Archeo n. 343, Settembre 2013

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bam

valle d’oro

antica cina / 8 buddhismo

miti greci / 7 centauri

speciale scritture scomparse

L’ETÀ DEI CENTAURI

www.archeo.it

2013

Mens. Anno XXIX numero 9 (343) Settembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 343 settembre

speciale

le

dalla stele di rosetta alla decifrazione dei glifi maya

scritture scomparse

RITORNO NEL DESERTO DEI TARTARI IRAN

PARCHI ARCHEOLOGICI

QUALE FUTURO PER LA VALLE D’ORO?

MITOLOGIA

€ 5,90



editoriale

ex oriente...

Secondo la tradizione, ad Aleppo si trova la tomba di Zaccaria, sacerdote nel Tempio di Gerusalemme, padre di Giovanni il Battista e venerato come profeta dalla religione islamica. Nel V secolo, sopra il sepolcro sorse una basilica paleobizantina, a sua volta poggiata sulle fondamenta di un santuario pagano. La basilica venne inglobata nella moschea omayyade, iniziata nel 715, completata nel 1158 e accuratamente ricostruita dopo il sacco dei Mongoli del 1260. Lo scorso aprile una serie di esplosioni ha dimezzato il minareto e distrutto gli altri edifici all’interno del grande cortile ad arcate. Dal 2012 la moschea, restaurata otto anni fa, era entrata a far parte della Lista del Patrimonio dell’Umanità UNESCO, che già dal 1986 annoverava la celebre cittadella di Aleppo. Ma è Aleppo stessa, il cui mercato medievale è stato dato alle fiamme nell’ottobre del 2012, insieme alla scuola coranica al-Halawya, decorata con intagli lignei del XII secolo, a essere diventata il simbolo di questa insensata follia suicida del Paese. Quello che sta accadendo in Siria (e che ancora accadrà) è una catastrofe, in prima istanza per la morte di centinaia di migliaia di civili, ma anche per la distruzione della sua memoria monumentale, parte integrante delle nostre piú antiche radici culturali. Diversamente dalle altre regioni del Vicino Oriente antico, da Babilonia all’Egitto faraonico, già note al grande pubblico sin dagli inizi del Novecento, la consapevolezza della eccezionale rilevanza del patrimonio archeologico siriano per la storia culturale europea è piú recente: agli anni Trenta risalgono gli scavi di Ugarit, città del XII secolo a.C. in cui furono rinvenute le testimonianze della prima scrittura alfabetica, e anche l’esplorazione di Mari, metropoli sumerica ai confini con la Mesopotamia, risale a quel periodo. Negli anni Sessanta, invece, iniziano, sotto la direzione dell’archeologo Paolo Matthiae, gli scavi nel sito di Ebla, un centro urbano che fiorí tra il III e il II millennio a.C. La presenza degli archeologi italiani nel sito è stata, in tutti questi decenni, costante. Fino allo scoppio della guerra... Dall’Egitto giungono notizie di saccheggi e distruzioni simili, sempre perpetrate nel quadro di un conflitto civile, ma degne di ben altre barbariche memorie: il Museo Archeologico di Mallawi, nel comune di Minia (250 km a sud del Cairo, sulla sponda occidentale del Nilo) è stato depredato e ridotto in macerie, con le mummie in cenere all’interno dei loro sarcofagi. In queste ore, il governatorato di Minia è messo a ferro e fuoco, le forze islamiste hanno preso di mira edifici e monumenti di culto della comunità copta… Partito da una primavera di speranza, e con un Occidente che osserva attonito e incapace di agire, gran parte del «nostro» antico Vicino Oriente sta per essere trascinato in un’oscura spirale di autodistruzione. Speriamo che si fermi in tempo. Andreas M. Steiner


Sommario Editoriale

Ex Oriente...

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di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

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scoperte Una tomba infantile d’epoca romana individuata nel centro di Padova restituisce un reperto singolare: una statuina di gladiatore forse utilizzata come giocattolo 6 scavi Ricerche condotte nel Ravennate hanno portato all’individuazione di una cava di lapis specularis, la pietra «trasparente», spesso usata in sostituzione del vetro 8

parola d’archeologo Il relitto di Punta Scifo, in Calabria, trasportava il piú grande carico di marmi dell’antichità 12

civiltà cinese/8 E vennero i «secoli bui»

54

di Marco Meccarelli

dalla stampa internazionale Nuove scoperte nelle acque della baia di Abukir e una sfinge di Micerino in Galilea 26

scavi

Ritorno nel deserto dei Tartari

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di Michael Jung e Vincenzo Torrieri

parchi archeologici Sognando la Valle d’Oro

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di Carlo Casi e Mariagrazia Celuzza

42 54 In copertina la Stele di Rosetta, scoperta nel 1799 nell’omonima località egiziana sul Delta del Nilo. Londra, British Museum.

Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Anno XXIX, n. 9 (343) - settembre 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,

Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Mariagrazia Celuzza è archeologa e direttore Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Chiara Guarnieri è archeologa della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. Michael Jung è curatore della sezione islamica del Museo Nazionale d’arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. David Nonnis è dottore di ricerca in storia antica. Elena Pettenò è funzionario archeologo della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Vincenzo Torrieri è funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Abruzzo. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 89 (alto), 93 (alto); G. Dagli Orti: copertina e pp. 66 (alto), 86 (basso), 88 (basso), 92 (sinistra), 98; G. Nimatallah: p. 73; M. Seemuller: p. 91; W. Buss: p. 94; A. Dagli Orti: p. 95 – Getty Images: copertina (sfondo) – Mauro Biani /Il Manifesto: p. 3 – Cortesia SBA Veneto: foto PETRA: p. 6 (alto); foto Sara Emanuele: pp. 6 (basso), 7 – Cortesia SBA Emilia-Romagna: pp. 8-10 – Cortesia SBA Lombardia: p. 11 – Cortesia Carlo Beltrame: pp. 1214 – Cortesia SBA Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 16 – Cortesia dell’autore: p. 18, 110-111 – Christoph Gerigk, Franck Goddio/Hilti Foundation: p. 26, 27 (alto) – Cortesia Amnon Ben-Tor e Sharon Zuckerman: p. 27 (basso) – Cortesia Missione Italo-Iraniana a Bam: pp. 30/31, 32 (basso), 33-41 – Doc. red.: pp. 32 (alto), 59, 60, 66 (basso), 80, 84, 84/85, 87, 89 (basso), 90, 103 – Andrea De Maria: pp. 42-43, 44 (alto), 46 (basso), 48 (alto), 50, 53 – Mariagrazia Celuzza: pp. 44/45, 45 – Cortesia LAP&T-Università di Siena: p. 46 (alto) – Sheila Gibson: p. 48 (basso) – Giovanni Caselli (49 (alto) – Maura Medri: p. 49 (centro) – Cortesia Dip.to di Archeologia-Università di Siena: p. 49 (basso) – Paul Henderson e Michelle Hobart: p. 51 – Shutterstock: pp. 54/55, 58, 62, 64/65, 96/97, 110/111 (sfondo) – Corbis Images: Imaginechina: p. 56, 56/57, 63 (alto); An Fubin/Xinhua Press: p.


68

l’ordine rovesciato delle cose

Comfort cavernicoli 106 di Andrea De Pascale

divi e donne

Mogli e buoi...

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di Francesca Cenerini

mitologia, istruzioni per l’uso/7 Gli eccessi degli uomini-cavallo

68

di Daniele F. Maras

storia dei greci/23

La resistenza greca

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di Fabrizio Polacco

Il cielo in una moneta

scavare il medioevo Storia di una discarica di Andrea Augenti

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l’altra faccia della medaglia

Rubriche 104

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di Francesca Ceci

libri

57 – Bridgeman Art Library: pp. 61, 63 (basso), 85, 88 (alto), 100 (centro e destra), 101 (basso), 102 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 68/69, 71, 74 (basso), 75, 76/77, 78 (alto), 81, 82, 83, 86 (alto e centro), 93 (basso), 100 (sinistra); Picture Desk Images: pp. 70, 72, 74 (alto), 108; Album: pp. 78 (basso), 79, 82/83 – Edoardo Loliva: p. 92 (destra, in alto) – Da la gloire d’Alexandrie (catalogo della mostra), Parigi 1998: p. 101 (alto) – Da Museo Nazionale Romano-Crypta Balbi, Electa, Milano 2000: pp. 104-105 – A. De Pascale: p. 106 – Boaz Zissu: p. 107 (sinistra) – Angelo Carpignano: p. 107 (destro) – Roberto Bixio: disegno a p. 107 – Cippigraphix: cartine ed elaborazioni grafiche alle pp. 13, 26, 30, 43, 80/81, 81, 99, 103. Con riferimento all’articolo Veneti antichi (vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013), desideriamo precisare che le foto degli oggetti pubblicati alle pp. 88-90 sono di Fabrizio Ragazzi. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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speciale

Il mistero delle scritture scomparse 76 di Massimo Vidale

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa, Milano Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@miabbono.com Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl - Via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/

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n oti z i ari o SCoperte Padova

il bambino e il gladiatore

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Padova, in Corso Vittorio Emanuele, è stata scavata una superficie urbana di circa 1700 mq. L’area si colloca nel suburbio meridionale della città, a ridosso dell’antica arteria stradale diretta a sud, in direzione di Este e Bologna. Nei suburbia o nell’ager pertinens di municipia e coloniae della Venetia, come in altre regioni del mondo romano, sorgevano importanti aree di sepoltura; ma anche, a volte, proprio come avviene ancora oggi, zone industriali. Patavium, l’antica Padova, non faceva eccezione. Anche se lo studio di dettaglio dei materiali è ancora in corso e la cronologia è ancora in esame, lo scavo indica una prima fase di occupazione agraria probabilmente nel I secolo a.C., seguita dall’impianto di una grande ferriera nella metà o nell’ultimo quarto del I secolo a.C. In quel tempo Roma si era già spinta verso i grandi depositi di minerali di ferro dell’Europa centro-orientale, con notevoli vantaggi economici per i centri della Pianura Padana. Nel II secolo d.C. parte degli spazi usati dall’officina cambiarono destinazione, e accolsero numerose sepolture. Lo scavo ha portato alla localizzazione di 36 tombe: 26 cremazioni e 6 inumazioni (tre adulti e tre infanti). I resti incinerati erano deposti in cassa lignea o in laterizi, ancora alloggiati in semplici buche nel terreno. La presenza di

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In alto: Padova. La figurina di gladiatore ancora in situ, all’interno della tomba 19. A sinistra e nella pagina accanto: la statuetta dopo il restauro. Databile alla metà del II sec. d.C., la piccola scultura era probabilmente un giocattolo.


vasi ossuari è stata riscontrata solo in tre casi. Frammenti di pilastrini, basamenti e di altre parti lapidee nei riempimenti di successivi canali romani suggeriscono che vi fossero anche monumenti funerari in pietra di una certa importanza, in seguito distrutti durante una nuova ristrutturazione dell’area. Ma la scoperta forse piú toccante, capace di spalancare una finestra inattesa sul mondo dell’infanzia nell’antica Roma, è l’inumazione infantile della tomba 19. Essa fu realizzata disturbando involontariamente una precedente incinerazione della prima metà del I secolo d.C., riutilizzandone il fondo in laterizi e risistemandone i resti con una certa cura. Il bambino, sepolto nella tomba 19, era probabilmente un maschio, e aveva, alla morte, un’età stimabile di 3 anni, piú o meno 12 mesi. Il corpicino, strettamente fasciato, era stato deposto in una stretta cassa lignea costruita con chiodi in ferro, con il capo sollevato da un cuscino in materiale deperibile. Il corredo funebre, da cui traspare l’appartenenza del bimbo a una famiglia di ceto piuttosto agiato, permette di datare la deposizione ai decenni centrali del II secolo d.C. Esso comprende due monete in bronzo, una di Nerva, l’altra di Traiano. In ceramica erano una coppa su alto piede, una lucerna, un bicchiere miniaturistico e una piccola olla. Vi erano inoltre cinque balsamari e un bicchierino in vetro. La

disposizione degli altri oggetti fa ritenere che si trovassero in origine tutti all’esterno, intorno o al di sopra della cassa di legno, e che siano franati nello spazio vuoto determinato dal cedimento del coperchio della cassa. L’oggetto piú notevole, trovato lungo un lato della cassa, a destra dello scheletro, è una statuetta fittile di gladiatore (oplomachus), completa di elmo modellato a parte e assemblabile sul resto della figura, proprio come un moderno giocattolo. Alta 16 cm, doveva essere vivacemente colorata: la superficie infatti mostra tracce di rosso e verde, e di rosso sull’esterno dell’elmo. La gamba destra è fortemente arretrata, mentre la sinistra sembra protetta da uno schiniere. Indossa una veste stretta in vita (subligaculum) e corto mantello. Con il braccio sinistro regge uno scudo rettangolare. L’avambraccio destro, forse articolato al gomito, terminava in una mano con un apposito invito per reggere il gladius. Ma quale poteva essere il legame tra il bambino e l’immagine del gladiatore? Era un vincolo di carattere affettivo, dovuto a conoscenza personale o a «tifo sportivo»? Patavium era dotata di un ampio anfiteatro, nel quale non dovevano mancare i giochi dei gladiatori, certamente frequentati dalle famiglie agiate della città. Statuine di oplomachoi – scutores,

murmillores e provocatores: gladiatori armati pesantemente che combattevano con il reziario – non sono rare nel mondo romano. Statuette fittili analoghe sono state ritrovate a Pompei e a Taranto, sia in contesti domestici, sia presso tombe. Ignoriamo se la figurina in terracotta sia stata veramente un giocattolo, un reale compagno di vita, o piuttosto un dono dell’ultimo momento, in previsione del viaggio del bimbo verso l’aldilà. Forse era il suo soldatino preferito. Un pezzo davvero speciale, anche perché dotato di un dispositivo che gli permetteva di togliere e mettere l’elmo e probabilmente di muovere il braccio con l’arma simulando il duello. Un gioco prezioso, forse piú di altri, se, come per i bambini di oggi, a partire dai due anni circa, il montare e smontare oggetti, il costruire, l’incastro, lo smontare e la presenza del colore stimolavano lo sviluppo delle abilità motorie. L’intervento di scavo è finanziato da Est Capital ed è condotto congiuntamente da PETRA soc. coop e Multiart soc. coop., sotto la direzione scientifica di chi scrive. All’indagine hanno preso parte, con la direzione sul campo di Paolo Michelini, Elisa Benozzi e Rita Giacomello, Antonio Perischetti, Chiara Baracco, Claudia Fiocchi, Daniele Ragana, Giulia Vanzan, Luigi Malimpensa, Isabel Llacer, Chiara Rigato, Riccardo Berto. Hanno contribuito alla stesura del testo Elisa Benozzi, Rita Giacomello, Paolo Michelini, Elena Pettenò, Cecilia Rossi. Il restauro del gladiatore e del corredo tombale, ancora in corso, è a cura di Sara Emanuele, della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto. Elena Pettenò

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n otiz iario

SCoperte Emilia-Romagna

trasparenze di pietra

I

l lapis specularis è un minerale brillante la cui caratteristica principale è quella di sfogliarsi in strati sufficientemente sottili da fare passare la luce, presentando quindi le medesime caratteristiche del vetro. I Romani ne facevano largo uso ma, probabilmente piú per mancanza di riconoscimento da parte degli archeologi che per un suo scarso utilizzo, è poco o per nulla conosciuto in Italia. Nella sua Naturalis Historia (XXXVI, 160-161), Plinio il Vecchio indica le principali cave di lapis presenti nel bacino del Mediterraneo: Turchia, Tunisia, Cipro, Italia – vicino a Bologna e in Sicilia – e la Spagna, in particolare la Spagna Citerior, nell’area attorno la città di Segobriga (che si trova 120 km a sud-est dell’odierna Madrid). Numerose fonti antiche che parlano dei diversi utilizzi del lapis, oltre a quello piú usuale per chiudere le finestre di edifici pubblici o privati. Marziale per esempio, nei suoi Epigrammi (8,14), cita una serra o un giardino d’inverno chiuso da lastre di questo materiale; Giovenale, nelle Satire (4,18-21), parla di una lettiga da donna con aperture chiuse dal lapis, mentre Plinio (Nat. Hist. XXI, 80) descrive come gli alveari fossero costruiti da pietra speculare. Questo materiale, il cui primo impiego a chiusura delle finestre si data all’età giulio-claudia, fu utilizzato anche nella tarda antichità, come testimoniano fonti quali san Girolamo o Basilio di Cesarea, e continuò poi a essere usato in ambito rurale fino a cinquant’anni fa. A fronte di questa ricca attestazione documentaria, sono invece piuttosto rari i rinvenimenti archeologici: lastre di lapis sono

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A sinistra: l’interno della Grotta della Lucerna, presso Brisighella. A destra: lastre di lapis specularis utilizzate come vetro di finestra, da Pompei. In basso: la stele funeraria del piccolo Quinto Artulo, che dovette lavorare come cavatore nelle miniere spagnole di lapis specularis attive a Segobriga.

state trovate a Pompei ed Ercolano, mentre altre scoperte sono documentate nell’area dell’Africa settentrionale, in Turchia e in Siria. In Europa i ritrovamenti interessano la Spagna, in particolare la regione di Saragozza e intorno a Cuenca, la Francia e probabilmente anche l’Inghilterra. Come già detto, Plinio menziona come piú importanti le miniere spagnole, identificate nell’attuale provincia di Cuenca, poco lontano dalla città di Segobriga. I dati archeologici ed epigrafici pubblicati dagli archeologi spagnoli forniscono importanti informazioni su queste miniere che hanno contribuito allo sviluppo economico e demografico della città e del suo territorio, soprattutto tra il I e il II secolo d.C. Tra le varie testimonianze, risulta particolarmente toccante la stele di Quinto Artulo, un bambino di quattro anni che tiene nella mano destra una piccola piccozza e nella sinistra una lampada di forma quadrata. Il suo lavoro consisteva nell’introdursi nelle cavità piú piccole, attività consentita solo da dimensioni molto minute quali

erano appunto quelle di un bambino. È recente, invece, la scoperta di una delle miniere che Plinio situa nei pressi di Bologna: la localizzazione è avvenuta nell’area della Vena del Gesso Romagnola, vicino a Brisighella (RA), dove è stata individuata la cosiddetta «Grotta della Lucerna», una cavità naturale che fu oggetto in età romana di attività di estrazione del lapis. Il nome le è stato attribuito in seguito al rinvenimento, all’interno, di vari frammenti di lucerne e di un esemplare integro: queste piccole lampade garantivano un’illuminazione adeguata all’interno della cava, amplificata dalla presenza del minerale che rifrangeva la luce. Oltre alle lucerne, sono stati scoperti altri materiali di età romana, tra cui una moneta di Marco Aurelio. Numerosi sono anche i segni di lavorazione, come per esempio le nicchie per ospitare le lucerne e gli incavi per sostenere piccole traverse in legno utilizzate come scale, indicatori che trovano uno

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n otiz iario

Una delle lucerne che hanno dato nome alla grotta, situata nel Parco della Vena del Gesso, in cui è stata accertata l’attività di estrazione del lapis specularis.

stretto confronto con quelli presenti all’interno delle miniere spagnole. A poca distanza dalla Grotta della Lucerna, sempre all’interno del Parco della Vena del Gesso, in località Ca’ Carnè, è stato inoltre riportato alla luce un piccolo edificio di età romana, di 81 mq circa. La struttura portante era realizzata con pali in legno mentre i muri erano in mattoni di

argilla cruda e in graticcio di legno spalmato di argilla. Mancano totalmente le fondazioni in laterizio o sasso, tipiche di costruzioni simili: questa scelta parrebbe motivata dal fatto che non fosse necessario adottare questo espediente per l’isolamento dall’umidità, visto che tutto l’edificio poggiava su di un banco di gesso. L’edificio, che ha subíto vari ampliamenti e rifacimenti, tutti

inquadrabili all’interno del I secolo d.C., assume un’importanza particolare proprio alla luce della vicina cava di lapis specularis. I risultati di questa scoperta, insieme alla presentazione della Grotta della Lucerna, saranno illustrati nell’ambito di un Convegno Internazionale che si terrà a Faenza il 26 e 27 settembre (vedi box). Chiara Guarnieri

il convegno e la mostra

Il lapis specularis e le sue storie

Il 26 e 27 settembre, presso il Museo Civico di Scienze Naturali «Malmerendi» di Faenza, si terrà il convegno internazionale «Il vetro di pietra. Il lapis specularis nel mondo romano dall’estrazione all’uso», organizzato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna e dal Parco della Vena del Gesso Romagnola. L’incontro, il primo in Italia dedicato all’argomento, riunirà archeologi, speleologi, storici e geologi, e si avvarrà della partecipazione degli archeologi spagnoli del progetto «Cienmil pasos alrededor de Segóbriga», che illustreranno la decennale esperienza maturata nelle diverse cave di lapis presenti nella zona di Segobriga. In concomitanza con il convegno, sarà inaugurata nel Centro Visite di Zattaglia (Via Zattaglia 22, località Zattaglia, Brisighella, RA), all’interno del Parco della Vena del Gesso, una mostra temporanea (dal 27 settembre al 15 dicembre 2013) dedicata al lapis specularis. L’esposizione sarà incentrata sui materiali archeologici di epoca romana rinvenuti all’interno della Grotta della Lucerna e durante lo scavo dell’edificio romano di Ca’ Carnè, e sui reperti rinvenuti nel corso di ricerche di superficie o di scoperte occasionali nel territorio del parco. La mostra sarà integrata dall’esposizione di alcuni preziosi volumi del XVI secolo contenenti i testi degli autori antichi che parlano del lapis e dalle ricostruzioni didattiche degli indumenti e delle attrezzature dei minatori romani.

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incontri Lombardia

alpi e prealpi in età romana

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ei giorni 10 e 11 ottobre è in programma in Valcamonica (Brescia), tra Breno e Cividate Camuno, il convegno «Da CAMUNNI a ROMANI: archeologia e storia della romanizzazione alpina», organizzato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia (responsabile scientifico Serena Solano), con il patrocinio del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento e con il sostegno della Comunità Montana di Valle Camonica e dei Comuni di Breno e di Cividate Camuno. L’incontro, collegato al Progetto PRIN 2009 dal titolo «Roma e la Transpadana: processi acculturativi, infrastrutture, forme di organizzazione amministrativa e territoriale», che coinvolge le Università di Venezia, Trento, Udine, Pavia e Torino, intende

Cividate Camuno (Brescia). L’anfiteatro romano. I sec. d.C. costituirsi quale occasione privilegiata per la presentazione del lavoro di ricerca svolto dagli studiosi coinvolti nel progetto medesimo e, al tempo stesso, come occasione di confronto sulle novità emerse dalle ricerche degli ultimi anni relativamente alle realtà etnico-culturali di area alpino-prealpina fra tarda età del Ferro e romanizzazione. Farà da cornice all’evento la Valcamonica romana, con gli straordinari resti della città romana

di Cividate Camuno e del santuario di Minerva a Breno. All’incontro, articolato in due giorni, prenderanno parte esperti provenienti da Soprintendenze, Università e centri di ricerca di tutto l’arco alpino con relazioni a carattere storico e archeologico. Per informazioni: Museo Archeologico Nazionale di Cividate Camuno; tel. 0364.341244; e-mail: museoarcheologico. vallecamonica@beniculturali.it (red.)


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

trasporti eccezionali

era forse diretta a roma, ma si inabissò al largo delle coste della calabria.oggi il relitto della sfortunata nave è stato ritrovato, insieme al suo carico di marmi di proporzioni mai viste. ce ne parla l’archeologo carlo beltrame

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i tratta del piú grande carico di marmi antichi mai scoperto nel Mediterraneo: 350 t di blocchi squadrati, ancora oggi adagiati sul fondale di fronte a Punta Scifo, in Calabria, sistemati a bordo di una nave che affondò nel III secolo d.C. Il ritrovamento giunge al termine di una campagna di indagini archeologiche sottomarine condotta, nello scorso giugno, dall’équipe condiretta da Carlo Beltrame, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e Salvatore Medaglia, dell’Università della Calabria, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria. Il relitto era stato scoperto a Punta Scifo nel 1986, ma solo ora è stato studiato dagli archeologi subacquei con l’ausilio delle piú avanzate tecniche scientifiche. «Abbiamo scoperto che si tratta del piú consistente carico di marmi mai

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rinvenuto nel Mediterraneo. Il peso di circa 350 t è il massimo tonnellaggio conosciuto per un trasporto simile», spiega l’archeologo Carlo Beltrame, dell’Unversità Ca’ Foscari di Venezia. «Questo carico supera, per dimensioni, anche quello del relitto di Punta delle Correnti, in Sicilia, ritenuto fino a oggi il piú grande carico litico del

Mediterraneo. Si tratta, in tutto, di 54 blocchi di pregiato marmo proconnesio. Abbiamo misurato, fotografato e rilevato i blocchi uno per uno, eseguito calcoli per ricostruire le dimensioni del carico e dello scafo della nave, affinato la datazione e ricostruito la provenienza dei marmi. I campioni litici prelevati nel corso delle ricerche subacquee hanno


dimostrato che i materiali provengono da due diverse cave sull’isola di Marmara, in Turchia, come risulta dalle analisi petrografiche e isotopiche effettuate da Lorenzo Lazzarini, dell’Università IUAV di Venezia». E avete scoperto che sono tra i blocchi di marmo piú grandi che giacciono sul fondo del Mediterraneo… «Sí, uno dei blocchi raggiunge le 25 t di peso: è uno dei piú grandi trovati in fondo al nostro mare. Questo dimostra l’alta capacità ingegneristica dei Romani nel sollevamento di pesi eccezionali, come questi, che doveva avvenire grazie ad appositi macchinari issati sulle banchine del porto. Anche oggi, con le tecnologie moderne, non sarebbe facile sollevare e movimentare un blocco di 25 t…». A quale tipo di imbarcazione dovevano appartenere? «La ricostruzione delle dimensioni dell’imbarcazione (di cui non si conserva il legno), basate sui calcoli effettuati dall’ingegnere PUGLIA Taranto Metaponto

CALABRIA

Lecce

Mar Ionio Crotone

Punta Scifo N

Reggio Calabria

0

50 Km

In alto e nella pagina accanto, in alto: due immagini del carico di marmi localizzato nelle acque di Punta Scifo, in Calabria. Sono stati individuati, in tutto, 54 grandi blocchi, per un peso complessivo di circa 350 t. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione grafica della imbarcazione adibita al trasporto dei marmi. È stato calcolato che dovesse misurare 40 m di lunghezza e 14 di larghezza, e che forse navigasse a rimorchio di un’altra nave, come fosse una sorta di zattera. A sinistra: cartina della Calabria con la localizzazione del sito di Punta Scifo.


navale Simone Parizzi, portano a una lunghezza di 40 m circa e una larghezza di oltre 14, misure che collocano questa nave tra le piú grandi che il mondo antico ci abbia restituito. Abbiamo anche riconosciuto le tecniche di costruzione, studiando una porzione dello scafo trovata nel 1986. La nave era molto robusta: lo scafo presentava infatti un doppio strato di “mortase” e “tenoni”, che sono le cerniere che tengono insieme il fasciame, proprio per sostenere carichi eccezionali».

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Come sapevate che in quel punto del mare c’era un relitto? «Fu individuato nel 1987 da un sommozzatore locale, a cui si deve la scoperta di varie navi sommerse nel Crotonese. Ci fu un primo intervento, allora, da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria, poi di questo relitto si In alto: ricostruzione grafica del carico di marmi disperso sui fondali di Punta Scifo. In basso: una fase della documentazione del carico.

è persa traccia a livello scientifico. Noi abbiamo ripreso lo studio del reperto, nel 2011, nell’ambito di un piú ampio progetto di ricerca sugli antichi carichi di marmo affondati nel Mediterraneo, che comprende la pubblicazione di un altro carico, rinvenuto a Secca di Capo Bianco, presso Capo Rizzuto, sempre nel Crotonese: l’obiettivo è conoscere le antiche rotte, i traffici di marmi di età imperiale e le caratteristiche della navi impegnate in questi trasporti eccezionali». Ma dove doveva essere diretta la nave affondata a Punta Scifo? «Non credo in Africa dove, per l’epoca imperiale, Leptis Magna è una delle destinazioni piú battute. Opterei per Roma, dove questi marmi potevano abbellire una lussuosa villa imperiale, oppure verso ilTirreno. Forse queste imbarcazioni non andavano a vela, ma venivano trainate, come delle grosse zattere a fondo piatto, con un sistema simile a quello ipotizzato per il trasporto degli obelischi dall’Egitto a Roma. Personalmente sostengo quest’ipotesi perché, nei relitti che abbiamo studiato, manca la stazione per l’albero e non ci sono tracce di attrezzature veliche. Si tratta tuttavia di un’ipotesi che deve ancora essere verificata».



n otiz iario

musei Campania

alla scoperta dei caudini attraverso una molteplicità di attestazioni archeologiche nell’attuale territorio comunale di Montesarchio. In ordine cronologico sono esposti alcuni corredi delle necropoli caudine, databili tra la metà dell’VIII e il III secolo a.C., che testimoniano la ricchezza e la complessità del sito interessato da intensi scambi commerciali con le città greche della costa e il mondo etruscocampano. Fra la messe dei materiali presentati, di particolare interesse sono i numerosi crateri attici databili al V secolo a.C., frequenti

A

llestito nel castello medievale di Montesarchio (BN) il Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino è stato realizzato per restituire alla comunità il suo monumento simbolo e consentire la fruizione del ricco patrimonio archeologico di cui la trentennale attività di scavo condotta nella zona dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno ha consentito il recupero. Il percorso di visita, che si sviluppa per il momento in sei sale poste al primo piano dell’edificio storico, presenta gli straordinari risultati delle ricerche archeologiche dell’ultimo trentennio, con reperti riferibili ai diversi momenti cronologici e alle relative fasi culturali rilevati nei territori di Caudium (Montesarchio), Saticula (Sant’Agata de’ Goti) e Telesia (San Salvatore Telesino), che permettono cosí di comprendere e apprezzare la cultura delle gentes sannitiche e di leggere una pagina avvincente della storia dell’Italia preromana. Dalla ricostruzione del paesaggio in età preistorica, si passa all’ampia sezione dedicata al sito di Caudium, quest’ultimo individuato

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Da sinistra, in senso orario: oinochoe pitecusana, dalla tomba 2118; cratere attico a calice, dalla tomba 1006; cratere a calice di officina cumana, dalla tomba 2736. Montesarchio, Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino.

nelle sepolture della fase sannitica di Caudium, a conferma dell’elevato grado di acculturazione raggiunto dai Sanniti Caudini nel corso del V secolo a.C., tra cui un grande cratere a calice con scena delle imprese di Teseo (tomba 1006), mentre amazzonomachie e centauromachie caratterizzano i crateri a colonnette attici dalle tombe 1458 e 2386. Le ultime sezioni del percorso espositivo sono dedicate agli altri due importanti centri del Sannio caudino: i già ricordati siti di Saticula e Telesia, di cui si espongono materiali esemplificativi provenienti dalle ricche necropoli. Le sale del museo sono corredate da pannelli esplicativi delle sezioni e delle singole vetrine: su alcuni pannelli sono evidenziate le fasi dello scavo archeologico e i momenti del rinvenimento dei materiali esposti. Giampiero Galasso

Dove e quando Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino Montesarchio (BN), via Castello Orario tutti i giorni, 9,00-17,00; chiuso il lunedí Info tel. 0824 864570; e-mail: sba-sa.montesarchio@ beniculturali.it



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

dai pittogrammi al telescopio La scoperta e lo studio delle scritture antiche hanno sempre affascinato studiosi e ricercatori, sia per l’aspetto meramente storico e scientifico, sia per il successo e la fama gudagnati da quanti sono riusciti nell’impresa della decifrazione. Basti 2 3 citare alcuni tra i piú famosi, come l’abate JeanJaques Barthélemy (1716-1795), che aveva decifrato le iscrizioni cuneiformi di Palmira (1) o Jean-François Champollion (1790-1832), che svelò il mondo misterioso dei geroglifici egiziani grazie al ritrovamento della stele di Rosetta (2-3) o Sir Arthur Evans (1851-1941), che si cimentò con il lineare cretese 5 (4). Ma, a fronte di molte scritture note e quasi completamente decifrate, esiste un gran numero di testimonianze di scritture primitive che mai sono state svelate o addirittura sono andate perdute nel tempo, come potete leggere nello speciale di questo numero (vedi alle pp. 76-95). Qui, dal punto di vista filatelico, ci fa 7 piacere presentare alcune serie della Repubblica africana del Venda, che hanno raccontato la simbologia e l’evoluzione di molte delle prime forme di scrittura, 9 10 11 graffiti e disegni o anche vere e proprie scritture arcaiche, scomparse o meno: grotte di Altamira in Spagna (5); disegni su pietra dell’East California (6); tavoletta sumera (7); Bushman burial stones, Sud Africa (8); Arabia del Sud (9); caratteri fenici (10); Lineare cretese «B» (11); caratteri cananei (12). Un’altra 13 interessante serie del Venda raffigura l’evoluzione dei primi disegni-graffiti in caratteri di scrittura (fatta salva la validità scientifica delle immagini): evoluzione del cuneiforme (13), dei caratteri cinesi (14), dei geroglifici cretesi (15) ed egiziani (16). Il Venda ha perfino ricordato l’indecifrabile scrittura inventata nella valle dell’Indo che si estinse all’inizio del II millennio a.C. 15 (17), nonché la piú vicina a noi, e non ancora completamente decifrata, lingua etrusca (18). Un’emissione dell’Iraq ha celebrato la scrittura dei Sumeri (19, 20), mentre un’altra del Libano ci ricorda che i Fenici, progenitori degli attuali Libanesi, (forse) inventarono l’alfabeto (21). Sempre grazie alle emissioni del Venda concludiamo questa piccola rassegna non piú in chiave di scritture scomparse, ma di linguaggi «vivi» e proiettati nel futuro: un ruolo fondamentale hanno oggi le forme di scrittura tecnologiche, come quella dei caratteri per il computer (22) o quella adottata per i radio-messaggi attraverso i telescopi (23). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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infor mazione pubblicitar ia

n otiz iario

SCAVI LibiaPaestum incontri

nuova la borsa luce all’ombra per i capolavori del tempio

E È

stato in programma inaugurato, dalnello 14 alscorso 17 novembre dicembre, la XVI il edizione nuovo allestimento della Borsa Mediterranea del primo piano del del Turismo Museo Archeologico Nazionale di Paestum, Romanoche in Palazzo presenta Massimo. quest’anno Un rinnovamento importanti novità: che per ha interessato la prima volta, le sale infatti, che la ospitano irassegna maggiorisicapolavori svolgerà all’interno della scultura dellaantica. città antica. Sin L’area dall’inizio, adiacente colpisce al tempio la ricchezza di Cereredelle (salone opere espositivo, riunite nell’ampia laboratori di sala archeologia dell’ex teatro sperimentale (V), un’opulenza e due sale che riflette conferenze), quellaildelle Museo ville Archeologico imperiali romane Nazionale da cui le statue (ArcheoVirtual, provengono ArcheoLavoro, e che fa da filo salaconduttore conferenze, di questo workshop primo connucleo. i buyer Le sculture sono distribuite in modo esteri),armonioso la Basilica lungo la profondità dell’ambiente, con Paleocristiana sufficiente spazio per apprezzare singolarmente ciascun (conferenza capolavoro. Come nell’allestimento precedente, di apertura, sono presentate in coppia le due Afroditi accovacciate ArcheoLavoro, e iIncontri due Discoboli, secondo un uso in voga nelle con I Protagonisti) grandi residenze dell’età imperiale. La sala VI è incentrata saranno, d’intesa sull’immagine con dell’atleta come ideale estetico, il MiBAC,incarnato le nuove sedi dai già citati discoboli. Nella della manifestazione, sala VII si incontra il riallestimento piú importante: scelte per valorizzare qui, infatti, è stato alzato un parapetto nel senso al meglio della il patrimonio lunghezza, che ha creato un corridoio e una ampia culturale sala esistente. adiacente. Nel corridoio trova posto una sezione Fiore all’occhiello tematica incentrata della sulla figura di Dioniso: colpisce, BMTA sarà sullo sfondo, la grande protome del dio, in marmo ArcheoVirtual pentelico, che campeggia sopra la porta di uscita, – mostra mentre dedicata lungo il corridoio sono allineate numerose all’archeologia sculture virtuale di dimensioni –, che verrà piú presentata contenute.a Nella sala Paestum vengono dopoinvece esseresviluppati stata, in anteprima, i temi del mito protagonista e delle divinità a Digitaldell’Olimpo Heritage 2013, nell’immaginario il piú grande evento romano. scientifico Lo sguardo internazionale corre subito sul patrimonio alla statua culturale bronzeaindiprogramma Dioniso, sistemata dal 28 ottobre in posizione al 1° novembre centrale, a Marsiglia, nonché al torso Capitale del Minotauro, Europea della posto Cultura accanto 2013. al varco che collega con le sale La Borsa IX e X. Mediterranea del Turismo Archeologico si L conferma ’ambienteevento successivo internazionale (sale IX e X), unico dedicato nel suo alle genere: navi di Nemi, sede del trasporta piú grande il visitatore salone in espositivo una coerente al mondo atmosfera del acquatica, evocata dalle luci e dai colori scelti, nonché dal sottofondo sonoro del filmato multimediale. Vetrine allineate su due lati mostrano gli arredi in bronzo delle In alto: un’immagine navi, mentre una lunga teca, al centro, espone i resti di del salone espositivo una finemente cesellata. È inoltre disponibile dellabalaustra Borsa di Paestum, un multimediale, con un audiovisivo cheapprofondimento quest’anno, per la prima volta, sarà allestita all’interno dell’area archeologica (qui accanto).

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sulla storia delle navi e del loro recupero. L’ultima sala (VIII) presenta il volto d’avorio recuperato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 2003 ad Anguillara (Roma) e frammenti di altre sculture. Qui la penombra favorisce un’atmosfera raccolta e sospesa, mentre i reperti sono efficacemente presentati nella vetrina centrale – il volto – e in quella laterale – i frammenti. Pannelli a parete forniscono informazioni e approfondimenti sui manufatti e raccontano la storia del recupero. Dal punto di vista museograficopatrimonio e museotecnico questo nuovo allestimento presenta vari puntie di forza. archeologico della Gli spazi sono adeguati, né dispersivi, né sovraffollati. prima mostra Gli sfondi neutri, di tonalità scura, creano una quinta internazionale di efficace, su cui si stagliano benetecnologie i profili delle sculture,e interattive anche per un osservatore distante. L’illuminazione, virtuali; luogo di profondamente rinnovata, si avvale di un impiantoe approfondimento incassato nel soffitto, che crea uno spazio piúdi netto divulgazione temie favorisce la concentrazione sullededicati opere. L’adozione al turismo ediai lampade a led risulta efficace, irradiando una oltre luce che beni culturali abbondante, allo stesso tempo diretta e morbida. occasione di incontro Durante la visita, abbiamo anche avuto modo di per gli addetti ai lavori, constatare l’accessibilità dell’allestimento per per i per gli operatori, utilizzatori di sedie a rotelle. Il museo dispone viaggiatori, perdigli proprie sedie, che mette a disposizione Il museo appassionati. dispone di proprie sedie, che mette disposizione Il Nel a sottolineare museo di proprieche sedie, che metteculturale a sempredispone piú l’importanza il patrimonio disposizione visitatori, e il piano è raggiungibile riveste come dei fattore di dialogo interculturale, sori, che collegano al livello. La disposizione dei ogni d’integrazione sociale e di sviluppo economico, piedistalli nellepromuove sale non presenta problemi spazio anno la Borsa la cooperazione tradii popoli per il passaggio, cosí come le attraverso la partecipazione e didascalie lo scambiodelle di opere, tutte ben leggibili per un Marocco, visitatoreTunisia, in posizione esperienze: dopo Egitto, Siria,seduta, collocate sui bordi delle pedane o a parete ad altezza Francia, Algeria, Grecia, Libia, Perú, Portogallo, P. L. Cambogia, Turchia, Armenia, ospite ufficiale dell’edizione 2013 è il Venezuela. (red.)



calendario

Italia roma Il Tesoretto di Montecassino

Padova Venetkens

Museo Nazionale dell’Alto Medioevo fino al 30.09.13

Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13

Capolavori dell’archeologia

parma Storie della prima Parma

Recuperi, ritrovamenti, confronti Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 05.11.13

Archimede. Arte e scienza dell’invenzione Musei Capitolini fino al 12.01.14

Evan Gorga. Il collezionista

In alto: fibula in oro e pietre preziose, da Montecassino.

Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 12.01.14 (dal 19.10.13)

manfredonia Venti del Neolitico. Uomini del rame

Museo Nazionale Archeologico, Castello di Manfredonia fino al 31.12.13

Mantova Amore e Psiche: la favola dell’anima Palazzo Te fino al 10.11.13

milano Da Gerusalemme a Milano

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

modena Mano nella mano

Reperti di un amore oltre la morte Lapidario Romano dei Musei Civici fino al 24.11.14

onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa Casa della Cultura fino al 31.12.13

Nemi (Roma) Caligola

La trasgressione al potere Museo delle navi romane fino al 05.11.13

orvieto, bolsena, castiglione in teverina, san lorenzo nuovo Da Orvieto a Bolsena Un percorso tra Etruschi e Romani Sedi varie fino al 03.11.13 24 a r c h e o

La «dea di Caldevigo».

Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 29.12.13

pianosa (livorno) Ritorno a Pianosa Casa del Parco fino al 13.10.13

Potenza Segni del Potere

Oggetti di lusso dal Mediterraneo nell’Appennino lucano di età arcaica Museo Archeologico Nazionale «Dinu Adamesteanu» fino al 31.12.13

In basso: rhyton attico a testa di grifone. 400 a.C.

trento Sangue di drago, squame di serpente

Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio Castello del Buonconsiglio fino al 06.01.14

Vetulonia (Castiglione della Pescaia) Vetulonia, Capua, Pontecagnano Vite parallele di tre città etrusche Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.11.13

vulci I predatori dell’arte a Vulci

e il patrimonio ritrovato... le storie del recupero... Già allestita nel 2012 al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, viene ora ripresentata in una delle aree piú colpite dagli scavi clandestini, la città etrusco-romana di Vulci. La mostra infatti è dedicata al patrimonio archeologico disperso, a causa degli scavi di frodo, fin dagli anni Settanta del secolo scorso e recuperato a seguito di un sequestro operato in Svizzera nel 1995 ad opera del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Tale importante successo contro i «predatori dell’arte» si deve alla complessa attività di indagine, alla quale la Soprintendenza per i Beni archeologici dell’Etruria meridionale ha partecipato attivamente al fianco della Procura della Repubblica di Roma e del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Questa edizione della mostra riserva una particolare attenzione ai reperti provenienti da Vulci, selezionati tra gli oltre 3000 reperti sequestrati al Porto Franco di Ginevra, per la maggior parte provenienti da scavi clandestini eseguiti in Etruria e in Puglia. Nelle varie sezioni vengono


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Danimarca

Paesi Bassi

copenaghen Viking

leida Petra

Nationalmuseet fino al 17.11.13

Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14 (dal 09.10.13)

Germania

In alto: fibbia bronzea in forma di nave vichinga.

Bonn Cleopatra

Kunst- und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland L’eterna diva fino al 06.10.13

Madrid La Villa dei Papiri

alcalá de henares Annibale in Spagna Museo Arqueológico Regional fino al 12.01.14

Londra Vita e morte a Pompei ed Ercolano

alicante Il regno del sale

7000 anni di storia di Hallstatt Museo Arqueológico fino al 31.01.14

The British Museum fino al 29.09.13

Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14 (dal 17.10.13)

Spagna Casa del Lector fino al 23.04.14

Gran Bretagna

Oltre l’Eldorado

In basso: moneta con l’immagine di un elefante, che evoca il valico delle Alpi da parte di Annibale.

In alto: elaborazione grafica di una foto di Elizabeth Taylor nei panni della regina Cleopatra.

Israele Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande

Svizzera berna Qin

L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13

Israel Museum fino al 04.01.14

messe in evidenza le rotte del traffico illecito, l’attività di ripulitura dei materiali che passavano per le mani di diversi trafficanti e gli ingegnosi sistemi attuati per raggiungere la destinazione finale piú ambita, quella dei musei stranieri, in particolare statunitensi. Sarà l’occasione per ripercorrere il lungo viaggio compiuto dai materiali archeologici, finalmente rientrati dopo diverse vicissitudini, nel loro luogo di origine.

dove e quando Museo Archeologico Nazionale fino al 31 dicembre 2013 Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; www.vulci.it

hauterive Fiori dei faraoni

Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14

Qui sopra: i guerrieri dell’esercito di terracotta.

zurigo Archeologia

Tesori del Museo nazionale svizzero Museo nazionale svizzero fino al 21.12.2014

Carlo Magno e la Svizzera Museo Nazionale fino al 02.02.14 (dal 20.09.13)

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Il Cairo

l’archeologia nella stampa internazionale Nilo

Andreas M. Steiner

Mar Mediterraneo Baia di Abukir Thonis-Heracleion

Rosetta Alessandria

Il Cairo

Nilo

Egitto o

In alto: cartina con l’ubicazione del sito di Thonis-Heracleion. In basso: la statua colossale di un re tolemaico nella baia di Abukir.

N

el 2000, dopo vari anni di prospezioni geofisiche alla ricerca dell’antico porto di Alessandria – il Portus Magnus dominato dal leggendario faro, una delle sette meraviglie del mondo – gli archeologi dello IEASM (Institut Européen d’Archéologie SousMarine) guidati da Franck Goddio notarono tracce di uno strano paesaggio sommerso circa 6,5 km al largo dalla costa dell’Egitto nella baia di Abukir. Inizia cosí la riscoperta di Thonis-Heracleion, emporio dimenticato che un tempo controllava il commercio marittimo in entrata e in uscita dal paese dei faraoni. Gli dedica l’articolo di copertina la rivista inglese Current World Archaeology, partendo da una domanda fondamentale: perché l’importante città venne inghiottita dai flutti del Mediterraneo?

il mistero del porto sommerso Forse fu lo tsunami del IV secolo o il devastante terremoto dell’VIII secolo che colpí la costa dell’Africa settentrionale. O, forse, è stata la continua erosione della linea

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costiera. Piú probabilmente, invece, la scomparsa di ThonisHeracleion è da attribuire alla combinazione di tutte e tre le Egitto o cause. Rimane il fatto che, 1200 anni fa, uno dei piú grandi porti del Mediterraneo scomparve sotto il mare, insieme alle sue architetture monumentali, le colossali statue cultuali, gli strumenti e tutti gli

oggetti utilizzati dagli abitanti di questa industriosa e vivace città. Le prime tracce di ThonisHeracleion vennero intercettate dalla strumentazione della nave dello IEASM a circa 5-8 m di profondità: «Capimmo subito – ricorda Goddio – di essere di fronte a un paesaggio urbano complesso, caratterizzato dalla presenza di antichi corsi d’acqua, utilizzati dagli abitanti come vie di comunicazione». Oggi, a distanza di 12 anni, gli studiosi sono in grado di ricostruire ampia parte della pianta cittadina, con le strutture del porto e un buon numero di santuari, tra cui il tempio principale, dedicato ad Amon Gereb, la piú importante divinità egiziana dell’epoca. A poca distanza si trova, inoltre, un sacello dedicato a Khonsu, figlio di Amon che, in età ellenistica, fu equiparato a Eracle, figlio di Zeus. Nel 450 a.C., Erodoto visita la città ed è lui a riferire di un tempio dedicato all’eroe greco, il quale – secondo lo storico – mise per la prima volta piede in Egitto proprio qui.


Statua in granodiorite di una regina tolemaica del II sec. a.C., forse identificabile con Cleopatra II.

un faraone in terra santa

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agli scavi del grande sito cananeo di Tel Hazor, in Galilea, arriva una notizia davvero straordinaria: gli archeologi dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno scoperto il frammento (largo 30 x 40 cm) del basamento in granito di una sfinge (vedi foto in basso) appartenuta a uno dei costruttori delle Piramidi di Giza. L’iscrizione scolpita tra le zampe anteriori della sfinge riporta il nome del faraone Micerino (2490-2472 a.C.) «preferito degli dèi che gli donarono vita eterna». Secondo i primi calcoli, la statua intera, e di cui ancora si cercano i frammenti mancanti, dovrebbe pesare 500 kg: sarebbe la piú grande scultura di sfinge a oggi rinvenuta fuori dall’Egitto e anche l’unica rappresentazione del faraone Micerino raffigurato come tale. Secondo gli scavatori di Tel Hazor, gli archeologi Amnon Ben-Tor e Sharon Zuckermann, non si hanno ancora dati certi che possano spiegare come la scultura sia giunta nella città cananea già menzionata nell’Antico Testamento, poiché non esiste alcuna prova di rapporti tra gli abitanti di Canaan e le dinastie faraoniche del III millennio a.C. Il dominio egiziano si estese alle terre di Canaan alla metà del II millennio a.C. ed è ipotizzabile, dunque, che tra il XV e il XIII secolo, la scultura sia stata portata dall’Egitto come dono al re di Hazor. Sembra che la statua sia stata distrutta in seguito a successivi eventi bellici. Gli scavi di Tel Hazor (il sito è dal 2005 iscritto nella Lista del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO) sono iniziati già nel 1955, sotto la guida del generale e archeologo Yigal Yadin. Dal 1990 le indagini sono condotte da Amnon Ben-Tor, che ha portato alla luce ampie parti dell’antica città. Uno dei misteri ancora irrisolti di Tel Hazor riguarda quello della sua fine: nessuno degli archeologi dà credito, ormai, al racconto biblico secondo cui la città fu distrutta dal Giosué (Libro di Giosué 11:1-5 11:1013); mentre proprio il ritrovamento della sfinge, testimonianza di un evento bellico, potrebbe gettare nuova luce su questo aspetto della storia di Tel Hazor. Dal mitico visitatore Heracleion prese il nuovo nome, che, in origine, suonava Thonis. Come confermano due stele in diorite, entrambe datate al IV secolo a.C. e assolutamente identiche per quanto riguarda il materiale, le dimensioni e i caratteri della scrittura: quella rinvenuta nel 1890 a Naukratis (in cui è menzionata una città chiamata Honé (cioé Thonis) e un’altra, rinvenuta dagli archeologi dello IEASM all’interno del santuario di Amon, in cui si legge di una «città all’imboccatura del Mare dei Greci, il cui nome è Honé di Sais».

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scavi • iran

L’antica Bam si erge come una città fantasma nell’Iran meridionale, ai margini di un paesaggio tra i piú desolati della terra. Nel 2003, un devastante terremoto colpí la zona, distruggendo quella che, fino ad allora, era stata la piú vasta costruzione in mattoni crudi esistente al mondo. Eppure, la rinascita della misteriosa fortezza non sembra essere impresa impossibile, grazie anche alle ricerche di un progetto di recupero italiano…

Teheran IRAN

IRAQ

Bam KUWAIT

ARABIA SAUDITA

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PAKISTAN

AFGHANISTAN

TURKMENISTAN


Ritorno nel deserto dei tartari di Michael Jung e Vincenzo Torrieri

Le ricerche archeologiche italiane a Bam

A

rg-e Bam, la misteriosa città iraniana ai margini di uno dei deserti piú caldi e inospitali della terra, è conosciuta da una larga parte del pubblico italiano come la misteriosa fortezza del «deserto dei Tartari», scelta nel 1976 dal regista Valerio Zurlini come ambientazione ideale del film ispirato all’omonimo romanzo di Dino Buzzati (vedi box a p. 33). Bam è una delle città-deserto dell’Iran, ubicata lungo la via che collega Kirman a Balucistan, ai limiti meridionali del grande deserto del Kavir-e Lut, su un altopiano tra le catene montuose del Gabal Barez

e del Gabal Kabud. La città carovaniera nasce e si sviluppa lungo l’antichissima via che tuttora collega l’Iran centrale con le province orientali, l’Afghanistan e il Pakistan, una delle ramificazioni di quell’importante e complesso sistema viario noto come «via della seta» (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013).

posizione strategica La fortuna di questa splendida cittadella è legata dunque alla sua posizione strategica ai limiti del grande deserto, lungo uno degli assi viari di scambio culturale e commerciale piú importanti dell’anti-

chità, e alle preziose risorse idriche del luogo, sapientemente governate con ingegnosi sistemi di canali sotterranei (qanat) per dare vita alla lussureggiante oasi di Bam. Le tracce piú antiche d’insediamento finora accertate risalgono al periodo neolitico, con ritrovamenti di attività antropiche con materiali ceramici e utensili in pietra lavorata, nell’area in cui si estende la Grande Moschea. Lo splendore socio-economico e culturale della città, il periodo d’oro, va comunque ricercato in contesti storici antecedenti il XIII secolo, quando la città ospitava una numerosa e prospera co-

La cittadella di Bam. Veduta della parte orientale con i crolli causati dal sisma del 26 dicembre 2003, la cui potenza distruttrice ha facilmente avuto la meglio sulle strutture, realizzate perlopiú in mattoni crudi.

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In alto: la fortezza di Bam prima del terremoto del 2003. In primo piano, la città vecchia con il quartiere del bazar sovrastato dalla cittadella. In basso: la città dopo la tremenda devastazione, che ha trasformato gran parte del sito in un cumulo di macerie.

munità dedita al commercio carovaniero e alla manifattura tessile, famosa in tutto il mondo islamico per la produzione e lavorazione della seta, del cotone e della lana. Le invasioni di nuove etnie, i Turchi Oghuz, Mongoli e Timuridi, avviarono una lenta e inarrestabile crisi economica, con l’inevitabile decadenza socio-politica e la perdita di interessi per l’intera regione. La cittadella di Bam, comunque, grazie alla sua posizione strategica, divenne la fortificazione piú poderosa dell’Iran orientale e continuò ad avere un rilevante interesse militare di confine soprattutto durante le persistenti guerre con le popolazioni afgane e beluce. Nel XVIII secolo l’antica cittadella di Arg-e Bam fu progressivamente abbandonata in seguito alla pianificazione della nuova città nelle immediate vicinanze. Le unità abitative, i complessi residenziali e monumentali, le particolari e complesse fortificazioni di Arg-e Bam, sono costruite con la tradizionale tecnica della terra cruda e in genere con mattoni quadrati, di grandezza variabile, essiccati al sole (adobe), con strati di terra pestata (chineh) e coperture protettive realizzate con un impasto di paglia e terra (khagel). Bam rappresenta uno degli esempi piú importanti di antica città islamica, con un insieme pressoché completo di tutti gli elementi urbani caratteristici di quegli agglomerati, con tipologie ben note di palazzi, case, moschee, caravanserragli, hammam, bazar, officine e fortificazioni, e rappresenta inoltre un magnifico esempio di città interamente costruita in terra cruda, con una stratificazione storico-edilizia ancora perfettamente leggibile che documenta la sua storia millenaria.

il recupero del sito La mattina del 26 dicembre del 2003 un violento terremoto di magnitudo 6,6 (scala Richter) devastava una grande area della provincia di Kirman con gravissime perdite umane (ancora imprecisato è il nu32 a r c h e o


mero delle vittime, 40 000 circa secondo stime credibili). L’epicentro fu localizzato 10 km circa a sudovest di Bam, lungo la faglia omonima che taglia in direzione nordsud l’intera regione. Metà della popolazione di Bam scomparve in un attimo, la città nuova fu completamente distrutta e Arg-e Bam (la città antica) ridotta in macerie. La comunità internazionale rispondeva prontamente, operando sul fronte della pesante tragedia umana e su quello per il recupero e la salvaguardia dell’eccezionale patrimonio culturale. Le possenti mura della cittadella, oltre a essere un’importante attrattiva turistica – una risorsa vitale per l’intera regione –, costituivano una delle testimonianze storico-monumentali piú importanti dell’intero Paese, simbolo di un glorioso passato e vanto d’identità culturale. Organizzazioni internazionali come UNESCO, ICOMOS e ICCROM pianificarono, insieme con l’ICHTO (Organizzazione Iraniana del Patrimonio Culturale), il programma di recupero del patri-

monio culturale cosí duramente colpito dal sisma. Nel 2004 Bam e la sua regione entrarono a far parte del Patr imonio dell’Umanità UNESCO. Il governo italiano è coinvolto nel progetto di recupero sin dall’inizio (il programma di restauro attuato dall’Italia a Bam nasce dal progetto elaborato dal Dipartimento per la Ricerca, l’Innovazione e l’Organizzazione sotto la guida dell’allora Segretario Generale del Ministero per i Beni Culturali, Giuseppe Proietti. Il progetto è stato coordinato dall’architetto Mario Lolli Ghetti, in stretta collaborazione con l’architetto Claudio Prosperi Porta, sotto la direzione dell’architetto Gisella Capponi, direttore dell’ISCR).

restauro e ricerca archeologica L’intervento italiano di restauro e consolidamento antisismico è stato concepito e attuato come modello sperimentale da riproporre su larga scala, per questo limitato a un particolare ed emblematico settore della fortificazione: la «Torre n. 1»

Un’attesa inutile Scrittore e giornalista, Dino Buzzati (1906-1972) pubblica Il deserto dei Tartari nel 1940. Il romanzo narra la vicenda – sospesa tra realtà e irrealtà – del tenente Giovanni Drogo, che, destinato al forte Bastiani, al confine del deserto, attende giorno per giorno, fino alla morte, l’attacco dei nemici, l’occasione di gloria. Nel 1976 il regista Valerio Zurlini scelse la fortezza di Bam per ambientarvi la sua trasposizione cinematografica del racconto di Buzzati.

La lunga storia di Bam è legata all’ingegnoso sistema idrico dei canali sotterranei, i qanat, di uno dei quali, nella foto in alto, si vede l’uscita. Fin da tempi lontani, essi approvvigionano la rigogliosa oasi ubicata al margine del grande deserto salato Dasht-e Lut (a sinistra), la cui presenza è stata una delle ragioni che hanno favorito la fioritura dell’abitato.

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(vedi «Archeo» n. 302, aprile 2010; anche su www.archeo.it). Gli obiettivi, le tecniche e i materiali impiegati, sono stati preposti e prescelti nel rispetto della teoria brandiana che ha caratterizzato la prestigiosa scuola di restauro italiana nel mondo: studio filologico e critico delle strutture superstiti, messa in sicurezza e protezione antisismica per un intervento meramente conservativo nel rispetto del rigore etico e scientifico della tradizione del restauro italiano. La ricerca archeologica, parte integrante del progetto di restauro, è stata finalizzata allo studio delle tecniche costruttive e dei processi stratigrafici per l’elaborazione del modello dinamico-strutturale della torre, con fasi di crescita, restauri e ristrutturazioni, come presupposto filologico e scientifico del restauro. L’indagine sulla genesi e la vita della fortificazione, condotta insieme ai colleghi iraniani Nargez Ahmadi e Mehdi Keramatfar, doveva essere premessa obbligatoria del progetto per una corretta leggibilità degli interventi conservativi. L’analisi delle strutture e la conoscenza approfondita dei singoli corpi di fabbrica avrebbero suggerito eventuali reintegrazioni parziali dell’immagine ambientale, ai fini della sufficiente e corretta leggibilità dell’architettura e del monumento. Le informazioni provenienti dalla ricerca archeologica sono state inLe montagne del Gabal Kabud, che si estendono a nord di Bam, nel deserto del Kavir-e Lut.

dispensabili per il raggiungimento degli obiettivi fissati in termini di tecnica, lettura storica e ricomposizione dell’immagine. Oltre all’individuazione di una corretta metodologia per il consolidamento e il restauro, le indagini si sono indirizzate verso l’acquisizione di nuovi elementi tecnici per un’analisi approfondita delle tecniche costruttive e delle diverse fasi costruttive della fortificazione in una cronologia relativa ricollocabile o sovrapponibile, in fase sperimentale e di verifica, nel palinsesto temporale di fatti e informazioni provenienti o deducibili dalle fonti storiche e letterarie. La Torre n. 1 della cinta muraria si è rivelata, nel corso della nostra ricerca, come un organismo struttivo pluristratificato molto piú complesso di come si poteva immaginare. Le fasi di ripresa e di crescita sono caratterizzate da corpi e setti murari costruiti in appoggio dall’esterno su quelle preesistenti (la cosiddetta «crescita a cipolla»). L’attuale configurazione del monumento, o l’immagine percepita, risulta infatti come la somma di diverse fasi costruttivoricostruttive (cinque le maggiori documentate nel tratto indagato), nonché di rifacimenti, restauri e interventi di manutenzione ordinaria che, progressivamente e sistematicamente, hanno accresciuto il nucleo originario delle mura.

A destra: Bam in una foto aerea degli anni Cinquanta. In primo piano, il settore sud-occidentale della città con la cinta muraria occidentale. La massiccia torre angolare (Torre n. 1) è l’oggetto dell’intervento conservativo e archeologico della missione italo-iraniana. Al centro della cinta muraria (indicato dalla linea rossa) è il sito del nuovo progetto archeologico proposto dalla missione, il bastione (Shotor Galu).

Le ricostruzioni, i consolidamenti e i restauri accertati sono la conseguenza di cedimenti, con crolli parziali delle strutture, per smottamento del terrapieno basale (aggere) o di eventi traumatici e distruttivi come terremoti o guerre di espugnazione della città. Le ricostruzioni per aggiunte modificavano, di volta in volta, non solo il disegno e la volumetria, ma anche la struttura di impianto e l’organizzazione strategica interna della torre.

i primi terremoti Le ricerche hanno consentito di documentare, per la prima volta qui a Bam, evidenti tracce fisiche di disastrosi eventi sismici del passato, riscontrabili in diversi settori della torre. Crolli in giacitura primaria e dissesti delle strutture documentano un evento sismico immediatamente antecedente a quello del 2003. È molto probabile che il collasso della volta obliterata nell’am-


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biente meridionale, cosí come quello delle mura di fase piú antica, siano state causate da medesimi eventi in tempi diversi. Siamo in un’area territoriale altamente sismica, a pochi passi dalla grande faglia attiva di Bam. Tutto intorno alla città-fortezza, dentro e fuori, si possono osservare i segni profondi, antichi e recenti di bruschi, agghiaccianti movimenti della terra, di spaventose tragedie umane. Le mura e le torri, i palazzi e le case, le montagne e gli altopiani del grande deserto mostrano cicatrici profonde, ferite ancora aperte del dramma di questa terra che si perpetua da sempre e da sempre segna la vita dell’uomo e delle civiltà che si sono succedute nella storia. Gli effetti e le disastrose conseguenze umane di queste periodiche, puntuali calamità sismiche, imponevano ogni volta, proprio per le caratteristiche tecnico-fisiche della terra cruda, il consolidamento della base fondale delle strutture murarie con la ricostru(segue a p. 38)

Pianta di Bam: 1. porta principale; 2. porta; 3. mura orientali; 4. zona a nord-est della città (con rovine della cinta esterna); 5. settore nord-est; 6. mura del settore nord-est; 7. mura settentrionali; 8. mura occidentali; 9. mura meridionali; 10. bazar; 11. tekiyeh (teatro religioso); 12. Grande Moschea; 13. madrasa (scuola coranica) Mirza Naim; 14. residenza Mirza Naim; 15. caravanserraglio e casa Mir; 16. zurkhaneh (palestra persiana); 17. casa Sistani; 18. moschea Payambar; 19. hammam (bagno); 20-21. case di commercianti e «corridoio ebraico»; 22. caravanserraglio; 23. mura del quartiere Konari; 24. quartiere Konari; 25. stalle; 26. porta del quartiere governativo; 27. seconda cinta muraria; 28. porta Kot-e Kerm; 29. terza cinta muraria e porta vecchia; 30. caserma; 31. casa del comandante; 32. palazzo del governatore; 33. Chahar Fasl (padiglione delle quattro stagioni); 34. hammam del palazzo governativo; 35. Yakh Chal (casa del ghiaccio).

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le nuove scoperte A sinistra: una foto della cittadella in epoca Qajar.

La missione italo-iraniana a Bam ha condotto tre saggi di scavo nella torre, di limitate dimensioni per ragioni di statica delle strutture, e una trincea-sezione esplorativa sul profilo esterno dell’aggere difensivo. Il ritrovamento dell’angolo sud-ovest della torre piú antica ha consentito di definirne e chiarire in planimetria il modello di sviluppo e di vita delle strutture. La torre della fase piú antica al momento accertata è a pianta rettangolare con angoli leggermente smussati, costruita con mattoni crudi quadrati allettati con malta colloidale limo-sabbiosa. Non si può tuttavia escludere l’esistenza di strutture difensive ancora piú antiche, magari stratificate a quote inferiori. È stata documentata un’ampia tipologia di mattoni crudi, molti di essi «ingobbati» o incurvati (in fase di asciugamento, la faccia del mattone piú esposta al sole tendeva a tirare piú velocemente e quindi a insellarsi), molti ancora con vistose impressioni digitali eseguite prima dell’essiccamento con la funzione di aumentare presa e stabilità sul piano di allettamento, ben connettendo i mattoni agli strati di legante. I grandi crolli, a seguito del sisma del 2003, del lato meridionale e di quello settentrionale della torre, avevano evidenziato la dinamica di crescita del sistema difensivo come fasi progressive di ringrosso verso l’esterno e rinterri interni per colmata degli ambienti collassati. Alle fasi di crescita verso l’esterno si associavano rialzamenti progressivi delle quote pavimentali interne, quindi sommitali, della fortificazione: a ogni ricostruzione della torre corrisponde una sopraelevazione della stessa, una scelta imposta dalla necessità di consolidare nel proprio interno, per riempimento e placcaggio, i resti di quella precedente. Gli eventi catastrofici, inoltre, hanno riportato alla luce

una copertura voltata sul lato meridionale, obliterata nel terrapieno o nucleo della torre a noi pervenuta. La tecnica costruttiva della volta rispetta il modello tipologico e culturale islamico-iraniano: a piani inclinati di mattoni crudi disposti per taglio, con un sesto parabolico inclinato di circa 20 gradi. Questo espediente permetteva, in fase di costruzione, l’appoggio su una delle pareti corte della stanza dei singoli elementi della volta (mattoni) in crescita dalla spalla verso la chiave, fermati per incollaggio da un impasto limoso particolarmente plastico: una tecnica di costruzione autoportante veloce che non richiede l’ausilio della cassaforma. Tale espediente potrebbe essere ricollegato alla scarsità di legname nelle regioni desertiche e quindi all’impossibilità, se non a costi estremante elevati, di realizzare centine e casseforme. Nel tratto sommitale delle mura meridionali sono state individuate due feritoie a caditoia che, assieme a quella della torre riportata alla luce nel 2004, ricostruiscono un’immagine molto simile alle suggestive vedute delle torri di Bam pre-sisma. Una di queste esili feritoie era tamponata, in una delle ultime fasi di ricostruzione, con blocchetti di sterco animale cosí come riscontrato nella Un mattone crudo con impressioni digitali praticate per favorirne la presa.

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Qui sopra: assonometria di una volta iraniana realizzata con una tecnica autoportante che non richiede l’uso di centine o casseforme. In alto, a destra: i resti di un ambiente voltato in corso di scavo. A sinistra: veduta di Bam: si vedono le impalcature di diversi progetti di restauro e/o ricostruzione dell’ICHTO. A destra: i resti del silos scoperto sotto il pavimento della Torre n. 1.

cilindrica torre antica che domina la cittadella. Lo stesso materiale organico è stato impiegato nel rinfianco delle reni della volta riscoperta e nel massetto di uno degli ambienti obliterati. Trattato e assemblato in blocchetti, lo sterco viene solitamente utilizzato, a queste latitudini, come materiale da combustione, e sopperisce alla difficoltà di reperimento della legna da ardere. Nel caso specifico, inglobato nelle sostruzioni di ambienti come riempimento, sembra assumere funzioni di alleggerimento della struttura oltre a essere un eccellente isolante termico (per le caratteristiche fisico-tecniche della paglia) cosí come documentate qui e altrove. Una tecnica costruttiva che si distacca dalle tipologie finora osservate e studiate qui a Bam è stata documentata nel tratto di mura occidentali, a ridosso della torre: l’imposta di una volta sigillata all’interno della compagine difensiva durante una successiva fase di rinforzo e ristrutturazione. Un corso regolare di elementi lapidei di recupero, o di spoglio, legati con malta, tra cui una macina discoidale (lavorata a scalpello, foro conico centrale), funge da imposta alla volta di uno stretto ambiente che corre all’interno delle mura. Il breve segmento rinvenuto risulta legato, o in relazione, con il giro di mura piú esterne, nel tratto dove è stato rinvenuto il motivo impresso della croce greca,

sul rivestimento protettivo esterno di khagel. Sul lato N-W della torre, appena sotto il livello pavimentale pre-sisma, sono stati individuati i resti di un probabile silos; potrebbe trattarsi di un ripostiglio, scavato nel pavimento, per la conservazione di derrate alimentari. I frammenti ceramici rivenuti all’interno, in studio presso il centro operativo di Bam, potranno permettere l’inquadramento cronologico del contesto. La sezione esplorativa sull’aggere esterno occidentale, a breve distanza dalla torre e per una lunghezza di 20 m, ha evidenziato la struttura del profilo a scarpa, realizzata per rialzare e rinforzare la fortificazione verso il fossato o canale esterno. Sono state documentate inoltre, le diverse fasi di strutturazione del terrapieno, le regolari manutenzioni e i placcaggi con limi sabbiosi sulle reincisioni provocate dal forte ruscellamento di superficie nella stagione delle piogge, le reincisioni sul canale alla base dovute allo scorrere veloce di acque meteoriche verso il fiume, gli apporti per discarica di materiali d’uso domestico provenienti dall’alto delle mura. È stata registrata, in sintesi, la vita quotidiana della fortificazione con tracce evidenti delle attività di manutenzione del sistema difensivo su aggere, direttamente connesso a quello idraulico di regolazione e di imbrigliamento delle acque meteoriche superficiali. a r c h e o 37


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sotto il segno della croce

Tra i ritrovamenti recenti piú sorprendenti va annoverato il motivo della croce impresso sull’intonaco esterno (khagel) delle mura, non lontano dal lato ovest della torre, che prova la presenza di cristiani a Bam. La croce, a quattro bracci di eguale lunghezza (24 cm), probabilmente nestoriana, fu realizzata attraverso l’impressione (lo stampo) di una croce di legno sull’intonaco ancora fresco. Le tracce dell’impronta, inosservata durante le prime missioni, si resero piú visibili in seguito al dilavamento causato dalle forti precipitazioni dell’autunno 2006. Il tratto di mura su cui è stato rinvenuto il simbolo cristiano appartiene a una fase relativamente antica, poi inglobata nelle ultime fasi di ricostruzione della fortificazione. Al momento non è possibile fornire una datazione precisa, ma potrebbe essere ricollegabile ai resti della volta interna alle mura (vedi box alle pp. 36-37), in cui sono stati reimpiegati elementi lapidei di recupero, forse provenienti dal livellamento di antiche costruzioni realizzate in pietra non documentabili nel corso della storia recente. La porzione dell’intonaco interessato è stata distaccata per ragioni di salvaguardia e depositata nei laboratori di restauro, in attesa di essere esposta nel futuro museo di Bam. Il simbolo della croce nestoriana, identificato anche su due frammenti ceramici rinvenuti presso la cittadella, rappresenta, a oggi, la prima testimonianza archeologica della presenza cristiana a Bam e nell’intera regione di Kirman. Tra i reperti rinvenuti durante le ricerche, si segnalano inoltre punte di freccia di ferro, una delle quali, per grandezza e peso, sembrerebbe di balestra; frammenti di ceramica acroma, invetriata e non, da collocare in un ampio contesto cronologico compreso tra il tardo periodo achemenide e i giorni nostri; ossa animali (avanzi di pasto e non); lacerti di tessuti e frammenti di vetro colorato. Sono stati inoltre rinvenuti carboni di vinacciolo, tralci di vite, melograno, palma e cocco. I risultati della ricerca e delle analisi dei materiali saranno essenziali per la definizione di una cronologia assoluta e potranno fornire un primo inquadramento cronologico delle diverse fasi costruttive documentate, di ausilio alla storia di questa straordinaria e monumentale fortificazione ai limiti del grande deserto del Kavir-e Lut.

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zione tout court dell’elevato, avviluppando i resti di quelle precedenti: gli architetti sapevano benissimo, per esperienza diretta, che non era possibile restaurare e riprendere in elevato mura e torri, semplici setti murari di terra cruda gravemente danneggiati dal sisma.

una storia da riscrivere Possibili fenomeni tellurici disastrosi avvenuti a Bam nell’antichità sono stati generalmente negati, in assenza di riferimenti storici e documentali; solo nel 2005, con lo studio del geologo iraniano Manuel Berberian, il problema viene affrontato per la prima volta scientificamente. Le prove archeologiche degli eventi sismici, documentati con la nostra prospezione, costituiscono elementi importanti per una corretta analisi delle strutture e per la ricostruzione della storia e della topografia antica e recente di Bam. L’analisi tecnico-specialistica delle strutture di terra cruda deformate rinvenute, potrebbe definire, dimensionare e valutare gli effetti fisici conseguenti le attività sismiche, da noi recentemente osservati e studiati, per una valutazione reale e scientifica del fenomeno tellurico in contesti urbani. Quanto osservato e documentato, trova conferma in una importante fonte storica, sinora sfuggita all’attenzione degli studiosi: un diario del 1886 di un tale Goldsmith (proIn alto: la rimozione del blocco con la croce nestoriana. A sinistra: lo stesso simbolo su un frammento ceramico. Il ricorrere della croce prova la presenza dei cristiani a Bam. A destra: la cittadella con le rovine del palazzo del governatore.


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babilmente un inviato della corona inglese), pubblicato nel Journal of the Royal Geographical Society del 1867. Relazionando quanto scrive l’autore, ricollegando fatti, riferimenti e date, si può desumere che un forte sisma si sia verificato nel breve intervallo di tempo che va dall’assedio di Bam, da parte di Aqa Khan Mahallati nel 1840-41, e la visita di Goldsmith nel 1866: nel suo diario annota infatti «[Bam] era la scena di una lotta internazionale, la quale insieme a un terremoto, risultava in una quasi completa distruzione della città all’interno delle mura».

assedi ed epidemie Verifiche, accertamenti e ritrovamenti effettuati all’interno delle mura urbiche ci raccontano fatti ed episodi dolorosi, che, associati agli eventi sismici, descrivono momenti particolarmente difficili e ciclici della storia di Bam. Un piccolo ambiente ipogeo scavato all’interno delle mura meridionali, in prossimità della Torre n. 1, con due nicchie scolpite sulle pareti interne, potrebbe avere avuto l’originaria funzione In alto: l’enigmatica costruzione situata oltre il circuito delle mura, sul lato nord-orientale della cinta, detta comunemente «edificio di roccia» e interpretata variamente come osservatorio, sala da banchetto o luogo di culto.

Il nuovo Progetto Sulla base dei risultati finora conseguiti dalla Missione Italiana è stato proposto un ampliamento del Progetto di Ricerca Archeologica a Bam. Il nuovo Progetto, concordato con Charyr Adle, responsabile archeologo dell’UNESCO a Bam, che vede impegnati anche Afshin Ebrahimi della Soprintendenza di Bam e Asad Joodaki, interessa il tratto centrale della fortificazione, dove si ipotizza l’esistenza della Porta Occidentale della Città. Il sito prescelto presenta caratteristiche ideali per un ulteriore approfondimento dello studio delle mura urbane con la verifica di quanto finora documentato e interpretato. Le nuove ricerche interesseranno, inoltre, l’aggere sul canale esterno e un settore all’interno delle

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mura, sulla probabile porta di accesso alla Città. Il sito è ubicato in corrispondenza di uno degli assi viari (est-ovest) a cardine del sistema urbano. Già Heinz Gaube proponeva, oltre alle due porte delle mura sud, l’esistenza di altrettante sul lato occidentale e su quello orientale. Lo storico arabo al-Muqaddasi scriveva intorno all’anno 985, dell’esistenza di quattro porte: «La fortezza (hisn) ha quattro porte: Bab Narmasir, Bab Kuskan, Bab Asbikan, Bab Kurgin. Al centro sorge la cittadella (qal‘a)». L’ipotesi di riconoscere, nell’impianto urbanistico regolare di Arg-e Bam, una città ellenistica divisa in quartieri e insulae, con assi stradali ortogonali secondo il modello


di sepolcro, cosí come gli altri ambienti segnalati lungo l’intero percorso interno delle mura, anche se, per correttezza, va ricordato che colleghi archeologi iraniani sono convinti che ambienti di questo tipo possano essere interpretati come modestissime abitazioni o magazzini di servizio alla città. Tuttavia, se poniamo in relazione tale ambiente con il rinvenimento di numerose sepolture di bambini (finora piú di sessanta) in fosse terragne scavate all’interno e sulla

sommità delle mura, l’ipotesi assume una particolare consistenza e credibilità. Le sepolture di bambini compresi entro l’arco neonataleadolescenziale, databili al XIX secolo, sono da mettere in relazione con il già citato assedio della città di Aqa Khan Mahallati, nel 1840-41. Le fonti storiche e letterarie narrano, infatti, di una terribile epidemia (a seguito di una probabile carestia),

conseguenza del lungo assedio che causò numerose vittime soprattutto tra la popolazione infantile. Una di queste sepolture a fossa, scavata sulle mura occidentali in prossimità della Torre n. 1, è stata documentata e relazionata dagli archeologi iraniani proprio come fatto ricollegabile alla famosa epidemia che falciò centinaia di innocenti vittime tra la popolazione.

A destra: il lato nord-occidentale della torre. Sono ben visibili la sua struttura «a cipolla», dovuta alla sovrapposizione delle diverse fasi di costruzione, e una porzione delle mura occidentali. Si riconosce anche una fila di pietre di spoglio, tra cui una macina.

ippodameo, già avanzata dai colleghi iraniani e da Paola Cuneo nel 1986, è assai stimolante e potrebbe chiarire molti aspetti storici e topografici ancora in sospeso. A tal proposito segnaliamo il recente rinvenimento, presso Bam, di materiali ceramici di uso comune con iscrizioni greche, che attesterebbero il probabile insediamento ellenistico. Tornare presto a Bam, la misteriosa fortezza del deserto, sarebbe oltremodo importante per approfondire le indagini già iniziate, cosí che la missione archeologica italiana possa completare una ricerca assai promettente, dai risultati di grande interesse per la storia di Bam, della regione di Kirman e dell’intero Iran.

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sognando la valle d’oro di Carlo Casi e Mariagrazia Celuzza

Il lembo di terra della maremma, ai confini tra lazio e toscana, colpisce per il suo territorio incontaminato, composto da uliveti, macchia mediterranea e campi di grano. numerose e importanti sono, poi, le testimonianze archeologiche che esso ancora conserva: da quelle della città romana di cosa alle ville di settefinestre e delle colonne, al castello medievale di tricosto. oggi, un progetto di valorizzazione «dal basso» intende salvaguardare e restituire alla comunità questo straordinario insieme monumentale e paesaggistico...

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A sinistra: un tratto dei muri di terrazzamento della villa romana di Settefinestre. A destra: cartina dell’area etrusca tosco-laziale: il colore piú scuro indica il territorio controllato dalla città di Vulci, con i centri antichi piú importanti; il rettangolo verde indica invece la posizione della Valle d’Oro. In basso, sulle due pagine: veduta panoramica che spazia da Capalbiaccio all’Argentario: la costa e la Valle d’Oro.

Chiusi

Populonia Isola d’Elba

Vetulonia

Monte Amiata Roselle Volsini Saturnia Poggio Buco

L

Lago di Bolsena

Bisenzio

Marsiliana

Ferento Cosa

Mar Ti r r e n o

a Valle d’Oro, un lembo di Maremma ai confini con il Lazio, stupisce ancora oggi per il suo paesaggio incontaminato, nel quale si alternano colline coperte di uliveti, macchia mediterranea e campi di grano. Percorrendo l’odierna via Aurelia, non sfuggono i resti di un antico splendore: le torrette difensive delle ville romane delle Colonne e di Settefinestre, i ruderi del dominante castello medievale di Tricosto e, dalla parte del mare, la maestosa collina di Ansedonia, sulla quale, dalla fitta vegetazione, emergono le mura imponenti della città romana di Cosa. Dal punto di vista storico, la Valle d’Oro faceva parte del territorio di

Pitigliano

Vulci, dopo la cui caduta sotto il dominio di Roma (280 a.C.) fu inclusa nell’ager Cosanus, territorio della colonia romana di diritto latino di Cosa, fondata nel 273 a.C.

da cosa ad ansedonia Fu piú tardi compresa, probabilmente già dall’Alto Medioevo, nel grande feudo dell’abbazia delle Tre Fontane ad Aquas Salvias di Roma, mentre il sito di Cosa, dopo alterne vicende, acquisiva il nome di Ansedonia. Dopo l’incastellamento e diverse dominazioni (Orvieto, Pitigliano, Siena) entrò a far parte nel XVI secolo dello Stato dei Presídi, a sua volta incluso, nel 1815, nel granducato di Toscana.

Vulci

Tuscania

Tarquinia

La posizione strategica sul Mare Tirreno, le risorse naturali (in particolare la ricchezza di acqua) e la relativa vicinanza a Roma sono all’origine dello straordinario sviluppo dell’area a partire dalla conquista romana, prima con intenti militari e di controllo, poi con finalità di sfruttamento intensivo dei terreni da parte di proprietari della classe senatoria dell’Urbe. I dati provenienti da questo territorio hanno stimolato un ampio dibattito storiografico, che è l’altra specificità della Valle d’Oro: nel territorio di Cosa, infatti, si sono concentrati numerosi e importanti progetti di ricerca, promossi da enti e università italiane e straniere, che hanno

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parchi archeologici • valle d’oro

In alto: Orbetello. Un tratto delle mura urbane, databili al IV sec. a.C. In basso: una sala del Museo Archeologico Nazionale di Cosa. Nella pagina accanto, in alto: Cosa. Il tempio D (o di Mater Matuta) sull’arx. II sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: un tratto delle mura di Cosa. III sec. a.C.

prodotto una mole considerevole di dati nuovi, illustrati in numerose pubblicazioni, in un contesto di interpretazioni innovative e di vivace confronto scientifico. Escludendo i periodi piú antichi, di difficile valorizzazione (occorre tuttavia segnalare la presenza di una grotta frequentata nella preistoria ai piedi della collina di Settefinestre, in località La Leccetina, e di un abitato dell’età del Bronzo Finale su una propaggine del Capalbiaccio, che domina il lago di San Floriano), la documentazione di età storica parte dall’età tardo-orientalizzante/ arcaica (VII-VI secolo a.C.), quando si completa il panorama urbano di questa parte di Etruria. Se infatti Vulci, come altre metropoli etrusche, nasce in forma proto-urbana già nel Bronzo Finale, in genere gli abitati minori compaiono come tali solo piú tardi. È il caso di Orbetello, centro etrusco di riferimento della Valle d’Oro, oltre che uno dei porti di Vulci. Il popolamento etrusco interessa anche le campagne e si suppone che, fra il VII e VI secolo a.C., nella parte pianeggiante o in altura, ci fossero 44 a r c h e o

diversi insediamenti rurali, ancora da indagare, con l’ eccezione del villaggio etrusco individuato sul Poggio Capalbiaccio, oggetto di scavi recenti. Questo sito, abitato fino a tutto il IV secolo a.C., restituisce anche la prima testimonianza della conquista romana della Valle d’Oro (280 a.C.): venne forse distrutto nei primi decenni del III secolo a.C., in concomitanza con le operazioni belliche di Roma contro Vulci.

La prima colonia Cosa fu la prima colonia di Roma lungo la costa etrusca (273 a.C.): una fortezza quasi inaccessibile, edificata nel corso di vari decenni, dando la precedenza alle imponenti mura di fortificazione, per la prima volta in Italia rinforzate da torri, e agli edifici pubblici. La colonizzazione investí poi l’intero territorio, con la costruzione del Portus Cosanus, a partire dal III secolo a.C.; della via Aurelia, che raggiunse Cosa probabilmente già nel 241 a.C., e del raccordo fra Cosa e Saturnia (colonia nel 183 a.C.), che univa la via Aurelia alla via Clodia, anch’essa del 183 a.C., e che attraversava il centro della Valle d’Oro.

Presupposto della colonizzazione fu anche la delimitazione regolare dei campi (centuriazione) utile a controllare il regime idrogeologico dei terreni e a distribuire terre ai coloni. La Valle d’Oro conserva ampie tracce della sistemazione agrimensoria: allineamenti sono visibili sulla superficie dei campi o leggibili nelle fotografie aeree. La centuriazione risolse il problema del drenaggio (sempre attuale in Maremma) con una fitta rete di canali. Sul reticolo centuriale si basava l’assegnazione del terreno ai coloni di Cosa, inizialmente 4000, integrati da 1000 nuove unità nel 197 a.C. In località Giardino Vecchio è stata scavata una abitazione rurale riferibile a un colono appartenente alla classe di censo piú alta, data la complessità dell’impianto: costruita all’inizio del II secolo a.C., la casa aveva un cortile interno e un torchio rudimentale per fare il vino, oltre che stalle, ma-

Il Museo e l’area di Cosa Il Museo Archeologico Nazionale di Cosa è stato istituito nel 1981 a seguito della donazione allo Stato italiano della S.U.N.Y. House, costruita nel corso della prime campagne di scavo dall’Accademia Americana. Conserva i reperti piú significativi provenienti dall’Arx (decorazioni fittili dei templi), dal Foro, e dalle abitazioni private dell’antica Cosa. Nel 1997 la superficie espositiva è stata ampliata dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, con l’aggiunta di nuove sale: la prima,


dedicata all’area del porto e ai commerci, propone materiali provenienti anche dalla necropoli circostante la città; la seconda ospita le testimonianze relative alle fasi di vita piú tarde: dalla crisi tardo-repubblicana della città fino alla trasformazione dell’area dell’Arx in guarnigione militare (V-VI secolo d.C.) e alla costruzione del successivo castello, possesso dell’abbazia delle Tre Fontane di Roma (X secolo d.C.), fino alle ultime frequentazioni del XIII-XIV secolo. Il Museo si trova all’interno dell’Area

archeologica di Cosa, colonia romana dedotta nel 273 a.C. su un promontorio roccioso a 114 m di quota sul mare. Strutturata come una fortezza, la città era difesa da una possente cinta muraria, recentemente restaurata, che si sviluppa per circa 1,5 km di lunghezza, fornita di almeno diciotto torri quadrate e una torre rotonda. Nelle mura si aprono tre porte di struttura complessa, con vano interno e chiusura a saracinesca. L’impianto urbano ortogonale è definito da una griglia di vie basolate: all’interno della città, oltre alle

abitazioni private, sono ben riconoscibili l’area del foro, cui si accedeva da un arco a tre fornici di cui si conservano i resti crollati, e sul quale si affacciavano la basilica, il tempio della Concordia e il complesso della curia-comizio; e l’acropoli, protetta da una sua propria cinta muraria, che ospitava il principale luogo di culto della città, il Capitolium e un tempio minore forse dedicato a Mater Matuta. La città, sia pure in modo intermittente, è stata occupata fino al XIV secolo.

dove e quando Museo Archeologico Nazionale di Cosa Via delle Ginestre, loc. Ansedonia, Orbetello (GR) Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel./fax 0564 881421; www.archeotoscana.beniculturali.it Area Archeologica di Cosa Orario tutti i giorni, 8,00-20,00 Note ingresso libero a r c h e o 45


parchi archeologici • valle d’oro

gazzini e stanze di abitazione, e venne abitata fino alla metà del I secolo a.C. circa, quando fu poi presumibilmente accorpata a una piú vasta proprietà. Già nel corso del II secolo a.C., infatti, avevano cominciato a formarsi proprietà piú grandi, le ville, per la cui conduzione si faceva ricorso in varia misura a schiavi. Si trattava di aziende agricole specializzate che commercializzavano ed esportavano i loro prodotti. Nell’89 a.C. gli Etruschi alleati e i coloni latini ottennero la cittadinanza romana. I decenni immediatamente successivi furono segnati da avvenimenti politici e militari drammatici. Nell’87 a.C. Mario sbarcò a Talamone dove arruolò schiavi e contadini, forse anche di origine etrusca. La successiva guerra civile ebbe effetti pesanti in gran parte dell’Etruria. Il segno della rovina dei piccoli proprietari-coloni è la fortissima rarefazione delle loro sedi a faIn alto: foto aerea che rivela le strutture della villa romana individuata in località Le Tombe, la cui occupazione è attestata dal I sec. a.C. al VI sec. d.C. In basso: il muro turrito della villa romana in località Le Colonne. I sec. a.C.

vore delle ville: Silla distribuí generosamente ai suoi sostenitori le terre delle città schieratesi contro di lui, con la conseguente definitiva affermazione delle nuove aziende sulla piccola proprietà.

un tessuto di ville La Valle d’Oro era fittamente popolata di ville. Alcune (Settefinestre, Le Colonne, Monte Alzato) conservano resti monumentali, altre (Le Tombe) sono visibili nelle fotografie aeree, altre ancora sono intuibili dal vasto affioramento di reperti nei campi.

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vino e commerci Negli ultimi decenni del VII secolo a.C. gli Etruschi introdussero il vino in Gallia dove trovavano ampio mercato per la produzione eccedente il consumo locale. Le rotte etrusche attraversavano le isole dell’Arcipelago Toscano, costeggiavano la Corsica e, dopo un tratto di mare aperto, raggiungevano il Golfo del Leone. Da qui i vini di Vulci e Cerveteri e il vasellame bronzeo e ceramico raggiungevano la Gallia meridionale e, in misura minore, la penisola iberica (come testimonia il relitto arcaico dell’Enfola, nave probabilmente vulcente naufragata presso l’Isola d’Elba). Nel V secolo a.C. le esportazioni subirono una flessione, in concomitanza con la fine della supremazia etrusca sul mare. Nel secolo successivo i commerci mediterranei ripresero, ma Roma si avviava a esserne protagonista. Nel territorio di Cosa la prima fase della commercializzazione del vino romano può essere riconosciuta in alcuni insediamenti rurali complessi, come la piccola azienda (circa 8 ettari) indagata in località Giardino Vecchio: l’edificio, organizzato intorno a un cortile rustico (750 mq circa) comprendeva un piccolo apparato per la vinificazione: il surplus di vino poteva essere venduto sul mercato locale o a mercatores che lo commercializzavano nel Mediterraneo. Nel II secolo a.C. il vino prodotto nelle aziende schiavistiche della nobiltà senatoria e municipale era una delle merci italiche piú esportate, anche in virtú di iniziative protezionistiche che vietavano l’impianto di vigne nelle province. Nel territorio di Cosa e nella Valle d’Oro le anfore vinarie erano prodotte in fornaci distribuite spesso presso la costa e i porti: una è stata individuata a ridosso del Portus Cosanus, dove scarichi di anfore rotte o difettose recano sull’orlo il bollo SES (rimanderebbero quindi a Lucio SEStio e alla sua ricca proprietà di Settefinestre).

anfore greco-italiche IV-II sec. a.C.

anfore Dressel 1 II-I sec. a.C.

La Villa di Settefinestre è stata scavata fra il 1976 e il 1981 (dalle Università di Siena, Pisa e Londra, sotto la direzione di Andrea Carandini) e pubblicata nel 1985. Quanto oggi è visibile della villa, dopo la colmatura degli scavi, è solo una minima parte del complesso di edifici, eppure si impone tuttora sul paesag-

anfora Dressel 2/4 I sec. a.C.I sec. d.C.

gio e si candida a essere l’elemento di maggior spicco nella futura valorizzazione dell’area. Il fronte principale della villa si affaccia verso ovest, con un monumentale muro turrito simile a una cinta urbana (motivo architettonico ripreso in altre ville dellaValle d’Oro e del territorio di Cosa). Gli edifici

erano disposti su grandi terrazzamenti che risalivano fino alla cima della collina (oggi occupata dal casale fortificato risalente al XVI secolo) e il toponimo, attestato almeno dal XVI secolo, si deve all’aspetto del terrazzamento (la basis villae) su cui sorgeva il corpo centrale della villa. Questo elemento architettonico, forato all’interno da un sistema di gallerie (criptoportico), si apriva verso ovest con una serie di archi, le Finestre o le Settefinestre. L’area edificata della villa copriva piú di due ettari, al centro di una proprietà della presumibile dimensione di 125 ettari di terra coltivata e altrettanti di bosco e pascolo. La villa aveva una lussuosa parte abitativa dotata di portici e giardini, adiacente agli impianti per la produzione dell’olio e del vino, perfettamente rispondenti alle descrizioni degli agronomi romani Catone, Varrone e Columella, e dell’architetto Vitruvio, scritte tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. In un prima fase, piú propriamente schiavistica (40 a.C.-100 d.C. circa), l’attività predominante fu la produzione intensiva di vino per l’esportazione; il proprietario era probabilmente Lucio Sestio (dalle iniziali L.S. su alcune tegole della I fase edilizia), aristocratico romano amico di Cicerone, che aveva proprietà nel Cosano.

nuove colture Alla fine del I secolo d.C. alcune delle aziende agricole fiorenti fra la fine della repubblica e i primi secoli dell’impero nel territorio cosano furono abbandonate: è il fallimento del modo di produzione schiavistico, e dell’intera economia della penisola italiana che non riusciva a reggere la concorrenza delle province dell’impero. Le produzioni intensive di vite e olivo furono sostituite dalla cerealicoltura e dalla pastorizia che necessitavano di minore manodopera e che caratterizzeranno per secoli il paesaggio maremmano. La seconda fase di vita della villa di Settefinestre si inserisce in questo quadro: intorno al 100 d.C. la villa a r c h e o 47


parchi archeologici • valle d’oro Villa romana di Settefinestre. I sec. a.C.-II sec. d.C. Resti del portico e del muro turrito.

macchina produttiva e dimora lussuosa Il corpo centrale della villa di Settefinestre è un quadrato di 45 m di lato (oltre 2000 mq), in parte edificato sulla roccia livellata del colle, in parte sulle volte cementizie della sottostante basis villae (portico e criptoportico). La villa, una perfetta macchina produttiva e dimora piacevole e lussuosa, presenta la pars dominica (1500 mq circa), destinata al dominus e alla sua famiglia, adiacente e collegata direttamente da quattro percorsi alla pars fructuaria (500 mq circa), con i torchi vinari e il frantoio dell’olio. Quanto la parte produttiva è sobria e funzionale, tanto la casa padronale è decorata riccamente. Alla fase originale della villa appartengono i mosaici del loggiato, del peristilio e dell’atrio: tappeti a fondo bianco o nero con grandi tessere di calcare e di marmo colorato; altri mosaici della stessa fase sono decorati con motivi geometrici elaborati. L’oecus corinthius, la sala piú elegante, presentava un opus sectile a cubi prospettici in bianco, verde e grigio. Alle pareti affreschi con i motivi architettonici e i colori tipici della seconda fase del II stile pompeiano (50-25 a.C.); la parete di una sala, ricostruita da frammenti, presenta una tipica architettura teatrale (frons scenae).

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Nella seconda fase edilizia della villa (fine del I secolo d.C.), che corrisponde all’abbandono della produzione del vino e al probabile cambio di proprietà, l’edificio padronale si svincola dalle attività produttive. I rivestimenti parietali e pavimentali vengono conservati, ove possibile, e restaurati. In alcuni casi i pavimenti vengono sostituiti da mosaici bianchi con cornici nere e solo poche soglie sono decorate con motivi vegetali o geometrici. Gli intonaci, ormai riferibili al IV stile pompeiano, in alcune stanze ancora imitano schemi di II stile, per evitare il contrasto con le cornici di stucco originarie. In altri ambienti la nuova decorazione presenta uno zoccolo nero con animali o mostri marini, oppure ghirlande o altri motivi vegetali, a cui segue un’ampia fascia a fondo rosso con moduli in «stile fiorito», coronata da una cornice in stucco; altrove si sovrappongono registri a fondo rosso o giallo, con candelabri floreali o pannelli con bordi a onde correnti. Acquerello che mostra la villa di Settefinestre nel paesaggio della Valle d’Oro del I sec. a.C.


Disegno ricostruttivo del porcile della villa romana di Settefinestre. II sec. d.C.

Qui sopra: assonometria ricostruttiva della villa romana di Settefinestre nella seconda fase edilizia. 100-160 d.C. circa. A destra: lastra decorativa in terracotta, dalla villa romana di Settefinestre. Metà del I sec. a.C.

cambiò presumibilmente proprietario e fu riconvertita alla coltivazione estensiva dei cereali integrata dall’allevamento di maiali e, forse, di schiavi, di cui ormai, con la fine delle guerre di conquista, non era possibile rifornirsi in altro modo. Nella seconda metà del II secolo d.C. la villa fu abbandonata, forse in seguito a un’epidemia; negli strati archeologici di età severiana (III secolo d.C.) compaiono per la prima volta tracce di piante di palude: si suppone che il calo della popolazione nelle campagne abbia comportato l’abbandono delle antiche pratiche di manutenzione di fossi e drenaggi, generando cosí l’impaludamento, irreversibile per secoli. A partire dal V e ancora di piú dal VI secolo d.C., il peggioramento climatico noto come «piccola glaciazione altomedievale» contribuí al dissesto idrogeologico dell’area. A quel tempo poche ville superstiti, a cui facevano capo estesi latifondi, si dividevano i terreni della Valle d’Oro, mentre il centro fortificato che sorse nel VI secolo d.C. sull’allora disabitata arx di Cosa, è stato interpretato come una fortezza collegata alla resistenza bizantina contro i Longobardi.

l’abbandono Gli ultimi resti dell’insediamento romano si disgregarono con il VII secolo d.C. Qualche villa abbandonata era tuttavia occupata da piccole comunità di poche decine di persone, che vivevano precariamente nelle rovine e vi seppellivano i loro morti. Negli strati di crollo di IV-VI secolo d.C. della villa di Settefinestre sono stati rinvenuti corpi di giovani individui che si nutrivano quasi esclusivamente di carne, alimentazione tipica dei pastori. Uno di loro era affetto da anemia mediterranea, alterazione congenita del sangue che rende immuni dalla malaria: è il primo indizio, indiretto, della diffusione della malaria in questa zona, in forme tali da innescare una selezione naturale. Con l’Alto Medioevo la Valle dell’Oro appare sostanzialmente a r c h e o 49


parchi archeologici • valle d’oro

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In alto: disegno ricostruttivo del castello di Tricosto-Capalbiaccio nella fase del XIV sec. Nella pagina accanto: castello di Tricosto-Capalbiaccio: resti della chiesa. XIII sec.

spopolata. A seguito dell’intervento dei Franchi, il papato rivendicò il possesso di gran parte dei territori della Tuscia longobarda, e l’agro di Cosa, ormai pressoché deserto, fu acquisito dalla potente abbazia delle Tre Fontane di Roma. Il fenomeno dell’incastellamento è attestato dal castello di Tricosto (detto anche Altricosto, o Capalbiaccio), i cui ruderi svettano sul Poggio Capalbiaccio, tra la Valle d’Oro e la valle di Capalbio. Citato in documenti degli anni 1161-1432, il sito è stato indagato da Stephen Dyson (Wesleyan University) negli anni Settanta, e da Michelle Hobart (Cooper Union University, New York) nel 2009. I reperti di scavo indicano

una lunga occupazione: all’insediamento protostorico ed etrusco seguí un’ampia pausa, dopo la quale la ceramica dell’VIII-X secolo d.C. segnala la nascita del villaggio, che si trasformò in castello, poi abbandonato nel XV secolo, dopo la distruzione da parte di Siena nel 1432. Nel Medioevo acquisirono un ruolo importante anche monasteri e pievi, talvolta punto di riferimento di piccoli abitati, come il piccolo monastero di Colognolum, oggi Romitorio Rovinato, a nord della Valle d’Oro, forse legato all’abbazia delle Tre Fontane.

peste e malaria Nel Basso Medioevo si affacciarono in Maremma gli Stati cittadini: la distruzione nel 1432 di Tricosto da parte di Siena (che aveva già distrutto Ansedonia nel secolo precedente) si inserisce in questo contesto, ma la peste, che imperversò sin dal 1345, decimò la popolazione già scarsa

della Maremma. La mancata ripresa demografica, resa difficile anche dalla malaria endemica e da altre pestilenze, è uno dei motivi all’origine della disastrosa situazione sociale, economica, sanitaria e ambientale che ha caratterizzato la Maremma fino a tempi recenti: la conquista di questa terra, perseguita con ostinazione dalla Repubblica senese, si rivelò un pessimo affare ed ebbe un peso decisivo anche nella successiva caduta di Siena (1557). per saperne di piú Andrea Carandini, Franco Cambi (a cura di), Paesaggi d’Etruria: valle dell’Albegna, Valle d’Oro, valle del Chiarone, valle del Tafone, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2002 Andrea Carandini (a cura di), Settefinestre: una villa schiavistica nell’Etruria romana, Panini, Modena 1985 a r c h e o 51


parchi archeologici • valle d’oro

Un progetto per la Valle d’Oro Parco della Valle d’Oro, studio di fattibilità: ipotesi di itinerari e servizi. Limiti comunali Limite area del parco Strade asfaltate Strade sterrate Mulattiere e sentieri Percorso pedonale Percorso a cavallo Edifici Invasi Fosso melone Aree di pianura Aree boscate Resedi, corti e giardini Vigneti Oliveti Impianti artificiali

ITINERARI Le ville Capalbiaccio-Tricosto Doganale A Doganale B Centro servizi Rovine, resti archeologici visibili Rovine, resti archeologici documentati non visibili Fontanili e sorgenti Alberi e/o filari Centro informazioni Punto bar ristoro Bagni pubblici Tavoli Parcheggio Maneggio Chiesa Ristorante Agriturismo/bed&breakfast Punto panoramico


Capalbio ha recentemente ospitato la mostra «Valle d’Oro», in cui è stato presentato lo studio di fattibilità per la realizzazione del futuro Parco archeologico e paesaggistico della Valle d’Oro. A promuovere il progetto è l’associazione MaremmaMare, nata nel 2000 da un comitato spontaneo di oltre 700 sottoscrittori, e costituitasi formalmente nel 2002 per tutelare e valorizzare il paesaggio, l’ambiente e il patrimonio archeologico delle zone di Giardino, Valle d’Oro, Polverosa e S. Donato, con il supporto di privati ed Enti Locali. L’idea di istituire un Parco della Valle d’Oro, tuttavia, non è nuova. Andrea Carandini, nell’introduzione a Paesaggi d’Etruria (Roma 2002), scriveva: «Considerando queste campagne e in particolare il loro cuore, rappresentato dalla Valle D’Oro, resto ancora oggi pieno di ammirazione per la sorte fortunata toccata a questa parte d’Italia, la quale, pur essendo vicina al mare e ai lenocini delle vacanze, ha preservato miracolosamente il suo patrimonio archeologico, paesistico e monumentale (...) Vi è dunque necessità di continuare a tutelare questo paesaggio agrario, saturo di monumenti, che è di alta rilevanza nazionale e internazionale. La presenza di Cosa, colonia esemplare per capire il potere e la civiltà di Roma, implicherebbe che il suo agro, altrettanto esemplare, venisse salvaguardato da specifici provvedimenti di tutela (...) Perché non pensare a un parco? Perché non scavare alcuni insediamenti rurali per renderli di pubblica fruizione?». Alla grande stagione delle ricerche scientifiche e delle relative pubblicazioni non è mai seguita una valorizzazione che avrebbe restituito alla popolazione locale e ai visitatori quel patrimonio di conoscenza e allo stesso tempo avrebbe garantito la conservazione dei resti, monumentali e sepolti. La sfida è stata raccolta dall’associazione MaremmaMare, che ha commissionato a Mariagrazia Celuzza, a Cecilia Luzzetti e a Giovanni Gori lo studio di fattibilità di un parco. Lo studio è stato condotto in parallelo in ambito giuridico, per individuare

le tappe istituzionali da compiere per attuare il progetto, e in ambito archeologico, storico, urbanistico e paesaggistico, per definire un quadro dettagliato dello stato di fatto. Il lavoro è oggi completo per quanto riguarda la fase di analisi delle risorse, con redazione di cartografie tematiche, documentazione fotografica e relazione di sintesi. È stata anche considerata la compatibilità fra il futuro parco e la disciplina urbanistica vigente nei due comuni, Orbetello e Capalbio, nel territorio dei quali insiste la Valle d’Oro. Oggetto di analisi e verifica sono stati anche l’uso del suolo, la struttura fondiaria, i caratteri e gli ambiti paesaggistici. Una fase di lavoro successiva ha prodotto una «Carta del Parco» in cui sono descritti quelli che potranno essere gli itinerari e i servizi (vedi alla pagina accanto). La prossima fase, e la piú ambiziosa, sarà l’istituzione del Parco. L’associazione MaremmaMare sta già lavorando intensamente in questa direzione. Riuscirà questo combattivo gruppo di cittadini a realizzare il suo sogno? O avrà la meglio il controverso tracciato dell’Autostrada tirrenica? Info Associazione MaremmaMare Strada Giardino, 6 – Loc. Giardino – 58011 Capalbio (GR) e-mail: maremmamare2000@googlemail.com; www.valledorogiardino.com

per saperne di piú Mariagrazia Celuzza, Cecilia Luzzetti (a cura di), Valle d’Oro. Parco archeologico e paesaggistico-Studio di fattibilità (guida alla mostra), Edizioni Effigi, Arcidosso 2013; www.cpadver-effigi.com

La valle della Bufala, un esempio della varietà del paesaggio che caratterizza la Valle d’Oro.

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civiltà cinese • le origini/8

È esistito un «Medioevo cinese»? Proviamo a rispondere, scoprendo come, tra effettive analogie con l’Occidente ed eccessive semplificazioni storiografiche, dal III al VI secolo la Cina abbia attraversato un periodo di grandi fermenti. tra i quali l’avvento di una cultura destinata ad avere grandi ripercussioni sugli anni a venire: il buddhismo

e vennero i «secoli

di Marco Meccarelli

bui»


Yungang (Datong, Shanxi). Due delle oltre 50 000 statue buddhiste che decorano uno dei 252 templi scavati principalmente a partire dal periodo Wei, fra il V e il VI sec. Nel 2001 l’UNESCO ha inserito il sito nella lista dei beni del Patrimonio dell’Umanità.

N

el divenire storico, sia in Occidente che in Oriente, si tende spesso a far rientrare tutto ciò che presenta aspetti analoghi tra civiltà diverse all’interno di canoni prestabiliti, ricercando affannosamente categorizzazioni storiche comuni, che non di rado scivolano nello stereotipo. Altrettanto accade quando si vuole classificare, entro schemi prefissati, tutto ciò che in altre civiltà appare come «diverso-inconsueto-anomalo». Uno dei molti stereotipi è quello del cosiddetto «Medioevo cinese», una fase corrispondente al periodo compreso tra il 220 e il 581 d.C., e che, in effetti, presenta non poche analogie con la situazione verificatasi in Occidente all’indomani della caduta dell’impero romano (476). Analogo, infatti, è il declino delle istituzioni centrali causato dalla frantumazione dell’unità politica, economica e culturale dell’impero, il cui ideale, tuttavia, permane e si perpetua presso le corti dei sovrani che si considerano legittimi eredi della tradizione.

un ideale che non muore Cosí come rinveniamo il diffondersi di culti stranieri – il cristianesimo in Occidente e il buddhismo in Cina – utili a colmare il vuoto determinato da una profonda crisi di valori, similmente, i cosiddetti «barbari» demoliscono il sistema imperiale, per poi rigenerarlo, senza riuscire, in fin dei conti, ad annientare in Cina e a Roma l’ideale di un impero unitario. Se, tuttavia, l’operato di Giustiniano (482-565) e a r c h e o 55


civiltà cinese • le origini/8 Sulle due pagine, da sinistra: tre momenti della scoperta e del restauro della piú grande scultura in bronzo di cavallo a oggi nota. Il prezioso reperto, venuto alla luce durante gli scavi condotti a Xiangyang, nella provincia dello Hubei, era stato deposto all’interno di una tomba riferibile al periodo dei Tre Regni. La scultura, che nella prima foto si riconosce al centro, sulla sinistra, era stata collocata nell’anticamera del monumento funerario.

quello di Carlo Magno (741-814) sono stati gloriosi, ma, per certi versi, effimeri, l’impero cinese, soprattutto con la dinastia Tang (618907), risorge dalle sue ceneri come una fenice, rinnovato e piú potente di prima. Piú d’un elemento mette però in discussione le analogie tra le due, piú o meno coeve, epoche medievali: per esempio, a differenza di quanto accadde in Occidente, in Cina non si affermò, sulle spoglie dell’impero decaduto, un sistema istituzionale di tipo feudale; cosí come non venne trasmessa quell’eredità medievale che in Europa ha contribuito alla nascita delle lingue volgari, delle nazioni, della borghesia, o delle banche e dei Comuni; né, tantomeno, possiamo comparare il ruolo egemone e accentratore svolto dal cristianesimo, rispetto a quello del buddhismo indiano che, in certi periodi storici, pur divenendo fondamentale, è sempre stato affiancato ai culti ancestrali. 56 a r c h e o


niere, definite «barbare» dagli storiografi ufficiali, che contribuiscono a provocare un fermento culturale senza precedenti. Numerosi sono gli aspetti in comune, tra la prima «fase di transizione» (771-221 a.C.), del periodo Primavere-Autunni e Stati Combattenti (vedi «Archeo» n. 338, aprile 2013), e la seconda (221-581 d.C.), che si attesta tra la caduta degli Han (vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013) e la riunificazione dell’impero, con la dinastia Sui. I due periodi sono accomunati dal frazionamento territoriale in regni piú o meno potenti e spesso di origine straniera, che manifestano un peculiare carattere regionale, in concomitanza con la definizione e divulgazione di un com-

La definizione di «Medioevo cinese», quindi, pur presentando caratteristiche affini a quello occidentale, risulta utile da un lato, per la condivisione di aspetti simili tra civiltà diverse e distanti, ma fuorviante dall’altro, perché rischia di scivolare nella omologazione e/o nella indifferenziazione culturale. È dunque opportuno proporre un approccio metodologico diverso, che abbandoni, o per lo meno limiti, l’esigenza di ricercare analogie tra periodi storici appartenenti a culture diverse.

transizioni ricorrenti Analizzando la vicenda cinese in una visione allargata, è infatti possibile rintracciare un altro tipo di parallelismo, in cui sono coinvolte epoche che presentano requisiti comuni, ma all’interno della medesima civiltà: è tipico della Cina, per esempio, l’emergere periodico di fasi di transizione, in cui il sistema dinastico viene sconvolto dall’incursione di popolazioni stra-

plesso apparato filosofico-religioso che ha fornito le basi teoriche per il divenire storico dell’impero. Convenzionalmente, l’archeologia di questa seconda fase di transizione include il periodo dei Tre Regni (Sanguo, con i regni Wei,Wu e Shu, dal 220 al 280); l’unificazione territoriale attuata dai Jin Occidentali (265–316) e poi mantenuta, nel Meridione, dai Jin Orientali (317420); nonché il concomitante affermarsi, nel Settentrione, del periodo dei Sedici Regni (Shiliu Guo, 304439), la cui frammentazione politica indotta da popoli di etnia straniera, precede le cosiddette Dinastie del Nord e del Sud (Nanbei Chao, 420-581). Come se non bastasse, alcuni storici tendono a semplifica-


civiltà cinese • le origini/8

Dallo stupa alla pagoda Si narra che «Il Buddha ripose stendendolo al suolo, piegato a quadrato, il proprio abito monastico, ricoprendolo con la ciotola delle elemosine capovolta ed erigendo infine sulla sommità il proprio bastone da mendicante: cosí venne formato il primo modello di stupa». È quanto racconta, nel VII secolo, il pellegrino cinese Xuan Zang, fornendoci non soltanto l’origine del culto delle reliquie, ma anche la spiegazione della tipologia e degli elementi costitutivi dello stupa indiano: l’abito piegato a quadrato rappresenta il basamento, la ciotola capovolta richiama la cupola e il bastone l’asse che spicca dalla sommità del monumento. Esso può essere considerato un monumento funerario o un cenotafio (sepolcro vuoto), ma anche una rappresentazione architettonica del cosmo. In Cina, lo stupa prende la forma delle torri di avvistamento di epoca Han, divenendo un edificio a piú piani decrescenti verso l’alto: nasce la pagoda. Le prime furono costruite in legno (II-III secolo) e successivamente in mattoni o muratura. Sembra che nel IV secolo fossero a tre piani e si crede che la forma tetragonale sia stata mantenuta fino all’epoca Tang (618-907), quando si diffuse il modello ottagonale o decagonale con un numero variabile di piani. Le fonti letterarie sostengono però che la pagoda del VI secolo del tempio Yongning a Luoyang, durante il periodo Wei, avesse nove piani e fosse alta ben 120 m.

re questo complesso periodo, definendolo genericamente delle «Sei Dinastie» (Liu Chao, 220-581), sebbene nessuna entità statale, a eccezione, forse, dell’effimera unificazione attuata dai Jin, possa essere paragonata all’accentramento politico e culturale delle dinastie ereditarie e imperiali.

conflitti e contatti In questo marasma di nomi, si evince come, dal III al VI secolo, a contendersi l’egemonia nel territorio cinese sia stato un vero e proprio «universo» di culture, prevalentemente eterogenee, affermatesi mediante frequenti conflitti, diffondendo idee religiose di origine straniera e intensificando i contatti culturali e commerciali su lunga distanza, che hanno coinvolto l’intera Asia. Le cronache storiche, cosí come le opere letterarie che rievocano questi periodi, come il Romanzo dei tre regni (Sanguo yanyi) del

XIV secolo, si dilettano spesso nella descrizione minuziosa e prolissa di vicende in cui i continui scontri militari, l’emergere di eroiche personalità, ma anche di alleanze che mutano al variare degli eventi e di intense attività negoziatrici, si confondono tra tradimenti, colpi di mano e assassini. Dagli anni Cinquanta del XX secolo l’archeologia di questa fase di transizione ha restituito una mole copiosa di dati, che hanno confermato e, allo stesso tempo, integrato gli eventi descritti dalle fonti storiche. Per quanto riguarda l’archeologia del periodo dei Tre Regni, per esempio, fondamentale è stata la scoperta di Yecheng (Hebei), capitale di numerose entità politiche della Cina settentrionale dal III al VI secolo d.C.; ma non è da dimenticare il rinvenimento del 1996 a Changsha (Hunan), di 57 fosse di stoccaggio contenenti, oltre a diverse migliaia di manufatti di bronzo, ferro e ceraLa pagoda Songyue (Henan), costruita in mattoni, riprende un modello indiano. Innalzato nei primi decenni del VI sec., nel periodo delle Dinastie del Nord, è uno dei rari esemplari esistenti di monumenti del genere riferibili a un’età cosí antica.


A sinistra: Ma’anshan (Anhui). La tomba di famiglia di Zhu Ran, un alto ufficiale dell’esercito del regno di Wu, morto nel 249 d.C. All’interno del sepolcro è stato rinvenuto un ricco corredo, comprendente oggetti di lacca e legno laccato, vasi di gres a invetriatura ferruginosa (céladon), nonché una statuetta del «guardiano della tomba» (a destra) e modellini architettonici (in basso).

mica, ben 100 000 tavolette di bambú e legno con iscrizioni eseguite a inchiostro, comprendenti documenti di vario tipo sui diversi aspetti dell’amministrazione del regno di Wu dal 220 al 237 d.C. È da segnalare, infine, la scoperta a Ma’anshan (Anhui) della tomba di un ufficiale (Zhu Ran) di alto rango dell’esercito del regno di Wu, morto nel 249 d.C., che conteneva 80 oggetti in lacca e legno laccato con pitture realizzate in uno stile che presenta caratteristiche locali, oltre ad alcuni vasi di gres a invetriatura ferruginosa (céladon), decorati da motivi di vario genere. Scorrendo la linea del tempo, tra le scoperte piú significative riferibili al periodo dei Jin Orientali e dei Regni del Sud della Cina, sono da segnalare le tombe regali e le necro-

poli degli aristocratici, in cui i mattoni di rivestimento decorati a stampo divengono fondamentali elementi decorativi (tomba a Xishanqiao, Jiangsu), cosí come le «vie sacre» (shendao) che precedono i mausolei, affollate da animali mitici, colonne ornamentali e stele.

cavalieri nomadi Nella Cina settentrionale sono particolarmente interessanti i rinvenimenti riferibili ai gruppi nomadi dei Xianbei, con i loro completi da cavalleria, rinvenuti nelle oltre 500 tombe nella provincia di Liaoning assieme a manufatti comprendenti orecchini d’oro e d’argento, placche con motivi zoomorfi, ornamenti per capelli a forma di testa di cervo e un considerevole numero di strumenti di

ferro, che ne attestano l’origine nomadica. I vasi céladon confermano, però, l’esistenza di scambi culturali tra le regioni settentrionali e quelle meridionali della Cina, cosí come gli oggetti in vetro di fattura iranica o ellenistica (tomba di Feng Sufu, V secolo), documentano le interazioni tra le culture orientali e quelle occidentali. La forte contaminazione del modello cinese, in concomitanza con la ricezione di influenze buddhiste, è evidente in alcune tombe (Grande Generale Sima Jinlong del V secolo, a Datong, Shanxi) Wei Settentrionali (386-534 d.C.), la cui struttura e la cui pianta, cosí come i reperti funerari, imitano le coeve tradizioni della Pianura Centrale e della Cina meridionale, mentre il vasellame e le statuine raffiguranti cavalieri, caa r c h e o 59


civiltà cinese • le origini/8

valli e cammelli di ceramica dipinta o invetriata tradiscono le origini nomadi e il carattere bellico dei gruppi Xianbei. Ciò che emerge incontrastato è il carattere interculturale degli stili architettonici imperiali e aristocratici del periodo Wei, che si ritrova anche nelle rappresentazioni murali dei sepolcri di altre popolazioni delle Dinastie del Nord, tra cortei, scene di viaggio, guardiani, servitori, fiori, figure e animali mitici, che assieme alla pianta, alle pratiche funerarie e ai beni di corredo, documentano le forti interazioni tra la Cina settentrionale, meridionale e occidentale. I contatti culturali sono visibili anche nei temi e nei tratti fisici dei soggetti raffigurati nelle tombe dei Zhou Settentrionali (557-581; tomba di An Jia, a Kangdizhai, Xi’an), che manifestano aspetti di stile sogdiano e contengono persino elementi zoroastriani. D’altronde, l’intero territorio della Cina nord-occidentale, fulcro nodale della via della seta (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013), è l’emblema della contaminazione artistica tra civiltà differenti, perché crocevia tra Oriente e Occidente.

la rivoluzione buddhista L’interazione culturale sembra costituire, dunque, la chiave di lettura del periodo di transizione, al punto da definire la grande rivoluzione attuata dal buddhismo, destinato a perdurare nei secoli e ad avere ripercussioni profonde, quasi insospettate. Si tratta della prima forma di spiritualità universale di una cultura straniera accolta e assimilata nella civiltà cinese, già portatrice di una forte identità delineata nel corso dei quattro secoli della dinastia Han. Tutto ciò è potuto accadere, probabilmente, grazie a tre secoli di divisione politica e alla capacità di questa corrente filosofica di amalgamarsi alla tradizione autoctona taoista. A seguito dell’introduzione del buddhismo in Cina, infatti, fu dato (segue a p. 64) 60 a r c h e o


Nella pagina accanto: paravento laccato dalla tomba del Grande Generale Sima Jinlong, morto nel 484 d.C., con scritte racchiuse in cartigli, tratte da Biografie di donne celebri, di Liu Xiang, da Datong (Shanxi). Dinastia Wei Settentrionali.

In basso: particolare degli Ammonimenti dell’Istitutrice alle dame di corte, dipinto su rotolo realizzato dal pittore Gu Kaizhi per illustrare un testo didattico di Zhang Hua. Replica dell’VIII sec. dell’opera originale. Londra, British Museum.

storie di corte e di un amore infelice Gu Kaizhi (344 circa-406 circa), primo pittore che, secondo la tradizione, uscí dall’anonimato, giunse alla notorietà sia per il suo talento, sia per la sua eccentricità. Due dipinti su rotolo che gli sono stati attribuiti si differenziano l’uno dall’altro in maniera notevole. Il primo, Ammonimenti della istitutrice alle dame di corte, conservato al British Museum, illustra un testo didattico di Zhang Hua (232-300), nel quale si riportano, tra l’altro, i consigli che l’istitutrice di corte dava alle dame del gineceo di palazzo sul comportamento da tenere, secondo l’alto tono morale del periodo, e presenta interessanti elementi distintivi dell’arte ufficiale del IV-V secolo. Rispettando la classica impostazione didattica di derivazione confuciana, la pittura segue una struttura letterale e presenta scene alternate da colofoni esplicativi, con sporadici accenni di collocazione. Solitamente citata come testimonianza del passaggio verso il formato del rotolo, l’opera si differenzia notevolmente dall’altro dipinto di Gu Kaizhi, La Ninfa del

fiume Luo, che si ispira a un celebre componimento poetico di Cao Zhi (192-232), nel quale viene narrato l’amore infelice tra un uomo e una divinità fluviale. Il dipinto è noto grazie a tre copie, eseguite in epoca Song (960-1279), due delle quali sono oggi conservate in Cina, mentre una terza si trova a Washington. Pur mantenendo l’impostazione narrativa, l’opera rappresenta una serie di eventi, inseriti tra elementi paesaggistici che consentono di definire un luogo specifico, in settori distinti, senza rompere la continuità di narrazione tra un ambiente e l’altro. La composizione testimonia l’emergere del soggetto paesaggistico in pittura, spesso accostato a personaggi di natura letterario-leggendaria o storici, e assieme a entità mitologiche. Il dipinto, lungo piú di 5 m e alto all’incirca 20 cm, illustra in che modo venissero utilizzati i rotoli cinesi orizzontali, aperti con la mano sinistra e riavvolti con la destra cosí da renderne visibile, di volta in volta, una porzione larga, in base all’apertura delle spalle del fruitore.

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civiltà cinese • le origini/8

la nuova archeologia della cina Incontro con Yang Xiaoneng Studioso riconosciuto a livello internazionale, Yang Xiaoneng è curatore della sezione di arte asiatica presso la Cantor Arts Center della Stanford University; è stato il curatore e l’organizzatore della mostra The Golden Age of Chinese Archaeology: Celebrated Discoveries from The People’s Republic of China, inaugurata nel 1999 alla National Gallery of Art, Washington, e presentata poi al Museum of Fine Arts, Houston, e all’Asian Art Museum di San Francisco. Tra le sue pubblicazioni, sono da segnalare il catalogo della suddetta mostra e New Perspectives on China’s Past: Chinese Archaeology in the 20th Century (Yale University Press, 2004). È stato inoltre autore di diverse voci sull’archeologia cinese per l’Enciclopedia Treccani, tra cui Cina. Le Dinastie del Nord e del Sud, per la collana Il mondo dell’archeologia (2005)

◆ Quali sono, in ambito

archeologico, i cambiamenti piú importanti da segnalare all’indomani del crollo della dinastia Han? Per lungo tempo, gli archeologi cinesi si sono dedicati soprattutto a indagare sul periodo precedente alla dinastia Han. L’archeologia ha colmato le lacune storiche e ricostruito le vicende dell’antico passato della Cina. Nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, l’archeologia in Cina ha ampliato il proprio campo di ricerca, fino a coprire tutte le dinastie imperiali (221 a.C.-1911 d.C.). Sono stati

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presi in esame quasi tutti i tipi di documenti storici, cosí come il materiale rinvenuto: siti comprendenti architetture, città, tombe, tesori, scritti, forni per ceramica, grotte buddhiste, relitti, e cosí via. Studi interdisciplinari sono diventati un approccio essenziale per l’indagine archeologica cinese. Per esempio, lo studio di resti materiali e oggetti associati ai loro ambienti (sia naturali che materiali) è ormai pratica comune.

◆ Qual è stato il ruolo del

buddhismo in Cina nel periodo di transizione?

Il ruolo del buddhismo in Cina è fondamentale. Le testimonianze archeologiche riguardano non soltanto i resti architettonici – come pagode, templi e grotte con bellissimi dipinti, sculture e altri manufatti preziosi –, ma anche i costumi funerari, le produzioni di oggetti e le modalità di decorazione. Le scoperte delle sculture buddhiste, le fondazioni di pagode e i siti buddhisti rivelano gli stili tipici dal carattere regionale. Il loro impatto, sia sulle sfere alte di potere, sia sulla società, testimonia come il buddhismo sia entrato in Cina tramite diverse «vie». Molte sono le scoperte straordinarie,


A destra: Guangzhou (Guangdong). La tomba di un dignitario, con ricco corredo funebre, Dinastia Han Occidentali (202 a.C.-9 d.C.). Nella pagina accanto: il complesso rupestre di Maijishan, comprendente 194 grotte, che, scavate a partire dall’epoca dei Qin Posteriori (384-417 d.C.), sono state frequentate fino al XIX sec. In basso: vaso in grès con invetriatura verde céladon. VI sec. Oxford, Ashmolean Museum.

tra cui la fondazione della pagoda del monastero Yongning a Luoyang, le sculture in pietra del monastero Wanfo, quelle di Siude a Quyang, e del sito Longxing, Qingzhou, e la pagoda di Famen a Fufeng, solo per citarne alcune.

◆ A suo giudizio, quali sono i piú

importanti siti archeologici o reperti da ricordare? I siti archeologici sono numerosi, e, oltre a coinvolgere diverse epoche, hanno restituito numerosi reperti. Nell’ambito delle tombe d’élite di epoca Han, per esempio, la Tomba 1 a Mawangdui, le tombe del re di Zhongshan e della sua consorte a Mancheng, e la tomba del re di Nanyue a Guangzhou, sono tutte ben conservate e offrono un quadro completo delle tipologie di simili sepolture. Per quanto riguarda, invece, le culture di frontiera del Nord della Cina, le tombe Liao di Baoshan, Qinglongshan e Yemaotai offrono ricche informazioni e testimonianze materiali del livello raggiunto da queste popolazioni.

Per lo studio della porcellana imperiale bianca e blu, lo scavo delle fornaci di porcellane imperiali e dei laboratori presso Jingdezhen, fornisce informazioni fondamentali per la datazione e per intraprendere studi comparativi. Inoltre, le indagini archeologiche fin qui condotte hanno sensibilmente migliorato la nostra comprensione dei contesti storico-culturali, almeno fino alla dinastia Ming (1368-1644).

il pennello «danzante» di wang Nel periodo di transizione, oltre alla pittura e alla scultura, si registra il considerevole sviluppo di altre espressioni artistiche. La calligrafia, cara alla tradizione cinese, assieme alla pittura e alla poesia, con i due Wang (Wang Xizhi, 303?-361 d.C., e Wang Xianzhi, 344-388), raggiunse alti livelli. Wang Xizhi è considerato il pilastro della storia della calligrafia cinese per aver «emancipato» la scrittura. Si narra che il suo pennello danzasse come nuvole in movimento e avesse la potenza di un drago in volo. Nel periodo di divisione della Cina si attesta anche la produzione di vasi in grès con invetriatura céladon, un termine adottato per ogni tipo di invetriatura verde ottenuta a temperatura elevata, in un ambiente riducente, che trae il proprio colore dalla presenza di piccole quantità di ferro. Ma non mancano le ceramiche con invetriatura a base di piombo, di colore marrone e verde, già presenti in epoca Han, e quelle di colore bianco. Gli scavi archeologici degli ultimi quarant’anni hanno portato alla luce anche notevoli recipienti in vetro e oggetti metallici di importazione, alcuni dei quali attestano l’adattamento alle forme e ai motivi decorativi sassanidi.

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civiltà cinese • le origini/8

ulteriore impulso alla creatività mi- raggiunsero il numero di 30 000. mangono, comunque, motivi e tentologica che si concentrò in parti- La dottrina indiana modificò non denze tradizionali che riaffiorano colare sulla speculazione cosmolo- solamente il substrato culturale ci- sempre, in un articolato dinamismo, gica e sui concetti di vita e di mor- nese, ma fu una fonte creativa verso anche quando sono sollecitati da te, incorporando anche miti di pro- nuove soluzioni figurative e archi- motivi stranieri e impulsi stilistici venienza indiana. Il buddhismo tettoniche di notevole interesse. Per che manifestano un repertorio condivise con il taoismo quell’ansia quanto concerne l’iconografia, è piuttosto variegato. metafisica di trascendere i limiti opportuno precisare che, prima di L’influenza del buddhismo incise terreni e con la sua propagazione in giungere in Cina, l’immagine del anche sull’ideazione di nuove soluCina, sviluppò alcune figure reli- Buddha è già sincretistica, sintesi di zioni architettoniche, che riadattagiose, che divennero protagoniste di piú tradizioni artistiche, compren- rono, e in alcuni casi riformularono, numerosi racconti e leggende, ispi- denti stili indiani (Mathura e Gan- tutte le principali tipologie proverando rappresentazioni pittoriche e dhara), sassanidi e partici, a cui si nienti dall’India: templi costruiti, templi rupestri, monasteri scultoree, secondo una e stupa. (vedi box a p. 58). A consuetudine che perdura ancora oggi nell’arte poA Gu Kaizhi, primo pittore questo periodo si fa risalire la prima effettiva diffupolare cinese. che esce dall’anonimato, sione della pagoda, funL’introduzione del culto struttura verticale indiano va fatta risalire si attribuisce l’invenzione zionale a piú piani, che ebbe un almeno agli Han Oriensuccesso straordinario in tali (25-220 d.C.), ma è del rotolo dipinto tutta l’Asia e nacque dalla molto probabile che le fusione tra lo stupa indiasue prime infiltrazioni, dovute o a coloni stranieri trapian- aggiungono i peculiari influssi loca- no – con tutto il suo bagaglio di tati in Cina o a Cinesi che visita- li dell’Asia Interna che fungeva da significati simbolici e cosmologici – e la torre cinese di avvistamento rono l’India e l’Asia Centrale, siano crocevia. comunque anteriori al I secolo, Gli studiosi tendono a suddividere o di guardia. come attestano le fonti storiche il primo sviluppo della scultura in Conservando al suo interno i reli(Hou Hanshu). Soprattutto le dina- diverse fasi principali, in cui si assi- quiari di figure illustri, testi o altri stie «barbare» del Settentrione po- ste al progressivo abbandono del oggetti sacri, la pagoda, perdendo la terono ricevere una legittimazione modello indiano per dare spazio a centralità sacra dello stupa, rappreattraverso una dottrina anch’essa scelte estetiche piú consoni alla tra- sentò l’unico elemento architettostraniera, fino a farne culto di Sta- dizione scultorea cinese, laddove nico svettante in altezza dell’archito. Sotto il dominio Wei del Nord, emerge la tendenza crescente ad tettura tradizionale cinese, divenenpopolazione di stirpe Tuoba (pro- adottare stili sempre piú regionali, do un punto di riferimento, visibile to-turca), per esempio, le fonda- assieme a un genere metropolitano a distanza, all’interno del tempio, la zioni buddhiste nel loro territorio dalle linee fluide e morbide. Per- cui planimetria doveva ormai conLe grotte di Longmen (Luoyang, provincia dello Shanxi). Iniziate dall’imperatore Weiwendi (471-477 d.C.) della Dinastia dei Wei Settentrionali, furono scavate per oltre quattrocento anni sui fianchi delle due montagne della gola di Longmen, divise dal fiume Yishui.


templare anche la sua presenza, isolata nel cortile, retrostante l’entrata principale a meridione. L’introduzione del buddhismo ha comportato anche l’imponente realizzazione dei templi rupestri, come testimoniano gli estensivi scavi a Mogao (Gansu), a Maijishan (Gansu), a Yungang (Shanxi) e a Longmen (Henan), solo per citare i piú rappresentativi. Questi templi, scavati a partire dal IV secolo, lungo i fianchi delle colline, in precedenza spesso rifugio di santi asceti, conservano un patrimonio eccezionale di pitture murali e di sculture. Oltre al buddhismo, le innovazioni determinano anche nuove espressioni pittoriche e calligrafiche, coincidenti con la fioritura di una serie di teorie nel campo dell’estetica. Grazie al sostegno di mecenati, intenditori e critici, la pittura figurativa e la poesia assumono connotati di insolita raffinatezza e, al contempo, fioriscono tematiche relative alla natura, che sono da considerarsi di rottura in quanto nate in contrapposizione alla funzione didattico-moraleggiante, imposta dal modello confuciano. Lo testimoniano le opere di Gu Kaizhi (344 circa-406 circa), il primo pittore che uscí dall’anonimato, a cui si deve l’«invenzione» di un supporto tecnico, tipico della tradizione cinese: il rotolo dipinto (vedi box a p. 61).

All’artista, che acquistò grande reputazione sotto la corte di Nanchino dei Jin Orientali, si deve anche la prima «forma» di interesse che si instaura tra le figure e l’ambiente circostante. Sebbene sia azzardato riconoscere l’emergere del paesaggio come motivo pittorico indipendente, cosí come accadrà dall’epoca Tang in poi, nelle opere di Gu Kaizhi la rappresentazione della natura diventa un fondamentale elemento di coesione compositiva, facendo da cornice alle scene figurative.

riformulare il passato È doveroso evidenziare come in Cina la ciclica crisi di disgregazione dell’unità statale e imperiale dei periodi di transizione, coincida, a livello culturale, con l’esigenza di recuperare la tradizione e le sue idee direttrici, attraverso trattati di pittura e di estetica che offrono una nuova opportunità di «riformulare» il passato come premessa a una «rinascita» per le epoche successive. Alla base della visione artistica dei rotoli piú antichi, infatti – di cui non abbiamo a disposizione gli originali, ma copie in stile –, vi sono i fondamentali scritti di estetica, pubblicati dal IV e V secolo in poi, come per esempio l’Introduzione alla pittura di paesaggio (Hua Shanshui xu)

I templi rupestri Oltre a quelli del sito di Mogao, nei pressi di Dunhuang, che comprende un sistema di 492 templi scavati nella roccia, dal IV al XIV secolo, in una rupe lunga 1600 m e al cui interno sono conservati affreschi che coprono una superficie di oltre 42 000 mq, sono numerosi gli altri templi rupestri della Cina, costruiti durante il periodo di transizione. Tra i piú famosi, nella stessa provincia del Gansu, si trovano quelli di Maijishan, che comprendono 194 grotte scavate sul fianco del monte omonimo a Tianshui. Vi sono raffigurate oltre 7200 sculture buddhiste. L’inizio della costruzione risale ai Qin Posteriori (384-417) durante il periodo dei Sedici Regni. I templi grotta di Yungang si trovano nei pressi di Datong (Shanxi) e furono scavati principalmente a partire dal periodo Wei, fra il V e il VI secolo. In tutto il complesso si contano 252 templi e oltre 51 000 statue buddhiste. I santuari rupestri di Longmen, letteralmente «porta del drago», si trovano a sud dell’odierna Luoyang (Henan), e sono stati iniziati alla fine del V secolo. Il complesso comprende 2345 grotte e nicchie, 2800 iscrizioni, 43 pagode e oltre 100 000 immagini buddhiste. La maggior parte si riferisce al periodo Tang. I templi di Mogao, Yungang e Longmen sono stati inseriti nel Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, rispettivamente nel 1987, nel 2001 e nel 2000.

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civiltà cinese • le origini/8

di Zong Bing (375-443), o i «sei canoni» (liufa) di Xie He (V-VI secolo), che lo storico dell’arte orientale Werner Speiser ha giustamente definito «la Magna Charta della critica cinese e dell’estetica delle arti figurative». A seguito dell’esperienza di divisione storica e artistica segnata dalla rivoluzione apportata dal buddhismo, cosí come dalle interferenze provenienti dai contatti e dai contributi scaturiti dall’urto tra culture diverse tra loro – e all’insegna di una dinamica contaminazione fra tutte le espressioni culturali del contesto storico e sociale –, l’impero cinese era ormai pronto per rinascere piú saldo che mai, perché consolidato da una «nuova» eredità, sintesi di apporti provenienti da piú fronti, che avrebbe lasciato un segno indelebile nel tempo. (8 – continua)

A destra: statue in bronzo dorato dei Buddha Prabhutaratna e Shakyamuni, dalla provincia di Hebei. Dinastia dei Wei Settentrionali, 518 d.C. Parigi, Musée national des Arts Asiatiques Guimet. In basso: statuetta cinese in bronzo dorato del Buddha Shakyamuni, datata da un’iscizione al 338 d.C. San Francisco, Asian Art Museum.

linee morbide e corpi allungati Gli studiosi suddividono il primo sviluppo della scultura buddhista cinese in tre fasi principali. Della prima sono giunte fino a noi alcune raffigurazioni in bronzo dorato e pietra, risalenti al IV-V secolo, che risentono fortemente dell’influenza indiana e dell’Asia Interna, sebbene già si intravedano scelte estetiche, oltre che stilistiche, appartenenti al repertorio artistico cinese. Il Buddha Shakyamuni dell’Asian Art Museum di San Francisco, databile al 338, è considerato tra le piú antiche sculture a noi note di un Buddha in Cina e rievoca le rappresentazioni provenienti dalle regioni di Khotan (Xinjiang) e della valle dello Swat in Pakistan. Ogni accenno anatomico è stato volutamente soppresso. Col tempo emergono scelte stilistiche che tendono ad adottare linee sempre piú fluide e morbide, mentre i corpi allungati si assottigliano fin quasi a scomparire sotto i panneggi. Un esempio evidente di questa tendenza stilistica, giunta a piena maturazione nella prima metà del VI secolo, è rappresentato dal sacrario in bronzo dorato di Prabhutaratna e Shakyamuni risalente al 518, coevo alle prime realizzazioni di Longmen, e conservato al Musée Guimet. La scultura nella Cina del nord durante i Qin settentrionali, i Zhou settentrionali e infine i Sui, viene solitamente definita «scultura del periodo di transizione», e presenta uno stile a sé che si differenzia dall’arte delle epoche precedenti e successive. I contatti diretti e sempre piú frequenti con l’India e con i Paesi dell’Asia occidentale, contribuiscono allo sviluppo di una scultura che non è generata dallo stile geometrico, lineare, della prima metà del V secolo, bensí dalle rielaborazioni di modelli indiani dell’era Gupta (320-600 d.C.). Una forte attenzione al dominio e all’attenuazione del motivo ornamentale sul naturalismo, assieme al gusto nuovo per il volume e per i giochi di luci e ombre, determina la fisionomia dei caratteri tipicamente cinesi.

66 a r c h e o



mitologia • istruzioni per l’uso/7

di Daniele F. Maras

gli eccessi

degli uomini-cavallo


i centauri rappresentano il lato oscuro e animalesco che alberga in ogni essere umano, pronto a manifestarsi quando i freni inibitori vengono allentati dall’abuso del vino e le regole del vivere civile ignorate e calpestate

L

a mitologia classica è ricca di figure ibride, che presentano un aspetto parzialmente umano assieme a tratti bestiali e animaleschi, sia in senso positivo, sia piú spesso in senso negativo. Ne sono un chiaro esempio le Sirene e le Arpie (in entrambi i casi donneuccello), i Satiri dai piedi e dalle corna di capra, il mostruoso Minotauro dalla testa di toro, o, ancora, Acheloo, che, al contrar io di quest’ultimo, aveva il corpo di toro e la testa umana. Ma in realtà sono un elemento animale anche le ali di Eos, dea dell’aurora, o quelle dei venti, come Borea e Zefiro, cosí come le spire serpentine di Cecrope, fondatore di Atene. Nel caso dei Centauri, le caratteristiche semi-ferine appartenevano a un intero popolo leggendario, le cui imprese ricorrono in diverse occasioni, a volte con risvolti positivi, ma assai piú spesso mostrando come al loro aspetto disumano si aggiungesse una natura animalesca e incivile. La storia ebbe inizio all’epoca della generazione precedente a quella di Eracle e Teseo: a quei tempi in Magnesia (una regione della Tessaglia, nel Nord della Grecia), il re del popolo dei Lapiti era Issione, figlio di Flegia, che godeva del favore e della protezione di Zeus.

Issione, re ingrato Nonostante la benevolenza divina (o forse proprio per la troppa sicurezza che essa gli ispirava), Issione concepí il desiderio di sedurre Era, moglie del padre degli dèi: si illudeva che la dea avrebbe accolto facilmente le sue bramosie, per vendicarsi delle innumerevoli scappatelle del marito. Lotta tra un Centauro e un Lapita, metopa XXX dal lato meridionale del fregio che ornava il Partenone di Atene. Opera di Fidia e allievi, 438-432 a.C. Londra, British Museum. La scena allude all’episodio mitico della festa di nozze tra Piritoo, re dei Lapiti, e Ippodamia, che degenerò in un violento scontro, perché i Centauri, resi ebbri dal vino, si erano abbandonati a eccessi e violenze.

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mitologia • istruzioni per l’uso/7

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Ma il lapita non aveva fatto i conti con l’onniscienza divina e Zeus, indovinati i pensieri del suo protetto, volle metterlo alla prova: dette parvenza umana a una nuvola, facendola somigliare alla dea Era e dandole il nome Nephele (che in greco significa letteralmente «nuvola»); subito dopo si recò con lei a banchetto da Issione. Quest’ultimo, dopo aver bevuto un po’ troppo, si fece avanti con quella che credeva essere la regina degli dèi e venne cosí colto in flagrante da Zeus. La punizione fu tremenda: dopo una feroce fustigazione da parte di Ermes, l’ingrato re fu legato mani e piedi a una ruota infuocata, costruita da Efesto per l’occasione, che gira per l’eternità nello spazio infinito. Ma un essere vivente creato dagli dèi, per quanto artificiale, non può che prendere vita autonoma: per questo motivo Nephele, fecondata dall’accoppiamento con Issione, dette alla luce un bambino, di nome Centauro, che crebbe e si uní alle cavalle selvagge della Magnesia, dando cosí origine alla razza ibrida e semi-umana dei Centauri, che popolarono i boschi del monte Pelio.

Ospiti molesti Come successore di Issione fu designato suo figlio, Piritoo; ma, secondo alcuni, quest’ultimo sarebbe stato in realtà generato da Zeus stesso, che aveva voluto rendere pan per focaccia al suo antico protetto, seducendone la moglie Dia dopo aver assunto l’aspetto di un magnifico stallone. In ogni caso, il nuovo re era assai piú civile e d’aspetto eroico, e non tardò a fare amicizia con un altro giovane e valoroso sovrano di un regno vicino: il fiero Teseo, reduce dalla sua impresa cretese contro il Minotauro, che lo aveva reso re di Atene. Perciò, quando Piritoo prese in moglie la bella Ippodamia (letteralmente «la domatrice di cavalli»), chiese a Teseo di fargli da testimone. La festa di matrimonio fu organiz-

temperare il vino con l’acqua, come prescrivevano le regole del buon simposio, per non ubriacarsi (almeno non troppo presto!). Per questo motivo, quando la sposa entrò nella sala per salutare gli ospiti, travolto dai fumi dell’alcool il capo dei Centauri, Eurizione, le balzò addosso per rapirla, mentre tutti gli altr i si gettavano all’inseguimento di tutte le donne che capitavano a tiro. Sdegnati da tale comportamento, gli dèi si ritirarono immediatamente, mentre Piritoo e Teseo mettevano mano alle armi e, con l’aiuto degli altri Lapiti, ebbero presto ragione dei Centauri ubriachi, uccidendone in quantità e ricacciando gli altri sulle In alto: centauro al galoppo armato montagne da cui erano venuti. con una pietra e un albero, interno La vicenda non era conclusa, però: di una coppa a figure rosse, firmata infatti i Centauri, una volta ripresisi da Phintias, 525-475 a.C. Karlsruhe, dalla sbornia e dalla sconfitta, tornaBadisches Landesmuseum. rono alla carica e stavolta riuscirono Nella pagina accanto: Eracle uccide a scacciare i Lapiti dalle proprie terNesso, particolare di un vaso (anfora) re, costringendoli a emigrare nel a figure nere, attribuito al Pittore Peloponneso, mentre essi stessi condi Nesso, fine del VII sec. a.C. Atene, tinuarono poi la loro marcia fino Museo Archeologico Nazionale. alla città di Foloe nell’Elide, dove zata in grande stile, invitando tutti stabilirono la propria roccaforte. gli dèi dell’Olimpo, ripetendo il fasto delle mitiche nozze di Cadmo Un medico e Armonia e di Peleo e Teti. Ma per maestro senza pensare alle conseguenze, Pi- Non tutti i Centauri, però, erano ritoo scelse di non estendere l’invi- tanto sconsiderati e bestiali, né tutti to ad Ares ed Eris, per allontanare il si allontanarono dal monte Pelio in pericolo della guerra e della discor- quella occasione: tra loro viveva dia che erano poste sotto la loro infatti Chirone, che si diceva essere tutela: l’offesa arrecata a questi due stato figlio di Crono e dell’Oceanidèi costò però cara al re dei Lapiti. de Filira, e che perciò era di gran Al banchetto, infatti, erano stati in- lunga piú antico della razza dei vitati i selvaggi Centauri, in quanto Centauri ed aveva ereditato dai geparenti del sovrano, che sedevano a nitori il dono dell’immortalità. tavola con gli altri, bevendo latte Il saggio Chirone era l’opposto dei come di loro abitudine in quanto suoi confratelli, dal momento che si popolo di pastori montanari. distingueva per la saggezza e per Ma, non appena la festa entrò nel l’istruzione ed era considerato l’invivo e furono portate le otri con il ventore delle arti mediche. Viveva vino, i Centauri che non ne aveva- in una grotta fra i boschi, ma la sua no mai assaggiato, si sentirono at- fama era tale che si raccontava cotratti in modo irresistibile dall’aro- me numerosissimi eroi del mito ma della bevanda alcolica e si impa- fossero stati mandati a scuola presso dronirono presto dei contenitori, di lui, per un periodo di apprendibevendo in modo smodato e senza stato tra le terre selvagge. a r c h e o 71


mitologia • istruzioni per l’uso/7

Chirone era ritenuto maestro di Oileo e di Telamone, ma anche del figlio di quest’ultimo Aiace, di Peleo, di Teseo, di Atteone e ancora di moltissimi altri grandi guerrieri, tra i quali lo stesso Eracle (di cui si dice che fosse stato un allievo piuttosto scarso in tutte le materie teoriche). Ma il pupillo piú famoso di Chirone fu senz’altro Achille, che il centauro aveva preso sotto la propria ala protettrice sin dalla nascita, quando era stato chiamato per un intervento a domicilio allorché il piccolo, in seguito alle magie di sua madre Teti, che voleva renderlo immortale col fuoco e l’ambrosia, aveva avuto il tallone ustionato in modo irreparabile. L’abilità medica di Chirone in questo caso superò se stessa, grazie a uno dei primi trapianti della storia (o meglio della mitologia): il donatore fu il gigante Damiso, morto in precedenza, che era stato un velocissimo corridore e che trasmise cosí tale capacità al «piè veloce» Achille. La scienza di Chirone non si limitava però all’ortopedia e, per ribadire la sua importanza come primo medico, gli venne attribuita anche l’educazione del figlio di Apollo, Asclepio, che in Grecia (e a Roma, con il nome di Esculapio) era venerato a tutti gli effetti come dio della medicina.

l’odore del vino… Tornando ai Centauri, a Foloe, dove si era ritirata la maggior parte di essi, avvenne il loro burrascoso incontro con Eracle, che passava di lí nel suo viaggio per affrontare il cinghiale d’Erimanto. Dopo aver sconfitto un bandito locale di nome Sauro, l’eroe venne ospitato da un certo Folo, che, contrariamente agli altri Centauri, era figlio del maestro di Dioniso, Sileno, e di una ninfa del posto. Rispetto ai suoi compagni, Folo aveva un 72 a r c h e o

comportamento civile e, conoscendo l’effetto terribile che l’alcool aveva sulla sua razza, si guardava bene dall’aprire un’otre di vino che il padre gli aveva lasciato in consegna, come dono per tutti i Centauri. Incautamente, però, Eracle insistette per annaffiare il proprio pasto con il vino: ovviamente, non appena ne sentirono l’odore, i Centauri vicini furono presi da furore e assaltarono In basso: Centauro cavalcato da Amore, replica del II sec. d.C. di un originale del II sec. a.C. Già collezione Borghese. Parigi, Museo del Louvre.

A destra: Chirone istruisce Achille, affresco dalla Basilica (Augusteum) di Ercolano. 65-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


za medica, ma non riuscí a trovare una cura. Con gran costernazione del suo antico allievo ed amico Eracle, involontario autore della sua rovina, il saggio centauro si ritirò nella sua grotta ed invocò Zeus perché gli venisse concesso di morire, per non dover sopportare in eterno il tremendo dolore della sua ferita. Una sorte simile toccò a Folo, che era tornato sul posto per seppellire i propri compagni morti, dopo che gli altri erano fuggiti in tutte le direzioni: infatti, esaminando una delle frecce di Eracle, per scoprire come potessero aver provocato tanta distruzione con ferite di poco conto, il centauro si punse e morí. Allora l’eroe gli dedicò una solenne cerimonia funebre prima di riprendere il viaggio per completare le celebri fatiche.

la caverna di Folo, usando come armi improvvisate grosse pietre e tronchi. Eracle li affrontò a piè fermo, nonostante l’intervento di Nephele – divina progenitrice dei Centauri –, che scatenò una pioggia per rendere inservibile l’arco dell’eroe: con la sola forza delle braccia e della sua clava, ma anche lanciando contro di loro carboni accesi estratti dal fuoco, l’eroe respinse i nemici e li inseguí fino alla caverna di Chirone, dove si erano riparati come supplici, per chiedere l’aiuto del saggio medico.

L’implacabile inseguitore, che a quel punto aveva recuperato la funzionalità del suo arco, scagliò una freccia all’indirizzo di uno dei Centauri che gli si parava davanti; ma il dardo trapassò il braccio del nemico e si andò a conficcare proprio nel ginocchio dell’innocente Chirone.

ferite letali Le frecce di Eracle erano intrise del sangue dell’idra di Lerna, che le rendeva velenose al punto da causare ferite inguaribili: il povero Chirone diede fondo a tutta la propria scien-

Dramma della gelosia Ma l’inimicizia tra Eracle e i Centauri non fu conclusa da questo episodio, né la strage che l’eroe causò (tra nemici e amici) rimase invendicata. Uno dei centauri scampati al massacro, Nesso, si stanziò infatti presso il fiume Eveno, dove svolgeva il lavoro di traghettatore: fu lí che, molti anni dopo, lo incontrò Eracle, che si recava a Trachine assieme alla moglie Deianira. Dovendo attraversare il fiume, l’eroe concordò con Nesso il compenso per trasportare all’asciutto la ragazza e si accinse a superare a nuoto l’ostacolo, dopo aver scagliato sull’altra sponda l’arco e la clava. Ma mentre questi nuotava nella corrente impetuosa, il centauro, non si sa se per un proprio desiderio di vendetta oppure perché colto da passione improvvisa al contatto con il corpo della donna, si dette alla fuga e portò Deianira in un luogo isolato per usarle violenza. Eracle fu però lesto a recuperare il proprio arco e, con una precisione senza pari, trafisse Nesso dalla distanza di centinaia di metri. Nel tempo in cui l’eroe, con comodo, raggiungeva la sua compagna, il centauro moribondo ebbe modo di organizzare la propria a r c h e o 73


mitologia • istruzioni per l’uso/7

vendetta: disse infatti alla sventurata Deianira che mischiando insieme il suo sangue ed il seme, che aveva versato in terra nel tentativo di violentarla, avrebbe ottenuto un potente filtro magico, da versare sulla camicia del proprio amato per ottenerne amore e fedeltà. La donna gli credette e cosí, quando Eracle tempo dopo portò a casa la principessa Iole – avuta in premio per aver vinto una gara con l’arco –, donò al marito una camicia che aveva intinto nell’orrida mistura del centauro. Invece che un filtro d’amore, questa si rivelò un veleno potenIn alto: satiri che preparano il vino, particolare di un cratere a figure rosse, attribuito al Pittore di Leningrado. 500-450 a.C. Lecce, Museo Provinciale «Sigismondo Castromediano». A sinistra: Atene, Partenone. Metopa del lato meridionale, ancora in situ, raffigurante la lotta tra un Centauro e un Lapita. 438-432 a.C. Il motivo della centauromachia, al di là dei riferimenti mitici, fu utilizzato per evocare il contrasto fra la civiltà, che trovava il proprio apice nell’ospitalità, e la bestialità delle genti barbare.

tissimo, che bruciava le carni dell’eroe e non poteva essere portato via con l’acqua o con altri mezzi. Alla fine, stremato, Eracle si gettò su una pira e si diede fuoco, per porre fine alle proprie sofferenze: ma al contrario di Chirone, che aveva rinunciato all’immortalità pur di trovare sollievo, l’eroe fu salvato dal padre Zeus, che lo accolse sull’Olimpo e lo elevò al rango di dio.

I capolavori dell’arte classica Considerate nel loro complesso, le leggende dei Centauri mostrano di avere un motivo comune nella folle bestialità che si scatena in questi esseri semi-umani a causa del vino e degli stimoli sessuali. Sembra piuttosto facile intravedere una vena moralistica in questa caratterizzazione selvaggia degli uomini-bestia, che nella vita nor74 a r c h e o


male sembrano invece piuttosto rozzi e pacifici montanari: il mito esprimeva ai Greci quale sarebbe stata la fine di coloro che, lasciandosi trasportare dalle passioni corporee, avessero abbandonato le regole del vivere civile. Non a caso gli eroi civilizzatori per eccellenza, come Teseo ed Eracle, sono rappresentati in guerra contro i Centauri: anzi, la lotta tra Centauri e Lapiti alle nozze di Piritoo era il tema prescelto sia per le metope del lato meridionale del Partenone di Atene, sia per il frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. La lotta tra la civiltà, che trovava il proprio apice nelle norme della buona ospitalità, e l’irrazionale bestialità dei popoli barbari e incolti, era cosí posta emblematicamente al centro di due tra le piú importanti creazioni architettoniche della Grecia classica. E, grazie alla fama di tali modelli, innumerevoli rappresentazioni di centauromachie (come vengono chiamate simili scene di battaglia) sono presenti nella scultura e nelle ceramiche dipinte fino a età imperiale ed oltre. Una curiosità interessante è che lo stesso Fidia, l’artista geniale che ha creato tanto la statua di Zeus a Olimpia, quanto quella di Atena e lo stesso Partenone ad Atene, sembra abbia scelto uno dei Centauri delle metope del Partenone (la prima del settore meridionale; vedi foto alla pagina precedente) per dargli le proprie sembianze: in questo modo, la tracotanza implicita nel mettere il proprio autoritratto nella decorazione di un edificio sacro era mitigata dalla scelta di un personaggio negativo, quasi sub-umano, che certamente non attirava le simpatie degli osservatori. Resta da domandarsi come mai, tra tanti animali, proprio il cavallo sia stato scelto nel mito per rappresen-

tare la parte selvaggia che alberga in ciascuno di noi, pronta a balzare fuori ogni volta che ci lasciamo andare alle passioni piú cieche e nascoste (eventualmente sotto l’influsso del vino). A questa questione potrebbe rispondere il parallelo con altre figure mitologiche, che hanno uno speciale legame con il cavallo, a partire da Sileno, di regola rappresentato come un uomo anziano con zampe di cavallo ed orecchie equine. Il personaggio appartiene alla cerchia di Dioniso, di cui è stato il precettore, e costituisce una sorta di controparte alcolizzata del morigerato Chirone (che in alcune versioni è indicato come il vero maestro del dio).

un vecchio sapiente Similmente al centauro, Sileno è un vecchio sapiente, pronto a dispensare i propri consigli e a istruire il fanciullo divino; ma, a differenza di Chirone, egli svela le proprie conoscenze sotto l’effetto dell’alcool. Ne Dioscuri a cavallo, cratere a figure rosse da Locri, attribuito al Pittore di Villa Giulia. 475-425 a.C. circa. Karlsruhe, Badisches Landesmuseum.

è prova evidente la leggenda del frigio re Mida, che sorprese Sileno stordito dal vino nel proprio giardino e ne ascoltò le meravigliose visioni, imparando notizie sull’Oceano, le lontane terre degli Iperborei e i confini del mondo. Per liberarlo, Dioniso non esitò a concedere all’incauto re il dono del tocco d’oro, che poi non gli avrebbe portato che sventure. Ma quello che conta è che, lungi dall’essere i vaneggiamenti di un ubriacone, le visioni di Sileno sono fonte di sapere e di istruzione per il dio dell’ebbrezza, e in questo caso l’uomocavallo assume un ruolo positivo, per quanto ancora legato alla sua natura selvatica. Un ruolo del tutto civilizzato del cavallo nella rappresentazione di figure divine positive si trova invece nel mito dei Dioscuri. I gemelli divini sono stati infatti paragonati ai bellicosi Ašvin della antica tradizione indiana, che portano nel loro stesso nome il legame con il cavallo (detto in sanscrito ašva). Il nome greco, invece, significa letteralmente «i figli di Zeus»; o meglio «i ragazzi di Zeus», perché è proprio in quanto eterni ragazzi che i gemelli divini divengono il simbolo della cavalleria: un’arma di cui nella Grecia arcaica non facevano parte i guer r ier i adulti, impegnati piuttosto nella falange oplitica. La simbologia a questo punto sembra chiara: l’uomo a cavallo è un giovane non ancora del tutto cresciuto, sia nella realtà che nel mito; l’uomo-cavallo, nel caso dei Centauri come nel caso di Sileno, è un uomo non ancora del tutto civilizzato, pronto a ripiombare nella barbarie ogni volta che l’abuso di vino o il desiderio sessuale ne scatenano la furia sopita. nella prossima puntata • La guerra di Troia a r c h e o 75


il mistero delLe

scritture di Massimo Vidale

scomparse

Come mai, dei diversi sistemi scrittori inventati dall’uomo piú di cinquemila anni fa, ne sopravvivono solo due (il nostro e quello cinese)? e come avvenne la «riscoperta» di quei segni, il cui significato si era perso nei secoli? Ecco il racconto di un’avventura archeologica davvero straordinaria...

Una sala del Musée Champollion a Figeac (Francia), inaugurato nel 1986 e dedicato alla vita e all’opera del grande decifratore dei geroglifici egiziani, che qui aveva avuto i natali. In primo piano, la replica di una statua raffigurante Hadad, dvinità semitica delle tempeste e della pioggia, sulla quale è incisa un’iscrizione che ammonisce a non danneggiare il simulacro. L’originale dell’opera è conservato nel Museo Nazionale di Damasco.

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«La decifrazione è di gran lunga il successo piú glorioso di un accademico. Vi è un soffio di magia in una scrittura sconosciuta, specialmente quando essa viene da un passato remoto, e una gloria altrettanto luminosa attende la persona che per prima sia capace di risolvere il mistero» (Maurice Pope, The Story of Decipherment. From Egyptian to Maya script)

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speciale • scritture scomparse

I

dati piú recenti raccolti da paleoantropologi e archeologi ci dicono che l’uomo potrebbe aver creato le prime piccole sculture in pietra 200 o 300 000 anni fa, e che certamente iniziò a tracciare complesse figurazioni geometriche su ossa, uova di struzzo e lastre di pietra intorno agli 80 000 anni da oggi. Ma è solo da 5300 anni che siamo «grafomani». La data dell’invenzione della scrittura è convenzionalmente fissata dagli orientalisti intorno al 3200-3100 a.C. Le prime testimonianze sono infatti poche centinaia di tavolette con numeri e ideogrammi, trovate nella grande città mesopotamica di Uruk (Iraq; vedi «Archeo» n. 341, luglio 2013) e a Susa (Iran sud-occidentale). Queste tavolette non sono altro che inventari, «liste della spesa», ricevute, bollette di carico e scarico, fidi e contratti di prestito di beni come schiavi, animali, olio, cereali e tessuti. L’origine della nostra scrittura si cela, dunque, nella pignoleria e nella severità dei burocrati.

Le tre rivoluzioni Una ricercatrice francese, Clarisse Herrenschmidt, ha suddiviso la storia delle scritture umane in tre grandi rivoluzioni: la prima, epocale invenzione al volgere del periodo di Uruk (3800-3100 a.C. circa); quella dell’alfabeto, tradizionalmente fissata intorno al VII secolo a.C., cioè 2600 anni piú tardi; e, infine, quella della scrittura elettronica in rete, che consente a ognuno di noi di scrivere istantaneamente a chiunque altro, negli angoli piú remoti del pianeta. 2000 d.C.: anche la terza grande rivoluzione ha avuto luogo esattamente 2600 anni dopo la precedente. E il numero 2600 ci riporta simbolicamente al 26, cioè a quante sono le lettere di buona parte degli alfabeti moderni. Casualità, forse, se non suggestioni cabalisti78 a r c h e o

In alto: sigillo cilindrico in ematite dalla necropoli di Al-Maqsha (Bahrein). Periodo di Ur III, XXI sec. a.C. Manama (Bahrein), Museo Nazionale. Come si vede dall’impronta moderna (a sinistra) una scena di presentazione alla divinità è affiancata da un breve testo in cuneiforme sumerico. In basso: particolare di un kudurru (stele con prescrizioni religiose e legali) con iscrizione cuneiforme. XI sec. a.C. Londra, British Museum.


che; ma l’idea diverte, e sono numeri facili da ricordare. Ma ciò che ora ci interessa è che questa lunga storia di innovazioni e sostituzioni è fatta anche di perdita e rimozione. Delle diverse famiglie di scritture usate nella Media e Tarda età del Bronzo, oggi ne sopravvivono solo due, la nostra e il sistema cinese. Con l’eccezione degli alfabeti usati nella tradizione dei testi sacri delle principali religioni (greco, ebraico e arabo, indiano), sulla soglia di duecento anni fa molte delle scritture usate per secoli o millenni nel mondo antico erano già state completamente dimenticate. Quasi tutti gli accademici, nel vedere i monumenti antichi, dubitavano che fossero realmente sistemi scrittori, e non piuttosto intricate e magiche decorazioni. E non si creda che tali forme di amnesia abbiano afflitto solo i nostri antenati. Che cosa sta succedendo o sarà successo tra qualche secolo nelle nostre biblioteche, negli archivi informatici o in quelli delle pellicole cinematografiche? Il magnetico e il digitale non

sono tracciati su solida pietra o su argilla che si indurisce al fuoco degli incendi, ma su plastiche che durano molto meno. Secondo il regista Stefano Grossi, autore di un film documentario (Quello che Resta, 2010), per ogni pellicola che si sceglie di restaurare, poiché mancano le risorse, se ne condannano, senza volere, dieci alla distruzione. Il nostro passato, come sabbia cadente, continua a sfuggirci, giorno dopo giorno, tra le dita, e ciò che resta diviene – fatalmente – archeologia.

ritorno dall’oblio La storia che raccontiamo oggi è infatti puramente archeologica: vedremo come una serie di esploratori – professori, topi di biblioteca, tutti, comunque, testardi indagatori – dalla fine del Settecento in poi, sia riuscita a ripercorrere all’indietro il flusso dell’oblio, e a rendere nuovamente leggibili, spesso contro ogni «ragionevole» aspettativa, le trame di testi e lingue arcaiche considerate ormai perdute per sempre.

In basso: giara in terracotta contenente un piccolo archivio di tavolette coperte da caratteri cuneiformi. VIII sec. a.C. circa. Berlino, Pergamon Museum.

Una questione di termini Per «scrittura» si intende un sistema di segni standardizzati e convenzionali – cioè tali da essere interpretati allo stesso modo da una comunità permanente di persone – capace di esprimere concatenazioni articolate di significati simbolici e fonetici (cioè traducibili in suoni) su supporti permanenti. Per gli specialisti, le scritture possono essere ideografiche (quando un segno esprime un concetto) oppure logografiche (dove un segno corrisponde piuttosto a una parola fatta di suoni). A loro volta, le scritture fonetiche (in cui i segni corrispondono a suoni, a prescindere dal loro immediato significato), possono essere sillabiche (un segno per ogni sillaba, vale a dire una combinazione elementare tra vocali e consonanti) oppure alfabetiche (un segno per ogni fonema o suono elementare, consonante o vocale che sia). Le scritture usate nel Vicino Oriente antico e sull’altopiano iranico nel III millennio a.C. avevano inizialmente una forte componente ideografica e logografica, ma si evolsero rapidamente in senso sillabico e fonetico; in media, un sistema di scrittura appartenente a quest’ultima famiglia si componeva di «soli» 400-450 segni diversi (anche se non mancano esempi con meno di 100 segni). Buona parte delle antiche tavolette giunte sino a noi dalle trincee di scavo altro non sono che testi e «quaderni» di scuola. L’enorme efficienza tecnica degli alfabeti, a questo punto, che consente a un bambino di oggi di imparare a scrivere qualsiasi parola in meno di due anni, apparirà ai lettori in tutta la sua evidenza. L’idea oggi può sembrare tanto elementare da rasentare l’ovvio; tuttavia gli alfabeti dai quali discende il nostro nacquero faticosamente, con un processo ancora in larga misura misterioso, nel corso del II millennio a.C., in un vasto spazio geografico che oltre le terre del Levante (fascia siro-palestinese, Egitto, Mesopotamia), potrebbe aver interessato anche le coste settentrionali della penisola Araba.

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speciale • scritture scomparse

1800 anni di decifrazioni 196 a.C.

I sec. d.C.

elta del Nilo. Gli scribi di Tolomeo V D (210-180 a.C.) scolpiscono un decreto onorifico per il loro sovrano in geroglifico, demotico (una sua forma semplificata) e greco. È la celeberrima Stele di Rosetta (qui accanto).

Plutarco, nel trattato Su Iside e Osiride, tramanda i significati di alcuni geroglifici egiziani; alcune interpretazioni sono corrette, altre solo in minima parte.

1975-1995 John Ray e altri procedono con successo alla decifrazione dell’alfabeto cario (Anatolia sud-occidentale, IV secolo a.C.), 1950-1960 Il russo Yuri Knozorov (1922-1999) e altri studiosi decifrano i glifi del sistema di scrittura maya (600-900 d.C. circa).

EU E U RO R O PA PA

fdfds Roma

M ar a N e ro Andros Hattusa

1943-1952 Alice Kober (1906-1950), Michael Ventris (1922-1956), e John Chadwick (1920-1998) decifrano con successo la Lineare B. La scrittura piú antica di Creta (prima metà del II millennio a.C.) rimane ancora indecifrata. 1935 Sir Arthur Evans (1851-1941) muove i primi passi verso la decifrazione della scrittura micenea cretese detta Lineare B (usata tra il 1500 e il 1200 a.C. circa). 1931 L a decifrazione dell’ittita geroglifico (luvio, XV-VII secolo a.C. circa) è confermata da studi indipendenti presentati a un congresso internazionale a Leida (Olanda).

Ma r Cas pio C io o

Mar Medi Me d te terran eo

Ugarit Bisutun

Creta

Persepoli

Cipro

Rosetta

La scrittura è una necessità «universale» del vivere civile? Questa cartina, nella quale sono riportate alcune delle località legate alle attestazioni dei piú importanti idiomi a tutt’oggi scoperti e decifrati, sembrerebbe confermarlo. Cosí come l’invenzione indipendente dei glifi maya nella Mesoamerica (vedi foto e cartina alla pagina accanto).

Penisola Arabica M ar Rosso

1929-1931

1921-1931

Scoperta e decifrazione simultanea da parte di diversi studiosi dell’alfabeto cuneiforme di Ugarit (Siria, XII secolo a.C.).

coperta della scrittura della civiltà dell’Indo S (2600-1900 a.C.). Questa scrittura resiste ancora a qualsiasi sforzo di decifrazione.

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1419

1566

Cristoforo Buondelmonti (1385-dopo il 1430) acquista nell’isola di Andros un manoscritto dei Geroglifici di Orapollo (o Horus Apollo, un autore, forse egiziano, vissuto non prima del IV sec. d.C.), unica opera antica di interpretazione della scrittura egiziana giunta sino a noi; le «letture» dei segni sono perlopiú infondate.

I l francescano spagnolo Diego de Landa, nella sua Relazione sulle cose dello Yucatán, traduce alcuni glifi maya come lettere alfabetiche. Oceano Atlantico MESSICO

Città del Messico

In alto: particolare di glifo maya a Palenque. VIII sec.

Palenque

A S I

A Oceano Pacifico

1636-1637 thanasius Kircher (1602-1680) «traduce» le iscrizioni A egiziane sugli obelischi romani come arcane espressioni mistiche e simboliche che tramandano saperi ermetici. Mohenjo-Daro

1799-1822

India

Scoperta della Stele di Rosetta e decifrazione del «geroglifico fonetico» da parte del giovane egittologo francese Jean-François Champollion (1790-1832). 1802

M a r A r ab ic o Ma

Parziale decifrazione del persiano cuneiforme (Iran, VI-V secolo a.C) da parte George Friederich Grotefend (1775-1853), un giovane insegnante di ginnasio di Gottinga. 1839 I l diplomatico e orientalista Henry Creswicke Rawlinson (1810-1895) traduce correttamente 200 linee di persiano cuneiforme delle iscrizioni di Dario I (550-486 a.C.) a Bisutun (Kermanshah, Iran).

1906-1912

1852-1871

Scoperta degli archivi reali di Bogazköy (Hattusa), con testi cuneiformi in ittita e luvio (circa 1250-1200 a.C.).

coperta e prima decifrazione della scrittura sillabica cipriota S (VI-V secolo a.C.).

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speciale • scritture scomparse

Segni tra le rovine

L

a decifrazione della scrittura cuneiforme mosse i primi passi in due diversi complessi di rovine: quelle di Persepoli (Fars, Iran), capitale rituale dell’impero achemenide (VI-IV secolo a.C.), distrutta da Alessandro Magno nel 330 a.C., e quelle di Palmira in Siria, cuore di un regno abbattuto

In basso: retro di una tavoletta cuneiforme sumerica del periodo di Ur III (XXI sec. a.C.). Collezione privata. Lo scriba Ur-Gigir, figlio di Barran, registra la distribuzione di terreni a contadini impiegati dallo stato per arare i campi.

dall’imperatore romano Aureliano quasi 600 anni dopo. Le rovine furono visitate da esploratori e diplomatici, i quali, dal primo XVII secolo, ne trascrissero e pubblicarono le iscrizioni reali: a Persepoli si trattava di testi cuneiformi in persiano antico, elamico e babilonese (una forma tarda di accadico); a Palmira, in greco e in palmireno (aramaico).

Ricorrenze decisive Nel 1714, il fatto che le iscrizioni, in entrambi i casi, si ripetessero in piú lingue e contenessero nomi propri di sovrani fu notato addirittura da Gottfried Wilhelm von Leibniz (latinizzato in Leibnitius, 1646-1716, uno dei massimi eruditi del tempo). Poco dopo la metà del secolo, l’abate Jean-Jacques Barthélemy (1716-1795), umanista e numismatico, era riuscito a decifrare le iscrizioni palmirene: il primo successo al mondo di un’impresa del genere. Nel 1787, alcune iscrizioni rupestri di Naqsh-i Rustam, presso Persepoli, redatte 82 a r c h e o


A sinistra: calco di un rilievo dal palazzo di Dario I (522-486 a.C.) a Persepoli. Londra, British Museum. L’iscrizione cuneiforme ricorda la costruzione di una scalinata da parte del re Artaserse III (425-388 a.C.).

in un alfabeto simile a quello di Palmira, ma in una lingua diversa, furono decifrate come persiano sassanide (la lingua imperiale usata in Iran tra il III e il VII secolo d.C.). Ma maggior gloria spettò al trionfo successivo, la decifrazione definitiva del piú antico persiano cuneiforme da parte di Friedrich Grotefend (1775-1853), a lui noto nei testi di Persepoli. Grotefend non era un accademico, ma un dilettante (per quanto brillante), un insegnante di ginnasio allora ventisettenne di

A destra: ritratto di Georg Friedrich Grotefend. In basso: una trascrizione effettuata da Grotefend di una iscrizione di Persepoli, 550-530 a.C. circa

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speciale • scritture scomparse

Gottinga. Il giovane studioso mise insieme tre assunti piú che ragionevoli: che i caratteri dei testi in persiano antico, dato il loro numero limitato, fossero una specie di sillabario alfabetico; che le iscrizioni fossero achemenidi; e che in esse ricorressero gli stessi nomi reali riportati da Erodoto e altri storici greci nelle cronache dinastiche dei Persiani. Osservando le ricorrenze dei caratteri cuneiformi, intuí, inoltre, che la sequenza piú comune poteva essere letta come «X gran re, re dei re, figlio del re Y, l’achemenide». Tutto si rivelò esatto: Grotefend lesse cosí, aiutandosi con le traslitterazioni bibliche, i nomi persiani di Dario, Serse e Istaspe. Il successo appare in tutto il suo significato se pensiamo che, a differenza di quanto avvenuto col palmireno e il persiano sassanide, la decifrazione era avvenuta senza l’aiuto di testi bilingui.

le imprese del gran re Tutto ciò fu poi confermato dallo studio delle iscrizioni rupestri di Dario I a Bisutun (presso Kermanshah, Iran): qui si legge la versione dettagliata da parte del re Dario I (550-486 a.C.) degli eventi successivi alla morte di Ciro il Grande (590-529 a.C.). Dario elenca la sua genealogia e narra di dician84 a r c h e o

un’impresa non priva di rischi... Da sinistra: sir Henry Rawlinson (1810-1895), che per primo documentò l’iscrizione di Dario I a Bisutun, in alta uniforme di ufficiale britannico; lo stesso Rawlinson cade da una scala nel tentativo di raggiungere le iscrizioni (acquerello dei primi del Novecento); una veduta della rupe scolpita di Bisutun, presso Kermanshah, Iran.


Il fregio centrale dell’iscrizione di Dario I (521-485 a.C.) a Bisutun: il sovrano riceve la sottomissione dei re ribelli sotto la protezione del disco solare di Ahura Mazda.

nove battaglie combattute in un solo anno per placare cospirazioni dei «Magi» e ribellioni, grazie all’appoggio del dio Ahura Mazda. Gli stessi eventi sono raccontati anche nelle Storie di Erodoto (484-425 a.C.). L’iscrizione di Bisutun, in caratteri cuneiformi, si ripete in persiano antico, babilonese ed elamico. Nel 1835, Sir Henry Rawlinson (1810-1895: fu ufficiale della East India Company della corona inglese, consigliere militare del re di Persia e collezionista di antichità) scalò la rupe e copiò la parte in antico persiano del testo (il resto fu da lui trascritto nel 1843). Con il sillabario di Grotefend, Rawlinson tradusse la versione persiana antica, confrontando i nomi persiani con quelli diversamente trascritti da Erodoto e utilizzando i anche i testi zoroastriani. Poiché le iscrizioni in elamico e babilonese di Bisutun erano copia fedele di quelle in persiano, Rawlinson e altri furono ben presto capaci di decifrare anche queste versioni. L’assiriologia, con le sue disparate specializzazioni, e l’opera di cinque generazioni di storici, filologi e linguisti esperti di cuneiforme si basano dunque sulle intuizioni di un giovane insegnante di ginnasio e sull’intraprendenza di una tenace spia britannica.

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speciale • scritture scomparse

Nel «labirinto» dei geroglifici

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razie alle razzie compiute dai conquistatori romani, ma anche alla diffusione nell’ambito dell’impero dei culti orientali, la penisola italiana ospitava numerosi obelischi e opere d’arte figurativa sulle quali spiccavano misteriosi segni scritti dell’antico Egitto. Eppure il mondo antico aveva perduto quasi completamente la nozione del vero significato dei geroglifici egiziani, cosí come del tutto cancellata era stata la conoscenza della lingua etrusca. Ma, a differenza dei mistici volumi sacri degli Etruschi, i geroglifici, scolpiti su tenace porfido e granito, sfidavano l’incuria dei conquistatori e le ingiurie del tempo. Fino al pieno XVII secolo, prevalsero le opinioni di quanti vi ricercavano arcani simbolismi, formule magiche e compendi filosofici archetipali. L’attitudine non è tramontata: ancor oggi, quando illustri accademici e facoltosi dilettanti si accorgono di essere incapaci di tradurre foneticamente un’antica scrittura, decidono invariabilmente che la scrittura in oggetto è un vago apparato sim86 a r c h e o

In alto: frammento di decorazione tombale con testo geroglifico.

Qui sopra: Jean-François Champollion in un olio di Victorine Rumilly (1789-1849). Figeac, Musée Champollion. A sinistra: una tavola della Grammatica egiziana di Champollion, Capitolo I, foglio 10.


bolico, oppure un sistema finto e posticcio, magari creato da corti e clero arretrati per imitare maldestramente le prestigiose scritture dei popoli vicini. Tutto ciò fu finalmente stravolto da JeanFrançois Champollion (1790-1832), un vero enfant prodige della linguistica orientale: nato nel caos della Rivoluzione, all’età di 17 anni presentò un lavoro alla Società delle Arti di Grenoble, in cui dichiarava senza timore lo scopo della sua vita: lo studio della lingua e della grammatica dell’antico egiziano. La sua carriera fu semplicemente fulminante: a 19 anni lo troviamo titolare di una cattedra di Storia all’Università di Grenoble, ed esentato per i suoi meriti scientifici dal servizio militare; a 24, è autore di due ponderosi tomi sull’Egitto sotto i faraoni.

una scoperta fortuita Il fatale incrocio di eventi che portò alla decifrazione del geroglifico può essere cosí riassunto: la scoperta casuale, nel 1799, dell’iscrizione trilingue (geroglifico, demotico, e greco) di Rosetta da parte di un ufficiale dell’esercito di occupazione francese, che aveva notato la lapide inglobata in un muro moderno; il fatto che il suo insegnante di lingua araba, Silvestre de Sacy (1758-1838), che pure aveva imboccato la strada giusta nello studio della stele – la ricerca di nomi propri leggibili – li avesse letti in parte molto male; che per quasi vent’anni la pietra abbia tenuto in scacco i piú promettenti aspiranti decifratori. Champollion diede inizio alla sua impresa partendo dal presupposto corretto, cioè semplicemente intuendo che i segni erano in parte ideografici e in parte fonetici, e che questi ultimi erano stati usati per scrivere nei «cartigli» i nomi dei sovrani riportati anche dall’iscrizione in greco. Trovò poi gli stessi nomi (Tolomeo e Cleopatra) in un malconcio obelisco portato in Inghilterra da Giovanni Belzoni. Essi comparivano, trascritti in greco, nella base dello stesso monumento. Quindi Champollion tradusse correttamente il cartiglio con il nome di Alessandro, poi quelli di Tiberio, Domiziano, Vespasiano, Nerva, Traiano e altri ancora, piú diverse titolature ufficiali imperiali. Alla fine, aveva tradotto con certezza 17 segni fonetici (detta cosí, potrebbe sembrare cosa facile, ma bisogna ricordare che i nomi erano composti piuttosto liberamente, e che ogni sovrano egiziano, per tradizione, portava una serie di nomi rituali completamente diversi).

tutte le lingue del mondo Il Museo Champollion si trova a Figeac (Lot, Francia) e celebra l’avventura umana e scientifica dell’illustre concittadino. Visitato annualmente da piú di 40 000 persone, il Museo, recentemente ribattezzato «Les Écritures du Monde» sorge nella stessa casa natale di Champollion, salvata dall’oblio, restaurata e aperta al pubblico nel 1986. In un percorso di otto sale su quattro piani, e attraverso 600 oggetti in mostra, il visitatore ripercorre le straordinarie vicende della decifrazione passando dalla Mesopotamia al Messico e alla Cina.

dove e quando Musée Champollion. Figeac Orario lug-ago: tutti i giorni, 10,30-18,30; apr-giu e sett-ott: tutti i giorni, 10,30-12,30 e 14,00-18,00; lu chiuso; nov-mar: tutti i giorni, 14,00-17,30 (lu chiuso) Info www.musee-champollion.fr

Altri segni furono decifrati grazie all’identificazione, su un vaso in pietra, del nome del re persiano Serse («Khschearscha irina») scritta in geroglifico egiziano ma anche in cuneiforme. Solo dopo questi passi preliminari Champollion si dedicò all’interpretazione dei geroglifici «ideografici», ma anche qui fu fulmineo. Il suo primo articolo in merito fu pubblicato nel 1823, soltanto un anno dopo la lettura fonetica dei segni del primo tipo; e, nel 1824, diede alle stampe un volume generale riassuntivo di 400 pagine, in cui affrontava anche complesse letture grammaticali. Sembra quasi che il giovane studioso francese presagisse che avrebbe avuto una vita breve (morí infatti a solo quarantun anni, dopo una serie di gravi infarti). Champollion fu paragonato dai suoi contemporanei a un Achille della decifrazione; difficile contestargli questo ruolo eroico, dal momento che la sua decifrazione ha retto le prove di quasi due secoli di successivi studi, che ne hanno pienamente confermato la giustezza. a r c h e o 87


speciale • scritture scomparse

Le scritture di Creta e Micene In alto, a destra: tavoletta d’argilla con testo in Lineare A, non ancora traducibile. Iraklion, Museo Archeologico.

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Sir Arthur Evans (1851-1941), il celebre scopritore di Cnosso, spetta il merito di aver riconosciuto e classificato le tre principali scritture usate in antico a Creta: il geroglifico cretese, la Lineare A e la Lineare B. Queste scritture compaiono su supporti diversi, come sigilli, pietra e ceramica, e soprattutto su tavolette e altri oggetti in argilla. Con ogni probabilità, tutte – come quelle del millennio precedente in Oriente – erano scritture logo-sillabiche, formate cioè da logogrammi (segni corrispondenti in toto a parole) e da sillabogrammi (segni che valevano una particolare sillaba). Il geroglifico, la scrittura piú antica (XXIXVII secolo a.C. circa), resta indecifrato. Si compone – secondo le valutazioni piú comuni – di poco meno di 100 segni (una minoranza dei quali avrebbe anche valore logografico). La Lineare A (in uso tra il XIX e il XIV secolo a.C. non solo a Creta, ma anche sulle isole, sulle coste dell’Asia Minore e in terra greca) resiste anch’essa a un secolo e mezzo di tentativi di decifrazione. Non vi è ancora alcuna ipotesi ser ia sull’identità della lingua scritta nelle tavolette con questo codice. La Lineare A condivide con la successiva Lineare B una sessantina di segni sillabici (ma il fatto che siano apparentemente uguali non garantisce affatto lo stesso valore fonetico). Evans fu uno dei pionieri della decifrazione della Lineare B, suggerendo che la lingua delle tavolette di età micenea facesse uso di regolari modificazioni grammaticali. Evans e molti altri, al tempo, suggerivano che la lingua delle iscrizioni fosse un idioma insulare o una lingua autoctona cretese ancora del tutto sconosciuta.

Qui sopra e a sinistra: due tavolette in argilla con testi amministrativi in Lineare B, dagli scavi di Pilo, in Messenia. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Un’impresa a sei mani Protagonisti della decifrazione della Lineare B furono Alice Kober (1906-1950), Michael Ventris (1922-1956) e John Chadwick (1920-1998). La prima era una archeologa classica, laureata alla Columbia University di New York. Tenace lavoratrice, è ricordata


anche come la prima studiosa ad aver preparato esami in Braille per studenti non vedenti. Kober si dedicò totalmente allo studio della misteriosa scrittura di Creta. Durante la guerra, quando la carta era razionata e scarsissima, lasciò non meno di 186 000 schedine, ricavate da ogni genere di foglietto, con uno studio statistico delle associazioni tra segni che dimostravano l’ipotesi di precise strutture grammaticali. Kober morí prematuramente di un male incurabile, solo due anni prima che la Lineare B fosse defi-

nitivamente riconosciuta come greco e poi decifrata dai suoi colleghi. L’inglese Michael Ventris, figlio un ufficiale dell’esercito britannico in India, aveva un talento innato per l’apprendimento delle lingue (parlava francese, tedesco, polacco e svedese). Nel 1934 ebbe luogo il suo «fatale» incontro con Arthur Evans e il mistero delle antiche scritture cretesi. Nel 1948, tuttavia, si laureò in architettura e da allora lavorò come architetto, con importanti incarichi governativi. Lo studio della Lineare B fu per Ventris soprattutto una passione privata. La sua fondamentale intuizione fu che la lingua della Lineare B fosse una forma arcaica di greco scritta in forma sillabica. Nel 1953, cinque anni dopo la laurea in un’altra materia, annunciò pubblicamente di averne scoperto il significato; e proprio come filologo ebbe i suoi numerosi riconoscimenti ufficiali. A quell’anno infatti risale il suo articolo Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives (Tracce di un dialetto greco negli archivi micenei) scritto insieme al collaboratore John Chadwick. Solo tre anni piú tardi, al culmine del successo,Ventris morí in un banale incidente automobilistico alla periferia di Londra. Tuttavia Ventris aveva spalancato l’accesso di un campo di studi del tutto nuovo. La sua opera fu coronata da Chadwick, linguista e filologo britannico, con cattedra a Cambridge, che continuò il lavoro di decifrazione e pubblicazione del corpus delle iscrizioni in Lineare B.

A sinistra: Sir Arthur Evans all’ingresso del Palazzo di Cnosso, una fotografia scattata nel 1935. Oxford, Ashmolean Museum. In basso: ricostruzione di una fossa contenente centinaia di ossa oracolari ad Anyang. Dinastia Shang, XI sec. a.C. circa.

Il mistero delle «ossa del drago»

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i dice che la ricerca delle «ossa del drago» o long gu sia stata un’attività sistematica dei contadini cinesi per poco meno di duemila anni. Si trattava di ossa animali modificate dall’uomo – soprattutto piastre ventrali di tartarughe e scapole ovine e bovine – sulle quali si tracciavano linee di segni incisi, punti e tracce di bruciature. Nella farmacopea tradizionale cinese, le piastre di tartaruga venivano macinate per ricavarne un rimedio anti-malarico, a r c h e o 89


speciale • scritture scomparse

grandi fosse in cui le ossa incise erano state deposte, a migliaia, in strati sovrapposti, come in vasti archivi dismessi. Si calcola che, da allora, siano state recuperate non meno di 100 000 ossa iscritte, ma nessuno potrà mai dire quante siano andate, letteralmente, in polveri medicinali.

dal fuoco le risposte Le ossa avevano funzione oracolare: indovini specializzati scrivevano sulle superfici ben levigate domande sulle attività giornaliere del sovrano. In tal modo si consultavano gli antenati sulle scelte da fare: dalla caccia alla guerra, ai rituali di Stato, all’uso degli schiavi nelle bonifiche del terreno, pronostici di malattie e sogni, fino alle scelte dinastiche e diplomatiche. Sul retro, mani esperte incidevano griglie di punti. La consultazione oracolare era una forma di «piromanzia», ossia di divinazione mediante le fiamme: l’osso veniva infatti posto sul fuoco; le crepe che si formavano sulla superficie, guidate dalla griglia dei punti, erano interpretate come risposte positive o negative. Poiché le ossa riportano il nome del re e dell’indovino, notazioni calendariali, e, in rarissimi ma preziosi casi, notazioni astronomiche su fenomeni celesti (che forniscono date assolute), è facile intuirne l’importanza nello studio della storia degli Stati cinesi. Una scapola mentre con la polvere ricavata dalle Gli studiosi di Pechino riconobbero altre si trattavano le ferite di arma da quasi subito nei segni sulle ossa le di bovino taglio. Solo alla fine del XIX secolo, versioni arcaiche dei segni dell’attuacon una lunga quando i segni sulle ossa furono con- le sistema di scrittura cinese, malgrainterrogazione frontati con quelli dei vasi rituali in do le tecniche di incisione e l’aspetto divinatoria. bronzo del II e I millennio a.C. (dina- li rendessero difficili da riconoscere e Dinastia Shang, stie Shang e Chou) le «ossa del drago» interpretare. I caratteri non erano solfine del furono identificate come testi scritti. tanto ideografici, ma avevano anche II mill. a.C. Iniziò allora un lungo braccio di ferro valori prettamente fonetici, e non Pechino, Museo tra studiosi, antiquari, collezionisti e mancavano segni composti dall’assoNazionale della Cina. Le ossa cosí contadini che si arricchivano con i traf- ciazione di parti ideografiche e fonefici, mentre i luoghi in cui i contadini tiche. In altre parole, essi testimoniaiscritte erano dissotterravano i preziosi reperti rima- no un sistema di scrittura altamente considerate evoluto e ben articolato, e non un’arsero occulti per quasi trent’anni. domande Nel 1928, l’Accademia Sinica di Pechi- caica incertezza. Oggi sono stati ricoagli antenati divinizzati, i quali no si dotò di un Istituto di Storia e nosciuti poco meno di 5000 diversi Filologia, e iniziarono scavi regolari segni, per circa un terzo dei quali esi«rispondevano» nell’antico complesso di Yin (moderna stono decifrazioni plausibili. Si pensa con le crepe che Anyang, provincia dello Henan), capita- che gli Shang scrivessero anche con si formavano sul le della dinastia Shang (XVI-XI secolo inchiostro su listelli di bambú, come fuoco. a.C.) negli ultimi due secoli del II mil- sarebbe avvenuto in successive fasi lennio a.C. Le iscrizioni giacevano in della storia del Paese. 90 a r c h e o


La decifrazione dell’Ittita geroglifico (Luvio)

I

l geroglifico luvio (che una volta era universalmente noto come «ittita») è una scrittura che fu usata per poco meno di mille anni, dalle fasi centrali del II millennio a.C. al VII secolo a.C. in una regione molto vasta dell’Anatolia e della Siria settentrionale. Composta, come molte altre, di un insieme di ideogrammi e sillabe, la scrittura fu decifrata lentamente da parte di diversi studiosi, nell’arco di tempo che va all’incirca dal 1860 (quando venne scoperta una delle prime iscrizioni rupestri a Bogazköy, l’antica Hattusa, nel cuore dell’Anatolia), al 1931, quando, a un congresso internazionale di linguisti tenuto a Leida (Olanda) due diversi studiosi presentarono indipendentemente letture dei segni del tutto congrue. In principio, i progressi furono lenti e controversi. Agli inizi del secolo scorso, per esempio, un celebre studioso pubblicò il valore fonetico di piú di 60 segni, solo due dei quali, però – come si vide in seguito – erano corretti. Il problema principale, per lungo tempo, fu che la lingua delle iscrizioni geroglifiche era sconosciuta.Tra il 1906 e il 1912, nell’antica capitale ittita di Hattusa furono scavati circa 20 000 testi o frammenti di tavolette scritte in caratteri cuneiformi in una lingua misteriosa (datati tra il 1450 e il 1200 a.C.). Il nostro eroe, in questo caso, fu il ceco Friedrich Hrozny (1879-1952), un professore di lingue semitiche all’Università di Vienna.

una lingua per l’argilla e una per la pietra Hrozny era un esperto di cuneiforme e aveva studiato accadico, sumerico, aramaico, sanscrito ed etiopico. Prima di essere interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale, aveva dimostrato che la lingua degli archivi reali, battezzata ittita, era un antico idioma indo-europeo; le tavolette in ittita, inoltre, contenevano spesso nomi e passaggi in una lingua diversa (sempre indo-europea) chiamata luvio, che poi si dimostrò essere proprio quella delle iscrizioni geroglifiche su pietra. Per qualche ragione – non ultima la difficoltà di usare i complicati segni geroglifici su

tavolette d’argilla – le corti reali dell’Anatolia, quando scrivevano su roccia editti regali, usavano il luvio scolpito in geroglifico, ma continuarono a usare per la corrispondenza, l’educazione e l’amministrazione la lingua ittita scritta in caratteri cuneiformi. Nel 1947, il passo finale nella decifrazione dei geroglifici fu la scoperta, nelle decorazioni palaziali della cittadella neo-ittita di Karatepe, nell’Anatolia sud-orientale, di due grandi iscrizioni bilingui in luvio geroglifico e in caratteri dell’alfabeto fenicio: in esse il re Awatizatas (VIII secolo a.C.) si attribuisce il merito della fondazione della fortezza e di aver portato pace e prosperità ai suoi sudditi. Da allora, l’ittitologia è diventata una «scienza» affine all’assiriologia, che procede alla ricostruzione di complesse e intricate vicende dinastiche e politiche senza dover necessariamente ricorrere ai dati di scavo (almeno, è quanto sembrano credere diversi specialisti).

Particolare di una iscrizione reale in geroglifico luvio, trovata a Karkemish (Siria). IX-VIII sec. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. Testi simili comparivano su stele in basalto e sigilli delle case reali.

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Alfabeti e sillabari sconosciuti Altre scritture perdute e sconosciute, meno celebri, ma importanti, furono scoperte tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Alcune – come, in Iran, la scrittura detta proto-elamica, contemporanea e analoga ai primi testi «pittografici» del periodo di Uruk in Mesopotamia (3300-3000 a.C.), e il piú tardo «elamita lineare» (2100 a.C. circa; vedi box qui accanto) – non furono mai decifrate, o lo sono state solo in minima parte. Con altre, gli aspiranti decifratori ebbero maggior successo. È il caso del «sillabario cipriota», un sistema composto da un’ottantina di segni in uso a Cipro tra il VII e il II secolo a.C. Il sillabario esprime una locale forma di greco, ma le sue origini – nelle probabili interazioni tra gli alfabeti fenicio e greco, e nella dipendenza da antichi sistemi geroglifici locali dell’età del Bronzo – sono ancora dibattute. Il sillabario, identificato inzialmente su monete, fu tradotto tra il 1860 e il 1880, con continue revisioni successive, grazie a un numero crescente di bilingui in greco e cipriota. Coronato da successo fu anche lo studio dell’alfabeto di Ugarit (Siria). Scoperto dagli archeologi alla fine degli anni Venti del secolo scorso, il sistema si componeva di 27 segni diversi di carattere cuneiforme, in una quarantina di tavolette datate intorno al XII secolo a.C. e su un gruppo di asce in bronzo. La decifrazione – opera contemporanea di tre studiosi diversi – si basò sull’indovinare la lingua (fenicio o comunque una lingua semitica occidentale) e il contenuto delle iscrizioni sulle asce (che recitavano, in effetti «ascia del signor X»); e sullo sforzo di riconoscere intuitivamente parole chiave come «re», «figlio di», «capo dei sacerdoti». La strada era giusta, e l’alfabeto di Ugarit fu definitivamente interpretato nelle due decadi successive alla scoperta. A sinistra: replica della tavoletta con l’alfabeto cuneiforme di Ugarit, da Ras Shamra, Ugarit (l’originale risale al XIV sec. a.C.). Damasco, Museo Nazionale.

L’elamita lineare Di questa antica scrittura, usata esclusivamente nell’altopiano iranico negli ultimi due secoli del III millennio a.C., e poi in apparenza dimenticata, si conoscono oggi una trentina di documenti. Gran parte di essi risalgono a un unico sovrano di nome Puzur-Inshushinak. Una iscrizione trovata a Susa nel 1905, oggi conservata nella galleria delle antichità orientali del Louvre, è il basamento di una statua con un testo bilingue (elamita lineare e antico accadico, quest’ultimo leggibile). Il blocco, detto «table au lion» consente di leggere foneticamente alcuni segni – almeno quelli che compongono il nome di Puzur-Inshushinak, e con molta incertezza il termine per «figlio» – Shakiri – e il nome del padre del re, Shimpishuk. Per il resto, gli altri segni, circa una sessantina, sono immersi nell’incertezza. Negli ultimi anni sono comparsi sul mercato antiquario vasi in oro e argento con iscrizioni della stessa natura, al momento del tutto incomprensibili. Puzur-Inshushinak, vissuto intorno al 2200 a.C. e ultimo re sul trono della dinastia di Awan, fu un sovrano abile e intraprendente, che riuscí nell’impresa di unificare politicamente le porzioni sudoccidentali dell’altopiano iranico e a minacciare seriamente le città mesopotamiche. Dopo la sua morte, lo Stato crollò e la scrittura che il re stesso aveva promossa cadde immediatamente in disuso. In alto: la «Tavola del leone» trovata a Susa (Iran) con iscrizione bilingue accadica ed elamita lineare del re Puzur-Inshushinak. 2200 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. A destra: restituzione grafica della versione elamita lineare dell’iscrizione.


Glifi Maya: il dono di un«tacchino»

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egli anni Cinquanta del Novecento Yur i Knozorov, uno studioso dell’Accademia delle Scienze di Leningrado, fece il primo fondamentale progresso nella decifrazione della scrittura maya. Knozorov partí dall’«alfabeto maya» trascritto da Diego De Landa nel 1566. Intuí giustamente che il francescano aveva travisato come alfabetica una scrittura sillabica, ma che la trascrizione fonetica era corretta. Knozorov ipotizzò che la lingua delle antiche iscrizioni fosse una forma arcaica della stessa famiglia di lingue ancor oggi parlate dai Maya attuali in Belize e nello Yucatán. Prese quindi i due segni accostati che, in base a diversi indizi, pareva dovessero significare «tacchino». De Landa lo aveva trascritto con il valore di «K». Poiché nelle lingue maya tacchino si dice kutz, Knozorov stabilí che il primo dei due segni si leggesse ku, e che il secondo fosse invece tzu. Dal tacchino passò poi al cane: il primo dei due segni era lo stesso tzu del tacchino, e, poiché nelle lingue maya tzul significa «cane», tradusse il secondo segno, appunto, come lu. E procedette con lo stesso approccio anche con gli altri segni dell’«alfabeto» di De Landa.

A destra: una pagina del manoscritto di Diego de Landa (1524-1579). In basso: particolare di glifo maya da una stele di Yaxchilan (Chiapas). Città del Messico, Museo Nazionale di Antropologia.

Negli anni Sessanta, altri studiosi «infransero» per la prima volta il codice delle date che comparivano sui monumenti urbani dei Maya, e si cominciò a capire che tali date si riferivano a momenti cruciali della carriera dei governanti – intronizzazione, matrimoni, vittorie, uccisione di nemici e sacrifici, morte e funerali – indicati con il loro nome e con quello delle loro famiglie. Molti testi, inoltre, nominano città e popoli e permettono la ricostruzione di geografie politiche prima totalmente precluse alla ricerca storica e archeologica.

l’«intruso» aveva ragione Come si scoprí in seguito, Knozorov aveva ragione. I glifi maya, come altre scritture usate in tempi diversi dalle aristocrazie degli Stati arcaici dell’Eurasia, esprimevano fonemi sillabici, con una forte componente ideografica. I progressi nella decifrazione furono lenti, perché, come in altre scritture protostoriche, molti segni avevano piú di un valore fonetico, e le varianti grafiche erano – e sono tuttora – spesso fonte di confusione. Ma i risultati dello studioso russo furono ignorati per piú di vent’anni dagli archeologi della Mesoamerica che dominavano il campo di studio. Si era allora all’apice della guerra fredda, e il mondo accademico era dominato da studiosi nordamericani, che guardavano con scetticismo e irritazione all’intrusione di un «dilettante» come Knozorov, del tutto ignaro dei problemi archeologici della regione. a r c h e o 93


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I segni dell’Indo: viaggio nell’indecifrabile

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ella valle dell’Indo, tra il XXVI e il XIX secolo a.C., si usò una scrittura inventata in loco, che, a differenza del cuneiforme e del sistema cinese, non si mutò in altri sistemi grafici, estinguendosi alla soglia del II millennio a.C., quando venne meno la vita urbana organizzata. La scrittura dell’Indo rimane indecifrata e sfugge ormai anch’essa a quasi un secolo di ostinati tentativi di decrittazione. Le prime iscrizioni – testi brevissimi su sigilli a stampo in steatite cotta – furono trovate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio delle grandi campagne di scavo inglesi degli anni Venti del Novecento. Oggi conosciamo circa 4500-5000 iscrizioni dell’Indo, provenienti da 60-70 siti diversi (anche se ben 3800 testi vengono da Mohenjo-Daro e Harappa). Circa il 60% delle brevi iscrizioni sinora note compaiono su sigilli e il numero totale dei segni oscilla tra le 400 e le 450 unità. Anche questo sistema, a giudizio dei piú, utilizzava sia segni-parola, sia segni fonetici per le sillabe, proprio come le altre grandi scritture del III e II millennio a.C. I caratteri, spesso molto eleganti, rappresentano figure umane con vari oggetti (arco e frecce, bastone o lancia, bilanciere con carichi), figure del mondo naturale (la foglia, il pesce; e altri animali piú o meno riconoscibili, tra cui quadrupedi, uccelli, lo scoiattolo, insetti e artropodi). Vi sono forse alcuni nu-

merali ed elaborate figure geometriche. La scrittura andava da destra verso sinistra, e se si sviluppava su piú registri, in senso bustrofedico (ossia destrorso e sinistrorso alternato). Le iscrizioni compaiono sui sigilli a stampo, ma anche su tavolette miniaturistiche, in terracotta, faïence o steatite. Avevano forme diverse e combinavano, a volte, i segni descritti con scene mitologiche oscure (epifanie di «divinità», demoni, animali, scene di sacrificio o di culto) e simboli astratti (come svastiche e nodi infiniti). A Mohenjo-Daro si usavano tavolette rettangolari in rame incise con figure elaborate e lunghe scritte ripetitive. I sigilli a stampo in steatite imbiancata dalla cottura, hanno una figura animale (appartenente a una serie di una decina di icone zoomorfe canoniche), accostata a vari oggetti e sormontata da una breve sequenza di segni scritti (solo nei sigilli piú tardi, l’animale scomparve, e le iscrizioni divennero piú lunghe).

il mistero dell’unicorno Forse l’animale – immaginario o meno che fosse – segnalava la principale identità sociale del portatore, mentre l’iscrizione ne dettagliava il nome e altre attribuzioni. Il 70% circa dei sigilli, infatti, mostra la figura di un unicorno che alza la testa su un enigmatico oggetto fatto di un palo, di un «bacino» inferiore che sembra sgocciolare e di una parte

Nella pagina accanto: sigillo in steatite cotta con rinoceronte e quattro segni iscritti. 2500-2300 a.C. circa. Karachi, Museo Nazionale. La scrittura dell’Indo ancora indecifrata comprendeva probabilmente segni fonetici e logogrammi. In basso: la cittadella di Mohenjo-Daro (Sindh, Pakistan) con edifici monumentali.


Le «regole» della decifrazione

superiore a forma di paralume, forse in vimini: un totale mistero. Con i sigilli, come nelle altre civiltà protostoriche dell’Asia meridionale, si chiudevano formalmente stanze e contenitori nel corso di attività burocratiche e di controllo. L’unicorno indicava forse una responsabilità e competenza comune nelle città del III millennio a.C.: quella di chi sapeva leggere e scrivere, ed era quindi responsabile delle transazioni. L’intraducibilità della scrittura dell’Indo è dovuta a vari fattori: l’assenza di iscrizioni bilingui; la brevità dei testi, che non consente un terreno analitico utile; la nostra incapacità di indovinarne il contenuto; l’ignoranza della lingua (o delle lingue) che le iscrizioni esprimevano. Nei tentativi di soluzione dell’enigma dell’Indo stanno contando i preconcetti ideologici piú che il buon senso e i risultati concreti. E cosí la fame di gloria e gli interessi nazionalistici esasperati hanno portato all’accumulazione di «decifrazioni» sempre meno plausibili. Negli ultimi quindici anni, Steve Farmer e altri hanno proposto con gran clamore che la scrittura dell’Indo non abbia alcun valore fonetico. I segni sarebbero quindi simboli divini e rituali usati senza particolare coerenza; le città dell’Indo, secondo Farmer, sarebbero state popolate da «mistici illetterati». Ma non facciamoci ingannare: identici argomenti, prima della decifrazione, si ripetevano a proposito del geroglifico e del cuneiforme. Forse la scrittura dell’Indo non sarà mai decifrata; ma nessuno ci può impedire di cercarne nuove tracce e di sperare in nuove chiavi.

Siamo abituati a una concezione «eroica» della scoperta e dell’innovazione scientifica, e in queste pagine abbiamo narrato dei successi e delle avventure di singoli protagonisti. Ma nessun racconto può rendere conto della fitta trama di letture, missive, commenti, incontri casuali, maldicenze e ostilità che avvolse i nostri decifratori. Nessun risultato, in realtà può essere considerato come puramente personale. Né esiste una tipologia ben definita del decifratore. Champollion e Hrozny furono linguisti e filologi di carriera e pieno successo, ben accetti dalle proprie accademie, altri scopritori furono luminosi dilettanti. Ma si pensi, per contro, ai contributi di Grotefend e Rawlinson alla soluzione dell’enigma del persiano cuneiforme, oppure al trionfo di Knozorov, in barba al cattedratico sapere dei piú affermati accademici dello studio dell’America Centrale. Ma, se vogliamo tracciare le regole della decifrazione, possiamo affermare che, per interpretare una lingua antica, si deve poter disporre di testi abbastanza lunghi; indovinare di quale lingua si tratti; intuire di che cosa parlino i testi, meglio se vengono nominati personaggi noti da altre fonti; ed essere tanto fortunati da imbattersi in testi bilingui. Come si vede, è piú materia di fortuna e logica spicciola, che di lampi di genio. Citando ancora Maurice Pope, «La morale (…) è che sebbene le singole decifrazioni, in quanto difficili, drammatiche, e dimostrabili, meritino pienamente la reputazione di grandi conquiste scientifiche, nessuna fu opera di persone eccezionalmente geniali (...). La gestalt subitanea, il brillante lampo di intuizione che rivela di colpo l’intero quadro della scoperta, non sono mai avvenuti. Ci sono state soprese, ma nessuna magia. Per quanti preferiscono immaginare che il mondo sia razionale piuttosto che romantico, è una conclusione confortante» (The Story of Decipherment. From Egyptian to Maya script, Thames and Hudson, Londra 1999; p. 191). a r c h e o 95


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La resistenza greca di Fabrizio Polacco

Corinto. I resti del tempio di Apollo. L’edificio, di stile dorico, fu costruito intorno al 540 a.C. in un’area su cui sorgeva già un altro tempio, edificato intorno al 670 a.C. Nella città dell’Istmo si consumò, nel 146 a.C., l’epilogo della «guerra achea» contro Sparta, che coinvolse anche Roma e si concluse con il saccheggio e gli eccidi compiuti dai soldati romani.


prima della sottomissione definitiva, roma lasciò alla grecia una relativa libertà di manovra. fino a quando la rivolta dell’oriente ellenistico non causò la durissima risposta di silla

«S

e dunque proviamo maggior compassione per chi continua a vivere nelle sofferenze, piuttosto che per chi nella disgrazia ha perso la vita, la rovina dei Greci deve essere considerata piú dolorosa di quella dei Cartaginesi». Cosí scriveva lo storico greco Polibio, che, dai tempi della sconfitta della Macedonia a

Pidna (168 a.C.; vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013), era a Roma come ostaggio, in quanto esponente di spicco della Lega Achea. Un ostaggio di lusso, come dimostra la familiarità che gli offre un giovane membro della famiglia che lo ospita, Scipione l’Emiliano: è il generale che nel 146 a.C. conquistò, dopo un terribile assedio, Cartagine, eliminando dalla scena quella nemica secolare della repubblica. Polibio, che divenne quindi il narratore dell’ascesa di Roma, fu testi-


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mone diretto dell’assedio e racconta come lo stesso Scipione, assistendo allo spettacolo delle fiamme che divoravano la città sconfitta coi suoi difensori, piangesse di compassione. Dunque, quando paragona la sorte dei Greci a quella dei Cartaginesi, Polibio sa bene quel che dice. In effetti la vicenda dei Greci tra la fine del regno di Macedonia, nel 168 a.C., e di quello d’Egitto (30 a.C.) è tragica e insieme compassionevole. Con la potenza di un rullo compressore i Romani, pur impegnati in

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feroci guerre civili, abbatterono e inglobarono tutti i regni ellenistici, grandi e piccoli. Una sorte tragica, anche perché vissuta lucidamente da molti fin dagli esordi.

Nubi da Occidente Già prima che le legioni romane traversassero per la prima volta lo Ionio un esponente della Lega degli Etoli, Agelao di Naupatto, aveva ammonito re Filippo V di Macedonia e gli altri rappresentanti dei Greci: «Osservate con attenzione il

lungo duello che stanno combattendo in occidente Romani e Cartaginesi: i vincitori, è certo, estenderanno ben presto le loro ambizioni verso di noi. Dovete dunque smettere di lottare l’uno con l’altro, indebolendovi: lasciate da parte ogni contesa. Infatti, se la nube che si sta addensando a occidente si estenderà a coprire tutta la Grecia, allora anche le paci, i conflitti, e tutto il gioco che state giocando tra voi saranno improvvisamente troncati, e finirete con l’implorare gli dèi di avere almeno il diritto di guerreggiare e di riappacificarvi con chi e quando volete». Parole profetiche, seppur riportate da Polibio post eventum, quando quel che si temeva era accaduto. Anche dopo Pidna, infatti, nonostante lo spezzettamento del regno macedone in quattro staterelli inermi – e magari proprio per questo – le poleis e le leghe ripresero a litigare tra loro, benché quasi tutte alleate e poste sotto la tutela di Roma. Entrò in scena un certo Andrisco, spacciandosi per il figlio di re Perseo, e prese a sobillare Greci e Macedoni incitandoli a riconquistare la piena indipendenza. Ebbe cosí inizio un convulso, fatale strascico delle precedenti tre guerre macedoniche: tra il 149 e il 146 a.C. il ribelle, detto lo Pseudo-Filippo, risultò prima temporaneamente vincitore, ma poi capitolò anch’egli a Pidna di fronte alla reazione armata del pretore Cecilio Metello (appellato in seguito «Macedonico»); dopodiché, nell’illusione che i Romani occupati contro Cartagine fossero restii a un nuovo intervento armato, il gruppo dirigente acheo non esitò ad attentare al loro interesse per la stabilità della penisola, riprendendo la decennale contesa che lo opponeva a Sparta. Gli ambasciatori inviati dal Senato al fine di evitare il caos furono insultati e maltrattati nelle varie assemblee federali (a Corinto, racconta Strabone,


A destra: cartina che mostra il tracciato della via Egnatia e il suo congiungimento, tramite rotta marittima, con la Via Appia. Nella pagina accanto: particolare del mosaico del Nilo, raffigurante soldati romani vicino a un tempio, dal santuario della Fortuna Primigenia di Palestrina (l’antica Praeneste). Fine del II sec. a.C. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. Fin dall’età repubblicana, Roma aveva guardato con attenzione all’Egitto, che, tra l’altro, concorreva in misura determinante ai rifornimenti di grano.

Mare Adriatico

Mar Nero Masio Scampa Dyrrachium

Brindisi

Heraclea Lyncestis Florina Pella

Adrianople

Philippi

Aproi Byzantium

Lychnidos Apollonia Claudiana Edessa

Mar Ionio

Caenophrurium Melantias

Traianoupolis

Neapolis Kypsela Amphipolis Aenus Thessaloniki Pydna

Perinthus

Mar Egeo

Mar Mediterraneo

furono ricacciati con lanci di sterco); finché, nel 146 a.C., fu dichiarata guerra a Sparta, e, di conseguenza, a Roma: la cosiddetta Tuttavia, gli eventi di questi anni dominando ancora la Grecia, i Ro«guerra achea». rappresentano comunque un punto mani ne erano in realtà già arbitri, di svolta. La Macedonia fu ridotta ora che la dominavano il loro arbidai Romani a «provincia» (147/146 trato si estese ai complicati, muteFine della storia? Il disastro non tardò: le disorganiz- a.C.), le città ribelli a tributarie del voli equilibri tra i regni ellenistici. zate truppe ribelli furono sbaraglia- suo governatore, le altre rimasero L’Egitto, il piú lontano da Roma, te sull’Istmo, dopodiché i Romani alleate. Da Durazzo a Tessalonica e non interferiva direttamente con le si abbatterono su Corinto. La città, poi a Bisanzio, la via Egnatia velo- sue mire e ne divenne quindi il mai saccheggiata prima, era piena di cizzò il transito non solo di mer- principale alleato. Inoltre, già dai tesori e di opere d’arte, sicché canti e pubblicani (gli appaltatori tempi dei Gracchi erano state introquando il console Lucio Mummio della riscossione delle imposte per dotte le distribuzioni di frumento a lasciò campo libero ai soldati, questi conto della Res Publica), ma anche prezzi calmierati alla plebe (poi discatenarono il terrore e gli eccidi, quello delle legioni, sempre pronte venute gratuite), ed era quindi opad accorrere dal porto di Brindisi. portuno assicurarsene importazioni accecati dall’avidità (146 a.C.). Giustamente gli storici pongono in Gli interessi commerciali ed econo- costanti e a buon mercato dalla valle del Nilo. quest’anno la fine dell’inLaggiú, i Lagidi controlladipendenza della Grecia, e vano direttamente gran molti, di conseguenza, All’indomani di Pidna, la parte delle attività proconcludono la loro Storia Greca con la fine di Co- Grecia imboccò una strada duttive e delle esportazioni tramite un apparato rinto. Ma questa nostra è segnata da permanente burocratico oppressivo e Storia dei Greci, non della corrotto che i sudditi a Grecia, e oggi non è piú instabilità politica mala pena tolleravano. Ma accettabile identificare da quando, in una delle questo popolo esclusivamente con l’epoca gloriosa delle mici di Roma per l’Oriente erano tante guerre con i Seleucidi per il sue poleis classiche, né farne termi- notevolissimi. Lo dimostra il decli- controllo di Celesiria e Palestina, si nare la vicenda con l’assoggetta- no di Rodi: non piú indispensabile erano dovute reclutare e armare mento della penisola ellenica. Pri- come alleata, i Romani la colpirono truppe autoctone (che sconfissero mo, perché i Greci restavano domi- con l’istituzione di un porto franco clamorosamente l’esercito di Antionanti in Oriente e in Egitto con i nella vicina Delo; l’isoletta divenne co III il Grande a Rafia, nel 221 vari regni, la cui esistenza successiva il centro di smistamento dei traffici a.C.), l’elemento indigeno non si continua a far parte a pieno diritto con l’Oriente e un rinomato mer- rassegnò piú alla posizione subordidella loro storia; secondo, perché, cato di schiavi, cosicché i commer- nata in cui lo relegavano i grecononostante la brutalità della disfatta, cianti italici vi si installarono a cen- macedoni. Anche la monarchia gli stessi Greci della madrepatria tinaia, appoggiati e protetti dall’au- cambiò volto: la fastosa cerimonia d’incoronazione di Tolomeo V Epinon cessarono di scuotersi di dosso torità dell’Urbe. Cosí come decenni prima, pur non fane (197 a.C.) vide riprendere vita il giogo straniero. a r c h e o 99


storia • storia dei greci/23

IL CERCHIO CHE UMILIò IL RE Aneddotico divenne il gesto d’autorità di Popilio nell’incontro con Antioco: dopo ch’ebbe rifiutato di stringergli la mano finché non avesse constatato «se aveva di fronte un amico o un nemico», tracciò un cerchio nel terreno attorno alla persona del re, intimandogli che, prima di uscirne, avrebbe dovuto dire se accettava l’ultimatum romano. Solo quando Antioco, dopo una breve riflessione, cedette, lo salutò cordialmente.

l’antichissimo, estenuante rituale di consacrazione faraonico: per quel ragazzo-re tredicenne, che tuttavia era considerato in Egitto il figlio del dio Ra, si soppiantava la piú consueta e «laica» acclamazione macedone da parte dell’esercito.

arbitro a distanza Nel frattempo, ancora con Antioco III i Seleucidi si erano già ripresi le terre contese; finché piú tardi Antioco IV Epifane fu sul punto di impadronirsi di tutto l’Egitto, giungendo in armi alle porte di Alessandria. Roma tutto voleva fuorché una grande potenza capace di contrastarla in Oriente e inviò immediatamente in ambasciata un senatore, Popilio Lenate, amico del re sin dal tempo della giovinezza. L’incontro tra i due, verificatosi appena dopo l’abbattimento della Macedo100 a r c h e o

In alto: dritto e rovescio di una moneta del sovrano seleucide Antioco VII Sidete, detto anche Evergete, al trono dal 138 al 129 a.C., con il busto del sovrano e un’aquila, da Tiro. Collezione privata. A sinistra: dritto di una moneta con l’effigie di Antioco IV Epifane, sovrano del regno seleucide dal 175 al 164 a.C.

nia di Perseo, dimostra quanto timore incutesse ormai Roma. Antioco si piegò al Senato, e rinunziò all’impresa (vedi box qui accanto). Benché graziato, l’Egitto si avvitò in una serie convulsa di contrasti dinastici e di conflitti tra fazioni, complessi da districare anche per la pratica – tradizionale già tra i faraoni – dell’incesto nella famiglia reale: sicché si vedevano unirsi in matrimonio fratello e sorella, o zio e nipote. Un contrasto sorto poi tra i fratelli Tolomeo VI Filometore, e Tolomeo VII Evergete II (o VIII, secondo i piú), sfociò in lunghi scontri armati, finché entrambi si rivolsero a Roma per ottenerne appoggio e riconoscimento dei rispettivi diritti. Il Senato patrocinò un accordo che suddivideva il regno tra i due rivali. L’Egitto vero e proprio fu distaccato cosí dalla Cirenaica, regione della Libia che era greca da secoli. Questa fu infine lasciata in eredità ai Romani, alla sua morte, da un figliastro dell’Evergete, Tolomeo Apione (†96 a.C.; vedi box alla pagina seguente). Anche il regno dei Seleucidi, dopo la rinunzia dell’Epifane a ogni mira espansionistica e la perdita della Palestina (per la ribellione dei Maccabei, vedi la puntata di questa serie in «Archeo» n. 337, marzo 2013), fu travagliato da contese dinastiche e lotte per il potere. Contrariamente

all’Egitto, però, era circondato da potenze minacciose, come i Parti, combattendo i quali cadde in battaglia Antioco VII Sidete, nel 129 a.C. Dopo questo evento, quello che un tempo era stato il piú potente regno ellenistico si limitò a controllare, neppure tanto saldamente, la sola Siria settentrionale. Ciò che ne rimaneva fu cancellato da Pompeo, che lo trasformò nella provincia di Siria nel 64 a.C.

il re dei veleni L’ultima grande sfida dell’Oriente ellenistico a Roma fu guidata dal sovrano di un regno semibarbarico, sorto da un paio di secoli in una zona fino ad allora marginale: il Ponto. Il suo piú celebre sovrano, Mitridate VI Eupatore, regnò per quasi un cinquantennio (dal 112 a.C. circa fino alla morte, nel 63 a.C.) e passò alla storia sotto una luce poco lusinghiera per la spregiudicatezza, la scaltrezza e la crudeltà nei confronti di nemici e rivali, nonché per l’indubbia competenza nel manipolare veleni e nel creare antidoti. Ma è un ritratto parziale e per molti versi ingeneroso. Appartenente all’aristocrazia iranica, il re si vantava di discendere per parte di madre da Alessandro Magno, di cui indossava come una reliquia il mantello; era coltissimo (in grado di conversare nelle lingue


FLAUTISTI E PANciONI SUL TRONO D’EGITTO Ridotto ai suoi confini geografici, l’Egitto sopravvisse sempre piú debole, con una casa reale travolta dal discredito dei sudditi: l’Evergete II veniva detto dagli Alessandrini Kakerghete («malfattore», anziché «benefattore») e passò alla storia come Tolomeo «Fiscone» (cioè «pancione»). Alla sua morte, tanto per complicare le cose, lasciò disposizione alla moglie di scegliere quale dei due figli avrebbe dovuto succedergli, originando ulteriore caos. Benché in contrasto col fratello minore, il maggiore salí infine al trono come Tolomeo IX Sotere II (il «salvatore»); ma fu anch’egli piú noto, a causa dell’ereditaria pinguedine, come Latiro («cece»). Con Tolomeo XII (†51 a.C.), tanto amante della musica, dei banchetti e delle feste in cui amava esibirsi da esser detto Aulete («flautista», ma lui preferiva «Nuovo Dioniso»), siamo già arrivati al predecessore di Cleopatra VII, la regina amante di Cesare e Antonio.

delle decine di popolazioni che vennero a trovarsi sotto i suoi domini), raffinato (lo testimoniano gli splendidi ritratti sulle sue monete d’argento, tra le piú belle dell’antichità) e amante dell’ellenismo (la sua corte risiedeva a Sinope, colonia milesia sul Mar Nero, e il greco ne era la lingua ufficiale). Crebbe nel timore e nell’ostilità dei Romani, ma ciononostante seppe accortamente estendere i suoi domini fino al Caucaso e alla Crimea. Le sue mire vennero ben presto a scontrarsi con Roma, che, oltre alla

A destra: testa di una statua in diorite nera di Tolomeo VIII Evergete II, sovrano d’Egitto dal 144 al 116 a.C. Bruxelles, Musée royaux d’Art et d’Histoire. In basso: il primo pilone del tempio di Iside di File, con raffigurato Tolomeo XII Aulete, faraone dall’80 al 51 a.C., nell’atto di sottomettere e uccidere i nemici. Semisommerso in seguito alla realizzazione della diga di Assuan, il monumento, negli anni Settanta del Novecento, fu smontato e quindi ricostruito sull’isola di Agilkia.


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provincia d’Asia, governava adesso anche l’ex regno di Pergamo, lasciatole in eredità nel 133 a.C. dall’ultimo sovrano, Attalo III. Il primo dei tre conflitti combattuti tra le due potenze scoppiò nell’88 a.C. Mitridate scelse il momento in cui Roma era in difficoltà per la rivolta dei soci italici e per i prodromi della guerra civile tra l’aristocratico Silla e i populares di Mario. L’iniziale avanzata del re fu perciò inarrestabile: cacciò via i governator i romani e le loro truppe dall’Asia, e organizzò una spaventosa strage di tutti gli Italici che vi si erano stabiliti per commerciare, lucrare, sfruttare. Si narra che in una sola notte, con tempismo e segretezza incredibili, ben 80 000 Italici furono trucidati con l’appoggio delle popolazioni greche, esasperate dall’oppressione fiscale e politica dei dominatori. Gli eserciti e la flotta del Ponto e dei suoi alleati si riversarono poi oltre l’Egeo, presero Delo liberando e arruolando la massa degli schiavi, e furono infine accolti da Atene e da altre città come i liberatori dell’Ellade. L’Oriente ellenistico si sollevava in rivolta, e Mitridate ne era il campione. Fu per assicurarsi il comando della guerra mitridatica che Silla effettuò la sua «marcia su Roma» contro gli avversari politici, e solo allora poté partire alla volta dell’Oriente (88 a.C.). Ad accoglierlo non trovò il re in persona, ma i suoi generali migliori, con numerose truppe e navi.

l’appello ignorato Dopo averli sconfitti una prima volta sul campo, Silla si accinse ad assediare Atene, che gli resistette accanitamente. Fu un assedio feroce e durissimo per gli Ateniesi, che infine, ridotti alla fame, dopo un anno si arresero. Plutarco racconta che, agli ambasciatori che imploravano clemenza ricordandogli il passato illustre della loro città, Silla rispose che «non era venuto lí ad ascoltare lezioni di storia». Cosí anche la piú illustre polis dell’Ellade fu 102 a r c h e o

abbandonata al saccheggio, il primo dopo i Persiani, da cui non si riprese per decenni. Mitridate, cacciato dall’Europa, preferí accettare la pace provvisoria che Silla – piú preoccupato di rientrare in Italia per sgominare gli avversari che nel frattempo avevano rialzato il capo – gli offrí a Dardano (85 a.C.). Costretto a restituire ai Romani an-

che la provincia di Asia, Mitridate non chinò il capo, e riprese le armi altre due volte: la terza, e ultima, perché anche il sovrano di Bitinia, Nicomede III, aveva lasciato in eredità a Roma il regno, confinante con quello del Ponto (74 a.C.). Alleatosi con il re dell’Armenia Tigrane, Mitridate tenne testa per anni al generale Lucullo, difendendo strenua-


Panticapeo

Tauride (Crimea)

M ar Caspio

Mar N e ro

Dioscurias Sinope

Paflagonia

Macedonia Nicomedia

Efeso

Acaia

Delo

Armavir

Ponto

Ancyra

Armenia

Galazia

Asia Atene

Trapezus

Amazia

Bitinia Pergamo

Mazaka

Licaonia Cappadocia Pisidia Cilicia Licia Antiochia Siria seleucide

Mar

Colchide

Tigranocerta

Atropatene

Partia

Mediterraneo

Regno asmoneo

Cirenaica

Regno tolemaico

mente l’Anatolia; finché, nel 66 a.C., non prese le redini del conflitto Pompeo, che lo costrinse a rifugiarsi nei possedimenti di Crimea. Da lí, quell’irriducibile avversario di Roma, alla quale aveva cercato di opporre un grande impero d’Oriente in cui ellenismo e iranesimo si fondessero – come era negli ideali di Alessandro –, continuò a sognare e a progettare rivincite. Fu infine tradito ed eliminato da uno dei figli, Farnace, che poi si fece «amico e alleato» dei nuovi padroni del mondo (63 a.C.). Da allora in poi, Atene e la Grecia non osarono piú sollevarsi. E fu una donna, dall’Egitto e con altri mezzi, a cercare di mutare il corso della storia. nella prossima puntata • I Greci sotto l’impero romano

In alto: cartina nella quale sono indicati i regni ellenistici e i domini di Roma in Grecia e nel Vicino Oriente costituiti dalle province di Macedonia, Acaia e Asia. Nella pagina accanto: ritatto di Mitridate VI Eupatore, sovrano del Ponto dal 112 al 63 a.C., con pelle leonina. I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. A destra: ritratto del console romano e poi dittatore Lucio Cornelio Silla, 138-78 a.C. I sec. a.C., Monaco, Glyptothek.

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scavare il medioevo Andrea Augenti

Storia di una discarica oggetti buttati via perché rotti e ormai inservibili, avanzi di pasto, scarpe vecchie... da sempre, questo e molto altro finisce in discariche grandi e piccole: accumuli che l’archeologia ha elevato al rango di vere e proprie miniere di informazioni preziose Cattedra decorata in osso inciso, dagli scavi nella cripta di Balbo. Metà dell’VIII sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Crypta Balbi.

G

li archeologi amano gli immondezzai: negli accumuli di rifiuti, infatti, sono racchiuse molte informazioni sui modi di vita della civiltà che di volta in volta li ha generati. E cosí, scavare una discarica, per esempio, spesso significa recuperare i contenitori del cibo spezzati e gettati via, gli avanzi del cibo, oppure oggetti di vario tipo: dalle scarpe agli anelli, dai mobili alle monete, e molto

altro ancora. Se poi la discarica è quella di un’officina artigianale, allora le informazioni riguarderanno anche la produzione, i commerci… Questa è la storia di uno dei ritrovamenti piú importanti della storia dell’archeologia medievale italiana, ed europea: quello di una discarica individuata a Roma, presso il monumento noto come cripta di Balbo. La cripta di Balbo era uno spazio aperto, circondato da portici, annesso al teatro di Balbo (I secolo a.C.). Una sorta di foyer monumentale di uno dei piú importanti edifici per spettacoli della Roma di Augusto.

comincia l’avventura All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso Daniele Manacorda lancia un progetto per scavare questo monumento, e dà il via a una delle avventure piú affascinanti dell’archeologia urbana a Roma. Da allora lo scavo ha portato a risultati molto importanti, con novità che hanno rivoluzionato l’idea stessa del Medioevo, dal punto di vista materiale e non solo. Tra tutte le scoperte, però, spicca proprio il ritrovamento di una discarica del VII secolo, prodotta da una officina artigianale. Negli interri della Cripta sono venuti alla luce centinaia di oggetti

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Da sinistra: altri reperti dalla cripta di Balbo: un modello da fusione in piombo per croce reliquiario; tre applique in bronzo stagnato in forma di cavallino; scacchiera con caselle in osso, pedine in avorio, osso, corno, pietre dure e vetro, dadi in avorio e corno. VII sec. Roma, Museo Nazionale Romano, Crypta Balbi. di vario tipo, tutti prodotti da uno stesso laboratorio. Si trattava di un’officina «polifunzionale», cioè di un luogo in cui lavoravano specialisti di settori differenti. Non una novità, per il Medioevo; ma finora non ne era mai stato trovato un esempio cosí ben documentato. E che cosa producevano, questi artigiani? Di tutto. Oggetti in metallo di varia natura, per cominciare. Accessori dell’abbigliamento: fibbie, spille, spilloni, ornamenti per cinture; elementi da applicare sui colletti inamidati dei vestiti delle donne (chiamati con il termine greco maniakia); gioielli: orecchini, anelli, collane; finimenti per i cavalli; e poi oggetti legati alla sfera religiosa, come croci da portare al collo, dotate di un alloggio per custodire una piccola reliquia; elementi per armi e per scudi. E ancora, oggetti in avorio, osso e – probabilmente – legno: scacchiere, pedine, spilloni per capelli, scatole decorate. E mobili: sono stati trovati perfino i resti di un trono, che doveva avere una struttura in legno rivestito da placchette in osso decorate. Fabbri, orefici, intagliatori, falegnami… Un universo di artigiani, che possiamo immaginare intenti al lavoro solo grazie a questo fortunato

ritrovamento. Ma chi era riuscito a riunirli tutti insieme, nel VII secolo, cioè il momento peggiore dell’economia tardo-antica? Molto probabilmente l’officina dipendeva da un monastero, quello di S. Lorenzo in Pallacinis, accanto al quale doveva trovarsi. La scoperta, quindi, prima di tutto ci conferma qualcosa che in parte già sapevamo: già verso la fine del mondo antico, i monasteri diventano centri di produzione importanti, capaci di coagulare attorno a sé il lavoro dei migliori (pochi) artigiani ancora in circolazione.

un nuova aristocrazia Ma non è l’unica informazione che ci viene consegnata. Chi erano i destinatari di questa produzione? Innanzitutto i Romani, ovviamente. In questo periodo a Roma sta prendendo forma un nuovo ceto dirigente, dopo l’esaurimento della classe senatoria: una nuova aristocrazia, militare ed ecclesiastica. L’officina rifornisce questi nuovi attori sociali con gli adeguati segni di distinzione. Ma non é tutto. Lo studio dei materiali,

condotto da Marco Ricci, ha rivelato che alcuni degli stampi per la fabbricazione dei manufatti in metallo sono gli stessi che hanno prodotto oggetti ritrovati nei cimiteri di Nocera Umbra e Castel Trosino. E questo è un dato di grandissima importanza, perché dimostra ben due cose. Innanzitutto, che in quest’epoca i membri delle piú alte fasce sociali sembrano perseguire ideali di distinzione simili tra loro, vogliono cioè accessori e armi dello stesso tipo, indipendentemente dal fatto che agiscano in territori dominati dai Longobardi o dai Bizantini; o – quanto meno – si riforniscono presso le stesse officine. E poi, lo stesso ritrovamento dimostra che quando si trattava di commerci, le frontiere si aprivano senza problemi per lasciare passare mercanzie e mercanti. Insomma, quella del VII secolo non era un’Italia a compartimenti stagni; o almeno non sempre. La storia dell’officina della cripta di Balbo finisce d’improvviso, dall’oggi al domani: in uno scenario quasi degno di Pompei, oggetti finiti, scarti, attrezzi, vengono gettati via tutti insieme. Come mai? Perché un epilogo cosí repentino? Evidentemente la decisione di chiudere la produzione fu presa in gran fretta, senza possibilità di recupero degli oggetti; non conosceremo mai le ragioni di tale scelta, ma una cosa è certa: grazie a quella decisione è cambiata moltissimo la nostra conoscenza delle tecniche di produzione, degli oggetti, nonché del panorama economico e politico dell’Italia del VII secolo.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

Comfort cavernicoli Il cortile, inteso come spazio scoperto, delimitato e annesso a un edificio in cui poter esercitare attività all’aperto, è un elemento diffuso anche negli insediamenti rupestri. la sola differenza consiste nell’essere scavato e non costruito

È

pensiero comune definire «cavernicoli» gli abitanti di strutture rupestri, con ciò intendendo comunità arretrate che, in un passato anche recente, vivevano in condizioni primitive. Tuttavia, le ricerche condotte negli ultimi cinquant’anni su un’ampia varietà di architetture sotterranee prodotte «per sottrazione» di masse rocciose mostrano come tali strutture permettessero un confortevole livello di vita, ed erano spesso frutto di soluzioni tecniche sorprendenti e ingegnose. Nell’architettura tradizionale, cioè costruita in superficie, i cortili (o corti) sono il cuore dell’edificio: intorno a essi si sviluppa la struttura e si svolge la vita dei suoi occupanti e frequentatori. In maniera simile, pur con ovvie differenze di realizzazione, questo elemento architettonico si ritrova anche negli insediamenti ipogei. Ne sono un esempio gli insediamenti rupestri «a corte», costituiti da vani scavati in orizzontale nelle rientranze di pareti rocciose naturali o parzialmente adattate e rettificate, oppure totalmente scavate dall’uomo.

monasteri come pozzi In Cappadocia (Turchia centrale) la tipologia piú comune è quella della «corte aperta», cioè di uno spazio racchiuso dalle pareti di roccia soltanto su tre versanti, mentre il quarto lato è aperto verso l’esterno. Si tratta in genere di complessi monastici di epoca bizantina. Viceversa, in questa stessa area

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Eski Gümüs (Turchia), X-XI secolo d.C. Il complesso monastico si sviluppa intorno a una grande corte scavata nella roccia. sino a oggi è noto soltanto un monastero rupestre (Eski Gümüs), realizzato intorno a una «corte a pozzo». In questo caso il cortile è chiuso su tutti i lati, scavato a cielo aperto partendo dal piano sommitale di una falesia e procedendo in senso verticale, verso il basso. Ne risulta uno spazio profondo 12 m, a pianta quadrangolare, assimilabile appunto a un pozzo, delimitato dalle pareti verticali della roccia asportata, al cui interno sono stati ricavati i vani ipogei propriamente detti, distribuiti su quattro livelli, tra cui una chiesa con colonne, volte a cupola e magnifici dipinti. Altrove sono assai numerose le

strutture rupestri «a corte chiusa» d’uso abitativo, come le case a pozzo di Matmatah, in Tunisia, di norma a pianta circolare, in parte ancora abitate. In vaste regioni della Cina si stima che circa 30 milioni di persone vivano in case scavate «a corte chiusa», a pianta quadrangolare: il suolo (loess) facile da lavorare e le condizioni di inerzia termica, unitamente al basso costo della manodopera, rendono tutt’oggi economica la realizzazione di edifici rupestri (non solo «a corte») usati anche come scuole, ospedali e biblioteche. A differenza delle strutture rupestri «a corte», in quelle «a trincea» non è stato asportato l’intero volume


corrispondente al cortile, ma è stata realizzata una sorta di corridoio perimetrale che, per risparmio della roccia, ha isolato al centro un blocco monolitico. Il monolite, a sua volta, è stato scavato all’interno per ottenere un vano ipogeo, e scolpito all’esterno per riprodurre elementi architettonici a imitazione di quelli degli edifici in muratura. Il monumento funebre di Zaccaria (fine del I secolo a.C.), nella valle del Kidron, presso Gerusalemme, è

una struttura «a trincea aperta», quindi scavata solo su tre lati che si inoltrano nella parete di una falesia.

Culti in trincea Straordinario è il gruppo di undici «pozzi» contenenti le chiese fatte costruire dal re Lalibela (XII-XIII secolo), nell’omonima città, in Etiopia, ricavate all’interno dei rispettivi monoliti centrali, risparmiati nello scavo di «trincee

Gerusalemme, Valle del Kidron. Il monumento sepolcrale di Zaccaria venne scavato alla fine del I secolo a.C. tramite una «trincea aperta» nel fianco roccioso della montagna.

chiuse» su tutti i lati che sprofondano sotto il tavolato roccioso. Ancor piú impressionante è il tempio di Kailasa, scavato nell’VIII secolo nelle colline tufacee di Ellora, nel Deccan (India meridionale), in un gigantesco blocco monolitico circondato da una trincea chiusa, profonda 30 m, riccamente scolpito con guglie, festoni, cornicioni e statue di leoni, a imitazione delle coeve strutture induiste costruite in muratura.

Lalibela, Etiopia. La chiesa di Bet Giyorgis (San Giorgio), del XII-XIII secolo d.C., è un significativo esempio di edificio rupestre realizzato «a trincea chiusa».

Modelli di strutture rupestri a corte

con strutture scavate sui lati della corte

a trincea

con struttura monolitica al centro

3. a trincea aperta

1. a corte aperta

2. a corte chiusa (o a «pozzo»)

roccia viva

4. a trincea chiusa

vani sotterranei

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divi e donne Francesca Cenerini

mogli e buoi... L

a principessa giudaica Berenice era figlia del re Agrippa I di Giudea, della famiglia degli Erodi, morto durante il principato dell’imperatore Claudio. Come tutte le donne del suo rango, anche Berenice era stata oggetto di una politica matrimoniale di ampia portata: era stata sposata in prime nozze con Marco Giulio Alessandro, fratello del prefetto della provincia d’Egitto, Tiberio Giulio Alessandro, che ebbe un ruolo di rilievo nell’ascesa al potere di Vespasiano; poi con il fratello del padre, Erode, re di Calcide; successivamente, si uní al re della Cilicia, Polemone. Già da tempo la famiglia di Berenice aveva optato per una politica filoromana, come attestano alcune iscrizioni in cui Agrippa II, suo fratello, e Berenice sono onorati come rex magnus e regina, accanto ai significativi appellativi di Philoromaeus e Philocaesar, «amico dei Romani» e «amico dei Cesari».

virtú pubbliche e vizi privati Lo storico e generale ebreo Giuseppe Flavio (37-95 d.C. circa) ci rappresenta la regina sotto una luce favorevole, quando a Gerusalemme Berenice tenta di opporsi alle Incisione ottocentesca raffigurante la regina Berenice. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs.

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originaria della giudea, la principessa berenice ammaliò tito, figlio di vespasiano, tanto che questi la volle con sé a roma, nel palazzo imperiale. ma la loro storia s’interruppe bruscamente, in ossequio a ragioni di stato e di purezza dinastica


violenze dei soldati romani, facendo appello al procuratore Floro (La guerra giudaica, 2, 15, 309-314). Altre iscrizioni attestano che la basilissa Berenice si era impegnata in attività evergetiche a sostegno dell’edilizia cittadina, per esempio a Berytus (l’odierna Beirut). Le fonti parlano anche di un rapporto incestuoso tra Berenice e il fratello Agrippa II: è caustico Giovenale, quando, nella VI Satira (156-160), scrive che il barbaro Agrippa avrebbe regalato alla sorella un prezioso diamante, simbolo del lusso amorale che li avrebbe circondati. Flavio Giuseppe è piú circostanziato: «Berenice, dopo la morte di Erode (...), visse a lungo come vedova; ma quando si sparse la voce che lei avesse legami con il fratello, lei indusse Polemone, re della Cilicia, ad accettare la circoncisione e prenderla in moglie. Lei pensava che in questo modo avrebbe dimostrato la falsità di tali voci; ma Polemone era mosso soprattutto dalla ricchezza di lei. Il matrimonio non durò a lungo perché Berenice, a quanto si diceva, per sfrenata licenziosità, abbandonò Polemone; e per lui lo scioglimento del matrimonio e l’abbandono dei costumi giudaici fu tutt’uno» (Antichità giudaiche, 20, 145-146). In occasione dell’ascesa al potere di Vespasiano, Tacito ci informa su quali furono i partigiani del futuro imperatore, tra i quali cita proprio la regina Berenice, «nel fiore dell’età e della bellezza, e gradita anche al vecchio Vespasiano per la magnificenza dei suoi doni» (Historiae, 2, 81, 2).

incontro fatale Sappiamo dalle fonti che Berenice giunse a Roma nel 75 d.C. Il figlio di Vespasiano, Tito, l’aveva conosciuta mentre si trovava in Giudea, negli anni 67-70 d.C. Infatti, nel 67 d.C., suo padre era stato mandato da Nerone ad assumere il comando delle legioni romane impegnate a combattere la ribellione dei Giudei. Tito, che all’epoca doveva avere circa 28

anni, fu incaricato di portare la XV legione Apollinare da Alessandria d’Egitto alla Giudea. Il padre Vespasiano lo inviò quindi ad Antiochia per accordarsi con Caio Licinio Muciano, il governatore della provincia di Siria e, in quanto tale, responsabile della Giudea: una missione svolta con successo, tanto che Muciano appoggiò Vespasiano nella successione al potere di Nerone. Nel 69 d.C. Tito rimase in Giudea per domare definitivamente la rivolta, cosa che accadde l’anno successivo: Gerusalemme fu saccheggiata e il Tempio fu distrutto. Nelle Historiae (2, 2, 1), Tacito parla della reciproca attrazione tra Tito e Berenice, sebbene il futuro imperatore fosse molto piú giovane della donna: il principe sarebbe stato «acceso dal desiderio della regina Berenice», alla quale «non dispiaceva il suo ardore giovanile». Le fonti concordano nell’affermare che, dopo la caduta di Gerusalemme per opera dello stesso Tito, Berenice era andata a vivere con lui a Roma, e che il futuro imperatore si era impegnato a sposarla. Lo storico di età severiana Cassio Dione (66, 15, 4) descrive la situazione: Berenice alloggiava nel Palatium imperiale e stava insieme a Tito. Dione continua la sua narrazione dicendo che le aspettative della regina erano alte, tanto è vero che pensava che si sarebbero sposati e, pertanto, si comportava come se fosse stata già sua moglie. Ma quest’ultima notazione mi pare alludere al consueto stereotipo narrativo della concubina che si comportava da vera moglie, sulla falsariga del modello già rappresentato da Antonia Cenide e da Vespasiano. Dione, però, riferisce anche una cosa molto importante: Tito si era anche reso perfettamente conto che i Romani erano contrari (lo storico parla di vero e proprio disgusto) a questa convivenza more uxorio e aveva perciò allontanato la regina. Infatti, cosí come aveva permesso a

Tito di portare a Roma Berenice, Vespasiano dovette intervenire sul figlio affinché questi allontanasse l’ambiziosa regina straniera, la cui figura era tutt’altro che popolare a Roma; e, a tutt’oggi, non è ancora chiarito il coinvolgimento della regina nella lotta politica che Tito avrebbe dovuto intraprendere contro il fratello Domiziano (ma anche su questo gli studiosi discutono) per mantenere il suo potere come erede designato del padre. Conseguentemente, con l’avvento al potere dello stesso Tito (24 giugno 79 d.C.), egli dovette allontanare Berenice. Svetonio parla espressamente (Vita di Tito, 7, 4) di «ragione di Stato», in quanto tale allontanamento si sarebbe verificato contro la volontà di entrambi, Tito e Berenice.

precedenti infausti Ci si può interrogare sulle molteplici motivazioni della rinuncia di Tito a Berenice: va senz’altro calcolata la diffusa ostilità dell’aristocrazia senatoria nei confronti delle regine straniere, che godevano di cattiva fama, a cominciare dagli infausti precedenti, mitici, cioè Didone regina di Cartagine, e storici, nel caso della regina egiziana Cleopatra. Tuttavia, non vi erano ostacoli giuridici e formali a un eventuale matrimonio con Tito, in quanto Berenice discendeva da una famiglia che aveva ottenuto la cittadinanza romana da lungo tempo. Il problema, però, nasceva dalla sua fede giudaica, che, indubbiamente, le alienava la simpatia del popolo di Roma. Inoltre, i figli di un eventuale matrimonio fra Tito e Berenice sarebbero stati, secondo la legge ebraica, ebrei, e questo non poteva essere tollerato per il principe al potere. A partire da Augusto, alle Augustae, cioè alle mogli degli imperatori, si chiedeva di partorire un erede legittimo del princeps che sarebbe dovuto succedere al padre in un’ottica dinastica di trasmissione dello stesso potere imperiale.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Il cielo in una moneta il Sole compare di frequente nelle emissioni romane dell’età repubblicana, inserito in composizioni di particolare interesse

C

B

A

L

a radiosa immagine del Sole raffigurato di fronte, tipica dell’iconografia monetale del mondo greco e del bacino mediterraneo, doveva essere ben conosciuta ai Romani, i quali subito l’usarono per le loro prime coniazioni targate «Roma». Il volto del dio incoronato da una raggiera che ne tratteggia gli strali di fuoco compare infatti già nella serie semilibrale databile al 217-215 a.C. Il nominale è l’oncia, contraddistinta sui due lati da un

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In alto, sulle due pagine: denario di L. Lucretius Trio. Zecca di Roma, 76 a.C. Al dritto (C), testa del Sole radiato. Al rovescio (D), crescente lunare circondato da sette stelle; in basso L. LUCRETI e, sopra la Luna, TRIO. A sinistra: serie semilibrale di Roma. Oncia, 217-215 a.C. Al dritto (A), busto con manto del Sole; sulla sinistra, un globetto. Al rovescio (B), un crescente, sormontato da un globetto tra due stelle; sotto, legenda ROMA. globetto che ne indica il valore; al dritto campeggia il busto del Sole radiato, e, sull’altro lato, un crescente lunare con due stelle, con legenda ROMA. Il busto si ispira a quello adottato nella monetazione greca, innovato però dall’enfasi data alla raggiera solare, che diverrà la corona radiata degli imperatori in speciali occasioni di rappresentanza. Nell’iconografia monetale imperiale la testa cosí coronata del regnante fu utilizzata a partire da Nerone, per indicare

dapprima il dupondio e poi l’antoniniano, introdotto da Caracalla. Il rovescio dell’oncia è elegante nella sua linearità, componendo una rappresentazione sintetica del cosmo riassunta in un tondello, con sole, luna e stelle, mentre il globetto, oltre a essere il pragmatico segno di valore, potrebbe anche simboleggiare i pianeti.

Le sette stelle In età repubblicana diversi monetari scelgono tipi analoghi, collegando le assonanze dei loro nomi con lo spazio celeste. Una tipologia con riferimento addirittura astronomico è adottata da Lucius Lucretius Trio, il quale emise, nel 76/75 a.C., un bel denario su cui l’esaltazione del nome della gens del magistrato monetario si ricollega agli astri, segno anche della diffusione di tale scienza a livelli popolari. Al dritto campeggia il volto apollineo del Sole coronato da raggi, mentre al rovescio si staglia centrale la Luna, sempre raffigurata come crescente. Il nome Lucius derivava da lux, «luce», e si riferisce quindi anche agli astri che danno luce di giorno e di notte. Quasi enigmistica è la


Qui accanto: Denario di C. Coelius Caldus. Zecca di Roma, 53 a.C. Al dritto (E) Testa di C. Coelius Caldus e, dietro, tavoletta con L·D. C. COELIUS CALDVS COS. Al rovescio (F), testa radiata del Sole tra due scudi; CALDVS IIIVIR.

D

composizione del rovescio, una sorta di sciarada astronomica fondata sul cognome Trio (il lemma latino trio, trionis, indica il bue da lavoro) e le sette stelle intorno alla luna. Queste infatti rappresentano la costellazione dell’Orsa Maggiore con l’asterismo del Gran Carro, chiamato dai Romani anche Septem triones, ovvero i «sette buoi» per le sue sette stelle sempre brillanti, nome da cui deriva l’italiano «settentrione». Lo stesso tipo fu poi ripreso dal magistrato P. Clodius, del collegio dei quattuorviri del 42 a.C. a simbolo di una nuova età di splendore legata alla pace e alla concordia auspicata dal secondo triumvirato, composto da Ottaviano, Marco Antonio e Lepido.

Assolto o condannato? Il Sole nasce a est e la sua immagine può significare, insieme a un generale segno di vittoria e buon augurio, anche l’Oriente. Con tale duplice significato il monetario C. Coelius Caldus riporta sui suoi denari, al rovescio, la testa radiata del Sole, affiancata da due piccoli scudi: uno scutum oblungo decorato da un fulmine e l’altro,

E

invece, rotondo, del tipo detto «macedone», forse a ricordare vittorie riportate in Oriente, probabilmente da un avo della famiglia. Ma potrebbe anche trattarsi di un ritratto parlante che gioca sul nome del monetiere ravvicinandolo al calore (Caldus) irradiato dal sole nel cielo (Coelius). Sul dritto si staglia un vivido profilo, di grande forza espressiva e ispirato certo da un ritratto scultoreo, raffigurante forse il nonno o il padre stesso del monetiere, il console C. Coelius Caldus. Costui, durante il suo tribunato delle plebe, nel 107 a.C., istituí la Lex Coelia Tabellaria, una norma rivoluzionaria che introduceva il voto segreto nei giudizi di perduellio (delitto contro lo Stato, alto tradimento), garantendo cosí la libertà di pensiero dei giurati. La scelta dei votanti avveniva non piú palesemente, bensí inserendo una tabella con L (libero,

F

«assolvo») o D (damno, «condanno») entro un’urna, senza rendere pubblica la propria scelta. Interessante è il confronto tra i due stili delle teste: quella del Sole, legata a modelli di stampo ellenistico, adatti per un dio, e quella del console, volitiva e vivida, di quel tipico realismo che contraddistingue i rudi e fieri volti di quegli uomini politici che vissero gli ultimi eventi della Roma repubblicana. (2 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Daniele Manacorda e Silvia Pallecchi (a cura di)

Le fornaci romane di Giancola (Brindisi) Edipuglia, Bari, 552 pp., ill. col. e b/n 80,00 euro ISBN 9788872286401 www.edipuglia.it

Il volume corona un progetto di ricerca nato alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso (per impulso del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena, d’intesa con la Soprintendenza Archeologica della Puglia e il Museo Archeologico Provinciale «Francesco Ribezzo di Brindisi») e condotto nel comprensorio di Brindisi. L’indagine ha portato all’individuazione e allo scavo di un importante insediamento artigianale a ovest dell’antica Brundisium, in località Giancola, nonché alla sua contestualizzazione topografica e al suo inserimento nel sistema economico della regione in età romana. L’esistenza di impianti per la produzione di

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anfore presso la collina di Giancola, a breve distanza dalla costa e nei pressi di un corso d’acqua e di un importante asse stradale, era da tempo indiziata dal rinvenimento di bolli anforari. La prima parte dell’opera è dedicata ai risultati dello scavo stratigrafico, articolatosi in tre campagne dal 1988 al 1990. L’attività sul campo ha interessato non soltanto l’area delle strutture produttive, ma anche la contigua collina venutasi a formare con l’accumulo degli scarti ceramici. Le indagini hanno portato alla scoperta di un complesso di fornaci, la cui vita produttiva sembra avere conosciuto, tra i decenni iniziali del I secolo a.C. e il primo secolo dell’impero, tre fasi fondamentali. Nel primo periodo le grandi fornaci in uso (due rettangolari affiancate e una circolare) producevano esclusivamente, su grande scala, anfore vinarie e olearie; le strutture si aprivano, a loro volta, su corti simmetriche, in cui si è ipotizzato operassero vasai e fornaciai. Tali impianti, ancora in uso nella seconda fase, vengono nel periodo finale dismessi, contestualmente all’attivazione di una fornace piú piccola. L’analisi delle fornaci introduce quindi all’esame delle diverse categorie di manufatti fabbricati a Giancola, a partire dalle anfore da trasporto, con il loro

imponente corredo epigrafico. L’analisi tipologica è ancorata al dato stratigrafico e all’informazione testuale ricavabile dai bolli, permettendo di fissare cronologicamente la successione ed evoluzione delle forme. Le fornaci producevano anche, a partire dalla seconda fase, altre categorie di manufatti fittili (grandi contenitori, laterizi e terrecotte architettoniche, ceramica comune), prevalentemente destinati al mercato locale o regionale. L’analisi delle produzioni ceramiche è accompagnata, infine dallo studio dei processi produttivi e dalla stima dei presumibili carichi delle tre fornaci maggiori. L’attenzione si sposta quindi all’analisi nel dettaglio dei bolli anforari (impressi sulle anse) e alla definizione dei punzoni dai quali sono state ricavate le impronte. Gli oltre 1500 bolli (realizzati mediante almeno 86 diverse matrici) rappresentano, senza dubbio, una delle principali fonti documentarie utilizzate per la ricostruzione della vita dell’insediamento. L’esame congiunto della provenienza stratigrafica delle impronte, del loro apparato epigrafico e della tipologia stessa dei contenitori ha permesso di assegnare con relativa certezza alle due principali fasi produttive i materiali rinvenuti. I bolli hanno, nel complesso, restituito i nomi di 8/9 individui di condizione libera e di

una trentina di probabili schiavi. La prima fase di attività corrisponde a quella di massima diffusione areale delle anfore brindisine nel bacino mediterraneo. Tra la fine del II e la prima metà del I secolo a.C., il proprietario delle strutture produttive è certamente quel Visellio il cui nome ricorre su oltre 230 impronte. A lui dovevano peraltro fare capo le vicine fornaci di Marmorelle, rientranti, con quelle di Giancola, in un’unica vasta proprietà fondiaria. L’attività manifatturiera di Visellio, documentata peraltro anche nei pressi di Lecce, va pertanto letta, con probabilità, in diretta connessione con una produzione intensiva di vino e olio all’interno del fundus. Gli elementi cronologici a disposizione hanno portato a identificare (o comunque a mettere in diretta relazione familiare) il produttore di Giancola con un membro di una rilevante famiglia originaria di Arpinum (Lazio meridionale), Gaio Visellio Varrone, cugino per parte di madre di Cicerone, che sappiamo essere morto (dopo aver ricoperto l’edilità) nel 58 a.C. Attraverso i bolli, veniamo poi a conoscere numerosi schiavi (25 o 26) alle dipendenze di Visellio; a essi era affidata la gestione delle fornaci, con compiti di responsabilità su singole unità produttive. Notevole, a questo proposito, l’apporto conoscitivo fornito


dai dati onomastici: in molti casi è possibile infatti definire l’origine geografica dei servi, provenienti anche da regioni molto lontane dell’Oriente mediterraneo, quali l’Anatolia e l’Armenia. La seconda fase produttiva, dopo un periodo di stasi verso la metà del I secolo a.C., è segnata da un profondo cambiamento nell’organizzazione degli impianti e della produzione. Nei decenni finali del I secolo a.C. la gestione delle fornaci sembra passare nelle mani di due liberti, Gneo Petronio Sostrato e Lucio Marcio Saturnino, attorno ai quali gravitano alcuni altri liberi e un ristretto numero di schiavi. In questo periodo le fornaci diversificano gradualmente la produzione ceramica, non limitata alla sola fabbricazione di anfore; si assiste parallelamente a una sensibile contrazione quantitativa e areale delle esportazioni, che raggiungono ormai soltanto l’Italia settentrionale. Lo scavo ha permesso, infine, di seguire la vita degli impianti ancora nella prima età imperiale, periodo nel quale a Giancola si produceva esclusivamente ceramica comune destinata al mercato locale. Il volume, accurato nella veste grafica e opportunamente illustrato (anche con suggestive ricostruzioni ideali), accompagna il lettore attraverso le varie fasi che scandiscono la storia

del sito artigianale. Il racconto dello scavo, declinato attraverso l’esame delle sue diverse componenti, non perde mai di vista il suo fine ultimo: quello di costituire un punto di riferimento e una chiave interpretativa privilegiata per la ricostruzione della storia stessa di Brundisium e del suo territorio tra la tarda repubblica e l’età augustea; si tratta, in particolare di un periodo che vede la regione non soltanto oggetto di profonde trasformazioni politico-sociali, ma al contempo fulcro di una intensa vita economica che si caratterizza per la sua «prospettiva mediterranea». David Nonnis Vittorio H. Beonio Brocchieri

CELTI E GERMANI La nazione e i suoi antenati

EncycloMedia, Milano, 320 pp. 22,50 euro ISBN 978-88-97514-09-1 www.encyclomedia.it

«Parlare dei Celti è imprudente (...) però può essere divertente». E lo è. Vittorio H. Beonio Brocchieri lo dimostra in 270 pagine che scorrono agili e che, senza mai abbandonare l’analisi storica dei fatti, trascinano il lettore in un viaggio intorno a un tema che da sempre si presta alle piú svariate – e fantasiose – interpretazioni. Ma cosa ha a che fare il mito delle ascendenze galliche con il complesso rapporto tra borghesia industriale e nobiltà feudale nella Francia del

XIX secolo? I Franchi, di stirpe germanica, sono stati invasori estranei alla cultura locale, o antenati, discendenti dal comune ceppo celtico? E come si inserisce la ricerca di radici troiane e noachidi nelle rivendicazioni di una tradizione autonoma nei confronti dei popoli latini? Perché, infine, l’invenzione dei Celti ha rappresentato un escamotage per definire le minacce esterne al mondo anglosassone? Sono, queste, solo alcune delle domande a cui l’autore risponde, evitando la trappola delle soluzioni precostituite durante secoli di storia e di travagliate vicende politiche. Il volume si articola in due parti, rispettivamente dedicate alla Francia e all’Inghilterra. Il perché di questa scelta, è l’autore stesso a dircelo, è la grande valenza simbolica che le popolazioni celtiche (e il loro mito) hanno avuto nella storia e nella costituzione dei due stati-nazione. Vediamo, dunque, come «l’irruzione dei Galli, dei Celti, nella storia francese non è infatti che un

capitolo, forse quello piú significativo e complesso, di un profondo rimaneggiamento della memoria storica su scala europea, avvenuto con modalità, tempi ed esiti diversi nei vari contesti, ma con una logica sottostante tutto sommato unitaria». Oppure, nel caso anglosassone, ecco che «la costruzione dei Celti (...) consentiva di riunire, sia pure con molte approssimazioni, e di attribuire un fondamento naturale a tutto ciò che veniva avvertito come unenglish». In entrambi i casi, quello francese e quello inglese, l’esistenza di questi reali o presunti antenati è stata metabolizzata in un incessante lavoro di recupero in funzione legittimante di assetti politici e sociali, fino in tempi recenti. Non da ultimo, è da notare come a questo patrimonio leggendario abbiano attinto a piene mani classi sociali e ideologie anche contrapposte tra di loro (vedi, nel caso francese, la sinistra «gallica» nazionalista che si oppone alla destra germanofila internazionalista). Sottolinea inoltre l’autore, come i processi storici consumatisi sulle due sponde della Manica, che hanno portato a riconsiderare la memoria dei Franchi e dei Celti, abbiano avuto esiti opposti (la Francia repubblicana si identifica con i Galli, mentre gli Inglesi epurano i Britanni dalla memoria nazionale). Giorgio Rossignoli

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