Archeo n. 350, Aprile 2014

Page 1

ww

2014

mani d’argento

vino in egitto

priverno

valcamonica

speciale le catacombe di roma

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 4 (350) Aprile 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

w. ar

ch

eo .it

archeo 350 aprile

in una tomba etrusca

il mistero delle mani

d’argento VALCAMONICA

QUEI SEGNI DI UN TEMPO LONTANO mostre

il vino nell’antico egitto

nel mondo dei primi cristiani

l’arte delle catacombe

www.archeo.it



editoriale

seduzione etrusca

Tutto iniziò con un libro. Un libro scritto a mano, in latino, da un professore scozzese per conto di un nobile fiorentino, su un misterioso popolo toscano. Un libro altrettanto misteriosamente scomparso e, poi, fortuitamente ritrovato, un secolo piú tardi, da un giovane nobiluomo inglese presso un antiquario fiorentino… Un vero intreccio internazionale, verrebbe da dire, che vede coinvolte Gran Bretagna e Toscana in un rapporto che si prolunga fino ai giorni nostri: visto che il libro – anzi, il manoscritto – da cui abbiamo preso le mosse è, oggi, esposto in una mostra molto speciale, allestita nelle splendide sale dell’antico Palazzo Casali, sede del Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. Ma sveliamo nomi e date: tra il 1616 e il 1619 lo scozzese Thomas Dempster, insegnante di diritto all’Università di Pisa, realizza, su richiesta di Cosimo II de’ Medici, il De Etruria Regali, la prima summa dettagliata sulla civiltà etrusca. Nel 1726, il giovane Lord Thomas Coke (1697-1759) in viaggio per l’Italia, riscopre il manoscritto e lo fa stampare a Firenze, a cura di Filippo Buonarroti, ministro ducale e massimo esperto della materia, il quale integra il testo con commenti e tavole raffiguranti le principali opere etrusche allora note. La pubblicazione dell’opera segna l’avvio di un’intensa stagione di studi e scoperte. L’anno successivo, nel 1727, nasce la prima istituzione europea di studi etruschi – l’Accademia Etrusca di Cortona – alla quale si iscriveranno i maggiori intellettuali dell’epoca e nelle cui sale è oggi esposto, fino alla fine di luglio, il manoscritto originale dell’Etruria Regali… Di Thomas Dempster e di Lord Coke (nonché dei suoi illuminati eredi) parleremo in un prossimo articolo dedicato agli inizi della passione etrusca, che poi è il tema principale dell’esposizione cortonese. Alla Seduzione Etrusca (cosí si chiama la mostra), però, vale la pena cedere sin da ora: a partire dall’articolo in apertura di questo numero (ambientato in uno dei luoghi piú suggestivi legati al nome dell’antico popolo italico, il Parco archeologico di Vulci), ma anche ascoltando le vive voci di alcuni protagonisti della storia etrusca, raccolte e presentate dallo studioso Giuseppe M. Della Fina nella nuova Monografia di «Archeo», in edicola nei prossimi giorni… Andreas M. Steiner

Il manoscritto originale del De Etruria Regali di Thomas Dempster, pubblicato nel 1726 e attualmente esposto a Cortona, nella mostra «Seduzione Etrusca».


Sommario Editoriale

Seduzione etrusca

3

dalla stampa internazionale Perché scomparve la Civiltà dell’Indo?

di Andreas M. Steiner

Attualità la notizia del mese

Nella vigna del faraone 24

scoperte

Lo studio di una mummia cinese dell’età del Bronzo rivela che i pendenti di collana potevano essere a base di... formaggio! 6

La principessa dalle mani d’argento

28

40

di Sabina Malgora, con contributi di Maria Rosa Guasch-Jané, Gilberto Modonesi, Marco Mozzone, Poo Mu-Chou

di Carlo Casi

di Paolo Leonini

notiziario

antico egitto

40

8

scoperte Un cimitero collettivo scavato nel Dorset, in Inghilterra, porta alla ribalta un nuovo modo di essere vichinghi 8 parola d’archeologo Un’applicazione per tablet offre incontri davvero ravvicinati con la Colonna Traiana 12 mostre Il Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale compie 10 anni 16 In copertina le mani d’argento che hanno dato nome alla tomba etrusca scoperta nella necropoli dell’Osteria, a Vulci (vedi l’articolo alle pp. 28-39). Seconda metà del VII sec. a.C.

Anno XXX, n. 4 (350) - aprile 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Marialuisa Rossignoli Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro,

Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Fabrizio Bisconti è professore ordinario di archeologia cristiana e medievale all’Università degli Studi Roma Tre. Linda Bossoni è membro della Società Cooperativa Archeologica «Le Orme dell’Uomo». Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Margherita Cancellieri è stata professore aggregato di topografia antica presso «Sapienza» Università di Roma. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Maria Rosa Guasch-Jané è direttrice del progetto di ricerca Irep en Kemet/ Wine in ancient Egypt presso l’Universidade Nova di Lisbona. Paolo Leonini è storico dell’arte. Sabina Malgora è egittologa e curatrice della sezione egizia del Castello del Buonconsiglio di Trento. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Gilberto Modonesi è membro del Centro Studi Archeologia Africana, Milano. Eleonora Montanari è membro della Società Cooperativa Archeologica «Le Orme dell’Uomo». Marco Mozzone è archeologo e presidente dell’associazione Ambiente & Cultura, Vezza d’Alba (CN). Poo Mu-Chou è professore di storia presso la Chinese University di Hong Kong. Francesca Roncoroni è Cultore della materia per l’insegnamento di preistoria e protostoria presso l’Università Cattolica del Sacro Curore di Milano e Brescia. Giorgio Rossignoli è dottore in scienze politiche. Dario Sigari è membro della Società Cooperativa Archeologica «Le Orme dell’Uomo». Serena Solano è funzionario archeologo presso la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Carlo Bonazza: copertina e pp. 28-29, 32 (centro e basso), 33 (basso), 34 (alto, a sinistra), 35 (alto, a sinistra), 37, 38 – Cortesia Ufficio stampa mostra: p. 3 – Cortesia Cultural Relics and Archaeology Institute, Ürümqi: pp. 6-7 – Cortesia Oxford Archaeology: p. 8 – Cortesia SBA Veneto: p. 9 – Cortesia Polo Museale Fiorentino: p. 10 – Cortesia SBA Friuli-Venezia Giulia: p. 11 (alto) – Cortesia SBA Marche: p. 11 (basso) – Cortesia Progetto 3D Rome: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 14, 52, 53 (basso), 70-77, 104-105, 111 – Cortesia Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale:


Rubriche

musei

Un’antica città si racconta

54

di Margherita Cancellieri

valcamonica/1

Quei segni di un tempo lontano

antichi ieri e oggi Amor sacro e amor profano

100

di Romolo A. Staccioli

60

di Linda Bossoni, con contributi di Eleonora Montanari, Francesca Roncoroni e Dario Sigari

60

scavare il medioevo Tutto cominciò a Castelseprio

104

di Andrea Augenti

l’ordine rovesciato delle cose

Meraviglie prenestine 106 di Andrea De Pascale

divi e donne

All’ombra del palazzo

108

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia

valcamonica/2 Nella valle dei Camuni

Le rocce erranti 70

di Serena Solano e Cristina Ferrari

78 110

di Francesca Ceci

libri

p. 16 – Mondadori Portfolio: Album: pp. 20/21; The Art Archive: p. 42 (basso); AKG Images: p. 45 – Bridgeman Art Library: pp. 42/43, 46 (basso), 51 – Doc. red.: pp. 24-25, 53 (alto), 100 – Cortesia dell’autore/foto Mauro Benedetti e Carlo Regoli: pp. 30-31, 32 (alto), 33 (alto), 35 (alto, a destra), 36, 39 – DeA Picture Library: pp. 48/49 (alto); G. Dagli Orti: pp. 34 (alto, a destra), 102; G. Lovera: pp. 46 (alto), 47; G. Cargagna: p. 96; G. Nimatallah: p. 101; G. Cozzi: p. 110 – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: p. 34 (basso) – Studio Alquati: pp. 40/41 – Archivi Alinari, Firenze: CULTNAT/Dist. RMN-Grand Palais/Ayman Khoury: p. 48 – Cortesia dell’autore/foto Angelo Pagliari: pp. 54-58 – Marka: Mario Bonotto: pp. 60/61 – Archivio «Le Orme dell’Uomo»: p. 63, 64, 65 (basso, sinistra e destra), 66-69 – De Marinis-Fossati: rilievo a p. 65 – Archivio Foto PCAS: pp. 78-80, 82-95, 96/97 (alto), 97-99 – Cortesia dell’autore/foto Carlo Germani, Archivio Egeria Centro Ricerche Sotterranee: pp. 106-107 – Foto Scala, Firenze: p. 109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 24, 30, 48, 61, 62, 72, 74, 81. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Archeo è una testata del sistema editoriale

PAST

112

speciale

Pitture dal buio

78

di Fabrizio Bisconti

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Arti Grafiche Amilcare Pizzi Spa, Milano Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl - Via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/

PASSIONE PER LA STORIA

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Cesare Biffi Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 21768.507 Direzione: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano tel. 02 21768 507 fax 02 21768 550 Sede legale e operativa: via Ludovico d’Aragona 11, 20132 Milano

Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Ludovico d’Aragona, 11, 20132 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


la notizia del mese Paolo Leonini

una collana... stagionata per ornare la mummia della «bella di Xiaohe», una signora vissuta nella cina dell’età del bronzo, fu scelto un materiale davvero insolito: il formaggio!

6 archeo


S

i deve a un gruppo di ricercatori guidato da Idelisi Abuduresule, del Cultural Relics and Archaeology Institute di Ürümqi, una recente e insolita scoperta effettuata nel corso degli studi sui materiali provenienti dalla necropoli dell’età del Bronzo di Xiaohe (presso il lago Lop Nur, nella Cina nord-occidentale). Intorno al collo della «Bella di Xiaohe», una mummia cosí rinominata per le preziose vesti femminili che ne avvolgono il corpo e per il volto estremamente ben conservato, l’équipe ha recuperato una collana molto particolare, i cui pendenti erano frammenti di formaggio. Una presenza eccezionale, oltre che sorprendente, resa possibile dal clima del deserto del Taklamakan (regione in cui è compreso il sito di Xiaohe), la cui aridità ha favorito la conservazione del materiale organico. Le analisi hanno chiarito che non si tratta di un formaggio ottenuto grazie A sinistra e nella pagina accanto: la mummia della «Bella di Xiaohe», una donna al cui collo era stata deposta la collana che aveva come pendenti alcuni pezzetti di formaggio (vedi il particolare nella pagina accanto, in alto). 1615 a.C. circa.

In alto: il sito di Xiaohe, nella Cina nord-occidentale. all’uso del caglio animale (normalmente ricavato da latte semidigerito prelevato dallo stomaco di un ruminante), bensí prodotto con il kefir, una sostanza contenente batteri e lieviti capaci di innescare un processo di fermentazione analogo. L’impiego di questo metodo presenta vari vantaggi rispetto al caglio animale, e, secondo il gruppo di studiosi, potrebbe anche aver spinto gli abitanti dell’Eurasia a modificare le proprie abitudini alimentari. Questa produzione, infatti, è facilmente adattabile alle necessità momentanee (dato che il kefir inutilizzato può essere essiccato e conservato anche per anni), e inoltre non richiede la macellazione di capi di bestiame. La scoperta è importante perché attesta l’uso di questa tecnica di produzione alimentare già nel 1615 a.C. (data alla quale è ascrivibile la mummia della Bella di Xiaohe) e contribuisce ad approfondire la conoscenza di questo antico metodo, ancora oggi largamente impiegato in Cina e diffuso anche in altre parti del mondo, per la produzione di formaggi e bevande fermentate.

archeo 7


n otiz iari o SCoperte Gran Bretagna

grandi, grossi e cattivi?

R

ecenti analisi condotte sui resti di 50 scheletri ritrovati nel 2009 in un cimitero collettivo scoperto a Ridgeway Hill, presso Weymouth (Dorset, Inghilterra meridionale), rivoluzionano lo stereotipo del guerriero vichingo come incursore temerario e formidabile che solca i mari sul suo drakkar alla ricerca di bottini. Gli esami condotti da una équipe della società Oxford Archaeology hanno isolato numerose patologie che affliggevano questi individui (vissuti tra il 970 e il 1025), difficilmente riconducibili a traumi riportati in battaglia e che si stenterebbe a credere compatibili con il servizio attivo in qualunque corpo militare scelto. Un individuo soffriva, per esempio, di osteomielite a una gamba – un’infezione cronica del tessuto osseo – che doveva procurargli dolore e una grave limitazione nella mobilità. In altri casi sono state ritrovate prove di un’affezione renale, di fratture al femore e al bacino, e, in molti degli appartenenti al gruppo, è stata rilevata anche una sospetta brucellosi, una malattia altamente infettiva che si trasmette all’uomo dagli animali, per ingestione di carne o latte non sterilizzati o per contatto con fluidi di animali infetti. Un quadro d’insieme lontano da quello di un’élite guerriera in missione nei territori nemici. Gli scheletri erano privi dei crani, riuniti poco distante, facendo supporre una esecuzione di massa per decapitazione. Singolare è la presenza, su tutti i teschi, di incisioni praticate sui denti incisivi

8 archeo

Dall’alto: ricostruzione dell’ipotetica esecuzione di massa compiuta nel sito vichingo di Ridgeway Hill; gli scheletri al momento della scoperta; due incisivi con le linee orizzontali che forse indicavano il rango dell’individuo o potevano invece essere semplici ornamenti.

frontali. Alcuni presentano una linea, altri due o tre. Non è chiaro se ci sia un collegamento con il grado d’importanza dell’individuo o si tratti solo di una funzione ornamentale. I componenti del gruppo provenivano da varie regioni della Svezia, ma presentavano tutti lo stesso tipo di incisione, dalla cui profondità e precisione gli archeologi ipotizzano essere stata realizzata da un individuo specializzato. Data la scarsità di tracce di ferite di battaglia, gli studiosi hanno concluso che, anziché di guerrieri, potrebbe trattarsi di un gruppo di contadini, di cui è però difficile, al momento, spiegare la presenza. In considerazione dell’importanza e della singolarità della scoperta, alcuni degli scheletri di Ridgeway Hill sono stati inseriti nella grande esposizione «Vikings: life and legend», allestita al British Museum di Londra, che sarà visitabile fino al 22 giugno. Paolo Leonini


SCoperte Veneto

nel nome del figlio

U

na necropoli monumentale di età imperiale è tornata alla luce a Concordia Sagittaria (Venezia), in via San Pietro (a pochi metri dall’antica via Annia), durante indagini condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Veneto nell’ambito di Shared Culture, un progetto per la conoscenza e la fruibilità del patrimonio condiviso attivato grazie a fondi comunitari del Programma per la cooperazione transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013. «Il cantiere di scavo – spiega Federica Rinaldi, funzionario archeologo responsabile scientifico dell’area e direttore del Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro –, ha restituito i resti della necropoli occidentale della colonia romana di Iulia Concordia, di cui è stata recuperata l’intera sequenza archeologica, che si articola in almeno tre momenti di vita, ovvero la prima epoca imperiale (caratterizzata dalla presenza di recinti funerari), il III secolo d.C. (con le tombe monumentali) e il IV secolo d.C. (segnato da tombe piú povere, in fossa o in anfora, con pochi corredi). La fase meglio

documentata è quella compresa tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C. alla quale è riferibile un imponente monumento funerario. Costituito da un basamento in calcare d’Aurisina disposto su tre livelli, l’ultimo dei quali modanato, era sormontato da due eleganti e preziosi sarcofagi gemelli, in marmo proconnesio, e raggiungeva complessivamente un’altezza superiore ai 3 m. Straordinario è il ritrovamento di

In alto e qui sopra: frontone con testa di Medusa e iscrizione del sarcofago di Titus Vettius. II-III sec. d.C. In basso: veduta dell’area funeraria scoperta in via San Pietro a Concordia Sagittaria (VE).

un frammento di iscrizione, che riporta il nome del committente dell’imponente manufatto, un Titus Vettius, appartenente all’ordine dei Sodales Augustales, collegio sacerdotale istituito per il culto degli imperatori divinizzati». A stabilire che il monumento non costituiva un’esperienza isolata, ma faceva parte di una necropoli organizzata e strutturata, spiega ancora Rinaldi, «si sono aggiunti due ulteriori rinvenimenti, contigui al monumento: in continuità con il basamento del podio del monumento funerario e quindi in una posizione di sopraelevazione era collocato un sarcofago in calcare locale con l’iscrizione P(ublius) Firmiteius Redempto(r)/ pater fil(i)o du(l)cis(s) imo/vixit an(nos) XVIII. Si tratta della dedica del padre al figlio morto prematuramente, ad appena18 anni. Poco distante un ulteriore sarcofago, anepigrafe, e semplicemente decorato da due identici motivi a volute (cosiddette anse a graffa), sembrava quasi chiudere la quinta architettonica di una necropoli clientelare». L’eccezionale scoperta non ha finora precedenti nel panorama regionale e l’intera équipe del Progetto è attualmente impegnata nel restauro e nella ricomposizione del complesso funerario monumentale, ispirato con molta probabilità a tipologie funerarie orientali (di ambito frigio) e di cui è prevista la ricollocazione in situ. Giampiero Galasso

archeo 9


n otiz iario

SCAVI Firenze

un antico flagello

In alto e in basso: due immagini degli scheletri, una sessantina in tutto, scoperti sotto il salone di lettura della Biblioteca degli Uffizi e riferibili a una necropoli del V-VI sec. d.C.

U

na Firenze messa a dura prova da una terribile epidemia: è questo lo scenario emerso dalle scoperte compiute nel corso di recenti scavi condotti nell’ambito del progetto Grandi Uffizi. Le ricerche nell’area sottostante il salone di lettura della Biblioteca hanno infatti portato alla luce un cimitero, databile al V-VI secolo d.C., nel quale trovarono sepoltura una sessantina di individui. Si tratta di un’area, situata a sud del circuito murario romano che, come prova la presenza di limi e sabbie fluviali, doveva essere soggetta a periodiche inondazioni da parte dell’Arno. L’impianto del sepolcreto dovette dunque coincidere con una fase di «secca» del fiume, ma la zona era comunque oggetto di allagamenti nelle fasi della sua maggiore portata, e la posizione, talvolta scomposta, degli inumati, deposti affiancati testa-piedi, sono chiari indizi di inumazioni realizzate in fretta, probabilmente in concomitanza con l’insorgenza di un’epidemia. Altri elementi che concorrono a rendere realistica

10 a r c h e o

l’ipotesi dell’epidemia sono la vicinanza delle fosse tra loro e l’orientamento non omogeneo degli inumati, indizi di un’attività cimiteriale concentrata in un arco temporale molto limitato e tesa al massimo sfruttamento dello spazio disponibile per le sepolture. Appare verosimile che l’evento drammatico che ha determinato la realizzazione di questo cimitero d’emergenza sia da collocare nella stagione calda, quando il fiume in

secca si ritirava nella parte sud dell’alveo rendendo praticabile il suolo formato dai suoi sedimenti, depositati durante le fasi di piena invernale in sponda destra. Le indagini antropologiche, palinologiche e paleobotaniche intraprese col rinvenimento della necropoli potranno fare luce sulle reali cause della «moria» e sugli aspetti socio-ambientali di questo ampio campione di popolazione. (red.)


SCAVI Friuli-Venezia Giulia

marche

sulla via dell’ambra

Un nuovo tempio a Sentinum

I

piú recenti scavi condotti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia sul versante meridionale del colle di San Pietro (in località Cjanas), a Zuglio (provincia di Udine), hanno portato a due scoperte di notevole rilevanza: la preesistenza al vicus di Iulium Carnicum di un abitato preromano, databile all’epoca protostorica, e l’individuazione di un’area di raccolta e, forse, di lavorazione dell’ambra. Già tra il 1995 e il 2003 erano stati individuati, in un fronte di frana, a sinistra del torrente Bueda, i resti di un abitato terrazzato, con case dotate di alti zoccoli murari in pietra a secco, focolari angolari e probabili alzati in legno. La ceramica recuperata era stata datata tra il tardo VIII e il VI secolo a.C. Nel 2004, durante un successivo scavo nell’unico tratto di pendio non intaccato dalla frana, era stata individuata un’unità abitativa che aveva permesso di leggere varie fasi strutturali inquadrabili tra il IV e il III secolo a.C. Sovrapposta a questa unità abitativa resti degradati dell’età della romanizzazione. I livelli piú profondi non erano stati indagati. Un villaggio, dunque, probabilmente abitato dai Carni citati nelle fonti antiche, il cui tessuto edilizio occupava un’area rada ma abbastanza ampia, estendendosi anche piú a est sull’altura di Sezza. Si suppone che il sito abitativo fosse stato abbandonato quando, nel pianoro sottostante, vennero edificati gli edifici del primo nucleo del vicus di Iulium Carnicum. Lo scavo condotto nello scorso autunno, reso difficoltoso proprio a causa della ripidità del pendio, ha permesso di rispondere ad alcuni degli interrogativi sorti a seguito dei precedenti rinvenimenti, ma ha anche generato nuove problematiche, risolvibili solo con

In alto: uno dei frammenti d’ambra restituiti dallo scavo di Zuglio. la prosecuzione dello scavo stesso. È stato confermato, infatti, che le case erano dotate di un impiantito ligneo, ma non risulta ancora definita l’organizzazione dell’unità abitativa: come erano disposti i probabili «pilastri» di sostegno dell’impiantito ligneo? C’erano o meno ambienti accostati incardinati su un singolo muro di terrazzamento? Quel che si è potuto confermare è che l’area era frequentata ancora in età romana, come dimostra, tra l’altro, una moneta di Traiano rinvenuta negli strati piú superficiali. Una stradina, inoltre, sicuramente costruita nella prima età romana, delimitava a sud l’area delle case protostoriche e conduceva forse alla sommità del colle di S. Pietro. La scoperta piú importante riguarda, però, la presenza, a monte della zona indagata, di un’area di raccolta e forse di lavorazione dell’ambra, riferibile probabilmente all’età della romanizzazione. Il prezioso materiale, una resina fossile di origine baltica, fu presente sporadicamente con manufatti finiti in abitati protostorici friulani, ma venne lavorato, con particolare maestria, solo a partire dal tardo I secolo a.C., in laboratori specializzati ad Aquileia. Il ritrovamento apre un nuovo intrigante tema, quello di una diramazione della via dell’ambra, dall’area danubiana attraverso i passi alpini carnici, supposta ma mai confermata. (red.)

Nuove scoperte sono avvenute nel parco archeologico di Sentinum presso Sassoferrato (Ancona). «Si tratta – spiega Maria Gloria Cerquetti, funzionario archeologo responsabile di zona – di un massiccio edificio a pianta rettangolare. La posizione del complesso nell’insula principale della città a nord del foro non pone dubbi circa la sua funzione pubblica. In base all’articolazione planimetrica esso può interpretarsi come tempio tuscanico conservato al livello del podio, probabilmente a tre celle e ricostruibile come prostilo tetrastilo con doppia fila di colonne (o due colonne in antis) all’interno del pronao. Tale ricostruzione accosta l’edificio sentinate ai templi di età repubblicana o degli inizi dell’età augustea». G. G.

In alto: un tratto di strada basolata scoperto nei pressi del tempio individuato a Sentinum. a r c h e o 11


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

visioni impossibili nemmeno i romani potevano vedere cosí da vicino il fregio della colonna traiana. un’esperienza ora resa possibile grazie a un’applicazione per tablet: ce ne parla sergio fontana, l’archeologo che ha ideato e diretto questo innovativo progetto

F

ino a ieri, per apprezzare la Colonna Traiana, inaugurata nel 113 d.C., si doveva stare col naso all’insú. Adesso, grazie a un’applicazione per tablet (iPad), si può volare fino alla sommità del monumento e scrutare da vicino, centimetro per centimetro, i 200 m di fregio scolpito che avvolgono la colonna per 23 volte, nei suoi 35 m di altezza. A spiegarcelo è Sergio Fontana, archeologo e, dal 2011, direttore del progetto 3D Rome, che ha curato lo sviluppo della nuova applicazione, promossa dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma e da Mondadori Electa. È vero che questa nuova app permette di conoscere e «guardare» la Colonna Traiana persino meglio degli stessi Romani del tempo? «Certo. Il problema della vista dal basso della colonna si poneva anche nell’antichità. Lo svolgimento del lungo nastro istoriato non doveva essere ben visibile in epoca romana, quando la colonna era al centro di uno stretto cortile porticato, tra la Basilica

12 a r c h e o

Ulpia e le due biblioteche del Foro di Traiano. La colonna si trovava in uno spazio molto angusto, dove era impossibile girarle attorno con lo sguardo fino alle spire piú alte del fregio. Per questo si ritiene che, sul lato nord-ovest della colonna, ci fosse una sorta di riassunto in verticale, una versione di sintesi delle due guerre daciche (101-102 d.C e 105-106 d.C.), che desse una visione di insieme a chi la ammirava dal basso verso l’alto». Come nasce questo progetto? E perché, tra i tanti monumenti del centro storico di Roma, è stata scelta proprio la Colonna Traiana? «L’iniziativa è parte di un progetto piú vasto, che riguarda tutta l’area archeologica centrale della capitale. E la colonna rappresenta il complesso figurativo antico piú importante e vasto che si sia preservato: è in se stessa un racconto scolpito. Per la difficoltà di lettura dal basso, inoltre, la fruibilità del monumento è fortemente limitata: per apprezzare a pieno la colonna, il visitatore ha bisogno di essere aiutato. Quest’opera, poi, è uno dei pochi monumenti dell’antica Roma giunto fino a noi sostanzialmente integro, un testimone quasi immutato del tempo, l’unico elemento di tutti i Fori Imperiali rimasto sempre visibile e leggibile, per oltre 1900 anni. Nel Settecento, per esempio, nell’area si vedeva soltanto la Colonna Traiana, che spuntava dal piano antico del Foro». Grazie alla nuova applicazione, il

racconto figurato delle guerre daciche può dunque essere letto facilmente da chiunque. E dovunque… «L’applicazione consente un approccio semplice e immediato al monumento. La possibilità di esplorare il modello 3D della colonna offre una percezione dei rilievi totalmente nuova rispetto alle riproduzioni grafiche e fotografiche finora pubblicate. Nell’utilizzo della app sul posto, digitando su Live 3D, si può inoltre interrogare la colonna, facendo passare lo sguardo dal monumento al tablet, e ottenere informazioni sulle scene che si intravedono dal basso. La visione “immersiva“ – in tre dimensioni e interattiva – della colonna, comunque, è possibile anche se non ci si trova presso il monumento, dal divano di casa per esempio. Ma l’esperienza dal vivo è insostituibile.» E come funziona la navigazione, una volta che si è scaricata dal web questa app? «Nella home page propone varie sezioni. Cliccando su Il Racconto, si ha una visione continua del lungo fregio, descritto da una voce narrante in 25 minuti, per godere al massimo della sua natura di “film di marmo”. Nella sezione Navigazione libera si può esplorare la colonna in tutte le sue parti, seguendo la spirale dei rilievi o procedendo liberamente, con l’ausilio di sottotitoli che descrivono le scene. Si può far girare il cilindro della colonna con le dita, sfiorando lo schermo del


Due schermate dell’applicazione realizzata con l’intento di favorire la fruizione della Colonna Traiana. tablet, e scegliere la parte che si vuole approfondire. Nella sezione Le guerre daciche, personaggi e interpreti si accede a informazioni sui caratteri dei protagonisti (l’imperatore Traiano, il re Decebalo, l’esercito romano, i Daci). Per avere un’idea di Roma nei vari periodi storici, c’è «La Colonna nel tempo», con l’ambientazione del monumento dall’epoca romana, al primo Rinascimento e fino al Settecento: è come se il visitatore fosse trasportato in quell’epoca. L’ambiente circostante è riprodotto fedelmente e si può esplorare questo angolo di Roma in maniera virtuale, come con una macchina del tempo. C’è poi la sezione I numeri della Colonna, con le informazioni tecniche e architettoniche sul monumento». Il tablet in pratica «parla» con la colonna… ma come si sentono? «Quando ci si trova sotto al monumento, entrando nella sezione Live 3D, si può puntare il rilievo con il tablet, “agganciare” un punto reale della colonna e muoversi con lo schermo da sotto a sopra, oppure ingrandendo e ruotando il nastro del rilievo, per godere di ogni angolo del fregio». Le nuove tecnologie applicate all’archeologia, con le loro

potenzialità virtuali e soprattutto interattive, sono quindi approdate sui tablet, diventando portatili. È questa la rivoluzione in atto? «Sí. Questa è una rivoluzione molto importante perché il tablet consente di accedere a contenuti formativi e istruttivi dove e quando servono. Inoltre permette di avere immagini nitide e di lasciare libero lo sguardo di passare dallo schermo al monumento. Cosí si fa un’esperienza unica dell’antico, piú potente rispetto agli strumenti tradizionali, come le installazioni realizzate all’interno dei musei, in maniera decontestualizzata, o la navigazione a casa dal web. Con questa app si instaura un rapporto diretto tra turista e monumento, cercando l’interazione tra la colonna e la ricostruzione informatica. Offrire uno strumento del genere al visitatore è una soluzione vincente: per l’esperienza di formazione (e-learning), che si ottiene attraverso la “realtà aumentata”, e poi perché valorizza i beni culturali lasciandoli nella loro integrità senza dover ricorrere ad apparati scenografici». Che cosa intende quando parla di «realtà aumentata»? «Si parla di “realtà aumentata” quando, oltre alle informazioni che vengono dai cinque sensi, se ne aggiungono altre mediate dallo strumento informatico. Stando ai piedi della colonna, con il senso della vista l’uomo non riesce a

percepire la parte alta del fregio: con lo strumento informatico si «aggiunge» una visuale altrimenti impossibile. Lo trovo un passaggio importante della conoscenza e della comunicazione: prima esisteva solo il mondo fisico dei libri e delle aule, poi c’è stato un tentativo di passaggio al mondo virtuale, con l’ipertesto, via web, o con la realtà virtuale. Tutte soluzioni, però, avulse dal monumento. La rivoluzione, qui, sta nel fatto di andare a “virtualizzare la realtà”, nel non perdere l’aggancio con il reale, ma di arricchirlo di contenuti multimediali». Dalla realtà virtuale alla virtualizzazione della realtà, insomma. Con uno strumento, come il tablet, che è oggi sempre piú diffuso… «Questo è un altro aspetto importante. Nessuno, per esempio, possiede un paio di occhiali con la connessione internet: il tablet invece è alla portata di molti. È uno strumento con vaste potenzialità, tra cui la possibilità di vedere immagini grandi e ad alta definizione». È necessaria la connessione internet, se si usa la app sul posto, di fronte al monumento? «No. Una volta scaricata l’applicazione (dall’App Store di iTunes) il contenuto è fruibile davanti al monumento e ovunque senza connessione».

a r c h e o 13


n otiz iario

valorizzazione Iraq

benvenuti in mesopotamia!

L

o scorso dicembre si è svolto in Iraq un evento di grande rilevanza storica: il primo pellegrinaggio cristiano nelle terre dell’antica Mesopotamia dopo decenni di chiusura. Una delegazione dell’Opera Romana Pellegrinaggi, guidata da monsignor Liberio Andreatta, è stata invitata dal Governo Iracheno e dal Governatorato del Dhi Qar (Iraq meridionale) a visitare alcuni luoghi sacri per le tre grandi religioni che si riconoscono nell’eredità spirituale della discendenza comune dal patriarca Abramo. Alla delegazione partecipavano rappresentanti del Vaticano, sacerdoti del mondo delle parrocchie italiane, giornalisti, e chi scrive. Il viaggio è stato organizzato da Maurizio Zandri, manager di Sudgestaid, un’organizzazione specializzata nella cooperazione internazionale per il sostegno a Paesi in stato di crisi, che opera con successo in Iraq da dieci anni. Il viaggio ha preso le mosse da Bassora, dove la missione è stata accolta dalla locale comunità cristiana e ha incontrato la minoranza religiosa di fede mandea, una antica confessione di ispirazione gnostica. Le autorità civili e religiose sciite che governano il Dhi Qar, nome moderno della provincia che raccoglie l’antico Sumer, e nella quale le condizioni di sicurezza sono tornate buone, hanno ospitato e protetto la delegazione cristiana con uno spirito di amicizia fraterna e dedicata attenzione. Il pellegrinaggio ha poi toccato il grande sito di Ur dei Caldei, città dalla quale, secondo una tradizione ormai consolidata, sarebbe partito Abramo, ispirato da Dio, per volgersi alla Terra Promessa; e

Un momento della visita a Ur (sullo sfondo, i resti della ziqqurrat).

14 a r c h e o

proprio davanti a quella che, tra le rovine paleo-babilonesi, viene comunemente identificata come la Casa di Abramo, Liberio Andreatta e gli altri sacerdoti hanno celebrato la Santa Messa. Il pellegrinaggio cristiano ha coinciso con l’Ashura, la piú importante celebrazione religiosa sciita, che vede ogni anno piú di dieci milioni di pellegrini muoversi dall’Iraq, dall’Iran e dai Paesi arabi del Golfo per recarsi a visitare le sacre moschee di Najaf e Kerbala, nelle quali sono venerati i sepolcri degli imam Ali, Abbas e Hussein, caduti come martiri durante i conflitti scoppiati per aggiudicarsi la successione al califfato non molto dopo la morte di Maometto. A Najaf, in uno scenario quasi incredibile, una folla festosa e curiosa di migliaia di fedeli sciiti ha accolto i viaggiatori cristiani e li ha accompagnati davanti alla tomba scintillante dell’imam Ali, genero del Profeta: immagine indimenticabile di un Islam amichevole e rispettoso, ben diverso da quello delle minoranze

estremiste, cupe e intolleranti che i media continuano a riproporre all’immaginazione collettiva. Il viaggio è poi proseguito verso Babilonia, altro luogo cardine dell’identità giudaico-cristiana, per giungere infine a Baghdad. In questa città, ancora segnata, purtroppo, da sanguinosi conflitti tra gruppi sunniti e sciiti, i pellegrini hanno offerto alle comunità cristiane (cattolica latina, siriana, armena e caldea) oggetti di culto e reliquie che portavano in dono da papa Francesco. Al di là del grande valore spirituale, il coraggioso gesto dell’Opera Romana Pellegrinaggi e di Sudgestaid apre davvero le porte a una speranza molto concreta: quella di organizzare nel 2014 nuovi pellegrinaggi, e di far ripartire anche il turismo archeologico – se non a Baghdad, che ci farà ancora attendere – nelle meravigliose terre dell’antico Sumer, culla della civiltà mesopotamica, che attendono con ansia di poter dimenticare le amare vicende delle ultime due decadi. Massimo Vidale



n otiz iario

parchi archeologici Emilia-Romagna

la terramara in festa

Dove e quando

R

iapre i battenti, dopo la pausa invernale, il Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale (Modena). Oltre al consueto programma primaverile – che prevede un ricco calendario di appuntamenti dal 6 aprile al 15 giugno –, nelle giornate del 25, 26 e 27 aprile è previsto un week end interamente dedicato al suo decimo compleanno. Una festa alla quale sono invitati tutti coloro che a diverso titolo hanno sostenuto il Parco di Montale nei suoi primi 10 anni di attività: istituzioni, associazioni, studenti, studiosi, archeologi, curiosi, appassionati, partner europei, generazioni di bambini che hanno imparato la preistoria «sul campo» e famiglie che qui hanno portato i propri figli. Sono in programma visite a tema, letture all’interno delle case ricostruite, laboratori e dimostrazioni in cui tutti possono interagire con gli «artigiani» e sperimentare l’attività di scavo e la realizzazione di oggetti dell’età del Bronzo. Non mancherà l’annullo filatelico che Poste Italiane realizzerà con un bollo speciale creato per l’occasione: appassionati di filatelia e visitatori potranno ricevere gratuitamente la cartolina del parco con l’annullo, praticato alla reception.

16 a r c h e o

A fare il punto delle ricerche scientifiche sulle terramare sarà un sorprendente, quanto improbabile, «dialogo» fra Carlo Boni, protagonista degli scavi ottocenteschi del sito, e Andrea Cardarelli, prosecutore della ricerca e ideatore del parco. Una rassegna non stop che culminerà domenica 27, con il brindisi e un flash mob con lancio di palloncini che porteranno lontano il messaggio del parco e l’invito a visitarlo. Il programma delle iniziative organizzate per il decennale è disponibile sul sito www.parcomontale.it (red.)

Parco Archeologico e Museo all’aperto della Terramara di Montale Montale Rangone (Modena), via Vandelli (Statale 12-Nuova Estense) Orario domeniche e festivi dei mesi di aprile, maggio, giugno, settembre e ottobre, 10,00-13,30 e 14,30-19,00 (18,00 in ottobre) Info tel. 059 2033100 oppure 059 532020; e-mail: info@parcomontale.it; web: parcomontale.it In alto: ricostruzioni di abitazioni tipiche dell’età delle terramare nel Parco di Montale. In basso: l’interno di una dimora, con repliche della suppellettile.



n otiz iario

Luciano Calenda

archeofilatelia

roma nascosta Le catacombe, aree cimiteriali sotterranee, furono realizzate dai cristiani soprattutto a Roma e dintorni. E, dal punto di vista filatelico, sono proprio quelle romane le catacombe che hanno fatto la parte del leone, grazie alle emissioni della 1 Città del Vaticano. Vediamole tutte. La serie piú bella è quella del 1938 che celebrava il IV Congresso di Archeologia Cristiana: 3 valori raffigurano la cripta di S. Cecilia nelle catacombe di S. Callisto (1) e gli altri 3 la basilica di SS. Nereo e Achilleo nelle catacombe di S. Domitilla (2); l’intera serie è presentata qui su una pregevole raccomandata spedita in Svizzera (3). Poi nel 1962, per il VI Congresso di Archeologia Cristiana, 2 dei 4 valori raffigurano la vittoria di Cristo sulla morte da un bassorilievo su un sarcofago nel cimitero di Domitilla (4). Nel 1967, due valori della serie del martirio dei santi Pietro e Paolo raffigurano gli affreschi sulla 3 volta della catacomba dei SS. Marcellino e Pietro (5, san Pietro; 6, san Paolo). Un francobollo del 1975 raffigura un affresco del volto di Cristo nella catacomba di Commodilla (7). Una serie piú recente, del 1984, onora papa Damaso, poi proclamato santo, ricordando il suo impegno nel restauro delle catacombe romane, soprattutto 4 quella di S. Callisto; tutti i valori raffigurano san Damaso con al fianco una vista del sepolcro dei SS. Marcellino e Pietro nella catacomba ad Duas lauros in via Casilina (8), un’epigrafe posta proprio da papa Damaso sulla tomba del martire Gennaro nella catacomba di Pretestato in via Appia Pignatelli (9), la basilica costruita 7 dal pontefice per i martiri Simplicio, Faustino e Beatrice sulla catacomba di Generosa in via Portuense (10). A proposito dell’attività di san Damaso può rientrare nella tematica «catacombe» anche una lunga serie spagnola del 1928 (11; si tratta di ben 28 valori tutti con lo stesso soggetto) venduta 9 per raccogliere fondi per un’organizzazione cattolica spagnola con sede in Roma che aveva lo scopo di restaurare le catacombe curate da san Damaso, in particolare quelle di S. Callisto.

2

5

8

10

IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

18 a r c h e o

Luciano Calenda, C.P. 17126 - Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

11

6



la nuova monografia di archeo

gli etruschi si raccontano sedici personaggi in cerca di lettori

«L

a storia degli Etruschi è stata narrata innumerevoli volte; qui ho cercato di farlo in una maniera originale, dando la parola a singoli protagonisti di quell’affascinante vicenda». Cosí l’etruscologo Giuseppe M. Della Fina spiega l’idea di questa nuova Monografia di «Archeo». Facendo parlare personaggi diversi – una regina, un minatore, un guerriero, una giovane donna, un aristocratico, un artigiano, un erudito, uno straniero e tanti altri – l’autore ha tentato di far comprendere che «dentro la storia etrusca possiamo entrare: possiamo ancora sfiorare oggetti che i personaggi individuati devono avere toccato, entrare in ambienti ai quali anche loro hanno avuto accesso, soffermarci ammirati di fronte a sculture e dipinti che possono averli colpiti». Ciascun capitolo si compone di due parti: la prima incentrata sul racconto di un evento storico narrato da un uomo o da una donna, e la seconda dedicata alla descrizione di ciò che è rimasto dei luoghi nei quali essi si trovarono a operare e che, ancora oggi, possiamo visitare. Replica di una pittura murale della Tomba degli Scudi di Tarquinia (fine del IV sec. a.C.), raffigurante i coniugi Larth Velcha e Velia Seitithi. Tempera su tela, 1900. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

20 a r c h e o


i personaggi

ora in edicola LA VITA AL TEMPO DEGLI ETRUSCHI NARRATA DALLA VIVA VOCE DeI PROTAGONISTI

•t anaquilla Regina di Roma Tarquinia • larth cupures Un homo novus a Velzna Orvieto • vel Il marinaio che fece l’impresa Cerveteri • larth Memorie dal sottosuolo Dall’Accesa a Vetulonia • velia Domani è un altro giorno... Murlo • porsenna Lo statista incompreso Chiusi • velthur spurinna Una vita da comandante Tarquinia. Tombe dipinte • thefarie velianas Il rinnovamento al potere Pyrgi • arnth Cronaca di una battaglia Vulci • lars tolumnio L’ultimo duello Veio • arrunte Traditore per vendetta Chianciano Terme-Sarteano • aule Il rapimento di Giunone Cortona • vel saties Un uomo di larghe vedute Vulci. Tomba François • aule velthina L’ora del tramonto Perugia • un sannita Gli ultimi giorni di Velzna Bolsena • aulo cecina Quel che resta dell’Etruria Volterra

a r c h e o 21


calendario

Italia roma Apoteosi. Da uomini a Dèi

Alba Il passato nel bicchiere

Evan Gorga. Il collezionista

Artegna (UDine) Il Castrum Artenia nel ducato longobardo di Forum Iulii

Il Mausoleo di Adriano Castel Sant’Angelo fino al 27.04.04

Il Vino nell’Antico Egitto Chiesa di S. Domenico fino al 19.05.14

Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps fino al 04.05.14

Castello Savorgnan fino al 13.11.14

Spinario

Storia e fortuna Musei Capitolini fino al 24.05.14

Mostri

Creature fantastiche della paura e del mito Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino all’01.06.14

Forma e vita di una città medievale Leopoli-Cencelle Mercati di Traiano fino al 27.07.14

La biblioteca infinita I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

A sinistra: Spinario in marmo (elemento di fontana). I sec d.C. Qui sotto: busto femminile in bronzo, la cosiddetta «Saffo», da Ercolano, Villa dei Papiri.

Bolzano Frozen stories

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

Cortona Seduzione Etrusca

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 31.07.14

firenze Cortona, l’alba dei principi Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

milano Da Gerusalemme a Milano Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

roma Gli Etruschi e il Mediterraneo

La città di Cerveteri Cerveteri, città che gli Etruschi chiamavano Kaisraie, i Greci Agylla, e i Romani Caere, occupa un posto centrale in Italia e nel Mediterraneo durante tutto il I millennio a.C. Nell’antichità, non a caso, Caere era considerata «la piú prospera e popolata delle città dell’Etruria», come scrive lo storico greco Dionigi di Alicarnasso. Di questa metropoli dell’Italia antica, che dista appena 50 km da Roma, la mostra ripercorre quasi dieci secoli di storia: in che modo comunità distinte costituirono progressivamente una città; come questa città proiettata sul mare divenne una delle principali potenze del Mediterraneo; come questa città, che rivaleggiava per importanza con Roma, fu infine dominata da quest’ultima e assorbita nel corso del I secolo a.C. dal nascente impero.

Dove e quando Palazzo delle Esposizioni fino al 20 luglio 2014 (dal 15 aprile) Orario do-ma-me-gio, 10,00-20,00; ve-sa, 10,00-22,30; lu chiuso Info palazzoesposizioni.it

22 a r c h e o

Il Castello Savorgnan di Artegna (Udine).


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

montesarchio Rosso Immaginario

saint-romain-en-gal - vienne Gli Irochesi del San Lorenzo, popolo del mais

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

Monza Amore e Psiche.

La favola dell’anima Villa Reale fino al 04.05.14

Musée romain fino al 15.04.14

In alto: una delle videoproiezioni realizzate a partire dai vasi figurati esposti a Montesarchio.

Germania

pescara Grandi Madri Grandi Donne Percorsi d’Arte dalla Preistoria al Rinascimento Museo Casa Natale di Gabriele d’Annunzio fino al 30.06.14

Ravenna L’incanto dell’affresco

karlsruhe L’impero degli dèi

Capolavori strappati da Pompei a Giotto, da Correggio a Tiepolo Museo d’Arte della città di Ravenna fino al 15.04.14

Treviso Magie dell’India

Dal tempio alla corte, capolavori dell’arte indiana Casa dei Carraresi fino al 31.05.14

Qui sopra: quadretto ad affresco da Pompei.

vulci I Predatori dell’Arte a Vulci

e il Patrimonio ritrovato Museo Archeologico Nazionale fino al 31.05.14

Francia parigi Io, Augusto, imperatore di Roma Grand Palais fino al 13.07.14

Gran Bretagna Londra I Vichinghi

Vita e leggenda The British Museum fino al 22.06.14

Venafro Gli Etruschi del lago Da Orvieto a Bolsena un percorso nella storia Museo Archeologico Nazionale fino al 30.04.14

Iside-Mitra-Cristo. Culti e religioni nell’impero romano Badisches Landesmuseum fino al 18.05.14

Qui sopra: rilievo con tauroctonia, dal mitreo di S. Stefano Rotondo.

Paesi Bassi A sinistra: antefissa etrusca in terracotta policroma con Menade e Sileno.

leida Medioevo dorato

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14 (dal 25.04.14)

Spagna Madrid La Villa dei Papiri Casa del Lector fino al 23.04.14

Qui sopra: due pezzi degli scacchi Lewis, dall’omonima isola scozzese. Manifattura normanna, fine del XII sec.

In basso: l’obelisco nel Central Park di New York noto come «Ago di Cleopatra», ma in realtà risalente all’età di Tutmosi III.

USA New York L’ago di Cleopatra

The Metropolitan Museum of Art fino all’08.06.14 a r c h e o 23


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

L’

espressione «Civiltà dell’Indo» o anche «Cultura di Harappa» indica una delle piú antiche civiltà urbane, fiorita tra il 2600 e il 1900 a.C. circa lungo la valle del fiume Indo, nel nord-ovest del subcontinente indiano. La sua estensione copriva quello che oggi è il Pakistan e parti dell’India e dell’Afghanistan. Un’area di circa 1 250 000 kmq, piú estesa dell’antico Egitto e la Mesopotamia messi insieme. Fino a oggi sono stati individuati piú di 1050 siti archeologici, perlopiú distribuiti lungo il corso del fiume Indo. Vi sono indizi, inoltre, dell’esistenza di un altro corso fluviale, oggi prosciugato,

Iran

Afghanistan Harappa

Mehrgarh

Pakistan Mohenjo-Daro Lothal

Oceano Indiano

24 a r c h e o

India

situato a est dell’Indo, e che potrebbe essere identificato con l’antico fiume Ghaggra-Hakra, o Sarasvati («civiltà di Sarasvati» è un’altra denominazione usata per la Civiltà dell’Indo). Lungo questo fiume sono stati

In alto: un sigillo in steatite con l’emblema dell’elefante e una serie di caratteri (non ancora decifrati) tipici della Civiltà dell’Indo. 2600-1900 a.C. A sinistra: cartina con l’indicazione dei principali siti archeologici della Civiltà dell’Indo.


individuati piú di 140 siti archeologici, tra insediamenti e centri maggiori.

perché scomparve la civiltà dell’indo? Le piú importanti città della civiltà dell’Indo erano quelle di Harappa e di Mohenjo-Daro: quest’ultimo è oggi un celebre sito archeologico, caratterizzato da una vasta area occupata dai tipici edifici in mattoni crudi. È stato ipotizzato che, nel periodo della sua massima fioritura, la Civiltà dell’Indo contava una popolazione di oltre 5 milioni di persone. Uno dei misteri ancora irrisolti riguarda gli enigmatici «segni», fino a oggi indecifrati, che appaiono sui sigilli dell’Indo, forse parte di un antico sistema scrittorio. Ma anche un altro problema ha, da sempre, assillato gli studiosi della Civiltà dell’Indo: le ragioni della sua repentina «scomparsa», intorno al 2000 a.C., piú o meno in corrispondenza con il passaggio dal Medio Regno nell’Egitto faraonico e la fine del regno di Ur III in Mesopotamia. Tra le ipotesi avanzate, quelle legate a fattori climatici hanno sempre goduto di un certo credito, anche se non si potevano escludere cause diverse, come le invasioni di popolazioni nomadi dall’altipiano iranico o, anche, le epidemie. Ora, uno studio condotto da paleoclimatologi dell’Università di Cambridge, pubblicato dalla

rivista Nature, ha individuato le tracce di un significativo cambiamento climatico nella zona in oggetto, avviatosi circa 4100 anni fa e caratterizzato da una progressiva diminuzione delle piogge monsoniche. Con l’effetto di un lento ma inesorabile prosciugamento dell’area che portò al collasso dell’economia agricola su cui la Civiltà dell’Indo era fondata.

«La guerra di Monica» Con riferimento all’articolo apparso in questa rubrica nello scorso febbraio (vedi «Archeo» n. 348) desideriamo precisare che gli archeologi che hanno dovuto lasciare il sito di el-Hiba fanno parte della missione della University of California Berkeley e non dell’UCLA. Dell’errore ci scusiamo con gli interessati e con i nostri lettori.

Qui sopra e sulle due pagine, in basso: le grandiose strutture dei palazzi dell’età del Bronzo di Mohenjo-Daro, una delle principali città della Civiltà dell’Indo.

a r c h e o 25


scoperte • etruschi

la PRINCIPessa dalle mani

d’argento Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

28 a r c h e o


Un misterioso idolo scomparso, migliaia di minuscole sfere dorate, una collana di ambra e osso: la recentissima scoperta nell’ormai celebre necropoli dell’Osteria dell’antica Vulci getta uno squarcio di luce su concezioni e ritualità funerarie degli Etruschi della fine del VII secolo a.C. Un mondo che ora possiamo incontrare e «rivivere», grazie a un’affascinante mostra allestita al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma e nel vulcente Castello dell’Abbadia di Carlo Casi

A sinistra e nella pagina accanto: le magnifiche mani in argento che hanno dato nome alla tomba recentemente scoperta nella necropoli vulcente dell’Osteria e alla quale è dedicata la mostra attualmente allestita nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (vedi box a p. 36). Sulle due pagine: il salto del fiume Fiora noto come cascata del Pelliccione.

a r c h e o 29


scoperte • etruschi

S

iamo a Vulci, nella necropoli dell’Osteria, dove si sta concludendo la campagna di scavi. La mattinata è uggiosa e l’incedere degli archeologi ricorda quello di una processione funebre, anche se di senso inverso. Entrano nella tomba a mani vuote e, poco dopo, escono in fila, muovendosi con attenzione, e portando oggetti bellissimi, testimoni della passata ricchezza del defunto. All’interno della camera B, quella di sinistra, ferve ancora l’attività dei restauratori che tentano di strappare dalla terra concrezionata alcuni reperti bronzei e lignei in precario stato di conservazione. Capiranno solo dopo, in laboratorio, di che cosa si tratta: forse parti del carro di cui si riconosce, appoggiato a un angolo, uno dei cer-

30 a r c h e o

Mar L ig u r e Vulci

Corsica

Mare A dri ati co

Roma

Sardegna

Mar Ti rreno

Mar Ioni o

N 0

300 Km

Sic Sici S Si iciilia ic lia

chioni delle ruote. O forse della bardatura dei cavalli, come il collare bronzeo appena rinvenuto insieme a due morsi in ferro. Per il momento hanno solamente coscienza di essere protagonisti dell’ultima, eccezionale, scoperta

L’area di culto Necropoli dell’Osteria, area di culto. Si riconoscono i recinti che, in alcuni casi, hanno intercettato le tombe (vedi pianta alla pagina accanto, in basso).


Nella camera B Tomba delle Mani d’Argento. La camera B in corso di scavo. Da questo vano provengono i resti di un piccolo carro in bronzo.

La «sorpresa» della camera A Le mani d’argento al momento del ritrovamento all’interno della camera A. La loro presenza potrebbe essere interpretata come una sorta di «risarcimento» simbolico dell’entità corporea del defunto, distrutta dall’incinerazione praticata prima della sepoltura.

N

A sinistra: il momento dell’apertura della camera C della tomba delle Mani d’Argento. A destra: pianta di fase della necropoli scavata: verde: tombe a fossa profonda (prima metà del VII sec. a.C.); rosso: tombe a camera (seconda metà del VII sec. a.C.); giallo: tomba delle Mani d’Argento (seconda metà del VII sec. a.C.); azzurro: recinti sacri dell’area di culto (V-IV sec. a.C.).

a r c h e o 31


scoperte • etruschi

verificatasi in questa necropoli: la tomba delle «Mani d’Argento». Ampiamente disturbata nel corso degli anni dall’attività clandestina, la necropoli dell’Osteria, un’estesa area funeraria situata a nord-ovest del pianoro urbano diVulci, ha restituito, sin dalle indagini ottocentesche, alcuni dei piú interessanti complessi funerari etruschi: la tomba del Sole e della Luna e quella della Panatenaica (entrambe non piú localizzabili), la tomba dei Soffitti Intagliati e quella a Dado; e, infine, la tomba della Sfinge, di recente scoperta (vedi «Archeo» n. 325, marzo 2012; anche on line su archeo.it). Nell’area di scavo sono emerse numerose «tombe a fossa profonda» risalenti alla prima metà del VII secolo a.C. Si tratta di grandi fosse rettangolari scavate nel banco roccioso, che venivano chiuse da lastre in pietra calcarea, rinvenute spesso in frammenti all’interno della fossa a causa dell’attività di spoliazione e scavi clandestini di cui l’area ha ampiamente sofferto.

una società opulenta In alcuni casi, le sepolture conservavano il corredo che denota, data l’elevata qualità dei materiali, il rango medio-alto dei defunti: vasellame importato associato a prodotti delle botteghe vulcenti, armi e spiedi in ferro per gli uomini; collane, fibule e fuseruole per le donne appartenenti a una società ricca, aperta ai contatti, come dimostra la presenza di uno scarabeo-sigillo egizio recuperato all’interno di una di queste tombe (vedi «Archeo» n. 339, maggio 2013; anche on line su archeo.it).

32 a r c h e o

In alto: la restauratrice Teresa Carta si appresta a eseguire lo stacco del collare bronzeo di cavallo rinvenuto nella camera B. Qui sotto: frammento di lamina in bronzo decorata a sbalzo pertinente al rivestimento del carro della camera B. In basso: lamina d’argento decorata a sbalzo con raffigurazione dell’albero della vita, dalla camera A.


A sinistra: archeologi e restauratori impegnati nel recupero del corredo all’interno della camera B. In basso: la ricomposizione in laboratorio della ruota di carro della camera B.

In una fase successiva, negli spazi lasciati liberi da quelle «a fossa profonda» vengono realizzate tombe a camera di modeste dimensioni, in alcuni casi precedute da un breve corridoio d’accesso gradinato. Gli scavi clandestini hanno ampiamente manomesso i sepolcri e solo pochi di essi sono stati trovati intatti: si tratta in genere di sepolture con corredi molto semplici, riferibili alla seconda metà del VII secolo a.C., che attestano un rituale funerario secondo il quale ai vasi deposti all’interno della tomba veniva spezzata una delle due anse. Questo settore della necropoli fu successivamente occupato da un unico complesso funerario di carattere monumentale, appartenente con certezza a una famiglia di rango principesco: il complesso, risalente al terzo quarto del VII secolo a.C., è stato subito chiamato la «tomba delle Mani d’Argento», nome dovuto a uno degli straordinari reperti rinvenuti all’interno, fortunatamente risparmiati dall’attività clandestina che ha purtroppo interessato il monumento funebre sin dalle scavato il monumentale ipogeo è età piú antiche. purtroppo assai friabile e questo ha causato il crollo di alcune porzioni di pareti proprio in corrispondenza all’interno delle porte della camera principale del monumento L’accesso alle camere funerarie av- centrale (camera A) e di quella di veniva attraverso un dromos lungo sinistra (camera B). quasi 10 m, orientato nord-sud, Già l’impianto architettonico e i forse inizialmente provvisto di una dettagli decorativi delle camere labreve gradinata, che immette in un sciano intuire l’importanza della atrio a cielo aperto a pianta rettan- struttura e, di conseguenza, l’appargolare. Dall’atrio si accede a tre ca- tenenza ai livelli piú alti dell’aristomere: il banco di roccia in cui è crazia vulcente: la camera centrale, di

maggiori dimensioni, pur nella semplicità della pianta rettangolare, mostra un interessante tetto a doppio spiovente con risega accentuata tra parete e soffitto; sul fondo, all’incirca per tutta la larghezza dell’ambiente, una bassa risega risparmiata nel banco naturale fungeva probabilmente da banchina funeraria. La camera di sinistra, anch’essa a pianta rettangolare, presenta invece un’architettura piú complessa, con una foderatura della fascia bassa di due pareti realiza r c h e o 33


scoperte • etruschi

variazioni sul tema Pescia Romana Mano in bronzo detta «proveniente da Pescia Romana». Primo quarto del VII sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma. Superstite di una coppia, la mano può essere riferita a un simulacro antropomorfo simile a quello della tomba del Carro di Bronzo di Vulci.

Tomba del Carro di Bronzo La testa e le mani di una delle «statue», verosimilmente in legno, che facevano parte del corredo della tomba del Carro di Bronzo di Vulci, databile tra il 680 e il 670 a.C. In basso: la ricostruzione della tomba nel percorso espositivo del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma.

zata con blocchi di siltite messi accuratamente in opera di taglio senza alcun legante; e il soffitto dal profilo «a padiglione», con al centro un lungo columen (trave di colmo) rilevato dalle estremità arrotondate. Di forma rettangolare, ma di dimensioni e importanza certamente inferiori è la camera di destra (C), devastata dalle violazioni clandestine.

oggetti di grandissimo pregio Sono soprattutto gli oggetti di corredo, quelli risparmiati dall’attività dei saccheggiatori e sapientemente recuperati dagli archeologi, a testimoniare la ricchezza della famiglia proprietaria della sepoltura e a costituire l’eccezionalità della scoperta. Non si tratta soltanto di un ricco repertorio di forme ceramiche (grandi pithoi di impasto, olle a costolature, tazze baccellate decorate a lamelle metalliche, calici di impasto, ceramica di importazione ed etrusco-corinzia non figurata, numerosi buccheri di elevata qualità), ma anche – e soprattutto – di oggetti di altissimo pregio che stanno riprendendo forma grazie all’eccezionale intervento di restauro svolto da 34 a r c h e o


Un simulacro riccamente vestito Oltre alle mani in argento (a sinistra) che hanno dato nome all’intero sepolcro, la camera A ha restituito una quantità ingente di cuppelle in lamina di bronzo dorato (a destra): si tratta di elementi ornamentali che, con ogni probabilità, erano originariamente applicati su un tessuto, forse quello dell’abito fatto indossare alla «statua».

un’équipe formata dai giovani restauratori dell’Accademia di Belle Arti di Viterbo e dal personale dell’ISCR (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro). Nella camera B sono stati recuperati i frammenti di un piccolo carro, la cui presenza è provata dal cerchione con ancora infissi i chiodi che lo univano al gavello (la struttura in legno della ruota), in associazione a morsi in ferro e a un largo collare in lamina di bronzo da cavallo, rinvenuti in prossimità dell’entrata.Ancor piú importanti sono i materiali rinvenuti nella camera A: oltre a oggetti personali quali fibule in ferro e in bronzo – alcune con inserti in ambra –, un anello in spesso filo d’argento, pendenti di collana d’argento a forma di ghianda, un piccolo affibbiaglio d’oro massiccio, vaghi di collana in faïence, ambra e osso; e poi morsi e altri finimenti di cavallo in bronzo, dalla raffinatissima lavorazione a giorno con teorie di cavalli, e migliaia di minuscole semisfere di bronzo dorate, un tempo cucite su una stoffa per realizzare una superba decorazione. Ma il ritrovamento di maggiore interesse è sicuramente quello della

coppia di mani in lamina d’argento: la sinistra, meglio conservata, era posizionata «di dorso»; a circa 60 cm di distanza dalla destra, rinvenuta con il palmo direttamente a contatto con il piano pavimentale, meno conservata. Le unghie sono evidenziate da sottili lamine d’oro, mentre altri particolari sempre in oro sulle dita, farebbero pensare a ulteriori elementi decorativi.

una tecnica di origine greca Si tratta di un unicum per il materiale utilizzato, ma non per la tipologia di oggetto: a oggi, infatti, conosciamo le quattro mani dalla tomba del Carro di Bronzo di Vulci, e, soprattutto, la coppia, anch’essa di provenienza vulcente, conservata ai Musei Vaticani, con ancora applicate semisfere rivestite in lamina d’oro identiche a quelle rinvenute nella camera A. A esse si uniscono altri esemplari in metallo noti da Pescia Romana e dal mercato antiquario, mentre al Museo dell’Abbadia di Vulci sono presenti dita in avorio, sempre pertinenti a due mani, da una tomba della necropoli di Cavalupo. Coa r c h e o 35


scoperte • etruschi A sinistra: Roma. Villa Giulia, sede del Museo Nazionale Etrusco. Nella pagina accanto: archeologi e restauratori al lavoro presso il laboratorio di restauro del Parco di Vulci a Montalto di Castro.

Principi Immortali L’idea di allestire una mostra itinerante sulla Tomba delle Mani d’Argento nasce sull’onda della eccezionale scoperta e dalla volontà di far conoscere immediatamente al grande pubblico il contesto sepolcrale, arricchito dai dati desunti dalla limitrofa area di culto. Inoltre viene colta l’occasione per porre in risalto un aspetto particolarmente interessante e originale dell’artigianato e del rituale funerario antico di Vulci, quello relativo agli sphyrelata (lamine battute). Allestita inizialmente al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, la mostra trascorrerà l’estate presso il Museo Nazionale di Vulci dopodiché andrà ad arricchire l’immagine dell’Italia a Bruxelles in occasione del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea. Il percorso si apre con la presentazione della necropoli dell’Osteria, passando poi alla ricostruzione in scala 1:1 della tomba delle Mani d’Argento e all’esposizione dei materiali ivi rinvenuti, alcuni anche ricollocati al suo interno. Seguono approfondimenti archeometrici relativi al contesto, soprattutto quello dell’area cultuale, comprendenti anche la parziale ricostruzione di uno dei recinti sacri. Viene infine affrontato il tema dei simulacri antropomorfi, a partire dallo sphyrelaton di cui fanno parte le stesse mani d’argento con importantissimi confronti provenienti dai Musei Vaticani, dal Museo Nazionale di Firenze e da quello Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto. La mostra è stata ideata e diretta da Alfonsina Russo, soprintendente archeologo dell’Etruria Meridionale, su un progetto di Luciana Di Salvio, ed è stata curata da Simona Carosi e Patrizia Petitti della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, in collaborazione con l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, l’Accademia di Belle Arti di Viterbo, il Comune di Montalto di Castro e la Mastarna/Parco di Vulci.

dove e quando «Principi Immortali. I fasti dell’aristocrazia vulcente» Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 10 giugno (dal 15 aprile) Orario ma-do, 8,00-19,30; lu chiuso Info tel. 06 3226571; villagiulia.beniculturali.it Vulci, Museo Archeologico Nazionale dal 27 giugno al 14 settembre Orario ma-do, 8,00-19,30; lu chiuso Info Tel. 0761 437787; etruriameridionale.beniculturali.it

36 a r c h e o

mune a tutti questi reperti è un elemento che rimanda a una particolare tecnica scultorea di provenienza or ientale: quella degli «sphyrelata» (lamine battute), in cui vari materiali preziosi rivestono, letteralmente, una struttura lignea assemblata per l’occasione. L’uso di questa tecnica si diffonde in Grecia nell’VIII secolo a.C. e compare in Etruria poco dopo, limitatamente a Vulci e al Vulcente, anche se con rielaborazioni proprie. Se nell’area egea viene utilizzata per le raffigurazioni artistiche di grandi dimensioni di divinità – si pensi all’enorme statua crisoelefantina di Zeus nel santuario di Olimpia per opera di Fidia (una delle sette meraviglie del mondo, oggi scomparsa, n.d.r.) – a Vulci, invece, questa tecnica, è relegata alla produzione di simulacri antropomorfi, raffiguranti il defunto, di modesta grandezza. O, meglio, il corpo del defunto che viene cosí risarcito simbolicamente, vista la distruzione anticipata dello stesso causata dal rito crematorio che caratterizza le sepolture in questione. Un tentativo, quindi, di superare la mancanza del cadavere attraverso la trasposizione non solo corporea, ma anche dell’anima del defunto che, contenuta nello sphyrelaton, diventa cosí «immortale».

riemerge la statua E, cosí, le mani d’argento, rinvenute nella tomba a cui hanno dato il nome, devono essere lette insieme ad altri oggetti a loro associabili, quali, per esempio, l’oggetto circolare in avorio o le migliaia di perline dorate. Pian piano riemerge dall’oscurità quella statua polimaterica, riccamente agghindata, quale muta testimonianza di un lutto familiare che colpí una famiglia dell’aristocrazia etrusca vulcente intorno alla fine del VII secolo a.C. Le splendenti mani ar-


gentee spruzzate d’oro sulle unghie e sulle dita a rappresentare inesistenti anelli, spuntano da sotto una veste purpurea intessuta di perline dorate che ne esaltano lo sfarzo insieme a fibule di ferro e di bronzo e a collane in faïence, ambra e osso con pendenti d’argento. Il tutto fermato sullo scheletro ligneo da un raffinato gancio in oro, splendidamente decorato a granulazione, subito al di sotto del collo, realizzato in avorio. Una principessa triste per la quale la stagione della vita si era ormai conclusa, in un ultimo e disperato tentativo di riportare in vita un mucchio di ceneri combuste. La frequentazione della necropoli proseguí poi con la realizzazione di recinti rettangolari, alcuni dei quali delimitati da lastre calcaree, di dimensioni variabili, infisse nel banco naturale: un saggio effettuato all’interno di una di queste strutture (recinto B) ha evidenziato un riempimento formato da un accumulo

di terra del tutto privo di reperti. Un’altra struttura (recinto C) presenta invece le lastre disposte di taglio e di piatto, sormontate in alcuni punti da altre pietre sbozzate: sulla base della diversa tecnica costruttiva e, dato il ritrovamento nelle immediate vicinanze di frammenti pertinenti a decorazione architettonica, si potrebbe ipotizzare di essere in presenza del basamento di un piccolo edificio, il cui alzato è andato completamente distrutto. Di un’ultima struttura (recinto D) è al momento visibile solo un lato orientato N-S.

i segni del riTO Che questi recinti abbiano a che fare con un rituale funerario è ulteriormente confermato dalla presenza, all’angolo esterno di ogni struttura, di un’olla cineraria. Le analisi antropologiche hanno accertato che si tratta di 4 individui adulti di cui 2 di sesso maschile e 1 femminile (gli

scarsi resti del quarto non consentono l’attribuzione del genere); la quinta olla era priva di resti ossei, ma ha restituito piccoli oggetti metallici, forse pertinenti a un bambino in fasce del quale non è piú rintracciabile lo scheletro cartilagineo. Nell’area di scavo è stata inoltre individuata una piccola fossa nella quale erano stati un tempo riposizionati i resti scheletrici selezionati (5 crani, 1 mandibola, 2 frammenti di coxale e frammenti di femore) pertinenti a cinque adulti, di cui 4 di sesso maschile e uno femminile. Alcune piccole fosse contenevano invece grandi frammenti di nenfro pertinenti a sculture funerarie o alle loro basi. Al di sotto è stato rinvenuto un vero e proprio ossario nel quale i resti scheletrici di diversi individui risultano scelti e sicuramente in giacitura secondaria, ancora accompagnati da parte dei loro corredi. Evidentemente, a un certo momento, forse da collocarsi intor-

a r c h e o 37


scoperte • etruschi

no al V secolo a.C., l’area viene risistemata per meglio favorire il nuovo utilizzo previsto: quello cultuale. E proprio durante queste operazioni vengono probabilmente sacrificate alcune sepolture lí presenti da almeno 100 anni, ma con il rispetto a esse dovuto.

I CAVALLI DI DIOMEDE Se siamo in grado di capire, quindi, il modificato assetto dell’area a fini cultuali, piú difficile è cogliere i rituali che vi si dovevano svolgere. A questo proposito un importante aiuto viene dalle analisi paleofaunistiche che, oltre alla presenza di un bue, hanno evidenziato i resti di tre cavalli. Ora, se in area paleoveneta, per esempio, il sacrificio di cavalli è abbastanza comune, in Etruria sembra invece del tutto assente o quasi. La centralità del cavallo presso i Veneti antichi è un dato assodato dall’archeologia e dalle fonti. Strabone racconta che questo popolo usava sacrificare cavalli bianchi in onore di Diomede, eroe divino e famoso domatore dei cavalli argivi. È forse possibile che questo rituale si sia diffuso, seppur con modalità molto limitate, anche in Etruria? O, piuttosto, il sacrificio fu tributato all’antico riconoscimento dell’importanza del cavallo per l’aristocratica famiglia che seppelliva i morti in questa parte della necropoli? Nella tomba delle Mani d’Argento sono state rinvenute preziose bardature, due nella camera B, quella con il carro, e una nella camera A che ben testimoniano l’attenzione per l’animale... Saranno le prossime ricerche a gettare ulteriore luce su questo enigmatico rituale.

a passeggio tra le antiche tombe In occasione della mostra allestita al Museo di Vulci sarà possibile visitare su prenotazione, anche se solo dall’esterno per il momento, la tomba delle Mani d’Argento e poi continuare il giro verso le sepolture della necropoli Orientale o «di Ponte Rotto», che si sviluppa sulla sponda sinistra del Fiora e racchiude alcune delle testimonianze archeologiche piú importanti di Vulci e dell’intero mondo etrusco. Il percorso di visita ha inizio dal maestoso tumulo della Cuccumella. Risalente alla fine del VII secolo a.C., il grandioso tumulo si presenta agli ospiti del Parco con una circonferenza di oltre 230 m. Nel tumulo della Cuccumella si aprono poche camere sepolcrali, la piú importante delle quali presenta un accesso formato da uno spazio rettangolare con i lati occupati da gradinate sulle quali prendevano posto i familiari per assistere ai riti legati alla celebrazione del defunto, e proprio in questo spazio è tangibile la raffinatezza e la complessità dei gesti che accompagnavano per l’ultimo viaggio i membri dell’aristocrazia vulcente. Il tumulo della Cuccumella regala poi ai visitatori l’emozione di percorrere una rete di gallerie di oltre 700 m di cunicoli scavati al suo interno in epoca moderna: un itinerario insolito, che riporta alle atmosfere proprie della ricerca antiquaria ottocentesca che fece di Vulci un luogo tristemente «privilegiato» per queste ricerche. La visita continua poi con la tomba delle Iscrizioni, un «sobrio» ipogeo ricco di iscrizioni che citano i nomi dei defunti qui sepolti a partire dal IV secolo a.C. Si tratta, dato l’utilizzo della tomba che si protrasse nel tempo, di componenti di famiglie vulcenti come i Pruslnas e i Ceisatrui, e romane come i Sempronii. La maggior parte dei nomi si riferisce a donne, alle quali sono dedicate le iscrizioni piú curate. È forse il segno distintivo di importanti personaggi femminili che nella società vulcente potrebbero aver svolto un ruolo primario, e non a caso il bel sarcofago contenente le spoglie di Ramtha Ceisatruoi, moglie di Vel Pruslnas, oggi conservato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, è elegantemente decorato da scene di amazzonomachia. Si giunge infine alla Tomba François, capolavoro dell’architettura monumentale funeraria etrusca del IV secolo a.C. ma soprattutto, un tempo, «contenitore» di uno dei piú importanti cicli pittorici che l’antichità ci ha tramandato, oggi di proprietà della famiglia Torlonia: gli affreschi raffiguranti personaggi della mitologia greca quali Achille, Nestore, Fenice, Cassandra, Eteocle e Polinice; ed eroi etruschi, tra i quali Mastarna e i fratelli Aulo e Celio Vibenna. La bellezza degli affreschi è solo evocata attraverso l’uso di pannelli didattici, ma la vista della raffinata architettura che ripropone l’impianto della casa dell’aristocrazia etrusca, alla quale si accede dopo una discesa di oltre 15 m di profondità, lascia un ricordo indelebile in ogni visitatore.


le ultime scoperte Tomba della Sfinge, Tomba delle mani d’argento e Recinti

dove e quando Parco Naturalistico Archeologico di Vulci Loc. Vulci (Montalto di Castro – VT) Aperto tutti i giorni (autunno e inverno: 9,00-17,00; primavera e estate 10,00-18,00) tel.0766.89298 info@vulci.it www.vulci.it facebook: Parco di Vulci facebook: ParcodiVulci Gli Amici

Tomba dei Soffitti intagliati

Tombe a fossa

Tomba a dado

Porta Est

In questa pagina: mappa del Parco di Vulci con l’indicazione di alcuni dei principali luoghi di interesse e, nel riquadro in alto, l’area nella quale è stata scoperta la tomba delle Mani d’Argento. Nella pagina accanto: un tipico paesaggio vulcente, con vacche maremmane al pascolo. Riconoscibile per la caratteristica forma a lira delle corna, questa razza era molto probabilmente già diffusa in epoca etrusca.

Ambienti Quadrangolari

Strada basolata

Fornaci etrusche

Strada basolata

Ponte

Tomba François Necropoli Orientale (o di Ponte Rotto)

Tomba delle Iscrizioni e Tomba del Delfino

Tumulo della Cuccumella


antico egitto • il vino

nella vigna del faraone

di Sabina Malgora, con contributi di Maria Rosa Guasch-Jané, Gilberto Modonesi, Marco Mozzone, Poo Mu-Chou

Chi ha «inventato» il vino? Le indagini recenti suggeriscono una sua origine transcaucasica, remota nello spazio come nel tempo. Tra i primi vignaioli, tuttavia, vi furono gli Egizi, i quali produssero la bevanda in considerevole quantità. Attribuendole, al contempo, un complesso valore simbolico e religioso

40 a r c h e o


Q

uando si pensa all’Antico Egitto, difficilmente si pensa al vino e alla vite. Eppure quest’ultima affonda le sue radici nella storia del Paese, e ricca è la documentazione sulla viticoltura nella terra del Nilo. Sebbene non esista un manuale della vinificazione che tramandi la tecnica egizia, è tuttavia possibile recuperare informazioni da ambiti diversi per avere un quadro abbastanza preciso sia della viticoltura che della stessa produzione del vino. Affascinanti e numerose sono, infatti, le pitture e i rilievi a soggetto «viticulturale» che decorano le cappelle funerarie delle tombe, tra le quali pos-

siamo ricordare: 29 tombe datate all’Antico Regno, tra cui quelle dei funzionari Niankhkhnum e Khnumhotep (V dinastia) e Mereruka (VI dinastia) a Saqqara; 10 tombe, di cui due in aree provinciali in Medio Egitto, datate al Medio Regno; 42 tombe nelle necropoli di Tebe datate al Nuovo Regno; 3 tombe datate all’Epoca Tarda; e 1 all’età greco-romana, quella di Petosiris, eminente personaggio di Ermopolis (XXX dinastia).

immagini realistiche La vendemmia, la pigiatura e la spremitura, l’imbottigliamento, l’immagazzinamento, il servizio, l’offerta e il consumo sono

immagini cosí vive da sembrare reali. Tra le piú belle, possiamo r icordare la tomba di Nakht e quella di Sennefer a Sheikh Abd el-Qurna. Anche i ritrovamenti archeologici hanno fatto, naturalmente, la loro parte. Gli scavi hanno restituito numerose tipologie di reperti – tra cui giare per il vino, etichette, sigilli –, e individuato siti che conservano tracce Sheikh abd el-Qurna, Tomba di Nakht. Pittura murale con scena di vendemmia e di pigiatura in un tino, a destra del quale vi sono anche quattro anfore vinarie. XVIII dinastia, fine del regno di Tuthmosis IV (1397-1387 a.C. circa)-inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C. circa).

a r c h e o 41


antico egitto • il vino

In alto: copia di una pittura murale della tomba di Khaemwaset, sacerdote al tempo di Amenofi I (XVIII dinastia, 1518-1497 a.C.), a Tebe, con scene di vendemmia, trasporto dell’uva, pigiatura, controllo del vino, fermentazione in anfore, sigillatura delle anfore e trasporto sul Nilo. 1450 a.C. circa. Londra, British Museum. In basso: anfore vinarie da Abido. Età tinita, 3100 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

42 a r c h e o

delle antiche coltivazioni e della produzione, tra cui grappoli disidratati, semi, raspi, foglie e legni. Non mancano fonti letterarie, testi funerari, sigilli ed etichette. A esse si aggiungono le fonti di epoca grecoromana. Allo stesso periodo risalgono, poi, numerosi papiri. Sorprende che, tra le fonti greche, due scrittori neghino l’esistenza della viticoltura in Egitto o la attestino solo in Epoca Tarda: Erodoto, nelle Storie, sostiene che in Egitto la vite non viene coltivata, mentre Plutarco racconta che gli Egizi non bevono vino, né lo usano nelle libagioni prima della XXVI dinastia, al tempo di Psammetico I (664-610 a.C.). Ora, il reperto piú antico è anche il piú discusso: si tratta di un sigillo che risale al regno di Den, quarto sovrano della I dinastia (2950 a.C. circa), e presenta, oltre al nome del re, un geroglifico interpretato come un torchio. Tale tipo di torchio non


è però attestato durante l’Antico Regno. Vicino, inoltre, compare un vaso in argilla, la cui forma non è esclusivamente riconducibile al vino ed è perciò possibile che si tratti di un riferimento all’olio. La questione rimane aperta, poiché il sistema di spremitura dell’olio e del vino poteva essere il medesimo. In assoluto, tuttavia, le testimonianze piú antiche sono rappresentate dai semi di Vitis vinifera databili al periodo Naqada III, intorno al 2900 a.C., e conservati al Museo dell’Orto Botanico di Berlino. Risalgono a un’epoca in cui l’Egitto non era ancora unito sotto una sola corona e la cultura faraonica era in fase embrionale. Attestazioni simili provengono anche dalla zona del Delta del Nilo. Nei Testi delle Piramidi si parla di un certo irep mehu (irp mhw), «vino del Nord», con riferimento proprio al Delta. Anche il ramo canonico del

Nilo, forse definito come «fiume occidentale», era una zona vinicola importante. Si tratta, in entrambi i casi, di aree di produzione attive per tutto il periodo dinastico (3100 circa-332 a.C.), mentre durante il Nuovo Regno (1543-1069 a.C.) sono noti anche siti nella valle del Nilo, a Menfi, il cui nome era «le Bianche Mura», a Elkab e nelle oasi del Deserto Occidentale. I templi tebani possedevano 433 vigne durante il regno di Ramesse III, ma non è possibile stabilire se si trovassero in Alto o in Basso Egitto.

LE ALTRE BEVANDE Il vino non era, però, la sola bevanda alcolica prodotta nella Valle del Nilo. Doveva, infatti, dividere il ruolo da protagonista con la birra, di cui l’Egitto è il primo produttore della storia. Come il pane, la birra era di uso quotidiano ed era prodotta sia in laboratori artigianali che in fami-

glia.Vi erano poi altre bevande, quali il vino di datteri, il vino di melagrana, il vino di palma, ottenuto dalla fermentazione del liquido estratto con incisione dal tronco dell’albero. Quest’ultimo si usava anche durante la mummificazione. In ambito religioso e funerario, quale simbolo di rinascita e rigenerazione, ha un ruolo a sé stante il latte – bovino, ovino e caprino –, che nel quotidiano viene invece usato principalmente per la produzione di formaggio, burro, panna e yogurt. Come già accennato, la parola usata per il vino era irep, traslitterato in irp. Attestata a partire dalla II dinastia (2890-2686 a.C.) e dall’Antico Regno, era presente nelle liste delle offerte, sulle giare, nei Testi delle Piramidi (come, per esempio, quello inciso sulla parete all’interno della piramide del re Unas, della V dinastia, a Saqqara). (segue a p. 46) a r c h e o 43


antico egitto • il vino

rosso come il sangue, rosso come il limo Il simbolismo del vino è strettamente legato al colore rosso, per la sua relazione diretta con il sangue di Osiride, dio dell’oltretomba, sovrano dei defunti. In lui ogni individuo si identifica per poter rinascere, come fece il dio stesso, che tornò alla vita grazie ai poteri magici della moglie Iside. Rosso per il colore rossiccio del limo del Nilo, che con la piena fertilizzava le terre, ricco di sedimenti alluvionali ferruginosi provenienti dalle montagne dell’Etiopia. Il vino e la vite sono per gli Egizi simboli di rinascita, perché associati al dio Osiride che per primo rinasce dopo la morte. Tale associazione è rafforzata anche dal ruolo di Osiride quale dio della vegetazione: egli, che ha il volto verde, incarna la forza della terra che rinasce e ritorna verde ogni anno, grazie all’acqua e al limo del Nilo. La piú antica testimonianza, che ci mostra come gli Egizi avessero conferito al vino un certo significato religioso, è stata trovata nei Testi delle Piramidi della V e VI dinastia, che citano Osiride come il «Signore del Vino nella Festa Wag». Osiride è considerato come il dio che detiene il potere della rinascita o della rigenerazione, e quindi la sua resurrezione simboleggia l’annuale rinascita delle piante. L’espressione «Signore del Vino» potrebbe pertanto derivare dalla capacità di Osiride di fare in modo che la vite, che ugualmente sembrava morta, ritornasse di nuovo in vita ogni anno al tempo dell’inondazione. E questo ci porta al periodo della Festa Wag, che si teneva all’inizio dell’inondazione, per festeggiare la fioritura di un nuovo ciclo di vita. E poiché la forza rigenerativa di Osiride era associata con la forza rigenerativa dell’alluvione annuale, egli divenne noto, secondo la metafora summenzionata, come dio del Nilo e quindi la piú importante divinità celebrata nella Festa Wag. Un’altra divinità legata al vino è la dea Hathor o l’altra sua personificazione, Sekhmet. Un giorno dopo la Festa Wag si teneva, almeno nel periodo Greco-Romano, la festa delle «Ebbrezze di Hathor», celebrata nel tempio di Dendera. Sekhmet, dea con la testa di leonessa, il cui nome significa «colei che è potente», è moglie di Ptah, madre di Nefertem, e

figlia di Ra, come la dea Hathor, di cui è una manifestazione. Sekhmet è una dea dalla doppia natura: rappresenta forze violente, disastri inaspettati, pestilenze e malattie, ma poteva anche far guarire. Il suo potere è particolarmente pericoloso alla vigilia del primo giorno dell’anno, durante i giorni epagomeni (giorni complementari che si intercalano o aggiungono a determinati anni in alcuni calendari, n.d.r.), quando la terra del Nilo era in attesa dell’inondazione sotto i raggi implacabili del sole. Durante la festa annuale che si celebrava in questo periodo, gli Egizi danzavano e facevano musica per placare la sua sfrenatezza e bevevano grandi quantità di vino per imitare ritualmente l’ubriachezza che aveva fermato la collera della dea quando era stata sul punto di distruggere il genere umano, secondo quanto raccontato in un mito. Questo può essere spiegato come il desiderio di scongiurare una piena eccessiva in attesa dell’imminente inondazione, quando il Nilo diventa rosso sangue per il limo e Sekhmet ingerisce l’eccesso delle acque, salvando il genere umano. Il mito racconta della fine del regno del dio Ra sulla terra: egli ordina alla dea Sekhmet di distruggere il genere umano, colpevole di aver cospirato contro di lui. La sete di sangue di Sekhmet non si placa solo con il massacro, ma Ra si pente e vuole porre fine alla carneficina. Raccoglie settemila orci di birra, colorata con una ocra rossa, in modo da farla somigliare a sangue umano, e poi la versa nei campi di notte. Al risveglio Sekhmet vede ciò che crede sangue, si ubriaca e si dimentica del suo intento. L’umanità cosí si salva. La birra rossa che aveva inondato i campi fa riferimento alle acque del Nilo che diventavano rosse durante l’inondazione. Dall’Antico Regno è attestato, nei Testi delle Piramidi, anche un dio del torchio, Shesmu, che era responsabile del portare il vino agli dèi. Forse, a causa della potenza del torchio e del colore rosso del succo dell’uva e del vino, Shesmu diventò un «massacratore» nell’immaginario del popolo egizio, una divinità che uccideva i nemici degli dèi. Poo Mu-Chou

Tutti i grappoli del sindaco La tomba di Sennefer (foto alla pagina accanto) è una delle piú belle della necropoli tebana. Il proprietario, sindaco di Tebe, Sovrintendente ai Giardini di Amon, tra i piú importanti e influenti funzionari della corte di Amenofi II (XVIII dinastia) è rappresentato con la moglie Meryt e il figlio. È nota come la «tomba delle viti», in quanto il soffitto degli ambienti è decorato con un rigoglioso pergolato e con padiglioni sui quali sono stese coperture che imitano il tessuto. Violato già in età antica, il sepolcro fu visitato dall’egittologo inglese Sir John Gardiner Wilkinson intorno al 1821 e, nel 1826, lo scozzese Robert Hay copiò una parte delle pitture sui suoi taccuini di viaggio. Piú tardi, Howard Carter annotò che la tomba era stata «riaperta» dal chimico ed egittologo Sir Robert Mond nel 1904.

44 a r c h e o


a r c h e o 45


antico egitto • il vino

In alto: riproduzione di affreschi da tombe di Giza, Beni Hasan e Tebe, con scene di vendemmia, spremitura e imbottigliamento, da Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Ippolito Rosellini. 1832-1844. In basso: etichetta di vino, dal palazzo di Amenofi III (1387-1348 a.C. circa) a Malkata (Tebe ovest). New York, Brooklyn Museum of Arts.

46 a r c h e o

Il vino era usato in ambito religioso e, a partire dall’Antico Regno, fu regolarmente inserito nel corredo funerario. Ogni tomba, di qualsiasi livello di importanza, ospitava vasi vinari come elementi funerari destinati ad accompagnare il defunto nell’oltretomba.

rossi, bianchi e miscelati Il vino era una bevanda elitaria, la cui produzione, dalla coltivazione della vite alla vinificazione, al commercio e al consumo, coinvolgeva molte persone. Risultava, cosí, piú costosa della birra, che era molto piú facile da produrre per quantità e costi e, pertanto, era piú abbordabile per la maggioranza della popolazione. In Egitto vi erano vini rossi, bianchi, dolci, nonché assemblati. Di

questi ultimi abbiamo notizia, per esempio, dalle etichette poste sulle giare ritrovate nel palazzo di Malkata, della tarda XVIII dinastia, sulle quali si riscontra il termine irp sm3, e da un testo del periodo tolemaico che riferisce di un vino mescolato mdg/mtk. Piú in generale, tuttavia, in maniera simile alle moderne etichette, le iscrizioni sulle giare del Nuovo Regno riportavano informazioni sul vino che contenevano. In esse erano solitamente indicati: l’anno; la qualità e la dolcezza; il tipo di prodotto; l’origine geografica della zona di produzione; la tenuta; il nome e il titolo del vignaiolo. I luoghi di ritrovamento delle etichette sono abbastanza numerosi, ma sono ristretti in una forchetta cronologica che corrisponde per la maggior parte al Nuovo Regno.Tra


questi, oltre a Malkata, troviamo Amarna e la tomba di Tutankhamon (vedi box alle pp. 48-49), che si connotano in ambito reale e si datano alla tarda XVIII dinastia; il Ramesseum e Deir el-Medina, datati alla XIX e XX dinastia.Talvolta è specificata la qualità del vino, come buono (nefer), piú che buono (nefer, nefer) e molto buono (nefer, nefer, nefer), e in qualche caso vi sono indicazioni sull’immagazzinamento e sul riutilizzo delle anfore. Dalla tomba tebana di Kynebu, a Sheikh Abd el-Qurna, sacerdote «dei segreti del dominio di Amon», vissuto durante il regno di Ramesse VIII (1128-1126 a.C.), provengono alcuni frammenti di pittura parietale, oggi conservati al British Museum di Londra, nei quali vi sono due uomini che stanno facendo quello che sembra essere un assemblaggio.

il nome del vignaiolo Cosí come il vino era considerato una bevanda elitaria per reali e nobili, allo stesso modo la sua produzione avveniva sotto l’egida del re o di membri della famiglia reale e sembra che siano rare le vigne di proprietà privata. Ne è prova la documentazione offerta da etichet-

te che fanno riferimento al re e alla sua famiglia, salvo qualche rara, ma interessante eccezione. Attraverso il resoconto biografico riportato nella sua tomba a Saqqara, conosciamo, infatti, il nome di un vignaiolo, un tale Metjen, vissuto durante l’Antico Regno, IV dinastia (2630-2510 a.C.). Metjen possedeva una grande vigna, di circa 331 mq, oltre ad altre proprietà. Le vigne appaiono strutturate come giardini e frutteti, ai quali sono accomunate anche dal sistema di irrigazione manuale. La scelta del terreno era di vitale importanza per la viticoltura. Gli Egizi ne furono consapevoli e, fin dalle età piú antiche, scelsero in maniera oculata le aree che presentavano le caratteristiche migliori: buon livello di drenaggio e di aerazione con presenza di ghiaia erano considerati elementi piú importanti della composizione del terreno con argille e limo. Le radici della vite possono raggiungere profondità di 15 m alla ricerca dell’acqua, ma hanno bisogno di ossigeno. Sono i terreni del Delta del Nilo e delle oasi, non strettamente dipendenti dalla piena del fiume, a rispondere a queste

caratteristiche. In alternativa, la pianta della vite può crescere anche correndo al suolo, ma è una rampicante che necessita di supporti o strutture. I tempi e i modi della viticoltura nell’Antico Egitto non furono diversi da quelli odierni. Durante la stagione fredda, si svolgevano molte delle attività finalizzate alla cura delle viti, e tra febbraio e marzo si piantavano i nuovi virgulti. Come concime, si utilizzavano letame e terreno fertile, ricco di argilla. In un papiro datato al 280 d.C. cosí si legge: «riguardo alle vigne (…) preparare tanti germogli quanti sono necessari, scavare, realizzare piccoli buchi attorno alle viti e scavare trincee (…) tenere le viti ben in cura, lasciare spazio per la crescita, tagliare ciò che non serve, diradare il fogliame».

i mesi della vendemmia La vendemmia avveniva indicativamente ai primi di luglio, prima dell’inondazione, legata al sorgere della stella Sirio (19 luglio). La documentazione del periodo grecoromano parla invece di fine agosto e questo è probabilmente dovuto (segue a p. 50)

Un particolare delle pitture della tomba di Khaemwaset (vedi foto alle pp. 42-43) raffigurante la sigillatura delle anfore.

a r c h e o 47


antico egitto • il vino

I vini di Tutankhamon Nella tomba di Tutankhamon (1328-1318 a.C.), all’interno dell’«Annesso» – una sorta di magazzino per oli, unguenti, cibo e vini – erano state deposte 23 anfore vinarie. Nella camera funeraria, che conteneva il sarcofago del re, sono state rinvenute altre tre anfore: la prima (Archivio Carter, n. 180) accanto alla parete orientale, vicino all’ingresso del Tesoro; la seconda (Archivio Carter, n. 195) accanto alla parete occidentale; e la terza (Archivio Carter, n. 206) accanto alla parete sud. Le iscrizioni in ieratico riportano differenze nell’annata, nell’origine e nella produzione: anfora n. 180: «Anno 5, vino della Tenuta di Tutankhamon, Signore di Tebe, nel Fiume Occidentale, capo vinaio Khaa»; anfora n. 195: «Anno 9, vino della Tenuta di Aten nel Fiume Occidentale, capo vinaio Sennufe»; anfora n. 206: «Anno 5, shedeh molto buono della Tenuta di Aten nel Fiume Occidentale, capo vinaio Rer». I residui rilevati nelle anfore sono stati esaminati all’Università di Barcellona utilizzando la cromatografia liquida-spettrometria di massa (LC/MS/MS). La presenza del vino è stata provata da quella dell’acido tartarico, un marcatore dell’uva, ed è stato possibile stabilire che si trattasse di rosso per la presenza dell’acido siringico derivato da malvidina – principale pigmento di colore rosso presente nelle uve rosse e nei vini – indicatore dell’uva nera. Le analisi hanno inoltre provato che l’anfora occidentale conteneva vino rosso e quella orientale vino bianco.

ovest Vino rosso

In alto: Il Cairo, Villaggio faraonico. Ricostruzione dell’«Annesso» della tomba di Tutankhamon, una camera-magazzino che ha restituito, tra l’altro, 23 anfore vinarie. A sinistra: collo di un’anfora vinaria con etichetta, dalla tomba di Tutankhamon. 1318 a.C. circa. Il Cairo, Museo Egizio. In basso: assonometria ricostruttiva della tomba di Tutankhamon, con la posizione delle tre anfore vinarie rinvenute nella camera funeraria.

N

Sud Shedeh est Vino bianco

48 a r c h e o


La ricetta dello shedeh

Ripetere il filtraggio

Aumentare il calore

Cosí si ottiene il vino shedeh

Che il Re diede a suo figlio

Vino shedeh

L’anfora meridionale, sulla cui etichetta si legge shedeh, conteneva un vino da uve nere frutto di una lavorazione piú complessa. Secondo il Papiro Salt 825 (vedi box qui accanto), lo shedeh era una bevanda filtrata e riscaldata, molto apprezzata, che compare alla fine della XVIII dinastia, con un valore apparentemente superiore al vino. Ma quale significato simbolico è sotteso alla presenza di tre vini diversi per altrettanti punti cardinali? Il rosso a ovest. Il simbolismo del vino era basato sul colore rosso dato dalla coincidenza tra le acque del Nilo, rosse di limo durante l’inondazione annuale e la vendemmia. Questo fece dell’uva e del vino un simbolo di resurrezione. Inoltre, secondo la mitologia egizia, il dio Osiride fu il primo a risorgere come «Signore degli occidentali» ed era anche «Signore del vino». E ancora, l’Occidente rappresentava il luogo delle necropoli e l’ingresso alla Duat, l’oltretomba. Il bianco a est. La mitologia egizia riteneva che il dio del sole Ra, morto, viaggiasse sulla sua nave di notte dentro al corpo della dea del cielo Nut, per rinascere al mattino come Ra-Horakhty. Nei libri che trattano dell’Aldilà raffigurati sul soffitto delle camere sepolcrali delle tombe dei Ramessidi nella Valle dei Re si vede la trasformazione del dio del sole Ra da rosso al tramonto a giallo al mattino: il disco del sole, rosso, entra nella bocca della dea Nut in occidente, simboleggiando il tramonto, la quale poi fa nascere al mattino il disco giallo del sole a oriente. Come Nut inghiottiva il sole al tramonto, il re doveva bere il vino rosso, e, proprio come

Restituzione grafica dell’iscrizione in caratteri geroglifici con la ricetta dello shedeh, bevanda filtrata e riscaldata, conservata sul Papiro Salt 825. Epoca Tarda, 747-332 a.C. Londra, British Museum.

il sole rosso veniva trasformato in giallo, il re doveva bere il vino bianco al mattino. Una teoria supportata da altre testimonianze, tra cui quella offerta dalle piramidi di Pepi I (2325-2296 a.C.) e della regina Neith, della VI dinastia, entrambe nella parte sud della necropoli di Saqqara, nelle quali si descrive la relazione tra Nut e il vino: «Il cielo è gravido di vino». Lo shedeh a sud. La spiegazione va forse cercata nella posizione di corpi celesti. Nel cielo meridionale egiziano ci sono alcune stelle, i decani, che sorgono e tramontano come il sole. Orione era la costellazione del Sud piú visibile ed era la rappresentazione astrale di Osiride. Al contrario, nella parte nord del cielo egiziano, le stelle circumpolari, imperiture, della costellazione dell’Orsa Maggiore non sorgono, né tramontano, ma ruotano attorno al polo nord celeste, sempre al di sopra dell’orizzonte. La parte piú difficile della resurrezione del re si svolgeva durante la sesta ora della notte, quando avveniva l’unione di Ra come Ba (anima) con Osiride, quale sua spoglia. Lo shedeh è forse un modo per aiutare il viaggio notturno di Tutankhamon e la sua trasfigurazione in Osiride. Le tre anfore nella camera funeraria hanno quindi un significato simbolico, il vino rosso della parte occidentale era inteso per la sua trasfigurazione in Ra alla sera, e il vino bianco della parte orientale era per la sua trasfigurazione in Ra-Horakhty al mattino. E lo shedeh come aiuto per il pericoloso viaggio notturno. Maria Rosa Guasch-Jané

a r c h e o 49


antico egitto • il vino

alla modifica del calendario dopo Tolomeo III. In quel momento dell’anno, altre importanti e vitali attività agricole si erano già svolte, come, in particolare, la raccolta dei cereali. Dal punto di vista organizzativo, si poteva contare su una forza lavoro al completo. I grappoli venivano staccati con le mani, senza l’ausilio di strumenti da taglio, e depositati in cesti, stando in piedi o inginocchiati, a seconda dell’altezza dei pergolati; i cesti colmi erano poi portati al tino, e protetti con le foglie dai raggi del sole. Per la sua importanza, reale e simbolica, la vendemmia è la scena piú frequentemente rappresentata nelle tombe: i cesti colmi d’uva sono trasportati e riversati in ampi tini. Qui il succo è spremuto con i piedi, come avveniva fino a tempi recenti anche in Italia e in tutto il Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Le rappresentazioni della pigiatura ci mostrano anche la forma dei tini.

una testimonianza eccezionale Un esempio particolarmente significativo di questo tipo di raffigurazioni è quello della tomba di Nakht, a Sheikh Abd el-Qurna (vedi la foto in apertura, alle pp. 4041). Nakht fu scriba e astronomo presso il tempio di Amon a Karnak. La sua tomba si data alla XVIII dinastia, tra la fine del regno di Thutmosi IV e l’inizio di quello di Amenofi III. Nelle pitture è compresa una scena di pigiatura in un tino di tipo rotondo, adorno di colonne papiriformi che sostengono la sbarra orizzontale, da cui pendono corde alle quali ci si regge nel corso dell’operazione. Si può anche cogliere il dettaglio del becco attraverso il quale il succo ottenuto dalla pigiatura esce e si riversa in un contenitore. Alla pigiatura segue la spremitura. L’amalgama formato da bucce, raspi e semi che rimaneva sul fondo dei tini veniva messo in un sacco, probabilmente di lino, alle cui estremi50 a r c h e o

Venezia, basilica di S. Marco. Mosaico con il sogno dei due dignitari del faraone: il coppiere e il panettiere. XIII sec. La scena è ispirata a un episodio narrato nel Libro della Genesi, che costituisce uno dei numerosissimi riferimenti alla produzione del vino contenuti nelle Sacre Scritture.

storia di un «balzo in avanti» La Vitis Vinifera L., subsp. sylvestris (Gmelin) Hegi, è il diretto progenitore della sottospecie sativa Hegi (= V. vinifera caucasica Vavilov), vale a dire della vite coltivata, volgarmente detta euroasiatica; appartenente alla famiglia delle Vitacee (dette anche Ampelidee), presenta una spiccata variabilità morfologica e pochi sono i tratti comuni e tipici della specie. Ben diverso è il portamento delle viti selvatiche originarie rispetto a quello della vite allevata negli odierni vigneti: la V.v. sylvestris è un rampicante forestale dei climi temperati caldi, prospera sulla fascia limitanea delle radure o degli ambiti golenali dei corsi d’acqua, si presenta come una liana sarmentosa, dalle dimensioni anche considerevoli. A isolare i vitigni domestici dalle forme spontanee non è stata la selezione naturale, ma l’opera dell’uomo tramite la pressione selettiva, insieme colturale e culturale, di generazioni di proto viticoltori neolitici, in particolare da quando la propagazione della pianta fu ottenuta per via agamica, cioè per talea e non piú per seme. Nel complicato arazzo di relazioni tra la pianta e l’uomo che è la vicenda dell’addomesticamento della vite, l’Antico Egitto ha un ruolo peculiare. Il vino è ben presente nella terra dei faraoni già sul finire del IV millennio a.C, come provano gli orci della tomba del re Scorpione (circa 3150 a.C.), e, fin da subito, si manifesta in tutta la sua ricchezza di significati: bevanda di pregio riservata al re, ammantata di significati simbolici e prodotto finale di un complesso ciclo di produzione. Dunque da dove arrivava il vino del re Scorpione? Chi aveva insegnato agli Egizi il piacere e l’ebbrezza del bere il succo fermentato della vite? Chi avrebbe trasmesso loro la competenza agronomica e le cultivar per impiantare i primi vigneti nel Delta del Nilo? In passato, sull’origine della vite coltivata si sono fronteggiate teorie monocentriche o policentriche. Negli ultimi anni i nuovi dati archeologici, biomolecolari e i risultati delle indagini genetiche hanno delineato numerosi centri di domesticazione della vite: il piú antico sarebbe localizzato nelle regioni orientali, in particolare nella regione siro-anatolica-mesopotamica e transcaucasica, al centro di un piú vasto areale di paradomesticazione precoce. Viene inoltre posta maggiore attenzione, accanto allo studio della circolazione varietale antica, al fatto puramente umano del trasferimento di cultura: una volta che una civiltà dalla viticoltura sviluppata instaura un rapporto commerciale con una civiltà che non ha ancora un bagaglio enoico, il vino d’importazione trova


rapidamente riscontro nella cultura di destinazione insieme a una connotazione di bene di pregio. Si verifica cosí un processo di assimilazione della cultura immateriale e simbolica associata ai rituali sociali codificati del simposio. Infine, la cultura di destinazione, una volta appreso per intero il pacchetto di conoscenze agronomiche e tecnologiche, sviluppa una propria viticoltura, prima importando cultivar orientali e poi intensificando gli sforzi per domesticare i ceppi locali di vite silvestre. In questo quadro, l’Antico Egitto rappresenta il grande «balzo in avanti»: per la prima volta, la cultura della vite e del vino, attraverso scambi commerciali e relazioni storiche, varca il confine dell’areale di diffusione spontanea delle viti selvatiche. Sul finire del IV millennio

a.C. la cultura della vite e del vino è introdotta dal Levante mediterraneo, attraverso la zona siro-palestinese che unisce la penisola del Sinai alla Circummesopotamia settentrionale, luogo dei piú antichi ritrovamenti di archeologia enoica. Provengono dall’Iran nord-occidentale i frammenti di un orcio, rinvenuti nel corso degli scavi del villaggio neolitico di Hajji Firuz e datati tra il 5400 e il 5000 a.C. Nell’Egitto, l’usanza di bere vino fu dunque introdotta dalla striscia di Gaza, dalle colline della Giudea, dalla valle meridionale del Giordano e dalla Transgiordania; l’onomastica di molti vinificatori o addetti ai lavori nei vigneti egizi tradisce un’appartenenza semitica e una provenienza dal Levante Mediterraneo. Marco Mozzone a r c h e o 51


antico egitto • il vino

A sinistra: Torchio Mistico e Cristo in gloria, dipinto di Marco dal Pino. 1571 circa. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Nella pagina accanto, in alto: la facciata della chiesa di S. Domenico ad Alba (CN), sede della mostra «Il vino nell’Antico Egitto. Il passato nel bicchiere».

quando osiride venne in italia... Nel I secolo a.C., lo scrittore di lingua greca Diodoro Siculo afferma che fu il dio egizio Osiride «a insegnare al genere umano la piantagione della vite». In realtà, l’associazione del dio Osiride con la vigna, l’uva e il vino si afferma soprattutto nel Nuovo Regno (1543-1069 a.C.), come dimostrano i testi e le rappresentazioni di papiri e tombe. Il rapporto salvifico esistente tra Osiride e la vigna è cosí evidenziato da un papiro esposto nel British Museum: due defunti sono in adorazione di Osiride in trono; tra loro si interpone uno stagno da cui si solleva una vigna che raggiunge il volto di Osiride. L’acqua dello stagno evoca l’acqua primordiale della creazione e per i due defunti la vite è simbolo di rigenerazione. Un altro documento esiziale è il «papiro magico di Leida», del III secolo d.C., quindi posteriore ai Vangeli, che in un suo passo presenta Osiride che offre da bere una coppa del suo sangue alla sposa Iside e al figlio Horus al fine di ottenere la propria rigenerazione. Quindi le antiche credenze egizie si mantengono valide anche nei periodi greco e romano e oltre. In parallelo a questo filone culturale egizio troviamo l’esistenza di un filone ebraico. Nel Libro del profeta Isaia si afferma che Israele è la vigna di Dio (5, 1-7); in un altro passo (Isaia, 63,3) si fa riferimento al tino e alla pigiatura. Gli analisti della Bibbia segnalano numerose citazioni della vigna, dell’uva e del vino. Prigionieri ebrei hanno vissuto in Egitto e può darsi che alcune metafore siano state assorbite allora per essere poi trasferite al popolo di Dio. Sant’Agostino (III-IV secolo d.C.), riprende il tema della pigiatura e, nel suo commento ai Salmi, scrive: «Mi calpestano sempre i miei nemici». Nel Salmo 56 il suo riferimento alla torchiatura di Cristo è fondamentale: «Il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo viene spremuto nella passione, ne scaturisce quel vino il cui calice è inebriante quanto eccellente». Altri Padri della Chiesa riprendono la metafora dell’uva, del tino e della vigna già giunta a perfezione nei Vangeli. «Io sono la vera vite e il padre mio è il vignaiolo» (Giovanni 17,1). Quindi Cristo stesso è la vite. E, durante l’Ultima Cena, Cristo porge ai discepoli una coppa di vino con le fatidiche parole: «Bevetene tutti, questo è il mio sangue». La memoria della coppia egizia Osiride-Iside ha retto a lungo nel tempo, cosí come alcuni culti pagani assorbiti dal cristianesimo. Il domenicano Annio da Viterbo, vissuto nel XV secolo, afferma addirittura che Osiride sia venuto anticamente in Italia e che abbia dato i natali alla dinastia dei Borgia. Verso la fine del 1400 Alessandro Borgia, eletto papa, commissiona al Pinturicchio gli affreschi delle stanze papali che hanno come tema il mito di Osiride e anche la coltivazione della vite. La metafora della vigna, dell’uva e del vino espressa da sant’Agostino nel Salmo 56 si manifesta nel XIII secolo con la conturbante iconografia del Torchio Mistico: la croce diventa un torchio che comprime Cristo; il sangue che sgorga dalle sue ferite viene raccolto come vino in tinozze e coppe per la salvezza dell’umanità. Gilberto Modonesi

52 a r c h e o


tà erano fissati bastoni, che ne permettevano la torsione. Piú uomini, in genere a coppie, erano impegnati nell’operazione e uno aveva il compito di mantenere il piú possibile distanti tra loro i bastoni, opponendosi alla tensione con le mani e con i piedi. Il succo che fuoriusciva veniva raccolto in un contenitore. Una delle rappresentazioni piú belle si trova nella già citata mastaba di Niankhkhnum e Khnumhotep a Saqqara (databile al regno di Niuserra, 2454-2424 a.C.).

i passaggi finali Il momento successivo era rappresentato dalla fermentazione: non è facile ricostruire come gli Egizi la gestissero e per quanto tempo la facessero durare. Si suppone che le uve venissero lasciate a fermentare per alcuni giorni in vasi dalle ampie aperture. Successivamente venivano travasate in altri contenitori oppure gli stessi venivano sigillati. La fermentazione e l’invecchiamento del vino avvenivano in anfore alte, rastremate verso la base, con fondo arrotondato o appuntito, che necessitavano di un supporto per stare in piedi o, altrimenti, dovevano essere conficcate nel suolo o nella sabbia. È difficile stabilire quanto a lungo potesse fermentare il vino, considerando che il clima caldo non giocava a favore di un lungo invecchiamento. Le «etichette» a oggi recuperate non superano i cinque anni. Vi erano poi altri contenitori per la vinificazione: grandi anfore per il mosto; piccoli contenitori per decantare e versare il vino nelle anfore, di varie forme a seconda dei periodi. La chiusura delle anfore prevedeva due passaggi: il primo consisteva nell’apporre un «tappo», fatto con foglie, pula mescolata a fango, canne o fibre di papiro; il secondo era una sigillatura fatta con un blocco di fango inumidito, sul quale era impresso uno stampo, che spingeva il fango fino alle spalle del contenitore. Il fango seccava e sigillava l’anfora fino al momento dell’apertura.

una storia nel segno del vino Il tema di questo articolo è l’oggetto di una mostra, «Il vino nell’Antico Egitto», che indaga la civiltà egiziana attraverso la storia del vino. Organizzata dall’Associazione Culturale Mummy Project in collaborazione con il Comune di Alba, l’esposizione ha come argomenti principali l’antica cultura egizia, la viticoltura, la produzione del vino e il suo impiego. Due sezioni speciali sono inoltre dedicate a una mummia di Epoca Tarda e al suo sarcofago, conservati al Museo Civico di Merano, e alla ricostruzione in scala 1:1 della tomba TT290 di Irynefer della necropoli di Deir el-Medina. A ospitare la mostra è la chiesa di S. Domenico, nel cuore del centro storico di Alba. Risale alla fine del XIV secolo ed è stata edificata in stile gotico dai Domenicani, presenti ad Alba sin dalla metà del XIII secolo. Alla riuscita del progetto della mostra hanno contribuito: Alida Dell’Anna, (Project manager); Alessandra Chiti +39Design Management (progetto allestimento); Marco Palandella e Roberto Corradini (progetto illuminotenico); grazie intolre a: Paola Farinetti, Assessore alla Cultura del Comune di Alba, Fondazione CRC, Ente Turismo Alba Bra Langhe e Roero, Consorzio Langhe e Roero, ACA, Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco, Barolo & Castles Foundation, Pio Cesare, Baratti & Milano, Cassa di Risparmio di Bra, Egea, Accedis, Labirinto, Ambiente e Cultura.

dove e quando «Il vino nell’Antico Egitto. Il passato nel bicchiere» Alba, chiesa di S. Domenico fino al 19 maggio Orario ma-ve, 14,30-18,30 (mattino e lunedí su prenotazione); sa, 10,00-22,00; do, 10,00-19,00 Info tel. 017335833; e-mail: info@ambientecultura.it, mummyproject@libero.it; mummyproject.wix.com/eventi La ricostruzione in scala 1:1 della tomba di Irynefer. Primi anni del regno di Ramesse II (1279-1212 a.C.).

a r c h e o 53



musei • priverno

un’antica città

si racconta la lunga storia di privernum, città di origine volsca entrata nell’orbita di roma nel iv secolo a.c., viene raccontata dal suo rinnovato museo archeologico, Allestito in uno degli edifici di maggior prestigio della cittadina laziale di Margherita Cancellieri

dove e quando Museo Archeologico Priverno (Lt), Palazzo Valeriani-Guarini-Antonelli, piazza Giovanni XXIII Orario giovedí e venerdí: 10,00-13,00; sabato, domenica e festivi: 10,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0773 912306 oppure 911087; e-mail: musarchpriverno@libero.it: web: musarchpriverno.it

54 a r c h e o

Nella pagina accanto, in alto: la sezione del Museo Archeologico di Priverno dedicata allo scavo. In basso, da sinistra: immagini del Palazzo Valeriani-GuariniAntonelli, nuova sede del Museo Archeologico di Priverno: pitture Liberty che decorano i soffitti, realizzate a tempera da Giulio Sordoni agli inizi del secolo scorso; la facciata con il decoro «a graffito» in stile rinascimentale, riproposto nel restauro degli inizi del Novecento.


R

innovato nella sede e nell’allestimento e arricchito nei suoi contenuti, ha riaperto al pubblico il Museo Archeologico di Priverno (Comune del basso Lazio, in provincia di Latina). Dopo diciassette anni, il Museo ha cosí lasciato il Palazzo del Vescovado per spostarsi nel Palazzo Valeriani-Guarini-Antonelli, una dimora storica di grande prestigio che affaccia sulla bella piazza principale della città, di fronte alla cornice medievale segnata dal Duomo e dal Palazzo Comunale. Una posizione centralissima, dunque, che ne facilita la fruizione e che lo rende con maggiore immediatezza simbolo di un’identità cittadina. L’edificio, residenza di illustri famiglie locali e segnato da vicen-

de costruttive databili al XIII e al XVI secolo, si presenta oggi nella totale ricostruzione realizzata fra il 1924-26, che ha riproposto, attraverso un impegnativo restauro voluto dagli allora proprietari, i fratelli Antonelli, l’originaria facciata rinascimentale con il suo particolare decoro pittorico «a graffito», di colore amaranto e grigio piombo.

pitture in stile liberty Gli interni, plasmati all’epoca su una nuova architettura, sono impreziositi da un ciclo pittorico in tardo Liberty, realizzato da Giulio Sordoni e Pietro Campeggi, apprezzati decoratori di ambiente romano della prima metà del Novecento. Le pitture, con una decisa varietà di stile, interessano

a r c h e o 55


musei • priverno

In alto: ritratti in marmo di cittadini di Privernum, che aprono il percorso attraverso la colonia romana. In basso, da sinistra: una fusaiola montata su fuso moderno; frammento di terracotta architettonica con scena dionisiaca; la ricostruzione di una mensa; balsamari in ceramica.

56 a r c h e o

tutti i soffitti: a una decorazione rigorosamente geometrica con richiami decorativi di scuola viennese, stesa a olio sui soffitti lignei, si contrappone una pittura su intonaco piú libera e ridondante, che propone rivisitazioni di «grottesche», allegorie zodiacali, erme, cariatidi che

sorreggono cornucopie neo-rococò ricolme di frutta e fiori oppure clipei con interessanti vedute urbane della Priverno di allora. L’intero patrimonio pittorico è stato restaurato nell’ambito dei recenti lavori di adeguamento dell’edificio a sede museale ed è fruibile, con


un percorso nel percorso, all’interno dell’allestimento espositivo che si inserisce, con eleganza e armonia, nelle dodici sale del Palazzo, rispettandone architettura e decori. Il Museo è dedicato a Privernum, città volsca e poi romana, e accompagna il visitatore a scoprire le piú antiche fasi di vita del territorio, dall’età protostorica al nascere e alla vita della colonia privernate, fondata nel tardo II secolo a.C. nel cuore della piana dell’Amaseno. In una narrazione rigorosa ma dinamica, a tratti suggestiva e sempre coinvolgente, trovano spazio e significato le tante testimonianze della vita pubblica e privata riemerse nelle campagne di scavo che durante quest’ultimo ventennio hanno interessato l’area della città antica e che sono frutto di una felice sinergia fra Regione Lazio, Amministrazione Comunale di Priverno, Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e «Sapienza» Università di Roma. Il legame fra scavo e museo è il fil rouge del percorso espositivo e la missione stessa del Museo. Nella prima sala, un rapido scorrere di

sguardi e memorie letterarie, erudite e scientifiche – con un incipit doverosamente affidato a Virgilio e alla «sua» privernate Camilla, regina dei Volsci – conducono alla concretezza di uno scavo in corso: un grande cassone con attrezzi e lavori di archeologi fra una congerie di materiali, a prima vista disordinata e disomogenea, che si trasforma e si ricompone, attraverso un processo di studio, interpretazione e mediazione, in una storia che nel Museo viene narrata con rapidi flash, capaci di coinvolgere tutti i possibili pubblici di visitatori.

i magnifici 1000 La collezione è ricca e le novità sono tante. Oltre mille oggetti sono messi in mostra e lanciano messaggi densi di significato da percepire con curiosità e meraviglia, da scoprire con emozione, da approfondire con un efficace e raffinato apparato didattico (testi brevi e tante immagini parlanti) per aprire un dialogo costruttivo su momenti variegati di una storia urbana, da quelli politici e religiosi a quelli economici e so-

ciali con spaccati di vita quotidiana. Recenti e recentissime testimonianze di necropoli e abitati dell’età del Bronzo e del Ferro danno concretezza a momenti della protostoria, mentre preziosi frammenti medio-repubblicani individuano gli stadi iniziali della colonizzazione romana e parlano del luogo della città prima della città. Il percorso dentro la vita della colonia romana è aperto da cittadini privernati: a ritratti in marmo senza nome e a tanti nomi senza volto è affidato il compito di evocare la città, nei suoi significati simbolici e nelle sue articolazioni politiche, istituzionali e sociali. Fra i personaggi illustri emerge anche un importantissimo documento politico: un frammento dei Fasti Privernates (un calendario corredato dalla lista di consoli e magistrati romani) che riporta le vicende del 44 a.C., l’anno della morte di Cesare. L’emozione di leggere direttamente sulla lastra i nomi dei «grandi» della storia tardo-repubblicana di Ro-

a r c h e o 57


musei • priverno

ma, da Cesare a Lepido, Antonio, Ottaviano, Calvino, Messalla, è grande, come grande è lo stupore di scoprire che fra le righe di quel frammento si conserva una testimonianza che mette addirittura in discussione quanto sino a oggi si sapeva sull’ascesa al trono di Ottaviano/Augusto. L’edilizia pubblica con il foro e il teatro si materializza nel decoro marmoreo restituito dagli scavi piú recenti: statue, ritratti e iscrizioni imperiali – di Claudio, Livia, Tiberio, Germanico, Agrippina, Nerone fanciullo, Domiziano – si assommano a preziosi elementi architettonici della fronte scena teatrale. Anche il tema del sacro con due templi e il loro apparato decorativo fittile, si arricchisce di nuove testimonianze, con una bellissima testa di Dioniso e un’iscrizione che parla delle attività evergetiche realizzate da Marco Sulpicio Eutyches nel tempio della Magna Mater. L’elevato tenore di vita e le aspirazioni culturali delle aristocrazie cittadine di Privernum riaffiorano poi attraverso il lusso delle case repubblicane ancora in corso di scavo. Il Museo le ripropone in

58 a r c h e o

immagini di archeologia virtuale che ricompongono e interpretano i contesti edilizi e ricontestualizzano tutto quel panorama di mosaici che sono ormai diventati un simbolo di questa città antica.

vivere sul nilo Gli esemplari figurati, di stampo ellenistico, policromi e realizzati con una miriade di tessere minuscole tanto da sembrare «pitture in pietra», sono i gioielli del museo: un emblema con il Rapimento di Ganimede, la lunga soglia che illustra uno spaccato di vita lungo il Nilo e un grande pavimento a cassettonato prospettico con la sua preziosa preparazione incisa e dipinta da cui traspare tutto l’impegnativo lavoro di bottega che ha collaborato con la mano dell’artista. Dagli ambienti di rappresentanza delle domus si passa a tracce di A destra: ritratti di Agrippina Minore e di Nerone fanciullo, dall’area del teatro. 50 d.C. circa. In basso: soglia a mosaico con paesaggio nilotico, dall’omonima domus di Privernum. I sec. a.C.

vita quotidiana. Suggestive vetrine offrono uno sguardo al mondo femminile con gioielli, oggetti da maquillage e arnesi per tessere e filare, mentre l’arte del convivio è affidata a un excursus tipologico e cronologico di ceramiche da tavola nel loro alternarsi di mode decorative e contesti produttivi. Fra queste, e a portata di mano, anche una piccola e divertente mensa imbandita. Il percorso si conclude in cucina con un realistico angolo cottura e una nutrita dispensa che raccoglie pentole, tegami, vassoi, macine, mortai, tutti pronti all’uso. A fine visita una sorpresa inaspettata: una spaziosa terrazza con tanto di piccola fontana/ninfeo Liberty e una vista che spazia dai tetti di Priverno fino al centro della piana dell’Amaseno, là dove c’era, e c’è ancora, Privernum.


itinerari • valcamonica

quei segni di un tempo lontano

di Linda Bossoni, con contributi di Eleonora Montanari, Francesca Roncoroni e Dario Sigari

Per oltre quattromila anni, l’uomo ha scelto le rocce della Valcamonica come supporto per riprodurvi immagini della realtà che lo circondava. Un immenso repertorio iconografico e simbolico da visitare e da conoscere, anche attraverso un’esperienza diretta di «lavoro sul campo» 60 a r c h e o


Svizzera Adda

Lago Maggiore Varese

Trentino Alto Adige

Capo di Ponte

Lago di Como Como Bergamo

Busto Arsizio

Lago d’Iseo

Monza

Lago di Garda

Brescia

Milano Vigevano Pavia Piacenza

da Ad

Po

o in Tic

A destra: cartina della Lombardia con l’ubicazione della Valcamonica e della località di Capo di Ponte, centro presso il quale si trova il comprensorio d’arte rupestre piú importante della zona. Sulle due pagina: la roccia 50 nel Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane (Capo di Ponte), incisa con figure di oranti, cavalieri, guerrieri, impronte di piedi, edifici, barche solari e iscrizioni camune.

Cremona

Emilia-Romagna

Piemonte

Veneto

Og

lio

Mantova M

inc

io

Po

Po

Liguria

a r c h e o 61


itinerari • valcamonica

L’

arte rupestre pre-protostorica della Valcamonica abbraccia un arco cronologico di piú di quattromila anni, dal Neolitico Medio-Finale (seconda metà del V-IV millennio a.C) all’epoca flavia (seconda metà del I secolo d.C), con la sola eccezione di alcune figure zoomorfe nel Parco di Luine, nella Bassa Valle – alci e cervi di grandi dimensioni, realizzati a sola linea di contorno – attribuite alla fase detta «Protocamuno», probabilmente risalente alla fine del Paleolitico e al Mesolitico. A partire dal Neolitico Medio-Finale ha dunque inizio un lungo periodo incisorio nel quale sono individuabili quattro periodi (o stili), differenti per tematiche rappresentate e per stile utilizzato.

Ponte di Legno

itinerari di visita Cartina della Valcamonica e del territorio di Capo di Ponte (nella pagina accanto) con l’indicazione dei parchi nei quali si possono ammirare le incisioni Corteno Golgi rupestri.

Vezza d’Oglio

Vione

Temú

Incudine Monno

Edolo

O

gl

io Sonico

Malonno

Berzo Demo Paisco Loveno

Cevo

Saviore dell’Adamello

Cedegolo Sellero

7

Capo di Ponte

Paspardo

Cimbergo

Ono San Pietro antiche mappe Cerveno Caratteristiche delle prime fasi, tra Ceto Lozio il Neolitico e l’età del Rame (fine Losine Braone del V e nel IV millennio a.C. circa) sono le raffigurazioni topografiche, Niardo 6 cioè figure geometriche (aree subOssimo Malegno Breno Borno rettangolari completamente campiCividate Camuno te, doppi rettangoli, griglie, gruppi Piancogno Bienno di tondini picchiettati) associate tra Esine Prestine Berzo Inferiore loro e da interpretare come prime o i l Og mappe, cioè rappresentazioni Angolo Terme 5 zenitali del territorio.Tipiche di Darfo Boario Terme questa prima fase sono anche Massi di Cemmo le spirali. Gianico Nella piena età del Rame Il Parco Nazionale dei Massi di Rogno Artogne (III millennio a.C) anche Cemmo, poco distante dal centro di la Valcamonica è interessaCapo di Ponte, è di facile Pian Camuno ta, come tutto l’arco alpino, accessibilità anche per i disabili, ed dal fenomeno delle stele e è situato sul versante opposto della Costa Volpino dei menhir istoriati. Si diValle rispetto a Naquane, su un Lovere stinguono due fasi incisorie, pianoro chiamato Pian delle Greppe. Pisogne la prima (III A1, 2900-2500 Qui hanno posto due grandi rocce di a.C. circa) caratterizzata dall’ufrana, spettacolari per la qualità

1

Naquane Il Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri di Naquane, a Capo di Ponte, è il piú noto sito rupestre della Valcamonica ed è stato il primo aperto al pubblico, nel 1955. Comprende 104 rocce incise, alcune delle quali note in tutto il mondo. I percorsi di visita sono cinque, ma la roccia piú nota e affascinante per i turisti è certamente la roccia 1, detta anche Roccia Grande, su cui sono presenti centinaia di incisioni, caratterizzate da una grande varietà di soggetti, dagli elementi simbolici (palette, ruote, labirinti) agli animali (cervi, canidi) fino a scene piú complesse.

62 a r c h e o

delle incisioni dell’età del Rame, e note fin dal 1914 da una segnalazione di Gualtiero Laeng su una guida del Touring Club Italiano. Dal sito provengono anche alcune stele, frutto di scavi svolti in anni recenti, e che saranno a breve esposte nel Museo Nazionale della Preistoria della Valcamonica, in fase di ultimazione e che avrà sede nel centro di Capo di Ponte.

2


Parco Archeologico Comunale Seradina Bedolina

7

Sellero-Sonico Nella parte piú alta della Valle si trovano il Parco Comunale Archeologico e Minerario di Sellero e il Percorso Pluritematico del «Coren delle Fate» a Sonico. Sono entrambi luoghi di grande attrazione naturalistica. Mentre altrove la roccia piú diffusa è un’arenaria di colore grigio-azzurro, talora rossastra per la presenza di licheni e microorganismi, ben levigata dal passaggio dei ghiacciai nel Pleistocene, Sellero e Sonico sono caratterizzati da micascisti, piú duri e dall’aspetto rugoso.

gl O e m fiu

Parco Archeologico Nazionale dei Massi di Cemmo

io

4

2

Parco Naturale Incisioni Rupestri Ceto, Cimbergo, Paspardo

3 Parco Nazionale delle Incisioni Rupestri Naquane

1 4

Seradina-Bedolina

3

Al Parco Archeologico Comunale di Seradina-Bedolina si accede da una strada che parte nei pressi del cimitero di Capo di Ponte, non lontano dal Parco dei Massi di Cemmo. Oltre che per i percorsi di visita segnalati (val la pena di visitare la roccia 12 di Seradina e la famosa composizione detta «mappa di Bedolina»), il Parco è meritevole anche per l’aspetto naturalistico, per la presenza di marmitte dei giganti e di alcune specie arboree quali il fico d’India nano (Opuntia Compressa).

Ceto, Cimbergo e Paspardo Per accedere alla Riserva Naturale Incisioni Rupestri di Ceto, Cimbergo e Paspardo si passa dal Museo della riserva a Nadro di Ceto, poco piú a sud di Naquane. Da qui si raggiunge l’area di Foppe di Nadro. Esistono anche percorsi di visita negli altri paesi della Riserva. A Paspardo, per esempio, tra le aree piú interessanti, vi sono Dos Sottolajolo, con guerrieri, rose camune, palette, cervi; il Capitello dei due pini, in località Plas, con rappresentazioni databili all’età del Rame del tutto simili a quelle dei massi menhir, e In Valle, dove tra le rocce piú godibili vi è la n. 4, caratterizzata soprattutto da cervi e guerrieri. L’area di Campanine di Cimbergo è invece caratterizzata da rocce incise nelle fasi medievali e recenti oltre al consueto repertorio dell’arte dei guerrieri.

6

Asinino-Anvòia Lungo la Media Valle, poco dopo Cividate Camuno, si sale da Malegno per Borno e fino a Ossimo (non fidatevi dei navigatori satellitari che suggeriscono strade piú veloci, ma piú impervie!). Sull’altopiano di Ossimo-Borno si visita il Parco Archeologico di Asinino-Anvòia, dove gli scavi hanno documentato l’esistenza di luoghi di culto caratterizzati da allineamenti di massi menhir istoriati e stele (foto qui sotto), o di singoli monumenti. Nella zona di Anvoia è stata ricostruita un’area a uso culturale cosí come doveva apparire nell’età del Rame.

5

Luine-Corni Freschi Tra i luoghi da visitare vi sono anche il Parco delle Incisioni Rupestri di Luine e l’area archeologica dei Corni Freschi. Nel primo si trovano le raffigurazioni piú antiche della Valle. Il secondo, in località Corni Freschi, visitabile in autonomia, presenta incisioni che risalgono all’età del Rame.

a cura di Francesca Roncoroni a r c h e o 63


itinerari • valcamonica Particolare della stele-menhir Ossimo 9, con un personaggio maschile sormontato da una rappresentazione solare, e con accanto due asce. Età del Rame.

so di sole figure simboliche, la seconda (III A2, 2500-2200 a.C. circa) dalla rappresentazione della figura umana al posto dei simboli. Nella fase piú antica troviamo essenzialmente simboli che rimandano a tre personaggi divini differenti: due di genere maschile, identificati rispettivamente dal sole accompagnato dalle armi e da un rettangolo con frange (forse la raffigurazione di un mantello realizzato al telaio), e infine da uno di genere femminile, simboleggiato da pendagli, collane e pettini.

i primi uomini In una fase successiva, corrispondente al periodo campaniforme, al posto dei simboli compaiono le figure umane e continua la raffigurazione delle armi e degli animali, raffigurati in stile naturalistico. I gruppi piú importanti di statuemenhir sono stati rinvenuti a Cemmo (Capo di Ponte) e in vari siti dell’altopiano di Borno, Malegno e Ossimo. Nel corso dell’età del Rame, accanto alla realizzazione di

La rosa camuna La figura della rosa camuna è una delle piú conosciute dell’arte rupestre della Valcamonica, soprattutto da quando la Regione Lombardia l’ha scelta come simbolo del proprio stemma. Si tratta di un tema presente nell’arte rupestre della Bassa e Media Valcamonica a partire dal VII secolo a.C. Essa è formata da una linea continua che forma quattro bracci passando alternativamente attorno a nove tondini picchiettati, e si presenta secondo tre tipologie principali: a svastica, a svastica asimmetrica, quadrilobata (a quadrato o a croce). In passato è stata definita rosa celtica, poiché si trova anche in aree abitate da popolazioni celtiche (per esempio su alcune monete dell’area gallica francese e nelle incisioni rupestri dello Yorkshire in Inghilterra), ma mentre in queste zone si tratta di attestazioni rare, in Valcamonica è piú frequente, e tipica dell’arte rupestre dei guerrieri nell’età del Ferro.

64 a r c h e o

L’area di Paspardo conserva il maggior numero di rose camune, una trentina. La maggior parte di esse è concentrata su due rocce: la roccia n. 1 del Dos Sulif (il «dosso solatío»), con 15 figure a svastica asimmetrica e a svastica, la forma piú arcaica, e la roccia n. 54 di Vite-Valle di Fuos, dove si trovano ben 10 esemplari nella forma quadrilobata, il tipo piú tardo. L’arrivo del simbolo della svastica in Italia è antecedente al periodo della comparsa nell’arte rupestre camuna. La si ritrova, infatti, dall’età del Bronzo Finale e, solo in seguito ai rapporti di Etruschi e Veneti col mondo alpino, comparve nei palinsesti figurativi rupestri della Valcamonica. Questo simbolo sembra originario della cultura neolitica di Samarra, in Mesopotamia: quattro capridi con le loro corna o quattro donne con i loro capelli sono disegnati su ceramiche a formare il prototipo del


Restituzione grafica della stele Cemmo 3, interessata da 4 fasi di istoriazione, con figure antropomorfe, armi e animali. Stile III A2-A3 (età del Rame e del Bronzo Antico).

massi incisi, si continua a incidere anche su rocce inamovibili, con particolare attenzione alle armi e alle scene d’aratura. L’uso di rappresentare le armi sulle rocce continua anche nell’ètà del Bronzo (II millennio a.C. circa). Si tratta di alabarde, spade, pugnali, asce e lance che spesso trovano confronti puntuali con oggetti reali rinvenuti in tombe o ripostigli e depositi votivi e offrono quindi importanti informazioni dal punto di vista cronologico e interpretativo.

gli «oranti» Tipici di questo periodo sono i cosiddetti «oranti», figure antropomorfe schematiche caratterizzate da corpo lineare, braccia e gambe simmetricamente contrapposte, piegate ad angolo retto o a forma di «U». Spesso ne è rappresentato anche il sesso, indicato da una linea a continuazione del busto, se maschile, o da una coppellina sotto il pube, se femminile. Per la cronologia di queste figure, oltre a confronti con l’area alpina, sono importanti le numerose sovrapposizioni tra figure di fasi diverse, in particolare quelle della roccia 1 in località Dos Costapeta a Paspardo, dove alcune figure di oranti con arti a «U» intersecano figure di lancia con cuspidi confrontabili con tipi

motivo, ben conosciuto piú tardi come svastica. Sarebbe poi passato in Occidente, probabilmente con significati diversi da quelli originari. L’interpretazione prevalentemente proposta è quella che essa rappresenti il sole durante il suo movimento, e con tutte le sue varie accezioni. Alcuni vi leggono significati archeoastronomici, ma si tratta di idee di scarso valore scientifico. Per quel che concerne la rosa di tipo quadrilobato, sono state rinvenute in tombe femminili nella cultura dei Campi d’Urne e in quella hallstattiana rispettivamente fibule e cinturoni, che mostrano nelle decorazioni un motivo del tutto simile. Perciò si suppone che la rosa camuna sia da associare al mondo femminile. Questo dato sembra però in contrasto con quanto compare nell’arte rupestre camuna, dove tale figura sembra sempre presente in associazione a simboli che richiamano la sfera

Rosa camuna a svastica (a sinistra) e rosa camuna quadrilobata (a destra). Dos Sulif, Paspardo. Età del Ferro.

prettamente maschile e guerriera. Potrebbe trattarsi quindi, dell’unico richiamo al mondo femminile nell’arte rupestre del IV stile (età del Ferro), insieme alle figure di palette e di impronte di piedi. Eleonora Montanari e Dario Sigari

a r c h e o 65


itinerari • valcamonica

datati all’età del Bronzo Medio-Recente e Finale. Nell’arte rupestre dell’età del Bronzo, è evidente la presenza femminile, non solo con gli «oranti», ma anche attraverso la raffigurazione di oggetti simbolici, quali telai verticali (presenti soltanto sulla roccia 1 di Naquane) e palette che, grazie al confronto con oggetti trovati in contesti tombali, sappiamo essere probabili strumenti per la cura del fuoco.

l’arte dell’élite Il IV stile (che comprende il I millennio a.C. e il I secolo d.C.) è il periodo in cui è stata prodotta la maggior parte delle incisioni camune. L’arte rupestre si fa espressione di un’aristocrazia guerriera e i soggetti raffigurati rimandano principalmente alla sfera maschile. I guerrieri sono i piú rappresentati, quasi mai in vere e proprie scene di guerra, ma piuttosto in duelli dal carattere rituale e sportivo, in parata, a cavallo (anche in modo equilibristico, cioè in piedi sul dorso dell’animale); frequenti sono anche le scene di caccia, in particolare al cervo. Ai guerrieri si accompagnano armi e figure simboliche, quali, per esempio, uccelli acquatici, barche a protomi ornitomorfe, impronte di pieIn basso: guerrieri e cervi maschi che si scontrano nel periodo degli amori, incisioni della roccia 4 in località In Valle, Paspardo.

I grandi guerrieri Nell’età del Ferro (I millennio a.C.), il tema predominante nell’arte rupestre camuna è il guerriero, rappresentato di norma in schieramento o come duellante. Il fatto si spiega con la nascita di una élite aristocratica che sceglie, per rappresentarsi, le tematiche di un mondo di armati (la caccia, duelli sportivi e rituali, la corsa e la danza armata, la cavalcatura). Un tipo di raffigurazione particolare, databile alla fine del VI secolo a.C., è quello dei grandi guerrieri: si tratta di armati tra i 90 e i 140 cm di altezza, incisi a sola linea di contorno. Il fenomeno del gigantismo, descritto in questi termini, è pressoché esclusivo dell’area di Paspardo, dove sono stati censiti sei guerrieri in questo stile: due sulla roccia 54 di ViteValle di Fuos, tre sulla roccia 4 di In Valle e uno sulla roccia 5 di Dos Sottolajolo. A questo genere di raffigurazioni se ne aggiunge solamente un’altra, incompleta, sulla roccia 50 di Naquane. Figure simili per grandezza e stile, ma campite internamente, trovano riscontro in alcuni guerrieri raffigurati nel Parco di Naquane: si tratta dei cosiddetti «guerrieri Etruschi» (a causa del loro

armamento) e della figura di Cernunnos, rispettivamente sulle rocce 47, 50 e 70. Un altro antropomorfo armato sempre campito è presente sulla già citata roccia 54 di Vite-Valle di Fuos (disegno qui sotto). I grandi guerrieri di Paspardo possiedono caratteristiche stilistiche ben precise: volto di profilo, busto trapezoidale e sesso evidenziato. Sono provvisti di lancia, impugnata con la mano destra, e di uno scudo a pelle di bue, in visione frontale o laterale. Gli schinieri sono

il cervo, da preda a cavalcatura Dall’inizio dell’età del Ferro fino alle sue fasi medie (VIII-inizi del IV secolo a.C.), l’arte rupestre della Valcamonica si caratterizza per la presenza costante e copiosa di figure zoomorfe. I soggetti piú rappresentati sono cervi, cani, volpi e lupi, uccelli – prevalentemente acquatici –, cavalli e piú raramente stambecchi, camosci e serpenti. Nell’area di Paspardo le figure di cervo rivestono un ruolo di primo piano e compaiono perlopiú in contesti di caccia, di duelli di armati; in qualche caso, tutttavia, si trovano anche da soli o, addirittura, cavalcati. Nelle scene di caccia i cacciatori sono quasi sempre armati di lancia, raramente di arco e freccia, e sono sia a dorso di cavallo, sia a piedi.

66 a r c h e o


sempre ben evidenziati e, talvolta, appeso alla cintura, appare un coltello o una spada. Nonostante la generale schematicità con cui l’armamento viene raffigurato, in alcuni casi è possibile effettuare confronti con reperti archeologici, come dimostra la raffigurazione di un coltello tipo Benvenuti di uno dei guerrieri sulla roccia 4 di In Valle: si tratta di un’arma caratteristica del mondo paleoveneto, con esemplari simili anche in ambito hallstattiano e golasecchiano. Gli scudi a pelle di bue (cioè imitanti una pelle di bue stesa su un supporto, simile al simbolo oggi utilizzato per indicare il «vero cuoio») non sono datanti, poiché persistono nel repertorio figurativo camuno per tutta l’età del Ferro. Sono inoltre caratteristici delle genti alpine di area retica; ne è una prova uno scudo in ferro dalla necropoli del V secolo a.C. del Dürrnberg presso Hallein, in Austria. Nell’arte rupestre, quando mostrate di profilo, queste armi hanno un aspetto a «C»: ciò è dovuto al fatto che la pelle con cui era fabbricato l’oggetto reale, tesa sul supporto, formava una concavità marcata, come provato da confronti etnografici, sia con popolazioni africane, sia con i nativi americani. Eleonora Montanari

Si presume che la caccia con la lancia sia di difficile pratica in ambiente montano e quindi si propende a interpretare la scena ritratta come rappresentazione di una prova iniziatica, ossia come una caccia rituale. Queste composizioni (o scene) costituiscono la maggioranza dei contesti in cui compaiono i cervi. Tuttavia, essi si ritrovano anche associati tra loro. Esemplare è il caso della roccia 4 di In Valle, a Paspardo, che reca due gruppi di tre cervi, probabilmente ritratti durante la stagione degli amori, i quali si sfidano a coppie, mentre il terzo fa da «spettatore» o attende di combattere col vincitore. A Naquane (Capo di Ponte), un terzetto di duellanti

Cavaliere itifallico equilibrista su cavallo. Età del Ferro. Dos Sulif, Paspardo.

antropomorfi incisi sulle rocce 35 e 99 riproduce la stessa scena. Tale vicinanza ha fatto riconoscere un parallelismo simbolico tra i due soggetti. Le immagini di cavalcatura, infine, suggeriscono una sorta di domesticazione del cervo, sempre che non si tratti di scene riferite al mondo del divino. Tutti i tre tipi di scene non sono estranei al panorama culturale europeo, ma anzi trovano confronti con scene di caccia al cervo con cani nell’arte delle situle, o nel mondo hallstattiano orientale, con la raffigurazione della cavalcatura di alcuni cervi da parte di giovani guerrieri, su una lastra sepolcrale proveniente da Lahsa (Polonia). Dario Sigari

a r c h e o 67


itinerari • valcamonica

I supporti, le tecniche di incisione e quelle di rilievo Le rocce e le incisioni In Valcamonica l’azione levigante e modellante del passaggio dei ghiacciai würmiani ha prodotto superfici particolarmente adatte a ospitare l’arte rupestre; dal punto di vista geologico si distinguono l’arenaria, nella Bassa e Media Valle, lo scisto, nell’Alta Valle, e il calcare, affiorante in alcune aree del versante orografico destro della Valcamonica. Quasi tutte le figure sono state incise con la tecnica «a percussione» (nella maggior parte dei casi si suppone diretta), che produce piccoli stacchi della roccia, la cosiddetta picchiettatura (1). Tale effetto è stato ottenuto usando un percussore in pietra, generalmente frammenti di quarzo, quarzite o altri materiali piú duri del supporto, e che talvolta si ritrovano ancora nelle fessure delle rocce. Meno diffuse, ma ben presenti in Valle, sono la tecnica «a graffito» (2) e «a polissoir» (3), entrambe realizzate con uno strumento affilato o appuntito. Nel primo caso si incide linearmente la superficie della roccia, nel secondo caso si produce un solco piú profondo e continuo (4). Rarissime, poco piú di una decina, sono invece le pitture, individuate su pareti verticali sotto ripari, tutte sul versante orografico sinistro della Valle. È possibile che fossero dipinte anche le incisioni? Al momento non sono state trovate prove certe, ma è altrettanto vero che talvolta si trovano, in fessure o accanto alle rocce incise, frammenti di coloranti, come gessetti d’ocra di varie tonalità che mostrano tracce di utilizzo. Il rilievo Il primo passo per lo studio dell’arte rupestre è il rilievo delle incisioni. In Valcamonica, la qualità del supporto roccioso e lo stato di conservazione delle figure permettono di norma di effettuare il rilievo a contatto, utilizzando fogli in polietilene trasparente di buona qualità che, tagliati e squadrati in misura standard, vengono posizionati sulla roccia, in connessione tra loro; a questo punto si procede alla riproduzione sul polietilene delle singole picchiettature, con un pennarello indelebile nero a punta conica. In questa fase va data particolare attenzione alla registrazione dei rapporti di sovrapposizione tra le incisioni, fondamentali per la cronologia, e alla resa delle diverse dimensioni delle picchiettature. Al rilievo a contatto si affianca la documentazione fotografica. Tuttavia, la visibilità delle incisioni non è sempre ideale e il rilievo può risultare difficoltoso. In passato, per ovviare a questo problema, sono state utilizzate tecniche volte a rendere piú comprensibili le figure, quali la colorazione con gesso e il cosiddetto «metodo neutro». Quest’ultimo consisteva nel colorare la roccia con una tempera bianca a base di caseina, per poi

68 a r c h e o

ripassarla con del nerofumo, creando un contrasto che evidenziava le incisioni rendendole leggibili. Entrambe le tecniche sono oggi vietate per motivi conservativi e, in sostituzione, si utilizzano luci artificiali o specchi, per creare una luce radente capace di far risaltare le incisioni, senza alcuna controindicazione. Alcuni, per avere una visione preliminare di ciò che si deve rilevare, realizzano il frottage (letteralmente, strofinamento, consiste nello sfregare con una matita un foglio di carta steso sulla superficie interessata, cosí da ricavare un «disegno automatico», n.d.r.). Tuttavia tale tecnica non rende sempre comprensibili le sovrapposizioni e non è applicabile sulle figure piú consunte, perché non sarebbe in grado di produrre una documentazione scientifica attendibile. Inoltre l’uso stesso del frottage, specie se ripetuto, può portare alla consunzione della superficie rocciosa. Per tutti questi motivi, dunque, questa tecnica è sconsigliata. Prima di procedere al rilievo, e alla lettura delle incisioni, la roccia può necessitare di pulizia: muschi e licheni vengono rimossi con sola acqua e spazzole di saggina, senza ricorrere a sostanze chimiche, che potrebbero alterarne la patina superficiale. Terminato il lavoro sul campo, si procede alla scansione di ogni foglio di polietilene e alla ricostruzione in digitale dei pannelli istoriati. Negli ultimi anni, grazie alla collaborazione di Yang Cai, della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, è stato introdotto l’uso del laser scanning per il rilievo di figure particolarmente significative. Dal punto di vista pratico ne rimane ancora difficile l’utilizzo su rocce di grandi dimensioni che presentano numerosi dislivelli e cambi di pendenza. Anche la qualità della scansione non è ancora adeguata per una soddisfacente restituzione grafica delle incisioni e non permette la registrazione immediata delle sovrapposizioni tra figure, come con il rilievo a contatto. Tuttavia nel giro di pochi anni questa tecnologia è notevolmente migliorata e si attendono i nuovi sviluppi per poterne usufruire a pieno. Per quanto riguarda le tecniche fotogrammetriche, già utilizzate in alcuni casi, pur essendo utili per avere una panoramica d’insieme delle superfici o per la riproduzione di particolari a fini museali e conservativi, non possono sostituire il rilievo a contatto, perché non sufficientemente di dettaglio e comunque prive di una caratteristica fondamentale. Il rilievo a contatto, infatti, non è un mero copiare, ma è una tecnica che, come il disegno archeologico dei reperti, oltre a registrare una serie di informazioni relative all’incisione, è anche uno strumento interpretativo. Al momento è dunque la tecnica imprescindibile per un’adeguata documentazione scientifica. Linda Bossoni


A sinistra, dall’alto: 1. busto di guerriero, Dos Sulif, Paspardo, età del Ferro; 2. scacchiera, Seradina, età del Ferro; 3. cuspidi di lancia, Dos Costapeta, Paspardo; 4. camoscio, Dos Sulif, Paspardo, età del Ferro. In basso: rilievo a contatto della roccia 125 di Vite-Bial do le Scale (Paspardo), eseguito utilizzando la luce radente riflessa da uno specchio per la migliore osservazione delle figure.

1

di quasi sempre di piccole dimensioni, labirinti, costruzioni e la rosa camuna (vedi box alle pp. 64-65). In questa fase fa la sua comparsa sulle rocce anche la scrittura. Per scrivere, brevi parole, forse nomi di persona, si utilizza l’alfabeto camuno, una variante di quello insegnato dagli Etruschi alle popolazioni alpine durante il VI secolo a.C.

Nel complesso l’arte rupestre dell’età del Ferro, pur essendo di tipo narrativo, non deve essere vista come un racconto del quotidiano, ma come un’espressione del mondo rituale delle aristocrazie guerriere che allora governavano la società. Nel 16 a.C. la Valcamonica viene conquistata dai Romani (vedi anche, in questo numero, l’articolo alle pp. 7077) e, con il diffondersi dei loro modelli culturali e religiosi e l’instaurarsi del loro potere politico, nel corso del I secolo d.C. si interrompe la tradizione incisoria che aveva caratterizzato il mondo rituale per tanti secoli; col diffondersi del cristianesimo le rocce tornarono a essere frequentate e incise, ma con simboli e con finalità completamente differenti rispetto ai periodi precedenti.

Come partecipare ai campi 2

Conosci la Valcamonica? Vuoi provare l’esperienza indimenticabile di vedere sulle rocce le incisioni realizzate dall’uomo fino oltre duemila anni fa? Avvicinarti all’immaginario di un popolo scomparso e imparare a conoscerlo? Apprendere le tecniche per conservare la memoria di uno dei patrimoni dell’umanità piú invidiati al mondo? Se hai risposto sí, hai la possibilità di partecipare al Valcamonica Rock Art and Archaeology Fieldschool e Fieldwork dal 17 luglio al 7 agosto 2014. Si tratta della campagna estiva che si svolge ogni anno a Paspardo e alla quale possono partecipare studenti universitari, ma anche studiosi o semplici appassionati di arte e archeologia. L’attività di studio e documentazione riguarda rocce che si trovano nel territorio del Comune di Paspardo e permette di sperimentare tutte le fasi di lavoro: il rilievo a contatto delle incisioni, la loro catalogazione e la preparazione per la pubblicazione. Viene inoltre mostrato come si realizza la documentazione fotografica e l’uso del laser scanning 3D. Per informazioni e iscrizioni: Angelo E. Fossati, Società Cooperativa Archeologica «Le Orme dell’Uomo», piazzale Donatori di Sangue, 1 - 25040 Cerveno (BS); cell. 340 8517548; e-mail: angelo.fossati@unicatt.it oppure ae.fossati@libero.it; web: rupestre.net oppure www.facebook.com/ valcamonicarockart.fieldschool Francesca Roncoroni

3

4

a r c h e o 69


itinerari • valcamonica romana

cividate camuno e il suo territorio entrarono a far parte dell’impero di roma sul finire del i secolo a.C. i nuovi padroni, tuttavia, non cancellarono le tradizioni locali, la cui eco è ancora oggi percepibile nei complessi monumentali della zona di Serena Solano e Cristina Ferrari

nella valle dei camuni alla scoperta della Valcamonica romana N

ota per il ricco e originale fenomeno dell’arte rupestre (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 60-69), che ne ha fatto il primo sito italiano dichiarato Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, la Valcamonica possiede anche un importante patrimonio archeologico di età romana. Prima d’allora, nella seconda età del Ferro (VI-I secolo a.C.), la valle era abitata dai Camunni, una delle numerose popolazioni alpine ricordate dalle fonti antiche, menzionata anche fra le gentes sconfitte nel monumento 70 a r c h e o

trofeo di La Turbie, eretto nelle Alpi Marittime a celebrazione della conquista augustea delle Alpi fra il 7 e il 5 a.C. Scarse e contraddittorie sono le notizie sulle loro origini: secondo Strabone erano un popolo di stirpe retica, mentre Plinio il Vecchio li considerava Euganei. Sul finire del I secolo a.C. i Camuni furono coinvolti nelle campagne augustee di conquista dell’arco alpino e, nel 16 a.C., integrati nell’impero. La romanizzazione della valle fu attuata in maniera pacifica e originale: nell’arco di pochi decenni la

comunità divenne dapprima civitas, con cittadinanza latina, e poi res publica, con autonomia politica e amministrativa. L’età romana in Valcamonica si distingue per ricchezza e monumentalità, frutto di un singolare processo di acculturazione e integrazione in cui gli aspetti che caratterizzavano la realtà camuna nella seconda età del Ferro sopravvissero a lungo e continuarono, pur con esiti e soluzioni differenti, fino alla tarda età romana. Vera novità introdotta dalla romanizzazione fu la fondazione di una


Parco Archeologico di Spinera di Breno (Valcamonica, Brescia). La replica della statua di Minerva, esposta nell’ambiente principale del santuario romano di età flavia. La testa (nella pagina accanto) è un’integrazione, e l’elmo è ricostruito a partire dal frammento con la sfinge accovacciata.

città, Civitas Camunnorum, l’attuale Cividate Camuno, in un punto strategico del sistema viario della media valle, ai margini di un’area pianeggiante naturalmente protetta dalle montagne, vicino al fiume Oglio. Della città, a impianto regolare con edifici e spazi pubblici monumentali, negli ultimi anni sono stati indagati e parzialmente riportati alla luce il quartiere degli edifici da spettacolo, con un teatro e un anfiteatro, e un settore dell’area del foro. Allontanandosi da Cividate Camuno verso un ambito territoriale extraurbano, si registrano forme di popolamento diffuso, in cui le tradizioni indigene persistono a lungo e tenacemente accanto alle innova-

zioni connesse alla romanizzazione. Il contesto piú importante e ricco di dati è in questo senso il santuario in località Spinera di Breno, situato pochi chilometri a nord della città romana di Cividate Camuno.

un senso di mistero La località Spinera si estende in un verde pianoro, lambito dal fiume Oglio, ai piedi di uno sperone roccioso attraversato da grotte scavate dall’acqua che vi sgorgava naturalmente fino a non molto tempo fa. Il fascino paesaggistico del luogo, l’atmosfera e il senso di mistero che ancora oggi vi si respirano lasciano facilmente comprendere le ragioni che in passato spinsero gli abitanti

della valle a crederlo sede di presenze e forze divine. Per oltre mille anni, dal VII secolo a.C. sino alla fine del IV secolo d.C., Spinera costituí un vero e proprio angolo sacro nel cuore della Valcamonica: la lunga durata e l’intensità di frequentazione ne fanno uno dei siti archeologici piú importanti dell’Italia settentrionale. Scoperto casualmente nel 1986, oggetto di numerose campagne di ricerca archeologica e quindi di interventi di restauro e valorizzazione, il sito è aperto al pubblico come Parco Archeologico dal settembre 2007. La sua visita offre la possibilità di approfondire il complesso e affascinante tema della religiosità romana in relaa r c h e o 71


itinerari • valcamonica romana

Svizzera Adda

Lago Maggiore Varese

Cividate Camuno

Como Bergamo

Busto Arsizio

Lago d’Iseo

Monza

Milano

Lago di Garda

Brescia

Vigevano da

o in

Pavia Piacenza

Ad

Po

Piemonte

Veneto

Og

Cremona

Emilia-Romagna

lio

Mantova M

inc

io

Po

Po

Liguria

zione alle forme di culto indigene. Il santuario è infatti un esempio emblematico di come i Romani seppero assorbire e interpretare in maniera nuova e piú monumentale le tradizioni delle genti locali.

fuochi e libagioni Le testimonianze riportate alla luce si riferiscono a un complesso cultuale all’aperto, organizzato nel pianoro tra la rupe e il fiume Oglio. A sporadiche frequentazioni avviate già agli inizi della prima età del Ferro seguí tra la fine del 72 a r c h e o

Trentino Alto Adige

Lago di Como

Tic

In alto: il Parco Archeologico del Santuario di Minerva a Spinera di Breno. A destra: cartina della Lombardia con l’ubicazione di Cividate Camuno. Nella pagina accanto: placchetta votiva con figura schematica di orante su barca solare. V sec. a.C. Cividate Camuno, Museo Archeologico Nazionale.

VI e gli inizi del V secolo a.C. una strutturazione dell’area con un ampio recinto e altari in pietre a secco. In questa fase il rituale prevedeva la ripetuta accensione di fuochi, il sacrificio di animali e la deposizione di offerte, costituite perlopiú da prodotti della terra, ma anche da pani e focacce. L’abbondante presenza di boccali e coppette rimanda, inoltre, alla pratica delle libagioni, in occasione delle quali i contenitori erano usati per bere o nell’ambito di lavaggi e bagni rituali.

Fra i reperti riferibili alla fase preromana si distingue un pendaglioamuleto in lamina bronzea finemente decorata, raffigurante una figura schematica su barca solare con terminazioni a teste di uccello acquatico: nell’oggetto, denso di significati simbolici, si è riconosciuta l’immagine di una divinità femminile venerata nel luogo, collegata al culto dell’acqua. In età augustea, in concomitanza con la fondazione della città romana di Cividate Camuno, sul luogo fu eretto un edificio monumentale ad ali porticate, dedicato a Minerva, che della divinità indigena gradualmente ereditò e interpretò i caratteri e le prerogative connesse alla natura, all’acqua, ma anche alla vita e alla fecondità. Il santuario indigeno all’aperto e l’edificio romano convissero fino all’età flavia, quando le strutture antiche vennero rispettosamente coperte e il culto si trasferí definitivamente nell’edificio romano, attivo poi fino alla fine del IV secolo d.C.

un seguace di fidia La struttura romana, di cui si conserva buona parte dell’impianto architettonico, presenta ambienti allineati addossati alla rupe e doveva avere due ali laterali porticate che si protraevano verso il fiume. Dal cortile si saliva al pronao e al corpo centrale tramite una breve gradinata di accesso. Le aule interne erano decorate da pavimenti a mosaico e affreschi alle pareti, mentre vasche e fontane abbellivano l’intero complesso e ne sottolineavano lo stretto legame con l’acqua. Nel vano centrale, decorato da un raffinato mosaico a tessere bianche e nere con motivi di tralci e delfini e da pareti affrescate con fregi vegetali d’acanto e finte prospettive marmoree, era realizzata una nicchia sopraelevata destinata a contenere la statua di culto: una copia romana in marmo greco di un originale del V secolo a.C. raffigurante la dea Athena/Minerva, opera di un artista della cerchia di Pyrros, seguace di Fidia. Ritrovata acefala, la sta-


tua indossa un lungo chitone con egida a scaglie con Gorgone e serpentelli penduli, e portava un elmo attico con Sfinge; appoggiata sulla gamba destra e con la sinistra piegata al ginocchio, la dea doveva avere in origine il braccio destro teso a chiedere l’offerta o forse a sostenere una statuetta di Vittoria Alata e quello sinistro impegnato a impugnare una lancia. Minerva, dea della guerra, del pensiero, delle arti e dei mestieri, a Spinera era soprattutto l’interpretazione romana della divinità indigena legata al culto delle acque e al potere salvifico e benefico a esse connesso. L’edificio cadde in disuso intorno alla fine del IV secolo d.C. e, dopo un breve riutilizzo con funzione insediativa in epoca medievale, fu definitivamente obliterato dalle ripetute esondazioni dell’Oglio. La memoria della sacralità del luogo continuò tuttavia a resistere nel tempo, come testimonia l’edificazione, non molto lontano, di una chiesa dedicata a santa Maria. I resti archeologici oggi visitabili si riferiscono principalmente alla ristrutturazione e all’ampliamento di età flavia, mostrando solo uno spaccato, il piú monumentale, della lunga storia del sito.Tutti i materiali recuperati in corso di scavo insieme all’originale della statua di culto sono conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividate Camuno. Un agevole percorso pedonale e ciclabile lungo il fiume collega il santuario di Spinera con il Parco Archeologico del teatro e dell’anfiteatro e con l’area archeologica del foro di Cividate Camuno, offrendo la possibilità di inserire il sito nel piú ampio contesto territoriale che faceva capo alla Civitas Camunnorum. L’odierna Cividate Camuno riprende in gran parte l’antico impianto urbanistico romano, con strade che si incrociano ad angolo retto, ripetendo lo schema

dei cardini e dei decumani, seguendo l’orientamento naturale dettato dall’Oglio, in origine attraversato da un ponte di cui oggi si conservano i piloni in blocchi di pietra squadrata. Lungo il fiume si sviluppava il foro cittadino, con portici ed edifici pubblici, religiosi e civili. Uno spaccato del foro è visibile nell’area archeologica di via Palazzo, allestita nel 2011, che conserva i resti di una ricca dimora privata di età giulioclaudia, obliterata da un edificio pubblico di epoca flavia.

per gli dèi della casa Articolata in piú ambienti disposti intorno a una corte centrale, la domus presentava anche due vani seminterrati, raggiungibili tramite una scala lignea. Uno dei due ambienti, il piú prestigioso dell’intera abitazione, era pavimentato con un battuto cementizio con cornice di tessere di mosaico nere e aveva pareti affrescate con raffinati motivi floreali, figure mitologiche e finte prospettive architettoniche. La presenza della base di un’edicola suggerisce che possa trattarsi di un sacrarium per i culti domestici.

Negli ultimi decenni del I secolo d.C., in età flavia, la casa è stata demolita e sui suoi resti sono stati impostati edifici pubblici collegati al Foro. Sono state rinvenute parti di un complesso monumentale porticato di cui si conserva una zoccolatura rivestita con lastre bicrome, coronata da cornicette in lastre di marmo. Rampe di gradini in calcare permettevano di accedere ad ambienti mosaicati retrostanti. Le strutture inglobano i resti della domus di epoca giulio-claudia e ne riutilizzano parzialmente i materiali edilizi. Da quest’area proviene una pregevole statua, raffigurante un personaggio maschile ritratto in posa eroica, con il busto nudo e il ventre avvolto in ricco drappeggio, che copre le gambe fino alle ginocchia e ricade sul braccio sinistro, secondo uno schema comune alla rappresentazione dei membri della famiglia imperiale, ma anche dei personaggi di rango eroicizzati. La statua, di raffinato livello artistico, è in marmo bianco locale di Vezza d’Oglio, nell’alta valle. Databile tra l’età tiberiana e la prima età claudia, era in origine inserita in una galleria di statue, come confermato anche da diversi frammenti di statue onorarie in marmo e bronzo rinvenuti nell’area forense. Degli edifici pubblici dell’antica Civitas Camunnorum sono stati individuati anche le terme, il teatro e l’anfiteatro.

Giochi e SPETTACOLI Il Parco Archeologico del teatro e dell’anfiteatro, inaugurato nel 2003, si estende ai piedi del monte Barberino: dotato di pannelli illustrativi con immagini e testi didattici, conserva i resti dell’anfiteatro, riportato interamente alla luce nelle strutture perimetrali, e del teatro, di cui è visibile circa un terzo della struttura originaria. L’area è attraversa(segue a p. 76) a r c h e o 73


itinerari • valcamonica romana

il territorio di civitas camunnorum

Il Museo Archeologico Nazionale co

ni l La

Santuario di Minerva

e

d Via Via Dera

Vi

lo a S abbio

Chiesa S. Andrea

Via Vi a

Ca

Ca

va

m

pe

llo

Malegno

St ra da in ov ci a l e Pr

a

om

R Via

Museo Archeologico Nazionale

Cividate Camuno Parco del Teatro e Anfiteatro

Parrocchia S. Maria Assunta

Qui sopra: cartina di Cividate Camuno e dei dintorni, con i luoghi descritti nel testo. La cittadina moderna ha conservato l’assetto urbanistico conferito dai Romani all’antica Civitas Camunnorum.

74 a r c h e o

Ideale punto di partenza o di arrivo per la visita alla Valcamonica romana è il Museo Archeologico Nazionale di Cividate Camuno, nato nel 1981 per raccogliere i materiali di età romana dalla città e dal territorio. Il Museo è articolato in tre sale espositive. La prima, dedicata alla città, espone pavimenti a mosaico dalle terme, frammenti architettonici ed epigrafici e pregevoli intonaci affrescati dall’area del foro. Nella seconda, dedicata ai culti, si trovano i materiali del santuario di Minerva e la statua originale della divinità (una copia è al Parco Archeologico del Santuario, nella sala principale) e la statua maschile di nudo eroico rinvenuta nell’area forense. L’ultima sala conserva ricchi corredi funerari dalle necropoli di Cividate Camuno e del territorio. All’esposizione permanente si affianca uno spazio per mostre temporanee, in cui è attualmente in corso la mostra «Di pietra e di legno. Una casa alpina fra età del Ferro e romanizzazione» dedicata alla casetta di Pescarzo di Capo di Ponte (vedi box a p. 76).


dove e quando Ipotesi ricostruttiva della sala principale del santuario di Minerva di Spinera di Breno, con la statua di culto collocata in una nicchia.

Museo Archeologico Nazionale Cividate Camuno, via Roma 23 Orario ma-sa, 8,30-19,00; do, 8,30-14,00; lu chiuso Info tel 0364 34430; archeologica.lombardia. beniculturali.it

Nel nome di Minerva Da sinistra, sulle due pagine: veduta dall’alto del santuario di Minerva al termine degli scavi; la statua della dea al momento della scoperta; la ricostruzione virtuale del luogo di culto. A destra: la statua di Minerva cosĂ­ come si può ammirarla oggi. I sec. d.C. Cividate Camuno, Museo Archeologico Nazionale.

a r c h e o 75


itinerari • valcamonica romana

un incendio... provvidenziale Dopo la conquista romana, gli aspetti caratteristici della cultura camuna nella seconda età del Ferro – modalità insediative e cultuali, forme della cultura materiale – sopravvissero a lungo e continuarono, pur con esiti e soluzioni differenti fino alla tarda età romana. Per quel che riguarda le modalità insediative, numerosi ritrovamenti indicano che, dal VI secolo a.C., vi fu un popolamento sparso e diffuso, teso a sfruttare in maniera ottimale le risorse del territorio, organizzato in piccoli agglomerati di casette seminterrate con zoccolo in pietra e alzato ligneo, secondo lo schema ricorrente in tutto l’arco alpino centro-orientale e perdurante in alcuni casi fino all’epoca tardo-antica. Fra le scoperte piú importanti, si distingue quella di una piccola casa indagata nel 1995-96 a Pescarzo di Capo di Ponte, nella media valle. La casa, a vano unico seminterrato e rivestito di pareti in pietra a secco, fu distrutta in antico da un incendio che provocò il crollo dell’alzato, ma che, allo stesso tempo, sigillò e preservò i resti strutturali in un eccezionale stato conservativo. Abbondanti legni carbonizzati pertinenti a travi, travetti, pali e persino alla porta d’ingresso, hanno permesso di formulare dettagliate ipotesi sull’alzato e sulla disposizione interna. I materiali, di tradizione alpina ma già permeati dall’influenza romana, sono esposti al Museo di Cividate Camuno e offrono uno spaccato della vita quotidiana nel territorio fra il II e la fine del I secolo a.C.

In alto: la casetta di Pescarzo di Capo di Ponte durante lo scavo. Si nota l’unico ambiente, seminterrato e con pareti in muratura a secco. A destra: assonometria ricostruttiva dell’edificio, con alzati in legno, visto all’interno e all’esterno.

76 a r c h e o

ta a nord da un lungo acquedotto che convogliava l’acqua agli edifici, e che in origine doveva servire domus private, individuate durante gli scavi nell’area.

un’opera grandiosa Edificato dopo la metà del I e in uso fino al IV secolo d.C., il teatro era stato realizzato con un grandioso sistema di terrazzamento della collina, con la cavea appoggiata al pendio della montagna nella zona centrale, mentre le parti laterali, le ali, erano costituite da terrapieni su cui si impostavano i muri perimetrali, in origine rivestiti da lastre di pietra grigia locale e, in alcuni punti, ornati da intonaco affrescato. La struttura era in pietre e malta, con paramenti in lastre di pietra grigia; nei pressi degli accessi era usato anche il laterizio, con uno studiato effetto cromatico. Nel parco sono visibili i muri paralleli del porticato retrostante la scena (la porticus post scaenam), parte della sottostruttura della cavea, le due scalinate laterali, l’andito e l’ingresso sul lato destro, mentre una parte del muro della summa cavea si trova in un’area privata. L’andito, il passaggio che collegava l’orchestra alla versura (un’ala sporgente al lato del palcoscenico, n.d.r.)e che permetteva l’accesso alla parte bassa della


per saperne di piÚ Valeria Mariotti (a cura di), Il teatro e l’anfiteatro di Cividate Camuno. Scavo, restauro e allestimento di un parco archeologico, All’Insegna del Giglio, Firenze 2004 Filli Rossi (a cura di), Il santuario di Minerva, Edizioni ET, Milano 2010 Filli Rossi, Serena Solano (a cura di), L’area del Palazzo a Cividate Camuno. Spazi pubblici e privati nella città antica, La Cittadina, Gianico (BS) 2011 In alto: veduta dell’anfiteatro romano, edificato agli inizi del II sec. d.C. Si calcola che la struttura avesse una capienza pari a oltre 5000 spettatori. A destra: statua acefala raffigurante un personaggio maschile in posa eroica, dal Foro. Fine dell’età tiberiana-età claudia. Cividate Camuno, Museo Archeologico Nazionale.

cavea, era coperto con una volta a botte sulla quale si impostavano i gradini piú a valle. L’edificio era collegato all’area antistante da due scalinate che permettevano di accedere alle versurae, mentre due scale piú piccole congiungevano il postscenio al porticato, destinato al passeggio del pubblico durante le pause degli spettacoli.

la tribuna d’onore Di poco piú recente rispetto al teatro, forse di età flavia o dei primi anni del II secolo d.C., l’anfiteatro è a struttura piena su terrapieno, con la parte a monte che sfrutta la pendenza naturale del rilievo, e quella a valle realizzata sulla terra di risulta dello scavo dell’arena. La struttura, costruita con ciottoli di fiume, pietre e malta, era intonacata esternamente; in alcuni punti, come nel rivestimento del podio dell’arena, le murature erano foderate da lastre della stessa pietra grigia utilizzata per il teatro. La parte a monte conserva resti consistenti delle gradinate in calcare grigio, una tribuna d’onore per gli spettatori illustri. A fianco dell’ingresso principale, che si apriva sull’asse maggiore, vi erano due carceres, spazi destinati ad alloggiare e a immettere in scena gli animali usati nelle venationes, gli spettacoli di lotta tra belve e tra

uomini e animali. Molto ben conservato è il carcer per gli animali feroci, diviso in due corridoi, uno destinato agli inservienti e uno agli animali che venivano ingabbiati e sospinti verso l’arena tramite un sistema di pali passanti attraverso fori realizzati nei pilastri di pietra e che si aprivano in successione, senza pericolo per gli uomini che li manovravano. Sempre sull’asse maggiore, sul lato opposto, si apriva un altro ingresso che portava ad alcuni ambienti di servizio e a un piccolo sacello che presenta ancora tracce di intonaco affrescato e una nicchia che in or igine ospitava la statua di culto di una divinità (forse Marte, Ercole o la Fortuna) a cui si rivolgevano i gladiatori prima di rischiare la vita durante i ludi. All’esterno dell’anfiteatro si conserva anche un piccolo edificio termale, probabilmente utilizzato dai gladiatori. L’anfiteatro, il cui asse maggiore misura 73,20 m e il minore 63,60 (corrispondenti a 160 x 130 piedi romani), poteva ospitare fino a 5500 spettatori. a r c h e o 77


speciale • catacombe

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini si riferiscono a catacombe o ad altri complessi monumentali situati a Roma e nel suo suburbio. Veduta esterna del cubicolo degli Apostoli, nella catacomba di S. Tecla a Roma. Recenti restauri eseguiti con l’ausilio del laser hanno portato alla scoperta di una sorprendente decorazione pittorica risalente alla fine del IV sec.

78 a r c h e o


Pitture dal buio la scoperta di nuovi affreschi nelle catacombe di romA di Fabrizio Bisconti

Conosciute sin dal XVI secolo, le pitture nascoste nei cimiteri sotterranei dei primi cristiani sono oggi al centro di importanti interventi di restauro e di conservazione a r c h e o 79


speciale • catacombe

D

a oltre un ventennio, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra (la Sovrintendenza della Santa Sede che, dal 1852, si occupa della tutela delle catacombe cristiane d’Italia), hanno intrapreso un coraggioso progetto di restauro, che ha recuperato gli affreschi catacombali, con particolare riguardo per quelli romani – che ammontano a circa 400 unità monumentali –, ma anche per quelli siciliani e napoletani. Il progetto ha ormai interessato due terzi del patrimonio pittorico cimiteriale paleocristiano, restituendo un vero e proprio capitolo della storia dell’arte della tarda antichità e, segnatamente, di quella produzione figurativa – perlopiú di ispirazione cristiana – da sempre disattesa o studiata da pochi addetti ai lavori che, per troppo tempo, hanno guardato a queste manifestazioni artistiche come a pedisseque traduzioni figurate della fede cristiana, affidando a tali monumenti iconografici un ruolo apologetico e confessionale.

«cappelletti e oratori» Tutto ha inizio nel tardo pomeriggio del 31 maggio 1578, quando alcuni cavatori di pozzolana intercettano la galleria di una catacomba, in una vigna romana che apparteneva allo spagnolo Bartolomeo Sanchez. La notizia della scoperta fece il giro della città e una vera e propria folla accorse presso la voragine, che si era aperta sulla via Salaria Nova, tanto che il cardinale Giacomo Savelli – secondo quanto ricordano le cronache dell’epoca e, in particolare, gli Avvisi Urbinati e gli Annales – fece recingere la cava di pozzolana. Il provvedimento, preso dal vicario di papa Gregorio XIII, fu però inutile, in quanto il 2 agosto dello stesso anno, come rievoca uno degli Avvisi Urbinati, laddove erano stati scoperti «alquanti cappelletti e oratori con vaghissimi lavori furono rotti gli steccati fatti lí attorno per ordine del Cardinal Savello». Tra i primi a scendere nella catacomba appena scoperta furono i copisti Alfonso Ciacconio, di origine spagnola, e il fiammingo Philippe de Winghe, che riprodussero gli affreschi che decoravano gli ambienti ipogei. Quei disegni confluirono nella Roma Sotterranea di Antonio Bosio (1575-1629), l’archeologo maltese che studiò e scoprí molte catacombe romane, ma che al momento della scoperta aveva appena tre anni. Tutte queste figure vanno calate nell’atmosfera controriformista che, a Roma, faceva capo al cardinale Cesare Baronio (1538-1607) e all’oratorio di S. Filippo Neri. Ed è proprio il 80 a r c h e o


An

ien

ova

21

Nu

a en

A

S a l a ria

20

ia

ria

19 18 N om

ti ca

n

23

Via S ala

a ini lam F Via

22

ta n

N

Vi a

Tevere

e

V

IV

V

1

3

4 24

2

VI a

II

t ic

Via Aur e a A n li

Via Tiburtina

5

Ca

si

lin

a

16

I

Via Po rtu e

nse

8

Vi a

7 6

VII

17

III

Via delle Sette Chiese

10

9 Catacombe

e ns ie st

a ic nt

A

O

ia

V ia

Pi gn at el li

pp

A

Regioni ecclesiastiche

Ap pia

ia V

Mura Aureliane

Via

11

na Via Ard e ati

Mausolei Ipogei

14

13

26

Basiliche

12

a tin La

Tevere

a Vi

15 25

In alto: mappa dei piú importanti luoghi del primo cristianesimo a Roma: 1. S. Pietro; 2. SS. Cosma e Damiano; 3. S. Pudenziana; 4. S. Maria Maggiore; 5. S. Giovanni in Laterano; 6. S. Stefano Rotondo; 7. SS. Giovanni e Paolo; 8. S. Sabina; 9. S. Paolo fuori le Mura; 10. catacombe di Commodilla; 11. catacombe di Domitilla; 12. catacombe di S. Callisto; 13. S. Sebastiano; 14. catacombe di Pretestato; 15. catacombe della via Latina; 16. catacombe dei SS. Marcellino e Pietro; 17. S. Lorenzo; 18. S. Agnese fuori le Mura; 19. Cimitero Maggiore; 20. cimitero anonimo di via Anapo; 21. catacomba di Priscilla; 22. catacomba dei Gordiani; 23. catacomba di Panfilo; 24. ipogeo degli Aureli; 25. ipogeo di via Dino Compagni; 26. catacombe di S. Tecla. Nella pagina accanto: la volta affrescata dell’ipogeo dei Flavi nelle catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina, con lacune derivate dal distacco delle pitture a uso dei collezionisti.

a r c h e o 81


speciale • catacombe

cardinal Baronio che, facendo riferimento alla subterranea civitas e agli ampliora spatia che stavano tornando alla luce, rileva come questi labirinti ipogei fossero sanctorum imaginibus exornata, fornendo una prova autorevole di quel culto per le immagini appena definito dal Concilio di Trento. Nei secoli seguenti quelle pitture, tanto preziose per il dibattito controriformista, soffrirono per l’eccessiva attenzione dell’uomo, tanto che, tra il 1600 e il 1700, molti affreschi furono addirittura staccati, sull’onda di un collezionismo nascente e per un insano desiderio di musealizzare queste primitive testimonianze del cristianesimo in luoghi meno angusti e oscuri. Artefici di queste discutibili operazioni, da inquadrare nel piú largo fenomeno legato al traffico dei «corpi santi», furono addirittura i Custodi delle Sacre Reliquie Marcantonio Boldetti e Giovanni Marangoni, i quali presero di mira in particolare le catacombe di Domitilla sulla via Ardeatina. A questo proposito, lo stesso Boldetti ricorda che, mentre si tentava di staccare un’immagine del Cristo, «l’operazione riuscí infruttuosa, essendosi la pittura spezzata in minutissime parti».

una svolta decisiva Dobbiamo attendere gli anni centrali dell’Ottocento e l’attività del grande archeologo romano Giovanni Battista de Rossi (1822-1894) per rilevare nuova attenzione e rispetto per i monumenti catacombali e anche per gli apparati pittorici che li decoravano. Ma il vero curatore e studioso di questi affreschi, fino ad allora disattesi e manomessi, fu Joseph Wilpert (1857-1944). L’iconografo tedesco si avvalse del contributo dell’acquarellista Carlo Tabanelli, che si occupò di colorare le foto di Pompeo Sansaini, offrendo una documenta-

i mali e i rimedi La produzione pittorica delle catacombe ha sofferto, nei secoli, offese di ogni tipo, che hanno compreso puliture piú o meno energiche, tali da danneggiare le pellicole pittoriche, ma anche veri e propri distacchi, che hanno provocato perdite, frammentazioni o decontestualizzazioni gravi e irreversibili. D’altra parte, queste pratiche, ben collocabili nell’atmosfera e nella cultura controriformista e nella mentalità, ancora assai confessionale, del Sei e Settecento, sono perdurate sino agli anni Novanta del secolo scorso. Sino a quel tempo, infatti, le pitture furono lavate con acqua e acidi, quando non furono addirittura staccate, ridotte in pannelli e ridipinte da pseudo-pittori o da improvvisati restauratori. Ancora negli anni Settanta del secolo passato, alcuni affreschi romani e napoletani sono stati devastati da queste deleterie operazioni, che ci hanno privato di alcune importanti testimonianze dell’arte cristiana della tarda antichità. Nei primi anni Novanta, con la strutturazione organica della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, nacque una rinnovata coscienza conservativa, che mutava l’atteggiamento cognitivo e scientifico nei confronti dell’immenso patrimonio pittorico delle catacombe cristiane. Facendo tesoro delle esperienze

Qui sopra: scena di banchetto, affresco del cubicolo dei Sacramenti A5 nelle catacombe di S. Callisto. III sec. A sinistra: acquerello (non finito) di Carlo Tabanelli per Joseph Wilpert, che riproduce l’affresco della defunta Turtura, nella catacomba di Commodilla. VI sec.

82 a r c h e o


che, attraverso i responsabili dell’allora Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro), erano state fatte in occasione dei restauri delle tombe etrusche dipinte di Tarquinia e dunque degli interventi eseguiti sugli affreschi conservati in ambienti ipogei con alto tasso di umidità, si iniziarono gli esperimenti, assai cauti e circoscritti, che interessarono alcuni affreschi catacombali, primo fra tutti quello della Madonna con il profeta a Priscilla, una delle immagini piú celebri e piú antiche dell’arte delle catacombe, che risale agli anni Trenta del III secolo. Questi interventi comportarono, innanzitutto, l’asportazione dei «restauri» del passato, che avevano comportato la mutazione cromatica delle pellicole pittoriche, per l’uso indiscriminato di collanti o altri prodotti, che avevano provocato alterazioni di ogni tipo, comunque sempre assai dannose. Si è, poi, proceduto all’asportazione delle patine grasse, dovute all’uso prolungato di torce e lampade dei visitatori, e delle formazioni calcaree prodotte dall’umidità e dalle percolazioni idriche. Queste pratiche sono state effettuate con impacchi brevi e ripetuti di carta giapponese imbevuta di acqua demineralizzata, aiutandosi, poi, con il bisturi per asportare le concrezioni e le patine. Le lacune sono state colmate con materiali naturali in sottosquadro, con colorazioni neutrali, che facilitassero la lettura dell’opera. A questa prassi, nel corso degli ultimi cinque anni, è stato affiancato l’uso della strumentazione laser, già impiegata con buoni risultati per i materiali lapidei. Questa pratica – quando le condizioni microclimatiche lo permettevano – consisteva nella concentrazione del raggio laser sulla patina o sulla concrezione per infrangere la formazione, che obliterava le pitture. Ebbene, molti affreschi catacombali sono stati recuperati nella loro integrità e molte inaspettate e sorprendenti scoperte hanno arricchito il giacimento artistico delle catacombe.

zione iconografica ancora insuperata. Se le 600 tavole fatte eseguire dal Wilpert rappresentano un gesto documentario all’avanguardia, il pensiero dello studioso tedesco, che si era specializzato in teologia, risentiva ancora pesantemente di quella interpretazione spirituale e catechetica che aveva connotato gli esordi dell’archeologia cristiana. Solo negli anni centrali del Novecento, alcuni studiosi della scuola di Bonn, primo fra tutti Theodor Klauser (1894-1984), liberarono l’arte paleocristiana e, dunque, anche la pittura delle catacombe, da quelle superfetazioni ideologiche che ne avevano fatto una vera e propria «espressione artistica» dei dogmi e dei misteri del cristianesimo controriformista.

In questa pagina: il cubicolo della Coronatio nelle catacombe di Pretestato, decorato con affreschi della prima metà del III sec. Nella pagina accanto, in alto: affresco nell’arcosolio del cubicolo del fossore (addetto allo scavo delle fosse sepolcrali) Diogene, rappresentato con gli strumenti del mestiere. IV sec. Catacombe di Domitilla.

Oggi si guarda all’arte delle catacombe come a una manifestazione figurativa che si cala coerentemente nella produzione artistica della tarda antichità, attingendo alle stesse maestranze, allo stesso stile, talora agli stessi schemi e perfino ai medesimi temi. I fondali dei cubicoli e degli arcosoli dipinti, infatti, accolgono elementi desunti dal piú tradizionale repertorio ellenistico a carattere cosmico, dionisiaco, filosofico e pastorale, anche se, a partire dai primi anni del III secolo, entrarono, prima con cautela e, poi, in maniera esplicita i simboli, le personificazioni, i temi ispirati propriamente al cristianesimo. Durante tutto il III secolo, le pitture delle catacombe mostrarono una declinazione a r c h e o 83


speciale • catacombe

In alto, a sinistra: ipogeo di via Dino Compagni. Il sacrificio di Isacco. Seconda metà del IV sec. In alto, a destra: catacomba di via Anapo. Orante femminile. III-IV sec. A sinistra: catacombe di S. Callisto, cripte di Lucina. affresco del Buon Pastore, raffigurato con un secchio di latte. III sec.

84 a r c h e o

figurativa complessa, che faceva convergere i grandi temi della tradizione romana, riferibili alla vita quotidiana, ma anche alla dimensione oltremondana. La grande rivoluzione tematica, però, è rappresentata dall’introduzione delle scene bibliche, che colgono l’esito positivo della soluzione salvifica: Daniele tra i leoni, Noè nell’arca, Susanna tra i vecchioni, il sacrificio di Abramo, i fanciulli nella fornace, la storia di Giona, la resurrezione di Lazzaro, la Samaritana al pozzo, la guarigione del paralitico, il battesimo di Cristo, la moltiplicazione dei pani, Mosè che batte la rupe. Ma non mancano personificazioni e simboli che alludono in maniera allegorica al largo concetto della pace e della condizione paradisiaca, a cominciare dall’orante e dal Buon Pastore e concludendo con l’ancora, il pesce e la colomba. Tutte queste immagini rappresentano un vocabolario figurativo, a un tempo rivoluzionario e innovativo, ma anche sensibile al piú largo repertorio iconografico che caratterizza la civiltà artistica della tarda antichità.


gli apostoli di Santa Tecla A sinistra: catacomba di S. Tecla. Gli affreschi «riscoperti» nel 2009 nel cubicolo degli Apostoli. In basso: catacomba di S. Tecla. Una fase dell’intervento di restauro con il laser sul volto di san Paolo nel cubicolo degli Apostoli.

N

el tardo pomeriggio del 19 giugno del 2009, mentre i restauratori della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra stavano recuperando la decorazione pittorica di un cubicolo delle catacombe di S.Tecla sulla via Ostiense, obliterata da una inattaccabile patina nera, i lunghi e, fino a quel momento, poco fortunati lavori, furono fermati per una sensazionale scoperta. Da qualche giorno erano stati abbandonati i materiali tradizionali che avevano solo alleggerito lo strato scuro, senza però giungere alla superficie pittorica, per sperimentare, per la prima volta in catacomba, l’uso del laser. Con questo nuovo strumento, che asportava rapidamente la patina scura, si riscoprirono, finalmente, le pitture blindate da secoli, seppur intraviste sin dal Settecento e «lavate» durante gli anni Settanta del secolo scorso, con minimi impercettibili risultati. Già nella mattinata di quel venerdí estivo, nella volta del cubicolo era tornato alla luce il volto intimidente dell’apostolo Paolo, circoscritto da un clipeo giallo oro, su un intenso fondo rosso cinabro (vedi foto qui

accanto). Il viso dell’apostolo delle genti, riconoscibile dalla calvizie e dalla scura barba, impressionò i restauratori, che si sentirono osservati da uno sguardo bruciante ed estremamente espressivo, tanto che avvertirono i responsabili della Commissione, che accorsero per verificare l’importanza della scoperta.

una ricca famiglia cristiana Per ben un anno i lavori dei restauratori, che avevano raffinato l’uso del laser, interessarono l’apparato pittorico di tutto l’ambiente dipinto, che si presentava come un cubicolo dop-

a r c h e o 85


speciale • catacombe

86 a r c h e o


N

catacomba di s. tecla Opus reticulatum del I secolo Mausolei pagani Muro di recinzione e sostenimento dell’area cristiana Murature della Basilica sotterranea Muro di chiusura dell’ingresso primitivo Mausoleo cristiano addossato alla Basilica Restauri antichi della Basilica Muretti delle forme Muri di chiusura dei cameroni cimiteriali

cubicolo dipinto

In alto: pianta della catacomba di S. Tecla. Il circolo rosso evidenzia l’ubicazione del cubicolo degli Apostoli. A sinistra: il maestoso affresco del collegio apostolico, all’ingresso del cubicolo degli Apostoli. Fine del IV sec.

pio, realizzato in un’area periferica della catacomba negli ultimi anni del IV secolo. Qui una ricca famiglia cristiana volle allestire la propria tomba presso il centro cultuale di S. Tecla, una santa da identificare piuttosto con una martire romana che con la seguace dell’apostolo delle genti. L’intervento conservativo ha restituito un complesso progetto decorativo, che denuncia due fasi ben distinte. Il primo ambiente, che presentava due arcosoli e che prevedeva un intonaco di fondo chiaro, venne affrescato in maniera molto naïve in età tardo-costantiniana, con l’immagine di un Cristo maestro (foto a p. 88, in alto), una resurrezione di Lazzaro, un Daniele tra i leoni e il Buon Pastore. Di lí a poco, nell’ultimo scorcio del IV secolo, questa camera funeraria fu dotata di un ampio lucernario e fu allargata tramite l’apertura di un secondo ambiente. La porzione inferiore del lucernario fu decorata con un maestoso collegio apostolico, sistemato in un ambiente ameno attraversato dal fiume Giordano (foto alla pagina precedente). La scena, molto frequente nelle catacombe romane, costituisce un potente manifesto politico-religioso antiariano, creato seguendo lo schema aulico dell’arte imperiale, nonché del consesso filosofico e inventato, con tutta probabilità, per decorare le absidi dei primi edifici di culto. Ma le grandi soprese sono venute dal restauro del cubicolo piú interno, che, dopo il

trattamento al laser, ha mostrato una delle manifestazioni piú vivaci, festose e preziose della pittura cimiteriale romana, soprattutto per la scelta cromatica, che include il rosso cinabro e il rarissimo nero fumo, accanto al giallo oro, all’azzurrite e al verde smeraldo (foto a p. 85, in alto). Questo intenso spettro di colori dipende dall’emulazione degli arredi dei monumentali mausolei del sopratterra che costellavano le aree circostanti le necropoli sorte attorno ai santuari del suburbio romano: primo fra tutti quello dedicato a san Paolo, di impianto costantiniano, ma ampliato e ristrutturato tra la fine del IV e gli esordi del V secolo, proprio in concomitanza con la decorazione del nostro cubicolo.

a imitazione del marmo Quest’ultimo, infatti, presenta, negli spazi aniconici, festoni di frutta e di fiori popolati di volatili, ma anche riquadri di finto marmo, come per imitare le decorazioni in opus sectile del tempo, prime fra tutte quelle della domus ostiense di Porta Marina e della basilica romana di Giunio Basso. Anche il soffitto a cassettoni dipinti ricorda le coperture delle grandi basiliche del IV secolo, a cominciare da quelle del complesso di Treviri e delle aule teodoriane di Aquileia. Il cassettonato dipinto sembra emulare il soffitto prezioso ammirato dal poeta iberico Prudenzio quando visitò la basilica di S. Paolo, voluta dai tre a r c h e o 87


speciale • catacombe

In alto: catacomba di S. Tecla. Arcosolio affrescato con l’immagine del Cristo Maestro. Tarda età costantiniana. A sinistra: la volta del cubicolo degli Apostoli: al centro, il Buon Pastore; nei clipei laterali, gli apostoli Pietro, Paolo, Giovanni e Andrea.

imperatori Teodosio, Valentiniano II e Arcadio negli ultimi anni del IV secolo. Purtroppo quella basilica è stata completamente distrutta dal rovinoso incendio del 1823, ma dalle testimonianze grafiche e dalle poche porzioni pittoriche superstiti sappiamo che le pareti del santuario paolino erano interessate da cicli biblici e da una interminabile teoria di clipei, in parte ancora conservati, con le immagini dei pontefici romani.

cristo e i magnifici quattro Ebbene, anche nel complesso catacombale di S. Tecla, nella volta decorata dal finto cassettonato di cui si diceva, si incontrano cinque clipei, dei quali il centrale e piú grande accoglie l’immagine cristologica del Buon Pastore e i quattro laterali le effigi di Pietro, Paolo, Giovanni e Andrea (foto qui accanto). Se la fisionomia dei principi degli Apostoli era già definita, nota e diffusa, quella di Andrea – dal volto maturo e corrucciato –, e quella di Giovanni – giovane ed esangue – rappresentano vere e proprie novità. Essi, infatti, fecero 88 a r c h e o


una matrona tra gli apostoli

la loro comparsa, solo molto piú tardi, nell’arte musiva ravennate e, segnatamente, nell’oratorio di S. Andrea e nella basilica di S.Vitale. La scoperta degli affreschi riveste perciò un doppio motivo di interesse: da una parte appaiono, per la prima volta, i busti di ben quattro apostoli, dimostrando il crescente culto per queste figure sante; dall’altra si dà inizio alle teorie apostoliche, incluse entro il segno antico, ma simbolico, del clipeo, il cui significato apoteotico conferí a queste immagini una potenza esponenziale, capace di attrarre culti e devozione.

Nelle pareti del cubicolo degli Apostoli, nel cimitero di S. Tecla, sfilano le tradizionali scene bibliche: dalla storia di Giona all’adorazione dei Magi, dalla condanna di Daniele ad bestias al prodigio della fonte provocato da Pietro nel carcere Tullianum per i suoi carcerieri (foto qui accanto), ispirato agli scritti apocrifi, sino al classico sacrificio di Isacco. Nell’arcosolio destro, infine, nonostante il cattivo stato di conservazione, si riconosce la rappresentazione della defunta, che si presenta sontuosamente abbigliata e ingioiellata, in compagnia della giovane figlia in atteggiamento di orante, tra i principi degli Apostoli (foto in basso). Il rango e il potenziale economico, che appartengono all’anonima matrona romana per la quale fu commissionato il doppio cubicolo dipinto, ci accompagnano verso l’aristocrazia romana della fine del IV secolo e, in particolare, verso quel gruppo di signore romane, che, proprio in quel frangente, inaugurarono nell’Urbe una forma di «ascetismo domestico». Queste matrone della «Roma bene», in particolar modo vedove e vergini, formarono una specie di «circolo culturale» e cultuale nei sontuosi palazzi dell’Aventino, dove si dedicano allo studio dei Sacri Testi e da dove si dirigono, ispirate da san Girolamo, verso la Terra Santa, per conoscere i luoghi evocati dalla Bibbia, ma anche i luoghi degli Apostoli. Per questo, presumibilmente, la matrona di S. Tecla vuole che si rappresentino nel suo cubicolo le immagini di quattro apostoli, che assurgono a suoi protettori e che traducono in figura una devozione apostolica, che aveva avuto avvio con la basilica che Costantino fece costruire e dedicò agli Apostoli a Costantinopoli. Questo ultimo santuario, a pianta cruciforme, accolse, oltre alle reliquie apostoliche, anche il corpo dell’imperatore e divenne modello per altri edifici di culto sparsi nel mondo cristiano antico, a cominciare dalla basilica Apostolorum, pur essa a pianta cruciforme, voluta a Milano da sant’Ambrogio.

In alto: cubicolo degli Apostoli. Pittura della parete di accesso, raffigurante la scena del Miracolo della fonte, con san Pietro che fa scaturire l’acqua mentre un milite si disseta. A destra: l’arcosolio destro del cubicolo con rappresentata la defunta (un’anonima matrona) in compagnia della figlia, tra Pietro e Paolo.

a r c h e o 89


speciale • catacombe

filosofo

abramo

defunta

piagnona

Ipogeo egli Aureli

Catacombe di Priscilla

Catacombe di Priscilla

Catacomba dei Giordani

A

B

C

D

Ritratti e fisionomie nella «pittura della penombra» Il ritratto della matrona di S. Tecla introduce un argomento affiorato in questi ultimi anni. Gli iconografi del passato erano cosí impegnati a comprendere i significati simbolici delle singole scene da porre pochissima attenzione agli aspetti stilistici di questa «pittura nel buio», realizzata rapidamente e poco sensibile alle coordinate figurative emergenti nelle diverse stagioni della pittura catacombale. Eppure, a un esame analitico, sono ben evidenti i tracciati figurativi di questa particolare produzione artistica, tanto che le evidenze formali possono assurgere a veri e propri indicatori cronologici. È evidente, per esempio, l’armonia che connota la pittura del III secolo e, dunque, gli affreschi della prima età delle catacombe romane. Le espressioni piú significative di questo primo segmento dell’arte dei Severi provengono dalle fisionomie e dai ritratti e, in particolare, dai volti di alcuni personaggi defunti nell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, su cui torneremo (vedi alle pp. 92-95) e che non può essere considerato un monumento cristiano. Il volto di uno di questi personaggi è diventato un emblema del III secolo, quasi per tradurre in figura un tempo di crisi economica, politica e spirituale (A). L’espressione pensosa di questo personaggio fece ipotizzare, in passato, che nella figura doveva essere riconosciuta la complessa personalità di san Paolo. L’uomo è anziano, con calvizie incipiente e barba incolta, ma tutta l’intenzione espressiva, che oscilla tra l’atteggiamento patetico e quello ispirato, quasi pneumatico, si concentra in quello sguardo inquieto, obliquo, puntato verso un luogo lontano e indefinito. Quegli occhi, quasi dolenti, sono il fuoco di una serie di

90 a r c h e o

pennellate che creano linee concentriche, come per sottolineare, con lumeggiature chiare, quello sguardo concentrato e volitivo. La composizione sapiente di questo volto rivela l’attività di pittori estremamente disinvolti e sapienti, che adattano la loro tecnica rapida e sicura nell’habitat particolare e difficile delle catacombe, dove si inaugura un’inedita «pittura della penombra». Questo primo segmento dell’arte delle catacombe, che, dal tempo dei Severi giunge all’impero di Gallieno, propone volti coerenti nell’espressione e nelle fisionomie. Talora, tali realizzazioni provengono da una scomposizione della pittura, approdando a una sorta di divisionismo cromatico, che si apprezza e ricompone proprio con la luce tremula delle lucerne. È questo il caso dei volti della decorazione pittorica del cubicolo della Velata nella catacomba di Priscilla e, segnatamente, del viso di Abramo nella scena del sacrificio di Isacco (B). L’anziano patriarca mostra un’espressione addolorata e compresa, attraverso un gioco sapiente di sovraccoloriture che segnano, con tratti incisivi e forti, il carnacino di fondo per mezzo della calce candida. Nello stesso complesso troviamo i volti della defunta (C), colta in tre momenti del suo percorso terreno, con i tratti, la fisionomia, l’espressione e lo sguardo delle dame di corte del tempo di Gallieno. Quiete e tensione si intrecciano, pacatezza e spiritualità interagiscono, dando luogo a volti tesi e intensi, a espressioni contenute, ma pronte ad aprirsi verso un ragionamento religioso, che sfocia nel pensiero cristiano. Passa il tempo e i ritratti diventano piú forti, sino a raggiungere i livelli alti, quasi imbarazzanti


severa

primenio

figlio

Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

Catacomba dell’ex Vigna Chiaraviglio

E

F

G

dell’espressionismo. Siamo al tempo dei Costantinidi e i defunti mostrano espressioni tirate, occhi maggiorati, dal taglio obliquo, rughe d’atteggiamento profonde, acconciature ricche e turrite, sontuose, quasi volgari. In questo senso vanno considerate le «piagnone» del cimitero dei Giordani (D) e la Severina dell’ex Vigna Chiaraviglio (E). Quest’ultima defunta, rappresentata nello scorcio del IV secolo, mostra una folta acconciatura «cotonata» e azzurrina, per attutire la canizie. Nello stesso contesto, il marito (F) e il figlio (G) presentano ovali allungati ed espressioni languide, quasi per emulare i ritratti ufficiali del tempo di Teodosio. Ma torniamo alla matura età costantiniana e all’ipogeo di via Dino Compagni, che conserva una vera e propria galleria di ritratti e fisionomie di varia ispirazione e diversa tipologia. Da una parte, apprezziamo lo sguardo ispirato della fanciulla

H

I

dall’acconciatura a melone (H), dall’altra intercettiamo il volto glabro e la corta acconciatura del Cristo (I) a colloquio con la Samaritana al pozzo, che ricordano, l’uno e l’altra, i ritratti ufficiali dei Costantinidi. Da un lato, rimaniamo sorpresi dall’ovale della personificazione della Tellus (L), un tempo considerata Cleopatra, con gli occhi bistrati e l’espressione fissa, come i ritratti africani del Fayyum, dall’altro spunta il volto severo e graffiante di Sansone (M) che uccide i Filistei, con uno sguardo funesto e icastico, che sembra preparare le effigi intimidenti delle icone. Nei labirinti delle catacombe, dunque, si accendono sguardi ed espressioni d’epoca, che, imitando i ritratti imperiali, ma anche le fisionomie private, propongono un ricco spettro di volti e atteggiamenti, i quali esprimono sentimenti e storie di un’epoca travagliata, complessa, tesa verso una dimensione altra, lontana, indefinita.

L

M

defunta

cristo

tellus

sansone

Ipogeo di via Dino Compagni

Ipogeo di via Dino Compagni

Ipogeo di via Dino Compagni

Ipogeo di via Dino Compagni


speciale • catacombe

L’ipogeo degli Aureli

O

ramai convinti e soddisfatti dall’uso del laser nel restauro delle pitture delle catacombe, i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra presero coraggio e utilizzarono la nuova tecnica anche per perfezionare restauri già conclusi o, comunque, considerati tali, dal momento che non si era osato procedere, con i metodi tradizionali, oltre un certo livello di abbassamento dello spessore delle patine coprenti. Cosí, in occasione di una riconsiderazione globale dell’ipogeo degli Aureli in viale Manzoni, intrapresa per ripristinare la copertura dell’ambiente soprastante (oramai fatiscente) e per regolarizzare il microclima (le cui variazioni avevano molto compromesso lo stato di conservazione degli apparati pittorici), si pensò di rifinire, con il laser, il restauro della parete del cubicolo ipogeo, che accoglieva la cosiddetta «scena omerica». Anche in questo caso, l’intervento, assai circoscritto, ha riservato una scoperta importante, che forniva una prova sostanziale a una ipotesi di lettura recente, ma anche a una interpretazione larga dell’intero programma decorativo.

una duplice interpretazione Scoperto nei primi anni del Novecento, mentre si costruiva un garage della Fiat nel settore nord-orientale della città, l’ipogeo fu creato entro la cinta aureliana e, dunque, prima del 270. Il monumento funerario, appartenente agli Aureli – come suggerisce esplicitamente l’apparato epigrafico – si compone di tre ambienti e presenta tutte le caratteristiche dell’ipogeo di diritto privato. Il primo cubicolo presenta coppie di filosofi entro strutture architettoniche e due scene interpretate come pagane (Eracle nel giardino delle Esperidi e Prometeo che plasma l’uomo) o come cristiane (Adamo ed Eva e la creazione dei protoparenti). Ma il dibattito iconografico, che vide come primi protagonisti Joseph Wilpert e Orazio Marucchi, e che coinvolse numerosi stu92 a r c h e o


N

A sinistra: pianta dell’ipogeo degli Aureli. Nella pagina accanto: il primo ambiente dell’ipogeo degli Aureli, con il mosaico che reca il nome dei proprietari.

Affreschi del primo ambiente dell’ipogeo degli Aureli: qui sopra, scena di prothesis (esposizione) dei fratelli defunti di Aurelia; qui sotto, scena omerica: i compagni di Ulisse recuperano le sembianze umane e il colloquio tra l’eroe e Circe.

a r c h e o 93


speciale • catacombe

I cubicoli B e C dell’ipogeo di via Dino Compagni, decorato con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento. Il complesso, databile al IV sec., appartiene alla categoria degli ipogei di diritto privato.

94 a r c h e o


diosi sino ai nostri giorni, portò verso il versante eretico, gnostico e sincretico. Oggi si pensa che il programma decorativo segua vari filoni tematici, che oscillano tra le grandi rappresentazioni dionisiache, cosmiche, filosofiche e bucoliche e l’iconografia ispirata alla vita reale del dominus in villa o nella città. Gli Aureli (i tre defunti Onesimo, Papirio e Prima e il dedicante Felicissimo) vengono rappresentati come pastori-intellettuali, come cavalieri che entrano in una enorme villa rustica, come retori, che parlano in un foro, come beati che vagano in un grande giardino o che banchettano.

la disperazione di Aurelia Tutto l’articolato programma, costellato di figure filosofiche disposte in teorie, in gruppi o anche in maniera isolata, munite di verghe e rotoli, cifre della sapienza, sfocia in una singolare scena di prothesis (esposizione), che vede Aurelia Prima sconvolta, con i capelli sciolti, che compiange i due fratelli sistemati sul letto funebre dinanzi all’ipogeo, all’interno di un recinto funera-

rio (foto a p. 93, in alto). Questa scena, svelata nella sua completezza dal laser, presenta un grande armento di animali esotici, mentre sullo sfondo si riconosce la grande villa o la stessa città di Roma. Nel registro inferiore, laddove era stata già riconosciuta una scena omerica, ovvero l’episodio di Ulisse che torna a Itaca e incontra Penelope tra i Proci, si può invece ben vedere un’altra storia di Ulisse, evocata nel X canto dell’Odissea. Ecco, allora, che Ulisse viene rappresentato dinanzi a Circe, mentre i compagni, trasformati per magia in maiali, tornano ad assumere le sembianze umane (foto a p. 93, in basso). Il programma decorativo, estremamente composito, alla luce dei recentissimi restauri, mostra tutte le facce del prisma semantico elaborato da un volitivo gruppo di liberti, che si autorappresenta secondo la cultura funeraria del tempo e che, senza dimenticare gli antichi argomenti della tradizione, propone i nuovi filoni iconografici della filosofia, della condizione beata, che si intreccia con la quiete e l’ozio della vita degli aristocratici in villa.

tradizioni aristocratiche e principi egualitari L’ipogeo degli Aureli si propone come un esempio emblematico del sistema funerario di diritto privato, cosí come si configura nella tarda antichità. Queste piccole realtà funerarie ipogee, riferibili a singole unità familiari o a gruppi appena allargati, costituiscono spesso i nuclei genetici delle grandi catacombe comunitarie, come succede con l’ipogeo degli Acilii nella catacomba di Priscilla o con l’ipogeo dei Flavii nel complesso di Domitilla. Tra gli ipogei di diritto privato e le catacombe comunitarie emergono differenze intuitive, nel senso che i sistemi privati mostrano caratteri e tipologie funerarie ancora legate alla tradizione aristocratica pagana, mentre i complessi comunitari mettono in pratica quella legge dell’uguaglianza delle sepolture e del concetto dell’abbraccio largo di tutta la comunità, che rappresentano la vera rivoluzione dell’ideologia funeraria cristiana. Queste differenze rimbalzano sulle caratteristiche architettoniche e decorative. Gli ipogei di diritto privato mostrano piccole estensioni, architettura negativa articolata, apparati decorativi originali e piú liberi nella selezione dei temi, che tengono conto delle esigenze della committenza e degli artifices. Le catacombe comunitarie sviluppano – come detto – grandi aree interessate da casellari quasi anonimi di loculi, con poche eccezioni monumentali. Le decorazioni sembrano rispondere alle esigenze della gerarchia, che gestisce il cimitero e che apre presto le porte al repertorio biblico, simbolico e salvifico. Gli ipogei di diritto privato non vogliono sempre esprimere una fase antica e genetica rispetto alle catacombe comunitarie e anzi, ancora nella seconda metà del IV secolo, l’ipogeo di via Dino Compagni sulla via Latina (vedi foto qui accanto) dimostra come un ipogeo privato, seppure presumibilmente riferibile a un gruppo di famiglie, propone ancora tutti i caratteri tipologici, architettonici e decorativi di questa tipologia funeraria. Ma questo ipogeo racconta una storia piú complessa, ovvero il travaglio e la laboriosità della conversione degli ultimi pagani: i vari cubicoli sono decorati con cicli veterotestamentari, scene del Nuovo Testamento, storie di eroi pagani, miti e contesti cosmici. Tutto questo suggerisce un’atmosfera di grande tolleranza (che ancora si «respira» nell’ipogeo), forse riferibile, nella sua genesi e nel primo sviluppo, al tempo che vede il revival pagano di Giuliano l’Apostata.

a r c h e o 95


speciale • catacombe

il ritorno di Lazzaro

P

roprio negli ultimi mesi del 2013, i tecnici della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, mentre allestivano il museo dei marmi nella basilica di S. Silvestro, soprastante le catacombe di Priscilla, si proposero di restaurare un cubicolo dipinto nell’area cosiddetta di Crescenzione, non lontano dalla basilica che accoglieva le spoglie del pontefice Silvestro, vissuto al tempo di Costantino. Il cubicolo era completamente ricoperto da una spessa patina nera, che solo l’uso del laser riuscí ad aggredire. In pochi mesi tornarono alla luce alcune suggestive pitture riferibili agli ultimi anni del IV secolo, che testimoniavano il culto per i martiri Felice e Filippo, seppelliti proprio nella basilica, presso i sepolcri pontifici. Sulla parete di ingresso è oggi evidente una maestosa resurrezione di Lazzaro, già intravista da Joseph Wilpert, che la aggredí con energici lavaggi, danneggiandola, senza riuscire ad arrivare alle pellicole pittoriche (foto nella pagina accanto). Ma le vere novità sono venute dalla volta, dove, con colori vivaci, assai prossimi a quelli del cubicolo di S. Tecla, si riconosce, al centro, un clipeo campito da una matrona velata e orante. Ai suoi lati, si riconoscono i principi degli Apostoli, un fanciullo e una fanciulla, sontuosamente vestiti e anch’essi oranti, e due figure maschili in tunica e pallio chiari, da riconoscere con i santi Felice e Filippo (foto in alto, sulle due pagine). A questi due martiri il papa Damaso (366-384) dedicò un solenne epigramma inciso, oggi perduto. I due santi, nel tempo, entrarono nel gruppo 96 a r c h e o

agiografico di Felicita e dei suoi sette figli, ispirato alla storia dei Maccabei. La defunta, sepolta nel cubicolo di Lazzaro insieme ai figli, scelse come santi protettori, oltre ai principi degli Apostoli, i due martiri. Essa, però, sembra rispettare anche l’altro martire sepolto nella regione, quel Crescenzione ucciso durante la persecuzione dioclezianea e deposto non lontano dal nostro cubicolo dipinto.

Qui sopra: una galleria con loculi delle catacombe di Priscilla.


In alto, sulle due pagine: catacombe di Priscilla, cubicolo di Lazzaro. La volta affrescata, con un clipeo centrale rappresentante la defunta, velata e orante, attorniata da oranti e santi. A sinistra: parete d’ingresso del cubicolo, con raffigurata la scena della resurrezione di Lazzaro.

a r c h e o 97


speciale • catacombe

I restauri che verranno

I

l rivoluzionario uso del laser, assai costoso e comunque ancora da perfezionare e da adottare solo in quei casi in cui il microclima, la gamma cromatica delle pitture e lo stato di conservazione lo permettano, ha cambiato sicuramente le abitudini dei restauratori degli affreschi catacombali. E mentre alcuni altri cubicoli, come quello dei fornai a Domitilla (foto in basso, sulle due pagine), quello del filosofo del cimitero Maggiore e alcuni ambienti del complesso dei Ss. Pietro e Marcellino sono tornati a splendere, offrendoci una lettura nitida e sorprendente, le idee dei conservatori della Commissione non si arrestano, alla ricerca di nuovi metodi e di nuove prassi per la conservazione nella lunga durata.

98 a r c h e o

Intanto, si procede anche con i materiali tradizionali: con il solo bisturi è stato recuperato lo splendido affresco di Cerula nelle catacombe di S. Gennaro a Napoli (foto nella pagina accanto, a sinistra). La defunta, avvolta in un manto damascato di tipo copto, allarga le braccia nella preghiera continua tra i volumi dei Vangeli, mentre un’enorme immagine di san Paolo sembra sovrintendere alla scena, avvolto dalla tunica e dal pallio, insignito della lettera I, iniziale di Iesus (foto nella pagina accanto, a destra). Pare emblematico che la figura di Paolo, l’apostolo della conversione, l’enfant terrible del primo cristianesimo, ci abbia accompagnato durante la lunga, interminabile operazione dei conservatori, che non si stancano di intercettare le


immagini sincere e paradigmatiche di una comunità, che cerca e ricerca i segni e i motivi della nuova religione. Una religione che si diffonde, in maniera esponenziale, nei primi secoli della nostra era, proprio in questi contenitori della morte, dove spuntano e si accendono tante coloratissime pitture dal buio. In alto, a sinistra: Napoli, catacombe di S. Gennaro. L’arcosolio di Cerula, con la defunta come orante tra due santi, di cui si riconosce san Paolo (particolare qui sopra). A sinistra, sulle due pagine: catacombe di Domitilla. Il cubicolo dei Pistores, corporazione di fornai.

per saperne di piÚ • Barbara Mazzei (a cura di), Il cubicolo degli apostoli nelle catacombe romane di Santa Tecla. Cronaca di una scoperta, Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, Città del Vaticano 2010 • Fabrizio Bisconti, Le pitture delle catacombe romane. Restauri ed interpretazioni, Tau Editrice, Todi 2011 • Fabrizio. Bisconti (a cura di), L’ipogeo degli Aureli in Viale Manzoni. Restauri, tutela, valorizzazione e aggiornamenti interpretativi, Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, Città del Vaticano 2011 • Fabrizio Bisconti, Primi cristiani. Le storie, i monumenti, le figure, prefazione di G. Ravasi, Libreria Editricie Vaticana, Città del Vaticano 2013 • Fabrizio Bisconti, Raffaella Giuliani, Barbara Mazzei, La catacomba di Priscilla. Il complesso, i restauri, il museo, Tau Editrice, Todi 2013 a r c h e o 99


antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

amor sacro e amor profano il mese di aprile riservava ai romani un’autentica girandola di feste. celebrazioni di vario tipo, che, dalle cerimonie legate alla pastorizia, arrivavano a comprendere perfino battute di caccia a... capre e conigli e finti combattimenti di gladiatori!

L

a festa dedicata al Natalis Urbis – la nascita della Città – era certamente la piú significativa e importante tra quelle del mese di aprile. Dedicata a Pales, la dea della pastorizia – donde il nome di Palilia (o Parilia) – si celebrava il giorno 21 e comportava riti di purificazione, degli uomini, delle greggi, degli ovili, accompagnati da preghiere e offerte, come focacce di miglio e latte, poi consumate dagli stessi offerenti. L’officiante, volto verso oriente, pregava quattro volte la dea, affinché tenesse lontani i lupi e le malattie delle greggi, favorisse i parti delle pecore e la produzione di latte e di lana. Poi si lavava le mani con la rugiada e beveva latte e vino caldo. Infine saltava su un fuoco di legna resinosa sul quale si bruciava zolfo con l’aggiunta di rami d’alloro che producevano uno scoppiettio ritenuto di buon auspicio. Di feste però ve ne erano molte altre nel mese. Come quella dei Fordicidia, il giorno 15, che prendeva nome dalle mucche gravide (fordae) che venivano

100 a r c h e o

uccise e offerte nel Tempio di Giove sul Campidoglio, mentre le interiora dei loro feti, bruciate e ridotte in ceneri, venivano poi conservate dalle Vestali e, qualche giorno dopo, impiegate nelle offerte a Pales. O come quella dei Cerialia, il giorno 19, riservata alle donne che, vestite di bianco, si recavano al tempio di Cerere, presso il Circo Massimo e vi «rappresentavano» la scomparsa e il ritrovamento di Proserpina, la figlia della dea greca Demetra con la quale Cerere era stata identificata. O come quella dei Robigalia, del giorno 25, quando si offrivano sacrifici e preghiere a una divinità di sesso incerto, Robigus o Robigo, perché tenesse lontano dai cereali la malattia ancora oggi chiamata «ruggine».

la dea «straniera» Due erano tuttavia le feste piú attese e gradite. Una – che potremmo definire «di categoria», come ve n’erano diverse nel calendario romano – era quella delle prostitute. Si celebrava il giorno 23, detto dies meretricum («il giorno delle meretrici»), che era quello anniversario della dedica, a Roma, di un tempio in onore di Venere chiamata Ericina. Si trattava infatti di una replica di quello che si trovava in Sicilia, sul Monte di Erice, famoso per la pratica della prostituzione sacra che in esso aveva luogo. In quanto dedicato a una divinità «straniera», il tempio romano sorgeva fuori del pomerio e delle mura urbane, al di là della

Porta Collina, e, sullo scorcio del I secolo a.C., finí col ritrovarsi all’interno della grande villa che, tra Quirinale e Pincio, s’era fatto sistemare lo storico Sallustio (è probabile che a esso appartenesse, addirittura come parte del simulacro di culto, il celebre altorilievo marmoreo con la nascita di Venere, noto come Trono Ludovisi, oggi nel Museo Nazionale Romano). Per esso non abbiamo però alcuna notizia di prostituzione sacra. Ovidio, invece, ne parla (Fasti IV, 865 segg.) come della meta delle prostitute nel giorno a esse riservato. Esse vi si recavano in processione indossando la vestis meretricia, l’abito «professionale» che erano tenute ad avere in pubblico (una tunica senza bordo e un mantello di colore scuro) e, giunte al luogo sacro, dopo aver omaggiato il simulacro della dea con corone di mirto e di rose, lasciavano doni generosi accompagnati da preghiere con le quali imploravano la propria protettrice perché vegliasse sulla loro professione, mantenendole il piú a lungo possibile attraenti e... in forma. È appena il caso di dire come il singolare pellegrinaggio richiamasse una gran folla maschile, e come, al riparo delle motivazioni religiose, si procedesse a incontri e contrattazioni che finivano col rendere la circostanza una sorta di fiera del sesso. È possibile che, col tempo, la festa sia stata unificata con i Veneralia, che, alle calende dello stesso mese di aprile, erano


dedicati sempre a Venere, ma a quella che sant’Agostino (nella Città di Dio, IV,10) definiva «onesta» (o, dell’amore coniugale) in contrapposizione all’altra, «disonesta» (o, dell’amore meretricio). Lo stesso Agostino cosí descrive, per conoscenza diretta, le cerimonie congiunte che si compivano allora in onore di entrambe (nella traduzione di Flavio Biondo, in Roma trionfante I,37): «Avanti al tempio dov’era il simulacro della dea si faceva un gran concorso di popolo per vedere intensissimamente i giochi che vi avevano a fare e dall’un canto, si vedeva la pompa delle meretrici, dall’altro, quella delle vergini, e in medesimo tempo si adorava con tanta umiltà e reverenza la dea e se le celebravano davanti sporchi e disonesti giochi. Perciocché ivi si poteva ogni maniera di disonestà vedere, non meno che in una libera e sfacciata scena: essi ben sapevano quello che sarebbe a una Dea vergine piaciuto, e nondimeno operavano tali atti e parole che le buone e caste donne se ne tornavano poi a casa troppo ben dotte e istruite di quello che meno a loro onestà si confaceva».

tra dovere e piacere

In alto: Flora come personificazione della Primavera, affresco dalla Villa Arianna di Stabia. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: la festa dei Veneralia, con danzatori coronati di rose che tengono in mano candele e crotali, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

Era, insomma, la festa – unificata – dell’amor sacro e dell’amor profano e lo stesso Ovidio parla di Venere come della «madre dei due amori» distinguendo l’amore coniugale, volto alla procreazione, da quello meretricio, volto al piacere. Peraltro, l’appellativo col quale la dea era invocata nella festa, era quello di Verticordia, cioè di «colei che volge i cuori», da intendere probabilmente come colei che li convince alla riproduzione piuttosto che al godimento. All’origine di questo aspetto particolare del culto ci sarebbe stato un sacrilegio compiuto dalle Vestali in espiazione del quale i Libri Sibillini avrebbero prescritto la costruzione di un tempio alla dea che avrebbe dovuto cosí cambiare il cuore delle

a r c h e o 101


romane. E la dedica fu eseguita, nel 216 a.C., da una matrona di nome Sulpicia, da tutti considerata a quel tempo la donna piú casta di Roma. A complicare – o a rendere piú complesse – le cose, va detto che, sempre in occasione della festa per Venere, s’invocava anche la Fortuna Virile, alla quale il solito Ovidio, rivolgendosi alle donne, suggeriva di offrire incenso per ottenerne in cambio la dissimulazione dei propri difetti fisici, difficili da nascondere per quelle che, in quella circostanza, facevano «per devozione» il bagno nelle terme insieme agli uomini. E che, indossando corone di mirto, si denudavano anche «quella parte del corpo per la quale è sommamente desiderata dagli uomini la compiacenza delle donne». L’altra festa particolare del mese d’aprile era quella dei Floralia che si celebrava il 28 del mese in onore di Flora. Il giorno era noto come quello della nudatio mimarum, L’altorilievo noto come Trono Ludovisi. V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.

ossia dello «spogliarello delle attrici». Trattandosi di festeggiare il risveglio primaverile della natura, l’atmosfera generale era di grande allegria e di libertà, fino alla licenza. D’altronde, Flora, come assicura Ovidio (Fasti V, 331 segg.) «non è divinità severa: i suoi doni spingono al piacere ed essa stessa incita a godere dell’età finché questa è nel fiore».

parodie dei giochi La festa durava in origine tre giorni, ma in età imperiale, con l’aggiunta di rappresentazioni teatrali, s’arrivava fino al 3 maggio. Si celebrava con speciali «giochi» (o ludi) che si svolgevano nel Circo Massimo presso il quale, ai piedi dell’Aventino, sorgeva il tempio che in onore della dea era stato costruito, nel 238 a.C., col ricavato delle multe inflitte per l’usurpazione di terreno pubblico. I «giochi», in realtà, erano vere e proprie parodie dei ludi circensi, con cacce ad animali domestici, come capre e conigli, e finti combattimenti di gladiatori. A conclusione – come riferisce

ancora Ovidio (IV, 946) – aveva luogo lo «spogliarello» collettivo delle attrici e delle prostitute (peraltro accomunate nella reputazione ed equiparate nello status sociale) le quali, peraltro, erano già state, in prevalenza, le protagoniste dei «giochi». Gli spettatori – che indossavano vesti dei piú diversi colori, a imitazione dei fiori – le invocavano con grandi cori accompagnati da lazzi e sberleffi come non è difficile immaginare. Singolare, al riguardo, l’episodio raccontato da Valerio Massimo (Mem. II, 10, 8) e citato anche da Seneca (97, 8) che riguarda Catone il Censore, la cui riconosciuta presenza sulle gradinate del Circo durante una di queste feste tratteneva il popolo dalla consueta richiesta. Fino a che l’austero moralista, che aveva addirittura scritto un libro contro la licenziosità delle Feriae Floraliciae, avvisato dell’imbarazzo del pubblico dall’amico Favonio che gli sedeva accanto, non si decise ad andarsene, calorosamente applaudito, perché la tradizione non s’interrompesse.



scavare il medioevo Andrea Augenti

tutto cominciò a Castelseprio C

astelseprio è uno dei luoghi fondativi dell’archeologia medievale italiana. Qui, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, Gian Piero Bognetti (uno storico del diritto particolarmente interessato all’archeologia) affida a un’équipe di studiosi polacchi la conduzione di uno scavo. Da poco tempo erano venute alla luce, sotto uno strato di intonaco, le pitture altomedievali della chiesa di S. Maria foris portas, e Bognetti era intenzionato a indagare l’età longobarda attraverso le ricerche in questo sito. Le fonti scritte per quel periodo, poche e già ben conosciute, mostravano il fianco: la parola passava all’archeologia, l’unica in grado di fornire nuove informazioni di prima mano.

le ultime scoperte Da allora gli scavi e le ricerche si sono moltiplicati a Castelseprio e oggi ne sappiamo molto di piú rispetto a cinquant’anni fa, quando Bognetti iniziò a spingere sul pedale dell’archeologia (i risultati

il sito lombardo è la culla dell’archeologia medievale italiana. ma, ancora oggi, le indagini cercano di ricostruire la sua esatta vicenda storica

s. maria foris portas

Qui accanto: pianta dell’area archeologica di Castelseprio. In basso, a sinistra: la chiesa di S. Maria foris portas.

borgo

castrum monastero di torba

delle indagini piú recenti sono stati pubblicati in un volume curato da Paola Marina De Marchi, Castelseprio e Torba: sintesi delle ricerche e aggiornamenti, SAP, Mantova 2013). Ma che tipo di insediamento è Castelseprio? L’agglomerato nasce come una fortezza dalle dimensioni piuttosto grandi, nel territorio di Varese, a guardia della valle del

Qui sopra: S. Maria foris portas. Affresco con la presentazione di Gesú al tempio. Databili tra il VI e il IX sec., le pitture furono riscoperte nel 1944.


In alto: la chiesa di S. Paolo, eretta tra l’XI e il XII sec. In basso: i resti dell’abside della basilica di S. Giovanni. VI-VII sec. fiume Olona e delle strade che la attraversano. Il primo impianto dell’abitato risale al V secolo, quando forse vengono dapprima costruite tre torri di avvistamento e poi la cinta difensiva (ma questo punto non è ancora chiaro, e forse torri e cinta risalgono alla stessa epoca). Nell’area murata, oltre alle numerose abitazioni scavate finora, trovano posto vari monumenti, alcuni dei quali di notevoli dimensioni; è il caso della basilica di S. Giovanni, un’aula a tre navate con un battistero annesso. Poi abbiamo la basilica di S. Paolo, un edificio a pianta esagonale sulla cui datazione non è ancora stato messo un punto fermo. Molto piú a est, sul limite dell’abitato, si trova il monastero di Torba, che si articolava intorno alla chiesa di S. Maria e in una torre della cinta della fortezza, nella quale ancora oggi è possibile ammirare affreschi del IX secolo. E poi c’è la chiesa di S. Maria foris portas, riccamente affrescata e da sempre al centro di un enigma che

riguarda la sua datazione e – di conseguenza – il contesto storico di appartenenza.

questioni irrisolte Archeologi e storici dell’arte hanno dibattuto a lungo su questo punto: è una chiesa tardo-antica o altomedievale? Per alcuni la datazione oscillerebbe in un arco di tempo pari a circa cinque secoli. Scavi recenti hanno portato alla luce alcuni indizi che la vorrebbero pienamente altomedievale, databile al IX secolo. Se cosí fosse, la chiesa, nata al di fuori delle mura

del castello, sarebbe la testimonianza di una sua espansione nell’Alto Medioevo: e quindi di una crescita demografica, e di importanza dell’insediamento stesso. Ma le recenti indagini di Gian Pietro Brogiolo, basate sul riesame dei caratteri architettonici, sulle analisi stratigrafiche delle murature e su datazioni al 14C di alcune travi e campioni di malta, sembrano rimettere in discussione il tutto; e S. Maria foris portas, al momento, è in bilico tra due possibilità: una datazione alla metà del VI secolo oppure al IX-X. L’enigma resta per ora irrisolto. Sia pure con tutte queste incertezze, qual è, dunque, la storia di Castelseprio? In poche parole, si tratta di una fortificazione nata in età gota per presidiare la zona circostante; ma una fortificazione particolare, ampia e concepita per esercitare un controllo sulla popolazione anche dal punto di vista religioso (come dimostra la presenza del battistero di S. Giovanni). E poi, nel corso del tempo, l’insediamento ha fortuna, anche grazie alla sua posizione particolarmente favorevole, e si espande; si dota di nuovi monumenti, e tutti i resti archeologici finora trovati ci parlano di un luogo florido, che sappiamo governato da un conte in età carolingia: un centro importante, che amministra un ampia porzione di territorio. A cavallo dell’anno Mille e nei secoli seguenti Castelseprio divenne cosí importante da impensierire il Comune di Milano, che nel 1287 provvide a radere al suolo con il suo esercito questo pericoloso concorrente. Una storia finita male, quindi. Oggi tutto questo lo si può vedere in uno splendido parco archeologico, dove natura e cultura si fondono nel migliore dei modi. Ma c’è ancora molto da fare a Castelseprio, e la sensazione è che questa fortezza non smetterà mai di essere un luogo centrale per l’archeologia medievale italiana.

a r c h e o 105


l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

meraviglie prenestine Le opere idrauliche dell’antica Palestrina svelano i loro segreti e arricchiscono la conoscenza della storia dell’architettura e dell’ingegneria idraulica romana. novità importanti, che coinvolgono anche il celebre tempio della Fortuna Primigenia…

A

nni fa, Vittorio Castellani, uno dei massimi esperti di cavità artificiali e sistemi idrici, prematuramente scomparso nel 2006, affermò la fondamentale importanza dell’investigazione di tutte le strutture ipogee artificiali presenti in un territorio, indispensabili per comprendere compiutamente la «civiltà dell’acqua». Molte di esse, infatti, come abbiamo visto in piú d’una puntata di questa rubrica, sono legate alla captazione, al trasporto o alla conservazione delle risorse idriche, fondamentali in ogni epoca per la nascita e il sostentamento di ogni insediamento e attività umana. Proprio dalle indagini avviate da questo studioso sono scaturite le piú recenti esplorazioni del Centro Ricerche Sotterranee Egeria nel territorio di Castel San Pietro Romano, in provincia di Roma, ben noto per l’esistenza dell’importante acquedotto della Cannucceta.

tre acquedotti per una città L’avvio del progetto prese avvio a seguito dell’individuazione di altri resti di nuovi acquedotti che risultavano afferibili, per quote e direzioni, all’antica Praeneste (oggi Palestrina) e al suo grande tempio della Fortuna Primigenia. In effetti, le investigazioni estese a un vasto ambito dei Monti Pozzo di accesso all’acquedotto del Formale di Castel San Pietro (Roma).

106 a r c h e o


Due immagini dell’acquedotto La Fonte in località Marcigliana (Palestrina, Roma). Prenestini hanno permesso di ampliare il censimento dei resti delle antiche opere idrauliche presenti nell’area, ed è stato possibile ipotizzare i tracciati di altri tre acquedotti al servizio dell’odierna città di Palestrina, due dei quali verosimilmente connessi proprio all’importante struttura templare. Oltre alle molteplici ricognizioni sul territorio, informazioni sono giunte dalla «rilettura» di antiche fonti storiche di Praeneste, con particolare attenzione ad alcuni autori classici e dei secoli XVI e XVIII. La valutazione di alcune citazioni del poeta romano Stazio, dell’erudito rinascimentale Francesco Alighieri, dello storico prenestino Pietrantonio Petrini e l’esame dei disegni dell’architetto Andrea Palladio, hanno favorito la nuova ipotesi ricostruttiva della tholos sommitale del tempio della Fortuna Primigenia. I risultati delle ricerche, ora editi in

un bel volume di Luigi Casciotti, (Gli acquedotti di Praeneste. Nuove ipotesi sul tempio della Fortuna Primigenia, Argalia Editore, Urbino 2013), hanno consentito di portare ulteriori dati sulle tecniche ipogee d’ingegneria idraulica, che portarono all’esecuzione di opere complesse. Opere che richiesero in taluni casi ben quindici anni di lavoro, con un impiego di oltre 30 000 uomini, come in alcuni acquedotti di Roma scavati in sotterraneo per un’estensione che superò gli 80 km, o come nello straordinario emissario Claudiano del Fucino, con pozzi e discenderie, necessari allo scavo del condotto ipogeo, profondi oltre 100 m.

le nuove ipotesi Gli acquedotti di Praeneste hanno lunghezze solo di alcuni chilometri, dunque «irrilevanti» se paragonati ai grandi acquedotti dell’Urbe. Tuttavia per le peculiarità delle opere di presa e conduzione aggiungono un nuovo importante tassello alla storia dell’architettura e dell’ingegneria

idraulica antica. Inoltre, l’investigazione, estesa all’interno del tempio della Fortuna Primigenia per individuare il luogo di sbocco dei suoi due acquedotti, ha inaspettatamente fornito la possibilità di delineare una nuova e suggestiva ipotesi dell’aspetto complessivo dell’edificio templare. La struttura era incentrata su un grande ninfeo, già parzialmente posto in luce da precedenti scavi, fulcro dell’opera architettonica nel quale – con mirabili capacità tecnico-costruttive – convergevano in abbondanza le acque volte a impressionare chi osservava questo monumentale tempio realizzato a scala paesaggistica. Le estese canalizzazioni in superficie, le numerose fontane, le cascate decorative che precedevano e accompagnavano i fedeli durante l’ascensione al tempio, esaltavano il valore dell’acqua, per gli antichi ritenuto uno dei quattro elementi primordiali e lasciando, altresí, favorevolmente intuire una sua diretta connessione simbolica con la divinità.

a r c h e o 107


divi e donne Francesca Cenerini

all’ombra del palazzo le fonti sono avare di notizie su faustina maggiore e faustina minore, mogli di antonino pio e marco aurelio. tanto che le loro vicende sembrano essere, volutamente, il semplice riflesso delle azioni dei consorti

L

e protagoniste al femminile dell’età degli Antonini sono una madre e una figlia, Faustina Maggiore e Faustina Minore, rispettivamente la moglie dell’imperatore Antonino Pio e la moglie del suo successore, l’imperatore Marco Aurelio. Antonino Pio sale al potere il 10 luglio del 138 d.C. I marchi di produzione attestano che sua madre, Arria Fadilla, è proprietaria di fabbriche di laterizi, le cosiddette figlinae Caepionianae, un tempo appartenute all’illustre famiglia senatoria dei Servilii Caepiones, da cui avevano preso il nome. Antonino Pio eredita queste figlinae e le cede in parte alla figlia, Faustina Minore. Una scelta che si inserisce nella tendenza attestata nel corso del II secolo d.C., quando la proprietà delle figlinae nei dintorni di Roma era divenuta appannaggio pressoché esclusivo di esponenti della famiglia imperiale, in modo particolare della componente femminile. I principali produttori di materiale per l’edilizia dell’epoca antonina sono imparentati con la famiglia dell’imperatore, e si crea una sorta di potente rete di interessi convergenti tra vasti patrimoni di senatori, politica dinastica imperiale e grandi costruzioni pubbliche. Faustina Maggiore è figlia di due proprietari di cave d’argilla, M. Annius Verus e Rupilia Faustina, nelle quali si producevano mattoni bollati; le sue cognate, sorelle o sorellastre del marito Antonino Pio, sono

108 a r c h e o

produttrici e sono note dai bolli, cioè dai marchi di fabbrica: Arria Lupula, Iulia Fadilla e, forse, Iulia Lupula, nota dalla Historia Augusta. Il potere politico degli Antonini si basa anche su questo immenso potere economico: le fonti lasciano trasparire un graduale accentramento di questi patrimoni nelle mani di poche persone, soprattutto donne che, come si è detto, sono imparentate con la casa imperiale o a essa sono legate.

un ruolo anomalo Questo particolare ruolo delle donne, che a prima vista potrebbe sembrare quanto meno anomalo, può, forse, trovare una spiegazione: come ci attesta la Historia Augusta, Antonino Pio e Marco Aurelio, prima di diventare imperatori, cercavano di trasferire gran parte delle loro proprietà private a donne di cui erano parenti, evidentemente allo scopo di evitare che il patrimonio di famiglia confluisse nelle casse imperiali (fiscus), dopo l’ascesa al potere del proprietario. Alla fine del 140 d.C. Faustina Maggiore muore. Secondo la testimonianza del biografo della Historia Augusta (Vita di Antonino Pio, 6, 7) viene onorata dal senato e divinizzata il giorno stesso della morte (come era già accaduto per Ulpia Marciana, la sorella dell’imperatore Traiano) con un atto formale da parte del senato, e viene sepolta nel mausoleo di Adriano (l’attuale Castel Sant’Angelo); il suo epitaffio la ricorda come Diva

Faustina Augusta, moglie dell’imperatore Antonino Pio. In quanto a Faustina Minore, ancora una volta le fonti letterarie non sono tenere: vengono attaccati la sua avidità (Vita di Antonino Pio, 4, 8) e i suoi costumi sessuali (libertas et facilitas: Vita di Antonino Pio, 3, 7); accuse delle quali ci è impossibile stabilire la fondatezza. Al momento della sua adozione da parte di Adriano, l’imperatore aveva imposto ad Antonino Pio di adottare, come aveva fatto Augusto con Tiberio nei confronti di Germanico, Marco Aurelio e il piccolo L. Ceionio Commodo (il futuro imperatore Lucio Vero), figlio del defunto L. Ceionio Commodo padre, già adottato da Adriano con il nome di Elio Cesare. Dunque il potere rimaneva, per cosí dire, in famiglia: gli Aelii, gli Annii Veri, i Ceionii Commodi, gli Aurelii Fulvi.

fondi per i giovani Antonino Pio e il successore Marco Aurelio potenziano le institutiones alimentariae, già avviate da Nerva e da Traiano, che erano una sorta di sovvenzioni a carico dello Stato per ragazzi e ragazze italici. I fondi pubblici necessari a questo programma erano finanziati con un complesso meccanismo che si fondava su un’operazione di credito agrario. Già Antonino Pio (Vita di Antonino Pio, 8, 1) aveva aumentato il numero delle ragazze destinatarie di questa assistenza, con l’istituzione delle puellae Faustinianae, intitolando questa


Base della colonna onoraria di Antonino Pio, con apoteosi dell’imperatore e della moglie Faustina Maggiore, tra le personificazioni di Roma e del Campo Marzio, dove sorgeva la colonna (oggi perduta). 161-162 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. nuova fondazione alla moglie Faustina Maggiore, e Marco Aurelio, in occasione della morte della moglie Faustina Minore, crea le novae puellae Faustinianae (Vita di Marco Aurelio, 26, 6). È evidente la progressiva estensione della responsabilizzazione e del coinvolgimento femminili nella gestione degli alimenta, da entrambe la parti, autore della fondazione e beneficiato.

A mio parere è possibile che il titolo di mater coloniae o municipii (vale a dire «madre della città», sia che questa avesse lo statuto di colonia o di municipio), attribuito ad alcune sacerdotesse del culto imperiale delle divae Augustae in Italia nel II secolo d.C. e principalmente attestato dalle loro iscrizioni funerarie, sia da porsi in relazione proprio con gli alimenta.

divae e sacerdotesse Ritengo, infatti, che queste sacerdotesse si impegnassero in prima persona, anche con sovvenzioni proprie, private, a favorire la diffusione degli alimenta, conformemente alle direttive della domus imperiale. Sono, infatti, sacerdotesse le divae

Plotina, Marciana e Sabina, che agivano in sintonia con le direttive politiche e sociali imperiali e che quindi ricevevano una sorta di legittimazione della posizione di alto prestigio che occupavano nelle città di appartenenza, attraverso il sacerdozio del culto imperiale. La concessione del prestigioso titolo di «madre della città», vale a dire di «madre istituzionale» in grado di provvedere al fabbisogno alimentare dei suoi «figli concittadini», non poteva che sancire e valorizzare questa funzione che consentiva loro una pubblica visibilità altrimenti negata alle donne che, in età romana non godevano dello ius suffragii, né dello ius honorum, cioè dei diritti di voto attivo e passivo.

a r c h e o 109


l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Le rocce erranti Le leggende sulla fondazione di Tiro sono «raccontate» con dovizia di particolari su varie emissioni romane di età imperiale

T

iro, in Fenicia (sulla costa dell’odierno Libano), era una tra le piú celebri città commerciali del mondo antico, menzionata piú volte già nella Bibbia per la fama, la ricchezza e le sue innumerevoli mercanzie. Di remota origine, quindi colonizzata dagli abitanti di Sidone nel XII secolo a.C., divenne subito preminente tra i centri della Fenicia, superando la stessa madrepatria e fondando colonie tra cui Cartagine e Cadice in Spagna; tra i prodotti esportati vi era la celebre porpora di Tiro, estratta da un genere di mollusco, il Murex, usata per la colorazione di manufatti pregiatissimi a destinazione regale e richiesta in tutto il mondo antico. Il grande splendore e il senso di onnipotenza dei suoi re ne fecero profetizzare la decadenza e poi la caduta (Ezechiele, 27), puntualmente avvenute prima a seguito dell’assedio di Nabucodonosor II (587-574 a.C.) e quindi per mano di Alessandro Magno nel 332 a.C.

in mezzo al mare Entrata sotto l’orbita di Roma nel 64 a.C. insieme a tutta la Siria, la città assurse con Settimio Severo al rango di colonia romana, sede, tra l’altro, di una importante scuola di studi filosofici, con il nome di Colonia Tyrus Metropolis Augusta. Tiro «giace in mezzo al mare e non

110 a r c h e o

abbandona la terra, giacché la lega al continente una stretta striscia di terra (...) Non è radicata nel mare, ma l’acqua vi scorre sotto, e uno stretto marino si trova sotto l’istmo, ed è uno spettacolo straordinario, una città nel mare e un’isola nella terra» (Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte, II, 14).

In alto: Tiro (Libano). Resti della palestra romana. Centro fra i piú importanti della Fenicia, la città fu annessa alla provincia di Siria nel 64 a.C. e divenne poi colonia al tempo dell’imperatore Settimio Severo (193-211 d.C.).


Edificata originariamente su due isolotti distanti circa 600 m dalla costa e poi collegati tra loro nel X secolo a.C., la città fu definitivamente unita alla terraferma nel corso della conquista di Alessandro Magno. La conformazione geologica del sito diede spunto a diversi miti di fondazione, uno dei quali fu raccontato dal poeta Nonno di Panopoli, che, nel V secolo d.C., a cavallo tra paganesimo e cristianesimo, scrisse il lunghissimo poema epico le Dionisiache, incentrato sulle vicende gloriose di Dioniso, con dèi e semidei come comprimari che narrano le loro gesta illustri.

il serpente, l’aquila... Tra gli episodi vi è quello che vede protagonista Melqart, dio patrio di Tiro corrispondente al greco Eracle, il quale racconta come avvenne la fondazione per opera dei primi uomini sulla terra (XL, 311-505). Melqart insegna ai «figli della Terra» come costruire un’imbarcazione per raggiungere due rocce fluttuanti e semoventi nel mare, dette «rocce ambrosie» (petrae ambrosiae), dove fiorisce un albero di olivo ardente che non brucia, intorno al quale vi è un serpente attorcigliato e sulla cui cima vi sono un’aquila e una coppa. Raggiunti gli isolotti, occorre sacrificare l’aquila, affinché le rocce si fissino di fronte alla terraferma e si possa fondare una città: cosí nasce Tiro, il cui nome deriva dal semitico «sur», roccia. L’origine divina di Tiro alla quale allude il racconto mitico si evince anche dal nome stesso dei due

isolotti semoventi: il termine ambrósios, in greco, indica non soltanto il cibo o la bevanda con cui si nutrono le divinità olimpiche, ma anche ciò che «proviene dagli dèi», in questo caso le due rocce. La monetazione di Tiro preromana è contraddistinta in numerosissime emissioni dalla presenza dell’aquila, segno di potenza e connessa, come visto, all’origine stessa della città; ma solo a partire dalle emissioni provinciali di età severiana, in alfabeto latino a volte con commistioni in greco, il rovescio fu assegnato al mito di fondazione, protagoniste le pietre ambrosie. Eliogabalo, devoto al culto del Sole di Emesa venerato anch’esso sotto forma di roccia, dedica numerose monete di Tiro alle rocce, cosí come Giulia Mesa e Gordiano III. Questi tipi riproducono probabilmente un luogo sacro, forse lo stesso tempio di Melqart, contraddistinto da due pietre tondeggianti affiancate da un olivo; sotto la linea d’esergo compaiono un cane e il mollusco dal quale si produceva il rinomato color porpora di Tiro. L’immagine ricorda la scoperta della tintura fatta appunto dal cane di MelqartEracle che addentando un mollusco si tinse di rosso (Gregorio Nazianzeno, Orazione, 4.108; Cassiodoro, Variae, 1.2); lo stesso

In alto: moneta battuta al tempo di Eliogabalo (218-222 d.C.) dalla zecca di Tiro. Al dritto, busto dell’imperatore; al rovescio, serpente avvolto attorno a una pietra ovoidale, palma da dattero a sinistra e murex a destra. In basso: un’altra emissione dell’età di Eliogabalo (218-222 d.C.), da Tiro. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, le rocce ambrosie e, in mezzo, un olivo; sottostanti, un cane e una conchiglia. racconto vede come protagonista il cane di un pastore di Tiro (Achille Tazio, Leucippe e Clitofonte, II, 11).

...e la palma da dattero Altre emissioni di Eliogabalo sono invece dedicate a una pietra oblunga intorno alla quale si attorciglia un serpente con accanto un albero di palma. Anche in questo caso la mitistoria si affianca all’aspetto commerciale: la palma infatti è del tipo detto Phoenix, il cui dattero era di ottima qualità ed esportato. L’iconografia è simile a quella delle monete di Pergamo con il serpente Pitone avvinto all’omphalos di Delfi. Il rettile avvolto alla pietra potrebbe in questo caso ricordare il serpe che, prima dell’arrivo dei naviganti inviati da Melqart, viveva insieme all’aquila sulle due rocce erranti. Le iconografie delle monete provinciali sembrano testimoniare, oltre che la memoria dell’origine mitica della città, anche la presenza di santuari all’aperto, tipici del mondo fenicio. In questo caso la pietra non raffigura un dio, ma è la divinità che ha reso sacre le rocce, che di divino avevano però già l’origine, di pura ambrosia. (4 – continua)

a r c h e o 111


i libri di archeo

DALL’ITALIA Jacopo De Grossi Mazzorin, Antonio Curci, Giacomo Giacobini

economia e ambiente nell’italia padana dell’età del bronzo Le indagini bioarcheologiche Edipuglia, Bari, 410 pp., ill. b/n 70,00 euro ISBN 978-88-7228-684-5 edipuglia.it

Come scrive Alessandro Guidi nella Presentazione, può dirsi «definitivamente tramontato» quel quadro di riferimento in cui discipline come l’archeozoologia o la paleobotanica erano definite «scienze sussidiarie dell’archeologia» e, anzi, sono ormai maturi i tempi perché vengano istituite cattedre universitarie per queste materie, pienamente inserite negli studi di archeologia. Un auspicio che il volume legittima ampiamente, presentando una nutrita serie di studi su materiali recuperati in area padana in occasione di scavi condotti su siti dell’età del Bronzo, molti dei quali

112 a r c h e o

riferibili alla cultura delle terramare e a quella delle palafitte. A un primo approccio, si potrebbe avere l’impressione che l’opera, di taglio specialistico, offra un quadro soprattutto statistico: in realtà, le analisi quantitative e qualitative – che naturalmente costituiscono una fase essenziale della ricerca – sono i fondamenti sui quali poggiano le successive disamine. Ed è qui che il contributo dell’archeozoologia o della paleobotanica si rivela in tutta la sua importanza: a titolo di esempio, si può citare il caso della vasca lignea di Noceto, presso Parma (una delle piú importanti scoperte mai registrate in Italia nel campo degli studi di preistoria; vedi «Archeo» n. 265, marzo 2007, anche on line su archeo.it), al cui interno sono stati recuperati i resti di molte specie animali. Una presenza che, come si legge nel relativo contributo, potrebbe essere indizio in alcuni casi di pratiche rituali, mentre in altri essere riconducibile allo scarico degli scarti alimentari da parte di chi visse nei pressi del manufatto. Uno dei tanti flash che si succedono nel volume e che permettono ricostruzioni sempre piú puntuali dei modi di vita delle comunità antiche e delle strategie adottate per la sussistenza. Stefano Mammini

Anna Maria Riccomini

La scultura Carocci, Roma, 264 pp., ill. b/n e tavv. col. 24,00 euro ISBN 978-88-430-7118-0 carocci.it

raffigurazione grottesca del nemico sconfitto e umiliato, ben lontana dalla dignità espressa da Decebalo suicida sui rilievi della Colona Traiana, quasi un riflesso della «paura dell’imbarbarimento delle istituzioni e della società romana» che «giustifica (...) l’annientamento dell’invasore, di cui si accentua sempre piú la ferinitas». Giorgio Rossignoli Madalena Bassani, Marianna Bressan, Francesca Ghedini (a cura di)

AQUAE SALUTIFERAE Anna Maria Riccomini propone una visione panoramica dell’arte antica e della sua evoluzione, attraverso una scansione temporale corrispondente ai capitoli dell’opera. Dall’età classica del V secolo a.C. all’ellenismo, per giungere alla nascita del linguaggio figurativo proprio di Roma, in cui vi è piena coscienza degli aspetti simbolicopropagandistici insiti nell’«esibizione di modelli artistici famosi», fino al periodo tardoantico. Un percorso lineare, da cui emerge come l’espressione artistica proceda di pari passo con la storia – il mutare della società e dei costumi – e ne costituisca uno specchio rivelatore. Non è un caso, per citare un esempio, che la rappresentazione delle vittorie dell’impero nell’età antonina si traduca in una

Il termalismo tra antico e contemporaneo. Atti del convegno internazionale (Montegrotto Terme, 6-8 settembre 2012) Padova University Press, Padova, 448 pp., ill. b/n + XVI tavv. col. 60,00 euro ISBN 978-88-97385-64-6 padovauniversitypress.it

Il volume dà conto dei risultati fin qui scaturiti dal progetto di ricerca sull’area termale dei Colli Euganei condotto dall’Università di Padova. Il lavoro si


propone, da un lato, di raccogliere e ordinare in un database comune tra istituzioni di diverse città la grande quantità di dati inerenti ai siti delle terme di Montegrotto e Abano, dall’altro, di contestualizzare i risultati dell’indagine nel piú ampio scenario del termalismo romano in Italia. Nella conduzione della ricerca, e ora nella sua pubblicazione, è stato posto l’accento sull’interpretazione dei dati, unitamente alla necessità di liberare il campo dalle ambiguità relative alla stessa terminologia adottata. È perciò utile impiegare alcuni metodi di classificazione: distinguere le terme igieniche (urbane) da quelle curative (di solito extraurbane); individuare il rapporto tra i siti termali, i depositi votivi e gli spazi cultuali; studiare la presenza di infrastrutture presso le aquae salutiferae; e, infine, rintracciare nelle fonti le informazioni sulla frequentazione dei siti da parte delle varie classi sociali e la loro influenza sulla gestione delle terme. Da non trascurare, inoltre, il riflesso che il termalismo di età romana ha avuto sull’iconografia nel corso dei secoli, che il volume presenta al lettore con l’ausilio di una sezione illustrata. Che si tratti di un progetto estremamente fecondo traspare dalla varietà di connessioni che intercorrono tra i due «binari» sui quali il lavoro è impostato – il territorio

locale nello specifico e la cultura termale romana diffusa nella Penisola –, e ben si comprende come l’obiettivo sia quello di creare un Museo del Termalismo, nel quale far confluire materiali e conoscenze, mentre il sito web aquaepatavinae.it fornisce gli aggiornamenti sullo sviluppo del progetto del Parco Archeologico delle Terme Euganee. Un museo come tappa di un work in progress, insomma, di stampo multidisciplinare, che offrirà al pubblico un patrimonio ricchissimo, nella splendida sede di Villa Draghi messa a disposizione dal Comune di Montegrotto. G. R.

archeologica situata nei pressi dell’odierna Calvi Risorta, in provincia di Caserta. Si tratta, infatti, dei resti di un centro fondato dagli Ausoni e poi romanizzato che, per la loro importanza, sarebbero senz’altro meritevoli di una maggiore cura. C’è dunque da augurarsi che la conoscenza del sito anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori possa portare alla sua rinascita. S. M.

Concetta Bonacci

Sedentism, Architecture, and Practice Springer, New York, 406 pp., ill. col. e b/n 103,95 euro ISBN 978-1-4614-5288-1 springer.com

Cales Un’area archeologica da riscoprire Vertigo Edizioni, Roma, 144 pp., ill. b/n 12,90 euro ISBN 978-88-6206-206-0 vertigolibri.it

Far conoscere per favorire la tutela: è questo il messaggio che si coglie dal volume di Concetta Bonacci su Cales, area

dall’estero Daniela Hoffmann, Jessica Smyth (a cura di)

tracking the neolithic house in europe

L’abbandono del nomadismo in favore di stanziamenti sedentari viene considerato come una delle cartine al tornasole del Neolitico.

E, in effetti, si trattò di un mutamento decisivo nel modus vivendi delle comunità umane, con importanti effetti anche sugli assetti sociali ed economici e sulla gestione del territorio. Un fenomeno quindi complesso, scelto come tema di una delle sessioni del World Archaeological Congress tenutosi a Dublino nel 2008, da cui nasce la realizzazione di questo volume. I contributi in esso riunti, 17 in tutto, abbracciano un’ampia porzione dell’Europa (va segnalato che, tra le aree non considerate, c’è anche la penisola italiana) e propongono una vasta rassegna di contesti, che comprende siti ormai «classici», come per esempio Sesklo (Tessaglia) o Starcevo (Serbia), nonché abitati di piú recente localizzazione. A fare da filo conduttore dei vari articoli è l’avvicendarsi delle parti descrittive e piú strettamente tecnico-tipologiche e delle considerazioni sulle cause e sugli effetti, per cosí dire, «collaterali» dell’avvento delle prime case. Resa possibile dall’affinamento delle tecniche costruttive, la realizzazione di strutture piú stabili e articolate – la cui funzione poteva non essere solo residenziale – ebbe infatti ricadute significative sull’organizzazione dei gruppi, aprendo la strada alla nascita dei primi agglomerati di tipo urbano. S. M.

a r c h e o 113


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.