Archeo n. 345, Novembre 2013

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erode tarquinia

erode

eolie

antico giappone / 1

miti greci / 9 aiace

speciale architetti delle origini

esclusiva

dove sono finiti i bronzi di riace?

Speciale

alle origini dell’architettura

www.archeo.it

2013

Mens. Anno XXIX numero 11 (345) Novembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 345 novembre

enigma

• gli alleati • la politica • la vera identità

€ 5,90



editoriale

NEL VENTRE DELL’ARCHITETTO

Le ricerche iniziate negli anni Settanta da Ehud Netzer (1934-2010) nel palazzo fortificato dell’Herodium e culminate nella scoperta della tomba di Erode (vedi «Archeo» n. 268, giugno 2007, anche on line su www.archeo.it) rappresentano la più grande avventura archeologica degli ultimi cinquant’anni. Hanno riacceso l’attenzione sul leggendario re di Giudea, sollecitando la rivisitazione storica del suo ruolo politico e della sua stessa personalità (vedi l’articolo in apertura di questo numero). Per Netzer – architetto prima ancora che archeologo – fu determinante l’incontro (nel 1964, durante gli scavi di Masada) con «quell’uomo vissuto duemila anni fa, un re che non aveva mai studiato architettura né aveva mai preteso di essere un architetto, ma che viveva e respirava l’arte di costruire, che conosceva profondamente i suoi percorsi e che, molto semplicemente, amava costruire». Nel 1998, durante una mia visita agli scavi appena ripresi (dopo un decennio di interruzione), Netzer mi fece notare che «nel corso dei suoi trentatré anni di regno, sembra che Erode non avesse mai smesso di costruire». Nessuna informazione, invece, ci è pervenuta su chi fossero gli architetti a servizio del re e su come si configurasse il rapporto con il loro committente: «studiando le rovine degli edifici erodiani e le notizie contenute negli scritti di Giuseppe Flavio – afferma Netzer – sono giunto alla conclusione che il re fosse direttamente coinvolto nella scelta del luogo dove costruire i suoi progetti, nella loro destinazione, nei materiali da utilizzare, nella stessa progettazione architettonica». E cita un passaggio delle Antichità Giudaiche a proposito dei lavori per la realizzazione del più celebre monumento voluto da Erode, il Tempio di Gerusalemme: «Il re (...) non entrò in alcuno di questi recinti [l’area intorno al sancta sanctorum] perché non era sacerdote e perciò non gli era permesso fare questo; le costruzioni dei portici e dei recinti esterni furono invece oggetto dei suoi diretti interessi. E terminò l’edificio in otto anni (XV, 420)». Troppo affascinato dalla figura di grande costruttore, Netzer non entrò mai nel merito della questione del re «uomo politico». Chissà, però, come avrebbe commentato le conclusioni esposte nella biografia del re appena pubblicata da Ernst Baltrusch: secondo lo storico tedesco, la parabola discendente della vita di Erode non si discosta da quella dei tiranni di tutte le epoche. E paragona il re al dittatore libico Gheddafi: stessa diffidenza, stessa perdita di contatto con la realtà, stesso cambiamento di percezione del personaggio, prima temuto ma rispettato, ora dichiarato «pazzo» dal mondo esterno e dai suoi stessi alleati. Ogni vera storia, scriveva Benedetto Croce, è storia contemporanea. Andreas M. Steiner Una veduta recente dell’Herodium con l’area di scavo della tomba del re di Giudea sulla pendice della collina.


Sommario Editoriale

Nel ventre dell’architetto

3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

6

scoperte Gli scavi nel santuario di Punta Stilo restituiscono un prezioso documento: una lamina in bronzo con un testo greco redatto in un antico alfabeto acheo 6 parola d’archeologo I Bronzi di Riace non hanno ancora fatto ritorno nel Museo Nazionale di Reggio Calabria. Ma, secondo la soprintendente, l’attesa sta per finire... 10

38

dalla stampa internazionale Il sogno di un guru scatena la caccia all’oro del re indiano Raja Rao Ram Bux Singh 22

da atene

Ancora una volta, ecco la tomba di Alessandro

24

di Valentina Di Napoli

Nella Tarquinia dei principi

mostre

Erode, una nuova immagine

28

di Andreas M. Steiner

mostre Istanbul ospita una ricca esposizione sulle scoperte compiute durante la costruzione della nuova metropolitana, prima fra tutte quella dell’antico porto di Teodosio a Yenikapi 12

scoperte

38

di Alessandro Mandolesi, Alfonsina Russo Tagliente

scavi

Eolie. Un’età dell’oro

48

Maria Clara Martinelli e Sara Tiziana Levi, con contributi di Marco Bettelli, Andrea Di Renzoni, Valentina Cannavò e Francesca Ferranti

antico giappone/1

28

Yamato, dove ha origine il sole

62

di Marco Meccarelli

In copertina in primo piano, ricostruzione ipotetica del volto di Erode (di cui non si conoscono immagini), realizzato sulla base di una scultura rinvenuta in Egitto

Anno XXIX, n. 11 (345) - novembre 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Marco Bettelli è ricercatore presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR, Roma. Valentina Cannavò è collaboratrice del Dipartimento di

Scienze Chimiche e Geologiche dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Andrea Di Renzoni è ricercatore presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR, Roma. Francesca Ferranti è collaboratrice dell’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico del CNR, Roma. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Sara Tiziana Levi è professore di metodologie della ricerca archeologica presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi è docente di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Torino. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Maria Clara Martinelli è funzionario archeologo del Parco Archeologico delle Isole Eolie. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, e collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Alfonsina Russo Tagliente è soprintendente ai Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina (e p. 29, sfondo) e pp. 23, 64 (centro), 66, 68, 72 (e sfondo p. 62), 80, 82/83, 86, 87 (basso); Picture Desk Images: pp. 62 (primo piano), 64 (alto, al centro), 67 (centro), 69 (sinistra), 76-77; Album: pp. 74/75 – Andreas M. Steiner: copertina (sfondo, in alto) e pp. 3, 30 (alto), 34, 35 – Cortesia Ufficio stampa e comunicazione dell’Università di Pisa: p. 6 (basso); C. Cassanelli, A. Palla: p. 6 (alto) – Cortesia Soprintendenza BA Umbria: p. 7 – Cortesia Soprintendenza BA Calabria: p. 8 – Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo n. 115 del 29/10/2013- Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 12, 14 – Sakis Mitrolidis/AFP/Getty Images: pp. 24-25 – The Herodium Expedition, The Hebrew University of Jerusalem: pp. 28/29 – The Israel Museum, Jerusalem/Meidad Suchwolski: pp. 30/31 (basso) – Mimmo Frassineti/AGF: p. 31 – Cortesia ufficio stampa mostra/American Numismatic Society: 32 – Cortesia Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek, München: p. 33 (alto e copertina, sfondo, in basso a sinistra) – The Metropolitan Museum of Art: p. 33 (basso e copertina, sfondo, in basso, a destra) – Cortesia Famiglia Netzer: pp. 36 (alto), 37 – National Geographic/Getty Images: p. 36 (centro) – Massimo Legni: pp. 38-47 – Cortesia degli autori: pp. 48/49, 51 (sinistra e destra). 52 (riquadro), 52/53, 53 (basso, a destra), 54, 55, 58-59, 84, 87 (alto), 88 (alto), 92, 93, 94 (basso), 110 (basso), 111 (destra) – Emiliano Barbieri ed Emanuele Paganelli: p. 50 – Leandro Lopes, Giusy Arrigo, Maria Tindara Capone: planimetria a p. 52 – Cosimo D’Oronzo: p. 53


82 mitologia, istruzioni per l’uso/9

Fragilità di un «numero due»

L’«invenzione» delle feste 74

di Daniele F. Maras

il mestiere dell’archeologo

divi e donne

106

di Andrea De Pascale

98

La donna che visse tre volte 108 di Francesca Cenerini

(alto) – Leandro Lopes: disegno a p. 54 – Mario Triolo: pp. 56-57 – Stefano Mammini: p. 60 – Jeff Schmaltz, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 63 – Da Ancient Japan (catalogo della mostra), Washington 1992: pp. 64 (alto, a sinistra e a destra), 67 (sinistra e destra), 69 (destra), 70, 71 – Corbis: Amanaimages: pp. 70/71; Sakamoto Photo Research Laboratory: p. 73; Ted Spiegel: p. 79 (sinistra); Skyscan: p. 85; Stringer/epa: p. 100; National Geographic Society: pp. 102/103; Hulton-Deutsch Collection: p. 110 (alto) – Foto Scala, Firenze: p. 78; su concessione MiBACT: p. 79 (destra) – Flavio Russo: ricostruzioni grafiche, planimetrie e sezioni alle pp. 86, 88, 89, 91, 92, 93, 95, 96 – E. Lessing Archive/Magnum/ Contrasto: pp. 88 (basso), 94 (alto) – Schøyen Collection, Oslo: p. 89 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 90 (alto e basso), 91 – Doc. red.: pp. 96, 101, 111 (sinistra) – AFP/Getty Images: pp. 98/99 – Bridgeman Art Library: p. 104 – Alessandro Maifredi, Centro Studi Sotterranei, Genova: p. 106 – Andrea Bixio, Centro Studi Sotterranei, Genova: p. 107 – RMNGrand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 108-109 – Cippigraphix: cartine alle pp. 24, 34, 40, 50, 65. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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Nella mente dell’architetto

82

di Flavio Russo

l’ordine rovesciato delle cose

Rubriche

di Daniele Manacorda

102

di Romolo A. Staccioli

Sotto terra per contare

Una proposta impossibile?

speciale

antichi ieri e oggi

l’altra faccia della medaglia La moneta della buona fortuna

110

di Francesca Ceci

libri

112

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n oti z i ari o SCoperte Calabria

la lunga vita di un santuario

L

e ultime indagini condotte dall’Università di Pisa e dal Laboratorio di Scienze dell’Antichità della Scuola Normale Superiore nel santuario di Punta Stilo della colonia magno-greca di Kaulonia (Monasterace Marina, Reggio Calabria) hanno portato a nuove e importanti scoperte. «Tra gli ultimi ritrovamenti – spiega Maria Cecilia Parra, docente di Archeologia della Magna Grecia all’Università di Pisa e direttore dello scavo – è da segnalare quello di una tabella di bronzo (25 x 12,5 cm): pur ridotta in frammenti molto corrosi, dopo il restauro eseguito nel 2013 presso il locale Museo di Monasterace e la successiva applicazione di avanzate tecniche d’indagine presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, essa ha rivelato un testo greco del V secolo a.C., su 18 linee, in alfabeto acheo, con le lettere ordinate regolarmente secondo il sistema di scrittura detto stoichedón. Si tratta di una lunga dedica votiva, in gran parte metrica, che menziona tra l’altro l’agorà (la piazza pubblica di ogni città greca,

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In alto: Ripresa zenitale da drone del santuario di Punta Stilo. A destra: il professor Carmine Ampolo, la restauratrice del Museo di Monasterace Villalba Mazzà e la professoressa M. Cecilia Parra con la tabella in bronzo su cui è inciso il testo greco in alfabeto acheo. cuore della vita politica e commerciale), una statua e un elenco di divinità di grande interesse per la conoscenza dei culti. Il documento è unico da molti punti di vista, oltre a essere il testo piú lungo in alfabeto acheo della Magna Grecia». Questa importante acquisizione si inserisce nel piú ampio quadro dei ritrovamenti che stanno restituendo un profilo pressoché completo del grande santuario urbano di Kaulonia, non solo nella sua articolazione plurima di fasi comprese tra la fine dell’VIII – quando l’area era solo frequentata da prospectors greci prima della fondazione della colonia achea – e gli inizi del III secolo a.C., ma anche

nella sua lunga «vita» fatta di monumenti che lo occupavano e di uomini che lo gestivano, vi praticavano culti, vi svolgevano attività di cantiere edilizio e d’officina artigianale. Numerosi i contesti che hanno restituito ex voto del VII, VI e V secolo a.C., in particolare armi e ceramiche per le azioni rituali: elmi, scudi, schinieri, spallacci, spade corte, punte di lancia e di freccia, accanto a innumerevoli deposizioni esito di sacrifici cruenti e di offerte incruente, anche con tracce evidenti di pasti comunitari seguiti dalla deposizione degli strumenti per la macellazione degli animali e la consumazione delle carni, insieme a quella del vasellame


SCoperte Umbria utilizzato durante il rito, intenzionalmente frammentato secondo la norma. Le campagne di scavo nel sito calabrese continuano da oltre un decennio, ma solo negli ultimi anni si è cominciato a sperimentare e poi a utilizzare sistematicamente nuove tecniche di documentazione e di elaborazione dei dati, in particolare le riprese da drone e le elaborazioni 3D. Le prime hanno permesso di realizzare immagini e filmati ad alta risoluzione, utilizzabili sia per la restituzione fotogrammetrica delle testimonianze archeologiche, sia per la fotointerpretazione e le letture globali di ampie aree interessate dalle indagini archeologiche, unitamente al contesto generale. Le seconde sono state finalizzate alla ricostruzione e alla modellazione di materiali archeologici e di complessi monumentali, con finalità non solo di ricerca, ma anche divulgative, come, per esempio, varie forme di visualizzazione e di realtà virtuale. Tale applicazione di tecnologie avanzate, anche in collaborazione con il DREAMSLAB (Dedicated Research Environment for Advanced Modeling and Simulations, Laboratorio della SNS) ha permesso di adattare i modelli 3D per la ricostruzione e la modellazione fotogrammetrica di materiali archeologici e complessi monumentali, a strumenti di ultima generazione, il piú importante dei quali è il CAVE 3D, un ambiente virtuale immersivo e interattivo, in cui l’utente può muoversi liberamente, usando appositi occhiali. Giampiero Galasso

nel cuore di perugia

I

ndagini sistematiche in località Elce, nel cuore di Perugia, eseguite allo scopo di verificare e individuare la presenza della tomba a camera ipogea della famiglia gentilizia dei Cacni (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013), non hanno restituito tracce della sepoltura monumentale, ma hanno portato alla scoperta di una nuova tomba a camera quadrangolare. «All’interno – spiega Luana Cenciaioli, funzionario archeologo responsabile di zona – sono state rinvenute sei urne in travertino, due delle quali con decorazioni scolpite sulla fronte, e numerosi oggetti del corredo funerario, tra i quali prevalgono la ceramica da mensa e oggetti legati alla sfera femminile. I reperti recuperati rientrano in tipologie molto comuni e diffuse tra il II e il I secolo a.C. nelle necropoli ellenistiche del territorio perugino e, in particolare, trovano confronti molto stringenti con gli esemplari provenienti dalla necropoli di Strozzacapponi (Corciano). Sulla base di questi

elementi e sulla tipologia dei materiali del corredo si può ipotizzare un utilizzo della tomba nel corso del I secolo a. C. da parte di una famiglia perugina di condizione sociale medio-bassa, forse al servizio della famiglia dei Cacni, che gestiva lo sfruttamento agricolo del territorio circostante la tomba». La presenza poi di iscrizioni in latino sul coperchio delle urne su cui si leggono i nomi di uomini e donne (Setre, Tettia, Vibius, Astia, Ampinea), mentre solo su un coperchio si rileva un’iscrizione etrusca, attesta un fenomeno diffuso con una certa frequenza in questo territorio, quello cioè del mutamento linguistico verificatosi dopo l’emanazione della lex Iulia del 90 a.C., che concedeva la cittadinanza non solo a tutti i latini, ma anche agli alleati etruschi e umbri che non avevano preso parte alla guerra sociale. G. G. Perugia. La tomba a camera scoperta in località Elce con le urne funerarie ancora in situ.

archeo 7


n otiz iario

restauri Calabria

la signora del golfo

È

stato recentemente ultimato il restauro di un ricco corredo funerario calabrese. È quello della tomba 113, una sepoltura femminile pertinente alla fase lucana di una delle piú importanti necropoli del Sud Italia, individuata sul pianoro di San Brancato e lungo le pendici del Palecastro, località affacciate sul golfo di Policastro e che oggi ricadono nel territorio comunale di Tortora, in provincia di Cosenza. Quella di Tortora è una tra le realtà archeologiche maggiormente significative per lo studio delle comunità indigene dell’Italia meridionale, dal momento che, tra la seconda metà del VI e la prima metà del V secolo a.C., vi si attesta una comunità enotria dai caratteri culturali fortemente ellenizzati, che l’ipotesi piú accreditata propone di collegare con il popolo dei Serdaioi, controparte della città greca di Sibari in un trattato di amicizia trovato nel santuario di Olimpia. Ricchi i corredi funerari finora recuperati dalla necropoli: si tratta di vasellame prodotto localmente e importato dalle colonie greche della costa, tra cui figurano splendide forme ceramiche a figure nere e rosse, ma non mancano oggetti di ornamento in

ambra e ricche parure in metallo. Al IV secolo a.C. appartengono invece i materiali che documentano l’arrivo nella zona dei Lucani, la cui frequentazione è ben attestata dal ritrovamento nell’area sepolcrale di tombe a inumazione o a incinerazione. «La fase piú recente di tale necropoli – spiega Gregorio Aversa, funzionario archeologo della Soprintendenza per i Beni archeologici della Calabria – documenta, dunque, la presenza dei Lucani, tra le cui sepolture la tomba 113 spicca per quantità e qualità degli oggetti componenti il corredo. La donna, alta 1,40 m circa, morta intorno ai quarant’anni, portava al dito un anello in argento e doveva indossare una veste, sorretta da una fibula ad arco semplice in ferro. Tra gli oggetti piú cari alla defunta, vi era un set da cosmesi, composto da strumenti in ferro e da una conchiglia usata come contenitore per terre colorate.

Assieme a questi oggetti c’era anche vasellame da toletta costituito da unguentari e pissidi per contenere belletti. Inoltre, a segnare la condizione di donna coniugata, il lebès gamikòs (vaso usato nelle cerimonie nuziali) fu deposto in due esemplari. I vasi figurati permettono un inquadramento del contesto nell’ultimo trentennio del IV secolo a.C. Tuttavia, altri elementi obbligano ad abbassare ulteriormente la datazione della sepoltura. Tra questi vanno considerati una lekythos (bottiglia per profumi) a figure nere del tipo “Pagenstecker”, un guttus (versatoio) a vernice nera con medaglione centrale a foglia di vite, ma anche un piatto a vernice nera e uno skyphos (bicchiere a due manici) in “stile di Gnathia”, che scendono agli anni iniziali del III secolo a.C.». Il gruppo nel suo complesso sembra testimoniare l’interazione tra due o piú maestri (apuli, pestani, lucani) che potrebbero essere venuti in contatto proprio in occasione di una commessa in comune. Il restauro è stato finanziato da Intesa San Paolo. Giampiero Galasso

Qui sopra e in alto: due immagini del prezioso corredo della tomba 113 della necropoli di San Brancato (Tortora, Cosenza). La sepoltura è riferibile alla fase lucana del sepolcreto.

8 archeo



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

il mistero delle ciglia (e dei bronzi scomparsi)

da due anni, i bronzi di riace, nuovamente restaurati, sono senza «casa». simonetta bonomi, soprintendente archeologo della calabria, ci spiega le ragioni di questo ritardo incomprensibile

I

due guerrieri sono distesi. Sembra che dormano, ma hanno gli occhi aperti, fissi verso il soffitto: aspettano pazienti che qualcuno li rimetta in piedi. I Bronzi di Riace, tra i pochi originali greci in bronzo di epoca classica che si conservino, hanno fama pressoché planetaria ma, da quattro anni, si trovano pietosamente adagiati sul dorso, nell’atrio di palazzo Campanella a Reggio Calabria, sede del Consiglio regionale. Il restauro delle due statue, condotto con tecniche d’avanguardia da Paola Donati (Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro) e Cosimo Schepis (Soprintendenza ai Beni Archeologici della Calabria), è terminato nel dicembre 2011, ma i guerrieri non sono ancora tornati «a casa», nelle sale del Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio, chiuso dal dicembre 2009. I due bronzi sono sdraiati, visibili attraverso i riflessi di un vetro, in un luogo non segnalato ai visitatori e sconosciuto ai piú. Dove i turisti non sanno nemmeno di poterli visitare, vista la mancanza di indicazioni stradali e informazioni in merito. Sul fronte del restauro, in

10 a r c h e o

compenso, giungono buone notizie e una curiosità: dai magazzini del museo sono «riemerse» le ciglia di uno dei due bronzi, già ricollocate. Speriamo solo che il guerriero non sia costretto a continuare a guardare, in eterno, verso il soffitto. Ne parliamo con Simonetta Bonomi, Soprintendente ai Beni Archeologici della Calabria. Iniziamo dalle ciglia: Soprintendente, davvero sono state dimenticate per anni, come è stato scritto dai quotidiani locali? «No, sapevamo dell’esistenza delle ciglia, conservate nella camera blindata del museo. Erano state tolte in occasione del restauro di 20 anni fa dell’allora ICR (Istituto Centrale per il Restauro) e, non so per quale motivo, non vennero piú riapplicate. Con l’ultimo restauro, completato nel dicembre 2011, le abbiamo ricollocate sulla statua B». Soprintendente, perché, nonostante il restauro dei bronzi di Riace sia stato ultimato da ormai due anni, il museo che dovrebbe ospitarli è ancora chiuso? «Perché mancavano i soldi per gli allestimenti: la gara è stata conclusa nell’agosto scorso». Quanti soldi ci vogliono, ancora? «Cinque milioni di euro, già

stanziati dalla Regione Calabria: tre per l’allestimento e due per il completamento degli impianti tecnologici speciali, compresa la sala filtro per i bronzi». E quando potremo vedere le statue esposte in maniera adeguata? «Con gli inizi dell’anno prossimo, nelle sale del Museo Nazionale della Magna Grecia: l’allestimento sarà completato entro il 2014». Il ministro per i Beni Culturali, Massimo Bray, ha detto che per il prossimo gennaio si aspetta di rivedere il bronzi di Riace a casa… «Sí, è stato lui a volere anticipare in maniera drastica l’esposizione al pubblico, chiedendoci una scadenza precisa. Una data plausibile è il 1° febbraio 2014». Ma quali sono i motivi del ritardo, Soprintendente? E chi ne è responsabile? «Anch’io fatico a ricostruire la vicenda del museo di Reggio Calabria… La questione nasce molto tempo fa, nell’ambito dei progetti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Allora c’era un progetto preliminare di circa 17 milioni di euro, i cui costi sono poi lievitati: si è perfezionata la progettazione, inserendo piú opere e interventi inizialmente non previsti».


Quanto denaro pubblico è stato speso, in totale, per il museo di Reggio Calabria? «Il costo complessivo è arrivato a 33 milioni di euro, piú del doppio rispetto alla previsione iniziale». Ma da chi dipendono i lavori? «L’ultima tranche, da 5 milioni di euro, viene dai fondi POR Calabria 2007-2013 e ha come stazione appaltante la Direzione Regionale per i Beni Paesaggistici della Regione Calabria, organismo del MiBACT. Adesso i 5 milioni dovrebbero essere arrivati, li stiamo aspettando…». Non crede che sia un peccato che, dopo un simile impegno economico, i bronzi non siano ancora esposti al pubblico? «Ci sono stati diversi momenti di stasi, non dipendenti dal cantiere. L’edificio del museo è terminato nel giugno 2011. Mancavano i finanziamenti per chiudere i lavori di completamento e nessuno se ne è occupato…» A chi si riferisce, quando afferma che «nessuno se ne è occupato»? «Al Ministero dei Beni culturali. A livello centrale la questione è stata un po’ dimenticata». Lei, Soprintendente, rappresenta il ministero. In cuor suo, non avrebbe voluto vedere i bronzi in piedi molto prima? «Io non ho alcun ruolo, né alcun potere decisionale in merito». Vuole dirmi che, come Soprintendente, non ha voce in capitolo? «No. Come Soprintendente, in quanto custode di tutti i beni culturali, posso certamente sollecitare e fare pressione, ma ho un ruolo esterno».

Giovanni Puglisi, Presidente dell’UNESCO Italia, ha definito la vicenda «un atto di insipienza culturale che si avvicina al suicidio politico, dove la colpa non è solo della regione Calabria, è un fatto strutturale del sistema di governo del nostro Paese». Si sente chiamata in causa, come Soprintendente? «Potrei anche condividere questo giudizio, da un certo punto di vista. Siamo rimasti sospesi per un po’ di tempo, perché avevamo bisogno di soldi in piú». Ma ora i denari sono arrivati, e anche moltiplicati… «Su questa lievitazione ne sono state dette di tutti i colori sui giornali. Siamo partiti da un progetto sobrio e stringato e poi, col tempo, sono emerse le effettive necessità. Io stessa ho avanzato esigenze che si sono trasformate in lavori e, di conseguenza, in costi… Quando abbiamo chiesto un’integrazione dei fondi al CIPE, il Ministero dei Beni Culturali ha taciuto. Dobbiamo ringraziare i ministri dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi e della Coesione territoriale Fabrizio Barca: sono stati loro a sbloccare la situazione». Ci sono novità sulla provenienza delle statue?

«Dall’analisi geologica delle terre di fusione contenute all’interno delle statue, si evince che i due bronzi provengono da località diverse: la statua A viene da Argo, la B da Atene. Sono entrambe della prima metà del V secolo a.C.». Dunque sono opera di due artisti diversi? «Sí. Le statue sono state fuse nella madrepatria greca, ma da mani diverse. Dovevano essere destinate a luoghi della Grecia, poi, chissà perché, sono finite in Italia». Quali risultati sono scaturiti dall’ultimo restauro? Può darci qualche anticipazione? «La prima novità è che gli occhi dei bronzi non sono d’avorio, ma di pietra. Dagli accertamenti diagnostici abbiamo la certezza che non si tratta di materiale organico, bensí di pietra ingiallita dal tempo, forse marmo. Inoltre, abbiamo rimosso la terra di fusione dall’interno delle due teste dei bronzi, scoprendo quali tecniche venivano utilizzate per la realizzazione degli occhi, che erano peraltro differenti tra le due statue». Nella pagina accanto: l’occhio del Bronzo B di Riace al quale sono state riapplicate le ciglia. In questa pagina: una fase dell’intervento di restauro.

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n otiz iario

mostre Turchia

tesori dal porto nascosto

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a anni Istanbul catalizza l’attenzione del mondo dell’archeologia per le scoperte compiute a seguito degli scavi per la nuova metropolitana di Marmaray. In particolare, nell’area della stazione di Yenikapi, sono state riportate alla luce eccezionali testimonianze preistoriche e il porto di Teodosio, il piú grande scalo dell’antica Bisanzio (vedi «Archeo» n 324, febbraio 2012; anche on line su www.archeo.it). Una ricca selezione delle migliaia di reperti restituiti dagli scavi è ora esposta in una mostra ospitata dai Musei Archeologici di Istanbul, dove, in un allestimento elegante e suggestivo, arricchito da apparati multimediali, si possono scoprire la storia del sito, comprendere l’organizzazione del cantiere di scavo e le metodologie d’indagine impiegate. L’esposizione presenta alcuni dei piú importanti reperti del Neolitico, del periodo greco e romano e, soprattutto, di età bizantina, ma anche del periodo ottomano, recuperati fino a pochi mesi fa prima della conclusione delle indagini. Un calco, con quattro delle oltre 700 impronte di piedi appartenenti agli abitanti di un

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villaggio neolitico sorto sulle sponde di quello che era ancora il «lago» di Marmara, introduce alla scoperta delle fondamentali testimonianze preistoriche. Tra queste, oltre al vasellame, una delle nove urne cinerarie con i resti combusti di defunti che documentano, retrodatandolo al 6200 a.C., l’uso della cremazione tra le popolazioni dell’Anatolia. Vasi in ceramica e unguentari in vetro di raffinata produzione, risalenti ai contatti e alle frequentazioni di età greca e romana della città, precedono una curiosa e interessante vetrina che riunisce crani e altri resti ossei degli animali rinvenuti negli scavi, a comporre un’immagine delle specie, tra cui asini, cavalli,

Dove e quando «Storie dal porto nascosto: i relitti di Yenikapi» Istanbul, Musei Archeologici fino al 25 dicembre Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. +90 212 5207740; www.istanbularkeoloji.gov.tr; e-mail: info@istanbularkeoloji.gov.tr

La ricostruzione di un carico di anfore trovato a bordo di uno dei relitti scoperti nell’area di Yenikapi. dromedari, cani e tartarughe, che animavano i moli del porto bizantino e le stive delle navi. A queste ultime, e al loro carico, è dedicata la parte principale della mostra, con la ricostruzione in scala reale di 4 dei 37 relitti affondati nel porto forse a causa di terremoti, tsunami o ondate di maltempo. Il fasciame e le componenti in legno delle imbarcazioni, di varie dimensioni e tipologie, risalenti al V-XI secolo d.C., costituiscono il piú grande e importante ritrovamento di archeologia navale mai effettuato al mondo. Gli scafi, attualmente in corso di restauro, saranno in futuro esposti in diverse sedi museali, tra cui il centro espositivo che affiancherà la nuova stazione della metropolitana, ormai entrata in servizio, nello stesso luogo di rinvenimento. La mostra espone alcune delle dotazioni di bordo, con cordami e numerosi oggetti in legno, quali carrucole, pioli e bozzelli. Avori, vetri, metalli e ceramiche, soprattutto differenti tipologie di anfore destinate al trasporto di varie merci, completano il percorso espositivo, fornendo molteplici informazioni, e gettano nuova luce non solo sulla capitale dell’impero bizantino, ma, piú in generale, sul mondo mediterraneo dell’epoca. Andrea De Pascale



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mostre Francia

gli etruschi tornano a parigi

In alto e in basso: due immagini dell’allestimento della mostra dedicata agli Etruschi dal Musée Maillol di Parigi.

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ent’anni dopo la grande mostra al Grand Palais e alla luce delle piú recenti scoperte, la nuova esposizione del Museo Maillol di Parigi ripercorre la storia della civiltà etrusca, dagli albori villanoviani del IX secolo a.C. fino alla conquista romana. Gli usi e i costumi degli Etruschi ci sono noti soprattutto grazie alle necropoli o attraverso testimonianze (spesso faziose) degli autori loro contemporanei. Informazione importanti, inoltre, sono state ricavate dalle circa tredicimila iscrizioni giunte fino a noi, due delle quali, famosissime, le tavolette di Pyrgi e le tavole di Cortona, sono esposte al Maillol. «Contrariamente al luogo comune che le vorrebbe incomprensibili e astruse, le iscrizioni – spiegano Francesca Boitani e Anna Maria Moretti, commissarie dell’esposizione – sono un documento di primaria importanza e ci raccontano molto di quello che sappiamo sul mondo etrusco.

Con la scoperta negli ultimi trent’anni delle dimore principesche di Murlo, Acquarossa e Roselle, abbiamo finalmente anche un’idea piú precisa sull’aspetto delle loro dimore e delle loro abitudini quotidiane». La mostra parigina propone reperti davvero eccezionali, tra cui una rara oinochoe polimaterica, formata da un uovo di struzzo inciso (630-590 a.C.), elaborata a Vulci e comprata da un principe di Pitino di San Severino Marche, che sottolinea gli stretti rapporti dei Piceni con i vicini Etruschi. «A seguito dei recenti ritrovamenti di Matelica, Numana e Sirolo, che hanno permesso di scoprire oggetti di prestigio importati dall’Etruria e

Dove e quando «Etruschi. Un inno alla vita» Parigi, Musée Maillol fino al 9 febbraio 2014 Orario tutti i giorni, 10,30-19,00 (lu e ve, fino alle 21,30), Info www.museemaillol.com ceramiche greche, si è capito che il Piceno – spiega Maurizio Landolfi direttore del museo di Numana – era un crocevia nei collegamenti tra il Mediterraneo orientale e il Centro-Nord dell’Europa: una via adriatica, complementare rispetto a quella tirrenica rappresentata dal porto di Marsiglia. Da Numana le navi raggiungevano Spina e poi Adria, collegata quest’ultima alle destinazioni nordiche dai fiumi Isonzo, Tagliamento e Adige». L’esposizione mette in evidenza la fondamentale importanza dell’elemento religioso, sempre presente anche nell’architettura delle case, costruite sul modello dei templi. Come il santuario federale del Fanum Voltumnae, nel quale la dodecapoli etrusca si riuniva una volta all’anno. Per il resto, le città erano indipendenti e ciascuna aveva caratteristiche ben specifiche. Daniela Fuganti



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archeofilatelia

Luciano Calenda

erode il grande: chi era davvero? Molti personaggi dell’antichità hanno una personalità complessa e a volte indecifrabile, sia per la carenza di fonti, sia per i «depistaggi» spesso elaborati da parte degli autori delle fonti stesse. È il caso di Erode il Grande, re di Giudea dal 73 al 4 a.C., descritto come un sovrano sanguinario, ma, al tempo stesso, come un illuminato statista che fece costruire monumenti e città, e di cui si legge che fu grande re, capace di combattere l’integralismo religioso ebraico, ma anche un uomo sospettoso e vendicativo, perfino nei confronti dei suoi familiari. Lasciando ad altri il compito di tracciare la sua vera personalità, ci limitiamo qui a presentare i documenti filatelici, pochi in verità, che lo riguardano direttamente o quelli che a lui possono essere ricondotti. Purtroppo non esiste alcun francobollo che lo ritragga ma, per fortuna, ci sono 4 bei francobolli emessi da Israele nel 2011 che inneggiano all’Erode «costruttore» e raffigurano proprio i 4 progetti monumentali che lo hanno consegnato alla storia per questa sua «visione» grandiosa e un po’ megalomane. I 4 valori presentano il progetto cosí come era stato concepito e, sull’appendice, quel che ne rimane oggi. Innanzitutto la ricostruzione/rifondazione di Cesarea Marittima (1), con i resti della cosiddetta «Torre di Erode» (2) e la fortificazione di Masada per renderla ancora piú inaccessibile (3); poi c’è l’Herodium, il maestoso palazzo-fortezza fatto costruire su una collinetta (4) a una decina di chilometri da Gerusalemme dove, pochi anni fa, è stata ritrovata la tomba del sovrano stesso. Infine il rifacimento del Secondo Tempio di Gerusalemme (5) che, per questo motivo, venne chiamato «di Erode». Tra i resti della ricostruzione giunti fino a noi c’è il muro occidentale, il cosiddetto «Muro del pianto» raffigurato in tanti francobolli israeliani come uno dei primi del 1948 (6) e uno piú recente del 1976 (7), cosí come del 1976 è il valore che mostra la scalinata dello stesso tempio (8). Di supporto indiretto alla storia di Erode si può citare l’imperatore Ottaviano Augusto (9) sotto il quale egli 3 4 continuò a governare la Giudea che già gli era stata assegnata da Marco Antonio. Un altro collegamento, seppur controverso, è quello che vedrebbe Erode come autore della strage degli innocenti; ma il re morí nel 4 a.C., quindi prima dell’arrivo dei Magi e della 6 nascita di Cristo. L’unica citazione biblica della vicenda si ritrova nel Vangelo di Matteo; molti ritengono però che si tratti solo di una notizia calunniosa, una sorta di damnatio memoriae ai danni di un sovrano sanguinario e 7 spietato, che non aveva esitato a far uccidere parenti e amici e che la tradizione ebraica trasformò quindi in un mostro assetato di sangue. I primi cristiani, culturalmente ebrei, continuarono poi questa tradizione. Per documentare questo «passaggio», si può ricorrere a un francobollo emesso dal Vaticano nel 1972, che riproduce una pagina 9 miniata di una copia del Vangelo di Matteo (10). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17126 - Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



infor mazione pubblicitar ia

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incontri Paestum

i giorni della borsa

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al 14 al 17 novembre, con la XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, il meglio dell’offerta mondiale si presenta all’ombra del Tempio di Cerere di Paestum, un sito che cerca di affrancarsi da ogni senso di minorità nei confronti di Pompei. E che, al compimento dei 15 anni di tutela UNESCO (risale al 1998 infatti l’inserimento nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità), si affida all’appuntamento promosso da Regione Campania Assessorato al Turismo e ai Beni Culturali, Provincia di Salerno, Comune di Capaccio e Soprintendenza per i Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta, per conoscere un ulteriore momento di rilancio e valorizzazione. Il meglio dell’archeologia mondiale, dalle piú recenti scoperte ai siti piú celebrati, sarà in mostra a due passi dal Tempio di Cerere: il cuore della Borsa pulserà proprio nel Parco Archeologico, al cui interno sarà allestita una tensostruttura di circa 3000 mq, un’area espositiva a disposizione di un settore, il turismo culturale, il cui saldo resta attivo, in Italia, solo grazie ai visitatori stranieri. Quest’anno al workshop,

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ospitato per la prima volta nel prestigioso Museo Archeologico Nazionale, saranno presenti i cinque migliori tour operator (una sorta di Top Five) di Austria, Belgio, Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Spagna e Svizzera. «Il mercato del Nord e del Centro Europa – dichiara il direttore e ideatore della Borsa, Ugo Picarell – resta il piú dinamico e interessante ma, orientato com’è ormai anche su altre destinazioni, si rischia di perderlo. Con la Borsa di Paestum cerchiamo di dare un contributo alla ripresa del processo di fidelizzazione con il nostro Paese». Tra le tante novità, un piú approfondito approccio alle tecnologie digitali. La XVI edizione della Borsa raddoppia sul versante dell’archeologia 2.0. All’appuntamento con ArcheoVirtual, mostra internazionale di tecnologie interattive e virtuali – che nelle edizioni scorse si è rivelato uno dei format di maggiore originalità e successo al punto da richiamare l’attenzione di Digital Heritage a Marsiglia, capitale europea della cultura 2013 –, si affiancherà ArcheoBlog, primo incontro nazionale tra tutti i blogger esperti in archeologia. Se il Parco Archeologico ospiterà i circa duecento stand degli espositori (per l’edizione 2013 il Paese Ospite è il Venezuela), nelle quattro sale conferenze distribuite tra la Basilica Paleocristiana, il Museo Archeologico Nazionale e la tensostruttura si svolgeranno gli oltre 50 tra archeoincontri, dibattiti e conferenze previsti, con 300 relatori. Presenti quest’anno, tra gli altri, i ministri Massimo Bray e Carlo Trigilia, il segretario generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, Taleb Rifai, il consigliere speciale del Direttore generale UNESCO Mounir Bouchenaki, Salvatore Settis, Emanuele Greco, Paolo Matthiae, Franco Iseppi, Vittorio Cogliati Dezza, Viviano Domenici, Armando Massarenti, Valerio Massimo Manfredi, Alberto Angela, Syusy Blady, Roberto Giacobbo, Mario Tozzi, Eva Cantarella. Per ulteriori informazioni, si può visitare il sito ufficiale della manifestazione: www.bmta.it (red.)



calendario

Italia roma Archimede. Arte e scienza dell’invenzione

manfredonia Venti del Neolitico. Uomini del rame

Museo Nazionale Archeologico, Castello di Manfredonia fino al 31.12.13

Musei Capitolini fino al 12.01.14

milano Da Gerusalemme a Milano

Evan Gorga. Il collezionista

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 12.01.14

montesarchio Rosso Immaginario

Cleopatra

Roma e l’incantesimo dell’Egitto Chiostro del Bramante fino al 02.02.14

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 12.01.14

Augusto

Scuderie del Quirinale fino al 09.02.14

La riscoperta dell’antico

Gli acquerelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi Foro Romano, Curia Iulia fino al 23.02.14

Qui sotto: una delle videoproiezioni realizzate a partire dai vasi figurati esposti a Montesarchio.

onna (L’aquila) I Vestini tra L’Aquila e Onna 3000 anni fa

Casa della Cultura Qui sopra: Augusto come fino al 31.12.13 pontefice massimo.

La Cina Arcaica (3500 a.C.-221 a.C.)

Palazzo Venezia, Sale quattrocentesche fino al 20.03.14

Brisighella (RA) Il vetro di pietra

Il lapis specularis nel mondo romano: dall’estrazione all’uso Centro «M. Guaducci» di Zattaglia fino al 15.12.13

parma Storie della prima Parma

Etruschi, Galli e Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche Museo Archeologico Nazionale fino al 29.12.13

Qui sotto: rhyton attico a testa di grifone. 400 a.C.

trento Sangue di drago, squame di serpente

Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio Castello del Buonconsiglio fino al 06.01.14

vulci I Predatori dell’Arte a Vulci e il Patrimonio ritrovato Museo Archeologico Nazionale fino al 31.12.13

dove e quando

firenze Cortona, l’alba dei principi

Frutto degli scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana nel Parco Archeologico di Cortona, la mostra presenta i corredi del II Circolo funerario del Sodo, costituito da oltre 15 tombe intatte databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., ai quali si aggiungono oggetti mai esposti prima d’ora, rinvenuti nei

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Museo Archeologico Nazionale fino al 31 luglio 2014 Orario tutti i giorni, 8,30-14,00 (ma-ve, apertura pomeridiana fino alle 19,00) Info tel. 055 23575; www.archeotoscana.beniculturali.it siti archeologici del territorio cortonese (dal palazzo principesco di Fossa del Lupo alla villa romana di Ossaia) esaminati sotto un nuovo punto di vista, quello del restauro. Obiettivo della mostra è quello di offrire un viaggio che porti il visitatore indietro di 2700 anni, fino all’alba della civiltà etrusca cortonese.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Belgio

Spagna

Bruxelles L’arte del profilo

Madrid La Villa dei Papiri

Città del Vaticano

alcalá de henares Annibale in Spagna

Casa del Lector fino al 23.04.14

Il disegno nell’antico Egitto Musée du Cinquantenaire fino al 19.01.14

Preziose Antichità

Il Museo Profano al tempo di Pio VI Musei Vaticani, Sala delle Nozze Aldobrandine fino al 04.01.14

In basso: veduta ideale dei templi di Bayon.

Museo Arqueológico Regional fino al 12.01.14

alicante Il regno del sale

Francia

7000 anni di storia di Hallstatt Museo Arqueológico fino al 31.01.14

PArigi Angkor. Nascita di un mito

Svizzera

Louis Delaporte e la Cambogia Musée national des arts asiatiques Guimet fino al 13.01.14

hauterive Fiori dei faraoni

Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14

lens Gli Etruschi e il Mediterraneo

La città di Cerveteri Musée du Louvre-Lens fino al 10.03.14 (dal 05.12.13)

nyon Il grano, l’altro oro dei Romani

Saint-Romain-en-Gal - Vienne Gli Irochesi del San Lorenzo, popolo del mais

Musée romain fino al 02.02.14

Musée gallo-romain fino al 15.04.14

zurigo Archeologia

Londra Oltre l’Eldorado

Divini umani

Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14

Gerusalemme L’ultimo viaggio di re Erode il Grande Israel Museum fino al 04.01.14

Paesi Bassi leida Petra

Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14

Qui sotto: bicchiere in ceramica, da Giubiasco (Canton Ticino). I sec. d.C.

Tesori del Museo nazionale svizzero Museo nazionale svizzero fino al 21.12.2014

Gran Bretagna

Israele

Qui sotto: moneta con l’immagine di un elefante, che evoca il valico delle Alpi da parte di Annibale.

Contenitore (poporo) in oro in forma di statuina. Quimbaya, 600-1100 d.C.

Bronzi romani dalla Svizzera Archäologische Sammlung der Universität Zürich fino al 05.01.14

Carlo Magno e la Svizzera

Museo nazionale svizzero fino al 02.02.14

USA New York Silla: regno dorato della Corea The Metropolitan Museum of Art fino al 23.02.14

A sinistra: collana in oro, pasta vitrea e giada. Fine del IV sec. d.C.

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l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

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utta la stampa indiana, Times of India (il principale giornale in lingua inglese del Paese) in testa, si è appassionata alla vicenda di una folle «caccia al tesoro», iniziata alla metà dell’ottobre scorso in un villaggio dell’Uttar Pradesh, una delle regioni piú povere del subcontinente. In palio, nientemeno che 1000 t d’oro, per un valore pari a 31 miliardi di euro. Una cifra che potrebbe notevolmente alleviare l’economia domestica indiana, da mesi in sofferenza…

I SOGNI SON DESIDERI All’inizio ci fu un re, Raja Rao Ram Bux Singh, martire di un’insurrezione antibritannica nel 1875 e costruttore di un palazzo nei pressi del villaggio di Daundaia Kheda (distretto di Unnao, Uttar Pradesh) sotto il quale, si dice, sia sepolto. E poi c’è il guru Shobhan Sarkar, veggente di successo, che tra la popolazione odierna della zona gode di un seguito notevole. Ed è stato proprio il santone, lo scorso

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ottobre, a comunicare alle autorità governative indiane di un sogno molto particolare: in esso gli era apparso il defunto re, rivelandogli l’esistenza di un fantastico tesoro di 1000 t d’oro nascosto sotto il suo palazzo e raccomandandogli di riferirne subito al governo, affinché potesse usarlo al fine di appianare il deficit finanziario del Paese. Le esplorazioni sono iniziate subito, sotto la direzione del Geological Survey of India (la Soprintendenza geologica nazionale) e dell’ASI (Archaeological Survey of India, la Soprintendenza nazionale per l’archeologia dell’India) e seguite, 24 ore su 24, da tutta la stampa nazionale, nell’area sulle rive del Gange che accoglie le rovine del palazzo. «Non abbiamo alcuna prova della presenza di metalli sotto il palazzo di Singh – spiega Praveen Kumar Mishra, l’archeologo responsabile dello scavo – anzi: spesso, in casi del genere, troviamo soltanto qualche oggetto di uso quotidiano». Eppure, dalla metà di ottobre, centinaia di curiosi si sono accampati nell’area per assistere alle ricerche. Ma come

mai tanta fiducia in un sogno? E perché la stessa ASI, inizialmente scettica e irritata dalla fantasiosa richiesta, si è messa a scavare? La spiegazione è semplice: due anni fa, nell’estate del 2011 – in un tempio indú del Kerala (regione del Sud-Ovest dell’India) – fu scoperto un tesoro composto da monete d’oro e pietre preziose per un valore stimato di circa 8 miliardi di euro. È cosí che, oggi, il guru Sarkar non è l’unico a invocare l’esistenza di tesori… da sogno. La stessa Corte Costituzionale – ma anche la Banca Centrale dell’India – sono in allerta: quest’ultima ha inviato una comunicazione ai principali santuari del Paese, chiedendo informazioni su entità e condizioni delle loro proprietà auree. Per i sacerdoti indú, l’iniziativa suona come un campanello d’allarme: «l’oro custodito nei templi Troupe televisive e curiosi affollano il sito in cui sorgono le rovine del castello di Raja Rao Ram Bux Singh (Uttar Pradesh, India).


è stato donato dai fedeli nel corso di millenni – tuona l’esponente nazionalista V. Mohanan – e non permetteremo a nessuno di appropriarsene». Intanto anche il World Gold Council, il Consiglio Mondiale dell’Oro, getta benzina sul fuoco: non esistono dati ufficiali ma, secondo una stima del WGC, l’oro custodito nella totalità dei santuari del subcontinente indiano potrebbe ammontare a 2000 t, per un valore di circa 63 miliardi di euro. Qualche giorno fa, il candidato dell’opposizione alle prossime elezioni per la nomina del presidente del consiglio indiano in visita alle rovine del re Singh, ha dichiarato: «Il governo promuove lo scavo di 1000 t d’oro su indicazioni di un personaggio che dice di averne sentito parlare in sogno. Ma se, invece, provassimo a riprenderci tutti i soldi depositati dai saccheggiatori del nostro patrimonio sui conti svizzeri, allora otterremmo molto di piú di 1000 t d’oro!».

TUTTI I PARENTI DI ÖTZI

È

noto che le differenze genetiche tra gli esseri umani sono assai inferiori a quanto le apparenze tra gli stessi potrebbero far supporre. Cosí, la mappatura del DNA eseguita su un campione di 3700 individui maschi delle valli tirolesi dagli scienziati dell’Accademia delle Scienze austriaca è giunta a un risultato curioso: ben 19 delle persone esaminate mostrano l’appartenenza allo stesso sottogruppo genetico individuato per Ötzi, la celebre mummia del ghiaccio. È possibile affermare che si tratti di parenti diretti dell’uomo di Similaun, morto cinquemila anni fa? Spiega Walther Parson, dell’Istituto di medicina legale di Innsbruck: «La loro parentela risiede nel fatto che questi uomini avevano, con Otzi, degli antenati comuni, vissuti nelle valli alpine da 9000 ai 6000 anni fa». Gli scienziati suppongono che altri parenti viventi di Ötzi possano trovarsi anche nell’Engadina e in Val Venosta e hanno annunciato indagini congiunte con gli studiosi svizzeri e italiani.

Acquerello nel quale si immagina l’Uomo del Similaun in cammino in alta montagna: una situazione analoga a quella vissuta negli ultimi giorni di vita, prima di morire sulle nevi delle Alpi Venoste, dal cui nome tedesco, Ötztaler Alpen, deriva il nomignolo Ötzi.

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

ancora una volta, ecco la tomba di Alessandro... all’indomani dell’ultima campagna di scavi ad anfipoli, in macedonia, si è tornati ad annunciare la clamorosa scoperta del sepolcro del macedone. che, invece...

Anfipoli

GRECIA

Mare Egeo

Atene

Mar Ionio

N

ell’estate appena trascorsa, sotto gli effetti della calura estiva, piú d’un giornalista, alla ricerca spasmodica di uno scoop capace di smuovere le acque di un sonnacchioso ferragosto, ha annunciato con enfasi la scoperta della tomba di Alessandro Magno. I piú prudenti si sono limitati ad

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aggiungere un timido «forse» alla notizia, a ragione definita da molti «la bufala dell’estate». D’altra parte, non è la prima volta che accade: la tomba del grande condottiero macedone viene cercata da anni un po’ ovunque, dall’oasi di Siwa in Egitto alla basilica di S. Marco a Venezia,

dall’Uzbekistan all’Australia, laddove le fonti menzionano invece Alessandria d’Egitto e danno conto della lunga e travagliata storia del corpo di Alessandro, prima della sua deposizione nel mausoleo visitato anche da Ottaviano dopo la vittoria di Azio. Atteniamoci dunque ai fatti.


Sulle due pagine: alcune immagini del grandioso monumento funerario in corso di scavo presso Anfipoli, in Macedonia.

essere posta a decorare la sommità del grandioso sepolcro. La tentazione di attribuire il tumulo di Anfipoli a una personalità della corte macedone è forte. E a poco è servito il laconico comunicato stampa del Ministero Ellenico alla Cultura, in cui si dichiara che «il rinvenimento effettuato ad Anfipoli ha senza dubbio grande importanza; tuttavia, prima che gli scavi proseguano, qualunque interpretazione e ancor piú qualsiasi identificazione con personaggi storici sono prive di fondamento scientifico e pertanto azzardate».

un possibile indizio

In località Kastà, presso Anfipoli, si sta scavando un enorme tumulo funerario. Le indagini nella zona non sono nuove: erano cominciate già negli anni Sessanta del secolo scorso, a opera dell’archeologo greco Dimitrios Lazaridis; e la scoperta stessa del tumulo di Anfipoli era stata annunciata nell’autunno del 2012 dalla responsabile degli scavi, la direttrice della 28a Soprintendenza alle Antichità Preistoriche e Classiche, Katerina Peristeri.

dimensioni eccezionali Quello che è davvero una novità sono invece le dimensioni di questo apprestamento funerario. Per il momento è venuto alla luce un peribolo circolare, databile all’ultimo quarto del IV secolo a.C. Composta di una base, ortostati, elevato e coronamento di marmo bianco di Taso, questa struttura ha un’altezza totale di 3 m, un diametro di 160 e una circonferenza pari a 500 m circa; a sua volta, il peribolo recinge un tumulo di terra che raggiunge i 23 m d’altezza.

Non può sfuggire che le dimensioni dell’opera sono pari a dieci volte quelle del tumulo di Verghina! Né che in Grecia i tumuli non presentano mai il peribolo, che è invece una caratteristica microasiatica. Il monumento fu distrutto in epoca romana; e le ricerche della Soprintendenza ne hanno individuato diverse membrature architettoniche nell’area del Leone di Anfipoli, il celebre simbolo della Macedonia. Molte di esse furono riutilizzate al momento della costruzione della base del Leone, frutto del lavoro di archeologi moderni (ricordiamo che il Leone era stato trovato presso le rive dello Strimone e che gli elementi della base, che non sono pertinenti alla scultura, erano stati già impiegati dai Romani per costruire una diga). Insomma, il riconoscimento di membrature architettoniche del peribolo di Anfipoli nella base del Leone sembra connettere i due monumenti; e secondo alcuni studiosi, la statua del felino poteva

Gli scavi saranno in effetti ancora lunghi, richiederanno risorse economiche notevoli e perciò difficili da reperire in questo frangente di crisi, e c’è il rischio che l’occupante (o gli occupanti) del tumulo non siano piú al loro posto. Ma c’è un dettaglio che va ricordato: la presenza del peribolo, che, come detto, rimanda a un ambiente non greco. Viene in mente che Rossane, la madre di Alessandro IV, era figlia di Ossiarte, satrapo di Battriana; era ancora una giovinetta quando fu fatta prigioniera, assieme alla sua gente, da Alessandro, che poi la sposò per dare esempio di fusione tra le stirpi dei Persiani e dei Macedoni. Rossane e suo figlio, nato dopo la morte di Alessandro, furono tenuti prigionieri ad Anfipoli da Cassandro, che li fece uccidere nel 310, dopo che un accordo tra i Diadochi aveva stabilito che il figlio postumo di Alessandro avrebbe ottenuto il trono di Macedonia, una volta raggiunta la maggiore età. E in Macedonia si usava dare sepoltura onorevole anche ai possibili eredi brutalmente eliminati, per evitare che a farlo fossero nemici: lo dimostra anzitutto il tumulo di Filippo II a Verghina. E se fosse davvero questa la tomba di Rossane e Alessandro IV?

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storia • erode il grande

ERODE

UNA NUOVA IMMAGINE di Andreas M. Steiner

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PER EBREI E CRISTIANI IL SUO NOME È DA SEMPRE SINONIMO DI TERRORE Ed EFFERATEZZA. OGGI, NUOVE INDAGINI E UNA grande MOSTRA A GERUSALEMME rivelano COME IL MANDANTE DELLA STRAGE DEGLI INNOCENTI FOSSE ANCHE UN FINE STRATEGA POLITICO E UN GRANDE COSTRUTTORE

P

Sulle due pagine: il modello ricostruttivo del mausoleo di Erode il Grande collocato sull’Herodium, il palazzo fortificato voluto dal leggendario re nel deserto di Giuda. In alto: disegno ipotetico del volto di Erode (di cui non si conoscono immagini), realizzato da Peter Connolly sulla base di una scultura rinvenuta in Egitto e da alcuni studiosi ritenuta un probabile ritratto del re.

er allestire la mostra in corso al Museo d’Israele, gli architetti si sono trovati davanti a un compito non facile: quello di dover rinforzare i solai di alcune delle nuove sale (il completo rinnovamento del grande complesso museale di Gerusalemme risale ad appena qualche anno fa) affinché sostenessero il peso delle circa trenta tonnellate di pietre scolpite, colonne e resti murari provenienti da un sito archeologico nei pressi di Betlemme. L’impegno è valso la pena: i resti di un mausoleo – o meglio, la parte finale del monumento funerario che, in origine, misurava 25 metri di altezza – esprimono meglio di ogni altro reperto esposto il percorso e il coronamento di una lunga e appassionata ricerca

archeologica. Nella penombra del sepolcreto, racchiuso da possenti blocchi squadrati e circondato da colonne, è posto un sarcofago di pietra rosata, all’apparenza semplice, decorato con rosoni finemente scolpiti sui quattro lati. Nessuna iscrizione lo identifica, eppure tutti conoscono il nome dell’uomo le cui spoglie, un tempo, aveva accolto: Erode il Grande, re di Giudea. La tomba venne scoperta nella primavera del 2007 dall’ archeologo Ehud Netzer, sul lato nord-orientale dell’Herodium, il grande palazzo fortificato costruito dal leggendario re nel deserto di Giuda a meno di 20 km a sud-est di Gerusalemme. I nostri lettori lo ricorderanno: «Archeo» ne ha seguito la vicenda sin dal 1999, quando, per a r c h e o 29


storia • erode il grande

la prima volta, Netzer espose la sua ipotesi circa la possibile collocazione della tomba nell’area del cosiddetto «Basso Herodium», ai piedi della caratteristica struttura a forma di vulcano sovrastata dai resti della fortezza vera e propria (vedi «Archeo» n. 177, novembre 1999). All’epoca Netzer scriveva che, secondo lui, la tomba di Erode non poteva aver retto al trascorrere dei secoli e, molto probabilmente, era stata depredata e demolita; la sua speranza, comunque, era quella di riuscire a localizzare – da qualche parte nella vasta area monumentale sottostante la collina – le fondazioni della camera sepolcrale del re.

200 scalini di marmo bianco... Poi, nella primavera del 2007, l’annuncio della scoperta, avvenuta non nella zona indagata alla fine degli anni Novanta, bensí su un lato dello stesso Herodium: «Dopo anni di ricerche vane abbiamo seguito il percorso che avrebbe potuto compiere un corteo funebre che, partendo dal Basso Herodium, avesse voluto raggiungere la cima del palazzo fortificato. Siamo arrivati, cosí, all’inizio della rampa che un tempo accoglieva i “200 scalini di marmo bianchissimo” di cui parla Giuseppe Flavio. Proseguendo da lí, abbiamo trovato, a circa due terzi della salita, i resti di un grande sepolcro. Per la sua posizione e i materiali in esso rinvenuti lo abbiamo potuto identificare con il mausoleo di Erode il Grande» (vedi «Archeo» n. 268, giugno 2007; anche on line su www.archeo.it). Per ripercorrere l’avventura che ha portato alla scoperta della tomba di Erode rimandiamo agli articoli citati e alla mostra in corso all’Israel Museum. Qui ricordiamo soltanto il tragico epilogo della vicenda: nell’autunno del 2010, nel corso di un sopralluogo a pochi metri dal luogo che aveva significato il coronamento di quasi quarant’anni di ricerche – il sepolcro del re dei Giudei sull’Herodium – Ehud Netzer precipita lungo il pendio e muore. 30 a r c h e o

Netzer collaborava con entusiasmo con «Archeo» (nel 2009 fummo tra i primi a ricevere la notizia della scoperta), intimamente convinto che l’archeologia non dovesse essere relegata al circuito dei soli addetti ai lavori. E di questa idea la mostra al Museo di Israele offre una testimonianza eloquente. Essa introduce non solo agli aspetti della quotidianità di corte (citiamo le anfore vinarie, rinvenute nella fortezza di Masada a riprova del fatto che Erode, come narrano le fonti, fece importare il vino dall’Italia; o anche il piccolo flacone contenente resti di essenza di balsamo, sostanza pregiatissima, per la quale, cosí pare, avesse un debole la stessa Cleopatra) ma, soprattutto ad alcune, eclatanti, sfaccettature della personalità di Erode: la sua propensione per le località «estreme» che avrebbe scelto per realizzarvi i suoi grandiosi progetti architettonici e la sua ammirazione per tutto quanto si richiamava all’universo di Roma. Cosí, la mostra propone una rivisitazione del personaggio, sotto il punto di vista sia della sua

l’ultimo viaggio del re al museo d’israele

In alto: l’ingresso alla mostra «Erode il Grande. L’ultimo viaggio del re» allestita all’Israel Museum di Gerusalemme. L’esposizione (curata da Silvia Rozenberg e David Mevorah), la prima mai dedicata alla vita e all’eredità culturale del leggendario personaggio, riunisce circa 250 reperti provenienti dagli scavi nell’Herodium. Tra essi figurano tre sarcofagi in pietra calcarea, di cui uno è attribuito allo stesso Erode.


In alto: il mausoleo di Erode ricostruito nelle sale dell’Israel Museum. I numerosi frammenti in pietra che decoravano il monumento furono scoperti nel 2007 dall’archeologo Ehud Netzer, insieme al grande sarcofago che, un tempo, aveva accolto le spoglie del re (nell’immagine a sinistra e, qui sopra, all’interno del mausoleo ricostruito).

dove e quando «Erode il Grande. L’ultimo viaggio del re» Gerusalemme, Israel Museum. fino al 4 gennaio 2014 Orario lunedí, mercoledí e domenica, 10,00-17,00; martedí, 16,00-19,00; venerdí, 10,00-14,00; sabato 10,00-17,00 Info e-mail: info@imj.org.il Tutti i reperti riprodotti in questo articolo sono attualmente esposti nella mostra in corso all’Israel Museum.

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storia • erode il grande

«vera» personalità, sia del ruolo da lui svolto nello scacchiere geopolitico del Vicino Oriente alla fine del I secolo a.C. Partiamo dal primo aspetto, citando un passo scritto del suo principale biografo, Giuseppe Flavio (37-100 d.C.), lo storico che a Erode attribuí l’epiteto di «Grande», pur non nutrendo alcuna particolare simpatia per il personaggio (da parte di madre, infatti, Giuseppe Flavio discendeva dagli Asmonei, la dinastia regale e sacerdotale contro la quale Erode combatté per imporsi come re): «Morí dopo aver regnato per trentaquattro anni – scrive nella sua Guerra Giudaica (I, 665) – uomo sotto tutti i rispetti quant’altri mai fortunato, perché da privato che era

Qui sopra: Augusto e Agrippa raffigurati su una moneta in bronzo che commemora la vittoria nella battaglia di Azio (31 a.C.), da Nemausus (Nimes). 20-10 a.C. In alto: aureo con la raffigurazione di Marco Antonio. 39 a.C.

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gli anni del dominio 135-37 a.C. Dominio degli Asmonei (Ircano I, Aristobulo I, Alessandro Ianneo, Salomé Alessandra, Ircano II, Aristobulo II, Antigono). 73 a.C. Nascita di Erode, figlio dell’idumeo Antipatro e della principessa nabatea Cipro. 63 a.C. Pompeo conquista Gerusalemme e annette il regno asmoneo. Ircano diventa etnarca con Antipatro consigliere militare. 61 a.C. Aristobulo II viene catturato e condotto a Roma insieme ai suoi figli. Fuga del figlio Alessandro. 57 a.C. Antipatro interviene nel conflitto tra Ircano e Alessandro, a sostegno del governatore della Provincia Siria, Gabino. 55-53 a.C. Saccheggio del tempio di Gerusalemme da parte di Crasso per finanziare la campagna contro i Parti. Sconfitta romana a Carre e morte di Crasso. 49-48 a.C. Guerra civile tra Cesare e Pompeo. Alessandro, figlio di Aristobulo II, viene giustiziato con l’accusa di alto tradimento. Pompeo fugge in Egitto, dove è assassinato. 47 a.C. Antipatro riceve la cittadinanza romana. I suoi figli, Fasaele ed Erode sono nominati, il primo governatore della Giudea e dell’Idumea, il secondo della Galilea. Erode sposa l’edomita Doris. 46 a.C. Nascita del primo figlio di Erode, Antipatro. 15 marzo 44 a.C. Assassinio di Giulio Cesare. 43 a.C. Assassinio di Antipatro (padre) ordito dalla corte asmonea. Erode fa giustiziare l’esecutore, l’idumeo Malico. Triumvirato di Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. 40 a.C. Lotta tra Erode e Antigono per la supremazia in Giudea. Erode porta la famiglia a Masada e fugge a Roma, dove il senato lo nomina re di Giudea, Galilea e Perea. 37 a.C. Erode sposa la principessa asmonea Mariamme. Costruisce la fortezza Antonia a Gerusalemme, e la fortezza di Cipro. Inizia il suo primo palazzo a Gerico e nuove fortificazioni nella fortezza di Masada. 36-34 a.C. Nascita di Alessandro (36 a.C.) e Aristobulo (35 a.C.), figli di Erode e Mariamme. Incontro tra Cleopatra ed Erode a Gerusalemme. Marco Antonio cede a Cleopatra alcuni territori della Siria e Palestina, tra cui le piantagioni di balsamo presso Gerico. 32 – 31 a.C. Guerra di Erode contro i Nabatei. La Giudea è colpita da un terremoto che provoca 30 000 morti. 31 a.C. Battaglia di Azio e vittoria di Ottaviano su Cleopatra e Marco Antonio. 30 a.C. Erode incontra Ottaviano a Rodi e viene riconfermato Re di Giudea. Lavori di costruzione a Gerusalemme, Masada, Gerico e Basso Herodium. 29 a.C. Mariamme è condannata per alto tradimento e viene giustiziata. 29-28 a.C. Erode sposa Mariamme II, la samaritana Maltace e Cleopatra di Gerusalemme. 27 a.C. Ottaviano viene proclamato dal Senato Imperator Caesar Augustus. Nascita di Archelao, figlio di Erode e Maltace. 26-25 a.C. Erode ricostruisce Samaria e la nomina Sebaste, in onore di Augusto. Nascita del figlio Antipas (da Maltace) e Filippo (da Cleopatra di Gerusalemme).


24-20 a.C. Costruzione dell’Herodium, inizio della ricostruzione di Cesarea (completata nel 10 a.C.), inizio della costruzione del Tempio di Gerusalemme. 18-17 a.C. Inaugurazione del nuovo Tempio. Secondo viaggio di Erode a Roma, dove viene nominato socius et amicus populi Romani. 15-14 a.C. Marco Vipsanio Agrippa visita la Giudea e Gerusalemme. Costruzione del terzo palazzo d’inverno a Gerico. 14 a.C. Lite tra Erode e i figli Antipatro, Alessandro e Aristobulo. Erode favorisce Antipatro. 13/12 a.C. A Roma, Antipatro si dichiara erede di Erode. Alessandro e Aristobulo vengono accusati di congiura contro il padre. 12 a.C. Visita di Erode ad Augusto (il suo terzo viaggio a Roma), insieme ai figli Alessandro e Aristobulo. 10 a.C. Inaugurazione di Cesarea. Erode fa imprigionare Alessandro e Aristobulo. 9 a.C. Erode invade la Nabatea e perde la fiducia di Augusto, in seguito riottenuta grazie all’intervento del filosofo e storico greco, Nicola di Damasco. 8-7 a.C. Quarta visita di Erode a Roma. Complotto contro Erode da parte dei figli Alessandro e Aristobulo che verranno condannati e giustiziati a Berytos (odierna Beirut). Erode nomina Antipatro principe ereditario e, in caso di sua morte, Filippo, figlio di Mariamme II. Antipatro trama contro il fratellastro e il padre. 7 a.C. circa Nascita di Gesú. 6-5 a.C. Viaggio di Antipatro a Roma. Quando, al suo ritorno, Erode apprende della congiura, fa condannare Antipatro. Erode nomina Erode Antipa erede unico. 4 a.C. Antipatro viene giustiziato. Erode cambia nuovamente il suo testamento, nominando successore il figlio Archelao, primogenito di Maltace. Erode muore a Gerico e viene sepolto nell’Herodium. I figli si contendono il trono e, su disposizione di Augusto, Archelao diventa etnarca di Giudea, Samaria, Idumea, Cesarea e Sebaste, Filippo diventa tetrarca delle regioni settentrionali del regno, Erode Antipa tetrarca di Galilea e Perea. 6 d.C. Archelao viene deposto e mandato in esilio. La Giudea, insieme alla Samaria e all’Idumea, diventa provincia romana e posta sotto il governo del procuratore di Roma. 14 d.C. Morte di Augusto cui succede Tiberio. 19-20 d.C. Nascita di Salomé, figlia di Filippo ed Erodiade, nipote di Erode. 33-35 d.C. Morte di Filippo. Erode Antipa sposa la vedova Erodiade. Condanna ed esecuzione di Giovanni Battista. Agrippa I, figlio di Aristobulo e nipote di Erode, ottiene il controllo dei territori di Filippo. 39 d.C. Agrippa I ottiene il controllo dei territori di Erode Antipa. 41 d.C. Agrippa I viene nominato Re di Giudea e Samaria. 48 d.C. Agrippa II (figlio di Agrippa I) ottiene dall’imperatore Claudio il dominio del regno di Erode Antipa. 60-65 d.C. Espansione del dominio di Agrippa II. 66-67 d.C. Rivolta giudaica contro Roma. 70 d.C. Tito conquista Gerusalemme e distrugge il Tempio erodiano.

si era conquistato un regno e, dopo averlo a lungo conservato, lo lasciava ai suoi figli, ma nella vita domestica sventurato oltre ogni dire». La morte avvenne, verosimilmente, nel mese di marzo del 4 a.C., Erode era nel suo settantesimo anno di vita. Un giudizio, quello di Giuseppe Flavio, tutto sommato equilibrato (seppure, forse, dettato dalla necessità di non parlar male dei defunti); che non collima, però, con l’immagine interamente negativa che del re è stata consegnata alla storia. Secondo lo storico Ernst Baltrusch, Erode fu un personaggio complesso, un uomo dai molti volti: «Il suo In alto: ritratto in marmo di Augusto. I sec. a.C. Monaco, Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek. In basso: ritratto in bronzo di Marco Agrippa, che visitò Erode nel 15 a.C. New York, Metropolitan Museum.

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Siria

storia • erode il grande

Paneas

Fenicia Gallanitide Batanea

Tolemaide

Galilea

Mar Mediterraneo

Mare di Galilea

Tiberiade

Zippori

Hippos (Susita)

Tr a c o n i t i d e

Auranitide

Gadara Dor

Cesarea (Marittima)

Scitopoli Pella

Samaria Sebaste (Samaria)

Gerasa

Nabatene

Giaffa

Alexandrium

Ascalona

Philadelphia

Gerico

Giudea Asdod

Giord

Antipatride

ano

Apollonia

Cipro Hyrcania

Gerusalemme

Perea N

Qumran

Herodium

0

Callirhoe

Macheronte

Gaza En Gedi

Idumea

Mar Morto ROMA

Masada GERUSALEMME

Nabatene

Alla scoperta dei luoghi di Erode L’elenco dei progetti architettonici realizzati da Erode nel corso dei trentatré anni di regno è lunghissimo, tra palazzi, fortificazioni, templi, intere città. Alcuni dei complessi piú importanti sono stati oggetto di indagini archeologiche sin dalla metà del secolo scorso e perdurano ancora oggi. La maggior parte di essi sono siti posti sotto il controllo e la gestione della Soprintendenza alle Antichità e dei Parchi Nazionali di Israele (Israel Antiquities Authority e Israel Nature and Parks Authority). Oggi, un percorso alla riscoperta dell’architettura erodiana parte dal Parco Archeologico di Cesarea Marittima, la città costruita sulla costa mediterranea in onore di Augusto, per proseguire verso Gerusalemme e, da lí, verso sud, alla volta dell’Herodium (nel deserto di Giuda) e a Masada, la leggendaria fortezza sul Mar Morto, celebre anche per le vicende di cui fu teatro durante la seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.), repressa dall’imperatore Adriano. 34 a r c h e o

Cesarea

40 Km


nome deriva dal greco heros, eroe, la sua origine era idumea da parte di padre e nabatea da parte di madre, la sua appartenenza religiosa ebraica, il territorio su cui dominava la Palestina, il diritto civico a cui aderiva quello di Roma» scrive nel suo Erode, re in Terra Santa (pubblicato in Germania nel 2012 e non ancora tradotto in italiano). Illuminanti sono, poi, le parole della studiosa Linda-Marie Günther a proposito della dibattuta questione se «Erode fosse un Ebreo, un mezzo Ebreo, un finto Ebreo o un non Ebreo tout court». Scrive l’autrice di Erode il Grande (Salerno Editrice, 2007): «In sé la risposta è abbastanza semplice: Erode, figlio di Antipatro, era un abitante della Giudea, cresciuto tra Ebrei, nel rispetto della religione ebraica: sotto il termine greco Iudaios erano compresi entrambi i significati. Da questa prospettiva, il fatto che egli non appartenesse, in quanto Idumeo originario di Ascalona o di Marisa, alla schiera delle genti israelite storicamente insediate nella regione intorno a Gerusalemme, in quello che era il cuore della nazione, e che quindi non potesse essere considerato un devoto, è di secondaria importanza». Alla luce delle piú recenti rivisitazioni del personaggio, appare convincente che proprio questa «identità multipla» abbia contribuito in maniera determinante al suo operato politico: «In quanto Idumeo,

Ebreo, Romano, Ellenista, e anche “padre di famiglia” – scrive ancora Ernst Baltrusch – egli tentò di consolidare il proprio fragile mandato politico, chiamando a sé le diverse componenti etniche del suo regno». Erode fu in grado di accogliere sotto il suo dominio tutti coloro che a questi diversi riferimenti nazionali e identitari facevano riferimento; e di essi doveva rispondere, in quanto re territoriale, all’autorità suprema, quella dell’imperatore di Roma.

Un garante di pace Per circa trent’anni, Erode esercitò il potere affermandosi come uomo di Stato in grado di garantire al suo piccolo regno un periodo di pace. Caso piú unico che raro, in un’epoca – e in una terra – di incessanti lotte per la supremazia politica e militare. Ma quale fu il programma, quale il modello politico che lo aveva guidato? Fino a ieri gli studiosi erano pressoché unanimi nel Nella pagina accanto: cartina del regno di Erode con, in rosso, l’indicazione delle principali località collegate alla sua attività di costruttore e architetto.

sostenere che Erode si considerava alla stregua di un principe ellenistico, simile a quegli epigoni di Alessandro Magno, abituati a districarsi in un vasto universo multietnico. Dagli studi piú recenti, però – tra cui quello, citato, di Ernst Baltrusch – emerge un’immagine diversa: fu Ottaviano Augusto, e non Alessandro, la vera fonte d’ispirazione per Erode. Vale la pena ricordare un episodio chiave, avvenuto nella primavera del 31 a.C. e riportato da Giuseppe Flavio: dopo la battaglia di Azio, in cui Ottaviano ha avuto la meglio sui suoi avversari Antonio e Cleopatra, Erode si reca a Rodi, per rendere omaggio al nuovo signore di Roma. Non è la prima volta che i due si incontrano. Nove anni prima, Erode era stato nella città sul Tevere per convincere il Senato delle sue qualità di amicus et socius di Roma. In quell’occasione verrà ufficialmente nominato «Re di Giudea». È sempre

Tempio di Gerusalemme

Masada

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storia • erode il grande

ehud netzer e la scoperta della tomba perduta

Nato a Gerusalemme nel 1934, l’architetto, e poi archeologo, Ehud Netzer (ritratto da giovane nella foto qui accanto e, qui sotto, sulla tomba da lui scoperta sull’Herodium) muore nell’ottobre del 2010, sul luogo della scoperta che corona la sua vita di studioso e indagatore delle architetture erodiane. Dopo aver partecipato, negli anni Sessanta del secolo scorso, agli scavi di Masada, la sua attività si concentra sull’esplorazione dei palazzi erodiani di Gerico, di Cesarea e di Zippori. Nel 1998 riprende le indagini dell’Herodium che porteranno alla scoperta della tomba del re. Nella pagina accanto, due disegni di Netzer che ritraggono la piscina del Basso Herodium con, sullo sfondo, la collina fortificata (in alto) e la ricostruzione del mausoleo di Erode (in basso).

Giuseppe Flavio a riportare alcuni dettagli significativi dell’avvenimento: «Scioltasi l’adunanza, Antonio e Cesare (Ottaviano) uscirono a fianco di Erode, e avanti loro, attorniati dagli altri magistrati, andavano i consoli per offrire un sacrificio e per depositare il decreto del senato sul Campidoglio. E Antonio offrí un banchetto in onore di Erode per festeggiare il suo primo giorno di regno» (Guerra Giudaica 1. 285). Ma torniamo a Rodi: Erode si presenta davanti a Ottaviano, ma senza nascondere la sua precedente fedeltà ad Antonio: «Io non rinnegherò mai quanto ho fatto fin qui, – ecco le parole che gli rivolge dopo essersi tolto, con gesto di studiata teatralità, 36 a r c h e o

la corona – né mi vergogno di parlare apertamente della mia lealtà verso di lui. Se tu non tieni conto delle apparenze, e guardi come io mi comporto verso i miei benefattori, e che tipo di amico io sia, con l’esperienza di quanto è passato potrai conoscermi appieno» (Antichità Giudaiche, XV 193). L’estate dello stesso anno, Erode affianca Ottaviano durante la sua campagna in Egitto e, ad Alessandria, ottiene la definitiva conferma della sua nomina regale.

un ventennio di gloria Da questo momento, la storia del regno di Erode è una storia di successi che durerà fino al 12 a.C. Nel libro XVI delle sebas, Giuseppe Fla-

vio riporta la cronaca della visita di Marco Agrippa a Gerusalemme, avvenuta verso la fine dell’anno 15 a.C. Erode, da 37 anni re grazie alla protezione di Roma, accoglie «l’amico degli Ebrei» nella capitale del suo regno, dopo averlo accompagnato in giro per il Paese a visitare la città di Sebaste (dal greco sebastos, l’equivalente del latino «augustus») ricostruita sulle fondamenta dell’antica Samaria, il porto di Cesarea (anche in questo caso il nome riflette la dedica all’imperatore), le fortezze di Alexandrium, Herodium e dell’Hyrkania. Il cinquantottenne Erode è all’apice del suo potere: nel Paese vige l’ordine sociale, Ebrei e non Ebrei


rante quel periodo, il susseguirsi di una serie di avvenimenti avversi muta il quadro positivo che, fino ad allora, aveva caratterizzato il suo regno. Mentre monta l’insofferenza (e la protesta) dei sudditi piú pii verso la scarsa osservanza dei precetti religiosi ostentata da Erode, le città a maggioranza greca mirano a ottenere l’autonomia, e i sostenitori degli Asmonei (la dinastia al potere prima dell’avvento di Erode) congiurano per restaurarne il potere. A queste difficoltà si aggiungono i conflitti tra fazioni contrapposte interne alla corte e alla famiglia.

(Arabi, Samaritani, Greci) vivono in pace, gli uni accanto agli altri. Non è irragionevole ipotizzare, dunque, che Erode considerasse quel suo regno una copia, piccola ma ben riuscita, dell’impero di Roma. Perché e come venne a crearsi, allora, la sua pessima fama che non lo avrebbe abbandonato fino ai giorni nostri? Secondo lo storico Baltrusch fu tutta colpa di quel «breve decennio fallimentare» che seguí il 12 a.C., anno in cui Erode vide ancora una volta accrescere il suo prestigio in quanto promotore (e finanziatore) dei giochi olimpici ad Atene. Decennio «breve» perché si concluderà anticipatamente nell’anno 4 a.C., con la morte de re. Du-

da principe a tiranno A tutto ciò Erode risponde con le armi tipiche del dittatore: la repressione e l’eliminazione fisica del nemico.Tra le esecuzioni che dispone – prassi alla quale il re non era mai stato alieno, se già nel 29 a.C. aveva fatto giustiziare la piú amata delle mogli, Mariamme e, poco tempo dopo, la suocera Alessandra – figurano anche quelle di almeno tre dei suoi figli. Allo stesso Augusto è attribuita la frase in cui afferma che «melius est Herodis porcum esse quam filium»: «meglio essere un porco di Erode che un suo figlio» (alludendo alla proibizione alimentare che interdice agli Ebrei il consumo della carne di maiale). È questa efferatezza a determinare la condanna che lo accompagnerà nei secoli a venire. Ed è stata proprio la brutalità usata verso i propri figli a far sí che i suoi avversari gli affibbiassero la paternità del piú celebre infanticidio della storia: la Strage degli Innocenti. Dal Medioevo fino all’età moderna, il mondo cristiano

identificherà l’uomo Erode attraverso l’immagine sancita dal celebre passaggio del Vangelo di Matteo: in esso, come è noto, si racconta come il re, ordinando l’uccisione di tutti i maschi al di sotto dei due anni nati a Betlemme, abbia cercato di eliminare il neonato «re dei Giudei» di cui gli avevano parlato i saggi venuti dall’Oriente. Il piano, come sappiamo, non andò a buon fine. Ma sappiamo anche che l’episodio riportato nel Vangelo di Matteo (2, 1-25) non ha alcun rapporto con la figura storica del re; ne è una riprova il fatto che lo stesso biografo di Erode, Giuseppe Flavio – il quale per altro non aveva dubbi circa la crudeltà del suo personaggio – non ne fosse a conoscenza. La scelta dell’estensore del Vangelo non poteva, però, essere piú appropriata: per l’immaginario collettivo della Palestina del I secolo d.C., Erode rappresenta la quintessenza stessa del dittatore crudele e malvagio, una caratterizzazione che si afferma come diametralmente opposta a quella del nuovo «re dei Giudei». Nonostante ciò, la vita (e la morte) di Gesú avrà luogo sullo sfondo di un contesto politico, sociale e perfino architettonico profondamente plasmato dall’opera di Erode. Il quale aveva regalato a quel lembo di terra, oltre ad atrocità di ogni genere, anche qualche decennio di pace e prosperità. per saperne di piÚ • Ehud Netzer, The Architecture of Herod, the Great Builder, Mohr Siebeck, Tubinga 2006. • Linda-Marie Günther, Erode il Grande, Salerno editrice, Roma 2007. • Ernst Baltrusch, Herodes, König im Heiligen Land, C.H.Beck, Monaco 2012. • Silvia Rozenberg e David Mevorah (a cura di), Herod the Great. The King’s Final Journey (catalogo della mostra), The Israel Museum Jerusalem, Gerusalemme 2013. a r c h e o 37


scoperte • tarquinia

nella

tarquinia dei

principi lA tomba dell’aryballos sospeso

Una grande lastra di pietra sigilla l’ingresso di una tomba a camera situata alle spalle del monumentale Tumulo della Regina. Tutto lascia pensare che – caso rarissimo – il sepolcro sia ancora inviolato. Ecco la «cronaca in diretta» di una scoperta emozionante... di Alessandro Mandolesi, Alfonsina Russo Tagliente 38 a r c h e o

S

ettembre 2013: gli archeologi impegnati nella sesta campagna di scavo del Tumulo della Regina nella necropoli della Doganaccia di Tarquinia scoprono una tomba a camera eccezionalmente inviolata. Il rinvenimento di una sepoltura intatta di questo tipo è avvenimento raro e quindi desta comprensibilmente grande curiosità e attenzione. Fin dall’antichità, infatti, i «cercatori di tesori» hanno setacciato il territorio alla ricerca della suppelletti-


hanno portato risultati importanti e inaspettati grazie alle ricerche svolte in estensione; le informazioni relative alle diverse fasi di utilizzo dell’area hanno permesso inoltre di chiarire molti punti oscuri della grandiosa stagione dei tumuli monumentali tarquiniesi.

tumuli monumentali L’area della Doganaccia sorge al centro della vasta necropoli dei Monterozzi, celebre per le tombe dipinte dichiarate Patr imonio dell’Umanità dall’UNESCO. Meno noti sono i grandi tumuli di età orientalizzante, situati in luoghi esposti e dominanti, in corrispondenza dei maggiori tracciati viari

dell’antichità. Proprio lungo uno dei principali itinerari che dalla città etrusca (La Civita) conducevano al mare si innalzano maestosi, su due ampie terrazze calcaree, due tumuli in apparenza gemelli, denominati «del Re» e «della Regina». Mentre il primo monumento è stato scavato nel 1928 dall’archeologo siciliano Giuseppe Cultrera, il Tumulo della Regina è stato indagato scientificamente per la prima volta dall’Università di Torino. La particolarità di questo sepolcro, la piú grande struttura a tumulo di Tarquinia finora nota, è senza dubbio il maestoso ingresso a cielo aperto messo in luce durante le prime campagne di scavo. Si tratta di

A sinistra: Tarquinia, necropoli della Doganaccia. La camera funeraria della Tomba dell’aryballos sospeso, cosí battezzata per l’unguentario trovato appeso alla parete di fondo. Il sepolcro fu utilizzato nei primi decenni del VI sec. a.C., ma la sua costruzione potrebbe risalire a un’epoca piú antica. In questa pagina: la rimozione della grande lastra di pietra che sigillava l’ingresso della tomba.

le sepolta insieme ai defunti, saccheggiando a piú riprese le necropoli etrusche. La scoperta si inserisce nel quadro delle ricerche che l’Università degli Studi di Torino e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale conducono sul Tumulo della Regina e sul sepolcreto circostante dal 2008 (e delle quali «Archeo» ha dato notizia: vedi nn. 298 e 307, dicembre 2009 e settembre 2010; anche on line su www. archeo.it). Le campagne di scavo a r c h e o 39


scoperte • tarquinia

In alto: cartina dell’Etruria con la localizzazione di Tarquinia. Nella pagina accanto, in alto: la Tomba gemina, un sepolcro formato da due camere funerarie, probabilmente destinate ad altrettanti membri della medesima famiglia. In basso, sulle due pagine: il sepolcreto individuato alle spalle del Tumulo della Regina e del quale fa parte la Tomba dell’aryballos sospeso.

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tivo stato di conservazione, considerato che i dipinti si trovavano in uno spazio aperto. Su questo ingresso monumentale si affacciano due camere laterali, già indagate, e una centrale, destinata ad accogliere le spoglie del titolare del sepolcro, e non ancora esplorata. Lo scavo di questo ambiente si rivela molto complesso, in quanto la struttura è stata interessata da importanti cedimenti e richiederebbe la disponibilità di fondi sostanziosi, al momento non disponibili.

IL SEPOLCRETO ARISTOCRATICO In questi anni gli sforzi degli archeologi non si sono concentrati soltanto sul monumento principale, che fungeva da importante caposaldo topografico della necropoli tarquiniese del VII secolo a.C.: l’ampliamento delle ricerche sul tratto settentrionale del monumento ha rivelato, a partire dal 2009, un lembo di sepolcreto a carattere aristocratico, costituito da tombe a camera con strutture differenziate. Questa scoperta costituisce una novità nel panorama della Tarquinia orientalizzante, in quanto, per la prima volta, si ha la possibilità di conosce-

Pisa

o

Arn

Fiesole Arezzo

Volterra

re ve Te

un ampio piazzale, accessibile attraverso una larga scalinata scavata nella roccia, utilizzato per le celebrazioni in omaggio al nobile defunto. In questo scenografico ambiente, chiamato «piazzaletto», sono stati scoperti i resti di un rarissimo intonaco in gesso alabastrino, un rivestimento murario all’epoca sconosciuto in Italia, presumibilmente realizzato da maestranze specializzate provenienti dal Levante mediterraneo. Del resto la struttura del sepolcro trova significativi confronti con le tombe reali di Salamina di Cipro. Sull’intonaco sono ancora visibili le piú antiche tracce di pittura funeraria tarquiniese, realizzate in rosso e nero, con motivi architettonici, floro-vegetali e figurati purtroppo di difficile lettura per il cat-

Umbri Chiusi Populonia Vetulonia Saturnia

Perugia Orvieto

Vulci

Tarquinia Mar Tirreno

Cerveteri

Sabini Falisci Veio Roma Latini

re in estensione l’organizzazione funeraria attorno a un grande tumulo principesco. Gli scavi a nord del monumento hanno rilevato, a pochi metri dal massiccio bordo del tumulo, l’affioramento di un margine compatto del banco calcareo. Su questo piano roccioso sono emerse due tombe a camera, già saccheggiate in passato. La piú complessa è costituita da una sepoltura a doppia camera affiancata (detta «gemina»), che in origine era probabilmente destinata alla deposizione simultanea e separata di due componenti della stessa fami-


glia – due fratelli o un padre e un figlio con le rispettive consorti –, verosimilmente imparentati con i titolari del Tumulo della Regina. La Tomba gemina è caratterizzata da un ampio e profondo ingresso-vestibolo ispirato a quello del Tumulo della Regina, con una scalinata ricavata nella roccia. Le due camere, pressoché analoghe, a pianta rettangolare irregolare, sono munite di banchine, molto deteriorate. In base all’analisi degli oggetti di corredo superstiti, la costruzione della tomba si può collocare tra il 640 e il 630 a.C., con un successivo utilizzo funerario sino alla fine del VII secolo a.C. o all’inizio del successivo. La seconda sepoltura, anch’essa violata, è affiorata immediatamente a nord-ovest della precedente, ed è costituita da un ingresso marcato da sei alti gradini che scendono in profondità, aperto a occidente, come i vestiboli della vicina Tomba gemina e del Tumulo della Regina. Da questo si accede all’unica camera funeraria coperta – come la precedente – da una volta a ogiva, con due banchine laterali scolpite nel masso. Del corredo, nonostante i saccheggi, rimangono diversi resti, indice dell’elevato rango del defun-

to inumato in questa camera. La costruzione del sepolcro si colloca attorno ai decenni centrali del VII sec. a.C., quindi di poco precedente la Tomba gemina. Le ricerche svolte in questo settore della Doganaccia, associate alle notizie d’archivio sugli scavi clandestini praticati nell’area, permettono dunque di intravedere la presenza di un ampio complesso funerario che trova il suo punto focale nel monumentale Tumulo della Regina. Proprio in questo sepolcreto, a pochi metri dal tamburo del monumento principale, è stata scoperta la

tomba inviolata, presumibilmente appartenente a un personaggio di rango, imparentato in qualche modo con il titolare del grande tumulo.

LA nuova tomba Alcune lastre in calcare e nenfro infisse di coltello nel terreno, affiancate a ridosso del tamburo del Tumulo della Regina, hanno subito attirato le attenzioni degli archeologi impegnati nell’ultima campagna di scavo alla Doganaccia. Si è deciso quindi di ampliare il settore di scavo al fine di comprendere, al di sotto degli arativi e degli strati di fre-

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scoperte • tarquinia

1

2

L’ingresso ancora chiuso

La rimozione del sigillo

Cosí si è presentato, agli occhi degli archeologi, l’ingresso della Tomba dell’aryballos sospeso, ancora chiuso da una grande lastra di pietra utilizzata come sigillo.

Dopo aver asportato il riempimento del vano d’ingresso, è stato possibile avviare la rimozione della lastra di pietra che chiudeva la tomba.

quentazione tardo-arcaica che co- d’accesso, un dromos scalinato con supporre che la tomba non fosse privano in parte le lastre, l’anda- orientamento ovest-est, allargato in stata violata e nessuna intrusione o mento della struttura intercettata. Si corrispondenza della piccola faccia- scasso apparivano agli occhi degli archeologi. Si è cosí andati a rimuoè cosí compreso che le pietre affio- ta della tomba. ranti nel punto piú profondo dello Sono emerse con sempre maggiore vere i livelli di colmatura originale scavo seguivano un andamento cur- chiarezza le pareti laterali, ricavate dell’accesso. È stato intercettato uno vilineo e che delimitavano, verso nel banco roccioso e caratterizzate strato calcareo molto compatto, acl’interno, un consistente e compat- da due strette riseghe, nonché la compagnato da pietre calcaree tenacemente cementate: to accumulo di pietre inuna sorta di ultima sigillaformi di calcare, rivelatosi presto il residuo della caVicino alla porta giaceva tura, che andava a chiudere definitivamente il drolotta di un piccolo tumulo funerario, delimitato da una grattugia per preparare mos della tomba e a preservarne l’inviolabilità. una crepidine ancora legil kykeion, la bevanda Rimosso con fatica lo gibile del diametro di strato compatto, è stato quasi 6 m. eroica citata da Omero messo in luce un uniforConsiderando la posiziome e spesso strato sabbione delle lastre messe in luce, le indagini si sono concentrate g randiosa f acciata d’accesso, so-calcareo, che andava a riempire sul lato occidentale della struttura anch’essa tagliata nella roccia e ar- omogeneamente gran parte dell’infuneraria, laddove si immaginava ricchita in cresta da un lastrone di- gresso. Questo strato, profondo olche si aprisse l’ingresso della tomba, sposto in orizzontale. La porta della tre 2 m, ha restituito pochissimi orientato come quello del Tumulo camera, integra e in situ, era costitu- frammenti ceramici in bucchero e della Regina e delle altre sepolture ita da un monolite in calcare, alto impasto rosso, relativi a forme ceramiche frantumate ritualmente duadiacenti. La prosecuzione delle ri- quasi 2 m e largo 90 cm. cerche ha permesso di intercettare La composizione della stratigrafia rante le fasi di riempimento del la parte terminale del corridoio che colmava l’ingresso faceva pre- corridoio d’accesso. 42 a r c h e o


La tomba si svela

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Rimosso il sigillo, cosí è apparso l’ingresso della tomba, rimasta inviolata per circa 2600 anni.

A poche decine di centimetri dal pavimento dell’ingresso, è stato intercettato un ultimo strato meno compatto, costituito anch’esso da spezzoni calcarei che andava a riempire completamente l’ambiente, addossandosi alle pareti e al lastrone di chiusura della porta. Rimuovendo le pietre, sono venuti alla luce sia alcuni blocchetti di argilla verde, deposti ai piedi e ai lati del monolite e pertinenti alla sua sigillatura, sia il livello di deposizione del corredo rituale esterno alla camera, in gran parte frantumato dalla sigillatura rituale dell’ingresso.

vasi per il simposio Le ceramiche erano state adagiate direttamente sul pavimento, concentrate lungo la parete destra dell’ingresso, ed erano poi andate distrutte al momento della colmatura in pietre del dromos. L’esame preliminare dei frammenti ha permesso di distinguere una ventina di vasi, in impasto rosso, bucchero e ceramica

dipinta, relativi al servizio da simposio: un’olla, alcune coppe, un’anforetta, brocche e attingitoi, un unguentario. Significativo è il rinvenimento dell’unico oggetto in metallo presente al di fuori della porta, una piccola e poco attestata grattugia in bronzo, la cui presenza rimanda alla pratica della preparazione del kyke-

ion, bevanda eroica per eccellenza ricordata da Omero. Dopo la rimozione del corredo esterno si è proceduto all’apertura della camera funeraria, rimuovendo il lastrone che la sigillava da secoli: il sepolcro è apparso intatto agli occhi degli archeologi. Le condizioni di conservazione dell’ambiente erano a r c h e o 43


scoperte • tarquinia

eccellenti, fatta eccezione per un lieve cedimento strutturale della volta e dello stipite sinistro della porta. La camera, contenuta nelle dimensioni (2,3 x 1,8 m circa), è scavata nel banco calcareo. A pianta rettangolare, è preceduta da una soglia rialzata e presenta due banchine ricavate nella roccia sulle pareti laterali, raccordate in testata da un basso scalino che richiama il cuscino del letto. Il soffitto presenta una copertura a volta a botte. Di estremo interesse sono i resti pitto-

rici sulle pareti della cameretta, minimali e a carattere architettonico, interpretabili come un rimando ideologico alla «casa del morto». Lungo le pareti laterali è stata tracciata, con la tecnica a cordicella imbevuta nel colore, una semplice profilatura rossa a indicare lo stacco fra le pareti e il soffitto dell’ambiente. Allo stesso modo, una linea retta sottolinea, al colmo della volta, il columen (trave di colmo del tetto, n.d.r.) o meglio la separazione tra le due falde del tetto. Piú elabo-

rata è invece la decorazione delle pareti di fondo e d’ingresso, sulle quali è stato disegnato un timpano triangolare.

ancora al suo posto! Nello spazio frontonale della parete di fondo sono infissi nove chiodi in ferro, a cui erano appesi vasi o elementi ornamentali floreali o vegetali. A conferma di quest’ipotesi è un piccolo unguentario, un aryballos, trovato straordinariamente ancora sospeso per l’ansa a uno dei

La «ricamatrice» Lo scheletro rinvenuto sulla banchina sinistra della tomba: le prime analisi antropologiche hanno permesso di attribuirlo a una donna morta intorno ai 35-40 anni di età. Del suo corredo facevano parte oggetti per il cucito che la qualificano come «ricamatrice».

Le offerte e la pisside Ai piedi della defunta sono stati trovati un bacile in bronzo colmo di offerte combuste e una pisside in bronzo di pregiata fattura, decorata a sbalzo con motivi riconducibili alla tradizione orientalizzante.

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perni. Per questa particolarità la sepoltura è stata denominata «Tomba dell’aryballos sospeso». Sulla banchina sinistra si trovavano i resti di un defunto inumato: uno scheletro deposto supino con le braccia lungo i fianchi e la testa adagiata in un incavo sagomato nel letto funebre. Sul corpo erano ancora in posizione numerosi ornamenti personali, mentre vicino alla gamba destra era stata sistemata una punta di lancia in ferro; ai piedi si trovavano invece un bacile in bronzo, colmo di offerte combuste, una rara pisside bronzea con un’elegante decorazione a sbalzo di tradizione orientalizzante, oltre a una kotyle (tazza per bere) dipinta contenente oggetti in metallo e altre fibule. Sulla banchina destra erano visibili le ceneri di un secondo defunto. Accanto ai resti della cremazione era un’oinochoe (brocca per vino) in ceramica etrusco-corinzia, ritrovata adagiata su un fianco. Infine, lungo il corridoio fra le banchine, in parte coperto dai frammenti del crollo, si trovava il restante corredo ceramico.

In alto: una parte consistente del corredo è stata ritrovata sul pavimento del corridoio tra le due banchine della tomba; ne facevano parte ceramiche dipinte (etrusco-corinzie e ioniche) e in bucchero. Alcuni dei vasi giacevano nella loro posizione originale, altri sono caduti dalle banchine.

con ogni cautela L’eccezionalità del ritrovamento ha richiesto che si operasse con sollecitudine per ragioni di sicurezza e con l’attenzione dovuta a un contesto particolarmente eloquente per la sua integrità: con la collaborazione dei restauratori della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e dell’Istituto Superiore per la Conservazione e Restauro, l’équipe ha documentato e rimosso il contenuto della camera. All’inizio è stato indagato il corridoio fra le due banchine, per poter poi accedere all’interno della camera. Dopo aver asportato la poca terra che copriva la soglia, è stato possibile iniziare la rimozione delle ceramiche: oinochoai, olpai (brocche) e coppe, sia in ceramica depurata dipinta (etrusco-corinzia, ionica) che in bucchero, alcune cadute dalle banchine, altre ancora in posto. Del corredo facevano parte anche un bacile in bronzo, alcune lame in a r c h e o 45


scoperte • tarquinia

ferro (forse coltelli sacrificali), un bacile in terracotta e unguentari, con ogni probabilità anch’essi in origine appesi alle pareti. Liberato il corridoio, sono state avviate l’indagine e la documentazione delle banchine, a cominciare dalla sinistra. Le ossa dello scheletro sono mal conservate, a causa dell’effetto corrosivo del banco roccioso: del cranio, per esempio, non sono rimasti che alcuni frammenti e i denti. La parte sinistra del torace e il braccio sinistro sono stati sconvolti dal crollo del soffitto. Adagiate accanto ai resti osteologici sono state ritrovate fibule in bronzo di varie fogge (alcune con rivestimento in foglia d’oro, altre con vaghi d’ambra e osso), che dovevano adornare le vesti sontuose del defunto. Inoltre, fra le ossa del costato, sono emersi un filo di bronzo, probabilmente una spirale fermatrecce, e i resti di brattee in metallo, anch’esse elementi decorativi relativi all’abbigliamento. L’intervento preliminare dell’antropologa, che ha documentato e rimosso i resti osteologici, ha consentito di attribuire lo scheletro a una donna di circa 35-40 anni.

la seconda sepoltura È stata infine indagata la stretta banchina destra, non concepita per ospitare un’inumazione. Infatti, accanto all’oinochoe riversa, sono stati rinvenuti i resti di un incinerato (probabilmente di sesso maschile), le cui spoglie dovevano essere originariamente racchiuse all’interno di un contenitore (forse in materiale deperibile). Le tracce rinvenute sulla banchina farebbero propendere per un cofanetto di legno, ma per avere notizie piú circostanziate sarà necessario attendere le analisi di laboratorio. La punta di lancia trovata accanto alla donna assume presumibilmente un valore simbolico – secondo una pratica già riscontrata in alcuni contesti funerari etruschi e laziali del periodo orientalizzante –, destinata a segnalare il rango aristocratico della defunta e lo stretto rappor46 a r c h e o

Un altare per il culto principesco Alle spalle del Tumulo della Regina, in posizione contrapposta e allineata con l’ingresso monumentale, sono emersi nel 2012 i resti di una struttura funeraria accessoria, un podio-altare rivolto a est, verso la necropoli dei Monterozzi. In gran parte manomessa dalle spoliazioni e dai lavori agricoli, la costruzione, probabilmente di forma quadrangolare, ha restituito vari frammenti di grandi statue di animali in nenfro (sfingi, leoni) che dovevano ornare il monumento e originali lastre litiche scolpite a bassorilievo con motivi floreali e vegetali di stile orientale. Le indagini hanno evidenziato come la struttura sia stata rimaneggiata fin dall’antichità. I riutilizzi e le spoliazioni hanno compromesso la lettura della fase piú antica: elemento risalente al periodo orientalizzante è un cavo di fondazione realizzato direttamente nel banco di calcare in connessione con la crepidine. Varie sono le ipotesi ricostruttive sulla struttura di prima fase: oltre a un podio o altare, secondo i modelli di Castellina del Marangone (presso Civitavecchia) o dei casi piú monumentali di Cortona, non si esclude possa trattarsi anche di un ponte per l’accesso alla calotta, come per i tumuli di Cerveteri. I blocchi in nenfro, relativi alla struttura di età orientalizzante, non sono piú nella loro posizione originaria e delimitano un’area utilizzata probabilmente tra il VI e il IV secolo a.C. Il riutilizzo potrebbe essere legato alla vicina presenza di tombe a cremazione tardo-arcaiche. Nonostante la frammentarietà dei dati rimasti, la scoperta dell’altare è di notevole importanza per lo studio dei tumuli tarquiniesi, poiché si tratta del primo ritrovamento locale di strutture cultuali di questo genere.


Dal basso, in senso orario: i resti del podio-altare scoperto alle spalle del Tumulo della Regina; frammenti delle statue di animali (leoni, grifi) in nenfro che facevano parte della decorazione della struttura.

to parentelare fra le due deposizioni individuate nella camera. Dopo la rimozione di tutti gli oggetti e il completamento della documentazione, il contesto è stato risigillato al fine di preservare le condizioni della camera e delle sue decorazioni pittoriche.

PROGETTI PER IL FUTURO Tutti i reperti sono ora nelle mani dei restauratori. La pregiata pisside in lamina di bronzo finemente sbalzata è stata sottoposta a un’indagine radiografica X digitale all’Istituto di Cristallografia CNRSapienza Università di Roma per rivelarne il contenuto: si tratta di oggetti da cucito (in particolare aghi di diversa dimensione), che qualificano la donna come «ricamatrice». L’apertura del contenitore verrà effettuata prossimamente in laboratorio. La pisside e gli altri oggetti del corredo saranno studiati dagli archeologi e solo allora si potrà dire qualcosa di piú preciso sui rituali funerari praticati e sui proprietari del sepolcro, giunto fino a noi inviolato, e sul loro rapporto con la famiglia principesca titolare del Tumulo della Regina. A oggi, una prima analisi dei reperti e delle decorazioni pittoriche colloca l’utilizzo della tomba nei primi decenni del VI secolo a.C., anche se non si può escludere, in base all’ar-

chitettura della camera, una datazione piú antica della struttura. La scoperta di quest’anno conferma l’importanza dell’area della Doganaccia, un sito ricco di testimonianze che possono gettare nuova luce sulla Tarquinia di età orientalizzante. Dal 2010 i grandi tumuli sono inseriti nel progetto di valorizzazione «Via dei Principi», finanziato dalla Regione Lazio. Nell’ambito di questa iniziativa, a breve avranno inizio i lavori di restauro di un tratto del tamburo del Tumulo della Regina, cosí che questo monumento possa diventare fruibile, in un circuito di visita che colleghi le suggestive sepolture principesche di Tarquinia, testimonianza ancor oggi tangibile sul territorio dello splendore di un’epoca. Gli scavi archeologici della Doganaccia sono condotti dall’Università degli Studi di Torino e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, sotto la direzione di Alessandro Mandolesi e Alfonsina Russo Tagliente. Hanno collaborato alla stesura dell’articolo i responsabili di settore Maria Rosa Lucidi, Eleonora Altilia, Claudio Castello e, per la redazione, Daniela Comand. Si ringraziano Marcello Colapietro e Ombretta Tarquini (CNR-Sapienza Università di Roma) per l’elaborazione dalle immagini radiografiche. Le indagini del 2013 sono state finanziate da investitori privati (Kostelia di Barberino di Mugello e Tecnozenith di Saluzzo). a r c h e o 47


scavi • isole eolie

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EOLIE

un’età dell’oro non sappiamo se il prezioso metallo circolasse davvero tra le genti dell’arcipelago. È certo invece, come confermano le piú recenti ricerche condotte a stromboli e filicudi, che le isole ebbero un ruolo cruciale nel mondo mediterraneo dell’età del bronzo di Maria Clara Martinelli e Sara Tiziana Levi con contributi di Marco Bettelli, Andrea Di Renzoni, Valentina Cannavò, e Francesca Ferranti

Isole Eolie, Filicudi. Veduta aerea del villaggio dell’età del Bronzo di Filo Braccio. Scoperto nel 1959 da Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier, il sito è oggetto di nuove ricerche, avviate nel 2009 e dalle quali stanno scaturendo dati di grande importanza per ricostruire la storia del popolamento dell’arcipelago.

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scavi • isole eolie

V

iste dal satellite, le sette isole Eolie (Alicudi, Filicudi, Lipari, Panarea, Salina, Stromboli e Vulcano) sembrano le perle di una collana strappate e gettate a caso nell’enorme arco blu che accompagna la fine della nostra Penisola oltre lo Stretto, lungo la costa siciliana settentrionale. Per geologi e geografi, esse sono al tempo stesso

In alto: isole Eolie, Stromboli. Lo scavo del villaggio dell’età del Bronzo in località San Vincenzo. Da sinistra: cartina delle isole Eolie; uno dei focolari riportati alla luce nel sito di San Vincenzo; il villaggio della Montagnola di Capo Graziano, sull’isola di Filicudi.

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un ambiente frammentato e «minimalista»: ciascuna isola è diversa dall’altra, e fortemente condizionata, dal punto di vista di ciò che serve all’uomo per vivere (soprattutto acqua, terreni erbosi per il pascolo, approdi e fondali per le barche e la pesca, materie prime per costruire e lavorare) da una endemica e generale condizione di scarStromboli

Isole Eolie o Lipari

Ginostra

(Messina)

Panarea

San Vincenzo Stromboli

Basiluzzo Promontorio

Capo Salina Malfa del Milazzese Graziano S.Marina Salina Filo Braccio Rinella Lipari Quattropani Canneto Terme Lipari di S.Calogero

Filicudi

Alicudi

sità. Due di esse, Vulcano e Stromboli, sono due straordinari vulcani attivi, che – oltre al fascino di brontolii, eruzioni e «sciare» (colate laviche incandescenti) – continuano ad aggiungere rocce e ceneri a un patrimonio geologico che non ha eguali in Europa. Dal punto di vista archeologico, la marginalità – solo apparente – di

Porto di Levante

M a r T i r r e n o

Vulcano Golfo di Milazzo Gioiosa Marea

Messina

Milazzo Spadafora Barcellona-Pozzo di Golfo

Torre Faro

Reggio Calabria


questo splendido arcipelago e la rarità delle risorse si trasformano in un’opportunità unica. Lo avevano compreso, con un’intuizione geniale, Luigi Bernabò Brea (1910-1999) e Madeleine Cavalier i quali, fin dal 1948, hanno operato nelle Eolie, ricostruendo una millenaria successione di comunità e adattamenti culturali, fondamentale per l’archeologia dell’intera Penisola italiana e per i suoi legami con l’Oriente egeo. Le loro scoperte sono ancora oggi alla base della preistoria del Mediterraneo e sono ben illustrate nel suggestivo Museo che sorge sull’Acropoli di Lipari. Nelle isole Eolie, le culture umane si sono susseguite e spesso sovrapposte come lembi discontinui, separati e scanditi dai depositi dei vulcani. Questi ultimi rivelano agli specialisti i tempi e modi delle eruzioni, ma anche la rigenerazione delle superfici agrarie e abitative di interi versanti insulari. Ogni comunità e cultura, inoltre, usava tecniche proprie e materiali dalle caratteristiche particolari, a cominciare dall’umile argilla usata per fabbricare i vasi, che, diversa da isola a isola – e ancor piú diversa nelle coste prospicienti di Sicilia e Calabria –, reca in sé, sotto forma di grani e cristalli, una vera e propria «carta di identità geologica» che ne denuncia l’origine. Una nuova generazione

di archeologi, che per la prima volta lavora fianco a fianco con geomorfologi e geologi esperti di vulcani, sta dando in questi anni nuova vita all’archeologia delle isole. E le scoperte non mancano.

DALL’OSSIDIANA AL RAME L’arcipelago delle Eolie fu occupato fin dal Neolitico antico (5000 a.C. circa), periodo in cui già era ampiamente sfruttata ed esportata l’ossidiana, il nero vetro vulcanico di Lipari. L’ossidiana si forma in condizioni molto particolari e in rare località, quando i silicati fusi in un flusso di lava fuoriescono e si raffreddano rapidamente. Imbarcazioni già efficienti solcavano le onde in cerca di quello che già era un vero e proprio «oro nero»: la pietra, infatti, serviva a fabbricare per scheggiatura lame e punte efficienti, che, grazie al materiale ben identificabile, erano commerciate senza problemi. L’ossidiana di Lipari – lo rivelano le analisi – era cosí distribuita presso villaggi di coltivatori sviluppatisi lungo la Penisola, anche a centinaia di chilometri di distanza. Con il primo avvento dei metalli, risorsa assente nell’arcipelago, un migliaio di anni piú tardi, le isole sembrano attraversare un periodo meno dinamico. Il fulgore dorato del rame, anche sul piano simbolico,

veniva a contrapporsi alle sfumature nere del vetro naturale; intere comunità devono essersi sentite sfavorite dal cambiamento, forse abbastanza rapido, che portava nuovi gruppi, nuove idee e forse nuove lingue. L’inizio dell’età del Bronzo, alla fine del III millennio a.C., segna un importante cambiamento negli insediamenti umani. A Lipari, Salina, Filicudi e Stromboli sorgono nuovi estesi abitati, con gruppi di capanne a pianta ovale o circolare realizzate con muri a secco in pietrame locale. Il lungo periodo che va circa dal 2300 al 1500 a.C. viene chiamato dagli archeologi «di Capo Graziano», dall’omonimo insediamento scavato a Filicudi, uno dei meglio conservati. Nei primi secoli, i villaggi sorsero su ampie pianure costiere, in posizioni aperte, come se vi fossero poche preoccupazioni di sicurezza, e le forme ceramiche piú diffuse sono ciotole, tazze, olle, e vasi di piccole dimensioni, privi di decorazioni. In una seconda fase, i villaggi si ritirarono a quote piú elevate, occupando spazi terrazzati su alture naturalmente difese. Evidentemente non si poteva piú vivere in pace lungo le coste. Le forme dei vasi ripetono quelle della tradizione piú antica, ma si diffondono motivi decorativi incisi che ornano so-

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Str

scavi • isole eolie

prattutto le ciotole, usate – immaginiamo – perlopiú durante le cerimonie e in occasioni conviviali. Su frammenti e vasi si leggono piccole e fitte trame a zig-zag, linee ondulate, disegni a puntini che coprono la superficie a partire dal fondo dei contenitori, a in alcuni casi riempiti da paste biancastre. Si tratta di un «linguaggio grafico» intricato e affascinante, che talvolta, come nella tazza con scena narrativa che rappresenta una delle piú clamorose scoperte degli ultimi anni, poteva sfociare in rappresentazioni di grande complessità (vedi box alle pp. 54-55). È un’archeologia che può sembrare piú povera di quella dei grandi centri dell’Ellade e della Creta minoica, dove, nello stesso arco di tempo, sorgevano e crollavano grandi palazzi affrescati, ma le navi che solcavano l’Egeo dovevano essere molto simili a quelle che percorrevano, con gli

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ada

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Percorso di visita Muri di terrazzamento moderni Conglomerato marino

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Linea di costa

Mare

Qui accanto: planimetria delle strutture individuate nel sito di Filo Braccio, a Filicudi. In basso: uno dei settori dello scavo di Filo Braccio e, nel riquadro, i resti della capanna F.


MERCANTI MICENEI

stessi rischi, l’arcipelago, e le coste antistanti di Calabria e Sicilia; e le isole Eolie erano porti, zone di approvvigionamento e punti di controllo strategico su rotte troppo cruciali perché i naviganti le ignorassero.

un approccio nuovo In quest’ultimo decennio è iniziato un nuovo ciclo di ricerche da parte di un team di archeologi del Museo Archeologico di Lipari, dell’Università di Modena e Reggio Emilia,

In alto: un vinacciolo di Vitis vinifera, proveniente dalla capanna G del villaggio di Filo Braccio. Simili ritrovamenti provano la pratica della viticoltura già nell’età del Bronzo. A destra, in basso: frammenti di ceramica dipinta di produzione micenea, la cui circolazione è attestata anche nelle isole Eolie.

I villaggi eoliani degli ultimi secoli del periodo di Capo Graziano conservano le piú ricche testimonianze italiane di contatti diretti con il mondo egeo, nel periodo definito Tardo Elladico I-II (1650-1400 a.C.). Le belle ceramiche micenee, lavorate al tornio e dipinte con motivi geometrici, erano apprezzate in tutto il Mediterraneo dell’età del Bronzo, e gli abitanti delle Eolie non si sottrassero al loro fascino. I mari circostanti l’arcipelago erano solcati da navi di mercanti provenienti dalla Grecia, dove, all’indomani del crollo dei palazzi minoici, stava sorgendo la nuova e potente civiltà micenea. I navigli si dirigevano verso occidente in cerca di materie prime strategiche, in particolare il rame per le armi – di cui le emergenti aristocrazie guerriere micenee avevano continua necessità –, ma probabilmente anche di materiali di origine vulcanica, come l’allume, facilmente reperibile in alcuni ambienti vulcanici dell’arcipelago. L’allume (solfato doppio di alluminio e potassio) serviva, per esempio, a fissare i colori sulla lana, a conciare le pelli ed era un ingrediente essenziale per la produzione del vetro. I rinvenimenti di ceramiche di tipo miceneo sono abbondanti nei villaggi dell’acropoli di Lipari e della Montagnola di Filicudi; alcuni esemplari sono emersi recentemente anche a Stromboli. Si tratta di vasi importati dal Peloponneso (come ci indicano le analisi chimiche condotte da Richard Jones) prevalentemente utilizzati per la mensa – come tazze e ciotole finemente dipinte – ma anche preziosi vasi che probabilmente contenevano oli profumati o altri cosmetici. Marco Bettelli

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scavi • isole eolie

figura umana

ARTE E RACCONTO La sensibilità artistica e narrativa delle genti di Capo Graziano trova la sua massima espressione nella tazza con decorazione figurata incisa, rinvenuta in frammenti all’interno del crollo dei muri della capanna F di Filo Braccio, a Filicudi. Si tratta, probabilmente, del piú antico esempio di rappresentazione narrativa nella preistoria italiana, come nell’antico Mediterraneo. Realizzata con un’argilla grossolana, modellata in maniera irregolare, la tazza ha una forma molto semplice: a profilo convesso, con un’ansa sopraelevata decorata con impressioni circolari. Pur essendo di produzione locale, si discosta dal normale repertorio della cultura di Capo Graziano. Il disegno, inciso sulla superficie ancora in parte fresca, prima della cottura, fu eseguito con una tecnica elementare: i tratti sono irregolari, ma continui, e denotano una certa sicurezza. Le figure, comunque, sono estremamente schematiche. La figurazione copre l’intera superficie del vaso ed è quasi completamente occupata da linee a zig-zag che possono facilmente essere interpretate come il moto ondoso del mare, che fa da scenario e da senso ultimo al racconto. In alto, in posizione centrale, compare una figura antropomorfa stilizzata, a braccia e mani spalancate,

Solcando i flutti Una delle immagini interpretate come imbarcazioni, la cui presenza potrebbe riferirsi a un episodio realmente accaduto nelle acque dell’arcipelago.

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disposta nella postura dell’orante o – come direbbero gli specialisti dell’arte rupestre – dello sciamano. Il gesto è imponente, e l’epifania della figura comunica un senso di immediata drammaticità. Ai lati, vi sono figure schematiche di imbarcazioni che sembrano muoversi tra le onde; la loro posizione ne sottolinea il ruolo fondamentale nella raffigurazione dell’evento raccontato. Lungo i fianchi della figura antropomorfa, due «barche» salgono verticali, in posizione simmetrica; sembrano quasi sospinte in alto e travolte dall’emergere del personaggio dalle onde. Leggermente scostati dalla scena principale sono due contrassegni rettangolari, campiti con un motivo che ricorda la spina di pesce, In alto: restituzione grafica della zona piú significativa della tazza decorata (disegno di Leandro Lopes). In basso: il vaso dopo la sua ricomposizione.


Orante o mostro? Particolare della figura antropomorfa incisa sulla tazza rinvenuta nella capanna F di Filo Braccio. La resa sommaria e abnorme delle dita ha suggerito l’ipotesi che possa trattarsi di una mostruosa divinità marina.

ancora di difficile interpretazione. Dato il carattere narrativo e l’ambientazione nello spazio «realistico» del mare ondoso, sembra difficile che si tratti di simboli astratti, o di riempimenti decorativi. Nella parte inferiore del vaso una linea continua traccia l’orizzonte; da essa scendono motivi angolari. Al di sotto sono nuovamente presenti delle «navi». Ma come si può interpretare questo sorprendente «messaggio», forse lasciatoci da una donna (la fabbricazione dei vasi era spesso un’attività femminile) di 4000 anni fa? Il disegno sembrerebbe narrare un evento preciso, legato a un mare affollato di imbarcazioni – in arrivo o in partenza dall’isola –, di cui la grande figura potrebbe essere protagonista. Ma se la forte sproporzione dimensionale tra le navi e l’immagine antropomorfa fosse stata voluta, l’immagine ci apparirebbe in altra luce: una figura gigantesca, emersa dal mare con effetti rovinosi su onde, isole e barche. Questa seconda lettura potrebbe accordarsi con le dita delle mani e degli arti inferiori, tracciate in modo irregolare e confuso, decisamente innaturale, quasi a ricordare estremità palmate. In altre parole, potrebbe trattarsi della manifestazione di una divinità marina distruttiva con mostruosi arti da pesce, simile al Proteo ricordato dalle fonti greche, un’arcaica divinità della generazione, cupa e misteriosa, delle divinità preolimpiche. Si tratta, certo, di un’ipotesi ardita, ma che forse esalta piú di altre il fascino trasmesso da questa eccezionale figurazione. La tazza di Filo Braccio è il piú antico esemplare decorato del periodo di Capo Graziano e l’unico figurato in modo tanto complesso. La decorazione a punti e linee incise si sarebbe sviluppata, come già detto, soprattutto nei momenti tardi, come testimoniato dalla grande quantità di vasellame con fitti disegni geometrici rinvenuta alla Montagnola. La capacità di narrare con le immagini si è fermata, non si trasmette alle generazioni successive. Rimane solo il disegno in quanto stile decorativo, intricato e quasi ossessivo.

dell’Università del Salento, del CNR-ISMA e di altre istituzioni italiane ed estere e che si avvale dell’attivo supporto logistico delle istituzioni locali (Carlo Lanza per la circoscrizione di Stromboli). Attraverso l’analisi di nuovi insediamenti e lo studio dei manufatti, condotto in collaborazione tra specialisti di diverse discipline, si indagano, oltre alle scansioni del tempo, gli aspetti sociali ed economici delle antiche comunità stanziate nell’arcipelago. Obiettivi della ricerca sono le trasformazioni dell’economia e delle tecniche e il mutare dell’organizzazione interna dei villaggi, fino ad arrivare alla ricostruzione di un vero e proprio sistema insediativo esteso e alle sue dinamiche nel piú ampio contesto del Mediterraneo. Per la cultura di Capo Graziano sono attualmente oggetto delle ricerche i villaggi di Filo Braccio a Filicudi e San Vincenzo a Stromboli.

SULLE SPIAGGE DI FILICUDI Le esplorazioni archeologiche dei siti di età preistorica di Filicudi ebbero inizio nel 1952 sulla Montagnola di Capo Graziano con le indagini condotte da Luigi Bernabò Brea e Madeleine Cavalier. Qui fu messo in luce il grande e noto insediamento, arroccato su un terrazzo del versante della Montagnola (sommità 174 m), databile agli ultimi secoli della facies culturale di Capo Graziano. Durante le prime ricerche fu anche individuato l’insediamento piú antico, sulla costa della penisola del Piano del Porto e cioè sul Filo Braccio, una delle falesie sulle colate laviche che formano l’isola di Filicudi. Qui

Filo Braccio e San Vincenzo confermano la ricchezza culturale delle comunità vissute nel periodo di Capo Graziano a r c h e o 55


scavi • isole eolie

i FOCOLARI la preparazione del calco

Gli ambienti erano a pianta ovale, con muri fatti di pietrame, ciottoli di mare, ma, soprattutto, con grandi massi arrotondati che compongono la formazione naturale (il crigno) i due studiosi intrapresero la campa- dell’istmo, costituita da un conglogna di scavi del 1959, che portò alla merato (una roccia sedimentaria scoperta di alcune capanne a pianta composta di ciottoli cementati). ovale, costruite con una tecnica diversa da quella impiegata per le cail primo vino? panne del villaggio sull’altura. Da Nel corso dei recenti scavi sono queste scoperte, come si è detto, state scoperte nuove capanne, un viene il nome di Capo Graziano silo (contenitore per immagazzinaattribuito all’intero periodo. Berna- re derrate) e una grande area esterbò Brea riconosceva in queste anti- na all’aperto. Nelle stanze e nel corche popolazioni i mitici «Eoli», forse tile sono stati ritrovati focolari con provenienti dall’Oriente. Oggi sia- vasi e vasetti integri ancora in posto, mo in grado di affermare che questa a volte contenenti cereali combusti. nuova fase insediativa dell’arcipelago Le ricerche archeobotaniche (coorcomincia alla fine del III millennio dinate da Girolamo Fiorentino a.C.: le nuove datazioni al 14C pon- dell’Università del Salento), hanno gono infatti intorno al 2200 a.C. permesso il recupero di circa 3500 l’inizio della frequentazione del vil- resti di semi e oltre 4000 frammenlaggio di Filo Braccio. ti di carbone di legna. I semi apparLa ripresa delle ricerche, nel 2009, tengono perlopiú a cereali, quindi a ha permesso di ricostruire meglio le legumi e a frutti di piante arboree. fasi antiche. L’insediamento si Gli abitanti si nutrivano di grano, estendeva sulla pianura nella lunga orzo, veccia, lenticchie e piselli, e di fascia costiera meridionale di Fili- qualche albero da frutto. cudi, ed era composto da capanne Vinaccioli di Vitis vinifera (la pianta singole o da gruppi di ambienti al- della vite) sono i testimoni delle piú ternati ad ampi cortili o spazi liberi. antiche tracce della coltivazione delDall’alto, in senso orario: le fasi della realizzazione del calco del focolare quadrangolare scoperto a Stromboli, nel villaggio di San Vincenzo.

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Le capanne della cultura di Capo Graziano erano di forma ovale, di dimensioni variabili (le piú grandi superano i 10 m di diametro) e costruite con muri a secco, utilizzando le locali pietre vulcaniche. Lo spazio interno era talvolta suddiviso in ambienti e, in alcuni casi, al centro si conservano i focolari, di varie forme e costruiti con materiali eterogenei. I due piú grandi rinvenuti a Stromboli sono l’uno circolare, realizzato con pietre e frammenti ceramici, e l’altro quadrangolare, con lastre di pietre infisse verticalmente. Di entrambi, Renaud Bernadet e Frederic Masse hanno realizzato il calco in resina e la copia in gesso. Le copie sono pressoché indistinguibili dagli originali e sono state realizzate sia a fini espositivi, sia per disporre di una documentazione piú dettagliata nel corso dello scavo. Il focolare quadrangolare dell’età del Bronzo trova un confronto puntuale e suggestivo con quelli utilizzati nei monti Nebrodi in alcune capanne in uso tra pastori, dette «pagghiari», individuati nello studio etnoarcheologico effettuato da Mario Triolo. Andrea Di Renzoni, Francesca Ferranti


l ’ esecuzione del calco

il calco in laboratorio

il risultato finale

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scavi • isole eolie A sinistra: alcune delle strutture riportate alla luce nello scavo del villaggio di San Vincenzo. In basso: un «pagghiaro», una delle capanne di pastori ancora in uso sui monti Nebrodi, al cui interno sono spesso approntati focolari simili a quelli in uso nell’età del Bronzo nei villaggi eoliani. Nella pagina accanto: frammenti ceramici di varia tipologia provenienti dai recenti scavi.

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la vite in Italia. La viticoltura (e con ogni probabilità la produzione del vino) indicano che gli isolani, ben lungi dal praticare una stentata agricoltura di sussistenza, avevano già riconvertito i propri appezzamenti a forme di coltura intensiva ad alto reddito: il vino poteva ben essere un articolo di commercio navale. Lo studio dei carboni rivela che il ricco ambiente mediterraneo di Filicudi comprendeva alberi sempreverdi a latifoglie e aghifoglie – leccio, corbezzolo, olivo, alloro, carrubo, ginepro –, e piante cespugliose come il cisto, il lentisco, l’erica, il mirto, il rosmarino e la ginestra. I sedimenti scavati, che hanno determinato una cattiva conservazione dei resti ossei (analizzati da Gabriella Mangano), hanno restituito ossa e denti di mammiferi domestici (compreso il maiale), gusci di molluschi, patelle e chiocciole di mare e, a oggi, scarse testimonianze di consumo del pesce.

LE «LEGGI» DEL VULCANO Il sito di San Vincenzo a Stromboli è stato scoperto e scavato una prima volta nel 1980. Nuove ricerche sono in corso dal 2009: lo scavo ha sinora esposto oltre 500 mq di superficie, rivelando tracce di frequentazione che vanno dal Neolitico ai giorni nostri. Il villaggio sorgeva nella parte nordorientale dell’isola alle pendici del vulcano su un ampio pianoro formato da una colata lavica che, grazie alla tecnica del paleomagnetismo, applicata da Fabio Speranza, sappiamo essersi formata circa 6200 anni fa. Si tratta di una delle poche zone non costiere pianeggianti dell’isola, a una quota tra i 40 e i 100 m s.l.m., ben delimitata da fianchi scoscesi verso valle. Oggi il pianoro, parzialmente eroso, occupa una superficie di circa 6 ettari. Da questa posizione strategica, quando il cielo era terso, gli abitanti avevano un ampio controllo su buona parte del Tirreno meridionale (dallo stretto di Messina alle coste campane). Stromboli è un vulcano attivo molto giovane (sembra essere emerso «soltanto» 40 000 anni fa), che con-

CERAMICA: CENTRI PRODUTTIVI E SCAMBI La stretta collaborazione tra gli archeologi e i geologi sta dando i primi preziosi risultati. La ceramica tradizionale era foggiata a mano, con una materia prima grossolana, ricca di frammenti di rocce la cui composizione può indicarci il luogo di produzione mediante analisi petrografiche e microchimiche dei minerali (effettuate da un team coordinato da Daniele Brunelli e Alberto Renzulli). Nelle isole, interamente dovute a fenomeni vulcanici, mancano affioramenti di rocce metamorfiche o sedimentarie: quando nei frammenti affiorano scintillanti grani di quarzo, oppure schegge di scisto dall’aspetto sericeo, gli archeologi non hanno dubbi, e attribuiscono il vaso a un centro di fabbricazione peninsulare. Anche la composizione chimica rivela importanti variazioni, che confermano quanto stabilito dallo studio dei frammenti di rocce e minerali. Si scopre che ogni isola aveva il suo centro produttivo, sebbene vi fosse una certa circolazione all’interno dell’arcipelago e anche in altre aree: alcuni esemplari di ceramica eoliana sono stati rinvenuti in varie località costiere tirreniche siciliane e peninsulari fino al Lazio. L’esistenza di questo fenomeno era già indicata dall’eccezionale relitto di Pignataro di Fuori, rinvenuto appena a nord dell’acropoli di Lipari, testimonianza di un ingente carico di vasi prodotti nell’isola in viaggio per un’altra destinazione. Caratteristica peculiare di Stromboli, rispetto a Filicudi e Lipari, è la presenza ricorrente di vasellame proveniente da zone al di fuori dell’arcipelago. Sono vasi da trasporto e da mensa, perlopiú importati dalla Calabria e dalla Sicilia, la cui abbondanza sembra suggerire che il villaggio di San Vincenzo fosse inserito in una fitta rete di scambi nel basso Tirreno. Valentina Cannavò

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scavi • isole eolie

tinua a dire la sua, con vigore, nella storia dell’isola. È quindi di cruciale importanza ricostruire in dettaglio il rapporto tra insediamento umano e vicende naturali. La fondazione del villaggio, poco dopo la colata lavica, sembra essere stata resa possibile da una relativa calma nell’attività vulcanica, come ci spiegano Alberto Renzulli, Patrizia Santi e Mauro Rosi. Sono invece evidenti le tracce di eruzioni significative piú tarde, di portata tale da limitare fortemente lo stanziamento umano. Lo prova un potente strato di lapilli databile alla fine del Medioevo.

una comunità popolosa Il villaggio della cultura di Capo Graziano era stato costruito su una successione di terrazzi delimitati da gradoni in pietrame; uno sforzo edilizio comune che indica lo stanziamento di una popolazione abbastanza numerosa e in grado di intraprendere sistemazioni di vasta scala. Sui terrazzi si ergevano grandi capanne ovali o rotonde in pietra lavica e, come a Filicudi, aree di attività all’aperto. I focolari all’interno delle capanne erano costruiti con cerchi di pietre e lastre litiche (degli esemplari meglio conservati sono stati realizzati i calchi). 60 a r c h e o

La ceramica tradizionale, foggiata a mano, presenta una grande varietà dei tipici motivi incisi caratteristici della seconda fase di Capo Graziano; ma una serie di forme vascolari di aspetto piú antico suggerisce che l’insediamento fosse sorto qualche secolo prima, un’ipotesi confermata dalle datazioni al radiocarbonio, effettuate da Marco Martini e Francesco Maspero. Le analisi archeometriche (vedi box a p. 59) hanno accertato che la ceramica di impasto fatta a mano era perlopiú prodotta localmente a Stromboli, ma è abbondante anche il vasellame proveniente dalla Calabria e dalla Sicilia, fenomeno, questo, che sottolinea il ruolo di avamposto del villaggio. La rete dei contatti rivelata dai reperti di scavo, infatti, non si limitava al basso Tirreno: il rinvenimento di ceramica tornita e dipinta e di perline in pasta vitrea importate dall’Egeo – databili al Tardo Elladico I-II (16501400 a.C.) –, testimonia che l’isola rientrava nelle piú antiche rotte, e negli interessi commerciali, dei Micenei. Per la sua prosperità, Stromboli doveva anche essere divenuta una preda appetibile per la pirateria se, alla metà del II millennio, i villaggi furono costretti a migrare su alture meglio difendibili.

Isole Eolie, Panarea. I resti di un altro villaggio dell’età del Bronzo, insediatosi sul promontorio del Milazzese. Formato anch’esso da capanne a pianta ovale o circolare, fu scoperto nel 1948 e scavato sistematicamente nel 1949-50.

per saperne di piÚ • Luigi Bernabò Brea, Madeleine Cavalier, Filicudi: insediamenti dell’età del bronzo, Meligunís Lipára VI, Accademia di Scienze Lettere e Arti, Palermo 1991. • Sara Tiziana Levi, Marco Bettelli, Andrea Di Renzoni, Francesca Ferranti, Maria Clara Martinelli, 3500 anni fa sotto il vulcano. La ripresa delle indagini nel villaggio protostorico di San Vincenzo a Stromboli, Rivista di Scienze Preistoriche, LXI, Firenze 2011; pp. 159-174. • Maria Clara Martinelli, Girolamo Fiorentino, Benedetta Prosdocimi, Cosimo d’Oronzo, Sara Tiziana Levi, Gabriella Mangano, Angela Stellati, Nicholas Wolff, Nuove ricerche nell’insediamento sull’istmo di Filo Braccio a Filicudi. Nota preliminare sugli scavi 2009, in Origini, vol. XXXII, Roma 2010; pp. 285-314.



giappone • le origini/1

yamato

dove ha origine il sole di Marco Meccarelli

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Le origini della civiltà giapponese, contraddistinta da una sorta di misteriosa impenetrabilità, si perdono nella notte dei tempi. Con questo primo articolo, invitiamo i nostri lettori alla scoperta di un universo culturale in massima parte sconosciuto, della sua straordinaria arte, religione e archeologia

I

n tutto l’Estremo Oriente, la civiltà giapponese è forse quella che, piú di ogni altra, ha suggestionato l’immaginario e la cultura occidentali, complici, da un lato, la condizione di estrema lontananza e, dall’altro, la profonda impenetrabilità che ha contraddistinto il Paese nel corso della storia. Eppure la sua innegabile seduzione estetica, cosí incline alla contaminazione fra tradizioni diverse, è spesso intrisa di luoghi comuni e stereotipi, che non accennano a venir meno neanche nell’era globale. A tal proposito non va sottovalutato l’approccio, talvolta ideologizzato, con cui, soprattutto nel secolo scorso, è stato plasmato un sentimento nazionalista, utile alla competizione politica internazionale, ma che ha piú volte minato la corretta valutazione dei dati emersi. Premessa fondamentale è l’originalità della storia del Giappone, che nasce però da una visione del mondo comune a

tutte le culture estremo-orientali, ovvero quel rapporto indissolubile che l’individuo, sin dalle origini, ha instaurato con la natura, visibilmente testimoniato dall’arte mediante i suoi codici stilistici, e soprattutto dal culto autoctono: lo shintoismo (vedi box a p. 72).

come una ghirlanda La conformazione geografica del territorio ha inciso notevolmente sul divenire storico, essendo il Giappone formato da un arcipelago di cui fanno parte innumerevoli isole, di cui quattro di grandi dimensioni (Honshu, Shikoku, Kyushu e Hok-

Nella pagina accanto: un esemplare di dogu, le «bambole di terra» di cui, a oggi, si ignora la destinazione (vedi box alle pp. 68-69). Jomon tardo, 1500-1000 a.C. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet. In questa pagina: il Giappone in una foto da satellite.

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giappone • le origini/1

cronologia Paleolitico 200 000 (?)-10 500 a.C. Antico, 200 000 (?)-30 000 a.C. Tardo, 30 000-10 500 a.C. Jomon 10 500-300 a.C. Incipiente, 10 500-7500 a.C. Iniziale, 7500-4000 a.C Antico, 4000-2500 a.C Medio, 2500-1500 a.C Tardo, 1500-1000 a.C Finale, 1000-300 a.C Yayoi 300 a.C.-300 d.C. Antico, 300-100 a.C. Medio,100 a.C.-100 d.C. Tardo, 100-300 d.C. Kofun 300-600 d.C. Antico, 300-400 d.C. Medio, 400-500 d.C. Tardo, 500-600 d.C.

Qui accanto: vaso in stile flamboyant. Jomon medio, 2500-1500 a.C.

In alto: strumenti in pietra dal sito di Babadan A (Miyagi). Paleolitico antico, 200 000 a.C. circa.

A destra: vaso globulare su piede, da Asahi (Aichi). Yayoi medio, 100 a.C.-100 d.C.

A sinistra: statua in terracotta di un personaggio inginocchiato, dal tumulo sepolcrale di un dignitario scavato a Yamato. VII sec.

Asuka 600-710 d.C. Nara 710-794 d.C. Heian 794-1185 d.C.

kaido), che assumono la forma di una lunga ghirlanda insulare, collocata in una vasta zona monsonica dai venti stagionali regolari. L’insidioso territorio, cosparso di montagne vulcaniche e arabile approssimativamente solo per un sesto della propria estensione, costrinse il popolo a un susseguirsi di lotte intestine, scemate solo nel momento in cui fu necessario difendere la propria terra da attacchi stranieri. È cosí che la civiltà giapponese, tra fasi di estrema apertura e chiusura verso l’esterno, ha dato i natali a una delle figure piú affascinanti e controverse della 64 a r c h e o

Le prime ricerche condotte da archeologi occidentali con metodi scientifici ebbero inizio nel XIX secolo storia: il samurai, appartenente a una casta militare che ebbe la sua effettiva consacrazione nell’epoca Kamakura (1185-1333).

unito al continente Se è vero che il contesto geografico insulare condizionò la storia del Giappone, quello pre-insulare ne «determinò» la preistoria. Il Giap-

pone, infatti, non fu sempre un’isola, ma pare fosse unito al continente asiatico, per cui le scoperte relative alla piú remota antichità vanno inserite negli schemi evolutivi dell’Eurasia. Gli studi finora effettuati hanno fornito un quadro sempre piú chiaro, ma hanno lasciato numerose ombre, anche su alcuni elementi portanti che definiscono, ancora oggi, la civiltà giapponese; per esempio, se si analizza la conformazione etnica, sembra prevalere un’unica etnia, sebbene non manchino minoranze: è il caso degli Ainu, che abitano soprattutto


sull’isola di Hokkaido. Le loro origini sono tuttora avvolte dal piú fitto mistero: pare si tratti degli antichi abitanti dell’arcipelago. Un gruppo caratterizzato da tratti somatici (e idioma) differenti da quelli dei «veri» Giapponesi: pelle chiara, folte barbe e occhi grandi. Per quel che riguarda la lingua giapponese, si può affermare che, ancora oggi, non è possibile definirne con certezza la genesi, anche perché essa è strettamente connessa con l’origine del popolo stesso: al riguardo rimangono ancora molti dubbi e spesso vengono avanzate teorie tra loro discordanti. Le piú accreditate sostengono che si tratti di una lingua australo-asiatica o uralo-altaica, comprendente, in pratica, non solo ceppi asiatici, ma anche lingue europee. Il sistema di scrittura, invece, ha adottato i cosiddetti ideogrammi cinesi, chiamandoli kanji, la cui particolare composizione grafica, priva di un alfabeto, è sostanzialmente svincolata dalla pronuncia, ma ne sono derivati anche due alfabeti sillabici, impiegati per scrivere i suoni della lingua: l’hiragana e il katakana. Un elemento preponderante dell’identità culturale e ideologica del Giappone è la peculiare tendenza all’assimilazione del modello straniero. L’arte, le tradizioni culturali e la struttura ideologica, di volta in volta attinte dalla Cina, attraverso la Corea, ma anche dal Sud-Est asiatico e, in seguito, dall’Occidente, sono profondamente rielaborate e subiscono un tale raffinamento estetico da far perdere, se non confondere, i connotati originali. Nell’architettura, si deve proprio al Giappone e alla sua tendenza a ricostruire costantemente l’antico, la possibilità di preservare nel tempo, fino ai nostri giorni, strutture e stili che altrimenti sarebbero andati perduti. È un valore aggiunto da non sottovalutare, poiché grazie al Giappone molte delle tradizioni estremoCartina del Giappone, Stato insulare composto da oltre 3000 isole.

orientali, ancora oggi visibili, ci danno una panoramica globale piú completa e comprensibile delle trasformazioni storiche che hanno investito l’intera Asia. Cerchiamo di rintracciare, allora, le origini della civiltà giapponese partendo proprio dal nome «Giappone», che è una denominazione occidentale della pronuncia cinese di come il popolo indigeno chiamava la propria terra, vale a dire Nihon o Nippon, ovvero «dove sorge il sole». Ci troviamo quindi nell’estremo avamposto orientale del mondo.

le conchiglie di Morse Gli occidentali avviano le prime indagini archeologiche condotte con criteri scientifici sulla spinta del forte interesse per l’antiquariato e per il collezionismo del XVIII e XIX secolo. L’iniziatore fu lo zoologo statunitense Edward S. Morse (1838-1925), che, nel 1877, scoprí

un deposito conchiglifero nei pressi della stazione ferroviaria di Omori (nell’area urbana di Tokyo). Questi cumuli di gusci (kaizuka) sono gli scarti del consumo di molluschi da parte di comunità preistoriche stanziate nelle zona, e nelle loro vicinanze sono stati ritrovati oggetti d’uso domestico, manufatti in pietra e ossa di animali ai quali si dava la caccia (cervi e cinghiali). Morse definí i primi reperti in ceramica rinvenuti in questa zona «decorati a corda», ovvero jomon, termine con cui, ancora oggi, viene classificato un lunghissimo periodo, approssimativamente databile tra il 10 000 e il 300 a.C. È stato inoltre documentato il perdurare di tradizioni Jomon addirittura fino al VII secolo d.C., per lo meno nelle regioni piú settentrionali del Giappone (Hokkaido ed estremità settentrionale di Honshu). Assieme a Morse, altri archeologi Stretto La Pérouse

CINA RUSSIA

Asahikawa

Hokkaido Sapporo

Kushiro

Aomori

COREA DEL NORD

Mare del Giappone

Akita

Yamagata Niigata

Morioka

Sendai Fukushima

Honshu

Iwaki Nagano Kanazawa Hitachi Utsunomiya Saitama Fukui Tokyo Chiba Matsue Gifu Tottori Nagoya Fuji Stretto Kyoto Yokohama Kobe di Corea Shizuoka Hiroshima Tsushima Osaka Hamamatsu Fukuyama Kitakyushu Fukuoka S h i k o k u Tokushima

COREA DEL SUD

Nagasaki

Oita Kumamoto

Kyushu

Kochi

Oceano Pacifico

Miyazaki Kagoshima

N 0

320 Km

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giappone • le origini/1

i primi samurai ? Gli Ainu (propriamente «uomini»), comprendono oggi poche migliaia d’individui dislocati nell’isola di Hokkaido in Giappone, nella vicina e contesa Sahalin, oggi territorio russo, e nelle Isole Curili, sottratte al Giappone dall’URSS dopo la seconda guerra mondiale. Almeno fino ai primi decenni del secolo scorso, erano caratterizzati da una società a struttura tribale. Secondo alcuni antropologi gli Ainu conservano caratteri pre-europoidi e per altri solo europoidi, ma appartenenti alle piú antiche genti paleosiberiane. Per molti studiosi la loro lingua è affine all’indoeuropeo, mentre altri negano l’esistenza di elementi comuni. È stato anche ipotizzato che gli Ainu fossero gli antichi occupanti dell’arcipelago, respinti nelle zone piú marginali, tra il X e il V secolo a.C., da invasori stranieri. Controversi e recenti studi sostengono che gli Ainu presentino forti somiglianze con i piú antichi scheletri rinvenuti in America, mentre l’antropologo statunitense C. Loring Brace ipotizza che da loro discendano i samurai.

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occidentali, come per esempio Heinrich von Siebold (1852-1908) e Neil G. Munro (1863-1942), adottarono un approccio metodologico basato prevalentemente sulla correlazione delle tarde fonti storiche giapponesi – quali le Memorie degli antichi eventi (Kojiki) del 712 d.C. e le Cronache (o Annali) del Giappone (Nihon shoki) del 720 d.C. – con i reperti rinvenuti durante le campagne di scavo. Gli studi iniziali acquisirono quindi un carattere di stampo etno-storico-antropologico, sollecitato anche dalla coeva ideologia imperiale del periodo Meiji (1868-1912) che considerava come veritieri i mitici albori della «razza Yamato», epiteto con cui viene definito il primo Stato della storia giapponese. Fu cosí stabilito che le origini del Sol Levante sfumassero nelle nebbie della leggenda: nel 660 a.C., il primo imperatore, Jimmu, considerato diretto discendente della dea del sole Amaterasu, avrebbe conquistato l’arcipelago giapponese, sottomettendo gli originari abitanti. Secondo la leggenda, i reperti Jomon fu-

rono interpretati come le vestigia dell’antica razza pre-giapponese, inserita in una vaga «età della Pietra» e riferibile agli Ainu o ai loro mitologici antenati, i Korobbokuru.

nuove cronologie Nell’abbandonare i favolosi racconti della fondazione divina e nel proporre un quadro piú preciso del lunghissimo periodo preistorico, gli studiosi giapponesi tendono a evitare terminologie comparative, come Mesolitico e Neolitico. Basandosi sull’evoluzione della ceramica, essi prediligono una cronologia relativa alle classificazioni vascolari. Il periodo Jomon, per esempio, è stato definito anche come «periodo Omori», dal nome del sito di Tokyo in cui questa cultura venne identificata per la prima volta. La cautela nell’adottare una datazione assoluta, peraltro non del tutto attendibile secondo recenti determinazioni radiometriche, deriva anche dalla straordinarietà dei reperti che si riferiscono alla piú antica produzione di ceramica al mondo: a essere precisi, la sua invenzione


In basso: vaso in terracotta laccata con beccuccio, da Korekawa (Aomori). Jomon finale, 1000-300 a.C. Hachinohe, City Education Commission.

decorare con le corde Il nome «Jomon», che significa «decorato a corda», deriva dai motivi impressi a corda su vasi e oggetti fittili, che sembrano essere stati ottenuti schiacciando sull’argilla ancora fresca corde di fibra vegetale o stuoie. Fabbricati a mano e cotti in buche all’aperto, i vasi avevano di solito pareti spesse, dalle forme piú disparate. Originali sono quelli definiti «a fiamma» per la forma degli aggetti della bocca, che presentano una fitta decorazione comprendente la superficie senza lasciare il minimo spazio vuoto. Nessun esempio tipologicamente analogo, databile allo stesso periodo (III-I millennio a.C.), è stato mai rinvenuto nel continente euroasiatico. In alto, a sinistra: contenitore in terracotta con decorazioni impresse, da Omotedate (Aomori). Jomon incipiente, 10 500-7500 a.C. Aomori, Prefectural Museum. In alto, al centro: giara a base piatta con orlo riccamente decorato. Jomon medio, 2000 a.C. circa. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet. Nella pagina accanto: un gruppo di Ainu, in una fotografia del 1905.

nell’arcipelago giapponese sembra sia avvenuta in forma indipendente. Scavi condotti negli anni Sessanta a Fukui (Kyushu) hanno, infatti, dimostrato che la piú antica ceramica giapponese risale almeno all’11 000 a.C.; l’utilizzazione su vasta scala di manufatti fittili sarebbe tuttavia iniziata diverse migliaia di anni piú tardi. Un impiego corrente del vasellame sembra inoltre essersi diffuso solo gradualmente da sud a nord, ma quello decorato rappresenta ancora oggi una delle piú alte espressioni

dell’arte preistorica (è il caso delle ceramiche flamboyant del Honshu centrale datate al periodo medio, 3000-2000 a.C., e della ceramica Kamegaoka, rivestita di lacca rossa del Tohoku, che risale al Jomon finale, 1000-300 a.C.).

una società complessa L’abbondanza di manufatti fittili ha permesso di rilevare una complessa trama di relazioni tipologiche: circa 70 stili ceramici (yoshiki) e un gran numero di tipi locali (keishiki), che coprono l’intero Giappone. Nonostante le rilevanti variazioni regionali e temporali, si può sostenere che, in linea di massima, la cultura Jomon fu caratterizzata da una società sedentaria, dalla notevole complessità culturale, raggiunta però sulle basi di un’economia di caccia, pesca e raccolta, equiparata alle culture siberiane che gli archeologi russi definiscono «neolitiche».

I gruppi Jomon non sembrano aver mai adottato pienamente l’agricoltura, anche se sono state formulate molte teorie sulla presenza di coltivazioni. Al di là delle ipotesi, è certo che le principali attestazioni per le fonti di sussistenza si riferiscono, per la fase inziale (7500-4000 a.C. circa), a pesi per reti da pesca e arponi, cosí come, per l’ultima fase del periodo (II millennio a.C.), a una diga di sbarramento per pesci, individuata in un antico letto fluviale nel sito di Shidanai (Prefettura di Iwate). Particolarmente interessante è il piú vasto sito Jomon a tutt’oggi noto, il Sannai Maruyama (Aomori) del 3500-2000 a.C., che, scoperto nel 1992, rappresenta forse, a livello mondiale, uno dei picchi massimi della scala evolutiva socioculturale mai raggiunto da gruppi di cacciatori-raccoglitori. Oggetto di studio sono i cosiddetti «circoli di pietre», comuni nel Giappone orientale delle ultime fasi del a r c h e o 67


giappone • le origini/1 A sinistra: una dogu raffigurante un personaggio di sesso maschile. Jomon finale, 350 a.C. Collezione privata. Nella pagina accanto: una dogu in forma di testa, da Shidanai (Iwate). Jomon tardo, 1500-1000 a.C. Morioka City, Iwate Prefectural Museum. In basso: la dogu con gli «occhiali da neve». Jomon finale, 1000-300 a.C. Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

BAMBOLE MISTERIOSE Usato per la prima volta nel 1623, il termine dogu significa «bambole di terra» e si riferisce alle statuette in argilla che, dalla fine del Jomon iniziale (4000 a.C. circa), furono probabilmente collegate al senso religioso dell’epoca. Rappresentano animali o figure antropomorfe, generalmente femminili, dai fianchi e seni esagerati, con occhi rotondi e cerchiati.

68 a r c h e o

Le prime dogu risultano tozze e spesso prive degli arti superiori. Con il tempo l’aspetto si evolve, compare la testa a forma di cuore e il corpo assume una fisionomia cruciforme, mentre le decorazioni consistono generalmente in semplici incisioni che evidenziano la zona del ventre. Sono state ritrovate diverse varianti regionali e risulta assai misteriosa la loro funzione effettiva

nel contesto sociale del periodo: poiché le satatuine sono state ritrovate in frammenti o rotte, tra i depositi preistorici, molti archeologi sostengono che fossero talismani e che venissero frantumate e gettate via a scopo propiziatorio. Similmente altri studiosi sostengono che fossero precisamente «bambole della medicina», a cui venivano sezionate le parti corrispondenti alla


periodo Jomon, che comprendono vasti cerchi di ciottoli di Con l’avvento fiume e pavimenti di pietra della cultura Yayoi di dimensioni minori, talvolta contrasnell’arcipelago si segnati da monoliti diffondono la risicoltura levigati o scolpiti. Alcuni studiosi li e la metallurgia classificano come manifestazioni primitive del bronzo dell’adorazione della pietra e del sole, altri invece coe del ferro me luoghi di sepoltura.

alieni con gli occhiali La fase Jomon è famosa soprattutto per la sorprendente varietà di manufatti, strutture e tratti rituali, che trova nelle statuette fittili, dette dogu, forse la massima espressione. Rappresentando figure umane, perlopiú femminili, e animali, in sintesi naturalistiche o particolarmente stilizzate, le statuette appaiono sia nude, sia ricoperte di fitti disegni, che sembrano rievocare vestiti, monili o tatuaggi. Alcuni esemplari hanno la testa sormontata da imponenti acconciature; altre, invece, hanno grandi occhi tondeggianti o apparenti «occhiali da neve», con tagli incisi sulle montature, capaci di scatenare la fantasia di diversi studiosi, che le hanno identificate come immagini di esseri extraterrestri in scafandri e tute! Al di là di ipotesi a dir poco bizzarre, gli studi e le analisi effettuati su crani e resti scheletrici,

zona malata, essendo solitamente mancanti di una porzione specifica. Altri ancora sostengono invece che le dogu fossero divinità femminili tutelari della fecondità della terra, in concomitanza con il coevo sviluppo dell’agricoltura. Vi è infine un’ipotesi secondo la quale potrebbero essere stati oggetti del corredo funerario o semplici giocattoli per bambini.

rinvenuti in alcune necropoli Jomon, hanno evidenziato considerevoli affinità con i gruppi protomongolidi della Cina meridionale e del Sud-Est asiatico e con gli Ainu di Hokkaido e Sahalin. Da recenti analisi del DNA mitocondriale, inoltre, emergono stretti legami con alcune popolazioni moderne del Sud-Est asiatico. Una cosa è certa: gli scheletri presentano tratti piuttosto diversi da quelli del successivo periodo Yayoi (300 a.C.-300 d.C. circa), a suggerire un consistente tasso di immigrazione in Giappone alla fine del periodo Jomon, tanto da assumere proprio i connotati di un’invasione straniera. Il prosieguo degli scavi archeologici portò, infatti, all’identificazione della cultura Yayoi, che prende il nome da un quartiere di Tokyo dove, nel 1884, fu rinvenuto un tipo di ceramica diverso da quella Jomon. A questo periodo vanno fatte risalire le fondamenta della civiltà giapponese, come attesta la coltivazione del riso, integrata dalla metallurgia del bronzo e del ferro e da crescenti contatti instaurati con la Cina e la Corea, in un processo che deve avere implicato anche lo stanziamento, se non l’urto, di gruppi di immigranti. Gli insediamenti vennero infatti cinti da fossati difensivi e le punte di freccia si fecero particolarmente abbondanti. In questa fase si registrano gli effettivi processi di a r c h e o 69


giappone • le origini/1

crescita della complessità sociale del Giappone pre- e protostorico. L’adozione della risicoltura fu accompagnata da considerevoli innovazioni tecnologiche: i vasi mutarono nelle forme e nelle decorazioni, forse per rispondere alle esigenze dei coltivatori di riso, come attesta la diffusione di giare d’immagazzinamento (tsubo), vasi da cottura (kame), piatti da portata (hachi) e piatti su piedistallo (takatsuki).

la tessitura e le armi Alla cultura Yayoi va fatta risalire, inoltre, l’introduzione della tessitura, che aveva in Cina una lunga tradizione (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013), come testimoniano i rinvenimenti di numerose fusaiole di ceramica o pietra. Non mancano lance, alabarde, spade, specchi e campane di bronzo, che i metallurghi locali adattarono ai gusti e alle esigenze del posto: le armi vennero ingrandite e allargate, gli specchi 70 a r c h e o

In alto: una veduta del Parco Archeologico di Yashinogari, nel quale è stato ricostruito un villaggio tipico dell’epoca Yayoi, basandosi sui ritrovamenti effettuati nella zona. Qui accanto: un dotaku, oggetto in bronzo a forma di campana, forse utilizzato come dono propiziatorio, da Sakuragaoka (Hyogo). Yayoi medio, 100 a.C-100 d.C. Kobe, City Museum.


CAMPANE E SPECCHI Nel periodo Yayoi si diffondono particolari oggetti in bronzo a forma di campana (dotaku), ritrovati generalmente raggruppati sotto terra, ma assenti nelle tombe. Si è ipotizzato che fossero doni a uno spirito della terra per propiziare il raccolto. La forma è tronco-conica ed è simile a una U rovesciata, mentre le decorazioni sono essenzialmente riferite a scene di vita dei cacciatori, forme geometriche o sinusoidali, case, baracche, agricoltori al lavoro. Alcuni studiosi hanno evidenziato forti analogie con i tamburi in bronzo del Sud-Ovest della Cina, della Birmania e dell’Indonesia. Ma le pareti, spesso forate, ne pregiudicano l’uso come strumenti musicali. Gli specchi, rinvenuti in Cina almeno dall’epoca Shang (XVI-XI secolo a.C.; vedi «Archeo» n. 337, marzo 2013), presentano un lato lucido e uno decorato. Si ipotizza che siano giunti in Giappone durante il periodo Yayoi, e furono utilizzati sia come dono che come tributo. Secondo le leggende giapponesi, la dea del sole Amaterasu donò al nipote Ninigi uno specchio, una spada e un gioiello, simboli dell’investitura imperiale. Lo specchio assume quindi un valore rituale e viene indicato come la personificazione del sole: la dea Amaterasu, infatti, sarebbe nata da uno specchio tenuto dalla mano sinistra di Izanagi, mentre il dio della luna, Susanoo, dalla mano destra.

Specchio in bronzo di produzione cinese, da Futatsukayama (Saga). Età degli Han Occidentali, I sec. a.C. Saga, Prefectural Museum.

a r c h e o 71


giappone • le origini/1

una religione semplice ed efficace Lo shintoismo (da shinto, «via dei kami») rappresenta il culto autoctono giapponese e racchiude un insieme di rituali e metodi che fanno riferimento alla mediazione tra gli esseri umani e i kami, entità spirituali che infondono tutti gli elementi presenti nel mondo fenomenico e possono rappresentare talora uno specifico oggetto o un evento naturale. Comprende il culto di adorazione della dea Amaterasu (la dea del sole) che la tradizione considera la mitica antenata diretta dell’imperatore. Lo shintoismo può essere considerato una sorta di animismo, ma la presenza di una mitologia ben definita lo ricollega anche a un culto politeista dai forti connotati sciamanici. Queste peculiarità conferiscono allo shintoismo quel carattere di completezza semplice ed efficace che gli consente di sopravvivere ancora oggi. Le pratiche si sono originate organicamente in Giappone nel corso di molti secoli e sono state influenzate dal contatto con i culti stranieri, soprattutto cinesi. Nella stessa maniera lo shintoismo ha avuto, e continua ad avere, un’influenza dominante sulla pratica di altri culti in Giappone. Il buddhismo e lo shintoismo, infatti, hanno esercitato una profonda influenza l’uno sull’altro, per tutta la storia del Paese nipponico.

divennero piú piccoli e le campane molto piú grandi. I misteriosi oggetti a forma di campana, detti dotaku, rappresentano un notevole traguardo nella locale lavorazione del bronzo, con scene decorate a motivi geometrici e naturalistici. Rispetto al passato, si perde progressivamente l’ornamentazione impressa e a rilievo di forte effetto plastico del periodo Jomon. Suggestivi dati sulla fase tarda provengono dalla Cronaca degli Wei (Weizhi), un testo cinese redatto 72 a r c h e o

intorno al 297 d.C. e riferibile a un ma gestivano mercati formalmente regno della Cina settentrionale (ve- autorizzati e regolamentati. di «Archeo» n. 343, settembre 2013). Ma la fase Yayoi rimane ancora oggi controversa sotto molti aspetti, soprattutto per quanto concerne lo donne al comando Vi si narra che le genti dell’arcipela- spostamento di gruppi continentali go giapponese, chiamate wa, aveva- verso l’arcipelago, perché va a intacno «capi-sciamani» di sesso femmi- care l’origine stessa della civiltà giapnile, all’interno di una gerarchia ponese. Alcuni studiosi, infatti, sosociale segnata da conflitti endemici stengono che le popolazioni cinesi e sistemi «legali» e di tassazione. Se- abbiano soppiantato quelle preesicondo le fonti cinesi, gli wa coltiva- stenti, altri, invece, fanno riferimento vano il riso, allevavano bachi da seta, a popoli coreani o mongolici provenon possedevano animali domestici, nienti dalla Corea, e c’è chi appoggia


LA SCRITTURA

A sinistra: l’evoluzione del sistema di scrittura denominato hiragana, che si basa su caratteri corrispondenti a intere sillabe. In basso: un sillabario katakana, che si distingue dall’hiragana, per le forme dei caratteri, piú rigide e spigolose.

La scrittura è suddivisa in kanji, hiragana e katakana. I primi sono i cosiddetti ideogrammi cinesi, che non si riferiscono a un alfabeto. L’hiragana, invece, comprende simboli sillabici, utili nella scrittura della pronuncia di kanji poco comuni, usati per scrivere le desinenze di verbi, aggettivi e qualunque parola non abbia il proprio kanji. Il katakana è utilizzato comunemente per trascrivere le parole di origine non giapponese, per i nomi scientifici di piante e animali, per la trascrizione dei suoni e per dare enfasi ad alcune parole.

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Nella pagina accanto: il santuario shintoista di Kameido nel quartiere di Koto, a Tokyo, in una xilografia a colori di Ando Hiroshige. 1840. Treviri, Universität, Graphische Sammlung. A destra: vasetto in ceramica dipinta. Yayoi tardo, 100-300 d.C.

la teoria dell’integrazione multietnica tra genti autoctone e straniere. Qualora si accetti l’ipotesi di correnti migratorie limitate, non si può tuttavia negare il considerevole apporto di nuove idee in territori per lunghissimo tempo occupati da gruppi di cacciatori-raccoglitori. Altre domande rimangono al momento insolute, prima fra tutte la necessità di trovare conferma, a livello archeologico,

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dell’esistenza di uno Stato socialmente avanzato, cosí come descritto nelle fonti storiche cinesi. Pur formulando considerazioni da prendere sempre con cautela, tali testimonianze scritte riportano comunque quanto venne visto o ascoltato, allora, da una prospettiva cinese. Al momento queste ipotesi, come molte altre, non hanno un riscontro certo, ma non vi è dubbio sull’importanza del periodoYayoi, in cui si forma la prima comunità stabile di agricoltori: è la premessa al seguente megalitismo funerario della civiltà Kofun (o delle «Grandi Tombe»; 300-600 d.C. circa), con cui viene attestato l’ingresso definitivo nella storia. Nasce il primo Stato giapponese, quello Yamato. (1 – continua) a r c h e o 73


mitologia • istruzioni per l’uso/9

fragilità di un «numero due» di Daniele F. Maras

Leale, onesto, valoroso: un eroe dal «curriculum» di tutto rispetto, sempre pronto a servire la patria e a difendere i compagni. Ma la gloria di Aiace fu offuscata dall’ombra di Achille. e l’invidia degli altri guerrieri achei diede il colpo di grazia alla sua capacità di sopportare

74 a r c h e o


I

n questa nostra rassegna degli eroi omerici, è ora la volta di colui che veniva riconosciuto come il secondo piú grande guerriero dopo Achille, il solo che riuscisse in qualche modo a competere con lui in forza e coraggio. Ma vedremo che questa fama, pur meritata, non bastò a garantirgli una vita di fortuna e gloria. Aiace era figlio di Telamone, re dell’isola di Salamina: il soprannome di «grande» (o anche «maggiore») gli fu dato in seguito, ai tempi della guerra di Troia, per distinguerlo da

un omonimo guerriero acheo figlio di Oileo, ricordato per la sua empietà e per le azioni poco onorevoli; ma quanto a imprese eroiche il figlio di Telamone era grande davvero!

ercole come tutore Da questo punto di vista poteva essere considerato un figlio d’arte, dal momento che anche il padre, ai suoi tempi, aveva preso parte ad azioni epiche, come la caccia al cinghiale calidonio e la spedizione degli Argonauti. In quest’ultima occasione Telamone strinse amicizia con

Ercole, al punto da chiedergli, per cosí dire, di tenere a battesimo il figlio Aiace: il semidio non si fece pregare e, avvolgendo il neonato nella pelle del leone nemeo, pregò il padre Zeus di concedere al piccolo Aiace l’invulnerabilità. La richiesta fu accolta, ma, com’era avvenuto per Achille, il destino era in agguato: alcune parti del corpo, presso la spalla, l’ascella e l’anca, rimasero scoperte, a causa dei fori praticati da Ercole nella leontè per farvi passare la faretra, e perciò non furono protette dall’incantesimo.

Frammento di un altare in terracotta decorato da un rilievo che raffigura il suicidio di Aiace, forse da Gela. 530 a.C. circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. L’eroe si tolse la vita convinto di aver subito torti imperdonabili da parte degli altri capi achei.

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mitologia• istruzioni per l’uso/9

Aiace crebbe comunque forte come un toro e, a differenza di molti altri eroi, conservò un carattere leale e taciturno, dedicandosi al proprio lavoro piuttosto che a spargere parole al vento e a litigare con i compagni d’arme. Queste qualità, assieme al profondo rispetto per gli dèi dimostrato in varie occasioni, gli valsero la protezione divina e una posizione di gran rilievo nell’esercito dei Greci che si apprestava a muovere verso Troia. Come la maggior parte dei re e dei principi della sua generazione, Aiace aveva chiesto la mano di Elena, che era sí figlia di Zeus, ma aveva Tindaro, il sovrano di Sparta, come padre putativo: quest’ultimo, per evitare che la contesa per la bella fanciulla degenerasse in una strage, decretò che Elena stessa avrebbe scelto il proprio futuro marito e che tutti gli altri pretendenti avrebbero dovuto giurare di difendere in futuro l’onore della coppia. Per questo motivo, quando Elena fuggí con Paride a Troia per volontà di Afrodite, tutti i piú grandi eroi

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furono chiamati a mantenere il proprio giuramento. Ma mentre Achille, Ulisse e altri famosi guerrieri cercavano di sfuggire alla leva, Aiace si distinse per essere il primo a raggiungere il punto di adunanza della spedizione, presso Argo, con una flotta di dodici navi. Anche per questo, nonostante Salamina avesse inviato un contingente relativamente modesto rispetto ad altri regni, il nostro eroe fu posto a capo della flotta alla pari di Achille e Fenice e piú tardi, quando le intemperanze religiose fecero allontanare Agamennone dal comando, ne prese le veci senza mai approfittare della propria posizione per fini personali.

sempre in prima fila Aiace fu sempre in prima fila tra i combattenti, contando sui propri muscoli prodigiosi per vincere gli scontri: amava infatti ostentare la propria forza e scagliare enormi macigni contro gli avversari, dopo aver fatto ricorso alla piú tradizionale lancia. Celebri a questo proposito sono i suoi duelli con Ettore, il

campione dell’esercito troiano, che per ben due volte venne messo alle corde da Aiace. La prima volta fu lo stesso Ettore a chiedere lo scontro, presentandosi da solo di fronte alle porte di Troia, domandando a gran voce chi tra i nemici intendesse sfidarlo. Gli Achei, sgomenti per la defezione di Achille, che a quel tempo si era ritirato dalla mischia, non osavano affrontare il principe troiano, il quale, dopo una serie ininterrotta di successi, sembrava godere del favore degli dèi immortali. Solo Menelao si alzò e, insultando malamente i compagni, si disse disposto ad accettare lo scontro, benché non fosse certamente il piú forte degli Achei! Lo trattennero dal suo folle proposito il fratello Agamennone e gli altri re, mentre Nestore arringava gli assedianti, fino a convincere ben nove guerrieri a rispondere alla sfida, tra i quali eroi del calibro di Diomede, Ulisse e lo stesso Agamennone. Tra tutti venne estratto il nome di Aiace Telamonio, che si preparò alla battaglia.


Il principe di Salamina, dice Ome- In alto: particolare della decorazione ro, avanzò sul campo simile a una di un hydria (vaso per acqua) a figure torre, protetto dal suo scudo com- nere con Achille e Aiace che giocano posto da sette strati di cuoio rivesti- a dadi. Pittore di Eufileto, 520-510 a.C. ti da una lamina di bronzo. Ettore Parigi, Museo del Louvre. scagliò per primo la sua lancia, che Nella pagina accanto: il duello tra trapassò ben sei degli strati di pelle, Ettore e Aiace su una coppa a figure ma si fermò di fronte all’ultimo; al rosse, da Capua. Opera del pittore contrario, la lancia di Aiace superò Duride e del ceramista Calliade, facilmente la barriera dello scudo 490-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre. del principe troiano e ne trapassò perfino la corazza, mancando il tro lo scudo di Ettore, mandandolo fianco per un soffio. in frantumi e costringendo il nemico in ginocchio. E già i due contendenti avevano messo mano alle spade la notte per la fase finale del duello, quando ferma il duello E anche in seguito i colpi di Ettore gli araldi dei due eserciti, Ideo e Talfurono fermati dall’armatura dell’av- tibio, posero fine allo scontro per il versario, mentre quelli di Aiace an- sopraggiungere della notte, che sedavano a segno, come in uno scontro gnava per comune accordo la fine di pugilato alla maniera antica: basa- delle ostilità. Ettore e Aiace si sepato su forza e resistenza piuttosto che rarono cavallerescamente, con onore, su tecnica e agilità. Solo la sua buona scambiandosi doni degni di eroi: una stella salvò l’eroe troiano da una fine spada borchiata d’argento dal primo, dolorosa. Aiace, infatti, venendo or- una fascia di porpora splendente dal mai allo scontro ravvicinato, sollevò secondo. E la conclusione del duello un grande macigno e lo scagliò con- fu rinviata a una nuova occasione.

In seguito, però, il rispetto reciproco tra Aiace ed Ettore si mutò in timore e piú volte Omero accenna al fatto che i due eroi mantenevano le distanze, evitando lo scontro diretto, ben sapendo che avrebbe potuto essere fatale a uno dei due. E se era piú spesso il principe troiano a scegliere di combattere sui fronti piú lontani dal pericoloso eroe di Salamina, nel libro XI dell’Iliade è proprio Aiace che, venuto a sapere dell’avanzata vittoriosa di Ettore, viene preso dallo sgomento (scagliato su di lui dallo stesso Zeus, dice Omero) e ripiega verso le navi greche. Nonostante tutto, lo scontro tanto paventato ebbe finalmente luogo, nel bel mezzo di una mischia furibonda, mentre gli stessi dèi approfittavano del sonno del padre Zeus per scatenare la battaglia: Ettore e Aiace si trovarono faccia a faccia senza preavviso, presi entrambi alla sprovvista, ma pronti a concludere la sfida a lungo rimandata. a r c h e o 77


mitologia• istruzioni per l’uso/9

Il primo a colpire fu il troiano, che in modo forse poco onorevole non perse tempo in convenevoli e scagliò la lancia dritta al cuore del nemico; ma non fu fortunato, poiché prese in pieno le cinghie che trattenevano scudo e spada, incrociate sul petto di Aiace. Vedendo illeso il nemico, che ormai dava per spacciato, Ettore imprecò contro la sorte e si ritirò in fretta dietro le fila troiane; ma non fu abbastanza veloce perché Aiace, sdegnato del colpo vigliacco, raccolse una pietra e la scagliò contro il nemico, abbattendolo. E certo gli Achei ne avrebbero avuto presto ragione, se non fossero intervenuti molti altri guerrieri troiani a proteggere la ritirata di Ettore, che fu riportato in barella dentro le mura.

alla pari con ulisse Ma la fortuna di Aiace si fermò qui. Già Omero ricorda come, durante i giochi organizzati per celebrare il funerale di Patroclo, il principe di Salamina non riuscí a vincere in nessuna delle specialità nelle quali si era cimentato. Contro Ulisse finí in pareggio la prova di lotta, grazie all’astuzia dell’avversario, il quale, non potendo competere sulla forza, sopperí con espedienti «tecnici», fino a concludere con un nulla di fatto e un pari merito forzato. E piú o meno in parità si concluse anche lo scontro alla lancia contro il feroce Diomede: si trattava di un duello al primo sangue, ma nessuno dei due riuscí a ferire l’avversario, anche se in piú di un’occasione il nostro eroe rischiò la vita, al punto che il pubblico si frappose chiedendo d’interrompere la lotta, per paura di perdere il proprio beniamino. Ancora una volta, però, Aiace si dimostrò campione di correttezza e chiese che il premio fosse consegnato al suo avversario. Infine il secondo posto toccò ad Aiace anche nel lancio del disco, disciplina nella quale fu surclassato dal tessalo Polipete. Ma se l’eroe era disposto ad accettare la sconfitta quando capitava, mal tollerava inve78 a r c h e o


ce le ingiustizie; e nel seguito della vicenda si trovò piú d’una volta a subire offese che non meritava, fino a non poterle piú sopportare. Abbiamo già avuto modo di parlare del poema epico intitolato Etiopide, che costituiva il seguito dell’Iliade di Omero: oltre a narrare l’apice della gloria e la caduta di Achille (vedi «Archeo» n. 344, ottobre 2013), il poema raccontava il parallelo declino delle sorti di Aiace. Il destino dei due eroi, infatti, era in qualche modo legato. Celebre è l’immagine in cui sono impegnati a giocare a dadi, immortalata dal fregio di

Meditando la fine A sinistra e in alto: veduta frontale e posteriore della scultura nota come Torso del Belvedere e che, accogliendo l’ipotesi sostenuta da Raimund Wünsche, viene oggi identificata con un ritratto di Aiace che medita il suicidio. Copia di età augustea firmata dallo scultore ateniese Apollonio, figlio di Nestore, da un originale bronzeo della prima metà del II sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino. A destra: il suicidio di Aiace in una versione offerta da un bronzetto etrusco. 480-470 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

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mitologia• istruzioni per l’uso/9

un’anfora a figure nere del maestro attico Exechias, a simboleggiare l’eterna sfida dei due rivali, che portarono fino alla fine un grande rispetto l’uno per l’altro. Alla morte di Achille, proprio Aiace rincuorò i compagni e impedí la disfatta; anzi, si caricò sulle spalle il corpo del figlio di Teti, appesantito dalla splendida armatura fabbricata da Efesto, e lo portò al sicuro al campo degli Achei, incurante dei dardi nemici. Dopo questa impresa, che coronava una carriera di tutto rispetto nelle fila dell’esercito greco, Aiace si sarebbe aspettato onori e ricompense, ma fu purtroppo costretto a ricredersi.

una fiducia mal riposta L’impatto con l’ingratitudine umana per l’eroe di Salamina arrivò con la contesa per le armi di Achille, che lui stesso aveva salvato dal saccheggio: Aiace le considerava già sue, ma Agamennone gli ordinò di consegnarle perché si decidesse chi era il piú valoroso degli Achei, al quale per volere di Teti andavano donate. Aiace le consegnò fiducioso, sicuro di meritare il titolo dopo la scomparsa di Achille, ma non aveva fatto i conti con la scaltrezza di Ulisse, che si era messo d’accordo con Agamennone per ottenere l’ambíto premio. La cosa mandò su tutte le furie l’incredulo Aiace, che si allontanò minacciando vendetta. Non è ben chiaro se la contesa avvenne prima o dopo la presa di Troia, ma sta di fatto che alcune versioni vogliono che Aiace fu offeso anche dall’opposizione dei capi achei alla condanna a morte di Elena, che egli caldeggiava per aver causato la guerra. La goccia che fece traboccare il vaso fu però il rifiuto di Ulisse e Diomede di consegnargli il Palladio (la preziosa statua di Atena che simboleggiava il piú sacro bottino di Troia) a parziale risarcimento per la mancata consegna delle armi. Nella notte che seguí alle offese patite, Aiace fu preso da una rabbia incontrollabile, che esplose dopo 80 a r c h e o

della notte scannando gli animali inermi, mentre li chiamava con i nomi di Ulisse, Diomede, Agamennone e degli altri guerrieri achei. Ma alla fine tornò in sé e si rese conto di cosa aveva fatto.

Un’altra versione del suicidio di Aiace, raffigurato su una lekythos (bottiglia per profumi) a figure rosse. 475-425 a.C. Basilea, Antikenmuseum und Sammlung Ludwig.

dal sangue un giacinto Sopraffatto dalla vergogna, che si aggiunse alla disperazione per l’ingratitudine degli Achei, Aiace non attese che i compagni si svegliassero, temendo che lo avrebbero deriso, e si gettò sulla propria spada togliendosi la vita, dopo che tanti avevano provato invano a sconfiggerlo in battaglia. Dalla terra intrisa del suo sangue spuntò un fiore di giacinto e gli dèi, sdegnati dalla fine ingloriosa del grande eroe, concepirono il desiderio di perseguitare i responsabili durante il ritorno in patria. Aiace fu sepolto sulle sponde del promontorio Reteo, antistante a Troia, e la leggenda narra che gli immortali, come ultimo omaggio, fecero galleggiare fin lí miracolosamente le famose armi di Achille, dopo che una tempesta aveva fatto naufragare la nave di Ulisse che le trasportava. Tra le rappresentazioni dell’eroe giunte fino a noi dall’antichità, la piú famosa e al contempo la piú controversa è probabilmente il cosiddetto Torso del Belvedere: opera di Apollonios, un artista neoattico del I secolo a.C., ma probabilmente replica di un originale piú antico. Secondo la ricostruzione di Raimund Wünsche, l’eroe sarebbe raffigurato nel momento che precede il suicidio, mentre medita tristemente sul suo destino infausto, tenendo nella destra la spada con la quale di lí a poco si sarebbe tolto la vita. Anche nell’arte, pertanto, dopo innumerevoli gesta gloriose, si considerò degna di ricordo soprattutto la fragilità umana di Aiace, che non seppe sconfiggere il suo ultimo nemico: l’ingratitudine.

anni di obbedienza e lealtà: il taciturno guerriero meditò in cuor suo di vendicarsi della mancanza di rispetto di quelli che un tempo aveva considerato suoi compagni. Ma che fosse per volontà degli dèi o perché la sua mente non resse all’improvvisa furia che non apparteneva alla sua natura, Aiace uscí letteralmente di senno e, sguainata la spada, si gettò nel recinto delle pecore (allevate presso il campo per nutrire l’esercito acheo), scambian- nella prossima puntata dole per i suoi compagni d’arme. L’eroe trascorse cosí buona parte • Atalanta, la grande cacciatrice



speciale • disegno di progetto

nella mente Dell’architETTO

di Flavio Russo

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su una stele di basalto compare la piú antica raffigurazione della torre di Babele: È uno dei numerosi esempi di come, sin dal passato piú remoto, per costruire si faceva ricorso a planimetrie, prospetti e sezioni

L

e attuali convenzioni grafiche vogliono che ogni oggetto possa essere rappresentato con tre proiezioni: una pianta, un prospetto laterale e un prospetto frontale. Tre disegni perpendicolari ai tre assi ideali dello spazio, che, per la loro costante proporzione con la realtà, propriamente detta «scala», assurgono a linguaggio universale ovunque compreso, senza interpreti o dizionari. Un linguaggio che è rimasto immutato fin dagli albori della storia, cosí che il testo cuneiforme iscritto su una tavoletta nel IV millennio a.C. può essere decifrato solo dagli specialisti e in modo piú o meno soggettivo, mentre chiunque è in grado di comprendere una pianta della stessa epoca, che potrebbe persino essere realizzata! Al pari della scrittura, tuttavia, quel disegno una volta definito consentí e supportò l’evoluzione tecnologica, premessa della nostra società, rendendo possibili, come la scrittura, la registrazione delle idee e la loro circolazione. La sua adozione, in pratica, sostituí la raffigurazione per somiglianza di sagoma con la rappresentazione in scala. E se nella prima, fin dalla preistoria, la fedeltà di quanto raffigurato con quanto esistente fu subordinata alle capacità individuali, nella seconda l’aderenza di ciò che veniva rappresentato fu subordinata soltanto alla rigida proporzione tra ciò che esisteva, vale a dire il rilievo, o ciò che veniva previsto, cioè il progetto.

rappresentare e prevedere Presupposto inevitabile perché un progetto possa essere elaborato – percepito come bidimensionale e istintivamente ottenuto schiacciando l’immagine su un piano virtuale – è l’individuazione di una coppia ortogonale di rette sulle quali riportare le misure, un incrocio di assi attribuito a Cartesio, ma ampiamente presente in natura. La superficie dell’acqua ne è l’ascissa, la fune a cui è appeso un sasso l’ordinata e il piano che, sia pure virtualmente, le due direttrici delimitano – se materializzato da una lastra – permette in base al rapporto prescelto di rappresentare un Vignetta dal Libro dei Morti di Nakhte, scriba reale e soprintendente all’esercito alla fine della XVIII dinastia, 1550-1070 a.C. Londra, British Museum. A destra si può osservare come la casa dell’alto funzionario e di sua moglie, che compaiono al centro della scena nel loro giardino, sorga su un basamento rialzato, cosí da essere protetta dalle periodiche piene del Nilo.

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speciale • disegno di progetto

piú recente. Alle piante si affiancarono, come esito di un procedimento analogo, le sezioni verticali, che esaurirono l’insieme definitivo del rilievo prima e del progetto poi. Considerando la lentezza della loro diffusione nell’antichità e la rarità degli esempi pervenutici, causata dalla deperibilità dei rispettivi supporti, a quali epoche si possono far risalire le prime rappresentazioni dei prospetti, della pianta e delle sezioni verticali? E, soprattutto, sempre in base ai suddetti reperti, quando s’iniziò a coordinarle? Quale adozione ebbero nell’attività edile? E, infine, dando per scontata la preesistenza del disegno di rilievo, quando prese a essere utilizzato come disegno di progetto? Sono queste le domande alle quali cercheremo di dare una risposta nelle pagine che seguono.

Tavoletta di terracotta con incisa la pianta di un edificio. Periodo di Ur III, 2100-2000 a.C. circa. Manchester, John Rylands Library, University of Manchester.

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oggetto in ogni suo dettaglio o, per ovvia conseguenza, di prevederlo in ogni suo dettaglio. Una potenzialità che costituí la premessa per utilizzare lo stesso disegno di rilievo nella progettazione: rappresentare in scala ciò che sarà, consente di vagliarne a priori pregi e difetti, eliminando i rischiosi adeguamenti in corso d’opera e le altrettanto aleatorie incertezze economiche. Tra la prassi dell’età antica e quella di oggi la differenza principale consiste nella mancata correlazione fra pianta e prospetti: tali proiezioni fanno la loro comparsa in tempi molto sfalsati fra loro, per cui solo in sporadici esempi, abbastanza recenti, si osserva l’abbinamento della pianta con l’alzato. La prima proiezione utilizzata fu il prospetto, seguito a rilevante distanza dalla planimetria, definita «impronta» da Vitruvio, e infine dalla sezione verticale. Le tappe di quell’acquisizione iniziano dalla traccia del semplice contorno, che coincide con la sagoma visibile in controluce, alla quale successivamente si volle dare una maggiore verosimiglianza attraverso la colorazione sfumata; quest’ultima, variando con le convessità, imitò una parvenza di profondità e mutò il mero rilievo in opera d’arte. E dal momento che la verosimiglianza era massima quando era esatta la proporzione della figura, il vertice di quell’aderenza coincideva con un prospetto in scala. Di gran lunga meno spontanea e concreta fu l’elaborazione delle sezioni orizzontali di base, le piú volte menzionate piante che, esulando dalle immagini normalmente visibili, furono realizzate in epoca

Prospetti e pianta Il disegno del prospetto, come accennato, comparve nelle piú antiche raffigurazioni su pietra, intonaco, legno, ceramica o papiro piú di 20 000 anni fa. L’aderenza riservata in epoca preistorica ai soli animali raffigurati, si estese, agli albori della storia, alla rappresentazione degli edifici, facendosi piú stringente, soprattutto dopo l’imporsi del decoro ornamentale. Sui papiri del III millennio a.C., infatti, sono stati individuati alcuni prospetti di case perfettamente delineate in ogni dettaglio e in proporzione. La singolare iconografia di profilo adottata dagli Egiziani, trasformando ogni raffigurazione di un’abitazione in prospetto, ci induce tuttavia a collocare quelli sicuramente intenzionali, cioè in rigida proporzione, in età ellenistica. Piú difficile è stabilire la cronologia della pianta e, soprattutto, la sua genesi. Una pianta, piú propriamente una planimetria, è la sezione orizzontale di un edificio, cioè quello che si vedrebbe da un punto in alto, infinitamente lontano, se un immaginario piano parallelo al terreno lo tagliasse a una determinata altezza. A voler essere piú chiari quando tagliamo una fetta di torta ne stiamo facendo una sezione verticale, ma quando tagliamo la stessa torta a strati, per farcirla, ne facciamo una sezione orizzontale! Una rappresentazione ricca d’indicazioni ma del tutto assente nell’esperienza corrente. Nessuno, infatti, percepisce la pianta neppure della casa in cui abita e, se mai la vedesse, significherebbe che è stata rasa al suolo da un evento catastrofico, restando delle sue mura appena qualche spanna sopra il terreno. E forse proprio a seguito di circostanze traumatiche,


in particolare belliche, si sviluppò la tecnica della planimetria.Tra le modalità di distruzioni prodotte dalla guerra, infatti, per quelle radicali era usata la definizione, abbastanza frequente, di «radere al suolo», prendendo spunto dal rasoio che recideva la barba: in altre parole di ogni edificio restavano soltanto pochi centimetri di muratura al di sopra del terreno, coincidenti con la sua pianta. Il riproporsi per secoli di analoghe immagini suggerí che proprio quelle, in proporzioni ridotte, avrebbero potuto essere il rilievo piú attendibile di un edificio e poi il disegno piú adeguato per costruirlo. A favorire l’utilizzo delle planimetrie contribuí l’adozione di impianti ortogonali nell’urbanistica e negli edifici. Un reticolo viario con incroci ad angolo retto, infatti, garantisce una migliore fruizione della città, cosí come un ambiente quadrilatero si presta meglio di qualsiasi altra configurazione al pieno utilizzo. La squadra ricavata dall’incrocio tra la fune del sasso e l’orizzonte marino fu lo strumento che legò la realtà al disegno tecnico persino a livello archetipale, tanto che, già dalla metà del IV millennio a.C., su tavolette di argilla o su lastre di pietra, se ne trovano esemplificazioni che, qualche secolo piú tardi, culminarono nella formulazione di un antesignano teorema di Pitagora. Solo grazie a tale opzione fu possibile tracciare i disegni di progetto e soprattutto trasporli in grandezza naturale e fedelmente sul terreno. Appare improbo ipotizzare in quale modo si sarebbe potuto applicare la stessa procedura con una pianta irregolare e con angoli diversi da quelli retti. Un sistema che si rivelò cosí efficace da consentire la rappresentazione in scala degli erigendi edifici, ancora prima che fosse elaborata una scrittura vera e propria. E, da allora, quella tecnica non mutò piú.

Tenendo presente che la pianta è una sezione orizzontale, in quel medesimo scorcio storico una ulteriore convenzione fu in qualche modo stabilita: l’altezza della struttura a cui doveva essere condotta. L’esigenza, che nel caso di una cisterna priva di qualsiasi foratura è irrilevante, non lo è altrettanto per gli ambienti abitati, con porte e finestre. Per fare un esempio, una sezione condotta a 50 cm dal pavimento interseca i vani delle porte e dei balconi, ma non quelli delle finestre, il cui davanzale si trova mediamente intorno agli 80 cm, per cui la pianta ne risulterebbe illogicamente priva! Conducendo la stessa sezione a 100 cm, invece, si avrebbe una pianta dettagliata con porte e finestre, e questa quota si può considerare la convenzione adottata per avere una rappresentazione esaustiva. Un discorso appena diverso va fatto per le planimetrie tracciate in base a un piano orizzontale al di sopra della costruzione, che possiamo considerare come un’antesignana foto zenitale. Si tratta di una scelta adottata per le fortificazioni arcaiche, che, essendo costituite da un anello murario pieno di pietre o mattoni, non celavano alcuna articolazione interna.

Caerleon (Galles). Veduta dall’alto dei resti della caserma costruita per alloggiare gli uomini della Legio II Augusta, che vi rimasero di stanza dal 75 al 300 d.C. Risulta tuttora ben leggibile la planimetria dei diversi ambienti.

distinzionI impossibilI La planimetria elaborata agli albori della Storia si distinse, quasi immediatamente, in due branche: la prima, piú antica e relativa a edifici già esistenti, era il disegno di rilievo; la seconda, appena posteriore e relativa a edifici da erigere, era il disegno di progetto. Distinguere l’uno dall’altro è per noi praticamente impossibile, poiché la loro unica differenza è insita nella preesistenza dell’edificio al disegno, una peculiarità che scompare dopo la sua costruzione, per cui non tenteremo neppure di ipotizzare un criterio interpretativo, tanto piú che rilievo e progetto non differivano dal punto di vista grafico. a r c h e o 85


planim speciale • disegno di progetto

una fortezza egiziana 3100 a.C.

La civiltà egiziana si sviluppò sulle sponde del Nilo, dal Sudan al Mediterraneo, sfruttando l’azione fertilizzante delle piene stagionali del fiume. Con l’aggregazione dei due regni dell’Alto e Basso Egitto, divenne un’unica entità statuale intorno al 3100 a.C. Stando alla tradizione, l’unione fu raggiunta dal faraone Narmer, con un’unica battaglia, ma, nella realtà, il processo fu piú lento e complesso. Narmer è ritratto su una tavolozza in scisto verde che porta il suo nome nell’atto di sconfiggere i Nubiani, ma sia la doppia corona reale che la fondazione di Menfi, capitale del nuovo regno, appartengono al suo successore. In margine alla scena celebrativa compare la prima rappresentazione planimetrica finora nota: quella di una fortezza turrita. La tavolozza, databile intorno al 3100 a.C., fu portata alla luce nel 1894 da James E. Quibell, durante gli scavi condotti a Ieracompoli (presso l’odierna Kôm el Ahmar). Si tratta di una lastra di scisto di colore grigio-verde scuro, a forma di scudo (64 x 42 x 2,5 cm). Manufatti simili venivano utilizzati per la cosmesi, ma questo esemplare, per via delle sue dimensioni, ebbe un uso solo celebrativo e votivo, dal momento che fu rinvenuto all’interno di un tempio. Ambedue la facce sono incise con figure a rilievo, completate da brevi didascalie, che sono fra le piú antiche Ricostruzione grafica della fortezza sulla Tavolozza di Narmer.

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Qui sopra: pianta e prospetto ipotetico della fortezza egiziana ricavati dall’immagine sulla Tavolozza di Narmer.

Qui sopra: la Tavolozza di Narmer, da Ieracompoli. 3100 a.C. Il Cairo, Museo Egizio. Nel registro inferiore di questa faccia compare l’immagine interpretata come una planimetria.

testimonianze di scrittura geroglifica, sormontate dai simboli del pesce siluro, n’r, e dello scalpello, mr, rappresentazione fonetica del nome Narmer. Per noi riveste primario interesse un dettaglio che compare nella parte inferiore della faccia superiore, nel quale si vede un toro (che forse simboleggia il re) che distrugge le mura turrite di una città. Queste, adottando una convenzione che non ha precedenti, sono rappresentate in pianta, lasciandoci concludere che ormai tale proiezione fosse ampiamente compresa e condivisa. Il medesimo criterio rappresentativo


etrie è piú esplicitamente ribadito sul rovescio della tavoletta, ancora nella fascia inferiore, dove, a fianco di due nemici uccisi, si scorge la pianta di una fortezza. L’immagine in questione, che a prima vista ricorda un francobollo, è per la lettura archeologica il contorno di una cittadina turrita. Ingrandendola, però, se ne colgono i numerosi dettagli, che portano a propendere per la rappresentazione di una fortezza, una di quelle erette nei territori di confine del Sud del nuovo regno, a presidio della loro recente annessione. A favore dell’ipotesi giocano il ridotto sviluppo perimetrico del recinto, la scansione ravvicinata delle torri, le loro diverse e simmetriche larghezze, connotazioni non conciliabili con una cerchia urbica, sia pure arcaica, ma solo con una fortificazione militare. L’opera, infatti, è costituita da un

recinto rettangolare protetto da 12 torri rettangolari, quattro ai vertici, sei sui lati lunghi e due sui corti: le quattro al centro di ciascun lato sono piú larghe, poiché forse comprendevano le porte di accesso. Le masse murarie si devono supporre, in base ai tanti ruderi similari pervenutici, realizzate con mattoni di fango essiccato su di un basamento a scarpa, appena percepibile nel bassorilievo, inclinato di 45° per favorire il rimbalzo orizzontale delle pietre fatte cadere dagli spalti. Altrettanto sfuggenti sono la rampa di scale per il camminamento di ronda, con le banchine dell’antistante parapetto merlato, e le piombatoie delle torri maggiori. Tenendo presenti i canoni dell’architettura locale e le dimensioni invarianti di una fortificazione, è stato possibile elaborare una ricostruzione grafica di questa pianta archetipa. A sinistra: la faccia della Tavolozza di Narmer nel cui registro inferiore si distingue una cinta muraria turrita.

le cerchie turrite 3100 a.C. Al medesimo contesto storico di quella di Narmer appartiene la Tavolozza detta «libica», rinvenuta ad Abydos e su una delle cui facce compaiono rilievi che rappresentano, in maniera schematica, sette città chiuse in cerchie di mura turrite: un impianto difensivo perimetrale mantenutosi immutato fino al XVI secolo! La loro visione zenitale ribadisce il criterio adottato per la tavolozza, trasformandone le immagini in antesignane planimetrie meramente simboliche: un’astrazione che ne ha impedito la ricostruzione grafica. In alto: le immagini di sette città fortificate sulla Tavolozza libica, da Abydos. 3100 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.

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planim speciale • disegno di progetto

una casa di girsu 2400 a.C.

Girsu, città sumerica, ubicata una ventina di km a nord-ovest di Lagash, corrisponde alla attuale Tello, nella provincia di Dhi Qar in Iraq. Intorno al 2140 a.C. sotto Gudea re di Lagash, città stato ampliatasi fino a includere un’area di circa 1600 kmq con ben 17 città e numerosi villaggi, Girsu fu forse il principale centro religioso e, persino, la capitale del regno. Una missione francese ne avviò lo scavo nel 1877, ma solo di recente si è potuto escludere con certezza che

Da sinistra a destra: tavoletta con la pianta di un’abitazione, da Girsu. 2400 a.C. Parigi, Museo del Louvre; pianta e prospetto ipotetico; ricostruzione grafica.

A sinistra: modellino in terracotta di una casa d’epoca accadica (2900-2290 a.C.), da Salamiyya (Hama, Siria). Aleppo, Museo Nazionale.

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etrie

il palazzo di Nur-Adad a Larsa 1850 a.C.

fosse proprio Lagash. Nel corso degli scavi fu recuperata una quantità considerevole di tavolette d’argilla del III millennio a.C., contenenti perlopiú informazioni commerciali e amministrative, che andarono ad arricchire le oltre 30 000 similari e coeve rinvenute a Lagash. Ai fini della nostra ricerca riveste un particolare interesse la tavoletta su cui fu incisa, con notevole accuratezza – nonostante le modeste dimensioni (11 cm x 9 x 2 cm) – e completa delle relative quote, la pianta di un piccolo edificio. Una prima indagine la interpretò come una struttura di sei ambienti, tra loro comunicanti e con un unico ingresso dall’esterno, forse adibita al culto, forse a residenza. Considerazioni ulteriori suggeriscono invece che si tratti del piano terra di una piccola casa a due piani, analoga, per le sue connotazioni architettoniche, ai molti modelli funerari rinvenuti, con il passaggio tra un piano e l’altro affidato a una scala a pioli. La planimetria, pertanto, rappresenterebbe una casa-tipo di Ur, costruita con mattoni crudi e intonacata con un sottile strato di fango, forse dipinto con coloranti a base di ocra, priva di veri infissi e con il piano di calpestio in terra battuta o in mattoni cotti, gli stessi utilizzati sulla copertura concava per la raccolta della rara acqua piovana.

Proviene da Larsa (oggi Tell Senkere a una ventina di km da Ur, nell’Iraq meridionale), un’altra tavoletta in terracotta (12 x 8 x 2,5 cm) che rappresenta la planimetria di un edificio identificato come il piano terra, o seminterrato, del palazzo di Nur-Adad. Sul finire del III millennio a.C., Larsa fu uno dei maggiori centri della Mesopotamia e raggiunse il suo apogeo un millennio piú tardi, quando ebbe come re, dal 1865 al 1850 a.C., proprio Nur-Adad. I primi scavi ebbero inizio alla metà del XIX secolo, ma solo nel 1933 riaffiorarono i resti di un grande edificio, lungo oltre 100 m, subito attribuiti al palazzo di Nur-Adad, il cui nome compariva sui mattoni rinvenuti in situ. La corrispondenza fra le misure della planimetria sulla tavoletta e quelle dei ruderi permisero di considerarla come l’unico esempio di edificio rappresentato nell’antichità riscoperto con sufficiente certezza. Il pessimo stato di conservazione dei resti del palazzo, però, oltre al riscontro non ha permesso un preciso rilievo planimetrico e solo per analogia con edifici coevi se ne sono dedotte due destinazioni: la prima di rappresentanza, intorno alla sala del trono e al cortile; la seconda di centro economico-amministrativo. Imponenti sono le sue dimensioni, con mura spesse fino 2 m e fondazioni profonde fino a 3,50 m, che sembrano suggerire un secondo piano. Il palazzo non fu mai ultimato, né utilizzato: ne sarebbero prova il mancato rinvenimento di qualsiasi oggetto tra le macerie e l’assenza di tracce di impiego, di incendio o di distruzione violenta, testimonianze concomitanti di un abbandono volontario. Sebbene il disegno sulla tavoletta non sia particolarmente preciso, la coerenza delle linee ne ha consentito la ricostruzione assonometrica, per cui ne è emerso un piano seminterrato con ampia corte centrale circondata da numerosi ambienti, privi di aperture sull’esterno, forse perché adibiti a magazzini. In alto: tavoletta con la pianta del piano terra (o seminterrato) del palazzo di Nur-Adad, da Larsa. 1865-1850 a.C. Oslo, Collezione Schøyen. In basso: ricostruzione grafica del palazzo di Nur-Adad.

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planim speciale • disegno di progetto

la tomba di Ramesse IV 1153 a.C.

Faraone della XX dinastia, Ramesse IV regnò dal 1153 al 1146 a.C. e diede nuovo slancio alle attività edili e artigianali. Tra le sue iniziative vi fu una spedizione mineraria, scortata da un contingente militare di circa 5000 uomini, finalizzata alla individuazione di nuove cave di marmi pregiati. La sua tomba, siglata KV2 e ubicata nella Valle dei Re, fu violata già nell’antichità, ma riveste una rilevante importanza ai fini della nostra indagine essendone stato individuato il progetto, da ritenersi sicuramente tale e non un suo rilievo, in un papiro custodito nel Museo Egizio di Torino. A confortare tale conclusione è la mancanza del podio gradinato sotto il sarcofago, presente invece nel suddetto grafico, verosimilmente abolito in corso d’opera. La planimetria su papiro è in scala 1:28, completa di relative quote – rivelatesi corrette e dettagliate – e fa del grafico un vero esecutivo, ulteriormente precisato dalle legende redatte in scrittura ieratica. Forniva perciò la collocazione esatta del sarcofago del faraone, in una sala posta al centro di quattro pilastri su di un vistoso basamento, secondo una concezione tipica dell’epoca. Si pensa che in origine la suddetta sala fosse destinata a fungere da anticamera della sala sepolcrale propriamente detta, un ambiente ipostilo che, tuttavia, non trovò puntuale realizzazione, essendosi optato per una semplificazione del progetto originario, modificandone i pilastri e adagiando il grande sarcofago di granito rosso direttamente sul pavimento. Di questa tomba si conosce una seconda planimetria, di gran lunga meno precisa, incisa su una lastra di calcare presso il suo ingresso, che tramanda sommariamente la posizione dei vani, forse un rozzo graffito tracciato da qualche addetto alla costruzione. La tomba fu scavata nel fianco di una collina in cui, come altre della XX dinastia, penetra secondo un asse rettilineo. Ha una lunghezza complessiva di circa 88 m ed è costituita da un susseguirsi di tre corridoi, in leggera pendenza decrescente, che immettono in una sorta di camera, piú larga, che, a sua volta, precede la sala sepolcrale oltre la quale si incontrano ancora tre brevi diverticoli laterali.

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etrie In alto: pianta e sezione longitudinale della tomba di Ramesse IV. In basso: ricostruzione grafica della tomba secondo il progetto originario.

A destra: Tebe, Valle dei Re, tomba di Ramesse IV. Il sarcofago del faraone. Nella pagina accanto, in alto: papiro con il progetto della tomba di Ramesse IV. Torino, Museo Egizio. Nella pagina accanto, in basso: statua in scisto di Ramesse IV. Londra, British Museum.

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planim speciale • disegno di progetto

Il tempio sommitale della ziqqurat di Babilonia 604-562 a.C.

In alto: la stele in basalto nero con l’immagine della ziqqurat di Babilonia. 604-562 a.C. Oslo, Collezione Schøyen. Qui sotto: restituzione grafica delle incisioni della stele. A destra: ricostruzione grafica del tempio sulla ziqqurat di Babilonia.

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Alcuni studiosi hanno di recente interpretato un’incisione su di una stele di basalto nero, peraltro nota da tempo, come la piú antica rappresentazione della ziqqurat di Babilonia, la biblica torre di Babele, e in particolare il suo prospetto laterale e la pianta del suo ultimo livello. Il reperto, completato da alcune iscrizioni, risale al periodo tra il 604 e il 562 a.C. e fa parte della Collezione Schøyen. L’identificazione, di straordinario interesse storico ne cela una seconda per noi non meno importante: la coordinazione tra pianta e prospetto in un unico grafico. Sarebbe perciò l’archetipo della prassi, canonica a partire dal XV secolo, di abbinare alla pianta l’alzato dell’edificio, definendolo cosí in modo architettonicamente esauriente. Tornando alla stele, il personaggio raffigurato a lato della torre è il coevo re Nabucodonosor, in piedi e con la corona conica sul capo, unica immagine del sovrano abbastanza integra delle quattro che si conoscono. Responsabile di molte distruzioni, ma anche grande promotore di edificazioni e restauri, il re stringe nella mano sinistra un bastone simbolo del potere e nella destra un rotolo, simbolo del progetto. Dal punto di vista architettonico, come accennato, la torre va ritenuta una ziqqurat, la tipica costruzione sacro-astronomica babilonese, nella fattispecie, in base all’incisione, costituita da ben sei livelli, sui quali era impiantato un tempio, la cui pianta, scarsamente visibile, sulla stele sovrasta il prospetto. L’iscrizione la definisce la «grande ziqqurat di Babilonia» ricordando anche l’orgoglio del sovrano, il quale afferma: «Ho edificato la meraviglia dei popoli del mondo, l’ho innalzata fino al cielo, munendola di porte e coprendola di bitume e mattoni». Utilizzando la planimetria della stele, se ne è potuta realizzare la ricostruzione assonometrica in base ai canoni allora vigenti in Mesopotamia.


etrie la pianta di perugia I secolo d.C.

La Pianta di Perugia è una singolare lapide romana di marmo, risalente al I secolo d.C., che tramanda, in tre diverse sezioni e con tre diverse scale grafiche, le planimetrie di una proprietà funeraria costituita da un monumento sepolcrale – dotato anche di cripta sotterranea – e da un edificio rurale annesso di due piani, un casale colonico con un orto destinato al mantenimento dei suoi custodi. La legenda, riportata su quattro righe della lapide, due sopra e due sotto le piante, recita che gli edifici, mausoleo e casale, sono il lascito di Claudia Peloris, liberta di Ottavia, e di Claudius Eutychus, procuratore, probabilmente, di Claudio e di Nerone, fornendoci cosí una precisa collocazione cronologica tra il 54 e il 61 d.C. Della lastra, purtroppo, nonostante la perfetta leggibilità dell’epigrafe e delle planimetrie, si ignorano la vicenda storica e la provenienza. Delle tre planimetrie incise, le due, a sinistra e al centro in alto, rappresentano il piano terra e quello superiore del casale con l’orto, rispettivamente in scala 1:140 e 1:230; la terza, a destra, in scala 1:84, il mausoleo. Dal punto di vista tecnico, al di là dell’adozione di una triplice scala che testimonia come, al decrescere della rilevanza di quanto raffigurato, diminuisse anche la relativa grandezza, è una assoluta novità trovare in un unico grafico le piante di due distinti piani del medesimo edificio.

In alto: ricostruzione grafica del piccolo mausoleo di cui è disegnata la planimetria sulla Pianta di Perugia. Qui sotto: la Pianta di Perugia, una lastra marmorea su cui compaiono le piante di tre edifici. I sec. d.C. Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria.

una casa popolare egiziana II secolo d.C. Questo disegno su un papiro trovato a Ossirinco, è la planimetria di una unità immobiliare, forse una delle abitazioni costruite affiancate per l’alloggio degli operai. Da un’attenta osservazione, sembrerebbe un piano terra, diviso in due sezioni principali: la centrale sarebbe quella di un atrio, con una scala ad angolo retto; a fianco sarebbe indicato un vano rettangolare privo di aperture, forse una cisterna. Papiro con la pianta di una casa di modesta levatura, forse per operai, da Ossirinco. Oxford, Ashmolean Museum.

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prospe speciale • disegno di progetto

A sinistra: placca in bronzo con un corteo di offerenti, dall’Urartu. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso: rilievo con l’immagine del dio urarteo Teisheba. 684-645 a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. In entrambe le opere compaiono fortezze che possiamo immaginare simili a quella di Toprakkale.

il castello di Toprakkale Toprakkale fu una città del regno di Urartu, situato tra l’Armenia e l’Asia Minore, che fiorí tra il IX e il VI secolo a.C. La sua potenza cominciò a declinare a causa dello scontro con i confinanti Assiri, che ne decretarono la distruzione. Gli scavi condotti negli ultimi decenni hanno consentito di ricostruire l’economia e la cultura urartea nel periodo del suo apogeo, sostenuto dall’allevamento del bestiame, da una florida agricoltura irrigua e da una dinamica metallurgia. Alla bellicosità dei popoli vicini si rispose con la diffusa adozione di fortificazioni, per cui persino i palazzi del potere assunsero la connotazione di antesignani castelli, primo fra tutti quello di Toprakkale. I reperti ce lo hanno tramandato in dettagliate raffigurazioni come un edificio a pianta quadrata con otto torri, quattro agli spigoli e quattro mediane. In aderenza ai canoni architettonici dell’epoca, è probabile che il suo zoccolo e le cornici delle feritoie con le relative ampie piattabande fossero in pietra magistralmente lavorata. Le cortine, per la medesima ragione, si devono presumere, invece, in mattoni sormontate da un coronamento in forte aggetto. Prendendo per riferimento dimensionale la larghezza dei vani di ingresso, due portoni

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sovrastati da arco a tutto sesto, il lato dell’edificio doveva misurare una trentina di metri, con un’altezza al coronamento pari a una dozzina. Nelle torri, che si ergevano leggermente rastremate su di una base di circa 4 m, sporgente di un paio dall’estradosso delle cortine, l’altezza superava i 16 m con un apparato a sporgere di 1,5 m circa di aggetto.


tti Lievi sono le differenze fra le varie raffigurazioni: nella prima, un blocco squadrato di pietra, manca l’apparato a sporgere laterale sulle torri d’angolo e interne, e ne è stato rappresentato il solo frontale. Nel frammento di bronzo, la maggiore tenacia del metallo lo ha invece preservato nella torre centrale rimasta che ne muta il prospetto originario. In realtà la torre pervenutaci stava tra le altre due le cui tracce sono ancora visibili sui bordi laterali del reperto e confermano la simmetria del castello. Una conferma che si coglie ancora nella lamina votiva che reca inciso il prospetto dell’intero edificio con le sue tre torri, tutte con l’apparato a sporgere anche laterale. È importante ricordare che l’apparato a sporgere posticcio comparirà in Occidente sul finire del XII secolo, essendo determinante per lasciar cadere, restando defilati, dalle

buche lasciate nell’impiantito pietre e liquidi ustori sugli assedianti giunti ai piedi della cortina. Dal punto di vista architettonico il castello risulta costituito da quattro corpi, con due facciate per lato, su tre piani, come indicano le tre file di finestrelle, allineate fra loro. Sono invece sfalsate in altezza quelle delle torri, come i finestroni delle nostre scale, il che suggerisce che fosse stato ricavato qualcosa di analogo all’interno, con un ballatoio di riposo fra due tese. Nella ricostruzione assonometrica che proponiamo le rampe sono sostenute da archi rampanti, ma non è assurdo ritenerle sorrette da una incastellatura lignea. Nulla sappiamo sullo stato di servizio di quest’edificio: forse superò la caduta del regno urarteo finendo riadattato alle esigenze assire, forse andò completamente distrutto.

Ricostruzione grafica del palazzo fortificato di Toprakkale.

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sezioni speciale • disegno di progetto

un palazzo egiziano 1500 a.C.

Nell’antichità non mancano esempi di disegni architettonici di edifici parzialmente sezionati, ma quello rinvenuto nel sepolcro di Djehutinefer a Tebe è di gran lunga il piú elaborato e complesso. Si tratta di un affresco tombale che, per rievocare in ogni dettaglio la vita che il ricco proprietario conduceva nella sua grande casa, la sezionò verticalmente. Sappiamo dalle fonti che il personaggio fu uno scriba reale, tesoriere di Amenofi II, faraone della XVIII dinastia, di elevato rango sociale e di cospicuo censo. Stando all’affresco, la casa di Djehutinefer si sviluppava su tre piani, in parte adibiti ad abitazione, in parte a laboratori artigiani e in parte a magazzini. Evidenti sono le notevoli dimensioni del fabbricato, di gran lunga superiore alla media dell’epoca, e soprattutto alle abitazioni popolari. Considerando che per il legname disponibile le campate dei solai non potevano eccedere i 3-4 m al massimo senza un pilastro centrale, un facile computo porta a una superficie complessiva dell’intero edificio di circa 400 mq. Al netto dei laboratori, scarso è lo spazio riservato ai servi, forse semplici giacigli nei medesimi locali, restando perciò interamente disponibile il resto della casa per il proprietario. Merita un’annotazione la copertura, caratterizzata da un susseguirsi di apparenti cupolette semicilindriche: si tratta, in realtà, dei tipici granai nordafricani, che hanno mantenuto dalla preistoria a oggi quella curiosa foggia. In alto: restituzione grafica dell’affresco con la sezione della casa di Djehutinefer. In basso: Ksar Hallouf (Tunisia). Alcuni granai tradizionali, sormontati da cupolette analoghe a quelle che compaiono nell’affresco di Djehutinefer.

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

UNA PROPOSTA IMPOSSIBILE? Il tesoro di priamo non cessa di sollevare polemiche: pochi mesi fa, è stato sul punto di scatenare un imbarazzante incidente diplomatico. ma la querelle di cui è protagonista potrà mai essere risolta? una strada, forse, ci sarebbe...

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ochi mesi fa la nostra rivista ha attirato l’attenzione su una controversia diplomatica che ha avuto come protagonisti la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin (vedi «Archeo» n. 341, luglio 2013). Nello scorso giugno, quando all’Ermitage di San Pietroburgo tutto era pronto per

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Angela Merkel, accompagnata dal presidente russo Vladimir Putin, visita l’esposizione sull’età del Bronzo allestita nella scorsa estate all’Ermitage di San Pietroburgo. Sulle prime, la cancelliera tedesca aveva annullato la propria presenza alla cerimonia di inaugurazione, perché irritata dalla presenza in mostra di reperti sottratti dall’URSS alla Germania alla fine della seconda guerra mondiale, tra cui il Tesoro di Priamo.

l’inaugurazione di una mostra archeologica sull’età del Bronzo, dall’impegnativo titolo di «Europa senza frontiere», la cancelliera sembrava sul punto di disertare l’appuntamento, senza nascondere i motivi politici che avevano ispirato un gesto diplomaticamente cosí forte: molti dei tesori esposti, infatti, erano il

frutto di spoliazioni dei musei tedeschi effettuate alla fine della seconda guerra mondiale; piú che metterli in mostra, il governo russo avrebbe dunque dovuto restituirli. Tra quei materiali c’era anche il tesoro per eccellenza, il cosiddetto «Tesoro di Priamo». Riunendo reperti rinvenuti ai quattro angoli dell’Europa centro-orientale, dal


Nord della Germania al Sud della Russia, quella mostra si poneva l’encomiabile obiettivo di lasciarsi alle spalle le secolari controversie che hanno alimentato le dispute scientifiche sulla comparsa e il radicamento in quella parte del continente delle popolazioni di ceppo germanico e slavo. Quella dell’Ermitage era dunque

un’esposizione «conciliatrice» voluta anche per aprire la strada al confronto e alla collaborazione.

un tema ricorrente Un’iniziativa che ha rischiato di vedere vanificati i propri sforzi per colpa del tarlo della «restituzione», un tema ricorrente e tenace, che – come il piccolo animaletto

roditore – ricompare non appena ci si dimentica di lui. Non che il tema sia irrilevante, poiché su alcune «restituzioni» archeologiche non c’è davvero nulla da eccepire. Per restare in casa nostra pensiamo alla vicenda dell’Afrodite di Cirene restituita alla Libia, della dea di Butrinto restituita all’Albania, per non parlare dell’obelisco di Axum

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A sinistra: una delle vetrine in cui erano esposti i gioielli scoperti a Troia da Heinrich Schliemann. Nella pagina accanto: il cosiddetto «Tesoro di Eberswalde», ritrovato in territorio tedesco e portato in URSS dalle truppe sovietiche. X-IX sec. a.C. Esposto anch’esso nella mostra dell’Ermitage, è un altro dei contesti di cui molti vorrebbero la restituzione.

restituito all’Etiopia, tutte prede di guerre coloniali o peggio. Ma pensiamo anche alla restituzione all’Italia del cratere di Eufronio o della Venere di Morgantina, illegalmente esportate negli Stati Uniti e rientrate in nome di una comune lotta agli scavi e ai commerci clandestini di antichità. Ma altre restituzioni in ambito archeologico sono ben piú complesse: il caso dei marmi del Partenone, su cui ci siamo già soffermati (vedi «Archeo» n. 313, marzo 2011; anche on line su www. archeo.it), è il piú emblematico di tutti per la sua straordinaria capacità di dividere gli animi, ma anche di proporre soluzioni tra di loro del tutto contraddittorie eppure in sé coerenti. Non ci sorprende, quindi, che la questione sia riemersa e abbia rischiato di deflagrare in maniera fragorosa in presenza di un caso cosí paradigmaticamente controverso come è quello del Tesoro di Priamo, che si trascina da decenni e del quale i nostri lettori sono stati piú volte informati , sin dal lontano 1992 (vedi «Archeo» nn. 84 e 93, febbraio e novembre 1992). Proviamo allora a vedere i fatti un po’ piú da vicino con gli occhi dell’osservatore che si sforza di restare neutrale nella disputa. Scoperto da Heinrich Schliemann nel maggio del 1873 negli scavi condotti a Hissarlik in Turchia alla ricerca dell’antica Troia, trafugato in

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Grecia nel giugno successivo, portato al Museo etnografico di Berlino nel 1881 come «dono al popolo tedesco», il tesoro vi rimase sino alla seconda guerra mondiale, durante la quale fu occultato in tre casse di legno conservate nei forzieri della Banca di Prussia. Al momento della presa di Berlino da parte dell’Armata Rossa, le casse furono trasferite a Mosca, insieme a molti altri oggetti archeologici e d’arte, nel luglio 1945. Lí rimasero nascoste, tanto che se ne persero le tracce per molti decenni. Solo la glasnost’ dell’era di Gorbaciov riaprí quella vertenza, giunta poi a parziale compimento nel 1994, quando la direttrice del Museo Puškin di Mosca fu in grado di mostrare ai rappresentanti del Museo di Berlino quelle famose casse, custodite in un sottotetto. Da allora il Tesoro è tornato anche all’ammirazione del pubblico nelle sale dello stesso museo moscovita.

un bene dell’umanità Da un certo punto di vista potremmo dire che le speranze di Klaus Goldmann, vicedirettore del Museo di Preistoria e Protostoria di Berlino, espresse ad «Archeo» nel 1992, siano state in qualche misura esaudite: «Non si tratta – disse allora – di mettere in atto una rivendicazione nazionale del Tesoro di Priamo (…), che, come tutti i beni archeologici e artistici, appartiene all’umanità intera e dunque deve

essere esposto e reso accessibile agli studiosi e agli interessati. Ovunque esso ora si trovi». Se i fatti sono questi, le cose non sono poi cosí semplici. E si complicano ancor di piú ove si consideri che la mostra pietroburghese esponeva anche un altro tesoro conteso, quello protostorico di Eberswalde, il piú antico rinvenuto in terra tedesca e anch’esso razziato al termine del conflitto mondiale. Il fatto è che la Russia non ha alcuna intenzione di restituire alla Germania il Tesoro di Priamo; né l’intrigo si limita a un contenzioso tra i due Stati, dal momento che – si afferma – quella restituzione potrebbe chiamare in ballo un terzo contendente, la Turchia, dal cui suolo il tesoro effettivamente proviene. Che dire? Politici e giornalisti, avvocati e turisti possono farsi la propria opinione. Qui ci limitiamo a osservare che i manufatti hanno da sempre viaggiato di terra in terra per le cause piú disparate, e di solito – quando questo non è avvenuto alla luce del sole in seguito a palesi transazioni commerciali o di altra natura – lo hanno fatto in seguito ad appropriazioni e razzie: dai saccheggi romani delle opere d’arte greca a quelli operati da Napoleone in Italia e solo in parte risarciti dalla tessitura diplomatica di Antonio Canova (vedi lo «Speciale di Archeo» La grande razzia). Che sia la legge del piú forte a prevalere ce lo dice anche la losca storia del marcato clandestino di opere d’arte di cui l’Italia è, sia pur non da sola, una delle vittime principali: un saccheggio infame da un lato, la


forza del denaro dall’altra, fintantoché il diritto internazionale non riesce a por freno a questi squilibri che sono un po’ anche il termometro della potenza o, vogliamo dire, dell’autorevolezza degli Stati nell’attuale scena mondiale. A chi appartengono gli oggetti antichi? Al Paese nel cui suolo sono stati rinvenuti? Al Paese che si considera erede della cultura che li ha prodotti? Al Paese che è oggi meglio in grado di valorizzarli? È difficile dare un risposta univoca, anche se la prima domanda sembra la piú avveduta. E anche se, sconsolatamente, dobbiamo pur dirci che i tesori d’arte dell’Afghanistan, dell’Iraq e oggi della Siria sono purtroppo protetti meglio nei musei occidentali, in cui sono stati portati nella fase coloniale delle ricerche archeologiche, che non nella terra cui fisicamente appartengono. D’altra parte, seguendo un certo paradosso pseudo-culturale, potremmo domandarci che cosa dovremmo mai fare dei Bronzi di Riace? Restituirli alla Grecia, da dove sicuramente sono venuti (in antico)? Per fortuna la Grecia non li richiede, come la Turchia non richiede i cavalli di San Marco, che pure sono giunti a Venezia da Costantinopoli (nel Medioevo), né richiede l’Altare di Pergamo oggi a Berlino (anche se in questo caso siamo in presenza di un bene espatriato in forza di accordi diplomatici d’età moderna instaurati in un’aura paracoloniale quando l’impero ottomano era al suo tramonto). Che fare dunque del conteso Tesoro di Priamo scavato/sottratto da Schliemann a Troia? Deve tornare in Turchia, erede dell’impero ottomano? Ci tornerebbe per una questione – diciamo cosí – di ius soli: i Turchi odierni non hanno nulla a che vedere con gli antichi Frigi e la storia dell’archeologia

ottocentesca ha pur sempre una sua logica interna da difendere. In nome di questa storia deve allora tornare a Berlino, dove lo portò lo stesso Schliemann? O deve restare a Mosca, dove – ora ne siamo certi è trattenuto come parziale compenso (simbolico piú che patrimoniale) dei danni di guerra subiti dall’Unione Sovietica, di cui l’attuale Russia si considera in questo caso l’erede? Potremmo allora domandarci se non esistano altri legittimi eredi di quello stato ormai dissolto, dal Baltico al Caucaso alle steppe dell’Asia Centrale…

la legge del piú forte Comunque la rigiriamo, ci accorgiamo che la risposta è tirata per la giacca, come già accennato, dalla «legge del piú forte»: una brutta legge, che domina in natura, ma che non deve necessariamente dominare nel consorzio umano, dove il diritto, in questo caso quello internazionale, ha messo a punto regole e procedure che cercano di bilanciare i tanti portatori di diritti. Né ci aiuta la domanda retorica su quale sia l’identità del Tesoro di Priamo. Il discorso identitario è per definizione scivoloso, e Russi, Tedeschi e Turchi non potranno mai mettersi la maschera da antichi Troiani. Ma forse, a guardar bene,

quel gruppo di ori scintillanti e di gioielli preziosi, ha una sua identità. Forse non siamo lontani dal vero se riconosciamo in esso – al di là del suo valore venale, e dell’inestimabile valore storico – uno dei simboli sopranazionali della nascita dell’archeologia moderna. La foto in cui la bella moglie greca di Schliemann si fece ritrarre adorna dei gioielli appena riemersi dalle terre di Hissarlik ci si presenta come la riattualizzazione della storia, il ritorno di ciò che era stato e piú non era a essere di nuovo ciò che fu. Leggendo Omero e credendo in lui, Schliemann riportava a una vita del tutto nuova oggetti che apparentemente potevano riacquistare sul viso di Sophia la funzione di un tempo. Non è, in fondo, questo il volto duplice e ambiguo, e per questo affascinante dell’archeologia moderna? Con il Tesoro di Priamo l’archeologia cominciò a perdere la sua innocenza, restituendo agli oggetti del passato la loro immagine antica pur mutandone la funzione: da ornamenti a documenti storici/oggetti da museo, oggi contesi. E allora, perché non fare del Tesoro di Priamo il primo bene archeologico di proprietà mondiale? Una proposta semplice, ma davvero impossibile?

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

L’«invenzione» delle feste

a dettare il calendario delle festività romane furono, dapprima, il corso delle stagioni e il ciclo dei lavori agricoli. in seguito apparvero le ricorrenze legate a episodi celebri o alla guerra 102 a r c h e o

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li antichi, non disponendo della domenica per riposarsi dal lavoro di tutti i giorni, «inventarono» le feste. Ossia, i giorni festivi – dies festi (o feriati) – dando a essi un appellativo derivato dal verbo ferior, che, nel senso di «sospensione» e di «tregua», significa, per l’appunto, «astenersi dal lavoro» e, quindi, «riposare». Quei giorni furono indicati nel loro complesso con il nome plurale di feriae. Come

ancora facciamo noi coi giorni consacrati alle vacanze, mentre, al contrario, chiamiamo «feriali» proprio i giorni lavorativi, dal momento che in tal modo furono indicati dalla Chiesa i giorni della settimana, a eccezione del sabato e poi anche della domenica. Trattandosi di una società, almeno alle origini, fondamentalmente agricola (o agricolo-pastorale), il lavoro, per gli antichi, era, soprattutto, quello dei campi.


Disegno ricostruttivo di un suovetaurilia, il sacrificio solenne di un maiale (sus), una pecora (ovis) e un toro (taurus), che a Roma aveva un’importanza basilare nelle cerimonie lustrali, come quella che si svolgeva ogni cinque anni in Campo Marzio, presso l’ara di Marte, per la solenne purificazione dei cittadini.

I giorni di riposo furono pertanto strettamente legati alle esigenze della natura e alla necessità di rispettare i tempi da essa imposti. Donde l’irregolarità nella successione delle feste e il loro addensarsi o diradarsi, e perfino il loro ripetersi o, piuttosto, il duplicarsi in stagioni diverse nel corso dello stesso anno. Ma anche la loro assenza, in periodi che non richiedevano sospensione da lavori di per sé scarsi o assai poco

impegnativi: come avveniva, per esempio, in settembre e novembre.

riposo e sacrifici Non rimase tuttavia il solo riposo a giustificare i giorni festivi. Presto, infatti, si pensò bene di abbinare, in quegli stessi giorni, all’astensione dal lavoro il compimento di atti, di tipo magico-religioso, volti a fini propiziatori o di scongiuro, ai quali dedicare almeno una parte del tempo libero. Ognuno di quei

giorni venne cosí riservato – a seconda delle stagioni e dei mesi – a riti e cerimonie sacre, con preghiere, sacrifici e offerte miranti ad assicurarsi, contro ogni inconveniente e avversità, prima fra tutti, la fertilità dei campi (ma anche del bestiame e, perché no, delle donne) e poi il buon esito dei lavori agricoli e delle singole loro fasi, dalla semina al raccolto all’immagazzinamento del prodotto. Di qui, lo stretto collegamento tra di loro di alcune feste, talora per omogeneità, talora per opposizione, come quelle che, nel mese di giugno, davano luogo a un vero e proprio «ciclo cerealicolo», che comprendeva i «momenti» della torrefazione del farro e della panificazione. Oppure, la duplicazione di altre, celebrate a coppie, «in parallelo», come quelle alla conclusione del raccolto, in agosto, e alla fine dell’anno agricolo, a dicembre, in onore delle due divinità «sotterranee», Consus e Ops, che presiedevano, rispettivamente, alla conservazione del raccolto nella dispensa domestica e alla preservazione della semina nel «grembo» della terra. Quando poi inconvenienti e avversità si fossero verificati e magari fossero perdurati, i riti e le cerimonie erano di carattere espiatorio e miravano al ristabilimento della normalità. In ognuna di queste occasioni, sacrifici, preghiere e offerte venivano indirizzate a singole divinità «specializzate», con poteri a volte molto determinati, a volte piuttosto generali, che, con vari nomi e spesso di sesso incerto rappresentavano la natura nelle sue diverse manifestazioni e

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Un sacrificio a Cerere, particolare di un grande mosaico pavimentale trovato a Saint-Romain-en-Gal (Francia) e noto come «calendario agricolo». III sec. d.C. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale. s’immaginavano preposte, come numi tutelari, a ogni momento e a ogni aspetto della vita dei campi. Fino alle «personificazioni» di fenomeni o accadimenti. Non a caso molte feste del calendario romano – verosimilmente le piú antiche – non portano il nome di un dio tra i grandi dell’Olimpo. Ma, per esempio, quello di Robigo (nelle feste dette Robigalia), che preservava i cereali dalla malattia chiamata «ruggine». O quello di Anna Perenna, ritenuta garante del perpetuarsi del ciclo annuale. In altri casi, anziché rivolgersi a divinità o a «spiriti benefici», ci si adoperava al fine di tenere lontani e rendere inoffensivi gli «spiriti maligni» e anche i morti (o le loro «larve» o lemures) considerati – e temuti – come portatori di malattie e pestilenze (anche del bestiame). Mentre, all’inizio (e alla fine) di qualcosa di particolarmente

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importante, si procedeva a riti speciali di purificazione.

il tempo della purificazione A cominciare da quelli dell’inizio dell’anno che, cadendo questo, in origine, nel mese di marzo, si svolgevano (e continuarono a svolgersi, anche quando il Capodanno fu spostato a gennaio) nel mese di febbraio: un mese il cui nome trasse origine dal verbo februare, «purificare» (donde februa, «le cose adibite a tale scopo», februata, «le cose purificate», e, per l’appunto, februarius, «il tempo dedicato ai riti di purificazione»). Tutto questo, per quel che riguarda l’ambiente agricolo. Ma, se si considera la caratteristica originaria che dei cives faceva un populus di contadini-soldati, è facile immaginare come ben presto si sia

dato luogo anche a feste di tipo militare. Come la doppia festa dell’armilustrium, in primavera e in autunno (il 19 marzo e il 19 ottobre), all’apertura e alla chiusura della stagione di guerra, per la lustratio o «purificazione» delle armi prima e dopo il loro impiego. O quella, analoga, del tubilustrium, per la purificazione o sacralizzazione delle tubae, le trombe militari. Nello stesso ambito, erano giorni festivi, solenni, quelli in cui si celebravano i trionfi decretati ai comandanti vittoriosi. Ma, poco a poco, ogni categoria di lavoratori, a cominciare dagli artigiani, ebbe il suo giorno festivo, dai flautisti ai panettieri ai pescatori, fino alle schiave e alle prostitute (rispettivamente col festum ancillarum, del 23 aprile e il festum meretricum, del 7 luglio). Singolare è il caso della «corporazione» dei tibicines, i flautisti che, con l’accompagnamento musicale dei loro strumenti, rendevano valide le cerimonie sacre. In risposta a un loro «sciopero» di protesta per essere stati esclusi dal banchetto in onore di Giove, non si poté fare altro che ripristinare il loro diritto, aggiungendo la facoltà di celebrare annualmente una propria festa di tre giorni. C’erano, infine, le feste anniversarie della dedica dei templi o dell’introduzione di nuovi culti (Castori, Apollo, Magna Mater, ecc.). Quelle che ricordavano importanti avvenimenti storici, come la festa del Regifugium che, almeno secondo Ovidio, celebrava la fondazione della Repubblica, dopo la cacciata e la fuga del re Tarquinio il Superbo. E, in età imperiale, quelle anniversarie (e plurianniversarie, come i decennalia e, piú raramente, i vicennalia) dell’ascesa al trono degli imperatori, di alcuni dei quali, peraltro, veniva anche celebrato come festivo il giorno della nascita.

nel prossimo numero • La festa dei Saturnali



l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

sotto terra per contare Nel sottosuolo di ogni città, ma anche in valli ormai disabitate o in terreni destinati ad attività agricole, si trovano strutture scavate dall’uomo. La cui conoscenza è fondamentale e non soltanto ai fini della ricerca scientifica...

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a mesi, grazie a questa rubrica, stiamo «esplorando» le molte diverse tipologie di strutture costruite dall’uomo nel sottosuolo. In questo ampio mondo, «oscuro» per definizione, archeologia e speleologia lavorano fianco a fianco per fare luce con nuove indagini. Ma, all’arricchirsi delle informazioni, in che modo gli studiosi possono mettervi ordine? Per tentare di avere un quadro il piú ampio e completo possibile sullo stato delle conoscenze in Italia,

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appare di grande importanza e interesse un progetto promosso dalla Commissione Nazionale Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana: il Catasto Nazionale delle Cavità Artificiali.

nelle viscere della penisola Il lavoro del Catasto è un’attività minuziosa, faticosa, talvolta rischiosa, ma fruttuosa, che procede da un quarto di secolo. A oggi sono state censite in tutto il

territorio italiano oltre 4500 cavità artificiali, metà delle quali si celano sotto le nostre città, con esempi eclatanti e ben conosciuti – come Napoli, Roma, Matera –, e realtà meno note, ma altrettanto consistenti, come Bergamo, Genova, Cagliari. È difficile dire quanti chilometri di sotterranei ci siano sotto ciascun centro urbano: molto probabilmente sono centinaia, e altrettanti se ne trovano al di fuori degli abitati. È importante sottolineare che i dati relativi al


architettonici: informazioni utili all’individuazione degli ipogei al fine della tutela loro e del territorio piú esteso in cui si trovano, della valorizzazione degli stessi, della sicurezza e della protezione civile, della tutela dell’ambiente dagli inquinamenti, e, non da ultimo, preziose per la ricerca e il monitoraggio di risorse idriche sotterranee. Di ogni singola cavità vengono raccolti e conferiti, secondo precise regole e modelli stabiliti, numerosi dati: oltre alla denominazione e ubicazione della struttura, anche la speleometria (cioè i dati metrici dell’estensione accessibile delle cavità), la posizione topografica, la tipologia, l’epoca di realizzazione, il terreno geologico in cui fu realizzata e lo stato di conservazione, comprendendo dati sulla stabilità e la percorribilità interna.

ricerca e prevenzione

In alto: l’attività di esplorazione delle cavità artificiali è alla base dello studio e del successivo accatastamento delle strutture ipogee. Nella pagina accanto: per poter inserire nel Catasto le strutture ipogee è fondamentale la fase di documentazione degli ambienti esplorati.

complesso delle cavità artificiali censite rispecchiano, in primo luogo, il risultato delle ricerche effettivamente svolte piuttosto che l’effettiva presenza di opere ipogee sul territorio; una presenza che comunque si stima massiccia e che, spesso, si rivela ben piú consistente del previsto. Scopo del Catasto Nazionale delle Cavità Artificiali, dalla sua istituzione nel 1989, è creare un inventario di tutte le strutture ipogee che vengono documentate,

assicurando la conservazione delle informazioni raccolte nelle esplorazioni e gli studi eseguiti e mettendole a disposizione della comunità.

l’incrocio dei dati Il Catasto si prefigge quindi lo scopo di una conoscenza generale del sottosuolo italiano, di concerto con il Catasto grotte (cavità di origine naturale), attraverso dati storici, biologici, naturalistici in genere, archeologici e

Molti di questi dati rivestono grande importanza anche per ragioni di pubblica sicurezza, basti pensare al ruolo che possono avere, in merito a crolli e sprofondamenti, eventuali grandi ambienti sotterranei che si sviluppano sotto un centro urbano fittamente abitato (ne parleremo in una delle prossime puntate). La classificazione tipologica adottata nel Catasto è strutturata in sette categorie e in vari sottotipi, che sono stati illustrati in una precedente puntata (vedi «Archeo» n. 333, novembre 2012). Scorrendo i dati finora inseriti nel Catasto (consultabile all’indirizzo http://catastoartificiali.speleo.it), è interessante notare come alcune regioni italiane abbiano proprie peculiarità: le opere militari abbondano nel Triveneto, in Emilia-Romagna e Lombardia, le opere estrattive in Valle d’Aosta e Toscana, quelle insediative in Puglia, mentre la Basilicata si distingue per le opere di culto. Si ringrazia Marco Meneghini, curatore del Catasto Nazionale Cavità Artificiali.

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divi e donne Francesca Cenerini

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la donna che visse tre volte domizia longina è nota soprattutto per essere stata la consorte di domiziano. ma non meno significativi furono gli anni trascorsi prima e dopo il matrimonio con l’imperatore 108 a r c h e o

el 70 d.C. Domiziano si uní in matrimonio con Domizia Longina, figlia del brillante e popolare generale Gneo Domizio Corbulone, suicidatosi nel 67 a.C. in seguito alla repressione della congiura del genero Annius Vinicianus contro Nerone. Nella Vita di Domiziano, Svetonio ricorda spesso Domizia Longina, ma in maniera del tutto marginale, mentre Tacito considera suo padre un eroe, strenuo difensore della antica aristocrazia romana. Per spiegare il suo ruolo alla corte di Domiziano, va detto che Domizia ereditò dal padre una estesa rete di parentele e di legami «importanti», sia dal punto di vista politico che economico. Domizia Longina si era sposata in prime nozze con L. Aelius Lamia Plautius Silvanus, console nell’80 d.C.. Attorno al 70 d.C. divorziò e si risposò con Domiziano. Secondo le fonti si trattò di un gesto del tutto arbitrario da parte di un tiranno libidinoso (Svetonio, Vita di Domiziano, 1, 6; Cassio Dione, 64, 3, 4), ma, ancora una volta, siamo invece di fronte a un matrimonio politico, che procurava nuovi e potenti alleati a Domiziano, e il diretto accesso al potere politico imperiale ai familiari di Domizia Longina.

l’erede mancato Nel 73 d.C. Domiziano e Domizia Longina ebbero un figlio (Svetonio, Vita di Domiziano, 3, 2), che, però, morí anche prima dell’83 d.C. Su tale erede erano riposte le speranze dinastiche congiunte dei Flavi e dei Domizi, che, però, furono disattese dalla sua morte prematura. Nel settembre dell’81 d.C., quando

Domiziano salí al potere, Domizia Longina fu insignita del titolo di Augusta, e quando morí il figlio, costui venne divinizzato con il titolo di divus Caesar imperatoris Domitiani filius, e Domizia fu celebrata sulle monete come divi Caesaris mater («madre del divo Cesare»), cosa che contribuí a rafforzare la sua posizione all’interno della domus divina dei Flavi agli occhi del grande pubblico. Ma la morte del bambino, in ogni caso, finí per cambiare gli equilibri a corte: Domizia Longina fu allontanata, pur potendo contare sull’appoggio popolare (Cassio Dione, 67, 3, 1-2), come sempre ben orchestrato. C’è il fondato sospetto che Domiziano volesse ripudiarla, sulla base del pretesto di una passionale relazione adulterina della moglie con l’attore Paride (amore deperditam), (Svetonio, Vita di Domiziano, 3, 2).

omicidio pubblico Anche quello delle presunte relazioni sessuali delle «imperatrici» con gli attori, che appartenevano al livello piú basso della scala e della considerazione sociale, è un luogo comune utilizzato per screditare le donne stesse. È inevitabile che anche Domizia giocasse un ruolo essenziale e persino inevitabile nella messa in scena del tiranno malvagio e depravato. Sebbene il suo matrimonio fosse un accordo politico, l’amore e il desiderio sessuale continuano a essere rappresentati dalle fonti come spiegazioni plausibili del comportamento dell’imperatore, che avrebbe allontanato dalla corte Domizia, offeso per la sua relazione con Paride, salvo poi richiamarla perché ancora innamorato di lei. Stando al racconto delle fonti (Cassio Dione, 67, 3, 1), Domiziano avrebbe voluto uccidere Domizia, ma fu convinto a divorziare e a


uccidere al suo posto Paride addirittura sotto gli occhi di tutti in mezzo alla strada. Si tratta, ancora una volta, di un espediente retorico per screditare Domiziano anche come violatore delle leggi da lui stesso propugnate: sulla base della legislazione augustea, infatti, il marito avrebbe potuto uccidere l’adultero in flagrante delitto all’interno della casa coniugale, cosa che, ovviamente, non era potuta accadere «in mezzo alla strada» («en mése tê odô», secondo le parole di Cassio Dione, 67, 3, 1). A questo punto Domiziano avrebbe avviato una relazione con la nipote Giulia, pensando addirittura di sposarla (Cassio Dione, 67, 3, 2).

nozze incestuose È possibile che, per ragioni dinastiche e per procurarsi un erede all’interno della famiglia, l’imperatore avesse effettivamente pensato di contrarre quel matrimonio, ma i forti legami con il senato di Domizia Longina lo indussero a desistere dai suoi propositi e a richiamarla, spronato anche dai desideri del popolo, ancora una volta ben organizzato dai potenti sostenitori dell’Augusta (quasi efflagitante popolo: Svetonio, Vita di Domiziano, 3, 2; Cassio Dione, 67, 3, 2). Domiziano venne eliminato in una congiura di palazzo il 18 settembre del 96 d.C. È difficile valutare il ruolo di Nella pagina accanto: testa in marmo di Domizia Longina, figlia di Gneo Domizio Corbulone e moglie di Domiziano, dal palazzo di Tiberio sul Palatino. I sec. d.C. Parigi, Musée du Louvre. A destra: ritratto di Domiziano, imperatore romano dall’81 al 96 d.C., dall’Esquilino. I sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

Domizia Longina nel complotto, anche se la critica contemporanea ritiene che ne fosse in ogni caso al corrente. Le fonti (Svetonio, Cassio Dione, Aurelio Vittore) parlano di un suo coinvolgimento attivo, ma si può pensare che riproducano topoi (luoghi comuni) biografici relativi alla morte del tiranno, il quale, in quanto tale, viene ucciso dalle persone a lui piú vicine. Le modalità dell’assassinio a palazzo di Domiziano e la complicità della moglie nel complotto descritte da Cassio Dione sono, infatti, del tutto simili al futuro assassinio dell’imperatore Commodo e al ruolo rivestito dalla sua concubina Marcia. È comunque possibile che l’eventuale partecipazione di Domizia alla congiura contro il marito fosse dovuta al fatto che la sua posizione a corte non era piú sicura (era già stata allontanata una volta), poiché

non era riuscita ad assicurare un erede vivente a Domiziano. Domizia Longina sopravvisse a lungo e, forse, secondo l’opinione della studiosa Ginette Di VitaÉvrard, si risposò con Domitius Tullus, noto e potente personaggio dell’epoca. Nel 123-126 d.C., le attività imprenditoriali di Domizia continuano, in quanto dalle sue fabbriche i mattoni continuano a uscire con il marchio Domitia Domitiani (uxor).

un tempio dai liberti Due dei suoi liberti dedicarono nel 140 d.C. un tempio (aedes) alla sua memoria nel territorio della città di Gabi: in honorem memoriae domus Domitiae Augustae, Cnaei Domiti Cobulonis filiae, si legge sull’architrave (Corpus Inscriptionum Latinarum, XIV, 2795); il monumento era ornato di statue, a cominciare da quelle del padre, eroizzato, e della madre, discendente di Augusto. I ritratti attribuiti a Domizia Longina sono stati suddivisi dagli studiosi in tre tipologie distinte: quella creata al tempo del suo matrimonio con Domiziano, quella del momento dell’ascesa al potere del consorte, e del conseguente riconoscimento della posizione di Domizia come Augusta, e un terzo tipo posteriore all’uccisione dell’imperatore. È stato ipotizzato che questo terzo tipo sia dovuto alla effettiva partecipazione di Domizia Longina alla congiura contro il marito. Domizia, infatti, continua a essere rappresentata in ritratti ufficiali, a dispetto della damnatio memoriae del marito. Non ha piú il diadema sul capo, ma è onorata in età traianea tra le summae mulieres (le donne piú importanti), i cui ritratti, a partire da quello di Livia, adornavano il Foro di Traiano, prefigurando il ruolo delle Augustae del II secolo d.C.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

E

siste un legame antico tra le monete romane, le navi e la navigazione: basti pensare che una delle prime emissioni repubblicane dell’Urbe è quella in cui una prua di nave fa bella mostra di sé nella serie in bronzo convenzionalmente detta, appunto, della «prua», con riferimento a quella di una galea con tanto di rostro. Il motivo che portò alla scelta del tipo «marinaro» ci è sostanzialmente ignoto e le interpretazioni degli studi moderni spaziano dalle narrazioni mitistoriche (arrivo di Giano a bordo di un battello nel Lazio, dove introdusse l’arte della navigazione) ai riferimenti storici legati alle grandi battaglie navali condotte vittoriosamente da Roma tra il IV e il III secolo a.C., che la videro affermarsi quale indiscussa potenza nel Mediterraneo.

propaganda e superstizione

La moneta della buona fortuna scoperte recentissime confermano la straordinaria continuità di una singolare usanza marinaresca 110 a r c h e o

La monetazione antica, oltre ad assolvere alla funziona principale di mezzo di scambio emesso da una autorità statale che attraverso le scelte tipologiche propaganda anche se stessa, svolge tra la popolazione che la usa un ruolo parallelo, legato alla superstizione e alla magia. Trasformata già nel mondo antico in gioiello, quando di materiale nobile, la moneta può diventare infatti, di volta in volta, un viatico per l’aldilà, un amuleto o un talismano portafortuna da indossare o da inserire nelle fondazioni di edifici pubblici e privati, un’apportatrice di salute. Tutte funzioni, queste, riconosciute e ricordate dalle fonti letterarie, dagli studi moderni e ancora oggi A sinistra: l’asse di Domiziano trovato sotto l’albero del relitto scoperto a Londra e denominato Blackfriars I, di cui, in alto, si vede un momento dello scavo, condotto negli anni Sessanta.


ampiamente praticate; basti pensare alle monetine che i turisti gettano nelle fontane o in luoghi considerati speciali. C’è poi una curiosa e interessante consuetudine che lega la moneta al mare, alle navi e ai marinai, testimoniata dall’archeologia e dalla pratica moderna. Si tratta della diffusissima tradizione, connessa a un insieme di superstizioni ben note alla gente di mare, di incassare sotto l’albero maestro una moneta posta a protezione dell’imbarcazione e del suo equipaggio (basti guardare i risultati che offrono i motori di ricerca nel web sotto il lemma «mast-step coin») e che con ininterrotta continuità si ripete dall’età romana. In Italia, Francia, Spagna e Inghilterra sono stati infatti ritrovati numerosi relitti di navi romane, databili tra il 150 a.C. e 400 d.C. circa, che conservavano lo scafo in condizioni piú o meno buone e con una moneta incassata sotto l’albero maestro, perlopiú illeggibile, ma rigorosamente di bronzo. È interessante notare a questo proposito che le deposizioni intenzionali di monete romane in tombe, navi, fondazioni pavimentali, specchi d’acqua naturali o artificiali consistono di regola, seppur con le debite eccezioni, in nominali in bronzo. Questo perché, probabilmente, da

un lato la valenza extramonetale del denaro a tali fini doveva essere alla portata di tutti proprio per il suo carattere magico-religioso simbolico, e dall’altro non sottraeva alla circolazione denari e aurei di valore togliendoli definitivamente dal mercato.

l’imperatore a testa in giú Tra le navi romane ritrovate vi è quella detta di Blackfriars I, affondata presso Londra lungo le banchine del Tamigi e scavata negli anni Sessanta del secolo scorso. Insieme ad altro materiale vi era appunto, sotto l’albero maestro, un asse di Domiziano databile all’88-89 d.C. e con il tipo della Fortuna al rovescio. Considerando le molteplici divinità e personificazioni riprodotte sulle monete, non si può certo stabilire se la scelta della dea beneaugurante effettuata da chi costruí o commissionò il battello sia stata volontaria o meno; è certo, però, che la testa dell’imperatore era volta verso il basso e che l’albero maestro era poggiato sul lato con la Fortuna. In questo caso è forse possibile ipotizzare una precisa volontà nel prediligere la dea, e non per nulla e anche oggi questo tipo di rituale è chiamato, almeno in ambito anglosassone e americano, «moneta della buona fortuna» (the lucky coin).

La continuità di questa usanza sino ai giorni nostri è attestata ampiamente e senza soluzione di continuità, come testimonia per esempio il relitto medievale di una nave francese affondata nel 2002 lungo le rive del fiume Usk a Newport (Galles, Gran Bretagna), che ha tra l’altro restituito un «bianchetto» d’argento (petit blanc), battuto dal delfino Luigi di Francia tra il 1444 e il 1456, incassato nella chiglia di prua. Di grande interesse e particolare rilevanza storica, anche per la tragedia a cui è legato, è infine il ritrovamento a New York dello scafo di un vascello dei Padri Pellegrini del XVIII secolo, con una moneta dell’epoca posta sotto l’albero maestro. La scoperta è avvenuta durante gli scavi effettuati nel 2010 per la costruzione del nuovo centro di Ground Zero a Manhattan, nato sulle ceneri delle Torri Gemelle del World Trade Center. La moneta della buona fortuna continua a essere un’usanza rispettata e presa molto seriamente anche a livello ufficiale, prevista nel cerimoniale di inaugurazione: si pensi al caso dell’incrociatore della marina americana USS Higgins, commissionato nel 1999, potentemente armato e dotato di ben 11 monete rare, appositamente selezionate e poste sotto il suo possente albero maestro.

per saperne di piÚ • Claudia Perassi, Monete amuleto e monete talismano, in Numismatica e Antichità Classiche. Quaderni Ticinesi, 40, 2011, pp. 223-274. • Deborah N. Carlson, Mast-Step Coins among the Romans, in The International Journal of Nautical Archaeology, 36, 2, 2007, pp. 317-324. New York, Ground Zero. Il relitto di una nave dei Padri Pellegrini del XVIII sec. in corso di scavo (a sinistra) e la moneta (in alto), illeggibile, ritrovata sotto l’albero maestro.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Giuseppe Sassatelli, Giuseppe M. Della Fina

Gli Etruschi Monduzzi Editoriale, Milano, pp. 144, illustrazioni in b/n e tavole a colori 25,00 euro ISBN 978-88-6521-067-3 www.monduzzieditore.it

Il successo che gli Etruschi continuano a riscuotere si basa in buona parte sull’alone di mistero che ancora oggi viene spesso evocato quando si parla di questo popolo. E chiunque si occupi di divulgazione «alta» sa bene che parlare degli Etruschi e negarne la qualifica di «popolo misterioso» scontenta e delude l’uditorio, quasi che il fascino esercitato dai Tirreni sia legato a ciò che non si sa piuttosto che a quello che gli studi hanno ormai assodato. È vero, d’altro canto, che l’aggiornamento scientifico è solitamente poco accessibile ai non addetti ai lavori, in quanto i dati recenti sono spesso confinati nell’ambito delle pubblicazioni di

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taglio specialistico. Ecco perchè lavori come quello qui presentato non possono che essere i benvenuti: scritto da due etruscologi di chiarissima fama, il volume offre un agevole ed esaustivo excursus sugli Etruschi, presentati alla luce dei nuovi ritrovamenti e delle ultime proposte interpretative che li vedono protagonisti. Destinato allo studio universitario, ma anche a chi si avvicini per la prima volta alla materia e al lettore appassionato, il libro fa il punto sulla questione. I suoi 15 capitoli analizzano ogni ambito della civiltà etrusca: dalla nascita dell’etruscologia al contesto geografico, dal problema delle origini (un non-problema già brillantemente risolto nel 1947 da Massimo Pallottino) alla formazione urbana, fino alla posizione della donna (che non si tradusse in un matriarcato, ma nella definizione di un ruolo importante e relativamente paritario rispetto alle usanze della Grecia classica e di Roma). Senza trascurare l’ordinamento sociale e commerciale, l’eccezionale produzione artistica (basti pensare alle tombe dipinte, all’Apollo di Veio o al trono ligneo di Verucchio), la profonda religiosità vissuta in maniera centrale riguardo ogni singolo aspetto della vita pubblica. Infine la lingua, non indoeuropea e di cui resta un numero limitato di testimonianze: in larga

parte comprensibile nella sua struttura e nei suoi vocaboli, pur restando difficoltà ermeneutiche dovute anche alla scomparsa di testi letterari di ampio respiro. Non mancano, infine, considerazioni sull’Etruria campana e quella padana, che ben testimoniano quanto già esprimeva Catone il Censore (che scrive tra il III e il II secolo a.C.), affermando che «Tutta l’Italia era stata in gran parte sotto il controllo degli Etruschi». Ogni capitolo ha illustrazioni, tavole e un’efficace «bibliografia essenziale», con gli studi fondamentali e aggiornati. Il linguaggio piano e l’onestà intellettuale con cui Sassatelli e Della Fina danno conto delle varie opinioni degli studiosi della materia sono uno dei pregi maggiori dell’opera, punto di partenza ma anche di arrivo per tutti coloro che amano, studiano e sono affascinati, ma senza alcun mistero, dagli Etruschi. Francesca Ceci Sandro Caranzano

L’archeologia in Piemonte Prima e dopo Ottaviano Augusto Ananke, Torino, 271 pp., ill. b/n 19,50 euro ISBN 978-88-7325-415-7 www.ananke-edizioni.com

Otto capitoli, otto siti archeologici, otto modi di indagare e approfondire le radici della regione ai piedi delle Alpi. Questa Archeologia in

Piemonte è un’opera di piacevole lettura, pensata dall’autore come sintesi di un percorso attraverso le testimonianze e i caratteri principali delle civiltà che hanno segnato la storia piú antica di questa parte della Penisola: «Il tentativo – scrive Caranzano – è stato quello di incrociare i dati provenienti dalle piú moderne indagini archeologiche con l’ampia trattatistica otto-novecentesca, effettuando un emozionante “scavo archeologico” in biblioteca alla ricerca delle vecchie relazioni di scavo e delle antiche planimetrie, nella speranza di ricollegare qualche “sinapsi” e individuare eventuali connessioni logiche che ci permettano una piú corretta ricostruzione storica». Non mancano, dunque, spunti e collegamenti con realtà esterne al Piemonte, talora anche molto distanti: è il caso del parallelismo con altre province romane, un confronto ricco di preziose informazioni per


quanto riguarda le analogie – o le differenze – che possono essere individuate a seconda dell’oggetto dell’indagine. Ecco che il richiamo alle miniere del Mediterraneo o del limes renano ai tempi di Costantino può essere utile nello studio dello sfruttamento del sottosuolo nel sito di Victimulae, o che l’approfondimento delle particolarità della struttura urbana di Iulia Augusta Taurinorum rispetto ad altre realtà diffuse in età augustea (e non solo) è fondamentale per sfatare alcune errate interpretazioni a proposito della sua fondazione. Il volume si sofferma anche sulle prime fasi di frequentazione del territorio: dal villaggio neolitico di Chiomonte alle palafitte lacustri di Viverone, la cui planimetria sembra anticipare, a livello embrionale, quella delle città greche e romane. Genti preistoriche, Galli, Romani e Longobardi sono i protagonisti di un lavoro di ampio respiro, arricchito da foto, disegni ricostruttivi, e da un nutrito apparato bibliografico. Giorgio Rossignoli Margherita Cancellieri, Domenico Palombi, Francesco Maria Cifarelli, Stefania Quilici Gigli (a cura di)

Tra memoria dell’antico e identità culturale. Tempi e protagonisti della scoperta dei Monti Lepini

Espera, Roma, 268 pp., ill. col. e b/n 48,00 euro ISBN 978-88-903056-8-9 www.archeologica.com

Sebbene siano spesso messe in ombra da quelle di Roma, le vicende storiche del Lazio antico sono un capitolo di grande interesse nel panorama dell’Italia preromana prima e di quella romanizzata poi. Il comprensorio dei Monti Lepini, a cui il volume è dedicato, rappresenta in questo senso un caso esemplare, ricco com’è di un patrimonio archeologico plurisecolare che, salvo sporadiche eccezioni, è rimasto a lungo misconosciuto. Non da tutti, però, perché, come raccontano i saggi confluiti nell’opera (corredati da un ricco apparato documentario), fin dal Quattrocento, il territorio fu visitato da letterati, artisti e studiosi, tra i quali non mancano nomi prestigiosi, come quelli di Antonio da Sangallo il Giovane, Giovanni Battista Piranesi o Luigi Canina. A questi e ad altri si devono perciò

annotazioni, descrizioni e, soprattutto, disegni e dipinti che offrono una documentazione di eccezionale interesse, anche perché, spesso, testimoniano situazioni oggi non piú osservabili. Dal tempio di Ercole a Cori alle mura «ciclopiche» di Segni o Norba, dalla cattedrale di Priverno all’abbazia di Valvisciolo, il volume propone una sorta di nuovo Grand Tour, in cui, alla suggestione delle immagini, si aggiungono però esami critici e sintesi storiche che ricostruiscono in maniera assai approfondita la storia dei contesti di volta in volta considerati.

dall’estero Maria Eugenia Aubet

commerce and colonization in the ancient near east Cambridge University Press, New York, 414 pp., ill. b/n 99,00 USD ISBN 978-0-521-51417-0 www.cambridge.org

Quali erano le regole e i meccanismi dell’economia e del commercio nel Vicino Oriente antico? E quali, di conseguenza, le origini della colonizzazione fenicia che, nel I millennio a.C., investí molte aree del bacino mediterraneo? A queste (impegnative) domande prova a rispondere Maria Eugenia Aubet in questo nuovo saggio, che, a piú riprese, prende le mosse dai dati scaturiti dagli scavi che la studiosa

conduce a Tiro da anni. La prima parte dell’opera, di taglio specialistico, è dedicata a un riesame, ampio e approfondito, di alcune delle piú significative prese di posizione maturate all’interno del dibattito sulle caratteristiche dell’economia nel mondo antico. Un’analisi al cui interno trova spazio, per esempio, la verifica dell’attualità delle teorie formulate, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, dal celebre storico e antropologo di origini ungheresi Karl Polanyi. Nella seconda parte Aubet sposta il suo obiettivo su problematiche piú strettamente archeologiche, e chiama in causa i principali protagonisti della scena vicino-orientale alle soglie della storia: le genti di Uruk e di Biblo, e poi gli Assiri, i Sumeri, gli Egiziani. Attori di processi decisivi nello sviluppo dei modi di produzione e di gestione delle risorse. (a cura di Stefano Mammini)

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