Archeo n. 353, Luglio 2014

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2014

KRYPTEIA

CERVETERI SARCOFAGO DEGLI SPOSI

MICHELANGELO E L’ANTICO

SPECIALE MALTA MEGALITICA

E IL SARCOFAGO DEGLI SPOSI

CERVETERI

UN HUNGER GAME DELL’ANTICHITà

KRYPTEIA

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 7 (353) Luglio 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 353 Luglio

MALTA

MEGALITICA

PERCHè, PROPRIO AL CENTRO DEL MEDITERRANEO, FIORí LA PIú SPETTACOLARE CIVILTà PREISTORICA DEL MONDO?

MICHELANGELO E L’ANTICO

MOSTRE

www.archeo.it



editoriale

l’isola dei tesori

Risale al 1991 il mio primo incontro con l’archeologia di Malta. Insieme a Alberto Dagli Orti, fotografo dell’Archivio De Agostini, trascorremmo la settimana di Pasqua con il compito di eseguire una capillare campagna fotografica dei monumenti megalitici dell’arcipelago e dei reperti conservati nel Museo Nazionale di Archeologia di Valletta. Passammo un giorno intero sotto terra, nella fredda oscurità dell’ipogeo di Hal Saflieni, a rilevarne il complicato susseguirsi di passaggi, corridoi e aule scavate nelle viscere dell’isola da uomini vissuti piú di 5000 anni fa. Alla fioca luce delle lampadine apparivano le ampie volute che essi avevano tracciato, con ocra rossa, su soffitti e pareti del santuario. In seguito, nelle luminose sale del Museo Nazionale – allora in fase di riordino delle collezioni – un giovanissimo archeologo, Reuben Grima (oggi docente all’Università di Malta) aprí una teca di vetro per mostrarci da vicino la piccola scultura raffigurante una donna adagiata sul fianco destro. Era stata rinvenuta, agli inizi del Novecento, proprio in una delle sale sotterranee da cui eravamo emersi il giorno prima. Poi, da una scatola, Grima estrasse una serie di figurine scolpite nella luminosa pietra maltese: erano state appena scoperte durante gli scavi (in quegli anni ancora in corso) di un santuario megalitico nella località di Xaghra a Gozo, la seconda isola dell’arcipelago. Ogni volta che ritorno a Malta, quello con la «Signora dormiente» – oggi esposta in una saletta del Museo che le è stata interamente dedicata – è un appuntamento obbligato: con il passare del tempo, il suo atteggiamento insondabile, quel vigile sonno millenario mi hanno reso la figura intimamente familiare; il suo «messaggio», indecifrabile come i segni di un antica scrittura scomparsa, è quello dei grandi capolavori dell’arte universale. Nello speciale di questo numero presentiamo ai nostri lettori una sintesi dello straordinario fenomeno che chiamiamo civiltà megalitica maltese: un fenomeno rimasto – paradossalmente – sconosciuto al pubblico italiano, che associa il nome dell’arcipelago (e non a torto) alla sua altrettanto importante storia medievale e rinascimentale. Malta, terra vicinissima (dista appena una novantina di chilometri dalla costa meridionale della Sicilia) eppure lontana, è una meta imprescindibile per chi voglia comprendere appieno la storia antica (ma anche moderna!) del Mare Nostrum. Ragione per cui abbiamo inserito le sue isole tra le prime destinazioni di ArcheoTravels, il nuovo programma di viaggi che presentiamo alle pp. 17-20. Informazioni piú dettagliate su questa e altre mete potete trovarle sul nostro sito, www.archeo.it. Buon viaggio, dunque, buona lettura e… buona estate! Andreas M. Steiner

Disegno della decorazione a volute tracciata sulle pareti del santuario preistorico di Hal Saflieni, Malta.


Sommario Editoriale

L’isola dei tesori

storia

di Andreas M. Steiner

Licurgo e gli Hunger Games di Sparta

Attualità

di Stefania Berlioz, con un’intervista a Massimo Nafissi

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mostre

gli imperdibili

notiziario

3

6

scoperte Un intervento di archeologia preventiva nel quadrante orientale del suburbio di Roma riporta alla luce un tratto della via Prenestina antica e una ricca necropoli 6 parola d’archeologo Quali strategie adottare per migliorare la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico siciliano? Risponde Massimo Cultraro, ricercatore del CNR-IBAM mostre Il Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» presenta importanti reperti delle piú antiche culture pakistane

10

Cerveteri. Regina del Mediterraneo

26

36

di Stefano Mammini

Sarcofago degli Sposi

Un abbraccio per l’eternità

46

di Daniele F. Maras

46

AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compare la serie «Civiltà cinese», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.

12 In copertina il passaggio centrale al tempio megalitico di Mnajdra, sull’isola di Malta. 2800-2500 a.C.

Anno XXX, n. 7 (353) - luglio 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 21768.507 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Cristina Acidini è Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Daniela Fuganti è giornalista. Aart Heering è giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Massimo Nafissi è professore di storia greca all’Università degli Studi di Perugia. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Daniel Cilia: copertina e pp. 62-93 – Cortesia Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: pp. 6-8 – Doc. red.: pp. 10, 35, 39, 42 (alto), 44, 100, 104, 110 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12-14, 40, 41 (basso), 55, 56, 58 (basso), 59-61 – DeA Picture Library: p. 30; G. Dagli Orti: pp. 26 (sinistra), 53; G. Nimatallah: p. 57 – Web Photo: © Warner Bros: pp. 26/27 (e 31, in alto, a destra) – Corbis Images: The Gallery Collection: p. 28; Ken Weishi/*/Design Pics: p. 29 (alto); Leemage: pp. 46/47; Araldo De Luca: p. 49; Chris Hellier: p. 108 – Archivi Alinari, Firenze: The Trustees of the British Museum/RMN-Réunion des Musées Nationaux: p. 29 (basso); Daniel Arnaudet/RMNRéunion des Musées Nationaux: p. 32 (basso); RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: pp. 50, 51; Archivio SEAT: p. 95 – Shutterstock: pp. 31 (in alto, a sinistra), 33, 94 – Jacques Descloitres, MODIS Land Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 31 (basso) – Bridgeman Art Library: p. 35 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: pp. 36/37, 48, 54, 58 (alto) – Alfredo Cacciani: p. 41 (alto) – Stefano Mammini: pp. 42 (basso), 43 – Cortesia


mostre

antichi ieri e oggi

Quell’«affettuosa fantasia» 54

di Romolo A. Staccioli

Michelangelo

di Cristina Acidini

54

Dalle schiave alle furie 98

a volte ritornano

Una cannuccia sul pianeta rosso

102

di Flavio Russo

scavare il medioevo Nella città di Recaredo

104

di Andrea Augenti

l’ordine rovesciato delle cose Voli sotterranei

106

di Andrea De Pascale

divi e donne

Trame fatali

108

di Francesca Cenerini

Rubriche

l’altra faccia della medaglia

il mestiere dell’archeologo Anfiteatri e campi di golf di Daniele Manacorda

La montagna di fuoco 94

62 speciale

110

Malta

di Francesca Ceci

Nelle isole dei templi giganti

libri

di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale: p. 52 – Cortesia dell’autore: pp. 96, 102-103, 105, 110 (basso), 111 – Mondadori Portfolio: Leemage: p. 98; Mario De Biasi per Mondadori Portfolio: p. 99 – Boaz Zissu: p. 106 – Cortesia Somewhere/Aldo Bonino: p. 107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 38, 43, 104.

112 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1

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n otiz iari o SCoperte Roma

tesori sul ciglio della strada

I

l quadrante orientale del suburbio romano è stato teatro di una scoperta di eccezionale importanza. Il ritrovamento è avvenuto grazie alle indagini preventive condotte dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma in un terreno situato all’incrocio tra la via Prenestina con via di Tor Tre Teste e destinato alla costruzione di edifici a uso commerciale. A illustrare la rilevanza della scoperta è Stefano Musco, responsabile dello scavo per la Soprintendenza. Dottor Musco, come si è arrivati a intervenire in quest’area? «Le indagini eseguite nel terreno di proprietà della società Road House Grill Italia srl sono state attivate d’ufficio: infatti, nel rispetto della normativa del Comune di Roma, chiunque intenda procedere alla realizzazione di nuovi fabbricati, per poter ottenere il “permesso di costruire”, deve sottoporre il progetto alla Soprintendenza Archeologica di Stato, che ha il compito di rilasciare il “nulla osta”. In questa procedura rientra la possibilità che vengano richiesti accertamenti preliminari, come si è verificato in questo caso. Dalla

6 archeo

letteratura specialistica si poteva infatti prevedere la presenza, nel sottosuolo, del tracciato dell’antica via Prenestina; inattesa è stata invece la ricchezza dei resti che lo scavo ha in seguito rivelato». Qual è l’entità del ritrovamenti? «A circa 2,5 m di profondità sotto il piano stradale, è stato scoperto un tratto di basolato (50 m) dell’antico tracciato viario romano, fiancheggiato da una necropoli di 22 mausolei monumentali risalenti a un periodo compreso tra la fine del II secolo a.C. e la fine del II secolo d.C. Gli edifici sono disposti parallelamente alla strada, 11 per lato, tutti a pianta quadrangolare, a eccezione di uno a pianta circolare, e presentano parziali segni di profanazione già in antico. Gli alzati sono realizzati in opus reticolatum o, nel caso del mausoleo circolare, in blocchi di tufo verdino e peperino, mentre non sono state rinvenute tracce di pavimentazioni. In uno dei mausolei è stata individuata anche la fossa usata per bruciare il corpo del defunto, detta “bustum”, e altri due hanno restituito circa 800 frammenti in osso e avorio di due letti funerari, qui deposti assieme alle ceneri dopo il rito; su alcuni di questi frammenti, al momento in corso di restauro, si distinguono decorazioni con volti umani e motivi vegetali. Nell’area sono state trovate anche 105 tombe a

fossa, nonché varie olle cinerarie». Come si sono svolti i lavori? «Lo scavo ha previsto lo splateamento dell’intero lotto (5000 mq circa), ovvero indagini archeologiche che, per l’intera superficie, hanno previsto il raggiungimento – in profondità – della testa del banco tufaceo. Lo scavo è avanzato da sud verso nord e in tal modo sono state inizialmente rinvenute canalizzazioni, in parte scavate nel banco tufaceo e riferibili a sistemazioni agricole risalenti all’epoca repubblicana. Procedendo verso l’estremità settentrionale del lotto, cioè in direzione della via Prenestina moderna, sono stati rimessi in luce dapprima i resti degli undici mausolei antichi localizzati a sud del tracciato viario della Prenestina antica, quindi il tracciato stradale e, subito a nord, i resti di altri 11 mausolei». Quanto tempo è stato necessario per portare alla luce tutte le strutture? Quali e quante risorse In alto: Roma. Un tratto del basolato della via Prenestina antica riportato alla luce in occasione delle indagini svolte nell’area all’incrocio tra la consolare e la via di Tor Tre Teste. A sinistra: il cantiere di scavo in una foto aerea che permette di distinguere i mausolei allineati su entrambi i lati della via Prenestina antica.


sono state coinvolte? «Le indagini si sono protratte dal maggio 2013 fino al mese di giugno 2014, con mezzi e mano d’opera (4 operai di media) messi a disposizione dalla proprietà». Qual è stata la reazione della Società proprietaria del terreno di fronte alla notizia dei ritrovamenti? «Dopo la sorpresa iniziale, peraltro comprensibile, la Road House Grill Italia ha mostrato un atteggiamento di totale collaborazione con la Soprintendenza, che, a oggi, si è concretizzato nella volontà di procedere, a proprio carico, alla realizzazione di un progetto di valorizzazione del complesso archeologico rimesso in luce, ai fini di una pubblica fruizione». Perché questa scoperta è particolarmente significativa? «Al di là dell’importante valenza intrinseca dei resti riportati in luce, ritengo che i valori aggiunti di questo intervento risiedano nella sinergia virtuosa che si è stabilita tra pubblico e privato. Mi riferisco alla proposta di valorizzazione del sito da parte della Road House Grill Italia mediante un progetto che prevede di lasciare visibili i resti per la visita da parte dei cittadini, sulla falsariga dell’iniziativa realizzata in corrispondenza del cinema Trevi di Roma (dove è da anni visitabile l’area archeolgica del Vicus Caprarius, n.d.r.; vedi «Archeo» n. 222, agosto 2003). Va altresí considerato che questo contesto archeologico, lasciato in vista, può incidere positivamente nel recupero del paesaggio in cui si colloca. Intendo dire che un ambito territoriale fortemente degradato può infatti risultare decisamente rivalutato, anche in previsione di progettazioni future». Sia il basolato che l’area funeraria

si estendono oltre i confini dell’area che siete stati chiamati a indagare? Quali sono le possibilità di estendere le ricerche? «Le indagini, come detto in

precedenza, hanno interessato, nella sua interezza, un lotto di terreno legato a una specifica proprietà nell’ambito di un’operazione edilizia e, per quanto riguarda tale immobile, si possono considerare esaustive. Ovviamente, il tracciato della via Prenestina antica e le sue pertinenze funerarie proseguono al di fuori dei confini del terreno indagato, in entrambe le direzioni, sia verso est che verso ovest. Questo significa che in entrambe queste direzioni le presenze archeologiche proseguono al disotto di altre proprietà private, strade, parcheggi e quant’altro appartiene al paesaggio suburbano di Roma, paesaggio peraltro caratterizzato da un’intensa urbanizzazione. In alto: particolare della struttura dell’unico mausoleo a pianta circolare rinvenuto nel corso degli scavi. A sinistra: testina facente parte della decorazione di un letto funebre.

archeo 7


n otiz iario Un’altra veduta dei mausolei e del basolato della Prenestina antica. La scoperta rientra fra quelle che sono frutto delle attività di archeologia preventiva espletate dalla Soprintendenza nel territorio di propria competenza, connesse quindi alle esigenze di tutela derivanti dallo sviluppo della città moderna. In tale prospettiva, almeno per il momento, è da escludere un ampliamento delle indagini archeologiche al di fuori dei limiti del lotto di terreno al momento indagato». Come si colloca questo scavo nel panorama delle attività correnti della Soprintendenza? Ci sono altre indagini di questo tipo in corso? «Questo scavo rientra nel novero delle normali attività di archeologia preventiva della Soprintendenza. A tale riguardo, occorre segnalare come, nel raggio di poco piú di un chilometro dall’area del ritrovamento in oggetto e nel contesto di tali attività, siano stati rimessi in luce due contesti archeologici simili (altrettanti tratti dell’antica via Prenestina con mausolei allineati lungo il tracciato). Attività di questo tipo sono in atto quotidianamente, anche, come è facile intuire, non a

8 archeo

tutte le indagini fanno riscontro ritrovamenti di questa rilevanza». I lavori di realizzazione degli edifici a uso commerciale sono sospesi fino al completamento della sistemazione dell’area di interesse archeologico o proseguiranno contestualmente? Ci sono rischi per l’area? «In primo luogo occorre chiarire che le presenze archeologiche rimesse in luce non corrono alcun rischio, poiché gli edifici di futura realizzazione verranno localizzati al di fuori dell’area archeologica e a una distanza tale da garantire un’adeguata fascia di rispetto per la medesima. Per quanto riguarda i tempi, al momento sono in corso di completamento gli scavi archeologici e – di conseguenza – le opere civili, peraltro ancora prive del formale nulla osta da parte della Soprintendenza, non sono iniziate. Si può tuttavia ragionevolmente ipotizzare che, una volta approvato il progetto delle opere civili, che dovrà contenere al suo interno anche l’ipotesi di sistemazione dell’area archeologica, i lavori possano procedere contestualmente».

Quali prospettive ci sono per la conservazione dell’area e la sua valorizzazione? Sono già state ventilate ipotesi? «Le ipotesi di conservazione e valorizzazione del complesso archeologico della via Prenestina antica in prossimità dell’incrocio con la via di Tor Tre Teste dovranno scaturire da un progetto suggerito dalla Soprintendenza alla Grill Road House Italia, che lo dovrà realizzare e gestire nel tempo in chiave di fruizione pubblica – mediante un’apposita convenzione, da sottoscrivere congiuntamente – quale clausola vincolante alla realizzazione dei fabbricati ipotizzati dal progetto. Le modalità di realizzazione saranno specificamente esplicitate nella convenzione che verrà sottoscritta dai medesimi soggetti e che indicherà anche da chi saranno sostenuti i costi. È ipotizzabile che tanto i costi del progetto di conservazione e valorizzazione, quanto quelli di gestione siano a carico della proprietà». Dove sono conservati adesso i reperti rinvenuti? E quale destinazione avranno? «I reperti mobili recuperati nel corso delle indagini archeologiche sono attualmente conservati presso i magazzini della Soprintendenza. Al momento non ne è prevista l’esposizione in loco, ma si può ritenere che anche questi dettagli siano oggetto della convenzione da sottoscrivere». Quanto tempo occorrerà per musealizzare l’area? «I tempi necessari per la musealizzazione del sito sono legati, in primo luogo, alla definitiva approvazione del progetto per la realizzazione dei due edifici commerciali e a quella della contestuale valorizzazione. Ciò premesso, non può che essere la proprietà a fornire dati in merito alla realizzazione del progetto». (a cura di Paolo Leonini)



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

viaggio in sicilia l’isola vanta una concentrazione di aree archeologiche straordinaria: un patrimonio invidiabile, che, tuttavia, non è sempre adeguatamente tutelato e valorizzato. come denuncia massimo cultraro, ricercatore del cnr-ibam

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ome raccontano le pagine dell’ultima Monografia che «Archeo» ha dedicato alla sua storia (Sicilia. Itinerari tra mito e Storia, n. 2, 2014), la Sicilia custodisce un patrimonio archeologico ricco e suggestivo. Ma l’isola è anche una – meravigliosa – terra di contrasti. E, a fronte di tanto fascino, la gestione di un patrimonio archeologico cosí esteso e stratificato pone grossi problemi. Ne parliamo con Massimo Cultraro, Primo Ricercatore del CNR-IBAM (Consiglio Nazionale delle Ricerche-Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali), attivo sul campo in Sicilia. «Le difficoltà nascono proprio dalla quantità dei resti archeologici e dalla forte articolazione territoriale dei beni culturali siciliani. Dalle piccole isole alle città metropolitane – come Siracusa,

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Palermo e Agrigento –, ogni realtà ha le sue testimonianze archeologiche, con parchi e musei. Un patrimonio articolato anche da un punto di vista diacronico, che offre testimonianze che vanno dal Paleolitico Superiore (15 000 anni fa, con le grotte vicino Palermo o le raffigurazioni sull’isolotto di Levanzo, nelle isole Egadi) fino all’epoca bizantina e medievale». Quali sono, a suo avviso, i principali nodi da sciogliere nella gestione del patrimonio archeologico dell’isola? «Dal momento che la Sicilia è un contenitore cosí grande e complesso, la Regione non è in grado di amministrare da sola, come fa per statuto autonomo, l’enorme macchina burocratica dei beni culturali. Non può piú farsi carico di gestire la struttura elefantiaca che è cresciuta in questi anni nel

settore. In ogni sito archeologico ci sono musei, parchi, Soprintendenze…». Vuole dire che uno dei problemi è costituito dalla sovrapposizione dei poteri? «Sí. Esiste un dualismo tra parchi e Soprintendenze. Per esempio, nel sito archeologico dell’antica città di Himera, la moderna Termini Imerese, a est di Palermo, la gestione è affidata direttamente al parco, mentre la valorizzazione alla Soprintendenza Archeologica di Palermo: questo significa che chi ha in carico la gestione dei beni archeologici, non ne ha in carico la valorizzazione. Cosí il sistema non funziona. Manca un progetto unico e condiviso, che dia un’indicazione strategica incisiva nella promozione del patrimonio culturale». E che cosa propone il CNR-IBAM per rendere piú efficace


Nella pagina accanto, in alto: una veduta del tempio E di Selinunte, edificato intorno al 470-450 a.C. e ricostruito nel 1956; in basso: l’archeologo Massimo Cultraro. In questa pagina: la copertina della nuova guida monografica di «Archeo» dedicata alla Sicilia, in edicola in questi giorni. l’amministrazione dei beni culturali in Sicilia? «Come CNR, operando sul territorio in sinergia con le Università, abbiamo fatto notare piú volte che si può uscire da questo stato di impaludamento: cambiando il sistema. La Regione deve dare indirizzi per la gestione, mentre per la valorizzazione serve il concorso di altri istituti, come Università o enti di ricerca come il nostro. Attualmente il CNR, da un punto di vista archeologico, è coinvolto solo per quanto riguarda la parte scientifica, non per quella gestionale. Eppure noi siamo in grado di fornire risorse sia umane che economiche: in un momento di crisi come questo, dobbiamo valorizzare le risorse esistenti e capitalizzarle. Come CNR-IBAM lavoriamo molto nello “scavo” all’interno dei magazzini dei musei – non potendo disporre di fondi per eseguire scavi veri e propri – e pubblichiamo quello che nascondono nei loro depositi. Siamo molto attivi anche nel campo dell’archeologia preventiva, con l’uso di geo-radar e geomagnetismo, tecnologie non invasive che permettono di individuare resti archeologici senza scavare. A Priolo, nel Siracusano, dove insiste uno dei piú importanti poli chimici italiani, abbiamo trovato delle necropoli tardo-antiche e paleocristiane di cui si erano perse le tracce».

Secondo lei, qual è il principale fattore che «inceppa» il meccanismo nella gestione del patrimonio archeologico siciliano? «La situazione piú allarmante è il continuo alternarsi delle nomine nelle posizioni dirigenziali politiche e tecniche. Negli ultimi tre anni a Siracusa sono cambiati tre Soprintendenti ai beni archeologici: l’ultima è Beatrice Basile, archeologa stimata e di consolidata esperienza, che come Soprintendente aveva avviato progetti rimasti, attualmente, bloccati. Oppure possiamo ricordare il caso dell’ex assessore ai Beni culturali Maria Rita Sgarlata, primo e unico assessore

archeologo della Sicilia, destinata ad altra delega nonostante i risultati raggiunti». A chi fanno gola questi incarichi? «I motivi sono squisitamente politici e legati agli equilibri di potere della Regione». Quali sono le conseguenze piú dannose di questo sistema, per il mondo della ricerca archeologica? Ci vuole fare qualche esempio? «Questo ha due effetti dannosi, per

noi ricercatori universitari: la mancanza di continuità nella gestione da parte degli organi istituzionali, per cui vengono a mancare i referenti e si fermano le convenzioni di studio; e il forte rallentamento dell’azione di tutela e valorizzazione. Siracusa è il caso piú eclatante: la rimozione del Soprintendente Basile ha provocato il blocco totale delle attività, a cominciare dalla cosa piú importante, ovvero la delimitazione del parco archeologico della città dell’antica Siracusa greca, chiamata Neapolis, che insiste e coesiste all’interno di una realtà urbana moderna molto fitta e che comporta problemi di gestione e definizione in rapporto al piano regolatore». Ci sono zone a rischio? «Sí. Proprio l’antica città di Neapolis e il quartiere con il teatro greco (che ancora oggi, grazie alle rappresentazioni dei tragediografi greci, è una delle mete piú frequentate dai turisti) sono a rischio: se l’area non viene perimetrata, le costruzioni possono avanzare in maniera pericolosa fino a minacciare la cintura verde creata dal parco grazie alle battaglie dei Soprintendenti negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento». E quale può essere, invece, un esempio virtuoso della Sicilia archeologica? «Selinunte: il parco è svincolato dalla Soprintendenza ed è uno dei pochi esempi in cui l’area archeologica ospita missioni di ricerca dell’Università di Torino e della New York University, con il professor Clemente Marconi: lo scavo dell’acropoli di Selinunte sta restituendo testimonianze uniche delle fasi precoloniali (vedi «Archeo» n. 336, febbraio 2013; anche on line su archeo.it). Sotto al grande tempio C, di epoca arcaica (VI secolo a.C.), abbiamo trovato i resti dell’insediamento della tarda età del Bronzo e prima età del Ferro, tra l’XI e il X secolo a.C.».

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mostre Roma

il pakistan salvato

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l Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» ospita, fino al prossimo settembre, una mostra affascinante, risultato degli sforzi congiunti dell’Italia e della Repubblica Islamica del Pakistan nella lotta al commercio clandestino di beni culturali. «Simboli vivi. Il potere delle immagini nella preistoria del Pakistan» espone per la prima volta in Italia una raccolta di vasi in terracotta dipinta provenienti in gran parte dal Beluchistan pakistano (Pakistan sud-occidentale) esportati clandestinamente e sequestrati nel 2005 in territorio italiano dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale. Dopo la restituzione alla Repubblica Islamica del Pakistan nel 2007, le autorità diplomatiche hanno voluto sottolineare con questo «ritorno» il recupero al patrimonio pubblico di questi tesori. I simboli a cui si riferisce il titolo della mostra sono quelli che animano le superfici dei vasi, testimonianza delle raffinate

civiltà che abitarono il Pakistan in epoca protostorica. Queste popolazioni, dopo essersi caratterizzate per la sostanziale uniformità culturale alla fine del Neolitico, avviarono, a partire dalla metà del IV millennio a.C., un processo di regionalizzazione, che si rifletté anche nelle loro espressioni artistiche, con l’emergere di stili diversi. In mostra è possibile ammirare i vasi delle culture dette di Nal e di Kulli (dai nomi dei siti dove sono stati rinvenuti). È un susseguirsi di simboli animali, vegetali e

In alto: vaso in forma di zebú. In basso: ciotola tronco-conica a bassa carenatura e base ad anello sulla quale è riprodotta la foglia dell’albero di pipal. geometrici, come la foglia dell’albero di pipal (Ficus religiosa, detto anche fico delle pagode o baniano), il pesce, lo zebú, lo stambecco, la tigre, l’unicorno, la croce o la scala. Curata da Giovanna Lombardo e Massimo Vidale, l’esposizione è un invito a immergersi in queste figurazioni d’origine centroasiatica, che sebbene cosí distanti ed estranee rispetto al mondo occidentale, alla fine lasciano trasparire – come suggerisce il percorso della mostra – elementi radicati anche nella nostra cultura. Paolo Leonini

Dove e quando «Simboli Vivi. Il potere delle immagini nella preistoria del Pakistan» Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 21 settembre Orario ma, me e ve, 9,00-14,00; gio, sa, do e festivi, 9,00-19,30; lu chiuso Info tel. 06 46974832; www.simbolivivi.beniculturali.it

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mostre Lazio

La riscoperta di Satricum

«S

atricum. Scavi e Reperti Archeologici» è il titolo della mostra inaugurata l’11 giugno scorso in località Le Ferriere, nel Comune di Latina. Un data non casuale: l’11 giugno era infatti il giorno in cui si celebravano i Matralia, vale a dire le feste in onore di Mater Matuta (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014), la dea dell’Aurora, alla quale era stato qui dedicato un importante santuario. Intorno al tempio si sviluppò la città latino-volsca di Satricum, che visse il suo apogeo nel VII e VI secolo a.C., fino alla sua distruzione da parte dei Romani, intorno al 377 a.C. Il tempio fu oggetto di scavi nel 1896-98 e nel 1907-10 e i reperti principali furono trasportati al Museo di Villa Giulia. Il sito rimase poi intoccato fino al 1977, quando, su richiesta del Comitato per l’Archeologia Laziale, l’Istituto Olandese di Roma cominciò a occuparsene. L’importanza dell’abitato si rivelò subito, grazie al ritrovamento del Lapis Satricanus, una base in pietra che reca un’iscrizione in latino arcaico del 550-525 a.C. (oggi conservata nel Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano). Da allora piú di mille studiosi e studenti olandesi, molti dei quali

volontari, hanno trascorso le loro estati negli scavi di Satricum. Negli ultimi dieci anni gli scavi si sono svolti sui terreni dell’azienda Casale del Giglio – produttrice, tra l’altro, di un bianco Satrico e di un rosso dedicato alla Mater Matuta –, che ha anche consentito di sradicare diversi filari di vigneti per far riemergere la via Sacra, che da Satricum giungeva al mare. Il «Progetto Satricum», diretto dal 1991 da Marijke Gnade (Università di Amsterdam), ha fatto luce su quasi dieci secoli di storia dell’insediamento: sono state infatti localizzate capanne del IX-VIII secolo a.C., una necropoli del V-IV secolo e una villa romana del I secolo a.C. Nelle vecchie fonderie delle Ferriere, dismesse negli anni Settanta e ora portate a nuova vita grazie al restauro, si possono ora ammirare 750 reperti restituiti dagli scavi, molti dei quali inediti e mai esposti. Gli oggetti sono distribuiti in tre sale, dedicate rispettivamente all’età del Ferro, al periodo arcaico ed ellenistico, e a quello post-arcaico, con particolare attenzione per la fase volsca. Di particolare interesse sono gli oggetti trovati, soltanto pochi mesi fa, in una tomba databile al VII secolo a.C. in cui In alto: Satricum. I resti del santuario dedicato a Mater Matuta. A sinistra: il recupero di una grande olla. La mostra sugli scavi di Satricum presenta oltre 700 reperti, in larga parte inediti e mai esposti prima d’ora.

furono deposte le spoglie di una bambina morta ad appena nove mesi d’età, sepolta con un corredo composto da piccoli gioielli in bronzo e coppe da vino miniaturistiche, copie di modelli corinzi di fattura campana. Uno skyphos (bicchiere a due manici) del 320-280 a.C. con dedica a Mater Matuta è la prova definitiva che si tratta veramente del santuario di Satricum a lei dedicato e menzionato ancora da Tito Livio. Importanti infine, sono i reperti di un’altra tomba infantile, il cui corredo comprende punte di lancia e altre armi in miniatura, in piombo, tra cui un’ascia con una iscrizione in lingua volsca, che dimostra come a quell’epoca (475 a.C. circa) la città fosse già occupata dai Volsci. I pannelli didattici – in italiano e inglese – raccontano le diverse fasi delle vita della città e del tempio in maniera esauriente e comprensiva, mentre una «vetrina tecnica» permette di dare uno sguardo sul lavoro quotidiano dell’archeologo. Aart Heering

Dove e quando «Satricum. Scavi e Reperti Archeologici» Vecchia Fonderia Le Ferriere Latina, Via Nettunense 101 Orario ma, me e ve, 10,00-13,00; per visite in altri orari: tel. 0773 458415

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n otiz iario

mostre Francia

LA CAMPAGNA D’ARABIA DEL LOUVRE

S

e ne parla da dieci anni, e la sfida non è da poco: creare il primo museo universale del mondo musulmano destinato a rappresentare l’arte d’ogni epoca e civiltà. È il «Louvre del deserto», la cui apertura è prevista per la fine del 2015. Posato sulle acque dell’isola di Saadiyat, il nuovo Louvre, immaginato da Jean Nouvel, sarà affiancato entro il 2020 da altre quattro costruzioni

firmate da grandi architetti: lo Zaid National Museum di Norman Foster, dedicato alla storia delle religioni; il Guggenheim di Abu Dhabi di Frank Gerhy, per l’arte contemporanea; il Performing Art Center di Zaha Hadid; e il Museo Marittimo di Tadao Ando. «Questo progetto – ci dice Jean-Luc Martinez, direttore del Louvre – contribuisce all’immagine del nostro Paese all’estero. Il Louvre di Abu Dhabi si fonda sull’esperienza dei piú grandi musei francesi e sul trasferimento delle nostre competenze verso un’istituzione nascente». Per il momento, la collezione permanente del nascente polo culturale arabo conta circa trecento opere, metà delle quali sono ora esposte

Dove e quando «Nascita di un museo. Il Louvre Abu Dhabi» Museo del Louvre, Hall Napoléon fino al 18 luglio Orario tutti i giorni, 9,00-17,45 (me e ve, fino alle 21,45); ma chiuso Info www.louvre.fr

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In alto: il cantiere del costruendo Louvre di Abu Dhabi. In basso: bracciale in oro con protome leonina, da Ziwiyeh, Iran. VIII-VII sec. a.C. nella mostra allestita al Louvre parigino. Ne fanno parte acquisizioni eccellenti, come, per esempio, un acquamanile veneziano del Cinquecento o un dipinto di Piet Mondrian del 1922. Oppure la «principessa di Battriana», una statuetta in clorite e calcite della fine del III millenio a.C., un bracciale aureo iraniano, scoperto nel 1947 a Ziwiyeh, databile all’VIII-VII secolo a.C., o la fibula aquiliforme di Domagnano (V secolo d.C.), scoperta nel 1893 a San Marino e acquistata da un collezionista di New York. Per il funzionamento del futuro polo museale è stata fondata la Sorbonne Abu Dhabi, che ha attivato un master specializzato in storia dell’arte e gestione dei musei, destinato a creare personale qualificato per il Louvre Abu Dhabi e le altre istituzioni che vedranno la luce sull’isola di Saadiyat. Daniela Fuganti



calendario

Italia roma Forma e vita di una città medievale. Leopoli-Cencelle

civitavecchia Il mare che univa

Gravisca santuario mediterraneo Museo Archeologico Nazionale fino al 20.07.14

Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali fino al 27.07.14

Siria, Splendore e Dramma Campagna per la salvaguardia del patrimonio culturale in Siria Palazzo Venezia fino al 31.08.14

La gloria dei vinti

Pergamo, Atene, Roma Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 07.09.14

Cortona Seduzione Etrusca

L’arte del comando

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 31.07.14

L’eredità di Augusto Museo dell’Ara Pacis fino al 07.09.14

fiesole Fiesole e i Longobardi

La biblioteca infinita I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

Bolzano Frozen stories

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova

Museo Civico Archeologico fino al 31.10.14

Qui sopra: busto femminile in bronzo, la cosiddetta «Saffo», da Ercolano, Villa dei Papiri.

Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14

chieti Secoli augustei

firenze Cortona, l’alba dei principi Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

fossombrone La statua della Vittoria Augusta di Kassel a Forum Sempronii

Un ritorno nel Bimillenario Augusteo Chiesa di S. Filippo, Corte Alta fino al 15.09.14 (prorogata)

gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 05.05.15

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo fino al 30.09.14 (dall’11.07.14) Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15 (dall’11.07.14)

genova La sardegna nuragica

cividale del friuli Fortini antichi erano all’intorno di Cividale

locri Il gioiello di Persefone

Archeologia e castelli nel Friuli nord-orientale Museo Archeologico Nazionale fino al 07.09.2014

Civita Castellana Eracle tra i Falisci

Il sogno dell’immortalità Museo Archeologico dell’Agro falisco, Forte Sangallo fino al 09.11.14

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Simboli e miti di una civiltà mediterranea Teatro del Falcone, Palazzo Reale fino al 27.07.14

Museo Archeologico Nazionale fino al 31.07.14

montesarchio Rosso Immaginario

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

La Vittoria di Fossombrone, copia della prima età imperiale della statua in bronzo dorato dedicata a Taranto per una vittoria di Pirro sui Romani a Eraclea.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

orvieto Sethlans

Saint-romain-en-gal Cassio

paestum (capaccio) e Santa Maria Capua Vetere Immaginando Città

Germania

I bronzi etruschi e romani nella Collezione Faina Museo «Claudio Faina» fino al 31.08.14

Il fumetto in mostra Musée gallo-romain fino al 31.08.14

Racconti di fondazioni mitiche, forma e funzioni delle città campane Museo Archeologico Nazionale di Paestum e Museo Archeologico dell’Antica Capua fino al 30.10.14

bonn Un’avventura orientale

tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia

Gran Bretagna

Max von Oppenheim e la scoperta di Tell Halaf Bundeskunsthalle fino al 30.08.14

Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14

Londra Antiche vite, nuove scoperte

Vallo della Lucania (SA) Cilento patrimonio dell’umanità

Dalla Preistoria al Risorgimento. Storia di una civiltà Fiere di Vallo, Località Pattano fino al 31.12.14

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 30.11.14

Paesi Bassi

vulci Principi Immortali

amsterdam Spedizione Via della Seta

zuglio (ud) In viaggio verso le Alpi

leida Medioevo dorato

I fasti dell’aristocrazia vulcente Museo Archeologico Nazionale fino al 14.09.14 (dal 15.07.14)

Itinerari romani dell’Italia nord-orientale diretti al Norico Civico Museo Archeologico Iulium Carnicum fino al 31.08.14

Tesori dall’Hermitage Hermitage Amsterdam fino al 05.09.14

Coppia di mani in argento, da Vulci. Seconda metà del VII sec. a.C.

Belgio

Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14

Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

2000 anni di scultura dalle collezioni Santarelli e Zeri Antikenmuseum fino al 16.11.14

parigi Io, Augusto, imperatore di Roma

La Madeleine e Laugerie Basse 15 000 anni fa Musée national de Préhistoire fino al 10.11.14

Fibbia da cintura in bronzo, oro, argento e pietre semipreziose, da Rijnsburg (Olanda). 630-640 d.C.

basilea Roma eterna

Francia

les-eyzies-de-tayac Grandi siti dell’arte maddaleniana

Svizzera berna Le palafitte

Ename L’eredità di Carlo Magno

Grand Palais fino al 13.07.14

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14

Pendente in osso su cui è incisa la figura di un ghiottone, da Les Eyzies.

USA New York Regni perduti

Sculture indo-buddhiste dell’Asia sud-orientale antica. V-VIII secolo The Metropolitan Museum of Art fino al 27.07.14

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storia • sparta e la krypteia

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licurgo e gli

Hunger Games di sparta

Nel descrivere gli usi degli spartani, plutarco e platone adombrano l’esistenza di una sorta di macabro safari, chiamato krypteia di Stefania Berlioz, con un’intervista a Massimo Nafissi

V Nella pagina accanto, in alto: la fenice infuocata, simbolo della vicenda del film The Hunger Games. Nella pagina accanto, in basso: busto tradizionalmente identificato come ritratto del re spartano Leonida, l’eroe delle Termopili. In realtà l’opera raffigura un oplita ed è stata rinvenuta nei pressi del santuario di Atena Chalkioikos («dalla casa di bronzo»), sull’acropoli di Sparta. 480-470 a.C. Sparta, Museo Archeologico.

i starete forse domandando perché «Archeo» ospiti un articolo che richiami il film The Hunger Games, il quale, ispirandosi all’omonimo romanzo di Suzanne Collins, narra una vicenda a metà strada tra la fantascienza e il fantasy. La ragione è presto detta: come leggerete, la distanza tra il futuro (per quanto immaginario) e il passato non è poi cosí siderale come si potrebbe supporre. La pellicola è ambientata nel paese di Panem – un Nord Amer ica post-apocalittico, rozzo e inselvatichito –, nel quale convivono estrema ricchezza ed estrema povertà: da una parte, una ristretta élite di potenti insediata nella capitale; dall’altra, una popolazione sottomessa, dispersa in miseri villaggi. A ricordo di un antico tentativo di rivolta, il dispotico

governo centrale impone una punizione esemplare: ventiquattro giovani di entrambi i sessi, estratti a sorte tra la popolazione, vengono proiettati in un’arena virtuale per partecipare agli Hunger Games (letteralmente «giochi della fame»).

un solo superstite Il coro che accompagna i giovani «che la fortuna possa sempre essere dalla vostra parte», suona quasi come una beffa: in questa competizione/spettacolo i cacciatori sono, allo stesso tempo, le prede, e da questa caccia fratricida è destinato a uscire un solo vincitore, che sarà dunque l’unico a sopravvivere. Il macabro rituale, ripetuto annualmente, assurge a simbolo di una società basata sulla diseguaglianza. Pura fantascienza? Un mondo possibile? Verrebbe da dire a r c h e o 27


storia • sparta e la krypteia

possibile, se pensiamo a certi episodi di follia repressiva – e relativa spettacolarizzazione – della nostra cronaca piú o meno recente. Ma, a ben scavare nelle pieghe piú antiche della storia, si scopre che anche sotto il cielo sereno di Grecia covavano odi cosí profondi da esplodere in «cacce all’uomo» altrettanto disumane. Non che la pratica fosse un tabú, nel mondo greco, anzi: questo particolare tipo di caccia era filosoficamente ammesso. Se ne parlava però con disagio, con una certa reticenza, soprattutto quando, a renderlo istituzionale, era stato – cosí almeno si diceva – il piú saggio e giusto dei legislatori che la Grecia avesse mai conosciuto, Licurgo, il creatore di Sparta, la città perfetta. Sulla grandezza di Sparta e sulla leggendaria imbattibilità dei suoi cittadini-guerrieri ci si interrogava già in antico. Come può una città

che non sembra neanche tale, priva com’è di mura, e con un numero cosí limitato di cittadini avere esteso la sua egemonia prima sul Peloponneso, e poi sull’intera Grecia?

una minoranza esigua Una domanda non priva di fondamento: gli Spartani purosangue – gli Spartiati –, vale a dire i cittadini con pieni diritti, rappresentavano un’esigua minoranza rispetto alla grande moltitudine di genti che, con diverso statuto, popolavano il suo territorio. Una ristretta classe di privilegiati alla quale si accedeva non solo per diritto di sangue, ma anche su base censitaria: ogni spartano, infatti, era tenuto a versare un contributo, in prodotti alimentari, alle mense comuni e chi non era in grado di provvedere perdeva i diritti civili. Gli altri entravano a far Edgar Degas, Giovani spartani in parte della schiera degli homoioi, «gli esercitazione. Olio su tela, 1860 circa. eguali». Un’eguaglianza, quella de- Londra, The National Gallery.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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gli Spartiati, fondata su un comune stile di vita improntato alla morigeratezza, alla disciplina e al rispetto dei nomoi, le leggi immutabili che la tradizione attribuiva al leggendario Licurgo (vedi box a p. 29). La sussistenza di questa classe di privilegiati si basava su una larga base di ceti dipendenti, i perieci e gli iloti. I primi erano liberi, ma privi di diritti politici. Abitavano nelle cittadine e nelle borgate periferiche della Laconia, dedicandosi, oltre che all’agricoltura, alle attività precluse agli Spartiati, cioè l’artigianato e il commercio. Erano inoltre tenuti a prestare servizio militare e, all’occorrenza, a combattere a fianco degli Spartiati, con i quali formavano una grande unità a carattere etnico, quella dei Lacedemoni.


l’uomo che fece grande sparta Plutarco apre la sua biografia di Licurgo con un’avvertenza ai lettori: di questo personaggio «non si può dire assolutamente nulla che non sia controverso; tanto sulla nascita che sui suoi viaggi all’estero, sulla morte e infine sulla sua attività di legislatore e di statista si tramandano notizie diverse, e tanto meno c’è accordo circa l’epoca in cui visse». Già in antico la figura del legislatore di Sparta era avvolta da una cosí spessa coltre leggendaria – si discettava se fosse da considerare un uomo, un eroe o piuttosto un dio – da rendere difficile isolare gli elementi storicamente attendibili. Ciononostante tutti, estimatori e detrattori, greci e romani, erano convinti che Sparta dovesse proprio a Licurgo la sua grandezza, e che la città ebbe a perdere il suo ruolo egemonico in Grecia nel momento in cui si smise di rispettare le sue leggi. La «costituzione» che regolava in modo cosí rigoroso e coerente la vita dei cittadini spartani è in realtà frutto di un lungo e complesso processo, di difficile ricostruzione, che si protrae sino alle soglie dell’epoca classica.

Venivano poi gli iloti. Per definire la loro condizione, basterebbe citare i versi di un poeta-guerriero spartano, Tirteo, vissuto nel VII secolo a.C.: «Come asini schiantati da pesante soma, che portano ai padroni – necessità luttuosa – la metà di tutto quanto la terra genera». Gli iloti sono non-cittadini, individui privi di diritti e di condizione servile. Ma, a differenza degli schiavi acquistati sul mercato, degli sradicati dalle comunità di origine, gli iloti possedevano una casa, una famiglia, potevano generare dei figli. Un privilegio, certo, ma la loro vita non doveva essere meno miserabile.

zavano la vita di un aristocratico greco: la politica, la caccia, l’atletismo e, soprattutto, la guerra, l’arte per la quale ogni Spartano era addestrato sin dalla piú tenera età.

In alto: ritratto immaginario del legislatore spartano Licurgo. 1825. In basso: coppa di produzione laconica con figura di cavaliere. 550-530 a.C. Londra, British Museum.

servi dei guerrieri Gli iloti avevano il compito di coltivare le terre degli Spartani, sia in Laconia, sia in Messenia, con l’obbligo di versare una quota fissa del raccolto. Essi costituivano una grande massa di servi indispensabile al mantenimento di una società di guerrieri come quella degli Spartiati. Grazie al loro lavoro, l’élite dominante poteva dedicarsi liberamente alle attività che caratteriza r c h e o 29


storia • sparta e la krypteia Statua di Nike scolpita da Peonio di Mende e dedicata dai Messeni e dai cittadini di Naupatto dopo una vittoria in battaglia, dal santuario di Zeus a Olimpia. 430-420 a.C. Olimpia, Museo Archeologico.

Eppure il rapporto tra Spartani e iloti non era stato sempre conflittuale. Per esempio, in occasione della battaglia di Platea (479 a.C.) – lo scontro decisivo per le sorti del conflitto greco-persiano –, gli Spartani accolsero nel proprio esercito numerosi iloti, un gesto che presuppone una grande fiducia reciproca. Poi tutto sembra cambiare. Il momento di svolta è la rivolta di un gruppo di perieci e di iloti di Messenia al tempo del disastroso terremoto che colpí la regione peloponnesiaca nel 464 a.C. Dopo qualche successo iniziale, la roccaforte naturale dei ribelli – il Monte Itome – fu espugnata dagli Spartani e i sopravvissuti esiliati dal Peloponneso. Un aiuto insperato giunse in extremis dagli Ateniesi, che consentirono ai profughi di insediarsi a Naupatto (l’odierna Lepanto).

tensione crescente Da questo momento, come trapela dalle fonti, tra iloti di Messenia e Spartani la tensione si fece sempre piú alta, fomentata dall’insofferenza degli uni e dai timori degli altri. Un episodio, raccontato da Tucidide, rende perfettamente questo clima conflittuale: gli Spartani andavano promettendo la libertà a quanti, fra gli iloti, ritenevano di essere stati utili per la città. Si fecero avanti in duemila, i migliori, i piú forti. Un atteggiamento giudicato dagli Spartani troppo orgoglioso – e quindi potenzialmente pericoloso – per un servo. Poco dopo i duemila uomini scomparvero. Nessuno, né sul momento, né in seguito, seppe dire in che maniera fossero stati uccisi. Si diceva anche che gli iloti odiassero gli Spartani e che, potendo, se li sarebbero anche mangiati vivi. Gli iloti di Messenia non erano diversi da quelli di Laconia. Ma, a differenza dei loro fratelli di sventura, quasi rassegnati all’obbedienza, essi avevano raggiunto la consapevolezza, piú o meno fondata, di essere i discendenti legittimi dei piú antichi 30 a r c h e o


spartani vs messeni Tardo VIII secolo a.C. Prima guerra messenica Seconda metà del VII sec. a.C. Seconda guerra messenica, definitiva conquista della regione. 464 a.C. Cosiddetta rivolta del terremoto 371 a.C. Battaglia di Leuttra: l’esercito spartano subisce un’irrimediabile sconfitta per opera dei Tebani guidati da Epaminonda. 369 a.C. Liberazione della Messenia e rifondazione della città di Messene.

Leuttra Platea Corinto

Messene Sparta

Atene

Qui sotto: la locandina del film The Hunger Games, diretto nel 2012 da Gary Ross e ispirato all’omonimo romanzo di Suzanne Collins. A sinistra, al centro: i resti del teatro di Sparta. In secondo piano, la città moderna, e, sullo sfondo, il Monte Taigeto. In basso, a sinistra: foto satellitare della Grecia, con l’indicazione delle principali località citate nel testo.

abitatori della Messenia, sottomessi dagli Spartani fra l’VIII e il VII secolo a.C. Una teoria, quella dell’asservimento degli iloti a seguito delle guerre di conquista, che trovava molti sostenitori, in antico come in età moderna. E sebbene alcuni pensino che il fenomeno dell’ilotizzazione sia assai piú complesso e abbia coinvolto gruppi servili di origini differenti, ben poco cambia se guardiamo alle terribili condizioni di vita a cui gli iloti erano costretti, aggravate dalle continue dimostrazioni di disprezzo che gli Spartani riservavano loro. Un disprezzo che rasentava l’odio, e che giunse a esprimersi in una pratica agghiacciante: la krypteia. Non siamo insomma molto lontani dagli eccessi degli Hunger Games della finzione cinematografica, come possiamo leggere nell’intervista a Massimo Nafissi (alle pagine seguenti). a r c h e o 31


storia • sparta e la krypteia

la krypteia, caccia all’ilota nell’antica sparta A colloquio con Massimo Nafissi, storico ed esperto del mondo spartano Nel primo libro delle Leggi, Platone immagina che tre uomini, un Ateniese, un Cretese e uno Spartano, si trovino a discutere sul valore e sullo scopo delle costituzioni di Cnosso e di Sparta, che la tradizione attribuiva rispettivamente a Minosse e Licurgo. Nel passare in rassegna le prove di resistenza volte a formare il carattere guerriero dei giovani spartani viene menzionata una singolare pratica chiamata krypteia, termine traducibile con «qualcosa che si fa di nascosto», una sorta di gioco a nascondino. Lo spartano cosí ne descrive il funzionamento: «Un esercizio estremamente impegnativo di resistenza al dolore e alla fatica, l’andare scalzi e dormire senza coperte d’inverno e il provvedere da sé senza l’aiuto di servi ai propri bisogni, vagando notte e giorno per tutta la regione». Una durissima prova di resistenza, non molto dissimile, nella sostanza, dalle tante

altre cui erano sottoposti i giovani spartani durante il loro decennale «addestramento». A complicare le cose e a gettare un’ombra oscura e inquietante sulla krypteia, è quanto ci racconta Plutarco nella Vita di Licurgo: «I magistrati di tempo in tempo mandavano nel territorio, senza ragione particolare, quelli fra i giovani che sembravano piú svegli, armati di pugnali e forniti di viveri indispensabili e di nient’altro. Di giorno essi si disperdevano in luoghi inesplorati, vi si nascondevano e riposavano; di notte scendevano sulle strade e, se sorprendevano qualche ilota, lo sgozzavano. Spesso facevano anche delle scorrerie per i campi e uccidevano i piú robusti degli iloti. (…) Aristotele dice addirittura che gli efori, appena si insediano nella loro carica, dichiarano guerra agli iloti, affinché non sia sacrilego ucciderli». Piú che una prova di resistenza, come sembra farci credere Platone,

si tratterebbe di una vera e propria caccia all’uomo, resa istituzionale da una «dichiarazione di guerra». Plutarco è cosí scandalizzato da questo uso, che si rifiuta di credere che esso fosse stato introdotto da Licurgo, il saggio legislatore di Sparta, del quale esalta la personalità e l’opera. Come si conciliano le due versioni? È Platone a minimizzare o Plutarco a esagerare? Lo abbiamo chiesto a Massimo Nafissi, docente di storia greca all’Università di Perugia e uno dei maggiori esperti, a livello internazionale, del kosmos spartano.

◆ Professor Nafissi, che cos’è

veramente la krypteia? Com’è possibile che il particolare piú efferato e sconcertante di questa prova – l’uccisione degli iloti – sia potuto sfuggire a Platone? Sulla krypteia è stato detto un po’ di tutto: «azione terroristica», «polizia politica», «rituale di iniziazione», «allenamento alla sopravvivenza»... Particolarmente nota e autorevole è l’interpretazione dello storico francese Pierre Vidal-Naquet (1930-2006), che in essa ha riconosciuto una prova particolare nell’ambito dell’educazione dei giovani di età compresa tra i diciotto e i vent’anni; una sorta di test di preparazione alla guerra oplitica, caratterizzato da una «logica dell’inversione»: isolamento, attacco notturno, astuzia – elementi caratterizzanti della krypteia –

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In alto: i resti della città di Messene che, dopo essersi liberata del giogo spartano, fu rifondata nel 369 a.C. Nella pagina accanto, in basso: Il coraggio delle donne di Sparta che si battono contro i Messeni. Olio su tela di Jean-Jacques-François Le Barbier (detto anche Le Barbier l’aîné), 1787. Parigi, Museo del Louvre.

rappresenterebbero poli opposti rispetto alla pratica reale della guerra nei ranghi compatti della falange, che prevedeva solidarietà di gruppo e combattimento frontale, alla luce del giorno. Ma veniamo alla seconda domanda. Occorre innanzitutto precisare che le differenze tra le due tradizioni non si limitano al «dettaglio» dell’uccisione degli iloti: per Platone i giovani coinvolti nella krypteia dovevano vagare scalzi, senza provviste e senza servi che provvedessero ai loro bisogni per un lungo periodo di tempo: una prova di resistenza fisica, resa ancor piú dura dall’obbligo di non farsi scoprire. Platone si sente obbligato a sottolineare che i giovani non erano accompagnati da servi, cosa del tutto inconcepibile nello spirito della prova descritta da Plutarco, che prevedeva la loro uccisone. Secondo quest’ultimo, che attinge le sue informazioni dalla Costituzione dei Lacedemoni attribuita ad Aristotele, ma piú verosimilmente opera di un allievo del celebre filosofo, si trattava invece di un vero

e proprio gruppo armato e provvisto di viveri, incaricato di compiere la missione omicida entro un breve periodo di tempo.

◆ Come sono state spiegate queste

palesi contraddizioni? Piú che spiegate sono state a lungo ignorate, o non trattate come un problema che di per sé richiedesse una spiegazione. Nell’Ottocento molti faticavano ad accettare l’idea di questa caccia all’uomo che palesava il volto piú brutale dell’ingiustizia della condizione servile, in stridente contrasto con l’immagine, dominante nella cultura del tempo, del «miracolo greco». Studiosi e intellettuali erano portati a ridimensionare o addirittura negare la caccia agli iloti, privilegiando la rassicurante versione platonica che insisteva sull’aspetto educativo-militare della prova e non contemplava l’uso di armi e la violenza. Nel Novecento, al contrario, è stata seguita quasi costantemente la traccia plutarchea e solo raramente

è stata messa in dubbio la storicità di questa caccia all’ilota. Vari fattori hanno aiutato gli studiosi ad ammettere l’esistenza di una pratica cosí violenta. Innanzitutto si è affermata una nuova disponibilità a confrontare i Greci con i popoli «primitivi»: l’uccisione degli iloti è stata accostata alle pratiche in uso presso numerose società tribali di Africa, Asia e Australia, nelle quali, per entrare nel mondo degli adulti, occorre versare il sangue e darne prova con trofei, come nel caso dei «cacciatori di teste». La stessa esperienza dei totalitarismi moderni, con le loro spietate politiche repressive e di sterminio, ha reso meno inconcepibile l’esistenza di una «caccia all’ilota», sino a giungere al completo rovesciamento della prospettiva: l’identificazione della Germania nazista con Sparta, considerata come l’esempio piú compiuto e luminoso di Stato a base razziale, portò al paradosso finale di riconoscere nella krypteia una manifestazione di puro

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storia • sparta e la krypteia

eroismo, estrema espressione della volontà di dominio della razza superiore spartana sulla soverchiante massa dei servi-iloti.

◆ Qual è la posizione attuale

degli studiosi? Si è raggiunto qualche punto fermo? Di punti fermi e certezze assolute, nella storia di Sparta, ce ne sono assai pochi: la sua nascita, la sua crescita e, ovviamente, il processo che ne definí il peculiare sistema politico e sociale, sono ancora difficili da ricostruire. E, in un certo senso, lo diventano sempre di piú quanto piú diviene raffinato e libero da pregiudizi il modo di interrogare le fonti antiche e riflettere sulla complessità dei fenomeni sociali, politici e culturali. Questo vale anche per la krypteia, sulla cui origine e significato le opinioni continuano a divergere. È stato per esempio ipotizzato che la versione platonica sia reticente, ispirata a un atteggiamento filo-spartano. Secondo altri studiosi ci troveremmo di fronte a due prove distinte, caratterizzate da un differente grado di pericolosità: alla seconda sarebbero stati sottoposti solo quelli capaci di superare con successo la prima. Altri ancora pensano a una trasformazione della krypteia tra l’epoca in cui Platone scrive le Leggi e gli anni in cui viene redatta l’opera citata da Plutarco: grosso modo tra il 360 e il 330/320 a.C. Anche io, come questi ultimi, credo che le differenze tra le due descrizioni della krypteia riflettano due usi diversi, successivi nel tempo. Platone non è reticente, come molti pensano, deve piuttosto aver conosciuto la forma piú antica della krypteia, grazie a informazioni diffuse oralmente e probabilmente non aggiornatissime. L’autore della Costituzione dei Lacedemoni rende invece conto della «nuova» krypteia, riformata con ogni

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probabilità negli anni successivi alla disfatta spartana sul campo di Leuttra, per mano dei Tebani (371 a.C.). Forse il momento piú buio della storia di Sparta (nello scontro, l’esercito tebano di Epaminonda vinse gli Spartani guidati dal re Cleombroto I, segnando l’inizio del predominio tebano sulla Grecia, chiuso poi con la battaglia di Mantinea del 362 a.C., n.d.r.).

◆ Quali avvenimenti giustificano

una riforma in chiave cosí drammatica della krypteia? Dopo la vittoria di Leuttra, i Tebani, facendo leva sulle identità locali e sugli orgogliosi sentimenti autonomistici delle comunità soggette a Sparta, portarono al collasso il sistema di alleanze con le città del Peloponneso (la cosiddetta «Lega del Peloponneso»), che costituiva il fondamento della potenza spartana. Clamoroso è il caso dei Messeni: nel 369 a.C., dopo tre secoli, la Messenia viene liberata dal giogo spartano e si costituisce come Stato autonomo. E proprio a seguito della rinascita della Messenia gli Spartani trasformarono la krypteia da un lungo periodo di resistenza a una vita disagiata in una breve spedizione di caccia agli iloti. Naturalmente le due pratiche avevano molti elementi comuni: analoghi dovevano essere i metodi di selezione, l’età dei partecipanti e lo spirito del test. Plutarco è piuttosto preciso al proposito. A essere coinvolti nella krypteia erano i neoi, vale a dire giovani uomini di età compresa tra i venti e i trent’anni. Non è un’informazione di poco conto: non si tratta infatti di ragazzi, ma del fior fiore dell’esercito spartano. Questi uomini – non tutti, ma solo chi si era distinto per valore

A sinistra: bronzetto di guerriero. Seconda metà del V sec. a.C. Sparta, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: Uno spartano addita ai figli un ilota ubriaco. Olio su tela di Fernand Sabatte, 1900. Parigi, Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts.


– erano tenuti a dimostrare la loro capacità di resistenza stando fuori città, affrontando le difficoltà della vita all’aperto e tenendosi nascosti. La società spartana era molto competitiva, e queste prove erano essenziali per far emergere in ogni classe di età l’élite dei migliori. Sono proprio questi che, raggiunta un’età avanzata, avrebbero costituito il consiglio degli anziani.

◆ Perché riformare la krypteia

quando tutto, intorno, vacilla? Proprio perché tutto, intorno, vacilla. Occorre comprendere il contesto culturale in cui matura questa riforma. Un fatto fondamentale emerge molto chiaramente dalle fonti antiche: in Grecia si guardava ai Messeni come ai discendenti degli antichi e liberi abitanti della Messenia; per gli Spartani, invece, i Messeni erano rimasti iloti anche dopo aver ottenuto l’autonomia. La prassi del diritto greco e delle relazioni fra comunità non ammetteva la possibilità di liberare gli schiavi di un’altra città e di trasformarli in cittadini sul territorio dei loro ex padroni. Di conseguenza, gli Spartani si rifiutarono di

riconoscere con trattati e giuramenti la legittimità della rinata comunità dei Messeni, benché piú volte fossero chiamati a farlo dalle altre città greche. Da questa situazione scaturisce, probabilmente, il singolare uso spartano della dichiarazione di guerra agli iloti, che Aristotele mette in collegamento con la krypteia. Questa procedura non ha solo carattere istituzionale, ma afferma soprattutto un obbligo, un imperativo morale: dichiarare guerra agli iloti significa non riconoscere l’indipendenza dei Messeni. La krypteia «riformata» è il modo con cui questa guerra viene messa in atto: gli Spartani, non potendo piú spingersi in Messenia, uccidono gli iloti di Laconia, quelli che «avevano a disposizione», ma pensano agli iloti in generale, e dunque soprattutto a quelli di Messenia.

◆ Se gli iloti erano cosí importanti

per la sopravvivenza stessa degli Spartiati, perché arrivare a ucciderli? Non è una contraddizione? Questa domanda ritorna spesso nella letteratura moderna, sin

dall’Ottocento. Probabilmente la krypteia era una guerra simbolica, piú che reale. Non dobbiamo pensare a stragi vere e proprie: era probabilmente sufficiente uccidere un numero limitato di iloti per affermare la volontà di riacquisire una terra – la Messenia – conquistata dai loro antenati. In un certo senso, gli Spartani erano divenuti prigionieri del loro passato, della loro idea di grandezza: la Messenia, in realtà, non poteva piú essere riconquistata, ma loro continuavano a ricordare a se stessi che un giorno o l’altro avrebbero potuto farlo. Affidando l’azione a uomini giovani, proprio nel punto di intersezione delle generazioni, gli Spartani consegnavano la guerra ai Messeni come compito supremo ai propri figli. Ci sono alcuni versi, cantati in tre cori in occasione delle Gimnopedie (festività in onore di Apollo), che ci aiutano a capire questo atteggiamento mentale. Esordiva il coro dei vecchi: «Noi un giorno fummo giovani gagliardi»; rispondeva quello degli adulti: «Noi lo siamo; se vuoi, fanne prova»; infine quello dei giovani: «Noi saremo molto piú forti». Tutti gli Spartiati venivano continuamente messi alla prova, dovevano dimostrare di essere i migliori; migliori rispetto ai coatenei, ma anche rispetto a chi era venuto prima di loro. Per gente educata in questo modo, era difficile ammettere che una terra conquistata dal valore dei propri antenati potesse essere perduta per sempre. Obbedendo a una logica spietata e al loro sconfinato senso di superiorità, gli Spartani uccisero per anni i propri servi, in modo brutale e patologicamente autolesionistico. È consolante sapere che Sparta non sia mai riuscita a riconquistare le terre oltre il Taigeto.

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mostre • cerveteri

cerveteri

regina del mediterraneo una grande mostra attualmente in corso a roma riaccende i riflettori su uno dei maggiori centri dell’antica etruria. una rassegna ricca e articolata, che vuol essere anche un invito a riscoprire un sito archeologico di straordinaria bellezza di Stefano Mammini

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C

erveteri: «una delle città piú importanti d’Etruria», «una metropoli del mondo antico», «un centro di prima grandezza»… Dalla letteratura specialistica alle voci enciclopediche, espressioni del genere accompagnano da sempre le definizioni di volta in volta elaborate per quello che, soprattutto nel periodo compreso tra il IX e il V secolo a.C., fu effettivamente uno dei maggiori e

piú fiorenti abitati dell’intera regione mediterranea. La città che gli Etruschi stessi chiamavano Kaisraie, i Greci Agylla e i Romani Caere fu protagonista di primo piano delle vicende politiche ed economiche dell’Italia preromana e fu tra le piú attive nell’imprimere un respiro internazionale ai propri scambi commerciali e culturali: una capitale viva e dinamica, le cui vicende sono ripercorse dalla

mostra co-prodotta da Italia e Francia e attualmente visitabile a Roma, nelle sale del Palazzo delle Esposizioni (vedi box alle pp. 40-41). Il percorso espositivo occupa il primo piano dell’edificio piacentiniano e presenta materiali di notevole pregio e interesse, valorizzati al meglio da un allestimento lineare e luminoso e corredati da un buon apparato didattico, del quale merita d’essere segnalato il ricorso a una

Cerveteri, necropoli della Banditaccia. Tombe a tumulo(a sinistra) e a dado (a destra), nell’area attraversata dalla via dei Monti della Tolfa. Il sepolcreto occupava una superficie di 100 ettari circa e si stima che comprendesse 20 000 tombe: l’area recintata corrisponde a circa 1/10 di questo vastissimo complesso.

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mostre • cerveteri

efficace e ricca cartografia. Molti sono i reperti importanti, che, al di là del valore estetico o del significato simbolico, sembrano lanciare un invito sommesso, ma quasi tassativo: quello di andare a vedere di persona il loro luogo d’origine o, nel caso dei materiali di importazione, l’ultimo domicilio conosciuto.

Patrimonio dell’umanità Un appello che volentieri facciamo nostro e che vogliamo qui rilanciare, convinti del fatto che Cerveteri meriti di veder crescere in misura adeguata alla sua importanza (e al suo fascino) il numero dei visitatori e degli estimatori. Non è un caso, del resto, che proprio dieci anni fa, nel 2004, l’UNESCO abbia deciso di inserire Cerveteri (e Tarquinia) tra i siti considerati come Patrimonio dell’Umanità e basterebbe leggere le motivazioni di quella scelta per avere un’idea della sua eccezionalità (verificare è peraltro molto semplice: non si deve far altro che andare all’indirizzo web http://www.sitiunesco.it/cerveteri-e-tarquinia-lenecropoli-etrusche.html). Occorre anche sottolineare che, da allora, al prestigioso riconoscimento non ha fatto seguito un’attività di valorizzazione di particolare rilievo e, anzi, non sono mancate polemiche anche accese sulla gestione del sito. Tanto da far circolare allarmi sul rischio che l’ente culturale delle Nazioni Unite potesse revocare la propria deliberazione. Ma, soprattutto negli ultimi mesi, qualcosa sembra muoversi. E speriamo sia l’inizio di una stagione nuova. Procediamo però con ordine: per raggiungere Cerveteri, che si trova poco più di 40 km a nord di Roma, a ridosso della costa, si possono percorrere la SS Aurelia oppure l’Autostrada A12 (Roma-Civitavecchia), in entrambi i casi fino alle relative indicazioni. Giunti a destinazione, il Museo Nazionale Cerite (vedi box a p. 44), che conserva una significativa selezione dei materiali restituiti dagli scavi, è situato nel cuore del centro storico, nel castello Ruspoli, 38 a r c h e o

mentre la necropoli della Banditaccia (uno dei principali sepolcreti ceretani) si trova a un paio di chilometri dal centro abitato. Vi si arriva per una strada ombreggiata e, alla fine di una breve salita, dopo una curva, si può lasciare l’auto nell’area attrezzata per il parcheggio e proseguire a piedi.A questo punto conviene imboccare il sentiero sterrato che corre parallelo alla sinistra della strada asfaltata e fiancheggiata dai pini – la via della Necropoli –, in quanto lo stradello si snoda attraverso numerose tombe, di varia tipologia architettonica, che offrono un primo saggio della ricchezza monumentale del sepolcreto. È del resto importante sottolineare che l’area attualmente recintata – che pure si estende per 10 ettari – corrisponde a circa un decimo dell’intero cimitero, nel quale è stato stimato che siano comprese ben 20 000 tombe. Raggiunta la piazza intitolata a Mario Moretti (1912-2002) – lo studioso che, dopo Raniero Mengarelli (1863-1944), ha dato un contributo decisivo all’esplorazione e alla valorizzazione di Cerveteri, prima come direttore degli scavi e poi come soprintendente archeologo per l’Etruria meridionale – si incontra la biglietteria della necropoli (il cui edificio sarà presto sostituito da una piú ampia struttura, in via di completamento al momento in cui scriviamo). Entrati dunque nell’area recintata, il colpo d’occhio è di grande suggestione: su entrambi i lati della via sepolcrale principale, si susseguono decine e decine di tombe e si può ragionevolmente immaginare che, all’epoca in cui quella stessa strada era percorsa dai cortei funebri, il luogo avesse un aspetto abbastanza simile all’attuale. La planimetria del sito, riportata anche da un grande pannello situtato poco oltre l’ingresso, suggerisce un percorso di visita che descrive una sorta di «Y» (vedi pianta a p. 43) e tocca i monumenti ritenuti piú significativi ed emblematici.Vale tuttavia la pena di segnalare che eventuali deviazioni

Viterbo Rieti Civitavecchia

Cerveteri

Roma

Latina Mar Tirreno

Frosinone

In alto: cartina del Lazio con l’ubicazione di Cerveteri. Nella pagina accanto: la Tomba dei Rilievi, riccamente decorata da riproduzioni di utensili, accessori, armi, strumenti musicali, mobilia. Seconda metà del IV sec. a.C.

non possono far altro che arricchire l’esperienza e restituire un’idea senza dubbio piú completa della necropoli e, soprattutto, della straordinaria densità dei sepolcri, che, soprattutto nelle zone apprestate all’indomani della fase dei grandi tumuli gentilizi (VII-VI secolo a.C.), furono scavati cercando di sfruttare al meglio lo spazio disponibile. È inoltre importante sapere che, se si sceglie di seguire l’itinerario tradizionale, esso comporta alcuni «andirivieni» temporali, in quanto, per ragioni di praticità, le tombe suggerite si succedono nello spazio, ma hanno cronologie differenti e non susseguenti.

colonne «inutili» Imboccata la via sepolcrale, si apre sulla sinistra l’ingresso della Tomba dei Capitelli (databile agli inizi del VI secolo a.C.), che propone uno degli schemi piú diffusi fra i sepolcri gentilizi della necropoli: al termine del breve dromos (il corridoio d’accesso) si aprono tre ingressi, che immettono alle camere laterali e all’ambiente centrale e piú importante. Quest’ultimo, a sua volta, si articola in un vasto atrio rettangolare, nella cui parete di fondo si aprono le porte di tre vani sepolcrali e nel quale vi sono due colonne con il fusto sfaccettato, sormontate dai capitelli eolici ornati con volute che danno nome al monumento.


Poiché la tomba, come accade spesso, è interamente scavata nel banco roccioso, le colonne non avevano alcuna funzione statica, e servivano unicamente ad arricchire l’apparato ornamentale. Lasciata la Tomba dei Capitelli, il sentiero costeggia altri tumuli piú piccoli, ai margini dei quali sono allineati alcuni contenitori in tufo, al cui interno erano stati deposti ossuari con le ceneri dei defunti riferibili all’età villanoviana, vale a dire alla fase culturale che fa da «incubatrice» alla civiltà etrusca vera e propria e che è attestata anche a Cerveteri. Poco oltre s’incontra uno dei tumuli piú imponenti della necropoli: ha un diametro di circa 40 m e al suo interno si aprono quattro tombe, cronologicamente distribuite nell’arco di circa due secoli: si trat-

terebbe dunque, ed è una circostanza frequente all’interno della Banditaccia, di un sepolcro appartenente al medesimo gruppo familiare, che l’avrebbe utilizzato nell’arco di piú generazioni.

come una capanna Il sepolcro piú antico è la Tomba della Capanna (VII secolo a.C.), evocata dalla semplice architettura della camera funeraria principale, che presenta un tetto a doppio spiovente sorretto dal trave di colmo centrale. L’essenzialità delle forme, simili a quelle di un’altra celeberrima tomba ceretana, la RegoliniGalassi (che è però compresa nella necropoli di Monte Abatone), non deve trarre in inganno: siamo infatti di fronte a un monumento funerario voluto da una committenza certamente molto facoltosa.

Dirigendosi nuovamente verso la via sepolcrale principale, in corrispondenza dell’ingresso della Tomba dei Vasi Greci (che è in posizione diametralmente opposta a quella della Capanna), si può vedere un settore in cui si affollano numerose tombe, prive di tumulo, che – come accennato in precedenza – furono scavate le une accanto alle altre, alternandone l’orientamento, cosí da sfruttare al meglio il masso roccioso. È quindi sufficiente percorrere poche decine di metri per imbattersi in uno dei monumenti piú famosi di Cerveteri: la Tomba dei Rilievi, il sepolcro piú spettacolare della Banditaccia, scoperto nel 1846 dal marchese Giovan Pietro Campana (1808 o 1809-1880). Databile alla seconda metà del IV secolo a.C., la tomba è preceduta da un lungo (segue a p. 42)

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mostre • cerveteri

storia e fasti di una metropoli Frutto di un progetto scientifico italo-francese, la mostra attualmente allestita a Roma ha debuttato nello scorso dicembre a Lens, nella nuova sede satellite che il Museo del Louvre ha inaugurato nella città della Francia settentrionale. La storia della Cerveteri etrusca viene raccontata incrociando varie classi di fonti: dalle testimonianze degli autori antichi fino alle piú recenti acquisizioni rese possibili dalla ricerca archeologica. In mezzo, per cosí dire, si colloca la lunga tradizione di studi e ricerche sul sito, che visse una stagione di particolare fervore già nel XIX secolo e poi nella prima metà del XX, quando furono avviati i grandi scavi condotti da Raniero Mengarelli. Come si può intuire, il patrimonio accumulato nel corso di un’attività cosí intensa è ricchissimo e la selezione operata dai curatori della mostra ne offre un saggio eloquente. Uno dei motivi di maggior interesse della rassegna è la logica conseguenza della sua genesi: la partecipazione della Francia ha infatti permesso di portare in Italia alcuni dei reperti piú importanti della collezione etrusca del Louvre. Il caso piú eclatante – come potrete leggere anche nell’articolo dedicato a questo capolavoro della coroplastica etrusca (vedi, in questo numero, alle pp. 46-53) – è quello del Sarcofago degli Sposi. Il museo parigino ha infatti concesso in prestito il gemello dell’opera che costituisce uno dei vanti del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e basterebbe questa presenza a classificare come «imperdibile» la mostra romana. Tuttavia, la lista delle presenze eccellenti è lunga e qui ci limiteremo a qualche veloce segnalazione. La collaborazione del Louvre ha permesso di inserire nel percorso anche le magnifiche lastre in terracotta policroma recuperate nella necropoli della Banditaccia dal marchese Giovanni Pietro Campana, che a Cerveteri si rese autore di scoperte di eccezionale importanza: fu lui, per esempio a individuare la Tomba dei Rilievi, il cui interno si può ammirare in un dipinto ottocentesco finora inedito che raffigura una visita all’ipogeo. Le burrascose vicende del nobiluomo romano vengono naturalmente ripercorse, soprattutto perché, all’indomani dei guai giudiziari in cui si trovò coinvolto, la sua ricca 40 a r c h e o

collezione fu quasi integralmente acquistata da Napoleone III per la Francia, un’iniziativa che nel 1863 fece pervenire al Louvre soprattutto i materiali di epoca etrusca che ne facevano parte. Anche altre importanti istituzioni museali straniere hanno comunque contribuito in maniera significativa alla costruzione del percorso: è il caso dell’acroterio in terracotta policroma proveniente dalla località di Vigna Marini-Vitalini e ora appartenente alle collezioni della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, o dell’elegante psykter (un vaso utilizzato nel corso dei banchetti per refrigerare il vino) a figure rosse firmato dal pittore Duride, concesso in prestito dal British Museum. Nella pagina accanto, in alto: un’immagine dell’allestimento della mostra ospitata dal Palazzo delle Esposizioni di Roma. Al centro, uno degli esemplari a oggi noti del Sarcofago degli Sposi (vedi l’articolo alle pp. 46-53), da Cerveteri. 530-520 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra: statuetta in bronzo di demone con testa di cane, da Cerveteri. Produzione ceretana, 500 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung.


Particolarmente suggestiva è la ricostruzione parziale della Tomba delle Cinque Sedie, scoperta nel 1865 nella necropoli della Banditaccia. A caratterizzare e dare nome al sepolcro è l’ambiente in cui furono appunto scavati cinque seggi, che ospitavano altrettante statue (tre maschili e due femminili), piú piccole del vero esposte in mostra. Si tratta probabilmente di immagini degli antenati dei titolari della tomba, che sono stati raffigurati seduti e nell’atto della libagione con la mano destra aperta e protesa. Attribuibile a una bottega di bronzisti ceretani è poi la curiosa statuetta di un demone dalla testa di cane, che si inserisce nell’ambito di una delle piú felici espressioni dell’artigianato artistico degli Etruschi. È infine importante sottolineare che, al di là della bellezza o della rarità dei materiali esposti, il percorso riesce nell’intento di raccontare in maniera esauriente e chiara la storia di Cerveteri, anche grazie all’enfasi assegnata ai dati ricavati in seguito alle indagini archeologiche che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno interessato l’area urbana. Se è vero, infatti, che ad arricchire musei italiani e stranieri sono stati innanzitutto i ricchi corredi funerari, l’esplorazione della città antica ha permesso di definirne con sempre maggiore precisione il profilo sociale ed economico.

Qui sopra: psykter (vaso per raffreddare il vino nei banchetti) attico a figure rosse, da Cerveteri. 500-480 a.C. Londra, British Museum.

dove e quando «Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri» Roma, Palazzo delle Esposizioni fino al 20 luglio Orario do-ma-me-gio, 10,00-20,00; ve-sa, 10,00-22,30; lu chiuso Info tel. 06 39967500; www.palazzoesposizioni.it

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mostre • cerveteri

dromos a gradini e le sepolture sono A destra: una sistemate in un solo grande am- delle camere biente a pianta quadrangolare. sepolcrali della

un monumento unico Ciò che però la rende eccezionale è il fatto che le superfici interne sono decorate con elementi a rilievo dipinti a piú colori. Spiccano soprattutto le riproduzioni di utensili, accessori, armi, strumenti musicali, mobilia. Una simile meraviglia, che si può ammirare al di là di una finestrella (esigenze di conservazione delle pitture hanno imposto, come per le tombe dipinte di Tarquinia, la sospensione delle visite all’interno del monumento), è, al di là di considerazioni culturali e artistiche, uno degli specchi piú fedeli e realistici della vita quotidiana al tempo degli Etruschi. Poco oltre, la via sepolcrale principale si biforca e, in corrispondenza della biforcazione, si affaccia la

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Tomba dei Leoni Dipinti. Seconda metà del VII sec. a.C. In basso: l’interno della Tomba Policroma. Seconda metà del VI sec. a.C. Sulle pareti si conservano tracce di fasce dipinte in rosso e nero.

Tomba della Casetta, databile agli inizi del VI secolo a.C. Come suggerisce il nome, l’interpretazione in chiave funeraria dell’architettura domestica, con tanto di finestrelle fra i vari ambienti, risulta in questo caso particolarmente accentuata.

Per convenzione, il ramo della strada sepolcrale principale che si snoda alla destra della Tomba della Casetta prende anche il nome di via degli Inferi. Il tracciato, scavato nel tufo, conserva l’impronta delle ruote dei carri che lo percorrevano e prose-


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Visitare la necropoli Pianta del settore recintato della necropoli della Banditaccia, con l’indicazione delle tombe che compongono il percorso di visita tradizionale: A. Ingresso (biglietteria); 1. Tomba dei Capitelli; 2. Tomba della Capanna; 3. Tomba dei Rilievi; 4. Tomba della Cornice; 5. Tomba della Casetta; 6. Tombe a dado (via dei Monti della Tolfa, via dei Monti Ceriti); 7. Tumulo Maroi; 8. Tumulo Mengarelli; 9. Tumulo del Colonnello; 10. Tomba Policroma.

gue fino al margine dell’area recintata. Ma il confine della zona custodita è un limite solo fittizio, poiché la strada prosegue ancora per un lungo tratto, fino a raggiungere il pianoro sul quale sorgeva la città.

sulla via degli inferi E, anzi, la parte piú spettacolare della via degli Inferi è proprio quella che si trova immediatamente al di là del recinto: qui, infatti, la strada fu scavata negli anni Venti del Novecento da Mengarelli e, dopo un lungo abbandono, è stata oggetto di varie campagne di ripulitura, grazie alle quali è oggi possibile percorrerne, abbastanza agevolmente, il primo tratto. Il declinare di questo lembo del pianoro della Banditaccia viene assecondato dal tracciato, che si fa di conseguenza sempre piú infossato nel banco roccioso, assumendo l’aspetto tipico delle tagliate, o vie cave, degli Etruschi. Chi voglia seguire questo suggerimento dovrà tuttavia tener conto che, per raggiungere il percorso appena descritto, occorre uscire dall’area recintata e, di fatto, ripercorrerne dal di fuori l’intero svilup-

po: per questo, non si può non sperare che, nell’ambito degli interventi che si stanno attuando per rilanciare la necropoli della Banditaccia, sia prevista l’utilizzazione del cancello (che già esiste!) al termine dell’itinerario di visita e che dista solo poche decine di metri dal tratto esterno della via degli Inferi. Proseguendo invece all’interno, superata la Tomba della Casetta, sulla sinistra, si succedono due aree occupate da tombe a dado riunite in

La Tomba delle Colonne Doriche, situata all’inizio del tratto della via degli Inferi che si snoda all’esterno dell’area recintata. IV sec. a.C.

veri e propri isolati e realizzate in un arco cronologico compreso tra la seconda metà del VI e il V secolo a.C. È questo uno dei settori della Banditaccia in cui il termine necropoli, cioè «città» (polis) dei «morti» (nekros), sembra trovare una delle sue piú efficaci rappresentazioni: i a r c h e o 43


mostre • cerveteri

sepolcri che si affacciano sulle strade denominate via dei Monti Ceriti e via dei Monti della Tolfa evocano infatti un vero e proprio quartiere urbano, con case e botteghe ordinatamente allineate.

tumuli grandiosi L’ultima parte dell’itinerario abbraccia una sequenza composta da tre tumuli di notevoli dimensioni, denominati Maroi, del Colonnello e Mengarelli. Il primo, databile entro la prima metà del VI secolo a.C., ospita tre tombe, la piú interessante delle quali si articola in vari ambienti: dal dromos a gradini, al termine del quale si aprono due camerette laterali, si accede alla struttura principale, che presenta un atrio di forma ellittica e poi un ampio vano speolcrale, il cui spazio è diviso da due pilastri. Da notare è la resa del soffitto, che presenta incisi riquadri con un motivo a graticcio che imita l’incannucciato adottato nelle case. Nel Tumulo del Colonnello (VII secolo a.C.) si aprono invece quattro tombe, una delle quali replica il modello già osservato all’inizio del percorso nella Tomba della Capanna. Nel tumulo intitolato a Raniero Mengarelli, databile anch’esso al VII secolo a.C., si apre invece un solo sepolcro, dall’assetto particolarmente elaborato, con un vestibolo circolare e varie camere di sepoltura. Inoltre, con un po’ di attenzione, si possono individuare tracce di colore rosso e nero che facevano parte di una decorazione pittorica che enfatizzava i motivi architettonici scolpiti nel tufo. Nel riprendere la via degli Inferi in direzione della biglietteria (e dunque dell’uscita), merita un’ultima sosta la Tomba della Cornice, un sepolcro dall’impianto simile alla Tomba dei Capitelli, in cui la nettezza e la regolarità degli elementi scolpiti – tra cui il mensolone che corre lungo le pareti dell’atrio e che dà nome al monumento – sono particolarmente evidenti e denotano la maestria acquisita dagli scalpellini attivi a Cerveteri. 44 a r c h e o

eufronio torna a casa Dal 1967 il Museo Nazionale Cerite racconta l’intera parabola della storia di Cerveteri, dall’età villanoviana fino alla romanizzazione, con una selezione di materiali restituiti dagli scavi condotti, oltre che nella necropoli della Banditaccia, in quelle del Sorbo e di Monte Abatone e nell’area urbana. Fino al prossimo 20 luglio, in parallelo con la mostra allestita a Roma e per festeggiare il decimo anniversario dell’inserimento della Banditaccia tra i beni del Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, la sala del piano superiore del museo – che ha sede nel castello un tempo di proprietà della famiglia Ruspoli – accoglie inoltre uno dei reperti piú celebri tra quelli provenienti da Cerveteri: si tratta della magnifica coppa attica a figure rosse plasmata da Eufronio e dipinta da Onesimo, restituita all’Italia dal Getty Museum di Malibu nel 1998.

dove e quando Museo Archeologico Nazionale Cerite Cerveteri, piazza S. Maria 1 Orario tutti i giorni, 8,30-18,30, chiuso i lunedí non festivi, il 1° gennaio e il 25 dicembre Info tel. 06 9941354; www.cerveteri.beniculturali.it

Paticolare della coppa attica a figure rosse firmata da Eufronio e dipinta dal suo allievo Onesimo. 500-490 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Nel tondo centrale interno è raffigurata l’uccisione di Priamo e del piccolo Astianatte per mano di Neottolemo, figlio di Achille, alla presenza di Polissena, affranta dal dolore.

Coronamento ideale dell’itinerario, oltre al tratto della via degli Inferi esterno all’area recintata, può essere la visita dei cosiddetti Grandi Tumuli (tra cui quelli della Nave, degli Animali Dipinti e degli Scudi e delle Sedie), per la quale è però necessario rivolgersi al personale di custodia in servizio presso la biglietteria del sito.

dove e quando Necropoli della Banditaccia Cerveteri, piazzale Mario Moretti (già della Necropoli) Orario ma-do, dalle 8,30 a un’ora prima del tramonto; chiuso lu, 1° gennaio e 25 dicembre Info tel. e fax 06 9940001; www.cerveteri.beniculturali.it



gli imperdibili • sarcofago degli sposi

un abbraccio per l’eternità di Daniele F. Maras

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on la presentazione del Sarcofago degli Sposi, capolavoro indiscusso dell’arte etrusca, diamo il via a una nuova serie, dedicata a oggetti, monumenti e opere d’arte antichi noti e meno noti, ma comunque eccezionali. La rassegna comprenderà realizzazioni uniche nel loro genere e dall’enorme valore storico e archeologico, e che talvolta, per la complessità della loro vicenda o perché esposte in sedi non tocca-

te dai maggiori flussi turistici, oppure, al contrario, per l’essere in mostra accanto a oggetti piú appariscenti e famosi, rimangono nell’ombra. Vogliamo insomma rivisitare testimonianze in ogni caso straordinarie, raccontando la storia della loro scoperta, il contesto della loro produzione e del loro uso, il significato storico e culturale che esse hanno avuto in età antica e che oggi rivestono per lo studio delle grandi civiltà del passato.

Il Sarcofago degli Sposi, grande urna in terracotta per le ceneri dei defunti in forma di letto ospitante una coppia banchettante, da Cerveteri. 530-520 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. L’opera, rinvenuta in oltre 400 frammenti nel 1881, nella necropoli della Banditaccia, fu ricomposta ed esposta per la prima volta nel 1889 nell’allora neonato museo romano.

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uno dei monumenti piú famosi dell’arte preromana, il sarcofago degli sposi, non è solo l’espressione sublime di una bottega di artigiani di cerveteri. la composizione, infatti, è anche una sorta di manifesto della visione paritaria sviluppata dalla civiltà etrusca, che alla donna assegnava un ruolo pubblico di grande rilevanza

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opera scelta come «battistrada» di questa nuova serie è uno dei monumenti piú famosi dell’arte dell’Italia preromana, divenuto un simbolo del lusso e della raffinatezza degli Etruschi, ma anche del ruolo speciale che la donna ricopriva nella loro società (vedi box a p. 52). Gli appassionati di archeologia conoscono bene il Sarcofago degli Sposi, ma forse non tutti sanno che sono due i monumenti cosí denominati: uno è conservato a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia; l’altro è invece custodito a Parigi, nel Museo del Louvre. Entrambi i capolavori vengono dall’antica Caere (Cerveteri) e sono stati prodotti dalla stessa officina di

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plasticatori, che operava nella metropoli etrusca nella seconda metà del VI secolo a.C. E nel Museo Nazionale Cerite e ancora una volta al Louvre sono esposte versioni di dimensioni ridotte dello stesso soggetto, generalmente ricordate come Urne degli Sposi: si tratta, probabilmente, di imitazioni o riduzioni realizzate dalla stessa bottega, uno o due decenni piú tardi. Per essere precisi, anche i manufatti di maggiori dimensioni di Villa Giulia e del Louvre sono «urne»: anch’essi, infatti, erano destinati a contenere le ceneri e le ossa dei defunti dopo un rito di cremazione, e non già i corpi interi, come si addice ai veri sarcofagi. D’altra parte, sarcofagi e altre urne cinerarie

«degli Sposi» furono prodotti anche in seguito in Etruria, fino all’epoca della romanizzazione, a testimonianza del successo dell’idea di offrire un tributo alla memoria dell’amore coniugale. Il Sarcofago degli Sposi non è dunque un sarcofago, bensí un’urna cineraria (o, tutt’al piú, un ossuario), e non si tratta di un capolavoro dell’arte etrusca, ma di ben quattro capolavori diversi, conservati in tre musei differenti. Una volta fatta chiarezza su questi possibili equivoci, passiamo a parlare del soggetto del nostro primo incontro.

La scoperta Come si è accennato, i tre cinerari arcaici di terracotta raffiguranti aristocratiche coppie di sposi sono stati ritrovati nelle necropoli di Cerveteri. L’esemplare oggi conservato al Louvre fu il primo a tornare alla luce, nel corso delle fortunate campagne di scavo condotte dal marchese Giovanni Pietro Campana nell’inverno del 1847-48. Oltre all’urna, infatti, gli scavi restituirono una serie di splendide lastre dipinte, ancora oggi note


carta d’identità dell’opera • Nome • Definizione

Sarcofago degli Sposi Contenitore in terracotta per le ceneri dei defunti configurato a forma di letto ospitante una coppia banchettante • Cronologia 530-520 a.C. • Luogo Cerveteri (Etruria) di ritrovamento • Luogo Roma, Museo Nazionale Etrusco di conservazione di Villa Giulia; Parigi, Musée du Louvre; Cerveteri, Museo Nazionale Cerite • Identikit Simbolo di lusso, d’arte e dei rapporti tra i sessi

Sulle due pagine: due immagini del Sarcofago degli Sposi di Villa Giulia che permettono di apprezzare l’acconciatura dei coniugi, che, nel caso della donna, è arricchita dal tutulus, un copricapo a cuffia.

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della Banditaccia proviene l’urna del museo di Cerveteri che, coerentemente con le minori dimensioni, apparteneva al corredo di una tomba a cassone scoperta presso la cosiddetta via delle Serpi (presumibilmente in un contesto aristocratico di minore sfarzo). La fama di questa classe di monumenti cominciò a diffondersi nel 1862, con una memorabile esposizione di antichità etrusche voluta da Napoleone III e installata nell’allora modernissimo Palais de l’Industrie agli Champs Elisées di Parigi, dove il Sarcofago degli Sposi che poi finí al Louvre costituiva il centro focale della mostra, con il soprannome di «Sarcofago Lidio», che alludeva all’aspetto orientale delle sculture. Tutto il materiale allora esposto proveniva dalla collezione del marchese Campana, espropriata e venduta all’estero in seguito ad alcune torbide vicende giudiziarie che lo avevano visto protagonista a Roma. Secondo il gusto del tempo, il prezioso monumento era stato inserito al centro della ricostruzioun’intuizione felice Il manufatto era frammentato in piú ne ideale di una tomba etrusca. di 400 parti, che ne impedivano Ciononostante, l’esposizione teml’immediata valutazione artistica, poranea e il successivo com’era stato, invece, per il piú famoso gemello, ritrovato quasi intero e con i ricchi colori conservati. Poco tempo dopo, Felice Barnabei acquistò i frammenti per il neonato Museo di Villa Giulia – che aprí i battenti nel 1889 su sua iniziativa –, e li fece restaurare, rivelando la qualità addirittura piú alta del modellato e delle superfici, anche se la policromia è andata quasi del tutto perduta. Infine, sempre dalla necropoli come «lastre Campana», e portarono alla localizzazione della celeberrima Tomba dei Rilievi, che conferma come il teatro delle scoperte fosse la necropoli della Banditaccia, la maggiore di Cerveteri. Nonostante l’impegno politico e finanziario, il marchese Campana, attivo prima di tutto come banchiere nella Roma pontificia, non frenò la sua passione per le antichità etrusche neppure di fronte alle preoccupanti notizie dei moti rivoluzionari del 1848 (anche se forse si deve a essi il ritardo nel dare notizia delle scoperte, che ancora oggi presentano qualche lato oscuro). Alcuni decenni piú tardi, nel 1881, all’indomani dell’Unità d’Italia, i fratelli Boccanera, anch’essi famosi scavatori delle necropoli ceretane, portarono alla luce un secondo Sarcofago degli Sposi, quello che oggi si trova a Villa Giulia, entro una tomba non meglio identificata della Banditaccia, in un terreno di proprietà dei principi Ruspoli.

Particolare del Sarcofago degli Sposi conservato nel Museo del Louvre. Rispetto all’esemplare di Villa Giulia, si nota il piú ampio uso della pittura, espediente adottato per sopperire alla semplificazione del modellato.

trasferimento della collezione al Louvre garantirono una fama imperitura al Sarcofago degli Sposi, trasformatosi in un simbolo internazionale del fascino e dell’opulenza degli Etruschi, che aggiungeva un tocco esotico, «orientale» al mistero della loro origine (ai tempi furono perfino proposti paragoni con l’arte cinese, suggeriti dagli occhi a mandorla e dalle forme allungate e affilate delle figure umane).

prodotti «gemelli» Le due urne maggiori di Villa Giulia e del Louvre sono state considerate a ragione prodotti gemelli della stessa officina, probabilmente realizzati in uno stesso breve lasso di tempo da artigiani altamente specializzati per committenti aristocratici. Qui ne offriamo perciò una descrizione unica, e ci soffermeremo in seguito sulle differenze, per poi passare


influenze ioniche Per impegno e qualità, l’urna maggiore di Villa Giulia va probabilmente considerata come la «testa di serie» di questa raffinata classe di monumenti, seguita a stretto giro dalla gemella del Louvre, che pure alcuni ritengono formalmente superiore. Le figure umane appaiono massicce e squadrate, nonostante i corpi allungati e l’aggraziato movimento delle dita affusolate. La scultura è costruita per essere osservata da vari punti di vista, mettendo in evidenza i diversi piani dei gesti della coppia; il maggiore impegno artistico è stato profuso nei volti, la cui espressività e vitalità appaiono evidenti sia nella visione frontale che di profilo, grazie all’ambivalenza degli occhi a mandorla e del taglio obliquo delle labbra (il cosiddetto «sorriso arcaico»). I maestri etruschi cimentatisi con l’urna hanno tratto ispirazione dall’arte greca ionica, la cui influenza si fa sentire prepotentemente nell’ultima parte del VI secolo a.C., in seguito alla migrazione di numerosi artigiani dall’Asia Minore. Dalla scuola ionica derivano infatti le movenze ricercate ed eleganti, cosí come il gusto della linea e dei tagli netti e incisivi, sia nelle figure che nei dettagli calligrafici del panneggio e delle acconciature. Minore attenzione è stata prestata ai corpi e alle gambe della coppia banchettante, ridotti a un semplice volume sotto le pieghe ondulate del mantello, fatta salva la cura con la quale sono stati modellati i piedi.

alle urne di minori dimensioni. Data la loro funzione di contenitori per le ceneri, le urne sono composte di una cassa e di un coperchio: la prima è configurata a forma di letto conviviale, con piedi e traverse decorate a imitazione del legno e un materasso arrotondato, che deborda oltre le testate. Il co-

Una delle lastre in terracotta policroma dette «Campana», perché rinvenute dall’omonimo marchese in occasione degli scavi che portarono alla scoperta del Sarcofago degli Sposi. Fine del VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

perchio, invece, è costituito dalle statue a grandezza naturale di una coppia sdraiata e appoggiata su cuscini rigonfi, raffigurata al momento di un banchetto. Le grandi di-

mensioni dei manufatti hanno obbligato gli artisti a tagliare in lunghezza sia la cassa che il coperchio, per facilitarne la cottura in una fornace da terracotta. a r c h e o 51


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LA «scandalosa» liberalità del convivio etrusco La consuetudine sociale del banchetto sdraiato giunse in Etruria dal Vicino Oriente, insieme ad altre componenti del fenomeno culturale orientalizzante, che, tra l’VIII e il VI secolo a.C., trasformò lo stile di vita e la cultura del Mediterraneo. La cerimonia del simposio rappresentava il culmine delle relazioni tra le aristocrazie, costituendo, al tempo stesso, un momento di accoglienza e condivisione all’insegna dell’ospitalità: una parte fondamentale del vivere civile, soprattutto per quanto riguardava visitatori stranieri o provenienti da altre famiglie di rango. La rappresentazione della coppia coniugale in un momento sociale di tale importanza è un tratto tipicamente etrusco, che forma uno stridente contrasto con l’uso greco di riservare ai soli uomini la convivialità e l’attività pubblica, condiviso da molti popoli dell’antichità. Gli autori antichi si stupivano della promiscuità con cui le donne etrusche banchettavano al fianco degli uomini (cosa che nella Grecia classica era consentita solamente alle prostitute) e il filosofo Aristotele sembra quasi alludere alle nostre urne quando afferma che «i Tirreni banchettano al fianco delle proprie mogli, sdraiati sotto la stessa coperta».

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La nonchalance con cui il marito circonda le spalle della moglie, in una manifestazione pubblica di affetto che avrebbe fatto inorridire un osservatore greco, la dice lunga sul fatto che presso gli Etruschi la concordia coniugale era considerata un vanto, da immortalare anche nelle rappresentazioni funerarie. Una delle versioni in scala ridotta del Sarcofago degli Sposi. Seconda metà del VI sec. a.C. Cerveteri, Museo Nazionale Cerite.


Il gruppo scultoreo, che evidentemente rappresentava i coniugi sepolti nell’urna, è colto in un momento di vita domestica, durante un banchetto o un simposio, simile a quelli che si svolgevano abitualmente nella vita delle antiche aristocrazie italiane e che costituivano il momento piú importante dell’incontro sociale. Riesce facile immaginare che i due coniugi stiano intrattenendo una conversazione con altri partecipanti al convivio, nel quale l’osservatore è idealmente accolto, in una sorta di anticipazione della vita beata dell’aldilà. I coniugi sono semisdraiati, con il gomito sinistro appoggiato a morbidi cuscini adagiati presso la testata del letto e il busto sollevato; il marito cinge con il braccio le spalle della moglie ed entrambi sembrano sorridere verso lo spettatore. Le mani dell’uomo e della donna sono atteggiate a sostenere alcuni oggetti, oggi purtroppo perduti in entrambi gli esemplari: si trattava probabimente di vasi e vivande, come si osserva nelle coeve rappresentazioni pittoriche di banchetti. Il confronto con l’urna piú piccola del Louvre, in cui sono conservati i dettagli, permette di ipotizzare che la donna avesse nella destra un balsamario, dal quale versava gocce di olio profumato, mentre la sinistra porgeva una melagrana, simbolo di immortalità.

È interessante notare le differenze nell’abbigliamento: l’uomo è a torso nudo e con il resto del corpo coperto da un mantello, che avvolge anche le gambe della compagna, la quale è invece vestita di tutto punto, con tunica e mantello e un copricapo a cuffia (tutulus), da cui spuntano trecce lunghe ed elaborate. I piedi del marito sono nudi, mentre la moglie indossa le tipiche scarpe dalla punta arricciata all’insú che prendono il nome latino di calcei repandi.

il «vero» capolavoro La scultura era dipinta a colori vivaci, nei toni del rosso per i ricchi vestiti e bruno per i capelli, mentre, secondo la tradizione, l’incarnato femminile era candido e quello maschile piú scuro. Come si è detto, tale policromia si è conservata meglio nell’esemplare parigino. Ulteriori differenze si hanno, per esempio, nella forma della barba dell’uomo, piú lunga e appuntita nell’esemplare di Villa Giulia, e nella posizione della testa, piú sollevata e quasi «distratta» nell’esemplare del Louvre. Anche i dettagli delle acconciature e le pieghe dei vestiti sono piú elaborati e raffinati nell’urna di Villa Giulia, che pertanto può essere considerata il vero capolavoro dell’officina, mentre in quella parigina si è fatto un uso piú ampio della pittura, per sopperire alla semplificazione del modellato.

Particolare di un cratere corinzio con Eracle (a destra) accolto a banchetto da Eurito, da Cerveteri. 600 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

Come si conviene a monumenti meno impegnativi, nelle urne minori del Louvre e del Museo di Cerveteri, oltre alle dimensioni, anche la ricercatezza dei dettagli è ridotta: la cassa, piú sottile e leggera, ha zampe piú lunghe, e l’uomo, che in questi esemplari è imberbe, si appoggia semplicemente con la mano sulla spalla della donna. Vale infine la pena di segnalare che in questi giorni è possibile cogliere l’occasione piú unica che rara di vedere a Roma sia il Sarcofago degli Sposi di Villa Giulia, sia quello del Louvre. Quest’ultimo, infatti, è ospitato, fino al 20 luglio, al Palazzo delle Esposizioni, nell’ambito della mostra «Gli Etruschi e il Mediterraneo: la città di Cerveteri», della quale avete già potuto leggere in questo numero (vedi l’articolo alle pp. 36-44). per saperne di piú Anna Maria Sgubini Moretti (a cura di), Il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Guida breve, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2010 Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri, catalogo della mostra (Lens-Roma, 2014), Somogy-Editions d’Art, Parigi 2014

dove e quando Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Roma Orario ma-do, 8,30-19,30; chiuso i lunedí non festivi, il 1° gennaio, il 1° maggio e il 25 dicembre Info tel. 06 3226571; http://villagiulia.beniculturali.it Museo del Louvre Parigi Orario tutti i giorni, 9,00-18,00 (me e ve, apertura serale fino alle 21,45); ma chiuso Info www.louvre.fr

nella prossima puntata • Lo Zeus di Ugento

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mostre • michelangelo

quell’«affettuosa fantasia» roma celebra il genio di michelangelo buonarroti, artista che con l’antico mantenne un dialogo e un confronto costanti e di straordinaria intensità di Cristina Acidini

Statua di Cupido dormiente. Replica romana di età tardo-imperiale da un originale greco di epoca medio-ellenistica. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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e la preparazione di ogni mostra presenta le sue difficoltà, un’esposizione dedicata a Michelangelo Buonarroti (1475-1564) non può che costituire un’autentica sfida, essendo le sue opere per lo piú monumentali e inamovibili. Ed è appunto una sfida la rassegna «Michelangelo. Incontrare un artista universale», che, nel complesso dei Musei Capitolini di Roma, celebra i 450 anni dalla morte di un artista e poeta di somma altezza, divenuto nel tempo simbolo del Rinascimento italiano al suo culmine.

La ricorrenza stessa ha reso ancor piú critico l’ottenimento di prestiti, per il comprensibile desiderio dei detentori delle opere di valorizzarle in loco. Per questo sono lieta di riconoscere il ruolo di partner d’eccezione all’Ente Casa Buonarroti di Firenze, che, in spirito di generosità e con totale adesione al piano scientifico, ha concesso prestiti fondamentali attingendo dal Museo e dall’Archivio nella casa fiorentina dei Buonarroti in via Ghibellina, centro delle memorie e degli studi su Michelangelo.


Jacopino del Conte, Ritratto di Michelangelo. Olio su tavola, 1535 circa. Firenze, Casa Buonarroti.

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mostre • michelangelo

Con gli altri curatori, Elena Capretti e Sergio Risaliti, e in accordo con i Musei della Sovrintendenza Capitolina, a partire dal Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, si è pensato di presentare ai visitatori una serie di «incontri», come il titolo suggerisce, con i temi portanti del pensiero e dell’operato di Michelangelo, attraverso testimonianze documentarie, letterarie, artistiche. Temi che si snodano nelle diverse sezioni della mostra secondo un’articolazione che tiene conto della cronologia – filo conduttore di ovvia importanza, che diventa fondamentale per un personaggio giunto agli 89 anni –, ma al tempo stesso temi «passanti», che attraversano la lunga

vita dell’artista, manifestandosi con accenti diversi nelle diverse fasi ed età, in una continuità sostanziale. Le opere d’arte, i documenti, gli apparati danno visibilità a questi motivi duraturi o ricorrenti.

un lascito immenso Tra questi, vi è senza dubbio il rapporto tra Michelangelo e le arti dell’antichità, intese come immenso e presente lascito in perenne dialogo con l’attualità. Per tutti gli artisti del Rinascimento e prima ancora, le vestigia monumentali che connotavano i paesaggi tanto urbani quanto rurali e

che si addensavano a Roma furono sorgenti d’ispirazione assiduamente studiate e reinterpretate. I fiorentini Filippo Brunelleschi e Donatello, secondo il racconto di Giorgio Vasari, avevano trascorso a Roma almeno un lustro – a partire dal 1401 – a studiare edifici e ornati, misurando e disegnando, senza fermarsi di fronte alla necessità di veri e propri scavi: «E se per avventura eglino avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di edifizii, eglino mettevano opere e facevano cavare per toccare il fondo». Dopo di loro, numerosi artisti si erano dedicati allo studio diretto delle antichità, e sul finire del XV secolo tra le botteghe circolavano repertori e taccuini di motivi tratti dall’antico. Piccola replica in bronzo del Laocoonte, attribuita a Jacopo Tatti detto Sansovino. Prima del 1520. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.


Michelangelo fu apprendista, dai dodici ai quindici anni, presso il Ghirlandaio, e nella sua bottega – una delle piú avanzate organizzazioni di artisti in Firenze – trovò certamente materiali grafici consultabili per cominciare a conoscere motivi antichi, sebbene il maestro, che il Buonarroti stesso ricordò come «invidiosetto» del suo precoce talento, gli negasse la vista di certi disegni in suo possesso. Ma il vero e decisivo incontro con le reliquie dell’arte antica avvenne

nella cerchia di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, sia nel palazzo di famiglia di Via Larga con la collezione dei materiali lapidei e col Tesoro (che comprendeva vasi preziosi, glittica, numismatica, bronzetti), sia nel Giardino dei Medici a San Marco, dov’erano sculture antiche e moderne messe a disposizione di promettenti artisti, che le studiavano attraverso il disegno. Li guidava Bertoldo di Giovanni, l’anziano assistente di Donatello, che in quanto familiare dei Medici viveva

nel palazzo. «Le disponibilità economiche di un principe illuminato, quale Lorenzo – scrive Fabrizio Paolucci nel catalogo della mostra – consentivano adesso di offrire a un’intera generazione di artisti l’opportunità di godere del diretto confronto con la classicità, un privilegio che, fino a pochi decenni prima, era stato riservato a pochi».

«Tre belli faunetti» Sebbene la raccolta medicea, dispersa dopo il saccheggio conseguente alla cacciata di Piero di Lorenzo nel 1494 e solo in parte riacquistata, non si possa ricostruire, si identificano almeno alcuni pezzi prestigiosi, sia presenti dal tempo di Cosimo, Pater Patriae, e di Piero il Gottoso, sia aggiunti da Lorenzo che li ebbe in dono o li acquistò a caro prezzo sul mercato. Per ricordare i principali nel giardino e nel palazzo, vi era il gruppo dei «Tre belli faunetti» strozzati da una serpe, che emerse da uno scavo a Roma nel 1488-98 e fu portato a Firenze in clandestinità (oggi di proprietà privata, in prestito all’Art Institute di Chicago). Poi una testa, forse di Annio Vero, e un putto arciere medio-imperiale, una statua intera di Togato maggiore (Palazzo Gondi), un busto di Adriano donato da Ferrante d’Aragona e un altro con una corazza ornata da una testa di Medusa, nonché ritratti di Traiano, Sabina, Nerva, Augusto, Agrippa, un Marsia bianco e un Marsia rosso, rilievi adrianei, un Priapo nell’orto, e una magnifica e celebre protome di cavallo in bronzo (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). Di queste sculture, diverse sono identificabili nella Galleria degli Uffizi, entro la collezione medicea Michelangelo Buonarroti, particolare della Battaglia dei Centauri. Rilievo in marmo 1490-1492. Firenze, Casa Buonarroti. È molto probabile che l’opera, incompiuta, non sia stata portata a termine da Michelangelo a causa della morte, nella primavera del 1492, di Lorenzo il Magnifico.

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mostre • michelangelo

di statuaria antica, che contribuisce in modo decisivo alla ricchezza del patrimonio archeologico presente a Firenze. Al breve ma formativo periodo sotto la protezione di Lorenzo il Magnifico (tra il 1490 e il 1492 circa) si fanno risalire i due rilievi marmorei giovanili di Michelangelo che si ammirano nel museo di Casa Buonarroti: la Madonna della scala e la Battaglia dei centauri. Se la prima scultura rielabora l’eredità di Donatello, la seconda trae ispirazione dall’antico, anche in virtú del soggetto mitologico che fu prescritto da Agnolo Poliziano, il letterato e poeta di casa Medici.

il dente rimosso Celeberrimo, del tempo del Giardino di San Marco, è l’aneddoto della testa di Fauno vecchio che Michelangelo avrebbe scolpito ispirandosi a un modello là presente e guadagnandosi l’approvazione di Lorenzo, ma anche la benevola os-

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In alto: Michelangelo Buonarroti, Sacra Famiglia, piú nota come Tondo Doni. Tempera su tavola, 1504-1506. Firenze, Galleria degli Uffizi. È probabile che il movimento del braccio alzato della Vergine sia stato suggerito dalla Arianna (o Cleopatra), anch’essa agli Uffizi (foto qui sotto).

servazione, che, essendo vecchio il fauno, non avrebbe dovuto avere tutti i denti: al che il giovanissimo scultore ne fece saltar via uno, mostrando la modifica al suo protettore il giorno dopo. Molte teste e maschere faunesche nelle raccolte fiorentine (e non soltanto) sono state indicate ora come possibile modello, ora come opera del Buonarroti. Per Michelangelo, come per altri artisti suoi contemporanei, l’azione ispiratr ice della statuaria ellenistica che veniva emergendo dagli scavi di Roma – basti pensare al Laocoonte, ritrovato nel 1506 – fu riconosciuta fin dal Vasari, che la pose all’origine della «maniera moderna» nelle arti piena di grazia e di fierezza: statue che «nella lor dolcezza e nelle lor asprezze con termini carnosi e cavati da | le maggior bellezze del vivo, con certi atti, che non in tutto si storcono, ma si vanno in certe parti movendo, si mostrano con una graziosissima grazia. E furono cagione di levar via una certa maniera secca e cruda e ta-


gliente» (Giorgio Vasari, Vite..., Proemio alla terza parte). Per questo, nella Galleria egli Uffizi, dove il rinnovamento del piano superiore in rapporto al progetto «Nuovi Uffizi» sta scrivendo pagine di nuova e avanzata museologia, un percorso di sale dedicate alla scultura antica evocatrice del Giardino di San Marco e alla pittura del secondo Quattrocento condurrà alla sala 35, dove al Tondo Doni è premessa la monumentale Arianna (o Cleopatra; copia romana del III secolo a.C.), che poté suggerire a Michelangelo la mossa del braccio alzato della Vergine.

Nella pagina accanto, in basso: statua di Arianna (o Cleopatra). Copia romana di un originale ellenistico. III sec. a.C. Firenze, Galleria degli Uffizi. In questa pagina: Michelangelo, con la collaborazione di Tiberio Calcagni, Bruto. Dopo il 1539. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

torsi celebri All’inclinazione michelangiolesca, poi, di concentrare l’attenzione, nel disegno della figura nuda ma anche nello scolpire, sul nodo anatomico composto dal torace e dal bacino, al punto da escludere ogni residuo interesse per gli arti e perfino per la testa, diede certamente supporto l’ammirato esempio dei torsi antichi ritrovati acefali e mutili: allo studio del Torso Gaddi in Firenze si sarà sommata la suggestione del Torso del Belvedere a Roma. Sempre nell’ambito del Giardino va ricercato il prototipo antico – si crede, un Amorino donato da Ferrante d’Aragona a Lorenzo nel 1488 – per il Cupido dormiente in marmo che Michelangelo, consigliato da Lorenzo di Pierfrancesco (del ramo collaterale dei Medici), contraffece da pezzo di scavo e riuscí a far acquistare nel difficile periodo seguito alla cacciata dei Medici da Firenze (1494). Il Cupido, comprato da Baldassarre del Milanese, fu infatti venduto come antico al cardinale Raffaele Riario in Roma. L’inganno fu ben presto scoperto e il cardinale volle il rimborso; ma, per conoscere il a r c h e o 59


mostre • michelangelo

giovane «falsario» di talento, lo fece venire a Roma nel giugno 1496. Per Michelangelo si trattò della prima, e certo cruciale esperienza diretta dell’antico nelle sue massime espressioni di statuaria e di architettura, quest’ultima sempre considerata con l’ampiezza intuitiva di un approccio da urbanista.

dimensioni colossali A Roma, al di là di suggestioni specifiche, fu la dimensione del colossale che entrò nei progetti michelangioleschi e vi rimase, come da solo dimostra il «gigante», ovvero il David marmoreo scolpito di ritorno a Firenze tra il 1501 e il 1504, quando già il suo autore aveva raggiunto la celebrità con i due capolavori romani, il Bacco e la Pietà Vaticana. Di lí a poco, mentre nel 1506 era costretto a trascorrere mesi tra i cavatori di marmo delle A sinistra: Michelangelo Buonarroti, studi per la testa della Leda. Pietra rossa su carta, 1530 circa. Firenze, Casa Buonarroti. In basso: Michelangelo Buonarroti, statuetta di dio fluviale. Sego, pece, cera, trementina, 1525 circa. Firenze, Casa Buonarroti.

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Michelangelo Buonarroti, studi di teste grottesche. Pietra rossa su carta, 1525 circa. Londra, British Museum.

Alpi Apuane, la memoria della soverchiante grandezza dell’antico gl’ispirò una visione utopica, che cosí rievocò il biografo Ascanio Condivi (1525-1574): «Gli venne voglia di fare un Colosso che da lungi apparisse a’ naviganti invitato massimamente dalla comodità del masso, donde cavare acconciamente si poteva, e dalla emulazione delli antichi (…) E certo l’arebbe fatto, se ‘l tempo bastato gli fusse, o l’impresa per la quale era venuto l’avesse concesso». Il colosso apuano si sarebbe saldato al sogno di Dinocrate – riportato da Vitruvio e rievocato da Machiavelli –, che progettò per Alessandro Magno la costruzione di una cittàmontagna in forma umana.

Nei soggiorni a Roma, e nell’ultimo trentennio della sua vita là trascorso, Michelangelo ebbe infinite occasioni di misurarsi con l’antico riportandone feconde indicazioni. I trofei d’armi, i mascheroni grotteschi, i soggetti pagani – Venere e Cupido, Leda, Ganimede,Tizio, Fetonte –, ma anche le morfologie dell’architettura, dentro e fuori dagli «ordini» classici, sono solo alcune parole-chiave di un rapporto profondamente vissuto.

la maestà di Roma antica non s’interruppe, anzi continuò a rivelarsi nell’architettura. La stessa piazza del Campidoglio (per Michelangelo, un impegno lungo fino alla morte), con la magnifica orchestrazione di architetture, apparati statuari, schema pavimentale, risolve in termini di spazio nobilmente definito proprio l’omaggio alla centralità dell’antico, messa in figura dalla statua equestre dell’imperatore Marc’Aurelio.

un dialogo mai interrotto E se col progredire dell’età l’artista prese le distanze dalla bellezza sensuale delle invenzioni pagane ispirate dalla «affettuosa fantasia» giovanile, per immergersi in meditazioni religiose sulla morte e la salvezza dell’anima, pure il suo dialogo con

dove e quando «1564-2014. Michelangelo. Incontrare un artista universale» Roma, Musei Capitolini fino al 14 settembre Orario ma-do, 9,00-20,00; lu chiuso Info tel. 060608; museicapitolini.org a r c h e o 61


speciale • malta

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nelle isole dei Templi

Giganti

L’arcipelago di Malta: uno sparuto fazzoletto di argilla, calcare e coralli fossili sperduto al largo delle coste siciliane, ma profondamente intriso di storia e di un passato preistorico unico al mondo, ancora tutto da decifrare di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale; fotografie di Daniel Cilia, disegni di Elise Schonhowd

G

li esperti di navigazione dicono che se Malta e la costa siciliana, nelle giornate piú terse, sono reciprocamente visibili dalle rispettive alture, la prima, una volta che le imbarcazioni si sono spinte tra le onde, scompare. Certamente i fumi delle eruzioni dell’Etna non mancavano di segnalare la presenza della piú grande isola dell’intero Mediterraneo agli abitanti del piccolo arcipelago, separati da essa da non piú di circa 90 km di mare aperto. Tra i tanti misteri che circondano i millenni del Neolitico molti riguardano proprio la navigazione nel Mare Nostrum dei primi coloni, allevatori e coltivatori, su navi di forma ignota, che dobbiamo immaginare cariche di bambini stanchi e immusoniti, cumuli di vasellame, reti, provviste, animali in gabbia, ma anche, fatalmente, di ospiti involontari come agenti patogeni, parassiti e roditori indesiderati.

Fu cosí che qualche ingombro naviglio, 7000 o 8000 anni fa, scoprí, forse casualmente, l’arcipelago maltese, e diede inizio a una pagina sorprendente della storia del Mediterraneo. Forse non è un caso che proprio a Malta, presso l’entrata dell’abside occidentale del terzo tempio di Tarxien, vi siano due ortostati che recano, sotto forma di un palinsesto mal decifrabile di graffiti seriamente abrasi dagli agenti atmosferici, le immagini di una dozzina di navi.

le piú antiche imbarcazioni della storia? Dato che i graffiti si trovano in un unico punto della costruzione sacra, che forse risale agli ultimi secoli del IV millennio a.C., potrebbe trattarsi delle piú antiche rappresentazioni di imbarcazioni marine della preistoria europea. Mentre alcuni sostengono che i graffiti debbano datarsi «soltanto» alla media età del Bronzo,

Nella pagina accanto: il sole illumina il passaggio centrale al tempio megalitico di Mnajdra, isola di Malta. 2800-2500 a.C. Sotto il titolo: disegno ricostruttivo della statua colossale rinvenuta nel tempio megalitico di Tarxien. 2500 a.C. circa.

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speciale • malta

i fautori della prima ipotesi ne sottolineano la forte somiglianza con le barche rappresentate in incisioni rupestri del Predinastico egiziano databili, appunto, intorno al 3000 a.C., o forse addirittura a un periodo precedente. Ai tempi della prima colonizzazione Malta era ancora terreno vergine: il sottosuolo, per quanto non molto favorevole allo sviluppo di ricche coperture vegetali, doveva aver creato delle superfici stabili, in grado di sostenere delle coltri boschive di tipo mediterraneo. Malta, allora come oggi, con estati calde e secche e inverni umidi, viveva in un equilibrio complesso e sempre instabile, caratterizzato da limitate risorse idriche. I primi abitanti impararono a ottenere l’acqua con pozzi di scarsa profondità e piccoli sbarramenti degli effimeri torrenti stagionali.

dalle grotte ai templi Delle fasi piú antiche della vita di villaggio a Malta sappiamo ancora poco; strati di abitazione rinvenuti in grotte naturali (la piú importante delle quali è quella di Ghar Dalam; vedi a p. 68) e capanne, con eleganti ceramiche, i consueti resti di pasto, selce e ossidiana importati da Pantelleria e da Lipari. Dai depositi databili alla seconda metà del V millennio a.C., ricchi di ceramiche ancora stilisticamente legate al mondo siciliano, è emerso il perimetro di due capanne insolitamente ampie, associate a diverse figurine femminili con evidenti connotazioni sessuali, quasi un’anticipazione di uno dei principali temi religiosi delle successive architetture megalitiche. Dalle fasi piú antiche del millennio seguente, a Malta compaiono grandi tombe collettive in camere interamente scavate nella roccia, e almeno un primo esempio di grande statua-stele antropomorfa, non diversa da opere simili note in Francia e in Sardegna; in Nella pagina accanto: veduta aerea, da sud-est, dell’isola di Malta e, sullo sfondo, Comino e Gozo. A destra: la statua colossale di Tarxien, con le parti originali e un disegno che ne ricostruisce le fattezze.

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A destra: foto satellitare dell’Italia con, a sud della Sicilia, l’arcipelago maltese.


«È ancora impossibile dire se Malta ebbe il ruolo di maestra o discepola tra le civiltà circostanti» (Vere Gordon Childe, L’alba della civiltà europea)

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speciale • malta

questo periodo la ceramica si arricchisce di disegni a linee, archi e figure umane stilizzate. Sono i primordi della grande esplosione del fenomeno del megalitismo che, a Malta, viene comunemente chiamato «Il periodo dei grandi templi». Ancora oggi, la fioritura di questi monumenti megalitici resta in buona parte inspiegata: perché nell’isola si siano sviluppati almeno 30 agglomerati di colossali edifici monumentali, costruiti mediante la collaborazione di centinaia, se non migliaia di individui, in un territorio di poco superiore a 400 kmq, in grado di sostenere, al massimo, 10-12 000 persone organizzate in un numero piuttosto limitato di villaggi (o anche meno, calcolando il potenziale produttivo 66 a r c h e o

dell’agricoltura del tempo) è materia di difficili congetture. Tanto piú che i «templi» di Malta sono una manifestazione molto arcaica del fenomeno megalitico, quasi certamente la piú antica dell’Eurasia; che lo stile delle architetture non sembra aver influenzato in modo significativo le isole e le regioni vicine; e che i modi formali delle contemporanee sculture, tra il IV e il III millennio a.C., non hanno alcuna similarità o possibilità di confronto con le altre culture del Mediterraneo. Come scrisse il grande archeologo Vere Gordon Childe (1892-1957), «Nessun parallelo significativo è attualmente possibile per i templi, le incisioni, le statuette o la ceramica (...) È ancora impossibile dire se Malta ebbe il ruolo

L’arcipelago maltese con la dislocazione dei principali complessi megalitici.


Malta tra preistoria e storia Età

Fase

Cronologia

Eventi e monumenti

Neolitico

Ghar Dalam

5300-4500 a.C.

Colonizzazione su navi provenienti dalla Sicilia; importazione di cereali, lenticchie e animali domestici, selce e ossidiana, alabastro e ocra. Ceramica decorata in stili siciliani, o simili a quelli delle isole Eolie. A Skorba, capanne «speciali» con figurine femminili (culto della fertilità?).

Skorba 4500-4400 a.C. (ceramica grigia) Skorba (ceramica rossa)

4400-4100 a.C.

Tombe collettive in grotta; statue-menhir simili a quelle, piú tarde, di Sardegna e Francia. Esplosione delle grandi costruzioni templari a pianta lobata; sviluppo di una ventina di agglomerati templari e vasti ipogei funerari nell’intero arcipelago. In Egitto, verso il 2500 a.C., si costruiscono le piramidi di Giza; in Mesopotamia sorgono edifici in mattoni crudi; nella Valle dell’Indo fiorisce l’omonima civiltà.

Calcolitico Zebbug o età del Rame: «Periodo Mgarr dei grandi templi» Ggantija

4100-3800 a.C.

Saflieni

3300-3000 a.C.

Tarxien

3000-2500 a.C.

Necropoli di Tarxien

2500-1500 a.C.

Borg in-Nadur

1700 –900 a.C.

Crollo della vita di villaggio e abbandono dei grandi complessi cultuali. Costruzione di dolmen. L’incinerazione sostituisce l’inumazione; nuovi forti contatti con Sicilia e Italia meridionale. Villaggi fortificati. In Inghilterra sorge Stonehenge.

Prima età del Ferro

Bahrija

900-700 a.C.

Nuova onda migratoria, forse dalla Calabria?

Periodo fenicio-punico

Fase fenicia

700-550 a.C.

Fase punica

550-218 a.C.

Insediamenti fenici, santuario di Astarte a Tas Silg. Predominio cartaginese.

Età del Bronzo

3800-3600 a.C. 3600-3000 a.C.

Periodo romano

218 a.C.-395 d.C.

Conquista romana alla fine della seconda guerra punica.

Periodo bizantino

395-870

Conquista dei Vandali (454) e dei Goti (464). Nel 533, riconquista per opera di Belisario.

Conquista araba

870

La conquista di Malta dà inizio a una lunga fase di arabizzazione.

di maestra o discepola tra le civiltà circostanti ed è meglio tralasciare le inutili speculazioni su questo argomento» (The Dawn Of European Civilisation, 1925, tradotto e pubblicato per la prima volta nel 1950, con il titolo de L’alba della civiltà europea). Il megalitismo del tardo Neolitico maltese, in altre parole, sembra aver infranto il reticolo delle connessioni culturali degli inizi del popolamento umano.

Siamo forse di fronte – come sarebbe facile attenderci – a un’identità locale contratta e causata da un progressivo, inevitabile isolamento? Diversi studiosi, in realtà, sostengono una tesi opposta: potrebbe essere stata proprio la società preistorica maltese, stretta attorno all’ideologia religiosa dei propri templi, a creare un’«isola culturale», delineata come espressione di autonomia e di rea r c h e o 67


speciale • nome

insularità, non isolamento «Le storie degli isolani sono storie di movimento e connettività, e le relazioni sociali in gioco devono essere valutate con lo stesso rigore delle risorse naturali o dei minerali, se vogliamo raggiungere una migliore comprensione delle isole del Mediterraneo e delle loro identità (...). Le isole abbracciano non solo paesaggi in senso fisico, ma anche paesaggi sociali, politici e religiosi. L’insularità stessa può configurarsi come una forma di identità sociale, una strategia culturale che gli isolani possono attuare contro le interferenze esterne o il dominio straniero, come una forma di identità resistente» (Bernard Knapp, 2007).

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sistenza rispetto ai panorami culturali e side semicircolare, in posizione centrale e assimbolici di uno sconfinato mondo esterno. siale. La ricerca di ricorrenti orientamenti astronomici, in questo e altri complessi sacri dell’arcipelago, non ha prodotto risultati del Ggantija A Malta, ma soprattutto a Gozo, intorno ai tutto conclusivi, al di là di una evidente prefesecoli centrali del IV millennio a.C., iniziarono renza per la direzione meridionale. d’improvviso a sorgere grandi costruzioni, La planimetria di Ggantija, come quella di erette con blocchi di calcare pesanti fino a 20 molti altri templi, ricorda vagamente un cont. La fase piú antica del «Periodo dei grandi torno antropomorfo rigonfio, con i vani lobatempli», prende il nome dal complesso monu- ti o semicircolari a rappresentare gli arti, e mentale di Ggantija a Gozo. Ggantija (la quello terminale, disposto in asse con l’ingres«Torre dei Giganti») appare come un grande so, a ricordare una testa. Il tutto risulta simile, recinto a forma di «D», con il lato frontale a senza che vi sia, però, alcun rapporto, se non doppio arco lungo poco meno di 40 m, e cir- quello puramente formale, alla struttura di ca 30 m di profondità. All’interno del recinto parte delle statuette femminili dai corpi obesi compaiono due strutture gemelle affiancate: trovate all’interno di questo e di altri comdue coppie di absidi lobate, disposte a coppie, plessi (vedi anche l’immagine a p. 76). affiancate ai lati di uno stesso corridoio o per- Anche le proporzioni delle due costruzioni corso di accesso, terminante in un’ultima ab- – maggiore quella a sud, piú piccola quella a

Nella pagina accanto: la Grotta di Ghar Dalam, all’estremità meridionale dell’isola. Esplorata sin dal 1911, conserva tracce del piú antico insediamento umano. In basso: l’angolo meridionale del tempio di Ggantija (Gozo), alto piú di 7 m. 3600-3300/ 3000 a.C.

«Gozo rimaneva un luogo interamente privato, un’isola dentro al petto – e fortunato si dirà l’uomo capace di trovarne la chiave, girare il lucchetto, e scomparire al suo interno». Nicholas Montserrat (1910-1979)

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speciale • malta

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GGANTIJA 0

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nord – suggeriscono una similitudine antropomorfa, con un’allusione indiretta a una coppia maschile e femminile. Il doppio arco della facciata si apriva su un vasto spazio circolare, evidentemente riservato a un ampio consesso di partecipanti, prima che questi, o parte dei gruppi, fossero ammessi all’interno degli edifici tramite strette aperture. Lo spazio tra le pareti megalitiche dei due templi e il perimetro megalitico del recinto esterno era stato colmato da tonnellate di terreno. Altre costruzioni che furono avviate nello stesso periodo, come il complesso di Mgarr ta-Hagrat, nella parte nord-occidentale di Malta, riproducono la medesima progettualità ed esecuzione – due templi affiancati, uno maggiore trilobato (di 20 x 15 m circa), protetto da una facciata di blocchi lunghi fino a 4 m, e uno minore, giunto a noi in una riedificazione successiva, a un solo ambiente. Per piú di un millennio, almeno fino alla grande crisi del 2500-2400 a.C., le architetture templari di Malta avrebbero riprodotto, elaborato e variamente trasformato, sino a complicarlo drammaticamente nella prima metà del III millennio a.C., il modulo essen-

In alto: pianta e veduta aerea del complesso di Ggantija (Gozo): circondati da un muro di cinta megalitico sono i due ambienti templari composti da camere absidate. 3600-3000 a.C.

Nella pagina accanto, in alto: l’esterno del muro di contenimento del tempio di Ggantija; in basso: l’ingresso al tempio settentrionale del complesso.


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speciale • malta

ziale del corridoio e degli absidi lobati raccolti attorno a esso. Piú che impianti progettati in un’occasione unitaria, i templi sembrano accrescersi e modificarsi mediante aggiunte e cambiamenti progressivi, sempre, comunque, sotto la precisa ispirazione delle medesime idee di base. In genere, negli absidi contrapposti il lato destro appare costruito e decorato con cura minore del lato sinistro.

memoria millenaria Il ricordo di questa millenaria architettura, e dei simbolismi dei quali era impregnata, rimase vivo fino alla fase fenicia (900-700 a.C. circa), quando il nucleo centrale del tempio di Astarte di Tas Silg (vedi «Archeo» n. 327, maggio 2012; anche on line su archeo.it) ne riproduceva ancora la planimetria essenziale. Sembra che i complessi templari, tra il IV e il III millennio a.C., siano sorti «in punti nodali del territorio, in posizioni di raccordo tra i crinali delle alture o in prossimità di guadi, o ancora in relazione con importanti approdi costieri» (Sandro Filippo Bondí, in «Archeo» n. 122, aprile 1995). In altri casi furono certamente costruiti nei pressi di importanti centri abitati negli stessi secoli. Vere Gordon 72 a r c h e o

TA-HAGRAT

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0 In alto: pianta e veduta di Mgarr Ta-Hagrat, situato nella parte occidentale dell’isola di Malta. Quello di Ta-Hagrat è uno dei complessi templari

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megalitici piú piccoli ed è composto da due santuari, uno maggiore, datato intorno al 3600 a.C., e uno minore, databile al 3300-3000 a.C.


Childe aveva sottolineato la significativa coincidenza tra i principali nuclei cultuali e le distese di terreno coltivabile delle isole. Anche in uno spazio circoscritto e in fondo piuttosto semplificato come quello dell’arcipelago maltese, la logica dell’antica geografia, umana e sacrale al tempo stesso, non è facilmente decifrabile. Qualsiasi fosse l’impulso che sorreggeva la costruzione e la manutenzione di queste uniche «cattedrali» preistoriche, esso conobbe le forme piú impressionanti – ma anche maggiormente effimere – nella fase detta «di Tarxien», datata al radiocarbonio calibrato tra il 3300 e il 2500 a.C. circa (nello stesso periodo, in Egitto, culminava e tramontava la grande età delle piramidi e, in Inghilterra, il grande circolo di triliti di Stonehenge veniva costruito e modificato in forme sempre piú grandiose).

simmetriche dei due santuari principali (il «Tempio Basso», a sinistra, e il «Tempio Mediano» a destra) e la forma trilobata del «Tempio Piccolo». 3600-2500 a.C.

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Mnajdra e Hagar Qim La fase di Tarxien è ben esemplificata dai due grandi complessi di Mnajdra e Hagar Qim, costruiti a poca distanza l’uno dall’altro sulla costa ovest di Malta e dalle costruzioni stesse di Tarxien, al margine sudorientale dell’isola. Mnajdra comprende tre templi – il «Tempio Basso», il «Mediano» e

In basso: pianta e veduta aerea del complesso templare di Mnajdra, composto da tre santuari aperti su un unico cortile. La pianta evidenzia la forma a quattro absidi

MNAJDRA

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10m

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HAGAR QIM Sulle due pagine: pianta e vedute del complesso megalitico di Hagar Qim. Il grandioso monumento, situato a poca distanza da Mnajdra, si caratterizza per la sua tipica forma a «ferro di cavallo», con vari locali absidati disposti intorno a un cortile centrale. 3000-2500 a.C.

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il «Piccolo» – che si aprono su un unico, grande spazio ovale con le facciate concave accostate. Il piú antico è il Tempio Piccolo, con pianta trilobata, una triplice soglia e facciata, in origine, decorata da linee di punti ottenuti a trapano; si data alla piú antica fase di Ggantija ed è circondato, sul retro e a est, dai resti mal conservati di edifici minori di funzione sconosciuta. Meglio conservato sono il «Tempio Basso», con planimetria a cinque absidi, e il vicino Tempio Mediano, immediatamente a nord, che, sorgendo su un piano di poco piú alto, era dotato di una scalinata. Gli ambienti interni, dalle pareti debolmente convergenti verso l’alto, sono uniti da porte e scalini monumentali ma anche da fori di comunicazione piccoli ed eccentrici, spesso interpretati come «fori oracolari». Due ambienti minori, ricavati nell’intercapedine tra gli spazi interni e le murature esterne, permettevano un diverso accesso all’unità templare; essi sono generalmente chiamati «le Stanze degli oracoli». Il complesso templare di Hagar Qim, poco piú a nord, è il piú vasto dell’arcipelago e doveva essere stato realizzato e curato dalle stesse comunità. Sorge su un pianoro collinare, due km a sud-ovest dell’odierno centro di Qrendi, e comprende quattro o cinque unità lobate o absidi intorno a un cortile centrale, stranamente innestate e a r c h e o 75


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combinate l’una all’altra. All’interno, l’accesso da un ambiente all’altro era limitato da lastre forate e «fori oracolari»; gli absidi e la corte centrale contenevano un grande pilastro decorato, almeno una lastra scolpita con motivi a spirale, altari trilitici o sorretti da basi finemente scolpite come modelli architettonici, e un gruppo di figure femminili realizzate in pietra o in terracotta con tratti di obesità.

tarxien Il complesso sacro di Tarxien presso l’abitato odierno di Pawla, nell’estremità sud-orientale di Malta, è forse il piú irregolare e composito nella planimetria, ma anche il piú ricco ed elaborato dal punto di vista decorativo e iconografico. La costruzione, che comprende quattro differenti unità templari, sorse al tramonto del Periodo dei Grandi Templi, intorno alla In alto: una veduta di Hagar Qim. A destra: una delle numerose sculture di «divinità obesa» rinvenute nel tempio di Hagar Qim. Prima metà del III mill. a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

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metà del III millennio a.C. Circondato dagli edifici della cittadina di Pawla, Tarxien è privo del fascino ambientale e paesaggistico degli altri complessi maltesi. Il tempio maggiore, a sud, lungo 33 m, ha la consueta facciata concava, e quattro ambienti lobati interni ai quali si accede da un ambiente centrale di forma semicircolare. Un tempio centrale, lungo 23 m, è formato da tre coppie contrapposte di vani absidati; un terzo tempio, posto sul lato orientale, torna al modulo delle due coppie di vano lobati affrontati; infine all’estremità est vi è un quarto tempio, il piú antico del gruppo e molto piú piccolo, con una pianta a cinque lobi. La successione delle costruzioni e la loro sovrapposizione

In alto e a sinistra: due esempi della tipica decorazione a fregio di animali e «a spirali», che decoravano il complesso megalitico di Tarxien. 2500 a.C. In basso: i due lati della celebre «Venere di Malta», rinvenuta nel tempio di Hagar Qim. Prima metà del III mill. a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

la venere di hagar qim

Modellata in argilla e alta circa 13 cm, la statuetta nota come la «Venere di Malta» fu scoperta nel 1839, durante i primi lavori di scavo del tempio megalitico di Hagar Qim. Giaceva nel primo ambiente del complesso monumentale, sotto una lastra di pietra decorata a spirali. Risalente alla prima metà del III mill. a.C., questo capolavoro dell’arte preistorica rappresenta un’eccezione se confrontata con le numerose altre raffigurazioni femminili tipiche del periodo «dei grandi templi»: la «Venere», infatti, non riproduce i tratti stereotipati delle cosiddette fat ladies (le «signore obese») maltesi, mentre mostra tratti dalla resa straordinariamente naturalistica. Come nel caso delle numerose altre sculture maltesi (per esempio la altrettanto celebre Sleeping Lady; vedi a p. 82), è impossibile definire con certezza la funzione – religiosa, rituale, simbolica – di quest’antichissima opera d’arte.

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speciale • malta

crea un palinsesto in cui i singoli progetti sono a stento riconoscibili. Le stanze sacre e i passaggi di Tarxien, all’atto degli scavi condotti tra il 1915 e il 1917 risultarono affollati di immagini, rilievi parietali e simboli. Predominano il moto infinito delle spirali, teorie di animali in processione (capridi e arieti, buoi, tori e maiali, tra i quali l’immagine di una scrofa che allatta tredici porcellini), e ancora altari e bacini sacrificali. Uno degli ambienti del tempio meridionale conteneva la parte inferiore di una gigantesca statua di culto di una «dea obesa» con una lunga gonna a pieghe, che in origine doveva stagliarsi nell’ombra con un’altezza di due metri e mezzo, a lato di enormi blocchi decorati a spirali a rilievo.

Hal Saflieni Scoperto agli inizi del Novecento, l’ipogeo di Hal Safleni ebbe la fortuna di ricadere ben presto nelle attenzioni di studiosi di valore, come Themistocles Zammit (18641935), nominato responsabile dell’appena aperto Museo di Malta, e Padre Emmanuel

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TARXIEN

Pianta e veduta aerea del complesso megalitico di Tarxien: costituito da quattro differenti templi, edificati tra il IV (il «tempio arcaico», a destra nella pianta) e la metà del III mill. a.C., Tarxien è

caratterizzato dai ricchissimi arredi cultuali e dalle notevoli decorazioni figurate (animali) e geometriche. A Tarxien, infine, è stata trovata la colossale statua di una «divinità» (vedi a p. 64).

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Come all’interno di un organismo vivente Mentre oggi gli ambienti dei templi maltesi e le loro colossali murature, soglie e ripartizioni giacciono sventrati da crolli e scavi, annegati nel sole del Mediterraneo, in antico questi edifici erano sigillati da facciate di file sovrapposte di blocchi ben squadrati, e interamente coperti da tetti ben costruiti: lo rivelano diversi modellini in terracotta trovati all’interno delle rovine, e una facciata in miniatura, accuratamente riprodotta a bassorilievo in uno dei templi di Mnajdra (alcuni considerano queste immagini dei veri e propri modellini di progetto per i cantieri costruttivi). Le bianche facciate si ergevano fino a un’altezza di una decina di metri. L’ingresso ai templi megalitici sottraeva le persone alla collettività, alle voci e alla luce, per accoglierli in spazi oscuri, frazionati e raccolti, dominati da linee e superfici curve e convolute, come quelle interne a un organismo vivente, e spesso percorse da immagini dipinte e scolpite ad altorilievo e a tutto tondo.

Nel disegno in alto: ipotesi ricostruttiva di una fase dell’edificazione di un tempio megalitico maltese. Qui sopra: due modellini di tempio provenienti da Mgarr (a sinistra) e da Tarxien (a destra, con integrazioni di restauro).

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speciale • malta

«L’impressione che se ne ha, nell’entrare nell’ipogeo, è di sbalordimento, nella tenue luce delle fiaccole che rivela l’intrigo di grotte e gallerie e le bizzare linee di quell’architettura straordinaria. Un’aria di profondo mistero pervade il luogo; il visitatore prova l’impulso di fermarsi, per avere una vista generale delle pareti ad alveare, prima di mettersi a osservare in dettaglio ciascuna cavità e passaggio. Quando l’occhio si è abituato alla penombra, si è colpiti immediatamente dalla stranezza dello stile architettonico.» Themistocles Zammit (1864–1935) Magri (1851-1907). Nel 1903 il sito, intaccato in superficie da moderni cantieri edilizi, che forse avevano completamente rimosso le costruzioni megalitiche di superficie, era già stato dichiarato proprietà pubblica. Tra il 1903 e il 1906 Padre Magri scavò con una certa cura le cavità sotterranee del complesso, ma morí inaspettatamente l’anno successivo, lasciando incompleto il lavoro di pubblicazione. Le ricerche ripresero nel 1952, quindi nei primi anni Novanta, con tecniche sempre piú aggiornate. Oggi sappiamo che l’ipogeo, vasto circa 500 mq, si articolava su tre livelli sotterranei sovrapposti (superiore, medio, inferiore), sino a raggiungere una profondità di 11 m dall’attuale piano stradale. Il livello superiore, il piú antico (sembra risalire al 4000 a.C.), era formato da cavità naturali, successivamente adattate e modificate da rampe discendenti e costruzioni minori. Sembra essere stato concepito come una sorta di anticamera intermedia tra la superficie e le cavità inferiori. Gli altri due livelli furono interamente scavati al di sotto, creandovi camere artificiali connesse da passaggi, piattaforme e gallerie, probabilmente sfruttando pre-esistenti fessurazioni naturali del banco roccioso. Gli scultori-architetti di Hal Saflieni trasformavano elementi naturali in pilastri decorati, porte di tipo trilitico, e 80 a r c h e o

Trilite al livello superiore

1

Sala principale al livello mediano

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Soffitto decorato della «stanza dipinta» (livello mediano)

3


IPOGEO DI HAL SAFLIENI

Il disegno qui sotto presenta uno spaccato tridimensionale dell’articolato sistema di ambienti sotterranei, distribuiti su tre piani e per oltre 10 m di profondità, dell’affascinante santuario/necropoli situato a breve distanza dal complesso megalitico di Tarxien. Esso rappresenta uno dei monumenti piú suggestivi dell’archeologia di Malta.

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PIANO SUPERIORE

Santo dei Santi (livello mediano)

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Trilite di passaggio al livello inferiore

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2 3 6 5 PIANO INTERMEDIO

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Ambiente del livello inferiore

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Se indubbia è la destinazione sacra di Hal Saflieni, molti suoi aspetti sono ancora enigmatici. Sembra tuttavia lecito affermare che l’ipogeo rifletta un rapporto tra la società dei vivi e l’aldilà, tra la terra e il mondo degli inferi. In una delle sale dell’ipogeo è stata trovata la celebre «Signora dormiente» (vedi a p. 82).

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IL MISTERO DELLA «SIGNORA DORMIENTE»

Distesa su una struttura simile a un letto o a una branda, la Sleeping Lady, la «Signora dormiente» di Hal Saflieni, è uno dei capolavori dell’arte preistorica maltese e, come tale, non ha confronti nell’arte neolitica europea (anche se da Malta e Gozo provengono altri tre esempi di figure «su branda», ma di aspetto e fattura molto diverse). Lunga 12,2 cm e alta 6,8 cm, la statuetta in terracotta ritrae una donna poggiata sul fianco destro, con gli occhi chiusi, la mano destra sotto la testa, i seni scoperti e la parte inferiore del corpo vestita di un’ampia gonna dall’orlo plissettato. La domanda su chi rappresenti l’affascinante figura e quale sia stata la sua funzione nell’ambito cultuale e religioso del suo tempo, si sovrappone ai numerosi interrogativi che, ancora oggi e forse per sempre, suscitano le straordinarie testimonianze monumentali e artistiche del neolitico maltese. La «Dormiente» era – come molti sostengono –una dea della fertilità «a riposo»? O la condizione in cui viene raffigurata – quella del sonno – non suggerisce, piuttosto, la presenza di una personificazione metaforica del «sonno eterno», quello della morte? Secondo l’archeologo Anthony Pace, soprintendente al patrimonio culturale di Malta, non si possono ignorare le indicazioni provenienti dal contesto in cui la figura è stata ritrovata: la Sleeping Lady e le altre tre figure «su branda» provengono da aree cimiteriali, tre dall’Ipogeo di Hal Saflieni, una – raffigurante tre personaggi – dal Circolo di Xaghra (vedi a p. 87). Inoltre, la posizione della «Dormiente» rievoca quella, rannicchiata, dei defunti seppelliti a Xaghra (come risulta dalla disposizione dei resti scheletrici). Piú che all’ambito dei culti della fertilità e nascita, dunque, questa affascinante figura femminile, questo capolavoro assoluto dell’arte preistorica mondiale, sembra offrirsi come straordinario tramite verso il profondo e oscuro mondo dell’aldilà.

La «Signora dormiente», capolavoro dell’arte preistorica maltese, rinvenuta nel 1905 all’interno della Camera dipinta dell’Ipogeo di Hal Saflieni. 3300-3000 a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

Qui sopra: immagine del fondo della statuetta, con la struttura della «branda» su cui è adagiata la Dormiente.

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costolature di sostegno, a imitazione di parti architettoniche realmente funzionali nell’architettura templare di superficie. Il livello intermedio, che mostra nella sua irregolarità e asimmetria una generica analogia con le planimetrie dei templi lobati, contiene un ambiente centrale di passaggio, dal quale si accede a gruppi di camere con repliche di facciate di costruzioni sacre, con pilastri verticali e «travi» orizzontali in origine dipinti in rosso. Nelle stanze funerarie si succedono nicchie, finestre e dislivelli. Altri ambienti recano su pareti e soffitti decorazioni a spirali, sempre dipinte in rosso, o ampie superfici con decorazioni puntiformi, simili a quelle osservate a Mnajdra. Studiosi odierni sono impegnati

nella ricostruzione delle antiche modalità di diffusione della luce negli ambienti sotterranei, in rapporto al tipo e alla qualità delle decorazioni architettoniche scolpite nella roccia. Una scala conduce, infine, al livello inferiore, dove una porta trilitica introduce a una serie di camere basse, separate da sottili setti murari, in antico dipinte con ocra rossa. Le sepolture contenevano elementi di collana, asce in miniatura e amuleti, figurine di quadrupedi e uccelli, e come di consueto figurine umane in terracotta di dimensioni maggiori: tra queste spicca la celebre «Signora dormiente», una donna con tratti di obesità coricata sul fianco destro e assopita su di un letto. Scrive l’archeologo Anthony Pace: «Questi cimiteri definivano i confini fisici di un mondo sotterraneo, un concetto che non deve essere stato troppo diverso da quello osservato presso altre culture, nel caso della piú tarda “Dimora di Ade” del mondo greco». Il mondo infero delle sepolture collettive dei morti rafforzava certamente, sul piano simbolico, la solidarietà delle comunità dei viventi.

Gli scavi nel circolo di Xaghra (Gozo) condotti da Otto Bayer negli anni Venti dell’Ottocento, in un acquerello di Charles de Brochtorff (1825). Al centro si riconoscono i due megaliti d’entrata (oggi scomparsi) e, sullo sfondo a sinistra, il tempio di Ggantija.

Le scoperte di Xaghra Ma torniamo sull’isola di Gozo. Qui, il cosiddetto «circolo Brochtorff» di Xaghra fu portato in luce grazie a scavi amatoriali condotti da John Otto Bayer nel 1820, nei pressi del complesso cultuale di Ggantija. I lavori di sterro erano stati accuratamente riprodotti in alcuni acquerelli di Charles Fredrick de Brochtorff datati 1825 e conservati nella Biblioteca Nazionale di Valletta. Sulla base delle indicazioni registrate involontariamente dagli acquerelli, il sito esatto a r c h e o 83


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fu riscoperto nel 1964 dallo studioso gozitano Joe Attard Tabone, e in seguito scavato dall’Università di Malta, dal Dipartimento Maltese dei Musei e dall’Università di Cambridge tra il 1987 e il 1994. Il complesso si era gradualmente sviluppato a partire da una specie di tomba sotterranea a due camere costruita nella fase di Zebbug (4100-3800 a.C. circa); gli ambienti, oltre a resti umani appartenenti a 65 persone, contenevano vasetti con ocra, elementi di collana, ornamenti incisi in osso che ricordano forme antropomorfe e le stesse planimetrie dei templi lobati, conchiglie e strumenti in pietra. Davanti al pozzetto verticale di accesso si ergevano due stele-menhir. 84 a r c h e o

Gli scavi hanno accertato che tra il 3000 e il 2400 a.C., nelle fasi tarde di vita dei templi di Ggantija, il circolo era stato usato per inumare centinaia di persone, per lo piú deposte in grotte e cavità naturali, parzialmente modificate per facilitarne l’accesso e l’uso funerario. Una parte distinta dell’ipogeo era stata modificata e costruita a formare un vero e proprio centro di culto funerario sotterraneo, con un’entrata monumentale, un grande bacino in pietra circondato da sepolture di donne e bambini. I resti scheletrici, oltre a essere stati in grandi quantità disturbati e dispersi dagli sterri ottocenteschi, risultarono essere stati intensamente manipolati, spostati e sconnessi già in

Veduta degli scavi del Circolo di Xaghra (Gozo) con, sullo sfondo, la chiesa parrocchiale della città moderna.


latrici di attitudini rituali e alimentari delle antiche comunità dell’arcipelago. Le ceramiche erano finemente decorate, e le figurine (umane e animali) plasmate in dettaglio e ben lucidate, sono tra i prodotti piú belli dell’arte preistorica maltese; molti esemplari erano stati dipinti in rosso, giallo e nero. Almeno una delle statue, trovata in frammenti intorno a una cavità tombale, era alta piú di un metro; rappresentava un personaggio con una gonna ampia ed elaborata, e le braccia strette al petto. La statua era stata intenzionalmente infranta, e i suoi pezzi posizionati intorno a sepolture accompagnate da figurine e collane. Dalle vicinanze del grande bacino in pietra, infine, proviene una coppia di «signore obese»: sedute su una sorta di branda, hanno un’acconciatura a coda dietro la nuca e indossano larghe e rigonfie gonne a pieghe, coperte di astratte linee verticali. Una di essa reca un bimbo in grembo, l’altra una età antica. Il conto totale, alla fine del proget- coppa (vedi box a p. 87). to, fu di circa 220 000 resti umani, probabilmente appartenuti a non meno di 400-800 Alla ricerca di spiegazioni persone diverse (senza contare le ossa disper- Come spiegare gli immensi sforzi effettuati se negli sterri iniziali). Diverse aree delle dalle comunità preistoriche maltesi nella cavità sepolcrali contenevano, con le ossa costruzione dei giganteschi templi e degli umane, diversi tipi di offerte, come asce- ipogei, e il loro rapido abbandono alla soglia amuleto in pietra verde, vasetti miniaturistici del 2500 a.C.? Vere Gordon Childe, al di là contenenti cosmetici rossi, spilloni, perline e della correlazione tra i terreni arabili e la testine umane in osso, e figurine e vasi di distribuzione delle costruzioni megalitiche, terracotta; suggerendo cosí che gruppi spe- che infatti rispecchia quella delle fattorie cifici di defunti ricevessero corredi diversifi- moderne, credeva che i monumenti preistocati. Inoltre le cavità sepolcrali, a volte divise rici fossero luoghi di culto di una «religione da setti murari e soglie, contenevano un megalitica», gestiti da capi di famiglie nobinumero molto elevato di ossa animali (so- liari, come avveniva con le chiese dei castelprattutto capri-ovini, bovini e maiali), rive(segue a p. 88)

Particolari con la struttura trilitica e il grande bacino in pietra rinvenuti nel Circolo di Xaghra.

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Le «piccole erme» di Xaghra Nel circolo di Xaghra, presso il grande bacino in pietra, venne in luce un deposito di nove figurine in pietra, con tracce di ocra gialla in superficie, simili alle «erme» di tradizioni molto piú tarde. Le statuette giacevano l’una accanto all’altra, come se fossero state contenute in una scatola o in una borsa, travolta dal crollo improvviso del soffitto della cavità. Sei di esse, asessuate, alte da 15 a 18 cm, rappresentano personaggi con tratti fortemente stilizzati; una sembra un abbozzo non finito. Alcune portano cinture e presentano incisioni verticali, un’altra una sorta di diadema. Un’altra ancora

rappresenta la testa di un cinghiale. Si tratta di oggetti unici, senza alcun confronto noto, sia per la forma generale, sia per lo stile. Poiché la parte inferiore delle figure appare molto meno dettagliata, e le statuette, da sole, non si reggono in piedi, l’impressione è che appartenessero a piccoli manichini o addirittura a «burattini sacri» manipolati ed esibiti nel corso delle cerimonie funebri. Secondo gli scavatori questo ambiente sarebbe una sorta di «camera ardente» dove i morti venivano portati prima della sepoltura, per essere salutati con elaborate cerimonie e forse con rappresentazioni sacre. Le figurine rinvenute durante gli scavi eseguiti negli anni Novanta del secolo scorso all’interno del Circolo di Xaghra (Gozo). Ggantija Interpretation Centre.

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A destra: quattro vedute della scultura in pietra calcarea scoperta all’interno del Circolo di Xaghra, raffigurante due personaggi «obesi» seduti su una branda. Prima metà del III mill. a.C.

LA STRANA COPPIA

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, insieme alle «erme» di cui parliamo nella pagina accanto, nella zona rituale del circolo di Xaghra fu ritrovata questa curiosa scultura in pietra calcarea (14 x 13 x 9,3 cm) raffigurante due cosiddette fat ladies («signore obese»), quasi identiche l’una con l’altra, se non fosse che una delle due regge in grembo una figura piú piccola (un bimbo?), l’altra una sorta di tazza o coppa. Subito annoverata, insieme alla «Venere di Hagar Qim» e alla «Signora Dormiente» di Hal Saflieni, tra i capolavori dell’arte preistorica maltese (e non solo), la coppia evidenzia alcuni tratti particolari: innanzitutto, le due figure sono assise su una «branda», simile a quella su cui giace la celebre «Dormiente» (vedi a p. 82). Inoltre, la scultura reca tracce significative di coloritura con pigmento rosso, giallo e nero, suggerendo cosí che anche le altre sculture di Malta e Gozo un tempo fossero colorate. Solo uno dei tre personaggi scolpiti è munito della testa (l’assenza della testa è un aspetto tipico delle sculture preistoriche maltesi, dovuto forse a un’intenzionale interscambiabilità delle medesime o, piú probabilmente, a una sorta di preistorico vandalismo «iconoclasta»). Un dato curioso riguarda l’acconciatura delle due donne: mentre quella integra porta i capelli sciolti, la seconda mostra la parte finale di una coda di cavallo. Per proporzioni, indumento e postura, le due piccole signore (ma anche sull’identità di genere si può discutere, vista l’assenza di tratti femminili particolarmente pronunciati) ricalcano il modello delle piú grandi – e talvolta giganti – raffigurazioni di Malta (per esempio, la grande scultura di Tarxien riprodotta a p. 64) intorno al cui vero significato (ritraggono dèi o dee, antenati, capiclan, sciamani o sacerdoti?) si affastellano, ancora oggi, infinite ipotesi.

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li dell’Europa medievale. L’archeologo britannico Colin Renfrew, sviluppando parte delle idee di Childe, ha confrontato Malta con le informazioni etnostoriche relative alla società dell’isola di Pasqua prima del contatto con i bianchi: a Malta vi sarebbero stati sei principali villaggi, di circa 2000 abitanti ciascuno, che coordinavano la propria forza lavoro, mediante grandi cicli rituali sostenuti da redistribuzioni cerimoniali di cibo e bevande, per celebrare il ricordo di prestigiosi antenati dei vari lignaggi.

i segni della crisi Gli ultimi scavatori dei complessi sacri maltesi suggeriscono che un’importante chiave di lettura risieda proprio nelle modalità del loro collasso. Essi pensano a un processo di continua crescita demografica, accompagnato da un parallelo sviluppo in elaborazione e complessità della cultura materiale.Tensioni sociali e corrispondenti forme di controllo gerarchico sarebbero cresciute man mano che le risorse alimentari – cereali, legumi e animali domestici – iniziavano a scarseggiare, in un ecosistema fragile e già inevitabilmente compromesso già a partire dal primo impatto del Neolitico. Le immense costruzioni monumentali, proprio come le statuette con tratti di obesità, potrebbero esprimere l’aspirazione degli isolani all’abbondanza e al benessere in secoli di

crescente scarsità; in fondo, l’unica risorsa che aumentava invece di contrarsi era la forza lavoro umana che, entro certi limiti, si poteva continuare a sfruttare. L’intensificazione dell’arte figurativa nelle costruzioni piú tarde, quelle della fase di Tarxien, potrebbe essere spiegata come un’espressione terminale del ruolo tradizionale dei templi e dei rituali funebri nella gestione e nella moderazione dei conflitti sociali. Sono ipotesi impossibili da verificare? Non del tutto. Possiamo pensare che, se le risorse tradizionali del Neolitico iniziavano a scarseggiare, gli abitanti potessero aver fatto un crescente uso di risorse alimentari di origine selvatica, e soprattutto marina (uccelli, pesci e molluschi). Ebbene, né nelle raccolte di ossa animali trovate nei recenti scavi del circolo di Xaghra, né nelle ossa dei defunti delle fasi piú tarde vi sono prove di un crescente ricorso a questo tipo di alimenti. I nuovi dati dimostrano che la dipendenza da piante e animali coltivati aumentò, invece di diminuire, poco prima del tracollo della metà del III millennio a.C., dando quindi credito alla teoria che l’aumento della popolazione poteva aver effettivamente causato crescenti livelli di stress economico e sociale. Possiamo azzardare una ricostruzione di che cosa avveniva all’interno dei templi? È probabile che cortei e processioni si fermassero davanti alle facciate concave dei Ipotesi ricostruttiva di una scena all’interno del tempio di Tarxien, con la statua colossale della Grande Dea (vedi a p. 64).

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grandi templi, e che solo gruppi minori fossero gradualmente ammessi all’interno di essi. Se le planimetrie dei templi, come è lecito immaginare, alludono a immense immagini antropomorfe, gli edifici potrebbero rappresentare proprio il corpo «sociale» di grandi antenati divinizzati. Le processioni di caprovini, bovidi e maiali scolpite a bassorilievo, gli altari cavi nei quali erano state deposte ossa animali, e, in almeno un caso, la presenza di un coltello, sembrano testimoniare pratiche sacrificali seguite dalla distribuzione delle carni. All’interno dei templi sono state trovate enormi quantità di ceramica di notevole pregio, in cui abbondano – oltre a piatti e giare – tazze con una sola ansa, usate per attingere e consumare bevande. Insieme ai grandi bacini in pietra, le tazze suggeriscono che all’interno si tenessero spesso libagioni rituali. Immagini di altre creature (uccelli, pesci e serpenti) compaiono su oggetti portatili o sulle pareti degli ambienti: in questi casi, il coinvolgimento degli animali nei sacrifici è molto meno certo.

un culto di «dee madri» Statue e statuette sembrano aver avuto una parte essenziale nei culti, ma le precise modalità del loro impiego rimangono oscure. Sebbene le figurine (immagini in terracotta e in pietra, in piedi, sedute o sdraiate) siano spesso interpretate come «dee madri», esse non hanno, in realtà, esplicite connotazioni sessuali. Non vi sono statuette di personaggi maschili, ma si conoscono immagini falliche, incise sulle pareti o sotto forma di modelli inseriti in nicchie. Le statue maggiori, a volte di dimensioni colossali, erano probabilmente immagini di esseri soprannaturali venerati, ma la natura delle statuette minori è molto meno chiara. Le figurine in pietra della stanza principale del circolo

Stele da Tarxien con raffigurazione di un doppio fallo e, in basso, rilievo con raffigurazione di pesci, da Bugibba. 3000-2500 a.C. Valletta, Museo Nazionale di Archeologia.

di Xaghra (vedi a p. 86), e il fatto che non poche teste scolpite hanno fori basali per l’inserimento di corde e cinghie, garantendone la mobilità sul resto delle figure, suggeriscono che, durante le cerimonie funebri, statue di antenati e altre figure divine intervenissero in rappresentazioni cinematiche, muovendosi nell’oscurità e addirittura – come si è spesso supposto – fornendo oracoli e ingiunzioni ai presenti.

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Alcuni studiosi pensano che gli ipogei ospitassero anche pratiche rituali analoghe all’incubazione e all’oniromanzia: fedeli e malati si sarebbero recati nelle cavità sotterranee, in un colloquio ideale con i morti e le loro divinità, per ricevere in sogno istruzioni salvifiche, in maniera simile a quanto sarebbe avvenuto millenni piú tardi nel culto greco di Esculapio. Lo suggeriscono immagini di serpenti scolpite nelle rocce di Mnajdra e Ggantija, insieme a modellini di parti anatomiche, possibili allusioni a gravi stati patologici, rinvenuti nei complessi sacri. La caduta dei complessi megalitici, dopo la soglia del 2500 a.C., coincide con la comparsa di nuove forme di architettura funeraria – innanzitutto di dolmen – e con la diffusione

QUEGLI ENIGMATICI BINARI Tra gli aspetti caratteristici (e piú misteriosi) del paesaggio archeologico di Malta figurano i cosiddetti curt ruts, i «solchi da carro» che, come una fitta rete di binari, sono presenti quasi ovunque nell’arcipelago (con l’eccezione della piccola Comino). Simili ai moderni binari ferroviari, talvolta si presentano a fasci e regolati da quelli che sembrano veri e propri «scambi». Sembra accertato che questi solchi, profondi mediamente 6/8 cm, con punte massime di 60, siano stati prodotti da ruote di carri, mentre la loro datazione si colloca tra il 1500 e il 700 a.C. Non sono stati individuati percorsi che conducano ai templi megalitici maltesi, né sembra che una qualche pianificazione territoriale abbia presieduto alla loro realizzazione. Secondo lo studioso maltese Anthony Bonanno, le carreggiate presentano una certa connessione con le cave e, dunque, indicherebbero gli itinerari seguiti dagli antichi carri impiegati per trasportare il materiale da costruzione da quest’ultime alle zone d’impiego. Una conferma di questa ipotesi risiederebbe nel fatto che i binari si presentano piú fitti in prossimità del grande centro di Medina-Rabat, centro che ebbe il suo massimo sviluppo nel I millennio a.C. e, in specie, durante l’età romana. È dunque molto probabile che le enigmatiche carreggiate si siano prodotte attraverso un lungo periodo che dalla preistoria giunge alla fine dell’evo antico.

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di ornamenti e armi in rame, cambiamenti forse ispirati dall’arrivo di nuove genti. Nel corso del II millennio, nell’arcipelago sorsero nuovi villaggi, prima sparsi e aperti, poi arroccati e pesantemente fortificati contro il pericolo di aggressioni dal mare (fase di Borg-in Nadur, 1500-900 a.C. circa). Le capanne, di forma ovale, sembrano simili a quelle della Sicilia e dell’arcipelago eoliano dello stesso arco cronologico.

Dopo i megaliti Gli archeologi hanno descritto questo periodo come un «lungo letargo» culminato, nella prima età del Ferro, negli insediamenti della cultura di Bahrija, presso la costa occidentale di Malta. L’arcipelago si aprí al mondo esterno, in modo tanto radicale quanto im-

provviso, a partire dall’VIII secolo a.C., quando i contatti con la sfera commerciale e politica fenicia divennero significativi. Parte, ormai, di un nuovo sistema di rotte marine che univa il Libano, Cipro, le coste nordafricane alla Sicilia e alla Sardegna, Malta ospitò un primo insediamento fenicio a partire dal 700 a.C. circa: ne sono la prova alcune tombe con i tipici sarcofagi a forma umana, ceramiche simili a quelle del Levante, preziosi oggetti di avorio e soprattutto l’intensa frequentazione del santuario di Astarte a Tas Silg, sulla baia di Marsascirocco, nell’estremità sud-orientale di Malta. La cella del santuario fenicio era probabilmente sorta su una preesistente struttura megalitica a pianta lobata. La continuità del culto tributato, sin dalle epoche piú remote, a una grande dea

Nella pagina accanto, in alto: scena di trasporto lungo uno dei numerosi «binari» maltesi. Nella foto in basso: veduta aerea dell’intrico di «binari» nella zona di Buskett, detto «Clapham Junction», in riferimento alla celebre stazione ferroviaria londinese.

DAI BIZANTINI AI CAVALIERI DI SAN GIOVANNI Nel 395 d.C., all’indomani della scissione dell’impero romano, l’arcipelago maltese passò sotto il controllo bizantino; un controllo debole, se è vero che, nel 454, le isole caddero nelle mani dei Vandali, e, dieci anni piú tardi, in quelle dei Goti. Nel 533, il generale bizantino Belisario ricongiunse Malta, insieme ad altre terre occupate dai Vandali, ai possedimenti di Bisanzio, dei quali avrebbe fatto parte sino alla conquista araba dell’870. Per piú di due secoli, gli Arabi fecero delle isole un lembo del mondo islamico, unendole politicamente al governo della Sicilia e innovandone l’agricoltura (olivi, aranci, limoni e cotone), con importanti investimenti nell’irrigazione artificiale; ancor oggi la lingua parlata nelle isole si basa su un dialetto arabo-maghrebino. Nel 1127, Ruggero II portò Malta sotto il controllo del regno Normanno di Sicilia: dei destini politici di quest’ultimo, Malta condivise le peripezie, passando dal controllo dei Normanni a quello di Svevi, Angioini e infine degli Aragonesi, fino a diventare parte, nel 1479, della corona di Spagna. Quando, nel 1522, il sultano Solimano I, detto «Il Magnifico» (1494-1566), cacciò dall’isola di Rodi i Cavalieri gerosolimitani di S. Giovanni, il re di Spagna Carlo V (1500-1558) donò loro Malta, come baluardo contro i tentativi di penetrazione ottomana verso la penisola italiana. I cavalieri presero possesso dell’isola nel 1530. Fu questa l’origine dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, che operava come uno Stato sovrano, ma risultava vassallo del vicerè spagnolo di Sicilia. Nel 1565 l’Ordine fu protagonista del celebre assedio di Malta, durante il quale i cavalieri riuscirono a difendere l’arcipelago dagli Ottomani ed evitarne la conquista. Attualmente l’Ordine ha assunto il nome di Sovrano Militare Ordine di Malta; ha sede a Roma e dalla capitale coordina numerose iniziative di carattere umanitario, soprattutto in zone e contesti di crisi.

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I TEMPLI SOTTO COPERTURA Dall’autunno 2011 i due grandi templi di Hagar Qim e Mnajdra (dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1992) sono interamente ricoperti da un’ampia struttura a membrana, in maniera tale da proteggere le strutture megalitiche, particolarmente esposte (anche per la loro posizione sulla costa sudoccidentale di Malta, in prossimità del mare) all’azione corrosiva degli agenti atmosferici. Prima della loro messa in luce, iniziata nel 1839, entrambi i complessi erano rimasti sepolti per millenni e, dunque, protetti da ogni azione di degrado. L’iniziativa, realizzata in seguito agli esami eseguiti da un comitato scientifico che, nel 2000, aveva elaborato un progetto di protezione e interpretazione conservative del sito in accordo con gli standard stabiliti dall’UNESCO, non ha mancato di suscitare reazioni contrastanti. Ho visitato il sito di Hagar Qim e Mnajdra ripetutamente, dagli anni Ottanta del secolo scorso, e, di recente, anche nella versione «coperta». Il mio giudizio è complessivamente positivo: il «grande tetto», lungi dal presentarsi soltanto come un elemento «intrusivo» e, dunque, turbativo, esercita una funzione… antica: restituisce agli ambienti megalitici un senso di raccoglimento, di silenziosa intimità propria dello stato originario dei monumenti (i, quali, ricordiamolo, erano ricoperti da un tetto), un effetto verosimilmente previsto e voluto dagli antichi progettisti dei monumenti. Gli stessi visitatori di oggi, non di rado irriguardosamente rumorosi, sono portati a percorrere gli ambienti in un clima di concentrazione e rispetto. Infine, come mi ha fatto notare Daniel Cilia, l’autore delle immagini che illustrano questo articolo e profondo conoscitore della realtà archeologica maltese, le nuove strutture non sono in contatto «fisico» con in monumenti antichi e, per giunta, qualora si ritenesse inadatta o superata la loro funzione, potrebbero essere rimosse in ogni momento. Andreas M. Steiner

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della fertilità sembra dimostrata, a Tas Silg, dal rinvenimento di una statua femminile datata al III millennio a.C. Nei secoli successivi, il predominio di Cartagine sembra aver allentato e reso discontinui i contatti con l’arcipelago maltese, invece di intensificarli; la grande capitale mediterranea stava spostando il proprio centro d’interesse piú a ovest, in direzione delle coste spagnole. Del periodo punico dell’arcipelago (VI-III secolo a.C. circa) ci rimangono le contemporanee fasi di occupazione del santuario di Tas Silg, durante le quali al culto di Astarte si affianca quello di Hera, con oggetti e monete importate dalla Sicilia greca e dall’Egitto tolemaico; i resti di alcune fattorie; e l’area sacra di Rasil Wardija a Gozo, le cui forme architettoniche, a millenni di distanza, ancora risentivano dell’influenza della grande tradizione religiosa megalitica.

l’approdo dell’apostolo PAolo La fase punica ebbe termine nel 218 a.C., quando le truppe romane guidate da Tito Sempronio Longo ebbero facilmente la meglio di un corpo di 2000 armati lasciati da Cartagine a difesa dell’arcipelago. In età romana, la vita civile a Malta continuò nel centro abitato di Melite (a Malta, presso l’attuale Medina-Rabat) e in un secondo centro a Gozo. A Medina-Rabat sono stati scavati i resti di una vasta residenza aristocratica (I secolo d.C.) con peristilio dorico e superfici pavimentate da splendidi mosaici policromi. Preziosi mosaici abbellivano

Il tempio di Hagar Qim sotto la copertura di protezione, alla prima luce del mattino. Nella pagina accanto, in alto: l’ingresso del Museo Nazionale di Archeologia a Republic Street di Valletta. Nella pagina accanto, in basso: la «Signora dormiente» nella sua vetrina al Museo Nazionale di Archeologia.


anche le terme di Ghain Tuffieha, sulla baia di San Paolo, a testimonianza di una vita comoda e forse un po’ letargica condotta da una famiglia nobiliare alla periferia e all’ombra dell’impero. Il territorio rurale era vivificato da una ventina di ville, la meglio nota delle quali è quella di San Paolo Milqi (II secolo a.C.-I secolo d.C.) dotata di diversi impianti per la spremitura delle olive e la produzione dell’olio. Malta romana fu ricordata dalle fonti anche per una fiorente industria tessile, per l’estrazione del corallo, per la pesca e per i suoi comodi approdi commerciali. Gli Atti degli Apostoli ricordano che san Paolo, nel 60 d.C., naufragò sulle coste dell’isola, per essere soccorso e ospitato da un ricco maggiorente del luogo. Le catacombe cristiane di S. Paolo a Rabat, tra IV e VIII secolo d.C., testimoniano la persistenza di comunità cristiane benestanti sino a oltre la soglia della tarda antichità.

IL MUSEO nazionale DI archeologia a VALLETTA Un percorso alla scoperta delle vestigia antiche di Malta inizia con la visita al Museo Nazionale di Archeologia, allestito in un bellissimo palazzo storico nel centro di Valletta, e che espone i principali manufatti restituiti dagli scavi nell’arcipelago, tra cui la «Signora dormiente» e la «Venere di Malta». Museo Nazionale di Archeologia Valletta, Auberge de Provence, Republic Street Orario tutti i giorni, 8,00-19,00 Info tel. +356 21 221623; http://heritagemalta.org A Gozo è stato inaugurato lo Ggantija Interpretation Centre, che espone i rinvenimenti nella seconda isola dell’arcipelago Per la visita ai siti (e, in particolare, all’ipogeo di Hal Saflieni, che prevede un accesso contingentato e per il quale si consiglia di prenotare) ci si può rivolgere a Heritage Malta o, in Italia, all’Ente per il Turismo di Malta (www.visitmalta.com) «Archeo» ringrazia Dominic Micallef (MTA) per la preziosa collaborazione a r c h e o 93


il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

anfiteatri e campi di golf perché non restituire al colosseo l’arena che un tempo accoglieva giochi e spettacoli? a ben vedere, l’operazione non farebbe altro che ridare senso al monumento (e potrebbe farci provare le stesse emozioni che i viaggiatori dell’ottocento assaporarono al chiaro di luna...)

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o sotto gli occhi un’inserzione che promuove il turismo nella vicina Tunisia. Con una bella idea grafica, il pubblicitario ha sintetizzato l’offerta, ripresa da una piccola didascalia a margine: «Mattina: Golf a Monastir. Pomeriggio: Visita all’anfiteatro di El Jem». L’idea grafica consiste nell’inserire in una bella veduta a volo d’uccello dell’interno del celeberrimo anfiteatro africano

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l’immagine altrettanto seducente e soft di un campo da golf dove alcuni sportivi si aggirano con le loro mazze. Il campo coincide con l’arena dell’anfiteatro.

un intrico di muri La mia mente è subito andata al nostro Colosseo, ma quell’accostamento si è presto inceppato, perché nei miei occhi si è sovrapposta l’immagine, assai

sgradevole, che l’interno del monumento piú visitato d’Italia porge di sé da troppo tempo ormai. Le belle foto aeree che lo ritraggono dall’alto ci mostrano infatti non la vasta e candida arena, che un tempo ospitava i giochi e gli spettacoli o, in età piú recente, processioni religiose e manifestazioni pubbliche, ma un intrico inquietante di muri scoperchiati al sole, un labirinto


tanto incomprensibile quanto inaccessibile. Ho messo da parte la rivista con la pubblicità tunisina e mi sono domandato se fossi solo io a provare quel senso di naturale fastidio che quell’immagine suscita in me. O se quel sentimento non sia piuttosto condiviso, magari da un numero alto o altissimo di persone, molte delle quali, forse, non si sono mai fermate a riflettere sul motivo per cui il Colosseo non abbia piú la sua arena. Come in uno stadio senza il campo d’erba, all’Anfiteatro Flavio si può andare sulle gradinate in attesa di una partita che non avrà mai inizio: una partita che non si può giocare. Perché tutto questo? Agli occhi del turismo culturale internazionale questo nostro celeberrimo monumento è diventato l’icona di Roma e, per certi versi, della stessa Italia. Insomma, è un po’ il nostro

un monumento vivo

Nella pagina accanto: Roma. L’interno del Colosseo, cosí come si presenta oggi. Fino al secolo scorso, l’anfiteatro era ancora provvisto dell’arena, successivamente rimossa, al fine di consentire l’indagine archeologica degli ambienti sotterranei dell’edificio (a quali si riferiscono le strutture oggi visibili). In basso: Ippolito Caffi, L’interno del Colosseo. Olio su carta applicata su tela, 1857 circa. Roma, Museo di Roma. Nel dipinto è ben visibile l’arena poi demolita.

Non ripercorreremo qui quelle vicende, ma rifletteremo piuttosto sul fatto che le vecchie vedute ottocentesche ritraggono ancora il Colosseo con la sua bella arena, viva perché calpestabile, e quindi privatamente o pubblicamente usabile e usata. Poi è successo qualcosa. Pian piano, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, l’arena è stata progressivamente scoperchiata, l’invaso del monumento è stato scavato

attraverso una complicata sequela di vicende, i suoi sotterranei sono stati messi a nudo: un’infinità di dati archeologici sono andati perduti, ma tanti altri dati – a mano a mano che l’archeologia irrobustiva i suoi metodi – sono stati raccolti, sicché oggi i sotterranei del Colosseo sono una fonte ancora inesaurita di «racconti», con i corridoi in cui si

biglietto da visita. La brava archeologa che dirige da anni questo complesso archeologico, Rossella Rea, ha dedicato ampi studi alla sua storia, alle vicende che lo trasformarono nel corso dei secoli da anfiteatro a rudere, a fortezza, a cava di pietre, a luogo della pietà religiosa e del mistero notturno, a soggetto di mille vedute artistiche, a non-luogo del turismo di massa.

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movevano gli inservienti, le celle che ospitavano le belve prima degli spettacoli, i passaggi che permettevano di sollevare le macchine di scena. Già. Ma, per definizione, un sotterraneo è qualcosa che sta «sotto terra»; è nato, è stato creato per stare sotto terra: è questa la sua condizione esistenziale. Perché i sotterranei del Colosseo stanno a pancia all’aria sotto il sole e non sono tornati là dove dovevano stare? O meglio: perché non è tornata su di loro quella coltre necessaria e antica dell’arena, appunto, che oltre a dar loro la dovuta protezione, gli avrebbe dato anche quel che adesso gli manca, cioè un senso?

come un’autopsia È esistita, ed esiste tuttora – noi archeologi dobbiamo confessarcelo per primi – un’archeologia necrofila, un modo di concepire e di praticare l’intervento sui monumenti e le stratificazioni antiche come un’insana esposizione delle cose morte. Intendiamoci: l’anatomia dei cadaveri ha dato vita alla scienza moderna, aprendosi la strada tra divieti religiosi e tabú ancestrali, e anche l’archeologia, praticando l’anatomia del terreno, vive frugando nelle viscere delle cose rotte, scartate, non piú funzionanti. Ma analizzare scientificamente un monumento e trarne tutte le informazioni storiche che ne derivano non ha nulla a che vedere con l’ostentazione della sua morte. Fatta l’autopsia, il medico legale ricuce il cadavere. Scavato un monumento, l’archeologo dovrebbe generalmente riseppellirlo, specie se manca un progetto valido di valorizzazione. E se quel monumento è sempre stato lí? Se – come nel caso emblematico del Colosseo – quell’ammasso di pietre, prima di diventare ai nostri occhi un monumento, era stato una rovina, una di quelle grandi rovine che

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hanno dato senso e fascino alla storia millenaria di Roma? È possibile indagare con lo scavo un monumento-rovina? Certo che è possibile. Ma le rovine richiedono qualcosa di piú di quello che pretende un semplice edificio sepolto: la loro storia è ininterrotta nei secoli, hanno vissuto e agito prima di noi e continueranno a farlo dopo; non le abbiamo resuscitate noi: già erano lí. Noi le abbiamo indagate e loro, accettando questa nostra legittima pulsione, pretendono da noi qualcosa in cambio: il rispetto. Al Colosseo, nel secolo appena trascorso, qualcuno ha ritenuto di dover togliere la sua arena, cioè il suo vestito, magari un po’ lacero, che gli consentiva però di mostrarsi al mondo con dignità. Io vorrei che noi rivestissimo questo Grande Ignudo della sua veste piú intima, gli restituissimo la possibilità di parlarci a viso aperto, non come chi sta imbarazzato davanti al pubblico con entrambe le mani sul ventre, quasi a chiedere scusa di una colpa non sua. Rifare l’arena quali problemi comporta? Francamente non ne vedo: restituire ai sotterranei la loro «sotterraneità» significa, semmai, offrire la possibilità di visitarli addentrandosi in un labirinto, questa volta però sensato, perché percorribile cosí come lo era quando faceva parte di un meccanismo funzionante, che funzionava perché era «al di sotto», sottratto agli sguardi, ma non alle persone che vi agivano.

gare sportive e voli di aquiloni... Ridando vita ai sotterranei si restituisce anche vita all’arena, al senso stesso di ogni anfiteatro di ieri, di oggi e di domani, cioè di un luogo in cui – lo dice la parola stessa – dall’intorno si osserva quel che accade al centro. E che cosa mai può accadere in un luogo che non c’è? La distruzione dell’arena ha trasformato il Colosseo in un luogo surreale.

Una delle immagini promozionali adottate dall’Ente Nazionale del Turismo Tunisino nella quale il fascino del patrimonio archeologico viene associato alla possibilità di praticarvi il gioco del golf. La sua restituzione domani gli permetterebbe di tornare a essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita – nelle forme tecnicamente compatibili – ogni possibile evento della vita contemporanea. Sarebbe bello inaugurare la nuova arena con un incontro di judo o – se preferite – di lotta grecoromana, o forse con un coro di bambini, o forse con una recita di poesie, o con un volo di aquiloni… O anche solo ammirandola in una notte di luna, come consigliava alla fine dell’Ottocento il Baedeker’s di Roma, che suggeriva al turista di approfittare di una notte di luna proprio per recarsi al Colosseo, perché – scriveva – «i visitatori possono entrare nell’arena a ogni ora della notte, mentre l’accesso alle gradinate è permesso fino alle 11 di sera con la guida di un custode». Ogni commento sembra superfluo. E il golf? No, anche nel Colosseo, come nell’anfiteatro di El Jem, lo spazio mancherebbe.



antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

dalle schiave alle furie omaggi solenni per le donne di condizione servile, giochi nel nome di apollo, feste agresti e in riva al tevere: anche nel mese ribattezzato luglio (in onore di giulio cesare) i romani trascorrevano lunghe giornate tra cerimonie e rievocazioni

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el mese di Quintilis – quinto del calendario romano piú antico che iniziava a marzo, diventato poi, dopo la morte di Cesare (e in suo onore), Iulius, cioè luglio – si celebravano diverse feste. Una, però – che rientrava in quelle «di categoria» – era piuttosto singolare; anche per noi che di «categorie» siamo abituati a

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festeggiarne non poche, dalle donne ai lavoratori, dagli innamorati alle mamme, ai papà, ai nonni... Si trattava del festum ancillarum, la «festa delle schiave»: come se ai nostri giorni – mutatis mutandis, naturalmente! – festeggiassimo quelle che un tempo si chiamavano «donne di servizio» e poi son diventate

«collaboratrici domestiche». La festa cadeva il giorno delle nonae, ossia il 7 del mese, e traeva origine, secondo la tradizione, da un episodio che si sarebbe verificato nella piú antica storia dell’Urbe, collegato al famoso e drammatico «sacco» a cui la città fu sottoposta da parte dei Galli agli inizi del IV secolo a.C.


Macrobio (I, XI) e Plutarco (Rom./ Camil. XXVIII) raccontano che, dopo la ritirata dei barbari, gli abitanti di Fidene e di altre città latine vicine a Roma mandarono a chiedere ai Romani fanciulle di libera condizione da condurre in matrimonio: una sorta di rivincita sul leggendario «ratto delle Sabine» (che, in realtà, erano soprattutto Latine!), in cambio – e in pegno – della loro «non ingerenza» ostile nelle cose romane in quel difficile momento. Mentre in Senato si discuteva sulla decisione da prendere, a proposito di quella arrogante richiesta, una giovane schiava di nome Tutula (o, secondo altre versioni, Filotide) si offrí di consegnarsi essa stessa ai Latini, insieme a un certo numero di sue colleghe, sotto le mentite spoglie di donne libere. La proposta fu accettata e le schiave, riccamente abbigliate e ornate, vennero consegnate come fanciulle di buona famiglia – e con grande scena – ai richiedenti. Questi poi si lasciarono facilmente convincere dalle donne a festeggiare l’avvenimento, facendo baldoria con loro e soprattutto concedendosi copiose libagioni. Quando tutti furono ubriachi e caduti in sonno profondo, Tutula s’arrampicò su un albero e, secondo quanto era stato precedentemente concordato, agitando una fiaccola, segnalò ai Romani il momento favorevole. Riunitisi rapidamente e chiamandosi sottovoce l’un l’altro, i Romani si precipitarono sui malcapitati Latini e ne fecero strage per tornarsene poi a casa con le loro schiave, graziosamente ringraziate e festeggiate. In ricordo di quell’episodio – scrive Plutarco – ogni anno si celebrava a Roma una festa durante la quale le schiave «prima escono fuori in massa dalla città pronunciando molti nomi di persone e imitando il chiamarsi

vicendevolmente in fretta e con sollecitudine. Poi, splendidamente ornate, se ne vanno in giro motteggiando e facendo tra loro un finto combattimento a rievocazione della parte avuta (dalle loro… antenate, n.d.A.), nell’assalto contro i Latini. Finalmente – conclude lo storico – siedono a banchetto sotto pergolati fatti con rami di fico perché da un fico selvatico (o caprifico) Tutula aveva dato il famoso segnale».

la libertà e una dote Macrobio aggiunge che a Tutula e alle sue compagne fu concessa in premio la libertà, e inoltre, vennero accordate una dote e la proprietà delle vesti che avevano indossato per la beffa. Dall’albero di caprifico – il cui lattice veniva utilizzato nel rituale della cerimonia – al giorno della festa fu dato il nome di Nonae Caprotinae, e a Giunone, a cui la festa stessa era stata dedicata, l’appellativo di Caprotina (ma, secondo un’altra versione quell’appellativo sarebbe derivato alla dea – identificata con la Iuno Sospita, cioè «salvatrice», di

Nella pagina accanto: Sebastiano Ricci, Camillo e Brenno. XVIII sec. Ajaccio, Musée des Beaux-Arts. L’artista immagina il momento in cui il capo dei Galli, dopo la presa di Roma del 390 a.C., gettò la spada su uno dei piatti della bilancia con cui si stava pesando l’oro chiesto come riscatto alla città per aumentarne la quantità. In basso: gruppo in terracotta raffigurante due giovani donne, dal santuario orientale di Lavinio. IV sec. a.C. Pratica di Mare, Museo Archeologico Lavinium. Lanuvio – perché nel suo simulacro essa veniva rappresentata, oltre che con scudo e lancia, con indosso una pelle di capra). Infine, scrive sempre Macrobio che alla cerimonia partecipavano, perfettamente alla pari e con uguali prerogative, donne libere e donne di condizione servile, cioè padrone e schiave, e che la festa era comunemente indicata come «il giorno delle schiave». Come s’è accennato, luglio contemplava altre feste. Ancora ai primi del mese, a partire dal 6 e per alcuni giorni, si celebravano i Ludi

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Apollinares, istituiti durante la seconda guerra punica sotto l’incombente minaccia di Annibale. Suggeriti dalla consultazione dei Libri Sibillini, erano in onore di Apollo, considerato il dio salvatore per eccellenza, e furono celebrati per la prima volta, una tantum, nel 212 a.C. Ma, dal 208, divennero annuali. Erano presieduti dal pretore urbano e comprendevano giochi, cacce e spettacoli scenici. Il giorno 13 si concludevano con un sacrificio solenne, compiuto col rito greco, per il quale Livio parla (XXV, 12, 9-15) dell’offerta ad Apollo, di «un bue con le corna dorate e due capre bianche, anch’esse con le corna dorate», e a Latona, la madre del dio, di «una vacca con le corna pure dorate». È verosimile che il sacrificio fosse compiuto davanti al tempio che allo stesso Apollo era stato dedicato fin dal 431 a.C., nei pressi del Circo Flaminio e che poi, nel 32 a.C., dopo essere stato restaurato dal console Caio Sosio, fu indicato come tempio di Apollo Sosiano: quello del quale rimangono ancora (rialzate) le tre colonne che si vedono presso il teatro di Marcello.

a porte aperte Stando sempre a Livio, il popolo interveniva agli spettacoli coronato di ghirlande, le matrone innalzavano preghiere, ovunque si banchettava negli atri delle case con le porte lasciate aperte, e si festeggiava con ogni genere di cerimonie. Alla festa seguivano sei giorni di mercato al quale i contadini del suburbio portavano i loro prodotti. Il giorno 19 era la volta dei Lucaria, festa comune dei «boschi sacri» (luci) con la quale si commemorava la salvezza conseguita per essersi rifugiati in un bosco «grande e tenebroso», come scrive Tito Livio (V, 38), situato tra il Tevere e la via Salaria (all’altezza dell’attuale km 20), dagli scampati alla strage compiuta dai Galli in marcia verso Roma presso il fiumicello Allia (l’odierno fosso della

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Marcigliana). Donde il giorno 18 – quello della strage – bollato per sempre come «funesto» (ater), fu chiamato Dies alliensis. Plutarco c’informa che il danaro speso per le cerimonie era chiamato lucar e proveniva dalle rendite dei boschi di proprietà pubblica. Seguiva, il giorno 23, la festa dei Neptunalia, dedicata a Nettuno che un tempo, prima che per l’influenza greca diventasse il dio del mare lo era delle acque dolci. Ma di essa sappiamo solamente che si celebrava al riparo di capanne di rami d’alloro (dette umbrae), costruite sulla sponda destra del Tevere, piú o meno come in occasione dei Ludi piscatorii del mese precedente. In epoca tarda fu «arricchita» di «giochi» chiamati Neptunalici. Finalmente, il giorno 25, erano «di turno» i Furrinalia. Dedicati alla dea Furrina, della quale, già nella tarda repubblica, come attesta Varrone (Ll VI, 19), si ricordava appena il nome. Come, del resto, era accaduto per altre antichissime

Quadretto con la personificazione di Luglio, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. divinità (Carmenta, Larentia, Angerona, ecc.) dimenticate o rimaste solo nelle tradizioni e nelle superstizioni popolari. Secondo Cicerone (Nat. Deor. III,18), si sarebbe trattato di una sorta di personificazione «unificata» delle Furiae, i demoni infernali assimilati alle greche Erinni. Piú semplicemente, doveva trattarsi della ninfa di una fonte che sgorgava in un bosco «sacro» al di là del Tevere e ai piedi del Gianicolo, dove, in corrispondenza dell’odierna Villa Sciarra, sappiamo che veniva localizzato un Lucus Furrinae. In origine aveva certamente avuto una certa importanza, visto che al suo culto era addetto un collegio di sacerdoti particolari come erano i Flamines, sia pure di secondo rango, come lo erano quelli detti perciò minores.



a volte ritornano Flavio Russo

una cannuccia sul pianeta rosso già plinio il vecchio descrisse uno strumento capace di indicare il nord. una bussola semplice, ma efficace, che, duemila anni piú tardi, ha ripreso a funzionare... su marte!

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mezzogiorno, nel nostro emisfero, l’ombra di qualsiasi oggetto è la piú corta dell’intera giornata e punta esattamente verso il polo nord geografico, verso sud nell’altro emisfero. Il fenomeno dipende dall’inclinazione dell’asse terrestre e risulta ben noto da quando si realizzò che la Terra era una sfera, una concezione che per Plinio il Vecchio era già ampiamente condivisa ai suoi giorni. Ne derivò un’antesignana bussola, definita «solare» o

«pelasgica»: l’arcaico strumento constava di una scodella concava, con incisi all’interno cerchi concentrici, al centro dei quali stava infisso un piccolo gnomone, perlopiú una cannuccia appuntita. Il vino rosso che veniva versato dentro, lambendo interamente uno dei cerchi, garantiva l’orizzontalità della scodella e, di conseguenza, la verticalità della cannuccia-gnomone. In questo modo era possibile stimare l’ombra minima e quindi il Nord. Lo strumento trovò utilizzò nel deserto e non in mare, dove il moto

ondoso ne avrebbe frustrato ogni attendibile lettura. Della sua esistenza diede implicita testimonianza il già citato Plinio il Vecchio in questi termini: «Unum a Pelusio per harenas, in quo, nisi calami defixi regant, via non reperitur, subinde aura vestigia operiente», ovvero: «Il primo itinerario da Pelusio (città dell’antico Egitto, 30 km a sud-est dell’odierna Port Said) attraversa il deserto, dove, la via non si trova senza le cannucce infisse, dato che il vento cancella immediatamente ogni orma». Ma quale temerario avrebbe sfidato il deserto affidandosi a canne che il vento poteva subito seppellire nella sabbia? E poi, chi le avrebbe messe in opera, e quando e ogni quanto tempo le avrebbe sostituite?

questioni di lessico Domande alle quali è impossibile rispondere, anche perché i calami, in latino, non sono le canne, bensí le cannucce tagliate obliquamente, che, intinte nel calamaio, fungevano da penne. I calami, pertanto, non furono affatto antesignani delineatori a bande gialle e nere – del tipo di quelli che suggeriscono il percorso delle strade di montagna quando

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sono nascoste dalla neve –, ma le cannucce delle bussole solari ben infisse nelle relative scodelle. Per quanto sensata, l’ipotesi della bussola solare sarebbe rimasta tale se nel 1954, in una grotta di Qumran, presso il Mar Morto, non se ne fosse trovato un probabile esemplare. Un piatto concavo di 14,5 cm di diametro, spartito da piú cerchi concentrici incisi, a loro volta scanditi da un’approssimata gradazione, con al centro il foro di circa 10 mm per la cannuccia. Grazie ai cerchi concentrici, è facile valutare la lunghezza minima dell’ombra, e quindi il mezzogiorno e il Nord, e grazie alla gradazione il trascorrere delle ore. Col dissolversi dell’impero si perse la memoria dello strumento e con l’avvento della bussola magnetica anche della sua necessità, che, paradossalmente, tornò a imporsi nel secolo scorso, quando si avviarono le ricognizioni dei deserti con autoveicoli. Per via delle masse ferrose presenti nei motori e nelle carrozzerie, l’ago magnetico non dava piú indicazioni attendibili, e fu proprio per un raid nel deserto libico che, nel 1931, il maggiore dell’esercito britannico Ralph Alger Bagnold (18961990) reinventò, forse inconsapevolmente, l’antica

bussola, installandola sui cruscotti delle autovetture e ricavandone un infallibile orientamento. Nel 1940 Bagnold fu richiamato con il grado di colonnello e, per la conoscenza del deserto, ebbe l’opportunità di formare una piccola unità specializzata in incursioni a lungo raggio: il Long Range Desert Group. Componente imprescindibile dell’equipaggiamento delle camionette di quell’unità fu l’ormai celebre bussola solare, che, guadagnatasi ulteriore rinomanza, finí anche nella dotazione di emergenza dei bombardieri statunitensi costretti ad atterraggi di fortuna nel deserto.

Nella pagina accanto, in alto: il reperto di Qumran che può essere intepretato come bussola solare. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione grafica della bussola solare di Qumran vuota. In basso, a sinistra: ricostruzione grafica della bussola solare di Qumran riempita di vino: un espediente che permetteva di verificare l’orizzontalità dello strumento e, di conseguenza, la verticalità della cannuccia usata come gnomone. In basso, a destra: una bussola solare moderna, montata a bordo di una camionetta militare. Il recupero dello strumento si deve al maggiore inglese Ralph Alger Bagnold.

viaggi spaziali

l’antica bussola solare, cosicché l’arcaico strumento fu promosso a guida dei piú avanzati congegni dell’umanità. Realizzata con materiali e tecnologie d’avanguardia, ma sempre composta da un quadrante circolare suddiviso da cerchi concentrici, la bussola, collocata bene in vista delle telecamere di bordo, equipaggiò prima i due rover gemelli, lo Spirit, lanciato il 10 giugno 2003, e poi l’Opportunity, messo in orbita il 7 luglio successivo e dalla lunghissima vita operativa. Piú di recente, ne è stato dotato il Curiosity, partito il 26 novembre 2011. E quello strumento ancora funziona!

Nel 1977 la NASA dovette decidere quale strumento installare sui rover, destinati all’esplorazione della superficie di Marte e già in avanzato approntamento, per leggerne da terra l’indicazione di un preciso orientamento. Era indispensabile che il peso e il consumo di energia fossero insignificanti e, soprattutto, che lo strumento fosse indipendente dal campo magnetico, di cui il pianeta rosso è privo. Quasi identici a quelli della Terra sono invece la durata del giorno e l’inclinazione dell’asse, rispettivamente di 24h 37m 23s e circa 25°. Caratteristiche che rendevano perfettamente congrua

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scavare il medioevo Andrea Augenti

nella città di recaredo com’era fatto un abitato dell’alto medioevo? molte risposte ci giungono da recopolis, un centro fondato in spagna dai visigoti e da oltre mezzo secolo sotto la lente degli archeologi

C

orre l’anno 1893, quando Juan Catalina Garcia López, primo professore di archeologia dell’Università di Madrid, nel corso di un sopralluogo nella provincia di Guadalajara (Spagna centrale) si imbatte in alcuni resti monumentali. Lo studioso non ha dubbi: per lui quelle rovine in località Cerro de la Oliva sono ciò che resta della città scomparsa di Recopolis. Inizia cosí la riscoperta di uno dei piú importanti siti dell’Europa tardo-antica, la città voluta e fondata nel 578 dal re visigoto Leovigildo e cosí chiamata in onore di suo figlio, il futuro re Recaredo. Dal 1945 gli scavi si sono susseguiti a piú riprese, e continuano ancora oggi, sotto la direzione di Lauro Olmo Enciso dell’Università di Alcalà de

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Henares, mentre il sito è divenuto il cuore di un parco archeologico. È bene sapere che le città fondate nei secoli dell’Alto Medioevo non sono molte, e Recopolis è una di queste: si tratta quindi di una rara opportunità di guardare da vicino all’urbanesimo di quel periodo. Ma che cosa sappiamo davvero, e cosa abbiamo capito di questa città a oltre un secolo dalla scoperta? L’abitato era difeso da una possente cinta muraria in grandi blocchi di pietra, dotata di torri e di almeno una porta monumentale, venuta alla luce durante gli scavi. All’interno, gli edifici principali si affacciavano su una grande piazza. Su tutti svetta il palazzo, un complesso enorme che costituisce un esempio unico per l’architettura di questo periodo. La pianta del

palazzo è a forma di «L», ed entrambi i corpi di fabbrica sono suddivisi in due navate da una fila centrale di pilastri. Qui risiedeva chi governava la città e il territorio circostante, e l’edificio – a due piani, decorato con sculture – doveva avere un impatto enorme: con la sua mole era infatti visibile a chilometri di distanza. Sulla piazza

Barcellona Madrid

Recopolis Mar Mediterraneo


A sinistra: disegno ricostruttivo del lavoro all’interno di una zecca altomedievale del tipo di quella che dobbiamo immaginare per Recopolis. In basso: moneta in oro coniata dalla zecca della città fondata dal re visigoto Leovigildo. Nella pagina accanto: i resti della grande chiesa di Recopolis. città viene abbandonata e inizia a essere sfruttata come cantiere a cielo aperto, per il recupero dei materiali da costruzione. Recopolis viene allora sostituita da un nuovo centro, fondato nelle vicinanze: Madinat Zorita, oggi la fortezza di Zorita de los Canes. si affacciava anche una grande chiesa, con una tipica articolazione in tre navate, transetto e un’abside. Su entrambi i lati della via che portava alla porta principale si trovavano poi magazzini e officine, nei quali venivano lavorati il metallo e il vetro, si fabbricavano accessori del vestiario e gioielli, si conservavano e vendevano cibo e altri beni di consumo. Piú a sud, invece, è emerso un quartiere residenziale, con varie abitazioni.

echi d’impero Recopolis, insomma, è una tipica città tardo-antica, caratterizzata dagli elementi piú importanti dell’urbanistica di quel periodo: le mura, il palazzo, le chiese… E allora si intuisce che Leovigildo, al momento della fondazione, voleva imitare il canone, il modello della città che fu proprio dell’impero romano prima, e di quello bizantino poi. Si tratta perciò di un interessante esempio di adozione da parte dei barbari – che originariamente non fondavano città – dei modi di vita e delle idee consolidatisi nel corso del tempo proprio in quell’impero che essi stessi avevano invaso. Un caso di contaminazione tra culture, quindi, per noi utile a capire gli sviluppi della mentalità di quelle genti, a

È solo l’inizio...

conquista avvenuta. Ma che cosa succede a Recopolis dopo la fine del regno visigoto? Molte cose, tanto da fare della città una sorta di laboratorio dell’urbanesimo e delle trasformazioni del paesaggio delle fasi successive. Già verso il VII secolo il tessuto urbano inizia a frammentarsi e a disgregarsi; e cosí, tanto per fare un esempio, i magazzini disposti lungo la via principale vengono trasformati in abitazioni. Le modifiche continuano nell’VIII secolo, con la conquista araba, quando la città prende il nome di Madinat Raqqubal. In questo periodo il palazzo viene colpito da un incendio e poi ricostruito, mentre dentro la cinta si moltiplicano le abitazioni e nel terreno vengono scavati molti silos per la conservazione delle derrate. In seguito, all’inizio del IX secolo, la

Ma la storia non è ancora finita: nel 1085 il territorio passa in mano ai cristiani, e, nel XII secolo, un signore feudale della zona fonda un villaggio sulle rovine della città. È un villaggio piuttosto grande e importante, nel quale viene costruita anche una chiesa, che sfrutta in parte i muri di un piú antico luogo di culto: il sito si riproduce e si rigenera cannibalizando le sue stesse parti, come spesso accade in questi casi. La storia di Recopolis è dunque lunga, complessa e affascinante. Se dovessimo fare un bilancio, in realtà sappiamo meno della metà di quanto potremmo, perché la parte scavata è ancora molto piccola rispetto alla superficie complessiva dell’insediamento. Per esempio, sappiamo che a Recopolis c’era una zecca, come in ogni città importante e sede amministrativa che si rispetti, ma lo deduciamo solo dalle monete, perché l’edificio non è stato mai trovato (e quanto sarebbe importante: non conosciamo alcun esempio di zecca altomedievale noto attraverso l’archeologia!). Non resta allora che aspettare gli scavi che verranno, perché Recopolis ha ancora molte storie da raccontare, e lo potrà fare solo grazie all’archeologia.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

voli sotterranei alla scoperta della piccionaia dell’antica maresha, in israele: un complesso spettacolare, che, nel corso di una lunga frequentazione, ebbe molteplici «adattamenti», compresa la parziale trasformazione in moschea!

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e motivazioni che possono avere indotto a realizzare piccionaie scavate nella roccia, anziché in muratura, sono le medesime intuibili per gli insediamenti abitativi rupestri che, in molte delle puntate precedenti, sono già state affrontate: in presenza di rocce caratterizzate da resistenza e facilità di escavazione, costruire «in negativo» strutture ipogee risultava piú semplice e piú veloce, dunque anche piú

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economico. Anche nel caso delle piccionaie, per esempio, ciò permetteva di evitare l’uso di legname per gli orizzontamenti dei tetti e di occupare suolo agricolo; le cavità, inoltre, erano asciutte e, soprattutto, sfruttavano la naturale inerzia termica della roccia che manteneva la temperatura interna confortevole tutto l’anno. Queste caratteristiche sono comuni alle piccionaie rupestri individuate e documentate in diversi Paesi del

bacino mediterraneo, dall’Italia alla Turchia (Cappadocia e area del lago di Van), e presso Ani, capitale del regno di Armenia nell’anno 1000. Un caso davvero spettacolare è quello dell’area archeologica dell’antica città di Maresha, situata 40 km a sud-ovest di Gerusalemme. Il tell, oggetto di scavi dal 1900, conserva i resti di edifici in muratura di un centro urbano risalente all’età del Ferro e particolarmente fiorente nel


il caso torinese

Rifugi e ghiacciaie

L’importanza del patrimonio archeologico e storico torinese è ben nota ed emerge con forza percorrendo le strade, le piazze e visitando i suoi prestigiosi musei. Meno conosciuta, ma altrettanto importante e suggestiva, è la Torino sotterranea. La città del «piano di sotto» si rivela attraverso un viaggio a ritroso nel tempo, che dai sotterranei della chiesa della Consolata, mai aperti prima al pubblico, porta alle grandi ghiacciaie del Centro Palatino, ma anche a scoprire un rifugio antiaereo della seconda guerra mondiale, a 12 m di profondità, e la cripta sotterranea del Duomo. Un itinerario affascinante in ambienti ipogei quasi inesplorati, alla scoperta di una città sconosciuta che racconta un passato cristallizzato nel tempo. Un itinerario emozionante «al centro della terra», per ritrovare quella parte della città che tante volte ha salvato e dato rifugio, nella storia, agli abitanti del «piano di sopra». Per informazioni, ci si può rivolgere a: Somewhere Tours & Events (tel. 011 6680580; www.somewhere.it).

periodo ellenistico. L’insediamento di superficie era duplicato da una «città» sotterranea di cui, sino a oggi, Amos Kloner e Boaz Zissu, della Università Bar-Ilan, hanno scoperto 160 complessi scavati in un deposito di tenero calcare pelagico, spesso da 30 a 100 m, sormontato da una sottile crosta di calcare piú resistente. Le cavità si trovano direttamente sotto le abitazioni di superficie ed erano accessibili attraverso rampe di scale scavate nella roccia che scendevano nello strato piú tenero. Ogni complesso era costituito da molteplici spazi ipogei con funzioni diversificate: opere di culto e sepoltura, rifugi bellici, cave, cisterne, bagni, stalle, magazzini, oltre a 27 frantoi per produrre olio di oliva. Ma le strutture piú numerose, diverse centinaia, sono le piccionaie, ciascuna composta da nicchie, da

200 a 4000, scavate in file lungo le pareti di roccia del reticolo sotterraneo. Tali ambienti, che risalgono al III secolo a.C., si svilupparono soprattutto durante il periodo ellenistico e nella prima età imperiale romana.

strutture «polivalenti» Successivamente, molte di esse furono riutilizzate come magazzini o per altre attività. Durante la rivolta di Bar Kokhba (132-135 d.C.), vale a dire in occasione della terza guerra giudaica – che vide il sollevarsi della popolazione ebraica contro l’occupazione romana –, le immense piccionaie di Maresha si trasformarono in rifugi sotterranei. Furono poi riutilizzate in epoca bizantina e una di esse fu persino convertita in moschea nel primo periodo islamico. Le piccionaie di Maresha

In alto: Torino. Uno dei tunnel che si snodano nel sottosuolo della città. Nella pagina accanto: le piccionaie di Maresha (Israele). III sec. a.C. risultano dunque assai piú antiche di quelle della Cappadocia (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014). Da un punto di vista strutturale la differenza piú rilevante tra i due complessi consiste nel fatto che, mentre le piccionaie cappadoci sono scavate nelle pareti delle falesie, a diversi metri sopra il livello del suolo, le camere di quelle del sito israeliano sono collocate interamente sotto il piano di campagna. L’accesso dei volatili avveniva quindi attraverso appositi pozzi verticali, aperti in superficie a livello dei cortili, nei quali i piccioni dovevano «tuffarsi» per raggiungere i loro nidi nel sottosuolo.

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divi e donne Francesca Cenerini

trame fatali figlia di marco aurelio, Lucilla esce dall’ombra sposando lucio vero, e, da quel momento in poi, la donna è al centro di misteri e congiure: complotti di cui fu lucida artefice o, infine, vittima?

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el 164 d.C. si celebra il matrimonio fra Annia Galeria Lucilla, figlia dell’imperatore Marco Aurelio e di Faustina Minore, e Lucio Vero, coreggente all’impero. Quest’ultimo si trovava in Oriente per combattere contro i Parti e quindi Marco Aurelio accompagna la figlia soltanto fino al porto di Brindisi, per farla imbarcare per Efeso, dove le nozze si sarebbero celebrate. Le fonti si interrogano sui motivi della scelta di Marco Aurelio e due sono le motivazioni addotte: la prima è che l’imperatore non volesse mettere in ombra, con la sua presenza in Oriente, il ruolo di Lucio Vero quale comandante in capo della guerra contro i Parti (Vita di Marco Aurelio, 9, 4-6); la seconda, invece, è che Lucio Vero temesse l’arrivo di Marco Aurelio, perché, in tal modo, il fratello adottivo si sarebbe potuto accorgere del suo comportamento disonorevole e dissoluto (Vita di Vero, 7, 7). Sulla morte improvvisa di Lucio Vero gli scrittori antichi sono piú che mai inclini alla dietrologia, demonizzando ancora una volta le donne. Una prima versione (Vita di Vero, 10, 1) riguarda il ruolo di Faustina Minore, sua suocera, che gli avrebbe servito ostriche avvelenate, per vendicarsi del fatto che la loro relazione sessuale (fra Faustina Minore e Lucio Vero), era stata rivelata dallo stesso Lucio alla moglie Lucilla, figlia di Faustina Minore. Una seconda versione attribuisce

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la responsabilità della morte alla stessa Lucilla, perché gelosa della cognata Ceionia Fabia (sorella di Lucio) e della sua influenza a corte (Vita di Vero, 10, 3). In realtà, le stesse fonti ci dicono che la morte, avvenuta alla fine di gennaio del 169 d.C., fu causata da un colpo apoplettico (Vita di Vero, 9, 11). Per motivi dinastici, Lucilla viene

obbligata a risposare il senatore Ti. Claudio Pompeiano, fedelissimo di Marco Aurelio, capace uomo politico e militare, il quale avrebbe potuto essere il tutore dei figli piccoli di Marco, se questi fosse morto. Lucilla mantiene il proprio titolo di Augusta (ottenuto durante il suo matrimonio con Lucio Vero), nonostante sposi un privato. Nelle fonti si legge (Vita di Marco Aurelio, 20, 7) che né Faustina Minore, né Lucilla erano contente di questo nuovo matrimonio. Nel 180 d.C. muore Marco Aurelio. Secondo Erodiano, autore di una Storia dell’Impero romano dopo Marco Aurelio e di fatto contemporaneo agli avvenimenti narrati, i suoi collaboratori e amici piú fidati (tra cui i mariti delle figlie) presentano ai soldati Commodo (il solo figlio maschio del principe in età adulta), il quale tiene la sua prima allocuzione nelle vesti di unico imperatore. Ma anche i cinque generi di Marco Aurelio hanno un’importanza fondamentale, politica e militare, soprattutto Claudio Pompeiano, il marito di Lucilla; alcuni di loro si sarebbero scontrati con il nuovo imperatore e sarebbero stati uccisi da Commodo che, in ogni caso, non poteva certo competere con la loro esperienza. Marco Aurelio, però, contava sul fatto che, non essendo aristocratici, ma di origine equestre, i suoi generi non potessero costituire una minaccia per il potere del nobilissimo figlio. Alla fine del 181 (o nel 182 d.C.)


Lucilla viene descritta come l’anima di una cospirazione, a causa, ci dicono le fonti, del comportamento dissoluto del fratello (Vita di Commodo, 4, 1). Vi partecipano Ummidio Quadrato, probabilmente imparentato con una sorella di Marco Aurelio, e Claudio Pompeiano Quintiano, figlio del fratello del secondo marito di Lucilla, nonché suo genero, in quanto aveva sposato la figlia di Lucio Vero e di Lucilla, Aurelia. Secondo Cassio Dione (73, 4, 4) Quintiano è anche l’amante di Lucilla, ma le fonti ci dicono che anche Quadrato è il suo amante, secondo il consueto topos delle Auguste come ninfomani. La congiura fallisce perché Quintiano non riesce a pugnalare l’imperatore, ma gli rivela che il suo mandante era il senato (Vita di Commodo, 4, 3). Le fonti aggiungono anche che Lucilla era gelosa della cognata Bruzia Crispina, moglie di Commodo, che, come suggerisce un’emissione monetale nell’anno 181-182 d.C., era incinta. Commodo reagisce duramente: Quintiano e Quadrato sono condannati a morte; Lucilla è dapprima esiliata a Capri e viene poi uccisa tra la fine del 191 e l’inizio del 192 d.C. A questo punto dobbiamo chiederci quali fossero le reali motivazioni della congiura, che non potevano essere la mera gelosia di Lucilla e la sua ambizione oppure l’immoralità del fratello. Si può pensare a un’azione politica voluta dai generali di Marco Aurelio insoddisfatti della pace conclusa da

Commodo sulla frontiera danubiana. Infatti, già all’interno del consiglio di Marco Aurelio c’era stata una divergenza di opinioni riguardo alla continuazione della guerra, con una vera e propria spaccatura tra un «partito della guerra», rappresentato da Claudio Pompeiano, e un «partito della pace» che era riuscito a prevalere su Commodo. Tale opposizione si fondava su due motivi: alti costi umani e materiali causati dalla lunga guerra danubiana e, soprattutto, delusione per la designazione di Commodo come successore. La congiura può, allora, essere stata espressione della volontà del senato, a cui si possono aggiungere rancori personali di appartenenti alla famiglia di Commodo.

interessi convergenti Ma qual è il ruolo di Lucilla in tutto questo? È stato sostenuto che Lucilla e Ummidio Quadrato sono le «teste pensanti» del complotto e che un loro matrimonio li avrebbe gratificati entrambi: Ummidio avrebbe rafforzato la propria posizione a corte sposando una Augusta e Lucilla avrebbe avuto un marito di rango superiore a Pompeiano. Il figlio di Lucilla, soprattutto se figlio di Lucio Vero e non di Claudio Pompeiano come è stato ipotizzato, avrebbe potuto soddisfare le aspettative di un Kinderkaiser (imperatore bambino) che avrebbe potuto riprendere la politica militare di Marco Aurelio, appoggiato in questo dai suoi generali, autorevoli esponenti del

Nella pagina accanto: ritratto di Lucilla, da Cartagine. II sec. d.C. Cartagine, Museo Nazionale. senato, politica già interrotta da Commodo. Si tratterebbe quindi di una congiura dinastica e cortigiana. Ma si potrebbe anche ipotizzare che i congiurati, d’intesa con il senato, pensassero, come successore di Commodo, al vecchio e autorevole Claudio Pompeiano che, invece, rimase fedele a Commodo (Vita di Pertinace, 4, 10). Erodiano (1, 8, 4) ci dice che Lucilla era gelosa della gravidanza di Crispina e la nascita di un figlio di Commodo avrebbe senza dubbio indebolito la posizione di Lucilla a corte. Cassio Dione (73, 4, 5) pone l’accento sul comportamento dissoluto di Lucilla, sui suoi numerosi amanti e sul fatto che era delusa dal marito Claudio Pompeiano, il quale rimaneva amico leale di Commodo. L’Historia Augusta, una volta tanto, non parla di amanti, ma di una vera e propria azione politica del senato (Vita di Commodo, 3, 9). Ma le reali motivazioni della congiura rimangono oscure e, soprattutto, il fatto che nessuna fonte indichi con chiarezza chi sarebbe stato il successore di Commodo nelle intenzioni dei congiurati inducono alcuni studiosi a dubitare addirittura del ruolo di Lucilla nella congiura. In ogni caso, la disarmonia familiare, contrapposta alla concordia della famiglia di Traiano, è uno dei motivi topici della caratterizzazione del tiranno, in questo caso di Commodo.

la famiglia dell’imperatore filosofo M. Annio Vero (= Marco Aurelio) (161-180)

Annia Aurelia Galeria Lucilla ~ L. Vero ~ Ti. Claudio Pompeiano (console nel 173)

~

Annia Faustina († 176)

Commodo Augusto (180-192) ~ Bruzia Crispina

Vibia Aurelia Sabina ~ L. Antistio Burro

Cornificia ~ M. Petronio Sura

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

la montagna di fuoco l’argaios, maestoso rilievo anatolico d’origine vulcanica, era considerato un luogo del sacro per eccellenza. e in tale veste compare nelle monete di cesarea in cappadocia

C

ome abbiamo avuto modo di sottolineare in piú di un’occasione, per gli studi di iconografia e di storia religiosa locale, la monetazione provinciale romana rappresenta una fonte insostituibile, capace di sintetizzare nel piccolo campo monetale culti e luoghi legati alle regioni nelle quali fu emessa e circolò. E se il virtuosismo degli incisori romani è una regola, i conii realizzati dalle zecche provinciali si distinguono per l’ardita ricerca prospettica e per le composizioni scenografiche, quasi barocche, che li rendono inconfondibili. Le immagini scelte per celebrare le glorie patrie delle città annesse all’impero romano rispettano le divinità locali e riguardano spesso, come si è visto nelle puntate precedenti, rocce sacre e santuari innalzati su montagne, spesso impervie e di antichissima

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tradizione spirituale, alcune delle quali menzionate anche nella Bibbia. Il monte è talvolta personificato, divenendo esso stesso un dio o il luogo dove esso risiede. È questo il caso dell’imponente monte Argaios (anche Argaeus e Argeo), in Cappadocia (Turchia, oggi Erciyes Dagi), di origine vulcanica, che raggiunge i 3912 m.

posizione strategica Alle sue falde si innalzava la città di Caesarea (Caesarea ad Argaeum, oggi presso Kayseri nell’Anatolia centrale, denominata in età preromana Mazaka ed Eusebia). Abitata almeno dal IV millennio a.C. e sede di importanti centri anatolici e ittiti, dovette la sua

fioritura alla posizione lungo importanti rotte commerciali connesse anche alla via della seta. Dal 36 a.C. al 17 d.C., la città fu retta dal re Archelao, cliente di Roma, alla morte del quale divenne, con Tiberio (17-18 d.C.), la capitale dell’istituita provincia di Cappadocia. Per la sua importanza strategica ed economica, fu


ribattezzata con il nome onorifico di Caesarea, fiorendo sino al III secolo d.C., e fu dotata di una zecca attivissima, qualificata dalla notevole capacità di emissione, soprattutto in argento, e dalla forte capacità creativa.

consacrato a zeus Strabone (Geografia, XII) parla della città e ne descrive la conformazione inospitale dominata dal monte Argaios, all’epoca

ancora attivo, con varie bocche di fuoco e una ricca foresta che ne ricopriva le pendici. In età classica il monte era consacrato a Zeus Argaios, che in alcune rappresentazioni tiene in mano una piccola piramide, simbolo appunto del monte, che compare come attributo anche in alcune monete della regione. Il monte Argaios è stato sempre considerato il luogo del sacro, tipo scelto per le monete battute già a nome di Eusebia e riproposto su tutta la monetazione imperiale, da Tiberio sino a Gordiano III, ampiamente attestato sui didrammi e multipli in argento con interessanti varianti. La montagna compare pietrosa, ricoperta di boschi e coronata sulla vetta da una statua nuda con gli attributi di globo,

lancia e corona radiata, propri di Helios-Sol, come su una dracma di Tiberio. In altri casi, come nelle emissioni traianee, fu scelta l’immagine del monte sotto forma di antro, al cui interno si vede una pietra circolare, tipica della religiosità egea e vicino-orientale, forse la rappresentazione aniconica di Zeus Argaios. In altri casi il monte è simbolicamente racchiuso entro un tempio, o sopra un altare, sormontato da una stella, dalla luna, da corone d’alloro, con lingue di fuoco che ne attestano la natura vulcanica e anche affiancato da due cesti dai quali fuoriescono palme, forse un accenno a premi connessi a festività locali. Particolari sono alcuni tipi battuti sotto i Severi, forse riferibili a un pellegrinaggio compiuto dalla famiglia imperiale: la montagna campeggia in tutta la sua potenza, con alberi, cumuli di pietre che circondano quella che pare la pietra sacra disposta alla base. Sulla cima, a sinistra, vi è la statua di Helios, e, a destra, su una sorta di piattaforma, tre piccole figure umane, in atteggiamento di saluto, nelle quali appare suggestiva la

Nella pagina accanto, in alto: veduta dell’Erciyes Dagi (l’antico monte Argaios), in Cappadocia (Turchia). Nella pagina accanto, in basso: rovescio di una dracma di Tiberio, con il monte Argaios sormontato da una statua di Helios (o forse Augusto divinizzato). Zecca di Caesarea-Eusebia, 14-37 d.C. A sinistra: rovescio di un tridramma di Settimio Severo, con il monte Argaios sormontato dalla statua di Helios e da tre piccole figure umane. 210 d.C. In basso: rovescio di un sesterzio di Adriano, con figura di Tyche che regge il Mons Argaeus. 134-138 d.C. proposta di identificazione con Settimio Severo al centro, il piú grande, ai lati del quale figurerebbero i figli Caracalla e Geta. Le fonti letterarie non ci dicono se l’ascesa della famiglia imperiale abbia effettivamente avuto luogo, e se, in tal caso, questo tipo la ricordi a gloria della città di Caesarea. Poiché tale variante compare solo con i Severi, ciò suffraga la possibilità che si tratti di un evento reale (al quale però non dovette evidentemente prendere parte Giulia Domna!), o forse di un’ascensione pubblica posta sotto gli auspici imperiali. Infine, con Adriano, il monte diviene attributo della personificazione della Cappadocia. La monetazione «di viaggio» adrianea, dedicata alle province imperiali visitate dall’imperatore, raffigura, anche in questo caso con grande finezza di tratto, la divinità femminile con corona turrita, una sorta di Tyche, vestita di un abito leggero, che ne svela le forme atletiche. Sulle spalle ha un manto che sembra di pelliccia e alti stivali ai piedi, forse un riferimento al clima rigido delle zone montuose della regione. In una mano la dea tiene la classica lancia, mentre nella destra sorregge, mostrandolo, il monte Argaios, per l’occasione trasformato in una sorta di betilo portatile. (7 – fine)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Filli Rossi (a cura di)

un luogo per gli dei L’area del Capitolium a Brescia All’Insegna del Giglio, Borgo San Lorenzo (FI), 497 pp., ill. col. e b/n 48,00 euro ISBN 978-88-7814-587-0 insegnadelgiglio.it

Il volume, di taglio specialistico, dà conto delle indagini archeologiche condotte dal 2009 e il 2011 nell’area del Capitolium bresciano, programmate con l’intento di arricchire il quadro delle conoscenze su questo importante contesto, anche in funzione del progetto di recupero e valorizzazione che lo sta interessando. I risultati hanno piú che soddisfatto le previsioni, confermando, innanzitutto, la notevole continuità d’uso di questo settore della città antica, nel quale si succedono fasi di frequentazione comprese tra il II secolo a.C. e il tardo Medioevo. Un palinsesto dunque molto articolato, del quale i numerosi contributi raccolti nell’opera curata da Filli Rossi sottolineano gli aspetti piú significativi. I materiali e le strutture vengono presentati in ordine cronologico, cosí da assecondare lo sviluppo del sito e ripercorrerne la storia. Amplissimo è il ventaglio delle notazioni e delle ipotesi, in piú d’un caso supportate da utili ricostruzioni grafiche, come per il saggio dedicato alla decorazione

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pittorica del santuario di età repubblicana, che del Capitolium costituisce senza dubbio uno degli elementi di maggiore interesse.

Giovanni De Venuto

Allevamento, ambiente ed alimentazione nella capitanata medievale Archeozoologia e Archeologia Globale dei Paesaggi Edipuglia, Bari, 204 pp., ill. b/n 40,00 euro ISBN 978-88-7228-712-5 edipuglia.it

Territorio grosso modo corrispondente alla moderna Provincia di Foggia, la Capitanata, come scrive l’autore nella Premessa, è ancora poco considerata nei «bilanci sulle attività di allevamento», nonostante si tratti di una zona che vanta un’importante tradizione in materia (si pensi, per esempio, al suo essere stata uno degli snodi nevralgici delle arterie battute dalla transumanza ovina). Con questo studio, basato sui resti faunistici provenienti dai siti di Castel Fiorentino, Vaccarizza, San Lorenzo, Ordona e Canne, De Venuto

colma almeno in parte questa lacuna e offre una solida base di partenza per futuri arricchimenti e approfondimenti. Il quadro suggerito dall’analisi dei reperti è articolato e l’incidenza statistica delle specie individuate rispecchia il modus vivendi delle comunità analizzate, che condividono strategie di sussistenza tra loro molto simili: si osserva dunque il prevalere delle attività di allevamento, mentre piú scarso è l’apporto offerto alla dieta dall’attività venatoria. Costituivano invece un’integrazione importante pesci e molluschi e, dalla seconda metà del XIII secolo, si registra anche la frequente presenza di resti di tartaruga terrestre.

dall’estero Ronald Hutton

pagan britain Yale University Press, New Haven and London, 480 pp., ill. b/n 45,00 USD ISBN 978-0-300-19771-6 yalebooks.com

Non può certo dirsi privo di ambizione

questo saggio firmato da Ronald Hutton: l’autore, infatti, che è professore di storia all’Università di Bristol, si cimenta con un compendio delle tradizioni religiose britanniche elaborate dal Paleolitico fino all’epoca della conversione al cristianesimo. Una piccola storia del paganesimo, nel raccontare la quale Hutton cerca di superare senza sbandamenti anche i passaggi piú insidiosi, che si concentrano soprattutto nelle fasi piú antiche di questa lunga vicenda. Le comunità preistoriche, infatti, avevano sviluppato credenze e rituali, ma le testimonianze in proposito sono spesso sfuggenti e proprio in terra inglese – basti pensare a Stonehenge o ai druidi – è fiorita in abbondanza una letteratura sovente fantasiosa piú che scientifica. Un dato ben chiaro allo studioso che, per contro, propone una rilettura sistematica e asciutta, ancorata allo spoglio di un vasto e aggiornato repertorio bibliografico. (a cura di Stefano Mammini)



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