Archeo n. 347, Gennaio 2014

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profumi d’afrodite

antico giappone / 3

merikara

etrusco quotidiano

speciale rivoluzione neolitica

MERIKARA E L’ARTE DEL BUON GOVERNO

ARCHEOLINGUISTICA

IL NOSTRO ETRUSCO QUOTIDIANO

www.archeo.it

2014

Mens. Anno XXX numero 1 (347) Gennaio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 347 gennaio

speciale

neoliticA la rivoluzione

Economia, religione e potere alle origini della civiltà

CIPRO

IL PROFUMO DI AFRODITE

EGITTO

€ 5,90



editoriale

L’intuizione di childe L’espressione «rivoluzione neolitica» fu introdotta nel 1936 da Vere Gordon Childe, considerato il fondatore dell’archeologia preistorica scientifica. Per lo studioso marxista, il passaggio da un’economia di sussistenza, basata sulla caccia e sulla raccolta, a un’economia produttiva agro-pastorale, determinò – in maniera non dissimile da quanto era avvenuto con l’altra, piú recente rivoluzione, quella «industriale» – un mutamento epocale nella storia dell’umanità. Questo passaggio, verificatosi circa 10 000 anni fa nell’area della cosiddetta Mezzaluna Fertile e che diede il via al millenario processo di «neolitizzazione», prima delle terre del Vicino Oriente e poi dell’Europa, era, per Childe, determinato da una necessità «economica»: gli uomini dovevano inventare, in presenza di un contesto ambientale divenuto drammaticamente ostile, nuove soluzioni capaci di garantire la loro stessa sopravvivenza. Dal 1936, numerose scoperte e ricerche hanno – come vedremo – ridefinito il concetto di «rivoluzione neolitica», tanto da metterne in discussione la stessa legittimità. Oggi, molti studiosi insistono sull’aspetto evolutivo, piú che rivoluzionario, che caratterizzerebbe i circa 5000 anni in cui si verificarono le diverse «invenzioni» neolitiche (la sedentarietà, la ceramica, l’agricoltura, l’allevamento). Una «lunga durata», dunque, che mal si accorda con la rapidità dei processi rivoluzionari? Ne parliamo in apertura del nostro speciale. Ma veniamo a un ultimo aspetto, quello evocato dal soggetto in copertina di questo numero: la stele raffigurata fa parte della piú importante scoperta del secolo, quella del complesso monumentale di Göbekli Tepe, in Anatolia sud-orientale (vedi lo speciale, alle pp. 78-99, e «Archeo» n. 279, maggio 2008). Per lo scopritore Klaus Schmidt, i monumenti di Göbekli Tepe rappresentano un centro cultuale, religioso e sociale, eretto nel X millennio a.C., ancor prima dell’avvento dell’agricoltura, della metallurgia, della ceramica, in un periodo che sembra affondare le sue radici nella piú antica età della Pietra. Sono il risultato di una volontà e di uno sforzo collettivi, fino a ieri inimmaginabili se riferiti a una popolazione di «semplici» cacciatori-raccoglitori. Eppure, secondo Schmidt, l’intuizione di Childe (che non poteva conoscere le acquisizioni della piú recente archeologia preistorica del Vicino Oriente!) resta tuttora valida: la «rivoluzione neolitica» ci fu, e i monumenti di Göbekli Tepe ne sono la viva testimonianza. Una «radicale trasformazione dei modi di vivere», determinata, però, non da necessità economiche, ma da fattori sociali, di potere politico e religioso. Andreas M. Steiner

Una veduta del sito di Göbekli Tepe, presso Urfa (Turchia). Gli scavi condotti da Klaus Schmidt hanno messo in luce i resti di un grandioso complesso cultuale, eretto nel X mill. a.C.


Sommario Editoriale

L’intuizione di Childe 3 di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

6

scoperte Gli scavi a La Chapelle-aux-Saints ribadiscono la sensibilità dell’Uomo di Neandertal nei confronti della morte 6 parola d’archeologo I piccoli musei italiani: un patrimonio «minore», ma solo di nome! musei Il ritorno «a casa», a Reggio Calabria, dei bronzi di Riace

10

40 scoperte

I profumi di Venere 12

dalla stampa internazionale

26

di Maria Rosaria Belgiorno, con un contributo di Alessandro Lentini

26

École franÇaise de rome

La chiesa Nea di Gerusalemme getta luce sulla fase bizantina della città 22

Per le antiche sale

40

da atene

Rispondere alla crisi 24

Nel regno del principe splendente 48

di Valentina Di Napoli

di Marco Meccarelli

di Franco Bruni

antico giappone/3

In copertina un pilastro del complesso cultuale neolitico di Göbekli Tepe (Urfa, Turchia), su cui compaiono le immagini di un toro e di una volpe.

Anno XXX, n. 1 (347) - gennaio 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Maria Rosaria Belgiorno è direttore della Missione Archeologica Italiana Pyrgos-Mavroraki a Cipro. Franco Bruni è musicologo. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Alessandro Lentini è collaboratore tecnico presso l’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Sergio Pernigotti è stato professore di egittologia e civiltà copta all’Università di Bologna. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Vincenzo Tiné è soprintendente archeologo del Veneto. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Corbis Images: pp. 70/71 (e 72, sinistra); Vincent J. Musi/ National Geographic Society: copertina e p. 87 (alto); B.S.P.I.: p. 51; Burstein Collection: p. 52; Francesco Venturi: p. 55; Adam Woolfitt: p. 83; Hanan Isachar: p. 85; Nathan Benn/ Ottochrome: pp. 88 (alto), 89 (basso), 91 (alto e basso); Werner Forman/Werner Forman Archive/Werner Forman: p. 90 – Doc. red.: pp. 3, 62 (alto), 70 (alto e 72, destra), 75 (alto e basso), 81, 82 (alto, centro e basso), 84, 87 (basso), 92 (basso, a destra), 93 (basso, a sinistra), 98, 104-105 – Archéosphère, Cédric Beauval: p. 6 – Cortesia Univerità di Sheffield: p. 7 – Getty Images: AFP: p. 8 (alto); Gamma-Rapho: p. 99; Eric Vandeville/Gamma: p. 108 – Cortesia Soprintendenza BA Friuli-Venezia Giulia-Università di Udine: p. 9 – Cortesia Associazione Nazionale Piccoli Musei: pp. 10-11 – ANSA: p. 12 (alto) – English Heritage: p. 12 (basso), 13 – Cortesia Ufficio stampa: p. 14 – Da Biblical Archaeology Review, 39, Nov/Dec 2013: pp. 22-23 – Marilena Stafylidou, Museo di Arte Cicladica: pp. 24 (sinistra), 25 (alto)


Rubriche antichi ieri e oggi I giorni piú belli dell’anno

100

di Romolo A. Staccioli

scavare il medioevo

58 antico egitto

Il «mestiere» di re

Il re di Sutton Hoo

58

di Sergio Pernigotti

l’ordine rovesciato delle cose Alla ricerca dell’oro dolce

storia

Il nostro etrusco quotidiano

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di Andrea Augenti

70

di Daniele F. Maras

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di Andrea De Pascale

divi e donne Memorie di Adriano

108

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Il mistero della pietra nera

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speciale 110

di Francesca Ceci

libri

– Stefano Mammini: p. 25 (basso) – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 26, 65, 74, 89 (alto); Picture Desk Images: pp. 50, 62 (basso), 62/63, 67, 73, 102, 111s; Album: pp. 66, 70 (basso), 103; Electa/Laurent Lecat: pp. 100/101 – Cortesia Missione Archeologica Italiana a Pyrgos-Mavroraki: pp. 27-31, 34, 36-38 – Bridgeman Art Library: pp. 33, 48/49, 64, 68, 69 – Shutterstock: pp. 35, 54, 56/57 – Franco Bruni: pp. 40-44, 46-47 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée d’Orsay)/Hervé Lewandowski: p. 45 – DeA Picture Library: p. 71 (basso e 76); G. Nimatallah: pp. 53, 77; G. Dagli Orti: pp. 58, 59, 80, 96; A. Dagli Orti: p. 61; A. De Gregorio: p. 93 (basso, a destra) – Inklink Musei: disegni alle pp. 78/79, 93 – Ferdinando Baptista/National Geographic Stock: disegno a p. 86 – Giorgio Albertini: disegno alle pp. 88/89 – Cortesia degli autori: pp. 92 (basso, a sinistra), 95, 97, 110 – Cortesia G. Bologna: pp. 106, 107 (alto, sinistra e destra) – Cortesia R. Bixio: disegni a p. 107 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28 (alto), 51, 80/81, 83, 92, 94. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST PASSIONE PER LA STORIA

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Rivoluzione neolitica

La conquista di un mondo nuovo

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di Massimo Vidale e Vincenzo Tiné

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132- Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa, Milano Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl - Via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl- titolare del trattamento- al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’ atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Ludovico d’Aragona, 11, 20132 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n oti z i ari o SCoperte Francia

pietas neandertaliana

N

el 1908, il ritrovamento, a La Chapelle-aux-Saints (Francia), del piú completo fra i reperti fossili relativi all’uomo di Neandertal diede prova dell’esistenza di pratiche sepolcrali, interpretata come segno della modernità di questo nostro antico «cugino» e dell’ampiezza delle sue capacità cognitive. Tuttavia, soprattutto in tempi recenti, piú d’uno studio aveva avanzato dubbi su alcune delle sepolture neandertaliane a oggi note, sostenendo che, in molti casi, si trattava di scoperte effettuate agli inizi del Novecento, con metodi di indagine inadeguati e tali da non autorizzare simili interpretazioni. D’altronde, le ricerche condotte nel corso dell’ultimo decennio avevano sottolineato l’esistenza di comportamenti di tipo simbolico presso i Neandertaliani, dimostrati innanzitutto dall’uso massiccio di pigmenti o dalla raccolta di

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conchiglie e piume utilizzate a scopo ornamentale. In un contesto del genere si faceva perciò essenziale una riconsiderazione dei comportamenti dell’uomo di Neandertal di fronte alla morte. Alla questione si è interessata l’équipe guidata da William Rendu (ricercatore del CNRS), Cédric Beauval (direttore della società Archéosphere) e Thierry Bismuth (membro del servizio regionale di archeologia del Limosino), che ha deciso di effettuare nuovi scavi a La Chapelle-aux-Saints e di avviare il riesame tafonomico dei resti umani scoperti agli inizi del XX secolo. Le nuove indagini hanno dimostrato che la cavità in cui fu scoperto il primo scheletro neandertaliano, interpretato come prova di una sepoltura, faceva parte di un complesso di sette grotte situate allineate lungo una stessa falesia. Lo studio della stratigrafia ha altresí permesso di ricostruire il contesto nel quale i diversi gruppi neandertaliani si

La Chapelle-Aux-Saints (Francia). Un momento degli scavi condotti di recente nel sito, utilizzato, anche a scopo sepolcrale, da gruppi neandertaliani.

erano sviluppati e di proporre un inquadramento cronologico della frequentazione della falesia. I nuovi scavi all’interno della cavità hanno inoltre portato al ritrovamento della fossa in cui lo scheletro era stato scoperto e di stabilirne la sua origine antropica. Lo studio dei resti ossei umani è anche la prova di come il cadavere fosse stato rapidamente protetto, a differenza dei resti di animali, che sarebbero rimasti a lungo esposti sul terreno. Queste due circostanze, unite all’esistenza di connessioni anatomiche fra i fossili umani, sono state lette come la conferma di una inumazione volontaria. Le nuove ricerche hanno inoltre restituito i resti di altri tre individui neandertaliani – due bambini e un adulto –, la cui presenza suggerisce una frequentazione prolungata del sito da parte di gruppi familiari. Stefano Mammini


SCoperte Gran Bretagna

ossidiana senza segreti

S

i annuncia come una svolta nei metodi della ricerca archeologia preistorica lo strumento diagnostico portatile per l’analisi pressoché istantanea dei reperti in ossidiana messo a punto da Ellery Frahm e dalla sua équipe del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Sheffield. Un’innovazione che permetterà di risparmiare molto, in termini di tempi e costi, ai ricercatori che si trovano ad analizzare materiali di questo tipo. Vetro di origine vulcanica, la struttura chimica dell’ossidiana permette di collegare univocamente ogni artefatto con il vulcano d’origine. La tecnica messa a punto dai ricercatori di Sheffield prevede la mappatura dell’impronta chimica di un reperto mediante la fluorescenza a raggi X, attraverso un piccolo apparecchio – non piú grande di un trapano –,

che può essere comodamente utilizzato dagli archeologi durante lo scavo. Prima di questa innovazione i test a disposizione dei ricercatori avevano tempi molto piú lunghi e prevedevano l’invio dei campioni a laboratori diagnostici fuori dal cantiere, che si traducevano spesso in un’attesa di mesi, quando non anni, per i risultati; adesso invece sarà questione di attendere 10 secondi effettuando una scansione direttamente sul posto. Il lavoro è il risultato del

coinvolgimento del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Sheffield nella rete NARNIA (New Archaeological Research Network for Integrating Approaches to Ancient Material Studies), un network afferente ai progetti di formazione europei Marie Curie. Il NARNIA è un progetto multidisciplinare che si occupa di sostenere i giovani ricercatori nella loro attività di ricerca sulle culture materiali del Mediterraneo orientale. Paolo Leonini

In alto: Ellery Frahm in un giacimento di ossidiana. A sinistra: due immagini dell’impiego del nuovo strumento per l’identificazione dell’origine del vetro vulcanico.

Errata corrige con riferimento a La Grande Razzia («Archeo» Speciale, settembre 2013) desideriamo precisare che la statua riprodotta a p. 79, ispirata al Colosso di Rodi, è conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Civitavecchia e non in quello di Lindo, come indicato in didascalia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’opera e con i nostri lettori.

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n otiz iario

tutela Pompei

un nuovo crollo accoglie il generale

U

no stucco di rosso pompeiano staccatosi in un retrobottega di via di Nola è l’ultimo, in ordine di tempo, dei danni subiti da Pompei. I cedimenti ammontano almeno a sei in tre anni, includendo gli episodi clamorosi, come il crollo della Schola Armaturarum sulla via dell’Abbondanza, nel 2010, e quelli meno spettacolari, ma non meno drammatici, come gli sgretolamenti parziali di intonaci e murature, tra cui quello che ha recentemente interessato un muro sulla via Stabiana. L’azione degli agenti atmosferici, combinata con la carenza di manutenzione ordinaria, è la principale responsabile di questi danni. Dal 2011 è approvato il Grande Progetto Pompei, un programma unitario di sviluppo dell’area, che prevede vari interventi per la messa in sicurezza delle insulae, per contrastare il rischio idrogeologico dei terrapieni a nord di via dell’Abbondanza, nonché opere per la valorizzazione turistica del sito. A oggi, tuttavia, sono stati avviati solo 5 dei 39

cantieri previsti. Il ritardo nelle operazioni è stato dovuto soprattutto alla burocrazia e all’assenza fino a oggi di un direttore generale, situazione che si è risolta solo agli inizi di dicembre 2013 con la nomina del generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri e del funzionario del MiBACT Fabrizio Magani come direttore vicario. Il generale Nistri ha diretto il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale dal 2007 al 2010, sotto i ministri Rutelli e Bondi, recuperando numerosi tesori, tra cui il cratere di Eufronio; Fabrizio Magani, storico dell’arte, è direttore regionale dei Beni culturali e paesaggistici dell’Abruzzo e si è occupato con successo dei cantieri per il restauro nelle zone colpite dal terremoto a L’Aquila. La «task force Pompei» potrà contare anche su un organico di venti funzionari del MiBACT e cinque tecnici, che affiancheranno il direttore e il suo vicario nel non facile compito di riportare sotto controllo le condizioni del sito, Patrimonio dell’Umanità.

Saranno a disposizione anche i fondi stanziati dall’Unione Europea a questo scopo: 105 milioni di euro che potranno essere spesi per i lavori di consolidamento e valorizzazione del sito, oltre naturalmente al completamento degli interventi di restauro e consolidamento, con l’apertura di ulteriori 34 cantieri di restauro, che dovranno però essere conclusi e rendicontati entro il giugno del 2015, pena l’annullamento del finanziamento. P. L. In alto: il generale Giovanni Nistri. A sinistra: il cedimento che ha interessato un edificio sulla via Stabiana.

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scavi Friuli-Venezia Giulia

un centro nevralgico dell’età del bronzo

L

a campagna di scavo condotta nell’autunno scorso in località Ca’ Baredi, nel Comune di Terzo di Aquileia, ha inaugurato il programma di ricerche progettato dall’Università di Udine e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia sui «paesaggi sepolti» della bassa pianura friulana, che ha come obiettivo primario l’indagine della preistoria aquileiese. L’alta antichità della presenza umana nella zona della futura colonia romana era suggerita da sporadici manufatti di rame e bronzo di età protostorica (spade, pugnali, cuspidi di lancia e asce), un periodo in cui l’area, insieme ad altri centri costieri dell’Alto Adriatico, era un importante nodo di traffico e incontro di percorsi utilizzati per le comunicazioni a lunga distanza e per lo scambio di materie prime e prodotti finiti. Saggi di scavo degli ultimi decenni del Novecento avevano inoltre accertato la presenza di nuclei di insediamento, in particolare nell’area urbana di Aquileia (Essiccatoio nord), per la prima età del Ferro (IX-VI secolo a.C.), e, per le fasi piú antiche, nell’area periferica nord-occidentale, presso quello che in età romana sarebbe stato il Canale Anfora (località Ca’ Baredi): qui la presenza di un abitato dell’età del Bronzo Medio e

Recente era testimoniata da un’imponente serie di pali, forse parte di una sorta di perimetrazione del nucleo abitativo collocato su un dosso fluviale moderatamente elevato sull’ambiente umido circostante. La campagna di scavo da poco conclusa si è concentrata proprio su quest’ultimo sito. «Lo scavo – spiega Elisabetta Borgna, docente di archeologia egea del Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali dell’ateneo friulano –, preceduto da una ricognizione archeologica di superficie e da sondaggi geologici e carotaggi, ha condotto da una parte a una consistente raccolta di dati e dall’altra a una lettura del profilo del paesaggio antico: l’area occupata, oltre 10 ettari, era lambita da un antico alveo del fiume Torre, verosimilmente già in parte prosciugato ai tempi in cui fiorí l’insediamento protostorico, ossia durante il Bronzo Medio e Tardo (XV-XII secolo a.C. circa). Le indagini hanno consentito di verificare la consistenza della stratificazione archeologica e hanno rivelato una serie di imponenti focolari, molto ben conservati, che, concentrati in determinate zone, indicano un assetto piuttosto organizzato delle attività comunitarie. Non sappiamo se si tratti di un modello di occupazione caratterizzato da piú

Due immagini del recente scavo in località Ca’ Baredi, presso Aquileia. nuclei di insediamento, forse sviluppatisi secondo uno schema «a macchia di leopardo», o se le strutture appartengano ad aree a destinazione funzionale specializzata. Vari per tipologia e tecniche costruttive, i focolari, riferibili all’età del Bronzo MedioRecente (XIV secolo a.C. circa), sembrano essere stati utilizzati soprattutto per la preparazione e la cottura del cibo, ma forse anche per pratiche artigianali di lavorazione e trasformazione secondaria. I sistemi di delimitazione delle aree di attività, con canalette e muretti, costituiscono ulteriori indizi di una pianificazione regolare dell’insediamento. Quest’ultimo era parte di un ampio ambito culturale a cui si riferisce una serie di abitati collocati a distanze regolari nell’area pericostiera del Friuli-Venezia Giulia dall’Aquileiese al Pordenonese, abitati che costituivano nodi importanti di scambio, in particolare del metallo, tra le regioni alpine orientali e transalpine da una parte e l’Italia padano-veneta dall’altra, con i centri compresi in uno dei piú importanti ambiti culturali dell’età del Bronzo italiana, ossia quello delle terramare». Giampiero Galasso

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

piccoli grandi musei praticamente ignorate dalla legislazione, le raccolte minori sono una risorsa fondamentale e svolgono una preziosa opera di tutela e valorizzazione del nostro patrimonio. ne abbiamo discusso con caterina pisu, coordinatrice dell’associazione nazionale che le riunisce

In alto: il Museo Archeologico Provinciale di Salerno. Qui sopra, a sinistra: il Museo del Bottone di Santarcangelo di Romagna (Rimini). Qui sopra, a destra: uno dei primi tamburelli costruiti con conchiglie al posto dei piatti, esposto nella Casa-Museo della Civiltà Contadina e della Cultura Grika di Calimera (Lecce). Nella pagina accanto: due immagini dell’allestimento del Museo Biddas di Sorso (Sassari).

10 a r c h e o

I

musei italiani, in larghissima maggiornaza, sono di piccole dimensioni. Eppure, la normativa in materia è stata concepita per le grandi raccolte e cosí, a livello istituzionale, la metà dei musei italiani, semplicemente, «non esiste». A partire da questa considerazione, l’11 e il 12 novembre scorso, ad Assisi, si è svolto il IV convegno nazionale dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, organizzazione no profit che riunisce istituzioni e singoli operatori dei beni culturali, con l’obiettivo di valorizzare i piccoli musei che costellano il Belpaese.

Ce ne parla Caterina Pisu, archeologa e coordinatrice dell’associazione. Dottoressa, perché puntare sui piccoli musei? «Perché essere “piccolo” è un grande valore. Piccola dimensione, infatti, significa non solo avere spazi limitati, ma anche allacciare legami piú stretti con il territorio e la comunità locale. Il vero problema dei musei italiani, tuttavia, non è la promozione, ma la gestione. Occorre pensare a competenze e modelli gestionali diversi, piú adatti alle piccole dimensioni. La normativa in vigore è stata pensata a misura dei grandi


numeri, mentre il 90% dei musei italiani è di esigue e medie dimensioni». Quando si parla di «piccolo museo» si fa riferimento alla superficie o al numero di visitatori? «Consideriamo piccoli sia i musei di estensione limitata che quelli cosiddetti “minori”, che cioè non fanno parte dei grandi circuiti del turismo. Nel dibattito di Assisi è stato notato che la normativa attuale non è sostenibile per i musei con meno di 50mila ingressi l’anno. Ma i musei non possono essere considerati utili solo in base al numero dei visitatori! Si devono valutare i benefici che producono per la società: culturali, educativi, sociali e, indirettamente, anche economici». Ma è vero che ci sono piccoli musei, come quello del Bottone di Santarcangelo di Romagna, in provincia di Rimini, che hanno piú visitatori, per esempio, del Museo della Civiltà Romana nella capitale? «Sí, e proprio cosí. Nel 2013 il museo del bottone ha avuto oltre 25mila visitatori, anche dall’estero. Eppure non è considerato un museo dalla normativa attuale. Questo è il paradosso: per la legge, non esiste. Invece rappresenta piú di ogni altro quello che dovrebbe essere un museo: il direttore si mette a disposizione dei visitatori in prima persona e fa persino un dono personalizzato a ciascuno (ai bambini un bottone). Un altro

museo non riconosciuto in base agli standard regionali, che è però riuscito a coinvolgere la comunità locale, è il Museo etnograficoantropologico della Cultura Grika del Salento, a Calimera, in provincia di Lecce: la popolazione ha contribuito persino a formare la collezione, donando gli oggetti di famiglia. Questo mostra come il piccolo museo sia un punto di riferimento e un momento di aggregazione per il territorio, perché rappresenta l’identità stessa della comunità». Quindi il valore dei piccoli musei è di essere una sorta di «specchio» del territorio? «Sí, e per questo, ultimamente, i grandi musei stanno prendendo esempio dai piccoli in materia di organizzazione. Il museologo Kenneth Hudson diceva che un grande museo, per funzionare, deve essere come tanti piccoli musei. Deve cioè riunire le varie realtà del territorio, traformandosi in un punto di insieme. Al tempo stesso deve essere accattivante. Per questo l’accoglienza è un punto fondamentale: il visitatore deve sentirsi “coccolato” e trovare un luogo accogliente, fin dall’entrata». «Piccoli grandi» musei, dunque, che svelano realtà incredibili e, in altri casi, drammatiche… «Ci sono tanti piccoli musei comunali, provinciali e regionali, completamente trascurati, che devono fare i conti con la

mancanza di fondi e il rischio chiusura. Ma ci sono anche realtà che riescono a essere innovative con poche risorse, come il Museo archeologico di Biddas sui villaggi abbandonati della Sardegna, a Sorso, in provincia di Sassari, progettato su un “problema”, cioè lo spopolamento che caratterizza la Sardegna fin dall’antichità. La cosa interessante è che questo museo è stato realizzato con soli 20mila euro, ma è in gran parte multimediale e i visitatori possono scaricare tutta la documentazione sulla propria pen drive o su supporti digitali. Cosa rara, se si pensa che di solito nei musei i divieti, come quello di fotografare e di condividere, sono tanti e rigidi». Ma un museo deve generare reddito? E può essere un motivo di sviluppo, e non di disturbo economico per il territorio, come spesso accade? «Un museo, per sua natura, non può generare reddito. Sarebbe un’utopia: neanche i grandi musei ci riescono. Dovrebbe, però, offrire servizi e riuscire a dare un impulso alla realtà economica del territorio, contribuendo a sviluppare l’indotto, anche turistico. Ho sentito con le mie orecchie dei sindaci affermare “questo museo è un peso”. Invece dovrebbe essere una risorsa su cui contare per uscire dalla crisi, ma questo la politica e le istituzioni non l’hanno capito».

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n otiz iario

musei Calabria

Musei Gran Bretagna

bentornati!

la quadratura del circolo

I

bronzi di Riace sono finalmente tornati nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, la sede originaria da cui mancavano ormai da quattro anni, a causa dei lavori di ristrutturazione. Lo scorso 6 dicembre le sculture sono state trasferite, alla presenza del ministro Bray e delle autorità locali, scortate dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale. Dopo un periodo di acclimatamento all’interno dei nuovi spazi, anche per saggiare la reazione dei recenti restauri, le statue possono essere nuovamente ammirate e la loro esposizione ha segnato la parziale riapertura del museo, anticipata rispetto all’annunciato primo semestre del 2014. L’inaugurazione dell’intero allestimento è prevista per la tarda primavera. Le sculture erano state trasferite dal 2009 nell’atrio del vicino Palazzo Campanella, sede del consiglio regionale della Calabria, una soluzione temporanea che le avrebbe mantenute in sicurezza, permettendo restauri e indagini scientifiche durante i lavori di riallestimento del museo archeologico. Tuttavia, seppure mantenuti in un ambiente sicuro, i bronzi erano sistemati dietro una vetrata, in posizione supina, e la loro «presenza», non segnalata ai visitatori, rimaneva sconosciuta ai piú, rendendone impossibile la fruizione. Inoltre, dall’iniziale progetto di sistemazione temporanea, il loro rientro al museo stava ritardando in modo preoccupante, a causa della mancata conclusione dei lavori di ristrutturazione. Le motivazioni dell’impasse, di cui «Archeo» si è recentemente occupata (vedi n. 345, novembre 2013), sono state individuate in un’iniziale sottostima delle reali esigenze del museo in termini di riallestimento, che hanno portato all’approvazione di un progetto

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In alto: uno dei bronzi di Riace pronto per il trasferimento. preliminare bisognoso di revisione in corso d’opera, con conseguente lievitazione dei costi. Ultimati, infatti, i lavori strutturali nel 2011, sono venuti a mancare i fondi per il completamento degli allestimenti, causando lo stallo dei lavori. Ma, finalmente, grazie al concorso di pressioni e interventi virtuosi, la situazione sembra adesso vedere un lieto fine. Particolare attenzione è stata data all’allestimento e alla sicurezza delle statue nella loro «nuova» collocazione, dove, oltre al consueto monitoraggio delle variabili ambientali, le sculture sono poggiate su speciali piedistalli antisismici. Speriamo che, influenzati da questa benefica tempestività, giungano a felice conclusione anche molte altre gravi questioni in sospeso che tengono in scacco il nostro patrimonio culturale. Paolo Leonini

Dove e quando Museo Archeologico Nazionale Reggio Calabria, piazza Giuseppe de Nava, 26 Orario l’esposizione dei bronzi di Riace è aperta tutti i giorni, dalle 9,00 alle 19,00 Info tel. 0965 898272; e-mail: sba-cal@beniculturali.it; www.archeocalabria. beniculturali.it

C

ompletato in tempo per essere inaugurato prima del solstizio d’inverno 2013, il nuovo centro visite di Stonehenge è il risultato di un investimento di 27 milioni di sterline (circa 32 milioni di euro), e rientra negli interventi previsti dall’English Heritage, per la riqualificazione dell’area adiacente il circolo megalitico. Il monumento, un tempo praticabile e aperto ai visitatori, è recintato dal 1977 per proteggerlo da fenomeni di degrado e danneggiamenti. L’obiettivo del progetto è quello di restituire alle pietre un ambiente piú naturale, e, allo stesso tempo, fornire ai visitatori la possibilità di avvalersi di strumenti interpretativi che


rendano possibile un approccio piú consapevole al sito neolitico. Dal giugno 2013 è stato chiuso al traffico il tratto della vicina strada statale A344 (il cui tracciato è stato già ricoperto di un manto erboso) e sono in corso i lavori per lo smantellamento delle aree di parcheggio circostanti. Il completamento del progetto complessivo di valorizzazione è previsto per l’estate del 2014. Il nuovo centro e museo è ospitato in una struttura dal design innovativo, che si inserisce sobriamente nel paesaggio circostante. È stato posizionato volutamente fuori dalla traiettoria visiva dei monoliti; è previsto infatti che i visitatori attraversino prima le gallerie espositive del centro e, quindi, una volta acquisite piú informazioni sul contesto archeologico e antropologico, vengano accompagnati sul sito a bordo di una navetta. Per chi lo desideri, è possibile anche scendere prima dell’arrivo, e percorrere l’ultimo tratto di strada a piedi. All’interno del centro, gli allestimenti e le gallerie permettono al visitatore di compiere un vero e proprio «salto nel tempo». Un salto che si avvale anche di una tecnologica «macchina del tempo», dato che il percorso di visita inizia proprio con una postazione di cinema immersivo: uno schermo curvo di 10 m, su cui scorrono immagini laser, grazie alle quali i visitatori possono immaginarsi al centro del

In alto: un’immagine del nuovo centro visite di Stonehenge. In basso, a sinistra: la ricostruzione del volto di un uomo vissuto 5500 anni fa. In basso, a destra: la «proiezione» dei visitatori all’interno del circolo. cerchio di pietre, mentre un video mostra l’effetto del sole durante il solstizio d’estate e d’inverno. Quindi, proseguendo nell’esposizione, si susseguono oggetti utilizzati nella costruzione di Stonehenge e reperti coevi, rilevanti per il loro legame con la vita quotidiana, i rituali, le sfide dell’età del Bronzo. Altra installazione d’impatto è la ricostruzione del volto di un uomo di 5500 anni fa (circa 500 prima della costruzione di Stonehenge), ritrovato a circa 2 km dal sito. Sono poi presenti allestimenti all’aperto, con ricostruzioni delle

ipotesi di trasporto dei blocchi di pietra su tronchi, e – in corso di realizzazione – un villaggio neolitico, che sarà costruito nel corso di gennaio da volontari appositamente formati, e quindi inaugurato a Pasqua. Non mancano naturalmente le audioguide, disponibili in 10 lingue e scaricabili da internet. Il nuovo centro visitatori è completamente accessibile, è raggiungibile in auto o pullman (per cui è prevista un’ampia area parcheggio) e dotato di servizio ristorazione e negozio. P. L.

Dove e quando Area archeologica ed Exhibition and Visitor Centre di Stonehenge Nr Shrewton, Wiltshire SP3 4DX Orario tutti i giorni, 9,30-17,00 Info www.english-heritage.org.uk

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n otiz iario

mostre Roma

i sardi «conquistano» villa giulia

È

giunta a Roma la mostra sulla civiltà nuragica già presentata in Sardegna tra il 2012, quando debuttò nel Museo di Ittireddu, e il novembre 2013, quando ha chiuso i battenti al Museo Sanna di Sassari. Nella versione romana, accanto a quelli ritrovati sull’isola, vengono esposti per la prima volta i bronzetti sardi rinvenuti in Etruria meridionale, come la navicella di Gravisca e un eccezionale corredo di bronzi figurati trovato in una tomba di Vulci. Ma chi erano gli abitanti dei nuraghi? Metallurghi straordinari, valenti navigatori e grandi costruttori, che tra il XVII e il IX secolo a.C. impressero la

loro impronta nel panorama delle antiche culture del Mediterraneo. La mostra ne definisce i contorni in quattro sezioni: la prima, Immagini di un popolo, tratta argomenti che vanno dalle monumentali forme architettoniche alle manifestazioni legate alla sfera del sacro. I luoghi e i simboli è invece il titolo della seconda sezione, che documenta le località interessate da questa cultura; nella terza parte, Identità e orizzonti, si pone l’accento sulla funzione di monumento avuto anche in passato da alcune strutture nuragiche, il tutto integrato da ricostruzioni in scala

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Dove e quando In alto: navicella in bronzo nuragica, dal santuario di Hera a Gravisca (Tarquinia). Qui sotto: disegno ricostruttivo di una scena di vita in un abitato nuragico. In basso: bronzetto raffigurante un devoto, da Antas. Sassari, Museo Archeologico Nazionale.

«La Sardegna dei 10.000 Nuraghi. Simboli e miti dal Passato» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16 marzo Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 06 3226571; http://villagiulia.beniculturali.it

reale di interni, di altari e scenari di grande suggestione. Simboli e segni della memoria, la quarta e ultima sezione, si occupa delle riproduzioni di nuraghe e del loro significato nel contesto d’origine, a partire dagli oggetti piú rappresentativi del potere sino a quelli con caratteri cerimoniali. L’iniziativa sostiene la popolazione della Sardegna colpita dall’alluvione attraverso la Caritas-Parrocchia Nostra Signora De La Salette di Olbia (IBAN IT 42 M 03359 01600 100000069823, causale: EMERGENZA ALLUVIONE OLBIA). (red.)



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

parlare all’etrusca L’articolo di Daniele F. Maras che trovate in questo numero (vedi alle pp. 70-77) dimostra come molte parole italiane di uso corrente, derivanti dal latino, siano diretta emanazione 3 dell’originaria lingua etrusca, mentre altre provengano dal greco antico dopo essere state recepite ed elaborate dagli Etruschi (1). Questa volta è impossibile documentare filatelicamente tutti i collegamenti esaminati dall’autore; tra le parole di diretta provenienza etrusco-latina ci sono satellite, mondo, tinozza, zufolo, mentre tra quelle originarie dal greco antico, poi passate attraverso l’etrusco e il latino, ci sono sporta, istrione, persona, lanterna, lucerna. Ma c’è anche l’alfabeto, inteso come sistema, importato dai Greci e poi trasmesso ai Latini. Perciò qui vengono illustrati, a mo’ di esempio, solo alcuni di questi passaggi rimandando alla lettura dell’articolo per le spiegazioni tecniche e scientifiche. Satellite. Tutto inizia da Zatilath, termine etrusco che significa «il guerriero che combatte con l’ascia» (2), cioè l’antenato del «littore» (3) che, in epoca romana, era la guardia del corpo di consoli e imperatori. Ma la responsabilità, nel caso di questa parola, fu di Galileo (4) che chiamò le quattro lune di Giove (5), «compagni di viaggio» (e guardie del corpo) del re dei pianeti, satelles, e quindi satelliti. Zufolo. In etrusco il flautista (6) si chiamava suplu o suvlu, da cui deriva il latino subulo, trasformato poi nell’italiano zufolo, ove il termine si è riferito allo strumento e non piú al musicante. Molti termini di origine teatrale dell’antica Grecia sono stati 9 recepiti dall’etrusco e trasmessi al latino; alcuni sono giunti fino a noi sia pure con un significato diverso: è il caso della parola persona, che deriva da un’identico vocabolo latino che indicava la «maschera» teatrale. Questi sono i collegamenti letterali. Si vuole che la parola derivi dall’azione di per-sonare, cioè alla voce che risuona all’interno della maschera indossata dall’attore. 10 Ma questo termine deriva dal greco prósopon, cioè una «cosa che sta davanti al volto» (7). Il collegamento sarebbe stato impossibile se non ci fossero state alcune rappresentazioni pittoriche etrusche di individui mascherati (forse per esigenze teatrali o cerimoniali) chiamati Phersu (8, cartolina non postale). Queste mediazioni dell’etrusco tra greco e latino sono avvenute anche in altri campi, per esempio quello religioso. I Latini hanno conosciuto Ercole solo attraverso gli Etruschi, per i quali il nome del semidio era Hercle; ciò spiega come sia stato piú semplice collegare la dizione latina Hercules al greco Herakles (9, Ercole combatte con il leone di Nemea). Infine, l’adozione dell’alfabeto. Gli Etruschi lo trasmisero ai Latini, come avvenne per alcune cerimonie religiose e alcune innovazioni tecniche, dopo averlo importato e assimilato da navigatori greci; in Grecia (10) era arrivato, probabilmente, tramite navigatori fenici (11).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

Una precisazione La professoressa Danila Piacentini ci segnala alcuni errori nelle descrizioni di due francobolli pubblicati nella rubrica Dai pittogrammi al telescopio (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013). Il francobollo n. 1 raffigura un kudurru (cippo di confine) in cuneiforme babilonese e non è collegabile con Palmira, ove si usava un alfabeto derivato da quello fenicio. La fig. 11 non è lineare cretese, bensí un esempio di scrittura fenicia arcaica. Ringraziamo la studiosa per le sue puntuali osservazioni e, a parziale giustificazione, rendiamo noto che le descrizioni usate provengono dai cataloghi internazionali che, a loro volta, le traggono dai documenti ufficiali delle amministrazioni postali che emettono i vari francobolli.

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calendario

Italia roma Cleopatra

Palermo Viaggio in Sicilia

Roma e l’incantesimo dell’Egitto Chiostro del Bramante fino al 02.02.14

Il taccuino di Spencer Joshua Alwyne Compton Palazzo Branciforte fino al 23.02.14

Augusto

Ravenna L’incanto dell’affresco

Scuderie del Quirinale fino al 09.02.14

La riscoperta dell’antico

Gli acquerelli di Edward Dodwell e Simone Pomardi Foro Romano, Curia Iulia fino al 23.02.14

Qui sotto: torso del Minotauro, da Roma. Fine del I sec. d.C.

La Sardegna dei 10 000 Nuraghi

Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana Casa dei Carraresi fino al 31.05.14

Palazzo Venezia, Sale quattrocentesche fino al 20.03.14

Mostri

Creature fantastiche della paura e del mito Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino all’01.06.14

Francia PArigi Etruschi

firenze Cortona, l’alba dei principi

Un inno alla vita Musée Maillol fino al 09.02.14

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

lens Gli Etruschi e il Mediterraneo

Lecce Iside a Lecce

Nuove scoperte nella città romana MUSA, Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento fino al 07.03.14

La città di Cerveteri Musée du Louvre-Lens fino al 10.03.14

Lione Antinopoli, alla vita, alla moda

milano Da Gerusalemme a Milano

Visioni di eleganza nelle solitudini Musée des Tissus Musée des Arts Décoratifs fino al 28.02.14

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

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trento La città e l’archeologia del sacro

Treviso Magie dell’India

La Cina Arcaica (3500 a.C.-221 a.C.)

La trasgressione al potere Museo delle Navi Romane fino al 30.01.14

Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo Museo d’Arte della città fino al 15.06.14 (dal 16.02.14)

Il recupero dell’area di S. Maria Maggiore Museo Diocesano Tridentino fino al 23.02.14

Simboli e miti dal Passato Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 16.03.14

nemi (roma) Caligola

Qui sotto: reliquiario a capsella, da Trento, chiesa di S. Apollinare. VII sec.

A sinistra: testa di divinità orientale (Mitra o Attis). II-III sec. d.C.

A destra: ricostruzione di uno degli abiti trovati ad Antinopoli.

A sinistra: formella con busto femminile. Dinastia Gupta.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

saint-romain-en-gal - vienne Gli Irochesi del San Lorenzo, popolo del mais

Gruppo etno-linguistico dell’America Settentrionale, gli Irochesi erano genti agricole riunite nella Lega delle Cinque Nazioni, un’unione formatasi a sud del lago Ontario fra le tribú Onondaga, Mohawk, Seneca, Kayuga e Oneida (e in seguito estesa ad altre tribú). Stanziate sulle sponde del fiume San Lorenzo fino al XVI secolo, queste comunità sono protagoniste di un’ampia esposizione, che riunisce materiali provenienti da siti archeologici scoperti in Quebec, nell’Ontario e nello Stato di New York. I reperti ricostruiscono il modus vivendi del popolo irochese, che basava la propria sussistenza sull’agricoltura e introdusse nella valle del San Lorenzo la coltivazione del mais. La documentazione offerta da questi oggetti è integrata dalle notizie contenute nel resoconto dell’esploratore bretone Jacques Cartier, che incontrò gli Irochesi nel 1534-1535, in occasione del suo primo viaggio in America.

Dove e quando Musée romain fino al 15 aprile 2014 Orario ma-do, 10,00-18,00; lu chiuso Info www.museesgalloromains.com

Germania karlsruhe L’impero degli dèi

Iside-Mitra-Cristo. Culti e religioni nell’impero romano Badisches Landesmuseum fino al 18.05.14

Monaco Pompei. Vivere sul vulcano

Qui sotto: contenitore (poporo) in oro in forma di statuina. Quimbaya, 600-1100 d.C.

Svizzera Resti botanici e simboli della vita eterna nell’antico Egitto Laténium, Parco e museo d’archeologia di Neuchâtel fino al 02.03.14

Gran Bretagna Londra Oltre l’Eldorado

nyon Il grano, l’altro oro dei Romani

Il potere e l’oro nell’antica Colombia The British Museum fino al 23.03.14

Musée romain fino al 02.02.14

zurigo Carlo Magno e la Svizzera

Paesi Bassi

A sinistra: figurina femminile in terracotta. VII sec.

Museo nazionale svizzero fino al 02.02.14

leida Petra

Meraviglia del deserto Rijksmuseum van Oudheden fino al 23.03.14

USA New York Silla: il regno d’oro di Corea

Spagna Casa del Lector fino al 23.04.14

7000 anni di storia di Hallstatt Museo Arqueológico fino al 31.01.14

hauterive Fiori dei faraoni

Kunsthalle der Hypo-Kulturstiftung fino al 23.03.14

Madrid La Villa dei Papiri

alicante Il regno del sale

Qui sopra: rilievo in calcare raffigurante un’aquila, dalla porta del Temenos di Petra.

The Metropolitan Museum of Art fino al 24.02.14

L’ago di Cleopatra

The Metropolitan Museum of Art fino all’08.06.14 a r c h e o 21


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

S

ulla copertina dell’ultimo numero di Biblical Archaeology Review troneggia il volto di Giustiniano, ritratto nel celebre mosaico di S. Vitale, a Ravenna. La sua figura è collegata a un altro mosaico – altrettanto noto e importante, datato anch’esso alla metà del VI secolo – quello conservato nella chiesa di S. Giorgio a Madaba, in Giordania. Ma, oltre alla loro contemporaneità, qual è il nesso tra le due opere? Lo rivela un ampio articolo presentato nella rivista statunitense da Oren Gutfeld, incentrato su uno dei piú grandiosi monumenti cristiani di

Gerusalemme, di cui sono emersi i magnifici resti: la basilica Nea, fatta costruire nel 540 d.C. appunto dall’imperatore Giustiniano.

la chiesa nuova dell’imperatore Al centro del celebre mosaico pavimentale conservato a Madaba (e che ritrae la Terra Santa) figura la città di Gerusalemme. Al centro della città (e, dunque, al centro del mondo!) si riconosce la chiesa del Santo Sepolcro, affacciata su una lunga via colonnata, che attraversa la città, da nord a sud. È il Cardo della città, anzi, il Cardo occidentale La città di Gerusalemme nel mosaico della chiesa di S. Giorgio a Madaba (Giordania). La freccia indica l’edificio identificato con la basilica Nea.

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(poiché la città era attraversata da due strade parallele), che parte dalla Porta di Damasco (sulla sinistra nell’immagine, caratterizzata dalle sue due torri) e si biforca in due. All’estremità meridionale del Cardo è rappresentata un’altra chiesa, di dimensioni notevoli e caratterizzata, come tutte le altre chiese della mappa, da un ampio tetto rosso. La presenza della chiesa, identificata con la basilica Nea, ha sollecitato gli studiosi a interrogarsi su una questione relativa alla topografia dell’antica città rimasta per molti anni dibattuta: a chi si deve la costruzione del grande Cardo centrale di Gerusalemme? Risale all’età bizantina (durante il dominio di Giustiniano, tra il 527 e

il 565, quando fu ritratto dalla celebre mappa) o fu costruito già sotto l’imperatore Adriano, nel II secolo d.C.? I primi passi verso la soluzione del problema furono mossi durante gli scavi condotti da Nahman Avigad, negli anni tra il 1970 e il 1981, nella parte meridionale del Cardo, durante i quali furono portati alla luce gli imponenti resti della basilica Nea. L’indagine del percorso meridionale del Cardo ha rivelato che, diversamente dalla sua parte settentrionale, esso fu interamente realizzato in epoca bizantina. Ma furono i resti della chiesa stessa a confermare datazione e destinazione della via: come si evince dal disegno ricostruttivo dell’edificio, essa era composta da una grande navata

Qui sotto: pianta della città antica di Gerusalemme, dalla quale appare evidente la biforcazione del Cardo occidentale al di là della Porta di Damasco. Le ricerche piú recenti suggeriscono che il tratto meridionale della strada sia stato realizzato per volere di Giustiniano, prolungando il tracciato di epoca adrianea, per congiungere la basilica Nea alla chiesa del Santo Sepolcro.

Porta di Damasco

centrale, affiancata da due navate laterali. Edifici adiacenti ospitavano un ospizio, un monastero e altre strutture di servizio. Un’ampia piazza ellittica, oggi in parte ricostruita, era posta davanti all’entrata della chiesa, in corrispondenza della terminazione meridionale del Cardo. È, dunque, molto verosimile che Giustiniano abbia prolungato il preesistente tratto del Cardo, di epoca adrianea, per congiungere la sua basilica Nea alla chiesa del Santo Sepolcro attraverso una grande via processionale. Secondo lo storico Procopio di Cesarea (500 circa-561), a cui si deve ampia parte delle notizie relative alla basilica giustinianea, l’imperatore avrebbe riportato a Gerusalemme il tesoro del Tempio, trasportato in trionfo a Roma dopo la conquista della Giudea da parte di Tito. Forse Giustiniano considerava la sua basilica Nea come un «nuovo tempio», in grado di custodire il celebre tesoro.

Piazza

Chiesa del Santo Sepolcro Monte del Tempio

Cardo Decumano

Porta di Giaffa Torre di Davide

Basilica Nea

Edifici accessori della basilica

Abside settentrionale

Chiesa e piscina di Siloam

Chiesa di S. Pietro in Gallicantu Porta Nuova

In alto: assonometria ricostruttiva della basilica Nea. A sinistra: planimetria dell’edificio, con, in evidenza, l’area dell’abside settentrionale, nella quale si sono concentrati i recenti scavi.

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corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

rispondere alla crisi

i tagli di bilancio e all’organico mettono a dura prova i musei greci. che provano a reagire con iniziative originali e coinvolgenti

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el difficile frangente economico che il mondo sta attraversando, uno dei settori piú colpiti è quello della cultura. E in Grecia, Paese che non fa certo eccezione, tagli drastici stanno portando a ulteriori riduzioni di personale, con le immaginabili conseguenze per il patrimonio artistico, archeologico e storico. Numerosi siti archeologici chiudono o riducono l’orario per le sopraggiunte carenze di organico; lavori già avviati sono bloccati; e nelle Soprintendenze si fa quel che si può per colmare lacune e disagi ormai all’ordine del giorno. Eppure, tra mille difficoltà, c’è chi continua a difendere la dignità propria e del suo lavoro. In particolare, in questo momento sono i musei a dare l’esempio. Alcuni di essi sono fondazioni di diritto privato, come il Museo dell’Acropoli, che non riceve sovvenzioni statali e deve fare affidamento esclusivamente sul bilancio interno. Nato appena

In questa pagina e nella pagina accanto, in alto: alcune immagini della mostra che il Museo d’Arte Cicladica di Atene ha dedicato al poeta Costantino Kavafis.

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quattro anni fa, questo Museo, promuove attività varie: dalle visite gratuite in inglese e greco alle manifestazioni musicali e ai laboratori, ai pacchetti per le famiglie che, distribuiti gratuitamente, permettono ai bambini di svolgere giochi e attività educative durante la visita.

un poeta al museo Fondazione privata è anche il Museo Goulandris di Arte Cicladica, che, al momento, presenta una mostra archeologica dedicata… al poeta greco Kavafis! Prendendo spunto dalle opere del grande autore alessandrino, questa mostra propone reperti antichi che rimandano piú o meno esplicitamente ai versi del poeta, permettendo cosí di «visualizzarli». Offre in tal modo una chiave di lettura particolare dei poemi di Kavafis, accostando letteratura moderna e cultura antica. Abbinate a un’accattivante promozione delle opere in vendita presso lo shop e ad altre attività, tra cui serate speciali in cui il museo è aperto fino a mezzanotte e cicli di conferenze, queste originali iniziative attraggono numerosi visitatori e curiosi, che pagano volentieri un biglietto contenuto (7 euro quello intero, la metà ogni lunedí) per trascorrere qualche ora in maniera diversa dal solito. Ma le iniziative piú lodevoli sono forse quelle dei Musei statali, che devono fare i conti con ristrettezze economiche, vincoli imposti dalla burocrazia, limitati margini di manovra concessi da un sistema

che sta letteralmente implodendo. Citeremo solo due casi emblematici: il Museo Archeologico Nazionale di Atene e il Museo Archeologico di Tegea. Il primo, il maggiore museo greco, negli ultimi anni sta affrontando difficoltà finanziarie, a cui si è aggiunto il crollo verticale del numero dei visitatori che, scoraggiati dalle deplorevoli condizioni del quartiere, ora felicemente migliorate, preferiscono il piú «comodo» Museo dell’Acropoli.

oltre l’archeologia Grazie all’illuminata direzione di Nikolaos Kaltsàs, che ha ora lasciato il posto a Yorgos Kakkavas, il Museo Nazionale ha saputo aprirsi alla collaborazione con istituzioni straniere, anzitutto le Scuole Archeologiche che hanno sede in Grecia, per allestire mostre, anche di ampio respiro, altrimenti proibitive per il contenuto budget dell’istituzione. A ciò si aggiunge lo zelo del personale che, sebbene debba fare i conti con tagli molto pesanti al proprio stipendio, continua a organizzare iniziative come concerti – finalizzati anche a

rivitalizzare un quartiere difficile – e attività didattiche gratuite. E concludiamo con un cenno al Museo di Tegea, in Arcadia: un piccolo museo provinciale, stipato di tesori, che sta riorganizzando l’allestimento, sfruttando fondi sapientemente ottenuti da programmi europei. Il personale della 39a Soprintendenza, solerte e animato da straordinario spirito di collaborazione, accoglie studiosi anche in questi mesi di chiusura ufficiale; inoltre, ha allestito un sito web che per il momento diffonde immagini dei lavori in corso e presto presenterà le attività del museo (www.tegeamuseum.gr). Si potrà obiettare che questi sono casi limitati, eccezioni in un panorama desolato; ed è vero che tali progetti non dovrebbero essere lasciati all’iniziativa dei singoli e necessitano del sostegno da parte delle istituzioni. Eppure, un punto da cui partire per risollevarsi deve pur esserci: che sia proprio questo? In basso: Atene. L’ingresso del nuovo Museo dell’Acropoli, realizzato su progetto di Bernard Tschumi e inaugurato nel giugno 2009.

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scoperte • pyrgos

i profumi di

venere di Maria Rosaria Belgiorno

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A Cipro, l’isola natale della dea, studiosi italiani portano alla luce un vero e proprio centro industriale dell’età del Bronzo per la produzione di cosmetici: balsami ed essenze a base di ingredienti mediterranei, tra cui... l’olio d’oliva

N

el 2003 la missione archeologica italiana del CNR a Cipro mise in luce una fabbrica di profumi nell’area industriale di un villaggio dell’età del Bronzo Antico e Medio situato a est del porto antico di Amathunte, nel distretto di Limassol, Pyrgos. E la ricerca archeometrica organizzata nei laboratori dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR (già famosi per aver studiato, sotto la guida di Giuseppe Donato, la fabbrica dei profumi di Cleopatra di En Boqeq sul Mar Morto) riuscí a trarre dati sulla composizione delle fragranze che vi si producevano. Seguirono prove di archeologia sperimentale per verificare l’efficienza delle tecnologie estrattive rinvenute sullo scavo, nonché vari tentativi per ricostruire i possibili profumi in uso all’epoca, ben consapevoli del fatto che, non conoscendo le quantità utilizzate di ogni ingrediente, era praticamente impossibile risalire alla ricetta originaria. Su questa scoperta furono organizzate mostre a Cipro, in Italia e in

Europa, che, oltre a riportare in auge l’importanza sociale e commerciale dei profumi nelle antiche civiltà Mediterranee, riaccesero la discussione sull’origine cipriota del mito di Afrodite, dea della bellezza.

la prima distillazione In quell’occasione si rinvenne un corredo di utensili di pietra, macine, mortai e pestelli, insieme a decine di vasi di eccellente qualità tra cui spiccavano due completi apparati per distillare, che predatano la co-

noscenza della distillazione di 2600 anni. Grazie a loro, si ebbe la conferma che tale pratica era già nota nell’età del Bronzo, confermando l’identificazione di altri apparati frammentari, trovati in Mesopotamia, in Sardegna e a Creta. Tra gli utensili si rinvennero anche tavolette di scisto quarzifero e un raro mortaio multiplo per cosmetici, unico anche per le 14 coppelle di cui era composto, che indicava una possibile produzione di prodotti cosmetici e farmaceutici,

Nella pagina accanto: Nascita di Venere, olio su tela di William Adolphe Bouguereau. 1879. Parigi, Musée d’Orsay.

Piccoli contenitori per il trasferimento delle essenze, dagli scavi della fabbrica di profumi a Pyrgos. Inizi del II mill. a.C.

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scoperte • pyrgos A destra: l’isola di Cipro, con, in evidenza, il sito di Pyrgos. Qui sotto: planimetria del laboratorio per la produzione di cosmetici scoperto nel 2012. In basso: area di lavorazione con accumulo di pendagli di conchiglia e picrolite verde grezzi, semilavorati e finiti, utensili e selci per la lavorazione, a testimonianza della polifunzionalità del laboratorio.

Dipkarpaz

Keryneia Güzelyurt Nicosia Páno Panayiá Pàphos

Famagosta

CIPRO M

on

ti Tro o dos

Larnaca Pyrgos

Limassol Episkopi

Kourion

Amathous

Baia di Akrotiri Penisola di Akrotiri

Mar Mediterraneo

connessa all’estrazione delle fragranze profumate. Negli anni successivi la prosecuzione degli scavi delineò il carattere industriale del complesso architettonico, che si trovava originariamente in posizione centralizzata rispetto all’abitato circostante. Le strutture emerse appartengono, infatti, a laboratori e botteghe artigiane che producevano mercanzia pregiata come profumi, farmaci, bronzi, tessuti e

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A destra: lo scavo di una grande giara, trovata accanto alla banchina centrale della corte interna all’ambiente Sud. In basso: una veduta d’insieme del laboratorio dei cosmetici.

vino. Considerando che il villaggio preistorico si trova a soli 4 km dalla costa, dove ancora sono attivi due piccoli ancoraggi, e che l’area industriale si trovava al centro dell’insediamento lungo il principale asse viario che collegava i villaggi dislocati a corona del golfo di Limassol, si è ipotizzato che gli abitanti commerciassero attivamente e che il luogo fosse rinomato per le immense risorse minerarie e la produzione di beni «di lusso», quali, appunto, i tessuti, i profumi e le spezie.

ingredienti autoctoni L’indagine archeometrica rivelò che tutte le sostanze utilizzate provenivano dalla flora dell’isola e che (nei limiti delle campionature esaminate) non c’erano ingredienti provenienti dal mercato estero come l’incenso e la mirra largamente utilizzati in Egitto fin dal IV millennio a.C. Sono le stesse piante

utilizzate per produrre l’antico profumo Kypros, il Myrtinum e l’Amarikinon di cui Plinio il Vecchio e Dioscuride riportano la ricetta del periodo romano. Benché la fabbrica dei profumi fosse situata in un vasto ambiente che ospitava anche la pressa per l’olio d’oliva e un magazzino per le giare, strumenti e materiali simili a quelli della profumeria, come imbuti, mortai e portaprofu-

mi furono trovati anche in ambienti limitrofi, cosa che fece ipotizzare che questa attività si svolgesse anche in altre botteghe piú piccole (vedi «Archeo» n. 278, aprile 2008). La scoperta della profumeria di Pyrgos ci ha costretto e a riesaminare la storia dei profumi di Cipro ed è stato possibile accertare che l’isola, nonostante le dominazioni, i conflitti e i disastri naturali non ha mai cessato di produrre sostanze aromatiche, profumi e cosmetici. Tanto che l’unica base olfattiva che porta il nome di un luogo geografico, Chypre, è stata recentemente riconfermata da Fragonard tra le sette famiglie olfattive del mondo.

ricerca e tradizione L’approccio multidisciplinare dell’indagine testimonia lo spirito di cooperazione che ha alimentato la ricerca stessa, al fine di ricostruire gli elementi della piú antica civiltà cipriota, facendo emergere, rafforzando e consolidando la continuità di una delle tradizioni piú antiche. Il tutto, senza tradire le sue origini fondamentali, per creare sinergie tra la ricerca scientifica e l’eredità umanistica, unitamente all’intento di conservare e trasmettere parte di un’identità culturale che possiamo considerare mediterranea. Alla fabbrica dei profumi si aggiunge oggi una seconda scoperta che a r c h e o 29


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i colori della vanità L’oggetto denominato «paletta cosmetica» è una lastra sagomata di pietra, quarzite o scisto basaltico, di spessore variabile da 1 a 3 cm sulla cui superficie erano mescolati colori ottenuti dallo sfarinamento di ocre o di minerali compositi tipo malachite e turchese. Sporadici esempi di palette, generalmente frammentarie, provengono da diversi contesti neolitici mediterranei, ma è l’Egitto predinastico che ha restituito il numero piú rilevante e le realizzazioni piú elaborate di questi oggetti, dedicati alla cura del proprio aspetto. Oltre a costituire una caratteristica culturale del periodo a cavallo tra il IV e il III millennio a.C., le palette Egiziane assunsero valori di prestigio personale fino ad assumere valenze politiche e di potere in ambiente faraonico. La loro collocazione nei corredi funebri (dal Fayyum alla Nubia e dalla Libia al Sudan) ha permesso anche di valutare lo stato sociale del defunto a seconda della presenza o assenza della tavoletta cosmetica nel corredo, nonché della raffinatezza o semplicità dell’oggetto stesso. accompagna la prima, quella di un Il corpus tipologico di queste palette, comprendente anche le piú laboratorio di cosmetici e monili, e semplici e frammentarie, conservate in massima parte nel Petrie a quella si affianca nel fornire altri Museum of Egyptian Archaeology di Londra, fu stilato da Sir William elementi che confermano come il Matthew Flinders Petrie nel 1910 e costituisce ancora oggi un valido mito di Afrodite dovesse gioco forza strumento di confronto anche per Cipro. Occorre, tuttavia considerare nascere a Cipro. Le motivazioni che che, a differenza dell’Egitto, le palette cipriote non sono state ritrovate nei hanno portato all’allestimento di un corredi funebri, ma nei contesti insediamentali, generalmente in centro commerciale come quello di associazione all’utilizzo dell’ocra come pigmento, in siti neolitici e Pyrgos alla fine del III millennio calcolitici, mentre sporadici esemplari provengono da abitati dell’età del a.C. possono essere diverse, ma si Bronzo Antico e Medio. basano principalmente sulla realizLa considerevole quantità di palette rinvenute a Pyrgos (ben oltre un zazione di economie differite, con centinaio, calcolando le 70 dal laboratorio dei cosmetici del 2012 e le (segue a p. 36) oltre 40 trovate negli altri ambienti), benché giustificabile dalla presenza di un contesto industriale, costituisce un caso unico e un raro esempio di utilizzo strumentale di tavolette di pietra per la Le palette cosmetiche: produzione, presumibilmente a scopo commerciale, di cosmetici e belletti. La presenza di questi oggetti, accompagnati dai tipologie a confronto relativi pestelli in altri ambienti collaterali al laboratorio indagato egitto Cipro Pyrgos nel 2012, fa supporre che piú di una bottega di produzione si sia Petrie Museum avvicendata nell’area industriale nel corso dell’età del Bronzo occhio Antico e Medio. Il confronto delle palette di Pyrgos con quelle «non configurate» egiziane ha permesso di isolarne alcuni elementi identificativi, che le rendono uno strumento maneggevole: disco • lo spessore è tra 1 e 3 cm, generalmente intorno a1,5 cm; • la forma è arrotondata (per quelle di basalto) o rettangolare (per quelle di quarzite), con i bordi accuratamente tagliati e smussati, spesso con una sorta di invito o taglio trasverso a trapezio un’estremità, in modo da poter essere impugnate con una mano, mentre l’altra mescola o impasta il colore sopra la superficie con una spatola di legno o un pestello di pietra. losanga • la superficie destinata all’uso si differenzia da quella non adoperata poiché risulta liscia e levigata. • una concavità rotondeggiante piú o meno pronunciata formatasi dall’uso e dallo sfregamento delle spatole si nota al rettangolo centro del lato utilizzato. Seguendo il corpus del Petrie sono state definite 6 tipologie distinte: a occhio, a disco (rotondo e ovale), a trapezio, a rettangolo losanga, a rettangolo squadrato e a rettangolo allungato. allungato

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In alto: palette cosmetiche, mortai e pestelli in basalto e quarzo dal laboratorio di cosmetici. Nella pagina accanto, in alto: un’altra area di lavorazione, con un pendente a idolo finito.

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cipro, afrodite e la cosmesi: una questione di marketing... di Alessandro Lentini

Le ricerche archeometriche sono state attivate sui residui di impasto prelevati sulla superficie delle palette, identificati cromaticamente e suddivisi in quattro gruppi: bianchi, grigio chiaro, bruno terra di Siena, giallo e rosso. Le analisi hanno rivelato un quantitativo di Piombo, con valori compresi tra il 35 e il 52%, corrispondente a una percentuale che suggerisce la preparazione di un composto simile alla biacca (PbCO3)2. Pb (OH)2), un pigmento bianco, inorganico, tossico, a base di piombo. La biacca, oltre a essere tra i colori piú conosciuti e usati nella pittura su tavola e nelle miniature, fu largamente utilizzata, nonostante la sua nocività, come cosmetico per le sue qualità coprenti. In alcune palette sono state identificate due tipologie diverse di ocra, relative ai colori giallo e rosso, prevalentemente costituite da ossido idrato di ferro (FeO (OH) nH2O), che si trovano normalmente vicino alle miniere di rame (famose a Cipro quelle di Ambelikou, Apliki, Skouriotissa e Mathiati). Della stessa origine sono le terre rosse e brune, caratteristiche dei sub areali Mediterranei, composte in prevalenza da ematite (Fe2O3 • nH2O). I caratteristici suoli rossi di Cipro indicano la presenza di molte varietà di ossidi di ferro, con diverse proprietà cromatiche relative alla presenza o assenza d’acqua. Depositi di ocra rossa e terra d’ombra (la ben nota «umbra») sono noti in tutta l’isola e furono ampiamente utilizzati come scorificanti nell’estrazione del rame, come dimostra la composizione dei milioni di tonnellate di scorie che caratterizzano il paesaggio circostante le storiche miniere di rame dell’isola. Inoltre, durante la prima fase analitica, relativa all’essiccamento in muffola dell’acqua igroscopica presente nei sedimenti selezionati, sono stati osservati alcuni viraggi di colore verde, rosso, blu e bianco. Le prime osservazioni allo stereomicroscopio hanno evidenziato per alcuni di questi sedimenti una serie di aggregati con abiti pseudocristallini, tridimensionali, dalla morfologia cubica o romboidale. I sedimenti presentano vari gradi di soprasaturazione di elementi che hanno nuovamente cristallizzato dei centri (germi) già esistenti, secondo un processo già noto nelle descrizioni di Aristotele relative al cloruro di sodio e in quelle di Plinio il Vecchio relative al solfato di rame. Nell’identificazione del pigmento verdastro, i sedimenti flocculati in pseudoreticoli cristallini sono stati portati in 32 a r c h e o

soluzione con diversi metodi (acqua deionizzata acidificata, acidi e basi forti a caldo). Nei cristalli di colore bianco si sono notate composizioni diverse: in una è presente il magnesio (MgCl2), nella seconda il sodio (NaCl). I cristalli di colore blu sono caratterizzati dalla presenza di rame (CuSO4), il verde e il rosso da una argilla dalla composizione particolare, ricca di silicati, alluminio, ferro e magnesio (Mg2+ Fe2+ Fe3+ Al3). Tra le sostanze identificate ci sono due tipi diversi di composizioni saline: il cloruro di sodio normalmente disciolto in acqua di mare, che a Cipro si trova anche sotto forma di salgemma minerale, e il cloruro di magnesio, presente in natura nelle marcite e nei laghi salati, caratteristici del paesaggio costiero cipriota, nella penisola di Akrotiri, nel golfo di Larnaca e in quello di Famagosta, dove i fiumi stagionali, prima della costruzione delle dighe per le riserve d’acqua, creavano lagune e paludi, ricche dei sali minerali, trascinati dal dilavamento delle acque dai giacimenti ofiolitici del massiccio della Troodos di Cipro. Di particolare interesse è l’uso dei sali di rame (CuSO4. 5H2O), esistenti in diverse concentrazioni, ampiamente utilizzati e commerciati per scopi farmaceutici anche nella tarda età imperiale (come testimoniano gli scritti di Zosimo di Panopoli e Galeno) e nel Medioevo, come riporta Francesco Balducci Pegolotti, gonfaloniere della compagnia dei Bardi a Firenze nel 1300 nel suo trattato La Pratica della mercatura, dal quale provengono preziose informazioni anche sulla continuità del commercio delle spezie e delle fragranze cipriote, inclusa la resina del Laudano (Cistus Laudaniferous) simile alla mirra. In parallelo con le metodologie tossicologiche, le soluzioni estratte da questi sedimenti, trattate con la reazione di Bellier, si sono colorate di rosso, per la presenza di alcuni acidi grassi caratteristici dell’olio d’oliva. La presenza di olio di oliva e sali di sodio e magnesio rimandano a un qualcosa di simile alla nota composizione dermatologica «scrub» o «gommage», adoperata per rimuovere i depositi organici e le cellule morte dell’epidermide, in cui si ha l’associazione nutriente, antinfiammatoria e rigenerante dell’olio di oliva con il magnesio, dalle molteplici proprietà fisiologiche che ostacolano la penetrazione delle sostanze tossiche nelle cellule epiteliali. L’uso del sale marino nei diversi


Lekythos (bottiglia per oli e profumi) sagomata, con figura di Afrodite che sorge da una conchiglia, circondata da due amorini. MetĂ del IV sec. a.C. Boston, Museum of Fine Arts.

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scoperte • pyrgos A destra: una tavoletta sottoposta alle analisi di laboratorio. Trattato con una soluzione che innesca la reazione di Bellier, il reperto si colora di rosso, prova della presenza di acidi grassi tipici dell’olio d’oliva. Nella pagina accanto: un ramo d’olivo con i suoi frutti.

preparati farmaceutici è attestato a Cipro già nel periodo romano ed è ancora oggi commercializzato (per esempio il sale nero di Cipro) per i preparati galenici contro disturbi intestinali e intossicazioni. Anche i sali di solfato di rame, ampiamente utilizzati e commerciati per le proprietà disinfettanti e astringenti (Plinio) sono ancora oggi considerati un importante ingrediente farmaceutico nel Sistema di Classificazione Anatomico Terapeutico e Chimico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Infine i test eseguiti con il reattivo di Lugol hanno dato un riscontro positivo per la presenza di amido di frumento, ingrediente che si rigonfia in acqua calda e può essere usato come addensante o adesivo. La soluzione acquosa colloidale a temperatura ambiente forma la salda d’amido per una parziale condensazione dell’amido, che acquista anche una certa insolubilità in acqua, associata alla sua igroscopicità. Questa soluzione è stata utilizzata fino a un passato recente, come emolliente per la pelle e come protettivo per le infiammazioni, incluse quelle dello stomaco. L’amido è presente nelle composizioni di polveri cosmetiche pediatriche e nel «talco» cosmetico, ma è sempre stato impiegato come sostanza inerte per dare consistenza e forma a molti prodotti cosmetici e coloranti di diversa natura. I risultati delle indagini preliminari condotte sui sedimenti selezionati su alcune tavolette cosmetiche, consentono di svolgere alcune brevi considerazioni sulla provenienza delle sostanze evidenziate e sul paesaggio naturale antico. La presenza di piombo potrebbe essere un elemento indicativo sulle conoscenze relative alle ofioliti dei Monti Troodos e alle miniere di rame dell’isola, mentre i sali riscontrati in molti dei sedimenti analizzati rimandano a ingredienti specifici per composizioni cosmetiche o farmaceutiche. Le argille minerali, caratteristiche dell’isola, mostrano un’attenta conoscenza delle loro proprietà e potenzialità cosmetiche e curative, nonché del sistema di approvvigionamento e sfruttamento dei giacimenti. Questi elementi uniti alla presenza di olio di oliva (peraltro riscontrati nei diversi ambienti del contesto industriale di Pyrgos) possono confermare l’ipotesi già avanzata dai risultati delle analisi effettuate nella fabbrica dei profumi, circa l’impiego dell’olio di oliva come matrice di base per preparati officinali. 34 a r c h e o

Gli amidi di frumento rilevati per la prima volta a Pyrgos sembrano integrare le testimonianze archeologiche e archeobotaniche per le numerose mole di pietra scoperte e per i microresti vegetali di varie specie di grano (Triticum dicoccum, Triticum monococcum, Triticum durum e Triticum sp.) recuperati durante le campagne di scavo 2004-2008. Pertanto, l’indagine archeometrica, benché condotta su un esiguo numero di tavolette, rappresenta un primo interessante approccio nell’identificare l’utilizzo e la provenienza delle materie prime impiegate nella produzione dei preparati officinali e per la manifattura di composti che preludono a forme di cosmesi verosimilmente già note in questo periodo. Se è vero che la continuità sulla produzione dei profumi ciprioti è attestata nei secoli dalla documentazione storico-letteraria e dai profumi diffusi in tutta la «Vecchia Europa», è altresí innegabile e a tutti noto che il cosmetico piú diffuso e rinomato al mondo è stato ed è la cipria, i cui contenitori hanno fornito occasione di altissime espressioni d’arte e artigianato, dai metalli preziosi, alla tartaruga, dal vetro alla porcellana. Non meno noti e usati fin dal periodo predinastico egizio, sono il trucco per gli occhi, il fard per le guance e il rossetto per le labbra. Prodotti che si avvalgono delle ocre naturali di Cipro, materiale primario rinvenuto nel laboratorio di Pyrgos, ancora oggi preferito dall’industria cosmetica poiché ritenuto tra i migliori del mondo. La scoperta del laboratorio dei cosmetici si affianca quindi a quelle l’hanno preceduta (www.pyrgosmavroraki.eu; www.pyrgos-archea.it), completando e avvalorando il carattere industriale, commerciale e sociale del sito. Infatti, l’insieme dei prodotti che sono identificabili nel materiale rinvenuto nel complesso industriale e commerciale di Pyrgos/ Mavroraki può essere considerato il pacchetto dell’età del Bronzo che ha trasformato Cipro in un Paese commerciale competitivo durante il II millennio a.C. come ben dimostrano le mercanzie rinvenute nei vascelli naufragati, come quello di Uluburun, e le citazioni nelle tavolette commerciali micenee ed egiziane. In questo «pacchetto» è inclusa la cultura materiale legata alla posizione geomorfologica di Pyrgos, in cui era possibile trovare tutte le risorse per produrre manufatti e beni effimeri per uso privato e per il mercato d’élite. Come ha dimostrato l’indagine archeometrica, la


produzione di beni accessori a Pyrgos nell’età del Bronzo Antico e Medio si è basata non solo su una elevata conoscenza tecnologica, ma anche su un contesto agricolo fortemente diversificato per la presenza di tutti gli elementi che costituivano fin dal Neolitico il cosiddetto «pacchetto agricolo «del Mediterraneo orientale. Attraverso i dati raccolti in dieci anni di ricerche, possiamo dividere il pacchetto in 7 categorie funzionali: • Olio e vino (utilizzati anche come ingredienti industriali) • Metalli (soprattutto rame e sue leghe) • Fibre tessili, vegetali e animali (inclusa la seta selvatica) • Cura del corpo (profumi, cosmetici e rimedi farmacologici) • Stato sociale (gioielli, ciondoli, collane, ferma-trecce, tessuti preziosi) • Strumentalità in pietra (intesa come risorsa tecnologica diversificata, a basso costo). Questo pacchetto conteneva tutte le variabili che non possono mancare in un sistema produttivo evoluto, caratterizzato da alternanza stagionale e organizzazione altamente strutturata del lavoro, affiancato alla straordinaria ricchezza mineraria dell’isola che supportava la qualità dei prodotti di Cipro, rinomati già dalla metà del II millennio a.C (come testimoniano le tavolette micenee in Lineare B, le lettere di Tell el Amarna o i poemi biblici e omerici). Fu l’inizio voluto o casuale di una fama che portò l’isola a essere identificata con una divinità, poiché il commercio dei prodotti di Cipro non si basava certo sulla quantità, dato il numero esiguo degli abitanti e degli artigiani, ma sulla qualità. Una dote per eccellenza, che nell’antichità era considerata un’arte divina, cosí come ogni espressione tecnologica troppo «ardita e avanzata» per essere considerata frutto della mente umana. In proposito, è curioso notare che, tranne il vino, riferito al toro e a Dioniso, l’intera alta tecnologia

«mediterranea» fu in seguito considerata frutto di due divinità femminili: Atena per la tessitura, la metallurgia, l’ulivo e l’olio, e Afrodite per i profumi, i cosmetici e il rame. Dopo la metà del II millennio a.C, la maggior parte di queste categorie di prodotti non hanno sostenuto il confronto con la produzione dei Paesi d’oltremare, fatta eccezione per il settore dei profumi e dei cosmetici legati al mito di Afrodite che, lungi dallo scemare, invase i campi della bellezza e della religione. A questo proposito, si può ragionevolmente ipotizzare una mirata propaganda cipriota nel collegare i prodotti dell’isola al mito della bellezza per eccellenza. Sta di fatto che la fama di Cipro e Afrodite è ancora presente nel mercato mondiale, basti pensare alla «cipria», a Chypre, una delle sette famiglie olfattive di profumi, al verbo «venerare», da Venere, nome latino di Afrodite, sinonimo di rispetto e preghiera verso la divinità, nel senso piú pieno del termine (vedi anche, in questo numero alle pp. 110-111). Considerando questi dati, sembra proprio che la Cipro del II millennio a.C. sia riuscita nel primo tentativo della storia di pubblicizzare i propri prodotti, creando intorno a loro un mito. Lo stesso tipo di informazione mediatica che è ancora oggi usato per pubblicizzare le nuove nuance di profumo e i prodotti di bellezza che vengono di solito presentati da indiscutibili icone femminili dello spettacolo. Tutte le antiche divinità mediterranee sono connesse in qualche modo con la storia del profumo, e tutte le religioni antiche hanno usato aromi e tinture particolari nei loro rituali. Ma la piú famosa di queste divinità è certamente Afrodite, la dea per antonomasia della bellezza, che non poteva che nascere in un’isola dove, molti secoli prima che lei si affacciasse al mondo (considerando Esiodo il padre del suo mito), già si producevano prodotti destinati ad accrescere e favorire il fascino della donna e forse non solo il suo. a r c h e o 35


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l’intento di diversificare la produzione per ridurre i rischi di perdite e di accumulo dei prodotti. La posizione dell’impianto a ridosso di due ancoraggi in un’area ricca di minerali e di piante aromatiche, gioca un ruolo di primaria importanza sia per l’approvvigionamento delle materie prime che per la mobilità dei prodotti e fu probabilmente la base della spinta commerciale. La studio del modello di insediamento e della localizzazione dell’impianto può favorire la creazione di ipotesi funzionali circa un’economia commerciale volta al mercato interno e d’oltre36 a r c h e o

mare, che era riuscita a organizzare lare e presenta due ingressi distinti: una catena produttiva e distributiva uno al centro, a sud, e uno sul lato pienamente efficiente. opposto nell’angolo di nord-ovest. Un terzo passaggio, ancora da definire, aperto nel muro Nord, verso indagine parziale Scoperto nel 2012, il nuovo edificio l’estremità Est, collegava probabilè adiacente l’area di culto dall’ori- mente la stanza al secondo ambienginale pianta triangolare, separato te, di cui solo una parte del muro dal resto dell’area industriale da una Est, in linea con quello della stanza larga strada che attraversa diagonal- precedente, è stata portato alla luce. mente l’insediamento, da est a ovest. La tecnica costruttiva dell’edificio è A causa delle forti piogge che han- quella caratteristica del Bronzo Anno caratterizzato l’autunno cipriota tico e Medio, con muri di mattoni del 2012, delle due stanze di cui si crudi, poggianti su fondazioni in compone è stata investigata solo pietrame dello spessore variabile dai quella Sud. L’ambiente è rettango- 40 a agli 80 cm.


La stanza ha una pianta diversa da quella degli altri ambienti messi in luce: è formata da due perimetri pseudorettangolari, uno all’interno dell’altro, con ingressi in asse. I confronti disponibili suggeriscono che si tratti di un vano a cortile interno, con tettoia su tre lati che proteggeva l’ambiente di lavoro, illuminato dalla grande apertura centrale. Esempi di costruzioni strutturate in questo modo si hanno nelle case sumeriche, spesso distribuite su due livelli abitativi, collegati da una scala interna. Il ritrovamento dei buchi per i pali di sostegno della tettoia

punto di vista lavorativo, ma di difficile confronto con architetture cipriote dell’età del Bronzo. Soluzioni simili sono infatti comuni nelle case tradizionali del Marocco e del Vicino Oriente dei secoli piú recenti, anche se l’apertura sul soffitto, giustificabile per gli usi piú diversi (tra cui l’accesso alla superficie del tetto per la lavorazione e l’essiccazione dei prodotti agricoli) è nota in Anatolia fin dall’VIII millennio a.C. (Çatal Höyük). Si trattava, comunque, di aperture molto piú piccole, mentre quella della stanza-laboratorio di Pyrgos crea

L’architettura di alcuni ambienti ha caratteristiche che li avvicinano a modelli attestati nel Vicino Oriente conferma che il perimetro interno era aperto e le strutture che lo delimitavano erano utilizzate come banchine d’appoggio e divisori delle attività che vi si svolgevano. Il lato Ovest interno ha un andamento irregolare, in parte curvilineo, che sembra riutilizzare un tracciato piú antico, inglobato dopo diversi episodi di ristrutturazione, mentre il lato Est della stanza è caratterizzato da una banchina a semicerchio vicino all’ingresso. Abbiamo quindi una sorta di corte squadrata su tre lati, all’interno di una stanza rettangolare, estremamente funzionale dal

proprio una piccola corte interna. La pianta sembra studiata non solo per dare piena luce allo spazio lavorativo, ma anche per garantire una certa riservatezza al luogo. Al centro di questa piccola corte c’era una grande giara, sistemata accanto alla banchina centrale, costruita con pietrisco e calcina utilizzando il dislivello del terreno. L’alloggiamento di due pali, posizionati davanti all’ingresso e al centro della banchina a semicerchio, indica la posizione della trabeazione che sosteneva la tettoia su tutti e quattro i lati interni della stanza. Nella pagina accanto: un momento dello scavo, con la griglia per consentire il posizionamento in pianta dei reperti. A sinistra: oggetti finiti in picrolite, rinvenuti durante lo scavo. Si riconoscono pendagli, «perle» e palette cosmetiche.

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Nell’area coperta dalla tettoia lo spazio lavorativo, scandito dai pali che sostenevano la tettoia, era organizzato in modo diverso nel lato Est e in quello Ovest. Subito accanto alla porta, a ridosso della banchina semicircolare, c’è inoltre un angolo attrezzato con una robusta lastra di basalto, perfettamente piatta e liscia, fissata al suolo con numerosi ciottoli di andesite e quarzite legati da malta calcarea. Accanto, una profonda fossa scavata nella roccia, serviva da ripostiglio per utensili e oggetti in lavorazione. Nell’angolo di nord-est il crollo di una struttura aggiuntiva suggerisce la posizione di una scala di legno a pioli e l’esistenza di un soppalco interno, elemento spesso presente nelle case cipriote fin dal periodo neolitico. Proseguendo, nel settore Est si notano sul pavimento altre fosse: alcune intonacate, altre rifinite con frammenti di bacili riutilizzati, altre con piccole macine incastrate nel fondo.

verso l’abbandono Sparso all’intorno, il ricco repertorio di mortai, macine e centinaia di utensili litici in pietra levigata e da taglio, testimonia che il laboratorio era in piena attività quando fu abbandonato. Di notevole interesse sono le circa 70 palette cosmetiche in quarzite e basalto che, insieme ai numerosi grumi di ocra di diverso colore, costituiscono una documentazione rarissima sul sistema di produzione dei cosmetici all’inizio del II millennio a.C. Nello stesso ambiente decine di conchiglie e 27 oggetti di picrolite verde, riferibili a tutti i diversi stadi di lavorazione dal materiale grezzo al monile finito, testimoniano la plurifunzionalità del laboratorio interamente dedicato alla bellezza. Il repertorio ceramico indica una continuità abitativa dalla fine del III millennio a.C. all’inizio dell’età del Bronzo Medio, un periodo che dovrebbe coincidere con l’abbandono 38 a r c h e o

del laboratorio, poiché non sono stati trovati frammenti ceramici della cosiddetta «metallic ware», cioè della Red Polished IV – classe diagnostica del Bronzo Medio II –, di cui esiste un vasto repertorio proveniente dall’adiacente fabbrica dei profumi, allestita probabilmente in quel periodo. Considerando il fatto che alcuni elementi strumentali caratteristici del laboratorio dei cosmetici sono presenti anche nel repertorio rinvenuto nella fabbrica dei profumi, è possibile che questo laboratorio fosse adibito anche alla lavorazione delle essenze e che sia stato abban-

donato per trasferire l’attività nella stanza piú grande, nell’età del Bronzo Medio I. Un’ipotesi che giustificherebbe la presenza di alcune palette nel laboratorio dei profumi identificato nel 2003. Gli elementi datanti di cui si è tenuto conto sono quindi, oltre ai frammenti ceramici: i pendagli e gli oggetti in picrolite, gli utensili in pietra levigata, scheggiata e osso, le fusaiole, le scorie di rame e i frammenti di crogioli, di metallo e di vetro. A questi si aggiungono i minerali e i materiali paleo-organici, quali le ossa, i semi, i pollini, le conchiglie e le fibre tessili.

In alto: vasetti dell’età del Bronzo Antico III, dalla fabbrica dei cosmetici. In basso: una pisside della classe White Painted IV, la cui presenza a Pyrgos prova l’esistenza di scambi commerciali ad alto livello.



mostra française di roma mostre • nome istituzioni • l’École

antiche sale

per le

di Franco Bruni

gioiello del rinascimento romano, palazzo farnese ospita, da oltre un secolo, l’École française de rome. un’istituzione fra le piú importanti negli studi di antichità, la cui ricca biblioteca è un punto di riferimento essenziale per studiosi e studenti

S

i avverte un’emozione p a r t i c o l a re v i s i t a n d o l’École française de Rome e la sua biblioteca. Nelle varie sale, i grandi soffitti a cassettoni con gli stemmi araldici dei Farnese fanno respirare l’antica storia del palazzo. Al rigore e all’elegante sobrietà degli ambienti si accompagna una ricca comunità di lettori, assidui frequentatori della biblioteca, tra i quali non è raro imbattersi in noti luminari della storia e dell’archeologia che, accanto a un pubblico di giovani studenti e studiosi alle prime armi, compongono una «fauna» locale quanto mai diversificata e vivace. Non sono molti gli istituti culturali stranieri a Roma che hanno il privilegio di «soggiornare» in prestigiosi palazzi patr izi e, tra questi, l’École française de Rome vanta, dal 1873, insieme all’Ambasciata di Francia, una permanenza ultracentenaria nel rinascimenta40 a r c h e o

le palazzo appartenuto alla nobile famiglia originaria della Tuscia viterbese.

dai farnese ai borbone Infatti, con una sua specifica vocazione rappresentativa, il palazzo è stato in piú occasioni legato alla Francia. Fu sede delle rappresentanze presso la Santa Sede, fino a quando, nel 1875, i Borbone – succeduti per motivi dinastici all’ultima rappresentante della famiglia, Elisabetta Farnese – si trasferirono a Napoli con la proclamazione di Roma capitale, cedendo il piano nobile del palazzo all’Ambasciata di Francia presso il Regno d’Italia e i restanti piani alla nascente istituzione francese dedita all’archeologia. Concepita nel 1873 come sezione «romana» dell’École française d’Athènes, sotto la (segue a p. 44)


Roma, Palazzo Farnese. La sala di lettura principale della biblioteca dell’École française de Rome, che ha sede nel prestigioso edificio dal 1874.

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istituzioni • l’École française di roma

Una scuola dagli orizzonti sempre piÚ vasti A colloquio con Catherine Virlouvet L’attuale direttrice, Catherine Virlouvet, professore ordinario di storia antica all’Università di Aix-Marseille, può definirsi a giusto titolo una delle colonne portanti dell’École française, di cui ha fatto parte come membro nel triennio 1983-1985, e, in seguito, come direttrice di studi per l’antichità dal 1993 al 1999. Proveniente dalla scuola di Claude Nicolet – già direttore dell’École (1992-1995) – si è imposta per i suoi studi e approfondimenti sulla storia economica dell’antica Roma.

◆ Professoressa Virlouvet, sono

passati molti anni dal suo primo soggiorno romano come membro presso l’École française e sono sicuramente molti i cambiamenti a cui l’istituzione è andata incontro. Può raccontarci la sua esperienza e, soprattutto, sottolineare le eventuali differenze che separano i vari decenni che l’hanno vista protagonista? In questi trent’anni non posso non notare una progressiva apertura dell’École sia verso le università e i centri di ricerca francesi e italiani, sia verso la collaborazione internazionale. All’inizio degli anni Ottanta, l’École viveva ed era concepita soprattutto per i suoi membri (quindici allora, diciotto oggi), benché l’introduzione di borsisti, ai tempi della direzione di Georges Vallet, avesse dato il segnale di un’apertura che è andata sempre di piú ampliandosi. I membri rimangono il «cuore» dell’École, ma fanno ormai

pienamente parte del personale scientifico e sono parte integrante dei programmi di ricerca dell’École. Le ricerche sulla storia contemporanea e nell’ambito delle scienze sociali si sono senza dubbio rafforzate... ma manca ancora l’archeologia industriale!

◆ Negli anni Ottanta l’assenza di

una rete come Internet, non ha favorito, o meglio, ha rallentato in qualche modo le attività di ricerca e di scambio tra studiosi e istituzioni a essa preposta. Oggi, come valuta l’affermazione del web rispetto a un’istituzione che ha da sempre valorizzato i canali tradizionali della ricerca d’archivio e dello scavo archeologico? Internet è solo uno strumento, e, come tutti gli strumenti, può avere un effetto positivo o negativo sulla ricerca in funzione dell’uso che ne viene fatto. Senza dubbio la maggiore facilità nel recupero di dati e nello scambio delle informazioni ha favorito

grandemente la produzione editoriale scientifica, seppur a scapito, talvolta, dell’effettivo interesse di alcune pubblicazioni. Per lo storico e l’archeologo, il web consente di accedere a un numero sempre piú elevato di dati e documenti senza spostarsi nelle biblioteche e nei depositi. Le nuove tecnologie informatiche offrono anche una soluzione alla mancanza di spazio nelle biblioteche, un problema che stiamo affrontando anche nella nostra istituzione. La pubblicazione «in rete» consente, d’altronde, di dare accesso a tutta la documentazione che è alla base di una ricerca senza ricorrere alla stampa. Senza poi contare la ricchezza e, soprattutto, la praticità dei cataloghi bibliotecari on line.

◆ Nel panorama attuale dell’ École

française, l’allocazione di fondi importanti per il supporto di progetti di ricerca a un personale scientifico altamente selezionato (membri, dottorandi, borsisti, ecc.) è la finalità ultima

Le pubblicazioni archeologiche dell’École française de Rome L’attività editoriale dell’École française si è distinta, sin dagli inizi, per la realizzazione di pubblicazioni archeologiche che danno conto degli ambiti di ricerca in cui essa è coinvolta. In particolare, nella Collection de l’École française de Rome, emerge il cospicuo numero di volumi seriali dedicati ai siti di Megara Hyblaea (Siracusa), Bolsena e Musarna (Viterbo), Paestum (Salerno), Civita di Tricarico (Matera), Caricin Grad e Sirmium (Serbia), Haidra, Bulla Regia, Mactar, Rougga, Sidi Jdidi e Cartagine (Tunisia), Tamusida (Mauritania). Oltre alle campagne di scavo codirette dall’EFR, nella stessa collana e in quella della Bibliothèque des Écoles 42 a r c h e o

françaises de Rome et d’Athènes, che raccoglie le tesi dei membri dell’EFR, troviamo molti contributi singoli dedicati a siti archeologici e/o ad aspetti della storia e della cultura antica (italica, etrusca e romana). A queste due storiche collane, si sono affiancate negli anni Ottanta del secolo scorso altre due serie: Roma Antica, che, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, illustra i lavori svolti in alcuni luoghi significativi del patrimonio romano (Vigna Barberini e gli Orti Farnesiani al Palatino, Pincio, il balneum del collegio degli Arvali alla Magliana); e la Bibliographie analytique de l’Afrique antique, un


dell’istituto o c’è spazio anche per un’attività propedeuticoformativa? L’istituto è, cioè, un centro destinato solo a «specialisti» o persegue anche una politica formativa a piú ampio spettro, rivolta anche a un’utenza meno «esperta»? L’École, accanto al ruolo nel campo della ricerca sulle scienze umane, ha un doppio ruolo formativo. Contribuisce alla formazione dei dottorandi con borse di studio e/o attraverso seminari di formazione, sempre piú numerosi negli ultimi anni. Durante una o due settimane, i giovani vengono inquadrati da personale qualificato. Riguardo alla formazione archeologica, inoltre, alcuni «atelier» si svolgono direttamente in situ, cosí da favorire un approccio diretto con la disciplina. Rispetto a un’utenza meno esperta, i membri dell’École propongono, in accordo con l’Istituto Francia-Italia, programmi di divulgazione per i docenti e gli allievi delle scuole medie inferiori e superiori, ma anche verso un pubblico di semplici «curiosi».

◆ Sin dalle origini, l’École

française ha supportato e condiretto importanti attività di scavo sul territorio italiano e maghrebino, e non solo, di cui è testimonianza una ricca messe di pubblicazioni. Oggi quali sono le politiche e gli eventuali progetti nell’ambito archeologico? Lo sviluppo della riflessione sull’archeologia, e i tempi di crisi che oggi viviamo, hanno segnato la fine dell’attività archeologica cosí come l’abbiamo conosciuta alla fine dello scorso secolo. Scavare sempre di piú presuppone, infatti, non soltanto una consistente disponibilità di mezzi umani ed economici, ma anche di finanziamenti specifici per la tutela e la conservazione degli scavi stessi: compiti che gravano sul Paese nel quale la ricerca viene effettuata. Oggi dobbiamo continuare a pubblicare i risultati delle ricerche passate e presenti, con l’aiuto delle tecniche informatiche – come accennavo prima –, e intraprendere ricerche precise, previste nell’ambito di programmi di durata limitata e di accordi internazionali. Dal 2012 l’École svolge in Abruzzo, in collaborazione con altre istituzioni e con l’aiuto entusiasta delle autorità locali, una ricerca sull’occupazione paleolitica di Valle Giumentina, nel parco della Maiella, pianificata fino al 2016. Abbiamo anche in progetto l’ampliamento della ricerca eseguita

per il conto della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma da Françoise Villedieu (CNRS-Centre Camille Jullian) nel 2009-2010 sulla Vigna Barberini al Palatino, che ha consentito il rinvenimento di una struttura di grande interesse che potrebbe appartenere alla Domus aurea di Nerone: una ricerca economicamente piuttosto impegnativa e per la quale stiamo cercando finanziamenti. Non si debbono dimenticare anche le ricerche in corso nei Balcani (Croazia, Albania) e nel Maghreb (Marocco, Tunisia). E c’è anche un progetto recente di ripresa della collaborazione in Algeria.

◆ Lei è la prima donna a dirigere

una istituzione con un passato dai connotati esclusivamente «al maschile». Quanto può «pesare» l’eredità dell’École française che, nel passato, ha conosciuto esclusivamente direttori uomini? L’evoluzione dell’École non è diversa dell’evoluzione generale delle nostre società. Le donne assumono sempre piú posti di responsabilità. Certamente, ci sono ancora ampi spazi di progresso in questo campo, ma, per quel che mi riguarda, assumo serenamente l’eredità dei direttori che mi hanno preceduta.

Lo stemma dei Farnese in un cassettone dei soffitti delle sale del Palazzo.

repertorio bibliografico di grande utilità per lo studio dell’Africa romana. Infine i due tomi annui dei Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, accompagnati da altri quattro tomi dedicati rispettivamente al Medioevo e all’epoca moderno-contemporanea, che raccolgono una ricca messe di studi, nonché una Chronique des fouilles – dal 2013 pubblicata soltano on line (http://cefr.revues. org) – dove vengono esposti i piú recenti risultati di campagne di scavo organizzate e/o codirette dall’École, e di quelle attività in cui sono coinvolti archeologi francesi (Autres activités françaises en Italie). a r c h e o 43


istituzioni • l’École française di roma

direzione di Albert Dumont, l’anno successivo se ne distaccava definitivamente, divenendo l’École archéologique de Rome, per assumere, il 20 novembre 1875, l’attuale denominazione con decreto del Ministro dell’istruzione francese Henri Wallon. Da sede concepita per ospitare i membri dell’École française d’Athènes, la sede romana, ottenuta la propria autonomia, si avviava, grazie alla lungimiranza dei suoi primissimi direttori, e, in particolare, del già ricordato Dumont e di Auguste Geoffroy, a divenire un centro culturale-scientifico di prim’ordine e fucina di formazione per studenti e ricercatori.

In alto: uno dei corridoi della biblioteca dell’EFR, il cui allestimento ha naturalmente rispettato le caratteristiche architettoniche originali di Palazzo Farnese. In basso: un’altra delle sale di lettura della biblioteca.

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Una presenza consolidata Con i suoi 138 anni di vita, l’École française de Rome è oggi una delle istituzioni straniere piú longeve tra quelle presenti nella capitale che, da un iniziale interesse prettamente rivolto verso l’antichità, l’epigrafia e l’archeologia, si è gradualmente aperta ad altre discipline, estendendo i limiti cronologici alla preistoria cosí come all’epoca moderna e contemporanea. Se la promozione e il sostegno allo studio, nonché l’organizzazione di seminari, convegni, scuole dottorali, rappresentano uno dei cardini dell’attività dell’École, non vanno dimenticate le missioni archeologiche che, a compendio dell’intensa attività di ricerca svolta nella ricca biblioteca dell’istituto, hanno costituito e tuttora costituiscono un importante momento di confronto tra l’istituzione francese, le soprintendenze archeologiche locali e i centri di ricerca universitari. Come le sue consorelle, l’École française d’Athènes, la Casa de Velázquez di Madrid, l’Institut français d’archéologie orientale del Cairo, e l’Intitut français du Proche Orient di Parigi, l’École française de Rome indirizza i suoi interessi, grazie anche al supporto di un proprio Service archéologique, principalmente al patrimonio storico e archeologico italiano, ma anche mediterraneo. Da

questi intenti sono nate le molte collaborazioni per campagne di scavo in Italia e nei Paesi limitrofi, in particolare i Balcani e il Nord Africa (Tunisia, Algeria e Marocco). Una vera e propria sinergia di scambi culturali è quella che anima l’École di Roma, dalle cui attività si sviluppa inoltre una intensa attività editoriale. Fondata negli anni Settanta del secolo scorso, la Maison d’édition de l’École française de Rome vanta oggi un catalogo di quasi 600 titoli – poco meno del 50% dei quali consacrato all’archeologia e alla storia antica – con una produzione media di 25 volumi all’anno, tra studi monografici, atti di convegni, cronache di scavi e i sei volumi della rivista Mélanges de l’École française de Rome, che danno conto delle ricerche condotte dai suoi membri e borsisti, e da tutti coloro che hanno avuto modo di collaborare con l’istituzione. Dall’iniziale preponderanza delle pubblicazioni archeologiche, la politica editoriale dell’École è andata estendendosi nei settori storicomedievale e moderno-contemporaneo, con contributi volti a enfatizzare le relazioni tra l’Italia e la Francia e in particolare gli studi interdisciplinari in ambito mediterraneo. La volontà di imprimere una svolta nel campo delle pubblicazioni ci viene rivelata dall’attuale responsabile del servizio, Richard Figuier, riguardo alla recente uscita dei Mélanges in versione on line (www.revues.org): un segno evidente di volontà di adeguamento da parte dell’École alle esigenze della moderna editoria, sempre piú rivolta allo sfruttamento delle risorse del web.

collaborazioni strategiche L’École française de Rome attua inoltre una oculata politica di partenariato con istituzioni universitarie e laboratori di ricerca, che si traduce in una programmazione pluriennale che si sviluppa, da un lato, con le missioni e la ricerca su campo, e, dall’altro, con la pianificazione in loco di incontri e conferen-


ze attraverso i quali la comunità scientifica ha modo di condividere i risultati della ricerca. La programmazione è organizzata intorno ai grandi temi da sempre al centro del raggio d’azione dell’istituto. Insieme alle scienze storiche e sociali, l’archeologia e la storia antica rivestono un ruolo rilevante con l’approfondimento di tematiche legate all’École française: la storia economica – soprattutto il mondo artigianale e la produzione a esso connessa, la geopolitica, lo studio delle presenze romane sulle coste adriatiche (Croazia, Albania) e del Maghreb. Un interesse specifico è rivolto anche all’archeologia medievale con importanti progetti di ricerca e scavo su siti italiani e in territorio albanese.

Uno scorcio del cortile di Palazzo Farnese in un disegno dell’architetto Louis-Philippe-François Botte. XIX sec. Parigi, Musée d’Orsay.

le ricerche in magna grecia Non mancano infine altri grandi temi legati alla Magna Grecia e in generale all’Italia del sud: il culto e gli spazi religiosi (Pompei), la colonizzazione greca, con particolare riferimento ai centri di Cuma, Paestum e Lao, per i quali è stata ed è fondamentale la collaborazione con il Centre Jean Bérard di Napoli, unità di ricerca gestita dal CNRS francese e dall’École française de Rome. Altro ambito di ricerca concerne le dinamiche economico-territoriali legate alle città del litorale laziale (Portus, Ostia), e nel resto della costa tirrenica. Sempre in campo archeologico è da sottolineare anche lo spazio destinato alla ricerca preistorica, con lo studio dell’insediamento paleolitico della Valle Giumentina (Pescara). Insomma, una programmazione e un’attività scientifica – quella della Sezione Antichità, diretta da Stéphane Bourdin – assai variegate. E l’ampiezza degli ambiti indagati dà la misura del raggio di azione di un’istituzione che si pone, oggi, quale polo scientifico-culturale di prim’ordine a cui la comunità scientifica italiana, in un proficuo rapporto di scambio, non può che essere riconoscente. a r c h e o 45


istituzioni • l’École française di roma

la biblioteca dell’EFR: un cantiere in fermento A colloquio con Annie Coisy I 200 000 volumi e i 2000 periodici, nonché la presenza di fondi speciali, come la Collezione Edoardo Volterra, dedicata a opere di diritto romano e medievale, costituiscono un patrimonio librario di grande ricchezza che fanno della biblioteca dell’École française un punto di riferimento per la comunità scientifica interessata alla ricerca storica e archeologica.

◆ Dottoressa Coisy, tenendo conto

dell’importanza sempre crescente dei mezzi telematici nell’ambito bibliotecario, in quale direzione si è mossa o si sta muovendo la biblioteca dell’École française in termini di arricchimento delle proprie risorse, soprattutto in campo archeologico? Anche se la mia risposta sembrerà indiretta e incompleta, vorrei rispondere con un esempio che mostra tutta la complessità della questione: mi riferisco alla digitalizzazione del CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum), un progetto intrapreso con la collaborazione dell’École française, e delle istituzioni romane American Academy in Rome e Deutsche Archäologische Institut al fine di assicurare la preservazione di opere di grande consultazione ma, appunto per questo, estremamente deperibili. Ciò rappresenta, a mio avviso, un aspetto fondamentale dell’arricchimento delle risorse di una biblioteca grazie all’accresciuta offerta dei servizi resi possibili dall’informatica. Quello che ci insegna l’esperienza e che costituisce la mia esperienza personale è che l’informatizzazione è una pista assolutamente seducente nel semplificare i problemi posti dalla consultazione e diffusione della conoscenza, senza poi contare quelli legati alla preservazione fisica del materiale librario. Ma esiste anche un rovescio della medaglia. Restrizioni giuridiche che non

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permettono, in taluni casi, la digitalizzazione integrale di una determinata opera, ovvero limiti giuridici all’utilizzo di documenti digitali per il prestito interbibliotecario. Si aggiungono difficoltà concernenti l’uso sia da parte di lettori non abituati a gestire supporti digitali, e

quelle poste dai produttori nel creare interfacce che non semplificano affatto la consultazione dei prodotti digitali… tutte difficoltà riscontrate, per esempio, durante la messa on line del CIL sul sito web di Arachnè. Siamo purtroppo ben lontani da un linguaggio universale che semplifichi le piú differenti procedure di


La Sala Volterra, che raccoglie volumi sul diritto romano e medievale appartenuti alla collezione privata di Edoardo Volterra (1904-1984).

politica di acquisizione di «nicchia» e specializzata piuttosto che disperdere gli sforzi economici nel tentativo di accontentare un’utenza piú vasta. Infine, in quanto biblioteca, abbiamo il dovere di garantire un accesso costante alle nostre collezioni. Ma è un’aspirazione lontana nel caso dell’elettronica: non solo gli editori impongono formule di abbonamento rispetto all’acquisto, ma non si fanno garanti della preservazione a lungo termine delle risorse sui loro server e neanche per i loro archivi. Da qui l’importanza strategica di una politica istituzionale come quella delle «licenze nazionali», adottata in Francia (www.licencesnationales.fr) che prenda in considerazione questa esigenza di «perennità» e accessibilità. Infine, a mio parere, ciò che conta non è solo l’acquisto o lo sviluppo delle risorse elettroniche in quanto tali: dal punto di vista scientifico conta solo la pertinenza del contenuto, non la sua natura o il supporto attraverso cui viene divulgato; e l’elettronica presenta, in questo senso, i suoi indubbi vantaggi. Ma quel che risulta piú essenziale per una biblioteca è senz’altro una politica «ragionata» di arricchimento delle proprie risorse.

◆ A Roma, già esiste da decenni

consultazione. A tutto ciò si aggiunge, nel caso dell’École française, una considerazione di opportunità nel tener conto delle esigenze specifiche dei nostri lettori: molti di questi hanno già accesso alle basi-dati degli istituti di ricerca cui appartengono. A questo punto mi chiedo se non sia piú opportuna una

una Biblioteca nazionale di storia dell’arte e di archeologia a Palazzo Venezia. Essendo l’archeologia uno dei principali interessi dell’ École française, esiste qualche forma di collaborazione riguardo le politiche di acquisizione con quella biblioteca e/o in generale con le altre istituzioni bibliotecarie e di ricerca romane che hanno tra le principali discipline di loro interesse l’archeologia? Un quarto delle acquisizioni della nostra biblioteca arrivano per donazione o scambio, e la biblioteca

di Palazzo Venezia è uno dei nostri partner in proposito, come d’altronde molte altre biblioteche romane sensibili ai temi dell’antichità e dell’archeologia (una trentina circa). Ma non si può ancora parlare di una politica di acquisto concertata e formalizzata con queste istituzioni. È una idea sulla quale sto riflettendo dal mio arrivo, visto anche il periodo di crisi economica che attraversa la società, a cui si aggiunge la «cronica» mancanza di spazi per le biblioteche. Ciò presuppone d’altronde un complesso lavoro di analisi e valutazione di ciò che è disponibile, attraverso l’utilizzo dei cataloghi collettivi informatizzati, al fine di determinare i punti di forza dei vari organismi coinvolti. In seguito, come nel caso delle risorse digitali, si pone il problema dell’accesso alle collezioni, delle capacità di accoglienza dei lettori, degli orari di apertura e anche della trasmissione dei documenti a distanza… Vi sono varie vie percorribili: sia l’acquisizione «concertata» dei documenti fisici – monografie o periodici – con la designazione, per quest’ultimi, di un responsabile per gli acquisti e la conservazione delle singole serie; sia l’acquisizione «concertata» delle risorse elettroniche con tutte le difficoltà istituzionali e giuridiche a cui accennavo poc’anzi. Si tratta di una scommessa importante e un «cantiere» di lavoro appassionante, che costituisce peraltro il mio programma per l’anno 2013; si comincerà con i nostri partner piú prossimi, istituzionalmente parlando (la biblioteca di Villa Medici e il Centre Jean Bérard di Napoli), e si proseguirà con le altre istituzioni archeologiche straniere con sede a Roma, affrontando in particolar modo il delicato tema dell’immagazzinamento del materiale librario… problema che ci porta già all’orizzonte del 2014.

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giappone • le origini/3

nel regno del principe splendente nel 794 la capitale dell’impero giapponese viene trasferita da nara a heian: una decisione che sancisce l’inizio dell’epoca piú ricca e fiorente nella storia antica del paese asiatico. segnata da grandi imprese architettoniche e da una produzione artistica di livello elevatissimo di Marco Meccarelli

«D

urante il regno di un certo Sovrano, non so bene quale, tra le numerose Spose Imperiali e dame di Corte ve n’era una che, seppure di rango non molto elevato, piú di ogni altra godeva dei favori di Sua Maestà». È l’incipit di quello che è considerato il romanzo psicologico piú antico al mondo, La storia di Genji (Genji monogatari), scritto nell’XI secolo dalla dama di corte Murasaki Shikibu (X-XI secolo), annoverato tra i classici della letteratura universale e definito dallo 48 a r c h e o

Paravento con la primavera nel Palazzo, scena dal Genji monogatari. 1650 circa. Detroit, Detroit Institute of Arts. L’opera narra le vicende di Genji, il principe splendente, e introduce il Giappone nel periodo Heian.


scrittore e critico letterario Pietro Citati «il capolavoro dei romanzi femminili giapponesi». È un’opera imponente, che nei suoi 54 capitoli narra le vicende di Genji, il principe splendente, che ci introducono nella raffinata società del Giappone nel periodo Heian (7941185). Fa da sfondo una cornice spettacolare, in cui arte, musica, fortuna e disgrazie inaspettate si confondono tra l’eleganza e l’atmosfera rarefatta e malinconica di un mondo affascinante e impalpabile. La trama complessa e intricata del romanzo è in un certo senso lo specchio riflesso della struttura sociale del periodo: l’ascesa al potere dei Fujiwara – prima grande famiglia che si impone all’imperatore – coincide con

l’emergere di uno stile artistico autoctono, che trova conferma sin dalla scrittura. I caratteri cinesi tradizionali (kanji; vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013), infatti, vengono quasi del tutto abbandonati a favore del sistema di scrittura sillabica giapponese, che ha avuto ampio sviluppo soprattutto tra le donne (l’hiragana era anche detto onnade, «mano femminile»): il romanzo, infatti, viene scritto per venire incontro al gusto delle dame di corte del Giappone dell’XI secolo.

una nuova identità Il distacco dal modello cinese, assimilato nell’arco dei secoli (vedi «Archeo» n. 346, dicembre 2013), permette di fissare i canoni sociali,

civili e culturali oltreché artistici della tradizione ancestrale: è il momento storico in cui si manifesta, in tutta la sua evidenza, l’identità giapponese. Se si analizzano gli elementi distintivi dell’epoca Heian, si possono riscontrare risoluzioni significative, che partono dalla fondazione di Heiankyo, la «capitale della pace e della tranquillità», nei luoghi in cui oggi sorge Kyoto, sede della corte imperiale fino al 1867. Il rigido schema urbanistico a scacchiera, mutuato dalla Cina, della precedente capitale Nara (710-794), viene riproposto e riadattato alle nuove esigenze sociali: le dimensioni vengono ingrandite (5,2 x 4,7 km) e si privilegia una collocazione geogra-

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giappone • le origini/3

fica piú centrale, collegata alla costa per via fluviale e, soprattutto, lontana dall’insidiosa sfera di influenza dei monasteri buddhisti.

citazioni dotte Per quanto concerne l’architettura residenziale, all’uso delle tegole lignee e in laterizio si affianca quello delle coperture straminee con corteccia d’albero e paglia, mentre le piattaforme murarie e in pietra vengono sostituite da quelle in legno. Alcuni complessi palaziali preannunciano lo stile detto shindenzukuri, in cui gli edifici vengono distribuiti simmetricamente e collegati da lunghi corridoi, delimitando ampie superfici adibite a giardini, che riproducono paesaggi in miniatura, con cui viene privilegiato il piacere contemplativo della natura, tanto estetico quanto ricreativo. Non mancano «citazioni dotte», come le rocce che emergono dai laghi che evocano le mitiche isole degli immortali, collegate tramite ponticelli di pietra o legno. Viene ricercata una profonda ar-

il PADIGLIONE DELLA FENICE Il Padiglione della Fenice (Hoodo) è l’edificio piú famoso del tempio buddhista Byodoin (Uji, Prefettura di Kyoto), delle scuole della Terra Pura (Jodoshu) e Tendai. Fu costruito nel 998 come villa di uno dei membri piú potenti del clan Fujiwara e trasformato in un tempio buddhista nel 1052. Detto anche sala di Amida, il Padiglione della Fenice sorse nell’anno successivo ed è l’unico edificio rimasto del complesso originale. Si compone di una struttura principale rettangolare, fiancheggiata da due corridoi a forma di «L» e un corridoio alla coda, che richiama la forma di una

fenice. Il complesso si trova ai margini di un laghetto artificiale. È un esempio di shinden zukuri, che evidenzia i caratteri indigeni nel contesto di elementi propri dei palazzi cinesi Tang (618-907, vedi «Archeo» n. 344, ottobre 2013), e prende il nome dall’edificio centrale del complesso (shinden), aperto sul giardino e collegato mediante corridoi coperti (watadono) ai vari edifici circostanti (tsuridono). Le sculture di fenici (hoo), sul tetto della sala centrale, e la particolare disposizione delle strutture che richiamano la forma del volatile mitico, danno il nome al padiglione,

monia tra architettura e paesaggio, nella quale fondere l’intervento umano con la natura, come nel Padiglione della Fenice (Hoodo del Byodoin) dell’XI secolo, elegante e raffinato complesso di architettura tipica del periodo Heian. Nella sto-

ria del Giappone mai si era tentato, prima di allora, di raggiungere, nella forma estetica, livelli cosí elevati di coordinazione di unità espressiva tra architettura, architettura dei giardini e del paesaggio, scultura, pittura e artigianato.

Il Genji monogatari Scritto all’inizio dell’ XI secolo narra la vita di Genji, il principe splendente, chiamato cosí per la sua intelligenza, cultura e bellezza fisica. La trama si fonda sulla fortuna mondana, sulla caduta, sulla risalita al potere e infine sulla morte del protagonista. Nel 2012 Einaudi ha pubblicato, per la prima volta, un’edizione italiana tradotta dal giapponese antico, a cura di Maria Teresa Orsi. In basso: Genji gioca a Go, illustrazione attribuita a Tosa Tokayoshi, dal Genji monogatari. Collezione privata.

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cosí chiamato dall’inizio del periodo Edo (1600-1868), assieme a quello ufficiale di Sala di Amida. All’interno, una statua di Amida (1053 circa), fatta di cipresso giapponese e coperta con foglie d’oro, è conservata su una piattaforma ed è opera di Jocho. Vi sono anche 52 bodishattva musicanti su nuvolette e pitture che rievocano immagini di Amida, con scene del paesaggio intorno a Kyoto. Il padiglione è commemorato sulla moneta giapponese da 10 yen, e dal dicembre 1994 figura nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO.

Grazie alle pitture dell’epoca che In alto: una veduta del Padiglione della Fenice nel tempio buddhista di Byodoin, riproducono gli interni delle abita- costruito nel 1053. Uji, Prefettura di Kyoto. zioni, è possibile affermare che pro- In basso: cartina del Giappone con le principali località citate nel testo. prio a questo periodo risale la completa canonizzazione dei compleStretto La Pérouse menti d’arredo che hanno ammaliaCINA to, ieri come oggi, l’Occidente: vi RUSSIA ritroviamo infatti il primo utilizzo di Asahikawa stuoie distese sul pavimento (che Hokkaido daranno poi origine ai tatami), di Kushiro Sapporo schermi in bambú per ombreggiare gli interni delle stanze (sudare), ma anche di pareti scorrevoli con intelaiatura in legno e carta (fusuma), Aomori assieme a paraventi (byobu) e pannelCOREA li (shoji) che, aprendosi e chiudendo- DEL NORD Mare Akita si, a seconda delle necessità, rendono Morioka del Giappone lo spazio interno ed esterno flessibile e dinamico, intimo e collettivo. Yamagata Sendai

nuove architetture La trasmissione delle dottrine buddhiste esoteriche (mikkyo), introdotte dalla Cina a partire dal IX secolo, che trovano negli ordini Shingon e Tendai la massima espressione, comporta la riformulazione di un’architettura che deve tenere conto di uno stile amalgamato all’animismo locale di derivazione shintoista: la predilezione per le altitudini dei monti per i complessi monastici, sulla spinta delle ancestrali pratiche sciamaniche e devozionali delle Montagne Sacre, coin-

Niigata

Fukushima

Honshu

COREA DEL SUD

Iwaki Nagano Hitachi Utsunomiya Saitama Tokyo Chiba Gifu Nagoya Fuji

Kanazawa Fukui Matsue

Tottori

Kyoto

Stretto di Corea

Osaka Hiroshima Fukuyama Itsukushima

Shikoku

Fukuoka Nagasaki

Oita Kumamoto

Kyushu Miyazaki

Uji

Tsurugaoka

Shizuoka

Nara

Kochi

Oceano Pacifico

Kagoshima

N 0

320 Km

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giappone • le origini/3

dalla scuola kose alle stampe xilografiche Assieme alla pittura religiosa si afferma anche la yamatoe (pittura giapponese), sviluppatasi nell’ambiente di corte, che designa nelle arti figurative del periodo Heian l’aspetto piú tangibile della nuova cultura nazionale. La yamatoe si manifesta all’inizio attraverso l’opera di alcuni maestri, tra i quali spiccano Kose no Kanaoka e suo figlio, Kose no Omi (IX-X secolo), capostipiti della cosiddetta «scuola Kose», che realizzarono anche decorazioni per gli elementi divisori interni, tipici dell’architettura giapponese (byobu e fusuma). Dopo la produzione di queste grandi pitture, ancora legate ai modi dell’arte cinese e di cui si hanno rare testimonianze, come quelle conservate nel Padiglione della Fenice, lo stile yamatoe trovò la sua piú caratteristica espressione nei rotoli dipinti (emakimono), attraverso i quali venne trasmessa una mirabile sintesi tra pittura, letteratura e calligrafia. Nei secoli a venire, lo stile, che verte su un’accentuata policromia dalla campitura del colore piatta, con le linee di contorno particolarmente decise, divenne il simbolo della tradizione classica giapponese.

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Nel periodo Heian continua, inoltre, la diffusione delle stampe xilografiche, tecnica di incisione artistica che nasce in Cina tra il VI e il VII secolo e utilizza, per creare le immagini, una matrice in legno utilizzabile per la realizzazione di «infiniti» esemplari dello stesso soggetto, su qualsiasi tipo di materiale. Nell’VIII secolo la tecnica fu introdotta in Giappone, dove rimase per numerosi secoli un monopolio dei monaci buddhisti, che la utilizzarono per la riproduzione delle immagini sacre, prima di divenire una delle espressioni artistiche piú tipiche del Giappone, come testimoniano le stampe ukiyoe, «immagini del mondo fluttuante», dal XVII secolo in poi. Per molto tempo la calligrafia giapponese si espresse tramite la copia di testi e caratteri cinesi; dall’inizio del periodo Heian ha origine la scrittura fonetica, che contribuisce alla nascita dello stile giapponese chiamato wayo. Ono no Michikaze, chiamato anche Ono no Tofu (894-966), diede impulso alla giapponesizzazione dell’arte calligrafica a cui aggiunse innovazioni e, in particolare, una maggiore libertà di movimento rispetto al modello cinese.


A sinistra: scena domestica dipinta su un album in forma di ventaglio del Sutra del Loto. Epoca Heian.

cide con la ricerca di un’«armonizzazione organica» tra le opere architettoniche e il paesagg io locale (Muroji dell’VIII secolo, prefettura di Nara). Sulle pendici delle colline e nella topografia irregolare del territorio, i Giapponesi riescono a riadattare la forma dei templi buddhisti, agevolando quel senso di intimità con la natura di cui godevano i santuari del culto ancestrale; a partire dal IX secolo emerge sempre piú lo sforzo a formulare una concezione squisitamente giapponese dell’architettura religiosa, impiegando materiali piú semplici in dimensioni piú umane. Lo scambio non è a senso unico, perché, se l’architettura buddhista deve fare i conti con quella shintoista, allo stesso tempo i santuari shintoisti adottano elementi e imitano le planimetrie dei complessi templari buddhisti, aumentando il numero degli edifici ausiliari (i santuari di Itsukushima, prefettura di Hiroshima, e di Hachiman, a Tsurugaoka, acquisiscono nel XII secolo l’impianto che li fa giungere fino a noi).

guerrieri minacciosi Il vivace sincretismo investe anche l’iconografia: le sculture, perlopiú lignee, di divinità, ma anche di figure eroiche, sagge e leggendarie, assieme al culto degli antichi, di derivazione confuciana, trovano posto nel ricco pantheon religioso giapponese e condividono il loro spazio all’interno dei templi con le immagini dall’aspetto e dal costume dichiaratamente locale. I terrifici guardiani che dall’India (Lokapala) alla Cina (Tianwang, re celesti) proteggono lo spazio sacro e liberano i devoti dalla sofferenza in Giappone prendono spesso le sembianze di guerrieri minacciosi. D’altronde, è prerogativa fondante del buddhismo esoterico quella tendenza all’eclettismo in cui divinità

mutuate dalla Cina attraverso influenze indiane, centro asiatiche e tibetane si confondono con spiriti, demoni, folletti, orchi e fate generati dalla vena creativa popolare, elevandosi a detentori di magici poteri contro il male. Tra tutti i culti, quello di Amida (dal sanscrito Amitabha), per la fortuna che riscosse l’idea di salvezza verso coloro che avessero «semplicemente» invocato con fede il suo nome, fu il risultato di un mecenatismo senza precedenti: la corte fu prodiga nel commissionare opere in suo onore e la sua seduzione toccò l’apice quando un solo sovrano, Shirakawa, commissionò nell’XI secolo ben 21 templi principali, 5470 dipinti e circa 35 000 statue di cui 127 di altezza superiore ai 5 m, tutte dedicate al Buddha. Fu cosí che la statuaria in legno, lasciato nel suo colore naturale o dipinto, laccato e talvolta dorato, sperimenta innovative tecniche come quella del «legno assemblato» (yosegi), in cui squadre altamente specializzate di artigiani addetti alla preparazione delle singole parti, consentivano in tempi minori una produzione su grande scala di sculture di notevoli dimensioni. In questo modo si veniva a soddisfare la crescente richiesta del mercato, con una tecnica destinata a dominare gran parte della scultura lignea giapponese, a partire dal primo capolavoro indiscusso, l’Ami-

L’ideale estetico della bellezza femminile vede fondersi la fragilità e l’eleganza con l’opulenza delle vesti

Ricostruzione del costume delle dame di corte di età Heian. Kyoto, Museo del costume. All’epoca Heian si datano i primi kimono, nonché l’uso di indossare piú abiti sovrapposti.

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da Nyorai (1053) conservato nel Padiglione della Fenice. La piú diffusa iconografia del periodo che accompagna i riti è sicuramente il mandala giapponese (mandara), lo «psico-cosmo-gramma» come lo definí il grande or ientalista Giuseppe Tucci (1894-1984), una sorta di diagramma magico o mistico che rappresentava simbolicamente la costruzione gerarchica del mondo fenomenico. Ispirandosi a simbologie dei modelli originali indiani, il mandala in Giappone sembra prediligere un consistente e com54 a r c h e o

plesso apparato figurativo dell’ico- modo lo splendore dei metalli preziosi si amalgama con i riflessi pernografia buddhista. lacei delle conchiglie, ornando scatole da toletta o da scrittoio, contemadreperla e lacca La tendenza al gusto artistico autoc- nitori di testi od oggetti sacri, bauli tono emerge soprattutto nelle arti e mobiletti. Ai precedenti disegni applicate. I prodotti in lacca presen- floreali o di farfalle si aggiungono i tano nuove tecniche decorative, co- motivi tipicamente giapponesi di me l’intarsio di madreperla (raden), simmetriche rappresentazioni di probabilmente importato dal conti- onde, uccelli, pesci e mostri marini, nente, che convive con l’originale o della ruota semisommersa nelle elaborazione locale del disegno a acque (katawaguruma). lacca liquida, unita con colori vege- Nella lavorazione dei metalli gli eletali o minerali, su cui vengono ap- menti decorativi prevalentemente plicate limature o polveri d’oro, ar- vegetali o floreali, con uccelli e talogento o bronzo (makie). In questo ra farfalle, decorano sempre piú lo


IL BUDDHISMO ESOTERICO E IL CULTO DI AMIDA

In alto: Hatsukaichi, isola di Miyajima (Prefettura di Hiroshima). Il santuario shintoista di Itsukushima. 1168. A destra: la statua del Buddha Amida dello scultore Jocho, nel Padiglione della Fenice del tempio di Byodoin (Uji). 1053.

Il buddhismo esoterico giapponese, definizione generica difficile da sintetizzare, perché racchiude al suo interno un insieme di culti e riti diversi tra loro, contempla il cosiddetto «insegnamento segreto» (mikkyo), che si basa su una dottrina per iniziati, attraverso una serie di pratiche legate ai mantra, ovvero formule sonore intese come espressione di essenze divine. Gli insegnamenti derivano dalla tradizione esoterica dell’India, nella fattispecie dal vajrayana, termine sanscrito traducibile in «veicolo adamantino» o «della folgore», generalmente usato come equivalente di buddhismo tantrico. Include pratiche ascetiche, come il digiuno, la meditazione, l’uso di mantra, le posizioni delle mani (mudra), i diagrammi, le articolazioni vocali in riti che includono l’uso di particolari strumenti liturgici da parte del celebrante. Una pratica tantrica caratteristica è la rappresentazione antropomorfica o simbolica delle divinità buddhiste e dei loro universi nei mandala, un diagramma in cui circoli e quadrati concentrici, spesso decorati e integrati con vari simboli, rappresentano l’universo e l’origine del cosmo, nonché le connessioni tra le forze cosmiche e le divinità. Si tratta di uno strumento con cui favorire la meditazione. Dall’India il buddhismo esoterico fu trasmesso in Cina e riadattato ai culti locali, per poi giungere in Giappone, nel IX secolo, con Kobo Daishi (774-835), noto anche come Kukai, esponente della scuola Shingon. Qui il buddhismo entrò in contatto con le tradizioni locali, andando a influenzare altre scuole, come la Tendai di Deigyo Daishi, o Saicho, (767-822) che venerò anche il culto di Amida, uno dei principali e popolari Buddha del Mahayana (grande veicolo), simbolo di misericordia e saggezza. Talvolta viene raffigurato con una corona di gemme, altre volte ha la testa rasata. Generalmente siede al sommo del loto, simbolo di purezza e le sue mani formano il gesto della meditazione o dell’esposizione della dottrina. Nell’amidisimo, la dottrina liberatrice buddhista, fondata sul superamento della funzione e della realtà ontologica delle figure divine,

sembra assumere sfumature «monoteistiche», basate su un rapporto devozionale e creaturale con Amida che, per gratuito intervento, salva il fedele. Al fervore degli adepti del buddha e al quietismo religioso è legato lo sviluppo di raffigurazioni degli splendori della Terra Pura, soggiorno della beatitudine eterna. La dottrina accetta infatti, nella sua mitologia, anche un inferno e un paradiso e, a tal riguardo, non si escludono influenze del cristianesimo nestoriano e del manicheismo. La dimensione spirituale giapponese si delinea cosí come un amalgama di elementi derivati dal culto autoctono shintoista, dagli insegnamenti popolari tradizionali precedenti al buddhismo, uniti alle pratiche spirituali sciamaniche e di adorazione delle Montagne Sacre. A ciò si aggiunge la pratica del buddhismo cinese, del taoismo e infine del buddhismo tantrico, con evidenti influenze di altre culture straniere.

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specchio in bronzo di stile giapponese (wakyo). Nella ceramica, intorno all’XI secolo, si affermano invetriature grigiastre a cenere di legna e verdi a base di piombo, talora associate a motivi floreali incisi.Verso la fine del periodo Heian compare nel Giappone centrale (area delle prefetture di Aichi, Gifu, Mie e Shiga), anche un antesignano della tazza da tè (yamachawan), privo di invetriatura, seppur dotato di naturale lucentezza, che preannuncia, in tutta la sua semplicità, quell’imponente produzione ceramica legata al cerimoniale, che tanto avrà successo in Giappone, nei secoli a venire. L’epoca dei grandi perfezionamenti tecnici investe l’intera produzione artistica del periodo. I primi esempi dell’odierno kimono, che tanto affascina l’Occidente, si ritrovano proprio nel corso dell’epoca Heian, a partire da una semplice sottoveste bianca, indossata soprattutto dalla nobiltà, assieme all’uso di portare piú abiti sovrapposti (kasanegi) dalle ampie maniche, fino a 12 per le dame di corte, che presentano colori di diverse tonalità ma perfettamente armonizzati tra loro; l’ideale estetico che riconosce nella fragilità e nella delicatezza la bellezza e la grazia della figura femminile, cosí schiacciata dal peso dell’abbigliamento, è direttamente proporzionale alla raffinata opulenza dell’aristocrazia Heian.

i rotoli dipinti In pittura si dà finalmente inizio alla gloriosa tradizione dei rotoli orizzontali o verticali dipinti (emakimono e kakemono), tra cui si distingue una narrativa illustrata (monogatarie) che pone in essere una matura sintesi fra pittura e calligrafia, nel momento in cui vengono fissati i nuovi stili di scrittura «nazionale» (wayo), sia in cinese che giapponese, verso forme calligrafiche e corsive sempre piú libere dalle convenzioni. L’incessante vena creativa del periodo si riflette cosí nel vivace stile policromo definito yamatoe, ovvero «pittura giapponese», che nasce per prendere le distanze dal karae, «pittura cinese». 56 a r c h e o

cantare e dipingere sull’acqua Con il periodo Heian nasce, su modello cinese, la grande tradizione giapponese dei giardini. In questa fase si distinguono i giardini di palazzo dei nobili, i giardini delle ville e quelli dei templi. I primi presentano la residenza collocata a settentrione mentre gli edifici cerimoniali e il giardino si trovano a meridione. Nei giardini erano presenti uno o piú stagni collegati tra loro con ponti e corsi d’acqua tortuosi. La disposizione del giardino seguiva sempre i principi della geomanzia tradizionale cinese, il famoso fengshui. Nell’XI secolo fu scritto anche il primo trattato sull’arte del giardino giapponese, il Sakuteiki (in italiano Sakuteiki, annotazioni sulla composizione dei giardini, a cura di Paola Di Felice, Le Lettere, Firenze 2001), nel quale erano raccolte tutte le regole da rispettare. I giardini imperiali del periodo Heian comprendevano laghi imponenti, nei quali era possibile navigare su eleganti barche laccate, ascoltando musica, osservando le montagne lontane, cantando, leggendo poesie, dipingendo e ammirando il paesaggio. Verso la fine del periodo Heian compare un nuovo stile di architettura da giardino, realizzato dai seguaci del buddhismo della Terra Pura. Nascono i «Giardini del Paradiso», costruiti per rappresentare il Paradiso Occidentale, dove regna il buddha Amida. I principali giardini Heian esistenti o ricreati sono: Daikakuji, Byodoin, il Palazzo Imperiale di Kyoto e il Joruriji.


Ciliegi in fiore nel giardino del tempio di Daikakuji nella Prefettura di Kyoto, uno dei «Giardini del Paradiso» di epoca Heian.

Gli elementi distintivi del dipingere in stile giapponese vengono ufficialmente codificati e si pone l’accento non solo sulle rappresentazioni di storie narrative, con o senza testi di accompagnamento, ma anche sul presentare la bellezza della natura, con i luoghi famosi (meishoe) o le quattro stagioni (shikie). Si distingue un originale metodo compositivo, tanto azzardato quanto geniale, con cui esplorare visivamente lo spazio interno, pur mantenendone la separazione esterna, tramite l’abolizione del tetto (fukinukiyatai, «casa senza tetto»). Il curioso effetto trasmesso da questo espediente prospettico destò l’interesse persino di Italo Calvino

(1923-1985), quando scrisse che: «inquadra i personaggi stilizzati, senza spessore in una obliqua prospettiva geometrica di tramezzi, cornici di porte, muri alti quanto paraventi, che permette di vedere quel che avviene contemporaneamente nelle varie stanze» (Collezione di Sabbia, Mondadori, 1984).

disegni satirici Nel filone creativo del periodo rientrano anche le rappresentazioni vivaci, spesso pregne di umorismo (Shigisan engiemaki del XII secolo), o i disegni satirici che ironizzano sull’ambiente monastico, con notevole competenza tecnica, attraverso caricaturali rappresentazioni anima-

listico-antropomorfe, considerate le prime forme di fumetto giapponese o manga (Choju jinbutsugiga, attribuito a Toba Sojo, XII secolo, conservato nel Kozanji). Ma i capisaldi della pittura sono i quattro rotoli del Genji monogatari (Genji monogatari emaki, XII secolo), che inaugurano la moda, che perdura fino all’età moderna, di illustrare il famoso romanzo. Le 20 illustrazioni che si sono conservate sono accompagnate da 29 brani, che raccontano le diverse scene e costituiscono solo un frammento dell’originale (pare comprendesse dai 10 ai 20 rotoli, contenenti piú di 100 dipinti, con oltre 300 sezioni di calligrafia). Emergono, da un lato, la controllata combinazione di una esigua divisione dello spazio, mediante linee rette e, dall’altro, parti descrittive dipinte con la tecnica della miniatura. È una vera e propria summa dell’arte dell’epoca Heian, che include interni sontuosi, scorci di giardini, inseriti non solo per contorno scenografico, ma, soprattutto, per dare espressione al senso malinconico dell’impermanenza, cosí decantato nel romanzo e nella poesia. Si attesta l’uso simbolico dei colori e, dal punto di vista stilistico, spicca la raffinata miscela di morbidezza di tratto, delicate velature e intersezioni geometriche, mentre domina un’eleganza pacata, con cui viene evocata un’«atmosfera» aristocratica, indifferente all’incidere del tempo e immersa nella bellezza piú soave. Prevale nell’opera pittorica, proprio come nel romanzo, un particolare gusto al «femminile», riscontrato tanto nelle illustrazioni quanto nelle sezioni di calligrafia. I personaggi vestiti nei loro abiti tradizionali, ritratti nella loro staticità, ma con i volti malinconicamente inclinati e con i lineamenti appena accennati (hikime kagibana, «occhi a mandorla naso a forma di L»), suggeriscono un’intensità drammatica che sembra vaticinare il nostalgico epilogo del periodo Heian, l’età dell’oro del Paese in cui sorge il sole. (3 – fine) a r c h e o 57


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IL «MESTIERE» DI RE di Sergio Pernigotti

E’ forse il piú antico testo letterario egiziano giunto fino a noi, ma è anche molto di piú: le istruzioni per Merikara, oscuro faraone del III millennio a.C., raccolgono regole e consigli di buon governo destinate a un monarca terreno. Un documento straordinario che testimonia, cosí, il definitivo tramonto di un ordine politico-religioso millenario: quello delle prime dinastie del paese del Nilo

P

ochi sovrani dell’Antico Egitto sono meno noti e, potremmo dire, meno popolari di Merikara, faraone vissuto durante il Primo Periodo Intermedio (2195-2064 a.C.) e appartenente a una dinastia di principi originari di Eracleopoli, in Medio Egitto, la X nella serie delle trentuno che conosciamo. Il Primo Periodo Intermedio (dinastie VII-XI) è una delle fasi piú oscure della storia egiziana: la VII dinastia è sicuramente fittizia e va quindi espunta dall’elenco che

possediamo, mentre per le altre vi sono problemi quasi insormontabili anche solo nello stabilire nomi e successione di sovrani, molti dei quali appartengono sicuramente a dinastie parallele. Eppure si tratta di un periodo molto importante, perché si colloca tra il crollo della grande civiltà dell’Antico Regno e la straordinaria ripresa della XII dinastia, quando sul trono dell’Egitto nuovamente unificato salí il re Amenemhat I (XII dinastia) che diede inizio a un nuovo momento di grande espansione

Nella pagina accanto: Saqqara. La camera funeraria della piramide di Teti (2350-2330 a.C.), primo sovrano della VI dinastia. Sul muro d’ingresso sono riportati i Testi delle Piramidi, una raccolta che costituisce una delle testimonianze piú eloquenti della concezione divina della regalità. A destra: statuetta di un sovrano (forse Sethi I) nell’atto di offrire la dea Maat. 1300-1100 a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’idea che l’universo fosse governato dalla Maat, che il faraone aveva l’incarico di far rispettare, è sempre rimasta radicata nell’antico Egitto arrivando, attraverso il pensiero greco, fino al Medioevo cristiano.

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della civiltà egiziana. Il termine «intermedio», di per sé limitativo, fa intendere che quello precedente e quello successivo hanno avuto ben altro risalto: e tuttavia è molto importante, perché mostra come l’Egitto, sebbene in crisi, fosse in grado di elaborare strutture politiche e culturali completamente nuove e destinate a portare grandi frutti nei secoli successivi. Un tempo gli studiosi chiamavano quest’epoca «feudale», ma tale terminologia è stata giustamente abbandonata, perché lo Stato feudale, cosí come noi lo conosciamo dal Medioevo, è pur sempre uno Stato, mentre il Primo Periodo Intermedio ne rappresenta piuttosto la dissoluzione: è il trionfo delle entità locali, che, allo Stato centralizzato, tipico dell’Egitto piú antico, contrappongono strutture che hanno il controllo di parti di territorio piú o meno limitate, con propri sovrani, portatori di valori e di linguaggi artistici assai diversi da quelli delle epoche precedenti, nuovi e profondamente originali. All’Egitto del III millennio a.C., che si presenta con strutture monolitiche che a lungo rimangono immobili e si ripetono con moduli all’apparenza immutabili, se non per minime variazioni interne, succede ora una varietà di soluzioni incredibilmente ricca: tutto ciò potrebbe corrispondere all’emergere e alla presa del potere di gruppi sociali (sarebbe azzardato chiamarle «classi») nuovi che prendono il posto dei costruttori delle piramidi, ormai destinati al tramonto. A tutt’oggi ignoriamo per quale motivo la società dell’Antico Regno sia entrata in crisi e sia infine crollata: sono state formulate numerose ipotesi, ma nessuna è realmente soddisfacente, sebbene quella del mutamento climatico goda di molto credito. Sta di fatto che, alla fine del III millennio viene meno quello che era stato il bene piú prezioso della civiltà egiziana: l’unità dello Stato, che vede il Sud e il Nord sotto lo scettro di un unico sovrano. Sono ora i centri provinciali a 60 a r c h e o

emergere e far venire meno la regalità unitaria che si era espressa in quasi un millennio di grandi realizzazioni artistiche, di cui le piramidi – sebbene si tratti del caso piú significativo – sono solo un esempio. Durante il Primo Periodo Intermedio l’Egitto era diviso in due regni, senza che questo comportasse però conflitti di grande portata: il centro della regalità era, a nord, Eracleopoli e, a sud, a partire dalla XI dinastia, Tebe. Tale situazione si protrasse fino a quando due sovrani vissuti nell’XI dinastia riuscirono nell’opera di riunificazione che giunse a compimento all’inizio della XII. Il Medio Egitto si pone dunque come protagonista di questo periodo storico. I documenti di cui disponiamo per scriverne la storia sono davvero pochi, ma viene in nostro soccorso l’archeologia, con la scoperta di siti importanti, che ci hanno restituito tombe e altri monumenti dei principi protagonisti di questa lunga stagione. L’arte che essi testimoniano appare «rozza» o «primitiva»: in realtà, si tratta di un linguaggio figurativo provinciale rispetto a quello dell’Antico Regno, ricco di novità e di capacità espressive prima inesplorate.

una nuova visione del mondo Tali novità stanno a indicare che alla corte menfita (Menfi fu la prima capitale storica del regno egiziano, n.d.r.) e alla sua ideologia si sono ora sostituite concezioni diverse che presuppongono anche strutture sociali che non fanno piú capo a un unico centro di potere. Purtroppo, sappiamo poco di tali vicende: ne vediamo piuttosto i risultati senza che, al di là di pur suggestive ipotesi, si possa individuarne i protagonisti. Tuttavia, non si tratta soltanto delle arti figurative, poiché, in questa fase storica, vi sono innovazioni profonde anche in altri campi: è il momento in cui fa la sua comparsa la letteratura egiziana antica nel senso proprio del termine, una letteratura che mostra una profonda rielaborazione

Rilievo in stucco dipinto con Maat, dea della giustizia, della verità e dell’ordine cosmico. Nuovo Regno (1543-1069 a.C. circa). Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

della visione del mondo quale era stato dato di cogliere nel III millennio. La società che aveva costruito le piramidi e che, raccolta intorno al re-dio viveva di certezze, cedeva ora il passo a gruppi sociali che esprimevano, al contrario, una visione del mondo piú fragile e problematica: in prospettiva si coglie la nascita di quella che è stata giustamente definita «l’alba della coscienza». Un tale profondo mutamento delle strutture politiche e della concezione stessa della vita quotidiana, nonché dell’aldilà, non poteva non coinvolgere anche il modo di concepire la regalità, il cui ruolo centrale nella storia egiziana è ben noto. Appare lecito affermare che, dal momento in cui l’Egitto è diventato uno Stato unitario, sotto un unico scettro – un momento che possiamo far coincidere con l’inizio della I dinastia, con il re Narmer – per gli Egiziani il sovrano era considerato come un dio, disceso dal cielo per governare un popolo eletto e che, alla fine della sua vita, sarebbe tornato in cielo tra gli altri dèi, sostituito sul trono dal suo successore, di rango divino al pari del suo predecessore. Per tutto il tempo in cui restava sul trono, a capo di uno stuolo di funzionari che assicuravano la gestione materiale del Paese, il sovrano aveva un compito particolare, proprio della sua natura divina: quello di assicurare la consonanza dell’Egitto – il microcosmo su cui regnava – con le legge generali che governavano l’universo, quella che gli Egiziani chiamavamo maat, vero asse portante del pensiero egiziano antico. Questo era il compito che gli affidavano gli altri dèi: far sí che l’Egitto mantenesse il suo ruolo nell’ordine universale, un obiettivo che il sovrano poteva perseguire servendosi della magia di cui era il signore incontrastato. Maat e magia



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erano i due pilastri su cui si fondavano le funzioni della regalità. L’idea che l’universo fosse governato dalla maat non è mai tramontata nel pensiero egiziano antico, ha attraversato il pensiero greco e, con Aristotele e san Tommaso, ha raggiunto il nostro Medioevo. Persino in Dante se ne trova un’eco lontana, ancorché inconsapevole, ma ancora perfettamente riconoscibile quando nel Paradiso (I, 103105) egli si fa dire da Beatrice: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante». Per l’intera durata dell’Antico Regno, fino alla VI dinastia compresa, l’ideologia della regalità di diritto divino ha regnato senza eccezioni: lo possiamo constatare grazie ai

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Testi delle Piramidi, che contenevano il rituale funerario dei sovrani dell’Antico Regno e ci presentano la morte del sovrano regnante come il «ritorno» del dio, che fino a quel momento aveva regnato sull’Egitto, nel consesso degli dèi che lo attendevano in cielo e che aveva lasciato Nella pagina accanto, in alto: papiro con parte degli Insegnamenti di Amenemhat I al figlio Sesostri I. XVIII dinastia, 1250 a.C. circa. Londra, British Museum. Nella pagina accanto, in basso: testa di una statua di Sesostri I, faraone della XII dinastia, 1964-1929 a.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. In basso: stele con raffigurato Khety e altri due cancellieri sotto il regno di Sesostri I. Parigi, Museo del Louvre.

al momento in cui era sceso sulla terra per adempiere al suo dovere, quello di governare l’Egitto. In questo insieme di idee il carattere «politico» della regalità passa in seconda linea o non appare affatto. Il sovrano è «Horo che sta nel suo palazzo», apparentemente isolato dal resto del Paese, in un’inazione che sembra essere la sua prerogativa divina. Ma l’Egitto è un Paese che funziona perfettamente grazie a uno stuolo di personaggi che adempiono a una miriade di compiti e di funzioni: ne conosciamo a migliaia grazie alle tombe che il sovrano ha concesso loro di costruirsi e che conservano i loro nomi, quelli dei loro familiari e le cariche che esercitavano nella complessa struttura dello Stato egiziano.

Non possiamo pensare davvero che il sovrano non intervenisse nella quotidiana attività di governo: anzi è certo il contrario, nel senso che ogni decisione non poteva che provenire dalla corte e, in ultima analisi, dalla persona stessa del re. Ma l’ideologia della regalità esigeva che nulla di ciò apparisse all’esterno: in vita il sovrano stava chiuso nel suo palazzo cosí come, dopo la morte, il suo corpo giaceva dentro la mole immensa della sua piramide, la tomba del dio.

scompaiono le piramidi Tutto ciò viene meno con la caduta dell’Antico Regno e il conseguente disfarsi dell’unità dello Stato, che, in realtà, costituiva la vera ragione dell’ideologia della regalità divina. In Egitto non vi è piú un unico sovrano, ma il prevalere del potere provinciale porta, almeno in alcuni periodi, alla presenza di piú Stati con una regalità del Nord e una del Sud. Non abbiamo dati certi in proposito e, in particolare, non sappiamo se ciò comporti l’assunzione di una nuova ideologia della regalità; ma, dal punto di vista simbolico, le piramidi scompaiono: innanzitutto, per ragioni economiche, perché lo Stato non è piú in grado di sopportare l’enorme impegno che esse comportano, ma anche perché è venuto meno l’insieme di idee e di credenze religiose che ne giustificavano la costruzione. Il sovrano non era piú un dio, o non era piú soltanto un dio, bensí il capo terreno che governava su una parte limitata del territorio, un nomarca, il capo di una provincia. Il suo rapporto con gli dèi doveva essere cambiato come lo era quello con i suoi sudditi. Un testo che sembra confermare questa ricostruzione, e che la maggior parte degli studiosi data al Primo Periodo Intermedio, è quello designato (ma si badi bene che il titolo è antico) con Le istruzioni per Merikara. Se esso è davvero ascrivibile al Primo Periodo Intermedio, deve considerarsi come uno dei piú antichi, a r c h e o 63


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EPOCA PREDINASTICA 5500-3100 a.C. circa ETÀ TINITA 3100-2700 a.C. circa REGNO ANTICO 2700-2195 a.C.

La cronologia dell’Antico Egitto pone grandi problemi per quanto riguarda le epoche piú remote (per le quali gli studiosi si dividono tra sostenitori di una «cronologia lunga» e di una «cronologia corta»), diventando sempre piú sicura man mano che ci si avvicina alla nostra èra. Quella che riproduciamo in queste pagine è piú vicina alla cronologia tradizionale. Lungo periodo di formazione della civiltà egiziana. Dalle prime forme di organizzazione politica alla creazione di due stati: uno al Nord, l’altro al Sud. Probabili tentativi di unificazione, con risultati non duraturi. Dinastie I e II Inizio della storia egiziana con l’unificazione del Paese per opera di Menes (forse da identificare con Aha o con Narmer). Consolidamento delle strutture politiche ed elaborazione dei caratteri fondamentali della civiltà egiziana di epoca storica. II dinastia Sul finire difficoltà politiche interne. Khesekhmui (ultimo faraone della II dinastia) Dinastia III Djoser e il complesso funerario di Saqqara con la piramide a gradoni. Dinastia IV Senefru e le sue tre piramidi; Cheope, Chefren e Micerino e le tre piramidi di el-Ghiza. Dinastia V Avvento al trono dei sacerdoti eliopolitani. Templi solari. Unas e i «Testi delle Piramidi». Dinastia VI Pepi I, Teti, Pepi II. Prime avvisaglie della crisi. Dinastie VII-X Crisi profonda del Paese con dissoluzione del potere regale e frazionamento politico.

PRIMO PERIODO INTERMEDIO 2195-2064 a.C.

autori ignoti Gli insegnamenti contengono le regole morali che un padre rivolge al proprio figlio e, almeno nel III millennio, si devono a personaggi di altissimo rango, spesso molto vicini al re. Sono molto importanti per gli studiosi, perché permettono di comprendere la visione del mondo della classe dirigente del Paese, cosí come essa si è trasformata nel corso dei millenni e come è stata trasmessa da una generazione all’altra. Non vi è alcuna sicurezza che questi testi siano stati scritti davvero dai personaggi ai quali sono stati attribuiti anche quando abbiamo le prove che essi siano davvero esistiti, poiché può essersi trattato di un modo per aumentarne il prestigio agli occhi dei lettori: ciò non toglie che possiamo (o dobbiamo) leggerli come se fossero davvero l’opera di antichi saggi, perché questo era esattamente ciò che voleva chi li aveva scritti, chiunque egli fosse.

l’egitto delle dinastie

REGNO MEDIO 2064-1797 a.C.

se non il piú antico testo letterario egiziano che ci sia giunto. Noi lo conosciamo grazie a tre papiri che si datano tra la metà e la fine della XVIII dinastia, nessuno dei quali ce lo conserva nella sua interezza, e da un ostrakon in cattivo stato di conservazione proveniente da Deir elMedina. È quindi un testo largamente lacunoso e questo è per noi un motivo di particolare rammarico, sia per la sua qualità letteraria, che per il suo contenuto. Dal punto di vista letterario rientra in un vero e proprio genere, quello degli «insegnamenti» che in Egitto ha sempre avuto una particolare fortuna: i primi esempi si trovano nella IV e V dinastia, ma forse il modello originario da cui tutti sono derivati è dovuto al grande architetto Imhotep della III dinastia, colui che ha progettato e costruito per il re Djoser la piramide a gradoni a Saqqara; tale insegnamento è però perduto, ammesso che sia mai esistito. Gli ultimi esempi si trovano in età romana, segno di una fortuna che non è mai venuta meno nel corso dei millenni.

Coperchio di vaso canopico. Primo Periodo Intermedio, 2195-2064 a.C. circa. Miami, Lowe Art Museum, University of Miami.

Dinastia XI Riunificazione politica del Paese per mano di Montuhotep I. Crescente importanza di Tebe. Dinastia XII Amenemhet I, Sesostri I. Politica economica e spirituale del Paese su basi ideologiche completamente nuove. Amenemhet II-Amenemhet IV: bonifica del Fayyum e attiva presenza in politica estera.


SECONDO PERIODO INTERMEDIO 1797-1543 a.C. REGNO NUOVO 1543-1069 a.C. TERZO PERlODO INTERMEDIO 1069-715 a.C. EPOCA TARDA 716-332 a.C. EPOCA TOLEMAICA 332-31 a.C.

Dinastie XIII-XIV Nuova crisi nelle strutture interne del Paese. Neferhotep I. Dinastia XV-XVI Cli Hyksos nel Delta con capitale ad Avari. Dinastia XVII Inizio della «guerra di liberazione» per opera di una dinastia di principi tebani. Kamose. Dinastia XVIII Da Ahmosi a Tutmosi III: politica di conquista nel Vicino Oriente Antico con ampi acquisti territoriali. Da Amenofi II a Amenofi III: lungo periodo di pace e di consolidamento delle posizioni in Asia. Amenofi IV (Akhenaton): crisi politica e religiosa presto ricomposta e superata dai successori Tutankhamon, Ay e Horemheb. Dinastia XIX Prevalere dei problemi militari. Ramesse II e la guerra con gli Ittiti. Esodo degli Ebrei dall’Egitto. Meneptah e la guerra con i Libi. Dinastia XX Ramesse III e la guerra contro i «Popoli del mare». Progressivo declino economico e politico dell’Egitto. Dinastia XXI Avvento al trono del sacerdozio di Ammone a Tebe. Herihor diventa faraone. Dinastie XXII-XXIII I Libi sul trono d’Egitto. Scescionk e Osorkon. Dinastia XXIV Ripresa egiziana con Boccori sul trono. Dinastia XXV Gli Etiopi sul trono d’Egitto. Conquista assira del Paese (671: conquista di Memfi e 663 presa di Tebe). Dinastia XXVI Grande ripresa dell’Egitto sotto la guida di Psammetico I, Necao, Psammetico II, Aprie, Amasi e Psammetico III. Capitale a Sais. I primi Greci in Egitto. Fondazione di Naucrati. Dinastia XXVII Conquista dell’Egitto da parte di Cambise. L’Egitto diventa una satrapia persiana. Dinastie XXVIII-XXX L’Egitto si libera dei Persiani e vive un momento di ripresa sotto Nectanebo I, Tacho e Nectanebo II, prima di cadere nuovamente sotto la dominazione persiana. Dopo la conquista di Alessandro Magno, l’Egitto viene governato dalla dinastia ellenistica dei Tolomei.

Luxor. Rilievo dalla «Cappella bianca» di Sesostri I, costruita per celebrare la festa di Sed (Heb Sed), solenne cerimonia di «rigenerazione» che cadeva al compimento del trentesimo anno di regno del sovrano.

Tra gli autori di insegnamenti non vi sono sovrani prima di quelli diretti a Merikara e prima di quelli diretti dal padre Amenemhat I a Sesostri I, che si collocano all’inizio del Medio Regno e sono da datare, in realtà, al regno del secondo. Ciò dimostra che si tratta, comunque, di opere eccezionali nella tradizione letteraria egiziana, basandosi entrambe sull’idea che la funzione regale fosse qualche cosa che si poteva insegnare nella previsione di poterla trasferire al proprio figlio. Gli Insegnamenti di Amenemhat I al proprio figlio non sono certo opera del sovrano a cui erano attribuiti: sappiamo che il loro autore era un grande letterato del tempo, di nome Kheti, che li aveva scritti per incarico di Sesostri I, del quale rispecchiava ovviamente le idee. Inoltre, si tratta di un’opera per altri aspetti a r c h e o 65


storia • merikara

«Fa’ (bei) monumenti per dio: ciò fa vivere il nome di chi lo fa: un uomo (deve) fare cose utili alla sua anima» (questa frase e quelle delle pagine successive sono tratte dalle Istruzioni per Merikara; traduzione di Edda Bresciani)

inconsueta, perché, nel momento in cui si rivolge al figlio, il sovrano a cui sono attribuiti era in realtà morto, vittima di una congiura di palazzo. Piú che di un insegnamento da padre a figlio, si tratta di una riflessione amara sulla solitudine del sovrano e sulla ingratitudine degli uomini nei confronti di chi esercita la sovranità. Il sovrano è morto: è il figlio che finge di riceverne gli insegnamenti. La finzione è di alto valore ideologico e si tratta, inoltre, di uno dei piú importanti testi letterari di tutta la storia dell’Antico Egitto: un sovrano che istruisce se stesso meditando sull’amara esperienza del proprio padre. Ma c’è di piú: è l’unico testo in nostro possesso in cui vediamo un sovrano egiziano che è colto nell’atto di lavorare: è stanco, decide di prendersi un’ora di riposo: ed è questo il momento che attendono i 66 a r c h e o

congiurati per ucciderlo: «Era dopo cena ed era venuta la notte: Mi presi un’ora di tranquillità, sdraiato sul mio letto. Ero stanco, e la mia mente cominciò a seguire il sonno» (traduzione di Edda Bresciani): quello del re appare come un mestiere vero e proprio, come tanti secoli piú tardi accadde con Luigi XIV che aveva scandito con precisione la propria giornata di lavoro, come se il suo fosse il lavoro di un qualunque artigiano o di un qualunque funzionario, non del signore onnipotente del proprio Paese.

riflessioni amare Gli insegnamenti di Amenemhat si collocano in una situazione assai drammatica: l’uccisione di un sovrano (come si può uccidere un dio?) è lo spunto per una meditazione molto amara da parte del figlio sul peso della regalità che può portare fimo al

In alto: stele del faraone Intef I. Primo Periodo Intermedio, XI dinastia, 2134-2064 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

sacrificio della vita. Nel caso di Merikara, che, come s’è detto, è il punto di partenza della nuova concezione del ruolo del sovrano, il contesto storico è meno drammatico, ma forse piú confuso: non sappiamo niente di lui, se non che è vissuto nella X dinastia e che suo padre, il presunto autore degli Insegnamenti, aveva un nome che terminava con la lettera y, probabilmente[Khet]y. Il titolo dell’opera si può ricostruire come: [Inizio dell’insegnamento che ha fatto il re dell’Alto e Basso Egitto Khet]y per suo figlio Merikara (traduzione di Edda Bresciani). Sappiamo con certezza che questo Khety non può essere il vero autore dell’insegnamento ed è molto pro-


babile che non lo sia neppure Merikara, a cui esso era diretto. Deve essere stato uno scrittore che collaborava con Merikara, un suo maestro e un suo consigliere o forse entrambe le cose insieme. Deve essersi insomma trattato di una situazione simile a quella che si verificò nel Medio Regno con Amenemhat I e Sesostri I. La qualità dello stile fa pensare a uno scrittore «professionista», malgrado le molte lacune non ci permettano di apprezzare fino in fondo il suo magistero; al contrario, le idee che vi

sono espresse possono essere state del sovrano o possano essere nate dai colloqui tra il sovrano e il suo collaboratore: una meditazione sul ruolo del sovrano nel difficile momento storico che l’Egitto stava attraversando, a cui si aggiungeva la consapevolezza del fatto che il sovrano non era un dio, ma un uomo su cui gravava il peso di un compito difficile quanto ingrato: quello di guidare il «gregge» che gli era stato affidato dagli dèi, facendo uso della «benefica funzione» che è la regalità. Rimane certo la maat, ma qui essa si connota non

tanto come il principio che sta alla base dell’ordine universale, quanto piuttosto come la giustizia che il re deve dispensare ai suoi sudditi. Come si vede si tratta di un testo di alta moralità: il re Khety insegna al figlio massime che non sono dettate dalla volontà di un despota di eserciAgricoltori trasportano grano, affresco dalla tomba di Iti, cancelliere e comandante del re, sepolto a Gebelein, vicino a Luxor. Primo Periodo Intermedio, 2195-2064 a.C. Torino, Museo Egizio.

«Fa’ ricchi [i contadini] e i cittadini, allora si ringrazierà dio (per te) a causa delle provviste portate in tuo nome»

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storia • merikara

«Fai grandi i tuoi grandi, fa’ avanzare i tuoi guerrieri, accresci le giovani generazioni di tuoi seguaci»

tare un potere che non conosce limiti, ma dal suo dovere di «buon pastore». Per giungere a questa nuova concezione della regalità, in Egitto devono essere successe molte cose che vorremmo conoscere meglio di quanto i documenti storici ci permettano di descrivere.

una novità sconvolgente Alcuni studiosi dubitano che gli insegnamenti per Merikara siano un’opera del Primo Periodo Intermedio e pensano che non siano 68 a r c h e o

molto piú antichi dell’età ramesside o che si possano collocare a metà strada tra i due momenti storici cosí lontani. In realtà non c’è alcun serio motivo per dubitare della datazione tradizionale: anzi, la sua sconvolgente novità ben si accorda con un periodo di grave crisi del Paese, che ha costretto la sua classe dirigente a una profonda meditazione sul suo ruolo e sul destino della regalità: il rinnovamento era la condizione per la rinascita che non poteva non passare attraverso una nuova riunificazione dell’Egitto

che si esprimesse grazie una nuova concezione del rapporto tra il sovrano e i suoi sudditi. È questo che Khety (se era lui, e se mai è esistito) cerca di insegnare a suo figlio. Cosí Khety si esprime in alcuni dei passi piú significativi. Come comportarsi con i propri sudditi? «Non essere cattivo, è buono l’autocontrollo. Rendi durevoli i tuoi monumenti per mezzo dell’amore per te. Fa’ ricchi [i contadini] e i cittadini, allora si ringrazierà dio (per te) a causa delle provviste portate in tuo nome e si ringrazierà a causa della


tua bontà mentre si pregherà per la tua salute. Rispetta i nobili, cura il benessere del tuo popolo, rendi saldi i tuoi confini e le tue rive: è bello operare per l’avvenire (…) Fa’ grandi i tuoi nobili, sicché compiano le tue leggi (…) È grande un grande i cui grandi sono grandi: è augusto colui che è ricco di nobili. Sii equo nella tua casa sicché ti rispettino i nobili che sono sulla terra».

al tempio, sii segreto circa i misteri. Entra nel santuario, mangia pane nel tempio; accresci le offerte liquide e fa’ abbondanti i pani da offerta; accresci le offerte giornaliere; è utile per chi lo fa» (traduzione di Edda Bresciani). Ma non ci sono solo le elevate regole morali e di astuta politica: Khety elenca minuziosamente al figlio le azioni che dovrà compiere

per essere anche un buon amministratore, giorno per giorno. Non sappiamo cosa sia accaduto davvero durante il regno di Merikara, ma gli Egiziani leggevano ancora questo testo molti secoli dopo, considerandolo un classico della loro letteratura e forse della loro morale: un fatto non da poco, che induce a riflettere sul ruolo del sovrano che regnava nella Valle del Nilo.

moniti e consigli Quale deve essere il rapporto con la giustizia? «Compi la giustizia, sicché tu duri sopra la terra. Consola chi piange, non opprimere la vedova, non scacciare un uomo dalla proprietà di suo padre, non privare i grandi dei loro posti, guardati dal punire ingiustamente». Come comportarsi con i propri seguaci? «Sono i veterani che combattono per noi. (…) Fai grandi i tuoi grandi, fa’ avanzare i tuoi guerrieri, accresci le giovani generazioni di tuoi seguaci (…) Non fare differenza tra il figlio di un nobile e un borghese, ma solleva fino a te l’uomo a causa delle sue azioni». Quale deve essere il rapporto con il mondo religioso? «Fa’ (bei) monumenti per dio: ciò fa vivere il nome di chi lo fa: un uomo (deve) fare cose utili alla sua anima. Celebra il servizio mensile, porta sandali bianchi, recati Sulle due pagine: stele funerarie in calcare, databili entrambe al Primo Periodo Intermedio e conservate a Boston, nel Museum of Fine Arts. La prima (nella pagina accanto) fu scolpita per un soldato nubiano di nome Menu, mentre la seconda (a destra) è quella di un personaggio di nome Sheditef, raffigurato con la moglie e, forse, il figlio.

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il nostro

etrusco quotidiano

che Cos’hanno in comune un satellite, una persona, il mondo e... una tinozza? in apparenza, niente. ma ecco che, a un esame piú approfondito, queste parole – insieme a molte altre della lingua italiana – rivelano una loro inaspettata origine comune di Daniele F. Maras


Sulle due pagine: alcune immagini (la cui descrizione è riportata nelle pagine successive) emblematiche dell’origine etrusca dei termini italiani che le indicano, come per esempio «satellite» o «persona».

S

e ci fermiamo a riflettere sul linguaggio che usiamo ogni giorno, possiamo notare come sia in continua crescita il numero di parole ed espressioni che, entrate nell’uso comune, non sono di origine italiana. Che si tratti di termini derivanti da un gergo tecnico (come quello dell’informatica o della tecnologia: si pensi al «provider», al «tablet» o anche soltanto al «computer»), ovvero di prestiti culturali (come lo «chef» e il «menu» in cucina, o il «rock» e il «jazz» nella musica), la loro presenza diffusa è la prova di quanto gli Italiani sembrino essere particolarmente inclini ad accogliere «prestiti» stranieri, a volte per indicare cose che potrebbero avere una perfetta definizione nella nostra lingua. Ma il fenomeno, in realtà, è molto antico e, di fatto, sarebbe inappropriato e utopistico immaginare una lingua «pura»,

che non accolga nel suo beato isolamento innovazioni derivanti dal contatto con le lingue straniere. L’influenza di una lingua straniera è facilmente spiegabile ed evidente nel caso di nuove tecnologie provenienti dall’esterno o di innovazioni culturali riconosciute come superiori. Il latino repubblicano e imperiale si riempí di grecismi, soprattutto nella lingua letteraria, che facevano inorridire «puristi» come Catone o Varrone, ma segnavano inevitabilmente l’ellenizzazione della cultura romana. Graecia capta ferum victorem cepit («Una volta conquistata, la Grecia conquistò il fiero vincitore»), secondo la celebre massima di Orazio.

lingue scomparse Esistono però casi in cui lingue un tempo fiorenti, parlate da culture avanzate, e in grado di influenzare quelle parlate dai popoli vicini sono scomparse senza lasciar traccia, salvo pochi resti epigrafici, che oggi danno lavoro agli studiosi (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013). Già in passato abbiamo avuto modo di notare come l’etrusco abbia goduto nei secoli di un particolare alone di fascino, tra quelle che sono definite «lingue di frammentaria attestazione»,

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storia • etrusco quotidiano A sinistra: il pianeta Giove e i suoi quattro satelliti «galileiani» (Io, Europa, Ganimede e Callisto). In basso: restituzione grafica di un affresco della Tomba Golini II di Orvieto, con una figura indicata come zat[i]lath Aithas, una guardia del corpo del re degli Inferi, dal cui nome deriva l’italiano satellite. IV sec. a.C. Orvieto, Museo Archeologico Nazionale.

etrusco atilath z

per via del suo presunto mistero e dell’assenza di chiare parentele con le lingue meglio note. Oggi ci proponiamo di guardare all’etrusco da una prospettiva diversa, ricordando come un tempo si sia trattato della lingua dei re di Roma e di un popolo il cui prestigio si estendeva «dalle Alpi allo stretto di Sicilia», come recita un famoso passo di Tito Livio. A lungo i Romani mandarono a scuola i propri figli a Cerveteri, per imparare l’etrusco e il greco, e questo contatto continuato per diversi secoli non poteva mancare di lasciar traccia nel latino, che ha dato a sua volta origine a tutte le lingue romanze, tra cui l’italiano.

Dai tiranni allo spazio La storia di una lingua è lunga, almeno quanto quella delle generazioni delle persone che l’hanno parlata: perciò non ci deve stupire di trovare tracce dell’antica supremazia culturale dell’etrusco sul latino di Roma in ambiti che non hanno nulla a che fare con la storia antica. Il caso piú emblematico è quello della parola «satellite», che alle no72 a r c h e o

stre orecchie evoca immagini di telecomunicazioni avanzate o tutt’al piú di fenomeni astronomici. In realtà, il termine aveva in latino tutt’altro significato, dal momento che indicava letteralmente la guardia del corpo di un re, caratterizzata da una fedeltà assoluta e per questo legata nell’immaginario degli scrittori a figure storiche di tiranni e despoti. Il motivo di questa avversione per i satellites risale con ogni probabilità all’ultimo dei re di Roma, Tarquinio il Superbo, che fin nel suo soprannome era considerato il prototipo del mal governo e dell’arroganza al potere. Partendo da questa idea, la linguista inglese Margareth Watmough ha dedicato negli anni Novanta un’ampia ricerca alla parola latina, per cercare di rintracciarne le origini etrusche. La fortuna ha voluto che la didascalia di una pittura funeraria, nella tomba Golini II di Orvieto, conservasse la parola zatilath per definire uno dei soldati al servizio del dio degli Inferi: Ade, in etrusco Aita. Secondo l’ipotesi della studiosa, in etrusco zati significava in origine

latino satelles

italiano satellite

«ascia» e zatilath, di conseguenza, sarebbe il guerriero che combatte con l’ascia: letteralmente l’antenato del littore, che, fino alla fine dell’impero romano, rimase la guardia del corpo ufficiale di consoli e imperatori. Ma come si è arrivati alle lune e ai satelliti artificiali? La responsabilità è di Galileo Galilei, il quale, sull’onda dell’entusiasmo per aver scoperto le quattro lune maggior i del pianeta Giove, che ancora oggi si chiamano «satelliti galileiani», scrisse di aver trovato i compagni di viaggio (e le guardie del corpo) del re dei pianeti esterni: e quale termine migliore di satelles poteva trovare nel latino, lingua parlata da tutti gli scienziati e i sapienti del suo tempo?

Il lascito della disciplina Per rimanere nell’ambito del cosmo, un’altra parola «insospettabile» ha un’origine etrusca, almeno stando a quanto sostenevano gli eruditi latini Varrone e Macrobio. Si tratta del «mondo»: un concetto che per i Romani traeva origine da un antico


etrusco phersu

Tarquinia, Tomba degli Auguri. Particolare di uno degli affreschi raffigurante il Phersu. 530-520 a.C. Dal nome del personaggio, che era la Maschera per antonomasia, discende il latino persona.

rituale, posto alla base della fondazione della loro stessa città. Racconta lo storico greco Plutarco che Romolo, al momento di metter mano alla fondazione di Roma, chiamò dall’Etruria i piú grandi esperti in materia di prescrizioni religiose, per farsi spiegare come avrebbe dovuto procedere per una

latino persona

italiano maschera

corretta esecuzione dei rituali. Una volta istruito, il fondatore scavò per prima cosa «una fossa di forma circolare nella zona dove ora è il Comizio, per deporvi le primizie di tutto quanto era utile secondo consuetudine o necessario secondo natura. E infine ciascuno, portando un po’ di terra dal paese da cui provea r c h e o 73


storia • etrusco quotidiano

etrusco suplu

Ricostruzione di un affresco (oggi perduto) della Tomba del Citaredo di Tarquinia raffigurante un flautista. 490-480 a.C. Da suplu, la parola etrusca che lo indica, derivano il latino subulo e l’italiano zufolo. Nella pagina accanto, in alto: restituzione grafica della decorazione di uno specchio con Atunis/Adone e Turan/Afrodite e il suo seguito. IV sec. a.C. San Pietroburgo, Museo dell’Hermitage. Tra le ancelle di Turan vi era Munthuch, l’«Ornatrice», e dall’etrusco munth, «ornamento», ma anche «ordinamento», discende il concetto latino di «mondo».

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niva, la gettò dentro e la mescolò insieme». Gli esperti, continua Plutarco, «chiamano questa fossa con lo stesso nome che danno al cielo, mundus. Poi, considerando questo punto come centro, tracciarono il perimetro della città». Il termine tecnico mundus, che indicava tanto il cielo quanto il punto d’origine perenne della città eterna, conteneva in sé una sorta di unione del microcosmo con il macrocosmo: è pertanto comprensibile come sia passato nel tempo a indicare direttamente quest’ultimo, attraverso il processo di analogia

latino subulo

italiano zufolo

che portava Roma a essere il caput mundi, «testa del mondo», secondo un’altra tradizione infarcita di riferimenti all’Etruria. Ancora una volta le iscrizioni etrusche ci vengono incontro, provando come sia esistita una parola munth, che probabilmente indicava allo stesso tempo l’«ornamento» e l’«ordinamento», come si addice al punto di origine di una città «ordinata», fondata secondo la disciplina etrusca. A riprova di ciò una delle ancelle divine di Turan, l’Afrodite etrusca, che sfoggiava un paio d’ali ed era


addetta al maquillage della dea, si chiamava Munthuch, nome che potremmo tradurre letteralmente come «l’ornatrice». E per quanto strano e «tortuoso» possa sembrare, questo procedimento è lo stesso che ha portato il greco kosmos – indicante in or igine proprio l’«ornamento» – a sopravvivere nell’italiano moderno tanto nel «cosmo» quanto nei «cosmetici». Scendendo dai concetti universali a termini piú prosaici della realtà contadina, un altro prestito etrusco etrusco munth

latino mundus

una evoluzione lineare, pur con cambiamenti di significato e trasformazioni passate attraverso il linguaggio tecnico. Ma le cose si complicano quando le parole e i concetti insegnati dagli Etruschi ai Romani avevano una loro origine piú lontana nella cultura greca. Come nel caso dell’alfabeto, che gli Etruschi trasmisero ai Latini dopo averlo appreso dai navigatori greci, anche altri aspetti della società, della religione e della tecnologia giunsero infatti a Roma solo attraverso una mediazione etrusca. Un caso eclatante è quello del teatro, di cui gli storici ricordano l’origine straniera: in particolare gli histriones, sopravvissuti nei moderni «istrioni», sono detti provenire dall’Etruria (Livio e Valerio Massimo ricordano come la forma

italiano mondo

alla lingua quotidiana è la comunissima «tinozza», attraverso i piú tecnici «tino» e «tina», utilizzati nella produzione del vino, un’arte in cui gli Etruschi erano maestri. In lingua etrusca thina è un derivato della paroletta thi, il cui significato era semplicemente «acqua» (con le possibili estensioni di «fonte» e «corso d’acqua»): thina, quindi, era letteralmente il vaso per l’acqua. Non è perciò un caso che nelle iscrizioni graffite sui vasi il termine ricorra piú volte, soprattutto su olle, contenitori per il trasporto di liquidi. Il passaggio dall’acqua al vino è semplice e comprensibile, ma ancora oggi la nostra «tinozza», alterata al diminutivo, sembra aver conservato il riferimento originario. Il lessico contadino dei Latini ha conservato anche i termini etruschi legati alla produzione dell’olio d’oliva, che in origine era stata importata dal mondo greco, come dimostra il nome stesso del prodotto, elaiva, derivato direttamente dal greco elaion. All’intermediazione etrusca si deve per esempio il nome italiano della «morchia», il deposito residuo della lavorazione dell’olio, che in latino si chiamava amurca e in origine derivava dal tecnicismo

greco amyrga. La trasformazione della G in C è tipicamente etrusca. Non manca, infine, un riferimento all’economia domestica, grazie al nome della «sporta», che deriva per un tramite etrusco direttamente dal In basso: olletta e olla biansata, greco spyrida, accusativo di spyris, contenitori per liquidi, dalla tomba 3 letteralmente «cestino». di Grotti (Siena). 380-350 a.C. Siena,

Attori e personaggi Fin qui i prestiti della lingua etrusca nel latino, poi sopravvissuti fino all’italiano moderno, hanno avuto

Museo Archeologico. L’etrusco thina, recipiente per l’acqua, ha portato in italiano a tinozza e ai piú tecnici tino e tina, utilizzati nella produzione del vino.

etrusco thina

latino tina

italiano tinozza

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storia • etrusco quotidiano

originaria del termine fosse hister, al singolare). In questo caso non abbiamo iscrizioni che documentino direttamente la parola, ma è facile riconoscere dietro al nome etrusco il greco histor, che significa letteralmente «sapiente, colto» ed è imparentato con historía, passato identico anche nel latino, che oltre a «stor ia» aveva il significato di «racconto, narrazione». L’attore, pertanto, era in origine colui che raccontava una storia. Ma al teatro appartiene anche un altro concetto, che ha acquisito un’enor me importanza nella società moderna, grazie al suo uso astratto, esteso alla vita quotidiana e oggi anche alla psicanalisi: si tratta della «persona», un termine derivato dall’identica parola latina che indicava la «maschera» teatrale. Una facile etimologia popolare vorrebbe che la parola derivasse dall’azione di per-sonare, riferita alla voce che «risuona attraverso» la maschera, come in una sorta di altoparlante. In realtà, alla base del termine c’è ancora una volta il teatro greco, che definiva la maschera prósopon, cioè una cosa che sta «davanti al volto». Ma la differenza tra la parola greca e quella latina è tale che non avremmo facilmente riconosciuto il prestito, se non avessimo alcune rappresentazioni pittoriche etrusche, che raffigurano un individuo mascherato il cui nome è indicato regolarmente come Phersu.

Bronzetto etrusco di Ercole con la pelle del leone Nemeo. 400-350 a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. La differenza tra il romano Hercules (Ercole) e il greco Herakles è dovuta alla mediazione dell’etrusco Hercle.

l’uomo incappucciato Il personaggio, chiamato la «Maschera» per antonomasia (la regolare trasformazione della parola greca obbedisce alle regole fonetiche dell’etrusco), prende parte a un gioco sanguinario, in cui tiene greco Herakles

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etrusco hercle

latino italiano Hercules Ercole

al guinzaglio un cane feroce, che affronta un uomo incappucciato. Il contesto delle pitture, all’interno di fregi che riproducono giochi funebri, dimostra che anche questo era uno spettacolo piú o meno religioso: presumibilmente si tratta di un antecedente dei giochi gladiatorii, che tanto successo riscossero nella civiltà romana. Al mondo dello spettacolo appartiene anche il prestito dall’etrusco della parola subulo, che indicava il «flautista» e della quale, nell’italiano moderno, è sopravvissuta solo una forma di tradizione dialettale, lo «zufolo», in cui il significato è

passato dal musicista allo strumento. Va notato, però, che il latino conosceva anche un verbo subulare, dal quale in italiano sono derivati per diverse strade sia «zufolare» che «sibilare». La forma etrusca originale ci è conservata da alcuni nomi di personaggi di umili origini, che alla propria formula onomastica hanno aggiunto anche la propria specialità professionale: suplu ovvero suvlu, che costituisce il prototipo su cui è stato ricavato il latino subulo. Va ricordato in proposito che gli autori antichi si meravigliavano nel vedere quanto gli Etruschi fossero cultori della musica: e in particolare Aristotele ricordava come essi facessero qualunque cosa, perfino fustigare gli schiavi, al ritmo del suono di un flauto! Cambiando ambito linguistico, ci si imbatte nel nome del dio «Ercole», della cui


forma latina Hercules stupisce la differenza rispetto al greco Herakles. Tutto diviene piú chiaro, invece, grazie alla mediazione dell’etrusco, che ha semplificato il nome del semidio in Hercle secondo la pronuncia in vigore a partire dal V secolo a.C. I Latini, dunque, conobbero il leggendario eroe, figlio di Zeus, solo per il tramite dell’Etruria, dove Ercole godeva di un vero e proprio culto come divinità e di cui si celebrava l’ascesa all’Olimpo in sculture e altre rappresentazioni figurate (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009).

Attrezzi e tecnologia Al di là degli esempi fin qui ricordati, occorre tuttavia considerare che non tutte le parole latine hanno avuto un seguito nella lingua volgare e sono arrivate fino a noi, per cui molti «prestiti» etruschi non hanno potuto godere di tale fortuna. Un caso speciale è costituito dalla groma, l’attrezzo principe della dotazione degli agri greco etrusco latino italiano mensores, i geometri romani gnomon cruma groma groma (anche detti gromatici dal nome dello strumento utilizzato), la cui specializzazione tecnica Il nome latino, groma, deriva dal Modellino di un agrimensore romano era unanimemente ritenuta un la- greco gnomon, «righello, strumento al lavoro. Roma, Museo della Civiltà scito della scienza religiosa etrusca. di precisione», per il tramite di una Romana. Il latino e l’italiano groma, Per gli Etruschi, infatti, rivestiva una voce etrusca non arrivata fino a strumento utilizzato appunto dagli speciale importanza il tracciamento noi, che si può ricostruire come agrimensori, deriva dal greco gnomon perfetto dei confini, derivante dalla *cruma, secondo le regole foneti- (righello), per il tramite di un termine che della lingua. misurazione della terra. etrusco, forse *cruma. La groma consisteva in un’asta co- Altri nomi etruschi di strumenti ronata da una croce orizzontale, da d’uso comune sono probabilmente peso, che andava a danno del totale». cui pendeva una serie di fili a lanterna e lucerna (sopravvissuti en- Tutto considerato, in un’economia piombo per consentire il traccia- trambi in italiano), derivanti dal che non conosceva i numeri fraziomento di linee rette sul terreno – greco lamptér e lychné per un proba- nari, si trattava semplicemente della anche a una certa distanza – osser- bile tramite etrusco. parte arrotondata per difetto, che si vando la posizione relativa dei fili Per ultimo resta da fare un accenno traduceva in una perdita netta per il verticali. Ai nostri occhi di moder- a un altro prestito colto, che ci ri- commerciante. ni, potrebbe apparire una strumen- porta nell’area delle scienze esatte: Appare insomma evidente quanto i tazione primitiva, ma non va di- la «mantissa», che, nel linguaggio Latini siano stati debitori degli menticato che con l’uso di tali at- matematico, indica la parte decima- Etruschi per cultura e tecnologia e trezzi i tecnici romani hanno trac- le dei numeri irrazionali (dopo la per la trasmissione delle novità prociato rettifili di strade e acquedotti virgola, per intenderci). In latino il venienti dal mondo greco. E, attrae realizzato divisioni regolari dei nome significava genericamente verso due millenni di storia, la lincampi (le cosiddette centuriazioni) «parte aggiunta», ma il grammatico gua italiana conserva ancora traccia che ancora oggi marcano visibil- Festo ne ricordava l’origine etrusca di questo ruolo culturale trainante, mente il territorio in Italia e in e ne dava una complessa definizio- che conferisce un’inattesa attualità ne come «la parte rimanente di alla loro antica civiltà. molte regioni del Mediterraneo. a r c h e o 77


speciale • rivoluzione neolitica

rivoluzione neolitica

la conquista di un mondo di Vincenzo TinĂŠ e Massimo Vidale

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nuovo


Circa diecimila anni fa, l’Uomo scoprí l’agricoltura: da semplice cacciatore qual era stato per millenni, iniziò a coltivare il grano e gli altri frutti della terra, ad allevare animali per ricavarne la carne e il latte, le pelli e la lana. Un passaggio che, ancora oggi, sembra configurarsi come la prima rivoluzione globale nella storia dell’Umanità. Ma quali furono le cause che scatenarono questo processo? E come (e quando) si verificò la «neolitizzazione» dell’Italia?

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uella neolitica fu vera rivoluzione? Se pensiamo a quelle americana, francese e russa, oppure, per arrivare a tempi piú recenti, a quella islamica in Iran, la mente corre a eventi subitanei e violenti, che portarono alla rapida soppressione di antichi ordini sociali e alla loro sostituzione con altre forme di organizzazione politica. Se guardiamo alla graduale trasformazione di gran parte delle economie del Vicino Oriente antico, valicata la soglia temporale del 10 000 a.C. – cioè del periodo geologico detto Olocene, in cui tuttora viviamo – scopriamo che le cose, nel Neolitico, non andarono certamente cosí. Al contrario, la «neolitizzazione» fu un processo lento, sviluppatosi in Oriente nell’arco di almeno quattromila anni, e in Europa per almeno tre millenni (dal 6000 al 3000 a.C. circa); forse alcune società di cacciatori e raccoglitori, dopo lo scioglimento dei grandi fronti glaciali, si adattarono gradualmente a nuove condizioni climatiche e agli effetti, anche dirompenti, causati dalle loro stesse scelte produttive. Mentre altri, soprattutto in Occidente, devono essersi misurati con una realtà piú complessa, segnata dall’avvento di genti che giungevano da lontano con animali e tecniche sconosciute. Se pensiamo all’evoluzione sociale del genere Homo nella sua globalità, tre o quattro millenni, se misurati nell’arco di due milioni di anni, sono veramente una rapida scintilla

Disegno che ricostruisce una scena di vita quotidiana tipica del Neolitico, che ebbe nell’avvento della pastorizia uno degli eventi che hanno contribuito a farlo considerare come una svolta «rivoluzionaria» nella storia dell’uomo. Il primo a esprimersi in tal senso fu il paletnologo di origine australiana Vere Gordon Childe (vedi box a p. 82).

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di tempo: una scintilla capace, tuttavia, di innescare un esplosivo processo di trasformazione dell’ecologia del pianeta, delle società umane e della stessa struttura biologica della nostra specie, ancora ben lungi dall’essere giunto al suo compimento. Un vero e proprio salto nel buio, del quale non siamo ancora capaci di intravedere gli esiti. Neolitico, al di là della stretta accezione della parola («età della Pietra nuova»), significa agricoltura. E all’agricoltura, con la distruzione sistematica delle grandi foreste che essa comporta, è dovuta una drammatica crisi della variabilità biologica del pianeta. I biologi calcolano che il numero di specie vegetali e animali presente sulla Terra sino a pochi millenni or sono si aggirasse sui 10 000 000, ma i biologi sono sinora riusciti a classificarne 1 500 000. Poiché ogni giorno che passa qualche specie animale o vegetale si estingue, rischiamo di cancellare per sempre un patrimonio biologico insostituibile.

Trasformazione epocale della vita umana e del nostro pianeta, il Neolitico rappresenta forse un «salto nel buio» dalle conseguenze imprevedibili Nella pagina accanto: particolare di una collana con elementi in steatite, da Aveyron. Età neolitica. Tolosa, Muséum de Toulouse. In basso: macina e macinello utilizzati per la prduzione della farina. Età neolitica. Saint-Germain-en-Laye, Musée d’Archéologie nationale.

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le prime specie domesticate Nella cartina sono riportate le piú importanti specie vegetali e animali che l’uomo imparò a domesticare nel corso del Neolitico.

Nord America Carciofo Mirtillo

Girasole Tabacco

Mesoamerica Fagiolo Peperoncino Cotone Mais Manioca Patata dolce Taro Cane Tacchino

Altopiano Andino Papaya Patata Zucca Pomodoro Porcellino d’India Alpaca Lama

Brasile orientale Fagiolo Noce brasiliana Cacao

Arachide Ananas Taro Tabacco

Una questione di termini La parola «neolitico» ha una lunga storia negli studi antropologici e archeologici. Dobbiamo partire dalla teoria della «sequenza delle tre età» – pietra, bronzo, ferro – sviluppata da alcuni studiosi di archeologia nel corso del XVIII secolo sulla suggestiva base di alcuni miti del mondo classico, che legavano simbolicamente altrettante tappe dell’evoluzione sociale umana a diversi metalli, dalla purezza dell’oro alla corruzione e alla violenza del ferro. Successivamente (1836), Christian Jürgensen Thomsen, curatore del Museo Nazionale di Copenaghen cercò di dare a queste fasi date precise, creando cosí le prime cronologie scientifiche della preistoria umana. Una trentina di anni dopo, l’inglese John Lubbock suddivise l’età della Pietra in due periodi, chiamati con i termini rispettivi di Paleolitico («Pietra antica») e Neolitico


Asia sud-occidentale Fagiolo Pisello Orzo

Grano Rapa Carota

Alberi da frutto Vite Canapa

Melone Cipolla Avena

Segale Palma da dattero Pecore e capre

Bovini Maiale Cavallo

Cammello battriano (a due gobbe)

bacino Mediterraneo Orzo Bovini Sedano Dattero Aglio

Capre Uva Lenticchia Lattuga Olivo

Cina settentrionale e centrale Orzo Grano saraceno Albicocco Pesco

Africa Occidentale Marantacee (fecola) Zucca Melone Miglio Palma da olio Riso Igname Maiale

Africa Orientale Orzo Caffè Cotone Miglio Gombo (Okra) Sorgo Grano Asino Dromedario

Cavolo Soia Pruno

Asia meridionale e sud-orientale Riso Banano Albero del Pane Cetriolo Cocomero Noce di cocco Melanzana Canapa Cotone Lattuga

Lenticchia Taro Te Igname Gallina Cane Anatre e oche Maiale Zebú Bufalo

(«Pietra nuova»). Queste parole venivano dalla constatazione empirica (ma corretta) che i depositi evidentemente piú antichi contenevano pietre lavorate per percussione e scheggiatura, mentre quelli piú recenti – quelli neolitici, appunto – contenevano spesso strumenti e armi fatti con pietre accuratamente levigate, come asce, macine e macinelli, ornamenti perforati. La «pietra nuova» corrispondeva quindi alla «pietra levigata»; il termine è rimasto in uso, per la sua generale diffusione e comodità di riferimento, sino a oggi. Si tratta di un uso convenzionale, dato che, dopo un secolo e mezzo di ricerche dalle definizioni originali di Lubbock, la fabbricazione di utensili in pietra levigata (macinelli e mortai) era già nota nel Paleolitico Medio, e industrie di pietra scheggiata, anche in modo apparentemente grossolano, sono rimaste in uso durante le età dei metalli, e persino in alcune società e contesti contemporanei. a r c h e o 81


speciale • rivoluzione neolitica

L’archeologo delle rivoluzioni Vere Gordon Childe (1892-1957), ideatore dell’espressione «rivoluzione neolitica» è considerato il vero fondatore dell’archeologia preistorica scientifica, soprattutto per la sua unica capacità di ordinare puntigliosamente enormi masse di dati archeologici e di comporli in vasti affreschi storici. Elementi chiave della sua visione scientifica furono il concetto della cultura antica, definita da tipi omogenei di oggetti, come unità fondamentale di analisi; una visione fortemente dinamica dei processi storici; la tendenza, propria dell’antropologia dell’epoca, a spiegare il cambiamento culturale con fenomeni migratori (nota come «diffusionismo»). Per Childe, infatti, la civiltà, dal Neolitico in poi, era stata gradualmente diffusa, per millenni, da est verso ovest. Il senso dell’ordine, della sinteticità e della congruenza delle informazioni gli venivano, e può forse sembrare sorprendente, dal suo precedente curriculum di studioso di filologia classica. Childe rimane una figura anomala e anticonformista nella storia dell’archeologia: marxista, in un periodo segnato, nella sua ultima decade, dalla guerra fredda, non ebbe mai vita facile negli ambienti accademici britannici. Nel 1957, si ritirò dal mondo universitario e tornò nella natia Australia. Conscio del fallimento di molti aspetti dell’ideologia marxista, e forse nel timore che molto del suo lavoro stesse per essere reso inutile dal sorgere di un’archeologia del tutto nuova – basti pensare a un’altra rivoluzione che ebbe luogo in quegli anni, quella del radiocarbonio – Childe decise di porre termine alla sua stessa vita.

In alto: frammento di una figurina in terracotta identificata come un cavallo o un cervo, da Vela Spila (Croazia). 14 000 a.C. A oggi si tratta di una delle piú antiche attestazioni della produzione di ceramica. A destra: un altro frammento di figurina in terracotta da Vela Spila. 14 000 a.C. In questo caso è stato ipotizzato che possa trattarsi del quarto posteriore di un animale.

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In alto: Vere Gordon Childe, il «padre» della rivoluzione neolitica. Nella pagina accanto, in alto: resti di una delle strutture in pietra del sito neolitico di Skara Brae (isole Orcadi, Scozia). Scavato da Childe tra il 1928 e il 1930, l’insediamento fu occupato tra il 3100 e il 2000 a.C.

Tutto ciò avviene sull’onda di un’espansione demografica irrefrenabile, che ha presto comportato il trasferimento del cuore pulsante della cultura umana da un mosaico di campi e villaggi ai grandi agglomerati urbani, e ha conosciuto l’invenzione dell’amministrazione e dei primi germi della burocrazia, insieme alla crescita di organismi statali che, in molti casi, sono stati (e sono ancora) spietatamente repressivi. Possiamo chiederci: che cosa succederà quando tutta la terra diventerà un’infinita coltivazione di cereali? E come governeremo questa enorme massa umana in continua crescita, e sempre piú connessa e integrata sul piano informativo e mediatico? Quale ruolo avranno, in questo quadro, le grandi religioni mondiali, alcune delle quali affondano le loro radici proprio in questa epocale trasformazione? Sono domande complesse, a cui nessuno ancora è in grado di dare una risposta conclusiva. È difficile credere che tutto ciò sia iniziato «casualmente», circa 12 000 anni fa, in alcune aree dell’Eurasia meridionale, una regione che corrisponde ai bassi pendii delle valli che scendono in Palestina, Siria e Mesopotamia. Protagonisti di questa rivoluzionaria innovazione furono, infatti, gli accampamenti dei cacciatori di gazzelle che vivevano dove il medio corso dell’Eufrate, uno dei due grandi fiumi mesopotamici, si avvicina ai bacini dei corsi d’acqua che bagnano la fascia costiera siro-palestinese, il Giordano e l’Oronte.


In passato, prevaleva un’idea piuttosto semplice di questa «rivoluzione neolitica». La Suberde Musular Asikli Höyük produzione del cibo mediante agricoltura e Cafer Höyük Cayönü Hacilar Çatal Höyük allevamento era vista come la risposta a una Kösk Höyük Gritille Hallan Çemi Nevali Çori Hayaz condizione di crisi nella dispobilità di risorse Göbekli Tepe Gürcutepe Tell Abr alimentari, verificatasi circa 10 000 anni fa. Tell Qaramel Assouad Qermez Nemrik Shanidar Zawl Chemi Sabi Abyad Dere Haloula L’agricoltura e l’allevamento avrebbero perDja’de Shimshara Mureybet Abu Hureyra Magzalia Zarzi messo una felice uscita dal modo di vita dei CIPRO Ras Shamra Karim Shahir El Kown cacciatori e raccoglitori, caratterizzato da Jarmo Bouqras Mar endemiche, avvilenti condizioni di scarsità. Byblos Palmyra Mediterraneo Permettendo cosí la creazione, dall’8000 a.C. Tell Ramad Hayonim Mallaha in poi, dei primi insediamenti permanenti, in Nahal Orem cui la popolazione continuava a crescere e, El Wad Wadi Hammeh Choga Golan Kebara grazie alle eccedenze produttive, l’invenzione Jawa Shuqba Jericho Ti Ali Kosh gr Ain Ghazal i delle prime industrie artigianali tecnicamenNahal Hemar Eu te avanzate, in primo luogo della ceramica. In fra te Kilwa una visione permeata di fede nel progresso Beidha Ba’ja tecnico (gli scienziati chiamano queste conBasta solidate visioni «paradigmi»), tali conquiste Mar avrebbero poi gradualmente portato alla naRosso scita dei primi grandi insediamenti, al fiorire dell’arte, del simbolismo funerario e di nuove idee religiose. dalla gelosia, «inventasse», con atti di espro- Qui sopra: cartina priazione violenta e di arbitraria accumula- della Mezzaluna zione, la diseguaglianza sociale. Fertile, con i siti «comunisti» nella Lo scenario di tutto ciò era limitato alla Mez- piú importanti, mezzaluna fertile? Per gli storici e gli archeologi di fede marxi- zaluna Fertile, cioè all’arco di alture che si databili tra il X sta, questo felice mondo di contadini abbien- snoda dalla valle del Giordano a est, alle fasce e l’VIII mill. a.C. ti e artigiani operosi sarebbe stato improntato pedemontane del Tauro e quindi dell’Assiria, a un «comunismo primitivo», in cui pacifiche lungo l’attuale confine turco-siriano, per tribú, ignare di qualsiasi forma di proprietà chiudersi sulle prime valli dei monti Zagros, privata, praticavano la comunanza delle don- in territorio iraniano. Qui, infatti, nella culla ne, prima che qualche rapace malfattore, roso della civiltà euroasiatica, si sovrappongono le a r c h e o 83


speciale • rivoluzione neolitica

La sciamana di Hilazon Tachtit

La sepoltura singola di una donna natufiana anziana (aveva circa 45 anni) rinvenuta nel 2008 nella grotta di Hilazon Tachtit (Galilea, Israele) conteneva una sfera di basalto, una punta in osso, un piede umano mozzato, almeno 50 tartarughe, due crani di martora, l’ala di un’aquila, la coda di un uro, la zampa di un cinghiale, il bacino di un leopardo, un corno di gazzella. A parte il piede umano, sono tutti animali selvatici. In una fossa vicina vi erano le ossa di tre uri e resti di molte tartarughe: gli archeologi hanno interpretato il tutto come i resti di un banchetto rituale consumato in occasione della morte di questo importante personaggio, forse una sciamana.

In basso: i reperti faunistici trovati nella sepoltura associati (a destra) alle specie di appartenenza: dall’alto in basso, uro, martora, tartaruga, aquila e cinghiale.

Gusci di tartaruga Zampa anteriore di un cinghiale

Osso alare di un’aquila

Piede umano mozzato

Crani di martora

Coda di un uro

In alto: pianta della sepoltura di Hilazon Tachtit con la distribuzione dei reperti.

Frammento di sfera in basalto

aree naturali di origine degli antenati selvatici delle principali specie vegetali che sostennero l’impatto della grande trasformazione: cereali, legumi, pecore e capre, l’uro (il grande toro selvatico europeo), il maiale.

i mutamenti del clima Oggi, questo quadro lineare e in qualche modo rassicurante – piú o meno quello tracciato dal grande archeologo Vere Gordon Childe (vedi box a p. 82) – è stato in parte sconvolto. In primo luogo, c’è la questione del clima.Tra il 15 000 e il 12 700 a.C., dopo la fine dell’ultima glaciazione, vi fu una fase calda, piú umida dell’attuale, effettivamente seguita da un intervallo freddo che si protrasse per poco meno di due millenni tra il 12 700 e il 10 600 a.C., e poi da tre millenni molto piú caldi. Molti studiosi pensano che questa fase fredda, nota come «Dryas Recente» (dal nome di un bel fiore della tundra), abbia peggiorato rapidamente le condizioni di vita dei cacciatoriraccoglitori della regione, incoraggiandoli a trovare fonti di sussistenza alternative, intensificando esperimenti di seminagione e di stoccaggio dei semi, nonché della cattura degli animali, differendone il consumo. Altri studiosi, invece, ritengono che, in questa fase, nel Vicino Oriente il clima rimase sostanzialmente mite, con piogge che si protraevano tutto l’anno, e inverni temperati, grazie anche all’effetto mitigante del mare. La discussione continua, ma certamente il variare del clima 84 a r c h e o


non ebbe, nel Vicino Oriente, gli effetti drammatici che spesso ebbe, negli stessi millenni, in Europa. Negli ultimi cinquant’anni, inoltre, sono state esplorate numerose regioni del globo prima sconosciute. Oggi disponiamo di migliaia di nuovi siti, di ben piú numerose datazioni al radiocarbonio e di nuove importanti teorie. In molte parti del mondo, sembra che l’agricoltura sia stata preceduta da periodi (di varia lunghezza), di caccia e raccolta intensiva e selettiva, circoscritta cioè a un novero limitato di specie. In Cina settentrionale, per esempio, questa fase di intensificazione si protrasse tra l’11 000 e il 9000 a.C.; nelle regioni subtropicali della Cina meridionale tra l’11 000 e l’8000 a.C.; nell’Africa subsahariana tra il 9000 e il 4500 a.C. circa; nelle Ande tra il 7000 e il 5000 a.C. In Australia, la raccolta intensiva ebbe inizio nel IV millennio a.C., ma non sfociò mai nell’invenzione dell’agricoltura. In molte di queste situazioni, i raccoglitori iniziarono a comportarsi da «ingegneri ambientali»: scoprendo, per esempio, gli effetti benefici di incendi programmati sulla ricrescita di alcuni tipi di piante e tuberi, o della predazione selettiva di certi animali e varietà che garantivano un veloce ripopolamento, in particolari circostanze stagionali e climatiche. E poi la Mezzaluna Fertile non fu affatto l’unica culla della rivoluzione neolitica: gli esperti di bio-archeologia, infatti, pensano che condizioni climatiche di tipo mediterraneo, agli inizi dell’Olocene, si susseguissero – anche se in modo discontinuo – dalla Turchia sud-orientale attraverso il margine settentrionale dell’altopiano iranico fino alla valle dell’Hindukush, ai confini del Subcontinente indiano. L’agricoltura – e con essa la tecnologia neolitica che la accompagnò – fu quindi un fenomeno policentrico, con molti fuochi (probabilmente) ancora da scoprire.

un’«invenzione» plurima In terzo luogo, la complessità tecnica, da molti punti di vista, precede l’agricoltura. I cacciatori sapevano fare eccellenti colle a piú componenti per fissare le punte ad aste proRicostruzione di una sepoltura di epoca natufiana all’esterno della grotta di El Wad, sul Monte Carmelo (Israele). Tra il 12 500 e il 9600 a.C., le comunità natufiane affiancarono alla caccia le prime forme di raccolta selettiva di piante, che può essere considerata come una sorta di trampolino di lancio dell’attività agricola vera e propria.

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iettili da migliaia di anni. Le prime ceramiche a noi note rappresentano figurine animali e umane cotte in apposite fornaci in Moravia, nelle fasi centrali del Paleolitico Superiore (23 000 a.C. circa); figurine identiche, datate al 14 000 a.C., sono recentemente affiorate a Vela Spila, una grotta della Croazia. I vasi piú antichi del mondo risalgono al 17 000 a.C. e sono «pentole da cucina» trovate nella Cina centro-meridionale. La ceramica fu quindi inventata da cacciatori-raccoglitori paleolitici, in piú luoghi e i momenti diversi, diffondendosi e morendo a piú riprese, prima che la sedentarizzazione dei villaggi ne facesse esplodere la produzione, e che le pareti dei vasi diventassero comode pagine su cui tracciare complessi messaggi simbolici ed estetici.

Nel mondo dei cacciatori di gazzelle E di simboli e religione, ora, possiamo cominciare a parlare, tornando ai nostri cacciatori di gazzelle del primo Olocene. Appartenevano a una cultura, il Natufiano (dall’oasi di Wadi al-Natuf, in Israele) che, tra il 12 500 e il 9600 a.C, si diffuse nel corno sudoccidentale della Mezzaluna Fertile, corrispondente al bacino del Mare di Galilea e Mar Morto, la costa meridionale della fascia siro-palestinese e il Libano, fino a lambire il medio corso dell’Eufrate. Ad alta quota, il 86 a r c h e o

Libano e l’alta Siria erano connessi da foreste di conifere, ai piedi delle quali si estendeva senza interruzione una foresta di querce, pistacchio e altri arbusti di tipo mediterraneo. I Natufiani vivevano di caccia alla gazzella e ai cervidi, alle tartarughe e altri piccoli animali, ed erano raccoglitori intensivi di grano e orzo selvatico, pistacchi e mandorle, legumi e altre piante. L’unico animale domestico era il cane. Lungi dallo stagnare sull’orlo della fame, i Natufiani, anche nella transizione fredda del Dryas Recente, godevano di un ambiente ricco, con risorse variate e abbondanti. Gli esperimenti mostrano che con un falcetto in selce si raccoglieva, in un’ora di lavoro, 1 kg di cereali selvatici mondati; e che tre settimane di mietitura, effettuate da sei persone, bastavano a garantire quasi mezzo chilogrammo di frumento a testa per un anno. Le gazzelle, inoltre, abbondavano. Quale bisogno c’era, allora, di mettersi a coltivare? Non stupisce, quindi, che i Natufiani avessero avuto il tempo e l’opportunità di creare raffinati oggetti artistici, come monili e immagini di animali in osso e in pietra. Agli ultimi Natufiani va anche attribuita un’invenzione cruciale, quella della cottura del calcare per la fabbricazione della calce. I Natufiani vivevano in villaggi semi-sedentari fatti di una decina di case circolari seminterrate, nelle quali si usavano mortai, pestelli,


Nella pagina accanto: disegno nel quale si immagina la costruzione dei templi di Göbekli Tepe, presso Urfa (Turchia). A destra: l’«Uomo di Urfa», statua antropomorfa rinvenuta nell’omonima città. Età neolitica.

un culto totemico? Gli spettacolari pilastri riportati alla luce nel complesso cultuale di Göbekli Tepe (presso Urfa, in Turchia; vedi , nel testo, a p. 88) recano immagini di felini, cinghiali, lucertole, avvoltoi, scorpioni, vipere; anche i bacini in pietra, rinvenuti all’interno degli ambienti circolari, erano scolpiti a forma di animali. In altre località vicine, stanze simili ospitavano grandi statue in forma umana, con occhi intarsiati di nera ossidiana. Nelle immagini vi sono rari accenni al sesso maschile, e nessuno alla sfera della sessualità femminile. Molti studiosi ritengono che si tratti di immagini di antenati semidivini, legati al culto totemico di animali sacri.

Uno dei pilastri del grandioso complesso cultuale neolitico messo in luce a Göbekli Tepe, sul quale sono scolpiti un braccio umano e una volpe. Scavato da una missione archeologica tedesca, il sito è considerato il primo tempio dell’umanità.

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vasi in pietra incisi con disegni geometrici, e teche di lastre litiche per conservare il cibo. Il piú grande abitato natufiano, Ain Mallaha, in Israele, aveva una settantina di case e poteva ospitare 300 persone. La bellezza dei vasi litici decorati suggerisce che ospitalità e commensalità avessero un ruolo importante. I morti erano seppelliti dentro e fuori le abitazioni, e una serie di indizi suggerisce che esistesse una certa attenzione per la manipolazione dei crani e il deposito di resti di animali nelle tombe. A Wadi Hammeh (Giordania), per esempio, alcuni crani erano stati ritualmente combusti.

La rivelazione di gÖbekli tepe Ma per comprendere meglio le preoccupazioni ideologiche e spirituali di queste antiche popolazioni dobbiamo recarci a Göbekli Tepe, vicino alla città di Urfa, nella porzione turca dell’alta valle dell’Eufrate (vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008; anche on line su www.archeo.it). Qui, nel X millennio a.C., prima dell’avvento di una qualsiasi traccia di agricoltura, clan di cacciatori di gazzelle, uri, volpi e cinghiali iniziarono a costruire grandi ambienti circolari, ampi sino a 20 m, con i soffitti sorretti da enormi pilastri monolitici a forma di «T», che rappresentavano schematicamente figure umane. Gli straordinari ambienti rinvenuti a Göbekli Tepe, unici nel loro genere, non sarebbero templi, ma case riservate agli uomini in cui, nel corso di cerimonie di iniziazione, veniva ribadita l’importanza di antenati sacralizzati come fondatori ideali dei clan. In buona parte del Vicino Oriente, il X millennio a.C. vide l’inizio di una graduale transizione all’agricoltura, destinata a concludersi pienamente solo intorno al 7000 a.C. Fallito ogni sforzo con le gazzelle, pecore e capre stavano già subendo un lento processo di domesticazione, forse iniziato mille anni prima: le prime lungo i rilievi del Tauro, le seconde in un areale piú vasto, che includeva i monti Zagros. Quanto al maiale, fino a poco tempo fa, era considerato indigeno degli altopiani montuosi a nord della Mesopotamia; oggi gli studiosi pensano piuttosto a una domesticazione del cinghiale avvenuta in piú luoghi e in tempi diversi, e ritengono che i maiali del Vicino Oriente provengano piuttosto da un ceppo europeo. Le fasi piú antiche di questa trasformazione sono chiamate dagli archeologi «Neolitico pre-ceramico A», poiché nei primi insedia88 a r c h e o

menti conosciuti, fattisi gradualmente piú vasti e popolosi, la ceramica era ancora sconosciuta. I villaggi comprendevano case seminterrate circolari, con banchine interne suddivise in comparti per dormire e conservare il cibo. Molti pensano che l’incremento demografico abbia gradualmente spinto la popolazione al di fuori delle fasce collinari in cui prosperavano i cereali e i legumi selvatici. Nuovi gruppi, scesi dalle colline, avrebbero seguito il naturale corridoio boschivo che univa il Medio

In alto: l’archeologa britannica Kathleen M. Kenyon, che diresse gli scavi di Gerico dal 1925 al 1958.


Eufrate alla valle del Giordano. Qui l’ecologia delle pianure, ben piú aride, non avrebbe consentito le tradizionali forme di propagazione e crescita dei semi, costringendo i villaggi a sviluppare tecniche di coltivazione e di irrigazione primitiva, prima di poter crescere e radicarsi nei propri territori. Molti «misteri» sussistono ai margini di questa ricostruzione. Vale la pena di citare due esempi emblematici: il centro di Gerico, (Tell es-Sultan), è un problema aperto dagli anni Cinquanta del Novecento, in cui fu scavato da Kathleen Kenyon. Da campo natufiano temporaneo (10 000 a.C. circa), Gerico si trasformò rapidamente in un villaggio di centinaia, se non migliaia, di abitanti, protetto da un alto muro in pietra e da un fossato scavato nella roccia, largo piú di 8 m. Intorno all’8000 a.C., prima ancora che gli abitanti «scoprissero» l’agricoltura, il villaggio era difeso da una grande torre in pietra, alta 9 m, dotata di una scala interna di 22 gradini. L’idea di una «proto-città» di cacciatori-raccoglitori organizzata al punto da permettersi queste grandi opere collettive è ancora oggi una ardua sfida concettuale. All’estremità opposta della Mezzaluna Fertile, invece, nel sito di Choga Golan, ai piedi dei Monti Zagros, una missione tedesca ha recentemente trovato semi di grano e orzo coltivato, con i mortai e pestelli per macinarli, in strati che si In alto: Gerico (Tell es-Sultan). Resti di una torre databile intorno al 7000 a.C. e riferibile alla fase di frequentazione neolitica del sito. Qui accanto: oggetti in osso recuperati a Gerico nel corso degli scavi condotti da Kathleen Kenyon. Si tratta di strumenti utilizzati per cucire e filare in epoca neolitica. 7000-6000 a.C. Amman, Museo Archeologico. A sinistra: disegno ricostruttivo dell’abitato di Gerico, cosí come doveva presentarsi tra la fine del IV e gli inizi del III mill. a.C., conservando molte caratteristiche già definite nel Neolitico.

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speciale • rivoluzione neolitica In basso: testa di una delle statue in intonaco di calce rivenute ad ‘Ain Ghazal (Giordania). VII mill. a.C. Amman, Museo Archeologico.

datano intorno al 10 000 a.C., duemila anni prima che il fenomeno della coltivazione si manifestasse nel Levante: ancora una volta, le semplificazioni geografiche non reggono all’evidenza delle nuove scoperte. A partire dal 9500 a.C., assistiamo a un’altra importante rivoluzione, questa volta simbolica. Negli abitati dell’epoca circolano misteriose tavolette in clorite che, da un lato, recano fitti insiemi di immagini, perlopiú figure animali stilizzate (sembrano rappresentate le stesse specie presenti nell’iconografia di Göbekli Tepe) e, dall’altro, profondi solchi levigati: potrebbero essere, si pensa, strumenti usati a caldo

per raddrizzare i fusti delle frecce. Ma, contemporaneamente, compaiono anche, per la prima volta e con frequenza crescente, statuette femminili in argilla e pietra con i caratteri sessuali accentuati, insieme a statuette di tori dalle lunghe corna, che potrebbero alludere al lato maschile della fertilità. È l’inizio di quella che molti hanno chiamato «la religione della donna e del toro». Sottolineando i due ruoli procreativi, e, allo stesso tempo, il valore sacrificale del toro, queste immagini riflettono una maggiore attenzione ai temi della generazione, della morte, e forse del sacrificio come promessa di resurrezione.

nuovi fermenti sociali Questo ruolo del toro sembra accertato dalla scoperta di grandi fosse di scarico piene di ossa macellate in occasione di feste funebri, nel corso delle quali centinaia di persone consumavano collettivamente la carne di grandi uri. È possibile che l’idea di questa «sacra famiglia», spersonalizzata e dominata dalla sessualità femminile, abbia disgregato gradualmente il prestigio degli antenati dei clan, tradizionalmente venerati in cerimonie di iniziazione maschili. È anche certo che la società, al suo interno, fosse in fermento: negli abitati circolavano bracciali ben sagomati in marmo e ossidiana, perline in osso, conchiglia e steatite arrangiate in fogge complesse, perle in cornalina rosso fuoco, molto difficili da trapanare, e persino vasi in clorite con complicate decorazioni geometriche e zoomorfe. Una parte della popolazione – ecco cosa sembrano suggerire questi ritrovamenti – già cercava di distinguersi dal resto. Il periodo che va all’incirca dall’8300 al 7000 a.C. (Neolitico pre-ceramico B) corrisponde alla fase matura e tarda della neolitizzazione del Vicino Oriente. Mentre l’economia, anche per un graduale assottigliamento della fauna selvatica, si stabilizza sulla coltivazione di cereali e legumi domestici e sull’allevamento di capre, pecore e poi dei bovini, molti centri abitati si dilatano, fino a raggiungere i 7 o gli 8 ettari di estensione. Questi centri sono affollati di residenze ora a pianta rettangolare, in pietra o piú spesso fatte di mattoni crudi. In alcuni casi si tratta di file di costruzioni modulari, allungate intorno a viottoli e cortili; in altri, di case a un solo ambiente, ma scandite internamente da partizioni e agglomerate a formare blocchi contigui. Il commercio a lunga distanza di ossidiana e altre pietre pregiate, conchiglie marine, e 90 a r c h e o


presumibilmente di sale, legname e pelli legava culturalmente diverse regioni; la raccolta di coloranti creava una crescente dimestichezza con i minerali metallici e si imparava a lavorare il rame nativo per martellatura. Le dimensioni accresciute dei centri abitati e la prossimità con le greggi causavano inquinamento ed esposizione a virulenti agenti patogeni. Diete meno ricche di proteine e grassi, con cibi a base di farine e amidi causavano nuove patologie dentarie; presso i coltivatori neolitici del Pakistan nacquero presto le prime forme di chirurgia dentistica. Poichè la prestanza fisica non era piú un fattore di selezione, uomini e donne si fecero gradualmente piú bassi ed esili. L’agricoltura, a differenza delle precedenti attività di predazione, era favorita da nuove nascite, che garantivano piú braccia al lavoro dei campi: si nasceva di piú, e di conseguenza si moriva di piú, soprattutto in età infantile. Nelle «case degli uomini» avvenivano cerimonie elaborate e, almeno ai nostri occhi, piuttosto sinistre. A Çayonu, nel Sud-Est della Turchia, fu scoperta una impressionante «casa dei morti»: una sala absidata circondata da banchine e teche in pietra che contenevano i resti manipolati e rimescolati di 400 individui (soprattutto giovani uomini e donne), e 62 crani. Una lastra orizzontale, nella sala, risultò aspersa di sangue animale e umano, forse versato durante sacrifici cruenti. L’edificio sembra un complesso apparato per mescolare e conservare resti umani, nello sforzo di «creare» antenati «collettivi», piú consoni a rappresentare le comunità di villaggio che non gli antenati degli antichi clan. Un’altra importante attività rituale, diffusa nel Levante (ma recentemente identificata anche a Çatal Höyük, in Cappadocia, Turchia) è il cosiddetto «culto dei crani». Morti importanti erano sepolti in camere lignee sotto i pavimenti delle case; la testa, non ancora pienamente decomposta, veniva distaccata, ripulendone accuratamente il cranio. Quest’ultimo veniva poi ricoperto di intonaco bianco a base di calce, modellato con le fattezze di volti umani, e ricreandone gli occhi con conchiglie e bitume. I crani cosí trattati erano poi riseppelliti con cura, spesso allineati o in gruppi, presso le abitazioni. Con lo stesso candido intonaco, ereditato dalle tecniche natufiane, si costruivano statue antropomorfe destinate a essere abbellite da stoffe e gioielli. Sia i volti rimodellati sui crani, sia le statue hanno un aspetto fortemente ideale, del tutto impersonale, che forse corrisponde alla concezione

collettiva degli antenati che traspare dai riti della «casa dei morti» di Çayonu. Al volgere di questo periodo, nel corso del VII millennio a.C., furono create le oscure scenografie dei sacelli intonacati e dipinti del grande villaggio di Çatal Höyük, in Turchia. Queste sale di culto sono affollate di identità femminili, a volte nell’atto del parto, associate a creature predatrici, e a immagini e simboli taurini, tra cui banchine e protomi con file di corna di tori sacrificati. La «religione della donna e del toro» raggiunge qui un parossismo di espressione e ritualità, proprio mentre la memoria genealogica degli antenati sfuma in nuove rappresentazioni collettive ultraterrene.

A sinistra: gruppo in pietra raffigurante una coppia che si abbraccia, da Çatal Höyük. 6000 a.C. circa. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. In basso: teste di toro rinvenute all’interno di una delle strutture cultuali di Çatal Höyük. 6000 a.C. circa. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

la lunga marcia dei coltivatori Nel Vicino Oriente i vasi in ceramica furono inventati relativamente tardi, nel corso del VII millennio a.C. Inizialmente si tratta di semplici contenitori cilindrici o globulari, dall’aspetto rozzo e funzionale. Nell’arco di pochi secoli, la ceramica diviene oggetto di produzione specializzata e si arricchisce, grazie a un accurato controllo delle tecniche di cottura, di uno straordinario repertorio di motivi dipinti, incisi o impressi. Grazie alle ceramiche, praticamente indistruttibili e trovate in aba r c h e o 91


speciale • rivoluzione neolitica

Caverna del Pettirosso

Caldeirao

Baume Fontbrégoua Abri Pendimoun ? Peiro-Signado Chateaneuf les Martigues Draga

Jamina Sredi

Pena Agua Cabranosa

Covina

Smilcic Zelena Pecina Crvena Stijena

Basi

?

?

Cova de l’Or Cendres Cova del la Sarsa Carigüeta

? Sidari

El Khril

Yarimburgaz Ilipinar

Otzaki Magoulitsa

Cheirospilia

?

Mersin

Tarsus Ras Shamra

Levante

Regione adriatica occidentale

Marmara

Calabria e Sicilia (Stentinello)

Tessaglia (Magoulitsa)

Regione tirrenica e atlantica (Cardiale)

Epiro e isole Ionie (Sidari)

Africa del Nord

Byblos

Mar Mediterraneo

Regione adriatica orientale (Smilcic)

In alto: cartina nella quale sono sintetizzati i possibili rapporti tra le culture neolitiche caratterizzate dalla produzione della ceramica impressa.

bondanza negli abitati, possiamo seguire e studiare l’adozione del modo di vita neolitico dalle sponde (e dalle isole) orientali del Mediterraneo alla Grecia e ai Balcani, quindi all’Europa centro-settentrionale e alla penisola italiana, che fece da veicolo agli stessi sviluppi ancor piú a ovest. A partire dagli ultimi secoli del VII millennio a.C., lungo le coste di Puglia, Basilicata e Calabria, e nei rispettivi territori interni, incontriamo insediamenti di natura diversa che utilizzano vasi dalle pareti decorate con conchiglie, strumenti o semplicemente con unghie e dita. Questa tradizione tecnica è chiamata «della ceramica impressa»; tra il VI e il IV millennio a.C. essa si fa strada lungo le coste tirreniche, per arrivare fino in Sardegna, Corsica e Provenza, quindi in Spagna e lungo le coste atlantiche.

Di vaso in vaso La ceramica è una risorsa inesauribile per classificare e datare la diffusione e l’evoluzione delle popolazioni neolitiche in Italia. Per buona parte del VI millennio a.C. i primi agricoltori delle regioni centro-meridionali continuarono a usare le ceramiche impresse della

Alcuni centri neolitici del Libano, di Cipro, della costa anatolica, di Macedonia e Tessaglia, e di Corfú usano vasi simili, e questo suffraga l’idea, diffusa tra gli archeologi, che un’«ondata di neolitizzazione» proveniente dal Mediterraneo orientale si sia riverberata verso ovest nell’arco di tre millenni, rivoluzionando i modo di vita di genti che da sempre vivevano di caccia e raccolta. Secondo la bioarcheologa americana Melinda Zeder, si sarebbe trattato di un iniziale movimento migratorio, che nel corso del X e IX millennio interessò l’entroterra anatolico, le regioni del Danubio e dei Carpazi, sviluppatosi in seguito in Grecia e in Europa orientale sotto forma di «acculturazione» (la condivisione di tecniche, idee e modi di vita tra popolazioni diverse). In Francia e Spagna il Neolitico si


In alto: disegno ricostruttivo della fabbricazione di vasi in ceramica all’interno di una grotta. Nella pagina accanto, in basso, a sinistra: vaso in ceramica impressa, con decorazione pizzicata, da Favella (Cosenza); a destra: scodella in ceramica con quattro anse sopraelevate. Cultura di Fiorano, inizi del V mill. a.C. Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico.

In basso, a sinistra: tazza con decorazioni dipinte. Cultura di Serra d’Alto, IV mill. a.C. Matera, Museo Archeologico Nazionale «Domenico Ridola». In basso, a destra: vaso a bocca quadrata, dalla caverna delle Arene Candide (Finale Ligure). VI-V mill. a.C. Genova Pegli, Museo di Archeologia Ligure.

tradizione piú antica. Nel Settentrione, invece, gli archeologi identificano un mosaico di culture diverse, che sembrano piuttosto legate all’Europa centrale e ai Balcani. Tra la fine del VI e la prima metà del V millennio a.C., a nord troviamo i gruppi detti dei «Vasi a Bocca Quadrata», mentre piú a sud, lungo le coste adriatiche centro-meridionali, alle ceramiche impresse si sostituirono ceramiche elegantemente dipinte; contemporaneamente sul Tirreno si usavano vasi decorati da incisioni lineari. La fine del Neolitico (IV millennio a.C.) coincide a nord con la diffusione di stili legati all’entroterra francese e svizzero, mentre a sud si diffusero vasi dalle pareti lucide e compatte, con anse a forma di rocchetto per tessere, attribuite alla «Cultura di Diana».

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speciale • rivoluzione neolitica Similaun Valcamonica Riparo Gaban Lagozza Remedello

Rocca di Rivoli

Vhò Lunigiana Gaione Arene Lugo di Ravenna Candide Grotta del Leone

Mileto

Ripabianca di Monterado

Puzzolente Ripoli Pienza Grotta dell’Orso Catignano La Marmotta Pianosa Isole Tremiti Marcianese Grotta Patrizi La Defensola Fucino Manfredonia Occhito Tavoliere Casale del Dolce Bari Rendina Salentino Capri Baselice Matera Grotta della Madonna

Lipari

Acconia

Sibari

Capo Alfiere

Grotta dell’Uzzo

Mar Mediterraneo

Bova Marina Catania

Serra del Palco Piano Vento

Siracusa

Pantelleria

Vulpiglia Gozo Malta

Cartina dell’Italia, con alcuni dei piú importanti siti di età neolitica. Le zone denominate in rosso indicano alcune concentrazioni in cui tale presenza è particolarmente significativa: Fucino: Grotta Continenza, Ortucchio, Santo Stefano; Tavoliere: Passo di Corvo, Ripa Tetta, Foggia, Lagnano da Piede, Fonteviva; Manfredonia: Grotta Scaloria, Coppa Nevigata, Masseria Aquilone, Masseria La Quercia, Masseria Candelaro; Bari: Balsignano, Ipogeo Manfredi, Cala Scizzo, Grotta Pacelli, Cala Colombo; Salentino: Serra Cicora, Porto Badisco, Torre Sabea; Matera: Serra d’Alto, Trasano, Tirlecchia, Murgia Timone, Murgecchia; Sibari: Favella, Grotta Sant’Angelo, Grotta San Michele; Bova Marina: Umbro, Penitenzeria; Lipari: Contrada Diana, Acropoli, Castellaro Vecchio; Catania: San Marco, Trefontane, Paternò, Perriere Sottano; Siracusa: Stentinello, Megara Hyblaea, Matrensa.

sarebbe affermato piuttosto per diffusione (adozione locale di nuovi tratti culturali). Nel frattempo, però, molti studiosi sono convinti che, tra il 9000 e il 6000 a.C., gruppi di coloni del Mediterraneo orientale abbiano continuato a viaggiare per mare, insediandosi a piú riprese sulle coste siciliane, adriatiche, tirreniche e nordafricane. Nel Sud-Est della nostra Penisola, lungo le coste e le vie principali di penetrazione fluviale, sorgono ben presto quelli che sono stati chiamati «avamposti coloniali»: villaggi di me94 a r c h e o

die dimensioni, già ben strutturati, fatti di grandi capanne lignee intonacate, che vivevano già largamente di agricoltura e allevamento, favoriti da condizioni climatiche ottimali (tra il 5500 e il 2500 a.C. il clima fu sensibilmente piú piovoso e umido di oggi). Come nel resto d’Europa, anche in Italia simili sviluppi si spiegano con un processo di radicale trasformazione biologica, prima ancora che tecnologica, economica e culturale. Il nuovo modo di vita si basa, infatti, sull’importazione di specie vegetali e animali domestiche originarie del Vicino Oriente, che si adattano gradualmente all’ambiente peninsulare, insulare e padano e agli habitat specifici: costieri, collinari, di fondovalle.Tra boschi radi di querce e lecci si aprono ampie radure erbose, idonee alla coltivazione dei cereali.

l’Invenzione dell’Italia rurale Il successo fu rapido. I primi a essere coltivati furono il farro e il farricello, insieme all’orzo, mentre il grano duro e l’avena – con le leguminose – furono coltivati sistematicamente solo in fasi piú avanzate del Neolitico meridionale. Nell’Italia centrale lo scavo del sito sommerso de La Marmotta, nel lago di Bracciano (Roma), ha rivelato diverse specie di cereali (farro, farricello, orzo e grano tenero e duro) e di leguminose (lenticchia, veccia, pisello), ma anche vite e papavero da oppio, sottoposti a trattamenti sistematici di selezione e stoccaggio. Per la raccolta si usavano falcetti col manico di legno decorato e lamelle di selce fissate con mastice. Fondamentale era anche la raccolta della frutta: susine, prugne, ciliegie, pere, mele e fichi, ma anche fragole, more, lamponi e nocciole. Nei paesaggi densamente forestati dell’Italia settentrionale, i coloni neolitici disboscarono tramite incendio, scalvatura (la potatura sistematica) e il rinsecchimento degli alberi di alto fusto, liberando piccole aree da coltivare, per poi abbandonarle a favore di nuove aree, in rotazioni che facilitavano la naturale rigenerazione dei terreni. Nel sito di Sammardenchia (Udine) si coltivavano le principali specie di leguminose e cereali, tra cui un frumento di probabile origine caucasica. Nel Neolitico Medio e Recente del Settentrione, tra le nuove specie coltivate compaiono anche il lino (per olio e fibre tessili) e il papavero, documentati nei siti (oggi sommersi) sulle sponde dei laghi dell’arco alpino. Capre e pecore furono, senza dubbio, introdotte dall’esterno già allo stato domestico,


le prime «fattorie» in puglia Il piú straordinario complesso di villaggi del Neolitico europeo è quello del Tavoliere pugliese. Le ricognizioni condotte su 200 degli oltre 1000 siti, già scoperti dalle foto aeree, rivelano che 180 di essi appartengono, sulla base delle ceramiche rinvenute in superficie, al primo Neolitico (5800-5300 a.C. circa). Di ampiezza inferiore ai 2 ettari, erano protetti da un singolo o doppio fossato a pianta arcuata; si ritiene che si tratti di «fattorie» monofamiliari. 58 insediamenti appartengono, invece, alle fasi iniziali del Neolitico Medio (5300-4400 a.C. circa); sul Tavoliere sorsero veri e propri villaggi con fossati perimetrali concentrici e grandi fossati esterni aperti a spirale, che abbracciano aree anche superiori a 100 ettari. Si tratta di opere imponenti, che richiedevano la collaborazione di centinaia di lavoranti, sia per la costruzione, sia per la manutenzione. Probabilmente racchiudevano aree agricole e non soltanto zone abitate. Alcuni di questi centri dominanti, come il piú famoso di questi villaggi, Passo di Corvo, crebbero inglobando abitati vicini. Solo 28 siti, infine, appartengono alle fasi avanzate del Neolitico Medio e al Neolitico Recente (4300-3000 a.C. circa). Ormai privi di fossati di recinzione e dei fossati interni, i siti piú tardi contenevano rade strutture abitative ed erano concentrati sulle aree collinari. La rarefazione e lo spostamento dei villaggi si spiegano con l’evolversi in senso arido delle condizioni climatiche, ma anche con l’ipotesi di una eccessiva deforestazione.

In alto: il villaggio neolitico di Passo di Corvo (Foggia) durante lo scavo: sono ben riconoscibili i fossati scavati intorno alle strutture dell’abitato. In basso: ricostruzione di una delle capanne del villaggio.

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speciale • rivoluzione neolitica

il prestigio della pietra nera L’economia fondamentalmente autarchica dei villaggi neolitici italiani non deve ingannare. Lo stabilirsi di reti commerciali per lo scambio e la distribuzione di materie prime rare e oggetti di pregio è il risultato forse piú evidente della complessità sociale neolitica, che prevedeva nuove esigenze di consumo e di rappresentazione dello status superiore di alcuni gruppi e individui, innescate dalla disponibilità di un crescente surplus alimentare. I vari gruppi distribuivano e scambiavano selce, conchiglie marine (prima tra tutti la rossa ostrica spinosa Spondylus, abbondante nel Mediterraneo orientale e nell’Egeo), rocce vulcaniche per fare le macine, resine dalle mille applicazioni, ocra, cinabro e steatite. Tra i nuovi materiali di pregio vi sono le pietre verdi alpine e l’ossidiana di Lipari. Le prime sono rocce metamorfiche caratteristiche delle regioni dell’arco alpino nord-occidentale (Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta): eclogiti, giadeiti, serpentiniti, rocce dure e verdi, usate soprattutto per fabbricare lame di accette. I prodotti finiti o gli abbozzi prelavorati ottenuti da queste rocce ebbero un vasto successo, circolando in tutta Italia e in vaste regioni dell’Europa. In particolare, stupende lame per asce da parata, tanto sottili e lunghe (fino a piú di 30 cm) da non avere alcuna utilità pratica, ma solo simbolica e di prestigio, raggiungevano varie località in Francia, Germania, Gran Bretagna e perfino in Irlanda. L’ossidiana, vetro vulcanico nero, si trova in Italia solo in quattro località: Lipari, Palmarola, Pantelleria e Monte Arci in Sardegna. L’ossidiana di Lipari è la migliore. Già sfruttata alla fine del Paleolitico, nel Neolitico Antico, compare in un gran numero di siti peninsulari, raggiungendo la Liguria e la Francia meridionale sul Tirreno e la piana friulana sull’Adriatico.

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dato che non esistono in Italia i loro possibili progenitori selvatici. Bue e maiale, però, possono essere stati selezionati localmente dall’uro e dal cinghiale, entrambe specie endemiche in Italia. La pecora, piú idonea rispetto alla capra a sopportare lunghi trasferimenti, magari via mare come quelli necessari per la sua introduzione nella Penisola, può aver giocato un ruolo cruciale. Lungo i rilievi appenninici, dalle fasce pedemontane alle pianure costiere, i nuovi villaggi neolitici combinarono economie ormai prettamente agricole con la pastorizia. L’estensione delle ricerche sul territorio intorno ai villaggi principali ha portato alla scoperta di numerosi abitati minori: si tratta sia di possibili stazioni invernali per greggi transumanti di caprovini, sia di stazioni in grotta e all’aperto, dove le tradizionali attività di caccia, pesca e raccolta mantenevano un significativo ruolo economico. La caccia era praticata, con arco e frecce, soprattutto al cinghiale, al cervo e all’uro; la pesca prevalentemente con lenza e amo da terra, ma anche con nasse e reti da barche o arpioni fatti di minute pietre scheggiate, e la raccolta dei molluschi aperti con strumenti litici, come quelli trovati a Coppa Nevigata (Foggia). I coltivatori neolitici crearono cosí quell’economia mista agro-pastorale, sostenuta anche da caccia e pesca, che per millenni avrebbe poi sostenuto la nostra Penisola.

la casa come metafora Al centro del nuovo mondo del neolitico vi era la casa, non solo come fulcro della famiglia, ma anche come motore e senso ultimo di quello che antropologi come Marshall Sahlins e Claude Meillassoux hanno chiamato il «modo di produzione domestico»: un modo caratterizzato dalla coltivazione di terreni a buona rendita e sfruttati con regolari scadenze stagionali, dall’uso del lavoro umano e animale come esclusiva fonte di energia, e da strumenti di lavoro e tecnologie che ogni unità poteva mettere in campo da sola. La casa e il villaggio, inoltre, come sostiene Ian Hodder, l’archeologo che da decenni indaga il sito neolitico di Çatal Höyük (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012; anche su www.archeo.it), rappresenterebbero il principale fulcro dell’elaborazione simbolica neolitica e la metafora di strategie socio-economiche e di relazioni di potere, basate sull’esclusione, il controllo e la totale, irreversibile «domesticazione» del mondo selvatico. Nel Meridione della Penisola e in Italia cen-


trale, fin dal piú antico Neolitico, si viveva in grandi capanne rettangolari o ellittiche, con pali portanti fondati in buche e canalette, e, nelle pareti, intelaiature vegetali intonacate. Il mattone crudo del Levante, molto usato anche in area balcanico-danubiana, era stato abbandonato. In altri siti, piú tardi, sono note case rettangolari absidate, con muretti in pietra a doppio paramento, e, all’interno, i pali della struttura a telaio intonacata. Capanne rettangolari in legno erano in uso anche nel vilaggio, oggi sommerso dalle acque del lago di Bracciano, de La Marmotta; qui erano disposte in schiere parallele, che seguivano l’andamento della sponda lacustre. Fino a poco tempo fa, le strutture piú comuni negli abitati neolitici del Nord erano fosse colme di terreno carbonioso e altri resti, interpretate come «case infossate». Ma si tratta di un’interpretazione errata. Nel sito del Neolitico Antico di Lugo di Romagna, un rovinoso incendio e il seppellimento degli strati sotto 14 m di limo fluviale hanno consentito il recupero di un edificio eccezionalmente conservato: la capanna di Lugo è rettangolare, e misura 10 x 7 m; le pareti sono composte da una trama a graticcio di canne e rivestite da ampie quantità di intonaco, mentre la copertura era probabilmente a doppio spiovente. Lo spazio interno era sud-

In alto: frammenti di idoletti e statuine fittili rinvenuti negli scavi del sito neolitico di Sammardenchia (Udine). V mill. a.C. circa. Le ricerche hanno evidenziato i legami che unirono l’insediamento friulano con il gruppo di Danilo, una cultura neolitica che si sviluppò nella fascia orientale dell’Adriatico. Nella pagina accanto: lame e strumenti in ossidiana di Lipari.

diviso in due ambienti e occupato da un focolare centrale, mentre un forno con copertura a volta era collocato a ridosso della parete settentrionale. I focolari erano appoggiati al suolo, o costruiti con sottofondi in pietre o argilla. I forni per il pane avevano volte in terra. Altre strutture per cuocere erano scavate nel terreno: vi si arroventavano i ciottoli su cui stendere gli alimenti da cuocere alla griglia o al forno, coperti di frasche e terra. Si usavano anche pozzi, cisterne e recinti per il bestiame. I fossati che circondano numerosi abitati neolitici sono stati oggetto di studi e discussioni. Alcuni pensano che avessero funzioni difensive, altri che servissero principalmente a raccogliere acqua per il bestiame. Per i grandi fossati dei villaggi del Tavoliere (vedi box a p. 95), si è anche pensato che lo scopo principale fosse quello di drenare il terreno, rendendo piú agevoli le superfici abitative. In ogni caso, non va trascurato il valore ideale di delimitazione dello spazio culturale rispetto a quello naturale di queste grandiose opere collettive, che rappresentano il tratto caratteristico di molte culture del Neolitico italiano. Sistemi di recinzione con palizzate lignee, con o senza fossati, sono documentati in siti della Pianura Padana di varie fasi del Neolitico recentemente scavati.

Nel grembo della Dea Il mondo neolitico era certamente affollato da divinità, spiriti, antenati, e regolato da credenze, prescrizioni e rituali; ma, per accedere a questa realtà perduta, l’archeologia della Penisola dispone di un accesso molto limitato: i reperti che meglio evocano la dimensione spirituale di quest’epoca sono le rare statuine femminili in terracotta note come dee madri. Certamente radicate nella «rivoluzione dei simboli» del Levante e nei culti «della donna e del toro», largamente diffuse nell’Europa sud-orientale, le statuine compaiono anche nelle diverse culture del Neolitico italiano. Oltre che come rappresentazioni di divinità, queste immagini sono state variamente interpretate come ritratti di personaggi viventi o di antenati, rappresentazioni della corporalità o della femminilità/maternità, bambole per bambini o anche come simulacri a scopo didattico per adolescenti. Certo è che quelle delle fasi piú antiche del Neolitico meridionale, analogamente a quanto era avvenuto nel Levante e avveniva nell’Europa sud-orientale, evidenziano soprattutto i caratteri sessuali primari. Un cola r c h e o 97


speciale • rivoluzione neolitica A sinistra: Vicofertile (Parma). La tomba femminile, scoperta nel 2006, al cui interno, tra gli oggetti del corredo, era compresa una statuina in terracotta raffigurante una «Grande Madre» (foto in basso). La sepoltura risale al Neolitico Medio e, in particolare, è ascrivibile alla II fase della Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata (4500-4300 a.C.).

la dea di vicofertile Già all’indomani del ritrovamento, la statuina di Vicofertile è stata associata alle rappresentazioni della dea madre. In realtà, piú di un elemento suggerisce che possa trattarsi di una raffigurazione legata al mondo ctonio. È questa l’ipotesi di Maria Bernabò Brea, l’archeologa a cui si deve la scoperta, che ha sottolineato come la figura abbia come caratteristiche principali la rigidità e la magrezza, il grande naso, prominente come un becco, e anche l’assenza della bocca. Si tratterebbe, insomma, di una signora della vita, della morte e della rinascita, equiparata alla madre terra dalla quale muore e rinasce ogni anno la vegetazione.

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Il mondo dei morti Nel Neolitico Antico della Penisola i defunti erano inizialmente sepolti in posizione rannicchiata, isolati o a coppie, in semplici fosse scavate nel terreno, senza alcun corredo, all’interno delle stesse aree abitative. A volte erano deposti in strutture preesistenti, come fosse usate come silos, o come cava di argilla, oppure entro pozzi e fossati. In seguito, nel Meridione si diffuse l’uso di contornare le fosse con un recinto di pietre o di grandi lastre litiche, inaugurando una tendenza alla monumentalità dei sepolcri, con corredi funerari contenenti vasi o strumenti in pietra. Nel Neolitico Medio del Settentrione compaiono piccole necropoli evidentemente organizzate per gruppi familiari, come indicano, in qualche caso, le analisi antropologiche. Si tratta di inumazioni in semplice fossa nell’area emiliana, e in casse di lastre in pietra nella Valle dell’Adige, come nella necropoli de La Vela (Trento), nelle grotte della Liguria, alle Arene Candide e alla Pollera (Savona). Il corredo, spesso presente anche in tombe di infanti e di donne, comprende vasi, asce in pietra levigata, lame in selce e in ossidiana, punte di freccia, collane e bracciali in pietra e conchiglia. In Emilia vi sono anche rari casi di incinerazione, forse connessi a sepolture a inumazione. Nella fase di passaggio dal Neolitico Medio al Recente compaiono, infine, nel Sud, le prime vere necropoli, con deposizioni singole e multiple, cenotafi (tombe senza resti umani) e deposizioni secondarie di resti scheletrici intensamente rimaneggiati. Alla semplicità delle origini, con la crescita dei villaggi e l’aumento della complessità sociale, si sovrapponevano nuove esigenze di rappresentazione sociale e rituali sempre piú elaborati: il mondo dei morti inseguiva e ricreava quello dei vivi.

legamento esplicito alla riproduzione e al parto sembra suggerito anche nella loro posa seduta o accovacciata. Nel corso del Neolitico Medio, le volumetrie plastiche delle fasi precedenti divengono semplici supporti stilizzati, dove il messaggio principale è affidato a forti simboli esterni, come farfalle e rettili (in un esemplare a Passo di Corvo). Nel Neolitico Recente della Puglia, la schematizzazione a «T» dei volti e le complicate acconciature esaltano il carattere inequivocabilmente ieratico di queste immagini. Statuine schematiche si ritrovano anche nelle culture dell’area medio-adriatica, ma la loro diffusione principale interessa quella padano-alpina. Nel gruppo trentino del Gaban (Trento) spicca una minuscola statuina su placca ossea, schematica e planare, ma accuratamente intagliata e ricoperta da segni importanti, come la collana con pendente o il motivo a spiga al di sopra dell’area genitale, simbolo esplicito della «rinascita vegetale» a partire dal grembo della madre terra. Le «dee madri» si trovano in grotta o in villaggi all’aperto, spesso frammentate – forse

volutamente per sancirne il disuso – in prossimità di luoghi sacri o delle case dove, verosimilmente, erano venerate dal gruppo familiare. La recente scoperta di una grande statuina integra in una tomba del Neolitico Medio a Vicofertile (Parma) è una straordinaria eccezione a questa norma, e suggerisce un ruolo peculiare della defunta, forse una sciamana o un capo (vedi box alla pagina precedente; e vedi anche «Archeo» n. 256, giugno 2006). Oltre alle statuine, sono probabilmente riferibili alla sfera del sacro idoli schematici in pietra, osso e terracotta, motivi antropomorfi o zoomorfi dipinti o modellati su vasi, statuette di bovini, ciottoli dipinti, l’uso diffuso dei pigmenti a base di ocra, e le caratteristiche pintaderas, stampi in terracotta usati per intricate pitture corporali. In grotte e nei pressi di fonti e acque, depositi di offerte e sepolture di resti umani suggeriscono pratiche di culto e propiziazione della fertilità. Forse facevano parte della spiritualità neolitica anche rituali di fondazione, con depositi di oggetti e crani umani all’interno delle capanne.

In alto: i cosiddetti «Amanti di Valdaro»: si tratta di una sepoltura neolitica scoperta nel 2007 nel Mantovano, al cui interno sono stati rinvenuti, in una posizione simile a un abbraccio, un uomo e una donna.

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antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

I GIORNI PIÚ BELLI DELL’ANNO nel mese di dicembre arrivavano le feste piú attese dai Romani: erano i saturnali, in occasione dei quali ogni eccesso diventava lecito e gli schiavi si trasformavano... in padroni

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i tutte le feste del «generoso» calendario dell’antica Roma (vedi «Archeo» nn. 345 e 346, novembre e dicembre 2013), la piú popolare e piú attesa era l’ultima, in ordine cronologico. Quella dei Saturnalia che, nel mese di dicembre, a conclusione dell’anno, era dedicata a Saturno, il dio della mitica età dell’oro, durante la quale gli uomini, tutti uguali, avevano vissuto in pace e senza bisogno di lavorare. Di qui la caratteristica di «vacanza» che era propria della festa, originariamente celebrata – come in una sorta di nostalgica rievocazione – nel solo giorno 17 del mese (sedicesimo prima delle calende di gennaio, per dirla come gli antichi). Due giorni ulteriori furono aggiunti al tempo di Cesare, dopo la riforma del calendario, e ancora un quarto all’inizio dell’età imperiale (verso il 40 d.C.), per opera di Caligola. Alla fine, tuttavia, s’arrivò a considerare che ne facessero parte, come una sorta di appendice, anche i giorni successivi al 20, fino al 23, durante i

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quali si celebrava la Terra, come dea dispensatrice di risorse, sotto la denominazione e con le prerogative diverse di Ops, Diva Angerona e Acca Larentia (nelle feste, rispettivamente, degli Opalia, il giorno 19, dei Divalia, il 21 e dei Larentalia, il 23). Il vero e proprio giorno festivo dei

Saturnali, quello riservato ai riti e alle cerimonie religiose, rimase però il 17, poiché in quel giorno del 497 a.C. era stato dedicato il grande tempio di Saturno, ai limiti del Foro e sulle estreme pendici meridionali del Campidoglio (l’antico Mons Saturnius) dove se ne vedono ancora i resti, pertinenti al restauro


posteriore all’incendio del 283 d.C., con l’alto podio e le otto grandi colonne di granito del pronao.

rito a capo scoperto Secondo la tradizione, quel tempio aveva sostituito un antichissimo altare elevato in onore del dio da Ercole, al quale era pure attribuita

l’origine del culto e della festa. Ciò spiega perché l’atto solenne del sacrificio del porcello che costituiva la parte piú importante dei riti sacri, veniva eseguito alla moda greca, col celebrante a capo scoperto (mentre, secondo la moda romana, avrebbe dovuto essere velato capite). Al sacrificio seguiva un

I Romani della decadenza, olio su tela di Thomas Couture. 1847. Parigi, Musée d’Orsay. La scena immaginata dall’artista può ben essere accostata al clima di trasgressione e sregolatezza che caratterizzava i Saturnalia, le solenni feste religiose di origine contadina che si celebravano in onore di Saturno.

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«lettisternio», ossia un banchetto sacro, organizzato dal Senato, davanti al tempio e presente la statua del dio collocata su un letto conviviale, al termine del quale, con la formula rituale iò Saturnalia («Evviva i Saturnali»!), venivano annunciate solennemente le feriae dei giorni seguenti: quelli che Catullo defisce «i piú belli dell’anno». Si trattava, infatti, d’una sorta di Carnevale e, in ogni caso, della piú grande e piú lunga occasione di evasione dalla normalità quotidiana e di svago offerta al popolo, che la viveva intensamente e coralmente, all’insegna della totale astensione da qualsiasi attività lavorativa, in ricordo della spensierata «età dell’oro», e nella piú completa

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libertà di comportamento, fino alla trasgressione, alla sregolatezza e alla licenziosità. E alle stranezze e le follie senza senso (come i tuffi nelle fontane, spontanei o... forzati).

vietato essere seri «In quei sette giorni – scrive il retore greco del II secolo d.C., Luciano – è proibito solamente di compiere azioni serie e importanti. Ma ubriacarmi, tripudiare, giocare a dadi, ospitare schiavi, cantare e ballare nudo, imbrattarmi il viso con la fuliggine e farmi gettare

nell’acqua gelida ... questo posso farlo a volontà». Prima di lui, invece, Seneca, in una delle sue Lettere a Lucilio, si lamentava: «è stato concesso ufficialmente ogni diritto alla dissolutezza», mentre soleva anche dire Non semper Saturnalia erunt, che potremmo tradurre «Non sarà sempre carnevale»! In nessun altro momento c’era, a Roma, tanta tolleranza, e quello era l’unico periodo dell’anno in cui fossero consentiti, in pubblico, il gioco d’azzardo e le scommesse

Nella pagina accanto: dado in osso, da Complutum (nei pressi dell’odierna Alcalá de Henares, Spagna). In basso: particolare di un mosaico raffigurante alcuni giocatori di dadi, da El Djem. III sec. d.C. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.


(ma il gioco, specialmente quello dei dadi, veniva «giustificato» in quanto stava a simboleggiare la funzione che aveva Saturno di distribuire la sorte ai mortali). Si capisce, allora, perché il termine «saturnale» sia diventato sinonimo di «manifestazione sfrenata e scoperta di tripudio», come scrivono i nostri dizionari. Sempre in ricordo dei tempi mitici e della condizione d’eguaglianza che li aveva distinti, una «pausa di libertà» veniva concessa anche agli schiavi, che, per esempio, potevano permettersi di parlare impunemente (magari per «sfogarsi» delle frustrazioni e dei malumori accumulati durante l’anno). Orazio, rivolto a uno di essi (Sat. II,7,4-5), lo incita: «Approfitta della libertà, visto che cosí vollero i nostri padri; usala. Di’ pure». Ed era anche concesso loro di banchettare insieme ai padroni o addirittura d’essere da quelli serviti e riveriti, tanto che la festa veniva anche detta «degli schiavi» (feriae servorum). Dal canto loro, gli uomini liberi, smessa la toga, al punto da far apparire bizzarro e stravagante chi si ostinasse a conservarla (come osserva Marziale, IV,24), se ne andavano in giro indossando la synthesis, una specie di farsetto, d’origine etrusca, attillato, sgargiante e finemente guarnito, oppure fantasiosamente abbigliati e mascherati, con in testa il pileum, il «berretto frigio» (normalmente posato sul capo degli schiavi al momento in cui venivano affrancati) che pertanto assurgeva ad autentico simbolo della festa (e della libertà che in essa imperava), sicché, ancora Marziale poteva parlare, per quei giorni, d’una Roma pileata. Di nuovo, Seneca osservava che, a motivo dei Saturnali, «dicembre è il mese in cui la vita in città è piú intensa che mai» (anche se poi aggiungeva che al punto in cui s’era arrivati non c’era poi piú tanta distinzione tra i giorni dei Saturnali e tutti gli altri: «ormai si assomigliano tanto – scrive – che

non deve essersi sbagliato chi disse che un tempo dicembre era un mese, ora è un anno intero»). Di giorno e di notte tutti erano in strada, a far baldoria, ballando e cantando, a scambiarsi scherzi e regali, vino e dolciumi, mentre musici e attori, danzatrici e saltimbanchi, lottatori e gladiatori improvvisavano spettacoli all’aperto, le prostitute avevano campo libero d’esercitare il loro mestiere e ovunque s’imbandivano banchetti e libagioni, con bevute a non finire tanto da far scrivere al solito Marziale di madidi dies, «giorni bagnati», e, ancora a Seneca di «popolo ubriaco e vomitante»!

il riposo del contadino In realtà la motivazione di tanta vacanza, al di là delle leggende e della tradizione, stava tutta – alle origini contadine della festa – nella circostanza della fine dell’anno agricolo. Concluso il lavoro dei campi con le operazioni della semina (indicate dalla parola satus, dal verbo serere, che, non a caso, aveva la stessa radice di Saturnus), ci si disponeva allegramente al meritato riposo della stagione morta, in attesa di ricominciare il lavoro a primavera. Intanto, per propiziarsi l’abbondanza futura, si dava fondo alle riserve alimentari della casa, «consumando», in una sorta di rituale magico e «provocatorio», tutto quello che rimaneva di quanto era stato prodotto nel corso dell’anno, per poterlo riavere nell’anno nuovo. Cosí, immediatamente prima del solstizio d’inverno, la festa serviva anche a marcare la cesura tra l’anno che volgeva al termine e quello che stava per subentrare. Per questo, tra i doni che ci si scambiava, insieme alle «bamboline» di stoffa e alle piccole figurine di terracotta o di cera (e perfino di pasta di pane) – i cosiddetti sigilla (da signum, «immagine») – che alludevano agli uomini soggetti alla sorte e al

«gioco» degli dèi, c’erano quelli simbolici e benauguranti, come le noci, il miele, i datteri e le candele di cera che, accese, contribuivano magicamente ad accrescere la luce e il calore del sole, elementi vitali per l’uomo e la fertilità dei campi, attenuatisi per la stagione. Ma non mancavano regali piú consistenti (magari acquistati in appositi «mercatini», come quelli sotto i portici dei Saepta, presso il Pantheon) che andavano dai generi alimentari piú pregiati e piú rari ai capi d’abbigliamento, dalle suppellettili per la casa ai cosmetici, dai libri ai gioielli. Ancora una volta Marziale mette in ridicolo e accusa di avarizia i «patroni» che, in occasione dei Saturnali, non regalavano ai propri clientes almeno cinque libbre (poco piú di un chilo e mezzo) di argenterie! Si può concludere, considerando come la grande festa dei Saturnalia abbia attraversato il tempo giungendo fino a noi, anche dopo il tentativo della Chiesa di «cristianizzarla» coinvolgendovi il Natale fissato al giorno 25 dello stesso mese che l’imperatore Aureliano aveva consacrato alla «nascita del Sole». E come, nonostante tutto – prolungandosi fino al Capodanno (e all’Epifania) e pur avendo rimandato ad altra data il Carnevale – essa sia sostanzialmente rimasta una sagra del consumismo, dei regali e della buona tavola: soprattutto ai giorni nostri in cui gli aspetti laici – o paganeggianti – della festa sembrano aver ripreso il sopravvento su quelli religiosi.

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scavare il medioevo Andrea Augenti

il re di Sutton Hoo scoperto nel 1939 e forse appartenuto a un sovrano di nome raedwald, questo magnifico elmo è una delle acquisizioni piú importanti dell’archeologia medievale inglese. e testimone di un’epoca cruciale nello sviluppo storico e culturale dell’europa del nord

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uglio 1939, Inghilterra. Nella regione del Suffolk, il prato di una località chiamata Sutton Hoo è teatro di una delle piú importanti scoperte dell’archeologia: sotto una collina artificiale, vengono alla luce i resti di una barca lunga circa 27 m; e, dentro la barca, una camera funeraria che restituisce oggetti in oro, altri metalli e pietre preziose. È un corredo davvero stupefacente e la tomba da cui proviene è certamente quella di un re, sepolto con tutti gli onori. Gli archeologi del British Museum si affrettano a scavarla, mentre un forte vento rema contro l’archeologia e disperde nelle vicinanze i reperti in foglia d’oro, i piú leggeri. La fretta, però, è dovuta anche a un altro motivo: Winston Churchill ha appena dichiarato guerra alla Germania di Hitler, e i membri dell’équipe sanno che al piú presto dovranno partire per il fronte. Sono queste le circostanze, rocambolesche, in cui si svolse la straordinaria scoperta della sepoltura di un sovrano che alcuni hanno chiamato il «Tutankhamon britannico». Ma chi era, questo «faraone» d’oltremanica? Non lo sapremo mai con certezza;

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ma ci sono forti possibilità che si tratti di un certo Raedwald, che fu re di quella zona dell’Inghilterra e morí proprio nel periodo al quale risale la sepoltura: il 625 circa. Gli oggetti che accompagnavano il sovrano nella sua tomba sono molti: da uno scettro finemente intagliato, con un cervo sulla sommità, a una cintura con una splendida fibbia in oro; e poi una lira, calderoni provenienti dall’Egitto, una grande spada, uno scudo con decorazioni applicate…

500 piccoli pezzi Ma su tutti, il reperto piú affascinante, dal grande potere evocativo, è senza dubbio l’elmo. Un elmo in metallo, che, al momento della scoperta, era ridotto in cinquecento piccoli pezzi; solo dopo un paziente lavoro di ricostruzione, l’oggetto si è presentato in tutta la sua magnificenza. L’elmo ha una struttura articolata, con calotta per il cranio ed elementi aggiunti, che servono a proteggere la nuca, le guance e il viso. Sulla calotta e sui paraguance si alternano due raffigurazioni: un soldato a cavallo che travolge un nemico e due

guerrieri che incrociano le spade, quasi intrecciati in un passo di danza. Ma proprio la protezione del viso è la parte piú impressionante: perché il pezzo è modellato su un volto umano, e quindi ha le aperture per gli occhi, mentre al centro un drago dalle ali spiegate costituisce, in un solo pezzo, le sopracciglia, il naso, i baffi e la bocca sottostante. Cosí che, alla fine, osservando l’elmo, sembra quasi di vedere in faccia il re di Sutton Hoo. E allora risuonano i versi del grande poema Beowulf: «Gli difendeva la testa il lucido elmo (…) che in tempi lontani aveva fabbricato un fabbro d’armi. L’aveva fatto mirabilmente: l’aveva cerchiato di sagome di cinghiali, e da allora aveva resistito a qualsiasi spada». L’elmo di Sutton Hoo viene probabilmente dalla Scandinavia, dove sono stati trovati esemplari molto simili; e ci parla di un tempo antico – il VII secolo –, in cui il Nord Europa era strettamente interconnesso da rotte commerciali e condivideva cerimonie funebri particolari (le sepolture in barca) e tradizioni religiose; ci parla degli ultimi fuochi delle religioni pagane, prima che si affermi


L’elmo di Sutton Hoo, in ferro e bronzo dorato, e una sua ricostruzione (nella pagina accanto). 625 d.C. circa. Londra, British Museum. Lo straordinario manufatto è forse riferibile al re Raedwald.

definitivamente il cristianesimo. Ci parla, insomma, di un mondo che in quel periodo stava iniziando a scomparire, travolto da una nuova concezione della vita. Per questo è affascinante, l’elmo di Sutton Hoo. Non a caso, è stato inserito da Neil Mc Gregor – il direttore del British Museum – nel

suo splendido libro La storia del mondo in cento oggetti. Gli elmi possono esere oggetti molto evocativi: trasmettono un’idea di coraggio ed eroismo.

eroi moderni Pensate a quelli dei vigili del fuoco di New York, ormai scolpiti nella nostra memoria dopo la tragedia delle torri gemelle. Il grande poeta Seamus Heaney, intervistato

proprio da MacGregor, ha raccontato di quando un vigile gli regalò il suo casco. «In quel momento – ha detto Heaney – mi sono davvero sentito come Beowulf, quando il re Hrotgar gli regala l’elmo». Altri eroi, altri elmi: oggetti sicuramente diversi, con molte storie da raccontare.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

ALLA RICERCA DELL’ORO DOLCE fin dalla preistoria, molte strutture rupestri o realizzate nel sottosuolo furono destinate alla produzione e alla conservazione di cibo. Tra queste, un caso davvero particolare, per forme e caratteristiche, È quello degli apiari

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a raccolta del miele è nota e documentata a partire dalla Preistoria. Un dipinto ritrovato a Çatal Höyük (Turchia centrale), attribuito alla fine del Neolitico, sembra suggerire il passaggio dalla semplice raccolta a un primo tentativo di domesticazione o, perlomeno, di controllo delle api. Da allora, l’apicoltura ha conosciuto una lunga, continua e diffusa evoluzione che, da sistemi di allevamento in semplici tronchi cavi, peraltro in qualche caso ancora oggi utilizzati, si è organizzata in sistemi compositi, denominati apiari. Un apiario è un insieme di alveari destinato alla produzione del miele e di altri derivati (cera, propoli, pappa reale, polline). L’alveare, a sua volta, è composto da un contenitore (arnia) nel quale una famiglia di api (colonia o sciame) costruisce con la cera il proprio nido (favo) e produce il miele per nutrire le larve che nascono dalle uova deposte dalla regina. A Malta, a partire almeno dall’età romana, cosí come nell’Italia meridionale e nella Turchia centrale, dall’epoca medievale, alcuni apiari vennero scavati nella roccia, sfruttandone l’inerzia termica per proteggere le api dal freddo, soprattutto in inverno.

Dall’isola di Melita… Cappadocia, l’apiario di Nicetas. Una scala in legno permette di entrare nella piccola porta della struttura, scavata nella parete rocciosa di un pinnacolo naturale.

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Nell’isola di Malta, chiamata dai Romani Melita, nome evidentemente derivato dal latino mel, diverse località sono ancora oggi identificate con toponimi che

riecheggiano il miele. Il sito di Imgiebah, presso Xemxija, ha una denominazione ancora piú specifica: la sua traduzione dal malti (lingua di origine semitica) significa «apiario». Qui, un muro alto circa 3 m, con decine di bocche aperte su una parete di roccia, nasconde un apiario rupestre. Due basse porticine danno l’accesso alle camere interne, ricavate in una cavità naturale a cui è stata addossata l’opera muraria. I vani rupestri sono suddivisi da tramezze ortogonali, costituite da conci, in cui si trovano le arnie composte da cilindri in terracotta, aperti a una estremità e chiusi dall’altra, nei quali furono praticati cinque piccoli fori per consentire l’ingresso delle api dopo aver attraversato quelli piú grandi presenti nel muro esterno. Le arnie tubolari, costruite in terracotta con un sistema ancora oggi in uso presso gli apicoltori del Nord Africa, venivano collocate orizzontalmente nei compartimenti delimitati dalle tramezze interne, in file sovrapposte appoggiate su ripiani mobili di pietra. Il lato aperto del cilindro (bocca posteriore dell’arnia), rivolto verso il vano interno, veniva chiuso con un tappo di legno e sigillato con propoli e cera. La tavoletta coprifavo (tappo) veniva tolta in occasione della raccolta del miele. Le operazioni tecniche (ispezioni, fumigazione, raccolta del miele) avvenivano cosí nella camera di servizio con tutto agio sia dell’apicoltore, sia delle api, che di


A sinistra: Cappadocia, l’apiario di Nicetas. Una delle arnie ancora utilizzate, alloggiate in ripiani di pietra. Sulla destra, si possono vedere le arnie mobili. A destra: una delle arnie mobili dell’apiario rupestre di Nicetas. Si tratta di cilindri realizzati con rami intrecciati ricoperti da sterco essiccato. sezione alveari

bocca posteriore camera di servizio

fori di volo

vista dall’interno all’esterno pianta

parete rocciosa (rettificata)

lastre mobili

esterno banco roccioso

fori e fessure di volo

entrata

tramezzo

camera di servizio

alveari

parete rocciosa

lastre

sezione della parete

roccia viva

Qui sopra: planimetria e vista interna dell’apiario di Nicetas. fatto non erano disturbate lungo le loro rotte di volo.

…alla Cappadocia Gli apiari individuati in Cappadocia, nell’area delle valli di Ürgüp, Üçhisar, Göreme, Ortahisar e Çavusin, nonché in quelle di Ihlara e di Soganli, sono piú di cinquanta. Interessante è quello nella valle di Kizil Çukur, nei pressi della stanza scelta come eremo dallo stilita Nicetas, a pochi metri dalla Uzumlu

Qui sopra: Cappadocia. Sezione dell’apiario rupestre di Kizil Çukur: le operazioni tecniche svolte dall’apicoltore avvengono nella camera di servizio scavata nella roccia, con tutto agio sia dell’operatore, sia delle api, che di fatto non sono disturbate lungo le loro rotte di volo.

Kilise o Chiesa dell’Uva (VI-IX secolo), entrambe scavate nella roccia. L’apiario si presenta all’esterno del pinnacolo di roccia nel quale è ricavato solo attraverso una porticina intagliata nella falesia, affiancata da file verticali di piccoli fori e feritoie. Da queste aperture le api entrano – l’apiario è tuttora parzialmente in uso – in un vano rupestre dove sono alloggiate, disposte su ripiani in pietra, le arnie. Esse sono in parte

fisse, scavate nella roccia, in parte mobili, costituite da cilindri realizzati con rami intrecciati, come una sorta di cesto. Le arnie a cesto, spostabili, oggi non piú utilizzate, consentivano probabilmente l’esercizio del cosiddetto allevamento nomade, o transumante, nel quale le api potevano essere trasportate in aree con fioriture diverse, per poi essere riportate nelle stagioni piú fredde al riparo nell’apiario rupestre.

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divi e donne Francesca Cenerini

memorie di adriano l’imperatore che amava la cultura greca e i viaggi avrebbe assunto atteggiamenti assai diversi nei confronti della suocera, matidia maggiore, e di domizia paolina, sua sorella. ma fu davvero cosí o si tratta di una «doppiezza» creata ad arte dagli storici del tempo?

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atidia Maggiore è la nipote dell’imperatore Traiano, nonché suocera di Adriano. Nasce poco prima del 68-69 d.C. dall’unione tra Ulpia Marciana, sorella di Traiano, e il senatore di Vicetia (l’odierna Vicenza) C. Salonius Matidius Patruinus. In una iscrizione rinvenuta a Roma è ufficialmente ricordata come Salonia Matidia Aug(usti) sor(oris) f(ilia), cioè figlia della sorella dell’imperatore. Viene nominata Augusta nel 112 d.C., all’indomani della morte della madre, e sulle monete viene ricordata come Matidia Augusta divae Marcianae filia («Matidia Augusta figlia della diva Marciana»). Viene divinizzata nel 119 d.C., subito dopo la sua morte: il 23 dicembre dello stesso anno l’imperatore Adriano in persona ne avrebbe pronunciato l’orazione funebre. L’elogium enumera le numerose virtú della suocera dell’imperatore che sono le solite qualità della donna ideale della tradizione romana, cioè quelle legate alla morigeratezza dei comportamenti e al rispetto degli obblighi familiari, domestici e religiosi della brava matrona devota al mos maiorum (il costume degli antenati). La critica piú recente, contrariamente alla communis opinio degli

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Busto ritratto di Matidia Maggiore, nipote dell’imperatore Traiano e suocera di Adriano. Prima del 119 d.C. Roma, Musei Capitolini, Centrale Montemartini. studiosi, ritiene che tra le innumerevoli qualità di Matidia Maggiore doveva essere compreso anche l’univirato, e cioè il fatto di avere avuto un unico marito. Si credeva, infatti, che solo un doppio matrimonio potesse spiegare i diversi nomina delle due figlie (Vibia Sabina e Mindia Matidia), ma, come vedremo prossimamente, un senatore poteva avere piú gentilizi e trasmetterli in modo differente alle figlie.

le parole di Adriano Del discorso pronunciato da Adriano se ne conoscerebbe soltanto una parte, trascritta sulla pietra: l’iscrizione poteva appartenere a un mausoleo o a un monumento commemorativo della donna o della famiglia imperiale situato nel territorio di Tibur (Tivoli), dove si trovava anche Villa Adriana. Secondo la recente ipotesi di Christopher P. Jones, l’iscrizione riporterebbe invece il discorso tenuto da Adriano in occasione dell’erezione di una statua a Matidia Maggiore dedicata dalla città di Tibur, forse nel 120 d.C. Tale discorso sarebbe stato inciso sulla base della statua stessa. Comunque, indipendentemente


dall’occasione in cui è stato pronunciato, il discorso segna, a mio parere, il cambiamento di mentalità, ma, sopratutto, il nuovo ruolo delle donne a corte. Adriano, infatti, afferma pubblicamente che Matidia, nonostante fosse una sua parente stretta, non approfittò mai della sua posizione privilegiata per fare pressioni su di lui o per chiedergli un favore o una raccomandazione, in quanto, secondo le parole dello stesso Adriano, gaudere fortuna mea maluit quam frui («preferiva essere felice per la mia condizione, piuttosto che trarne un profitto personale»).

disparità di trattamento Le fonti antiche non mancano di notare criticamente che Adriano avrebbe avuto un atteggiamento del tutto diverso e contrastante nei confronti delle diverse donne della sua famiglia: amabile con la suocera, antagonista con la sorella Domizia Paolina (Minore). Secondo Cassio Dione (69, 11, 4), l’imperatore non avrebbe conferito alcun onore a quest’ultima, dopo la sua morte. Ma anche in questo caso, si deve prestare attenzione al contesto e tono delle fonti: Cassio Dione sta facendo della facile ironia sulla sproporzione fra gli onori resi da

un consularis antagonista all’imperatore e di sorella dell’imperatore stesso. Con gli imperatori antonini la continuità dinastica garantita dal sangue è posta in secondo piano (tutto sommato in maniera molto relativa, poiché l’adozione si esercita sempre all’interno della stessa famiglia imperiale, sia pure «allargata») dal principio dell’adozione del migliore destinato alla successione.

Adriano post mortem al suo amante Antinoo e quelli tributati alla sorella Paolina. Invece, ci sono precise attestazioni iconografiche ed epigrafiche che, almeno tra il 125 e il 130 d.C., Domizia Paolina, in quanto sorella di Adriano, fosse integrata di fatto nell’immagine pubblica della famiglia imperiale, sebbene non avesse forse mai ottenuto il titolo di Augusta. Paolina è ufficialmente onorata a Fondi come sorella dell’imperatore, a Creta e, molto probabilmente, secondo una convincente ipotesi di François Chausson, a Pàtara in LiciaPanfilia, come parte di un monumento dinastico che comprendeva l’imperatore Adriano, la moglie Sabina e che, successivamente, avrebbe ospitato le immagini dei futuri imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero e della moglie del primo, Faustina Minore. Inoltre, Paolina è assimilata alla dea Iside a Tentyris in Egitto. Per spiegare l’atteggiamento delle fonti, occorre però considerare che Paolina era la moglie del consolare C. Iulius Ursus Servianus, con cui Adriano intrattiene nel tempo rapporti politici sostanzialmente conflittuali e questo potrebbe spiegare l’ambigua posizione a corte di Domizia Paolina Minore, divisa tra il suo ruolo di moglie di

un tempio vicino al pantheon Ma, in ogni caso, non va dimenticato il ruolo di Matidia Maggiore, nipote diTraiano e suocera di Adriano, nella legittimazione dinastica della successione dello stesso Adriano, un ruolo importante e riconosciuto dall’imperatore. A riprova di tale ruolo, a Matidia Maggiore e alla madre Marciana, sorella diTraiano, viene eretto un tempio in Campo Marzio, tra l’attuale chiesa di S. Ignazio e il Pantheon (ristrutturato da Adriano), affiancato da due basilicae che, in età romana, erano edifici a destinazione civile. Su alcune monete datate al 120-121 d.C. questo tempio è raffigurato come un edificio cultuale circondato da due porticati identificabili con le basiliche dedicate a Marciana e a Matidia Maggiore.

ascendenza e parentele di matidia e domizia M. Ulpio Marcia

Pompeia Plotina

Ulpia M.f. Plotina

Ulpio Traiano (console)

M. Ulpio Traiano L. Vibio Sabino

Matidia Minore

Ulpia Marciana

C. Salonio Matidio Patruino

Matidia maggiore Vibia Sabina

E. Adriano Marullino

P. Elio Adriano Afro P. Elio Adriano

Domizia Paolina Maggiore E. Domizia Paolina Minore

L. Giulio Urso Serviano

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

il mistero della pietra nera una singolare rappresentazione di venere/afrodite rivelata da una serie di preziose testimonianze monetali

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Qui sopra: moneta di Caracalla, al cui rovescio (in alto) compare il tempio tripartito di Afrodite Pafia con la pietra di culto aniconica. Monetazione provinciale di Cipro, 198-217 a.C. A destra, in alto: rovescio di una moneta in bronzo di Macrino battuta a Biblos in Fenicia, 217-218 d.C. Al rovescio è il santuario di Afrodite, con sacro betilo al centro di un porticato.

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l termine latino venus, tratto dalla radice van- e dal sanscrito vanas e vanathi, designa l’amore e il desiderio nel loro complesso e da esso prende nome Venere. Tra le maggiori divinità del pantheon olimpico, la bellissima dea ha un ruolo centrale nelle vicende mitologiche e mitistoriche della Roma imperiale. Il suo nome, infatti, era legato all’origine stessa della gens Iulia, quella di Cesare e Ottaviano, che si voleva scaturita dagli amori di Venere con Anchise, che portarono alla nascita di Enea e, quindi, del figlio Iulo. La divinità romana riprende la greca Afrodite, riassumendone le caratteristiche principali, che, nel caso della seconda, sono però piú complesse e sfaccettate e risalgono a origini e concetti precedenti, legati al mondo religioso medioorientale. Al di là del mito ellenico, Afrodite, infatti, possiede elementi derivati da potenti divinità femminili orientali, come Astarte, Ishtar e Atargatis, il cui aspetto erotico-amoroso è legato a quello della potenza, al dominio e alla forza regale dirompente.

le origini del nome La stessa origine del nome Afrodite è stata ricondotta, pur con incertezza, a una radice mediterranea prt (che poi potrebbe suonare phrt), che indica nobiltà, potere e signoria e si riconnette quindi alla Potnia Theron, la greca Signora degli Animali. Esiodo,

invece, riferisce il nome al termine greco aphrós (schiuma), poiché Afrodite era nata dalla schiuma del mare prodotta dal membro virile reciso di Urano, suo padre. Esistono anche altre versioni sulla genesi della dea, e, sulla terraferma, se ne contendevano il primo approdo le isole di Citera (nell’arcipelago delle Cicladi) e di Cipro. Il principale centro di culto di Afrodite nel Mediterraneo era appunto a Cipro, nei santuari di Paphos e Amatunte (dedicato ad Afrodito, una versione maschile della dea, noto solo dalle fonti letterarie). Lo splendido santuario a Paphos, celeberrima meta di pellegrinaggio del mondo antico, in auge almeno dal XII secolo a.C. e frequentato sino al IV secolo d.C., è stato riportato alla luce dagli scavi; la raffigurazione dell’edificio sacro ricorre su gemme, anelli e monete. Moltissimi rituali di Afrodite derivavano da quello di Paphos, tra cui, probabilmente, quello del santuario etrusco di Pyrgi (presso l’odierna Santa Severa, Roma).


L’antichità del culto cipriota, di origine preellenica (Erodoto, nelle Storie, lo attribuisce ai Fenici) è testimoniata anche dalla raffigurazione simbolica della divinità in seguito identificata con Afrodite, ovvero una pietra nera aniconica ritrovata negli scavi condotti nel XIX secolo e attualmente esposta nel Museo allestito nella residenza dei Lusignano a Paleopaphos. Si tratta di un monolite di basalto purissimo a forma di tetraedro, alto 122 cm, levigato su tutti i lati; Tacito ne parla

come di un blocco circolare non avente forma umana e assottigliato verso l’altro in forma conica (Storie, 2, 2-3). Ancora una volta, la testimonianza numismatica è fondamentale per ricostruire l’aspetto del tempio di Afrodite Pafia, riprodotto su monete romane provinciali coniate a Cipro tra il principato di Augusto e quello di Caracalla. Con differenze stilistiche e variamente particolareggiate, tutte presentano l’inconfondibile struttura architettonica del santuario, che

Modellino in terracotta di un tempio con terminazioni «a corna», simili a quelle tramandate per il santuario di Afrodite a Paphos, da Kotchati (Cipro). Età del Bronzo Antico, 2100-2000 a.C. Nicosia, Museo di Cipro.

differisce notevolmente dalla consueta planimetria templare greca e ne connota la matrice orientale, conservatasi nel tempo. Si tratta di un edificio tripartito, al quale si accede da un recinto semicircolare; qui si trovano una tavola e tre elementi circolari, forse aree destinate ai doni votivi. Il tempio ha la porzione centrale piú alta rispetto a quelle laterali, e apici a forma di crescente lunare, che richiamano le terminazioni «a corna» ricorrenti nei modellini votivi fittili ciprioti del 2000 a.C. circa, di provenienza funeraria.

niente sangue per la dea Nei due ambienti laterali si innalzano due altissimi incensieri e sul tetto sono posate due colombe, uccello sacro ad Afrodite. Va ricordato che la dea aborriva il sangue immolato e quindi gradiva incenso, profumi, miele, cibi e offerte vegetali. La notorietà del santuario di Paphos era diffusa in tutto il mondo antico e il tempio viene celebrato anche su monete provinciali romane battute a Pergamo e a Sardis, con santuari locali dedicati ad Afrodite Pafia che ne ripetono la scansione architettonica. Molto significativa, infine, è una moneta in bronzo di Macrino (217-218 d.C.) che riproduce il tempio di Afrodite a Biblo, sede di un importante culto incentrato sulla morte di Adone e ricordato da Luciano di Samosata (II secolo d.C.). Del santuario non rimane traccia, ma eccezionale è la testimonianza numismatica che mostra un tempio complesso, di tipo tradizionale, che, a differenza di quello di Paphos, presenta un porticato sacro in cui campeggia, recintato, un enorme betilo aniconico. Le testimonianze numismatiche, insieme a quelle archeologiche attestate a Paphos, confermano la singolare circostanza di come, per rappresentare la piú bella e potente tra le dee, fosse dunque sufficiente una grande pietra nera e lucida.

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i libri di archeo

DALL’ITALIA LA CITTà DIPINTA Il rotolo di Suzhou, il capolavoro della pittura cinese Electa, Milano, 1 vol. + 1 facsimile, 250 pp., 350 ill. col. 120,00 euro www.electaweb.com

Presentato all’imperatore Qianlong nel 1759, il Gu Su fanhua tu (letteralmente, La prosperità dell’antica Suzhou) è un’opera di eccezionale interesse. Firmata dal pittore Xu Yang, che impiegò ben ventiquattro anni per portarla a termine, essa offre un’immagine puntuale e ricchissima di dettagli della città di Suzhou: il tutto in un rotolo lungo 1241 cm e largo 36,5. In questa straordinaria «fotografia» sono state contate quasi 5000 persone, oltre 1000 edifici, 40 ponti, 300 imbarcazioni e 200 insegne commerciali. Ma, al di là dei numeri – ed è questa la ragione principale per cui ne diamo conto in queste pagine –, L’età d’oro di Suzhou (titolo con cui l’opera è piú nota) è una testimonianza preziosa

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dal punto di vista della storia e dello sviluppo delle tradizioni artistiche dell’antica Cina. Il rotolo ha, infatti, un altissimo valore documentario, che scaturisce dalla minuziosità con la quale Xu Yang si dedicò alla sua realizzazione: analizzandone la composizione, è per esempio possibile ricavare elementi essenziali sull’assetto topografico dell’agglomerato urbano di Suzhou e dunque sul suo sviluppo. E poi, come viene illustrato nel volume che ne accompagna la riproduzione, questo capolavoro della pittura nasce nel XVIII secolo, ma è figlio ed erede di una tradizione ben piú antica, la cui lezione è chiaramente ben nota a Xu Yang. Né vanno sottovalutate le preziose indicazioni che si possono ricavare nel campo dell’etnografia, grazie, ancora una volta, alla ricchezza dei dettagli che contraddistingue il disegno delle figure umane e delle strutture che sfilano lungo gli oltre 12 m del rotolo. Pau Figueras

Antichi tesori del deserto Alla scoperta del Neghev cristiano Edizioni Terra Santa, Milano, 206 pp., ill. col. e b/n 18,00 euro ISBN 978-88-6240-187-6 www.edizioniterrasanta.it

Nel Neghev, regione steppica e semidesertica

con due saggi inediti di Francesca Dell’Acqua e Federico Marazzi, Edizioni Volturnia, Cerro al Volturno (IS), 544 pp., ill. col. e b/n 50,00 euro ISBN 978-88-96092-16-3 www.volturniaedizioni.com

che costituisce la parte meridionale di Israele, si concentra una quantità straordinaria di tracce di una storia plurisecolare. Pau Figueras si sofferma, in particolare, sulle importanti testimonianze della diffusione del cristianesimo, articolando la sua trattazione secondo un criterio innanzitutto topografico. La ricchezza di complessi come quelli di Oboda o Sobata è eloquente, ma non meno significativa è la capillarità delle presenze, ben espressa dall’ampio capitolo in cui l’autore ha scelto di raggruppare le chiese e i monasteri «minori». Fanno da premessa e da epilogo a questa sorta di atlante storico ragionato, i capitoli dedicati all’avvento del cristianesimo e al suo progressivo sostituirsi ai culti di tradizione nabatea e alle ripercussioni determinate dalla conquista araba della Palestina nel VII secolo. Federico Marazzi (a cura di)

la cripta dell’abate epifanio a san vincenzo al volturno Un secolo di studi (1896-2007)

La storia archeologica recente del complesso monastico di San Vincenzo al Volturno ha inizio nel 1979, quando presero il via le indagini guidate da Richard Hodges. Ma, prima d’allora, il sito che è stato a ragione definito una «Pompei monastica» era già finito sotto la lente degli studiosi, andandolo a risarcire dell’iniziale indifferenza con cui la sua scoperta era stata accolta (ricordiamo che la prima segnalazione di strutture antiche risale al 1832, ma ricerche sistematiche furono avviate solo agli inizi del Novecento). E questo volume ripercorre appunto la storia, ormai ultracentenaria, degli studi che a San Vincenzo sono stati dedicati scegliendo, in particolare, quelli che ne hanno interessato una delle strutture di maggior


interesse, la cripta dell’abate Epifanio. La pubblicazione di alcuni dei contributi piú significativi apparsi nel tempo, accompagnati da due saggi inediti di Federico Marazzi e Francesca Dall’Acqua, propone dunque un riassunto a piú voci, la cui densità è specchio eloquente dell’importanza storica e artistica del contesto, che, a pieno titolo, si inserisce nel piú ampio panorama dell’arte e dell’architettura del Medioevo italiano.

dall’estero Luca Alessandri

latium vetus in the bronze age and early iron age BAR International Series 2565, Archaeopress, Oxford, 630 pp., ill. b/n 77,00 GBP ISBN 978-1-4073-1186-9 www.archaeopress.com

Il territorio analizzato dalla ricerca di Alessandri, sviluppata durante il dottorato di ricerca presso l’Università di Groningen, è quello oggi corrispondente alla porzione meridionale della moderna regione

Lazio. Un’area che, fin dalla preistoria, ha avuto un ruolo cruciale nello sviluppo culturale dell’Italia preromana e di cui, in questo caso, viene considerato l’orizzonte cronologico compreso fra la fine del III millennio a.C. e la metà dell’VIII secolo a.C. Si tratta di un momento decisivo, nel quale le culture dell’età del Bronzo e quelle della prima età del Ferro fanno da incubatrici di molti dei fenomeni sociali e politici che caratterizzeranno la successiva epoca storica. Un processo articolato, che viene analizzato attraverso l’analisi delle diverse fasi succedutesi e lo studio del paesaggio, che fanno da premessa al catalogo ragionato degli insediamenti a oggi noti, forte di oltre 200 unità. Iain Morley

The prehistory of music Human Evolution, Archaeology and the Origins of Musicality Oxford University Press, Oxford, 448 pp., ill. b/n 75,00 GBP ISBN 978-0-19-923408-0 www.oup.com

Il titolo di questo saggio, di taglio specialistico, potrebbe sembrare una sorta di contraddizione: è probabile, infatti, che la «musica» sia per molti un’espressione della creatività umana che ha trovato le sue prime elaborazioni solo in età storica. E invece, grazie alle ripetute scoperte archeologiche, ai molti studi e ai confronti di carattere etnografico, sappiamo da tempo che

le prime sperimentazioni in questo campo ebbero inizio, appunto, fin dalla preistoria. Oltre tutto, come lo stesso Morley non manca di ricordare e argomentare, occorre anche chiarirsi su cosa possa essere classificato come musica: oltre al suono degli strumenti e alle melodie, non va dimenticato quell’immenso patrimonio costituito, per esempio, dalle urla e dai versi emessi per spaventare o attirare gli animali, dai gridi dei guerrieri, dai canti che potevano accompagnare riti e cerimonie… E sono proprio questi alcuni dei caposaldi di una ricerca che ribadisce come anche i nostri piú antichi antenati siano stati esseri profondamente «musicali». D.T. Potts (a cura di)

The oxford handbook of ancient iran Oxford University Press, Oxford, 1020 pp., ill. b/n 175,00 USD ISBN 978-0-19-973330-9 www.oup.com

Non sono molte le aree del nostro pianeta che,

in una classifica ideale, possano competere con l’Iran in quanto a ricchezza e varietà del proprio patrimonio storico e archeologico. Non è perciò un caso che questo nuovo titolo della serie oxfordiana degli Handbook sia particolarmente corposo. Sarà sufficiente ricordare che il territorio iraniano è stata una delle culle dell’avvento dell’economia produttiva, basata cioè sull’agricoltura e sull’allevamento, o, piú tardi, il cuore dei grandi imperi achemenide, seleucide e sasanide. Fenomeni ed eventi di importanza primaria, ricapitolati in 51

contributi, affidati da Potts ai maggiori studiosi del settore. Un’opera impegnativa, che offre un quadro aggiornato delle conoscenze e, come di consueto, mette a disposizione un’ampia bibliografia di riferimento per l’approfondimento dei singoli argomenti affrontati. (a cura di Stefano Mammini)

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