Archeo n. 352, Giugno 2014

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DESERTO OCCIDENTALE

CASTRO

LA LEGGENDA DI TROIA ARTE RUPESTRE IN CINA

HENNé

SPECIALE EUBEA

speciale EUBEA

IN VIAGGIO ALLE SORGENTI DELLA CIVILTà OCCIDENTALE

www.archeo.it

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2014

Mens. Anno XXX numero 6 (352) Giugno 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 352 GIUGNO

OMERO

aveva

RAGIONE?

ALLE ORIGINI DELLA LEGGENDA DI TROIA

CASTRO

UNA CITTà FANTASMA IN MAREMMA

ANTICA CINA

LA STORIA INCISA NELLE ROCCE

EGITTO

ECCO LA (NUOVA) TOMBA DI TUTANKHAMON!

€ 5,90



editoriale

IN VIAGGIO CON OMERO

La grande statua (è alta piú di 2 m) riprodotta in copertina, oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Atene, fu rinvenuta nel 1928, nei fondali antistanti il Capo Artemisio, all’estremità settentrionale dell’Eubea, la grande isola (la sesta, per dimensioni, del Mediterraneo) che i greci contemporanei chiamano Evvia. E all’Eubea è dedicato lo speciale di questo numero, firmato da Fabrizio Polacco, autore di una serie dedicata alla storia greca (vedi «Archeo» nn. 311-344, gennaio 2011-ottobre 2013; anche on line su archeo.it) e – molti nostri lettori lo ricorderanno – di numerosi reportage storico-archeologici che ci hanno guidato alla riscoperta di quella straordinaria terra che è la Grecia. L’Eubea, però, non era mai stata toccata dalle peregrinazioni di Polacco; eppure, come leggeremo, proprio in questa ancora sconosciuta propaggine insulare il nostro autore ha riconosciuto la quintessenza stessa del Paese. Apprenderemo poi del ruolo svolto dall’Eubea nel quadro della storia stessa della civiltà occidentale: furono coloni salpati dall’isola a fondare le prime città «degne di questo nome» in Italia – in Magna Grecia e Sicilia – portando con sé, e diffondendolo, l’alfabeto… È curioso, poi, realizzare che da una località prossima all’Eubea ma situata sulla terraferma, distante solo pochi chilometri dallo stretto che separa quest’ultima dall’isola, sia partita un’altra flotta, diretta questa volta non a occidente, ma nella direzione opposta: quella degli Achei alla volta di Troia. La città sulla costa occidentale dell’Asia Minore è il «luogo della leggenda» che rievochiamo in questo numero. Troia/Ilion/Wilusa è, forse, la «leggenda» per eccellenza dell’archeologia moderna: la sua scoperta, realizzata da Heinrich Schliemann negli anni 1871-1873, non si è mai realmente conclusa, accendendo, ancora in anni recenti, la miccia di una nuova «guerra di Troia» che ha visto combattere non eroi omerici ma gli stessi archeologi schierati su due fronti: quello pro-occidentale contro quello… asiatico (vedi l’editoriale di «Archeo» n. 202, dicembre 2001; anche on line). Troia ed Eubea, dunque, età del mito e inizi della nostra civiltà. Ecco i termini di un meraviglioso viaggio che invitiamo i nostri lettori a compiere. Attraverso le pagine di questa rivista e in seguito, naturalmente, recandosi di persona nei luoghi che vi abbiamo descritto. Andreas M. Steiner

In alto: ritratto in lega di piombo di Omero. II sec. d.C. Basilea, Antikensammlung. In basso: la città di Troia come doveva apparire alla metà del II mill. a.C.


Sommario Editoriale

In viaggio con Omero

3

di Andreas M. Steiner

Attualità la notizia del mese

Inaugurata a Luxor una replica della tomba di Tutankhamon, a beneficio dei turisti e della salvaguardia dell’originale

scoperte Presso il villaggio di Hura, nel Negev, un intervento di archeologia preventiva svela un monastero bizantino adorno di magnifici mosaici

Il mistero sull’Apollo di Gaza si fa sempre piú fitto e c’è chi avanza il sospetto che il bronzo sia solo l’opera di un falsario 18

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scoperte

i luoghi della leggenda

di Paolo Leonini

di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

parchi archeologici

universo cina/1

C’è qualcosa di nuovo nel deserto occidentale... 22 6

di Paolo Leonini

notiziario

dalla stampa internazionale

8

Una Cartagine in Maremma di Carlo Casi

30

Troia. Il vento della storia

Il racconto delle rocce

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56

di Paola Demattè e Marco Meccarelli

8

parola d’archeologo Le prospezioni del Portus Project rivelano che l’antica Ostia era ben piú vasta di quanto finora ipotizzato e riscrivono la storia e la topografia della città 10

22 In copertina la celebre statua bronzea rinvenuta nei fondali antistanti Capo Artemisio, interpretata come Zeus o, piú probabilmente, Poseidone.

Anno XXX, n. 6 (352) - giugno 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Paola Cosmacini è radiologa presso l’Unità Operativa di Radiologia, Ospedale Maggiore, Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena di Milano. Paola Demattè è professore ordinario di arte e archeologia cinese alla Rhode Island School of Design (Providence, USA). Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Giampiero Galasso è giornalista. Michael Jung è curatore della sezione islamica del Museo Nazionale d’arte Orientale «Giuseppe Tucci» di Roma. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Fabrizio Polacco è coordinatore nazionale del «PRISMA». Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Corbis Images: Leemage: copertina e p. 77 Yann Arthus-Bertrand: pp. 50/51 (basso); Fridmar Damm: p. 51; San Hoyano: pp. 60/61; Yu Xiangquan/Xinhua Press: p. 67; Frederic Neema/Sygma: p. 70 (alto); Michael Freeman: p. 71 – Doc. red.: pp. 3, 18-19, 43, 44, 45, 47, 50/51 (alto), 54-58, 64; 75 (basso), 87 (basso), 97-98, 101, 110, 111 (alto) – Cortesia Factum Foundation: Alicia Guirao: p. 6 (alto, sinistra e destra); Ferdinand Saumarez Smith: pp. 8/9, 9 – Cortesia Israel Antiquities Authority: Skyview Company: p. 8 (alto); Assaf Peretz: p. 8 (basso) – Paul Nicklen/National Geographic: p. 9 – Cortesia Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: pp. 10-12 – Cortesia dell’autore: p. 13 (sinistra), 32, 33 (basso, sinistra), 33 (basso, destra; per gentile concessione di Adriana Emiliozzi), 34, 60, 76/77, 78-85, 87 (alto, sisnistra), 88-95, 96, 106 (basso) – Cortesia SBA Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 13 (destra) – Cortesia Accademia Polacca delle Scienze: p. 32 (alto); A. Czekaj-Zastawny: pp. 22/23, 24-25, 26 (basso, destra), 26/27 (sfondo), 27, 28; J. Irish: p.


antico egitto

L’henné del faraone

70

di Paola Cosmacini

56

antichi ieri e oggi La festa del focolare

100

di Romolo A. Staccioli

scavare il medioevo

410: l’oltraggio... invisibile 104 di Andrea Augenti

l’ordine rovesciato delle cose

Piccioni trogloditici 106 di Andrea De Pascale

divi e donne

I due volti di una madre

108

di Francesca Cenerini

Rubriche

l’altra faccia della medaglia

il mestiere dell’archeologo Com’è d’oro la mia valle...

di Daniele Manacorda

Abbracciare la pietra 96

76 speciale

110

di Francesca Ceci

libri

112

Eubea. Alle origini dell’Occidente 76 di Fabrizio Polacco

23 (alto); P. Wiktorowicz: p. 26 (basso, sinistra), 28/29 – Marka: Marco Scataglini: pp. 30/31, 34/35, 38 – Luciano Frazzoni: pp. 36-37, 40 – DeA Picture Library: pp. 75 (alto), 86, 108; S. Vannini: pp. 40/41; G. Dagli Orti: pp. 53 (alto, sinistra e basso), 87 (alto, destra); Ara Guler: p. 53 (alto, destra); G. Veggi: p. 100 – Bridgeman Art Library: pp. 48, 72, 102 – E. Lessing Archive/Magnum/Contrasto: p. 49 – Cortesia Paola Demattè: pp. 59, 61-63, 65, 66 – Archivi Alinari, Firenze: Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Georges Poncet: pp. 70 (basso), 73 (alto); RMN-Grand Palais (Musée Guimet, Paris)/Daniel Arnaudet: p. 74 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 73 (basso); Album: p. 104 – Shutterstock: pp. 105, 111 (basso) – Cortesia Andrea Bixio: p. 106 (alto) – Cortesia Roberto Bixio: p. 107 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 24, 33, 44, 59, 78, 96.

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la notizia del mese Paolo Leonini

piú originale dell’originale È stata inaugurata a luxor la replica della tomba di tutankhamon: una copia cosí accurata che forse avrebbe tratto in inganno perfino howard carter...

In alto, da sinistra: Luxor (Egitto): l’assemblaggio della camera funeraria della replica della tomba di Tutankhamon; l’installazione del sarcofago; la camera funeraria ultimata. In basso, sulle due pagine: l’ingresso del museo che ospita la replica della tomba del faraone.

6 archeo


C

hissà come reagirebbe Howard Carter, se, uscendo dalla sua casa di Luxor, potesse entrare incuriosito nel nuovo edificio che è stato costruito lí a pochi passi. Forse, dopo aver sceso il corridoio sotterraneo, rimarrebbe stupito, interrogandosi su come fosse stato possibile spostare le meravigliose pareti dipinte e il pesantissimo sarcofago in pietra rossa della tomba di Tutankhamon... E magari correrebbe fuori a verificare se notturni predatori avessero effettivamente manomesso la sua celebre scoperta, traslocandone in blocco il contenuto!

Al di là delle fantasie, quel che abbiamo immaginato è ciò che possono ora fare i visitatori della Valle dei Re: lasciarsi sbalordire dall’impressionante esattezza della ricostruzione della tomba del celebre faraone. La replica del sepolcro, alloggiata in un edificio sotterraneo poco distante dall Carter’s House, è stata realizzata dal team di artisti e tecnici della Factum Arte (la ditta madrilena impegnata dal 2009 nei lavori). Sono state impiegate macchine fotografiche ad altissima risoluzione e scanner tridimensionali per creare un modello digitale con una

definizione di ben 100 000 000 di punti per mq. Questa mole di dati è stata riversata nella creazione della copia attraverso una speciale punta mobile (router), che può disegnare e scavare una superficie piana rispecchiando i dati tridimensionali digitali. L’esperienza maturata anche in ricostruzioni precedenti, come la tomba di Thutmosi III (realizzata nel 2003 per una mostra itinerante) ha permesso di ottenere una copia pressoché perfetta. Adam Lowe, direttore della Factum Arte, sottolinea come l’operazione voglia superare la tradizionale diatriba per cui una copia è, a prescindere, «peggiore» dell’originale. In casi come questo, nei quali la salvaguardia del patrimonio culturale impone di limitare l’accesso a un monumento (come sottolineato nel 2011 dal Consiglio Supremo delle Antichità Egizie), la realizzazione di una replica permette di coniugare con successo le esigenze della valorizzazione e della conservazione. L’obiettivo finale è quello di trasformare in positivo l’esperienza di visita al sito sia per le persone che per il monumento stesso. I ricavi ottenuti andranno a finanziare lavori di ricerca e restauro dell’originale.

archeo 7


n otiz iari o SCoperte Israele

bizantini nel negev

S

plendidi mosaici sono recentemente venuti alla luce nella parte settentrionale del deserto del Negev, in seguito alla scoperta un monastero bizantino compiuta dall’Israel Antiquities Authority (IAA). Il sito archeologico è stato individuato fortuitamente durante i lavori per la costruzione di una strada, nei pressi del villaggio di Hura. Gli scavi hanno rivelato il perimetro di un edificio di 20 x 35 m, suddiviso in quattro ambienti, tra cui un oratorio e un refettorio, con pavimenti coperti di mosaici policromi. Ogni stanza riporta anche un’iscrizione con il nome dell’abate del monastero e la data di completamento dei lavori, che ha permesso di datare il complesso alla seconda metà del VI secolo d.C. In una delle stanze si legge il nome «Ilario», nelle altre quelli di «Elia», «Nono» e «Salomone». Il pavimento dell’oratorio è riccamente decorato con un motivo a girali di edera realizzati in quattro colori: blu, rosso (colori associati al culto cristiano), giallo e verde. La decorazione del refettorio è particolarmente impressionante: su un raffinato tappeto decorativo a rombi, campeggia un riquadro centrale contenente un’iscrizione in greco e siriaco, che riporta il nome dell’abate «Elia» e quello di un defunto, «padre Anastasio», probabilmente una dedica. Intorno corre una cornice a fasce concentriche in cui sono raffigurate brocche, ceste, piante, uccelli e simboli come un nodo gordiano e un motivo a croci affiancate. Lo scavo ha restituito anche anfore, brocche, vasellame da cucina, nonché monete e oggetti in vetro, che testimoniano la fiorente cultura

8 archeo

materiale nell’area. Insieme a Gerusalemme e alla fascia costiera, l’area del Negev fu molto attiva nel periodo bizantino. Secondo il direttore degli scavi per l’IAA, Daniel Varga, questo monastero era uno dei molti che sorsero lungo una strada che collegava la Transgiordania con la valle di Be’er Sheva. Nei pressi del villaggio di Hura sono state individuate anche le tracce di un altro insediamento dotato di tre chiese bizantine,

In alto: Hura (Israele). Ripresa zenitale degli scavi del monastero bizantino recentemente scoperto. Qui sopra: un particolare del mosaico pavimentale del refettorio. ancora da scavare. Il monastero e i suoi mosaici saranno adesso inseriti all’interno del progetto di sviluppo «Wadi ‘Attir» che le autorità israeliane stanno conducendo nei pressi di Hura. P. L.


SCoperte Messico

gli antenati di pocahontas?

D

a una grotta sottomarina nello Yucatán, in Messico, arriva, forse, una risposta agli interrogativi sul popolamento delle Americhe. Nel 2007, durante l’esplorazione della cavità nota come Hoyo Negro («buco nero»), facente parte del sistema di grotte costiere del Sac Actun, a nord della città di Tulum, un gruppo di subacquei recuperò resti umani fossili consistenti in un cranio e varie parti di uno scheletro. Le successive analisi provarono che si trattava di una gioavne donna, vissuta tra i 13 000 e 12 000 anni fa. Inoltre, da uno dei denti, fu possibile prelevare un campione del DNA della ragazza, la cui analisi sembra ora fornire indicazioni cruciali sulle dinamiche del

popolamento del continente americano durante il Paleolitico. A questo proposito, la teoria piú accreditata considera le popolazioni stanziate tra i 26 000 e i 18 000 anni fa nella Beringia, uno stretto lembo di terra emersa che collegava l’Asia alle Americhe nell’area oggi corrispondente allo stretto di Bering. Questi gruppi di cacciatori-raccoglitori averebbero iniziato a diffondersi nel continente americano intorno ai 17 000 anni da oggi e sarebbero gli antenati dei

Hoyo Largo (Yucatán, Messico). Due immagini delle esplorazioni che hanno portato al recupero dei resti di una ragazza vissuta tra i 13 000 e i 12 000 anni fa, l’analisi del cui DNA getta nuova luce sulla storia del popolamento delle Americhe. nativi americani. Tuttavia, il fatto che i crani di queste popolazioni paleoamericane presentino una fisionomia molto diversa rispetto a quella dei nativi porta alcuni studiosi a ipotizzare una loro diversa origine, con migrazioni avvenute successivamente via mare dall’Asia orientale o dall’Australia. Le analisi effettuate sul DNA di Naia (cosí è stata ribattezzata la ragazza recuperata nello Yucatán), sembrano fornire un punto d’incontro. Infatti, mentre la forma del cranio somiglia agli esemplari paleoamericani – collegandola agli abitatori della Beringia –, il suo DNA mitocondriale (trasmesso solo per linea materna) contiene un marcatore che si ritrova unicamente nelle popolazioni native americane, specialmente del Cile e dell’Argentina, il che la qualifica come un loro antenato. Un dato che dunque suggerirebbe un’origine comune, da cui si sarebbero evoluti individui con caratteristiche differenti in risposta al diverso ambiente d’insediamento. P. L.

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

ostia, la città oltre il fiume le ricerche compiute nell’ambito del portus project ridisegnano il volto della città che costituí il piú importante scalo dell’impero romano. ne parliamo con paola germoni e fausto zevi

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N

uove scoperte rivoluzionano la conoscenza di Ostia antica, una città che si rivela assai piú estesa di quanto si è creduto fino a oggi. E che, soprattutto, si estendeva ben oltre il fiume, sulla sponda settentrionale del Tevere. A giungere a questa conclusione è uno studio condotto a partire dal 2007 da archeologi italiani e inglesi sulla base delle prospezioni geomagnetiche effettuate tra gli antichi scali marittimi di Portus e di Ostia, nell’area di Isola Sacra.

Foto aerea del settore di Ostia antica che si estende sulla riva nord del Tevere e nel quale sono state individuate, grazie alle prospezioni, le strutture riferibili a un settore dell’area urbana finora sconosciuto.


il parere di fausto zevi

Una visione totalmente nuova

Ci illustra la scoperta Paola Germoni, archeologa responsabile di Isola Sacra della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, che ha seguito l’indagine con Angelo Pellegrino e con gli archeologi dell’University of Southampton, della British School at Rome e dell’University of Cambridge, nell’ambito del «Portus Project». «Nella parte meridionale di Isola Sacra – spiega – abbiamo individuato una traccia molto

Fausto Zevi, Accademico dei Lincei e professore emerito di archeologia greca e romana presso «Sapienza» Università di Roma e la I Scuola Specializzazione in Archeologia, già Soprintendente di Ostia antica, Napoli e Roma, ha condotto, tra il 1968 e il 1972, saggi di scavo nell’area oggetto delle ultime prospezioni, arrivando a scoprire, già all’epoca, l’esistenza di grandi magazzini. Professore, quali elementi aggiungono le ultime indagini ostiensi? «Modificano completamente la nostra visione della città: Ostia antica era attraversata dal fiume, come Roma, e si sviluppava con uguale importanza su ambedue le rive del Tevere. Ora capiamo alcune cose in piú sul tessuto urbano della città, anche se occorreranno saggi per verificare che le mura individuate a nord siano coeve alle altre (costruite da Cicerone durante il suo consolato), in un unico progetto urbano». A quali conclusioni eravate giunti, con gli scavi degli anni Sessanta? «Sulla base delle operazioni di salvataggio condotte in corrispondenza dei tralicci ENEL, che però si limitarono a una pulizia del terreno laddove i suoli erano stati già intaccati, avevamo trovato strutture che sembravano depositi o magazzini, con materiale ceramico uniforme di epoca soprattutto imperiale. Le ultime scoperte sono interessanti proprio perché aumentano la superficie ostiense destinata a questo tipo di fabbricati, dunque la capacità di reazione annonaria della città». A suo avviso, i magazzini situati lungo la riva nord avevano una destinazione annonaria? «Sí, la destinazione sembrerebbe annonaria. Già all’epoca la natura era chiara: sono horrea da grano. Questo dà ragione anche alla presenza delle numerose corporazioni professionali specializzate nel settore battelli e traghetti testimoniate dalle iscrizioni: i cinque corpora delle enuncularie, ovvero piccole barchette, e i corpora dei trajectus, cioè traghetti, che erano almeno tre o quattro. Ora questa massa di traghetti si comprende meglio: portavano cose e persone tra le due rive. Il fiorire di queste corporazioni si spiega proprio con la presenza del fiume in mezzo alla città e con il viavai tra le due sponde, un traffico che doveva essere ben superiore a quello delle gondole di Venezia». All’epoca non immaginava che la città potesse estendersi al di là del corso del Tevere? «No. Non avevo minimamente pensato che potessero esserci mura sulla sponda nord. Si rifletteva se la cinta muraria corresse lungo il fiume o meno, come a Roma per le mura serviane, ma non si immaginava affatto che andasse oltre il fiume. Credevo che gli edifici individuati all’epoca fossero stabilimenti fuori le mura e che la maglia urbana non fosse stata pensata fin dall’origine per accoglierli. Ho riletto le notizie degli scavi di allora: eravamo arrivati alla conclusione che sulla riva nord esisteva un quartiere, che chiamai «Trastevere Ostiense». Adesso arriva la conferma, ma con la grossa differenza che si tratta di un pezzo di Ostia antica pianificato fin dall’inizio all’interno delle mura. Cioè previsto dentro la città: è questa la grossa novità e la cosa importante delle ultime indagini». Quale struttura scaverebbe per prima, nella parte di città appena scoperta grazie alle prospezioni? «Una torre, indagando gli angoli del circuito, se ci sono. Le mura infatti sembrano rettilinee: basterebbe fissare alcuni capisaldi per avere un’idea dell’andamento della cinta».

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chiara delle mura perimetrali della città, che correvano per circa 540 m da est a ovest, piegando poi verso sud in direzione del Tevere. Sulle mura, a intervalli regolari, si evidenziano grandi torri di 6 x 8 m. Inoltre, tra il fiume e le mura, nell’area nota come «Trastevere Ostiense», abbiamo individuato almeno quattro grandi edifici, tre dei quali dovevano essere horrea, con caratteristiche simili a quelle dei magazzini già scavati a Ostia. Il piú grande ha una pianta di 83 x 75 m. C’è, poi, una struttura molto particolare, verso il Tevere, con un ampio spazio centrale e un doppio colonnato sui lati, per una lunghezza di circa 80 m». Quindi, le ultime indagini confermano e richiamano le scoperte fatte nella stessa area da Fausto Zevi, quand’era

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Soprintendente di Ostia, alla fine degli anni Sessanta? «Si. Il professor Zevi allora pose il vincolo archeologico sull’area meridionale di Isola Sacra – dove da sempre si combatte contro le costruzioni abusive – e fermò i lavori ENEL, avviando alcuni saggi di scavo. Dai sondaggi effettuati tra il 1968 e il 1972 emersero quattro grosse strutture murarie che Zevi identificò come magazzini. Sapevamo, quindi, che esistevano edifici al di là del fiume, ma non pensavamo che ci fossero impianti monumentali come quelli appena individuati e, soprattutto, mura di cinta urbane con torri di difesa, ovvero una fortificazione». Si tratta, quindi, di una «fetta» di città del tutto nuova, fino a oggi inimmaginabile su quella sponda del fiume?

Foto aerea dell’area di Ostia antica, che evidenzia l’estensione complessiva della città, su entrambe le sponde del Tevere, pari a 120 ettari. «Sí. Per questo sono risultati davvero eccezionali. Sulla riva nord del Tevere c’era una città, non un suburbio o un luogo extraurbano per l’immagazzinamento. La parte finora conosciuta di Ostia era di 80 ettari, comprese però le zone periferiche (come le necropoli della Laurentina): le ultime indagini aggiungono 40 ettari all’interno delle mura, cosí la città arriva a un’estensione di ben 120 ettari. Siamo peraltro non lontano dal sito in cui, nel 2011, al di sotto di via della Scafa, abbiamo scoperto le navi romane (vedi «Archeo» n. 316, giugno 2011; anche on line su archeo.it)».



n otiz iario

palermo

musei Campania

Nel segno della luce

nelle terre dei sanniti

È stata dedicata alla luce la V edizione del simposio biennale d’arte islamica «Hamad bin Khalifa», che ha recentemente animato Palermo. L’incontro internazionale aveva come tema God is the Light of the Heavens and the Earth: Light in Islamic Art and Culture (Dio è la Luce dei Cieli e della Terra. La Luce nell’Arte e nella Cultura Islamica) e ha visto la partecipazione di studiosi di chiara fama nei vari campi dell’islamistica: dalla teologia, alla letteratura, dall’archeologia alle arti visive. La luce è stata discussa come concetto religioso, come metafora nella poesia persiana e come manifestazione fisica nella scienza ottica, nonché nelle espressioni artistiche del mondo arabo, iraniano e turco. Il dibattito è stato aperto da William Graham, che ha analizzato la luce come immagine e concetto nel Corano, prendendo le mosse dal verso della luce (sura XXIV, 35) scelto anche come titolo del convegno, in cui Allah è equiparato alla luce. D’interesse storico-artistico e archeologico sono stati gli interventi di Anna Contadini (Sfaccettatura di luce. Il caso dei cristalli di roccia), Oliver Watson (Ceramica e Luce), Robert Hillenbrand (Utilizzo della luce nell’architettura islamica), Abdallah Khalil (Illuminazione del vuoto, la riflessione dell’universo: Impianto spaziale e arredamento della luce nell’architettura mamlucca) e Renata Holod (Spazi interni e regime di illuminazione). Michael Jung

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U

bicato nel cinquecentesco ex convento di S. Francesco, il Museo Archeologico Nazionale di Eboli (Salerno), a pochi chilometri dal parco archeologico di Paestum, espone materiali dall’area urbana ed extraurbana di Eboli e dalla media valle del Sele. Al piano terra, il percorso si apre con le testimonianze piú antiche, che risalenti al Neolitico Superiore e Finale (III millennio a.C.). Il successivo Eneolitico è documentato da corredi funerari da tombe «a grotticella» di tipo «del Gaudo» rinvenute in località Madonna della Catena. Seguono i reperti dell’età del Bronzo (XIV-XI secolo a.C.) e, nella seconda sala la documentazione relativa alla successiva età del Ferro (IX-VIII secolo a.C.). In basso: hydria (vaso per acqua) a figure rosse, da Campagna. IV sec. a.C. Eboli, Museo Archeologico Nazionale.

Al primo piano si trovano corredi funerari di età arcaica (VII-VI secolo a.C.) provenienti dalle necropoli scoperte lungo il vallone Tiranna: si tratta prevalentemente di reperti di bucchero di produzione etrusca, talvolta contraddistinti da iscrizioni graffite. Singolare è la presenza di sepolture di neonati (deposti in contenitori d’impasto) e di bambini (in fosse terragne) con corredi formati da piccoli recipienti fittili e oggetti di ornamento personale. Ricca, nella quarta sala, è l’esposizione di materiali della fine del V-IV secoloa.C., con corredi funerari dai quali si rileva come le sepolture dei maschi adulti rivestissero una posizione dominante all’interno del gruppo in età sannitica e che presentano armature complete di guerrieri, con ricchi corredi vascolari e in bronzo, oltre a strumenti simbolo del controllo del focolare domestico, tutti indicatori dell’adozione del rituale greco del banchetto funebre. Le sepolture femminili si caratterizzano invece per la presenza di gioielli e vasi che rimandano al mondo femminile come l’hydria, destinata a contenere acqua, e il lebete nuziale. L’attuale percorso espositivo non illustra le fasi successive all’epoca sannitica: unico riferimento alla vita del centro in età romana è una base di statua onoraria con dedica a Tito Flavio Silcano (183 d.C.) in cui Eburum (l’antica Eboli) appare con lo statuto di municipium. Giampiero Galasso

Dove e quando Museo Archeologico Nazionale di Eboli e della media valle del Sele Eboli, via San Francesco Orario tutti i giorni, 9,00-14,00; chiuso lunedí Info tel. 0828 332684


archeofilatelia

Luciano Calenda

ponti romani Lo scorso 2 maggio sono stati emessi due francobolli per ricordare il «Patrimonio artistico e culturale italiano», dedicati entrambi ad altrettanti ponti di epoca romana: il primo (1) celebra la via Claudia Augusta, riproducendo il ponte in località 1 Lamon (Belluno), mentre il secondo (2) raffigura il piú famoso ponte di Tiberio a Rimini. Dal punto di vista filatelico, entrambi i soggetti possono essere arricchiti con altro materiale che si riferisce essenzialmente agli imperatori ai quali le due opere sono in qualche modo legate. Cominciamo dunque con la via Claudia Augusta: il bozzetto usato dalla disegnatrice del Poligrafico dello Stato, Anna Maria Maresca, è stato probabilmente tratto da questa foto (3), in cui il ponte è ripreso con la stessa prospettiva, o da una molto simile. La via in questione univa la Pianura Padana con il mondo germanico attraverso le Alpi per giungere in Baviera. Essa fu iniziata dal Druso, generale di Augusto, nel 15 a.C., e fu ultimata dall’imperatore Claudio nel 47 d.C.; entrambi gli imperatori, che hanno appunto dato il nome alla strada, possono essere raffigurati con francobolli. Per Augusto c’è questo alto valore del 1929 di ben 25 lire (4), mentre a Claudio sono dedicati sia il francobollo inglese del 1993 (5) che quello di Libia Colonia del 1934 (6). Ed eccoci al ponte di Tiberio di Rimini, capace di superare non poche traversie tra cui molti eventi bellici, antichi e piú recenti. Qui la bozzettista Rita Fantini, sempre del Poligrafico, si è ispirata a una delle numerose fotografie che raffigurano il ponte, come quella usata per realizzare questa cartolina maximum (7), che mostra anche l’annullo speciale del primo giorno di emissione. Oggi conosciuta solo col nome di «ponte di Tiberio», la struttura fu in effetti iniziata nel 14 d.C. sotto Augusto e completata sotto Tiberio, nel 21 d.C.; da qui iniziavano le vie consolari Emilia e Popilia dirette al nord, la prima per unire Rimini con Piacenza e la seconda per raggiungere Ravenna e proseguire fino ad Aquileia. Anche in questo caso esiste materiale che riguarda l’imperatore Tiberio: un annullo francese del 1978 (8) e un francobollo del Madagascar del 1994 (9). Il ponte di Rimini, nello specifico, è in primo piano anche su un francobollo di San Marino del 2009, che raffigura diversi monumenti di origine e ispirazione romana (10). Segnaliamo infine che in questo mese di giugno si svolge a Rimini la X edizione del Festival del Mondo Antico, dedicata proprio ai 2000 anni del ponte di Tiberio.

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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calendario

Italia roma Principi Immortali

Civita Castellana Eracle tra i Falisci

I fasti dell’aristocrazia vulcente Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 29.06.14

Il sogno dell’immortalità Museo Archeologico dell’Agro falisco, Forte Sangallo fino al 09.11.14

Cortona Seduzione Etrusca

Gli Etruschi e il Mediterraneo

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 31.07.14

La città di Cerveteri Palazzo delle Esposizioni fino al 20.07.14

Forma e vita di una città medievale. Leopoli-Cencelle Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 27.07.14

La gloria dei vinti

Pergamo, Atene, Roma Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 07.09.14

L’arte del comando L’eredità di Augusto Museo dell’Ara Pacis fino al 07.09.14

Michelangelo

Incontrare un artista universale Musei Capitolini fino al 14.09.14

La biblioteca infinita I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

Bolzano Frozen stories

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

calci (pi) Kenamun, l’undicesima mummia Museo di Storia Naturale fino al 29.06.14

Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova

Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14 16 a r c h e o

Qui sopra: Ritratto di Ottaviano Augusto. Olio su tela di Bernardino Campi. 1562.

fiesole Fiesole e i Longobardi Museo Civico Archeologico fino al 31.10.14

firenze Cortona, l’alba dei principi

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

fossombrone La Vittoria di Kassel a Forum Sempronii: un ritorno Chiesa di S. Filippo, Corte Alta fino al 15.06.14

gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 05.05.15

genova La sardegna nuragica

Simboli e miti di una civiltà mediterranea Teatro del Falcone, Palazzo Reale fino al 27.07.14

Qui accanto: urna in travertino dal sepolcro dei Tite Vesi (Perugia). In basso: umbone di scudo longobardo, da Fiesole.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

milano Da Gerusalemme a Milano

Saint-romain-en-gal Cassio

montesarchio Rosso Immaginario

Germania

Imperatori, filosofi e dèi alle origini del cristianesimo Civico Museo Archeologico fino al 20.06.14

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

bonn Un’avventura orientale

Max von Oppenheim e la scoperta di Tell Halaf Bundeskunsthalle fino al 30.08.14

pescara Grandi Madri Grandi Donne

Percorsi d’Arte dalla Preistoria al Rinascimento Museo Casa Natale di Gabriele d’Annunzio fino al 30.06.14

orvieto Sethlans

I bronzi etruschi e romani nella Collezione Faina Museo «Claudio Faina» fino al 31.08.14

San Giovanni in Persiceto (Bo) Sotto gli auspici dell’archeologia»

Londra I Vichinghi

The British Museum fino al 22.06.14

Paesi Bassi tesori dall’Hermitage Hermitage Amsterdam fino al 05.09.14

leida Medioevo dorato

tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14

Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14

Qui sopra: moneta in argento di Ardashir I.

Svizzera

zuglio (ud) In viaggio verso le Alpi

berna Le palafitte

Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico Civico Museo Archeologico Iulium Carnicum fino al 31.08.14

Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14

basilea Roma eterna

Belgio

2000 anni di scultura dalle collezioni Santarelli e Zeri Antikenmuseum fino al 16.11.14

Ename L’eredità di Carlo Magno Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

USA

Francia Grand Palais fino al 13.07.14

Gran Bretagna

amsterdam Spedizione Via della Seta

Raffaele Pettazzoni: testi, documenti, reperti Palazzo Comunale fino al 30.06.14

parigi Io, Augusto, imperatore di Roma

Il fumetto in mostra Musée gallo-romain fino al 31.08.14

New York Regni perduti

Il profilo di Augusto sul Cammeo Blacas.

Sculture indo-buddhiste dell’asia sud-orientale antica. V-VIII secolo The Metropolitan Museum of Art fino al 27.07.14

Testa di Dioniso montata su un torso femminile. II sec. d.C. a r c h e o 17


l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner

R

icordate la storia della «pesca miracolosa» di una statua in bronzo avvenuta sul litorale di Gaza, di cui abbiamo dato notizia in «Archeo» dello scorso mese di marzo (vedi n. 349)? Secondo fonti recentissime, il reperto (dal peso di 450 kg) si trova ancora nelle mani di Hamas, l’organizzazione politico-militare che comanda a Gaza e che figura sulla lista nera, europea e statunitense, del terrorismo. Il direttore delle Antichità di Gaza, Ahmed al-Borsh, ha dichiarato di aver preso contatti con il Museo del Louvre (la cui direzione, a sua volta, dichiara di non essere stata «ufficialmente contattata») e con un’istituzione scientifica britannica, affinché si avviassero le trattative per «l’estradizione» dell’antico personaggio, ai fini del suo restauro e della sua presentazione ufficiale al mondo accademico internazionale. Ma, dopo i primi abboccamenti, la situazione sembra giunta a uno stallo, mentre altre voci si levano per contendersi la proprietà della statua: Anwar Abu Eisheh, ministro della Cultura dell’Autorità Palestinese con sede a Ramallah, in Cisgiordania, sostiene che «il governo di Hamas è illegale e non ha alcuna autorità per quanto riguarda il patrimonio culturale e archeologico di Gaza»; per Elias Sanbar, ambasciatore dell’Autorità Palestinese all’UNESCO, l’Apollo non può essere venduto «perché come comparirà sul mercato internazionale, verrà sequestrato»

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(Fabio Scuto, La Repubblica, 15.04.2014). Eppure, la tentazione di vendere la statua è forte, soprattutto per l’organizzazione islamista radicale, a corto di fondi dopo la recente chiusura delle gallerie sotterranee che collegavano la Striscia di Gaza all’Egitto,

permettendo, cosí, un florido commercio di contrabbando. Ma c’è un altro aspetto che, nel citato articolo di «Archeo», abbiamo appena accennato e che potrebbe aggiungere un nuovo capitolo all’intricata vicenda del misterioso dio venuto dal mare…

La pagina dell’inchiesta di Der Spiegel con le immagini delle «antiche» sculture in bronzo ritenute opera di un geniale falsario. Il titolo recita: «Un baro nel tempio delle Muse».


APOLLO, HAMAS E IL MISTERO DEL «MAESTRO SPAGNOLO» In un’inchiesta apparsa nel settimanale tedesco Der Spiegel (n. 19 del 5.5.2014), Stefan Lehmann, archeologo dell’Università di Halle-Wittenberg, rivela una sua certezza: «l’Apollo di Gaza non è autentico. È impensabile che la statua sia rimasta per duemila anni sott’acqua, esposta agli agenti corrosivi del mare, senza che vi sia traccia delle tipiche incrostazioni calcaree (dovute a organismi come i Balanidi) che ricoprono questo tipo di ritrovamenti» (vedi, a questo proposito, «Archeo» n. 338, aprile 2013; anche on line su archeo.it). Per lo studioso è, inoltre, «grottesca la resa dei capelli, con quelle strane terminazioni a cavaturacciolo». Parole coraggiose, tanto piú che, allo stato attuale, non sono verificabili, considerato anche che la statua non è «disponibile». Ma da dove l’archeologo tedesco trae la sicurezza per le sue affermazioni? Da una convinzione amara, ma condivisa da molti suoi colleghi: che, con i reperti antichi – e oggi, soprattutto, con quelli contraffatti –, c’è chi si aggiudica lauti guadagni. «Almeno il cinque per cento delle antichità commercializzate sul mercato antiquario sono falsi» sostiene l’esperto d’arte svizzero, Christoph Leon, e, tra questi, i bronzi occupano un posto di primo piano. Ed ecco che emerge l’operato di un misterioso artista/falsario, noto come il «Maestro spagnolo», autore, secondo Lehmann e altri studiosi, di un gran numero di falsi bronzi venduti nelle aste internazionali: una testa-ritratto di Geta, datata al III secolo e offerta al prezzo di 50 000 euro, quella di una principessa africana, del II secolo, offerta in un’asta newyorchese a 400 000 dollari, un ritratto dell’imperatore Balbino, della fine del III secolo, offerto alla casa

d’Aste Bonham’s di Londra a un prezzo di 200/300 000 sterline, una testa dell’imperatore Decio, presentata alla TEFAF, l’annuale fiera antiquaria di Maastricht (vedi nella foto alla pagina accanto). Per lo studioso Josef Floren, autore di un manuale di scultura greca antica, «il “Maestro spagnolo” è un personaggio dotato di grande talento», anche se le sue creazioni si tradiscono per alcune insicurezze, in particolare nella resa delle acconciature, e anche per una certa, eccessiva «vivacità» dei volti. Ma dove vive il maestro, e dove svolge – ormai da piú di trent’anni – la sua lucrosa attività? Alcuni collocano la sua bottega nella zona intorno a Napoli, altri suggeriscono di guardare verso la Spagna meridionale: un rilievo raffigurante l’imperatore Tiberio con un’iscrizione dedicatoria, opera attribuita al misterioso falsario, è partita proprio da Valencia per essere poi immessa sul mercato antiquario, riferisce ancora Christoph Leon. Già nel 2011, Stefan Lehmann aveva attribuito al Maestro spagnolo ben 9 sculture, oggi, secondo

l’archeologo, i falsi in circolazione sono circa 20. Ma potrebbero essere molti di piú, come sembra emergere dalle rivelazioni di un collezionista, lo svizzero Hans Humbel, dichiaratosi una vittima del «Maestro spagnolo»: diversi anni fa acquistò per 375.000 dollari un ritratto bronzeo di Augusto, troppo simile, però, a un altro busto in possesso di un Museo di Madrid, rivelatosi un falso. Le indagini di Lehmann si scontrano, oltreché, naturalmente, con gli interessi del fantomatico Maestro spagnolo e delle case d’aste, anche con quelli delle istituzioni museali, grandi e piccole; le quali, piuttosto che ammettere di esporre falsi e autorizzare le indagini necessarie ad acclararne l’autenticità, preferiscono guardare dall’altra parte: l’argomento, spiega Henner von Hesberg, già direttore dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, è «troppo delicato, con alle spalle una lunga storia di speranze deluse e di risvolti amari, perché la gente ne voglia parlare». Insomma, la caccia al «Maestro spagnolo» è appena iniziata. E, come forse potrà dimostrare l’Apollo di Gaza (se mai si potrà esaminarlo da vicino), anche quella alle sue… creazioni. In alto: la testa del cosiddetto «Apollo di Gaza». A sinistra: l’archeologo Stefan Lehmann con un ritratto di Augusto, probabile opera di un falsario.

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scoperte • egitto

C’è qualcosa

di nuovo... nel deserto occidentale ai piedi del gebel ramlah, la «montagna sabbiosa», nel deserto occidentale egiziano, una missione archeologica dell’accademia polacca delle scienze svela le eccezionali testimonianze della pietas di una comunità di pastori neolitici stanziati nella zona oltre seimila anni fa di Paolo Leonini 22 a r c h e o


Sulle due pagine: Gebel Ramlah (Egitto). Il campo base della missione che ha scoperto un cimitero di età neolitica comprendente unicamente sepolture di bambini e neonati. In basso, nel riquadro: l’area dello scavo.

L

a porzione sud-occidentale del deserto egiziano è ricchissima di testimonianze archeologiche riferibili ai gruppi che vi si stanziarono nel corso del Neolitico. L’Accademia Polacca delle Scienze (Polska Akademia Nauk, PAN) è presente nel NordEst africano da oltre vent’anni, con missioni che si sono occupate dello sviluppo delle comunità preistoriche di Egitto e Sudan. In particolar modo, per molti anni, le ricerche sono state rivolte a identificare tracce di insediamenti neolitici in quest’area del deserto, dove gli scavi interessano livelli di abita-

zione e necropoli nei siti di Gebel Nabta, Gebel Ramlah e Berget el Sheb. Le attività dell’istituto si svolgono sotto l’egida della Combined Prehistoric Expedition, una missione archeologica istituita negli anni Sessanta del secolo scorso, composta da studiosi di varie nazionalità (principalmente Stati Uniti e Polonia), con differenti specializzazioni.

il «calendario» di nabta playa «Archeo» ha già dato conto delle ricerche svolte in questa zona (vedi n. 288, febbraio 2009; anche on line, su archeo.it), illustrando le a r c h e o 23


scoperte • egitto Mar Mediterraneo

C ro Ca Cai o

ilo

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possedute dagli Egizi erano già state concepite da questi loro antenati; l’équipe di Wendorf e Schild ha infatti rinvenuto un circolo di megaliti (menhir) databile intorno al 5000 a.C., la cui disposizione formava un calendario capace di segnare l’arrivo del solstizio d’estate, e, probabilmente, rappresentava anche una mappa di costellazioni come Orione o l’Orsa Maggiore.

N

scoperte effettuate nel sito di Nabta Playa, prossimo a quello di cui ci occupiamo nel presente articolo. Nabta Playa si trova nei pressi di un bacino lacustre oggi asciutto e lí gli archeologi della Combined Praehistoric Expedition, guidati da Fred Wendorf e Romuald Schild, avevano rinvenuto le tracce di un’antica civiltà nubiana vissuta nel VI millennio a.C., che intorno al lago – allora ricchissimo di acque – veniva a celebrare i propri riti sacri e realizzò tumuli di pietre in cui sono stati ritrovati resti di offerte animali. Poco distante, sono state individuate anche le prove che le avanzate conoscenze astronomiche

E g i t t o

Gebel Ramlah h

sulLa «montagna sabbiosa» Piú di recente, la Combined Praehistoric Expetidition ha compiuto un’altra scoperta di eccezionale importanza, nell’area di Gebel Ramlah (segue a p. 28)

Mar Rosso

La Lag ag go Na Nas N asser as se s e

In alto: cartina dell’Egitto con la localizzazione di Gebel Ramlah. A destra: Jakub Mugaj impegnato nella documentazione dei materiali restituiti dallo scavo di Gebel Ramlah.


le tappe della ricerca 2000

2001 2009 2011

In gennaio e febbraio, gli archeologi Kimball Banks e

Michał Kobusiewicz scoprono una concentrazione di siti neolitici intorno alle rive di un lago fossile in prossimità di una collina situata circa 25 km a nord ovest di Gebel Nabta. La collina viene battezzata Gebel Ramlah, cioè «montagna sabbiosa», per la presenza di numerose dune di sabbia intorno alla sommità. Durante la campagna condotta in gennaio e febbraio, la missione scava nel bacino del lago le tracce di un insediamento e una prima area di sepoltura. Durante lavori di ricognizione intorno al primo cimitero, Jacek Kabacinsky e Agnieszka Czekaj-Zastawny scoprono una sepoltura contenente lo scheletro di un bambino. Ampliando i saggi intorno alla fossa rinvenuta nel 2009, viene alla luce un insieme di tombe, tutte contenenti scheletri di bambini e neonati. È la prima scoperta del genere a oggi nota, a livello mondiale.

Sulle due pagine: un’altra immagine del campo base della missione internazionale guidata da Jacek Kabacinsky.

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scoperte • egitto

cronaca di una scoperta Per avere informazioni piú dettagliate sulle ricerche che hanno portato alla scoperta delle sepolture infantili di Gebel Ramlah, ci siamo rivolti ad Agnieszka Czekaj-Zastawny, ricercatrice presso l’Istituto di archeologia ed Etnologia dell’Accademia Polacca delle Scienze, e protagonista, con Jacek Kabacinsky, del sensazionale ritrovamento.

◆ Dottoressa Czekaj-Zastawny,

come ha avuto inizio questa avventura? «Il sito di Gebel Ramlah è conosciuto fin dal 2001, cioè da quando gli archeologi della Combined Praehistoric Expedition vi hanno individuato un primo sepolcreto. In seguito a questo ritrovamento, la missione è tornata a Gebel Ramlah nel 2009, ed è stata avviata un’ampia ricognizione di superficie per individuare e mappare i nuove cimiteri neolitici. Durante queste operazioni abbiamo effettuato la nostra scoperta. In particolare, il

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ritrovamento, compiuto nell’area circostante la necropoli individuata nel 2001, si deve a Jacek Kabacinsky e alla sottoscritta. Nel febbraio del 2009, durante una ricognizione, avevamo rinvenuto la sepoltura di un bambino. Siamo tornati sul sito nel 2011, per proseguire le ricognizioni, e, ampliando i saggi intorno a questa fossa, sono venute alla luce altre tombe, tutte contenenti scheletri di bambini e neonati: è dunque apparso chiaro che si trattava di un vero e proprio cimitero». Da destra, sulle due pagine, in senso orario: una sepoltura infantile; un deposito di elementi di collana ricavati da uova di struzzo, conchiglie e osso; la sepoltura di un neonato deposto con un braccialetto in avorio; Agnieszka Czekaj-Zastawny e Jacek Kabacinsky impegnati nello scavo di una tomba.

◆ Perché si tratta di ritrovamento

di particolare rilevanza? «A oggi, la necropoli di Gebel Ramlah è la piú antica dell’Africa nord-orientale e l’unica area di sepoltura neolitica che riunisca solo inumati bambini. Finora, il cimitero piú antico era quello scoperto dalla Combined Praehistoric Expedition nel 2001, datato al 4300 a.C. circa e con deposizioni di adulti e bambini. Quello da noi rinvenuto risale invece a circa 6600 anni fa – è dunque piú antico di 300 anni – e ospita solo sepolture infantili».


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scoperte • egitto

(in arabo «montagna sabbiosa»), circa 140 km a ovest di Abu Simbel. È stata infatti localizzata la piú antica necropoli dell’Africa nord-orientale, e l’unica area di sepoltura neolitica finora conosciuta che riunisca solo inumati bambini (vedi anche l’intervista a p. 26).

tombe «disordinate» Il cimitero è formato da 36 tombe dislocate in un’area ristretta, pari a circa 10 x 7 m. Rispetto ad altre aree sepolcrali scoperte nella stessa regione, la disposizione delle deposizioni non sembra avere seguito alcuna pianificazione particolare. Le fosse, scavate nel terreno, contengono i resti di 41 defunti. Per la maggior parte si tratta di sepolture infantili singole, salvo i casi nei quali sono stati deposti assieme due corpi (gemelli neonati o un neonato e un nato prematuro); su due lati opposti del sepolcreto sono state identificate le uniche due sepolture costruite in pietra: una conteneva i resti di un individuo di sesso femminile, morto intorno ai 14 anni di età, l’altra quelli di un bambino. Le fosse sono piccole e poco profonde e gli archeologi ipotizzano che non ci fossero strutture soprastanti a segnalarne la presenza. Le In alto: lo scavo del sepolcreto (indicato dal circolo colorato), visto dalla sommità del Gebel Ramlah. A sinistra: particolare della sepoltura nella quale sono stati trovati i resti di una donna e di un neonato.

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tombe in pietra potrebbero invece essere state coperte da una struttura chiaramente individuabile sul terreno, come suggerisce il perimetro di pietre interrate che ne delimita il profilo. Le sepolture erano generalmente prive di corredo e lo stato di conservazione dei resti dei defunti era molto degradato: di molti scheletri sono rimaste unicamente le ossa lunghe o i teschi. In alcune tombe, tuttavia, sono stati trovati braccialetti in avorio o conchiglie provenienti dalla regione del Mar Rosso. In ogni caso, malgrado la generale assenza di oggetti, in tutte le deposizioni sono state rinvenute tracce di ocra polverizzata, segno del valore rituale attribuito a questo materiale.

I reperti saranno presto sottoposti a vari esami di laboratorio, tra cui quelli sul DNA, nonché l’analisi degli isotopi e di altri elementi che permetteranno di approfondire la conoscenza di questa popolazione, che, dal punto di vista culturale, è comunque pienamente inserita nel contesto delle comunità pastorali di epoca neolitica.

gli sviluppi futuri Le indagini potranno, per esempio, fornire indicazioni sulla dieta e sulle condizioni di salute del gruppo, ma anche offrire informazioni sui contatti con popolazioni limitrofe e sulle relazioni esistenti tra gli individui sepolti nel cimitero. A questo fine, l’équipe di Kabacinksy conta di ricavare ulteriori dati

da una necropoli comprendente deposizioni di individui adulti, localizzata a poca distanza dal sepolcreto infantile e il cui scavo è stato già programmato. Il progetto di ricerca che si occupa della necropoli infantile recentemente scoperta, denominato «Gebel Ramlah. The Oldest Neolithic Cemeteries in the Western Desert in Egypt», viene portato avanti da un team composto da tre archeologi dell’Accademia Polacca delle Scienze e da un ricercatore dell’Università di Liverpool. Il responsabile della missione, Jacek Kabacinski, archeologo, è affiancato da Agnieszka Czekaj-Zastawny (archeologa), Jakub Mugaj (archeologo) e Joel Irish (bioarcheologo e antropologo della John Moores University di Liverpool). a r c h e o 29


parchi archeologici • castro

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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una

cartagine in maremma

vittima della guerra tra la famiglia dei farnese e lo stato pontificio, l’antica castro è oggi una città fantasma. ma il progetto di un nuovo parco archeologico prevede la tutela e la valorizzazione di quello che, un tempo, fu un ricco e fiorente centro dell’alto lazio. ecco una visita in anteprima di Carlo Casi

T

riste destino quello della città di Castro, splendore dei Farnese, onta dei Pamphilj, indovinata ambientazione della tragica storia della Badessa di Stendhal (L’abbesse de Castro, novella pubblicata postuma nella raccolta Chroniques italiennes, nel 1855). Ma un tempo, nemmeno troppo lontano, avvicinandosi alla città si potevano percepire da lontano le sfavillanti dimore difese dalle imponenti fortificazioni progettate da Antonio da Sangallo il Giovane, tanto che il letterato Annibal Caro (1507-1566) ebbe a scrivere: «Siamo ora a Castro, dove piglio un gran diletto

di considerare i giramenti de le cose del mondo. Questa città, la quale, altre volte che io vi fui per soffiare a le miniere, mi parve una bicocca da zingari, sorge ora con tanta e sí subbita magnificenza Sulle due pagine: l’interno della chiesa del romitorio di Poggio Conte in Località Chiusa dell’Armine, presso Ischia di Castro (Viterbo). XIII sec. (vedi box alle pp. 38-39). Salvo diversa indicazione, tutti i reperti riprodotti nell’articolo sono conservati nel Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» di Ischia di Castro.

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parchi archeologici • castro

sepolcri come case

In alto: la tomba a Dado, detta anche «a Casa», per la proposta di ricostruzione che vede l’architettura tombale ispirarsi fortemente a quella domestica e nella quale erano presenti alcuni esempi di scultura funeraria di tipologia vulcente risalenti alla prima metà del VI sec. a.C. A destra: l’ingresso della tomba delle Travi o «del Principe Massimo», in onore del principe Vittorio Massimo, noto appassionato di archeologia, presente al momento dello scavo del sepolcro.

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12 Chiesa de SS. Crocefisso 13 Tomba a Dado o «a Casa» 14 Tomba della Biga 15 Tomba del Principe Massimo 16 Colombaio 17 Resti del ponte medievale 18 Chiesa di S. Maria delle Grazie 19 Cava di Castro 20 Iscrizioni rupestri etrusche 21 Forte A 22 Forte B

12

RA

E TA

14

l’area archeologica di castro Planimetria generale 1 Piazza Maggiore 2 Hostaria 3 Zecca 4 Palazzo di Giacomo Garonio 5 Palazzo del Podestà 6 Cattedrale di S. Savino 7 Piazza del Vescovado 8 Porta Lamberta 9 Porta Murata 10 Chiesa di S. Maria 11 Convento di S. Francesco

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16 18

22

Perimetro della città

19

Percorsi di visita

20

Strade sterrate 21 Ischia di Castro Canino Montalto


Fiesole

Volterra

un carro per l’ultima missione

Arezzo

Chiusi Populonia Vetulonia Saturnia Vulci

Perugia Orvieto

Castro

Tarquinia

Mar Tirreno

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Pisa

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Arn

Veio Cerveteri Roma

che mi rappresenta il nascimento di Cartagine». Ma il nobile paragone fu quanto mai azzeccato per la crudele determinazione degli assalitori, i quali, affinché entrambe le città non avessero piú a risorgere, in un caso, nel 146 a.C., sparsero il sale e nell’altro, nel 1649, incisero su una lapide a futura memoria «Qui fu Castro». E certamente ebbero ragione se circa due secoli dopo il diplomatico e archeologo inglese George Dennis (1814-1898) ne restò cosí impressionato da scrivere: «Non vi sono parole

Al momento della scoperta, la biga si trovava in posizione leggermente inclinata, con uno dei cerchioni appoggiato a una delle porte d’ingresso aperte sul vestibolo. E i due cavalli che l’avevano trainata lungo i pianori castrensi e dentro le buie vie cave, perpendicolarmente intagliate nel tufo, si trovavano a poca distanza, distesi sul pavimento, l’uno dietro l’altro, con le teste rivolte verso il veicolo, quasi in un ultimo, rispettoso saluto. Non grandi di statura, ma di corporatura robusta, gli animali, avevano 5 o 6 anni quando furono immolati al loro potente auriga. Un rituale non molto comune, ma diffuso, quello del sacrificio equino sul luogo di sepoltura, a partire dalle piú antiche tombe reali di Salamina (Cipro), passando per Adria e Populonia sino ad arrivare al vicino centro egemone di Vulci. Immersa nel fango, la biga, separata prima dalle ruote, venne estratta in un solo blocco grazie alla camicia di gesso che andò a inglobare tutti resti di essa nella loro giacitura originaria, conservando cosí l’insieme polimaterico. Lo scavo e i successivi restauri effettuati in laboratorio permisero la restituzione a grandezza naturale del carro, oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Viterbo, e consentirono di evidenziare anche lo splendido apparato decorativo dal quale emergono le figure di due efebi, eredi stilistici dei kouroi greci. Posti sulle fiancate, come nel piú famoso carro di Monteleone di Spoleto (oggi al Metropolitan Museum di New York; vedi «Archeo» n. 270, agosto 2007; anche on line su archeo.it), essi presentano l’atteggiamento tipico dell’iconografia ellenica, con una gamba avanti, le braccia distese lungo i fianchi e i pugni chiusi dai quali sporgono i pollici, lo sguardo nobile, incorniciato in un volto austero e diritto. Le straordinarie incisioni a bulino, che determinano i lunghi capelli raccolti in due ciocche laterali, evidenziano un’acconciatura ispirata ai canoni delle sculture greco-orientali. Quello di Castro era un carro a due ruote, usato in guerra e nelle sfilate, finemente decorato in stile ionizzante e risalente al 530-520 a.C., sepolto per un’ultima missione impossibile, quella di accompagnare l’aristocratica defunta nell’oltretomba.

A sinistra: cartina dell’Etruria con l’ubicazione di Castro. In basso: la biga di Castro dopo il restauro. 530-520 a.C. Viterbo, Museo Archeologico Nazionale.

Qui sopra: elemento architettonico in travertino con terminazione a volute della cattedrale di S. Savino.

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parchi archeologici • castro

In alto: ricostruzione grafica della Porta Castello e del Forte Stellare realizzata da Rodolfo Clementi sulla base dei progetti di Antonio da Sangallo il Giovane. Qui sotto: la lapide posta a ricordo della definitiva distruzione di Castro, avvenuta nel 1649, con l’iscrizione «Qui fu Castro».

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A destra: resti di edifici privati presenti sulla Piazza Maggiore di Castro progettati da Antonio da Sangallo il Giovane, appartenuti a cittadini facoltosi quali il Cavalier Sassuolo e Giacomo Garonio. Qui sotto: blocco murario e frammenti di cornici appartenuti alla cattedrale di S. Savino.


sufficienti e adeguate per descrivere quale e quanto malinconico luogo sia Castro, uno dei piú lugubri che ricordo in Etruria. Non si tratta solo della sua solitudine (…) non si tratta neppure dell’eccessiva vegetazione cresciuta. È il suo aspetto generale: in nessun luogo il bosco è piú buio e piú denso, in nessun luogo i dirupi sono piú neri e minacciosi (…) in nessuna località il passato oscura lo spirito con piú profondo terrore» (The Cities and Cemeteries of Etruria, 1848). In verità, la storia di Castro (i cui resti sono oggi nel territorio del Comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo) comincia molto prima e il suo isolato pianoro tufaceo, sebbene non vi siano ancora prove certe, è stato abitato almeno sin dall’epoca etrusca. Risalgono a questo momento, infatti, le prime testimonianze materiali, recuperate nelle tombe che si dispongono principalmente a oriente della città, a partire almeno dal VII secolo a.C.

Erroneamente identificata con Statonia, Castro esprime comunque tutta la passata importanza grazie ai ricchi corredi e alle elaborate architetture di alcune tombe, segni tangibili di un’aristocrazia potente che controllava la direttrice di penetrazione interna che, partendo da Vulci, risaliva il Fiora in direzione di Poggio Buco, Pitigliano e Sovana. Con Vulci condivide il periodo di massimo splendore tra il VII e il VI secolo a.C., la decadenza del V e la ripresa del IV sino alla conquista di Roma agli inizi del III secolo a.C.

Le prime esplorazioni Le prime ricerche furono effettuate da Ferrante Rittatore Vonwiller (1919-1976), a cui fecero seguito gli scavi del Centro Ricerche dell’Università Belga che, tra il 1964 e il 1967, indagarono una porzione della necropoli. Altre ricerche, condotte dalla Soprintendenza per i Beni

Archeologici dell’Etruria Meridionale, interessarono, negli anni Settanta, l’area funeraria, portando al ritrovamento di numerose tombe che, seppur già depredate, confermarono la variegata presenza di strutture funerarie, a volte monumentali, prove della ricchezza raggiunta dall’oligarchia castrense. Tra queste si segnala la tomba della Biga, nella quale è stato ritrovato il currus che le ha dato nome (vedi box a p. 33). La struttura si sviluppa con dromos (corridoio d’accesso) e vestibolo a cielo aperto, sul quale si aprono i due ingressi che immettono nell’unica camera, alla quale, probabilmente, doveva essere dedicato anche un terzo accesso, appena sbozzato sulla sinistra. La morte improvvisa del destinatario, seppellito in un sarcofago ligneo posto sulla banchina, forse bloccò i lavori, costringendo la famiglia a un funerale imprevisto. (segue a p. 39) a r c h e o 35


parchi archeologici • castro

il territorio si racconta Nato nel 1958 sulla spinta della donazione della collezione Stendardi-Lotti, il Museo Civico di Ischia di Castro, intitolato a Pietro e Turiddo Lotti, è stato oggetto di ripetute ristrutturazioni, sino a quella odierna, che risale al 2005, con un’ulteriore integrazione avvenuta nel 2009. Visitare il Museo vuol dire compiere un viaggio a ritroso nel tempo con un testimone d’eccezione: il territorio comunale. Un contesto visto in maniera diacronica, sin dalle epoche piú antiche, a cominciare con il Paleolitico, fase culturale alla quale è riferibile la grotta delle Settecannelle, frequentata dall’uomo intorno ai 14 000 anni fa. Ne sono esposti i numerosi reperti in pietra, alcuni dei quali denotano valenze artistiche che riflettono il linguaggio astratto dei

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Umbone di scudo longobardo in ferro, dalla necropoli di La Selvicciola.

cacciatori-raccoglitori. Molto suggestiva è poi l’immagine della sepoltura di un bambino di 12 anni, al cui cranio era appoggiata una macina spezzata, forse residuo di un rituale risalente al 5500 a.C. circa e dunque al Neolitico. Fanno bella mostra di sé i preziosi reperti etruschi provenienti dalle necropoli di Castro, «guardati a vista» dalle sculture funerarie in nenfro: sfingi, leoni alati ruggenti, arieti e cavalli,

forse anch’essi alati, che vigilano come muti custodi. Salendo al piano superiore, si entra nel mito e la suggestione prende il sopravvento grazie a una proiezione a tutta parete che ci riporta al momento della scoperta della famosa «biga di Castro». Tornati al piano terra, si accede alla collezione romana, imperniata sui ritrovamenti effettuati nella villa della Selvicciola, indagata da molti anni, e che ha restituito numerosi reperti a partire dal III secolo a.C. sino al V secolo d.C., momento nel quale venne abbandonata. Ma l’area della Selvicciola è stata oggetto di importanti frequentazioni anche in precedenza: nei pressi della villa romana è stata scoperta una delle piú importanti necropoli eneolitiche e dell’età del Bronzo (oggi mirabilmente esposta al Museo di Preistoria della Tuscia di


Valentano). Nell’area prossima alla villa, gli scavi hanno anche portato in luce un’interessante necropoli longobarda costituita da 120 sepolture (V-IX secolo), alcune delle quali sono state ben ricostruite lungo il percorso museale, quale necessario completamento cronologico della lunga storia dell’area. L’esposizione termina con l’affascinante mostra degli affreschi, prima staccati e poi recuperati, del romitorio di Poggio Conte (vedi box alle p. 38-39) e con una rassegna di materiali ceramici e lapidei provenienti dagli scavi di Castro. Tra questi spicca, non solo per le grandi dimensioni, lo stemma con il gonfalone papale che costituiva l’elemento decorativo principale della facciata della Zecca, uno degli edifici progettata da Antonio da Sangallo il Giovane.

Qui sotto: vaso cinerario biconico in bronzo. VIII sec. a.C. Già Collezione Stendardi. In alto: rasoio lunato in bronzo con decorazione incisa a linee e denti di lupo e una svastica al centro di ogni lato. VIII sec. a.C. Già Collezione Stendardi.

dove e quando Museo Civico Archeologico «Pietro e Turiddo Lotti» Ischia di Castro (VT), piazza Cavalieri Vittorio Veneto Orario ma-sa, 9,00-13,00 e 16,00-19,00; lu chiuso Info tel. 0761 425455; e-mail: ischiabiblio@libero.it

Sulle due pagine, in basso: statue facenti parte della decorazione della decorazione della tomba dei Bronzi: nella pagina accanto, un leone alato ruggente; a sinistra, le sculture nel Museo di Ischia di Castro; a destra, un cavallo alato (o ippocampo alato). Prima metà del VI sec. a.C.

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parchi archeologici • castro

IL PERCORSO DEI ROMITORI La scenografia in cui sono inseriti i romitori di Poggio Conte e Chiusa del Vescovo ebbe sicura importanza per quegli uomini silenziosi. La suggestione del ruscello che si tuffa dall’alto di una rupe finendo ai piedi delle stanze ricavate nella roccia di Poggio Conte è ancora oggi ben percepibile e palpabile. E la vegetazione che nasconde l’insediamento rupestre accentua il carattere religioso del luogo, rendendolo invisibile e allontanandolo dal mondo. Un sentiero ricavato nella roccia ci consente di risalire la parete nella quale si apre, poco dopo, il magnifico ingresso alla chiesa, uno stretto passaggio inquadrato da due semicolonne. Entrando, ci accoglie un ambiente nel quale quattro pilastri a fascio sostengono la volta e al di sotto, nelle tredici nicchie, stavano gli affreschi degli Apostoli con al centro la figura di Gesú che, staccati e

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recuperati solo in parte, sono ora una delle principali attrazioni del Museo Civico di Ischia di Castro. Un’apertura ci conduce inaspettatamente in un ambiente piú grande, al centro del quale troneggia un altare litico. Sulla parete di fondo si riconosce l’abside rettilineo contenente i resti della cattedra e di due scranni laterali dedicati ad altrettanti santi vescovi, anch’essi asportati. Altri due locali si sviluppano vicino: si tratta di probabili vani abitativi a servizio degli eremiti che qui si erano rifugiati nel XIII secolo. A pochi chilometri da Poggio Conte un altro insediamento rupestre è stato realizzato da monaci in cerca d’isolamento, quello che sorge in località Chiusa del Vescovo, conosciuto anche con il nome di Ripatonna Cicognina. Il romitorio viene menzionato per la prima volta dallo storico Benedetto Zucchi, il quale, nel 1630,


limetta in bronzo e alcuni vasi, sfuggiti agli scavatori clandestini. Ma l’aspetto piú evocativo di questo sepolcro è ciò che si trovava al Nonostante fosse stata violata, gli suo esterno e che, per fortuna, è scavi hanno permesso di riconoscestato almeno in parte recuperato: re la nobile aristocratica nel suo ulle sei sculture zoomorfe in nenfro timo viaggio, riccamente vestita, poste a guardia, oggi conservate al come ben testimoniano i suoi sanMuseo Civico di Ischia di Castro dali decorati con oro e ambra, e (vedi box alle pp. 36-37). Certamenagghindata con gioielli tra i quali te visibile dalla città, la tomba dospicca uno scarabeo egizio incastoveva essere decorata sulla fronte da nato in un pendente d’oro. Il monuun ricco apparato di statue raffigumento era decorato anche da sculranti leoni, arieti, cavalli alati e ture in nenfro di cui furono rinvesfingi che, con la loro nuti alcuni frammenti. presenza, dovevano espriNon lontano, si apre un’alNel museo di Ischia di mere il difficile e sofferto tra tomba monumentale, con il mondo quella delle Travi, detta anCastro, le statue in pietra rapporto dell’oltretomba. che «del Principe Massimo». È caratterizzata dal di animali sembrano muti Un altro eccezionale esempio di scultura fusoffitto scolpito a ricordare custodi delle collezioni neraria etrusca è quello il tetto di una casa con i inerente la tomba a Datravetti in rilievo. Di chiaro do, detta «a Casa», nella influsso ceretano, rappresenta per ora un caso isolato nella sieme ad altri vasi corinzi e a un’an- necropoli nord-orientale del Cronecropoli castrense e si data intorno fora che reca sulla spalla l’iscrizione cifisso, proprio di fronte alla chieeuke, rimandano all’ambiente greco sa. Costituito da tre camere funealla metà del VI secolo a.C. rarie, il sepolcro presentava un La medesima area, alla metà degli e greco-orientale. anni Sessanta, è stata teatro di un Nella camera laterale doveva invece soffitto a doppio spiovente decoaltro ritrovamento importante, essere stata deposta una donna, ric- rato agli angoli da possenti protoquello della tomba dei Bronzi, camente abbigliata e coperta da mi animali. Delle quattro originaanch’essa già spoliata. Caratterizzata vesti intessute d’oro, accompagnata rie ne sono state recuperate soladal cospicuo numero di reperti in dal suo ricco corredo del quale mente due, una a testa di ariete e bronzo ivi rinvenuti, donde il no- purtroppo sono giunti sino a noi l’altra a testa di leone ruggente, me, è riferibile a una famiglia prin- solamente alcuni oggetti come la inquadrabili tra il secondo quarto Nella pagina accanto: la facciata dell’eremo di Chiusa del Vescovo.

cipesca della Castro etrusca, che la realizzò nel secondo venticinquennio del VI secolo a.C. Vi si accede grazie a un lungo dromos che conduce all’interno del vestibolo, dal quale si aprono quattro camere. Quella al centro, probabilmente occupata dal capostipite, ha restituito la maggior parte del ricco corredo bronzeo recuperato, tra cui spiccano due rarissimi vassoi in lamina e due elementi di tipo rodio – un kantharos (tazza a due manici) e una oinochoe (brocca da vino) –, che in-

scriveva: «Vi è un Romitorio chiamato Ripatogno Cicognina, piantato sulla sponda di detto fiume Olpita di sopra e piantato sul tufo di detta ripa e lontano da Castro poco piú di un miglio, luogo di bellissima vista, con comodità di fontana e di terreno da farvi orto a proposito per tale effetto, con dentro la Chiesa consegnata; e vi si può dire Messa». Arrivando sotto lo sperone tufaceo si ha quasi l’impressione che le numerose aperture affacciate dalla ripida parete spiino la stretta valle che accompagna il corso dell’Olpeta sino alla confluenza con il Fiora. Anche qui, un sentiero gradinato s’inerpica con difficoltà risalendo il pendio fino alla struttura monastica. Si sale adagio e il silenzio ci accompagna in un lento divenire quali novelli pellegrini alla scoperta di un mondo magico impregnato di mistici misteri.

O, almeno, cosí ci sembra, quando entriamo nella cavità tufacea e scopriamo che la struttura ricavata nella roccia consta di ben tre piani per circa 5 m d’altezza. Nel labirintico sviluppo che coinvolge una decina d’ambienti, la chiesa, posta quasi al centro, cattura l’attenzione. Caratterizzata dalla volta a botte, presenta un’ampia fossa scavata nel pavimento, forse traccia di un’antica sepoltura purtroppo depredata, mentre una sorpresa sono i due affreschi ai lati dell’abside che, seppur deteriorati, sono riconducibili a sant’Antonio e a un santo vescovo. Questi rimandano all’ambiente culturale tardo-senese, indicando una datazione all’interno del Quattrocento che insieme all’incisione su una delle pareti delle celle, 1614, confermano la presenza di eremiti a Chiusa del Vescovo per almeno tre secoli (dal XV al XVII secolo).

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parchi archeologici • castro

UN PROGETTO PER CASTRO Il progetto «Parco Archeologico dell’Antica Castro» intende promuovere la creazione di un parco archeologico dedicato ai resti della città e al suo comprensorio archeologico – nel quale ricadono importanti necropoli etrusche –, allo scopo di garantire ulteriori strumenti normativi e organizzativi per una sempre migliore valorizzazione del territorio, per la sua tutela e fruizione. L’intervento proposto vuole dotare il parco archeologico di infrastrutture che consentano il giusto uso delle risorse culturali, restituendo senso ai resti visibili e contestualizzandoli nel paesaggio storico. Ciò significa coniugare quindi gli aspetti della conservazione/tutela con quelli della fruizione (visibilità, percorsi, forme della comunicazione; accessibilità ampliata alle diverse tipologie di visitatori, prevedendo attività di comunicazione divulgativa e scientifica, ecc.). Infine, ma non per ultima, viene la difesa dell’intera area dal fenomeno degli scavi clandestini e del vandalismo, a cui le nuove tecnologie dovranno porre freno. In termini generali, l’obiettivo è quello di realizzare un insieme di beni e attività che definiscano un’offerta culturale e turistica completa, capace di soddisfare le complesse esigenze del settore. Pertanto, a partire dalla valorizzazione dell’area archeologica dell’antica città di Castro – con la realizzazione di servizi direzionali e accessori, compresa un’adeguata strategia di marketing territoriale –, si cercherà di avviare e sperimentare percorsi formativi pilota, avviando poi iniziative di impresa con l’ambizioso obiettivo, a regime, di raggiungere l’autonomia economica e funzionale del sito, comprensiva di quella forza lavoro formata e occupata durante le fasi di cantiere e ora pronta per un utilizzo autonomo e autosufficiente dal punto di vista economico. Per quanto riguarda i servizi, oltre all’area del parco – per la quale saranno progettate biglietterie, servizi igienici, percorsi, arredi, strutture di sostegno alla ricerca, alla valorizzazione e alla formazione, ecc. –, si porrà particolare attenzione alle «aree di bordo», cosí da definire nel massimo equilibrio i rapporti con il contesto esterno (vie di accesso, trasporti, parcheggi, aree di sosta, recinzioni, ecc.). Il progetto è stato affidato dal Comune di Ischia di Castro allo Studio Associato Architetti Stefano Ceccarelli e Rita Lulli, sotto la direzione scientifica di Alfonsina Russo, Soprintendente per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale.

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In alto: la tomba a Dado o «a Casa» vista dall’alto, con i resti della cornice superiore di blocchi di tufo. Qui sopra: stemma in travertino dei Farnese, con gonfalone papale e le chiavi di san Pietro, che decorava la Zecca progettata da Antonio da Sangallo il Giovane.


e la metà del VI secolo a.C., anch’esse esposte al museo di Ischia di Castro. Dopo la conquista di Roma, Castro subisce un netto ridimensionamento e, probabilmente in età repubblicana, diventa un vicus, dipendente dal centro egemone di Maternum, situato nella zona dei monti di Canino in località Centocamere, sino all’abbandono durante l’età flavia. Nel Medioevo, la piú antica testimonianza risale al 768-772, anni nei quali, nel Liber Pontificalis, viene nominato Lautfredus episcopus civitate Castro, certificando cosí l’esistenza di una comunità cristiana già importante e che, in precedenza, doveva aver rioccupato l’antica area urbana. Successivamente, sul pianoro affacciato sull’Olpeta, si sviluppa un centro fiorente, dapprima feudo degli Aldobrandini e poi, dal 1298,

sotto il Patrimonio di S. Pietro. In questo periodo cominciano ad affacciarsi sulla città gli interessi di una famiglia locale, quella dei Farnese che condizioneranno sino alla fine le sorti di Castro.

tamento contratto dalla famiglia, determinarono la prima guerra di Castro (1641-1644), che venne bombardata e occupata dalle truppe di Urbano VIII. Restituita poi nuovamente ai Farnese, nel 1649, a seguito dell’uccisione del vescovo neoletto, Cristoforo Giarda, scoppiò una rivalità fatale Nel 1537, a circa 10 anni dal sac- la seconda e ultima guerra di Cacheggio effettuato da Galeazzo stro, che si concluse con l’impietosa Farnese, papa Paolo III (Alessan- e completa distruzione della città. dro Farnese) nominò suo figlio, Pier Luigi, duca di Castro e Ron- Devo il titolo dell’articolo a un fortuciglione. Da questo momento, la nato libretto del compianto amico Alcittà fu oggetto di importanti la- fio Cavoli, La Cartagine della Mavori, molti dei quali progettati da remma (Scipioni Editore); ringrazio Antonio da Sangallo il Giovane, Alfonsina Russo e Gianfranco Gazcome la monumentale porta Lam- zetti della Soprintendenza per i Beni berta, la piazza Maggiore, il palaz- Archeologici dell’Etruria Meridionale zo Ducale-Osteria, la Zecca e il per avermi consentito di fotografare, insieme a Luciano Frazzoni, i mateconvento di S. Francesco. Ma la rivalità con i Barberini e il riali del Museo di Ischia di Castro e conseguente allontanamento dalla Anna Laura, direttrice del Museo, per corte romana, oltre al grave indebi- la collaborazione prestata. a r c h e o 41


troia il vento della Storia Una crisi di autorità strisciante sul piano politico, sociale e religioso segna il periodo il cui le ricerche archeologiche collocano la leggendaria guerra intorno alla città di Priamo. Una crisi «globale», da cui emerge un mondo nuovo, popolato da uomini armati di ferro e in grado di leggere e scrivere… di Massimo Vidale e Andreas M. Steiner

P

arlare di Troia, per un archeologo, è sempre un po’ difficile. Il confronto con la straordinaria «fortuna del dilettante» e con il fulmineo successo «mediatico» di Heinrich Schliemann – che forse poi tanto dilettante non era – non è facile per nessuno. Tanto piú che all’archeologo tedesco vanno riconosciute, insieme a formidabili ingenuità, la comprensione generale delle leggi della stratigrafia, dell’importanza dello studio e della catalogazione della ceramica per datare i contesti di scavo, e dell’enorme potenziale di una tecnologia innovativa, ma ancora sperimentale, quale era la fotografia, per documentare le operazioni di scavo. L’archeologia nasce a Troia, e Troia rinacque dai suoi ruderi, una volta di piú, nella visione straordinariamente moderna, spregiudicata e radicale di un commer-

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Disegno ricostruttivo di Troia nella sua VI fase, con la cittadella (acropoli) circondata da una città bassa, munita di mura difensive. All’epoca, siamo nel 1700 a.C., era uno dei piú vasti centri abitati dell’intera area egea.


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troia • i luoghi della leggenda

Istanbul

M ar N ero

Troia Grecia

M ar Egeo

Tu r c h i a

Atene Micene

Itaca

Tirinto

Pilo

Sparta Rodi

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Cnosso

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In alto: cartina dell’area egea con la localizzazione di Troia. A sinistra:

ritratto a olio di Heinrich Schliemann. Mosca, Museo Pushkin.

«Io ho dimostrato che in una remota antichità nella pianura di Troia sorgeva una grande città, distrutta in antico da una spaventosa catastrofe; che questa città aveva nella collina di Hissarlik la sua acropoli, con i templi e altri grandi edifici, a sud e a ovest sul sito della piú tarda Ilion; e che, di conseguenza, questa città corrisponde perfettamente alla descrizione omerica della sacra Ilion» (Heinrich Schliemann, Troja, 1884)

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Creta

e o M e d i t e r r a n

ciante di genio. Heinrich Schliemann (1828-1890) fu invidiato e guardato con sospetto e spesso con aperta derisione, dalla cultura accademica del suo tempo, ma era dotato di alcune armi essenziali, di cui ben pochi dei suoi contemporanei disponevano: la libertà garantita da un buon capitale, un indubbio talento linguistico e organizzativo e una fede cieca e assoluta nel suo profeta ispiratore, il poeta Omero. Tuttavia, prima di procedere, spezziamo una lancia anche a favore di un «illustre sconosciuto», l’inglese Frank Calvert (1828-1908). Responsabile dell’ufficio consolare britannico del Mediterraneo orientale e archeologo autodidatta e dilettante, Calvert era il proprietario del terreno in cui sorgeva la collina artificiale di Hissarlik; aveva quindi «scoperto» Troia almeno sette anni prima di Schliemann, e, bisogna ricordarlo, era stato lui a convincere il tedesco a scavare sul posto.

Alle soglie di un’età oscura Immaginiamo una banale controversia, in una dimora palatina, per una tassa non pagata, un carro non portato a termine, o la fuga di un pastore con un gregge di buone pecore da lana. L’aggressione di un villaggio alla periferia dei domini cittadini contro un altro non viene punita con il consueto rigore; la festività di una importante divinità non viene celebrata come si deve, gli scribi interrompono la tediosa pratica dell’insegnare ai ragazzi le centinaia di segni che, sulle tavolette d’argilla, servono a gestire e verificare i conti del palazzo. È una crisi di autorità strisciante, ma in continua progressione. Le donne dell’aristocrazia lamentano che i servi mancano loro di rispetto. In breve, alle terre del re si affacciano gruppi sempre piú consistenti di migranti che procedo-


«Le assi della nave erano appiccicose di resina fresca. Ci sporgemmo dalla fiancata per l’ultimo addio, con il legno caldo di sole contro lo stomaco. I marinai tirarono a bordo l’ancora, una pietra squadrata coperta di gusci ritorti, e liberarono le vele. Poi presero posto ai remi, che sbattevano come ciglia, in attesa del ritmo. I tamburi iniziarono a battere, i remi si alzarono e caddero, portandoci alla volta di Troia» (Madeline Miller, La Canzone di Achille, 2013) no in grandi carrozze cariche di donne e bambini, che parlano lingue astruse e praticano una religione «diversa». La sensazione di insicurezza si trasforma in aperta paura quando i primi importanti centri abitati vengono presi d’assalto e saccheggiati. È l’inizio del disastro. È questo, insomma, lo scenario in cui l’archeologia colloca la leggendaria guerra di Troia.Tra il volgere del XIII secolo a.C. e l’inizio del secolo successivo, un generale sommovimento etnico e culturale portò alla rapida distruzione delle città-stato della costa siro-palestinese, alla caduta della potente Hattusa – la capitale dei grandi re ittiti (vedi «Archeo» n. 290, aprile 2009; anche on line su archeo.it) –, al saccheggio delle roccaforti micenee. In Egitto, i rilievi del tempio funeraio di Ramesse III (1185-1153 a.C.) a Medinet Habu ci mostrano il glorioso faraone mentre scaraventa nelle acque del delta del Nilo masse umane che si infiltrano in Egitto dai suoi varchi settentrionali. Ramesse III può anche aver trionfato, come narra la sua propaganda, ma è innegabile che poco dopo la sua morte l’Egitto perse per sempre la sua unica vera anima: l’unità politica e territoriale.

In alto: Hissarlik. La casa abitata da Schliemann durante gli scavi condotti tra il 1871 e il 1879. In basso: incisione tratta da Ilios (1881), raffigurante il basamento del muro di Troia II (erroneamente

identificata da Heinrich Schliemann con la città omerica) e la strada lastricata che conduce alla Porta Occidentale, presso la quale l’archeologo tedesco rinvenne il «tesoro di Priamo».

innovazioni sconvolgenti Oggi gli archeologi e gli storici associano due trasformazioni epocali agli eventi misteriosi di quegli «anni terribili»: l’introduzione della tecnologia del ferro – che avrebbe per sempre sconvolto l’assetto economico e militare del mondo antico – e l’invenzione della scrittura alfabetica, che strappava il monopolio della comunicazione scritta alle sale delle arcaiche aristocrazie palatine per aprirne i segreti a gruppi allargati di nuovi proprietari terrieri, commercianti e artigiani. In scala e in modi diversi, l’onda lunga di questi drammatici processi si fece sentire anche in occidente, persino nella remota pianura padana. Qui la cultura delle terramare, fiorita tra il 1650 e il 1150 a.C., nell’età del Bronzo Recente (i due ultimi secoli di questo arco temporale) si spense nell’arco di qualche decennio: un fatto che gli storici di età romana ci hanno forse tramandato nel ricordo, un po’ confuso, di una grande crisi ambientale e demografica nella quale scomparve a r c h e o 45


troia • i luoghi della leggenda

la catena degli eventi 3200-3000 a.C. Primo insediamento sul sito di Troia (Ilion). 3000 a.C. Costruzione del primo muro di difesa della città. 2500 a.C. circa Allargato due volte, il muro di difesa della cittadella raggiunge un diametro di 110 m. 2000 a.C. circa La città di Troia viene radicalmente trasformata e si copre di un fitto reticolo di case in pietra, che si estendono oltre l’antico muro difensivo. 1700 a.C. L’insediamento noto come Troia VI (la sesta città costruita sulle sue stesse fondazioni in ordine di tempo) è uno dei piú grandi agglomerati urbani dell’intera regione dell’Egeo. 1380 a.C. Fondazione dell’impero ittita. L’insediamento di Troia VI è colpito da 1350 a.C. un grave terremoto. Una nuova città, chiamata Troia VIIA, è prontamente ricostruita. Per gli archeologi e gli storici si tratterebbe della favolosa città descritta da Omero e distrutta da una coalizione di città greche. 1250 a.C. circa In un testo Ittita, il re Hattusili III, nel rivolgersi a un re greco come a un «fratello», menziona la città di Wilusa (Troia) come oggetto di un conflitto tra i due Stati. 1210-1180 a.C. In questo arco di tempo cade la distruzione di Troia VIIA, in un attacco che sembra coincidere con l’episodio bellico della guerra di Troia, uno dei conflitti che opponevano gli immediati interessi delle città della costa anatolica alle scorrerie commerciali delle flotte delle città micenee.

tragicamente l’intera nazione dei Pelasgi. La cronologia degli eventi tramandata da queste fonti è oltremodo significativa: un paio di generazioni prima della guerra di Troia, e il tempo stesso dell’epocale conflitto. Una crisi globale, quindi. Sulle sponde orientali del Mediterraneo, «uomini nuovi» armati di ferro imparavano a scrivere, leggere e far di conto in pochi mesi, divenendo nuovi artefici dei propri destini. Il militarismo divenne una normale condizione di vita, amplificata dalla prospettiva di impadronirsi facilmente dell’oro e del bronzo delle grandi case palatine al tramonto. Cosí il mondo cambiò, in una grande e sanguinosa «rivoluzione mediterranea». E non è certo un caso che, oltre all’archeologia, dai racconti di Troia, situata emblematicamente sulla cerniera tra Europa e Asia, siano 46 a r c h e o

1200 a.C. circa 1000 a.C. 800-700 a.C.

334 a.C.

306 a.C. 188 a.C.

85 a.C. 20 a.C.

Invasioni dei Popoli del Mare, caduta

di Ugarit, di Hattusa e delle cittadelle micenee. Troia sopravvive ai rovesci, ma intorno a questa data è praticamente abbandonata. Il sito è rioccupato da Greci immigrati dalla vicina Lemno. Omero compone i suoi immortali poemi sulla «Sacra Ilio». Intorno alla rovinosa caduta della città e ai destini spesso tragici di protagonisti e superstiti fiorisce un intrico di nuove leggende. Alessandro Magno, sulla via dell’Asia, visita il sito di Troia e compie sacrifici sulle tombe identificate dalla tradizione locale come quelle di Achille e Patroclo. Troia torna a essere il centro egemone di una lega di città della regione prospiciente i Dardanelli. Troia (come Ilium Novum) viene riconosciuta dai Romani come il centro celebrato da Omero, ed è pertanto esonerata dal pagamento delle tasse. Distruzione della città nel corso del conflitto tra Roma e Mitridate. Nuova ricostruzione di Troia, per diretto volere di Augusto, il quale ne aveva visitato personalmente le rovine. Augusto finanziò il restauro del tempio di Atena Ilias, del bouleuterion e del teatro. Il mito di Troia viene sfruttato da Augusto e Virgilio come storia di fondazione e legittimazione della supremazia imperiale romana.

nati, come si è giustamente sostenuto, l’epica, il romanzo, la tragedia e, in fondo, l’idea archetipica della storia in cui si è alimentata la cultura dell’Occidente. Artisti e poeti trovano l’ispirazione piú vera nelle acque della crisi e della trasformazione.

la città multiforme Troia la «sacra agli dèi», Troia «la ventosa», dove soffi imperiosi accostavano o respingevano le navi di mercanti e pirati; a questi remoti appellativi omerici dovremmo forse aggiungere quello di Troia «la multiforme», poiché piú volte il nome della città è apparso, negli scritti di poeti, di archeologi, storici e antichisti, in luci completamente diverse. I primi pensatori (segue a p. 50)


la STRATIGRAFIA Per gli archeologi, i tell (sono una preziosa miniera di conoscenze. Un attento sterro degli strati (letteralmente sigillati nel tempo fino all’inizio del secolo scorso) fornisce molti dati sulla cronologia del luogo e sulla storia dei suoi abitanti. Considerati verticalmente, i singoli strati di un tell possono essere paragonati alle pagine di un libro, il cui primo capitolo inizia con le costruzioni a ridosso del terreno. L’archeologo chiama stratigrafia

l’analisi e l’interpretazione di una tale porzione di scavo attraverso un «pacchetto di insediamento». Ciò che oggi deve essere perfettamente padroneggiato da ogni archeologo, e che gli viene trasmesso nei primi anni universitari come requisito imprescindibile, ai tempi di Heinrich Schliemann era ancora ai primordi. IX

VIII

VII

VI

V

Anatomia di una collina. IV

III

II I

Il disegno qui accanto illustra i nove insediamenti succedutisi, nel corso dei millenni, sulla collina di Hissarlik/Troia. Dal basso verso l’alto: Troia I (età del Bronzo Antico II, 2920-2350 a.C. circa); Troia II (età del Bronzo Antico II, 2600-2450 a.C. circa); Troia III-V (Bronzo Antico III/ Bronzo Medio, 2450-1700 a.C. circa); Troia VI (Bronzo Medio/Bronzo Tardo, 1700-1250 a.C. circa); Troia VII (Bronzo Tardo/prima età del Ferro, 1250-1040 a.C. circa); Troia VIII (prima del 700-85 a.C., la Ilion di età greca); Troia IX (85 a.C.-500 d.C. circa, la Ilion o Ilium di età romana). Il disegno in alto, invece, mette a confronto la pianta di Troia VI (in rosso) con la cittadella e la città bassa circondata da un fossato e quella di Troia IX (in azzurro), con l’acropoli, il teatro e la rete viaria ortogonale.

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troia • i luoghi della leggenda

Sei personaggi in tempo di crisi L’Iliade ci ha donato una serie di figure indimenticabili, che, nella loro endemica irrequietezza, bene illustrano altrettanti aspetti della grande crisi della fine dell’età del Bronzo. Omero chiama Agamennone anax, cioè re. La parola riflette il termine wanax, usato con lo stesso significato nelle tavolette micenee. Guerriero fiero e robusto, di alta statura e dalle spalle possenti, Agamennone è l’arrogante despota del suo palazzo e capo di una schiera di signori di rango minore, che chiama a costituire l’esercito e la flotta piú temibile del mondo greco. Nella sua figura si raccolgono il carattere e i valori della tradizionale, arcaica regalità micenea. L’elegante e sensuale principe troiano Paride, abilissimo con l’arco, è uomo di altra e piú recente ispirazione: il suo innamoramento per Elena, al di là del romanzetto sentimentale, può celare una condizione tanto critica quanto ricorrente nelle aristocrazie del tempo, quella di essere costretti dall’affollamento dinastico a cercar fortuna fuori dal proprio palazzo. Il principe, infatti, sedotta Elena, ne trafuga il personale tesoro e apre le vele alla volta di casa. Alla sua amante Elena vanno riconosciuti, oltre alla bellezza e all’aura tragica di una passione fatali, il calcolo politico e l’ammirevole coraggio dell’avventura. Come ha scritto lo storico Barry Strauss «Se Paride mirava a usare Elena per migliorare la sua posizione nella propria casa regale, e quella di Troia nello

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scacchiere internazionale, anche lo scopo di Elena era quello di usare Paride». I due amanti di Omero, quindi, si rispecchiano nella spregiudicata ricerca di destini personali che infrangono per sempre gli antichi valori aristocratici. Achille ed Ettore sono i due volti contrastanti della stessa radicata passione per guerre e massacri: il primo vive le questioni di onore attraverso il nitido specchio dei sodalizi tradizionali con i suoi compagni maschi in armi; l’altro nel lacerante conflitto tra le esigenze dell’affetto domestico e la responsabilità nei confronti di una inedita comunità cittadina. E di questa nuova città, in fondo, è immagine immortale il gran re Priamo: nobile, ma cauto e intelligente, protetto da possenti bastioni e consigliato da altri saggi, rappresenta, con i suoi cento figli, l’immenso potenziale storico di un nuovo sogno – piú ancora che una nuova idea – di Stato urbano. Poco conta che questa città sia condannata dalla furia devastatrice delle armi di Achille e dei suoi: è un sacrificio destinato a infondere linfa vitale nella storia che verrà. Alcuni degli eroi della guerra di Troia, in un’incisione di scuola inglese del XIX sec.


«Questa lettera la invia Penelope a Ulisse lento a tornare. Ma non rispondermi, vieni tu stesso. Troia, odiata dalle donne greche, è stata rasa al suolo: Priamo e Troia tutta a malapena valevano tanto! (...) Ma un dio giusto verso gli amori onesti è venuto in mio soccorso: Troia è ridotta in cenere, e mio marito si è salvato. I re dell’Argoldie fanno ritorno, gli altari fumano, il bottino dei barbari viene offerto agli dèi dei nostri 40 padri; le giovani spose portano doni di ringraziamento per la salvezza dei mariti ed essi cantano i destini di Troia, vinti dai loro destini (...) E qualcuno, sulla tavola apparecchiata, narra delle cruente battaglie e dipinge con un po’ di vino Pergamo tutta: “Di qua scorreva il Simoenta, questa è la zona del Sigeo, qui si ergeva, una volta, la superba reggia del vecchio Priamo. Là aveva le tende il figlio di Eaco, là Ulisse, qui il corpo straziato di Ettore spaventò i cavalli lanciati in corsa”». (Ovidio, Le Eroidi, Lettera di Penelope a Ulisse)

Skyphos (bicchiere a due manici) a figure rosse raffigurante il celebre episodio cantato nell’Iliade in cui il vecchio re troiano Priamo supplica Achille di restituirgli il corpo del figlio Ettore, abbandonato sotto il letto del principe, da Cerveteri. Pittore di Byrgos, 490 a.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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troia • i luoghi della leggenda

dell’Europa post-rinascimentale, come reazione al classicismo accademico, erano molto scettici sulla storicità del contenuto dell’Iliade. Per esempio, nei Pensieri del filosofo Blaise Pascal (1623-1662) leggiamo che «Omero scrisse un romanzo, perché nessuno suppone veramente che Troia e Agamennone siano esistiti, piú delle mele delle Esperidi». Intorno al 1840, lo storico britannico George Grote (1794-1871) sostenne che gli scritti di Omero erano una fedele rappresentazione della Grecia della prima età del Ferro, ma che la storicità della guerra di Troia non era proponibile. Le due campagne di scavo di Heinrich Schliemann sulla collina di Hissarlik, condotte negli anni 1871-73 e 1878-79 presso la moderna città di Çanakkale, nell’angolo nord-occidentale della penisola anatolica, di fronte ai Dardanelli, cambiarono radicalmente questa percezione e fecero di Troia una realtà archeologica precisa, accettata da buona parte del mondo scientifico. Le opinioni di Schliemann furono suffragate dal suo successore Wilhelm Dörpfeld (1853-1940), che scavò Hissarlik tra il 1893-94, come dall’americano Carl William Blegen (1887-1971), già scavatore della In alto: disegno ricostruttivo di un tratto delle mura di Troia VI all’altezza della Porta Sud della città bassa. In basso: veduta aerea del sito archeologico di Troia, con strutture risalenti alle diverse fasi di vita. In primo piano,

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le terme e l’odeon della Ilium Novum di epoca romana. Nella pagina accanto: la ricostruzione del cavallo di legno, protagonista del celebre stratagemma grazie al quale gli Achei riuscirono a espugnare la città di Priamo.


perchÉ è importante

L’archeologia vive dell’impatto mediatico di Troia e della fascinazione che continua a suscitare in un pubblico ben piú vasto di quello degli specialisti. Da questo punto di vista, la collina di Hissarlik è a tutti gli effetti la sala parto dell’archeologia moderna, sia dal punto di vista scientifico (pur considerando le ben note e gravi incertezze stratigrafiche dell’opera di Heinrich Schliemann), sia da quello dei suoi riflessi sulla cultura di massa.

il sito nel mito

T ramite il filo dell’Iliade, Troia e la sua drammatica fine hanno dato origine allo scenario fondante di gran parte della cultura occidentale. Oltre all’Iliade, nell’Odissea e nelle leggende dei Nostoi («i ritorni») si cela il ricordo dell’espansione greca verso la penisola Italiana e, in generale, la matrice storica della diffusione verso occidente della cultura greca. La collocazione del mito troiano in un nodo geopolitico davvero cruciale alle porte dell’Asia ispirò per secoli, fino alla spedizione di Alessandro Magno, la retorica nazionale ellenica contro la minaccia dei Persiani; per converso, la propaganda imperiale romana trovò in una fittizia discendenza dalla famiglia di Priamo una straordinaria giustificazione storica alle proprie politiche imperialiste nei confronti della Grecia.

troia nei musei del mondo

Troia non c’è ancora un Museo; l’architetto turco Omer Selcuk Baz ha vinto un A concorso per il miglior progetto per una futura costruzione: un enorme cubo d’acciao coronato da una fitta merlatura. In attesa della sua realizzazione, ci si può «consolare» con il «tesoro di Priamo», conservato nel Museo Pushkin di Mosca (www.arts-museum.ru). Una replica dei gioielli è esposta anche presso gli Staatliche Museen di Berlino (www.smb.museum), che da tempo sostengono un duro contenzioso con la Russia per la restituzione dei reperti (vedi «Archeo» n. 341, luglio 2013).

informazioni per la visita

I l sito di Troia si può raggiungere da Istanbul con la propria auto, con bus o con i viaggi organizzati dalle agenzie di viaggio. Poiché il tragitto dura circa cinque ore, è consigliabile programmare l’escursione in modo da prevedere il pernottamento a Çanakkale o in un’altra località vicina. Lo sforzo sarà notevole, e qualcuno si aspetterà, invano, di vedere le stesse scenografie dei film hollywoodiani; ma nulla può sostituire, per i lettori di Omero, la vista che si gode dalla cima della cittadella... mentre i bambini potranno divertirsi a giocare con il cavallone di legno costruito ai piedi di Hissarlik. a r c h e o 51


troia • i luoghi della leggenda

Un tesoro di conchiglie rosse Gli scavi di Troia hanno restituito ben 54 000 gusci di conchiglie marine, che formano la piú vasta raccolta di malacofauna dell’archeologia egea. Ostriche e gasteropodi venivano raccolti, a scopo alimentare, nelle vicine lagune di Karamenderes e Dümrek. L’importanza dei «frutti di mare» nella dieta diminuí gradualmente dal III millennio a.C. in poi, e, ai tempi di Priamo, Paride ed Elena, la loro raccolta non era piú un’attività di cruciale importanza economica. Gli archeologi Canan Çakirlar e Ralf Becks hanno però accertato che a Troia confluivano enormi quantità di conchiglie di Hexaplex trunculus, fonte della preziosa porpora; il massimo sfruttamento di questo mollusco si registra proprio nei secoli della tarda età del Bronzo, che comprendono l’apogeo e infine la distruzione bellica di Troia. Indirettamente, l’industria del pigmento testimonia l’importanza che a Troia rivestivano i laboratori di tessitura, anche sotto la crescente influenza delle attività commerciali promosse dalle vicine città minoiche e poi micenee.

il grande gioco dei nomi Dobbiamo al lavoro degli storici e dei filologi l’apertura, nell’ultimo decennio, di una prospettiva tra le piú affascinanti sul mondo omerico: l’intuizione che nell’Iliade rivivano personaggi storici, luoghi e vicende realmente accaduti, ma ripresi e trasfigurati, secoli dopo, nel racconto omerico. Molti dei nomi di persone e luoghi cantati dal poeta, infatti, sono stati rintracciati su alcune tavolette minoiche (in Lineare B) e in testi ittiti di quattro o cinque secoli piú antichi rispetto all’epoca di Omero. Riportiamo qui alcuni esempi.

Achireu Nome proprio che si ritrova nelle tavolette micenee di Pilo e Cnosso, è, quasi certamente, una versione arcaica del nome di Achille, che già circolava tra il XIV e il XII secolo a.C. Il nome probabilmente associa le radici dei termini greci achos («paura») e laos («gruppo di armati»). Achille, anche nel nome, è il piú terrificante guerriero mai esistito.

Ahhiyawah Sembra essere stato il nome dato dagli Ittiti al piú importante regno miceneo tra il XV e il XIII secolo. Si trovava sulla costa anatolica, a sud di Troia; nell’etnonimo riecheggia quello degli Achei, il termine che Omero usa per chiamare la confederazione greca riunitasi contro Troia. La capitale del regno era Millawanda. Un popolo con un nome non dissimile, Ekwesh, è ricordato dai testi egiziani tra i Popoli del Mare, le cui scorrerie, intorno al 1200 a.C., resero gravemente instabile il Mediterraneo orientale.

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rocca micenea di Pilo, che lavorò a Hissarlik nel periodo 1932-38. E come negare che i versi di Omero, a volte, descrivevano con assoluta esattezza manufatti micenei che ai tempi del poeta non erano piú in uso da secoli? Solo una fedelissima tradizione orale, o la conservazione per secoli degli stessi oggetti nei thesauroi dei templi greci, spiegavano razionalmente questo aspetto «archeologico» delle pagine dell’Iliade.

un’intuizione decisiva Nel 1920,Troia e le vicende dei suoi celebri eroi erano state strappate dal «contenitore» elegante e un po’ statico dell’attenzione dei classicisti, per essere proiettati di colpo in una età del Bronzo globalizzata, nella quale Greci, Ittiti, Troiani e persino i faraoni d’Egitto avevano avuto contatti inattesi, essendo coinvolti in convulsi conflitti ed estenuanti trattative internazionali. Questo nuovo quadro si deve alle intuizioni dell’assiriologo e ittitologo Emil Orcitirix Gustav Forrer (1894-1986), il quale affermò che in due località chiamate nei testi ittiti Wilusa e Taruisa si dovevano rispettivamente riconoscere Troia (l’Ilion di Omero) e il suo territorio, chiamato, appunto, Troade. Malgrado ciò, a Troia non erano stati trovati un archi-

Alaksandu Un re di Wilusa (Troia), di cui

troviamo la menziona in un testo ittita, è nel nome molto simile al principe Alexandros (nome greco di Paride, figlio di Priamo, nei testi omerici). Tuttavia, la connessione è ancora incerta: Alaksandu visse un secolo prima degli scontri che si combatterono Troia, e potrebbe trattarsi della trascrizione ittita del nome greco. Pari-zitis, originale forma del nome omerico Paride, è un nome ittita di certa origine luvia.

Apaliunas È una divinità maschile citata in un testo ittita come nume titolare di Wilusa (Ilion); la coincidenza con la menzione omerica di Apollo, quale principale protettore divino di Troia, non può essere attribuita a caso. Aplu è un nome simile, dato dal popolo degli Hurriti (Siria settentrionale) al dio delle pestilenze, proprio come, per i Greci delle età successive, le piaghe della malattia erano dovute alle invisibili saette del dio del sole. Attarsiyya È il solo capo di Ahhiyawah del

quale conosciamo il nome, ricordato dai testi ittiti come colui che condusse cento cocchi da guerra contro il proprio sovrano, e conquistatore di Alashiya (l’isola di Cipro). Alcuni studiosi sono propensi a riconoscervi il nome di Atreo, il mitico re di Argo e di Micene, padre di Agamennone e Menelao (che furono perciò detti Atridi).


Qui sotto: vaso decorato con motivi marini, da Troia II. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Alla ricerca dei calici perduti A Troia, scavi vecchi e nuovi hanno spesso portato in luce frammenti di ceramiche fabbricate nello stile inconfondibile dei vasai del mondo miceneo. Si tratta dei vasi che avevano viaggiato negli scafi della potente flotta di Menelao e Agamennone, e nei quali gli eroi omerici avevano affogato ansie e dolori? Curiosamente, no. Un campione di piú di 150 frammenti di vasi micenei, raccolti da strati databili tra il XIV e la fine del XII secolo a.C., studiato con tecniche di analisi chimica, rivela che i vasi fatti e decorati in stile «greco» erano stati fabbricati in tre diversi laboratori, tutti attivi nelle vicinanze di Troia. Solo pochi frammenti provengono dal territorio greco; e nessuno dall’Argolide, cioè dalla terra dei re di Micene. Le tazze da vino in terracotta di Agamennone, immerse nelle giare della riserva personale del re Priamo per festeggiarne la caduta, devono essere ancora dissepolte.

Danaja All’epoca dei faraoni della XVIII dinastia

(1543-1292 a.C.), è il nome assegnato dagli Egizi alla sfera di influenza micenea: il termine risulta molto simile a quello che designa i Danai, vale a dire i discendenti di Danao (con quello di Argivi e Achei, viene frequentemente usato da Omero come appellativo dei Greci). Il paese di Danaya comprendeva allora Bayasta (Festos), Kanusa (Cnosso), Mukuna (Micene), Naplya (Nauplion).

LAZPA Nome ittita dell’isola di Lesbo.

Millawanda base principale o capitale del regno di Ahhiyawah, identificata nella piú antica città costiera di Mileto.

Piyamaradu (o Piyama-Radu). Era un personaggio bellicoso e irrequieto, il cui nome compare spesso negli archivi reali del medio e tardo XIII secolo a.C. nell’Anatolia occidentale, per un arco di 35 anni. Ribellatosi contro ben tre diversi sovrani ittiti, Piyamaradu attaccò i Paesi della costa anatolica di Arzawa, Lazpa, Wilusa. Sulla base della parziale affinità del nome, alcuni lo identificano con il re Priamo dell’epica omerica. Ma la sua «carriera» mal si combina con l’immagine carismatica del vecchio patriarca di Troia celebrata nell’Iliade. Altri hanno invece associato Priamo al nome luvio Priimuua, che significherebbe «l’eccezionalmente coraggioso».

Taruisa Si tratta, probabilmente, del nome ittita della regione di Troia, la Troade. T-R-S (o Tursha) è il nome di un’altra nazione appartenente al novero dei Popoli del Mare citata dalle iscrizioni egiziane.

Wilusa È il nome che nei testi ittiti designa l’Ilion dei testi omerici. Il nome è considerato una trasformazione di un precedente toponimo Wilion.

In alto e qui accanto: altri esemplari di vasi recuperati negli scavi di Troia. III mill. a.C. Istanbul, Museo Archeologico. Analisi chimiche sugli impasti ceramici hanno provato che la produzione era in larga parte assicurata da laboratori attivi nei pressi della città.

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troia • i luoghi della leggenda

Erroneamente, Heinrich Schliemann attribuí i preziosi gioielli rinvenuti nel livello di Troia II al leggendario re Priamo, mentre, in realtà, essi appartengono a un’epoca piú antica di quattro secoli

In questa pagina: particolare di un diadema (in alto) e una collana in oro facenti parte del cosiddetto «tesoro di Priamo», scoperto a Troia da Schliemann nel 1873. Scomparsi durante la seconda guerra mondiale, i preziosi reperti sono ricomparsi nel 1993, e sono conservati nel Museo Pushkin di Mosca.

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prendo che quest’ultima, come in moltissimi altri centri dell’età del Bronzo, era circondata da una «città bassa» di almeno 27 ettari, cinta da grandi opere monumentali di difesa, che, intorno al 1250 a.C., poteva avere ospitato 7000-10 000 abitanti. Nel 1992, in particolare, la nuova missione aveva localizzato due ampi fossati perimetrali, scavati tra il 1700 e il 1500 a.C. e caduti in disuso proprio intorno alla fatidica data del 1200 a.C. Nel 1995, un sigillo circolare a due facce con un nome maschile e uno femminile scritti in luvio (una delle lingue ufficiali dello Stato ittita) dimostrò per la prima volta l’esistenza di un legame diretto tra Troia e il mondo ittita.

Particolare di un pettorale, facente parte anch’esso del «tesoro di Priamo». Mosca, Museo Pushkin.

vio di tavolette, né iscrizioni che confermassero l’antico nome della città e le visioni ispirate degli archeologi. Inoltre, le varie date proposte per il conflitto (intorno al volgere del XIII secolo a.C.) coincidevano con un momento particolarmente oscuro della storia del Mediterraneo, quello della grande crisi di cui abbiamo già detto, e della caduta delle cittadelle micenee nella madrepatria. Come poteva una flotta potente come quella descritta da Omero aver salpato proprio in quegli anni difficili e confusi? Inoltre, la cittadella fortificata di Troia, tra il 1700 e il 1200 a.C., appariva piccola e insignificante rispetto alla grandeur delle sue descrizioni poetiche. Molti studiosi, quindi, rimanevano scettici, e lentamente, dopo il secondo conflitto mondiale, l’ago dei pareri degli esperti tornò a pendere verso le ipotesi del romanzo e della leggenda... almeno fino al 1988, quando la storicità del conflitto e della grande città di Omero tornarono in auge. In quell’anno, infatti, tornò a lavorare a Troia Manfred Korfmann, a capo di un progetto congiunto delle Università di Tubinga e Cincinnati. Korfmann decise di lavorare fuori dalla cittadella, sco-

uno Stato vassallo degli ittiti Oggi molti studiosi, sulla scia delle interpretazioni di Korfmann e delle ricostruzioni degli ittitologi, considerano Troia, cioè la Wilusa della tarda età del Bronzo, come uno Stato vassallo dell’impero ittita. Tra il XIV e il XIII secolo a.C. Wilusa, a causa delle sue enormi potenzialità commerciali, rivolte agli spazi economici del Mar Nero, sarebbe stata aspramente contesa tra lo Stato greco di Ahhiyawah/Danaja e gli Ittiti. Gli Ahhiyawah – lo rivelerebbe un’attenta lettura degli scarni testi ittiti – avrebbero protetto un capo militare di nome Pijamaradu, un avventuriero di Millawanda, cioè di Mileto – contro le aspirazioni territoriali degli Ittiti. Sembra che in questo frangente la tensione tra le due potenze – Ahhiyawah (forse sotto l’influenza di Tebe), e Ittiti – sia aumentata, e che gli ultimi abbiano reagito attaccando Millawanda, cosí da causare, come ritorsione, l’attacco greco a Wilusa/Troia. L’assenza di qualsiasi menzione di Millawanda/Mileto nell’Iliade potrebbe essere spiegata proprio da un grave scacco subito in precedenza dalla sua comunità urbana e commerciale. Poco dopo questo episodio, entrambe le parti collassarono, ma il ricordo dello scontro era ben saldo, e si fissò subito nelle leggende e nella poesia epica, da dove Omero, quattro secoli piú tardi, attinse il suo materiale. Se oggi questo scenario storico, complesso e articolato, è straordinariamente seducente, non è il caso di abbandonarci a facili certezze. Come certe isole che emergono dal mare per sprofondarvi subito dopo, Troia ha la capacità unica di sbucare d’un tratto dall’incertezza del mito, per rientrarvi ben presto a pieno diritto. È facile prevedere che, in futuro, nuovi studiosi metteranno in discussione quanto abbiamo delineato nelle righe precedenti, e propenderanno nuovamente per le ipotesi del racconto leggendario. È la legge della «questione omerica», e proprio in questo, in fondo, risiede tuttora buona parte del fascino della fatale città. nel prossimo numero

biblo culla dei fenici a r c h e o 55


civiltà cinese • arte rupestre

CINA il racconto delle rocce di Paola Demattè e Marco Meccarelli

L’

arte rupestre è il piú grande archivio che l’umanità possegga sulla propria attività intellettuale e spirituale, prima dell’invenzione della scrittura. In Cina, le pitture e le incisioni rupestri tramandano prevalentemente un’altra storia, quella «scritta» dalle numerose etnie che hanno legittimato il proprio universo sociale e culturale, dalla remota antichità fino all’età moderna. Con l’approfondimento sul contributo cinese a un codice pittografico e ideografico, condiviso in tutto il mondo, inizia una nuova serie: «Universo Cina: religione, cultura, arte». Un percorso scandito da aree tematiche, utili a fornire un quadro piú completo sulla nascita e sullo sviluppo della civiltà cinese, per comprendere la sua complessità spirituale, intellettuale ed estetica, dal Neolitico fino a tempi piú recenti.

Il fenomeno dell’arte rupestre accomuna tutte le civiltà del mondo e si pone come punto di intersezione tra scultura, pittura, artigianato, scrittura e letteratura, oltrepassando il confine tra mondo colto e popolare. Il suo studio implica un viaggio fin oltre le frontiere della storia, con cui vengono ridisegnati gli orizzonti del nostro sapere. Scene di caccia, agricoltura, vita domestica e battaglia, assieme a un complesso vocabolario figurativo che sembra 56 a r c h e o

connesso con il rito e il culto religioso, sono i motivi prevalenti. Il corpus di rappresentazioni, dalle ultime fasi del Paleolitico (30 000 circa-10 000 a.C.) fin oltre i confini Huashan (Guangxi). Figure umane (soprattutto «oranti»), zoomorfe, armi e cerchi con motivi a forma di stella (tamburi rituali) dipinte su una roccia, nel periodo compreso tra gli Stati Combattenti (403-221 a.C.) e la dinastia degli Han Orientali (26-220 d.C.).


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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civiltà cinese • arte rupestre

un mosaico di genti La Repubblica Popolare Cinese si definisce a livello ufficiale uno Stato multietnico unitario e pertanto riconosce 56 gruppi etnici o Minzu. Il gruppo principale è quello degli Han, che include piú del 92% della popolazione, mentre le altre 55 nazionalità vengono designate come minoranze. Gli stessi Han, è opportuno precisarlo, derivano da una molteplicità di popoli, amministrati dal III secolo a.C. dall’omonima dinastia che forní i fondamenti della prima grande unità culturale e sociale dai connotati imperiali (vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013). Le minoranze si distinguono per il valore etnico e culturale: il Nord (dal Xinjiang alla Manciuria), per esempio, è prevalentemente occupato da gruppi di origine turca, tungusa, mongola e mancese, mentre il blocco montuoso occidentale (Tibet e Qinghai) è abitato perlopiú dai Tibetani, e il Sud-Ovest (Yunnan e vallate dei grandi fiumi) è sede di una considerevole varietà di popoli tribali, che parlano lingue appartenenti a ceppi differenti. Nella provincia dello Yunnan vivono ben 25 etnie, il che ne fa la provincia piú multietnica della Cina. Oltre alle 56 etnie riconosciute, esistono anche sub-culture, che si dichiarano appartenenti a gruppi non classificati o non riconosciuti a livello ufficiale. Il grado di integrazione delle etnie con quella principale varia largamente da gruppo a gruppo. Alcuni, come i Tibetani e gli Uiguri sono spesso in conflitto, mentre altri gruppi come gli Zhuang, gli Hui e l’etnia dei Cinesi coreani sono invece ben integrati.

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della storia, ha costituito uno dei piú significativi codici con il quale l’uomo «ha raccontato» se stesso. I primi studi sistematici di queste manifestazioni artistiche risalgono alla seconda metà del XIX e soprattutto al XX secolo. Nel 1984, quando il Bollettino del Centro Camuno di Studi Preistorici pubblicò un rapporto mondiale sullo stato delle ricerche, l’area cinese appariva come una cartina muta. L’anno successivo l’allora direttore di ricerca nell’Istituto Centrale delle Nazionalità di Pechino, Chen Zhao Fu, scrisse in una lettera che: «Oltre cento siti di arte rupestre sono stati scoperti in Cina negli ultimi trent’anni, ma essi sono poco noti agli studiosi a livello internazionale». Da quel momento si venne a conoscenza di un patrimonio ingente, distribuito in un territorio vastissimo, quale è quello cinese, nel cui ambito è attestata una let-

teratura critica ben piú antica di quella europea. Già nel V secolo, infatti, un geografo vissuto durante gli Wei Settentrionali (386-534; vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013; anche on line su archeo.it), menzionò in un trattato (Shui jing zhu) circa venti località, descrivendone le tecniche, la pittura, l’incisione e i soggetti rappresentati. Seguirono poi diverse cronache scritte, molte delle quali locali, che segnalarono altre testimonianze, sparse nel vasto impero.

vietato indicare Queste prime descrizioni sono spesso alimentate da un’aura di magia, come testimonia una cronaca locale (Yi xi cong zai) redatta durante l’ultima dinastia imperiale (Qing, 1644-1911). Vi si narra che non fosse permesso ai comuni mortali di puntare il dito verso le pitture rupestri di Huashan (provincia del


Guangxi), perché dimore degli spi- In basso: incisioni rupestri antropomorfe a Heishan (Gansu). 3000-2000 anni fa. riti, secondo il folclore popolare: i trasgressori si sarebbero ammalati gravemente. Oltre alle fonti scritte, anche la tradizione orale è stata di fondamentale importanza per l’indagine archeologica: le pitture rupestri nella zona di Cangyuan (Yunnan), infatti, sono state scoperte nel 1965, grazie ai luoghi menzionati da una leggenda popolare in cui si tramandava di strane figure fatate che apparivano e scomparivano sulle pareti rocciose. Gli studi finora intrapresi hanno offerto un quadro decisamente piú chiaro: osservando la documentazione in nostro possesso, l’arte rupestre in Cina presenta spesso le caratteristiche che la iden15. Altay; 16. Emin; 17. Nilka; 18. Kuruktag; 19. Ali; 20. Gongxian; 21. Zhaojue; 22. Cangyuan; 23. Qiubei; 24. Lunan; 25. Fusui; 26. Huashan; 27. Daxin; 28. Tiandeng; 29. Panjiang; 30. Hua’an; 31. Lianyungang; 32. Jixian; 33. Tunglung.

Nella pagina accanto: donne di etnia Zhuang, minoranza etnica concentrata principalmente nel Guangxi. In basso: cartina della Cina, con la distribuzione delle etnie principali e la localizzazione di alcuni dei piú importanti siti d’arte rupestre: 1. Hailin; 2. Yinshan; 3. Baichahe; 4. Wulate; 5. Alashan; 6. Haibuwan; 7. Shizuishan; 8. Helanshan; 9. Qingtongxia; 10. Jingyuan; 11. Heishan; 12. Qilianshan; 13. Halonggou; 14. Hami;

Heilongjiang 15

16

1

17

Jilin 14

Tarim

Xinjiang

Mongolia Interna

Taklimakan

12

11

Shanxi

5

7 8 Gansu 9 Ningxia 13 6

Qinghai

19

Shandong

10

Henan

Hubei

Sichuan

Zhejiang Hunan

20

21

Turchi

Tai

Mongoli

Tibeto-Birmani

Tungusi

Miao-Yao

Coreani

Indoeuropei Tagiki

Austroasiatici Mon-Khmer

Maleo-polinesiani

24 Yunnan 22

Jiangxi 30

29 23

Guangxi 28 27

25 26

Mar Cinese Or ient ale

Fujlan

Guinzhou Han

31 Jiangsu

Mar Giallo

Anhui

Tibet

Altaici

Hebei

32 Shaanxi

Sino-tibetani

Liaoning

2

4

18

3

Guangdong 33

Mar Cinese Mer idionale

Indonesiani

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civiltà cinese • arte rupestre

Qui sopra: Jiayuguan (Gansu). Particolare di una roccia incisa con raffigurazioni di animali.

tificano come opera di popolazioni a economia complessa. Si è soliti sostenere che l’affermarsi di civiltà provviste di scrittura abbia prodotto, a livello mondiale, un repentino rallentamento di segni incisi o dipinti sulla roccia, anche se parte del loro patrimonio simbolico è ancora oggi vivo nel folclore e in diverse tradizioni. Lo studio di quest’arte ha permesso, quindi, la conoscenza della cultura preistorica nelle sue numerose espressioni, ma ha consentito anche di porre in rilievo la ricaduta di tale patrimonio grafico nel folclore moderno. In Cina, inoltre, l’arte rupestre è attestata soprattutto tra le minoranze etniche, che hanno mantenuto, nell’arco dei secoli, la propria identità culturale, offrendo nuove e ampie prospettive di confronto con le realtà territoriali dell’epoca antica e 60 a r c h e o

in parte moderna. Si tratta in pratica di una storia parallela a quella «ufficiale», scritta da numerosi popoli, il cui stile di vita e le cui credenze erano e sono intrinsecamente estranee alle usanze degli Han, il gruppo etnico maggioritario stanziatosi nella Cina centrale, proprio nei territori in cui, nel III secolo a.C., viene fondato l’impero.

distribuzione dei siti I siti di arte rupestre sono concentrati soprattutto nelle aree di confine, in zone scarsamente popolate: a nordovest e a sud delle fertili terre della valle del Fiume Giallo (Huanghe) e del bacino del Fiume Azzurro (Yangzi). Sono perlopiú rari nelle aree densamente abitate della Pianura Centrale (Zhongyuan), cosí come lungo le coste, sebbene alcuni siti siano noti anche in queste zone (in particolare, nella fascia costiera Hua’an Xianzitan nel Fujian e Lianyungang nel Jiangsu; vanno inoltre segnalati, nella Pianura Cen-

trale, segni incisi su massi e depressioni circolari, recentemente scoperti sul monte Juci, Henan). Tale modello di distribuzione è probabilmente imputabile ai diversi livelli di antropizzazione delle varie regioni, ma anche ai peculiari ambienti culturali e alle pratiche artistiche delle numerose etnie che, sin dalle origini (vedi «Archeo» n. 335, gennaio 2013; anche on line su archeo.it), hanno formato la civiltà cinese. I siti di arte rupestre nelle zone densamente abitate e influenzate da religioni organizzate, come il buddhismo e il taoismo, sono numericamente inferiori, perché i templi dedicati a questi culti e la pressione antropica ne hanno nascosto o cancellato per sempre le tracce. Ogni scoperta di un sito d’arte rupestre porta con sé la propria storia, che rivela l’accrescimento di caratteri regionali e di stili figurativi vernacolari, utili a riconoscere lo sviluppo sempre piú autonomo delle varie popolazioni che, col tempo, acquisi-


scono specifiche identità, abitudini, culti e canoni di comportamento. La specializzazione dei vari aspetti dell’economia complessa, nel Neolitico Tardo (3000-2000 a.C.), comporta la raffigurazione di un considerevole numero di animali domestici (canidi, capridi, ovini, bovini, suini, equini, camelidi), combinati con tecnologie nuove e sempre piú sofisticate, come arco, freccia, carro su ruote, armi in metallo (pugnale, spada), scudi, copricapo, indumenti, strumenti musicali, ecc. Per ragioni stilistiche, culturali, geografiche, ma anche convenzionali, l’arte rupestre cinese viene generalmente suddivisa in due gruppi principali: uno al nord e uno al sud, sebbene non si tratti di una rigida distinzione geografica.

nomadi e pastori L’arte rupestre settentrionale è distribuita in territori montuosi o desertici, lungo le regioni di frontiera a nord (Liaoning, Mongolia

A destra: Helanshan (Ningxia). Una roccia con incise le «maschere», forse rappresentazioni di sciamani mascherati o, piú probabilmente, legate al culto locale degli antenati. A sinistra: un tratto della Grande Muraglia, unificata nel III sec. a.C. durante il regno di Qin Shi Huangdi, primo imperatore della Cina.

quali date per l’arte rupestre? La datazione dell’arte rupestre risulta particolarmente complessa perché in Cina esistono anche testimonianze in tempi assai recenti, quando, lungo la valle del fiume Giallo, si era già affermata da molto la scrittura. Si è soliti ricorrere a diversi metodi: il piú frequente è quello del Carbonio 14, a cui seguono la valutazione dello stato di decomposizione, l’esame comparato degli stili di rappresentazione e infine la presenza di figure di animali di cui sia piú o meno certa la data di estinzione. Per le pitture di Huashan, per esempio, ci si è riferiti: ai rinvenimenti di un tipo di coltello con un manico circolare e di un tipo di campana a forma di corno dei quali si conosce l’epoca; alla considerevole rappresentazione pittorica di tamburi in bronzo e all’analisi del 14C della stalattite che ricopriva i soggetti raffigurati. I risultati hanno permesso di datare le pitture rupestri intorno ai 3000-2000 anni fa, come conferma anche la scoperta di mucchietti di monete in scavi circostanti. Le pitture sarebbero state realizzate dagli antenati dell’attuale gruppo etnico Zhuang, in un periodo compreso tra gli Stati Combattenti (403-221 a.C.) e gli Han Orientali (26-220 d.C.).

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civiltà cinese • arte rupestre

«SCRIVERE» NEL PAESAGGIO

Interna, Ningxia) e a ovest (Gansu, Qinghai e Xinjiang) della Cina. I reperti si riferiscono perlopiú a immagini scolpite o incise nella roccia (petroglifi), che rappresentano la cultura e lo stile di vita dei nomadi o dei pastori asiatici di etnia prevalentemente turco-mongolica (come i Xiongnu o i Xianbei). Tali popolazioni, dedite alla pastorizia e alla caccia, erano anche bellicose e periodicamente minacciavano, invadevano e terrorizzavano la popolazione stanziale e agricola del «mondo cinese». Da questi petroglifi possiamo riconoscere l’«universo» mobile e privo di confini del cacciatore-agro-pastorale, come testimoniano le rappresentazioni di animali selvatici e domestici (cervi, tigri, cavalli e capre), ma anche di strumenti del mestiere (carri, penne, archi e frecce) e di peculiari simboli rituali o religiosi (antenati ed esseri umani mascherati). Le incisioni di Heishan (Gansu) si trovano presso un antico insediamento militare cinese (Jiayuguan), 62 a r c h e o

In alto: incisioni rupestri di maschere e segni astratti a Ge’er’aobao Gou (Yinshan, Mongolia Interna), un canyon nel quale sono stati rinvenuti petroglifi, sepolture, luoghi di culto e abitazioni. A destra: Paola Demattè (prima, da sinistra), professore ordinario di arte e archeologia cinese alla Rhode Island School of Design (Providence, USA), a Helankou (Ningxia).

L’arte rupestre a Yinshan (nel Centro-Sud della Mongolia Interna) e a Helanshan (Ningxia), comprende molti siti noti e documentati, altri ancora da scoprire e studiare. In entrambe le aree, i petroglifi sono da attribuirsi a varie popolazioni preistoriche e storiche del Nord, tra cui i nomadi o semi-nomadi Xiongnü, Wuhuan, Xianbei, turchi Tujue, Xixia Tangut, e i Mongoli. I piú produttivi furono i Xiongnü e i Xianbei, tra il IV secolo a.C. e il V secolo d.C. Data la loro collocazione ai confini settentrionali, si può supporre che queste montagne siano state scelte, non solamente perché fornivano le superfici di pietra necessarie per le incisioni, ma anche per i loro canyon, vie di comunicazione che collegavano i territori della steppa con le terre piú fertili del Meridione e, quindi, della Cina. Le incisioni sono concentrate in luoghi che hanno caratteristiche molto particolari: posizione elevata o di difficile accesso, buona visuale, paesaggio particolare o associato alla presenza di acqua (sorgenti, cascate, fiumi). Allo stesso tempo i petroglifi sono scolpiti in posizioni e modi che permettono loro di essere visti da una certa distanza, e su superfici esposte al sole. Gli studi sull’arte preistorica supportano spesso l’idea che quelle rupestri siano le manifestazioni legate alle attività spirituali dei nostri antenati. Ultimamente è stata nuovamente sostenuta l’ipotesi che questa arte sia la raffigurazione su pietra delle visioni sciamaniche, durante gli stati alterati di coscienza, indotti da droghe allucinogene. Si sostiene che i segni ottenuti dallo stato di trance siano quelli astratti (a forma


di griglia, circolari o a stella), interpretati come rappresentazione di fosfeni (allucinazione visiva di punti luminosi o scintille, ottenuta dal cervello umano sotto costrizione). Altri segni di trance sciamanica sono le immagini antropomorfe, interpretate come lo sciamano vestito con la pelle di animali, o zoomorfe. Sebbene la Mongolia Interna e Ningxia rientrino in un contesto culturale e geografico legittimato dallo sciamanesimo, la studiosa Paola Demattè ha avanzato l’ipotesi che almeno alcune incisioni – per la considerevole presenza di tematiche riferite alla caccia e alla pastorizia, per la loro trattazione a carattere narrativo e per la loro disposizione accanto a importanti luoghi di passaggio – appaiono piuttosto come tentativi di comunicazione o di registrazione di significativi rituali ed eventi storici (pittura rupestre a Siyanjin), non necessariamente di origine religiosa. I temi della caccia e della pastorizia, con le loro diverse forme e stili, sono in pratica i simboli con cui le popolazioni nomadi identificano se stesse. Le famose maschere (rivenute a Helankou a Helanshan e a Molehetu Gou a Yinshan), inoltre, piú che volti o maschere di sciamani o altri specialisti religiosi, sembrano essere rappresentazioni legate al culto locale degli antenati, il cui utilizzo della figura umana è attestato da evidenze archeologiche e fonti storiche dei nomadi del settentrione (per esempio i Xiongnü erano conosciuti per le loro statuette in legno raffiguranti gli antenati). Paola Demattè valorizza anche il ruolo di scrittura o protoscrittura di queste immagini, realizzate perlopiú da popolazioni non alfabetizzate. Quando la scrittura si diffonde tra i nomadi (dopo il VI-VII secolo), si assiste dapprima a una mescolanza e poi a una graduale scomparsa delle incisioni a favore alle iscrizioni, senza che vi siano necessariamente implicazioni religiose. Si può riscontrare una connessione piú profonda e visibile, perlomeno in alcuni casi, tra singoli petroglifi e primi pittogrammi cinesi. Il modo stilizzato e abbreviato dei primi segni scritti è talora derivato da alcune convenzioni usate nell’arte rupestre: per esempio, le figure di animali con le corna, sia nei pittogrammi che nei segni sulla roccia, presentano il corpo solo accennato, con corna o criniere molto dettagliate. In altri casi si ritrova anche la stessa struttura compositiva: per esempio, a Damaidi (Ningxia), le incisioni raffiguranti un carro trainato da due cavalli presentano gli animali mostrati lateralmente, il carro visto dall’alto e le ruote ritratte frontalmente, proprio come i pittogrammi dell’antica scrittura cinese, rinvenuti sulle ossa oracolari Shang (XVI-XI secolo a.C.). Le immagini incise nel paesaggio, quindi, lungi dall’essere solo una misteriosa attività religiosa, sono, piú probabilmente, un tentativo di legittimare e prendere possesso del territorio, con cui definire l’universo sociale di appartenenza delle popolazioni che dominarono queste zone.

Un’altra immagine dei petroglifi incisi sulle rocce del canyon di Ge’er’aobao Gou.

fortificato all’estremità occidentale della Grande Muraglia, in uno dei principali snodi di accesso della via della seta (vedi «Archeo» n. 342, agosto 2013; anche on line su archeo.it). Qui, a partire dal 1972, sono stati scoperti numerosi petroglifi, solitamente istoriati sulla superficie piatta delle rocce di un nero luccicante, concentrati in tre gole (Mozi gou, Hongliu gou, Sidaoguxing gou), in prossimità di antiche fortificazioni.

antichi bovini I pochi graffiti scampati al degrado, ritraggono principalmente soggetti faunistici, attività differenziate (danze, caccia, ecc) e simboli religiosi; talora sono state rinvenute anche iscrizioni. I bovini raffigurati sono piuttosto comuni e alcuni potrebbero essere molto antichi, ma non risalirebbero al Paleolitico, come ipotizzato in precedenza. Un grande gruppo di tigri, uccelli, serpenti e tori, alcuni dei quali ormai estinti nella zona, testimonia che alcuni petroglifi sono di epoca preistorica o protostorica, e sono da associare, a livello locale, con le attività dei primi pastori turco-mongolici (Qiang, Xiongnü e Yueshi). Tali popolazioni hanno a lungo combattuto per il controllo di quest’area, occupata dall’impero Han nel I secolo a.C. I nomadi Xiongnü, acerrimi nemici dei Cinesi, solitamente prediligea r c h e o 63


civiltà cinese • arte rupestre

un esempio da seguire A colloquio con Emmanuel Anati Emmanuel Anati, archeologo, tra i piú grandi esperti a livello mondiale di arte rupestre, già Professore di preistoria all’Università di Tel Aviv e Ordinario di Paletnologia all’Università di Lecce, è fondatore e presidente del Centro Camuno di Studi Preistorici di Capo di Ponte (www.ccsp.it). Ha compiuto missioni di ricerca, spedizioni e consulenze per conto dell’UNESCO e di vari governi. Ha organizzato congressi e seminari internazionali sull’arte preistorica e primitiva, progettato e realizzato grandi

mostre e ha stimolato un movimento internazionale attorno a questa disciplina. Le sue ricerche in Val Camonica hanno portato l’arte rupestre di questa valle alpina all’inserimento nella lista del Patrimonio Culturale Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. Ha scritto e pubblicato oltre 70 volumi e numerose monografie tradotte in ben 20 lingue, tra cui segnaliamo la quarta edizione, aggiornata nel 2010, di World Rock Art. The primordial language (Archeopress, Oxford).

◆ Professor Anati, qual è il principale contributo che

l’arte rupestre ha offerto all’umanità? L’arte rupestre è un codice pittografico e ideografico, condiviso in tutto il mondo: il suo immenso corpus è un esempio di «letteratura» che precede la scrittura formale. È il piú grande archivio che l’umanità abbia su 50 000 anni della propria attività intellettuale e spirituale. È quindi una testimonianza di grandissima portata sullo sviluppo concettuale dell’uomo, da quando gli viene affibbiato il «presuntuoso» titolo di Sapiens. Un ingente patrimonio comprendente milioni di figure è stato rinvenuto soprattutto nell’emisfero meno densamente popolato del Sud del mondo, come in Australia e Sud Africa; In Europa, invece, la maggior concentrazione che si conosca è nella Valcamonica (350 000 incisioni). L’arte rupestre non nasce propriamente come arte, ovvero chi la faceva non andava a incidere e a dipingere le rocce per abbellirle, bensí per trasmettere e immortalare messaggi per i suoi simili, ma anche per le divinità, gli spiriti e le forze della natura. I cambiamenti di stile e di tipologia dell’arte, a seconda dello spirito di chi li produce, dipendono soprattutto dalla funzione per cui le immagini sono state realizzate, in considerazione dei peculiari contesti sociali di appartenenza. Al di là delle differenze, però, l’arte rupestre è un sistema di trasmissione di messaggi, di memorizzazione, di affermazione di miti e leggende, e segnala anche i confini della proprietà territoriale. Può essere considerata inoltre come una «scuola di iniziazione»: le pareti rocciose sono le «lavagne» sulle quali gli inizianti apprendevano e rappresentavano i miti locali. In Cina l’arte rupestre è un sistema di memorizzazione, è legata anche al culto e talora sembra trasmettere messaggi in codice per una sorta di «società segreta».

64 a r c h e o

◆ Quali sono le principali difficoltà che si riscontrano

quando vengono scoperti siti di arte rupestre, anche in relazione alla loro conservazione? La conservazione riguarda, in pratica, la salvaguardia dell’ambiente e l’esigenza di adottare determinati accorgimenti prima di aprire i siti al pubblico. Ma la difficoltà principale rimane, ancora oggi, l’interpretazione e la comprensione delle immagini: è un settore che deve essere adeguatamente sviluppato, perché fino a ora gran parte della ricerca sull’arte rupestre è stata descrittiva, e finalizzata a offrire una datazione piú o meno precisa. È un dovere, per lo studioso di oggi, riuscire a decifrare i messaggi che l’uomo di 10 000 anni fa era in grado di leggere. ◆ Quali sono i piú importanti elementi distintivi che differenziano e/o che accomunano l’arte rupestre cinese da quella di altre civiltà del mondo? In tutto il mondo l’arte preistorica ha trasmesso, in linee generali, cinque temi principali: antropomorfi, zoomorfi, oggetti, strutture e simboli. In tutto il mondo, quindi anche in Cina, ricorrono gli stessi fenomeni e le stesse tipologie, con cui vengono attestate manifestazioni sociali e culturali differenti. L’espressione degli autori dell’arte rupestre varia in base al peculiare condizionamento concettuale dell’individuo che, a sua volta, è condizionato dal tipo di struttura sociale, culturale ed economica a cui appartiene. ◆ Da quando nel 1985 Chen Zhao Fu fece «conoscere» a livello internazionale i siti di arte rupestre cinesi, come volgono ora le indagini archeologiche? C’è una crescita esponenziale delle scoperte. Quando cominciai a visitare la Cina negli anni Ottanta, c’erano praticamente due o tre specialisti di arte rupestre, oggi se ne contano piú di 500. In quasi tutte le università principali cinesi ci sono insegnamenti specifici, cosa


che in Italia non avviene! In Cina, inoltre, fondi statali ingenti vengono utilizzati per la ricerca e la valorizzazione dei siti, per il loro sviluppo ai fini didattici, ma anche per l’accrescimento commerciale ed economico, mediante strutture come alberghi, ostelli, ristoranti, sorti per favorire l’accesso ai siti. C’è, inoltre, un notevole interesse editoriale al riguardo. Per esempio, quando ho pubblicato Aux Origines de l’art (Fayard, Parigi 2003), stampandolo in diverse lingue (in cinese nel 2007), la tiratura cinese è stata piú del doppio della somma delle altre tirature del mondo: c’è quindi in Cina una grande divulgazione culturale, critica e letteraria, che dimostra la dinamica di un Paese che sta crescendo, a livello intellettuale, in modo esponenziale. Ogni volta che vado in Cina mi arricchisco di questo impeto di creatività e fermento: è uno sviluppo pianificato, che certamente viene dall’alto, ma è comunque invidiabile perché, purtroppo, in Europa non esiste.

Figure antropomorfe a Heishan (Gansu), realizzate nel periodo tra gli Stati Combattenti (403-221 a.C.) e gli Han Orientali (26-220 d.C.).

vano nel loro repertorio la tigre, assai rappresentata sugli ornamenti o sulle armi di bronzo. Risulta difficile, però, associare a uno specifico gruppo etnico alcuni temi piú generici, come le scene di pastorizia e di caccia. Le esigue raffigurazioni di cammelli, invece, sono frutto di probabili interventi successivi, forse da attribuire alle attività connesse con l’inaridimento della zona.

confini mobili I numerosi siti di Helanshan (Ningxia), scoperti nel 1969, e di Yinshan (Mongolia Interna), individuati nel 1976, sono ricchi di incisioni ben conservate e depositarie di una forma stilistica e culturale complessa e documentata. Sono infatti preziose testimonianze che sfatano il luogo comune secondo cui esisteva un rapporto esclusivamente conflittuale e dicotomico tra le popolazioni stanziali della Cina e i nomadi dell’Asia Interna. Queste zone di frontiera non sono da intendersi come barriere rigide e insormontabili, ma come confini mobili e valicabili, dove i contatti tra nomadi e Cinesi, sia in tempo di guerra che di pace, hanno contribuito allo sviluppo economico, tecnico e culturale. Le testimonianze della Mongolia Interna attestano, inoltre, una continuità storica eccezionale, che dal Neolitico piú antico (IX millennio a.C. circa) giunge fino all’ultima dinastia imperiale (XIX secolo). I petroglifi di Yinshan e di Helanshan, realizzati con tecniche diverse, ritraggono il mondo agropastorale del nomade: una considerevole varietà di animali (in particolare ungulati, con predilezione per cervidi ed equini, ma anche felini) si fonde con elaborate scene di caccia, di pastorizia e, seppur in numero piú limitato, volti o maschere, simboli astratti, impronte di mani e orme di animali. L’iconografia del volto/maschera, attestata solo in alcune zone (Helankou a Helanshan e Molehetu Gou a Yinshan), viene in genere riferita ai culti sciamanici o religiosi e alle divinità o spiriti associati ai riti della natura. Tuttavia, se si considera a r c h e o 65


civiltà cinese • arte rupestre

DALL’ORANTE AI RITUALI ZHUANG Il tema dominante delle pitture rupestri di Huashan è quello della «figura orante», tra le piú comuni rappresentazioni mitologemi al mondo, caratterizzata da braccia alzate e gambe piú o meno divaricate. Nella fattispecie, però, il tema di queste pitture rupestri è la rappresentazione di particolari rituali, dedicati al culto degli antenati, fino a pochi anni fa ancora celebrati dall’etnia Zhuang. Particolarmente interessante è il cambiamento delle varie forme ritratte, in contrasto con la costante ripetizione della posizione: braccia alzate e gambe divaricate. Alcune immagini presentano teste rotonde, ampi toraci e vita sottile, altre, invece, testa e collo a rettangolo e busto a triangolo. Sul capo presentano un’acconciatura con numerose varianti, mentre le figure umane che appaiono nella stessa posa, seppur di profilo, risultano

66 a r c h e o

sempre di minori dimensioni di quelle frontali e sembrano radunarsi attorno all’«orante» principale. Vengono rispettati alcuni punti fissi per la raffigurazione dei soggetti, come per esempio lo schema circolare, che probabilmente rappresenta un conflitto tra arcieri. Non sono sempre ben identificabili, e solitamente di dimensioni ridotte, gli animali simili a uccelli, raffigurati sopra la testa, o quelli simili a cani, ritratti ai piedi delle figure frontali o a lato della testa, anche se probabilmente collegati a specifici rituali. La studiosa Gao Qian ha recentemente dimostrato che la «figura orante» è, in realtà, la rappresentazione di una danza rituale per il dio del tuono, dalla particolare postura «a rana», tipica dell’etnia Luo Yue, antenata degli Zhuang e ancora oggi praticata dai gruppi etnici locali.


A sinistra: ancora un’immagine dei pittogrammi di Huashan (Guangxi), con gli «oranti» e i cerchi con al centro un motivo a stella, interpretati come rappresentazioni stilizzate dei tamburi bronzei utilizzati nelle cerimonie religiose delle popolazioni del Sud-Est cinese. In basso: veduta del sito rupestre di Huashan, sul fiume Zhujiang.

l’importanza conferita dal culto locale agli antenati, i volti potrebbero avere a che fare con i riti ancestrali, laddove il viso sarebbe proprio il ritratto dell’avo. In tempi in cui la scrittura non esisteva, o era limitata, il ruolo di queste immagini è stato di immenso valore, cosí come la scelta del paesaggio circostante. Distribuiti in posizioni strategiche, visibili anche a una certa distanza, le incisioni rupestri in queste aree di transizione possono aver avuto molteplici funzioni: da simboli religiosi a marcature impresse dalle popolazioni nomadi, come delimitazione del proprio dominio di pertinenza, con cui sancire l’attaccamento di questi popoli al territorio che andavano a occupare, rivendicandone il possesso.

scene di vita rurale A differenza di quella del Nord e dell’Ovest, l’arte rupestre nel Sud della Cina (Sichuan, Yunnan, Guizhou e Guangxi) è associata all’insediamento di popolazioni di

frangia agricola e, nella fattispecie, di orticoltori, che avevano rapporti piú stabili e scambi meno conflittuali, con il «mondo cinese». In queste aree l’arte rupestre adotta stili distintivi: le immagini non sono incise ma prevalentemente dipinte e vengono raccontate storie di piccole comunità di villaggi, attraverso l’«aratura dei campi con il bue d’acqua (?)», i balli di gruppo, la rappresentazione di culti, funerali e scene di battaglie. Le figure scoperte a Gongxian (Sichuan) nel 1946, dipinte prevalentemente di rosso (cinabro), decorano spesso le pareti delle montagne, dove misteriose bare sospese sono agganciate a pali conficcati nella roccia, secondo la tradizione attribuita alla minoranza etnica dei Bo, oggi scomparsa, e che un tempo popolava la zona montuosa, lungo il confine tra Sichuan e Yunnan. Nel Sud-Ovest e nel Sud-Est della Cina, questa pratica di sepoltura è comune in epoca pre-moderna. Nello Yunnan, le pitture rupestri

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civiltà cinese • arte rupestre

databili intorno a 3000-2000 anni fiume è Huashan: risalgono al XV figurativa di pratiche rituali ancefa, che si trovano nella valle del fiu- secolo le prime attestazioni dell’esi- strali, secondo il culto degli antename Jinsha e a Cangyuan, sono di- stenza di queste pitture, solitamente ti, ancora celebrati dall’etnia Zhuang pinte di colore rosso scuro e raffi- considerate dagli abitanti del luogo fino a pochi anni fa. gurano scene di caccia, pastorizia, come raffigurazioni magiche, tanto agricoltura e celebrazioni rituali, da aver dato origine a numerose scelte ponderate con acrobati e giocolieri, attività leggende e superstizioni. Dal 1950 Al di là delle evidenti differenze solitamente associate alle minoran- ne è iniziato lo studio sistematico, culturali e regionali, è chiaro che che ha reso Huashan tra i siti piú l’arte rupestre cinese non è stata ze etniche Tai e Wa. Ma la piú impressionante concentra- famosi dell’arte rupestre cinese. creata in zone accidentali, perché la zione di pittura rupestre nella Cina I pittogrammi si trovano sul lato natura morfologica del paesaggio meridionale si trova nel Guangxi, occidentale di un picco che si affac- circostante e, in particolare, la preuna provincia autonoma che confina cia dalla sponda nord orientale del senza delle montagne, sono state la con il Vietnam ed è abitata dagli fiume Ming e raggiunge un’altezza conditio sine qua non per la scelta del Zhuang e da altre minoranze etni- di circa 230 m. Su una superficie di luogo. Gli autori delle rappresentache, come i Miao (Hmong) e i circa 210 m di lunghezza e 40 di zioni sulla roccia, incise o dipinte Dong; è una terra di montagna lus- altezza, sono state rinvenute piú di che siano, hanno inoltre conferito sureggiante, intersecata da un com- 1800 immagini, distribuite in tre un valore, in un certo senso, simboplesso sistema di fiumi che scorrono gruppi. Gli studi sulla pittura e l’ico- lico-rituale – sia religioso che civile verso oriente, fino a sfociare nel Mar nografia hanno dimostrato che, in – al paesaggio circostante. I luoghi Cinese Meridionale. In che conservano questi paquesta parte del Sud-Est trimoni artistici, infatti, si La piú impressionante della Cina, tra i tanti corsi trovano in punti strategici, d’acqua che alimentano il difficile accesso, sia per concentrazione di pitture dialtezza Fiume Occidentale (Xiche per pendenza, jiang, affluente del Fiume rupestri si trova nel Guanxi, e presentano specifiche delle Perle, Zhujiang), si caratteristiche ambientali. al confine con il Vietnam Non vi erano intenti di distingue il fiume Zuo, una grande arteria e, fino a carattere esclusivamente poco tempo fa, principale estetico: la realizzazione via di comunicazione. genere, i dipinti piú antichi si trova- delle immagini comportava un Le immagini ritratte lungo la valle no piú in basso rispetto ai piú re- grande rischio per la vita degli aufluviale, visibili in numerose località, centi. Le immagini vanno dai 3 m ai tori, costretti ad arrampicarsi su si riferiscono a schematiche figure 30 cm di altezza e sono tutte rossa- rocce di considerevole altezza. umane e simboli di un denso colore stre, ottenute, secondo l’analisi spet- Localizzata spesso in prossimità rosso, dipinte su scogliere ripide e trografica, con l’ematite. Gli studi dell’acqua (sorgenti, cascate, fiumi), rocciose. Nei territori di quattro etnografici hanno inoltre attestato e, di tanto in tanto, vicino ai sancontee (Ninming, Longzhou, l’uso di sangue di bovidi come so- tuari, l’arte rupestre, con il suo Chongzuo, e Fusui), gli archeologi stanza legante, secondo un’antica ricco vocabolario figurativo, semhanno identificato almeno 79 siti e pratica presente anche in Africa. bra adempiere a esigenze di carataltri ancora sono distribuiti tra le Assieme a raffigurazioni di animali, tere spirituale e apotropaico, ma colline o lungo le pendici monta- uccelli, imbarcazioni, coltelli, spade, anche culturale e sociale, senza dignose, a varia distanza dal fiume. campanelli, particolarmente interes- menticare quell’anelito creativo L’arte rupestre si trova spesso in santi sono i cerchi, alcuni dei quali che, con tutta la sua semplicità prossimità o in associazione con altri comprendono al loro interno un stilistica, racconta un’«altra» storia: resti archeologici, in particolar modo motivo a forma di stella: sono im- quella «scritta» dalle etnie che, grotte o sepolture appese, secondo magini stilizzate dei tamburi bron- all’interno di una vasta e «mobile» una tradizione meridionale, utile allo zei, decorati con motivi a stella, che sfera geografica, di cui risulta comsmaltimento dei cadaveri. avevano una parte fondamentale plicato anche tracciare i confini, nella vita religiosa dei popoli del legittimano il proprio universo soSud-Est della Cina (come la cultura ciale all’interno della complessa pitture sul fiume Il fiume Zuo ha diversi affluenti, tra del regno di Dian, Yunnan, III-II civiltà cinese, dalla preistoria fino i piú importanti dei quali vi è il secolo a.C., o la cultura Dongson all’età moderna. Ming, che conserva un vero e pro- del Vietnam). Il tema dominante è prio patrimonio d’arte rupestre. Il comunque la «figura orante», con le nella prossima puntata piú imponente tra le migliaia di braccia alzate e le gambe divaricate, dipinti che punteggiano la valle del che va intesa come la risoluzione • I millenni del drago 68 a r c h e o



antico egitto • cosmesi

l’henné del

faraone

dalle foglie tritate della lawsonia, un arbusto simile al ligustro, si ricava la sostanza colorante tuttora molto diffusa e certamente già utilizzata in epoca antica. come forse provano le tracce individuate su varie mummie, compresa quella del faraone ramesse II di Paola Cosmacini

G

li Egizi fecero largo e buon uso della loro ricca flora per l’allestimento di preparati vegetali con finalità cosmetiche e curative. Infatti, come ha scritto l’egittologa Rosalie David, «sebbene la farmacopea dell’antico Egitto non fosse sofisticata, c’è prova evidente e chiara di formule, preparazioni, somministrazioni, dosaggi e della loro efficacia» (Egyptian Mummies and Modern Science, 2008). Purtroppo, di «circa 160 prodotti vegetali usati appena il 20% di questi possono essere identificati con certezza» (John 70 a r c h e o


F. Nunn, Ancient Egyptian Medicine, 1996); tra questi, un posto ancora poco definito occupa l’henna o alcanna (dall’arabo al-hinna). Il nome scientifico della pianta – Lawsonia inermis L. – fu dato da Linneo (1707-1778), nel suo Species Plantarum del 1753, in omagg io all’amico Isaac Lawson, medico e botanico scozzese, conosciuto a Leida e morto prematuramente nel 1747. Si tratta di un arbusto odoroso della famiglia delle Lythraceae, solitamente coltivato in forma di siepe. L’aggettivo inermis si riferisce al fatto che la pianta è perlopiú priva di spine. La Lawsonia ha qualche somiglianza con il ligustro mediterraneo (Ligustrum volgare della famiglia delle Oleacee) e, appunto per la sua somiglianza con il «nostro» ligustro, già dal Medioevo fu chiamata Ligustrum Aegyptiacum.

proprietà terapeutiche Nella farmacopea medica, della pianta si utilizzano sia i fiori che le foglie. Queste sono prima essiccate e poi tritate per ottenere la polvere giallo-verdastra dalle proprietà terapeutiche antisettiche, cicatrizzanti e astringenti, nota con il nome di henné. Sono state recentemente confermate le sue attività antibatteriche e antifungine, mentre la sua sorprendente attività tubercolostatica (che inibisce la crescita del Mycobacterium tubercolosis) era già stata sperimentata con successo sia in vivo che in vitro. Dai fiori, dal profumo somigliante a quello della rosa tea e del lillà, si ricavano un profumo e un olio dall’odore particolarmente intenso; quest’ultimo, in medicina, fa parte di numerosi composti oleosi utilizzati fin dai tempi di Galeno. Nell’antica Grecia l’henna era già largamente utilizzata ed era chiamata kupros, nome utilizzato per la prima volta da Teofra-

sto (371-287 a.C.). La pianta, In alto: decorazione delle mani con infatti, «nasce anche sull’isola di l’henné in Sudan, una pratica ancora Cipro» (Dizionario della Lingua oggi molto diffusa. La tintura, di colore italiana, 1827) e perciò «è detta scuro, si ottiene dalle foglie dalla anche Cipro o Ciprus» (Diziona- Lawsonia inermis, un arbusto odoroso rio Botanico Italiano, 1809). simile al ligustro. In un passaggio del suo De ma- Nella pagina accanto, in alto: la mano teria medica – l’erbario figurato sinistra mummificata di Ramesse II scritto in lingua greca che ebbe (1279-1212 a.C.). Il Cairo, Museo una profonda influenza nella Egizio. Le unghie appaiono colorate, storia della medicina –, il meforse con l’henné. dico greco Dioscoride Pedanio Nella pagina accanto, in basso: testa (40-90 d.C.) ne descrive le nudi mummia maschile. Epoca romana. merose proprietà mediche e Parigi, Museo del Louvre. Il volto del fornisce le proporzioni esatte defunto fu rivestito da una foglia d’oro dei principali ingredienti che e la capigliatura riccioluta venne tinta entrano nella composizione del con una sostanza che potrebbe essere kuprinon, un unguento profu- l’henné, anche se, a oggi, non si hanno mato a base soprattutto di fioprove certe del suo utilizzo durante il ri di Lawsonia. Ai suoi fiori anprocesso di imbalsamazione. davano infatti aggiunti «erbe fragranti, aspalato, calamo, mirra e cardamomo». A quel tempo, però, sia Dioscoride, sia Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), a r c h e o 71


antico egitto • cosmesi

che chiama l’henna cypros, sono d’accordo nel localizzarne la migliore piantagione non a Cipro bensí in Egitto e in special modo a Canopo, nel delta del Nilo, avallando cosí, di fatto, un’avvenuta «contaminazione» mediterranea.

tatuaggi e tinture È opinione corrente che l’henné fosse usato nell’Egitto piú antico per tatuare il corpo e per tingere i capelli, ma possiamo davvero esserne certi? Foglie della pianta sono state identificate in tombe di epoca tolemaica e fiori di henna furono trovati sia in una tomba tebana aperta da Gaston Maspero (1846-1916) nel 1884, e da lui datata tra il 1000 e il 500 a.C. (la tomba oggi non è piú individuabile e comunque pare che la datazione fosse troppo «alta»), sia in tombe del II secolo d.C. studiate da William Matthew Flinders Petrie (1853-1942) a Hawara. Ma era cosí anche «da tempo immemorabile»? Luc Renaut, dell’Università di Poitiers, ha riunito tutte le fonti disponibili e ha formulato un’ipotesi affascinante sulla antica storia della Lawsonia e sulla sua presunta utilizzazione nell’Egitto piú antico. Partendo dal lemma, con specifico riguardo all’epoca greco-romana, accanto al termine greco kupros (nome che quindi designa anche l’isola di Cipro), egli rileva che, a designare la pianta sui papiri dell’era cristiana, compare il demotico qwpr. In particolare, nel Papiro Harkness (60 d.C.), qwpr si trova citato nel rituale funerario per ornare i sarcofagi e le composizioni floreali profumate quali ghirlande e corone; nei Papiri di Londra e di Leida (databili al III secolo d.C.) è presente l’olio di henna (nh n qwpr), a proposito dei rituali magico-medici compiuti per attenuare crisi di gotta e per favorire l’atto sessuale; 72 a r c h e o

nel Papiro di Vienna 6257 (II secolo d.C.) vi è la prima attestazione dell’unguento di henna (skn qwpr) come medicamento all’interno di una lista di ingredienti per uso topico e, poiché il testo sembra essere la copia di un originale del III secolo a.C., si potrebbe retrodatare a tale epoca l’uso di tale unguento. Il termine qwpr infatti, – e qui è il punto –, non sembra attestato nell’antico Egitto prima di tali riferimenti. Forse l’henna si

La pagina dedicata alla coltivazione della Rosa sempervirens e dell’henna in una versione araba del De Materia Medica di Dioscoride. 1083 circa. Leida, Universiteitsbibliotheek.

Nel glossario geroglifico-latino (Papyros Ebers, 1875), heny è tradotto come «una qualche erba» (erba quaedam), mentre Thierry Bardinet lo traduce con roseauheny, cioè «canna-heny». Ankh-imy compare invece in una ricetta del papiro medico di Berlino 3038. Nella parte dedicata ai tumori (intesi in senso lato, cioè a gonfiori e tumefazioni del corpo) si legge infatti: «Rimedio per fare regredire un tumore umido: ankh-imy; sale; miele. Tritare in una massa omogenea. Con questa medicare». La sua traduzione in «henna» è stata proposta da Gérard Charpentier nel 1981 ma, molto probabilmente, designa il loto bianco, come rilevato nel 1987 da Sydney Aufrère. Sulla base di questi dati non si può dunque essere certi che il colorante in uso nel processo della imbalsamazione venisse ricavato dalla Lawsonia.

le mani rosse Alla metà del 1890 Ludwig Borchardt (1863-1938), l’egittologo tedesco scopritore del busto di Nefertiti, notando su alcune statue tracce di pittura bruno-rossastra sulle unghie di mani e piedi, chiamava in altro modo. Infatti, non ebbe dubbi e, in perfetto accome hanno osservato Edda Bre- cordo con Victor Loret (1859sciani e Mario Del Tacca, «per- 1946), affermò che questa particomangono dubbi sul termine egi- larità era dovuta alla tintura di henné ziano antico corrispondente a correntemente impiegata nell’Anhenné: secondo alcuni potrebbe tico Regno. Ancora, nel 1886, Gatrattarsi della parola heny oppure ston Maspero, osservando la mumankh-imy» (Arte medica e cosmetica mia di Ramesse II, notò «mani fini alla corte dei Faraoni, 2005). e rosse di henné» e «piedi lunghi, Heny è presente in due ricette del magri, un po’ piatti, sfregati di henné, Papiro Ebers: la prima per la cura come le mani». di affezioni oculari; la seconda in- Cent’anni prima però, arrivato in serita in una miscellanea riguar- Egitto con l’armata di Napoleone, dante prevalentemente le otalgie. Edme-François Jomard (1777-


A destra: una ciocca di capelli forse tinta con henné, da Deir el-Medina. Parigi, Museo del Louvre. In basso: vasi in alabastro e pasta vitrea per cosmetici e un contenitore di pittura per occhi (primo da destra), dall’Egitto. XV-XIV sec. a.C. Londra, British Museum.

1862), che aveva esplorato la necropoli di Tebe, aveva espresso qualche fondato dubbio. Cercando di recuperare una piccola mummia, questo geniale ingegnere e geografo riuscí soltanto a portarne alla luce un braccio e annotò: «Ciò che mi colpí di piú fu che, scoprendo le unghie della mano, io le vidi tinte di un colore rosso, come quelle delle donne che oggidí si tingono con l’aiuto dell’henné, ma potremmo anche attribuire questo colore all’azione del bitume o a tutt’altra causa» (Description de l’Egypte, 1821). Secondo Renaut, questa frase di Jomard esprime bene l’incertezza che oggi circonda nuovamente la spinosa questione. Rudolf Virchow (1821-1902), il padre della patologia cellulare, appassionato di archeologia e caro amico di Heinrich Schliemann – che accompagnò in Anatolia per partecipare agli scavi sulla collina di Hissarlik (vedi, in questo numero l’ar-

ticolo alle pp. 42-55) –, esaminò alcune parrucche di epoca predinastica con ciocche bionde, rossastre e giallastre la cui tinta ritenne non dovuta a henné, ma causata dalle sostanze ferruginose del terreno di sepoltura e acuita dagli effetti del tempo.

I dubbi di un medico Anche Grafton Elliot Smith (18711937), il medico che analizzò le mummie reali al Cairo, espresse qualche dubbio: «ci possiamo chiedere se la colorazione delle unghie delle mani e dei piedi di Ramesse II non possa essere attribuita alle sostanze resinose utilizzate per l’im-

balsamazione piuttosto che all’henné» (The Royal Mummies, Catalogue Général des Antiquités Egyptiennes du Musée du Caire, 1912). E il dubbio fu insinuato anche da Alfred Lucas (1867-1945), lo Sherlock Holmes dell’Egitto, dopo avere esaminato molte mummie al Cairo. Nel 1976, a Parigi, quando la mummia di Ramesse II venne nuovamente riesaminata, mentre non si presero piú in esame le unghie, si analizzarono al microscopio alcuni capelli sicuramente tinti; ma la tintura non fu chiaramente identificata. Oggi i capelli possono essere analizzati con il microscopio a in-

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antico egitto • cosmesi

frarossi in grado di fornire informazioni sui pigmenti e sui loro «leganti» e di svelare il contenuto chimico mediante l’analisi spettrometrica. Il metodo è stato usato, per esempio, nell’ambito del Manchester Mummy Project sui capelli di Asru (una sacerdotessa del tempio di Amon a Karnak, vissuta all’epoca della XXVI dinastia, 664-525 a.C.) e ha inviato segnali di composti compatibili con una colorazione indotta da molti vegetali, tra cui anche l’henna.

il nero del sudan In definitiva, come ha osservato Lise Manniche, nell’antico Egitto «l’uso della pianta come agente colorante è controverso. Sebbene ci sia evidenza che gli antichi Egizi colorassero le loro unghie, non c’è prova che usassero l’henna per farlo. I Romani sicuramente usavano la pianta per questo proposito, cosí come fanno le donne dei paesi islamici oggi» (An Ancient Egyptian Herbal, 1999). E infatti uno degli henné piú noti è quello sudanese (henné nero), di cui le donne del Paese fanno ancora oggi largo uso per decorare mani e piedi. Si può quindi affermare che l’henna non si trova con certezza là dove noi la cerchiamo: per questo motivo, confortato anche da una annotazione del medico bizantino Aezio di Amida (502575) – il quale riporta l’impiego medicinale della kupros da parte dei barbaroi indoi –, Luc Renaut, individuando in questi «barbari indiani» coloro che abitavano le regioni del sud del Mar Rosso, ipotizza un’antica via meridionale di entrata in Egitto della pianta. Se, in questo senso, il silenzio delle fonti che per circa trePapiro indiano raffigurante una donna con le mani tinte di henné. Dinastia Moghul (1526-1858). Parigi, Musée national des arts asiatiques Guimet.

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cento anni intercorre tra la fine del periodo ramesside e il periodo nubiano non aiuta, c’è però da sottolineare che le vie carovaniere erano allora molto efficienti, che gli sbarramenti naturali che a noi oggi paiono tali non lo erano per le popolazioni antiche e che, comunque, proprio in quell’epoca inizia il periodo di autonomia dell’Alto Egitto caratterizzato dall’«avventura nubiana» e, in particolare, dall’avanzata di Piankhy (faraone della XXV dinastia etiopica, 747-716 a.C.). I dubbi sono ancora molti e le fonti sono poche. La Lawsonia potrebbe essere stata una pianta cresciuta da sempre sul suolo egiziano e che, nel corso dei secoli, ha mutato nome oppure, a un certo punto della milA destra: riproduzione su papiro di una pittura della tomba di Ipi, a Deir el-Medina, raffigurante un oculista al lavoro. Il Cairo, Istituto del Papiro. L’heny che compare in varie ricette egiziane, anche per la cura delle infezioni oculari, potrebbe essere l’henné ricavato dalla Lawsonia. In basso: la mummia di Asru, una sacerdotessa del tempio di Amon a Karnak, vissuta all’epoca della XXVI dinastia, 664-525 a.C. L’analisi dei capelli ha rilevato la presenza di sostanze compatibili con una colorazione indotta da molti vegetali, tra cui anche l’henna.

lenaria storia dell’Egitto, come ha scritto ancora Lise Manniche, potrebbe essere stata importata dall’Oriente poiché «probabilmente originò da qualche parte in Persia». Se cosí fosse, allora, piú che seguire la via carovaniera che trasportava il bitume del lago Asfaltide in Egitto attraverso la terra di Canaan, si ipotizzerebbe la via meridionale; questa, passando per l’Arabia Petrea (cioè la regione nabatea) e – con lungo giro – per l’Arabia Felix (cioè la regione yemenita), sarebbe arrivata sull’altra sponda del mar Rosso (cioè in Nubia) e da qui in Egitto. Ma ancora si cercano gli antichi fiori e le antiche foglie capaci di raccontare la storia millenaria della «via dell’alcanna». a r c h e o 75


speciale • eubea

EUBEA alle origini dell’occidente La sua sagoma allungata corre parallela alla Grecia continentale, dalla quale è separata da uno stretto di poche decine di metri. È una grande isola, la sesta del Mediterraneo, e nasconde una storia ancora in larga parte sconosciuta. Qui si combatté la prima vera «guerra mondiale» e da queste sponde ebbe inizio una delle piú audaci epopee dell’antichità, la colonizzazione greca dell’Occidente…

di Fabrizio Polacco

U

n’isola che non è un’isola. Un tratto di mare che scorre come un fiume, e che inverte costantemente la sua direzione. Una luce di civiltà nei «secoli bui» del Medioevo ellenico. Una cittadina elegante e antica, dove è possibile passeggiare su due lungomari contrapposti come di fronte a uno specchio grandioso. E, in mezzo, un ponte che sparisce e ricompare ogni sera. Parlando dell’Eubea ci si potrebbe divertire a lungo con le apparenti negazioni del principio-base della logica occidentale, quello di «non contraddizione». Ed è curioso che il sistematizzatore del pensiero filosofico classico, Aristotele, sia morto proprio qui, a Calcide, capoluogo di questa regione-isola della Grecia centrale. Un busto moderno ne ricostruisce le fattezze impettite di fronte alla acque imprevedibili e impetuose dell’Euripo, l’angusto canale che divide l’isola di Eubea dalla terraferma: ma è solo leggenda, un

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aneddoto imputabile alla fantasia degli antichi che il filosofo sia scomparso per la disperazione di non essere riuscito a spiegare – lui, il grande indagatore della natura della cose – il portentoso fenomeno delle palirrie. Il termine significa in genere «maree», ma l’etimologia greca ci aiuta a descriverlo nella sostanza: il canale marino ampio solo una quarantina di metri che separa la città dalla terraferma vede girare all’indietro (palin), a intervalli di circa sei ore, il senso in cui scorre (rhei) la corrente.

un’insidia per i naviganti Oltre che dalla strettoia dell’Euripo, le palirrie di Calcide sono determinate dalla notevole lunghezza dell’isola, estesa parallelamente alla costa per ben 200 km. Masse d’acqua di specchi di mare lontani tra loro (il Nord e il Sud dell’Egeo) sono incanalate e si scontrano tra l’Eubea e il continente, formando un dislivello che è il probabile


Qui accanto: la celebre statua bronzea rinvenuta nei fondali antistanti Capo Artemisio, interpretata come Zeus o, piú probabilmente, Poseidone. V sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale, Sullo sfondo: l’Euripo, al centro, il canale che divide l’Eubea dalla terraferma, e, sulla destra, Calcide, capoluogo dell’isola.

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Artemision

Ellinika

Skyros

Istiaia

speciale • eubea Orei

Agiokampos

Skyros

Vasilika

Skyropoula

Voutes

Valaxa

Agia Anna

Edipsos

Strofylia

Rovies

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Panagia

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Atene

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In alto: cartina dell’Eubea con, in evidenza, le località citate nel testo.

Attica

Kalargo

Styra

Maratona

Atene

effetto di maree non contemporanee su superfici marine non adiacenti. Questo «gradino» (la diversa altezza del mare è evidente alle estremità del canale) provoca un impetuoso travaso di acque, la cui velocità può sfiorare i 20 kmh. In alcuni giorni del mese,

Almyropatamos

io na

Avlona

Zarakes

Marmari

Petaloi

Caristo

Platanistes

inoltre, anche questi flussi divengono irregolari, invertendosi con maggior frequenza o cessando per cause poco chiare. Cosí, nei brevi intervalli in cui le correnti temporaneamente si equivalgono, per poi invertire il proprio corso, vortici e mulinelli cessano, e le imbarcazioni rimaste fino ad allora in attesa possono finalmente traversare l’Euripo.

ponte tra civiltà Per millenni l’uomo è stato attratto da queste sponde: tanto vicine tra loro che il navigatore non si accorge che quella che sta costeggiando è un’isola (la sesta del Mediterraneo, per dimensioni) se non giungendo al termine di uno dei due golfi contrapposti e speculari che la separano dal continente, enormi imbuti d’acqua comunicanti a un vertice. Solo quando pensa di essere arrivato al fondo occluso di un fiordo, gli si rivela il portentoso passaggio. Con altrettanta sorpresa, lo si scorge provenendo in auto dalla Beozia e affacciandosi sugli spalti del castello ottomano di Karababa, caposaldo sulla terraferma della piú grande, strategica fortezza naturale costituita da Calcide, che ormai ha invece perso le mura antiche. La storia della città e di quest’isola è gran78 a r c h e o


diosa e vertiginosa, e le pagine che seguono la raccontano con un viaggio che la percorre da un capo all’altro. In Eubea, infatti, si combatté la prima vera guerra del mondo occidentale. Dall’Eubea partirono i coloni che portarono le città e l’alfabeto – in una parola, la civiltà – al resto d’Europa (vedi box a p. 83). E il moderno ponte mobile sull’Euripo che si avvista da Karababa collega due rive, e assieme due settori di una città, due regioni greche e l’Ellade continentale con quella insulare: ma è anche, a ben guardare, un simbolo tangibile di quel ponte di scambi, di commerci, di influssi culturali che collegò, grazie all’Eubea, Oriente e Occidente in quei secoli decisivi in cui noi Europei stavamo per nascere.

Dall’Assiria al golfo di Napoli Dobbiamo a Calcide e alla sua sorella e avversaria Eretria, appena a una ventina di chilometri piú a sud, l’inizio di una delle piú audaci ed epocali imprese dell’umanità. I loro abitanti furono i navigatori provetti che aprirono la strada alla grande colonizzazione greca dell’Occidente dei secoli VIII-VI a.C. Gli Eubei fondarono le prime città degne di questo nome in Italia, piú esattamente in Magna Grecia e Sicilia. Muovendo da Ischia (Pithekoussa) diedero vita a Cuma, la piú antica e potente colonia campana, e da lí a Paleapolis e a Neapolis (Napoli). Non basta: sotto la protezione di Apollo Archeghetes («il Fondatore»), andarono a colonizzare Naxos in Sicilia orientale, a due passi dall’Etna (da dove poi si trasferirono a Taormina), e Zankle (Messina), Catania e Reggio Calabria. Può sembrare strano che quei pionieri si siano spinti subito a una cosí grande distanza dalla madrepatria, ai confini della zona d’influenza etrusca e non lontani da un Lazio in cui stava per sorgere Roma. Ma gli abitanti dell’Eubea erano abituati a simili imprese. Erano in stretti rapporti con il lato opposto del Mediterraneo, dove un loro scalo e probabile emporio commerciale, Al-Mina, era attivo da tempo alla foce dell’Oronte, fiume posto all’incrocio tra le potenze egiziana, assira e neo-ittita. L’Eubea si trovò quindi a intermediare tra le coste della Fenicia e quelle dell’Italia. Come un grandioso Euripo, la stessa isola distingueva e insieme collegava due mondi, influenzando con i prodotti e le culture orientali un Occidente che proprio allora andava formandosi.

Ma qual era la vera risorsa dell’Eubea, a parte l’audacia dei suoi marinai? Come riuscí una località che oggi quasi nessuno menzionerebbe tra le principali poleis greche a costituire il fulcro di una svolta della storia? Per cominciare a capirlo, si deve uscire da Calcide e procedere sulla strada costiera in direzione di Eretria. Ci si trova presto nel mezzo di un’ampia e fertile pianura, quella formata dal fiume Lelanto. La prima «guerra mondiale» della Grecia antica, che è anche il primo conflitto storicamente attestato del mondo occidentale, la «guerra lelantina», si combatté tra Calcidesi ed Eretrii, tra il 730 e il 680 a.C., per il possesso di questo territorio: che era preziosissimo, in un’Eubea in gran parte montuosa. Ancora oggi è una verde distesa ricoperta di vigneti e uliveti. Tuttavia, contrariamente a quelle dell’Euripo, le correnti di questo fiume si sono oggi fermate: il letto, prosciugato dalle pompe d’irrigazione, è completamente secco.Tanto da essersi trasformato in pista per trattori e mezzi di trasporto. Il viaggiatore attento viene però attirato da un’altura che sorge alle spalle del paesino di Mitikas, e che è dominata da due snelle tor-

In alto: Calcide. Il busto moderno di Aristotele, collocato davanti al Palazzo (Megaro) Kotsika, sede del Comune. Nella pagina accanto, in basso: processione con l’icona della Aghia Paraskevi, patrona di Calcide.

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i millenni della grecia 1600 a.C. In Grecia sorge la civiltà micenea. 1400 a.C. La civiltà minoica tramonta di fronte alle invasioni greche. 1200 a.C. circa Fine della civiltà micenea, forse a causa delle invasioni doriche. 1100-800 a.C. Epoca dei cosiddetti «secoli bui» (Medioevo ellenico). Colonizzazione greca in Asia Minore e nelle isole dell’Egeo. 850 a.C. L’Eubea ha intensi scambi commerciali con i Fenici e altri popoli del Vicino Oriente. VIII sec. a.C. Composizione dei poemi omerici. 776 a.C. Data tradizionale dei primi giochi olimpici. 750 a.C. circa Colonizzazione greca in Occidente (Italia meridionale e Sicilia). Fondazione di Cuma. 730-680 a.C. La guerra lelantina tra Calcide ed Eretria segna la fine del sistema aristocratico. 730-620 a.C. Età orientalizzante. 620-480 a.C. Età arcaica. 480-323 a.C. Età classica. 455 a.C. Euripide compone la sua prima opera teatrale. 481 a.C. Alleanza panellenica contro i Persiani. 460-429 a.C. Pericle è stratego ad Atene. 431-421 a.C. Prima fase della guerra del Peloponneso. Pace di Nicia. 418-413 a.C. Seconda fase della guerra del Peloponneso. 413-404 a.C. Terza fase della guerra del Peloponneso. Lo spartano Lisandro sconfigge gli Ateniesi nella battaglia navale di Egospotami. 404-371 a.C. Periodo di egemonia di Sparta in Grecia. 406 a.C. Morte di Euripide e di Sofocle. 393 a.C. Atene si libera di Sparta. 384-322 a.C. Vita del filosofo Aristotele (che muore in Eubea). 336-323 a.C. Alessandro Magno re di Macedonia. 282 a.C. Si costituisce la Lega achea per contrastare i Macedoni. 168 a.C. Battaglia di Pidna: i Romani pongono fine al regno di Macedonia. 148-146 a.C. La Macedonia e la Grecia diventano province romane. 88-85 a.C. Mitridate, re del Ponto, combatte per liberare i Greci dal dominio romano. 86 a.C. Silla conquista Atene e costringe Mitridate alla ritirata, ristabilendo la supremazia di Roma.

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prima girevole e poi retrattile

ri medievali. Sono costruzioni finalizzate alla sorveglianza dell’area, erette dai Veneziani ai tempi del loro dominio sull’isola (loro la chiamavano Negroponte), che si protrasse per quasi due secoli. Oggi, i due fortilizi paiono oziare con le finestre cieche traversate dal vento, abbandonati presso una chiesetta frequentata solo nelle ricorrenze particolari. Eppure lo sguardo, da quassú, spazia sull’intera pianura lelantia e non solo.Verso l’interno si leva la cima triangolare del Dirfys, il piú alto monte dell’isola, rinomato per le sue fonti d’acqua, mentre dal lato opposto, rispettivamente a destra e a sinistra di un’altura oltre la quale s’intuisce Calcide con il suo Euripo, si aprono i due Golfi Euboici. In pratica, chi dominava il Lelanto controllava, oltre al cuore fertile dell’isola, i traffici tra Egeo settentrionale e meridionale.

Ricchezze insospettabili Furono appunto Calcide ed Eretria, con i rispettivi alleati, a sfidarsi in una lunghissima e sfiancante lotta per il controllo del fiume. Eretria ebbe la peggio: sopravvisse, ma dovette rinunziare alle sue pretese egemoniche. Questa cittadina può essere considerata la sorella minore e piú sfortunata di Calcide. Piú volte distrutta nel corso della storia e abban-

Nella pagina accanto: una delle due torri presso il paesino di Mitikas, nella piana dell’ormai prosciugato fiume Lelanto, eretta dai Veneziani ai tempi del dominio sull’isola Eubea, da loro chiamata Negroponte.

Ai tempi in cui defezionarono da Atene durante la guerra nel Peloponneso, nel 411, i Calcidesi costruirono un ponte sull’Euripo, utile anche a proteggerli dalla flotta nemica. Un ponte successivo, fortificato e su cinque campate, fu costruito dai Veneziani. Nell’Ottocento se ne realizzò uno mobile, detto «girevole», poiché le due campate ruotavano, aprendosi in senso opposto per permettere il passaggio delle grandi imbarcazioni. Il ponte attuale (foto in alto), costruito negli anni Sessanta del secolo scorso, è invece detto syrtaroti, cioè «retrattile» o «a scorrimento»: le due metà della struttura si separano, si abbassano e poi rientrano nei rispettivi argini, con un lento moto meccanico.

donata già nella tarda antichità, fu ricostruita nell’Ottocento ai tempi della nuova Grecia indipendente, secondo il progetto di un architetto slesiano, Eduard Schaubert (18041860). Costui le diede un impianto urbanistico scenografico, incentrato sull’acropoli, e un’architettura neoclassica per le principali dimore pubbliche e private.Tuttavia, la risorta Eretria non ha mai davvero spiccato il volo se non come centro balneare, nonostante le sue testimonianze archeologiche siano ben piú ricche di quelle di Calcide. Racconta il mito che Apollo, alla ricerca di a r c h e o 81


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In alto: il cosiddetto Tumulo di Salganeo, sulla costa della Beozia non lontano da Calcide. Nella pagina accanto: Calcide. Monumentale iscrizione di età classica che imponeva di non entrare nell’area, redatta nell’antico dialetto locale.

una sede per il suo oracolo (quello che poi sorse a Delfi), tra i vari luoghi a lui cari, si fosse soffermato anche qui, a Lelanto. Gli abitanti di Eretria gli avevano perciò dedicato il loro tempio principale, quello di Apollo Dafneforos, «portatore di alloro». Un gruppo statuario in marmo tra i piú celebri dell’arcaismo, Teseo che rapisce Antiope, troneggiava sul frontone dell’edificio tra altre sculture che dobbiamo immaginare fastose, colorate e agitate dalla concitazione generale per il rapimento dell’Amazzone guerriera. La parte piú significativa della coppia si è miracolosamente salvata, e si può ammirarla nel Museo di Eretria (vedi box a p. 84). Tra i tanti reperti del museo colpisce una statua in terracotta dall’aspetto misterioso. È uno dei primi centauri foggiati nel mondo greco: ha mani con sei dita, una profonda

l’ammiraglio pentito Narra Strabone che, ai tempi della spedizione navale di Serse contro la Grecia, il greco Salganeo aveva promesso di condurre la flotta persiana verso l’Attica, navigando tra l’Eubea e il continente, ed evitando cosí il rischioso periplo dell’isola. Aveva assicurato agli invasori che c’era un passaggio. Ma costoro, giunti ormai in vista di Calcide, ebbero la netta impressione non ve ne fosse alcuno; e, furiosi per l’inganno, giustiziarono la loro guida. Ma subito dopo, come per miracolo, si dischiuse ai loro sguardi il varco dell’Euripo. Allora l’ammiraglio persiano si pentí dell’errore ed eresse a Salganeo un immenso tumulo, ancora oggi visibile dal lato della terraferma, non lontano da Calcide.

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ferita sulla gamba e orecchie insolite (vedi foto a p. 86). È prezioso per la sua datazione: risale all’età protogeometrica, cioè un paio di secoli prima dei poemi omerici. Già: che cosa accadeva in Grecia prima di Omero? Furono davvero «secoli bui» quelli intercorsi tra l’impresa degli acheo-micenei contro Troia e l’ascesa delle poleis arcaiche?

principi guerrieri L’Eubea è stata forse l’unica regione a sottrarsi al generale declino politico, economico, urbanistico e artistico che si verificò in Grecia dal XII al IX secolo a.C. Mentre il resto dell’Ellade offre testimonianze pressoché nulle, qui dominavano potenti principi guerrieri che sviluppavano commerci ad ampio raggio e innalzavano regge destinate a trasformarsi nei loro sepolcri monumentali, magari dopo essere eroicamente caduti in battaglia. Cosí accadde per l’imponente edificio di Lefkandi: ritrovato non lontano dalla costa della piana lelantia, costituisce addirittura il modello costruttivo dei primissimi templi greci, quelli con la pianta absidata. Anche i reperti trovati in questo heroon (vedi box a p. 86) sono esposti nel Museo di Eretria, con il corredo funebre del defunto; ma vicino al suo corpo, cremato alla maniera omerica, furono deposti anche gli amati cavalli e colei che era stata la sua sposa o concubina. Forse un giorno si troverà, qui, in Eubea, la chiave per spiegare il crollo della civiltà micenea e il sorgere di quella greca? Come Creta, che è piú grande per superficie,


ma alla quale somiglia per la forma allungata, anche l’Eubea vide fiorire una Grecia prima della Grecia. Superando Eretria in direzione sud, si attraversa un altro piccolo centro, il cui solo nome già risuona di echi antichissimi. L’odierna Amarinthos ha richiamato in vita dopo quattro millenni il tipico suffisso preellenico in -thos del nome che la dovette contraddistinguere un tempo; in età storica, infatti, era ricordata dalle fonti per un celebre tempio di Artemide Amarinthia o Amarousia. Qual era il senso di venerare qui la sorella vergine e guerriera di Apollo, anzi la sua gemella, specchio femminile del dio? Appena usciti dal paese, vi è un piccolo promontorio dal vertice piatto dove gli scavi archeologici hanno individuato i resti di un abitato preellenico. Il sito è oggi occupato da due chiesette che riutilizzano nelle mura il materiale costruttivo pagano. Il panorama è straordinario: l’intero Golfo Euboico Meridionale si offre allo sguardo, con le piccole isole montagnose che lo punteggiano a meridione, verso lo sbocco nell’Egeo.

lettere che hanno cambiato il mondo I Fenici avevano inventato o comunque codificato l’alfabeto in un modo che fu apprezzato dai Greci, i quali da tempo avevano abbandonato il piú complesso sistema di scrittura miceneo. E cosí costoro lo adattarono ingegnosamente alla propria lingua indoeuropea inserendovi i valori vocalici (che i popoli di lingua semitica tendono invece a sottintendere). Giunti a Cuma, in Italia, i Greci lo fecero conoscere agli Etruschi, che poi lo passarono ai Latini. E cosí è diventato oggi l’alfabeto di buona parte dell’umanità. A chi va il merito di tutto questo? Molti autorevoli studiosi hanno detto: ai Calcidesi. E, in effetti, i segni del greco antico nella variante locale sono quelli piú simili ai nostri. Una testimonianza tangibile è la monumentale iscrizione classica scritta con quei caratteri, che si può vedere alla periferia di Calcide.

Il sacrificio di Ifigenia La costa prospiciente, quella della Beozia, non è lontana; e da quel lato, quasi di fronte alla baia di Calcide, si trova un altro tempio della stessa dea. Ben piú celebre, però: il santuario di Artemide in Aulide, infatti, è quello attorno al quale si radunò la flotta achea in attesa di salpare per Troia. È il a r c h e o 83


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luogo d’avvio di ogni racconto della mitica guerra, e insieme quello che vide compiersi il sacrificio di Ifigenia per mano di suo padre Agamennone. È l’Ifigenia in Aulide, protagonista di un dramma di Euripide (poeta il cui nome, tra l’altro, fa riferimento all’Euripo). Attorno a quella stessa sponda, inoltre, abitavano i Graikoi: da costoro deriva forse il modo in cui noi neolatini (ma anche gli anglosassoni) definiamo gli Elleni: Greci. E non è certo un caso, se si pensa che i primi coloni greci incontrati dagli Italici provenivano, come si è detto, da questi paraggi.

In questa pagina: gruppo di Teseo che rapisce l’amazzone Antiope e frammento di una statua di Atena, sculture frontonali del tempio arcaico di Apollo Dafneforos (portatore di alloro) a Eretria. Eretria, Museo Archeologico.

Una terrazza sull’Egeo È bene dirlo subito e con chiarezza: non ci si illuda di visitare tutta l’Eubea in una settimana, e neppure in un mese. Pur non offrendo come Creta altrettante zone archeologiche completamente scavate, ripulite e offerte allo sguardo del pubblico, l’isola richiede, proprio per questo, tempi di visita maggiori, ricerche difficili e dall’esito non scontato. Inoltre, c’è da fare i conti con un sistema viario poco esteso e curato.

TESEO E le amazzoni Il tempio arcaico di Apollo a Eretria fu distrutto assieme alla città quando i Persiani, poco prima della battaglia di Maratona (490 a.C.), vollero punirla per aver aiutato la ribellione delle poleis dell’Asia Minore contro il proprio impero. Dopo la ritirata persiana, la città, ricostruita, innalzò un nuovo tempio, che aveva sul frontone anch’esso una Amazzonomachia, al centro della quale dominava il personaggio di Teseo. Secondo una probabile ipotesi, questo complesso frontonale di età classica fu poi prelevato dai Romani, che ne adornarono il tempio di Apollo Medico (o Sosiano), i cui resti si conservano nei pressi del teatro di Marcello, a Roma. Queste statue sono oggi esposte nella sezione dei Musei Capitolini allestita presso la Centrale Montemartini. 84 a r c h e o


Poco oltre Amàrinthos, quest’unica strada che percorre l’isola da nord a sud si biforca, e il viaggiatore deve scegliere se procedere verso la sua parte meridionale oppure se tagliare a est, attraversandone il largo settore centrale (60 km circa). Nel primo caso si prosegue fino a Caristo, nell’altro si arriva a Kimi, sulla costa euboica esposta verso il mare aperto. Il nome di Kimi suona cosí in greco moderno, ma in realtà lo abbiamo incontrato sin dal principio. Possiamo chiamarla sempre «Cuma». Fu dunque questo piccolo centro della madrepatria (e non, come sostengono alcuni, una terza città omonima in Asia Minore) a dare il nome alla colonia campana ricordata da Virgilio per l’incontro di Enea con la celebre Sibilla? L’odierna Cuma euboica è spettacolare: è costruita su un affaccio roccioso sull’Egeo dal quale si contempla la sperduta Skiros, l’isola in cui Teti nascose il giovanissimo figlio Achille, confondendolo tra le figlie del re locale per evitare che andasse a combattere e a morire sotto Troia. Davvero il nome di Cuma deriva dalle onde (kyma, in greco) che su di essa si

abbattono impetuose e instancabili, nonostante il suo sia l’unico porto degno di tale nome su questo versante dell’isola? Come che sia, la cittadina moderna non corrisponde purtroppo a quella antica. Una vera polis arcaica o classica non è stata ancora ritrovata nella zona ed è stato anche ipotizzato che, in realtà, questa città da cui provennero alcuni dei fondatori di Cuma italica fosse composta da piú villaggi sparsi (vedi box a p. 88).

L’Istmo dei venti Ma è giunto il tempo di volgerci verso la terra piú vertiginosa e ancestrale, forse piú nota dell’Eubea, e che ne costituisce la lunga propaggine meridionale. Col tempestoso capo Geresto puntato verso l’Egeo, pare diramarsi entro quel mare con le isole Cicladi, quasi fossero i suoi immensi lacerti pietrificati. La strada asfaltata si inerpica verso l’istmo che unisce il Centro e il Sud dell’isola, largo appena 6 km: una strettoia simile per dimensioni al piú celebre Istmo di Corinto. Ma mentre questo, che unisce il Peloponneso all’Ellade continentale, è un

Sulle due pagine: una veduta del monte Olimpo di Eubea, che s’innalza alle spalle di Eretria e la separa da Calcide.

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tratto di terra relativamente piatto e ben poco panoramico (tanto è vero che è stato possibile tagliarlo con un canale), qui l’istmo è un vertiginoso ponte naturale a schiena d’asino. Se si sosta per affacciarsi a uno dei bordi della strada lo sguardo è attratto da una cascata di balze rocciose e verdeggianti che precipitano fino al mare. Il vento è perenne e violento, al punto che si fatica a mantenersi in equilibrio tra le raffiche.

I Draghi e il cipollino Da questo punto in poi avanziamo nell’Eubea meridionale: quella che secondo gli antichi storiografi era la terra dei Driopi, popolo antichissimo, proveniente dalla Grecia centrale. Dei Driopi, o dei draghi? Quasi tutti i piccoli centri dell’area offrono infatti al visitatore l’opportunità di raggiungere, in genere dopo una lunga scarpinata su sentieri impervi degni di capre, le celebri Drakospitia: le «case dei draghi». In realtà, questo nome escogitato dalla fantasia popolare e dalle leggende medievali faceva riferimento non tanto ad animali fantastici, ma a uomini portentosi, assimilabili a draghi per la loro forza e le capacità sovrumane, poiché ebbero l’ardire e le energie necessarie a erigere spettacolari edifici

con possenti lastre di pietra levigata, trascinate su per queste balze scoscese. Per fortuna, tra le meno disagevoli da raggiungere ve ne sono alcune tra le meglio conservate, come quelle che sorgono alle spalle di Styra: un villaggio a metà strada tra la vertiginosa rocca classica, con un portale urbano che si staglia ancora contro le nubi risucchiate dai venti, e il gradevole porticciolo di Nea Styra, dal quale muovono i traghetti per il continente. Le Drakospitia, nonostante la loro parvenza preistorica, sono state edificate a partire dall’età arcaica, ed erano probabilmente dimore costruite dai minatori della zona con il materiale che avevano per le mani, la pietra estratta dalle cave locali. Ci avviciniamo infatti alla deliziosa Marmari e poi a Caristo, dalle cui montagne proveniva uno dei materiali edilizi piú pregiati dell’antichità: il marmo caristio, appunto, piú noto come «cipollino». Caristo è piú piccola di Calcide, benché in estate sia molto frequentata dai turisti: ma è almeno altrettanto antica. Se il nome di Calcide e gran parte della sua fortuna già nelle età precedenti la storia derivano dal rame o bronzo di cui era un importante centro di produzione e di esportazione (chalkos indica entrambi i metalli), la fama di Caristo è invece perennemente legata al suo marmo ornamentale. In fondo, questa estremità rocciosa e tempestosa dell’Eubea

In basso: il centauro in terracotta dipinta, da alcuni identificato come Chirone ferito da Eracle, rinvenuto a Lefkandi. 900 a.C. circa. Eretria, Museo Archeologico. La statuetta fu ritrovata divisa in due parti, ciascuna deposta in una diversa tomba, forse durante il rituale del sacrificio del «re sostitutivo». Nella pagina accanto, in alto, a sinistra: l’heroon di Lefkandi, nella periferia della città, in località Toumba.

combattere a viso aperto Nel borgo marino di Lefkandi le indicazioni archeologiche portano in realtà al promontorio di Xeropoli, un’antica rocca preistorica che sovrasta un doppio bacino portuale. L’heroon si trova altrove: protetto da una bassa tettoia, è visibile solo dall’esterno. L’uomo che riposò per millenni lí sepolto è quanto di piú vicino abbiamo agli eroi dell’Iliade. Secondo Omero, al tempo della guerra troiana, l’isola era abitata dagli Abanti «dall’animo impetuoso», originari della Tracia. Impetuosi, ma cavallereschi: sappiamo che durante la successiva guerra lelantina un trattato impediva ai contendenti di usare armi da getto o lancio (fionde, archi, giavellotti), imponendo a tutti di affrontarsi a viso aperto e da presso, a piedi o a cavallo. Gli aristocratici dell’isola, che a quei tempi dominavano Calcide ed Eretria, erano chiamati orgogliosamente Ippobotai, «allevatori di cavalli».

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è immersa nell’Egeo cicladico, a sua volta pregiato per i marmi insulari. Qui si respira la stessa aria profumata di timo e di salsedine che si percepirebbe a Naxos o ad Amorgos; e l’ampio porto tranquillo e le spiagge riparate dal vento hanno fatto di questa località la meta prediletta dagli Ateniesi, che dallo scalo attico di Rafina possono venire a trascorrevi un fine settimana di relax. Tra le viuzze ortogonali dell’abitato, so-

Qui sopra e a sinistra: orecchini e pendenti, dall’heroon di Lefkandi. 950 a.C. circa. Eretria, Museo Archeologico.

armi per il guerriero e gioielli per la dama Planimetria dell’heroon di Lefkandi. La struttura, che misura 50 m di lunghezza e poco meno di 15 di larghezza, è considerata un prototipo del modello tipico dei templi. Sotto al pavimento sono state rinvenute due tombe

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a fossa: una (1) conteneva i resti di un guerriero, cremato e deposto con le armi, e di una donna, inumata e seppellita con una gran quantità di gioielli, e l’altra (2) gli scheletri di 4 cavalli.

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vrastate da un demarchio (il palazzo comunale) che sembra uscito da una composizione metafisica di Giorgio De Chirico, è possibile individuare i resti di un bel santuario in marmo, costruito da quello che forse fu il sovrintendente romano alle cave nei tempi dell’impero. Passeggiando, a sera, di fronte alle imbarcazioni da pesca o da diporto, si ha come quinta scenografica il torrione veneziano (Bourtzi) che domina il lungomare; o in alternativa, saliti a Castel Rosso, si possono ammirare dall’alto i tramonti che indorano la baia. Su tutta questa bellezza svetta, imponente, il monte Ochi. La sua cima piatta, secondo il mito e una probabile etimologia, ospitava gli amori di Era e Zeus. Il re e la regina degli dèi figliarono la seconda generazione degli dèi olimpici intrecciando i loro amplessi su quell’inaccessibile, spettacolare talamo disegnato da madre natura.

Se il ponte si ritira Può capitare, a chi visiti Caristo con una o piú escursioni in giornata da Calcide, di arrendersi di fronte alla prospettiva di un ennesimo lungo rientro in auto tra i mille tornanti e i crateri d’asfalto della strada che attraversa l’isola. In tal caso, si può scegliere un’alternativa solo apparentemente assurda: lasciare 88 a r c h e o

I resti del tempio di Artemide in Aulide (Beozia), mitico luogo presso il quale si radunò la flotta achea in partenza per Troia e che fu teatro del sacrificio di Ifigenia, figlia primogenita di Agamennone, per placare l’ira della dea.

ECHI d’ITALIA Chi voglia cercare tracce della Cuma euboica tende a dirigersi verso il sito piú appariscente dell’area: Oxylithos («roccia puntuta») è davvero una cima aguzza, e non ci si può confondere; buca la linea dell’orizzonte simile a un fiotto d’onda pietrificato tra gli altri rilievi della zona. L’origine geologica ne giustifica la forma. Come tutti i siti impressionanti e spettacolari dell’Ellade anche questo vertice è stato benedetto da una chiesetta che vale la pena visitare. L’Evanghilistria è una sorta di osservatorio: vi si dominano la baia portuosa di Cuma e l’Egeo, e ci si sente davvero, come alcuni ipotizzano, sulla rocca sacra di quella che era una comunità unita sí politicamente, ma forse sparpagliata su piú centri. Uno dei quali, tra l’altro, si chiama Vitala; e perciò gli scrittori di cose locali si sono sbizzarriti, ipotizzando che i colonizzatori provenienti da questo villaggio privo testimonianze particolari abbiano dato il nome nientemeno che all’Italia: una variazione sul tema ben piú attendibile dei Vituloi, incontrati dai Greci nell’estremità calabra del nostro Paese, il cui nome poi fu esteso all’intera Penisola.


l’Eubea su un traghetto, approfittando delle frequenti corse che dal porticciolo di Marmari portano all’ Attica, per poi ritornarvi dopo aver seguito tutta l’autostrada che la fronteggia dalla parte del continente. Si ha cosí, tra l’altro, l’occasione di navigare attraverso l’affollato mini-arcipelago delle Petaloi. Oggi sono quasi disabitate, ma ognuna di queste isolette ha un suo proprio nome e una storia plurimillenaria: come del resto accade per ogni fazzoletto di terra, qui in Grecia. Una volta percorse l’Attica e la Beozia fino all’altezza di Calcide, si imbocca la bretella stradale che riconduce all’Euripo, e si è cosí tornati al punto di partenza con minor tempo e fatica. Sempre che, ovviamente, il ponte mobile non si ritiri proprio mentre ci accingiamo ad attraversarlo. Un evento che si verifica ogni sera, per consentire il quotidiano passaggio delle imbarcazioni dal Golfo Euboico Meridionale e quello Settentrionale. In tal caso, assieme agli abitanti della città si rimane bloccati per circa un’ora: o di qua, o di là. Ma anche questa è un’attrazione da non perdere. Come in una sfilata di moda, infatti, velieri, yacht, navi da carico e pescherecci si sottopongono a una lenta e trepidante passerella entro gli argini della strettoia, tra gli sguardi divertiti e i commenti critici di un migliaio di greci, forzati spettatori in attesa di ripassare l’Euripo. Isolani, o continentali? Da sempre i Calcidesi si chiedono a quale dei due gruppi di gre-

ci appartengano. Cosí come del resto, ogni sera, tutti ignorano a che ora e per quanto tempo il ponte svanirà: lasciandoli temporaneamente bloccati da una parte o dall’altra di quelle stravaganti correnti (vedi box a p. 81).

makrys, «LA lunga» Anche all’esteso Settentrione dell’isola occorrerebbe dedicare, non diversamente che alla sua parte sud, un soggiorno prolungato, o, in alternativa, piú viaggi brevi.Tanto slanciata e sinuosa da essere soprannominata dagli antichi Makrys («la Lunga», come ricorda Strabone) e prevalentemente montuosa lungo tutto il suo sviluppo, quest’isola

In alto: la chiesetta della Metamorfosi, costruita sull’antica acropoli di Amarinthos, a dominio del Golfo Euboico Meridionale. In basso: la baia e il porto di Kimi (Cuma), visti dalla cima di Oxylithos.

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singolare è un osso duro anche per il piú tenace viaggiatore. Eppure siamo, in linea d’aria, solo a una settantina di chilometri dalla metropoli di Atene e dalla sua rete capillare di trasporto urbano. Anche il Nord, volendo, può essere raggiunto via mare: in tal caso occorre attraversare il solito ponte sull’Euripo per poi andare a imbarcarsi in uno dei numerosi porti che, dalla costa della Beozia, dalla Locride orientale, dal golfo Maliaco o da quella propaggine di Tessaglia detta Achaia Ftiotide (la Ftia del Pelide Achille) si collegano con uno degli scali che punteggiano la testa dell’Eubea. Il maggiore e piú importante, fin dall’antichità, è sicuramente quello di Edipsos. Mentre l’imbarcazione solca le acque del sul LAGO scomparso Pochi chilometri prima dell’istmo dell’Eubea, con una piccola deviazione, si può visitare il bacino a conca, fertilissimo e ora prosciugato a scopi agricoli, di quello che fu il lago di Dystos. Quella campagna era, ed è ancora, dominata da un’acropoli classica costruita su un’altura piramidale, che solo dopo l’antichità si trasformò in isola, ma che serba resti di imponenti mura e porte urbiche.

Golfo Euboico Settentrionale non si può fare a meno di percepire un cielo piú lattiginoso e un’aria piú umida. Anche le pendici dei monti circostanti sono ammantate d’un verde cupo: gli estesi boschi sono rivelatori di un altro clima, di una piovosità piú regolare. Stiamo in effetti navigando di fronte alla Grecia settentrionale, tra la reggia di Achille e quella di Eracle a Trachis.

il sacrificio dello scudiero Proprio su un monte dei paraggi, l’Eta, il piú celebre degli eroi greci si gettò disperato sopra il rogo che avrebbe segnato insieme la sua morte e il suo passaggio tra gli dèi immortali. Molte cose, qui, richiamano Eracle. Si raccontava che, reso furioso dal dolore causatogli dal veleno del centauro Nesso, avesse scaraventato il povero scudiero Lica in mare da questa estremità dell’Eubea: la tragica scena fu poi effigiata in marmo dal Canova, e il monte Lica e le prospicienti isolette Licadi proprio da questo episodio prendono il nome. E si raccontava anche che le acque termali che rendono celebre Edipsos fossero state generate dal dio Efesto su richiesta di Atena, perché l’eroe vi si potesse bagnare al termine delle sue imprese. Oggi gli ospiti di questo che è il centro termale maggiore della Grecia hanno tutto... meno che un aspetto eroico. Li vedi affollare

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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In basso, sulle due pagine: una veduta dei resti dell’acropoli classica di Dystos, costruita sulla sommità di un picco isolato che domina la campagna sottostante. L’antica città sorgeva sull’altura, vicino all’omonimo lago oggi prosciugato.


il bel lungomare lastricato, seduti ai tavolini all’ombra di palme ben curate, e immergersi di tanto in tanto nelle polle naturali d’acqua calda che sgorgano da impianti già canalizzati dai Romani. Se non eroi, almeno illustri personaggi vennero a passare le acque in questo lembo estremo dell’Eubea: Churchill, Maria Callas, Onassis e Greta Garbo sono menzionati dalle guide locali.

alle terme con silla Ma l’ospite piú famoso fu senza dubbio, duemila anni or sono, Lucio Cornelio Silla: sappiamo che nelle pause della vittoriosa guerra contro Mitridate il generale romano veniva a ritemprarsi qui. Un lussuoso albergo sorto sulle terme antiche ricorda Silla anche nel nome, e accoglie gentilmente i pochi visitatori interessati ai resti riportati alla luce e molto ben conservati ai bordi della vasca termale centrale del complesso. Piú ostico, invece, risulta visitare la collezione archeologica ospitata nella sede dell’ufficio turistico ellenico, visibile solo su appuntamento. Una delle conseguenze della crisi

In alto: un esempio di Drakospitia, le «case dei draghi», nella zona di Styra (Eubea meridionale). Edificate con lastre di pietra levigata su balze scoscese a partire dall’età arcaica, erano probabilmente abitazioni di minatori. Il nome fa riferimento alla forza e alle presunte capacità soprannaturali dei costruttori.

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economica è stata quella di aver portato a una riduzione del personale di sorveglianza delle aree e delle strutture archeologiche minori, molte delle quali risultano nei fatti quasi inaccessibili. Ma non è, questo, un cane che si morde la coda? L’idea che le bellezze dell’isola siano poco valorizzate si accentua quando ci si mette alla ricerca di quel che resta dei due piú importanti centri classici dell’Eubea settentrionale, Istiea e Orei. Oggi due cittadine portano ancora i loro nomi. La prima, piú all’interno, è risorta sul sito della città arcaica, devastata dagli Ateniesi nel 446 a.C. in seguito a una ribellione contro la Lega Delio-Attica allora guidata da Pericle. Cosí come era liberale e aperturista in patria, lo stratego ateniese sapeva essere altrettanto inflessibile verso i sudditi recalcitranti al suo «impero democratico». Accadde dunque che gli Istieoti, una volta dispersi, dovettero trasferirsi in un nuovo centro, precisamente in quello che era stato il porto della città, Oreos. Oggi si chiama Orei, e merita una visita non solo per la sua scenografica collocazione sull’ampio canale marino di fronte alla Tessaglia, ma perché possiede una fortezza bizantina sorta sulle rovine dell’antica acropoli: vi si dominano a un tempo l’accesso labirintico al golfo euboico e le isole Sporadi settentrionali. Inoltre, nel mezzo dell’abitato, quasi sulla spiaggia, una grande teca in vetro conserva un capolavoro scultoreo dell’ellenismo: si tratta di un toro in marmo dal peso di 6 t,

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realistico e a grandezza naturale, colto nel momento in cui si appresta alla carica. Purtroppo, la teca è chiusa da tempo, i vetri sono opachi per la salsedine e in parte rotti. E solo grazie a questi casuali varchi è possibile ancora ammirare, sbirciando qua e là, un vero e proprio capolavoro.

In basso: Caristo. I resti del mausoleo in forma di tempio ionico, forse costruito dal soprintendente romano alle cave del locale e apprezzatissimo marmo caristio, il celebre cipollino.

Tra sottomissione e libertà Secondo alcuni, il toro di Orei era stato dedicato a uno dei re combattenti dell’età ellenistica: e in particolare a quel Demetrio Poliorcete da cui ebbe origine la dinastia degli Antigonidi, i sovrani macedoni avversari dei Romani. Per tutto il periodo – quasi due secoli – in cui la Grecia fu un protettorato della Macedonia, il controllo dell’Eubea divenne strategico: Calcide ospitava stabilmente una guarnigione dei nuovi padroni, ed era perciò definita assieme a Corinto e alla tessala Demetriade uno dei tre «ceppi» che tenevano l’Ellade in catene. In tutta l’isola i segni delle varie dominazioni – dagli Ateniesi ai Romani, dai Macedoni ai Veneziani e ai Turchi – si mescolano agli emblemi della libertà. Poco piú oltre Orei, infatti, ci si approssima al celebre capo Artemisio. Questo punto piú settentrionale dell’isola fu teatro, al principio della seconda guerra greco-persiana, del primo grande scontro navale tra le poleis decise a combattere per l’indipendenza e l’imponente flotta guidata da Serse. La battaglia dell’Artemisio (480 a.C.) fu la premessa del trionfo epocale dei Greci a Salamina e un parallelo navale della difesa delle


A sinistra: il Castel Rosso di Caristo, fortezza duecentesca costruita all’epoca della dominazione veneziana. In basso: una sala del Museo Archeologico di Caristo.

Termopili che, in quello stesso frangente, Leonida e i suoi stavano conducendo a prezzo dell’estremo sacrificio.

alla ricerca dell’Artemisio Il capo di fronte a cui si svolse la battaglia prende anch’esso il nome da un tempio di Artemide,Artemide Proseea («vòlta a oriente»), le cui possibili tracce sono andato a cercare presso la chiesetta di Aghios Gheorghios, alle spalle del centro marino di Pefki.Ancora oggi vi è nella zona un Comune denominato Artemision, ma nel suo territorio non si scorge alcun

promontorio. Mi metto a cercare almeno una terrazza naturale che domini il tratto di mare a nord dell’Eubea, per poter ammirare la penisola tessalica di Magnesia (la propaggine del Pelio, dimora del mitico centauro Chirone), e lo sbocco del golfo di Volos, quello da cui salpò la spedizione degli Argonauti. Trovo un posto simile sopra il porticciolo naturale di Ellinika. Secondo una tradizione, la località

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speciale • eubea Nella pagina accanto, in alto: i resti delle cosiddette «terme di Silla» a Edipsos, il piú importante centro termale della Grecia. A sinistra: particolare del toro di Orei (l’antica Oreos), una scultura in marmo a grandezza naturale di età ellenistica.

In basso: veduta di Capo Artemisio, nome con cui viene in realtà indicata una grande area nell’odierno territorio del Comune di Artemision, e non un promontorio vero e proprio.

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prenderebbe il nome dalla flotta di navi elleniche che salparono per affrontare le imbarcazioni fenicio-persiane. Salgo quindi sulla chiesetta di Aghios Charalambos, da dove mi appare, finalmente, tutta quell’ampia distesa di mare. Uno splendido bronzo raffigurante un dio nell’atto di scagliare un’arma (una folgore? Un tridente?) fu ripescato in queste acque, e oggi attira l’ammirazione generale nelle sale del Museo Nazionale di Atene. Considerato il luogo da cui proviene, si direbbe che l’identificazione con Poseidone sia preferibile rispetto a quella, alternativa, con Zeus. Ma l’affannosa ricerca di un vero e proprio «capo» geografico, che chissà perché mi raffiguravo come un promontorio (simile al Sounion, per esempio), si placa solo quando una donna del luogo mi spiega che «tutta questa grande area è detta capo Artemisio, e non esiste un punto rilevato, segnalato da un faro o altro, che porti questo nome specifico».

Una piccola Atene L’itinerario nell’Eubea sta volgendo al termine. Ma l’isola, quella certo non finisce qui. Molte altre località – mitiche, storiche, archeologiche – vi sarebbero ancora da ricercare: da sole basterebbero a giustificare un altro viaggio, forse altri viaggi.


Passeggiando sul lungomare di Calcide, incantato dai vorticosi mulinelli dell’Euripo e rinfrancato dagli sbuffi d’aria che rendono gradevolissima l’estate euboica, mi rendo conto che questa, che è sicuramente la meno conosciuta tra le grandi isole mediterranee, ha una natura triplice. Il suo Settentrione, quasi incuneato nella Tessaglia, è verdeggiante, montuoso e continentale come un distretto balcanico. La larga fascia mediana è la prosecuzione della «Sterea Ellada», la «Grecia salda» non insulare: ne ricorda, separate solo da una quarantina di metri d’acqua, le fertili pianure e le alture ondulate, non spoglie ma neppure boscose. Il Meridione, invece, sarebbe un’isola a sé, non fosse per quel suo istmo sottile: è scabro, secco e scenografico come una delle Cicladi; proteso verso sud-est e l’Asia Minore, costituisce un parallelo delle penisole dell’Attica e dell’Argolide. Per questo suo essere una e trina allo stesso tempo, l’Eubea può ben considerarsi una sintesi dell’intera Grecia: con un Nord, un Centro e il suo piccolo Peloponneso. In tutto ciò, Calcide, elegante, illustre, pervasa di cultura e di un suo spirito illuministico, è una piccola Atene. In fondo, quei Greci venuti da qui per donarci una nuova civiltà rappresentavano la quintessenza dell’intero Paese.

Pensare l’Euripo Me li immagino, divenuti provetti marinai proprio esercitandosi ad affrontare le correnti, inspiegabili e imprevedibili, dell’inquietante braccio di mare che avevano di fronte: traendone essi stessi un’inquietudine mentale, una prontezza di riflessi e una agi-

lità anche psicologica che non si limitavano al saper muovere con destrezza i remi o le vele. «Nello stesso fiume, in verità, non è possibile bagnarsi due volte». «Negli stessi fiumi tanto ci immergiamo quanto non ci immergiamo, siamo e allo stesso tempo non siamo». E ancora: «La via in salita e quella in discesa è una sola e la stessa». Contemplando per l’ennesima volta il mare riversarsi, come da una scodella inclinata, da un golfo all’altro per poi cambiare verso, mi si riaffacciano alla memoria, con i frammenti di Eraclito, anche gli ambigui oracoli di Apollo, i dilemmi dei tragici e le antilogie dei sofisti, che sono all’origine di tanta parte del nostro modo di pensare. Adesso tutte queste non mi sembrano piú raffinate creazioni intellettuali, trappole del pensiero escogitate da menti sottili, ma testimonianze naturali, tangibili: come di bambini che si bagnino la mano giocando entro queste correnti, e sorridano, e si divertano nel vederle cambiar tanto imprevedibilmente senso e direzione. Come la storia, come la vita.

Qui sopra: il Kastro medievale di Orei, sorto nell’area dell’antica acropoli.

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

com’è d’oro la mia valle... il comprensorio della valle d’oro, fra lazio e toscana, conserva quasi intatto il suo paesaggio e, negli ultimi decenni, è stato al centro di fruttuose ricerche. premesse ottimali perché si realizzi il progetto del nuovo parco archeologico

L

a Valle d’Oro è uno splendido luogo dell’Italia centrale che si stende a est della via Aurelia, nell’immediato entroterra del promontorio di Ansedonia. Anticamente faceva parte del territorio di Vulci, che, con la conquista romana di quel tratto di Etruria, fu annesso alla colonia latina di Cosa, fondata nel 273 a.C. Nel Medioevo entrò nel grande feudo dell’abbazia romana delle Tre Fontane per esser poi contesa tra le città che estesero il loro dominio sulla Maremma, tra cui Siena. Nel XVI secolo fu annessa allo Stato dei Presidi, e da questo passò poi al Granducato di Toscana. Il paesaggio della valle è vario e suggestivo e conserva i segni delle attività produttive dell’uomo, nei campi, nei pascoli, nei boschi che si sono stratificati in un paesaggio

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Chiusi

Populonia Isola d’Elba

Vetulonia

Monte Amiata Roselle Volsini Saturnia Poggio Buco

Pitigliano

Lago di Bolsena

Bisenzio

Marsiliana

Ferento Cosa

Ma r Tirre no

che mantiene il fascino antico della Maremma, anche dopo la Riforma Fondiaria degli anni Cinquanta del Novecento, che ha appoderato numerosi terreni. Aziende agricole,

Vulci

Tuscania

Tarquinia

In alto: cartina dell’area etrusca tosco-laziale: il colore piú scuro indica il territorio controllato da Vulci; il rettangolo verde indica la posizione della Valle d’Oro.


In alto: un tratto delle mura di Cosa, colonia latina fondata nel 273 a.C. Nella pagina accanto, in basso: veduta aerea della villa romana di Settefinestre. I sec. a.C.-II sec. d.C. I resti del portico e del muro turrito. ville residenziali, parchi e giardini connotano oggi alcuni tratti della valle, che è tornata all’attenzione dell’opinione pubblica sia per la divulgazione delle importanti ricerche archeologiche che vi sono state condotte (vedi «Archeo» n. 343, settembre 2013; anche on line su archeo.it), sia per la celebrità dei centri turistici costieri (in primis Capalbio e Orbetello), al cui territorio appartiene. Questo angolo meraviglioso della costa tirrenica è entrato nella storia dell’archeologia per gli scavi condotti negli anni Settanta del secolo scorso da una équipe italobritannica guidata da Andrea Carandini nella villa di Settefinestre: la piú monumentale di una serie di ville d’età romana caratterizzate da una recinzione a torrette che dava loro la falsa immagine di una piccola città. Le tracce dell’incastellamento medievale sono ben rappresentate dai ruderi di Tricosto, che sorgono sul poggio noto oggi come Capalbiaccio, indagato a piú riprese da alcune missioni archeologiche statunitensi dirette

da Stephen Dyson ancora negli anni Settanta e piú recentemente da Michelle Hobart. Insomma, per un convergere felice di situazioni concomitanti, la Valle d’Oro è uno dei contesti preservati della costa tirrenica in cui è possibile coniugare storia, ambiente, archeologia e natura in modo equilibrato viaggiando nei secoli attraverso le tracce delle frequentazioni protostoriche, le necropoli etrusche, le fattorie dei primi coloni romani e le ville dei senatori, le chiese, i castelli e i monasteri.

Un’antica idea... Questo piccolo paradiso è oggi al centro di un Progetto di Parco archeologico, proposto da un gruppo di cittadini riuniti nell’Associazione MarremaMare, nata una decina di anni fa con l’obiettivo di tutelare e valorizzare il paesaggio e il patrimonio culturale e ambientale della Valle d’Oro. Riprendendo una antica idea di Carandini, i soci di MaremmaMare, hanno dunque commissionato uno studio di fattibilità del parco,

individuando i beni da valorizzare e le azioni da effettuare per consentirne il godimento pubblico. A oggi, già 47 proprietari hanno dato il loro consenso all’iniziativa, per un totale di 1780 ettari sui 2950 interessati dal parco. Il Piano ha preso in esame le discipline urbanistiche vigenti per l’area interessata dal progetto, già improntate alla tutela delle risorse naturalistiche e ambientali presenti, ha valutato coerenze e compatibilità con la pianificazione urbanistica e con i vincoli esistenti e ha riversato le sue prime proposte in una Carta del Parco in cui sono descritti i possibili itinerari e i relativi servizi. Questa bella iniziativa, a cui auguriamo successo, è nata a un anno di distanza dall’emanazione del decreto con il quale il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha adottato le linee-guida per la costituzione e la valorizzazione dei parchi archeologici messe a punto da una commissione paritetica Stato-Regioni-Enti locali in questi ultimi anni. La necessità di offrire alcune direttive di orientamento nasceva dalla constatazione che la condivisione fra piú soggetti pubblici delle responsabilità di tutela e di pianificazione paesistica, ambientale e urbanistica dei territori sui quali insistono i parchi archeologici è spesso all’origine di intralci e conflitti di competenza. Il documento approvato – che ha avuto purtroppo scarsa eco nell’opinione pubblica – individua gli elementi essenziali e distintivi di un parco archeologico, necessari per garantire livelli qualitativi soddisfacenti; propone un sistema di tutela integrata, sotto il profilo culturale, paesaggistico e urbanistico; delinea limiti e prescrizioni d’uso; pone l’accento sulla sostenibilità economica e finanziaria del progetto e stimola tutte le possibili forme di collaborazione fra i soggetti pubblici titolari di funzioni inerenti il territorio, prevedendo

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rapporti stabili con le università, le scuole, le associazioni culturali e i privati. L’obiettivo è l’istituzione di un sistema nazionale di valutazione e accreditamento dei parchi archeologici, basato su requisiti di qualità, a cui far rispondere possibili benefici finanziari, fiscali o commerciali. In particolare, il documento riconosce che, per dare fondamento a qualsiasi progetto di creazione di un parco archeologico, è essenziale l’importanza conferita alla conoscenza, e quindi al momento della ricerca. Che non si tratti di una presa di posizione solo teorica si evince dal percorso che il documento individua per la formulazione dei nuovi progetti di parco archeologico, che deve prendere le mosse innanzitutto da un progetto scientifico, strumento fondamentale per definire i contenuti di un parco e le sue possibili linee di sviluppo. Dal progetto scientifico, infatti, derivano gli specifici progetti di tutela, valorizzazione e gestione. Alla base del progetto scientifico è la valutazione del contesto archeologico e paesaggistico, che permette di mettere a fuoco le tematiche storico-archeologiche, architettoniche e naturalistiche, che costituiscono il valore proprio del parco, e le loro relazioni con il contesto ambientale. A seguito di tali scelte sarà possibile definire ed esplicitare le prospettive di recupero, di restauro (conservativo o integrativo), di protezione dei monumenti, di realizzazione delle infrastrutture necessarie e sufficienti al funzionamento del parco. Dal progetto scientifico trarranno linfa anche le eventuali attività didattiche ed educative che si intendono realizzare nel parco (percorsi guidati, laboratori didattici, archeologia sperimentale, ecc.), e i programmi inerenti la comunicazione, calibrata sull’analisi dei potenziali utenti e capace di garantire livelli di

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I ruderi del castello di Tricosto-Capalbiaccio. XII sec. divulgazione scientifica differenziati. La conoscenza scientifica (storica, archeologica, naturalistica) è talmente importante per realizzare gli obiettivi di un parco archeologico che le linee-guida prevedono la presenza necessaria di personale qualificato negli organigrammi del parco, e in particolare di un direttore scientifico o di un comitato scientifico, tale da garantire competenze diverse coerenti con la natura dei resti da valorizzare e che abbia un potere di indirizzo sovraordinato a ogni altro organo di tipo amministrativo e/o gestionale.

avviare nuove indagini Ma non basta. La ricerca riguarda anche le attività da svolgere nel parco una volta creato: si prevede, infatti, che un valore aggiunto sia la presenza di un programma di indagini archeologiche finalizzato a sviluppare le potenzialità dell’area prefigurando tempi, forme e attori della loro promozione. Il Parco della Valle d’Oro rientra assai bene in questa progettualità. Alcuni siti, come le ville di Settefinestre e delle Colonne o il castello di Capalbiaccio, sono già oggetto di visita da parte dei turisti.

Altri (Monte Alzato, la fattoria di Giardino Vecchio, i resti delle centuriazioni, l’acquedotto delle Forane, il Romitorio Rovinato, la villa della Corsa, ecc.) potranno diventarlo in presenza di appositi progetti di valorizzazione. Occorrono interventi di recupero e messa in sicurezza e di restauro conservativo o integrativo; alcuni scavi effettuati in passato e poi reinterrati potranno essere ripresi, altri potranno essere avviati ex novo. Il progetto di fattibilità individua già alcune possibili funzioni per Borgo Giardino (futuro centro Servizi), per Capalbiaccio (belvedere sul parco), per la villa della Corsa (archeoagricoltura sperimentale), per i fontanili, i boschi, le tracce della centuriazione, le architetture lette tramite la fotografia aerea (Le Tombe). Un’accurata planimetria prefigura già quello che potrebbe essere uno sviluppo futuro, forse dietro l’angolo, se un’iniziativa positiva, che nasce da un gruppo di privati volenterosi, troverà gli equilibri necessari per portare a compimento un’operazione tanto delicata quanto benemerita. C’è da augurarsi che anche le amministrazioni pubbliche sappiano fare la loro parte, con attenzione e disponibilità.



antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

la festa del focolare la principale ricorrenza del mese di giugno erano i vestalia, le celebrazioni in onore della dea che tutelava la vita domestica ed era considerata la custode dell’intera comunità romana

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ra il 9 e il 15 di giugno, a Roma si celebravano i Vestalia, una festa tra le piú importanti e significative del calendario, essendo dedicata alla dea del focolare domestico e di tutti i focolari della città e, quindi, dell’intera comunità. Vesta, infatti, era qualificata come publica, cioè «dello Stato» (Vesta Publica Populi Romani) e il focolare che restava acceso nel suo tempio era in origine quello del re, rappresentante di tutto il popolo. Protagoniste della festa erano le Vestali (Sacerdotes Vestae o Virgines Vestales), le sacerdotesse

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incaricate di tenere sempre vivo – e di spegnerlo, per poi riaccenderlo immediatamente a ogni passaggio di anno – il fuoco sacro nel tempio eretto sul limitare orientale del Foro, alle estreme pendici del Palatino, dal re Numa Pompilio: lo stesso che avrebbe introdotto il culto di Vesta da Lavinium, dove, a sua volta, sarebbe stato portato dal «padre» Enea.

un culto italico Che quel culto venisse da fuori e fosse piú antico della stessa Roma lo testimonia la tradizione che riteneva Romolo, il fondatore della

città, figlio di Marte e della vestale Rea Silvia. In realtà, doveva trattarsi di un antichissimo culto italico, poi assimilato a quello, analogo, della greca Estía. E il tempio era rotondo – come fu sempre quello del Foro, fino all’ultima ricostruzione, dopo un incendio nel 191 d.C., per opera di Giulia Domna, moglie dell’imperatore Settimio Severo – perché rotonda era la capanna dei primi abitatori del Palatino. Ma, all’interno del tempio – stando La Casa delle Vestali, nel Foro Romano, alle pendici del Palatino.


alla testimonianza di Ovidio (Fasti VI, 295, 6) – non c’era alcun simulacro della dea che, peraltro, veniva comunemente rappresentata con una patera in una mano e una fiaccola accesa nell’altra. Come tutte le feste piú antiche del calendario romano, i Vestalia avevano certamente una connotazione agricola: si trattava, in pratica, del ringraziamento collettivo per le messi ormai giunte a maturazione e pronte per essere mietute. In quei giorni, infatti, i molini (che interrompevano il loro lavoro) venivano addobbati con fiori e festoni mentre gli asini addetti a far girare le pesanti ruote delle macine, erano portati in giro per le vie della città ornati anch’essi di ghirlande e con addosso collane fatte col pane.

la focaccia di farro Il tempio – o, piuttosto, l’adiacente Casa delle Vestali – veniva aperto già il giorno 7 (e lo rimaneva fino al 14). Le donne vi si recavano in visita, a piedi nudi, portando focacce e cibi vari da offrire alla dea. Il rito solenne aveva luogo il giorno 9 e il suo momento culminante era l’offerta a Vesta della mola salsa, una focaccia di tritello di farro abbrustolito e pestato nel mortaio, sciolto in acqua di fonte (o piovana) e salato con una sorta di salamoia. Questa veniva preparata con sale pestato e liquefatto fino a saturità in uno speciale recipiente di coccio (olla fritilis), asciugato al forno fino a diventare bianco e poi tagliato con un seghetto di ferro. Quanto al farro, esso doveva essere stato raccolto prematuramente, da tre Vestali, in giorni alterni, tra le nonae e le idi del mese di maggio. Le stesse Vestali presiedevano al rito con un lembo della toga sollevato sulle spalle e tenendo in capo un velo bianco, quadrato, agganciato sotto la gola con una fibula e perciò detto suffibulum. Il giorno 11, intanto, venivano celebrati i Matralia, in onore di

Mater Matuta, la dea dell’Aurora, protettrice delle maternità, che aveva il suo tempio nel Foro Boario, attribuito dalla tradizione al re Servio Tullio. Ovidio (Fasti VI, 473 segg.) c’informa che, per l’occasione, il simulacro della dea veniva adornato da donne sposate una sola volta, che portavano in offerta focacce tostate in recipienti di terracotta e perciò dette liba tosta. Una schiava veniva inoltre introdotta nel tempio e immediatamente scacciata per alludere al colpevole comportamento di un’ancella nei confronti della moglie del mitico re di Beozia, Atamante. Quanto ai Vestalia, la festa si concludeva il giorno 15, con la purificazione del «penetrale» (penus Vestae), una specie di sancta sanctorum, derivato da quello che, nelle abitazioni primitive, era il «ripostiglio» ricavato sotto al pavimento della capanna, ricoperto e protetto da stuoie, che serviva da «dispensa» o deposito delle derrate alimentari, e, soprattutto, delle granaglie, necessarie al sostentamento della famiglia. Come scrive Festo, nel tempio questo «rispostiglio» era «un luogo interno all’edificio, tutto circondato da una zolla di terra fertile», nel quale erano custodite le cose piú sacre della comunità: in particolare, i cosiddetti pignora civitatis, oggetti e simboli «fatali», garanzia della continuità e delle fortune dello Stato. Dal momento che solo le Vestali e il Pontefice Massimo potevano vederli e toccarli, le notizie su di essi sono piuttosto vaghe e incerte, ma al primo posto stava il Palladio (Palladium), la statuina di Pallade/ Athena (o Minerva) che Enea, fuggendo, aveva portato da Troia. Poi si diceva che ci fossero lo scettro del re Priamo, le ceneri di Oreste, il velo di Ilione, uno scudo di Marte, ecc. Nel penetrale si conservavano inoltre vari «ingredienti» necessari per lo svolgimento di particolari riti religiosi. Come le ceneri dei feti

Giugno, rappresentato da due uomini che vendono una bevanda a un passante, a simboleggiare la calura del mese, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico.

delle vacche gravide sacrificate nella festa dei Fordicidia, il 15 aprile, e il sangue del cavallo ucciso nel rito bellico del 15 ottobre, con i quali le Vestali preparavano il suffimen (i «suffumigi») per la festa dei Parilia, il 21 aprile, «natale di Roma» (vedi «Archeo» n. 350, aprile 2014). La purificazione del penus non era altro che la ripetizione rituale della pulizia che, in origine, praticavano, ciascuna nella propria casa, le madri di famiglia per eliminare dalla «dispensa» i rimasugli e le impurità accumulatisi durante l’anno, alla vigilia del nuovo raccolto, perché essa fosse predisposta ad accogliere nella maniera migliore le nuove provviste.

Propiziare il raccolto È facile pensare come, essendo la religione romana volta essenzialmente al perseguimento di fini pratici e, in particolare, a impegnare coi propri riti le divinità a soddisfare le richieste dei fedeli, l’operazione compiuta, privatamente nelle case e pubblicamente dalle Vestali, con il suo valore propiziatorio, fosse intesa come capace di assicurare alle singole famiglie e all’intera

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comunità cittadina, la certezza del nuovo raccolto. Ripulito il penus, le Vestali ne portavano via le sporcizie (lo stercus) e le gettavano nel Tevere, con una processione che giungeva al fiume dopo aver percorso la via Sacra e superato il clivo Capitolino, attraverso un passaggio detto Porta Stercoraria, situato presso il Tempio di Saturno (chiamato, perciò, volgarmente, Stercutius).

Nello stesso mese di giugno, venivano celebrate due feste «di categoria». Una era quella dei Ludi Piscatorii, del giorno 7, riservata a quelli «che manovrano le madide reti e nascondono con piccole esche i ricurvi ami di bronzo», come scrive Ovidio (Fasti VI, 239, 40). Si svolgeva, con giochi di vario genere, sulla sponda trasteverina del fiume, verosimilmente nel tratto, subito a valle dell’Isola

Tiberina, chiamato «Tra i due ponti», che fronteggiava lo sbocco nel Tevere della Cloaca Massima, celebrato (forse, proprio per questo) per la sua pescosità. Festo (278 L) assicura che il pesce pescato quel giorno non finiva al mercato, ma veniva portato in offerta al santuario di Vulcano, presso l’antichissimo altare che sorgeva tra il Campidoglio e il Foro.

i giorni dei flautisti Dell’altra festa – che potrebbe essere anche definita, piú propriamente, «di corporazione» – erano protagonisti i tibicines, i suonatori di doppio flauto (la tibia). Ne scrivono, tra gli altri, ancora Ovidio (Fasti VI, 651 segg.) e Tito Livio (IX, 30, 5), secondo i quali la festa si svolgeva dal 13 al 15 del mese, dopo essere stata istituita, nel 311 a.C., per indurre gli stessi flautisti a riprendere il loro servizio (quello di accompagnare con il loro strumento i riti delle cerimonie religiose e dei funerali) dopo che lo avevano sospeso, essendo stati esclusi dai censori di quell’anno dal prendere parte ai solenni banchetti in onore di Giove. Ritiratisi a Tivoli, vennero fatti ubriacare e quindi riportati a Roma, nottetempo, su carri lasciati fino al loro risveglio in mezzo al Foro. La pace fu fatta quando venne loro concesso il permesso di andare in giro per la città, ogni anno, per tre giorni, mascherati e con indosso abiti femminili, cantando «versetti giocosi secondo ritmi antichi», come informa il solito Ovidio. Nel resto del mese, non v’erano altre feste che quelle dedicate a singole divinità nel giorno anniversario della dedica dei loro templi: da Giunone Moneta, il giorno delle calende, al Dio Fidio, il 4, da Ercole Custode, il giorno 5, a Summano e a Fors Fortuna, rispettivamente il 20 e il 24. Roma, basilica di S. Maria in Trastevere. Mosaico romano (murato in sagrestia) raffigurante una scena di pesca.

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scavare il medioevo Andrea Augenti

410: l’oltraggio... invisibile nell’agosto di oltre 1600 anni fa alarico, re dei goti, espugnò roma e, per tre giorni, lasciò che i suoi uomini si dessero a razzie e distruzioni: fu un evento traumatico, che cambiò il corso della storia, e che tuttavia sembra sfuggire alla lente dell’archeologia

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i sono eventi che segnano le epoche e date che restano scolpite nella storia. Cosí, se dico «11 settembre 2001» (anzi, basta «11 settembre»), chiunque sa a cosa mi riferisca. È un piccolo esperimento, che faccio ogni anno, con i miei studenti: pronuncio quella data, e poi domando: «Dove eravate voi?». La grande maggioranza di loro ricorda perfettamente dov’era quel giorno, nei fatidici istanti dell’attacco al

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World Trade Center. E tutti noi lo ricordiamo: è stato un avvenimento sconvolgente, documentato e amplificato dai mezzi di comunicazione, e da allora è cambiata la politica, è cambiata l’economia, è cambiato il nostro modo di volare e anche quello di avere paura. In poche parole, quella data è uno spartiacque tra due epoche, tra due mondi. Per certi aspetti, accadde la stessa

cosa il 24 agosto del 410 d.C., cioè il giorno in cui Roma fu attaccata e saccheggiata dai Goti. Guidati dal re Alarico, per tre giorni i barbari agirono indisturbati nella città, attaccando case, monumenti, e depredando tutte le ricchezze possibili e immaginabili (e non dovevano essere poche: Roma era una città molto grande, che ospitava una aristocrazia particolarmente ricca). Ma che cosa può dire l’archeologia


Incisione nella quale si immagina il re goto Alarico che, alla testa dei suoi soldati, mette Roma a ferro e fuoco, seminando morte e distruzione, dopo averla espugnata il 24 agosto del 410. su tutto questo? Si può fare «archeologia di un saccheggio»? Le informazioni di cui possiamo disporre permettono di fare luce su quel periodo. Tuttavia, è bene mettere subito le carte in tavola: le tracce archeologiche dirette del saccheggio sono pochissime, e le poche disponibili sono anche dubbie. In varie zone di Roma sono stati scavati, anche di recente, strati di quell’epoca, e in contesti diversi. Ma non sono stati registrati segni indiscutibili dell’episodio, come i tipici strati di terra annerita da un incendio. E che cosa abbiamo, invece? Indizi di tipo differente, che ci parlano di tendenze piú generali e di lunga durata. Per esempio, nel Campo Marzio alcune domus (le grandi case degli aristocratici) risultano abbandonate già nel IV secolo, mentre a Trastevere il cantiere di una di queste interrompe le sue attività nello stesso periodo. La domus individuata sotto la basilica di S. Maria Maggiore, sul colle Esquilino, fu invece abbandonata all’inizio del V secolo, forse proprio in occasione del 410. E forse anche la grande Basilica Emilia, situata a nord della piazza del Foro Romano, fu distrutta da un incendio proprio in quell’occasione, come proverebbero le numerose monete fuse ritrovate sotto il pavimento dell’ultima ricostruzione avviata agli inizi del V secolo. Ma gli ultimi due sono casi rari di testimonianze forse collegabili al 410, per giunta discutibili, e tutt’altro che sicure. Altre informazioni ci vengono poi dalle sepolture urbane. È possibile che proprio l’episodio del saccheggio abbia dato il via a una pratica fino ad allora vietata, quella di seppellire i morti dentro le mura della città; una soluzione che in

seguito divenne consuetudine a Roma, come ovunque, e dilagò a partire dal VI secolo. E poi le statue: una recente indagine sulle ultime statue dell’antichità condotta a Oxford, che ha dato vita a un utilissimo database consultabile in rete (The Last Statues of Antiquity, http://laststatues.classics.ox.ac.uk), ha messo in luce come a Roma dopo il 410 non vengano piú realizzate nuove sculture: le dediche delle basi parlano soltanto di restauri e spostamenti.

una «soglia psicologica» Ha ragione chi ha definito il 410 una «soglia psicologica», uno di quei punti di non ritorno, dopo i quali cambia la mentalità di chi lo ha vissuto: Roma non fu piú la stessa, ma neanche i Romani lo furono. Insomma, da tutti questi indizi ricaviamo soprattutto due sensazioni. La prima è che è molto difficile fare una «archeologia dei saccheggi», perché i saccheggi non sono come gli incendi o i terremoti (eventi che invece si individuano molto bene nelle stratificazioni), semplicemente perché non necessariamente e non ovunque lasciano tracce di distruzione. E quindi, nel centro di Roma, le tracce dell’incendio di Nerone vengono alla luce periodicamente, e sono molto bene identificabili, come spessi strati di colore nero; mentre quelle del 410 non sono altrettanto evidenti. Seconda considerazione: gli indizi raccolti, invece, indicano molto chiaramente che al momento del saccheggio Roma attraversava già

da qualche tempo un periodo di difficoltà (come testimoniano le domus abbandonate), e che l’evento del 410 fu usato come incentivo, come spinta per una ripresa, che non fu piccola. La microstoria che ha come protagonista la zona di S. Maria Maggiore ne è la riprova: poco dopo l’abbandono di una domus, nello stesso luogo e su quei resti fu costruita una delle piú grandi e fastose chiese della città. L’archeologo del 4000 che cercherà di ritrovare le tracce della tragedia dell’11 settembre potrà farlo: al di sotto dei nuovi edifici sarà possibile individuare l’enorme cratere di Ground Zero. Ma nel 410 gli eventi furono diversi da quello, diffusi e differenti tra loro nell’intera città. In questi casi l’archeologia non ci offre una risposta precisa e unica, ma ci aiuta comunque a ricostruire un quadro piú ampio. Magari abbiamo compreso di non avere molte tracce del saccheggio del 410, ma di sicuro ora sappiamo molto meglio cosa avvenne prima e dopo quella fatidica data. E quanto peso quell’evento ebbe sulla storia di Roma. Roma. I resti della Basilica Emilia, sorta a nord della piazza del Foro Romano. La distruzione dell’edificio causata da un incendio agli inizi del V sec. potrebbe forse essere messa in relazione con il sacco del 410.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

PICCIONI TROGLODITICI dall’alto lazio alla cappadocia, le file di piccole cavità designate come «colombari» sono spesso interpretate come aree per la deposizione di urne cinerarie. in realtà, quel nome curioso è molto piú vicino alla loro reale funzione di quanto non si possa immaginare 106 a r c h e o

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olumbarium è il termine con il quale, in epoca romana, venivano chiamati i gruppi di nicchie, costruiti in superficie o scavati nella roccia, nei quali erano collocate le urne con le ceneri dei defunti. Ancora ai giorni nostri si definiscono «colombari» le file di loculi affiancate e sovrapposte che caratterizzano i cimiteri moderni. Il vocabolo deriva, evidentemente, dalle nicchie disposte nel medesimo modo, utilizzate per la nidificazione dei colombi.


Nella zona della Tuscia, tra Roma e Orvieto, esistono oltre 300 colombari rupestri e studi recenti hanno stabilito che la maggior parte di essi non aveva funzioni sepolcrali: si tratta di vere e proprie piccionaie, termine oggi usato piú comunemente per distinguere le nicchie per l’allevamento dei colombi, o piccioni, da quelle destinate all’incinerazione. L’incertezza deriva dal fatto che, in diversi casi, per realizzare le piccionaie sono state riutilizzate preesistenti camere funerarie. Queste hanno un solo ingresso e dimensioni delle nicchie comprese tra i 30 e i 60 cm, mentre quelle destinate ai volatili sono piú piccole, tra i 15 e i 30 cm, e le camere ipogee sono dotate di piú aperture, per il passaggio degli uomini, dei piccioni (fori di volo) e, a volte, per l’aerazione. Vi sono indizi che, almeno in alcune piccionaie, vi fossero anche posatoi interni costituiti da pali orizzontali collocati trasversalmente alla Nella pagina accanto, in alto: Aksaray, Cappadocia (Turchia centrale). Chiesa rupestre nel complesso bizantino di Canli kilise, riutilizzata come piccionaia probabilmente in epoca ottomana. In basso e nella pagina accanto, in basso: Uçhisar, Cappadocia. Agglomerato di piccionaie scavate nei pinnacoli di tufo e nicchie per la nidificazione dei piccioni ancora usate dai volatili.

camera, o da pioli infissi in corrispondenza di ciascuna nicchia. In Cappadocia (Turchia centrale) le piccionaie rupestri sono ancora piú diffuse che nel Lazio, in qualche caso abbinate a strutture sotterranee destinate all’apicoltura (vedi «Archeo» n. 347, gennaio 2014). Talvolta il fenomeno assume aspetti monumentali e spettacolari, sia perché la concentrazione di porticine e finestrelle scavate nelle falesie e nei gruppi di pinnacoli induce l’illusione di trovarsi in presenza di estesi «condomini trogloditici», sia a causa della secolare azione meteorica sulla tenera roccia tufacea, che ha prodotto il sezionamento delle camere rupestri, mettendo in luce migliaia di nicchie scolpite in file ordinate, con un sorprendente effetto decorativo.

Strutture complesse Gli ingressi delle piccionaie, spesso contornati da scialbature su cui sono stati dipinti motivi geometrici, sono quasi sempre collocati a notevole altezza, su pareti rocciose verticali, di norma rettificate intenzionalmente per impedire l’intrusione di predatori (animali o uomini). La risalita, effettuata per mezzo di pedarole (nicchie incise nella roccia strapiombante), oggi molto consunte e pericolose, doveva essere piuttosto rischiosa anche in origine se dalla tradizione orale risulta che la raccolta del guano, usato come fertilizzante,

Göreme, Cappadocia (Turchia centrale). Piccionaie scavate a diversi metri dal suolo nelle pareti di tufo. Le aperture con i fori di volo sono segnalate da decori di vario colore. fosse effettuata soltanto due volte all’anno da giovani rigorosamente non sposati. La maggior parte delle piccionaie cappadoci, verosimilmente comprese tra il VI e l’XI secolo, sono costituiti da una o piú camere, attigue o sovrapposte, scavate sin dall’origine in funzione dell’esclusivo allevamento dei volatili. Tuttavia, anche in questa regione, come nel Lazio, molte strutture sono state ricavate successivamente, all’interno di preesistenti opere rupestri, in particolare nelle chiese di epoca bizantina, ormai cadute in disuso con l’avvento prima dei Selgiuchidi e poi degli Ottomani.

hypogea 2015

Un appuntamento importante

Dal 12 al 17 marzo 2015 Roma ospiterà il Congresso Internazionale di Speleologia in Cavità Artificiali HYPOGEA 2015, promosso dalla Federazione dei Gruppi Speleologici del Lazio per le cavità artificiali, con il patrocinio della International Union of Speleology e della Società Speleologica Italiana in collaborazione con la sua Commissione Cavità Artificiali. Speleologi, archeologi, esperti ed enti preposti alla tutela del patrimonio storico, culturale e ambientale del mondo ipogeo condivideranno le esperienze maturate in ambito nazionale e internazionale nel campo delle indagini speleologiche e speleo-subacquee in ipogei artificiali (opere di origine antropica e interesse storico-archeologico), nella divulgazione del patrimonio storico, culturale e ambientale sotterraneo e nella sua tutela e valorizzazione. Per informazioni http://hypogea2015.hypogea.it/

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divi e donne Francesca Cenerini

i due volti di una madre anche nel caso di faustina minore le fonti ci hanno tramandato un profilo duplice: fu la sposa esemplare e illuminata di marco aurelio, oppure l’ennesima donna viziosa e degenerata, capace di concepire l’imperatore commodo insieme a un gladiatore?

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ome tutte le principesse della casa imperiale, anche Faustina Minore, la figlia di Antonino Pio e Faustina Maggiore, è oggetto della politica adottata dall’imperatore per la successione dinastica: il principe impone al figlio adottivo Marco Aurelio di rompere il fidanzamento con Ceionia Fabia, figlia del defunto Elio Cesare, e di legarsi appunto alla figlia, Annia Galeria Faustina (Minore), fino a quel momento fidanzata con il piccolo Lucio, parimenti figlio del defunto Elio Cesare (Vita di Marco Aurelio, 6, 2).

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Busto marmoreo dell’imperatrice Annia Galeria Faustina Minore, figlia di Antonino Pio, moglie di Marco Aurelio e madre di Commodo, da Lamunia (nei pressi dell’odierna Bozüyük, Turchia nord-occidentale). II sec. d.C. Istanbul, Museo Archeologico.


Marco Aurelio e Faustina Minore si sposano nel 145 d.C. e, due anni piú tardi, nasce la prima figlia, che viene chiamata Annia Aurelia Galeria Faustina. Nell’occasione, Faustina Minore riceve il titolo di Augusta, mentre suo marito rimase «solo» Cesare fino alla morte del padre adottivo (161 d.C.). Il 7 marzo ad Antonino Pio succedono i figli adottivi Marco Aurelio (Imperator Caesar M. Aurelius Antoninus Augustus) e Lucio Vero (Imperator Caesar L. Aurelius Verus Augustus). Faustina Minore muore nel 176 d.C., dopo aver dato alla luce almeno dodici figli sicuri (forse tredici), inclusi due parti gemellari, ma le sopravvivono soltanto sei figli, cinque femmine e un maschio (il futuro imperatore Commodo). La morte avviene per malattia in Asia Minore, precisamente ad Halala, ai piedi della catena del Monte Tauro, che viene ribattezzata Faustinopoli in suo onore (Vita di Marco Aurelio, 26, 4; 26, 9). Secondo Cassio Dione (72, 29, 1) Faustina Minore poteva essere morta anche a causa del suo coinvolgimento nell’usurpazione del 175 d.C. di Avidio Cassio (abile generale di origine siriana, che aveva combattuto contro i Parti e che Marco Aurelio aveva nominato rector totius Orientis dal 170 d.C.), ai danni del marito, il quale si sarebbe rifiutato di leggere i documenti che avrebbero potuto comprovare le colpe della moglie.

Le ambizioni di un generale Lo storico scrive che Marco Aurelio era ammalato, che Faustina Minore aveva paura che morisse e che era preoccupata che il potere potesse essere assunto da un outsider, dato che Commodo era troppo giovane e, riporta sempre la fonte, poco intelligente. Per questi motivi, indusse segretamente Avidio Cassio a prepararsi per l’usurpazione, di modo che, se fosse successo qualcosa a Marco Aurelio, il generale avrebbe potuto ottenere nel contempo lei stessa e

il potere. Altre fonti (per esempio il tardo Giovanni Antiocheno, Cronaca storica, frammento 201, ed. Roberto) confermerebbero questa versione che, evidentemente, era circolata e che forse era stata propagandata dallo stesso entourage di Avidio Cassio, allo scopo di legittimare la sua presa del potere attraverso il matrimonio con l’Augusta. Torna, per l’ennesima volta, il modello narrativo di stampo misogino oppure il reale tentativo da parte di Faustina Minore di trasmettere il potere al figlio Commodo, attraverso un accordo con il potente Avidio Cassio? I biografi della Historia Augusta sono particolarmente feroci con Faustina Minore: viene definita uxor infamis e impudica perché aveva avuto numerosi amanti (Vita di Marco Aurelio, 29, 1-3; Vita di Commodo, 8, 1) e raccontano che a Gaeta, residenza imperiale di villeggiatura, ella gradisse particolarmente la compagnia di marinai e gladiatori. Marco Aurelio ignorava o faceva finta di ignorarlo, perché conscio che Faustina gli aveva portato l’impero in dote (Vita di Marco Aurelio, 19, 8-9). Dulcis in fundo, l’Augusta viene accusata addirittura di avere avuto una relazione con un gladiatore, da cui sarebbe nato Commodo (Vita di Marco Aurelio, 19, 1-6). Per le fonti si tratta, evidentemente, di spiegare come mai da un principe virtuoso come Marco Aurelio fosse nato un depravato con la passione per gli spettacoli gladiatorii come Commodo, ed è molto facile dare la colpa all’adulterio perverso della madre. I toni del racconto sono surreali: Faustina Minore è talmente presa dalla passione per un gladiatore da ammalarsi per il desiderio sessuale (longa aegritudine). Quando, finalmente, si decide a confessare al marito la vera causa della sua malattia, Marco Aurelio si rivolge ai maghi caldei che lo consigliano di far uccidere l’aitante gladiatore, di far

bagnare le parti intime di Faustina nel suo sangue (sublavare), prima di avere un rapporto sessuale con lei. Faustina guarisce, ma nasce il gladiatore Commodo.

dall’oro alla ruggine Ed è proprio questa la grande accusa che Cassio Dione (72, 36, 4) muove a Faustina Minore, cioè quella di avere partorito l’imperatore Commodo, con il quale inizia l’era del ferro arrugginito, in contrasto con la precedente età dell’oro, motivo assolutamente topico. C’è, però, una diversità rispetto ai Giulio-Claudi. Durante la prima età imperiale, le cattive «imperatrici» erano accomunate ai cattivi imperatori, mentre le Faustine hanno un raro privilegio: sono le pessime consorti dei migliori imperatori che, però, secondo le nostre fonti, non sono stati capaci di sottometterle e, anzi, hanno permesso che fossero loro tributati onori non meritati. Questo ritratto contrasta con l’immagine dell’Augusta propagandata sulle monete e sui monumenti pubblici, come esempio di pietas, pudicitia, concordia, felicitas ed aeternitas. Ma è soprattutto celebrata la sua eccezionale fecunditas, la fecondità, in quanto implica la continuità della dinastia al potere, che contribuisce, in ultima analisi, alla stabilità e al benessere dell’impero. Nelle lettere di Frontone, Faustina Minore appare come una buona madre, attenta alla salute dei figli. Viene dipinta come principessa virtuosa e buona moglie di un imperatore filosofo: si tratta di un nuovo modello di coppia imperiale, felice e fertilissima, simbolo del nuovo impero universale e cosmopolita. Questa immagine viene recepita dal pubblico femminile, che, come già in passato, si affretta a copiare abiti, pettinature e mode adottate dall’ Augusta, in una sorta di immedesimazione privata del messaggio pubblico.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

abbracciare la pietra Sin da età remota il bacino mediterraneo fu interessato da una forma comune di religiosità, incentrata sul contatto fisico con un simulacro d’eccezione...

L’

età del Bronzo, e in particolare il periodo compreso tra il 1800 e il 1200 a.C., vede diffondersi in tutto il bacino mediterraneo, soprattutto nel settore medio-orientale (Levante con area siro-fenicia, Cipro, Egeo e Grecia) un tipo di devozione comune, una sorta di koiné fondata sul culto di una pietra sacra. All’interno di una religiosità arcaica, nel cui ambito si assiste alla personificazione degli dèi, esiste, infatti, una ricca serie di dati archeologici e letterari che testimonia la forma aniconica di rappresentazione del divino. Si tratta, come abbiamo già visto nei mesi scorsi, di una pietra, solitamente nera, di dimensioni contenute, il cui culto è senz’altro di lunga durata, tanto da essere attestato copiosamente anche sulle monete provinciali romane. La documentazione del fenomeno è antica e particolarmente affascinante: si tratta di scene incise con perizia calligrafica su gemme e anelli minoici ritrovati a Creta, sia in contesti abitativi che in sepolture, databili tra il 1600 e il 1200 a.C. circa.

un bacio appassionato Gli artisti ricrearono, evidentemente su richiesta, paesaggi naturali – boschi, monti, grotte – che hanno come tema centrale il fedele (uomo o donna, spesso nudi) che tocca, abbraccia o sembra addirittura baciare con ardore una pietra. Accanto, può esserci un’epifania divina, consistente nella presenza di un

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uccello o nella divinità vera e propria. Tra i numerosi esempi, belli e complessi, si veda l’anello d’oro ritrovato nella tomba a tholos A di Archanes-Phourni (1600-1480 a.C.; detta anche «pseudocupola» o «falsa cupola», la tholos è una struttura formata da anelli di blocchi di pietra aggettanti, n.d.r.), sul cui castone campeggia una figura femminile riccamente abbigliata con il tipico abito a balze minoico e uno stretto corpetto che esalta il seno scoperto, ai lati della quale vi sono due uomini. Uno si avvicina balzando verso i rami di un albero su di un altare, l’altro abbraccia strettamente una pietra e sembra toccarla con il volto, quasi porgendole un bacio. In simili immagini, di cui sono

protagoniste la pietra e la sua adorazione, era evidentemente basilare enfatizzare il rapporto fisico ed estatico (dato dall’epifania della divinità o di un animale simbolo), nel quale doveva giocare un ruolo centrale il contatto con la pietra, forse preceduto da eventi inebrianti quali danze, musiche, effluvi di vario genere, che amplificavano il momento mistico.

liturgie diffuse E poiché tali immagini compaiono su preziosi anelli di rango che accompagnavano il loro possessore anche nella tomba, doveva trattarsi di liturgie diffuse e importanti nell’ambito della devozione locale. Gli scavi archeologici hanno restituito


molteplici attestazioni di pietre aniconiche sacre, come per esempio quella di Afrodite a Palaepaphos (vedi «Archeo» n. 347, gennaio 2014), quelle ritrovate a Creta, a Melo, a Nora, in Sardegna, e a Kaunos, in Caria, sulle coste dell’Anatolia (odierna Turchia, presso Dalyan). Proprio a Kaunos le indagini svolte nella seconda metà del secolo scorso hanno riportato alla luce la splendida città antica, sede di importanti traffici commerciali e inserita in un contesto naturale d’eccezione, nonché dotata di monumentali edifici pubblici e funerari databili tra il IV secolo a.C. e l’età romana. Tra questi spicca un luogo di culto situato presso il porto, consistente in un tempio a pianta circolare, circondato da un colonnato, il cui alzato si sviluppava in forma di falsa cupola (tholos), databile al IV secolo a.C. Al centro della struttura, è stata ritrovata una pietra frammentata alta circa 4 m, avente un diametro di 1,50 m. Era infissa nel terreno, dal quale sporgeva per circa 2,50 m ed era affiancata da resti di offerte sacrificali. Si tratta dell’antica pietra di culto, cinta nel corso dei secoli da varie strutture architettoniche e fortunatamente giunta sino a oggi. Gli scavi hanno anche restituito una stele bilingue in cui si attesta che il nome cario di Kaunos era Khibide. La somma di questi dati ha permesso di attribuire a Kaunos una serie di

stateri di argento della Caria (fine del V-IV sec. a.C.), di difficile definizione per la particolare tipologia che li contraddistingue. Il dritto è occupato da una leggiadra donna alata in corsa, vestita con un raffinato abito stretto in vita, forse una Nike-Vittoria o, piú probabilmente, Iris, la veloce messaggera degli dèi, o, ancora, una divinità ignota legata alla mitistoria locale.

i grappoli d’uva Al rovescio compare una figura geometrica, un triangolo, accanto al quale, a seconda dei conii, si distinguono appendici ricurve laterali (corna di consacrazione?), una o due lettere dell’alfabeto cario (un delta rovesciato corrispondente alla K; un gamma maiuscolo) relativi al nome della zecca (Khibide, appunto) e talvolta due grappoli d’uva, o ancora granulazioni interpretate come uccelli stilizzati o festoni vegetali. Nel triangolo, simile a quello delle monete provinciali romane di Paphos (Cipro) raffigurante la forma aniconica di Afrodite, può vedersi il betilo venerato a Kaunos. Simbolo della città e oggetto di culto, è visto come la sembianza trasfigurata del dio-re Kaunios, nipote di Apollo e fondatore della città. Che poi queste pietre sacre, situate all’aperto o in un’area templare, venissero abbracciate come quelle adorate nel mondo minoico, è

Nella pagina accanto: l’anello d’oro dalla tomba a tholos A di ArchanesPhourni. 1600-1480 a.C. Iraklion, Museo Archeologico. Qui sotto: statere d’argento di Kaunos (Caria). 450-430 a.C. Al dritto, figura alata femminile in volo con corona vegetale in una mano e caduceo nell’altra; al rovescio betilo con apici al sommo e due fasce granulate ai lati, con Δ rovesciato (K in cario). In basso: il tempio a tholos di Kaunos, in Caria (Turchia, odierna Dalyan).

probabile; o, quanto meno, è suggestivo immaginare anche per esse un culto in cui l’uomo anela ad avvicinarsi all’essenza del divino. (6 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Sauro Gelichi, Mauro Librenti, Marco Marchesini

un villaggio nella pianura Ricerche archeologiche in un insediamento medievale del territorio di Sant’Agata Bolognese All’Insegna del Giglio, Borgo S. Lorenzo (FI), 456 pp., ill. b/n 48,00 euro ISBN 978-88-7814-409-5 edigiglio.it

Individuato a seguito di sbancamenti operati per la realizzazione di una discarica, il sito di cui si dà conto è stato oggetto di scavi condotti tra il 1994 e il 1997. La sua importanza, come viene evidenziato dagli autori, risiede nell’essere, a oggi, il solo caso noto di villaggio altomedievale della pianura padana che sia stato esplorato archeologicamente; inoltre, e anche questo è un dato di particolare interesse, le indagini hanno dimostrato come l’abitato fosse sorto in un’area che, in precedenza, aveva visto solo sporadiche frequentazioni in epoca

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protostorica e romana. Un contesto dunque «puro», occupato tra il X e il XII secolo, che ha permesso di acquisire una quantità eccezionale di informazioni, utili alla sua interpretazione, ma anche alla ricostruzione di dinamiche storiche di piú ampio respiro. Il volume illustra dunque le caratteristiche del sito, le tipologie dei materiali restituiti dallo scavo e correda la disamina delle diverse classi di reperti con le osservazioni sull’ambiente e il paesaggio, sulle faune e con le analisi archeometriche. A completare il quadro, manca, per ora, il possibile nome dell’insediamento: come si legge a piú riprese, e soprattutto nel capitolo sulle fonti scritte, l’identificazione con il castrum de Pontelongo rimane un’ipotesi suggestiva, ma ancora priva di riscontri decisivi. Bruno Canciani

l’armonia segreta del pantheon Alla scoperta del modulo vitruviano nel Pantheon adrianeo Gaspari Editore, Udine, 94 pp., ill. col. e b/n 19,00 euro ISBN 978-88-7541-301-0 gasparieditore.it

Il tempio «di tutti gli dèi» non cessa di stupire per le sue straordinarie peculiarità architettoniche e questo volume non fa che offrirne una conferma eloquente. Dalle proporzioni alla scelta dei materiali

impiegati nella sua costruzione, l’edificio realizzato per volere di Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto, nel 27 a.C., e poi ristrutturato dall’imperatore Adriano, nel 120 d.C., sembra quasi averci lasciato un saggio delle capacità architettoniche e ingegneristiche affinate dai Romani. Dopo un’ampia e stimolante introduzione

di Paolo Carafa, Bruno Canciani accompagna dunque il lettore alla riscoperta del Pantheon, offrendo osservazioni e indicazioni che a molti faranno senz’altro vedere il maestoso monumento con occhi nuovi.

dall’estero R.I.M. Dunbar, Clive Gamble, J.A.J. Gowlett (a cura di)

lucy to language The Benchmark Papers Oxford University Press, Oxford, 544 pp. 95,00 GBP ISBN 978-0-19-965259-4 oup.com

Da tempo l’archeologia ha imparato ad avvalersi dei contributi che possono

venire anche da ambiti all’apparenza lontani dallo studio dell’antico e questo volume ne è un esempio lampante: frutto del lavoro di un progetto internazionale condotto tra il 2003 e il 2010, Lucy to Language riconsidera il tema, cruciale, dell’avvento delle prime specie umane, attraverso il confronto tra l’archeologia preistorica e la psicologia evolutiva. Si tratta, del resto, di una delle non poche scelte «obbligate» di fronte alle quali si trovi chiunque

abbia a cimentarsi con epoche cosí remote: all’assenza di fonti scritte e, spesso, di testimonianze materiali sufficientemente diagnostiche si può infatti supplire solo ampliando i confini tradizionali della ricerca. Una prassi che, nel caso degli studi sui nostri antenati piú antichi, si dimostra particolarmente efficace ed è in grado di offrire indicazioni preziose, molte delle quali vengono proprio dalle osservazioni dei non archeologi. (a cura di Stefano Mammini)



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