2013
latomba regolini-galassi vulci il patrimonio ritrovato
antica cina / 9 tang
speciale caligola
€ 5,90
Mens. Anno XXIX numero 10 (344) Ottobre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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archeo 344 ottobre
caligola
la trasgressione al
potere
MUSEI VATICANI
I MISTERI DI UNA TOMBA ETRUSCA
CINA
L’ETÀ D’ORO DEI TANG
gerusalemme
il tesoro DEl tempio
VULCI
IL PATRIMONIO RITROVATO
www.archeo.it
editoriale
il patrimonio ritrovato
In un libro pubblicato cinque anni fa, ma ancora attualissimo (I predatori dell’arte perduta, Skira 2009), Fabio Isman offre una straordinaria ricostruzione delle vicende che, a partire dai primi anni Settanta, hanno dato vita a un fenomeno criminale dalle dimensioni inaudite: quello del saccheggio del patrimonio archeologico italiano, perpetrato da decine di migliaia di tombaroli, intermediari e mercanti internazionali, a danno di altrettanti siti archeologici, sistematicamente violati e devastati. Il numero complessivo dei reperti trafugati, tra opere minori e capolavori assoluti, non si conta: sono milioni e milioni. Il traffico clandestino di antichità – insieme a quello delle armi e della droga una delle tre grandi economie sommerse internazionali – non è certo circoscritto all’epoca in cui viviamo (invitiamo i nostri lettori a sfogliare il numero monografico di «Archeo» attualmente in edicola, intitolato «La Grande Razzia»), né al nostro Paese: basti pensare a quanto è accaduto, in anni recentissimi, durante l’invasione dell’Iraq o a quanto si sta verificando, in questi mesi, nei siti archeologici della Siria. In Italia, però, tra gli anni 1995 e 2005, si assiste a una vera e propria controffensiva, che ha come protagonisti la Procura di Roma, il Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale e, naturalmente, gli archeologi. Con, sul piano immediato, un risultato clamoroso: viene scoperto e smantellato quello che sarà poi definito un vero e proprio «supermarket dell’archeologia», luogo di raccolta e di smistamento dei reperti giunti dagli scavi clandestini perpetrati nel nostro Paese. In seguito, numerose opere torneranno in Italia. Alcune, come il celeberrimo cratere di Eufronio o la Venere di Morgantina, sono ben note ai nostri lettori. Altre possiamo ammirarle nella bellissima mostra allestita nel castello di Vulci (vedi l’articolo alle pp. 42-52). Il castello rappresenta, di per sé, un luogo di suggestione straordinaria: la sua struttura domina il grande Parco archeologico naturalistico di Vulci, una delle aree piú direttamente interessate, in passato, dagli scavi clandestini. Al nostro collaboratore Carlo Casi, responsabile del Parco di Vulci e profondo conoscitore della Maremma etrusca, abbiamo chiesto se, secondo lui, la razzia dei beni archeologici sia stata sconfitta: «Possiamo affermare – ci ha risposto – che si è un po’ raffreddata. Le vicende culminate nelle rivelazioni documentate dalla mostra hanno, sicuramente, creato qualche scompenso, anche sul piano della ricettazione dei reperti scavati clandestinamente. Per contro, la crisi economica esaspera anche gli animi dei tombaroli e, dunque… Insomma, non dobbiamo abbassare la guardia: il traffico clandestino è un fenomeno destinato a continuare». In un altro luogo-simbolo dell’archeologia, sulle sponde del piccolo lago di Nemi, nei pressi di Roma, un’imponente scultura marmorea adorna da qualche mese le sale del Museo delle Navi Romane: già nelle mani degli scavatori clandestini, è stata salvata, nel 2011, grazie all’intervento della Guardia di Finanza. Benché priva della testa, è molto probabile che raffiguri l’imperatore Caligola. Che a questo luogo, come spieghiamo nello speciale di questo numero (vedi alle pp. 74-95), era particolarmente legato… Andreas M. Steiner
Sommario Editoriale
Il patrimonio ritrovato
3
di Andreas M. Steiner
Attualità
la notizia del mese A chi apparteneva il tesoro aureo scoperto sotto il Monte del Tempio a Gerusalemme?
restauri
Alla scoperta dei carri nascosti 6
di Andreas M. Steiner
notiziario
8
scavi Sull’Île de la Cité, nel cuore di Parigi, scavi condotti presso la cattedrale di Notre-Dame offrono dati preziosi sulla storia piú antica della capitale francese
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parola d’archeologo Perché la recente legge sulla valorizzazione dei parchi archeologici è rimasta inapplicata? Risponde Francesca Ghedini
musei Riapre il Museo Provinciale Archeologico di Salerno, con un allestimento integrato da un ricco apparato multimediale 16
di Adriana Emiliozzi e Maurizio Sannibale
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42 mostre
I predatori dell’arte al museo di Vulci
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di Carlo Casi
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civiltà cinese/9
Tang, l’età dell’oro 14
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di Marco Meccarelli In copertina statua in marmo dell’imperatore Caligola. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Anno XXIX, n. 10 (344) - ottobre 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.
Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Adriana Emiliozzi è ricercatore associato presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ISMA) del C.N.R. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giuseppina Ghini è direttore del Museo delle Navi Romane di Nemi. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Luna Michelangeli è archeologa. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Maddalena Reni è giornalista. Laura Romagnoli è architetto. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Maurizio Sannibale è Curatore del Museo Gregoriano Etrusco, Musei Vaticani. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: p. 68; G. Nimatallah: copertina e p. 78; G. Dagli Orti: pp. 66/67, 73 – Ouria Tadmor/Hebrew University of Jerusalem: pp. 6-7 – Denis Gliksman/Inrap: pp. 8-9 – Cortesia SBA Umbria: pp. 10, 11 (basso) – Cortesia SBA Marche: p. 11 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 12, 16 (sinistra) 42-52, 86, 88, 89, 92, 93 – © Gianni Alvito Teravista: p. 14 – Gaetano Guida-Settore Musei e Biblioteche della Provincia di Salerno: p. 16 (destra) – Musei Vaticani: pp. 28 (alto, in primo piano), 30 (alto e basso), 34, 35 (sinistra: alto, centro e basso), 36-41 – Etruscanning: pp. 28 (alto, sfondo; e basso, sinistra e destra) – Doc. red.: pp. 30 (centro), 59 (basso), 61, 62 (basso), 64, 70-71, 76 (centro), 79 (alto), 100, 108, 109, 110, 111 – Foto Scala, Firenze: p. 35 (basso, a destra); su concessione MiBAC: p. 31 – Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale/CNR-ITABC: p. 32 (alto) – Allard Pierson Museum/Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale/Musei Vaticani/CNR-ITABC/Visual/EVOCA: p. 32 (basso) – Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale/Musei Vaticani/CNR-ITABC/Visual/EVOCA: p. 33 – Shutterstock: pp. 54/55, 60/61, 104/105, 110/111 (sfondo) – Corbis Images: Royal Ontario Museum: pp. 56, 57 (alto); Christie’s Images: p. 59 (alto); Imaginechina: p. 63; National Geographic Society: p. 82; Michael Nicholson: p. 87 – Bridgeman Art Library: pp. 57 (basso), 62 (alto), 72, 74/75, 76 (basso), 85 – Mondadori Portfolio: Picture Desk Images: pp. 58, 69, 98 (destra e basso); Album: pp. 79 (basso), 81; AKG Images: pp. 80, 94/95, 97, 98 (alto), 102/103 – Marka: Shigeki Tanaka: p. 65 (sinistra); Best View Stock: p. 65 (destra) – Da Caligola. La trasgressione al potere (catalogo della mostra), Roma 2013: p. 84 – Marco Bonino: ricostruzione virtuale a
Rubriche
mitologia, istruzioni per l’uso/8 Una perfetta macchina da guerra
66
di Daniele F. Maras
scavare il medioevo
L’Europa dei castelli 104 di Andrea Augenti
l’ordine rovesciato 66 delle cose
Minatori preistorici 106 di Andrea De Pascale
divi e donne
Le sventure di Giulia 108 di Francesca Cenerini
l’altra faccia della medaglia
Sul carro del Sole
110
di Francesca Ceci
libri
112
speciale storia dei greci/24 Fine o rivincita?
96
Caligola. La trasgressione al potere di Giuseppina Ghini
di Fabrizio Polacco p. 89 – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 90 – Tiziana D’Este: ricostruzione a p. 91 – Emanuela Solaroli: disegno a p. 101 (alto) – Felice Larocca: p. 106 – Centro Studi Sotterranei, Genova: p. 107 – Cippigraphix: cartine ed elaborazioni grafiche alle pp. 30, 45, 57, 86, 99, 101. Con riferimento all’articolo Uruk. Una megalopoli dell’età del Bronzo («Archeo» n. 341, luglio 2013), desideriamo precisare che la corretta dicitura del credito fotografico per l’immagine di copertina e per le pp. 82/83, 90/91 (alto), 102, 103 è la seguente: © artefacts-berlin.de; Scientific Equipment: Deutsches Archäologisches Institut. Tale attribuzione vale anche per le immagini alle pp. 92 e 93, erroneamente attribuite all’Ufficio stampa della mostra allestita a Berlino. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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la notizia del mese di Andreas M. Steiner
l’oro del tempio A Gerusalemme, la scoperta di uno straordinario tesoro aureo illumina la storia della Città Santa nella tarda età bizantina
L’
area di scavo in cui, lo scorso settembre, è avvenuta la scoperta che presentiamo in queste pagine, è già ben nota ai nostri lettori. Si tratta dell’Ophel (il termine, di biblica memoria, può essere tradotto con «collina fortificata» o «terreno in salita»), un’area archeologica che si estende sulla parte nord della collina sudorientale di Gerusalemme, immediatamente al di sotto della porzione meridionale del grande muro di contenimento del Monte del Tempio (lo Haram esh-Sherif, il «nobile santuario», all’interno del quale sorgono la moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia). Gli scavi condotti nell’area dell’Ophel dall’archeologa Eilat Mazar per conto dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno portato, negli anni, a scoperte notevoli: un tratto delle mura di
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A destra: il medaglione con raffigurazione di menorah, shofar e rotolo della Torah, rinvenuto durante gli scavi dell’Ophel, ai piedi del Monte del Tempio.
A sinistra: l’archeologa Eilat Mazar. Nella pagina accanto: veduta aerea della Città Vecchia di Gerusalemme, con il Monte del Tempio e, in evidenza, l’area di scavo in cui è stato rinvenuto il tesoro aureo. In basso: le 36 monete di età bizantina scoperte nell’area dell’Ophel.
Gerusalemme databili al X secolo a.C. (vedi «Archeo» n. 301, marzo 2010), una tavoletta redatta in caratteri cuneiformi risalente al XIV secolo a.C. (vedi «Archeo» n. 306, agosto 2010) e, di recente, il frammento di un vaso in ceramica recante la piú antica iscrizione alfabetica a oggi rinvenuta nella Città Santa (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013). È stata una vera sorpresa, dunque, per gli archeologi gerosolimitani, essersi imbattuti in un vero e proprio tesoretto aureo, databile alla tarda età bizantina: tra i crolli di un edificio pubblico degli inizi del VII secolo, infatti, sono emersi due gruppi di reperti composti da 36 monete d’oro, gioielli in oro e argento e una medaglione in oro, del diametro di 10 cm, con, incise, le raffigurazioni di una menorah (il candelabro a sette bracci, il piú antico simbolo della religione ebraica), dello shofar (un corno di montone, usato come strumento musicale nelle cerimonie religiose) e di un rotolo della Torah (i «rotoli della Legge», ovvero i primi cinque libri della Bibbia ebraica).
Gli oggetti sono stati rinvenuti in contesti diversi: uno degli involucri era stato abbandonato, apparentemente in fretta con gli oggetti sparpagliati sul terreno, mentre il secondo, di cui faceva parte il medaglione, era stato accuratamente sotterrato. Quest’ultimo era appeso a una catenina d’oro e la sua funzione era verosimilmente quella di ornare un rotolo della Torah. Insieme al medaglione erano stati nascosti un altro medaglione, di dimensioni inferiori, due pendenti, un bracciale a serpentina d’oro e un fermaglio d’argento. Per quanto riguarda le 36 monete (databili ai regni di diversi imperatori bizantini, a partire dalla metà del IV fino agli inizi del VII secolo), esse sono state trovate insieme a un paio di grandi orecchini d’oro, un prisma esagonale d’argento rivestito con lamina d’oro e un lingotto d’argento. Anche questi reperti, come quelli rinvenuti insieme al medaglione d’oro, erano in origine avvolti in una borsa di stoffa, come indica la presenza di resti di tessuto.
Ma a chi apparteneva il tesoro, e perché è stato abbandonato? Secondo Eilat Mazar, gli ori potrebbero essere stati destinati come contributo per la costruzione di una nuova sinagoga, considerato anche il luogo in cui sono stati trovati, ovvero nelle immediate vicinanze del Monte del Tempio. Certo è che, quale che sia stata l’intenzione dei proprietari, non poté essere portata a termine. I preziosi oggetti furono frettolosamente abbandonati e nessuno riuscí mai a riprenderseli: «Se consideriamo la datazione del tesoro e il luogo del ritrovamento – spiega l’archeologa – è probabile che il loro abbandono sia avvenuto nel contesto della conquista di Gerusalemme da parte dei Persiani sassanidi, avvenuta nel 614. In seguito a essa, molti Ebrei colsero l’occasione per ritornare nella Città Santa, nella speranza di poter nuovamente godere di liberta politica e religiosa». Con il declino del potere persiano, però, il nuovo quadro politico fece sí che la popolazione ebraica abbandonasse nuovamente Gerusalemme.
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n oti z i ari o SCAVI Francia
la culla di parigi
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n Notre-Dame de Paris, Victor Hugo osserva che l’Île de la Cité, circondata dai due rami della Senna, assomiglia a una culla. Qui la città affonda le sue radici, avvolte da sempre in un’aura un po’ misteriosa. L’antica Lutezia fa sognare, e ogni iniziativa volta a far luce sulla sua storia rappresenta un vero e proprio evento per i Parigini. Gli scavi attualmente in corso nella rue de Lutèce, nel cuore dell’isola, un evento lo sono per davvero, poiché le occasioni di scoprire nuovi elementi riguardo ai primordi della capitale francese sono molto rare. Eseguite dall’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) su un’area nella quale sorgerà l’ingresso principale della Prefettura di Polizia, le ricerche hanno come scopo principale di indagare – dopo aver portato alla luce l’insieme delle vestigia archeologiche – gli strati piú
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In questa pagina: Parigi. Due immagini dello scavo condotto sull’Île de la Cité, nell’odierna rue de Lutèce. Si tratta di indagini che potrebbero gettare luce sull’ubicazione del primo nucleo della capitale francese. Nella pagina accanto: vasi rinvenuti in una delle sepolture nel chiostro di Saint-Éloi. XIII-XIV sec. profondi della zona, al fine di chiarirne meglio la formazione geologica e l’evoluzione. Solo in questo modo si potrà dare una risposta all’interrogativo che divide da anni la comunità archeologica francese. Dov’era realmente ubicata la gloriosa antenata di Parigi quando arrivarono i Romani? In effetti, anche se Cesare situa la città gallica dei Parisii su un’isola della Senna, nessuna traccia significativa del periodo gallico è stata finora scoperta sull’Île de la Cité: sito da sempre considerato come il piú ovvio – secondo le fonti storiche – per la localizzazione del nucleo originario dell’attuale metropoli parigina. Ecco allora profilarsi un’ipotesi diversa. All’epoca della conquista romana, Lutezia potrebbe essersi trovata piú a valle, sull’ansa che la Senna forma a Nanterre, dove nel 2003 fu scoperto un vasto insediamento gallico. «Determinare la cronologia precisa
della creazione della città e dell’oppidum gallico – spiega Xavier Peixoto, specialista di scavi urbani e responsabile dei lavori attualmente in corso – è il nostro
scopo. Siamo di fronte a una bella stratigrafia, 4,5 m di profondità. Questa è un’occasione preziosa poiché gli scavi sull’isola sono rarissimi. Finora ne erano stati condotti solo quattro: negli anni Settanta, quello sotto il sagrato di Notre-Dame; nel 1986, le indagini legate alla creazione di un parcheggio in rue de Lutèce; nello stesso periodo, un lavoro eseguito sugli argini del fiume dalla commissione Vieux Paris, alla Porte du Rampart in rue de la Cité. Nel caso di questi primi tre scavi, per vari motivi, non si era mai arrivati ai livelli profondi. Nell’ultimo invece, il piú interessante e completo, eseguito nel 1996 in previsione della costruzione di un nuovo parcheggio in rue Harlay, sugli argini della Senna, si è potuto
eseguire un taglio stratigrafico perpendicolare al fiume: una fotografia perfetta della formazione dei banchi di sabbia emersi tra il 5000 e il 3000 a.C., e della graduale copertura di limo che ha costituito l’isola. Qui abbiamo effettivamente trovato il livello dell’insediamento gallico risalente al 400 a.C., a dimostrazione del fatto che a quell’epoca l’isola era già costituita e abitabile… almeno nei pressi della rue Harlay». All’inizio dell’era cristiana, Lutezia era un porto commerciale, popolato da artigiani. Si pensa, anche se non ci sono prove archeologiche, che un tempio dedicato a Giove ed edificato probabilmente dalla ricca corporazione dei Nautes sorgesse nell’area oggi occupata da Notre-
Dame. Una basilica s’innalzava al posto dell’attuale mercato dei fiori. In fondo all’isola, protetto da mura, esisteva il «Palazzo», sede dei rappresentanti di Roma e nel quale, nel 357-358 d.C., aveva soggiornato Giuliano, futuro imperatore. Gli scavi attuali hanno permesso di scoprire, oltre a ceramiche romane affiorate nel livello piú profondo del I secolo d.C., anche le fondamenta della chiesa di SaintÉloi, fondata nel 635 e ricostruita nel 1630 su disposizione di Caterina de’ Medici, per i Barnabiti. Una decina di sepolture comparse in una parte della navata e del chiostro – risalenti al XIII e XIV secolo – raccontano una parte delle avventure legate all’edificio religioso. Daniela Fuganti
n otiz iario
scavi Marche
ritorno a novilara
U
n recente intervento di archeologia preventiva getta nuova luce sulla necropoli picena di Novilara, sita sulle pendici della collina su cui sorge l’abitato omonimo (Pesaro), la cui presenza era nota fin dalla seconda metà dell’Ottocento. «L’indagine archeologica, che ha interessato un’area di 12 000 mq circa – spiega Chiara Delpino, funzionario archeologo responsabile di zona per la Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Marche –, è nata dall’esigenza di tutelare questo importante sepolcreto, investito dai movimenti di terra che, presso Novilara, hanno interessato l’area Molaroni (uno dei due nuclei della necropoli individuati dai primi scavatori, n.d.r.). Le nuove ricerche hanno portato alla luce 150 sepolture (149 inumazioni in fossa e una a incinerazione) databili all’VIII e al VII secolo a.C., e hanno
contribuito a definire, almeno in parte, i limiti dello spazio cimiteriale. È stato inoltre possibile individuare i saggi eseguiti da Edoardo Brizio e Raniero Mengarelli nel 1892-1893 e recuperare i resti di 50 inumati che erano stati allora lasciati sul posto: un recupero importante anche per estendere a questi piú antichi rinvenimenti le analisi antropologiche e del DNA di queste popolazioni che si intende attuare». Le tombe sono state ritrovate in discreto stato di conservazione e solo in alcune aree, dove maggiore è stata l’erosione del suolo, alcune arature profonde avevano parzialmente sconvolto e già portato alla luce resti ossei ed elementi dei corredi. Gli inumati erano disposti in posizione rannicchiata, in fosse scavate nell’arenaria di base, mentre numerose altre mostravano le impronte lasciate con molta
probabilità da casse lignee. Quasi tutte le sepolture, in leggera prevalenza femminili, sono dotate di oggetti di corredo deposti accanto al defunto e sul corpo stesso. I corredi piú semplici, e quelli piú antichi, sono composti da pochi elementi di ornamento personale in bronzo e da qualche suppellettile fittile, mentre i piú complessi sono formati da molteplici oggetti d’uso personale, da utensili, da numerose ceramiche, da ornamenti e elementi dell’abbigliamento, anche articolati: nei corredi maschili sono presenti armi di bronzo o di ferro. La distribuzione delle sepolture sembra mostrare una certa organizzazione interna della necropoli. La diversa composizione dei corredi segnala inoltre la presenza di differenziazioni sociali all’interno della comunità, riscontrabili anche nelle deposizione infantili.
restauri Umbria
il viaggio del telamone
È
stato restituito al pubblico dei visitatori, dopo circa quarant’anni e un lungo e restauro, il Telamone di età imperiale romana scoperto a Terni nel 1971. L’opera è stata collocata nel chiostro del convento di S. Domenico di Perugia, sede del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, nell’ambito di un piú generale piano di ampliamento espositivo. Realizzato in marmo pentelico, il Telamone fu rinvenuto, in tre frammenti e in circostanze fortuite. Si tratta di un elemento architettonico che ritrae un personaggio maschile con le sembianze di un Satiro, dotato di corna e orecchie
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appuntite, nell’atto di sorreggere un peso. Le caratteristiche stilistiche deporrebbero a favore di una datazione all’età adrianea. Originariamente esso faceva parte della straordinaria decorazione architettonica e scultorea del canopo di Villa Adriana a Tivoli. Con ogni probabilità, il Telamone fu trasportato a Terni all’epoca della riconquista giustinianea dell’Italia per essere inserito nella ricostruzione della porta romana della città, demolita poi dai Goti. La presenza di Telamoni a lato dell’arco d’ingresso delle porte urbiche romane è del resto ben documentata fin dall’età ellenistica e per quest’epoca trova riferimento nella facciata del Palazzo dei Giganti nell’agorà di Atene. L’arrivo dei Longobardi o una delle numerose alluvioni del
È stata confermata la presenza, già osservata nel corso delle esplorazioni ottocentesche, di un terreno antropico di notevole spessore, ricco di resti carboniosi e di frammenti di ceramica di impasto, posto in un’area centrale della necropoli, nella quale sono inoltre individuate diverse buche di palo. Nella zona sono presenti anche tracce di successive frequentazioni in età romana e rinascimentale. Giampiero Galasso
In alto: alcune delle tombe messe in luce nel corso delle nuove indagini che hanno interessato la necropoli picena di Novilara (Pesaro).
contiguo fiume Nera impedirono il compimento del progetto. Lo scultore che realizzò l’opera è lo stesso che ha scolpito altre bellissime sculture per la villa, come il Centauro in marmo rosso antico dei Musei Vaticani e alcune maschere. G. G.
Qui sopra: il Telamone da Villa Adriana nella sua nuova esposizione e, a sinistra, un particolare dell’opera.
n otiz iario
valorizzazione Grecia
il palazzo di ulisse? non esiste, ma... era fatto cosí
D
a sempre, la figura di Ulisse appassiona archeologi, storici e filologi e piú d’uno studioso continua a porsi quesiti cruciali sul suo conto: è esistito davvero un re chiamato Ulisse? E dov’era il suo regno? La piccola Itaca, compresa nell’arcipelago delle Isole Ionie, corrisponde a quella descritta da Omero? E in quale parte di essa si trova il palazzo di Ulisse e Penelope: a Vathy? A Piso Aetos? O sopra i laghi di Platrithià? Nell’estate appena trascorsa, l’architetto italiano Bruno Mazzali, che risiede a Itaca, ha realizzato un plastico ricostruttivo del palazzo i cui resti sono venuti alla luce nei pressi di Stavròs, a Sant’Atanasio, una delle aree archeologiche piú importanti dell’isola, nel corso degli scavi condotti dal 1994 dall’Università di Ioannina. Realizzato in legno, vetroresina e altri materiali, il plastico, in scala 1:50, è stato collocato nella piazza principale di Stavròs: «Il lavoro di costruzione vera e propria è durato
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In alto e in basso: un particolare e una veduta d’insieme del plastico realizzato a Itaca. piú di un anno – racconta Mazzali – preceduto da ripetuti sopraluoghi e dalla realizzazione di fotografie aeree particolareggiate del sito archeologico». La ricostruzione permette di vedere le parti interne del palazzo, il vestibolo che dà accesso a una grande sala, il megaron e altri ambienti – forse magazzini per l’olio e camere per gli ospiti –, mentre nella parte alta si trovano gli appartamenti rerali. «Molto probabilmente – aggiunge l’architetto – questo palazzo non è frutto di un progetto unitario, ma è il risultato di piú fasi costruttive, succedutesi nel tempo». Il plastico è stato accolto con interesse dalla comunità scientifica: gli archeologi Litsa
Kontorlí e Athanasios Papadopoulos che sinora hanno guidato gli scavi, hanno affermato che la ricostruzione «è in linea con le loro ricerche piú recenti». Al di là della querelle se il palazzo sia davvero quello di Ulisse (vedi «Archeo» n. 308, ottobre 2010; anche su www.archeo.it), un’ipotesi comunque difficilmente dimostrabile, a oggi, data la scarsità dei reperti archeologici recuperati, e se i resti dell’edificio rinvenuti siano in parte di epoca micenea e in parte di epoca ellenistica, come testimoniato dalle mura di cinta, rimane il fatto che la riproduzione di Mazzali è l’unica permette ora di avere una visione generale della struttura prima della visita al sito, favorendo un percorso piú facile e chiaro. Maddalena Reni
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
parchi: la legge c’è, ma non si vede
Veduta aerea di un settore dell’area archeologica di Nora (presso il capo di Pula, Cagliari).
nonostante l’approvazione di una norma ad hoc, molte aree archeologiche del nostro paese non sono valorizzate in maniera adeguata. un paradosso, di cui ci parla francesca ghedini, che della questione si è occupata in prima persona
I
parchi archeologici esistenti in Italia sono spesso dimenticati, abbandonati all’incuria, quando non aggrediti dalla speculazione edilizia. Vissuti, comunque, come un’entità separata dalla realtà esterna, quasi un corpo estraneo. Eppure, da un anno, esiste una legge che affronta la questione dell’integrazione del parco archeologico con il contesto moderno. ma che, per ora, è rimasta lettera morta. Ne parliamo con Francesca Ghedini, docente di archeologia all’Università di Padova, che ha partecipato alla stesura delle legge come membro della commissione incaricata: «La legge c’è, ma non è mai stata applicata. Si tratta delle Linee guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici, emanate con Decreto Ministeriale del 18 aprile 2012 e
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pubblicate il 2 agosto nel supplemento ordinario 165 della Gazzetta Ufficiale n 179. Una legge che, però, esiste solo sulla carta. Il suo obiettivo è fornire indicazioni che guidino la realizzazione di un parco archeologico, per garantire la tutela e valorizzazione del sito, ma anche la crescita culturale del territorio. Per questo la legge pone l’accento sul rapporto tra il bene archeologico e il contesto esterno, oltre che sulla comunicazione». Quali problematiche avete rilevato, nel corso del vostro lavoro di documentazione sui parchi archeologici italiani? Che cosa non funziona, nel rapporto dei siti con il contesto territoriale moderno? «I parchi archeologici sono entità complesse: per l’ampiezza, per i monumenti che vi insistono, per il conflitto costante con lo sviluppo urbanistico del territorio circostante. Ma anche per il
sovrapporsi delle competenze fra Stato e Regione, oppure all’interno dello stesso Ministero dei Beni culturali. Come nel caso di Nora, in provincia di Cagliari, uno dei siti archeologici piú affascinanti e meglio conservati della Sardegna: il parco voleva realizzare due gradini di legno dove un tempo sorgeva la scalinata di un tempio romano, che si conserva solo in fondazione, per rendere al pubblico l’idea del monumento. La Soprintendenza ai Beni archeologici ha detto di sí, quella ai Beni architettonici si è riservata di valutare: queste lungaggini burocratiche dilatando i tempi di intervento. Cosí è accaduto nel parco di Aquileia, in provincia di Udine, per il progetto della copertura di alcuni monumenti: la Soprintendenza archeologica ha dato parere positivo, quella ai Beni architettonici ha apportato una
serie di correzioni, su cui non si è raggiunto alcun accordo. Per non parlare della sovrapposizione di competenze tra pubblico e privato, nel caso delle fondazioni, che a volte blocca tutto». Cosa sarebbe necessario, invece per far «vivere» un parco archeologico nel suo territorio? «Intanto non basta un pozzo antico in mezzo alla campagna, con un cartellone esplicativo, per fare un parco. La prima cosa da valutare è la consistenza archeologica del monumento. Quando abbiamo censito i parchi archeologici, in commissione sono arrivate oltre 2000 schede, che comprendevano siti improbabili… Poi ci sono gli studi preliminari: la realizzazione di un parco deve essere accompagnata da un’accurata indagine sulle potenzialità del territorio, sull’ampiezza del bacino di utenza dei possibili fruitori (verificando per esempio la vicinanza a centri urbani o a località turistiche), sull’accessibilità del luogo con collegamenti stradali,
ferroviari o marittimi, sulla presenza di parcheggi, sulla ricettività (ovvero alberghi, ristoranti, luoghi di sosta, ecc.). Questi sono elementi imprescindibili per stimolare l’attenzione e l’interesse sia del grande pubblico che della comunità locale. Infine va impostato il progetto scientifico per la tutela e la valorizzazione del sito, che deve comprendere la ricognizione dei vincoli che insistono sull’area del parco e nelle zone limitrofe, le valutazioni per la conservazione del paesaggio e la riqualificazione delle aree compromesse o degradate, l’elaborazione di un piano di manutenzione programmata e di restauro degli edifici, con relativo monitoraggio dello stato di degrado. Ma neanche il progetto scientifico archeologico esaurisce il parco, che vuol dire anche pianificare gli aspetti paesaggistici e urbanistici, in base alla relazione con il contesto ambientale moderno».
La comunicazione, nell’ottica delle Linee Guida sui parchi archeologici, diventa un tema fondamentale per la loro integrazione con il territorio. Che cosa manca ai nostri parchi, sotto questo punto di vista? «Manca una riflessione a monte su cosa comunicare di quel bene archeologico. Per esempio, non si possono mostrare al pubblico tutte le fasi di un monumento: bisogna scegliere cosa far vedere e cosa, invece, coprire. Il primo destinatario del sito è l’abitante del posto, che nel parco archeologico dovrebbe capire le ragioni della propria storia, e poi c’è il turista, che dovrebbe trovare un contesto ambientale accogliente che stimoli a fermarsi e a tornare. L’idea è di contrassegnare con un marchio i parchi che eseguiranno l’iter ministeriale.» Una sorta di parchi archeologici certificati «DOC»? «Sí, una sorta di brand che dia visibilità e magari attragga finanziamenti specifici da parte del pubblico o del privato».
si m posio su l l’a rt e isl a m ic a h a m a d bi n k h a l i fa
“Dio è la Luce dei Cieli e della Terra” God Is the Light of the Heavens and the Earth L a Luc e n e l l’A rt e e n e l l a Cu lt u r a Isl a m ic a 9 Novembre 2013, ore 18h00 • Teatro Politeama, Palermo Cerimonia d’apertura: Shirin Neshat, una delle artiste Iraniane più famose in Occidente, presenta Arte Islamica Contemporanea.
R egistrati adesso La registrazione al Simposio è libera e aperta al pubblico. Visto il numero di posti limitato, consigliamo di effettuarla anticipatamente. Per registrarti, visita il sito
{ www.IslamicArtDoha.org } Promosso da Virginia Commonwealth University School of the Arts; VCUQatar; Qatar Foundation, Hamad bin Khalifa University e Universita Degli Studi di Palermo
10 e 11 Novembre, 9h00 – 16h00 • Palazzo Steri, Palermo Relatori presenteranno i loro lavori sull'argomento luce nell'arte e cultura Islamica: Ali Behdad, Riflessioni sulla Storia della Fotografia a Qajar, Iran; Barbara Brend, La Luce nella Pittura Persiana; Anna Contadini, Sfaccettature di Luce, il Caso dei Cristalli di Roccia; William A. Graham, La Luce come Immagine e Concetto nell’ Qur’an, Hadîth e altre Fonti Islamiche; Robert Hillenbrand, Il Simbolismo della Luce nell’Arte e Architettura Islamica; Renata Holod, Sugli Interni ed i Regimi d’Illuminazione; Abdallah Kahil, IIlluminando il Vuoto, Riflettendo l’Universo: Design dello Spazio e Arredamento della Luce nell’Architettura di Mamluk; Hakan Karateke, Illuminante Cerimoniale Ottomano; Elaheh Kheirandish, Luce e Buio: La “Storia a Scacchi” dei primi passi dell’Ottica”; Susan Stronge, Dalla Luce del Sole di Jahangir; Wheeler Thackston, La Luce nella Poesia Persiana; Oliver Watson, Ceramiche e Luce
n otiz iario
musei Campania
tesori salernitani
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tre anni dalla chiusura, imposta da problemi strutturali, il Museo Archeologico Provinciale di Salerno è stato riaperto, con un rinnovato allestimento, nel complesso longobardo di S. Benedetto, nel centro storico cittadino. L’esposizione, articolata su due piani, segue un percorso cronologico e topografico. Nel giardino a piano terra antistante il Museo è stato allestito un lapidario con reperti di epoca romana, in particolare statue, rilievi figurati e basi onorarie. La sezione «Provincia archeologica» riunisce i reperti piú importanti che provengono da scavi e ritrovamenti fortuiti effettuati nel territorio provinciale: un patrimonio variegato, che attesta l’esistenza di fauna preistorica e la presenza dell’uomo in epoca remota, dalla Valle del Sarno al Cilento, dalla Costiera Amalfitana alla Piana del Sele e al Vallo di Diano.
Il percorso è esemplificativo delle principali correnti culturali che si sono affermate in Campania dalla preistoria all’epoca romana, con approfondimenti sugli aspetti del costume maschile e femminile. Tra gli oggetti selezionati, spicca un cratere a campana la cui composizione, esecuzione e potenza espressiva rivelano la mano di un grande artista, identificabile con Assteas. Il dritto presenta due personaggi, Phrynis e Pyrrhonides, inseriti una scena riconducibile alla farsa fliacica, parodia epico-mitologica diffusa in ambiente italico. Al primo piano, la sezione dedicata a Fratte presenta i reperti provenienti dall’omonimo sito etrusco-sannita (VI-III secolo a.C.), importante insediamento preromano situato alla periferia settentrionale dell’attuale città. Gli spazi espositivi dedicati alle necropoli
sono organizzati secondo fasi cronologiche, con particolare attenzione per i corredi e gli esemplari piú importanti. Il nuovo allestimento si segnala anche per l’aumentato utilizzo delle moderne tecnologie. Tre installazioni multimediali, con display touch e impianti di ultima generazione, ricostruiscono l’insediamento etrusco di Fratte e le antiche rotte del Mediterraneo e ripropongono l’atmosfera del ritrovamento della celebre testa di Apollo, rinvenuta nelle acque del golfo di Salerno nel1930. Una specifica sezione è dedicata alla testa bronzea di Apollo (I secolo a.C.-I secolo d.C.), un reperto straordinario, che doveva far parte di una statua di grandi dimensioni. Giampiero Galasso
A destra: cratere a campana con scena fliacica raffigurante due personaggi identificati come Phrynis e Pyrrhonides, da Pontecagnano. IV sec. a.C. Salerno, Museo Archeologico Provinciale. In basso: una veduta del nuovo allestimento del museo salernitano.
Dove e quando Museo Archeologico Provinciale Complesso San Benedetto, via San Benedetto, Salerno Orario ma-do, 9,00-19,30 Info tel. e fax: 089 231135; e-mail: museibiblioteche@ provincia.salerno.it
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n otiz iario
Luciano Calenda
archeofilatelia
fu vero mostro? Svetonio è lo storico sulle cui opere si basa gran parte della ricostruzione della breve vita dell’imperatore Gaio Cesare Germanico, detto Caligola; queste fonti sono incentrate essenzialmente su una lunga serie di episodi di crudeltà e di assolutismo, religioso e politico, tanto da sembrare inverosimili a una lettura piú moderna e piú critica. Purtroppo, la parte degli Annali di Tacito relativa a Caligola non ci è pervenuta... E la damnatio memoriae di questo personaggio sembra essersi ripercossa anche in campo 1 filatelico, dal momento che ci sono solo due riferimenti diretti che riguardano nascita e morte di Caligola; il primo è una cartolina postale della Repubblica Ceca (forse con sovrastampa privata) che, nel 2012, ne ha ricordato il bimillenario della nascita (1) e l’altro è un intero postale francese, con una sovrastampa privata, che ne raffigura l’uccisione, mentre lo zio Claudio, futuro imperatore, è nascosto dietro un tendaggio (2). Ancora una volta, però, si può ricorrere ai «collegamenti» e allestire un paio di fogli su 2 Caligola in una ipotetica collezione sugli imperatori romani. Cominciamo dal soprannome, che deriva dall’abitudine che egli aveva sin da giovane di usare, quando seguiva il padre nelle campagne militari, la caratteristica calzatura dei legionari romani che si chiamava caliga (3), da cui l’affettuoso nomignolo che proprio i legionari gli diedero. Ancora, si può citare il faro che fece costruire a Boulognesur-mer, in Francia, in occasione della mancata invasione della Bretagna (verso il 39 d.C.); il faro è raffigurato da un francobollo francese del 2011 realizzato a mezzo home computer e qui mostrato su una cartolina maximum (4). Nel raccontare la sua vita, si può parlare dell’imperatore che lo precedette, Tiberio, raffigurato in un annullo francese del 1978 (5), che celebra i 2000 anni di un impianto termale romano (Bagneres). E si può ricordare anche l’imperatore che gli successe, suo zio Claudio, che aveva partecipato sia pure in modo indiretto al suo assassinio, con due francobolli che lo raffigurano: uno inglese (6) o l’altro della Libia quando 4 era colonia italiana (7). Per finire, perfino il famoso episodio della volontà di Caligola di nominare il suo cavallo senatore (sebbene le fonti sembrino affermare che avesse pensato di farlo solo console…): si può usare un francobollo italiano del 1988 per rappresentare il cavallo (8) e uno ancora italiano (9) o uno portoghese (10) per raffigurare i senatori romani... 5
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17126 - Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
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n otiz iario
incontri Paestum
caccia ai magnifici cinque
È
in programma, dal 14 al 17 novembre, la XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, che, per la prima volta, si svolgerà all’interno della città antica, distribuendosi tra il Parco Archeologico, il Museo Nazionale e la Basilica Paleocristiana. E cosí, per sottolineare il rapporto imprescindibile tra Beni Culturali e Turismo – attualmente le deleghe sono attribuite a un solo Ministero – il workshop in collaborazione con l’ENIT tra i buyer esteri e gli operatori dell’offerta (in programma sabato 16 novembre), avrà luogo nelle sale del Museo Archeologico. Inoltre, con l’obiettivo di recuperare il mercato del Nord e Centro Europa, da sempre fidelizzato al nostro «Bel Paese», ma che negli ultimi anni si è orientato su altre destinazioni, la domanda sarà rappresentata dai Top Five di Austria, Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Svizzera, ovvero i migliori 5 tour operator interessati al segmento archeologico del turismo culturale. E, nell’ottica di fare sistema con un marchio unico, i buyer vivranno il suggestivo itinerario «South Italy Magna Graecia», di cui saranno protagonisti i grandi attrattori archeologici della Campania, Calabria, Puglia e Basilicata, quali, per esempio, Paestum, Velia, Sibari, Taranto, Metaponto. La Borsa è l’unico evento al mondo che consente l’incontro di questo straordinario segmento del turismo culturale con il business professionale, gli addetti ai lavori, i viaggiatori, gli appassionati e il mondo scolastico, con l’obiettivo di promuovere i siti e le destinazioni di richiamo archeologico, favorire la commercializzazione, contribuire alla destagionalizzazione e incrementare le opportunità economiche e gli effetti occupazionali. 20 a r c h e o
Sede del piú grande Salone espositivo al mondo del patrimonio archeologico – quest’anno allestito a pochi metri dal Tempio di Cerere, su un’area di 3000 mq – e di ArcheoVirtual, la mostra internazionale di tecnologie interattive e virtuali, la Borsa si conferma un format di successo con la partecipazione dei vertici di UNESCO, UNWTO e ICCROM, 8000 visitatori, 150 espositori con 25 Paesi esteri (Ospite Ufficiale del 2013 è il Venezuela), 50 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 350 operatori dell’offerta, 150 giornalisti. Tra gli ospiti, è annunciata la presenza di: Taleb Rifai, Segretario Generale OMT; Francesco Bandarin, Vice Direttore Generale UNESCO per la Cultura; Mounir Bouchenaki, Consigliere Speciale del Direttore Generale UNESCO; Louis Godart, Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica; Stefano De Caro, Direttore Generale ICCROM; e ancora, tra gli altri, di: Salvatore Settis, Emanuele Greco, Paolo Matthiae, Eva Cantarella.
calendario
Italia roma Capolavori dell’archeologia
Recuperi, ritrovamenti, confronti Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo fino al 05.11.13
Qui sotto: stele in legno policromo di Irethor. Epoca romana.
Mantova Amore e Psiche: la favola dell’anima Palazzo Te fino al 10.11.13
milano Da Gerusalemme a Milano
Archimede. Arte e scienza dell’invenzione Musei Capitolini fino al 12.01.14
Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14
Evan Gorga. Il collezionista Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 12.01.14
modena Mano nella mano
Reperti di un amore oltre la morte Lapidario Romano dei Musei Civici fino al 24.11.14
Cleopatra
Roma e l’incantesimo dell’Egitto Chiostro del Bramante fino al 02.02.14
montesarchio Rosso Immaginario
La riscoperta dell’antico
Gli acquerelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi Foro Romano, Curia Iulia fino al 23.02.14
Qui sotto: una delle videoproiezioni realizzate a partire dai vasi figurati esposti a Montesarchio.
Qui sotto: il Capo Sunio in un acquerello di Simone Pomardi. 1805.
Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 12.01.14
onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa Casa della Cultura fino al 31.12.13
orvieto, bolsena, castiglione in teverina, san lorenzo nuovo Da Orvieto a Bolsena Un percorso tra Etruschi e Romani Sedi varie fino al 03.11.13
manfredonia Venti del Neolitico. Uomini del rame
Museo Nazionale Archeologico, Castello di Manfredonia fino al 31.12.13
roma Augusto
dove e quando Scuderie del Quirinale fino al 9 febbraio 2014 Orario do-gio, 10,00-20,00, ve-sa, 10,00-22,30 Info tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it 26 a r c h e o
Padova Venetkens
Viaggio nella terra dei Veneti antichi Palazzo della Ragione fino al 17.11.13
Organizzata in occasione del bimillenario della morte, la mostra presenta le tappe della folgorante storia personale di Augusto in parallelo alla nascita di una nuova epoca storica. Figlio adottivo e pronipote di Cesare, Augusto fu un personaggio dotato di un carisma eccezionale e di uno straordinario intuito politico. Il suo principato, durato oltre quarant’anni, fu il piú lungo della storia di Roma. Questa nuova mostra, forte di circa 200 opere tra statue, ritratti, arredi domestici in argento, bronzo e vetro, gioielli in oro e pietre preziose, propone un percorso capace di intrecciare la vita e la carriera del princeps con il formarsi di una nuova cultura e di un nuovo linguaggio artistico, tutt’ora alla base della civiltà occidentale.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Paesi Bassi parma Storie della prima Parma
Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 29.12.13
Qui sotto: rhyton attico a testa di grifone. 400 a.C.
leida Petra
Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14
Spagna
trento Sangue di drago, squame di serpente
Madrid La Villa dei Papiri Casa del Lector fino al 23.04.14
Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio Castello del Buonconsiglio fino al 06.01.14
Vetulonia (Castiglione della Pescaia) Vetulonia, Capua, Pontecagnano Vite parallele di tre città etrusche Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.11.13
alcalá de henares Annibale in Spagna Museo Arqueológico Regional fino al 12.01.14
alicante Il regno del sale
Belgio
7000 anni di storia di Hallstatt Museo Arqueológico fino al 31.01.14
Bruxelles L’arte del profilo
Svizzera
Il disegno nell’antico Egitto Musée du Cinquantenaire fino al 19.01.14
berna Qin
Città del Vaticano Qui sopra: ostrakon Preziose Antichità
Il Museo Profano al tempo di Pio VI Musei Vaticani, Sala della Nozze Aldobrandine fino al 04.01.14
in calcare con un ritratto del faraone Ramesse VI.
copenaghen Viking
Qui sopra: i guerrieri dell’esercito di terracotta.
Musée romain fino al 02.02.14
zurigo Archeologia
Gran Bretagna
Tesori del Museo nazionale svizzero Museo nazionale svizzero fino al 21.12.2014
Londra Oltre l’Eldorado
Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14
Israel Museum fino al 04.01.14
hauterive Fiori dei faraoni
nyon Il grano, l’altro oro dei Romani
Nationalmuseet fino al 17.11.13
Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande
L’imperatore immortale e i suoi guerrieri di terracotta Historisches Museum fino al 17.11.13
Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14
Danimarca
Israele
Qui sotto: moneta con l’immagine di un elefante, che evoca il valico delle Alpi da parte di Annibale.
Divini umani Contenitore (poporo) in oro in forma di statuina. Quimbaya, 600-1100 d.C.
Bronzi romani dalla Svizzera Archäologische Sammlung der Universität Zürich fino al 05.01.14
Carlo Magno e la Svizzera Museo nazionale svizzero fino al 02.02.14
Busto in bronzo di Minerva, da Augusta Raurica (Augst). 200 d.C. circa. a r c h e o 27
restauri • la tomba regolini-galassi
La tomba regolini-galassi
di Adriana Emiliozzi e Maurizio Sannibale
alla scoperta dei
Tutti i reperti archeologici illustrati nell’articolo appartengono al corredo della Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri e sono conservati presso il Museo Gregoriano Etrusco dei Musei Vaticani.
carri nascosti
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Recenti indagini eseguite sul corredo del celebre sepolcro di Cerveteri rileggono la «storia archeologica» degli straordinari reperti rinvenuti nel 1836 e oggi esposti ai Musei Vaticani. Sotto esame, in particolare, le passate ricostruzioni. Da cui è emerso un risultato sorprendente …
«I
In alto, sullo sfondo e in basso, a sinistra e a destra: ricostruzioni virtuali elaborate nell’ambito del progetto Etruscanning, grazie al quale la Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri è «tornata» alla sua funzione originaria di grande sepolcro aristocratico dell’età orientalizzante. Nella pagina accanto, in primo piano: disegno ricostruttivo del carro, uno dei tre veicoli i cui resti sono stati rinvenuti nella Tomba Regolini-Galassi (vedi, nella seconda parte dell’articolo, alle pp. 37-41).
l dono che mi vuoi dare sia un oggetto: i cavalli non potrei portarmeli in Itaca: a te, dunque, li lascerò, a grande onore: tu regni sulla pianura larga, dove il trifoglio, il cipero è molto, la biada e la spelta e l’orzo bianco, che cresce abbondante. Ma in Itaca non strade larghe, non prati; capre alleva, e pure è piú cara di terra che nutra i cavalli. Nessun’isola è buona pei carri o ricca di prati di quante poggian sul mare: Itaca meno di tutte!» Cosí rispondeva Telemaco a Menelao, che voleva donargli tre cavalli e un lucido cocchio nell’Odissea (IV, 600-608). In realtà l’episodio riporta un dato atipico, eccezionale: gli eroi omerici, «attualizzati» nel presente di Omero (quello della Grecia di epoca orientalizzante), usano molto, infatti, i carri, come mezzo e come attributo di status, e cosí facevano i loro omologhi etruschi e gli altri popoli dell’Italia antica. Con una sostanziale peculiarità: in gran parte dell’Italia antica, diciamo dal Trentino alla Campania e Basilicata, nel periodo compreso tra il VII e in parte nel VI secolo a.C., le tombe di un capo, o anche della consorte, contenevano i veicoli che gli erano appartenuti. Non sempre, però, questi oggetti hanno lasciato tracce archeologiche apprezzabili e la loro identificazione e ricostruzione rappresenta una piccola «avventura» nel grande libro dell’archeologia. Ne sono un caso esemplare i carri della Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri, che dallo scorso 18 giugno sono tornati in esposizione nel Museo Gregoriano Etrusco secondo l’immagine inedi-
ta a essi conferita da diversi anni di studi e restauri, che hanno visto impegnati Adriana Emiliozzi e chi scrive. A distanza di pochi mesi (dopo che nei Musei Vaticani era stata inaugurata, lo scorso 4 aprile, l’installazione di realtà virtuale a essa dedicata nell’ambito del Progetto Etruscanning; vedi box alle pp. 32-33), la tomba Regolini-Galassi torna cosí a far parlare di sé.
un tumulo grandioso Questo corredo funerario tornato alla luce da quasi due secoli – la tomba fu scoperta nell’aprile del 1836 – narra da allora ai visitatori dei Musei Vaticani la vita, i simboli del potere, la dimensione del sacro di una famiglia etrusca di rango principesco dell’antica Caere, in latino, Cisra per gli antichi abitanti. La famiglia, in un tumulo monumentale di circa 60 m di diametro, aveva sigillato e nascosto agli occhi e alla memoria dei posteri la sua tomba piú antica – già sormontata da un tumulo piú piccolo – piena di ori, di bronzi figurati, di arredi e ceramiche, che per questo giunsero intatti agli stupefatti scopritori che vi penetrarono per la prima volta. Da allora la tomba è universalmente nota con il loro nome: Alessandro Regolini, arciprete di Cerveteri, e Vincenzo Galassi, generale in pensione. Il metodo dello scavo, se di metodo si può parlare, era figlio dei tempi, caotico e con una attenzione riservata piú agli oggetti, specialmente se preziosi, che a ciò che li circondava. Sebbene fosse una prassi cona r c h e o 29
restauri • la tomba regolini-galassi Fiesole Arezzo
Volterra
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Pisa
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Umbri Chiusi Populonia Vetulonia Saturnia Vulci
Mar Tirreno
Perugia Orvieto
Sabini Tarquinia Falisci Veio
Cerveteri Roma
Latini
In alto: cartina dell’Etruria propria, con l’ubicazione di Cerveteri.
siderata normale, non mancarono le critiche da parte dei contemporanei. La straordinarietà della scoperta, per ambito monumentale, ricchezza, pregio e unicità dei rinvenimenti, nonché per le tematiche a essa correlate – identità e status dei titolari, aspetti simbolici e rituali, rapporti tra culture e cronologia – determinò un’attenzione inedita nei confronti del contesto.
dialoghi tra culture Oggi sappiamo che, con il suo corredo, la tomba rappresenta uno dei contesti piú ricchi e significativi per il periodo orientalizzante in Etruria, fenomeno culturale e artistico di vasta portata che, tra il 730 e il 580 a.C., coinvolse le culture piú evolute del Mediterraneo antico in uno straordinario processo di acquisizione e rielaborazione di motivi di origine vicino orientale. Ovviamente non circolarono solo merci, ma anche uomini e, con loro, saperi e idee: tecnologia, arte, scienza e medicina, religione. Oriente e Occidente si incontrarono, e di questo incontro la Tomba Regolini-Galassi è uno dei testimoni. In essa ritroviamo simboli e temi orientali, insieme a elementi di piú chiaro stampo ellenico, il tutto mediato dai Rasna, gli Etruschi, che con queste culture dialogarono. Questi caratteri «orientalizzanti» non sfuggirono ai primi studiosi 30 a r c h e o
In alto: Cerveteri. Ricostruzione fantasiosa dei tumuli della necropoli del Sorbo: al centro, la Tomba RegoliniGalassi (da Luigi Canina, L’antica Etruria marittima, Roma 1846). Al centro: pianta e sezione della Tomba Regolini-Galassi, articolata in una lunga anticamera, con due ambienti laterali a pianta ellittica, che precede la camera sepolcrale principale. In basso: anticamera della Tomba Regolini-Galassi, con la disposizione del corredo funerario (da Luigi Grifi, Monumenti di Cere antica spiegati colle osservanze del culto di Mitra, Roma 1841). Nella pagina accanto: un tratto dell’anticamera della tomba, che fu realizzata nella prima metà del VII sec. a.C.
dell’Ottocento, che immediatamente notarono lo stile egizio delle coppe in argento dorato (che ora sappiamo di produzione fenicia), come pure altri elementi di origine orientale. Non sfuggí neppure l’alto rango dei titolari, legato soprattutto a una qualche forma di dignità sacerdotale. Per l’architetto Luigi Canina, il primo a pubblicare la tomba in maniera esaustiva, si trattava addirittura di un monumento antecedente la guerra di Troia, data la tecnica costruttiva a falsa volta che gli ricordava le architetture micenee. Questa irruzione dal passato, che in qualche modo sconvolse l’ordinaria immagine dell’antichità vista dall’ambiente di Roma, fece sí
che a posteriori si redigesse la «documentazione» di scavo e venissero ricostruite la natura e la disposizione del corredo.
lacune e fantasie La perdita di dati resta purtroppo incolmabile e irreversibile, poiché le descrizioni che si sono succedute nei primi anni dopo la scoperta sono vaghe e talvolta contraddittorie e, in alcuni punti, nemmeno corrispondono ai disegni che le accompagnarono. A questo si aggiunga che a partire dai primi commentatori dell’Ottocento, ma non solo, l’interpretazione ha spesso tenuto in scarsa considerazione il dato oggettivo, per non parlare delle
componenti emotive o semplicemente fantasiose che pure hanno avuto il loro peso. Ma veniamo alla tomba. In pianta essa si presenta stretta e allungata: dall’anticamera si passa alla camera di fondo destinata alla sepoltura principale; i due ambienti erano separati da un basso muro, che lasciava aperta una finestra a scopo rituale. Ai lati dell’anticamera sono scavati due ambienti minori a pianta ellittica, detti «nicchie» o celle. Quella di destra custodiva una grande olla in ceramica che conteneva i resti di un uomo incinerato, cosí come si conveniva ai guerrieri e agli eroi. La cella sinistra non accoglieva sepolture, ma oggetti di corredo di controversa identificazione. La camera di fondo era riservata a una donna inumata, che non è esagerato definire di stirpe regale, dal ricco corredo personale costituito da gioielli di fattura raffinatissima, vasellame d’argento e di bronzo, stoffe intessute di lamine d’oro decorate. Nell’anticamera erano disposti il letto funebre in bronzo, fastosi arredi di uso rituale e con riferimenti alla pratica aristocratica del banchetto e al potere gentilizio. In questo contesto si muove la vicenda del rinvenimento e ricostruzione dei carri, rimasti nell’ombra per lunghi decenni, in quanto la storia della loro riscoperta si svolge soprattutto nella prima metà del Novecento. Oggi si aggiunge un nuovo capitolo, con il riesame di tre oggetti già noti secondo la ricostruzione del 1947: il carro, il trono e la biga. Luigi Canina fu il primo a pubblicare la Tomba Regolini-Galassi (Descrizione di Cere Antica, Roma 1838) e a descrivere per la prima volta un carro tra gli oggetti rinvenuti, a prova che qualcosa fu notato all’atto della scoperta. In realtà, nel 1836, furono anche raccolte parti relative alle ruote, le lamine di rivestimento in bronzo decorate e altri componenti funzionali e di ornamento che, con il senno di poi, sappiamo pertinenti a piú di un (segue a p. 34) a r c h e o 31
restauri • la tomba regolini-galassi
Il progetto Etruscanning: La tomba Regolini-Galassi in 3D
Il 4 aprile 2013 è stata inaugurata presso i Musei Vaticani l’installazione di realtà virtuale dedicata alla ricostruzione della famosa Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri (facente parte della necropoli del Sorbo), in stretta correlazione con gli oggetti della tomba realmente in esposizione. L’intallazione è stata elaborata nell’ambito del progetto europeo Etruscanning (Framework Culture 2007), finalizzato alla sperimentazione di tecniche innovative per la digitalizzazione e la comunicazione al
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pubblico di contesti funerari etruschi. Uno dei casi esemplificativi selezionati in tale ambito è rappresentato dalla tomba Regolini-Galassi, contesto famoso ma carente di documentazione scientifica sui dati di scavo. La struttura monumentale della tomba, affidata alla tutela degli organi competenti dello Stato italiano, attualmente non è accessibile al pubblico e risulta, ovviamente, completamente spoglia. Nell’ambiente virtualmente ricostruito è stato invece possibile
Dalle ricostruzioni empiriche alla realtà virtuale Sulle due pagine: varie immagini relative al progetto Etruscanning, le cui ricostruzioni virtuali sono state rese possibili anche grazie all’esecuzione di rilievi all’interno della tomba Regolini-Galassi stessa (foto nella pagina accanto, in alto, a sinistra).
ricollocare il corredo, cosí come è apparso agli scopritori. L’applicazione permette l’esplorazione immersiva della tomba con il corredo riposizionato al suo interno, mentre un menú dinamico consente di animare i singoli oggetti, che in una finzione spazio-temporale narrano la propria storia. Tutto questo avviene senza usare comandi strumentali ma con il solo movimento del corpo nello spazio antistante la proiezione. All’inizio dell’esplorazione i due defunti si manifestano come voci narranti e accolgono il visitatore, spiegando chi sono e dove si trovano. Il paesaggio sonoro, composto appositamente, combina sonorità antiche al linguaggio musicale contemporaneo, senza intenzioni filologiche ma solo evocative. I timbri musicali sono in parte frammisti a rumori che riecheggiano la vita reale o valenze simboliche. La tecnologia è stata ereditata dal mondo dei videogame, ma viene applicata per la prima volta in ambito museale per la fruizione di un bene culturale. Il progetto Etruscanning è frutto della cooperazione di diverse istituzioni e professionalità: l’Allard Pierson Museum, il Museo Archeologico dell’Università di Amsterdam, che è anche coordinatore del progetto; il National Museum for Antiquities di Leiden, e il Museo Gallo-romano di Tongeren in Belgio; il CNR-ITABC (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali) di Roma, a cui si
devono la progettazione e la realizzazione dell’applicazione; la società Visual Dimension della città di Ename in Belgio, che ha curato il coordinamento della digitalizzazione, le ricerche preliminari per la ricostruzione virtuale, il restauro digitale degli oggetti del corredo. A esso hanno aderito come partner associati: il Reparto per le Antichità Etrusco-Italiche dei Musei Vaticani, che ha provveduto alla consulenza, alle ricerche e al coordinamento generale delle attività nell’ambito dei Musei Vaticani; la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, che ha fornito la consulenza scientifica, con particolare riguardo alla ricostruzione dell’architettura e del contesto topografico antico, nonché il supporto logistico e operativo; il Museo dell’Agro Veientano, Comune di Formello. La società E.V.O.CA. ha curato lo sviluppo del software e la composizione delle musiche. Al progetto ha dato il proprio apporto scientifico il CNR-ISMA (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto di Studi per il Mediterraneo Antico). Un demo della realizzazione è disponibile on line: VERSIONE ITALIANA: https://vimeo.com/61799751 VERSIONE INGLESE: https://vimeo.com/61736198 a r c h e o 33
restauri • la tomba regolini-galassi
veicolo. Ciononostante, la presenza di carri nella tomba Regolini-Galassi rimase uno degli aspetti piú nebulosi, dato che a lungo scomparve dalle pubblicazioni anche l’unico carro che era stato riconosciuto ai tempi della scoperta.
nuovi ritrovamenti Si giunge cosí ai primi anni del Novecento, quando il paletnologo Giovanni Pinza ritorna nella tomba, scopre oggetti dimenticati dai primi scavatori e recupera le notizie sullo scavo rimaste sepolte negli archivi. Intorno al 1912 fece ricostruire un carro monumentale sormontato da un trono, e una biga che identifica per la prima volta tra i frammenti rimasti dimenticati e incompresi, disponendo il tutto nel suggestivo salone cinquecentesco dei Musei Vaticani che ospita la tomba Regolini-Galassi. Lí troneggiava il carro, come si vede in una foto d’epoca, inquadrato dagli scudi appesi alle pareti
messinscena all’etrusca Sull’onda dell’emozione provata per la scoperta del ricco sepolcro ceretano, si volle anche ricrearne l’atmosfera. Nacque cosí «Larthia» Regolini (qui in una foto scattata prima del 1915), una modella vestita all’etrusca fatta sedere sul «trono» ricostruito con parti autentiche, indossando i gioielli della Tomba Regolini-Galassi.
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Il pettorale Ottenuto da una lamina d’oro decorata a punzoni, è considerato dagli studiosi una «summa» dell’oreficeria a stampo dell’orientalizzante etrusco.
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come trofei e dai flabelli, ricostruiti coi rivestimenti dei raggi delle ruote della biga, non ancora riconosciuti nella loro funzione. Il Pinza, in questa ricostruzione, tradisce un intento teatrale, nel voler dare forma di rappresentazione al fasto e alla regalità sacrale da sempre riconosciuta ai titolari della tomba e, sino ad allora, comunicata dal pregiato simbolismo dei singoli oggetti del corredo.
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La spilla
Date le notevoli dimensioni (31,5 cm di lunghezza), la fibula a disco ebbe, con ogni probabilità, un utilizzo solo rituale e non pratico.
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Il bracciale
Realizzato in lamina d’oro, il bracciale presenta una decorazione divisa in riquadri, al cui interno sono disposte tre figure femminili di fronte, che sorreggono scettri.
larthia, l’etrusca È facile riconoscere, in questa immagine suggerita dal Pinza, una proiezione di ben altra cerimonialità alla portata del suo sguardo: il trono etrusco innalzato tra i flabelli finisce per ricordare troppo da vicino i cortei papali con la sedia gestatoria. La stessa teatralità è del resto impersonata dalla «Larthia» Regolini, la modella vestita all’etrusca secondo i modelli suggeriti dallo stesso Pinza, raffigurata sul trono Regolini-Galassi adorna dei preziosi originali della tomba, cosí come ci appare in una foto realizzata negli anni 1912-1915 (vedi qui accanto). Queste ricostruzioni furono rivisi-
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Il trono
Cosí si presentava il trono assemblato in base all’errata interpretazione di vari frammenti di lamina bronzea, in realtà pertinenti ai carri deposti nella tomba.
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restauri • la tomba regolini-galassi
tate intorno al 1947 da Luigi Pareti, con la pubblicazione della sua monografia dedicata alla tomba. Il carro si ridusse a poco piú di un carrellino per il trasporto del letto funerario e la sua sedia da parata rimarrà un trono alquanto singolare e privo di riscontri, mentre la biga acquistò maggiore consistenza materica con un verosimile richiamo al tipo greco, pur restando lontana da una corretta restituzione. Ogni epoca ha pertanto lasciato la sua impronta nella restituzione dell’immagine della tomba e, conseguentemente, nella sua interpretazione. La presenza o meno di un elemento nel corredo comporta infatti il riconoscimento non solo di aspetti estetici e funzionali, ma anche di specifiche valenze simboliche e rituali. I carri, prima intravisti, poi negati e infine riscoperti e reinterpretati costituiscono un elemento fortemente caratterizzante dell’apparato funerario nelle tombe di personaggi di rango. La lettura della tomba Regolini-Galassi, cosí come è stata affrontata nell’ultimo secolo, non ha potuto prescindere da questa presenza e generazioni di archeologi hanno dovuto misurarsi con tale realtà. Lo sviluppo delle conoscenze sui 36 a r c h e o
carri etruschi, intensificatosi allo scorcio del XX secolo, ha sollecitato il riesame delle ricostruzioni sino ad allora presenti nel museo e che, pur nel loro patente anacronismo, rientravano ormai nell’immaginario consolidato della tomba.
caccia al frammento Il progetto è stato avviato a partire dal 2002, anche nell’esigenza di affrontare un restauro scientifico dei materiali originali che erano passati per le mani dei restauratori dell’Ottocento, per essere poi solo rivisitati nei primi del Novecento. Il primo
oggetto che ha raggiunto i laboratori è stata la biga, seguita dal carro funerario. A quel punto è stato necessario rintracciare le altre parti rimaste nascoste dei primi due veicoli, sia quelle mascherate sotto altra forma, come nel caso del «trono», sia quelle non ancora identificate tra i frammenti minori. Cosí nel 2012, anche il «trono» lasciava definitivamente il museo, dopo che vi era stato esposto per un secolo esatto. Conclusi gli ultimi restauri, vengono ora esposte le ricostruzioni inedite e piú attuali del carro funerario e della biga. Scomparso il «trono», rivelatosi una pura invenzione, compare per la prima volta un terzo veicolo, un «calesse», decorato da pregevoli bronzi figurati lavorati a sbalzo. Quest’ultimo, assimilabile al carpentum romano, era un carro piú lento, usato nella vita quotidiana sia dagli uomini sia dalle donne, ma utilizzato anche per le cerimonie, comprese quelle nuziali. Al contrario della biga – carro veloce di principi-guerrieri, ma anche di eroi e dèi nell’immaginario – con questo terzo carro si completa l’immagine di vita consegnata all’eternità da questi dinasti etruschi: il mondo maschile e femminile rappresentati nei simboli del potere e della ricchezza come nel quotidiano, fino all’immagine di quel viaggio cerimoniale compiuto dal carro funerario verso l’ultima dimora. Maurizio Sannibale
In alto: la sala «Regolini-Galassi» nel Museo Gregoriano Etrusco intorno al 1947; al centro sono esposte le ricostruzioni del carro funerario e della biga. In basso: l’allestimento attuale, con le nuove ricomposizioni dei veicoli.
la tomba Regolini-Galassi ricomincia da tre di Adriana Emiliozzi
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a nuova immagine restituita nel 2013 ai carri della tomba Regolini-Galassi, a un secolo dai primi tentativi di ricostruzione, parte dal riesame delle ultime versioni della biga, del carro a quattro ruote e della sedia da parata o «trono», concepite intorno al 1947. Il progetto fu avviato a partire dal 2002, grazie a un finanziamento dell’associazione Patrons of the Arts in theVatican Museums. Nella prima fase sono state recuperate tutte le parti metalliche originali, smontandole dai vecchi supporti lignei per poterle poi restaurare. Una volta identificati i singoli elementi decorativi e strutturali nelle loro rispettive pertinenze, sono stati cosí ricostruiti ben tre veicoli – un cocchio, un calesse e un carro da trasporto –, mentre scompariva la grande sedia. Il restauro conservativo delle parti originali della biga e del carro si deve ad Alessandro Ferradini e Antonio Giglio, restauratori liberi professionisti. Successivamente lo stu-
Dall’alto in basso: disegni ricostruttivi del carro, della biga e del cosiddetto calesse.
dio di restauro di Carlo Usai ha curato la realizzazione delle strutture ricostruttive dei carri, il montaggio dei resti metallici antichi e supplemento di restauri, comprese le parti originali già del «trono».
due posti affiancati La nuova versione della biga si distingue nel panorama etrusco-italico per la completa aderenza alla tipologia greca, prima intravista solo per le tipiche ruote a quattro raggi. Oggi ne riconosciamo i tratti peculiari nella pianta rettangolare della cassa, nella sua larghezza atta a ospitare due occupanti affiancati anziché stanti l’uno dietro l’altro, nella a r c h e o 37
restauri • la tomba regolini-galassi Sulle due pagine: varie immagini delle ricostruzioni della biga e del carro messe a confronto con i disegni ricostruttivi a colori dei due veicoli.
forma delle ringhiere e, soprattutto, nella presenza di un giogo che si apponeva al dorso e non al collo dei cavalli, testimoniando per questo esemplare il tipo di trazione per il petto, consueto nel mondo greco ed eccezionale in quello etrusco-italico. Anche il carro da trasporto ha cambiato aspetto, passando dalla vecchia ricostruzione a quattro ruote a quella attuale a due ruote. L’altro paio di ruote che esso includeva apparteneva in realtà a un terzo veicolo deposto nella tomba, decorato con le lamine a soggetto animalistico a suo tempo utilizzate per immaginare, ricostruire e ornare l’inverosimile sedia da parata. Questo terzo veicolo era un calesse, di un tipo noto sia da raffigurazioni sia da ritrovamenti di re-
la biga La biga deposta nella Tomba Regolini-Galassi ha caratteristiche che la avvicinano ai modelli greci, oltre che per le ruote a quattro raggi e la forma della cassa, soprattutto per la presenza di un giogo che si apponeva al dorso e non al collo dei cavalli. 38 a r c h e o
sti metallici originali, in tombe dove faceva coppia con il piú comune cocchio. La realizzazione delle moderne strutture in legno dei tre carri – pur aderendo alla forma antica con notevole approssimazione – è stata concepita essenzialmente come supporto degli antichi resti metallici, mentre si è evitato di riprodurre quella componente essenziale che in origine era la pelle, conciata e cruda, usata sia per chiudere l’abitacolo di biga e calesse sia per rinforzare con legature le connessioni a incastro delle parti strutturali di tutti e tre i veicoli. La funzione di rappresentare quasi in tutto l’antica realtà è stata infine demandata a elaborazioni virtuali tridimensionali, eseguite dall’architetto Dalia Lamura.
il carro Il carro della Regolini-Galassi era un veicolo utilitario a due ruote, da carico pesante, al quale vennero aggiunte le sponde ornamentali in occasione dell’ultimo viaggio, per trasportare il defunto disteso sul letto funebre.
esempi celebri Quando si parla di carri etruschi, si pensa subito a quel capolavoro della categoria che è il carro da Monteleone di Spoleto, espatriato a New York nel 1903 (vedi, in questo numero, anche alle pp. 70-71). Viene anche a mente la biga di Castro, scoperta nel 1967 e ora esposta nel Museo Archeologico Nazionale diViterbo, ma possiamo aggiungere i pannelli bronzei del carro da Capua, ora al Petit Palais di Parigi, e di almeno altri tre da quel ricchissimo complesso tombale che, scavato agli inizi dell’Ottocento a Castel San Mariano presso Perugia, è andato incontro a un destino tragico, essendo i reperti
letteralmente disseminati tra l’Italia, la Germania, la Francia, l’Inghilterra e la Danimarca. I sontuosi rivestimenti metallici di questi esemplari, decorati con scene figurate sbalzate e finemente incise, hanno generato nel vasto pubblico la convinzione, errata, che i ritrovamenti di carri siano casi eccezionaa r c h e o 39
restauri • la tomba regolini-galassi
li o, quanto meno, che un veicolo deposto nella tomba di un magnate etrusco – o italico, perché il caso di Monteleone, per esempio, chiama in causa l’antica alta Sabina – dovesse essere appariscente come quelli che abbiamo appena ricordato.
un fenomeno diffuso Gli archeologi di mezza Italia (diciamo «mezza» perché in alcune antiche regioni, come per esempio la Magna Grecia, non si usava seppellire i carri nelle tombe) sanno invece che non c’è necropoli di un qualche rilievo tra il 750 e il 475-50 a.C. che non abbia restituito da un paio a una dozzina di tombe con carro, in cui gli antichi veicoli – fatti generalmente di solo legno e pelle - sono testimoniati in altissima percentuale dai soli rinforzi metallici delle ruote: cerchioni, fasciature di mozzi, acciarini. Ciò non toglie che anche al piú scarno dei resti di carro debba attribuirsi il solo valore simbolico espresso da tutti gli altri: quello di indicatore del rango tra le classi dominanti nel periodo piú fecondo dell’economia etrusco-italica. Gli Etruschi, i Latini, i Falisci, i Sabini, gli Umbri, i Piceni e gli altri popoli italici insediati allora nelle moderne regioni di Toscana, Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo nell’Italia centrale, Emilia Romagna, Lombardia e Trentino-Alto Adige al Nord, Campania e Basilicata al Sud condividevano l’usanza di deporre nella tomba di un capo – o anche della consorte – i veicoli appartenuti a lui e alla sua famiglia, come prerogativa di rango. Nel periodo orientalizzante (comprendente tutto il VII secolo a.C.), le sepolture dei membri dell’élite etrusca sono spesso racchiuse entro tumuli monumentali e i veicoli a ruote, usati in vita dai proprietari, sono deposti nelle camere funerarie insieme a troni, apparati per il consumo delle carni nei banchetti e servizi per il consumo del vino nei simposi, a testimonianza di uno stile di vita aristocratico mutuato dal mondo vicino-orientale. Durante il VI secolo i carri non fanno piú parte degli 40 a r c h e o
arredi funebri nelle necropoli delle grandi città. L’usanza si attarda invece nei centri non ancora urbanizzati, come a Castro, presso Vulci, o a Castel San Mariano, presso Perugia, da dove vengono gli splendidi carri da parata rivestiti di bronzo. Nella tecnologia applicata ai veicoli in ambito etrusco e in ambito italico non sono state rilevate significative differenze, e tutti i reperti a nostra disposizione si prestano a essere studiati unitariamente. Gli studi finalizzati alle ricostruzioni sono iniziati nei trascorsi anni Novanta in Italia, presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche. I primi risultati sono confluiti nel 1997 nel catalogo della mostra Carri da guerra e principi etruschi, per la quale è stato realizzato un censimento aggiornato che ha quasi raddoppiato la consistenza numerica fino ad allora conosciuta, e che, con i successivi scavi archeologici, supera ormai le 300 unità.
il cocchio e il calesse Le ricerche di quegli anni hanno permesso di comprendere che i veicoli a due ruote deposti nelle tombe erano di due tipi, spesso associati: il carro da guidare stando in piedi e il calesse da guidare stando seduti. Il primo era usato dagli uomini per recarsi al campo di battaglia, alla caccia, alle corse o per sfilare nelle parate; la sua funzione era dunque simile a quella del currus romano (biga, triga o quadriga), che in italiano possiamo chiamare cocchio. Il secondo, non tirato da caval-
li, ma da due muli o asini, era usato anche dalle donne e serviva per brevi o lunghi tragitti, con o senza bagaglio, oltre che per le cerimonie, anche nuziali. La funzione di questo secondo tipo è assimilabile a quella del carpentum romano; per una piú facile comprensione, lo chiamiamo, in italiano, «calesse», anche se il termine può apparire improprio, poiché oggi si intende per calesse un carretto a due stanghe laterali tirato da un solo animale. Il calesse era meno veloce del cocchio, sia per le diverse prestazioni degli animali del tiro − che, come detto, erano muli o asini −, sia, in taluni casi, per le caratteristiche strutturali del traino: se il cocchio era sempre dotato di un asse fissato sotto al pianale e di mozzi che permettevano alle ruote di girare attorno ai suoi bracci cilindrici, il calesse aveva talora un sistema ad asse rotante: in questo caso i mozzi entravano nei bracci a sezione quadrangolare e rimanevano fissi, mentre l’asse girava sotto al pianale imprimendo il movimento alle ruote. Grazie alle ricerche per la ricostruzione dei veicoli provenienti dalla Tomba Regolini-Galassi, siamo in grado oggi di conoscere dal vero anche un terzo tipo di carro a due ruote, quello con pianale lungo un paio di metri, utilizzato nel quotidiano per il trasporto pesante. In occasione dei funerali, carri di questo tipo venivano parati per la cerimonia di trasporto del defunto e talora sepolti insieme a esso.
Se la loro presenza nelle tombe è un fatto tutt’altro che eccezionale, i carri sono, in ogni caso, un elemento che attesta l’appartenenza del defunto all’élite delle classi dominanti
il calesse Trainato da una coppia di muli (o di asini), il veicolo che abbiamo convenzionalmente denominato «calesse» veniva usato sia dagli uomini che dalle donne e poteva essere impiegato per tragitti brevi o lunghi, con o senza bagaglio, oltre che per le cerimonie, anche nuziali.
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mostre • vulci
I PREDATORI DELL’ARTE In alto: Sarpedonte, ucciso da Patroclo durante la guerra di Troia, viene trasportato nella dimora di Zeus da Sonno e Morte, particolare di una coppa a figure rosse dipinta da Euphronios (veduta intera alla pagina accanto). 520 a.C. Qui accanto: l’ingresso della mostra allestita nel Museo di Vulci. A sinistra: cratere a figure rosse del pittore del Saccoso Bianco. Produzione apula, 330-320 a.C. Gli oggetti illustrati nell’articolo sono attualmente esposti nella mostra «I Predatori dell’Arte a Vulci», allestita fino al 31 dicembre 2013 nel Museo Archeologico Nazionale di Vulci.
AL MUSEO DI VULCI di Carlo Casi
Per decenni, le necropoli dell’Etruria sono state una «riserva di caccia» privilegiata degli scavatori clandestini. Oggi, un’affascinante mostra, allestita nel magnifico castello della Badia a Vulci, svela i complessi meccanismi di una rete criminale che all’Italia ha sottratto un numero incalcolabile di capolavori. E racconta di come alcuni di essi siano, fortunatamente, ritornati in patria ...
«S
cusi, ma io prenderei quella navicella sarda; no, guardi, la preferisco al morso di cavallo: sí, è vero che è ben conservato, ma l’idea del viaggio per mare mi piace di piú. Quanto costa?». Forse nessuno ha mai pronunciato veramente frasi simili, ma il tono dei discorsi che si tenevano presso lo showroom di Giacomo Medici nel Porto Franco di Ginevra, non doveva essere molto diverso. Il suddetto, condannato in Cassazione a otto anni di reclusione e a 10 milioni di euro di multa, aveva allestito un vero e proprio supermarket dell’archeologia. Ed era ben organizzato! Con una «sala espositiva», in cui avvenivano le trattative per la compravendita dei reperti, e alcuni magazzini nei quali erano stipati gli oggetti ritrovati negli scavi clandestini italiani (vedi «Archeo» n. 311, gennaio 2011; anche su www.archeo.it). In Italia la pratica del saccheggio ha origini antichissime, se consideriamo che già i soldati romani depredavano le tombe dei vinti alla ricerca di metalli preziosi. Nella prima metà dell’Ottocento, il fiorire del collezionismo antiquario generò una vera e propria caccia al tesoro, con conseguenze disastrose, che toccarono soprattutto le principali città etrusche. Le necropoli di Vulci furono depredate e i reperti venduti e dispersi in tutta Europa. Con l’Unità d’Italia vennero promulgate le prime leggi sulla tutela del patrimonio archeologico, che ne riconobbero sia l’interes-
se pubblico, sia la proprietà allo Stato. Il fenomeno del collezionismo subí, quindi, una brusca frenata, ma quello che era ormai divenuto un furto vero e proprio, continuò a fasi alterne, giungendo sino a oggi.
dieci anni di indagini Ed è proprio grazie a personaggi come Giacomo Medici che lo scavo clandestino, a Vulci e non solo, assume, a partire dagli anni Sessanta, proporzioni drammatiche: non c’è contesto che non risulti almeno disturbato, se non completamente perduto o irrimediabilmente danneggiato. La realizzazione del Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci, sul finire degli anni Novanta, ha scoraggiato l’attività dei clandestini che, seppur ancora presente, nel corso degli ultimi anni risulta notevolmente diminuita. Le difficili indagini – condotte per piú di un decennio dalla Procura di Roma in collaborazione con i Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale e con gli archeologi dell’Ufficio Sequestri della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridio-
nale – hanno permesso l’individuazione della complessa organizzazione che, nel corso di un quarantennio, era riuscita a gestire il traffico illecito di materiali archeologici con l’acclarata complicità di numerosi musei stranieri. Attraverso la documentazione e le fotografie sequestrate nel 1995, è stato infatti possibile ricostruire le rotte per il trasferimento all’estero dei reperti trafugati illecitamente in Italia e gli espedienti utilizzati per legittimarli. Gli oggetti raggiungevano la Svizzera grazie all’ausilio di note ditte di import-export e finivano nel Porto Franco di Ginevra dove venivano affidati a restauratori di fiducia, tra cui una dipendente delle dogane che ne attestava anche l’entrata e l’uscita. A questo punto entravano in campo alcuni mercanti internazionali, come Robin Symes e Robert Hecht, che si occupavano della fase conclusiva del traffico, piazzando i reperti presso un museo o un collezionista.A garanzia dell’autenticità, venivano mostrate le polaroid degli oggetti appena scavati e ancora sporchi di terra. Grazie alle fotografie sequestrate a Giacomo Medici, insieme ad altra documentazione, è stato possibile riconoscere numerosi pezzi, precedentemente venduti ed esposti in famosi musei. Per riciclare i reperti e fornire cosí una provenienza lecita venivano utilizzate alcune delle piú importanti case d’asta. Il sistema funzionava in questo modo: il trafficante, a r c h e o 43
mostre • vulci
verso la svizzera, e oltre...
Cartina delle rotte del traffico illecito di materiali archeologici. Le lunghe indagini culminate con la scoperta del deposito di Giacomo Medici nel Porto Franco di Ginevra hanno messo in luce l’esistenza di un sistema ben rodato, che, innanzitutto, assicurava una patente di legittimità ai reperti acquisiti grazie agli scavi clandestini.
Vulci. Il castello e il ponte della Badia. Il fortilizio è sede del Museo Archeologico Nazionale.
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in dettaglio la storia dei suoi affari, con tanto di nomi dei trafficanti e dei tombaroli. Il manoscritto svela anche un’altra raffinata tecnica di riciclaggio dei reperti: questa volta il sistema prevedeva il coinvolgimento di alcune ricche famiglie americane che si impegnavano nel costituire proprie collezioni archeologiche anche con materiali di provenienza illecita. Nel momento in cui una collezione era divenuta abbastanza importante, veniva organizzata una mostra specifica in uno dei grandi musei statunitensi, cosí da rendere note le opere al pubblico e alla comunità scientifica. La collezione veniva poi i nomi ceduta allo stesso museo che ne dei trafficanti Una svolta nelle indagini si è aveva organizzato l’esposizione poi avuta grazie al ritrovamen- e che, cosí facendo, si metteva to, nella sua casa parigina, del manoscritto di Robert Hecht. In alto e in basso: due immagini Un documento che, per gli in- dell’allestimento della mostra, che quirenti, possiede un valore ec- espone alcuni tra i piú famosi reperti cezionale: vi è, infatti, descritta rientrati in Italia negli ultimi anni. tramite una società di comodo, inviava alla Sotheby’s di Londra (dove poteva contare sulla connivenza dei responsabili del settore antichità), i materiali da vendere all’incanto. Dopo alcune aste in cui i materiali finivano invenduti – ma che erano necessarie per l’accreditamento degli oggetti –, la Sotheby’s procedeva alla vendita. Tutto regolare, quindi, ma solo in apparenza, perché era lo stesso trafficante, tramite un’altra delle sue società, ad acquistare, «legittimando», cosí, l’immissione delle opere sul mercato internazionale.
C’ERANO UNA VOLTA…
In alto: foto aerea del sito di Vulci, il cui territorio è attraversato dal fiume Fiora; in basso, sulla sinistra, sono ben riconoscibili il castello e il ponte della Badia. A destra: il castello e il ponte della Badia. La piú antica attestazione dell’esistenza del fortilizio risale all’età carolingia, mentre la prima fondazione del ponte risale all’età etrusca.
al riparo da qualsiasi contestazione: cosí è stato per le collezioni Fleischman e Templesman, confluite quasi interamente al Getty Museum e per la collezione Levy-White al Metropolitan Museum di New York. La storia della collezione Hunt è diversa: finisce all’asta da Sotheby’s e i capolavori che ne facevano parte vengono distribuiti tra vari musei americani. Tra questi, sono risultati coinvolti il Museum of 46 a r c h e o
Fine Arts di Boston, l’University Museum of Art di Princeton, il Cleveland Museum of Art, il Metropolitan Museum of Art di New York e il J.P. Getty Museum di Los Angeles. Queste isituzioni hanno, insieme ad altri e conosciuti musei europei, sostenuto e a volte direttamente finanziato il saccheggio al patrimonio archeologico italiano e non solo. I reperti in mostra al Museo di Vul-
I passaggi che gli antichi abitanti di Vulci si assicurarono sul fiume Fiora erano almeno tre, ma oggi resta visibile solo quello piú a monte, lo spettacolare ponte della Badia. Costruito al di sopra di un profondo orrido di scure rocce vulcaniche, il ponte è una delle maggiori attrazioni dell’area archeologica vulcente: un «bizzarro ponte a forma di arcobaleno» lo definí lo scrittore inglese David Herbert Lawrence (1885-1930) nei suoi Etruscan Places, paragonandolo a una «bolla nera che si alza nell’aria». In effetti, l’arcata maggiore svetta oltre 30 m dall’alveo roccioso del fiume e si imposta su solidi piloni: l’ardita struttura, articolata originariamente in tre arcate di diverse ampiezze, presenta un nucleo in opera quadrata con blocchi di tufo rosso riferibile con tutta probabilità all’età etrusca e risulta essere stata rinforzata, in epoca romana, da un paramento in blocchi di nenfro e travertino. Il caratteristico andamento a schiena d’asino della pavimentazione a ciottoli, fiancheggiata da alti parapetti ampiamente segnati dallo sfregamento dei mozzi dei carri, rimanda invece a rifacimenti medievali: in quel periodo una delle arcate minori, quella sulla sponda sinistra, fu parzialmente chiusa per ricavarne un vano da utilizzare come mulino ad acqua a uso della
dove e quando Parco Naturalistico Archeologico di Vulci Orario tutti i giorni, 9,00-17,00 Info tel. 0766 89298; www.vulci.it Museo Archeologico Nazionale di Vulci Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; www. etruriameridionale.beniculturali.it
I PONTI DI VULCI piccola comunità che le fonti ricordano essere stanziata in prossimità del castello. Funzionale all’asse viario che collegava l’antica metropoli all’Etruria interna, il ponte della Badia consentiva anche il passaggio dell’acquedotto che riforniva la città captando l’acqua da una sorgente della vicina località Cento Camerelle. Ed è proprio l’alta concentrazione di calcare contenuta nell’acqua che ha provocato, nel corso dei secoli, la formazione di concrezioni calcaree e stalattiti che pendono oggi dal parapetto settentrionale: secondo una leggenda popolare esse sono opera del diavolo, il quale, avendo costruito il ponte in una sola notte, si sarebbe asciugato la fronte con un fazzoletto, poi pietrificatosi. Utilizzato per oltre duemila anni (negli anni Sessanta ancora vi transitavano automobili e trattori!), il ponte della Badia è attualmente chiuso al pubblico, a causa dei danni provocati dall’alluvione del 12 novembre 2012, quando il livello del
fiume Fiora si è alzato di oltre 20 m proprio in corrispondenza dell’antica struttura: la forza dell’acqua ha travolto i piloni, causando il distacco di alcune porzioni di «blocchi di sacrificio» pertinenti a restauri recenti, e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale ha dovuto disporre le necessarie verifiche di stabilità dell’intera struttura. Sorte peggiore è toccata a un altro ponte di Vulci, quello che – costruito nella valle del Fiora nel maggio del 2007 – voleva ripristinare l’ antico e strategico passaggio fornito dal «Ponte Rotto», proprio laddove, nel letto del fiume, grosse porzioni di conglomerato cementizio e numerosi blocchi di travertino forniscono l’esatta posizione del ponte a cinque arcate che, in epoca imperiale, collegava la valle fluviale della sponda destra alla necropoli della sponda sinistra. Nel corso dell’esondazione del 2010 il ponte moderno aveva subito danni alla pavimentazione, immediatamente
ripristinata; nel novembre del 2012, però, il ponte è stato completamente travolto dalle acque del Fiora e divelto dal suo alloggiamento, e attende ora di essere definitivamente smantellato. Di un terzo ponte, il cosiddetto «Ponte Bonaparte», il piú a valle dei tre passaggi sul Fiora, esiste solo la localizzazione fornita da Luciano Bonaparte nel suo Muséum Étrusque, che lo colloca nel settore tra il promontorio meridionale, dominato dalla mole della torre medievale e, sulla sponda opposta sinistra, il santuario di Legnisina.
mostre • vulci Antefissa etrusca in terracotta policroma con Menade e Sileno. Inizi del V sec. a.C. Scavata clandestinamente in Etruria (forse a Cerveteri), l’opera fu acquistata dal J.P. Getty Museum, che l’ha resituita all’Italia nel 2007.
Nella pagina accanto, al centro: navicella in bronzo di produzione sarda a scafo fusiforme con protome bovina e volatile sull’albero, da Vulci. Prima età del Ferro. Vulci, Museo Archeologico Nazionale.
La danze della MENADE E del SILENO L’antefissa etrusca con Menade e Sileno danzanti, attualmente esposta nella mostra allestita a Vulci, proviene certamente da scavi clandestini effettuati in Etruria, forse a Cerveteri. Risale agli inizi del V secolo a.C. e in origine, con ogni probabilità, era collocata sul bordo del tetto di un tempio etrusco-italico. Le figure sovrastano una base dipinta a motivi geometrici: la Menade, con le nacchere in una mano, cerca di sottrarsi all’abbraccio del Sileno, il quale reggendo un corno potorio, l’abbranca per la spalla. Gli splendidi colori
ci costituiscono solamente una piccola parte di quelli sequestrati, lasciandoci intendere, se mai ce ne fosse bisogno, la gravità e le dimensioni mondiali del fenomeno. Per nostra fortuna, si tratta, nel loro caso, di oggetti che hanno finito il loro viaggio proprio lí dove era cominciato.
storie di un Castello misterioso Ben poco, in verità, sappiamo del magnifico castello che ospita la mostra, soprattutto per ciò che riguarda i suoi primi secoli di vita. Il toponimo «della Badia», con il quale sono comunemente noti tanto l’edificio medievale quanto il vicino ponte sul Fiora, rimanda alla presunta origine monastica dell’insediamento e al primo documento a esso riferibile, di epoca carolingia. Nell’anno 809 Faulo e Autari, nobili di stirpe longobarda, donarono infatti i loro possedimenti all’abbazia di Farfa: il documento cita, tra le proprietà oggetto della donazione, anche una chiesa dedicata a san Mamiliano (santo particolarmente ve-
fanno ben risaltare le forme, compreso il bianco incarnato femminile della Menade che contrasta con la piú mascolina ocra del volto del Sileno, in applicazione di canoni tipicamente arcaici. Il mercante d’arte Robert Hecht aveva venduto l’antefissa agli Hunt, che, nel 1990, la misero all’asta da Sotheby’s, dove venne acquistata da Robin Symes e da lui rivenduta lo stesso giorno, per lo stesso prezzo, ai Fleischman. Nel 1993, l’opera fu esposta nella grande mostra sulla collezione Fleischman, tenutasi al J.P. Getty Museum dal quale venne acquistata, nel 1996, allo stesso
nerato in Maremma e vissuto nelle isole dell’arcipelago toscano nella metà del V secolo), ma nessun altro termine del documento consente ulteriori precisazioni sulla collocazione topografica della chiesa citata. La posizione a controllo di un passaggio obbligato sul Fiora rendeva militarmente strategica la difesa del luogo ed è assai probabile che l’aspetto militare abbia ben presto preso il sopravvento sull’elemento ecclesiastico: un documento del 1012 – conservato nel monastero di S. Salvatore all’Amiata, che nel Medioevo possedeva terre e interessi nella zona – nomina un «castellu de ponte», possibile prima citazione del castello della Badia. Quarant’anni piú tardi, nel 1053, torna la menzione di una chiesa di S. Mamiliano, questa volta associata alla citazione di un ponte: l’«abbatiam etiam sancti mamiliani iuxta pontem positam» è infatti In alto: le nozze di Alcesti e Admeto, particolare di un’anfora attica a figure nere attribuita al gruppo delle Tre Linee. 530 a.C. Già facente parte della collezione Fleischman, il vaso fu poi acquistato dal J.P. Getty Museum di Malibu, che lo ha restituito nel 2007.
prezzo del 1990. Alcune delle polaroid sequestrate a Giovanni Medici mostrano un frammento della parte inferiore dell’antefissa e parti di altre, ancora sporche della terra di scavo. Un frammento è andato a ricomporre l’antefissa della collezione Fleischman, mentre gli altri sono stati venduti alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, insieme a un ultimo frammento in mano a un restauratore di Zurigo. Questi oggetti sono ancora oggi esposti nella sezione dedicata all’Etruria dal museo danese, nonostante le evidenti prove riscontrate.
elencata nella bolla con la quale il pontefice Leone IX conferma le proprietà del vescovo Ottone, a capo della diocesi di Castro. È dunque plausibile che, nell’XI secolo, l’insediamento monastico delle origini avesse ormai dato vita a una struttura mista nella quale l’aspetto militare si fondeva a quello religioso. D’altra parte, i vasti terreni agricoli della tenuta vulcente, annessa alla Camera Apostolica nel 1140 (ma piú volte contesa da altre abbazie, come quella cistercense di S. Giusto di Tuscania; o dai grandi feudatari della zona, come gli Aldobrandeschi o i De Vico) meritavano una particolare attenzione e a r c h e o 49
mostre • vulci
cura: per questo, ancora nel XIII secolo, il castellano che si occupava della difesa del maniero era di regola a capo di un drappello di otto soldati, che salivano a dodici nei momenti di maggior pericolo. Tra i castellani citati dalle fonti figurano anche alcuni appartenenti all’ordine dei Templari a controllo di Vulci durante il pontificato di Martino IV (1281-1285); mentre di Lando Gatti, castellano di Vulci nel 1334, sappiamo che aveva il controllo dell’ufficiale addetto alla riscossione del pedaggio che gravava «ab antiquo» sul ponte.
dai farnese a bonaparte Agli inizi del XV secolo anche una donna, Agnesella Monaldeschi, figura tra i proprietari del castello, ma per soli quattro anni; nel frattempo emergeva nella Tuscia un’altra potente famiglia, quella dei Farnese. Nel 1430, Raniero Farnese ottenne da papa Martino V il vicariato di Montalto di Castro comprendente, tra l’altro, il prezioso controllo dell’Abbadia al Ponte: è l’inizio di uno stretto legame che unirà Vulci ai Farnese fino alla distruzione di Castro e del suo ducato, avvenuta nel 1649 per opera delle truppe di Innocenzo X, della famiglia dei Pamphilj. Tanti, dunque, gli uomini, e le donne, la cui storia si intreccia con il castello della Badia. Ma, a partire dall’Ottocento, la vita dei proprie-
tari e degli abitanti del maniero si lega anche a un altro tema, quello della riscoperta di Vulci etrusca, delle prime ricerche antiquarie e archeologiche. Nel 1808 ne divenne proprietario Luciano Bonaparte, protagonista, assieme alla moglie, dei primi sterri e dei primi ritrovamenti archeologici a Vulci; a lui papa Pio VII aveva concesso il fondo di Canino e Musignano e il titolo di principe. Solo alla morte della vedova di Luciano, Alexandrine Bonaparte, nel 1855, la proprietà e i titoli furono acquistati da Alessandro Torlonia, le cui iniziali sono ancora oggi visibili nelle inferriate delle finestre al pianterreno del castello. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento lo Stato italiano iniziò a occuparsi anche di queste zone, ma l’«Ufficio Scavi di Vulci» – che nel 1956 accolse per la prima volta un giovane studente di archeologia, Sergio Paglieri (inviato dall’allora soprintendente Renato Bartoccini a controllare i primi scavi stratigrafici urbani della città etrusco-romana) – sembrava essere una retrovia rispetto agli uffici romani dell’amministrazione centrale: il castello era, infatti, ancora privo di corrente elettrica, dei tre custodi uno era armato di fucile da caccia, e, ogni dieci giorni, il giovane archeologo distribuiva ancora agli operai i viveri inviati dalla Pontificia Opera di Assistenza (100 gr di pasta secca, 100 gr di patate, 40 gr di fagioli, 20 A sinistra: cratere a figure rosse raffigurante guerrieri traci. Pittore della Centauromachia del Louvre, 440-430 a.C. Acquistato dal Museum of Fine Arts di Boston, il vaso è stato restituito nel 2006. A destra, in alto: una sezione della collezione permanente del Museo di Vulci; in basso: un’altra immagine della mostra «I Predatori dell’Arte a Vulci».
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SCOPRIre VULCI A 360° Sebbene la gestione sia divisa tra la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e la società Mastarna srl, il Museo Nazionale Archeologico del Castello della Badia e il Parco Naturalistico Archeologico si possono vivere come un unico, ampio, «distretto archeologico»: la visita agli scavi della città etrusco-romana e dell’area naturalistica, che si può effettuare scegliendo tra i diversi percorsi pedonali il piú adatto alle proprie esigenze, si completa nel corso della giornata con quella dell’interessante collezione esposta nelle sale del museo. Per far conoscere e apprezzare maggiormente la ricchezza del patrimonio archeologico vulcente, fino al prossimo mese di maggio, il Parco Naturalistico Archeologico organizza un calendario di visite guidate domenicali pomeridiane che, fino al 31 dicembre 2013, porteranno anche alla scoperta dei tesori esposti nella Mostra «I Predatori dell’Arte a Vulci e il Patrimonio ritrovato». La visita all’esposizione temporanea
Per saperne di piú I Predatori dell’Arte a Vulci e il Patrimonio ritrovato (guida alla mostra, 2 Agosto-31 dicembre 2013). Euro 5,00. Il volume può essere richiesto a: Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci; e-mail: info@vulci.it; www.vulci.it allestita nella sala al piano terra del castello della Badia, consente di scoprire i meccanismi illeciti del mercato clandestino scardinati grazie a una brillante quanto faticosa indagine durata anni. L’itinerario domenicale prosegue con un breve trasferimento con i propri mezzi alla Necropoli Orientale, dove le guide del parco accompagneranno i visitatori alla celebre Tomba François, magnifico esempio di architettura funeraria etrusca, un tempo affrescata da un ciclo di pitture raffigurante miti greci ed eroi della storia etrusca, oggi proprietà privata (Collezione Torlonia), e alla Tomba delle Iscrizioni, meno nota della precedente pur essendo custode di iscrizioni in lingua etrusca e in lingua latina che consentono di indagare
alcuni interessanti aspetti della cultura etrusca. Alle scuole di ogni ordine e grado (vedi le pagine dedicate alle scuole nel sito www.vulci.it), oltre alle consuete visite guidate e ai numerosi laboratori didattici a tema ambientale (escursioni sensoriali, avventura natura, orienteering) o archeologico (il mestiere dell’archeologo, la preistoria a Vulci, il laboratorio di ceramica, il mestiere del restauratore, e altri ancora) che potranno essere fruiti nel corso di gite scolastiche o campi scuola che si svolgeranno durante l’intero anno scolastico, il Parco Naturalistico Archeologico di Vulci propone fino al 31 dicembre 2013 la visita guidata alla Mostra «I predatori dell’Arte a Vulci e il Patrimonio ritrovato» abbinata alla visita guidata
della Necropoli Orientale e degli scavi archeologici della città etrusco-romana. Fortemente voluta dal soprintendente Alfonsina Russo, su un progetto di Luciana Di Salvio e Simonetta Massimi, la mostra è stata curata da Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini, con la collaborazione di Simona Carosi e Patrizia Petitti della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e di Carlo Casi e Manuela Paganelli della Società Mastarna/Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci.
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gr di lardo e 10 gr di conserva di pomodoro!). Eppure Sergio Paglieri, giorno dopo giorno, si andava convincendo sempre di piú che Vulci fosse «il laboratorio ideale per chi, oltre che nella scienza, crede anche nella necessità di divulgare la scienza stessa». Finalmente, nel giugno del 1975, il soprintendente Mario Moretti inaugurò il Museo Archeologico Nazionale di Vulci. L’attuale esposizione rimanda ancora, in massima
parte, a quella prima musealizzazione, ma il recente utilizzo della sala del pianterreno per mostre temporanee, inaugurato con la mostra «La Sfinge» nell’agosto del 2012, rende necessario un nuovo allestimento, in corso di studio: grazie a esso, e alle nuove e piú aggiornate tecnologie di ricostruzioni virtuali e realtà aumentate alle quali si farà ricorso, si darà finalmente maggiore rilievo anche al meraviglioso edificio che funge da «contenitore», alla
IL ritorno DI ERCOLE Siamo nel 1943, l’Italia è allo stremo e un giovane comandante di un mercantile della Marina statunitense incontra un uomo anziano, disperato per il nipote gravemente ferito, che gli propone uno scambio: cibo e medicine in cambio di una statuina di bronzo. Il comandante accetta e inutile risulta il suo tentativo di lasciare al vecchio il bronzetto che prende quindi il largo sulla nave americana. Durante il viaggio di ritorno, il mercantile viene piú volte attaccato dai Tedeschi e addirittura colpito da un siluro, ma la statuina, raffigurante Ercole, resta indenne. Nel 1948 il comandante lascia la Marina e si mette in affari che lo portano a vivere in Nebraska, Connecticut, New York, e infine si stabilisce con la moglie in Florida; l’Ercole di bronzo è sempre con lui, occupando in ogni casa il posto d’onore della libreria. E arriviamo al 1986, quando il comandante confida a due vicini, Sharon e John Harding, l’intenzione di voler consegnare la statuina a un museo italiano, ma il tempo passa e il comandante muore. La moglie, gravemente malata, decide di affidare la pratica della restituzione ai coniugi Harding, i quali riescono a consegnare, nel 2009, la statuina di bronzo al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma, accompagnandola con una lettera che si conclude cosí: «Ora il bronzetto raffigurante Ercole è tornato a casa in Italia, da dove proviene. Ha vissuto molte avventure e ha viaggiato lontano per 66 anni, dal momento in cui fu portato via dal suo Paese di origine. Ora potrà essere ammirato e goduto da chiunque lo vedrà nel museo; ma in particolare noi speriamo che i bambini italiani, che hanno ereditato un meraviglioso patrimonio di cultura e arte dai loro avi, lo apprezzino e lo mostrino ai loro figli con immenso orgoglio». 52 a r c h e o
La statuetta bronzea di Ercole in assalto è stata restituita all’Italia da Sharon e John Harding di San Diego nel 2009.
sua storia e a quella dei personaggi che lí sono vissuti. A oggi, l’esposizione permanente del piano superiore propone i corredi di sepolture che vanno dall’epoca orientalizzate fino alla romanizzazione di Vulci avvenuta nel 280 a.C. Colpiscono i preziosi balsamari a forma di cerbiatti, di lepre e di anatra, di gamba di guerriero con schiniere e sandalo, elegantemente accennati a rilievo e dipinti, tutti appartenenti al ricchissimo corredo della vulcente Tomba della Panatenaica: raffinate ceramiche grecoorientali, corinzie, attiche, e buccheri locali, databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., tra le quali spicca l’anfora di tipo panatenaico, con raffigurazione di Athena Promachos su un lato e la gara di corsa, che ha dato il nome alla tomba.
nella necropoli della sfinge La Tomba della Panatenaica fu scavata negli anni Sessanta nella Necropoli dell’Osteria (reinterrata, oggi non è piú visibile), la stessa in cui gli archeologi hanno recuperato, nel dicembre del 2011, la splendida scultura raffigurante una sfinge (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012), e dove, fino a pochi mesi fa, erano in corso scavi i cui importanti ritrovamenti (dallo scarabeo egizio alla coppia di mani in lamina d’argento) saranno presto oggetto di nuove comunicazioni. Altro interessante contesto esposto nelle sale del piano superiore è quello costituito dagli ex voto rinvenuti sia in ambito urbano vulcente (presso la Porta Nord), che extraurbano (Tessennano, a circa 14 km da Vulci): dal primo provengono principalmente statuette di neonati in fasce (spesso con bulla al collo) e di bambini in tenera età, mentre dal secondo proviene una grande quantità di ex voto anatomici e di statuette animali. Questi reperti ci narrano le piú intime sofferenze e i piú comuni desideri che gli uomini e le donne di quest’antica metropoli affidavano con totale dedizione ai loro dèi.
civiltà cinese • le origini/9
TANG
L’età dell’oRO di Marco Meccarelli
per poco meno di tre secoli, fino alle soglie dell’anno mille, l’impero cinese vive una stagione di fioritura straordinaria. fu il risultato della felice combinazione di elementi casuali, oppure il frutto di una politica accorta e lungimirante, capace di fare tesoro delle esperienze precedenti?
C’
è un mito che, da sempre, seduce la natura emotiva dell’uomo, ricorrendo nelle trame narrative della leggenda: quello dell’«età dell’oro». Un’epoca armoniosa, in cui il mondo era cullato da un’eterna primavera, privo di leggi, libero da angosce e lontano da fatiche e miserie, nel quale l’uomo, immerso nel «tutto», «tutto» abbracciava. Nel linguaggio comune, ogni civiltà ha «costruito» una o piú età dell’oro, intese come epoche felici, stagioni fortunate e irripetibili, un’utopia nostalgica e retrodatata, di origine letteraria e
mitologica, legata al ricordo di un passato leggendario, ma anche dal valore fondante e fondativo per ogni civiltà, perché trasformatasi nello scenario in cui sono stati formulati i canoni di ciò che si considera tradizionalmente «classico». Tale denominazione è stata da tempo abbandonata dagli studiosi, a favore di un approccio metodologico piú consono a riconoscere e valorizzare, al di là di pregiudizi di sorta, gli elementi distintivi di ogni epoca storica. È comunque innegabile che il periodo Tang (618-907), solitamente considerato l’età dell’oro della Cina, abbia rappre-
Le pagode dell’Oca Selvatica Nell’attuale Xi’an (Shaanxi), famose sono le due pagode dell’Oca Selvatica, che devono il proprio nome alla tradizione secondo cui il Buddha, sotto forma di oca, precipitò esanime al suolo dallo stormo con cui stava volando, affinché un monaco affamato potesse trarne non già nutrimento, bensí insegnamento. La piú grande, la Dayanta (nella foto), aveva in origine cinque piani, portati a sette con i lavori eseguiti tra il 701 e il 705. La seconda, costruita agli inizi dell’VIII secolo, si chiama Xiaoyanta, ed è alta 38 m con 13 piani (15 in origine), sottolineati da altrettanti cornicioni aggettanti: è uno dei piú interessanti esempi tra le pagode Tang caratterizzate dalla curva degli spigoli che convergono verso l’alto, grazie ai piani orizzontali rientranti.
civiltà cinese • le origini/9
sentato uno dei picchi massimi raggiunti dall’impero, il cui dominio si estese fino in Corea,Vietnam, e attraverso l’Asia centrale, persino in Siberia meridionale. La prima capitale, Chang’an, non solo fu il piú grande centro politico ed economico dell’impero, ma fu anche il punto di snodo da cui si dipartivano le principali arterie che mettevano in comunicazione la Cina col resto del mondo: verso occidente, attraverso quel trait d’union che è stata la via della Seta (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013), si percorreva l’Asia Centrale, e poi via via, fino a toccare le coste del Mediterraneo; verso meridione, attraverso Canton, si poteva raggiungere via mare anche il Golfo Persico; verso oriente, attraverso Hangzhou, si poteva arrivare in Corea e in Giappone. Il modello Tang divenne, di conseguenza, un vero e proprio punto di riferimento per tutte le
culture d’Oriente, tanto che si è parlato persino dell’emergere di una «politica panasiatica», almeno sotto il regno di Taizong (762-779), in cui la grande tradizione cinese, ereditata e sviluppata dalla dinastia, assimilò elementi culturali di altri popoli, giungendo a esercitare un’influenza straordinaria sullo sviluppo della storia mondiale.
scambi a lungo raggio Lo Stato unitario multietnico, ampliatosi ulteriormente, sia sul piano economico che su quello culturale – sotto l’egida di un cosmopolitismo senza precedenti –, diede un impulso notevole ai contatti interculturali, con l’intensificarsi degli scambi con gli altri Paesi, che videro
muoversi da Est a Ovest e viceversa ambasciatori, mercanti e monaci, sia cinesi che stranieri. Lo testimoniano le fonti storiche, cosí come i dipinti murali e le statuette funerarie in terracotta che raffigurano spesso individui dai tratti somatici non cinesi e abbigliamenti di foggia straniera. Lo attestano personalità come Xuanzang, il quale, nel 627, intraprese un viaggio verso occidente, toccando l’India e l’Asia Centrale, alla ricerca di testi classici buddhisti, e lasciando poi testimonianze preziosissime ai posteri, come le Memorie dei Paesi Occidentali (Xiyuji), in cui raccolse informazioni precise sulla geografia, la storia, la cultura, l’assetto politico e le usanze e i costumi dei territori da lui visitati. Ma le testimonianze che meglio attestano il carattere cosmopolita della dinastia cinese sono le grandi invenzioni. La carta, come supporto per la scrittura, già usata in Cina da parecchi secoli (vedi
Oggetti in ceramica «a tre colori» (sancai): una brocca e una coppa entrambe decorate con figure umane dai tratti stranieri, una statuetta-recipiente raffigurante uno straniero barbuto e un rhyton a testa di toro. Epoca Tang, fine del VII-prima metà dell’VIII sec. Toronto, Royal Ontario Museum.
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Giallo
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Legenda Dinastia Tang Confini attuali Città capitale
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Mare Cinese Orientale
Fuzhou Guangzhou
Mare Cinese Meridionale
In alto: l’estensione dell’impero cinese in epoca Tang. A destra: statuetta di epoca Tang in ceramica sancai raffigurante un danzatore staniero. Toronto, Royal Ontario Museum. In basso: un’altra statuetta in ceramica sancai raffigurante un giocatore di polo. Collezione privata. Introdotto in Cina dalla Persia, il gioco del polo godeva di grande popolarità presso l’aristocrazia Tang.
«Archeo» n. 340, giugno 2013), si diffuse in Asia Centrale soprattutto dalla metà del VII alla metà dell’VIII secolo, prima che gli Arabi ne apprendessero la fabbricazione, e la trasmettessero in Europa verso il X secolo. E non solo.
carta e polvere pirica L’invenzione o, se preferiamo, la diffusione e il successo della stampa, agli inizi del 700, furono probabilmente dovuti all’apporto e al contributo di diverse civiltà dell’Asia, e a una pratica religiosa buddhista, indiana e centro-asiatica, ma trapiantata nell’allora fertile terreno culturale cinese: lo testimonia il Sutra del diamante, il primo testo completo a stampa dell’868, tradotto da Kumarajiva all’inizio del V secolo, che anticipa la Bibbia di Gutenberg di ben 587 anni. Come se non bastasse, l’invenzione della polvere da sparo, risultato di una serie di ricerche sistematiche sulle proprietà delle diverse sostanze, condotte dagli alchimisti nella loro ansia di trovare l’elisir di lunga vita, va a r c h e o 57
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fatta risalire a un periodo compreso tra il VII e il IX secolo. Le fonti storiche hanno abbattuto il luogo comune secondo cui in Cina si utilizzava polvere da sparo solo per giochi pirotecnici, ma gli «inventori» Tang non potevano certo prevedere le ripercussioni, a dir poco sconvolgenti, che la loro scoperta avrebbe avuto sugli equilibri sociali nel mondo, soprattutto quando l’invenzione raggiunse l’Europa, dove fu utilizzata, sin dal XIII secolo, per scopi bellici. E, infine, si può sostenere con certezza che per almeno due volte, fra il 684 e il 694, venne costruita una torre astronomica a Luoyang, dotata di campane per le ore, tamburi per i quarti d’ora, e pare, nel secondo caso, anche di una ruota delle dodici ore: in concomitanza con altri dati, si ritiene che la torre astronomica fosse fornita del primo esempio di orologio meccanico. D’altronde la Cina di questo periodo era profondamente cosciente dell’importanza delle tecniche e delle scienze, in quanto veicolo dell’alto livello di sviluppo sociale e culturale, nonché di magnificenza, raggiunto dall’impero. Per averne un’idea, basti r icordare che, all’inizio dell’VIII secolo, fu effettuata una spedizione scientifica per la misu-
razione dell’arco meridiano, lungo decadenza alternate a rinascite una distanza di 2500 km, dall’In- dell’impero, ogni volta arricchite di docina ai confini con la Mongolia. nuove eredità culturali e strategie politiche. È possibile, per esempio, suddividere declini e rinascite Di fronte a queste «opere» monu- l’epoca in due periodi distinti: la mentali, dal carattere imperiale, è prima fase, che va dal 618 al 690, in facile scivolare nella mitizzazione e cui si assiste alla progressiva ascesa al nel luogo comune che vede il pe- potere dei Tang, nell’ambito del proriodo Tang come un ininterrotto cesso di unificazione imperiale; e la modello di stabilità politica. Tale seconda, che va dal 705 al 907, in cui interpretazione è contraddetta, pe- la dinastia restaurata fu ben diversa rò, dalle vicende realmente accadu- da quella che si era estinta, pur legitte, che rivelano come l’equilibrio timandosi come famiglia regnante. raggiunto, di volta in volta, sia stato In questo caso, l’ascesa degli Uigur, a anche il risultato di profonde crisi partire dall’VIII secolo, comportò la ideologiche e di non poche guerre parziale decadenza dell’impero, che intestine. Il lungo dominio Tang, però si arricchí di nuove tradizioni e infatti, fu caratterizzato da fasi di culti esteri, come il manicheismo e il cristianesimo (nestorianesimo), provenienti dall’Occidente. Fa da spartiacque la breve dinastia Zhou (690-705), guidata da un’imperatrice donna,Wu Zetian (vedi box a p. 62), che conseguí notevoli successi sullo scacchiere internazionale, dovuti all’intensa strategia diplomatica, oltreché alle azioni militari su larga scala, tanto da porre le basi per una florida rinascita imperiale. Possiamo allora rintracciare i progressi artistici raggiunti dalla dinastia cinese durante i circa tre secoli del suo dominio. La tessitura della seta continuò a costiture il settore principale della produzione artigia-
maestri della penna e del pennello In epoca Tang anche la calligrafia, considerata una delle privilegiate espressioni artistiche cinesi, assieme alla poesia e alla pittura, assume uno slancio senza precedenti, non solamente attraverso uno sviluppo dello stile, ma anche perché l’imperatore Taizong, nel VII secolo, ordinò di raccogliere manoscritti in tutto il regno e di realizzare copie di grande accuratezza. Da questo momento, le doti calligrafiche diventarono indispensabili per superare gli esami di ammissione alla carriera nella pubblica amministrazione. Tra i calligrafi vanno ricordati Zhang Xu e il suo discepolo Huaisu (VIII secolo). Strettamente connessa con la calligrafia è la poesia, che vede emergere Li Bai (VIII secolo), conosciuto in Occidente anche come Li Po e considerato uno dei maggiori lirici cinesi. La sua fama postuma è fondata 58 a r c h e o
soprattutto su poesie brevi, che hanno avuto grande fortuna anche in Europa. In pittura sono da segnalare anche Yan Liben (VII secolo) famoso per i ritratti di personaggi della vita di corte. Fu il pittore preferito dell’imperatore Taizong e gli è stato attribuito il rotolo di oltre 5 m Imperatori e re delle varie dinastie, ora al Museum of Fine Arts di Boston; Wu Daozi (VIII secolo) si rese celebre grazie alle opere paesaggistiche e alle icone di divinità; Zhang Xuan (VIII secolo) divenne famoso per aver ritratto gli svaghi e lo stile di vita della nobiltà; Han Gan, vissuto nella prima metà dell’VIII secolo, fu il piú celebre pittore di cavalli, soggetto particolarmente caro agli imperatori Tang. A tal riguardo spiccano i sei rilievi del 650, raffiguranti cavalli con palafrenieri, trovati nel recinto sepolcrale dell’imperatore Taizong.
Figurine in ceramica sancai di epoca Tang. Collezione privata.
Nella pagina accanto: coppa su piede in porcellana bianca, con medaglioni applicati, da una tomba di epoca Tang presso Xi’an (Shaanxi). 667 circa. In basso: torri lungo le mura della città di Chang’an in una pittura del primo VIII sec., dalla tomba del principe ereditario Yide, nipote dell’imperatrice Wu Zetian, nel Mausoleo Qiangling, a Xianyang (Shaanxi).
nale, tanto che, dalla seconda metà dell’VIII secolo, si unirono ai centri settentrionali piú importanti (Henan, Hebei e Shandong), anche le regioni a sud del fiume Azzurro (Yangzi). Non si fermò, quindi, la notevole produzione di broccati, dai motivi decorativi tradizionali – come draghi e fenici in volo –, che si confondono tra i disegni di origine centro-asiatica, come uccelli, leoni, scene di caccia, ecc. Significativi furono anche i progressi nella produzione della porcellana, una delle attività artigianali piú importanti, conseguiti grazie al perfezionamento costante di tutte le fasi di lavorazione: dalla selezione e preparazione dell’impasto all’applicazione dell’invetriatura, dal controllo della temperatura del forno alle tecniche di modellazione, fino al decoro. Gli intensi scavi effettuati nella provincia del Zhejiang, testimoniano come le fornaci Yue si siano specializzate, in particolare, nella produzione di celadon, dalla caratteristica finezza e compattezza dell’impasto, con un’invetriatura giallo o giallo-verde, liscia ma non trasparente, che ha ricoperto nume-
rosi oggetti di uso quotidiano. Nella provincia dello Hebei, prevalsero le fornaci Xing, che produssero un tipo di porcellana dalla modellazione particolarmente accurata, con un impasto duro e resistente, e un’invetriatura di colore bianco candido. A queste fornaci si aggiunsero inoltre le produzioni di ceramica dipinta sotto coperta di Changsha (Hunan).
tesori a tre colori Un prodotto famoso dell’arte e dell’artigianato Tang è stata la terracotta a «tre colori» (sancai), alla cui invetriatura trasparente a piombo vennero aggiunte quantità di rame, ferro, cobalto, manganese e altri agenti coloranti, prima della cottura a 800 °C, con cui si ottenne una terracotta policroma con tonalità di verde scuro, verde chiaro, blu, giallo, crema, bianco, marrone, ecc. Si registrò il notevole progresso nella lavorazione di oggetti metallici, d’oro e d’argento, che proprio con i Tang raggiunsero una raffinatezza notevole, mediante i procedimenti di intaglio, placcatura o inci(segue a p. 62) a r c h e o 59
civiltà cinese • le origini/9
i tang, tra continuità e innovazione Incontro con Alida Alabiso Alida Alabiso è professore ordinario di archeologia, storia dell’arte e filosofia dell’Asia Orientale presso Sapienza, Università di Roma. Ha all’attivo numerose pubblicazioni sull’architettura della Cina antica, in modo particolare sulle strutture palaziali e il loro collegamento con il potere.
◆ Quali sono i principali elementi
di continuità che, rispetto al passato, si registrano durante l’epoca Tang? Vi sono numerosi elementi di continuità. La dinastia Tang, che resta al potere per tre secoli, continua in sostanza nella politica di sviluppo degli aspetti burocratico-amministrativi ripristinati dalla dinastia precedente, la Sui, oltre a rafforzare le campagne militari di conquista, soprattutto verso l’Asia Centrale. Dal punto di vista religioso i Tang convalidano, in particolare, i culti autoctoni del taoismo e del confucianesimo.
◆ E quali, a suo avviso, sono
invece i principali cambiamenti da segnalare? La Cina dell’VIII secolo diventa un impero cosmopolita, con una capitale che arriva a 1 milione di abitanti, piú un altro nelle vicinanze, mentre strade e canali la collegano alle vie della seta e mettono l’impero in comunicazione con piú di 300 Paesi e regioni diverse che hanno portato oggetti, uomini, idee capaci di influenzare ogni aspetto della vita locale. Tutto ciò segnala un cambiamento notevole a livello culturale e artistico. Molti stranieri, per esempio,
seguirono la loro religione godendo della tolleranza imperiale e furono, quindi, costruiti templi buddhisti vicino a moschee, templi zoroastriani, manichei e nestoriani.
◆ Anche sulla scorta delle sue
ricerche sull’architettura cinese, quali ritiene siano state le principali innovazioni introdotte in questo periodo? Particolarmente interessante è Chang’an, capitale della dinastia, che diventa il «simbolo urbanistico» dell’impero, con un perimetro di quasi 37 km e un’area di 84 Kmq. Tre palazzi imperiali rappresentavano il prestigio di un’architettura che non trova paragoni nel mondo contemporaneo, mentre il sofisticato complesso rituale del mingtang, fatto costruire dall’imperatrice Wu nel VII secolo, si poneva come collegamento tra la tradizione piú antica (conteneva i nove tripodi in bronzo simbolo del potere, vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013, n.d.r.) e il presente.
◆ Quale è stata l’eredità Tang, in
particolare per le dinastie successive? Molti sono gli aspetti che hanno avuto influenza per le dinastie future. In particolare la riorganizzazione burocratico-amministrativa, legislativa e militare, che presenta i caratteri di un saldo impero centralizzato e la grande apertura verso altri Paesi, che ha portato la Cina a costruire templi di culti differenti. Inoltre, con i Tang si affermò il sistema di scegliere i funzionari statali attraverso pubblici esami; tutto ciò coincide con le esportazioni (sete, lacche, porcellane, oro, argento) che hanno contribuito alle aperture di porti commerciali, ancora oggi usati. In architettura, per esempio, si deve ai Tang l’apice dell’equilibrio classico e misurato dell’ornamentazione.
affari di stato e relax La capitale cinese nasce, col nome di Daxing, dalla grandiosa pianificazione avvenuta durante l’epoca Sui (581-618), ripresa e messa in atto dai Tang, prendendo il nome di Chang’an (Shaanxi). La nuova capitale era delimitata da una cinta muraria in terra battuta, dalla pianta rettangolare di 8,6 × 9,7 km, che comprendeva tre porte, su ciascuno dei lati sud, est e ovest, e ben nove porte sul lato nord verso cui si aprivano le vie di collegamento con l’Ovest (Via della Seta) e con l’Est (Pianura Centrale). L’ingresso principale si trovava sul lato meridionale. La pianta si articolava, da nord a sud, in due comprensori principali: la «città imperiale» (comprendente la «città palazzo» e la «città amministrativa»), e la «città esterna». Il rigido sistema a scacchiera del tessuto urbano era scandito da una struttura viaria geometrica, formata dal viale principale nord-sud, che partiva dalla porta meridionale, a cui si affiancavano altri 10 viali, sullo stesso asse, che andavano a incrociarsi ortogonalmente con 14 viali sull’asse est-ovest. La città esterna era divisa in 109 blocchi residenziali. Vi erano due mercati, il Dongshi (mercato est) e il Xishi (mercato ovest), serviti da una rete di canali che li univano tra loro. Cinta da mura, la città amministrativa (4,5 kmq) ospitava i quattro principali organismi destinati alla burocrazia dello Stato.
In alto: pianta a volo d’uccello della città di Chang’an, capitale cinese sotto la dinastia Tang fino alla metà dell’VIII sec. L’agglomerato urbano era diviso in una «città palazzo» e una «città amministrativa», in cui si trovavano i quattro principali organismi burocratici dello Stato.
Due porte principali e tre secondarie sul lato nord della città amministrativa davano accesso alla zona dei palazzi imperiali, protetti a nord da mura a doppio corso. Tra i complessi palaziali, vi era il Taijigong, il piú vasto e importante, mentre nel VII secolo, l’imperatore Gaozong fece costruire nuovi edifici, che presero il nome di Daminggong, e divennero la sede del potere statale. Allo Hanyuandian, si accedeva per una scalinata fiancheggiata da due padiglioni a pianta quadrangolare. Nello Xuanzhengdian, si trattavano gli affari di Stato, venivano emanati gli editti e, talora, veniva sostenuto il grado piú alto degli esami di Stato. Lo Zichendian era destinato alle attività quotidiane dell’imperatore e delle sue concubine. Il Taiyechi era una delle maggiori riserve dei palazzi, nonché un vasto parco ricreativo per la corte. Al centro della città esterna si trovava il complesso buddhista Qianfo, fondato dall’imperatrice Wu (684-704) all’indomani della sua ascesa al trono, e del quale fa parte la pagoda Xiaoyanta. Sulle colline a nord-ovest della città sorgevano i grandi complessi monumentali delle necropoli imperiali, collocate in 18 diverse località. Alla metà dell’VIII secolo iniziò il declino della dinastia e Chang’an cedette all’altra capitale dell’impero, Luoyang.
Ricostruzione moderna della porta di Danfeng, che dava accesso al Daminggong, il complesso palaziale fatto costruire nel VII sec. dall’imperatore Gaozong (628-683) quale nuova sede del potere statale.
civiltà cinese • le origini/9 Ritratto dell’imperatrice Wu Zetian (625-705). Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet. In basso: tazza in argento ageminato, forse da Chang’an. Primo periodo della dinastia Tang, inizi dell’VIII sec. Washington, Freer Gallery of Art.
L’IMPERATRICE... Wu Zetian (625-705) è stata l’unica imperatrice cinese a fondare la propria dinastia, regnante dal 690 al 705, chiamata Zhou. Grande mecenate delle arti, la sua ascesa e il suo regno sono stati fortemente criticati dagli storici confuciani, che la descrivono come un’avida arrampicatrice sociale: entrata nel gineceo imperiale dei Tang con il grado di concubina di talento, conquista il suo favore presso l’imperatore Gaozong (628-683), tramando contro l’allora imperatrice. Un giorno, una delle sue figlie nate da poco, viene trovata morta per strangolamento dopo una visita dell’imperatrice. Quest’ultima viene quindi accusata da Wu Zetian di omicidio. Riuscendo a convincere l’imperatore, nel 654, Wu viene promossa a imperatrice e fa arrestare, torturare e giustiziare tutti i suoi nemici. Secondo la tradizione confuciana avrebbe ucciso di persona la figlia per raggiungere i suoi scopi, cosí come due dei quattro figli avuti da Gaozong. Nel 690 si proclama «imperatore della dinastia Zhou» legittimando la discendenza dall’antica dinastia Zhou (XI-III secolo a.C.).
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sione, solo per citare i piú famosi. Rinvenuti un po’ in tutta la Cina, nel 1970, presso Xi’an (Shaanxi), in un unico deposito, ne sono stati trovati ben 270. Decorazioni dalla grande varietà e ricchezza di motivi iconografici, tra cui grappoli d’uva, animali compositi, fiori-euccelli e miti autoctoni, adornarono gli specchi in bronzo, proprio mentre i dipinti murali costituirono una parte consistente della pittura dell’epoca, andando ad abbellire le pareti delle grotte, dei templi e delle tombe. L’apice della pittura del primo periodo Tang, in cui la rappresentazione di figure mitiche, scene di caccia e cortei, cortigiani e ambasciatori, funzionari e dame di corte si unisce a quella di torri di guardia, motivi astrologici e persino del gioco del polo (tombe dei principi ereditari Zhanghuai e Yide e della principessa Yongtai, inizi dell’VIII secolo, Qianling, Shaanxi), può essere individuato non soltanto nei dipinti dei sepolcri imperiali, ma soprattutto in quelli della famiglia reale e degli alti dignitari. Nei pressi di Dunhuang (Gansu), lungo il percorso della via della Seta, imponenti pitture murali di tematica buddhista di epoca Tang decorano le pareti di ben 288 (piú della metà) grotte di Mogao.
Non da meno è la scultura in pietra, come attesta un gruppo di statue, tra cui quella del Buddha alta 17 m, presso il tempio di Fengxian (grotte buddhiste di Longmen, Henan), terminato nel 676, a cui contribuí in larga misura l’imperatrice Wu Zetian. In epoca Tang gli scultori sembrano volgersi anche a materiali piú malleabili come il bronzo, l’argilla e il legno, con cui venne praticata con successo, soprattutto nell’VIII secolo, la scultura a tutto tondo, che determinò una rottura con l’antica predilezione per uno stile essenzialmente lineare, elemento distintivo della produzione scultorea precedente.
nuovi canoni plastici Tra l’VIII e il IX secolo, si registrò la crescente accentuazione delle forme, con un movimento incessante del panneggio, che andò a definire la complessità delle pieghe, mentre l’aspetto fisico divenne sempre piú corpulento. Lo sviluppo della scultura buddhista cinese giunse cosí a codificare, in maniera definitiva, il proprio canone: la combinazione di forme piene e potenti, le ricche e brillanti tonalità cromatiche e l’attenzione al gioco delle linee ornamentali, diedero origine a una tendenza che divenne il fondamento di tutta la scultura religiosa cinese delle epoche successive. Di tutt’altro genere sono invece i circa 60 ritratti di ambasciatori stranieri e comandanti delle minoranze etniche, collocati all’inizio della Shendao (via degli spiriti o via sacra) di Qianling (Shaanxi), che conduce alla tomba eretta in onore dell’imperatore Gaozong (r. 649-683), inumato assieme alla consorte, Wu Zetian. In questo caso le statue presentano uno stile massiccio e volutamente statico, tanto da risaltare per la disposizione chiaramente monolitica, con cui esprimere il senso della maestosità e dell’imponenza del luogo della sepoltura imperiale.
Lo scavo della tomba di Shangguan Wan’er (664-710), unica donna mandarino («primo ministro») della storia cinese, sotto l’imperatrice Wu Zetian. Il sepolcro è stato scoperto nello scorso settembre, nei pressi di Xianyang (Shaanxi).
Il simbolo per eccellenza del cosmopolitismo e della grandiosità del periodo Tang è comunque rappresentato dalla capitale Chang’an, una vera e propria metropoli, che copriva una superficie di 84 kmq, suddivisa in una rigida planimetria a scacchiera, contenente al suo interno piú di un milione di abitanti, tra cui numerose minoranze etniche delle regioni di frontiera. Delle grandiose regge del periodo rimangono oggi poche vestigia e rappresentazioni pittoriche, ma particolarmente interessanti sono i reperti che si riferiscono al Palazzo del Grande Splendore (Daminggong), costruito a partire dal 634, che fu la residenza imperiale per piú di due secoli. Comprendente piú di trenta edifici, divisi in tre gruppi principali (anteriore, centrale e posteriore), dotati di altrettanti cortili e disposti secondo un asse nord-sud, il palazzo includeva a settentrione anche un
vasto giardino, dominato dal Laghetto della rugiada divina (Taiyechi), con un isolotto centrale, circondato da padiglioni, chioschi, torri e gallerie. Facevano parte del complesso architettonico anche La Sala della Virtú dell’Unicorno (Lindedian), luogo per le udienze, e la Sala della Vitalità Avvolgente (Hanyuandian) che, secondo le fonti scritte, serviva per le cerimonie piú importanti.
nel segno dell’oca Le pagode, elaborazione cinese dello stupa indiano (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013), persero la centralità della loro collocazione all’interno dei monasteri, e già dall’VIII secolo non si trovarono piú sull’asse principale dell’area sacra. Famose sono le due Pagode dell’Oca Selvatica (Dayanta e Xiaoyanta), a Xi’an (Shaanxi), la piú grande delle quali, alta 64 m, fu
...e la «mandarina» Nel settembre 2013 è stata annunciata dagli archeologi cinesi la scoperta della tomba di Shangguan Wan’er (664-710), una delle donne piú importanti dell’antica Cina: secondo gli storici, infatti, si tratta dell’unico mandarino donna, vissuto durante il regno dell’imperatrice Wu Zetian che la scelse per il suo talento poetico e amministrativo. Secondo alcune fonti, Shangguan avrebbe avuto relazioni con un figlio, un nipote e l’amante dell’imperatrice. Morí nel 710, probabilmente condannata alla pena capitale con l’accusa di aver partecipato a una cospirazione per un colpo di Stato. La tomba è stata scoperta vicino all’aeroporto di Xianyang (Shaanxi). Gravemente danneggiata, conserva ancora alcuni corredi funerari, tra cui alcune sculture di persone a cavallo e accessori funerari tipici delle sepolture cinesi. L’identità della tomba è stata determinata da un epitaffio. a r c h e o 63
civiltà cinese • le origini/9
Moltiplicare lo spazio In alto: il padiglione principale (sala del Grande Buddha) del tempio Foguangsi (monte Wutai, Shaanxi). Eretto nell’850, è la piú grande costruzione lignea di epoca Tang. In basso: disegno ricostruttivo della struttura architettonica del padiglione stesso, edificato secondo il canonico schema modulare fissato da 4 colonne legate da travi. La moltiplicazione del modulo, l’intercolumnio, permetteva di realizzare strutture di differente grandezza, su alto basamento, col tetto a spioventi sostenuto da un sistema di mensole a incastro, che potevano moltiplicarsi in altezza e in larghezza.
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costruita nel 652, per conservare i testi che il monaco Xuanzang aveva portato al suo ritorno dall’India. Tra gli edifici databili all’epoca Tang che hanno conservato la struttura originale, è da segnalare il piú antico, costruito tra il 618 e il 782, ovvero la sala principale del Monastero Meridionale della Meditazione (Nanchansi, Shanxi).
Ciò che emerge dall’architettura Tang è sicuramente la piena maturazione, cosí come accade nella scultura, dei canoni tipici della tradizione cinese: l’utilizzo del legno, resistente ed elastico, favorisce lo sviluppo di un sistema modulare, definitivamente fissato da quattro colonne legate da travi. La moltiplicazione del modulo, cioè l’intercolumnio, permette di realizzare ambienti di grandezze variabili, il cui alto basamento (normalmente in terra battuta) serve a proteggersi dalle intemperie. Il tetto presenta spioventi molto ampi ed è sostenuto da un articolato sistema di mensole a incastro che, moltiplicandosi in larghezza e in altezza, permette di aumentare considerevolmente la sua superficie e di sorreggere il peso della copertura. Un esempio di tale modalità costruttiva è rappresentato dalla piú grande costruzione lignea risalente all’epoca Tang, il padiglione principale del tempio Foguangsi (Shaanxi), eretto
una reliquia preziosissima Nel 1987, durante i restauri della pagoda nel tempio Famen, a Fufeng (Shaanxi), fu scoperta una cripta di epoca Tang, al cui interno furono trovati doni della famiglia imperiale, tra cui una preziosissima reliquia (sarira): la falange di un dito di Sakyamuni, il Buddha storico, vissuto nel VI secolo a.C. In epoca Tang, il tempio godette di grande prosperità, in un periodo in cui vi fu l’usanza di trasportare al palazzo imperiale le reliquie del Buddha, assieme a preziosi doni. Col tempo, il monastero, costantemente visitato da pellegrini e monaci, fu soggetto a ripetuti ampliamenti e ristrutturazioni. La reliquia del Buddha è stata rinvenuta nel piú piccolo degli otto reliquiari, a forma di pagoda, contenuti gli uni dentro gli altri e realizzati in oro e argento. All’interno del tempio sono stati ritrovati 121 oggetti in oro e argento risalenti al IX secolo, di fattura raffinatissima, molti dei quali utilizzati per le liturgie. Da segnalare uno scettro (ruyi), una scatola in forma di tartaruga, due bastoni buddhisti con 12 anelli, un’immagine del Buddha, tre coppe, una ciotola per le offerte, due incensieri, una bottiglia, un cesto. Tra i reperti rinvenuti sono da ricordare anche i vasi di vetro, alcuni dei quali provenienti dal Vicino Oriente, e oltre 400 reperti in giada e gioielli.
nell’850, molto simile alla sala principale del tempio Toshodaiji in Giappone, in cui si sono conservate numerose strutture architettoniche scomparse in Cina.
i paesaggi di wang wei La canonizzazione non riguarda solamente la scultura e l’architettura, ma anche la pittura dell’epoca Tang. Tra le personalità di spicco che si distinguono,Wang Wei (699759), poeta ed erudito, nonché, secondo la tradizione, uomo di nobile carattere e di elevati sentimenti, fu considerato, dai sapienti delle ultime dinastie cinesi, come il capostipite della tradizione dei letterati (wenren) e i suoi paesaggi in pittura come le espressioni delle piú alte virtú confuciane. Privilegiando i mezzi espressivi dell’inchiostro monocromo, Wei assecondò la sua ispirazione con gli espedienti che la piú nobile delle arti, la calligrafia, gli mise a disposizione. D’altro canto, Li Suxun (metà
del VII secolo-715?) e Li Zhaodao (VIII secolo) furono invece considerati i fondatori di uno stile pittorico estremamente particolareggiato nei dettagli, mediante l’utilizzo di colori vivaci, con predominanza di azzurro e verde, che portò alla perfezione quel «tratto meticoloso» (gongbi), con cui sono stati riconosciuti gli elementi base per dipingere secondo lo stile accademico. I Tang fissarono definitivamente i propri canoni artistici, sociali e culturali, lasciando una traccia indelebile nel divenire storico della civiltà cinese. Le dinastie che, ciclicamente, tra periodi di divisioni e riconquiste territoriali, tornarono a dominare l’impero, hanno di volta in volta legittimato la propria tradizione, attingendo al nostalgico ricordo di un passato, per certi versi leggendario, come quello Tang. Ciò rende giustizia, almeno in parte, alla bramosia di trasformare questi secoli nella mitica età dell’oro cinese. (9 – fine)
In alto: la pagoda del tempio Famen, a Fufeng, costruito all’epoca degli Han Orientali (25-220) e ampliato durante il periodo Tang. In una cripta sono stati ritrovati preziosi reperti, forse dono della famiglia imperiale, e 4 reliquie buddhiste, tra cui un dito di Sakyamuni (Siddhartha Gautama, il Buddha storico) conservato in un reliquiario in oro (foto a sinistra).
nelle puntate precedenti Le puntate precedenti di questa serie sono state pubblicate nei seguenti numeri: • 335. Cina, le origini • 336. L’età della giada • 337. I bronzi del potere • 338. Stagioni di guerra • 339. Il sogno del primo imperatore • 340. Han. I «primi cinesi» • 342. Una via e le sue leggende • 343. E vennero i «secoli bui» Gli articoli sono disponibili anche on line, sul sito www.archeo.it a r c h e o 65
mitologia • istruzioni per l’uso/8
una perfetta
macchina da guerra
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nella figura di Achille La mitologia greca conserva il prototipo del guerriero: implacabile e feroce contro i nemici, ma impulsivo e duro anche con gli amici. sconfisse tutti i suoi piú grandi avversari, prima di cadere egli stesso per una banale ferita di Daniele F. Maras
Il carro di Achille protetto di Marte travolge Ettore, affresco dipinto da Antonio Calliano nel 1815 nella Sala di Marte della Reggia di Caserta. Figlio della dea marina Teti e del mortale Peleo, re dei Mirmidoni, Achille era stato reso invulnerabile dalla madre, eccetto che per il tallone. Di carattere orgoglioso e ribelle, partecipò alla guerra di Troia dimostrandosi il piú valoroso degli Achei.
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mitologia • istruzioni per l’uso/8
T
ra tutti gli eroi del mito, fatta eccezione forse per Ercole (che però era un semidio), il piú famoso e cantato dai poeti fu senz’altro Achille, vero prototipo del guerriero perfetto: bello, atletico, a suo modo romantico e sempre vincitore. La sua storia è ricca di avventure, ma anche di stereotipi mitologici: tutti ricordiamo i fatti narrati da Omero; ma molto meno note sono le vicende precedenti alla guerra di Troia e successive ai funerali di Patroclo (che concludono l’Iliade). Achille era figlio di Teti, una dea marina della cerchia di Poseidone, che aveva il potere di assumere qualunque forma volesse. Un oracolo aveva previsto che un figlio nato da lei sarebbe stato di gran lunga piú grande e famoso del padre, per cui Zeus e Poseidone, che all’epoca corteggiavano la fanciulla divina, cambiarono subito idea! Addirittura, per non correre rischi, il padre degli dèi scelse Peleo – il re dei Mirmidoni in Tessaglia – come futuro sposo di Teti, per evitare che questa scegliesse un marito divino. Come si può immaginare, la fanciulla era recalcitrante all’idea di sposarlo; anzi, a dire il vero, sembrava voler restare nubile ancora per molto. Ma in aiuto di Peleo venne il saggio Chirone (che era stato suo maestro, vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013), consigliandogli di sorprenderla mentre era da sola e di tenerla ben salda, qualunque cosa dovesse succedere. Peleo obbedí e non mollò la presa nemmeno quando Teti si trasformò in successione in una fiamma, in un getto d’acqua, in un leone, in un serpente, persino in una seppia e in altre forme. Alla fine, vinta dalla stanchezza e ammirata dalla tenacia di Peleo, la dea accettò di sposarlo e vennero organizzate nozze memo-
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rabili alle quali furono invitati tutti gli dèi. Tutti tranne Eris, dea della discordia, e Ares, dio della guerra. Una dimenticanza che ebbe conseguenze disastrose, perché Eris comparve in mezzo alla sala e gettò il proverbiale «pomo della discordia» tra le dee, dicendo che era destinato alla piú bella. Dalla contesa che ne derivò furono gettate le basi per la futura guerra di Troia, in cui ampia parte avrebbe avuto proprio il nostro Achille.
Immortalità mancata Teti, però, era stata educata come una dea e non si rassegnava a dover vivere una vita da mortale. In particolare, non poteva tollerare che i suoi figli fossero esseri umani normali: perciò, ogni volta che ne nasceva uno, con le sue arti magiche cercava di garantirgli l’immortalità. Ben nota è la leggenda secondo la quale Achille sarebbe stato immerso nelle acque dello Stige, il fiume infernale, diventando cosí invulnerabile eccetto che nel tallone, per il quale la madre delicatamente lo teneva. Meno conosciuta, invece, è la versione secondo cui Achille non sarebbe stato che il settimo figlio di Teti: i primi sei venivano regolarmente immersi nelle fiamme dalla madre per trasformarli in dèi imAchille e Aiace giocano a dadi, particolare di un’anfora attica a figure nere dipinta dal pittore e ceramista Exechias. 575-525 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco.
mortali, e per questo venivano immediatamente rapiti al cielo. Insospettito dalla sparizione continua dei figli, Peleo le tese un agguato e, non appena la moglie mise il piccolo Achille nelle fiamme, balzò nella stanza, gridando alla stregoneria. La dea, adirata si manifestò nella sua potenza e, sdegnata contro il marito, si ritirò nel suo reame marino. Il bambino, però, era rimasto nel fuoco troppo a lungo e senza la protezione della madre, per cui, nonostante fosse divenuto invulnerabile (e immortale) in tutte le parti del corpo, il suo tallone era irrimediabilmente bruciato. A questo punto intervenne di nuovo il centauro Chirone, mitico inventore della medicina, che trapiantò nel bambino l’osso del tallone del velocissimo gigante Damiso, ormai defunto, salvando l’integrità di Achille e donandogli la sua proverbiale velocità. Ma c’era un effetto collaterale indesiderato: quell’osso non era stato trattato da Teti e sarebbe rimasto per sempre vulnerabile e mortale.
I sotterfugi della «Rossa» Achille crebbe sano e forte e fu affidato alle cure di Chirone, che lo prese a cuore e provvide alla sua istruzione: infatti, allevandolo nei boschi, gli insegnò l’uso delle armi per la caccia e per la guerra, la medicina, la musica e il canto, la lealtà e la frugalità; ma non l’autocontrollo, purtroppo: il ragazzo rimase sempre irruento e volitivo, tratti caratteriali che finirono con il portarlo alla rovina. Quando fu cresciuto, il nostro eroe prese il suo posto al comando dei Mirmidoni, con i quali condivideva la natura bellicosa. Stando a Omero, è a questo punto che fu raggiunto dalla convocazione di Agamennone per prendere parte all’assedio
Il duello tra Achille e Memnone, sul corpo giacente di Antiloco, particolare di un cratere a figure nere di Exechias. 575-525 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
di Troia. Ma, in realtà, una leggenda poster iore, taciuta o ignorata dall’Iliade, racconta una versione assai poco onorevole di questa convocazione. Secondo il poeta romano Papinio Stazio, autore di un’Achilleide, la madre di Achille, Teti, aveva saputo da un oracolo che suo figlio non sarebbe sopravvissuto alla guerra di Troia e aveva provveduto a nasconderlo presso la corte di Licomede, re di Sciro. Qui, per non farsi riconoscere, Achille aveva indossato abiti femminili e, con il nome di Pirra – letteralmente «la Rossa» –, si presentava come damigella di compagnia delle figlie del re. Secondo questa versione, l’eroe renitente alla leva ebbe cosí modo di conoscere la maggiore delle principesse, Deidamia, che sposò in gran segreto e dalla quale avrebbe avuto Neottolemo, futuro re dell’Epiro. Perciò, i re achei inviati a convocare Achille per la guerra non riuscirono a trovarlo e lasciarono al solo Ulisse
il compito di risolvere la questione: questi raccolse informazioni e, non appena ebbe scoperto il presunto nascondiglio dell’eroe, si travestí da mercante di tessuti e si presentò alla corte di Licomede. Qui fece uso della sua abile parlantina e mise in mostra abiti e stoffe meravigliosi, fra i quali aveva nascosto una spada, una lancia e uno scudo: le figlie del re accorsero deliziate per ammirare le mercanzie e la sola Pirra si interessò alle armi. Proprio in quel momento, Ulisse diede un segnale e all’improvviso si udí lo squillo di una tromba di guerra: le fanciulle gridarono spaventate, mentre Achille imbracciò d’istinto le armi rovinando il proprio travestimento. A questo punto Achille tornò in sé e partí per la guerra, dichiarando che preferiva senz’altro una vita breve ma eroica a una lunga e ingloriosa.
L’«ira funesta» Teti non poté far altro che donare al figlio una completa armatura di fabbrica divina, prodotta nell’officina di Efesto, che lo avrebbe protetto da qualunque ferita. Achille giunse a Troia con il resto della spedizione e si distinse in ogni occasio-
ne come il piú valoroso degli Achei: in nessuno scontro veniva eguagliato dall’avversario, né tantomeno sconfitto. Nei primi anni di guerra, oltre all’assedio vero e proprio, gli invasori condussero una serie di campagne volte a saccheggiare e devastare la regione, per privare la città di Troia dei suoi alleati piú vicini. Nel corso delle spedizioni, Achille raccolse un bottino enorme alla testa dei suoi Mirmidoni e in particolare, a Lirnesso, trasse in schiavitú la bella Briseide, che prese come concubina. I rapporti con Agamennone, capo degli Achei, rimanevano sempre tesi, a causa della riottosità di Achille, che mal sopportava di dover sottostare agli ordini di qualcuno. Ma il divario tra i due divenne insopportabile quando Agamennone, avendo dovuto restituire la libertà alla propria schiava Criseide per volontà di Apollo (che altrimenti avrebbe decimato la spedizione con una terribile epidemia), pretese che in cambio gli venisse data Briseide. La lite fu furiosa nello stato maggiore degli Achei e Achille estrasse la spada pronto ad affrontare il suo superiore: sarebbe finita in tragedia se l’intervento di a r c h e o 69
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Nestore, il piú saggio dei Greci, non avesse placato gli animi. Vedendosi costretto, Achille cedette Briseide, ma si ritirò dalla lotta assieme ai Mirmidoni e, dando prova di essere rimasto, in fondo, un ragazzino impetuoso e ribelle, si chiuse nella propria tenda per assistere alla disfatta dei compagni. Il che puntualmente avvenne: in assenza del loro avversario piú temibile, i Troiani partirono alla riscossa e fecero strage degli Achei, arrivando quasi a ricacciarli in mare. A nulla valsero ambascerie e richieste di perdono da parte di Agamennone e degli altri re: neppure di fronte alla restituzione di Briseide, Achille accettò di tornare in battaglia.
Per vendicare Patroclo Ma se la sconfitta degli Achei non commuoveva il fiero eroe, riuscí a smuovere il suo fedele compagno Patroclo, che cercò di intercedere presso di lui per convincerlo a tornare sul campo. Ma non ottenendo altro che un rifiuto, Patroclo chiese al suo amico di permettergli almeno di indossare le armi divine e di guidare i Mirmidoni contro i Troiani. Achille non seppe opporsi a questa richiesta, ma, nonostante il valore dimostrato e la protezione delle armi fabbricate da Efesto, Patroclo morí, ucciso da Ettore, l’erede al trono di Troia. Il dolore di Achille per la perdita del compagno fu tale che dimenticò tutto e tutti: con nuove armi divine,
Le gesta di Achille su un carro principesco L’Iliade di Omero si conclude con i funerali di Patroclo, ma la guerra di Troia andò oltre questo episodio ed ebbe termine solo con la presa della città da parte degli Achei, con il famoso stratagemma del cavallo. Grande rilievo ebbero sempre le gesta di Achille, celebrate sia nella letteratura che nelle arti. Episodi della vita dell’eroe sono raffigurati anche sui pannelli del principesco carro da parata proveniente da Monteleone di Spoleto (PG), risalente al VI sec. a.C. e oggi conservato nelle Greek and Roman Galleries del Metropolitan Museum of Art di New York.
Pannello sinistro Combattimento tra Achille e Memnone, re degli Etiopi sopra il corpo di Antiloco, amico di Achille ucciso dallo stesso Memnone. Il duello, narrato nelle Etiopiche di Arctino di Mileto, si concluderà con la vittoria di Achille.
achille
memnone
chirone
antiloco
achille ragazzo
Pannello centrale Scena principale della narrazione, con Teti che consegna ad Achille le armi forgiate dal dio Efesto. I due uccelli sembrano rappresentare due presagi, uno positivo e l’altro negativo: quello di sinistra annuncia a Teti che il figlio morirà in guerra, quello di destra annuncia ad Achille la sua futura gloria.
Pannello destro Apoteosi di Achille, che raggiunge l’isola dei beati su un carro trainato dai cavalli alati Balio e Xanto. La figura sotto il carro potrebbe essere la principessa troiana Polissena, sacrificata da Neottolemo sulla tomba del padre.
achille cavalli balio e xanto
achille
polissena
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procurategli da sua madre, scese in battaglia travolgendo tutti i nemici sulla sua strada e non si fermò finché non ebbe scovato Ettore, che sfidò a singolar tenzone. Il principe troiano accettò coraggiosamente, nonostante sua moglie lo scongiurasse di non andare, presagendo il peggio: l’epico scontro fu cantato da Omero, che narra come la lancia di Achille riuscí a trapassare tutti gli strati di cui era composto lo scudo dell’avversario, fino a ferirlo a morte. Vistosi spacciato, Ettore implorò il suo nemico di restituire la sua salma al padre, perché potesse almeno ottenere una legittima sepoltura; ma Achille rifiutò, ancora accecato dall’odio per l’uccisore di Patroclo, che però, prima di morire, fece a tempo a profetizzare l’ormai prossima fine del campione degli Achei. L’odio di Achille non si fermò nemmeno con la morte di Ettore: il re dei Mirmidoni continuò a infierire sul cadavere per dodici giorni, trascinandolo dietro al proprio carro intorno alle mura di Troia, dietro alle quali si erano rinchiusi i Troiani terrorizzati da tanta ferocia. Alla fine gli dèi stessi si sdegnarono per questa mancanza di rispetto per i morti e ordinarono ad Achille di cessare tale condotta vergognosa; l’eroe, allora, gettò il corpo insepolto ai cani e agli uccelli, finché non venne lo stesso Priamo, re di Troia, in veste da supplice a chiedere la restituzione del corpo. La visita di Priamo alla tenda di Achille è una delle pagine piú intense e commoventi della poesia epica greca, permeata di tensione tragica e di sentimento: il vecchio re fece appello ai migliori sentimenti di Achille, ricordandogli che anche lui aveva un padre e che questi sarebbe stato straziato di non poter avere nemmeno il corpo di suo figlio per piangerlo e seppellirlo con tutti gli onori. Di fronte a tanto sincero dolore, Achille ritrovò la ragione, depose l’odio e sollevò da terra il vecchio Priamo inginocchiato, restituendogli i resti mortali di Ettore e promettendo, per celebrare i fune72 a r c h e o
rali una tregua di dodici giorni po, quando Pentesilea, ormai trafit(tanti quanti quelli in cui aveva ta a morte, lasciò cadere l’elmo e infierito sul corpo). rivolse lo sguardo stupito verso il suo avversario. Sfortunato in amore Achille fu tanto colpito dalla bellezL’Iliade si conclude con la scena dei za e dal valore della sua nemica, da solenni funerali in onore di Patro- innamorarsene perdutamente nel clo, ma le ultime gesta di Achille momento esatto in cui la stava perfurono narrate da un altro poeta dendo per sempre: pianse lacrime epico, Arctino di Mileto, che com- amare sul suo corpo e attraversò le pose un poema chiamato Etiopide, linee nemiche, nell’infuriare della dedicato alla partecipazione delle battaglia, per renderlo alle sue comAmazzoni e degli Etiopi alla guerra pagne e assicurarle una sepoltura di Troia, dopo la morte di Ettore. corretta. Si accorse della scena TerDa questo punto di vista Achille era site, il piú vile e maldicente dei l’avversario da battere tanto per guerrieri achei, che non mancò di Pentesilea, regina delle donne guer- prendere in giro Achille per essersi riere, quanto per Memnone, figlio innamorato di una morta; al che di Eos, la dea dell’aurora, e re del l’eroe, accecato dalla furia (che lo prendeva ogni volta che vedeva il popolo africano. L’intervento delle Amazzoni fu decisivo per riequilibrare le sorti dello Nella pagina accanto: Aiace trasporta scontro, mettendo gli Achei in il corpo di Achille, particolare della grande difficoltà, finché ancora una decorazione di una delle anse del volta Achille non scese in campo ad cratere noto come Vaso François, affrontare Pentesilea. Lo scontro fu da Chiusi. 600-550 a.C. Firenze, leggendario, anche se l’esito era già Museo Archeologico Nazionale. scritto, data l’immortalità dell’eroe In basso: rilievo di sarcofago con greco e le armi divine che indossa- Achille che piange la morte Patroclo, va; ma prese un’imprevista piega da Tiro (Libano). II sec. d.C. Beirut, romantica e tragica allo stesso tem- Museo Nazionale.
suo onore offeso o deriso), lo uccise con un pugno. Dopo le Amazzoni, come si è detto, fu la volta degli Etiopi a fronteggiare l’impeto degli Achei: il loro re Memnone, infatti, poteva vantare un’origine divina non inferiore a quella di Achille e, quando si giunse all’inevitabile duello tra i due, gli stessi dèi furono chiamati in causa per deciderne la sorte. Sia Teti, madre di Achille, che Eos, madre di Memnone, si affrettarono a recarsi da Zeus per chiedere la grazia per il proprio figlio: nell’arte classica sono numerose le rappresentazioni dell’indecisione del padre degli dèi, implorato dalle due madri divine. Di regola Zeus è rappresentato nell’atto di sollevare una bilancia a due piatti, sulla quale si immaginava fossero poste le sorti dei due eroi. Fatalmente, il responso fu avverso a Memnone, il cui piatto si rivelò piú pesante. La punta della lancia del re degli Etiopi si piegò sulla corazza divina del suo avversario, incapace di trapassare il bronzo forgiato da Efesto; al contrario la lancia di Achille colpí al cuore Memnone, lasciandolo esanime. La migliore rappresentazione del duello è senz’altro il rilie-
vo sulla parete sinistra del carro di Monteleone di Spoleto, prodotto in Etruria nel VI secolo a.C. e oggi conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York. Straziata, l’infelice Eos sollevò il figlio Memnone e lo portò in volo nel paese degli Etiopi, nel Sud dell’Egitto, dove ancora in epoca tarda i Greci credevano di riconoscere l’immagine dell’antico eroe nei cosiddetti «Colossi di Memnone»: due antichissime statue gemelle, raffiguranti il faraone Amenofi III, erette presso la città di Tebe.
dell’eroe acheo – l’unica parte esposta del suo corpo – causandone la morte immediata. Esisteva, però, una versione alternativa della vicenda, secondo la quale Achille si era innamorato della principessa troiana Polissena e aveva preso accordi per prenderla in moglie (senza tener conto del fatto che aveva ucciso molti dei fratelli della sposa). Qualcuno ipotizzò addirittura che Achille fosse pronto a tradire i suoi compagni achei e a schierarsi dalla parte dei Troiani o almeno a ritirarsi dalla lotta. L’accordo avrebbe dovuto concludersi in gran segreto nel tempio di Apollo; ma la cerimonia nuziale si rivelò una trappola e al momento opportuno Paride, nascosto nella statua del dio, balzò fuori e scagliò la famosa freccia nel tallone del nemico. Tra l’altro, Paride non era nuovo a colpire i piedi dei propri nemici – il che non depone a favore della sua favoleggiata abilità di arciere –, tanto che nell’XI libro dell’Iliade è descritta l’espressione di sprezzo di Diomede, la cui furia devastatrice era stata arrestata solo da una freccia di Paride che l’aveva colpito al piede destro: «Debole è il dardo di un uomo vigliacco, da nulla», diceva, «Da un guerriero di poco valore non ci si può aspettare che ferite di poco conto!». La morte di Achille per una ferita simile riscatta almeno parzialmente la figura di Paride, che fu causa della guerra di Troia con la sua condotta sconsiderata nei confronti di Elena, ma egli non fu mai un guerriero all’altezza dei suoi nobili fratelli. Come Memnone, anche Achille fu portato via dalla madre: c’è chi dice nell’isola di Leuca, posta alla foce del Danubio; ma nell’Odissea si fa un accenno all’eroe che passeggia per i Campi Elisi – il paradiso degli antichi Greci – assieme ad Aiace Telamonio, Agamennone, Elena e altri eroi greci.
Una fine ingloriosa Achille rimaneva padrone del campo e non c’era nessuno, né tra i Troiani, né tra gli Achei, che potesse tenergli testa. Ma la sua parabola di gloria stava giungendo ormai alla fine e, proprio quando sembrava che il guerriero fosse ormai inarrestabile, il suo triste fato, previsto dalla madre Teti, lo colpí a tradimento. Nel corso della stessa battaglia, infatti, mentre si esponeva ai dardi nemici, Achille, che confidava nella propria invulnerabilità e nella sua corazza impene- nella prossima puntata trabile, fu preso di mira da Paride, che, guidato da Apollo, riuscí a sca- • Il tragico destino gliare la sua freccia dritta nel tallone di Aiace Telamonio
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speciale • caligola
Caligola La trasgressione al
potere
di Giuseppina Ghini
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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il terzo degli imperatori condivide con nerone la poco lusinghiera fama di personaggio volubile, incline agli eccessi e alle nefandezze. ma fu davvero cosí? il nuovo allestimento del museo delle navi romane di nemi, luogo a lui particolarmente caro, e il fortunato recupero di una grande statua che forse lo raffigura, offrono l’occasione per riflettere sul profilo umano e politico del principe
Agrippina sbarca a Brindisi con le ceneri di Germanico, olio su tela di Benjamin West. 1770 Filadelfia, Philadelphia Museum of Art. Del mesto corteo fa parte anche il piccolo Gaio Cesare Germanico (il futuro Caligola), che alla morte del padre, deceduto ad Antiochia nel 19 d.C., aveva solo sette anni.
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un’infanzia violenta A parziale comprensione (che è cosa diversa da una giustificazione) degli atteggiamenti dell’imperatore possiamo dire che, fin da ragazzo, aveva vissuto in un clima caratterizzato da attentati, uccisioni, delazioni, assistendo impotente alle progressive perdite per esilio o morti violente prima del padre, poi dei fratelli maggiori, Druso e Nerone, e infine della madre Agrippina. Unico superstite di una famiglia falcidiata da interessi politici e da congiure, probabilmente per natura non adatto a divenire quello che era all’epoca l’uomo piú potente del mondo, salito al trono quando era poco piú che un ragazzo, all’età di 25 anni, Caligola era destinato a governare per tre anni, dieci mesi e otto giorni e a essere ricordato per i suoi atteggiamenti stravaganti, provocatori, beffardi, spesso crudeli, come un individuo pazzo, violento, megalomane e sadico. Anche la storiografia moderna non ha lesinato giudizi sferzanti e critici nei confronti del terzo imperatore di Roma: Robert Graves, nella sua celebre biografia su Claudio, traccia di lui un quadro del tutto negativo, dipingendolo come un giovane torvo, poco affidabile, preda di fobie, dedito al vizio e schiavo del suo stesso potere, che era incapace di gestire. Terzo figlio maschio di nove tra fratelli e sorelle, tre dei quali morti ancora piccoli, Gaio Cesare Germanico (il soprannome di Caligo76 a r c h e o
la gli fu dato dai soldati, presso i quali era assai popolare, per l’abitudine di portare la caliga, la calzatura militare, n.d.r.) non era destinato a divenire imperatore; lo divenne in quanto era ormai l’ultimo rimasto di una gens contro cui il destino fu particolarmente crudele. Dopo un breve periodo sereno, vissuto, a partire da quando aveva solo un anno, a fianco dei genitori e dei fratelli nei territori germanici e poi in Oriente, a sette anni era rimasto orfano del padre, il generale Germanico, morto nel 19 d.C. ad Antiochia dopo una breve malattia, i cui sintomi avevano dato adito al sospetto, poi
Agrippina Lucio Cassio Longino
parentele illustri
S
crivere la biografia di un personaggio a dir poco discusso e passato alla storia come un folle non è cosa facile: si rischia di rimanere influenzati dalla cattiva «stampa» dell’epoca o, al contrario, di voler a tutti i costi riabilitare una figura caratterizzata da ombre piú che da luci. Molti storici autorevoli hanno scritto volumi fondamentali per una migliore comprensione di Caligola: i suoi dati biografici ci sono stati tramandati dalle fonti storiche contemporanee, come Filone Alessandrino e Seneca, o di poco successive, come Flavio Giuseppe, Svetonio e Tacito, o tarde di oltre due secoli, come Cassio Dione. Sappiamo come queste non abbiano giovato alla sua nomea, avendone tutte tracciato un ritratto piú che negativo; dello storico Tacito, che forse sarebbe stato piú imparziale, ci manca proprio la parte degli Annali relativa al suo regno. Ci è giunta cosí l’immagine, distorta e al limite del grottesco, di un despota, un dittatore visionario, un pervertito, che nei secoli è sempre stato oggetto di speculazione, di rivisitazione, persino di parodia, superato in questo solo da Nerone.
Drusilla
Germanico
Druso Cesare Nerone Cesare
Poppea Sabina
Casonia
caligola (gaio Cesare germanico) Imp. 37-41 d.C.
Giulia Drusilla
Nella pagina accanto, al centro: il cammeo noto come Gemma Claudia. 49 d.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Sulla sinistra sono effigiati l’imperatore Claudio e la moglie, Agrippina Minore; sulla destra compaiono invece Germanico e Agrippina Maggiore, genitori di Caligola. Nella pagina accanto, in basso: aureo con l’effigie di Caligola. I sec. d.C. Collezione privata.
trasformatosi in certezza, di un avvelenamento. Per la morte di Germanico venne accusato, e condannato, Pisone, all’epoca governatore della Siria, ma si sospettava che il vero mandante fosse stato Tiberio, forse istigato dalla madre Livia (Svet. Tib. 52).
il padre «perfetto» Le fonti, in particolare Tacito (Ann. II, 73 ), sono concordi nel descrivere Germanico come un uomo integerrimo, valoroso generale, bello di aspetto e amabile, generoso anche con gli avversari, colto, autore di studi sull’astronomia, che, anche quando avrebbe avuto la possibilità di divenire imperatore per acclamazione (per esempio nel 14 d.C., alla morte di Ottaviano Augusto) non volle approfittare della situazione, riuscendo addirittura a sedare una rivolta dei soldati stanziati in Germania, che lo avrebbero preferito a Tiberio. Dopo aver celebrato il suo trionfo nel 17 a Roma (Tac., Ann. II, 41), nel 18 venne inviato nelle province orientali per tentare di risolvere la problematica questione partica, con esiti che fin dall’inizio apparvero positivi. Lo accompagnavano, dei figli, solo Caligola, e la moglie Agrippina. Fu un viaggio non solo politico, ma anche culturale e «commemorativo», in cui Germanico volle mostrare ai suoi familiari luoghi rievocativi, come Azio, dove Ottaviano aveva sconfitto il nonno Marco Antonio, Atene, Messalina Tiberio Claudio Nerone Imp. 41-54 d.C.
Agrippina Giulia Livilla
Gneo Domizio Enobarbo
Tiberio Claudio Nerone Imp. 54-68 d.C.
Ottavia
Britannico
Statilia Messalina
l’Eubea, Lesbo, dove Agrippina diede alla luce Livilla, Bisanzio e da qui Troia (considerata la patria mitica del popolo romano), Rodi e infine la Siria e i regni orientali, dove Germanico riuscí a instaurare buoni rapporti con i sovrani dell’Armenia, ad annettere la provincia della Cappadocia e a chiarire i rapporti con il re della Commagene e con i Parti (Tac., Ann. II, 58-61). Ristabilito l’ordine in questa zona dell’impero sempre incandescente, Germanico e la sua famiglia partirono per l’Egitto, risalendo il Nilo da Alessandria (dove erano vissuti Cleopatra e Antonio e dove molto probabilmente visitarono la tomba di Alessandro) a Tebe, fino a Tiene. Da qui Germanico raggiunse la Siria, per portare a termine il suo mandato ad Antiochia, dove trovò la morte a soli 33 anni nel 19 d.C. Una figura «ingombrante» dunque quella di Germanico, senz’altro un esempio difficile da emulare, impossibile da raggiungere per gli eredi.
TRame oscure A Roma nubi sempre piú scure si addensavano sui destini della famiglia, soprattutto per le trame di Elio Seiano, il prefetto del pretorio che tanta influenza ebbe su Tiberio (specie dopo averlo salvato da morte sicura quando, durante un banchetto, un pezzo di roccia si staccò dall’antro della villa di Sperlonga) e sul quale pesa il giudizio negativo di Tacito, che lo accusa apertamente di aver progressivamente eliminato qualsiasi possibile aspirante al trono. Intanto, per Gaio anche il periodo della fanciullezza vissuto accanto ai suoi familiari, era destinato a finire; nel 27 il giovane Gaio veniva affidato alla bisnonna Livia (moglie dell’imperatore Augusto, n.d.r.), con la quale sarebbe vissuto fino alla morte di quest’ultima, nel 29, quando venne mandato a vivere con la nonna paterna, Antonia. A Caligola, appena diciassettenne, toccò il compito di pronunciare l’elogio funebre dell’ava dai Rostri del Foro, in sostituzione del figlio Tiberio che, con la madre, aveva avuto rapporti conflittuali.Tiberio era salito al trono grazie a lei, ma a costo di pesanti rinunce anche affettive, prima fra tutte quella alla moglie Vipsania Agrippina (la figlia di prime nozze di Marco Vipsanio Agrippa), madre dell’unico figlio Druso II, da cui aveva dovuto divorziare per sposare la sorellastra Giulia, figlia di Ottaviano Augusto e vedova di Agrippa. Non sappiamo quali sentimenti provasse il giovane Gaio per la bisnonna, sospettata di aver pilotato molte scelte di Tiberio; secondo a r c h e o 77
speciale • caligola Statua di Caligola. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
alcuni autori, Livia avrebbe in qualche modo protetto la famiglia di Caligola, su cui, dopo la sua morte, si abbattè un destino infausto. Gaio, affidato alla nonna paterna Antonia, rimase con lei due anni, venendo a conoscenza della politica filo-orientale che aveva animato Marco Antonio e, prima di lui, Giulio Cesare. Antonia era infatti figlia di Ottavia (la sorella di Ottaviano Augusto) e di Marco Antonio, quindi sorellastra di Cleopatra Selene (la figlia di Antonio e Cleopatra), moglie del re di Mauretania Giuba II, e aveva ospitato Erode Agrippa (che mantenne sempre rapporti di amicizia con Gaio) e i tre figli del re trace Coti: Remetalce, Coti e Palemone. Tali frequentazioni ebbero un’indubbia influenza nella politica estera del futuro imperatore.
esili e suicidi Nel frattempo il fratello Nerone, candidato alla successione, veniva accusato ingiustamente, grazie, sembra, alla connivenza della moglie Giulia (figlia di Druso II e di Livilla, divenuta amante di Seiano) ed esiliato a Ponza, dove nel 31 finiva suicida, mentre la madre, Agrippina, veniva relegata a Pandataria (Ventotene), dove era già stata esiliata la madre di quest’ultima, Giulia, che vi era morta nel 14 d.C. Nel 30 il fratello Druso (III), ac-
«Torvo, e di pallore ripugnante» Gaio viene descritto da Svetonio, come un uomo alto, dal colorito pallido, «con occhi e tempie incavate, fronte ampia e torva», come appare anche nei ritratti, che mostrano un giovane dai tratti regolari, con fronte spaziosa, occhi grandi e un po’ infossati, naso lungo ma regolare, labbra sottili e mento appuntito. Seneca (De const. sap., 18, 1) ne mette in risalto il «pallore ripugnante», «la fronte da vecchia», gli occhi torvi, tutti sintomi, secondo lo scrittore, della sua pazzia. Soffriva di epilessia e d’insonnia ed era poco resistente alle fatiche fisiche; temeva i tuoni e i temporali, mentre, benché non sapesse nuotare, non aveva alcuna paura del mare, che affrontò anche con il maltempo per riportare a Roma le spoglie prima del padre, poi della madre e del fratello Nerone. Secondo Svetonio si sarebbe reso conto «dell’infermità della sua mente» e avrebbe per questo pensato di ritirarsi e curarsi. Aveva doti oratorie e facondia nel parlare, di
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cusato di cospirazione e di perversione sessuale, veniva rinchiuso in prigione nel Palatino, dove veniva fatto morire di fame; nello stesso anno, forse subendo la stessa sorte, moriva anche Agrippina nella sua villa di Pandataria. Rimanevano le tre sorelle: Giulia Livilla, Agrippina minor e Drusilla, la piú amata. Era il 33 d.C. e Caligola da due anni viveva a
In questa pagina: il ritratto di Caligola oggi conservato presso la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen e la replica moderna che ne ricostruisce la probabile policromia originaria (ricostruzione di John Pollini).
Capri presso il prozio Tiberio e «nonostante tutti i tranelli che gli venivano tesi, non diede mai nessun appiglio a coloro che cercavano di provocare le sue reazioni, perché sembrava aver completamente dimenticato le sventure dei suoi, come se non fosse successo niente a nessuno e sopportava inoltre gli affronti che gli venivano fatti con una simulazione incredibile e mostrava tanta sottomissione nei confronti di Tiberio e della sua corte, che si potè dire di lui, non senza ragione: “non vi fu servo migliore e padrone peggiore”» (Svet., Cal., 10). Convivere con un uomo che aveva causato tante e tali sofferenze alla propria famiglia, non dovette essere facile per il giovane Gaio, che, secondo quanto riporta Svetonio (Cal., 11), già mostrava i sintomi della sua «feroce e turpe indole», che lo portava ad assistere con sadismo alle esecuzioni dei condannati a
cui diede prova fin da adolescente, pronunciando l’elogio funebre di Livia e, da giovane, quello di Tiberio. Si esibiva a teatro nelle tragedie come attore e anche come cantante (in questo verrà seguito dal nipote Nerone). Anche nel vestirsi era provocatorio e trasgressivo: «Usò sempre vestimento e calzari e adornamento che non erano né romani né di cittadino, anzi neppure maschili né umani. Spesso usciva in pubblico vestito di pènule ricamate e gemmate, con lunghe maniche e braccialetti; talvolta in abiti di seta o di gala femminili, e ora con pianelle e coturni, ora in calzaretti militari, ora con socco muliebre; e per lo piú con una barba d’oro, impugnando un fulmine o un tridente o un caduceo, insegne di dei; e fu anche veduto in abbigliamento di Venere (…) e talora anche con la corazza di Alessandro Magno fatta togliere dalla tomba di lui» (Svet., Cal. 52).
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morte, a travestirsi da donna, ad andare con donne sposate, a esibirsi nella danza e nel canto. Tiberio avrebbe assecondato queste sue bizzarrie, «pensando che cosí si potesse ammansire la sua feroce natura» e commentando che «Gaio viveva per la sventura sua e di tutti».
un oratore eccellente Non sappiamo quanto ci sia di vero in questo giudizio cosí duro; comunque Tiberio indirizzava il giovane nipote, adottato, verso la successione, nominandolo augure e poi pontefice e ne seguiva, a quanto sappiamo dalle fonti, anche l’educazione e la preparazione letteraria, assecondando le sue indubbie capacità nell’apprendere.A soli venti anni rivestí la carica di questore. Scrive del futuro imperatore Giuseppe Flavio (Ant. Iud. XVIII): «Era un valentissimo oratore, espertissimo della lingua greca e latina; sapeva come rispondere a discorsi pronunciati da altri dopo lunga preparazione e mostrarsi presto piú persuasivo, anche quando si dibattevano argomenti di grande interesse.Tutto ciò proveniva da un’attitudine naturale (…) e perché a tale attitudine aggiungeva la pratica acquisita con il continuo esercizio».
Moneta in argento con l’effigie dell’imperatore Tiberio, prozio e predecessore di Caligola. I sec. d.C.
Tiberio, uomo colto e interessato alla letteratura, alla filosofia e alle scienze, forse sperava di migliorare il figlio adottivo, per la cui triste sorte poteva provare sentimenti di rimorso e commiserazione, facendo leva sulle sue qualità intellettuali; del resto Gaio, giovane portato e attratto dalla cultura, vedeva nel prozio una figura da imitare dal punto di vista intellettuale (Cass. Dio. XIX, 206); un rapporto certamente conflittuale quello tra i due uomini, che non trovò mai un punto d’incontro, nonostante i lunghi anni trascorsi insieme. Due solitudini interiori destinate a rimanere tali, senza possibilità di riscatto. Preoccupato di nominare un erede, nel 35 l’anziano imperatore designò come coeredi Caligola e Tiberio Gemello, figlio di Livilla e di Druso II (o, secondo i sospetti, del suo amante Seiano). In realtà una non-decisione, dal momento che l’impero non poteva essere diviso e affidato a due sovrani. A questo punto il giovane Gaio dovette ritenere che fosse ormai giunta l’ora di accelerare i tempi della successione. Secondo Svetonio (Cal., 12) i due insieme avrebbero ucciso l’anziano impera-
quella strana malattia Mentre l’imperatore coglieva consensi tra tutte le parti sociali, riuscendo gradito all’esercito e al Senato, un’improvvisa quanto misteriosa malattia lo portava in fin di vita; alla sua guarigione, nei primi mesi del 38, iniziava un periodo di contrasti con il senato, di uccisioni e suicidi, di atteggiamenti crudeli e sanguinari, insomma di terrore, che si sarebbe concluso solo nel gennaio del 41 con una congiura (la quarta) fatale a Caligola. Tra le prime vittime il cugino Tiberio Gemello, che, ancora adolescente, venne costretto al suicidio (Phil. leg. 31); seguirono il suocero Silano e Macrone. Con il primo moriva uno scomodo coerede, con gli altri due Caligola si liberava di due persone che fino ad allora avevano fortemente influito su di lui e sui suoi comportamenti; in particolare Macrone era forse stato il vero
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artefice della salita al trono di Gaio. La sua eliminazione fu graduale: prima venne destituito da prefetto del pretorio e sostituito da Marco Arrecino Clemente e, subito dopo, accusato di tradimento e costretto al suicidio; per eliminare Silano l’imperatore lo accusò di tramare contro di lui quando questi, ormai anziano, si rifiutò di accompagnarlo in un viaggio in mare a causa del maltempo: l’anziano senatore si tagliò la gola (Svet., Cal. 23). Probabilmente fu fatale a entrambi essersi preoccupati di garantire un erede, in caso di morte dell’imperatore, identificato proprio in Tiberio Gemello. Dopo la guarigione, Gaio sposò Livia Orestilla, che avrebbe rapito al promesso sposo, Gaio Calpurnio Pisone, per ripudiarla dopo due mesi e sostituirla con la terza moglie, la bellissima Lollia Paolina, ripudiata
anch’essa dopo pochi mesi, nel 39. Se la misteriosa malattia che aveva colpito Caligola ne aveva profondamente cambiato e peggiorato l’indole, la morte dell’amata sorella Drusilla nel giugno del 38, lo fece precipitare in un dolore profondo e inconsolabile. «Quando Drusilla morí, ordinò una sospensione generale di tutti gli affari (…) Poi sconvolto dal dolore, improvvisamente una notte fuggí da Roma, attraversò la Campania e arrivò a Siracusa, da dove ritornò precipitosamente con la barba e i capelli lunghi. Da allora, in tutte le circostanze, anche le piú importanti, sia nell’assemblea del popolo sia davanti ai soldati, non giurò piú se non per la divinità di Drusilla» (Svet., Cal. 24). Anche Seneca racconta che, dopo la morte della sorella, Caligola lasciò Roma e si rifugiò nella sua proprietà albana,
Busto di Caligola nelle vesti di comandante militare, vestito di una corazza con l’immagine di Medusa. I sec. d.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. L’imperatore ha il capo cinto da un serto di foglie di quercia, una corona civica.
forse da identificarsi con la villa sul lago di Nemi. Il suo amore per Drusilla, con la quale avrebbe avuto rapporti incestuosi, in una sorta di emulazione della coppia Iside-Osiride, lo portò a divinizzarla, con il nome di Panthea, onore questo che non aveva avuto nemmeno l’ava Livia.
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tore, somministrandogli un potente veleno e soffocandolo con un cuscino; l’autore riporta la notizia come verosimile ma non sicura, mentre Tacito attribuisce il soffocamento di Tiberio sotto un mucchio di coperte al solo Macrone e Seneca scagiona il giovane Gaio, attribuendo la morte a un malore.
Gaio imperatore Il 17 marzo del 37 Tiberio moriva a Miseno e durante il viaggio per portarne il feretro a Roma, che durò dieci giorni, il giovane Gaio ricevette attestazioni di fedeltà e fiducia da parte del popolo (Svet., Cal. 13), che durarono per diversi mesi anche dopo la sua acclamazione, grazie alle numerose elargizioni in denaro del nuovo imperatore. Pronunciò l’orazione funebre nel Foro, proponendo al 82 a r c h e o
senato, che però non diede seguito alla richiesta, di divinizzare il prozio, facendo esporre il feretro e scortandolo fino al Mausoleo di Augusto dove si svolse il funerale di Stato. Assunse l’11 maggio il titolo di Gaio Cesare Germanico e rispettò tutte le indicazioni testamentarie del defunto Tiberio. «Giunto all’impero, realizzò i voti del popolo romano, o per meglio dire del genere umano, poiché era un principe fortemente desiderato da quasi tutti i provinciali e i soldati che lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe di Roma, per il ricordo del padre Germanico e per la compassione verso la famiglia pressoché distrutta». Questo passo di Svetonio (Cal. 11-12) spiega in maniera esauriente l’universale consenso che accolse la notizia della nomina del nuovo imperatore. Concorde il giudizio di Giusep-
Disegno in cui si immagina Caligola che dà udienza ad alcuni ambasciatori. In politica estera, l’imperatore si mosse nel solco del padre Germanico, stabilendo rapporti di buon vicinato con i Paesi stranieri e, in particolare, con l’Oriente.
pe Flavio (Ant. Iud. XVIII, 256): «Nel primo e nel secondo anno, Gaio resse l’impero con grande saggezza. La sua moderazione gli conquistò grande popolarità sia tra i Romani sia tra i loro sudditi. Ma venne il tempo in cui cessò di considerarsi uomo e si immaginò di essere un dio: a motivo della grandezza del suo impero fu mosso a trascurare la potenza divina e tutti i suoi atti ufficiali». Ma ciò che gli valse l’approvazione di tutte le classi sociali fu il suo gesto di pietas nei confronti del fratello e della madre morti in esilio: imbarcatosi, nonostante il mare in tempesta, riportò a Ostia e da qui a Roma le loro ceneri, per deporle nel mausoleo di Augusto, accanto a quelle di Germanico (Cass. Dio. LIX, 3); in memoria del fratello Druso, di cui non fu possibile ritrovare i resti, coniò una moneta e diede il nome di Germanico al mese di settembre, come aveva fatto Augusto dedicando a Giulio Cesare il settimo mese dell’anno. I primi provvedimenti furono senz’altro estremamente popolari e finalizzati a ottenere un generale consenso, anche dei senatori: abolizione del delitto di lesa maestà, in nome del quale erano morte molte persone innocenti, richiamo in patria degli esiliati, riabilitazione di scrittori messi al bando sotto Tiberio, abolizione di alcune imposte, ripristino del diritto dei plebei di convocare i comizi (assemblee popolari), divieto di innalzare sue statue nella città. Bruciò pubblicamente nel Foro i resoconti dei processi tenuti sotto Tiberio, anche quelli in cui gli imputati erano accusati di aver tramato contro la madre e i fratelli; in realtà ne distrusse le copie, conservando gli originali, di cui si serví quando volle colpire i suoi avversari.
Nel giorno del suo compleanno, il 31 agosto, dedicò il mausoleo di Augusto nel Campo Marzio e ne festeggiò l’inaugurazione con giochi circensi, ingraziandosi il favore del popolo, che mal aveva tollerato la ritrosia del suo predecessore per questo genere di divertimenti. Per l’occasione indossò la toga trionfale e si fece portare su un carro condotto da sei cavalli; assistette ai giochi circensi dal palco d’onore, affiancato da Tiberio Gemello e dai seviri Augustales (Cass.Dio. LIX 7,2-4). Conferí onori alla madre Agrippina, per la quale stabilí che ogni anno si portasse in processione la statua, e alla nonna Antonia, a cui diede il titolo di Augusta, mentre stabilí che le tre sorelle venissero menzionate nei giuramenti pubblici e potessero assistere ai giochi circensi nella stessa loggia dell’imperatore. Ultimò la costruzione del Tempio del Divo Augusto iniziato da Tiberio.
Lo scontro con il Senato Veniva cosí esplicitamente sancito il consensus universorum, non casuale, ma pilotato strategicamente da chi aveva favorito la successione al trono di Caligola, in primo luogo il suocero Marco Giunio Silano e Macrone (Phil. leg. 51, 63), che certo non prevedevano la loro quasi repentina uscita di scena. «Fin qui ho detto del principe; mi rimane ora a dire del mostro»: cosí inizia il capitolo 22 della biografia di Caligola di Svetonio, che da qui alla conclusione espone i lati peggiori e grotteschi dell’imperatore. Divenuto console per la seconda volta il 1° gennaio del 39, carica a cui rinunciò dopo soli trenta giorni, Caligola assunse atteggiamenti di chiara provocazione contro il Sena-
Una politica di «buon vicinato» Nei rapporti con i popoli vicini e in particolare con l’Oriente, Gaio volle mettere in pratica quella politica che già aveva avviato il padre Germanico, ispirata ad atteggiamenti di tolleranza e «buon vicinato»; l’aver vissuto presso la nonna Antonia, sorellastra dei figli di Marco Antonio e Cleopatra, fu senza dubbio decisivo per le sue iniziative in politica estera. Ridisegnò i confini delle province orientali, restituendo o donando ai sovrani terre contese, favorendo i dinasti locali, come Antioco IV di Commagene, al quale rese il trono e vent’anni di tributi pagati a Roma (Antioco IV, in latino C.Iulius Antiocus Epiphanis, 17 a.C.-72 d.C. circa, da giovane visse a Roma presso Antonia Minore, nella cui casa conobbe il giovane Gaio, che, memore della vecchia amicizia, gli restituí i territori persi dal padre; nel 41 venne deposto da Claudio, ma, grazie alla sua politica fedele a Roma, non ebbe ritorsioni, anzi venne trattato con benevolenza da Vespasiano, sotto il cui regno morí). Anche Erode Agrippa fu liberato dalla prigionia inflittagli da Tiberio e Caligola gli concesse terre e onorificenze, tra cui i territori già appartenuti a Filippo, figlio di Erode il Grande, e a Erode Antipa (Erode Agrippa, in latino M. Iulius Agrippa, 10.a.C.-44 d.C., era figlio di Aristobulo, uno dei figli di Erode il Grande; vissuto a Roma in diversi periodi della sua vita, frequentò fin da giovane Caligola, che gli concesse l’attuale Transgiordania, la Galilea e la Perea). Inoltre, divise in due la provincia d’Africa: la proconsolare e la Numidia e sotto di lui la Mauretania entrò a far parte dell’impero romano. a r c h e o 83
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to, che accusò, in un memorabile discorso tenuto nella Curia, contraddistinto da maestria oratoria e da manifesta teatralità (Cass. Dio. LIX, 16, 2-4), di essere stato il vero ispiratore di tanti omicidi ordinati sotto il regno di Tiberio; a sorpresa Caligola fece comparire gli atti di quei processi che aveva assicurato di aver bruciato in un gesto di «sanatoria» e ripristinò il delitto di lesa maestà, che solo pochi anni prima aveva cancellato, dichiarando apertamente che una simile classe dirigente non meritava alcuna fiducia da parte sua. Dopo aver dato disposizione che i suoi ordini venissero scritti su una stele di bronzo, lo stesso giorno «si trasferí nella zona suburbana» (la villa sul lago di Nemi, dove erano anche le due navi?). Secondo lo studioso Aloys Winterling (che a Caligola ha dedicato una recente biografia) questo improvviso e insospettato cambiamento sarebbe stato provocato da una congiura, appena adombrata da un’unica fonte, quella di Cassio Dione, che scrive di processi per corruzione intentati dall’imperatore contro senatori e magistrati, accusati di malversazione. Se ne deduce come Gaio volesse far chiarezza e smascherare atteggiamenti che evidentemente il suo predecessore, dal suo esilio dorato di Capri, non aveva potuto o voluto contrastare. E gli aristocratici, che prima avevano contato sulla giovane età dell’imperatore per continuare a proteggere i propri privilegi, non dovettero accogliere con piacere queste iniziative: il giovane rampollo della famiglia giulio-claudia non era malleabile come ci si aspettava e mostrava una lucidità e una determinazione insospettate, ma soprattutto pericolose. A questo punto le ostilità con il Senato erano aperte e non piú sanabili; in questa ottica va interpretata anche la provocatoria proposta di eleggere console il proprio cavallo Incitatus o, ancora, l’episodio in cui convocò in piena notte i senatori, mettendosi improvvisamente a danzare davanti a loro (Cass. Dio. LIX, 5, 5). Questo braccio di ferro con il Senato sembra quasi una sfida agli aristocratici per vedere fino a che punto sarebbe arrivata la loro pusillanimità e se prima o poi ci sarebbe stata una reazione dignitosa. Invece il Senato arrivò a decretare la costituzione di un collegio sacerdotale addetto al culto dell’imperatore, per la cui ammissione si pagavano somme elevatissime che portarono molti senatori, e tra questi anche Claudio, a dilapidare interi patrimoni (Svet. Cal. 22, 3, Claud. 9, 2). Al di là degli episodi di crudeltà che certo 84 a r c h e o
non mancarono, Gaio dimostrava con i propri atteggiamenti di voler realizzare quello che era già stato un progetto prima di Giulio Cesare, poi di Marco Antonio: trasformare in regno orientale il principato. In questo orientamento di chiara ispirazione monarchica vanno considerati alcuni dei suoi atteggiamenti ritenuti solo stravaganti, come adornare il proprio palazzo sul Palatino e le sue residenze di statue e opere d’arte depredate in Grecia (in questo non fu certo il primo e nemmeno l’ultimo degli imperatori romani e, prima di loro, dei ricchi aristocratici), o deporre la figlia appena nata in grembo alla statua di Giove Capitolino o pretendere la proscinesi (da pros, verso, e kyneo, baciare, era l’usanza di prostrarsi diffusa nelle corti orientali dove il monarca era considerato di origine divina, n.d.r.) dai nobili romani.
l’ultimo matrimonio Nell’ottobre del 39 Caligola sposava la quarta e ultima moglie, Milonia Cesonia, l’unica che gli diede una figlia, chiamata Drusilla in ricordo della sorella (entrambe vennero brutalmente uccise dai congiurati subito dopo la morte dell’imperatore). Nel frattempo, il malumore dilagante era sfociato in un’altra congiura, probabilmente capeggiata dalle due sorelle di Caligola e dal vedovo di Drusilla (quindi loro cognato) Marco Emilio Lepido, che, diventato nel frattempo l’amante di Agrippina, in caso di riuscita del complotto sarebbe stato il successore. Ma Caligola ne venne informato e, raggiunto velocemente il limes germanico, depose il generale Gneo Lentulo Getulico, comandante della Germania Superiore, accusato di partecipare alla congiura e lo fece giustizia-
A destra: incisione ottocentesca nella quale si immagina Caligola nelle scuderie imperiali insieme a Incitatus, il cavallo di cui propose la nomina a console. In basso: veduta ricostruttiva di Carlo Fontana del circo che Caligola fece realizzare in Vaticano. La spina dell’edificio fu ornata con un obelisco fatto portare dall’Egitto a bordo di un’imbarcazione lunga 100 m.
Le opere pubbliche L’allontanamento da Roma, oltre a quelli consolatori in seguito alla morte della sorella Drusilla, aveva anche altri fini: durante il viaggio in Sicilia, Caligola diede inizio alla costruzione del porto di Reggio, dotato di magazzini per il grano proveniente dall’Egitto, che approvvigionava la città di Roma; in Grecia progettò il taglio dell’istmo di Corinto, impresa poi ritentata da Nerone e da Adriano, ma realizzata solo nel 1893.
Ma queste non furono le uniche opere pubbliche realizzate o progettate da Caligola. Oltre ad aver ultimato il tempio del divo Augusto e il teatro di Pompeo, avviò la costruzione dell’acquedotto Anio Novus e dell’Aqua Claudia, entrambi ultimati dal suo successore, e di un anfiteatro nel Campo Marzio, mai completato; ricostruí un Iseo nel Campo Marzio fatto abbattere da Tiberio; ampliò notevolmente il palazzo palatino e
realizzò, nella proprietà di famiglia in Vaticano, un circo che da lui prese il nome, il Gaianum (in cui trovò il martirio san Pietro), la cui spina era decorata con un obelisco trasportato dall’Egitto su una nave lunga circa 100 m. Lo scafo venne successivamente affondato e utilizzato come banchina del porto di Claudio e base per il faro; anche se tali opere vengono attribuite al suo successore, non è improbabile che già Caligola le avesse progettate.
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Perugia
Ascoli Piceno
Orvieto
Grosseto
Teramo
Terni Orbetello
Viterbo
L’Aquila
Rieti
Tarquinia Bracciano Civitavecchia Roma
Sulmona Tivoli
Nemi
Mar Tirreno Anzio
Latina Sabaudia
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Una veduta del lago di Nemi, nelle cui acque erano ormeggiate le due gigantesche navi che Caligola utilizzò l’una come palazzo e l’altra come imbarcazione cerimoniale.
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Frosinone
A sinistra: carta archeologica di Nemi: 1. ninfeo della villa detta «di Caligola»; 2. emissario; 3. cisterna romana; 4. strutture della villa di Caligola; 5. cisterna romana; 6. navi di Caligola; 7. ancore; 8. basolato verso il santuario di Diana; 9. Museo delle Navi Romane; 10. criptoportico; 11. basolato verso il santuario di Diana; 12. teatro romano; 13. santuario di Diana; 14. necropoli de Le Mole; 15. resti della chiesa di S. Nicola e terme romane; 16. banchine d’età romana; 17. cave d’epoca romana.
L’imperatore e il mare Caligola ebbe un rapporto preferenziale con il mondo marino e acquatico in genere; oltre all’impresa in Britannia, che comportò l’allestimento di una flotta, da Svetonio apprendiamo che l’imperatore amava costeggiare il litorale campano su navi liburne e famosa è la realizzazione di un ponte di barche tra Pozzuoli e Baia, lungo oltre 4 km. Il ponte, poggiato su imbarcazioni in parte trasportate, in parte costruite appositamente, era dotato di stazioni di ristoro e terme. Inoltre, per il trasporto dall’Egitto dell’obelisco che doveva decorare la spina del suo circo fece costruire una nave lunga 100 m, successivamente affondata per realizzare il porto di Claudio. Ma la testimonianza piú significativa dell’interesse di Caligola per la marineria e della sua capacità di avvalersi di tecnici competenti ci viene dalle due navi che l’imperatore fece costruire e ormeggiare nel lago di Nemi: due enormi natanti delle dimensioni di oltre 70 m per oltre 20, l’una con funzione di palazzo, l’altra di nave cerimoniale. Anche in questo Caligola si ispirò a noti precedenti di età ellenistica e quindi a usanze orientali.
re a Magonza (sostituendolo con il generale Servio Sulpicio Galba, che sarebbe divenuto imperatore dopo la morte di Nerone). Stessa fine fece Emilio Lepido, mentre le sorelle vennero graziate ma esiliate nella stessa isola dove era morta la madre: Pandataria. A Roma il terrore di essere coinvolti nell’accusa di aver partecipato al complotto portò a delazioni e denunce. Altro motivo di scontento fu senz’altro la gestione dispendiosa del potere: dopo un breve periodo di relativa morigeratezza, Caligola stava letteralmente svuotando le casse dell’erario per finanziare banchetti, giochi circensi, spettacoli teatrali e poter mantenere un tenore di vita sfarzoso. Lo stesso Cassio Dione motiva la spedizione in Gallia e in Germania con il pretesto di mettere le mani sulle ricchezze dei possidenti locali e sostiene che l’imperatore sfruttava la sua naturale propensione per i giochi circensi per ricavarne introiti economici e che arrivò ad aumentare le tasse e a imporle per i generi piú diversi di attività: dagli alimenti, ai processi, ai trasporti,
alla prostituzione. Ciò naturalmente finí per inimicargli anche la plebe, nonostante alcune sue elargizioni di carattere istrionico, come quando «radunato il popolo, da una certa altezza riversò sulla gente oro e argento in abbondanza e molti, per arraffarlo, morirono nella calca» (Cass. Dio., LIX, 25, 26).
L’incendio che nell’ultimo conflitto mondiale distrusse i due scafi ci ha privato di uno degli esempi piú completi di architettura navale. Sorprende il silenzio delle fonti su un’opera
cosí importante e che non passò certo inosservata: una sorta di damnatio memoriae premonitrice della fine che le navi avrebbero fatto a pochi anni dal loro recupero.
In Germania e Britannia Le fonti ricordano come una manifestazione grottesca e farsesca da parte di Caligola la spedizione in Germania e in Britannia; in realtà, anche se ci fu un indubbio tentativo di emulazione del padre, il giovane imperatore preparò l’impresa con notevole accuratezza. Lo stesso Svetonio ammette che vennero raccolti uomini e mezzi da tutte le province dell’impero e che, sostituito il generale in carica Getulico con l’energico Galba, guidò lui stesso – che pure non aveva alcuna esperienza militare – l’azione che permise di ricacciare oltre il Reno le tribú germane ribelli. (segue a p. 90)
Una fantasiosa ricostruzione ottocentesca di una delle grandi navi di Caligola.
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il museo delle navi di Laura Romagnoli
Il Museo delle Navi romane si affaccia sul lago di Nemi, luogo di straordinaria bellezza ed enorme interesse per i ritrovamenti archeologici relativi al santuario di Diana, uno tra i piú importanti del Lazio, di cui il museo conserva reperti significativi. Progettato dall’architetto Vittorio Morpurgo, l’edificio venne costruito negli anni Trenta per ospitare due gigantesche navi imperiali appartenute all’imperatore Caligola (37-41 d.C.), vere e proprie architetture galleggianti, recuperate nelle acque del lago con una immane operazione ingegneristica e archeologica, andate purtroppo distrutte durante un incendio nel 1944. È uno tra i primi esempi noti in Italia di struttura museale concepita e realizzata in funzione del contenuto e da questo condizionata nelle soluzioni architettoniche: la superficie coperta di circa 6400 mq è suddivisa in due grandi ambienti longitudinali le cui 88 a r c h e o
dimensioni corrispondono esattamente a quelle delle due imbarcazioni, che erano lunghe piú di 70 m. Lo spazio è stato concepito in modo organico per consentire l’esame simultaneo dei due enormi scafi e la loro esplorazione dall’alto di un ballatoio perimetrale collegato a una vasta galleria centrale di distribuzione sulla quale si apre l’ingresso principale. L’edificio nel corso del tempo ha subito gravi danni: riaperto nel 1953, il museo venne nuovamente chiuso e infine definitivamente riaperto solo nel 1988. Da allora nell’invaso di sinistra del museo sono esposti i reperti delle navi sopravvissuti all’incendio (altri sono al Museo Nazionale Romano), mentre quello di destra è dedicato alle testimonianze del territorio. L’Università di Perugia e la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, da tempo affiancate nelle ricerche e nella valorizzazione del santuario di Diana, hanno recentemente condiviso l’impegno di esporre nel museo i risultati di studio e i reperti piú significativi. La mostra organizzata per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Caligola ha dato l’opportunità di riallestire in forma permanente proprio il settore dedicato al santuario di Diana e al contesto territoriale. Con il nuovo allestimento realizzato su progetto degli architetti Laura Romagnoli e Guido Batocchioni, si è inteso gettare una nuova luce sul personaggio e raccontarne la storia, le caratteristiche e l’influsso della sua figura nella cultura moderna e contemporanea. La sua presenza è centrale e si materializza nell’imponenza di una statua su trono, alta oltre due metri, che è stata esposta con un allestimento scenografico dopo un accurato lavoro di restauro e di
assemblaggio curato dalla ditta Civetta Roberto. Proprio attorno alla presenza di Caligola a Nemi si sviluppa il filo conduttore che lega il lago a Diana e ai presupposti storici e culturali che hanno prodotto i due straordinari monumenti galleggianti. Con la nuova esposizione si presentano inoltre per la prima volta a un vasto pubblico, i reperti provenienti dal santuario di Diana, finora conservati presso i magazzini del museo di Palazzo Massimo e delle Terme di Diocleziano Ambientazioni con fondali scenografici ispirati dal Grand Tour e dal fascino dei paesaggi ritratti nel tempo da tanti grandi artisti, caratterizzano il nuovo allestimento. Stampe e dipinti riprodotti a grande dimensione si riferiscono di volta in volta al contesto dei reperti esposti pur avendo sempre ritratto il lago di Nemi che si traguarda dall’interno del museo. In occasione della mostra si è definito anche un programma piú esteso per il riassetto edilizio e un
completo rinnovamento degli allestimenti che comprende anche la valorizzazione e il potenziamento del settore delle navi romane e dei servizi museali. In particolare si intende «restituire» al museo la presenza delle navi romane con un’esatta percezione di questi palazzi galleggianti a grandezza naturale, e contestualizzare le testimonianze che si sono conservate attraverso il duplice linguaggio multimediale e materiale. La mostra è stata promossa dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e dall’Università di Perugia, Dipartimento Uomo e Territorio con la Direzione scientifica di Elena Calandra su progetto e coordinamento scientifico di Filippo Coarelli e Giuseppina Ghini.
dove e quando Museo delle Navi Romane e Santuario di Diana Nemorense Nemi (Roma), Via Diana, 15 Orario ore 9,00-19,00; chiusura: chiusura pomeridiana nei festivi e nelle domeniche, 1° gennaio, 1° maggio, 25 dicembre, 3 maggio (festività del Santo Patrono) Info tel. 06 9398040; e-mail: sba-laz.nemi.museonaviromane@beniculturali.it; www.archeolz.arti.beniculturali.it Sulle due pagine, dal basso, in senso orario: l’esterno del Museo delle Navi Romane di Nemi, realizzato negli anni Trenta del Novecento, su progetto dell’architetto Vittorio Morpurgo; due vedute dell’allestimento del Museo; una ricostruzione virtuale delle navi di Caligola.
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Essendo ormai autunno avanzato, Caligola decise di svernare a Lione – dove lo raggiunsero Erode Agrippa, Antioco IV e forse Tolomeo di Mauretania – anche per raccogliere ulteriori fondi per finanziare l’invasione della Germania e giunse a mettere all’asta i «beni di famiglia». Ma l’oggettiva difficoltà dell’impresa (era ancora vivo il ricordo della disfatta patita a Teutoburgo nel 9 d.C.) e un’imprevista situazione favorevole in Britannia, a causa di conflitti interni dei regnanti, indussero Caligola a un cambio di programma: raggiunse la costa lungo la Manica, con l’intento di invadere l’isola. Secondo Svetonio (Cal. 46) Caligola fece schierare le truppe e improvvisamente «ordinò di raccogliere le conchiglie e di riempirne gli elmi e le vesti, dicendo che quelle erano le spoglie dell’Oceano (…). Fece costruire una torre molto alta, dove i fuochi dovevano brillare tutte le notti, come sulla cella del Faro, per illuminare le rotte delle navi»; il faro era ancora visibile fino al XVII secolo a Gesoriaco, sulla costa della Gallia, dove venne realizzato anche un porto militare.
Il passo di Svetonio è talmente assurdo che è stato interpretato in varie maniere: che Caligola non abbia realizzato l’impresa per la ribellione dei soldati; che la sua fosse solo una «prova generale» preparatoria a un’invasione vera e propria, mai realizzata per la morte prematura dell’imperatore. Probabilmente egli aveva sperato che il compimento di una simile spedizione lo avrebbe consegnato alla storia come il primo imperatore e condottiero che aveva sottomesso un popolo ribelle e temuto anche dall’esercito romano.
conchiglie o navi? Quanto alla raccolta di «conchiglie», che sarebbero state portate a Roma come bottino di guerra, alcuni autori la spiegano come la conquista delle navi britanniche, conchylae in latino, oppure come una battuta scherzosa da parte dell’imperatore, piú che come una voluta mortificazione per i soldati. L’episodio è riportato anche da Cassio Dio(segue a p. 94)
Nella pagina accanto: ricostruzione del ninfeo recentemente localizzato sulla sponda orientale del lago di Nemi e nel quale era collocata la statua di un personaggio in trono, che, con ogni probabilità, ritrae Caligola (vedi alle pagine seguenti). In basso: moneta in bronzo con l’effigie di Erode Agrippa. Gerusalemme, Israel Museum.
Il conflitto con i Giudei Tutti gli storici, antichi e moderni, insistono sulle tendenze teocratiche di Caligola, sulla sua volontà di emulare Giove, che lo portò ad atteggiamenti decisamente provocatori sia nei confronti del senato e del popolo romano – che mal tollerava di essere trattato alla stregua di suddito e non di cittadino –, sia, soprattutto, nei confronti della comunità giudaica, che si oppose fieramente alla notizia che Caligola intendeva esporre una sua statua (che lo ritraesse come Giove in trono) nel sancta sanctorum del Tempio di
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Gerusalemme. Anche Flavio Giuseppe (Ant. Iud. XVIII, 258-306) sostiene la volontà di divinizzazione insita nel pensiero di Caligola e descrive l’imbarazzo in cui si trovò il governatore della Siria, Publio Petronio, all’ordine ricevuto dall’imperatore di imporre a Gerusalemme il culto imperiale. Un’ambasciata guidata da Filone di Alessandria si recò a Roma per dissuadere l’imperatore e lo stesso scrittore ne descrive con ricchezza di particolari i momenti di tensione. Anche Erode Agrippa intervenne nella questione: stava quasi per ottenere una revoca della decisione imperiale quando la notizia – inviata da Petronio – che gli Ebrei si erano ribellati al punto di minacciare di abbandonare i campi fece tornare Caligola sui suoi propositi. L’imperatore vedeva in questa presa di posizione non una motivazione religiosa, ma un’aperta ribellione di natura politica. L’atteggiamento sprezzante nei confronti dell’opposizione giudaica era, però,
legato anche a un’altra questione: l’aperto conflitto, soprattutto ad Alessandria, che da anni contrapponeva la comunità greca e quella giudaica. Quest’ultima, infine, non avrebbe mai perdonato a Gaio il fatto di non aver preso apertamente posizione a suo favore. Anche nei culti religiosi Caligola ebbe orientamenti filo-orientali: restaurò o ricostruí l’Iseo che Tiberio aveva fatto distruggere; introdusse nel santuario di Diana a Nemi il culto di Iside, assimilata alla dea latina e ripristinò il rituale cruento dell’uccisione del sacerdote, il rex nemorensis, inviando un suo sicario a sostituire quello in carica. Questa decisione, riportata da Svetonio (Cal. 35, 3) come un’ulteriore prova del sadismo e della follia dell’imperatore, va in realtà interpretata come una sua volontà di ripristinare un antico rituale ormai in disuso o forse trasformato in semplice spettacolo senza spargimento di sangue.
Caligola a Nemi
Caligola e il lago di Nemi sono due nomi indissolubilmente connessi: qui l’imperatore aveva una villa che abbracciava tutto il lago, di cui le due gigantesche navi recuperate alla fine degli anni Venti dello scorso secolo costituivano una sorta di dépendance e qui si affacciava il santuario di Diana, per il quale il giovane Gaio mostrò un particolare interesse. La zona, paesaggisticamente suggestiva e abbastanza vicina a Roma da poter essere raggiunta in poche ore di viaggio, aveva tutte le caratteristiche per essere scelta come luogo per eccellenza delle proprie residenze di otium dall’aristocrazia romana. Da Plinio il Vecchio (Storie Naturali XII, 9-10)
apprendiamo che Caligola possedeva nella campagna veliterna una proprietà con un platano dalle fronde talmente ampie che poteva dare ombra a quindici convitati e Seneca (Consolatio ad Polybium) racconta come l’imperatore, per consolarsi dalla perdita della sorella Drusilla, si fosse rifugiato nelle sue proprietà albane; qui egli amava andare a caccia a cavallo, esercitandosi come sagittarius. Se le due proprietà siano da identificarsi non lo sappiamo con certezza, ma possiamo affermare, alla luce delle indagini degli ultimi anni, che l’intero bacino del lago nemorense faceva parte della proprietà imperiale, che verosimilmente inglobò precedenti a r c h e o 91
speciale • caligola
proprietà di età repubblicana, compresa, forse, quella già appartenuta a Giulio Cesare, nota dalle fonti (Cic., Ad Att., VI, 1, 25; XV, 4a, 5.; Suet., Iul. Caes., 46). Le indagini archeologiche condotte tra il 1998 e il 2002 dagli Istituti di cultura nordici lungo la riva sudoccidentale del lago di Nemi, in località S. Maria, sotto la direzione di Pia Guldager Bilde e di Birte Poulsen ne hanno riportato alla luce una vasta parte, che si sviluppa su una terrazza artificiale della superficie di 450 x 100 m, con orientamento nord-est/sud-ovest, prospettante sul lago, costituita da peristili, giardini, ambienti di soggiorno e stanze per la servitú. Da qui l’imperatore poteva agevolmente raggiungere il santuario di Diana, situato sulla riva nord-orientale del lago, grazie a due enormi navi (71,30 x 20 m la prima; 73 x 24 m la seconda), le piú grandi mai restituiteci dagli scavi subacquei, la cui presenza nelle acque del lago permetteva un insieme unitario di natura residenziale e cerimoniale. Studi recenti hanno dimostrato come la 92 a r c h e o
prima fosse una nave-palazzo, la seconda una nave cerimoniale, collegata al culto di Diana-Iside. Dopo secoli di inutili tentativi di recupero, i due scafi vennero riportati alla luce negli anni 1929-31 e successivamente esposti nel Museo delle Navi Romane, appositamente costruito per ospitarle; purtroppo nel 1944 un incendio le distrusse totalmente, con l’eccezione di alcune decorazioni bronzee. Nel 1988, dopo anni di restauro, il Museo è stato riaperto e dal luglio 2013 si è inaugurato un nuovo allestimento (vedi box alle pp. 88-89), che si è arricchito di un eccezionale reperto: una statua in marmo greco di Thasos rappresentante un personaggio maschile in trono dell’altezza totale di oltre 2 m, senza la testa. Si tratta di un recente (2011) recupero da parte della Guardia di Finanza-Nucleo Tutela Patrimonio Archeologico di cui si è già data notizia in vari convegni. Gli scavi condotti dalla Soprintendenza nel luogo del rinvenimento, sul versante orientale del lago, individuato
In questa pagina: due immagini della statua di personaggio maschile in trono, verosimilmente identificabile con Caligola. Età giulio-claudia. Nemi, Museo delle Navi Romane. Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento della mostra dedicata a Caligola dal museo nemorense.
grazie a ulteriori indagini della Guardia di Finanza, hanno portato alla luce parte di un grandioso impianto residenziale, finora sconosciuto, che doveva far parte della proprietà imperiale, a cui appartiene un ninfeo a forma di ventaglio riccamente decorato da marmi colorati. La statua recuperata, che considerazioni stilistiche permettono di datare al periodo giulio-claudio, appartiene molto verosimilmente proprio a Caligola, rappresentato come Giove in trono, con cui secondo gli autori antichi, in particolare Cassio Dione, l’imperatore voleva identificarsi, emulando in questo Alessandro Magno. La statua era posizionata sul basamento semicircolare del ninfeo, orientata verso la costa, in particolare verso Anzio, città natale dell’imperatore. Da questo punto elevato del bosco nemorense l’imperatore poteva osservare sia il litorale, sia il Santuario di Giove sul Monte Albano. Appare dunque evidente lo stretto legame villa-santuario-navi, che, lungi dall’essere il riflesso di una folle megalomania di Caligola, va considerato nell’ambito di un preciso programma politico-religioso e architettonico dell’imperatore, il cui modello culturale dall’Egitto faraonico giunge, attraverso la mediazione ellenistica e l’indubbio riferimento ad Alessandro Magno, fino all’imperatore giulio-claudio. a r c h e o 93
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ne (LIX, 25, 1-5), che aggiunge come ulteriore prova di follia la pretesa di Caligola di farsi acclamare come Germanico e Britannico e la sua teatrale elargizione al popolo romano di monete d’oro e argento, a cui aveva mischiato anche pezzi di ferro.
Verso un tragico epilogo Dopo le spedizioni in Germania e in Britannia, che lo tennero lontano da Roma piú di un anno, nell’estate del 40 Caligola rientrò nell’Urbe accolto da un’ovatio, una forma di trionfo minore, seguita da una ripresa di denunce e delazioni, che portarono alla scoperta di una congiura (la terza in soli tre anni) sventata e repressa (Cass. Dio. LIX, 25, 5). Lo stesso Senato prese (obtorto collo) misure precauzionali per la sicurezza dell’imperatore, decretando che anche durante le riunioni nella Curia il suo trono poggiasse su una piattaforma rialzata e che lui venisse accompagnato dalla sua guardia del corpo armata. Secondo Svetonio, Caligola, verso la fine del 40, avrebbe progettato di trasferire la sua residenza ad Anzio o ad Alessandria. Se la scelta della prima, sua città natale, rimanda alla decisione di Tiberio che lo portò a trascorrere quattordici anni lontano da Roma, a Capri, nel caso di un’effettiva volontà di trasferirsi ad Alessandria, le motivazioni sono piú complesse. Da un lato un indubbio per saperne di piÚ • Anthony Barrett, Caligola, l’ambiguità di un tiranno, Cles 1992 • Arther Ferrill, Caligola imperatore di Roma, Torino 1996 • Guglielmo Natalini, Caligola, l’imperatore in rivolta che voleva la luna, Anzio 2008 • Clemente Marigliani, Caligola e Nerone, Roma 2012. • Caligola. La trasgressione al potere (catalogo della mostra allestita al Museo delle Navi Romane di Nemi, 5 luglio-5 novembre 2013), Roma 2013 Fonti latine • Svetonio, Le vite dei dodici Cesari, Caligola (qui citato nella traduzione di Guido Vitali) • Seneca, Consolatio ad Polybium • Tacito, Annali (riferimenti nelle vite di Tiberio e di Claudio). • Plinio il Vecchio, Storie Naturali Fonti greche • Filone Alessandrino, Legatio ad Gaium • Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche • Cassio Dione, Storia Romana, lib.LIX (qui citato nella traduzione di Alessandro Stroppa) 94 a r c h e o
fascino che la città, conosciuta da bambino al seguito del padre, doveva esercitare su di lui; l’emulazione di Alessandro Magno, che vi era sepolto, e dell’avo Marco Antonio, che vi aveva soggiornato a lungo insieme a Cleopatra; ma anche il controllo di una città dove le tensioni tra Greci e Giudei rischiavano di sfociare in aperto conflitto che poteva estendersi a tutto l’Egitto, Paese da cui dipendeva l’approvvigionamento di grano a Roma e all’Italia. È verosimile che Caligola pensasse a un trasferimento temporaneo, per comporre la situazione e la sua annunciata partenza, prevista il 25 di gennaio, a conclusione dei giochi palatini, affrettò la decisione dei congiurati di assassinarlo. Il 24 gennaio del 41 d.C., una congiura organizzata da Cherea e Cornelio Sabino, tribuni dei pretoriani, dal prefetto Marco Arrecino Clemente, Callisto, un liberto molto legato all’imperatore, e, secondo Flavio Giuseppe, anche da Emilio Regolo e Annio Viniciano, metteva fine a una delle vite – e dei governi – piú brevi e tormentate dell’impero romano: quella del giovane Gaio Cesare Germanico. Flavio Giuseppe (Ant. Iud. XIX, 17-161) descrive con precisione la congiura, la sua
preparazione, gli episodi concitati che la precedettero e che la seguirono. La sua testimonianza è la piú completa e accurata, anche nei particolari; tuttavia, basandosi su una fonte senatoria e quindi di parte, non manca di considerazioni poco imparziali sull’operato dei congiurati, che vengono descritti come idealisti che agirono in nome della libertà. L’uccisione dell’imperatore doveva avvenire durante i Ludi Palatini, che si svolgevano dal 21 al 24 gennaio, in onore di Augusto e che prevedevano una serie di spettacoli teatrali in una struttura appositamente realizzata sul Palatino, nel versante verso il Foro.
il colpo fatale Nella versione riportata da Svetonio fu Cherea a colpire per primo, alle spalle oppure alla mascella e la morte di Caligola non fu immediata, tanto da dargli la possibilità di gridare di essere ancora vivo per cercare di attirare l’attenzione della sua guardia del corpo scelta, i Batavi; ma fu tutto inutile: gli altri congiurati gli furono addosso colpendolo trenta volte. Lo stesso Cherea inviò un altro congiurato, il tribuno Lupo, a uccidere la moglie Cesonia e la figlia Drusilla. Sferzante il commento di
Cassio Dione (LIX, 30): «Gaio, dunque, dopo aver fatto tutto ciò nel corso di tre anni, nove mesi e ventotto giorni, imparò dall’esperienza immediata di non essere un dio». Come dopo l’uccisione di Giulio Cesare i congiurati vollero apparire come coloro che avevano operato per la libertà, ma, come i loro predecessori, vennero giustiziati (Cherea) o costretti al suicidio (Sabino) dal successore di Caligola, lo zio Claudio; solo Callisto riuscí a ingraziarsi il suo favore e a continuare una vita di agi a corte, rivestendo l’importante ruolo di segretario a libellis (le suppliche all’imperatore). Il corpo di Caligola venne frettolosamente bruciato e portato nella sua proprietà privata, gli Horti Lamiani, per l’interessamento di Erode Agrippa, che l’imperatore aveva favorito e che forse nutriva per lui un’autentica amicizia; il suo spirito continuò a vagare nel palazzo fino a quando questo non venne distrutto da un incendio nell’80 d.C., anche dopo che le sorelle, tornate dall’esilio, trasferirono le sue ceneri nel Mausoleo di Augusto (Svet., Cal., 59). Possiamo affermare con lo storico Federico D’Ippolito che Caligola fu vittima della «solitudine tragica degli assolutismi, irrinunciabile prezzo pagato alla storia».
Un imperatore romano, olio su tela di Lawrence Alma-Tadema. 1871. Collezione privata. L’artista ha immaginato il momento in cui Caligola giace a terra, ucciso dai congiurati, ai quali scampa lo zio Claudio, nascosto dietro una tenda, che poi gli successe.
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fine o rivincita? il celebre motto di orazio secondo il quale i vinti «conquistarono» i vincitori è, ancora oggi, la sintesi piú efficace del sentimento ambivalente sviluppato da roma nei confronti dell’ellade. e a subire il fascino della cultura greca non furono soltanto imperatori e intellettuali, ma anche i primi «turisti culturali» della storia... di Fabrizio Polacco
«U
omini massimamente uomini», «inventori della civiltà, delle arti e dell’agricoltura», come li definisce Plinio il Giovane; o, al contrario, semplicemente sudditi. «Graeculi», «piccoli Greci», come non si asteneva dal chiamarli in pubblico perfino Cicerone; o, piuttosto, ammirati maestri di tutte le scienze e le discipline, quasi dello stesso pensiero umano. Anche dopo che li ebbero sottomessi, non si può negare che i Romani provassero verso i Greci un sentimento ambivalente. Il caso di Cicerone è emblematico: proprio lui, che aveva rielaborato in latino la filosofia ellenistica; lui, che aveva denominato Filippiche le sue invettive contro il potente di turno, Marco Antonio, intendendo emulare quelle di Demostene contro il re macedone; lui, filelleno colto e sopraffino, eccolo cadere, in una delle orazioni giudiziarie (le Verrine), nel pregiudizio etnico contro quei «piccoli, imbelli e frivoli (tutte connotazioni presenti nel diminutivo utilizzato) Greci». Per non parlare poi di Cesare, dittatore perpetuo, e del suo filius, nonché assassino: Bruto. L’uno e l’altro imbevuti di grecità: eppure schierati in fa-
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vore di due mondi diametralmente opposti. Il dictator, si malignava, era stato in gioventú amante di Nicomede IV, re ellenizzato di Bitinia; poi, ormai attempato arbitro di Roma, aveva avviato una relazione con l’ultima grande sovrana greco-macedone, Cleopatra, appoggiandone le ambizioni contro il fratello-rivale, un preadolescente dal nome di Tolomeo XIII, il quale pure gli aveva fatto la «cortesia» di decapitare Pompeo e di inviargliene in omaggio il capo (nonostante le lacrime versate, pare, da Cesare di fronte al truculento pacco-dono).
questioni di sangue Con la regina d’Egitto Cesare aveva avuto un figlio (Tolomeo Cesare, soprannominato dagli ironici Alessandrini «Cesarione»), che, in età adulta, sarebbe potuto diventare il re universale capace di unire l’Oriente e Roma e nelle cui vene scorreva, oltre al sangue della gens Iulia, forse anche quello della stirpe di Alessandro (si sussurrava che vero padre di Tolomeo I Sotere, capostipite dei re d’Egitto, non fosse stato Lago, ma Filippo II). A Roma, Cesare, poco prima delle Idi di marzo, rifiutò per tre volte di seguito la corona
Dendera (Egitto), tempio di Hathor. Rilievo raffigurante Cleopatra e suo figlio Cesarione in atto di sacrificare agli dèi. Età tolemaica, I sec. a.C. I Romani assunsero un atteggiamento ambiguo nei confronti della cultura dell’Ellade, diviso tra ammirazione e rifiuto. Nel caso di Giulio Cesare, per esempio, la sua relazione con la regina grecomacedone Cleopatra (dalla quale ebbe Cesarione), fu vista dai difensori della romanità come un potenziale attentato alla sua «purezza».
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regale. Ma molti avversari interpretarono il suo come un gesto ipocrita; e lessero titubanza nel suo volto atteggiato a modestia; e, comunque, l’aver dedicato Cesare nel Foro un tempio a Venere Genitrix («sua» genitrice, ovviamente, in quanto discendente, egli, della gens Iulia generata da Afrodite), e l’aver affiancato a quella della dea una statua d’oro di Cleopatra, ne faceva, agli occhi dei tradizionalisti difensori della repubblica, il piú pericoloso candidato per il trionfo a Roma dell’ellenismo politico: la concezione divina e sacrale del monarca cosí come si era affermata in Oriente, da Alessandro in poi. In alto: moneta con il ritratto di Cleopatra. I sec. a.C. Tubinga, Münzsammlung Universität Tübingen. A destra: statua di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano dal 27 a.C. al 14 d.C. 30-20 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: ritratto in marmo di Marco Antonio (o Catone il Censore). 80-70 a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini.
La regina e il soldato Eppure – e qui sta il paradosso – anche M. Giunio Bruto poteva dirsi non solo imbevuto di grecità, ma addirittura ispirato da teorie politico-filosofiche elleniche nel compiere il fatale gesto del 44 a.C. Divenne anch’egli un «tirannicida», emulo romano dei due eroi della democrazia attica, quell’Armodio e quell’Aristogitone che avevano osato, soli, affrontare i figli del tiranno Pisistrato, e le cui statue troneggiavano ancora nell’agorà di Atene. A quanto ci racconta Dione Cassio, in quella stessa piazza rinomata in tutto il mondo antico anche Bruto venne onorato dagli Ateniesi come tirannicida, in quel frangente in cui tutto l’Oriente ellenistico si era schierato con lui e con gli altri congiurati, appena prima che tra cesariani e anticesariani si andasse allo scontro decisivo di Filippi (42 a.C.). Se gli Ateniesi e molte altre città greche si schierarono dalla parte dei congiurati, quindi dei perdenti, l’accorta Cleopatra non commise lo stesso errore. Anzi, un po’ per affetto postumo verso Cesare, un po’ per calcolo politico s’era messa – lei, una donna – alla testa di una
Gallia Celtica Spagna Ulteriore Spagna Citeriore
Gallia Cisalpina Modena Bologna Gallia Narbonese Perugia Roma
Munda 45 a.C.
Mar Nero
Filippi 42 a.C.
Macedonia Azio 31 a.C.
Utica
Africa
Dacia
Bitinia Farsalo 48 a.C.
Asia
Ponto Cappadocia Zel ella 4477 a a.C C.
Carre 53 a.C. Parti
Cartagine
Tapso
Numidia 46 a.C.
M a r Mediterraneo
Territori romani nel II secolo a.C.
Egitto
Conquiste romane fino alla battaglia di Azio Stati vassalli fino alla battaglia di Azio
Ed ecco un nuovo paradosso, in realtà capolavoro di propaganda. Altro che novelli Dioniso e IsideAfrodite, come pure si presentava in pubblico ai creduli sudditi grecoflotta egiziana per contrastare quelegiziani la coppia di amanti reali! la di Cassio, sodale di Bruto. Le Quando le flotte contrapposte – la navi furono disperse da una tempeloro e quella di Ottaviano con le sta prima di arrivare a destinazione: forze congiunte occidentali – si ma intanto il «bel gesto» era stato scontrano nelle acque di Azio, per compiuto. mano poetica e trasfigurante di VirE quando i triumviri, che avevano gilio i due schieramenti combattoraccolto l’eredità di Cesare, dopo la no incitati e sorretti dalle rispettive loro vittoria a Filippi e le odiose divinità: antitetiche, sí, ma con proscrizioni ai danni dei repubbliApollo e gli dèi greci tutti dalla cani, s’erano provvisoriamente parte del futuro imperaspartiti il potere, ecco che tore di Roma, mentre a l’Oriente toccò a Marco Antonio, braccio destro Molti videro in Cesare il piú favore dell’Oriente ellenistico non restavano che del grande scomparso: il pericoloso fautore di una Anubi-testa di cane e la piú coraggioso, il piú «solcongerie delle dato» e affascinante dei svolta in senso ellenistico mostruosa deità egizie, che risultacesariani, almeno agli ocvano cosí anch’esse sconchi di una donna. A lui della cultura romana fitte e messe in fuga, asCleopatra si fa incontro, in sieme alle navi (31 a.C.; quel di Tarso in Cilicia, con tutto lo sfarzo di una corte pallidire quel simulacro di algida vedi box alle pp. 100-101) plurimillenaria e con la sua perso- legalità repubblicana di cui egli sta- Ed eccoci giunti agli ultimi, dissova nel frattempo imparando a ser- luti e strazianti giorni dei due nale avvenenza. E nasce l’idillio. amanti in un’Alessandria ormai in virsi ai propri fini. Cosicché, dall’Italia dove si riarma- procinto di capitolare, in un mondo Tra il Sole e la Luna Tra Cleopatra e l’altro dei triumvi- va in vista del duello decisivo, Otta- che stava per finire: sciolta la loro ri che s’era installato a Roma, inve- viano ebbe gioco facile nel far pas- precedente compagnia di amici di ce, quel giovanotto poco in salute sare Marco Antonio – che frattanto bagordi e festini – detta dei «Vivenma dalla volontà e intelligenza po- distribuiva in dono a Cleopatra e ti inimitabili» – la sostituirono con litica eccezionali, Gaio Ottavio, figli le province romane, dalla Siria quella, altrettanto gaudente ma con l’antipatia e il contrasto non pote- alla Cilicia, dalla Palestina alla Cire- in piú un tratto di decadentismo vano essere maggiori. Voleva essere naica, quasi fossero altrettanti posse- ante litteram, dei «Compagni di lui il vero erede di Cesare; lui, già dimenti di famiglia – per un nemi- morte». Il resto è cronaca: il suicidio col ferro di Antonio, quello con nipote e ora figlio adottivo di quel co della patria.
L’assetto geopolitico del mondo mediterraneo nel periodo che culmina con la battaglia di Azio, nel 31 a.C.
grande per disposizione testamentaria; lui, che ora si faceva chiamare G. Giulio Cesare Ottaviano; e non certo Cesarione, associato nel frattempo al potere, come Tolomeo XV, da Cleopatra, la quale frattanto con Antonio aveva avuto altri figli, due gemelli, maschio e femmina. Con gli evocativi nomi di Alessandro Helios e Cleopatra Selene (il Sole e la Luna) quei fanciulli minacciavano all’occhio sospettoso di Ottaviano di dare origine a un’intera stirpe di monarchi universali greco-romani, che poteva far im-
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l’aspide di Cleopatra, e l’eliminazione di Cesarione da parte di Ottaviano. Eventi tanto noti da confondersi con la leggenda. Ma l’annessione dell’Egitto come proprietà privata dell’imperatore, nel 30 a.C., e la successiva riduzione della penisola greca in provincia di Acaia (27 a.C.) sono eventi che marcano davvero la fine di un’epoca.
La Grecia, campo di battaglia Le tre principali battaglie combattute nelle guerre civili che segnarono la fine della repubblica – da Farsalo, tra Cesare e Pompeo (48 a.C.), a Filippi e Azio – sono state tutte combattute nella Grecia odierna. Con quali conseguenze, devastazioni e saccheggi si può ben immaginare. È vero che Cesare aveva fatto risorgere, a un secolo dalla distruzione, Corinto come colonia romana (Laus Iulia Corinthiensis, nel 44 a.C.), sicché la città divenne poi capoluogo dell’Acaia. Ma tutt’attorno le cronache ci riportano miseria, abbandono e spopolamento. Già Polibio lamentava «le città deserte e la terra che ha smesso di dare frutti»; e ora, nella prima età imperiale, Seneca domanda a Lucilio con melanconia: «Non vedi come in Acaia perfino le fondamenta di città famosissime sono oramai ridotte a nulla, e neppure rimane traccia che tuttavia un tempo esisterono?» (vedi box qui sotto).
L’ABBANDONO DEGLI ORACOLI Gli autori greci dell’età aurea dell’impero lamentano come i grandi oracoli fossero ormai abbandonati, come fa Plutarco, che proprio al Venir meno degli Oracoli dedicò uno dei suoi dialoghi. Fa impressione, a chi sia andato anche oggi a visitarlo, leggere di un santuario di Apollo Ptoon in Beozia in cui, allora come ora «per buona parte del giorno ci si può imbattere al piú in un pastore con il gregge». 100 a r c h e o
nicopoli, «città della vittoria» La penisola del golfo Ambracico in cui Ottaviano pose l’accampamento in occasione della battaglia di Azio, divenne sede di una fondazione destinata a grande avvenire: Nikopolis, la «città della Vittoria», poi capitale della provincia romana d’Epiro. Proprio dov’era la tenda di Ottaviano, con vista magnifica sulla città e i dintorni, fu eretto un altare celebrativo, circondato da un recinto marmoreo quadrangolare. Questo modulo architettonico precede e in certa misura prefigura quello dell’Ara Pacis di Roma: nei cui rilievi processionali, solennemente e quasi ieraticamente composti, si manifestò un nuovo stile dell’arte antica. L’ellenismo scultoreo – audace, eccessivo, passionale – si esaurisce lasciando il passo a una citazione del classico che non può piú essere ormai che «classicismo». È il risultato della cancellazione dell’elemento dionisiaco della grecità in favore di quello apollineo – lucidità, autocontrollo, misuratezza – entro il quale, nell’ambito politico e dell’etica pubblica non meno che in quello estetico, Augusto vuole ora comporre l’impero da lui fondato e pacificato.
In alto e a destra: Nicopoli. Resti del monumento che celebra la vittoria di Azio. In basso: Nicopoli. Le mura di epoca giustinianea.
Monumento per la vittoria di Azio
Nicopoli Smyrtula Teatro Stadio
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Golfo di Ambracia
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In alto: disegno ricostruttivo del monumento celebrativo fatto innalzare da Augusto a Nicopoli. La struttura, articolata su due terrazze sovrapposte, presentava rostra bronzei alloggiati sulla fronte del muro del terrazzamento superiore, su cui si ergeva l’altare circondato dal recinto marmoreo quadrangolare. A sinistra: pianta della città di Nicopoli, con i monumenti principali.
La reazione tradizionalista augustea successiva alla vittoria di Azio, quell’irrigidimento dell’etica e del carattere nazionale romani intesi come antidoto alle minacce portate dall’Oriente al mos maiorum, si incrinò al tempo di Nerone. Dipinto dagli storici filosenatorii come un gaudente, nonché frivolo e crudele cantore sulle fiamme di Roma, quell’ultimo princeps dei Giulio Claudii fu ostentatamente filelleno. Se non guidò eserciti in armi, né condusse guerre di conquista, compí tuttavia un lungo viaggio in Grecia nell’ultimo periodo della vita (66/67 d.C.).
1808 corone Si vantava puerilmente delle vittorie ivi conseguite – e che ovviamente non gli furono negate – come citaredo e attore, come atleta e auriga, e tornò a Roma, esibendo in trionfo le milleottocentootto (sic) corone conquistate negli agoni. Ma il suo plateale annuncio, sulle orme di quello assai antecedente di Flaminino, della concessione della libertà e dell’immunità dai tributi a r c h e o 101
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IL FOLKLORE CRUENTO DI SPARTA all’Ellade, ebbe vita breve. Fu ritrattato poco dopo da Flavio Vespasiano, fondatore dell’ultima dinastia italica dell’impero.
I Giochi greci a Roma Anche l’ultimo dei Flavi, Domiziano, fu un filelleno. Lo stadio per gli agoni ginnici che fece costruire per primo a Roma (la cui pianta è leggibile in quella di piazza Navona, o «in Agone») testimonia dell’ingresso di pratiche tipicamente greche nel cuore dell’Urbe. Le specialità atleti102 a r c h e o
Solo dopo che l’Ellade cessò di costituire un sia pur potenziale pericolo, molti Romani iniziarono ad amarla senza remore, né ambiguità. La Grecia, l’Asia Minore e le loro città illustri divennero cosí oggetto di un «turismo culturale» quasi di massa: il primo, nella storia. Gli stessi Greci ne erano consci, e ne profittavano: iniziarono cosí ad autorappresentarsi ed esibirsi come i facoltosi e colti visitatori romani si aspettavano che fossero. Esemplari sono ancora oggi a Sparta, attorno al santuario di Artemide Orthia, i resti delle gradinate costruite per permettere a folle di turisti di assistere comodamente seduti all’arcaico rituale della fustigazione degli efebi: una pratica ripetuta, in quei primi secoli dopo Cristo, come se i corpi nudi dei giovanissimi lacedemoni dovessero ancora prepararsi a divenire gli impavidi signori dell’Ellade, fortificandosi pazientemente sotto i colpi del flagello.
Xilografia ottocentesca in cui si immagina un gruppo di giovani spartani nel corso di un allenamento. Divenuta meta di un «turismo culturale» ante litteram, la Grecia antica prese ad autorappresentarsi agli occhi dei Romani cosí come voleva l’oleografia del tempo.
re erano consolidate, le strade e le vie di navigazione sicure ed efficienti. Traiano, Adriano e Marco Aurelio erano principi nati fuori dall’Italia: sicché le province, anche quelle orientali, non vennero piú considerate solo «pecore da tosare», ma componenti paritarie di una stessa compagine statale, quindi da rispettare, proteggere, favorire. È il tempo dell’impero «bilingue» o «greco-romano», nel quale la supremazia politica e militare di origine latina (stemperata però in un senso sovranazionale) si alleava a una vincente cultura ellenistica, che quel potere illuminato favoriva, e dal quale riceveva in cambio riconoscimenti. La rinascita economica e civile del mondo greco-orientale corrispose a un rifiorire della letteratura, della retorica, delle arti, e in qualche modo anche dello spirito civico delle poleis risorte dalle ceneri: non piú indipendenti, ma dotate di ampia autonomia e, talvolta, dello status di città «libere e immuni» da tributi.
che del ginnasio parvero soppiantare, tra il disappunto dei tradizionalisti, i giochi militari che la Romana iuventus effettuava da secoli in Campo Marzio. Tacito deprecava come «la gioventú degenerasse a causa del desiderio di mode straniere, praticando i ginnasi, gli ozi e i turpi amori sotto la spinta del Principe e del Senato». La svolta decisiva avvenne nel II secolo, generalmente considerato l’età aurea dell’impero. La pace interna durava da decenni, le frontie-
Alla fine, un brivido Uno dei rappresentanti della «Seconda sofistica» dell’epoca, Elio Aristide, elogia il ruolo di Roma che ha «ordinato tutto il mondo abitato come una sola dimora», trattando i Greci come suoi «genitori adottivi». L’imperatore Adriano, iniziato ai Misteri Eleusini e denominato, oltre che «Filelleno», anche «Olimpio» (Olympios), risollevò e fece restaurare innumerevoli edifici pubblici in molte città e santuari nel corso dei suoi viaggi in Grecia e in Oriente, altri ne costruí di nuovi. Atene, in particolare, ricevette onori e cure: considerata la rappresentante piú eccelsa di quella che
Plinio il Giovane definisce «veram et meram Graeciam» – «Grecia pura e schietta» –, la città fu scelta come sede di una lega culturale-religiosa, il Panhellenion, che riuniva le poleis della grecità classica in Tracia, Macedonia, Acaia, Asia, Creta e Cirene (131-132 d.C.). Si ipotizza che il grandioso tempio di Zeus Olympios, finalmente completato dopo ben sette secoli da Adriano a sud dell’Acropoli, fosse anche il santuario della Lega. Da sparute fonti viene riportata, per gli anni dopo il 170, una veloce e rovinosa incursione dei barbari Costoboci, che dall’Europa centroorientale ruppero le frontiere, spingendosi a saccheggiare la Focide, e forse perfino Eleusi, alle porte di Atene. Fu un brivido fugace, ma gelido: avvisaglia di un nuovo tempo a venire della storia. (24 – fine) nelle puntate precedenti Le puntate precedenti di questa serie sono state pubblicate nei seguenti numeri: • 311. Ellade, la grande madre • 312. L’ambiguo volto di Minosse • 313. Prima di Omero • 314. L’età degli uomini nuovi • 315. Potere e libertà • 316. Passaggio a Sud-Ovest • 317. L’eccezione spartana • 318. La poesia al potere • 319. L’età della bellezza • 320. La sfida dell’uguaglianza • 321. Le città contro l’impero • 323. Verso l’egemonia • 324. Splendori e tragedie • 325. Processi e politica • 327. La guerra del Peloponneso • 329. I nemici della democrazia • 330. Tebe, l’ultima egemonia • 332. Verso i confini del mondo • 334. Mirabili frantumi • 337. Un’età senza fine • 339. I «barbari» alla conquista del mondo • 342. Il fascino dei vinti • 343. La resistenza greca Gli articoli sono disponibili anche on line, sul sito www.archeo.it a r c h e o 103
scavare il medioevo Andrea Augenti
L’europa dei castelli con il loro aspetto fiabesco, rocche e fortezze sono una presenza costante nel nostro paesaggio. ma, al di là delle suggestioni, la loro costruzione si inserisce in dinamiche sociali ed economiche indagate da storici e archeologi
S
e noi, abitanti del vecchio continente, pensiamo al nostro paesaggio, l’eredità piú cospicua e impressionante del Medioevo sono i castelli. Non esitono regioni d’Europa che ne siano completamente prive. Nessuno li ha mai contati tutti, ma, solo in Italia, sono migliaia, e decine di migliaia in tutto il continente. Una stima che, peraltro, si riferisce unicamente a quelli rimasti in piedi, o in forma di rovine; e non tiene conto di quelli distrutti e sepolti, che solo l’archeologia potrebbe riportare alla luce. La rilevanza numerica del fenomeno ha da sempre attirato l’interesse degli studiosi, prima soprattutto degli storici, poi anche degli archeologi.
ondata costruttiva Ma non è solo una questione di numeri. L’incastellamento è un tema di enorme importanza, perché tocca e comprende molti altri fenomeni. Per esempio: quali sono le motivazioni di questa gigantesca ondata costruttiva, incentrata su un unico tipo di insediamento e compresa soprattutto nel periodo che va dal X al XIV secolo? Quali abitati vengono rimpiazzati dai castelli e quali, invece, rimangono in vita accanto a essi? Qual è il peso dei castelli nel quadro dell’economia del Medioevo? E qual è l’importanza dei castelli nel modo di vita e nelle forme di autorappresentazione dei signori che li costruiscono e li posseggono?
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Lo storico a cui va il merito di aver maggiormente smosso le acque rispetto a questo tema è il medievista francese Pierre Toubert. Nel 1973 questo insigne studioso ha pubblicato uno studio fondamentale sul Lazio medievale (Les structures du Latium médiévale), nel quale l’incastellamento è trattato con grande attenzione. A partire dai documenti di due grandi monasteri che possedevano
castelli, le abbazie di Farfa e Subiaco, Toubert ha ricostruito una storia del Lazio medievale giungendo a conclusioni di grande interesse, tra cui il fatto che i castelli vennero costruiti solo dal X secolo presso zone prima disabitate. Un altro punto importante toccato dallo studioso transalpino riguarda la funzione dei castelli, che, a suo giudizio, fu soprattutto economica, piú che militare. I castelli, in sostanza,
Roccasecca (Frosinone). I resti della rocca dei conti d’Aquino, una delle numerose presenze di questo genere nel territorio laziale, che, in questo senso, presenta caratteristiche pienamente coerenti con la piú generale realtà italiana ed europea.
sarebbero i perni intorno ai quali i signori gettarono le basi del loro nuovo potere economico, controllando i contadini e lo sfruttamento delle risorse.
il caso montarrenti D’altro canto, a voler citare l’archeologo che piú si è dedicato al tema dell’incastellamento, aprendo a sua volta nuove prospettive, emerge senza dubbio il nome di Riccardo Francovich (1946-2007), che, nel corso della sua carriera, ha diretto scavi in numerosi castelli, e ha ideato e coordinato uno strumento fondamentale: l’Atlante dei siti fortificati d’altura della Toscana, un censimento a tappeto che ha permesso di localizzare la maggior parte dei castelli della regione e che ha già costituito il punto di partenza per molte nuove ricerche. Inoltre, Francovich, grazie a piú di uno scavo, è riuscito a dimostrare che, in realtà, i castelli potevano anche essere costruiti in luoghi abitati in precedenza, in genere lí dove prima c’era un villaggio. In particolare, nel caso di Montarrenti (in provincia di Siena), il castello non è altro che il punto di arrivo di una lunga sequenza di diversi villaggi, che inizia addirittura nel VII secolo. Storici e archeologi hanno trovato (e continueranno sicuramente a trovare) nell’incastellamento un terreno privilegiato del dialogo. E allora vale la pena di concludere con un annuncio: il 14 e il 15 novembre prossimi, all’Università di Bologna, proprio in occasione dei quarant’anni dalla pubblicazione del volume di Toubert, avrà luogo il convegno L’incastellamento: storia e archeologia a confronto. Ci saranno lo stesso Toubert e molti altri studiosi, tutti impegnati da tempo su questo tema con le loro ricerche. Sarà dunque un’occasione unica per portare avanti il confronto tra fonti scritte e fonti materiali: il solo approccio capace di indagare fino in fondo un argomento cosí importante, e affascinante.
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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale
minatori preistorici L’uomo ha imparato presto a riconoscere diverse materie prime e a utilizzarle per la produzione di utensili e oggetti. Molte di esse, rocce e minerali metalliferi, si trovano sotto i nostri piedi e lí, fin dal Neolitico, sono state cercate ed estratte…
N
ella puntata precedente si è parlato di strutture rupestri «a corte» o «a trincea» (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013). Il loro prototipo va ricercato in alcuni tipi di miniere preistoriche in cui erano già stati risolti i problemi di perforazione, aerazione e drenaggio. Nel Neolitico si inizia a scavare il sottosuolo per estrarre elementi utili, in particolare la selce: con un pozzo si raggiunge lo strato orizzontale di roccia che interessa e che viene seguito con una serie di gallerie, formando un reticolo radiale, del tutto simile ai complessi rupestri «a corte». Condurre ricerche oggi in ambienti ipogei, particolarmente pericolosi come le miniere abbandonate, necessita del lavoro congiunto di Grotta della Monaca (Sant’Agata di Esaro, Cosenza). L’ampia entrata del sito vista dal suo interno durante una recente campagna di scavo.
esperti di differenti settori, dall’archeologia alla geologia, passando per la speleologia in cavità artificiali.
l’oro del Gargano L’Italia conserva le piú antiche testimonianze di miniere sotterranee di grande estensione
per l’estrazione della selce, nel Promontorio del Gargano, in Puglia. Qui il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Siena ha provato come le comunità del Neolitico, nei primi secoli del VI millennio a.C., abbiano sviluppato efficienti ed elaborati sistemi di estrazione in oltre venti complessi,
formati da pozzi, escavazioni suborizzontali, cunicoli e camere a pilastri. In particolare nella miniera della Defensola A, una struttura straordinaria e in eccezionale stato di conservazione, nella quale è presente un livello costituito da una grande cavità di forma irregolare di oltre 2700 mq e dove l’altezza media soffitto-pavimento è di appena 50 cm. In una serie di corridoi, larghi mediamente 150 cm, che formano un reticolo di circa 588 m, sono stati recuperati in condizioni operative non facili – nelle quali le tecniche di progressione speleologica sono risultate fondamentali –, numerosi materiali archeologici, quali picconi e mazzuoli in pietra impiegati per l’estrazione della selce, oltre che lucerne, scarti di lavorazione e ceramiche, tra cui un vaso integro rinvenuto ancora nella sua posizione funzionale.
Dalla Calabria… Il nostro Paese vanta anche diversi siti preistorici di estrazione mineraria, in particolare in due aree di notevole importanza per ritrovamenti e datazioni. In Calabria, nell’alta valle del Fiume Esaro, si trova Grotta della Monaca, un’estesa cavità naturale che contiene abbondanti mineralizzazioni di ferro e di rame, in cui opera una missione speleo-archeologica dell’Università degli Studi di Bari (www.grottadellamonaca.it). La prima a essere coltivata fu la goethite, un idrossido ferroso, sfruttata sin dal Paleolitico Superiore nei pressi dell’imbocco della grotta. Lo provano gli strumenti in selce rinvenuti all’interno di fratture rocciose originariamente ricolme di tale minerale e le impronte di scavo, conservate sulle superfici dei filoni mineralizzati, dove si riconoscono colpi di piccone in palco di cervo e in corno di capra, ma anche le tracce di vere e proprie «palettate» forse derivate dall’utilizzo di
scapole di suino. Allo sfruttamento degli idrossidi ferrosi si sovrappone, nel corso del IV millennio a.C., una coltivazione finalizzata, con ogni evidenza, all’approvvigionamento dei minerali di rame, in primo luogo della malachite, estratta impiegando mazze in pietra, asce-martello e picconi.
…alla Liguria Si trovano invece in Liguria, dove l’estrazione iniziò molto presto rispetto ad altre regioni, le piú antiche miniere di rame dell’Europa occidentale. Indagini condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria e dall’Università di Nottingham hanno riportato alla luce, a Monte Loreto e a Libiola nell’entroterra di Sestri Levante, numerose tracce dell’età del Rame (3600-2300 a.C.). Oltre ad aree di discarica all’aperto sono stati esplorati e documentati, con la collaborazione del Centro Studi Sotterranei di Genova, alcuni cunicoli e trincee scavati dai minatori preistorici per decine di metri a notevoli profondità, in spazi angusti, che, in alcuni casi, hanno una larghezza di soli 50 cm. Qui sono stati recuperati diversi reperti, tra cui oltre un migliaio di mazze di pietra. Originariamente legati a manici di legno, questi utensili, servivano sia a realizzare le anguste gallerie nella montagna, seguendo i filoni minerali, sia per sminuzzarli una volta portati in superficie, per poi essere avviati alla fusione. In alto: una delle trincee preistoriche di estrazione nelle miniere di rame di Monte Loreto (La Spezia). In alcuni tratti i cunicoli del giacimento hanno una larghezza pari ad appena 50 cm. A destra: mazzuolo in pietra ricoperto da mineralizzazioni cuprifere rinvenuto in una delle trincee di estrazione nelle miniere di Monte Loreto. Utensili come questo erano provvisti di un manico in legno.
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divi e donne Francesca Cenerini
G
iulia, in quanto figlia dell’imperatore Tito Flavio Vespasiano, portava il nomen Flavia, ma nelle fonti antiche è sempre ricordata solo con il cognomen, Iulia. Secondo la recente indagine storica condotta da Gian Luca Gregori ed Emmanuelle Rosso, l’attribuzione di quel cognome sarebbe frutto della devozione dei Flavi per la dea Venere, che la leggenda vuole progenitrice della gens Iulia. Una devozione dettata dalla necessità di trovare forme di legittimazione del potere della nuova dinastia imperiale. Di Giulia conosciamo soprattutto i pettegolezzi di matrice sessuale riportati dagli storici antichi, il cui obiettivo era sempre e comunque quello di screditare lo zio, l’imperatore Domiziano. Sulle monete la sua immagine e il suo nome compaiono soltanto dopo che Tito divenne imperatore, mentre sulle iscrizioni è ricordata già durante il principato di Vespasiano. A questo periodo risalirebbe, infatti, il conferimento del titolo di Augusta, in quanto è stata ritrovata a Ercolano un’iscrizione che la ricorda come Iulia Augusta, figlia di Tito Cesare, ma non ancora divenuto Augusto, e cioè imperatore. La dedica, quindi, era stata posta in un momento antecedente l’ascesa al potere di Tito (21 giugno 79 d.C.) e la distruzione della città campana, causata, nello stesso anno, dall’eruzione del Vesuvio. Si può pensare che Ercolano volesse dimostrare la propria riconoscenza alla dinastia flavia per gli aiuti
concessi alle città campane colpite dal terremoto nel 62 d.C. Poiché Tito non aveva figli maschi, la propaganda flavia affidò a Giulia il compito, impegnativo, di assicurare, in prospettiva, una continuità dinastica al nonno e al padre. Svetonio (Vita di Domiziano, 22, 2) afferma che Domiziano, a causa del legame con la moglie Domizia Longina, aveva rifiutato di sposarsi con la nipote Giulia, propostagli in moglie dal padre e dal fratello, quando era ancora vergine: per la ragazza, cioè, si trattava della prima proposta di matrimonio.
le nozze Successivamente, durante il breve regno del padre (o poco prima), Giulia si sposò con il cugino di secondo grado Flavio Sabino, un nipote (piuttosto che un figlio) del Flavio Sabino fratello dell’imperatore Vespasiano, nonno paterno di Giulia. Ancora una volta, la scelta dinastica avvenne all’interno della famiglia. Questo Flavio Sabino fu implicato nell’83 d.C. in una congiura contro Domiziano, nel frattempo acclamato imperatore (81 d.C.), e venne eliminato dallo stesso Domiziano, dopo che insieme avevano rivestito il consolato nell’82 d.C. Le fonti ci parlano di un legame sessuale tra Giulia e Domiziano, durante l’allontanamento, peraltro temporaneo, della moglie di Domiziano, Domizia Longina. La natura sessuale di questo rapporto è negata da alcuni storici contemporanei, che pensano, invece, che Giulia fosse soltanto una ascoltata consigliera su cui Domiziano poteva contare.
le sventure di giulia
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quella della figlia di tito e nipote di domiziano È un’altra vicenda in cui l’appartenenza all’Élite imperiale si mescola con episodi torbidi e si chiude tragicamente
Se diamo credito a Plinio il Giovane (Epistolario, 4, 11, 6), a Svetonio (Vita di Domiziano, 22) e a Giovenale (Satire, 2, 32), Giulia aspettava un figlio dallo zio, che la costrinse a interrompere la gravidanza, e sarebbe morta proprio a causa di questo aborto. Ma anche in questo caso tali narrazioni possono essere strumentali. Io ritengo che la morte per aborto di Giulia fosse una finzione storiografica usata per scopi politici contro il «tiranno» Domiziano (pessimus princeps contrapposto all’optimus Traiano), per squalificare la sua politica antisenatoria. Infatti, se leggiamo le pagine di Svetonio, Domiziano è un despota lussurioso e i rapporti sessuali con la nipote si inquadrano in questa sua libidine smodata e contro natura.
il principe pudico Domiziano fu, invece, il promotore di una serie di editti volti alla correctio morum, vale a dire la riforma dei costumi: inasprí la legislazione augustea in materia di adulterio e, in genere, di illeciti di natura sessuale (soprattutto la sodomia), proibí la castrazione degli schiavi ed esercitò un controllo piú severo sulla castitas delle Vestali. Lo scopo di tale legislazione, secondo l’ideologia del princeps pudicus, come appare lo stesso Domiziano nelle pagine di altri scrittori antichi, Marziale e Stazio (oppure nelle iscrizioni che parlano di un imperatore giusto e compassionevole), fu quella di ripristinare la pudicizia dentro e fuori le pareti domestiche, per incentivare la demografia del popolo romano. Allora, come interpretare il rapporto tra Domiziano e la nipote Giulia? Va notato che la volontà di alcuni scrittori antichi di comparare la legislazione domizianea in materia sessuale con il suo comportamento personale ha il duplice scopo di dare un giudizio negativo sul principato nella sua globalità (vituperatio) e di porre in
risalto, invece, il suo successore Traiano, morigerato ed equo in pubblico e in privato. Non va, però, nemmeno esclusa, a mio parere, la reale volontà, da parte di Domiziano, di costruire, a un certo punto del suo regno, una discendenza tutta flavia con la nipote Giulia, con un vero e proprio matrimonio, progetto che si sarebbe arenato a causa della forte opposizione politica.
angelo custode Giulia morí molto probabilmente negli ultimi mesi dell’89 d.C., in ogni caso prima del 3 gennaio del 90 d.C., quando scompare dai commentarii dei Fratres Arvales. Fu divinizzata (Marziale, 9, 1, 7) e deposta nel mausoleo dei Flavi sul Quirinale. Nel 90 d.C., il poeta Marziale (Epigrammi, 6, 3) si fece portavoce delle speranze che potesse nascere un nuovo erede dall’unione dell’imperatore Domiziano con la moglie Domizia Longina, destinato a succedere al padre nel governo dell’impero. In chiusura del carme, il poeta si
augurava che sul bambino potesse vegliare la diva Iulia, morta e divinizzata. Marziale aveva scelto toni propagandistici, ma non era certo uno sprovveduto e non avrebbe mai messo in imbarazzo l’Augusta Domitia e lo stesso imperatore, affermando che il ruolo dell’angelo custode del bambino sarebbe stato appannaggio della defunta amante di Domiziano, per di piú morta in seguito a un aborto, frutto di un rapporto incestuoso. Secondo Svetonio (Vita di Domiziano, 17, 3), le ceneri di Giulia furono mescolate con quelle di Domiziano, morto nel 96 d.C., dalla fidata nutrice Fillide che aveva allevato entrambi. Di Giulia ci sarebbe pervenuto un ritratto bellissimo, con la caratteristica pettinatura acconciata in file di riccioli sovrapposti, conservato nei Musei Capitolini, sebbene tale attribuzione sia stata recentemente posta in dubbio, proponendo di identificare la scultura con l’effigie di una nobildonna di età traianea.
Nella pagina accanto: busto di Giulia Flavia. 80 d.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps. In questa pagina: denario con testa di Giulia di Tito al dritto (in basso) e Venere Augusta, progenitrice della gens Iulia, al verso (a destra). I sec. d.C.
la discendenza Vespasiano
Domitilla Minore
Domitilla Maggiore
Tito
Marcia Furnilla Giulia Flavia
Domiziano
Domizia Longina
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
sul carro del Sole Il cocchio di fuoco illumina il mondo nel suo percorso quotidiano. ma, talvolta, viene «prestato» a divinità e personaggi mitici per viaggi d’eccezione
Qui accanto: l’immagine di Medea, alla guida di un carro trainato da draghi, dipinta su un cratere di produzione lucana. 400 a.C. circa. Cleveland, Cleveland Museum of Art.
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In alto: denario di Manlius Sergianus. 118-107 a.C. Londra, British Museum. Al dritto, testa di Roma; al rovescio, Sole in quadriga sovrastante le onde del mare. A destra: denario di M. Volteius. 78 a.C. Londra, British Museum. Al dritto, testa di Liber con corona d’edera; al rovescio, Cerere su biga trainata da serpenti con una torcia per mano.
L
a produzione monetaria dedicata alla personificazione del Sole conosce molteplici varianti, particolarmente interessanti dal punto di vista iconografico e per i richiami ad alcuni celebri miti. Tra le immagini del Sole, raffigurato in tutto il suo splendore, si distinguono quelle che lo immortalano sulla quadriga d’oro trainata da quattro focosi cavalli – Eòo, Etone, Flegone e Piroide – che spirano fiamme dalle narici e con le ali ai piedi (Ovidio, Metamorfosi, II, 47 ss.). Ogni mattina, alla guida del suo carro, il dio sorge dall’Oceano e percorre il cielo, da oriente a occidente, dove tramonta. Il carro del Sole ricorre nella monetazione repubblicana sui denari di Aulo Manlio Sergiano (118-107 a.C.), per i quali viene arditamente adottata una visione frontale con il Sole tra i suoi destrieri. Accanto brillano una stella e la Luna, simboli cosmici del suo passaggio nel cielo, mentre sotto le zampe dei cavalli si vedono le onde del mare, attraversato
quotidianamente, oppure, meno probabilmente, le nubi. Questo tipo frontale fu poi ripreso in età imperiale, in particolare sugli antoniniani di Probo. Il carro del Sole non era solo tirato da cavalli, ma anche da buoi, ed eccezionalmente da draghi. Uno dei piú celebri personaggi del mito greco è Medea, immortalata nelle tragedie di Euripide e di Seneca. La maga è la nipote del Sole, figlia di Eeta a sua volta figlio del dio e fratello di Circe e Pasifae. Questa temibile parentela la colloca in un certo senso al di là del bene e del male: una volta uccisi gli amati figli per annientare Giasone con inumana vendetta, invece di essere punita dagli dèi per l’efferato delitto, fugge vittoriosa sul carro inviatole dal Sole e trainato, per l’occasione terribile, da due draghi alati: «il Sole, il padre di mio padre, un carro mi die’ che me degl’inimici salva» (Euripide, Medea, v. 1321s., versione di Ettore Romagnoli).
la tragedia dipinta Una mirabile ed efficace sintesi dell’episodio compare su un eccezionale vaso lucano del 400 a.C. circa (la tragedia di Euripide andò in scena nel 431 a.C.), su un lato del quale campeggia il cerchio solare che racchiude Medea, fastosamente abbigliata in foggia orientale, sul carro del Sole trainato dai due draghi. Al di sotto, si vedono i figli immolati sull’altare sanguinante, con la nutrice e il pedagogo disperati, mentre Giasone attonito la guarda involarsi, cosí come fa un animaletto, forse un gatto, ai suoi piedi. In alto ai lati, pronti a chiudere la scena teatrale con un sipario immaginario, due arcigni demoni alati. Il carro del Sole, evidentemente, poteva svolgere in alcuni casi un ruolo sinistro legato al mondo della magia, come nel caso appunto di Medea e come pure avviene con Circe, figlia del Sole e dunque
zia di Medea, alla quale l’accomuna la padronanza delle arti magiche. La maga amante di Ulisse ha comunque un agire meno terrifico rispetto a Medea; con il carro fornitole dal padre divino, anch’esso trainato da due draghi, raggiunse semplicemente l’Occidente, dove si stabilí.
Tra inferi e cielo I draghi simboleggiano anche l’aspetto infero delle divinità, e aggiogati ancora a un carro compaiono sul rovescio di un denario di M. Volteius, emesso nel 78 a.C. per celebrare i Cerealia, i ludi dedicati a Cerere/Demetra nel mese di aprile. In un tempio sull’Aventino era venerata la triade «plebea» di Liber, Libera e Cerere definita da Ovidio la dea «portatrice di torcia» (Fasti, III, 783-786). Sul dritto compare la testa di Liber/Dioniso e sul rovescio Cerere, su un carro trainato da due draghi, con una lunga torcia per mano e una stella a fianco. La dea accese al fuoco dell’Etna le torce di legno di pino per illuminare la notte, vagando alla ricerca disperata della figlia Proserpina, rapita da Ade (Ovidio, Metamorfosi, V, 440-443). La vicenda di Cerere/Demetra, a differenza di quanto accade con Medea, si conclude felicemente: ritrovata la figlia e accordatasi con Ade, la dea dona il suo carro a Trittolemo, assegnandogli il compito di diffondere l’agricoltura tra gli uomini. Il giovane, per far ciò il piú rapidamente possibile, vola con il carro trainato dagli alati serpenti, privo ormai di connotazioni ctonie e utilizzato per beneficare tutta l’umanità.
per saperne di piÚ Martina Elice, Il mirabile nel mito di Medea: i draghi alati nelle fonti letterarie e iconografiche, in Incontri triestini di filologia classica, 3, 2003-2004, pp. 119-160
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Paolo Brocato, Nicola Terrenato (a cura di)
Nuove ricerche nell’area archeologica di S. Omobono a Roma Università della Calabria, Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Arcavacata di Rende, 112 pp. 36,00 euro ISBN 978-88-9819-700-2
Il volume presenta il nuovo progetto di ricerca attualmente in corso nell’area di S. Omobono, sito archeologico nel centro di Roma, oggetto di indagini fin dagli anni Trenta del Novecento e di fondamentale importanza per la storia della città in età arcaica. Iniziato nel 2008 e sostenuto dalla Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale in collaborazione con l’Università del Michigan, il Kesley Museum Archaeology e l’Università della Calabria, Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, il progetto promuove un nuovo piano d’indagini scientifiche, avvalendosi dei piú recenti metodi in
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campo archeologico, al fine di approfondire le conoscenze di quest’area che, successivamente, potrà essere resa fruibile al pubblico. Punto di partenza e condizione fondamentale per l’applicazione delle nuove tecniche stratigrafiche è la necessità di ripercorre i momenti piú importanti della storia degli scavi e i metodi di indagine utilizzati in passato. Il volume presenta le nuove ricerche archeologiche condotte tra il 2010 e il 2012 (mediante l’uso di procedimenti stratigrafici, inediti per quest’area) attraverso l’esposizione dei criteri di scelta dei saggi di scavo, la loro puntuale descrizione e le prime osservazioni che se ne possono trarre. Viene, poi, affrontato il problema della situazione storica dell’area di S. Omobono, nel contesto socio-economico della città di Roma, dell’Italia e del Mediterraneo nel VI secolo a.C. Luna Michelangeli Cristina Mengotti e Sante Bortolami (a cura di)
Antico e sempre nuovo L’agro centuriato a nordest di Padova dalle origini all’età contemporanea Cierre edizioni, Sommacampagna (VR), 431 pp., ill. col. + 1 carta archeologica s.i.p. ISBN 978-88-8314-694-7 www.cierrenet.it
Il Veneto, e il territorio patavino in particolare, sono un osservatorio
privilegiato per lo studio della centuriazione, vale a dire del sistema di divisione (e conseguente distribuzione) della terra adottato dai Romani. E, infatti, esiste una lunga tradizione di studi in materia, nel cui solco si inserisce questo volume, che, tuttavia, analizza il fenomeno in una prospettiva finora inedita, adottando cioè un taglio diacronico, cosí da offrire, come scrivono gli stessi curatori in sede di presentazione, una «storia della centuriazione dopo la centuriazione». Funzionale a questo obiettivo è dunque l’articolazione dell’opera, che si articola in tre parti: la prima è dedicata all’età romana; la seconda ai secoli compresi tra il Medioevo e l’età contemporanea; mentre la terza approfondisce temi e problemi che potremmo inquadrare come «effetti collaterali» dell’intervento degli agrimensori, quali, per esempio, la toponomastica o la distribuzione degli insediamenti religiosi nell’area indagata.
Massimo De Benetti e Fiorenzo Catalli (a cura di)
Roselle Le monete dagli scavi archeologici e dal territorio Edizioni Effigi, Arcidosso (GR), 303 pp., ill. b/n 25,00 euro ISBN 978-88-6433-281-9 www.cpadver-effigi.com
Opera di taglio specialistico, il volume presenta il catalogo sistematico dei reperti numismatici provenienti da Roselle e dal suo territorio e acquisiti nel corso di oltre trent’anni di scavi e ricognizioni di superficie. Al di là delle loro peculiarità specifiche, i pezzi studiati ribadiscono l’importanza di simili testimonianze anche ai fini di una ricostruzione storica di piú ampio respiro. Che, nel caso dell’antica città e dell’ager Rosellanus, abbraccia un orizzonte cronologico assai ampio, dall’età etrusca sino ai primi secoli del Medioevo, nel cui ambito risulta di particolare interesse l’epoca imperiale romana, che è tra quelle piú copiosamente attestate.
Cinzia Dal Maso
Pompei Nel segno di Iside 24 ORE Cultura, Milano, 94 pp., ill. col. 22,90 euro ISBN 978-88-6648-129-4
Fabrizio Pesando
Pompei L’arte di abitare 24 ORE Cultura, Milano, 96 pp., ill. col. 22,90 euro ISBN 978-88-6648-127-0
nuovo titolo che 24 ORE Cultura dedica a Pompei, corredato, come già nelle uscite precedenti, da un ricco apparato iconografico. Di quella che fu una delle manifestazioni piú significative dell’«egittomania» dei Romani, Cinzia Dal Maso descrive tutti gli aspetti principali, dalle forme di devozione pubblica, che si svolgevano appunto nel tempio, a quelle private, offrendo un quadro sintetico, ma esauriente del fenomeno. Il testo di Fabrizio Pesando si sofferma invece sull’aspetto per cui, piú di ogni altro, gli archeologi devono sentirsi «riconoscenti» nel confronti dell’eruzione che nel 79 d.C. distrusse Pompei: senza quella catastrofe, infatti, oggi non avremmo lo straordinario patrimonio edilizio a cui il volume è dedicato. Che, oltre a considerazioni di carattere architettonico e funzionale, si sofferma anche sui modi dell’abitare, facendo idealmente rivivere le case della città vesuviana.
molte regioni dell’India e che hanno avuto come oggetto principale le testimonianze d’arte parietale riconducibili alle prime comunità di agricoltori e allevatori. Da questo corposo insieme di dati, il discorso si amplia, cosí da proporre un vero e proprio atlante ragionato, che spazia dalle prime attestazioni, riferibili all’età mesolitica, fino a pitture databili in età storica. La presentazione dei siti censiti segue un criterio geografico e per ciascun contesto le immagini fotografiche delle scene sono corredate dalla loro restituzione grafica. Le rappresentazioni di animali, le figure umane o le scene di caccia sono espressione di un universo culturale vivace e articolato, nel quale la composizione artistica aveva anche forti valenze simboliche.
dall’estero Il culto della dea egiziana Iside ebbe grande fortuna nel mondo romano e a Pompei si possono ammirare i resti di un tempio che, fondato nel II secolo a.C., è, a tutt’oggi, il solo santuario isiaco che si conservi intatto al di fuori dell’Egitto. Questo e altri temi vengono dunque sviluppati nel
Erwin Neumayer
Glynn E. Daniel
prehistoric rock art of india
The prehistoric chamber tombs of england and wales
Oxford University Press, New Delhi, 300 pp., ill. col. e b/n 125,00 USD ISBN 978-0-19806098-7 www.oup.com
Punto di partenza dell’opera sono le ricerche condotte dall’autore in
Cambridge University Press, Cambridge, 256 pp., ill. b/n 23,99 GBP ISBN 978-1-107-69762-1 www.cambridge.org
Quest’opera di Glynn Daniel (1914-1986), uno
dei piú noti archeologi anglosassoni del secolo scorso, venne pubblicata per la prima volta nel 1950. Cambridge University Press ha scelto ora di ristamparla, cosí come era stata originariamente concepita, a dimostrazione di quanto ancora validi possano essere i suoi contenuti. La ricerca paletnologica ha compiuto, nel frattempo, numerosi progressi e, anche nel campo del megalitismo, molte sono state le nuove acquisizioni e altrettante le rielaborazioni interpretative. Tuttavia il saggio di Daniel, che qualche anno piú tardi si cimentò in un’impresa analoga per le testimonianze megalitiche francesi, conserva spunti di notevole interesse. E, al di là delle considerazioni di carattere tipologico o strutturale, denota un approccio già molto moderno nell’analisi del fenomeno, di cui vengono naturalmente affrontati e discussi i possibili risvolti rituali e simbolici. a cura di Stefano Mammini)
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