Archeo n. 358, Dicembre 2014

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COLOSSEO

NORCHIA VIA CLODIA

GUERRIERO DI LANUVIO

SPECIALE ROMA PASSEGGIATE ARCHEOLOGICHE

ESCLUSIVA

RISCOPRIAMO (E SALVIAMO) NORCHIA, LA «PETRA» DEGLI ETRUSCHI

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2014

Mens. Anno XXX numero 12 (358) Dicembre 2014 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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IL RIC CO OS LO TRUI SS RE EO ww w. ? ar

archeo 358 DICEMBRE

ROMA

NUOVE PASSEGGIATE ARCHEOLOGICHE

POMPEI

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ALLA RICERCA DELLA VIA CLODIA

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editoriale

l’archeologa che inventò l’iraq Quale legame può esserci tra una geniale e stravagante signora inglese vissuta a cavallo tra Otto e Novecento e le vicende belliche che in questi giorni stanno stravolgendo l’assetto geopolitico del Vicino Oriente? E cosa c’entra, tutto ciò, con l’archeologia? Moltissimo, in verità. A ricordarci l’esistenza di quel filo rosso che unisce la disciplina di cui ci occupiamo alla politica e alla guerra (che della prima è «il proseguimento con altri mezzi», secondo una celebre definizione) è un film di prossima uscita, diretto da Werner Herzog e intitolato La regina del deserto. La donna di cui la pellicola narra l’avventurosa esistenza, Gertrude Bell (interpretata da Nicole Kidman), fu esponente di spicco di quella schiera di studiosi-esploratori, militari e amministratori coloniali britannici che, sull’onda dell’entusiasmo per l’Oriente arabo, ne alimentarono il mito. Archeologa, alpinista, scrittrice, consulente politica e agente segreto del SIS (il Secret Intelligence Service di Sua Maestà), fu controparte femminile del piú celebre «Lawrence d’Arabia» e, insieme a quest’ultimo, uno dei personaggi chiave in quel processo di nation building che nei primi decenni del XX secolo coinvolse le terre della Penisola arabica, del Levante e della Mesopotamia. Viaggiò a dorso di un cavallo per la Siria e l’Arabia, da Beirut a Hail – roccaforte del famigerato clan degli al-Rashid – passando per Damasco e Petra. La sua sfrontata determinazione, unita alla perfetta conoscenza della lingua araba, le aprí le porte di quel mondo che avrebbe contribuito a riplasmare: quando gli Inglesi offrirono a Feisal - principe della tribú hascemita e alleato di Lawrence nella lotta contro l’impero ottomano - il trono dell’Iraq come ricompensa per la perdita di Damasco (segretamente ceduta alla Francia), Gertrude Bell, insediatasi come consulente politico e informatore del contingente britannico a Baghdad, manipolò le elezioni in maniera da farle apparire come il risultato di un voto popolare e unanime. Nel 1921, all’indomani della proclamazione del nuovo Stato che aveva fatto nascere, esultò («voglio vedere Feisal regnare dalla Persia fino al Mediterraneo») e in una lettera al padre scrisse: «Ho tracciato sulla carta quelle che dovrebbero essere le nostre frontiere nel deserto». Morí a Baghdad nel 1926, all’età di 57 anni; aveva appena trasferito la sua collezione di reperti archeologici nel neonato Museo di Antichità, di cui fu la prima direttrice. Per l’Iraq, però, le vicende presero una piega diversa da quella auspicata dalla donna: uno Stato creato dal nulla, con un re fantoccio senza alcun legame con la millenaria realtà tribale di quella terra, era destinato a diventare quel focolare di conflitto che ancora oggi è al centro dell’attenzione e delle preoccupazioni internazionali. Del Vicino Oriente (ma anche della stessa Gertrude Bell) parleremo a partire dal numero prossimo, con il quale «Archeo» entra nel suo trentunesimo anno di pubblicazione. Con una piccola novità: la riduzione minima del formato (la rivista sarà, infatti, piú «bassa» di circa un centimetro) ci permetterà di usare una carta di qualità superiore, in grado, da un lato, di aumentare la leggibilità del testo e di valorizzare le immagini e, dall’altro, di rendere la rivista piú… resistente. Un miglioramento materiale con il quale veniamo incontro alle numerose richieste che ci sono pervenute da parte dei lettori, ai quali rivolgiamo i nostri auguri per un sereno Natale e un felice Anno Nuovo! Andreas M. Steiner Gertrude Bell (1868-1926) a cavallo davanti al monumento del Qubbet ed Duris (Baalbek, Libano) nel giugno del 1900.


Sommario Editoriale

L’archeologa che inventò l’Iraq

civiltà etrusca 3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

Norchia

L’incanto perduto

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di Paola Di Silvio

6

scoperte Il vetro dei Romani (e dei Persiani) arrivò fino in Giappone? Il corredo funerario recuperato all’interno di un tumulo del V secolo sembra provarlo... 6

storia

Cercando la via Clodia di Pierluigi Banchig

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civiltà cinese/6 La seta

Il potere del baco

62

di Marco Meccarelli

all’ombra del vulcano Dopo un restauro «in diretta» dai visitatori, torna a splendere il mosaico del Cave canem 10 parola d’archeologo Perché il MiBACT ha bloccato la trasferta dei Bronzi di Riace all’Expo 2015? Ce lo spiega Stefano De Caro 14

temi e problemi Il Colosseo che vorrei

intervista a Daniele Manacorda; a cura di Stefania Berlioz

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40 In copertina disegno ricostruttivo del Colosseo, visto per metà al termine della sua realizzazione e per metà con i cantieri ancora all’opera.

Anno XXX, n. 12 (358) - dicembre 2014 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo

Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Antonio Aimi è professore a contratto di civiltà precolombiane all’Università degli Studi di Milano. Pierluigi Banchig è cultore di storia antica. Stefania Berlioz è archeologa. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Paola Di Silvio è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Mimmo Frassineti è scrittore e fotografo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Luna S. Michelangeli è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Illustrazioni e immagini: Studio Inklink, Firenze: copertina e pp. 34-35 – Tokyo National Museum: p. 6 – Cortesia Progetto GROPLAN: p. 7 – Cortesia Soprintendenza BA Marche: p. 8 – Cortesia Soprintendenza Speciale BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 10-11 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 12, 60 – Doc. red.: pp. 14-15, 32-33, 36-37, 47, 57, 74/75 (sfondo), 85, 95, 100111 – ANSA: pp. 16, 98 – Marka: Marco Scataglini: pp. 40/41, 53, 55, 58; Giulio Andreini: p. 59 – Getty Images: James M. Gurney: pp. 42/43 – Stefano Suozzo: pp. 44, 45, 46, 48, 49 (alto), 50 (alto e basso) – Cortesia dell’autore: pp. 49 (basso), 64, 68 (alto), 70 (alto), 72/73 (alto), 73 (sinistra e centro), 103-104, 106, 107 (alto), 108 (basso) – Bridgeman Images: pp. 50 (centro), 68 (basso); Pictures From History: pp. 62, 67 (e 63, particolare), 69, 70/71 (basso); Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze: p. 72 (basso, sinistra) – DeA Picture Library: p. 54 (alto) – Corbis Images: Brooklyn Museum: p. 65; Stephen Dalton/Minden Pictures: p. 66; Christie’s Images: p. 72 (centro) – Archivio fotografico SSBAR: pp. 74 (primo piano), 77-79 – Mimmo Frassineti: pp. 80-83, 86-94, 96-97, 100-101 – Mondadori Portfolio: Album: p. 107 (basso)


gli imperdibili

Il guerriero di Lanuvio

L’ultimo viaggio del guerriero

74

di Daniele F. Maras

52 102 a volte ritornano Estintore o lanciafiamme?

106

di Flavio Russo

l’ordine rovesciato delle cose

Le acque (nascoste) di Bologna 108 di Andrea De Pascale

Rubriche il mestiere dell’archeologo

L’archeologo riluttante 102 di Daniele Manacorda

80 speciale

l’altra faccia della medaglia

Il mondo salvato da una cassa

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di Francesca Ceci

libri

– Cortesia Gruppo Speleologico Bolognese: p. 108 (alto) – Antonio Boeri: p. 109 (basso) – Cippigraphix: cartine alle pp. 42, 44, 57, 66/67, 75, 82, 100. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità: segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa: via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

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A spasso con Augusto

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di Mimmo Frassineti; con un’intervista a Mariarosaria Barbera

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: Amilcare Pizzi - Officine Grafiche Novara 1901 S.p.A., Cinisello Balsamo (MI) Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17, 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCoperte Giappone

il lungo viaggio del vetro

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n piatto di vetro blu con basamento rialzato e un piccolo recipiente decorato, anch’esso in vetro, sono stati ritrovati nella necropoli di Niizawa Senzuka (prefettura di Nara, Giappone), nel tumulo n. 126, risalente al tardo V secolo. Fin qui, nulla di eccezionale, se non fosse che alcuni scienziati hanno confermato che potrebbe trattarsi di due oggetti esotici provenienti dall’altra parte del mondo. Le analisi chimiche eseguite da Yoshinari Abe (professore di chimica analitica all’Università di Scienze di Tokyo) e dal suo team, hanno infatti affermato che il piatto (del diametro di 14 cm circa), ha una composizione chimica identica a oggetti prodotti al tempo dell’impero romano in area mediterranea. Il reperto ha conservato intatta l’intensità della sua colorazione, mentre sono andate perdute le decorazioni che, verosimilmente, ne arricchivano

l’interno: è infatti probabile che vi fossero state dipinte immagini di uccelli, alberi, personaggi, cavalli e motivi floreali. Anche l’altro recipiente (diametro 8 cm, altezza 7 cm) ha mostrato una composizione chimica identica a quella di frammenti di vetro scavati in un palazzo dell’antica città persiana di Ctesifonte. Troverebbe cosí conferma l’esame stilistico dei motivi decorativi, che collegava i manufatti alla Persia sasanide. I due preziosi manufatti in vetro rinvenuti nel tumulo n. 126 della necropoli di Niizawa Senzuka (prefettura di Nara, Giappone): il piatto (in alto) e un orciolo di forma globulare. La sepoltura risale al V sec. d.C., ma i due oggetti sono di produzione piú antica.

6 archeo

Per esaminare la struttura molecolare dei reperti, i ricercatori hanno eseguito l’esame della fluorescenza ai raggi X, per il quale è stato impiegato anche uno speciale raggio ad alta energia. I risultati hanno evidenziato la presenza di natron (carbonato idrato di sodio), e tracce di sabbia contenente silice e calce, che si ritrova solitamente negli oggetti prodotti nei territori dell’impero romano e del regno sasanide. Inoltre, sono state individuate tracce di antimonio, un elemento metallico utilizzato a Roma fino al II secolo d.C. Takashi Taniichi, professore di archeologia all’Università Sanyo Gakuen ha dichiarato che è plausibile che siano passati anche tre secoli prima che il piatto e il recipiente venissero seppelliti come corredo funerario nel tumulo di Niizawa Senzuka, soprattutto se se ne ipotizza il passaggio attraverso l’Asia centrale. Tra l’altro, proprio nel V secolo, il Giappone commerciava intensamente con altri Paesi, il che avvalorerebbe l’ipotesi dell’importazione del vetro in quel periodo. Paolo Leonini


SCoperte Malta

cronaca di uno sbarco (mancato)

L

e acque di Malta sono state recentemente teatro di una importante scoperta. A 120 m circa di profondità, su un fondale a un miglio di distanza dal villaggio di Xlendi, sulla costa sud-occidentale dell’isolotto di Gozo, è stato localizzato un nucleo di anfore, concentrato in un’area che ha un’estensione pari a 14 x 5 m. I ricercatori hanno stabilito che si tratta del carico di una nave mercantile fenicia naufragata 2700 anni fa circa, il cui scafo potrebbe giacere ancora intatto sotto la sabbia assieme ad altri reperti. Per tutelare il sito, la posizione esatta del ritrovamento non verrà comunicata ufficialmente fino al termine delle operazioni di ricerca. Il relitto è stato finora oggetto di una dettagliata campagna fotografica, che ha prodotto oltre 8000 scatti e video. È stato documentato lo strato superficiale dei reperti, in modo da consentirne la riproduzione digitale tridimensionale, e i ricercatori hanno quindi provveduto alla rimozione di alcuni pezzi, per esaminarli in superficie e procedere con le indagini. Le oltre 50 anfore, che

In alto e a sinistra: due immagini delle anfore appartenenti al carico di un mercantile fenicio affondato nelle acque di Malta, di fronte alla costa sud-occidentale di Gozo. Il naufragio ebbe verosimilmente luogo tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII sec. a.C.

appartengono ad almeno sette classi tipologiche, e le 20 macine in pietra rinvenute sono in buono stato di conservazione. Le osservazioni finora condotte suggeriscono che l’imbarcazione abbia fatto scalo in vari porti del

Mediterraneo prima di affondare qui durante il suo ultimo viaggio, probabilmente per raggiungere le coste maltesi dalla Sicilia. Il relitto è di eccezionale importanza, sia per approfondire la conoscenza delle rotte commerciali e delle tecniche di navigazione fenicie, sia per gettare luce sui contatti con Malta in età arcaica, confrontando i dati che emergeranno con le testimonianze a oggi note sull’isola. Le ricerche sono finanziate dall’Agenzia Nazionale per la Ricerca Francese, e rientrano nel progetto quadriennale GROPLAN, che vede coinvolti numerosi soggetti internazionali e si pone l’obiettivo di documentare e indagare contesti archeologici o navali sommersi attraverso l’impiego della fotogrammetria subacquea. P. L.

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n otiz iario

SCAVI Marche

antiche tombe sulla via flaminia

U

n intervento di archeologia preventiva condotto dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Marche nel Comune di Fano (PU) ha portato alla luce un segmento della via Flaminia e un’area di necropoli a essa adiacente. «Nella prima fase dell’indagine – spiega Maria Gloria Cerquetti, archeologo responsabile di zona – è stato riportato in luce un tratto dell’antica consolare Flaminia, l’asse stradale che, a partire dal 220 a.C., congiungeva Roma a Rimini, il cui percorso è replicato quasi perfettamente dalla viabilità attuale. Si tratta di una porzione

extraurbana glareata, ovvero con il manto stradale realizzato in battuto di ghiaia, della larghezza di oltre 7 m, di cui sono visibili la preparazione in arenaria e la sottofondazione in ghiaia e terra». Al margine orientale del tratto stradale sono poi emersi i resti di un monumento funerario a podio, che doveva quindi fiancheggiare la principale via di collegamento alla città tra la fine dell’età repubblicana

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A destra: Fano. La Tomba 1, del tipo a cassone, scoperta in prossimità del tracciato dell’antica via Flaminia. In basso: il monumento funerario probabilmente riferibile a un proprietario terriero che doveva risiedere nella zona.

e la prima età imperiale. La presenza di questo edificio funerario potrebbe suggerire la vicina localizzazione di un fundus o di una villa produttiva: il proprietario, memore di antiche tradizioni nobiliari, volle il suo monumento nei pressi di un’importante via consolare, secondo una consuetudine ampiamente attestata in età romana. Le indagini hanno altresí

permesso di portare alla luce alcune sepolture collocate nelle vicinanze del monumento, che doveva rappresentare il cardine per la sistemazione delle altre deposizioni, forse appartenenti a individui di rango subalterno presumibilmente legati da rapporti di dipendenza con il proprietario dell’edificio stesso. «La presenza di buche circolari, sul medesimo suolo nel quale sono scavate le fosse delle tombe – spiega Cerquetti – suggerisce che l’area potesse essere dotata anche di labili strutture in pali lignei, tese evidentemente a determinare differenti pertinenze d’uso o a definire il settore sottoposto allo ius funeraticium della gens. Sono molteplici, infatti, gli esempi di sepolcreti in cui è possibile riscontrare la presenza di recinzioni atte a perimetrare i terreni destinati a nuclei familiari o gruppi sociali. Sono state documentate in tutto nove sepolture, sia a inumazione che a incinerazione». L’arco cronologico al quale riferire il complesso funerario sembra estendersi tra la metà del I secolo d.C. e gli inizi del III secolo d.C. Giampiero Galasso



ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandro Mandolesi

can che ringhia... È stato completato il restauro di una delle icone di Pompei, il mosaico del «Cave Canem» nella casa del Poeta Tragico. L’intervento, che ha restituito alla figura la sua orginaria... ferocia, si è svolto sotto gli occhi dei visitatori

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imbolo per eccellenza della proprietà privata romana, il celebre mosaico con cane alla catena e iscrizione «Cave canem», scoperto tra il 1824 e il 1825 nella raffinatissima Casa del Poeta tragico di Pompei, è tornato all’antico splendore grazie agli interventi di restauro appena ultimati. La raffigurazione del molosso ringhioso legato alla catena, divenuta icona internazionale del sito vesuviano, non è isolata: compare infatti

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anche nelle case di Paquius Proculus e di Orfeo (quest’ultimo mosaico è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Il cane da difesa, la cui presenza era raccomandata da Catone per le villae piú lussuose, veniva anche affrescato sulle pareti delle dimore signorili: nel Satyricon di Petronio (29, 1) l’ingresso della domus del ricco liberto Trimalcione era dominato dalla rappresentazione di un grande cane da guardia, talmente vivace e realistica da

atterrire l’ospite Encolpio: «Quanto a me, trasecolato da tutto quel che vedevo, a un tratto do un balzo indietro e per poco non mi spezzo le gambe. Perdiana! Proprio a sinistra di chi entrava, vicino al casotto del portiere, c’era un molosso immane, legato con tanto di catena, dipinto sul muro, sí, ma che sembrava vero, e sopra a lettere grandi tanto, una scritta: “attenti al cane”». Le difficili condizioni di salute del mosaico pompeiano, denunciate anche dalla stampa all’inizio del 2013, determinate da incrostazioni, patine, stuccature degradate, scollamento delle tessere e microfratturazioni, hanno reso necessario un articolato intervento di restauro per preservare e valorizzare il pregiato manufatto. «Le operazioni di restauro sono state sempre eseguite tenendo conto delle esigenze di fruizione del bene – afferma il direttore dei lavori, l’archeologo Fabio Galeandro, della Soprintendenza Archeologica di Pompei, coadiuvato dall’architetta Stefania Argenti – non chiudendo mai la domus, permettendo cosí la visita del complesso e dando la possibilità al pubblico di assistere all’intervento, mediante l’uso di teli trasparenti». I visitatori hanno cosí avuto l’occasione unica di vedere all’opera i restauratori dell’Officina


Nella pagina accanto, sopra il titolo: una veduta del Capitolium di Pompei; sotto il titolo: Massimo Osanna (al centro), nel corso dell’incontro presso la redazione di «Archeo». In basso: uno scorcio del Quadriportico dei Teatri: si tratta di una sorta di foyer, nel quale gli spettatori dei due vicini edifici per spettacoli potevano passeggiare negli intervalli o cercare riparo in caso di pioggia.

di Francesco Esposito guidati coordinati da Emanuela Valentini. «È stata inoltre condotta una serie di indagini diagnostiche – continua Galeandro – funzionali alla migliore caratterizzazione degli elementi costitutivi del mosaico, degli interventi di restauro pregressi e del suo supporto. Infatti, sono in pochi a sapere che il mosaico è alloggiato su un supporto, dal momento che fu staccato dalla sua sede originaria e portato al Museo Nazionale di Napoli verso la metà dell’Ottocento (“a guardia” della sala oggetti preziosi) per essere poi ricollocato in situ tra la fine dello stesso secolo e i primi del Novecento». La conoscenza del supporto si è quindi rivelata fondamentale per programmare al meglio gli interventi conservativi. In corrispondenza delle lacune sono state pertanto condotte indagini endoscopiche che riconoscono il supporto probabilmente come lo stesso utilizzato al momento del distacco del mosaico. Si tratta di un sostegno in peperino con due strati di gesso nei quali sono allettate le tessere. «Un supporto non propriamente idoneo per la forte igroscopicità del gesso – spiega ancora Galeandro – fortunatamente non posizionato a contatto diretto con il terreno, ma a una distanza di

A sinistra: l’intervento dei restauratori sul mosaico del «Cave canem», all’ingresso della Casa del Poeta tragico, che i visitatori di Pompei hanno potuto osservare anche durante la sua esecuzione. In basso: il mosaico dopo il restauro. Nella pagina accanto: un particolare dell’opera, prima delle integrazioni apportate dai restauratori. monitorato dalla Soprintendenza allo scopo di controllare tutti i fenomeni di alterazione, cosí da poter programmare e ottimizzare le operazioni di conservazione. Si sta inoltre progettando un nuovo

almeno 15 cm. Questa intercapedine limita, di fatto, gli scambi di umidità». L’analisi degli elementi costitutivi del mosaico ha permesso di precisare anche la composizione delle tessere utilizzate, bianche in calcare, nere di vulcanite, policrome (verdi, rosse e azzurre) in pasta vitrea. Dopo il restauro, il manufatto è costantemente

sistema di chiusura delle fauces (ingresso) che custodiscono il mosaico, per garantirne la migliore protezione dagli agenti atmosferici e la migliore fruizione da parte del pubblico. La Soprintendenza Archeologica ha condotto con i propri fondi questo intervento di restauro che ha riguardato, oltre al mosaico, anche gli affreschi in IV stile della domus.

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n otiz iario

mostre Parigi

maya, signori del tempo

I

l Musée du Quai Branly di Parigi dedica ai Maya una ricca rassegna, che si snoda nell’ampio spazio della Galleria Giardino e presenta 400 opere, attraverso le quali questa cultura viene illustrata nei suoi molteplici aspetti. In occasione dell’inaugurazione, abbiamo incontrato la curatrice della mostra, Mercedes de la Garza, ricercatrice emerita del Centro Estudios Mayas dell’UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México), già direttrice del MNA (Museo Nacional de Antropología). Quale aspetto della cultura maya ha voluto mettere in evidenza?» «Ho voluto dare una visione generale della cultura materiale dei Maya, procedendo per aree tematiche e mettendo in luce al contempo il valore artistico delle opere presentate». Quale vuol essere il significato del sottotitolo: «rivelazione di un tempo senza fine»? «Si tratta di una metafora, un’allegoria per evidenziare il valore universale delle opere maya. “Rivelazione” vuol dire che le opere esposte permettono di conoscere, rivelano... “Tempo senza fine” è un’allusione alla concezione del tempo dei Maya che è come una spirale senza inizio e senza fine, un tempo nel quale distinte ere cosmiche si succedono eternamente.

Ma con questa espressione si vuole anche mettere l’accento sul fatto che le opere dei Maya provocano nello spettatore un vero piacere estetico per la loro bellezza, la loro perfezione, la loro armonia e la loro espressività e per questo motivo avranno un eterno valore. Inoltre, collocarle storicamente e culturalmente, è servito a rivelare il periodo storico nel quale la cultura maya si è sviluppata» Coerentemente con le intenzioni della curatrice, il percorso espositivo procede per aree tematiche, mettendo a fuoco tutti gli aspetti piú significativi della cultura maya. Si comincia con la sezione dedicata al rapporto con la natura, mettendo in evidenza come uomini, animali e piante fossero co-partecipi dell’unità dell’universo. Inoltre, si affronta il tema delle piante utilizzate dagli sciamani per andare in trance e si ricorda che gli uomini stessi erano stati fatti col mais, che,

In alto: mattone decorato a rilievo con l’immagine di un coccodrillo, dal Tempio 1 di Comalcalco. Periodo Classico antico, 250-600 d.C. Comalcalco, Museo. In basso: un particolare dell’allestimento dell’esposizione sui Maya appena inaugurata a Parigi, nel Musée du Quai Branly. per altro, era il principale alimento dei Maya. Successivamente si passa alle sezioni che prendono in esame la vita quotidiana, l’organizzazione sociale, le abitudini, i cicli della vita (maternità, infanzia, matrimonio, vecchiaia), la struttura delle città e dei centri cerimoniali. Al centro del percorso, naturalmente, ci sono i «gioielli della corona», vale a dire i calendari e le conoscenze astronomiche dei Maya, che aprono la strada a una panoramica sullo stile di vita delle élite. Chiudono la mostra tre sezioni sulla religione dedicate in particolare alle divinità, ai rituali che garantivano l’equilibrio del cosmo e ai riti funerari. Antonio Aimi

Dove e quando «Maya. Rivelazione di un tempo senza fine» Parigi, Musée du Quai Branly fino all’8 febbraio 2015 Orario ma-me-do, 11,00-19,00; gio-sa, 11,00-21,00; lu chiuso Info www.quaibranly.fr

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incontri Paestum

ARRIVEDERCI AL 2015!

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In alto: lo stand dell’Azerbaijan, Paese Ospite Ufficiale dell’edizione 2014 della BMTA di Paestum.

tecnologie piú recenti create per i musei del futuro, in mostra anche ai Mercati Traianei del Museo dei Fori Imperiali in Roma, alla Biblioteca Alessandrina di Alessandria D’Egitto, al Museo Allard Pierson di Amsterdam e presso il Municipio di Sarajevo. L’ANA Associazione Nazionale Archeologi, la CIA Confederazione Italiana Archeologi, i Gruppi Archeologici d’Italia, gli Archeoclub d’Italia e l’IRIAE (International Research Institute for Archaeology and Ethnology) sono stati presenti in gran numero con i propri associati. I Laboratori di Archeologia Sperimentale e gli Accampamenti, in collaborazione con il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, hanno offerto ai visitatori l’opportunità di conoscere la cultura antropologica e materiale dell’antichità attraverso la riproduzione delle tecniche utilizzate dall’uomo per realizzare manufatti di uso quotidiano. In ArcheoLavoro, le Università presenti nel Salone Espositivo (Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Seconda Università di Napoli, Università Cattolica del Sacro Cuore, Università di Salerno, Università Suor Orsola Benincasa-Napoli, Università Telematica Pegaso) hanno presentato l’offerta formativa dedicata ai Corsi di Laurea e Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale. Infine, con ArcheoTeatro, partendo dalla riflessione che la location dell’area archeologica della città antica è un palcoscenico naturale, si è inteso offrire varie iniziative (dalle rappresentazioni teatrali itineranti ai workshop di orientamento e formazione) a cura dell’Accademia Magna Graecia di Paestum. La XVIII edizione 2015 della Borsa è in programma da giovedí 29 ottobre a domenica 1° novembre 2015, e sarà ancora una volta allestita nell’area archeologica della città antica di Paestum. Info: www.borsaturismoarcheologico.it/ a r c h e o 13

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ono stati oltre 10 000 i visitatori della XVII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, svoltasi nell’area archeologica del sito UNESCO di Paestum, dal 30 ottobre al 2 novembre. Ripercorriamo allora alcuni degli appuntamenti piú significativi tra quelli che hanno caratterizzato la manifestazione. Tre strutture geodetiche con i lati trasparenti a pochi metri dal tempio di Cerere hanno ospitato il Salone Espositivo con 130 espositori, tra cui 25 Paesi esteri e l’Azerbaigian in veste di Ospite Ufficiale. Il Workshop si è svolto nel Museo Archeologico Nazionale con 32 buyer esteri selezionati dall’ENIT, provenienti da 12 Paesi che hanno incontrato 120 operatori dell’offerta turistica. Il ricco programma di conferenze ha annoverato 50 appuntamenti, in occasione dei quali si sono avvicendati oltre 300 relatori, tra cui quelli che hanno animato la sezione Incontri con i Protagonisti, nella suggestiva Basilica Paleocristiana. In collaborazione con le Direzioni Generali per le Antichità e per la Valorizzazione del Patrimonio Culturale del MiBACT si è svolto il Convegno «Le aree monumentali del Sud per un sistema integrato di offerta turistica e le opportunità di Expo Milano 2015», mentre il Ministero degli Affari Esteri, con le Direzioni Generali per la Promozione del Sistema Paese e per la Cooperazione allo Sviluppo, ha riunito i direttori delle missioni archeologiche impegnate in Argentina, Giordania, Iran, Libia, Myanmar, Pakistan, Tunisia, Turchia sul tema «L’archeologia italiana all’Estero: formazione e scambio di esperienze». Diversi i Forum svolti in occasione della Borsa: Archeo Open Data Forum: trasparenza e riuso dei dati in archeologia; il Forum degli Istituti Esteri di Archeologia in Italia, con la partecipazione di Herculaneum Conservation Project, Istituto Archeologico Germanico, Associazione Internazionale di Archeologia Classica, Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, British School at Rome, Reale Istituto Neerlandese a Roma, Centre Jean Bérard; Social Media & Archeological Heritage Forum, che ha ospitato «Archeoblog. Raccontare l’archeologia nel web» il secondo Incontro Nazionale dei Blogger Culturali, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo dei beni culturali sempre piú attraverso i social network. La Mostra «ArcheoVirtual», realizzata in collaborazione con la piú importante Rete di ricerca Europea sui Musei Virtuali, V-Must, coordinata dall’ITABC Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, ha ospitato alcune delle applicazioni presentate a «Digital Museum Expo» esposizione delle


parola d’archeologo Flavia Marimpietri

niente expo per i bronzi gli eroi di riace non andranno in trasferta a milano: è quanto ha stabilito la commissione incaricata dal ministro per i beni culturali di pronunciarsi in merito. l’archeologo stefano de caro ci spiega le ragioni del no

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e n’eravamo occupati un anno fa, quando i due guerrieri giacevano distesi sul dorso, al termine dell’ultimo restauro, in attesa di essere esposti definitivamente nel Museo Nazionale della Magna Grecia a Reggio Calabria (vedi «Archeo» n. 345, novembre 2013; anche on line su archeo.it). Oggi i Bronzi di Riace sono tornati al centro di nuove polemiche, scatenate dalla richiesta della Regione Lombardia di spostarli a Milano per ospitarli all’Expo 2015. Ne abbiamo parlato con Stefano De Caro, Direttore del Centro Internazionale di Studi per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali (ICCROM), nonché uno dei «sette saggi» componenti

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la commissione sui Bronzi di Riace, che per oltre un mese ha lavorato a tutta la documentazione relativa alle statue esistente. Professor De Caro, il ministro Franceschini, nel presentare la vostra relazione, ha detto che è una «risposta molto chiara che chiude il dibattito». Quindi? «Sulla questione è stato messo un punto. I Bronzi di Riace non andranno a Milano». Quali sono le motivazioni della vostra decisione? «La decisione è stata motivata su base tecnico-scientifica. La richiesta del ministro Franceschini alla commissione, presieduta dal Presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali Giuliano Volpe, era squisitamente tecnica, non di merito: ovvero se le statue potevano essere spostate senza alcun rischio per la loro conservazione. E la risposta è no.


Abbiamo analizzato tutta la documentazione disponibile sui restauri effettuati sui Bronzi nel corso degli anni e passato al vaglio le indagini scientifiche esistenti, come micro-carotaggi, gammagrafie, radiografie: dimostrano che le statue sono troppo fragili. Presentano una serie di microlesioni, derivate probabilmente dalla fusione stessa, che rendono le operazioni di spostamento non esenti da rischio. Questa, peraltro, è una delle ragioni per cui l’ultimo restauro è stato fatto a Reggio Calabria e non a Roma. Il quesito era stato già posto anni fa e la risposta contenuta nella relazione dell’allora Istituto Centrale del Restauro (oggi Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, n.d.r.) era stata anche in quel caso no». Quindi, in Italia, i reperti archeologici particolarmente fragili non possono in nessun caso «viaggiare» per essere esposti, anche temporaneamente, altrove? «No, se ne viene messa a rischio la “salute”. Inoltre, c’è un problema legale. La normativa nazionale impone che i soprintendenti dichiarino quali opere possono essere spostate solo in casi eccezionali e in virtú di certe ragioni. Nel caso dei Bronzi di Riace, non c’era alcun progetto scientifico che giustificasse il loro trasferimento all’Expo. Noi, come commissione, dovevamo rispondere a un quesito secco riguardo l’ipotesi di spostamento, non valutare la bontà di un progetto scientifico. I Bronzi di Riace sono l’emblema del museo di Reggio Calabria, come la Gioconda per il Louvre o

Sulle due pagine: i Bronzi di Riace. Scoperte nel 1972 nelle acque antistanti la cittadina calabrese, le due statue sono riferibili al momento di massima fioritura della bronzistica greca e databili al 450 a.C. circa. Molte sono le ipotesi avanzate sulla loro identificazione; in particolare, Paolo Moreno (vedi «Archeo» n. 174, agosto 1999), ritiene che riproducano personaggi mitologici appartenenti a un gruppo statuario raffigurante i Sette a Tebe: si tratterebbe, nel caso del Bronzo A (nella pagina accanto), dell’eroe dell’Etolia, Tideo, figlio di Ares; mentre il Bronzo B (a sinistra) sarebbe Anfiarao, il guerriero che profetizzò la propria morte sotto le mura della città greca.

la Primavera del Botticelli per gli Uffizi. Quindi la ragione dello spostamento deve essere oltremodo giustificata». Il caso della trasferta dei Bronzi di Riace all’Expo 2015 ripropone il tema del delicato equilibrio fra conservazione e valorizzazione. Quale deve essere il principio guida nell’affrontare il problema? «Il sistema legale italiano impone che la valorizzazione, e quindi anche la comunicazione al pubblico, venga fatta solo a patto che sia salva la conservazione del reperto archeologico. Questo è scritto chiaramente nel Codice dei Beni Culturali: la valorizzazione non deve mettere in discussione la conservazione. I principi sono chiari: la conservazione viene prima della valorizzazione. Per fare un’eccezione bisognerebbe cambiare il principio legale. Ma questo, e parlo a nome dell’ICCROM, non sarebbe corretto, perché la valorizzazione è legata a una circostanza, a un’occasione (come una mostra), quindi alle esigenze di un particolare momento storico, mentre la conservazione è per sempre, perché serve a preservare quel bene per le generazioni future. La valorizzazione è un principio

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parola d’archeologo contingente, la conservazione un principio assoluto, sancito peraltro dalla Costituzione. Per metterlo in discussione, deve esserci una forte ragione di tipo sociale e politico, che non può essere fare dei denari». Con questa affermazione, professore, lei sembra rispondere alle polemiche sollevate da quanti puntano, invece, sull’opportunità economica rappresentata dalla presenza dei Bronzi di Riace all’Expo 2015… «Non si mettono in discussione i principi costituzionali per esporre un’opera a fini solo economici. È la legge che lo dice. E se pure i Bronzi fossero stati solidi, nel caso dell’Expo, manca la ragione della progettualità scientifica». Nel dibattito, non sono mancati gli strali di Vittorio Sgarbi, promotore della proposta in qualità di ambasciatore delle Belle Arti per l’Expo, il quale ha dichiarato: «A fronte di 5 milioni di visitatori previsti all’Expo, che avrebbero pagato un biglietto da 10 euro, la Calabria avrebbe potuto beneficiare di 50 milioni di euro»… ma i denari degli ingressi per la visita ai Bronzi, poi, sarebbero andati alla Regione Calabria? «Assolutamente no, anche perché, se pure si fosse considerata la ragione economica

come un principio sufficiente per lo spostamento delle statue all’Expo, poiché non esisteva alcun progetto scientifico in merito, non si è arrivati alla definizione di alcun contratto con la Regione Calabria». Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia, ha definito la decisione della commissione come «un danno solo per la Calabria», aggiungendo che «all’Expo vengono da tutto il mondo: portare i Bronzi al mondo è piú facile che portare il mondo a Reggio Calabria a vederli»… come risponde a questa argomentazione? «L’argomento dei visitatori è stato usato piú volte, in passato, contro le restituzioni all’Italia di importanti reperti archeologici, come nel caso del vaso di Euphronios, restituitoci dal Metropolitan Museum of Art (MET) di New York. È ovvio che al MET il cratere era visto da alcuni milioni di visitatori, cosa che non sarà mai possibile al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma: allora perché restituirlo? Allora mettiamo tutto ai Musei Vaticani e non se ne parla piú! La cultura italiana è diffusa, non avrà mai i numeri dei grandi musei nazionali e internazionali. Quando io, anni fa (in qualità di Roberto Maroni, presidente della Regione Lombardia, e lo storico e critico d’arte Vittorio Sgarbi. Entrambi si sono battuti affinché i Bronzi di Riace venissero concessi in prestito dal Museo Nazionale di Reggio Calabria all’Expo 2015, che si terrà a Milano.

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Direttore generale per i Beni Archeologici del Ministero dei Beni culturali, n.d.r.), ho chiesto e ottenuto che i Grifoni fossero restituiti allo Stato italiano dal Paul Getty Museum di Malibu e che venissero esposti nel Museo di Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, l’ho fatto perché c’era un progetto scientifico attorno: esistevano già un museo e attività di valorizzazione di quelle opere sul territorio (vedi «Archeo» n. 301, marzo 2010; anche on line su archeo.it)». Neanche una mostra è una ragione sufficiente per spostare un reperto archeologico fragile, sempre che esistano le condizioni di sicurezza per il trasporto? «Premesso che all’Expo non era stata prevista, la mostra è un’altra cosa. Ci deve essere sempre un equilibrio tra conservazione, valorizzazione e diffusione della conoscenza. Le mostre che puntano solo sull’eccezione, e non sulla storia, tendono ad alterare l’idea del patrimonio, che riguarda, invece, la storia “normale”. Per questo una mostra, se vuole essere un corretto strumento di comunicazione, deve valorizzare la vita quotidiana, non pubblicizzare l’eccezionalità. La storia non è fatta di eroi o fatti straordinari: è questo che va insegnato al pubblico». E come potrebbe l’Expo 2015 lanciare questo messaggio? «L’Italia compie uno sforzo enorme per valorizzare i suoi 5000 siti della cultura e le decine di musei che hanno aperto in questi ultimi vent’anni. In questa difficoltà a mantenere il “normale” patrimonio, che è diffuso su tutto il territorio, il nostro Paese dovrebbe diventare campione, anche mostrando al mondo come abbiamo aperto tanti siti e come lavoriamo per mantenerli. Se l’Expo è l’esposizione della capacità di un Paese di fare progresso, in questo l’Italia sicuramente ci ha provato».


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n otiz iario

turismo archeologico Egitto

luxor: tesori sul nilo

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ire che Luxor è una tra le piú straordinarie città del mondo non basta: è, infatti, un eccezionale museo all’aperto. Qui è possibile vedere quasi un terzo di tutte le antichità note nello spazio di pochi chilometri. I millenari templi e le strutture sono meravigliosamente conservati. Luxor, sede della città di Tebe, antica capitale dell’Egitto durante il periodo del Nuovo Regno dei faraoni insieme con i favolosi templi di Karnak, il Tempio di Luxor e la necropoli della Valle dei Re e la Valle delle Regine, ha una storia che risale a tempi inimmaginabili. È costituita da tre zone distinte: il centro sulla sponda orientale del Nilo, Karnak e Tebe, sede della Valle dei Re. Si dice che la città avesse guadagnato importanza già intorno al 2000 a.C. all’epoca della XI dinastia. Nell’antichità era nota come Waset, nome che ne indicava il potere; in seguito fu chiamata Tebe dai Greci. La Luxor di oggi è una città compatta che si allunga sulle rive del Nilo e confina con il deserto. Grazie alle sue dimensioni, rende agevoli gli spostamenti. Bastano infatti 20 minuti per andare dall’aeroporto internazionale al centro, che riunisce tre vie principali. Dalla Corniche, il lungofiume, un grazioso viale alberato che costeggia le rive del Nilo, si raggiungono tutte le attrazioni cittadine. Qui si trova il Winter Palace Hotel, dove si dice che Agatha Christie abbia scritto il romanzo Assassinio sul Nilo. Città sacra per eccellenza, dove ogni faraone d’Egitto lasciò un segno della propria devozione al dio Amon, Karnak stupisce per il suo sterminato complesso di templi. Oltre 40 ettari di santuari, sale ipostile, piloni, obelischi e statue monumentali.

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In alto: Tempio di Luxor. Il colonnato di Amenofi III. In basso: il viale delle Sfingi, che collega il Tempio di Luxor a quelli di Karnak. Il Tempio di Luxor è uno spettacolo stupefacente, soprattutto di sera, quando viene delicatamente illuminato. Risalente all’epoca di Amenofi II e Ramesse II, è dedicato al dio Amon Ra e a sua moglie Mut. Si entra dall’ingresso Nord, nel punto in cui un tempo era collegato ai templi di Karnak dal viale delle Sfingi. La Valle dei Re, ultima dimora dei faraoni del Nuovo Regno, divenne celebre in tutto il mondo quando, nel 1922, l’archeologo inglese Howard Carter vi scoprí la tomba di Tutankhamon, che si presentò ai suoi occhi intatta e con un corredo funerario di una ricchezza mai vista. Oltre a quella del giovane re, le sepolture piú belle sono quelle di Ramesse III, Ramesse VI e Seti I. La Valle delle Regine conta 80 tombe, solo in parte visitabili. La piú importante è quella di Nefertari, la principale consorte di Ramesse II. Scoperta nel 1904 dall’archeologo italiano Ernesto Schiaparelli, è ricoperta da notevoli dipinti murali.


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Luciano Calenda

archeofilatelia

roma per sempre Come leggerete nello speciale di questo numero (vedi alle pp. 80-101), nell’anno che sta per chiudersi si è celebrato il bimillenario della morte dell’imperatore Augusto e le Poste Italiane hanno emesso un bel francobollo per ricordarlo (1). Dalla ricorrenza prende spunto questo omaggio «filatelico» alla grandezza di Roma, che si apre con uno dei francobolli del 1936 dedicati al bimillenario della nascita di Orazio (2), sul quale sono riportati un famoso verso del Carmen saeculare («Alme sol (...), possis nihil urbe Roma visere maius», «Sole divino (...), Possa tu non vedere nulla piú grande di Roma») e, in basso, i profili di alcuni dei piú famosi monumenti della città. Ecco, dunque, una carrellata delle vestigia piú rappresentative della capitale dell’impero fondato da Augusto. E non si può non cominciare dall’area dei Fori Imperiali con due francobolli del 1933 (3) e del 2008 (4); in particolare c’è la colonna Traiana (5) e subito dopo il foro di Cesare (6), poi si vede la basilica di Massenzio (7), dalla parte dei fori, e dall’altra parte con il Colosseo sullo sfondo (8). Ancora il Colosseo, com’è e come era (9), e in una visione d’assieme di un intero postale tedesco degli inizi del 1900 (10). Sullo sfondo di questo si vede l’arco di Tito, piú evidente nell’annullo italiano del 1972 (11), di lato la spalla dell’arco di Costantino il cui prospetto è ripreso dal francobollo emesso per le Olimpiadi di Roma nel 1959 (12); vicino al Colosseo c’è la Domus Aurea con la sala ottagonale (13). Un po’ distante dall’area dei fori vi sono le Terme di Caracalla (14) e, sul Tevere, il Tempio di Vesta (intero postale del regno, 15); piú lontani ci sono il Mausoleo di Adriano, meglio noto come Castel Sant’Angelo (16), il Pantheon (17), l’Ara Pacis (18) e la piramide Cestia (19). Fuori Roma, sull’Appia, troneggia la tomba di Cecilia Metella (20).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



calendario

Italia roma La biblioteca infinita

chieti Secoli augustei

I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino all’11.01.15

Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15

Le leggendarie tombe di Mawangdui

Cividale del Friuli All’alba della storia

Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15

Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15

gambettola Dalla fattoria al Palazzone

Apa l’Etrusco sbarca a Roma Gli Etruschi del Nord al Museo di Villa Giulia Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 22.02.15

montesarchio Rosso Immaginario

L’isola delle torri

Giovanni Lilliu e la Sardegna nuragica Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 21.03.15

Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 31.01.15

Alla scoperta del Tibet

Le spedizioni di Giuseppe Tucci e i dipinti tibetani Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino all’08.03.15

In alto: replica dello stendardo in seta dipinta da Mawangdui. II sec. a.C.

novara In principio

Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte Complesso Monumentale del Broletto fino al 06.04.15

bologna Il viaggio oltre la vita

Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna fino al 22.01.15

Bolzano Frozen stories

Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15

torino Cavalli Celesti

Raffigurazioni equestri nella Cina antica Il MAO celebra quello che, secondo il calendario cinese, è l’anno del cavallo esplorando uno dei simboli della storia e della cultura del Paese asiatico attraverso quarantacinque opere, provenienti dalle collezioni del museo e da una raccolta privata torinese e databili tra l’XI secolo a.C. e il X secolo d.C. Emblemi di nobiltà, eleganza, velocità e potenza, i cavalli si sono arricchiti nel corso del tempo di valenze soprannaturali ammantate di resoconti leggendari. Uno dei miti piú noti è proprio quello dei «Cavalli Celesti», straordinari destrieri capaci di trasportare chi li cavalcava nelle terre degli immortali.

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In alto: statua virile con testa ritratto, da Foruli.

Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15

Qui sopra: boccale smaltato decorato con un paesaggio stilizzato con torri. XVI sec. A sinistra: una tavola del Mundus subterraneus di Athanasius Kircher. 1602-1680.

Dove e quando MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 22 febbraio 2015 Orario ma-do, 10,0018,00; lu chiuso Info tel. 011 4436928; e-mail: mao@ fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

palermo Del Museo di Palermo e del suo avvenire Il «Salinas» ricorda Salinas Museo Archeologico «Antonio Salinas» fino al 31.01.15 (prorogata)

Renovatio Imperii. Ravenna nell’Europa Ottoniana Museo TAMO e Biblioteca Classense fino al 06.01.15

Sant’Agata Bolognese (BO) La villa nel pozzo

Un insediamento rustico romano a Sant’Agata Bolognese Sala «Nilla Pizzi» fino al 31.03.15

udine Adriatico senza confini

Völklingen Egitto. Dèi, uomini e Faraoni Tesori del Museo Egizio di Torino Völklingen Ironworks fino al 22.02.15

Moneta in bronzo con l’immagine della lupa che allatta i gemelli. II-III sec. d.C.

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 19.04.15

Una forma peculiare di sepoltura dell’Italia centrale tra il Bronzo Finale e la prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15 Léon Bakst, Capellani: bozzetto per un costume da aedo per la Fedra di Gabriele d’Annunzio.

Lascaux

Musée du Cinquantenaire fino al 15.03.15

Francia parigi Splendori degli Han

La fioritura del Celeste Impero Musée national des arts asiatiques-Guimet fino al 01.03.15

Saint-Germain-en-Laye La Grecia delle origini, tra sogno e archeologia Musée d’Archéologie nationale fino al 19.01.15

La vita nelle città romane della Germania sud-occidentale Landesmuseum Württemberg fino al 12.04.15

Londra Antiche vite, nuove scoperte

vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria

Fasti dell’aristocrazia etrusca a Vulci Musée du Cinquantenaire fino all’11.01.15

stoccarda Un sogno di Roma

Gran Bretagna

Via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6000 a.C. Castello fino al 22.02.15

bruxelles Principi immortali

berlino I Vichinghi

Martin Gropius Bau fino al 04.01.15

ravenna Imperiituro

Belgio

Germania

Paesi Bassi leida Cartagine

Rijksmuseum van Oudheden fino al 10.05.15

Svizzera ginevra I sovrani moche Divinità e potere nell’antico Perú Museo Etnografico fino al 03.05.15

zurigo Il gesso conserva

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15

USA new york Dall’Assiria all’Iberia all’alba dell’età classica

Replica in gesso della testa di uno dei Dioscuri del gruppo collocato a Roma, sul Quirinale, copia romana di un originale in bronzo di Fidia.

The Metropolitan Museum of Art fino al 04.01.15

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COLOSSEO • L’intervista

il colosseo che vorrei una proposta «di buon senso», lanciata da daniele manacorda sulle pagine di «archeo», ha fatto il giro del mondo. suscitando reazioni inaspettate. ne abbiamo riparlato con il nostro autore a cura di Stefania Berlioz

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apita, a volte, che un’idea semplice sprigioni un’energia dirompente, innescando una reazione a catena. Cosí, l’idea di restituire al Colosseo la sua arena, lanciata da Daniele Manacorda sulle pagine di «Archeo» e rilanciata in modo altrettanto semplice e immediato dal Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha generato un dibattito accesissimo e l’attenzione dei media nazionali e internazionali (ultima l’intervista al direttore di «Archeo» da parte dall’emittente araba al-Jazeera), che, per la verità, ci hanno lasciato un po’ sorpresi. Riteniamo quindi doveroso ritornare sull’argomento per chiarire, insieme a Daniele Manacorda, il senso di questa polemica che sembra travalicare i limiti stessi dell’idea di partenza. Professor Manacorda, torniamo per un attimo alla sua idea di partenza e al clamore che essa ha suscitato. Se lo aspettava? Sinceramente no, non me lo aspettavo. Ho sempre considerato indecorosa l’immagine che il monumento piú visitato d’Italia desse di sé, con quel suo intrico di muri 32 a r c h e o

In alto: Daniele Manacorda, nella redazione di «Archeo», durante il colloquio che qui riportiamo. A destra: una veduta esterna dell’Anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo. Il monumento è attualmente interessato da un importante intervento di restauro.


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COLOSSEO • L’intervista

un gigante senza precedenti La costruzione dell’Anfiteatro Flavio, meglio noto come Colosseo, è l’impresa edilizia piú rilevante della dinastia flavia. Iniziato da Vespasiano e finanziato con il bottino della guerra di Giudea, il monumento fu inaugurato da Tito nell’80 d.C. e completato da Domiziano, che vi realizzò i sotterranei e fece edificare le vicine caserme dei gladiatori (Ludus Magnus, Dacicus, ecc.) e le altre

strutture di servizio, come la caserma dei marinai della flotta di Capo Miseno, assegnati alle manovre del velarium, la grande copertura mobile del Colosseo. L’anfiteatro sorse sul luogo precedentemente occupato dallo stagno artificiale della Domus Aurea, l’immensa reggia voluta da Nerone. La restituzione di quell’area al popolo di Roma e la sua trasformazione nel piú grande

edificio per spettacoli pubblici conosciuto nell’impero furono gesti demagogici di grande impatto. Vespasiano volle mostrare chiaramente la sua linea politica, lontana dal dispotismo di Nerone, e vicina alle esigenze del popolo. Il gigantismo della struttura, alta quasi 50 m, capace di ospitare circa 75 000 persone, e la perfezione tecnica, fecero del Colosseo un monumento unico al mondo.

Ingresso

I cantieri

80 arcate al piano terra davano accesso alle scalinate e da qui alla cavea. Sopra a ciascuno degli archi d’ingresso era indicato il numero che corrispondeva al biglietto (tessera) di cui era munito lo spettatore. Le indicazioni sono tuttora ben visibili, nonostante molte arcate risultino consunte dall’essere state adibite, nel Medioevo, a fornaci per la produzione della calce.

Costruito sopra una spianata di calcestruzzo, il Colosseo fu innalzato partendo da una gabbia portante di pilastri e archi raccordati da volte su cui poggia la cavea. Nel cantiere si lavorava contemporaneamente in basso e in alto e nel caso del cantiere inferiore si lavorava anche nei giorni di maltempo. Si calcola che all’anfiteatro lavorassero forse quattro cantieri diversi.

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Copertura

Sotterranei

La cavea

Il velarium, un grande telo a spicchi copriva dal sole gli spettatori ed era sorretto da pali inseriti nel cornicione del quarto livello dell’anfiteatro. Alle sue manovre era adibita una squadra di marinai di Capo Miseno.

Sopra l’arena (oggi scomparsa) si stendeva un tavolato ligneo diviso dalla cavea da una rete per impedire la fuga delle fiere. Sotto l’arena erano i sotterranei che ospitavano vari servizi: montacarichi per innalzare belve e gladiatori, gabbie e tutto ciò che occorreva allo svolgimento dei giochi comprese spettacolari scenografie che emergevano sull’arena grazie a un sistema di contrappesi.

La cavea era divisa in 5 settori e poteva contenere fino a 75 000 spettatori: una prima fascia di pochi gradini (podium) era oltre la recinzione dell’arena; seguivano poi altri 4 settori. Il pubblico si distribuiva nei posti secondo una gerarchia sociale, senatori, cavalieri, sacerdoti, ecc.

scoperchiati al sole, un labirinto tanto incomprensibile quanto inaccessibile.Ancora alla fine dell’Ottocento il Colosseo aveva la sua candida arena, viva perché calpestabile. Poi, tra il XIX e il XX secolo l’area è stata progressivamente smantellata, l’invaso scavato e i suoi sotterranei messi a nudo e mai piú ricoperti. Ciò che è nato per stare sotto terra è stato riportato alla luce e ipostatizzato a monumento. L’archeologo, se

mi è concessa l’associazione, dovrebbe comportarsi come il chirurgo e l’anatomopatologo che tagliano il corpo umano, ma poi lo richiudono, il primo per rispetto della vita, il secondo per rispetto della forma, anche se morta. Anche noi abbiamo il dovere di rispettare due volte i monumenti antichi: dandogli possibilità di vita, creando cioè le condizioni perché il monumento non sia solo una cartolina o un’ico-

na da contemplare, e rispettarlo come «forma». Questo è il senso della mia idea: ridare una forma al monumento, restituirgli la dignità che gli abbiamo tolto e renderlo piú comprensibile ai visitatori. Questa «restituzione della forma», accolta positivamente dai media, ha incontrato vigorose resistenze da parte di alcuni addetti ai lavori. Perché risulta cosí a r c h e o 35


COLOSSEO • L’intervista

hanno detto... 2 novembre, Dario Franceschini: «L’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena mi piace molto. Basta avere un po’ di coraggio...» (Tweet @dariofrance) 2 novembre, Salvatore Settis: «Non credo proprio che l’eventuale restituzione
dell’arena del Colosseo sia una priorità ragionevole, anche
perché dettata da un’ipotesi di riuso per forme varie di
intrattenimento» (ANSA) 3 novembre: Andrea Carandini: «Non bisogna dar retta

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ai soliti Soloni, che dicono che si fanno solo pacchianate. Lo sport piú comune per gli Italiani è prendere un coltello e castrarsi» (ilVelino/AGV NEWS) 3 novembre, Tomaso Montanari: «Non trasformate il Colosseo in una scenografia» (La Repubblica) 4 novembre, Giuliano Volpe: «Sangue e arena per dare nuova linfa al vero Colosse. Perché Manacorda e Franceschini hanno ragione» (La Gazzetta del Mezzogiorno).


Sulle due pagine: L’interno del Colosseo, olio su carta applicata su tela di Ippolito Caffi. 1857 circa. Roma, Museo di Roma. Nel dipinto è ben visibile l’arena, poi demolita.

indigeribile l’idea di reintegrare il monumento? La reazione positiva dei media non mi ha affatto sorpreso: è del tutto normale che nel mondo della comunicazione la domanda che ci si pone non è «perché restituire l’arena al Colosseo?», ma «perché no?». Le resistenze vengono piuttosto dal mondo degli specialisti o meglio da quella parte di esso che si autoriconosce nel prodotto materiale del proprio lavoro, trasformando in va-

lore in sé quello che dovrebbe essere un valore relazionale. Un muro riportato alla luce vale in sede scientifica per quello che può raccontare, in sede sociale vale per il senso che trasmette a chi lo vede e a chi ne trae un argomento di maggiore consapevolezza di sé. Facciamo un esempio: il Colosseo, cosí come oggi lo vediamo, è il risultato di secoli di riutilizzo. La nostra cultura storicista dell’Ottocento e poi del Novecento ci ha insegnato a dare un valore paritario a tutti i segni del tempo. Se questo significa storicizzare anche il recente intervento degli archeologi – l’asportazione dell’arena - non nel suo prodotto scientifico, cioè la nuova conoscenza, ma nel suo esito, cioè

l’esposizione dei muri sepolti, a questo punto andrebbe chiuso, dall’oggi al domani, l’Istituto Centrale del Restauro. Perché e che cosa dovremmo infatti restaurare? È un paradosso, ovviamente, ma serve a capire. Il prodotto dello scavo dell’archeologo, in questo caso i sotterranei del Colosseo, non ha un valore in sé, non è un elemento che, una volta portato alla luce, si carica di un diritto superiore ad altri, come quello della dignità del monumento o della sua fruizione da parte del pubblico. Proprio la fruizione del monumento ha destato una grande apprensione, sono stati prefigurati scenari catastrofici: partite di

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COLOSSEO • L’intervista

calcio, concerti rock, orde di gla- colossali statue distrutte il 12 marzo zionale, un servizio a piú voci, codiatori all’assalto... del 2001 dai talebani, in Afghanistan, rale, che chiama tutti a far vivere Nella rubrica su «Archeo» (vedi n. n.d.r.): se tu sacralizzi un monumen- questo patrimonio mettendo all’an353, luglio 2014; anche on line su to, assolutizzando il suo valore, ne golo chi vuole distruggerlo? Uno archeo.it) avevo affrontato il pro- giustifichi di fatto la distruzione, dei nodi della «questione Colosseo» blema della fruizione del Colosseo perché qualcun altro potrà assolutiz- è proprio in questo concetto. solo alla fine, in due o tre righe. zarne una lettura negativa. È ovvia- Spesso si dimentica che l’obbligo Immaginavo uno spettacolo di judo mente un paradosso ardito, ma i della tutela – comma 2 dell’articolo o di lotta greco-romana, una me- monumenti archeologici non sono 9 – è in funzione del comma 1, che tafora della leggerezza e della ele- chiese, moschee o sinagoghe che dice «La Repubblica promuove lo ganza di quello che ci si potrebbe accolgono i fedeli lasciando i profa- sviluppo della cultura e la ricerca fare. Sinceramente era l’ultimo dei ni al di fuori del tempio. L’unico scientifica e tecnica». Oggi non dimiei problemi e, anche adesso, lo limite che mi sentirei di imporre è remmo «promuovere», come nel considero un non problema. Il Co- quindi quello della tutela fisica del 1949, ma «valorizzare». In alcuni losseo appartiene al Miambienti questa parola, nistero dei Beni Culturavalorizzazione, viene imIl patrimonio culturale del mediatamente tradotta li e la sua gestione è affidata alla Soprintendenza. Paese è un bene condiviso con «mercificazione», Sarà loro responsabilità «monetizzazione», con il valutare il possibile uso e dunque abbiamo tutti il timore che l’economia del monumento. Io mi – il male del mondo - si dovere di tutelarlo fido. Di che cosa c’é da appropri della cultura. preoccuparsi? Cosa mai Una follia. La visione aupuò succedere? Che si inscenino monumento. Ma su questo inter- toritaria e prefettizia della tutela, opere liriche come nelle Terme di verranno gli specialisti, è a loro che intesa solo come regime di obblighi Caracalla o drammi greci come nel spetta l’ultima parola. e divieti, deriva dalla non comprenteatro di Siracusa? sione della sua finalità, che è la proSe invece cominciamo a fare di- Perché questa avversione nei mozione della cultura. E spesso anscorsi su quale sia la perfomance arti- confronti della fruibilità dei mo- che per chi ammette questo (la tustica e culturale degna del Colosseo numenti antichi? tela è uno strumento, non un fine), e quale no, io mi dissocio. Non si Per arrivarci occorre scavare a fon- la promozione viene sentita come stabilisce per legge o con atti ammi- do, riflettere sul significato – o sui una elargizione offerta ai cittadini. nistrativi ciò che è di buon gusto e significati che diamo – a parole Una visione pedagogica della culciò che è volgare, ciò che è di alta o quali cultura, patrimonio culturale, tura tipica di certe élite intellettuali scarsa qualità. È il confronto cultu- tutela. Partiamo da un assunto, uni- che si sentono proprietarie e custorale che aiuta a capire cosa sia am- versalmente condiviso: il patrimo- di del patrimonio culturale. missibile in questo tipo di luoghi. nio culturale, nelle sue infinite de- Le componenti piú aperte ritenclinazioni, è pubblico, e la nostra gono che la ragione sociale del Ma ci dovranno pur essere dei Costituzione affida alla Repubblica loro lavoro sia studiare e tutelare, limiti! il dovere di tutelarlo. Questo obbli- ma anche far capire le cose; questa Vede, è molto diffusa una visione go della tutela – secondo comma comprensione avviene certamente sacrale del patrimonio culturale, e in dell’articolo 9 della Costituzione – trasferendo le informazioni a chi particolare dei siti archeologici, per viene spesso sbandierato come un non le ha (per esempio, scrivendo cui nulla può essere toccato, nulla feticcio con il quale si pensa di didascalie comprensibili nei musei) può accadere al loro interno che poter tappare la bocca delle perso- ma anche agendo in modo tale che non sia la contemplazione. Il risul- ne: «Che cosa vuoi tu? Ci pensa lo la cittadinanza si senta responsabile tato è quello di allontanare la perce- Stato!». Ma la Repubblica non è del patrimonio, perché lo percepizione del patrimonio da parte dei un’entità astratta, la Repubblica sia- sce come una proprietà collettiva suoi legittimi proprietari, i cittadini mo noi cittadini italiani! Il patrimo- in capo ai singoli individui, messi e, come succede in qualsiasi società nio culturale appartiene a noi e, in in condizione di riviverlo nelle democratica di massa, quando un senso piú ampio, direi, anche a tutti forme piú disparate e vitali, anche bene non è percepito come proprio coloro che ne riconoscono il valore. allegre. Non ho mai capito perché non viene salvato, non viene protet- Tutti abbiamo il dovere di tutelare un antico muro di mattoni rotti to e non ci si investe, quindi muore. il patrimonio. Ma che cos’è la tute- debba essere guardato parlando a Sacralizzare i monumenti impeden- la? È solo un insieme di vincoli e bassa voce, compunti, quasi a offidovi forme umane di vita è l’altra procedure impeditive, pure necessa- ciare un rito di cui non si capiscofaccia dei Buddha di Bamiyan (le rie, o è una presa di coscienza na- no il senso e il fine. 38 a r c h e o



civiltà etrusca • norchia

L’ incanto

perduto

Nei mesi invernali, la piú grandiosa tra le necropoli rupestri etrusche si offre al visitatore in tutta la sua straordinaria scenografia. Ancora oggi le maestose tombe, scolpite nel tufo 2300 anni fa, esprimono quel «senso di ineguagliabile solennità e mistero» che, alla metà dell’Ottocento, aveva colpito il viaggiatore inglese George Dennis. Sembra incredibile, allora, che un luogo di tale bellezza e suggestione sia destinato a scomparire, abbandonato al degrado e all’incuria... di Paola Di Silvio

N

el territorio di Viterbo, in località Colle Cinelli, si trova Norchia, la necropoli rupestre forse piú grandiosa e suggestiva d’Etruria. Nel 1842, reduce dall’averla visitata, lo scrittore inglese George Dennis (1814-1898) cosí la descriveva: «Il primo sguardo crea una suggestione e uno stato di incredibile meraviglia, molto superiore a ogni aspettativa. Solennità e mistero, piú che in qualsiasi luogo etrusco, sono qui presenti» (da The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicato per la prima volta a Londra nel 1848). Luogo bello e selvaggio, Norchia. Forse troppo. La vegetazione spontanea la sta inghiottendo: le radici delle piante, penetrando nelle rocce, provocano crolli e smottamenti. Carenza di segnaletica, mancanza di servizi e impraticabilità dell’area, 40 a r c h e o

scoraggiano anche i visitatori piú temerari. Lo stato di «desolazione», che ancora Dennis rilevava due secoli fa, opprime oggi piú che mai, osservando l’abbandono dei sentieri e il vandalismo di cui sono vittime le strutture. Per non parlare dei divieti e dei rischi, derivati dal confinante poligono di tiro dell’artiglieria e della base logistica dell’Esercito, che periodicamente sottopongono a un martellante «bombardamento» sonoro e a vibrazioni e sollecitazioni un luogo dalla staticità già precaria.

una lunga frequentazione Dopo aver incantato i viaggiatori di ogni epoca e ispirato pagine di puro lirismo, questa testimonianza eccezionale della civiltà etrusca rischia di scomparire per sempre. Ma proviamo a raccontare la sua storia.


Norchia (località Colle Cinelli, Viterbo). Veduta della necropoli rupestre di epoca etrusca. Il settore qui illustrato è quello delle tombe che si affacciano sulla valle del fosso Pile, realizzate tra il IV e il III sec. a.C.

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civiltà etrusca • norchia

La zona, ricca di acque, di selvaggina, di anfratti naturali, permise l’insediamento umano fin dalla preistoria. Piú tardi, nel VI secolo a.C., ebbe inizio la fase etrusca, ma il massimo sviluppo si ebbe tra il IV e il II secolo a. C., in relazione all’espansione di Tarquinia verso l’interno. Iniziò cosí un periodo di grande prosperità per la città. L’abitato sorgeva su un altopiano tufaceo, dalla caratteristica forma a clessidra, alla confluenza dei fossi Pile e Acqualta nel torrente Biedano. Difeso naturalmente su due lati da ripide scarpate, era

Un commiato spettacolare e variopinto Disegno che ricostruisce idealmente le cerimonie e i giochi che venivano organizzati per accompagnare la deposizione dei defunti nelle tombe della necropoli di Norchia. È importante considerare che rituali cosí elaborati e sontuosi erano una prerogativa esclusiva delle classi aristocratiche e piú abbienti. Queste, inoltre, erano le sole a poter commissionare la costruzione di monumenti sepolcrali cosí imponenti.

In basso: cartina dell’area nella quale sono comprese le piú importanti necropoli rupestri etrusche. Quello di Norchia non è un caso isolato: sepolcreti di questo tipo si concentrano in una zona che va dalle pendici orientali dei monti della Tolfa (intorno a Stigliano) sino alla Maremma toscana interna (Sovana) e sono riferibili a centri di piccola o media grandezza, come San Giovenale, Luni sul Mignone, San Giuliano, Blera, Grotta Porcina, Cerracchio, Castel d’Asso, Tuscania, Castro, Pitigliano, Sorano e Sovana.

ABRUZZO

Grosseto TOSCANA

Orvieto

Sovana Poggio Buco

Sorano

Pitigliano Manciano

Bolsena Lago di Bolsena

Castro Canino

Orbetello Monte Argentario

Todi

Acquapendente

Vulci

Narni

Montefiascone Tuscania

Viterbo

Orte

Castel d’Asso

Montalto di Castro

Norchia Tarquinia

Falerii Novi Sutri

Tolfa Lago di Bracciano

Campagnano di Roma

Bracciano

ROMA

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re

Civitavecchia

LAZIO

Corchiano Civita Castellana

Ronciglione

e Tev

Mar Tirreno

Vetralla

protetto, sul versante meridionale, piú esposto, da un fossato artificiale, rinforzato da un muro a blocchi, su cui si apriva uno degli accessi alla città. Da qui, dopo la conquista romana, faceva il suo ingresso nell’abitato la via Clodia (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 52-60), che attraversava il pia-


noro per tutta la sua lunghezza. mento notarile risalente al 775, Un altro ingresso alla città era sul conservato nei regesti dell’abbazia di Farfa. L’alto livello economico e versante del fosso Pile. culturale raggiunto dall’insediaaristocrazie terriere mento etrusco, attraverso l’affermaIl nome antico del centro etrusco zione di famiglie gentilizie e non è noto, ma non doveva disco- nell’ambito di un’organizzazione starsi troppo dalla forma Orcla/Or- produttiva di tipo agricolo, è testiclae, attestata a partire da un docu- moniato dalla vasta necropoli rupe-

stre, che si affaccia sulle valli che fanno da corona all’abitato. L’aristocrazia del luogo, che deteneva il potere economico e politico, cominciò a esibire la propria ricchezza facendosi erigere sepolcri monumentali e sfarzosi, ben visibili dalla città. I fianchi scoscesi delle valli del Biedano, del Pile e dell’Aca r c h e o 43


civiltà etrusca • norchia

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1

In alto: planimetria dell’area archeologica di Norchia. Nella pagina accanto: le tombe della gens Smurinas. In basso: i resti del castrum medievale.

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1. Castello

2. Area urbana

Venne edificato nell’area del pianoro, presumibilmente agli inizi del XIII sec.

Coincide con il pianoro posto alla confluenza del Pile e dell’Acqualta nel Biedano.

3. S. Pietro

4. Tombe a Tempio

Le rovine della chiesa romanica sono databili, con ogni probabilità, al XII sec.

Situate nella valle dell’Acqualta, si datano al IV-III sec. a.C.


qualta vennero cosí occupati, tra il IV e il III secolo a.C., da un gran numero di sepolcri, le cui sontuose facciate, sottolineavano la potenza dei loro committenti. La massima concentrazione di questi monumenti si osserva nel settore della necropoli che si affaccia sul fosso Pile, oggetto di scavi sistematici tra il 1969 e il 1981. Le tombe, che fronteggiano l’acropoli della città, si dispongono in piú

tipico e originale di queste tombe è la divisione della facciata in due piani, con il disegno della finta porta in alto e, nella parte inferiore, un vano di sottofacciata a portico, arricchito di colonne o pilastri, sotto cui si apre l’ingresso alla camera funeraria ipogea. Piú oltre, prima di giungere al fondovalle, si incontra la Tomba Prostila (vedi foto alle pp. 48, in alto, e 49, in alto), riconoscibile per la presenza in

vallata del Pile è costituito da semplici dadi, di dimensioni ridotte, qualche volta costruite, completamente o in parte, con blocchi di tufo, una tipologia che finora non trova riscontro altrove.Tra i sepolcri piú significativi si ricorda quello di Vel Ziluse (vedi foto a p. 46), con il nome del proprietario indicato nell’iscrizione incisa sopra le due finte porte della facciata. Si tratta di una singolare sepoltura gemina, del-

Elemento che caratterizza le tombe rupestri monumentali di Norchia è l’articolazione in due piani delle facciate ordini sovrapposti, creando un paesaggio architettonico di raro effetto scenografico. Il gruppo piú importante, che domina dall’alto la vallata, è quello delle tombe Smurinas (vedi foto in questa pagina), appartenuto all’omonima famiglia, come indicano le iscrizioni sui sarcofagi rinvenuti nelle camere funerarie. Le facciate sormontano un unico vano inferiore con portico colonnato, caratteristico delle tombe di Norchia e verosimilmente di invenzione locale. Elemento

facciata di un portico, sostenuto in origine da colonne. Si tratta di uno degli esempi piú antichi (prima metà del IV secolo a.C.) di sepolcro che presenti l’innovazione di una struttura coperta addossata alla facciata. Delle colonne di sostegno rimangono solo le basi e parte del fusto. I gradini ai lati del dado conducono alla piattaforma superiore, probabilmente destinata allo svolgimento dei riti funebri, comprendenti le libagioni. L’ordine inferiore di tombe della

la seconda metà del III secolo a.C., probabilmente realizzata per raccogliere le spoglie di due fratelli. Piú oltre è la Tomba del Charun, sulla cui finta porta è rappresentata, a rilievo, la figura demoniaca, a grandezza naturale, del demone che accompagnava le anime nell’aldilà. Del Charun si conserva solo la parte inferiore, con i tipici calzari, una corta tunica e il caratteristico martello nella mano destra, con cui si immagina assestasse un colpo al chiavistello della porta dell’Ade. a r c h e o 45


civiltà etrusca • norchia

Tra i gioielli della necropoli vi assai vasti, dall’Italia meridionale grifoni e motivi vegetali e l’anta sono poi la Tomba Lattanzi e le all’Asia Minore. È costituita da un sinistra è sostenuta da un leone due Tombe a Tempio, gravitanti podio sormontato da una facciata sdraiato (o sfinge; vedi foto a p. 48, rispettivamente sulla valle del Bie- con due portici sovrapposti, di cui in basso), posto simbolicamente a guardia della scala laterale di dano e dell’Acqualta. La priGli scavi del secolo ma, parzialmente diruta e Molti sepolcri evocano accesso. scorso hanno restituito due seminascosta dalla vegetaziosarcofagi che hanno perne, presenta uno schema inmodelli ellenistici messo di stabilire l’apparteconsueto, che possiamo rio greco-orientali nenza della tomba alla gens costruire grazie a vecchi riChurcle e di porre la dataziolievi. Pur con elementi chiaramente etruschi, il monumento si l’inferiore con colonne scanalate ne del sepolcro verso la fine del IV può considerare come una crea- di tipo tuscanico e il superiore con secolo a.C. zione tipicamente ellenistica, che semicolonne corinzio-italiche. La Subito di fronte alla Tomba Lattrova riscontri in ambiti geografici trabeazione mostra un fregio con tanzi si apre la valle dell’Acqualta, 46 a r c h e o


percorsa dall’antica via proveniente dal pianoro. Qui, ricavate al centro di un’ampia curva nella collina tufacea, si incontrano le due tombe monumentali denominate «Doriche» o «a Tempio», databili tra il IV e il III secolo a.C. (vedi foto a p. 50, in basso). Le loro facciate riproducono il prospetto di due templi affiancati, con podio e pronao a colonne, oggi perdute, sormontate da un fregio dorico con metope e triglifi e da frontoni. Sono l’unica documentazione esistente a Norchia di questa tipologia funeraria, conosciuta soltanto a Sovana e nella Toscana meridionale, che rivela un’apertura a influenze culturali provenienti dal mondo greco-orientale. Il frontone di sinistra mostra una scena di combattimento con due schiere di guerrieri che convergono verso il centro; quello di destra presenta invece due personaggi ammantati, posti ai fianchi di una figura alata. Entrambi i frontoni hanno le estremità decorate da teste di gorgoni. In una seconda fase costruttiva, da porre agli inizi del II secolo a.C., furono demoliti i pilastri divisori, e le pareti di fondo, cosí unificate, furono decorate da un fregio scolpito raffigurante un corteo di personaggi preceduto da un demone.

In alto: la Tomba di Vel Ziluse, sepoltura gemina del III sec. a.C con due finte porte scolpite sulla facciata. A destra: un tratto della Cava Buia, realizzata tra il IV e il III sec. a.C.

Il declino Dopo il 200 a.C. iniziò per Norchia la parabola discendente. Non si costruirono piú tombe di tale enfasi e bellezza, ma si utilizzarono le camere di quelle già esistenti, ampliandole con fosse disposte a «spina di pesce», chiuse talora da coperchi scolpiti. Nel I secolo a.C. la città fu assegnata al municipium di Tarquinia e a poco a poco perse d’importanza, divenendo un centro sempre piú modesto. Una tenue ripresa di frequentazione si registra in età augustea e giulio-claudia (I secolo d.C.), con sepolture a cremazione perlopiú in nicchie esterne alle camere. Poi, piú nulla, fino al periodo longobardo. Per una certa ripresa dell’abitato si deve attendere l’VIII e il IX secolo,

un’opera di alta ingegneria La via Clodia, uscita dall’abitato, discendeva al torrente Biedano con una lunga trincea, scavalcando il corso d’acqua con un ponte a tre archi, in opera quadrata di tufo, probabilmente del I secolo a.C. A questo punto, la strada consolare cominciava l’ascesa verso il soprastante pianoro, in direzione di Tuscania, attraverso un’angusta e suggestiva tagliata, la «Cava Buia», profonda fino a 10 m e lunga quasi 400, indubbiamente tra le piú impressionanti opere di ingegneria stradale d’Etruria. L’opera va collocata tra il IV e il III secolo a.C., ma subí restauri in varie epoche, come testimoniano le iscrizioni incise sulle sue sponde. Le pareti della tagliata mostrano tuttora numerose tracce attribuibili al frequente passaggio nel corso dei secoli, fra cui l’importante iscrizione latina di C. Clodius Thalpius, probabilmente da identificare con un curator di età tardo-repubblicana della via. Le numerose croci, cosí come l’iscrizione che ricorda san Pietro, indicano che il tracciato venne utilizzato anche nel Medioevo. a r c h e o 47


civiltà etrusca • norchia A destra: la facciata, preceduta da un portico originariamente sostenuto da colonne della Tomba Prostila, nella necropoli del Pile. Risalente alla prima metà del IV sec. a.C. è uno dei piú antichi esempi di sepoltura con struttura coperta sulla facciata.

quando il centro fu, prima, un munito insediamento di confine della Tuscia longobarda, e, successivamente, un luogo di rifugio della popolazione costiera minacciata dalle incursioni saracene.

la rifondazione Divenuto possedimento della Chiesa, fu rifondato come borgo fortificato (castrum) da Adriano IV, poco dopo la metà del XII secolo. Restano di questa età gli imponenti ruderi della chiesa romanica di S. Pietro e del castello, oltre ad abitazioni in grotta, pestarole, colombaie e vie cave. Il castello, edificato presumibilmente all’inizio del XIII secolo, sorgeva nel punto piú stretto dell’altopiano, tra coppie di fossati tra-

Il guardiano dell’ultima dimora La sfinge (in alto) che sosteneva l’anta sinistra del portico inferiore della Tomba Lattanzi, di cui si presenta, a destra, l’assonometria ricostruttiva. Appartenente alla gens Churcle, il sepolcro risale alla fine del IV sec. a.C.

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A sinistra: la camera funeraria della Tomba Prostila. Si tratta di un ambiente spazioso, irregolarmente quadrangolare, con copertura a doppio spiovente, che ospita ancora alcuni sarcofagi originari (IV sec. a.C). In basso: la Tomba a Casetta, rinvenuta di recente in località Sferracavallo. Metà del IV sec. a.C.

sversali. Divenuto in seguito proprietà dei Prefetti di Vico fu abbandonato nel 1435. In quell’anno, Eugenio IV decise la totale eliminazione della rocca, affidando l’impresa alle milizie viterbesi. Norchia entrò cosí nei territori dipendenti da Viterbo, di cui ancora fa parte, e da quel momento calarono sul pianoro silenzio e abbandono. Se, ai tempi di George Dennis, Norchia era impraticabile a causa di una fitta e selvaggia vegetazione, oggi la piena e soddisfacente fruizione del sito è ostacolata dall’inadeguatezza dei soggetti istituzionali preposti alla sua salvaguardia e tutela. Il grido d’allarme è stato lanciato,

una «casetta» per vel Ricognizioni effettuate a Norchia dalla onlus viterbese Archeotuscia hanno portato alla recente scoperta di una tomba rupestre in località Sferracavallo, ribattezzata «della Casetta», per via dalla sua conformazione: l’architettura del monumento è infatti ispirata a quella delle abitazioni. La presenza di un’iscrizione sull’architrave della falsa porta che sormonta l’ingresso del sepolcro ha accresciuto l’importanza del ritrovamento: l’epigrafe presenta il nome del proprietario e, nonostante le lacune, può, in via ipotetica, essere tradotta come segue: «Questa è la tomba di Vel (...nas?) figlio di Laris (o di Larth)». Databile intorno alla metà del IV secolo a.C., la tomba si aggiunge, per tipologia, alle limitate attestazioni di quelle a casa e apporta un contributo importante

alla storia dell’architettura funeraria di Norchia. La felice sinergia e comunanza di intenti tra Soprintendenza, proprietà (l’area del sito è in un terreno privato) e Archeotuscia hanno reso possibile, nel 2013, la ripulitura della Tomba della Casetta, che sembrava già violata come quelle la circondano. Essa ha invece restituito una stanza con banchina laterale e corredo ceramico disposto lungo il corridoio, composto da 17 esemplari di vasellame ceramico databile tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. e uno strigile in bronzo. Il materiale è stato restaurato (anche in questo caso grazie alla sponsorizzazione di un soggetto privato, Kostelia srl) ed è ora esposto nel Museo Archeologico Nazionale della Rocca Albornoz di Viterbo. Francesca Ceci

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civiltà etrusca • norchia

nel nome di pietro Sul pianoro di Norchia spiccano i ruderi delle costruzioni medievali, appartenenti al borgo fortificato, creato per ragioni strategiche, ma anche di prestigio, da papa Adriano IV (1154-1159). Dominano su tutti gli altri, i resti della grandiosa chiesa di S. Pietro, già ricordata come pieve in documenti del IX secolo. Non ci sono fonti per indicare la data esatta della costruzione dell’edificio romanico, ma gli elementi stilistici lasciano supporre che risalga al XII secolo. La parte presbiteriale, rivolta verso occidente, è quella che meglio si conserva e rivela l’utilizzazione di materiale di spoglio di età romana. L’abside maggiore è fiancheggiata

da altre due piú piccole, decorate da due slanciati ordini di semicolonne, a piani sfalsati. Articolata in tre navate, la chiesa era provvista di cripta, in parte conservata, caratterizzata da colonne di reimpiego, sostenenti volte a crociera, ora scomparse. Termina, anch’essa, con un’abside centrale e due laterali piú piccole. Non lontano dalla chiesa, si trova la porta medievale, probabilmente edificata nello stesso luogo di quella etrusca, in corrispondenza dell’uscita dalla città della via Clodia. Abbastanza ben conservata, è del tipo ad arco, con cammino di ronda e feritoie e risulta protetta da un avancorpo delle mura.

In alto: resti della chiesa romanica di S. Pietro. XII sec. In basso: le Tombe Doriche (o a Tempio), in un disegno eseguito da George Dennis (qui sotto) e in una foto

che ne documenta lo stato di conservazione attuale (in basso). La parte mancante del frontone di sinistra è conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

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da tempo, dai funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale: assenza di manutenzione, interventi a singhiozzo, mancanza di finanziamenti strutturali, ripartizione non chiara delle competenze, sono i principali problemi che stanno condannando il sito alla solitudine e al degrado. Il caso di Norchia, purtroppo, non è isolato, ma si configura come l’emblema di una cultura dimenticata, spesso considerata un peso economico piuttosto che una risorsa per lo sviluppo culturale, turistico e occupazionale del nostro Paese. Difendere i nostri beni culturali è un obbligo costituzionale. Se vogliamo consegnare alle future generazioni un’ eredità storica è necessario correre immediatamente ai ripari, prima che sia davvero troppo tardi.



storia • via clodia

cercando La via Clodia Era certamente una delle strade piú importanti dell’antica Roma. Eppure, contrariamente a quanto è accaduto per molte altre vie consolari, il suo tracciato è, oggi, in massima parte scomparso. Gli indizi per ritrovarlo, però, esistono... di Pierluigi Banchig

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l poeta latino Ovidio (43 a.C.17 d.C.), esiliato a Tomi (l’attuale Costanza, in Romania), sul Mar Nero, ricorda con mestizia la sua città: «Il mio animo non desidera campi che ho lasciato // o le grandi proprietà nella terra dei Peligni, // né i miei giardini sulle colline coperte di pini // che guardano la via Clodia alla giunzione con la Flaminia» (Ex Ponto I, 8 vv. 41-44). Il suo lamento, unica testimonianza letteraria della via, ricorda il tratto iniziale in uscita da

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Roma comune a Clodia, Flaminia e Cassia e suggerisce, per il contesto in cui è inserito, come il percorso fosse conosciuto e in uso nella prima età imperiale. Le altre testimonianze, le epigrafi di curatores viarum (i responsabili pubblici delle vie romane, n.d.r.) vissuti tra la fine del I e il III secolo d.C. (vedi box a p. 56) e la Tabula Peutingeriana – copia di un documento del III-IV secolo d.C. – sono piú tarde, benché la via Clodia sia considerata il risultato della riorganizzazione, in epoca repubblicana, della preesistente rete viaria etrusca. Questa collegava una serie di centri agricoli interni, passati nel III secolo a.C. sotto il controllo di Roma in seguito alla conquista delle grandi città etrusche di Tarquinia, Vulci, Cerveteri, Volsinii, Falerii.

quando nacque la strada romana? Quale simbolico, ma significativo, presidio del territorio, negli anni tra il 200 e il 144 a.C., si ebbe la fondazione di Forum Clodii, nel luogo i cui oggi sorge la chiesa dei SS. Marciano e Liberato, un paio di chilometri a nord di Bracciano, sull’altura prospiciente il lago e, nel 183 a.C., la trasformazione in colonia del centro etrusco di Saturnia. Controversa è l’epoca della realizzazione del tracciato romano della via Clodia: alcuni la collocano fra il 225 e il 183 a.C.; altri, nella ricerca del

magistrato eponimo, ne hanno attribuito la costruzione a Gaio Claudio Canina, console nel 273 a.C, oppure ad Aulo Claudio Russo, console nel 268 a.C., o, ancora, a Gaio Claudio Centone, censore nel 225 a.C. La via Cassia, esistente nel 187 a.C., coincideva nel primo tratto con la via Clodia, dalla quale si separava poco fuori Roma, nei pressi della località oggi denominata La Storta. Gli interrogativi non solo sull’origine, ma anche sulla natura di via consolare in età repubblicana del percorso, possono trovare parziale risposta nell’analisi del popolamento del territorio compreso fra la litoranea tirrenica della via Aurelia e la direttrice della via Cassia. L’importanza dell’Etruria meridionale interna e dei suoi grandi centri nelle fasi dell’espansione romana a nord del Tevere è stata confermata dall’indagine topografica, che ha rilevato una cospicua presenza di ville rustiche e fattorie romane nelle piane fertili comprese fra i monti della Tolfa e Canale Monterano, Manziana e Bracciano, che si insediarono e svilupparono fra il III e il I secolo a.C. Tale ruolo è coerente con la pratica di controllo del territorio conquistato tramite la costruzione di un asse A destra: il basolato originario della via Clodia, nel tratto che entra a Saturnia (Marciano, Grosseto), attraverso la Porta Romana.


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storia • via clodia

viario, funzionale al presidio e a un rapido intervento militare, attraverso i preesistenti centri abitati; un’arteria che aveva anche la funzione di collegamento con gli insediamenti e le colonie di recente fondazione. A partire dall’età imperiale, nelle campagne dell’Etruria si diffondono le grandi proprietà delle ville rustiche, con l’impiego di numerosa manodopera servile, e un sistema di rapporti economico-politici che sopravvisse in queste regioni interne

piú a lungo che sulla costa, sottoposta a frequenti invasioni. La via Clodia continuò a svolgere un ruolo importante anche dopo la guerra greco-gotica in Italia (535553): il trattato di pace tra Bizantini e Longobardi del 605, segnando la linea di confine tra le due potenze, sancí la definitiva spartizione della regione in Tuscia Langobardorum a est e Tuscia Romanorum (cioè bizantina) a ovest. In questo nuovo quadro politico la via Clodia assun-

Le prime tappe della via Clodia a partire da Roma

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se progressivamente il ruolo di asse portante della dominazione longobarda e di via diretta di collegamento fra Tuscania, caposaldo principale della zona controllata dalla nuova signoria germanica, e il Nord della Penisola.

la via nella tabula La Tabula Peutingeriana è una carta stradale a colori del mondo antico che riporta le vie e i centri abitati con le distanze relative, i


Nella pagina accanto: resti della villa dell’Acqua Claudia (I sec. a.C.), presso Anguillara Sabazia, importante località termale lungo la via Clodia, forse identificabile con le terme segnalate lungo il percorso riportato nella Tabula Peutingeriana. A sinistra: Tuscania (VT). Un altro tratto di basolato della Clodia. In basso, sulle due pagine: il segmento V della Tabula Peutingeriana. XIII-XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale.

fiumi, i mari e altre caratteristiche geografiche del dominio di Roma in età imperiale. Si tratta di un documento medievale, eseguito nel XIII-XIV secolo e ricavato da un originale antico risalente al III-IV secolo d.C., a sua volta, forse, elaborazione di un documento precedente. Il V segmento della carta (vedi la riproduzione in basso, sulle due pagine) rappresenta la città di Roma, con le strade che si dipartono a raggiera. Augusto, nel 20 a.C., aveva fatto collocare nel Foro, fra il tempio di Saturno e i Rostri, una colonna rivestita in bronzo dorato, il Miliarium Aureum, con i nomi delle principali città dell’impero e le distanze da Roma. Ancora oggi è visibile la base del monumento che costituiva il punto di partenza delle vie consolari. Il primo tratto della via Flaminia giunge sino al Ponte Milvio, ad Ponte Iulii, e riporta il numerale III, a 3 miglia dal Foro Romano (pari a 4,4 km), che corrispondono

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storia • via clodia

undici uomini per una strada Dopo aver prestato servizio per dieci anni, il soldato Lucio Rufreno morí trentenne, all’inizio del I secolo d.C. e Lucio Avennio Severo eresse, per ricordarlo, un monumento funebre, che il testo dell’iscrizione dedicatoria dice collocato fra il VI e VII miglio della via Clodia. Il ritrovamento è stato effettuato sulla via Cassia, nei pressi della Tomba di Nerone, a circa 10,5 km dal Foro Romano, una distanza che coincide con quanto indicato in miglia romane. Al di là di questa attestazione, le testimonianze piú numerose sulla Via Clodia ci provengono dalle epigrafi dei curatores. A oggi, se ne contano ventuno e, fra queste, dodici hanno conservato anche il nome del magistrato. Le iscrizioni appartengono a monumenti funerari rinvenuti a Roma e in Italia, ma pure nelle province, anche remote, dell’impero: Pannonia, Dacia, Mesia Inferiore, Tracia, Galazia, Numidia. Appartengono all’età imperiale, dalla fine del I al III secolo d.C., e, nella gran parte dei casi – quindici ricorrenze –, sono associate alla cura anche le vie Cassia e Cimina, irradiantesi da Roma e prossime alla Clodia, ma talvolta sono ricordate anche vie consolari apparentemente meno collegate al suo percorso: l’Annia, la Traiana Nuova e le tre vie Traiane. Tutte le altre epigrafi di curatores viarum si riferiscono a strade che avevano inizio a Roma con percorsi viari che si sviluppano sempre a sud del Po: la sola eccezione è la via Emilia. Le citazioni piú numerose, 15, si riferiscono alla via Latina; 14 ricordano Aurelia, Cornelia e Trionfale; 13 l’Appia; 12 la Flaminia; 10 la Valeria Tiburtina; 7 la Labicana, Latina Antica e Salaria; 4 l’Emilia. La cura viarum è ricordata nell’epigrafe di L. Volcacius, al quale era stato conferito l’incarico secondo quando statuito dalla lex Visellia, risalente agli anni tra il 72 e il 68 a.C. Ottaviano Augusto, nel 20 a.C., riorganizzò l’istituto, creando le cariche relative non solo alla manutenzione delle strade, ma anche per la supervisione alle opere pubbliche, agli acquedotti, all’alveo del Tevere, alle distribuzioni di grano alla popolazione e al reclutamento dei cavalieri, misure volte a coinvolgere nell’amministrazione dello Stato un maggior numero di cittadini, principalmente attraverso gli esponenti della classe senatoriale. L’istituzione di una magistratura specifica per la manutenzione delle vie consolari in uscita da Roma esprime la volontà di mantenere in efficienza i collegamenti viari da e per l’Urbe utilizzati dal cursus publicus, il sistema di collegamento con le province dell’impero attraverso posti tappa e di cambio cavalli. Singolare risulta il fatto che nessun documento pubblico, quale miliario, epigrafe celebrativa di una costruzione, di ringraziamento all’imperatore o altro, 56 a r c h e o

ricordi l’opera di un curator viarum. Comunità locali e governo centrale contribuivano a sostenere le spese per gli interventi sulle sedi stradali. La documentazione epigrafica è giunta sino a noi in maniera casuale e non può essere assunta a schema di una carriera codificata e lineare: ci dice solo che alcun alti magistrati, durante la loro carriera, si erano occupati anche del rapporto con le comunità locali per la manutenzione delle principali vie consolari che partivano da Roma. Non ne conosciamo la durata, né se vi siano stati curatores viarum con carriere meno brillanti di quelle celebrate nei monumenti funerari. La statistica ci fornisce il dato inoppugnabile che le epigrafi riferite alla cura della via Clodia sono piú numerose rispetto a quelle di qualsiasi altra via consolare, a dimostrazione di quanto essa sia stata strategicamente ed economicamente importante.

I curatores della via Clodia 92-108 d.C

Gallo Vecilio Mansuanio Marcellino

122-138 d.C.

Aulo Platorio Nepote

130-140 d.C.

Lucio Aurelio Gallo

130-159 d.C. Caio Oppio

140-150 d.C.

Lucio Burbuleio Optato Ligariano

151-180 d.C.

Tito Elio Aurelio Epiano

157-161 d.C.

Lucio Pullaieno Gargilio Antiquo

200-250 d.C.

Caio Curzio Proculo

218-220 d.C.

Publio Iuniano Marzialiano

231-270 d.C.

Caio Lucilio Sabino Egnazio Proculo

244-249 d.C.

Rutilio Pudente Crispino


In alto: la cosiddetta Tomba di Nerone (in realtà il sepolcro di Publio Vibio Mariano), sulla via Cassia. Seconda metà del III sec. d.C. Nei pressi del monumento è stata rinvenuta la sepoltura di Lucio Rufreno, che il testo dell’epigrafe indicherebbe però eretto lungo la via Clodia, tra il VI e il VII miglio.

Roselle Todi

Montorgiali

Grotte di Castro Volsini

Poggio Buco Bisenzio Marsiliana d’Albegna Castro Doganella Maternum

Talamone

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ia Sutrium Nepet Luni sul Mignone Aquae Fescennium Apollinares Novae Trevignano

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ROMA Aqua Virgo lexandrina Aqua A

Qui sopra: cartina che riproduce il possibile tragitto della via Clodia, con le due ipotesi relative al suo tratto finale: la prima, che la vede concludersi in prossimità di Cosa; la seconda, piú probabile, che la fa terminare a Roselle.

all’effettiva distanza. Subito dopo la strada inizia a dividersi e, presso la località Ad Sextum, ovvero dopo sei miglia dal Foro (4,4 km da Ponte Milvio a La Storta), compare il nome della via Clodia. Careias, al miglio VIIII (pari al km 13,3), è la tappa successiva. La località è stata individuata nelle rovine di Galeria, poste sul rilievo a quota 131 sulla riva sinistra del fosso Arrone, circa 1 km a ovest di S. Maria di Galeria. Questa identificazione fa sorgere un problema in quanto la distanza delle rovine da La Storta è di circa 9 km; inoltre, evidenti tracce di pavimentazione basolata emergono molto piú a nord, sulla Riva della Casaccia, posta a circa 12 a r c h e o 57


storia • via clodia

km dall’inizio della via Clodia. Dopo altri 2 km verso il lago di Bracciano si incontra il toponimo Cancelli Galera e, poco oltre, in località Le Crocicchie, agli inizi del secolo scorso, Thomas Ashby aveva individuato e fotografato un lungo tratto di selciato a poliedri. Il percorso prosegue con la rappresentazione di un edificio che indica una struttura termale, o un 58 a r c h e o

centro di una certa importanza, seguito dal numerale VIII. Dalla costruzione si dipartono due vie: la superiore porta a Sutrio XII, quella inferiore Ad Novas VIIII. Possiamo collocarla, in base alla distanza di 26,5 km da La Storta, poco prima del lago di Bracciano. Nei pressi di Anguillara Sabazia, alle fonti dell’Acqua Claudia fu scavato il vasto complesso di una

villa romana risalente al I secolo a.C. che utilizzava le sorgenti termali attive ancor oggi. Vi sono quindi le premesse per identificarla con il simbolo dell’impianto termale posto al bivio fra i due percorsi che lambiscono da nord e da sud il lago di Bracciano. Ma ecco, qui di seguito, l’elenco delle località che potrebbero essere riferite alla via Clodia, anche sulla


Blera XXII. Da Forum Clodii, si rag- guata alla località di Norchia (vedi, giunge Oriolo Romano; prose- in questo numero, l’articolo alle pp. 40guendo verso nord, sulla strada in- 50), nei pressi della quale si può terpoderale fra il fosso di Fontegril- collocare la tappa della Tabula. lo e l’altura del Poggiaccio emergo- Tuscana. Questo tratto non riporta no alcuni basoli oramai dissestati. A alcuna indicazione per le distanze, Barbarano Romano, lungo il sen- tuttavia prima e dopo il paese di tiero naturalistico della Macchia Tuscania sono ben evidenti i resti di base delle testimonianze archeolo- della Banditella, si incontrano con- pavimentazione stradale. giche a oggi individuate. tinue teorie di poliedri, ove la strada Materno XII. L’antica località di Ad Novas VIII, e, poco oltre, Foro è fiancheggiata da un monumento Maternum non è stata individuata con certezza; la distanza Clodo Co. Sabate. L’apricavabile dalla Tabula, proccio geografico all’inA oggi, solo alcune 17,8 km dopo Tuscania e terpretazione di questa da Saturnia, suggericartografia antica evidendelle tappe indicate dalla 26,6 sce di collocarla ai margizia come la distanza indicata, 11,8 km, corrisponTabula Peutingeriana sono ni meridionali della Selva del Lamone, fra Ponte da a quella che separa la identificabili con certezza San Pietro, Far nese e collina di S. Liberato, Ischia di Castro. l’antico Forum Clodii poco a nord di Bracciano, dalle terme funerario oramai ridotto al solo Saturnia XVIII. Probabilmente il dell’Acqua Claudia. Non è ben nucleo. Superato il fosso Petrola percorso toccava Pitigliano e Sovachiaro il significato della sigla co, attraverso il distrutto ponte Piro, na, per poi salire al colle di Saturnia che nella Tabula collega anche altre Blera è raggiunta dopo circa 30 km, su antico basolato ed entrare in paese attraverso la Porta Romana. località, tuttavia l’ipotesi piú con- come indicato dalla Tabula. vincente la ritiene elemento di Marta VIIII. La distanza indicata di Succosa VIII. A questo punto il collegamento fra due ubicazioni 13,3 km non è sufficiente per rag- percorso perde ogni logica: è indimolto vicine. giungere il fiume Marta, ma ade- cato il collegamento con la costie-

A sinistra: Blera (VT). Il ponte romano della Rocca (II-I sec. a.C.) attraverso il quale la Clodia superava il Rio Canale. In basso: l’area archeologica di Roselle (GR), con i resti della città di età etrusca e romana, probabile termine della via Clodia.

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storia • via clodia

codici medievali, nei quali compare il nome con il quale è oggi designato; risale a un originale databile tra la fine del III e la metà del IV secoarcheologiche prossimi all’antico Nella scorsa primavera, con una lo d.C. È suddiviso in due sezioni: percorso. È il caso, per esempio, carovana di cavalieri partita dal la prima, Itinerarium Provinciarum, della tagliata che si snoda nei cuore di Roma (foto in basso), nei elenca 256 percorsi terrestri; la sepressi della città (oggi pressi del Colosseo, ha preso il via conda, Itinerarium Marittimum, riabbandonata) di Castro o un progetto, Antica Via Clodia, che porta le principali rotte navali del dell’insediamento protostorico punta a rivitalizzare la strada Mediterraneo. La compilazione scoperto in località Sorgenti della consolare, coniugando storia, non indica le vie, ma le tappe e le Nova (nella valle del fiume Fiora, natura e turismo sostenibile. miglia che le separano. presso l’odierna Farnese, in L’idea è quella di offrire trekking Un percorso definisce via Clodia il provincia di Viterbo). organizzati e guidati (a cui si può tragitto da Lucca a Roma, attraverE vi sono poi cittadine che vantano partecipare anche a piedi o in so Firenze, Arezzo, Chiusi, Orvieto, mountain bike) che, nell’arco di due un ricco patrimonio architettonico Sutri. Questa attestazione, problee monumentale, come Sovana, o tre giorni, coprano il percorso matica – in quanto presenta un itipatria di Gregorio VII, o Saturnia, in della via fino a Grosseto, toccando nerario alternativo coincidente da prossimità della cui Porta Romana le piú importanti località di Chiusi a Roma con quello della via si conserva uno dei tratti basolati interesse storico, archeologico Cassia –, non trova conferma in originali della consolare. e paesaggistico. nessun’altra fonte. Potrebbe riferirsi Informazioni sulle partenze e sulle Queste ultime comprendono siti a una denominazione della Clodia che la ricerca storica ha permesso modalità di partecipazione possono non tramandata da altri documenti, essere reperite all’indirizzo web: di identificare come certamente o a un errore di chi ha trascritto le www.anticaviaclodia.it attraversati o lambiti dalla Clodia, tappe ricopiandole dalla carta geoma anche abitati o aree (red.) grafica originaria, indotto dalla sovrapposizione fra le due vie nel primo tratto in uscita da Roma. Diversa è l’opinione di Nevio Degrassi, il quale ritiene che proprio questa sia la via Clodia. La tesi è supportata dalla constatazione che, nelle epigrafi dei curatores imperiali, la via Clodia precede sempre tutte le altre, perché considerata piú importante della Cassia, Annia, Cimina, Amerina e Traiana; la via Clodia, o Claudia, che giungeva a Forum Clodii e Tuscania era solo di secondaria importanza. Senza dubbio la gerarchia viaria cosí interpretata è argomento suggestivo per spiegare le cariche conferite ai curatores, che altrimenti non troverebbero giustira Aurelia a sud del Monte Argen- nufatto che la tradizione chiama ficazione dalla supervisione di una tario, presso Ansedonia (l’antica Ponte Romano, per giungere poi direttrice viaria interna, attraverso Cosa), con un tratto di soli 12 km, sino a Roselle. territori che in età medio-imperiapari a un terzo della distanza effetle avevano perso importanza stratetiva, che implicherebbe una brusca gica, economica e demografica. il percorso deviazione a gomito e l’impervio alternativo superamento di una successione di Oltre alla Tabula Peutingeriana, un per saperne di piú rilievi. In mancanza di altri indizi altro documento può essere utilizpossiamo attribuire questa incon- zato per ricostruire il tracciato della Marta Giacobelli, Via Clodia, IPZS, gruità a un errore del copista me- via Clodia: è l’Itinerarium Antonini, Roma 1991. dievale e seguire l’ipotesi della un elenco dei collegamenti fra varie Stefania Quilici Gigli, La via Clodia prosecuzione verso Montorgiali, località dell’impero romano giunto nel territorio di Blera, Bulzoni, ove è ancora visibile l’antico ma- a noi attraverso la trascrizione in Roma 1978.

a cavallo (e non solo) sull’antica strada...

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civiltà cinese • la seta Nella pagina accanto: particolare di un dipinto su tavola raffigurante la leggenda della «Principessa della seta» (vedi a p. 67). In questa pagina: dipinto su seta raffigurante una dama con la sua ancella, dall’oasi di Astana, presso Gaochang (Turfan, Xinjiang). VII-VIII sec. d.C.

il potere del baco Ricavata dalla secrezione di una larva, la seta cinese affonda le sue origini in un passato leggendario. Nel corso dei millenni, la sua lavorazione raggiunge una qualità impareggiabile, diventando il supporto per raffinate realizzazioni artistiche. A partire dal II secolo a.C., il prezioso materiale irrompe sulla scena mondiale, dando l’impulso alla nascita Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, offictedirettrice erupit antesto di una nuova commerciale taturi cum ilita aut quatiur restrum cheeicaectur, metterà in contatto l’Estremo testo blaborenes ium quasped quos etur reius nonem Oriente connonl’Africa e l’Europa quam expercipsunt quos rest magni

autatur apic teces enditibus teces. di Marco Meccarelli 62 a r c h e o


L

a seta è il terzo grande «simbolo iconico» della civiltà cinese: se la lacca e la porcellana (vedi «Archeo» nn. 356 e 357, ottobre e novembre 2014) sono divenute gli emblemi della bizzarra ispirazione esotica che ha investito l’epopea artistica del Sei e Settecento europeo, il prezioso tessuto è stato sicuramente il primo, tra i materiali prodotti in Cina, ad aver «stregato» l’Occidente. L’arte della sericoltura non era facile da trasmettere. Figlia di leggi suntuarie, essa esigeva competenze, esperienze e attitudini specifiche, secondo un’organizzazione del lavoro rigorosa che può ravvisarsi solo nel quadro di un’economia contadina, in cui la tecnica viene sottoposta a un regime dirigistico e gerarchizzato: è questo il motivo per cui si è a lungo creduto che i Cinesi fossero particolarmente restii a divulgarne il segreto. Secondo la tradizione, fu Lie Zu, la consorte del mitico Imperatore Giallo (Huangdi), a insegnare la sericoltura, nel III millennio a.C. E non è un caso che proprio a una figura femminile ne sia stato assegnato il merito, in quanto fu l’abi-

lità della filatura, della tessitura e del ricamo a trasformare il prezioso filamento sottile nella sublime espressione della creatività muliebre. La facile deperibilità del materiale giustifica la relativa «aridità» dei dati archeologici, tanto da creare non poca difficoltà, tra gli studiosi, sulla prima attestazione di sericoltura in Cina. Per esempio, c’è chi la fa risalire ai primi secoli del V millennio a.C., sulla scorta delle raffigurazioni di bachi, incise su di una ciotola in avorio, riferibile alla cultura neolitica di Hemudu (50003200 a.C., baia di Hangzhou, provincia del Zhejiang), scoperta assieme a parti di telaio e strumenti come aghi e rocchetti. In questa zona la produzione tessile sembra superare la semplice filatura di materiali come la canapa, operata in molte altre culture neolitiche.

un primato condiviso? Ma l’identificazione è stata oggetto di non poche critiche, in mancanza di tracce di tessuto serico e di bachicoltura. Altri studiosi hanno persino rivoluzionato la storia della seta, sostenendo che, sin dalle origini, la pratica non fosse appannaggio

esclusivo della Cina, ma anche della valle dell’Indo, nel Pakistan orientale, dove la cultura Harappa fiorí piú di 4000 anni fa, come attestano alcuni ornamenti rinvenuti, contenenti tracce di fibra serica. Al di là della scoperta, rimane certo che la seta cinese si è sempre distinta, da quella di altre aree geografiche, per la qualità del prodotto e per il suo valore di simbolo regale. Basandosi sui resti tangibili del materiale, sembrerebbe ormai certa l’individuazione di alcuni fili – un frammento e una sorta di «cintura» in seta –, ascrivibili alla cultura di Liangzhu (3200-2200 a.C.) e scoperti lungo il delta del Fiume Azzur ro (a Qianshanyang, nel Zhejiang). L’archeologa Irene Good ha però evidenziato che, negli stessi depositi, sono state identificate tracce di sesamo (Sesamum Indicum) e soprattutto di arachide (Arachis hypogaea): se corrette, esse solleverebbero altri tipi di problematiche, dal momento che il sesamo sarebbe stato importato dall’India e le arachidi sono una tipica piantagione sudamericana! Spostandoci nell’attuale Cina centrale, lungo la valle del Fiume a r c h e o 63


civiltà cinese • la seta

Giallo, nella cultura Yangshao (a Qingtai, in Henan), sembra sia stata trovata un’antica traccia di seta lavorata, ma per la cronologia si è potuto fare affidamento solo sui resti culturali del periodo (4000-3500 a.C.), non avendo a disposizione datazioni al radiocarbonio. I piú cospicui ritrovamenti di sete appartengono al periodo degli Stati Combattenti (475221 a.C.) e, ancora una volta, alla Cina meridionale, dove fiorí il raffinato Stato di Chu. Nelle sepolture aristocratiche, la conservazione di reperti organici facilmente deperibili, quali legno, lacca, bambú e seta, è dovuta al raggiungimento di sofisticate tecniche costruttive, che hanno garantito eccezionali condizioni anaerobiche. I resti in seta ricamati e tessuti presentano una decorazione che alterna motivi geometrici e regolari con quelli dal soggetto sacrale.

i colori e le «nuvole» La grande abilità tecnica, in grado di padroneggiare tutte le fasi della filatura, ma anche l’elegante qualità e il vigore espressivo del prodotto artistico, segnalano la prosperità del regno di Chu, ereditata successivamente dalla tradizione imperiale di epoca Han (206 a.C.-220 d.C.). La sofisticata e raffinata manifattura della dinastia è visibile nei preziosi reperti di Mawangdui (Changsha, Hunan), risalenti al II secolo a.C., che comprendono sete semplici, garze e broccati, dipinte con tonalità di rosso, marrone, giallo ocra, grigio e verde, e motivi decorativi floreali, «a nuvole» assieme al ricco repertorio figurativo appartenente al contesto mitologico. Oltre al famoso stendardo della Foto e restituzione grafica di una pittura su seta raffigurante una dama in vesti sfarzose, un drago e una fenice, principale animale totemico dello Stato di Chu, da Chenjiadashan (Changsha, Hunan). Periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.). Hunan, Museo Provinciale.

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marchesa di Dai, straordinariamente intatto (205 x 92 cm di larghezza massima) e considerato il capolavoro della pittura su seta di tutto il I millennio a.C., sono stati rinvenuti recipienti laccati con iscrizioni che indicano Chengdu (Sichuan), già da allora conosciuta come la «città del broccato», come il luogo della manifattura. Qui si produceva il decantato shujin (broccato di Shu), famoso non solo in Cina, che mantenne tale prestigio almeno fino all’epoca Tang (618-907). La seta Han venne utilizzata anche per altri scopi: nello stesso sito sono stati scoperti numerosi manoscritti serici, databili tra la fine del periodo degli Stati Combattenti e l’inizio degli Han, che trattano tematiche filosofiche, storiche e astronomiche. L’inventario comprende an-


tutto comincia con una farfalla mancata... La seta nasce dalla secrezione del Bombyx mori che si nutre del gelso bianco (Morus alba). Gli arbusti venivano tagliati, nei primi anni, a 50 cm circa da terra, per permettere la crescita fino a quasi 2 m d’altezza. È stato calcolato che ci vogliono 30 piante di gelso per ricavare poco meno di 3 kg di seta dipanata. Le ghiandole sericigene del bruco iniziano a secernere filamenti liquidi ricoperti da una sorta di gomma (sericina) che li

salda in unico filamento, solidificandosi al contatto con l’aria. II bruco si chiude in questo filo continuo che diventa il bozzolo. Alcuni vengono conservati per la riproduzione, attendendo che il bruco si trasformi in farfalla e deponga le uova; altri bozzoli invece forniscono la seta «dipanata», quelli rovinati la seta «filata di scarto». Perché il filamento sia continuo è necessario uccidere la crisalide: i bozzoli vengono immersi in un bagno d’acqua calda che dissolve la sericina, saldando tra loro

tutte le spire del filamento. Nell’acqua tiepida vengono afferrate le estremità di questi fili, unendone sei o sette per ottenere un sottile filo di seta, mentre ne occorrono fino a venti e trenta per un filo piú consistente. Tale operazione si effettua con un aspatoio rotativo azionato a pedali, il saosiji, macchina per dipanare e filare. Si ottiene un filo continuo, resistente, brillante, morbido e di un’elasticità estrema. I Cinesi inventarono, quindi, la manovella e una sorta di mulinello che consentiva di raccogliere il filo in matasse. Del resto, la seta si commerciava spesso in questa forma (non ancora tessuta). Le matasse venivano colorate con tinture d’origine vegetale. Col tempo furono utilizzati telai assai elaborati, dotati di cinghie per convertire il movimento rotatorio in rettilineo, longitudinale e viceversa. Si arrivò quindi alla creazione del telaio detto «a bacchette», attrezzato con un sistema paragonabile a quello dei telai a spolette, in uso da tempi molto antichi, e quello detto «a navetta», che consentiva il disegno su trama (e non in ordito), realizzato a partire dal VI secolo, e che velocizzò i tempi di tessitura.

Immagini tratte da un album che illustra le varie fasi della coltivazione e produzione della seta. Dinastia Qing, XIX sec. Brooklyn, Brooklyn Museum.

che mappe della regione, nelle quali sono segnalate le fortificazioni militari dell’epoca, e ancora un dipinto su rotolo che mostra personaggi intenti a compiere esercizi ginnico-respiratori. Secondo le fonti scritte, una serie di significativi avvenimenti determinò l’ingresso della seta cinese nella storia mondiale: nel II secolo a.C. il tessuto divenne uno «strumento politico», per la precisione un tributo donato ai nomadi Xiognu, popolazione di stirpe proto-turca, che invadeva, con continue irruzioni, i territori della Cina settentrionale. Nel 138 a.C., il funzionario Zhang Qian (195-114 a.C.) andò alla ricerca di alleati in Asia Centrale, dove scoprí con stupore un commercio spontaneo di sete che, originarie delle lontane province dello Yunnan e del Sichuan, viaggiavano tra Oriente e Occidente.

dalla cina a roma Come conseguenza, tra il II e il I secolo a.C., l’impero condusse guerre vittoriose e conquiste lungo le direttrici centro-asiatiche, intensificando i contatti commerciali. La «via della seta» entrò cosí nella storia, coinvolgendo numerose culture euro-afro-asiatiche, fino a raggiungere l’impero romano. Molte oasi nell’attuale provincia del cosiddetto Turkestan orientale (attuale Xinjiang), come quella di Loulan (sponde del lago essiccato di Lop Nor), hanno restituito numerosi frammenti, tra cui damascati e broccati, arricchiti da raffigurazioni animalistiche piú o meno stilizzate e talora persino da iscrizioni beneauguranti o apotropaiche, simili a quelle presenti sui coevi specchi in bronzo e sulle lacche: la pittura e la calligrafia, all’insegna di uno spiccato senso decorativo, trovano nella seta una nuova e preziosa «superficie» con cui valorizzare la sublime espressione artistica cinese. a r c h e o 65


civiltà cinese • la seta

E ancora una volta è una donna la protagonista di una leggenda che segnala l’arrivo in Asia Centrale della produzione serica: la «Principessa della seta» andò in sposa al re di Khotan, portando con sé semi di gelso e uova di baco nascosti nel copricapo. La leggenda trova forma figurativa in una tavoletta lignea dell’VIII secolo, rinvenuta nel Turkestan orientale (vedi foto a p. 67, in basso), sulla quale sono rappresentati anche gli strumenti per la lavorazione del prezioso tessuto.

tesori dalle oasi Nella stessa regione, ma nelle aree cimiteriali di un’altra oasi (a Kara Khoja e ad Astana, Turfan), sono state scoperte tracce seriche risalenti dal IV fino al X secolo. Il clima del luogo, estremamente secco, ha permesso non solo il processo di mummificazione naturale di numerosi inumati del periodo Tang, ma anche la conservazione di mussoline, broccati, faille o semplici sete grezze, assieme ad altri antichi reperti, come capi di abbigliamento, spesso dai colori vivaci, e stendardi decorati con immagini teromorfiche, appesi nelle camere sepolcrali, con funzione protettiva e beneaugurale. Tra i motivi prediletti si di-

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Le «vie» della seta Percorso principale Itinerario descritto nel manuale per mercanti di Francesco Balducci Pegolotti (1330-1340)

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Percorsi alternativi Il canale imperiale in epoca Yuan (1279-1368) Rotte marittime

A sinistra: un baco da seta (Bombyx mori) secerne i filamenti che danno vita al suo bozzolo e che saranno poi utilizzati per ricavare il filo di seta.

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Un percorso con molte varianti Il termine Seidenstraße (via della seta) apparve per la prima volta nel 1877, nei Diari dalla Cina (Tagebücher aus China) del geografo tedesco Ferdinand von Richthofen (1833-1905). In realtà, sarebbe piú opportuno parlare di «vie» della seta, considerando i molti tragitti e diramazioni, oltre ai secoli di storia e di scambi culturali che hanno segnato il destino di popoli e culture; i percorsi si sviluppavano per migliaia di km, e partivano dalla capitale cinese, per poi attraversare l’Asia Centrale, il Medio Oriente e Vicino Oriente, fino a raggiungere il Mediterraneo.

Tavoletta lignea raffigurante la leggenda della «Principessa della seta»: il racconto narra che quest’ultima, andando in moglie al re di Khotan, nascose uova di baco e semi di gelso nel suo copricapo, introducendo cosí la sericoltura nell’Asia Centrale, da Dandan Oilik (Khotan, Xinjiang). VIII sec.

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civiltà cinese • la seta

Imitazioni e rivisitazioni Oltre ai motivi decorativi appartenenti alla tradizione cinese, è interessante evidenziare come nel tempo si delinei anche uno stile che assimila elementi mutuati da modelli stranieri come la rota, il disco delimitato da una fascia ornamentale larga e piatta, costituita da fiori stilizzati o da «borchie», all’interno della quale erano sistemate figure di animali o scene varie. La si trova tanto in Cina e in Giappone, per esempio nella versione con la fenice, quanto in Occidente dove accoglie la Natività o l’Annunciazione. Il motivo del cavallo alato che conosce, dal periodo sasanide (224-642) in poi, una fortuna e una diffusione senza precedenti, viene adottato in Cina e viene riproposto, peraltro nella versione plastica, su transenne, amboni e decorazioni, assieme ad altri motivi zoomorfi, di chiese e cattedrali di Amalfi; il senmurv, il cane-uccello artisticamente delineato in epoca sasanide viene accolto e riadattato al gusto bizantino, medievale e islamico; d’altro canto il feng huang, la versione cinese della già conosciuta fenice greco-romana (ma anche del bennu egizio, ecc.), soprattutto tra il XIII e il XIV secolo, conquistò l’Europa, nel momento in cui l’impero mongolo riportò stabilità economica in Asia.

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Alcuni tratti dell’iconografia cinese della fenice, come per esempio la versione che trattiene nel becco uno stelo/tralcio/rametto (ce niao, uccello che morde), migrarono anche nel repertorio figurativo di artisti italiani: oltre a rinnovare il bestiario preesistente di volatili, con le «vesti» delle paradisee (uccelli del paradiso) arricchí i tessuti e fu immortalata in diverse tavole fiorentine del XIV secolo.


stingue la coppia cosmica, Fuxi e Nuwa, rappresentata con sembianze umane, nella parte superiore del corpo, e serpentiformi, in quella inferiore. E non solo, la grande varietà di ritrovamenti ad Astana testimonia l’arrivo in Asia Orientale di prodotti tessili provenienti dall’Egitto alla Sogdiana, con conseguente assimilazione della cultura figurativa straniera nel repertorio iconografico cinese.

veicoli di idee In altre zone (a Dulan, Qinghai) 350 tessuti di seta, in gran parte cinesi, risalenti dal VI fino al IX secolo, presentano tradizionali motivi decorativi che convivono, anche nella loro versione stilizzata, con i vessilli sacri del culto indiano buddhista: figure di asceti e fiori di loto sono infatti uniti a simboli di ispirazione taoista. Le raffigurazioni seriche, legate alla sacralità e alla regalità, diventano veicoli di idee, aspirazioni, intuizioni filtrate e infine assimilate nel ricco repertorio iconografico di altri ambienti e aree geografiche. Le immagini viaggiano da est a ovest e nel senso opposto, ma anche da nord a sud e viceversa. La via della seta diventa col tempo la «via del dialogo», perché raggiunge luoghi lontanissimi, anche quando scoppiano conflitti e urti, talora persino violenti, tra popoli diversi. L’impressionante varietà dei temi iconografici si arricchisce sempre piú di particolari scelte compositive che si adattano alle esigenze locali e diventano depositarie di ulteriori significati. A destra: dipinto su seta raffigurante un’ancella, dall’oasi di Astana (Turfan, Xinjiang). VII-VIII sec. d.C. Nella pagina accanto, in alto: seta broccata di produzione lucchese, con leoni e uccelli del paradiso (paradisee). XIV sec. Lione, Musée des Tissus. Nella pagina accanto, in basso: broccato con «tondo di perle» contenente una coppia di uccelli, da una sepoltura dell’oasi di Astana (Turfan, Xinjiang). VIII-IX sec.

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civiltà cinese • la seta

questioni di status Intervista a Liu Xinru Liu Xinru insegna storia dell’antica India, via della seta e storia del mondo presso il College of New Jersey e ha tenuto dal 1993 una cattedra presso l’Istituto di Ricerca di Storia del Mondo, organo operativo della prestigiosa Accademia Cinese di Scienze Sociali (CASS). Ha all’attivo pubblicazioni sulla storia indiana e cinese, con particolare attenzione verso gli aspetti socio-culturali legati alla via della seta.

◆ Professoressa, che cosa si

può dire con certezza sulle prime attestazioni della sericoltura in Cina? La problematica sulle prime forme di bachicoltura è molto complessa. Ma in base ai preziosi ritrovamenti in Cina, si può supporre che la seta sia stata, con ogni probabilità, la prima fibra lavorata e utilizzata per l’abbigliamento nelle culture neolitiche della Cina orientale. ◆ Qual è, allora, il principale contributo della seta alle culture neolitiche? Quella cinese è stata l’unica cultura antica ad aver considerato la seta come la principale fibra per i prodotti tessili, con funzioni sia culturali, che economiche. Anche se c’erano lino e ramiè (una fibra ricavata dalla corteccia dell’omonima pianta, detta anche canapa della Cina, n.d.r.), la seta è stato il materiale principale per i tessuti prima della coltivazione del cotone. Anche in India, sin dall’antichità, sono stati prodotti vari tipi di seta, ma non costituirono mai il materiale tessile dominante, come è stato, invece, il cotone. Sin dalle origini, in Cina, i filamenti di seta sono stati considerati prodotti tipici della tradizione locale. Ogni allevamento domestico, infatti,

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contemplava la coltivazione di gelso e le donne avevano il compito di estrarre dai bozzoli il filamento. Si realizzavano tessuti in seta a tinta unita per l’abbigliamento delle famiglie, ma anche per il pagamento delle imposte. I governi centrali raccoglievano tessuti serici per le tesorerie statali, utilizzati poi per le transazioni economiche. I governi avevano anche laboratori per la produzione di tessuti di seta elaborate. Sia i colori che i motivi decorativi erano simboli dello status sociale all’interno del sistema gerarchico e burocratico cinese. ◆ I motivi dipinti sulla seta hanno svolto un ruolo importante per la trasmissione culturale: ve n’è


Liu Xinru, docente presso il College of New Jersey.

uno che considera particolarmente significativo? Grazie ai reperti di seta rinvenuti in Asia Centrale, Iran, India e nella zona costiera orientale del Mediterraneo, possiamo sostenere che gli artigiani di tali regioni, attraverso la tessitura, sperimentavano le proprie abilità tecnologiche, ma anche i propri valori estetici. La sericoltura, ovvero l’insieme di tecniche appartenenti all’intero processo di produzione di materiali di seta, dalla piantagione di gelsi all’estrazione della fibra, può essere attestata in queste zone alla metà del I millennio d.C. I tessitori usarono spesso il filamento proveniente dalla Cina per produrre motivi decorativi appartenenti alla

propria cultura. Tra tutti gli stili, quello dei «tondi di perle», ovvero una serie di piccoli cerchi che circondano un motivo al centro, sembra il piú popolare. All’interno del cerchio, potevano esserci un pavone, una papera, un cervo, o una coppia di cavalli, leoni, cavalieri, ecc. Tutti variano per stile e colori. Gli artigiani delle varie culture rappresentarono le proprie idee e valori all’interno di questi cerchi di perle, che divennero il fulcro degli scambi culturali tra i tessitori. ◆ Quale era secondo lei il rapporto tra l’impero cinese Han e quello romano? I negoziati diretti tra i due imperi hanno a che fare con uno scenario estremamente improbabile. L’uno aveva una conoscenza limitata dell’altro. Gli Han avevano avuto modo di conoscere l’impero romano attraverso le città ellenistiche costruite in Asia centrale e i Romani ottenevano seta cinese attraverso l’India e la Persia. Considerando i numerosi intermediari che si trovavano nella vasta area, si può sostenere che l’autorità romana e la corte Han non fossero né partner commerciali, né tantomeno rivali. Nella pagina accanto: seta dipinta con figure di un gentiluomo e di un drago, da Zidanku (Changsha, Hunan). III sec. a.C. Hunan, Museo provinciale. A sinistra: frammento di tessuto decorato con motivi cinesi e di influenza occidentale, da Niya, antica città lungo la via della seta (oggi Minfeng, Tarim Basin, Xinjiang). II-III sec. d.C. Tokyo, Museo Nazionale.

La seta viene ormai utilizzata anche per uno dei prodotti artistici piú caratteristici della Cina e dell’Estremo Oriente: il ventaglio, sia nella versione rigida o rotonda, già presente almeno dall’epoca Han, che in quella pieghevole, in gran voga durante i Song (960-1279). Decorato con pitture a inchiostro, calligrafie, ricami, tessiture, incisioni e applicazioni varie, il ventaglio, anche grazie alla brillantezza e alla preziosità del tessuto serico, entra a far parte degli oggetti che si trasformano in status symbol. Usato spesso tra gli uomini, esso diviene il «protagonista» di rituali, danze, performance teatrali, spettacoli acrobatici, e persino delle arti marziali, fino a elevarsi a prediletto strumento muliebre dei linguaggi seduttivi: il genere femminile, oltre a creare la seta, a corte indossa abiti sontuosi di seta e formula un sofisticato codice comunicativo basato sul sapiente uso dei ventagli, con cui valorizzare le proprie doti ammalianti, confermando il proprio ruolo aristocratico.

un tessuto regale Fu cosí che il pittore Zhou Fang (730-800 circa), immerso nell’atmosfera raffinata della corte dei Tang, realizzò un’opera che possiamo considerare come la celebrazione della seta (vedi foto alle pp. 72/73, in alto). Il prezioso filamento viene usato come supporto tecnico del dipinto, a cui conferisce brillantezza e qualità, elevandosi a effettivo protagonista del racconto visivo. E ancora, il tessuto veste gli sfarzosi abiti e impreziosisce i ventagli dipinti che, oltre a essere depositari di quel simbolismo che la tradizione cinese ha attribuito ai motivi decorativi, conferiscono ulteriore enfasi all’atmosfera di opulenta regalità. Il profondo valore aristocratico attribuito al tessuto serico è una costante che, sin dalle origini, si riflette nella profusione dei motivi decorativi, talora tendenti al puro ornamento, talora, invece, detentor i di profonde valenze simboliche, tanto da arricchire a r c h e o 71


civiltà cinese • la seta

i kimono e il mulino «alla bolognese» Secondo le fonti (Gishiwajinden, III secolo d.C.), la piú antica testimonianza sull’uso della seta in Giappone risale al I secolo a.C., ma la sericoltura si affermò solo alcuni secoli dopo, attraverso i continui contatti con la Cina e la Corea. Si iniziarono a distinguere i lussuosi nishiki, dai fili multicolori, e l’aya, il broccato impreziosito dai motivi ornamentali. Ma la seta cinese si distingueva per l’alta qualità e veniva considerata un prodotto di grande prestigio. Col tempo la passione del lusso e le stravaganze della moda permisero di raggiungere gradi elevatissimi di espressività e perfezione tessile. Sino alla fine del XVI secolo, i tessuti preferiti per la produzione di abiti pregiati in Giappone sono stati quelli di seta, sui quali la decorazione all’inizio non veniva dipinta direttamente sul tessuto, ma

Qui sopra: il taglio delle foglie di gelso per la bachicoltura, particolare di una stampa dell’artista giapponese Kitagawa Utamaro (1753-1806).

ricamata, e consisteva di sontuosi broccati. Il modello basilare del vestiario giapponese, il kosode, assunse definitivamente le sembianze del kimono, spesso realizzato in seta. Si distinse il furisode, kimono riccamente decorato, con ampie maniche oppure l’uchikake, dall’orlo imbottito e ancora con grandi maniche, che veniva tenuto aperto, senza essere fermato alla vita da nessuna cintura. Anche l’Italia, dal XII secolo, divenne uno dei principali produttori europei di sete: le città di Palermo, Catanzaro e Como furono particolarmente rinomate. Industrie dei filati serici fiorirono a Lucca e in seguito (alla fine del XIII secolo) a Bologna: il «mulino alla bolognese» (che migliorava le macchine utilizzate a Lucca grazie a una ruota idraulica e a un incannatoio meccanico) forniva filati piú uniformi e resistenti.

tutti gli abiti di corte (chaofu e longpao), soprattutto durante la dinastia dei Qing (1644-1911). La seta decorata con i vessilli del potere veste l’ordinatore dell’universo, colui che detiene il mandato celeste: l’imperatore. Il forte cromatismo e le imponenti ornamenta-

zioni degli abiti di corte, indossati per le celebrazioni ufficiali e di rito, rievocano il solenne e maestoso impatto visivo dei palazzi imperiali, in concomitanza con lo sviluppo, ancora una volta nelle province sud-orientali (Hangzhou, Suzhou e Jiangning), di numerosi centri spe-

Miniature raffiguranti la tintura della seta, dal Trattato dell’Arte della Seta in Firenze. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.

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In alto, sulle due pagine: dame di corte adornano i loro capelli con fiori, dipinto su seta di Zhou Fang. Dinastia Tang, VIII sec. Shenyang, Museo Provinciale. Qui accanto: veste da festa in seta, con draghi, nuvole, onde e montagne. Dinastia Qing, epoca Qianlong, 1736-1795. Salem, The Peabody Essex Museum. A sinistra: ventaglio rotondo in seta decorato con pittura a inchiostro e testo calligrafico. XIX sec. Collezione privata.

cializzati nella produzione di manifatture. Grazie alle sue innumerevoli qualità, la seta è divenuto uno dei simboli piú rappresentativi della civiltà cinese: fu un abbigliamento regale, una superficie su cui raffigurare i simboli sacri e imperia-

li, e ancora un prezioso tributo per i nomadi, tanto da divenire per secoli una voce fondamentale del commercio. Ma la seta fu anche un importante supporto per la scrittura e la pittura, oltre ad aver decorato e custodito gli oggetti preziosi. Piú di una volta una fibra vegetale, sottile come i filamenti della tela del ragno ma brillante come i raggi del sole, ha tessuto le trame della storia. Ecco perché, sebbene sia stata poi conosciuta come Cina, è forse l’antico Seres il nome piú adatto per definire e riconoscere il grande valore conseguito dal Paese della seta. (6 – continua) a r c h e o 73


gli imperdibili • Il guerriero di Lanuvio

74 a r c h e o


ultimo viaggio del guerriero

L’

Gli straordinari reperti rinvenuti, ottant’anni fa, nella tomba di un capo militare latino rievocano alcuni eventi fondamentali per la storia di Roma. E, al contempo, testimoniano degli antichi ideali di perfezione fisica e abilità, tipici dell’epoca tardo-arcaica di Daniele F. Maras

«A

rono alla scoperta casuale di una llo spuntar del giorno Ca- In alto, sulle due pagine: Roma, tomba di eccezionale valore scienmillo fece la sua comparsa, Palazzo dei Conservatori, Sala dei tifico e documentario, rimasta senza con le armi che splendeva- Capitani. Particolare dell’affresco di uguali nel panorama delle necropono al sole, alla testa dei Romani che Tommaso Laureti raffigurante la li del Lazio. Per pura fortuna, lo avevano ritrovato il coraggio»: con Vittoria del Lago Regillo. 1587-1594. scasso per la costruzione di una questa immagine epica lo storico Qui sotto: cartina del Lazio in età greco Plutarco introduce la riscossa arcaica, con l’ubicazione di Lanuvium. vasca di irrigazione raggiunse, senza danneggiarla, una fossa sedei Romani contro i Galli i polcrale contenente un sardi Brenno, che, nel 390 Capena Cures n bi Sa cofago di peperino. La zoa.C., avevano osato conAlba Crustumerium E Caere t r uCareiae na era già nota agli archeoquistare la loro città (sia s Veii Fidenae Mars Tibur i logi per la presenza dei resti pure per un breve perioq Gabii Ae di una villa romana, ma do). Allo stesso tempo, la Fregenae Roma Pedum i nessuna testimonianza di descrizione letteraria ci reEr Tiberis n ni t i Tusculum Praeneste ci La necropoli era stata fino ad stituisce il valore estetico Tolerium Bovillae Ostie Anagnia Alatrium Artena Laurentum allora segnalata. dell’armatura del soldato Sora Signia Ferentium Velitrae Lavinium Lanuvium Cora Di propria iniziativa gli romano, capace di incutere Arpinum Frusina Ardea Norba operai sfondarono la parete timore e rispetto già solo Fregellae Setia della cassa e recuperarono con la sua apparizione. Satricum Antium Au un elmo cesellato di bronIn questa puntata ci occuPrivernum ru Astura n zo e una lunga spada ricurpiamo quindi di armi e Fundi Anxur va di ferro, che vennero ar mature, prendendo a Spelunca Circeii Mare prontamente consegnati modello un equipaggiaTyrrhenicum alla Soprintendenza.Venne mento piú antico di un presto eseguito uno scavo secolo rispetto all’episodio archeologico piú accurato, di Furio Camillo e proveNella pagina accanto, in primo piano: niente da un ambito funerario l’elmo a calotta e la corazza, entrambi portando alla luce l’intera «camera» tombale: in realtà una fossa trapeester no a Roma, ma inser ito forgiati in bronzo come accessori da nell’universo culturale latino. parata, facenti parte della tomba detta zoidale di 2 x 2 m, preceduta da una breve rampa o scivolo di terra. Ottant’anni fa, nel gennaio del del «Guerriero di Lanuvio» (vedi a p. Il sarcofago di pietra era accostato 1934, lavori agricoli condotti nella 77 per la descrizione). Inizi del presso un angolo della fossa e procampagna di Lanuvio, il piú meri- V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale tetto da un coperchio configurato a dionale dei Castelli Romani, porta- Romano alle Terme di Diocleziano. Lacus Sabatinus

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gli imperdibili • Il guerriero di Lanuvio

forma di tetto a due spioventi. Era gio nella Lanuvio dei primi anni ogni probabilità installate a Vulci, evidente che la tomba era rimasta del V secolo a.C. (tale è la datazione dove sono stati trovati i confronti inviolata nei millenni, anche grazie della tomba) si riflette nella prezio- piú vicini per entrambe le compoal suo isolamento dalle altre aree di sa fattura del suo armamento. La nenti dell’armatura. Al contrario il corazza di bronzo, che al momento cinturone, con fibbia rotonda e necropoli dell’antica città. Sollevato il coperchio, comparvero della scoperta conservava ancora interamente rivestito di borchiette i resti di un individuo, la cui età fu ampi resti delle componenti di cuo- di bronzo, e la lunga spada ricurva stimata in circa 25 anni, per un’al- io e lino, che la rendevano piú con- (un tipo di sciabola da cavalleria tezza di 1,66 m. Ma la caratteristica fortevole da indossare, è modellata a molto diffusa nell’antichità) hanno piú spettacolare, che rende la tomba riprodurre i muscoli massicci del un’origine picena e potrebbero unica tra le testimonianze funerarie torso, in modo da conferire un effettivamente essere stati importati dall’area adriatica. latine arcaiche e di età repubblicana, aspetto imponente e guerresco. è l’armatura esibita dal defunto, L’elmo di bronzo ha la forma di una Di maggiore interesse artistico e storico è invece il corredo completa di una corazza palestra, composto da (che si aggiunse all’elmo Gli occhi posti sull’elmo da elementi derivanti, in ulgià raccolto) e di un cintutima analisi, dalle pratiche rone, di cui rimangono le davano al guerriero un sportive greche, basate parti in lamina di bronzo, aspetto «sovrumano» sull’ideale della perfetta essendosi il cuoio del tutto forma fisica dell’ottimo deteriorato. La sepoltura di un soldato, insomma: presumibil- calotta, bordata in basso da una co- soldato e cittadino. Due o tre unmente un capo militare; e infatti la rona d’alloro stilizzata, che si imma- guentari di alabastro servivano a scoperta venne presto ricordata con ginava cingere la fronte del guerrie- contenere gli oli profumati con il nome di «Tomba del Milite», poi ro vittorioso. Sul davanti, un rilievo cui gli atleti provvedevano alla modificato nel piú moderno «Tom- in argento applicato riproduce due cura del corpo. occhi spalancati, completi di soba del Guerriero» di Lanuvio. Tuttavia, a contrastare con questa pracciglia e dell’attacco del naso; prima e dopo le gare caratterizzazione militaresca, il resto cosa che garantiva al guerriero A tale pratica si legano anche i resti del corredo conteneva esclusiva- un’altezza maggiore del vero e di una gabbietta di bronzo con immente oggetti legati alla palestra e un’apparenza «sovrumana». Sulla boccatura a imbuto, che in origine alle attività ginniche, mentre man- sommità, due piccoli dragoni a tut- conteneva una sacca di cuoio riemcavano (coerentemente con gli usi to tondo facevano da base per l’at- pita di sabbia fine e pulita, da usare degli antichi Latini) vasi da ban- tacco del cimiero, oggi perduto, che per detergere la pelle, dopo averla chetto e offerte funerarie, cosí co- coronava in alto la figura. spalmata di olio e prima di raschiarmuni nei corredi funerari etruschi Tanto la corazza quanto l’elmo, la con lo strigile, di cui sono stati evidentemente pezzi da parata, che ritrovati nella tomba due esemplari della stessa epoca. forse non sono mai stati usati real- in ferro. Non mancavano una picmente in battaglia, sono prodotti di cola zappa, usata dagli atleti per studi e riscoperte Sebbene prontamente e accurata- officine etrusche meridionali con preparare il terreno prima di procemente pubblicato da don Alberto Galieti, benemerito studioso della Un documento prezioso storia e archeologia lanuvina, il Uno degli schizzi eseguiti nel 1934 corredo della Tomba del Guerriero da don Alberto Galieti durante lo rimase al margine degli studi moscavo della tomba, allora derni fino agli anni Settanta e Otbattezzata «del Milite». tanta del Novecento, quando apparvero contributi di Giovanni Colonna e Carmine Ampolo sulle usanze funerarie dei Latini. Ma una vera «riscoperta», con l’opportuno inquadramento stor ico dell’eccezionale sepoltura, si deve a Fausto Zevi, che se ne interessò in occasione di due importanti esposizioni del 1990: La grande Roma dei Tarquini e Archeologia a Roma. Lo status eccezionale del personag76 a r c h e o


carta d’identità dell’opera • Nome Tomba del Guerriero di Lanuvio • Definizione Corredo funerario composto da oggetti legati alla guerra e all’atletismo agonistico • Cronologia Inizi del V secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Lanuvio (Colli Albani) • Luogo di conservazione Roma, Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, Collezione epigrafica

1. Elmo

Un rilievo in argento, sul davanti, riproduce due occhi spalancati.

i tesori del guerriero

2. Corazza

Il disegno dei muscoli conferisce un aspetto imponente e guerresco.

Il disco da lancio (vedi alle pp. 78-79), era forse il premio di una gara sportiva.

6. Zappa 1

3. Fiasca e strigile

La piccola zappa con cui gli atleti preparavano il terreno, cosí da migliorare le proprie prestazioni.

7. Cinturone

Oggetti riferibili alle pratiche ginniche e sportive.

Con fibbia rotonda e rivestito di borchiette, è di probabile produzione picena.

4. Punta di giavellotto Riferibile a un attrezzo che poteva avere un impiego sia sportivo che bellico.

5. Disco

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8. Spada

Del corredo faceva parte una lunga e pesante sciabola, con lama ricurva, a un solo taglio, tipica della cavalleria.

3

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gli imperdibili • Il guerriero di Lanuvio

dere agli esercizi ginnici, cosí da migliorare le proprie prestazioni, e due giavellotti, la cui asta lignea era andata perduta, che accanto alla funzione sportiva conservavano quella militare. Ma il manufatto piú notevole della tomba è uno splendido disco da lancio in bronzo, finemente decorato a incisione, che forse costituiva il premio di una gara sportiva e va annoverato tra gli oggetti da collezione piú preg iati del Guerriero di Lanuvio. Come in alcuni rari esemplari greci (ma come mai accade nel resto dell’Italia antica), le due facce del disco presentano scene figurate, contornate da una ricca decorazione floreale, di aspetto quasi calligrafico. Su un lato l’incisore ha voluto rappresentare l’azione stessa del lanciatore di disco, ritratto nel momento in cui ha effettuato la torsione del busto e sta per roteare su se stesso per scagliare l’attrezzo. La difficoltà di raffigurare su due dimensioni un rapido movimento circolare nello spazio ha conferito alla figura un aspetto impacciato, in cui le gambe sembrano correre a grandi falcate, mentre il busto è rivolto verso lo spettatore e la testa guarda a destra. Ciononostante, vanno notati l’efficacia compositiva e il coraggio dimostrato dall’artista nel realizzare uno schema di tale difficoltà.

Foto e restituzione grafica della faccia del disco sulla quale è raffigurato un cavaliere armato, che scende agilmente da un cavallo al galoppo, brandendo una lancia.

il cavaliere al galoppo Piú facile e sciolto appare il tratto sull’altra faccia del disco, sulla quale è raffigurato un cavaliere armato in modo sorprendentemente simile al Guerriero di Lanuvio (salvo l’aggiunta degli schinieri, di cui nella tomba non si è trovata traccia), che scende agilmente da un cavallo al

galoppo, brandendo una lancia. Si trattava di una specialità a un tempo sportiva e militare solo raramente praticata in Grecia, dove fu introdotta piuttosto tardi, piú o meno negli stessi anni della nostra tomba; al contrario, essa ebbe un discreto successo in Italia, a partire dalla Magna Grecia, dove una simile scena era riprodotta negli acroteri di mar-

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mo del tempio di Marasà a Locri, ma anche, piú vicino nel tempo e nello spazio, a Veio, dove il santuario di Portonaccio esibisce acroteri angolari con giovani soldati che saltano giú dal cavallo al galoppo. Il corredo della tomba lanuvina e, soprattutto, le figure del disco ci restituiscono l’immagine di un provetto soldato di cavalleria (con ogni probabilità un comandante), che spendeva il proprio tempo libero in esercizi ginnici adatti alla preparazione militare. E, di fatto, nell’antichità l’attività sportiva professionale disgiunta dall’impegno civico e militare non era contemplata. In particolare, l’esercizio di destrezza del cavaliere in grado di saltare in armi dal proprio cavallo lanciato al galoppo è noto nella tradizione latina, dove tali atleti venivano chiamati desultores, letteralmente «coloro che saltano giú».

giochi per la vittoria La piú antica menzione di tale pratica ginnica a Roma è ricordata dallo storico greco Dionigi d’Alicarnasso in occasione dei giochi del 496 a.C., organizzati per festeggiare la vittoria del lago Regillo, dove i Romani avevano sconfitto i Latini, riuniti in coalizione per riportare al potere il re Tarquinio il Superbo, esiliato dalla città. Narrano gli storici che i combattimenti prolungati avevano fiaccato la fanteria romana, che stava ormai per cedere terreno ai nemici. Subito il console Aulo Postumio, accortosi del pericolo, ordinò agli ausiliari di cavalleria di scendere da cavallo e prestare soccorso ai loro compagni a piedi. «Essi obbedirono al comando – narra Tito Livio – saltarono giú dai cavalli e volarono fra le prime linee opponendo i propri scudi


rotondi a protezione delle postazioni piú avanzate» (antesignani, letteralmente «coloro che stanno davanti alle insegne»). I termini usati da Livio: «saltare giú» e «volare» (desiliunt, provolant) si rivelano quanto mai adatti a descrivere l’immagine trasmessaci dal disco di Lanuvio; e non è un caso che la parola desultor abbia la stessa base etimologica del verbo desilio. La battaglia del lago Regillo ha anche un pendant mitico, legato all’introduzione del culto dei Dioscuri a Roma e al conseguente voto del tempio i cui resti ancor oggi sorgono nel Foro Romano. La leggenda vuole che il console, di fronte alla difficoltà della battaglia, avesse chiesto l’aiuto dei gemelli divini, promettendo loro di innalzare un tempio in caso di vittoria: subito due cavalieri sconosciuti sarebbero accorsi a guidare le truppe romane, portando scompiglio tra i nemici. Dopo la battaglia nessuno riuscí a rintracciare i provvidenziali alleati, ma proprio in quel momento a Roma essi furono visti abbeverare i propri cavalli alla fonte di Giuturna, nel cuore del Foro Romano, e prima di sparire approfittarono per dare l’annuncio della vittoria in tempo reale.

arrivano i Dioscuri Prima di allora già in Grecia l’intervento dei Dioscuri era stato determinante per alcune vittorie militari; e in particolare una loro apparizione in soccorso dei Locresi durante la battaglia della Sagra è stata posta in relazione con le figure dei cavalieri raffigurati sul tempio di Marasà ai quali abbiamo accennato. In questo modo il cerchio mitico-r ituale-stor ico si chiude, grazie alla ricostruzione

L’altra faccia del disco, sulla quale si vede il lanciatore, ritratto nel momento in cui ha effettuato la torsione del busto e sta per roteare su se stesso per scagliare l’attrezzo.

archeologici che maggiormente «parlano» al visitatore, raccontando eventi di fondamentale importanza per la storia di Roma e del Lazio e allo stesso tempo trasmettendo gli antichi valori di perfezione fisica e abilità militare che informavano gli ideali dell’epoca tardo-arcaica. Il Guerriero di Lanuvio era forse un comandante latino che aveva combattuto al lago Regillo? Era forse un mercenario, magari etrusco o piceno, vista la provenienza della sua armatura, al servizio della città di Lanuvio? Era semplicemente un grande atleta «professionista», che si distinse nelle gare militari e ginniche piú in voga nella sua epoca e vinse i preziosi elementi del suo equipaggiamento? Non avremo mai la possibilità di indagare piú a fondo la storia individuale di questo personaggio. Ma il ritrovamento della tomba e la conservazione del contesto aprono uno squarcio di luce sulla società dell’Italia centrale nei primi anni della repubblica romana.

PER SAPERNE DI PIÚ: Fausto Zevi, La tomba del Guerriero di Lanuvio, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-itqlique. Atti della tavola rotonda (Roma, 3-4 maggio 1991), Collection de l’École Française de Rome 172, Roma 1993; pp. 409-442. Fausto Zevi, La Tomba del Guerriero, in Terme di Diocleziano. La collezione epigrafica, Electa, Milano 2012; pp. 131-133.

presentata da Fausto Zevi in un saggio del 1993. Sebbene privo di iscrizioni, il corredo della Tomba del Guerriero di Lanuvio è oggi esposto nella sezione epigrafica del Museo Nazionale Romano, ospitata nella sezione delle Terme di Diocleziano, a Roma, nella prossima puntata presso la Stazione Termini. Ma la tomba, in effetti, è uno dei contesti • Le stele iscritte dei Veneti

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Nelle case di augusto e livia Sulle due pagine: particolari delle pitture, oggi nuovamente visibili, che ornano la Casa di Augusto e la Casa di Livia sul Palatino. Alla prima appartengono: la maschera (1), i pannelli dello studiolo (3) e il fregio con uccelli (5); fanno invece parte della decorazione della seconda: il festone di foglie, fiori e frutti (2) e il quadretto con architetture (3). Tutte le pitture possono essere assegnate al II stile e sono databili al 30 a.C. circa.

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a spasso con augusto Invitiamo i nostri lettori a visitare una «Roma inedita», lungo un itinerario che parte dalla casa dell’imperatore sul Palatino, prosegue per l’antico Vico Iugario, la Basilica Giulia, le grandiose Terme di Diocleziano e si conclude nella leggendaria villa fuori porta di Livia. Uno straordinario patrimonio di luoghi, reperti e memorie della città antica, tornato di nuovo fruibile al pubblico dopo una lunga operazione di restauro di Mimmo Frassineti

I

l primo imperatore dei Romani nacque il 23 settembre del 63 a.C. «il nono giorno dopo le Calende di ottobre, nel quartiere del Palatino presso Capo di Bove, ove ora sorge una cappella innalzata qualche tempo dopo la sua morte» (Svetonio, Augusti Vita, 5; traduzione di Guido Vitali). Era figlio di Gaio Ottavio, di fresca nomina senatoria, e di Azia Maggiore, nipote di Cesare, che invece apparteneva a una famiglia di antica nobiltà. L’uomo che rivoluzionò la vita politica e sociale di Roma, che assicurò la pace in tutto il Mediterraneo e costruí strade, ponti, acquedotti, terme, estese i territori conquistati, arricchí l’erario, tutelò i piú poveri, difese la famiglia e i valori della tradizione, si distinse per cinismo, crudeltà e mancanza di senso morale. Cosí Giorgio Ruffolo ne delinea la parabola: «Di solito, dopo Augusto, gli impe-

ratori hanno compiuto la loro metamorfosi nel senso piú ovvio della patologia del potere: dalla normale virtú alla follia criminale. Lui la percorse a ritroso: da gangster a padre della patria. Da questa canaglia sbocciò infatti il fondatore di uno dei piú gloriosi regimi della storia» (Quando l’Italia era una superpotenza, Einaudi 2004).

cinque guerre civili Nel 44 a.C., dopo l’assassinio di Cesare, Ottaviano apprese di essere stato nominato nel suo testamento figlio ed erede. È l’inizio dell’ascesa al potere, segnata da capovolgimenti delle alleanze militari, delle amicizie politiche e perfino degli affetti familiari. «Sostenne cinque guerre civili: la modenese, la filippense, la perugina, la sicula, l’azíaca, delle quali la prima e l’ultima contro Marco Antoa r c h e o 81


speciale • bimillenario augusteo

nio, la seconda contro Bruto e Cassio, la terza contro Lucio Antonio fratello del triumviro, la quarta contro Sesto Pompeo figlio di Gneo» (Svetonio, Augusti Vita, 9). Nel primo di questi conflitti Ottaviano fu affiancato non solo dai veterani di Cesare, ma anche da un gruppo di senatori già anticesariani (fra i quali Cicerone), che lo preferivano ad Antonio, ritenendolo piú controllabile. Ottaviano sconfisse Antonio a Modena nel 44 a.C., ma, subito dopo, si accordò con lui, creando, nel 43 a.C., il secondo triumvirato, con Marco Emilio Lepido. Assieme ad Antonio e soprattutto grazie a lui, vinse a Filippi, in Macedonia, i cesaricidi Bruto e Cassio. Poi affrontò Lucio Antonio, fratello di Marco, in disaccordo sulla distribuzione di terre ai veterani, che sconfisse a Perugia, e combatté Sesto Pompeo per contrastare il dominio che questi esercitava sul mare con la sua flotta, sconfiggendolo presso Nauloco, in Sicilia.

contro antonio e cleopatra Nel 32 a.C. Marco Antonio ripudiò Ottavia, sorella di Ottaviano, sposata otto anni prima. Ottaviano rese allora pubblico il testamento del cognato, nel quale Cleopatra e i suoi figli erano designati eredi dei territori orientali di Roma, e convinse Roma a dichiarare guerra all’Egitto. Nel 31 a.C. la flotta di Ottaviano,

orso del C Via

comandata da Marco Vipsanio Agrippa, annientò ad Azio, nel mare Ionio, quella di Antonio e Cleopatra, che fuggirono. L’anno Piazza o d’Italia s r dopo, quando i Romani espugnarono Alesdel Popolo o C sandria, i due amanti scelsero il suicidio. e br Il tempo delle guerre, nel corso del quale m tte e Ottaviano si era dimostrato piú abile come S Piazza Ara Ara Pacis Piazza Pacis X politico che come condottiero, era finito. Nel X Cavour di Spagna a 29 a.C. il vincitore celebrò un triplice trionVi Terme di Diocleziano fo e chiuse il tempio di Giano. Nel 27 il Piazza della Repubblica Senato gli assegnò il titolo di Augusto, che Montecitorio sarebbe stato portato da tutti gli imperaQuirinale e Co STAZIONE al Piazza n tori romani venuti dopo di lui. rs TERMINI io oV Navona az Augusto ebbe tre mogli: Clodia Pulcra, i tto N rio a i figliastra di Antonio, sposata nel 42 Ema V nuele II Piazza a.C., e ripudiata l’anno dopo per leVenezia olo garsi a Scribonia, nipote di Sesto Pompeo, dalla quale ebbe Giulia (diCampidoglio vorziando il giorno stesso della nascita della bambina poiché sperava in un Colosseo erede maschio), e Livia Drusilla, che Palatino sposò nel 39, costringendola a separarCasa di Augusto si da Tiberio Claudio Nerone, dal Casa di Livia quale la donna aveva avuto Tiberio, il San Giovanni in Laterano futuro imperatore. Il matrimonio fu celebrato quando Livia era già incinta di Druso, che nacque tre mesi dopo. AuguVi a Te sto fu travagliato dal problema della sucr c ed m i C a ra

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Terme di Caracalla


In alto: il percorso che conduce alle Case di Augusto e di Livia sul Palatino. Nella pagina accanto: cartina dell’area centrale di Roma con i luoghi coinvolti nelle piú importanti iniziative organizzate per celebrare il bimillenario della morte di Augusto.

cessione. La sua scelta era caduta sul nipote Marcello, che sposò Giulia nel 25 a.C., ma morí due anni piú tardi. Quindi designò Agrippa, che sposò a sua volta Giulia, ma morí nel 12 a.C. Poi i figli di Agrippa e di Giulia, Gaio e Lucio Cesare, deceduti rispettivamente nel 4 a.C. e nel 2 d.C. Poiché nel 9 a.C. era morto anche Druso, rimase come unico possibile erede il meno gradito ad Augusto, il figliastro Tiberio, adottato nel 4 d.C.

la commedia della vita Augusto morí a Nola il 19 agosto del 14 d.C. Racconta Svetonio che chiese uno specchio e volle che gli si acconciassero i capelli e le guance cascanti. Fece poi entrare gli amici ai quali chiese se avesse ben recitato la commedia della vita. Dopo averli congedati, e mentre domandava notizie della figlia di Druso ammalata, spirò tra i baci di Livia dicendo: «Livia, vivi ricordando la nostra unione! Addio!» Per il bimillenario della morte del primo imperatore la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma ha presentato una serie di interventi sui luoghi augustei, primo fra tutti il Palatino, dove Augusto nacque e scelse di abitare. Qui è stato riallestito il Museo Palatino e sono state riaperte la Casa di

Augusto e la Casa di Livia. Nel Foro Romano è stato reso accessibile il percorso tra il Vico Iugario e la Basilica Giulia. Nelle Terme di Diocleziano restauri hanno interessato la Natatio e l’aula VIII, ed è stato riaperto il Chiostro Piccolo della Certosa. Nella Villa di Livia, sulla via Flaminia, è stato riallestito l’Antiquarium e ricreato il Lauretum, il boschetto di alloro che forniva i rami per i trionfi degli imperatori. All’età augustea appartengono anche il Mausoleo di Cecilia Metella e la Piramide Cestia, il cui restauro è in fase di ultimazione. Una testa di Livia è stata rinvenuta nello scavo della Crypta Balbi. E, infine, nel Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo si è aperta (e durerà fino al 2 giugno 2015), la mostra Rivoluzione Augusto. L’imperatore che riscrisse il tempo e la città, incentrata sulla riforma del calendario. Augusto si vantava di aver trasformato una città di mattoni in una città di marmo. Sarà piú facile, agli oltre cinque milioni di turisti che ogni anno visitano Roma, andare alla scoperta degli interventi augustei che la trasformarono, grazie alla didascalizzazione, con pannelli informativi, di tutta l’area archeologica, e all’applicazione gratuita ForumApp, scaricabile gratis, che propone due itinerari guidati con mappe interattive e indicazione di punti d’interesse per esplorare Palatino e Foro Romano.

IL PALATINO SACRO COLLE Oltrepassata un’isola di forma lunga e stretta, apparve ai Troiani una rupe, dominata da una rocca e dai tetti di poche capanne. Quei tetti, dice Virgilio nel canto VIII dell’Eneide, che ora la potenza romana ha elevato al cielo. Il dio Tiberino era apparso in sogno a Enea per esortarlo a risalire il fiume: troverà, sulla riva, una scrofa bianca con trenta porcellini, che dovrà immolare a Giunone. Sul colle boscoso, il re Evandro e suo figlio Pallante accolgono Enea e lo invitano a partecipare a un banchetto sacrificale in onore di Ercole: proprio qui l’eroe uccise Caco, il gigante antropofago che aveva osato rubargli la mandria. Esule dalla nativa Arcadia, Evandro ha fondato la minuscola città di capanne, Pallanteo, dal nome di un suo avo. Si consumano carni a r c h e o 83


speciale • bimillenario augusteo

arrostite, vino e focacce. Evandro rievoca il secolo d’oro, quando Saturno, fuggito dall’Olimpo e dall’ira di Giove, regnava sulla regione, che aveva chiamato Lazio. L’anziano re guida Enea nei luoghi selvaggi dove un giorno sarebbero sorti i templi e i palazzi di Roma: il bosco che Romolo avrebbe proclamato asilo per i fuggiaschi dalle città vicine, la valle del Foro, attraversata dagli armenti, la grotta del Lupercale, la rupe Tarpea e il colle del Campidoglio avvolti da una selva impenetrabile. L’indomani Enea ed Evandro stipulano un’alleanza contro i Latini, capeggiati da Turno. Evandro manderà 200 cavalieri guidati dal figlio Pallante. Intanto Venere convince il marito Vulcano a forgiare nuove armi per l’eroe troiano. Il dio si mette all’opera e presto consegna a Venere la meravigliosa armatura. Sullo scudo sono cesellate scene della storia albana e romana, fino alla vittoria di Augusto nella battaglia di Azio. Turno sarà ucciso da Enea, che sposerà Lavinia e fonderà la città di Lavinium. Il figlio Ascanio sarà il fondatore di Alba Longa. Qui,

300 anni piú tardi, l’usurpatore Amulio spodesta il fratello Numitore, legittimo re, e costringe sua figlia Rea Silvia a farsi vergine vestale, affinché non nascano possibili rivali.

i gemelli in balia del fiume Precauzione vana, poiché la ragazza, violentata – asserisce – da Marte, dà alla luce due gemelli. Amulio ordina di abbandonarli nel Tevere in piena, ma chi esegue l’ordine li depone in una cesta, che galleggia sui flutti e si arena ai piedi del Palatino. Una lupa, che ha perso i suoi piccoli, allatta i gemelli. Li trova il mandriano Faustolo e li affida alla moglie Acca Larenzia o forse, insinua Tito Livio, la lupa è Acca Larenzia, che usava prostituirsi con i pastori (lupa, prostituta, da cui lupanare). Appresa la propria origine, i due ragazzi uccidono Amulio e rendono il trono al nonno Numitore. Poiché ora sanno di essere di stirpe regale, decidono di fondare una città. Se non fossero gemelli avrebbe diritto di regnare il piú anziano. Il conflitto è inevitabile, e sarà Remo a soccombere. Sulla sommità del

Il Foro Romano e il Palatino

Colosseo

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basilica giulia

Innalzato tra il tempio dei Castori e quello di Saturno, l’edificio fu iniziato da Cesare nel 54 a.C. e ultimato da Augusto.

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palatino

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Il settore occidentale accolse le capanne protostoriche, il tempio di Apollo, la Casa di Augusto e quella di Livia, il tempio della Magna Mater.


LA CASA DI AUGUSTO

Le Case di Augusto e Livia sul Palatino

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Sul Palatino Augusto stabilí la sua residenza, come gli imperatori venuti dopo di lui. Qui già possedeva una casa, quella in cui era nato nel 63 a.C. Ma si trovava sulle pendici nordorientali del colle, che oggi affacciano sul Colosseo, lontana dai luoghi considerati piú simbolici. Ecco perché Augusto, che secondo Svetonio inizialmente abitò nel Foro Romano, presso la collina Velia, si trasferí poi sul Palatino, in un’abitazione già appartenuta all’oratore Quinto Ortensio Ortalo, modesta, ma attigua alla capanna di Romolo e ai luoghi sacri della fondazione di Roma. Fu il primo tassello di una serie di acquisizioni immobiliari in un’area confinante con il Cermalo – il settore del Palatino in cui sor-

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Palatino Romolo traccia un solco quadrato che cinge i luoghi del mitico incontro di Enea con Evandro. La leggenda e la data tradizionale – il 753 a.C. – della fondazione L’attribuzione dell’Urbe, non sono contraddette dagli scavi: alla consorte almeno dall’VIII secolo un villaggio di di Augusto è capanne occupava la cima del colle. confermata Questi luoghi hanno mantenuto nei secodal marchio li un carattere sacro. Templi vi sorgevano su una fistula. già in età arcaica. Durante la repubblica 2 tutti i personaggi piú in vista volevano abitare qui. Dalla Roma quadrata, dal sacro perimetro tracciato da Romolo, Tempio discendeva l’investitura per chi ambiva di a esercitare autorità e comando. Il apollo colle rimase sede imperiale fino al Inaugurato nel trasferimento della capitale a Costan29 a.C., vi si tinopoli. E la parola palatium entrò in conservavano numerose lingue a designare gli edii Libri fici piú eccelsi per importanza e Sybillini. concentrazione di potere. casa di livia

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casa di augusto Già proprietà dell’oratore Ortensio, l’imperatore vi si stabilí nel 42 a.C. circa.

Statua di Augusto come pontefice massimo, da via Labicana. Fine del I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

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speciale • bimillenario augusteo Sulle due pagine: particolari delle pitture che ornano la Casa di Augusto. Da sinistra, in senso orario: edicola con scena; le pareti dello Studiolo; il soffitto dello stesso ambiente, caratterizzato da una raffinata alternanza di stucchi e riquadri; una figura femminile. II stile, 30 a.C. circa.

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gono le capanne protostoriche – che le Scalae Caci, uno stretto sentiero, separano oggi dalla residenza imperiale.

maschere e festoni Chiusa finora in gran parte, la casa è stata dotata di un nuovo tetto, con una copertura a prato, che ripara dalle intemperie gli ambienti affrescati e permette oggi di aprirla per intero. Sono visibili per la prima volta, grazie anche a una passerella che protegge i mosaici pavimentali, le pitture che decoravano biblioteche e sale di ricevimento, e la Stanza delle Prospettive. Maschere e festoni sono i temi decorativi delle stanze private, pavimentate a tessere bianche e nere. La nuova illuminazione tende al freddo nella parte ufficiale della casa, mentre è piú calda nella residenza privata. All’esterno, con vista sul Circo Massimo, si apre un giardino astratto e simbolico, dove un intreccio aereo di fili su cui si avvolgono tralci di Vinca minor vuole alludere alla presenza di acqua.

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speciale • bimillenario augusteo

LA CASA DI LIVIA La Casa di Livia fu portata alla luce nel 1869 da Pietro Rosa su incarico di Napoleone III – per il quale già aveva diretto sul Palatino gli scavi negli Horti Farnesiani – in un’area del colle che ospita importanti case private risalenti alla tarda repubblica. Una fistula plumbea – un condotto di piombo ora esposto nel tablino, recante l’iscrizione Iuliae Aug(ustae) – identificò la casa come appartenente a Livia Drusilla, la terza moglie di

A destra: il triclinio della Casa di Livia. Qui sotto: un particolare della decorazione, con colonne corinzie da cui pendono festoni di foglie, fiori e frutta.

A sinistra, in basso: ritratto di Livia moglie di Augusto, da San Giovanni Incarico (Frosinone). I sec. a.C.-I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

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Nella pagina accanto, in basso, a destra: la parete di destra del tablino centrale, sulla quale si conserva un affresco a soggetto mitologico raffigurante Mercurio in procinto di liberare Io, figlia del re di Argo amata da Giove, dalla custodia del gigante Argo.

Augusto. La domus, in effetti, è prossima a fondo rosso campeggiano riquadri con paequella, verso sud, del marito imperatore e saggi sacri e nature morte di vasi di frutta. Sulla parete lunga di destra è raffigurato il adiacente, a nord, alla Domus Tiberiana. betilo, una pietra oblunga nella quale si supspazi monumentali, ma sobri poneva abitasse la divinità, in questo caso Oggi è possibile aprirla al pubblico dopo simulacro aniconico di Diana. Gli affreschi interventi di idraulica che tengono sotto sono stati ricollocati in occasione del bimilcontrollo la risalita capillare dell’acqua dalla lenario augusteo, mentre oltre 500 frammensommità del Palatino e dal sottosuolo. Le ti, catalogati e puliti, attendono nei depositi tettoie sono state rinnovate e le superfici che giunga il loro momento. interne ed esterne sigillate. Il numero dei Il tablino, quello centrale dei tre ambienti visitatori è limitato a protezione del micro- affiancati, è detto anche sala di Polifemo, ma clima. Un montacarichi consente l’ingresso l’affresco sulla parete di fondo che rappreai portatori di handicap. Si accede alla Domus senta il ciclope nell’atto di inseguire la ninfa da uno stretto corridoio in discesa, pavimen- Galatea fuggente su un cavallo marino è tato con un mosaico bianco e nero, e subito ormai quasi svanito. È leggibile invece, sulla si rimane colpiti dalla semplice monumenta- parete di destra, incorniciata da un’architetlità degli spazi – quattro ambienti voltati a tura in prospettiva, la scena che rappresenta botte, con i pavimenti a mosaico e le pareti Io, amata da Giove, mentre Mercurio è in affrescate –, che affacciano su un atrio qua- procinto di liberarla dalla custodia di Argo. drangolare: è assai diversa dalla casa del ma- Sempre sulla stessa parete è raffigurata una rito imperatore dove i vani sono piú piccoli, vivace scena cittadina. Degli altri due amnumerosi e articolati. Dei quattro ambienti bienti, quello a sinistra è ornato con figure tre sono sul lato di fondo, mentre a destra fantastiche umane e animali, di un genere dell’atrio si apre il triclinio. Una scala porta che l’architetto Vitruvio deprecava perché al piano superiore suddiviso in cubicoli e irreali e impossibili. Quello a destra reca una straordinaria decorazione a festoni vegetali locali di servizio. Tutti gli affreschi si datano intorno al 30 a.C. sopra la quale un fregio giallo mostra scene e appartengono al II stile. Nel triclinio, visi- ambientate in Egitto: sfingi, cammelli e una bile al pubblico per la prima volta, su un statua di Iside. a r c h e o 89


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IL MUSEO PALATINO La suggestione di un luogo selvaggio, come quella evocata da Virgilio nel canto VIII dell’Eneide, sul Palatino non è andata del tutto smarrita, anche se oggi sul colle si sono accumulate tracce e testimonianze di millen-

ni di storia. A offrircene una sintesi, a cominciare dal tempo mitico delle prime capanne, è un piccolo e prezioso museo, che svetta in posizione panoramica. Lo ospita un ex convento ottocentesco delle monache della Visitazione che, tra il 1927 e il 1938 l’archeologo Alfonso Bartoli, direttore degli scavi del Palatino e del Foro Romano, trasformò in antiquarium. Sarebbe bello pensare che tutto quanto è stato scavato sul Palatino sia raccolto nel Museo, ma cosí non è: dal Rinascimento in poi intense attività di scavo finalizzate al commercio hanno disperso materiali di valore incalcolabile.

l’antico come arredo Proprio Pietro Rosa, lo scopritore della casa di Livia, nel 1870 allestí una prima raccolta in un modesto fabbricato degli Orti Farnesiani, con i pezzi da lui stesso recuperati, e possiamo forse ascrivere a suo merito – poiché lavorava al servizio di Napoleone III – che soltanto pochi fossero spediti a Parigi. Nel 1882 l’edificio fu abbattuto, molti materiali trasferiti nel Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, creato in quegli anni, e i pezzi rimasti furono collocati da Rosa all’aperto, su pilastrini in muratura. Può sembrare una stravaganza ma, per l’epoca, era un’innovazione. È verosimile che il Rosa l’abbia mutuata dal suo maestro, Luigi Canina, il quale aveva inserito i frammenti delle decorazioni e delle sculture scavate sull’Appia in quinte in muratura ai lati della strada, creando una meravigliosa passeggiata e affermando per la prima volta l’idea che i reperti possano diventare un patrimonio del luogo da cui provengono invece di finire nelle botteghe degli antiquari. I pilastrini furono ben presto saccheggiati (la qual cosa in verità è accaduta anche sull’Appia), mentre la massa dei ritrovamenti giaceva in magazzino. Nel 1936 Alfonso Bartoli, facendo intervenire il ministro dell’Educazione Nazionale, poté anche recuperare una parte delle sculture del Palatino che erano state trasportate alle Terme di Diocleziano. Da allora il museo, i cui contenuti furono ricoverati durante la guerra nei magazzini delle Terme, è rimasto nell’ex convento delle suore, dove però è stato piú volte riorganizzato. L’ultima, in occasione del Bimillenario Augusteo, con un nuovo allestimento che evidenzia il legame tra i materiali esposti e i complessi monumentali da cui derivano, anche con l’ausilio di 90 a r c h e o

Nella pagina accanto, in alto: frammento di intonaco dipinto con Apollo che suona la lira, dall’area della Casa di Augusto. Età augustea. Roma, Museo Palatino. In basso: una sala del Museo Palatino, che ospita reperti provenienti dagli scavi del colle e del Foro Romano.

A sinistra: statua di una Musa seduta, arbitro della gara tra Apollo e Marsia, dall’area dello Stadio. Nella pagina accanto, in basso: statua di una Musa (o Ninfa), seduta su una roccia.


apparati multimediali. L’intero edificio è ora climatizzato e ne è stata rinnovata l’illuminazione. Alle importanti testimonianze di epoca augustea già accolte nel museo, si aggiungono opere conservate nei depositi o scoperte recentemente negli scavi dei palazzi imperiali.

dalle capanne ai palazzi La visita ha inizio con il racconto delle origini di Roma grazie a reperti preistorici e immagini proiettate su un plastico del luogo in cui s’insediarono le prime capanne. Nelle sale successive si illustra la vicenda storica che dalla monarchia portò alla repubblica e dalla repubblica al principato – con una sala dedicata ad Augusto – e infine all’impero. In un video scorrono le ricostruzioni degli edifici del Palatino, dalle capanne romulee fino al

Septizodium di Settimio Severo, un’impressionante facciata a tre ordini di colonne che fu l’ultima grande opera sul colle, andata poi in rovina nei secoli e demolita definitivamente da Sisto V. Al primo piano il visitatore trova un’elegante galleria di sculture, fra le quali la cosiddetta Hera Borghese (verosimilmente una Afrodite di epoca antonina), le lastre in terracotta provenienti dal santuario di Apollo con la raffigurazione di scene mitologiche, una sala dedicata alla Domus Transitoria di Nerone, e, infine, una serie di ritratti anche di età tardoantica e altomedievale, a conferma del fatto che sul Palatino continuarono a risiedere personaggi importanti, o a essere ricevuti imperatori, anche dopo che Roma aveva perso il ruolo di capitale dell’impero. a r c h e o 91


speciale • bimillenario augusteo

IL VICO IUGARIO e LA BASILICA GIULIA

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Scendiamo ora lungo il Clivus Palatinus per dirigerci al Foro. Oltrepassato l’arco di Tito, imbocchiamo la via Sacra, costeggiando a sinistra, nel suo ultimo tratto, la Basilica Giulia e raggiungendo le pendici del Campidoglio. Qui incrociamo un tratto di strada basolata, alla base del tempio di Saturno, fiancheggiata da grossi frammenti architettonici disposti in modo pittoresco. È l’antichissimo tracciato del Vico Iugario, utilizzato fin dal VI


secolo a.C., che collegava la valle del Foro al ni maggiori e dotata di botteghe. I lavori Tevere nel punto in cui l’approdo era piú della Soprintendenza restituiscono al pubblico un’area che comprende, con il Vico Iugafavorevole, cioè l’isola Tiberina. rio, la Basilica e le tabernae alle sue spalle, riprendendo scavi già iniziati nel 1982 in seguibasiliche e tabernae Il tempio di Saturno fu ricostruito piú impo- to alla demolizione di via della Consolazione, nente, da Lucio Munazio Planco, fra il 42 e il la strada che correva sotto il Campidoglio e 31 a.C. La Basilica Giulia, voluta da Giulio lungo la quale fu girata una parte della scorCesare al posto della piú antica Basilica Sem- ribanda in Vespa di Audrey Hepburn e Grepronia, fu da Augusto riedificata in dimensio- gory Peck nel film Vacanze Romane (1953).

Una veduta della Basilica Giulia, costruita da Giulio Cesare al posto della preesistente Basilica Sempronia e riedificata da Augusto.

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speciale • bimillenario augusteo

le Terme di Diocleziano Quelle di Diocleziano, erette dall’imperatore tra il 298 e 306 d.C., sono le terme piú grandi mai costruite a Roma. Si estendono oggi su un’area di circa sei ettari, ma, anticamente, ne occupavano quasi quattordici, con un perimetro quadrangolare di 376 x 361 m, che racchiudeva un’area a giardino al centro della quale sorgeva l’impianto termale. Pio IV, nel 1561, concesse quanto restava del monumento ai Certosini di S. Croce in Gerusalemme, affinché vi costruissero una nuova sede per l’Ordine. L’incarico fu affidato a Michelangelo che trasformò il complesso, creando la basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri Cristiani (oggi affacciata su piazza della Repubblica, un vastissimo chiostro, sul lato opposto, e un chiostro piú piccolo.

il cielo come tetto Del monumento romano sono rimaste quindici Aule, ambienti fra i piú grandiosi dell’architettura antica, che progressivamente si stanno restaurando. Dopo le aule X, XI e XI bis, in occasione del bimillenario augusteo è

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Il bimillenario della nascita Il 23 settembre 1937 s’inaugurava al Palazzo delle Esposizioni a Roma la Mostra Augustea della Romanità «che documenta – afferma lo speaker del Giornale Luce – tutti gli aspetti della vita latina: la scienza, l’arte, l’altissima civiltà dell’Urbe dei Cesari, inaugurata dal duce all’inizio del bimillenario d’Augusto nel clima radioso dell’alba del nuovo impero di Roma». La mostra nasceva dalla felice concomitanza, per il regime fascista, tra la proclamazione dell’impero, avvenuta a Roma il 9 maggio del 1936 dopo la conquista dell’Etiopia, e la ricorrenza del bimillenario della nascita di Augusto, che cadeva nell’anno successivo. Storici, archeologi, letterati – gran parte del mondo accademico, non soltanto in Italia – si sentirono chiamati a contribuire alla celebrazione, coordinata dall’archeologo Giulio Quirino Giglioli, con nuovi studi e approfondimenti di argomento augusteo, avendo di mira, quale tema da porre in risalto, il parallelismo tra Augusto e Benito Mussolini, entrambi fondatori di un impero. Mussolini, per la verità, veniva da una fase, quella del fascismo «rivoluzionario», nella quale aveva manifestato una decisa preferenza per Giulio Cesare, che meglio rispondeva al suo ideale di condottiero. Ma, una volta fondato l’impero, e vista la prossimità della ricorrenza, la figura di riferimento ai fini di

stato presentato il restauro dell’aula VIII, coperta in passato da tre volte a crociera, ma oggi spalancata sul cielo. Essa confina a ovest con la Natatio, una vasta piscina, in origine di oltre 4000 mq, sormontata da un prospetto monumentale, dove una fastosa decorazione era organizzata in ordini architettonici sovrapposti. Una parte della Natatio fu occupata dall’abside della Basilica, un’altra dal Chiostro Piccolo della Certosa, chiamato un tempo Chiostro Ludovisi per avere ospitato la collezione Ludovisi Boncompagni (trasferite nel 1997 nelle sale di Palazzo Altemps). Interamente recuperato alle sobrie ed eleganti forme originali da uno stato di grave degrado, il Chiostro Piccolo apre al pubblico, dopo essere stato chiuso per mezzo secolo, allestito con sculture appartenenti alla collezione del mu-

un’identificazione dell’Italia fascista con l’antica Roma divenne quella di Augusto. Il filmato dell’inaugurazione racconta la grandiosa messa in scena (https://www.youtube. com/watch?v=cneYAemeNqU). Resta il fatto che la mostra, durata un anno intero, ebbe un milione di visitatori. Gli studiosi di cose romane misero in luce le chiare analogie fra la politica di Augusto e quella del duce: «Entrambi avevano pacificato l’Italia, ripristinato la disciplina, epurato il Senato, trasformato la milizia di parte in milizia nazionale, promosso la crescita demografica, difeso i buoni costumi e la famiglia, rilanciato l’agricoltura ed esaltato i valori morali della vita rurale che si esprimevano nel patriottismo del soldatocontadino». (Andrea Giardina, Augusto tra due bimillenari). Fra le tante statue che ritraggono l’imperatore romano, la piú rappresentativa fu considerata quella dell’Augusto di Prima Porta, che illustrava il manifesto della mostra e che fu riprodotta in una quantità di copie spedite a ornare le piazze, le strade e le scuole di molte città italiane. Il 23 settembre 1938, con un Mussolini euforico tra ali di folla osannante, l’inaugurazione della teca dell’Ara Pacis di Vittorio Morpurgo – abbattuta nel 2000 per fare posto a quella di Richard Meier – segnò l’ultimo atto delle celebrazioni (https://www.youtube. com/watch?v=CILr3dV3hxI).

In alto: un francobollo emesso nel 1937, per celebrare il bimillenario della nascita di Augusto. Nella pagina accanto: l’Aula VIII delle Terme di Diocleziano, che ospita, tra gli altri, lo splendido mosaico a tessere bianche e nere (a sinistra).

seo e altre venute recentemente alla luce in una villa romana sulla via Anagnina.

una nuova età dell’oro Vi sono anche esposti preziosi documenti marmorei della religione romana, meticolosamente ricostruiti, gli Acta dei Fratres Arvales e i Ludi saeculares, due culti che Augusto volle rifondare nell’ambito di una politica di valorizzazione degli antichi riti e costumi. Gli atti degli Arvali (dodici senatori di alto rango) sono composti di circa 150 iscrizioni nelle quali i collegi sacerdotali annotavano i riti e i servizi religiosi celebrati. Nel 17 a.C. Augusto, presentandosi come colui che avrebbe rinnovato l’età dell’oro, riportò in auge il culto dei Ludi saeculares, celebrazioni che avevano luogo ogni secolo, riportate su una lapide composta di 137 frammenti. a r c h e o 95


speciale • bimillenario augusteo

un bilancio e qualche idea per il futuro... A colloquio con Mariarosaria Barbera In occasione della presentazione delle iniziative realizzate per il bimillenario augusteo, abbiamo incontrato Mariarosaria Barbera, soprintendente archeologo di Roma, con la quale abbiamo discusso di alcuni dei progetti piú importanti finora portati a compimento e di

◆ Soprintendente, cominciamo

dalla Villa di Livia: quale è stata la risposta del pubblico alla riapertura del complesso? Nel 2013 abbiamo avuto 2100 visitatori. Dopo questa inaugurazione (il riferimento è alla riapertura dello scorso 12 settembre, n.d.r.), nelle prime due settimane, aprendo tre giorni a settimana, ne abbiamo contati 1400. Benché arrivarci sia una caccia al tesoro, poiché il Comune di Roma non ha ancora installato un’adeguata segnaletica. ◆ In compenso, però, l’ingresso è gratuito. Per ora. Questi numeri non li avevamo previsti. Con il nostro concessionario, Electa Mondadori, abbiamo un contratto per una serie di biglietterie, che però non prevede che se ne aggiungano a mano a mano che si aprono siti. Una biglietteria comporta spese, la cui congruità dobbiamo valutare. ◆ A detta dei custodi, molti si dichiarano disposti a pagare l’ingresso volentieri. In tal caso possono fare una donazione sul conto corrente della Soprintendenza, pari a quello che considerano il valore ipotetico del biglietto. Anche per la Domus Aurea ci contattano molte persone che vorrebbero donare, molto o

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quelli che si spera di poter ultimare a breve e medio termine. È, come potrete leggere, un quadro fatto di luci e ombre, ma dal quale emerge la forte volontà di utilizzare al meglio le risorse di cui la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma può disporre. poco che sia. Noi ci stiamo attrezzando per questo. ◆ Livia è una figura poco nota al grande pubblico. Le imperatrici romane davvero popolari si contano sulle dita di una mano... Messalina, Agrippina Minore, Poppea, forse Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, Elena, la madre di Costantino... ◆ Augusto voleva convincere i

Romani che per ripristinare i valori della repubblica occorresse fondare un impero, e uno degli strumenti di questa operazione fu la consorte Livia... Fu un’operazione mediatica d’intelligenza infinita. Livia fu indubbiamente uno strumento

politico. Ma non dobbiamo dimenticare che quella tra Augusto e Livia fu anche una storia d’amore. Augusto aveva sposato le prime due mogli, Clodia e Scribonia, per mere ragioni di opportunità politica, ripudiandole quando non gli servirono piú. Livia veniva da una famiglia di antichissima nobiltà, i Claudii, tra i veri fondatori della repubblica romana, ed era sposata con un grande nemico di Ottaviano, Tiberio Claudio Nerone, dal quale aveva avuto Tiberio. Dopo la sconfitta degli anticesariani a Filippi, il padre di Livia, Marco Livio Druso Claudiano, si uccise. Nel 40 a.C. Livia riparò in Sicilia con tutta la famiglia per sfuggire alla proscrizione dichiarata da Ottaviano, e tornò a Roma nel 39 quando fu deliberata l’amnistia. Qui conobbe Ottaviano, il giovane rampante che, su un bagno di sangue, costruí una repubblica di pace che poi si trasformò in un impero di pace. Ottaviano divorzia da Scribonia il giorno stesso in cui nasce la loro figlia Giulia, e impone a Livia, incinta di sei mesi, di divorziare da Tiberio Claudio Nerone, il quale fa buon viso a cattivo gioco e accompagna egli stesso l’ex moglie all’altare. Druso nacque esattamente tre mesi dopo il matrimonio. Le fonti antiche non escludono che fosse in realtà figlio


di Ottaviano. La bellezza e l’aristocraticità di questa ragazza si sommano a una valenza politica molto forte. Livia porta a Ottaviano tutta la fazione anticesariana – personaggi come Ventidio Basso, Munazio Planco, Asinio Pollione. Dieci anni dopo, uscito vittorioso da cinque guerre civili, su quelle strade lorde di sangue vediamo Augusto creare la pace. Personaggio freddissimo, fu grande come politico, ma non come comandante. I suoi generali, ai quali deve le sue vittorie, furono Marco Antonio, a Filippi, poi Marco Vipsanio Agrippa. Dopo la battaglia di Filippi gli aristocratici prigionieri sputarono addosso ad Augusto per quanto era stato vile e inconsistente e lodarono Antonio che li aveva sconfitti. Augusto seppe circondarsi delle persone migliori: costruí intorno a sé un consesso di grandi consiglieri, grandi poeti, grandi letterati, grandi politici e grandi generali che è stata la base sulla quale si è innalzato ricevendo gli onori di tutti. ◆ Poche donne a Roma ebbero il peso di Livia... Livia è stata una vera eminenza grigia, accanto ad Augusto, per cinquantadue anni. Un matrimonio che si reggeva anche su una concordanza di vedute sul piano politico e sulla volontà di restaurazione dei prisci mores, degli antichi costumi, degli antichi sacerdozi. Era una donna di un’intelligenza eccezionale, che governava la casa e la famiglia. Di lei Tacito dà un giudizio tranchant: «Matrigna funesta per i figli ed esiziale per l’impero». Nella casa sul Palatino che Augusto abitò per quarant’anni, allargandola gradualmente con l’acquisizione di Nella pagina accanto: frammento di ceramica recante l’immagine impressa di un cavallo alato, dalla Villa di Livia. A destra: il percorso basolato che conduce alla residenza extraurbana della consorte di Augusto.

altre abitazioni confinanti, l’imperatore raccolse i figli e i nipoti. Zio, prozio, nonno, era circondato da tutti questi ragazzi, questi adolescenti, questi bambini, che preparava per la successione. Marcello, figlio della sua sorella preferita Ottavia, Lucio e Gaio Cesare, il giovane Druso. Ma morirono tutti, in maniera a volte poco chiara. Alla fine rimase soltanto Tiberio. A questo punto Augusto

nominò eredi Tiberio e Agrippa Postumo, che era l’ultimo nipote, Postumo perché nato dopo la morte di Agrippa nel 12 a.C. Tiberio come primo atto lo fece strozzare. Dopo Augusto, la dinastia giulioclaudia è in realtà di sangue esclusivamente claudio. ◆ La villa sulla Flaminia propone una dimensione piú privata dei due... È una villa d’otium, in cui il ruolo


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pubblico poteva essere messo da parte, dove non erano disturbati e dove Livia coltivava le sue erbe medicinali, destinate a curare la precaria salute del coniuge, che si dedicava alla lettura. Da quel poco che tramandano le fonti, ma anche dallo spirito dei luoghi, possiamo immaginare un Augusto piú privato, il quale prendeva nota di tutto, e anche una Livia piú privata che scriveva tutto e lasciò, quando morí a 86 anni, casse di scritti, come Tacito racconta. Dai quali risulta che, negli ultimi anni, fu molto dura con Tiberio, perché lui non la rispettava abbastanza. ◆ È un’immagine in contrasto con Domus Aurea. Un gruppo di visitatori all’interno dell’aula ottagonale del grandioso complesso neroniano, circondata da cinque stanze disposte a raggiera, di cui la centrale è un grande ninfeo.

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i ritratti che conosciamo... Sono ritratti ideologici. Livia era la matrona rispettabilissima che tesseva la lana in casa. Aiutata dalle ancelle, confezionava personalmente gli abiti per il marito. Giulia, la figlia di Augusto e Scribonia, esuberante e trasgressiva, ha avuto contrasti per tutta la vita con la matrigna che la costringeva a filare la lana. Giulia era legata a un circolo di aristocratici repubblicani, ed era amante di Iullo, il figlio di Marco Antonio. Quando fu esiliata a Ventotene, e in seguito a Reggio Calabria, Livia le impose di filare una certa quantità di lana al giorno, e aveva modo di controllarla. ◆ Nel Museo Palatino sono state appena aggiunte opere recuperate dai depositi... Finalmente stiamo attuando una politica dei magazzini, compatibilmente con i fondi disponibili. Per esempio, quella

splendida Hera Borghese che si vede entrando a sinistra nel Museo Palatino, due mesi prima era buttata di dorso, coperta di polvere e in condizioni pietose, in un deposito che stavamo risistemando. Stiamo cercando di valorizzare tutto quello che per mancanza di fondi, di disponibilità, di tempo, di spazi, è stato letteralmente accatastato. Siccome di molte opere è rintracciabile la provenienza, perché hanno un vecchio numero d’inventario, o se ne trova traccia in un vecchio registro, vorrei dire che è un lavoro senza gloria ma che, alla fine, dà dei risultati meravigliosi. Augusto aveva in casa una statua di Apollo. Intorno all’ideale apollineo elaborò un’ideologia: Apollo è il dio che si oppone a Dioniso, è il dio solare, della trasparenza. Non dispero di collocare negli spazi della sua casa una statua che racconti tutto questo. Ci sono poi


statue che non abbiamo piú, come quelle di Gabii (antica città del Lazio, situata sulla via Prenestina, a 20 km circa da Roma, n.d.r.), che finirono al Louvre. Gabii è un altro luogo augusteo per eccellenza, dove Augusto andava a farsi curare dal suo medico di fiducia, Antonio Musa. Soffriva di stomaco, e di problemi alle vie respiratorie, e se ne lamentava con un altro malaticcio come lui, cioè Virgilio. Musa era celebre per aver sostituito ai fomenti caldi i bagni freddi, ottenendo un certo numero di guarigioni. Ma, tornando alle statue, a me piacerebbe l’anno prossimo organizzare il rendez vous tra il Louvre e Gabii. ◆ Ostia, Porto, necropoli di Porto, il Museo delle Navi. Capitoli di un’unica realtà che chiederebbe una fruizione unitaria... Puntiamo molto su quest’area, perché Ostia non è inferiore a Roma. Il problema del sito è quello di una rete di trasporti indegna. Da Fiumicino per arrivare a Ostia, solo 9 km, c’è’ solo una navetta due o tre volte al giorno, altrimenti occorre prendere un taxi. Per raggiungere Porto (già visitabile, su prenotazione e in determinati giorni) si deve quasi tornare a Roma. Alla necropoli di Porto non arriva nulla. C’è anche da dire che fino a quattro anni fa Ostia era una soprintendenza autonoma con pochissimi soldi. Noi adesso stiamo investendo e, se andate a Ostia, la troverete cambiata rispetto a tre anni fa. Stiamo operando anche su Porto. Il Museo delle Navi ha avuto una storia difficile con finanziamenti a intermittenza. Forse qualcosa poteva essere fatto piú celermente ma, in dieci anni, le norme antisismiche sono cambiate tre volte, e ogni volta si è dovuto smontare e rimontare. Però, finalmente, adesso abbiamo un collaudo e, se tutto va bene, apriremo il museo alla fine del 2015. ◆ La scelta di allestire l’opus sectile di Porta Marina in un museo che è in tutt’altro luogo e

minacciato di chiusura è ancora una scelta considerata opportuna? Il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo non è piú minacciato di chiusura. È impossibile, per la condizione dei luoghi, rimontare l’opera sulle pareti della basilica da cui proviene. È alta oltre 7 m, quindi non può essere messa dappertutto. In teoria Ostia sarebbe la sede piú logica, ma bisognerebbe costruire un altro padiglione del museo che la accolga. Sono due le ragioni della sua sistemazione nel Museo dell’Alto Medioevo: quello era l’unico luogo, nella disponibilità della allora Soprintendenza di Ostia, che poteva contenerla, e quel museo è una preziosa testimonianza della cultura figurativa tardo antica e post-antica. ◆ Torniamo a Roma. Perché la Domus Aurea non può essere riportata alla luce? Può esserlo in teoria, ma si dovrebbe smantellare tutto il giardino. Per il totale delle 150 stanze, non solo di una parte. Perché è un organismo complesso, molto delicato, dove scelte climatiche fatte in un settore influiscono sugli altri. Inoltre sarebbe un progetto da centinaia di milioni di euro che non ci saranno mai. E preliminarmente bisognerebbe sperimentare come reggerebbero quegli affreschi, quelle murature, quelle malte, quei leganti dopo 2000 anni in un clima diverso. Se è vero che il monumento è stato costruito per essere una delle piú aeree, meravigliose, scintillanti architetture in elevato, però è anche vero che tale sorte l’ha avuta per quaranta o cinquanta anni. Gli altri 2000 è vissuto sotto terra, dove si è creata un’abitudine consolidata per quei materiali. Il nostro progetto (costo 31 milioni) è suddiviso in singoli insiemi che noi chiamiamo bacini, e mi appresto a valutare da quali iniziare. ◆ Davanti al Colosseo ci sono un campo di calcio e un campo di pallacanestro piuttosto desolati, che insistono sulla Domus Aurea. Se fossero sbancati, ci si

guadagnerebbe anche sul piano estetico... Ricordo che anni fa il Comune aveva addirittura un progetto di riqualificazione di questi impianti sportivi. La domanda è: «Che cosa vogliamo fare, quanto vogliamo investire, chi vuole investire?». La Soprintendenza che io dirigo è ricca rispetto alla realtà dei Beni Culturali, che però è poverissima. Beati monoculi in terra caecorum! Le risorse che ogni anno i miei funzionari chiedono per realizzare gli interventi programmati sono dieci volte ciò di cui disponiamo. Che è quanto ricaviamo dalla bigliettazione, dal merchandising, dalle percentuali sulle vendite dei libri. Siamo un po’ imprenditori di noi stessi, come mi piace ricordare. Questo Paese dovrebbe scegliere cosa privilegiare, perché i 31 milioni del restauro integrale della Domus Aurea equivalgono a 1 km di autostrada. Noi intanto l’abbiamo riaperta, i sabati e le domeniche. Possono entrare venticinque persone ogni quarto d’ora. Nel resto della settimana ci sono i cantieri: dodici imprese con circa settanta operai. In questi ultimi otto anni dal commissario e da noi sono stati spesi 18 milioni di euro. E si vedono. ◆ C’è il problema della riqualificazione complessiva del colle Oppio, che versa in uno stato deplorevole... Sappiamo che i Comuni, condannati dal patto di stabilità, non hanno piú un euro da investire. Ci siamo fatti consegnare formalmente una parte del Colle Oppio e la controlliamo noi perché ha una connessione diretta con i nostri lavori. Nel cantiere pilota abbiamo scoperchiato la Domus Aurea per centinaia di metri quadrati. Ma tutte le settimane con i vigili, con i carabinieri, con i poliziotti dobbiamo fare uno sgombero. In ogni caso la nostra gestione di quella parte del Colle Oppio non durerà all’infinito.

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LA VILLA DI LIVIA A Prima Porta, una frazione al XIII chilometro della via Flaminia, si cominciò a scavare nel 1863 nel sito di una grande villa, con vista a perdita d’occhio sulla valle del Tevere. Furono trovate numerose sculture, subito acquisite alla proprietà di Pio IX e oggi esposte nei Musei Vaticani, e una sala ipogea con affreschi sulle quattro pareti che rappresentano un affascinante giardino. Dopo vari tentativi di restauro le pitture furono staccate nel 1951 e oggi sono esposte in Palazzo Massimo. Ciò che resta della villa è stato interamente recuperato, con il restauro di affreschi, mosai-

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In alto: Villa di Livia. Le piante di alloro che evocano il Lauretum, il boschetto che forniva agli imperatori i tralci per le corone trionfali. Qui sotto: una delle pitture parietali ancora visibili in situ.

Villa di Livia

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un’occasione da non mancare Anche la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali ha ricordato il bimillenario augusteo con varie iniziative. Nello scorso agosto è stato replicato l’allestimento multimediale «I colori dell’Ara Pacis», che, grazie a una speciale tecnica di proiezione, ha proposto le policromie di alcuni rilievi del monumento. La stessa sede ha ospitato «L’arte del comando. L’eredità di Augusto», mostra che ha illustrato come imperatori appartenuti a fasi storiche diverse si siano ispirati ad Augusto.

Il Museo dei Fori Imperiali propone invece, fino al prossimo 10 maggio, «Le Chiavi di Roma. La città di Augusto», articolata in due percorsi: uno narrativo e l’altro di approfondimento tematico, che conduce i visitatori attraverso i luoghi di Augusto. Fino allo scorso 2 novembre si sono infine succedute le repliche dello spettacolo «Foro di Augusto 2000 anni dopo», che ha offerto una ricostruzione del grandioso complesso a base di luci, filmati e animazioni all’interno del sito archeologico.

Nella pagina accanto, in basso, a destra: particolare di un mosaico a tessere bianche e nere con figure mitologiche: nel riquadro qui riprodotto si riconosce Giove in trono. Qui sotto: gli ambienti della Villa di Livia musealizzati e nuovamente accessibili al pubblico.

ci e paramenti lapidei. L’Antiquarium, che racconta la storia del sito attraverso reperti di scavo, è stato riallestito. Visitato l’Antiquarium, raggiungiamo la villa percorrendo un tratto basolato, che si diramava dall’antica via consolare. Di fronte a noi si apre una vasta terrazza dove sessantaquattro piante di alloro compongono una ricostruzione simbolica del Lauretum, un boschetto di alloro cui si lega la storia del sito e del suo antico nome, Ad Gallinas Albas, testimoniato dalle fonti. «A Livia Drusilla – racconta Plinio – un’aquila lasciò cadere in grembo una gallina di straordinario candore che teneva nel becco un ramo di alloro. Gli aruspici ingiunsero di allevarla e di piantare il ramo e custodirlo religiosamente». La gallina prolificò, come dimostra il toponimo al plurale, e dal ramoscello si sviluppò un boschetto, che forniva agli imperatori della dinastia giulioclaudia (Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) i tralci per le corone trionfali. Dove e quando Info le informazioni sulle modalità di visita dei monumenti e dei siti citati nel testo sono consultabili sul sito web della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: http://archeoroma.beniculturali.it/ È anche possibile rivolgersi a: Coopculture, tel. 06 39967700

I progetti di restauro e valorizzazione descritti nello speciali sono stati realizzati da:

Anna De Santis, per la sezione protostorica Anna Paola Anzidei, per la sezione preistorica

Museo Palatino Coordinamento Mariarosaria Barbera, con Ida Sciortino, archeologo e Maurizio Pinotti, architetto Giovanna Bandini, direzione dei restauri delle «opere mobili» Cinzia Conti, direzione dei restauri delle «opere pittoriche» Stefania Trevisan, consegnatario Progetto e direzione lavori di allestimento Andrea Mandara, Studio di Architettura Curatela scientifica Carlo Gasparri e Maria Antonietta Tomei

Casa di Augusto Fiorenzo Catalli, archeologo Barbara Nazzaro, architetto Cinzia Conti, direzione restauri Casa di Livia Archeologi Fiorenzo Catalli e Rosanna Friggeri Architetti Giuseppe Morganti e Barbara Nazzaro Direzione restauri Cinzia Conti Impianti di videosorveglianza antintrusione dell’area augustea, architetto Giuseppe Morganti Percorsi e interventi per accessibilità dell’area augustea, architetto Maria Grazia Filetici

Archeologi Tiziana Ceccarini e Rosanna Friggeri Interventi di idraulica per lo smaltimento delle acque, architetti Maria Grazia Filetici e Giuseppe Morganti Archeologo Patrizia Fortini Interventi di manutenzione straordinaria e presentazione dell’area archeologica Coordinamento Mariarosaria Barbera con Maurizio Pinotti, architetto, e Patrizia Fortini, archeologo Villa di Livia Direttore Marina Piranomonte Direttore tecnico Maurizio PInotti Progetto di allestimento Antiquarium e Lauretum Fabio Fornasari con Lucilla Boschi Consulenza paesaggistica Gabriella Strano

Ricerche d’archivio Andrea Venier, Barbara Ciarrocchi Terme di Diocleziano Direttore del complesso monumentale e del museo Rosanna Friggeri Direzione tecnica del complesso monumentale e del museo Marina Magnani Cianetti Coordinamento delle attività e direzione dei lavori di restauro Giovanna Bandini Progettista degli allestimenti architettonici nell’aula VIII Mario Bellini Vico iugario e Basilica Giulia Direttore scientifico Ida Sciortino Direttore dei lavori Maddalena Scioccianti Direttore restauro delle superfici Giovanna Bandini

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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda

l’archeologo riluttante anche quando non interviene su materiali antichi, il restauratore compie un’operazione affine a quella dell’archeologo

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l restauro, non solo quello archeologico, è una pratica che accompagna ogni attività che riguardi il nostro patrimonio culturale: dalla ricerca, alla tutela, alla valorizzazione. Richiede abilità manuali ma anche, oggi piú di ieri, una cultura interdisciplinare e una buona capacità di riflessione. Come tutti i campi poliedrici del sapere umano si presta quindi anche a definizioni complicate o imperfette, come quella di «restauro conservativo», che mettono a nudo una certa ambiguità. Su questa ambiguità, che è anche una ricchezza, ha riflettuto con intelligenza e arguzia Giovanna Martellotti, una nota restauratrice, che a un libricino d’un paio d’anni fa, ma tuttora disponibile (Ehi Maddalena! Dialogo sul restauro, Gangemi, Roma 2012), ha affidato i suoi pensieri sotto forma di dialogo: un dialogo immaginario, se capisco bene, tra due visioni dello stesso mestiere, non antitetiche ma complementari, che potremmo definire «al femminile» e «al maschile». Questi due approcci convivono nell’autrice, grazie alla sua spiccata ironia, e autoironia, che pervade l’intero testo e gli dà quella leggerezza che aiuta a penetrare anche negli angoli piú complessi e tecnici della disciplina. L’ironia, in particolare nella versione romana (i Romani, come forse non tutti sanno, sono stati educati all’ironia dalla loro storia plurisecolare: quasi un antidoto al dispotismo del potere papale), è una dote di Giovana Martellotti, che

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si definisce poco competitiva, incline all’atarassia, annoiata del lamento categoriale (e noi la ringraziamo di avercelo risparmiato); ma non per questo priva di quella «quinta virtú cardinale», la curiosità, senza la quale, diciamolo pure, sarebbe bene astenersi dal mettere le mani sulle opere da restaurare.

una matrice comune Queste doti caratteriali agevolano dunque l’accesso a un tema che riguarda anche noi archeologi, che in fondo, come i restauratori, abbiamo spesso a che fare con il risarcimento delle lacune, cioè con la necessità di far parlare i documenti attraverso la restituzione di ciò che è andato perduto. Questa è una pratica che l’archeologia, come il restauro, derivano dalla filologia, la disciplina che ci ha insegnato a ricostruire la forma originale degli antichi testi perduti attraverso il confronto fra le diverse copie e il risarcimento congetturale delle parti mancanti. Ecco dunque che una stuccatura su un’immagine dipinta diventa, in fondo, né piú né meno che una coppia di parentesi quadre, dove il restauratore, come il filologo appunto, non deve «confrontarsi in una sorta di sfida con l’autore, ma piuttosto mantenersi a una certa distanza, cercare di capire, fare ordine senza interpretare, rispettare ciò che resta». Forse proprio perché lavora sull’incerto, la filologia ha bisogno della certezza dell’autentico, deve lavorare su materiali di cui possa fidarsi, stando con i piedi per terra

e diffidando dei voli pindarici. E qui sta il punto: qualche volta, infatti, la paura di sovrainterpretare ciò che resta fa sí che si metta piú enfasi sulle sue parti mancanti, le lacune appunto, come accade anche in certi restauri, dove «la lacuna fortemente denunciata sembra una specie di tassa, pagata per ottenere una patente di filologia». Ma i laccioli della filologia hanno un antidoto potente, che permette di sganciarsi, senza mai perderlo di vista, dal dato «certo» per lavorare sull’incerto, sull’indizio e anche – con l’ausilio dell’intelligenza creativa – su un atteggiamento psicologico fondamentale: l’empatia. Cioè, quella disposizione dell’animo a entrare con umiltà nella testa di chi produceva, percepiva, usava le cose su cui noi oggi operiamo, per restaurarle o per scavarle, fa poca differenza.

dipingere controluce È questa «affettuosa» identificazione con le condizioni e le sensazioni altrui che permette a Giovanna Martellotti di sentire nei propri occhi il fastidio dello stesso controluce che disturbava Luca Signorelli quando dipingeva l’affresco che Giovanna restaura o che le fa guardare con occhi diversi – è il caso di dirlo – i quadri dipinti da pittori anziani, quando la presbiopia (è il caso celebre di Tiziano) condizionava i gesti e le scelte dell’artista, che un osservatore presbite potrà forse cogliere con maggiore immediatezza (magari per risparmiarsi – e non è un gioco di parole – un banale restauro miope).


Questa attitudine a immedesimarsi nelle condizioni umane del lavoro altrui altro non è che una forma particolarmente raffinata di attenzione al contesto, per cui, appunto, «il problema non è il buco ma ciò che gli sta intorno». Ho indugiato un po’ su questo aspetto del testo, perché credo che i

lettori di «Archeo» percepiscano bene come si tratti di temi tipicamente «archeologici», nel senso che descrivono alcuni dei problemi interpretativi oggi ben presenti a chi cerca di estrarre storie raccontabili da un groviglio di strati sepolti. Non da oggi ritengo che i restauratori di opere

Assisi. I restauratori impegnati in uno degli interventi condotti nella basilica di S. Francesco, in una foto del 1975. d’arte e monumenti siano sostanzialmente archeologi, anche se spesso non lo sanno. Il restauratore, infatti, ha un’intimità con il «saper fare»

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dell’artista assai piú intensa del piú raffinato «conoscitore», perché pulendo, smontando, consolidando, entra in contatto diretto con la materia dell’opera d’arte e con i modi usati per trattarla nel momento della creazione e dei successivi interventi che l’opera può aver subito. Questo non sfugge a Martellotti, che tuttavia, elencando la sequela di discipline di cui oggi il restauratore deve essere al corrente, dimentica proprio l’archeologia. Eppure lei stessa agisce e ragiona da archeologa quando chiama «curiosa quella pulitura che si svolge per gradi, che elimina i diversi strati sovrapposti all’originale come si sbuccia una cipolla, e nell’asportarli li studia e li pone in relazione tra loro e con le altre tracce che individua», e sbucciando costruisce cronologie relative. È archeologa quando si interroga sulla storia stratificata nei manufatti per via di aggiungere e di levare, sfiorando quel concetto di interfaccia negativa, che è una delle conquiste teoriche piú importanti dell’archeologia della passata generazione, che trova un campo di applicazione decisivo anche nel restauro. Sarebbe La copertina del volume scritto dalla restauratrice Giovanna Martellotti.

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davvero utile se nella formazione dei restauratori fosse prevista anche la teoria della stratificazione e la lettura di quel libricino di Edward Harris che, negli anni Settanta, aprí una pagina nuova per chi voglia guardare con gli occhi del tempo che scorre qualunque oggetto del passato, giunto a noi con le sue cicatrici e i suoi cerotti! Ne trarrebbe giovamento non solo il restauro delle opere di pittura, con le loro lacune, ridipinture e pentimenti, ma anche quello delle sculture, con le loro lavorazioni e rilavorazioni «per via di levare», come il recente restauro del Mosé di Michelangelo ha permesso di capire.

l’era della riproducibilità E archeologica è anche la riflessione su quanto sia importante percepire la scala degli interventi, originari e di restauro, tanto piú oggi nell’età della riproducibilità tecnica senza confini. Ed è archeologico l’acume prestato nei casi di damnatio memoriae che è facile riscontrare su determinate categorie di oggetti e di raffigurazioni («Sei talmente abituato a vedere sfregiati i manigoldi, che se trovi un Cristo alla colonna con i fustigatori intatti ti stupisci»): il metodo stratigrafico è collegato infatti con ogni aspetto dell’agire umano e aiuta anche a capire le tracce della storia culturale, perché le azioni, quale che sia l’istanza che le ha mosse, lasciano tracce materiali nel corpo vivo della materia. E Martellotti lo sa, quando pone l’accento sulle variabili che «possono testimoniare di differenti epoche, di ambiti regionali, di specifiche botteghe, di ricchezza o povertà della commissione, di progettualità o casualità nella scelta del supporto»: cioè su quegli aspetti di cultura materiale, conoscendo i quali sarà piú facile distinguere quelli che se ne discostano. Il restauratore non può distrarsi

mai dalla considerazione del nesso che lega materia e arte, materia come struttura e materia come immagine, né da quella «mediazione faticosa tra la perfezione dell’idea e la finitezza dell’esecuzione», che richiede di prestare pari attenzione all’una e all’altra. Cosí come la conoscenza scientifica della costituzione interna dei manufatti, sempre piú estesa, non esime dal ricercare il loro significato nel modo in cui era percepito con i sensi. E questo spiega la saggia predisposizione dell’autrice a lavorare «al matrimonio tra l’archeometria e l’occhiometria», perché «conoscere fin le budella di un’opera d’arte non ti esime dal ritornare continuamente a guardarla per come l’autore ha voluto che tu la guardassi, conclusa; cosí come la critica strutturalista di un testo non ti esime dal leggerlo». Insomma, empatia e cultura materiale, giudizio estetico e cultura storica (per esempio nell’interpretazione delle sinopie, troppo dettagliate ancorché provvisorie), conoscenza della materia e dello stile («non tanto per imitarlo ma per non snaturarlo»), tutto si fonde nella formazione e ancor piú nella pratica professionale del restauratore, a cavallo di quella sottile ma importante distinzione che fa parlare ora di opere d’arte e ora di beni culturali (in fondo è sempre una questione di contesto!). Davvero ci sentiamo in empatica vicinanza con la chiusa del libro, malinconica ma volitiva, in cui l’autrice – che ringraziamo per la sua testimonianza preziosa – si dice «triste per tanta esperienza sottoutilizzata». Una esperienza che, tra la testarda ricerca di prove alla propria idea preconcetta e la serena disponibilità a porla in dubbio, non ha remore a scegliere la seconda. A volte ci prende l’amara sensazione che l’intelligenza e la cultura facciano piú fatica a farsi ascoltare, specie là dove ce ne sarebbe piú bisogno.



a volte ritornano Flavio Russo

estintore o lanciafiamme?

l’archeologia ha restituito una ventina di esemplari di pompe del tipo elaborato da ctesibio. Quella meglio conservata, trovata in una miniera dell’andalusia, è però la prova che il marchingegno non era destinato a spegnere il fuoco, ma ad appiccarlo...

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el 1949 si diffuse in Italia una buffa canzonetta, I pompieri di Viggiú, sull’istituzione, appunto a Viggiú (cittadina in provincia di Varese), di un’estemporanea sezione di pompieri, schernendone il debutto volto a soffocare l’incendio del paese, peraltro appiccato dagli stessi a fini

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addestrativi. Al momento di azionare gli idranti, mancando l’acqua, con una scelta a dir poco demenziale, si decise di sostituirla con la benzina, mandando in fumo, in pochi istanti, l’abitato e l’improbabile plotone! Nelle strofe, al di là della burla, trapela implicita la potenzialità

delle pompe alternative bicilindriche ad azionamento manuale – di cui, agli inizi del secolo scorso, erano dotati i mezzi antincendio –, di proiettare qualsiasi liquido, come appunto l’acqua o la benzina, trasformandosi allora in estintori o in lanciafiamme.


Qui accanto: un moderno cannone antincendio, dotato di un ugello a delta dello stesso tipo di quello che dobbiamo immaginare montato sulla pompa di Ctesibio. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica della pompa (sifone) di Ctesibio, bicilindrica e ad azionamento manuale, montata su una nave da guerra, per essere utilizzata come proiettore di fuoco greco, alla stregua di un vero e proprio lanciafiamme.

Tale pompa, infatti, attribuita a Ctesibio (ingegnere greco vissuto ad Alessandria nel III secolo a.C., n.d.r.), montata dentro un carretto-serbatoio per l’acqua, dotò le centurie romane incaricate di estinguere le fiamme e, piú tardi, installata sui dromoni, armò le flotte bizantine, irrorando col terribile fuoco greco le navi nemiche.

Qui accanto: la pompa in bronzo rinvenuta in un’antica miniera presso Huelva (Spagna). I-III sec. d.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. L’ugello a delta, che permetteva di dirigere il getto in ogni direzione, consente di identificare il manufatto come un proiettore di fuoco greco.

L’allestimento antincendio implicava cilindri piú grandi, verosimilmente di 4-5 l ciascuno, serviti da quattro uomini, e capaci perciò di scagliare a discreta distanza un getto d’acqua di 300400 l al minuto.

un ritrovamento eccezionale Nell’allestimento bellico, invece, ferma restando la gittata, bastavano cilindri di appena 1-2 l che, aspirando la miscela pirofora da un serbatoio, la proiettavano accesa. Quale che fosse la sua destinazione, alla pompa fu data le generica definizione di sifone, dal greco siphonos (tubo aspirante), e di rozzi congegni siffatti risalenti all’età imperiale ne sono stati rinvenuti una ventina: nessuno di essi, però, è paragonabile, per accuratezza di lavorazione, complessità meccanica e concezione tecnologica, alla pompa rinvenuta sul finire dell’Ottocento in un’antica miniera di Sotiel Coronada, presso Huelva in Andalusia.

Alta poco meno di 1 m per circa 40 cm di larghezza e realizzata interamente in bronzo tra il I e il III secolo d.C., essa ci è pervenuta in stupefacente stato di conservazione, priva solo di alcune parti accessorie, che erano forse in legno. I cilindri hanno una capacità di 0,92 l, per cui, stimando di due secondi il tempo di ogni ciclo, si avrebbe una portata pari a quasi 3,5 mc all’ora. Una quantità risibile se destinata a evacuare l’acqua dalle miniere, come recita l’interpretazione ufficiale, sebbene vari autori, proprio per quella trascurabile entità, abbiano immaginato altre utilizzazioni, tutte, però, altrettanto assurde. Tenendo conto che la sua connotazione piú singolare è l’ugello a delta, tramite il quale si poteva dirigerne il getto in qualsiasi direzione – come avveniva per mezzo di un giunto universale nelle coeve macchine da lancio –, appare plausibile identificare quell’avveniristico reperto con il sifone di un proiettore di fuoco greco. La validità di tale peculiarità ha di recente trovato una straordinaria conferma nella riproposizione del medesimo ugello a delta nei grandi cannoni antincendio, ribattezzati monitor, capaci, grazie a tale dispositivo, di lanciare da rilevante distanza poderosi getti di acqua e di schiumogeni, soffocando, con portate di oltre 4000 l al minuto (240 mc circa all’ora), anche le fiamme piú ostinate.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

LE ACQUE (NASCOSTE) di BoLOGNA le viscere del capoluogo emiliano custodiscono un patrimonio architettonico straordinario, che da anni è oggetto di numerose iniziative volte alla sua riscoperta

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el centro di Bologna scorrono numerose vie d’acqua, di superficie e sotterranee, che nel tempo hanno caratterizzato la vita della città. Decine di iniziative, coordinate dai Consorzi dei Canali di Reno e Savena, in collaborazione con il Comune e diverse associazioni, vengono proposte a cittadini e turisti per portare

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l’attenzione, e sensibilizzare l’opinione pubblica, sul sistema idraulico artificiale della città e sul suo valore storico. Le prime edizioni della «Notte Blu» e di altre manifestazioni, che durante tutto l’anno vengono offerte per scoprire il sottosuolo cittadino e celebrare l’acqua, quale elemento vitale, hanno visto la partecipazione di

decine di migliaia di persone tra mostre, spettacoli e concerti in musei, palazzi e sotterranei.

aL servizio di nettuno Particolarmente suggestiva e interessante, per il pregio architettonico e ingegneristico, è la Conserva di Valverde, nota popolarmente come i «Bagni di Mario». Si tratta di una caratteristica opera sotterranea costruita dall’architetto palermitano Tommaso Laureti, nel 1563, articolata su due livelli, per alimentare la fontana del Nettuno, uno dei simboli piú conosciuti di Bologna. Il monumento, eccezionalmente aperto al pubblico in occasioni particolari, ha un fascino speciale, che nasce dal connubio tra le necessarie valenze tecniche, indispensabili al funzionamento dell’opera idraulica, e le maestose forme architettoniche con il quale venne realizzato. Caratteristiche che gli donano una bellezza formale unica


e fanno della Conserva una splendida dimostrazione della cultura del Rinascimento. Questa struttura ipogea raccoglieva l’acqua attraverso quattro cunicoli che si addentrano al di sotto della collina di Valverde. Le gallerie trasportavano le acque fino a una grande sala centrale a pianta ottagonale, sovrastata da una cupola, dove venivano filtrate e ripulite, per poi arrivare al centro della città mediante un ulteriore canale sotterraneo che si sviluppa per oltre 1 km. Lungo quest’ultimo tragitto nelle viscere di Bologna venivano, tra l’altro, intercettate e raccolte anche le acque provenienti dalla piú antica Fonte Remonda, opera di captazione sotterranea realizzata nel Quattrocento. Anticamente a Bologna si lavorava anche la seta (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 62-73) e, anche in questo caso, l’acqua rivestiva un ruolo fondamentale. Soprattutto tra il XV e il XVIII secolo, l’acqua divenne una

sostanza dominante del paesaggio urbano, con canali e mulini che sfruttavano un sofisticato reticolo di distribuzione delle acque per la forza motrice.

un sistema articolato Oggi è possibile ripercorrere questi aspetti della vita economica e sociale di Bologna grazie a un’ampia sezione del Museo del Patrimonio Industriale (www.museibologna.it/ patrimonioindustriale), allestito presso l’ex Fornace Galotti, nella quale si producevano laterizi e terrecotte. Oltre all’organizzazione del setificio, il percorso espositivo permette di scoprire le caratteristiche uniche del sistema idraulico di cui la città si dotò fin dal XII secolo. Il complesso apparato idrico bolognese era composto, sul fiume Reno e sul torrente Savena, in superficie e in sotterranea, da chiuse, canali e dalle cosiddette «chiaviche», condotte che distribuivano l’acqua

Nella pagina accanto, in alto: un cunicolo della Conserva di Valverde, opera sotterranea costruita da Tommaso Laureti nel 1563. Nella pagina accanto, in basso: la piazza coperta della Biblioteca Salaborsa, sotto il cui pavimento di cristallo si conservano resti archeologici databili dall’età villanoviana fino al Rinascimento (foto in questa pagina). in molte zone della città. Ma Bologna svela molti altri sotterranei di grande interesse. Un’affascinante struttura che contribuisce a ripercorrere la storia dell’acqua, questa volta in forma solida, è una ghiacciaia sotterranea risalente al XIV secolo, costruita per conservare cibi e vivande, al di sotto di un edificio oggi adibito a hotel nel Parco della Montagnola. E un vero e proprio percorso ipogeo si snoda sotto il grande pavimento di cristallo della Biblioteca Salaborsa, all’interno di Palazzo d’Accursio, sede storica del Comune di Bologna, dove interventi di ristrutturazione e scavo archeologico hanno riportato alla luce secoli di storia della città, dalle tracce dell’originario insediamento di capanne villanoviane, all’etrusca Felsina, alla romana Bononia.

per saperne di piÚ Tra le associazioni che promuovono e organizzano visite ai sotterranei di Bologna, segnaliamo gli «Amici delle vie d’acqua e dei sotterranei di Bologna» (www.amicidelleacque.org/) e l’Associazione Vitruvio (www.vitruvio.emr.it). Ricordiamo, inoltre, la pubblicazione, a cura di Danilo Demaria e Paolo Forti, Gli antichi acquedotti di Bologna: le nuove scoperte, i nuovi studi, del Gruppo Speleologico Bolognese, che cura anche percorsi guidati nel sottosuolo della città (www.gsb-usb.it).

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

il mondo salvato da una cassa uno degli attributi della città frigia di Apamea è kibotos, termine greco che indica i contenitori in legno per il trasporto delle merci. Ma che rivela anche un secondo – e sorprendente – significato in chiave religiosa

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e immagini che la città di Apamea di Frigia (l’antica Celeanae, nota anche con le specifiche Kibotos e ad Maeandrum) scelse per celebrare se stessa sulle sue monete sono molteplici e originali, sempre legate ad assonanze figurative basate, come un gioco enigmistico, sul nome della città e su oggetti o personaggi che lo richiamano. Cosí, come abbiamo già visto nelle puntate precedenti, il fiume Meandro, uno dei due corsi d’acqua che le erano limitrofi, diviene la decorazione con lo stesso nome, l’altro fiume, il Marsyas, è simboleggiato dal satiro omonimo, mentre l’attributo Kibotos («cassa» o «cesta» in greco) è evocato da piccole casse, probabilmente in legno, che alludono al carattere di emporio commerciale della città. Insieme alle anfore, le casse da imballaggio erano il principale contenitore delle

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mercanzie che circolavano nel mondo antico; mentre le anfore, essendo di terracotta, si sono conservate nel corso dei millenni, le casse erano perlopiú in legno, dunque estremamente deperibili e non risultano particolarmente rappresentate nelle fonti figurative. Circostanze che rendono quindi interessante la loro presenza sulle monete della città frigia.

Un emporio di successo Come già accennato, nel corso dell’età imperiale Apamea Kibotos era un importante centro commerciale e di smistamento delle merci, sia che provenissero dal bacino mediterraneo o che dall’Asia Minore fossero dirette verso la Grecia e l’Italia. E proprio per simboleggiare questa intensa attività di scambio, i magistrati locali preposti alle emissioni vollero utilizzare anche le

Rovescio di una moneta in bronzo di Apamea Kibotos sul quale compare il satiro Marsia disteso con il doppio flauto in mano; intorno a lui si vedono flutti che escono da un’anfora e, in alto, alcune casse in legno. Età adrianea (117-138 d.C.). casse da trasporto come elemento iconografico minore ma ricco di significato. In particolare, sotto Adriano vennero battuti conii dedicati al satiro Marsia, eponimo del fiume locale e rappresentato nella versione di divinità «idrogeografica». In questo caso il ruolo del satiro non è legato al supplizio infertogli da Apollo (che, sconfitto dal satiro in una gara musicale, scelse di vendicare l’affronto subito scuoiandolo vivo, n.d.r.), ma è quello di genius loci, quale dio fluviale. Egli appare adagiato nella sua grotta alla sorgente del fiume (simboleggiato da leggere onde sottostanti


fuoriuscenti da un’anfora) e rivestito da un manto sui fianchi, tipico delle personificazioni fluviali, come per esempio quelle del Nilo o del Tevere. In una mano tiene il diaulos – il flauto a doppia canna che fu causa della sua tragica fine –, e nell’altra un rython (corno potorio) o una cornucopia, simbolo della feracità assicurata dal fiume e anche dei traffici che vi si svolgono. Nel campo vi sono poi quattro o cinque piccole casse rettangolari, rivestite da quella che sembra una rete a maglie larghe, che ne doveva garantire la tenuta e facilitare il carico: un rimando evidente alla vocazione commerciale della città, che costituiva un simbolo chiaro per i cittadini d’Apamea. Ma come era fatta la cassa detta in greco kibotos? Era certo in legno, destinata principalmente a imballaggi e trasporti. Lo stesso termine traduce, nella versione biblica dei Settanta (cosí sono detti

i primi traduttori dell’Antico Testamento in greco) l’ebraico tebah, con il quale, nella Genesi, viene indicata l’arca, l’imbarcazione che Noè costruisce su indicazione di Dio per scampare al diluvio universale, la cui forma ricorda – appunto – una enorme cassa rettangolare. L’arca compare spesso, sia nell’arte paleocristiana che in quella di epoche piú recenti, come una semplice cassa destinata al trasporto delle mercanzie.

una comunità influente Per inciso, è interessante rilevare come lo stesso termine kibotos, sempre nella traduzione biblica dei Settanta, indichi anche l’Arca dell’Alleanza. Forse, proprio basandosi sulla notorietà dell’immagine delle casse e sull’assonanza con il nome Apamea Kibotos, l’influente comunità giudaica locale riuscí a

Il cosiddetto Mosaico dell’Arca di Noè, dalla basilica paleocristiana di Mopsuestia (presso l’odierna Misis, Turchia). IV sec. d.C. Adana, Museo del Mosaico di Misis. Al centro della composizione, l’arca è rappresentata come una cassa sorretta da quattro gambe, aperta in alto, fianchi decorati a pannello e, su un lato corto, un accesso nel quale si vede la coda di un animale tra quelli destinati a salvarsi dal Diluvio. battere le eccezionali monete d’età imperiale con Noè e consorte nell’arca, beninteso a forma di cassa (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014). Gli Ebrei di Apamea avevano saputo argutamente giocare con il nome e i simboli della città, adattando tipologie ben note a fini religiosi e trasformando i semplici contenitori da trasporto nell’enorme cassa che salvò gli esseri viventi dall’estinzione. (3 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Marco Giuman

Archeologia dello sguardo Fascinazione e baskania nel mondo classico Giorgio Bretschneider Editore, Roma, 185 pp., figg. b/n 95,00 euro ISBN 978-88-7689-276-9 bretschneider.it

Lo sguardo, il piú centrale tra i codici di comunicazione non verbale, è un tema classico di storia della cultura, che si snoda attraverso una copiosa rassegna di fonti letterarie antiche discusse e intrecciate con quelle iconografiche (a cui è dedicata anche una breve appendice curata da Chiara Pilo), che danno a questo lavoro quel carattere di interdisciplinarità senza il quale un argomento del genere difficilmente potrebbe essere affrontato

con speranza di successo. L’immagine dell’occhio indica potere e dominio, sia nelle forma attiva di chi lo esercita, sia in quella passiva di chi lo subisce. La baskania,

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cioè la fascinazione, è un fenomeno di empatia negativa che passa attraverso i poteri dell’occhio, e trova il suo veicolo di trasmissione appunto nello sguardo, la cui intensità varia secondo la natura del suo proprietario. La ricerca si accentra dunque sull’occhio, di volta in volta individuato come specchio dell’anima e sede dei sentimenti, specie di quelli amorosi, come strumento dell’invidia, come rischioso veicolo di incroci di sguardi proibiti. Lo sguardo degli dèi è di norma insostenibile da parte degli uomini e foriero di sventure. La Gorgone, forza negativa per eccellenza, piú di ogni altra riassume in sé la potenza ammaliatrice dell’occhio e il pericolo mortale che esso può comportare. Un tema del genere si carica di interessi antropologici, che travalicano il tempo e, pur essendo trattato sempre all’interno della dimensione propria dell’antichità, è arricchito di rimandi a culture diverse e alla nostra stessa dimensione contemporanea, fatta anche di quotidiani comportamenti ancestrali. Come quello concernente il malocchio e il rapporto di potere che si instaura tra l’agente fascinatore e la sua vittima, che solo il ricorso a formule magiche e a una congerie di diversi amuleti può spezzare. La malvagità dello sguardo interviene infatti sulla sorte delle persone: di qui la necessità di individuare

oggetti che, per il loro aspetto singolare, talvolta ridicolo, la distolgano dal suo obiettivo. Il lettore incontrerà con interesse i diversi protagonisti attivi e passivi della fascinazione e dell’invidia, scoprirà i motivi del potere intercettivo degli amuleti (come la deformità del gobbo, che, proprio perché non può essere oggetto di invidia, ha il potere di stornare gli effetti del malocchio). E si stupirà di riconoscere gli elementi di continuità che hanno trasferito nel contesto cristiano le stesse superstizioni legate al corallo (da sangue della Gorgone a sangue di Cristo) o al fallo (da protettore di orti e giardini, di fornaci e fucine a silenzioso baluardo di cattedrali romaniche). Daniele Manacorda

di una vita passata che attendeva d’essere rivelata. Peter Parsons, per molti anni curatore dell’Oxyrhynchus papyri Project, racconta dunque la storia del sito, l’organizzazione della comunità urbana e le vicende dei suoi cittadini, attraverso alcuni dei documenti piú significativi, scelti tra i circa 500 000 mila papiri a oggi ritrovati.

Peter Parsons

la scoperta di ossirinco La vita quotidiana in Egitto al tempo dei Romani Carocci editore, Roma, 342 pp., ill. col. e b/n 24,00 euro ISBN 978-88-430-5767-2 carocci.it

Nel 1897, Bernard Pyne Grenfell e Arthur Surridge Hunt individuarono, nei pressi del villaggio di el-Behnesa 160 km a sud del Cairo, le rovine di Ossirinco, una delle città piú antiche d’Egitto, occupata nei secoli da Greci, Romani e Arabi. Al momento della scoperta, sul luogo della discarica urbana, affioravano dal sottosuolo migliaia di frammenti di papiro, testimonianze

Le storie forniscono all’autore lo spunto per mostrare il tratto umano della popolazione, appassionata, per esempio, alla letteratura. E si scopre, cosí, che la presenza di autori greci come Pindaro e Callimaco testimonia del piacere di leggere e delle forme di organizzazione scolastica delle classi sociali abbienti. Gli atti giuridici, permettono di descrivere la sfera amministrativa, mentre le lettere personali rimangono le testimonianze piú attraenti, perché ci parlano degli aspetti piú intimi della vita degli antichi abitanti di Ossirinco. Luna S. Michelangeli


Fabio Fabiani

l’urbanistica: città e paesaggi Carocci editore, Roma, 318 pp., ill. b/n 26,00 euro ISBN 978-88-430-6762-6 carocci.it

Il volume, di taglio specialistico, indaga la genesi e lo sviluppo dell’urbanistica, dagli albori della civiltà greca alla fine della società romana (VIII secolo a.C.-VI secolo d.C.). Il percorso tematico, ripartito per cronologie e aree culturali, esamina i contesti urbani sotto il profilo urbanistico, sostenuto comunque dall’archeologia e dalla topografia. In cinque capitoli, l’autore ripercorre la storia della città e del suo paesaggio scendendo sempre piú nel dettaglio delle componenti che la modellano: i sistemi di difesa, che spesso delimitavano il centro abitato e distinto dal territorio circostante; le piazze, i luoghi di rappresentanza politica e religiosa; il sistema viario e i quartieri abitativi e commerciali. Ma la rappresentazione della

città antica prosegue anche al di fuori dell’abitato, attraverso lo sfruttamento del suburbio e delle aree rurali. E la città, infine, non poteva essere tale senza una rete di collegamento capace di unirla a un sistema di comunicazione piú ampio, fatto di vie terrestri e vie d’acqua. L. S. M.

dall’estero Alasdair Whittle e Penny Bickle (a cura di)

early farmers The View from Archaeology and Science The British AcademyOxford University Press, Oxford, 450 pp., ill. b/n 90,00 GBP ISBN 978-0-19-726575-8 oup.com

Il Neolitico segna l’affrancamento dell’uomo dal modello di sussistenza basato sulla caccia e sulla raccolta e favorisce, dunque, condizioni di vita piú stabili: un giro di boa non a caso definito «rivoluzionario», ma che, al tempo stesso, non va visto come il passaggio a una sorta di pacifica arcadia. Soprattutto agli esordi, infatti, non fu facile gestire le innovazioni costituite dalla pratica dell’agricoltura e dell’allevamento e proprio questo è uno degli spunti di riflessione offerti da questa raccolta. I contributi ribadiscono la centralità della neolitizzazione nella parabola culturale della specie umana, in questo

caso analizzata attraverso il contributo delle scienze che piú utilmente possono affiancare e integrare lo studio archeologico dei contesti. Stefano Mammini

o materiali, perché essere cacciatori-raccoglitori è una condizione che implica anche una particolare visione di se stessi nell’ambito dell’ecosistema; e non è un caso, infatti, che l’opera, fin dal titolo, espliciti l’intenzione di affrontare l’argomento sia dal punto di vista archeologico, sia da quello antropologico. La ponderosa raccolta, di taglio prettamente specialistico, è stata articolata dai curatori in otto sezioni, che spaziano dalle questioni di carattere teorico

Vicki Cummings, Peter Jordan e Marek Zvelebil

The Oxford Handbook of the Archaeology and Anthropology of Hunter-Gatherers Oxford University Press, Oxford, 1360 pp., ill. b/n 125,00 GBP ISBN 978-0-19-955122-4 oup.com

Avvalendosi di una sessantina di contributi, questo nuovo titolo nella serie degli Oxford Handbook affronta un tema cruciale, vale a dire quello delle culture che, per un lunghissimo arco temporale, basarono la propria sussistenza sulla caccia e sulla raccolta. Come si legge già nelle pagine introduttive e come viene piú volte ribadito dagli autori dei vari saggi, un simile modus vivendi non può essere analizzato in termini esclusivamente funzionali

e metodologico alla discussione di singoli casi di studio. Ne risulta, com’è nella tradizione di questi manuali, un panorama ricco, aggiornato alle acquisizioni piú recenti e denso di stimoli per ulteriori riflessioni e approfondimenti. Che, in questo caso, sottolineano il debito che anche l’uomo successivamente trasformatosi in agricoltore e allevatore ebbe nei confronti di questi suoi progenitori. S. M.

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