici polifunzionali
spondono a un preciso progetto di cristianizzazione dell’Urbe, che viene da essi circondata, ma non invasa; ed esprimono pienamente il potere imperiale e la volontà di integrare la Chiesa nella vita pubblica dello Stato, collegandosi al piú ampio disegno che portò Costantino e la sua famiglia a costellare l’impero di monumenti religiosi: dal Lazio (Roma, Ostia, Albano) alla Campania (Napoli, Capua), a Gerusalemme, Betlemme, Hebron, Nicomedia, Antiochia, Eliopoli. A Costantinopoli, infine, non si contano gli oratori, i santuari dedicati a martiri e le meravigliose chiese, una delle quali – la basilica dei SS. Apostoli – divenne il mausoleo dello stesso Costantino appena battezzato.
slancio e vivacità Altri segni particolarmente significativi di Costantino nell’Urbe sono il complesso del Sessorium e il cosiddetto tempio di Minerva Medica, in cui si colgono quei caratteri di slancio e vivacità spaziale tipici dell’architettura costantiniana (potendosi solo immaginare colori e scintillio di sectilia e mosaici di pasta vitrea con tessere d’oro). Ampliamenti e modifiche interessarono infatti la residenza severiana degli Horti Spei Veteris, ora Palatium Sessorianum, il cui atrio fu trasformato nella basilica eleniana. L’erezione delle mura aveva già eliminato le strutture agonistiche volute da Elagabalo, tagliando il Circo Variano e facendo dell’Anfiteatro Castrense un fortilizio. Con Elena l’area fra quest’ultimo e l’attuale piazza di Porta Maggiore fu occupata da un grande complesso abitativo, nel quale si susseguivano settori pavimentati in mosaico e opus sectile, un impianto termale e almeno due aule basilicali: una distrutta per la costruzione del Museo dei Granatieri e la piú vasta basilica civile, ora irriconoscibile, consegnata alla memoria come tempio di Venere e Cupido.
Quest’ultima, verosimilmente destinata a consistoria e funzioni di rappresentanza, era costituita da un’ampia aula rettangolare in opera laterizia (largh. 24,60 m; h. 21 m), con abside rinforzata da speroni, tetto a due spioventi retto da capriate, illuminata e alleggerita da finestre e arconi. Un doppio colonnato precedeva le due aule, arricchite all’interno da sectilia in marmi pregiati, mosaici policromi o a fondo d’oro nella cupola.
triclinio, nicchie e giochi d’acqua Davanti al sagrato dell’odierna chiesa di S. Croce si estendeva il settore pubblico del Palazzo, nel quale si sono riconosciuti un triclinio pubblico e un fronte mistilineo con nicchie, statue e giochi d’acqua. L’aula tricliniare e le stanze contigue erano allineate con la basilica eleniana e avanzate sulle terrazze digradanti verso il recinto, che separava la residenza da un altro monumento legato a Elena, le terme – in
realtà realizzate da Severo Alessandro – che da lei presero il nome dopo il radicale restauro che le restituí alla città. E ancora, la grande aula «di Minerva Medica», sull’Esquilino, ripropone formule tipiche dell’architettura di età costantiniana: dalla pianta polilobata, qui decagonale, all’amplissima cupola illuminata e alleggerita da finestroni, che si trasforma armoniosamente da poligonale a emisferica, al gioco di nicchie che dilata lo spazio; originalissima è la soluzione statica, che utilizza come struttura portante della cupola i dieci pilastri posti ai vertici del decagono. Le dimensioni sono imponenti – h. max. 32 m e diametro di 25 – e insieme a considerazioni tecniche, cronologiche e topografiche, hanno fatto ipotizzare una committenza imperiale, cioè costantiniana, all’interno del vastissimo comprensorio del Sessorium e, piú in generale, del settore orientale della città nella proprietà di Elena, che si estendeva fino al comprensorio ad duas lauros.
A sinistra: l’ingresso della mostra, allestita all’interno del Colosseo. A destra: la vetrina con il modello in scala dell’arco di Costantino. Nella pagina accanto: statuetta di Cristo docente, forse proveniente da Civita Lavinia (Roma). IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.
dove e quando «Costantino 313 d.C.» Roma, Colosseo fino al 15 settembre Orario fino al 31 agosto: lu-do, 8,30-19,15; dal 1° al 15 settembre: lu-do, 8,30-19,00 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it, www.mostracostantino.it, www.archeoroma.beniculturali.it Catalogo Electa a r c h e o 55
STORIA DI UN
IMPERATORE IN 10 OGGETTI di Andrea Augenti
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i può raccontare la storia di una persona attraverso gli oggetti? I suoi stessi oggetti, quelli che lo riguardano, o piú semplicemente quelli del suo tempo? L’archeologo ricostruisce, in genere, le vicende di città, paesaggi, monumenti; oppure dei commerci, delle religioni, di intere società… Ma le vite delle persone? È un compito piú difficile, che però si può talvolta svolgere. Soprattutto quando il personaggio in questione ha lasciato molte tracce di sé, perché ha avuto un ruolo di primo piano nello svolgersi della storia. E Costantino, che regnò dal 312 al 337, è sicuramente un caso del genere. Uno degli imperatori piú noti, che ha legato il suo nome a grandi imprese di vario tipo: nel campo della politica, per esempio, della guerra, nell’architettura, nella produzione di leggi… Un imperatore guerriero, e al tempo stesso un fondatore di città. Ma, soprattutto, un sovrano indissolubilmente legato al tema della religione: fu lui, infatti, a rendere definitivamente legittimo e a promuovere il culto cristiano nei territori dell’impero. Proveremo allora a ricostruire la storia di Costantino in chiave archeologica, sintetizzandone i tratti essenziali attraverso dieci oggetti in tutto. E lo faremo prendendo spunto dalla mostra allestita a Milano nello scorso inverno e ora presentata, in una nuova veste, a Roma: la maggior parte dei nostri oggetti ne fa parte. Ma non solo, perché ne chiameremo in causa anche altri, non compresi nella mostra. A ognuno dei reperti sono associati dei concetti, degli episodi, a volte delle semplici parole-chiave, che ci faranno da guida nel nostro racconto.
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1. La stele dell’eques
singularis: la battaglia di Ponte Milvio
Il primo degli oggetti è una lapide sepolcrale, fatta a pezzi in antico e poi ricostruita dagli archeologi. Il personaggio defunto è raffigurato due volte: la prima in alto, tra due maschere, sdraiato per il banchetto funebre, di profilo. Nella seconda scena, invece, lo vediamo molto piú grande, quasi imponente: è di fronte a noi, in abiti militari e con la spada nel fodero. L’iscrizione ci dice che il defunto è un certo Ulpio Vittorino, venuto a Roma dalla Pannonia, membro del corpo degli equites singulares nel quale militò per tredici anni. Ma chi erano gli equites singulares, e perché la lapide è stata
ridotta in frantumi? E soprattutto, che cosa c’entra tutto questo con Costantino? C’entra, eccome. Anzi, ha a che fare con una delle piú trionfali comparse di un regnante nella storia. È il 28 ottobre 312: Costantino è deciso a sconfiggere e a strappare il trono a Massenzio, che per lui non è altro che un usurpatore. Arriva a Roma da nord con le sue truppe, e sferra l’attacco decisivo presso il ponte Milvio, lungo la via Flaminia. È una battaglia celeberrima, riprodotta anche nel fregio dell’arco di Costantino, a due passi dal Colosseo. Massenzio ha la peggio: viene ucciso, e il suo esercito è sconfitto. Ne fanno parte gli equites singulares, la guardia del corpo a cavallo dell’imperatore. Dunque, con il senno di poi, possiamo dire che di fronte al flusso della storia gli equites hanno il solo torto d’essersi schierati dalla parte «sbagliata», quella di chi ha perso. E subito dopo Costantino si mostra spietato verso di loro, mettendo in atto un programma di damnatio memoriae. Prima di tutto distrugge le loro caserme, e lí permette la fondazione della cattedrale di Roma, la basilica del Salvatore (oggi S. Giovanni in Laterano, il nostro oggetto numero 6). E poi rade al suolo il loro cimitero, che si trovava alle porte della città, sulla via Labicana. Anche in questo caso è una chiesa a prendere il posto del complesso distrutto, la grande basilica dei SS. Marcellino e Pietro. Le tombe degli equites vengono distrutte, le loro ossa disperse, le lapidi che ne ricordavano i nomi vengono frantumate e in buona parte reimpiegate nelle fondazioni della chiesa, come materiale da costruzione. In altre parole, la nuova basilica cancella il ricordo della guardia a cavallo di Massenzio; anzi, di piú: poggia simbolicamente sulla sua memoria distrutta, che ha tenuto nascosta per secoli, finché sono intervenuti gli archeologi e l’hanno recuperata, acquisendo un tassello in piú di questa storia.
2. Le insegne di Massenzio: la presa del potere È una delle scoperte piú sensazionali degli ultimi anni: il set delle insegne del potere ritrovato nel 2005 sulla pendice nord-orientale del Palatino. Tre scettri, quattro punte di lancia da parata e altre quattro punte di lancia portastendardo. I reperti, avvolti nella seta e chiusi in astucci di
legno, erano stati sepolti volontariamente nella prima metà del IV secolo (questo dicono gli strati che coprivano gli astucci, e le analisi al C14). Perché? E di che cosa si tratta, veramente? Tutti gli indizi concordano: un gruppo di oggetti che sono appannaggio esclusivo dell’imperatore, datati all’inizio del IV secolo, sepolti presso i palazzi imperiali. La soluzione appare obbligata: sono le insegne del potere di Massenzio, che risiedeva proprio sul Palatino. Massenzio è l’antagonista, il nemico una volta sgominato il quale Costantino può fare il suo ingresso trionfale a Roma e assumere definitivamente il potere supremo. Attenzione al risvolto tragico, macabro, quasi shakespeariano della vicenda: Massenzio muore in battaglia, a ponte Milvio, ma la sua testa viene troncata di netto e mostrata ai Romani il giorno dopo, conficcata su una lancia. Nell’interpretazione di Tina Panella – l’archeologa che ha compiuto la scoperta, e che ha letteralmente riscritto la storia di quell’angolo di Roma grazie ai suoi scavi – le insegne furono sepolte da qualcuno molto vicino all’imperatore, magari un membro della corte, probabilmente con l’intento di recuperarle in seguito; cosa che poi evidentemente non avvenne, anche perché la vendetta di Costantino contro chi era rimasto fedele a Massenzio fu totale. Gli scettri sono composti da alcune parti in legno, e altre in metallo; all’estremità sostengono sfere in vetro di colore verde smeraldo. Le punte, invece, facevano parte di lance per usi differenti, alcune delle quali servivano a sostenere gli stendardi propri dell’imperatore. Il destino di questo gruppo di oggetti è simile a quello del loro proprietario, Massenzio: dimenticati, espunti dalla storia. Ora, grazie all’archeologia, tornano a testimoniare il passato. Illuminano la vicenda di chi ha perso, mostrano ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. a r c h e o 57
mostre • costantino 313 d.c.
3. L’anfora di Baratti:
4. Il vetro con ritratto di
L’anfora di Baratti è uno dei piú famosi reperti della tarda antichità. Prende il nome da Porto Baratti, in Toscana presso Piombino, dove fu ritrovata, in mare. Deve la sua notorietà innanzitutto all’essere un reperto di grandissima eleganza: un recipiente in argento alto piú di 60 cm, dalla forma ovoidale, che termina in alto con un lungo collo a cilindro. Oggi non si vedono piú, ma originariamente era provvisto anche di manici che permettevano di sollevarla e di usarla. E poi, l’anfora di Baratti, che risale al IV secolo, è famosa per via della sua decorazione: il corpo del recipiente è costellato a ritmo serrato da medaglioni, ognuno riempito da una raffigurazione. Sono 132 in tutto, e recano le immagini delle quattro regioni del mondo, di divinità differenti (Attis e Mitra), di eroi, di giovani, satiri e menadi che ballano e suonano, e di personaggi alati che probabilmente dobbiamo interpretare come Eros e Psiche. Ecco perché l’anfora di Baratti è famosa: perché questo prezioso reperto ci mostra con grande chiarezza la fortuna che ancora incontra il patrimonio iconografico classico quando ormai la fine dell’impero è alle porte. Ma non è solo una questione di immagini, probabilmente. In realtà l’anfora è stata prodotta in un mondo nel quale le antiche religioni sono ancora molto vive e in buona salute, e tali resteranno ancora a lungo. Basti pensare che a Roma, ancora alla fine del IV secolo, un certo Tamesius Olympius Augentius costruisce un tempio dedicato a Mitra; e sempre a Roma, circa cento anni piú tardi, si celebrano ancora i Lupercalia: una delle feste piú arcaiche della città, nel corso della quale i sacerdoti del Lupercal (la grotta nella quale, secondo la leggenda, erano stati trovati Romolo e Remo) correvano nudi intorno al colle Palatino e frustavano le vergini sterili con delle pelli di capra.
La nuova religione, il cristianesimo, in realtà, non era affatto nuova: al tempo di Costantino, già da alcuni secoli aveva iniziato a diffondersi a Roma, in Occidente e nel resto dell’impero. Costantino però è uno degli artefici dell’affermazione del culto cristiano: dopo il suo intervento diventa definitivamente lecito, là dove prima era fuorilegge. Molti credono che questo sia avvenuto nel 313, la data del cosiddetto editto di Milano. In realtà le cose andarono diversamente. Già nel 311 uno dei predecessori di Costantino, Galerio, aveva posto fine alle persecuzioni con un editto, stabilendo cosí la legalità del culto cristiano. E l’editto di Milano? Tanto per cominciare, non è firmato da Costantino, ma dal suo collega Licinio, dopo che i due si erano consultati. E poi non si tratta di un vero e proprio editto, ma di una lettera: un provvedimento, una sorta di circolare di conferma a quanto già stabilito nel 311. Ciò non sminuisce il ruolo di Milano, che già da qualche anno (dal 286) era stata scelta come una delle capitali dell’impero d’Occidente, e che di conseguenza, proprio in questo periodo, balza in primo piano nel panorama internazionale. Né diminuisce il peso di Costantino: sebbene non sia il firmatario, svolge comunque un ruolo importante nella vicenda. Comunque, se è vero che la nuova religione non era poi cosí nuova nel IV secolo, è anche vero
le religioni antiche
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Cristo: la nuova religione
Una cerimonia per propiziare la fecondità, della cui sopravvivenza si lamenta il papa di allora, Gelasio, sconvolto da quanto il rituale sia brutalmente esplicito. L’anfora di Baratti, cosí come gli esempi appena visti, ci parla dunque di un’epoca in cui il cristianesimo convive gomito a gomito con molte altre religioni. Un mondo nel quale la tradizione classica si interseca con quella cristiana, le si affianca. Come nella famosa catacomba della via Latina, dove a poca distanza sono affrescati il passaggio del Mar Rosso ed Ercole che uccide l’Idra. Un’epoca in cui la tolleranza è possibile, e molto praticata, e la forza dell’antico non scompare da un momento all’altro perché è profondamente radicata nella cultura delle persone. L’anfora di Baratti è forse il prodotto di un laboratorio di orefici della città di Antiochia, in Oriente. Di sicuro il nostro terzo oggetto ci apre una finestra molto importante sul mondo nel quale Costantino mette in atto il suo programma religioso, che alla lunga finirà per trasformare tutto questo alla radice.
che da qualche tempo essa stava mettendo a punto i suoi strumenti espressivi: i rituali, le sue manifestazioni architettoniche (piú o meno monumentali), e le iconografie. Per esempio: l’aspetto di Cristo che oggi conosciamo risale a un’epoca piú tarda; nei primi secoli del cristianesimo le raffigurazioni lo vogliono senza barba: un giovane, piú che un uomo fatto. Questo oggetto è il fondo di una coppa, o di un piatto. È un manufatto prezioso, decorato con un procedimento mediante il quale una foglia d’oro intagliata a formare un’immagine viene inserita tra due dischi di vetro. In questo caso al centro, dentro una losanga, c’è appunto un ritratto di Cristo: un giovane dallo sguardo profondo, intenso, vestito con tunica e mantello. Sopra di lui, corre la scritta: «Cris – tus», che non lascia spazio a dubbi sulla sua identità. La losanga è inserita in un quadrato, e negli spazi tra le due forme si ripetono altri quattro ritratti analoghi: se anch’essi rappresentassero Cristo, saremmo di fronte a uno schema davvero moderno. Vetri come questo non erano prodotti in abbondanza, nel mondo romano. Erano oggetti rari, e molto preziosi. E spesso hanno avuto due vite. La prima è quella per cui erano stati fabbricati: facevano parte di recipienti, ne ornavano il fondo, e apparivano come per incanto a chi li usava quando la pietanza o il liquido stavano per finire. Nella seconda vita, invece, venivano tagliati, separati dal corpo del recipiente, e spesso usati nelle catacombe. Per via della loro eleganza e ricercatezza, e della loro rarità, potevano essere scelti per decorare uno spazio accanto alla tomba, al loculo di un defunto; e in questo modo permettevano anche di identificare la sepoltura. Tale deve essere stata anche la storia di questo oggetto, creato nel IV o nel V secolo, poi trafugato a Mosca e successivamente acquistato dal British Museum a Londra.
5. La coppa con il Pastore: i commerci
Al centro, piú grande, c’è un pastore con un ariete sulle spalle. Il berretto del tipo frigio indica che potrebbe trattarsi di Orfeo, il personaggio mitologico capace di ammansire gli animali con il suo canto. Ai lati, altri due arieti lo guardano, simmetrici. In basso, capovolto rispetto alle altre figure, un altro uomo; nudo e con la barba, seduto su una roccia, apparentemente sta pensando. Il colore della coppa è arancione vivo, lucente: il tipico colore della ceramica che oggi chiamiamo «terra sigillata chiara», e che, per gli archeologi addetti ai lavori, è uno dei colori dominanti della tarda antichità. Perché questa ceramica torna alla luce quasi ovunque si scavino strati datati dal IV al VII secolo d.C.; è uno dei tratti piú distintivi della cultura materiale di quell’epoca. Questa coppa ci racconta quindi molte cose. Ci parla di un apparato di immagini che sta lentamente trasformandosi, e progressivamente assume nuovi significati. Vecchi miti vengono rivisti in chiave cristiana, si cercano e si trovano le assonanze tra le religioni piú antiche e quella nuova. Cosí, l’uomo con l’ariete sulle spalle potrebbe in effetti essere Orfeo, a giudicare dal berretto; ma al tempo stesso è anche un pastore, anzi, potrebbe essere il Buon Pastore, una delle piú tipiche maniere di raffigurare Cristo (il buon
pastore per eccellenza, che si occupa amorevolmente del suo gregge). E il personaggio sulla roccia? L’atteggiamento è lo stesso in cui viene ritratto nelle pitture e nei sarcofagi il profeta Giona, che riposa e riflette sotto un pergolato di zucche dopo essere stato sputato dal mostro marino che lo aveva inghiottito. Quindi, secondo alcuni studiosi il nostro pensatore potrebbe essere Giona; oppure un filosofo. Iconografie ambigue, polivalenti, con molteplici significati, che si possono leggere in piú chiavi a seconda dei punti di vista. Sono le immagini di un mondo in trasformazione, anche nelle sue ideologie, e che si assesta piano, senza scossoni. E poi, questa coppa ci racconta uno degli aspetti piú caratteristici del mondo tardo-antico: il grande commercio marittimo, in buona parte basato sulle produzioni africane. In Africa venivano prodotti generi alimentari in quantità industriale: olio, grano, vino, salsa di pesce, e molto altro ancora. Le merci viaggiavano nelle stive di navi enormi, che attraversavano il Mediterraneo per rifornire Roma e gli altri centri dell’impero. E nelle stesse stive, assieme alle vettovaglie, viaggiavano spesso le stoviglie: le coppe come questa, i piatti, i vassoi e gli altri recipienti in ceramica prodotti principalmente in Tunisia, dove si trovavano le officine di vasai piú importanti. Anche la nostra coppa viene dalla Tunisia. Imbarcata probabilmente a Cartagine, sarà arrivata a Roma o in qualche altro porto del Mediterraneo. E poi sarà stata venduta, e usata tutti i giorni a tavola da qualche cittadino dell’impero. Forse da una famiglia di cristiani, che avrà riconosciuto Cristo nel personaggio piú grande, e Giona nell’altro; o forse da adepti di qualche altra religione, che avranno preferito riconoscervi Orfeo e un filosofo. a r c h e o 59
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6. La Basilica del Laterano: l’architettura Posta ai margini dell’abitato antico di Roma, vicino alle mura Aureliane, S. Giovanni in Laterano è la piú antica e piú importante basilica di Roma, la cattedrale della città. Accanto ci sono il battistero e il palazzo Lateranense, la residenza usata dai papi per secoli, prima di spostarsi in Vaticano. La basilica di S. Giovanni ci permette di affrontare un capitolo fondamentale di questa storia: Costantino costruttore. L’edilizia ha un peso importante, nel programma politico dell’imperatore, che interpreta questo tema con soluzioni differenti. Innanzitutto il rapporto con il passato piú recente: una delle azioni piú ripetute di Costantino consiste nell’appropriarsi delle imprese edilizie del suo predecessore, Massenzio. Si pensi, per esempio, alla basilica Nova, tra il Foro Romano e il Colosseo, non lontana dall’arco di Tito. Costantino le aggiunge la sua statua colossale – o forse piú semplicemente fa rimodellare con le sue sembianze una statua di Massenzio (vedi l’oggetto n. 9) – e la ribattezza basilica Constantiniana. Insomma, soprattutto nella sfera monumentale destinata a uso civile Costantino piú che costruire ristruttura l’esistente, e in qualche modo lo fa suo. Poi viene la seconda tendenza, senz’altro quella piú rivoluzionaria. A Roma, piú che altrove, Costantino promuove il cristianesimo dal punto di vista monumentale. Lo fa dentro la città, per l’appunto con la cattedrale: un vero monstre architettonico dalle dimensioni straordinarie (è lunga 105 m, larga 56), che riprende le forme delle basiliche civili con qualche differenza, come l’aggiunta del transetto. E poi lo fa nella zona fuori delle mura, il suburbio. Anzi, qui il programma edilizio di Costantino esplode letteralmente. Con due tipi diversi di costruzioni: prima di tutto le grandi basiliche costruite presso i 60 a r c h e o
corpi dei santi, ovviamente a cominciare da san Pietro. Molto simile a quella intitolata a san Giovanni, la basilica di S. Pietro è ancora piú grande (123 x 66 m) e piú monumentale, grazie all’enorme cortile porticato che precede la facciata. E poi ci sono le basiliche circiformi, cioè a forma di circo. È proprio Costantino a lanciare questa nuova forma architettonica: un grande edificio in cui le navate laterali proseguono e si incontrano dietro l’abside, avvolgendola e creando cosí un corridoio. Il risultato è un monumento che ricorda la struttura dei circhi. Ma perché una simile somiglianza? Il motivo è simbolico: nella concezione degli antichi, il circo, teatro delle corse delle bighe, evocava il cielo e il rincorrersi degli astri, era un simbolo del cosmo, che rimandava al ciclo della vita, all’eternità e quindi anche alla sfera funeraria. Perché l’eternità era la principale promessa fatta ai defunti. Tutto questo ha molto a che fare con le basiliche di cui stiamo parlando: perché questi edifici sono, prima di tutto, cimiteri coperti da un tetto. E poi, accanto a queste basiliche trovava posto un mausoleo della famiglia imperiale: come nel caso di S. Agnese sulla via Nomentana, presso la quale fu sepolta Costantina (la figlia di Costantino); o come ai SS. Marcellino e Pietro, sulla via Labicana, il cui mausoleo accolse il corpo di Elena (la madre).
Insomma, il programma edilizio di Costantino a Roma è notevole, e molto articolato nelle soluzioni. Il risultato finale è il lancio e l’affermazione del tipo della basilica cristiana, declinato in forme diverse. Eccezion fatta per la cattedrale del Laterano, la gran parte di questo progetto si svolge soprattutto nel suburbio. Nel passato qualcuno ha scritto che il motivo sarebbe stata la volontà di Costantino di non urtare la sensibilità dell’aristocrazia romana, dei senatori che erano in buona parte ancora seguaci delle antiche religioni. Ma oggi sempre piú studiosi concordano su un’altra spiegazione, duplice: prima di tutto, dentro Roma non esisteva lo spazio materiale, per realizzare edifici di quella portata. La città era ancora in ottime condizioni, la maggior parte dei suoi monumenti e delle abitazioni erano ancora in piedi e venivano continuamente restaurati. E poi, soprattutto, le basiliche costantiniane sono edifici legati a filo doppio alle tombe dei santi e dei martiri, che si trovavano tutte nei cimiteri del suburbio. Sono santuari, ed è evidente che l’imperatore non avrebbe potuto costruirle altrove. Costantino riceve da Massenzio una Roma ancora antica. È lui che, con il suo programma edilizio ambizioso e rivoluzionario, inizia a cambiarne il volto. L’imperatore realizza inoltre un progetto molto piú grande, lasciando sue costruzioni a Ostia, Treviri, Nicomedia, Antiochia, Betlemme, Gerusalemme… Sono soprattutto basiliche cristiane, grandiosi complessi che segnano l’entrata trionfale del cristianesimo in quelle città, e in tutto l’impero. Infine, c’è l’impresa piú grande: la fondazione di un’intera città, Costantinopoli, che nasce già cristiana, per volere di un imperatore che punta sull’architettura e sull’urbanistica, perché ha intuito quanti messaggi possano trasmettere gli spazi e i monumenti.
7. L’elmo di Berkasovo: la guerra Oggetto che viene spontaneo associare alla guerra, l’elmo di Berkasovo è al contempo un manufatto straordinario: è raro, infatti, vedere un elmo decorato cosí
riccamente, con la struttura in lamina d’argento dorata e la superficie impreziosita da gemme di vetro verdi, di varie forme. Un’iscrizione a punzone, in greco, ci informa sul nome dell’artigiano che lo produsse: «Opera di Avitus». Il testo è in lingua greca, ma il nome dell’artigiano è latino: si pensa quindi che l’elmo sia stato fabbricato in un’area di confine, dove si usavano entrambe le lingue. Siamo nei primi decenni del IV secolo. In questo periodo la guerra è all’ordine del giorno. Costantino (come già i suoi predecessori) ha a che fare principalmente con tre nemici diversi: i Persiani, i popoli germanici che premono lungo il Reno e il Danubio, e le popolazioni che si trovano presso le altre periferie dell’impero: dalla Britannia, all’Africa, alla Palestina. Ma alcune tra le battaglie
fondamentali combattute (e vinte) da Costantino sono senza dubbio ponte Milvio (312) e Siscia, Cibalae e Campus Ardiensis (316); e ancora Adrianopoli e Chrysopoli (324). Tutti scontri contro i suoi principali antagonisti dentro l’impero: Massenzio nella prima, e Licinio in tutte le altre. Insomma, quello di Costantino è un impero in guerra, contro nemici interni ed esterni, e lui un imperatore-soldato. Tanto che uno dei motivi che spingono a pensare che il mausoleo sulla via Labicana, poi lasciato alla madre Elena, fosse in origine a lui destinato, sono le immagini di battaglia scolpite sul sarcofago di porfido trovato proprio lí. Dell’elmo di Berkasovo conosciamo anche il nome del proprietario, grazie a un’altra iscrizione: «Dizzon, portalo in buona salute!». Dizzon, soldato di Costantino, che dal nome sembrerebbe un abitante della Tracia, o dell’Illiria.
8. Il «cammeo di Belgrado»: i barbari Un cavaliere con una fascia di stoffa sulla fronte e una lancia in mano, pronto a scagliarla; monta un cavallo che avanza verso sinistra e quasi calpesta altri due personaggi. Loro portano i calzoni e sono a torso nudo, con i capelli lunghi e uno scudo del tipo «celtico»: sono barbari, cosí come quello caduto dietro al cavallo, al quale un soldato romano sta incatenando le mani dietro la schiena. Il cavaliere mostra una somiglianza straordinaria con Costantino (cosí come lo conosciamo dai ritratti) e la fascia sulla fronte – in realtà un diadema, cioè un accessorio tipico dei sovrani ellenistici – conferma che potrebbe trattarsi proprio dell’imperatore, raffigurato nei panni di un nuovo Alessandro Magno. I barbari sono una delle principali minacce, e motivi di tensione, per Costantino e per l’impero in generale. Ma non solo: i barbari sono l’«altro», fanno parte di un altro
mondo e di altre culture. Al tempo stesso, però, i barbari sono ovunque: fanno parte dell’esercito imperiale, come truppe e come ufficiali, ci si può alleare con gruppi di loro contro altri popoli, gli vengono accordati interi territori, e tutto questo succederà sempre piú spesso nel corso del tempo. Quella raffigurata qui, però, è una tipica scena di vittoria dell’imperatore-soldato sui barbari. Ma di quale oggetto stiamo parlando in questo caso? È solo il frammento di un manufatto molto piú grande, in sardonica (un minerale molto particolare, un tipo di calcedonio a strati bianchi e scuri sovrapposti), intagliato con grandissima abilità, sfruttando persino lo strato piú scuro – il piú profondo, sotto il bianco – per rendere colorate alcune parti specifiche dei personaggi: le vesti del cavaliere, del soldato, i capelli dei barbari… Il cosiddetto «cammeo
di Belgrado» faceva forse parte di un grande vassoio o di un pannello decorativo, intagliato anche con altre scene di cui non resta piú traccia. Ci trasmette un’idea politica, ancora grandiosa e tagliata con l’accetta del mondo tardo-antico: i Romani da una parte, i barbari dall’altra. Buoni e cattivi, vincitori e vinti. Anche se la situazione non era cosí netta, né cosí semplice. a r c h e o 61
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10. La stauroteca: la fortuna
9. Il colosso di Roma: l’immagine
Costantino è Giove: siede sul trono, nudo e con un mantello che gli ricade sulle gambe. Nella mano destra tiene uno scettro, nella sinistra probabilmente un globo. Era gigantesca, la statua di Costantino nell’abside occidentale della basilica di Massenzio: forse toccava i 12 m. Il volto porta i segni di rilavorazioni: è stata cambiata la pettinatura, e forse il ritratto è stato «rasato», visto che alcune tracce indicherebbero la presenza della barba. Oggi si pensa che anche l’originale fosse una statua di Costantino, rilavorata per aggiornarne l’aspetto. Ma per alcuni la trasformazione fu piú radicale, di nuovo per motivi politici: sarebbe un ritratto di Massenzio, poi modificato per farlo diventare Costantino. Adesso la testa, assieme ad altre parti superstiti, è nel cortile del palazzo dei Conservatori, sul Campidoglio, a Roma; tutto ciò che resta di una statua impressionante, il cui ultimo scopo era di mostrare l’imperatore enorme, un vero dio. Cosí come facevano altre statue gigantesche, sempre a Roma. Enorme, e ubiquo: l’imperatore per antonomasia, quasi l’unico, il piú volte ritratto e nei modi piú grandiosi. Un grande progetto, anche sul piano della propaganda. 62 a r c h e o
L’ultimo oggetto viene da Nonantola, in Emilia, vicino Modena: uno dei piú importanti monasteri del Medioevo italiano, ed europeo. Il termine tecnico è «stauroteca», cioè un contenitore per la conservazione e il trasporto delle reliquie, in particolare quelle della croce di Cristo. Nell’Alto Medioevo le reliquie diventano uno dei trofei piú ambiti e ricercati, e alcuni personaggi si specializzano fino a diventare ladri di questi oggetti riconosciuti a livello internazionale. Nasce e fiorisce un vero mercato. Ogni chiesa, ogni monastero con qualche ambizione aspira ad avere una o qualche reliquia, per beneficiare dell’aura di santità che esse emanano e attirare stuoli di fedeli. Si moltiplicano le ossa, le parti del corpo, perfino le barbe dei santi, che iniziano a viaggiare in Occidente, per tutto il Mediterraneo. Anche Costantino ha a che fare con le reliquie. In realtà c’entra ancor di piú sua madre, Elena, la quale, secondo la tradizione, si spinse fino a Gerusalemme e ritrovò la croce di Cristo, per poi portarla in Occidente. La notizia non è accertata, né verificabile, però un fatto è sicuro: nel Medioevo si ritrovano, e viaggiano, moltissimi frammenti della croce, o presunti tali, che generalmente vengono conservati in reliquiari dalle forme differenti. Questo è un tipo particolare di reliquiario: al centro c’è un intaglio, un alloggio a forma di croce con due bracci orizzontali, e dentro trova posto proprio un frammento della croce dalla stessa forma, bordato da una lamina d’argento e ornato con placchette (una delle quali è decorata a smalto). In alto, quattro angeli, quasi giotteschi (soprattutto quelli piú in basso), e ai piedi della croce ci sono Costantino ed Elena, vestiti come imperatori bizantini.
Il reliquiario risale alla fine dell’XI o all’inizio del XII secolo, e venne forse fabbricato a Costantinopoli. Ci parla della fortuna di Costantino, ben oltre il suo tempo. Perché, alla fine, Costantino è e sarà sempre ricordato soprattutto per l’impulso che diede per l’affermazione del cristianesimo. Anche grazie a oggetti come questo reliquiario, la fama di Costantino ha attraversato il Medioevo, l’età moderna, ed è giunta fino ai giorni nostri. Costantino è passato alla storia per le cose che ha fatto davvero, e anche per quelle che gli sono state attribuite senza fondamento di verità. Alla fine, è ricordato per aver saputo immaginare e mettere in atto un’idea di principato grande, molto ambiziosa, conclusa con successo. Un sogno, in qualche modo; come quello che lui stesso fece la notte del 27 ottobre del 312: il sogno che il giorno dopo, nella battaglia al ponte Milvio, lo portò a usare il monogramma cristiano come emblema per sé e per le sue truppe. E a vincere una battaglia che ha cambiato il corso della storia.
musei • trento
le gaie
di Stefano Mammini
scienze apre le porte, a trento, il nuovo museo delle scienze: in anteprima per «Archeo», le prime immagini della struttura e il racconto delle emozionanti avventure che sarà possibile vivere al suo interno. in un dialogo serrato e coinvolgente tra l’uomo e la natura 64 a r c h e o
Sulle due pagine: vedute degli esterni e degli interni del nuovo Museo delle Scienze di Trento. Progettata da Renzo Piano, la struttura sorge nell’area dell’ex stabilimento Michelin, a pochi passi dal cinquecentesco palazzo delle Albere (visibile nella foto alla pagina accanto, in basso).
T
rento: una giornata di fine inverno, che già profuma di primavera. Siamo qui, invitati dagli amici dell’ormai ex MTSN (Museo Tridentino di Scienze Naturali) – perché ora dobbiamo imparare a chiamarlo MUSE (MUseo delle ScienzE) –, per visitare in anteprima la loro nuova casa, la struttura progettata da Renzo Piano e realizzata nell’area dell’ex stabilimento Michelin. Un’occasione da non perdere, per farsi un’idea di come sarà il nuovo museo, che ora, mentre scriviamo, vive la vigilia, frenetica, dell’inaugurazione ufficiale, prevista per il 27 luglio, a quattro anni dalla posa della prima pietra, nel 2009. Val la pena segnalare, innanzitutto, che il MUSE è nato a pochi passi da uno degli edifici storici di maggior pregio di Trento, il palazzo delle Albere, fatto costruire alla metà del Cinquecento dai principi-vescovi Madruzzo e, dal 1987, sede della sezione tridentina del Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto. Una sede che, chiusa per ristrutturazione nel 2011, riaprirà i battenti proprio in occasione dell’inaugurazione del suo nuovo vicino. Un vicino, il MUSE, che fra le sue note di merito avrà quella di riavvicinare l’intera area – e dunque anche il palazzo delle Albere – al a r c h e o 65
musei • trento Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario: l’esterno del MUSE, visto dal palazzo delle Albere; un particolare della copertura dell’atrio; il direttore del museo, Michele Lanzinger (a sinistra), con Renzo Piano; il modello in scala del Grande vuoto, nel quale sono sospesi animali imbalsamati appartenenti in prevalenza alle specie tipiche dell’area alpina; due immagini di uno dei reperti paleontologici inseriti nella sezione dedicata alla comparsa dell’uomo e alla preistoria; alcuni rendering della macchina del tempo, installata anch’essa nella sezione che documenta le vicende della regione alpina nella preistoria.
cuore della città: il master plan prevede, infatti, la riapertura del tratto iniziale di via Madruzzo – attualmente interrotta dalla linea ferroviaria – che sarà trasformata in un percorso ciclo-pedonale, grazie al quale il nuovo polo museale e il centro storico saranno separati da poche centinaia di metri. Nell’ideare la struttura del Museo 66 a r c h e o
delle Scienze, Piano ha cercato una soluzione che, pur nella riconoscibilità della sua modernità, fosse in grado di armonizzarsi con il paesaggio che la circonda.
corpi dell’edificio evocano il profilo di tante vette dolomitiche, offrendone una sorta di rappresentazione schematica. Un dialogo, quello tra il MUSE e la montagna, che – oltre a essere uno dei l’evocazione dei monti cardini del percorso espositivo – si E lo ha fatto ispirandosi ai monti coglie in maniera suggestiva che circondano Trento: in un gio- dall’interno del museo, fermandoco di linee spezzate e oblique, i si a contemplare il profilo mon-
tuoso inquadrato dalle ampie vetrate che su piú lati si sostituiscono al muro pieno. L’andamento frastagliato del suo guscio ha peraltro il merito di conferire alla struttura un senso di leggerezza, evitando che il MUSE appaia come un intruso un po’ ingombrante, dal momento che, comunque, siamo alle prese con una costruzione che ha generato quasi 13 000 mq di superfici utili nette. È dunque un grande museo, articolato in sei livelli (uno dei quali seminterrato) e che ha tra le sue caratteristiche principali quella dello spa-
zio che è stato definito «Grande dermizzati, distribuiti lungo i sei vuoto» e che rappresenta il cuore piani del museo, che vanno dai dell’edificio. cetacei ai volatili, dagli stambecchi alle volpi, in una sequenza di volta in volta armonizzata – secondo le Il grande vuoto In occasione della nostra visita era quote dei diversi piani – con gli un vuoto davvero grande (l’allesti- argomenti affrontati dalle varie semento del percorso ha avuto inizio zioni del percorso. nel mese di giugno), riempito uni- Sezioni che comprendono un capicamente dalle impalcature montate tolo, assai ricco e ampio – e che piú per la messa in opera degli impian- da vicino tocca i temi di cui «Arti di servizio (illuminazione, clima- cheo» abitualmente si occupa –, tizzazione, cablaggio, ecc.). Adesso, sulla comparsa dell’uomo nell’area il «Grande vuoto» è la quinta im- alpina e sullo sviluppo delle culture materiale nella quale si muovono pre- e protostoriche. L’uomo e il decine e decine di animali tassi- suo rapporto con la natura sono a r c h e o 67
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uno dei fili conduttori del MUSE, a volte dipanato sotto traccia, mentre qui i piú antichi abitanti della regione trentina si fanno protagonisti e divengono gli ideali ambasciatori della nostra specie. E, come spiegano anche i responsabili del progetto, non poteva essere altrimenti, anche per rinnovare la lunga tradizione del museo tridentino nel campo degli studi di preistoria.
pietre dipinte Non poteva dunque mancare l’ampia documentazione relativa alle scoperte compiute nel Riparo Dalmeri, l’eccezionale giacimento paleolitico scoperto nel 1990 a 1240 m d’altitudine, ai margini della piana della Marcesina, nel Comune di Grigno (Trento). Le ricerche guidate dallo scopritore del sito, Giampaolo Dalmeri – Responsabile della Sezione di Paleontologia Umana e Preistoria – hanno portato al recupero di centinaia di pietre dipinte, che, a oggi, costituiscono una delle piú importanti testimonianze d’arte mobiliare della preistoria europea. La loro realizzazione si deve a una comunità di cacciatori che, con ogni probabilità, utilizzava il riparo nella stagione estiva. L’attività principale consisteva nella caccia allo stambecco, la cui carne, con ogni probabilità, veniva in parte essiccata o affumicata, cosí da costituire una scorta di viveri per la stagione invernale. Parallelamente, veniva praticata anche la pesca, nel sottostante fiume Brenta, e, soprattutto, ci si dedicava alla decorazione delle pietre, assecondando un’istanza che aveva verosimilmente una connotazione rituale. Quest’ultima sembra indiziata, fra l’altro, dalle condizioni di giacitura dei reperti, che, in piú d’un caso, furono deposti con la faccia dipinta a contatto della terra, quasi a voler «occultare» il messaggio affidato ai segni e alle figure di volta in volta tracciati. la macchina del tempo Accanto a reperti veri e propri, anche la sezione preistorica del MUSE propone supporti che consento68 a r c h e o
no di esplorare virtualmente il contesto di cui si sta parlando: in questo caso si tratta di una Time Machine, grazie alla quale è possibile compiere un vero e proprio viaggio nel tempo. Un viaggio che spazia dall’epoca dell’Uomo di Neandertal a quella delle prime comunità neolitiche, portatrici di quella economia produttiva – basata sull’agricoltura e l’allevamento – che davvero rivoluzionò l’esistenza umana, affrancando i nostri progenitori dall’alea di una sussistenza che si affidava alla caccia e alla raccolta. Pietra con figura di erbivoro (forse un uro), dal Riparo Dalmeri. 11 500-11 000 anni fa.
Fenomeni di cui furono protagonisti uomini simili a quelli della «famiglia» realizzata dagli artisti olandesi Kennis & Kennis in occasione dell’eposizione «La scimmia nuda» (prodotta dall’MTSN nel 2007), e che ora si è ingrandita, con i nuovi modelli di ominidi creati dall’artista parigina Elisabeth Daynes. L’excursus nella preistoria, tuttavia, non è fatto solo di uno sguardo al passato, in quanto la comparsa della specie umana viene utilizzata come trampolino di lancio per affrontare anche il tema, delicatissimo, dei
In questa pagina e nella pagina accanto, in alto: le riproduzioni a grandezza naturale di alcuni ominidi realizzate da Elisabeth Daynes per la sezione dedicata alla comparsa dell’uomo.
possibili futuri sviluppi dell’umanità. Sviluppi legati alle scelte delle generazioni presenti e future nella gestione delle risorse ambientali, che, come sappiamo ormai da tempo, non sono inesauribili. Il racconto di vicende che risalgono a decine di migliaia d’anni fa, come quelle dei Neandertaliani o dei cacciatoripittori del Riparo Dalmeri, viene dunque trasformato nell’introduzione a uno dei temi di piú stringente attualità, cioè quello della sostenibilità. E non è forse un caso, quindi, che la sezione preistorica sia stata collocata, anche fisicamente, a metà del percorso di visita.
visita libera Un percorso che, va detto, non è pre-ordinato: nelle intenzioni dei suoi ideatori, il MUSE può infatti essere fruito in maniera libera e autonoma e ciascuno può scegliere la successione delle diverse esperienze che ogni settore propone. E parliamo non a caso di «esperienze», poiché la visita del nuovo museo è quanto di piú lontano possiamo immaginare dalla semplice osservazione di oggetti e vetrine. L’idea di contenitori capaci di offrire qualcosa di piú di una contemplazione passiva è da tempo diffusa, ma nel MUSE trova una delle declinazioni piú riuscite.
Una filosofia che appare evidente fin dal possibile inizio dell’avventura, cioè dalla sezione dedicata all’alta montagna (allestita al quarto e ultimo piano dell’edificio). Basti pensare che qui, oltre ad ausili di tipo tradizionale, è possibile camminare su un ponte attrezzato che da un lato simula gli strapiombi nei quali ci si può imbattere in occasione di escursioni o arrampicate e, dall’altro, permette di toccare con mano una parete realmente ghiacciata, la cui veridicità è rafforzata
dalla presenza delle specie vegetali tipiche di questi ambienti. Alla montagna sono dedicati anche i livelli successivi (terzo e secondo piano: come avrete intuito, una delle modalità di visita può essere quella di lasciarsi andare a una sorta di «discesa» nella scienza, magari ripensando alle Ventimila leghe di Jules Verne): l’obiettivo viene cosí puntato sulla natura dell’ambiente alpino e sulla storia delle Dolomiti, svelando i segreti di un universo che, se a Trento può risultare famia r c h e o 69
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una rete culturale capillare e multidisciplinare Il Museo delle Scienze di Trento (MUSE) eredita dal Museo Tridentino di Scienze Naturali il ruolo di capofila di una rete museale articolata in sezioni territoriali e centri di documentazione e di ricerca convenzionati. Inoltre, insieme al Mart di Rovereto e al Castello del Buonconsiglio, si pone come ulteriore motore per promuovere la valle dell’Adige come un territorio ad alta intensità culturale meritevole di essere visitato in ogni stagione dell’anno. Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni Fondato nel 1927 dall’ingegnere Gianni Caproni (1886-1957) e dalla moglie Timina Guasti, il Museo dell’Aeronautica Gianni Caproni è il primo museo aziendale sul suolo nazionale e il museo aeronautico piú antico al mondo. L’attuale struttura, a Mattarello (Tn), è stata inaugurata nel 1992 per raccogliere ed esporre la collezione di rilievo mondiale di aeroplani e cimeli storici raccolti dalla famiglia Caproni. Tra i pezzi pregiati si contano nove velivoli storici unici al mondo. Museo delle palafitte del Lago di Ledro La sponda orientale del lago di Ledro in Trentino è zona di importantissimi ritrovamenti archeologici: dagli anni Trenta del secolo scorso varie campagne di scavo hanno portato alla luce i resti di un villaggio di palafitte del Bronzo Antico-Medio (2200-1350 a.C.). Nel 2011 il sito è stato proclamato patrimonio dell’UNESCO. Giardino botanico alpino Viote di Monte Bondone Fondato negli anni Trenta per promuovere la conoscenza e la salvaguardia della flora alpina, il Giardino botanico alpino delle Viote del Monte Bondone è uno dei piú antichi e piú grandi delle Alpi. Oggi ospita oltre mille specie di piante alpine, in particolare piante officinali e in via di estinzione. I semi delle piante a rischio di estinzione vengono raccolti per formare una collezione (seed bank) a disposizione della rete internazionale dei giardini botanici.
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Terrazza delle stelle Viote del Monte Bondone L’osservatorio astronomico «Terrazza delle Stelle», situato nella conca delle Viote del Monte Bondone è luogo ideale per l’osservazione del cielo stellato. A pochi chilometri dal capoluogo, l’osservatorio è dotato di potenti telescopi che, con la guida di operatori esperti, diventano strumenti privilegiati per ammirare il firmamento.
Stazione limnologica del Lago di Tovel, Tuenno La Stazione Limnologica del Lago di Tovel, nata nel 2003 nell’ambito del progetto Life-Tovel, viene utilizzata dal 2006 per le attività di ricerca e per la realizzazione di Summer school per studenti universitari, attività educative per le scuole e per l’interpretazione e mediazione scientifica per il pubblico. Tutte le attività si realizzano in
dove e quando collaborazione con il Parco Naturale Adamello-Brenta e il Comune di Tuenno. Museo geologico delle Dolomiti, Predazzo In collaborazione con il Comune di Predazzo, è il museo specializzato nella geologia delle Dolomiti (dal 26 giugno 2009 inserito nel Patrimonio Mondiale dell’UNESCO) in particolare delle Valli di Fiemme e Fassa. Istituito nel 1899 come «Museo Sociale» dalla Società Magistrale di Fiemme e Fassa, può contare piú di 100 anni di storia. Le sue collezioni comprendono una consistente selezione di campioni paleontologici locali e numerosi minerali che costituiscono un vero e proprio patrimonio geologico. Il museo collabora con Università italiane nel campo della stratigrafia del Triassico Medio. (red.)
Museo delle Scienze Trento, corso del Lavoro e della Scienza dal 27 luglio Orario in occasione dell’inaugurazione, il museo sarà aperto dalle 18,00 di sabato 27 alle 18,00 di domenica 28 luglio; entrerà quindi in vigore il seguente orario: ma-sa, 10,00-18,00; do, 10,00-19,00; lu chiuso Info www.muse.it
liare, è per molti poco noto. Un universo ricco e prezioso, ma, al tempo stesso, delicato e fragile. E qui torna il filo conduttore a cui accennavamo in precedenza, cioè quello del rapporto dell’uomo con l’habitat che lo circonda: un rapporto che tutti dobbiamo imparare a gestire nel migliore dei modi, per non pregiudicare la conservazione del paesaggio, della fauna e della flora. Il MUSE, oltre a spiegare e documentare, suggerisce in proposito indicazioni importanti assolvendo a quella vocazione didattica che, naturalmente, costituisce un altro dei suoi assi portanti. Scendendo di un piano si incontra la sezione dedicata alla comparsa dell’uomo, già ampiamente descritta, alla quale seguono (siamo ormai al pianterreno), due degli spazi su cui si concentrano molte delle aspettative dell’équipe guidata da Michele Lanzinger (l’attuale direttore del MUSE): si tratta del MaxiOoh! e della palestra della scienza. Il
primo è un’area sensoriale dedicata ai piú piccoli (bambini da 0 a 5 anni), la seconda offre la possibilità, fra le altre, di effettuare esperimenti scientifici e di osservare fenomeni fisici riprodotti da oggetti e macchine di vario tipo.
le prime forme di vita Il piano seminterrato torna a parlare di origini: questa volta, però, non della specie umana si tratta, ma delle prime forme di vita che si diffusero sulla Terra. Dalle piú antiche e semplici, fino ai primi grandi animali della preistoria piú remota, i dinosauri. Ancora una volta, come già nella sezione preistorica, viene sottolineato il legame con il territorio, dando conto dei numerosi e importanti ritrovamenti paleontologici effettuati in Trentino, molti dei quali da parte di ricercatori dello stesso MUSE. Infine, da forme di vita scomparse, si passa a organismi viventi, quelli della grande serra tropicale, uno spazio tra i piú suggestivi del museo. Qui infatti, ancora una volta sotto lo sguardo vigile delle cime che circondano Trento, ci si trova al cospetto di una macchia di verde lussureggiante: una vera e propria foresta pluviale, voluta come simbolo di una delle attività piú importanti che il Museo delle Scienze svolge da oltre un decennio sui monti dell’Eastern Arc della Tanzania. Un impegno finalizzato, anche in questo caso, alla conservazione dell’ambiente naturale. A voler raccontare per filo e per segno il MUSE, si dovrebbe poi dare conto anche di tutto quello che un visitatore normale non vede: gli uffici, i laboratori, i depositi… Ma su questo si potrà tornare. Per ora non ci resta che augurare al nuovo museo il successo che senz’altro merita e che sarà il riconoscimento piú giusto per un’impresa di qualità altissima. E che, soprattutto, accende la speranza in una inversione di tendenza da tempo attesa: che la cultura sia considerata come un settore nel quale si può e si deve investire. a r c h e o 71
parchi archeologici • città del tufo
dove cantano le sirene
di Lara Arcangeli, Carlo Casi ed Enrico Pellegrini
Immerso in un paesaggio di grande suggestione, dove non solo i monumenti rupestri, ma anche le strade sono scavate nella roccia, il parco archeologico «Città del Tufo» invita a perdersi tra le spettacolari architetture funerarie etrusche risalenti al IV e al III secolo a.C. E a rintracciare le vestigia di un protagonista d’eccezione…
S
iamo nella parte piú meridionale della Toscana, in provincia di Grosseto, nell’angolo compreso tra Lazio e Umbria. Una terra difficile e da sempre di frontiera, nella quale il fiume Fiora continua a dividere ancora oggi un paesaggio caratterizzato da colline dolci e ondulate e rupi vulcaniche aspre e piú isolate. Qui il paesaggio piatto e monotono dei tufi assolati si interrompe
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bruscamente, di quando in quando, lasciando spazio a lame verdeggianti, sviluppatesi all’interno delle profonde incisioni fluviali che solcano il territorio come rughe profonde. Nel mezzo, alla stregua di isole, si ergono antiche rocche – segno di uno splendore che fu –, spesso abbandonate e decadenti, e, a volte, circondate da paesi nei quali le case mal si distinguono dalla roccia sot-
tostante, formando un tutt’uno di rara bellezza. È questo il caso di Sovana. Le sue nobili origini sono svelate già dalla rocca Aldobrandesca (XI secolo), ma ancor piú dall’aleggiante presenza di un celebre personaggio nato qui, intorno al 1020-1025: Ildebrando, appunto, di Sovana, che divenne papa Gregorio VII. Anche la piú monumentale tomba a edicola – che imita un
Emilia-Romagna
A destra: cartina della Toscana, con la localizzazione di Sovana. In basso: la tomba Ildebranda di Sovana, la piú monumentale del comprensorio. Prima metà del III sec. a.C. Nella pagina accanto: una delle due statue di leone collocate davanti alla tomba dei Demoni Alati. Seconda metà del III sec. a.C.
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zione popolare locale. Risalente alla prima metà del III secolo a.C., il sepolcro è caratterizzato da un ampio podio modanato, accessibile mediante due scale laterali, e, sulla fronte, da sei colonne scanalate su alte basi modanate, alle quali se ne la signora aggiungevano altre tre ai due fiandegli animali È conosciuta infatti con il nome di chi. Esse sostenevano il soffitto a tomba Ildebranda, quale indelebi- lacunari dell’ambulacro e sono sorle tributo a lui dedicato dalla tradi- montate da un fregio a rilievo detempio colonnato etrusco-italico – della necropoli che si sviluppa come una corona intorno al centro abitato ha subito il fascino del grand’uomo.
Umbria Go Gro Gros osssseto eto to
Sovana Lag Lag Lago go go di Bol olse ols o llss na a
Lazio
corato con una serie di grifi affrontati alternati a rosette e trattenuti per le code da una figura femminile, romanticamente appellata «signora degli animali». Il monumento era coronato, come di consueto, da un grande cippo in tufo. Al di sotto, proprio in corrispondenza della cella del tempio e preceduta da un lungo dromos (cor(segue a p. 76) a r c h e o 73
parchi archeologici • città del tufo
alla scoperta del parco Pianta del Parco Archeologico «Città del Tufo» con i percorsi di visita: 1. Tomba Ildebranda; 2. Tomba della Sirena, percorsi non attrezzati; 3. Poggio Grezzano; 4. Valle Bona-Monte Rosello; 5. Costone del Folonia. Svastica con iscrizione etrusca
Il nome e la svastica L’iscrizione nel Cavone di Sovana, con il nome di chi commissionò l’opera, accanto alla quale si distingue una svastica.
Tomba Ildebranda
Tifone
Poggio Stanziale
Tomba Pisa
Unità introduttiva
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Poggio Grezzano
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Sentiero per Tomba Pola
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Tomba Pola
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Chiesa di S. Sebastiano (Unità introduttiva del Parco)
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Via Cava di S. Sebastiano
Tomba della Sirena Necropoli di Sopraripa
Tomba della Sirena Qui accanto: la facciata del sepolcro. Al centro si apre un nicchione arcuato, fiancheggiato da due personaggi in rilievo: un demone femminile, Vanth (foto a destra), e uno maschile. Sulla trabeazione si può ammirare uno splendido frontone decorato a rilievo con Scilla che avvolge nelle sue spire due amorini. La camera funeraria, molto piccola, accoglieva probabilmente i resti di un solo defunto incinerato.
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Fine percorso attuale
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Quelle strade scavate nella roccia Nel distretto vulcanico vulsino, che in Toscana comprende i comuni di Pitigliano e Sorano, le vie «cave»
Tomba del Sileno Tomba dei Colombari
rano a Prov.le Sovana - So Strad Via Cava
Tombe a dado Rocca Aldobrandesca Folonia Tomba Siena
(cioè «scavate») sono una presenza costante, in un paesaggio fatto di ampi pianori tufacei incisi da profonde valli. Questi sentieri ripidissimi, tortuosi e profondamente incassati nella roccia sono infatti sempre presenti per collegare, con un tragitto piú breve, i centri abitati con la campagna coltivata situata sulle alture circostanti o con altri insediamenti. Di fronte allo stupore che si prova percorrendo queste imponenti trincee – l’altezza delle pareti può superare anche i 20 m –, frutto del solo lavoro manuale – a forza di piccone e di cunei per spaccare la roccia –, occorre comunque fare due considerazioni, cosí da poter valutare nella giusta misura l’effettivo lavoro occorso per la loro realizzazione: • il tufo è una roccia facilmente lavorabile quando è ancora umida • il livello di percorrenza odierno è sempre assai piú basso di quello originario, a volte di oltre 10 m. Quando il percorso fu realizzato per la prima volta, quindi, la trincea scavata nel tufo aveva solo la profondità minima per superare agevolmente il dislivello tra le quote; gli ulteriori approfondimenti sono invece dovuti a interventi
successivi, eseguiti allo scopo di regolarizzare l’erosione del piano di calpestio, causato in particolare dagli zoccoli ferrati degli animali (muli, asini, cavalli). Alcune vie «cave» sono sicuramente riconducibili, nel loro impianto originario, al sistema viario di epoca etrusca, come il «Cavone» di Sovana. L’origine etrusca di questa importante direttrice verso il Monte Amiata è attestata dalle numerose tombe a camera di VI secolo che si affacciano su di essa e, soprattutto, dall’iscrizione incisa a circa 170 cm dal piano stradale odierno. Scritta da destra verso sinistra e delimitata da segni cruciformi, vi si legge la parola vertn[a]/vertn[es], termine che indica un nome individuale, la persona che ha fatto compiere lavori nella via cava; a questa è affiancata un’incisione a forma di svastica, anch’essa di epoca etrusca. Altre vie «cave» risalgono all’età medievale oppure, in questo periodo piú tardo, sono state oggetto di rifacimento. In tutte si nota, comunque, un’attenta opera di regimazione delle acque, ormai quasi cancellata dall’abbandono nel quale si trovano da decine di anni.
In alto: prospetto e sezione di una via cava. A sinistra: un tratto del Cavone, una delle vie cave piú spettacolari tra quelle a oggi note in area etrusca.
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parchi archeologici • città del tufo
ridoio d’ingresso) vi è un’ampia camera funeraria a pianta cruciforme e soffitto a doppio spiovente, con un’unica banchina per la deposizione. Oggi, purtroppo, la tomba si presenta in condizioni assai deteriorate, ma dobbiamo immaginare, invece, una struttura eccezionalmente ricca di decorazioni plastiche e vivacemente policroma. Fatto, questo, confermato anche dai lavori di restauro svolti negli anni Settanta del Novecento, quando furono messi in luce nuovi elementi della decorazione architettonica che comprendeva protomi d’ariete agli angoli del timpano e, probabilmente, statue acroteriali angolari a forma di animali accosciati.
caratteri innovativi La grande originalità di Sovana si evince dalla presenza di impianti architettonici molto complessi come le tombe a edicola e a tempio, delle quali la tomba Ildebranda è un esempio, e nemmeno isolato. Di questo tipo, infatti, se ne conosce almeno una decina, con fronti colonnate da due a otto elementi, come è il caso della tomba Pola, anch’essa databile al III secolo a.C. Le facciate si rifanno al frontone greco, nel quale il timpano è interamente chiuso e completamente decorato di sculture, confermando il carattere estremamente innovativo almeno per il IV secolo a.C.
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Altrettanto originale è la tomba del Sileno, cosí chiamata in ragione delle antefisse che ne decoravano la copertura, risalente al secondo quarto del III secolo a.C. Si tratta di un rarissimo esempio di tomba a edicola circolare, scoperta nel 1963 da Paolo Enrico Arias, dell’Università di Pisa, eccezionalmente ancora intatta. Un breve dromos immette nella camera quadrangolare allargata sul fondo e dotata di tre banchine. Il defunto occupava probabilmente quella di fondo, dove non furono rinvenuti altri oggetti, mentre le due banchine laterali accoglievano, insieme al corredo, alcune urne cinerarie. Il monumento presenta un corpo cilindrico a cui erano in origine addossate sei semicolonne su base sagomata con capitelli, sovrastato da una copertura conica ornata lungo il perimetro di base da maschere sileniche. Esempio altrettanto singolare è la tomba del Tifone (prima metà del III secolo a.C.), un sepolcro a edicola, con pilastri scanalati e timpano decorato da una conturbante protome femminile velata, che sorge da un intricato viluppo di foglie e fiori. Questa fu erroneamente interpretata da George Dennis (1814-1898) quale mostro marino (Tifone) mentre si tratta, invece, di un motivo decorativo, di gusto barocco, che trova confronto in ambito magnogreco. Al di sotto del timpano, la
fronte si apre in un vano rettangolare, coperto da soffitto a cassettoni decorati a losanghe e inquadrato da due lesene scanalate, mentre è presente una scala sul lato destro. Dalle tracce di stucco rimaste è stato supposto, come in altri casi, l’uso della policromia nella finitura del monumento.
a banchetto tra gli dèi È comunque intorno alla fine del III secolo a.C. che a Sovana si afferma un nuovo tipo di tomba, che, pur derivando dai precedenti, presenta elaborazioni ancor piú pregnanti e direttamente riferibili all’ideologia funeraria. Un grande nicchione rettangolare o arcuato prende il posto, al centro della facciata, della sagoma della porta e al suo interno viene scolpita l’immagine del defunto come simposiasta. Traspare, come mai prima d’ora, il desiderio di commemorare il deNella pagina accanto: la tomba dei Colombari, nella necropoli di Monte Rosello. È stato ormai accertato che le piccole nicchie sono di epoca posteriore e furono usate per i colombi e non a scopo funerario. Qui sotto: la creatura marina scolpita nel timpano della tomba dei Demoni Alati. Seconda metà del III sec. a.C. A sinistra: il restauro di una scultura della tomba dei Demoni Alati.
un rifugio per i colombi Oltre alle monumentali tombe rupestri di età etrusca, il paesaggio tufaceo di Sovana è caratterizzato da numerose cavità aperte su alte pareti a strapiombo, al cui interno s’intravedono piccole nicchie semicircolari o quadrate (25 x 25 cm circa), fittamente accostate che, negli ambienti piú vasti, possono raggiungere facilmente il migliaio. Questi ambienti sono stati assimilati a lungo ai monumenti funerari in uso presso i Romani dal I secolo a.C. al II secolo d.C., nei quali le file sovrapposte di nicchie, i loculi (colombaria), contenevano le urne cinerarie dei defunti come, per esempio, quelli situati sulla via Appia a Roma dei liberti di Livia e di Augusto. Tuttavia, con il progredire degli studi, tale interpretazione è risultata sempre meno accettabile, anche perché presupponeva un’elevata densità di popolazione, in età romana non altrimenti documentata. Lo stesso termine di colombarium è tramandato dagli autori antichi per le strutture dedicate all’allevamento dei colombi (per esempio Columella, VIII, 8, 3), diffuse in ambito romano a partire dal I secolo a.C. La pianta di questi apprestamenti, minuziosamente descritti nei trattati di agricoltura medievale e rinascimentale, risponde essenzialmente a esigenze funzionali. La prima delle quali è la necessità di impedire l’accesso
agli animali predatori, ciò che spiega la posizione dell’accesso nei punti piú impervi dei costoni tufacei, raggiungibili solo con lunghe scale di legno. Proprio la stretta rispondenza tra le descrizioni tramandate dalle fonti scritte e le strutture con cellette presenti nell’area dei tufi ha ormai definitivamente accreditato l’ipotesi che si tratti di ambienti realizzati in epoca medievale destinati all’allevamento dei colombi e dei piccioni. Gli ambienti erano costruiti appositamente o sfruttando strutture piú antiche, come attesta il colombaio situato nella necropoli di Monte Rosello-Valle Bona realizzato adattando lo scavo di una tomba etrusca, della quale resta il soffitto a lacunari e una parte del perimetro originario. A Sovana i colombari sono presenti in gran numero, dislocati tanto alle pendici del paese che lungo i costoni dei poggi circostanti (Grezzano, Monte Rosello e presso il costone del Calesine). Ben visibile, pur se non accessibile, è l’interno di un ambiente traforato da nicchiette situato sopra la galleria della strada che conduce a San Martino sul Fiora; di alcuni colombari aperti sulla parte piú alta dei costoni, oggi irraggiungibili per il crollo di tratti della rupe, si osservano porte o finestre che si affacciano su alti strapiombi.
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parchi archeologici • città del tufo
Il Parco Archeologico «Città Del Tufo» Inaugurato nel 1998 su iniziativa del Comune di Sorano, in collaborazione con la Regione Toscana e con la Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, il Parco Archeologico occupa un’area estesa, fortemente caratterizzata dall’azione erosiva dei torrenti e quindi da un paesaggio singolare e suggestivo, ricco di profondi canyon che si aprono nell’altopiano. Esso propone un percorso che realizza in pieno la sintesi tra natura, paesaggio e monumenti della civiltà etrusca e medievale. Il parco comprende la città di Sovana, con i suoi monumenti piú significativi, le vie cave e le necropoli che si sviluppano intorno a esse, con le celebri tomba Ildebranda, della Sirena, Pola, Pisa e del Sileno. Qui è visitabile anche il Museo di S. Mamiliano, recentemente inaugurato. Nelle immediate vicinanze di Sorano, in posizione panoramica sopra il fiume Lente, è inoltre l’insediamento rupestre di San Rocco, con le sue testimonianze storiche di età medievale. Da qui si può raggiungere Sorano e visitare la Fortezza Orsini, che ospita il Museo del Medioevo e del Rinascimento. La visita al parco si completa con il villaggio rupestre di Vitozza, posto nelle immediate vicinanze della frazione di San Quirico di Sorano, con le sue duecento grotte.
dove e quando Parco Archeologico «Città del Tufo» Area archeologica di Sovana Orario dal 29 marzo al 6 ottobre: tutti i giorni, 10,00-19,00; per gli altri periodi dell’anno, vedi info Aree archeologiche di Vitozza e di San Rocco Orario ingresso libero. Museo di S. Mamiliano e Fortezza Orsini di Sorano Orario dal 29 marzo al 6 ottobre: 10,00-13,00 e 15,00-19,00; per gli altri periodi dell’anno, vedi info Info Parco Archeologico, tel. 0564 614074 o 633424, fax 0564 617924 Comune di Sorano, tel. 0564 633023 Pro Loco Sorano tel./fax 0564 633099; www.leviecave.it; e-mail: info@leviecave.it In alto: la tomba del Tifone. Prima metà del III sec. a.C. A sinistra: Sorano, la rinascimentale fortezza Orsini, sede del Museo del Medioevo e del Rinascimento, con ceramiche rinvenute a Sorano, Sovana e Castell’Ottieri.
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stino del defunto nell’aldilà, immaginato nella felice e permanente situazione di banchettante tra le divinità. Il nicchione stesso diventa rappresentazione della por ta dell’aldilà, quasi un oblò da cui poter guardare dentro il mondo dei defunti. È questo il caso della tomba dei Demoni Alati, dove, ai lati del nicchione e su alti piedistalli, si ergono due statue, quasi a tutto tondo, che raffigurano altrettanti personaggi femminili, alati e vestiti di tunica e pesanti mantelli. Altre due imponenti sculture erano poste simmetricamente nella platea davanti la facciata e raffiguravano due leoni, uno dei quali, quello di sinistra (il solo conservato), è in posizione d’assalto. La facciata è coronata da un timpano triangolare. Sul frontone, ad altorilievo, campeggia un demone mar ino imponente, fornito di grandi ali e, in luogo delle gambe, di estremità serpentine che, dopo due avvolgimenti, terminano in code pisciformi. Il demone mantiene dietro la testa un timone di una nave. Nel campo al di sopra delle spire anguiformi, guizzano due delfini. Le sculture conservano ancora tracce di pittura.
per il figlio di vel Lo stesso demone appare a Sovana nella tomba a edicola con vano quadrato PF11 e in quella piú famosa detta della Sirena. Quest’ultima risulta leggermente piú recente di quella dei Demoni Alati, che ne è stata sicura fonte d’ispirazione. Anche qui il defunto è posto entro il nicchione arcuato, che è fiancheggiato da due personaggi a rilievo raffiguranti un demone maschile e uno femminile. La camera funeraria, posta fuori asse, è molto piccola, e probabilmente ospitava i resti di un solo defunto incinerato, «Vel Nulina (figlio di) Vel», come recita l’iscrizione conservata in facciata. Sulla trabeazione, con fregio di patere e triglifi, è un frontone decorato a rilievo con il demone marino che avvolge nelle sue
IL TESORO DI San MAMILIANO Nel corso dei restauri e degli scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio per le province di Siena e Grosseto e dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana, nel 2004 all’interno della chiesa di S. Mamiliano in Sovana è stato rinvenuto un piccolo vaso contenente 498 monete d’oro. Il tesoretto è costituito esclusivamente da solidi (il solido era una moneta d’oro introdotta in sostituzione dell’aureo con la riforma monetaria di Costantino I nel 324, rimanendo in uso in tutto l’impero bizantino, fino al X secolo; aveva un valore di 1/72 di libbra romana, pari a 4,5 gr circa), con una attestazione prevalente di monete coniate sotto l’imperatore Leone I, al potere tra il 457 e il 474 d.C., seguite da quelle coniate sotto l’imperatore Antemio che regnò tra il 467 e il 472 d.C. L’arco cronologico rappresentato è compreso tra l’inizio e gli ultimi decenni del V secolo d.C. Sono presenti i tipi consueti della monetazione aurea del periodo: sul diritto compare il busto dell’imperatore diademato e paludato, di profilo a destra o a sinistra, oppure frontale con corazza, lancia e scudo. Sul rovescio i tipi sono quelli imperiali (uno o due imperatori stanti o in trono), quello della Vittoria alata e quello della personificazione di Costantinopoli in trono. Per quanto riguarda le zecche di emissione, prevale quella di Costantinopoli, l’unica orientale rappresentata, con l’eccezione di Tessalonica, documentata da pochi esemplari. Tra le zecche italiane spiccano Roma, Ravenna e Milano. È presente, con pochi esemplari, anche una zecca gallica, quella di Arles. Il tesoretto monetale, forse tra le piú interessanti scoperte numismatiche recenti, venne occultato nell’ultimo quarto del V secolo d.C. in un periodo di gravi difficoltà per la regione a causa delle guerre, delle invasioni, delle carestie e delle epidemie che coinvolsero tutta l’Italia. Esso è una prova evidente della difficoltà dei tempi e, sebbene si possano solo proporre ipotesi sul suo possessore, sulle circostanze e il significato del suo occultamento nel sito che sarà poi occupato dalla chiesa di S. Mamiliano, il ripostiglio offre una documentazione straordinaria sulla circolazione monetaria nel V secolo. Due immagini dello scavo e del recupero del tesoretto scoperto nella chiesa di S. Mamiliano nel 2004. Si tratta di un insieme composto da ben 498 monete d’oro, databili tra l’inizio e gli ultimi decenni del V sec. d.C.
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parchi archeologici • città del tufo
due spire altrettanti amorini e che ha regalato impropriamente il nome alla tomba. La mitologica figura femminile con la coda di pesce, tanto presente nell’immaginario collettivo, ha evidentemente condizionato l’interpretazione della raffigurazione. Si tratta sempre di un personaggio di chiara matrice greca, ma riferibile al mito di Scilla piuttosto che a quello delle Sirene. Vittima di Circe, per gelosia venne trasformata in un mostro che aveva attaccati, nella parte inferiore del corpo, sei feroci cani. Lo stesso Ulisse ne fece la conoscenza e il suo equipaggio subí altrettante perdite.
il gonnellino di alghe In questo caso il tipo della Scilla è quello etrusco, che ha sostituito con un gonnellino di alghe le protomi canine attorno alla vita ed è fornito di ali. Normalmente Scilla è rappresentata con le braccia sollevate a lanciare pietre o a impugnare mi-
Veduta di Sovana, sviluppatasi su un ripiano tufaceo delimitato dai fossi Folonia e Calesina, affluenti del fiume Fiora. Oltre alle importanti testimonianze riferibili all’epoca etrusca, il borgo deve la sua notorietà all’aver dato i natali a Ildebrando Aldobrandeschi (1020 circa-1085), salito al soglio pontificio nel 1073 con il nome di Gregorio VII.
un territorio attraverso i secoli Il Museo di S. Mamiliano fa parte del Polo Museale di Sovana insieme al palazzo Pretorio e al palazzetto dell’Archivio. Il Museo è stato realizzato all’interno di una chiesa considerata da alcuni come la piú antica cattedrale di Sovana. Si tratta, in realtà, di una chiesa cemeteriale, edificata nel IX secolo per la conservazione delle reliquie del santo titolare prelevate dall’isola del Giglio. San Mamiliano, figura leggendaria di monaco eremita vissuto forse nel V secolo, avrebbe svolto
un’intensa attività di predicazione in questa regione e, con la diffusione del cristianesimo, Sovana conquistò un ruolo preminente, divenendo sede di diocesi alla fine del VI secolo. Le indagini archeologiche effettuate per la trasformazione della chiesa in sede museale hanno portato alla luce un impianto termale romano e uno straordinario tesoretto monetale di età tardo-antica (vedi box a p. 77). L’esposizione museale presenta i risultati di questi scavi e illustra la fase romana della città. Oltre al tesoretto monetale, sono esposti reperti di grande interesse, provenienti dagli scavi effettuati negli anni passati sul pianoro di Sovana e nelle necropoli circostanti. Spiccano, in particolare, i numerosi ex voto in terracotta provenienti da una stipe votiva rinvenuta nel 1827 nell’area funeraria (tagliata del Cavone), connessa a un luogo di culto a divinità salutifere e della fecondità. Oltre alle consuete riproduzioni di animali, teste, parti anatomiche e alle
nacciosamente parti delle navi che ha fatto naufragare, come remi, timoni o ancore. Come le Sirene, il mostro marino incarna le difficoltà del viaggio attraverso l’oceano della vita che il defunto ha ormai felicemente compiuto. E tutta la scena d’intorno si compone improvvisamente come un’allegoria della vita e della morte, nella quale l’estinto viene rappresentato entro la porta dell’Ade, ma già pressoché isolato nella beatitudine degli iniziati. Come nella tomba dei Demoni Alati, i leoni ruggenti non fungono da guardiani del sepolcro, ma rappresentano i mostri che affollano l’oltretomba, e le Vanth (divinità femminili etrusche appartenenti al mondo degli Inferi, n.d.r.) poste agli angoli del nicchione, accompagnano in questo ultimo viaggio il povero Vel, per il quale, vista la posizione rovesciata, la fiaccola della vita, tenuta nella mano dal demone alato, è ormai spenta.
statuette, si distinguono alcuni prodotti molto schematici e rozzamente espressivi, quasi popolareschi, che fanno del complesso votivo del Cavone una testimonianza di grande interesse della creatività degli artigiani locali. Di grande pregio sono inoltre le terrecotte architettoniche, note da numerosi frammenti recuperati nel corso di scavi ottocenteschi: si riferiscono a diversi tipi di fregi, a carattere ornamentale o con scene figurate di difficile interpretazione, provenienti da un edificio urbano, forse d’uso cultuale, collocato sul pianoro di Sovana. In alto: dritto e rovescio di un solido aureo di Antemio, dal tesoro di S. Mamiliano. 467-472. A sinistra: dritto e rovescio di un solido aureo di Onorio, emesso dalla zecca di Milano e facente parte del tesoro di S. Mamiliano. 402-403, 405-406. Nella pagina accanto: il palazzo Pretorio di Sovana.
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speciale • uruk
di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner Ricostruzione virtuale di una cerimonia nel santuario di Eanna, nella cittĂ di Uruk, intorno alla fine del III mill. a.C. Il sovrano e i sacerdoti del tempio sfilano in processione per rendere onore alla dea Inanna-Ishtar.
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uruk
una megalopoli
UNA GRANDE MOSTRA AL PERGAMON MUSEUM DI BERLINO CELEBRA IL CENTENARIO DELLA MISSIONE TEDESCA NEL SITO DELLA BASSA MESOPOTAMIA: OLTRE QUARANTA CAMPAGNE DI SCAVO HANNO RICOSTRUITO LA VITA DI QUESTO LUOGO SIMBOLO DELL’ARCHEOLOGIA VICINO-ORIENTALE, DOCUMENTANDO UN PASSAGGIO FONDAMENTALE NELLA STORIA DELLA CIVILTà. COMPIUTOSI PROPRIO QUI, NELL’ODIERNO IRAQ, PIú DI CINQUEMILA ANNI FA…
dell’età del bronzo U
ruk ci invita a fermarci e a riflettere sulla natura piú profonda del nostro vivere sociale, attraverso il poco che ancora sappiamo sull’origine della città antica – il manufatto enorme, complesso e infinitamente fragile creato alle soglie del terzo millennio a.C. che ci ha portato al valico del terzo millennio d.C. Sei millenni, duecento generazioni per giungere fin qui, per voltarci indietro e per chiederci, una volta di piú, se tutto questo inventare, costruire, combattere, disfare e rifare sia stato davvero inevitabile e necessario. Rispecchiarci oggi nei frammenti dell’antica Uruk significa anche ripensare le basi stesse della storia umana, come gli orizzonti che, dietro l’angolo, già aspettano i nostri figli.
Una creazione fatta di alabastro In principio era Nammu, un oceano indefinibile, increato e caotico in cui turbinavano acque primordiali. Poi, come lo schiudersi di un’immensa conchiglia, Nammu volle aprirsi e An, il cielo, la casa degli dèi e delle dodici costellazioni, si separò da Ki, la terra, il teatro dei destini umani, spazzata dai capricci del dio del vento. Dalla terra si sprigionarono le spighe dell’orzo – la promessa del pane e della birra – che si semina in autunno e si raccoglie in inverno; e il fusto snello della palma da dattero, con la sua corona di smeraldo, i cui frutti stillanti zucchero si raccolgono nel calore soffocante dell’estate. Le piante che dalla terra gravida d’acqua dolce risalgono alla volta celeste sono come mani tese dagli dèi per sostenere la vita umaa r c h e o 83
speciale • uruk
i luoghi sacri e del potere
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ARABIA SAUDITA
Planimetria della città di Uruk: 1. Santuario di Eanna con ziqqurat; 2. Edifici arcaici; 3. Bit Resh, santuario della coppia divina Anu e Antum; 4. Ziqqurat di Anu con il Tempio Bianco; 5. Irigal
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(area sacra dedicata alla dea Ishtar); 6. Tempio di Gareus; 7. Aree di scavo V-XVIII; 8. Bit Akitu, la casa della «festa del capodanno»; 9. Campo base della missione; 10. Palazzo del re Sin-Kashid.
KUWAIT
Oltre il mito storico della «città stato trionfante» traspare una realtà aspra e drammatica di conflitti ideologici e sociali
come Sumer). Il vaso, protagonista suo malgrado negli anni passati di eventi drammatici e confusi, è forse in assoluto il piú importante monumento dell’archeologia orientale; sembra essere la prima opera d’arte di contenuto narrativo mai realizzata, modello cosmico e axis mundi al tempo stesso, e soprattutto lucida espressione di propaganda ideologica e religiosa in un momento davvero cruciale per la storia dell’evoluzione sociale della nostra specie.
na: se il raccolto invernale fallisce, i contadini sopravvivono con i frutti incorruttibili di quello estivo, ben trattati e stipati nelle dispense. Poi furono create le bestie, e tra di esse le docili pecore che, nelle pianure e lagune del Sud, sanno meglio sopportare i dardi infuocati del dio del sole, per donare all’uomo la benedizione della lana, e le capre capaci di vivere, nelle terre settentrionali e sulle pendici dei monti, quasi di nulla.
e venne l’uomo E poi fu la volta dell’uomo, creato solo per liberare schiere di esseri divini dalle amare incombenze del lavoro; gli uomini compaiono in file ordinate, nudi e rasati, come ci si presenta, in perfetta purezza e umiltà, e con cesti strabordanti di primizie e offerte, al cospetto dei sacerdoti e dei principi che servono la grande dea patrona e padrona della città. Cosí va ed è sempre andato il mondo, con passi, processioni e giri ordinati, in serena accettazione di destini spesso amari, pensati da divinità imperscrutabili. È una universale gerarchia dove la pianta, l’animale, il contadino, il pastore, l’artigiano, il principe, il sacerdote e la statua hanno ruoli immutabili e indispensabili gli uni agli altri. Il mondo è un’immensa rete tesa tra cielo e terra, della quale l’uomo è al tempo stesso misura, filo e preda. Questa è la storia della creazione e la concezione dell’essere umano che ancora si leggono con straordinaria chiarezza, piú di cinquemila anni dopo, in un celebre vaso in alabastro di Warka (nome moderno dell’antica Uruk, situata al margine meridionale della terra che sarebbe stata in seguito nota
In alto: un tipico villaggio di capanne palustri nella regione di Nassiriya (Iraq meridionale), città presso la quale fu scoperto il sito di Ubaid. In basso: veduta dell’area archeologica di Uruk, con alcuni resti delle strutture dell’antica città
Il rompicapo delle cronologie L’archeologia della Mesopotamia, «la terra tra i fiumi» dei Greci, è sempre stata dominata – per motivi geopolitici e storici – da interessi storico-artistici da una parte, e, dall’altra, da una disciplina radicalmente diversa, quella dei filologi esperti nella lettura di tavolette cuneiformi che tramandano antiche lingue scomparse. Schiacciata tra questi due giganti accademici, spesso poco propensi al dialogo, l’archeologia di campo (che si occupa di scavare rovine e mette in ordine pezzi di mura, ossa, pietre e vasi rotti) ha avuto raramente modo – soprattutto in passato – di fare il suo lavoro. Per questo e altri motivi, ancor oggi non disponiamo, per la sterminata piana del Tigri e dell’Eufrate, di ricostruzioni degli eventi ben ancorate su una affidabile scala temporale accettata da tutti gli studiosi. Le cronologie della Mesopotamia, in altre parole, sono in continua revisione, e con esse, inevitabilmente, le nostre ricostruzioni storiche. Sino a dieci o quindici anni fa tutti ritenevano che il cosiddetto «Periodo di Uruk», cosí chiamato sia per l’importanza della sua (segue a p. 88)
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«quindici frammenti e una dama...» Parla Alessandro Bianchi, protagonista di un restauro in extremis
(a cura di Stefania Berlioz)
È stato tra i primi ad arrivare in Iraq all’indomani dell’intervento della coalizione internazionale contro il regime di Saddam Hussein. Da allora non ha mai abbandonato il campo. Alessandro Bianchi è coordinatore di tutti i progetti e missioni di salvaguardia del patrimonio archeologico e culturale iracheno per conto del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma.
◆ Dottor Bianchi, quando ha
conosciuto per la prima volta l’Iraq? Sono passati esattamente dieci anni dal mio primo sopralluogo a Baghdad, nel giugno del 2003, a due mesi dall’intervento delle forze anglo-americane. Nell’ambito della Coalition Provisional Authority, (governo internazionale di transizione), creato per assicurare la guida del Paese,
A destra: la Dama di Warka, denominazione attribuita a una maschera in marmo rinvenuta a Uruk. 3000 a.C. circa. Baghdad, Iraq Museum. Nella pagina accanto: il vaso di Warka, restaurato grazie al contributo dell’ISCR. Baghdad, Iraq Museum.
Il vaso di Warka Il grande «vaso di Warka», uno dei piú importanti capolavori dell’arte mesopotamica, era stato trovato dagli archeologi tedeschi durante gli scavi di Uruk il secondo giorno dell’anno 1934. Rimase nella sua sede museale sino a che fu rovesciato dalla vetrina, spaccato a terra e trafugato da ignoti durante l’assalto al Museo avvenuto poco dopo l’ingresso a Baghdad delle truppe della Coalizione, il 5 aprile 2003. Agli inizi di luglio il vaso fu restituito al Museo da quattro cittadini iracheni che lo avevano trasportato nel bagagliaio di un’automobile. Il vaso era in quindici frammenti, ma pressochè completo; fortunatamente il danno era stato relativo – le fratture erano tutte antiche, e quello che si era rotto era in realtà quanto era ricostruito in gesso dai restauratori tedeschi poco dopo la scoperta. 86 a r c h e o
Nel marzo 2004 un team italoiracheno diretto da Alessandro Bianchi dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (vedi intervista in queste pagine) diede inizio alla pulizia e alla ricomposizione dei pezzi. I lavori si protrassero a intervalli, per il mutare delle condizioni di sicurezza. II vaso è stato finalmente ricomposto e riportato alla sua originaria bellezza alla fine di gennaio 2013. Ora è tornato in mostra nella sua vetrina, ed è un’immagine che certamente giova al prestigio internazionale della politica culturale italiana. Alto poco piú di 1 m, il vaso è coperto sull’esterno da quattro fregi orizzontali sovrapposti, sempre piú ampi e sempre piú visibili dal basso verso l’alto (piante che emergono dall’acqua; caprovini in fila; portatori nudi con cesti di
offerte e una giara per liquidi; infine, in alto, figure umane che si avvicinano al cospetto di una grande dea (Inanna). La prima figura, direttamente in fronte alla dea, è un personaggio nudo e rasato, rappresentato con dimensioni notevoli, che le porge un canestro conico ricolmo di cibo; incarna probabilmente la massima autorità della comunità templare. Segue una importante lacuna, e quindi l’immagine, secondaria, di un inserviente. Alle spalle della dea si leva un complicato insieme di oggetti rituali, offerte e simboli nei quali si celano, come in una crittografia, l’epiteto di «governante, signore» (in sumero, en) e lo stesso antico nome di Uruk. Gli oggetti e i simboli alle spalle della dea sono singolarmente duplicati, circostanza non facile da spiegare; tuttavia è
improvvisamente privato di ogni punto di riferimento istituzionale, all’Italia venne assegnata la responsabilità del Dipartimento Affari Culturali. La mia missione, condotta assieme a Giuseppe Proietti (Segretario Generale del Ministero per i Beni e le Attivitità Culturali), aveva lo scopo di valutare i danni subiti dai laboratori di restauro del Museo Archeologico dell’Iraq e programmare gli interventi di prima emergenza.
Sui fregi del vaso di Warka si svolge un modello d’ordine cosmologico e sociale al tempo stesso
sumerica; il leone in terracotta di Tell Harmal, ridotto in minuti frammenti; le colossali statue di tori alati androcefali provenienti dai palazzi assiri di Nimrud e Khorsabad; i delicatissimi avori di Nimrud, già depositati nel caveau della Banca Centrale dell’Iraq, allagatosi a seguito dell’esplosione di un missile; numerose statue provenienti dalla città partica di Hatra.
◆ Quali sono state le maggiori
◆ I primi interventi?
Ci siamo mossi con rapidità: nel marzo del 2004 il nuovo laboratorio di restauro risultava già ripristinato, equipaggiato e operativo. Tra marzo e giugno sono iniziati i primi interventi di restauro sui reperti maggiormente danneggiati durante il saccheggio e le devastazioni del museo. Parliamo di capolavori assoluti: il vaso rituale di Warka e la cosiddetta Dama di Uruk, massime espressioni della scultura in marmo di epoca
difficoltà incontrate? Senza dubbio quelle legate alla sicurezza: il Museo Archeologico si trova in pieno centro, ma al di fuori della green zone (l’area internazionale protetta) in uno dei quartieri piú esposti a rischi di attentato. A fine giugno l’emergenza era tale che dovemmo sospendere gran parte delle nostre attività e rimpatriare la squadra di restauratori e tecnici dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il (segue a p. 88)
avvenuto anche in altre realtà storiche che forme di potere assolutistico si siano basate, a gradini gerarchici inferiori, su organizzazioni dualistiche tra loro in contrasto, in modo da essere piú facilmente controllabili dall’alto. Alcuni indizi, infine, suggeriscono che gli spazi non scolpiti tra i due fregi superiori fossero coperti da bande di lamina d’oro. Una delle interpretazioni archeologiche tradizionali è che l’oggetto rappresenti un matrimonio simbolico del maggiorente della città con la sua divinità protettrice «nella visione del regno felice che prospera nell’unione dell’elemento umano con quello divino» (come ha scritto Pietro Mander, professore di assiriologia all’Università di Napoli «L’Orientale»). Quella del vaso è una storia complicata, fatta di una rottura in antico, e di un successivo restauro,
assai accurato, esuguito alla fine del IV millennio a.C. Il manufatto fu infatti ricostruito perforando il bordo di parte dei frammenti e ricucendoli con fascette di rame; quindi ricreando parte dell’orlo, operazione che modificò il copricapo o l’acconciatura della protagonista divina. Quando il vaso fu rotto una seconda volta, i frammenti furono sepolti insieme a vasi di rame, pezzi di statue di animali e sigilli a cilindro in un importante deposito votivo. Nell’occasione, per motivi misteriosi, fu sottratta una delle figure chiave della rappresentazione della fascia superiore: l’immagine del re-sacerdote che ricorre in molte altre opere figurative del periodo di Uruk. Della figura sopravvive solo una stola frangiata, retta dall’inserviente che lo seguiva. a r c h e o 87
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Restauro di Roma. Il cruccio piú grande è stato per il vaso di Warka, trafugato dal museo durante il saccheggio di aprile e subito restituito, ma frammentato in 15 pezzi. Mancava all’appello solo una piccola parte di uno dei pezzi (5 x 7 cm), spezzata e perduta durante le vicissitudini che seguirono l’assalto al museo. Il restauro, delicatissimo, era stato quasi portato a termine, mancava veramente poco. Ma il pericolo di attentati spinse l’allora direttore del Museo, Donny George, a mettere in sicurezza i reperti piú preziosi nei depositi sotterranei del museo. L’ingresso venne addirittura sigillato con un muro.
◆ Quando è stato possibile
riprendere l’attività di restauro presso il Museo di Baghdad?
Alla fine del 2012, grazie al sostegno dell’ambasciata italiana in Iraq è stato possibile concordare con le autorità irachene la ripresa del restauro del vaso. La situazione è decisamente piú tranquilla, ma si tratta pur sempre di una sicurezza relativa. Abbiamo affittato un appartamento nella zona internazionale, ma per spostarci al museo, distante solo 500 m, dobbiamo munirci di una scorta privata, a costi esorbitanti. Ma ne vale la pena. Il restauro del vaso di Warka è stato finalmente completato: questo straordinario reperto ha ora il suo posto nel museo, all’interno di una vetrina da noi appositamente disegnata. È motivo di orgoglio, per l’Italia, l’aver restituito all’Iraq uno dei suoi simboli archeologici e culturali piú commoventi.
megalopoli, sia per il semplice fatto che ancor oggi Uruk è l’unica grande città del tempo scavata in estensione, fosse limitato a tre o quattro secoli compresi nella seconda metà del IV millennio a.C. Archeologi e storici ricercavano in Mesopotamia quella «culla della transizione» (Mario Liverani) che aveva luminosamente guidato, con un successo immediato e travolgente, un mosaico di deboli comunità rurali all’invenzione della scrittura, dell’arte figurativa, della regalità e infine alle conquiste degli imperi unitari. Uruk appariva in tal modo come il precursore autorevole e indiscusso di tutto quanto di possente e di autorevole avrebbero realizzato, nei millenni successivi, le civiltà dell’Occidente.
la «città-stato trionfante» Grazie all’accuratezza di importanti scavi stratigrafici, oggi, al contrario, sappiamo che le fasi formative delle grandi città nelle pianure alluvionali dell’Iraq e della Siria si svilupparono, praticamente senza soluzione di continuità, lungo l’intero arco del IV millennio a.C. Quello che sembrava un rapido apogeo della «città-stato trionfante» (per usare una fortunata espressione di Jean-Daniel Forest) oggi appare come un periodo lungo e sostanzialmente sconosciuto, in cui ebbero 88 a r c h e o
◆ Missione compiuta, allora.
State smobilitando? Assolutamente no. La missione di partnerariato italo-irachena è in piena attività. È quasi al termine il nuovo allestimento della seconda sala assira del museo. Contestualmente è stato reso disponibile un nuovo spazio da adibire a laboratorio tecnicoscientifico: è imminente l’arrivo a Baghdad, dall’Italia, di un importante carico di strumentazioni e materiali. In realtà tutto doveva già essere arrivato a destinazione, ma il caso ha voluto che il container si trovasse a bordo della Jolly Nero, la nave del disastroso incidente di Genova. Al momento è tutto bloccato. Ci vorranno mesi, perché il carico venga sdoganato e riprenda il suo viaggio.
cosí nacque una grande città 5000-4000 a.C. Fondazione di due o piú diversi insediamenti Periodo di Ubaid in quella che sarà in seguito l’area urbana di Uruk. 4000-3800 a.C. I villaggi si raggruppano in un’area Periodo di Uruk metropolitana allargata, percorsa da una serie Antico di canali che meritano a Uruk il nome di «Venezia del deserto». 3800-3400 a.C. Uruk è una delle capitali della Mesopotamia, Periodo di Uruk abitata da 10 000-20 000 persone. Si sviluppano Medio i due grandi distretti religiosi di Uruk, Kullaba (il tempio di Anu) ed Eanna (area sacra di Inanna). 3400-3100 a.C. Sulla terrazza dell’Eanna crescono i grandi Periodo di Uruk edifici templari o sale di accoglienza con Tardo colonne, cortili e decorazioni a mosaico. Invenzione della scrittura e sviluppo delle tecnologie amministrative. I canali connettono Uruk all’Eufrate e quindi all’accesso al mare. 3100-2900 a.C. Uruk è una megalopoli dove vivono decine di Periodo migliaia di persone. La tradizione attribuisce a di Jemdet Nasr questo periodo la costruzione delle mura urbane al re semi-divino Gilgamesh. Crescita dei conflitti e dei contrasti politici mediati dalle fondazioni religiose. 2900-2800 a.C. Uruk controlla buona parte della Mesopotamia, Protodinastico I ma l’area abitata si restringe gradualmente nei
luogo sí fortunate scalate al potere, audaci innovazioni politiche e religiose e (per alcuni) grandi trionfi, ma anche lunghe storie di conflitti, collassi, distruzioni, degradi ambientali e regressi. Ci si illudeva che le scene sulla famosissima «Stele degli avvoltoi» eretta dal re di Lagash, Eannatum (ca.2500 a.C.), oggi custodita al Louvre, in cui i suoi soldati coprono con cesti di terra enormi cumuli di nemici morti, fossero roboanti espressioni di una vuota retorica autoritaria; ma la recente scoperta a Tell Brak (Siria settentrionale) dei resti ossei di piú duecento persone uccise e buttate negli immondezzai cittadini, dopo essere state consumate da cani e rapaci, rivela che le «montagne di cadaveri» erano, semplicemente, verità letterale. E con le sinistre scoperte di Tell Brak siamo proprio nel momento cruciale del periodo di Uruk, da collocare intorno al 3300 a.C. Al di là delle cortine di una storiografia tradizionalmente elegiaca, la Mesopotamia è certamente stata teatro di grandi tragedie collettive e illusioni di massa, di promesse mai realizzate, insomma, un vero e proprio «Eden che non fu mai tale» (Susan Pollock). Rico-
struirne la storia oggi appare un compito ben piú difficile di quanto non potesse essere sembrato in passato. Abbiamo infatti secoli e secoli di preistoria (o se vogliamo di protostoria) che, come tante scatole vuote, vanno riempiti di archivi irrimediabilmente dispersi, con eventi, date, nomi di sovrani dimenticati; e ancora capolavori scomparsi, ed emozioni ancora difficili da immaginare.
Statua colossale di figura eroica, nota come Gilgamesh di Khorsabad. Fine dell’VIII sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen.
un patrimonio allo sbando Peccato che, nel frattempo, tre guerre tanto insensate quanto sanguinose (due contro l’Iraq di Saddam Hussein, una infinitamente peggiore tra Iraq e Iran) abbiano ridotto le terre che ci interessano a una generalizzata povertà, togliendo ogni autorevolezza e capacità di controllo alle strutture statali incaricate della gestione e della salvaguardia del patrimonio culturale. Centinaia di monticoli archeologici (tell) e antichi cimiteri sono stati spietatamente saccheggiati in cerca di
distretti settentrionali, per uno spostamento del corso dell’Eufrate e per l’inasprimento delle crisi politiche. 2800-2500 a.C. I re della Prima Dinastia di Uruk mantengono Protodinastico II il predominio sulla Mesopotamia meridionale. 2500-2250 a.C. Uruk cade sotto il controllo della vicina Ur. Protodinastico III 2250-2150 a.C. La città entra a far parte del primo impero Età Akkadica unitario del Vicino Oriente, che cadrà alla fine del XXII secolo sotto i colpi dei Gutei, una popolazione dell’altopiano iranico. 2120-2000 a.C. Utu-hengal, signore di Uruk, scaccia i Gutei ma Terza Dinastia è sconfitto da Ur-Nammak di Ur. Uruk ritorna di Ur sotto l’influenza del potente Stato vicino. 2000-1800 a.C. Temporanea indipendenza di Uruk, prima Periodo detto di nuove e finali annessioni alle città vicine. di Isin e Larsa II-I millennio a.C. Uruk rimane coinvolta nelle lotte tra Babilonesi, Cassiti e le vicine potenze dell’Assiria e dell’Elam. I millennio a.C. Uruk rimane un importante centro abitato sotto gli Assiri, gli Achemenidi e durante i successivi imperi dei Seleucidi e dei Parti. 300-600 d.C. Uruk viene definitivamente abbandonata prima Impero sasanide della conquista della Mesopotamia da parte delle armate arabe (633-636 d.C.).
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per la grande dea
reperti da vendere per pochi spiccioli a trafficanti, collezionisti e purtroppo anche musei senza scrupoli – mentre con il costo di un solo aviogetto o carro armato sarebbe stato possibile scavare per anni intere città. La logica predatoria del profitto, una volta di piú, si mostra radicalmente avversa a quella del sapere e della stessa «civiltà».
Perché Uruk In Mesopotamia, in larga misura, il Periodo di Uruk «è» la città stessa, con i suoi grandi complessi architettonici, le arcaiche tavolette con segni scritti, le prime e sorprendenti opere di arte figurativa e monumentale. Questa sovrapposizione o coincidenza è dovuta a diversi fattori, in parte casuali e non sempre collegati tra loro. In primo luogo, Uruk , che era giunta, negli ultimi secoli del IV millennio, a estendersi per piú di 100 ettari di superficie urbana, fu ben presto sfavorita da un rapido mutamento di letto di un ramo dell’Eufrate; la popolazione urbana, nei secoli successivi, iniziò gradualmente a contrarsi, occupando di preferenza i quartieri settentrionali della città. A questa trasformazione ecologica potrebbe essersi accompagnata una vasta crisi sociale. Le fondazioni dei grandi edifici pubblici, forse cultuali, costruiti a piú 90 a r c h e o
La ricostruzione virtuale della ziqqurat innalzata a Uruk in onore di Inanna/Ishtar posta a confronto con quel che resta, oggi, del grandioso monumento. L’edificio fu costruito sul finire del III mill. a.C.
riprese in strati sovrapposti sulle grandi terrazze rialzate nelle zone centrali rimasero cosí sostanzialmente indisturbate, e, trovandosi prossime agli strati superficiali, poterono essere scavate con relativo agio – prima in estensione, poi in profondità. Manca inoltre ancora la possibilità di confrontare i dati di Uruk con quanto avveniva, negli stessi secoli, in altre grandi città vicine: sappiamo che esse celano strati, edifici e persino arcaici testi scritti ugualmente importanti, ma non sono mai stati scientificamente indagati. Altro paradosso dell’archeologia del Periodo di Uruk, è che questa fase è nota molto meglio in regioni periferiche, come la Siria settentrionale o addirittura l’entroterra dell’altopiano Iranico, che non nel cuore del futuro paese di Sumer (esitiamo a usare questo nome per le prime comunità urbane della Mesopotamia meridionale; per quanto la cosa appaia probabile, gli indizi che vi si parlasse effettivamente la lingua sumera del III millennio a.C. sono ancora scarsi e indiretti). Infine, l’immagine del Periodo di Uruk restituita dalle trincee di scavo continua a essere (ed è una falsa impressione) piuttosto statica. Se questa immensa città sembra apparire
all’improvviso, e in forme tanto già organizzate, ciò è dovuto al fatto che qui, come in molti altri grandi centri mesopotamici, gli strati precedenti risalenti alle occupazioni del V millennio a.C. (il cosiddetto Periodo di Ubaid) non sono stati esplorati su superfici significative.
il sistema dei campi lunghi Non vi sono tuttavia dubbi sul fatto che la società di Uruk ebbe, almeno momentaneamente, uno straordinario successo. L’enorme crescita di Uruk e di altri centri proto-urbani tra la fine del IV e il primo secolo del III millennio a.C. viene spiegata da Mario Liverani e altri studiosi in termini principalmente produttivi: si pensa che le nascenti società urbane, grazie a una nuova concezione del sacro e nuove organizzazioni templari, abbiano gradualmente centralizzato l’irrigazione artificiale, promuovendo il sistema dei cosiddetti «campi lunghi», lotti di terreno coltivabile lunghi e stretti in lieve pendio, che venivano irrigati semplicemente per gravità, incidendo marginalmente i banchi naturali dell’Eufrate. L’agricoltura si sarebbe sviluppata grazie al concorso di altre importanti innovazioni tecniche, tra le quali l’aratro seminatore (provvisto di un imbuto retrostante il vomere, che limitava la dispersione delle semenze all’esatta area del solco) e la slitta-trebbiatrice (un piano ligneo provvisto di lame taglienti in selce trainato da animali sulle spighe raccolte per distaccarne i semi). Anche se il reale impatto di simili tecniche resta incerto, vi sono pochi dubbi sul fatto che nel periodo di Uruk abbia decollato vertiginosamente quell’economia dell’orzo e della lana sulla quale avrebbero poi prosperato le città-stato dei secoli successivi, concentrando le produzioni in grandi case e comunità templari. Nel sud della Mesopotamia si sarebbe cosí reso disponibile un potenziale produttivo notevolmente accresciuto, che permetteva ingenti investimenti nell’urbanistica e in nuovi, grandi cantieri edilizi. Lo sviluppo edilizio comportava di per sé l’afflusso al centro di notevoli masse di contadini, che andavano nutriti e intrattenuti. Altre importanti trasformazioni furono di natura chiaramente sociale. Le comunità agricole del millennio precedente erano vissute in grandi case collettive, capaci di ospitare da venti a trenta persone o piú. Ciò significa che erano dominate da ampie famiglie estese, che collaboravano grazie a una consolidata rete di relazioni di a r c h e o 91
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consanguineità, e all’autorità di prestigiosi capifamiglia. Nel successivo «boom» agricolo dei periodi seguenti, nel sud, come chiaramente appare nell’archeologia di Uruk, tornò invece ad affermarsi un modello di famiglia incentrato su di un solo nucleo familiare. Era un sistema sociale molto meno sensibile alle tradizionali «pastoie» dell’etica gentilizia e delle farraginose obbligazioni dei legami di sangue, che riconosceva come comunità di appartenenza una nuova collettività urbana, cementata da nuove, pervasive idee religiose. Le famiglie nucleari, piú compatte e dinamiche, potevano acquistare, alienare, affittare e cedere in eredità diritti terrieri senza estenuanti contrattazioni con schiere di parenti e alleati; o investire le proprie eccedenze economiche in forme del tutto inedite.
Le mura di Gilgamesh La «grande Uruk» della fine del IV millennio, in queste condizioni, è nota soprattutto per i vasti ed elaborati edifici monumentali che si addensano sulle imponenti terrazze del complesso chiamato dagli archeologi «Eanna», e tradizionalmente considerato come dedicato al culto della dea Inanna (l’Ishtar dei piú tardi culti akkadici). L’Eanna sorgeva nella regione centro-orientale di Uruk, a sud della ziqqurat costruita dai re della III dinastia di Ur intorno al 2000 a.C. Piú a est, probabilmente al di
Ricostruzione virtuale del Tempio Bianco, la cui sagoma si stagliava al di sopra di una terrazza monumentale alta 12 m. 3450 a.C. circa.
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Ricostruzione virtuale dell’interno del Tempio Bianco, cosí come doveva apparire all’epoca del suo utilizzo, alla metà del IV mill. a.C.
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là di uno dei canali che attraversavano la città, svettava, su un’altra terrazza monumentale, il tempio di Anu, dio del cielo, detto anche «Tempio Bianco» per l’abbondante uso di calce sulle sue superfici murarie. Il Tempio Bianco era il cuore cultuale di un secondo quartiere di Uruk, chiamato «Kullaba». La distinzione tra questi distretti urbani fu molto sentita, e per secoli, dagli abitanti dell’antica Mesopotamia. Dalla Lista Reale Sumerica, un documento semi-mitico redatto in forma definitiva agli inizi del II millennio a.C., apprendiamo infatti che il «divino» Gilgamesh – attenzione: i filologi oggi puntigliosamente sottolineano che il nome andrebbe invece letto nel meno fascinoso «Bilgamesh» – era il quinto re della dinastia piú antica della città. Figlio di una dea e di «un padre sconosciuto», Gilgamesh era il signore di Kullaba, piuttosto che dell’intera città; ma a lui fonti storiche diverse attribuiscono la costruzione dell’enorme circuito delle mura urbane di Uruk (oltre che la speculare distruzione delle difese delle città nemiche). Dio o semi-dio, oppure re storico trasfigurato dalle leggende, certamente umanissimo eroe di un emozionante intreccio di miti e saghe, e infine, nella letteratura mesopotamica piú tarda, potente divinità degli inferi: la composita figura di Gilgamesh si staglia sulle rovine di Uruk come ai margini della storia, senza che gli studiosi siano giunti a un parere condiviso sull’effettiva esistenza di un sovrano arcaico con questo nome. Gli edifici sorti sulle grandi terrazze dell’Ean-
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na sono grandi fabbriche in mattone crudo a pianta tripartita, animati da un continuo gioco di contrafforti e nicchie che sotto il sole tagliente del paese si trasformano in lame di luce verticale e nicchie di nera ombra. Tutti hanno la singolare proprietà di essere accessibili da multiple entrate, tutte uguali e su piú lati, come a voler invitare, accogliere e intrattenere masse di visitatori o fedeli. Gli scavi hanno rivelato una progettazione e una messa in opera straordinariamente accurata con argilla e intonaco, legno, stuoie, rivestimenti in terracotta, pietra e bitume (uno dei «santuari» dell’Eanna conteneva addirittura una strana vasca per l’acqua a forma di «L» impermeabilizzata per abluzioni rituali); e al lusso di questi edifici certamente alludono frammenti di modellini architettonici fatti in pietre dure e intarsi di colore contrastante, trovati nelle rovine.
focolari per cuocere i cibi In un lessico architettonico molto ripetitivo, ma tutto ancora da decifrare, spesso le ali laterali delle costruzioni contengono piccoli ambienti ripartiti da setti mediani in locali stretti e piccoli; all’interno, al centro della «navata» principale, si trovano grandi focolari collettivi per il riscaldamento e la cottura del cibo. Persino l’edificio che sembra maggiormente discostarsi dal modello rettangolare a pianta tripartita, detto «Edificio quadrato», a ben vedere altro non è che l’agglomerazione di quattro sale del tipo descritto, le quali condividono, al posto della terza navata, un vasto cortile a pianta quadrata di piú di 30 m di
In basso: ricostruzione della facciata di uno dei palazzi di Uruk, realizzata all’interno del Vorderasiatisches Museum di Berlino.
In alto: tavoletta in cui compaiono 58 termini diversi per indicare il maiale. 3000 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen. In basso: tavoletta con la registrazione contabile di prodotti agricoli. 3000 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen.
lato, con elaborati ingressi agli angoli.Tutte le costruzioni hanno i vertici orientati in direzione dei punti cardinali, in un assetto chiaramente cosmologico che anticipa una scelta fondamentale della successiva architettura sacrale delle città sumere. Tra un edificio e l’altro, nell’Eanna si aprono spazi vuoti e cortili, separati da portici con monumentali colonne cilindriche. In questi vasti spazi possiamo facilmente immaginare processioni, riunioni e assemblee. Un fascino eccentrico viene, a queste costruzioni, dagli elaborati nomi dati ai vari edifici dagli archeologi tedeschi, in base alle speciali caratteristiche costruttive di ciascuno: abbiamo cosí la Hallenbau («Sala dei Pilastri»), il Riemchengebäude, «Edificio a mattoncini», che si era sovrapposto allo Steinstifttempel, o «Edificio a mosaico di coni di pietra»; o l’elaborato cortile chiamato Rundpfeilerhalle («Cortile a pilastri tondi»). Diversi edifici monumentali dell’Eanna, infatti, erano interamente ricoperti di milioni di coni di pietra o (piú comunemente) d’argilla diversamente cotta in modo da assumere colori contrastanti. I coni erano piantati l’uno presso l’altro nell’argilla molle dell’intonaco di pareti e colonne, e i costruttori sfruttavano le diverse sfumature cromatiche ottenute variando le atmosfere di cottura della terracotta (giallo, rosso, grio-verdastro e nero) per realizzare sapienti disegni geometrici. Il Riemchengebäude, e una simile costruzione trovata a poca distanza dal tempio di An a Kullaba, si discostano nettamente da queste descrizioni. Erano strani edifici a pianta concentrica, vagamente labirintica, parzialmente interrati, nei quali forse si custodivano oggetti cultuali di pregio: distrutto da un incendio, infatti, il Riemchengebäude conteneva resti di ricchi arredi in pietra e frammenti di statue di culto infrante e probabilmente scartate.
edifici in cerca d’identità Sulla funzione delle grandi sale tripartite a contrafforti e multipli ingressi, invece, permane una dimensione di generale incertezza. Sovente vengono chiamati «santuari», ma si tratta di una denominazione piú che altro convenzionale, malgrado il peculiare orientamento cosmologico degli impianti. Gli edifici risultano essere stati accuratamente svuotati, parzialmente riempiti e livellati prima di procedere a ulteriori fasi di ricostruzione; mancano quindi sia resti di installazioni interne riconoscibili come altari, basi per statue o effigi che possano dimostrare funzioni tema r c h e o 95
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Protagonista, una ciotola Nelle aree di scarico delle città e dei complessi monumentali del periodo di Uruk, insieme ai coni di terracotta dei rivestimenti delle aree sacre si trovano, letteralmente, intere colline fatte dai cocci di un unico tipo di tazza in terracotta (solo nello scavo di Choga Mish, non lontano da Susa, ne sono state contate piú di 300.000 esemplari). Gli archeologi le chiamano bevelled rim bowls, che significa «ciotole a bordo obliquo», perché l’orlo era sagomato schiacciandolo e lisciandolo verso il basso. Erano fatte di argilla piuttosto grezza, mescolata con paglia tritata; sembra che fossero formate stampando entro apposite cavità (forse ricavate direttamente nel terreno) poche masserelle plastiche, ed estraendo il vaso poco dopo la formatura, in modo che la parete tratteneva spesso i segni della torsione del pezzo e profonde impronte di dita. Non stiamo quindi parlando di capolavori della ceramica antica. Tuttavia, si tratta di un vaso amato dagli archeologi, in quanto estremamente riconoscibile anche da piccoli frammenti; e la sua importanza, al di là dell’evidente produzione e discarica in quantità enormi, è dimostrata dal fatto che, su tavolette arcaiche, la sua immagine compare insieme al segno della testa umana, in un sintagma che i sumerologi leggono «dare razioni» (s’intende di orzo). La ciotola, in sostanza, sarebbe un contenitore «usa e getta» a basso costo, impiegato per misurare o semplicemente distribuire quantità standard di cereali nelle occasioni cerimoniali che abbiamo immaginato. Questa, ancor oggi, rimane un’ipotesi ben possibile. Altri invece hanno pensato a contenitori per la raffinazione e il commercio del sale, o a forme per cuocere il pane. A poco sono sinora servite le analisi chimiche delle pareti dei vasi: abbiamo casi di uso delle ciotole per contenere bitume; una ciotola aveva tracce di un rivestimento interno di cera d’api, e in un’altra – piú prosaicamente – sono comparse tracce
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di urina, semplicemente perché la ciotola era stata buttata tra i rifiuti. Tuttavia non possiamo ignorare la profonda implicazione simbolica di questo oggetto utilitario tanto grezzo quanto efficace: mentre nei mille anni precedenti tribú, lignaggi e famiglie estese avevano creato delicatissimi contenitori, sui quali danzavano uomini, animali e geometrie intricate, quasi infinite, la nuova comunità urbana aveva poco tempo per simili, arcaiche forme di comunicazione simbolica indiretta e abbellimento. Si riconosceva in se stessa, e non in simili segni desueti. Usare e immediatamente buttare via enormi quantità di queste nuove ciotole era anche una prova di rottura col passato. La comunicazione simbolica era stata attratta, e in larga misura monopolizzata, dai sacerdoti e dai funzionari che gestivano le «sale da ricevimento» e le aree sacre, e si era trasferita su media molto piú prestigiosi, ma anche molto meno accessibili alla massa della popolazione urbana.
plari, sia, in generale, gruppi di oggetti conservati a terra che ci parlino di altre possibili funzioni accessorie. Quello che sappiamo, invece, è che nei riempimenti e basamenti delle costruzioni, scaricate in strati databili tra il 3500 e il 2900 a.C., sono state trovate (tra esemplari integri e frammenti) piú di 4000 tavolette coperte di segni numerici e arcaiche notazioni scritte – gli antenati del futuro sistema di scrittura cuneiforme della Mesopotamia del III millennio a.C.
scontrini fiscali ante litteram I documenti arcaici di Uruk sono in larga misura «scontrini fiscali» e altri documenti amministrativi: spesso di tratta di ricevute o bolle di accompagnamento di beni, lotti di merci, cibi e vivande. Sembra trattarsi dei resoconti dell’afflusso di ingenti quantità di provviste e della fornitura di razioni alimentari destinate a lavoratori; i grandi edifici potrebbero ben essere delle vaste sale pubbliche di ricevimento in cui la popolazione urbana era invitata e ospitata, sotto la protezione di divinità o importanti antenati semidivinizzati, per riconoscerne e celebrarne l’importanza simbolica. In altre parole, queste enigmatiche costruzioni «aperte al popolo» potrebbero essere state le sedi in cui le organizzazioni dominanti redistribuivano, durante occasioni cerimoniali, parte delle eccedenze alimentari che erano state drenate a vantaggio della città. Queste feste potrebbero essere state quindi organizzate da diverse organizzazioni urbane, ciascuna identificata da un proprio lignaggio. Il fatto che le costruzioni siano sostanzialmente omologhe suggerisce una condizione di «concorrenza» tra gli organizzatori; piú che un palazzo unitario, il grande complesso terrazzato dell’Eanna sembra essere una grande sede cerimoniale dove diversi lignaggi gareggiavano per dimostrare la propria autorità, in nome delle rispettive aspirazioni di predominio regale, in uno stato di latente conflittualità. Un numero minore delle tavolette arcaiche di Uruk reca, invece di note contabili, liste
In alto: maschera in terracotta del demone Huwawa, da Sippar (Iraq meridionale). 1800-1600 a.C. circa. Londra, British Museum. Nella pagina accanto: ciotole del tipo «Bevelled rim bowls». Fine del IV mill. a.C. Berlino, Staatliche Museen. In basso: simboli della dea Inanna scolpiti sul fondo del recipiente noto come «mangiatoia» di Uruk. 3300-3000 a.C. Londra, British Museum
lessicali, cioè elenchi di parole che indicano beni o professioni di vario tipo. Evidentemente la scrittura iniziava a evolvere rapidamente anche in direzioni diverse dalla «banale» contabilità. In questi documenti possiamo leggere esercizi scrittorii; ma nei cataloghi traspaiono anche interessi nuovi, in primo luogo la categorizzazione descrittiva delle nuove realtà merceologiche, tecniche e sociali che l’universo urbano – appena creato – già imponeva alle sue comunità. L’archeologo statunitense David Wengrow ha dimostrato che le cretule di argilla stampigliata e iscritta delle giare di vino dei faraoni delle prime dinastie egiziane (fine del IV millennio a.C., contemporanee agli ultimi tempi di Uruk) riportano le medesime informazioni – in termini di branding, qualità e resoconti di controllo – che compaiono sull’etichetta di una odierna bottiglia di vino californiano. È solo uno dei tanti possibili esempi della impressionante modernità del mondo nuovo che stava sorgendo 5000 anni fa.
un fenomeno complesso La scrittura non è fenomeno facile da definire. Il celebre antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009) sottolineava come essa, nella storia umana, sia spesso stata utilizzata per asservire la gente, piuttosto che a espanderne le prospettive esistenziali. Scrivere, infatti, dona lo straordinario potere di superare la contingenza temporale dei rapporti umani. Lo si fa creando, tramite gli archivi, unità di memoria oggettuale, esterne alla mente umana; ma anche istituendo reti di controllo su ciò che l’individuo ha fatto in passato, e stabilendo cosa le persone stesse, o le organizzazioni sociali, dovranno fare in futuro. La scrittura crea cosí per ogni individuo una proliferazione di identità virtuali, ma anche le gabbie istituzionali destinate a imprigionarle. In traumatica rottura con i tempi immutabili e coerenti della realtà rurali e pastorali del territorio circostante, gli abitanti della nuova città stavano ormai sco(segue a p. 101) a r c h e o 97
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il mistero del «re-sacerdote»
In alto: la statuetta del re-sacerdote di Uruk al momento del suo ritrovamento, custodita all’interno di un grande vaso in terracotta. A destra: particolare della statuetta, scolpita in alabastro grigio. Fine del IV mill. a.C. Baghdad, Iraq Museum.
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Qual è il significato dell’enigmatica immagine di sovrano – come quella raffigurata nella celebre statuetta in alabastro grigio rinvenuta a Uruk – che si afferma, in maniera quasi ossessiva, nell’iconografia della «nuova» società mesopotamica della fine del IV millennio?
Protagonista della statuaria mesopotamica prodotta tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C., cosí come delle scene piú complesse e di maggior significato narrativo nei sigilli cilindrici, è l’enigmatica figura di un «re-sacerdote». Raffigurato con la barba arrotondata, un cappello emisferico e i lunghi capelli raccolti in un nodo sulla nuca (come nel caso del celebre reperto qui riprodotto), quasi certamente il signore della città, questo personaggio appare in alcune statue in condizioni di nudità rituale, le braccia serrate al petto e grandi occhi spalancati sul divino. Questa figura di leader politico e religioso al tempo stesso si propone come connessa alla sfera del sacro – e, con ogni molto probabilità, alle divinità poliadi che coincidevano simbolicamente con le varie città – da molteplici fili ideologici e rituali. Frammenti di statue della stessa figura sono stati trovati nell’enigmatico ammasso di oggetti rituali rotti o scartati trovato nel Riemchengebaude, o «Edificio a mattoncini». Tra di essi spicca una grande statua del «re-sacerdote» in calcare bianco, di dimensioni superiori al vero – la piú grande sinora nota per l’arte di questo periodo – che era stata intenzionalmente distrutta, conservandone solo qualche frammento in ambienti protetti dell’area sacra. Il «re-sacerdote» appare, nei sigilli di Uruk e di altri siti della Mesopotamia meridionale, con lo stesso cappello e la stessa acconciatura, a torso nudo ma vestito di un’ampia, ben guarnita
gonna a rete. In questi panni, guida processioni che recano al tempio cesti ricolmi di cereali e altre offerte di cibo (come avviene nel vaso di Warka), ma anche collane di grandi perle di pietre dure. Queste ultime, che già affluivano alla Mesopotamia meridionale dalle alture dell’altopiano iranico o da terre remote ancora piú a est, sembrano alludere a un ruolo decisivo delle comunità templari nel controllo dei traffici internazionali a lunga distanza. Procedendo in file ordinate, docili buoi lo seguono, e si alternano a ricche spighe d’orzo. Il signore dalla gonna a rete nutre le mandrie di buoi e pecore del tempio di Inanna, offrendo fasci d’erba e fiori dalle corolle raggiate agli animali, fino al punto di trasformarsi in un «albero della via» in fiore, al quale si innalzano dei capridi in posizione araldica. In un sigillo, il signore si erge su un’imbarcazione condotta da due rematori, al cospetto di una specie di altare sorretto dalla figura di un bovino, e coronato dai fasci di giunco a estremità ricurva che simboleggiano, una volta di piú, la grande dea Inanna. In altre scene che ricorrono su sigilli e impronte trovate nel Khuzistan, la parte delle piane mesopotamiche oggi comprese nei confini della Repubblica Islamica dell’Iran, il «re-sacerdote» compare anche nelle vesti eroiche di un valente capo militare che riempie i nemici di frecce. Gli scontri avvengono davanti a imponenti edifici, probabilmente sacri, con facciate monumentali animate da pilastri, eretti su grandi a r c h e o 99
Dall’invenzione della scrittura e della burocrazia ai trionfi del «re-sacerdote», i primi passi del mondo urbano terrazze. Il signore compare anche nell’atto di prendere prigionieri nemici accasciati a terra con le braccia legate dietro la schiena e di sopraffarli con lance e mazze. Piú rare sono le immagini in cui il personaggio sembra sovrintendere a gruppi di operai o artigiani al lavoro – la piú famosa scena di questo tipo compare sulle cosiddette «Pietre di Bau», due piccole lastre sagomate in pietra nera che potrebbero rappresentare dei fabbricanti di vasi in pietra, uno dei piú importanti simboli di status di questa fase protostorica. Infine, in una
eccezionale stele in basalto, anch’essa infranta, trovata a Uruk, il «re-sacerdote» figura come impavido cacciatore di leoni, in una straordinaria e isolata anticipazione di quello che sarà, piú di duemila anni dopo, uno dei temi piú impressionanti della propaganda palaziale dei re Assiri. Onnipresente sull’arte di corte e rituale del tempo, la figura del re-sacerdote fu sottratta, come abbiamo visto, dal prezioso vaso di Warka, dopo che era stato distrutto per la seconda volta, e prima del suo seppellimento con altri preziosi
oggetti in rame e pietra. Difficile non pensare che la sottrazione della figura del «principe» delll’antica Uruk sia stata intenzionale. Tutto suggerisce che si tratti di una antica forma di damnatio memoriae di un signore decaduto o sconfitto. Singolare destino, che proprio su un oggetto tanto curato, destinato a celebrare un’idea assolutistica di ordine cosmico, siano caduti i colpi di un un arcaico conflitto politicoreligioso. Ma cosí sono andate e vanno le cose degli uomini – anche nel cuore urbano di un «paradiso»... che non fu mai tale.
A sinistra: sigillo cilindrico, del quale, in alto e in basso, viene riprodotto lo svolgimento: vi si vede un gran sacerdote che nutre un gregge di capre, circondato da simboli della dea Inanna. Fine del IV mill. a.C. Berlino, Staatliche Museen.
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prendo a proprie spese di essere protagonisti se quest’ultima, attraverso il richiamo simbodi un esperimento collettivo inedito, e lico al mondo rurale, quasi arcadico degli allevatori e dei valori morali piú tradizionali, si tutt’altro che indolore. sforzasse di temperare o celare la realtà di una Rassicurare per convincere crescente e a volte spietata differenziazione L’arte del Periodo di Uruk, almeno per i sociale.Tutto, nelle creazioni di Uruk, sembra manufatti piú noti, che sembrano general- concepito per suggestionare e rassicurare, per mente risalire agli ultimi secoli del IV millen- creare negli spettatori e partecipanti al culto nio a.C., è ispirata alle esigenze di una propa- dimensioni di partecipazione e accettazione. ganda tanto pervasiva quanto insistente. Le Proprio per questo possiamo immaginare che scene sembrano quasi rimbalzare dai vasi e la realtà sociale del tempo fosse invece diffidalle mangiatoie in pietra fabbricati per il cile e controversa, attraversata da amari conculto, ai grossi sigilli rotolati sulle chiusure di flitti in cui antiche ideologie collettivistiche argilla che, nei magazzini, chiudevano porte, ed egualitarie venivano continuamente mesvasi e canestri. I sigilli a cilindro di questo se in dubbio e contraddette. periodo, grossi e tozzi, a volte coronati da piccole figure di animali in rame, dovevano il lavoro coatto essere ben visibili al polso o alla cintura di Enormi quantità di lavoro e risorse erano personaggi importanti e funzionari. I sigilli state e venivano convogliate nella costruzione che, intuitivamente, vorremmo attribuire a delle piattaforme monumentali dell’Eanna e sacerdoti e burocrati di alto rango, rappresen- dei complessi templari, al solo scopo di celetano, con un’insistenza quasi ipnotica, scene brare il predominio di gruppi ristretti. E, codi offerta e devozione templare. In alcune di me ha scritto Mario Liverani «il prelievo di queste scene compaiono coppie di grandi risorse su cui si basa una società complessa è vasi in pietra come quello di Warka, i cui un momento inevitabilmente doloroso, che fregi, come si è fatto notare spesso, sono mol- non può realizzarsi senza l’impiego di fattori to simili alle impronte lasciate dai sigilli stes- (dalla costrizione fisica al convincimento idesi. In questo eccezionale sistema simbolico, ologico) che superino la naturale tendenza intriso di ridondanza, i media, i simboli e i loro significati si rispecchiano senza sosta, con l’effetto di rafforzarsi costantemente gli uni Di corte in corte con gli altri. Le mucche incedono, lente e mansuete, verso Per motivi ancora misteriosi – non disponiamo infatti, per recinti o costruzioni rurali, forse fatte di fasci queste età arcaiche, dell’ausilio dei testi scritti – l’arte delle di giunchi intrecciati e legati, su cui svettano élite del periodo di Uruk, alla fine del IV millennio a.C., ha i fasci a estremità ricurva sacri alla dea Inanna; limitati, ma estremamente significativi contatti con le immagini è la prima ora del mattino, quando sulle pia- delle quali si circondavano i faraoni delle contemporanee prime ne polverose ancora aleggia una bassa bruma. dinastie egiziane. Il tema della caccia regale al leone della stele Si aprono le porte dei recinti e i vitelli scal- di Uruk si riflette nei manici in avorio finemente incisi trovati pitano, impazienti di spingersi tra arbusti e nella valle del Nilo, e l’identità è tale che persino le punte di erbe, per ricongiungersi alle madri ed essere freccia usate nella caccia sono le stesse, in pietra scheggiata e allattati. Le scene sembrano alludere al ruolo a forma di trapezio – quelle note agli specialisti di industria litica protettivo, amorevole del tempio e del clero come «trancianti trasversali». nei confronti della comunità dei fedeli. Sui Le tavolette in pietre a grana finissima nelle corti faraoniche vasi in pietra scolpiti ad altorilievo, intagliati per mescolare i cosmetici (presumibilmente per i funerali reali) da profonde zone d’ombra, robusti leoni dai recano immagini di strani mostri araldici a testa felina, con tratti impenetrabili sembrano dominare su lunghi colli sinuosi, che si snodano attorno alle vaschette che file di bovini, che sfilano negli ordini sotto- contenevano le polveri colorate; e lo stesso fantastico mostro stanti; spesso felini e rapaci si avventano, con compare in sigilli a cilindro del periodo di Uruk. Queste pose convulse, su buoi, pecore e capre, a vol- convergenze, destinate a tramontare in breve tempo, postulano te abbracciati e difesi da figure umane di contati diretti tra le compagini regali delle due regioni. aspetto eroico o semi-divino. Forse si trattava di valenti artigiani «scambiati» da un palazzo Si è tentati di leggere in queste rappresenta- all’altro, oppure al seguito di principesse mandate come spose zioni l’espressione di antichi contrasti tra gli ai sovrani delle terre straniere, pratica testimoniata mille anni strati dominanti della società (i predatori) e la dopo, e poi per secoli, dalla corrispondenza diplomatica gente comune (gli erbivori), ora protetta dal- tramandata dalle tavolette cuneiformi. la mediazione della comunità templare; come a r c h e o 101
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all’auto-sufficienza e all’auto-riproduzione» (da Uruk, la prima città, 1998). Molti vedono in questo processo un fattore di evoluzione sociale e di tendenziale equilibrio: la società umana viene visualizzata come una struttura a piramide, in cui piú la base si allarga (piú persone e risorse sono arruolate al suo interno, con compiti specifici, in primo luogo produrre piú di quanto sia necessario alla sussistenza), piú emergono strati sociali privilegiati, che contribuiscono all’innalzamento e al consolidamento della piramide, gestendo eccedenze e fornendo informazioni, dando ordini e diffondendo idee e modelli di comportamento che rafforzano l’intero sistema.
un nuovo assetto sociale Eppure questa visione ottimistica delle cose può essere contraddetta, o perlomeno integrata da punti di vista differenti. La radicale trasformazione socio-economica dell’età di Uruk avvenne certamente a scapito delle radici piú profonde del popolamento rurale, dove invece le organizzazioni sociali e i valori etici della tradizione tendevano a perpetuarsi; le esplorazioni di superficie rivelano che, nel territorio, i canali si insabbiavano, mentre centinaia di villaggi di piccole dimensioni venivano abbandonati, spesso per sempre. Le famiglie estese dei territori periferici si disgregavano; i coltivatori si trasferivano in città, o semplicemente non erano in grado di sostenere il crescente carico di tributi, decime e prestazioni di lavo-
A destra: ricostruzione del Bit-Resh (il santuario della coppia divina Anu e Antum) in età seleucide, con l’annessa ziqqurat. Nella pagina accanto: un particolare della ricostruzione, che mostra la porta d’ingresso monumentale sul lato settentrionale del complesso.
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dove e quando «Uruk. I 5000 anni di una megalopoli» Berlino, Staatliche Museen, Pergamonmuseum fino all’8 settembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (giovedí apertura serale fino alle 20,00) Info www.smb.museum (anche in inglese)
La profonda trasformazione socio-economica avvenuta a Uruk sembra prefigurare la crisi della moderna società urbana
la città in età ellenistica Alcuni storici sostengono che, dopo la conquista del regno neobabilonese da parte di Ciro il Grande nel 539 a.C., la civiltà mesopotamica si sia avviata all’estinzione. Le scoperte di Uruk, però, dimostrano il contrario: sotto il dominio seleucide (III-II sec. a.C.), la città – che all’epoca aveva già quasi 4000 anni – fu un centro urbano e religioso di notevole importanza. In quel periodo di ultima, grande fioritura, alcuni antichi complessi templari furono restaurati (tra cui la grande ziqqurat dedicata alla dea Inanna), altri ne furono aggiunti: il Bit Resh – il santuario della coppia divina Anu e Antum, a cui era annessa una grande ziqqurat (vedi la ricostruzione in questa pagina), l’Irigal – l’ampia area sacra dedicata alla dea Ishtar – e il santuario del Bit Akitu, la casa della «festa del capodanno».
ro coatto (corvée) richiesto dalle organizzazioni cittadine. Inoltre, gli studiosi dello sviluppo dei culti religiosi e delle sette del mondo odierno scoprono che esiste un momento preciso in cui queste «chiese» si lanciano in grandiosi progetti architettonici e vaste operazioni di persuasione e propaganda. Non si tratta, come facilmente potremmo pensare, dei momenti di rapida espansione o incontrastato «trionfo» della nuova comunità dei credenti, ma, al con-
trario di preoccupanti crisi collettive (se ci pensiamo bene, non è un caso che la fabbrica di S. Pietro, a Roma, sia avvenuta nell’era della Controriforma). La comunità ha cessato di espandersi, si registrano consistenti abbandoni; le risorse non fluiscono piú come una volta, e nei fedeli si diffonde un senso di crescente incertezza. Gradualmente, si afferma una sensazione di ostilità e chiara minaccia dall’esterno, che potremmo riassumere nel motto «Noi contro gli altri, tutti contro di noi». a r c h e o 103
antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli
un impero fondato... sull’aglio D
ire dell’importanza che il mondo vegetale ha avuto nella vita quotidiana dell’uomo fin dalla piú remota antichità, è persino pleonastico. Imparare a servirsi di ciò che la terra offriva fu una delle «scoperte» primordiali, seguita solo a distanza di molto tempo, dalla «scoperta» della possibilità di favorire la natura con la pratica della coltivazione (e la nascita dell’agricoltura). I Romani non si comportarono diversamente da tutti gli altri popoli, facendo larghissimo uso di quelle che convenzionalmente indichiamo come «verdure» (od ortaggi), le piante coltivate, ed «erbe», le piante di crescita spontanea. Troppo lungo sarebbe un sia pur sintetico discorso sulle «verdure» (olus), quelle a cui, a Roma, era stato dedicato un apposito mercato (Forum Olitorium) e che, insieme ai cereali, con la comune denominazione di fruges (donde la proverbiale «frugalità»), furono alla base della dieta d’ogni ceto sociale. Visto il larghissimo consumo che se ne faceva (e solo a titolo di richiamo), sembra lecito riservare sia pure un accenno alle rape, che allora tenevano il posto delle nostre patate (e delle quali Marziale diceva che si nutrisse Romolo anche in cielo) e ai cavoli, serviti quotidianamente alla mensa dell’imperatore Tiberio, mentre Catone, che li considerava «superiori a tutti gli altri ortaggi», li consigliava anche contro
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Olive carbonizzate dall’eruzione del Vesuvio, da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. l’ubriachezza (mangiandone lui stesso molte foglie crude inzuppate nell’aceto prima di andare a cena fuori di casa e poi appena rincasato).
cucina e medicina Quanto alle erbe, invece, vale la pena di soffermarsi almeno su quelle dotate della singolare specificità di essere ugualmente usate in cucina e in medicina. Cioè per sfruttarne, insieme, il sapore – e, soprattutto, l’aroma, capace di esaltare o di modificare il gusto dei cibi – e l’azione terapeutica. Giacché ben presto gli uomini scoprirono pure che molte erbe potevano avere effetti importanti sull’organismo umano, grazie alle loro specifiche proprietà curative. Circa l’uso che se ne faceva in cucina – quasi sempre sotto forma
verdure, erbe e spezie venivano usati in grande quantità, non soltanto nelle cucine, ma anche nei laboratori dei primi medici e «farmacisti»: oltre a soddisfare il palato, erano state infatti intuite le proprietà terapeutiche di molti dei prodotti che la terra poteva assicurare di condimento, o di salsa, dopo essere state tritate nel mortaio di casa, perlopiú insieme ad altri ingredienti (come pinoli, rosso d’uovo sodo, nocciole, mandorle o noci tostate) – basta scorrere le innumerevoli ricette del De re coquinaria di Apicio – lo scrittore latino, gaudente e buongustaio, del I secolo d.C. – per trovarne citate in gran numero nei piatti piú disparati, dagli antipasti (come le uova con foglie di ruta) alle minestre di legumi, dalle creme di riso alle polente, alle zuppe di pesce. E poi, nelle carni e con le interiora, dalla «braciola all’ostiense» (ofella Ostiensis) al flan di cervella, dagli arrosti alle polpette, dai fegatelli e i rognoni (di maiale e di agnello) al pollo. E, ancora, con i pesci, dall’astice arrosto alla «marinata aromatica», dal «tirotarico», tortino di pesce e formaggio alle seppie al nero con piselli. Ma anche in quella sorta di «caviale» d’olive che era l’epityrum
e nei formaggi, come il moretum, fatto oggetto di un poemetto attribuito a Virgilio: «poi colse alcune gracili coste di sedano, la fredda ruta e il coriandolo tutto fremente sugli steli sottili. Quando ebbe raccolto queste erbe si sedette allegro presso il fuoco e a gran voce chiese alla serva un mortaio» (traduzione di Eugenia Salza Prina Ricotti). Si mettevano poi nel paté di fegato (di agnello, capretto o pollo), nelle focacce come il libum (uno dei piú antichi «piatti» della cucina romana), la cui pasta, prima della cottura, veniva stesa su un letto di foglie d’alloro. E perfino nei dolci, come i globi (o globuli), di farina e formaggio, fritti e bagnati nel miele, spolverati di semi di papavero.
le «Grandi spezie» Molte erano erbe di casa, coltivate nell’orto domestico o raccolte nei campi e nei boschi: le cosiddette «spezie minori» (o mediterranee). Altre, le «grandi spezie», erano importate dai Paesi orientali. Si trattava, tra le tante, del levistico (levisticum), usato dappertutto, oggi quasi scomparso (dall’aspetto simile al sedano e con un piacevole gusto tra lo stesso sedano e il prezzemolo, l’«erbetta» per antonomasia dell’odierna cucina romanesca, col quale è stato da noi sostituito), del cumino (cuminum), la migliore delle spezie, secondo Plinio il Vecchio (i cui semi si servivano nell’aceto, col nome di oxycuminum), del timo (thymus), tra le piú antiche in uso e molto apprezzata (anche nella «varietà», dall’aroma piú forte, del serpyllum), del porro (porrum), il cui bulbo era considerato come un legume, dell’origano (origanum), del coriandolo (coriandrum), dell’erba cipollina (allium schoenoprasum), della menta (menta), che, come altre erbe, i
Romani diffusero in tutta Europa, del sedano (apium), molto piú piccolo e piú verde del nostro, della ruta (ruta), del sesamo (sesamum), del finocchio selvatico o finocchiella (feniculum), dell’anice (anesum), dell’ortica (urtica), che gli antichi mangiavano come noi gli spinaci, della santoreggia (satureia), della salvia (salvia), del cappero (capparis). A tutte queste erbe, messa da parte la gastronomia, e, utilizzandone volta a volta i semi, i gambi, le foglie, le radici, con assunzione diretta o, piú spesso, attraverso decotti, infusi, macerazioni, polveri, unguenti, impiastri e cataplasmi, si riconoscevano – come s’è detto – proprietà curative. E questo, sulla base di una lunga esperienza e di una quotidiana pratica familiare, tramandata oralmente di padre in figlio, e tradotta in una vera e propria scientia herbarum, minuziosa e complessa, su cui si fondava gran parte della medicina antica. Una medicina empirica e domestica, risultato di una singolare commistione di elementi razionali e irrazionali (anche di tipo religioso e persino magico), mai del tutto distinta, né decisamente soppiantata dalla medicina «scientifica». Come quella dei Mortaio e pestello, da Banasa (oggi Chellah, presso Rabat, Marocco). Età imperiale. Rabat, Museo Archeologico.
grandi medici greci, da Asclepiade a Celso, a Dioscoride, a Galeno (i quali, peraltro, non disdegnarono affatto le pratiche della fitoterapia).
mille e una virtú Una rapida rassegna potrebbe cominciare con l’aglio (allium). Plinio gli dedica otto paragrafi del libro XX della sua Naturalis Historia (50-57) ed esaltandone le doti culinarie e mediche (ma non solo), ne fa addirittura un simbolo della presenza romana nei territori conquistati: ubi allium ibi Roma. L’elenco delle sue virtú inizia con l’assicurazione che esso tiene lontano serpenti e scorpioni e col ricordo degli antenati che «lo somministravano, crudo, ai pazzi». La sua efficacia si manifestava, oltre che contro i morsi dei cani e per curare le ferite, contro emicrania, epilessia, lebbra, tenia, tigna, angina, ipertensione arteriosa, idropisia, tosse, raucedine, mal d’orecchi e mal di denti. Per quest’ultimo, in particolare, venivano consigliate tre ricette: spicchi pestati in aceto puro, sciacqui con una soluzione nell’acqua bollita, inserimento del succo nella cavità dolente. Lo stesso Plinio aggiunge poi che esso era «piú efficace cotto che crudo, lessato piuttosto che arrostito, ma cosí preparato, utile per migliorare la voce». Altri si limitavano a suggerirne l’uso come antidoto a chi fosse obbligato a bere acqua diversa da quella abituale oppure quando ci fossero dubbi sulla potabilità. Quanto all’alito pesante derivante dal consumo a crudo, Columella suggeriva strani espedienti in fase di coltivazione, come quello di piantarlo e raccoglierlo dopo il tramonto della luna, mentre Virgilio prescriveva, allo scopo, di masticarci insieme una fava, anch’essa cruda. (1 – continua)
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vite di archeologi Giovanna Quattrocchi
due vite per la magna grecia i percorsi di paola zancani montuoro e umberto zanotti bianco si incontrano negli anni trenta del novecento. dando vita a un sodalizio archeologico e intellettuale a cui dobbiamo un capitolo fondamentale nella conoscenza dell’antica paestum
P
aola Montuoro nacque a Napoli, il 27 febbraio 1901. Cresciuta nell’agiatezza e in un clima familiare culturalmente stimolante, manifestò presto un forte impegno negli studi classici. Nel 1923 si laureò con lode con Giulio Emanuele Rizzo, un archeologo eminente, studioso di antichità greche, e, nello stesso anno, partecipò al concorso per entrare nelle prestigiose Scuole di specializzazione in Archeologia di Roma e Atene. Vinti ambedue i concorsi, partí per Atene nel 1927, dopo aver sposato un collega, Domenico Zancani. Il destino, però, non fu felice per i due giovani: Domenico, infatti, fu stroncato da un’epidemia di tifo. Tornata in Italia dopo la morte del marito, Paola continuò con grande determinazione gli studi da lui iniziati sui pinakes (tavole dipinte) di Locri. Formatasi alla scuola di studiosi come Alessandro Della Seta ed Emanuele Loewy, manifestò subito l’originalità delle proprie concezioni nella prima opera, pubblicata nel 1927, L’origine della decorazione frontonale, che rivoluzionava le teorie fino ad allora concepite sull’evoluzione dei templi arcaici.
Lo studio delle fonti Nel frattempo si dedicava anche allo studio dei classici greci e latini, e, leggendo Strabone, si concentrò sul brano in cui egli descrive la piana che da Sorrento arriva a Poseidonia (Paestum per i Romani) solcata dal Sele: presso la foce del fiume l’antico geografo poneva il santuario di Hera Argiva, fondato dai Greci di Argo al loro arrivo in Italia, intorno al VII secolo a.C. La pubblicazione dei suoi studi determinò anche l’inizio della sua
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A sinistra: Paola Zancani Montuoro e Umberto Zanotti Bianco ripuliscono una statuetta rinvenuta nel santuario di Hera Argiva sul Sele. Nella pagina accanto: figure di danzatrici su una metopa del santuario di Hera. Inizi del VI sec. a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. collaborazione con la Società Magna Grecia, fondata nel 1920 da Umberto Zanotti Bianco. E, a questo punto, il lavoro dell’archeologa si allea con una delle piú interessanti figure di intellettuale meridionalista italiano della prima metà del secolo scorso. Nato a Creta nel 1889, Zanotti Bianco fu un protagonista della vita intellettuale italiana nel periodo fra le due guerre: ambientalista, archeologo, appassionato meridionalista e antifascista, perseguitato e mandato al confino, dopo la seconda guerra mondiale fu membro del Partito Liberale Italiano e nominato senatore a vita da Luigi Einaudi nel 1952. Nel 1910 aveva partecipato alla fondazione dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, e l’amicizia con l’archeologo Paolo Orsi lo aveva attirato verso l’archeologia della Magna Grecia. Insieme a Orsi aveva fondato la Società Magna Grecia, che raccoglieva fondi per finanziare gli scavi del Meridione, e fu allora che strinse il pluridecennale sodalizio di lavoro con Paola Zancani. La studiosa aveva infatti deciso di localizzare il santuario di Hera Argiva nella piana del Sele; con la partecipazione di Zanotti, entusiasta per l’occasione di partecipare a uno scavo, avviò nel 1934 la ricerca del sito antico, grazie ai fondi concessi dalla
Società Magna Grecia. Il luogo era allora deserto e inospitale, infestato dalle paludi e dalla malaria, ma affioravano sul terreno reperti antichi, ex voto e frammenti di statuette votive della dea con un bambino sul braccio sinistro e il melograno nella destra; le piú antiche erano databili al VII secolo a.C. La presenza del santuario era indiziata anche dal luogo di culto dedicato alla Madonna nella chiesa di Capaccio distante pochi chilometri, e dal fatto che l’immagine che vi si venerava aveva la stessa iconografia della Hera antica, segno della straordinaria continuità del culto.
Strabone aveva ragione Fidando nell’attendibilità di Strabone e nella precisione delle sue informazioni, l’archeologa, coadiuvata da Zanotti Bianco, eseguí i primi sondaggi in quella piana acquitrinosa e deserta. Dopo due soli giorni i due scoprirono il luogo esatto in cui si trovavano i resti del santuario e i primi scavi rivelarono subito le tracce delle strutture antiche. Malgrado le difficoltà dovute alle scarse risorse, a cui facevano spesso fronte con il loro proprio patrimonio, Zancani e Zanotti misero in luce i resti monumentali del tempio sulla riva sinistra del fiume. Eretto intorno al 510 a.C., il tempio della dea, di cui era emersa
la struttura di base, era grandioso, con 8 colonne sulla fronte e 17 sui lunghi fianchi; della decorazione furono rinvenute 12 metope raffiguranti giovani donne. Ma la scoperta piú importante fu quella delle grandi metope appartenute alla decorazione architettonica di un precedente tempio dorico arcaico. Le metope erano decorate con rilievi che narravano i miti della madrepatria, le storie di dèi e di eroi, la guerra di Troia, le vicende sanguinose degli Atridi, le fatiche di Ercole, le imprese di Giasone, l’eroe a cui Strabone attribuiva la fondazione stessa del santuario. Il santuario alla foce del Sele, i cui scavi si interruppero nel 1940 per l’inizio della guerra, ma ripresero dal 1949 al 1968, diede risonanza mondiale agli studi della Zancani. Si dovevano studiare i materiali architettonici e i reperti trovati nella stipe sacra, con le innumerevoli statuine votive della dea, e pubblicare lo scavo, il cui primo volume sarebbe apparso nel 1951. Zanotti Bianco, divenuto senatore della Repubblica, fece approvare una legge di tutela per la piana del Sele e per la città di Paestum, legge che dichiarò demaniale una larga zona intorno alla foce, al santuario e alla città, preservandola dalla speculazione. Nel 1952 fu inaugurato il Museo Archeologico di Paestum, che conserva anche i materiali dell’Heraion. L’attività di Paola Zancani continuò anche dopo la morte del suo compagno di scavi, avvenuta nel 1963: oltre allo studio delle metope del tempio e alla pubblicazione e aggiornamento dei materiali, i suoi interessi spaziavano dalla storia dei culti di Locri alla ricerca del sito di Sibari, avviata già nel 1932. Negli ultimi anni, si ritirò in una casa di famiglia nella penisola sorrentina, costruita su un’antica villa romana, la cui rampa di accesso al mare era, a suo avviso, di origine fenicia. Quel buen retiro fu anche l’ultima dimora della studiosa: vi morí, infatti, il 14 agosto 1987.
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divi e donne Francesca Cenerini
donne N in ombra con l’ascesa al potere dei flavi, fanno naturalmente la loro comparsa anche alcuni personaggi femminili. il cui peso politico, però, fu di gran lunga inferiore a quello esercitato da piú d’una delle auguste che avevano in precedenza abitato i palazzi imperiali
el 69 d.C., con l’ascesa al potere di Tito Flavio Vespasiano, cambia la dinastia al potere: ai nobili Giulio-Claudi succedono i «borghesi» Flavi. Il futuro imperatore, il senatore Vespasiano, aveva fatto una brillante carriera militare e, alla morte di Nerone, deteneva il comando per reprimere la rivolta giudaica. In seguito all’eliminazione dei principali
pretendenti all’impero, Galba, Otone e Vitellio, il Senato ratifica il potere a Vespasiano, che può insediarsi a Roma. Da sua moglie Flavia Domitilla aveva avuto tre figli :Titus Flavius Vespasianus (il futuro imperatore Tito), Titus Flavius Domitianus e Flavia Domitilla. Moglie e figlia erano però morte prima del 69 d.C., anno in cui Vespasiano diventa imperatore. Entrambe hanno avuto uno scarso peso politico, soprattutto se messe a confronto con le Giulio-Claudie e le Antonine del II secolo d.C. Tuttavia, anche per le Flavie le fonti fanno balenare l’esercizio di una sorta di potere informale, vale a dire un influsso politico, in alcuni casi decisivo, che finí per degenerare in un aperto conflitto fra l’ultimo imperatore flavio, Domiziano, e la moglie Domizia Longina, figlia del generale Domizio Corbulone
i principi flavi Vespasiano
Domitilla Maggiore
Domitilla Minore Tito Flavio Clemente
In alto: moneta con l’effigie di Flavia Domitilla, moglie di Vespasiano. Pezzi come questo furono emessi dal 39 al 69 d.C. A sinistra: busto di Vespasiano. 67-79 d.C. Roma, Musei Capitolini.
Flavia Domitilla
Tito
Marcia Furnilla Giulia Flavia
Domiziano
Domizia Longina
T. Flavius Caesar (?)
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(molto amato dallo scrittore Tacito, in quanto oppositore di Nerone), nonché donna molto ricca e di notevoli capacità imprenditoriali. Uno dei primi atti politici di Vespasiano consiste nell’assicurare la trasmissione dinastica del potere ai figli, secondo la loro anzianità di nascita. Questo fatto, però, cioè che la successione fosse già decisa, mette in ombra la personalità delle donne della famiglia, in particolare delle tre Flavie Domitille, rispettivamente la moglie, la figlia e la nipote di Vespasiano.
la preferita del cavaliere Svetonio (Vita di Vespasiano, 3) riporta una notizia che ha fatto discutere gli storici moderni. Secondo lo scrittore, la moglie di Vespasiano sarebbe stata una delicata, cioè la schiava preferita di un cavaliere romano di Sabratha, nell’Africa Proconsolare, tale Statilio Capella. Sulla base della ricerca condotta da una giovane studiosa italiana, Valeria La Monaca, è possibile ipotizzare che Flavia Domitilla «possa non essere stata semplicemente l’amante del cavaliere romano Statilio Capella, bensí la figlia illegittima avuta dalla relazione con una schiava». Per potere sposare il senatore Vespasiano fu necessario restituirle la libertà e il diritto di nascita (restitutio natalium), attraverso una complessa procedura giuridica e con il concorso di Flavio Liberale, forse un liberto dello stesso Vespasiano, «prestatosi» a rivendicare una paternità non sua in cambio di una promozione sociale. I liberti potevano dunque essere trasformati, per decreto dell’imperatore, in cittadini di pieno diritto, attraverso la finzione giuridica di possedere il requisito della libertà fin dalla nascita. Infatti, per effetto delle leggi augustee in materia di diritto di famiglia, i senatori non potevano sposare le liberte.
Alla moglie di Vespasiano furono tributati onori postumi dal figlio Domiziano (dopo il 90 d.C.), soprattutto con monete che commemoravano i divi Vespasiano e Domitilla. Il postumo conferimento del titolo di Augusta e il culto alla diva Drusilla sono attestati anche da iscrizioni su pietra rinvenute a Roma, in Italia e in Grecia. Si tratta della volontà di legittimazione del proprio principato da parte di Domiziano, negli ultimi tormentati anni del suo regno, con il richiamo al padre e alla madre e ai parenti defunti. Il poeta Stazio, in un componimento delle Silvae (I, 98), celebra una monumentale statua equestre di Domiziano e dice che i familiari divinizzati dell’imperatore sarebbero potuti scendere dal cielo per abbracciarlo. Queste divinità sono il figlio di Domiziano, morto bambino, il fratello Tito, il padre e, forse, la sorella Flavia Domitilla. Già prima del 95 d.C. Domiziano aveva adottato i figli, ancora bambini, della nipote, sempre una Flavia Domitilla, e di Flavio Clemente, che ricevono i trasparenti nomi dinastici di Vespasiano e Domiziano. Domiziano, infatti, aveva perduto il figlio naturale, suo e della moglie Domizia Longina, forse chiamato T. Flavius Caesar, nato nel 73 d.C. e morto prima dell’agosto dell’83 d.C.
una liberta come consorte Ancora secondo Svetonio (Vita di Vespasiano, 3), dopo la morte della moglie, Vespasiano aveva ripreso a convivere con l’antica amante Antonia Cenide, fidata liberta e segretaria di Antonia Minore (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012) che considerò come sua legittima consorte durante tutto il principato (uxoris loco). La seconda Flavia Domitilla, figlia di Vespasiano e della prima Flavia Domitilla, è molto probabilmente la moglie di Q. Petillio Ceriale Cesio Rufo, noto senatore di
origine umbra, console nel 70 d.C., valente generale schieratosi con Vespasiano, che si distinse durante la rivolta della popolazione germanica dei Batavi sul Reno e poi come governatore della Britannia. Tacito (Storie, 3, 58), infatti, ci dice che Petillio Ceriale era legato a Vespasiano da stretta parentela (propinqua adfinitas) e Cassio Dione (54, 18, 1) aggiunge che questa parentela era dovuta kat’epigamian, cioè in seguito a un matrimonio. Anche questa Flavia Domitilla muore prima che il padre salga al potere. Sua figlia porta il suo stesso nome ed è moglie, come abbiamo appena visto, di Flavio Clemente, console nel 95 d.C., cioè il nipote di Flavio Sabino, il fratello di Vespasiano.
coniugi perseguitati Nello stesso 95 Clemente viene processato assieme alla moglie per ordine di Domiziano. Sono accusati di empietà, ossia di disprezzare la religione romana, e di professare la religione ebraica. Clemente viene giustiziato e Domitilla, dopo la confisca dei beni, viene esiliata ad insulam, cioè nell’isola di Pandataria, l’odierna Ventotene (Cassio Dione, 67, 14). Cassio Dione ci dice che i due coniugi furono accusati di ateismo e di adozione di uno stile di vita ebraico. Alcuni autori cristiani (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 3, 18; Gerolamo, Lettera CVIII a Eustochio, 7) riportano, invece, la notizia che questa Flavia Domitilla fosse stata vittima della persecuzione di Domiziano contro i cristiani e che fosse stata martirizzata in quanto aveva abbracciato la fede cristiana. Tale conversione è accettata da alcuni studiosi moderni, mentre altri, invece, sostengono che Clemente e la moglie coltivassero soltanto simpatie filo-ebraiche e che la loro condanna fosse dovuta a questioni eminentemente politiche e dinastiche.
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
Bello come il Sole Il sole estivo splende sulle monete greche, raffigurato con un volto che ricorre anche nell’arte ellenistica ispirata ad Alessandro Magno
D
In alto: tetradramma d’argento di Rodi. 380 a.C. Al dritto: testa di Helios; al rovescio: una rosa con boccioli e un chicco d’orzo. In basso: tetradramma d’argento di Siracusa. Battuto al tempo di Dionisio I, 405 a.C. circa. Al dritto, il cui conio è firmato da Kimon: busto di Aretusa, con la chioma sciolta, collana e delfini che nuotano tra i capelli.
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ivinità della luce e quindi fondamento stesso della vita, Sol, in greco Helios-Iperion, appartiene alle piú antiche divinità del pantheon ellenico, generato dagli dèi primigeni preolimpici che diedero origine al creato. Dio «che cammina al disopra di ogni cosa», era figlio dei Titani Tea-Teia, ovvero la «divina», e Iperione, divinità superiore che «vigila e osserva» (Esiodo, Teogonia, 134-371; Omero, Iliade, 8, 480, Odissea, I, 8), e ha come fratelli Selene (la Luna) ed Eos (l’Aurora). Il suo veicolo è un carro trainato da quattro cavalli dalle narici infuocate, con il quale ogni giorno solca il cielo da oriente a occidente. Regolarmente sposato con Perse, ebbe comunque molteplici amori: tutte le unioni furono feconde e tra le figlie si contano anche Circe e Pasifae e, tra le nipoti illustri, la maga Medea. Helios era particolarmente venerato nell’isola egea di Rodi, dove amò la ninfa Rodo, dalla quale ebbe ben sette figli, gli Eliadi, famosi e venerati naviganti e astronomi, i quali originarono la popolazione dell’isola. Il suo culto era molto sentito anche a Corinto, dove condivideva un tempio con Afrodite, e in Sicilia. La solare bellezza di Helios trionfa su alcuni tetradrammi d’argento di Rodi emessi nel 380 a.C., sul cui dritto campeggia il volto di tre quarti del dio, con i capelli fiammeggianti mossi dal vento e dallo sguardo lontano, come colto
nel momento in cui solca il cielo sul suo carro di fuoco. Sul rovescio, una elegante e leggiadra rosa, simbolo dell’isola e ricordo dell’amore divino a essa legato. È interessante notare come il bel volto frontale, femmineo ma maschile nello stesso tempo, con i capelli scarmigliati da brezze celesti, si sia diffuso nell’iconografia monetale con le magnifiche e celeberrime emissioni d’argento battute da Siracusa nel 405 a.C. circa sotto Dioniso I, contraddistinte sul dritto dalla testa frontale della ninfa Aretusa, capolavoro creato dal maestro incisore Kimon, uno dei pochissimi artisti che firmò i conii da lui realizzati. Contemporaneamente, sempre a Siracusa, l’incisore Eukleidas rappresentava il volto di Atena sempre di tre quarti.
mausolo e i fratelli Lo stesso modello si ritrova nelle monetazioni di Locri e della Caria per raffigurare Apollo, assimilato a volte a Helios, ma da esso ben distinto. Apollo frontale ricorre infatti sui multipli di dramme in argento dei satrapi di Caria, i fratelli Mausolo (377-353 a.C.), Hidrieus (351-344 a.C). e Pixodaros (341-338 a.C.), dove il figlio di Leda si distingue da Helios soltanto per la corona vegetale (foglie di olivo?) che gli cinge la testa. Sul rovescio campeggia Zeus Labraundos, eponimo della città sacra Labraunda, contraddistinto da un lungo scettro e dalla doppia ascia, detta appunto labrys.
A destra: frammento di incensiere in terracotta a testa di dio Men, forse da Amisos (Turchia). Età ellenistico-romana. Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Historie. Il modello del volto si ispira al ritratto di Alessandro Magno.
In alto: tetradramma del satrapo Pixodaros. Alicarnasso 340-334 a.C. Al dritto: testa di Apollo laureata; al rovescio: Zeus Labraundos con doppia ascia (labrys) e lancia-scettro. In basso: il dritto di un’altra moneta di Alicarnasso con la testa di Apollo.
L’iconografia del Sole con sguardo verso l’alto e la folta capigliatura mossa dal vento venne subito ripresa per raffigurare Alessandro Magno, modello che conobbe immediato successo, caratterizzato dallo sguardo patetico e ispirato («gli occhi umidi» ricordati da Plutarco), il collo leggermente inclinato e i bei capelli mossi, a rendere l’uomo simile al dio solare. Come ricordano le fonti storiche, Lisippo fu l’unico scultore che Alessandro ritenne degno di raffigurarlo (Plutarco, Vite parallele, Alessandro, 4).
Il profumo di Alessandro Innumerevoli effigi su ogni tipo di supporto celebrano il Macedone, già mitizzato in vita e assurto a leggendaria gloria eterna alla sua morte: immagini diffuse per tutto il mondo ellenizzato sino all’Oriente toccato dalle conquiste del grande re. In statue, pitture, monete, intagli, cosí come nella letteratura a lui dedicata, il modello di Alessandro come Sole conobbe un successo straordinario e fu usato per gli
utensili piú disparati. Tra questi, si distingue un insolito manufatto in terracotta (forse di età tardoellenistica o romana), con un volto ispirato ad Alessandro e sormontato da una mezzaluna e tre stelle, interpretato come il dio lunare Men, molto venerato in Asia Minore. L’oggetto è stato identificato come un incensiere o bruciaprofumi, forse utilizzato in contesti sacrali ed elaborato sul modello del celeberrimo ritratto del divino Alessandro. È suggestivo ricordare, a questo proposito, quanto narrato ancora da Plutarco riguardo al re: dalla sua pelle emanava una dolcissima fragranza e l’alito era profumato cosí come tutto il suo corpo, tanto che le tuniche leggere ne rimanevano impregnate (Vita di Alessandro, 4). Quale migliore ispirazione per dare forma a un bruciaprofumi!
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Marcello Barbanera
Il museo impossibile Aracne, Roma, 270 pp., ill. col. e b/n 20,00 euro ISBN 978-88-548-5341-6 www.aracneeditrice.it
Sotto un titolo che riprende il tema del primo capitolo (in cui il «museo impossibile» traspare da alcune mostre archeologiche che hanno segnato tra Otto e Novecento la maturazione dell’archeologia moderna), Marcello Barbanera raccoglie un gruppo di scritti, alcuni del tutto inediti, altri comparsi negli ultimi tempi in sedi non sempre di facile accesso. La loro lettura ci permette di meglio delineare l’originalità della personalità scientifica di uno studioso che, nel panorama dell’archeologia classica italiana, pratica con vastità di approcci i territori della storia dell’arte antica, della storiografia archeologica e della teoria e pratica della comunicazione. Nelle pagine del volume, arricchito da un repertorio
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illustrativo di grande finezza e niente affatto esornativo, emergono alcuni nuclei tematici. Uno riguarda il problema del museo archeologico, dalla prospettiva storica ricordata all’inizio (dove il passaggio dalla mostra al museo comporta quella perdita che rende quest’ultimo «impossibile») alla critica della contemporaneità, affidata a un puntuale esame delle piú recenti esperienze museografiche romane; l’altro riguarda la ricostruzione di alcuni passaggi fondamentali della storia della nostra disciplina attraverso l’analisi di alcune figure di spicco, ma non per questo sinora ben sondate nella loro biografia intellettuale. Si tratta in particolare di un ritratto inedito di Alessandro Della Seta, controversa, e per certi aspetti tragica, figura di «archeologo fascista», di un ampio saggio su Giulio Emanuele Rizzo, l’autodidatta capace di aprire una pagina nuova nella storiografia artistica della prima metà del Novecento, e di una spigolatura di preziose annotazioni su Ranuccio Bianchi Bandinelli, al quale l’autore ha dedicato anni fa una corposa monografia (Milano 2003). Un terzo nucleo di temi riprende un argomento assai caro a Barbanera, cioè quello del paesaggio di rovine, al quale ha dedicato di recente la cura di un importante convegno, di cui circolano i bellissimi atti
(Relitti riletti, Torino 2009) e, su tutt’altro piano, una gustosa riflessione a margine di un ciclo di conferenze nel Nuovo Mondo, in cui la personalità dell’autore si specchia, non senza amarezze, nel confronto tra due sistemi, anche accademici, dal quale il nostro (quello europeo, e in particolare italiano) esce irrimediabilmente vecchio. Un libro bello, denso, di piacevole lettura, disturbata soltanto da un numero troppo alto di refusi di stampa e imperfezioni che la qualità dell’opera non meritava. Daniele Manacorda
Marinella Marchesi
le sculture di età orientalizzante in etruria padana Comune di BolognaEdizioni Pendragon, Bologna, 348 pp., ill. b/n + 1 CD con tavv. col. e b/n 40,00 euro ISBN 978-8865982440 www.pendragon.it
Il volume dà conto dello studio che l’autrice avviò poco piú di quindici anni fa, in sede di dottorato di ricerca.
Da allora, Marinella Marchesi, nel frattempo entrata a far parte dello staff del Museo Civico Archeologico di Bologna – al quale appartengono i materiali studiati – ha arricchito e ampliato il lavoro, fino ad articolarlo nel corposo volume che viene ora dato alle stampe. Oggetto dello studio è una classe di materiali particolare, quella delle sculture di età orientalizzante, in seno alla quale spiccano soprattutto le stele funerarie. Si tratta di una produzione databile tra la fine del’VIII e la prima metà del VI secolo a.C., un’epoca in cui Bologna (l’allora Felsina) e il suo territorio erano pienamente inserite nell’evoluzione culturale villanoviano-etrusca. Dopo aver ripercorso la storia degli studi e delle scoperte, che inizia alla metà dell’Ottocento, Marinella Marchesi presenta il ricco corpus delle opere in maniera analitica nelle schede di catalogo, per poi concludere con le considerazioni finali sulle possibili interpretazioni, sugli aspetti stilistici e, piú in generale, sull’inquadramento culturale del fenomeno. A corollario, meritano d’essere segnalate le appendici sulle analisi di alcune caratteristiche chimiche e fisiche delle pietre impiegate per scolpire i monumenti, nonché il CD allegato al volume, che permette un’ampia serie di confronti iconografici. Stefano Mammini
approfondire specifici temi o ambiti geografici. S. M.
dall’estero Elena Martelli
Sulle spalle dei saccarii
Tommaso Bertoldi
guida alle anfore romane di età imperiale Forme, impasti e distribuzione Espera, Roma, 198 pp., ill. b/n 38,00 euro ISBN 978-88-906443-5-1 www.archeologica.com
A voler usare un termine assai in voga, sono molte le «icone» della civiltà romana e, tra queste, un ruolo di primo piano occupano senz’altro le anfore, che, senza troppo forzare le analogie con il mondo moderno, furono sicuramente uno dei vettori piú efficaci di quella globalizzazione ante litteram di cui l’impero capitolino fu artefice. Su questi contenitori esiste una letteratura specialistica a dir poco sterminata, rispetto alla quale il volume di Bertoldi può porsi come utile bussola. La sua guida, infatti, propone un agile catalogo delle forme principali, offrendo tutte le informazioni essenziali per ciascuno dei tipi elencati. Compresa naturalmente, quella vasta bibliografia alla quale si rimanda per
Le rappresentazioni di facchini e il trasporto di derrate nel porto di Ostia in epoca imperiale BAR International Series 2467, Oxford, 140 pp., ill. 30,00 GBP ISBN 9781407310787 www.archaeopress.com
Questa bella ricerca studia, come specifica il sottotitolo, le rappresentazioni di facchini e il trasporto di derrate nel porto di Ostia in epoca imperiale. Lo fa a partire da una serie di statuette in terracotta, ben note in quella città, ma non solo, di cui viene allestito per la prima volta un corpus (comprendente 58 esemplari), accuratamente classificato dal punto di vista iconografico e distinto in 8 diversi gruppi. La ricerca è originale non solo perché prende in considerazione un gruppo sociale assai poco studiato,
ma perché l’approccio è fondamentalmente archeologico e si misura sia con le citate raffigurazioni e con la loro diffusione, sia con la contestualizzazione spaziale della presenza nel centro portuale degli stessi facchini, di cui vengono studiati anche i presumibili percorsi lavorativi. La circolazione dei saccarii nelle strade di Ostia doveva essere peraltro assai comune, come testimonia la loro frequente comparsa nei mosaici, nelle pitture e nei rilievi figurati. L’approccio archeologico si arricchisce di aspetti antiquari nell’analisi della loro «divisa» (una corta tunica stretta alla vita da una fascia, e una calotta in testa) e di aspetti antropologici, nell’attenzione posta alla fisiologia stessa del lavoro del facchino e al suo muoversi negli spazi urbani e architettonici in cui si svolgeva la sua attività. In questo contesto, nel quale il ruolo sociale dei saccarii viene illuminato anche attraverso le fonti scritte, in particolare epigrafiche – che ce ne testimoniano la diffusione in diversi siti commerciali dell’impero –, si inserisce l’ipotesi interpretativa che vede nelle statuette oggetto del catalogo – sin qui sbrigativamente ritenute una sorta di souvenir – un probabile simbolo religioso dei saccarii: quelle modeste figurine potrebbero infatti aver moltiplicato l’immagine del genio
stesso dell’associazione professionale dei facchini, loro protettore ed emblema del ruolo sociale di quella piccola, ma importante comunità. D. M. David Potter
constantine the emperor Oxford University Press, New York, 416 pp. 34,65 USD euro ISBN 978-0-19-975586-8 www.oup.com
Anche OUP cavalca l’onda lunga delle celebrazioni costantiniane e propone la ristampa di un testo ormai classico, quello pubblicato per la prima volta nel 1957 dallo storico statunitense David Potter (1910-1971). A partire dalla constatazione che gli imperatori romani cambiarono il mondo, Potter ripercorre la vicenda di Costantino, soffermandosi su tutti gli aspetti che piú hanno animato il dibattito sulla reale identità del principe «cristiano». Un esame forse un po’ datato, ma ancora ricco d’interesse. S. M.
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