Archeo n. 346, Dicembre 2013

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2013

segni project

antico giappone / 2

alessandria

miti greci / 10 atalanta

speciale cleopatra e augusto

Mens. Anno XXIX numero 12 (346) Dicembre 2013 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 346 dicembre

cleopatra VS augusto

Quando finÍ un’epoca e nacque l’impero

ALESSANDRIA

l’antico SOGNO DI UN MONDO GLOBALE

NATALE AL MUSEO

€ 5,90

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editoriale

capitale dell’archeologia Mentre scriviamo si è appena conclusa la XVI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum. Lo ricordiamo, innanzitutto, per il luogo stesso in cui si è svolta: Paestum è un sito unico al mondo, e non solo perché si tratta di una città greca su suolo italico, ancora circondata dall’antica cinta muraria con le sue porte e torri e, al suo interno, tre grandiosi templi magnificamente conservati e un museo archeologico tra i piú affascinanti d’Italia. Ma anche perché – contrariamente a tanti altri siti archeologici del nostro Meridione – Paestum si avvale di un contesto ambientale e paesaggistico non deturpato da opere che ne compromettono la prospettiva, la luce, la bellezza. Non vogliamo minimizzare né, tantomeno, negare i rischi sempre in agguato che minacciano l’antica città, soprattutto quelli legati alla cementificazione – abusiva o meno – del suo territorio (e di cui abbiamo parlato e continueremo a farlo). È doveroso ricordare, però, che una legge proposta nel 1957 da un grande intellettuale e ambientalista, Umberto Zanotti Bianco, istituí una «fascia di rispetto» di 1000 m intorno alle mura pestane e vietò la costruzione di qualsiasi edificio all’interno della vasta area archeologica. Allo spirito che ha informato questa legge e agli archeologi e funzionari della Soprintendenza che continuano a dedicarsi al restauro e alla salvaguardia dei suoi monumenti, dobbiamo il senso di decoro e di dignità che le antichità di Paestum ancora oggi trasmettono ai visitatori. E non è un risultato scontato. Eppure, Paestum-Poseidonia (come la chiamarono i suoi fondatori, in onore del dio del mare), dal 1998 riconosciuta dall’UNESCO come Patrimonio dell’Umanità, è un sito poco frequentato, forse piú da turisti stranieri che non dagli stessi Italiani. Anche se – come ricordavamo all’inizio – da sedici anni a questa parte l’antica città si trasforma, per qualche giorno di novembre, in una vera e propria «capitale internazionale dell’archeologia»… Visitiamo Paestum, dunque! Ecco l’invito che rivolgiamo ai nostri lettori. Insieme ai migliori auguri per il Natale e l’Anno Nuovo. Andreas M. Steiner

Pianta di Paestum, di Costantino Gatta (1732), la piú antica riproduzione dell’area archeologica pestana.


Sommario Editoriale

Capitale dell’archeologia

scavi 3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

scoperte Gli scavi a Tel Kabri, in Israele, restituiscono i resti della piú antica cantina del Vicino Oriente

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6

Segni. La storia oltre lo scavo

antico giappone/2 Il primo Stato 6

parola d’archeologo Che fare per rilanciare il turismo culturale italiano? Lo abbiamo chiesto a Taleb Rifai, Segretario Generale dell’Organizzazione Mondiale per il Turismo 12

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di Francesco Maria Cifarelli, Federica Colaiacomo, Stephen Kay e Christopher Smith, con la collaborazione di Letizia Ceccarelli e Camilla Panzieri

di Marco Meccarelli

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42

i luoghi della leggenda Alessandria la Grande

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di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

mitologia, istruzioni per l’uso/10

Atalanta, cacciatrice indomita 68 di Daniele F. Maras

mostre In un inserto speciale, le 10 mostre italiane da non perdere

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dalla stampa internazionale Alla ricerca del miglior amico del... cane

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68 In copertina un ritratto recentemente attribuito a Cleopatra (a sinistra) e il profilo di una statua di Augusto nelle vesti di pontefice massimo.

Anno XXIX, n. 12 (346) - dicembre 2013 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,

Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Franco Bruni è musicologo. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Letizia Ceccarelli è Visiting Scholar presso il McDonald Institute for Archaeological Research, Cambridge University. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Francesco Maria Cifarelli è direttore del Museo Archeologico Comunale di Segni. Federica Colaiacomo è conservatore del Museo Archeologico Comunale di Segni. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Andrea Giardina è professore su convenzione di storia romana presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Stephen Kay è ricercatore (Molly Cotton Fellow) presso la British School at Rome. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Camilla Panzieri è archeologa. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Christopher Smith è direttore della British School at Rome. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Guy Weill Goudchaux è esperto in storia dell’Egitto tolemaico. Illustrazioni e immagini: cortesia dell’autore/foto Nick Bürgin: copertina (primo piano, a sinistra) e pp. 87 (sinistra), 90, 91 – cortesia Ufficio stampa mostra: copertina (primo piano, a destra e sfondo) e pp. 16-22, 77-83, 85, 86, 87 (destra), 88, 89 (nn. 2 e 4), 92-97 – Cortesia Ufficio stampa George Washington University: Eric H. Cline: p. 6 (alto); Skyview Photography Ltd: p. 6 (basso) – CNRS-CFEETK/J. Maucor: p. 7 – MOLA: Andy Chopping: p. 8 (alto, sinistra e centro); Maggie Cox: pp. 8/9 – Cortesia SBA Marche: p. 9 – INRAP: Denis Gliksman: p. 10 (alto e basso); Michel Christen: p. 10 (centro) – Ira Block/National Geographic: p. 11 – Cortesia Ufficio stampa BMTA: p. 12 (alto) – Doc. red.: pp. 3, 12 (basso), 13, 28, 43, 61, 89 (nn. 1 e 3), 102, 106 (alto), 108 (basso), 109 – Marka: Raimund Kutter/ Imageb: pp. 32/33; Juan Carlos Muñoz: pp. 54/55, 67; Toño Labra: p. 66 – Cortesia Segni Project: 34-41 – Mondadori Portfolio: Picture Desk Images: pp. 42, 45 (alto), 46, 62, 70, 84; AKG Images: pp. 56 (destra), 58 (alto e basso), 59, 74/75; Leemage: p. 58 (centro); Album:


Rubriche il mestiere dell’archeologo Il museo di tutti i tempi

94

di Daniele Manacorda

94

74 speciale

Cleopatra e Augusto

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testi di Andrea Giardina, Francesca Cenerini e Guy Weill Goudchaux

scavare il medioevo Misteri del Grande Nord

divi e donne 102

di Andrea Augenti

antichi ieri e oggi

Che la festa cominci! E non finisca... 98 di Romolo A. Staccioli

Dimmi come ti pettini...

Una lezione dimenticata

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di Andrea De Pascale

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Cesare Biffi Direttore generale: Lidia Rossi Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Pubblicità: Veronica Savoia veronica.savoia@mywaymedia.it tel. 02 21768.510 – cell. 347 4886397 Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 21768.507 Direzione: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano tel. 02 21768 507 fax 02 21768 550 Sede legale e operativa: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano

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di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia

l’ordine rovesciato delle cose

pp. 68/69, 98 – Corbis: p. 57; Sakamoto Photo Research Laboratory: p. 44; Aflo/Aflo: p. 48 (alto); B.S.P.I.: p. 48 (basso); Jochen Schlenker/Robert Harding World Imagery: p. 49 (sinistra); Everett Kennedy Brown/epa: p. 52 (alto), 53 (alto e basso); Araldo de Luca: p. 106 (basso) – DeA Picture Library: p. 45 (basso), 52 (basso), 100; L. De Masi: p. 47; G. Dagli Orti: p. 65 (basso) – Bridgeman Art Library: p. 49 (destra), 71 (alto e basso) – Shutterstock: p. 50-51, 56 (sinistra), 60 basso), 64, 65 (alto) – Jean-Claude Golvin/Musée départemental Arles antique/ Éditions Errance: acquerelli alle pp. 60, 62 – Alinari, Firenze/RMN-Grand Palais (Musée du Louvre): Hervé Lewandowski: p. 71 (centro); René-Gabriel Ojéda: pp. 72/73 – Cortesia dell’autore: p. 72 (alto), 108 (alto) – Da World Archaeology Magazine, 58, apr-mag 2013: pp. 102/103, 103 – Cortesia Archivio Egeria CRS: R. Palombarani: p. 104; C. Germani: p. 105 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 44, 64, 103

Coppia vincente

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di Francesca Ceci

libri

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Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa, Milano Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl - Via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl- titolare del trattamento- al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Ludovico d’Aragona, 11, 20132 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n oti z i ari o SCoperte Israele

il piú antico vino del vicino oriente

S

coperto negli anni Sessanta durante la costruzione di un impianto di irrigazione, il sito israeliano di Tel Kabri è probabilmente destinato a guadagnarsi una fama notevole anche tra i non addetti ai lavori: nel corso dell’ultima campagna di scavo condotta dagli archeologi della George Washington University e dell’Università di Haifa sono infatti venuti alla luce i resti di quella che, a oggi, è la piú grande e piú antica cantina del Vicino Oriente. Il ritrovamento ha avuto luogo nel corso delle esplorazioni che interessano il complesso palaziale di Tel Kabri, un insediamento situato nella parte settentrionale della terra di Canaan, databile

intorno al 1700 a.C. Da una delle aree indagate sono emerse, in rapida successione, una quarantina di grandi giare, sistemate in un vano adibito a deposito che misura 4,5 x 7,5 m circa. Ogni contenitore ha una capacità di circa 2000 l: tradotto in termini moderni, ciò

In alto: Tel Kabri (Israele). Un momento dello scavo del vano interpretato come cantina per via della presenza di una quarantina di giare vinarie. Qui sopra: l’area di scavo in una foto zenitale.

6 archeo

significa che la «cantina» poteva conservare una quantità di vino pari a quella di quasi 3000 bottiglie. Come spiega Assaf Yasur-Landau, dell’Università di Haifa, il deposito del vino era ubicato nei pressi di una sala per banchetti, verosimilmente utilizzata dai membri dell’élite di Tel Kabri e da importanti ospiti stranieri. Entrambe le strutture furono distrutte in occasione di un evento violento, forse un terremoto, che le seppellí sotto una coltre di detriti formati da mattoni crudi e intonaco. Che le giare fossero destinate alla conservazione del vino era, inizialmente, solo un’ipotesi. La conferma decisiva è venuta dalle analisi sui residui organici presenti sulla ceramica, nei quali sono state trovate tracce di acido tartarico e acido siringico – componenti entrambi del vino –, nonché di ingredienti comunemente usati all’epoca nella produzione della bevanda, tra cui miele, menta, cannella, bacche di ginepro e resine. Una miscela che ricalca quella indicata nelle ricette per la produzione di vini terapeutici utilizzati nell’antico Egitto. Stefano Mammini


SCoperte Egitto

lo scriba e il sacerdote

A sinistra: Armant (Egitto). Il vano in cui sono state trovate cinque teste scolpite di faraone, databili al Medio Regno (2064-1797 a.C.).

U

n rinvenimento eccezionale nel sito di Armant (l’antica Hermonthis), ha coronato le ricerche che, dal 2004, la missione archeologica francese conduce in Egitto, a sud di Luxor. Lo scavo del tempio principale, dedicato al dio Montu-Ra, ha infatti restituito due statue in pietra di dignitari in ottimo stato di conservazione, un esteso frammento di parete figurata, nonché alcune teste in pietra di faraoni con tracce di pigmenti ancora evidenti. La presenza di geroglifici sulle statue dei dignitari ne ha permesso l’identificazione. Rappresentano Nebamon, scriba e medico del faraone, e Ramose, sommo sacerdote del dio Montu-Ra, all’epoca di Ramesse II. È in Qui sotto: la statua di Nebamon, scriba vissuto al tempo di Thutmosi IV e Amenhotep III (1401-1353 a.C.)

particolare la seconda ad aver suscitato la maggiore meraviglia: la statua, in granodiorite, raffigura il sacerdote inginocchiato mentre offre due teste di falco (simbolo del dio Montu-Ra) su una tavola votiva. Se la figura di Ramose era già nota da altre immagini (una statua oggi all’Art Institute di Chicago e una pittura in una tomba tebana), una simile doppia rappresentazione della divinità è a oggi un unicum. Lo scriba Nebamon, scolpito in arenaria, appare invece seduto, mentre regge sulle ginocchia una piccola statua del dio Montu chiusa nel suo tempio. È poi stata ritrovata una grande lastra in pietra calcarea, datata al regno di Amenemhat I (1990 a.C. circa), con la raffigurazione di Anubi, dio dei morti dalla testa di sciacallo, che tiene per mano il faraone, corredata da iscrizioni geroglifiche. Le cinque teste di faraone invece sono state rinvenute raggruppate in un vano nel quale si ritiene fossero state intenzionalmente deposte. Realizzate in pietra arenaria, misurano in media 70 cm e portano tutte la corona dell’alto e basso Egitto. Si presentano in buono stato di conservazione e mantengono ancora ben visibili tracce di pigmenti blu sulla barba e rossi sugli incarnati e su parte delle corone. La mancanza di iscrizioni geroglifiche ne rende

difficile l’identificazione, tuttavia le prime osservazioni suggeriscono una datazione al Medio Regno. Paolo Leonini A destra: la statua dello scriba Nebamon che regge una scultura di Montu-Ra.

Errata corrige con riferimento all’articolo Erode. Una nuova immagine (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2012), desideriamo precisare che le vicende che hanno reso celebre il sito di Masada si verificarono a conclusione della prima rivolta giudaica (66-73 d.C.) e non durante la seconda rivolta, come erroneamente indicato nel box Alla scoperta dei luoghi di Erode, a p. 34. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori. archeo 7


n otiz iario

SCoperte Londra

l’aquila che non ti aspetti

In alto: l’aquila recuperata negli scavi condotti nel centro di Londra. In basso: il reperto durante il primo intervento conservativo.

8 archeo

D

urante le indagini preventive in un sito destinato ad accogliere un albergo nel centro di Londra, gli archeologi del MOLA (Museum of London Archaeology) si sono trovati di fronte a un rinvenimento cosí straordinario, da essere indotti, in un primo momento, a dubitare perfino della sua autenticità. Sul fondo di una fossa è stato individuato un oggetto in pietra, ricoperto di fango, che, dopo una prima pulitura sul posto, ha rivelato le fattezze perfettamente definite di un’aquila che afferra nel becco un serpente morente. L’eccellente stato di conservazione del manufatto ha fatto pensare che potesse trattarsi di un ornamento da giardino di età vittoriana. E, invece, la sorpresa è stata ben piú grande quando, dopo aver eseguito indagini piú accurate, il reperto si è rivelato essere un originale di epoca romana databile al I o al II secolo d.C. Una scoperta di questa portata è straordinaria: se si eccettua un


marche torso di volatile (privo di testa e ali) scoperto negli anni Venti del Novecento in una villa romana nel Somerset, questo è il ritrovamento piú importante del genere mai fatto in Inghilterra. Nell’intero panorama dei reperti di epoca romana solo un altro esemplare di aquila con serpente è paragonabile a questo: proviene dalla Giordania ed è attualmente conservato persso il Cincinnati Art Museum. La scultura recuperata a Londra misura circa 65 cm in altezza e 55 di diametro ed è realizzata in una qualità di pietra calcarea proveniente dai Cotswolds (Inghilterra centrale). Gli specialisti hanno confermato l’esistenza in età romana di rinomati laboratori artigianali nell’area, di cui tuttavia non ci sono pervenute che scarse tracce, il che accresce il prestigio del reperto. Le caratteristiche morfologiche della scultura, perfettamente definita nei dettagli ma con la parte posteriore non finita, suggeriscono che fosse inserita in una nicchia a muro. Il rinvenimento delle fondamenta di un adiacente mausoleo ha avvalorato quest’ipotesi, considerando anche la simbologia dell’aquila e del serpente, tipica in ambito funerario romano. Il significato di questa composizione viene solitamente interpretato come la lotta tra le forze del bene e quelle del male. Le fonti ci tramandano anche che in occasione dei funerali di Stato degli imperatori un’aquila venisse tenuta in gabbia accanto alla pira funeraria per essere liberata una volta divampato il fuoco a rappresentare l’ascensione dello spirito del defunto al rango divino. Per la scultura è stata prontamente allestita un’esposizione straordinaria al Museum of London, che resterà visitabile fino all’aprile 2014. P. L.

Una «nuova» necropoli picena A San Costanzo, piccolo centro in provincia di Pesaro e Urbino, è stata recentemente scoperta una vasta necropoli picena dell’età del Ferro, con sepolture perlopiú databili tra l’VIII e il VII secolo a.C. «Le sepolture indagate – spiega Maria Gloria Cerquetti, funzionario archeologo responsabile della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Marche – mostrano il defunto in posizione rannicchiata sul lato destro, adagiato in cassa lignea, di cui rimane, nei casi di migliore stato di conservazione della struttura della tomba, l’impronta in negativo. La deposizione degli inumati, in San Costanzo (Pesaro-Urbino). gran parte individui in età adulta Oggetti, ancora in situ, del corredo e di sesso femminile, rispetta di una delle tombe picene sempre la dimensione principale recentemente riportate alla luce. della fossa con il capo a oriente o a occidente, mentre il braccio destro è di solito disteso lungo il fianco, e quello sinistro è piegato sull’addome». Piú d’una differenza è stata rilevata nella tipologia dei corredi funerari, comunque affini a quelli delle necropoli coeve rinvenute nel territorio marchigiano: «Nelle deposizioni maschili – afferma la Cerquetti – gli oggetti piú frequenti sono gli spilloni in bronzo e la punta di lancia in ferro con immanicatura a cannone collocata all’altezza del cranio lungo il fianco destro. In un solo caso, è stato rinvenuto, deposto sul torace, un rasoio lunato con dorso a curva continua con anello del manico decorato con appendici semilunate in bronzo, mentre un’unica sepoltura ha restituito un ricco corredo di armi in ferro (pugnale e spada corta inseriti ancora nel fodero). Nelle sepolture femminili sono sempre presenti le fibule nei vari tipi diffusi nel periodo (fibula con arco rivestito d’ambra, fibule a occhiali, ad arco ribassato e ingrossato, a sanguisuga, ad arco foliato e giro di anellini, ad arco foliato e staffa a disco, a navicella). Frequente la presenza del kothon, il tipico vaso a forma globulare dotato di una sola ansa terminante in due estremità, spesso associato al kantharos a bocca ovale. Caratteristiche sono poi le collane cui sono appesi pendagli in ambra con anellino di sospensione in filo di bronzo e pendenti a occhiali. Alcune sepolture femminili principesche hanno restituito, oltre al classico corredo talvolta caratterizzato anche dalla presenza di fusaiole fittili e rocchetti, una serie di cinture composte da un supporto di materiale deperibile sul quale erano fissate file di ribattini in bronzo e complessi pettorali a una sola piastrina o a doppia piastrina ornitomorfa dalle quali pendono lunghe catenelle a maglia doppia che terminano con pendagli trapezoidali in ambra, sempre associati a fibule di grandi dimensioni del tipo a occhiali o a navicella e alla falera». Giampiero Galasso archeo 9


n otiz iario

SCAVI Francia

l’alsazia si racconta

In alto: perle in ambra d’epoca neolitica. A sinistra: un tratto del fossato che chiudeva la fattoria d’età gallica. In basso: il cranio deformato, attribuito a un individuo di origine caucasica.

L

a frequentazione ripetuta di un sito è un fenomeno comune in archeologia, ma la situazione emersa a Obernai, nell’Alsazia francese, è un caso comunque eccezionale: indagini preventive in un’area destinata a usi industriali hanno infatti restituito una stratigrafia in cui si succedono fasi di occupazione comprese tra l’età neolitica e l’epoca merovingia, abbracciando un orizzonte cronologico di oltre seimila anni. E già le prime osservazioni offrono dati di estremo interesse non solo a livello locale, ma per la storia dell’intero territorio alsaziano. Primo contesto in ordine di tempo è una necropoli neolitica, di cui fanno parte una ventina di sepolture a inumazione, le piú antiche delle quali sono databili

10 a r c h e o

tra i 4900 e i 4750 anni da oggi. Si tratta dunque di un piccolo nucleo funerario, espressione di un momento di transizione in cui i grandi sepolcreti di tipo danubiano vengono appunto soppiantati da cimiteri di proporzioni piú contenute. Quasi cinquemila anni piú tardi, in un momento collocabile alla fine della cultura di La Tène, il sito viene occupato da una vasta fattoria, che si estende su una superficie di 8000 mq circa. In quest’area sono stati trovati i resti di varie strutture residenziali e fosse per l’immagazzinamento delle derrate ed è stata recuperata una mole considerevole di reperti (tra cui fibule, monili in pasta vitrea, vasellame, anfore e monete), che attestano

l’importanza della fattoria e la ricchezza del suo proprietario. All’età merovingia risale infine un’altra necropoli, di cui sono state indagate diciotto sepolture. Tra i materiali di corredo, sono stati trovati vari oggetti simili a quelli in uso presso le popolazioni alano-sarmate del Caucaso e l’origine orientale degli individui è stata confermata anche dalla presenza di un cranio intenzionalmente deformato. Si tratta, infatti, di una pratica ascrivibile agli Unni, adottata come segno di distinzione sociale. S. M.


SCoperte Nepal

alle origini del buddhismo

Dall’alto in basso: Lumbini (Nepal). Tre immagini del Maya Devi, al cui interno è stata scoperta una struttura lignea databile al VI sec. a.C., cioè all’epoca della nascita del Buddha.

G

razie all’archeologia, la vicenda terrena del principe Siddharta Gautama, colui che, dopo aver raggiunto la Verità, divenne il Buddha, cioè l’Illuminato, ha trovato un nuovo e decisivo riscontro concreto. Scavi condotti a Lumbini, in Nepal, la cittadina che si ritiene abbia dato i natali al fondatore del buddhismo e che, dal 1997, fa parte del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, hanno infatti portato alla luce resti di una struttura templare databile al VI secolo a.C. e dunque

pienamente compatibile con la sua data di nascita, tradizionalmente fissata intorno al 560 a.C. Si tratta della prima testimonianza concreta ascrivibile alla vita del Buddha e

riferibile a un Paese ben definito. La scoperta è stata effettuata nel complesso templare di Maya Devi, al cui interno è emersa una struttura in legno databile appunto al VI secolo a.C., poi obliterata da una costruzione in mattoni, realizzata circa tre secoli piú tardi, all’epoca di Asoka, sovrano dell’impero Maurya, e che veniva considerata come il piú antico edificio buddhista a oggi noto. Le indagini, che si sono avvalse del supporto della National Geographic Society, sono state condotte da una équipe internazionale, guidata da Robin Coningham (Durham University) e Kosh Prasad Acharya (Pashupati Area Development Trust), i quali, nel presentarla sulle pagine di Antiquity, hanno dichiarato che la scoperta permette di comprendere meglio gli esordi della dottrina buddhista e di valutare appieno l’importanza spirituale di Lumbini. La cronologia della struttura lignea localizzata nel corso degli scavi è stata ricavata dalle indagini effettuate su frammenti di carbone e granuli di sabbia sui quali è stato sperimentato un metodo che combina l’analisi radiocarbonica con tecniche di luminescenza stimolata otticamente. Un riscontro ai risultati ottenuti da tali analisi è stato poi offerto da ricerche geoarcheologiche, che hanno confermato la presenza di antiche radici arboree nell’area vuota individuata al centro del sacello. S. M.

a r c h e o 11


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

il bel paese: istruzioni per l’uso nell’intervista a taleb rifai, segretario dell’omt, parole incoraggianti, ma anche consigli preziosi per migliorare la gestione del nostro potenziale turistico A sinistra: Taleb Rifai, segretario dell’Organizzazione Mondiale per il Turismo alla BMTA di Paestum. A destra: la Tomba del Tuffatore. 480-470 a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale.

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bbiamo incontrato Taleb Rifai, Segretario Generale dell’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), in occasione della XVI edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, che si è tenuta a Paestum, in provincia di Salerno, dal 14 al 17 novembre scorso. Rifai, che nel corso di un dibattito su turismo e cultura, ha sottolineato l’importanza «da un lato della conservazione e tutela, dall’altro della fruizione e conoscenza», ha accettato con

garbo e curiosità di concederci un’intervista, per fare il punto sul turismo archeologico in Italia. Signor Rifai, dalla prospettiva «esterna» di un osservatorio autorevole quale l’Organizzazione Mondiale del Turismo, come le sembra stia andando il turismo, in Italia? E quello archeologico, in particolare? «Mi lasci dire, per prima cosa, che il turismo oggi è probabilmente uno dei pochissimi settori economici che possono sopravvivere, perfino in un momento di difficoltà Paestum. Il tempio di Era (detto anche «di Nettuno»).

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economica come l’attuale. Non solo. Il turismo può stimolare gli altri settori economici, risollevandoli. L’Italia ha ricchezze enormi, e nel campo del turismo culturale e archeologico è il massimo: quindi deve adoperarsi al massimo. Non solo perché ne ha le potenzialità, ma perché il trend del turismo, negli ultimi 5 anni, è mutato. La visita, per il turista, è passata dalla vacanza fatta di sole e spiagge, a molto di piú, e sempre di piú…» E l’archeologia? «Negli ultimi tempi, le esigenze culturali dei viaggiatori stanno diventando piú importanti. Il profilo del viaggiatore è cambiato: i turisti sono piú educati, piú informati, piú esigenti. L’Italia dovrebbe cogliere questa opportunità. Voi state facendo bene: i numeri, gli studi e le proiezioni dell’Organizzazione Mondiale del Turismo dicono che l’Italia sta andando bene, a dispetto della congiuntura economica difficile». Quali sono, secondo lei, i problemi principali? «La sfida piú grande per l’Italia è riuscire a risolvere due problemi: primo, gestire la congestione e l’affollamento dei luoghi turistici, i grandi numeri che arrivano in pochi luoghi concentrati, come Roma, Firenze e Venezia. La seconda sfida è distribuire la massa dei visitatori in piú luoghi.


L’Italia è un museo all’aperto, il suo territorio è ricco di bellezze…». Come Paestum e i suoi templi greci, unici al mondo, che sfuggono spesso alle rotte turistiche? «Sí, come Paestum. In Italia i grandi numeri sono concentrati in pochi luoghi, per questo la diversificazione della mappa geografica delle presenze turistiche è una delle piú grandi sfide per il vostro Paese». Che cosa pensa dovrebbe fare l’Italia, per diversificare maggiormente l’offerta turistica? «Dovrebbe creare un commercio, un business attorno a itinerari turistici e destinazioni alternative. Operatori turistici e agenzie turistiche hanno spesso atteggiamenti sbrigativi; si dicono: “Ok, Firenze è famosa, propongo pacchetti viaggio a Firenze”. Non sentono l’esigenza di portare i turisti verso altre destinazioni. Invece, lo sviluppo del turismo è una loro responsabilità: è dei tour operator, per prima cosa, ma anche degli enti e delle comunità locali, che, a volte, non sono abbastanza attenti. Questa politica, a lungo termine, non paga». Le comunità locali, a suo avviso,

non propongono e non promuovono abbastanza il loro territorio, che spesso è fatto di un patrimonio meno noto, ma non meno prezioso... «Sí, è proprio cosí. Si potrebbe dire che qualche volta non prendono il turismo sul serio. Invece, si tratta di una risorsa che non finirà mai. Bisogna averne cura, affinché renda, anche in termini economici. Ci deve essere una politica mirata. Io credo che la responsabilità stia da entrambe le parti: nel settore privato e in quello pubblico, in particolare negli enti locali». L’Italia ha un grande patrimonio archeologico, ma spesso non lo gestisce al meglio. Il sito archeologico di Paestum, per esempio, sorge in un territorio molto particolare… Che cosa dovrebbe fare per raggiungere questi obbiettivi nel settore turistico? «Credo che eventi come quello che ci ha ospitato in questi giorni a Paestum, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, siano un esempio di quello che si può fare. Bisogna organizzare eventi in questi luoghi, in modo da renderli piú conosciuti. E organizzare eventi

vuol dire non solo discutere tra studiosi: gli archeologi, infatti, troppo spesso hanno un approccio solo scientifico e credono di poter risolvere tutti i problemi parlando unicamente fra di loro. Ma gli archeologici si dovrebbero far ascoltare dal resto del mondo. Devono uscire mentalmente dalla “scatola” in cui si trovano, e invitare sul campo gli operatori del turismo, del territorio, del mondo della cultura, per aprire gli occhi al pubblico sull’importanza dei siti archeologici. Credo che l’organizzazione di eventi sul territorio sia importantissima. Un’altra cosa fondamentale da fare, per l’Italia, è rendere facilmente raggiungibili i siti archeologici». Cosa che non avviene per Paestum… «Io sono arrivato qui dalla Spagna: sono partito da Madrid alle 12,00 della mattina e sono arrivato a Paestum alle 12,00 della notte. L’Italia dovrebbe investire maggiormente nelle infrastrutture dei trasporti e nei collegamenti verso questi luoghi, che, altrimenti, diventano difficilmente raggiungibili dai visitatori».

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n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

il primo imperatore e la regina fatale La contemporanea presenza a Roma di due mostre dedicate ad Augusto e a Cleopatra (per le quali vi rimandiamo allo speciale di questo numero, alle pp. 74-93), personaggi che ebbero una enorme influenza, sia pure in maniera diversa, sulle vicende di Roma e di 1 tutto il Mediterraneo, ci offre lo spunto per parlarne in chiave filatelica. L’intera epopea di Augusto è ottimamente rappresentata dalla lunga e bellissima serie emessa dall’Italia nel 1937 in occasione del bimillenario della sua nascita; i 15 valori, splendidamente disegnati da Corrado Mezzana, raffigurano emblematicamente tutte le tappe salienti della carriera dell’imperatore e qui se ne presentano i piú significativi. Innanzitutto, il suo volto (1) riproposto anche tra due palme per ricordare la campagna d’Africa (2); poi la statua che gli fu eretta quando fu acclamato «imperatore» (3) e l’Ara Pacis (4). Il volto di Augusto, in realtà, era già stato raffigurato nel 1929 con 4 la serie «imperiale» (5), bozzetto riproposto per altri due valori della stessa serie; anche la sua statua è stata ripresa da un altro francobollo del 1938 (6), disegnato anch’esso da Mezzana, e da un francobollo del Vaticano del 1983 (7). La vastità delle terre conquistate dal primo imperatore, ben raffigurata dal valore di 8 posta aerea (8), fu dovuta anche alle sue vittorie sul mare (9), come la famosa battaglia di Azio perché lí 7 furono sconfitte, appunto, le flotte di Antonio e Cleopatra. E questo è il collegamento per mostrare anche qualche pezzo relativo alla regina d’Egitto, cominciando proprio dalla serie ordinaria egiziana del 1920 (10) e da un annullo, sempre egiziano del 1970 che riguarda la Banca d’Egitto ma reca l’immagine 10 della regina (11). Anche il valore del Mozambico ritrae lo stesso soggetto (12) mentre diversa è la testa conservata nell’Antiken Museum di Berlino (13). Esaurita questa piccola rassegna di immagini «archeologiche» di Cleopatra, ecco come invece è stata interpretata dai pittori, come Guido Cagnacci (14) o Rubens (15). Ma chiudiamo in modo piú frivolo… È innegabile che per molti il 11 volto di Cleopatra sia associato a quello di ElizabethTaylor, la famosa attrice statunitense, che la impersonò in un kolossal passato alla storia del cinema. Cleopatra/Elizabeth è stata raffigurata in molti francobolli emessi da Paesi esotici tra i quali presentiamo quelli del Mali (16), del Burundi (17) e della Guinea (18). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

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Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

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l’italia in mostra

nuova luce per i capolavori augusto e cleopatra, come raccontiamo nel nostro speciale, sono i grandi protagonisti della stagione espositiva. ma, accanto a loro, ecco Dieci appuntamenti con le mostre piĂş interessanti attualmente allestite in tutta la penisola: un carosello di animali fantastici, acquerelli ottocenteschi, arte etrusca, ma non solo... Trento

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Dove e quando

mostre Trento

«Sangue di drago. Squame di serpente. Animali fantastici al Castello del Buonconsiglio» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 6 gennaio 2014 Orario tutti i giorni, 9,30-17,00; lunedí chiuso Info tel 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it

un mondo di creature fantastiche

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Trento, gli spazi del Castello del Buonconsiglio ospitano «Sangue di drago. Squame di serpente», esposizione realizzata in collaborazione con il Museo Nazionale Svizzero di Zurigo e incentrata sul tema degli animali fantastici presenti nell’arte e nell’artigianato artistico dall’antichità sino ai decenni precedenti all’Illuminismo, quando lo sguardo verso questo bestiario immaginario mutò profondamente. L’attenzione è catturata, inizialmente, da draghi, chimere, unicorni, sfingi, sirene, centauri, mostri marini...: un campionario infinito di animali creati dalla fantasia e dalle angosce di uomini e donne che conduce in un’atmosfera onirica, in un altrove

A sinistra: pendaglio in oro in forma di sfinge. Produzione ellenistica, fine del IV-inizi del III sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. in cui tutto diviene possibile. Dove la realtà viene superata e si crea un mondo immaginario pieno di limiti oltrepassati, sorprese, paure, ironie e soluzioni fantastiche. Si viene quindi spinti a razionalizzare, a storicizzare, a soffermarsi su singoli artisti o produzioni, a prendere atto dell’esistenza di legami tra un’epoca e l’altra. Emergono allora animali fantastici che hanno attraversato i millenni, valicato i confini tra una mitologia e un’altra e sono giunti sino a noi cambiando – nel corso del tempo – aspetto e valenze.

Un caso esemplare è quello delle sirene: per gli antichi avevano corpo di uccello e testa femminile; piú tardi si trasformarono in donne con la parte inferiore del corpo a forma di volatile; nell’Alto Medioevo si ebbe una nuova trasformazione scaturita dalla sovrapposizione con altre creature fantastiche che popolavano le acque sia nei miti classici che in quelli nordici e slavi: le sirene assunsero allora un corpo femminile fornito di una o due code di pesce, ovvero l’immagine per noi piú consueta. Giuseppe M. Della Fina

Dove e quando

mostre Trento

una chiesa nel cuore della città (e della sua storia)

A destra: reliquiario a capsella, da Trento, chiesa di S. Apollinare. VII sec. Trento, Castello del Buonconsiglio.

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«La città e l’archeologia del sacro: il recupero dell’area di S. Maria Maggiore» Trento, Museo Diocesano Tridentino fino al 23 febbraio 2014 Orario lu-sa, 9,30-12,30 e 14,00-17,30; do, 10,30-13,00 e 14,00-18,00; chiuso tutti i martedí, 25 dicembre, 1° e 6 gennaio Info tel. 0461 234419; e-mail: info@ museodiocesanotridentino.it; www.museodiocesanotridentino.it


Dove e quando

mostre Treviso

magie indiane

«Magie dell’India. Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana» Treviso, Casa dei Carraresi fino al 31 maggio 2014 Orario lu-ve, 9,00-19,00; sa-do, 9,00-20,00; chiuso il 25 e 31 dicembre; apertura straordinaria il 1° gennaio 2014, 14,00-20,00 Info tel. 0422 513150

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o scrittore veronese Emilio Salgàri ambientò molti dei suoi romanzi piú celebri nell’affascinate continente indiano senza mai lasciare l’Italia. Un’opportunità analoga viene ora offerta dalla mostra allestita in Casa dei Carraresi, che propone oggetti e opere d’arte grazie ai quali ci si può immergere nel mondo magico dell’India, godendo di una rassegna che spazia dal II millennio a.C. all’epoca dei Maharaja. Elementi architettonici, miniature, fotografie d’epoca, oggetti di uso rituale e quotidiano, costumi, tessuti, gioielli, accanto a statue e bassorilievi provenienti da importanti collezioni museali e

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opo il complesso intervento di scavo condotto in S. Maria Maggiore tra il 2007 e il 2011, la mostra propone per la prima volta i reperti rinvenuti nel sottosuolo della chiesa, offrendo l’opportunità di conoscere gli esiti di un ampio lavoro di ricerca che ha restituito alla città una fase importante e poco nota della sua storia. L’esposizione, inoltre, contestualizza le testimonianze venute alla luce durante lo scavo, integrando le novità emerse dallo studio di questi reperti con le conoscenze già acquisite nei precedenti interventi nell’area di S. Maria Maggiore e in altri siti della città. Mediante l’esposizione di reperti

Formella in terracotta con busto femminile. Dinastia Gupta, India centro-settentrionale, IV-V sec. d.C. Collezione privata.

particolarmente evocativi, alcuni dei quali riferiti agli altri luoghi di culto, come la basilica di S. Vigilio, S. Apollinare, la chiesa del Doss Trento, S. Lorenzo, l’esposizione fornisce al visitatore un’esaustiva panoramica dei siti archeologici cittadini riferibili alla Trento paleocristiana. Cuore dell’esposizione sono comunque gli scavi effettuati nel sottosuolo di S. Maria Maggiore. L’indagine archeologica ha permesso di ipotizzare che la zona in età romana (fine del I secolo d.C.) fosse occupata da un impianto termale pubblico del quale restano solo alcune tracce; in mostra sono presentati materiali lapidei appartenenti alle strutture e

private, sono stati collocati in un adeguato contesto scenografico che ne ricrea gli ambienti originari. Il percorso espositivo ricostruisce le tappe salienti della civiltà indiana seguendo due filoni principali, che hanno come centro focale, rispettivamente, il Tempio e la Corte: «L’arte nell’India Classica» e «L’india dei Maharaja». Due poli, quello del Tempio e quello della Corte, che sfuggono al dualismo tipicamente occidentale tra sacro e profano e che nella cultura indiana non sono in alcun modo in contraddizione. Il cerimoniale dei templi è simile a quello del palazzo e la figura del re è ammantata di sacralità tanto da renderla divina. La saggezza tradizionale indiana, affinché l’esistenza umana sia significativa e armonica, impone l’impegno etico, ma anche il perseguimento del piacere; sostiene la frugalità, ma non svalorizza la ricchezza; incita al distacco, ma legittima la conquista del potere. Benché il fine ultimo in buona parte della cultura indiana – ma non in tutta – sia la liberazione e il trascendimento del mondo doloroso e finito, la vita e i suoi istanti preziosi sono ampiamente celebrati, soprattutto nell’arte. (red.)

all’arredo di tali ambienti. Lo scavo, inoltre, ha evidenziato il definitivo abbandono dell’impianto romano tra IV e V secolo d.C. e, di conseguenza, un mutamento di funzione dell’area sulla quale sorgerà l’ecclesia. (red.) In basso: l’interno della chiesa di S. Maria Maggiore nel corso del recente intervento di scavo.

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n otiz iario

mostre Milano

storie di devozione

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n occasione dei 1700 anni dalla promulgazione del cosiddetto Editto del 313 d.C., con cui Costantino, proprio dal palazzo imperiale di Milano (di cui restano tracce a poche decine di metri dal Civico Museo Archeologico) concesse libertà di culto in tutto l’impero, il Civico Museo Archeologico di Milano propone un percorso espositivo che illustra il contesto storico, politico e religioso in cui è nato il cristianesimo e le correnti filosofiche e religiose che interagiscono con il suo progressivo affermarsi tra il I e il IV secolo d.C., nonché i complessi rapporti tra la Chiesa cristiana e il potere imperiale. A sinistra: testa di divinità orientale (Mitra o Attis). II-III sec. d.C. Milano, Civico Museo Archeologico.

mostre Forlí

un giorno nella vita di forum livii

Dove e quando «Vivere a Forum Livii. Lo scavo di via Curte» Forlí, Palazzo del Monte di Pietà fino al 12 gennaio 2014 Orario fino al 23.12: ma-ve, 9,00-12,00, sa-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; dal 24.12 al 12.01: ma-ve, 16,00-19,00, sa-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; chiuso lu, 25 dicembre, 1° e 6 gennaio Info www.vivereaforumlivii.it/ 18 a r c h e o

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ealizzato tra il 2003 e il 2004, lo scavo di via Curte ha permesso di indagare estensivamente, per la prima volta e con metodi stratigrafici, i livelli di età romana di Forlí. Ne è emerso un quadro di estremo interesse che ha consentito di ricostruire i principali livelli abitativi dell’area, dalla prima occupazione alla metà del I secolo a.C. fino all’età altomedievale. E ora, grazie ai materiali e documenti di scavo, «Vivere a Forum Livii» offre uno spaccato significativo della vita quotidiana a Forlí in età romana. L’esposizione corre su due binari paralleli: da un lato la storia urbana di Forlí in età romana, con particolare riguardo alle domus, dall’altro l’approfondimento dei diversi aspetti della vita quotidiana. L’area di via Curte è urbanizzata attorno alla metà del I secolo a.C. quando vengono costruiti un

Accompagnato da un ricco corredo esplicativo di pannelli illustrati che ne spiegano con un linguaggio semplice le tematiche, il percorso si apre con la sezione dedicata alla Giudea al volgere dell’era cristiana. Vi sono esposti materiali provenienti dagli scavi condotti negli anni Sessanta dalla Missione Archeologica Italiana a Cesarea Marittima (Israele) e ad AccoTolemaide (la San Giovanni d’Acri dei Crociati). Tra i materiali spiccano, oltre ai balsamari vitrei rinvenuti nelle tombe di Acco, che attestano il passaggio alla tecnica di soffiatura, scoperta proprio nella zona verso la fine del I secolo a.C., il calco dell’epigrafe di Ponzio Pilato, unica attestazione diretta e coeva del prefetto noto dai Vangeli, rinvenuta nel teatro di Cesarea, e un tesoretto, composto da gioielli e croci d’oro, sempre da Cesarea. Nelle sezioni successive vengono quindi sviluppati altri temi importanti, quali il cristianesimo e le filosofie classiche, l’Egitto tra

A destra: placca in bronzo per l’inserimento della fibbia di un cinturone militare. Seconda metà del IV sec. d.C. edificio residenziale e impiantate alcune attività artigianali fra cui una fornace per la cottura di vasellame. Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C., la fornace viene demolita, il terreno livellato e tutto il materiale è riutilizzato per l’ampliamento dell’edificio residenziale che viene anche arricchito da un triclinio e una corte interna dotata di pozzo. Tale sistemazione perdura fino al II secolo d.C., quando viene realizzato un nuovo e piú ampio triclinio (6 x 6 m), decorato a mosaico. La domus verrà poi


Dove e quando «Da Gerusalemme a Milano. Imperatori, filosofi e dèi alle origini del Cristianesimo» Milano, Civico Museo Archeologico fino al 20 giugno 2014 Orario ma-do, 9,00-17,30. Info tel. 02 88465720 (Direzione Museo) o 02 88445208 (Biglietteria); www.comune.milano.it/ museoarcheologico e-mail: c.museoarcheologico@ comune.milano.it antichi e nuovi dèi, i culti misterici, i cristiani e l’impero e le origini del cristianesimo a Milano. Quest’ultima chiude idealmente l’esposizione nella torre poligonale delle mura romane, i cui affreschi del XIII secolo documentano la devozione verso i primi martiri milanesi, a quasi mille anni di distanza dal vescovo Ambrogio, figura cardine della Chiesa locale. (red.)

abbandonata all’inizio del IV secolo, subendo crolli, devastazioni e parziali spoliazioni delle murature. L’area verrà ancora occupata senza riguardo per il mosaico, fino al definitivo abbandono alla fine del V secolo. L’indagine archeologica ha restituito cospicuo materiale laterizio, frammenti di affreschi, esagonette, mattoncini per opus spicatum, e una gran quantità di lastrine di marmo sia bianco che policromo, provenienti dal bacino del Mediterraneo. «Vivere a Forum Livii» è anche l’occasione per ammirare il mosaico del triclinio che, finora conservato nei magazzini della Pinacoteca Civica di Forlí, viene esposto al pubblico per la prima volta: composto da tessere in bianco e nero a motivo geometrico, per una superficie di 20 mq, viene presentato in una ambientazione in cui sono inserite anche copie dei letti tricliniari. (red.)

mostre Firenze

i fasti di cortona

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e sale del Museo Archeologico Nazionale di Firenze ospitano la mostra «Cortona. L’alba dei principi etruschi». Tre fili conduttori vi possono essere individuati: l’impegno dell’Accademia Etrusca di Cortona, sin dalla sua fondazione avvenuta nel 1726, nella tutela del patrimonio locale; la presentazione dell’attività di ricerca condotta negli ultimi decenni e culminata con la scoperta del grandioso altare-terrazza del tumulo II del Sodo; il ruolo del restauro nella piena restituzione di un reperto archeologico come documento utile a ricostruire la storia. Lungo il percorso espositivo si possono osservare i corredi del II circolo funerario del Sodo, costituito da oltre 15 tombe intatte databili tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C., e una serie di oggetti mai visti rinvenuti nei siti archeologici del territorio (dal palazzo principesco di Fossa del Lupo alla villa romana di Ossaia). In evidenza è posto – come si è sottolineato – il tema del restauro e partendo proprio dai reperti rinvenuti negli ultimi scavi, viene presentato il lavoro dei restauratori che ha accompagnato quello degli archeologi. Sono illustrati – seppure sinteticamente – i diversi criteri di restauro che hanno segnato l’età moderna e contemporanea. La presentazione di numerosi reperti inediti di epoca orientalizzante getta una luce nuova sulle fasi piú antiche di Cortona, quelle che precedono

Cinerario in bronzo laminato, decorato a sbalzo, su alto piede, dalla tomba A del tumulo di Camucia, Cortona. Fine del VII sec. a.C. l’avvento dei príncipi: da qui il richiamo all’alba presente nel titolo dell’esposizione. L’affermarsi dei tumuli appare come l’esito finale di un processo di arricchimento delle gentes aristocratiche che affonda le radici nel pieno Orientalizzante e, probabilmente, nel Villanoviano. Altri oggetti parlano dei massimi sviluppi di età arcaica e del progressivo smantellamento dell’identità e delle tradizioni, pur con una certa resistenza, dopo l’avvento di Roma: una mostra interessante che parla di Cortona, ma piú in generale della ricerca archeologica e di stagioni diverse di impegno a favore dei beni culturali del nostro Paese. G. M. D. F.

Dove e quando «Cortona. L’alba dei principi etruschi» Firenze, Museo Archeologico Nazionale fino al 31 luglio 2014 Orario tutti i giorni, 8,30-14,00 (ma-ve, 8,30-19,00) Info tel. 055 23575; www.archeotoscana.beniculturali.it a r c h e o 19


n otiz iario

mostre Roma

visioni dell’antica grecia

mostre Roma

il fascino dell’orrido

A destra: emblema di scudo in bronzo con chimera, da Melfi (Potenza). Seconda metà del VI sec. a.C. Melfi, Museo Archeologico Nazionale del Melfese «Massimo Pallottino».

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n una ideale staffetta con il Castello del Buonconsiglio (vedi a p. 16), il Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo raccoglie il testimone del sovrannaturale e del fantastico e presenta un’esposizione che indaga i miti della tradizione classica che hanno influenzato l’arte moderna e contemporanea, nonché il cinema. Importanti prestiti da musei e collezioni italiani e stranieri restituiscono un panorama completo dell’iconografia delle tipologie di creature fantastiche codificate nella storia dell’arte. Grifi, chimere, gorgoni, centauri, sirene, satiri, sileni e arpie, a cui si aggiungono la Sfinge e il Minotauro, Tritone e Pegaso, Scilla e l’Idra di Lerna compaiono su suppellettili di ceramica e di


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Roma, nella Curia Iulia al Foro Romano, si può visitare «La riscoperta dell’Antico. Gli acquarelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi». Qui i protagonisti diventano il gentiluomo e artista inglese Edward Dodwell, il pittore italiano Simone Pomardi e, soprattutto, i paesaggi e le antichità della Grecia. I due uomini, infatti, vi soggiornarono negli anni 1805 e 1806, visitando la Focide, la Beozia, l’Attica, Atene, la Tessaglia e il Peloponneso (Dodwell era stato in Grecia già in precedenza, nel 1801). Dal loro viaggio trassero un migliaio di disegni, solo in parte pubblicati. Molti di essi – editi e inediti – sono stati acquistati dal Packard Humanities Institute e vengono ora presentati nella mostra. Il loro editore John Camp ha osservato che l’insieme costituisce: «Il piú ricco corpus a noi noto di illustrazioni della Grecia cosí come, agli inizi del diciannovesimo secolo, questa appariva agli occhi dell’ultima generazione prima della creazione del moderno stato greco». Tutti gli acquarelli esposti risultano d’interesse notevole per la capacità dei due pittori d’inserire le antichità all’interno del paesaggio senza forzature e, al contempo, di offrire una testimonianza della Grecia a

A sinistra: Simone Pomardi, Capo Sunio, tempio di Poseidone da nord-est. Acquerello, settembre 1805.

metallo, in terrecotte architettoniche del mondo greco e romano, e sono soggetto di sculture, intonaci dipinti e mosaici dell’antichità. I mostri degli antichi racconti si sono sempre confrontati con gli esseri umani, con le divinità e con gli eroi in un percorso che ha permesso, in particolare all’uomo, di costruire la propria identità. Da questa riflessione prende spunto la mostra, che affronta per aree tematiche l’iconografia di ciascun tipo di creatura fantastica e ne illustra l’evoluzione nel corso del tempo. In occasione dell’inaugurazione della mostra, Palazzo Massimo si vestirà di effetti speciali, proiettati sulla facciata e all’interno del cortile, ideati da Fabrizio Funtò, che disegnerà animazioni laser sul tema dei mostri. (red.) Qui accanto: torso del Minotauro, da Roma. Fine del I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

loro contemporanea. Un acquarello, risalente al 1801, è particolarmente indicativo di quest’ultimo aspetto: nel disegno si documenta la rimozione di una metopa del Partenone. Quattro operai sono al lavoro sul fregio sud, altri tre si trovano a terra; a dirigere le operazioni è un europeo, forse Giambattista Lusieri che collaborò con Lord Elgin. Una casupola è addossata alla colonna dell’angolo sud-orientale del monumento. E ricordiamo che, sempre a Roma, in Palazzo Altemps, una delle sedi del Museo Nazionale Romano, è allestita la mostra «Evan Gorga. Il collezionista», di cui parliamo piú ampiamente nella rubrica «Il mestiere dell’archeologo» (vedi alla pp. 94-97). G. M. D. F.

Dove e quando «La riscoperta dell’Antico. Gli acquarelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi» Roma, Curia Iulia al Foro romano fino al 23 febbraio 2014 Orario tutti i giorni, 8,30-16,30 Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; http://archeoroma.beniculturali.it; www.electaweb.com

A destra: hydria ceretana con Eracle e l’Idra di Lerna. Attribuita al Pittore dell’Aquila, 530-500 a.C. Malibu (California), The J. Paul Getty Museum.

Dove e quando «Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito» Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino al 1° giugno 2014 (dal 20 dicembre) Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; chiuso il lunedí; 1° gennaio, 25 dicembre Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; http://archeoroma.beniculturali.it; www.electaweb.com a r c h e o 21


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mostre Paestum

mostre Palermo

l’intreccio del presente con il passato

la sicilia di lord compton

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arte contemporanea ha tenuto a battesimo la riapertura del Museo Narrante di Hera alla foce del Sele di Paestum. Si tratta delle stoffe e dei tessuti, inediti e colorati, di Virginia Franceschi esposti nella masseria trasformata in una struttura espositiva interattiva, che, con i suoi percorsi multimediali e multisensoriali, non ospita oggetti, ma racconta un secolo di ricerca archeologica di uno dei luoghi piú suggestivi della Magna Grecia. Inserito nel contesto del santuario che i Poseidoniati vollero erigere per venerare la dea della loro città, nume tutelare delle nozze e della fertilità umana e naturale, il Museo Narrante accoglie le creazioni di Virginia Franceschi, che dell’antico sito ha percepito le suggestioni e le atmosfere create dalla forte presenza della dea protettrice del matrimonio e del parto e simbolo di bellezza e di fertilità. (red.) A sinistra: una delle composizioni di Virginia Franceschi esposta nel Museo Narrante di Hera alla foce del Sele.

Dove e quando «Al Tempio che (H)era» Contrada Gromola, Capaccio-Paestum (Sa), Museo Narrante di Hera alla foce del Sele fino al 19 gennaio 2014 Orario tutti i giorni, 10,00-17,30; chiuso lunedí e giorni festivi Info tel. 0828 861440 22 a r c h e o

Qui sotto e in basso, a destra: due disegni del taccuino di Spencer Joshua Alwyne Compton, realizzati durante il suo soggiorno in Sicilia tra il marzo e il luglio del 1823.

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Palermo, in Palazzo Branciforte, troviamo la testimonianza di un altro tour, grazie alla mostra «Viaggio in Sicilia. Il taccuino di Spencer Joshua Alwyne Compton», realizzata per iniziativa della Fondazione Sicilia e dell’Istituto Nazionale della Grafica. Lungo il percorso espositivo sono presentati 79 splendidi disegni realizzati da Lord Compton, secondo marchese di Northampton, durante un suo soggiorno nell’isola tra marzo e luglio del 1823: vi figurano paesaggi e monumenti che lo impressionarono particolarmente. I disegni fanno parte di un taccuino che – per l’occasione – è stato completamente smontato e restaurato nei fogli e nella legatura: al termine dell’esposizione i disegni verranno riposizionati all’interno dell’album riproponendo filologicamente il montaggio originario. Dai disegni si comprendono bene gli interessi e la formazione dell’autore: il marchese di Northampton era un naturalista, un esperto geologo, un appassionato botanico, un archeologo dilettante e un amateur in campo artistico, come ha notato Attilio Brilli. Il suo interesse per la Sicilia e l’Italia non fu passeggero, o superficiale: nel decennio che trascorse nella Penisola italiana, tra il 1820 e il 1830, negli anni della Restaurazione, ebbe rapporti con intellettuali e spiriti libertari lombardi e napoletani e ne diventò amico e protettore. G. M. D. F.

Dove e quando «Viaggio in Sicilia. Il taccuino di Spencer Joshua Alwyne Compton» Palermo, Palazzo Branciforte fino al 23 febbraio 2014 Orario ma-do, 9,30-14,30; lu chiuso Info www. palazzobranciforte.it



infor mazione pubblicitar ia

n otiz iario

incontri Paestum

la borsa chiude in attivo

S

i è chiusa con numeri davvero lusinghieri la XVI Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico: circa 10 000 visitatori distribuiti nelle quattro giornate della rassegna; 2500 studenti di 40 scuole, 150 espositori, 40 buyer esteri e 250 seller al Workshop, 9600 visitatori sul sito www.bmta.it (con 13 500 visite, 53 805 pagine visitate e 963 526 accessi); 3046 sono stati i «mi piace» sulla pagina «BMTABorsa Mediterranea del Turismo Archeologico» di Facebook; e tra il 14 e il 17 novembre 190 persone hanno twittato 1752 volte #BMTA2013, con un picco dell’hashtag durante l’incontro degli Archeoblogger. «Il bilancio di questa edizione nell’area archeologica – ha detto Italo Voza, sindaco di Paestum – è entusiasmante. Al di là dei numeri, che confermano il successo della Borsa, è migliorato anche il pubblico. La location è piaciuta a tutti. Il prossimo anno sicuramente si terrà di nuovo nella zona archeologica, magari anticipando la data di qualche settimana per poter usufruire meglio del parco archeologico e magari anche nelle ore serali, riproponendo quei percorsi notturni che ebbero tanto successo qualche anno fa a Paestum». Gli ha fatto eco Adele Campanelli, Soprintendente ai Beni Archeologici di Salerno, Avellino, Benevento, Caserta: «Esperimento perfettamente riuscito, il bilancio di questa manifestazione è piú che positivo dal punto di vista della Soprintendenza ai Beni Archeologici perché la Borsa ha portato tanti visitatori al sito UNESCO, tra parco archeologico, museo, basilica paleocristiana. Questo conferma che la nostra intuizione dell’anno scorso sulla nuova location, era giusta». Particolarmente significativo un passaggio dell’intervento di Anna Maria Buzzi, Direttrice Generale per la Valorizzazione del Patrimonio del MIBACT, la quale, in occasione della tavola rotonda di chiusura, ha rivelato, citando i dati forniti dalle

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Soprintendenze, che: «In un momento in cui gli Italiani, in difficoltà per la pessima congiuntura economica, tagliano i consumi per il tempo libero e cinema, teatri e perfino gli stadi registrano un decremento delle presenze, c’è un settore che fa registrare una lieve, ma molto significativa, inversione di tendenza. È quello museale, che negli ultimi dodici mesi ha visto crescere il numero dei visitatori di un 5%. È bastato lanciare la campagna “Al Museo di Notte”, con l’apertura prorogata fino a mezzanotte l’ultimo sabato di ogni mese». Anna Maria Buzzi ha anche sottolineato come la creazione dei cosiddetti «servizi aggiuntivi» potrebbe portare, secondo uno studio consegnato agli organi politici dalla struttura tecnica del Ministero, «alla nascita di almeno un migliaio di posti di lavoro in piú». Un tema, quello della scarsa resa sul piano occupazionale del patrimonio artistico piú vasto del mondo, sul quale ha insistito molto il presidente del Touring Club, Franco Iseppi: «Il settore dà lavoro solamente all’1,1% degli occupati complessivi italiani. Penso che siano cifre ridicole, sulle quali bisognerebbe riflettere, e a lungo». Ma le contraddizioni non si fermano al basso numero di occupati. Recenti studi, ha sottolineato il presidente nazionale di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, dimostrano che «ogni euro di valore aggiunto prodotto nel settore dei beni culturali ne attiva 1,7 in altri settori economici». E che il Sistema Italia sia a elevatissimo potenziale di redditività è dimostrato dalla recente mostra su Pompei ed Ercolano al British Museum che, pur essendo a ingresso gratuito, ha generato economie di scala per complessivi 15,6 milioni di sterline. L’ennesima conferma di quanto l’archeologia, e la cultura in generale, siano una risorsa economica preziosa. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it



calendario

Italia roma Archimede. Arte e scienza dell’invenzione

trento La città e l’archeologia del sacro

Musei Capitolini fino al 12.01.14

Il recupero dell’area di S. Maria Maggiore Museo Diocesano Tridentino fino al 23.02.14

Evan Gorga. Il collezionista Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 12.01.14

Belgio Bruxelles L’arte del profilo

Cleopatra

Roma e l’incantesimo dell’Egitto Chiostro del Bramante fino al 02.02.14

Il disegno nell’antico Egitto Musée du Cinquantenaire fino al 19.01.14

Augusto

Scuderie del Quirinale fino al 09.02.14

Città del Vaticano

La riscoperta dell’antico

Preziose Antichità

Gli acquerelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi Foro Romano, Curia Iulia fino al 23.02.14

Il Museo Profano al tempo di Pio VI Musei Vaticani, Sala delle Nozze Aldobrandine fino al 04.01.14

La Cina Arcaica (3500 a.C.-221 a.C.) Palazzo Venezia, Sale quattrocentesche fino al 20.03.14

Mostri

Creature fantastiche della paura e del mito Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino all’01.06.14 (dal 20.12.13)

Francia Qui sotto: figurina femminile di orante. II sec. d.C.

milano Da Gerusalemme a Milano

Parigi Angkor. Nascita di un mito. Louis Delaporte e la Cambogia

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

montesarchio Rosso Immaginario

La trasgressione al potere Museo delle Navi Romane fino al 30.01.14 26 a r c h e o

Musée Maillol fino al 09.02.14

La città di Cerveteri Musée du Louvre-Lens fino al 10.03.14

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

nemi (roma) Caligola

PArigi Etruschi. Un inno alla vita

lens Gli Etruschi e il Mediterraneo

firenze Cortona, l’alba dei principi

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 12.01.14

Qui sopra: una lucerna con monogramma (Chrismon). A sinistra: frammento di affresco con scena di convivio.

A sinistra: statua di personaggio maschile in trono, probabilmente identificabile con Caligola. Età giulioclaudia.

Il museo parigino risale alle origini del mito del sito cambogiano di Angkor, cosí come venne elaborato in Europa, e in Francia in particolare, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. L’esposizione racconta in che modo il patrimonio della cultura khmer fu riscoperto e come i monumenti di Angkor vennero presentati al pubblico all’epoca delle grandi Esposizioni universali e coloniali. Per farlo, sono state selezionate piú di 250 opere: sculture khmer in pietra databili tra il X e il XIII secolo, repliche in gesso, fotografie, dipinti e grafiche otto-novecentesche (acquarelli, disegni a inchiostro, stampe, ecc.). Un insieme di materiali che dà conto dei primi contatti del Paese transalpino con l’arte della Cambogia antica, sviluppati soprattutto grazie alla personalità emblematica di Louis Delaporte (1842-1925), grande esploratore francese che coltivava il sogno di «far entrare l’arte khmer nei musei».


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Germania

Spagna

karlsruhe L’impero degli dèi

Madrid La Villa dei Papiri Casa del Lector fino al 23.04.14

Iside-Mitra-Cristo. Culti e religioni nell’impero romano Badisches Landesmuseum fino al 18.05.14

alcalá de henares Annibale in Spagna

Monaco Pompei. Vivere sul vulcano

Museo Arqueológico Regional fino al 12.01.14

Kunsthalle der Hypo-Kulturstiftung fino al 23.03.14

alicante Il regno del sale

Gran Bretagna Londra Oltre l’Eldorado

Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14

A sinistra: contenitore (poporo) in oro in forma di statuina. Quimbaya, 600-1100 d.C.

Israele

Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14

hauterive Fiori dei faraoni

Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14

Musée romain fino al 02.02.14

L’ultimo viaggio del re Israel Museum fino al 04.01.14

leida Petra

Svizzera

nyon Il grano, l’altro oro dei Romani

Gerusalemme Erode il Grande

Paesi Bassi

In alto: ritratto del panettiere Terentius Neo e di sua moglie.

7000 anni di storia di Hallstatt Museo Arqueológico fino al 31.01.14

Qui sopra: sarcofago in pietra calcarea attribuito a Erode il Grande.

Dove e quando Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet fino al 13 gennaio 2014 Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso il martedí, il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.guimet.fr

zurigo Divini umani

Bronzi romani dalla Svizzera Archäologische Sammlung der Universität Zürich fino al 05.01.14

Carlo Magno e la Svizzera Museo nazionale svizzero fino al 02.02.14

USA New York L’ago di Cleopatra

The Metropolitan Museum of Art fino all’08.06.14

A sinistra: l’obelisco nel Central Park di New York noto come «Ago di Cleopatra», ma in realtà risalente all’età di Tutmosi III. a r c h e o 27


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

C

he l’antenato del cane fosse il lupo è opinione universalmente accettata. Si dibatte invece ancora molto sulla questione di dove e quando il «miglior amico dell’uomo» sia divenuto tale, ovvero sul luogo e sull’età del suo primo addomesticamento.

chi fu il primo amico del cane? Se, fino a ieri, gli studi genetici suggerivano un’origine dal Vicino Oriente o dall’Asia orientale del cane, una recente indagine diretta da Olaf Thalmann dell’Università di

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Turku (Finlandia) – pubblicata sulla rivista Science – afferma che furono cacciatori e raccoglitori vissuti in Europa tra i 19 000 e 32 000 anni fa ad accompagnarsi con i primi cani domestici. Gli scienziati hanno analizzato il DNA mitocondriale di 18 lupi e cani, vissuti tra i 1000 e i 36 000 anni fa, mettendolo a confronto con il DNA di 77 cani e 49 lupi «moderni»: ne è risultato che tutti i cani odierni discendono da loro antenati europei. È verosimile – sostengono i ricercatori – che branchi di lupi abbiano seguito i gruppi di cacciatori umani per approfittare degli scarti di cibo e, cosí, dato lentamente avvio a un rapporto di simbiosi. Degli originari lupi addomesticati, però, non esistono piú tracce genetiche, e ciò fa pensare che essi si siano estinti nel corso dei millenni: i confronti

Mosaico con l’immagine di un cane, dalla Casa di Orfeo a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. genetici hanno, infatti, evidenziato somiglianze tra cani moderni e lupi vissuti migliaia di anni fa ma non con i lupi odierni. Anche i rapporti con lupi extraeuropei sono documentati solo in rari casi. La questione intorno al luogo d’origine del cane domestico, però, non sembra essere giunta a una risposta definitiva: le prove fossili utilizzate per lo studio pubblicato su Science provengono, infatti, tutte dall’Europa; una circostanza che ha permesso ad alcuni studiosi di avanzare serie perplessità sulla definitiva attendibilità dello studio. La lite su chi si merita il titolo di «primo amico del cane», dunque, è destinata a continuare...



scavi • segni

Segni la storia oltre lo scavo di Francesco Maria Cifarelli, Federica Colaiacomo, Stephen Kay e Christopher Smith, con la collaborazione di Letizia Ceccarelli e Camilla Panzieri

conosciuta soprattutto per le sue mura poligonali, la cittadina laziale è, oggi, al centro di un nuovo progetto di ricerca. che sta rivelando un passato inatteso, caratterizzato da una lunga e intensa frequentazione

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Segni (Roma). Alcune delle piĂş importanti testimonianze del passato della cittadina dei Monti Lepini: in basso, sono i resti di una grande cisterna romana; in secondo piano si staglia la chiesa di S. Pietro, costruita inglobando i resti del tempio di Giunone Moneta.

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scavi • segni

L

a cittadina laziale di Segni (Roma) è stata oggetto, dagli anni Ottanta del secolo scorso, di una lunga serie di ricerche di topografia antica (e poi anche medievale), avviate dall’Istituto di Storia e di Arte del Lazio meridionale e dall’Università di Salerno e proseguite poi in maniera diretta dal suo Museo Archeologico Comunale. Queste ricerche hanno condotto a un livello di conoscenza assai dettagliato della città, che ne ha radicalmente mutato l’immagine archeologica: quello che fino ad allora era considerato un arcaico e tutto sommato secondario centro di altura, noto solamente per il poderoso circuito di mura poligonali e per il tempio dell’acropoli, è divenuto uno dei centri meglio documentati del Lazio, capace di esprimere tematiche di estremo interesse lungo tutto il corso della sua storia e, in particolare per la tarda età ellenistica, realizzazioni di valore assoluto per gli studi di topografia e di architettura antica. Quest’ampia base conoscitiva è parsa costituire il punto di partenza ideale per un progetto di ricerca capace di abbracciare gli ambiti di

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Ascoli Piceno

Orvieto

Teramo

Terni Viterbo

L’Aquila

Rieti

Tarquinia Bracciano Civitavecchia

Mar Tirreno

Roma

Sulmona Tivoli

Segni Frosinone Anzio

Latina Sabaudia

interesse e le metodologie di ricerca del Museo Archeologico e della British School at Rome e cosí, nel dicembre 2011, è stata sottoscritta una convenzione triennale per l’esecuzione di ricerche archeologiche nella città lepina.

due poli di indagine È nato dunque il Segni Project, un ampio progetto di lavoro programmato per gli anni 2012-2014 ma che, visti i risultati raggiunti nella prima annualità, si spera già da oggi di poter protrarre ben piú avanti di quanto previsto alla stipula dell’accordo. Il progetto è stato indirizzato

In alto: il centro storico di Segni, che ricalca l’area della città antica. In alto, a destra, è la vasta area libera di Prato Felici, delimitata dalle mura. Poco oltre, in corrispondenza della Cattedrale, si trova l’area del foro. A sinistra: cartina del Lazio con la localizzazione di Segni. Nella pagina accanto: un momento delle prospezioni geofisiche del 2012 nell’area di piazza Santa Maria.

verso lo studio delle due principali aree pubbliche della città antica, il foro e l’acropoli; a queste si è poi voluta aggiungere una terza area, posta anch’essa nella parte alta della città, nota come «Orto dé Cunto» o «Prato Felici», un vasto settore delimitato lungo un fianco dal percorso delle mura urbiche e nel quale si concentrano indizi di altre, importanti presenze archeologiche. Le problematiche che hanno guidato la progettazione dell’indagine sono state assai differenti da area ad area. L’area dell’acropoli, grazie alla monumentalità dei resti dei suoi complessi sostruttivi e a quelli del


tempio di Giunone Moneta, è stata, fin dall’Ottocento, oggetto di numerosi studi, tanto che conosciamo oggi con buon dettaglio le sue principali vicende storiche e architettoniche; la nuova indagine puntava cosí su singoli approfondimenti o verifiche di dati desunti dalle piú antiche ricerche. Diverso è il caso dell’area forense: l’ininterrotto utilizzo di questo spazio come piazza principale della città ha cancellato completamente le testimonianze della sua organizzazione antica, come anche gran parte di quella medievale, e la sua indagine doveva perciò prendere le

mosse da un primo tentativo di definizione dei suoi assetti generali e del suo divenire diacronico.

la prima cattedrale Per l’età medievale inoltre, un’ipotesi suggestiva, della quale si richiedeva una verifica, proponeva di individuare proprio sotto la piazza la posizione di una piú antica cattedrale, nota da fonti e da pochi documenti archeologici, completamente distrutta e ricostruita nel corso del Seicento nelle forme e nella posizione attuale in un’ardita operazione architettonica e urbanistica, capace di stravolgere

completamente l’assetto dell’area centrale della città. Per Prato Felici, infine, alcune sue peculiari caratteristiche ne facevano la «palestra» ideale per un progetto di lunga durata e di ampio ventaglio di obiettivi; innanzitutto, la sua conservazione, in quanto la vasta area è ancora oggi completamente libera da costruzioni moderne e, per questo, sottoposta da tempo a vincolo; poi, l’emergere dal suolo di diversi spezzoni di muratura antica facevano pensare che fosse qui conservato un grande complesso architettonico, posto subito all’interno delle mura in corrispondenza di Porta Foca e, per questa sua posizione eminente, probabilmente pubblico; e, ancora, rinvenimenti passati segnalavano per questa stessa area l’esistenza di livelli pertinenti alle piú antiche fasi di vita della città, testimonianze del divenire dell’occupazione del sito fra la protostoria e le due fondazioni coloniali del tardo VI e degli inizi del V secolo a.C. Le ricerche del Segni Project hanno preso il via nel giugno 2012, con una campagna di prospezioni geofisiche, condotte su tutti e tre i settori obiettivo della ricerca ed effettuate da un’équipe che ha coinvolto anche l’Archaeological Prospection Service of the University of Southampton (UK). Fra i risultati raccolti, spiccano quelli dell’area di piazza Santa Maria. Qui un reticolo di anomalie assai coerente per disposizione planimetrica e orientamento restituiva l’immagine di estese strutture, sepolte al di sotto di tutta la sua superficie, incoraggiando cosí la prospettiva di studio dalla quale si era partiti circa la presenza della piú antica cattedrale lí dove si apre oggi lo spazio della piazza. E subito appariva assai importante, per completare il quadro dell’intera area centrale urbana, poter ampliare l’indagine all’area oggi occupata dalla cattedrale seicentesca. Grazie alla liberalità e cortesia del Vescovo della diocesi di Velletri-Segni, monsignor Vincenzo Apicella, e di monsignor Franco Fagiolo, è stato possibile condurre a r c h e o 35


scavi • segni

questa seconda campagna di prospezioni nell’estate 2013. E, coerentemente con quanto ipotizzato, la nitida immagine ricavata dal georadar ha mostrato come l’ampio spazio oggi occupato dall’edificio non sembri essere interessato da alcuna struttura preesistente: il reticolo di anomalie che disegnano un quadrato perfettamente inserito all’interno dell’edificio seicentesco è infatti ben interpretabile come un grande gabbione di fondazione posto a rinforzo della cattedrale nella sua parte interna. I risultati della geo-fisica sono stati fondamentali per collocare, in particolare in piazza Santa Maria, i saggi di scavo eseguiti nel settembre 2012 e nell’agosto 2013; mentre in piazza San Pietro alcuni saggi del 2012 non hanno offerto spunti di rilievo, le due aree i cui risultati sono stati piú eclatanti, e sulle quali si è concentrata l’indagine del 2013, sono state quelle di piazza Santa Maria e di «Prato Felici».

Ampiezza

una vasca colossale Partiamo dalla seconda: la pulizia del 2012 e un piú ampio intervento di scavo del 2013 hanno mostrato Metri come due strutture parallele in ce- piazza Santa Maria Ricognizioni mentizio affioranti dal piano di Segni Scavi di superficie campagna fossero pertinenti ai lati corti di una grande vasca, di cui lo scavo ha liberato, a oggi, il solo lato Un particolare della mappatura delle anomalie GPR emerse al di sotto del piano corto meridionale e l’opposto an- di calpestio nell’area di piazza Santa Maria. golo nord-orientale. La grande struttura, di ben 36,7 x 12,6 m, è costruita con un tipo di ricercare innovando cementizio ben noto, realizzato con malta tenacissima e fitti caementa di La British School at Rome, fondata a Roma nel 1901, è un centro di calcare di dimensioni assai regolari, ricerca di eccellenza nell’area del Mediterraneo che sostiene il dialogo gettato senza l’uso di cortina, ben interdisciplinare tra gli studi umanistici, delle scienze sociali e delle arti. identificabile con quell’opus signi- Il modo innovativo in cui vengono promosse le attività di ricerca crea un num utilizzato in antico per le co- ambiente di lavoro stimolante e fa della BSR un centro accademico di struzioni legate all’acqua e del qua- alto profilo, luogo di raccordo con il cuore intellettuale e culturale di le Vitruvio ci fornisce la piú com- Roma e dell’Italia. pleta descrizione: la vasca di Prato La ricerca viene promossa attraverso l’assegnazione di borse di studio a Felici costituisce, di questa partico- studiosi e artisti britannici e del Commonwealth, ma si concretizza anche lare tecnica, un esempio piuttosto con un programma di mostre di architettura e di arte contemporanea, una antico e assai raffinato. La vasca si ricca presentazione di convegni e di congressi nel campo degli studi conserva verso monte per circa 2,5 umanistici, progetti di archeologia estremamente innovativi, una m di altezza, e, nei punti in cui è biblioteca altamente specializzata, una serie di pubblicazioni di carattere stato raggiunto, mostra ancora scientifico con cadenza annuale e corsi specialistici. completamente intatto il piano pa36 a r c h e o


vimentale, composto da un bel battuto di cementizio con fini scaglie di calcare, ma raro uso di frammenti di laterizio. Le murature perimetrali mostrano, nei punti maggiormente conservati, una sorta di ballatoio che correva all’interno della struttura, forse lungo l’intero perimetro. Assai difficile, invece, è il problema legato alla sua copertura, che al momento, in considerazione di alcuni fattori strutturali, è probabile fosse assente. Assai curiosa, infine, risulta la perdita totale del muro di chiusura verso valle, forse dovuta a un collasso repentino di questa parte della struttura.

certezze cronologiche Un saggio praticato sotto l’angolo sud-orientale della vasca ha permesso, grazie al recupero di alcuni lembi di stratigrafia al di sotto della sua pavimentazione, di fissarne la data di realizzazione alla seconda metà del II secolo a.C., mentre i livelli di riempimento ne hanno mostrato una fine assai precoce, A destra: il lato sud della grande vasca in corso di scavo. In basso: veduta dall’alto della grande struttura di Prato Felici al termine della campagna di scavo 2013.

probabilmente già nel corso dell’avanzato II secolo d.C. La porzione indagata ha permesso una prima lettura del monumento, ma ha aperto, al contempo, ampi problemi topografici e strutturali, che la prosecuzione delle indagini dovrà chiarire; pensiamo, per esempio, al suo funzionamento e, in via piú ampia, al suo probabile ruolo in un organismo architettonico piú ampio, del quale faceva probabilmente parte. La grande vasca mostra, infine, segni evidenti di riuso. Un muro a secco sembra creare all’interno della struttura in abbandono una sorta di terrazzamento: nello spazio a valle, a una quota di circa 20 cm superiore rispetto al livello antico, un focolare del X-XI secolo d.C. indica il riuso di questa a r c h e o 37


scavi • segni

parte dell’edificio antico per scopi ancora da accertare. Nella stessa area di Prato Felici, una seconda, importantissima acquisizione è venuta durante le operazioni di pulizia dell’area attorno al monumento, dove, in piú punti, sono stati individuati livelli contenenti, sia pur in giacitura secondaria, una quantità considerevole di materiale pertinente alla piú antica storia della città. Un primo blocco di reperti conferma l’esistenza, nell’area sommitale del rilievo, di un abitato dell’età del Bronzo Finale (XI secolo a.C. circa), ospitato probabilmente in un piccolo e naturalmente difeso pianoro e testimoniato da frammenti di ceramiche di impasto, alcune delle quali conservano le tipiche decorazioni del periodo. Un secondo, cospicuo lotto di materiali è invece assegnabile a una fase compresa tra il tardo VII e gli inizi del V secolo a.C., fase che segna, probabilmente, la vera nascita della città di Segni. Ceramiche di impasto, buccheri o frustuli di ceramiche importate sembrano cosí testimoniare il progressivo sviluppo di un centro gravitante sull’area laziale e tiberina, aprendo in tal modo importanti prospettive di ricerca storica; la colonizzazione del tardo VI secolo a.C. e la successiva nuova deduzione del 495 a.C., che tradizionalmente venivano indicate come date di nascita della città di Segni, andranno cosí ripensate in un’ottica di progressivo rinforzo di un fenomeno di occupazione di un caposaldo di questa fascia liminale al Lazio antico, affacciata verso i vicini popoli degli Ernici e dei Volsci, in atto almeno un secolo prima.

anomalie significative E veniamo all’altra area di scavo, quella di piazza Santa Maria. In base ai profili delle anomalie evidenziate dall’indagine geofisica, nel 2012 si era deciso di aprire un saggio in un’area segnata dall’intersezione fra piú strutture, che si sperava potesse essere rappresentativa della situazione generale. Il saggio, in notevole corrispondenza con l’immagine de38 a r c h e o

lineata dal georadar, aveva rivelato l’esistenza di una complessa sovrapposizione di murature, che si è poi deciso di indagare con maggior ampiezza nello scavo del 2013, allargando il saggio precedente sui due lati lunghi, tanto verso la cattedrale, nell’area che vedremo occupata dal mosaico tardo repubblicano, quanto sul fianco opposto. Lo scavo ha rivelato una lunga e complessa storia urbanistica e architettonica dell’area, segnata da diverse strutture pertinenti a due fasi diverse disposte su altrettanti, ben distinti livelli, azzerate, infine, nella ristrutturazione seicentesca che comportò la costruzione nella sua attuale sede della cattedrale moderna. Il livello inferiore, corrispondente alla fase romana e altomedievale, è segnato da alcuni piani pavimentali e da alcune strutture murarie. L’elemento certamente piú spettacolare di questa fase, e probabil-

Tra i dati emersi dalle ultime ricerche vi è la conferma della presenza di un abitato già nell’età del Bronzo mente dell’intero scavo, è la vasta porzione di uno splendido mosaico policromo, databile, in base ai confronti, intorno o poco dopo la metà del I secolo a.C., e che segna, con la sua raffinatissima esecuzione, la presenza nell’area della piazza forense di strutture assai qualificate, non sappiamo ancora dire se pubbliche o, come sembra oggi piú probabile, private. Il mosaico si compone di un campo centrale rettangolare che presenta, in viva policromia, il motivo delle pale di mulino, reso con almeno sei colori oltre al bianco e al nero. Tale motivo trova pochissimi confronti, il piú vicino dei quali è a Ercolano, nel quartiere dell’atrio della villa dei Papiri; da questi, tuttavia, esso sembra distaccarsi per la raffinata ricchezza cromatica, data dal sapiente uso di pietre, diversissime per natura e provenienza, la cui analisi petro-

In alto: veduta dello scavo di piazza Santa Maria alla fine della campagna 2013: A. mosaico policromo; B. preparazione pavimentale; C. mosaico a tessere bianche; D.-E. tratti di mura d’età tardo-antica o altomedievale; F. fondazione posteriore al XII sec. d.C.; G. ossario. A destra: particolare del magnifico mosaico policromo con il motivo decorativo a pale di mulino e una cornice a spina di pesce.

grafica, ora in corso, contribuirà a offrire inediti spunti di discussione sull’organizzazione di botteghe specializzate di mosaicisti attive nel ricchissimo Lazio della tarda repubblica. Il campo principale era poi affiancato su due lati da altrettante soglie policrome, una delle quali, conservata quasi per intero, mostra il motivo dei cassettoni policromi. I cassettoni avevano al loro interno


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turazione/ridecorazione di un edificio piú antico. È probabile che di questa fase decorativa piú antica facciano parte anche un piccolo lacerto di mosaico bianco e nero obliterato dalla pavimentazione tardo-repubblicana e un secondo, piú ampio spezzone di mosaico bianco, caratterizzato da tessere di grandi dimensioni e disposte in maniera assai meno curata su ordito obliquo, apparso subito a nord del precedente, pertinente a un diverso ambiente a esso affiancato.

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formelle di mosaico a tessere minutissime, di splendida esecuzione ma purtroppo conservate solo in parte e solo in tre di essi. A sud di quest’ambiente, i cui muri perimetrali, rasati, sono forse individuabili su almeno due lati, un’ampia porzione di preparazione pavimentale, analoga a quella del mosaico, indica il distendersi dell’edificio

tardo-repubblicano anche in questa direzione. Particolare in questo contesto è la presenza di spezzoni di un mosaico in cocciopesto, con motivi a pelta disegnati da tessere bianche e murati all’interno della preparazione stessa, segno probabile della pertinenza di tutta l’area pavimentale, come anche del mosaico a pale di mulino, a una fase di ristrut-

dall’uso al riuso Tutto il complesso di età repubblicana mostra evidenti interventi di riuso databili all’età tardo-antica o medievale. Fra queste, innanzitutto, un breve tratto di muratura, desinente forse a una sua estremità in un pilastro, che chiude l’ambiente a mosaico sul suo lato occidentale, correndo probabilmente sulla stessa linea della parete antica, anche se con un leggerissimo disassamento: la struttura è assegnabile, per caratteristiche costruttive, a una generica età tardo-antica o altomedievale. A una fase di riuso medievale è poi probabile possa essere assegnata anche una robusta struttura, connotata da un paramento a blocchetti di calcare parallelepipedi disposti su piani regolari, emersa pressoché in corrispondenza della sezione settentrionale dello scavo. Queste testimonianze di lunga continuità di vita dell’edificio romano non sono purtroppo ancora sufficienti a definire, anche per l’età tardo- e postantica, la destinazione d’uso dello spazio architettonico. Intorno al XII secolo, un forte rialzamento dell’area segna l’abbandono di tali strutture, anche se è probabile che alcune di esse – prima fra tutte quella appena descritta sotto il margine settentrionale dello scavo – fossero state mantenute in vista o in qualche modo riutilizzate. Un’ipotesi dettata, innanzitutto, dagli orientamenti. La possente fondazione emersa lungo l’opposto margine meridionale dello scavo, dalla quale si staccano verso sud a r c h e o 39


scavi • segni

In alto: il frammento di affresco con resti di un’iscrizione, dalla cattedrale medievale. In basso: la struttura sepolcrale multipla in corso di scavo.

due ulteriori setti murari, uno dei quali di grande spessore, appartenente a questa nuova fase di vita, mantiene infatti lo stesso orientamento dei precedenti, mostrando come questa nuova organizzazione urbanistica dell’area rispettasse, pur a un livello assolutamente superiore, quella precedente. L’intera area del saggio si connota ora per la presenza di un grande numero di sepolture. Oltre ad almeno nove o dieci inumazioni in fossa terragna, tale forte connotazione è venuta dalla scoperta di una sepoltura collettiva deposta in una vera e propria struttura funeraria. Infatti, sfruttando come fian40 a r c h e o

co settentrionale il piú volte citato muro a blocchetti emerso lungo il margine nord dello scavo – che è per questo probabile fosse in qualche modo ancora percepibile –, fu ricavato, mediante una struttura a blocchetti di diversi materiali montati a secco realizzata contro l’interro e regolarizzata verso l’interno con una sorta di paramento, un grande cassone funerario, nel quale sono state rinvenute almeno sei sepolture: la presenza di almeno due inumati in connessione anatomica e di altri le cui ossa giacevano ormai mescolate fa pensare a una tomba piú volte utilizzata nel tempo. Subito a est di questa sembra inoltre evidente l’inizio di un nuovo «cassone», che fa pensare che lungo la struttura a blocchetti fossero stati allineati diversi apprestamenti funerari di tale tipo. Alcuni caposaldi racchiudono queste sepolture in un arco cronologico compreso fra il XII e, al massimo, gli inizi di XVII secolo. Il loro grande numero e, pur nella diversità di apprestamenti, il loro costante orientamento dettato dalle strutture circostanti – tutte, peraltro, con il capo rivolto a ovest – spingono con forza a immaginare la loro pertinenza a un edificio di culto, che sembrerebbe a questo punto naturale identificare con la perduta cattedrale medievale della città.

lettere misteriose Una delle sepolture, miracolosamente intatta a non piú di 40 cm dal livello attuale della piazza, indica con la sua quota che il piano di calpestio dell’edificio medievale doveva trovarsi a un’altezza addirittura superiore a quello della piazza attuale. È importante notare come un bel lacerto della pavimentazione seicentesca della neonata piazza Santa Maria, rinvenuto poco al di sotto del livello moderno, indichi che, all’atto della realizzazione della nuova cattedrale nella sua attuale posizione, si operò una completa demolizione dell’edificio precedente, fin

Confronto tra l’attuale piazza di Segni in una veduta aerea (nella pagina accanto) e una ricostruzione (a destra) del suo probabile assetto generale fra il XII e la fine del XVI sec.

sotto il suo livello pavimentale. La struttura medievale fu quasi completamente sfruttata come «cava» di materiale da costruzione, e solo quanto non poteva essere utilizzato venne gettato come riempimento in aree di lavorazione: un lacerto di intonaco con poche lettere, residuo di un’iscrizione dipinta, lascia solo immaginare la ricchezza delle perdute pitture che dovevano ornare l’edificio medievale. Uno scavo ricchissimo di spunti, dunque, la cui prosecuzione, nell’estate 2014, potrà offrire importantissime risposte per capire la natura e l’organizzazione architettonica delle successive fasi di occupazione di uno spazio che, per gran parte della vita urbanistica della città di Segni, non era la piazza che oggi vediamo. Un panorama urbanistico assolutamente inedito, che ci mostra una Segni assai diversa da quella che oggi conosciamo e ricca di nuovi, insospettati tesori; una Segni che solo in tempi recenti, con la costruzione seicentesca della nuova cattedrale nella posizione attuale, ha assunto l’aspetto cui oggi siamo avvezzi.


Lo scavo archeologico si è svolto su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, grazie alla continua attenzione offerta al progetto dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, nelle persone del Soprintendente, Elena Calandra, e del Funzionario di zona, Alessandro Betori. Le ricerche sono state rese possibili grazie all’impegno, oltre che dell’Amministrazione Comunale di Segni (si ringraziano il Sindaco, Stefano Corsi, e l’Assessore alla Cultura, Valente Spigone) e della British School at Rome, di alcuni sponsor che hanno voluto fin da subito supportare il progetto. Si ringraziano: Society for the Promotion of Roman Studies; Diocesi di VelletriSegni; Banca di Credito Cooperativo Di Roma; BancAnagni-Credito Cooperativo; Esgra s.r.l.; S.I.C. s.r.l.; Geopan s.r.l.; Albergo Ristorante «La Pace»; Italcementi s.p.a.; «Mondo Animale» di Palazzi Riccardo; Edil Ferretti s.r.l.; Carrefour Segni. Si ringraziano inoltre Renzo Colaiori e l’Associazione Culturale «Amici del Museo di Segni». I restauri della pavimentazione musiva sono stati eseguiti da Rita Fagiolo.

dove e quando Museo Archeologico Comunale Segni (Roma), via Lauri, 1 Orario ma e gio, 9,00-14,00 e 15,00-19,00; sa-do e festivi, 10,30-13,00 e 15,30-19,00 Info tel. 06 97260072; e-mail: museo@comune.segni.rm.it; info@museosegni.it; www.museosegni.it

veicolo di studio e di divulgazione Il Museo Archeologico Comunale di Segni è ospitato nell’antico Palazzo della Comunità (XIII secolo). Aperto nel 2001 e ampliato nel 2006, è dedicato alla storia e alla topografia della città antica e medievale e del suo territorio. Il percorso, fortemente didattico, utilizza un’ampia e agevole pannellatura, corredata con plastici e ricostruzioni assonometriche. Le collezioni comprendono gruppi scultorei di notevole interesse, numerose iscrizioni sacre e funerarie, elementi architettonici decorativi e una vasta raccolta di materiale ceramico d’età romana e medievale. La continua presenza sul territorio, le indagini compiute direttamente dal personale scientifico, la collaborazione con enti e istituzioni, ne hanno fatto uno dei centri di ricerca piú attivi dell’area. Accanto alla ricerca scientifica e alla valorizzazione del ricco patrimonio archeologico di Segni, il Museo è poi costantemente impegnato in molteplici attività divulgative, didattiche e di formazione di nuovo personale specializzato.

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giappone • le origini/2

il primo

stato

l’avvento dell’aristocrazia yamato segna un momento di svolta nella storia del giappone che, per la prima volta, assume un assetto di tipo statale. parallelamente, grazie anche all’avvento del buddhismo, l’arcipelago vive un forte rinnovamento in campo culturale e artistico. con manifestazioni che ribadiscono la capacità di rielaborare in forme proprie e originali le tradizioni venute dall’esterno di Marco Meccarelli

L

a configurazione insulare e la particolare collocazione geografica, all’estremo avamposto orientale del mondo, hanno spesso indotto a concepire il Giappone come la terra del totale isolamento, o a considerarlo semplicemente come una lontana «appendice» cinese. Eppure la vicenda culturale giapponese non presenta mai reali fasi di chiusura o di ristagno, né, tantomeno, l’assimilazione del modello cinese può essere letta come una pedissequa imitazione. Il mare che separa l’arcipelago dalle

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Qui accanto: haniwa (statuetta in argilla) a forma di guerriero. VI sec. d.C. Parigi, Museo Guimet. A destra: Osaka. Veduta dall’alto del kofun (letteralmente «antica tomba») dell’imperatore Nintoku. V sec. d.C.


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giappone • le origini/2 Stretto La Pérouse CINA RUSSIA

Asahikawa

Hokkaido Sapporo

Kushiro

Aomori

COREA DEL NORD

Mare del Giappone

Akita

Yamagata Niigata

Morioka

Sendai Fukushima

coste continentali non è stato soltanto una barriera difensiva, ma anche una via di comunicazione, che ha permesso l’affluenza di elementi etnici e culturali, marcatamente differenziati. Anzi, analizzando il processo di crescita della complessità sociale del Giappone antico, non si può prescindere dal valutare il rapporto di interazione tra le isole e la terraferma, instauratosi sin dall’antichità. Si tratta di un continuum culturale, che portò, progressivamente, alla comparsa di una società pienamente agricola e statalizzata. Tra le entità regionali protostatali

Honshu

Iwaki Nagano Kanazawa Hitachi Utsunomiya Saitama Fukui Tokyo Chiba Matsue Gifu Tottori Fuji Stretto Kusatsu Nagoya Yokohama di Corea Osaka Shizuoka Hiroshima Tsushima Hamamatsu Fukuyama Kitakyushu Ise Nara Fukuoka Shikoku

COREA DEL SUD

Nagasaki

Oita Kumamoto

Kochi

Kyushu Miyazaki

Kagoshima

N 0

In alto: cartina del Giappone, con, in evidenza, le piú importanti località citate nel testo. Qui sopra: haniwa a forma di cavallo. VII sec. d.C. Parigi, Museo Guimet.

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320 Km

del periodo Yayoi (300 a.C.-300 d.C., vedi «Archeo» n.345, novembre 2013), gestite da aristocrazie di piccoli gruppi di risicoltori, prevalsero gli Yamato, che, unificando il territorio, fondarono e diedero il nome al primo Stato «giapponese». Con «Yamato» viene inoltre classificato il periodo compreso tra il 300 e il 700 d.C., durante il quale, ricorrendo a un suggestivo assioma, si può dire inizi sull’arcipelago la «storia».

le antiche tombe La prima parte del periodo (IVVI secolo), il cui orizzonte culturale è probabilmente determinato dalle irruzioni di gruppi armati stranieri, lascia sicura-


mente nei kofun, le «antiche in caratteri cinesi, un nuovo motombe», le vestigia piú rappredello di sarcofago di pietra, e un sentative. Caratteristici della nuovo tipo di coroplastica griregione del Kinai (Kyoto, Nara giastra (Sueki, ceramica Sue) di e Osaka), i tumuli iniziano probabile importazione coreaprogressivamente a costellare il na. Elementi che attestano la paesaggio insulare (se ne contafitta rete di scambi instaurati con no circa 30 000). il continente: è il momento in cui Costituiti da colline artificiali la classe al potere tenta di emulare spesso circondate da un fossato, essi i raffinati modelli artistici e sociali presentano solitamente un singolare della Cina e della Corea. profilo che ricorda la «toppa di serratura» (zempokoen, «davanti quadraarmi e armature to, dietro tondo»). Secondo la tradiIl contesto storico vede l’affermazione, sono da riferirsi ai sepolcri zione delle aristocrazie cavalleredei piú remoti sovrani del Giapposche, all’interno di un fenomeno ne antico, e raggiungono talora diche investe, piú o meno simultanemensioni eccedenti persino quelle amente (III-VII secolo), anche l’Asia delle piramidi egiziane, come testiCentrale e si diffonde fin oltre la monia la tomba dell’«imperatore» fascia dei Regni delle Steppe. Le Nintoku (Osaka,V secolo, 320 000 case-sepolcro giapponesi si elevano mq di superificie). L’architettura a emblemi di una classe gentilizia ciclopica dei kofun non nasce iminequivocabilmente guerriera: lo provvisamente, ma è il risultato deltestimoniano le armi e armature la progressiva fusione di elementi (tanko, «a piastre», e keiko, «a lamelendogeni – come, per esempio, le le») dei corredi funerari, cosí come pratiche di seppellimento delle le piccole statuine in terracotta di La diffusione dei élite del tardo periodo Yayoi – e guerrieri e cavalli, disposte sui di origine continentale. grandi tumuli, i kofun, tumuli, che rientrano in una coroplastica votiva, conosciuta è la risultante visiva come haniwa (anello, cerchio un mutamento d’argilla). Nati come cilindri, significativo di una sintomatica infissi nel terreno delle tombe, I tumuli sono uno degli eleper evitare smottamenti e/o menti piú caratteristici del paespansione della zona per segnalare e recintare la zoesaggio storico giapponese e di influenza della segnalano un cambiamento significativo rispetto alle epoche cultura Yamato precedenti: la tendenza a uniformare i diversi caratteri regionali in uno stile predominante, almeno dalla fine del IV secolo. La loro diffusione è la risultante visiva di una sintomatica espansione della zona di influenza Yamato, mediante un’abile strategia di alleanze politiche inter- In alto: impugnatura regionali. Lo attestano anche le or- di una spada in namentazioni simboliche distribuite bronzo dorato. sulla sommità, lungo il perimetro e VI sec. d.C. Parigi, ai piedi del tumulo, e la graduale Museo Guimet. diffusione di camere sepolcrali, pre- A destra: copricapo cedute da un corridoio che condu- in bronzo dorato ce a uno o piú ambienti. dal kofun di Eta Nel frattempo compaiono nuovi Funayama, tipi di ornamenti di bronzo dorato, prefettura monili di conchiglia, bardature in di Kumamoto. bronzo o rame per i cavalli, lame in V-VI sec d.C. Tokyo, ferro, spesso provviste di iscrizioni Museo Nazionale. a r c h e o 45


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na sepolcrale, questi oggetti in argilla assumono col tempo le sembianze di figure umane, animali e riproduzioni in miniatura di edifici e oggetti d’uso comune. È evidente il richiamo ai manufatti funerari cinesi in terracotta, i cosiddetti «oggetti splendenti» (mingqi, vedi «Archeo» n. 339, maggio 2013), rappresentazione di ideali vittime immolate, in onore dei defunti. Ma se dovessimo valutare gli haniwa da un punto di vista iconografico, essi sembrerebbero rievocare una sorta di imitazione della processione funebre, dalla probabile funzione apotropaica: si tratterebbe di una sorta di rielaborazione autonoma e disgiunta dal modello originario cinese. Non a caso, a differenza degli oggetti sostitutivi del sacr ificio cruento, gli haniwa erano destinati alla struttura esterna del tumulo, mentre all’interno compaiono talora sculture in pietra a tutto tondo ed esordisce, in particolare, la pittura murale mutuata dal continente, con composizioni geometriche e naturalistiche, di spiccata valenza simbolica. Gli emblemi solari, i ventagli di piume montati su aste, gli animali mitici come la tartaru-

ga-serpente, i cavalli, gli scudieri e le imbarcazioni, sembrano costituire i simboli propiziatori del viaggio del defunto nell’oltretomba, con forti richiami a rituali e allegorie di culto sciamano dei sepolcri a tumulo mancesi-coreani.

la fioritura di asuka Fra i secoli V e VI, i rapporti con la Corea crescono d’intensità, attraverso ambascerie con relativi doni d’oro, d’argento, rame, ferro, sete, pellami, ma anche mediante immigrazioni di Coreani e Cinesi, in qualità di ostaggi, a titolo di tributo o come profughi. Fulcro politico e ideologico diventa il distretto di Asuka (attuale prefettura di Nara), che dà il nome all’omonimo periodo (600-710), in cui si raggiunge un sorprendente sviluppo tecnicoscientifico oltreché culturale. Al seguito del buddhismo, infatti, numerosi studiosi ed esperti introdussero il sistema di scrittura cinese, insieme alle principali nozioni di medicina, divinazione, musica e tessitura. Proprio l’introduzione del buddhismo e il conseguente diffondersi della pratica dell’incinerazione segnarono il declino della cultura Specchio in bronzo da Tomami, Hyogo. IV sec. d.C. Parigi, Museo Guimet. Considerato simbolo di saggezza od onestà, lo specchio era uno dei tre tesori sacri del Giappone.

funeraria dei kofun, osteggiata dalle autorità politiche, anche per motivi economici. Le alleanze con la Corea determinarono una svolta radicale nel divenire storico e culturale del Giappone: grazie a un’ambasceria, il 552 (o il 538) viene convenzionalmente considerato il terminus a quo della tradizione buddhista giapponese. Il culto indiano raggiunge l’estremità orientale del mondo e si presta oramai a «conquistare» anche il «Paese delle origini del Sole» o «Sol Levante» (Nihonkoku). L’era Hakuho, in particolare, inaugura un periodo esteso fino alla fine del VII sec., in cui vengono realizzati veri e propri capolavori d’arte buddhista, che convivono con le opere appartenenti al culto ancestrale: lo shinto, «la via dei Kami», sintesi di pratiche «animistiche» Jomon (10 000 circa-300 a.C.) e rituali appartenenti alla società agricola Yayoi. Il buddhismo e lo shintoismo divengono, di conseguenza, i due elementi complementari da cui prende forma la «religiosità» giapponese. Un nuovo patrimonio architettonico si presta a prendere piede, tanto che la struttura stabile dell’edificio shintoista (jinja), si cristallizza in un modello fisso: un pilastro centrale, elemento di sostegno a livello strutturale oltreché simbolo, in chiave cosmogonica, dell’axis mundi; un tetto a doppio spiovente (rivestito di paglia e corteccia d’albero), alle

valore, benevolenza e saggezza I tre tesori sacri del Giappone sono la spada (che simboleggia il valore), la gemma (la benevolenza) e lo specchio (la saggezza o l’onestà). Si dice che uno specchio proveniente presumibilmente dalla Cina o dalla Corea, sia conservato nel tempio di Ise, nel quale vige il divieto di accesso al pubblico. Secondo una leggenda shintoista, lo specchio fu appeso a un albero insieme alla gemma dalla dea Amano-Uzume per stanare Amaterasu, la dea del Sole, la quale, per sfuggire al fratello Susanoo, si era nascosta in una grotta, gettando il mondo nell’oscurità.

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cui due sommità dei frontoni si incrociano le travi trasversali, prolungate come lame di forbici (chigi), che detengono oramai un valore prettamente simbolico e decorativo, proprio come i blocchi cilindrici (katsuogi) posti ortogonalmente alla trave di colmo.

tra sacro e profano Ma tra tutti gli elementi costitutivi del luogo di culto, il portale (torii) – presente all’ingresso di ogni santuario o area sacra e costituito solitamente da due pilastri infissi nel terreno incrociati, sulla sommità, da una duplice trabeazione – assurge a simbolo per eccellenza del confine tra spazio sacro e profano. Ancora una volta il richiamo agli antichi portali cinesi (pailu) o indiani (torana), risulta inevitabile, sebbene il torii giapponese, collocato in punti strategici, sortisca ancora oggi un fascino indiscusso sul visitatore, emanando, con la sua estrema semplicità, tutta l’enfasi religiosa dello spazio consacrato. I portali nascono per «entrare» in «comunicazione dialettica» con la natura circostante. Spesso di piccole dimensioni, a volte inseriti dentro alberi, risultano anche difficili da scorgere e hanno ben poco a che vedere col senso di monumentalità delle grandi cattedrali occidentali.

Simile al metallo Qui rappresentata da una fruttiera (III-IV sec. d.C.; Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale Giuseppe Tucci), la ceramica Sue (sueki), era fatta al tornio, cotta a elevate temperature e spesso invetriata. I primi esemplari furono probabilmente importati dalla Corea. Di colore grigio metallico, si affermò per distinguere le esigenze del culto e del rituale funebre, perché destinata all’uso cerimoniale.

Amaterasu vide la sua immagine riflessa nello specchio e ne rimase cosí stupita che le altre divinità la portarono fuori dalla caverna. Lo specchio e la gemma furono poi donati, insieme alla spada, al nipote di Amaterasu. Da allora, il tesoro passò nelle mani della casa imperiale del Giappone. Dal 690 d.C., in occasione della cerimonia di insediamento sul trono imperiale, i sacerdoti del tempio presentano questi tre tesori sacri all’imperatore. Un’altra leggenda vuole che lo specchio sia stato tenuto in mano da Izanagi (una delle due divinità creatrici del Giappone, insieme a Izanami), da

Tra i santuari shintoisti, quello di Izumo (prefettura di Shimane), dedicato al «Signore della Grande Pace» (Okuninushi no mikoto), conserva elementi molto piú antichi della sua ricostruzione, avvenuta nel 1744; quello di Ise (prefettura di Mie), il santuario imperiale per antonomasia, mette in discussione i concetti di autenticità, unicità e originalità, all’interno di un qualsiasi dibattito relativo all’etica della conservazione (vedi box a p. 52). Il santuario ripropone fedelmente il modello promulgato alla fine del VII secolo, in virtú della disposizione imperiale (685 d.C.), di r icostuirlo ogni vent’anni, con sostituzione di tutti gli elementi.

«tradizione vivente» Alcuni studiosi lo hanno perciò classificato come una «tradizione vivente», il cui valore non va definito secondo i criteri materiali, ma inserito in una civiltà come quella giapponese che considera alcuni artisti come «tesori nazionali viventi» (Ningen Kokuho): piú che sulla conservazione materiale dell’opera, l’attenzione si sposta sul preservare la possibilità di riprodurre e perpetuare il «fatto» artistico. La tutela verte sul progetto, sulla perizia artigianale (équipe altamente specializzata) e sul sito, ma non sul materiale organico, il legno, con cui viene edificato

cui nacque Amaterasu. Utilizzato probabilmente per scopi rituali sin dall’epoca Yayoi, durante il periodo Kofun era sicuramente l’oggetto piú importante del corredo funerario del defunto; ne furono importati numerosi esemplari di fabbricazione cinese. A partire dal IV secolo ebbe inizio una produzione locale vera e propria. Fusi in bronzo, di forma discoidale con bordi a rilievo, gli specchi erano provvisti di un manico e presentavano varie decorazioni, che si ricollegavano solitamente alla sfera del sacro, come simboli di solarità.

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l’avvento del Buddhismo Il buddhismo ha contribuito, a partire dal VI secolo, a fornire un ideale di ordinamento della società e ha offerto un complesso sistema culturale oltreché rituale di grande prestigio. Al di là dei dubbi sulle date che la tradizione ha fissato circa la sua introduzione nell’arcipelago giapponese (552 o, in altre fonti, 538), nessuno nega l’impatto che il culto indiano ha avuto sulla memoria collettiva ai tempi dell’imperatore Kinmei (539-571). I re di Paekche, regno coreano alleato agli Yamato, mandavano periodicamente monaci, assieme a scritture, reliquie sacre, A destra: veduta dall’alto del complessto templare buddhista di Horyuji, nella prefettura di Nara. In basso: una delle pagode di Horyuji, dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 1993.

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manufatti liturgici e, in particolare, scultori, ceramisti, pittori legati al culto indiano. Il primo fiorire di una cultura buddhista viene fatto risalire all’imperatrice Suiko (592-628) e, in particolar modo, a suo nipote, il principe Shotoku Taishi (574-622), al quale viene ben presto tributato un culto di cui si facevano propugnatori monasteri a lui collegati. Il principe viene ricordato come il Costantino del

Giappone. I soggetti prediletti dalla prima scultura buddhista vertono principalmente sul Buddha storico (Shaka), sul Buddha della medicina (Yakushi) e sul Buddha del futuro (Miroku), assieme ai bodhisattva aiutanti (Gakko e Nikko), ma non manca anche quello della compassione (Kannon) che, mutuato dalla Cina, assume sembianze femminili. Tra i primi templi, l’Asukaderaji (o Hokoji), fu costruito nell’attuale Prefettura di Nara, e la sua struttura originaria fu completata nel 596 per volere di un potente nobile. Il tempio viene citato negli annali del Giappone, perché la tradizione vuole che vi siano state depositate alcune reliquie del Buddha. Il tempio Horyuji presenta una planimetria che rispecchiava i canoni architettonici cinesi. Al suo interno, oltre al Tamamushi, è conservata la Triade Shaka, raffigurante il Buddha storico con due bodhisattva, che reca un’iscrizione riferibile al 623 nella quale si fa riferimento a uno scultore di immagini buddhiste di discendenza coreana. La triade fu commissionata dalla consorte e dai figli del principe Shotoku. Nel tempio si conserva anche la Triade dello Yakushi, col Buddha della medicina sempre affiancato da due bodhisattva: può essere considerata un capolavoro


assoluto di scultura buddhista. Il tempio Horyuji è stato, nel 1993, il primo sito giapponese a essere riconosciuto Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Numerosi sono i templi costruiti o trasferiti in epoca Nara (710-794) nella capitale. Da segnalare lo Yakushiji e soprattutto il Kofukuji, che presenta l’originale struttura del padiglione ottagonale (Hokuendo), circondato da un chiostro e adibito a cappella privata per l’offerta delle preghiere a beneficio del fondatore del tempio. Il Toshodaiji, fondato da un religioso cinese, propone una rinnovata sintesi di elementi strutturali e stilistici cinesi e giapponesi, con una tendenza alla maestosità di forme semplici ma statiche e pesanti. Il tempio piú rappresentativo è comunque il Todaiji, che include capolavori architettonici considerati Tesoro Nazionale. Al suo interno è conservata l’imponente statua del Buddha (Daibutsu). Tra le strutture originali, lo Shosoin ha conservato circa 10 000 oggetti fra metalli, mobili, strumenti musicali, maschere, tessuti, dipinti, vetri e ceramiche.

il santurio. La ricostruzione periodica diventa un vero e proprio rituale con cui è la tradizione che viene salvaguardata, senza connessioni con l’autenticità di un elemento naturale facilmente deperibile. Le strutture riedificate riguardano, seppure con motivi e modalità differenti, anche quelle buddhiste: al di là di ogni retorica, esse si prestano a essere oggi testimonianze visibili, oltreché «vivibili», di un originale sistema architettonico, che coinvolge non solamente il Giappone, ma gran parte dell’Asia. Dopo la perdita dei modelli originali, cinesi e coreani, il libro della storia dell’architettura di questi tempi è in pratica «scritto» in Giappone.

modelli cinesi e coreani I canoni costruttivi, che prendono come modello di riferimento le risoluzioni cinesi e coreane, si basano su tre elementi fondamentali: i pilastri (rotondi, quadrati, poligonali, con o senza entasi), il tetto (di paglia, di legno o di tegole) e il sistema di trabeazione tra pilastro e tetto. I templi buddhisti presentano padiglioni distribuiti tendenzialmente secondo un asse nord-sud e un chiostro rettangolare (horo) che funge da recinto della zona sacrale, con l’ingresso principale costituito dal «portale meridionale» (nandaimon). Tre, in particolare, sono le principali strutture architettoniche del tempio: la pagoda (to), torre a piú piani, derivata già in Ci-

Il Tabernacolo degli insetti preziosi «Tamamushi» significa letteralmente «insetto prezioso» ed è l’appellativo giapponese di un coleottero (Chrysochroa fulgidissima), le cui elitre blu iridescenti erano incastonate sotto le guarnizioni metalliche traforate, sul bordo dei pannelli, del tabernacolo. Conservato nel tempio Horyuji, si tratta di un reliquiario, di poco piú di 2 m di altezza, realizzato in legno di cipresso giapponese, che assume la forma di un tempio in miniatura montato su un alto zoccolo. Le sculture che conteneva sono andate perdute nel X secolo. Di notevole interesse è la decorazione, a cinque colori (ocra rosso, ocra giallo, verde, bruno e bianco) su un fondo laccato nero, presente sullo zoccolo, adorno di scene di vite precedenti del Buddha (i jataka). L’opera sembra derivare dalla combinazione di piú artisti stranieri.

A sinistra: una delle statue che fanno da guardiani al portale centrale del tempio di Horyuji. A destra: il Tabernacolo Tamamushi, prezioso reliquiario a forma di tempio. VII sec. d.C.

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giappone • le origini/2

na dall’originario stupa indiano (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013), che in Giappone tende ad allontanarsi dalla primitiva simmetria; la «sala d’oro» (kondo), l’edificio di culto dove vengono collocate le principali icone, mentre un corridoio permette la circumambulazione dei fedeli; e, infine, la sala di riunione dei monaci (kodo), adibita alla lettura e allo studio dei testi sacri.Tutte le strutture architettoniche vengono erette su piattaforme in terra battuta e presentano gronde sensibilmente aggettanti, in modo da impedire il gocciolamento sul terrapieno. Horyuji (prefettura di Nara), il complesso templare piú grandioso e famoso del periodo, fu distrutto da un incendio e ricostruito nel 670, e conserva al suo interno alcuni degli edifici in legno piú antichi al mondo oltre ai primi capolavori di scultura buddhista (Triade Shaka del 623 e Triade dello Yakushi del

607). L’influenza sull’architettura non si limita alle strutture religiose, ma si estende anche alle residenze imperiali, che adottano comuni motivi decorativi (il palazzo a Fujiwara del 694 riprende il motivo buddhista del loto sugli elementi circolari delle tegole).

il culto delle immagini La nuova fede porta con sé anche il culto delle immagini, già sintesi di stili indiani (Mathura e Gandhara), sasanidi, partici, influssi locali dell’Asia Interna, a cui si aggiungono quelli cinesi con cui le forme canoniche trovano accoglienza e adattamento nel restante Estremo Oriente. Eseguita con la tecnica di fusione a cera persa, la maggior parte dei bronzi del VII secolo si richiama all’iconografia cinese, soprattutto degli Wei Settentrionali (385-525; vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013), che presenta una forma stilizzata canonica: forte

La «capitale della pace» Heijokyo, la futura Nara, venne progettata nell’VIII secolo, secondo un rigido sistema planimetrico a scacchiera, basato sul modello cinese di Chang’an (Xi’an), capitale dei Tang dal VII secolo: un rettangolo rivolto a sud (4,2 km est-ovest, 4,7 km nord-sud) con dieci strade che partivano dai lati est-ovest e nove da quelli nord-sud, intersecandosi ad angolo retto. Era divisa in 72 jobo, ovvero gli isolati che si creavano in orizzontale (jo) e quelli in verticale (bo); ogni jobo era poi suddiviso in 16 cho (ogni cho doveva misurare 120 m per lato), che poi era suddiviso in unità piú piccole per facilitare i controlli della polizia. Il palazzo imperiale era collocato a settentrione, da dove partiva l’arteria principale che divideva la città in due metà, una orientale e una occidentale. Il tracciato delle altre vie seguiva cosí uno schema ortogonale. La città era dotata di due mercati, quello occidentale e quello orientale.

frontalità, panneggio schematizzato in linee simmetriche o parallele che avvolgono le figure. Il viso presenta tratti somatici estremo-orientali, l’ovale è allungato e la bocca ha il caratteristico «sorriso arcaico». Tali immagini attingono a un buddhismo non ancora settario ed estraneo alle successive e complesse rielaborazioni iconografiche delle posizioni del corpo (asana) e delle mani (mudra) o dei particolari del diadema e del loto. Il legno, insieme al bronzo, è il materiale comunemente usato e talora raggiunge alte vette di qualità artistica, per proporzioni e slancio (Kudara Kannon, VII secolo, Horyuji). Un riflesso del cosmopolitismo culturale della Cina dei Tang (618-907; vedi «Archeo» n. 344, ottobre 2013) giunge in Giappone anche con il Gigaku, una pantomima a carattere simbolico. Le caratteristiche maschere, in legno dipinto, che ricoA sinistra: il Daigokuden, la grande sala per le udienze del palazzo imperiale di Heijokyo.

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scolpire con la cera e con la lacca Tra il VI-V secolo a.C., i vasi in bronzo cinesi, ormai non piú colati in matrici composite utilizzate per una sola colata, si arricchiscono dei primi esperimenti di fusione a cera persa, probabilmente importata dalle zone piú settentrionali dell’Asia sud-orientale. Partendo da un modello (generalmente in ceramica) si spalmava la cera che, una volta solidificatasi, doveva fungere da stampo ed essere successivamente sciolta. Le sezioni ottenute erano poi riassemblate intorno a un nucleo, il bronzo fuso veniva quindi colato esattamente nel vuoto tra gli stampi in cera e il nucleo. La tecnica della lacca secca, un po’ come la cartapesta, comprendeva un nucleo di argilla, poi ricoperto con molti strati di tela di lino imbevuta di lacca. Una volta che gli strati diventavano secchi, il nucleo di argilla veniva rimosso e rimpiazzato con armature lignee, introdotte per sostenere la statua all’interno. La tecnica era molto in voga nella seconda metà dell’VIII secolo, quando, si narra, tutte le risorse del metallo furono utilizzate per fondere il Grande Buddha del Todaiji. Altri materiali e tecniche venivano impiegati, come per esempio il legno e l’argilla cruda dipinta. Quest’ultima era particolarmente popolare tra le grotte buddhiste cinesi di Dunhuang (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013).

In alto: il Daibutsuden, la Sala del Grande Buddha nel tempio Todaiji a Nara, edificato per custodire il Buddha Daibutsu (Universale; foto qui sopra), colossale statua in bronzo dorato inaugurata nel 752. La struttura oggi visibile è frutto di ricostruzioni succedutesi nel XII e XVI sec.

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giappone • le origini/2

prono gran parte del capo, presentano lineamenti, spesso caricaturali, dai profili indo-iranici piú che estremo-orientali. Un notevole connubio di architettura integrata alla pittura in lacca su legno, si ritrova nel capolavoro del Tabernacolo Tamamushi (Tamamushi no zushi, VII secolo, Horyuji), che presenta scene delle vite precedenti del Buddha (vedi box a p. 49).

alla maniera dei tang L’epoca Nara (710-794) segna l’apice dell’influenza cinese. La «capitale della pace» (Heijokyo, odierna Nara; vedi box a p. 50) ripropone la rigida planimetria a scacchiera della capitale dei Tang, mentre una vera e propria contaminatio tra buddhismo e shintoismo pervade l’architettura oltreché il cerimoniale. I grandi monasteri della capitale diventano le sedi di nuove tradizioni buddhiste, nel momento in cui l’imperatore Shomu (701-756), dà inizio all’esecuzione della colossale immagine in bronzo dorato del Buddha Universale (Daibutsu), alta quasi 16 m e pesante circa 550 t.

Autenticità e conservazione Il Documento di Nara sull’autenticità, la Carta di Nara, stilata in Giappone nel 1994 dall’UNESCO, ICCROM e ICOMOS, riconosce la non universalità della nozione di autenticità. Si parte dal presupposto che esistono alcuni contesti culturali in cui la conservazione di un bene può prescindere dalla tutela della sua integrità «materiale» delle origini. La tradizione shintoista giapponese, per esempio, con la ricostruzione periodica dei templi, basa la propria idea di autenticità non tanto sulla persistenza dei materiali e della struttura, quanto sulla conservazione dei saperi e delle tecniche che consentono la ricostruzione degli edifici di culto a ogni generazione. Di qui la necessità di fondare i giudizi di valore e di autenticità del patrimonio culturale non su criteri fissi, ma su una varietà di fonti di informazione riguardanti non solo la forma e la sostanza, ma anche l’uso, la funzione, le tradizioni, il luogo, lo spirito.

Nel 752 viene inaugurata, con la cosiddetta «Cerimonia dell’apertura degli occhi» (kaigen), una funzione grandiosa, intesa a sancire il virtuale completamento dell’opera: mentre l’imperatore «inietta la vita» del Buddha, dipingendogli le pupille, il Giappone diventa ufficialmente il nuovo, grande centro del mondo buddhista. Il padiglione che ospitava la statua (Daibutsuden) divenne, di conseguenza, il piú colossale edificio in legno mai realizzato (87 x 51 m di base e 36 m di altezza). Tra le novità architettoniche, è da segnalare l’Edificio dei Tesori (Shosoin), che richiama i depositi pubblici loca-

li (shoso), costruzioni lignee, prive di finestre, con pavimento sollevato, formate da tronchi disposti l’uno sull’altro, che permetteva la naturale aerazione attraverso gli interstizi, garantendo un ambiente perfettamente impermeabilizzato. Il maggiore e unico superstite del periodo Nara è quello del Grande Tempio d’Oriente (Todaiji), che ha conservato intatto l’arredo personale dell’imperatore Shomu, offerto dalla vedova al tempio, insieme a migliaia di doni recati al monastero da visitatori locali, ma anche cinesi, indiani e persiani. È una testimonianza unica della vita di corte giapponese, oltreché riflesso della cultura cosmopolita dell’VIII secolo. La scultura dell’epoca, eseguita in materiali diversi (bronzo, legno, lacca e argilla) e con tecniche differenti, come, per esempio, la lacca secca Maschera gigaku in legno. (vedi box a p. 51), assume uno stile Periodo Asuka, VII sec. uniforme improntato all’elegante Tokyo, Museo Nazionale. plasticità della statuaria Tang, ma

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Sulle due pagine: immagini della ricostruzione e della consacrazione dei santuari shintoisti di Ise e Kusatsu.

non mancano influenze indo-iraniche, asiatico-occidentali e perfino greco-romane. Legata al culto buddhista appare anche una pittura che, per il vivace stile policromo e lo schema compositivo semplificato, riflette stili e modelli iconografici elaborati in Cina. Nella produzione ceramica si registra l’introduzione dell’invetriatura al piombo, nota come ceramica a tre colori (sancai) per le tinte piú ricorrenti (verde, bruno ambrato, bianco).

vocazione cosmopolita Sin dalla remota antichità, il Giappone rientra nel contesto delle grandi civiltà asiatiche, o meglio euro-asiatiche, e insegue una vocazione cosmopolita, che, come già detto in apertura, mette in discussione lo stereotipo che vede l’insularità come sinonimo di isolamento. Dopo la fase di assimilazione e rielaborazione del patri-

monio culturale straniero e, in particolare, cinese, si diffonde una profonda coscienza «nazionale», in cui lo spirito autoctono, in campo letterario e artistico, trova l’espressione piú originale: con la fonda-

zione della nuova capitale, la «Città della Pace e della Tranquillità» (Heiankyo) si inaugura il periodo Heian (794-1185), l’età dell’oro della civiltà giapponese. (2 – continua) a r c h e o 53


alessandria la grande di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

una delle maggiori metropoli dell’antichità sembrava svanita nel tempo e cosí i monumenti che l’avevano resa celebre, primi fra tutti il faro e la biblioteca. ma da alcuni anni, anche grazie all’archeologia subacquea, il volto (e la storia) della città sul delta del nilo tornano a prendere forma

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na città fatta di veli storici, costantemente strappati e ricostruiti l’uno sulla trama lacera del precedente; a volte quasi completamente cancellata, quasi abrasa dalle onde della storia, ma sempre risorta, anche su tracciati quanto mai labili. È lo scenario in cui l’obliterazione di quanto materialmente costruito da milioni di individui – e da personaggi storici cruciali – è attenuata da una ricostruzione, davvero babelica, di mille immagini mitologiche, religiose e letterarie. Alessandria è anche una città che la stessa sensibilità laica e razionalista dell’Occidente continua a trasfigurare in nuovi miti, popolati di eroi ed eroine dell’ultima ora «politicamente corrette» – come la scienziata Ipazia, improvvisamente resuscitata da recenti cortine cinematografiche. Ma come dimenticare che il «mondo

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Alessandria, Serapeum. Una sfinge di età tolemaica e, sullo sfondo, la cosiddetta Colonna di Pompeo, in realtà innalzata nel 300 d.C. circa in onore di Diocleziano. Dedicato al culto di Serapide, il tempio fu edificato da Tolomeo I Sotere intorno al 300 a.C. e ampliato da Tolomeo III.


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alessandria • i luoghi della leggenda

«Alexandrea ad Egyptum… è sempre stata prossima all’Egitto, ma mai davvero parte di quella terra» (Jane Lagoudis Pinchin, Alexandria Still, Princeton, 1977)

Mar Mediterraneo

alessandria

Mar Rosso

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A destra: stampa moderna in cui si immagina un gruppo di eruditi che consulta i testi custoditi nell’antica Biblioteca di Alessandria. A sinistra: busto di Alessandro Magno, fondatore di Alessandria nel 331 a.C. I sec a.CI sec. d.C. Brooklyn, Brooklyn Museum of Art. Nella pagina accanto: cartina fisica del Vicino Oriente con l’ubicazione di Alessandria, presso il ramo del delta del Nilo detto di Canopo.

il piú grande fiume del mondo si perde nel maggiore mare interno d’Eurasia. Oggi Alessandria, con piú di quattro milioni di abitanti, è la seconda metropoli d’Egitto, e la maggiore città costiera dell’intero Mar Mediterraneo (definizione che la porterebbe a rivaleggiare con Roma, se considerassimo Ostia parte dell’Urbe). La città sorse al margine orientale del delta del Nilo, presso il ramo detto di Canopo, ai margini dell’attuale baia di Abukir (teatro della rovinosa distruzione della flotta francese per opera degli Inglesi nell’agosto del 1798) e non lontano dalla foce di Rosetta, luogo della fortunosa scoperta della stele trilingue che porta lo stesso nome. Il ramo monumenti scomparsi per sempre... occidentale divenne sede di importanti scali intorno Una città, infine, fatta di non-luoghi, o assenze colos- alla metà del I millennio a.C., man mano che i Greci si sali (il Faro, la Biblioteca, la tomba di Alessandro Ma- trasformavano in naturali alleati dell’Egitto contro le gno): monumenti scomparsi per sempre, i cui vuoti vecchie potenze asiatiche. Nuovi insediamenti nel marnon possono non sconcertare il moderno visitatore. gine ovest del delta soppiantarono gradualmente quelli Per converso, le stesse assenze, come altrettante porte sorti lungo il ramo orientale, detto di Pelusio, che aveva virtuali, rendono Alessandria perennemente visitabile incanalato la maggior parte dei traffici in direzione dei in una sorta di mondo parallelo, che non può non territori controllati da Assiri, Babilonesi e Persiani. coincidere con la memoria umana globale, proprio Le fonti parlano di scali, empori e luoghi di culto chiacome globale e globalizzante fu, fin dagli inizi, la sua mati Canopo, Menutis, Thonis, Herakleion, e, infine, vocazione politica e culturale. È come se lo spirito della grande Alessandria, come di località prossimali. La universalistico e i sogni cosmopoliti del suo fondatore, complessa identità onomastica, archeologica e topograAlessandro, si fossero fatalmente e indissolubilmente fica di questi centri è stata messa a fuoco solo di recenimpressi su questi remoti e fragili lembi sabbiosi, dove te, grazie a studi geomorfologici, all’archeologia subacnuovo» creato dalla fusione del pensiero greco con un profondo substrato egizio, ancora tanto fertile quanto mutevole, ospitava i culti di Serapide, che assorbiva le figure di Horus, il dio-falco, e Anubi, il dio-sciacallo dei morti; dello «Spirito Buono» Agathos Daimon, dell’ebbro Dioniso, degli incestuosi Iside e Osiride, e persino, in un Homereion voluto dai Tolomei, il culto del massimo poeta dell’Ellade divinizzato? Non a caso il Corpus Hermeticum (una raccolta medievale di scritti antichi interpretata in senso mistico, simbolico e magico in età rinascimentale) etichettava Alessandria come «il tempio del mondo intero».

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alessandria • i luoghi della leggenda

Le vite plurime di una città immortale VI secolo a.C. Il faraone Amasi (570-526 a.C.) rafforza l’influenza greca sul lato occidentale del delta cedendo ai Milesi la città di Naucrati, prima polis in terra d’Egitto. 525-404 a.C. Dominio persiano in Egitto, rovesciato con l’appoggio di corpi militari greci. 332-331 a.C. Alessandro giunge in Egitto e fonda Alessandria. 300 a.C. Alessandria ha una popolazione stimata in circa 100 000 abitanti. 323 a.C. Morte di Alessandro a Babilonia. Tolomeo viene nominato satrapo d’Egitto, ma si proclamerà re soltanto nel 305. 282-246 a.C. Tolomeo II Filadelfo («che ama sua sorella») consolida il regno, estendendolo ad ampie regioni costiere dell’Asia Minore e dell’Egeo; sostiene gli enormi sforzi economici per la Biblioteca Reale, il Faro, il Museo e gli altri grandi monumenti della città. 246-222 a.C. Tolomeo III Evergete («Il benefattore») sconfigge Antioco II, e porta il regno tolemaico alla sua massima prosperità controllando gran parte delle coste dell’Asia minore e della Grecia. Culmina il culto del sovrano come divinità. Dopo la sua morte, il regno entra in un rapido declino. 197 a.C. Il re Tolomeo V (210-180 a.C.) stringe rapporti di amicizia con Roma. Nelle decadi successive, tra convulsi rivolgimenti militari e avvicendamenti sul trono, l’interferenza di Roma si fa piú pressante. 80 a.C. Il giovane re Tolomeo XI Alessandro II viene linciato ad Alessandria da una folla di rivoltosi. Un suo testamento (falso) lasciava l’Egitto a Romani, che vi impongono di fatto un protettorato. Roma prende Cipro e la Libia. 51-30 a.C. Regno tolemaico d’Egitto di Cleopatra VII, uno dei piú potenti nemici di Roma. 31 a.C. Ottaviano sconfigge ad Azio la flotta di Cleopatra, appoggiata dall’esercito di Marco Antonio; poco dopo i due si suicidano. La morte di Cleopatra segna simbolicamente la fine dell’età ellenistica. L’Egitto diviene provincia romana. 70 d.C. Dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, Alessandria diviene un importante centro di cultura ebraica. 139 Sotto Marco Aurelio (121-180 d.C.), una grave rivolta segna l’inizio del declino 58 a r c h e o

In alto: terminale di collana in vetro policromo a forma di testa di falco, da Alessandria. III-I sec. a.C. Nella pagina accanto: mosaico pavimentale con testa di Medusa. III sec. d.C. Alessandria, Museo greco-romano.

A destra: il Cammeo Gonzaga, gemma in sardonica con i ritratti di Tolomeo II Filadelfo e di sua moglie e sorella Arsinoe II. III sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Hermitage.

In basso: placchetta di vetro con occhio di Horo (ugiat), da Alessandria. III sec. a.C.-I sec. d.C.


economico dell’Egitto. Il cristianesimo si diffonde rapidamente. Nel III secolo d.C. diviene uno dei centri maggiori della cristianità. 270 Zenobia di Palmira conquista Bitinia ed Egitto, ma viene sconfitta da Aureliano (214-275 d.C.) che riconquista Alessandria. 325 Le dottrine di Ario di Alessandria (256336) sulla natura di Cristo vengono bollate come eretiche dal Concilio di Nicea. Grave scisma nel mondo cristiano. Diverse eresie e comunità religiose, nei decenni successivi, causano scontri ideologici e politici 391-392 Decreti dell’imperatore bizantino Teodosio I (347-395) contro i culti pagani. Devastazioni e saccheggi dei vecchi templi da parte delle comunità cristiane. Rivolte della comunità pagana per la distruzione del Serapeo di Alessandria. 415 Espulsione degli Ebrei da Alessandria. L’uccisione della filosofa Ipazia segna il tramonto della cultura classica e dei suoi connotati aristocratici. Si perdono le tracce del mausoleo di Alessandro Magno. 491-518 L’imperatore Anastasio riporta in Egitto la pace religiosa, ma il paese è al collasso economico. 527-565 Giustiniano tenta di riorganizzare l’amministrazione del Paese. 616-626 Eserciti persiani occupano per un decennio l’Egitto. 639 Una imponente armata araba, comandata da Omar ibn al-Khattab, penetra in Egitto, e, nel 641, Alessandria cade. Alcune fonti attribuiscono al conquistatore la distruzione dei volumi dell’antica Biblioteca Reale.

quea e ad avanzate applicazioni di prospezione geofisica e analisi delle immagini satellitari. L’archeologia di Alessandria è resa ardua non solo dalla distruzione estensiva dei suoi monumenti pagani in età tardo-antica, ma anche dalle profonde trasformazioni naturali che l’intera costa subí in antico. Di un devastante maremoto, si ha notizia nel 365 d.C.; altri cataclismi devono essersi verificati tra il V e il VI secolo d.C., e sappiamo di un altro potente terremoto datato intorno alla metà dell’VIII secolo d.C. Tsunami e distruzioni concorsero con l’innalzamento graduale del livello del Mediterraneo, con il dissolvimento dei fondali marini, e con lo sprofondamento di enormi resti architettonici che il loro stesso peso trascinava tra i fanghi e le sabbie della costa. Per questo, negli ultimi anni, l’antica Alessandria, resa invisibile a terra dal continuo reimpiego delle sue rovine, è meravigliosamente riemersa, in tutti i suoi fasti, davanti alle maschere dei sub.

Nel cuore del leone Con la fondazione alessandrina, il nuovo centro ottenne un rapido monopolio delle attività commerciali, politiche e militari, mentre l’insediemento di Canopo si trasformava in un sobborgo noto per i suoi dissoluti divertimenti, e Herakleion continuava a essere un centro religioso di grande prestigio. Alessandro sembra aver fondato non meno di una settantina di città che ricevettero il suo nome, ma è sulla fondazione della metropoli del delta del Nilo, agli inizi del 331 a.C., che si intreccia il principale viluppo di storie, suggestioni e leggende. Le fonti greche narrano che il conquistatore, dopo aver deciso di fondare una nuova capitale greca universale, vide in sogno Omero, il quale gli recitò due versi dell’Iliade che menzionavano l’isolotto di Faro, di fronte a uno dei rami del delta del Nilo. A quel tempo Faro era un’ampia striscia di terra che racchiudeva una vasta laguna, facile all’approdo dal mare; ma per i Greci era anche il luogo in cui, secondo il racconto Omerico, Menelao, re di Sparta e marito di Elena, aveva dovuto affrontare Proteo, arcaica divinità del mare ben piú antica di Zeus. Gli architetti di Alessandro, non avendo a disposizione il gesso che normalmente si usava nel disegnare le fondamenta delle mura, avrebbero deposto sul terreno linee di farina d’orzo; ma mentre Alessandro contemplava soddisfatto l’opera dei suoi tecnici, nubi di uccelli si levarono dagli acquitrini del Nilo e ben presto il tracciato urbano fu completamente divorato. L’auspicio poteva essere negativo; ma gli indovini predissero, con un generale sospiro di sollievo, che la nuova città sarebbe stata ricca di risorse e avrebbe sfamato gente di ogni nazione. Altre fonti narrano della miracolosa fuoriuscita dal terreno di serpi benigne, mandate da Ammone o da Zeus, che lungi dall’attaccare i lavoranti, ne custodirono l’opera; e di un altro sogno del Macedone, in cui Sera(segue a p. 62) a r c h e o 59


alessandria • i luoghi della leggenda

In alto: disegno ricostruttivo a volo d’uccello dell’antica Alessandria, con il porto e l’isola di Faro. A sinistra: ricostruzione in 3D del Faro di Alessandria, con il primo piano ornato da figure angolari di tritoni e la sommità da una statua di Zeus o Poseidone, poi sostituita con una di Helios.

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Un’immagine dei resti archeologici che giacciono sui fondali di Alessandria. A pochi metri dalla costa, sul fondo del mare, si trova una quantità impressionante di statue, sfingi e obelischi.

«Le dighe del porto erano state costruite con rocce, blocchi di granito di Assuan, frammenti di colonne antiche. Lastre di marmo ricoperte di squisiti geroglifici o di iscrizioni greche venivano indiscriminatamente mescolate a ogni tipo di materiale per la costruzione di case e di fortificazioni: se questo era un triste spettacolo per un archeologo, costituiva una lezione assai significativa per uno storico. Le rovine sono rimaste integre solo in luoghi dove ha prevalso la morte, come a Pompei o a Palmira. Ad Alessandria, malgrado tutto, la morte non era prevalsa» (Mauro Giachetti, Costantino Kavafis ed Alexandrea ad Aegyptum, 1996)

Il Faro, una delle sette meraviglie del mondo Il celebre Faro di Alessandria era stato iniziato da Tolomeo I Sotere (367-283 a.C.) e completato dal figlio Tolomeo II, era alto circa 130 m ed era visibile dal mare a 50 km di distanza. Perfetto esempio del gigantismo tecnologico dell’età ellenistica, fu presto riconosciuto come una delle Sette meraviglie del mondo. Di giorno, enormi specchi di bronzo riflettevano i raggi solari; di notte, gli stessi specchi risplendevano della luce generata da grandi braceri. I suoi segnali guidavano le navi ai moli del grande porto orientale, permettendo ai naviganti di evitare insidiosi banchi di sabbia. Dalla sua sede, Faro, viene il nome che ancor oggi diamo a queste costruzioni. Da immagini, sempre troppo sommarie, di modellini e monete, sappiamo che l’edificio – considerato il primo grattacielo mai costruito dall’umanità – sorgeva su di un alto basamento quadrangolare, coperto da una enorme torre ottagonale e infine da una costruzione rotonda sormontata da una statua di Zeus o Poseidone, poi sostituita da una di Helios, il Dio del Sole. Helios, che generava la luce della salvezza per i naviganti, era ritratto anche nell’altra enormità portuale del mondo antico, il Colosso di Rodi. Il limite del primo piano era certamente decorato da figure angolari di tritoni; probabilmente alla base era stato costruito un tempio di Iside. I resti della gigantesca costruzione, crollata per uno o piú terremoti, giacquero per secoli in un grande cumulo informe, per poi essere inglobati in una fortificazione chiamata Qait Bey, del XV secolo, eretta sulle sue originarie fondazioni. Grandi blocchi squadrati e altri elementi architettonici crollati dal Faro sono stati recentemente recuperati in mare, insieme a parti di colossali statue dei sovrani tolemaici in fattezze divine. a r c h e o 61


alessandria • i luoghi della leggenda

pide – futura divinità poliade – annunciava al re che nella nuova città, destinata a grandi fortune, il suo corpo sarebbe stato venerato come quello di un dio. Questa tradizione fu certamente propagandata dai Tolomei per sostenere la centralità politica della loro nuova capitale. La scelta del sito e l’orientamento del tracciato urbano – lo hanno suggerito recenti studi di natura archeastronomica – deriverebbero non tanto da considerazioni topografiche o di ordine pratico, quanto da riferimenti astronomici, accuratamente calcolati, alla posizione del sole e a quella di Regolo (Alfa Leonis), nel giorno della nascita di Alessandro. Regolo (il Piccolo Re, Basiliskos in greco) era l’astro piú brillante della costellazione del Leone, della quale formava il cuore, ed era idealmente legata ai destini dei sovrani. Fu Dinocrate (seconda metà del IV secolo a.C.), macedone come il suo re, oppure, secondo altre fonti, nativo di Rodi, a pensare Alessandria d’Egitto come modello di ordine e regolarità universale. Opera sua sembra essere stato anche un colossale tumulo funerario a gradoni sovrapposti eretto alla memoria di Efestione a Babilonia; nonché il progetto (abortito) di trasformare l’intero monte Athos in una colossale immagine di Alessandro Magno, che avrebbe retto in una mano una città e nell’altra una coppa che versava le

acque del monte in mare. In contrasto con i suoi precedenti immaginifici progetti, non approvati, a quanto affermano le fonti, dallo stesso condottiero, Dinocrate progettò Alessandria sulla base di un semplice e razionale impianto a griglia, e con l’aiuto dei contemporanei Cleomene di Naucrati e Crate di Olinto la dotò, sin dall’inizio, di un efficiente sistema idraulico.

Le tre nature di Alessandro Con la morte del condottiero macedone e la fatale divisione dell’impero tra i diadochi, nel giugno del 323 a.C., era nata in Egitto la dinastia dei Tolomei.

la città fiorisce in età imperiale «Tutta la città è intersecata da strade percorse da cavalcature e carri; due sono larghe piú di un pletro (29 m) e si tagliano nel mezzo ad angolo retto. Vi sono poi meravigliosi giardini pubblici, e palazzi reali che occupano un quarto o forse un terzo dell’intera città. Infatti ogni sovrano oltre ad aumentare la bellezza degli edifici pubblici, voleva lasciare un segno anche ai palazzi che già esistevano, al punto che con il poeta potremmo dire: “un palazzo nasce dall’altro” (…) È parte dei palazzi reali anche il Museo, in cui vi sono un portico, un’esedra e una grande sala dove cenavano insieme i saggi che ne facevano parte (…) Anche il luogo chiamato Soma è parte di queste costruzioni; è un recinto nel quale si custodivano le tombe dei re e con esse quella di Alessandro. Chi entra nel porto maggiore vede a destra l’isola e la torre di Faro, mentre a sinistra ha le rocce e il promontorio di Capo Lochias su cui è situato un palazzo reale. Sempre a sinistra vi sono i palazzi interni, con numerosi altri padiglioni e giardini. Al di sotto vi è un porto artificiale e ben protetto, usato dalla casa reale; poi Antirodi, un’isoletta antistante, con un suo palazzo reale e un altro piccolo porto (…) Vengono poi il Cesareo (grande complesso monumentale dedicato al culto ufficiale dell’impero), l’Emporio e le Apostasi (grandi magazzini): poi fino all’Eptastadio (la diga che collegava Faro alla terraferma) i luoghi dove si costruiscono le navi. Dopo l’Eptastadio vi è il porto di Eunosto, e ancor oltre un altro porto artificiale chiamato Ciboto, che contiene a sua volta dei cantieri. Vi si scarica un canale navigabile che si stende fino al lago Mareotide. Al di là del canale resta solo un lembo della città: poi viene la necropoli, un sobborgo con molti giardini, e tombe e case destinate all’imbalsamazione dei cadaveri. Al di qua del canale vi sono invece il Serapeo e altri edifici antichi (…) con l’anfiteatro e lo stadio». (Strabone, Geografia, Cap. XVII) 62 a r c h e o


perchÉ è importante A sinistra: altare sacrificale all’interno della Tomba 2 della necropoli greco-romana di Mustafa Kamal ad Alessandria. II sec. a.C. In basso: disegno ricostruttivo della cosiddetta «via canopica», uno degli assi stradali principali di Alessandria, che attraversava la città in senso est-ovest.

lessandria, continuamente abitata, trasformata e ricostruita per 2300 anni, fu la A capitale dell’Egitto ellenistico, romano e bizantino, fino alla conquista araba del 641 d.C., quando la capitale dello Stato centrale iniziò a gravitare verso il polo del Cairo. A Istanbul, Alessandria contende ancora il ruolo di principale centro politico e culturale di origini europee incardinato alle vie dell’Asia. La città e strettamente legata alla memoria del suo fondatore, Alessandro il Grande, e al grande mistero archeologico della sua sepoltura; e alle figure storiche di Cleopatra, Cesare e Marco Antonio, protagonisti di un viluppo di vicende tragiche e gravide di conseguenze storiche, ma anche profondamente poetiche e suggestive. Alessandria ha clamorosamente ritrovato nello specchio di mare antistante le prove archeologiche dell’antica grandezza, che a terra si indagano solo con notevoli difficoltà. L’antica città sottomarina, fortunosamente riscoperta nei fondali delle baie di Abukir, di Alessandria e Canopo, compensa ampiamente l’assenza di grandi resti monumentali nella parte ancora abitata dell’antica capitale.

il sito nel mito

econdo le fonti antiche, la fondazione della città fu influenzata da un sogno: al S dormiente Alessandro apparve un vegliardo incanutito, Omero, che gli parlava di Faro, al tempo un isolotto di fronte allo sbocco del Nilo di Canopo. Alessandro avrebbe esclamato le lodi del grande poeta e avrebbe ordinato agli architetti di procedere a fondare la nuova città proprio da là. Poiché i progettisti per tracciare le fondazioni avevano usato farina d’orzo a posto del gesso, il cantiere si riempí di stormi di uccelli di ogni genere dalle vicine lagune; gli indovini dissero che la città avrebbe nutrito genti di ogni nazione. Le oscure vicende del crollo della Biblioteca e del tramonto delle sue attività scientifiche e didattiche hanno alimentato per secoli versioni di parte e vere e proprie leggende; narrazioni e dicerie continuano a svilupparsi ancor oggi, non senza accese polemiche.

alessandria nei musei del mondo

lessandria è ricca di Musei e Istituzioni culturali, ma la recente instabilità A politica ha comportato la chiusura temporanea o meno di molte collezioni. Chi vi si rechi, dovrà prendere informazioni precise prima della visita. Il Museo Greco-Romano contiene la maggior raccolta di archeologia e arte dell’Egitto ellenistico e tolemaico al mondo. Gran parte dei reperti sono datati dal III secolo a.C. in poi. Fondato nel 1892, raccoglie oltre 40 000 manufatti provenienti da scavi e donazioni. I capolavori mostrano la transizione dei culti ellenici in un nuovo orizzonte culturale e la loro convergenza verso il culto di Serapide; nonché l’avvento del cristianesimo. Il Museo è in corso di restauro e non è visitabile. Il Museo Nazionale di Alessandria è piú recente. Inaugurato nel 2003 nell’ex sede consolare degli Stati Uniti, contiene circa 1800 oggetti di antica arte egiziana, copta e islamica, piú opere provenienti dalle aree di Canopo e Heraklion. Le raccolte comprendono anche oggetti moderni relativi alla storia recente di Alessandria negli ultimi due secoli. Il Museo Reale dei Gioielli (Zizenia, Alessandria), ricavato da un palazzo principesco, è stato inaugurato nel 1986. Contiene una inestimabile raccolta di gioielli storici del XIX e XX secolo, statue e oggetti d’arte decorativa.

informazioni per la visita

La seconda città dell’Egitto dispone di due aeroporti internazionali, e voli diretti da Milano e Roma raggiungono quello di Borg El-Arab. Per gli spostamenti in centro è possibile noleggiare un’auto o avvalersi del trasporto locale. A causa delle alte temperature, si sconsiglia la visita nella stagione estiva. Il riferimento ufficiale per ulteriori informazioni è l’Ente Egiziano per il Turismo (http://it.egypt.travel). a r c h e o 63


alessandria • i luoghi della leggenda

Alessandro – come narrano sia Plutarco sia Curzio quel che resta Rufo – aveva lasciato precise istruzioni secondo le di alessandria quali il suo corpo sarebbe dovuto essere sepolto nel tempio di Zeus-Ammone a Siwa, dove l’oracolo Dell’antica città rimangono oggi solo poche vestigia. aveva proclamato la sua natura divina. La tradizione Tra queste, i resti del grande faro di Alessandria, avrebbe voluto invece una tumulazione a Aegae crollato in occasione di un terremoto, i cui giganteschi (Vergina) a fianco del sepolcro del padre; Tolomeo, blocchi residui furono inglobati durante il Quattrocento invece, amico di famiglia e suo compagno d’infanzia, nel castello di Qait Bey (1). Del grande tempio dedicato si impadroní del corpo del re mentre il feretro trana Serapide, smantellato nel IV secolo dai cristiani sitava in Siria, e lo portò a Menfi, dove, secondo guidati dal patriarca Teofilo, si possono ammirare alcune fonti, rimase per alcune decadi, prima d’esreperti conservati nel Museo greco-romano, tra cui un sere finalmente traslato ad Alessandria. Come ha busto della divinità e una statua del dio Api in forma di scritto Laureen O’Connor, ciascuna località corritoro commissionata dall’imperatore Adriano (2). Nella spondeva a una sfaccettatura diversa della complessa parte occidentale della città, proprio alle spalle del figura di Alessandro: l’idea di Siwa la sua divinità, porto, una missione archeologica polacca ha riportato Aegae la regalità dinastica come re di Macedonia, alla luce i resti di un piccolo teatro di epoca romana Alessandria – dopo la morte del re - la pretesa legit(3), scoprendo 800 sedili in marmo in buono stato di timità del potere faraonico dei Tolomei. Fu la terza conservazione e due pavimenti a mosaico. dimensione a prevalere, ma 1. fortezza di qait bey non in modo compiuto. Il corpo di Alessandro, infatti, sarebbe stato venerato nella sua ultima sede per secoli, ma, agli occhi del nascente potere di Roma, la sacralità che ne derivava non sarebbe affatto stata trasmessa alla casa di Tolomeo. Narra Svetonio (Vite di dodici Cesari, 18, 54) che Augusto, giunto in Egitto subito dopo il suicidio di Cleopatra, fece estrarre la mummia di Alessandro dal sepolcro, ne contemplò le fattezze, e la onorò con una corona aurea e una cascata di fiori; ma si rifiuIn alto: il castello di Qait Bey costruito nel XV sec. tò di visitare le tombe dei Tolomei, dicendo chiarainglobando i resti del Faro di Alessandria. mente di essere venuto a onorare un re, e non cadaveIn basso: pianta di Alessandria con l’indicazione dei ri. In simili storie, ben poco va concesso alla cronaca, e complessi monumentali piú importanti. tutto alla politica. Tuttavia, con buona pace della 1 (posteriore) propaganda romana, è impossibile scindere le fortune Mar Mediterraneo Faro Grande di Alessandria dalla nuova casa Porto Lochias Isola di Faro regnante. Il nome di Tolomeo II Timonium Tempio di Poseidone Filadelfo (308-246 a.C.) è stretTempio di Iside tamente legato alla costruzione e Eptastadio Palazzi Porto 3 Reali allo sviluppo dei piú grandi e Teatro romano Eunostos Ciboto Cesareo Tempio di Cerere famosi monumenti e istituzioni Biblioteca e Proserpina Tempio e Museo di Saturno di Alessandria, come il Museo, la Sema Tempio Biblioteca, il Faro e il Serapeo. di Serapide Fortunate guerre condotte in Grecia e in Siria avevano conRhakotis Serapeo Necropoli sentito al nuovo Stato egiziano, Occidentale 2 sapientemente riorganizzato da Tolomeo II, di impadronirsi di buona parte del Mediterraneo Lago Mareotide orientale, e di controllare importanti tratti costieri di Cilicia, 64 a r c h e o


3. teatro romano

A destra: resti del teatro romano riportato alla luce da una missione polacca nella zona di Kom el-Dikka.

Panfilia, Licia e Caria. Tasse e pedaggi riscossi dalle navi mercantili in transito, profitti mercantili, il lavoro di manutenzione delle navi e le offerte fatte da mercanti e naviganti agli dèi della città erano altrettante fonti di reddito. Ingenti risorse confluirono ad Alessandria e furono subito impiegate in cantieri e altri grandi investimenti pubblici.

A destra: busto in marmo di Serapide, divinità greco-egiziana con funzioni taumaturgiche, dal Serapeo della città. I-II sec. d.C. Alessandria, Museo greco-romano.

2. serapeo

La tomba dei desideri In una lettera scritta tra il 390 e il 391 d.C., l’avvocato e retore Libanio di Antiochia (314-393 d.C.), di antica e salda cultura pagana, lamentava il saccheggio delle terre, delle offerte e persino dei resti architettonici degli antichi templi di Alessandria operato da funzionari avidi e senza scrupoli, forti della condanna ormai ufficiale degli antichi culti operata dall’impero cristianizzato. In questo contesto troviamo l’ultima menzione storica occidentale del mausoleo di Alessandro nella sua città. La tradizione letteraria affermava concorde che la tomba di Alessandro era collocata all’incrocio tra le due principali arterie urbane di Alessandria, una posizione del tutto anomala per un sepolcro della grecità. L’ultima visita «ufficiale» registrata dalle fonti era stata quella dell’imperatore Caracalla, nel 215 d.C. È ben possibile che il mausoleo del conquistatore fosse stato violato e spogliato durante i disordini del 270 d.C., qundo Alessandria fu presa dall’esercito di Aureliano durante la riconquista dei territori passati sotto Zenobia di Palmira. Fatto sta che, dagli inizi del IV secolo d.C. in poi, la tomba viene menzionata solo da fonti arabe, tra le quali Abdel Hakam (nell’871), Al-Massoudi (944), e persino, nel XVI secolo, al-Hasan ibn a r c h e o 65


alessandria • i luoghi della leggenda

Muhammad al-Wazzan al-Fasi, meglio noto come Leone l’Africano. Nessuno di questi autori, tuttavia, menziona la localizzazione esatta del sepolcro, e le inIl braccio di una scultura formazioni hanno sempre avuto scarso credito presso di epoca tolemaica, gli storici occidentali. A oggi, si contano ben 140 tenesposto nel Museo tativi diversi per localizzare il sito della grande tomba, archeologico allestito che comprendono anche ipotesi avanzate in tempi nella nuova Bibliotheca molto recenti. Alexandrina, inaugurata Nel 1960 Il Centro Polacco di Archeologia iniziò lo il 16 ottobre 2002. scavo della località di Kom el-Dikka nel cuore della città moderna, in cerca dell’intersezione stradale citata dalle fonti.Trovarono un teatro e un edificio termale, ma non la tomba. Le trincee polacche si sono spinte a lambire la Moschea di Nebi Daniel («del Profeta Daniele»), indicata dalle fonti arabe come luogo della sepoltura, anch’essa esplorata nelle fondazioni, sino a che gli scavi furono sospesi nel timore di crolli. Liani Souvaltzi, dell’Istituto di Studi Ellenici, ha invece continuato a battere la pista di Siwa, scavando all’interno dell’oasi il tempio dorico di El Maraqi Bilad el Rum (1989). La teoria non convince gli egittologi e non piace alla comunità greca di Alessandria, che teme di vedersi sottratto il mito della sfuggente tomba del conquistatore macedone. È infine da ricordare, almeno per la sua arditezza, la teoria dello storico britannico Andrew Chugg, secondo il quale il corpo di Alessandro sarebbe stato scambiato con quello ora attribuito a S. Marco, e attualmente venerato a Venezia, per salvarlo dalla pro- direttamente da Dio. Ancor oggi, la Versione dei Settanfanazione durante un’insurrezione cristiana. ta rappresenta il canone biblico accettato dalle Chiese ortodosse d’Oriente. La storia esprime comunque l’antico radicamento della cultura e della fede ebraica Filologia, opera divina Tra le realizzazioni dei Tolomei va ricordata innanzitut- ad Alessandria, accentuato dopo gli esodi conseguenti to la grande Biblioteca Reale, la piú vasta e famosa bi- alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. blioteca e università del mondo antico. Leggenda vuole I roghi dei libri accesi dai nazisti nella primavera del che il re chiedesse a ogni vascello che attraccava al molo 1933, e la memoria storica delle analoghe distruzioni di Alessandria il dono di un volume; una storia certa- comandate dal Primo Augusto Imperatore della Cina, mente falsa, ma che ben lega la ricchezza della città a Qin Shi Huang Di, tra il 213 e il 210 a.C., ci hanno quella del suo grande polo culturale. La Biblioteca, secondo gli autori antichi, custodiva oltre mezzo milione di opere, curate, copiate, tradotte e chiosate da un pic- Il Museo scomparso colo esercito di agguerriti filologi, coordinati da un sovrintendente designato direttamente dal sovrano. Per Del Museo alessandrino, come della tomba di secoli vi si erano accumulati volumi che trattavano di Alessandro Magno, si sono perse le tracce. Unica matematica, astronomia, medicina e botanica, geografia fonte al proposito è la Geografia di Strabone, in cui si e, in particolare, di filologia; ma certamente anche di dice che il Museo era parte dei Basileia, cioè dei spiritualismo e rituali, e delle discipline che oggi noi quartieri regali (le fonti dicono anche che l’imperatore chiameremo teologia e storia delle religioni. Claudio aveva fatto costruire ad Alessandria un Esemplare, al proposito, un’altra tradizione leggendaria, secondo Museo accanto al primo, dedicato alla che attribuisce a Tolomeo II la prima traduzione custodia e alla lettura dei libri sugli Etruschi scritti in dell’Antico Testamento in lingua greca. Il re avrebbe greco dallo stesso imperatore). chiamato ad Alessandria settantadue esperti (sei scribi Si trattava di un santuario delle Muse, che fungeva per ciascuna delle dodici tribú di Israele) e avrebbe anche, come la biblioteca, da centro di studio, gestito chiesto loro di tradurre separatamente l’intero testo. da un sacerdote, anch’esso designato dal sovrano. Dopo settantadue giorni, i saggi terminarono simulta- Fondato da Tolomeo I, era ancora in attività ai tempi di neamente, e comparando le versioni, si accorsero con Strabone (60 a.C.-23 d.C. circa); doveva sorgere a lato meraviglia che le settantadue traduzioni erano identi- della Biblioteca Reale. che. Se ne dedusse che la loro opera era stata ispirata 66 a r c h e o


«Dal primo Adamo che vide la notte e il giorno e la forma della sua mano, favolarono gli uomini e fissarono su pietra o su metallo o pergamena quanto cinge la terra o plasma il sogno. La sua fatica è qui: la Biblioteca. Dicono che i volumi che comprende vanno ben oltre la cifra degli astri o della sabbia del deserto. L’uomo che volesse esaurirla perderebbe la ragione e i suoi occhi temerari…» (v. 1-11) (Jorge Luis Borges, Alessandria 641 A.D., traduzione di Domenico Porzio, Tutte le opere, Mondadori, Milano 1985; pp.1033-1035)

La statua del filosofo peripatetico Demetrio Falereo, collocata all’ingresso della Bibliotheca Alexandrina.

abituato all’idea che le biblioteche muoiano sempre per atti violenti, in genere con popolani e soldataglia che si aggirano urlando con fiaccole tra scaffali incandescenti. Episodi del genere certo continuano a capitare, ma l’esperienza di questi difficili anni dovrebbe invece insegnarci che biblioteche e istituti culturali, organismi costosi e complessi, vengono spesso lasciati a morire per inedia, privandoli dei finanziamenti destinati alla manutenzione ordinaria, alle pulizie e all’aggiornamento delle collezioni, e infine, semplicemente tagliando stipendi e assunzioni. Accusare delle distruzioni nemici stranieri o di religione diversa è una scorciatoia facile, e spesso piuttosto lontana dalla realtà. La verità è che la cultura è creazione e responsabilità collettiva, e crolla quando crollano gli Stati. A partire dalla fine del III secolo d.C., infatti, Alessandria e l’Egitto caddero in uno stato di continue e feroci lotte religiose, che contribuirono non poco alla decadenza dello Stato.

guerre contro Zenobia, regina di Palmira; del decreto di Teodosio I del 391 d.C., con cui l’imperatore proibiva i culti pagani; e della conquista araba tra il 640 e il 642 d.C., sotto il califfato di Omar Ibn al-Khattab (591-642 d.C.), dopo la sconfitta dei Bizantini a Heliopolis. In queste narrazioni, la ricorrente parte dei cattivi è riservata prima ai Romani invasori, poi al fanatismo di cristiani settari, infine all’oscurantismo islamico (il califfo Omar avrebbe scaldato i bagni di Alessandria bruciando preziosi volumi per ben sei mesi). Alcuni studiosi in tempi recenti hanno avanzato l’ipotesi che il mito della distruzione araba della Biblioteca sia stato astutamente propagandato nel XII secolo dai cronisti di Saladino (Salah al-Din al-Ayyubi, 1138-1193) per giustificare la repressione che il sovrano fece della fede Ismailita, e la distruzione dei suoi testi sacri, per facilitare il ritorno dell’Egitto all’ortodossia sunnita. È insomma lecito sospettare che in questo caso la verità sia stata definitivamente cancellata dalle esigenze della propaganda politica. Difficile comunque pensare che la Biblioteca sia crollata come istituzione, e il suo quattro scenari per una fine La fine della Biblioteca di Alessandria, e l’irreparabile tesoro disperso, proprio alla soglia della massima fioriperdita di conoscenze che essa causò, è oggettivamente tura di Roma, quando Alessandria sarebbe fiorita come ancora avvolta nel mistero, ma le fonti antiche e mo- seconda città dell’impero, con una popolazione di piú derne indicano ben quattro possibili scenari, in cui la di 300 000 abitanti. Biblioteca Reale può essere stata distrutta in parte o nella sua totalità. Si tratta, rispettivamente, dell’incennel prossimo numero dio causato dagli armati di Giulio Cesare nel corso della guerra Alessandrina del 48 a.C.; di un attacco dell’esercito romano intorno al 270 d.C., durante le mistero bretone

carnac

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mitologia • istruzioni per l’uso/10

Atalanta,

cacciatrice indomita di Daniele F. Maras

Un’eroina dalle origini controverse, che sapeva stare al pari degli uomini. oggetto di una contesa tra divinità, fu, infine, trasformata in belva. Come punizione per non aver voluto accettare le convenzioni del «vivere civile» 68 a r c h e o


Ippomene e Atalanta, olio su tela di Guido Reni. 1619. Madrid, Museo del Prado. Secondo il mito, i pretendenti alla mano di Atalanta dovevano sfidarla in una gara di corsa. Solo Ippomene (o Melanione), riuscí a vincerla con un’astuzia, gettando davanti a lei tre pomi d’oro, dono di Afrodite, che portarono la fanciulla ad attardarsi per raccoglierli.

Q

uesta serie sulla mitologia si chiude con una figura femminile, sia per bilanciare la sequenza di campioni di virilità fin qui presentata, sia per mostrare, ancora una volta, le difficoltà che una società maschilista come quella greca antica incontrava nel trattare la questione dell’indipendenza della donna. Atalanta era una principessa, ma i mitografi non sono affatto concordi nel ricostruirne la genealogia: l’origine dell’eroina era infatti contesa tra la Beozia e l’Arcadia e per padre le si attribuivano Scheneo, re di Sciro, o Iaso, figlio del re arcade Licurgo. La tradizione beotica, accolta da Esiodo, è probabilmente piú antica, mentre quella arcadica potrebbe dipendere da una sistemazione ellenistica, confluita nella Biblioteca di Apollodoro, che spiegava i tratti selvatici della ragazza come una caratteristica etnica locale. Non mancava, infine, un tentativo di conciliare le due tradizioni, attribuendo a Scheneo una migrazione in Arcadia, dove esistevano un fiume e un villaggio con il suo nome, ricordati da Pausania e Stefano Bizantino.

e se fossero due? Di fronte a queste difficoltà, non manca, tra gli studiosi moderni, chi ritiene che vi fossero due diverse eroine con lo stesso nome, le cui storie si intrecciarono poi nel mito; in realtà, è piú probabile che lo stesso mito conoscesse diverse narrazioni da una regione all’altra. In ogni caso, l’incertezza sull’origine di Atalanta riflette la singolarità e «scomodità» di una figura femminile vincente, a confronto con gli eroi del suo tempo e nelle loro stesse prerogative di guerrieri e cacciatori. Sebbene di nobili natali, la fanciulla era stata abbandonata in a r c h e o 69


mitologia • istruzioni per l’uso/10 Particolare della decorazione a bassorilievo di un sarcofago in marmo, con Meleagro che uccide il cinghiale calidonio, da Vicovaro. Prima metà del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. La caccia alla terribile belva aveva richiesto una spedizione eroica alla quale aveva partecipato anche Atalanta, che colpí per prima la bestia con una freccia, guadagnandone cosí la spoglia quale ambito trofeo.

fasce dal padre, che avrebbe evidentemente preferito un maschio, e allevata da un’orsa (forse sul monte Partenio, sacro alla dea Artemide): crebbe cosí allo stato selvaggio, ricavandone un fisico possente e una non comune sintonia con la natura. Divenuta un’esperta cacciatrice, tornò in qualche modo alla corte di suo padre e rispose all’appello di Giasone per partecipare alla spedizione nella Colchide alla ricerca del vello d’oro. Essere l’unica donna dell’equipaggio non la spaventò, nonostante le proteste di alcuni dei compagni, e si fece onore tra gli Argonauti compiendo il viaggio fino al ritorno a Iolco, dove prese parte ai giochi funebri in onore del vecchio re Pelia, in cui si distinse sconfiggendo Peleo nella corsa (o, secondo altri, nella lotta). Si può dire che il destino di Atalanta fosse nascosto nel suo nome, che letteralmente significa «di uguale peso» e quindi «di uguale valore», a dimostrazione che l’eroina non era seconda a nessuno, tantomeno agli 70 a r c h e o

uomini. Perciò, la coraggiosa principessa non si tirò indietro neppure piú tardi, quando Meleagro, principe di Calidone, chiamò a raccolta i migliori cacciatori della Grecia per uccidere un feroce cinghiale di enormi proporzioni. La belva era stata inviata dalla dea Artemide per punire il re Eneo, padre di Meleagro, reo di averla trascurata nel corso di una serie di sacrifici di ringraziamento per il raccolto annuale.

la storia si ripete Anche questa volta Atalanta era l’unica donna del gruppo e, se questo non era per lei un problema, causò, ancora una volta, malumori tra gli altri partecipanti alla spedizione. Si impose allora la voce di Meleagro, il quale, benché già sposato, s’era invaghito dell’indomita Atalanta e desiderava avere l’occasione di stare con lei: cosí la battuta di caccia finalmente iniziò. L’eroina si distinse subito per la rapidità e la bravura nel maneggiare le armi, al punto che fu lei a

colpire per prima il cinghiale, poi ferito all’occhio da Anfiarao e finito dallo stesso Meleagro. Per decreto del re, la spoglia della bestia, premio ambito e prestigioso, doveva andare al cacciatore che l’avesse colpita per primo: il principe di Calidone fu dunque lieto di consegnare il «grazioso» dono alla ragazza. Ma di fronte a quel disonore, che metteva in discussione la loro virilità, gli altri cacciatori si ribellarono. E in particolare i fratelli di Altea, moglie di Eneo, pretesero che la spoglia fosse loro consegnata per diritto di sangue, se proprio Meleagro non voleva averla per sé. Ne scaturí una contesa in cui Meleagro prese le difese della ragazza e uccise i propri zii, iniziando una vera e propria battaglia, nella quale, secondo alcune versioni, il principe cadde. Secondo una versione piú immaginifica, la morte di Meleagro sarebbe stata invece voluta da sua madre Altea, la quale, in un momento di disperazione per la sorte


dei suoi fratelli, aveva gettato nel fuoco il magico tizzone da cui dipendeva la vita del figlio, secondo un’arcana predizione delle Moire.

sotto l’egida di artemide Dall’avventura Atalanta ricavò un figlio, Partenopeo, secondo una versione nato dalla sua unione con Meleagro e destinato a partecipare piú tardi alla spedizione dei Sette contro Tebe. Il dettaglio dipende probabilmente da una piú tarda variante romanzesca, che valorizzava l’aspetto romantico del rapporto tra Meleagro e Atalanta; ma piú conforme al carattere dell’eroina sembra la tradizione che la vuole restia alla vita di coppia e sempre in lotta per la difesa della verginità. Questo tratto, infatti, l’accomuna ad Artemide, dalla quale la ragazza era specialmente favorita.

A destra: statua in marmo di Atalanta che corre. La testa e il tronco sono di età antica (II sec. d.C.), mentre le parti restanti sono frutto di integrazioni operate nel XVII sec. Parigi, Museo del Louvre.

Qui sopra e in basso, a sinistra: due pannelli di un mosaico pavimentale con Meleagro e Atalanta a cavallo. IV sec. d.C. Londra, British Museum.

A questo riguardo, perciò, è piuttosto interessante la vicenda relativa al suo matrimonio. Per conservare la propria selvatica indipendenza, infatti, la cacciatrice Atalanta accondiscese malvolentieri alla volontà del padre, che voleva darla in moglie e pose una terribile condizione: avrebbe accettato di sposare solamente colui che fosse riuscito a vincerla nella corsa, pena la morte. La principessa faceva infatti affidamento sulla sua favoleggiata velocità, che un tempo le aveva consentito di distanziare perfino due centauri, che volevano abusare di lei, al punto di avere il tempo di tendere loro un’imboscata e ucciderli a colpi di frecce. Ciononostante, la rara bellezza e la dote principesca non mancarono di procurarle vari pretendenti. Questi, però, venivano regolarmente battuti in velocità da Atalanta, che, giuna r c h e o 71


mitologia • istruzioni per l’uso/10

ta al traguardo, si volgeva per trafiggere il malcapitato di turno che aveva osato sfidarla. La cosa andava avanti già da tempo quando si fece avanti un giovane sul cui nome le fonti non sono concordi: nella versione arcadica, infatti, si chiamava Melanione, in quella beotica, invece, Ippomene. In ogni caso, costui era forse meno temerario degli altri, ma certo piú intraprendente: chiese aiuto infatti ad Afrodite, che, in quanto dea dell’amore, mal sopportava la resistenza al matrimonio di Atalanta. La dea consegnò al giovane tre pomi d’oro, forse provenienti dal giardino delle Esperidi, o piú probabilmente raccolti nel suo santuario sull’isola di Cipro: il pretendente avrebbe dovuto lasciarli cadere a intervalli durante la corsa, in modo che la ragazza, irresistibilmente incuriosita, si attardasse per raccoglierli. Il piano andò a buon fine a Atalanta fu costretta a mantenere la parola data e sposarsi. I fautori della verginità a oltranza della bella eroina sostengono che Partenopeo sarebbe nato da questa unione, anziché dall’incontro fugace con Meleagro.

lo sposo ingrato In ogni caso vale la pena sottolineare come il destino nuziale di Atalanta fu determinato da un conflitto a distanza tra due dee: la vergine cacciatrice Diana e la potente dea dell’amore Afrodite. Quest’ultima, però, fu delusa dall’ingratitudine del novello sposo, il quale, per la gioia di aver ottenuto la mano della ragazza, dimenticò di ringraziare in modo appropriato la sua benefattrice; pertanto la coppia fu abbandonata a se stessa da entrambe le patrone divine. Le conseguenze non tardarono a manifestarsi: dopo qualche tempo (almeno i nove mesi canonici, stando alla seconda tradizione sulla nascita di Partenopeo), Atalanta e suo marito, ridotti ormai a vivere senza dèi, penetrarono in un tempio di Cibele (o secondo varianti secondarie in un tempio di Rea o di Zeus) e lo profanarono. Secondo alcuni autori, in realtà, si 72 a r c h e o

trattò di una forma di vendetta da parte di Afrodite, che ispirò un prepotente desiderio sessuale nello sposo, il quale non seppe trattenersi dal possedere Atalanta nel luogo stesso in cui si trovavano. L’eroina e il suo compagno erano stati ormai trascinati in una vita al di fuori delle convenzioni sociali, piú adatta a bestie che a esseri umani. E per questo la punizione fu commisurata alla colpa e i due furono mutati in una coppia di leoni, maschio e femmina, concludendo la propria esistenza come animali selvaggi.

una condotta bestiale La parabola della vita di Atalanta si era cosí compiuta sotto l’influenza di tre dee: Artemide, simbolo del dominio dell’uomo allo stato selvaggio sulla natura; Afrodite, simbolo del richiamo sessuale insito nella natura umana; Cibele, la madre terra, simbolo della natura primordiale alla quale non ci si può sottrarre. La condotta «innaturale» di una donna, che rifiuta la propria femminilità per competere con gli uomini e vivere allo stato selvatico, veniva sanzionata nel mito con una trasformazione animalesca, che aveva un chiaro significato morale per mostrare alle fanciulle dell’antica Grecia quale fosse il loro posto nella società. Questo aspetto negativo e moralizzante decretò da una parte la fortuna del mito come racconto edificante, dall’altra la relativa scarsità di rappresentazioni delle vicende di Atalanta, di cui si preferí, specialmente in età ellenistica, piú la sfortunata avventura romantica con Meleagro, che non il tragico epilogo con Melanione (ovvero Ippomene). A ciò ha senz’altro contribuito, come di consueto, la diffusione del teatro, dal momento che Euripide aveva dedicato una tragedia alla storia di Meleagro. Il momento topico della vicenda, spesso rappresentato su vasi attici e italioti, è la consegna della spoglia del cinghiale calidonio alla bella cacciatrice, quale pegno d’amore, sugellato a volte dalla presenza di Eros.

In alto: restituzione grafica di parte della decorazione di uno specchio etrusco in bronzo del IV sec. a.C., proveniente da Perugia e conservato a Berlino, presso gli Staatliche Museen. Al centro è la moira Atropo/Athrpa (dea del destino di morte) intenta a conficcare il chiodo del destino sulla testa di un cinghiale (nel riquadro azzurro); sulla destra si riconoscono Atalanta/Atlenta e Meleagro/Meliacr. In basso: morte di Meleagro, decorazione a bassorilievo di un sarcofago in marmo. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.


Nelle arti maggiori la nostra eroina appariva solo di rado, generalmente tra i partecipanti alla caccia del cinghiale calidonio, come, per esempio, nel frontone orientale del tempio di Atena Alea a Tegea in Arcadia, il cui architetto era stato Scopa. Le sue doti di eccezionale cacciatrice erano valorizzate anche nell’inclusione nel repertorio iconografico dell’arca dedicata dal tiranno corinzio Cipselo nel santuario di Olimpia nel VII secolo a.C., e descritta nei dettagli dal viaggiatore greco Pausania nel II secolo d.C.: ma in questo caso la preda dell’eroina era un cervo anziché il piú scontato cinghiale. Altre volte Atalanta compariva in scene raffiguranti la gara di corsa o di lotta con Peleo, ma, come già detto, fu l’amore sfortunato di Meleagro a colpire maggiormente l’immaginario degli artisti: ne è un esempio emblematico uno specchio etrusco proveniente da Perugia e datato nella seconda metà del IV secolo a.C. Al centro della rappresentazione campeggia la divinità del destino, alla quale l’incisore etrusco ha attribuito il nome greco di Atropos (in etrusco Athrpa), la piú inflessibile delle Moire, che nel mito recideva il filo della vita di ciascun individuo decretandone la morte.

Nella cultura visiva etrusca, invece, lo stesso concetto era espresso con l’infissione di un chiodo, che segnava lo scadere del tempo e che nel nostro specchio la dea si accinge a ribattere sulla testa di un chinghiale. Alla sua sinistra, sono raffigurati Meleagro e Atalanta, nudi alla maniera degli eroi, ma con uno sguardo mesto che sottintende il loro triste destino; alla destra, invece, stanno Afrodite e Adone: un’altra infelice coppia della mitologia greca, la cui storia fu segnata tragicamente dalla morte del giovane in un incidente di caccia. Poiché in Etruria gli specchi incisi erano con ogni probabilità considerati come perfetti doni nuziali, l’insistenza della rappresentazione su infelici storie d’amore, sottoposte al volere del fato, aveva un chiaro significato morale, per ricordare a una giovane sposa il proprio ruolo.

la caccia come prova Infine, per rimanere nell’ambito dei significati simbolici del mito, va ricordato come la caccia al cinghiale avesse nell’immaginario greco un forte valore iniziatico per l’accesso dei giovani all’età adulta. Ancora alle soglie dell’età ellenistica, il futuro re di Macedonia Cassandro venne diseredato dal padre (e dovette ricorrere a una guerra per ottenere

la successione), proprio perché non era stato in grado di superare la prova della caccia al cinghiale, dimostrando il proprio valore virile. La conquista della spoglia del cinghiale calidonio da parte di una donna, Atalanta, era pertanto un grave smacco per i maschi greci: qualcosa che sebbene fosse capitato una sola volta nel mito, doveva essere punito con la trasformazione dell’eroina in animale e non doveva mai ripetersi nella vita reale, «pena» l’indipendenza della donna e la sovversione della società come essi la conoscevano. (10 – fine.) nelle puntate precedenti Le puntate precedenti di questa serie sono state pubblicate nei seguenti numeri: • 335 Quando la terra sfidò il cielo. (la guerra dei Giganti) • 336 Quando gli uomini restavano a casa (le Amazzoni) • 337 I viaggi della prima nave (Giasone e gli Argonauti) • 338 L’enigma della successione (Edipo) • 340 I terribili sette (i Sette contro Tebe/1) • 342 La tragedia infinita (i Sette contro Tebe/2) • 343 Gli eccessi degli uomini-cavallo (i Centauri) • 344 Una perfetta macchina da guerra (Achille) • 345 Fragilità di un «numero due» (Aiace Telamonio) Gli articoli sono disponibili anche on line, sul sito www.archeo.it Errata corrige Nell’articolo Una perfetta macchina da guerra (vedi «Archeo» n. 344, ottobre 2013) per una grave svista dell’autore è stato ribadito piú di una volta che l’Iliade termina con i funerali di Patroclo, anziché con quelli di Ettore. In verità, i primi concludono l’«ira funesta» di Achille. Dell’errore ci scusiamo con i nostri lettori.

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cleopatra Quando finÍ un’epoca e nacque l’impero di Andrea Giardina e Francesca Cenerini, con un contributo di Guy Weill Goudchaux

N

ell’anno 46 a.C., Cleopatra VII giunge a Roma, ospite nella villa di Giulio Cesare in Trastevere, e vi tiene corte fino al 44. La sua permanenza nella città rivela alla nobiltà romana un mondo sconosciuto, esotico e affascinante – quello dell’Egitto tolemaico e della sua capitale Alessandria – caratterizzato da uno stile di vita improntato all’opulenza, al lusso, ma anche alla cultura. Sarà, tuttavia, proprio un uomo della città sul Tevere a decretare la fine dell’ultima sovrana d’Egitto e dell’epoca che aveva incarnato: Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto, primo imperatore di Roma, passato alla storia come l’iniziatore di una nuova era. È per fortuita coincidenza che agli eterni antagonisti siano dedicate, proprio in questi giorni, due belle mostre allestite a Roma, una al Chiostro del Bramante («Cleopatra, Roma e l’incantesimo d’Egitto»), l’altra alle Scuderie del Quirinale («Augusto»). Quest’ultima, in anticipo di qualche settimana rispetto all’anno in cui ricorre il bimillenario della morte di Augusto, nel marzo del 2014 si trasferirà a Parigi, alla galleria del Grand Palais. Nelle pagine che seguono, Andrea Giardina parte proprio dai bimillenari di Augusto (quelli della nascita e della morte) per rileggere la «fortuna» del personaggio, sullo sfondo del rapporto che lega l’antichità al mondo moderno. Mentre Francesca Cenerini rievoca la figura della regina d’Egitto e della creazione, dalle ceneri di una grande sconfitta, di un mito che perdura fino ai giorni nostri. 74 a r c h e o


E augusto

Augusto e Cleopatra, olio su tela di Anton Raphael Mengs. 1760 circa. Augusta, Städtische Kunstsammlungen. Ottaviano (il futuro Augusto) e Cleopatra VII sono colti durante una viva conversazione, in una stanza decorata in stile classico ed egizio, dopo la battaglia di Azio.

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speciale • cleopatra e augusto

La fortuna di Augusto, tra antichità e mondo moderno di Andrea Giardina

La lunga vita di Augusto ha fatto sí che i bimillenari della sua nascita e della sua morte cadessero a lunga distanza l’uno dall’altro, in atmosfere culturali, situazioni politiche, momenti storici radicalmente diversi. Quando nel 1937 fu celebrato il bimillenario della nascita, l’Europa viveva ancora i traumi e i rancori della Grande Guerra e si apprestava a intraprenderne un’altra non meno grande, mentre l’Italia era dominata dal regime fascista. La storia romana veniva attualizzata come modello di potenza e di civiltà, non solo in Italia, ma anche in quei Paesi che sperimentavano con maggiore credibilità una politica coloniale il cui esaurimento era percepito ancora da pochi. Ora che ricordiamo il bimillenario della morte, l’Europa (o almeno quella che i Romani avrebbero detto la pars Occidentis) non conosce guerre interne da settant’anni, gli odî dell’ultimo conflitto mondiale sono spenti, mentre quella stessa parte del continente è interamente governata da democrazie. L’impero romano non suscita piú passioni attualizzanti né deliri di potenza e nell’opinione diffusa è diventato soprattutto una sorta di grande racconto per milioni di appassionati, come mostra il successo della buona e della cattiva divulgazione, dei romanzi storici e dei film per il cinema e per la televisione. Ripensare la figura di Augusto nel passaggio da uno scenario all’altro può essere utile a ripercorrere una trasformazione fondamentale della «fortuna» di questo personaggio e insieme del rapporto tra l’antichità e il mondo contemporaneo.

B

enito Mussolini aveva sempre avuto una forte predilezione per Giulio Cesare, ma dopo la conquista dell’Etiopia, compiuta nel 1936, e il conseguente annuncio della resurrezione dell’impero romano, propose se stesso come il nuovo Augusto. Questa decisione fu determinata dalla prossimità cronologica con il bimillenario, che offriva una splendida occasione propagandistica, e dal fatto che l’immagine di Augusto, piú di ogni altra, s’identificava con quella dell’impero romano. Nella percezione diffusa Augusto era una sorta di uomo/impero, la cui umana personalità tendeva all’astrazione e al simbolo. Inoltre Augusto era considerato, dalle convenzioni storiografiche e dall’opinione comune, come il «fondatore» dell’impero romano e tale volle essere dichiarato anche Mussolini.

in cerca di simmetrie Dopo la proclamazione dell’impero, avvenuta a Roma il 9 maggio del 1936, il duce ascese al Campidoglio per deporvi l’alloro dei fasci, esattamente come aveva fatto Augusto nel 13 a.C. (quasi sicuramente presso il tempio di Giove Capitolino), secondo un rituale tradizionalmente praticato dai generali vittoriosi che erano stati acclamati imperatores dai loro soldati: «Deposi l’alloro dei fasci 76 a r c h e o

– leggiamo infatti nelle Res gestae – sciogliendo cosí i voti che avevo pronunciato in ciascuna guerra» (4, 1: L[aurum de f]asc[i]bus deposui in Capi[tolio uotis quae] quoque bello nuncupaueram [sol]utis). Quando Mussolini cominciò a presentarsi come nuovo Augusto, gli studiosi del mondo romano s’impegnarono puntigliosamente alla ricerca di simmetrie fra la politica augustea e quella del duce: entrambi – si ripeteva – avevano pacificato l’Italia ponendo fine a una grave crisi politica e sociale, entrambi avevano ripristinato la disciplina, epurato il senato, trasformato la milizia di parte in milizia nazionale, promosso la crescita demografica, difeso i buoni costumi e la famiglia, rilanciato l’agricoltura ed esaltato i valori morali della vita rurale che si esprimevano nel patriottismo del soldatocontadino. Entrambi avevano dimostrato di essere grandi conquistatori. Quest’ultima analogia poneva qualche problema, paradossalmente piú in riferimento ad Augusto che a Mussolini. Il duce, in fondo, aveva conquistato soltanto una nazione povera e tecnologicamente arretrata, ma poteva contare su un enorme credito di talento bellico: la sua genialità di condottiero non era oggetto di discussione proprio perché aveva un prevalente fondamento carismatico e non era

Profilo della statua togata di Augusto «capite velato», raffigurato cioè come pontefice massimo intento a celebrare un sacrificio, da via Labicana, a Roma. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Con l’eccezione della scultura illustrata a p. 84, tutti i reperti riprodotti in questo articolo sono esposti nelle due mostre in corso al Chiostro del Bramante e alle Scuderie del Quirinale a Roma.


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ancora stata messa effettivamente alla prova. La dimensione guerriera di Augusto aveva invece molte incrinature. Anche se sotto di lui l’impero romano fu notevolmente accresciuto, e anche se nelle Res gestae il principe enfatizzava i propri successi militari, ciò non significava che egli potesse essere considerato un grande condottiero. Infatti le vittorie decisive della guerra civile furono merito di altri e la sua epoca fu macchiata, come vedremo, da una delle piú gravi sconfitte dell’intera storia romana. Nuoceva inoltre ad Augusto il confronto con lo smagliante genio militare del padre adottivo, e mentre era facile immaginare Giulio Cesare in mezzo al freddo, al fango, alla polvere e al sangue di un campo di battaglia, guer78 a r c h e o

riero fra guerrieri, con Augusto la medesima operazione non era agevole. Nel clima della conquista dell’Etiopia, della proclamazione dell’impero e delle celebrazioni per il bimillenario augusteo, si cercò di superare queste difficoltà ricorrendo ancora una volta al gioco delle simmetrie. Poiché il bimillenario coincise anche, in gran parte, con l’impegno dei legionari fascisti nella guerra civile spagnola, non si perse l’occasione di ricordare che Augusto aveva condotto operazioni in Cantabria e nelle Asturie. Date le circostanze, s’insistette soprattutto sul fatto che il principe si era vantato di aver inviato una spedizione militare in Etiopia, di aver annientato masse di nemici, di aver catturato molti centri abitati e di aver spinto le


sue legioni fino alla città di Nabata (Res gestae, 26, 5), situata all’altezza della quarta cateratta del Nilo. La campagna augustea non aveva portato a un’occupazione stabile e aveva riguardato una regione che, anche se indicata da Augusto come Etiopia, per la geografia moderna appartiene allo spazio sudanese. Nella cultura greco-romana «Etiopia» era infatti un termine dall’accezione ampia e ambigua, e lo stesso etnico «etiopi» indicava genericamente gli individui dalla pelle scura o nera. Ma questi erano particolari sui quali si poteva sorvolare e l’Etiopia fascista si andò a sovrapporre semplicemente a quella augustea: piú dei discorsi ufficiali, lo mostrano mezzi di comunicazione allora molto efficaci come i francobolli. Nella splendida serie emessa il 23 settembre del 1937 per il bimillenario (vedi la rubrica «Archeofilatelia» a p. 14), nel francobollo da 75 centesimi la testa dell’Augusto di Meroe è inquadrata dalla legenda meo iussu et auspicio ducti sunt exercitus in Aethiopiam («sotto il mio comando e il mio auspicio furono condotti eserciti in Etiopia») tratta, con una lieve manipolazione, dalle Res gestae (dove si legge meo iussu et auspicio ducti sunt [duo] exercitus eodem fere tempore in Aethiopiam et in Ar[a]biam). Poiché non era facile, per rappresentare l’Etiopia nel campo ristretto di un francobollo, escogitare un’iconografia sufficientemente evocativa e riconoscibile dalle masse, si fece ricorso a un paesaggio egiziano, e cosí la testa di Augusto appare inquadrata da due palme, sullo sfondo delle piramidi.

Il popolo e il principe Ben piú grave fu un’altra manipolazione delle Res gestae. In un passo leggiamo la frase seguente: «L’Italia intera spontaneamente mi prestò un giuramento di fedeltà e mi reclamò come capo (dux) nella guerra che vinsi ad Azio» (25, 2: iurauit in mea uerba tota Italia sponte sua et me be[lli], quo uici ad Actium, ducem depoposcit). Nell’allocuzione inaugurale della Mostra augustea della romanità, l’archeologo Giulio Quirino Giglioli, direttore della mostra, citò questa frase eliminando le parole be[lli], quo uici ad Actium. Egli ammise che quel giuramento si riferiva alla guerra civile, ma superò l’ostacolo con un’affermazione generica, che attribuiva al termine dux il senso di un vincolo stabile tra il popolo e il principe: «“Tutta l’Italia – proclamò Giglioli – giurò nelle mie parole e mi supplicò di essere suo Duce”, dice egli stesso [= Augusto] nella sua

autobiografia, e ciò non fu solo nell’episodio contingente di quella guerra, ma in ogni circostanza». Il fatto che la medesima operazione si ritrovi nella legenda del francobollo da 50 centesimi della già ricordata serie del bimillenario, in cui la statua dell’Augusto di Prima Porta è avvolta, intorno alla base, da una corona di braccia levate nel saluto fascista, attesta l’esistenza di una strategia comunicativa coordinata: in questo modo, infatti, Augusto veniva presentato come «duce» tout court, in senso mussoliniano, alterando completamente il significato della frase, che si riferiva al giuramento di fedeltà che Augusto aveva ricevuto dagli Italici in previsione delle operazioni che egli avrebbe condotto per estinguere la guerra civile destinata a culminare nella vittoria di Azio e nella conseguente rovina di Antonio e Cleopatra. In alto: busto di Augusto con corona civica. Copia di un originale di epoca augustea, Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto, in alto: il cammeo detto «di Azio» per l’allusione alla celebre battaglia navale del 31 a.C. 27 a.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto, in basso: il Clipeus Virtutis (scudo votivo) di Augusto, riproduzione marmorea dello scudo d’oro offerto dal senato e deposto nella Curia nel 27 a.C., dal Foro di Arles. 26 a.C. Arles, Musée départemental Arles antique.

senso della misura Il bimillenario del 1937 ha coinvolto pesantemente anche la storia dell’arte e ha segnato in modo particolare un capitolo importante della fortuna della statua marmorea dell’Augusto di Prima Porta (vedi a p. 85), che era stata scoperta circa un secolo prima. Nella parte centrale della corazza è raffigurato l’episodio della consegna, dai Parti ai Romani, nel 20 a.C., delle insegne perdute dalle legioni romane in varie sconfitte, a cominciare da quella di Carre del 53 a.C. Questo successo bellico era stato in verità conseguito piú con l’arte della trattativa che con la potenza delle legioni. Infatti, queste ultime non erano ancora penetrate in territorio nemico quando il re dei Parti Fraate IV decise di stipulare in tempi brevi un accordo. Il sovrano restituí dunque le insegne delle legioni di Crasso e di altri eserciti, e liberò un certo numero, che dobbiamo immaginare esiguo, di vecchi prigionieri romani ancora nelle sue mani. Con il senso della misura che caratterizza la sua politica di quegli anni, Augusto rifiutò di celebrare il trionfo che il senato gli aveva decretato, ma il successo politico era notevole e indiscutibile e come tale fu esaltato dai poeti contemporanei. Con una sincerità e una precisione che troppo spesso gli interpreti moderni gli hanno negato, nelle Res gestae (29) Augusto distingue le insegne da lui recuperate (re[cipe]raui) in Spagna, in Gallia e in Dalmazia da quelle che il re dei Parti fu obbligato a restituire (re[ddere]… coegi): «Ho recuperato in Spagna, Gallia e Dalmazia, dopo aver sconfitto i nemici, le insegne perdute da altri generali. Ho costretto i Parti a restituirmi a r c h e o 79


speciale • cleopatra e augusto

le spoglie e le insegne di tre eserciti romani, e a chiedere da supplici l’amicizia del popolo romano. Queste insegne le ho deposte nella camera sacra che si trova nel tempio di Marte Ultore». I tre eserciti romani, oltre a quello di Crasso, erano quelli di Decidius Saxa (40 a.C.) e di Antonio (36 a.C.). Malgrado questa volontà di rispettare la verità storica, la statua di Prima Porta esprimeva un chiaro messaggio «trionfale», che come tale fu inteso fin dal giorno della sua scoperta. Durante la sua quarantennale permanenza al potere, Augusto fu ritratto infinite volte, a Roma e in tutto il mondo romano. I tipi di queste immagini coprivano l’intera gamma della ritrattistica aristocratica, com’era andata consolidandosi nel corso dei secoli: in molti esemplari pervenuti lo vediamo dunque raffigurato come condottiero, anche a cavallo, oppure con il ricorso al nudo eroico. Augusto preferiva tuttavia farsi raffigurare nella veste canonica del cittadino romano, la toga, in piena consonanza con il ruolo da lui assunto, piú nella forma che nella sostanza, di primus inter pares. Ma con la sua corazza, la sua olimpica sicurezza, la sua forza contenuta ma pronta a sprigionarsi nuovamente, era inevitabile che l’Augusto di

Prima Porta diventasse l’emblema del nuovo impero romano-fascista e del bimillenario. Il braccio destro levato poteva inoltre evocare qualcosa di simile a un saluto romano-fascista. L’immagine fu usata come manifesto della Mostra augustea della romanità, ma la si ritrovava ovunque: oltre che nei francobolli, nei quotidiani e nei rotocalchi, nelle cartoline, nella pubblicità, nella comunicazione politica. Una copia bronzea di questa statua era stata posta nel 1933 lungo la via dell’Impero (l’odierna via dei Fori imperiali), nel medesimo luogo in cui si trova attualmente, nell’ambito di un progetto volto a ornare la strada con le statue degli imperatori al cui nome era dedicato un Foro.

un milione di visitatori L’evento piú importante delle celebrazioni fu la Mostra augustea della Romanità, inaugurata il 23 settembre del 1937. Malgrado l’evidente uso strumentale della storia ai fini della propaganda politica, la mostra fu un efficace esperimento di comunicazione culturale: i visitatori venivano introdotti a conoscere gli usi, i costumi, le tecniche, l’economia, la cultura, le istituzioni del mondo romano, in una di-

In basso, sulle due pagine: albero genealogico di Augusto e ritratti di alcuni membri della famiglia imperiale: 1. testa di Ottaviano (su busto non pertinente). Roma, Musei Capitolini. 2. Cammeo con l’imperatrice Livia velata. Roma, Musei Capitolini. >

1

il potere nel sangue Caio Giulio Cesare 46-44 a.C.

5

Giulia Azia

Ottavia Claudio Marcello Gneo Domizio Enobarbo

Marco Antonio

6

Gneo Domizio Agrippina Enobarbo Minore Nerone

Scribonia

Agrippa Gaio Cesare

Giulilla

Lucio Cesare

Giulia Agrippina Maggiore

Nerone

80 a r c h e o

4

27 a.C.-14 d.C.

Antonia Minore

Antonia Maggiore

54-68 d.C.

Caio Ottaviano Augusto

3

Druso

Agrippa Postumo

Drusilla


3. Lucio Cesare, secondo figlio di Agrippa e Giulia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 4. Gaio Cesare, figlio maggiore di Agrippa e Giulia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 5. Marcello, figlio di Ottavia. Roma, Fondazione Sorgente Group. 6. Agrippa, generale e genero di Augusto. Parigi, Museo del Louvre.

mensione generale, ovvero non circoscritta all’età augustea, grazie alla disponibilità di centinaia di calchi, modelli di monumenti, di macchine e di strumenti, plastici di città (è rimasto famoso quello della Roma costantiniana opera dell’architetto Gismondi), carte geografiche e topografiche, grafici, fotografie. La collaborazione delle collezioni pubbliche e private straniere fu entusiastica. Il successo fu enorme, come testimonia il milione di visitatori raggiunto: una cifra tanto piú impressionante se teniamo conto di quelle che potevano essere allora le difficoltà degli spostamenti e dei costi di viaggio. Non meno importante fu l’interesse suscitato presso la comunità degli studiosi, che vi colsero opportunità straordinarie per indagare e mettere a raffronto un grande numero di opere e documenti di provenienza disparata, fino ad allora conosciuti, nel migliore dei casi, soprattutto da descrizioni e fotografie. Si trattava quindi piú di una mostra in onore di Augusto che di una mostra interamente dedicata ad Augusto. Ma il personaggio del principe riassumeva comunque in sé un valore universale che unificava l’intera esposizione. Nella sala a lui consacrata, l’inevitabile statua di Prima Porta dialogava con una grande croce di vetro composta con le parole del Vangelo di Luca che ricordava2

Livia Drusilla

Tiberio Claudio Nerone Tiberio

14-37 d.C.

Germanico

Caligola

37-41 d.C.

Agrippina Minore

Druso

Antonia Minore

Livilla

Claudio

41-54 d.C.

(in rosso, oltre a Giulio Cesare, gli imperatori: le date si riferiscono agli anni di regno)

no il censimento dell’impero voluto da Augusto e la nascita di Gesú Cristo, con evidente riferimento al puer virgiliano. La diacronia si ricomponeva dunque in sincronia, e i due universalismi romani, quello imperiale e quello cristiano, promanavano, in un’atmosfera intensamente sacralizzata, dal fascino di quell’unica e simbolica effigie. Le celebrazioni furono chiuse, il 23 settembre del 1938, con l’inaugurazione del padiglione dell’architetto Vittorio Morpurgo, che ospitava l’Ara Pacis in piazza Augusto imperatore (vedi «Archeo» n. 248, ottobre 2005).

il culto di Arminio Pur se il caso italiano aveva caratteristiche peculiari, l’attualizzazione politica dell’antichità riguardò anche altre nazioni di quella parte dell’Europa che stiamo prendendo in considerazione. La storia dell’età augustea era vivissima anche nella Germania nazista, dove era sempre intenso il culto di Arminio, l’eroe germanico che in alcune terribili giornate del 9 d.C. aveva annientato nella selva di Teutoburgo le tre legioni romane comandate dal legato Publio Quintilio Varo. L’esaltazione di Arminio quale padre fondatore della nazione germanica aveva avuto una diffusione sempre piú forte a partire dalla resistenza all’invasione napoleonica ed era culminata, nei decenni centrali dell’Ottocento, con la costruzione dell’enorme monumento, l’Hermannsdenkmal, entusiasticamente voluto dalla scultore Ernst von Bandel. Realizzato tra il 1838 e il 1875 grazie a finanziamenti popolari spontanei e definito pertanto dal suo ideatore, a buon diritto, «il primo monumento nazionale eretto da tutto il popolo tedesco», l’Hermannsdenkmal è stato valorizzato dallo storico George Mosse (1918-1999) come un luogo fondamentale per l’elaborazione della nuova estetica della politica connessa con la nazionalizzazione delle masse. In epoca nazista il monumento era piú che mai meta di pellegrinaggi collettivi e di liturgie politiche ispirate dalla venerazione degli antichi germani. E cosí, malgrado l’alleanza imminente tra le due nazioni, mentre in Italia dilagavano le immagini dell’Augusto di Prima Porta, in Germania ci si raccoglieva, fisicamente e idealmente, intorno alla statua del suo peggiore nemico. Sull’altro versante del Reno si verificava un fenomeno analogo intorno al monumento aVercingetorige, fatto erigere sul Mont Auxois da Napoleone III. I due eroi – Armia r c h e o 81


speciale • cleopatra e augusto

nio e Vercingetorige – avrebbero dovuto essere accomunati dal fatto che erano stati entrambi nemici dei Romani. Prevalse tuttavia, soprattutto a partire dalle guerre franco-prussiane e poi durante la prima guerra mondiale, un odio simbolico tra i due personaggi pur vissuti in epoche diverse: da parte francese si tendeva infatti a sottolineare che la conquista romana, per quanto tragica, aveva trasmesso ai Galli la civiltà, mentre i Germani non si erano mai emancipati dalla loro condizione di barbarie. Anche se in qualità di rivale di Giulio Cesare, la figura di Vercingetorige era inevitabilmente coinvolta dalle celebrazioni del bimillenario augusteo, la sua caratteristica dominante, ancora in questo periodo, rimaneva quella di eroe simbolico dell’antigermanesimo. Pochissimo tempo dopo, in virtú della sua versatilità, che dipendeva dal fatto di essere stato al tempo stesso un grande nemico dei conquistatori e un martire per la conciliazione, egli sarebbe diventato sia un vessillo del governo collaborazionista di Vichy sia un emblema della Resistenza. La conclusione della seconda guerra mon82 a r c h e o

In basso: frammento di rilievo in arenaria policroma con Augusto in veste di faraone, dal tempio di Kalabsha. I sec. a.C. Figéac, Musée Champollion.

diale periodizza infatti in modo netto la storia millenaria del mito di Roma e, all’interno di essa, quella della fortuna di Augusto. Da allora in poi non è stato e non sarà piú possibile espiantare dalla storia dell’antica Roma figure simboliche e valori utili alla politica, alle ideologie, alle guerre. Gli eroi romani e i loro ideali, che si tratti di Lucio Giunio Bruto, di Marco Giunio Bruto, di


Nella pagina accanto, in alto: frammento dal lato nord esterno dell’Ara Pacis, con processione di familiares di Augusto. 13-9 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Da destra a sinistra si riconoscono: Giulia (Livia), il figlio di Agrippa e Marcella Maggiore (il bambino), Ottavia, Giulia Minore (la bambina), Iullo Antonio (o Marco Appuleio) e Marcella Maggiore.

Catone Uticense, oppure di Scipione Africano, Giulio Cesare e Augusto; e i popoli antichi, che si tratti degli Italici, dei Germani o dei Galli, non li teniamo piú stretti alle nostre mani; li lasciamo andare, com’è giusto fare con i morti. E tuttavia non finiremo mai di studiarli e di appassionarci alle loro storie. Il secondo bimillenario augusteo cade dunque in questa nuova fase, apertasi con la fine dell’ultima guerra mondiale. Le attualizzazioni della storia antica riaffiorano periodicamente – la piú recente e rilevante è stata l’attribuzione di caratteri «contemporanei» alla tarda antichità – ma si tratta di fenomeni che alimentano soltanto il dibattito culturale, senza alcuna ripercussione di altro genere. In alto: cammeo

l’America come una nuova Roma? Diverso è il caso della comparazione storica. In conseguenza della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 e delle due guerre in Iraq, si è aperto un grande dibattito intorno al confronto tra l’impero romano e quello americano. Il confronto non è nuovo, ma negli ultimi anni ha assunto caratteristiche inedite, sollecitate dall’emergere degli Stati Uniti come «unica superpotenza». L’entità del fenomeno è attestata dal fatto che un’indagine compiuta nel 2009 su internet ha rivelato, per le parole «America as a new Rome» («l’America come una nuova Roma»), circa 22 milioni di risultati. La grandissima parte di queste riflessioni, che siano espresse on line o sulla carta stampata, è opera di dilettanti, e non ha alcun fondamento scientifico. Sarebbe un errore, tuttavia, ritenere che ciò renda il fenomeno indegno di essere preso in considerazione: sono proprio quelle caratteristiche a far sí che il loro interesse appaia rilevante per gli storici, per i sociologi, per gli psicologi sociali. È un fenomeno di massa, che merita attenzione. Il tema «America as a new Rome» è stato tuttavia oggetto anche di indagini da parte di studiosi seri – soprattutto storici, economi-

di Augusto, detto anche «Cammeo Blacas». Età tiberiana (I sec. d.C.). Londra, British Museum.

sti, politologi – che hanno tentato di trarre dal passato romano strumenti interpretativi utili a comprendere le improvvise accelerazioni della storia contemporanea. Tra i molti esempi, uno sembra particolarmente stimolante, quello del saggio The Roman Predicament. How the Rules of International Order Create the Politics of Empire, pubblicato nel 2006 da Harold James, un autorevole storico dell’economia dell’università di Princeton. Traendo spunto da riflessioni di Edward Gibbon e di Adam Smith (che pensavano ovviamente all’impero britannico), James ha indagato le caratteristiche di quello che egli chiama il «dilemma romano»: «ogni società globale dipende da un sistema di regole per costruire la pace e la prosperità», ma questo sistema «porta inevitabilmente a contrasti interni, rivalità internazionali e persino guerre. Com’è accaduto nell’antica Roma, un ordine mondiale basato su regole, alla fine sovverte e distrugge se stesso, creando la necessità di un’azione imperialistica. Il risultato è una continua fluttuazione tra la pacificazione e la distruzione dell’ordine interno». Il fenomeno, in altre parole, è instabile: «La globalizzazione dipende fondamentalmente dall’accettazione della legittimità delle regole, ma questa legittimità è sottoposta a sfide […] Ci sono ondate di globalizzazione e di deglobalizzazione». L’analogia romana esercita dunque un’attrazione potente: «Sia coloro che guardano all’ordine, sia coloro che lo criticano, sono inclini a interpretare i moderni sistemi di potere in termini di comparazione con Roma». Posizioni come questa aprono nuove prospettive anche agli storici del mondo antico, per i quali i problemi della globalizzazione evocano inevitabilmente, in primo luogo, le aporie della Pax di Augusto e le tensioni drammatiche del suo ecumenismo. dove e quando «Augusto» Roma, Scuderie del Quirinale fino al 9 febbraio 2014 Orario do-gio, 10,00-20,00, ve-sa, 10,00-22,30 Info tel. 06 39967500; www.scuderiequirinale.it Catalogo Electa a r c h e o 83


speciale • cleopatra e augusto

anni cruciali Statua ottocentesca di Cleopatra VII, raffigurata come la dea Iside. Hull, Ferens Art Gallery.

80 a.C. Tolomeo XII Neo Dioniso Aulete, padre di Cleopatra VII, ascende al trono d’Egitto. 74 a.C. Il regno di Bitinia diviene provincia romana. 69 a.C. Nasce Cleopatra VII, forse ad Alessandria. 63 a.C. Nasce Ottaviano (Caius Octavius) a Roma, (23 settembre) sul Palatino. 67 a.C. Creta e la Cirenaica divengono provincia romana. 60 a.C. «Primo Triumvirato», costituito in seguito all’accordo tra Cesare, Pompeo e Crasso. 58 a.C. Cipro è provincia romana. 51 a.C. Muore Tolomeo XII. Cleopatra VII Thea Filopatore a diciotto anni è regina d’Egitto, ed è investita del potere insieme al fratello e sposo Tolomeo XIII, di dieci anni. 49 a.C. Il 10 gennaio Cesare passa il Rubicone. Nello stesso anno assume i poteri della dittatura speciale. 48 a.C. Battaglia di Farsalo: Cesare sconfigge Pompeo che, dopo essere fuggito in Egitto, viene fatto uccidere da Tolomeo XIII. Incontro tra Cesare e Cleopatra. 48-47 a.C. Ad Alessandria, Tolomeo XIII muore in seguito allo scontro con le forze di Cesare. Il trono d’Egitto appartiene ora alla sola Cleopatra. 47 a.C. Nel giugno, nasce Tolomeo XV Cesare, detto Cesarione, figlio di Cleopatra e Cesare. Prima carica pubblica per Ottaviano: è nominato prefetto urbano grazie all’appoggio di Cesare. 46-44 a.C. Soggiorno a Roma di Cleopatra e del figlio Cesarione. 44 a.C. Il 15 marzo Cesare viene assassinato. Secondo le disposizioni testamentarie, Ottaviano è adottato da Cesare e nominato suo erede. 43 a.C. Ottaviano sposa Claudia, figliastra di Antonio. Secondo triumvirato, costituito in base all’accordo tra Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. In luglio Ottaviano marcia su Roma e ottiene il suo primo consolato. 42 a.C. Giulio Cesare è divus. Nella battaglia di Filippi (3 e 23 ottobre) Ottaviano e Antonio sconfiggono i Cesaricidi (Bruto e Cassio). Il 16 novembre nasce Tiberio, figlio di T. Claudius Nero e Livia. Marco Antonio e Cleopatra si incontrano ad Alessandria. 41 a.C. Ottaviano ripudia Claudia. 40 a.C. Nel tentativo di mantenere saldi i rapporti con Ottaviano, Marco Antonio ne sposa la sorella, Ottavia. Ottaviano sposa Scribonia. In settembre con il Trattato di Brindisi ad Antonio vengono assegnate le province dell’Oriente romano; a Ottaviano quelle d’Occidente; a Lepido l’Africa e la Numidia.


39 a.C. Nasce Giulia, figlia di Ottaviano e Scribonia. Ottaviano ripudia Scribonia. 38 a.C. Ottaviano sposa Livia. 37 a.C. Antonio sposa Cleopatra ad Antiochia. Ottaviano assume il titolo di Imperator Caesar. 36 a.C. Al trono d’Egitto siedono Cleopatra VII e Cesarione. 33 a.C. Marco Antonio ripudia Ottavia ad Atene. Secondo consolato di Ottaviano. 31 a.C. Terzo consolato di Ottaviano. Il senato romano dichiara guerra all’Egitto. Il 2 settembre, grazie al valido appoggio di Marco Vipsanio Agrippa, Ottaviano sconfigge la flotta di Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio. 30 a.C. Quarto consolato di Ottaviano. Ottaviano occupa Alessandria. Antonio e Cleopatra si uccidono e Cesarione viene giustiziato. L’Egitto diventa provincia romana, sotto il dominio diretto di Ottaviano, al quale viene conferita la tribunicia potestas a vita. 27 a.C. Settimo consolato di Ottaviano. Il 13 gennaio Ottaviano rende al senato i propri poteri magistratuali, per poi ricevere, tre giorni dopo, il titolo di Augustus e l’imperium provinciale per dieci anni, con il nome di imperator Caesar Augustus. 23 a.C. Augusto ottiene l’imperium proconsolare maius per cinque anni. 16 a.C. Augusto adotta i nipoti, Gaio e Lucio, con il titolo di Cesari. 13 a.C. Primo consolato di Tiberio. 12 a.C. Il 6 marzo Augusto è pontefice massimo. 9 a.C. Il mese Sextilis del calendario giuliano è ora Augustus. 7 a.C. Roma è divisa in 14 regiones amministrative, ripartite in 265 vici. 2 a.C. Augusto è pater patriae. 3 d.C. La carica di proconsole viene rinnovata ad Augusto per dieci anni. 4 Augusto adotta Tiberio e Agrippa postumo (figlio di Giulia e Agrippa). 9 Battaglia della foresta di Teutoburgo: Arminio (9 – 11 settembre) infligge alle legioni di Varo una terribile sconfitta. 13 Augusto è confermato nell’esercizio dell’imperium proconsolare per altri dieci anni. La tribunicia potestas è assegnata a Tiberio per dieci anni. 14 Augusto scrive le Res Gestae. Il 19 agosto muore a Nola. Gli succede Tiberio. Il 17 settembre Augusto è proclamato divus dal senato.

L’Augusto di Prima Porta. 20 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

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cleopatra

di Francesca Cenerini

«A quanto dicono la sua bellezza in sé non era del tutto incomparabile, né tale da colpire chi la guardava. Ma la sua conversazione aveva un fascino irresistibile, e da un lato il suo aspetto, insieme alla seduzione della parola, dall’altro il temperamento (…) erano come un pungiglione penetrante. Dolce era il suono della sua voce quando parlava; e piegava facilmente la lingua, come uno strumento musicale dalle molte corde, all’idioma che usava. Pochissimi erano i barbari con i quali trattava mediante un interprete. Alla maggior parte rispondeva direttamente, ed erano Etiopi,Trogloditi, Ebrei, Arabi, Siri, Medi e Parti. Dicono che conoscesse anche la lingua di molti altri popoli, mentre i re precedenti non si erano curati di apprendere l’egiziano ed alcuni avevano dimenticato pure il macedone» (Plutarco, Vita di Antonio, 27, 3-5). Nonostante la disinformazione su di lei promossa da Augusto e dagli storici filo-augustei, causa di una damnatio memoriae dalla durata ormai bimillenaria, Cleopatra continua a esercitare una curiosità e un fascino irresistibili. Perché? Chi era veramente l’ultima regina d’Egitto?

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leopatra VII, ultima regina d’Egitto, sconfitta assieme a Marco Antonio da Ottaviano nella celeberrima battaglia navale di Azio nel 31 a.C., è una di quelle figure storiche che hanno sempre esercitato, nel bene e nel male, un certo fascino nel corso dei secoli. Questa «inconsueta elasticità dell’identità di Cleopatra riflette sia l’importanza della regina come figura storica, sia la relativa mancanza di informazioni concrete su di lei da parte delle fonti contemporanee» (Susan Walker, Sally-Ann Ashton, Cleopatra, 2006). Nonostante questa difficoltà di trovare una documentazione storicamente attendibile sulla sua personalità e sulla sua attività politica (o, forse, proprio per questo), su di lei è fiorita ogni sorta di leggenda che ha alimentato, nel corso dei secoli, la fantasia di poeti, pittori, compositori e, da ultimo, di registi cinematografici. Non si può dimenticare la celebre coppia, sul set e nella vita, formata da Elizabeth Taylor e da Richard Burton, acclamati protagonisti del film Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz del 1963. Ciascun artista ha potuto vedere nell’icona 86 a r c h e o

Cleopatra la rappresentazione del lusso esotico, del fascino, dell’erotismo ammaliatore e della crudeltà letale. L’unica cosa certa è che la sua storia, indubbiamente unica e irripetibile, è segnata dall’azione degli uomini, e da questi condizionata. Il destino di Cleopatra l’ha portata a rapportarsi con gli uomini piú potenti della terra di allora, uomini che forse lei, donna di notevole fascino, intelligenza e cultura, ha effettivamente ammaliato, ma ai cui progetti politici ha sempre dovuto adattarsi, per cercare di trarne il massimo vantaggio per il suo regno, per se stessa e per i suoi figli.

Un’identità discussa Cleopatra è figlia di Tolomeo XII Aulete, «il Flautista», perché, come riportano le fonti, gli piaceva molto accompagnare i cori con il suono di questo strumento. Come è noto, i re d’Egitto discendenti dal macedone Tolomeo di Lago utilizzavano epiteti che ne mettevano in risalto determinate caratteristiche. Gli studiosi non concordano sull’identità della madre di Cleopatra; lo studioso Manfred Clauss ha


Tre immagini di Cleopatra VII. Da sinistra: il ritratto giovanile rinvenuto a Roma presso la Villa dei Quintili (forse non oltre il 48 a.C., Città del Vaticano, Musei Vaticani); ritratto femminile in fase di rilavorazione, recentemente identificato come un’Ottavia poi trasformata in Cleopatra (40-37 a.C. l’originale, 32-31 a.C. la rilavorazione; Germania, collezione privata; vedi box alle pp. 90-91); la Cleopatra Nahman, ritratto di età «matura». (33-30 a.C. circa, Il Cairo, Collezione privata).

formulato l’ipotesi che si tratti di un’egiziana appartenente alla famiglia dei sommi sacerdoti di Menfi, che, però, non era moglie legittima di Tolomeo secondo il diritto greco. L’altra ipotesi è che si tratti della prima moglie di Tolomeo XII, la sorella Cleopatra Tryphaena, che non è piú documentata dalle fonti a partire dagli anni intorno al 68 a.C. Tale incertezza ha aperto il campo a speculazioni, antiche e moderne, sull’«identità etnica» di Cleopatra. Parimenti, è ignoto l’anno di nascita di Cleopatra: si pensa che debba risalire intorno al 70/69 a.C. e si presume che sia nata nel palazzo reale di Alessandria. Poliglotta, colta, filosofa e scienziata, promotrice di grandi opere, cosí appare Cleopatra leggendo tra le righe di alcune fonti (ad esempio certi passi di Plutarco), secondo una tradizione che risale alla sua stessa corte, ma che è ugualmente esagerata quanto la descrizione della sua sfrenatezza sessuale. Come è noto, infatti, nel conflitto politico e ideologico che vide la contrapposizione tra Ottaviano e Marco Antonio ci fu ampio spazio per la descrizione di un Antonio completamente soggiogato dalla

lussuria nel suo rapporto con Cleopatra (ad esempio Plutarco, Vita di Antonio, 10, 5-6). Secondo alcune fonti (Plutarco e il Carmen de bello Actiaco), addirittura, la regina egiziana avrebbe eseguito personalmente esperimenti su cavie umane con gusto sadico, ma non è difficile capire che anche questa accusa va ricondotta alla propaganda ostile alla regina, tendente a valorizzare l’humanitas romana contro la crudeltà e il dispotismo orientali.

L’alleato di Roma La storia del regno di Tolomeo Aulete è strettamente intrecciata a quella romana. Si tratta di una vicenda risalente all’87 a.C., quando Tolomeo Alessandro I aveva lasciato un testamento in favore di Roma, ma la questione era rimasta aperta: Tolomeo Aulete, con cospicue elargizioni di denaro, era riuscito nel 59 a.C. a farsi riconoscere come alleato di Roma e legittimo sovrano d’Egitto. I Romani, però, su proposta del tribuno della plebe Clodio, avevano occupato Cipro, su cui regnava un Tolomeo, fratello dell’Aulete. Costui si era suicidato e Tolomeo Aulete era stato allontanato dall’Egitto in seguito a una sommossa popoa r c h e o 87


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lare ad Alessandria in quanto accusato di essere il principale responsabile delle ingerenze romane nella politica interna egiziana. È quindi ospitato nella villa di Pompeo sui Colli Albani, in attesa dei successivi sviluppi della delicata situazione. Sempre Walker e Ashton hanno ipotizzato che Cleopatra, che doveva avere all’incirca dodici anni, accompagnasse il padre in questo esilio romano. Il padre di Cleopatra ricorre nuovamente all’aiuto dei Romani per essere rimesso sul trono d’Egitto. In questo senso premevano soprattutto quelli che gli avevano prestato ingenti somme di denaro, che avevano tutto l’interesse che Tolomeo Aulete rientrasse in possesso del potere in Egitto per essere ripagati. In Egitto regnava Berenice, figlia dello stesso Tolomeo Aulete, affiancata dal marito Archelao di Comana, che, secondo Giusto Traina, stava probabilmente tentando di ricostruire un’alleanza orientale antiromana. Il proconsole Gabinio agisce in modo rapido e decisivo: Archelao è ucciso, Tolomeo Aulete rimesso sul trono di Egitto e una guarnigione romana è stanziata ad Alessandria. Marco Antonio, il futuro triumviro, partecipa a questa campagna egiziana, riuscendo a stringere importanti legami con alcuni notabili locali, in particolare con l’entourage del gran sacerdote Ircano, nella persona di Antipatro, padre di Erode, il futuro re di Giudea. Narrano le fonti (Appiano, Guerre civili, 5, 8, 33) che Antonio, presente appunto nel 55 a.C. sul fronte delle operazioni in qualità di magister equitum di Gabinio, si sarebbe innamorato già in questa occasione della giovanissima Cleopatra: come è ovvio, si tratta di un gossip, lontano dal vero, elaborato a posteriori.

Gli sposi fratelli Alla morte di Tolomeo Aulete (51 a.C.), Cleopatra e il fratello Tolomeo XIII si sposano secondo il costume dinastico egiziano, adottato dai Tolemei. Cleopatra e il fratello regnano su un Paese che, ancorché formalmente autonomo, in realtà dipende dai Romani. I primi anni del loro regno sono segnati da dissidi tra di loro e tra le parti che questi rappresentano, ma l’avvenimento che segna il destino dell’Egitto è lo scontro tra Cesare e Pompeo. Come è noto Pompeo, in fuga in Egitto, è fatto uccidere da Tolomeo XIII (e, per questo motivo, Dante colloca il sovrano egiziano all’inferno accanto a Caino e a Giuda, XXXIII, 91-108). Il primo ottobre del 48 a.C. Cesare sbarca ad Alessandria, depone Tolomeo XIII e decide 88 a r c h e o

che Cleopatra sposi il fratello minore Tolomeo XIV. Queste vicende politiche e militari sono note sotto il nome di «Guerra alessandrina». In quest’ambito si sarebbe svolta la famosa crociera sul Nilo di Cesare e Cleopatra sulla nave reale egiziana, dove lusso e lussuria avrebbero dominato incontrastati. Al momento della partenza, all’inizio di aprile del 47 a.C., Cesare lascia tre legioni romane in Egitto al comando di un suo uomo di fiducia, tale Rufione, con lo scopo di far rispettare i suoi provvedimenti e di controllare la stessa coppia reale. Cesare non fa dell’Egit-

In alto: aureo di Augusto. Zecca di Roma o Pergamo. 27 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Al retto, l’imperatore; al verso, un coccodrillo e la scritta Aegypt Capta (Egitto conquistato).

l’ultima dinastia d’egitto Tolomeo I Sotere 305 a.C.-283 a.C. sposa Euridice, poi Berenice I Tolomeo II Filadelfo 285 a.C.-246 a.C. sposa Arsinoe I, poi Arsinoe II Tolomeo III Evergete I 246 a.C.-221 a.C. sposa Berenice II Tolomeo IV Filopatore 221 a.C.-204 a.C. sposa Arsinoe III Tolomeo V Epifane 204 a.C.-180 a.C. sposa Cleopatra I Tolomeo VI Filometore 180 a.C.-164 a.C., 163 a.C.-145 a.C. sposa Cleopatra II Tolomeo VII Neo Filopatore 145 a.C.-144 a.C. Tolomeo VIII Evergete II Fiscone 170 a.C.-163 a.C., 144 a.C.-132 a.C., 124 a.C.-116 a.C. sposa Cleopatra II, poi Cleopatra III, il figlio Tolomeo Apione regna sulla Cirenaica Cleopatra II 131 a.C.-127 a.C. in opposizione a Tolomeo VIII Tolomeo IX Sotere II Latiro 116 a.C.-110 a.C., 109 a.C.-107 a.C., 88 a.C.81 a.C. sposa Cleopatra IV, poi Cleopatra Selene; regna insieme a Cleopatra III nel suo primo regno Tolomeo X Alessandro I 107 a.C.-88 a.C. sposa Cleopatra Selene, poi Berenice III; regna insieme a Cleopatra III fino al 101 a.C. Berenice III 81 a.C.-80 a.C. Tolomeo XI Alessandro II 80 a.C. regna insieme alla moglie Berenice III, dopo averla uccisa, da solo per 18/19 giorni Tolomeo XII Neo Dioniso (Aulete) 80 a.C.-58 a.C., 55 a.C.-51 a.C. sposa Cleopatra V Cleopatra V Trifena (58 a.C.-57 a.C.) regna insieme a Berenice IV (58 a.C.-55 a.C.) Cleopatra VII Thea Filopatore 51 a.C.-30 a.C. Tolomeo XIII 51 a.C.-47 a.C. insieme a Cleopatra VII Arsinoe IV 48 a.C.-47 a.C. in contrasto con Cleopatra VII Tolomeo XIV 47 a.C.-44 a.C. insieme a Cleopatra VII Tolomeo XV Cesarione 44 a.C.-30 a.C. insieme a Cleopatra VII


un incontro tra grandi lignaggi Tolomeo XII

Cleopatra V Arsinoe IV

Berenice IV

Tolomeo XIV

Tolomeo XIII

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Giulio Cesare Tolomeo XV Cesarione

La discendeza di Tolomeo XII Aulete (Flautista). 1. Ritratto di Tolomeo XII. Metà del I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. 2. Il cosiddetto Cesare Chiaramonti, testa di Giulio Cesare. Età giulio-claudia. Città del Vaticano, Musei Vaticani. 3. Cleopatra VII, rilievo del tempio della dea Hathor a Dendera. Epoca greco-romana. 4. Cammeo di Marco Antonio come Alessandro Magno. Età ellenistica. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Marco Antonio

Cleopatra VII

to una provincia, poiché affida il regno alla neo-costituita coppia di sovrani formata da Cleopatra VII e Tolomeo XIV; va quindi ascritta a Cesare la volontà di mantenere al potere una dinastia legittima e fedele a Roma, piuttosto che annettere direttamente la provincia. Svetonio (Vita del divo Giulio, 35, 2) dice espressamente che Cesare non voleva fare dell’Egitto una provincia perché temeva che potesse diventare un problema politico nelle mani di un governatore senza scrupoli.

Il piccolo cesare A settembre Cleopatra partorisce un figlio, Tolomeo Cesare, chiamato dagli Alessandrini «Cesaretto», «il piccolo Cesare», passato alla storia anche con il nome di «Cesarione». Oggi la paternità di Cesare è messa in dubbio dagli studiosi moderni, ma per gli autori antichi non c’era nessun dubbio. La stessa Cleopatra presenterà il figlio come frutto di una ierogamia (unione divina). Su una stele di provenienza egiziana, appartenente a una collezione privata, databile agli anni 44-30 a.C., sono raffigurate le divinità di Tebe Amon e Mut e, al centro, il dio bambino Khonsou. Un cartiglio reale identifica quest’ultimo come «Cesare amato da suo padre». Si tratta, quindi, della rappresentazione della triade divina Cleopatra-Mut, Giulio Cesare-Amon e il piccolo Cesare, secondo l’ideologia propagandata da Cleopatra che

Alessandro Helios

Cleopatra Selene

Tolomeo Filadelfo

rivendicava per il figlio una nascita divina: Amon aveva assunto le sembianze umane di Giulio Cesare per avere un rapporto sessuale con Cleopatra e da questa unione sarebbe nato il divino piccolo Cesare. Anche se quest’ultimo era del tutto illegittimo secondo il diritto romano, sarà comunque fatto uccidere da C. Giulio Cesare Ottaviano, il futuro Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare, dopo la vittoria di Azio su Antonio e sulla stessa Cleopatra, nel 31 a.C. In tal modo, il problema dell’ingombrante discendenza divina di Cesare era eliminato alla radice. Alla fine del 46 a.C. Cleopatra arriva a Roma e alloggia nella villa di Cesare in Trastevere accompagnata dal marito e fratelloTolomeo XIV, dal figlio e da un ampio seguito. Indubbiamente Cleopatra contribuí a diffondere presso gli aristocratici romani, che frequentavano abitualmente il suo salotto, quel gusto per l’estetica, il lusso e la raffinatezza, tipicamente orientali, che già avevano affascinato i Romani all’epoca dei loro primi approcci con il mondo e la cultura greca ed ellenistica. Nessuno può sapere che progetti avesse Cesare su Cleopatra. Possiamo solo dire che nel 46 Cesare aveva inaugurato un nuovo tempio consacrato a Venus Genetrix, la divinità capostipite della sua gens, e che in questo tempio aveva posto anche un’immagine di Cleopatra, assimilata in tutto e per tutto a una divinità (segue a p. 92) a r c h e o 89


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Una splendida incompiuta di Guy Weill Goudchaux

L’attribuzione di un’antica testa in passato non identificata a uno specifico soggetto può essere un processo complesso, e ancor piú difficile è attribuire un ritratto scolpito nuovamente su una testa precedente, ma lasciato incompiuto. Dal mondo antico abbiamo ereditato numerosi ritratti marmorei rilavorati ed è questo il caso della testa in marmo che qui presentiamo, la cui rilavorazione è stata però interrotta. Nondimeno, il ritratto è solenne, tragico, shakespeariano. Il supremo talento dello scultore è dimostrato dall’assenza sul nuovo volto di segni di accentuazione o semplificazione. L’aggiunta di un bandeau regale ad adornare la testa conferma che il secondo ritratto appartiene a un personaggio di potere. Lo storico dell’arte si trova cosí di fronte a un puzzle: chi è il primo modello, e chi il secondo? Una terza domanda può forse aiutare a identificare i due personaggi coinvolti in momenti successivi: perché la scultura è stata interrotta quando, a quanto sembra, 90 a r c h e o


Tre diverse immagini della testa recentemente attribuita a Cleopatra. 32-31 a.C. Germania, collezione privata. L’opera, in mostra al Chiostro del Bramante, è una rielaborazione non finita da un precedente ritratto, già identificato come di Ottavia.

l’artista non parrebbe aver commesso alcun errore tecnico e il marmo sembra essere stato in buone condizioni? Morí l’artista, o il secondo modello? O l’atelier fu costretto a interrompere per ragioni politiche? La testa è stata per gran parte del XX secolo nella collezione del dottor Franz Curt Fetzer (1900-2000), a Vienna, e, dal 2007, si trova presso una collezione privata tedesca. Questo marmo di Paro è alto 33 cm e dal punto di vista stilistico, indipendentemente dai modelli ritratti, può essere collocato tra il 40 e il 30 a.C. Quando mi è stato chiesto di studiarla, era già stata attribuita a Ottavia Minore, sorella di Augusto e terza moglie di Marco Antonio. Il primo dei due modelli sembrava in effetti avere un’acconciatura simile a quella attestata in altri ritratti di Ottavia, ma chi è il secondo modello? Mentre mi accostavo alla testa per la prima volta, ero sempre piú indotto a confrontare gli occhi e la sezione naso-labiale, cosí come il mento – sia di profilo che di fronte – a due sculture alessandrine, entrambe di

Cleopatra: le teste del Vaticano e Nahman. La loro struttura ossea somiglia a quella del ritratto Curt Fetzer. La forma e la grandezza delle labbra, dei menti e la linea degli occhi sono strettamente connesse. La testa Curt Fetzer è piú ampia in senso orizzontale della giovane testa vaticana (riferibile al piú tardi al 48 a.C.), ma ha le stesse proporzioni della Nahman (databile tra il 33 e il 30 a.C.). Inoltre, come ho già detto, un bandeau regale stava per essere scolpito. Dunque, il ritratto Curt Fetzer è una rappresentazione dell’ultima Cleopatra in corso d’opera? Nel maggio del 32, all’arrivo ad Atene della regina insieme a Marco Antonio, i ritratti di Ottavia esposti in città dagli anni Quaranta del I secolo a.C. potrebbero essere stati rimpiazzati con le effigi della sovrana egiziana. Imbarazzati per le sculture della sorella di Ottaviano, gli Ateniesi decisero di erigere una raffigurazione della regina nell’Acropoli, nel corridoio nord dei Propilei, a fare da pendant al tempio di Atena Nike; si comportarono, dunque, allo stesso modo degli abitanti di Alabanda (Araphisar) in Caria, che avevano sostituito l’effigie di Ottavia con un profilo della stessa sulle loro emissioni monetali. Ma perché questa scultura eccezionale rimase incompiuta? Gli eventi dei dodici mesi successivi possono aiutare a completare il puzzle: nell’ottobre del 32 – quando Ottaviano aveva dichiarato guerra a Cleopatra – Marco Antonio e la regina partirono di gran fretta da Atene per Patrasso, dove trascorsero l’inverno aspettando che l’esercito di Ottaviano traversasse l’Adriatico. All’inizio della primavera del 31 la guerra si sviluppò rapidamente da Corfú ad Azio e da Metone alla stessa Patrasso. Addirittura, per un breve lasso di tempo, Patrasso fu conquistata dalle truppe di Agrippa. La conclusione fu la dolorosa ritirata da Azio all’Egitto. Questi eventi avevano rapidamente sopito l’entusiasmo forzato degli Ateniesi verso Cleopatra. Alla fine del settembre del 31, con l’arrivo del partito di Ottaviano ad Atene, il naso dell’incompiuta Cleopatra avrebbe potuto persino essere stato rotto da uno dei sostenitori del vincitore. La codardia degli Ateniesi li portò a erigere nel Propileo una statua ad Agrippa al posto di quella di Cleopatra. Con il secondo modello che lasciava per sempre Atene, per sempre il marmo venne abbandonato. Resta cosí che quest’opera incompiuta è uno dei tre splendidi ritratti della regina, con la testa del Vaticano, del tempo della sua giovinezza, e la testa Nahman, prodotta in Egitto nel 33 o nel 31-30 a.C. a r c h e o 91


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egitto, che passione! Testa di Iside o di regina tolemaica, da Roma, via Labicana. II-I sec. a.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. Il culto di Iside, dea madre e sposa di Osiride, si diffuse nel mondo romano soprattutto dall’età giulio-claudia, come testimoniato dagli oggetti esposti nella mostra al Chiostro del Bramante. Dalla villa San Marco a Stabia provengono, per esempio, due pregevoli skyphoi con figure egittizzanti e una coppa con tralci di vite, tutti in ossidiana nera; da Pompei un bustino della dea in plasma di smeraldo e una coppa d’argento con decorazione egittizzante.

paredra di Venere-Afrodite oppure venerata come synnaos thea (divinità contitolare dello stesso tempio). A questo periodo può risalire, secondo una recente interpretazione, proposta da Federicomaria Muccioli, la creazione dell’epiteto «Thea Neotera» con cui Cleopatra sarà qualificata su alcune serie monetali a partire dal 36 a.C. Certamente, all’indomani dell’assassinio di Cesare nel 44 a.C., Cleopatra è costretta a fuggire da Roma e a rientrare in Egitto. Una volta tornata in patria, la regina riorganizza l’amministrazione del suo regno per aumentarne la produttività. Si può senz’altro affermare che la politica di Cleopatra ha sempre mirato alla tutela dell’identità e dell’indipendenza tolemaiche, pur all’interno della mutata realtà imposta dal protettorato romano e dai giochi di potere dei singoli uomini politici romani.

i nuovi signori di Roma La vicenda politica di Cleopatra e del suo regno non può non fare i conti con i nuovi signori di Roma, Ottaviano e Antonio, gli eredi di Cesare. Per cautelarsi contro il permanente pericolo sul fronte orientale rappresentato dai Parti, Antonio convoca Cleopatra a Tarso, in Cilicia. Antonio doveva conoscere bene Cleopatra, se non altro dal soggiorno romano della regina nella villa di Cesare in Trastevere. Cleopatra capisce che deve giocare bene le sue carte. È noto dalle fonti il gusto di Antonio per le spettacolari messinscene, «ma 92 a r c h e o

questa volta fu lui a rimanere sbalordito», come scrive Giusto Traina nel suo Marco Antonio (Laterza, 2003). È giustamente celebre il racconto di Plutarco (Vita di Antonio, 26): Cleopatra compare nell’autunno del 41 a.C. ad Antonio su un’imbarcazione dalla poppa dorata, i remi d’argento, con le vele di porpora spiegate al vento, nelle vesti di Afrodite, la dea della bellezza e dell’amore, in pratica adorna solo di gioielli e di profumi. La vox populi riportava che Afrodite, accompagnata dal suo corteo, giungesse per unirsi a Dioniso, per il bene dell’Asia. Antonio e Cleopatra diventano amanti, concepiscono i loro gemelli e portano avanti un progetto politico condiviso. Come già evidenziato dalla piú recente critica storica, Antonio non diventa lo «zimbello» di Cleopatra, assoggettato da una incontenibile lussuria, non «perde la propria identità di romano per diventare un principe ellenistico», come scrive ancora Traina. Secondo una nuova interpretazione, proposta da Gabriele Marasco, anzi, il tema propagandistico antoniano di vantare una discendenza da Ercole faceva sí che Antonio fosse orgoglioso di avere figli da donne diverse, in particolare da Cleopatra: i figli di una regina, già appellata con il titolo di «Thea Neotera», davano il maggior lustro possibile alla sua progenie (Plutarco, Vita di Antonio, 36, 6-7).

Un inverno egiziano Antonio, come già Cesare prima di lui, aveva inoltre ben capito i sottili e complessi meccanismi politici orientali, i delicati equilibri di potere, e agiva di conseguenza, per il bene della politica estera romana. Antonio passa l’inverno 41/40 a.C. in Egitto, ma le cose non si mettono bene per i suoi seguaci in Italia. È la legittima moglie romana di Antonio, Fulvia, che, assieme al cognato Lucio Antonio, prova a contrastare i maneggi di Ottaviano nella distribuzione delle terre ai veterani e, ovviamente, di lei si dirà che era mossa dal piú meschino sentimento femminile, la gelosia nei confronti di Cleopatra. Antonio non ha nessuna remora: abbandona Cleopatra, si incontra con Fulvia, ma, soprattutto, si riconcilia con Ottaviano e ne sposa la


sorella Ottavia dopo la morte di Fulvia e gli accordi di Brindisi dell’autunno del 40 a.C. Nel frattempo, dopo la partenza di Antonio, Cleopatra aveva dato alla luce due gemelli, un maschio e una femmina, che, identificati con le divinità astrali, il Sole e la Luna, ricevono il nome di Alessandro Helios (Sole) e Cleopatra Selene (Luna). Da un punto di vista del diritto romano, l’unione di Antonio con Cleopatra non aveva nessun valore legale, ma era un’opportunità politica di grande portata.

Strategie matrimoniali Agli occhi dei sudditi orientali, invece, si trattava di una ierogamia, vale a dire un’unione sacra, quella di Iside e Serapide, di Afrodite e Dioniso per il pubblico ellenistico. Tramite quest’unione Antonio può rafforzare la sua autorità militare e Cleopatra la sua posizione come regina in Egitto, perché madre di bambini «divini». Come è noto, l’accordo tra Antonio e Ottaviano non è destinato a durare a lungo. Antonio punta le sue carte sulla campagna contro i Parti (già pensata da Cesare) e ottiene il sostegno di Cleopatra in cambio di un appoggio al rafforzamento della leadership della regina attraverso il riconoscimento all’Egitto di possedimenti extraterritoriali. L’epiteto «Thea Neotera», coniato per Cleopatra in età cesariana in relazione alla politica cultuale di Cesare incentrata sulla sua discendenza da Venus Genetrix, riceve nuovo impulso proprio in questi anni, quando la politica di Antonio poteva contrapporre il figlio di Cesare e di Cleopatra, il piccolo Cesare, al figlio adottivo di Cesare, C. Giulio Cesare Ottaviano. Il resto è cosa nota: il conflitto fra Antonio e Ottaviano giunge a un punto di non ritorno. Il due settembre del 31 a.C. Ottaviano e Agrippa sbaragliano la flotta di Antonio e Cleopatra ad Azio, all’ingresso del golfo di Ambracia. La morte di Cleopatra dopo Azio e la presa di Alessandria da parte di Ottaviano sono, come è noto, ammantate di mistero. La verità sulla sua fine non la conosce nessuno, come scrisse già Plutarco (Vita di Antonio, 86). Tra le varie versioni che circolarono nell’antichità, il suicidio attraverso il morso del cobra è quella che ebbe maggiore popolarità. Si

Nella pagina accanto, in basso: sotto statua di Anubi, divinità infera egizia, da Cuma. I sec. a.C.I sec.d.C. Baia, Museo Archeologico dei Campi Flegrei. In basso: armilla a corpo di serpente in oro e pasta vitrea, dalla Casa del Fauno a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

tratta, infatti, di un suicidio rituale: il serpente ureo era sacro al dio Sole Amon Ra ed era l’emblema della potenza del Faraone, ma va scartata l’ipotesi della riconosciuta volontà, da parte della regina, di essere divinizzata attraverso il morso del serpente, dato che Cleopatra era già Thea a tutti gli effetti.

fu vero suicidio? L’odierna critica tende a ritenere che Ottaviano volesse mantenere in vita la regina per farla sfilare nel trionfo, poiché non c’era nessun motivo valido perché il vincitore la spingesse al suicidio. Se, però, la regina è riuscita effettivamente a suicidarsi oppure Ottaviano ha deciso diversamente, per motivi di opportunità politica che noi non riusciamo a comprendere pienamente, i termini della questione non cambiano di molto: fu, infatti, fatta sfilare nel corteo trionfale del 29 a.C. un’imago della stessa Cleopatra, con relativo aspide. La propaganda augustea si era affrettata a screditare Antonio e Cleopatra, mettendo in risalto l’amore malato tra i due, destinato alla catastrofe. Cleopatra diventa un significativo esempio negativo di «femminilità ribaltata», con caratteristiche tipicamente maschili. Virgilio (Eneide, 8, 688) la definisce Aegyptia coniunx, contrapponendola a Ottavia, la legittima moglie di Antonio secondo il diritto romano, depositaria, invece, della virtus matronale propria della tradizione romana. Di Cleopatra è stata quindi costruita l’immagine del fatale monstrum, capace di mettere in pericolo la stessa Roma. Ma, come tutte le femmes fatales, Cleopatra mantiene il suo fascino inalterato nel corso del tempo.

dove e quando «Cleopatra. Roma e l’incantesimo dell’Egitto» Roma, Chiostro del Bramante fino al 2 febbraio 2014 Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 (sabato e domenica, 10,00-21,00) Info tel. 06 916508451; www.mostracleopatra.it Catalogo Skira a r c h e o 93


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

il museo di tutti i tempi

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L

brillante tenore, evan gorga abbandonò le scene poco dopo aver raggiunto il successo. e poté cosí concentrarsi sulla sua unica, vera passione: il collezionismo, che trasformò in un’autentica ragione di vita

a Collezione Gorga, dal nome del tenore Evan(gelista) Gorga che ne fu l’artefice, occupa un posto particolare nella storia del collezionismo, non solo archeologico. Per descriverla sono stati usati gli aggettivi piú audaci, che non ci aspetteremmo quando si parla di raccolte d’arte. Chi ha avuto modo di occuparsene non esita a parlare di sgomento, per la quantità e la qualità dei materiali che la compongono, ma anche per la singolare figura del collezionista che li mise insieme. Guidato dal sogno eccentrico di costituire una sorta di museo del sapere umano, produsse infatti uno fra i piú inquietanti musei di tutti i tempi. Se è vero che la ricchezza di certe collezioni museali si deve spesso alla costanza maniacale con cui alcuni personaggi dedicarono tempo, risorse e passione alla raccolta di oggetti, nel modo di operare di Evan Gorga c’era qualcosa di patologico, che diede vita a una forma di collezionismo, tale da far impallidire le precedenti esperienze, come la grande raccolta assemblata alla metà dell’Ottocento, sempre a Roma, dal marchese Giampietro Campana e dispersa poi in tutta Europa in seguito al fallimento delle sue torbide vicende finanziarie.

il primo rodolfo In alto: il tenore Evan Gorga (Gennaro Evangelista Gorga, 1865-1957). Sulle due pagine: la stanza di uno dei dieci appartamenti affittati da Gorga in via Cola di Rienzo (Roma), per alloggiare le sue collezioni, con allestimento di terracotte architettoniche e plastica fittile.

Dopo aver dato voce a Rodolfo nella prima rappresentazione della Bohème di Giacomo Puccini, nel 1896, Gorga avviò la sua fatica quando si trovò inopinatamente a dover interrompere la sua folgorante carriera artistica per intraprendere quella che potremmo definire di collezionista acritico. Cominciarono allora quegli anni che Gorga stesso definiva di «febbrile e costante lavoro», che egli faceva risalire addirittura alla sua adolescenza» (era nato nel 1865). Inizialmente, quella svolta di vita passò attraverso la mai dismessa passione per gli strumenti musicali (si pensi che il Museo Nazionale degli Strumenti

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Musicali di Roma è stato in larga parte formato proprio a partire dalla collezione del tenore, n.d.r.) per allargarsi poi ai manufatti d’ogni tempo e luogo, che gli furono ossessivamente compagni per tutta la sua lunga vita. Gorga (fino alla morte nel 1957) ne diventò l’ostaggio, sacrificando a essi gli stessi affetti e le relazioni umane. Per lui possiamo dire davvero, con Bruce Chatwin, che la raccolta d’arte fu anche «uno stratagemma, un rito personale per curare la solitudine». Quel che sconcerta nel personaggio è il suo interesse onnivoro, la tendenza indiscriminata a costituire raccolte di ogni genere, secondo un intento enciclopedico della cui consapevolezza è legittimo dubitare. Oggi si ritiene che Gorga perseguisse una conoscenza universale, da raggiungere attraverso una catalogazione totale dei saperi, cosí come concretizzatisi nei manufatti, da custodire a futura memoria per le nuove generazioni. Una ipotesi positiva vorrebbe che la raccolta bulimica di tutto venisse sentita come una sorta di compensazione di quanto intorno a lui vedeva quotidianamente sparire nella Roma d’inizio secolo, sconvolta dalle trasformazioni urbanistiche. È un’ipotesi positiva perché prevede comunque un progetto, che, tuttavia, si stenta a riconoscere nella prassi operativa del collezionista. Quel che è certo è che Gorga non era mosso da un interesse estetico (come accade nella grande maggioranza delle raccolte d’arte) o storico (come può accadere, a volte, in quelle di carattere antiquario): a lui interessavano gli oggetti del passato in quanto tali, «oggetti – come ha scritto Alessandra Capodiferro – brutalmente separati dal contesto di provenienza, che conservano una intrinseca dote di informazione e talvolta un tratto di clamorosa bellezza», ma raramente un senso. È impossibile riconoscere un criterio di selezione nella sua

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raccolta. Certo, reperti integri e magari anche importanti non mancano, ma affiorano nella congerie, frammisti a decine di migliaia di frammenti a prima vista inutili, a una minutaglia di antichità a cui lo spirito, in fondo ingenuo e infantile, del collezionista assegnava il compito di testimoniare niente altro che se stessi, quali frantumi di un mondo distrutto.

Caccia ai «coccetti» Le fonti di approvvigionamento erano le piú disparate, ma non c’è dubbio che il grosso dei materiali archeologici provenisse dagli immani sterri prodotti dall’urbanizzazione di Roma o dai grandi cantieri archeologici nella zona monumentale. Non era certo il primo che si dilettava nello spigolare i «coccetti» che brulicavano tra le montagne di terra prodotte dalla febbre edilizia. Ma quelle spigolature fruttavano qualche coccetto che finiva poi dimenticato od ostentato sulle scrivanie o nei salotti borghesi. A Gorga interessava la quantità: e ciò spiega – ma non giustifica – l’assenza di annotazioni circa i luoghi e le modalità di rinvenimento di questa congerie di oggetti. Ci vuole dunque la perizia delle osservazioni «archeologiche»

contemporanee per ricostruire, dallo stato sporco e terroso in cui versano tuttora tanti di quei manufatti, la loro provenienza diretta dagli sterri, senza preventivi soggiorni nelle botteghe di antiquari e falsari che pur Gorga frequentava. Comprava interi lotti di materiali dagli stessi manovali o dai loro intermediari in modo compulsivo, acquistandoli a scatola chiusa, senza cernite preventive. Si capisce dunque come la mole ingestibile dei manufatti che si accumulavano incessantemente abbia richiesto una disponibilità di spazi che fu trovata nei dieci appartamenti presi in affitto per affastellarvi ogni sorta di opere, distinte per tipologia, materia, tecnologia, secondo una sequenza larvatamente tassonomica. Sembra che in queste stanze polverose e asfissianti Gorga Nella pagina accanto, a sinistra: bronzetto di Vittoria alata, forse di produzione romana. In basso: lastra di coronamento con satiri rappresentati in una scena di pigiatura, con tracce di policromia. Gli oggetti riprodotti fanno parte della collezione Gorga e sono attualmente esposti nella mostra allestita in Palazzo Altemps, a Roma.


A destra: frammento di affresco in tardo III stile, raffigurante Pan con tirso e pigne.

accogliesse solo di rado qualche visitatore, cui vietava perfino di prendere appunti. A due bravi funzionari della Soprintendenza archeologica di Roma si deve una lunga ricerca che ha cercato di ridare un senso alla mole impressionante di materiali della Collezione Gorga, entrati in proprietà dello Stato dal 1950. Al primo importante volume, curato anni fa da Mariarosaria Barbera, oggi Soprintendente, si affianca adesso il corposo catalogo che accompagna la bella mostra allestita a cura di Alessandra Capodiferro nella nuova ala del Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps a Roma, in cui sono esposti per la prima volta circa 1800 oggetti della raccolta. L’acquisizione statale salvò la collezione dalla dispersione e avviò una complicata impresa di classificazione di reperti di ogni tipo (ceramica, oggetti di bronzo,

lucerne, statuine fittili, vetri, terrecotte architettoniche, stucchi, avori, affreschi, monete, fistule, iscrizioni…) accatastati nei depositi e nelle cantine delle sedi piú diverse (solo nei sotterranei dell’Antiquarium del Palatino si contavano 289 casse Gorga). Quella prima revisione fu accompagnata dalla saggia proposta di Valerio Cianfarani di riservare ai musei statali gli oggetti che, per qualità o rarità, avessero un pregio artistico o storico, o potessero incrementare serie incomplete, riservando i rimanenti a istituti d’arte o d’istruzione superiore o a musei stranieri come utili campionari per uso didattico. Ecco perché nei musei di mezza Italia, ma anche in tutto il mondo, dagli USA al Pakistan al Giappone al Brasile o alla Thailandia, qualche vetrina raccoglie le «eccedenze» di quella mirabolante collezione.

una mina vagante Oggi ci domandiamo quale utilità possano avere questi materiali, che – come ha scritto Matilde De Angelis d’Ossat – «costituiscono una mina vagante». Qualche numero ci può dare l’idea della loro mole. A oggi si contano: 1191 aghi da cucito, 2041 stili in osso, 537 cucchiai, 1986 lucerne integre e 2735 frammentarie, oltre 300 bronzetti figurati, piú di 3000 lastre architettoniche, 500 antefisse, 300

gocciolatoi, oltre 2000 terrecotte votive, circa 150 000 frammenti di vetro, calcolati per difetto, e cosí via. Ma è proprio una ricerca attenta e sistematica che può dare i suoi frutti, e ritrovare l’utilità di quei materiali cosí apparentemente privi di senso, riallacciando i nessi che li legano tra di loro o con i luoghi da cui sono stati strappati. È cosí che i frammenti di pitture antiche si prestano a tentativi audaci ma credibili di ricomposizione su base stilistica, tecnica e tipologica, ma anche a possibili ricostruzioni di provenienza, in particolare dagli sterri dei riporti sottostanti la Domus Flavia e le aree circostanti del Palatino. Cosí come i pregevoli stucchi parietali rinviano agli sterri della Domus aurea del 1928-29 e una massa incredibile di vetri di altissima qualità a quelli della villa di LucioVero sulla via Cassia, finita di devastare negli anni Venti del Novecento. Insomma, il lavoro sistematico degli archeologi opera un recupero che non riguarda solo la conservazione degli oggetti ma la parziale restituzione di un loro senso storico: un risarcimento alla bulimia del collezionista e un monito per tutti noi che una simile follia non abbia a ripetersi.

dove e quando «Evan Gorga. Il collezionista» Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 12 gennaio 2014 Orario martedí-domenica, 9,00-19,45; chiuso il lunedí Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it; www.archeoroma.beniculturali.it; www.electaweb.com

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

che la festa cominci! e non finisca...

i romani avvertirono molto presto la necessità di regolamentare le ricorrenze e le relative celebrazioni. dalle quali, però, si lasciarono piacevolmente travolgere: in età imperiale, i giorni «feriali» arrivarono a essere quasi il doppio di quelli lavorativi! 98 a r c h e o


I

l primo ordinamento di un calendario «feriale» o calendario delle festività venne attribuito dagli antichi al successore di Romolo, il re Numa Pompilio, ed è del tutto verosmile che ciò sia avvenuto nella prima metà del VII secolo a.C. quando doveva essersi già consolidato un complesso di ricorrenze e di rituali risalenti anche all’inizio dell’età del Ferro (se non alla fine dell’età del Bronzo). Tuttavia, il calendario rimase a lungo una prerogativa del collegio dei Pontefici, che ne era depositario e garante, e veniva «annunciato» oralmente anno per anno. Fino a che – con un’apposita legge del 304 a.C. – non si passò a una redazione scritta ben codificata e pubblicata. Le feste, stabilizzate e ricorrenti, furono allora distinte in due categorie: feriae stativae, o feste fisse (contrassegnate nelle indicazioni calendariali con lettere «maiuscole»), da osservarsi sempre alla medesima data, e feriae conceptivae (o indictivae), o feste mobili (contrassegnate con lettere piú piccole), da celebrarsi ogni anno nel giorno stabilito all’inizio dello stesso anno dai magistrati o dai sacerdoti che ne avevano competenza. Del tutto particolari furono le feriae imperativae, o feste «comandate», straordinarie e non destinate a ripetersi, come quelle espiatoriae, indette in occasione di gravi calamità o di particolari difficoltà. Nate, tutte, come feste di un solo giorno, molte, con il tempo, finirono col prolungarsi per piú giorni, con «aggiunte» progressive. Come avvenne, per esempio, per i Saturnalia, di dicembre, che, alla fine delle operazioni della semina (satus), erano dedicati a Sat-urnus, il dio della mitica età dell’oro durante la quale si favoleggiava che gli uomini, per vivere, non

avessero avuto bisogno di lavorare. Ma poi anche il dio che aveva insegnato agli uomini l’arte della coltivazione dei campi e l’uso della falce... Celebrati, in origine, il giorno 17, allorché vi furono comprese anche le feste degli Opalia, dei Divalia e dei Larentalia (in cui, con nomi diversi, veniva invocata la Terra Madre), i Saturnali si protrassero in seguito fino al 23: sette giorni che Catullo considerava «i piú belli dell’anno», attribuendo loro una definizione che si spiega con la particolare preminenza dell’aspetto ludico della festa e delle sue diverse «manifestazioni».

banchetti e spettacoli A proposito della componente ludica, è da dire come, in un clima di «liberazione» da impegni gravosi e di generale rilassamento, essa sia stata, fin dalle origini, parte integrante di ogni festa, accompagnando (se non addirittura precedendo, nel tempo) quella piú propriamente religiosa. Dapprima, nella forma piú semplice e «spontanea» dei canti e dei balli, ma anche delle bevute generose e dei lauti banchetti (diventati piú tardi le solenni epulae, con la partecipazione delle immagini delle divinità onorate, sedute su scranni o distese sui letti conviviali, rispettivamente nei sellisternia e nei lectisternia). Poi, con gli spettacoli che, dai «duetti» a contrasto e dalle farse improvvisate, ridanciane e sboccate, arrivarono a vere e proprie rappresentazioni teatrali, come i ludi scenici. Ai quali s’affiancarono presto i ludi circenses, le corse di cavalli e, soprattutto, di carri (bighe e quadrighe e un tempo anche trighe) per i quali, a Roma, fu «inventato» l’apposito spazio attrezzato del circo. Quindi i ludi

Feste lupercali, olio su tela di Andrea Camassei. 1635. Madrid, Museo del Prado. Antico rito di purificazione, prima delle greggi e in seguito di Roma, i Lupercali si celebravano il 15 febbraio a cura del sodalizio dei Luperci Quintili e Fabiani in onore del dio Luperco, associato al lupo sacro di Marte e poi epiteto di Fauno.

gladiatori (o, piú propriamente, munera gladiatoria), i combattimenti dei gladiatori che, nati in Etruria, come parte delle cerimonie funebri (nella convinzione che il sangue versato servisse in qualche modo a rivitalizzare l’«anima» del defunto), finirono per diventare «spettacoli» veri e propri. Cosí come lo divennero le venationes, le cacce alle belve, o la semplice esibizione di animali esotici e rari. E, anche in questo caso, si provvide a creare lo spazio deputato dell’«arena» che diventò, col tempo, l’anfiteatro. Quella dei ludi arrivò a essere parte essenziale delle feste (e motivo del loro eventuale prolungamento). Ma, col tempo, perdute le originarie implicazioni religiose, diventarono manifestazioni fini a se stesse, conservando tuttavia le caratteristiche della «festa». Al punto da dare luogo a espressioni come ludos committere (accanto a dies festum edere) o ludos celebrare (accanto a dies festum agere), nel senso di «dare una festa» o «fare festa». Si trattò, in sostanza, di una progressiva «laicizzazione» delle feste – o della parte via via piú estesa e attraente di esse –, in concomitanza col continuo evolversi dei costumi e della vita sociale, cominciato, del resto, fin dal momento del passaggio dalla società agricola a quella urbana. S’aggiunga la progressiva trasformazione della parte religiosa in una serie di freddi e stanchi «rituali di Stato» ripetuti per puro spirito di conservazione. Anche per questo molte feste finirono addirittura per perdere il significato originario. E gli atti e le cerimonie venivano spesso compiuti senza piú sapere il perché. Preghiere e invocazioni, poi, continuavano a essere espresse in una lingua arcaica, divenuta quasi un gergo incomprensibile ai piú. Come quello del famoso Carmen dei Fratres Arvales, l’inno rituale, risalente al V secolo a.C. e tramandato in un latino anteriore al

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fenomeno del rotacismo (il passaggio della s intervocalica alla r, come in aurora da ausosa), cantato (e ballato) da sacerdoti, col capo cinto d’una corona di spighe, il cui nome derivava da arva, i «campi coltivati». Già sul finire della repubblica, molti non sapevano in alcun modo spiegare gran parte di quello che facevano e dicevano (o che vedevano fare e dire). E autori «antichisti» come Varrone, Verrio Flacco, Festo, tentarono, con poco successo, confuse interpretazioni e improbabili spiegazioni. A volte erano dimenticati persino i nomi – e le prerogative – delle divinità onorate e invocate. O, se si conservavano, lo erano esclusivamente per le rispettive festività oppure nelle superstizioni popolari.

E le feriae Augusti che si celebravano in onore del divo Augusto agli inizi di agosto, diventavano, a metà mese, la festa dell’Assunta – il nostro Ferragosto – conservando, oltre alla denominazione, l’antico uso popolare delle scampagnate e delle... mance.

messi e candele

la politica del consenso

Miniatura raffigurante la processione dei notari di Perugia per la Candelora. XV sec. Perugia, Museo del Capitolo della Cattedrale di S. Lorenzo. Molte feste pagane furono «cristianizzate» dalla Chiesa, come nel caso dei Lupercali «convertiti» nella Festa delle Candele da papa Gelasio I.

Ma si continuò ad andare avanti, per tutta l’età imperiale quando l’indizione e la celebrazione delle feste diventarono anche parte della politica del consenso. Alla fine, è stato calcolato che i giorni dell’anno in vario modo e a vario titolo considerati festivi erano diventati oltre duecento! Mentre dal termine originario festus (già diventato sostantivo festum) erano derivati, oltre al femminile festa, l’aggettivo festivus (col significato di «piacevole» e «allegro») e, da ultimo, il sostantivo festivitas (col significato di «piacevolezza» e «giovialità»). Quasi tutte le feste sopravvissero fino alla fine del mondo antico, anche col cristianesimo ormai trionfante. Mentre la Chiesa – che nel corso del III secolo, con una sorta di «ritorno alle origini», introdusse nella settimana, come

giorno di riposo e di astensione dal lavoro, diventata «precetto», la domenica, dedicata al Signore (dies dominica) – molte le faceva proprie. Con gli opportuni adattamenti e non senza trovare difficoltà nel far cessare usanze e tradizioni secolari che i fedeli si rifiutavano di abbandonare. Cosí, di fronte all’impossibilità di sopprimerle, specie le piú radicate e popolari, preferí «cristianizzarle». A cominciare da quella, sia pure tardiva del 24 dicembre, in cui si celebrava la «nascita del Sole» (dies natalis Solis), dedicata al ricordo della nascita del Salvatore. Mentre, solo per fare qualche altro esempio, il 19 di marzo, in cui – nell’anniversario della dedica del tempio a lei consacrato sull’Aventino ­– si celebrava Minerva, protettrice degli artigiani, diventò il giorno di san Giuseppe.

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Quanto alle abitudini, si può anche ricordare quella di portare alla benedizione di sant’Antonio animali e frutti della terra, in previsione della nuova stagione produttiva, il giorno della sua festa, il 17 gennaio, che era uno dei giorni possibili delle feriae sementivae, celebrate, al primo manifestarsi dei germogli, contro il pericolo delle gelate, in onore di Tellus, la Terra fertile. Alla quale veniva sacrificato il maiale che rimase come attributo del santo cristiano (sant’Antonio del porco!). Per finire si deve tuttavia sottolineare come solamente sullo scorcio del V secolo (cento anni dopo che l’imperatore Teodosio aveva messo fuori legge il culto pagano!) il papa Gelasio sia riuscito a ottenere dal Senato l’abolizione della festa dei Lupercali, ancora tenacemente radicata. E come, peraltro, abbia deciso di mantenerne vivo il significato riferendolo alla «purificazione» di Maria Vergine (dopo il parto, secondo l’uso ebraico). E fu cosí che, all’inizio dello stesso mese di febbraio, nacque la «festa delle candele» (festum candelarum: la popolare «Candelora») caratterizzata dalla benedizione dei ceri, che i fedeli portavano poi in processione, intesi come simbolo del battesimo purificatore dalla macchia del peccato orginale. (2 – fine)



scavare il medioevo Andrea Augenti

misteri del grande nord da dove venivano i guerrieri vichinghi sepolti in due navi ritrovate di recente in estonia? e perché la loro ultima dimora fu allestita in tutta fretta? sono solo due degli interrogativi aperti da una recente scoperta compiuta nel mar baltico

S

iamo in Estonia, una delle repubbliche del Mar Baltico. Davanti alla costa di quel Paese si trova l’isola di Saaremaa, teatro, tra il 2008 e il 2012, di una scoperta davvero straordinaria. Durante i lavori per la posa di cavi elettrici nel villaggio di Salme, un gruppo di operai inizia a trovare alcuni oggetti antichi: sono le prime tracce di due navi vichinghe. Due navi speciali, perché, nella piú tipica delle tradizioni vichinghe, erano state trasformate in tombe. Ma andiamo con ordine. La prima

Qui accanto: Salme (Estonia). Una spada a doppio taglio rinvenuta diritta nel riempimento di una fossa, fortunosamente mancata da un cavo elettrico. I reperti rinvenuti nelle due navi-sepolture le datano al 750 d.C. circa. A destra: veduta dall’alto della Salme II: sulla sinistra sono alcuni degli scheletri.

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Mar Baltico

Cartina dell’Estonia con l’isola di Saaremaa e, in evidenza, il villaggio di Salme, teatro della scoperta.

Tallin

Estonia

Russia

Saaremaa

Lettonia imbarcazione, Riga chiamata dagli archeologi Salme I, è Saaremaa la piú piccola (11 x 2 dire all’inizio m), e conteneva gli dell’epoca dei Salme scheletri di sette Vichinghi. Inoltre, le defunti: sette maschi, sepolture dentro le la maggior parte dei navi sono quali morti intorno ai solitamente allestite trent’anni d’età, tutti per i membri delle in buona salute e molto alti di élite, per gli aristocratici delle statura. Assieme a loro, frammenti società del Nord-Europa, in di armi (soprattutto spade) e ben 75 Scandinavia come altrove: basti pedine da gioco, realizzate in osso pensare alla nave del tumulo piú e in fanoni di balena. grande del cimitero di Sutton Hoo, La seconda nave (Salme II) è molto in Inghilterra, molto probabilmente piú grande: 20 m circa di lunghezza. la tomba di un re. Nel caso di Era sepolta a soli 15 cm dal piano di Salme la situazione è diversa: in campagna e fu usata anch’essa entrambe le navi sono sepolti come sepoltura. individui che molti indizi segnalano Al suo interno, infatti, sono stati come guerrieri. Le ossa di quelli trovati ben 33 scheletri, deposti nella nave piú grande acompagnati da armi (spade, lance, denunciano che la loro morte fu punte di frecce), scudi, di nuovo innaturale, violenta; inoltre, la loro pedine da gioco, dadi: per un totale sistemazione nello scafo, in strati di circa 1000 reperti! sovrapposti (l’ultimo dei quali sormontato da una distesa di 15 vele per viaggi lunghi scudi), fa di questa sepoltura una vera e propria fossa comune. Il ritrovamento è davvero unico. Che cosa possiamo dunque Innanzitutto, la Salme II è la piú desumere dall’insieme di questi antica nave di questo tipo mai elementi? Poiché le analisi sugli trovata nella zona: un vascello con scheletri e sui reperti non sono grandi vele, per viaggi piuttosto state ultimate, sarebbe azzardato lunghi. I reperti datano le formulare ipotesi definitive, ma imbarcazioni intorno al 750, vale a

In alto: il riempimento della Salme II. La freccia indica il contorno della chiglia, segno che l’imbarcazione fu utilizzata per la navigazione prima d’essere trasformata in tomba.

appare plausibile immaginare che le cose siano andate in questo modo: verso la metà dell’VIII secolo un gruppo di Vichinghi si spinge dalla Scandinavia – probabilmente dalla Svezia, le cui coste sono distanti solo 150 km - fino sulle coste dell’Estonia; forse la flotta viene respinta dall’esercito locale, e, ad alcune delle perdite, viene data una degna sepoltura.

la pedina tra i denti In questo senso vanno alcuni indizi importanti: innanzitutto il fatto che uno degli scheletri della nave Salme II – apparentemente quello dell’individuo piú importante – aveva accanto a sé i frammenti di una spada molto preziosa, e tra i denti una pedina da gioco di grandi dimensioni. Evidentemente si tratta della sepoltura di un personaggio di spicco; ma, piú in generale, la cura con cui sono stati sovrapposti i cadaveri implica di sicuro che in un dato momento si è potuta allestire una cerimonia funebre; e poi: tutte le spade furono spezzate, e assieme ai corpi vennero depositate le carcasse di un cane e di un falco, uccisi per l’occasione; si tratta evidentemente di atti rituali. Non siamo quindi di fronte a guerrieri morti dentro le loro navi e poi abbandonati sulla costa, ma si tratta di due distinte sepolture di gruppo. Tuttavia, un altro indizio ci fa riflettere: in genere – proprio per renderle ben visibili, perché importanti – le tombe nelle navi sono sormontate da un tumulo, il che stavolta non accade. Segno che l’allestimento delle sepolture e la cerimonia avvennero in gran fretta, per paura di assere attaccati di nuovo dal nemico? Oppure i Vichinghi decisero che era molto meglio non costruire i tumuli, perché i locali li avrebbero subito individuati e demoliti, e quindi avrebbero devastato le tombe, impedendo per sempre ai guerrieri morti di raggiungere il Valhalla? Per il momento possiamo solo dire di essere alle prese con un giallo irrisolto dell’età vichinga.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

una lezione dimenticata le cronache, anche quelle recentissime, hanno portato alla ribalta, per l’ennesima volta, disastri provocati da esondazioni e forti piogge. e pensare che il territorio italiano conserva antiche opere di regimazione delle acque realizzate con grande perizia per bonificare i suoli e incentivare l’agricoltura‌

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L

e capacità ingegneristiche dei Romani, in particolare in campo idraulico, sono testimoniate da opere realizzate in tutte le terre da essi dominate. Ai ben visibili acquedotti, con i maestosi condotti aerei su arcate, spesso di un’imponenza ancora oggi impressionante, si affiancano altrettante strutture di fondamentale importanza, ben celate nelle viscere della terra. Alcune di queste condotte ipogee erano destinate alla regimazione idraulica, ossia al convogliamento dell’acqua da un punto del territorio in cui si verificava un aumento eccessivo del livello a un altro luogo, dove era possibile scaricare tale abbondanza idrica, liberando cosí terre che potevano essere destinate a usi agricoli o prevenendo l’allagamento di zone abitate. Un’opera di straordinario valore storico, archeologico e speleologico sino a oggi scarsamente indagata a causa dell’oggettiva difficoltà di percorrenza della struttura, quasi completamente allagata, è il cosiddetto emissario Albano o di Castel Gandolfo, il piú noto fra le molte strutture di regimazione dei laghi vulcanici dei Colli Albani e anche l’unico citato da fonti storiche (Tito Livio V, 15; Dionigi d’Alicarnasso I, 66 e Piranesi). La tradizione vuole che l’emissario sia tra i piú arcaici reperti dell’opera cunicolare romana, secondo solo alla costruzione della Cloaca Massima. Ma c’è chi ha ipotizzato che la sua realizzazione sia ancor piú antica.

il lago sotto controllo La condotta venne realizzata per regolare il livello del lago omonimo, privo di un emissario naturale, in caso di eccessivo innalzamento delle acque, rendendo cosí abitabili e coltivabili

l’Ente Parco Castelli Romani, si svilupperà nei prossimi tre anni attraverso studi di dettaglio per verificare lo stato attuale dell’opera e soprattutto per ottenere un rilievo topografico della struttura con moderna strumentazione, per acquisire la documentazione fotografica e filmata ed effettuare le necessarie analisi ambientali per valutare la possibilità di un intervento – almeno parziale – di bonifica del condotto, finalizzato alla tutela del sito e a fornire suggerimenti in ordine alla sua successiva valorizzazione.

Difficoltà e insidie

In alto: l’imbocco dell’emissario Albano, la condotta sotterranea realizzata per tenere sotto controllo il livello del lago omonimo. Nella pagina accanto: tecnici di «Hypogea» in esplorazione nell’agosto 2013 nell’emissario. le rive dello specchio d’acqua. Oggi la presenza di imponenti depositi concrezionali rende l’accesso dall’incile, ossia l’imboccatura del canale sotterraneo, percorribile solo con tecniche speleo-subacquee. Dopo alcune prime esplorazioni condotte nel 1955-1958, solo nel 1978 venne elaborato per la prima volta un rilievo topografico della struttura dopo numerose e impegnative ricognizioni che, tuttavia, non consentirono di percorrere interamente il tunnel. Nell’agosto 2013 «Hypogea», la Federazione dei gruppi speleologici del Lazio per le cavità artificiali, ha varato ufficialmente il «Progetto Albanus», con l’obiettivo di tentare la completa esplorazione speleologica e speleo-subacquea dell’antico emissario. Il progetto, condiviso con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e

La campagna di ricerca, dedicata alla memoria di Vittorio Castellani, insigne accademico e speleologo che molto si dedicò a questa opera ipogea, si avvarrà del contributo e dell’esperienza delle organizzazioni speleologiche afferenti a «Hypogea» (A.S.S.O, Centro Ricerche Sotterranee Egeria e Roma Sotterranea). La presenza di acqua, che facilmente si intorbidisce rendendo ancora piú complesse le operazioni di esplorazione, gli abbondanti concrezionamenti già accennati, la necessità di muoversi in stretti cunicoli e l’antichità dell’opera, che potrebbe presentare crolli o punti in condizioni statiche critiche, rende imprescindibile l’utilizzo di specifiche tecniche speleologiche e speleosubacquee ormai ampiamente collaudate, che possono trovare sintesi solo in un gruppo di lavoro multidisciplinare. Il dialogo e la collaborazione tra discipline, metodi e tecniche diverse permetterà cosí di acquisire importanti informazioni utili sia alla comprensione di un’opera di ingegneria idraulica antica di primaria importanza, sia – piú in generale – sulle conoscenze e le capacità sviluppate nel mondo antico per la gestione del territorio.

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divi e donne Francesca Cenerini

P

ompeia Plotina, moglie di Traiano, e Ulpia Marciana, la sorella maggiore dello stesso imperatore, ottengono entrambe il titolo di Augusta. Il ruolo delle donne della corte nella propaganda imperiale è tale che Marciana può dare il proprio nome alla città romana di Timgad in Numidia (Colonia Marciana Traiana Thamugadi). È la prova che in età traianea si è definitivamente consolidata la figura dell’Augusta, che ha assunto un ruolo e una funzione pubblica, ben rappresentata dai media del tempo: panegirici letterari oppure espressioni della cosiddetta «visual propaganda», per esempio le monete e i ritratti. Tra questi sono da ricordare le immagini delle due cognate che affiancavano la statua, con ogni probabilità equestre, di Traiano sull’arco eretto nel 114-115 d.C. sul molo del porto di Ancona. I loro nomi, Plotina Augusta, coniux Augusti e diva Marciana Augusta, soror Augusti, rispettivamente moglie e sorella dell’imperatore, compaiono sulle iscrizioni ancora conservate sull’attico dell’arco, costruito in ricordo del rifacimento e ampliamento del porto per opera dell’imperatore. Marciana è, infatti, divinizzata e ottiene lo status di diva il giorno stesso della sua morte (29 agosto 112 d.C.).

Discendenza femminile Il senato nomina Augusta la figlia Matidia Maggiore, che, in tal modo, viene a occupare, per cosí dire, il posto lasciato vacante dalla madre. Questo fatto sottolinea l’importanza di questa discendenza femminile nella successione a Traiano, il cui matrimonio con

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Plotina è sterile. Plotina viene divinizzata nel 123 d.C. da Adriano, successore e figlio adottivo di Traiano, dopo la sua morte e spesso è onorata come diva mater («madre divina») di Adriano stesso che le fa intitolare un tempio a Nemausus (odierna Nîmes), probabile città di origine della donna. Adriano in persona ne pronuncia l’orazione funebre e ne loda le qualità tradizionali A sinistra: ritratto di Ulpia Marciana. 130-138 d.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso: ritratto di Pompeia Plotina. 112-121 d.C. Roma, Musei Capitolini.

coppia vincente replicando un modello già sperimentato all’epoca di augusto, plotina e marciana, moglie e sorella dell’imperatore traiano, si imposero come donne di potere esemplari


della matrona idealizzata: la fedeltà, la modestia e la cultura. Alcune pagine del Panegirico scritto e pronunciato da Plinio il Giovane (paragrafo 84), relative ai ritratti di Marciana e di Plotina, mostrano le due cognate solidali nel loro ruolo di sorella e moglie fedeli al princeps, quasi in una sorta di riproposizione, post litteram, della coppia di età augustea Ottavia e Livia, rispettivamente sorella e moglie del primo imperatore Augusto. Plinio sottolinea il valore della concordia, vale a dire l’armonia familiare, che deve guidare ogni attività pubblica e privata della famiglia imperiale. Le monete, proprio a partire dall’età traianea, dedicate alla domus dell’imperatore, celebrano i progenitori defunti, la successione all’impero e la coesione familiare e, nel corso del II secolo d.C., il messaggio da queste propagandato assume un peso sempre piú rilevante. La piú recente critica storiografica vede in Plotina un autorevole esponente di quel «partito della pace» e del «buon governo» che finí per portare al potere Adriano, partito a cui apparteneva anche Matidia Maggiore. Secondo questa ideologia politica, la coppia imperiale è la prima immagine di questo buon governo, di stampo paternalistico, secondo i principi della filosofia stoica, imperniata sui concetti di equilibrio, clemenza ed equità. Questa ideologia si sarebbe dovuta tradurre, nelle intenzioni di Adriano, in un impero pacificato, cosmopolita ed ecumenico, aperto all’integrazione tra i popoli, culturalmente ellenizzato, sostenuto da un ceto dirigente dinamico e intraprendente, soprattutto provinciale, a discapito del tradizionale e ormai in sofferenza primato politicoeconomico dell’Italia e del senato di Roma. Nel II secolo d.C. le virtú del modello tradizionale della matrona ideale incentrato sulla pudicizia e

sulla morigeratezza diventano caratteristica peculiare delle Augustae e delle divae, come simbolo delle virtú imperiali. La componente femminile della domus Augusta è piú che mai capace, secondo la propaganda imperiale, di garantire pace e prosperità allo Stato e ai sudditi. Dato che erano corse pesanti voci, come abbiamo appena visto, sulla validità dell’adozione in extremis di Adriano da parte di Traiano (che, peraltro, lo aveva sempre appoggiato con incarichi di alto prestigio e visibilità), Adriano fa coniare, all’indomani della sua presa del potere, monete d’oro e d’argento con la rappresentazione della famiglia imperiale perfetta, e cioè Traiano, Plotina e se stesso.

ricche imprenditrici L’età traianea e adrianea è caratterizzata da cinque figure femminili che, oltre a essere ricche imprenditrici, in quanto proprietarie di figlinae, traggono il proprio prestigio dal fatto di essere strettamente imparentate con l’imperatore Traiano: la moglie Pompeia Plotina, la sorella Ulpia Marciana, la nipote Salonia Matidia o Matidia Maggiore, le pronipoti Sabina e Matidia Minore. Matidia Maggiore e Vibia Sabina, madre e

figlia, sono anche rispettivamente la suocera e la moglie dell’imperatore Adriano. Queste donne non sono mere figure di contorno, all’ombra dei loro mariti o parenti maschi, ma, nemmeno, come è stato detto, «had power over their husbands» («ebbero potere sui loro mariti»). Non soltanto il loro ruolo è stato importante all’interno della vita di corte, ma, soprattutto, sono riuscite a rappresentare un modello di promozione e di affermazione sociale per numerose donne della media borghesia italica o provinciale, che hanno imitato le loro attività benefiche. L’imitazione di tali attività benefiche curate dalle principesse della casa imperiale e l’esercizio del sacerdozio del loro culto come divae, infatti, consentirono a numerose matrone di affermarsi nelle loro città di origine e ad avere visibilità pubblica, altrimenti negata alle donne. Come è documentato soprattutto dalle iscrizioni, proprio a partire dall’età traianea aumenta in modo considerevole la presenza delle flaminicae o sacerdotes (sacerdotesse) espressamente addette al culto delle donne della famiglia imperiale morte e divinizzate: Marciana, Plotina, Matidia, Sabina.

parentele eccellenti Ulpio Traiano (console)

Pompeia plotina

M. Ulpio Traiano L. Vibio Sabino

Vibia Sabina

Ulpia marciana

C. Salonio Matidio Patruino

Matidia

P. Elio Adriano

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

dimmi come ti pettini... lo studio delle acconciature, unito al confronto con un ritratto inciso su una moneta, ha svelato l’enigma di un singolare giocattolo, trovato nella tomba di una bambina romana

L

a numismatica romana ha, da sempre, un ruolo essenziale nell’individuare i volti imperiali. Basti pensare che il riconoscimento della statua equestre di Marco Aurelio, considerata nel Medioevo come il caballus Costantini, avvenne anche sulla scorta dell’iconografia monetale per opera di Bartolomeo Sacchi, il Platina, segretario e libraio di Sisto IV (1473 circa) e quindi dell’umanista e numismatico Andrea Fulvio (1588). Piú umilmente, la dialettica tra

Qui accanto: il sonaglio in terracotta. II sec. d.C. Roma, Antiquarium di Malborghetto. A sinistra: aureo a nome di Crispina, 180-182 d.C. Al dritto, il busto della consorte di Commodo; al rovescio Venere in trono con lancia e Vittoria in mano.

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archeologia e moneta è stata fondamentale nel datare un piccolo oggetto appartenuto alla vita quotidiana di una bimba romana di età imperiale, seppellita in un modesto sepolcreto lungo la via Nomentana a Roma, al km 10,45. Una volta scavata, oramai ben 27 anni fa, l’area funeraria ha ceduto il posto a un complesso residenziale. La bambina, morta intorno ai 6-7 anni, aveva uno spillone d’osso presso la testa, un orecchino d’oro e un campanello di bronzo al polso.

un sonaglio per l’aldilà Tra il capo e la spalla, in un ultimo gesto di triste commiato, fu deposto un giocattolo, un sonaglio in terracotta con impugnatura e bustino di giovane donna, vestita con una tunica leggermente scollata sul seno e fermata sulle spalle da due bullae. È possibile che il sonaglio, oggi esposto nel Museo allestito nell’Arco di Malborghetto a Roma sulla via Flaminia, fosse in origine colorato e avesse all’interno qualche seme o un elemento simile tale da generare il suono – cosí come avviene negli esemplari moderni – e che nel corso dei secoli si è disgregato. L’oggetto rientra nella classe dei crepitacula, sonagli per bambini ritrovati nelle sepolture sin dall’età protostorica, spesso a forma animale, di sfera o semplicemente costituiti da qualsiasi cosa che, agitata, emette un rumore. Si tratta, probabilmente, degli stessi giochi con cui i piccoli si divertivano in vita e che, in caso di morte in tenera età, venivano messi nella tomba ad accompagnarli nell’Aldilà. Poiché il sonaglio presenta una fattura molto semplice, sia nei tratti che nel materiale, e per la sua realizzazione si usò una matrice a stampo – che permette quindi di ottenere un gran numero di repliche – è stato

ipotizzato che fosse di un tipo assai diffuso nel mondo romano. Sembra invece che questo esemplare in forma di fanciulla sia, a oggi, l’unico ritrovato. È infine interessante notare che il crepitaculum ha le fattezze di una giovane donna e non di una bambina, una sorta di remota Barbie, cosí come giovanili o adulte sono le forme delle bambole romane sinora ritrovate nelle tombe. In sepolture di adulti e bambini sono invece attestati bustini umani o animaletti in terracotta impostati su basette, a volte con elementi interni che ne permettono il suono (calcula) ma privi di impugnatura. L’elemento che ha permesso di datare la sepoltura è la pettinatura della testina del sonaglio, dettata dalla moda dell’epoca, ispirata alle fogge in voga tra le classi superiori e quindi alla corte imperiale. I capelli hanno una scriminatura Ritratto di Bruzia Crispina, moglie dell’imperatore Commodo. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

centrale e scendono ai lati del capo, divisi in quattro ciocche verticali leggermente arrotolate, che si riannodano sulla nuca, formando una crocchia ovale appiattita a spirale.

Un’acconciatura da imperatrice Tale acconciatura trova ampio confronto nei ritratti e nei profili di imperatrici di età antonina e, in particolare, ripropone quella detta di «secondo tipo», adottata negli anni tra il 180 e il 187 d.C. da Bruzia Crispina. Moglie di Commodo, la donna fu esiliata dal marito a seguito della scoperta di una congiura di palazzo in cui era coinvolta, poi uccisa (193 d.C.) e colpita da damnatio memoriae. Il delicato e bellissimo profilo di Crispina ricorre su tutti i metalli monetati, contraddistinto dalla voluminosa acconciatura a bande e chignon sulla nuca che si ritroverà poi, piú articolata, nella moda di età severiana. La pettinatura dell’ideale giovane raffigurata sul sonaglio, data anche la matrice alquanto «stanca» dello stampo, riporta solo sommariamente l’elaborata coiffure imperiale, riadattandola a un uso piú borghese e quotidiano. Il parallelo «a specchio» tra l’oggetto, la statuaria e la numismatica ha permesso la datazione della sepoltura, che corrisponde a quella del sepolcreto romano. E, per concludere, se fosse noto a qualche lettore di «Archeo» un confronto stringente con questo giocattolo, sarà gradito conoscerlo!

per saperne di piÚ Francesca Ceci, Ermetta fittile dalla via Nomentana: un nuovo tipo di sonaglio di età romana, in Archeologia Classica, XLII, 1990, pp. 441-448.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Paolo Malagrinò

Stonehenge tra archeologia e storia Ginevra Bentivoglio EditoriA, Roma, 148 pp., ill. b/n 16,00 ISBN 978-88-98158-26-3 www.gbeditoria.it

Considerato luogo «magico» dai piú eccentrici movimenti esoterici e festival New Age e filo-celtici, oggetto di studio da parte dell’archeologia, ma anche dell’ufologia – che ha cercato di carpire i presunti significati nascosti nelle sue geometrie –, Stonehenge resta ancora oggi un enigma parzialmente irrisolto. Con i suoi oltre 5000 anni di vita, il sito megalitico dell’Inghilterra del sud ha conosciuto ben tre fasi costruttive, attraversando parte del periodo finale del Neolitico sino al 1600 a.C.; una lunghissima fase in cui, evidentemente, le motivazioni che hanno spinto alla sua costruzione, ma anche le tecniche costruttive, sono andate mutando con i

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millenni, come d’altronde è andato gradualmente modificandosi l’assetto originario del sito. Il volume di Paolo Malagrinò, geologo e archeologo della preistoria, nonché esperto del megalitismo pugliese, offre, con uno stile lineare e divulgativo, una sintesi delle problematiche legate al sito, proponendo, al contempo, una panoramica sulla tipologia dei monumenti megalitici e sulla loro straordinaria diffusione nel mondo, con una particolare attenzione all’Europa e al bacino mediterraneo. Con una serie di osservazioni comparative, si evidenzia l’unicità del sito di Stonehenge, per poi concludere con una ipotesi che vedrebbe l’attuale assetto, con le sue tipiche strutture ad anello e a ferro di cavallo, come il risultato di una riorganizzazione architettonica, in epoca medievale, dell’intero sito. Una teoria che, se confermata, costituirebbe una prova ulteriore dell’interesse che questo monumento ha suscitato in secoli piú vicini a noi. Franco Bruni Flavio Enei

Santa severa tra leggenda e realtà storica Pyrgi e il Castello di Santa Severa alla luce delle recenti scoperte (Scavi 2003-2009) Pyrgi-Santa Severa, 416 pp., ill. col Il volume non è in vendita e può essere richiesto a:

Flavio Enei, Direttore del Museo Civico di Santa Marinella-«Museo del Mare e della Navigazione Antica»; Castello di Santa Severa, 00050 Santa Severa (Roma); tel. 0766 570077; e-mail: fenei@comune. santamarinella.rm.it

paleocristiana dedicata a santa Severa, che rappresenta una delle piú importanti acquisizioni dell’archeologia cristiana italiana degli ultimi decenni. La documentazione su questo e sugli altri ritrovamenti effettuati nel corso degli scavi è ampia e puntuale e offre un quadro davvero esauriente, nel quale non mancano, tra gli altri, contributi sugli esiti delle analisi antropologiche, archeozoologiche, archeobotaniche e sedimentologiche. Alle nuove scoperte pyrgensi «Archeo» dedicherà presto un ampio resoconto. Paola Finocchi

Il castello e il borgo di Santa Severa, uno dei complessi monumentali piú suggestivi lungo la costa laziale tra Roma e Civitavecchia, sono carichi di storia e gli scavi condotti tra il 2003 e il 2009 (e di cui il volume dà conto) ne hanno offerto una riprova clamorosa. Le trincee aperte in piú punti del sito – che, lo ricordiamo, si è sviluppato nell’area occupata dallo scalo etrusco di Pyrgi, uno dei porti della vicina Cerveteri –, preliminari ai lavori di recupero funzionale di alcune delle sue strutture, hanno infatti restituito una ricca mole di reperti e di dati, che confermano la lunga frequentazione della zona – dall’VIII secolo a.C. al VII d.C. –, ma, soprattutto, hanno portato alla scoperta della chiesa

Le Sculture delle Terme Adrianee di Leptis Magna dagli appunti di M. Floriani Squarciapino Espera, Roma, 249 pp., ill. b/n + 2 tavv. col. ft 68,00 euro ISBN 978-88-906446-0-6 www.archeologica.com

Maria Floriani Squarciapino (1917-2003) è stata una delle piú insigni


archeologhe italiane e questo volume costituisce il primo frutto concreto dell’opera di revisione e pubblicazione dei materiali del suo archivio personale. La scelta è caduta sulle sculture delle Terme Adrianee di Leptis Magna, la città romana della Libia in cui la Squarciapino ha lavorato per oltre un trentennio. Dal complesso termale, inaugurato nel 137 d.C. e poi ampliato e ristrutturato all’epoca di Commodo e di Settimio Severo, proviene un ricco corpus di statue – che ritraggono figure ideali, imperatori e personaggi privati – e di iscrizioni. Dopo una parte introduttiva sulla storia e l’architettura delle terme, l’insieme di queste testimonianze viene descritto analiticamente nelle schede di catalogo del volume, alle quali si uniscono le ipotesi sul rapporto delle diverse statue con il contesto in cui furono collocate. Ne risulta non solo la lettura delle valenze artistiche dei singoli reperti, ma anche la definizione del loro ruolo simbolico e celebrativo. Mario Iozzo

Iacta stips Il deposito votivo della sorgente di Doccia della Testa a San Casciano dei Bagni Edizioni Polistampa, Firenze, 64 pp., ill. col. 16,00 euro ISBN 978-88-596-1303-9 www.leonardolibri.com

Scoperto casualmente nel 2004, il deposito

Gabriele Rizza

Opposizione e dissenso nell’età augustea Edizioni ETS, Pisa, 116 pp., ill. b/n 14,00 euro ISBN 978-884673665-9 www.edizioniets.com

votivo di Doccia della Testa ha restituito un insieme di cui facevano parte 67 oggetti in metallo e un manufatto in marmo. Materiali dunque eterogenei, dei quali Mario Iozzo presenta la catalogazione, ma che, soprattutto, cerca di inquadrare storicamente, ricostruendo le vicende e le modalità della loro deposizione. E, da questo punto di vista, coglie risultati significativi, primo fra tutti la prova che la stipe, in uso almeno fino al I secolo d.C., cominciò a essere utilizzata già in età etrusca, in una data collocabile intorno al 500-490 a.C. Tra i reperti, spicca, per la sua rarità, una mammella in bronzo, offerta da una liberta, Avidiena Eutyche, che la depose nella sorgente in segno di ringraziamento per una grazia ricevuta o forse per richiedere l’intervento della divinità. Un gesto comune, ma evidentemente molto sentito dalla donna, se pensiamo, come sottolinea Iozzo, che il valore venale dell’oggetto equivaleva alla paga di tre giorni e mezzo di un legionario dell’epoca.

Complice, innanzitutto, la propaganda augustea, l’età del primo imperatore romano è stata spesso tramandata come una stagione aurea, vissuta sotto l’egida di un uomo illuminato e giusto, capace di garantire al suo popolo pace e prosperità. Pur senza disconoscere i meriti innegabili di Augusto, un quadro del genere risulta difficilmente accettabile e cosí dovette esserlo anche per piú d’uno tra i suoi contemporanei. A loro è dedicato il saggio di Gabriele Rizza, il quale ripercorre la parabola di Caio Ottavio e la affianca, appunto, alle vicende di quanti, piú o meno apertamente, dissentirono dalla sua visione del mondo. Un dissenso, che come si legge nelle pagine del volume, non fu soltanto dialettico, ma sfociò in piú d’una occasione nella

pianificazione di congiure con le quali porre fine al principato di colui che, nelle Res gestae, scrisse di esercitare un potere basato «sul consenso di tutti gli uomini». Donato Labate e Mauro Liberati (a cura di)

L’ospitale di san bartolomeo di spilamberto (MO) Archeologia, storia e antropologia di un insediamento medievale Quaderni di Archeologia dell’Emilia-Romagna 32. All’Insegna del Giglio, Borgo S. Lorenzo (FI), 78 pp., ill. col. e b/n 20,00 euro ISBN 978-88-7814-583-2 www.insegnadelgiglio.it/

Opera di taglio specialistico, il volume costituisce la pubblicazione degli scavi condotti tra il 2007 e il 2008 a Spilamberto, grazie ai quali è stato possibile indagare un contesto ospedaliero attivo nell’età medievale, che sorse, probabilmente, al momento della fondazione del locale castello da parte dei Modenesi (1210) ed era inserito in un complesso

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comprendente anche una chiesa e vari edifici rurali. Nella prima parte si succedono contributi che inquadrano l’antico nosocomio nel contesto storico della Spilamberto di epoca medievale, ai quali fa da corollario una interessante sintesi sullo stato dell’arte di quella che viene definita l’Archeologia degli ospitali. Si passa quindi alla storia degli studi del sito spilambertese e alla descrizione analitica dei materiali recuperati nel corso delle indagini e delle stratigrafie poste in luce. La combinazione di questi elementi ha permesso di ricostruire la storia dell’area scelta per la costruzione dell’ospedale, che si articola in quattro fasi di frequentazione, comprese fra l’età romana e il Rinascimento. Tra le curiosità si può segnalare il dato emerso dallo studio dei reperti malacologici: le numerose valve di mollusco ritrovate durante lo scavo appartengono in maggioranza alla specie Pecten jacobaeus, presente, sotto forma di fossile, negli affioramenti della zona. È perciò probabile che le conchiglie presenti nell’area dell’ospedale fossero state raccolte dai suoi frequentatori nel greto del vicino fiume Panaro o sulle colline adiacenti. Claudio Corvino

orso Biografia di un animale dalla Preistoria allo sciamanesimo Odoya, Bologna, 395 pp., ill. b/n

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20,00 euro ISBN 978-88-6288-163-0 www.odoya.it

ammirazione, invidia, ma, non di rado, anche di crudele sfruttamento. Una storia dunque intensa e che rende davvero «umano» questo poderoso abitatore del pianeta. Angela Giallongo

la donna serpente Storie di un enigma dall’antichità al XXI secolo Edizioni Dedalo, Bari, 296 pp., ill. col. e b/n 22,00 euro ISBN 978-88-220-0575-5 www.edizionidedalo.it

La scelta del titolo introduce il lettore alla particolarità di questo saggio: può infatti sembrare curioso proporre la «biografia» di un animale, ma basta leggere poche pagine del saggio di Claudio Corvino per rendersi conto di quanto appropriata risulti la scelta. Vista la formazione scientifica del suo autore, che ne è studioso, Orso è un saggio di antropologia, ma sono fin troppo evidenti le affinità di questa disciplina con l’archeologia, né va dimenticato che molte delle visioni e delle tradizioni riferibili all’orso ancora oggi note e diffuse affondano le proprie radici in tempi assai remoti. E, del resto, i primi capitoli del volume si soffermano sul ruolo occupato dal grande plantigrado in seno alle comunità preistoriche, nel mondo greco e poi in quello romano. Nell’insieme, l’opera testimonia la particolarità del rapporto che, fin dai primordi, si stabilí tra l’uomo e l’animale: un rapporto fatto di paura,

Essere mitico della religione greca, Medusa era considerata la Gorgone per antonomasia: mostruosa come le due sorelle, aveva la facoltà d’impietrire con lo sguardo. È questo, si può dire, il punto di partenza di questo saggio, che sviluppa uno dei temi piú ricchi e affascinanti dell’immaginario umano. La trattazione si articola in quattro capitoli, rispettivamente dedicati al mito della Medusa, alle fattezze che a essa venivano attribuite e al loro valore simbolico, al recupero della leggenda da parte della cultura medievale, e, infine, alle

tracce che tuttora se ne possono individuare nel mondo moderno e contemporaneo. Un’analisi ampia e articolata, corredata da alcune delle piú celebri rappresentazioni artistiche della mostruosa creatura, che sottolinea la complessità del mito della donna dalla chioma serpentiforme. Liliana Madeo

I racconti del professore Antonino Di Vita Iacobelli Editore, Roma, 164 pp. 13,00 euro ISBN 978-88-6252-223-6 http://iacobellieditore.it/

Accademico dei Lincei, direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene per oltre vent’anni, Antonino Di Vita (1926-2011) è stato un grande archeologo. Questi Racconti, tuttavia, non sono un omaggio alla sua lunga e prolifica attività scientifica, ma vogliono piuttosto proporre un profilo dello studioso. E lo fanno a partire dai ricordi dello stesso Di Vita, in quanto il volume è il frutto dei racconti che egli stesso ha fatto all’autrice, giornalista e


scrittrice. Come accade spesso nell’accostarsi alle biografie di simili personaggi, l’archeologia diviene dunque il pretesto per la narrazione, avvincente, di avventure, emozioni, paesaggi esotici, mondi ormai scomparsi… Un vero e proprio romanzo, che, però, lascia anche intuire la straordinaria caratura professionale del suo protagonista.

dall’estero T. Douglas Price

europe before rome a Site-by-Site Tour of the Stone, Bronze and Iron Ages Oxford University Press, New York, 432 pp., ill. col 45,00 USD ISBN 978-0-19-9911470-8 www.oup.com

Come scrive in sede di prefazione, dopo aver insegnato per trentasette anni archeologia europea alla University of Wisconsin-Madison, T. Douglas Price ha ritenuto di poter avere acquisito quel tanto di esperienza in piú sufficiente a coronare i suoi sogni… Al di là di una dichiarazione d’intenti di cui non

si può non ammirare l’understatement, questo saggio sull’Europa preromana è una pubblicazione esemplare, per linearità e chiarezza. Dopo un capitolo introduttivo sull’ambiente e il clima del continente, ha inizio una lunga galoppata che conduce il lettore dalle grotte spagnole di Atapuerca, nelle quali sono stati trovati resti di alcuni dei primi abitanti d’Europa, alle prime fondazioni romane in Britannia. In mezzo c’è dunque oltre un milione di anni, il cui svolgersi viene agganciato da Price ai siti piú significativi a oggi noti: da Grotta Chauvet a Lepenski Vir, da Passo di Corvo a Nebra. Tuttavia, l’opera non vuol essere solo un atlante ragionato, perché, nel capitolo conclusivo date e contesti vengono riconsiderati allo scopo di valutare quali siano le eredità piú significative che essi abbiano lasciato. Un’opera a tutto tondo, della quale non si può che auspicare una pronta traduzione in lingua italiana. Anthony Harding e Harry Fokkens (a cura di)

The Oxford Handbook of the European Bronze Age Oxford University Press, Oxford, 1016 pp., ill. b/n 120,00 GBP ISBN 978-0-19-957286-1 www.oup.com

L’età del Bronzo, a tutte le latitudini, è uno dei passaggi cruciali nella storia dell’uomo e non è dunque un caso che

75,00 GBP ISBN 978-0-19-969709-0 www.oup.com

questo nuovo titolo della serie degli Oxford Handbook sia uno dei piú corposi. In poco piú di 1000 pagine viene presentata una rassegna davvero ricca, che si articola in due parti: la prima di tipo tematico (insediamenti, sepolture, ripostigli, la guerra, il concetto di capo, ecc.), la seconda, invece, organizzata su base geografica. L’opera, di taglio specialistico, può dunque costituire un eccellente occasione di rilettura dei fenomeni che hanno caratterizzato questo momento cardine nello sviluppo della civiltà, ma è anche l’occasione per cogliere il valore delle acquisizioni piú recenti. Che, in molti casi (solo per fare un esempio, si pensi al disco di Nebra, scelto come immagine simbolo per la copertina del volume), hanno contribuito a rendere ancor piú dettagliato il quadro culturale del periodo.

Frutto di un incontro di studi svoltosi negli USA, il volume riunisce contributi che propongono l’applicazione di un concetto tipicamente contemporaneo, quello, appunto, della Network Analysis (vale a dire l’analisi dei rapporti che si stabiliscono in una rete sociale), all’archeologia. Un approccio stimolante, grazie al quale, ancora una volta, si coglie l’utilità di simili contaminazioni, figlie dei primi passi mossi in tal senso negli anni Sessanta del Novecento dai pionieri della New Archaeology. I modelli di volta in volta elaborati vengono qui applicati su contesti assai eterogenei, che vanno dalle società Maya del periodo Classico al mosaico etnico che contraddistinse l’Italia preromana. Spunti di notevole interesse, le cui potenzialità vengono infine riassunte nella parte finale, che prospetta i possibili sviluppi futuri di questa metodica. (a cura di Stefano Mammini)

Carl Knappett (a cura di)

Network Analysis in Archaeology New Approaches to Regional Interaction Oxford University Press, Oxford, 384 pp., ill. b/n

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