Archeo n. 355, Settembre 2014

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2014

BIBLO

PAULILATINO DRAGo CINESe/2

OLPE CHIGI

SPECIALE LA BIBLIOTECA INFINITA

€ 5,90

Mens. Anno XXX numero 9 (355) Settembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 355 SETTEMBRE

BiBLO e l’avventura dei fenici I GRANDI TEMPLI

I TESORI RITROVATI

le ORIGINI DELL’ALFABETO

IL MISTERO DEL SANTUARIO NURAGICO SARDEGNA

ETRUSCHI

UN ANTICO VASO RACCONTA...

I LUOGHI DEL SAPERE NEL MONDO ANTICO

LA BIBLIOTECA INFINITA

www.archeo.it



editoriale

L’ORO DI BIBLO

Sorprendono le dimensioni contenute di quell’arida collinetta. Poche centinaia di metri quadrati che, per millenni, hanno custodito testimonianze archeologiche dal significato inimmaginabile. Fino alla metà del XIX secolo tutto quello che si sapeva dell’antica Byblos e della sua regione, la Fenicia, era stato tramandato dai testi biblici e dagli autori classici, greci e latini. È Strabone, geografo greco vissuto nel I secolo d.C., a ricordarci che «la città è posta su un’altura a poca distanza dal mare». Poi, per molti secoli, la memoria dell’esatta localizzazione di Byblos andò perduta; fino al 1860, quando Ernest Renan individuò il sito, interamente ricoperto da case e orti, appena al di sopra del porticciolo della cittadina libanese di Jbeil. Il toponimo moderno preserva il ricordo del nome piú antico del luogo, che era Gubla nelle iscrizioni cuneiformi e geroglifiche, o Gebal nella tradizione antico-testamentaria. Furono i Greci che, a partire dalla fine del II millennio, iniziarono a chiamare la città «Byblos», e «Phoenicia» quel tratto di costa del Levante in precedenza conosciuto come «terra di Canaan». Le esplorazioni archeologiche di Biblo della seconda metà dell’Ottocento hanno portato alla luce preziosi tesori, come le due asce cerimoniali riprodotte in questa pagina e gli altri reperti aurei che illustrano l’articolo di apertura. Ma, forse, il vero oro di Biblo è nascosto proprio nel nome che i Greci vollero dare al luogo: byblos è la parola greca per «papiro»... Possiamo supporre che la preziosa materia prima sia giunta in Grecia dalla sua terra d’origine, l’Egitto, proprio attraverso l’intermediazione degli abitanti di Gebal, insieme a quel sistema di scrittura da cui deriva il nostro alfabeto, a sua volta inventato dai Fenici, e di cui il papiro è il principale supporto e strumento di diffusione? In un documento egiziano dell’XI secolo a.C. si legge dell’avventurosa missione di Wenamun, inviato a Gubla dal gran sacerdote di Tebe con il compito di consegnarvi, in cambio di alcuni carichi di legno di cedro, cinquecento rotoli di papiro... Viaggi e percorsi, quelli suggeriti dall’avventurosa vicenda dei Fenici di Biblo, che ci conducono in via diretta al tema dello speciale di questo numero, i luoghi Asce cerimoniali del sapere per eccellenza del mondo in oro, da Biblo. Età antico: le biblioteche. Le quali, vale del Bronzo Medio. ricordarlo, non sarebbero mai Beirut, Museo esistite se non ci fossero stati Nazionale. gli industriosi abitanti di quel piccolo promontorio sul Mediterraneo. Andreas M. Steiner


Sommario Editoriale

L’oro di Biblo di Andreas M. Steiner

Biblo, l’avventura dei Fenici

Attualità

di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

notiziario

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i luoghi della leggenda

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scoperte Scavi nell’area del Collège des Frères, a Sidone, riportano alla luce la magnifica statua di un sacerdote dell’età fenicia 7

parchi archeologici

scavi Recenti indagini condotte a Castenaso, presso Bologna, confermano l’importanza e la ricchezza della zona in epoca orientalizzante 8

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Alla fonte degli dèi

di Carlo Casi e Anna Depalmas

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parola d’archeologo Può l’archeologia diventare materia scolastica? Un liceo classico di Sondrio ha compiuto l’esperimento e il risultato è stato decisamente positivo 10

da atene

Qui insegnò Aristotele

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di Valentina Di Napoli In copertina statuette di divinità, in bronzo e foglia d’oro, dal Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. Beirut, Direzione Generale per le Antichità.

Anno XXX, n. 9 (355) - settembre 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Stefania Berlioz è archeologa. Francesca Boldrighini è assistente presso la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma. Luciano Calenda è presidente del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Francesca Cenerini è professore di storia romana all’Università di Bologna. Anna Depalmas è docente di protostoria europea e di archeologia del paesaggio presso l’Università di Sassari. Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Roberto Meneghini è funzionario della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali del Comune di Roma. Rossella Rea è direttore dell’AnfiteatroFlavio presso la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso Sapienza Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: AKG Images: copertina e pp. 3, 34 (alto e centro), 36-43, 111; The Art Archive: p. 34 (basso); AGE: p. 44; Album: p. 104 – PlanetSolar S.A.: p. 6 – Getty Images: AFP/Mahmoud Zayyat: p. 7 – Cortesia SBA Emilia-Romagna: p. 8 – Luca Gianatti: pp. 10-11 – Valentina Di Napoli: pp. 26-27 – Shutterstock: pp. 30/31, 32/33, 78/79, 96/97 – Doc. red.: pp. 33, 35, 81, 100-101, 109 – Cortesia degli autori: pp. 46/47, 48/49 (basso), 49, 50-55, 58, 64/65, 68, 110 – Da Il Santuario Nuragico di Santa Cristina, Carlo Delfino editore: p. 48 (cartina) – Corbis Images: p. 59; Neale Clark/Robert Harding World Imagery: pp. 56/57; Royal Ontario Museum: p. 60; AStock: p. 65; Stefano Montesi/ Demotix: pp. 80, 89 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 61, 108; G. Nimatallah: pp. 70/71, 75; A. Dagli Orti: p. 102 – Bridgeman Art Library: pp. 62-63, 64, 66/67 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: pp. 72, 74, 76; White Images: p. 73 – Vienna Kunsthistorisches Museum: p. 82 (sinistra) – Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai


Rubriche

civiltà cinese/3 Il drago/2

Trinità imperiale

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di Marco Meccarelli

antichi ieri e oggi

«Panem», ma soprattutto «circenses»! 100 di Romolo A. Staccioli

a volte ritornano Gira la ruota...

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di Flavio Russo

scavare il medioevo Evoluzione di una specie

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di Andrea Augenti

divi e donne

Accanto all’ultimo degli Antonini

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di Francesca Cenerini

gli imperdibili

Trionfo d’amore

Olpe Chigi

Il golpe sull’olpe di Daniele F. Maras

l’altra faccia della medaglia 70

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78 speciale

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di Francesca Ceci

libri

Beni Culturali/Archivio fotografico del Museo della Civiltà Romana: pp. 82 (alto e basso), 83 – Cortesia Roberto Meneghini: p. 84, 86 (basso) – Roberto Meneghini/Studio Inklink, Firenze: pp. 84/85, 86 (alto) – Archivio fotografico Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: pp. 87, 92, 97 (alto), 98 (basso); Luciano Mandato: pp. 94-95 – Archivio fotografico Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli: pp. 88, 90-91 – Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire: p. 93 – M.C. Guerrieri: p. 98 (alto) – Flavio Russo: p. 105 – Da Roma dall’antichità al Medioevo. Archeologia e storia nel Museo Nazionale Romano, Crypta Balbi, Electa-MiBACT, 2001: pp. 106-107 – Cippigraphix: cartine alle pp. 34, 47. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 0069.6346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 0069.6352

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La biblioteca infinita 78 di Stefania Berlioz, Rossella Rea, Roberto Meneghini e Francesca Boldrighini

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Amilcare Pizzi - Officine Grafiche Novara 1901 S.p.A., Cinisello Balsamo (MI) Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: arretrati@mywaymedia.it Fax: 02 21768550 Posta: My Way Media Srl via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano On-line: http://eshop.mywaymedia-store.it/ Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o archeologia subacquea Grecia

preistoria in fondo al mare

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rcheologia subacquea degli insediamenti preistorici: è questo il tema della missione che, nel momento in cui mandiamo in stampa queste pagine, il trimarano a propulsione solare MS Turanor PlanetSolar sta svolgendo nel golfo di Nauplia, nella parte meridionale del Peloponneso. Dopo aver attraversato lo Stretto di Corinto, l’imbarcazione si è diretta alla volta della baia di Kilada, meta finale, per effettuare una campagna di ricerca della durata di dieci giorni, dall’11 al 22 agosto. L’imbarcazione, un condensato di tecnologie di ultima generazione, al comando di Gerard d’Aboville (il primo uomo ad attraversare a remi l’Atlantico e il Pacifico), nel 2013 è stata impegnata in acque atlantiche in un progetto scientifico dell’Università di Ginevra sui cambiamenti climatici, denominato «Deep Water». Quest’anno è invece al servizio della missione archeologica «TerraSubmersa», promossa anch’essa dall’ateneo svizzero, con la partecipazione di vari enti elvetici e greci: il Museo Archeologico Laténium di Neuchâtel, l’Eforato Greco per le Antichità Sommerse, la Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia e l’Hellenic Centre for Marine Research (HCMR). Come spiega Julien Beck, ricercatore presso il dipartimento di archeologia classica dell’Università di Ginevra e capo della missione, l’obiettivo è quello di indagare il paesaggio preistorico sottomarino locale, che potrebbe conservare tracce di insediamenti neolitici. Oltre 10 000 anni fa, infatti, il livello del mare era piú basso rispetto a quello odierno, e il

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principale sito preistorico individuato sulla costa, la grotta di Franchthi, mostra tracce di occupazione quasi ininterrotta per un periodo di 35 000 anni, che si estende dal Paleolitico al Neolitico. Le acque della baia prospiciente rappresentano quindi un’area molto promettente per ulteriori scoperte, che contribuirebbero a chiarire le dinamiche dell’insediamento costiero e consentirebbero di verificare ulteriormente le teorie sulla diffusione della cultura neolitica dalle regioni del Medio Oriente verso l’Europa. La MS Turanor PlanetSolar sarà impiegata principalmente per effettuare

In alto: Grecia. Il catamarano solare MS Turanor PlanetSolar attraversa lo stretto di Corinto. rilevamenti geofisici del fondale, alla ricerca delle tracce della presenza dell’uomo, e sarà affiancata dalla barca Alkyon dell’HCMR. Entrambi i battelli sono dotati delle piú avanzate apparecchiature per la ricerca sottomarina, tra cui ecoscandagli, sonar a scansione laterale e GPS; per lo scavo subacqueo i sommozzatori utilizzeranno un aspiratore idraulico per rimuovere gli strati di sabbia e detriti superficiali. Paolo Leonini


SCoperte Libano

un sacerdote... in collegio

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li archeologi del British Museum che da oltre 15 anni scavano a Sidone (Libano meridionale) hanno recentemente rinvenuto, nel sito del Collège des Frères, numerosi reperti di età fenicia, tra i quali spicca un’eccezionale statua, risalente a oltre 2500 anni fa. Alta 115 cm, la scultura, rappresenta un uomo in posizione eretta, con ogni probabilità un sacerdote, abbigliato con il tipico gonnellino egittizzante (shenti) e con la mano sinistra chiusa a impugnare un oggetto, che gli archeologi In alto: Sidone, Libano. Effigie in bronzo della dea Tanit recuperata durante gli scavi. A destra: Claude Doumet-Serhal, direttrice degli scavi nell’area del Collège des Frères, a Sidone, mostra la statua del sacerdote fenicio (VI sec. a.C.) all’indomani della scoperta.

suggeriscono essere un rotolo o un pezzo di stoffa. La statua è priva della parte superiore ed è stata ritrovata sotto un pavimento di marmo, adagiata sulla parte frontale, il che ne suggerisce il riutilizzo in epoca romana come materiale da costruzione. Come ha dichiarato la direttrice della missione di scavo, Claude Doumet-Serhal, la scoperta è di grande importanza: «Niente di paragonabile è stato rinvenuto in Libano dai primi anni Sessanta, ed esistono solo altri tre esemplari simili provenienti da Sidone, Umm

al-Ahmed e Tiro, attualmente conservati al museo di Beirut». Assieme alla statua, sono stati rinvenuti anche un pendaglio in bronzo sagomato in forma di simbolo della dea fenicia Tanit e statuette di epoca romana della dea Osiride. Sono state scoperte anche tre nuove stanze di un edificio databile al III millennio a.C., comprendente un deposito di alcuni quintali di cereali e fagioli, e 20 sepolture di adulti e bambini risalenti al II millennio a.C. Sidone, che si trova 30 km a sud della capitale Beirut, fu uno dei principali insediamenti costieri della civiltà fenicia. Questa importante scoperta si inserisce nel filone di attività che il British Museum svolge da tempo sul sito; nell’autunno dello scorso anno la mostra «Sidon. Best of 15 years» curata da Doumet-Serhal e allestita a Sidone, presso la sede locale della Direzione Generale alle Antichità, ha celebrato l’impegno pluriennale della missione con un’esposizione di oltre quaranta reperti che abbracciavano un arco temporale dalla prima età del Bronzo fino all’età delle crociate. Sul sito del Collège des Frères sono in corso i lavori per la realizzazione di un museo, che servirà per conservare e valorizzare gli oltre 1400 oggetti rinvenuti durante gli scavi. P. L.

archeo 7


n otiz iario

SCAVI Emilia-Romagna

quando felsina guardava all’oriente...

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Emilia-Romagna continua a restituire testimonianze archeologiche di primaria importanza. A poca distanza da Villanova (l’abitato eponimo della cultura che precede gli Etruschi), a Castenaso (Bologna), durante i lavori per la costruzione della nuova chiesa della Madonna del Buon Consiglio sono venuti alla luce tracce di insediamento databili tra il IX secolo a.C. e l’età romana e un nucleo di 4 sepolture riferibili all’antica necropoli di Castenaso e risalenti al VII secolo a.C. Castenaso non è nuova a queste eccezionali scoperte. Il luogo del ritrovamento, infatti, si trova a 100 m dall’area della Scuola Media, dove, a partire dal 1965, la locale Soprintendenza ha recuperato 39 tombe a incinerazione databili tra la fine del IX e VIII secolo a.C. e secondo gli archeologi i ritrovamenti recenti potrebbero essere parte del medesimo complesso. La datazione piú tarda (siamo nel pieno VII secolo) delle nuove acquisizioni getta luce sull’età «orientalizzante», un momento in cui i contatti con il

mondo greco e orientale influenzano e trasformano il linguaggio artistico e si registra l’accresciuto benessere delle popolazioni locali. Questa piccola necropoli apparteneva a un gruppo familiare di alto status sociale, come dimostrano i ricchi corredi ritrovati nelle sepolture. Delle quattro In alto: Castenaso (Bologna). La tomba 4 della necropoli orientalizzante recentemente rinvenuta in corso di scavo. A sinistra: particolare del corredo della tomba 2 in corso di scavo.

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tombe, la 1, in particolare, ha restituito oltre 80 oggetti, tra vasi, utensili e ornamenti, seppure in stato frammentato a causa del disfacimento del cassone ligneo che doveva originariamente contenerli. La sepoltura si presentava coperta da un tumulo di ciottoli su cui troneggiava una stele protofelsinea, rinvenuta collassata in situ. Come sottolinea Valentino Nizzo, archeologo della Soprintendenza e responsabile degli scavi, la stele è riconducibile agli esemplari piú antichi del genere, ricalca una sagoma umana molto stilizzata e presenta decorazioni a rilievo con motivi geometrici, allusive alla caratteristica simbologia solare di tradizione villanoviana. È raro, e di particolare importanza per lo studio delle pratiche funerarie, il fatto che il ritrovamento avvenga in un contesto archeologico intatto; in questo caso anche la fossa, infatti, è stata rinvenuta sostanzialmente inalterata, profonda quasi 2 m e larga 3 x 2 m circa, con il piano deposizionale ricoperto quasi interamente dalla terra di rogo e dai frammenti del corredo. P. L.



parola d’archeologo Flavia Marimpietri

a scuola con l’archeologia lo studio dell’antico può essere coinvolgente e contribuire alla migliore comprensione della propria identità: È questo il significativo messaggio dettato dall’esperienza pilota di un liceo di sondrio. ce ne parla la professoressa daniela montinaro

L’

archeologia arriva sui banchi di scuola e gli alunni di un liceo classico si cimentano con gli «attrezzi» dell’archeologo: non solo con pala e piccone, ma anche, anzi soprattutto, con il metodo filologico e lo studio dei testi antichi in lingua greca e latina. Si tratta del progetto «Omero nel Baltico», un programma pluriennale di cui si è fatto apripista in Europa il Liceo «G. Piazzi-C.L. Perpenti» di Sondrio. Un percorso di studio interdisciplinare, che coinvolge tre classi dell’istituto (una del primo

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anno e due del quarto anno). Sessanta studenti sono stati «avviati» sulle tracce della geografia omerica, interpretandola alla luce del confronto culturale con altre popolazioni indoeuropee. Ce ne parla l’ideatrice e organizzatrice, Daniela Montinaro, insegnante di lettere classiche presso il liceo lombardo. Come è nata l’idea di questo progetto culturale per la scuola che, per ora, è unico in Italia? «Tutto è iniziato l’anno scorso, dallo studio delle teorie sull’epoca omerica contenute nel volume


Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Iliade e dell’Odissea, di Felice Vinci. Seguendo un percorso interdisciplinare, anche grazie alla disponibilità del Dirigente Scolastico del nostro istituto, Maria Grazia Carnazzola, durante le lezioni in classe abbiamo cercato di individuare le affinità culturali tra le varie popolazioni di origine indoeuropea, che sono il frutto dei processi migratori succedutisi nei millenni dal Nord al Sud dell’Europa e verso l’India. In quest’ottica, anche grazie ai metodi della glottologia (materia non compresa nel corso di studi), abbiamo individuato dei punti in comune, dal punto di vista linguistico, culturale e rituale, tra i testi omerici e le tradizioni dei popoli indoeuropei. Con gli studenti abbiamo svolto indagini mirate e approfondite, a partire da un lavoro di traduzione, decodifica e interpretazione dei testi classici. Ricerca che è culminata nell’esperienza diretta sul campo, con un viaggio d’istruzione compiuto lo scorso marzo nel Salento, guidato e coordinato da archeologi ed esperti del territorio». Le vostre indagini filologiche sul poeta Omero e le vostre «scoperte» si sono dunque concentrate in Puglia? «Sí, al termine del nostro percorso di studi abbiamo effettuato un viaggio studio nel Salento dove abbiamo anche realizzato simulazioni di scavo con gli studenti, senza però compiere un’esplorazione vera e propria, poiché quello è un compito che spetta unicamente agli archeologi. Grazie al nostro studio, comunque, riteniamo di essere giunti all’individuazione di una tomba e alla scoperta in località Sant’Andrea, a pochi chilometri da Roca Vecchia, in provincia di Lecce, di un labirinto inciso sulla roccia che, secondo noi, sarebbe il piú importante e piú grande esemplare di età protostorica in Italia, confrontabile con i labirinti citati

nei testi di Varrone e di Plinio il Vecchio». E come siete arrivati, da Sondrio alla Puglia, passando per Omero? «Durante le ore scolastiche abbiamo studiato le fatiche di Eracle, soffermandoci in particolare sulla figura del Toro di Creta: grazie all’esame dei testi antichi abbiamo individuato elementi comuni tra le popolazioni del Nord Europa, quelle di Creta e quelle italiche di Roca, in provincia di Lecce. E, attraverso un’analisi interculturale che ha tenuto conto degli aspetti storici, artistici e archeologici, abbiamo studiato i testi greci e latini cercando di individuare i numerosi contatti esistenti all’epoca con l’altra sponda del Mediterraneo e dello stesso Oceano (con l’India), sulla scia delle migrazioni indoeuropee. Abbiamo voluto sottolineare come lo studio dei testi antichi possa portare a un arricchimento della conoscenza, anche archeologica. Le lingue classiche sono lingue dell’anima e l’archeologia è la porta di accesso a questo mondo». Dalle sue parole traspare una grande passione non solo per la cultura classica, ma anche per la conoscenza e, soprattutto, per l’insegnamento di questa ai giovani, anche con metodi originali e suggestivi. Qual è il messaggio che ha voluto lasciare ai suoi studenti coinvolgendoli in questa esperienza?

In alto: la costa nei pressi di Roca Vecchia (Lecce), località in cui si è svolta parte del progetto che ha coinvolto i ragazzi del Liceo classico «G. Piazzi-C.L. Perpenti» di Sondrio. Nella pagina accanto: un momento della simulazione dello scavo. «Guardare al passato per costruire la propria identità di cittadini europei. È questo il motivo per cui altre scuole in Europa (una turca e una lituana) hanno mostrato interesse verso il nostro progetto. Ritornare alle origini significa rafforzare la coscienza delle nostre radici e dunque anche la nostra consapevolezza del presente». E come hanno reagito i ragazzi? «Con un coinvolgimento emotivo altissimo. Gli studenti hanno mostrato grande entusiasmo e interesse. Durante il viaggio di istruzione sono nate molte suggestioni che essi stessi hanno riportato sotto forma di poesie, che sono state poi musicate e cantate a tutta la scuola nel corso di una rappresentazione teatrale in abiti greci. Quello che ho voluto trasmettere ai miei studenti è l’amore per la conoscenza e per lo studio, la voglia di applicarsi per comprendere meglio la realtà che li circonda. Non solo con i mezzi tecnologici, ma anche attraverso le discipline classiche, che non sono avulse dalla realtà ma parte di essa. Questo, sono certa, i miei ragazzi lo hanno compreso».

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

incontri Paestum

tutte le novità della borsa

L

a XVII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio di Expo Milano 2015, UNESCO e UNWTO, torna a svolgersi nell’area archeologica della città antica di Paestum: l’area adiacente al tempio di Cerere (Salone Espositivo, Laboratori di Archeologia Sperimentale, ArcheoIncontri), il Museo Archeologico Nazionale (ArcheoVirtual, Conferenze, Workshop con i buyer esteri) e la Basilica Paleocristiana (Conferenza di apertura, ArcheoLavoro, Incontri con i Protagonisti) sono le suggestive sedi dell’evento. La prima novità della nuova edizione riguarda il periodo di svolgimento: la Borsa, infatti, solitamente collocata alla metà di novembre, nel 2014 avrà luogo nei giorni 30-31 ottobre 1-2 novembre, in un fine settimana che comprende 2 giorni festivi, al fine di incrementare il numero dei visitatori e dare agli albergatori l’opportunità di offrire pacchetti ad hoc. La XVII edizione è ricca di novità e di contenuti: Social Media & Archaeological Heritage Forum, giovedí 30 ottobre, che ospiterà «Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web», il secondo incontro dei blogger culturali, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo dei beni culturali attraverso i social network; ArcheOpenData Forum. Trasparenza dell’informazione in archeologia, venerdí 31 ottobre, momento di discussione dedicato agli open data; ArcheoStartUp, sabato 1° novembre, presentazione di nuove imprese culturali e progetti innovativi; il Concorso Fotografico «La BMTA ti porta a Paestum!» sulla pagina Facebook: in palio una notte per 2 persone in hotel a Paestum durante la Borsa per l’autore della foto che avrà piú «mi piace»; per partecipare, inviare, entro il 31 agosto, a info@bmta.it le foto dei propri viaggi alla scoperta del patrimonio archeologico: l’iniziativa vuole cosí promuovere anche

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siti e destinazioni meno note; inoltre, chi ama scrivere, può pubblicare la proprio foto con il racconto della visita sul blog del sito www.bmta.it; la mostra ArcheoVirtual, realizzata in collaborazione con la piú importante Rete di ricerca Europea sui Musei Virtuali, V-Must, coordinata da ITABC Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, ospiterà «Digital Museum Expo» esposizione delle tecnologie piú recenti create per i musei del futuro, che si terrà oltre che a Paestum in 4 prestigiosi sedi: Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano (Roma), Biblioteca Alessandrina (Alessandria D’Egitto), Museo Allard Pierson (Amsterdam), City Hall (Sarajevo). La Borsa si conferma un evento originale nel suo genere: sede dell’unico Salone Internazionale di Archeologia; luogo di approfondimento e divulgazione di temi dedicati al turismo culturale e al patrimonio; occasione di incontro per gli addetti ai lavori, per gli operatori turistici e culturali, per i viaggiatori, per gli appassionati; opportunità di business nella suggestiva sede del Museo Archeologico con il Workshop tra la domanda estera e l’offerta del turismo culturale e archeologico (sabato 1° novembre). Nel sottolineare l’importanza del patrimonio culturale come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: il Paese Ospite Ufficiale nel 2014 sarà l’Azerbaijan. Altra novità è data dall’attenzione dei media internazionali, che quest’anno si traduce nella presenza quali media partner di Antike Welt, AS., Clio, Current Archaeology, Dossiers d’archéologie, Rutas del Mundo. Infine, la Borsa da questa edizione diventa l’evento ufficiale di «Archeo», il piú importante mensile di archeologia. Per ulteriori informazioni: www.bmta.it



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

le case del sapere

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La mostra attualmente in corso al Colosseo di Roma «La biblioteca infinita. I luoghi del sapere del mondo 1 antico» (alla quale è dedicato lo speciale di questo numero; vedi alle pp. 78-98) è lo spunto per presentare materiale filatelico che, in qualche modo, si colleghi alle località in cui si trovavano le biblioteche piú famose del mondo antico greco, ellenistico e romano. Luoghi che, oltre a provvedere 3 alla conservazione materiale degli scritti dell’epoca, avevano un ruolo fondamentale nella creazione dei meccanismi di produzione e diffusione del sapere antico (1-2-3). 4 Non v’è dubbio che la biblioteca piú famosa sia stata quella di Alessandria, cosí raffigurata in un foglietto egiziano del 2002 (4), ed è merito dei suoi curatori se oggi abbiamo la possibilità di leggere molti dei piú antichi testi greci. È anche interessante mostrare 6 come si presenta oggi la modernissima Biblioteca di 5 Alessandria sorta in memoria della piú celebre antenata (5). La seconda, in ordine di notorietà, fu senz’altro quella di Pergamo, in Turchia, uno dei piú grandi centri della cultura ellenistica sotto la dinastia degli Attalidi; qui si sviluppò e si perfezionò la tecnica di 8 produzione della «pergamena» (6). I riferimenti filatelici che si possono utilizzare si riferiscono solo a 7 Pergamo come sito archeologico in generale, con due francobolli turchi del 1952 e del 1957 (7-8) e due annulli commemorativi (9-10). Altra biblioteca dell’antichità celeberrima, sempre in Turchia ma sorta nell’ambito dell’influenza romana, 9 10 11 fu quella di Efeso, detta anche «di Celso», perché voluta dal console Tiberio Giulio Aquila in onore del padre, Tiberio Giulio Celso Polemeano. Ultimata nel 135 d.C., essa serví anche da tomba monumentale per lo stesso Celso (che fu console 12 e poi governatore d’Asia). Anche in questo caso i riferimenti filatelici sono possibili solo attraverso due francobolli turchi (11-12) che raffigurano alcuni dei resti oggi visibili, ma, curiosamente, non la biblioteca, che pure è una delle parti piú spettacolari del sito. 14 13 15 E arriviamo a Roma. La progettazione della prima biblioteca avvenne sotto Pompeo e Cesare, IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tema solo con Augusto (13) essa fu costruita e matica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: se ne ebbe una effettiva fruizione da parte di tutto il popolo interessato alla cultura. Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, D’altra parte fu proprio Augusto a intuire la Via Tavanti, 8 C.P. 17126 potenzialità della letteratura, portando 50134 Firenze Grottarossa alla sua corte personaggi come Orazio (14) info@cift.it, 00189 Roma. oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it e Virgilio (15).

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calendario

Italia roma La gloria dei vinti

Pergamo, Atene, Roma Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 07.09.14

Urna funeraria con combattimento tra Greci e Galati.

L’arte del comando

Il sogno dell’immortalità Museo Archeologico dell’Agro falisco, fino al 09.11.14

Simboli Vivi

Il potere delle immagini nella preistoria del Pakistan Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino al 21.09.14

cortona Seduzione Etrusca

Dai segreti di Holkham Hall alle meraviglie del British Museum Palazzo Casali fino al 30.09.14

La biblioteca infinita

I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino al 05.10.14

fiesole Fiesole e i Longobardi

Le Chiavi di Roma

Museo Civico Archeologico fino al 31.10.14

La Città di Augusto Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 12.04.15 (dal 24.09.14)

fossombrone La statua della Vittoria Augusta di Kassel a Forum Sempronii

Le leggendarie tombe di Mawangdui

montesarchio Rosso Immaginario

Bolzano Frozen stories

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 30.09.14

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

paestum (capaccio) e Santa Maria Capua Vetere Immaginando Città

Castelnovo ne’ Monti (Re) Antichissima Bismantova

Racconti di fondazioni mitiche, forma e funzioni delle città campane Museo Archeologico Nazionale di Paestum e Museo Archeologico dell’Antica Capua fino al 30.10.14

Il sito pre-protostorico di Campo Pianelli. 150 anni di ricerche Biblioteca Comunale «Raffaele Crovi» fino al 02.11.14

chianciano Terme Petala Aurea

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo fino al 30.09.14 Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15 24 a r c h e o

In alto: piccolo vaso in terracotta policroma in forma di leone in combattimento.

Un ritorno nel Bimillenario Augusteo Chiesa di S. Filippo, Corte Alta fino al 15.09.14

Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15

chieti Secoli augustei

Archeologia e castelli nel Friuli nord-orientale Museo Archeologico Nazionale fino al 07.09.14

Civita Castellana Eracle tra i Falisci

L’eredità di Augusto Museo dell’Ara Pacis fino al 07.09.14

Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla Collezione Rovati Museo Civico Archeologico fino al 28.09.14

cividale del friuli Fortini antichi erano all’intorno di Cividale

palermo Del Museo di Palermo e del suo avvenire

Lo stendardo di Mawangdui.

Il «Salinas» ricorda Salinas 1914/2014 Museo Archeologico Regionale «Antonino Salinas» fino all’08.11.14

ravenna Imperiituro

Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 06.01.15 (dal 04.10.14)

La Vittoria di Fossombrone.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

tivoli-Villa Adriana Adriano e la Grecia

Saint-Germain-en-Laye La Grecia delle origini, tra sogno e archeologia

Villa Adriana tra classicità ed ellenismo Antiquarium del Canopo fino al 02.11.14

Musée d’Archéologie nationale fino al 19.01.15 (dal 04.10.14)

torino I Greci a Torino

Germania

Storie di collezionismo epigrafico Museo di Antichità fino al 26.10.14

berlino I Vichinghi

Martin Gropius Bau fino al 04.01.15 (dal 10.09.14)

Vallo della Lucania (SA) Cilento patrimonio dell’umanità Dalla Preistoria al Risorgimento. Storia di una civiltà Fiere di Vallo, Località Pattano fino al 31.12.14

Gran Bretagna

vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 30.11.14

Una forma peculiare di sepoltura dell’Italia centrale tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15

Londra Antiche vite, nuove scoperte

Protome di calderone in bronzo di produzione orientale.

Viterbo 5000 anni di gioielli estoni

Museo Nazionale Etrusco (Rocca Albornoz) fino al 14.09.14

vulci Principi Immortali

I fasti dell’aristocrazia vulcente Museo Archeologico Nazionale fino al 14.09.14

Belgio Ename L’eredità di Carlo Magno Provinciaal Erfgoedcentrum fino al 30.11.14

Francia les-eyzies-de-tayac Grandi siti dell’arte maddaleniana

La Madeleine e Laugerie Basse 15 000 anni fa Musée national de Préhistoire Pendente in fino al 10.11.14 osso con figura di ghiottone.

Paesi Bassi amsterdam Spedizione Via della Seta Tesori dall’Hermitage Hermitage Amsterdam fino al 05.09.14

leida Medioevo dorato

Rijksmuseum van Oudheden fino al 26.10.14

In alto: fibbia in bronzo, oro, argento e pietre semipreziose. 630-640 d.C.

Svizzera berna Le palafitte

Ai bordi dell’acqua e attraverso le Alpi Museo Storico di Berna fino al 26.10.14

basilea Roma eterna

2000 anni di scultura dalle collezioni Santarelli e Zeri Antikenmuseum fino al 16.11.14

USA new york Dall’Assiria all’Iberia all’alba dell’età classica

The Metropolitan Museum of Art fino al 04.01.15 (dal 22.09.14)

Testa di Dioniso su torso femminile. II sec. d.C. a r c h e o 25


corrispondenza da Atene Valentina Di Napoli

Qui insegnò Aristotele al centro di atene, questo non è soltanto un bel giardino attrezzato, ma un luogo carico di storia: le strutture riportate alla luce dagli archeologi appartengono infatti alla scuola di uno dei massimi esponenti della filosofia antica!

C’

è un luogo, nel centro di Atene, in cui si possono «attraversare» secoli di storia greca. Non lontano da piazza Syntagma e dal Museo di Arte Cicladica, proprio alle spalle del Museo Bizantino, lungo l’elegante via Righillis si apre una vera oasi: è il sito del Liceo di Aristotele. Olivi, cipressi, melograni, acanti, allori, cespugli di timo, lavanda e rosmarino fanno da cornice a resti che hanno fatto da testimoni di

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un’epoca nella quale si sono gettate le fondamenta del pensiero occidentale. Era il 1996 quando la III Soprintendenza Ellenica alle Antichità Preistoriche e Classiche fu chiamata a scavare in via preventiva un’area da destinare a un Museo di Arte Contemporanea.

una scoperta inattesa Fu presto chiaro che ciò che appariva alla responsabile degli scavi, Eutychia Lygouri-Tolia,

superava ogni aspettativa: una palestra costruita nella seconda metà del IV secolo a.C., subito identificata con quella del celebre Liceo voluto da Aristotele. I lavori di costruzione del museo furono immediatamente sospesi e si decise cosí di recuperare i resti, che nel biennio 2011-2013 sono stati valorizzati e integrati in un sito archeologico, dallo scorso giugno visitabile gratuitamente. I ginnasi piú antichi di Atene,


fondati già nel VI secolo a.C., si trovavano nei pressi di santuari e di corsi d’acqua che ne assicuravano il rifornimento idrico; inizialmente essi non prevedevano strutture e solo in epoca classica divennero vere e proprie installazioni dotate di un aspetto architettonico ben preciso. Svolgevano un ruolo fondamentale nell’educazione spirituale e fisica dei giovani, promuovendo l’ideale di una mente sana in un corpo sano.

atenei ante litteram Poi, nel IV secolo a.C., nei ginnasi si insediarono le prime scuole filosofiche, prodromi delle moderne università: Platone fondò la sua all’Accademia, Antistene al Cinosarge e, attorno al 335 a.C., Aristotele al Liceo. Quest’ultima zona prendeva nome dal santuario di Apollo Liceo; era cosí ricca di verde che, durante l’assedio sillano di Atene dell’86 a.C., gli alberi del suo boschetto furono tagliati dagli aggressori, alla ricerca di legname da impiegare per costruire macchine belliche che avrebbero assediato il Pireo. Proprio qui Aristotele sviluppò e

A sinistra: Atene. Veduta dell’area verde in cui sono state musealizzate le strutture del Liceo di Aristotele. In basso: particolare di una cisterna facente parte dell’impianto termale di cui il complesso era dotato. diffuse le proprie idee, ponendovi la sede della Scuola Peripatetica. I resti oggi visibili sono quelli della palestra del ginnasio del Liceo, risalente alla metà del IV secolo a.C. e in uso fino al IV secolo d.C., quando fu poi abbandonata. Qui gli atleti si allenavano nella lotta a corpo libero, nel pugilato e nel pancrazio, una combinazione di lotta e pugilato. Si tratta di un’area pressappoco quadrata, circondata su tre lati da porticati sui quali si aprono ambienti rettangolari. La destinazione di alcuni di essi è indicata dall’architetto Vitruvio, in età augustea: egli ricorda l’ephebeion (una sala riservata alle lezioni pubbliche), l’elaiothesion (un ambiente in cui gli atleti si ungevano il corpo prima degli esercizi), il konisterion (un’area con sabbia impiegata dai lottatori) e il korykeion, vale a dire l’ambiente in cui si trovavano i korykoi, i sacchi in pelle per gli allenamenti dei pugili. Nel I secolo d.C. il settore settentrionale del Liceo incorporò anche un edificio termale, che probabilmente rimpiazzava un analogo complesso di età classica. Il nuovo sito archeologico del Liceo non è solo un’area in cui la storia del pensiero occidentale trova una delle sue principali espressioni materiali. Nelle intenzioni della Soprintendenza, vuole essere anche un luogo da vivere, per i turisti e per gli abitanti di Atene. Lo dimostra la struttura stessa del sito, pensato per permettere di sedersi a leggere e meditare, di riposarsi sulle panchine, di passeggiare sul prato. Emblematico è ciò che ha dichiarato l’attuale direttrice della Soprintendenza, Eleni Banou: «Il nostro motto sarà: toccate pure!». Un invito al quale non si può davvero resistere.

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BiBLO

l’avventura dei Fenici U

n promontorio roccioso appiattito dal sole, su due piccole baie colme di limpide acque blu, coperto di terreno inaridito e di una verde macchia discontinua; alle spalle, sullo sfondo, moderni edifici in cemento. Sotto il suolo, l’intrico delle rovine lasciate dall’uomo, stratificatesi in nove millenni di storia; di fronte allo spettatore, si spalanca l’enorme via marittima del Mediterraneo. Siamo nell’odierna Jbeil, sul sito di Biblo, l’antica Gebal, circa 30 km a nord di Beirut, in Libano. Quella che sembra una collina ancora verde, in qualche modo risparmiata dal lavorio dei costruttori, è in realtà una creazione degli archeologi francesi della Mission de Fénicie, i quali, in un secolo e mezzo di pazienti (ma discontinue) esplorazioni, hanno gradualmente rimosso un moderno insediamento di casupole e giardini, per calarvi le proprie trincee di scavo. La riscoperta di Gebal-Biblo – una delle piú ricche e influenti città portuali dell’antica costa levantina, e un polo di enorme importanza nella gestazione del mondo culturale fenicio, ebbe inizio nel 1860. Abramo Lincoln era stato eletto presidente degli Stati Uniti e aveva inizio la Guerra di Secessione, Giuseppe Garibaldi si lanciava nella spedizione dei Mille, la Savoia e Nizza decidevano di passare alla Francia. Nel frattempo, in Medio Oriente, gruppi cristiani maroniti (cattolici della chiesa di Antiochia) e Drusi (comunità di fede ismailita, un ramo dell’Islam sciita) si scontravano a Damasco. L’imperatore di Francia Napoleone III (18081873), passato alla storia per le sue iniziative belliche e imperialiste in Crimea, Vietnam, Cina e Messico, e per le vittoriose interferenze nei conflitti d’indipendenza italiani, aveva deciso di intervenire con le armi in Libano, dove i Drusi avevano un punto di forza.

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


Trenta chilometri a nord di Beirut si tova la cittadina di Jbeil. Lontana dal caos della capitale, oggi rappresenta una delle principale mete turistiche del Libano. Nel suo nome moderno è racchiuso il segreto delle sue origini millenarie: per Filone d’Alessandria, infatti, Gebal/Byblos era «la città piú antica del mondo»... di Andreas M. Steiner e Massimo Vidale

L’area archeologica di Biblo (Libano), l’antico tell (collinetta artificiale) situato su un promontorio affacciato sul Mediterraneo, una trentina di chilometri a nord di Beirut. Al centro la casa della missione di Maurice Dunand, usata come base degli archeologi dal 1923 fino agli anni Settanta del secolo scorso.

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biblo • i luoghi della leggenda

biblo in 10 000 anni Età

Cronologia Eventi e monumenti

Neolitico Medio e Tardo

7000-5000 a.C.

Un insediamento di pescatori, allevatori e agricoltori sorge sul promontorio di Biblo, con una ventina di capanne rettangolari con vasi, asce e pestelli in pietra, macine, mortai e focolari, ceramica. I morti sono sepolti tra le case. Tra le prime immagini sacre, enigmatici ciottoli con tratti umani stilizzati.

Calcolitico

5000-3200 a.C.

Fiorisce un abitato di capanne ovali, con migliaia di sepolture entro giare, con vasi, collane, oggetti metallici. Primo edificio di culto con recinto sacro. La baia meridionale di Biblo funge già da approdo.

Bronzo Antico

3200-2000 a.C.

Ulteriore crescita dell’abitato, ora con case rettangolari. Al centro, presso la fonte principale, viene monumentalizzata l’area sacra principale, con i templi di Balaat e Reshef, assimilato a Baal. Biblo diviene metropoli marittima e «città santa». Con una fortificazione rivolta verso l’entroterra, Biblo è ormai una città. Negli ultimi secoli del III millennio, distruzioni e forse invasioni di genti straniere, mentre l’Egitto è in preda a crisi politiche.

Come parte di una piú vasta strategia di penetrazione culturale (l’eco della scorribanda napoleonica in Egitto del 1798 ancora risuonava in tutta la cultura europea) l’imperatore incaricò lo studioso Ernest Renan (1823-1892) di redigere un inventario dei siti archeologici e dei monumenti dell’antica costa fenicia. Renan fu archeologo per breve digressione professionale, piuttosto che per aspirazione: convertito dal cattolicesimo della provincia francese allo scientismo, monarchico ma affascinato dai temi del liberalismo e della

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democrazia, sostenitore delle teorie di Darwin, Renan era un esperto conoscitore delle lingue e un’autorità in materia di filologia semitica. Nel 1849 era stato inviato in Italia dal governo francese, subito dopo i moti indipendentisti, per compiere indagini di intelligence e tradurre importanti documenti. Probabilmente accettò la sua missione libanese anche perché era allora impegnato nella redazione del suo celebre libro, destinato a una rapida fortuna, sulla vita di Gesú Cristo. Renan scoprí l’esatta localizzazione dell’antica Biblo


Età

Cronologia Eventi e monumenti

Bronzo Medio e Tardo

2000-1000 a.C.

Apogeo delle città-stato autonome, e ripresa dei rapporti con l’Egitto. Ricostruzione delle difese urbane e dei templi. Erezione del palazzo reale a cavallo del passaggio tra la baia settentrionale e quella meridionale, e delle camere ipogee e dei pozzi della necropoli reale. Il tempio di Reshef ospita un sacello con numerosi obelischi; vi si depongono offerte ricchissime, provenienti anche da Creta e dall’Egitto. Al volgere del millennio, nuovo declino dell’influenza egizia.

Età del Ferro 1000-539 a.C.

Regni di Ahiram, di suo figlio Ittobaal e di vari successori. Nell’887 a.C. Biblo viene conquistata dalle truppe del re Assiro Assurnasirpal II (884-859 a.C.). La supremazia sulla costa passa a Tiro e Sidone.

Periodo 539-333 a.C. achemenide

Ricostruzione delle aree di culto in forme monumentali.

Età ellenisticoromana

333 a.C.- 551 d.C. Sottomissione volontaria di Biblo ad Alessandro il Grande, e quindi al diadoco (suo successore) Seleuco. In età romana il culto si focalizza sulla venerazione di Adonis. Nel 551 d.C. Biblo viene annientata, con altre città romane, da un disastroso terremoto.

«Non fare come si fa nella terra di Canaan» Levitico, XVIII, 6 In basso: l’area archeologica di Biblo. Sullo sfondo, i resti del colonnato di età romana. A destra: la stele del re Yehaumilk, nota anche come «di Baalat Gebal» o «Signora

di Biblo». Nell’iscrizione il re rende omaggio alla principale dea della città, raffigurata in alto a sinistra come l’egiziana dea Hathor. Parigi, Museo del Louvre.

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biblo • i luoghi della leggenda

degli scrittori classici mentre esplorava il pianoro di Jbeil. Il sito era stato saccheggiato per secoli da cavatori di pietre, antiquari e cercatori di tesori che avevano disperso reperti in ogni dove. Tra questi, il busto frammentario del faraone Osorkon I (924-889 a.C.), oggi conservato al Louvre. Cercando nei villaggi vicini blocchi di pietra con iscrizioni in greco, latino e in geroglifici egiziani, esaminando rovine affioranti, e scavando di orto in orto, Renan maturò la certezza di aver identificato il sito. Gli sfuggí invece il famoso bassorilievo ora esposto al Louvre e che mostra una dea in stile egizio, con un disco solare e le corna bovine della dea Hathor. Era la stele di Yehaumilk, nota anche come Baalat-Gebal, la «Signora di Biblo», che fu invece scoperta casualmente nel 1869. La seconda tappa della riscoperta si deve all’opera dell’egittologo Pierre Montet (1885-1966). Il fortunato

quel che RESTA DI BIBLO 1

bastioni dell ’ età del bronzo

2

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Cartina della costa del Levante, con le principali città di epoca fenicia.

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Mar Morto

La visita al promontorio di Biblo (nella foto aerea alla pagina accanto) rappresenta un’opportunità straordinaria per ripercorrere quasi 6000 anni di storia del Vicino Oriente antico. I resti dell’abitato neolitico (databili a partire dal 6000 a.C.) sono ancora parzialmente visibili. Una fase denominata «preurbana», caratterizzata dalla realizzazione di case in pietra, precede la nascita della città vera e propria. La Biblo dell’età del Bronzo Antico nasce nei primi secoli del III millennio a.C. e si articola intorno a una sorgente d’acqua sfruttata sin dalla fine del IV millennio. L’accesso alla fonte, un fosso largo e profondo, è ancora oggi ben visibile. Poco a nord della sorgente si trovano i resti del tempio dedicato alla «Signora di Biblo» (Baalat Gebal), costruito intorno al


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1

3

IL SITO E IL SUO NOME: GEBAL, BYBLOS, JBEIL Il piú antico nome del sito è Gbl (Gebal o Gubal), toponimo semitico riportato nei testi sumerici ed egiziani del III millennio. In età greca esso fu trasformato in Byblos, una parola che presto viene a designare una delle principali risorse della città, il papiro e, in seguito, i rotoli di papiro su cui si scriveva, i biblia (libri). La denominazione moderna, Jbeil (Gebeil) è una trasformazione di Gibelet, nome che i Crociati diedero all’antica città quando la conquistarono nell’anno 1103.

2800 a.C. Negli anni Venti del secolo scorso vi fu scoperta la cosiddetta «giara Montet», contenente migliaia di oggetti preziosi. A sud di questo tempio, sul versante interno della collina, si incontra un altro importante santuario risalente all’età del Bronzo Antico, il cosiddetto «Tempio a L», sopra il quale, nell’età del Bronzo Medio, venne eretto il tempio denominato «degli Obelischi». Dai depositi votivi nascosti sotto la cella di quest’ultimo santuario provengono centinaia di figurine umane e animali in bronzo, risalenti al XIX-XVIII secolo a.C. All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso, il «Tempio degli Obelischi» è stato interamente smontato e rimontato una decina di metri piú a sud, cosí da permettere la visita ad entrambi gli edifici.

Non esistono, purtroppo, dati archeologici consistenti relativi al periodo finale del II millennio e a quello fenicio. E non è stato ancora stabilito se la città di età fenicia sia stata distrutta dagli interventi urbanistici di età romana o se, invece, essa si trovi ancora nascosta sotto le case della città bassa di Jbeil. A est della fortificazione crociata che domina su tutto il promontorio, sono ancora ben visibili le vestigia del sistema difensivo achemenide, mentre sul versante opposto, in direzione del mare, i resti di un elegante colonnato e le gradinate di un piccolo teatro testimoniano le profonde trasformazioni subite dall’acropoli di Biblo nel corso dell’età romana. Nel 1984 Biblo è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO.

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biblo • i luoghi della leggenda

iside e osiride, gli immortali di biblo

Il legame indissolubile che Biblo mantenne con l’Egitto è ribadito dal ruolo centrale che la città fenicia riveste nel piú importante mito religioso della terra del Nilo, quello dell’amore tra Iside e Osiride. Da Nut, la dea del cielo, e Geb, dio della terra, erano nate due femmine, Nefti e Iside, e due maschi, Osiride e Seth. Iside e Osiride, ancora nel ventre materno, si innamorarono e, venuti al mondo, come capostipiti dei divini sovrani egizi, si diedero a formare il mondo. Poiché Osiride, ubriaco, si era unito alla sorella Nefti, che era sposa di Seth, quest’ultimo si vendicò costruendo un prezioso sarcofago, spingendo con un tranello il fratello a entrarvi, e quindi uccidendolo.

Qui sopra: specchio con manico a forma di papiro in argento e oro. A destra: cofanetto in ossidiana e applicazioni in oro recante il nome del faraone Amenemete IV (1813-1803 a.C.). Nella pagina accanto: balsamario in ossidiana e oro. I tre oggetti sono stati rinvenuti nella necropoli reale di Biblo. Beirut, Museo Nazionale.

cilindro e scarabei faraonici, asce, spilloni e altri oggetti in metallo, tra i quali piú di 40 torques (collari metallici) in bronzo e argento. Complessivamente, nelle aree sacre di Biblo emersero almeno 40 depositi votivi con oggetti preziosi, tra cui veri capolavori di oreficeria ispirati a modelli egiziani e ittiti, armi e altri oggetti di culto. A partire dal 1928, sulla scia dei successi di Montet, gli scavi furono ripresi dal suo connazionale Maurice Dunand (1898-1987). Dunand portò in luce le mura urbane del III millennio a.C. e i santuari della città, che furono esplorati sino alle fasi antiche (non senza suscitare polemiche, in quanto l’approfondimento delle Una giara per monsieur montet Tra le altre sue scoperte figura cosí la «Giara Montet», trincee comportava la rimozione e poi la ricostruzione un grande recipiente interrato in posizione verticale, in loco dei ruderi piú recenti). con un coperchio dall’ansa serpentiforme, che contene- Il cosiddetto «Tempio degli Obelischi» era stato cova un vero e proprio tesoro composto di migliaia di struito tra il XIX e il XVI secolo direttamente sulle oggetti preziosi di diversa provenienza, datati alla fine del rovine di un precedente tempio del III millennio a.C. III millennio a.C. Vi erano figurine egiziane, sigilli a Dunand fu, cosí, costretto a smontarlo interamente e Montet, destinato a clamorose future scoperte nella terra del Nilo, cercava testimonianze della presenza egiziana nel Levante, e non fu certo deluso: tra il 1921 e il 1924 ne trovò in abbondanza nei resti del palazzo reale della città, e in quelli del tempio di della dea protettrice, Balaat-Gebal. Sotto quanto restava dei pavimenti del palazzo, si imbattè nella necropoli reale, scavando nove delle sue sepolture.Tra esse vi era il grande sarcofago del re Ahiram (X secolo a.C. circa), riccamente scolpito e recante una delle piú antiche iscrizioni in alfabeto fenicio (vedi box a p. 40).

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Il sarcofago col cadavere del dio navigò, leggero, sulle acque del Nilo; attraversò i fruscianti canneti del delta, poi fluttuò sulle onde, per arenarsi finalmente sulle spiagge di Biblo. Qui un’acacia amorevole avvolse il sarcofago con radici e fronde, diventando una sola cosa con la tomba soprannaturale. Infine, quando l’acacia fu tagliata, se ne fece un pilastro per il palazzo del re di Biblo, Malcandro. Intanto Iside, disperata, continuava a cercare il corpo dell’amato fratello. Giunta a Biblo, divenne nutrice del principe della città, nascondendo chi era. I sovrani scoprirono Iside mentre poneva il principe bambino sulle braci ardenti: non sapendo che era un rito per donare al principe l’immortalità, affrontarono la dea, che fu costretta a rivelarsi. Cosí essa ottenne il pilastro dove ancora si celava il potere fecondatore del fratello. Rimasta incinta a Biblo, si rifugiò a Buto, nel delta, dove partorí Horus, il dio-falco solare, che crebbe nelle paludi del nord. Seth trovò il corpo del defunto Osiride, lo smembrò e ne disperse i pezzi nelle acque del Nilo; Iside riuscí a ricomporlo e a mummificarlo, garantendogli cosí la resurrezione in un’altra realtà, in cui i due amanti si sarebbero ricongiunti. Horus, in seguito, avrebbe vendicato il padre uccidendo lo zio Seth e riconquistando, dopo diverse peripezie, il trono faraonico. Il mito di Iside e Osiride riassume molti dei temi soprannaturali del mondo e dell’ideologia faraonica: in primis, l’ineluttabilità della morte, temperata dal potere fecondatore e salvifico della ritualità funeraria che trasformava per sempre il re in dio, fondando al tempo stesso la legittimità dell’intera costruzione sociale egiziana. L’ambientazione a Biblo spiega la venerazione che i re d’Egitto tributarono, per almeno un millennio, ai templi della città costiera.

ricostruirlo a lato dello scavo, in maniera tale da poter accedere alla piú antica costruzione. Il santuario era dedicato a Reshef, dio siriano e canaanita della guerra e della pestilenza, gradualmente assimilato, col passare dei secoli, all’egiziano Serth. Al centro di una corte sacra si trovava la cella contenente una base d’altare che si ergeva su un podio rialzato. Nella corte fu scoperto un assembramento di numerosi obelischi in arenaria e calcare su basi rialzate quadrate (da cui il nome dato al complesso). Nel santuario si trovavano nicchie per oggetti di culto, bacini e tavole per offerte, insieme a ricchi depositi votivi. Nel 1975, allo scoppio della guerra civile libanese, destinata a protrarsi fino al 1990, Dunand interruppe il lavoro portando con sé tutta la documentazione di scavo, con le informazioni sul contesto di rinvenimento di almeno 45 000 reperti. Donate all’Università di Ginevra, le carte sono state restituite al Libano nel 2010, facilitando cosí la necessaria

opera di sistemazione e edizione di decenni di scavo, cui si stanno pazientemente dedicando, ancor oggi, molti studiosi.

i pilastri del libano Nelle immagini archeologiche della prima età del Bronzo, si intrecciano strettamente due temi ugualmente suggestivi: lo stretto contatto con le corti faraoniche, e il commercio internazionale del prezioso legno di cedro, accessibile soltanto lungo i boscosi pendii dei monti occidentali del Libano. Un tempio pre-dinastico a Hyerakompolis, datato intorno al 3200 a.C., risulta abbellito da quattro enormi pilastri in cedro del Libano, spessi 1 m e alti non meno di 13 m; la complessità che comportava un trasporto «sicuro» di simili giganti lignei è facile da immaginarsi. Un’iscrizione dimostra che durante il regno di Snofru (2630-2609 a.C.)– il padre di Cheope (2609-2580 a.C.) – dagli approdi di Biblo partirono ben (segue a p. 40) a r c h e o 37


biblo • i luoghi della leggenda 2

fasti e minacce di ahiram La mattina del 16 febbraio 1922 riservò agli archeologi francesi una sorpresa straordinaria: un intero fianco del promontorio era franato, aprendo l’accesso a una camera sotterranea che si trovava a ben 12 m di profondità dalla superficie del tempo. La camera conteneva un sarcofago di calcare bianco con il coperchio spezzato. Penetrando da questo accesso, gli scavatori giunsero a mettere in luce un totale di nove tombe a camera, scavate su un lato di grandi pozzi rettangolari tagliati nella viva roccia, profondi da 6 a 10 m. Le sepolture erano state sigillate con terra e coperte da lastre di pietra. Solo tre di esse (numerate da I a III) risultarono intatte; le altre erano state depredate in antico, e almeno una in tempi piú recenti, dato che il sarcofago svuotato conteneva fogli di quaderno datati

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al 1851. Gli oggetti trovati nelle tombe I, II, III e nella tomba IV (depredata) comprendono placche di avorio, coppe in bronzo, argento e faïence, collane, pettorali e utensili in metalli preziosi, anelli, bracciali e spilloni in bronzo, vasi di alabastro, ceramiche. Iscrizioni trovate nelle tombe I e II le attribuivano ai re Abishemu e Ibshemuabi, vassalli dei faraoni d’egitto Amenemete III e Amenemete IV (1861-1803 a.C.). Nella tomba V si celavano nuove sorprese, incluse... inattese maledizioni. la camera era stata protetta (vanamente), oltre che dalla copertura di lastre, da una intercapedine lignea. Al di sotto, la parete del pozzo di accesso recava un graffito in caratteri fenici che recitava: «Attenzione! Fermati, qui sotto ti attende il dolore!». La camera, già devastata dai furti e dai crolli,


4 1. IL GRANDE sarcofago di re Ahiram conservato al Museo Nazionale di Beirut. 2. IL coperchio con l’iscrizione incisa lungo il bordo. 3. LA decorazione del coperchio, con due uomini e due leoni scolpiti. 4. UN lato breve del sarcofago, con Quattro figure femminili piangenti.

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conteneva due sarcofagi in calcare non decorato, e il grande sarcofago finemente scolpito del re Ahiram. Due leoni ne coprivano il coperchio, altri due ne sostenevano la base. Su un lato, Ahiram siede in trono, con un fiore di loto nella mano sinistra tra sfingi alate e donne disperate dal dolore. Sul lato opposto compare un corteo sacrificale di portatori di offerte, forse nel corso del funerale reale. Le figure erano evidenziate con pittura rossa. Lo stile risente per certi aspetti di quello egiziano, e per altri delle forme che, al tempo, erano comuni nelle corti siro-ittite del margine nord della Mesopotamia. Sul coperchio corre l’iscrizione che segue: «La bara che Ittobaal, figlio di Ahiram, re di Biblo, fece per suo padre come sede eterna. E se qualunque re, o governatore, o comandante attaccherà Biblo e aprirà questa bara, che si infranga il suo scettro del giudizio, che si rovesci il suo trono reale, e che la pace abbandoni per sempre Biblo; e quanto a lui, che un vagabondo sfiguri le sue iscrizioni!». Non sappiamo se la maledizione abbia colpito o meno i profanatori, ma la tomba – scientificamente parlando – si è rivelata un osso particolarmente duro per gli archeologi. Le tombe reali insistono negli strati delle sepolture calcolitiche, piú vecchie di millenni, il che complica le letture stratigrafiche. I due sarcofagi non decorati della tomba V sembrano appartenere a una fase piú antica di quello principale. Il sarcofago di Ahiram, l’iscrizione, le ceramiche cadute nella camera funebre, un avorio di influenza micenea, e due frammenti di vasi in alabastro con il nome di Ramesse II (1279-1212 a.C.) daterebbero la tomba all’interno del XIII secolo a.C., ma molti altri studiosi, sulla base dell’iscrizione principale, spostano il tutto (e la carriera reale di Ahiram) al X secolo a.C. Il sarcofago potrebbe risalire all’età di Ramesse, ed essere stato riutilizzato, o completamente o parzialmente ri-scolpito, tre secoli dopo, ma ciò aggiungerebbe altra incertezza a un quadro già pieno di dubbi. a r c h e o 39


biblo • i luoghi della leggenda

SCRIVERE DA MERCANTI Intorno al 1000 a.C. per le città fenicie, indeboliti i vicini piú aggressivi, era tempo di indipendenza. Il «Papiro di Wenamun» rivela che Biblo allora scambiava il suo legno pregiato con vari beni, tra cui cordami e papiri raccolti e lavorati nel Delta del Nilo. Proprio dal papiro (in greco byblos) sembra derivare il nome che, nello stesso periodo, i Greci diedero alla città. A Biblo ormai era tramontata l’era dei geroglifici, e si scriveva in un modo completamente diverso. Tra le piú antiche iscrizioni in lingua fenicia e nei 22 caratteri lineari dell’alfabeto fenicio classico vi sono quelle incise su un centinaio di punte di freccia in bronzo (XII-XI secolo a.C.) che riportano nomi propri. L’alfabeto fenicio sembra legato da un lato all’alfabeto cuneiforme in uso a Ugarit nel XIII secolo a.C., dall’altro a piú antichi sistemi di segni di origine geroglifica che compaiono presso le miniere di malachite di Serabit el-Khadim, nel Sud del Sinai. L’iscrizione di Ittobaal sul sarcofago del padre Ahiram di Biblo (1000 a.C. circa?) è considerata la piú antica vera iscrizione fenicia sinora nota – segno che la corte di Biblo si era appropriata in fretta di un’innovazione nata in ambito mercantile e artigianale. Il vantaggio dell’alfabeto, rispetto ai sistemi precedenti, è facile da intuire: il training richiesto per usarlo durava meno di un anno, mentre i vecchi sistemi sillabici e ideografici richiedevano anni di studio e di esercizio. Inoltre, l’alfabeto permetteva di trascrivere nomi propri e parole di altre lingue con estrema facilità. Mentre i documenti su papiro non sono sopravvissuti, oltre alla grande epigrafia regale e funeraria, ci restano iscrizioni su frammenti di vasi (ostraka) e su altri piccoli oggetti, a dimostrare un uso non confinato agli strati sociali superiori della popolazione. Lastra con iscrizione del re Yehimilk di Biblo, dalla cittadella medievale di Biblo. X sec. a.C. Le sette righe del testo si chiudono con un’invocazione/ raccomandazione a Baalat-Gebal alla Signora di Biblo e alle altre divinità di Biblo. Dopo quella del sarcofago di Ahiram, è la piú antica iscrizione fenicia a oggi nota. Beirut, Direzione Generale per le Antichità.

40 navi cariche di tronchi di cedro, destinate al palazzo del sovrano. La grande barca funeraria recuperata e ricomposta a lato della grande piramide del faraone Cheope (prima metà del XXVI secolo a.C.) risulta interamente costruita con assi di cedro. Il quadro è chiaro e completo. Nel tempio di Balaat, a Biblo, sono emersi frammenti di piatti e giare in pietra semipreziosa con dediche di Khasekhemui, Cheope, Chefren, Micerino, Unas, Sahure, Pepi I e Pepi II (Antico Regno, dalla II alla VI dinastia, fino agli inizi del XXII secolo a.C.), insieme a elementi di collana, scarabei, oggetti in bronzo, e statuette egizie in avorio e pietra. L’Egitto, per Biblo, rappresentava protezione politico-militare ma soprattutto commercio, e un continuo afflusso di preziosi metalli e altre molteplici forme di ricchezza circolante.

crisi e rinascita Intorno al 2200 a.C., Pepi II, penultimo faraone dell’Antico Regno, aveva quasi novant’anni. È probabile che si sia trovato ad affrontare, alla fine di un regno eccezionalmente lungo, gli effetti di una grave crisi ambientale segnata dal drammatico abbassamento delle acque del Nilo (crisi che, secondo diversi studiosi, avrebbe avuto effetti devastanti anche in Mesopotamia, dove forse fu corresponsabile della rapida disgregazione dell’impero accadico). L’Egitto entrò in due secoli di guerre civili, interrotti intorno al 2000 a.C. dalla vittoria finale di Montuhotep II. Nei primi tre secoli del nuovo millennio la nuova pressione politica e militare egiziana e la ripresa su vasta scala delle attività commerciali dei mercanti di Biblo sono pienamente percepibili nelle scoperte archeologiche, in primo luogo nella costruzione del Tempio degli Obelischi, nei cui depositi votivi figurano

In alto: lamina in rame con iscrizione di Azorbaal, da Biblo. X sec. a.C. Beirut, Direzione Generale per le Antichità.

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«Sei un Siriano? Ti dico salam; se sei di stirpe fenicia, audoni; se sei greco, chaire; tanto è sempre lo stesso saluto» (epigramma attribuito a Menandro, IV secolo a.C.)

Statuette di divinità, in bronzo e foglia d’oro (altezza massima 27 cm), dal Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. Beirut, Direzione Generale per le Antichità.

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biblo • i luoghi della leggenda

ceramiche importate da Creta e oggetti preziosi con iscrizioni e dediche di diversi sovrani del Nilo. Al generale benessere contribuiva sicuramente lo sfruttamento delle nuove zone estrattive e il transito del rame di Cipro, ora di importanza cruciale anche in Mesopotamia. Non stupisce che nell’arco del II millennio a.C., a Biblo si inventarono e sperimentarono uno o piú sistemi di scrittura noti come «pseudo-geroglifici» (tuttora non tradotti), non troppo dissimili da quelli in uso, in quel tempo, anche a Creta. Innovazioni forse non del tutto estranee allo sviluppo dell’alfabeto fenicio.

l’incanto di sinhue I profondi legami tra Egitto e Levante del nord sono efficacemente descritti, anche se con toni immaginifici, nel famoso racconto o «romanzo storico» di Sinhue. Questo era un giovane membro della guardia reale, forse coinvolto in una pericolosa trama politica agli albori della XII dinastia. In fuga dall’Egitto, Sinhue si muove a nord-est, entra nelle terre del Levante, viene soccorso da un capo beduino. Si reca temporaneamente a Biblo, per poi diventare un capo militare posto a protezione del distretto di Yaa, parte della terra che gli Egizi chiamavano «Retenu superiore» (forse l’alta Siria nord-orientale e la valle libanese della Bekaa, tra le catene del Libano e dell’Antilibano). La nuova patria di Sinhue è descritta in termini paradisiaci: «Vi crescevano fichi e grappoli d’uva, e il vino vi abbondava piú dell’acqua. Copioso era il suo miele, molteplici le sue olive, e frutta di ogni genere producevano i suoi alberi (...) Vi erano grano e spelta, e innumerevoli bovini di ogni razza». Nonostante tale «bengodi», alla fine, un nostalgico Sinhue tornò in patria dal suo faraone, dove venne accolto da una piramide già pronta per lui, da una bella statua coperta di foglia d’oro e dai sacerdoti specializzati nei riti mortuari indispensabili a ogni egiziano di alto rango che si rispettasse. La fine del Medio Regno, poco dopo il 1700 a.C., coincide con l’affermazione nella regione del Delta del

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A destra: statuette di divinità in bronzo e foglia d’oro, dal Tempio degli Obelischi. Età del Bronzo Medio. In basso: pugnale e fodero in oro, avorio e argento, dal Tempio degli Obelischi. Età del Bronzo Medio. Beirut, Direzione Generale per le Antichità.


perchÉ è importante

iblo, già considerata dai Fenici una delle piú antiche B città del mondo, era una «città sacra» non solo per le società cananee, ma anche per gli antichi Egizi. Antichissimo polo mercantile, la città è passata alla storia per un ininterrotto commercio di pregiato legno di cedro, esportato verso Egitto e Mesopotamia in cambio di ricchezze di diverso tipo e metalli preziosi. Nel I millennio a.C., alle merci pregiate si aggiungono carichi di rotoli di papiro destinati alla scrittura di testi e documenti. A Biblo, sul sarcofago del re Ahiram (X secolo a.C.) si trova la piú antica iscrizione in un alfabeto fenicio.

il sito nel mito

Il palazzo reale di Biblo, nel mito egizio, è lo scenario della vana ricerca di Iside di un rimedio per la morte dell’amante e fratello Osiride, assassinato da Seth; il potere fecondatore del legno in cui si è transustanziato il dio è una delle piú antiche espressione dei culti di sacrificio, fecondazione e resurrezione dell’antico Vicino Oriente. In età classica ed ellenistica la figura dell’Osiride di Biblo si fuse gradualmente con quelle di Dumuzi/Tammuz del mondo mesopotamico e siriano, con quella del frigio Attis, quindi con il fenicio Adonis, il giovane cacciatore amato da Afrodite e morto sbranato dai cani, confinato nell’oltretomba sino al tempo della primavera, quando la sua resurrezione rigenera il mondo intero.

BIBLO NEI MUSEI DEL MONDO

seguito degli scavi francesi, alcuni dei piú celebri A reperti di Biblo sono custoditi nella stanza B, del settore delle Antichità Orientali del Museo del Louvre di Parigi: tra essi vi sono la statuetta di vitello coperta d’oro nota, appunto, come «Il vitello d’oro» e la celebre stele di Yehaumilk, con l’immagine della dea di Biblo con le fattezze di Hathor, trovata nel 1869. Nel Museo Nazionale di Beirut si trovano invece l’altrettanto celebre statuetta del dio Reshef, in bronzo coperto di foglia d’oro, in posa simile a quelle degli dèi egizi e la maggior parte dei reperti restituiti dagli scavi.

informazioni per la visita Ci si può recare a Jbeil (oggi l’antico nome non si usa piú) con un breve viaggio in auto, noleggiando un taxi o viaggiando in bus da Beirut. Jbeil è una bella cittadina storica, famosa per il suo antico suk e la sua baia colma di barche da pesca e da diporto. L’itinerario della vista comprende il Castello dei crociati e la chiesa di S. Giovanni costruiti tra il XII e il XIII secolo. Dal castello si accede all’area archeologica, dove si conservano resti di costruzioni di età calcolitica, i templi egizi del II millennio a.C., la necropoli reale fenicia, e l’anfiteatro romano. a r c h e o 43


biblo • i luoghi della leggenda

Una veduta di Biblo. Sulla destra, i bastioni del castello crociato.

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i fenici, CREATORI DI MODERNITà Oggi, tramontati gli echi della propaganda romana, e messe in crisi le dicerie sui sacrifici dei neonati cartaginesi (vedi «Archeo» n. 306, agosto 2010, anche on line su archeo.it), archeologi e storici ricordano piuttosto il predominio fenicio e poi punico lungo le rotte africane verso la Sicilia, le coste tirreniche e la Sardegna, fino all’Iberia; la grande avventura culturale, oltre che politica, di Cartagine; e ovviamente la qualità impareggiabile delle manifatture artigianali della tradizione levantina. I Fenici erano infatti ricordati dagli antichi come i piú abili costruttori navali, capaci di fabbricare non solo navigli commerciali, ma anche regali, o addirittura prodigiosi vascelli per lo stesso Poseidone.

La loro abilità spaziava dagli articoli del lusso piú sfrenato (tra i quali la loro specialissima porpora) a piú comuni prodotti alimentari, dall’avorio al dattero, dalla farina (con la relativa lavorazione del pane) ai tappeti, dal pistacchio e al silfio, al garum, al pesce salato, dal vino genericamente fenicio e apprezzato dai Cartaginesi, a quello di Biblo (Enrico Acquaro). La fama dei carpentieri di Biblo ne aveva suggerito l’impiego a Babilonia. Se è certo, inoltre, che i Fenici non inventarono la tecnologia del vetro, che risaliva almeno a gran parte dell’Oriente del III millennio a.C., è altrettanto evidente che ne fecero per primi una vera e propria «bomba commerciale»,

diffondendone l’uso e l’estetica presso le classi socialmente emergenti di diverse civiltà contemporanee. E geniale fu lo sfruttamento degli stilemi egizi, trasformati in una colossale operazione di branding a proprio esclusivo vantaggio. Richard Pietschmann, nella sua Storia dei Fenici (1899), scriveva che «I Fenici appartengono a quei popoli, sulla storia dei quali irradiarono pochissima luce le grandi scoperte, fatte dallo studio degli antichi monumenti orientali. La Fenicia, confrontata con la valle del Nilo, l’Assiria e la Babilonia, e perfino con l’Asia Minore, è povera di avanzi monumentali». Anche se i successivi scavi di importanti aree di culto resero perlomeno


Nilo dei misteriosi «Re pastori», capi asiatici che gli egiziani chiamavano Hyksos, cioè «Capi di paesi stranieri». La riscossa nazionale condotta dai faraoni della XVIII dinastia (1543-1292 a.C.) riportò le armate egiziane nel Levante; non a caso le iscrizioni di Thutmosi III (1479-1424 a.C.) vantano il taglio dei cedri di Biblo per costruire navi e portare in patria, ancora una volta, enormi carichi di legname. Realtà o vanteria? Testi successivi indicano che il legno di cedro fruttava ai signori di Biblo ogni genere di mercanzie pregiate, e soprattutto metallo sonante. In questi secoli, comunque, Biblo e altre città costiere restarono «sotto i piedi del re, nostro signore, dove cadiamo sette e sette volte» – quindi fedele ai faraoni, nonostante la minaccia delle incursioni e degli assedi da parte di tribú nomadiche di lingua semitica (tra le quali si annoveravano gli Hapiru, termine accadico che nel Vicino Oriente del II millennio a.C. designava i «fuggiaschi», gli «sbandati», nome che alcuni studiosi ritengono etimologicamente connesso a quello degli Ebrei) costantemente aizzate dall’impero ittita contro le frontiere meridionali della propria sfera di influenza. Dopo alterne vicende e drammatici rovesci, Biblo fu ripresa e assicurata alla corona del Nilo da Ramesse II (1279-1212 a.C.), che nella città costiera lasciò, come si è detto numerose iscrizioni. Questo periodo di pace e benessere fu interrotto dalla grande crisi geopolitica delle

imprecise tali affermazioni, la civiltà fenicia è rimasta meno definibile e piú elusiva di quelle vicine. Tale supposta «invisibilità» dei Fenici, o – per usare un’espressione piú neutra – delle «genti dell’età del Ferro della costa del Levante settentrionale», forse risiede, e si giustifica, nella loro assoluta e rivoluzionaria modernità. Il mondo mercantile uscito dal crollo degli Stati a vocazione imperiale dell’età del Bronzo, a confronto degli antichi monopoli e dei rituali delle aristocrazie tradizionali, era «trasparente» come il vetro, e facile da apprendere come l’alfabeto. Non è difficile

«percepire» l’abnorme sostanzialità delle piramidi di Giza, frutto di un’economia e di un’ideologia che apparivano arcaiche e, in qualche modo, fallimentari già intorno alla metà del III millennio a.C., mentre è meno immediato l’impatto dell’alfabeto, delle spregiudicate strategie commerciali, della straordinaria flessibilità stilistica dei Fenici sul resto del Mediterraneo. Rimane piú semplice, in altre parole, considerare con stupore quanto da altri fu clamorosamente abbandonato, piuttosto che riconoscere quanto noi stessi, magari senza pensarci, continuiamo a usare.

migrazioni dei «Popoli del Mare», che misero letteralmente al tappeto non solo i due grandi contendenti (impero ittita ed Egitto) ma anche i principali centri della costa levantina, tra i quali Alalakh e Ugarit. Biblo è quasi priva di stratigrafie archeologiche coerenti risalenti alla età del Ferro (XII-VII secolo a.C.), fatto variamente imputato alle intense attività di rasatura e ricostruzione verificatesi in età ellenistica, al grande cantiere per la fabbricazione di un castello dei Crociati, o, ancora, agli insediamenti moderni. Assenza rumorosa, se pensiamo che un secondo, importante «romanzo storico» egiziano, pervenutoci incompleto e noto come il «Papiro di Wenamun», nel riflettere lo Stato di Biblo intorno al 1000 a.C., dipinge la città come un regno autonomo e prospero (vedi box a p. 40).

la fondazione di Cartagine A Biblo, anche la grande necropoli reale, e iscrizioni regali su statue dei faraoni Sheshonq I e Osorkon I (fine del X secolo a.C.) continuano a indicare forti legami con l’Egitto. Il Libro dei Re tramanda, per lo stesso periodo, la collaborazione del sovrano di Tiro con Salomone in vista della costruzione del Tempio di Gerusalemme. Alla fine del IX secolo risale anche la fondazione di Cartagine a opera di coloni di Tiro, che segna probabilmente una fase già avanzata dell’espansione commerciale delle comunità del Levante verso occidente. Scrive l’archeologo Jean-Paul Thalmann, responsabile della missione a Tell Arqa (Libano settentrionale): «La rapida rinascita delle principali città agli inizi del I millennio è indice di continuità. Dal punto di vista delle attività economiche e della cultura, le città-stato fenicie sono eredi dirette dei centri dell’età del Bronzo». La nascita del mondo fenicio, in altre parole, dipese da due millenni di scambi, fusioni e resistenza culturale nelle terre di Canaan, e soprattutto dall’adattamento tecnico ed economico alle opportunità straordinarie offerte dalle vie del mare, in comunità urbane minacciate non solo dalle grandi compagini imperiali, ma anche da aggressive confederazioni di tribú nomadi in via di sedentarizzazione. Tra l’VIII e la prima metà del VII secolo Biblo, con le altre città fenicie, dovette resistere alla crescente pressione dello Stato assiro, che, tuttavia, continuava a fornire preziose opportunità commerciali. Agli inizi del VI secolo a.C., la celebre circumnavigazione dell’Africa, dal Mar Rosso al Delta del Nilo, promossa dal faraone Necao II (610-595 a.C.) fu portata a termine – contro ogni ragionevole attesa – da esploratori fenici. L’impresa ribadisce il coraggio, l’enorme esperienza nautica e la visione avveniristica di queste genti marinare, destinate a stravolgere la storia dell’intero Mediterraneo. nel prossimo numero

rapa nui l’isola di pasqua a r c h e o 45


Paulilatino (Oristano). Uno scorcio del santuario nuragico (un pozzo sacro dedicato al culto di una divinità legata alle acque) di Santa Cristina. In primo piano, l’imbocco della scala che conduce all’ambiente sotterraneo.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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Alla

fonte

degli dèi

una scala scende nell’oscurità della terra per raggiungere una sorgente d’acqua: È il pozzo sacro di santa cristina, cuore di uno dei piú importanti luoghi di culto della civiltà nuragica di Carlo Casi e Anna Depalmas

S

prossimità di Sedilo, e dove l’artificiale lago Omodeo fa bella mostra di sé. Sfiorata Ghilarza, raggiungiamo l’odierno centro di Paulilatino e lo superiamo, percorrendo la statale 131. A 4 km, ben segnalata e visibile, si estende

iamo in quella parte di Sardegna dove il paesaggio delle colline nuoresi degrada inesorabilmente verso le lagune di Cabras e Oristano; dove s’interrompe quella che potremmo definire la «Barbagia culturale», in

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parchi archeologici • paulilatino

l’area archeologica, che ci accoglie coronata da casupole realizzate in pietra lavica locale, i muristenes, tra le quali emerge improvvisamente la chiesa di S. Cristina. Entrando, si respira un’aria di sacralità che ci lascia stupiti e attoniti: qui il tempo si è fermato... Qui la storia sa il fatto suo e, di lí a poco, le tracce di questo lungo passato ricominciano a raccontare se stesse e le vicende che hanno vissuto le tante generazioni di persone che qui si sono avvicendate nel pregare, nel sognare, nel vivere. Il pozzo di Santa Cristina, realizzato per raggiungere la vena d’acqua

sottostante, per la sua raffinatezza e per la perfezione tecnica e strutturale può infatti considerarsi uno degli edifici piú rappresentativi dell’architettura sacra nuragica.

come un imbuto Già notato per la sua caratteristica «singolare in forma d’imbuto» da Alberto Lamarmora nel 1840 e da Vittorio Angius nel 1846, fu r ilevato per la pr ima volta da Giovanni Spano nel 1857. Occorre però attendere il 1967 perché comincino i primi scavi veri e propri di Enrico Atzeni, che li ha seguiti anche nel 2003, anno

in cui si è svolta l’ultima campagna. Non è stato indagato solo il pozzo sacro; l’interesse degli archeologi si è esteso anche ad alcune capanne poste dintorno e al vicino nuraghe. Si è inoltre provveduto al restauro delle strutture murarie del pozzo, che è stato cosí reso visitabile. Il pozzo sacro di Santa Cristina è composto essenzialmente da due elementi, uno ipogeo (la tholos; una falsa cupola formata da anelli aggettanti di blocchi di pietra, n.d.r.), l’altro epigeo (l’atrio rettangolare e lo spazio circolare soprastante la tholos sotterranea),

Cartina dell’area archeologica di Santa Cristina: A. santuario nuragico, con il pozzo sacro; B. villaggio nuragico; C. muristenes (casupole in pietra lavica).

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In alto: veduta dall’alto del pozzo sacro e delle strutture circostanti. A sinistra: una suggestiva inquadratura dalla scala che scende al pozzo sacro. Sulle due pagine, in basso: il pozzo sacro visto dall’esterno, circondato da un muro a secco che costituisce una sorta di temenos.

collegati tra loro da una scala, anch’essa ipogea. Tali strutture sono comprese entro un recinto ellittico, che presenta l’ingresso in asse con l’accesso al pozzo.

la vasca nel basalto Centro dell’edificio è la vena d’acqua che viene raccolta entro una vasca circolare scavata nella roccia basaltica, profonda 0,50 m che costituisce il pavimento stesso dell’ambiente sotterraneo voltato a tholos. Il vano ipogeo è circolare (diametro 2,54 m) e la sua copertura, costituita da blocchi perfettamente squadrati disposti in filari aggettanti, si eleva per un’altezza di quasi 7 m; il culmine della tholos è privo ora della pietra di chiusura che doveva esservi in origine. Alla vena sorgiva si accede attraverso una scala composta da 25 gradini, scavata nel sottosuolo, con copertura anch’essa gradonata, realizzata – come tutto il resto della struttura ipogea – con blocchi di pietra isodomi (di uguale altezza e spessore, n.d.r.). a r c h e o 49


parchi archeologici • paulilatino

da demetra a santa cristina Le origini dei culti legati alle acque, soprattutto sorgive o in grotta, si perdono nella notte dei tempi: si tratta, infatti, di una delle forme di religiosità piú elementari e universali. L’uomo ha storicamente riconosciuto all’acqua (o meglio ad alcune acque) la proprietà di fecondare e di guarire dalle malattie. Si pensi, per esempio, alla tradizione che vedeva le giovani fanciulle troiane bagnarsi nelle acque del fiume Scamandro, implorandolo di prendere la loro verginità in dono, oppure alla Gambia, Paese africano nel quale le donne con problemi di fertilità s’immergono ancora oggi negli stagni del coccodrillo sacro affinché possano sperare di rimanere incinta. Oltre ad avere origini antichissime, questo aspetto del comportamento umano, mostra una sorprendente vitalità e capacità di riproporsi nel tempo. È questo il caso, certamente non isolato, della fonte sacra di Santa Cristina. Il culto di una divinità femminile quale dea del grano e dell’agricoltura, regolatrice delle stagioni, comprese quelle della vita e della morte e conosciuta con il nome di Terra Madre, è testimoniato in Sardegna già presso le comunità neolitiche. A Santa Cristina, la struttura del pozzo sacro rimanda chiaramente agli edifici templari di età nuragica, nei quali veniva adorata una qualche divinità collegata alle acque, successivamente interpretata in età punica come Demetra. La diffusione del culto di Demetra in terra sarda sembra infatti dovuta alla conquista fenicia, cominciata all’indomani della battaglia navale di Alalia del 540 a.C. Addirittura lo stesso nome di Demetra, secondo Diodoro Siculo, sarebbe da ricollegare a quello della Dea Madre. Attestazioni di culti demetriaci sono presenti anche a Santa Cristina, come prova il ritrovamento negli scavi del pozzo sacro di una serie di bruciaprofumi, i thymiateria a testa femminile, usati per bruciare essenze e aromi durante questi riti. Infatti, la presenza di kernophoroi, oggetti fittili raffiguranti un vaso sacro portato sopra la testa, è probabilmente relativa all’immagine, nel mondo greco, delle donne in processione che portavano sul capo un recipiente di terracotta, detto kernos, contenente primizie e chicchi d’incenso ardenti, in onore di Demetra e Persefone. Tale divinità si connota come legata alla sfera della fecondità-fertilità femminile per la quale l’acqua svolgeva, all’interno delle funzioni religiose, il ruolo di elemento di purificazione e rigenerazione. È comunque da sottolineare che la morfologia delle funzioni religiose risulta alquanto variegata anche per le frequenti e sottili interconnessioni che legano le varie divinità. La presenza di necropoli in prossimità dei 50 a r c h e o

santuari dedicati a Demetra, suggerisce infatti anche lo stringente legame tra fecondità-rigenerazione e «rinascita» dei defunti. La sorgente, quindi, è un luogo inteso anche come punto di passaggio dal mondo dei vivi a quello dei morti, nel quale, al culto della fertilità, è associato quello funerario per gli antenati. Le acque sorgive purificano e rigenerano perché sembrano possedere e ripetere il segreto della creazione e della crescita, un fattore sicuramente determinante per l’accettazione di rituali legati al culto delle acque anche dal cristianesimo, come dimostra la dedica di una chiesa al culto di S. Cristina, spesso coinvolta dalla Chiesa, insieme alla Madonna, nell’opera di cristianizzare credenze e rituali preesistenti, specialmente quelli legati all’aspetto curativo e salutare in genere delle sorgenti. Attraverso lo spazio circoscritto della sorgente, nel quale l’edificio religioso è inserito e tramite i rituali ivi svolti, viene in realtà esorcizzata la sterilità della terra causata dalla siccità. Ecco, ancora una volta, che la cristianizzazione di un culto antico avviene attraverso l’identificazione con la santa, denotando l’aspetto sacrale della fertilità-fecondità come trasposizione perfetta delle virtú salutari e benefiche delle acque. In alto: thymiaterion (bruciaprofumi) a testa femminile recante un vaso sul capo, dall’area archeologica di Santa Cristina. IV-III sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.


L’atrio si configura come una sorta di vestibolo che doveva introdurre nel penetrale del tempio (la parte piú interna del luogo di culto, n.d.r.), nelle profondità della terra, a contatto con l’acqua, nella parte piú interna del sacrario probabilmente inaccessibile ai piú. Alla base delle pareti dell’atrio rettangolare e dell’adiacente vano circolare si sviluppa un basso sedile-bancone, che contribuisce a identificare questi spazi come quelli riservati ai riti comunitari. L’andamento verticale, non aggettante, dei brevi tratti murari di alzato conservatisi suggerisce che la copertura di questi due vani fosse lignea e straminea, a doppio spio-

In alto: particolare della copertura a tholos (falsa cupola) del pozzo sacro di Santa Cristina. Qui sopra: la vasca per la raccolta dell’acqua. A sinistra: il rilevamento del pozzo eseguito da Giovanni Spano nel 1857.

vente in coincidenza dell’atrio di forma quadrangolare e in forma conica in corrispondenza del tamburo circolare del pozzo.

la capanna delle riunioni A breve distanza dal pozzo, a est, si nota una grande struttura circolare (diametro 10 m) con acciottolato pavimentale e un basso sedile lungo il perimetro interno, interpretabile come una «capanna delle riunioni» per i rappresentanti delle comunità del territorio (segue a p. 55)


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le tombe dei giganti Caratteristiche della civiltà nuragica, le «tombe di giganti» sono imponenti sepolture collettive la cui monumentalità doveva rappresentare l’intera comunità ed essere espressione del radicamento nel territorio. Nella zona di Paulilatino, questi edifici funerari sono presenti in gran numero. La presenza di «tombe dei giganti» indica la vicinanza di un insediamento, nuraghe o villaggio, entro poche centinaia di metri: sono generalmente singole, ma non è raro l’insieme di due o piú (come per esempio a Goronna). La struttura è perlopiú caratterizzata da una camera rettangolare con parte posteriore absidata (arrotondata) e ingresso aperto su uno spazio semicircolare delimitato da una facciata monumentale (esedra). Nella fase piú antica, l’edificio funerario è strutturato con lastre infisse verticalmente e copertura di lastre verticali (tecnica dolmenico-ortostatica), e ha al centro la stele centinata, una lastra accuratamente lavorata, con la parte superiore ricurva. Si diffondono poi le tombe a filari in cui l’elemento al centro della sommità della fronte è il concio dentellato, un blocco lavorato di forma trapezoidale che presenta tre incassi sul lato minore, nei quali erano inseriti altrettanti piccoli betili (cippi troncoconici di pietra). Esso è presente in particolare presso le tombe isodome, costituite da blocchi e lastre squadrati, spesso anche sagomati e a incasso.

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Le «tombe dei giganti» di Paulilatino presentano varie tecniche costruttive: dolmenico-ortostatica, a filari in tecnica ciclopica e a filari in tecnica isodoma. La presenza di betili nell’area immediatamente prossima alle tombe è particolarmente significativa: connessa all’aspetto dei culti per i defunti, è forse ricollegabile alla rappresentazione di eroi-antenati, presumibilmente di sesso maschile; tuttavia nel territorio di Paulilatino, quelli di Perdu Pes, sono caratterizzati da protuberanze mammelliformi, che uniscono la rappresentazione del principio maschile a quello femminile. A breve distanza dal nuraghe di Santa Cristina, in direzione sud-est, un blocco di basalto accuratamente sagomato e un frammento di concio «a dentelli» riferibili a una «tomba di giganti» di tipo isodomo indicano che in quei pressi sorgeva un tempo un edificio funerario del tipo delle «tombe di giganti», di cui attualmente è arduo individuare la localizzazione. Si può ipotizzare che tale monumento fosse analogo a quello presente a Noeddas, una località circa 1,2 km a nord di Santa Cristina. Nell’estate del 1967 l’archeologo Enrico Atzeni condusse scavi archeologici presso la «tomba di giganti» di Noeddas (del tipo a struttura isodoma a filari), nell’ambito delle ricerche che riguardarono principalmente il tempio a pozzo di Santa Cristina e l’area circostante. Il monumento appare oggi piuttosto


degradato, ma è leggibile la struttura tombale che conserva la camera funeraria lunga 7 m circa, mentre non sono piú visibili il pavimento di lastre ben lavorate e gran parte dei blocchi squadrati che costituivano il rivestimento esterno della struttura muraria in pietre non sbozzate. Si conserva in parte il lastricato della zona antistante l’esedra e sono visibili anche alcuni blocchi isodomi, tra cui il concio «a dentelli». I bracci dell’esedra sono piuttosto corti (15 m circa di corda) e, nel complesso, la struttura appare massiccia e poco slanciata. Sulla base dei reperti restituiti dallo scavo, la tomba di Noeddas può essere ascritta a una fase piena dell’età del Bronzo Medio. Ancora piú a nord su un lieve rilievo collinare nella località di Goronna nell’area in cui vi sono un nuraghe, forse del tipo a corridoio, e un vasto villaggio, si trova un gruppo di due, forse tre, tombe del tipo piú antico a struttura dolmenico-ortostatica. Una delle due tombe di giganti presenta ancora in posto, al centro dell’esedra, la stele centinata oggi spezzata (una lastra accuratamente lavorata, con parte superiore ricurva e listello mediano), il corridoio funerario realizzato con lastre verticali infisse al suolo e lastre orizzontali di copertura. Dalla tomba provengono materiali archeologici pertinenti a una fase iniziale del Bronzo Medio ed elementi riferibili a un momento piú avanzato della stessa fase. In questa pagina: Goronna. Due immagini di una tomba dei giganti, del tipo a struttura dolmenico-ortostatica, con la stele centinata al centro dell’esedra oggi spezzata. Nella pagina accanto: la tomba dei giganti di Noeddas, una località a nord di Santa Cristina, di tipo isodomo.

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parchi archeologici • paulilatino

antichi mestieri e tradizioni Un austero palazzo ottocentesco su tre livelli, un tempo dimora del notaio Giovanni Antonio Atzori, ospita oggi il Museo Archeologico Etnografico di Paulilatino. In attesa del completamento dell’esposizione archeologica, è possibile ammirare una preziosa collezione di materiale etnografico, riunita grazie all’iniziativa della Pro Loco e alla collaborazione di numerose famiglie del luogo. Questa raccolta è uno strumento conoscitivo e didattico per la comunità locale, che cosí riscopre la sua storia e la cultura tradizionale, e suscita curiosità e interesse nel visitatore. Si accede al cortile, circondato da alte mura con un pozzo ancora ricco d’acqua. In questo spazio sono visibili attrezzature agricole, tra cui un carro con il giogo per i buoi e una sorta di slitta di legno, sa tragadorza, che, grazie all’impiego di animali da traino, facilitava lo spostamento anche di pesi rilevanti. Non mancano altri attrezzi: aratri, la cassa per realizzare le balle di fieno e il cavalletto per tendere e tagliare il filo di ferro che doveva avvolgerle, carriole in legno e una macina di basalto. Nello stesso spazio sono visibili alcuni cippi funerari di età romana, anch’essi in basalto, provenienti da diverse località del territorio. Al piano terra sono disponibili due video-installazioni Appunti e suggestioni per il Museo del Culto dell’Acqua e Parole, che offrono una visita virtuale e presentare i contenuti del futuro Museo Archeologico, incentrato appunto sul culto dell’acqua e sul pozzo sacro di Santa Cristina. Una bella scala in basalto conduce ai piani superiori, sino al livello piú alto, dove oggi, nello spazio occupato in origine da un giardino pensile coltivato ad agrumi, si trova un’altana coperta, adibita a spazio per conferenze e mostre temporanee. Al primo piano sono esposti gli strumenti che documentano le fasi della lavorazione della lana (cardatura, filatura e orditura) e del lino

(gramolatura, filatura e orditura). Tra gli altri, vi è un telaio orizzontale sul quale è impostato un ordito tradizionale. Sono in mostra anche diversi campioni di tessuto, realizzati con lana, lino e cotone nelle tecniche tradizionali piú diffuse (a pibiones, a pannu pranu, a frondidura, a ispigas e in orbace). Altro tema è quello della panificazione tradizionale, con una ricca e ben documentata illustrazione delle forme e dei tipi caratteristici del repertorio locale: alcuni pannelli didattici illustrano le fasi della lavorazione del pane, affiancati dagli utensili utilizzati. Non solo: oltre i canestri, i setacci, le pale da forno e gli strumenti decorativi sos pinta pane, sono esposti i vari tipi di pane, da quello quotidiano all’elaboratissimo pane augurale realizzato per gli sposi, al pane e ai dolci preparati espressamente per le diverse festività e ricorrenze. L’esposizione si completa poi con la riproduzione di una camera da pranzo s’apposentu bellu, in origine riscaldata da un piccolo camino: oltre a vasellame e vetri, vi sono esposti elementi di mobilio, tra cui una caratteristica cassapanca e un canapé. Nella cucina è presente un camino con accanto i fornelli in muratura funzionanti a carbone. A sinistra dei fornelli troviamo le brocche in terracotta per l’acqua. Oltre a numerosi utensili di legno e di metallo, su un tavolo adibito alla lavorazione del pane si nota un’impastatrice a manovella, per lavorare l’impasto del pane e della pasta. Un altro ambiente illustra, attraverso l’esposizione di attrezzi e utensili, il ciclo produttivo del formaggio e gli aspetti della vita rurale connessi all’allevamento bovino ed equino. Nell’ultimo piano si trova uno spazio dedicato alla vinificazione, con l’esposizione delle attrezzature tradizionali utilizzate per la produzione e la conservazione del vino.

dove e quando Museo Archeologico-Etnografico «Palazzo Atzori» Paulilatino, via Nazionale 127 Orario estate: tutti i giorni, 9,00-13,00 e 16.30-19,30; autunno-inverno: tutti i giorni, 9,00-13,00 e 15,00-17,30; primavera: tutti i giorni, 9,00-13,00 e 15,30-18,30; lunedí chiuso Info Coop. Archeotour, tel. 0785 55438 oppure 347 7746747; e-mail: archeotour@tiscali.it; sardegnacultura.it Kernophoros e lucerne provenienti dagli scavi di Paulilatino. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale:

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che dovevano convenire al santuario in occasione delle periodiche cerimonie religiose. A ridosso della capanna si trovano un vano piú piccolo, a essa addossato, e un grande recinto; data l’assenza di rinvenimenti significativi al loro interno, di entrambi non è possibile specificare le funzioni. A nord-ovest di queste strutture sono stati messi in luce i filari di base di diversi ambienti a pianta quadrangolare, alcuni dei quali a vano unico, altri divisi in due spazi coassiali. Nella zona a nord del pozzo si sviluppa una sequenza di ambienti affiancati, aperti sulla fronte e realizzati disponendo tramezzi paralleli su un unico paramento murario ad andamento rettilineo, che costituisce la parete di fondo. La presenza di strutture analoghe presso altri complessi cultuali (per esempio Santa Vittoria di Serri) permette di ricondurre questo modulo architettonico ad attività particolari – di mercato o di sosta dei pellegrini – connesse alle cerimonie cultuali. I materiali archeologici raccolti in corrispondenza del pozzo e dell’area circostante indicano una frequentazione del complesso a partire

dall’età del Bronzo Finale-prima età del Ferro (XI-VIII secolo a.C.). Nella scalinata del pozzo furono ritrovati piccoli bronzi figurati, utensili e elementi di ornamento di produzione nuragica, quattro statuine fenicie di bronzo, statuine fittili, bruciaprofumi e lucerne di età romana repubblicana.

il nuraghe polilobato Circa 200 m a sud-ovest del pozzo sacro e a 50 m dalla chiesa di S. Cristina è localizzato il nuraghe complesso omonimo. Si tratta di una struttura polilobata con torre centrale assai ben conservata e diverse torri unite da una cortina muraria, attualmente non emergenti dal piano di campagna. La torre centrale del nuraghe è accessibile e mostra uno schema planimetrico «canonico», con corridoio d’ingresso con una nicchia a destra e la scala a sinistra, camera circolare con tre nicchie perimetrali e copertura a tholos. Numerose strutture a pianta circolare, localizzate in particolare sul lato ovest del nuraghe, devono riferirsi, sebbene i sondaggi di scavo le abbiano interessate solo marginalmente, a un villaggio

Strutture del villaggio nuragico sorto intorno al pozzo di Santa Cristina.

dell’età del Bronzo. Il monumento ha vissuto anche in età successiva un’intensa frequentazione, attestata da materiali di epoca punica e di età romana repubblicana e imperiale. La fase al momento piú evidente dal punto di vista monumentale, oltre quella protostorica, è l’altomedievale. Attorno al nuraghe si sviluppa un ampio villaggio con edifici a pianta circolare e quadrangolare solo parzialmente riportato alla luce. A quest’ultima fase, o forse a un momento ancora successivo, risalgono le tre capanne absidate a pianta rettangolare allungata dislocate nella zona a nord del nuraghe. dove e quando Parco archeologico di Santa Cristina Paulilatino Orario aperto tutto l’anno, dalle 8,30 all’imbrunire Info Coop. Archeotour, tel. 0785 55438 oppure 347 7746747; e-mail: archeotour@tiscali.it; sardegnacultura.it a r c h e o 55


Trinità imperiale Nella simbologia taoista e nei culti dell’aldilà il drago svolge un ruolo centrale. Accanto ai significati religiosi emerge poi la sua intensa connessione, sociale e sacrale, con il primo dei potenti in terra: l’imperatore di Marco Meccarelli

«Quando il drago ruggisce i monti tremano, quando il drago sussurra il saggio ascolta» (proverbio cinese)

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l drago cinese – creatura carnale e allo stesso tempo spirituale – desta da sempre un fascino misterioso. E non potrebbe essere altrimenti! Si tratta, di un’immagine composita, sviluppata per stadi, in un processo di elaborazione millenario, le cui origini si collocano nel contesto piú arcaico, cioè almeno nel Neolitico Medio (5000-3000 a.C.). Con la nascita dell’impero (III secolo a.C.) e, soprattutto, con la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.; vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013; anche on line su archeo.it), la sua raffigurazione evolve verso la standardizzazione definitiva, predisponendosi a simboleggiare i domini 56 a r c h e o

Pechino, Città Proibita. Uno dei draghi del jiulongbi o «muro dei nove draghi», alto 4,5 m, lungo 30, e rivestito da 270 pezzi di maiolica con 9 immagini di draghi in bassorilievo. 1773. Il drago era simbolo del potere imperiale o dell’imperatore stesso e il 9 era il massimo numero portafortuna.



civiltà cinese • il drago/2 Drago in bronzo secondo lo stile di epoca Tang (618-907), dal gusto eccentrico e dallo stile decisamente dinamico.

dell’imperatore e condensando in sé gli attributi fisici e le peculiari qualità degli animali, secondo una sintesi non soltanto artistica, ma anche ideologica, sociale e sacrale. In questo periodo il culto nell’aldilà assume connotati senza precedenti, tanto che il drago diviene anche veicolo tra il mondo dei vivi e dei morti e viene affiancato spesso alla fenice, ulteriore motivo caro alla tradizione figurativa cinese ed estremo orientale: associata a vari elementi socio-politici, la fenice, ibrido di piú volatili, condivide col drago la valenza composita e l’emblema di dignità regale, essendo connessa con l’imperatrice. Dopo la dinastia Han, con il crollo dell’impero, la religiosità buddhista indiana interferí con l’ancestrale sacralità del drago cinese, protagonista di numerose leggende popolari e miti. In questo periodo l’animale mitico si elevò anche a effigie del culto taoista, che interpretò i cambiamenti stagionali, annunciati da un tuono, con l’ascesa di un drago: innalzandosi in cielo nell’equinozio di primavera, si inabissava nelle viscere della terra, all’equinozio di autunno.

yin-yang Il taoismo ha da sempre interpretato i mutamenti della natura come il perenne ciclico intervallarsi delle modalità antitetiche ma interdipendenti e complementari di yinyang, maschile-femminile, lucebuio, e cosí via: in una rocambolesca corrispondenza degli opposti, il drago si eleva a simbolo maschile di yang, di potere, di forza, di aggressività difensiva, ma conserva in sé anche elementi di bonarietà, simpatia, giocosità, che lo rapportano all’universo infantile. Il benefico equilibrio con l’elemento yin è assicurato dall’associazione con la 58 a r c h e o


tigre, insieme alla quale rappresenta anche la coppia cielo-terra. Dopo aver decorato tombe, ma anche bronzi, giade, lacche, stucchi, decori architettonici, mattonelle, tegole, vasellame in oro e argento ageminati, sigilli e tessuti serici, l’animale mitico viene ritratto anche sul supporto artistico piú tipico della tradizione cinese ed estremo orientale: il rotolo dipinto. Gu Kaizhi (344 circa-406 circa), nella Ninfa del Fiume Luo, tra i vari motivi, predilesse alcuni draghi che riflettono le caratteristiche iconografiche del periodo, dalla forma sottile ed elegante.

gusto eccentrico Con la riunificazione dell’impero (581) e soprattutto durante l’epoca Tang (618-907; vedi «Archeo» n. 345, ottobre 2013; anche on line), i seguaci del culto ancestrale taoista svilupparono una modalità di rappresentazione dell’animale mitico che fu messa in relazione col mondo degli immortali. Il gusto eccentrico e lo stile decisamente dinamico raggiunsero spesso il capolavoro artistico per vitalità ed eleganza (foto qui accanto). Durante questa dinastia le vesti dell’imperatore iniziarono a essere ornate con il drago, solitamente raffigurato assieme a un disco fiammeggiante o «gioiello», ritratto tra gli artigli: si tratta della perla fiammeggiante (liu zhu), misteriosa, brillante e oscura che il pensiero taoista (il Zhuangzi in particolare), evoca per spiegare l’immagine del Dao. Probabile rappresentazione del sole e/o della luna, la perla, secondo vari studiosi, tra cui Robert D. Mowry, sarebbe il gioiello raffigurato nell’iconografia buddhista indiana, oramai associato al drago della mitologia cinese. Se il drago si eleva a simbolo dell’imperatore, il gioiello o perla rappresenta la saggezza e colui che porta con sé questo vessillo deve saper gestire il po-

tere attraverso il raggiungimento dell’illuminazione. Durante i Song (960-1279), in un periodo nel quale l’arte pittorica raggiunge un elevato equilibrio compositivo per stile e qualità artistica, viene definitivamente codificata l’immagine del drago in pittura, che diviene la base per le

Drago in bronzo dorato di epoca Tang (618-907). Xi’an, Museo di Storia dello Shaanxi.

sperimentazioni delle epoche successive. Il letterato Chen Rong (attivo nel 1235-1260) nel rotolo orizzontale Nove draghi (1244, conservato al Museo di Boston), reinterpreta il valore sacrale dell’animale mitico, con un riferimento allegorico diretto alla potenza celeste e con il richiamo al valore simbolico del numero nove: i dra-

ghi vengono rappresentati con uno stile vigoroso e dalla vitalità sorprendente. L’artista intende ritrarre le potenti metamorfosi divine e l’armonia tra il visibile e l’invisibile, ricollegandosi a temi particolarmente cari all’arte cinese arcaica, mediante un livello quasi unico di espressività.

nuove immagini Le dinastie Song e Yuan (1279-1368) proposero una nuova immagine del drago, con una testa di piccole dimensioni e un corpo dalle membra possenti anche se ossute. Questa nuova modalità viene riproposta nella versione su rotolo, ma anche in quella con invetriatura blu cobalto uniforme, dispiegata su tutta la circonferenza dei vasi in porcellana, su cui emerge la sagoma bianca di un drago dal lungo collo sinuoso (meiping, vaso per ramo di pruno; vedi foto a p. 61); c’è anche la versione su seta, come attesta il capolavoro del taoista Zhang Yucai (?-1316) dal titolo La pioggia benefica (ora al Metropolitan Museum of Art di New York), nel quale quattro draghi compiono incredibili evoluzioni nel chiaroscuro delle onde e delle nubi. L’animale composito era molto venerato tra le dottrine legate all’alchimia e ai poteri occulti, come quella dei Maestri Celesti della scuola taoista Zhengyi, di cui il pittore faceva parte. L’opera testimonia l’attitudine all’immaginario e all’aspetto visionario della realtà: il drago è a tutti gli effetti un’entità polimorfica. Le sembianze vivacemente dinamiche, che accentuano l’origine rettiliforme e la mancanza di particolari a r c h e o 59


civiltà cinese • il drago/2

tre, quattro, cinque artigli... Dall’epoca Yuan in poi, e soprattutto con la dinastia Ming, fu necessario regolamentare i tipi di drago, in base al numero degli artigli: il long, drago dai cinque artigli, identificava l’imperatore; il mang, dai quattro artigli, i funzionari e gli appartenenti alle alte cariche. Vi erano poi anche «draghi minori» come il douniu, con tre o quattro artigli e corna arricciate all’indietro, e il feiyu, un drago alato con tre/quattro artigli e la coda di un pesce, introdotto nel XVI secolo.

ornamenti sulla testa, sembrano costituire i connotati prediletti in questo periodo: il drago, talora nella versione con squame a onde, è spesso associato a simboli di buon augurio, peonie, viticci di loto piú o meno stilizzato, decorazioni floreali e in compagnia della fenice tra le nuvole (vasi David, 1351, British Museum). 60 a r c h e o

Il drago vero e proprio, il long, era un’esclusiva dell’imperatore, mentre gli altri tre, che somigliavano ai draghi, presentavano uno stile diverso, al fine di differenziare lo status sociale degli appartenenti alle alte cariche. Nel 1458, fu stipulato un divieto per l’abuso di questi simil-draghi, ma durante la dinastia Qing, i seguaci dell’imperatore decorarono spesso le loro vesti con una creatura che riproduceva il drago, pur chiamandolo mang.

Il forte culto dell’animale mitico fra la popolazione incontrò il disappunto dei mongoli Yuan: nel 1297, furono ammessi piccoli disegni di drago sul fronte o sul retro degli abiti, ma furono proibite le immagini di grandi dimensioni. Nel XIV secolo il drago dai cinque artigli (long) divenne esclusivo per identi-

ficare l’imperatore, simile per maestosità e stile a quello dai quattro artigli (mang), che mantenne comunque un valore regale perché divenne, nel tempo, l’effigie prediletta per gli appartenenti alle alte cariche politiche. Durante il periodo Ming (13681644), con il ritorno al potere di


una dinastia cinese, si possono genericamente distinguere almeno tre rappresentazioni principali di draghi: la prima rielabora l’iconografia del recente passato, raffigurando l’animale con la testa dalle dimensioni piú accentuate che talora volge la sguardo all’indietro, e con le membra e il corpo ancor piú possenti (meiping del periodo Xuande 1426-1435 Nelson Atkins Museum of Arts, Kansas City).

la «domesticazione» La volontà di sviluppare un’immagine visivamente piú aggressiva del drago può essere ricondotta alla politica autoritaria, ma rigorosa del primo imperatore Ming, Hongwu (r. 13681398), come segnale di recupero dell’identità culturale cinese, dopo la parentesi straniera dei mongoli Yuan. Successivamente, soprattutto con le porcellane policrome (doucai, «piú colori»), sembra invece affermarsi un nuovo stile, che si distacca radicalmente dalle epoche precedenti: il drago sembra diventare un animale addomesticato, anche perché il potere dinastico non ha piú bisogno di essere rilegittimato (vaso con coperchio, doucai, imperatore Chenghua 14651487, Museo Nazionale di Palazzo, Taipei). Nell’ultimo periodo Ming, infine, la cui produzione vascolare si ispira ancor piú ai bronzi arcaici, l’iconografia del drago, motivo predominante, assume uno stile ancor piú decorativo, arricchito da dettagli particolari, come per esempio i tipici «artigli a gancio»: il drago diventa ufficialmente un simbolo quasi astratto (vaso quadrangolare, policromo, epoca Wanli 1573-1620).

Nella pagina accanto: vaso in lacca con decorazione di draghi. Toronto, Royal Ontario Museum. In basso: vaso meiping in porcellana per ramo di pruno, decorato con un drago bianco su fondo blu cobalto. Epoca Yuan, XIII-XIV secolo. Parigi, Musée national des arts asiatiques-Guimet.

Sin dalla dinastia Song, i draghi venivano di solito raffigurati assieme a nuvole od onde, per sottolinearne i poteri benefici e il forte legame con l’acqua. Ma è durante le ultime dinastie che si trova il motivo solenne e immediatamente riconoscibile del drago tra le nuvole, al di sopra di una svettante montagna triangolare che si erge in un mare di onde stilizzate, simboli di longevità e abbondanza. Questo motivo divenne un classico e fu rappresentato non solo sugli abiti di corte, ma anche su cuscini, pannelli, decorazioni murali, pilastri, cosí come sugli ornamenti architettonici: il cielo, la terra e il mare furono iconograficamente uniti nella maestosità, dai forti connotati simbolici, di questo motivo stilizzato. Durante l’ultima dinastia cinese, quella dei Qing (16441911), che segna l’ascesa dei Mancesi, il drago rafforzò la sua valenza sacrale e ideologica, nonché regale, in maniera ancor piú evidente, perché fu il motivo prediletto attraverso il quale legittimare il potere, grazie anche ai suoi innumerevoli attributi popolari, religiosi, culturali oltre che ideologici, di cui era già depositario: divenne uno dei simboli piú rappresentati all’interno del Palazzo Imperiale (Gugong) di Pechino (la Città Proibita), fulcro rituale e cerimoniale, che ha rivestito un preciso simbolismo magico-cosmologico, perché residenza del «figlio del cielo», ordinatore del mondo.

nuvole sul muro Tra le varie rappresentazioni il Muro dei nove draghi che si trova nella zona orientale, fu costruito nel 1774 (durante il regno di Qianlong): misura 6 m di altezza e ben 31 di lunghezza ed è ricoperto da a r c h e o 61


LA PERLA FIAMMEGGIANTE Dall’epoca Tang il drago viene raffigurato assieme a una perla fiammeggiante bianca o bluastra con una tonalità rossastra o con un’aureola dorata, e di solito presenta una «fiamma» che sorge dalla sua superficie, a forma di corno, e una virgola, una sorta di appendice scura, di forma sinusoidale, che dal centro della sfera pende verso il basso: i Cinesi interpretano comunemente questo motivo come il simbolo dell’unione di yin-yang, del maschile-femminile. Lo storico delle religioni Jan Jakob Maria De Groot (1854-1921) osservò che la perla tra due draghi forma spesso una spirale, quasi a rappresentare il suono di un tuono: almeno in questo caso il drago sembra espellere e non inghiottire la sfera/tuono. Marinus Willem de Visser (1876-1930) ha sottolineato, però, che lo stile vivace con cui sono solitamente ritratti i due draghi sembra voler enfatizzare il desiderio di catturare e inghiottire la sfera scintillante, considerata come una rappresentazione della luna. In alto: sigillo imperiale in avorio con drago e perla della saggezza. XIV sec. Oxford, Ashmolean Museum. In basso: intarsio in madreperla con due draghi, simboli del potere imperiale, che proteggono la perla della saggezza dalla forma del dao, o tao, con lo yin e lo yang. Scuola taoista, XVIII-XIX sec. Haiphong (Vietnam), Museum.

270 pezzi di ceramica smaltata che formano, nella parte superiore, un fondale di nuvole, mentre nella parte inferiore, flutti marini. Tra le due sezioni, che segnalano l’antica valenza di tramite tra mondo acquatico e celeste, si stagliano nove draghi, dai colori differenti: quello centrale è giallo, colore e simbolo iconografico esclusivi dell’imperatore.

In epoca Qing il drago si configura come un animale dal corpo talora forzatamente dinamico, ma sempre forte e agile, anche quando la ripetitiva uniformità stilistica ne limita lo slancio creativo. Il capo arricchito da numerosi particolari, l’ampia fronte che contrasta con la stretta mandibola allungata, gli occhi sbarrati e gli artigli piuttosto

I MAESTRI CELESTI DEL TAOISMO ORTODOSSO Il «taoismo ortodosso», detto Zhengyi (Zhengyi Dao), risale alla dinastia Tang, quando la definizione di «Maestro Celeste» aveva perso l’esclusività delle epoche precedenti e tutti i taoisti di rilievo potevano attribuirsi questo titolo. Xuanzong (712756), canonizzò il Maestro Celeste, Zhang Daoling (34-156), vissuto durante la dinastia Han, considerato il fondatore della Via dei Maestri Celesti (Tianshi Dao), primo gruppo di taoisti organizzati. La tradizione narra che nel 142, sul monte Heming (a ovest di Chengdu), a Zhang Daoling si rivelò il mitico Laozi (Laojun), che gli donò alcune scritture, conferendogli anche il

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titolo di «Maestro Celeste» (Tianshi) e fissando al contempo un nuovo patto fra le divinità taoiste e gli uomini. L’importanza della scuola Zhengyi crebbe durante la dinastia Song, perché i Maestri Celesti furono spesso a corte. Nel 1304, a seguito della crescente importanza della Zhengyi, durante la dinastia Yuan, quasi tutte le scuole taoiste (salvo la scuola Quanzhen), rientrarono nella scuola Zhengyi. I Maestri Celesti della provincia del Jiangxi, sulla montagna della Tigre e del Drago (Longhushan), cercarono di concretizzare, anche attraverso l’alchimia, l’unificazione dottrinale fra buddhismo, confucianesimo e taoismo.


D’altronde, i draghi celesti sono, in realtà, personificazioni di nuvole e, sin dall’antichità, si tramanda che l’eclissi lunare sia dovuta a un mostro nell’atto di divorare la luna. L’azione di inghiottire la luna era la premessa e il segnale di buon auspicio per la pioggia benefica: secondo de Visser la luna va considerata come la «perla preziosa», l’essenza divina degli dèi. A tal proposito è stato evidenziato che l’antico pittogramma yue, che designava la perla misteriosa e mitologica, era composto dall’unione dei segni di «gioiello» (yu) e di «luna» (yue). Nel contesto rituale taoista che, oltre ad aver assimilato gli insegnamenti buddhisti, ha anche recuperato i culti ancestrali del popolo cinese, la perla fiammeggiante significherebbe l’Uno, la Stella Polare, l’energia-materia (qi), ma anche la perla della perfezione, cioè la saggezza, e l’essenza spirituale dell’universo e in senso lato il Dao, l’equilibrio tra le due modalità yin-yang: il legame con «il gioiello che

esaudisce i desideri» (ruyi baozhu, in sanscrito cintamani) del culto buddhista indiano è inevitabile. Non si tratterebbe però di una perla nel senso stretto del termine, ma di un talismano che simboleggia la saggezza trascendente. Il gioiello viene spesso rappresentato circondato dalle fiamme, alimentando l’ipotesi secondo cui in origine rappresentasse il sole. Le fiamme sono un elemento artistico comune nell’arte buddhista (anche la mandorla del Buddha risulta spesso fiammeggiante) e mantengono un simbolismo legato ai poteri magici e oscuri. Il motivo del drago con il gioiello associa quindi il drago alla «vera» conoscenza e ai poteri occulti; raffigurato come emblema sugli abiti ufficiali, esso conferisce tale saggezza a coloro che li indossano, appartenenti all’élite dominante. Se il drago si eleva a simbolo dell’imperatore, il gioiello o perla rappresenta la saggezza, avvicinabile al simbolo buddhista del globo fiammeggiante, come segno dell’illuminazione raggiunta.

Testa di un’ascia in forma di drago-pesce. Dinastia Tang, VIII sec. Collezione privata.

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civiltà cinese • il drago/2

accentuati, costituiscono alcuni degli elementi caratteristici dell’iconografia di questa fase. Le numerose raffigurazioni dei Qing sembrano proporre un vero e proprio vocabolario figurativo, una summa iconografica, delle tante rappresentazioni di drago consacrate dalla storia: pur essendo stato ritratto ovunque durante le dinastie precedenti, in nessun’altra epoca come in questa il drago divenne, quasi in maniera ossessiva, l’icona dell’impero e riuscí effettivamente a «invadere» tutta la Cina. Tutti gli abiti di corte (chaofu), per il forte cromatismo e le ricche decorazioni, rievocano il solenne e maestoso impatto visivo dei palazzi imperiali. Soprattutto nei primi secoli della dinastia, nelle province sud-orientali della Cina (Hangzhou, Suzhou e Jiangning), numerosi centri specializzati nella produzione di ma64 a r c h e o

nifatture seriche coniugarono l’iconografia del drago imperiale, fissata ormai da precise norme rituali, con la funzione cosmicosimbolica, associata alla potenza «divina» di cui l’animale mitico era stato investito.

corpo possente La «veste con drago» (longpao), classificata come la «veste di buon auspicio» (jifu) e indossata per le occasioni che celebravano il potere e l’autorità del governo Qing, presenta di solito, al centro, all’altezza del petto, un drago imponente, visto frontalmente, che racchiude la tipica perla rotonda fiammeggiante, nelle volute del suo corpo serpentiforme, possente e dinamico, anche se talora reso in forme caricaturali. In basso, a destra e a sinistra, questa volta ritratti di profilo, vengono spesso rappresentati altri due draghi nell’atto di aprire le possenti fauci

In alto, sulle due pagine: il rotolo completo dell’opera I nove draghi (e, qui sopra, un particolare), eseguita dal pittore Chen Rong. 1244. Boston, Museum of Fine Arts.

verso altre due perle infuocate, di dimensioni leggermente minori rispetto a quella centrale. L’iconografia imperiale dei Qing si manifesta anche per lo sfondo d’oro essendo il giallo il colore simbolo della dinastia, correlato alla terra, al punto centrale, e alla dignità imperiale. Secondo le norme del periodo, queste vesti dovevano avere nove draghi di cui solo otto erano visibili: si è ipotizzato che il corpo stesso dell’imperatore costituisse il nono, ma di solito un drago, ricamato all’interno della veste, era volutamente nascosto. La raffigurazione dell’animale composito durante i Qing serví ai dina(segue a p. 68)


Iconografia e numerologia Il 9 è il numero del drago, considerato sacro perché è la piú grande cifra singola possibile, ed era il numero dell’imperatore; solo i piú alti funzionari erano autorizzati a indossare nove draghi sulle loro vesti. Il drago cinese viene solitamente descritto come avente nove attributi, 117 (9 x 13) scaglie, di cui 81 (9 x 9) yang e 36 (9 x 4) yin. Da un punto di vista iconografico, il drago è considerato come l’unione degli attributi fisici e della qualità di nove animali: le corna somigliano a quelle di un cervo, la testa a quella di un cammello, gli occhi di un demone, il collo di un serpente, la pancia di un mollusco, le scaglie di una carpa, gli artigli di un’aquila, le zampe di una tigre e le orecchie di un bovino. Durante l’ultima dinastia cinese, furono classificate anche nove tipologie di draghi: 1. Tian Long, il sovrano dei draghi; 2. Shen Long, che controlla il tempo atmosferico, legato al tuono, e necessita di sacrifici rituali; 3. Fucang Long, che è il guardiano di metalli preziosi e dei gioielli, spesso associato ai vulcani; 4. Di Long, che controlla i fiumi e compare a primavera in cielo e in autunno in mare; 5. Ying Long, legato a Huang di, l’Imperatore Giallo, associato alla pioggia; 6. Jiao Long, drago sprovvisto di corna, ma dotato di scaglie, considerato il piú potente, signore delle creature acquatiche; 7. Pan Long, che abita nei laghi, incapace di ascendere al cielo; 8. Huang Long, che è senza corna ed è noto per la sua conoscenza in ambito scientifico; 9. Long Wang, che governa i quattro mari. Oltre ai nove draghi classici, ci sono anche i nove figli del drago, le cui immagini sono preminenti tra le decorazioni architettoniche e i monumenti: 1. Bixi, è raffigurato come una tartaruga gigante, ha forza

fisica illimitata e si trova spesso alla base in pietra scolpita dei monumenti; 2. Chiwen, il «lungimirante», è raffigurato come un animale accovacciato, è il guardiano di casa e si trova sempre sul tetto; 3. Pulao, raffigurato come un piccolo drago, ama ruggire, e cosí la sua immagine si trova sulle campane e sui campanelli; 4. Bian è raffigurato come una potente tigre, ha una avversione profonda verso i criminali e, per questo, viene spesso raffigurato nelle prigioni; 5. Taotie, è una figura mitica, particolarmente rappresentata nel II e nel I millennio a.C. soprattutto sui bronzi rituali; 6. Baxia ama l’acqua e la sua immagine decora spesso le balaustre dei ponti, le pareti dei pozzi, ecc.; 7. Yazi è un assassino assetato di sangue e ama combattere; la sua immagine feroce viene utilizzata per decorare i manici di spade e coltelli; 8. Suanni, raffigurato come un piccolo leone accovacciato, ama il fumo e ha una profonda affinità con i fuochi d’artificio; l’immagine di Suanni accompagna spesso il Buddha e si trova sui bruciatori di incenso e sui bracieri; 9. Jiaotu, è il figlio piú piccolo del drago, amante delle arti e della musica suonata con gli strumenti a corda; è raffigurato come un mollusco o conchiglia e pare tenga i denti sempre stretti. La sua immagine, spesso raffigurata sugli strumenti musicali, si trova anche su gradini e sugli ingressi, per vigilare e custodire le abitazioni.

Pechino. Ancora un’immagine del jiulongbi, il «muro dei nove draghi», eseguito nel 1773 all’interno della Città Proibita.

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civiltà cinese • il drago/2

la prospettiva storica innanzitutto A colloquio con Sarah Allan Sinologa di fama internazionale, Sarah Allan insegna lingua e letteratura dell’Asia Centrale e Orientale presso il Dartmouth College (Hannover, USA). La sua indagine verte in particolare sulle prime forme culturali di scrittura e di testi riferibili alla Cina antica, con particolare interesse allo sviluppo dell’antico sistema filosofico cinese. Numerose sono le sue pubblicazioni al

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riguardo. Il suo libro The Way of Water and Sprouts of Virtue, pubblicato nel 1997, è stato tradotto in coreano nel 1999 e in cinese nel 2002. Ha curato, tra l’altro, The Formation of Chinese Civilization: An Archaeological Perspective, pubblicato nel 2005 dalla Yale University.

◆ Professoressa Allan, quale carattere scritto rappresenta «il drago» per i Cinesi? Il piú usuale è «long». Si trova già nelle iscrizioni sulle ossa oracolari, e presenta una coda di serpente e la testa (solitamente con la bocca aperta), su cui emerge un corno simile alle «corna a bottiglia», raffigurate sull’arte bronzea della dinastia Shang. Gli storici dell’arte di solito chiamano i draghi «kui», ma non ci sono testimonianze


precedenti, per questa identificazione. Nel dizionario della dinastia Han, il Shouwen Jiezi, i draghi sono definiti fondamentalmente come «chong», una categoria di animali che comprende insetti, rettili e vermi. Si dice anche che i long «possono diventare scuri o chiari, corti o lunghi. In primavera salgono in cielo. In autunno, si tuffano nell’abisso. ◆ Nel suo saggio The Shape of the Turtle, Myth, Art and Cosmos in Early

China, lei sostiene che il drago in Cina è stato associato, fin dall’antichità, con il mare profondo e le «Sorgenti Gialle», come rappresentante del mondo degli oceani sotterranei. Per quale motivo? Nell’antica Cina, come in molte altre culture, esisteva la convinzione che l’acqua si trovasse ovunque sotto terra. Questo sotterraneo acquoso, chiamato «Primavere Gialle», era

A sinistra: una rappresentazione del teatro cinese, che rievoca un’opera di epoca Tang, con la celebrazione della danza del drago. Xi’an (Shaanxi).

la terra dei morti, ma c’erano due anime, una «materiale» che rimaneva con il corpo sotterraneo e una spirituale che ascendeva al cielo. C’era anche un fiume in cielo, quello che noi chiamiamo Via Lattea. I draghi, che erano associati con l’acqua, si nascondevano sottoterra, ma ascendevano anche al cielo, dove partivano o si nascondevano tra le nuvole, provocando la pioggia. In concomitanza con lo sviluppo del pensiero cosmologico cinese, si è affermata anche l’idea del qi (energia vitale), che ha assunto la «forma» di vapore acqueo. In questo modo, i draghi alla fine sono stati associati al qi. ◆ Quali considera piú significativi, tra i reperti archeologici riferibili al drago? Ci sono molte creature sui reperti neolitici che gli archeologi identificano come «draghi» (long), ma è difficile sapere ciò che essi in effetti connotavano. Tuttavia, nell’antica astronomia cinese, c’è una costellazione, chiamata «Drago verde» (Qing Long) dell’Oriente che è compensata dalla «Tigre Bianca» (Bai Hu) dell’Occidente. Questa convinzione sembra risalire almeno al periodo Yangshao (5000-3000 a.C.), perché i disegni sembrano riprodurre un drago e la tigre a fianco di uno scheletro, orientato lungo un asse nord-sud, in una tomba risalente a questo periodo (Xishuipo, a Puyang, provincia di Henan). ◆ Crede che il drago possa essere definito un «animale fantastico» o sarebbe meglio chiamarlo «mitico», «composito», simbolo dell’unificazione della Cina,? È importante mantenere una prospettiva storica. La continuità è uno degli aspetti piú affascinanti dello studio della civiltà cinese e il drago della Cina imperiale si può far risalire almeno agli Shang, ma probabilmente anche a prima. Tuttavia, il suo significato è cambiato nel tempo.

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civiltà cinese • il drago/2

Longpao (veste con drago) di epoca Qing (1644-1911). È possibile vedere il motivo iconografico del drago centrale tra le nuvole, in basso la montagna sacra, dalla forma triangolare, che si erge tra onde stilizzate, e ai lati, visti di profilo, altri due draghi.

sti mancesi per legittimare il potere imperiale, soprattutto in considerazione delle loro origini straniere, attraverso il recupero di un simbolo solenne e immediatamente percepibile, nonché condiviso da tutta la comunità, perché appartenente al repertorio arcaico cinese. La molteplicità di significati di cui l’animale mitico è stato investito sin dall’antichità suggerisce un approccio differenziato nei confronti del suo ruolo nella società: nella religiosità popolare fu soprattutto il benefico apportatore di pioggia, cosí come presso la corte imperiale fu il simbolo del potere, mentre per gli adepti del taoismo e del buddhismo e dei loro culti sincretici (primo fra tutti il buddhismo Chan), fu il simbolo della illusoria realtà apparente, dietro cui si cela la vera conoscenza. Come in un gioco di specchi, ogni valenza non ha escluso l’altra, ma l’ha anzi legittimata. Per questo motivo è erroneo definirlo, come troppo spesso capita, un 68 a r c h e o

«essere fantastico», in quanto, pur non rappresentando un animale reale, la sua immagine è comunque composta dall’unione di piú attributi relativi al contesto faunistico esistente e, soprattutto, perché ha mantenuto un valore costantemente intriso di valenze simboliche, ideologiche, culturali e sociali, tutt’altro che astratte: seppur generiche, le definizioni di «animale composito» e «mitico» risultano decisamente piú appropriate.

dal profilo al prospetto A livello stilistico è possibile segnalare un’importante modifica: se nel Neolitico l’animale veniva ritratto di profilo, invece con le ultime dinastie prevale soprattutto l’immagine frontale, con cui viene rafforzata la valenza regale di personificazione dell’imperatore, nel momento in cui diviene il decoro prediletto per gli abiti cerimoniali dell’élite al potere. Ogni sua raffigu-

razione ha testimoniato, comunque, la peculiare duttilità espressiva della religiosità cinese, che ha permesso e, a seconda dei periodi, elevato il culto del drago in un territorio dalle proporzioni continentali: conservando sempre un dinamismo, a tratti sorprendente e originato dalla sintesi di diverse realtà culturali entrate in interazione con la classe dominante, il drago ha subíto un continuo e funzionale adattamento, a livello culturale e artistico, a seconda delle peculiari esigenze storiche. Nonostante il succedersi delle dinastie, però, l’animale mitico ha mantenuto sempre il valore simbolico/ideologico che gli è stato attribuito sin dalle origini dell’impero: l’unitarietà espressa dalla triplice natura attinente alla terra (zampe), all’acqua (squame) e al cielo (ali), è in linea di massima una costante dell’iconografia del drago assieme all’attributo di trasfigurazione zoomorfa. Ma fra tutti, l’elemento consacrato sin dal Neolitico è quel simbolo «epico-mitologico-spirituale» che ritorna prepotentemente e strategicamente in auge, sintesi visiva degli aspetti fondanti la civiltà cinese: il drago, sin dalle sue origini incarna, per la sua qualità composita, la coesione territoriale, ideologica, sacrale, regale e si configura come emblema dell’imperatore e dei suoi domini. L’«impero del drago», al di là dell’immaginario collettivo occidentale e lungi dal voler essere uno stereotipo ingabbiato in formule preconcette e generalizzanti, riacquista solo cosí tutta la sua complessa identità. (3 – continua)



il golpe sull’olpe SCENE DI CACCIA E DI GUERRA, EROI, SIMBOLI E MITOLOGIA: È una vera e propria «cronaca illustrata» quella che orna il piú celebre vaso greco trovato in etruria di Daniele F. Maras

E

ra il 20 gennaio del 1882, quando il principe don Mario Chigi Albani della Rovere ricevette una lettera da Pio Gui, Ministro della sua casa, inviato a prendere provvedimenti per fermare il trafugamento di reperti archeologici trovati nei sepolcri appena scoperti sulla vetta del Monte Aguzzo, nella campagna di Formello. «I scavi

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– scriveva il dipendente – furono fatti da Lorenzo Marini figlio di Andrea, non credo troppo accidentalmente e per trovar pozzolana come essi asseriscono». Evidentemente Gui sospettava di trovarsi di fronte a un gruppo organizzato di «tombaroli», che avevano ottenuto licenza per aprire una cava sulla sommità della collina e avevano poi proceduto a «svaligiare» un

antico sepolcro lí ritrovato. Il sospetto non fu mai confermato e il Marini, trattenuto dalla forza pubblica, fu presto rilasciato, anche perché considerato persona al di sopra dei sospetti in quanto vice-sindaco di Formello. In ogni caso, prima che il padrone del terreno venisse a sapere della scoperta e inviasse un proprio incaricato a fermare gli


Scena di battaglia tra due schiere di opliti, una delle quali accompagnata da un flautista, particolare del fregio superiore dell’Olpe Chigi, una brocca da vino rinvenuta in frammenti nel 1882 all’interno del Tumulo Chigi, nella campagna di Formello (Roma), non lontano dall’area della città etrusca di Veio. 650-640 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

scavi illeciti, una parte dei ritrova- proprietario del terreno in cui erano menti aveva già preso il volo, per stati ritrovati. Per procedere nel modo migliore, don Mario decise di rivolnon essere mai piú rintracciata. gersi a un celebre scavatore dei suoi tempi: Rodolfo Lanciani (1845il principe 1929), astro nascente dell’archeologia e il professore Il che dovette presumibilmente desta- romana, che all’epoca dei fatti era re il disappunto del principe: all’epo- stato appena nominato professore ca, infatti, la legge di tutela attribuiva straordinario di topografia antica il possesso dei reperti archeologici al all’Università di Roma e, già da alcu-

ni anni, aveva effetuato scavi sul Palatino e nel Foro Romano. Purtroppo, alla meritata fama si accompagnavano impegni di lavoro altrettanto gravosi, per cui Lanciani poté essere presente di persona sugli scavi solo sporadicamente e fu affiancato da un brillante allievo della Scuola di Archeologia di Roma, Gherardo Ghirardini. a r c h e o 71


gli imperdibili • Olpe Chigi

Fu presto chiaro che la tomba scoperta era una sola, con tre camere aperte a croce su un lungo corridoio d’accesso: le due camere minori erano purtroppo state saccheggiate sia dai sedicenti cavatori di pozzolana, sia già nella tarda antichità, come prova un piattello ellenistico utilizzato come lucerna e marchiato con un simbolo cristiano. La camera principale, invece, era stata risparmiata dai saccheggi a causa del crollo della volta, che aveva frantumato tutti gli oggetti del corredo funerario: «Onde non vi si raccolse che un numero grandissimo di frammenti», scrive Ghirardini, «ed un solo vaso di buc-

chero intero, che è anche per buona In questa pagina: una delle facce sorte il piú prezioso di tutti per le dell’Olpe Chigi. Nel fregio centrale, si iscrizioni che vi sono graffite intorno». vede una scena di «parata», alla quale

un vaso «perfetto» Nonostante la preferenza accordata al vaso iscritto, Ghirardini sottolinea che, tra tanti frammenti, spiccavano alcuni vasi corinzi, dei quali «sembra che uno soltanto fosse fregiato di rappresentazioni figurate (…) ricostruito per circa due terzi»: è l’Olpe Chigi, che nel suo resoconto di scavo Lanciani non esita a definire «uno dei piú belli, dei piú perfetti, dei piú importanti trovati in territorio etrusco». L’Olpe (che ha preso il nome del suo primo proprietario) è una pic-

partecipano cavalli condotti a coppie da quattro scudieri. Nella pagina accanto: l’altra faccia del vaso. Nella fascia centrale, è rappresentata una caccia al leone (vedi alla pagina successiva).

cola brocca da vino con imboccatura rotonda, decorata con pitture policrome nello stile definito proto-corinzio medio, databile intorno alla metà del VII secolo a.C. L’intera superficie esterna è divisa in fasce orizzontali figurate, completate in alto da una decorazione geometrica vegetale dipinta in bianco e in basso da punte attorno al piede. Il vaso è eccezionale per molti aspetti, trattandosi probabilmente di uno dei piú antichi esemplari di questa forma ceramica, di una precoce applicazione artistica della tecnica policroma, e di un prezioso repertorio miniaturistico di scene figurate.

caccia e parata La fascia inferiore, di dimensioni minori, ospita una vivace caccia alla lepre e alla volpe, nella quale sono impegnati alcuni giovani efebi accompagnati dai cani in un ambiente selvatico. Subito al di sopra, il fregio maggiore comprende una sfilata di cavalli condotti a coppie da quattro scudieri, che seguono un carro, guidato da un auriga e preceduto da un servitore. Punto d’arrivo della «parata» è una sfinge bicorpore (ovvero due sfingi con una sola testa), il cui sguardo è rivolto verso l’osservatore; al di là del mostro, la scena torna ad animarsi con una concitata caccia al leone, alla quale partecipano cinque uomini, uno dei quali giace ferito sotto le fauci della belva, mentre un altro, in nudità eroica, si accinge a concludere lo scontro con un colpo di lancia. Allo stesso livello, subito sotto l’ansa del vaso, si trova una rarissima rappresentazione mitologica del giudizio di Paride, corredata di iscrizioni in greco che identificano i personaggi: lo stesso Paride (con il 72 a r c h e o


carta d’identità dell’opera • Nome Olpe Chigi • Definizione Brocca con decorazione dipinta policroma, capolavoro della ceramica proto-corinzia • Cronologia 650-640 a.C. • Luogo di ritrovamento Veio (Etruria), Tumulo Chigi • Luogo di conservazione Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia • Identikit Simbolo di lusso, d’arte e di storia, offerto come dono di ospitalità

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gli imperdibili • Olpe Chigi

nome di Alessandro), Ermes (di cui resta solo il caduceo) e le tre dee Era, Atena e Afrodite. Una stretta fascia nera bordata di rosso ospita un fregio di animali, in cui si riconoscono cani lanciati all’inseguimento di cervi e di una lepre. Piú in alto, un secondo grande fregio raffigura una grandiosa battaglia di opposte schiere di opliti, rappresentate nel momento immediatamente precedente allo scontro, quando i soldati, lanciati in corsa, brandiscono le lance proteggendosi con scudi rotondi variamente decorati. Una delle schiere comprende un flautista, che scandisce con la musica il ritmo della marcia, mentre all’estrema sinistra, due opliti si stanno ancora preparando per la battaglia. 74 a r c h e o

L’Olpe Chigi è unanimemente considerata un capolavoro della pittura vascolare greca e, come abbiamo detto, assomma in sé un discreto numero di «prime volte»: anche le didascalie della scena mitologica sono uno dei piú antichi esempi conosciuti, e ha creato non poco imbarazzo agli studiosi constatare che non siano state scritte secondo l’alfabeto corinzio, ma con una diversa scrittura greca.

In alto: la caccia al leone raffigurata nella fascia centrale dell’Olpe Chigi. Vi prendono parte cinque uomini, uno dei quali giace ferito tra le fauci della belva. La scena è una probabile evocazione della lotta condotta a Corinto (luogo di produzione del vaso) dagli aristocratici bacchiadi contro il tiranno Cipselo. Nella pagina accanto: elmo in bronzo di tipo corinzio. VII sec. a.C. Delfi, Museo Archeologico.

una scoperta illuminante La recente scoperta di alcuni resti di pitture parietali greche di scala monumentale, ritrovati presso il santuario di Apollo ad Abai, presso Kalapodi nella moderna Beozia, ha riaperto il discorso sui rapporti tra

la grande pittura e la ceramografia nell’epoca piú antica. I pochi frammenti dell’affresco, una volta restaurati, hanno infatti mostrato una scena di battaglia tra schiere di opliti che coincide in modo sorprendente con la rappresentazione del fregio superiore dell’Olpe Chigi.


Gli studiosi si sono cosí schierati su due fronti, a seconda che ritengano la pittura vascolare un prodotto artistico in qualche misura secondario, influenzato dalla fama delle opere maggiori, ovvero che suppongano un rapporto paritario tra le diverse arti – all’epoca non chiaramente differenziate nel sentire comune – o che, addirittura, gli stessi artisti potessero spostarsi agevolmente da un’arte all’altra, oggi producendo un grande affresco e domani dedicandosi a un piccolo vaso. La questione resta aperta, ma non va dimenticato che, in realtà, noi possediamo solo un minuscolo numero di resti delle pitture di medio e grande formato che gli autori antichi ci dicono essere state una delle maggiori attrattive dell’arte greca; né possiamo sperare che la quantità venga aumentata sensibilmente grazie a scavi futuri, data la deperibilità dei supporti (legno e intonaci) e la mancanza di una tradizione di dipingere le pareti di camere sepolte (come per esempio nelle tombe etrusche o egiziane).

co eroico e mitologico delle scene rappresentate sull’Olpe, risulta dunque di una certa importanza comprendere se il vaso sia stato prodotto prima o dopo il cambiamento politico di Corinto. La rappresentazione di una guerra di opliti nel fregio superiore e l’eroica caccia al leone del fregio principale potrebbero essere infatti scoperte allusioni alla difficile situazione storica della città e agli scontri che dovettero senz’altro accompagnare l’ascesa del nuovo tiranno.

nuove acquisizioni Una lunga tradizione di studi ha dibattuto su questi argomenti ed è stata recentemente arricchita da un fondamentale saggio di Matteo D’Acunto, che riassume l’intera situazione, raccogliendo dati da ogni

ritorno a formello L’Olpe Chigi è oggi esposta a Roma, nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, dove – continuando un’associazione che dura da quasi 2700 anni – divide la vetrina con l’altro prezioso vaso proveniente dal Tumulo Chigi, letteralmente coperto di iscrizioni etrusche. Il resto dei materiali ritrovati nel tumulo, invece, è destinato a tornare a Formello (la cittadina nei pressi della quale si estende l’area della città etrusca di Veio), nel Museo dell’Agro Veientano, ospitato nella storica sede del Palazzo Chigi: l’antica dimora del primo proprietario della collezione.

l’arte «scomparsa» Perciò, mentre i vasi sono ben conservati e ci permettono di seguire le tappe dello sviluppo artistico nel corso dei secoli, per la grande pittura abbiamo solo una pallida eco del lavoro di generazioni di artisti, dei quali spesso conosciamo il nome grazie alla letteratura, ma non possediamo neanche un originale per farci un’idea della loro arte. Il valore dell’Olpe Chigi, però, non si esaurisce nell’indubbio pregio artistico: il vaso, infatti, è un documento diretto di un momento cruciale della storia arcaica di Corinto. Attorno alla metà del VII secolo (e piú precisamente nel 657 a.C., secondo la cronologia tradizionale dello storico Diodoro Siculo), a Corinto aveva avuto luogo un colpo di Stato per opera del tiranno Cipselo, con la conseguente cacciata dalla città della dinastia aristocratica dei Bacchiadi, che aveva regnato fino ad allora. Considerando il contesto simbolia r c h e o 75


gli imperdibili • Olpe Chigi

fonte di informazione disponibile, e restituisce finalmente l’Olpe al suo contesto storico-artistico, sociale e culturale. Grazie a questo prezioso lavoro è ora finalmente chiaro che il vaso si riferisce agli ideali aristocratici dei Bacchiadi, proprio nell’epoca in cui essi si opponevano al «golpe» di Cipselo. Prezioso in tal senso è il testo di un oracolo, riportato dallo storico greco Erodoto, che preannunciava l’avvento del tiranno con queste parole: «Un’aquila è incinta fra le rocce, ma partorirà un leone forte e feroce. Poi fiaccherà le ginocchia di molti». Sembra evidente che nella propaganda contro Cipselo si era fatto uso della metafora del leone feroce, che coincide proprio con la scena del fregio maggiore dell’Olpe: l’eroe che sta per uccidere la belva è quindi il campione ideale dell’antica aristocrazia, pronto a ripristinare l’ordine. La scena è però inserita in un Veio. L’interno del Tumulo Chigi, noto anche come Tumulo di Monte Aguzzo. VII sec. a.C.

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sistema piú complesso, nel quale ogni fascia decorativa rappresenta un diverso aspetto della società aristocratica: la caccia di efebi nel fregio inferiore si riferisce all’iniziazione dei giovani di alto lignaggio; la caccia al leone, come si è visto, è un’allusione epica al valore del gruppo aristocratico, non a caso giunto sul luogo dello scontro con cavalli, un carro e i servitori; l’ordinato schieramento degli opliti in alto allude all’ordine costituito e, ancora una volta, alla gloria dell’aristocrazia, invincibile quando affronta il nemico unita e compatta, con la protezione reciproca dei pari.

il dono di un ospite illustre? La scena mitologica del giudizio di Paride, invece, rappresenta i pericoli dell’eros e il cambiamento drastico che il matrimonio provoca nella vita dell’uomo, con l’entrata nell’età adulta: nel mito l’amore di Paride per Elena, conseguenza del suo giudizio, provocherà la distruzione di Troia; la scelta, contraria agli ideali aristocratici, si è ritorta contro lo stesso principe e la sua stirpe. Il programma decorativo dell’Olpe ha quindi anche un valore emblematico e pedagogico: scelte di vita corrette possono portare la gloria, ma i pericoli di morte e distruzione sono sempre in agguato (simboleggiati dalla sfinge e dal volto di gorgone che campeggia sullo scudo di uno degli opliti). Ma perché un vaso cosí prezioso e ricco di simboli si trovava a Veio? Con ogni probabilità si trattava di un dono di ospitalità da parte di un rappresentante dell’aristocrazia Bacchiade a uno dei maggiori notabili della città etrusca, nell’ambito dei rapporti commerciali internazionali testimoniati dai tanti vasi corinzi ritrovati in Etruria. Del resto, vuole la leggenda che proprio in quegli anni Demarato, un membro di spicco della dinastia corinzia, per sfuggire alla tirannide di Cipselo, si fosse rifugiato a Tarquinia, dove sarebbe diventato il padre del futuro re di Roma Tarquinio Prisco.

Sull’Olpe Chigi è fiorita un’ampia e ricca serie di studi sin dalla sua prima pubblicazione, su Notizie degli Scavi di Antichità, già nel 1882, a pochi mesi dopo la scoperta. L’attualità dell’argomento è resa evidente da alcune importanti pubblicazioni degli ultimi due anni, a partire dagli atti di un convegno all’Università di Salerno, che, per la prima volta, hanno messo a confronto con l’Olpe le nuove pitture di Kalapodi. Per l’occasione esperti internazionali di pittura, storia e cultura greca arcaica si sono riuniti, offrendo il proprio contributo per dare un contesto al prezioso cimelio. E a confermare l’interesse mondiale per l’argomento, nel 2013 è arrivato un contributo di Tom Rasmussen, docente dell’Università di Manchester. Solo pochi mesi fa è poi apparso il prezioso volume di Matteo D’Acunto, e infine è stato appena pubblicato un nuovo volume dedicato all’edizione degli scavi ottocenteschi del Tumulo Chigi, che finalmente restituisce l’Olpe al suo contesto di ritrovamento in Etruria. per saperne di piú Eliana Mugione (a cura di), L’Olpe Chigi. Storia di un agalma, Atti del Convegno (Salerno, 3-4 giugno 2010), Pandemos, Salerno 2012 Tom Rasmussen, Paris on the Chigi Vase, in Cedrus I, 2013; pp. 55-64. Matteo D’Acunto, Il mondo del vaso Chigi. Pittura, guerra e società a Corinto alla metà del VII secolo a.C., De Gruyter, Berlin-Boston 2013 Laura M. Michetti, Iefke van Kampen (a cura di), Il Tumulo di Monte Aguzzo a Veio e la Collezione Chigi. Ricostruzione del contesto e note sulla formazione della collezione archeologica della famiglia Chigi a Formello, Monumenti Antichi dei Lincei, Roma 2014

nella prossima puntata • Le statue stele della Lunigiana



speciale • la biblioteca infinita

Efeso, Turchia. La facciata monumentale della biblioteca costruita da Tiberio Giulio Aquila in onore del padre Tiberio Giulio Celso Polemeano, ultimata nel 135 d.C.

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La

biblioteca infinita

Della piú celebre e sontuosa, quella di Alessandria, sono rimasti solo i ricordi e le testimonianze ammirate dei contemporanei. Di molte altre, invece, si conservano resti magnifici. Ma come erano organizzate e quale ruolo culturale, politico e sociale svolgevano questi grandiosi «templi del Sapere»? di Stefania Berlioz, Rossella Rea, Roberto Meneghini e Francesca Boldrighini

E

ronda, poeta greco vissuto nella seconda metà del III secolo a.C., ci restituisce un quadro vivissimo di quelle che dovevano essere al tempo di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.) le attrazioni di Alessandria: «Ginnasi, spettacoli, filosofi, denaro, bei ragazzi, il recinto sacro degli dei fratelli, il re, uomo generosissimo, e poi il Museo, vino, e ogni ben di dio che si possa desiderare, e donne, piú numerose delle stelle che sono in cielo, e belle, belle come le dee che andarono da Paride per il famoso giudizio» (Eronda, I, traduzione di Luciano Canfora). Sorprendentemente, la descrizione di quello che sembra essere un autentico bengodi non fa parte di una dotta dissertazione, ma compare nel divertente racconto in cui Eronda narra di Gillide, una vecchia mezzana, che cerca di convincere la bella Metriche ad accettare le avances di un focoso spasimante. È sacrosanto – sostiene la vecchia – che una giovane donna pensi al suo benessere, tanto piú se il marito, lontano da mesi, non si degna di scriverle neanche un

rigo. Probabilmente se la sta spassando – insinua – in quella terra dove appunto si trova «ogni ben di dio». Quel che qui ci interessa non è però la fedeltà del marito di Metriche, bensí il fatto che, nell’elenco un po’ caotico attribuito a Gillide figura, tra il vino e le bellezze femminili, la casa delle Muse – il Mouseion – cioè la piú rinomata istituzione culturale di tutto il Mediterraneo ellenistico. Oggi ne ignoriamo l’ubicazione, ma anche in antico dovevano essere in pochi a conoscere l’aspetto e l’esatta collocazione di quella straordinaria casa del sapere. Come ci racconta il geografo Strabone, il Museo faceva parte dei Basileia («quartiere reale»), un complesso gigantesco che occupava quasi due terzi dell’intera città.

Come uccelli in gabbia Se il palazzo si apriva al mondo esterno solo in rare occasioni, per esempio le festività in onore del dio Adone, il Museo era uno spazio ancor piú esclusivo, sul quale aleggiava a r c h e o 79


speciale • la biblioteca infinita

un non so che di mistero e riservatezza. Al suo interno dimorava una ristretta cerchia di «dotti», scienziati e letterati provenienti da ogni parte dell’ecumene. Affrancati dalle necessità della vita, grazie alla liberalità del sovrano, essi potevano dedicarsi esclusivamente allo studio e alla ricerca. Uno straordinario laboratorio, ma completamente isolato dal mondo esterno. Con tono sarcastico, il filosofo scettico Timone di Fliunte (320 circa-230 a.C. circa) paragona i dotti a uccelli rari «che si beccano eternamente, nella gabbia delle Muse». Nel loro tempio, le nove figlie di Mnemosine (personificazione divina della memoria, n.d.r.), depositarie della trasmissione del sapere e della sua conservazione, vegliavano sui dotti e custodivano gelosamente un grande tesoro: una biblioteca, che si diceva raccogliesse tutti i libri del mondo. L’istituzione del Museo e dell’annessa biblioteca viene fatta risalire all’epoca di Tolomeo I

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In basso: armaria, le scaffalature per rotoli e codici tipiche delle biblioteche greco-romane, ricostruiti negli ambulacri del Colosseo per la mostra «La Biblioteca Infinita», aperta fino al 5 ottobre.

Sotere (323-285 a.C.), il fondatore della dinastia lagide. Fu lo stesso sovrano ad affidarne l’organizzazione a Demetrio di Falero, letterato e uomo politico greco formatosi al Peripato (o Liceo) di Atene, la celebre scuola fondata da Aristotele (vedi in questo numero, l’articolo alle pp. 26-27). L’insegnamento dello Stagirita (Aristotele nacque appunto a Stagira, città della Calcide, n.d.r.) – il sapere va organizzato – aleggia sul progetto di Demetrio, tanto da far dire a Strabone che fu Aristotele il primo ad aver insegnato ai re d’Egitto come si organizza una biblioteca.

Tutti i libri del mondo Su questa strada procedette anche il secondo dei Tolomei, il Filadelfo (285-246 a.C.), al quale spetta il merito di aver ampliato a dismisura la biblioteca. Come ricorda Luciano Canfora nelle memorabili pagine dedicate alla Biblioteca di Alessandria, fu lo stesso


quelle tavolette annerite dal fuoco... Nel 1850 il diplomatico inglese Austen Henry Layard, impegnato nello scavo della collina di Kuyunjik (antica Ninive) porta alla luce un grandioso complesso palatino poi identificato come il «Palazzo senza Eguali» del re assiro Sennacherib (704-681 a.C.). Camminando tra le sale dell’edificio, Layard nota un certo numero di tavolette quadrangolari in argilla, annerite dal fuoco, con caratteri cuneiformi impressi sulla superficie. In quegli anni, la decifrazione della scrittura cuneiforme muove i primi decisivi passi, ma le uniche iscrizioni conosciute erano tuttavia incise su pietra; i «cocci» di Kuyunjik lasciano tutti perplessi. Nel 1853 l’assistente di Layard, Hormuzd Rassan, durante un rocambolesco scavo notturno nel settore settentrionale della collina, di pertinenza francese, fa una scoperta non meno clamorosa: i resti di un secondo e altrettanto grandioso palazzo, costruito dal nipote di Sennacherib, Assurbanipal. Di «cocci iscritti», questa volta, ne trova due sale piene. Vengono raccolti, sistemati in ceste e trasportati a Londra, nel British Museum. Li nota Henry Creswicke Rawlinson, padre della moderna assirologia, che subito intuisce la portata della scoperta: quelle tavolette e i segni incisi nell’argilla cruda rappresentano il tipico sistema di scrittura del mondo mesopotamico. A sua insaputa, Rassam aveva trovato la Biblioteca di Assurbanipal, la piú vasta a oggi rinvenuta nella Terra tra i due Fiumi. Ultimo dei grandi re dell’impero neo-assiro, Assurbanipal (668-631 a.C.) aveva creato questa biblioteca per conservare la memoria e le tradizioni del proprio popolo. Scribi ed esperti erano stati sguinzagliati in tutte le regioni dell’impero, in cerca di antichi testi. Egli stesso – come si ricava dalla sua «autobiografia» – si dedicava con passione alla lettura e alla trascrizione delle tavolette: «Sono versato nella

Filadelfo a ideare il testo della lettera con la quale invitava «tutti i governanti della terra» a inviare senza esitazione ad Alessandria le opere di qualunque genere di autori: «Poeti e prosatori, retori e sofisti, medici e indovini, storici e tutti gli altri ancora» affinché potessero essere raccolti «i libri di tutti i popoli della terra» (La Biblioteca Scomparsa, Sellerio Editore, Palermo 1986). La Biblioteca di Alessandria ambiva insomma a riunire tutto lo scibile umano. A essere raccolti non erano solo i testi della tradizione greca ma anche quelli di tutte le civiltà con cui i Greci erano venuti in contatto al tempo di Alessandro Magno. Vengono reclutati esperti provenienti da ogni angolo dell’ecu-

scienza del saggio Adapa; studiai il segreto sapere degli scribi, conosco ora i portenti del cielo e della Terra. (...) Posso risolvere le divisioni e le moltiplicazioni piú complesse che non hanno soluzione. Ho letto tavolette intricate iscritte in oscuro sumerico e accadico, difficili da decifrare, ed esaminato sigilli, oscure e confuse iscrizioni dell’epoca anteriore al diluvio». E in effetti, la lettura delle quasi 30 000 tavolette di Ninive – oggi vanto del British Museum – ha restituito i maggiori monumenti delle letterature sumerica e babilonese, tra cui l’epopea di Gilgamesh e il celebre racconto del Diluvio.

mene e a ognuno è affidata l’edizione dei testi della propria cultura.Tra le imprese memorabili si annoverano la traduzione in greco degli oltre due milioni di versi attribuiti a Zoroastro e dei libri della legge ebraica, l’Antico Testamento, noto anche come Pentateuco («Settanta») dal numero dei dotti che, rinchiusi nell’isoletta di Faro antistante Alessandria, parteciparono all’opera.

dopo aver visto ninive... Mezzi finanziari, spazi adeguati e strutture organizzative per simili imprese potevano essere garantiti solo dai sovrani ellenistici. Il concetto stesso di «biblioteca universale», sconosciuto nel mondo greco di epoca clas-

In alto: tavoletta in argilla con iscrizione in caratteri cuneiforni, dalla biblioteca del re Assurbanipal, scoperta nel 1853 nel palazzo reale di Kuyunjik, l’antica Ninive. Londra, British Museum.

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speciale • la biblioteca infinita

timgad Plastico ricostruttivo dei resti

della biblioteca di Timgad, l’antica Thamugadi (oggi in Algeria), edificata nel III sec. d.C. grazie alla donazione di Marco Giulio Quinziano Flavio Rogaziano. Roma, Museo della Civiltà Romana.

sica, nasce dalle esigenze amministrative, burocratiche e celebrative delle grandi entità monarchiche dell’Egitto faraonico e del Vicino Oriente antico, soprattutto mesopotamico. Non è forse un caso che – secondo la tradizione – la folle idea di riunire tutti i libri del mondo fosse balenata nella mente di Alessandro Magno dopo avere visto le biblioteche di Ninive, antica capitale dell’impero neoassiro (vedi box a p. 81). Pur di accaparrarsi il maggior numero di testi e di edizioni rare, Tolomeo II non esitò a ricorrere a metodi ben poco ortodossi. Galeno ricorda la promulgazione di un singolare editto in base al quale tutte le navi che attraccavano al porto di Alessandria dovevano essere scrupolosamente perquisite alla ricerca di libri. I testi ritenuti di un qualche interesse erano requisiti per

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A sinistra: statua di Areté (la Virtú), dalla biblioteca di Celso a Efeso. Copia romana da un originale ellenistico. II sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.


atene Plastico ricostruttivo della biblioteca

sorta ad Atene per volere dell’imperatore Adriano, costituita da un grande recinto di forma quadrangolare che ospitava all’interno anche un giardino e una piscina. 132 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

passare al vaglio dei Dotti del Museo. Ai legittimi proprietari venivano restituite copie, mentre gli originali trovavano posto in uno speciale fondo detto «delle Navi».

sapere è potere Questa fame di libri, questo circondarsi di letterati, scienziati, traduttori, copisti non è fine a se stesso: il «sapere» crea prestigio, aumenta il consenso, è uno strumento di potere. Il modello di Alessandria viene ben presto riprodotto presso tutte le corti dei regni ellenistici. A Pergamo, capitale dell’omonimo regno microasiatico, Attalo I (241-197 a.C.) fonda il suo «Museo» e la sua biblioteca. Il nuovo e attivissimo centro di ricerca e di raccolta di libri, inglobato da Eumene II (197-160 a.C.) nel santuario di Atena Nikephoros («portatrice di vittoria»), comincia ben presto a far parlare di sé, scatenando una rivalità senza precedenti con Alessandria. All’antagonismo tra i due centri allude il divieto di esportazione del papiro – il consueto materiale scrittorio – imposto da Tolomeo IV con il malcelato fine di precludere alla biblioteca rivale la possibilità di incrementare la propria collezione. Di fronte a una tale bramosia, il costo dei libri saliva a dismisura; non c’è quindi da stupirsi

del fiorire di un mercato del falso. Esplicito, in questo senso, è Galeno: «Prima che ad Alessandria e a Pergamo i re cominciassero a gareggiare tra loro nell’acquisto di libri antichi non si era mai visto un nome falso di un autore su un libro». Quel che c’è di peggio è che i falsi venivano prodotti anche all’interno dei musei, da parte di coloro che del sapere si erano fatti i custodi. Le dispute tra i dotti di Alessandria e di Pergamo erano infinite. Rinchiusi nel loro mondo, non si accorgevano che, all’esterno, tutto mutava rapidamente.

Spoglie di guerra Nel corso del II secolo a.C. Roma, con impressionante rapidità, estende la sua potenza politica e militare sulle regioni ellenizzate del Mediterraneo. La ricezione della cultura gre(segue a p. 88)

efeso Plastico ricostruttivo della biblioteca di Celso a Efeso, realizzata nel II sec. d.C. in onore di Tiberio Giulio Celso Polemeano. Roma, Museo della Civiltà Romana.

roma Plastico ricostruttivo della Biblioteca Ulpia. Innalzata nel Foro di Traiano, era il paradigma forse piú alto del modello di biblioteca di età imperiale. Roma, Museo della Civiltà Romana.

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speciale • la biblioteca infinita

un tempio per la pace di Roberto Meneghini

Nel 70 d.C. o poco dopo, divenuto imperatore a seguito di una terribile guerra civile e a conclusione della sanguinosa repressione della rivolta giudaica, Tito Flavio Vespasiano volle suggellare l’avvento della pace sul mondo (e implicitamente l’inizio del nuovo regno) costruendo un grande santuario dedicato alla Pax nella capitale dell’impero. Il sontuoso complesso architettonico, che diede nome all’intera Regio IV, fu realizzato tra i fori di Cesare e di Augusto e la collina della Velia, dietro la quale, negli stessi anni, si iniziò a costruire l’Anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo. Il templum Pacis – tempio della Pace – fu inaugurato nel 75 d.C. Per la sua ricchezza e grandiosità suscitò lo stupore dei contemporanei, tanto da far dire allo storico Flavio Giuseppe, fiero combattente ebreo fatto prigioniero durante la guerra giudaica e poi leale collaboratore di Vespasiano, che qui «furono raccolte (…) tutte le opere per ammirare le quali fino a quel momento gli uomini avevano dovuto viaggiare per tutta la terra desiderosi di vederle pur essendo disperse in questo o in quel paese. Qui ripose anche la suppellettile d’oro presa al tempio dei giudei, di cui andava fiero» (Guerra giudaica VII, 5, 7). In effetti Vespasiano aveva riunito nel suo monumento una gran quantità di opere d’arte, in larga parte razziate pochi anni prima da Nerone

ai danni di diverse province per adornare la sua domus Aurea, e li aveva «restituiti» al pubblico godimento insieme alla menorah, il candelabro d’oro a sette braccia che costituiva il pezzo piú celebre del tesoro del tempio di Gerusalemme e che è ancora oggi visibile nei rilievi dell’arco di Tito, alla sommità della via Sacra. Prima delle ultime indagini archeologiche, la nostra conoscenza di questo straordinario complesso architettonico si basava solo su alcune scoperte sporadiche e, soprattutto, sugli accenni delle fonti alle opere d’arte in esso contenute e alla celebre biblioteca, la bibliotheca Pacis, che ne faceva parte e che fu ricostituita da Settimio Severo insieme all’intero monumento dopo la sua distruzione a seguito del grande incendio del 192 d.C. A quest’epoca risale anche la raffigurazione planimetrica del templum Pacis sulla forma Urbis, la grande pianta marmorea di Roma, voluta anch’essa da Settimio Severo e affissa alla parete di un 84 a r c h e o


vasto ambiente del tempio della Pace stesso che oggi costituisce la facciata della chiesa dei SS. Cosma e Damiano, fondata da papa Felice IV (526-530) all’interno della vasta sala angolare absidata meridionale che era forse un grande auditorium. Le ultime notizie del Foro o Tempio della Pace risalgono alle descrizioni di Ammiano Marcellino della visita di Costanzo II a Roma, nel 357, quando l’imperatore fu portato in quella che era considerata ancora una delle meraviglie del mondo, e di Procopio di Cesarea che narra lo stato di semi-rovina del complesso all’inizio del VI secolo d.C. Sino alla fine del XX secolo del templum Pacis era visibile assai poco: tratti di muri perimetrali del settore meridionale nel monastero dei SS. Cosma e Damiano oltre all’aula della forma Urbis, scavata fra il 1867 e il 1956, e ai resti di un’esedra quadrangolare del portico est rinvenuti inglobati nel sottosuolo della torre dei Conti durante il suo isolamento nel 1935-1936. Il monumento

In alto: disegno ricostruttivo del tempio della Pace, che comprendeva la bibliotheca Pacis, con statue esposte nel giardino e nei portici, tra cui il Ganimede rapito dall’aquila di Leocare, noto da una copia di età romana (nella pagina accanto, in alto), oggi al Museo Pio Clementino. Nella pagina accanto, in basso: planimetria del tempio della Pace: in evidenza, le strutture rinvenute nel corso degli ultimi scavi.

rimase poi ai margini degli sterri e delle demolizioni operate dal fascismo fra il 1924 e il 1932 per l’apertura di via dell’Impero e di esso non furono riportati in luce nuovi settori, mentre l’area corrispondente alla sua estensione fu largamente occupata da aiuole e vialetti. Dal 1998 la Sovrintendenza Capitolina e la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma hanno avviato ampie indagini sull’area del templum Pacis, con scavi mirati a riportarne in luce le parti piú a r c h e o 85


significative. Circa il 20% della superficie originaria del complesso è ora visibile. Ed è straordinario che lo scavo, sia pure limitato, ci consenta oggi di comprendere l’aspetto generale del monumento e di approfondirne le funzioni grazie agli eccezionali ritrovamenti effettuati. L’area centrale scoperta del templum Pacis doveva essere sistemata a giardino, con piante, fiori e giochi d’acqua. In età adrianea vennero collocati dieci basamenti per gruppi scultorei sui quali è possibile fossero collocati i Galati pergameni e altri capolavori. Gli scavi hanno permesso di recuperare anche spezzoni di altri basamenti in marmo sui quali restano i nomi di scultori greci, autori delle opere che vi poggiavano, come Prassitele, Cefisodoto e Parenocle, mentre dai ritrovamenti del passato e dalle fonti letterarie antiche conosciamo molte delle statue celebri che vi erano esposte, come il Ganimede rapito dall’aquila, scolpito da Leocare, del quale possediamo oggi una splendida replica conservata ai Musei Vaticani. Assieme a pitture fissate alla parete o esposte su cavalletto, queste statue dovevano essere collocate lungo le pareti di fondo dei portici i cui bracci lunghi si aprivano in esedre quadrangolari che, probabilmente, fungevano da auditoria per pubbliche letture e conferenze. 86 a r c h e o


Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione grafica dell’aula del templum Pacis in cui era affissa la Forma Urbis di Roma, fatta realizzare da Settimio Severo tra il 203 e il 211 d.C. L’asterisco indica la posizione dei due frammenti della pianta marmorea recentemente scoperti (foto nella pagina accanto, in basso). In questa pagina: statuetta in avorio di Settimio Severo (a destra) e testina in avorio (in basso), forse identificabile con Giuliano l’Apostata, dal templum Pacis. Roma, Museo Nazionale Romano.

Numerosi sono anche i rinvenimenti legati alle funzioni del monumento. Dopo la scoperta recente di un paio di frammenti con tracce di sovradipintura in rosso, la forma Urbis non viene piú considerata come un semplice oggetto ornamentale, ma si tende sempre piú a collegarne la presenza con l’attività di un ufficio della Prefettura Urbana che si occupava della documentazione catastale della città; la pianta marmorea costituiva un grande quadro d’unione semplificato delle almeno 300 tavole in bronzo sulle quali era incisa la pianta originale. La prova sembra fornita dal recupero di frammenti di piante marmoree che non sono pertinenti alla grande pianta severiana ma che, essendo incisi con un tratto molto piú fine oltre che muniti dei nominativi dei proprietari degli immobili e delle misure in piedi romani delle facciate (a fini impositivi), dimostrano l’esistenza, nel complesso della Pace, di una officina lapidaria che, almeno a partire dall’età severiana, realizzava copie degli originali bronzei su richiesta dei privati. Di grande importanza sono anche i ritrovamenti legati alla bibliotheca Pacis, grazie alla quale il monumento era tanto famoso nell’antichità e che, con la ricostruzione severiana, fu probabilmente inserita in una grande sala, tuttora visibile nei sotterranei del monastero dei SS. Cosma e Damiano, posta alle spalle della parete sulla quale era affissa la pianta marmorea. Nello strato di abbandono dell’aula di culto, che testimonia di un grave incendio che distrusse il settore meridionale del monumento intorno alla metà del VI secolo, sono stati infatti recuperati i resti di due statuette-ritratto in avorio raffiguranti gli imperatori Settimio Severo e Giuliano, detto «l’Apostata», in atteggiamento orante. Da un altro settore dello scavo proviene una testina-ritratto in bronzo del filosofo Crisippo, fondatore dello stoicismo, e tutti e tre i reperti

possono essere interpretati come indicatori delle sezioni della biblioteca all’interno delle quali si trovavano le opere dei tre autori (anche Settimio Severo e Giuliano erano autori: storico il primo e filosofo il secondo). Una caratteristica delle biblioteche romane era quella di inserire i ritratti degli autori, ricostruiti anche sulla base del loro studio biografico, per distinguerne le opere e i nostri reperti trovano in tal senso un confronto perfetto con i piccoli ritratti in bronzo di filosofi provenienti dalla biblioteca della villa dei Papiri a Ercolano. Grazie agli scavi degli ultimi anni, dunque, diviene sempre piú chiaro ciò che il templum Pacis costituiva nella Roma dell’età imperiale: un centro di cultura che ruotava attorno a una celebre biblioteca, munito di ampie sale per audizioni e di una ricca collezione d’arte che, come nell’intento enciclopedico della Storia Naturale di Plinio il Vecchio, costituiva la sezione tangibile delle opere dell’ingegno umano. sLa raccolta libraria era fiancheggiata dall’immenso archivio del catasto urbano e, come spesso accadeva nelle biblioteche romane, le opere filosofiche e letterarie convivevano con i documenti storici, giuridici e amministrativi. a r c h e o 87


speciale • la biblioteca infinita

ca negli ambienti colti della capitale subisce una profonda accelerazione, favorendo l’elaborazione autonoma di programmi culturali e la nascita di generi letterari propriamente latini. La Musa greca – come nei famosi versi del poeta latino Porcio Licinio (attivo alla fine del II secolo a.C.) – con passo lieve aveva finalmente trovato rifugio presso il rozzo e bellicoso popolo romano. Prendono la strada della nuova capitale filosofi, letterati, scienziati. Alcuni giungono come semplici visitatori o per svolgere attività diplomatiche, altri sono prigionieri di guerra. Molti troveranno rifugio e protezione presso le famiglie aristocratiche di Roma. Di pari passo affluiscono libri, addirittura intere biblioteche, in genere come bottino di guerra. A inaugurare la serie è la biblioteca di Perseo, re di Macedonia, sconfitto a Pidna da Lucio Emilio Paolo (168 a.C.). Racconta Plutarco che i figli del console romano nutrivano una cosí grande passione per la lettura da spingerlo a scegliere, come parte del bottino a lui riservata, proprio la biblioteca del re sconfitto.

«Un rifugio per tutti i Greci» Dopo Lucio Emilio, fu la volta di Silla: nell’84 a.C., anno della sua conquista di Atene, il futuro dittatore riuscí a mettere le mani sulla imponente biblioteca di Apellicone di Teo che conteneva, tra le tante opere, alcuni dei libri un tempo posseduti da Aristotele e Teofrasto. Non fu da meno il generale Lucullo, che, nel 66 a.C. trasportò a Roma l’intera biblioteca di Mitridate, re del Ponto. La collocò nella sua villa di Tuscolo, in uno spazio concepito a immagine e somiglianza del Museo di Alessandria: era infatti «aperta a tutti, e i portici che la circondavano e le sale di studio accoglievano i greci senza alcun limite: essi vi si rifugiavano di frequente come in un Mouseion e vi passavano le giornate in compagnia, sottraendosi a qualsiasi altra occupazione» (Plutarco, Vita di Lucullo, 42, 1-2). Il desiderio smodato di possedere libri si rivela contagioso. Nel I secolo a.C. gran parte degli intellettuali romani, tra i quali Varrone e Cicerone, a costo di grandi sacrifici costituiscono imponenti biblioteche. Non mancano gli eccessi: possedere libri diventa ben presto uno status symbol. Su questa ostentazione della cultura polemizzò aspramente, nella prima età imperiale, Seneca: «Che motivo c’è di perdonare a una persona che va a caccia di librerie di cedro e d’avorio, che con ogni cura cerca tutte le opere di autori sconosciuti oppure non accolti dalla 88 a r c h e o

fare il bibliotecario ad alessandria Nominato dal sovrano e, in età romana, dall’imperatore, il bibliotecario (o sovrintendente) di Alessandria aveva numerose e impegnative mansioni. Era a capo dei dotti del Museo e ne organizzava le ricerche, esaminava i testi e ne impostava lo studio filologico. Zenodoto, per esempio, il primo bibliotecario del Museo, aveva dato un impulso decisivo alla critica dell’Iliade e dell’Odissea, dividendo i poemi in 24 libri secondo le lettere dell’alfabeto greco, proprio come li leggiamo oggi. E non da meno fu il poeta e filologo greco Callimaco di Cirene, chiamato da Tolomeo II Filadelfo a lavorare alla Biblioteca (della quale, però, non fu mai direttore), divenendo presto grammatico famoso: a lui dobbiamo i Pinakes (Quadri), «Le Tavole degli autori illustri in ogni materia e delle opere che scrissero» in 120 libri, una vasta rassegna degli scrittori greci e delle loro opere, fondata sull’ampio materiale raccolto e catalogato nella biblioteca di Alessandria, che hanno dato forma al piú duraturo metodo di catalogazione del sapere.

critica e che sbadiglia fra tante migliaia di volumi, e al quale, dei suoi volumi, piacciono soprattutto frontespizi e titoli? Vedrai dunque in casa delle persone piú pigre tutte le orazioni e tutte le storie che ci sono, scaffalature alzate sino al soffitto; ormai fra bagni e terme, anche la biblioteca viene abbellita come necessario ornamento della casa» (Seneca, De tranquillitate animi, 9). Al di là della polemica, ancora nella tarda età repubblicana il possesso di libri è concepito come un fatto «privato». A progettare la fondazione della prima biblioteca pubblica di Roma, su modello di quella di Alessandria

Calamaio in bronzo. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


d’Egitto, è la mente visionaria di Giulio Cesare. Il progetto, interrotto bruscamente dalla congiura del 44 a.C., viene realizzato pochi anni dopo da Gaio Asinio Pollione, letterato e uomo politico di spicco della tarda età repubblicana. La biblioteca, articolata in due sezioni, la greca e la latina, trova una prestigiosa collocazione nell’Atrium Libertatis, la sede dell’archivio dei censori alle pendici del Campidoglio. L’intervento di Augusto, che si muove sul solco di questa tradizione, è decisivo: nel 28 a.C. inaugura la Bibliotheca Palatina, annessa al tempio di Apollo, sull’omonimo colle; nel 23 a.C. è la volta della Bibliotheca Octaviae, nel Campo Marzio (Portico di Ottavia). Nell’arco di centocinquant’anni, tra Augusto e Adriano, le biblioteche pubbliche si moltiplicano, tanto a Roma quanto nei capoluoghi delle province. Queste grandi istituzioni non sono solo funzionali alla conservazione e alla trasmissione dei testi, ma sono anche centri vivissimi di cultura: promuovono autori e opere, sono luoghi aperti, destinati ai dibattiti e agli spettacoli. Ma con un rovescio della medaglia. Come osserva Domenico Palombi in uno dei contributi che arricchiscono il catalogo della mostra attualmente in corso al Colosseo, queste istituzioni «pubbliche» sono anche – e soprattutto – espressione e strumento di potere: «nell’ ambito di questi primari servizi culturali della capitale dell’Impero, la selezione delle opere assicurava una visione del sapere coerente con i principi politici e ideologici del regime, mentre la frequentazione di tali strutture e la partecipazione alle attività culturali in esse praticate materializzavano l’adesione a quei principi da parte di studiosi e intellettuali». Alla fine del IV secolo d.C. si contavano a Roma 28 biblioteche, tutte attive. Ma il crepuscolo di questo mondo era iniziato da tempo. Le grandi biblioteche ellenistiche non esistevano piú: nel 272 d.C., durante l’infuriare

Calco della statua che ritrae il grammatico greco Epafrofito, colto in una pausa di lettura, da un originale del II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.

della guerra tra Aureliano e Zenobia, la biblioteca di Alessandria era stata devastata. La stessa sorte toccò, vent’anni dopo, alla biblioteca del Serapeo, letteralmente messa a ferro e fuoco dalle orde cristiane del vescovo Teofilo. Anche a Roma, al volgere del IV secolo, una dopo l’altra, le biblioteche vengono definitivamente abbandonate e le antiche sale di lettura riconvertite ad altro uso. Accorato, Ammiano Marcellino scrive: «A Roma le biblioteche sono state chiuse per sempre, come se fossero tombe». La catena delle grandi biblioteche della tradizione ellenistico-romana si chiude con la fondazione, da parte di Costanzo II, della biblioteca di Costantinopoli, la «Nuova Roma».

i libricciuoli del petrarca In Oriente, ma soprattutto in Occidente, la sopravvivenza della cultura antica fu garantita dalle istituzioni monastiche ed ecclesiastiche. Ad avvertire l’esigenza di istituire una vera e propria biblioteca pubblica furono, in epoca medievale, i primi «umanisti», tra cui Francesco Petrarca. La sua collezione, per vari motivi, andò dispersa, ma il suo sogno di creare una «biblioteca pubblica» che avesse come nucleo iniziale i suoi «libricciuoli» non rimase inesaudito. Nel 1468, in piena temperie umanistica, un altro appassionato bibliofilo, il cardinal Bessarione, dona a Venezia la sua straordinaria collezione di codici greci. Nasce la «Libreria di San Marco», meglio nota come Biblioteca Marciana, destinata a divenire una delle maggiori istituzioni culturali d’Europa. Come epilogo, e allo stesso tempo prologo di questa «biblioteca infinita», valgano le parole dello stesso Bessarione: «Se non ci fossero i libri, noi saremmo tutti rozzi e ignoranti, senza alcun ricordo del passato, senza alcun esempio; non avremmo conoscenza alcuna delle cose umane e divine; la stessa urna che accoglie i corpi, cancellerebbe anche la memoria degli uomini». Stefania Berlioz a r c h e o 89


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Leggere a voce alta di Rossella Rea La scrittura ha subíto, nei secoli, profondi cambiamenti che ne hanno modificato le caratteristiche e le modalità di produzione; in parallelo, sono radicalmente cambiate le modalità di lettura secondo un processo di trasformazione tuttora in corso e di cui l’e-book è, al momento, il punto d’arrivo. Nel mondo greco la scrittura comparve nell’VIII secolo a.C., ma lo scritto non era destinato al singolo: al contrario, esso acquistava senso compiuto solo se «distribuito» a terzi da una voce lettrice. Per secoli, la prassi corrente, da qualunque supporto scrittorio, è stata quella della lettura a voce alta, raramente sussurrata o silenziosa praticata l’una da lettori poco

esperti, l’altra nell’intimità riservata a un documento privato. Leggere era un’operazione complessa, poiché lo scritto era manuale, corsivo o semicorsivo e continuo, le parole non erano separate e non si usavano segni d’interpunzione: la lettura era lenta e tentennante, comportando inevitabilmente il ricorso alla voce e trasformando ogni lettura in un’esperienza personalizzata. La scrittura si realizzava solo attraverso l’uso strumentale della voce del lettore: lo scrittore utilizzava la voce altrui, anche dopo la sua morte, «come un instrumentum vocale, uno schiavo». Il disprezzo per il lettore spiega il motivo per cui anche nel mondo romano alla lettura era spesso delegato uno schiavo. A Roma la lettura a voce alta in presenza di

pubblico (recitatio) era praticata come mezzo di divulgazione di un’opera letteraria, dapprima entro spazi adattati, in seguito in ambienti appositamente creati a partire, probabilmente, dall’età neroniana, gli auditoria. Le letture in pubblico proseguirono fino alla fine del VI secolo, progressivamente sostituite dai sermoni ecclesiastici. Nella pagina accanto: lacerto di affresco con fanciulla forse intenta a leggere, a Stabiae. 55-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Qui sopra: epigrafe di Filosseno Giuliano, responsabile della sezione greca della biblioteca del Portico d’Ottavia. Prima età imperiale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

un esercizio fisico salutare Fino al II-III secolo si leggeva in piedi, prevalentemente su rotolo (volumen), la cui lunghezza poteva raggiungere anche i 20 m, collocato su una colonnina di supporto o su un leggío di legno, o poggiato sul grembo del lettore se seduto. Si leggeva a voce alta, come in Grecia. La lettura poteva essere diretta o mediata da un lettore e richiedeva, in presen-

za di un pubblico, un esercizio espressivo, con toni e modulazioni di voce aderenti al carattere del testo, come testimonia Quintiliano. La medicina del tempo considerava la lettura un esercizio fisico che giovava alla salute, proprio perché accompagnata da movimenti piú o meno accentuati della parte superiore del corpo, testa, torace e braccia. Oltre a comportare un notevole impegno fisico, la lettura in pubblico generava anche un forte stato di tensione, non solo per la concentrazione richiesta, ma anche per l’attenzione necessaria a cogliere e valutare le reazioni dell’uditorio, soprattutto durante il «lancio» delle opere letterarie che avveniva, prima della loro eventuale pubblicazione, attraverso le recitationes. Plinio il Giovane leggeva prima a due o tre persone, poi consea r c h e o 91


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gnava il testo ad altri per eventuali osservazioni e queste, in caso di dubbio, le discuteva con una o due persone. Infine, leggeva in pubblico e correggeva piú severamente: «La soggezione, l’amor proprio, il timore sono ottimi giudici (…) il timore è il piú severo dei giudici: il fatto stesso che noi pensiamo di dare una lettura, entrare nell’auditorium, il pallore, il tremare, il guardarci intorno, tutto serve a correggerci» (dalla Lettera XVII, a Nonio Celere). La durata della lettura era commisurata al contenuto di un rotolo. Plinio il Giovane, dopo aver declamato in Senato il Panegirico di Traiano, ne aveva redatto un volume da pub92 a r c h e o

blicare, decidendo anche di leggere l’opera agli amici. Gli invitati accorsero per due giorni di seguito e chiesero che la lettura si prolungasse per una terza giornata. Cosí come ci è pervenuto, il Panegirico richiede almeno tre ore di declamazione ininterrotta: pertanto, la pubblica lettura in tre giorni richiese da un minimo di tre ore a un massimo di sei, circa una o due ore al giorno. Una vera rivoluzione segnò, alla fine del I secolo, la comparsa del codex, il libro «a pagine», piú economico del volumen, piú comodo da maneggiare e che, per di piú, lasciava libera una mano con la quale era possibile scri-

Roma, piazza Madonna di Loreto. Resti degli auditoria di Adriano, recentemente scoperti e databili nel primo quarto del II sec. d.C.


vere. Dal II secolo il rotolo è progressivamente sostituito dal codex fino al totale sopravvento di quest’ultimo, inquadrabile nell’Occidente romano, ove era stato inventato, non oltre la fine del III secolo e piú tardi, agli inizi del V, nel mondo greco. Nella tarda antichità sia in Occidente che in Oriente l’uso del codice era ormai diffuso per qualsiasi tipo di scritto, e modificate erano le modalità di lettura: nel codice lo scritto era contenuto nelle dimensioni di una pagina, favorendo una lettura frazionata, pagina dopo pagina. I codices distincti, cioè con segni d’interpunzione, divennero la norma: la ricezione del testo non era piú individuale, ma predisposta. Alla libera lettura dell’otium letterario si sostituí una lettura a voce sempre piú bassa, non piú soggettiva, né personalizzata.

Gli auditoria Gli auditoria pubblici, assai diffusi nel mondo romano, erano spazi multifunzionali destinati alla pubblica lettura di opere letterarie di vario genere (recitatio), all’insegnamento e anche all’esercizio dell’attività giudiziaria. La loro presenza è documentata a Roma almeno dall’età flavia (ma con probabili precedenti in epoca neroniana) fino al V secolo d.C., e fino al VII secolo d.C. in Oriente e in Egitto. A Roma, sono identificabili come auditoria pubblici le esedre del templum Pacis e analoga funzione può essere attribuita alle esedre della biblioteca di Adriano ad Atene, in aggiunta ai due probabili auditoria annessi alla sala identificata come biblioteca. Nel primo quarto del II secolo, con l’edificio adrianeo scoperto a Roma in piazza Madonna di Lo-

reto, l’auditorium raggiunge, per quanto finora noto, la sua configurazione monumentale, esito di un lungo processo di sviluppo, ben documentato dalle fonti letterarie. I precedenti architettonici e funzionali dell’auditorium romano sono individuabili nel ginnasio ellenistico, destinato alla formazione fisica e intellettuale dei giovani.Vitruvio assume come riferimento il mondo greco nel prescrivere come disporre i ginnasi, dall’autore definiti «palestre», (il ginnasio non rientrava nella tradizione italica). Intorno alla «palestra» si distribuivano i vari ambienti funzionali alle attività fisiche e l’ephebeum, la sala di insegnamento destinata agli efebi: quest’ultimo, afferma Vitruvio, è un’amplissima esedra dotata di sedili, di ampiezza pari a due terzi della lunghezza. Nella maggior parte dei casi i sedili disposti lungo i muri erano di legno, motivo per cui non si sono conservati. Nel I secolo a.C. le residenze dei maggiorenti romani comprendevano ambienti di derivazione ellenistica come l’accademia, il liceo, la palestra e il ginnasio: la riproposizione delle architetture e delle funzioni dei ginnasi greco-ellenistici ha comportato l’introduzione a Roma anche dell’uso dell’acroaterion, termine greco che individua il luogo dell’ascolto, in cui si riuniscono gli uditori (akroatai) e si svolgono conferenze (akroàseis). Dalla sfera privata, l’acroaterion rientrò, in seguito, nell’ambito pubblico dal quale era derivato, a partire dall’età neroniana o, al piú tardi, flavia. L’uso del termine auditorium, non sembra anteriore all’età neroniana: proprio Nerone (segue a p. 96)

Rilievo gallo-romano frammentario da Buzenol (Belgio) raffigurante l’interno di un archivio o di una biblioteca. Bruxelles, Musées Royaux d’Art et d’Histoire, Musée du Cinquantenaire.

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quei rotoli iscritti negli affreschi di nemi di Francesca Boldrighini

Il recente restauro realizzato dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma ha donato nuova vita alle eccezionali pitture che decoravano un piccolo teatro adiacente al santuario di Diana presso il lago di Nemi. Scoperte negli anni Venti del Novecento e custodite nei magazzini del Museo delle Terme di Diocleziano, le pitture sono esposte per la prima volta al pubblico in occasione della mostra «La Biblioteca Infinita». Il restauro ha permesso di ricomporre quasi

raffigurazione di tabulae e rotoli iscritti, alcuni dei quali ancora in parte leggibili, disposti qua e là tra gli altri oggetti: un’ipotesi risalente all’epoca dello scavo leggeva nel testo meglio conservato un riferimento ai Manes, parola che sarebbe ripetuta quattro volte in diversi casi in una sorta di «scioglilingua». Per quanto riguarda i calzari, a eccezione di due paia di alti coturni, chiaro riferimento al mondo teatrale, essi sono tutti identificabili con le caligae: calzature

completamente tre pareti dell’ambiente che ospitava i dipinti, restituendo un’immagine molto vicina alla realtà dell’antico aspetto della stanza, interessante soprattutto per gli inusuali soggetti delle pitture. Tutti i pannelli dipinti sono caratterizzati da un fondo uniforme color giallo ocra, con i margini sottolineati da una fascia rosso-bruna. I vasti campi cosí delimitati sono sovradipinti in una ristretta gamma di colori (bianco, rosso scuro, bruno, verde) a rappresentare pilastrini e basse colonne scanalate, tra cui sono tesi drappi di diversi colori. Al di sotto e al di sopra di essi si dispone un’ampia serie di calzature e di armi, che formano un insieme del tutto singolare. Ad aumentare il fascino delle immagini è la

militari basse, aperte e allacciate con stringhe tipiche dell’alto impero, connesse, come è noto, al nome di Caligola, imperatore legatissimo al santuario nemorense. Oltre a ripristinare, come apprendiamo da Svetonio, l’antico e cruento rito della successione del rex sacrorum e a far costruire le famosissime navi, l’imperatore volle infatti anche una residenza imperiale sulle rive del lago, i cui resti sono stati identificati sulla sponda occidentale. Il carattere militare delle caligae spinge a considerarle in stretta relazione con le armi, di cui costituiscono una sorta di originale complemento. Tutti i motivi figurativi utilizzati nelle pitture del teatro di Nemi appaiono tipici della tarda repubblica e dell’alto impero. Gli stessi fregi di armi sembrano

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diffusi soprattutto fino all’età giulio-claudia, per declinare poi lentamente nella media e tarda età imperiale con esempi sempre piú sporadici. Le armi rappresentate, come anche le già citate caligae, mostrano caratteristiche tecniche ancora tipiche dell’alto impero. È dunque probabile che la realizzazione delle pitture abbia avuto luogo in un’epoca ancora piuttosto antica, forse in concomitanza con il rifacimento del teatro da parte di Volusia Cornelia, testimoniato da un’iscrizione rinvenuta presso il teatro e ora esposta al Museo delle Terme di Diocleziano; la famiglia dei Volusii era tra l’altro imparentata con lo stesso Caligola, e non è dunque improbabile che Volusia abbia agito negli anni di regno dell’imperatore, e forse proprio per suo conto. L’utilizzo di motivi figurativi originali e raramente accostati tra loro, che rende il fregio di armi di Nemi quasi un unicum nella pittura romana, spinge a ipotizzare che per la sua realizzazione non siano stati utilizzati cartoni già pronti, ma che i pittori abbiano reinterpretato i motivi a loro noti adattandoli al contesto e alla funzione dell’ambiente in cui si trovavano. Sulle due pagine: affreschi con strumenti scrittori e oggetti di scena, dal teatro di Nemi. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

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dedicò nel 62 a Roma, in Campo Marzio, un ginnasio dotato di un impianto termale che ne costituiva l’asse centrale. Ai lati di questo erano sul lato nord due ginnasi simmetrici e forse una seconda coppia era a sud. Ogni ginnasio era dotato, secondo il modello ellenistico, di un’esedra. Tra gli ambienti di ciascun ginnasio si è supposta la presenza di biblioteche e auditoria: in occasione dell’inaugurazione, infatti, Nerone cantò in uno degli ambienti. I primi auditoria pubblici, a Roma, potrebbero essere quindi riconducibili a Nerone. Tra i riferimenti letterari relativi all’auditorium vi sono alcuni passi di Tacito, che usa il termine nel descrivere i preparativi di uno scrittore che si accinge a divulgare la sua opera con una pubblica recitatio: lo scrittore affitta una casa privata e vi allestisce un auditorium inserendovi i sedili. Giovenale descrive con precisione l’aspetto di un auditorium: il Alessandria (Egitto). L’area di Kom-el-Dikka, nella quale sono stati scoperti i resti di vari auditoria, uno dei quali (denominato K) è illustrato nella foto alla pagina accanto, in alto.

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un antico «campus» universitario Gli scavi archeologici condotti ad Alessandria in Egitto dal 1960 dall’Università di Varsavia, nell’area di Kom el-Dikka, nel centro della città antica, hanno rivelato un ampio complesso, comprendente 20 auditoria, per una capienza stimata di 500-600 studenti. Gli auditoria piú antichi sembrano risalire agli inizi del IV secolo, ma dopo i terremoti del 447 e 535 il complesso degli auditoria fu progressivamente esteso: alcuni sembrano essere rimasti in uso fino alla fine del VII secolo. Due o tre file di sedili di pietra costruiti lungo tre muri caratterizzano l’arredo interno, seguendo la forma rettangolare dell’ambiente o disposti a ferro di cavallo. Il seggio destinato al docente – trono –. ubicato al centro del lato corto opposto all’ingresso, era sopraelevato e accessibile tramite gradini. Sul pavimento di molti auditoria di Kom el-Dikka si trova un blocco di pietra posto sull’asse lungo del locale, di fronte al trono: è la base del leggío di legno sul quale gli studenti leggevano il testo o illustravano i propri lavori. Il numero degli auditoria, l’articolazione e le proporzioni dell’intero impianto, nonché la sua posizione centrale riconducono all’istituzione di


un vero e proprio «campus universitario»: la città, infatti, era uno dei piú importanti centri di formazione nella tarda antichità. L’eccezionale scoperta documenta per la prima volta le modalità dell’insegnamento pubblico superiore in età tardo-antica, attestato dalle fonti anche in altri grandi centri, come Costantinopoli e Berytos (l’odierna Beirut). Il Codice Teodosiano (425) istituisce la cosiddetta «Università di Costantinopoli», i cui 32 auditoria, destinati ad altrettante cattedre di grammatica, oratoria, filosofia e diritto, formavano una struttura complessa analoga all’impianto di Alessandria, ma anche di Berytos che, sin dal III secolo ospitò la Scuola di Diritto e in cui è attestata la presenza di auditoria legum. Nel 531, regnante Giustiniano, che definí Berytos «nutrix legum», la scuola fu scelta per contribuire all’elaborazione del Corpus iuris civilis.

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dei palchi (anabathra) affittati e quello dell’orchestra, con le sue poltrone che dovrai restituire».

patrono dello squattrinato poeta rende disponibile una «lurida sala» per la recitatio, sistemando i sedili per i liberti e per un gruppo di amici, «ma nessun milionario ti darà mai tanto da pagare il nolo delle sedie, quello

In alto: una sezione della mostra in corso al Colosseo. A sinistra: L’Ara «degli scribi», monumento funebre di età giulio-claudia. Marmo. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano. Vi è raffigurata la ricca varietà di supporti per la scrittura diffusi nel mondo romano: rotoli e piccoli libelli di papiro, tavolette cerate in forma di codice, tavole lignee per l’archiviazione di documenti.

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un successo duraturo La pratica della lettura in pubblico si sviluppò nel vivace clima culturale del primo impero e di conseguenza l’auditorium, da struttura a carattere precario, temporaneo e itinerante, si trasformò in uno spazio architettonico definito sul modello ellenistico dell’ephebeion-exhedra, stabilmente dedicato alla recitatio: a Roma è connesso in età flavia al templum Pacis, nelle cui esedre l’arredo è ancora ligneo. Il modello ellenistico è, tuttavia, superato negli auditoria del complesso adrianeo di piazza Madonna di Loreto: affrancatosi dall’esedra, l’edificio definisce un nuovo tipo architettonico. Delle tre aule, le due di recente indagate conservano inalterate le funzioni originarie sino alla seconda metà del V secolo. Le recitationes ebbero lunga vita: a Roma, ancora verso la fine del VI secolo Venanzio Fortunato testimonia, nel foro di Traiano, recitationes di brani di Virgilio e di altri poeti. dove e quando «La biblioteca infinita. I luoghi del sapere nel mondo antico» Roma, Colosseo fino al 5 ottobre Orario dal 1° al 30 settembre: tutti i giorni, 8,30-18,00; dal 1° al 5 ottobre: tutti i giorni, 8,30-17,30 Info e visite guidate tel. 06 39967700; www.coopculture.it Catalogo Electa



Antichi ieri e oggi Romolo A. Staccioli

«panem», ma soprattutto «circenses»! settembre, mese dedicato a giove, era scandito dallo svolgimento dei ludi, vale a dire i giochi. la cui espressione massima erano le apprezzatissime corse nel circo massimo

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rivo di ricorrenze legate al mondo dell’agricoltura (in pausa di attività) o a particolari divinità, il mese di settembre era interamente dedicato a Giove e a quella sorta di «festa nazionale» dell’antica Roma che erano i «Grandi Ludi» o Ludi Magni (il cui appellativo, del resto, era anch’esso riconducibile al dio che dei ludi era il nume tutelare). La prima delle feste di Giove si celebrava, col nome di Feriae Iovis, proprio all’inizio del mese, il

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giorno stesso delle calende che, tradizionalmente, era appannaggio di Giunone.

lo schiavo folgorato Vi ricorreva, infatti, l’anniversario della dedica del tempio di Giove Tonante (Iuppiter Tonans) costruito da Augusto sul Campidoglio in segno di ringraziamento per uno scampato pericolo: quando «durante la campagna militare nel Cantabrico, in Spagna – come scrive Svetonio (Aug. 29,3) –

mentre viaggiava di notte un fulmine sfiorò la sua lettiga uccidendo uno schiavo che la precedeva facendo luce». Il giorno 5 era la festa di Iuppiter Stator, onorato con due templi, nella sua funzione di «arrestare» l’eventuale rotta dell’esercito romano, da quando, durante lo scontro tra Romolo e Tito Tazio, il dio era «intervenuto» per fermare, tra il Foro e il Palatino, il pericoloso sbandamento dei Romani di fronte all’attacco dei Sabini.


Il giorno 13 era quello della terza importante cerimonia dedicata al dio protagonista del mese. Vi si celebrava il cosiddetto Epulum Iovis, il banchetto sacro un tempo organizzato dai pontefici, ma in seguito affidato al collegio degli Epulones appositamente creato, nel 196 a.C., e costituito di tre membri, portati poi a sette e infine a dieci. A esso partecipava lo stesso Giove con il suo simulacro, dal viso imbellettato di rosso, portato in processione su uno speciale carro sacro, a due ruote (tensa), quindi disteso su un letto tricliniare e affiancato dai simulacri delle due altre divinità della triade capitolina, Giunone e Minerva, sedute invece su due sedie. Nella medesima occasione, aveva luogo l’operazione detta del clavus annalis che consisteva nell’apposizione di un grande chiodo di bronzo nella cella centrale del tempio per servire al computo degli anni trascorsi dalla dedica del sacro edificio che veniva fatta risalire al 509 a.C. primo anno della Repubblica.

a ciascuno il suo palco Quanto ai Ludi Magni – presto chiamati preferibilmente Ludi Romani, per sottolineare la specificità della manifestazione, anche in contrapposizione alla antica festa delle Feriae latinae che ogni anno, con una cerimonia celebrata sul Mons Albanus (l’attuale Monte Cavo), coinvolgeva tutti i popoli del Lazio – la loro istituzione era riferita dalla tradizione, riportata da Tito Livio (I, 35, 7 e segg.) al re Tarquinio Prisco. Questi, per dare loro lo «spazio» necessario, avrebbe fatto realizzare nella Valle Murcia, tra il Palatino e l’Aventino, la prima «versione» di quello che poi divenne il Circo Massimo. «Furono assegnati i posti ai senatori e ai cavalieri – scrive lo storico – dove ognuno potesse costruirsi il suo palco (…) sostenuto da pali a forcella alti da terra dodici piedi».

Secondo le fonti, si trattò a lungo dell’unico tipo di festeggiamenti a essere indicato col termine di Ludi e ad avere le specifiche caratteristiche delle origini. Nel 220 a.C. fu concesso anche alla plebe di celebrarne di propri; poi, al tempo della seconda guerra punica la grave crisi religiosa spinse a moltiplicarne le occasioni e furono istituiti i Ludi Apollinares, nel 212 a.C., e i Ludi Megalensi, in onore della Magna Mater, nel 204. I Ludi Romani furono celebrati inizialmente il giorno delle idi, ossia il 13. E, sempre secondo Livio, consistevano in «gare di cavalli e di pugili fatti venire soprattutto dall’Etruria». Diventati annuali e affidati agli Edili curuli, di estrazione patrizia, essi furono presto prolungati, dapprima fino a tre giorni, poi, arricchiti da spettacoli scenici e dopo un periodo di sospensione e la ripresa, nel 367 a.C., fu aggiunto un quarto giorno per arrivare fino a 16. In età augustea essi si svolgevano dal 4 al

In alto: Settembre, rappresentato dalla pigiatura dell’uva, particolare del mosaico dei mesi di Thysdrus (oggi El Djem, Tunisia). III sec. d.C. Sousse, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: la Triade Capitolina (Giove, Giunone e Minerva) di Guidonia. Fine del II sec. d.C: Palestrina, Museo Archeologico Nazionale. 19, con gli ultimi quattro o cinque giorni, esplicitamente indicati nei calendari, uno per uno, con l’espressione Ludi in Circo, dedicati agli spettacoli circensi, che ne rimasero sempre il «momento» caratterizzante, piú importante (e piú atteso). Dionigi d’Alicarnasso descrive minuziosamente – avendola vista di persona – la pompa, ossia la parata solenne che precedeva i giochi, scendendo dal Campidoglio, dove aveva inizio, al Circo attraverso il Foro e il Velabro per il Vicus Tuscus (Ant. Rom. VII,72): ad aprire era un magistrato di rango curule (console, pretore)

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che indossava la toga picta (di porpora, con ricami d’oro), aveva sul capo una corona d’alloro e in mano uno scettro d’avorio ed era seguito da gruppi di giovani, figli di genitori appartenenti all’ordine equestre, a cavallo. Venivano poi i protagonisti delle gare, aurighi e pugili, con relativi assistenti e accompagnatori; quindi gruppi di danzatori, divisi per età, vestiti di una tunica rossa, con una spada appesa a una cintura di bronzo e una corta lancia in mano, che eseguivano danze guerresche, accompagnati da suonatori di tibia e di barbiton (flauto e cetra). Chiudevano gli inservienti, che conducevano gli animali da sacrificare e portavano i vasi cerimoniali, d’oro e d’argento, e gli incensieri dove bruciavano aromi e incenso, e, infine, i simulacri delle principali divinità, a cominciare da quelle della Triade Capitolina. Al Circo, mentre i concorrenti facevano un «giro d’onore», aveva luogo il sacrificio degli animali.

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Sempre seguendo il racconto di Dionigi, i sacerdoti, lavatesi le mani, «lustravano» le vittime con acqua pura e le «immolavano», cospargendone il capo di mola salsa, un impasto di farina di farro e acqua salata preparato dalle Vestali. I vittimari abbattevano gli animali per poi squartarli e scorticarli con i coltelli sacrificali; le carni e le interiora, cosparse ancora di mola salsa, venivano quindi portate ai sacerdoti, che le ponevano sull’altare per bruciarle, spruzzandole ogni tanto di vino.

l’evento piú atteso Terminato il sacrificio, avevano inizio le gare. A proposito delle quali, è appena il caso di ricordare come non ci fosse, nell’antica Roma, altro evento paragonabile a quello del Circo – e, in particolare, alla corsa delle quadrighe – che potesse rendere piú attesa, attraente e popolare una grande festa. Per la grandiosità dell’ambiente, per la spettacolarità,

Chiusi, Tomba del Colle. Particolare delle pitture murali raffigurante una corsa di bighe. V sec. a.C. ma anche l’incertezza e la pericolosità delle competizioni, capaci di suscitare al massimo grado emozioni, entusiasmi o delusioni, e per il coinvolgimento totale degli spettatori attraverso un «tifo» (accompagnato da rivalità, discussioni, scommesse, litigi e risse) che non si esauriva nella circostanza, ma, con l’adesione piena e incondizionata di ogni cittadino a una delle quattro «fazioni» (Albata, Russata, Prasina e Veneta), durava tutta la vita. Non a caso, nella celebre allocuzione di Giovenale (Sat. X,81) che indica, al tempo stesso, un tipico atteggiamento popolare teso alla ricerca della felicità e una politica per il consenso basata sul soddisfacimento dei bisogni piú elementari della plebe, accanto al panem vengono evocati i circenses, gli spettacoli del Circo.



a volte ritornano Flavio Russo

gira la ruota... che cosa accomuna un carro di fabbricazione celtica ritrovato in una torbiera danese e i carrelli che tutti noi utilizziamo per fare la spesa in un supermercato?

N

el Museo Nazionale di Copenaghen è conservato, dopo un meticoloso restauro, un carro a quattro ruote, ciascuna di 14 razze, denominato «di Dejbjerg». Risale al I secolo a.C. ed è un veicolo a trazione animale, fornita probabilmente da una pariglia di

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cavalli o di buoi, verosimilmente destinato a usi rituali. Insieme a un esemplare simile, fu affondato volontariamente, nel corso di una non meglio identificabile cerimonia religiosa, in una palude dello Jutland, le cui acque lo hanno preservato dalla dissoluzione.

Per quanto è stato possibile dedurre dal loro ritrovamento, prima di scomparire, i due carri furono meticolosamente smontati, a cominciare dalle ruote, e deposti con cura nella torbiera, dalla quale riaffiorarono tra il 1881 e il 1883. I materiali che li componevano


Nella pagina accanto: il carro celtico di Dejbjerg. I sec. a.C. Copenaghen, Museo Nazionale. A sinistra: ricostruzione virtuale, parzialmente sezionata, del mozzo con rulli del carro. In basso: una moderna rotella per carrelli con rulli all’interno del mozzo che poggeranno sull’asse.

sono in prevalenza ferro, bronzo e legno. Dal tipo di lavorazione complessa e sofisticata, i veicoli tradiscono un’origine celtica, civiltà che vantò carradori rinomati nell’antichità classica, tanto che i Romani si avvalsero delle loro realizzazioni di varia foggia e destinazione quali carrette, carri e carrozze a due e a quattro ruote.

tracce di riparazioni A sostenere l’ipotesi della fattura celtica contribuisce l’esame metallurgico dei cerchioni, uno solo dei quali risulta realizzato con ferro palustre, tipico dell’area danese e perciò probabile risultato di una riparazione, una diversità che ne avvalora implicitamente l’origine straniera. L’esemplare meglio conservato consta di un cassone piano, poggiato direttamente sui due assali, uno dei quali è sterzante, manovrato da un lungo timone. Dal bordo delle opposte sponde laterali si ergono quattro montanti di bronzo, decorati con altrettante maschere dai capelli e occhi intarsiati con smalto, anch’esse di ispirazione celtica. In origine, forse, sostenevano i supporti di un baldacchino, al di sotto del quale stava lo scanno di cui

permangono i resti o, invece, ostentavano preziose suppellettili durante le uscite, integrando lo sfarzo delle decorazioni profuse al suo intorno: improbo stabilire se tali accessori appartenessero all’originario allestimento o non a una modifica successiva. Sebbene siano numerose le peculiarità innovative del carro, la piú interessante per noi si trova nei mozzi delle ruote: si tratta, infatti, dell’esordio di un dispositivo meccanico senza il quale le nostre automobili non potrebbero in alcun modo funzionare!

abbattere l’attrito Il dispositivo consiste in una corona di sottili rulli lignei di notevole durezza, posti paralleli all’asse, tra lo stesso e il mozzo delle ruote, fisso il primo e rotante il secondo. La loro razionale collocazione ne impediva la fuoriuscita, consentendogli perciò di abbattere il forte attrito, generato dall’avanzamento del pesante veicolo. Il principio adottato nella loro fabbricazione è il medesimo dei moderni cuscinetti, a differenza

dei quali questi rulli «celtici» non stanno tra due ralle di diverso diametro, ma tra il mozzo in cui sono alloggiati e l’asse. La particolare disposizione ha trovato di recente una perfetta riproposizione nelle rotelle destinate a carrelli di varia foggia, i piú comuni dei quali sono quelli abitualmente in uso nei supermercati: in essi i rulli si trovano, infatti, tra l’interno del mozzo e l’asse della ruota. Rispetto all’utilizzo dei normali cuscinetti a rulli il vantaggio è duplice: di natura economica, perché, eliminando le ralle, se ne riduce sensibilmente il costo; meccanico, per la compattezza cosí ottenuta. Crediamo però di poter affermare, senza tema di smentita, che chi ha progettato tale soluzione ignorava quella, identica, messa a punto dai carradori celtici!

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scavare il medioevo Andrea Augenti

evoluzione di una specie scavando nel foro romano, giacomo boni s’imbatté in brocche e boccali di un tipo fino ad allora sconosciuto: oggetti che, come hanno dimostrato gli studi successivi, da produzione elitaria, divennero un bene di largo consumo

C

orre l’anno 1900 e, nel corso degli scavi che sta conducendo nel Foro Romano, Giacomo Boni (1829-1925) si imbatte in una scoperta straordinaria: nella fonte monumentale chiamata «di Giuturna», ritrova, accatastate, decine di boccali in ceramica che presentano tutti una caratteristica copertura rilucente. Il motivo è semplice: presso la sorgente era stato scavato un pozzo, e questi erano, in buona parte, i boccali caduti agli abitanti della zona che vi attingevano abitualmente l’acqua. Gli archeologi inglesi, che furono tra i primi a occuparsi di queste ceramiche, proprio in seguito a quell’episodio le ribattezzarono poi «Forum Ware», cioè «ceramica del Foro». E da allora, per molto tempo, questa particolare produzione ceramica è stata la croce e delizia degli studiosi di archeologia medievale.

una guida... che non guida! Delizia, perché a lungo si è trattato di una delle poche produzioni altomedievali facilmente riconoscibili, e quindi – almeno potenzialmente – di uno di quelli che abitualmente vengono chiamati «fossili-guida», cioè manufatti molto caratteristici di una data epoca, che ci aiutano immediatamente a capire in che cronologia ci stiamo muovendo durante uno scavo; ma anche croce, perché a lungo abbiamo

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Qui sopra: Roma. La fonte di Giuturna all’indomani della scoperta. letteralmente brancolato nel buio prima di fissare l’esatta datazione di quella che oggi tutti gli addetti ai lavori conoscono come «ceramica a vetrina pesante». Insomma, per molto tempo abbiamo potuto disporre di un fossile-guida che non guidava: basti pensare che la datazione è stata fatta oscillare tra il V e il XII secolo! Ora, per fortuna, soprattutto dopo gli scavi della Cripta di Balbo a Roma, ne sappiamo molto di piú: la ceramica a vetrina pesante entra in uso a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo e la sua produzione


A sinistra: il magazzino della fonte di Giuturna nella sistemazione approntata da Giacomo Boni. Sulle due pagine (foto a colori): esemplari di brocche in ceramica invetriata del tipo Forum Ware dagli scavi della fonte di Giuturna. continua sino alla fine del X, per essere poi soppiantata dalla ceramica «a vetrina sparsa». La ceramica a vetrina pesante è una produzione molto particolare, ricoperta da un rivestimento invetriato che può avere un colore marrone, o verde o giallastro, determinato dall’uso di ossidi di ferro; e può essere decorata in vari modi: con petali applicati, o bugne, o anche con semplici linee incise a pettine o con uno strumento a punta. In realtà, la ceramica invetriata veniva prodotta anche in età tardo-antica: è famoso, per esempio, un cratere del V secolo ritrovato a Roma, con la raffigurazione delle fatiche di Ercole. La ceramica a vetrina pesante è una lontana discendente di quelle produzioni, ma compare molto piú tardi e viene fabbricata fin da subito su ampia scala; e probabilmente discende in maniera ancora piú diretta dalle ceramiche invetriate di Costantinopoli.

AAA, cercasi fornace Ma dove veniva prodotta? A Roma, sicuramente, a giudicare dall’abbondanza di esemplari rinvenuti abitualmente in ogni scavo che attraversi quegli orizzonti; ma probabilmente anche

nelle campagne intorno a Roma, dove sono stati trovati numerosi scarti. Per contro, finora, non sono state scoperte fornaci adibite alla produzione di questa ceramica. Inizialmente, la ceramica a vetrina pesante era un prodotto di lusso, realizzato in piccole quantità e destinato alle tavole di pochi romani delle classi sociali piú elevate; la sua diffusione è dunque una testimonianza della notevole ripresa economica che interessò tutta l’Italia, e in particolare proprio Roma, a partire dal tempo di Carlo Magno. Ma poi il benessere si diffuse in modo progressivamente piú capillare, e questa ceramica iniziò a essere prodotta in quantità sempre piú straordinarie e a diventare un oggetto comune: evidentemente intercettava una domanda diffusa. Da status symbol si trasformò quindi in un bene di massa: un po’ come è accaduto in tempi recenti con il telefono cellulare. Per concludere, chi voglia vedere i boccali trovati da Giacomo Boni nella fonte di Giuturna, li può trovare nello straordinario Museo della Cripta di Balbo, a Roma: già da soli valgono la visita a una delle migliori raccolte archeologiche del nostro Paese, sulla quale tornerò presto.

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divi e donne Francesca Cenerini

accanto all’ultimo degli antonini al fianco di commodo si succedono bruzia crispina e poi marcia: la prima soccombe tragicamente al consorte, la seconda, piú avvezza ai giochi di potere della corte imperiale, gli sopravvive...

N

Testa di Commodo. II sec. d.C. Selçuk, Museo Archeologico di Efeso. Nella pagina accanto: ritratto di Bruzia Crispina. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

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el 178 d.C. Commodo sposa Bruzia Crispina che ottiene il titolo di Augusta. La donna è figlia di C. Bruzio Presente, fidato e abile collaboratore di Marco Aurelio, che nel 180 d.C., durante il suo consolato, accompagna l’imperatore sul fronte danubiano. Si tratta quindi dell’alleanza con un consolare autorevole, tale da salvaguardare Commodo dai contrasti con i potenti mariti delle sorelle di quest’ultimo, come abbiamo già visto (vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014). Il matrimonio dura una dozzina d’anni, fino a che Crispina viene accusata d’adulterio, relegata ad insulam e, infine, eliminata, secondo modalità non nuove. A Crispina Augusta fu dedicata un’iscrizione rinvenuta a Thamugadi, antica città della Numidia (che corrisponde grosso modo all’odierna Algeria orientale), databile, sulla base del nome del marito, agli anni 191-192 d.C.: a questa data, Bruzia doveva essere ancora viva e la sua morte va ascritta agli ultimi mesi del regno di Commodo, che fu al potere fino al dicembre del 192 d.C.

l’erede mancato Con ogni probabilità, il vero bersaglio dell’imperatore non era tanto la moglie, bensí la sua famiglia, nella fattispecie il fratello L. Bruzio Quintio Crispino, console ordinario nel 187 d.C., ma si deve considerare anche la vana attesa di un erede al trono. Infatti, come suggerisce un’emissione monetale


nell’anno 181-182 d.C., Bruzia Crispina era incinta, ma la sua maternità non andò a buon fine, indebolendone fortemente la sua posizione a corte. Anche nel caso di Crispina, comunque, le presunte infedeltà sembrano funzionali alla caratterizzazione del ritratto del tiranno Commodo. Le fonti ci parlano di un’altra donna al fianco del principe e cioè di Marcia, ex concubina di Ummidio Quadrato, già implicato in una congiura ai danni di Commodo, sventata dall’imperatore. Marcia

entra a corte dopo questa congiura (ordita alla fine del 181 o del 182 d.C.), in cui era stata coinvolta anche Lucilla, una delle sorelle dell’imperatore, e diventa ben presto concubina di quest’ultimo: le fonti le attribuiscono un ruolo di potere a corte e un influsso negativo sull’amante, ancora una volta secondo un topos narrativo ampiamente sperimentato. Tuttavia, nel caso di Marcia, si aggiunge il fatto che la donna discendeva da una famiglia da anni al servizio della casa imperiale, e

che a corte era entrata in stretto contatto con l’eunuco Giacinto, di origine orientale e di comprovata fede cristiana. Marcia, dunque, per via dell’esperienza familiare, conosceva i complicati meccanismi che regolavano la vita della corte. Nella sua veste riconosciuta di concubina favorita di Commodo, si adopera molto per i cristiani, con veri e propri favoritismi, come ci dice Cassio Dione. Nel 188-189 d.C. dà udienza al vescovo di Roma, Vittore, dal quale si fa consegnare una lista dei condannati ai lavori forzati nelle miniere di proprietà imperiale in Sardegna (ad metalla) a causa della loro fede cristiana.

capacità persuasive Dando prova di notevoli capacità persuasive, ottiene che Commodo ne firmi il decreto di liberazione. Sembra quindi di poterne dedurre che la Chiesa di Roma possedesse archivi con i nomi dei cristiani esiliati o prigionieri.Tra quelli da liberare non vi sarebbe stato Callisto (che nel 217 d.C. divenne vescovo di Roma), condannato anche per altri reati di carattere finanziario. Secondo il racconto del teologo e scrittore Ippolito, Callisto, sebbene il suo nome non fosse compreso nella lista, riuscí ugualmente a persuadere il presbitero Giacinto (latore in Sardegna della lettera di Marcia) a intercedere presso il procurator metallorum, responsabile imperiale delle miniere, per ottenere la liberazione. Le sue argomentazioni includevano anche la dichiarazione d’essere stato l’educatore di Marcia e questo non può che confermare le possibilità di azione della donna all’interno della corte di Commodo. Quest’ultimo venne eliminato il 31 dicembre del 192 d.C. da una congiura di palazzo, messa in atto dai suoi piú stretti cortigiani, tra cui la stessa Marcia, il prefetto del pretorio Leto e il cubiculario (una sorta di gran ciambellano) Ecletto. Il suo nome fu damnatus e con lui si chiuse l’epoca degli Antonini.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

trionfo d’amore quella di Dioniso e Arianna fu una vicenda che ebbe fra i suoi estimatori molti personaggi illustri, tra cui gli imperatori antonino pio, Marco aurelio e geta

«E

cco Bacco e Arianna belli, e l’un dell’altro ardenti / perché ’l tempo fugge e inganna, / sempre insieme stan contenti. / Queste ninfe e altre genti / sono allegri tuttavia / chi vuol esser lieto sia: di doman non c’è certezza»: sono questi i versi del Trionfo di Bacco e Arianna, uno dei Canti Carnascialeschi composti da Lorenzo il Magnifico intorno al 1490. Un inno alla giovinezza e al tempo che fugge, con un fondo di amarezza, e il sogno della perduta età dell’oro, in cui dèi e uomini, in nome dell’amore e del piacere, conducevano una vita sempiterna fatta solo di spensieratezza. La riscoperta e l’idealizzazione dell’antichità tra Umanesimo e Rinascimento fa sue le storie patetiche e d’amore sopravvissute al mito. Cosí accade, in particolare, per le vicende di Dioniso/Bacco e della bella umana Arianna, prima dolente per l’abbandono di Teseo, e quindi, dopo un lamento disperato, divenuta sposa felice di Dioniso (vedi «Archeo» n. 354, agosto 2014). Presente nell’epica classica, la vicenda di Teseo e Arianna a Nasso conobbe larga fortuna presso gli scrittori alessandrini, dal III sino al I secolo a.C.

figure multiformi In particolare, fu ripresa a Roma da Catullo e Ovidio, che ne colsero soprattutto l’aspetto amoroso e sentimentale. Sul piano religioso, invece, le figure dei personaggi principali si fanno piú complesse, sfaccettate e commiste a divinità indigene – basti pensare agli italici

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Liber e Libera –, mentre Arianna viene associata a Cipro al culto di Afrodite. E se tra Dioniso e Afrodite non ci fu una relazione, tra il dio e Arianna ci furono amore, passione, ebbrezza e nozze, elementi non sempre ritenuti essenziali e presenti nel rapporto matrimoniale. Per questo il trionfo dei due innamorati ben si attagliava agli sponsali felici e conobbe infinite rivisitazioni nella produzione artistica antica e moderna. Rappresentazioni del corteo dionisiaco dedicato ai due sposi

ricorrono su gemme, pitture, sarcofagi, tessuti e, sebbene sporadicamente, sulle monete e medaglioni imperiali a partire dall’età antonina. Alcuni pregevoli medaglioni di Antonino Pio emessi nel 139 d.C. per celebrare il fidanzamento tra Marco Aurelio e Faustina II, raffigurano il carro trionfale di Bacco e Arianna tra Satiri e Menadi, chiaro augurio di una vita coniugale felice cosí come quella della coppia divina. Marco Aurelio adottò quindi il medesimo rovescio sulle emissioni provinciali di Attalea (LiciaPamphilia) anche dopo il matrimonio, tra il 147 e il 161. Uno schema iconografico simile si ritrova nelle monete battute a nome di Giulia Domna, in Bitinia, e in quelle di Massimino I emesse a Tarso, in Cilicia, dove in quest’ultimo caso il carro dei due amanti è trainato da Centauri.

bacco innamorato Rari e belli sono gli aurei di Geta Cesare emessi del 207 d.C., dove Dioniso/Bacco e Arianna seminudi e assisi su una sorta di ampio seggio sono circondati da cinque personaggi tra Satiri, Menadi e suonatori, con una pantera ai piedi ed erma centrale. L’immagine, adottata con caratteristiche pressoché identiche su un medaglione di Antonino Pio, sembra esemplificare quanto cantato da Catullo: «Nell’altro lato della regia vesta // Pinto, anzi vivo, il giovin Bacco appare; // E a te muove, Arianna; e dall’acceso // Volto ben mostra che di te s’è


preso. // I Satiri e i Sileni in Nisa nati // Van dietro a lui ruzzando in lieto coro; // E, il capo indietro, con fieri ululati // L ‘ebbre Baccanti pazzeggian con loro. // E altre squassano i tirsi inghirlandati; // Chi scrolla i pezzi d’un sbranato toro; // Qual di serpi s’attorce, e quale in cieca // Cesta del Dio gli alti misterj reca. // Erta le palme altra i timballi scote; // Chi di metallo due piastre battendo, // Prolungate ne trae stridule note; // Caccia il barbaro flauto un fischio orrendo» (Poemetto 64, traduzione di Mario Rapisardi, 1889). In questa occasione il tipo

dionisiaco non doveva celebrare fidanzamenti o matrimoni, bensí acclamazioni (salutatio imperatoria) a Settimio Severo e Caracalla. E se il nume tutelare di Caracalla era Ercole, Bacco era quello di Geta. Ma il dio non fu sempre propizio a chi si poneva sotto la sua tutela: al «dionisiaco» Marco Antonio fu letale, e anche a Geta non fu amico. Di lí a poco, nel 211, Geta venne fatto uccidere dal fratello tra le braccia della madre, una sconvolta, ma sempre presente a se stessa, Giulia Domna. L’imperatrice, infatti, dovette immediatamente trasformare nel suo volto l’orrore e

In alto: affresco con il trionfo di Bacco e Arianna, dalla Casa di Marco Lucrezio Frontone, a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: moneta di Marco Aurelio. Zecca di Attalea (Licia-Pamphilia). 147-161 d.C. Al retto, il profilo dell’imperatore; al verso, Bacco e Arianna sul carro trionfale trainato da una pantera, accompagnati da un Satiro. il dolore del fratricidio in un sorriso di compiacimento, senza poter piangere nemmeno in privato il «fatto acerbissimo» (Cassio Dione, Storia di Roma, LXXVII, 2).

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Sandra Davis Lakeman

sardegna. the spirit of an ancient island

che approfondiscono gli archetipi architettonici che informano le costruzioni ritratte. Paolo Leonini

The Art and Architecture of Pre-Nuragic and Nuragic Cultures Grafiche dell’Artiere, Bologna, 160 pp., ill. col. 30,00 euro ISBN: 978-06-1597-451-4

Pubblicato a corredo dell’omonima esposizione allestita di recente a Barumini, il volume dà conto del lavoro fotografico svolto dall’autrice in 15 anni di ricerche sull’isola, dedicate alle architetture di età pre-nuragica (6000-1800 a.C.) e nuragica (1800-238 a.C.). Scatti che Sandra Davis Lakeman, professoressa emerita di architettura alla California Polytechnic State University di San Luis Obispo, ha realizzato in condizioni di illuminazione rigorosamente naturale, per catturare inalterata l’essenza delle strutture. A giudizio della studiosa, che ha realizzato in passato altri lavori sul valore della luce naturale, questa e l’oggetto ritratto sono da considerarsi un’entità unica ed è proprio questa fusione il principio ispiratore delle pagine del volume, che, come recita il titolo, cerca di restituire al lettore lo spirito delle radici dell’isola. Il libro include un agile, ma accurato, glossario visivo, con testi in inglese e italiano, corredato di note bibliografiche e rappresentazioni grafiche,

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Guido Cornini, Claudia Lega (a cura di)

preziose antichità Il Museo Profano al tempo di Pio VI Edizioni Musei Vaticani, Città del Vaticano, 214 pp., ill. col. e b/n 38,00 euro ISBN 978-88-8271-299-0 museivaticani.va

Edito in occasione dell’omonima mostra (Musei Vaticani, 2 ottobre 2013-4 gennaio 2014), il volume, non è solo un catalogo nel senso tradizionale del termine, ma anche uno studio, a piú mani, sulla genesi e lo sviluppo di una delle raccolte piú importanti tra quelle custodite nei palazzi pontifici. Sebbene concepito per ospitare reperti archeologici «minori» – si tratta essenzialmente di quegli oggetti che gli studiosi definiscono instrumentum domesticum: gemme incise, cammei, piccoli manufatti in bronzo, avorio, vetro e cristallo

di rocca – il museo istituito nel 1767 da papa Clemente XIII (ma poi ultimato dal suo successore, Pio VI) è una tappa significativa nella storia del collezionismo. La pubblicazione presenta molteplici motivi d’interesse: dalla documentazione degli orientamenti museografici (se cosí possiamo già chiamarli) in voga alla fine del Settecento all’esauriente illustrazione degli oggetti riuniti nella collezione, dei quali è facile cogliere il valore di testimonianza storica oltre che la natura di beni scelti innanzitutto per le loro qualità estetiche.

dall’estero Panos Valavanis

The acropolis through its museum Kapon Editions, Atene, 160 pp., ill. col. 19,49 euro ISBN 978-960-6878-61-9 kaponeditions.gr

Se ancora non ne avete avuto l’occasione, organizzate un viaggio ad Atene e una visita al nuovo Museo dell’Acropoli: almeno a

giudizio di chi scrive, è difficile provare emozioni altrettanto forti nel visitare una collezione di antichità, che, sebbene dotata di un contenitore architettonico fortemente caratterizzato, non è da questo schiacciata o sminuita. E dunque, in vista di una trasferta (oppure per riordinare idee e suggestioni), può tornare utile la lettura di questo volume concepito come guida, ma con un taglio diverso dalla semplice elencazione di quel che c’è da vedere. Come si può intuire già dal titolo, infatti, il museo è qui utilizzato come chiave di lettura della piú ampia e articolata vicenda storica dell’Acropoli ateniese. Un racconto che trova il suo culmine ideale nella sala in cui sono esposte le metope del Partenone: ma qui ci fermiamo, perché a quanti non abbiano ancora varcato la soglia dell’edificio disegnato da Bernard Tschumi vogliamo lasciare il gusto della scoperta di quella che ne è la sezione forse piú spettacolare… (a cura di Stefano Mammini)



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