Archeo n. 342, Agosto 2013

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appia antica

antica cina / 7 via della seta

miti greci / 6 antigone

speciale mondo pastorale

i millenni DEl mondo pastorale

misteri

legionari romani in cina?

www.archeo.it

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2013

Mens. Anno XXIX numero 8 (342) Agosto 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 342 agosto

LA DELLA

VIA SETA

TRA LEGGENDA E ARCHEOLOGIA

ROMA

IL PARCO DELL’APPIA ANTICA

SPECIALE

€ 5,90



editoriale

parole e fatti Due righe sulla questione «Pompei» e sulla minaccia che il sito campano venga estromesso dalla lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO. La notizia dell’ultimatum posto dall’organizzazione internazionale è stata diffusa agli inizi di luglio e ha fatto subito il giro del mondo: o viene messo in pratica, entro la data del 31 dicembre, il piano di salvataggio elaborato dal governo lo scorso anno (il Progetto Grande Pompei, che prevede uno stanziamento di 105 milioni di euro, vedi l’editoriale di «Archeo» dello scorso maggio), o l’UNESCO delibererà, nel febbraio del 2014, di procedere alla cancellazione. «Entro il 2015 – ha replicato il ministro per i Beni Culturali, Massimo Bray – saranno aperti almeno 39 cantieri di lavoro all’interno dell’area archeologica; e già nelle prossime settimane, dieci domus chiuse per mancanza di personale di sorveglianza saranno riaperte al pubblico». È cosí difficile, viene da chiedersi, spendere 105 milioni (42 dei quali sono fondi europei) per salvare Pompei? «Ci sono problemi di trasparenza – ammette il ministro – e uno dei punti qualificanti del Progetto è proprio il controllo sulla legalità degli appalti». Voltiamo, decisamente, pagina. Ci sono voluti decenni di infaticabile impegno da parte degli archeologi della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma per «salvare» il Parco dell’Appia Antica, sottraendolo alle grinfie di quelli che Antonio Cederna definí «gli indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, che per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità vanno riconducendo in polvere le testimonianze del nostro passato». Il Parco (ne parliamo in apertura di questo numero) è, con tutte le difficoltà che ancora rimangono da affrontare, il risultato meraviglioso dell’impegno di donne e uomini che hanno cambiato il destino di questo prezioso lembo di terra preso di mira dalla lottizzazione edilizia. E dove oggi, tra rovine celebri in tutto il mondo, si aggirano liberi quegli animali da pascolo di cui ci parla Barbro Santillo Frizell nello speciale dedicato al mondo pastorale: animali «utili per mantenere aperti i territori intorno ai siti archeologici, rendendoli accessibili e valorizzando la dimensione storica del paesaggio». Andreas M. Steiner

Un tratto della via Appia Antica.


Sommario Editoriale Parole e fatti

3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

6

scoperte Un importante recupero del Comando TPC dei Carabinieri ha permesso il ritrovamento, a Perugia, di una ricca tomba gentilizia, appartenuta alla famiglia etrusca dei Cacni 6

28 parola d’archeologo Il carro in bronzo di Monteleone di Spoleto, che oggi è uno dei vanti del Metropolitan Museum di New York, quasi rischiò d’esser gettato via dal suo scopritore 10

valorizzazione Aperto al pubblico un nuovo settore dell’area archeologica di Montegrotto Terme 12

dalla stampa internazionale Khirbet Qeiyafa: nuove scoperte e nuove polemiche 24

parchi archeologici

6

Regina viarum

28

di Mimmo Frassineti, con un’intervista a Rita Paris

AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compare la rubrica «L’altra faccia della medaglia», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.

In copertina piccolo gruppo in terracotta di un cammelliere con il suo animale, carico di merci. Dinastia Tang, 618-907. Parigi, Musée Cenruschi.

Anno XXIX, n. 8 (342) - agosto 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,

Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Rita Paris è direttore archeologo della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Barbro Santillo Frizell è archeologa ed è stata direttore dell’Istituto Svedese di Studi Classici a Roma. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: Picture Desk Images: copertina (primo piano) e pp. 49, 50 (basso); Giorgio Lotti: p. 31 (basso); Leemage: p. 62; su concessione MiBAC: p. 77; AKG Images/Peter Connolly: pp. 96/97, 98/99 – Corbis Images: Redlink: copertina (sfondo) e pp. 46/47; Mick Roessler: p. 46 (basso); Carl & Ann Purcell: p. 50 (alto); Antonia Tozer/JAI: pp. 50/51; Asian Art & Archaeology: p. 53; Adam Ferguson/VII: p. 55 (basso); Narong Sangnak/epa: p. 56; Paul Almasy: p. 57 (alto); Syed Jan Sabawoon/epa: p. 57 (basso); Pierre Colombel: p. 60 (destra); Sandro Vannini: p. 73; Louis Laurent Grandadam: p. 89 (alto); Araldo De Luca: p. 94 – M. Michelangeli: pp. 3, 28/29, 33 (alto), 34 (basso), 37 – Cortesia Soprintendenza BA Umbria: p. 6 – Cortesia Consorzio Pantelleria Ricerche: p. 7 – Cortesia Soprintendenza BA Marche: p. 8 – Doc. red.: pp. 10/11, 54 (basso), 80, 85, 100, 101, 105, 106-109 – Studio Inklink, Firenze: pp. 12 (alto), 86 – Cortesia Soprintendenza BA Veneto: pp. 12 (basso), 14 – Cortesia Hebrew University e Israel Antiquities Authority/Sky View: p. 24 – Cortesia Eilat Mazar: p. 25 – Shutterstock: pp. 28 (riquadro), 30, 31 (alto), 33 (centro, a sinistra), 54 (alto), 104 – Cortesia Parco Regionale dell’Appia Antica: disegno alle pp. 32/33 – Mimmo Frassineti: pp. 32/33 (basso), 33 (centro, a destra), 34/35, 35 (basso), 36,


scavare il medioevo

il mestiere dell’archeologo

di Andrea Augenti

di Daniele Manacorda

antichi ieri e oggi

civiltà cinese/7

L’oro di Cirene 46

di Romolo A. Staccioli

68

mitologia, istruzioni per l’uso/6

106

l’ordine rovesciato delle cose Un patrimonio da riscoprire

62

110

di Andrea De Pascale

libri

di Marco Meccarelli

Una tragedia infinita

Quella (grande?) scoperta dell’età oscura 108

Per una casa aperta 104

62 Una via e le sue leggende

Rubriche

112

speciale Mediterraneo pastorale

68

di Barbro Santillo Frizell

di Daniele F. Maras

storia dei greci/22 Il fascino dei vinti

90

di Fabrizio Polacco

Archeotecnologia Legionari romani in Cina?

98

di Flavio Russo

38-40, 41 (basso), 42/43, 44/45, 45 – Studio MCM di Monica Cola: p. 41 (alto); B. Mazzotta: p. 44 – J. Manning Press/ideazione B. Mazzotta: p. 43 (basso) – DeA Picture Library: pp. 52, 66/67, 67, 82, 95, 97 (alto); G. Dagli Orti: pp. 48, 58/59, 59, 60 (sinistra), 72, 78/79, 84, 88, 93 (basso); A. Dagli Orti: pp. 75, 93 (centro); G. Sosio: p. 76; L. Pedicini: p. 89 (basso) – Bridgeman Art Library: pp. 64/65 – Foto Scala, Firenze: p. 66 (sinistra) – E. Lessing Archive/ Magnum/Contrasto: pp. 68/69, 70, 71, 81, 90, 91 – Marka: Marco Scataglini: p. 74 – Cortesia Istituto Svedese di Studi Classici a Roma/Jonathan Westin: p. 87 – Flavio Russo: disegni alle pp. 102-103 – A. De Pascale: p. 110-111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 25, 32 (riquadro), 48/49, 71, 75, 76, 92/93, 100/101. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

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n oti z i ari o SCoperte Umbria

una grande famiglia etrusca

L

a storia dell’etruscologia si arricchí nel 1982 della sensazionale scoperta della tomba dei Cai Cutu, una delle famiglie piú in vista della Perugia etrusca in età ellenistica. Ora, sempre a Perugia, a seguito dell’indagine condotta dal Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri, è stata individuata una nuova tomba monumentale appartenuta a una gens ancora piú rilevante, quella dei Cacni. Al suo ritrovamento si è giunti partendo dal sequestro, a Roma, di una piccola testa in travertino e di una fotografia di un’urna etrusca. Procedendo a ritroso, si è riusciti a riconoscere Perugia come il centro in cui lo scavo clandestino doveva essere stato effettuato. Individuata l’area, ulteriori investigazioni hanno portato al recupero di numerose urne funerarie decorate

6 archeo

In alto e a destra: due urne recuperate nel corso dell’operazione avviata dalle indagini del Comando TPC dei Carabinieri e appartenenti alla tomba dei Cacni, una delle famiglie piú in vista della Perugia etrusca, databile al III sec. a.C.

ad altorilievo e del ricco corredo funerario che comprendeva vari bronzi, tra cui un elmo di tipo italico, uno scudo, uno schiniere, uno strigile e un kottabos (l’asta utilizzata in un gioco augurale praticato nel corso dei banchetti). È stata quindi individuata la stessa tomba monumentale in località Elce, nel settore occidentale delle necropoli urbane della Perugia etrusca, lungo la strada che conduceva verso Cortona e il lago Trasimeno. La zona era già stata teatro di scoperte importanti: nel 1835, in località Belvedere, venne rinvenuta la tomba Cherubini scavata nel terreno e articolata in un dromos di accesso, una camera centrale, quattro ambienti laterali e uno di fondo; nel 1869, presso San Galigano, fu scoperta la tomba dei Zetna; nel 1914 si scoprí la tomba di un inumato tra l’Accademia delle Belle Arti e viale Pellini; nello stesso anno vennero individuate altre due


SCoperte Sicilia tombe a San Galigano, una delle quali apparteneva ai Calisna e presentava un dromos, una camera centrale, due ambienti laterali e uno di fondo; nel 1961, infine, tra via Siepi e San Galigano, fu recuperata una tomba sconvolta dai mezzi meccanici. La tomba dei Cacni, ora rintracciata, custodiva 43 reperti lapidei: 21 urne, 21 coperchi di urne e 1 coperchio di sarcofago che – insieme al corredo funerario – consentono di datarla al III secolo a.C. Le iscrizioni riportate alla luce sono ben 17, 16 delle quali riferite a personaggi maschili della gens e una che ricorda sia il marito che la moglie. La famiglia dei Cacni risultava già attestata a Perugia e presente anche a Chiusi e a Tarquinia: un dato che ne suggerisce l’importanza. Osservando le urne piú in dettaglio, si può vedere che le casse erano decorate con figure e temi tratti dalla mitologia: Enomao, Pelope e Ippodamia; il sacrificio di Ifigenia; una Nereide su un tritone; una tauromachia; una lotta tra grifi e arimaspi; Medusa; Scilla. Inoltre scene di combattimento, bucrani e ghirlande, scudi, riquadri e rosette. I coperchi presentano recumbenti maschili e, in un caso, una coppia recumbente; oppure sono a fastigio con decorazione di pelte e rosette, o a doppio spiovente, con ornamenti o lisci. Sulle urne si possono osservare ancora tracce della policromia originaria e di foglie d’oro. La committenza – come hanno osservato Mario Pagano e Luana Cenciaioli (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria) – sembra ricca e ricercata a conferma del rilievo della famiglia nel quadro della società del tempo. Giuseppe M. Della Fina

ancore di guerra

T

renta ancore di piombo, quattro anfore e quattro lingotti, anch’essi di piombo, di diverse dimensioni e tipologia sono stati rinvenuti e documentati a 60 m di profondità nelle acque di Pantelleria. Dopo la scoperta di 3500 monete puniche nel 2011 (vedi «Archeo» n. 317, luglio 2011), si tratta di un nuovo, lusinghiero risultato per il progetto di valorizzazione e fruizione dei siti archeologici sommersi in prossimità delle infrastrutture di Cala Tramontana e di Cala Levante. La disposizione delle ancore, la tipologia del giacimento archeologico e le analogie con altri contesti simili – come per esempio il sito di Capo Grosso a Levanzo, località che fu teatro della battaglia delle Egadi, nel 241 a.C. – lasciano ipotizzare il fatto che ci si trovi di fronte ai resti di un ormeggio di emergenza da parte di una flottiglia di navi puniche,

Una delle ancore individuate durante le ultime ricerche nel mare di Pantelleria. probabilmente in occasione di uno degli scontri navali in seguito ai quali i Romani, per ben due volte durante il corso del III secolo a.C., presero il controllo dell’isola di Pantelleria. La scoperta è stata resa possibile grazie alla mappatura dei fondali delle due baie da 8 a 100 m di profondità. Il progetto di ricerca ha compreso anche l’indagine stratigrafica subacquea (condotta da un team di altofondalisti composto da archeologi, fotografi, operatori tecnici e assistenti di superficie) del carico di un relitto situato a 20 m di profondità nei fondali di Cala Tramontana, i cui resti sono costituiti prevalentemente da anfore da trasporto di produzione cartaginese. Anche in questo caso i reperti sono databili al III secolo a.C. (red.)

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Marche

dall’entroterra al mare

A

l Monte Pinocchio di Ancona, durante la realizzazione di un cavidotto interrato in Strada Ghettarello, è venuto alla luce un basolato stradale di epoca romana. «La carreggiata – spiega Maria Gloria Cerquetti, funzionario archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Marche – è stata rinvenuta a circa mezzo metro di profondità dal piano di campagna, per una lunghezza di circa 23 m e una larghezza pari a 3,60. Il tracciato è stato realizzato impiegando blocchi sommariamente squadrati di calcareniti e brecce, entrambe di formazione marina, ricavati da un banco roccioso locale affiorante a poche decine di centimetri dal livello del suolo attuale». La strada potrebbe costituire un breve tratto del diverticolo della via Flaminia noto come Prolaquense, un importante asse di collegamento con il porto di Ancona che si staccava dalla strada consolare all’altezza di Nocera Umbra scendendo poi per la valle del fiume Potenza per piegare verso la costa. Non si esclude, però, che possa far parte dell’arteria stradale, riportata dal lapis Aesinensis, che univa la Salaria Gallica con quella Picena, staccandosi dalla via consolare nei pressi di Aesis (oggi Iesi) e proseguendo verso Ancona: si tratterebbe in quest’ultimo caso della via voluta da Marcus Octavius «per suum privatum». In ultima analisi, non viene esclusa dagli archeologi l’attribuzione del tratto stradale scoperto con la Sena Gallica-Potentia, che coincideva con la via costiera fino alla zona di Posatora, da cui si internava poi verso la vallata del fiume Aspio. «Da un’analisi del reticolo viario della zona – conclude la Cerquetti – emerge innanzitutto un dato importante, che è confermato

8 archeo

In alto e in basso: due immagini del tratto di strada basolata riportato alla luce nella zona del Ghettarello, presso Ancona.

anche dall’entità dei rinvenimenti archeologici da tempo emersi nella zona e che hanno determinato il vincolo dell’area da parte degli organi competenti: la zona del Ghettarello costituiva un punto di passaggio verso il porto di Ancona. In direzione NE, la strada punta verso il centro della città di Ancona,

mentre nella direttrice opposta corre nella direzione di Agugliano, seguendo cosí il tracciato proposto da Alfieri per la via Ottavia. È quindi possibile supporre che collegasse la città e il porto di Ancona, piuttosto che isolate dimore, con i villaggi dell’entroterra». Giampiero Galasso



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

il viaggio di sola andata del carro di monteleone A oltre un secolo dal ritrovamento, la splendida biga etrusca recuperata nel 1902 resta al centro di molte polemiche. e pensare che il suo scopritore credette di trovarsi dinnanzi a un oggetto di scarso valore e se ne liberò... per 650 lire

E

ra l’8 febbraio del 1902, quando Isidoro Vannozzi, un contadino di Monteleone di Spoleto (Perugia), fece, a sua insaputa, una scoperta archeologica straordinaria: quella di un carro da parata etrusco, eccezionalmente integro, risalente alla metà del VI secolo a.C. Dopo varie vicissitudini, la principesca biga di bronzo, trovata all’interno di una tomba in località Colle del Capitano, arrivò un anno piú tardi a New York, dove ancora oggi è conservata al Metropolitan Museum of Art. A distanza di un oltre secolo, qualcuno può ancora

La magnifica biga in bronzo scoperta a Monteleone di Spoleto nel 1902. Secondo quarto del VI sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

10 a r c h e o


descriverci gli attimi in cui il carro emerse dalla terra: è Carlo Vannozzi, nipote dello scopritore, che ricorda bene i racconti che si facevano in famiglia a proposito della scoperta: «Mio nonno stava lavorando in cortile quando, scavando, inciampò in un mucchio di pietre: rimuovendole, apparve una grande fossa, che conteneva il carro e il corredo, con centinaia di vasi. Alcuni sono andati perduti, altri vennero usati per cuocere le mele: mi raccontavano che, messi nel forno, si squagliavano e per questo Isidoro sosteneva che non valessero niente: mio nonno non si rendeva conto dell’importanza della scoperta, non sapeva che cosa potesse essere». Era la tomba di un principe etrusco-italico, come indicano le grandi dimensioni della fossa, coperta da un tumulo monumentale, e il ricco corredo di vasi in terracotta e bacili di

bronzo, ma soprattutto il carro rivestito di lamine di bronzo sbalzate e finemente incise, che narrano le vicende di Achille. Si tratta dell’unica biga etrusca, finora, trovata integra. «I miei raccontavano che il carro avesse ancora le ruote – racconta ancora Vannozzi – e che funzionasse, tanto che i bambini si sarebbero divertiti a salirci sopra, come fosse un giocattolo!». Nessuno, dunque, intuí il valore del carro, che, dopo la scoperta, finí prima in una cascina in campagna, e fu quindi venduto dal contadino... «Mio nonno non sapeva che cosa farsene della biga, e i calderoni non erano buoni per cucinare –

prosegue Carlo Vannozzi –, perciò, un giorno, vendette tutto a un fabbro in cambio di 650 lire e di alcuni coppi che gli servivano per riparare il tetto. Arrivò un carico pieno di tegole e andò via con la biga e il corredo». Ma il «viaggio» del carro di Monteleone di Spoleto era appena iniziato: da Norcia passò a Roma, dove rimase per alcuni mesi nel retrobottega di una farmacia, poi fu acquistato da un antiquario di Firenze. Quindi, smontato pezzo per pezzo e nascosto in botti di vino, giunse a Parigi. Infine, arrivò a New York, nascosto tra casse di cereali. E, nel 1903, il direttore del Metropolitan Museum of Art lo «ricevette in donazione». Da alcuni anni, il Comune di Monteleone di Spoleto richiede ufficialmente la restituzione del carro, come territorio di origine del reperto, ma la battaglia, andata avanti per vie diplomatiche e legali, non sembra, finora, aver messo in discussione il rientro della preziosa opera.

vero o falso? comunque «nostro»

Negli ultimi anni, il carro di Monteleone di Spoleto è stato al centro di diverse dispute. La prima controversia riguarda l’autenticità dell’opera, che gli studiosi tradizionalmente attribuiscono all’officina di un eccelso artista attivo in Etruria, proveniente dalla Grecia orientale. Altri, tra cui Jerome M. Eisenberg, sostengono, invece, che, nel suo aspetto attuale, la biga sarebbe una sorta di pastiche in cui si mescolano vero e falso (vedi «Archeo» n. 270, agosto 2007). L’altra querelle vede opposti, dal 2004, il Metropolitan Museum e il Comune di Monteleone di Spoleto, che continua a battersi per riavere indietro l’opera, come spiega l’attuale sindaco della cittadina, Marisa Angelini: «Noi continuiamo a chiedere a gran voce che la biga torni nel territorio di origine: è un reperto cosí unico e cosí importante dal punto di vista storico-artistico che

non può essere esportato in maniera illegale, come è accaduto, anche se è passato oltre un secolo. Da New York ci siamo sentiti rispondere che il ricorso presentato dal nostro avvocato non è valido poiché, secondo la legge statunitense, passati 30 anni dall’esportazione, decade il diritto a richiedere il bene. Anche il giudice italiano ha archiviato la questione, ricordando che sono trascorsi piú di 100 anni, e un eventuale reato sarebbe dunque prescritto. Io credo che il diritto a richiedere un bene di tale rilevanza storica, cosí importante per l’identità di un territorio, non dovrebbe andare mai in prescrizione, nemmeno dopo 100 anni. È un reperto unico al mondo: non dovremmo essere noi a chiederlo indietro al Metropolitan Museum, ma il Met stesso a sentirsi in disagio e restituirlo, come già hanno fatto altri musei d’oltreoceano. Un Paese, come gli USA, che si vanta di esportare la democrazia in tutto il mondo, non può non tenere conto della nostra richiesta. Opere eccezionali come il carro di Monteleone dovrebbero essere un patrimonio inalienabile, in perpetuo».

Ma il museo newyorkese, che ha fatto del carro la «star» della sezione etrusca delle sue gallerie di arte greco-romana, a restituire al piccolo Comune il pregiato oggetto non pensa affatto, appellandosi alla buona fede dell’acquisto, nel 1903 e, come ci spiega Irene Berlingò, archeologa del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, al vuoto legislativo esistente all’epoca in materia di tutela dei reperti archeologici: «In Italia, all’epoca della scoperta del carro, nel 1902, la legge Nasi (n. 185 del 12 giugno 1902) iniziò a tutelare i beni culturali, stabilendo che non potessero essere venduti ed esportati all’estero quei beni artistici e archeologici dello Stato, che, però, fossero inseriti in un catalogo. E il carro non era stato catalogato, viste le circostanze della scoperta. Solo dal 1909 l’Italia decise di stringere le maglie in materia di fuoriuscita di beni culturali e, con la legge Rosadi-Rava (n. 364 del 20 giugno 1909), impostò la legislazione attuale, vietando l’esportazione di tutti i beni importanti dal punto di vista storico-artistico e istituendo il diritto di prelazione sull’acquisto di tali reperti da parte dello Stato italiano». a r c h e o 11


n otiz iario

valorizzazione Veneto

lusso e armonia a due passi dalle terme

È

stata aperta al pubblico la terza area archeologica di Montegrotto Terme (Padova), nella zona delle Terme Euganee, già molto apprezzate e frequentate in epoca antica. Nel nuovo sito sono conservati i resti della villa di epoca romana individuata e scavata nell’area di via Neroniana, una lussuosa residenza realizzata nei primi decenni del I secolo d.C., che occupava una superficie di oltre 1 ettaro e mezzo. La villa era articolata in quartieri residenziali e aree scoperte e aveva il suo cuore nel settore residenziale settentrionale (oggi protetto dalle coperture), formato da una lunga serie di vani organizzati secondo una precisa simmetria. Questo quartiere era a sua volta chiuso a meridione da un lungo corridoio, articolato in avancorpi, che si

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sviluppava poi con bracci rettilinei, a racchiudere un quadrilatero esteso per circa metà dell’area. Il corridoio era in origine un portico, scandito da piú di cento colonne, che circondava un ampio giardino. Negli intercolumni (spazi tra una

A sinistra: disegno ricostruttivo della villa romana i cui resti sono stati scoperti nella zona di via Neroniana, a Montegrotto Terme, e sono oggi visitabili all’interno dell’area archeologica recentemente aperta al pubblico. In basso: ricostruzione virtuale di uno dei quartieri residenziali della villa, la cui costruzione fu certamente voluta da una committenza di alto rango nei primi decenni del I sec. d.C. colonna e l’altra) erano appesi dischi di pietra, scolpiti a rilievo su entrambe le facce (oscilla), mentre i coppi terminali della falda del tetto verso il giardino erano ornati da antefisse raffiguranti maschere tragiche. L’articolazione del



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giardino non è nota, ma si può immaginarlo percorso da viottoli e disseminato di statue di putti, di animali o altri elementi ornamentali. Oltre la corte porticata, verso sud, si sviluppava un secondo quartiere residenziale, in cui si alternavano ambienti di lusso e vani di servizio, disposti lungo un altro corridoio porticato. A sud di questo secondo portico si trovava un ulteriore giardino, delimitato sugli altri tre lati da un recinto in muratura, senza colonne. Il muro di chiusura meridionale del giardino e della villa si articolava in una grande esedra, oggi richiamata, come tutto il perimetro della residenza, dall’andamento della recinzione. Al culmine dell’esedra era stato realizzato un ambiente, il cui ingresso dal giardino doveva essere scandito da colonne, forse funzionale allo svolgimento di un qualche culto privato, come sembra suggerire il ritrovamento, appena fuori del recinto della villa, di alcune anfore e di una brocca coricata deposte in una fossa. Anche del giardino meridionale si ignora l’articolazione, ma è probabile che esso ospitasse una grande fontana circolare. La villa è il frutto di un progetto ingegneristico e architettonico unitario, nel quale sono state

impiegate maestranze di grande abilità, consapevoli delle risorse per l’edilizia offerte dal territorio e capaci di sfruttarle adeguatamente: si volle dunque creare nell’area termale euganea una villa capace di competere con le grandi dimore coeve del Lazio o della Campania, sia nella forma dell’architettura che nell’apparato decorativo. Tutto ciò lascia intuire la volontà di una committenza di altissimo rango, anche se l’identità resta a oggi sconosciuta. La villa subì rimaneggiamenti nel II e ancora tra il III e il IV secolo d.C., prima d’essere abbandonata. (red.)

In alto: Montegrotto Terme. Un settore della villa scavata nell’area di via Neroniana, oggi musealizzato.

Dove e quando Area archeologica di via Neroniana Montegrotto Terme (Padova), Orario lu-ma-gio-ve, 15 00-18,00 Info e visite guidate Associazione Culturale Studio D: tel. 345 4646227 (Cinzia Tagliaferro), o 347 9941448 (Sabina Magro); www.studiodarcheologia.it, www.aquaepatavinae.it

editoria Campania

Scrivi Stabiae 2013: offerta riservata ai lettori di «Archeo»

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na palestra di narrazione tra le vie delle città vesuviane, un laboratorio per raccontare il passato in forme moderne e originali: questo, e non solo, è la scuola residenziale di scrittura creativa Scrivi Stabiae, in programma dal 7 al 15 settembre 2013 al Vesuvian Institute di Castellammare di Stabia, su iniziativa della Fondazione Restoring Ancient Stabiae, e curata dalla scrittrice Carmen Covito insieme alla giornalista Cinzia Dal Maso. Il corso è aperto a chiunque voglia misurarsi con la scrittura creativa e approfondire i rapporti tra l’archeologia e la letteratura. Alla fine del corso, i racconti migliori saranno pubblicati in un e-book. Info www.officinascriptoria.it; e-mail: scrivistabiae@officinascriptoria.it. Scrivi Stabiae è anche su FB, alla pagina https://www.facebook.com/ScriviStabiae Ai lettori di «Archeo», presentando una copia della rivista con il logo della manifestazione qui pubblicato, sarà accordato uno sconto del 10% sul costo complessivo della scuola e dell’alloggio.

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n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

la via della globalizzazione Oggi la «via della seta» è un concetto quasi esclusivamente romantico e culturale mentre agli albori della storia era l’unico mezzo di comunicazione tra civiltà e popoli lontanissimi; volendo mutuare una terminologia moderna, si potrebbe affermare, con un po’ di audacia, che essa sia stata il primo esempio di «globalizzazione». Lungo il suo percorso, infatti, non viaggiavano solo merci, ma anche idee, dottrine, religioni, usi e in entrambi i sensi, dall’Oriente all’Occidente e viceversa. Gli scambi commerciali e culturali hanno influenzato, e non poco, lo sviluppo delle maggiori civiltà antiche (Egitto, Cina, India, Grecia e Roma), ponendo anche le basi, contemporaneamente, del mondo moderno 5 (1-2: gli annulli usati a Treviso nel 2005 in occasione della mostra «La via della seta e la civiltà cinese: la nascita del celeste impero»). E, infine, la via della seta è anche un argomento formidabile per una collezione tematica; sono centinaia gli spunti che possono essere sfruttati: luoghi, percorsi, monumenti, personaggi, oggetti, animali e tanto altro ancora. Eccone un brevissimo campionario… I percorsi. Per via di terra le direttrici est-ovest furono piú di una; il ramo settentrionale, un altro ancora piú a nord e quello meridionale. Il primo aveva uno snodo presso l’importante centro buddhista delle grotte di Mogao ricche di magnifiche pitture rupestri (3-4); il secondo fu quello seguito da Marco Polo e riprodotto sul foglietto del Vaticano (5). Naturalmente il grande Veneziano merita anche questa bella cartolina maximum con la serie emessa dall’Italia (6). Quello meridionale attraversava il Karakorum lungo il tracciato seguito ancora oggi dalla Karakorum Highway (7). Alcuni percorsi, in epoche diverse, sono stati effettuati anche via fiume e via mare. Le religioni, le ideologie, gli usi e i costumi. Di particolare 10 rilevanza sono stati gli scambi relativi alle religioni dei popoli ed emblematico è uno dei 4 francobolli emessi dal Vaticano che raffigura Marco Polo che consegna al gran khan una missiva di papa Gregorio X (8). Ma, con lo stesso sistema, anche in Occidente cominciarono a essere conosciuti i principi del buddhismo (9), dell’induismo e di altre religioni. Gli animali. Sicuramente la citazione principale è per il cammello (10) come «veicolo» preferenziale lungo la via della seta, anche se non si possono sottacere i molti animali «fantastici» (11) descritti ne Il Milione. Gli esploratori. L’ultimo passaggio tematico, almeno per questa rubrica, è per un altro famoso viaggiatore, di qualche decennio successivo a Marco Polo. Si tratta dello scrittore ed esploratore marocchino Ibn Battuta (12) che arrivò fino alla lontana Mongolia attraverso la Crimea e il Medio Oriente.

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



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n otiz iario

incontri Paestum

la borsa all’ombra del tempio

È

in programma dal 14 al 17 novembre la XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, che presenta quest’anno importanti novità: per la prima volta, infatti, la rassegna si svolgerà all’interno della città antica. L’area adiacente al tempio di Cerere (salone espositivo, laboratori di archeologia sperimentale e due sale conferenze), il Museo Archeologico Nazionale (ArcheoVirtual, ArcheoLavoro, sala conferenze, workshop con i buyer esteri), la Basilica Paleocristiana (conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con I Protagonisti) saranno, d’intesa con il MiBAC, le nuove sedi della manifestazione, scelte per valorizzare al meglio il patrimonio culturale esistente. Fiore all’occhiello della BMTA sarà ArcheoVirtual – mostra dedicata all’archeologia virtuale –, che verrà presentata a Paestum dopo essere stata, in anteprima, protagonista a Digital Heritage 2013, il piú grande evento scientifico internazionale sul patrimonio culturale in programma dal 28 ottobre al 1° novembre a Marsiglia, Capitale Europea della Cultura 2013. La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico si conferma evento internazionale unico nel suo genere: sede del piú grande salone espositivo al mondo del

In alto: un’immagine del salone espositivo della Borsa di Paestum, che quest’anno, per la prima volta, sarà allestita all’interno dell’area archeologica (qui accanto).

patrimonio archeologico e della prima mostra internazionale di tecnologie interattive e virtuali; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo e ai beni culturali oltre che occasione di incontro per gli addetti ai lavori, per gli operatori, per i viaggiatori, per gli appassionati. Nel sottolineare sempre piú l’importanza che il patrimonio culturale riveste come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: dopo Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Francia, Algeria, Grecia, Libia, Perú, Portogallo, Cambogia, Turchia, Armenia, ospite ufficiale dell’edizione 2013 è il Venezuela. (red.)



calendario

Italia Roma Da Orvieto a Bolsena Un percorso tra Etruschi e Romani Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino all’01.09.13

Collana e pendente in pasta vitrea, da Orvieto, IV sec. a.C.

onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa Casa della Cultura fino al 31.12.13

Nemi (Roma) Caligola

Costantino. 313 d.C.

La trasgressione al potere Museo delle navi romane fino al 05.11.13

Colosseo fino al 15.09.13

Il Tesoretto di Montecassino Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30.09.13

Capolavori dell’archeologia

Recuperi, ritrovamenti, confronti Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 05.11.13

Archimede. Arte e scienza dell’invenzione Musei Capitolini fino al 12.01.14

In alto: fibula in oro e pietre preziose, da Montecassino.

Un percorso tra Etruschi e Romani Sedi varie fino al 03.11.13

La Cina Arcaica (3500 a.C.-221 a.C.). Palazzo Venezia, Sale quattrocentesche fino al 20.03.14

Padova Venetkens

Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13

manfredonia Venti del Neolitico. Uomini del rame

parma Storie della prima Parma

Museo Nazionale Archeologico, Castello di Manfredonia fino al 31.12.13

Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 29.12.13

Mantova Amore e Psiche: la favola dell’anima Palazzo Te fino al 10.11.13

pianosa (livorno) Ritorno a Pianosa

milano Da Gerusalemme a Milano

Casa del Parco fino al 13.10.13

Potenza Segni del Potere

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

modena Il mosaico riscoperto Lapidario Romano dei Musei Civici, Palazzo dei Musei fino all’01.09.13 22 a r c h e o

orvieto, bolsena, castiglione in teverina, san lorenzo nuovo Da Orvieto a Bolsena

A sinistra: particolare del mosaico di Savignano, in un disegno ottocentesco.

Oggetti di lusso dal Mediterraneo nell’Appennino lucano di età arcaica Museo Archeologico Nazionale «Dinu Adamesteanu» fino al 31.12.13

trento Sangue di drago, squame di serpente

Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio Castello del Buonconsiglio fino al 06.01.14

La «dea di Caldevigo».


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

A destra: elaborazione grafica di una foto di Elizabeth Taylor nei panni della regina Cleopatra.

Bonn Cleopatra

Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland L’eterna diva fino al 06.10.13

Gran Bretagna Vetulonia (Castiglione della Pescaia) Vetulonia, Capua, Pontecagnano Vite parallele di tre città etrusche Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.11.13

Archeologia e design a confronto Musée gallo-romain de Saint-Romain-en-Gal-Vienne fino all’01.09.13

The British Museum fino al 29.09.13

Israele

Francia saint-romain-en-gal Il design ha 2000 anni?

Londra Vita e morte a Pompei ed Ercolano

Una delle immagini elaborate per la mostra Archeodesign.

Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande Israel Museum fino al 04.01.14

In alto: mosaico con l’immagine di un cane da guardia, dalla Casa di Orfeo a Pompei.

Paesi Bassi leida I sarcofagi dei sacerdoti di Amon Rijksmuseum van Oudheden fino al 15.09.13

Spagna Madrid La Villa dei Papiri Strasburgo Un’arte dell’illusione

Pitture murali romane in Alsazia Musée Archéologique fino al 31.08.13

Danimarca copenaghen Viking Nationalmuseet fino al 17.11.13

Casa del Lector fino al 23.04.14 In basso: fibbia bronzea in forma di nave vichinga.

In basso: un guerriero in terracotta di Xi’an.

Svizzera berna Qin

L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13

hauterive Fiori dei faraoni

Germania

Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14

berlino Uruk

zurigo Archeologia

I 5000 anni di una megalopoli Staatliche Museen, Pergamonmuseum fino all’08.09.13

Tesori del Museo nazionale svizzero Museo nazionale svizzero fino al 21.12.2014 a r c h e o 23


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

K

hirbet Qeiyafa (le «rovine di Qeiyafa») è una vasta area archeologica nelle colline che separano Gerusalemme dalla costa mediterranea. Tradizionalmente identificato con la fortezza di Elah (luogo di biblica memoria: qui avvenne lo scontro tra Israele e i Filistei e la sconfitta di Golia da parte di David), il sito è da sette anni oggetto di esplorazioni da parte di una missione congiunta dell’Università Ebraica e della Israel Antiquities Authority (la Soprintendenza alle Antichità di Israele). Già in passato le rovine di Qeiyafa sono state prodighe di

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scoperte (vedi «Archeo» n. 286, dicembre 2008), ma l’annuncio dell’ultimo, recentissimo, ritrovamento ha suscitato reazioni contrastanti tra gli studiosi, rinfocolando un antico dibattito: secondo gli scavatori, infatti, gli imponenti resti di un edificio, lungo 30 m, portati alla luce non sarebbero altro che le vestigia di un palazzo reale appartenuto al leggendario re David.

c’era una volta re david...? Ma, ecco come un lungo commento apparso sul quotidiano israeliano Haaretz riassume la vexata quaestio che in questi anni ha tenuto alto il tenore del dibattito tra storici e archeologi: è mai veramente esistito,

Il sito di Khirbet Qeiyafa (Israele), con, in evidenza, l’area di scavo del «palazzo reale». X sec. a.C.

nel X secolo a.C., un regno unitario di Giuda e Israele, fondato da Saul, ampliato da Davide e portato alla fioritura da suo figlio Salomone, cosí come descritto dal racconto biblico? E, soprattutto, quali dimensioni aveva? Secondo i fautori dell’approccio cosiddetto «minimalista» (per il quale la Bibbia non può essere vista in alcun modo come una fonte storica attendibile), un tale regno non è mai esistito e, semmai, era circoscritto alla sola Gerusalemme che, inoltre, all’epoca non avrebbe superato le dimensioni di un villaggio di media entità. Sul campo opposto, invece, si


ergono i «massimalisti»: per loro, la Bibbia – descrivendo l’esistenza, nel X secolo a.C., di un potente regno con capitale Gerusalemme – rifletterebbe fedelmente la situazione storica della regione in quell’epoca. A quest’ultimo schieramento appartengono gli scavatori di Khirbet Qeiyafa,Yosef Garfinkel e Saar Ganor, per i quali le rovine distanti 32 km da Gerusalemme sono i resti di un’importante LIBANO

Lago di Tiberiade

Haifa

Nazaret

Mar Mediterraneo Hadera

Giordan

Tel Aviv Petach Tikva

o

Netanya

CISGIORDANIA

Gerusalemme

Ashdod Ascalona

Khirbet Qeiyafa

Beersheva

Mar Morto

Masada

Dimona

ISRAELE

capitale distrettuale del regno di David, da identificare con la Saaraim citata nel Primo Libro di Samuele 17,52 («Si levarono allora gli uomini d’Israele e di Giuda, alzando il grido di guerra e inseguirono i Filistei presso Gat e fino alle porte di Accaron. I Filistei caddero e lasciarono i loro cadaveri lungo la via fino a Saaraim»). Per l’archeologo Garfinkel, il regno di David somigliava a un principato di medie dimensioni piú che a una vera e propria potenza regionale, ma respinge con forza la visione riduttiva dei «minimalisti». E la collocazione di Khirbet Qeiyafa, su una collina prospiciente il territorio dei Filistei e in grado di controllare la principale via di attraversamento della Valle di Elah, suggerirebbe con forza l’identificazione del sito con uno dei tre importanti centri del regno, insieme a Gerusalemme e Hebron. Un’ulteriore conferma sarebbe poi emersa con la scoperta dell’area palaziale, situata al centro della città fortificata per un’estensione di circa 1000 mq (di cui, a oggi, sono emersi i resti di una trentina di metri delle mura). Di opinione opposta sono, invece, Shlomo Bonimovitz e Zvi Lederman

dell’Università di Tel Aviv, secondo i quali le rovine di Khirbet Qeiyafa rappresentano le vestigia di un piccolo principato cananeo, stretto tra il regno di Giuda e i Filistei. Troppo scarni, infatti, sarebbero i dati emersi dagli scavi a favore della composizione etnico-religiosa del sito, andato completamente distrutto 1400 anni dopo la sua fondazione e sostituito da un ampio complesso di età bizantina. Aggiunge, poi, il noto archeologo Israel Finkelstein, anch’egli su posizioni minimaliste: «Non vedo perché Qeiyafa non possa essere interpretato come un avamposto fortificato del regno di Israele, ma mi guarderei bene a dare troppo credito alla tradizione biblica, redatta centinaia di anni dopo che il sito era già stato abbandonato». E conclude Aren Maeir, scavatore del sito di Tel Zafit, la filistea città di Gat, poco distante da Qeiyafa, ma assai piú estesa: «Qeiyafa poteva benissimo essere un avamposto giudaico vis-à-vis la filistea Gat. Ma la stessa distruzione del sito mal si accorda con la descrizione trionfalistica, riportata nella Bibbia, della vittoria finale del regno di Giuda e Israele».

gerusalemme. la prima iscrizione alfabetica

L

GIORDANIA

EGITTO o scorso

luglio, gli scavi nell’area dell’Ophel (presso il Monte del Tempio) condotti dall’archeologa Eilat Mazar dell’Università Ebraica di Gerusalemme (vedi anche «Archeo» nn. 301 e 306, marzo e agosto 2010) hanno restituito la piú antica iscrizione alfabetica Elat mai rinvenuta nella Citta Santa. Incisa sull’orlo di un grande pithos (recipiente in L’archeologa Eilat Mazar (Università Ebraica di Gerusalemme) mostra il frammento (vedi particolare qui a destra) rinvenuto presso il Monte del Tempio e recante un’iscrizione alfabetica.

ceramica per le derrate) del X secolo a.C., l’iscrizione – incompleta – riporta i segni dell’alfabeto protocananeo, in uso tra l’XI e il X secolo a.C., dunque prima dell’avvento del regno di Israele e della scrittura ebraica. I segni riproducono le lettere m, q, p, h, n, l (?) ed n, e la loro combinazione non corrisponde ad alcun significato noto nelle lingue semitico-occidentali. Il testo riporta il contenuto della giara oppure il nome del suo proprietario: in quest’ultimo caso, e poiché l’iscrizione non è in ebraico, il personaggio in questione potrebbe essere stato un membro della comunità dei Gebusei che, al tempo di David e Salomone, erano parte della popolazione non ebraica di Gerusalemme.

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parchi archeologici • appia antica

regina

viarum

di Mimmo Frassineti

l’area archeologica – tra le piú belle del mondo – si insinua, come un grande cuneo verde, dalla periferia fino al centro di Roma, fiancheggiando il tracciato della celebre strada consolare. nei primi anni del dopoguerra Sembrava destinata a scomparire sotto i colpi della lottizzazione ma cosí non è stato. Grazie a un’opera di tutela straordinaria, il Parco dell’Appia Antica rappresenta, oggi, un’eccellenza nel panorama dell’archeologia italiana. Ecco la storia di un’impresa fuori del comune… e dei suoi protagonisti 28 a r c h e o


I

n Italia i primi costruttori di strade furono gli Etruschi. Le loro «tagliate», grandiosi sbancamenti scavati con rigore geometrico nelle colline di tufo ancora ci sorprendono. Alcune strade romane ricalcarono quelle etrusche (è il caso, per esempio, della via Cassia fra Roma e Cortona), ma furono i Romani a introdurre l’uso della pavimentazione in blocchi di selce, con il lato piatto rivolto verso l’alto. Lungo le viae, le strade che partivano dall’Urbe, potevano transitare due carri affiancati. La piú antica e celebre, la regina viarum, è l’Appia, che unisce il mar Tirreno con l’Adriatico e, tramite il porto di Brindisi, collega l’Italia all’Oriente.

Quella che oggi chiamiamo Pianura Pontina faceva parte in antico del Latium Vetus, una regione compresa fra gli Appennini e il Tirreno che, dalla riva sinistra del Tevere si estendeva fino al Circeo. Vi abitavano varie popolazioni, tutte destinate a scontrarsi con Roma. Fra queste, i Volsci non erano solo guerrieri, ma anche abili contadini, esperti nel drenare l’acqua in eccesso che, scendendo dai monti Lepini incontrava, prima di raggiungere il mare, la barriera della duna litoranea, ristagnando nella depressione della vasta pianura. Per aprirsi la strada verso sud, Roma ingaggiò con i Volsci una guerra durata due secoli, il cui epilogo si ebbe nel 328 a.C., quando Priver-

Un tratto della via Appia Antica. Sulla destra si vede una delle quinte scenografiche realizzate nell’Ottocento dall’architetto e archeologo Luigi Canina (1795-1856). Si tratta di un tipico pastiche di gusto neoclassico, nel quale sono assemblati rilievi e frammenti architettonici provenienti dai monumenti un tempo affacciati sulla consolare.

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no, ultima roccaforte volsca, fu espugnata. A Roma premeva il rapido attraversamento della regione, per affacciarsi al Sud della penisola. Nel 312 a.C. il censore Appio Claudio prolungò fino a Capua una strada preesistente che dall’antica Porta Capena (oggi non piú esistente, era situata fra le terme di Caracalla e il Circo Massimo, n.d.r.) portava ai colli Albani. L’Appia raggiunse in seguito Benevento per concludersi, nel 190 a.C., dopo un percorso di 360 miglia romane (1 miglio= 1480 m.), a Brindisi.

zanzare e paludi Nella sua parte iniziale il tracciato rivelò insidie impreviste poiché un tratto della preziosa arteria, quello che attraversa la Pianura Pontina, si ritrovava spesso sott’acqua. È possibile che ciò sia dipeso dall’abbandono delle opere idrauliche dei Volsci, le cui terre erano state spartite fra i L’esterno del mausoleo di Cecilia Metella, costruito al III miglio dell’Appia Antica, tra il 30 e il 20 a.C., per una nobildonna romana figlia del console Quinto Cecilio Metello. Come provano le merlature che oggi la coronano, in età medievale la tomba fu trasformata nel torrione del castello della famiglia Caetani, di cui si vedono i resti in secondo piano.

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patrizi dell’Urbe, che non avevano interesse a coltivarle. Fra gli altri ne fece le spese Orazio, come racconta nella sua quinta Satira: nel viaggio da Roma a Brindisi in compagnia di Mecenate e di altri amici, arrivati a Forum Appii – 43 miglia da Roma – dovettero scendere dalla carrozza e proseguire in barca, bersagliati da «mali culices», «feroci zanzare». La transitabilità della Regina viarum fu lo scopo d’innumerevoli tentativi di bonifica nei quali si cimentarono imperatori come Augusto, Nerone, Nerva, Traiano, il barbaro Teodorico, e numerosi papi. Tra questi ricordiamo: Bonifacio VIII (1294-1303), che prosciugò i suoi feudi intorno a Sermoneta dirottando l’acqua a Sezze, irritando vivamente i Sezzesi; Leone X (15131521), il quale, su progetto di Leonardo, bonificò un vasto territorio, scatenando le proteste dei Terracinesi, che in palude allevavano le anguille; Pio IV (1775-1799), che scavò il Linea Pio, un canale che tuttora scorre parallelo all’Appia fino a Terracina. Ma le terre recuperate finivano regolarmente nelle mani di pochi latifondisti che non

si curavano della manutenzione. rique des marais pontins, pubblicato Cosí la palude tornava. nel 1822, un anno dopo la morte dell’imperatore. Quando, nel 1870, l’Agro entrò a far parte del Regno il deserto del Belli Anche Napoleone volle mettere d’Italia, avventurarsi fuori dalle mano a progetti di bonifica: insediò mura urbane significava penetrare una Commissione dell’Agro Ro- in una landa desolata: «Dove te vorti mano che produsse solo uno studio, una campagna rasa / come ce sii passala Description hidrographique et histo- ta la pianozza (pialla)/ senza manco l’impronta d’una casa! / L’unica cosa sola c’ho ttrovato / in tutto er viaggio è In alto: l’Appia Antica e i resti stata una bbarrozza (barroccio, carro dell’acquedotto Claudio in una rurale leggero a due ruote) / cor cartolina dei primi del Novecento. barrozzaro ggiú morto ammazzato» In basso: il giornalista Antonio (da Er deserto di Giuseppe GioacCederna (1921-1996). chino Belli). Oggi quel tragico paesaggio non esiste piú. La bonifica degli anni Trenta del Novecento ha trasformato gli stagni infestati dalla malaria in una fertile campagna, mentre il tratto iniziale della strada, da Porta S. Sebastiano al Raccordo Anulare, è un meraviglioso susseguirsi di parchi e ville protetti da alte recinzioni. Meraviglioso soprattutto per i pochi che ci abitano. Nel secondo dopoguerra si scatenò la privatizzazione di una delle aree paesistiche e archeologiche piú straordinarie del (segue a p. 34) a r c h e o 31


parchi archeologici • appia antica

Un parco ricco di storia 1. Porta S. Sebastiano; 2. Sepolcro di Priscilla; 3. Tomba di Geta; 4. Chiesa del Domine Quo Vadis?; 5. Edicola del cardinal Reginald Pole; 6. Vigna Rondanini; 7. Tempio del dio Redicolo; 8. Casale della Vaccareccia; 9. Tombe della via Latina; 10. Ninfeo di Egeria; 11. Catacombe di S. Callisto; 12. Chiesa di S. Urbano; 13. Circo di Massenzio; 14. Basilica e catacombe di S. Sebastiano; 15. Mausoleo di Cecilia Metella, castello Caetani, chiesa di S. Nicola; 16. Area degli Acquedotti; 17. Tumuli degli Orazi e dei Curiazi; 18. Villa dei Quintili; 19. Quinta scenografica del Canina; 20. Casal Rotondo; 21. Torre Selce; 22. Berretta del Prete.

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mondo. E a lottare strenuamente contro la speculazione selvaggia e le complicità della politica fu soprattutto un uomo, un archeologo che si votò al giornalismo in nome della difesa dei valori storici e ambientali dell’Italia: Antonio Cederna. Prima sul Mondo di Pannunzio, poi sul Corriere della Sera, su Repubblica e sull’Espresso, sono 140 gli articoli che Cederna dedicò all’Appia Antica e alla campagna romana.

la denuncia degli scempi «Quello che l’anno scorso era ancora un pezzo di campagna romana, un dolce irregolare avvallamento a prati, alberi, orti, con qualche vecchio casale, è oggi un deserto d’inferno ad altipiani e abissi, sconvolto dalle macchine scavatrici, che hanno distrutto alberi, prati e orti, che mangiano la terra intorno ai vecchi casali, lasciandoli sospesi in cima ad assurdi pinnacoli» («I gangsters dell’Appia», Il Mondo, 8 settembre 1953). Le mura di cinta degli edifici in costruzione lungo l’Appia «sono fatti con pietre antiche rubate alla via Appia e ai suoi monumenti (…) iscrizioni, frammenti di sarcofagi, di ornati architettonici, di colonne, basi e capitelli, frantumi di selce dell’antico pavimento». Fiorisce un mercato selvaggio che non esita a smurare i frammenti antichi che Luigi Canina, alla metà dell’Ottocento aveva inserito nelle pareti di mattoni erette lungo la via. Pezzi d’epoca romana sono impiegati come materiale da costruzione. Al numero civico 223 Cederna trova «un frammento di sarcofago con rappresentazione di Medea sul cocchio tirato dai draghi, forse della fine del II secolo d.C., un frammento di architrave, di età imperiale, un frammento angolare decorativo di ara con un festone di frutta sorretto da un candelabro e da un amorino». 29 reperti sono incorporati in pochi metri di recinzione muraria. Compiacenti urbanisti, politici, archeologi, architetti fiancheggiano i predatori dell’Appia. In «Esperanto 34 a r c h e o


urbanistico» (Il Mondo, 25 gennaio 1955), Cederna passa in rassegna quelle opinioni: c’è chi propugna l’invasione edilizia in nome delle eterne leggi della vita; chi illustra l’idea di una nuova coesistenza di antico e moderno; chi auspica un sempre piú intimo inserimento della via nella città; chi giura che se gli antichi non avessero continuamente distrutto e ricostruito non ci sarebbe Roma, non ci sarebbe l’Appia Antica; chi avanza preoccupazioni di ordine etico: se l’Appia rimanesse campagna si creerebbe un problema quanto mai grave e delicato di polizia e di morale alle porte di Roma. Si sostiene che le leggi del progresso sono imprescindibili, incontrastabili, fatali. Un’ineluttabile legge di vita impone un continuo divenire agli uomini, alle cose e alla via Appia.

le prime vittorie Cederna non ferma il fronte della speculazione, ma ottiene successi importanti. Nel 1952 impedisce alla Società Generale Immobiliare la lottizzazione, per edificarvi un quartiere di alta classe, della villa dei Quintili. Nel 1955 scongiura la costruzione perfino di uno stadio sopra le catacombe di S. Callisto. L’avevano progettato, in vista delle (segue a p. 39) In alto: resti del calidarium facente parte dell’impianto termale della villa dei Quintili. A sinistra: Valle della Caffarella. Il casale della Vaccareccia, probabilmente edificato dalla famiglia dei duchi Caffarelli nel 1500. A destra: Valle della Caffarella, Torre Valca. XII-XIII sec.

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controllo, tutela, ma anche accoglienza Incontro con Rita Paris Rita Paris, direttore archeologo della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, è responsabile dell’area archeologica dell’Appia Antica. Un compito per il quale, sul campo, è affiancata dagli archeologi Livia Giammichele, Bartolomeo Mazzotta e Antonella Rotondi. A lei abbiamo chiesto un bilancio delle ultime iniziative attuate e di quelle in programma nei prossimi mesi

◆ Capo di Bove fu acquisita nel

2002 con una prelazione. Dopo di allora ci sono state altre acquisizioni da parte della Soprintendenza? Contestualmente, all’incirca nello stesso periodo, si era presentata l’occasione di una proprietà nella tenuta della Farnesiana. Un’area, tra l’Appia Antica e l’Ardeatina, in posizione elevata, ricca di tracciati stradali e resti archeologici a vista. E il prezzo mi sembrava conveniente. La vicenda non si è

ancora conclusa e i soldi per l’acquisto giacciono nella Cassa Depositi e Prestiti. Quando ci si affaccia da Capo di Bove si vedono l’Ardeatina, le tenute e i campi, la Farnesiana, la cupola di S. Pietro e il Gazometro. Sarebbe bello dall’Appia antica arrivare sull’Ardeatina percorrendo la campagna. Creare questo collegamento. Per dilatare lo spazio, allargare la vista dell’Appia incassata tra proprietà private, cancelli, recinzioni e siepi, per ricreare le visuali che erano proprie

In alto: Rita Paris, responsabile dell’area archeologica del Parco dell’Appia Antica. Qui sotto: uno degli animali della tenuta di Muracci dell’Ospedaletto, nella Valle della Caffarella. A sinistra: Valle della Caffarella. Il Colombario Costantiniano, cosí chiamato per via di un’errata attribuzione: la struttura risale infatti alla seconda metà del II sec. d.C.

della strada, dove non c’erano recinzioni.

◆ Sull’Appia in antico non c’erano

muri o recinzioni? No. Di là dai monumenti, a destra e a sinistra, della strada lo sguardo poteva spaziare sul paesaggio. Nelle mostre fotografiche organizzate a Capo di Bove abbiamo cercato di raccontare le cose già fatte, le occasioni mancate, e quello che ancora si può recuperare. Dopo il vincolo paesaggistico del 1953, il decreto specifico per l’Appia nel piano regolatore del 1965 ha vincolato a parco pubblico 2500

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ettari. L’area che oggi chiamiamo Parco dell’Appia Antica è vincolata, ma di pubblico non c’è quasi nulla. Come ha scritto Antonio Cederna, l’Appia si poteva salvare soltanto dandole una dimensione urbanistica. Ma, rispetto alle previsioni del piano regolatore del 1965 di un parco che poteva essere una risorsa straordinaria per i cittadini e per gli stranieri, solo una parte della Caffarella è stata espropriata dal Comune ed è diventata parco pubblico. Poi la Soprintendenza ha portato avanti altre operazioni, a cominciare dalla villa dei Quintili, 24 ettari, acquistata nel 1985 coinvolgendo anche il Comune, la Regione e l’Ente Parco.

◆ E S. Maria Nova? L’operazione S. Maria Nova è andata a buon fine. Sono tre ettari e mezzo confinanti con la villa dei Quintili,

grazie ai quali, nel prossimo autunno, finalmente potremo aprire la villa dei Quintili sul lato dell’Appia Antica (ora l’accesso è dall’Appia Nuova). In questo caso non c’è stata una prelazione, ma una trattativa diretta: il privato ha offerto in vendita alla Soprintendenza – parliamo di una situazione che prevede vincoli specifici – questo bene che seguivamo da anni, e nel 2003 si è completata l’acquisizione. Apriremo il complesso in gran parte restaurato: siamo intervenuti nell’area degli scavi, sul casalino, su parte della torre con il corpo basso.

◆ Che cosa farete in questi spazi?

Apriremo tutto, collegheremo S. Maria Nova con la villa dei Quintili: saranno ventotto ettari di bellezza. Uno spazio che sarà il museo di se stesso, perché questo complesso ha tante storie da raccontare, che sono

un po’ la sintesi della storia dell’Appia: la fase archeologica, con il bellissimo impianto termale e i mosaici dei gladiatori; la fase medievale con la torre, che si relaziona con la torre del Ninfeo della villa dei Quintili; la fase del Patrimonium Appiae, cioè di horti conclusi coltivati dai monaci Olivetani; la fase rinascimentale; la fase moderna, quando il casale viene trasformato nella lussuosa residenza di un produttore cinematografico, dove, tra l’altro, sono stati girati alcuni film.

◆ Potrete proiettarli? Sicuramente. C’è anche un film con Totò (vedi box alle pp. 40-41). ◆ In teoria, dopo il 1965,

sull’Appia nulla avrebbe piú dovuto essere costruito. Però non è andata cosí e, a chi abbia

Valle della Caffarella. Il ninfeo detto «di Egeria» perché erroneamente associato al bosco sacro delle Camene, ninfe delle sorgenti di cui Egeria era la piú importante. La struttura, in realtà, fa parte del Pago Triopio di Erode Attico.

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commesso un abuso, basta aver fatto una domanda di sanatoria, la cui stessa giacenza negli uffici del Comune prolunga la sussistenza dell’abuso... La situazione degli abusi e dei condoni per un aspetto è peggiorata poiché si è aggiunta un’altra legge. Cosí abbiamo tre condoni: quello del 1985, quello del 1994, quello del 2003. Ora però sembra che l’Ufficio Condoni stia rigettando tutte le richieste di condono all’interno del Parco dell’Appia presentate in base al condono del 2003. Però, intanto, l’abuso c’è e rimane, i manufatti restano lí. I volumi, le piscine...

◆ Alla fine questi manufatti

andranno demoliti? Una volta respinte le domande di condono, i manufatti dovranno essere demoliti. Negli ultimi mesi si è stabilito un rapporto di stretta collaborazione tra la Soprintendenza e l’Ufficio Condoni del Comune. In passato ci furono tempi difficili, in cui i condoni sono stati concessi senza che noi ne fossimo neppure informati. Qui come in altre zone di Roma. Adesso abbiamo finalmente avuto vari incontri, anche con l’altro ufficio titolare del vincolo paesaggistico, la Soprintendenza per i Beni architettonici e per il Paesaggio del Comune di Roma, retta da Costanza Pierdominici. Cerchiamo di lavorare insieme, e mi pare che vi siano tutte le buone intenzioni da parte dell’Ufficio per i Condoni Edilizi di non rilasciare piú condoni senza il parere delle due Soprintendenze, e anche di rivedere i casi in cui non è stato seguito un iter appropriato. La possibilità di individuare gli abusi è limitata, perché sono nascosti dal verde. Tuttavia ci sono sistemi satellitari che offrono nuove opportunità.

◆ Avete appena tenuto un festival.

Com’è andato? Molto bene. Abbiamo potuto

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realizzarlo con una spesa irrisoria, grazie ai sacrifici di artisti e organizzatori. Abbiamo scelto il tratto tra Cecilia Metella e Capo di Bove, dove c’è una concentrazione di monumenti, il basolato è integro ed è possibile allestire i servizi. Questa, che è la seconda edizione, è stata dedicata a Renato Nicolini. Abbiamo proposto concerti, mostre, visite guidate, spettacoli, letture di Antonio Cederna e rievocazioni dell’Estate Romana di Nicolini. Abbiamo creato punti di ristoro, con degustazioni, aperti fino a tarda sera. Abbiamo assicurato la mobilità, portando i mezzi pubblici sull’Appia fino alle 24. Chi è arrivato in automobile ha potuto parcheggiare in aree limitrofe. Oltre a ciò abbiamo avuto potuto disporre delle auto elettriche «Tuc Tuc» di Roma Gas & Power, della innovativa motocicletta di Fabio Vita per il trasporto in autonomia di persone con disabilità motoria e di biciclette elettriche. Naturalmente tutto gratuito.

◆ Fate attività con le scuole? Non quanto sarebbe auspicabile, perché è difficile individuare aree in cui poter portare i ragazzi: A parte la valle della Caffarella, il territorio è quasi tutto di proprietà privata, e non è servito dai mezzi pubblici. Al momento stiamo lavorando al progetto di un servizio di navette, magari con veicoli elettrici. Chi oggi arrivi al mausoleo di Cecilia Metella, per raggiungere la villa dei Quintili, deve fare a piedi tre chilometri e mezzo (piú altrettanti per tornare indietro). È importante che chi viene a trovarci capisca che, per difendere l’Appia, si deve difendere il territorio che la circonda, difendere la campagna. Stiamo raccogliendo tanta documentazione, su Capo di Bove, per esempio. Se Capo di Bove fosse rimasta una villa privata, non solo non avremmo scavato e non avremmo portato alla luce le terme, ma non avremmo avuto occasione di studiare, e di offrire importanti contributi alla topografia antica.

◆ Restano quindi problemi di

accessibilità? Ci sono sull’Appia alcune zone demaniali, come per esempio quella del Forte Appio. Fra queste un’area di un ettaro, vincolata, vicina all’aeroporto di Ciampino, di proprietà dell’Aeronautica Militare, dove le macchine parcheggiavano abusivamente. Grazie anche alla tempestività della collega Antonella Rotondi siamo intervenuti e ce la siamo fatta consegnare. Stava andando all’asta, ma sono stati obbligati ad assegnarcela, gratuitamente. Ed è per noi in una posizione strategica. È uno spazio nel quale si trovano ruderi moderni, consistenti volumi di impianti elettrici. Appena avremo i fondi, potremo restaurarlo e recuperarlo. È un avamposto importante, perché l’Appia qui è bellissima, c’è la tenuta di Fioranello, ci sono monumenti importanti. Vi creeremo un’area di servizi – parcheggio, affitto biciclette, punto di ristoro. Ciò significa poter entrare da qui, e percorrere l’Appia nel senso dei pellegrinaggi, verso le chiese, verso le memorie degli apostoli. Sarà una risorsa turistica fondamentale. Il nostro ruolo è di presidiare, proteggere, ma anche di dare accoglienza.

◆ Quindi un ingresso all’altezza di

Ciampino con il parcheggio per i visitatori dell’Appia antica, non piú per quelli diretti all’aeroporto. Gli ospiti troveranno un punto di


ristoro, un punto informativo, e potranno proseguire a piedi, in bicicletta oppure su una navetta magari elettrica. Per arrivare fin dove? Idealmente fino al Colosseo ma, almeno per adesso, piú realisticamente, fino a Cecilia Metella e al circo di Massenzio.

◆ Quali sono stati gli ultimi

In alto: particolare della muratura della villa moderna costruita a ridosso dell’impianto termale di Capo di Bove: appare evidente l’impiego di elementi recuperati da monumenti romani. In basso: villa dei Quintili. Le strutture del Ninfeo, che si affaccia sull’Appia Antica.

restauri che avete realizzato e cosa ancora manca? Oltre a S. Maria Nova, abbiamo compiuto interventi molto significativi nella villa dei Quintili. A sud del frigidarium abbiamo portato alla luce un quartiere residenziale con una sala rotonda, forse per banchetti. E un ambiente a pianta curvilinea, una grande esedra porticata di dubbia interpretazione: per un certo periodo potrebbe avere svolto la funzione di teatro. D’altra parte nella villa dei Quintili non c’era un luogo per lo spettacolo. In questa zona della villa si trovano le sale piú lussuose. Adesso da restaurare manca l’ultimo tratto di Appia perché tutto il resto lo abbiamo fatto, compresa la ricucitura della strada che era stata interrotta dal Grande Raccordo Anulare.

Olimpiadi del 1960, l’Azione Cattolica e il CONI, per intitolarlo a Pio XII, per le benemerenze sportive del pontefice. «Dunque avremo sulla via Appia Antica – commenta Cederna – uno stadio incastrato fra i ruderi romani, incassato tra le gallerie e le cripte delle catacombe di San Callisto, incombente sul Domine quo vadis?, dove Cristo fermò la fuga di Pietro che tornò a Roma a subire il martirio. Uno stadio che andrà a coprire un terreno impastato di ossa di santi e di martiri, dove vennero sepolti sedici papi» (Il Mondo, 18 ottobre 1955). Fu lo stesso Pio XII a dissociarsi.

il parco, finalmente Il 16 dicembre 1965 viene pubblicato il piano regolatore, che vincola un’area di 2500 ettari destinando a parco pubblico l’Appia Antica e la campagna che la circonda. È una vittoria, che trova subito chi la vuole intralciare: il Consiglio di Stato definisce illegittima la destinazione a parco pubblico dell’Appia Antica. Nel 1972 il Comune delibera l’esproprio di 76 ettari nella valle della Caffarella, e di altri 110 nel 1977. Nel 1980 il Consiglio di Stato annulla gli atti di esproprio della Caffarella. Nel 1984 nasce il Comitato per il Parco della Caffarella. Nel 1985 la Soprintendenza Archeologica riesce ad acquisire 22 ettari intorno alla villa dei Quintili. Nel 1988 la Regione Lazio istituisce il Parco Regionale dell’Appia

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Antica, del quale Cederna divenne presidente nel 1993. Oggi nei confini del Parco sono compresi i primi 16 km dell’Appia Antica – fiancheggiata da monumenti come il circo di Massenzio, la tomba di Romolo, la villa dei Quintili, il sepolcro di Cecilia Metella, l’impianto termale di Capo di Bove – la valle della Caffarella, le aree archeologiche delle tombe della via Latina e degli acquedotti, la tenuta di Tormarancia, la tenuta della Farnesiana. L’ambiente naturale è quello tipico dell’agro romano, mosso da ampi rilievi collinari. Lo attraversa una colata lavica, prodotta 260 000 anni fa dal vulcano Laziale. La lingua di lava raggiunge il mausoleo di Cecilia Metella, dove la sua estrema propaggine può essere ammirata in un ambiente nel sottosuolo. La colata lavica di Capo di Bove è l’inizio della storia dell’Appia (ve(segue a p. 44) 40 a r c h e o

In alto: tenuta di S. Maria Nova. Il casale costruito nel XIII sec. riadattando un edificio romano del II sec. d.C. e sopraelevando la torre, anch’essa romana. Nella pagina accanto, in alto: tenuta di S. Maria Nova. Rilievo dei pavimenti a mosaico con scene di gladiatori, di giochi circensi e di spettacolo (Studio MCM di Monica Cola).

tra gladiatori e fantasmi Al V miglio dell’Appia antica si lavora in vista dell’apertura in autunno della tenuta di S. Maria Nova, un complesso archeologico di circa 4 ettari, acquisito nel 2006 dalla Soprintendenza Archeologica di Roma e confinante con la villa dei Quintili, a cui apparteneva in origine. Quando l’imperatore Commodo, dopo aver fatto uccidere i fratelli Sesto Quintilio Condiano Massimo e Sesto Quintilio Valeriano Massimo si appropriò dei loro beni, vi insediò un presidio militare. Ci accompagna nella visita Riccardo Frontoni, l’archeologo che, dal 1998, con la collega Giuliana Galli, scava nella villa dei Quintili: «Abbiamo portato alla luce una struttura residenziale del II secolo d.C., con due ambienti termali rivestiti di marmi e decorati con pavimenti musivi in tessere bianche di calcare e nere di basalto. Uno dei mosaici rappresenta una scena gladiatoria, in cui si vede un retiarius, il gladiatore che combatteva con rete e tridente – chiamato Montanus o Monianus – e un arbitro, Antonius, che brandisce una bacchetta, mentre di una terza figura, il contraretiarius caduto, restano pochi frammenti. L’altro mosaico mostra una scena circense, animata da quattro cavalli, due dei quali appaiono discretamente conservati, disposti intorno a un albero, forse una palma. I mosaici sono ora in restauro in un laboratorio specializzato».


Il retiarius...

...e il cavallo

Particolare del mosaico con l’immagine di un retiarius, del quale si legge, con qualche incertezza, il nome: Montanus o Monianus o Monimius.

Un altro particolare del pavimento a mosaico, che in uno dei settori raffigurava quattro cavalli, accoppiati sui lati lunghi. Di uno si ricostruisce il nome: Invictus.

Lo scavo ha anche portato all’individuazione del sistema di riscaldamento degli ambienti, realizzato sotto il pavimento e lungo le pareti. Al centro della tenuta si trova un casale costruito nel Duecento, riadattando un edificio romano del II secolo d.C. Dalla fine del Trecento appartenne, con la tenuta agricola, ai monaci olivetani del monastero romano di S. Maria Nova (oggi S. Francesca Romana) ai piedi del Palatino. Le opere in corso permetteranno di ripristinare il collegamento con la villa dei Quintili e quindi di aprire l’area archeologica – fino a oggi accessibile ai visitatori soltanto dall’Appia Nuova – anche sull’Appia Antica. Prima dell’acquisizione da parte della Soprintendenza, il casale fungeva da residenza privata. Gli ultimi proprietari, con i quali è intercorsa la trattativa diretta per l’acquisto, erano il produttore cinematografico americano Evan Ewan Kimble e sua moglie Elena Garcia Quesada. Quest’ultima raccontava del fantasma di una

giovinetta aggirantesi nel casale, forse Tulliola, figlia di Marco Tullio Cicerone, che qui aveva dei possedimenti. Nella zona fu effettivamente rinvenuto nel 1490 un sarcofago contenente il corpo miracolosamente conservato di una ragazza, che venne identificata con la figlia del famoso oratore. Fu portata in Campidoglio per essere esposta ai Romani, ma in breve tempo si polverizzò. A S. Maria Nova sono stati anche girati alcuni film, fra i quali, nel 1964, Che fine ha fatto Totò Baby? diretto da Ottavio Alessi. Si tratta di una parodia del piú noto Che fine ha fatto Baby Jane?, diretto nel 1962 da Robert Aldrich, con Bette Davis e Joan Crawford. Totò trova alcune piante di marijuana nell’orticello della villa. Credendole commestibili, si prepara un’abbondante insalata. Le qualità allucinogene del presunto ortaggio conducono il principe di Bisanzio alla pazzia omicida: diventa un serial killer e seppellisce le sue vittime nel giardino della villa. a r c h e o 41


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tutto cominciò con un’eruzione... L’Ente Regionale Parco dell’Appia Antica è un’area protetta di 3500 ettari istituita all’interno dei territori comunali di Roma, Ciampino e Marino. Un parco archeologico, naturalistico e agricolo, nel quale convivono vegetazione, fauna ed emergenze archeologiche. È un cuneo verde che punta dentro la città (e basta cliccare su Google Maps per verificare), con specie arboree non rare in assoluto, ma inconsuete in ambito urbano. Cosí anche la volpe – scelta per il logo del parco – è specie abbastanza comune, ma rara alle porte di Roma. L’Appia Antica e il suo territorio sono un corridoio biologico in cui, oltre alla volpe, s’incontrano l’istrice, il tasso, la donnola e la faina. Volatili notturni come barbagianni e civette sembrano instaurare con i ruderi un rapporto di simbiosi. Diurni sono il gheppio e la poiana. Nelle aree umide vivono la rana, il rospo comune, il rospo smeraldino, il tritone crestato, il tritone punteggiato. Cresce nel parco un tipo di vegetazione che s’incontra solo sui monumenti archeologici, come orchidee rare che si conservano soltanto in questi siti dove sono meno disturbate, anche dall’uomo. Il territorio del Parco è per il 95% di proprietà privata: aristocrazia romana, società, piccoli proprietari, enti religiosi. Confina a nord con le Mura Aureliane, a ovest con la via Ardeatina e la ferrovia Roma-Cassino-Napoli, a est con la via Tuscolana e l’Appia Nuova, a sud con Santa Maria delle Mole (una frazione di Marino). Il suo assetto proprietario rispecchia ancora in parte quello

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antico, con grandi tenute di famiglie nobiliari o enti religiosi, che avevano la loro sede nel centro storico. «È un autentico pezzo di agro romano – afferma Andrea Buzi, agronomo, responsabile del Servizio agricolo e naturalistico del Parco – che, dalle pendici dei Castelli, arriva fino alle mura di Roma. In realtà, dalle mura fino ai Fori Imperiali, ci sarebbe un altro pezzo di parco, con caratteristiche analoghe. La parte che si trova all’interno delle mura non è inserita formalmente nel Parco dell’Appia Antica, ma ne condivide le caratteristiche: porzioni di grandi tenute storiche che si sono conservate intatte e si prolungano fino al centro della città. Se prescindiamo dai confini amministrativi, il Parco dell’Appia parte dai Castelli e penetra fino al Colosseo, al Celio, al Palatino, all’Aventino». È una campagna, tenuta ad agricoltura estensiva o a pascolo, dall’andamento ondulato, collinare. Fabrizio Piccari, biologo, naturalista del Parco, spiega come un antico vulcano abbia dato forma al terreno: «Lievi pendenze di tufi e di pozzolane sono separate da valli alluvionali poco profonde, il tutto modificato dall’attività umana poiché questi prodotti vulcanici sono stati utilizzati da secoli come materiali da costruzione. I tufi e le pozzolane hanno origine piroclastica, cioè derivano da fenomeni esplosivi e dalla caduta delle ceneri. Ad avere plasmato il paesaggio, contribuiscono anche le colate laviche come quella di Capo di Bove, che arriva fino a Cecilia Metella. E la lava è basalto, la


Il complesso della villa dei Quintili visto dall’Appia Nuova. Grazie all’acquisizione della tenuta di S. Maria Nova, l’area archeologica sarà presto accessibile anche dall’Appia Antica. In basso: ricostruzione grafica della colata lavica detta di Capo di Bove, su cui sono stati costruiti il tracciato della via Appia e le terme di Capo di Bove (ideazione B. Mazzotta, disegno J. Manning-Press).

O

terme Fosso di Tor Carbone

villino SSBAR

Fase delle Faete o dei Campi di Annibale 320 000-200 000 anni fa

materia indistruttibile dei basoli dell’Appia». L’Appia segue il tracciato della lingua di lava sulla quale, in effetti, si appoggia, e ne trae la selce per la pavimentazione. Molte sono le cave di selce lungo la strada: una si trova nei pressi del casale di S. Maria Nova, un’altra nella tenuta dell’Olivetaccio. Sono private, non piú in funzione, ma l’aspetto di cava è evidenziato dal taglio nella roccia. A Tormarancia vi sono invece cave di tufo e di pozzolana. All’interno del parco non ci sono soltanto ville private ma anche aziende agricole in attività. «La legge permette alla pubblica amministrazione di interloquire con queste aziende al fine di tutelare il territorio», rileva Buzi. «Quando abbiamo bisogno di intervenire per

Appia Antica

Fosso dello Statuario

E

Fase del Tuscolano-Artemisio 600 000-300 000 anni fa

miglioramenti o manutenzione la legge ci dà la possibilità, che ci favorisce, di rivolgerci a loro. Sono soprattutto aziende di orticultura, di allevamento o di tipo vitivinicolo, anche di pregio. Alcune stanno sfruttando l’opportunità di conversione ai fini agrituristici, soprattutto come ristorazione e attività equestri. Sotto questo aspetto il Parco stesso si è fatto promotore di un’iniziativa pilota, con l’acquisto della tenuta dei Muracci dell’Ospedaletto, tra l’Appia e l’Ardeatina, e il restauro del paesaggio di questa tenuta e del casale settecentesco, impostato sopra una cisterna romana. Attraverso un bando pubblico si provvederà all’affidamento di questa struttura allo scopo di riportare nel parco l’agricoltura e di incoraggiare la ricettività».

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di box alle pp. 42-43). È la cava dei stre personaggio che fu precettore di Marco Aurelio e di Lucio Vero. basoli per la pavimentazione. La prima fase costruttiva del complesso termale risale alla metà del II capo di bove L’ultima, in ordine di tempo, delle secolo d.C. Si trattava probabilmenaree del Parco aperte al pubblico è te di una proprietà privata a uso di quella di Capo di Bove. La proprie- una corporazione che frequentava la tà, il cui nome deriva dai bucrani zona. Lo smaltimento delle acque (decorazioni che riproducono crani avveniva grazie a un impianto fodi bue, n.d.r.) che ornano il fregio gnario del quale lo scavo ha rivelato del mausoleo di Cecilia Metella, alcuni tratti in ottime condizioni. distante qualche centinaio di metri, Dagli spogliatoi, con mosaici geofu acquisita con prelazione per 3 metrici bianchi e neri, si accedeva ai miliardi di lire dal Ministero per i vari ambienti, tra cui quelli per i Beni e le Attività Culturali nel gen- bagni d’acqua fredda (frigidarium), naio 2002. Fu cosí sottratta ai priva- tiepida (tepidaria), calda (calidarium). ti un’area di 8500 mq di ecceziona- Il complesso fu utilizzato fino al IV le importanza archeologica che ap- secolo, come attestano la tipologia parteneva alla tenuta di Erode Atti- delle murature e i materiali recupeco, il Pago Triopio, come si deduce rati. L’eleganza e la raffinatezza degli da un’iscrizione greca che menzio- ambienti sono testimoniate dai nuna Annia Regilla, la moglie dell’illu- merosi frammenti di marmi poli-

La vita del complesso Pianta di fase dell’impianto termale di Capo di Bove, con le indicazioni dei diversi momenti edilizi del complesso (realizzazione B. Mazzotta, rilievo Studio MCM).

N

I fase metà II sec. d.C. II fase 1a metà III sec. d.C. III fase IV sec. d.C. IV fase età post-classica

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cromi, alcuni ancora in situ, e da porzioni d’intonaco affrescato. Nel Medioevo l’area fu inclusa nelle proprietà ecclesiastiche del Patrimonium Appiae e coltivata a vigneto. L’impianto termale è circondato da un vasto giardino – a cui si accede dall’Appia, al numero civico 222 – dove sorge anche una villa, costruita negli anni Cinquanta del Novecento, che ostenta, incastrati nei muri esterni, molti materiali archeologici di pregio sottratti agli stessi monumenti dell’Appia. La pianta oblunga dell’edificio ricalca quella di una cisterna romana che alimentava le terme. Qui ha trovato sede il Centro di Documentazione dell’Appia in collaborazione con la Sovraintendenza del Comune di Roma, con Italia Nostra e con l’archivio di Antonio Cederna, che


raccoglie i materiali di quarant’anni di battaglie, donato dalla famiglia allo Stato. Se ne prendono cura, con il direttore Rita Paris, Bartolomeo Mazzotta e Maria Naccarato. La documentazione copre un arco cronologico compreso tra gli anni Quaranta e gli anni Novanta del XX secolo, con alcuni documenti personali precedenti, come un quaderno delle vacanze della II elementare. Lettere, appunti – Cederna si documentava scrupolosamente – libri, fotografie, documenti. In una dependance sono ospitati i servizi di accoglienza per il pubblico che si reca in visita all’Appia. L’ingresso è gratuito.

Le storie di una lunga battaglia Capo di Bove. La villa costruita a ridosso dell’impianto termale, oggi sede del Centro di Documentazione dell’Appia, dedicato ad Antonio Cederna.

In basso: i resti dell’impianto termale di Capo di Bove (metà del II sec. d.C.) e, nel riquadro, un particolare della pavimentazione a mosaico di uno degli ambienti.

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civiltà cinese • le origini/7

una via e le sue di Marco Meccarelli

attraverso l’Asia, fino al Mediterraneo, il cammino di cui ci narra Marco Polo nel Milione ha unito per secoli popoli lontani e culture diverse. Grazie al commercio di un tessuto sottile come la tela di ragno e brillante come i raggi del sole... 46 a r c h e o


Sulle due pagine: una carovana di cammelli in una delle zone desertiche attraversate dalla via della seta. L’immagine, seppur moderna, evoca la lunga storia del percorso, poiché i grandi quadrupedi gibbosi sono stati da sempre il mezzo di trasporto piú usato.

leggende È

una storia che unisce Cinesi, Persiani, Indiani, Tibetani, Turchi, Greci, Romani e popolazioni nomadi, assieme a oro, pietre preziose, spezie, deserti e mare; è una storia che racconta di esploratori e carovanieri, di artisti e religiosi, di buddhismo, ma anche di zoroastrismo, nestorianesimo, manicheismo, induismo e islamismo (vedi box alle pp. 58-59); in questa storia si intersecano vivaci contaminazioni artistiche, che danno luogo a una mescolanza di elementi ellenistici, iraniani, indiani e cinesi. Le sue origini si confondono nella notte dei tempi, non si sa bene dove cominci e, in fin dei conti, non sappiamo nemmeno dove finisca; la sola certezza è che questa storia si dipana lungo quella che noi chiamiamo «via della seta». Una denominazione, Seidenstraße («via della seta», appunto), che apparve per la prima volta nel 1877, nell’opera Tagebücher aus China del geografo tedesco Ferdinand von Richthofen (1833-1905). Se alla civiltà cinese viene tradizionalmente conferito il primato delle invenzioni della carta, della stampa, della polvere da sparo e della bussola, quella della seta, pur non essendo il maggior contributo dato all’umanità, è sicuramente la piú antica tra tante mirabili scoperte, cosí come

riportano le iscrizioni sulle ossa oracolari del XII-XI secolo a.C. e poi sul bronzo, nei secoli X-VIII a.C. Le attestazioni della sericoltura vanno fatte risalire, infatti, a ben oltre il I millennio a.C., se non addirittura alla cultura tardo-neolitica di Liangzhu (3200-2200 a.C.; vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013), e non stupisce che le sue origini siano avvolte nella leggenda.

il segreto di lie zu Secondo la tradizione, Lie Zu, la consorte del mitico Imperatore Giallo (Huangdi), insegnò nel III millennio a.C. al popolo cinese l’allevamento del baco e il metodo per ottenerne il prezioso filamento. E non è un caso che proprio a una figura femminile sia stata conferita l’invenzione della sericoltura, un’arte che è da sempre sublime espressione della creatività muliebre, perché erano le donne, appartenenti anche ai ceti elevati, che sin dall’antichità si dedicavano alla filatura, alla tessitura e al ricamo. Fino al 1908, piccoli altari di devozione popolare, anche all’interno di umili abitazioni di contadini – perlomeno in zone in cui la sericoltura era parte integrante dell’economia agricola –, vennero dedicati al culto di Lie Zu, celebrato assieme al rito solenne, compiuto ufficialmente

Nella pagina accanto: le grotte di Mogao, presso l’oasi di Dunhuang (vedi box a p. 60).

ogni primavera dalle imperatrici e dalle dame di corte. L’arte della sericoltura non era facilmente comunicabile, figlia di leggi suntuarie tramandate perlopiú oralmente, essa esigeva competenze, esperienze e attitudini specifiche, tanto da far credere, per lungo tempo, che i Cinesi fossero particolarmente restii a divulgarne il segreto. La coltura partiva dalla scelta adeguata del luogo e includeva anche la raccolta delle foglie di gelso con cui nutrire i bachi, i lepidotteri bombyx mori, addomesticati, prestando particolare attenzione al loro processo di metamorfosi: era infatti indispensabile uccidere la crisalide, appena prima della sua trasformazione in farfalla, onde evitare che, uscendo dal bozzolo, si rompesse definitivamente il filamento continuo che lo componeva. E, a tale scopo, si adottò un espediente crudele ma necessario: i bozzoli venivano esposti al calore di un braciere o immersi nell’acqua bollente! Se le piú antiche attestazioni della sericoltura vanno fatte risalire probabilmente al neolitico, risulta piú problematico stabilire, secondo studi piuttosto recenti, quali siano i piú antichi esemplari di seta cinese trovati al di fuori della Cina: i reperti riferibili alla tarda civiltà di (segue a p. 51) a r c h e o 47


civiltà cinese • le origini/7

percorsi alternativi e varianti marittime Tentare di tracciare l’intricato percorso carovaniero risulta piuttosto arduo, perché costellato di numerose ramificazioni, utili a sviluppare un commercio, a livello capillare, dove è stata messa in relazione un’impressionante quantità di popolazioni e culture diverse. Partendo da Chang’an (Shaanxi), capitale dell’impero Han, le vie carovaniere attraversavano

l’Asia centrale, il Medio Oriente, l’Asia Minore, il Vicino Oriente, fino a raggiungere il Mediterraneo. Le diramazioni si estendevano persino a oriente, raggiungendo la Corea e il Giappone e, a meridione, l’India. Della via della seta che congiungeva l’Estremo Oriente con il Mediterraneo, è possibile suddividere i numerosi tragitti in tre macro-percorsi: quello settentrionale, quello meridionale, e poi quello marittimo. Il percorso settentrionale, partendo dalla capitale, saliva a nord-ovest, attraversando il Gansu (in parte anche navigando sul Fiume Giallo) fino a Dunhuang, fondamentale centro buddhista, presso il quale si trovano le grotte di Mogao. Qui il percorso si divideva in due rami principali che attraversavano l’attuale provincia del Xinjiang: uno,

a meridione, aggirava il deserto del Taklamakan (ai piedi del Tibet), uno, a settentrione, si diramava ai piedi dei monti Tianshan. I due rami si riunivano quindi a Kashgar. Un’altra ramificazione, puntava verso l’odierno Kazakistan. Questi percorsi si riunivano, di nuovo, a Samarcanda, grande centro mercantile e culturale dell’attuale Uzbekistan, per poi attraversare Tagikistan, Afghanistan, Turkmenistan e Iran, fino a Baghdad, capitale del mondo islamico e poi sede del califfato, giungendo infine (in buona parte sfruttando l’Eufrate) al Mediterraneo. Col tempo, un altro sotto-ramo, ancora piú settentrionale, seguiva un percorso fluviale, lungo l’Amu Darya, e passava tra il Mar Caspio e il lago d’Aral fino alla penisola di Crimea. Attraversando il Mar Nero e il Mar di

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Le «vie» della seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340) Percorsi alternativi

Statuetta in terracotta policroma raffigurante un carovaniere in sella al suo cammello. Epoca Tang, metà del VII sec. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

48 a r c h e o

Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368) Rotte marittime

Ma M ar Ro R o ss so

Bas asra ra


Marmara raggiungeva BisanzioCostantinopoli e, navigando nell’Egeo settentrionale, nello Ionio e nell’Adriatico arrivava a Venezia. Il percorso meridionale, detto anche via del Karakorum, comprendeva essenzialmente un grande tragitto che in Cina scendeva a meridione attraverso il Karakorum, per raggiungere il Sichuan, e poi il Pakistan fino all’Oceano Indiano. Da molti porti il percorso si diramava quindi verso Occidente (Mar Rosso attraverso Aden e Golfo Persico

attraverso lo Stretto di Hormuz). Le merci potevano infine attraversare la Persia su varie direttrici, raggiungendo comunque Baghdad e cosí via. La via della seta marittima partiva dalla Cina settentrionale per raggiungere quella meridionale, da dove proseguiva verso occidente, toccando i territori degli odierni Stati di Filippine, Brunei, Thailandia, Sri Lanka, India, Iran, Iraq, Egitto, Giordania, Siria, fino a raggiungere la penisola italica.

In alto: frammento di stoffa in seta a cinque colori, da una sepoltura di Turfan (Xinjiang). Età delle Dinastie del Nord, 551 d.C. In basso: cartina con l’itinerario della via della seta e delle sue varianti, terrestri e marittime. Snodo nevralgico del tracciato principale era l’oasi di Dunhuang, da cui si dipartivano le piú importanti direttrici secondarie, settentrionale e meridionale.

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a r c h e o 49


civiltà cinese • le origini/7

In alto: il complesso buddhista di Bezeklik, presso l’oasi di Turfan. A sinistra: particolare della decorazione di un vaso Ming (1368-1644) raffigurante la tessitura della seta. Teheran, Golestan Palace. In basso: lo stupa di Rawak, nella regione di Khotan. Il monumento fu individuato nel 1901 dall’archeologo e viaggiatore inglese (di origini ungheresi) Aurel Stein (1862-1943).

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Hallstatt (Europa centrale), del 500 a.C., sembrano smentire l’origine estremo orientale, mentre risultano piú attendibili, non senza contestazioni, i frammenti rivenuti nelle tombe a tumulo (kurgan) di Pazyryk (Altai) del 350-300 a.C. Si tratta, al di là di tutto, di casi isolati e precedenti alla fase in cui la seta comincia a uscire con regolarità dalla Cina, cioè alla fine del III secolo a.C., quando l’impero appena costituitosi, fu costretto a fronteggiare le incursioni dei Xiongnü, una popolazione nomade che imperversava in Asia Centrale. Avendo subíto la spinta d’urto per la costruzione di città e fortificazioni, lungo il percorso vittorioso, ai «confini del mondo», di Alessandro Magno (356-323 a.C.), i nomadi si mossero verso Oriente, invadendo, con incursioni periodiche, i territori cinesi settentrionali. In queste zone furono erette le prime mura difensive, poi unificate nella monumentale barriera della Grande Muraglia all’indomani della fondazione dell’impero nel III secolo a.C. (vedi «Archeo» n. 339, maggio 2013). Le continue irruzioni dei nomadi costrinsero Gaozu, imperatore della dinastia Han (206 a.C.-221 d.C., vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013), a scendere a compromessi. L’accordo prevedeva che una giovane donna della casa imperiale fosse data in moglie al sovrano dei nomadi, e ogni anno, come troviamo scritto nelle fonti storiche

(Shiji e Hanshu), «furono offerti ai Xiongnü filato di seta, tessuto di seta, bevande fermentate, granaglie e altri generi alimentari». La strategia era chiara: si voleva evitare che le popolazioni nomadi saccheggiassero periodicamente il territorio cinese offrendo loro, per accattivarseli, il bene considerato allora piú prezioso, la seta.

confronto paritario Come ha evidenziato l’antropologo Thomas Barfield, questo accordo è indice di quanto il confronto tra i due popoli fosse paritario: da un lato la civiltà cinese, sedentaria e organizzata socialmente con un impeccabile sistema burocratico e centralizzato, dall’altro il regno dei Xiongnü, nomade e guerriero, ma abile politicamente e astuto a livello diplomatico. D’altronde, le guerre contro i nomadi, sancirono per i Cinesi quel punto di svolta che rappresentarono per Roma, piú o meno contemporaneamente, le guerre puniche (III-II secolo a.C.): l’ultimo, insidioso atto di trasformazione in grande potenza imperiale e militare. Una popolazione come quella dei Xiongnü, abituata a muoversi tra le fredde terre della steppa, vestita di pelli e pellicce, doveva considerare la seta, giunta gratuitamente dall’impero cinese, soprattutto come una propizia merce di scambio con i popoli dell’Asia interna: fu cosí che quel filamento prezioso cominciò a

tutti gli effetti a diffondersi al di là della Grande Muraglia. La situazione prese una piega ben diversa quando l’imperatore Wudi (140-87 a.C.) degli Han Occidentali, anziché offrire seta, sfidò i Xiongnü con eserciti colossali, guidati da valenti generali. Ansioso di trovare alleati per battere gli acerrimi nemici, mediante la strategia politica del «serviti dei barbari per combattere i barbari», l’imperatore inviò a Occidente, nel II secolo a.C., Zhang Qian, un giovane funzionario che s’inoltrò dove nessun cinese era mai arrivato. Attraversò l’attuale Uzbekistan e il Tagikistan e poi si diresse verso sud, nell’antica Battriana (Afghanistan settentrionale), dove scoprí con stupore il commercio di sete cinesi, originarie delle lontane province dello Yunnan e del Sichuan. I mercanti del luogo lo informarono dell’esistenza di un’altra via che collegava la Cina sud-occidentale, attraverso i monti della Birmania, fino all’India. Era un commercio spontaneo, cominciato chissà quando, tanto che gli stessi mercanti ignoravano la provenienza di tale merce e, probabilmente, anche la sua destinazione finale. Tornato in patria, Zhang Qian raccolse anche informazioni indirette su altri territori, come la Partia e la regione del Golfo Persico. Un dato era certo: il vasto territorio che partiva dalla valle del Ferghana (Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan) fino all’impero partico incluso (Iran, Iraq, Armenia e parte del Caucaso e dell’Asia Centrale), non disponeva di seta e di alberi della lacca e ciò costituiva per la Cina un’occasione da non perdere per l’apertura dei commerci con l’Occidente, questa volta regolati dall’impero. Fu cosí che tra il II e il I secolo a.C. s’intensificarono sempre piú i contatti commerciali lungo le direttrici centro-asiatiche, per effetto di guerre vittoriose e di conquiste territoriali. Sebbene i Xiongnü, spinti da Alessandro Magno, abbiano avviato, pur senza un intento preciso, il commercio serico, è pur vero che, sea r c h e o 51


civiltà cinese • le origini/7

condo le fonti letterarie occidentali, la prima seta di cui si abbia notizia è quella riferita ai vessilli sventolati dai Parti a Carre nel 53 a.C., descritti nell’Epitoma bellorum omnium di Lucio Anneo Floro (II secolo d.C.). La fonte testimonia che il commercio serico aveva raggiunto effettivamente livelli internazionali, superando quindi un’orbita geografica relativamente ristretta, solo quando l’impero cinese conseguí l’egemonia dell’Asia interna e delle vie carovaniere. Da questo momento la seta penetrò definitivamente le coste del Mediterraneo e, con sorprendente rapidità, diventò uno status symbol: secondo Lucano (39-65 a.C.), Cleopatra, già nel 48 a.C., indossava vesti di seta, appena due anni prima che Giulio Cesare facesse esporre sul circo, un velario di seta (parapetasmata serika), per proteggere gli spettatori dal sole. Nella Naturalis historia, Plinio il Vecchio (23-79 Donne che tessono la seta in un dipinto attribuito all’imperatore Hui Zong, della dinastia Song. XI-XII sec. Boston, Museum of Fine Arts.

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d.C.), pur ritenendo erroneamente che la seta cinese fosse una sorta di fibra vegetale filata, era comunque consapevole che la tessitura fosse espressione dell’arte muliebre e metteva in guardia l’impero romano dall’eccedere con le spese per profumi, spezie, pietre preziose e seta, provenienti dall’Arabia, dall’India e dalla Cina.

le merci e le idee Lungo il tracciato carovaniero merci e idee promossero floridi scambi commerciali e culturali tra l’Estremo Oriente e il Mediterraneo. «La seta e la sua Via», come le definí la storica dell’arte orientale Maria Teresa Lucidi, da un lato rappresentano la storia che si svolge lungo i tracciati della carovaniera intercontinentale (e marittima) di popoli diversi per usi, costumi, fedi e lingue; dall’altro lato compongono quella «via» che si propone come veicolo di idee, aspirazioni, intui-

zioni talora filtrate perché accolte nel repertorio iconografico di altri ambienti e aree. In questo senso, le raffigurazioni sulla seta, legate alla sacralità e alla regalità e nate in particolari contesti geografici, viaggiano da est a ovest e da ovest a est, e trasformano, alla fine, la via della seta ne «la via del dialogo», raggiungendo luoghi lontanissimi, anche attraverso conflitti e urti, talora persino violenti, tra popoli diversi. Cosí, per esempio, il grifone o il cavallo alato sono presenti sia nella cultura iranico-sassanide, sia in quella cinese, proprio mentre il senmurv (un uccello fantastico attestato nella letteratura iranica del I millennio a.C., n.d.r.) sassanide viene accolto nel contesto bizantino, medievale e islamico; cosí come il drago e, per diversi aspetti, la fenice conservano, nel divenire storico e in contesti geografici differenti, molteplici significati simbolici e risoluzioni figurative.


mondo celeste

E ancora, le carovane, che permettevano i collegamenti tra le varie oasi, fulcro di contatti tra le grandi civiltà euro-asiatiche, facevano uso di ogni mezzo di trasporto ma l’animale piú impiegato fu sicuramente il cammello, per la sua resistenza e affidabilità, tanto da ritrovarlo proposto in diverse statuine cinesi in ceramica di epoca Tang (618-907). Il caravanserraglio costituiva uno snodo centrale, un punto di stazione fondamentale, nel quale si potevano incontrare il mercante sogdiano, iranico o centro-asiatico, assieme al pellegrino cinese, al missionario o al diplomatico. In questi centri seta, gemme, pellicce, vetri, essenze aromatiche, spezie e altre merci diventavano veicoli di idee e conoscenze tecnologiche Ma qual era l’effettivo percorso delA destra: lo stendardo della marchesa di Dai. II sec. a.C. Chansgsha, Museo Provinciale dello Hunan.

mondo sotterraneo

La scoperta dello stendardo (lungh. 205 cm, largh. massima 92 cm, largh. minima 47,5), rinvenuto nella tomba n. 1 a Mawangdui (Changsha, Hunan), dove fu seppellita la marchesa di Dai, sbalordí gli studiosi di tutto il mondo, perché si trattava del piú antico esemplare in seta, intatto ed eccezionalmente conservatosi, risalente al II secolo a.C. (vedi anche «Archeo» n. 340, giugno 2013). Vari soggetti dipinti affollano i tre piani, che rappresentano il mondo sotterraneo nella parte inferiore dello stendardo, la terra nei due terzi superiori della banda verticale, e il mondo celeste in quella orizzontale. Ai lati della composizione, in un movimento perfettamente simmetrico, sono raffigurati due draghi che si incrociano al centro, passando attraverso un disco, raffigurazione di un bi, oggetto rituale in giada, già attestato almeno nella tarda cultura di Liangzhu (3200-2200 a.C.). I draghi andrebbero in tal caso associati al volo dell’anima della defunta verso l’immortalità, come testimonierebbe il ricercato simbolismo, nella sezione superiore dello stendardo, incentrato sulla luna e sul sole con i rispettivi emblemi faunistici, e sulla figura centrale, metà essere umano e metà serpente. Forte è il richiamo a figure mitologiche, talora composite, come la coppia di draghi, uno dei quali anche provvisto di ali, al di sotto dei simboli del sole e della luna, probabilmente attinti dalla mitologia o da considerarsi come ulteriori tappe dell’ascensione.

terra

il volo di dai verso l’immortalità


la seta? Premettendo che sarebbe In alto: resti della città di Jiaohe, piú opportuno parlare di «vie» della nei pressi dell’oasi di Turfan. seta, se si considerano i numerosi In basso: testa in argilla cruda tragitti e diramazioni, oltre ai secopolicroma di un bodhisattva (essere li di storia e di scambi culturali che vivente destinato a conseguire la hanno segnato il destino di popoli bodhi, «illuminazione», cioè a divenire e culture, i percorsi carovanieri si un Buddha), dall’oasi di Kucha. sviluppavano per 8000 km circa, e VII-VIII sec. Parigi, Musée national comprendevano itinerari terrestri, des arts asiatiques Guimet. marittimi e fluviali, lungo i quali nell’antichità si erano snodati i commerci tra gli imperi cinesi e l’Occidente. Il tratto meglio definibile è quello orientale e partiva dalla capitale della Cina, Chang’an (Shaanxi), in direzione nord ovest, nei pressi dell’oasi di Dunhuang (Gansu) dove si biforcava principalmente in due percorsi che seguivano i limiti settentrionale e meridionale del bacino del Tarim e del Deserto del Taklamakan, prima di ricongiungersi a Kashgar. L’Asia Centrale, contesa da popoli sedentari di alta civiltà e da nomadi, divenne il fulcro di una produzione dalla natura eterogenea, per l’apporto di varie correnti di pensiero, che tenne fortemente conto del substrato filosofico-religioso del buddhismo indiano, elemento unificante dell’archeologia di tutto il bacino del Tarim, laddove poi popolazioni turche di 54 a r c h e o

fede islamica ne spezzarono per sempre l’unità culturale. Non mancano anche le esperienze nestoriane e manichee, che diedero un’impronta riconoscibile nell’evoluzione artistica e sociale del territorio.

contatti e influenze Da Dunhuang i due percorsi, il settentrionale e il meridionale, attraversavano quella regione d’interferenza, aperta ai piú vari contatti, che prende oggi il nome di Xinjiang. Qui vennero accolti, in maniera ancor piú chiara, elementi ellenistico-romani (attraverso i regni grecobattriani), iranici (mediati o direttamente pervenuti sia dai Parti che dai Sasanidi), indiani (con la mediazione del Gandhara prima, Gupta e dei Kushana poi), e cinesi (dagli Han, ai Wei, ai Tang). Ogni città-stato rivela una fisionomia particolare, frutto dei rapporti che la legano all’una piuttosto che all’altra civiltà asiatica. Una caratteristica esistente esclusivamente lungo il percorso settentrionale della via della seta è la presenza dell’architettura rupestre, dovuta alla particolare natura morfologica dell’ambiente. Lo testimoniano soprattutto i (segue a p. 58)


uomini e donne sulla via della seta Incontro con Susan Whitfield Susan Whitfield è specializzata in storia della via della seta, con particolare interesse agli aspetti culturali e sociali del periodo Tang; è direttrice dell’International Dunhuang Project dove si occupa di ricerca e catalogazione di manoscritti dell’Asia Centrale presso la British Library. È autrice di numerosi libri sulla via della seta. Attualmente sta lavorando a una edizione estesa e aggiornata di Life Along the Silk Road, di prossima pubblicazione. Ha curato due grandi mostre sulla via della seta, tra cui The Silk Road: Trade, Travel, War and Faith presso la British Library (2004).

◆ Professoressa Whitfield, che

cosa ha rappresentato la via della seta per lo sviluppo sociale e culturale delle civiltà? La via della seta è ormai un brand, un nome che molte persone riconoscono e che viene utilizzato per vendere di tutto, dalle aromaterapie ai bitcoin (valuta digitale e decentralizzata, open source e disponibile per lo scambio virtuale, n.d.r.). Eppure può trarre in inganno in quanto evoca troppo facilmente l’idea del traffico binario e diretto fra l’impero cinese e quello romano, l’Est e l’Ovest. Per gli studiosi il quadro generale è tutt’altro che semplice! La via della seta è un termine conveniente e «crudo» per descrivere le complesse interazioni avvenute tra il continente africano ed eurasiatico sia per terra che per mare, in epoca pre-moderna. La steppa, l’Asia centrale, la Persia, l’India, il Mar Rosso e il Golfo Persico sono

tutti nodi centrali per la nostra comprensione di questo fenomeno. E il commercio è solo una parte della storia: i movimenti delle religioni, le idee, i popoli, e le tecnologie sono da considerarsi come la chiave per la comprensione delle culture e delle civiltà in questa «arena». Mentre ci sono interazioni a lunga distanza (compreso il commercio), precedentemente alla «via della seta», ciò che è cambiato nel I secolo a.C., è l’inizio di un vero e proprio commercio sistematico e sostenibile in tutta l’Asia Centrale, sia da est a ovest che da nord a sud, che si è attivato in seguito al raggiungimento di una certa stabilità in questo zona, anche grazie all’impero Kushana. Uno degli impatti piú significativi di tutto questo, per esempio, è stata la trasmissione del buddhismo – per terra e per mare – soprattutto in Cina e nel resto dell’Asia orientale. Nel VII secolo vediamo il movimento altrettanto influente dell’Islam verso oriente, e

di nuovo per terra e per mare, tanto da aver avuto un impatto duraturo fino a definire quella che oggi è considerata la Cina occidentale. Il culto religioso è solo un esempio dei principali impatti avvenuti sulle culture dell’Afro-Eurasia, come conseguenza delle interazioni lungo la via della seta. Gli scambi di conoscenze tecnologiche e scientifiche sono stati anche i catalizzatori di importanti sviluppi, non ultimo l’invenzione e la diffusione della stampa e della carta, cosí come la diffusione delle conoscenze astronomiche. Un militare afgano sorveglia il sito buddhista di Mes Aynak, minacciato dall’attività di una miniera di rame.

a r c h e o 55


civiltà cinese • le origini/7

◆ Qual è stata «la vita lungo la

via della seta»? La storia della via della seta comprende una vasta gamma di popoli e culture, in piú di mille anni e lungo tutto l’immenso contesto geografico afroeurasiatico. Per renderla accessibile a un piú vasto pubblico, ho scelto di affrontarla attraverso le vicende di coloro che vivevano lungo la via della seta orientale, per un periodo di 250 anni: è questa la base del mio libro Life Along the Silk Road. I personaggi – il monaco, il mercante, la religiosa, la cortigiana e tanti altri – sono caratteri, personalità composite, ma tutti gli eventi si basano rigorosamente su fonti storiche e archeologiche. Ora sto lavorando ad altri due personaggi per un’edizione riveduta del libro, e che porterà a evidenziare l’attuale importanza delle rotte marittime della via della seta.

◆ Quali sono, in base alla sua

esperienza di studiosa, i centri piú interessanti, dal punto di vista archeologico? I centri di interesse, tra cui molti siti marittimi, sono numerosi lungo l’intero percorso della via della seta. È anche importante dire che vengono continuamente individuati nuovi siti, mentre altri sono purtroppo a rischio di distruzione. Uno dei centri nodali, in grave pericolo, come ho avuto modo di constatare personalmente, è l’Afghanistan. I Buddha di Bamiyan sono già scomparsi, e il vasto sito buddhista a Mes Aynak è attualmente soggetto a un tentativo di salvataggio archeologico per evitare che venga raso al suolo da una società mineraria cinese.

56 a r c h e o

Un gruppo di monaci buddhisti manifesta contro la possibile distruzione del sito di Mes Aynak.

nelle città Sogdiane di Penjikent e Afraisyab (Samarcanda); ma anche le indagini delle équipe sino-francesi e sino-giapponese, attive, tra gli altri, a Kroraina e Khotan.

◆ In base ai suoi

Sulla base della mie conoscenze, i siti dei regni del I millennio a.C., a sud, lungo il bacino del Tarim, sono molto promettenti, come per esempio quelli di Khotan e Kroraina. Le scoperte sono iniziate oltre un secolo fa, ma il costante movimento delle sabbie del deserto del Taklamakan determina il continuo rinvenimento di nuovi siti da esplorare. Il clima secco del deserto ha garantito, infatti, la sopravvivenza di scheletri all’interno di strutture in legno cosí come la conservazione di manufatti e manoscritti sepolti nella sabbia del deserto. Khotan aveva una propria lingua e una cultura ben delineate, come testimoniano le pitture murali dei templi buddhisti e le figurine in terracotta di scimmie. La biblioteca nei templi buddhisti di Dunhuang è fondamentale per la nostra comprensione della vita delle persone lungo la via della seta nel I millennio, ma anche dello sviluppo del buddhismo e dell’arte buddhista.

◆ Quali sono stati i principali

contributi in ambito archeologico provenienti dalla Cina? I contributi archeologici provengono da tutto il percorso della via della seta, non solo dalla Cina e dall’Occidente. Lo testimoniano il lavoro fatto dagli archeologi sovietici

numerosi studi, qual è la storia piú avvincente, che si tramanda lungo la via della seta? È difficile, se non impossibile, scegliere una storia in un arco di quasi duemila anni. Ma tra le tante storie, una delle mie preferite è quella di Miwnay, una donna di cui conosciamo le vicende grazie alla scoperta fortuita di un gruppo di lettere, trovate nei pressi di una torre di guardia, tra le fortificazioni cinesi a nord di Dunhuang. Le lettere risalgono al 313 d.C. circa e, a parte Miwnay, sono testi scritti da mercanti sogdiani (i Sogdiani erano popoli appartenenti alle cittàstato di Samarcanda, Bukhara, ecc.), che vivono in città, lungo la via della seta, a est di Dunhuang, sulla rotta verso la Cina. Miwnay è destinata al marito, anch’egli un commerciante, ma il loro vincolo amoroso non ebbe grande successo. Dopo essersi trasferiti a Dunhuang per lavoro, lontano dalla loro casa, i coniugi iniziarono a indebitarsi, tanto da indurre il marito ad abbandonare la moglie e la figlia. Miwnay non ricevette alcun sussidio da parte della comunità sogdiana a Dunhuang e fu costretta a trovarsi un lavoro per sopravvivere. Scrisse al marito in tono sempre piú frustrato, ricordandogli che lei lo aveva sposato contro il parere di sua madre e dei fratelli e terminò la lettera nella piú totale disperazione: «Avrei preferito essere un cane o la moglie di un maiale piuttosto che moglie tua!». La figlia aggiunse la propria richiesta a suo padre di tornare a casa. Consegnata


probabilmente a un connazionale, la lettera non raggiunse mai il suo destinatario, ma rimase nascosta nelle sabbie del deserto fino a quando non fu scoperta dall’archeologo Aurel Stein (1862-1943) nel 1906.

nella valle dei grandi BUDDHA

Sul sito web dell’International Dunhuang Project (http://idp.bl.uk) sono disponibili, in lingua inglese, informazioni e immagini sui siti archeologici del Tarim, nonché della lettera in cui Miwnay narra la sua vicenda (http://idp.bl.uk/ database/oo_loader. a4d?pm=Or.8212/98). A destra: Bamiyan, Afghanistan. La piú grande (alt. 53 m) delle due statue colossali del Buddha, in una foto precedente alla sua distruzione. La datazione delle sculture oscilla tra il III e il V-VI sec. d.C. In basso: la nicchia che ospitava il «grande» Buddha dopo la distruzione operata dai talibani nel marzo 2001.

La valle di Bamiyan, in Afghanistan, si trova a 230 km circa dalla capitale Kabul, lungo il percorso della via della seta, e fu la sede di numerosi monasteri buddhisti, essendo stato un florido centro religioso, filosofico e artistico dal II secolo in poi, fino all’invasione islamica del IX secolo. Bamiyan ospita vasti monasteri, con piú di 900 grotte artificiali e nicchie, scavate ai piedi delle pareti rocciose. La località è nota soprattutto per le due statue colossali di Buddha stante, scolpite nelle pareti di roccia, distrutte il 12 marzo 2001 con cariche di esplosivo dal regime iconoclasta dei talibani. Le statue erano alte 38 e 53 m, poste entro nicchie a una distanza di 500 m l’una dall’altra ed erano scolpite insieme alle nicchie con volta a botte, ricoperte da uno spesso strato di argilla. Una terza statua di Buddha stante, alta 7,7 m, si trova nella valle del Kakrak. Il pellegrino buddhista cinese Xuanzang, giunto a Bamiyan intorno al 630, descrisse la regione come un fiorente centro buddhista e notò che entrambe le statue erano «decorate con oro e splendidi gioielli». L’8 settembre 2008, gli archeologi che erano alla ricerca di una leggendaria statua di 300 m nel sito, annunciarono la scoperta di altro Buddha di 19 m, che sembrerebbe avere molti aspetti in comune con le descrizione fatte dal monaco cinese, ma l’effettiva attribuzione è messa in discussione da piú d’uno studioso. Nel 2003 l’intera zona archeologica circostante e il paesaggio culturale, sono stati inseriti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’umanità dall’UNESCO, che si sta impegnando, insieme ad altre nazioni, e con grande difficoltà, per la ricostruzione delle due statue. Gli sforzi hanno portato allo stato attuale solo a un consolidamento della roccia e delle nicchie danneggiate dalle esplosioni.

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civiltà cinese • le origini/7

complessi buddhisti, come Kizil (oasi di Kucha) e Bezeklik (oasi di Turfan), che includono numerose unità di diversa destinazione (celle monastiche, ambienti di culto, biblioteche, ecc.), giustapposte nel tempo le une alle altre, senza una rigida logica funzionale. Il modello di riferimento dell’architettura rupestre derivava dal mondo indiano (per esempio Ajanta, a partire dal II secolo a.C.), ed è interessante evidenziare che questi impianti non presentano i problemi statici, relativi ai rapporti tra mura e coperture o gli espedienti tecnici, tipici delle strutture «edificate». Per i complessi nella roccia, infatti, si «costruisce» per sottrazione di materiale, compiendo un’operazione piú affine alla «scultura» che non all’ingegneria edile. Con lo stesso sistema si creano o si scolpiscono le coperture, che possono essere piatte, voltate o cupoliformi, a imitazione degli edifici costruiti.

la grotta come utero L’architettura scavata nella roccia è stata vista come rievocazione di valori simbolici riferiti alla grotta, intesa come matr ice e utero dell’universo, una visione conforme al pensiero cosmologico orientale, e soprattutto indiano. Non mancano nella regione monasteri costruiti (Duldur Akur, Shorchuk, Sengim, Kocho, Yar) e non sorprende constatare in essi la presenza di tipologie architettoniche simili a quelle utilizzate nei santuari rupestri. Comune ai percorsi settentrionale e meridionale è l’impiego dell’argilla cruda, sotto forma di terra pressata o di mattoni essiccati al sole. Il mattone crudo è ricoperto da un sottile strato d’intonaco ed era un elemento preponderante dal punto di vista costruttivo, tanto da ricorrere anche negli impianti urbani. Tra i centri piú significativi, Khotan, sul cammino meridionale della carovaniera, manifesta una palese tendenza indiana, anche quando si afferma la corrente iranica, a sua volta filtrata dalla piú ampia diffusione dei modi sinizzanti. Lungo il 58 a r c h e o

quelle religioni lungo la via della seta Il buddhismo è una dottrina indiana che nasce dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama vissuto nel VI secolo a.C. Comunemente il suo insegnamento deriva dalle dottrine fondate sulle Quattro nobili verità: del dolore, dell’origine del dolore, della cessazione del dolore e della via che porta alla cessazione del dolore. Il termine «buddhismo» indica, piú in generale, l’insieme di tradizioni, sistemi di pensiero, pratiche e tecniche spirituali, individuali e devozionali, nate dalle differenti interpretazioni di scuole di pensiero, evolutesi in modo anche molto eterogeneo. Lo zoroastrismo è la religione dell’antico Iran fondata all’inizio del I millennio a. C. da Zoroastro o Zaratustra. Il culto presenta diverse affinità con la religione vedica dell’India piú antica, ed è caratterizzato da un dualismo cosmologico ed etico tra coppie di principî o spiriti contrapposti (Bene-Male, Verità-Menzogna, ecc.), e dalla fede escatologica nella vittoria finale del Bene. Il manicheismo è una religione fondata nell’antica Persia da Mani, un nobile mesopotamico, nel III secolo d.C.: rispettando un’esperienza etica vissuta come continua tensione tra bene e male, questo culto religioso concepisce tutta la realtà come una lotta perenne tra due principî opposti,


percorso settentrionale, nei numerosi centri archeologici dell’oasi di Turfan, sembra prevalere l’influsso cinese, unito a una componente turca. Rilevabile è anche l’apporto iranico (legato poi alla penetrazione del manicheismo e del nestorianesimo), a cui si devono nuove soluzioni iconografiche, che si fondono con tecniche e modi cinesi, fino a creare un incontro sino-iranico duraturo e soggetto a influenzare addirittura alcune proposte appartenenti all’arte islamica.

tendenze durature Ancora sul percorso settentrionale, l’oasi di Kucha accoglie nella sua area centri importanti dal punto di vista archeologico e storico-artistico, che manifestano una tendenza iranica duratura nel tempo anche

dopo il crollo dell’impero sassanide per mano degli Arabi. Un vero e proprio revival della via della seta si registra durante l’espansione dell’impero mongolo in tutto il continente asiatico dal 1215 circa al 1360. I nuovi dominatori riportarono stabilità economica nella grande area e riaffermarono l’importanza del percorso carovaniero come straordinario mezzo di comunicazione tra Oriente e Occidente. Attraversando la via della seta, nel XIII secolo, Marco Polo raccontò nel Milione di essere arrivato fino alla Cina e alla corte del conquistatore

A sinistra: frammento di pittura murale con un’immagine del Buddha, dal santuario di Duldur Akur, presso l’oasi di Kucha. Inizi dell’VIII sec. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet. A destra: statuetta in argilla cruda policroma raffigurante un’orante, dall’oasi di Kucha. Dinastia Tang, VII-X sec. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

il bene e il male, lo spirito e la materia, la luce e le tenebre, Dio e il suo antagonista. Il nestorianesimo è un movimento religioso cristiano sorto nel V sec. a Costantinopoli per opera di Nestorio. Nel 431 il Concilio di Efeso condannò tali dottrine, perché sostenevano l’esistenza, in Gesú Cristo, oltre che di due nature (divina e umana), anche di due persone. L’induismo comprende un insieme di dottrine, credenze, riti che hanno modellato una fase della vita religiosa dell’India, dove confluiscono elementi genuinamente arî (legati al filone ortodosso delle religioni vedica e brahmanica) e credenze popolari, arie e non arie, nonché dottrine estranee all’antica religione indigena. Oggetto del culto sono le tre divinità Brahma, Vishnu e Shiva. L’islamismo è la religione fondata in Arabia da Maometto (VII secolo d.C.), in cui confluiscono elementi tratti dal paganesimo arabo, dal cristianesimo e dal giudaismo, oltre che idee e norme promulgate da Maometto stesso: è basata sulla credenza nell’unità di Dio (Allah) e sulla qualità di profeta di Maometto, mentre il testo sacro è il Corano.

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civiltà cinese • le origini/7

Le grotte di Mogao Resta ancora oggi ignota la data in cui vennero scavate le prime grotte di Mogao o «dei mille Buddha» (Qianfodong), localizzate a 25 km circa dalla città di Dunhuang, dove la via della seta si biforcava nel percorso meridionale e settentrionale. Le grotte conservano un’imponente collezione di arte buddhista cinese, comprendente oltre 2000 statue. Alcuni studiosi tendono ad collocarne le origini all’inizio del IV secolo, mentre altre fonti storiche fanno riferimento al 366 d.C., come testimonierebbe anche

un’iscrizione sulla parte settentrionale della grotta 300. L’incertezza tra gli studiosi deriva dal fatto che, a causa di un cedimento del terreno di 30 m circa, le prime grotte non sono sopravvissute allo smottamento. Secondo la tradizione, il monaco Yue Zun, smarritosi nel deserto, ebbe di notte una visione, sulla cima della «Montagna di sabbia», dove trovò rifugio: come atto di gratitudine, fece scavare la prima grotta. Grazie alle decorazioni aggiunte dal IV al XIV secolo, la visione di Yue Zun divenne una realtà per i monaci pellegrini che sostarono in queste zone per meditare. I monaci del posto raccolsero numerosi manoscritti, e molti pellegrini dipinsero affreschi

In alto: l’interno, riccamente ornato da pitture, di una delle grotte di Mogao, presso Dunhuang. A sinistra: statua in legno policromo con tracce di doratura raffigurante Lokapala, guardiano celeste dei punti cardinali, da Dunhuang. Seconda metà dell’VIII sec. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

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nelle grotte, oltre a lasciare offerte e a pregare per propiziarsi un viaggio tranquillo. Gli affreschi coprono oggi una superficie di oltre 42 000 mq. All’inizio del XX secolo fu scoperta inaspettatamente una stanza nascosta, che conteneva una straordinaria collezione di testi, risalenti al IV-XI secolo, riguardanti la storia, la geografia, la politica, le etnie, gli affari militari, la letteratura, l’arte, la religione, la medicina, la scienza e la tecnica della Cina, dell’Asia centrale e meridionale e persino dell’Europa. Esploratori di varie nazionalità giunsero sul posto e, in meno di vent’anni, trafugarono 40 000 testi buddhisti e molti preziosi dipinti.

mongolo Kublai Khan, di cui divenne un consigliere di fiducia. Come lui (e in diversi casi prima di lui) viaggiarono su quelle stesse piste numerosi missionari cristiani. Nel divenire storico, l’impervia via carovaniera è diventata il simbolo, per eccellenza, della «globalizzazione» del mondo antico, e il merito va a un’antica fibra che la tradizione considera sottile come i filamenti della tela del ragno, colorata come i fiori selvatici e brillante come i raggi del sole: la seta. (7 – continua)



mitologia • istruzioni per l’uso/6

la tragedia infinita di Daniele F. Maras

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La maledizione di Edipo non abbandona Tebe con la scomparsa di Eteocle e Polinice: anche la loro sorella, Antigone, muore tragicamente. e, a distanza di anni, i loro figli Laodamante e Tersandro tornano a scontrarsi per il trono della città. le colpe dei padri, insomma, non ricadono soltanto sui figli...

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ell’ultima puntata abbiamo lasciato Creonte ancora una volta padrone del campo, in qualità di reggente della città di Tebe, mentre sulla dinastia regnante gravavano gli effetti della terribile maledizione di Laio (vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013). Ma la discendenza di Edipo non era ancora estinta: sia Eteocle che Polinice, infatti, prima di morire avevano fatto in tempo ad avere un figlio maschio ciascuno, dando vita cosí a due nuovi potenziali eredi al trono. Laodamante, figlio di Eteocle, trascorse l’infanzia a Tebe, sotto la reggenza del prozio, mentre Tersandro, figlio di Polinice, rimase a Sicione, ospite del vecchio nonno Adrasto, unico superstite dell’assedio dei Sette, che ancora meditava vendetta. Nel frattempo, anche Edipo era morto ad Atene, dove si era ritirato assieme alla figlia Antigone (vedi «Archeo» n. 338, aprile 2013); e costei, che aveva assistito amorevolmente il padre fino alla fine, era tornata in patria subito dopo la fine dell’assedio. Dopo il duello fatale tra i due pretendenti al trono, conclusosi con la morte di entrambi, Creonte aveva decretato di celebrare un funerale Edipo e Antigone, olio su tela di Karl Pavlovic Brjullov (1799-1852). 1821. Tjumen, Museo Statale d’Arte. L’artista immagina la giovane che aiuta il vecchio padre, cieco, nelle sue peregrinazioni. Alla morte di Edipo, Antigone si recò a Tebe e si pose contro lo zio Creonte, che aveva proibito il seppellimento del fratello, Polinice, e fu per questo murata viva in una grotta.

solenne per il suo protetto Eteocle, e contemporaneamente di vietare la sepoltura di Polinice, in quanto nemico della patria, sotto minaccia della pena di morte. Posta di fronte al dilemma tra salvare la propria vita, obbedendo alla legge, o provvedere alla sepoltura del fratello, ascoltando il suo cuore, Antigone scelse la seconda soluzione, pensando che non avrebbe mai potuto vivere avendo sulla coscienza un fratello insepolto. Nella cultura greca, infatti, avere una tomba e adeguate cerimonie funebri, da compiere regolarmente nel tempo da parte dei discendenti, erano garanzie di salvezza nell’altro mondo, dal momento che rappresentavano la continuazione della memoria nella propria stirpe (in greco detta ghenos, un concetto chiave per la comprensione della civiltà ellenica).

leggi non scritte Com’è fatale, la ragazza fu scoperta e portata di fronte allo zio Creonte per essere giudicata, poiché aveva trasgredito a un decreto del reggente, la cui parola aveva valore di legge. Come unica difesa al «processo», raccontato con dovizia di particolari dall’omonima tragedia di Sofocle, Antigone fece appello a quelle «leggi non scritte» che regolano gli affetti e la vita degli uomini (si badi, sempre nell’ambito del ghenos) e che necessariamente devono passare avanti rispetto a qualunque altra norma del vivere civile. Ancora una volta, perciò, si era di fronte a un conflitto tra l’antica tradizione del lignaggio familiare, che chiedeva il rispetto dei propri morti in quanto antenati, e la città, con le sue leggi, le contraddizioni

politiche e gli scontri di competenza e di potere, che andavano oltre il ghenos, non tenevano conto degli affetti, e potevano spingere all’odio padri, figli e fratelli. La povera Antigone, colpevole di anteporre la pietà di sorella all’obbedienza alla legge, fu condannata a essere rinchiusa in una grotta a morire di fame, dove si tolse la vita per evitare l’agonia. Nel migliore stile delle tragedie greche, la seguirono nella tomba il fidanzato, Emone, figlio dello stesso reggente Creonte, e la moglie di quest’ultimo, Euridice, disperata per la sorte del figlio. Creonte rimaneva quindi da solo con se stesso e la sua crudeltà a governare su una città toccata da un destino implacabile. Passato un adeguato numero di anni, la scena si spostò alla nuova generazione, quando Adrasto riaccese nel nipote Tersandro il desiderio del trono che era stato negato a suo padre, e organizzò una nuova spedizione contro Tebe. Vi presero parte i figli di Anfiarao, Alcmeone e Anfiloco (ai quali il padre aveva fatto giurare di vendicarlo); il figlio di Tideo, Diomede (futuro compagno di avventure di Ulisse); Promaco e Stenelo, rispettivamente figli di Partenopeo e Capaneo; Eurialo, figlio di Mecisteo; e ovviamente Tersandro, figlio di Polinice e nipote di Edipo, che desiderava vendicare la memoria di suo padre. Al fianco di Adrasto, inoltre, prese parte alla spedizione suo figlio Egialeo, per il quale il re di Sicione sperava in un destino di gloria. Il piú duro da convincere era stato Alcmeone, la cui partecipazione era indispensabile secondo il responso di un oracolo, ma che era riluttante a r c h e o 63


mitologia • istruzioni per l’uso/6

a obbedire, dal momento che per rispettare la volontà del padre Anfiarao, avrebbe poi dovuto uccidere anche la madre Erifile. Ma proprio costei lo spinse verso il suo oscuro destino, ancora una volta corrotta da uno degli antichi doni nuziali di Armonia, cedutole da Tersandro (vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013). Alcmeone, pertanto, guidò l’assalto alla città di Tebe e sfondò le linee nemiche. Tra i difensori si distinse lo stesso re Laodamante, che trafisse il povero Egialeo: unico tra gli eroi assedianti a perdere la vita in battaglia, con atroce dolore del padre Adrasto, che ne morí di crepacuore. Subito dopo Laodamante fu ucciso dallo stesso Alcmeone, fatto che pose momentaneamente fine alle ostilità. Infatti, grazie alla lungimiranza dovuta alle doti profetiche, il vecchissimo indovino Tiresia ottenne una breve tregua, con la

scusa di seppellire i caduti. In realtà, ne approfittarono i cittadini che, nottetempo, ripararono nelle campagne, lasciando la città, ormai destinata a cadere, nelle mani dei nemici.

morte di un indovino Il giorno dopo, con il saccheggio, si concluse la spedizione degli «Epigoni» (come erano stati chiamati gli eroi, in quanto discendenti dei Sette) e Tersandro fu insediato finalmente nel trono. I Tebani fuggiaschi furono perdonati e poterono tornare in patria, con l’eccezione di Tiresia che, data la veneranda età, non aveva sopportato gli stenti della fuga (si dice che, giungendo presso u n a s o r ge n t e d’acqua gelata, preso dalla sete, avesse bevuto a piene mani, nonostante fosse ac-

Illustrazione ottocentesca raffigurante Antigone che, contravvenendo alle disposizioni di Creonte, fa dare sepoltura al cadavere di Polinice.

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caldato per la corsa fatta, e fosse stato cosí stroncato da una congestione). Poco chiare sono invece le notizie sulla fine di Creonte, che alcune fonti vorrebbero fosse stato ucciso già prima della spedizione degli Epigoni, men-


tre cercava di riportare Edipo (o il suo cadavere) a Tebe, per obbedire a un oracolo e assicurare prosperità alla città.

Alcmeone, il matricida Un ultimo tragico corollario della vicenda si ebbe con il ritorno in patria di Alcmeone, il quale, obbedendo all’oracolo di Delfi, era deciso a portare a termine la volontà di vendetta del padre Anfiarao, uccidendo la sua stessa madre: la corrotta

Erifile. Sembra che abbia compiuto l’impresa scellerata da solo, senza la complicità del fratello Anfiloco (che pure aveva giurato, ma forse possedeva un’indole piú mite), e si attirò cosí la persecuzione delle Erinni: le Furie, che nel mito greco simboleggiavano il rimorso per i delitti piú empi e disumani. Reso folle dal rimorso, l’eroe fuggí ramingo portando con sé il peplo e la collana di Armonia, che avevano provocato

tanti lutti a causa della brama di Erifile. Giunto finalmente in Arcadia, venne purificato da Fegeo, re di Psofi, ne sposò la figlia, Arsinoe, alla quale fece dono delle reliquie maledette di Armonia. E in seguito proprio queste ultime costarono la vita ad Alcmeone, quando cercò di riprenderle con l’inganno per portarle a una nuova moglie, Calliroe figlia di Acheloo, ma fu scoperto e ucciso in un’imboscata dai figli di Fegeo. Si concluse cosí, finalmente, la sanguinosa (e intricatissima) saga della dinastia tebana, che aveva visto la sete di potere e la ragion di Stato seminare odio implacabile nell’ordine: tra padri e figli (Laio ed Edipo), tra fratelli (Eteocle e Polinice), tra

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mitologia • istruzioni per l’uso/6

In alto: illustrazione raffigurante la scena in cui Antigone viene condannata da Creonte, da una rappresentazione della tragedia di Sofocle nell’adattamento di Camille Saint-Saëns. Milano, Castello Sforzesco, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli». A sinistra: statua di Sofocle. Copia di età imperiale romana da un originale greco. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Greogriano Profano. Il grande tragediografo nacque a Colono nel 497 (o 496) a.C. e morí ad Atene nel 406 a.C.

zio e nipote (Creonte e Antigone), tra cugini (Tersandro e Laodamante), e infine, ma solo in un racconto collaterale, tra cognati (Alcmeone e i figli di Fegeo).

passioni oscure Da questo punto di vista, la fortuna della saga presso i poeti tragici greci è dipesa in gran parte dal contrasto tra le leggi e le norme del vivere civile (con particolare riguardo alla regalità e alla trasmissione dell’eredità) e gli affetti e il rispetto tra membri dello stesso gruppo familiare. Il legame tra i membri del ghenos, della stirpe di una nobile famiglia regnante, viene continuamente spezzato nella storia dei discendenti di Laio, in cui i personaggi sono travolti da oscure passioni e in balía del destino avverso che li pone l’uno contro l’altro. L’orrore per i misfatti compiuti dagli eroi, assieme all’assurda complessità della vicenda, allo stesso tempo paradossale e perfettamente credibile nei suoi aspetti, creavano quel giusto mix di pathos e liberazione (la cosiddetta «catarsi» o purificazione tragica), che gli antichi spettatori del teatro tragico desideravano ottenere dagli spettacoli.


La saga tebana nella letteratura classica

L’ampia diffusione del teatro greco, in particolare ateniese, in tutto il mondo antico diede un eccezionale stimolo alla conoscenza della mitologia, sia da parte dei Greci che da parte degli altri popoli del Mediterraneo che ne subivano l’influenza culturale, soprattutto in Italia. Tale conoscenza non poteva mancare di avere i propri effetti nelle arti visive, tra le quali hanno per noi un’importanza particolare la pittura vascolare e la scultura, di cui si sono conservate ampie testimonianze.

Eschilo: ◆ Laio (perduta) ◆ Edipo (perduta) ◆ I Sette contro Tebe ◆ Sfinge (perduta) Sofocle: ◆ Edipo re ◆ Edipo a Colono ◆ Antigone ◆ Anfiarao (perduta) ◆ Gli epigoni (perduta) Euripide: ◆ Edipo (perduta) ◆ Le Fenicie ◆ Antigone (perduta) ◆ Alcmeone a Corinto (perduta) ◆ Alcmeone a Psofi (perduta) Antimaco di Colofone: ◆ Tebaide Caio Giulio Igino: ◆ Polinice Publio Papinio Stazio: ◆ Tebaide Lucio Anneo Seneca: ◆ Edipo ◆ Le Fenicie Di molte altre opere su Edipo e sulla saga tebana non restano che accenni di altri autori o frammenti, come per esempio i lavori in greco di Acheo, Filocle, Nicomaco, Licofrone e altri ancora.

Per questo motivo gli studiosi spesso accostano le scene rappresentate su vasi o rilievi, sia attici che di altre produzioni in Grecia come in Italia, con quelle raccontate da passi del teatro tragico.

scene a confronto Ecco quindi che le rappresentazioni di Edipo come un vecchio cieco e canuto, appoggiato al bastone e accompagnato dalla figlia Antigone (per esempio su una coppa megarese a rilievo o su un cratere apulo conservato a Melbourne), vengono confrontate dagli studiosi con la descrizione che Sofocle mette in bocca a Polinice nell’Edipo a Colono. E addirittura la stessa scena, in una pittura parietale di Delo, nella casa degli Attori, del II secolo d.C., mostra i protagonisti dotati di maschere teatrali, provando che si tratta davvero di una rappresentazione scenica. In un altro esempio, un pedagogo sconfortato che assiste su un cratere apulo a figure rosse al saluto di Anfiarao ai propri figli – chiara allusione alla tragica storia di Alcmeone – potrebbe derivare da un personaggio teatrale; ma potrebbe anche essere un espediente visivo del pittore per sottolineare la tensione della scena. In realtà, si può dire che le arti visive si intreccino con la letteratura e la poesia e contribuiscano in larga misura a diffondere la conoscenza dei miti e delle leggende, a volte conservando varianti mai documentate dagli autori classici e mostrando la ricchezza delle antiche tradizioni, che ancora possono riservare molte sorprese nel futuro della ricerca. nella prossima puntata • I Centauri, ovvero gli eccessi della bestia umana Rilievo raffigurante Euripide che riceve una maschera tragica in segno di riconoscimento. I sec. d.C. Istanbul, Museo Archeologico.

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speciale • pastorizia

mediterraneo

pastorale

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di Barbro Santillo Frizell


Particolare della scena pastorale scolpita a rilievo sul sarcofago di Giulio Achilleo, sovrintendente al Ludus Magnus, la caserma dei gladiatori, da via delle Terme di Caracalla, ex vigna Casali. 270 d.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

L’allevamento del bestiame ha circa diecimila anni. Già praticata agli albori della civiltà, questa attività è divenuta il simbolo dell’integrazione tra uomo e natura. Seguendo le orme di un mito intramontabile, antico e profondamente radicato nel paesaggio (e di cui tuttora è possibile ritrovare le tracce), presentiamo il racconto di una ricerca inedita e appassionante...

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speciale • pastorizia

N

ell’antichità animali domestici quali il cavallo, il bue, la pecora e la capra erano presenti ovunque nel quotidiano dell’uomo, che li utilizzava per i trasporti, nell’agricoltura, in guerra, e per la produzione. Gli animali da pascolo non si allevavano soltanto in campagna: nella città romana di Pompei, per esempio, sono state identificate molte stalle all’interno delle abitazioni eleganti e sfarzose dell’élite cittadina. Nelle case romane si potevano normalmente sentire i cani abbaiare, ma anche gli asini ragliare o le capre belare. La presenza di animali domestici doveva costituire un elemento sonoro importante della città, per non dire di come possa averne arricchito gli odori. Tutti, non solo chi abitava in campagna, vivevano vicino ai propri animali. Per questo sorprende constatare quanto poco la ricerca si sia interessata al rapporto tra uomo e animale nell’antichità. Uno dei motivi è certamente il fatto che le tracce lasciate da questa convivenza sono poco appariscenti e poco adatte all’esposizione nei musei. Inoltre, elemento forse ancor piú importante, la nostra esperienza personale non è sempre sufficiente alla comprensione dei complessi contesti testimoniati da resti archeologici apparentemente insignificanti (ossa animali, fusi, pulegge e pesi di telaio). L’uomo della moderna metropoli, infatti, sa ben poco della convivenza quotidiana con gli animali.

Qui sotto: Mallia, Creta. 1955. Una pastora fila la lana con fuso e conocchia, mentre sorveglia il proprio gregge. In basso: tavoletta contabile sumera in cui sono registrati il numero delle capre e dei montoni, da Lagash (Iraq). 2350 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Nessun altro animale ha avuto, nella vita dell’uomo, la stessa importanza della pecora. Dall’animale vivo si ricavavano sangue, latte, lana e letame, che a loro volta davano alimenti, vestiario, concime e combustibile. Dalla pecora macellata si ottenevano carne, grasso, ossa, pelli, corna e tendini. Dal grasso si ricavavano candele di sego; con tendini e intestini si fabbricavano corde per strumenti e archi; con le pelli si producevano vestiario, coperte, galleggianti, zampogne, otri e libri. L’animale non chiedeva in cambio che erba fresca. Un buon pascolo costituiva, dunque, la risorsa naturale fondamentale e l’essenza stessa della pastorizia. La parola latina pecus designa concetti ampi quali bestiame, animale da pascolo, gregge, animale in generale, ma ha anche il significato piú particolare di piccolo animale da pascolo, come pecora o capra. In questa acce-

zione il termine sopravvive nell’italiano pecora. Da pecus deriva anche il termine pecunia, che designava in origine il bestiame, ma che ha poi assunto il significato di somma di denaro e, piú in generale, di valore monetario. Ciò riflette, linguisticamente, il ruolo centrale del bestiame in un’economia in cui la ricchezza si misurava dal numero di animali da pascolo posseduti.

letterati contadini Le fonti delle nostre informazioni sull’allevamento nell’antichità sono costituite da materiale frammentario e sparso, di competenza di diverse discipline accademiche, spesso rigidamente divise tra umanistiche e scientifiche. Una fonte importante sono gli autori latini,


essi stessi agricoltori e grandi possidenti di terreni e fattorie, che si sono occupati di agronomia, agricoltura e allevamento. I piú importanti tra loro sono Catone, Varrone e Columella. Anche i poeti ci hanno lasciato descrizioni della vita e del paesaggio pastorali. Teocrito, poeta greco nato in Sicilia nel II secolo a.C., con i suoi Idilli, fece della poesia pastorale un genere letterario che fu di esempio in epoche successive. Virgilio, come anche poeti europei di epoche piú tarde, si ispirò a questi quadretti pastorali arcadici: le Eclogae, o Bucolica, composte negli anni 42-38 a.C., sono una raccolta di poesie di tema agreste liberamente ispirate a Teocrito. Il maggior contributo di Virgilio al tema dell’agricoltura è il poema didascalico Georgica, in quattro libri che trattano temi diversi: lavoro nei campi, arboricoltura, allevamento del bestiame e apicoltura. Nei Fasti, Ovidio, originario di Sulmo, in Abruzzo, tratta di miti e riti legati alle festività annuali, spesso collegate al mondo pastorale.

una storia per immagini Gli ambienti della vita pastorale antica sono illustrati anche da un ricco materiale iconografico. La pittura vascolare greca costituisce una preziosa fonte di informazioni sul rapporto tra uomo e animali domestici, spesso presentato in forma mitologica: le immagini dettagliate di sacrifici animali ci svelano par-

Qui sotto: carta che illustra la diffusione della domesticazione di piante e animali, avvenuta per via terra, in parte lungo il corso del Danubio (freccia bianca), e per via di mare (freccia azzurra). In basso: figurine in terracotta di caprovini, da Ebla (Siria). 1800 a.C. Vienna, Collezione privata.

ticolari del culto e dei rituali che non troveremmo nei testi. La vita pastorale fu un motivo caro all’arte greco-romana di epoca ellenistica: le case e le ville alle pendici del Vesuvio mostrano un grande numero di pitture parietali, conservatesi grazie all’eruzione del 79 d.C., ispirate agli allora popolari idilli pastorali della letteratura. Dalle immagini, però, appare evidente come gli artisti si siano basati su ambienti reali e sulla conoscenza diretta di animali e territorio. Dai dipinti possiamo farci un’idea della fisionomia di pecore e capre di allora, nonché delle diverse razze esistenti, elementi che non compaiono nelle fonti letterarie. Il motivo bucolico (dal greco boukolos, mandriano) si diffuse poi nell’arte funeraria della tarda antichità, quando furono molto in voga i sarcofagi con rilievi raffiguranti scene di vita pastorale. Della prima epoca cristiana, quando 4000 a.C. 5000 a.C. 4000 a.C.

5000 a.C.

7000 a.C.


speciale • pastorizia

I divini guardiani delle greggi I pascoli si trovavano in zone emarginate, fuori dalle aree abitate, nelle pianure costiere paludose e non edificate, dove grotte naturali costituivano riparo per pastori e animali. La vita ai margini aveva dato origine, nell’antichità, a miti, saghe e leggende, che riflettono – pur attraverso l’eccesso e il contrasto – le reali condizioni dell’esistenza. Nacquero cosí i miti sulla professione del pastore in contrasto con quella dell’agricoltore, che coltiva la terra. Queste due figure, separandosi e specializzandosi, divennero antagoniste e il mito accentua e inasprisce il conflitto: il racconto biblico dell’agricoltore Caino che uccide il fratello pastore Abele può essere interpretato come espressione di questa antica frattura, che nasce dalla lotta per le risorse naturali e per lo sfruttamento del terreno (per la coltivazione o per il pascolo). Il conflitto riflette anche le profonde differenze culturali tra

queste due professioni. La vita sedentaria degli agricoltori rappresenta la stabilità e la civilizzazione. La vita pastorale, che si svolge ai margini della civiltà, al di fuori del controllo sociale, diviene, invece, una minaccia per società ordinate e sottoposte a regole. Il paesaggio pastorale grecoromano è popolato di pastori, dèi, ninfe e giganti. Varie divinità della mitologia greca sono legate alla vita pastorale: esse proteggono il gregge e il pastore, che ne invoca la tutela. I piú importanti dèi della pastorizia sono i fratelli Apollo ed Ermes e il figlio di quest’ultimo, Pan. Oltre a essi esistevano divinità locali minori e personaggi pastorali mitologici. Gli dèi stessi svolgevano, almeno in parte, attività pastorali e un epiteto ne esplicava la funzione. Ermes, per esempio, era «portatore dell’ariete» (kryophoros), mentre Apollo aveva diversi epiteti: «guardiano delle greggi» (epimelios), «dio ariete» (karneios), «guardiano dei pascoli e dei pastori» (nomios), «colui che protegge dai lupi» (lykeios).

Scena di filatura della lana all’interno di un gineceo, particolare della decorazione di un epinetron (utensile

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Una delle prime malefatte del piccolo Ermes fu il furto dei buoi custoditi da Apollo. Apollo, in cambio della lira inventata dal fratello, gli lascerà la mandria, facendogli dono del bastone d’oro che usava per radunare il bestiame. Ermes diviene cosí il piú importante protettore del commercio e del bestiame. Gli dèi greci sono sempre raffigurati in forma umana, tranne Pan, il Fauno dei Romani, che aveva testa e zoccoli di capro. Lo zoomorfismo, molto diffuso nella mitologia egizia, è quasi assente in quella grecoromana e Pan ne è l’unico esempio tra gli dèi greci. Nella sua iconografia piú tarda l’elemento zoomorfo tende a scomparire, fatta eccezione per le corna. Il dio pastore Ercole è legato alla zona italica, soprattutto ai territori vicini a Roma e alle montagne adiacenti. Anche Polifemo, il gigante monocolo, famigerato per l’odio feroce verso gli uomini, era un ottimo pastore e mostra una cura per i suoi animali che contrasta con il trattamento che riserva agli uomini di Odisseo.

impiegato per filare) attico a figure nere, da Atene. 500 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.


I pastori dei miti vivono sui monti: il principe troiano Paride, noto per il suo giudizio in una gara di bellezza, faceva il pastore sul monte Ida, prima che fosse scoperta la sua vera identità. La montagna era concepita come zona di confine tra la sfera umana e quella divina, e nel mito il pastore è spesso portatore del messaggio divino. La mediazione avviene di frequente attraverso relazioni sessuali. Quando il troiano Anchise porta le greggi al pascolo sul monte Ida, incontra la dea Afrodite, alla guida di un gruppo di animali selvatici. La dea si infiamma d’amore per lui e il frutto della loro unione fu Enea, che riuscí a salvarsi, e a salvare il padre e il figlio, da Troia in fiamme. Enea venne poi destinato, come narra Virgilio, a fondare una città nel Latium, nei pressi del luogo in cui sorse Roma. Attraverso il figlio, Ascanio, diede origine alla gens Iulia; in seguito sia Giulio Cesare che Augusto rivendicarono le loro origini divine, dicendosi discendenti di Venere (Afrodite).

Rilievo raffigurante Ermes con un ariete. II-III sec. d.C. Fratello di Apollo, il dio era, tra l’altro, il piú importante protettore del commercio e del bestiame.

l’immagine del buon pastore divenne il simbolo di Cristo e la vita pastorale una metafora della vita ultraterrena, ci resta il ricco materiale iconografico delle catacombe.

PAESAGGIO e transumanza La storia culturale del paesaggio pastorale mediterraneo copre un arco temporale di circa diecimila anni e la cultura che emerge nel mondo greco-romano è, a sua volta, profondamente radicata negli strati preistorici. La cornice esterna di questa storia culturale è costituita dalle condizioni geografiche naturali: il contrasto e la simbiosi tra monti e pianure. Le aride rocce calcaree sono coperte dalla tipica macchia mediterranea – vegetazione arbustiva da cui emerge qualche conifera non molto alta – formatasi attraverso il pascolo intenso, il disboscamento e gli incendi. In estate il clima della montagna è gradevole e le vallate costituiscono pascoli eccezionali. Nel periodo invernale, al contrario, le temperature sono

rigide e la neve non si scioglie, generalmente, che a primavera. Nelle pianure costiere la situazione è opposta: in estate il terreno è inaridito dal sole cocente, mentre il clima è mite durante l’inverno. Non era vantaggioso tenere grandi greggi in montagna per tutto l’arco dell’anno, poiché durante l’inverno si rendeva necessario dar loro riparo e nutrimento. D’altro canto, non era possibile la permanenza fissa nelle pianure costiere: in estate i pascoli si seccavano e gli animali mal sopportavano la calura. La soluzione, apparentemente semplice, ma geniale, era il cambio di zona climatica con l’alternarsi delle stagioni: un sistema di allevamento che tecnicamente viene definito transumanza. L’allevamento – soprattutto di ovini, ma anche di caprini, bovini, muli e cavalli – a carattere stagionale (in pianura d’inverno e in montagna d’estate) si diffuse ampiamente nel Mediterraneo, dove rappresentò un fattore economico e culturale determinante. a r c h e o 73


speciale • pastorizia

Un gregge in transito nell’area dei Monti della Laga, in Abruzzo. In Italia, la regione appenninica è una delle aree piú importanti per l’attività pastorale e costituiva anche uno dei terminali della transumanza stagionale che da qui veniva organizzata in direzione delle pianure del Tavoliere pugliese.

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La transumanza è stata praticata in tutte le zone caratterizzate dalle componenti geografiche complementari di montagna e pianura: in Spagna, Francia meridionale, Italia, Balcani, Turchia, Nord Africa e nella maggior parte delle isole mediterranee. L’estensione e l’organizzazione dei sistemi sono state diverse da zona a zona e in differenti periodi storici. Nonostante le generali affinità geografiche delle aree in cui le economie pastorali si sono sviluppate, esse si sono evolute secondo modalità diverse, in relazione a fattori storici e socio-politici. La transumanza può essere sommariamente divisa in verticale e orizzontale: la prima implica lo spostamento degli animali – della durata di qualche giorno – per brevi tratti dalla montagna alla pianura, e viceversa. Questo tipo di allevamento, piú diffuso, è generalmente collegato a una fattoria o a un’abitazione ed è praticato da pastori che vivono con le famiglie in montagna e spostano le greggi in inverno o che vivono in pianura e conducono gli animali al pascolo in montagna in estate. La transumanza orizzontale, invece, prevede percorsi spesso molto lunghi, e il trasferimento dal pascolo invernale a quello estivo, e viceversa, può richiedere mesi. In Spagna i sentieri misurano fino a 800 km, mentre in Italia i piú lunghi non superano i 300-350 km.

Molti sono gli esempi ben documentati di transumanza su larga scala nel Mediterraneo antico, medievale e rinascimentale, soprattutto in Italia e Spagna. Nell’età tardo-antica e nel primo Medioevo l’economia italica visse una recessione, ma nel XIII secolo la transumanza appenninica, sottoposta a controllo pubblico e tassazione, fu reintrodotta in Italia centrale e meridionale dal principe normanno Federico II (1231). Piú tardi fu istituita, a nord di Roma, la Dogana dei Pascoli del Pa-


trimonio di S. Pietro in Tuscia (1289). La generale crisi del XIV secolo, dovuta a un’epidemia di peste, colpí anche la pastorizia ma, dopo un periodo difficile, l’economia visse una ripresa nel XV secolo, quando entrambi i sistemi viari furono ripristinati. Durante la dominazione spagnola il tratturo appenninico fu restaurato e venne istituita la Dogana delle Pecore. Grazie a iniziative politiche statali, questi sistemi economici poterono svilupparsi su larga scala. L’unità territoriale, condizione necessaria per il pascolo a distanza, veniva garantita dagli Stati, in grado di assicurare protezione ai pastori e alle loro greggi negli spostamenti. Poiché i pascoli si trovavano soprattutto in zone periferiche e difficilmente raggiungibili, spesso terre di confine, l’organizzazione economica costituí un importante strumento di controllo di aree a volte difficilmente sorvegliabili. Al contrario di quanto si pensa generalmente, la transumanza vive in simbiosi con altre istituzioni e questa relazione di dipendenza reciproca è particolarmente evidente nella forma su larga scala. In tempi passati è stata sottolineata una sorta di emarginazione di questo tipo di pastorizia e il fenomeno ha assunto tratti romantici. La ricerca piú recente mostra come la transumanza rappresentasse, invece, un sistema economico molto ampio e complesso, che richiedeva grandi investimenti e tendeva a crescere attraverso il continuo aumento del numero di animali. Il sistema, però, era delicato e dipendeva dalle congiunture. Se le strutture collegate avessero smesso di funzionare e fosse, per esempio, crollata la richiesta di lana, il settore avrebbe

collassato. Il pastore transumante poteva rimanere senza lavoro piú facilmente di un agricoltore e ritrovarsi, in caso di calo della domanda, con un esubero di animali di cui doversi liberare rapidamente. Per questi motivi la transumanza su larga scala doveva poter contare su Stati solidi e stabili.

L’uomo diventa allevatore La domesticazione di capre e pecore avvenne in stretta connessione con la rivoluzione agricola, quando gli uomini, che fino ad allora erano stati cacciatori e raccoglitori, cominciarono a coltivare cereali da macina. Ciò avvenne nella cosiddetta «Mezzaluna fertile», una zona che va dalla Palestina alla costa mediterranea e comprende la parte settentrionale dell’antica Mesopotamia e le pendici dei

Toscana Marche Umbria Viterbo L’Aquila Lazio Abruzzo Molise Roma Campania

Foggia Puglia

A sinistra: cartina con le principali direttrici della transumanza dalle aree montuose (in marrone) alle zone di pianura (in verde): le prime erano utilizzate per il pascolo estivo, le seconde per quello invernale. In basso: rilievo con scena campestre, detto anche «della transumanza», poiché la scena sulla sinistra è stata appunto interpretata come una raffigurazione di tale attività, dalla chiesa di S. Maria Pietraluna a Sulmona. I sec. a.C. Sulmona, Polo Museale dell’Annunziata, Sezione Archeologica.

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speciale • pastorizia

il fascino di un trasgressore

monti Tauro e Zagros. Probabilmente la domesticazione cominciò dalla capra, piú precisamente dall’egagro (o capra del Bezoar), una specie selvatica che viveva nella zona. Le capre hanno caratteristiche sociali che le rendono adatte all’allevamento: vivono pacificamente in greggi con una gerarchia ben precisa; come le pecore selvatiche, e al contrario di cervi e gazzelle, hanno una struttura sociale basata su un leader, un fattore che le rende adatte a sottomettersi a un pastore e a vivere in greggi; hanno il senso del territorio ma non sentono il bisogno di difenderlo; sono dotate di straordinaria capacità di muoversi in terreni sconnessi e si aiutano tra loro, evitando di urtarsi e di esporre al pericolo gli altri e impedendo ai piccoli di L’Aquila

Chieti

Centurelle Guardiagrele

Celano

Vasto

Sulmona

Pescasseroli

Montenero di Bisaccia

Castel di Sangro Isernia

Montesecco Morrone del Sannio

Campobasso Lucera

Foggia

Sepino Candela

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In alto: Sepino (Campobasso). Un segmento del tratturo PescasseroliCandela, trasformato in uno degli assi viari principali della città, di cui si vede, sullo sfondo, Porta Bojano. A sinistra: il tracciato del tratturo PescasseroliCandela e degli altri percorsi seguiti dalla transumanza fra Abruzzo e Puglia. Nella pagina accanto: gruppo scultoreo con Pan e una capra. I-II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Tra le divinità pastorali, Pan ha esercitato il maggior fascino sugli uomini, non solo nell’antichità, ma anche in epoche successive. Nel roccioso e accidentato paesaggio greco, Pan è il dio pastore per eccellenza. Il territorio appartiene alle capre, le sole a potersi arrampicare sulle rocce e nutrirsi della spinosa vegetazione arbustiva; per questo Pan ha assunto forma di capra. Nelle prime immagini che lo ritraggono il dio ha questa fisionomia, ma con il tempo i suoi tratti sono divenuti piú umani e gli artisti lo hanno raffigurato secondo le caratteristiche che volevano mettere il rilievo. L’ambiguità di Pan è sempre stata motivo di fascino e le peculiarità attribuite al dio riflettono l’idea che l’uomo ha della capra, che al contrario della pecora, animale docile, saggio e umile, è ricalcitrante, cocciuta e spesso disubbidiente. Essa viene ritenuta lasciva e maliziosa ed è per questo che ha assunto, nell’immaginario dell’uomo, qualità umane. Il comportamento sessuale della capra è un altro elemento da cui derivano gli istinti attribuiti a Pan, il dio audace e selvaggio, sempre eccitato da tutto e da tutti: animali, giovanetti e belle donne. Pan è un motivo molto popolare nelle arti figurative, dove lo si vede danzare e giocare esuberante in feste orgiastiche, coprire lussurioso una capra, molestare Afrodite o palpare giovanetti. A Pan era sacro il mezzogiorno, l’ora del riposo: «Non è lecito, o pastore, nell’ora meridiana, non è lecito a noi suonar la siringa: Pan noi temiamo. Invero stanco della caccia ora egli riposa; ed è collerico, e a lui l’acre bile sta prossima al naso». Pan ha, inoltre, dato il nome a un fenomeno, il «terror panico», che può repentinamente assalire un gregge: all’improvviso, senza causa apparente, gli animali vengono presi


dal panico, iniziando a correre tra sassi e tronchi, rischiando di cadere e farsi male. Sono stati spaventati da Pan, che poteva suscitare la stessa paura anche negli uomini: fu il dio ad aiutare i Greci a Maratona, diffondendo il panico tra i Persiani. In seguito a questo episodio gli fu dedicato un luogo di culto all’interno di una grotta sull’Acropoli, nel cuore di Atene, lontano dall’Arcadia. Dai margini dei territori pastorali, Pan si trasferí cosí nella culla della civiltà. Egli, dunque, si civilizza? No, ma perde il suo legame con la cultura pastorale e la sua funzione di pastore, entrando in un altro contesto, insieme a satiri, sileni e altre figure dionisiache.

Con il tempo la famiglia si allarga e nascono altri piccoli Pan, fanciulle e fanciulli che suonano la siringa (il flauto) danzando sull’erba verde. Un’immagine ben lontana dalla dura realtà della vita dei pastori d’Arcadia. In molte culture la capra è associata al male, e al diavolo sono stati attribuiti alcuni tratti del dio Pan.

In Medio Oriente la capra fu designata per l’espiazione: si confessavano i propri peccati con la mano sulla testa del capro espiatorio, che poi veniva cacciato nel deserto. Furono probabilmente la cattiva fama e il comportamento di Pan a farne un modello adeguato all’immagine del diavolo. Nel Rinascimento comparvero nell’iconografia del demonio attributi fissi, quali corna di capro e zampe animali, a volte la coda. Parallelamente a quella del diavolo dall’aspetto ferino, sopravviveva l’immagine di un Pan pastore premuroso: poche altre figure divine sono dotate della stessa complessità!


speciale • pastorizia

il sacrificio, tra religione e necessità Il sacrificio animale era una componente importante della religione antica e il rituale si svolgeva con la macellazione di animali domestici ritenuti adatti all’occasione: l’offerta di bovini, per esempio, aveva grande valore e si svolgeva soprattutto in contesti ufficiali, legati alle grandi festività religiose. Il sacrificio animale, tuttavia, può essere visto da una prospettiva non solo religiosa, come espressione funzionale di necessità pratiche: di carattere piú quotidiano e intimamente legata al territorio e alle stagioni era, infatti, l’offerta di pecore e capre. In questo caso è evidente il legame tra l’elemento ecologico e la sovrastruttura ideologica. L’allevamento di pecore e capre, inoltre, era fortemente legato al clima e alle condizioni geografiche, soprattutto nella transumanza, che richiedeva l’utilizzo di zone molto estese e dipendeva completamente dal ciclo delle stagioni. Era necessario controllare gli accoppiamenti, cosí da limitare la riproduzione al momento e al luogo piú opportuni, a quando e dove non facesse troppo freddo per gli animali e vi fosse disponibilità di pascolo fresco per le femmine e gli agnellini. Poiché oggi la produzione di carne è lo scopo principale dell’allevamento ovino, le pecore vengono lasciate partorire durante l’intero anno. Una volta, invece, gli animali del gregge erano selezionati sulla base della strategia produttiva scelta, in modo da ottenere, per ogni prodotto, le giuste proporzioni tra individui giovani e adulti e tra maschi e femmine, e gli animali scartati venivano sacrificati nelle cerimonie religiose. I calendari religiosi greci fornivano istruzioni su come selezionare gli animali, prescrivendo che i sacrifici avessero luogo soprattutto in periodi dell’anno legati ai ritmi della transumanza: a fine inverno, quando maggiore era l’esigenza di cibo; all’inizio dell’estate, quando le greggi venivano selezionate prima del grande esodo verso la montagna; in autunno, al ritorno in pianura. I sacrifici di pecore e capre erano, in altre parole, la forma ritualizzata di macellazioni necessarie al mantenimento dell’equilibrio di un ecosistema ben funzionante.

avvicinarsi ai dirupi. Le capre, inoltre, sono capaci di arrampicarsi sugli alberi per raggiungere le foglie piú tenere. Questa abilità le protegge anche dai predatori, contro i quali un maschio, se necessario, è in grado di combattere. Le capre arrivano ovunque e mangiano di tutto. La pecora è stata probabilmente addomesticata quasi contemporaneamente alla capra, forse poco dopo. I ritrovamenti piú antichi sicuramente relativi alla pecora domestica vengono dalla zona dei Monti Zagros e ri78 a r c h e o

salgono a 11 000 anni fa circa. Le razze originarie furono probabilmente il muflone dell’Asia Minore e gli affini muflone «argali» e muflone «uria». La pecora fu addomesticata con le stesse modalità della capra, sebbene abbia un carattere piú mite e timoroso. Gran parte delle caratteristiche che oggi distinguono gli ovini domestici dai selvatici – come le dimensioni delle corna del maschio, l’assenza di corna nella femmina, la lunga coda spessa e il vello candido – erano già presenti negli esemplari dell’Asia Minore

Particolare del rilievo sull’ara di Domizio Enobarbo raffigurante una pecora e un maiale condotti al sacrificio, dal Campo Marzio. Fine del II sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.


di capre non dovrebbe superare le cento. L’importanza della pecora è stata determinata dalla lana, che si ricava dal vello dell’animale, che si riforma continuamente. La tecnica della lavorazione della lana per produrre tessuti ha rappresentato una grande conquista nella storia dell’umanità: molti dei prodotti precedentemente realizzati con le pelli si sono potuti produrre, con migliore qualità e a costi inferiori, con la lana, che, inoltre, non richiedeva l’uccisione dell’animale.

intorno al 3000 a.C., come si evince dal materiale iconografico della Mesopotamia e da documenti babilonesi. Capre e pecore giunsero nel Mediterraneo già addomesticate, ma non ancora selezionate. Nessun animale ha saputo soddisfare i bisogni materiali dell’uomo come la pecora, che, grazie alla produzione di lana, ha di gran lunga superato il valore della capra dal punto di vista economico. La pecora ha anche il vantaggio di poter essere tenuta in greggi grandi, fino a mille unità, mentre un gregge

PECORE E PALAZZI Pecore e capre domestiche giunsero in Grecia intorno al 7000 a.C.. Non prima della media età del Bronzo ( 2000-1600 a.C. circa) iniziò l’allevamento di pecore che davano lana di buona qualità. L’epos omerico descrive ambienti pastorali che riflettono la realtà del periodo miceneo: gli eroici guerrieri che assediarono e distrussero Troia – Menelao da Sparta, Agamennone da Micene, Ulisse da Itaca e Nestore da Pilo – erano grandi allevatori in patria e le loro ricchezze venivano misurate in numero di greggi. Fonte diretta di informazioni su questa economia sono gli archivi dei palazzi micenei, i cui bilanci venivano redatti ogni anno e incisi su tavolette di argilla cruda. I violenti incendi che distrussero alcuni di questi palazzi causarono la cottura delle tavolette, che, in questo modo, si sono conservate. I piú grandi archivi rinvenuti sono quelli dei palazzi di Cnosso e di Pilo. L’importanza dell’allevamento ovino appare immediatamente evidente dall’archivio di Cnosso, in cui circa ottocento tavolette attestano l’esistenza di 80-100 000 pecore sotto il diretto controllo del palazzo. I bilanci ci informano anche, indirettamente, sul periodo della distruzione del palazzo, la tarda primavera, che si evince dalla registrazione di agnellini appena nati. La riproduzione veniva controllata attentamente e, poiché la lana era il prodotto principale, si faceva in modo che il grosso del gregge fosse costituito da montoni, che davano piú lana delle femmine. La quantità di lana prodotta annualmente nel palazzo di Cnosso doveva essere considerevole. Tra maggio e giugno gli animali venia r c h e o 79


speciale • pastorizia

In alto: un gregge transita lungo un tratturo pugliese. Nella pagina accanto: Roma, catacombe di Priscilla. Particolare di una pittura murale con l’immagine di Cristo come Buon Pastore. III sec. d.C.

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vano tosati e la lana consegnata a palazzo, dove era registrata. Qui veniva lavorata per produrre tessuti di prima qualità. Le pecore fornivano al palazzo anche la carne, consumata in grandi quantità nei numerosi banchetti. In Omero epiteti quali «ricco di greggi», «ricco di pecore» e «ricco di animali» indicano come l’agiatezza si misurasse in numero di animali posseduti. Gli animali, che, a differenza dei terreni, possono essere trasportati, costituiscono una risorsa economica mobile, utilizzabile come unità di misura, mezzo di pagamento o dono, assumendo, in questo modo, un ruolo del tutto particolare. Nei passi dedicati agli interni del palazzo viene descritta l’abilità necessaria per trasformare la lana in tessuto: ne è uno splendido esempio l’immagine delle cinquanta ancelle al telaio nella corte dei Feaci. A Itaca, l’isola patria di Odisseo, l’allevamento degli animali costituiva un’attività specializzata. Sulla piccola isola, montuosa e arida, non vi erano pascoli sufficienti, e il palazzo teneva greggi e armenti al pascolo sulla terraferma e sulle isole vicine, in terreni di proprietà del palazzo stesso o di altri proprietari con cui si concordavano i termini di utilizzo: un sistema che conosciamo anche da periodi storici successivi. Al bisogno, gli animali venivano ricondotti a Itaca in barca. La condizione che rendeva economicamente conveniente l’allevamento di grandi greg-

gi era l’esistenza di un mercato o di una rete di scambio. Le pecore non erano allevate esclusivamente per la carne destinata ai banchetti, come si potrebbe essere indotti a credere dalla leggerezza con cui i pretendenti di Penelope macellano una bestia dopo l’altra, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in attesa che la donna decida chi scegliere come marito. Lo sfrenato consumo di carne è un simbolo dello spreco incontrollato subíto dal palazzo in assenza del signore. La produzione della lana era, in realtà, molto piú importante e i tessuti di alta qualità prodotti a palazzo venivano utilizzati, secondo Omero, prevalentemente come doni ad altri principi; ma certamente servivano anche da merce di scambio con altre materie prime, come allume e metalli.

LE VIE DELLA LANA La catena montuosa appenninica corre, come una spina dorsale, lungo l’intera penisola italica. In alcune regioni, monti e pianure costiere sono molto vicini e, di primo acchito, potrebbe apparire naturale un sistema di pascolo «verticale», con brevi spostamenti degli animali dalla montagna. La pastorizia funziona in gran parte in questo modo, ma nelle zone centrali e meridionali degli Appennini si è sviluppato un sistema di allevamento di tipo «orizzontale». Nei mesi estivi gli animali vengono tenuti nelle zone montuose di Abruzzo e Molise, per essere poi


condotti, durante l’inverno, nella vasta pianura del Tavoliere delle Puglie. Il periodo del grande esodo andava dalla fine di settembre alla metà o fine di ottobre e lo spostamento in entrambe le direzioni richiedeva piú o meno un mese. La partenza era segnata da grandi feste e mercati, a cadenza stagionale (a settembre e a maggio), che costituivano uno svago importante nella monotona vita dei pastori. San Michele, i cui luoghi di culto in queste zone sono profondamente legati alle vie della transumanza, viene tuttora celebrato il 29 settembre e l’8 maggio con messe, mercati e processioni. Le zone montuose di Abruzzo e Molise (l’antico Samnium) e le pianure costiere pugliesi sono collegate da un complesso sistema viario, costituito da sette tratturi principali e da una rete di tratturelli minori. I grandi tratturi, che si sviluppano per 250-300 km, sono ancora individuabili in diversi punti, grazie alla tutela di cui sono stati oggetto dalla fine dell’Ottocento, quando vennero assimilati alle strade nazionali. Uno dei sentieri piú importanti, il Regio Tratturo 7, che da Pescasseroli (in Abruzzo) conduce a Candela (in Puglia; vedi cartina a p. 76), si è conservato in tutta la sua larghezza, con tanto di pietre di confine, nelle zone interne della Campania. Questo sistema viario fu creato dagli Spagnoli intorno alla metà del XV secolo, quando si costituí il regno delle Due Sicilie, con Napoli capitale, sotto la casa reale aragonese. Il dominio spagnolo durerà per alcune centinaia di anni.

investimenti redditizi Gli Spagnoli avviarono immediatamente un processo di reintegrazione e ristrutturazione dei vecchi sentieri della pastorizia, caduti in abbandono durante il XIV secolo, la cui storia, però, inizia molto prima. Il materiale archeologico conferma come questo sistema viario fosse ampiamente utilizzato durante l’antichità.Testi letterari e storici, iscrizioni di vario genere, leggi e decreti testimoniano del controllo statale sull’economia della transumanza appenninica, dall’età repubblicana romana fino a tutta l’epoca imperiale. Negli ultimi due secoli della repubblica, ricchi aristocratici, come Varrone, investirono in grandi greggi di ovini e, in età imperiale, gli imperatori continuarono a impegnare i loro capitali in questa attività, divenuta, attraverso la produzione di lana e pellami, estremamente redditizia e perciò praticata su larga scala. Il Rinascimento diede un forte impulso alla produzione della lana in Italia e grandi possi-

una figura ancestrale L’immagine di Gesú buon pastore è uno dei temi piú fortunati dell’iconografia cristiana. Il concetto, però, è molto piú antico del cristianesimo stesso e la metafora del buon pastore compare in letteratura ben prima dell’era cristiana. Già Omero la utilizza per Nestore, re di Pilo, descritto come pastore del popolo: un’immagine perfetta per il sovrano della «patria delle greggi». Nella cultura micenea, in cui la pastorizia era attività fondamentale e la ricchezza misurata in greggi, la metafora doveva essere molto efficace e comprensibile a chiunque. Nell’arte cristiana l’immagine del pastore che porta sulle spalle un agnello si affermò sopra ogni altra. Essa si ispirava a modelli precedenti, i piú antichi dei quali raffigurano un uomo che porta una vittima sacrificale al dio. Immagini di questo tipo ricorrono in tutto il Mediterraneo orientale, e l’arte greca ne mostra splendidi esempi. Nell’arte cristiana l’animale portato da Gesú non è una vittima: Cristo, infatti, è il pastore premuroso, che si prende cura di tutte le pecorelle del gregge. In questa stessa accezione, il pastore è presente anche nell’arte precristiana: il dio Ermes ha l’appellativo di «portatore di agnelli» e viene spesso raffigurato come tale. L’immaginario legato all’ideale pastorale mostra una forte continuità e si rivela efficace in sistemi religiosi e in ideologie differenti. L’ambiente pastorale costituisce un’eredità culturale comune, in cui l’immagine del pastore come protettore e salvatore degli animali è concretamente ancorata alla realtà. Romolo e Remo vengono trovati, salvati e allevati da un pastore, che costituisce un legame tra il divino e gli uomini. Sono i pastori a vedere per primi il bambino Gesú e a diffondere la notizia della sua nascita. Il pastore è il messaggero ideale: si muove in aree molto ampie, conosce strade e luoghi non battuti in cui altri non osano spingersi. Il suo costante contatto con la natura e gli animali, sia domestici che selvatici, fa sí che egli possegga conoscenze che gli conferiscono una collocazione al confine con il divino.

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speciale • pastorizia Miniatura raffigurante una scena pastorale, dal Virgilio Romano, manoscritto miniato contenente l’Eneide, le Georgiche e frammenti delle Bucoliche di Virgilio. V sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

denti spagnoli e commercianti toscani accumularono fortune enormi a scapito delle già impoverite zone interne dell’Italia meridionale. La ristrutturazione spagnola dei tratturi fu sistematica e ben organizzata.Vennero disegnate planimetrie di strade e pascoli soggetti a dazio, e lungo i sentieri sorsero dogane e aree di ristoro. La larghezza dei sette tratturi principali, che collegavano Abruzzo e Puglia, fu fissata a 60 passi napoletani (111 m circa) e delimitata da termini lapidei (pietre di confine o indicatrici del tracciato), la cui rimozione era un reato punibile con la pena di morte. I ricercatori hanno a lungo dibattuto sull’evoluzione a larga scala dell’economia della transumanza. Attualmente, l’ipotesi maggiormente condivisa è che questo sviluppo si sia avviato con la conquista romana dell’entroterra italico, nel IV secolo a.C. Tuttavia, non si deve credere che il sistema della transumanza in quanto tale sia stato creato dai Romani. Lo spostamento stagionale degli animali da pascolo dalle coste ai monti e viceversa, lungo sentieri appositi, era praticato già nell’età del Bronzo. Le zone appenniniche, a differenza del resto d’Italia, erano culturalmente omogenee sin da allora e le popolazioni si spostavano lungo sentieri che non erano utilizzati esclusivamente per gli animali, ma anche per il trasporto di merci e come strumenti di comunicazione ideologica e politica.

LA ROMA PASTORALE Il guado naturale del Tevere presso l’Isola Tiberina ebbe un’importanza fondamentale per lo sviluppo di Roma, essendo l’unico punto in cui i pastori potevano attraversare il fiume con gli animali e lavare le pelli. Sull’iso82 a r c h e o

il mito di una terra ideale

L’Arcadia, zona aspra e montuosa del Peloponneso, acquisí una grande forza simbolica nell’antichità. Era la terra del dio pastore Pan e dobbiamo ritenere che gli antichi Greci, nella creazione del mito, avessero in mente la regione e non un’utopia. L’utopia nacque successivamente, a Roma, nell’ultimo secolo dell’età repubblicana, sotto l’astro nascente di Ottaviano/Augusto. Senza il contributo del poeta Virgilio, l’Arcadia non avrebbe mai raggiunto quella grande risonanza nell’arte e nella letteratura, che mantenne, con intensità diverse, per ben duemila anni. Virgilio, che mai aveva visitato la regione, fu il primo a utilizzare l’Arcadia come metafora di un mondo felice, in contrasto con la società decadente in cui viveva e che cominciava allora a mutare. Nella sua scelta, Virgilio si è probabilmente ispirato allo scrittore greco Polibio, che descrive la regione, l’arte del canto dei pastori d’Arcadia e le loro tenzoni poetiche. La poesia pastorale – sia nell’antichità che in epoca rinascimentale – non nacque certo dal nulla. Essa fu favorita dalle condizioni economiche, e l’interesse per i motivi bucolici in arte e letteratura coincide in entrambi i periodi con picchi di diffusione dell’allevamento ovino su grande scala, soprattutto per effetto della produzione della lana. Molti nobili e aristocratici europei investirono grandi capitali nel settore, molto sviluppato


fino alla metà dell’Ottocento, quando l’allevamento ovino in Europa cominciò a perdere terreno in favore di quello in Australia e Nuova Zelanda. L’imponente cupola della basilica rinascimentale piú ammirata, S. Maria del Fiore, a Firenze, fu commissionata dalla corporazione dell’Arte della Lana, la piú ricca e potente della città. I commercianti delle città toscane accumularono, in questo periodo, fortune enormi grazie al commercio dei prodotti ovini, in particolare della lana. Appare evidente che le espressioni letterarie e musicali ispirate alla vita pastorale sono direttamente legate, in età rinascimentale e barocca, alla sua importanza economica. L’idealizzazione della vita bucolica non dipenderebbe, come spesso si è sostenuto, da una distanza dal mondo pastorale, ma, al contrario, dalla sua vivacità e pregnanza. Nel regno di Napoli l’ideologia pastorale era utilizzata a sostegno e legittimazione di riforme mirate all’incremento della transumanza su larga scala nel Meridione d’Italia, a scapito della coltivazione di frumento (lana per il mercato internazionale invece di cibo per il popolo), il cui risultato fu un forte decremento demografico. La sovrastruttura ideologica e la realtà economica e politica non vivevano separatamente ma in stretta simbiosi ed è indicativo il fatto che il primo romanzo pastorale, Arcadia, venga scritto proprio a Napoli, alla corte spagnola: Jacopo Sannazzaro lo compose alla fine del XV secolo e fu pubblicato nel 1504, influenzando la letteratura europea successiva. Il concetto di Arcadia come utopia e simbolo di un mondo incontaminato mise salde radici e, per quasi quattrocento anni, l’idillio pastorale fu un motivo di spicco della letteratura, della musica e del teatro. Ci si può chiedere perché la poesia pastorale sia durata tanto a lungo; la risposta si trova forse nella forza simbolica del travestimento, facile da adattarsi agli ideali in vigore. L’Arcadia della poesia era una terra inventata, simbolo di un mondo utopistico, una terra dal carattere erotico il cui elemento principale era l’amore tra pastori e pastorelle. I pastori della poesia avevano poco a che fare con la dura realtà dell’allevamento del bestiame. Verso la fine del XVIII secolo la letteratura pastorale perde la sua forza, poiché l’Europa comincia a risentire della concorrenza della lana australiana, una minaccia che farà sentire i propri effetti in Italia meridionale negli anni Trenta dell’Ottocento. Il dramma musicale Il re pastore di Metastasio, musicato da Mozart nel 1775, è l’ultimo prodotto di questa espressione artistica. Il tema poetico in questa forma si esaurí allorché cessarono di esistere le condizioni politiche che ne costituivano lo sfondo. La longevità del motivo arcadico è sorprendente e la voglia di Arcadia appare inesauribile: dapprima fece il suo ingresso in letteratura e musica, poi in pittura, dove l’elemento pastorale si combina con grande efficacia all’interesse per la mitologia e le rovine antiche, nato quasi contemporaneamente. Attraverso l’idillio pastorale, la pittura a soggetto paesaggistico influenzò l’arte dei giardini, e nel giardino inglese divenne di moda l’inserimento nel paesaggio di elementi pastorali e archeologici di ispirazione romantica.

la, al centro del fiume, sorgeva l’unico tempio dedicato a Fauno, il corrispettivo romano di Pan, il dio dei pastori (vedi box alle pp. 76-77). Il tempio era stato costruito con le somme ricavate dalle ammende inflitte agli allevatori (pecuarii) che si erano resi colpevoli di reati. Uno dei luoghi piú importanti del paesaggio pastorale urbano era il Forum Boarium, il mercato del bestiame sulla riva orientale del fiume, la stessa su cui si era sviluppata la città. La piazza non perse mai la sua importanza commerciale, conservando nel tempo il suo nome, tuttora utilizzato. Nel III secolo d.C., quando Roma era ormai la capitale di un grande impero, disseminata di magnifici templi ed edifici, gli allevatori e i loro banchieri, gli argentarii, fecero erigere al Foro Boario un monumento dedicato all’imperatore Settimio Severo. L’arco marmoreo, che costituiva l’ingresso alla piazza, fu eretto probabilmente a ringraziamento per un favore ricevuto, forse l’esenzione da una tassa, o con l’intenzione di ottenerne qualcuno. Vi sono raffigurati pastori che conducono le greggi, allevatori che acquistano animali e scene sacrificali, sotto la tutela di Ercole, protettore dei pastori.

sale e saline In questo contesto economico era determinante la reperibilità di sale, che si estraeva nelle saline di Ostia, nei pressi della foce del Tevere. L’estrazione del minerale ebbe un’importanza primaria per la nascita e lo sviluppo di Roma. Il sale costituiva un fondamentale elemento integrativo dell’alimentazione di uomini e di animali, ed era utilizzato per la conservazione del cibo, nella produzione di carne e di pesce, nonché nella conciatura delle pelli e nella colorazione di lana e tessuti. Gli antichi depositi di sale (salinae) della via Salaria sorgevano probabilmente in prossimità del Foro Boario. Le fonti scritte non menzionano un apposito mercato delle pecore (Forum Pecuarium) a Roma e, dunque, anche questo commercio deve aver avuto luogo al Foro Boario. Nel popolo romano era viva e profondamente radicata la tradizione di un’origine pastorale. Essa funzionava come un potente collante, che si manifestava nei miti, nei rituali e nella retorica simbolica. Dice l’aristocratico romano Varrone: «non sanno forse tutti che il popolo romano discende da pastori? C’è forse qualcuno che non sa che Faustolo, che si prese cura di Romolo e Remo, era un pastore? E il fatto che questi scegliessero Parilia a r c h e o 83


speciale • pastorizia

come giorno della fondazione di Roma non mostra che essi stessi erano pastori?». L’idea che Roma fosse stata fondata da pastori, e non da agricoltori, entrò a far parte dell’immaginario e dell’identità dei Romani. Il destino di Roma era stato scritto dal pastore Faustolo, nel momento in cui aveva trovato e salvato il fondatore Romolo. Varrone è solamente uno dei numerosi scrittori e storici romani che citano questa origine, ma egli si spinge oltre il mito, fornendo, da esperto agricoltore, un quadro piú completo di una prima economia pastorale, poi sostituita da un sistema agricolo. La teoria delle origini pastorali di Roma, basata sui testi antichi, è stata dominante tra gli storici dell’inizio del secolo scorso. Nessun ricercatore odierno si fermerebbe a questa tesi e, infatti, le ricerche piú recenti hanno dimostrato che le forme di pastorizia specializzata derivano perlopiú da preceden-

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ti economie miste. Tuttavia, è interessante osservare come l’élite romana alimentasse coscientemente i miti, creando l’immagine di un passato pastorale di Roma che si è conservata nel tempo, affermandosi in varie espressioni culturali.

PALUDI, PASCOLI, MALARIA Nei dintorni di Roma il paesaggio era caratterizzato da zone paludose intervallate da alture e colline. Il tratto navigabile del Tevere attraversava un territorio semiaperto tra acquitrini e boschi rigogliosi. Sulle alture sorgevano villaggi e città, le pianure erano attraversate da strade e acquedotti, mentre sulla costa i Romani facoltosi costruivano le loro ville. Vi sono numerose testimonianze del fatto che i terreni venissero utilizzati per l’allevamento degli animali. A sud di Roma e dei Colli Albani si estendevano le terre successivamente note come Paludi pontine, i cui

In basso: Roma, Palazzo dei Conservatori, Sala degli Orazi e Curiazi. Affresco del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari) raffigurante il pastore Faustolo che trova Romolo e Remo allattati dalla lupa. Fine del XVI-inizi del XVII sec.


A destra: particolare dei fregi che ornano l’arco degli Argentari, eretto a spese dei banchieri (gli argentarii, appunto) degli allevatori nel Foro Boario. III sec. d.C.

terreni, allora, non erano acquitrinosi: lo storico romano Livio scrive che questa zona, denominata ager Pomptinus, costituiva il granaio di Roma. Prima dei grandi interventi degli anni Venti del Novecento, la campagna romana non aveva cambiato aspetto per diversi secoli. La causa fondamentale della sua desolazione e della bassissima densità di popolazione era stata la malaria. «In Maremma ci si arricchisce in un anno, ma si muore in sei mesi», scrisse George Dennis intorno alla metà dell’Ottocento, descrivendo il territorio degli Etruschi. La presenza della malaria nell’antichità è stata a lungo oggetto di discussione. Si può dire che gli studiosi si fossero divisi in due correnti: la prima riteneva che la malaria si fosse diffusa in Grecia e a Roma abbastanza tardi, mentre la seconda sosteneva che esistesse già nel Neolitico e fosse stata causata da agricoltura e allevamento. Grazie ai nuovi metodi di indagine scientifica si è potuto constatare che la seconda ipotesi è quella corretta.

pastori del XXI secolo Nel territorio del Comune di Blera (in provincia di Viterbo) sono visibili ancora oggi tracce di un vecchio sentiero, indicato dalle carte geografiche come La Dogana. Il sentiero faceva parte di un piú esteso sistema di pascolo che comportava lo spostamento degli animali tra i monti e la costa. La zona geografica, La Maremma, comprendeva il pascolo estivo sugli Appennini e quello invernale sulle coste laziali e toscane. Dal Medioevo Blera era proprietà pontificia e La Dogana funzionava appunto come percorso doganale amministrato dallo Stato pontificio, per il quale l’allevamento rappresentava un settore importante. Dopo l’unificazione dell’Italia il sistema economico della transumanza scomparve, ma la pratica sopravvisse in forme autonome, e fino agli anni Cinquanta del Novecento pastori e greggi hanno continuato a percorrere questi sentieri. L’allevamento odierno a Blera è perlopiú di tipo stazionario e il clima consente di tenere gli animali all’aperto per tutto l’arco dell’anno. Il pascolo libero ha a lungo condizionato l’aspetto del territorio. Il brucare, il calpestio, la concimazione contribuiscono al mantenimento della biodiversità e all’esistenza di un sistema che ormai dipende da questo utilizzo del territorio. Gli animali da pascolo mantengono il territorio pulito e aperto, contribuendo alla valorizzazione di elementi estetici che rischierebbero altrimenti di scompa-

rire. Questo rischio minaccia l’intero Occidente e sarebbe urgente intervenire globalmente per la tutela di questa parte del patrimonio culturale. L’unica soluzione sostenibile è l’utilizzo degli animali, che attraverso il pascolo curano il paesaggio in maniera efficace ed ecologica. Gli animali da pascolo, inoltre, possono essere molto utili per mantenere aperti i territori intorno ai siti archeologici, rendendoli accessibili ai visitatori e valorizzando la dimensione storica del paesaggio. Gli animali, impedendo la crescita del sottobosco, contribuiscono a ridurre il rischio di incendio, vero flagello delle aree mediterranee. Questo tipo di allevamento comporta, però, anche il rischio di sfruttamento eccessivo del territorio, che favorisce l’erosione. La terra erosa si deposita nei burroni causando la crescita di una fitta vegetazione nelle ravine lungo i corsi d’acqua. Gli allevatori di Blera, come di altre zone di Lazio e Toscana, sono originari della Sardegna, da dove si era sviluppato un flusso migratorio verso il continente negli anni successivi alla (segue a p. 89) a r c h e o 85


speciale • pastorizia

le acque di TIVOLI: un toccasana PER UOMINI E ANIMALI

Chi assocerebbe, oggi, Tivoli, la Tibur romana, all’allevamento ovino? Chi potrebbe immaginare che le splendide rovine di un tempio dedicato a Ercole, uno tra i piú importanti santuari della Roma repubblicana, fosse nato come mercato del bestiame? Occorre andare molto indietro nel tempo per scoprire questa sua funzione originaria. Tivoli sorge lungo uno dei piú importanti sentieri (detti «tratturi») lungo i quali le pecore venivano condotte, nel periodo invernale, dall’Abruzzo ai pascoli della campagna romana. L’odierna via Tiburtina, che collega Roma a Tivoli, era originariamente un tratturo. Tivoli sorse sul confine geografico naturale (che divideva i territori abitati dai popoli osco-umbri da quelli abitati dai Latini) tra montagna e pianura, sviluppandosi lungo la valle dell’Aniene, naturale via di trasporto verso Roma. Per la sua peculiarità di città di confine, assunse un ruolo fondamentale dal punto di vista strategico ed economico, soprattutto nell’ambito della pastorizia: a Tivoli si contrattavano le vendite e le condizioni di utilizzo dei pascoli e si pagavano le tasse e i dazi; vi si trovavano 86 a r c h e o

aree di sosta, taverne e mercati, e l’abbondanza di acqua era una grande risorsa per uomini e bestiame, per il lavaggio delle pelli e la produzione di lana e pellame. Tivoli dispone, inoltre, di una grande quantità di sorgenti e laghi sulfurei, le Aquae Albulae. In epoca imperiale romana esse erano note per curare ogni malattia, soprattutto quelle reumatiche, respiratorie e dermatologiche. Tivoli divenne il luogo di cura piú noto dell’antichità: nei pressi delle sorgenti fiorirono le stazioni termali e i Romani facoltosi vi costruirono ville di lusso. Altri elementi indicano come i bagni nelle acque sulfuree fossero una pratica consueta anche della medicina veterinaria romana e che le sorgenti di Tivoli fossero considerate particolarmente efficaci. Su un’altura nei pressi dell’Aniene, a poche centinaia di metri dalle mura urbane di Tivoli, ai piedi della cascata, sorgono i resti di un monumentale santuario dedicato a Ercole. In Italia Ercole aveva il ruolo fondamentale di protettore dei pastori, delle greggi e delle sorgenti, ma era anche il dio dei trasporti, del commercio e dell’economia. L’associazione di funzioni diverse riflette il


Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo del santuario di Ercole Vincitore, a Tivoli.

A destra: elaborazione grafica di un’immagine della via Tecta (via coperta): in basso, il percorso dell’antico tratturo, utilizzato per il transito delle greggi; al livello superiore, la quota di calpestio attuale.

significato economico, in un contesto pastorale, dell’allevamento, non piú limitato e marginale, ma sviluppatosi in economia di mercato caratterizzata dall’investimento di grandi capitali, soggetta a tassazione e regolata da leggi. L’allevamento su larga scala comportava anche cambiamenti sociali, poiché richiedeva una collettività professionale gerarchicamente strutturata, con zone di competenza ben definite. Il santuario di Ercole Vincitore si articolava in tre grandi strutture: portico, tempio e teatro. Sotto il portico occidentale una strada commerciale coperta, la via Tecta, che coincideva con il percorso dell’antico tratturo, costituiva un passaggio obbligato per le greggi in cammino verso il pascolo costiero in autunno e quello montano in primavera. La galleria doveva servire al controllo degli animali al momento della registrazione obbligatoria per il pagamento delle tasse, che sembra avvenisse a Tivoli nell’antichità come in periodi storici successivi. La via Valeria, un prolungamento della via Tiburtina, conduceva al pascolo montano estivo sugli Appennini. Qui sorgeva Alba Fucens, estremo avamposto della civiltà, ai confini con le terre selvagge. Nel cuore della città, su una piazza lastricata, si trovava un tempietto dedicato al dio Ercole. Il foro, costituto da un portico aperto con rampe, è unico nel suo genere e la sua funzione è stata interpretata come mercato del bestiame. Nel tempio era stata eretta una magnifica scultura in marmo raffigurante Ercole a dimensioni sovrumane, replica di una statua che, secondo fonti scritte, sorgeva

al Foro Boario a Roma. Ercole rappresenta il legame simbolico tra pianura e montagna, evidenziando la loro relazione simbiotica nell’economia della transumanza. La presenza di grandi santuari di confine lungo i sentieri della transumanza e l’economia a essi legata non erano un fenomeno nuovo, limitato alle zone della cultura italica. In Grecia esiste un legame affine tra molti luoghi di culto panellenistici, come Delfi e Olimpia, e la pastorizia itinerante. Grazie allo sviluppo dei giochi atletici, delle gare accompagnate da canto, musica e manifestazioni teatrali, questi santuari assunsero, successivamente, un significato che ebbe eco in tutta l’area mediterranea. La posizione geografica di Delfi, dove abbondano acqua e pascoli montani, può essere messa in relazione con la transumanza e l’utilizzo del luogo per l’allevamento. Anche l’amministrazione del santuario da parte dell’anfizionia (associazione a carattere religioso di popolazioni limitrofe unite dal culto della stessa divinità, n.d.r.) aveva alla base l’organizzazione dei diritti di pascolo e le feste annuali che si tenevano a Delfi erano legate alla vita pastorale. a r c h e o 87


speciale • pastorizia

Qui accanto: quadretto a mosaico raffigurante un pastore che suona il flauto mentre pascola i buoi. Età imperiale. Corinto, Museo Archeologico. Nella pagina accanto, in alto: un buttero maremmano con una mandria. Questi cow boy nostrani, insieme ai pastori, sono figure cardine dell’economia del territorio compreso tra Lazio settentrionale e Toscana.

passatempo e comunicazione Ovunque esista una cultura pastorale, esiste una tradizione musicale. I pastori di Arcadia amavano Apollo, dio della canzone e della musica. Nelle arti figurative i pastori e Pan compaiono spesso muniti di uno strumento a fiato, il flauto (aulos) o siringa, che può essere a una o due canne (rispettivamente monaulos e diaulos). I flauti venivano in origine ricavati da canne di giunco ma successivamente si utilizzarono anche altri materiali, per esempio l’osso. In genere lo strumento è costituito da canne di diverse lunghezze, legate insieme da una cinghia (syrinx). A volte il pastore suona, altre volte lo strumento giace negletto a terra. A differenza della lira di Ermes e di Apollo, la siringa era considerata strumento minore della musica greca, a conferma del 88 a r c h e o

piú basso livello sociale del capraio. Le canzoni e la musica avevano enorme importanza nella cultura pastorale: la musica era un segno di civilizzazione e costituiva il contraltare della vita isolata e dell’emarginazione sociale dei pastori, ma era anche uno strumento di lavoro fondamentale, poiché era utilizzata per la comunicazione tra i pastori e con gli animali. L’antica poesia pastorale rivela come uno dei passatempi preferiti dei pastori nei momenti liberi fossero le tenzoni poetiche o canore. Le poesie di Teocrito sono la trasposizione artistica dei canti pastorali siciliani. Nei giorni di festa i pastori si esibivano in pubblico in città e villaggi e in queste occasioni il dialogo veniva improvvisato. Questa forma di poesia estemporanea si è conservata fino ai

nostri giorni e, in zone di grande tradizione pastorale, come Toscana, Lazio e Sardegna, è tuttora praticata dai pastori piú anziani. La maggior parte di loro ha praticato la transumanza e racconta di come, nel tempo libero, si dedicasse alla lettura dei grandi poeti in edizioni economiche, comprate a buon prezzo dagli acquirenti di pellame. La poesia pastorale tradizionale ha cosí potuto attingere nel tempo ai maggiori poeti italiani, quali Dante, Tasso e Ariosto. Esattamente come in Teocrito, i pastori partecipavano alle feste religiose dei villaggi per gareggiare e intrattenere il pubblico. Una forma molto praticata ancora oggi è quella derivata da Boccaccio, recitata a braccio, composta di otto versi in ottava rima, dove la rima deve essere ripresa dall’avversario quando è il suo turno.


seconda guerra mondiale. Parte di loro arrivò in continente con le greggi, trasportate sui traghetti Olbia-Civitavecchia, come in una sorta di transumanza marittima. I Sardi arrivarono in continente per trovare pascolo alle greggi o per lavorare come pastori presso gli allevatori locali. Conducevano spesso una vita misera in baracche e capanne nel territorio. Oggi, gli stessi Sardi, o quelli di seconda generazione, sono proprietari delle greggi e assumono lavoratori albanesi e rumeni. Lo scrittore inglese D.H. Lawrence, in viaggio in Maremma tra le due guerre, descrive un pastore in questo modo: «Nella caverna si

Siringa (o flauto di Pan) in bronzo, da Pompei. I sec. d.C. (integrato nel XIX sec.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

pavoneggia un pastore con gli speroni, che indossa pantaloni di pelle di capra, con una striscia di pelo irto e rossigno lungo la cucitura. Egli sogghigna e beve vino, e immediatamente riconosciamo in lui il fauno dalle gambe pelose. La sua faccia è quella di un fauno, non turbata da preoccupazioni morali. Sogghigna silenzioso e parla sommesso, sospettoso, con l’amico che spilla il vino dai barili. È indubitato che i fauni sono diffidenti, molto diffidenti, specialmente della gente moderna come noi». Un allevatore maremmano dei nostri tempi veste come un qualsiasi cittadino di Roma e ne condivide molti atteggiamenti. Ha le stesse esigenze di un impiegato romano in termini di servizi sociali, educazione dei figli e assistenza sanitaria. E per molti Romani di città conduce una vita invidiabile.

per saperne di piú A quanti desiderino approfondire i molti temi toccati in questo speciale, suggeriamo la lettura del volume che Barbro Santillo Frizell ha dedicato all’argomento: Lana, carne, latte. Paesaggi pastorali tra mito e realtà (Edizioni Polistampa-Mauro Pagliai Editore, Firenze 2012; www.polistampa.com). La studiosa propone un excursus dettagliato e documentato, che ripercorre un arco cronologico assai ampio ed evidenzia, al di là di quelli piú immediati, i numerosi legami fra la storia delle civiltà antiche e la pastorizia.

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storia • storia dei greci/22

Il fascino dei vinti

di Fabrizio Polacco

la superiorità della forza del conquistatore Non sempre si accompagna all’egemonia culturale sullo sconfitto. Vani furono gli strali di Catone il Censore contro l’ellenizzazione del mondo romano: nel II secolo a.C. la raffinatezza della cultura e delle arti greche trionfava ormai inesorabilmente sul «selvatico Lazio»

S

i narra che i Romani si inebriarono per la prima volta delle bellezze dell’arte greca assistendo al corteo trionfale di M. Claudio Marcello vittorioso nell’assedio di Siracusa (212 a.C.). Il console aveva fatto spogliare i templi della città dei loro magnifici capolavori, che divennero cosí il primo bottino «elegante e squisito» (tale lo definisce Plutarco) a sfilare per le vie dell’Urbe. Fu allora che un intero popolo conobbe la «piacevolezza, la grazia e l’attrattiva degli Elleni». L’episodio è significativo, perché il confronto politico militare tra mondo greco-ellenistico e i Romani non ebbe solo rilevanti conseguenze geopoli-

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Due vedute di una statua di Menade, seguace del culto dionisiaco, opera di Scopa, uno dei maestri della scultura greca, attivo tra il 380 e il 330 a.C. Dresda, Staatliche Kunstsammlungen. Dopo la conquista, i Romani «scoprirono» l’arte dell’Ellade e, come affermò Orazio, ne furono a loro volta conquistati.


cacciata dall’Urbe di tre filosofi (tra cui il «famoso» accademico Carneade) che, giunti per un’ambasceria dalla Grecia nel 154 a.C., andavano riscuotendo in pubbliche conferenze uno straordinario consenso da parte dei Romani, soprattutto i piú giovani. Inoltre, Catone intentò una serie di processi, sulla base di accuse finanziarie e moraleggianti, ad alcuni dei personaggi piú illustri di Roma, universalmente considerati «salvatori della patria»: tra i quali vi era il vincitore di Annibale a Zama, Scipione l’Africano, uno dei maggiori esponenti dello schieramento ellenizzante e aperturista. Per fortuna di Roma – e, probabilmente, dell’umanità – le posizioni estremiste di Catone e dei suoi seguaci non ebbero successo. Del resto, in che modo era mai possibile sostenere, come egli faceva, che, se «i Romani si fossero lasciati dominare dalla letteratura ellenica, avrebbero perso il dominio del mondo», quando invece tutti constatavano che Roma consecatone contro guiva la massima espansione carneade Nonostante i Romani politica e militare proprio potessero vantarsi di mentre l’influsso ellenizzante essere i nuovi padroni, era all’apice della sua intensità? questo «imperialismo culturale inverso» non condottieri filelleni mancò di suscitare re- Molto spesso i generali che sistenze e atteggia- conducevano le legioni vittomenti di chiusura in riose in Occidente e in Oriente quanti tra loro se ne erano gli stessi che piú familiaritenevano in qualche rizzavano con la cultura ellenimodo vittime. Massi- ca. Come Tito Quinzio Flamimo oppositore della nino, il primo romano ad aftendenza ellenizzante fu frontare e sconfiggere la falange Marco Porcio Catone macedone. Tanto che, a sostedetto il Censore (234-149 nerlo nel conflitto contro Filipa.C.), che fu tra gli ispira- po V di Macedonia (che già una tor i del provvedimento, volta, nel momento peggiore promulgato e fatto applicare delle guerre puniche, si era dal Senato nel 186 a.C., che schierato con Annibale contro perseguitò ed espulse da Roma Roma innescando la cosiddetta i culti dionisiaci importati «prima guerra macedonica»), dall’Oriente greco. erano scese in campo molte Fu ancora il protagonista della città e leghe elleniche. tiche (in quanto fece sí che una singola potenza unificasse l’intero bacino mediter raneo, evento mai piú realizzatosi nel corso della storia) ma diede origine, su scala di massa, a un fenomeno insolito, che la statunitense Susan E. Alcock ha definito di «acculturazione inversa» (reverse acculturation): esso si verifica quando è il vinto a imporre la sua cultura al vincitore, non viceversa. Ancor piú insolito fu che tale supremazia culturale della grecità venisse riconosciuta non solo, come è ovvio, tra i Greci, ma a Roma stessa. Ben prima degli studiosi moderni, Orazio la affermò in una celebre sentenza: «La Grecia, conquistata, conquistò a sua volta il rozzo vincitore, e introdusse le arti nel selvatico Lazio».

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storia • storia dei greci/22

Certo questo successo diplomatico non era dovuto solo ai modi urbani, conciliatori, e accattivanti di Flaminino, che appena giunto nell’Ellade già sfoggiava una fluente conoscenza del greco. Anzi da quando, nel 276 a.C., anche il regno di Macedonia aveva trovato stabilità politica con l’affermazione della dinastia degli Antigonidi, le poleis si erano già piú volte opposte ai Macedoni per difendere la propria libertà. A tal fine avevano creato entità politiche confederali, le «leghe» (koinai), dotate di organismi e di capi militari comuni con il compito di perseguire una politica estera unitaria. Le confederazioni piú rilevanti erano la Lega degli Etoli, che rese questo popolo padrone di gran parte della Grecia centro-occidentale; e la Lega Achea, la quale, partendo dai piccoli centri dalla regione costiera dell’Acaia, riuscí a unificare gran parte del Peloponneso, liberando infine, sotto la guida di Arato, l’importante città di Corinto dalla dominazione macedone (243 a.C.). Fu anche un tale contesto politico, dunque, che permise al savoir faire di Flaminino di riscuotere nell’Ellade tante simpatie e adesioni.

La crisi di Sparta Nonostante i tentativi di collegare le proprie forze, l’autonomia e la libertà dei Greci erano pur sempre a rischio, sia a causa dei contrasti tra le leghe, sia per la riluttanza di molte città-stato a lasciarsi assorbire dai nuovi organismi confederali. Sparta, per esempio, si trovava allora al punto piú basso della sua parabola: le restavano non piú di 700 uomini liberi discendenti degli Spartiati, appena 100 dei quali dotati di risorse fondiarie sufficienti per godere di pieni diritti politici. Appare quindi comprensibile il tentativo riformatore dei re Agide IV e Cleomente III: richiamandosi alla mitica riforma egualitaria di Licurgo, nella seconda parte del III secolo a.C. iniziarono ad attuare riforme che contemplavano sia l’esproprio e la redistribuzione delle terre ai me92 a r c h e o

Tracia Filippi

Regno di Macedonia

Mare Adriatico Epidamnus

Pella

Abdera

Anfipoli

Tessalonica

Apollonia Dion

Mar Egeo

Larissa Bouthrotos Dodona Corcyra

Cinoscefale

Epiro Ambracia

La Macedonia e il mondo egeo intorno al 200 a.C. Città (data della conquista)

Demetriade

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Lega Etolica

Calcide

Amphissa

Delphi Tebe Aigio Patras Megara Sicione Dyme

Lega Achea

Corinto

Tegea Megalopoli

Guarnigione macedone

Atene

Orcomeno

Elea Olimpia

Messene

222 Battaglie principali

Eretria Oropos

Sellasia 222 Sparta

Regno di Macedonia Stati sotto l'influenza macedone Protettorati romani Regno di Pergamo

M a r

M e d i t e r r aneo

Regno seleucide Stati indipendenti Possedimenti tolemaici

no abbienti tra i cittadini, sia, per incrementarne il numero totale, l’accoglienza tra gli Spartiati di molti Perieci; a ciò si aggiunse una ancor piú audace liberazione in massa dei «servi della gleba», gli Iloti. I due re non esitarono a usare la forza per imporsi, eliminando la magistratura di controllo degli Efori, finché sul loro esempio anche i ceti piú umili di altre città del Peloponneso si mossero per chiedere politiche similari. A questo punto Arato, temendo i rivolgimenti sociali interni piú delle ambizioni della Macedonia, non esitò a capo-

volgere la politica estera della Lega Achea, alleandosi con il re Antigono Dosone in funzione antispartana. Arrivò a cedere di nuovo Corinto ai Macedoni pur di ottenerne il supporto militare. A Sellasia, in Laconia, Sparta combatté cosí l’ultima sua grande battaglia, che la vide soccombere alla strapotenza degli avversari (222 a.C.).

i ceppi dell’ellade E dunque Antigono, quando morí nel 221 a.C., poteva vantarsi di lasciare in mano al successore Filippo V i tre capisaldi strategici


prove tecniche di conquista del mondo Perinthus

Propontide Aemis

Cizico Lampsaco Abydos

Regno di Pergamo

Ilion

Pergamo Mitilene

Cuma Focea

Chio

Eritre

Magnesia 190

Regno seleucide

Smirne

Clazomene Teos

Efeso Priene

Samo

Mileto

Caria

Alicarnasso

D

Cnido

o

de

Cicladi

ca

ne

Rodi

so Lindos

Itanos

Creta

Cnosso Gortina

In alto: l’assetto geopolitico della Macedonia e del mondo egeo intorno al 200 a.C.

detti «i ceppi dell’Ellade»: oltre a Corinto, Calcide in Eubea e Demetriade in Tessaglia. Era questa la situazione in Grecia quando vi sbarcarono gli eserciti romani guidati da Flaminino per combattervi la seconda guerra macedonica (200-196 a.C.). Sia gli Achei che gli Etoli si schierarono con Roma contro Filippo. Grazie anche al loro apporto, il console liberò dapprima dai Macedoni la

226 a.C. Roma firma un trattato con Cartagine riconoscendone la sfera d’influenza sui territori a sud del fiume Ebro. 219 a.C. Annibale attacca Sagunto, città a sud dell’Ebro, da tempo protettorato di Roma, e determina l’avvio della seconda guerra punica. 216 a.C. Annibale sconfigge a Canne i Romani guidati da Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone. 214 a.C. Le truppe romane guidate dal console Marco Valerio Levino si attestano sulla costa illirica. Roma stringe un’alleanza con la Lega Etolica, ostile a Filippo, e con Attalo I re di Pergamo, interessato ai territori macedoni. 212 a.C. Il console Marco Claudio Marcello assedia Siracusa. 205 a.C. Pace di Fenice: Filippo ottenne uno sbocco sull’Adriatico. 202 a.C. Scipione sconfigge Annibale nella battaglia di Zama e decreta la fine della guerra con la vittoria di Roma. 197 a.C. Battaglia di Cinoscefale: Filippo viene sconfitto dalle truppe romane e deve rinunciare ai suoi domini in Grecia. 171 a.C. Scoppia la III guerra macedonica che termina con la sconfitta di Filippo a Pidna, nel 168 a.C., e la divisione della Macedonia in quattro Stati autonomi. 151 a.C. In Africa il re persiano Massinissa, alleato dei Romani, provoca una reazione militare da parte di Cartagine e crea il pretesto per lo scoppio della terza guerra punica. 150 a.C. In Macedonia il condottiero Andrisco raduna un esercito e si batte con i Romani. Il console Quinto Cecilio Metello Macedonico lo sconfigge nel 148 a.C. nella seconda battaglia di Pidna. 146 a.C. In Africa, dopo tre anni di battaglie Scipione Emiliano sconfigge e distrugge Cartagine. Roma dichiara guerra alla lega Achea. Dopo alcune vittorie, i Romani, guidati da Lucio Mummio, assediano Corinto, che viene infine espugnata e data alle fiamme. Qui accanto: ritratto di Scipione l’Africano su un denario emesso da Cornelius Blasio. 112-111 a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. In basso: il profilo di Filippo V di Macedonia su un tetradramma in argento. 211 a.C. (?). Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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storia • storia dei greci/22

Grecia centrale, quindi affrontò in Tessaglia presso le alture di Cinoscefale le truppe avversarie, guidate dal re in persona. La rinomata falange messa a punto da Filippo II e Alessandro Magno venne clamorosamente sconfitta in campo aperto (197 a.C.). Dopo quella vittoria epocale, Roma avrebbe potuto annet-

tersi parti della penisola ellenica o puntare direttamente ad abbattere il regno di Macedonia. Ma la politica adottata da Flaminino con il consenso del Senato fu quella di proclamare, nel corso dei Giochi Istmici del 196 a.C., la «libertà» delle poleis elleniche, e di imporre a Filippo solo la rinuncia alla flotta e ai domini in Grecia, nonché il pagamento di un tributo di guerra. Insomma Roma, anziché imporsi come padrona, ambiva a presentarsi come arbi-

tro e garante dei difficili equilibri tra gli Stati della penisola. La scelta moderata dei filelleni si rivelò provvidenziale quando, pochi anni dopo, Roma giunse a scontrarsi con la piú potente delle monarchie ellenistiche, quella dei Seleucidi.

signori d’anatolia Costoro dominavano ancora gran parte del Medio Oriente e dell’Anatolia, e anzi il re Antioco III il Grande si era coperto di gloria in una fortunata spedizione in Oriente (212-205 a.C.) con cui aveva ripreso gran par-

L’età d’oro di Rodi Alla fine del V secolo a.C. le tre antiche poleis dell’isola dell’Egeo sud-orientale si erano fuse nel centro di Rodi, che si affermò come importante scalo commerciale

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te dei territori già conquistati da Alessandro. Profittando dell’indebolimento del regno macedone, si era messo poi a occupare le città greche dell’Ellesponto e della Tracia, dando a vedere di voler estendere i suoi domini fino all’Europa. I confini statali di Roma, è vero, si fermavano a quel tempo ancora al mar Ionio: ma le antenne della diplomazia e l’occhio vigile dei suoi alleati, soprattutto Eumene II re di Pergamo e la Repubblica di Rodi, sorvegliavano l’intero Oriente mediterraneo. L’affacciarsi di

soprattutto quando, dopo Alessandro, il Mediterraneo orientale divenne un «lago greco». Dotata anche di una potente flotta militare, Rodi fu sottoposta al duro assedio di Demetrio Poliorcete («l’Assediatore di città»), che tuttavia non riuscí a espugnarla (305/4 a.C.). Quasi un ex voto per quella salvezza fu il Colosso di bronzo dedicato a Elios, alto 30 m, eretto da Cratete di Lindo sul porto dell’isola. Considerato una delle Sette meraviglie del mondo, fu abbattuto da un terremoto nel 227/6 a.C. Per fortuna l’arte rodiese ci ha lasciato, in originale o in copia, altri capolavori universali, quali la Nike di Samotracia e il Laocoonte. La città, che aveva creato anche il primo codice di diritto marittimo dell’antichità, dopo essere stata a lungo alleata dei Romani fu punita per il suo comportamento ambiguo nella guerra contro Perseo. E l’istituzione della vicina isoletta di Delo quale porto franco la privò del benessere e del prestigio di cui aveva goduto in età ellenistica.

Qui accanto: la Nike di Samotracia (nome dell’isola dell’Egeo settentrionale da cui proviene), uno dei capolavori dell’arte rodiese. 190 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: il gruppo scultoreo del Laocoonte, attribuito a tre scultori di Rodi, Atenodoro, Agesandro e Polidoro. L’opera, scoperta a Roma nel 1506, si data tra il 40 e il 20 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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storia • storia dei greci/22

Antioco sull’Egeo venne considerato un potenziale pericolo, e i Romani alla fine si decisero a intervenire. Il re di Siria ricevette perciò un inatteso ultimatum: rinunziasse alle sue recenti acquisizioni, oppure si aspettasse la guerra da Roma. È facile immaginare lo stupore, forse l’indignazione di questo monarca, erede di Alessandro, quando ricevette il brusco altolà. In che cosa stava egli danneggiando gli interessi dei Romani? Proprio non capiva perché si occupassero delle sorti delle poleis greche degli Stretti, quando lui non si interessava minimamente ai loro domini italici.

I Romani in Oriente Il contrasto tra Roma e Antioco precipitò in conflitto aperto nel 192 a.C. anche a causa delle manovre degli Etoli. Questi erano insoddisfatti poiché avevano dovuto rinunciare a un’estensione dei propri domini in Grecia dopo la vittoria su Filippo V, proprio in nome della «libertà» generale proclamata da Flaminino; e iniziavano perciò a rendersi conto che quella esercitata da Roma, seppur dolce, era pur sempre una forma di egemonia. Fu cosí la Lega Etolica a chiedere ad Antioco di sbarcare con un esercito in Grecia, garantendogli il proprio appoggio e quello degli altri Elleni. Il monarca seleucide avrebbe potuto, nell’occasione, far tesoro di un consigliere militare eccezionale, che ben conosceva i Romani. Annibale, esule da Cartagine, si era infatti rifugiato presso la sua corte, accolto con tutti gli onori. Ma Antioco non ascoltò i suoi suggerimenti, che lo mettevano in guardia dal credere in una troppo facile vittoria, e si presentò in Grecia con un esercito relativamente piccolo (diecimila uomini), che fu travolto mentre cercava di sbarrare il passo dei nemici nella strettoia delle Termopili. Ancor piú grave fu che né gli Achei né la Macedonia, prevedendo l’esito del conflitto, si mossero in suo aiuto, sicché ben presto le legioni gui96 a r c h e o

date da L. Cornelio Scipione (il fratello dell’Africano) passarono al contrattacco in Asia Minore. Il numeroso ma composito esercito seleucide fu sbaragliato a Magnesia presso il Sipilo, in Lidia (inverno 190/189 a.C). Il re fu costretto non solo a rinunziare alle sue mire eu-

ropee, ma a cedere ai Rodii e a Pergamo tutta l’Anatolia al di qua dei monti del Tauro. Dovette inoltre pagare a Roma una indennità di 15 000 talenti e consegnare la flotta e gli elefanti da guerra. Filippo V si era dimostrato leale verso i Romani nel corso del con-

la mossa vincente di lucio emilio paolo Plutarco ci illumina su come i Romani riuscirono ad avere la meglio sulla falange macedone. Con le fitte schiere di fanti, preceduti ciascuno sul davanti da ben cinque punte di lancia, questa risultava infatti praticamente inattaccabile frontalmente: «Quando Emilio accorse, trovò le schiere dei Macedoni con le punte delle picche già infilzate negli scudi dei Romani, cosicché questi non riuscivano a raggiungerli con le proprie daghe (…) Dinanzi alla saldezza degli scudi affiancati dei Macedoni e alla potenza del loro urto, un fremito di paura gli corse per le vene». Ma il generale ebbe la prontezza di capire che la forza e l’efficacia della falange erano collettive, e che erano destinate a svanire non appena il suo ordine veniva spezzato.


A destra: denario in argento emesso da un discendente di Lucio Emilio Paolo per commemorare la vittoria di Pidna. 71 a.C. In basso: acquerello che ricostruisce un momento della battaglia di Pidna, combattuta nel 168 a.C. e vinta dal console romano Lucio Emilio Paolo contro il re Perseo di Macedonia.

Poiché il terreno del campo di battaglia era accidentato e ineguale, osservò che in alcuni punti lo schieramento avversario presentava degli intervalli. Perciò ordinò ai suoi reparti (si ricordi che la legione era suddivisa in agili «manipoli») di buttarsi in quegli spazi: «Essi si infilarono tra le linee dei nemici e le divisero, e poi alcuni li aggredivano ai fianchi, dove non avevano difese, altri li aggirarono e li presero alle spalle». Nella successiva lotta corpo a corpo le lunghe sarisse macedoni divennero inutili, e le potenti daghe dei Romani ebbero la meglio sui corti pugnali dei fanti di Perseo.

flitto contro Antioco. Ma il suo successore, Perseo, si mise gradualmente e con abilità a ricostituire le forze del regno, riscuotendo per di piú crescenti simpatie presso i Greci: una politica che il Senato non poteva accettare, e che portò ben presto allo scoppio del terzo conflitto macedonico (171 a.C.). Pochi, a parte gli Illiri e gli Epiroti, osarono schierarsi in difesa del giovane re, che fu battuto e fatto prigioniero dal console Lucio Emilio Paolo a Pidna, nel 168 a.C. (vedi box qui accanto).

Un trionfo fatidico Questa volta, Roma gettò via la sua maschera benevola: il regno che era stato di Alessandro fu abbattuto, la Macedonia smembrata in quattro innocui staterelli. Le città dell’Epiro vennero distrutte e 200 000 loro abitanti venduti come schiavi. Per garantirsi da rischi futuri, un migliaio tra i personaggi piú in vista della Lega Achea vennero condotti in ostaggio a Roma. Questa volta, fu un re ellenistico in persona a sfilare incatenato davanti alla plebe dell’Urbe: le ricchezze depredate erano tali che a partire da quell’anno e per oltre un secolo i Romani non furono piú tenuti ad alcun versamento fiscale all’erario. Ma assieme ai tesori, alle opere d’arte e agli illustri prigionieri, questa volta sui carri del trionfo di Emilio Paolo facevano mostra di sé anche migliaia di volumi della biblioteca reale; e tra gli ostaggi achei ve ne era uno, Polibio di Megalopoli, che sarebbe divenuto amico e maestro del figlio del generale che procedeva a testa alta con la sua corona d’alloro; un giovane destinato anch’egli a gloriosa carriera: Scipione l’Emiliano. La Grecia, pur vinta, si apprestava a conquistare il rozzo vincitore. (22 – continua) a r c h e o 97


archeotecnologia • balestra cinese

LEGIONARI

ROMANI IN CINA? di Flavio Russo

Acquerello che ricostruisce un contingente di legionari in marcia. Basandosi su testimonianze contenute negli Annali della dinastia imperiale degli Han, è stato ipotizzato che un manipolo di soldati romani sopravvissuti alla sconfitta di Carre si fosse stabilito in Cina.

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Nel 53 a.C. Crasso subisce la disfatta di Carre. Quasi vent’anni dopo le milizie dell’impero cinese catturano un manipolo di mercenari al servizio degli Unni, il cui accampamento fortificato ricorda un castrum. È possibile che gli attuali abitanti della contea di Yongchang siano i discendenti di una legione romana? La risposta potrebbe trovarsi in un bassorilievo custodito… nel cuore della Francia!

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archeotecnologia • balestra cinese A destra: particolare di una statua in bronzo raffigurante un guerriero partico. I sec. d.C. Teheran, Museo Nazionale.

Caledoni Frisi

Iberni

Iuti Eruli Angli Sassoni

Estoni Scirians

Alamanni Vandali Marcomanni Quadi

Sarmati

Goti

Bastarni Rossolani

Unni

Alani Legae

Colchide Iberia

Impero romano Berberi

Qui sopra: ritratto tradizionalmente identificato con quello del triumviro Marco Licinio Crasso. Tarda età imperiale. Parigi, Museo del Louvre.

N

Hatra Palmira Getuli

Tribú nomadi sahariane

Albania

Altropatene

Impero dei Parti

Nabatei

Garamanti

Meroe

Gerrha

S o

Mascat?

Blemmi

Alodia

Nok

Impero kushana

Persia

Tribú arabiche

Popoli del Mande

egli anni Cinquanta del Novecento, Homer H. Dubs (1892-1969), docente di storia cinese a Oxford, espose una teoria singolare, suggeritagli dagli Annali della dinastia degli Han (206 a.C-220 d.C.). Stando alla sua traduzione, nel 36 a.C., durante gli scontri fra le forze imper iali cinesi e l’orda dell’unno Jzh Jzh, in questa si sarebbero distinti 145 mercenari che, catturati dopo la sconfitta, a differenza del loro comandante, subito decapitato, furono graziati per il loro valore e autorizzati a fondare un proprio villaggio. Per le tattiche di combattimento ascrittegli e il tipo di fortificazione che difendevano, Dubs ipotizzò che si trattasse di un gruppo di legionari romani sopravvissuti alla disfatta di Carre del 53 a.C. Quale che sia la realtà, negli elenchi dei centri abitati della Cina, nella provincia settentrionale di Gansu, ve ne era uno chiamato Li-chien (o Liqian, che si pronuncia ligian), con una certa assonanza con il latino legio, di cui per alcuni storici sareb-

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Armenia

Corasmia

Unni Bianchi

Himyar Axum

Hadhramaut

Qataban

Kadambas Puzhianadu

Semiti

(Kerala)

Cheras

(Dimyrice)

Qui sopra, sulle due pagine: l’assetto geopolitico e le popolazioni dell’Occidente e dell’Oriente all’epoca della dinastia Han e, dunque, della diffusione della balestra descritta nell’articolo. Nella pagina accanto, in alto: resti di un’impugnatura di balestra Han. Nel foro quadrato era trattenuto l’arco. In basso: i volti di alcuni abitanti odierni della contea di Yongchang, che mostrano tratti somatici simili a quelli europei.

be la mera trascrizione fonetica. Secondo altri, e la tesi non è in stridente contrasto, in Cina il termine Li-chien non solo era straniero, ma indicava l’impero romano. Per l’esattezza, Li-chien sarebbe stata la traslitterazione del nome di Alessandria, città presa a suo simbolo. Inoltre, ed è l’aspetto che per molti versi ha confortato la suggestiva ipotesi, gli attuali abitanti del villaggio presentano caratteristiche so-

matiche ben diverse da quelle spiccatamente cinesi, con tratti di tipo occidentale, che gli stessi attribuiscono ai loro remoti progenitori.

la parola al DNA Test condotti nel 2010 hanno per certi versi confermato l’ipotesi: il 56% del DNA di molti residenti è di origine caucasica, con legami genetici di tipo europeo e caucasico, persi dalla restante popolazione


Genti siberiane Tungusi

Gaoche (Proto-Turchi)

Mukriz

Xianbei

Xiongnü settentrionali

Ainu

Xiongnü meridionali

Impero degli Han

Tribú tibetane

Magadha Nagas Bengala Satrapie occidentali Kalinga Arakan (Maesolia) Satavahana Pallavas

Ay

Cholas Pandyas

Pyu

Yamato

Thai Khmer

Funan

gno 2013). Per divenirlo, occorrerebbe il ritrovamento di qualche reperto, sicuramente romano, finora ignoto. In ogni caso, questi sono i prodromi della vicenda.

Qui sopra: i resti delle fortificazioni di Merv, nel Turkmenistan, simili a quelle dei castra legionari.

cinese oltre 35 000 anni fa! In tombe locali risalenti a due millenni prima, sono stati rinvenuti scheletri di altezza anomala, uno, in particolare, di 1,80 m, statura mai prima d’allora attestata per il luogo e per l’epoca. Il che, tuttavia, non prova affatto la discendenza dai Romani, dal momento che al medesimo ceppo appartenevano anche i popoli iranici, restando perciò una condizione necessaria, ma non sufficiente (vedi «Archeo» n. 340, giu-

verso la disfatta Realizzato il triumvirato fra Cesare, Pompeo e Crasso, a quest’ultimo, nel 56 a.C., fu concessa la piena libertà d’azione contro la Partia. Nella primavera del 53 i Romani attraversarono l’Eufrate, penetrando nel deserto ai primi di maggio, senza allontanarsi troppo dal fiume Belik, lungo la cui sponda entrarono in contatto coi Parti. La schiacciante superiorità numerica dei legionari nulla poté contro i nugoli di frecce che, senza sosta, li massacrarono. Un nuovo assalto, condotto dal figlio di Crasso, si concluse con la sua morte e con perdite ancora maggiori. Nella notte, un gruppo di fuggiaschi, abbandonati i tanti feriti e tallonato dal nemico, raggiunse Carre, dove costrinse Crasso alla resa: una umiliazione che non evitò ai primi la schiavitú e al secondo la decapitazione. Terribile fu il bilancio: al-

meno 20 000 legionari avevano perso la vita nei combattimenti, mentre una metà dei sopravvissuti era stata catturata, e l’altra a stento si era salvata. Sarebbero occorsi 33 anni affinché i pochissimi ancora in vita fossero liberati da Augusto, e dai loro racconti ben poco si apprese sulla sorte dei commilitoni, alcuni dei quali, a loro dire, si sarebbero trasformati in mercenari ammogliandosi con donne locali, dopo la deportazione in Margiana, a oltre 1500 miglia dall’ultimo avamposto romano. Notizie che, decenni dopo, furono riportate da Plinio (NH VI, 47), e Orazio (Odi III, 05,5). Il primo descrisse anche la regione, attraversata dalla via della seta – attuale Turkmenistan –, tra l’Ircania e la Battriana. Il secondo, invece, stigmatizzò proprio tale scelta: «Il legionario di Crasso è dunque sopravissuto come turpe marito di una barbara? O Curia, o costumi ributtanti! Hanno servito nell’esercito dei suoceri sotto re Medi dimenticando la Marsica e la Puglia». A rendere l’ipotesi di Homer Dubs meno peregrina, contribuisce, come accennato, la fortificazione che i misteriosi mercenari difendevano dall’assalto delle truppe imperiali, forse Merv in Turkmenistan: un vallo sormontato da una duplice palizzata di tronchi appuntiti, cioè un sistema privo di analogie asiatiche ma precipuo dei castra legionari! L’attenzione riservata alle gesta di quel pugno di uomini, in uno scontro fra decine di migliaia, ne lascia supporre un qualche tratto distintivo a livello fisionomico, il solo in grado di consentirne la facile individuazione. Una diversità che spiega il trattamento insolitamente generoso, culminato con la concessione di un villaggio. Lí si sarebbe originata l’enclave etnica che, perpea r c h e o 101


archeotecnologia • balestra cinese

tuandosi, avrebbe prodotto l’odierno etnotipo. La tesi è respinta dai critici, in quanto matrimoni misti, reiteratisi per una settantina di generazioni, avrebbero presto dissolto l’iniziale patrimonio genetico europeo, subito dimezzato per l’inevitabile unione con donne cinesi. Ma quest’ultimo aspetto è il meno scontato, poiché i legionari erano soliti portare al seguito donne a loro in qualche modo legate. Spesso, poi, esse erano originarie del paese di stanza, per cui è probabile che, dopo essersi stabiliti in Sogdiana all’indomani della disfatta, in breve vi formassero nuclei familiari con donne locali, ovviamente non cinesi, come ironizzava Orazio, portandole in seguito con sé. In teoria, un gruppo iniziale di coppie relativamente consistente avrebbe perciò permesso di evitare a lungo le unioni miste, contribuendo anche l’isolamento geografico a minimizzare la contaminazione razziale. Si spiegherebbero cosí i tratti somatici europei dell’odierna popolazione del Yongchang: occhi chiari, capelli castani, spesso rossicci o biondi, altezza media decisamente superiore a quella cinese. Forse non sono peculiari del tipico Romano italico, ma piuttosto di quello centro-europeo, spiegabile con il fatto che nelle legioni militavano allora numerosi elementi germanici.

l’arma segreta Nello stesso scorcio storico rievocato, i Cinesi custodivano gelosamente il segreto di una produzione squisitamente militare: il congegno di sgancio di una evoluta balestra, in dotazione all’esercito imperiale. L’arma, che in Occidente si diffuse solo nel secondo Medioevo, già allora, invece, vantava in Oriente una lunga tradizione, risalendo forse addirittura al XII secolo a.C., e, nel corso del suo prolungato impiego, fu oggetto di ripetuti perfezionamenti. Consci della sua rilevanza, i governanti cinesi ne proibirono l’espor102 a r c h e o

tazione, concedendo solo a un ristretto gruppo dei migliori artigiani di fabbricarla. Del resto, poiché l’esercito imperiale operava a nord contro le tribú mongole e a nord-ovest contro quelle unne, il rischio della diffusione di una siffatta balestra in caso di cattura appariva trascurabile, in quanto i suddetti nomadi non disponevano della tecnologia necessaria per riprodurla. Tuttavia, il ritrovamento di una parte di balestra Han del I secolo, a Taxila, presso Rawalpindi (Pakistan), autorizza piú d’una ipotesi sull’area effettiva di massima diffusione, tanto piú che due curiosi rilievi, datati al I-II secolo e conservati nel Museo Crozatier di Le Puy-en-Velay, nella Francia centrale, ripropongono la questione. Si tratta di opere di matrice gallo-romana, raffiguranti due balestre: la prima su di un cippo funerario, scoperto nel 1834 nella chiesa di Solignac-sur-Loire, e la seconda sul frammento del fregio di una villa. La loro anomala connotazione sembra, infatti, accreditarne l’origine cinese.

come una pistola La balestra Han differiva dalle medievali, e da tutte quelle avvicendatesi in Occidente dal IX-X secolo in poi, proprio per l’adozione di quel congegno di sgancio. Il modello piú avanzato dei pochi conosciuti era composto di quattro pezzi in bronzo, ottenuti per fusione: tre mobili fra loro, mediante due perni, alloggiati in un quarto, destinato a sua volta a incastrarsi nel teniere di legno. Due risalti rotanti, la «noce», sporgendo sopra il fusto, trattenevano la fune: una levetta superiore la bloccava, armando la balestra, e una inferiore, una sorta di grilletto, la liberava, provocando il tiro. Quest’ultimo per impedire lo sgancio accidentale, era protetto da un archetto metallico, propriamente detto «ponticello», come nelle moderne armi da fuoco. Quanto sensibile ed efficace fosse tale congegno

balestra medievale

Balestra medievale vista dall’alto: al massimo del caricamento, la corda raggiunge la posizione centrale del fusto dell’arma, dove è trattenuta dalla «noce». La parte restante del fusto forma il «teniere», progenitore del calcio del fucile.

lo conferma la mancanza della lunga leva di sgancio, indispensabile nelle balestre occidentali per vincere la forte resistenza della noce. Mancando tale leva, il teniere poteva essere vistosamente accorciato, con una impugnatura «a pistola», posta sotto la noce, che consentiva di tirare anche con una sola mano. Il congegno fu prodotto in un numero enorme di esemplari, rendendo l’arma cosí economica da dotarne quasi l’intero esercito. La balestra Han somigliava, insomma, a un’odierna pistola-mitragliatrice.Vista dall’alto, la differenza che balza agli occhi è la posizione della noce sulla coda del teniere e non al centro, come in tutti i modelli europei, che rendeva l’arma vistosamente piú corta. Nel bassorilievo di Le Puy è raffigurata una balestra che ha la noce all’estremità posteriore, con un piccolo pomolo per la presa, un particolare che ne tradisce la stretta affinità con la balestra Han, della quale un paio di meccanismi di scatto sembrerebbero essere stati ritrovati proprio in Francia.


balestra han

balestra di le puy Qui sotto: rilievo raffigurante una balestra, dalla chiesa di Solignac-sur-Loire. I-II sec. d.C. Le Puy-en Velay, Musée Crozatier. Come nell’esemplare cinese, la corda, al termine del caricamento, si trova quasi all’estremità del fusto, dove è trattenuta da un congegno di sgancio che non può essere, per il ridotto spazio restante, quello occidentale, ma soltanto uno di tipo Han.

A differenza di quella medievale occidentale, nella balestra Han, al termine del caricamento, la corda raggiunge l’estremità del fusto, dove è trattenuta da un particolare congegno di sgancio in bronzo. Il teniere è ridotto a una semplice impugnatura «a pistola», con il relativo grilletto protetto da un archetto anteriore.

Ricostruzione grafica del congegno di sgancio di balestra Han. Leva di bloccaggio al termine del caricamento della balestra.

Identica, stando al pomolo e all’arco, è anche la seconda, parzialmente coperta dal braccio del detentore. Essendo una connotazione anomala, del tutto priva di analogie in Occidente prima nei grastrafete e poi nelle balestre, è lecito supporla influenzata dalla balestra Han, se non addirittura tratta o riprodotta da una di esse. La singolare coincidenza di ritrovare le uniche due raffigurazioni a poca distanza fra loro, sembrerebbe tramandarne un esemplare in zona, per cui il riscontro cercato a Lichien potrebbe essere individuato a Le Puy! È verosimile immaginare che l’arma del bassorilievo di Solignac vi fosse stata portata da uno dei sopravvissuti a Carre e agli scontri del 36 a.C. con i Cinesi, accodatosi a qualche carovana di mercanti lungo la via della seta, con quel prezioso cimelio, che doveva essere per lui anche una testimonianza fondamentale.

Sporti rotanti, con funzione di noce, destinati a trattenere la corda al termine del caricamento fino allo scatto.

Alloggiamento nell’impugnatura a pistola che favorisce la corsa del grilletto al termine dello sgancio.

Grilletto della balestra Han, protetto da un ponticello anteriore simile a quello delle moderne armi da fuoco individuali. La balestra non aveva un teniere propriamente detto, ma una avveniristica impugnatura a pistola.

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

A

Roma, al centro dell’area dei Fori Imperiali, tra i mercati di Traiano e il foro di Augusto, svetta la Casa dei Cavalieri di Rodi. Dalla sua splendida loggia, sovrastante un tempo il quartiere dei Pantani, si gode un panorama ravvicinato non solo sul vicino Campidoglio e sull’area archeologica creata con le demolizioni del ventennio fascista, ma sui tetti e le cupole di tutto il centro storico di Roma. Le origini dell’edificio su cui sorge la Casa dei Cavalieri rimontano alla tarda età repubblicana e al tempo di Augusto, quando fu eretto il grande muro di blocchi di peperino che cingeva il suo nuovo foro. Su quel muro carico di storia e ancora perfettamente in piedi la Casa si appoggia e si fonda. La si scorge oggi al di sopra di un’alta sostruzione in mattoni, denominata «terrazza domizianea», nella quale gli archeologi hanno riconosciuto ciò che resta di una fontana monumentale innalzata – poco prima della costruzione del foro di Traiano – là dove l’acquedotto Marcio si diramava verso il Campidoglio.

il convento basiliano

per una casa aperta un recente incontro di studi ha puntato l’obiettivo sulla magnifica casa dei cavalieri di rodi a roma. con l’auspicio che il gioiello sorto tra il foro di augusto e i mercati di traiano sia presto valorizzato e aperto al pubblico 104 a r c h e o

Nel IX secolo, dopo l’abbandono del foro di Augusto, sulle strutture del tempio di Marte Ultore che sorgeva al suo interno, fu costruito un piccolo oratorio dedicato a san Basilio, con relativo convento, che, in età romanica, fu dotato di un caratteristico campanile, immortalato in infinite vedute, per la sua eccentrica posizione al di sopra delle tre colonne superstiti del tempio. Dal XIII secolo il complesso venne in possesso del ramo ospitaliero dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme e, nel 1312, il priorato romano dell’Ordine vi si stabilí, utilizzando come sede il Palatium vetus, cioè l’antico convento basiliano. Ma l’edificio della Casa subí una


Sulle due pagine: due vedute della Casa dei Cavalieri di Rodi, nata come sede del priorato romano dell’Ordine. ristrutturazione radicale quando il cardinale Marco Barbo assunse l’amministrazione del complesso e, in pochi anni, tra il 1467 e il 1470, diede all’edificio le forme che ancor oggi ammiriamo, sia pure dopo i restauri seguiti alle demolizioni effettuate negli anni Trenta del Novecento del quartiere «alessandrino», che aveva preso il nome dal cardinale Bonelli, nativo di Alessandria, che lo aveva edificato nel XVI secolo. A lui si deve la celebre loggia, le cui pareti furono decorate da pitture, oggi ancora parzialmente conservate e alle quali lavorò anche il Pinturicchio. Con la perdita di Rodi (1522) l’antico ordine dei Cavalieri entrò in una lunga crisi. Nel 1566 il cardinale Bonelli trasferí il priorato all’Aventino e papa Pio V insediò nella sua antica sede un convento di Domenicane. La loggia fu allora chiusa da tamponature, per ricavare due grandi dormitori. Nel 1930 il convento fu demolito e l’edificio superstite divenne proprietà del Comune di Roma, che nell’immediato dopoguerra lo restaurò per opera di Guido Fiorini, riassegnandolo in uso al Sovrano Militare Ordine di Malta, erede degli antichi Cavalieri di Rodi. Il piano inferiore fu allora adibito ad Antiquarium dei Fori Imperiali. Le alterne vicende che hanno coinvolto l’immagine e la funzione di quel tratto di città non hanno dunque tolto centralità a quel particolarissimo edificio: a fronte dei violenti interventi urbanistici che portarono alla sparizione del quartiere «alessandrino», quella che va rimarcata è dunque la sua straordinaria continuità di vita, che ha attraversato le continue trasformazioni del paesaggio urbano, ulteriormente mutato dopo gli scavi del foro di Traiano condotti in questi ultimi quindici anni. Quegli scavi hanno portato nuova

vitalità all’intero complesso. La rinascita – anni or sono – dell’area dei mercati di Traiano come grande spazio espositivo all’interno di un complesso archeologico monumentale ha riportato l’attenzione anche sulla loggia dei Cavalieri, che in questi ultimi anni ha visto convergere su di sé una nuova stagione di indagini e di studi di carattere storico, archeologico, architettonico e storico-artistico.

storia e stratigrafia Da queste esperienze è nata l’idea di organizzare una giornata di incontro e discussione – curata da Letizia Abbondanza e da Lucrezia Ungaro in collaborazione con l’Istituto Archeologico Germanico e l’Istituto Storico Austriaco – per riflettere sui modi piú efficaci per restituire alla Casa dei Cavalieri e alla sua loggia il posto che le compete come ulteriore elemento di un sistema, che – senza mettere in discussione il suo ruolo come sede dell’Ordine di Malta – ne valorizzi forme e funzioni nel circuito del nuovo Museo dei Fori Imperiali. Il titolo stesso di quell’incontro, La Casa dei Cavalieri di Rodi. Stratigrafia storica di un monumento, rivela i dati caratteristici del problema posto da un grande manufatto edilizio da comprendere nella sua

evoluzione storica anche attraverso la lettura stratigrafica propria dell’archeologia. Nascono cosí i primi embrioni di un progetto di Museo della Casa, che non mira tanto a farne un contenitore di oggetti da esporre, quanto piuttosto l’attore della propria rappresentazione: un edificio che può raccontare la sua storia affascinante. Le idee non mancano. Tra queste speriamo che si realizzi quella che prevede la restituzione del ponte che univa un tempo la Casa al settore orientale dei mercati di Traiano: un collegamento pedonale nuovo, piú o meno là dove un tempo correvano le arcuazioni dell’acquedotto che alimentava la fontana monumentale del tempo di Domiziano. C’è solo da augurarsi che il progetto vada avanti con l’accordo di tutte le parti interessate. Come cittadino, mi auguro di tutto cuore che il progetto preveda la possibilità non solo di vedere e ammirare gli ambienti e le loro decorazioni, ma di viverli nel rispetto delle esigenze di chi li usa per altre finalità. Mi prenoto quindi sin d’ora per sedermi non appena possibile a un tavolino all’ombra della loggia, bere un caffè e leggere un buon libro affacciato su Roma e al tempo stesso dentro le mura accoglienti di uno dei suoi gioielli architettonici.

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

l’oro di cirene originario della libia, il silfio fu l’erba piú ricercata da medici e buongustai dell’antica roma. fino a quando, crescendo soltanto allo stato selvatico, non finí con l’estinguersi. con grande rimpianto di trimalcione e compagni...

T

ra le erbe piú comuni utilizzate dai Romani a scopo terapeutico oltre che culinario, il cumino valeva contro i disturbi della digestione e il meteorismo, la tosse e le coliche; la finocchiella era un antinfiammatorio ed epatoprotettore; il timo, vermifugo e antisettico. Come lo erano i capperi, a cui si riconoscevano proprietà diuretiche e depurative, al pari dell’ortica che era, inoltre, cardiotonica, antianemica, antireumatica, antiallergica, antidiarroica. All’anice, usato pure come digestivo, s’attribuivano proprietà anticatarrali e soprattutto antiumorali; al porro, proprietà astringenti e una certa efficacia contro le calcolosi renale e vescicale. All’origano si riconosceva l’azione stimolante dell’apparato digestivo e della secrezione biliare; alla menta (inserita nel panis militaris a lunga conservazione destinato ai legionari), proprietà toniche, antisettiche, antispasmodiche; alla ruta, proprietà antiemorragiche e antireumatiche; al sedano proprietà diuretiche e depurative. La salvia – detta salvatrix, per i suoi molteplici

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effetti, sia a uso interno sia esterno (come quello per la pulizia dei denti) – valeva contro l’epilessia, la paralisi, la letargia. Del tutto singolare è poi la notizia di Plinio secondo cui alcuni semi di coriandolo (usato pure come febbrifugo e antiflogistico), messi sotto il cuscino facevano sparire il mal di testa.

al cospetto del re Quella però che potrebbe essere considerata l’autentica «regina» delle erbe apprezzate, insieme, da medici e buongustai, era il silfio, per dirla alla greca (silphion), o il laserpizio (laserpicium), come la chiamavano i Romani. Essa aveva l’unico «difetto» di crescere solamente nella regione predesertica a sud di Cirene.

Cosa che fece la fortuna di quella città (la quale sulla sua esportazione basò lungamente la propria economia), ma ne mantenne il prezzo sempre assai elevato. In un celebre esemplare di ceramica «laconica», databile verso la metà del VI secolo a.C. – la cosiddetta «coppa di Arkesilas» – contro lo sfondo di una nave dalla grande vela bianca, sono raffigurate le operazioni di pesatura e di stivaggio del prezioso prodotto (essiccato o impastato con farina) addirittura alla presenza e con la supervisione del re, Arcesilao II. Del silfio si usava il succo, un lattice resinoso, dal sapore leggermente agliaceo, detto in latino laser. Una volta estratto, si solidificava a contatto con l’aria, assumendo un aspetto ceroso. La pianta si trovava


A bordo di una nave, Arcesilao II, re di Cirene (a sinistra) controlla la pesatura del silfio, particolare della decorazione di una coppa laconica, da Vulci. 565-560 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

però solo allo stato selvatico e, non potendo essere coltivata, dopo che per secoli se n’era fatto uno sfruttamento indiscriminato – e scriteriato (visto che i pastori lo lasciavano brucare da pecore e mucche, nella convinzione che facesse loro bene) – presto cominciò a scarseggiare, poi finí, praticamente, con lo sparire (e per l’economia di Cirene, che l’immagine del silfio aveva impresso sulle proprie monete, fu la rovina).

pagato a peso d’oro Al tempo di Augusto, divenuto una rarità, lo si pagava a peso d’oro. Ma già nel 93 a.C., come attesta Plinio il Vecchio, ne erano state importate a Roma 30 libbre a spese dello Stato, per iniziativa dei consoli Caio

Valerio e Marco Erennio (e il ricordo di quell’acquisto, tramandato per oltre un secolo e mezzo, sta a testimoniare l’importanza dell’evento). Cesare poi – sempre secondo quanto riferisce Plinio (XIX,40) – ne prelevò dall’erario pubblico (dove doveva essere conservato come una preziosità, insieme all’oro e all’argento), ben 1500 libbre (pari a 490 kg). Proprio al tempo di Plinio, un esemplare della pianta fu considerato talmente eccezionale che se ne fece un omaggio personale a Nerone (ma ancora all’inizio del V secolo, il filosofo cristiano Sinesio, che era di Cirene, ringrazia in una sua lettera il fratello per avergliene fatto dono). Praticamente scomparso il silfio cirenaico, se ne cercò un sostituto che fu trovato in Medio Oriente, nel regno partico (dalla Persia all’Afghanistan, dove cresce ancora in abbondanza), ma di una qualità assai inferiore. L’odore del laser Parthicus o Siriacus, come venne chiamato, era infatti piuttosto acre e penetrante. Tuttavia il gradimento non mancò (anche perché fu presto dimenticato il gusto delicato e profumato di quello cirenaico), a giudicare dal largo consumo che se ne continuò a fare, nonostante i prezzi rimanessero sempre assai elevati e quindi alla portata solo dei ricchi. In Oriente si usa ancora, specie in certe regioni dell’India meridionale, ed è possibile acquistarlo anche da noi, nelle rivendite specializzate, chiedendo dell’assafetida degli Indiani, con la quale viene identificato. Nell’antica Roma il silfio, usato in dosi minime come condimento, era molto apprezzato. Plinio il Vecchio lo decantava (XIX,39 e XXII,106) ricordando come fosse «annoverato tra i piú grandi doni della natura»: «inter eximia naturae dona enumeratum». Nella famosa Cena di Trimalcione del Satyricon, uno schiavo decanta con voce stridula una salsa di laserpicium. Apicio consigliava di metterne l’equivalente di trenta grammi in

un vaso pieno di pinoli e di prendere ogni volta una trentina di questi per pestarli nel mortaio insieme ad altri ingredienti.

un rimedio portentoso Ma era in medicina che il silfio faceva miracoli. Un vero e proprio toccasana, anche nei confronti degli animali (come ben sapevano i pastori di Cirene!): infatti, sempre secondo Plinio (XIX,39 e XXII,106), esso faceva addormentare le pecore, starnutire le capre e scoppiare i serpenti. Agli uomini, poi, serviva nelle circostanze e contro i mali piú disparati: nei periodi di convalescenza e in quelli di depressione, nelle digestioni difficili, nei disturbi di circolazione e nei dolori mestruali. Veniva applicato sulle ferite e sulle piaghe; faceva maturare gli ascessi; era l’antidoto contro i veleni degli scorpioni e dei serpenti. Curava il mal di gola, l’asma, l’idropisia, l’epilessia, l’itterizia, la pleurite. Rendeva persino piú facile l’estirpazione dei calli e, in un infuso con vino, pepe, zafferano, aceto e... sterco di topo, combatteva la caduta dei capelli. Un’autentica panacea! Per concludere, è appena il caso di ricordare che, tramontato il mondo antico, gran parte della botanica medica sopravvisse nei monasteri, mentre in cucina le tradizioni si conservarono naturalmente. Fino ai nostri giorni quando le erbe continuiamo ad averle a portata di mano, sotto forma di flora spontanea o coltivate in vaso su davanzali e terrazze oppure acquistate, essiccate nei vasetti di vetro allineati sugli scaffali dei supermercati. Ne abbiamo però dimenticato le potenzialità. Pur avendo la medicina moderna scientificamente convalidato molte convinzioni dell’antica fitoterapia, con la scoperta dei famosi «principi attivi» che sono alla base di tanti farmaci di piú o meno largo consumo (e di provata efficacia). (2 – fine)

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scavare il medioevo Andrea Augenti

quella (grande?) SCOPERTa DELL’età oscura qualche anno fa, nelle campagne inglesi dello staffordshire, un cercatore di tesori porta alla luce uno straordinario insieme di reperti in oro e argento. ma, nonostante gli studi fin qui condotti, sono ancora molti gli interrogativi da sciogliere...

A

nche l’archeologia medievale riesce talvolta a produrre exploit fuori dall’ordinario, di quelli che colpiscono un pubblico molto piú ampio del solito: è il caso del tesoro dello Staffordshire, di cui «Archeo» ha già avuto modo di dare notizia (vedi n. 296, ottobre 2009). Ricapitoliamo brevemente la vicenda. Il 5 luglio del 2009 Terry Herbert, un appassionato inglese armato di metal detector, si imbatte in qualcosa di davvero spettacolare: centinaia e centinaia di oggetti in oro e pietre preziose, sepolti a pochi centimetri di profondità dalla superficie. Nasce cosí la leggenda del tesoro dello Staffordshire (che in realtà si dovrebbe chiamare «tesoro di Ogley Hay», dal nome della località del ritrovamento), che acquista subito grande notorietà e in favore del quale prende avvio una mobilitazione volta a evitare che venga smembrato e possa essere alienato a collezionisti privati.

una cifra da capogiro La valutazione è enorme: 3 285 000 sterline (pari a oltre 3 800 000 euro); grazie ai proventi delle lotterie e alle donazioni private, il pericolo viene scongiurato, e il tesoro viene spartito tra i musei di Birmingham

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e a Stoke-on-Trent. Ma come si spiega la stima a sei zeri del prezioso insieme? È presto detto: stiamo parlando di circa 3500 oggetti, per una massa pari a 5000 kg d’oro e 1500 d’argento! I reperti sono molto vari, e vanno da elementi di armi (else di spade, guarnizioni) e di equipaggiamento da battaglia, elmi compresi, fino a una splendida croce da processione e a un frammento di un oggetto (forse un’altra croce) con un’iscrizione in latino tratta dalla Bibbia che, tradotta, suona: «Alzati, o Signore, e che i tuoi nemici siano dispersi e coloro che

Alcuni dei reperti piú importanti del tesoro rinvenuto nel 2009 nello Staffordshire (Inghilterra). Al centro si riconosce la lamina iscritta (vedi foto alla pagina accanto, in basso). ti odiano fuggano dalla tua presenza». Materiali che, soprattutto in base allo stile e alle tecniche di lavorazione, vengono datati tra il VI e il VII secolo. Arrivati a questo punto ci sono tutti gli ingredienti della «grande scoperta»: un tesoro di oggetti preziosissimi, sepolto in un periodo di cui in genere non si sa poi molto (la cosiddetta «età oscura»).


Un anello (in alto) e un elemento decorativo in oro e pietre preziose. I reperti si datano al VI-VII sec. d.C. Una scoperta che evoca immediatamente il Beowulf, il poema anglosassone che molto affascina, anche perché parla spesso di guerrieri, sepolture e tesori (non a caso J.R.R. Tolkien, che da filologo lo aveva attentamente studiato, l’aveva preso come fonte di ispirazione per il suo Signore degli anelli). Scoperta inaspettata, tesoro, mistero... Il gioco è fatto, e ci si può anche accontentare: molti lo hanno fatto e qualcuno ha anche scritto che «a partire da questo ritrovamento dovremo riscrivere la storia dell’Alto Medioevo». In realtà, le cose non sono cosí semplici, e, soprattutto, al momento molte domande restano senza risposta. Una su tutte, forse la piú importante: che cos’è davvero questo tesoro? Abbiamo piú di una possibilità. Potrebbe trattarsi del bottino di un raid dei Vichinghi presso un monastero (il che spiegherebbe gli oggetti di natura religiosa); oppure di un deposito votivo, magari presso un santuario, poi trafugato da qualcuno; o ancora, di materiale di proprietà di un orefice, pronto per essere nuovamente fuso (molti pezzi sono piegati o malridotti). Potrebbe addirittura essere il bottino di un ladro moderno, forse di un tombarolo, accumulato grazie al saccheggio di

siti archeologici differenti, e poi sepolto per qualche motivo ignoto. Insomma, brancoliamo letteralmente nel buio. Ma come mai?

salvare il salvabile La risposta, in questo caso, non è difficile: dopo le prime ricerche di Terry Herbert, sono subentrati gli archeologi dell’Università di Birmingham, che… molto semplicemente, hanno affrontato male il problema. Si sono preoccupati soprattutto del recupero degli oggetti preziosi e hanno lavorato di fretta, senza aver prima elaborato un progetto mirato a rendere conto del contesto del rinvenimento. Dal punto di vista tecnico, hanno aperto molti piccoli saggi e trincee invece di uno scavo di grande estensione, e, cosí

facendo, non hanno centrato l’obiettivo di capire come, quando e perché quei reperti fossero finiti sottoterra. In piú, in questo modo hanno avvalorato ancora una volta l’immagine dell’archeologo come cacciatore di tesori. Un bel danno, insomma, e su piú fronti. Il tesoro dello Staffordshire è senz’altro una grande scoperta dell’archeologia. Ma può esserlo ancora di piú, il treno non è perso. Mentre continua il restauro dei pezzi (e ci vorranno anni, portarlo a termine), qualcuno dovrà mettere a punto un progetto di scavo e di indagini di varia natura per recuperare i dati essenziali e far parlare al meglio quegli straordinari 3500 oggetti d’oro e d’argento. Si può ancora fare, speriamo proprio che lo si faccia presto.

La lamina in oro recante l’iscrizione: «Sorgi, Signore, e siano dispersi i tuoi nemici e fuggano da te coloro che ti odiano» (Libro dei Numeri 10, 35).

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

Un patrimonio da riscoprire

grazie alla natura favorevole dei suoli e alle vicende storiche di cui fu teatro, la puglia ha fatto registrare uno sviluppo eccezionale dell’architettura rupestre 110 a r c h e o

I

n Puglia, il fenomeno delle chiese rupestri, se ne contano, a oggi, quasi 600, scavate nella roccia, ebbe il suo maggior sviluppo a partire dalla fine del IX secolo, in corrispondenza della cosiddetta «seconda colonizzazione bizantina» e del contestuale propagarsi del monachesimo orientale. Secondo la tradizione, i primi insediamenti rupestri pugliesi e i relativi

santuari ed eremi furono scavati, nei pressi delle principali vie di comunicazione e dei corsi d’acqua, all’interno delle pareti rocciose delle «gravine» e delle «lame», i profondi canyon che caratterizzano gran parte del paesaggio carsico di questa regione, dai monaci basiliani. Questi erano seguaci della regola di san Basilio Magno (329-379), figura tra le piú influenti nello


Nella pagina accanto: Massafra (TA). Alcune strutture rupestri di età medievale o di piú antica origine nella gravina che attraversa il centro abitato.

In basso: Massafra (TA). Un dipinto raffigurante la Madonna e il Bambino, curiosamente in piedi e tenuto per mano, nella chiesa rupestre della Madonna della Candelora. Fine del XII sec.

il progetto crhima

L’Europa per i siti rupestri Tra il settembre 2010 e il settembre 2012, con l’ideazione e il coordinamento del Dipartimento di Architettura DSP dell’Università di Firenze (coordinatrice Carmela Crescenzi), è stato svolto il progetto CRHIMA-CINP, «Cultural Rupestrian Heritage in the Circum Mediterranean Area». L’iniziativa, finanziata dalla Comunità Europea nell’ambito del Programma CULTURA 2007-2013, ha visto la partecipazione di università e centri di ricerca di Italia, Francia, Spagna, Grecia e Turchia, coinvolti in un ambizioso progetto di censimento degli insediamenti rupestri nel Mediterraneo e di classificazione delle strutture ipogee, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza degli insediamenti nel loro assetto urbano e bioclimatico, valorizzando, oltre ai monumenti piú noti, l’aspetto quotidiano del «vivere in grotta». Nei due anni di lavoro fin qui svolto, decine di studiosi hanno promosso ricerche sul campo nelle nazioni coinvolte, seminari e workshop, mostre e iniziative rivolte al piú ampio pubblico, tra cui la produzione di libri, CD musicali e video volti a valorizzare il patrimonio rupestre mediterraneo (info: www.rupestrianmed.eu).

sviluppo del monachesimo orientale e in quello occidentale della cristianità, che fu vescovo e teologo noto per aver osteggiato le dottrine ariane, appoggiate dall’imperatore Valente. Basilio – che fece edificare una cittadella della carità con ospedale, lebbrosario, ospizi e locande – forní alcune regole sulle attività di preghiera e di lavoro, assicurando un piú equilibrato

ritmo nella giornata rispetto alla durezza che all’epoca caratterizzava la vita monastica. A causa delle persecuzioni iconoclaste dell’VIII e del IX secolo, alcuni monaci basiliani fuggirono dalla Cappadocia e trovarono riparo in Italia meridionale. Da qui, secondo alcuni, l’origine delle chiese rupestri della Puglia, che però non trova riscontri certi né archeologicamente né in documenti storici. Al di là dell’esatta derivazione di tale fenomeno, è una certezza la presenza nel Meridione sia di comunità armene, greche e orientali, sia di eremiti, che diedero vita, prevalentemente, ad architetture rupestri.

Gioielli nascosti

articolato sviluppo è la piú grande basilica rupestre pugliese. O, ancora, la chiesa dei SS. Andrea e Procopio a Monopoli (metà dell’XI secolo) e S. Biagio a San Vito dei Normanni, con uno dei cicli pittorici tra i piú interessanti della Puglia (XII secolo). I contatti tra Oriente e Occidente emergono con forza a Gravina, dove si trova, tra le altre, la cripta di S. Vito Vecchio, con affreschi che raffigurano santi di tradizione occidentale, connessi ai pellegrinaggi in Terra Santa, come Giacomo e Giorgio, e orientali, come Basilio e Onofrio. Incantevoli e spesso inaspettate, perché in molti casi oggi incorporate al di sotto di piú moderni edifici, sono le tante chiese rupestri e ipogee di Massafra. Sia nelle affascinanti gravine che attraversano l’abitato, sia nel sottosuolo del centro storico, vi sono alcuni gioielli oggetto di azioni di recupero e valorizzazione promosse da associazioni locali particolarmente attive, come l’Archeogruppo «E. Jacovelli». Valgono una visita le chiese della Madonna della Candelora (fine XII secolo), di S. Leonardo (X-XIV secolo) e di S. Antonio Abate, oggi inglobata negli altrettanto suggestivi sotterranei del vecchio ospedale, completamente affrescata con pitture databili tra l’XI e il XV secolo. Massafra (TA). I sotterranei del vecchio ospedale sono l’accesso a strutture ipogee scavate nella roccia, quale la chiesa di S. Antonio Abate.

Alcune chiese rupestri sono ancora oggi officiate e meta di pellegrinaggio, come il caso di S. Michele di Monte Sant’Angelo, altre hanno invece perso da tempo la loro originaria destinazione d’uso e versano in condizioni di conservazione piú o meno compromesse. Tra i numerosi siti possiamo ricordare S. Candida a Bari (VIII-XII secolo), che con i suoi 120 mq circa e il suo complesso e

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Marisa Ranieri Panetta

Vesuvius Salani Editore, Milano, 385 pp. 14,90 euro ISBN 978-88-6256-983-5 www.salani.it

Un romanzo storico presentato sulle pagine dei «Libri di Archeo»? È un caso raro, rarissimo, anzi. Per una nostra scelta, compiuta ventotto anni fa e che già prevedeva la fioritura, o, meglio, la profusione di un genere letterario dai

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confini spesso indefiniti e indefinibili, tali da indurci a non avventurarvisi. Vi sono state, e vi sono, però, gloriose eccezioni. Qui di seguito proponiamo l’esordio – estivo – di un romanzo scritto da una studiosa e archeologa che, alla conoscenza profonda della materia, ha il dono di affiancare una prosa «divulgativa» maturata in quasi trent’anni di attività: è la nostra collaboratrice Marisa Ranieri Panetta, coautrice della recentissima Monografia di Archeo «Pompei. La riscoperta, l’arte, la vita quotidiana». A quell’opera, sintesi scientifica e guida per il viaggiatore, si aggiunge ora VESUVIUS, racconto di un passato pieno

di vita, e che vi invitiamo, appunto, a «rivivere». Prima (o forse dopo?) la visita alla celebre città riemersa dalle ceneri. A. M. S. Pompei, 79 d.C. Nono giorno prima delle Calende di settembre

Un’estate come le altre a Pompei, almeno in apparenza. I terremoti, sempre piú intensi, non davano tregua, anche se niente si poteva paragonare a quanto era accaduto diciassette anni prima, alle None di febbraio. Allora sí che si era temuta la fine del mondo: crolli di templi, di colonnati, di mura. I danni erano stati incalcolabili anche sui monti Lattari, dove era perito un gregge di seicento pecore. A casa del banchiere Cecilio Giocondo gli effetti di quell’evento

spaventoso erano stati fissati su rilievi in marmo. A guardarli mettevano i brividi, anche a distanza di tempo. Nessuno pensava che quell’agosto potesse essere l’ultimo, ma i segni di un grande disagio si potevano cogliere ovunque. E se il turbamento dell’animo si poteva dissimulare dietro un’ostentata indifferenza, o dimenticare per la durata di un banchetto, chiunque camminasse per le strade non poteva ignorare il viavai di operai e muratori che svuotavano fognature, tamponavano crepe, livellavano pavimenti sconnessi. Il sole spuntato il nono giorno prima delle Calende di settembre riscaldava una città sospesa tra un doloroso senso di incertezza e la volontà di andare avanti: dopo che una scossa


terribile aveva svegliato i pompeiani in pieno sonno, le attività si erano incanalate nei ritmi consueti. Un velo di foschia nascondeva alla vista la cima del Vesuvio e, al largo, le imbarcazioni che trasportavano merci. Sulla spiaggia vicino al porto, alla foce del fiume Sarno, in un magazzino si mettevano in ordine, come la mattina precedente, le giare colme di garum, la salsa di pesci che era la specialità di Pompei. Poco piú in là, gli operai sbriciolavano pietre, mentre i pescatori erano intenti a issare le reti nello svolazzare dei gabbiani. Sulle acque del fiume che scorrevano placide, quasi a garantire il flusso naturale della vita, avanzavano le imbarcazioni dirette verso le stazioni e i villaggi dell’interno: un lento mercato galleggiante che assicurava i guadagni degli ortolani. In città, in centro e nei sobborghi, tutto era come sempre. Polli che si spennavano in cucina, uova pronte a essere rotte per un pasto veloce, forme rotonde di pane che uscivano calde dai forni e venivano messe in vendita una sull’altra. Nei lupanari arrivavano i primi clienti, attirati da ragazze che sollevavano le vesti succinte e Asellina, proprietaria del locale di ristoro piú frequentato, riempiva di vino e acqua le brocche

già sistemate sul banco. I pittori impegnati nell’affresco di una domus erano al lavoro dalle prime luci dell’alba. Su un’impalcatura l’artista fissava i colori sull’intonaco, ignorando che sarebbero stati gli ultimi a decorare una casa di Pompei. L’animazione nella piazza del Foro era ridotta, ma a causa del caldo. In un locale del grande Macello gli addetti alla pulizia del pesce gettavano secchi d’acqua sui banconi di marmo; i perdigiorno si spostavano da un portico all’altro in cerca di ombra e pettegolezzi. Nella sua lavanderia Stefano contava l’incasso: 1089,5 sesterzi. All’improvviso, un fragore cupo si levò dal centro della terra. I pompeiani furono assaliti da un senso di sgomento, consapevoli che stava per accadere qualcosa di terribile. Con il cuore in gola si guardarono intorno per cercare di capire cosa stesse succedendo. La brezza si fermò all’improvviso, l’aria diventò immobile, gli animali domestici si accucciarono in un angolo, nel cielo non volavano uccelli. Come sul lago Averno. Solo qualche attimo, prima di una catastrofe che nessuno aveva mai vissuto o sentito raccontare. Stava per esplodere il Vesuvio.

Marzia Vidulli Torlo

Trieste Civico Museo di Storia ed Arte Luglio Editore, Trieste, 178 pp., ill. col. e b/n 5,00 euro ISBN 8868030209

Dall’estero Sarah Tarlow and Liv Nilsson Stutz (a cura di)

The Archaeology of death and burial Oxford University Press, Oxford, 872 pp., ill. b/n 110,00 GBP ISBN 978-0-19-956906-9 www.oup.com

Annalisa Giovannini

Aquileia Città delle gemme Luglio Editore, Trieste, 154 pp., ill. col. e b/n 5,00 euro ISBN 8868030100 www.luglioeditore.it

Segnaliamo con piacere due nuove collane presentate dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia: Memorie e Frammenti, i cui primi titoli sono rispettivamente dedicati al Museo Civico di Storia e Arte di Trieste e ad Aquileia, con particolare riferimento alla produzione delle gemme. Volumi tascabili, concepiti come strumenti di divulgazione agili ma esaurienti.

La serie degli Oxford Handbook si arricchisce di un titolo di particolare interesse: lo studio delle pratiche funerarie, infatti, è, da sempre, uno dei cardini della ricerca archeologica. Nel corposo volume sono confluiti poco meno di cinquanta contributi, che spaziano fra contesti geografici e culturali assai variegati, dalla preistoria all’età moderna. Alle riflessioni sul significato archeologico dei contesti esaminati si accompagnano quelle, e non poteva essere altrimenti per un tema del genere, di natura antropologica, sociale ed etica sul trattamento che, nelle comunità di volta in volta studiate, veniva riservato ai defunti. (a cura di Stefano Mammini)

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