YAZIDI
SORGENTI DELLA NOVA
SCULTURA IN CINA
STELE VENETI
SPECIALE PERSIA PRIMO IMPERO UNIVERSALE
SORGENTI DELLA NOVA
VENETO PREROMANO
A LEZIONE DI ACCOGLIENZA
www.archeo.it
2015
Mens. Anno XXXI n. 359 gennaio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
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archeo 359 GENNAIO
ANTICA PERSIA IL PRIMO IMPERO UNIVERSALE
YAZIDI
GLI ADORATORI DELL’«ANGELO PAVONE»
PROTOSTORIA
€ 5,90
editoriale
nostalgie imperiali Viviamo davvero in un’epoca di «piccole nazioni e sette religiose avvinghiate in orride guerre senza fine», come scrive Massimo Vidale nello speciale di questo numero? Le sette, vale la pena ricordarlo, non sono sempre bellicose, né sono un prodotto esclusivo del nostro tempo, anzi (basti pensare a quella, sorta duemila anni fa, e da cui sarebbe scaturita una delle piú grandi religioni universalistiche di tutti i tempi). Chiuse nelle proprie introverse riflessioni, rifiutano – per definizione e propria ragion d’essere – la ribalta dei grandi flussi epocali e restano ignote alla maggioranza dominante che le circonda. Quando capita, però, che questo mondo emerga improvvisamente alla nostra attenzione, esso ci sorprende. Prendiamo l’esempio degli Yazidi, di cui ci narra Marco Di Branco: un piccolo gruppo identitario (oggi di appena 60 000 unità) la cui fede riunisce, in un curioso e composito sincretismo, riti, figure e narrazioni delle principali correnti religiose dell’antico mondo vicino- e mediorientale: dell’Islam, del cristianesimo e dell’ebraismo, ma anche della grande e antichissima religione sorta nelle terre dell’altopiano iranico. Qui, per piú di un millennio, si è costituito il cardine di un progetto politico, ideologico e culturale senza precedenti nella storia: quello degli Achemenidi, gli artefici del primo impero «universale». Vidale ricorda le parole con le quali un celebre archeologo, Mortimer Wheeler (1890-1976), descrive la fine della loro capitale, Persepoli. E, sulla scia di quest’«ultimo interprete dell’archeologia coloniale», invoca la grandeur di un disegno politico e culturale di cui le vestigia monumentali testimoniano, ancora oggi, le glorie. Sono le strettoie del presente – quello delle piccole nazioni – a sollecitare tali «nostalgie imperiali». Che fare, allora, per trovare una via d’uscita? Solo guardare al passato non serve, questo è certo. Ma riflettere su di esso, forse sí... Andreas M. Steiner Naqsh-i-Rustam (Iran). Le tombe monumentali dei sovrani achemenidi (vedi lo speciale alle pp. 82-103).
Sommario Editoriale
Nostalgie imperiali
3
di Andreas M. Steiner
Attualità notiziario
6
scoperte E se il disco di Festo contenesse, almeno in parte, una dedica alla dea madre? Una nuova, intrigante ipotesi sembra provarlo... 6 all’ombra del vesuvio La Villa di Diomede «rivive» grazie a nuovi studi e alle tecnologie piú avanzate
da atene
Filippi val bene uno scavo di Valentina Di Napoli
48
storia
scavi
Sotto l’ala dell’Angelo Pavone di Marco Di Branco
32
34
Alle sorgenti della storia
48
di Carlo Casi
34
10
parola d’archeologo Cerveteri festeggia il decennale dell’iscrizione al Patrimonio dell’Umanità UNESCO e il ritorno del cratere di Euphronios 14
dalla stampa internazionale Il terrorismo internazionale «scopre» il traffico di antichità come fonte di finanziamento 30 In copertina decorazione in mattoni invetriati policromi dal palazzo reale di Susa raffigurante un arciere. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre
Anno XXXI, n. 359 - gennaio 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Cristina Ferrari è archeologa e giornalista. Daniela Fuganti è giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Luna S. Michelangeli è archeologa. Maurizio Pellegrini è responsabile del Laboratorio Didattica e Promozione Visuale della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 102, basso), pp. 72/73, 82-87, 96, 98/99, 102 (alto) – Doc. red.: pp. 3, 6-7, 17, 30/31, 62-64, 76-79, 100-101, 106-107, 109 – Cortesia dell’autore: pp. 8-9, 15, 48-49, 54-55, 60/61, 65-68, 71, 110 (basso) – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 10-12 – Cortesia Comune di Cerveteri: pp. 14, 16 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 18 (alto; © RMN-Grand Palais (Musée d’Archéologie nationale)/Franck Raux), 18 (centro; © Musées de Marseille/David Giancatarina), 32-33 – Getty Images: Safin Hamed/Stringer: pp. 34/35, 45-47; Abdullah Zaheeruddin/Stringer: p. 37; Ahmad al-Rubaye: p. 39; Yves Gellie: p. 41; Tina Hager: p. 44 – Corbis Images: Martin Bader/Demotix: p. 35 (riquadro); Franz Gustincich/Demotix: p. 40; David Honl/ZUMA Press: pp. 42/43; Amar
civiltà cinese/7 La scultura
La forma delle idee
60
di Marco Meccarelli
60
Rubriche
76
il mestiere dell’archeologo
Quando gli eroi divennero gemelli... 104 di Daniele Manacorda
scavare il medioevo Dalla Scozia con furore
108
di Andrea Augenti
l’altra faccia della medaglia
gli imperdibili
Un incisore distratto? 110
Stele dei Veneti
Melting pot nella terra dei cavalli di Daniele F. Maras
76
di Francesca Ceci
libri
Grover/JAI: p. 69; Adriana Sapone/Splash News: pp. 104-105 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 36, 108; Luciano Pedicini: p. 111 – Cortesia dell’Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Sezione di Archeologia: pp. 51-53, 56 – Cortesia Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller», Farnese: pp. 50, 57 – Cortesia Riserva Naturale Parziale Selva del Lamone: p. 58 – RMN-Grand Palais (Musée Guimet, Paris)/Thierry Olivier: p. 70 – DeA Picture Library: p. 95 (basso); G. Dagli Orti: p. 73; A. dagli Orti: pp. 80-81, 97; W. Buss: pp. 88/89, 91 (destra), 94; Bridgeman Art Library: p. 95 (alto) – Bridgeman Images: pp. 74, 103 – Marka: Sammlung Rauch: p. 91 (sinistra); Egmont Strigl: p. 92 – Fiammetta Sforza: disegno a p. 110 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 32, 37, 50, 84/85, 98. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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82 speciale Achemenidi
L’impero universale 82 di Massimo Vidale
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n otiz iari o SCoperte Creta
Una signora davvero importante...
I
l disco di Festo continua a far parlare di sé. Alcuni anni fa, Jerome M. Eisenberg aveva avanzato forti dubbi sull’autenticità del manufatto, sostenendo che fosse un falso, creato ai primi del Novecento dal suo scopritore, Luigi Pernier, il quale avrebbe preso la clamorosa decisione nel tentativo di risollevare la notorietà del cantiere di Festo, che, al tempo, stava offrendo risultati di minore rilievo rispetto al sito di Cnosso. Tra i vari punti a sostegno della sua tesi (che potete leggere in «Archeo» n. 283, settembre 2008, e nella Monografia di «Archeo» Misteri dell’archeologia/2, entrambi anche on line su archeo.it) lo studioso elencava le diverse singolarità del manufatto, tra cui: l’unicità di questo tipo di oggetto nell’intera età del Bronzo; la foggia insolita ed eccessivamente rifinita
dei bordi della tavoletta; la cottura uniforme «in forno» dell’argilla, mentre altre tavolette ritrovate hanno subito solo una cottura
In alto: il lato A del disco di Festo, scoperto nel 1908 da Luigi Pernier. In basso: veduta aerea dell’area di scavo del grande Palazzo di Festo. accidentale e disomogenea a causa di incendi. Oltre a queste ragioni, evidenziava anche la somiglianza di alcuni simboli con quelli della scrittura Lineare A, nonché diversi altri riferimenti iconografici, che potevano fornire ispirazione all’ipotetico creatore moderno. Di parere opposto, sostenitore dell’autenticità del disco, è invece Gareth Owens, del Technological Educational Institute di Creta, il quale, dal 2008, con la collaborazione di John Coleman, dell’Università di Oxford, ha portato avanti incessanti tentativi di
6 archeo
ferrara
Divulgare e comunicare
La restituzione grafica del lato A del disco, con la sequenza di caratteri che si ripete per tre volte e alluderebbe a una «signora di grande importanza». decifrazione del disco, e ha recentemente affermato di aver risolto l’enigma, comprendendo il significato di alcuni simboli e formulando ipotesi precise sul contenuto dell’iscrizione. Per interpretare i glifi, il team di ricercatori li ha confrontati con quelli dell’ascia di Arkalochori, un altro reperto cretese dell’età del Bronzo. Owens, applicando la tecnica della continuità epigrafica – come suggerito da Coleman –, anziché quella della frequenza statistica, per determinare l’attribuzione del suono vocalico
«A», ha isolato nel disco di Festo una sequenza di glifi (vedi disegno) sul lato A, che si ripete tre volte e diventerebbe leggibile come «I-QE-KU-RJA». Secondo la sua interpretazione «I-QE» significherebbe «signora di grande importanza» e si collegherebbe alla figura della Grande Madre. Sul lato B invece un’altra parola, leggibile come «AKKA», identificherebbe una «donna incinta». La conclusione dello studioso è quindi che il disco rappresenti la trascrizione di una invocazione religiosa a questa divinità femminile preistorica collegata alla fertilità e adorata in varie forme dai popoli del Mediterraneo antico. Paolo Leonini
Il Laboratorio di Antichità e Comunicazione (L.A.C.) dell’Università degli Studi di Ferrara ha attivato anche quest’anno il master di I Livello in «Esperto in Didattica dei Beni Culturali», che consta di due curriculum: «Didattica dell’Antico» e «Didattica Museale ». Il master intende formare figure professionali nel campo della didattica, della comunicazione e della divulgazione dei beni culturali. Lo stage, di 300 ore, si potrà svolgere presso siti, musei, enti, istituzioni, agenzie e aziende culturali. Il master sarà di complessivi 60 CFU, di cui 12 di stage presso editori e redazioni. Lo stesso L.A.C. ha inoltre attivato, per l’anno accademico 2014/2015, il primo master «Divulgare e comunicare l’antichità e i beni culturali», che intende formare figure professionali che possano operare in ambito radiotelevisivo, nell’editoria, nelle redazioni di quotidiani e periodici. Gli insegnamenti del master saranno tenuti da noti divulgatori della televisione e della radio e da scrittori e giornalisti delle piú importanti case editrici e riviste specializzate nel settore. Il master sarà di complessivi 60 CFU, di cui 12 di stage presso editori e redazioni Info: tel: 0532 455236 (attivo lu-ma, 9,00-13,00 e 14,00-18,00); cell. 389 0742424; e-mail: lac@unife.it
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n otiz iario
SCAVI Umbria
orvieto, caput etruriae
U
na nuova scoperta getta luce sulla fase etrusca della città di Orvieto: sul pianoro, infatti, è stata individuata una singolare struttura a forma troncopiramidale. La cavità 254, come è stata denominata, si trova al di sotto di una abitazione in via Ripa Medici, cioè sul ciglio della rupe e non lontano da altre aree che, in un passato piú o meno recente, avevano restituito testimonianze di epoca etrusca. Nell’area della vicina chiesa di S. Giovanni Evangelista ritrovamenti ottocenteschi avevano portato alla luce un altare di forma cilindrica, forato internamente, dedicato alla divinità Tinia (lo Zeus etrusco) nel suo aspetto ctonio; e terrecotte da riferire a un edifico sacro, tra cui due opere di notevole livello: una testa di sileno e una di menade, databili entrambe agli anni 470-460 a.C. e conservate presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Nella prossima piazza Ranieri, nel corso di lavori effettuati per la realizzazione di una scala mobile, era stata indagata già un’altra cavità che ha restituito materiale archeologico inquadrabile cronologicamente alla metà del V secolo a.C. Infine, sempre in via Ripa Medici, era stato individuato un pozzo a sezione circolare con pedarole. Per completare il quadro, va segnalato che dalla zona in cui è posizionata la cavità si può osservare il tratto della valle sottostante interessato dalle campagne di scavo condotte da Simonetta Stopponi (Università degli Studi di Perugia), che stanno riportando alla luce una vasta area archeologica nella quale si può riconoscere probabilmente il Fanum Voltumnae, vale a dire il santuario federale degli Etruschi.
8 archeo
Una coppa in bucchero affiora dal riempimento della cavità scoperta a Orvieto, in via Ripa Medici. Vale allora la pena di riepilogare le vicende storiche di Velzna (Volsinii in lingua latina) la città-stato che viene localizzata sul pianoro orvietano. Essa iniziò a svilupparsi nel IX secolo a.C. anche se rimase un centro minore sino al VI secolo a.C., quando la documentazione archeologica raccolta suggerisce che l’insediamento riuscí a raggiungere i livelli di benessere delle maggiori poleis dell’Etruria. La vivacità economica, sociale e politica non venne meno nel secolo successivo, durante il quale altri centri dovettero affrontare una crisi profonda, dovuta essenzialmente alla contrazione del controllo dei commerci nel Mar Tirreno causata dalla sconfitta che le città costiere etrusche subirono nella battaglia navale di Cuma per mano dei Siracusani e dei Cumani (474 a.C.). Nel IV secolo a.C. il ruolo di Velzna si rafforzò ulteriormente e, nella
seconda metà di esso, arrivò ad assumere, insieme a Perugia, la leadership nella lotta contro Roma. La sconfitta degli Etruschi, alleati con Umbri, Sanniti e Celti, sui campi di Sentino (295 a.C.) e la successiva conquista da parte di Roma (280 a.C.) portarono alla nascita di un movimento rivoluzionario che riuscí a prendere il potere, strappandolo a una ristretta aristocrazia ritenuta responsabile delle disfatte. Alcuni anni dopo gli aristocratici (o una parte di essi) chiesero l’aiuto di Roma per tornare al potere: dopo un lungo assedio, nel corso del quale trovò la morte il console che comandava il corpo di spedizione romano, la città venne presa, distrutta e i superstiti – gli aristocratici di antico lignaggio e i servi restati fedeli ai padroni – vennero trasferiti forzatamente sulle sponde del lago di Bolsena
(265-264 a.C.), dove – dopo un inizio difficile – iniziò a svilupparsi la nuova città etrusco-romana e poi pienamente romana. La nuova scoperta porta contributi nuovi rispetto a tale quadro storico? La risposta è positiva, poiché il riempimento della cavità – qualunque ne sia stata la funzione originaria – sembra essere avvenuto nella seconda metà del V secolo a.C. e probabilmente verso la sua fine. L’analisi stratigrafica ha consentito di ricostruire i modi del riempimento, avvenuto in tempi ristretti, seppur attraverso
operazioni distinte: prima gettando il materiale di risulta dai gradini della scala che corre sul lato occidentale della cavità e, in seguito, dal centro di un’ipotetica volta presente in antico. Sostanzialmente allo stesso momento storico sembra rinviare il riempimento della cavità rinvenuta nella vicina piazza Ranieri. Si può quindi ipotizzare un’intensa attività edilizia nella zona, con demolizioni e nuove costruzioni che arrivarono a mutare l’aspetto della polis in un’area di notevole interesse prossima, tra l’altro, alla sua via di
Uno scorcio della cavità in corso di scavo. La struttura è riferibile alla fase etrusca di Orvieto. accesso principale. Non riusciamo ancora a comprendere se l’intervento si rese necessario a seguito di un fatto calamitoso, come per esempio un incendio, o a una determinazione dovuta a scelte di carattere urbanistico e alla volontà di «aggiornare» l’immagine della città. In ogni caso i lavori – ne abbiamo la prova indiretta – vennero portati avanti con decisione e notevole impegno di mezzi anche in altre zone del pianoro come nell’area del tempio di Belvedere dove venne rinnovata completamente la decorazione architettonica. Gli interventi sembrano avvalorare quindi, questa volta grazie a una documentazione che non viene dalle necropoli ma dal centro pulsante della città, la forza crescente di Velzna e il suo ruolo sempre piú significativo all’interno delle dinamiche sociali e politiche presenti in ambito etrusco. In altri termini, l’attività dei cantieri – testimoniata sempre in maniera indiretta dai risultati delle campagne di scavo nella cavità di via Ripa Medici – sembra parlare proprio di una polis che si accinge a divenire Etruriae caput, secondo la testimonianza piú tarda di Tito Livio e Valerio Massimo. I materiali raccolti forniscono altre informazioni preziose: il ritrovamento, nel riempimento, di frammenti ceramici pertinenti all’età del Bronzo Finale iniziano a gettare una luce nuova sulle iniziali, poco note modalità d’insediamento al di sopra della rupe orvietana. Giuseppe M. Della Fina
archeo 9
ALL’OMBRA DEL VesuviO di Alessandro Mandolesi
scienze «esatte» per diomede una delle piú grandi e lussuose dimore pompeiane è interessata da un progetto che, avvalendosi delle tecnologie piú avanzate, sta ricostruendo in ogni minimo dettaglio la storia del complesso
C
on la Villa dei Misteri, che i restauri stanno riportando allo splendore originario (alla sua riapertura «Archeo» dedicherà un servizio esclusivo), la Villa di Diomede, scavata tra il 1771 e il 1775, è la residenza pompeiana piú lussuosa subito fuori le mura della città. La denominazione della costruzione deriva dall’associazione, impropria, con l’antistante tomba di M. Arrius Diomedes, posta sulla via sepolcrale che usciva da Porta Ercolano. Il primo impianto della villa risale probabilmente al II secolo a.C., ma il complesso fu
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profondamente ristrutturato al momento della fondazione della colonia, nell’80 a.C. La monumentale residenza è distinta su piú livelli e presenta la caratteristica dell’inversione del peristilio, disposto prima dell’atrio, secondo le prescrizioni di Vitruvio per le ville. Dopo il peristilio, ai lati dell’atrio, si trovano le stanze padronali, riccamente decorate e affacciate sul giardino sottostante e sulla marina. La zona servile si trovava invece sul lato d’ingresso del fabbricato e qui erano custoditi gli attrezzi agricoli. Una scala scende al quartiere inferiore,
costruito su un criptoportico che serviva da cantina e reggeva un peristilio attorno al giardino. In prossimità della porta posteriore della villa furono trovati due corpi aggrovigliati, uno dei quali aveva un anello d’oro al dito e una chiave d’argento in mano (secondo alcuni il proprietario della dimora), e teneva un gruzzolo di 1356 sesterzi. Altri diciotto corpi, tra i quali donne e bambini, asfissiati dai vapori, furono scoperti nel sotterraneo. Dal 2013 la Villa di Diomede è interessata da un importante progetto di ricerca e valorizzazione che prevede l’utilizzo di tecnologie
innovative nell’ambito dei beni archeologici. La professoressa Hélène Dessales – coordinatrice del progetto per l’École normale supérieure di Parigi, con l’appoggio del Centre Jean Bérard di Napoli, dell’Institut national de recherche en informatique et automatique e con il sostegno del centro di ricerca comune Inria-Microsoft Research e di Paris-Sciences Lettres – ci illustra i primi risultati dei lavori realizzati d’intesa con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia.
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
In alto e a sinistra: due immagini della Villa di Diomede, realizzate grazie all’uso di un drone. Nella pagina accanto: proiezione nel modello 3D di un rilievo storico della Villa di Diomede realizzato da H. Wilkins intorno al 1810. «La prima fase del progetto ha prodotto un modello fotogrammetrico in 3D di alta precisione, ottenuto con l’acquisizione di fotografie realizzate con tecniche tradizionali e con fotocamere integrate a bordo di un drone. È stata cosí raggiunta una elevata accuratezza di ripresa non solo sulla villa (di oltre 3500 mq di estensione), ma anche sulle zone circostanti. Le migliaia di immagini acquisite sono state elaborate dal software PMVS e Bundler messo a punto da ricercatori dell’École normale e applicato in collaborazione con lo studio di architettura Iconem. Si tratta di un sistema innovativo che, attraverso processi automatici,
consente di realizzare modelli tridimensionali corretti a partire da immagini digitali scattate da angolazioni diverse. Il software consente l’archiviazione sistematica della copiosa e dispersa documentazione storica della villa (rilievi del Sette e Ottocento, copie di pitture parietali, vedute, fotografie) e di farla “rivivere” nella proiezione del modello fotogrammetrico in 3D. In questo modo, non solo si ha una conoscenza dell’evoluzione della villa dal 1771 (anno di inizio degli scavi) a oggi, ma si può anche proporre un tour virtuale al suo interno, nella configurazione corrispondente al momento della scoperta. Al termine dei lavori è
prevista la pubblicazione di una monografia sul complesso, con i contributi degli specialisti francesi e italiani coinvolti nel progetto». La professoressa Dessales spiega anche le motivazioni della scelta della Villa di Diomede e illustra alcuni caratteri significativi del progetto in corso. «La villa è uno dei monumenti piú celebri di Pompei, eppure non è mai stata oggetto di un attento studio archeologico. L’obiettivo è quello di integrare metodologie innovative, derivanti sia dalle scienze umane che dalle scienze “esatte”, allo scopo di indagare questo importante edificio e di metterne in evidenza i caratteri di eccezionalità. Tra le tante abitazioni private, la
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Una veduta del bacino termale della villa, cosí come si presentava intorno al 1810, realizzata da François Mazois.
Villa di Diomede è stata scelta per tre motivi principali: innanzitutto è uno dei primi edifici scavati a Pompei e, proprio per questo, è tra i piú rappresentati dagli architetti e menzionati dai viaggiatori nel corso del XIX secolo; inoltre, è uno dei piú grandi cantieri privati della città, in quanto si sviluppa su tre livelli e raggiunge un ampio sviluppo planimetrico; infine mostra uno straordinario stato di conservazione, con numerosi vani del livello inferiore che custodiscono le pitture originali dei soffitti». «La Villa di Diomede rappresenta per Pompei un monumento palinsesto», aggiunge la studiosa. «La posizione della residenza, l’entità delle sue vestigia e l’eccezionale stato di conservazione delle decorazioni, hanno fatto della villa una delle tappe privilegiate del Grand Tour. Il complesso è anche al centro della novella fantastica di Théophile Gautier, Arria Marcella, pubblicata nel 1852. Dalla fine del XVIII secolo a oggi, è stata oggetto di innumerevoli rappresentazioni di artisti e architetti. Francesco La Vega, direttore degli scavi dal 1764 al 1807, fece in modo che l’avanzamento dei lavori fosse
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accuratamente documentato e, consapevole dell’inevitabile degrado che avrebbero subito le decorazioni lasciate in situ, fece fare copie delle pitture parietali da vari disegnatori. Inoltre, egli stesso realizzò una pianta di estrema precisione con l’intento di fare una pubblicazione completa sulla villa, ma l’iniziativa non fu portata a termine». «Un altro aspetto importante del progetto – evidenzia la coordinatrice – è legato all’archeologia del cantiere di costruzione: l’analisi della stratigrafia delle murature della villa, associata all’analisi delle pitture parietali e dei pavimenti a mosaico, permette di ottenere una cronologia dell’edificio. In particolare, individuando le porzioni ricostruite, è possibile comprendere la storia dell’edificio nel corso del tempo, identificarne le differenti fasi di costruzione e visualizzarle nel modello 3D. L’interesse di un tale studio è quello di comprendere per la prima volta nel dettaglio l’evoluzione di un grande cantiere privato di Pompei, essendo stati indagati finora soprattutto cantieri legati alla costruzione di templi. Una delle caratteristiche della villa è quella di
essere stata parzialmente ricostruita dopo il violento terremoto che ha devastato Pompei nel 62-63 d.C. La stretta collaborazione con ingegneri dell’Università degli studi Federico II di Napoli e dell’Università di Padova (Andrea Prota e Claudio Modena) fa della villa un laboratorio privilegiato per indagare il comportamento strutturale del monumento e approfondire le conoscenze e le tecniche utilizzate dai costruttori antichi per far fronte al rischio sismico. Tema, quest’ultimo, poco sviluppato nella storia dell’architettura romana e che costituisce il fulcro di un progetto di ricerca piú ampio sostenuto dall’Agenzia nazionale della ricerca francese, mirato alla valutazione di tali aspetti nell’ambito dell’intero insediamento di Pompei». La villa conserva, inoltre, un lembo di storia del Grand Tour iscritto sui suoi muri: celebri autori, da François-René de Chateaubriand ad Alexandre Dumas, hanno descritto l’edificio nelle loro opere. È possibile cosí studiare, all’interno della residenza, questa memoria testuale: numerosi graffiti, incisi dai viaggiatori dalla fine del Settecento, sono presenti sulle murature degli ambienti piú belli. Nell’ambito del progetto, si conduce un’accurata analisi delle scritte, che ha permesso di identificare alcuni personaggi importanti che hanno preso parte al Grand Tour – come Jean Abraham André II Poupart de Neuflize, Nicolas Suchelet o il Conte di Cavour – e di ricostruire i «flussi turistici» in relazione alle diverse nazionalità rappresentate, nel corso del XIX secolo. Per saperne di piú: http://cefr.revues.org/1121; www.villadiomedeproject.org
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
Luci e ombre su cerveteri alessio pascucci, attuale sindaco della città laziale, traccia un bilancio delle iniziative adottate per rilanciare il patrimonio archeologico del suo territorio. e, intanto, saluta il «ritorno» del cratere di Euphronios
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lessio Pascucci è l’attuale sindaco di Cerveteri ed è stato eletto vicepresidente dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale UNESCO, in virtú del suo impegno per la tutela e la valorizzazione della città che amministra e, in particolare, della necropoli etrusca della Banditaccia, che nel 2014 ha celebrato il suo decennale come Patrimonio dell’Umanità. Le energie profuse dal giovane sindaco nel rilancio turistico di uno dei siti etruschi piú importanti al mondo si vedono dai risultati... «Nei primi otto mesi del 2014, cioè da gennaio ad agosto, abbiamo aumentato del 64% le presenze nel museo di Cerveteri, in un anno in cui le visite ai siti culturali, in tutta Italia, sono diminuite». Adesso, inoltre, il museo espone due pezzi eccezionali, finalmente tornati «a casa»: la kylix (coppa a due manici) e il cratere (vaso per mescolare acqua e vino) di Euphronios, rientrati in Italia dopo una lunga trattativa con gli USA, e
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ora «prestati» dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia… «Il cratere è in mostra nel nostro museo da dicembre, mentre la kylix dallo scorso maggio. Abbiamo combattuto una dura battaglia per far rientrare la kylix, ma abbiamo raggiunto numeri sorprendenti negli ingressi: nel solo mese di maggio abbiamo registrato un aumento del 317% dei paganti. In piú, nello stesso mese, il Museo di Villa Giulia non ha subito alcuna flessione».
L’esposizione della kylix a Cerveteri, quindi, non ha penalizzato Villa Giulia? «Per nulla. Io, peraltro, credo che questi pezzi dovrebbero rimanere a Cerveteri, nel loro territorio di origine, da dove vennero trafugati negli anni Settanta». In questa pagina: tombe a dado (in alto) e a tumulo nella necropoli etrusca della Banditaccia, dal 2004 Patrimonio dell’Umanità UNESCO.
una scoperta inattesa
Sfinge o leone?
Ci addentriamo all’interno della necropoli etrusca della Banditaccia, a Cerveteri, per incontrare Maurizio Pellegrini, funzionario archeologo della Soprintendenza ai Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, con un passato da reporter-fotografo. Come responsabile del Laboratorio Didattica e Promozione visuale ha sviluppato, potremmo dire, un occhio «curioso», che gli ha permesso di notare un particolare che, forse, è sfuggito a molti visitatori della necropoli della Banditaccia… «Per anni, dapprima come studente poi per lavoro, ho percorso il viale interno al recinto della necropoli della Banditaccia. Un giorno, ho cominciato a vedere qualcosa che sembrava incredibile. Addossato all’imposta del tumulo VII, su di una superficie presumibilmente piana e che presenta chiare tracce di lavorazine, noto una sporgenza apparentemente informe, tanto da sfuggire non solo alle migliaia di turisti, ma anche ai numerosi esperti che hanno lavorato o che transitano in questa necropoli. Alto piú di 2 m, lavorato ad altorilievo, emerge un felino che si erge sulle zampe posteriori con il muso rivolto al viandante che percorre la via principale del sepolcreto. Come già detto, la scultura sembrerebbe appartenere al Tumulo VII ma, presumibilmente, era all’ingresso del recinto che comprendeva l’attuale tumulo II, uno dei maggiori e piú antichi tra quelli ora visitabili, eretto nell’Orientalizzante antico, quando forse la sua via di accesso era un’altra. La superficie piana su cui è stato ricavato il felino suggerisce che fosse stato posto a guardia di un possibile ingresso all’area o a un recinto comprendente un nucleo familiare di estrema importanza; è altresí possibile che, dopo l’utilizzo del tumulo per la deposizione denominata attualmente Tomba della Capanna, per le deposizioni posteriori, le Tombe dei Letti e dei Sarcofagi, dei Doli e degli Alari, l’ingresso all’area sia stato modificato e sia stata utilizzata una nuova strada che è poi divenuta la via principale della necropoli. Il tempo e le intemperie hanno reso parzialmente irriconoscibile la scultura: la mancanza dei particolari identificativi e lo stato dell’altorilievo, dilavato e frammentato, non dà la possibilità di individuare l’animale raffigurato e l’identificazione è ostacolata dall’assenza di confronti diretti per una statua cosí grande. L’ipotesi di un felino è valida, ma la possibilità che l’animale possa essere una sfinge è altrettanto legittima. Tuttavia, il leone, immagine simbolo delle antiche civiltà del Vicino Oriente, trova nella grande scultura monumentale ittita una delle massime espressioni: Hattusha, con la sua famosa porta dei leoni, Alaça Höyük, Arslantepe e Antakya in Turchia (dove del resto arslan significa leone), oppure Arslan Tash in Siria, sono luoghi dove questa raffigurazione trova le sue migliori espressioni. Per di piú, come ha scritto Giovanni Colonna, «la civiltà orientalizzante d’Etruria è percorsa al suo interno da un’aspirazione al monumentale, al sovradimesionato, al duraturo, che appare congeniale all’ideologia aristocratica (...) trova negli smisurati tumuli ceretani la manifestazione piú precoce e vistosa. La di-
In alto: il blocco di roccia tufacea che Maurizio Pellegrini ha identificato come la statua di un animale posto a guardia di una delle tombe del Tumulo VII. Qui sopra: la posizione della scultura nella necropoli. pendenza iconografica e stilistica da noti esempi di statuaria siro-ittita è tale, al di la della impressione di rozzezza dovuta alla roccia tufacea, da giustificare l’ipotesi che, tra gli artigiani immigrati in Etruria da quell’area culturale, vi siano stati anche scultori avvezzi a scolpire la pietra». Inoltre, non è improbabile che gli Etruschi mettessero proprio un leone a guardia dei defunti; simbolo di grande forza fisica e coraggio, questo animale era diffuso in Europa e nel Vicino Oriente ancora durante il I millennio a.C. e gli autori greci scrivevano che la caccia al leone era una prerogativa dei grandi sovrani che dimostravano in questa attività tutto il loro valore.
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A sinistra: ancora un’immagine delle tombe a tumulo. In basso: una veduta aerea della necropoli della Banditaccia. dovuto istituire un’apposita navetta, a spese del Comune. E, per farlo, ho dovuto sottrarre soldi ai cittadini. Che poi mi criticano, perché rifaccio la pavimentazione della necropoli e non le strade della città. Non solo. Portare la kylix di Euphronios a Cerveteri ci è costato 60 000 euro, tra assicurazioni, noleggio, trasporto, allestimento della teca. Tutto per esporre un bene per cui, nelle casse del Comune, non arriva neanche un euro. I ricavi Cerveteri è da dieci anni Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Le sembra che l’area archeologica sia adeguatamente conservata e fruibile dal pubblico? «No, perché siamo soli. Possiamo contare su una Soprintendenza eccezionale e anche la Regione ci sta aiutando negli investimenti; è lo Stato che non sappiamo dove sia». Che cosa vuole intendere? «La legge sui siti UNESCO non viene finanziata da 10 anni. Dei nostri 40 ettari di area archeologica, solo 12 sono recintati. Gli altri 28 sono lasciati all’abbandono. In Italia ci sono 50 siti UNESCO, il numero piú alto al mondo. La Germania ne ha meno della metà e ha stanziato ben 122 milioni di euro solo per le infrastrutture dei siti. Il nostro Ministero dei Beni culturali, attraverso la legge n. 77, rifinanzia i siti UNESCO, ma arrivano solo pochi spiccioli, che bastano appena per qualche recupero». Quanti denari arrivano a Cerveteri in forza di questa legge? «Alcune centinaia di migliaia di euro. Ma sono briciole. C’è un turismo nel mondo che va a vedere solo i siti UNESCO. E i nostri non sono raggiungibili. Noi, a Cerveteri, per portare i turisti dalla stazione ferroviaria alla necropoli abbiamo
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dei biglietti, infatti, vanno al MiBACT. Il ministro Dario Franceschini, non a caso, sta pensando a far tornare il guadagno dei biglietti nei musei sul territorio. E speriamo lo faccia». I lavori intrapresi con l’ultimo milione e mezzo di fondi pubblici stanziato per Cerveteri non dovevano concludersi a dicembre? «I lavori sono al termine. Con i finanziamenti ricevuti (1 350 000 euro dai fondi della Regione, POR FESR 2007-2013, e 150 000 euro di stanziamenti comunali), abbiamo rifatto la pavimentazione della strada di accesso alla necropoli della Banditaccia, inaugurandola a luglio, nel giorno in cui il sito ha compiuto i 10 anni di riconoscimento UNESCO. Abbiamo ripristinato il collegamento ciclopedonale dalla città alla necropoli, il “sentiero di Lawrence”. Stiamo installando telecamere per la videosorveglianza e sistemi di illuminazione per gli eventi estivi e notturni. Inoltre, stiamo lavorando per rendere fruibili gli itinerari di visita esterni al recinto della necropoli e per mettere in sicurezza i percorsi esistenti. A gennaio, inoltre, grazie a un ulteriore finanziamento di 480 000 euro (di cui 400mila dati dalla regione e 80 000 dal Comune) inaugureremo il visitor center di fronte all’ingresso della necropoli». A proposto di sicurezza, è recente la notizia di un turista che, caduto in una buca profonda 6 m all’interno dell’area archeologica, ha riportato diverse fratture… Per non parlare del furto messo a segno dai tombaroli nel maggio scorso, che, in una nottata, hanno rubato una Sfinge etrusca del IV secolo a.C, recuperata poi dai finanzieri del Comando Provinciale di Roma lo scorso settembre. Le sembra normale tutto ciò? «Il problema, come ho detto, è che
di 40 ettari di sito archeologico, 12 sono recintati e 28 no. Tumuli preziosissimi come le Tombe dei Leoni, delle Cinque sedie, dei Tarquini, sono al di fuori dell’area perimetrata, quindi soggetti agli attacchi dei vandali e dei malintenzionati. Uno Stato lungimirante dovrebbe per prima cosa realizzare una recinzione che racchiuda l’intero sito archeologico. Le telecamere possono sorvegliare l’area archeologica all’interno della recinzione, non i 30 ettari all’esterno. C’è di piú. Il parco di Cerveteri non solo non è recintato ma, da un punto di vista legale, non esiste. Non ha, cioè, lo statuto di parco archeologico». Qual è il problema piú urgente nella tutela della necropoli della Banditaccia? «Il primo problema è la manutenzione ordinaria, il diserbo innanzitutto. La Soprintendenza fa molto, ma lo Stato non interviene in misura adeguata. Con gli unici finanziamenti ricevuti, ovvero i
Il cratere dipinto da Euphronios trafugato dal territorio di Cerveteri e restituito allo Stato italiano (che l’ha affidato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia) dopo un lungo contenzioso con il Metropolitan Museum di New York. L’opera, databile al 515 a.C. circa, è attualmente esposta a Cerveteri. Sulla faccia qui riprodotta, l’artista compose la scena del corpo dell’eroe Sarpedonte, che viene raccolto dalle personificazioni del Sonno e della Morte, alla presenza di Ermete e di due guerrieri troiani. fondi ARCUS del MiBACT, la Soprintendenza ha effettuato una grande operazione di pulizia e diserbo, riportando alla luce tutte le tombe ellenistiche che si trovano dietro la casa del custode: sepolture mai viste prima, perché coperte dalla vegetazione. Se lo Stato non interverrà, fra qualche anno dovremmo spendere altri soldi per ripulirle. Insomma, si deve smettere di pensare al patrimonio archeologico come a un peso».
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mostre Francia
sulle orme del «droghiere»...
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lla fine del XIX secolo, la Francia e l’Europa si appassionano alle straordinarie vestigia portate alla luce a Troia, Micene e Cnosso. I racconti delle esplorazioni che restituiscono un’esistenza reale all’universo omerico, attraverso la scoperta del mondo minoico e del mondo miceneo, entusiasmano la società dell’epoca. Artisti, musicisti, sarti, poeti e scrittori trovano in queste lontane civiltà inesauribili fonti di ispirazione per le loro creazioni. Archivi inediti, foto d’epoca e oggetti originali – oppure spettacolari riproduzioni eseguite da Emile Gilliéron – raccontano questa avventura nelle sale del Museo di Archeologia Nazionale di Saint-Germain-en-Laye. Le stesse che avevano accolto e fatto conoscere, all’inizio del Novecento, i reperti scaturiti dalle scoperte effettuate nel mondo egeo grazie all’opera dell’allora direttore, Salomon Reinach, amico e ammiratore di Heinrich Schliemann
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In alto: replica di Emile Gilliéron dell’affresco di Cnosso con scena di taurocatapsia. 1905. A destra: brocchetta in stile marino. Minoico Recente IB, 1575-1475 a.C. Marsiglia, Musée d’archéologie méditerranéenne. (il «fortunato droghiere tedesco», secondo gli invidiosi), con il quale era in contatto diretto. La mostra è l’occasione per conoscere i pionieri che percorsero le Cicladi già alla fine del Settecento, nonché i collezionisti che cominciarono ad acquistare i piatti e idoli femminili risalenti al IV e III millennio a.C. Scorrono i ritratti di personaggi come Ferdinand Fouqué, il geologo che nel 1866 aveva studiato l’eruzione del vulcano di Santorini per scoprire che, già nel 1600 a.C. – oggi lo sappiamo con certezza – , ve n’era stata un’altra, gigantesca, che aveva devastato l’isola: i muri affrescati, i vasi perfettamente
conservati, le case, le porte in legno, i recipienti ancora pieni di orzo, segale e lenticchie venuti alla luce ad Akrotiri, fecero subito pensare a una «Pompei preistorica». Ma due uomini si distinguono fra tutti, due talenti ineguagliabili per coraggio, passione e immaginazione: Heinrich Schliemann e Arthur Evans. Riscrissero la storia: il primo a Troia e poi a Micene. Il secondo a Cnosso, nell’isola di Creta. Daniela Fuganti
Dove e quando «La Grecia delle origini, tra sogno e archeologia» Saint-Germain-en Laye, Musée d’Archéologie Nationale fino al 19 gennaio Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; chiuso il martedí Info www.museearcheologienationale.fr
i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
n otiz iario
turismo archeologico Egitto
nella città del commercio
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ssuan è la città piú meridionale dell’Egitto e, come Luxor e il Cairo, si trova sulle rive del Nilo. Sorge all’incirca nel punto d’incontro tra il Deserto occidentale e quello orientale, e appena a nord dell’enorme bacino artificiale creato dalla diga di Assuan e noto come Lago Nasser. Assuan ha un meraviglioso clima invernale, che richiama molti Egiziani e turisti provenienti da ogni parte del mondo, con temperature che, da novembre a marzo, si aggirano intorno ai 22-32 °C. Questa bella città è l’animato mercato della regione. Il suo antico nome, Swenet, significa «commercio» e la sua storia ha origini molto antiche che risalgono all’insediamento della prima comunità egiziana in assoluto. Gli abitanti si erano trasferiti dalle dune del deserto alle fertili sponde del Nilo in cerca di acqua, pesce e terra coltivabile. I prodotti venivano quindi venduti e da questo nacque la reputazione del centro commerciale. Oggi Assuan è caratterizzata dalle palme e dai giardini tropicali, che fiancheggiano uno dei tratti piú larghi del Nilo. Al largo delle sue rive sono sparse molte isole. Due delle piú grandi sono l’Isola di Kitchener, nota per l’abbondanza di piante esotiche, e l’Isola Elefantina, molto piú estesa. La prima si chiama cosí perché venne donata al generale Horatio Herbert Kitchener, a titolo di ringraziamento per il suo contributo all’esercito egiziano durante la campagna del Sudan condotta alla fine dell’Ottocento. Lord Kitchener era un appassionato di orticoltura e creò un’isola di fantastici alberi e piante, quasi un giardino botanico. L’Isola Elefantina, che, come già detto, è molto piú grande, ha una storia che risale all’antichità; allora era
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In alto: una caratteristica feluca egiziana in navigazione sul Nilo, nei pressi di Assuan. In basso: un’altra veduta del Nilo all’altezza di Assuan. una fortezza con un ruolo difensivo per la città. Segnava il confine meridionale con la Nubia. Un tempo fu una delle zone piú popolose dell’abitato. Vi si conservano i resti di un tempio risalente all’Antico Regno e dedicato a Khnum, il dio delle cateratte con la testa di ariete. Inoltre è possibile visitare il Museo di Assuan, nel quale è esposta una ricca collezione di reperti risalenti al periodo greco-romano e vedere il nilometro romano, il dispositivo utilizzato per stabilire il livello del Nilo (e impiegato anche per verificare la circonferenza della terra) intorno al 200 a.C. Molto interessante è anche il tempio di File, dedicato alla dea Iside, smantellato e ricostruito sull’Isola di Agilika, dopo la costruzione della diga di Assuan.
calendario
Italia
bondeno (FE) Aquae
roma La biblioteca infinita
I luoghi del sapere nel mondo antico Colosseo fino all’11.01.15
Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi Centro Sociale 2000 fino al 31.05.15
Le leggendarie tombe di Mawangdui
chieti Secoli augustei
Arte e vita nella Cina del II secolo a.C. Palazzo Venezia fino al 16.02.15
Apa l’Etrusco sbarca a Roma Gli Etruschi del Nord al Museo di Villa Giulia Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia fino al 22.02.15
Qui sotto: un dipinto su stoffa (thangka) di produzione tibetana.
Giovanni Lilliu e la Sardegna nuragica Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 21.03.15 Le spedizioni di Giuseppe Tucci e i dipinti tibetani Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» fino all’08.03.15
Gladiatores e agone sportivo
Armi ed armature dell’impero romano Stadio di Domiziano fino al 30.03.15
Rivoluzione Augusto
Cividale del Friuli All’alba della storia
Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15
gambettola Dalla fattoria al Palazzone
L’isola delle torri
Alla scoperta del Tibet
Messaggi da Amiternum e dall’Abruzzo antico Palazzo de’ Mayo fino all’11.01.15
Boccaletto in maiolica arcaica con figura di pesce, da Bondeno. Seconda metà del XVI sec.
Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15
montesarchio Rosso Immaginario Qui sotto: i Fasti Praenestini, un calendario elaborato tra il 6 e il 10 d.C.
Il racconto dei vasi di Caudium Museo Archeologico del Sannio Caudino fino al 31.01.15
novara In principio
Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte Complesso Monumentale del Broletto fino al 06.04.15
Qui sopra: una delle videoproiezioni elaborate per i vasi figurati in mostra a Monesarchio.
L’imperatore che riscrisse il tempo e la città Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino al 02.06.15
palermo Del Museo di Palermo e del suo avvenire
bologna Il viaggio oltre la vita
Sant’Agata Bolognese (BO) La villa nel pozzo
Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna fino al 22.02.15
Bolzano Frozen stories
Reperti e storie dai ghiacciai alpini Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 22.02.15 28 a r c h e o
Il «Salinas» ricorda Salinas Museo Archeologico «Antonio Salinas» fino al 31.01.15
Un insediamento rustico romano a Sant’Agata Bolognese Sala «Nilla Pizzi» fino al 31.03.15
sant’agata dei goti (BN) L’oggetto del desiderio Europa torna a Sant’Agata Chiesa di S. Francesco fino al 17.05.15
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Germania
torino Cavalli Celesti
stoccarda Un sogno di Roma
Raffigurazioni equestri nella Cina antica MAO, Museo d’Arte Orientale fino al 22.02.15
La vita nelle città romane della Germania sud-occidentale Landesmuseum Württemberg fino al 12.04.15
udine Adriatico senza confini
Via di comunicazione e crocevia di popoli nel 6000 a.C. Castello fino al 22.02.15
Völklingen Egitto. Dèi, uomini e Faraoni Tesori del Museo Egizio di Torino Völklingen Ironworks fino al 22.02.15
vetulonia, orvieto e grotte di castro Circoli di Pietra in Etruria
In alto: protome di Una forma peculiare di calderone in bronzo sepoltura dell’Italia centrale di produzione tra il Bronzo Finale e la orientale. prima età del Ferro Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orvieto, Museo Archeologico Nazionale Grotte di Castro, Museo Civico Archeologico «Civita» fino all’11.01.15
Gran Bretagna Londra Antiche vite, nuove scoperte
Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 19.04.15
Testa in bronzo utilizzata come polena di nave. Età imperiale.
Particolare della mummia di Padiamenet, guardiano capo della porta del tempio di Ra, da Tebe.
Belgio bruxelles Principi immortali
Fasti dell’aristocrazia etrusca a Vulci Musée du Cinquantenaire fino all’11.01.15
Lascaux
Musée du Cinquantenaire fino al 15.03.15
Francia parigi Maya
Rivelazione di un tempo senza fine Musée du Quai Branly fino all’08.02.15
Paesi Bassi
Rodi
Rijksmuseum van Oudheden fino al 10.05.15
leida Cartagine
Un’isola greca alle porte dell’Oriente Museo del Louvre fino al 09.02.15
Svizzera
Splendori degli Han
La fioritura del Celeste Impero Musée national des arts asiatiques-Guimet fino al 01.03.15
Qui sopra: modellino in terracotta di un granaio.
ginevra I sovrani moche
Divinità e potere nell’antico Perú Museo Etnografico fino al 03.05.15 a r c h e o 29
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner
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ello scorso marzo abbiamo riportato, in queste pagine, gli esiti di una prima indagine intorno alle distruzioni operate dai terroristi dell’ISIS (l’ormai sinistramente celebre Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) nei siti archeologici della Siria in guerra. Nei mesi successivi, il fenomeno – insieme all’analisi dello stesso – ha imboccato una strada ancora diversa. I nuovi padroni del Levante sembrano aver cambiato atteggiamento nei confronti di quel patrimonio: le vestigia del passato, cosi facilmente reperibili in queste terre, non vanno distrutte, ma, molto piú utilmente, vendute. Un articolo apparso sul quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung («Il tempio dell’ISIS») fa il punto sul problema, sottolineando
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un aspetto di non secondaria importanza: se l’ISIS, infatti, si è appassionata al saccheggio delle antichità del Vicino Oriente, qualcuno, in qualche altra parte del mondo, dovrà pur esserci, per procedere, con altrettanta passione, al loro acquisto...
COME LE ANTICHITà FINANZIANO IL TERRORISMO Anni fa – scrive Niklas Maak della FAZ –, ancora prima dello scoppio della guerra civile in Siria, l’Interpol aveva registrato un’anomala concentrazione di reperti archeologici nelle immediate vicinanze della frontiera con l’Iraq, pronti per essere spediti fuori dal Paese. In un primo momento tale abbondanza fu messa in relazione con l’avvio dei lavori per la realizzazione di una serie di nuove strade che, fatto curioso, poco dopo sarebbero stati abbandonati. Poteva sembrare plausibile che gli oggetti intercettati fossero emersi
durante quei sommovimenti dello storico terreno mesopotamico. Quello che aveva insospettito gli agenti dell’Interpol fu, però, una circostanza: poco tempo prima, un accordo internazionale aveva proibito il commercio di reperti antichi provenienti dall’Iraq, Paese martoriato da anni di guerra e devastazioni. Una disposizione che non riguardava, però, la Siria. Appariva chiaro, allora, che tutti gli oggetti provenivano dall’Iraq, in particolare dai suoi musei archeologici, e fossero frutto di un sistematico e perdurante saccheggio. Per aggirare il divieto di esportazione, insomma, le antichità erano state semplicemente «spostate» di qualche chilometro, nuovamente interrate e poi «riscoperte». Un trucco semplice, che oggi, con le nuove disposizioni che vietano l’esportazione di reperti antichi anche dalla Siria, non funziona piú. Ci si può chiedere, però, quali siano le ragioni di tanto sforzo,
visto che i proventi della vendita di piccoli oggetti d’archeologia non raggiunge cifre da capogiro: 2000, 3000 euro (come nel caso del piccolo carro da combattimento in terracotta del III millennio a.C., apparso in una casa d’aste tedesca; vedi nella foto qui accanto) non suggeriscono uno scenario di grandi affari o, se per questo, di grandi crimini. Ma l’apparenza inganna. Secondo il magistrato romano Paolo Giorgio Ferri, in una graduatoria degli affari della criminalità internazionale, il commercio clandestino di opere d’arte si colloca al terzo posto, immediatamente dopo il traffico d’armi e quello della droga. Lo conferma Françoise Bortolotti, agente dell’Interpol specializzata in traffico di droga e crimini che riguardano il patrimonio artistico, interpellata in occasione del convegno «Beni culturali in pericolo: Scavi clandestini e commercio illegale», organizzato dall’Istituto Archeologico Germanico e svoltosi a Berlino l’11 e 12 dicembre scorso: «Con il commercio di reperti archeologici si ottengono guadagni enormi.
Sono facili da trovare e il loro possesso non comporta rischi immediati. Non è come essere scoperti con un carico di droga o con delle armi addosso. Vi è poi un’ulteriore distinzione da fare: tra gli oggetti archeologici, quelli provenienti dagli scavi clandestini sono ancora meno “pericolosi” rispetto a quelli saccheggiati nei musei, per i quali esiste almeno un minimo di documentazione. Oggi, i siti archeologici abbandonati a se stessi e privi di ogni sorveglianza sono centinaia, e sappiamo che le milizie dell’ISIS incoraggiano le popolazioni locali a saccheggiarli sistematicamente e, in cambio, pretendono il versamento di una “tassa”». Come si può contrastare questa nuova e drammatica evoluzione del traffico clandestino? «Il commercio illegale di opere d’arte e di archeologia sta vivendo un momento di crescita esponenziale – spiega Françoise Bortolotti – si sta “professionalizzando”. L’unica soluzione è quella di creare inventari accessibili alle forze dell’ordine e, soprattutto, fare
un’opera di sensibilizzazione e informazione. Molti agenti di dogana non sono in grado di riconoscere degli oggetti dichiarati senza valore! È indispensabile creare unità di polizia specializzate in questo campo, sull’esempio del nucleo Tutela Patrimonio Culturale italiano che, con i suoi 300 agenti, è la principale forza attiva in questo settore». La Germania, per esempio, può contare soltanto su tre investigatori specializzati in materia. «Proponiamo – aggiunge ancora Bortolotti – l’istituzione di un “passaporto” per i reperti antichi, un documento che ne certifichi la provenienza e li accompagna in tutti i loro “spostamenti”».
Veduta delle rovine di Apamea, antica città greca e romana nell’odierna Siria occidentale. Il celebre sito, abbandonato a se stesso in seguito allo scoppio della guerra civile, è oggetto di saccheggi devastanti.
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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
Filippi val bene uno scavo nel 1914 la scuola francese di atene organizzò la prima missione di ricerca nella celebre città greca: fu l’inizio di un’attività di indagine intensa e che tuttora viene portata avanti con risultati lusinghieri, che sempre meglio definiscono la storia del sito
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l 2014 è stato un anno di grandi celebrazioni per l’archeologia, come, per esempio, quella del bimillenario della morte di Augusto (vedi «Archeo» n. 358, dicembre 2014). In Grecia, il 2014 è stato soprattutto segnato dal centenario degli scavi e delle ricerche francesi nel sito di Filippi, città greca fondata in una regione popolata da Traci e conquistata da Filippo di Macedonia, il padre di Alessandro Magno, attratto dalle risorse d’oro del monte Pangeo. Il nome di Filippi è celebre tra gli archeologi e gli
storici: non solo per la battaglia che, nel 42 a.C., oppose gli uccisori di Cesare, Bruto e Cassio, a Ottaviano e Antonio, ma anche perché la città fu visitata dall’apostolo Paolo e, in seguito, accolse la prima comunità cristiana d’Europa.
le prime ricerche Crocevia di culture tra Oriente e Occidente, Filippi aveva già attirato l’interesse di Napoleone III di Francia, il quale, nel 1861 organizzò una spedizione scientifica in Macedonia sulle tracce di Cesare,
diretta da Léon Heuzey. In seguito, la Scuola Francese cominciò in loco ricerche sistematiche con la prima missione di studio, nel 1914, rimasta però senza seguito a causa dello scoppio della Grande Guerra. I primi nomi celebri che lavorarono a Filippi sono quelli di Charles Filippi
GRECIA Atene
Mar Ionio
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Mare Egeo
A sinistra: il sito di Filippi in una foto scattata dopo gli scavi francesi; il Foro della colonia risulta quasi interamente riportato alla luce. Nella pagina accanto: l’équipe di scavo a Filippi, anni Trenta del Novecento. Paul Collart indossa il cappello coloniale. trarre un bilancio delle indagini svolte in un secolo e per tracciare le direttive delle prospettive future della ricerca nel sito. Allo stesso tema è stata anche dedicata una seduta speciale della Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, nel novembre 2014. Avezou, ferito sul fronte bulgaro nel 1915, di Charles Picard, che vi operò dal 1920 in qualità di direttore della Scuola Francese, e del bizantinista Paul Lemerle.
un fotografo di talento Negli anni Trenta del Novecento lo svizzero Paul Collart, membro straniero della Scuola Francese, archeologo e fotografo particolarmente dotato, riportò alla luce gran parte del Foro della città. Dal 1938, il sito venne affidato definitivamente al Servizio Archeologico Greco per iniziativa di
A destra: una celebrazione solenne a Filippi, negli anni Trenta del Novecento. Tra i pope ortodossi, spicca la figura dell’archeologo greco Georgios Bakalakis (con gli occhiali tondi).
Robert Demangel, all’epoca direttore della Scuola Francese; da allora, tuttavia, studiosi, soprattutto francesi e svizzeri, continuano a occuparsene, di concerto con i colleghi greci. Per celebrare la ricorrenza di questo centenario, la Scuola Francese di Atene ha organizzato due mostre: una a Salonicco, al Museo della Civiltà Bizantina, e una a Kavala, presso il Museo Archeologico (entrambe fino al 31 gennaio 2015). Le mostre presentano fotografie, piante ed estratti dai diari di scavo relativi al sito, provenienti dagli archivi della Scuola Francese ma anche dal fondo del già citato Paul Collart. Inoltre, un convegno tenutosi a Salonicco, nello scorso ottobre, ha offerto lo spunto per
Infine, nel quadro di queste celebrazioni s’iscrive anche la pubblicazione di ben tre opere: un album che presenta documenti relativi al secolo di ricerche francesi a Filippi e la guida del Foro di Filippi, entrambi a opera di Michel Sève, nonché il primo volume del corpus delle iscrizioni greche e latine di Filippi, relativo alla vita pubblica della colonia romana (di Cédric Brélaz). Archeologi e storici, insomma, sono stati sempre attratti, e continuano ancora oggi a esserlo, da Filippi. E le celebrazioni che ricordano la storia e le indagini che lo hanno interessato tributano a questo sito l’onore che merita. Nella speranza che anche in futuro tale interesse rimanga ben vivo e porti a nuovi risultati.
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storia • gli yazidi
Sotto l’ala dell’angelo pavone
Preghiera degli yazidi O Signore, tu sei grazioso, tu sei misericordioso, tu sei Dio, tu sei il Signore dei regni e dei paesi, tu sei il Signore dell’essenza e delle gioie, tu sei il Signore del regno della grazia. 34 a r c h e o
Dal principio tu sei eterno, tu sei il trono della benedizione e dell’amore infinito, tu sei il Signore dei demoni e degli esseri, tu sei il Signore degli uomini santi, il trono della paura e della gloria,
Per i musulmani sono «Adoratori di Satana», una nomea che agli Yazidi è costata secoli di persecuzioni. Ma qual è la vera storia di questa setta religiosa? Perché, come i cristiani, battezzano i propri figli? E quali sono le origini del loro misterioso essere supremo? di Marco Di Branco
Nel riquadro: agosto 2014: un gruppo di Yazidi costretti ad abbandonare il Sinjar attraversano il Tigri per rifugiarsi in Siria. Sulle due pagine: pellegrini yazidi baciano la terra all’arrivo al tempio di Lalish, la loro città santa, un villaggio situato circa 60 km a nord-ovest di Mosul (Iraq), durante la festa del Pellegrinaggio.
sei un essere meritevole di ringraziamento e di lode, sei degno degli estremi confini del cielo. O Signore, tu sei il Dio del viaggio, Signore della luna e della tenebra, Signore del trono sublime,
N
ell’agosto del 2014, il mondo è venuto a conoscenza dell’esistenza degli Yazidi, fino ad allora noti solo a un gruppo ristretto di specialisti di storia delle religioni orientali o a qualche viaggiatore intraprendente, spintosi nella turbolenta area di confine fra Turchia, Armenia, Georgia, Siria e Iraq. Questa comunità, residente del Nord dell’Iraq, ha infatti subíto un terribile attacco da parte dei miliziani del cosiddetto Stato islamico (ISIS). La prima a lanciare l’allarme è stata la deputata irachena Vian Dakhil, membro influente degli Yazidi d’Iraq, e la notizia ha avuto poi conferma da fonti governative irachene ed egiziane. A Sinjar, piccola città nell’Iraq nord-occidentale non lontana dal confine siriano, sono stati uccisi piú di 500 individui, sepolti in fosse comuni, mentre circa 300 donne sarebbero state rapite. Inoltre, piú di 50 000 persone sono rimaste bloccate sulle montagne e hanno potuto mettersi in salvo solo grazie a un corridoio aperto dai Curdi di Siria, che le hanno aiutate a passare nel Paese vicino, per poi farle tornare sotto scorta nel territorio curdoiracheno, mentre, secondo la NATO, l’aviazione inglese e statunitense paracadutava pacchi di aiuti alimentari per i profughi.
immagini fuorvianti Se la dinamica dei fatti resta ancora in gran parte da chiarire, è comunque in questa triste occasione che i mass media occidentali hanno portato all’attenzione del grande pubblico la «setta» degli Yazidi. Purtroppo, però, come spesso è accaduto e continua ad accadere quando si trattano fenomeni che riguardano la storia
sei il Dio della benedizione.(…) Tu sei il trono e io sono nulla. Io sono debole e caduto, sono caduto e tu ti ricordi di me. Ci hai condotti dalla tenebra alla luce. a r c h e o 35
storia • gli yazidi
antica o recente del Medio Oriente, le notizie r ipor tate non sono scevre da inesattezze ed errori, e, soprattutto, non forniscono la possibilità di contestualizzare storicamente il secolare e complesso rapporto fra Yazidi e musulmani. Tenteremo di farlo qui, consapevoli del fatto che i nostri lettori, oltre a essere appassionati di storia e archeologia, sono anche e soprattutto cittadini del proprio tempo, interessati a comprenderne le vicende alla luce della conoscenza del passato.
Adoratori del diavolo? Tra i malintesi piú comuni, c’è l’idea che gli Yazidi costituiscano un’etnia a sé. In realtà, si tratta solo dei membri di una comunità religiosa, il cui nucleo principale risiede nell’area montagnosa a est di Mosul e, appunto, nel Jebel Sinjar, a ovest della città, ma che ha anche adepti in una vasta area che si estende dalla provincia di Damasco ai dintorni di Aleppo, da Baghdad alla regione di Tiblisi. Un buon numero di Yazidi sono di etnia curda, ma non tutti i Curdi sono yazidi, e non tutti gli Yazidi sono curdi. Molti sono i nomi utilizzati per definire gli appartenenti a tale «setta». Essi stessi si definiscono, appunto, come «Yazidi» (o «Ezidi»), sostantivo di origine misteriosa che, secondo alcuni studiosi, deriverebbe dal nome del califfo umayyade Yazid I (680-683); ma sembra assai piú probabile che il nome provenga dal termine mediopersiano yazd o yazdan, cioè «seguaci dell’entità divina», in riferi36 a r c h e o
Miniatura di scuola turca raffigurante la battaglia di Karbala (680), che vide la vittoria di Yazid I sulle truppe di al-Husain ibn Ali. Londra, British Library. Alcuni fanno derivare il termine Yazidi dal nome del califfo umayyade.
Regione sotto il controllo dei Curdi TURCHIA
Mosul SIRIA
Lalish: la città santa
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ARABIA SAUDITA 125 Km
KUWAIT
In alto: cartina dell’Iraq, con, in evidenza, i luoghi in cui gli Yazidi sono stati vittime delle violenze dello Stato islamico. A destra: Lalish. Un fedele bacia la copertura conica del mausoleo in cui, in una cella spoglia e quasi completamente buia, venne sepolto Shaykh Adi ibn Musafir, principale figura spirituale degli Yazidi.
mento alla divinità principale del loro culto. Gli avversari degli Yazidi preferiscono tuttavia chiamarli «Adoratori del Diavolo» o «Spengitori di Lampade», alludendo alle orge a cui si abbandonerebbero durante certi tipi di feste, quando appunto spegnerebbero le luci per abbandonarsi liberamente alla lussuria e alla perversione.
l’angelo seduttore Soprattutto la definizione di «Adoratori del Diavolo» è molto diffusa in ambito islamico. I musulmani sunniti, infatti, identificavano il dio degli Yazidi con Iblis, cioè con il Satana del Corano, il piú grande degli angeli che peccò per superbia e orgoglio, cadde sulla terra e sedusse Eva. In una leggenda islamica, Iblis è coadiuvato nei suoi inganni da un pavone: e «Angelo Pavone» (Malak Ta’us) è appunto il nome dell’essere supremo venerato dagli Yazidi. Proprio questa identificazione è alla base delle persecuzioni subite dalla setta nel corso dei secoli e della progressiva (segue a p. 41)
Lalish, città santa degli Yazidi, è oggi un piccolo villaggio di montagna del Nord dell’Iraq, situato nella provincia di Ninive, a circa 60 km da Mosul. Esso sorge in una lunga valle, al limite estremo della quale si trova il santuario vero e proprio, che consta di un tempio principale e di tre corti con funzioni diverse. Il tempio, che si distingue per le coperture a cono, è diviso in due navate quasi uguali da una fila di sette pilastri. Dalle navate, tre porte conducono nella cella e in altri due locali secondari. La cella – priva di ornamenti e quasi completamente buia – in cui si trova la tomba di Shaykh Adi, poggia in parte sulla roccia, è di forma quadrata e nella sua copertura conica si aprono due piccole feritoie. In uno dei locali attigui alla cella sgorga una fonte, che fa da pendant a un bacino d’acqua posto nella navata principale, vicino alla porta di entrata del tempio, e alimentato da un ruscello la cui sorgente si trova all’estremità della vallata. Quest’ultima è chiamata «Zamzam» (come la fonte sacra di Mecca) e, secondo gli Yazidi, fu fatta scaturire da Shaykh Adi. La facciata del tempio
ha una sola porta e due piccole feritoie: alla destra della porta d’ingresso è intagliato nella pietra un grande serpente dipinto di nero; su varie pietre della facciata stessa sono poi scolpite altre figure dal significato ignoto (anelli, pugnali, mani, bastoni, animali), un’iscrizione araba e alcune epigrafi siriache. La corte esterna, utilizzata per le purificazioni rituali, è circondata da edifici probabilmente adibiti a mercato. Nella forma attuale, ispirata all’architettura ecclesiastica nestoriana del Kurdistan, il santuario risale al XVIII secolo e, dal punto di vista tipologico, non differisce da quelli islamici in cui si venerano mistici e marabutti. Nella valle di Lalish si trovano altri piccoli edifici rozzamente costruiti e dipinti a calce, nei quali risiedono i pellegrini durante le feste e il pellegrinaggio. Varie parti della vallata prendono il nome della tribú che vi dimora. Dai rami degli alberi pendono fazzoletti e stracci multicolori, secondo un uso tipico dei culti sciamanici.
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storia • gli yazidi
Dal Libro della Rivelazione Il Libro della Rivelazione (Kitab al-jilwa), scritto in lingua araba, è uno dei testi di base della dottrina yazidi. Qui di seguito, riportiamo un ampio stralcio dell’introduzione, nella quale si afferma che Dio è l’Angelo Pavone: «Colui che esistette prima di tutte le creature è l’Angelo Pavone. Fu lui a inviare il suo servo in questo mondo affinché separasse e istruisse il suo popolo e lo salvasse dall’errore. E ciò avvenne prima per mezzo verbale, poi per mezzo di questo libro, chiamato Rivelazione. Questo è il libro che coloro che stanno fuori dalla comunità non devono leggere. I. Fui, e sono adesso, e non avrò fine. Esercito dominio su tutte le creature e gli affari di tutti quelli che sono sotto la mia protezione. Sono sempre presente per aiutare tutti coloro che credono in me e mi chiamano nel momento del bisogno. Non v’è un luogo nell’universo che non conosca la mia presenza. Sono partecipe di tutte le cose, che coloro che non sanno chiamano malvagie, perché non sono fatte secondo i loro desideri (…). Permetto a tutti di seguire la loro natura, ma coloro che si opporranno a me, se ne pentiranno amaramente. Nessun dio ha diritto a interferire con i miei affari, e ho fatto una regola imperativa che chiunque dovrebbe evitare di adorare altri dei. Tutti i libri di coloro che non sanno sono alterati da loro stessi; e loro lo hanno negato, in quanto furono scritti dai profeti e dagli apostoli. Che ci siano varie interpretazioni è evidente nel fatto che ogni setta cerca di provare che gli altri si sbagliano, e di distruggere i loro libri. Conosco verità e falsità (...). Se qualcuno si conforma ai miei comandamenti, avrà gioia, piacere e conforto. II. Io ricompenso i discendenti di Adamo, con varie ricompense che solo io conosco. Il potere e il dominio di tutto ciò che è in terra, sia esso sopra o sotto di essa, è nelle mie mani (...). Appaio in diverse maniere a coloro che sono fedeli e sotto il mio comando. Io do e tolgo; arricchisco e impoverisco; causo sia felicità che miseria. Faccio tutto questo secondo le caratteristiche di ogni epoca. E nessuno ha il diritto di interferire con la mia gestione delle cose. Coloro che si opporranno a me saranno afflitti da malattie; ma i miei non moriranno come i figli di Adamo – coloro che non sanno. Nessuno vivrà in questo mondo piú a lungo di quanto io ho stabilito; e se lo desidero, invierò una persona una 38 a r c h e o
seconda o terza volta in questo mondo, o in qualche altro mondo, attraverso la trasmigrazione delle anime. III. Io porto alla via dritta, senza un libro rivelato; dirigo i miei amati e prescelti in maniere non evidenti. Tutti i miei insegnamenti sono facilmente applicabili a tutti i tempi e tutte le condizioni (...). Le bestie della terra, gli uccelli del cielo e i pesci del mare sono tutti sotto il controllo delle mie mani. Conosco i tesori e le cose nascoste (...). Rivelo i miei pensieri a coloro che li cercano, e al momento giusto i miei miracoli a coloro che li riceveranno da me. Ma coloro che non sanno sono miei avversari, poiché si oppongono a me. Né immaginano che una tale condotta va contro i loro interessi, poiché volontà, salute e ricchezza sono nelle mie mani, e io le distribuisco su ogni discendente di Adamo in terra per cui ne valga la pena. IV. Non darò i miei diritti ad altri dei. Ho permesso la creazione di quattro sostanze, quattro direzioni e quattro elementi; perché queste sono cose necessarie per le creature Il libro degli Ebrei, Cristiani e Musulmani, cioè di coloro che non sanno, viene accettato solo in un senso, ossia finché loro sono d’accordo e si conformano alle mie leggi. Qualunque cosa sia contraria a esse, essi l’hanno alterata: non accettarla (...). Adesso, tutti coloro che avranno seguito i miei comandamenti e i miei insegnamenti, rifiutino tutti gli insegnamenti e le parole di coloro che non sanno. Non ho insegnato io queste cose, né provengono da me. Non menzionare il mio nome né le mie caratteristiche, in caso potessi pentirtene; poiché non sappiamo cosa potrebbero fare coloro che non sanno. V. Voi che credete in me, onorate il mio simbolo e la mia immagine, perché vi ricorderanno me. Osservate le mie leggi e regole. Obbedite ai miei servitori e ascoltate qualunque cosa che possano dirvi al riguardo delle cose nascoste. Ricevete ciò che viene detto, e non riportatelo a coloro che non sanno, Ebrei, Cristiani, Musulmani e altri; questo perché loro non conoscono la natura dei miei insegnamenti. Non date loro i vostri libri, potrebbero alterarli senza che voi lo sappiate. Imparate con il cuore la maggior parte di essi, in caso vengano alterati». Nella pagina accanto: un sacerdote yazidi davanti all’ingresso del tempio di Lalish, alla cui destra è intagliato un grande serpente dipinto di nero.
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diminuzione del numero dei suoi membri, che oggi non raggiunge le 60 000 unità. La religione degli Yazidi è monoteistica, ma conosce un certo numero di esseri semi-divini o addirittura divini che sono qualcosa di intermedio tra il Dio supremo e l’uomo: una sorta di angeli («Malak») o di inviati di Dio. Per il suo carattere generale, essa ha una particolare affinità con il dualismo iranico, che considera la realtà come effetto di due principi opposti.
Malak e i Sette misteri Gli Yazidi, come si è appena visto, adorano un essere da loro chiamato «Malak Ta’us», cioè «Re Pavone», o meglio «Angelo Pavone». Nella loro dottrina, Malak Ta’us è il maggiore degli angeli, il quale, dopo la sua caduta e il suo pentimento, è stato ristabilito da Dio nel suo grado primitivo e preminente. Malak Ta’us è dunque un dio buono, non un principio malvagio. Gli Yazidi giungono a negare l’esistenza del male, ridotto a complesso di eventi non graditi all’uomo: l’Angelo distribuisce bendizioni e sfortuna e la stirpe di Adamo deve accettare senza recriminare sia le prime che la seconda. Malak Ta’us, in un certo senso, è l’unico vero dio degli Yazidi, perché il Dio supremo è inattivo e non si cura del mondo. Siamo dunque di fronte a una dottrina religiosa fortemente sincretistica, che contiene elementi provenienti dal giudaismo, dal cristianesimo, dal misticismo islamico, dal mazdeismo (la religione dell’antico Iran), dal mandeismo (religione di tipo gnostico e dualistico che risale ai primi secoli dell’era cristiana) e dal manicheismo. Nella concezione del mondo degli Yazidi, il mondo fu creato da Dio sotto forma di perla, ma successivamente passò sotto il controllo di un’Eptade formata da sette esseri sacri, chiamati «Angeli» o haft serr («i Sette Misteri»), tra i quali ha appun-
to la preminenza Malak Ta’us, l’Angelo Pavone: è proprio l’Eptade, dopo quarantamila anni, a essere responsabile della trasformazione della terra nello stato in cui essa è ora. Oltre a Malak Ta’us, l’Eptade è composta da Shaykh Adi, dal suo compagno Shaykh Hasan, e da un gruppo noto come i «Quattro Misteri»: Shamsadin, Fakradin, Sajadin e Naserdin, che di volta in volta si incarnano in vari personaggi della storia dell’Islam. Un elemento degno di nota della dottrina degli Yazidi è il tabú nei confronti della parola «Satana», di tutti i termini simili e addirittura di alcune delle lettere che compongono il suo nome, quasi a voler esorcizzare in maniera definitiva quel Diavolo che i loro nemici li accusavano di adorare. E tuttavia, essi evitano anche il nome di Giorgio, perché questo santo uccise il Serpente, quasi a non voler dissolvere del tutto il velo di ambiguità che avvolge il loro culto.
Nella pagina accanto: i caratteristici tetti a cono del magnifico tempio di Lalish, il principale luogo di culto degli Yazidi. In basso: un uomo bacia un simulacro in metallo (sanjaq) di Malak Ta’us, l’Angelo Pavone.
La Creazione dell’Angelo Pavone Cosí, nel Libro Nero, viene narrata la creazione dell’Angelo Pavone: «In principio Dio creò la perla bianca dal suo prezioso seno e creò un uccello di nome Anfar. Egli pose la perla sopra la sua schiena e dimorò sopra di essa per quarantamila anni. Il primo giorno in cui Dio creò fu una domenica. Egli creò in essa un angelo di nome Azra’il: esso è l’Angelo Pavone, il Signore di tutti (...). Dopo di lui, egli creò la forma dei sette cieli, la terra, il sole, la luna».
La leggenda di Shaykh Adi Secondo gli Yazidi, la loro setta sarebbe stata fondata da Shahid ibn Jarrah, figlio di Adamo procreato senza concorso di alcuna donna; ma in seguito essa sarebbe stata riscoperta da Yazid, figlio del califfo Mu’awiya, fondatore della dinastia umayyade.Yazid avrebbe abbandonato l’Islam per abbracciare la religione che avrebbe poi portato il suo nome: quest’ultima si diffuse per tutta la Siria fino al momento in cui, sullo scorcio finale dell’XI secolo, apparve un uomo chiamato Shaykh Adi. Egli ricevette un giorno una rivelazione divina, che gli prescriveva di recarsi in un monastero cristiano, presso un villaggio di nome Lalish (vedi box a p. 37), e di stabilirvisi. Quando Adi si presentò nell’eremo, i due monaci, che erano i soli ad abitarvi, si rifiutarono di cederglielo; non volendo usare metodi violenti, a r c h e o 41
storia • gli yazidi Profughi yazidi provenienti dal Sinjar, rifugiati a Lalish. Per sfuggire alle violenze dell’ISIS, sono centinaia le famiglie che hanno trovato accoglienza nel villaggio iracheno.
Shaykh Adi andò ad abitare in una caverna dei dintorni; dopo qualche tempo, però, i monaci si pentirono e concessero ad Adi la proprietà del complesso monastico, pregandolo di offrire loro in cambio una scintilla del suo potere. Adi, a quel punto avrebbe detto: «Vi do questa grotta per abitazione e conferisco a questo terreno la capacità di guarire tutte le malattie della bocca. Chiunque si strofinerà la bocca con la polvere di questo luogo, invocando i vostri nomi, otterrà istantaneamente la guarigione». Poi, prese possesso del monastero e ne fece la sede della nuova comunità da lui fondata. Alla sua morte, il santo profeta degli Yazidi fu sepolto nell’eremo, che ancora oggi è il centro della vita religiosa della setta.
Tra esoterismo e metempsicosi A questo racconto di fondazione, in cui si intersecano elementi mitici ed elementi storici, si affianca un’altra tradizione, squisitamente misticoreligiosa, secondo la quale Yazid, figlio di Mu’awiya, sarebbe stato, in realtà, una delle incarnazioni di Malak Ta’us, scesa sulla terra per guidare gli uomini sulla via della salvezza. Costui, dopo aver riportato la vittoria su Hasan e Husayn (rispettivamente il secondo e il terzo imam sciita), avrebbe abitato per trecento anni a Damasco. Successivamente, per via di metempsicosi,Yazid/Malak Ta’us sarebbe disceso nella forma di Shaykh Adi, prendendo possesso del monastero di Lalish per ravvivare la fede del suo popolo. Non tutto ciò che gli Yazidi raccontano del loro profeta è pura leggenda: molti tratti del personaggio derivano infatti dal santo sufi musulmano Adi ibn Musafir, nato in un 42 a r c h e o
villaggio non lontano da Ba’albek, nell’attuale Libano, nel 1075 e ritenuto discendente per via diretta dal califfo umayyade Marwan ibn alHakam. Egli seguí le orme di celebri mistici dell’epoca come ‘Abd al-Qadir al-Jilani e ‘Abd al-Qadir al-Shahrazuri, ma, a un certo punto, forse in seguito a una rivelazione
mistica, si ritirò sul monte Hekkar, a Oriente di Mosul, dove si costruí una zawiya (cioè un convento derviscio) nella quale rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1162. Adi ibn Musafir scrisse vari trattati di argomento religioso e teologico e raccolse intorno a sé un gran numero discepoli, uniti, tra l’altro, da
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
un singolare culto tributato alla figura del califfo Yazid, generalmente malvisto sia dagli sciiti, sia dai sunniti. Adi vietò ai membri della comunità il matrimonio fra parenti prossimi, regolò le funzioni cultuali e la gerarchia religiosa, introdusse il battesimo dei bambini, proibí l’omicidio, il furto e lo spergiuro, in-
ducendo i singoli devoti a scegliersi glia principesca, che esprime il coun compagno o una compagna di siddetto «Mir Hajj», cioè l’«Emiro fede «per l’eternità». del Pellegrinaggio», il quale occupa il trono che fu già di Yazid. L’autorità esercitata dall’emiro è pressoUna gerarchia ché illimitata: la sua persona è sacra tripartita L’organizzazione della setta è im- e tutto ciò che si trova in rapporto prontata a una rigida gerarchia. A con essa diventa oggetto di veneracapo della comunità v’è una fami- zione. Dopo di lui, la gerarchia a r c h e o 43
storia • gli yazidi
La festa del Pellegrinaggio Uno degli eventi piú importanti del microcosmo yazidi è la festa del pellegrinaggio, quando a Lalish si raccolgono gli abitanti di moltissimi villaggi per visitare il santuario di Shaykh Adi. I fedeli si recano alla tomba del Profeta divisi in vari gruppi e accompagnati da musiche e scoppi di artiglieria. I cortei arrivano da varie direzioni e si susseguono per tutta la giornata. Prima di entrare nella valle sacra, tutti si purificano con lavacri e le tribú sacrificano una pecora, le cui carni sono distribuite ai poveri. Alle cerimonie pubbliche, che si svolgono nel cortile del santuario, possono assistere sia gli Yazidi, sia i membri di altre comunità religiose, mentre quelle private, che si celebrano all’interno del tempio, sono riservate ai membri della gerarchia e su di esse c’è tuttora un velo di mistero: si sa solo che tra i riti effettuati v’è quello della presentazione dell’immagine di Malak Ta’us ai sacerdoti. Le cerimonie pubbliche sono estremamente suggestive e hanno inizio la notte del primo giorno di festa: i pellegrini accendono migliaia di fiaccole in tutta la valle e cantano un inno solenne, malinconico e maestoso, commisto alle note di molti flauti e interrotto da subitanei suoni di cimbali e tamburelli. Una parte di esso è chiamata Canto di Malak ‘Isa, cioè «dell’Angelo Gesú» ed è cantata in arabo dagli shaykh, dai qawwal e dalle donne. Nella corte interna del santuario, illuminata da molte lampade, si riunisce tutta la gerarchia degli Yazidi. Poco prima della mezzanotte, la musica e i canti
religiosa comprende altri tre gradi: gli shaykh, i pir e i faqir. Gli shaykh si dividono in tre gruppi e in cinque famiglie, che sostengono di discendere da cinque figure di natura divina. Secondo la tradizione yazidi, questi ultimi si crearono dei figli che poi presero in adozione: dal matrimonio di questi figli discendono tutte le famiglie di shaykh, che hanno dunque per capostipite una divinità. A ciascuno degli shaykh è affidata l’amministrazione di un certo numero di famiglie, che costituiscono una sorta di diocesi. Gli shaykh sovraintendono alla condotta dei loro «parrocchiani», curando soprattutto che evitino di avere rapporti sessuali con la moglie o la fi44 a r c h e o
diventano via via piú frenetici: le donne levano strida e i suonatori, in stato di esaltazione, gettano in aria i loro strumenti, si agitano e si contorcono, finché non cadono esausti al suolo. Tutto finisce con un grido spaventoso, dopo il quale i singoli gruppi riprendono a passeggiare per la valle oppure siedono sotto gli alberi fino all’alba, quando la festa finisce. La mattina del secondo giorno del pellegrinaggio, gli shaykh, e i qawwal recitano una breve preghiera nella corte; altri fanno le loro preghiere sulla tomba di Adi. Poi i sacerdoti portano in processione all’esterno il drappo rosso che ricopre la tomba, e i convenuti baciano il bordo della stoffa e fanno una piccola offerta in denaro. Rimesso il drappo sulla tomba, i membri della gerarchia partecipano a un banchetto sacro.
glia di uno dei loro capi spirituali o con persone estranee alla setta: gli Yazidi, infatti, considerano tali azioni come i piú grandi crimini che un uomo possa commettere.
gli anziani e le teste nere Dopo lo shaykh, il secondo grado sacerdotale è quello del pir (parola persiana che, come il termine arabo shaykh, significa «anziano»). Si può dire che il pir sta allo shaykh come il sacerdote cristiano sta al vescovo: d’altra parte l’organizzazione gerarchica degli Yazidi è in parte modellata proprio su quella ecclesiastica. L’ultimo gradino di tale gerarchia è quello dei faqir, parola araba che ha
il significato di «povero» o «asceta». Gli estranei alla setta li chiamano anche qarabash, che in turco vuol dire «testa nera», in riferimento al colore dei loro berretti. I faqir vestono abiti di lana nera e pantaloni bianchi, un abito assimilato a quello di Shaykh Adi e sul quale il faqir non deve mai sedersi, a causa del suo carattere sacro. Tutti i fedeli venerano grandemente i faqir, che sono onorati anche dalle piú alte cariche della setta. Proprio costoro gestiscono l’iniziazione dei nuovi aderenti, che avviene dopo una segregazione di quaranta giorni e un grande banchetto offerto dagli iniziandi. L’«ordine» dei faqir è amministrato da un superiore che porta il nome
In questa pagina: un momento dei rituali che si celebrano in occasione della Festa del Pellegrinaggio. Nella pagina accanto: uno dei locali attigui alla cella in cui è custodita la tomba di Shaykh Adi ibn Musafir, al cui interno sgorga una fonte.
di kak, cioè «maestro», «insegnante», che osserva il celibato e abita in un sito sacro nei pressi di Aleppo, in Siria, considerato uno dei luoghi in cui abitò il califfo Yazid. Il kak è titolare dell’emblema del Pavone, che egli porta con sé in una sorta di pellegrinaggio annuale presso tutte le province yazide, esponendolo alla venerazione dei membri della comunità. Nelle grandi feste religiose celebrate a Lalish, il kak ha la precedenza su tutti i capi degli Yazidi, compreso l’emiro. Nel trasporto dell’emblema del Pavone, egli è assistito dai «Cantori» (qawwal), che lo espongono al pubblico cantando al suono di flauti e tamburi. Infine,
nel santuario nazionale di Lalish prestano servizio alcuni assistenti celibi chiamati shawish, mentre trecento kochaq («inservienti» volontari e temporanei) si occupano di tutti gli aspetti pratici: dall’edilizia alla carpenteria, alla gestione delle cucine. C’è anche un ordine religioso femminile, quello delle faqrayah, che vivono in celibato e compiono vari servizi nel santuario.
Statue sacre, battesimi e unzioni Un elemento importante dei riti yazidi è costituito dalle statue dell’Angelo Pavone (rappresentato appunto sotto forma di pavone), che vengono trasportate annual-
mente nei distretti abitati dai membri della comunità e alle quali viene tributata grande venerazione. Alcune immagini di metallo (meno di una decina) sono custodite in una cappella del palazzo dell’emiro, dove varie lampade ardono in loro onore giorno e notte. Tali simulacri prendono il nome di sanjaq, che in turco significa «bandiera» o «stendardo», e consistono in un candelabro con larga base e varie lampade intorno al piede, sul quale è posto il simulacro del pavone. Quando l’emblema giunge in un villaggio è preceduto da due pir che agitano incensieri. I fedeli si chinano in segno di adorazione, si profumano viso e braccia con il fumo a r c h e o 45
storia • gli yazidi
Il Capodanno La festa principale degli Yazidi è il Capodanno (Sarsal). Esso cade nel primo mercoledí del mese di Nissan, il «mese dei fiori», che nella Bibbia è considerato il primo mese dell’anno religioso, poiché coincide con il periodo in cui il popolo ebraico si sarebbe affrancato dalla schiavitú egiziana. Alla vigilia, ogni famiglia deve procurarsi della carne che, all’alba del mercoledí, viene benedetta per essere poi offerta ai morti, collocandola sulle loro tombe al suono di cembali e tamburi.
Dopo che i defunti l’hanno simbolicamente gustata, la carne si toglie dalle tombe e si dona ai poveri. Sempre all’alba, tutte le ragazze si recano a raccogliere fiori rossi, come anemoni e rose, che collocano sulle porte delle case. Nel pomeriggio, tutti i membri della comunità si radunano a banchetto. Secondo gli Yazidi, a Capodanno, Dio siede sul trono e ordina che attorno a lui si radunino tutti i capi e le famiglie: a costoro, egli dà in concessione la terra e tutto ciò che si trova su di essa per un anno, con
cui riposa Gesú»: dopo aver bevuto, il celebrante fa girare la tazza tra i commensali, che sorseggiano una piccola quantità di vino. Come i cristiani, gli Yazidi battezzano i loro bambini e praticano l’unzione dei libri sacri Fra le pratiche piú interessanti del moribondi. culto yazidi, chiaramente influenza- La dottrina degli Yazidi è in gran te da quelle cristiane, c’è una sorta parte contenuta in due importanti di eucarestia. Durante il pasto, il sacerdote prende una tazza di vino e Giovani yazidi impegnati in una danza afferma che si tratta della «coppa in rituale nei pressi del tempio di Lalish. dell’incenso e lasciano un’offerta in denaro su un piatto posto accanto al sanjaq; poi, il simulacro viene portato casa per casa.
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un vero e proprio contratto, firmato da lui stesso e da tutti i presenti quali testimoni. Gli uomini devono amministrare il mondo virtuosamente, compiendo molte opere buone, in assenza delle quali Dio li castiga con peste, carestia e terremoti, a meno che gli Angeli e i Profeti non intercedano per loro. Anche questa festa, come molti altri aspetti del culto yazidi, è il frutto di una fusione di elementi appartenenti a varie tradizioni religiose: da quella iranica, a quella assiro-babilonese, a quella ebraica.
libri sacri: il Libro della Rivelazione (Kitab al-jilwa), scritto in lingua araba, e il Libro nero (Mashaf-i rash), anch’esso originariamente composto in arabo, ma pervenutoci in un antico dialetto curdo che ai nostri giorni non ha lasciato alcuna traccia di sé. Il primo testo risalirebbe al XII secolo, e dunque all’epoca di Shaykh Adi, mentre il secondo è datato al XIV secolo. I due trattati sono scritti in un alfabeto del tutto particolare, che prende a modello quello arabo-persiano, rielaborandolo in modo estremamente originale. Sia il Libro della Rivelazione, sia il Libro nero sono stati ampiamente rimaneggiati nel corso dei secoli, ma le loro versioni giunte fino a noi contengono dottrine autentiche e di notevole antichità e costituiscono una chiave d’accesso fondamentale al mondo degli Yazidi. Il Libro della Rivelazione comprende un’introduzione, in cui si afferma che Dio (che nel testo arabo è chiamato «Allah») è l’Angelo Pavone (vedi box a p. 38), e cinque capitoli in cui (come nel Corano) Dio stesso parla e rivela
Un momento della festa del Capodanno.
ai suoi fedeli le sue qualità, le sue attività, il suo atteggiamento verso gli uomini, e dà loro istruzioni chiamandoli a seguire la sua dottrina. Nel Libro Nero, invece, si narrano in terza persona la creazione da parte di Dio (chiamato con il termine persiano «Khoda»), la missione di Adi, la storia di Adamo e del suo peccato originale e quella dei re degli Yazidi.
il tempo delle persecuzioni Per il carattere ibrido della loro setta, gli Yazidi non hanno mai ottenuto lo status di cui, in ambito musulmano, godono le grandi religioni del Libro, l’ebraismo, il cristianesimo e il mazdeismo. I loro libri sacri,
infatti, non sono stati mai riconosciuti come tali dai giurisperiti dell’Islam. Ciò ha fatto sí che, in momenti di particolare tensione sociale, essi siano stati perseguitati dalle autorità musulmane, che non avevano stabilito con loro alcun tipo di trattato vincolante dal punto di vista giuridico e religioso. Furono in particolare i Turchi ottomani a scatenarsi contro gli Yazidi con crudelissime angherie, tra le quali un posto di primo piano occupa il massacro perpetrato dal cretese Muhammad Pasha. Costui, inviato a Mosul per reprimere una rivolta negli anni Trenta del XIX secolo, fece trucidare un gran numero di Yazidi, rei di ritardi nel pagamento delle tasse. Gli episodi piú
sanguinosi ebbero luogo a Sinjar, dove i tre quarti degli abitanti della regione furono messi in fuga o uccisi. Dopo quasi duecento anni, la storia si è tristemente ripetuta, nella sostanziale indifferenza del cosiddetto mondo civile. Da leggere Birgul Acikyildiz, The Yezidis: the History of a Community, Culture and Religion, IB Tauris, Londra 2010 Cecil John Edmonds, A Pilgrimage to Lalish, Royal Asiatic Society of Great Britain and Ireland, Londra 1967 Nelida Fuccaro, The Others Kurds: Yazidis in Colonial Iraq, IB Tauris, Londra 1999 a r c h e o 47
scavi • sorgenti della nova
Sulle due pagine, in primo piano: un tratto del fosso della Nova, in prossimità dell’insediamento e della sorgente. In alto, nel riquadro: lo sperone tufaceo su cui si sviluppò l’abitato protostorico, oggi dominato dai resti di una torre medievale del XII-XIII sec.
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Alle
sorgenti della storia
nell’anno appena trascorso si è festeggiato il quarantennale degli scavi nel sito di sorgenti della nova. un insediamento dell’età del bronzo che ha dato un contributo decisivo agli studi sugli abitati di epoca protostorica di Carlo Casi
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scavi • sorgenti della nova
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agicamente abbarbicato a uno sperone tufaceo, l’insediamento di Sorgenti della Nova, si sviluppa per oltre cinque ettari di ripidi fianchi scoscesi, dominati dalla torre medievale e alternati da terrazzi fluviali che fuoriescono dalla folta vegetazione, quasi a suggerire le balconate di un unico e improbabile complesso edilizio. In basso «La Nova scaturisce da una polla d’acqua, che sgorga da un Antro o Grotta nascosta, la quale sembra formata con artificioso mistero» (Anonimo Apatista, 1770 circa) e invade il corso della Varlenza rendendo anch’essa fiume. Solamente l’eco dei rumori di una cava che aveva aggredito la rupe proprio sul suo lato piú seducente, quello sopra la sorgente, confonde la quiete dell’assolato paesaggio. La ferita, ancora oggi sanguinante di ripidi umori, toglie continuità all’inedito insieme tanto agognato e gradito dalle genti che qui si insediarono già nell’XI secolo a.C. In precedenza, antichi progenitori si erano abbeverati alle fresche acque della Nova, lasciando lí vicino tracce palpabili del loro passaggio, come le tombe a forno,
Acquapendente
TOSCANA
ABRUZZO Orvieto
Scansano Saturnia Bolsena
Pitigliano Manciano
Sorgenti della Nova
Lago di Bolsena
Valentano Farnese
Montefiascone
Albinia Porto Santo Stefano
Capalbio
Canino
Orbetello
Tuscania
Porto Ercole
Mar Tirreno
LAZIO Viterbo
Montalto di Castro
tipiche della cultura eneolitica di Rinaldone, e le contemporanee capanne del limitrofo Monte Fiore, certamente riedificate agli inizi dell’età del Bronzo.
come rughe profonde Ricordi di un passato ancora vivo e tangibile che si esprime nell’improvvisa fierezza delle verdeggianti gole che segnano il plateau lavico come rughe profonde e inesplorate, ricche di anfratti, spacchi e nascoste emozioni. Sui soprastanti pianori tufacei permangono ancora remote
coltivazioni cerealicole che lasciano posto solamente a poche oasi incolte, destinate oggi al pascolo, residui di attività ancestrali ben testimoniate dalle risultanze archeobotaniche e paleofaunistiche effettuate sulle antiche stratigrafie. Fu Ferrante Rittatore Vonwiller (vedi box a p. 56) nel 1938, allora giovane studente catapultato da Milano nella Valle del Fiora alla ricerca di informazioni per la redazione del foglio 136 della Carta Archeologica, che individuò per primo i resti dell’antico abitato, descrivendolo cosí: «L’abitato etrusco della Roccaccia, sul quale in epoca medievale fu elevata una torre, abbraccia la sommità di una collinetta quasi isolata lungo le rive della Nova e si estende anche a una rupe di fronte, sulla quale fu elevata una torre in epoca piú tarda; la parte inferiore della collina è tuttora forata da grotte e camere scavate nella roccia, tutta l’altura è coperta poi di frammenti di vari fittili, in prevalenza buccheri e di vasi d’impasto; notevoli molti pezzi delle cosiddette ciambelle; lungo i fianchi delle rupi circostanti si aprono alcune tombe In alto: cartina della Tuscia, con, in evidenza, il sito di Sorgenti della Nova, scoperto nei pressi di Farnese. A sinistra: vaso ad anfora con decorazioni incise, da Sorgenti della Nova. Età del Bronzo Finale. Farnese, Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller».
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La gestione dell’area abitata Qui sotto: planimetria dell’abitato di Sorgenti della Nova, con l’indicazione delle aree finora interessate dalle indagini, avviate nel 1974 da Ferrante Rittatore Vonwiller. A sinistra: il settore IX (nella parte piú alta del versante settentrionale). In primo piano, le canalette e i buchi di palo delle capanne 4 e 5; piú in basso, la capanna 6, realizzata tagliando le due precedenti e oggi oggetto di un originale intervento conservativo. In basso: disegno ricostruttivo del settore III dell’abitato, posto a mezza costa del versante settentrionale, è caratterizzato dalla presenza di due capanne a pianta ellittica, grotte artificiali e forni. Nelle grotte 10 e 11 sono state rinvenute testimonianze di riti attribuibili al culto della Dea Madre.
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scavi • sorgenti della nova
Per una volta, però, i «buoni», guidati dal professor Rittatore – che nel 1974 diede inizio a una campagna di ricerche sistematiche –, ebbero la meglio, ottenendo l’anno successivo l’allontanamento definitivo dei mezzi meccanici. Da allora, una missione dell’Università di Milano scava annualmente a Sorgenti della Nova riportando dignità e ruolo all’antico centro abitato: 40 anni di fortunate scoperte al servizio della ricerca e della conoscenza. Dal 1976 le indagini vengono condotte da Nuccia Negroni Catacchio, che è riuscita poco a poco a svelare la struttura protourbana dell’insediamento e a delineare le abitudini e gli usi dei suoi antichi abitanti. Dal 1982, poi, all’Università di Milano si è affiancata, per alcuni anni, quella di Göttingen, che ha seguito piú da vicino le ricerche sulle strutture d’epoca medievale, evidenziando le fasi anche a piú ambienti, e sotto la collina una ricchissima e ottima fonte sgorga da una profonda caverna il cui taglio pare quasi opera dell’uomo». Solo trent’anni dopo, nel 1968, lo stesso Rittatore – ormai divenuto professore – eseguí un primo saggio che confermò l’attribuzione all’età del Bronzo Finale, riportando la frequentazione etrusca a semplici eventi sporadici a fianco della mai messa in dubbio presenza medievale.
la cava di pomice Questa inoppugnabile attestazione storica non bastò però a impedire che nuove quanto effimere costruzioni mediatiche pretendessero il sacrificio della splendida rupe a favore dell’estrazione della pietra pomice, necessaria per produrre blue jeans già scoloriti ma di sicura tendenza. E cosí, nel 1973, arrivarono le ruspe che cominciarono ad addentare il delicato ecosistema che si era conservato intatto per millenni, inghiottendo insieme ai fianchi della rupe anche brandelli perduti di storia e di vita. 52 a r c h e o
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In alto: i resti della capanna individuata nel settore Ve dell’abitato, che si articola in due ambienti, uniti da un corridoio. A sinistra: assonometrie della capanna 1 del settore I, in corso di realizzazione (1) e a costruzione ultimata (2). A destra: l’analogo studio elaborato per la capanna 2 dello stesso settore I, anche in questo caso in corso di realizzazione (3) e a costruzione ultimata (4).
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e le dinamiche della rioccupazione della rupe di Sorgenti della Nova, conosciuta all’epoca con il nome di Castiglione.
Organizzare lo spazio
Disegno ricostruttivo dell’interno di un’abitazione individuata nel settore Ve del villaggio.
un autentico «piano regolatore» L’abitato dell’età del Bronzo (XI-IX secolo a.C.) si sviluppava principalmente sui terrazzamenti naturali sporgenti dai ripidi fianchi e sulla limitata area sommitale, con un assetto degno di un piano regolatore: sul lato sud-occidentale della sommità, piccole capanne a base infossata, sui fianchi grandi capanne a pianta ellittica e grotte artificiali, mentre, alla base, vi erano lunghe abitazioni monumentali «a fossato». Siamo quindi in presenza di una chiara zonizzazione urbanistica, dalla quale traspare il desiderio di un già ben affermato potere centrale di organizzare, al meglio e secondo
Una grande casa a pianta ellittica
A sinistra: assonometria ricostruttiva di un’abitazione a pianta ellittica scoperta nel settore Vc.
funzioni ancora non pienamente comprese, il centro abitato e la vita di comunità. Non si tratta piú di un agglomerato di capanne sparse, ma di un vero e proprio sistema di «case a schiera» distinto in quartieri, ognuno dei quali con una propria autonomia architettonica. Insomma, una città di case costruite con materiali deperibili o scavate nella roccia e il perimetro definito dalle ripide pareti rocciose. In un centro del genere non potevano certo mancare i luoghi di culto pubblico, che si affiancavano a quelli di tipo privato. È questo il caso della cosiddetta «scala santa», che si erge sulla sommità orientale della rupe ed è costituita da un altare a gradoni, forse legato a culti solari. Altri rituali collettivi si svolgevano probabilmente nella Grotta 7, al cui interno è stato rinvenuto – al centro del vano principale – un frammento di calotta cranica umana deposto rovesciato al centro di un circolo di pietre. Tutt’intorno, fossette che contenevano piccole offerte votive e una pro(segue a p. 56) a r c h e o 53
scavi • sorgenti della nova
farnese: visitiamola insieme Farnese è un tipico abitato di altura della Tuscia, con il centro storico posto su di un vasto pianoro, circondato da due fossi confluenti, le cui ripide pareti tufacee rispondevano naturalmente alle esigenze di difesa. La prima frequentazione dell’uomo, documentata dal ritrovamento di resti di fori di palificazione e frammenti di vasi ceramici, è ascrivibile all’età del Bronzo Finale (XII-X secolo a. C.) ed è riferibile a un agglomerato protourbano di una certa importanza, contemporaneo a quello vicino di Sorgenti della Nova. La prima citazione si trova in un diploma di infeudazione del 1210 e si presume che il nome di Farnese (o Farneto, come si diceva un tempo) derivi dalla presenza di boschi di farnie (Quercus robur), una varietà di quercia oggi pressoché scomparsa. Farnese ha anche dato il nome alla nobile famiglia di papa Paolo III e dei duchi di Parma e Piacenza. Notevoli sono i suoi monumenti e le opere d’arte. La Rocca dei Farnese, realizzata nel corso di cinque secoli, si presenta oggi come palazzo fortificato con la sua bella facciata seicentesca. Alla Rocca, e al centro storico, si accede per la cosiddetta Porta Nuova, realizzata su disegno dell’architetto Ettore Smeraldi nel
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A destra: Farnese. La chiesa campestre di S. Anna (nota anche come Madonna della Cavarella), voluta nel 1577, come ex voto dalla comunità, scampata a un’invasione di cavallette.
1613, affiancata dalle agili arcate del «corridore», che collegava l’abitazione dei signori con il parco della «Selva». Di buon’architettura, nella piazza principale, è il Palazzo Chigi-Ceccarini, costruito nella seconda metà del Settecento, oggi sede del Comune, con affreschi staccati dalla chiesa campestre di S. Maria di Sala e notevoli soffitti lignei, dipinti. Sempre nella piazza, fa bella mostra di sé la fontana monumentale, realizzata nel 1886, su disegno dell’ingegner Tuccimei.
Farnese. Chiesa di S. Anna. La Fons Vitae affrescata da Antonio Maria Panico. XVI sec. In basso sulle due pagine: una veduta di Farnese.
La chiesa parrocchiale, dedicata al Santissimo Salvatore, racchiude notevoli oli e affreschi realizzati dal pittore bolognese della fine del Cinquecento Antonio Maria Panico (San Giacomo Maggiore, San Giovanni Battista, San Sebastiano, la Messa di Paolo III o Miracolo di Bolsena e l’altare del Rosario), il capolavoro giovanile di Orazio Gentileschi, San Michele Arcangelo, e un notevole tabernacolo del 1603, dono di Ferrante Farnese, vescovo di Parma.
La chiesa del monastero delle Clarisse custodisce una pala d’altare realizzata nel 1750 dal romano Agostino Masucci e gli affreschi cinquecenteschi, recentemente riscoperti e restaurati, in cui il Matrimonio della Vergine celebra le glorie della famiglia Farnese, rappresentando lo sposalizio di Galeazzo con Isabella dell’Anguillara, con il celebrante che ha il volto di papa Paolo III. Nella chiesa del convento di S. Umano si trovano la tela di Sant’Antonio da Padova di Giovanni Lanfranco e il crocifisso ligneo, scolpito da fra Vincenzo da Bassiano, artista seicentesco che lavorava solo di martedí e venerdí dopo aver digiunato ed essersi flagellato. La chiesa del convento dei Cappuccini, nasconde tra i banchi un pavimento istoriato con marmi preziosi con la tomba della famiglia Farnese. Di notevole interesse è la chiesa campestre di S. Anna (o Madonna della Cavarella), nata come ex voto della comunità per un’invasione di cavallette nel 1577 e abbellita – a seguito di un altro voto dei signori del luogo, per un parto difficile – con splendidi stucchi (dovuti, con ogni probabilità, a Pompeo di Pietro Pazzichelli, artista viterbese stabilitosi a Farnese) e affreschi del pittore bolognese Antonio Maria Panico.
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un milanese con l’amore per la maremma «Alto, lungo e diritto, con una voce tonante, gran signore nel tratto e ancor piú nell’animo», cosí parla di lui Alberto Grilli, amico e collega di una vita. La storia di Ferrante Rittatore, eroe di guerra decorato al valore militare, supposta spia straniera, irregolare viaggiatore innamorato della Maremma, potrebbe essere tranquillamente racchiusa in un libro d’avventura. Di lui ancora oggi, girando per le vie del centro storico di Ischia di Castro – che lo volle onorare con il conferimento della cittadinanza –, resta una vivida immagine nella gente piú anziana da lui cosí amata e ben descritta attraverso i racconti delle sue scoperte, gonfi di umana scienza. Per tutti era e continua a essere «Il Professore». Arrivò giovanissimo in Maremma, a soli 15 anni, nel 1934, collaborando alla compilazione della Carta Archeologica. In precedenza, nel 1933, aveva già iniziato un suo scavo nei dintorni di Rimini. Ma a partire dal 1938, prende l’abitudine di partire il sabato da Milano e raggiungere in treno la Maremma e poi di percorrerla a piedi, in bicicletta, a dorso di mulo e rientrare a casa la domenica sera. Furono anni di ritrovamenti eccezionali, da Sorgenti della Nova alla necropoli eneolitica di Ponte San Pietro, che hanno contribuito a gettare le basi degli studi sulla
preistoria italiana. Lo scoppio della guerra lo vide volontario in terra d’Africa, dove, ferito, scampò alla morte nella battaglia di ‘el Alamein; fu decorato sul campo con medaglia d’argento al valor militare. L’8 settembre del 1943 riesce a sfuggire ai rastrellamenti, scappando dalla finestra del bagno della stazione di Rimini e di lí a poco viene sorpreso a Firenze con un compagno partigiano a rubare armi nella Fortezza da Basso. Incarcerato e condannato a morte per diserzione riesce a evadere con una fuga rocambolesca e si arruola nell’esercito italiano al fianco della V armata americana. Alla fine della guerra riceve la medaglia di bronzo. Da qui in poi, si dedica instancabilmente alla sua principale passione: la ricerca archeologica. Nominato già nel 1946 assistente alla cattedra di Paletnologia dell’Università di Milano da Pia Laviosa Zambotti, seguí l’insegnamento per trent’anni, sino alla morte, sopraggiunta nel 1976. Le sue scoperte sono innumerevoli e la sua produzione scientifica non è da meno; la scuola da lui fondata ha continuato e continua da allora la sua opera, certamente con la stessa caparbietà, ma con un vuoto incolmabile, quello lasciato dalla sua prematura scomparsa.
tome di bovide al di sopra di un focolare, interpretate quali possibili tracce di riti di fondazione. Altre due grotte, la 10 e la 11, purtroppo fortemente compromesse dai lavori di cava, hanno comunque permesso il riconoscimento di rituali ctonii legati alla Dea Madre, che ebbero poi fortuna nell’antichità classica, riferibili a un particolare culto dedicato a Demetra e legato al sacrificio di maiali neonati. Per propiziare la fertilità, le donne partecipavano a un pasto durante il quale venivano consumati alcuni maialini i cui resti venivano gettati all’interno di ambienti sotterranei. Successivamente le stesse recuperavano i resti oramai putrefatti e li spargevano nei campi, insieme alle sementi.
la fase longobarda Alcune delle grotte furono riutilizzate, probabilmente quali ripari provvisori, come testimoniano i ritrovamenti di frammenti di ceramica a vernice nera. Solo con il VII secolo, però, come prova il rinvenimento di un elemento di guarnizione per cintura di chiara matrice longobarda, per la rupe inizia una nuova avventura. Nasce Castiglione: si costruiscono case, piazze, chiese e torri, ridando vita all’isolata altura. Adesso le strutture si concentrano principalmente sulla stretta lingua sommitale e sul versante meridionale. Di dimensioni certamente minori dell’abitato protostorico, l’insediamento medievale, presenta l’area signorile nel punto piú in quota mentre numerose sono le grotte che vengono riutilizzate piú in basso. Domina il panorama la torre, che un fossato difensivo separava in antico dalla piccola rocca, dalla chiesa e dal mondo esterno. Sono ancora visibili le tracce della balconata lignea dalla quale sicuramente si affacciavano i soldati del corpo di A sinistra: Ferrante Rittatore Vonwiller (secondo, da destra) sullo scavo di Sorgenti della Nova nel 1975.
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la lunga storia di un territorio Il Museo Civico di Farnese, intitolato a Ferrante Rittatore Vonwiller (vedi box alla pagina precedente), documenta l’evoluzione storico-culturale del territorio compreso nella media valle del Fiora, attraverso un percorso di tipo cronologico e topografico. La sezione di Preistoria e Protostoria presenta testimonianze riferibili al Paleolitico, al Neolitico e all’Eneolitico con materiali di corredo appartenenti alla facies di Rinaldone rinvenuti nelle necropoli di Palombaro e Fontanile del Raim. La sezione dedicata all’insediamento di Sorgenti della Nova ricostruisce la vita quotidiana di un villaggio dell’età del Bronzo Finale. La storia del territorio in epoca etrusca è illustrata dai reperti provenienti dalla necropoli di Naviglione, con vasi in bucchero legati al rito del banchetto funerario, dalla tomba del Gottimo e, soprattutto, dall’abitato fortificato di Rofalco; gli oggetti esposti costituiscono importanti testimonianze della vita sociale e religiosa del popolo Etrusco dal VI agli inizi del III secolo a.C., prima della conquista romana. Le fasi medievali e rinascimentali di Farnese, centro dal quale probabilmente ha avuto origine la potente omonima famiglia a cui appartenne papa Paolo III (1534-1549), sono documentate dai manufatti rinvenuti nei «pozzi da butto» che venivano usati come discariche, individuati nel centro storico. Il museo costituisce uno dei poli del Sistema
Museale del Lago di Bolsena (SiMuLaBo) e svolge anche funzione di Centro Visite della Riserva Naturale della Selva del Lamone. Info Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller», tel. 0761 458849; e-mail: museofarnese@simulabo.it; www.simulabo.it Comune di Farnese, tel. 0761 458381 In questa pagina: una sala del Museo Civico «F. Rittatore Vonwiller» di Farnese (in alto) e alcuni materiali in esso esposti: un’anforetta da Rofalco (a sinistra) e la ricostruzione di una capanna protostorica.
scavi • sorgenti della nova A sinistra: una farfalla nota come Tabacco di Spagna (Argynnis paphia), riconoscibile per il colore arancione scuro delle ali che presentano un disegno a righe e a punti neri. In basso: un esemplare di testuggine comune (Testudo Hermanni).
un rifugio per specie rare e protette La Riserva Naturale Parziale Selva del Lamone (vedi anche «Archeo» n. 340, giugno 2013; anche on line su archeo.it) occupa 2030 ettari nel territorio del Comune di Farnese (Viterbo), al confine con la Toscana. Fa parte del Sistema dei Parchi e delle Riserve della Regione Lazio. Ente Gestore è il Comune di Farnese. Il suo territorio è interessato dalla ZPS (Zona di Protezione Speciale per gli uccelli selvatici) Selva del LamoneMonti di Castro e dai SIC (Siti d’Importanza Comunitaria) Selva del Lamone e Sistema Fluviale Fiora-Olpeta. Molte specie rare e protette vegetano nel Lamone, che per alcune di esse è una delle poche, se non l’unica stazione del Lazio: asplenio settentrionale, ofioglosso delle Azzorre, cardamine parviflora, clipeola, lupino greco, veccia di Loiseleur. Anche la fauna è ricca e interessante, spesso per la sua rarità: gatto selvatico, martora, biancone, ecc. Tra le specie animali di importanza comunitaria vengono citate il lupo per i mammiferi; il falco pecchiaiolo, il nibbio bruno, il biancone, il succiacapre, la tottavilla, l’averla piccola, l’occhione, la ghiandaia marina, l’albanella minore, la calandrella, il calandro e la bigia grossa, tra gli uccelli; la testuggine comune e il cervone, tra i rettili; il tritone crestato, salamandrina dagli occhiali e l’ululone dal ventre giallo, tra gli anfibi. Info Riserva Naturale Regionale Selva del Lamone, tel. e fax 0761 458741; e-mail: lamone2005@libero.it; www.selvalamone.it Per alloggiare Locanda Lamone, tel. 0761 458580; fax 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it; www.coopzoe.it
guardia nel tentativo di controllare i vicini confini della contea di Pitigliano. Della chiesa, invece, scavata per la prima volta nel 1988, restano solo le fondazioni e il pavimento in blocchi di tufo squadrati. La fase piú antica è costituita da una navata unica di 13 x 8 m, con abside. Di sicuro interesse è la fossa per la fusione della campana, posta al centro del pavimento, proprio di fronte all’ingresso, mentre tracce dell’altare e del fonte battesimale sono state rilevate all’interno dell’abside.
verso l’abbandono All’esterno è presente una piccola necropoli di sei tombe delle quali solo una, la piú antica e doppia, era inviolata. Alle spalle dell’abside è stato scoperto un ossario nel quale sono stati rinvenuti in giacitura secondaria i crani, lungo le pareti, e le ossa lunghe, principalmente al centro, di duecentocinquanta individui. Le piú antiche citazioni di Castiglione risalgono all’inizio del XIII secolo, quando rientrò nelle dispute tra il Comune di Orvieto e la famiglia Aldobrandeschi; di lí a poco, circa un secolo dopo, dobbiamo annotarne l’abbandono definitivo, forse a seguito della profonda crisi economica e demografica che in quel periodo investí la Maremma. Ringrazio Nuccia Negroni per avermi permesso di attingere tra la documentazione di scavo e per i suoi «primi 40 anni» trascorsi a Sorgenti della Nova. Ringrazio inoltre Patrizia Petitti della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e Luciano Frazzoni direttore del Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» per le foto dei materiali e per il loro uso.
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civiltà cinese • la scultura/7
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LA FORMA DELLE IDEE dalle migliaia di figurine che compongono il «piccolo Esercito di terracotta» ai colossali ritratti del buddha, la statuaria dell’antica cina fu un potente veicolo di diffusione delle ideologie e delle diverse dottrine religiose di Marco Meccarelli
N
ell’antica civiltà greca la concezione dell’arte e della bellezza, almeno a partire dal periodo classico (V-IV secolo a.C.), trovò nella scultura la sintesi del proprio spirito: il tema prediletto, il corpo umano fu inteso come un modello ideale di perfezione, cosí come la mímesis (imitazione) divenne il nobile tentativo di condensare, nell’equilibrio delle proprie forme, l’infinita armonia del cosmo. L’ideale della perfezione naturale ben si adattò alle rappresentazioni di dèi ed eroi, nel momento in cui la scultura, l’architettura e la pittura furono considerate le tre tèchne, elevate poi dai Romani ad ars. La scultura greca divenne cosí l’icona della clas-
sicità e uno dei fondamenti dell’arte occidentale. Nella civiltà cinese, invece, non troviamo la stessa tripartizione classica. Eppure i metodi di modellazione per addizione e per sottrazione del materiale raggiunsero l’apice per competenza tecnica e qualità estetica, almeno nel Neolitico Tardo (3000-2000 a.C.), come attestano le forme degli utensili in ter racotta della cultura Longshan e le ingenti quantità di manufatti in giada – pietra durissima e difficile da lavorare – della cultura Liangzhu. La statua colossale (è alta quasi 20 m) di Laozi, fondatore del taoismo, situata a nord di Quanzhou ai piedi del Monte Qingyuan. Probabile epoca dei Song Meridionali (1127-1279). a r c h e o 61
civiltà cinese • la scultura/7
A partire dal 2000 a.C., il dinamico eccezioni, per esempio alcuni re- esercito del primo imperatore, che gusto estetico e la regale eredità di perti neolitici, qualche recipiente e risale al III secolo a.C. ed è compocui fu investita la giada vennero varie maschere in bronzo del II sto da oltre 8000 statue in terracottrasferiti sul bronzo. Perlopiú fina- millennio a.C., cosí come alcune ta, ad altezza naturale, in cui l’estrelizzata alla produzione di arredi, con rappresentazioni di arte rupestre, ma cura del dettaglio naturalistico cui adempiere ai rituali presieduti sembra che le culture cinesi fossero attribuisce i tratti individuali e le dal capo-sciamaspecifiche caratteno, la metallurgia istiche di età, L’avvento del buddhismo segna un rfunzione divenne l’emblee rango ma del dominio di ogni guerriero. momento di svolta decisivo nella politico congiunTracce di pigproduzione scultorea della Cina to alla sfera del menti attestano sacro. l’usanza, peraltro Rispetto al corpo umano, soggetto particolarmente restie a rappresen- documentata anche nell’antica Greprediletto della scultura greca, i mo- tare figure umane. cia, di colorare le statue con tonalitivi iconografici della Cina antica Possiamo quindi immaginare lo stu- tà accese e contrastanti (rosso scuro, derivano dal peculiare contesto sa- pore degli studiosi quando, nel verde, blu e viola). I volti, uno divercro e mitologico: draghi, fenici, ma- 1974, a Xi’an, nella provincia dello so dall’altro, si confondono nella schere zoomorfe, ecc. Salvo illustri Shaanxi, venne scoperto il colossale serialità dei guerrieri, perché l’in62 a r c h e o
A sinistra: Yangling (Shaanxi). Il «piccolo esercito di terracotta», posto a guardia della tomba dell’imperatore Jingdi, della dinastia Han (156-141 a.C.). L’armata si compone di migliaia di figurine nude, prive di braccia (probabilmente in legno), ciascuna connotata da precisi tratti somatici e dal realismo degli attributi sessuali.
terracotta. Rientra in questa categoria l’esercito del primo imperatore che, pur essendo un unicum per effetto spettacolare, proporzioni, varietà e numero delle statue, non è un caso isolato. Migliaia di statuine esili, alte circa 62 cm, formano quello che è comunemente definito il «piccolo esercito di terracotta», pronto a «difendere» il plesso funerario del quinto imperatore della dinastia Han, Jingdi (156-141 a.C., a Yangling, Shaanxi). La straordinarietà della scoperta risiede nel primo e consistente «caso», rinvenuto in Cina, di corpi nudi, caratteristica tipica della scultura greca, e oltretutto privi di braccia. Sembra che l’esercito fosse composto dalla combinazione di materiali diversi come la terracotta (i corpi), il legno (le braccia), la seta (gli abiti) e, infine, il bronzo (le armi). Anche in questo caso è stata rilevatento politico, l’affermazione del ta la considerevole pluralità di tratti potere imperiale e le credenze reli- somatici, che assumono un’espressione piú sorridente e rilassata, forse giose ne perpetuano il mito.
gli oggetti luminosi La statuaria cinese può essere suddivisa in due tendenze principali: quella appartenente al corredo funebre imperiale e quella successiva alla penetrazione del buddhismo indiano, che ha innestato una grande vivacità artistica nel repertorio tradizionale. Al primo gruppo appartengono gli «oggetti luminosi» (mingqi) che, sostituendo i sacrifici umani, a partire dal III secolo a.C., invasero il corredo funebre con figure antropomorfe, zoomorfe, modellini di architetture e utensili in
L’albero dei soldi A partire dagli Han Orientali (9-220 d.C.), i cosiddetti «alberi dei soldi» (yaoqianshu) in bronzo, infissi su basi figurate di ceramica, riproducono divinità e spiriti immortali taoisti talora associati a rappresentazioni del Buddha. Vari esemplari sono stati scoperti nel Sichuan, dove si affermò il culto taoista della Via dei Maestri Celesti (Tianshi Dao).Famoso è l’albero in bronzo della tomba 2 (a Hejiashan, Sichuan) degli Han Orientali (foto qui sopra), con monete, draghi, fenici, elefanti, cervi, cani (oggi conservato al Detroit Institute of Arts). Talvolta venivano raffigurati anche pipistrelli, la Regina Madre dell’Occidente (Xiwangmu), corvi (emblemi del sole), rospi (emblema della luna), cervi e scimmie, legati all’elisir dell’immortalità.
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un riflesso della natura benevola e mite del regnante Han, seguace del taoismo. È stato sorprendente constatare il realismo degli attributi sessuali, sebbene il corpo fosse ricoperto da vesti in seta, cosí come la presenza di «eserciti» di animali (maiali, mucche, pecore), e le centinaia statuette femminili armate e talora disposte su cavalli. Queste scoperte hanno costretto gli studiosi a rileggere la storia dell’antica scultura cinese, constatando come la terracotta fosse usata anche per le statue, di altezza variabile, con un’enfasi rivolta all’aspetto naturalistico, destinate al corredo funebre imperiale. Non abbiamo invece esempi di statue in marmo, ma, col tempo, quelle in arenaria guarnirono il sontuoso percorso che conduce al tumulo: la «via sacra» (shendao).
ambasciatori senza testa Rievocando il corteo funebre nel giorno del funerale, ma anche le processioni regali e il cammino del defunto nell’ultimo viaggio verso l’oltretomba, protetto dalle anime spirituali, un antico e pregevole esempio di via sacra è visibile nel mausoleo dell’imperatore Gaozong e della consorte Wu Zetian (a Qianling, Shaanxi), costruito tra il VII e l’VIII secolo. Appaiati a due a due si susseguono colonne, bassorilievi, statue, alcune dal valore apotropaico, come i felini alati (bixie, «colui che allontana gli influssi nefasti»), altre per segnalare il carattere cosmopolita dell’impero, come lo struzzo, animale considerato esotico dai Cinesi. All’ingresso al tumulo si ergono le statue acefale di 61 ambasciatori stranieri e comandanti delle minoranze etniche. Tutte le sculture presentano uno stile massiccio e volutamente statico, la cui forma è assai vicina a quella del blocco di pietra con cui sono state abbozzate: il loro aspetto mono64 a r c h e o
litico esprime la sacra maestosità del luogo di sepoltura imperiale. Oltre a essere destinata all’interno o all’esterno dei sepolcri regali, la statuaria cinese segnala, con la propagazione del buddhismo, un nuovo e duraturo slancio vitale. All’indomani dell’avvento della dinastia Han, con il frantumarsi dell’impero uni-
tario, il culto indiano rivoluzionò il substrato religioso cinese e diede un’effettiva sferzata all’arte, con un nuovo motivo da venerare: l’immagine antropomorfa del Buddha e del suo ricchissimo pantheon. L’iconografia che giunge in Cina tiene conto di stili indiani (Mathura e Gandhara), sasanidi e partici, senza Statuetta in bronzo dorato del Buddha Shakyamuni. 338. San Francisco, Asian Art Museum. La figura viene rappresentata come un asceta dalle mani disposte nel «gesto della meditazione» (dhyanamudra), secondo una versione non ortodossa.
dimenticare le eredità ellenistiche, a cui si aggiungono i peculiari influssi locali dell’Asia Interna che fungeva da crocevia. Alla prima fase della scultura buddhista cinese appartiene il bronzo dorato del Buddha Shakyamuni (vedi foto alla pagina accanto) del 338. Rispetto al modello indiano e centro asiatico, il drappeggio risulta decisamente piú irrigidito e lineare, e ogni accenno anatomico è volutamente soppresso: le gambe incrociate sembrano una base allargata su cui si elevano il corpo, le braccia e le mani disposte secondo una versione non ortodossa del «gesto della meditazione» (dhyanamudra).
superare le differenze La civiltà cinese aveva dimostrato, sin dal II millennio a.C., una grande abilità nel modellare il bronzo, attraverso uno stile dinamico ed estroso nella forma. Si deduce che il senso di staticità della statuaria buddhista sia una chiara scelta iconografica. Il culto indiano, infatti, fu inizialmente legittimato dalle popolazioni straniere, come quella degli Wei settentrionali, di stirpe proto-turca, che alla fine del IV secolo unificarono parte della Cina settentrionale. Gli Wei compresero che la condivisione del carattere universale degli insegnamenti buddhisti fosse lo «strumento» piú efficace per superare i particolarismi etnici e i contrasti culturali tra stranieri e cinesi: la statuaria acquisí uno stile chiaro e diretto nel contenuto, ma sobrio ed essenziale nella forma. La predilezione verso l’immagine di Maitreya, l’amichevole o il benevolo, non è casuale (come si può vedere nelle grotte 9, 10, 11 e 12 di Yungang, Shanxi, e nella grotta 275 di Mogao, Gansu): è
Statuetta in bronzo del Buddha. Dinastia degli Wei Settentrionali (386-534). Shanghai, Museo di Shanghai.
una figura che si presenta con attributi di considerevole valenza caritatevole, con una forza protettrice senza uguali e incarna inoltre il Buddha dell’avvenire, il cui futuro risveglio fu riletto anche in chiave profetica per liberare gli oppressi. Grazie al generoso mecenatismo degli Wei furono costruite le megalitiche architetture r upestr i (Dunhuang, Binglingsi, Maijishan, Yungang, Longmen e Gongxian) dove, peraltro, si «costruisce» per sottrazione di materiale, compiendo un’operazione piú affine alla «scultura» che non all’ingegneria edile. I buddha, su modello centro asiatico, iniziarono ad assumere le «forme ciclopiche», arrivando a superare nell’VIII secolo i 70 m di altezza (è il caso del Buddha di Leshan, Sichuan) L’atavico culto taoista non solo entrò in competizione, ma si sovrappose al buddhismo, assimilandone molti tratti iconografici: gli insegnamenti spirituali, le immagini votive e la scrittura sacra delle stele taoiste trovarono in sculture di asceti, simboli religiosi e iscrizioni calligrafiche una sublime unità compositiva. Le scelte stilistiche col tempo adottarono linee piú fluide e morbide, mentre i corpi allungati si assottigliarono fin quasi a scomparire sotto i panneggi.
volti emaciati Lo stile iniziò anche a ritrarre l’aspetto emaciato, con spalle cadenti, collo allungato, fronte spaziosa e veste lineare alla cinese, spesso terminante con un ricco drappeggio aperto ai lati, a guisa di coda di pesce (come si può osservare nel sacrario in bronzo dorato di Prabhutaratna e Shakyamuni, del a r c h e o 65
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Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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IL GIGANTISMO Particolarmente suggestive sono le imponenti sculture buddhiste che presero come modello il gigantismo stilistico dell’Asia Centrale (statue di Bamiyan, Afghanistan, alte 38 e 53 m, distrutte nel 2001 dai talebani). Da segnalare, in Cina, sono le colossali statue di Yungang (Datong, Shanxi) dove troneggia il Buddha della grotta n. 20, alto 13,5 m, che risente dell’influenza di modelli centro-asiatici, indiani ed ellenistici. A Longmen (Henan) si distingue il colossale Buddha Vairocana, alto 17,14 m: l’impassibilità della statua contrasta mirabilmente con il senso del grottesco, energico, corpulento e volutamente terrifico ma altrettanto imponente, del ciclopico Re Celeste (Tianwang; vedi foto a p. 71). Il Buddha Maitreya di Bingling (Gansu) è alto piú di 27 m, mentre quello di Leshan (Sichuan; foto qui a sinistra) raggiunge i 71 m, con le spalle che misurano 28 m. Non solo le statue buddhiste presentano caratteri ciclopici. La scultura in pietra a Quanzhou (Fujian) del leggendario Laozi, considerato il fondatore del taoismo, è alta quasi 20 m (23 m di spessore e larga 26,2 m; vedi foto in apertura, alle pp. 60/61). Fu realizzata probabilmente durante i Song Meridionali (1127-1279).
In basso: statuetta in bronzo dorato di un bodhisattva. Dinastia Tang (618-907). Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.
518, oggi al Musée Guimet di Parigi; vedi foto a p. 70). La mandorla si ingrandí per dare spazio ai motivi ornamentali fiammeggianti.
luci e ombre I contatti con l’esterno contribuirono alla nascita di un’arte che assimilò il vigore scultoreo dei modelli indiani dell’era Gupta (320-600 d.C.), ma la forte attenzione al dominio plastico, l’attenuazione del motivo ornamentale sul naturalismo, assieme al gusto nuovo per il volume e per i giochi di luci e ombre, appartennero alla tradizione cinese. Forme vegetali e draghi contorti si unirono a piante rampicanti fitte di fiori e orli di perle di varie dimensioni, testimoniando l’assimilazione di motivi stranieri. Gli ornamenti invasero le nicchie, gli archi delle porte, le stele, le lunette di balaustre incise o scolpite. L’arte scultorea dal VI secolo iniziò a distinguersi per la risoluzione piena e rotonda, il sorriso addolcito dei Buddha e una esecuzione piú sciolta dei tratti somatici, forse un riflesso del cambiamento in atto: il buddhismo era diventato culto imperiale. Lo stile piú naturalistico rese l’opera piú dinamica e lontana dalla rigidità della posa, ma il panneggio e il volto conservarono una profonda e volutamente «statica» austerità. In epoca Tang (618907) gli scultori poterono padroneggiare tutti i materiali noti: bronzo, argilla, pietra e legno, a cui si ag-
giunse la lacca secca (statue modellate con stoffe imbevute di lacca su un sostegno solitamente di argilla che, a indurimento avvenuto, veniva eliminato). La tradizione scultorea assimilò cosí la nobile eredità tecnica e stilistica della lacca, elevata a sublime espressione artistica di tutta l’Asia (vedi «Archeo» n. 356, ottobre 2014). A partire dall’VIII secolo la tendenza piú accentuata delle forme rese il panneggio piú elaborato e le forme piú corpulente, proprio quando, per la prima volta, venne praticata la scultura a tutto tondo. L’elevata abilità raggiunta si riscontra nella profusione dei dettagli riccamente elaborati, mentre il «viso a luna», le guance pronunciate e la bocca socchiusa derivano dai canoni di bellezza in voga a corte.
lo stile si vivacizza Lo sviluppo della statuaria buddhista cinese giunse a codificare i canoni classici: la combinazione di forme piene e potenti, i colori ricchi e brillanti, l’attenzione al gioco delle linee ornamentali divennero il fondamento della scultura religiosa delle epoche successive. Lo smalto policromo dei vasi in ceramica e porcellana vivacizzò lo stile delle statue, cosí come le immag ini buddhiste, taoiste e confuciane presero forma dalla terracotta lavorata anche ad alte temperature. L’arte scultorea si manifestò anche nella modellazione di oggetti d’oro e d’argento, mediante le procedure di intaglio, placcatura o incisione, che raggiunsero una (segue a p. 71) a r c h e o 67
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materia e modelli A colloquio con Patricia Karetzky Patricia Eichenbaum Karetzky insegna storia dell’arte al Lehman College di New York. Ha all’attivo numerose pubblicazioni ed è stata coeditore e redattore del Journal of Chinese Religions dal 1991 al 1998.
◆ Professoressa Karetzky, quale
importanza ha avuto la scultura in Cina? In Cina la scultura non fu considerata tra le espressioni artistiche piú importanti. Predominarono, invece, i «tre gioielli» (poesia, calligrafia e pittura), che condivisero gli stessi strumenti: pennello, inchiostro e carta/seta. Per scolpire, occorreva la forza fisica, necessaria per interagire con materiali «sporchi» e spesso difficili o duri da lavorare. Nel complesso, l’arte scultorea viene limitata alle icone religiose, alle monumentali raffigurazioni di animali all’ingresso delle porte dei palazzi, e alle «vie sacre» (shendao). In epoca Song la porcellana fu usata anche per realizzare statuette, molto apprezzate, che ritraevano personalità taoiste e buddhiste, talvolta arricchite da iscrizioni votive. Per realizzarle, furono utilizzati anche materiali come pietra Statuetta di Guanyin, dal tempio di Baoqing (Xi’an). Epoca Sui (581-618).
tenera, giada, radici di alberi e legni esotici. ◆ Secondo lei, in che cosa si caratterizza la scultura buddhista cinese? Pur derivando dal modello indiano, la scultura buddhista cinese non condivide lo stesso interesse per l’arte plastica tridimensionale. Fin dal Neolitico, in Cina venne privilegiato il linearismo ornamentale. Anticamente i Cinesi avevano lavorato materiali come bronzo, legno, lacca e argilla; dopo un primo periodo di imitazione, le forme sensuali delle icone buddhiste indiane furono adattate ai canoni cinesi alla fine del V secolo, dove prevalsero le pieghe rigide degli indumenti pesanti, definite «a coda di pesce»: fu prediletta la pietra e quindi le sculture su larga scala di figure antropomorfe appartenenti al pantheon buddhista. L’interesse indiano verso l’aspetto sensuale della divinità è praticamente assente in Cina; solo nell’VIII secolo, durante la dinastia Tang, viene segnalata una propensione al naturalismo, grazie alle influenze cosmopolite per gli scambi culturali lungo la Via della Seta, che svilupparono un’attenzione verso le caratteristiche anatomiche dei corpi. Durante i Song l’attenzione verso il naturalismo si trasferí nella resa minuziosa dei dettagli, dei materiali, dei costumi,
dei ritratti, delle posture, dei gesti formalizzati e degli attributi. La scultura perse il vigore delle immagini di epoca Tang, ma mantenne una raffinatezza che rispettò i dettami estetici del decoro e della moderazione dell’etica confuciana. I bodhisattva assunsero sembianze femminili, snelli e giovanili, con le sciarpe elaborate e gli abiti resi con aggraziati modelli lineari. Tali paradigmi di «bellezza celestiale», adottati anche dai taoisti, sopravvissero nei secoli successivi senza apportare grandi modifiche. La modellazione in pietra lasciò gradualmente il posto a materiali piú familiari, come il legno e l’argilla. ◆ Nel saggio che ha dedicato all’argomento, lei ha analizzato il ruolo della Guanyin. Qual è stato il contributo piú importante del bodhisattva della Compassione? Gli insegnamenti confuciani diedero grande enfasi all’indole gentile, benevola e sincera; a poco a poco, valori come la pietà filiale furono condivisi dalla popolazione, ma queste qualità, ieri come oggi, sono state applicate solo raramente. Nel sistema confuciano non si La testa del bodhisattva Guanyin (personificazione della Compassione), scolpita nella grotta 21 di Tianlongshan (Shanxi). Dinastia Tang (618-907).
Una statua del Buddha, scolpita nelle grotte di Yungang (Datong, Shanxi), nelle quali si contano oltre 51 000 sculture buddhiste. Periodo dei Wei settentrionali, V-VI sec. d.C.
guardava al di fuori di sé per cercare aiuto o conforto compassionevole. Solo l’istruzione morale poteva essere di esempio per i praticanti. Con la dottrina delle sacre scritture buddhiste del Sutra del Loto (I secolo d.C.), la Cina si relazionò con la personificazione della Compassione, il bodhisattva Guanyin (in sanscrito Avalokitesvara), in grado di vedere e sentire le sofferenze dell’umanità. Per la prima volta i fedeli ricevettero aiuto da un’entità compassionevole. Avalokitesvara poteva assumere qualsiasi forma (Buddha, bodhisattva, demone, donna, re, monaco...), per aiutare i fedeli che lo invocavano. Introdotta con sembianze maschili, l’icona di Guanyin presto subí varie trasformazioni, in concomitanza con l’introduzione di nuovi testi dall’India, dal Sud-Est asiatico e dal mondo buddhista: Guanyin acquisí sembianze femminili, e fu raffigurata anche con 11 teste e con un numero di braccia che andava dalle 20 alle 1000. Divenne una delle divinità piú popolari e quando si diffuse il cristianesimo fu identificata con la Madonna, raffigurata seduta, con in braccio un bambino. Il culto di questo aspetto femminile si distingue dalle altre tradizioni religiose, nelle quali predominano divinità maschili. In una società patriarcale, le donne riconobbero in Guanyin un modello sacro da invocare per realizzare i desideri nella vita di tutti i giorni.
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civiltà cinese • la scultura/7 Sacrario in bronzo dorato raffigurante i Buddha Prabhutaratna e Shakyamuni. Dinastia Wei (534-557). Parigi, Musée Guimet.
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quando le statue danno i numeri... Il numero delle statue di alcuni famosi templi rupestri offre un’idea delle loro dimensioni. Nel Gansu, si passa dalle «sole» 694 statue di pietra e 82 in argilla (templi grotta di
raffinatezza senza precedenti. Nell’impero piú cosmopolita della Cina, il cui dominio culturale si estese fino in Corea, Giappone,Vietnam, e, attraverso l’Asia Centrale, persino in Siberia meridionale, furono realizzate statue dai tratti somatici e abbigliamenti di foggia straniera. E non solo: stili e tendenze artistiche di culture e regni provenienti da altri contesti geografici lasciarono la propria impronta nel repertorio locale. La popolazione seminomade dei Liao (907-1125), per esempio, che dominò parte della Cina settentrionale, mantenne una resa naturalistica possente ma
Bingling), alle oltre 2000 di Mogao fino alle 7200 di Maijishan; nello Shanxi, a Yungang vi sono oltre 51 000 statue; piú o meno altrettante a Dazu (Sichuan). In Henan, invece, si
va dalle 7700 statue di Gongxian alle 110 000 di Longmen (di cui sono un esempio le sculture illustrate qui sotto, raffiguranti Vajrapani e Tianwang, il Re Celeste).
lineare, in tutte le sue declinazioni, zione. Solo successivamente le stadal bronzo dorato alla ceramica, tue si svincolarono dalla parete e dalla lacca secca al legno. acquistarono profondità, senza intaccarne la funzione simbolica e sacrale. La ricercata esuberanza delmolteplici lo stile conferí ancor piú vigore al punti di vista Nell’arte scultorea il dominio della proselitismo con cui vennero sollevisione frontale non sembra limitare citati gli animi dei fedeli. la vena creativa e il vigore del mo- Con i Song e gli Yuan (960-1368), dellato. Anzi, soprattutto nei templi la statuaria continuò a privilegiare il grotta, fu privilegiata una «rappre- naturalismo e si manifestò ancor piú sentazione topologica dello spazio», l’interesse per i dettagli, ma la risodove, in un’unica immagine, con- luzione delle pieghe del panneggio, fluirono molteplici punti di vista mediante lo spigoloso drappeggio a (visione frontale, laterale, dal basso, coda di pesce e le sciarpe svolazzandall’alto), cosí da accompagnare il ti, sembrano un ossequioso richiafedele nel rito della circumambula- mo alle antiche icone, assottigliate, a r c h e o 71
LA NASCITA DELLA SHENDAO L’area del sepolcro dell’imperatore Wudi (della dinastia Han, 140-87 a.C.) a Maoling (Shaanxi) comprende i resti di alcune statue imponenti, volute probabilmente per difendere il luogo da influenze maligne e per delimitare lo spazio sacro. Viene tradizionalmente considerato il primo esempio di «via sacra» (shendao, anche detta «via dello spirito»). La studiosa francese Michèle Pirazzoli-t’Serstevens dubita, tuttavia, che le statue siano collegate al sepolcro imperiale e posticipa le origini della via sacra tra la metà del II e l’inizio del III secolo. Le sculture in pietra dei Mausolei delle Dinastie del Sud (Nanchao lingmu shike, provincia del Jiangsu) del V
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secolo riproducono animali leggendari (qilin, tianlu e bixie), assieme a reperti che attestano influenze persiane ed ellenistiche. Grazie alla buona conservazione della maggior parte delle statue, il sepolcro di epoca Tang dell’imperatore Gaozong (Qianling, Shaanxi) offre l’immagine piú fedele delle antiche vie sacre. In epoca Song la via sacra del mausoleo dell’imperatore Zhenzong (998-1022, in Henan) fu fiancheggiata da ben 812 sculture di pietra. Sono da segnalare le Tredici tombe della dinastia Ming (Mingchao shisan ling), nei pressi di Pechino, la cui via sacra presenta 36 sculture in pietra, realizzate nel 1435, alcune delle quali superano i 30 mc di volume.
degli Wei Settentrionali. Con le ultime dinastie, la profusione dei dettagli conquistò ancor piú le forme sinuose delle statue che ornarono portali, balaustre e strutture architettoniche, arricchendosi di ulteriori simboli iconografici. Elementi di elevato gusto estetico combinati bizzar ramente con aspetti folclorici, talora naif, ma tendenti al maestoso, cosí come la con-
divisione di simboli, immagini e rituali buddhisti, taoisti e confuciani, rappresentano una costante della scultura cinese, che, in sostanza, sembra aver rifiutato la concezione di una statuaria intesa come un genere autonomo. Ogni scultura è comprensibile solo se inserita in un’articolazione organica dello spazio, in cui la condivisione di materiali, tecniche e stili diversi Statuetta in ceramica invetriata a tre colori, raffigurante Arhat Tamrabhadra, cugino di Buddha, seduto in meditazione. Dinastia Liao, X-XIII sec. Parigi, Musée Guimet.
In alto: sculture raffiguranti un elefante e cammelli, parte delle statue poste lungo la Via Sacra (shendao) che conduce alle Tredici tombe della dinastia Ming, nei pressi di Pechino (Changping). 1435.
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civiltà cinese • la scultura/7
Con l’avvento del bodhisattva Avalokiteshvara in Cina, i fedeli potevano, per la prima volta, affidarsi a un’entità compassionevole
Bodhisattva Avalokiteshvara (Guanyin), statuetta in legno, gesso e pigmento con doratura. Dinastia dei Song settentrionali, XI sec. Saint Louis, Saint Louis Art Museum.
conferisce unità alla composizione, proprio come l’insieme di elementi religiosi, regali e profani, trasmette l’unitarietà sacrale ma anche ideologica del luogo liturgico. Lo attestano, ancora una volta, le 74 a r c h e o
statue dei templi rupestri che vivono solo in funzione della loro collocazione all’interno della narrazione iconografica, della scelta cromatica, delle motivazioni religiose e politiche del periodo, ma anche del rapporto dialettico che si instaura tra pittura, calligrafia e scultura, cosí come tra le varie strutture, scavate nella roccia. Anche se alle forme semplificate e statiche, si sovrapposero il vigore plastico cosí come il
senso del maestoso e del decorativismo, la statuaria cinese privilegiò una risoluzione dalle linee ornamentali, in bilico costante tra astrazione e naturalismo. Come accade in pittura e in calligrafia, anche in scultura è la linea, piuttosto che la mimesis, a conferire forza espressiva e a trasmettere il valore estetico dell’arte cinese, dalle sue origini fino ai giorni nostri. (7 – continua)
gli imperdibili • stele dei veneti
Melting pot nella terra dei cavalli
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Da Padova a Vicenza, da Altino a Oderzo, le iscrizioni monumentali dei Veneti ci restituiscono l’immagine di una società aperta agli stranieri sin da epoche remote. fino ad arrivare all’accoglienza dei Romani come fratelli e a ottenere da questi la cittadinanza... senza conflitti! di Daniele F. Maras
I
l Veneto era considerato in origine una terra lontana, posta all’estremità dell’Adriatico, da cui venivano merci esotiche e miracolose come l’ambra e i cavalli da corsa piú rinomati del Mediterraneo. Secondo Strabone, il tiranno Dionigi di Siracusa avrebbe importato l’allevamento dei cavalli veneti in Sicilia all’inizio del IV secolo a.C., cosicché le vittorie della sua scuderia alle Olimpiadi e in altre gare resero la razza famosa e richiesta anche nella Grecia propria. Erano controverse, invece, le notizie sul popolo che allevava questi pregiati destrieri. Esiodo li assimilava probabilmente ai mitici Iperborei, abitanti dell’estremo Nord, vicini agli dèi. Altri poeti preferivano attibuire ai Veneti un’origine troiana (al seguito di Antenore, forse con una tappa in Tracia) o achea (come termine delle peregrinazioni di Diomede, che sarebbe divenuto un dio
Sulle due pagine: reperti riferibili alla cultura degli antichi Veneti e, in particolare alla sfera religiosa. In alto: laminetta votiva raffigurante, da sinistra, una processione aperta da due uomini armati, seguiti da sette donne, da Vicenza, piazzetta San Giacomo. Fine del IV sec.-inizi del III sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Nella pagina accanto: disco votivo in lamina bronzea, raffigurante una dea con una chiave, affiancata da un corvo e un lupo, da Montebelluna IV sec. a.C. Treviso, Museo Civico. L’oggetto presenta vari elementi riferibili a un sincretismo culturale e religioso: la «signora», infatti, indossa il costume tradizionale veneto, ma porta al collo un torquis a tamponi celtico, mentre la chiave, di tipo retico, era anche attributo di Ecate e Demetra, cosí come il tralcio d’edera rimanda a rituali dionisiaci.
presso di loro). In seguito, però, lo storico Polibio screditò queste teorie, affermando che «su di loro [i Veneti] i tragediografi hanno raccontato molte cose e hanno riferito molte notizie fantasiose» e che «i Veneti, per usanze e abbigliamento, si discostano poco dai Celti, ma parlano una lingua diversa».
nel segno dell’indipendenza Argomento di questa puntata sono dunque alcune testimonianze scritte degli antichi Veneti, che informano sull’indipendenza e sulla tradizione culturale di questo popolo, conservata attraverso la storia fino alla romanizzazione. Si tratta di una storia vissuta nel segno del confronto e dell’integrazione con i popoli vicini, di cui è prova l’accoglienza pacifica di usi e istituzioni romane e perfino della lingua latina. Quello che Livio dea r c h e o 77
gli imperdibili • stele dei veneti
lato paterno. Non esisteva invece, come in Etruria e a Roma, un gentilizio ereditario, assimilabile al moderno cognome.
finiva «l’angolo dei Veneti», nel Nord-Est italiano, non fu conquistato da Roma con la forza, ma si uní alle sorti dell’Italia romana nel segno dell’antica fratellanza tra Veneto e Latini.
pietre parlanti La documentazione scritta del Veneto preromano è ricchissima e abbraccia il periodo che va dal VI al I secolo a.C. Le iscrizioni sono incise soprattutto su oggetti di bronzo e d’osso e spesso scolpite su pietra. In quest’ultimo caso, si tratta di testi monumentali, a scopo funerario, votivo o pubblico, che registrano soprattutto formule onomastiche personali. Il nome del ciottolone iscritto era aklon, letteralmente un «segnacolo emergente» o qualcosa del genere; mentre molto diffuso era il termine
In alto: restituzione grafica dell’iscrizione scolpita sul ciottolone del «poliglotta» di Oderzo, Padros figlio di Kaialo, di probabile origine celtica. V-IV sec. a.C. Oderzo, Museo Archeologico «Eno Bellis». Il testo, posto sulle due facce piane, va letto da destra verso sinistra.
formule ricorrenti Formule tipiche erano per esempio quelle di Voltigenes Andetiaio e di suo figlio Fremaisto Voltigeneio, ricordati insieme in un monumento sepolcrale, oppure, al femminile, quella di Fugia Andetina Fuginia, «(moglie) di Andetio (e figlia) di Fuginio», menzionata in un’altra iscrizione. Tuttavia, quelli che qui vogliamo descrivere sono soprattutto casi di nomi di evidente origine straniera integrati nell’onomastica veneta, a testimonianza del già citato fenomeno dell’accoglienza. Una delle piú antiche iscrizioni venete, databile ancora alla metà del VI secolo a.C., ricorda un Volties
Qui sopra: restituzione grafica dell’iscrizione incisa su una laminetta in bronzo, dal santuario altinate in località Fornace. Metà del VI sec. a.C. Altino, Museo Archeologico Nazionale. Il testo ricorda l’offerta votiva fatta da Volties Tursanis Patavnos, il cui nome tradisce le chiare origini etrusche. In basso: Stele in arenaria con iscrizione veneta, da Isola Vicentina. II sec. a.C. Vicenza, Museo Naturalistico Archeologico di Santa Corona. Il testo (che corre con andamento bustrofedico) può cosí leggersi: Iats Venetkens osts ke enogenes Laions meu fasto, liberamente traducibile in «Iants straniero tra i Veneti e indigeno tra i Laevi mi fece fare».
ekupetaris, che indica un monumento o un oggetto riferito alla classe sociale dei cavalieri: letteralmente «signori dei cavalli» (eku-pet-), evidentemente di grande importanza presso gli aristocratici allevatori veneti (e di cui possiamo considerare «erede» la «Fieracavalli» che Verona ospita ogni anno in autunno). I nomi personali sono in genere composti da due elementi, comprendenti il nome individuale e un appositivo, che, di regola, può essere interpretato come patronimico, ovvero la filiazione dal 78 a r c h e o
Tursanis Patavnos, che fece un’offerta votiva in un santuario di Altino (oggi in provincia di Venezia). Il nome è tre volte prezioso, perché documenta l’integrazione di un etrusco Velthie (divenuto Voltie nella pronuncia locale), proveniente dall’Etruria (Tursanis, identico al greco dorico Tyrsanís, che indicava propriamente il «Mare Tirreno») e naturalizzato patavino (Patavnos, che ci restituisce la piú antica testimonianza del nome di Padova). Presumibilmente giunto in Veneto per motivi commerciali e qui accol-
to come membro (onorario? provvisorio?) della cittadinanza di Padova, il personaggio aveva proseguito il suo viaggio fino al santuario di Altino, lasciando questa testimonianza preziosissima della sua avventura.
Il cippo del lupo Foto e restituzioni grafiche di due facce del cippo detto «del lupo», proveniente anch’esso dal santuario altinate in località Fornace. III-II sec. a.C. Altino, Museo archeologico Nazionale. Si tratta della base di una statuetta votiva che su una faccia (a sinistra) reca l’iscrizione che cita Krumio Turens, un altro personaggio di sicura origine etrusca; sulla faccia opposta (a destra), si vede appunto la sagoma di un lupo, sopra l’immagine stilizzata di un altare.
PUPON E... Poco piú tardi, verso il 540-530 a.C., si trasferí a Padova un altro etrusco, il cui nome suonava probabilmente Pupu Rachu e che venne immortalato nell’iscrizione scolpita sulla stele di Camin: puponei ego rakoi ekupetaris, «io sono l’ekupetaris (il «monumento cavalleresco» potremmo dire) di Pupon Rako». Oltre che per il nome del personaggio, la stele è preziosa anche per essere la piú antica finora ritrovata del suo genere. Si tratta di una lastra parallelepipeda di pietra, incisa sulla faccia principale con una decorazione figurata racchiusa su due lati dal testo dell’iscrizione e delimitata in basso da un fregio a «denti di lupo». Le figure rappresentano un uomo e una donna vestiti nel tipico abbigliamento veneto arcaico e sono tracciate secondo uno stile di influenza greco-orientale. Questo tipo di monumento funerario deriva dall’uso etrusco (si pensi alla stele di Vetulonia) e potrebbe essere divenuto di moda in Veneto proprio grazie a immigrati di alto rango come Pupon Rako. Inoltre, la grafia utilizzata è la prima attestazione della seconda fase della scrittura veneta, in cui l’influenza etrusca si fa piú evidente, dimostrando, ancora una volta, la profonda interazione tra Etruschi e Veneti. Pompeteguaios Kaialosio, ovvero di un «Padros figlio di Kaialo», il cui soprannome era Pompeteguaios, in ...Il poliglotta Un ciottolone di granito ritrovato lingua celtica letteralmente «colui a Oderzo, in provincia di Treviso, e che parla cinque lingue». conservato nel locale Museo Ar- La formula onomastica è una vera cheologico testimonia della vita e miniera di informazioni linguistidei viaggi di un vero e proprio che, a partire dal nome personale, poliglotta del V-IV secolo a.C. In- Padros, che è la continuazione, secisa sui due lati della pietra, l’iscri- condo la fonologia celtica, di un zione riporta il nome di un Padros latino *Quadrus (o simili).
Il che ci restituisce l’identità di due delle cinque lingue parlate dal nostro. La terza era senz’altro il veneto, data la provenienza del ciottolo e la scelta di un monumento funerario tipico del posto. Dal celtico d’Italia (ovvero il leponzio, parlato in Piemonte e in Lombardia), derivano la desinenza –osio del genitivo e forse anche il nome del padre, Kaialo (anche se non si può a r c h e o 79
gli imperdibili • stele dei veneti
carta d’identità delle opere • Nome Stele con iscrizioni • Definizione Testimonianze epigrafiche riferibili al Veneto antico • Cronologia VI-I secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Località varie, tra cui Altino, Oderzo e Padova • Luogo di conservazione Vari musei archeologici statali e civici del Veneto
escludere un’origine veneta). Per le altre due lingue di cui Padros poteva vantare la conoscenza si possono fare solo ipotesi, anche se nel contesto dell’Italia settentrionale preromana il greco e l’etrusco restano buoni candidati. Uno spiraglio per comprendere le modalità di integrazione degli stra-
biando direzione a ogni volgere di riga, come si fa con i buoi durante l’aratura) e si legge in questo modo: Iats Venetkens osts ke enogenes Laions meu fasto, che in una traduzione libera suona «Iants straniero tra i Veneti e indigeno tra i Laevi come un’aratura L’iscrizione è scolpita con anda- mi fece fare». mento bustrofedico (ovvero cam- L’iscrizione registra probabilmente un’offerta votiva, ma l’elemento piú interessante è l’utilizzo del lessico specifico ufficiale dell’immigrazione. Il nostro Iants (il cui nome ha una base celtica) era immigrato dalla valle del Ticino, dove risiedevano gli antichi Laevi, e conservava la cittadinanza di questo popolo, ricordandola orgogliosamente nella propria formula onomastica (enogenes, «indigeno»). Con lo stesso orgoglio, però, vantava la posizione di «ospite» o «straniero» (osts) presso i Veneti, evidentemente a un livello precedente alla naturalizzazione dell’etrusco di Padova nieri viene offerto dalla complessa formula onomastica di un personaggio che, nel II secolo a.C., fece iscrivere una lastra di pietra a Isola Vicentina, in provincia di Vicenza.
La faccia principale della stele funeraria di pietra incisa da Camin (frazione di Padova). 540-530 a.C. Padova, Museo Civico Archeologico. La scena mostra l’estremo saluto del defunto (sulla destra, con cappello e bastone da viaggio), identificato dall’iscrizione come Pupon Rako, che riceve un volatile in dono da sua moglie (sulla sinistra). 80 a r c h e o
Stele funeraria dei Gallenii, da Padova, via San Massimo. I sec. a.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico. I defunti viaggiano verso gli inferi su una biga, ma, mentre la donna indossa ancora il tradizionale costume veneto, gli uomini indossano abiti romani, come in latino è anche l’iscrizione.
Volties piú antico di diverse generazioni. Alla stessa area «tecnica» dell’integrazione degli stranieri sembra rimandare anche il nome Hostihavos di un’altra iscrizione padovana, da interpretare letteralmente come «il garante degli stranieri»: probabilmente una figura istituzionale o un soprannome dato a una persona che intratteneva rapporti con gli immigrati.
il dono di krumio Per quel che riguarda la fase recente della documentazione veneta, troviamo ancora una volta un etrusco, Krumio Turens (dal greco tyrrhenós), che fece dono di una statuetta di bronzo, di cui resta solo il piedistallo, al dio eponimo della città di Altino. Il suo nome personale potrebbe fare riferimento alla professione di agrimensore (ovvero geometra, misuratore di terreni), se derivato dall’etrusco *cruma, che indicava uno strumento per il tracciamento dei confini, corrispondente al latino groma e al greco gnomon (vedi «Archeo» n. 347, gennaio 2014; anche on line su archeo.it). L’ultimo atto dell’apertura veneta agli stranieri si ha con la loro estrema lealtà nei confronti dell’alleato romano, che, alle soglie della nostra era, li portò a ottenere la cittadinanza romana senza alcun conflitto e a
essere inseriti nella X regione augustea: Venetia et Histria. L’assorbimento di modi romani e il contemporaneo sforzo di conservare l’antica tradizione è evidente nella bella stele funeraria di due coniugi, ormai divenuti cittadini romani a Padova nell’avanzato I secolo a.C. L’antico riferimento ai cavalli è conservato dalla rappresentazione del loro ultimo viaggio su una biga e dalla ripetizione del termine EQUPETARS, ormai scritto in alfabeto latino subito dopo i nomi
dei defunti: «Gallenio figlio di Manio e Hostiala Gallenia». Per saperne di piú Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti antichi (catalogo della mostra, Padova, 6 aprile-17 novembre 2013), Milano, Marsilio, 2013
nella prossima puntata • Il Fegato di Piacenza a r c h e o 81
speciale • achemenidi
achemenidi
l’impero universale nel segno di un antico simbolo solare, i re persiani dominarono su un territorio immenso, controllando il destino di milioni di persone. Ecco la storia di come Ciro il Grande e i suoi successori attuarono un disegno egemonico unico al mondo... di Massimo Vidale
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ondato dalla visione e dalla volontà di Ciro II, detto il Grande (che regnò tra il 555 e il 530 a.C.) e dei suoi armati, l’impero degli Achemenidi fu rovesciato, due secoli piú tardi, dai sogni di un altro straordinario guerriero. All’interno della dinastia, i legami familiari furono spesso stravolti e recisi dal sangue degli omicidi politici con i quali si giocavano le successioni al trono. L’impero dei Persiani è quindi segnato dall’ombra rossa della violenza e delle armi; ma nell’arte che sopravvive nelle rovine delle loro immense regge e sui portali delle tombe regali, scolpite
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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Iran. La rupe di Naqsh-i-Rustam, presso l’antica Persepoli. Qui, scavate nella roccia, si stagliano le tombe monumentali dei sovrani achemenidi Dario I (522-486 a.C.; in primo piano), Serse I (485-465 a.C), Artaserse I (465-425 a.C.) e Dario II (424-404 a.C.).
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speciale • achemenidi
«I vostri antenati hanno invaso la Macedonia e la Grecia, seminando la rovina a casa nostra, anche se non avevamo fatto nulla per provocarli. Come capo supremo dell’intera Grecia, ho invaso l’Asia, perché volevo punire la Persia per quell’atto» (Alessandro il Macedone, citato dallo storico Arriano). nella roccia, ricorre il segno del disco solare alato, simile a quello delle «folli» visioni religiose che Akhenaton, il faraone «eretico», aveva avuto mille anni prima (regnando dal 1348 al 1331 a.C. o, secondo altre ipotesi, dal 1359 al 1342 a.C.; vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012; anche on line su archeo.it).
na di Kermanshah (l’antica Bagastana, «il trono degli dèi»; vedi foto alle pp. 88/89). Molti lo interpretano come un’immagine di Ahura Mazda, letteralmente «il Signore che colloca tutto nella sua mente», lo spirito superiore e increato e massima divinità della fede zoroastriana, piú volte invocato nelle iscrizioni reali dello stesso monumento. Per altri, invece, si tratterebbe della personificazione del khwarnah, oggetto o manifestazione celeste che materializza il potere e la gloria reali, il che giustificherebbe l’apparente identità tra le fattezze del sovrano e quelle della benevola epifania divina.
A destra: Persepoli (Iran). Rilievo con il dio Ahura Mazda in forma di genio alato. In basso: l’impero persiano da Ciro a Dario (VI-V sec. a.C.). I re achemenidi dominarono gran parte del mondo allora conosciuto.
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un simbolo onnipresente Del disco solare, è difficile rintracciare le origini: lo si ritrova, insistente, nei sigilli dei Mitanni, l’aristocrazia di lingua indoeuropea della nazione hurrita, quindi, col passare dei secoli, nell’arte assira e babilonese. Gli Assiri lo raffiguravano con una divinità maschile a forma di uccello (o, meglio, di «arciere riveTira stito di piume»), immagine del dio del sole o delle divinità nazionali Assur o Ninurta. Ai Fanagorea Istr o (Danubio ) margini delle ali affiorano le teste di uominiChersoneso G e scorpione, mentre l’emblema era spesso sort i P o nto Eus i no retto da uomini-tori. ( Ma r N ero ) Dopo averlo acquisito dalle terre del confine Tr a Mace don c i O a ia dri occidentale, i Persiani lo fecero proprio, traduSinope Bisanzio si cendolo innanzitutto nel genio quadri-alato, Sesto coronato di tre soli piumati, che ancora figura Dascilio Ancyra Cappad su una porta del palazzo meridionale di PasarII ocia (Ankara) Li gade, la capitale di Ciro. Come nella successid Atene ia Pteria va arte ufficiale achemeniSardi Melitene Sparta I g III de, vi si leggono elementi Micale I Persiani all’avvento ia di Ciro (558 a.C.) stilistici e convenzioni fiMileto II gurative dell’Egitto, della ia Impero dei Medi (549 a.C.) Creta c IV i Ionia, della Mesopotamia Faselide l Caleb Regno di Lidia (546 a.C.) C i assira e babilonese e (Aleppo) Regno di Babilonia (539 a.C.) dell’altopiano iranico, a Tapsaco Mar Mediterraneo sottolineare la vocazione Massima estensione dell’Impero Cipro Cirene achemenide (550-330 a.C.) universale dei primi passi V Sidone dell’impero. Territori conquistati Damasco da Ciro il Grande (558-528 a.C.) Tiro L Una figura barbata del i tutto simile al sovrano, Conquiste di Cambise (530-522 a.C.) b Gerusalemme sorretta da ali, con un i Sais Conquiste di Dario (522-486 a.C.) c anello in pugno, e un coi Naucrati Strade reali D pricapo forse in origine Pelusio Petra dell’impero persiano Menfi e sormontato da un embles g tei Battaglie dei Persiani ma astrale in metallo preba it e a N t o r zioso, compare nel celebre Numero d’ordine delle t satrapie secondo Erodoto IX rilievo rupestre di Bisuo e loro probabili confini VI tun, nella provincia iraniar
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speciale • achemenidi
Nel rilievo di Bisutun, al re Dario e alla sua scorta armata si sottomette una teoria di capi nemici sconfitti. E, se vogliamo sfiorare l’ispirazione e i futuri destini del primo impero universale, dobbiamo guardare a questo drammatico monumento, scolpito a quasi 70 m di altezza, in un nodo stradale cruciale, tra le piane del Tigri e dell’Eufrate e le immense distese centro-asiatiche. Siamo nel 522 a.C. Cambise, figlio di Ciro, muore improvvisamente mentre torna dai domini d’Egitto verso Susa. Il vuoto dinastico è gravissimo, perché lo stesso Cambise aveva fatto uccidere in segreto il piú giovane fratello Bardiya, conosciuto dai Greci con il nome di
Smerdis. Mentre le province orientali dell’impero cadono nel caos, Gautama, un Mago – cioè, nella visione di Erodoto, un membro di una potente casta sacerdotale del popolo dei Medi – proclama di essere Bardiya e legittimo erede al trono, mentre altri capi tribali avanzano simili prerogative.
l’assassinio di gautama Il caos e le oscure vicende degli anni immediatamente successivi sono ancora oggi un enigma storico. Dario, figlio di Istaspe, ufficiale dei corpi scelti imperiali, si muove con straordinaria prontezza, e con l’aiuto di pochi capi militari, un anno dopo, uccide Gautama
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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I resti del palazzo di Ciro il Grande a Pasargade, città reale fondata a nord-est di Persepoli dallo stesso Ciro e prima capitale dell’impero achemenide fino a Dario I.
in una delle sue fortezze di Media, epurando la casta dei Magi e stroncando la ribellione nel 519 a.C. Sul rilievo scolpito, la figura del re, a grandezza naturale, esibisce un arco (arma tipica dei nomadi) come segno di potere, e alza il piede sulla figura di Gautama. Legati l’uno all’altro, le mani dietro alla schiena e la corda al collo, incedono i capi dei vinti: Atrina, che aveva reclamato il trono da Susa; Nidintu-Bel di Babilonia; Fravartish (Fraorte) di Media; Martiza, altro pretendente al trono di Susa; Citrantakhma, capo della tribú orientale di Asagarta (di incerta localizzazione);Vahyazdata, un secondo autoproclamato Bardiya; Arakha, altro
insorto babilonese; Frada, capo dei rivoltosi di Margiana (il delta del Murghab, oggi nel Turkmenistan meridionale).
il re come un sacerdote Nell’abbattere i ribelli e ristabilire l’ordine, Dario compie il volere divino, come un sacerdote, tramite un grande sacrificio, compiace gli dèi per assicurare al suo popolo pace e benessere. Quattro iscrizioni (una in persiano antico, una in babilonese e due in lingua elamita) hanno trasmesso al futuro la versione reale della soppressione della rivolta (consentendo anche, nel 1853, l’epocale traduzione dei caratteri cuneiformi a opera di Henry Rawlinson).
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speciale • achemenidi
La realizzazione del monumento rupestre di Bisutun – leggibile come una faziosa pagina di storia scritta e un visionario atto di rifondazione imperiale – fu certo un’opera di una straordinaria preveggenza politica, ma anche un pericoloso azzardo: iniziò infatti nell’estate del 521, quando le sorti del conflitto non erano ancora decise, e fu terminata, tra modifiche, ripensamenti e aggiunte, nel 519 a.C. A quella data, troncando con la nuova scultura parte di una precedente iscrizione, venne frettolosamente aggiunta al novero dei vinti, l’immagine dell’ultimo capo sconfitto, il re degli Sciti Skunkha, distinto dal cappello appuntito.
Misteriosamente, anche la barba del sovrano, rigidamente squadrata secondo i piú classici canoni dell’iconografia assira, sembra opera di una sostituzione tardiva. Altri dettagli scolpiti (il copricapo della divinità nel disco alato, i suoi simboli astrali, la sua mano destra, lo stesso arco impugnato da Dario) sembrano aggiunte o sostituzioni: nel sottolineare la precarietà progettuale del cantiere, aumentano l’incertezza nella lettura delle immagini. La scena, unica, della presentazione al sovrano dei re catturati riflette la necessità della propaganda reale in un momento di effettiva debolezza politico-militare, e per questo non
il corteo dei vinti Bisutun, l’antica Bagastana, «il trono degli dèi» (oggi nella provincia iraniana di Kermanshah). Il rilievo, scolpito tra il 521 e il 519 a.C., raffigura la vittoria di Dario I sul mago Gautama e i sovrani ribelli, che compaiono legati con le mani dietro la schiena e un anello al collo, con iscrizioni in persiano antico, in babilonese e in elamita.
Fravartish
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis Dario I
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Gautama
Atrina
Nidintu-Bel
appartiene al repertorio successivo dell’apogeo imperiale. Sarà forse perché quest’epoca è fatta di piccole nazioni e sette religiose avvinghiate in orride guerre senza fine, ma alle corti achemenidi, alla loro arte, e alle loro conquiste militari e civili – o forse, banalmente, al loro universalismo – vien da guardare quasi con un senso di rimpianto.
imprese memorabili In principio era l’acqua, desiderata e cristallina come appare solo nelle oasi. L’altopiano iranico è una catena di deserti separati da montagne, e lambiti da fiumi stagionali che si estinguono nel fango, nel gesso e nel sale. Città e
Citrantakhma
distretti agricoli sono vivificati dalle acque che scorrono, in primavera, da cime innevate, e il controllo collettivo delle risorse idriche è forse il piú radicale principio di civiltà. Agli ingegneri del Gran Re, gli storici del mondo antico attribuivano imprese idrauliche memorabili, come il taglio del promontorio del Monte Athos per il passaggio della flotta imperiale (che sembra essere stato recentemente confermato da apposite ricerche archeologiche) e lo scavo di un canale che avrebbe connesso il corso del Nilo alle sponde del Mar Rosso. E, dato ancor piú importante, molti studiosi attribuiscono loro anche l’invenzione e la diffusione, dall’altopiano
Arakha
Skunkha
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Martiza
Vahyazdata
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speciale • achemenidi
L’eterna DANZA DEL BENE E DEL MALE L’acqua che dona la vita e il deserto che la distrugge – rispettivamente sedi della vita civile e del caos brutale degli arcieri nomadi del Nord – sono forse tra le fonti di ispirazione piú immediate del dualismo che permea il pensiero religioso dell’Iran antico. Quanto sappiamo della sua religione sopravvive nei testi sacri dell’Avesta, composti oralmente tra il II e il I millennio a.C., ma trascritti non prima del VII secolo d.C. Una parte degli scritti, detta l’Antico Avesta, contiene cinque Ghata, o inni sacri, che una tradizione (recente) attribuisce a Zarathustra; dal punto di vista linguistico, gli inni potrebbero risalire all’arrivo delle principali tribú iraniche nel cuore altopiano (dal volgere del II millennio a.C. in poi). La base del pensiero zoroastriano è una concezione fortemente polarizzata, dualista al
problema del male in questo mondo: rispetto al potere benefico impersonato da Ahura Mazda, creatore del cosmo ordinato, si oppone quello malvagio di Angra Manyu o Ahriman, perenne fonte di contaminazione e corruzione. A questi due principi divini, eterni, immutabili e perennemente in lotta, si accostano due feti spirituali dormienti nel grembo del cosmo, chiamati spenta manyu («quello che dà la vita») e ahra (forse «oscurità», «spirito malvagio»). Col passare dei secoli queste quattro entità si fusero in due soli poli opposti (nozione in origine estranea all’ortodossia zoroastriana), che sarebbero stati concepiti nel grembo di Zurwan, una potente divinità del tempo; Zurwan era venerato insieme ad altre grandi entità cosmiche, come Thwasha, la volta celeste, e Vayu, l’immensità dello spazio vuoto.
iranico alle oasi del deserto egiziano, di una capillare rete di qanat, sistemi di canali sotterranei accessibili da innumerevoli pozzi verticali, capaci di attraversare, al riparo dall’evaporazione, i deserti piú infuocati. Ricostruiti per due millenni, i qanat oggi formano sull’altopiano reti di centinaia di migliaia di chilometri. La loro intensificazione in importanti satrapie (le province dell’organizzazione imperiale) di frontiera suggerisce che la ragione degli investimenti sia da ricercare soprattutto nella necessità di sostenere l’alimentazione delle guarnigioni di confine. Se i qanat sono i fili che intessono e collegano il mondo civile, i giardini irrigui, nella civiltà Iranica, simboleggiano l’ordine nel caos. Le ultime decadi di ricerca hanno rivelato estese reti di canali e condotte artificiali, sia a Pasargade, sede della corte di Ciro costruita da artigiani di Lidia e della costa ionica, sia a Persepoli, cittadella cerimoniale di corte dei sovrani successivi. Oltre a permettere l’agricoltura alla periferia dei complessi palaziali, gli impianti idraulici, difficili 90 a r c h e o
Nella letteratura avestica, traspaiono due mondi distinti: quello degli dèi e dei demoni («il mondo del pensiero») e quello della realtà materiale, «che ha le ossa», cioè quello delle creature viventi. Oltre ad Ahura Mazda, si veneravano varie divinità astrali, come Mitra (la stella del mattino), Anahita (la Via Lattea) e Tishtrya (Sirio, stella guardiana nemica della siccità e garante delle piogge), Apam Napat (divinità del fuoco immerso nelle acque celesti, parente lontano del Nettuno dei Romani). Tra i demoni al servizio di Ahriman troviamo Wrath («quello con la mazza insanguinata»), personificazione dell’oscurità della notte, e Druj, la Menzogna. Altre divinità di varia origine sono inoltre citate dai testi cuneiformi trovati a Persepoli. Dario e Serse sono i primi sovrani achemenidi ad avere lasciato iscrizioni certamente
da costruire e ancor piú da mantenere in funzione, davano vita a giardini in fiore, materializzando il ruolo ideologico dei sovrani come prerogativa insostituibile dell’ordine cosmico. Intorno a giardini e canali, enormi terrazze artificiali in pietra squadrata sollevavano le residenze reali ben oltre le teste e i cuori della gente comune.
un’atmosfera senza tempo In questa luce – atemporale, sovrumana e cosmica, emessa dal disco alato della gloria reale e pervasa del favore divino – le figure dei re compaiono sulle pareti di Susa, Persepoli e Naqsh-i-Rustam, loro luogo di sepoltura presso Persepoli. Qui si stagliano, scavate nella roccia, inaccessibili da terra, le enormi facciate a croce delle camere funerarie di Dario I, Serse, Artaserse e Dario II: la porta del sepolcro è sormontata da rilievi nei quali tutti i popoli sottomessi, in due piani di sostegni umani, reggono il trono del Gran Re. Sopra, il sovrano sta davanti a un altare ed è protetto dal disco alato di Ahura Mazda.
Nella pagina accanto: Persepoli. Foto e litografia colorata di un rilievo raffigurante il re Dario I accompagnato da due attendenti e protetto da un parasole. La scena è sormontata da un’immagine del dio Ahura Mazda.
autografe: entrambi citano la benevolenza di Ahura Mazda «il piú grande degli dèi», a riprova della profonda penetrazione dell’ispirazione zoroastriana nella corte reale: «Il re Dario annuncia: Ahura Mazda è mio, e io sono di Ahura Mazda. Io ho sacrificato a Ahura Mazda. Possa Ahura Mazda recarmi il suo sostegno!». Anche se le fonti a disposizione sono parziali e a volte ambigue, come ha scritto l’iranista norvegese Prods Oktor Skiærvø, «le somiglianze tra la religione achemenide e lo zoroastrismo sono tanto numerose e fondamentali da farci concludere che i re achemenidi, almeno da Dario in poi, erano zoroastriani».
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speciale • achemenidi
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A sinistra: Naqsh-i-Rustam. Un’immagine ravvicinata della tomba di Artaserse I. Il monumento presenta una facciata a croce, con sezione centrale animata da quattro semicolonne in altorilievo, che simulano un portico. La parte superiore è ornata da rilievi raffiguranti i popoli sottomessi che reggono il trono del sovrano.
Nell’arte di palazzo, il re, sempre nelle ufficiali vesti di corte, siede ieratico e immobile sul trono, affiancato dal principe, da attendenti con parasoli, vasi e scacciamosche, e guardie di palazzo, a volte con armi. Nel complesso di bassorilievi piú celebre, quello dell’Apadana di Persepoli, iniziata da Dario e continuata da Serse, gli emissari di ventitrè nazioni asiatiche, con doni e animali, incedono in silenzio, in file ordinate, quasi fossero operose formiche: nel mondo assoluto di Persepoli, non sono contemplati nemici, prigionieri o conflitti. La repressione del male e delle forze della dissoluzione è astratta e implicita nelle immagini dei poderosi leoni che abbattono tori, alla base delle scalinate. Ogni messo, ogni popolo reca vesti, doni e splendide bestie, ben riconoscibili, della propria nazione, disegnando una dinamica, fluida geografia umana di appartenenza, piú ancora che di sottomissione, al trono del Gran Re. Si tratta forse della rappresentazione in pietra del
della pioggia da cieli ultraterreni – a ribadire il simbolismo cosmico di cui sono intrise le residenze regali. Della storia, come delle carni piú comuni, non si butta via mai nulla; la si può sempre facilmente interpretare e ri-scrivere a proprio uso e consumo. Dopo il saccheggio di Persepoli e delle residenze dell’aristocrazia di corte, avvenuto nella primavera del 330 a.C., alcuni dei principali narratori dell’impresa macedone in Asia raccontarono versioni non sempre esattamente coincidenti di come e perché il complesso palatino di Dario e Serse fu dato alle fiamme e abbandonato alla rovina. Col passare dei secoli, altri vi inserirono ricostruzioni drammatizzate, dialoghi posticci e protagonisti passionali, riflettendo cosí motivazioni, preoccupazioni e fantasie di tempi e congiunture storiche che ormai ben poco avevano a che fare con l’animo e i progetti del figlio di Filippo. Certo è che Alessandro non avrebbe mai potuto vivere a
Ciro e Dario consideravano se stessi come capi predestinati e misericordiosi operatori d’ordine. Fondarono un impero che, trasmesso a Parti e Sasanidi, durò per un millennio. Ebbero l’ambizione di realizzare il destino di ogni popolo sotto lo scettro di un unico «Grande Re», superiore a tutti gli altri Frawardigan, il festival dell’inizio del Nuovo Anno nella ricorrenza dell’equinozio di primavera, che si teneva, appunto a Persepoli. Nel ricevere i sudditi, il sovrano è schermato da fumanti incensieri; chi gli si avvicina deve anche coprirsi la bocca, per non contaminare la purezza del re con l’alito. A volte, il sovrano figura a fianco di un altare, o combatte con fiere o creature fantastiche – simboli del caos –, esibendo arco e frecce.Tipiche dell’arte di corte achemenide – soprattutto nei sigilli – sono scene di convulse lotte tra esseri umani, fiere e creature fantastiche. È probabile che nei rilievi di Persepoli le effigi a rilievo dei sovrani recassero corone e ornamenti in metalli preziosi, non piú conservate. Fiori, rosette e palme da dattero si trasformano in disegni quasi congelati, e tanto piú impressionanti, nella loro assoluta stilizzazione. Nelle sale maggiori, dove alti soffitti custodiscono ombre perenni, una selva di enormi colonne sostiene grandi capitelli a forma di tori e grifoni – creature celesti, probabilmente legate alla funzione vivificatrice
Persepoli, che, a dire dei testimoni storici, odiava profondamente. Probabilmente Persepoli e le altre costruzioni, residenziali e funebri, della casa reale persiana erano state saccheggiate e distrutte proprio per ciò che rappresentavano: materializzazioni estreme di un progetto politico e umano assolutista, che non aveva piú alcuna ragione d’essere. L’«enorme incendio di Persepoli», come lo chiamò Mortimer Wheeler, in realtà, già adombrava il destino, prossimo e ineluttabile, dell’immenso ed effimero potentato inventato da Alessandro: l’immediata dissoluzione in nuovi, bellicosi regni regionali, intrisi della globalizzata cultura dell’ellenismo. Anche se per Wheeler «il periodo dei grandi imperi assiro e persiano era sul finire, e non a caso le processioni immobili e tristi di soldati e questionanti sulle gradinate del palazzo avevano in sè una sorte di allegoria della morte», la caduta di Persepoli fu solo un episodio interno a un travolgente processo storico che, attraverso nuove fasi di centralizza(segue a p. 103) a r c h e o 93
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tutto cominciò con il re «dall’animo consapevole»... Dal 2000-1800 a.C I Persiani e i Medi sono tra i popoli alla prima metà di lingua indoeuropea che si del I millennio a.C. diffondono in Asia sud-occidentale; occupano vaste regioni dell’altopiano iranico, organizzandosi in domini tribali e potentati autonomi. 700 a.C. circa Regno di Achemene (Hakhiamanis, «dall’animo consapevole») in una terra chiamata Parshumash, forse sulla sponda del lago di Urmia. La storicità della sua figura non è accertata.
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555-530 a.C. Impero di Ciro II o il Grande (Kurush, ossia «Il pastore»), l’Achemenide (discendente di Achemene), principe di Anshan, governatore delle province di Parsumash e Parsa (l’odierno Fars, Iran). Ciro sconfigge Astiage, re dei Medi (584-555 a.C.), conquista la Persia e diviene «Re dei re» intorno al 550 a.C. 561-547 a.C. Regno di Creso, ultimo re di Lidia, Nel 547 Ciro sconfigge i Medi, conquista la Lidia e fa del re Creso un suo alleato e consigliere. Seguendo l’ingannevole interpretazione di un responso oracolare di Delfi, Creso, alleato con Sparta, Babilonia e l’Egitto attacca il dominio persiano di Cappadocia, ma viene sconfitto. 546-540 a.C. Le città greche della costa ionica cadono sotto il dominio persiano. 538 a.C. Presa di Babilonia e liberazione degli Ebrei ivi esiliati, scortati in sicurezza in patria. Nel Canone della Bibbia Ebraica (Tanakh), Ciro è chiamato «Messia». Dicembre, 530 a.C. Morte di Ciro in battaglia contro gli arcieri massageti della regina Tomiri, nelle pianure dell’attuale Turkmenistan meridionale. L’impero si estende dalle pendici del Caucaso alla Valle dell’Indo. 530-522 a.C. Regno di Cambise II (Kambujia, forse «Il re che regna a suo piacere»), figlio di Ciro il Grande. 526 a.C. Probabilmente Cambise fa uccidere il fratello Bardiya («l’Elevato»), nome traslitterato dai Greci come Smerdis, temendo di esserne spodestato. La sua morte viene tenuta segreta. 525 a.C. Cambise sconfigge Psammetico III e completa la conquista dell’Egitto fino alla Nubia; fallisce tuttavia la conquista dell’oasi di Siwa e gli attacchi sulla frontiera etiopica. Viene ricordato da Erodoto come un despota crudele e squilibrato, protagonista di atti sacrileghi.
Qui sopra: cilindro iscritto in caratteri cuneiformi nel quale Ciro il Grande celebra il carattere pacifico della conquista di Babilonia, dalle fondazioni dell’Esagila (il tempio di Marduk) di Babilonia. 539-530 a.C. Londra, British Museum. Nella pagina accanto: rilievo di una porta del palazzo meridionale di Ciro il Grande a Pasargade, raffigurante il dio Ahura Mazda nella forma di genio quadri-alato, coronato da tre soli.
522 a.C. Cambise muore nel ritorno verso Susa; l’usurpatore Gautama, un Mago, proclama di essere Bardiya e legittimo erede al trono. Le province orientali dell’impero cadono nel caos. 522 a.C., settembre Dario figlio di Istaspe, ufficiale dei corpi scelti imperiali, uccide Gautama in Media e seda la rivolta nel 519 a.C. 522-486 a.C. Regno di Dario I (Daraiawaush, «colui che possiede il bene»). Spostamento della capitale
imperiale da Pasargade a Persepoli. Riorganizzazione dell’impero in 20 satrapie, rifome fiscali e dell’esercito; esplorazioni navali nell’Oceano Indiano, e forte impulso al commercio. Ulteriori conquiste in Asia centrale, come sul fronte occidentale, nel Ponto, in Armenia e lungo il Caucaso. Nel 514 a.C. l’esercito di Dario attraversa il Bosforo e sottomette la Tracia. si profila il grande scontro con l’Occidente greco.
L’incontro tra Cambise II e Psammetico III, faraone sconfitto dal sovrano achemenide nel 525 a.C. in un olio su tela di Adrien Guignet. XIX sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Nella pagina accanto: Persepoli, particolare di un rilievo che orna una delle pareti del Tesoro, raffigurante il sovrano achemenide Dario I (522-486 a.C.) seduto in trono. 515 a.C. circa A destra: miniatura raffigurante Dario III e i suoi dignitari, da un codice membranaceo del Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, copiato dal padre armeno Nersès. XIV sec. Venezia, Isola di San Lazzaro degli Armeni, Biblioteca del Monastero Mechitarista di S. Lazzaro degli Armeni.
499-493 a.C.
ivolta delle città asiatiche R della costa ionica contro i propri tiranni, vassalli di Dario. L’appoggio di Atene, Eretria e di altre potenze greche alla rivolta causa l’intervento persiano in terra greca. 492-490 a.C. Falliscono le prime spedizioni persiane in Grecia, quando la flotta è distrutta da una tempesta al Monte Athos, e l’esercito penetrato in Attica è battuto a Maratona. 486 a.C. I preparativi di Dario per una terza spedizione sono interrotti da una rivolta in Egitto. Morte di Dario. 485-465 a.C. Regno di Serse (Xayarsha, «colui che regna sugli eroi»), figlio di Dario. 480-479 a.C. Fallimento della spedizione greca di Serse, le cui armate incontrano forti resistenze e, a piú riprese, gravi rovesci. Rinuncia all’espansione sul fronte europeo. 465 a.C. In un complesso gioco di intrighi, Serse viene ucciso dal comandante della guardia reale. 465-425 a.C. Regno di Artaserse I (Artakshassa, «dal regno veritiero»). Mantenimento dello status quo, e repressione di gravi rivolte in Egitto. In questo arco di tempo si colloca il probabile viaggio di Erodoto nella terra del Nilo. 449 (?) a.C. Pace di Callia, importante trattato di non aggressione tra Greci e Persiani. 425-424 a.C. Periodo di grave instabilità dinastica causata dai conflitti tra i figli di Artaserse I.
424-404 a.C. 405-358 a.C.
358 a.C.-338 a.C.
338-330 a.C.
egno di Dario II. Nuovo stato di R ostilità con le potenze greche. Lungo regno di Artaserse II Mnemone. Nel 404 l’Egitto si ribella e riacquista una parziale indipendenza dai Persiani. Il fronte occidentale dell’impero si rafforza per le divisioni interne alle città greche. Regno di Artaserse III, descritto dalle fonti come despota sanguinario e spietato. Il suo regno coincide con la repressione di continue rivolte e campagne contro l’Egitto. Il re fu contemporaneo di Filippo II di Macedonia (sul trono dal 359 al 336 a.C.). Salito al trono dopo due anni di conflitti, Dario III fu l’ultimo re della dinastia achemenide. Incalzato da Alessandro, morí in Battriana (Afghanistan settentrionale) nel 330 a.C., sette anni prima del suo avversario.
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Ai margini dei deserti, i Persiani costruirono palazzi e giardini meravigliosi. Ebbero con i Greci due secoli di scambi, senza tuttavia esserne profondamente influenzati. La reciproca conoscenza non evitò un conflitto epocale, che stravolse le sorti del mondo intero
PARADISI PIETRIFICATI
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Mar Caspio
Turkmenistan
Teheran
IRAN Pasargade
Iraq Kuwait Arabia Saudita
Afghanistan
«A Persepoli, i lavori furono inaugurati da Dario negli anni successivi al 520 a.C. e furono continuati da Serse e Artaserse I, fino a circa il 460 a.C. (...) A nord si aprivano due porte che davano su due atri ricchi di colonne; a sud sorgevano gli edifici residenziali e una vasta tesoreria, alla quale si accedeva per mezzo di monumentali gradinate, ornate da ricchi rilievi. Il palazzo era degno di un impero al suo apogeo, un lavoro di alta originalità, progettato ed eseguito con sicura maestria. L’atrio occidentale misurava circa 1900 metri quadrati (...) a ogni angolo sorgeva una torretta massiccia, ed esistono prove che una parte dell’esterno di queste torri portasse iscrizioni in ceramica smaltata, bianca e azzurra. Le porte erano guarnite di piastre ornamentali in bronzo, da rosoni, da figure di grifoni con zoccoli coperti d’oro (...) Serse e il suo successore poi innalzarono un atrio ancor piú vasto, che misurava all’interno piú di 2000 metri quadrati, con torrette e sale da guardia ai lati del portico
Persepoli
Golfo Persico
d’accesso. Il soffitto poggiava nientemeno che su cento colonne. Gli atri erano simili a rifugi pietrificati, come se in ognuno di essi fosse stato tramutato in pietra un paradiso persiano. La sensazione dell’intera costruzione è statica, cosí come lo è quella delle lunghe processioni che
si snodano, con soldati e offerenti, lungo le gradinate». Cosí scriveva, nel 1968, Mortimer Wheeler (1890-1976), l’ultimo grande interprete dell’archeologia coloniale in Flames over Persepolis (tradotto e pubblicato anche in Italia con il titolo L’incendio di Persepoli). Wheeler intuí perfettamente
l’intenzionale fissità del progetto architettonico e decorativo di Persepoli, una clamorosa affermazione assolutistica dell’immutabile centralità del potere achemenide, proprio mentre, dopo Dario, questo potere iniziava lentamente a flettere e a disgregarsi.
Dietro alla fascinazione del grande archeologo inglese per la caduta dell’impero, non è difficile intuire la sua fascinazione per la rovinosa caduta di un altro impero universale, della quale era stato personale e amareggiato testimone: quello del Commonwealth britannico.
Veduta di Persepoli.Al centro della foto, si riconoscono i resti della sala delle Cento Colonne. Voluta da Serse, è il piú grande edificio dell’intero complesso palaziale.
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A sinistra: Persepoli. Una delle gradinate d’accesso al palazzo di Dario I. Nei rilievi, i signori di 23 delle 28 nazioni comprese nell’impero portano doni e tributi al sovrano. Qui sotto: Persepoli. Ricostruzione del portico settentrionale (Tripylon) del palazzo di Dario I. In basso: ricostruzione della città di Persepoli, con i suoi monumenti piú importanti.
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i tesori di una città 1. Porta delle Nazioni; 2. Fortificazione nord; 3. Apadana; 4. Palazzo di Dario; 5. Palazzo H; 6. Palazzo di Serse; 7. Palazzo G; 8. Tripylon; 9. Harem; 10. Tesoro; 11. Sala delle 100 colonne; 12. Sala delle 32 colonne; 13. Porta non finita; 14. Piazza d’Armi; 15. Tomba di Artaserse III.
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TUTTI I COLORI DEL MONDO «(Il cortile del palazzo) era pieno di addobbi bianchi, verdi e blu, appesi con finissime corde di lino, e anelli color argento e porpora, tra colonne marmoree; i letti erano d’oro e d’argento, su un pavimento bianco e blu, e di marmo bianco e nero». Cosí il Libro di Ester (1:16), nella Bibbia, descrive l’ambiente di una festa organizzata dal re persiano a Susa. Agli arredi e alle vesti piú sontuose, dobbiamo aggiungere le luci dell’oro e dell’argento dei vasi da banchetto, il blu dei pigmenti artificiali della faïence applicata su gioielli e mobili, le venature contrastanti delle pietre semipreziose importate dagli angoli piú remoti dell’impero. Negli oggetti preziosi scelti per esprimere il lusso delle corti achemenidi, i materiali artificiali inventati dall’uomo si accostano liberamente alle piú preziose creazioni della nautra. Anche se siamo abituati a vedere le sculture di Persepoli come fatte di nera pietra, in origine – proprio come nell’arte classica – l’architettura brulicava di materiali colorati, e fregi e sculture erano dipinte a colori vivaci, che dovevano essere costantemente rinnovati da squadre di pittori. Vasetti con resti di pigmenti dai vivaci colori sono stati trovati dagli archeologi davanti alle facciate dell’Apadana, il piú importante edificio di Persepoli; forse frettolosamente abbandonati nel corso di un antico restauro, forse depositati dagli artigiani stessi in segno di offerta. Tutti i colori originari dei bassorilievi reali rivivono nell’eccezionale fregio della guardia reale, fatto con mattoni invetriati, trovato dagli archeologi francesi nell’Apadana di Susa; da poco – eccezionale scoperta italiana, a opera di Pierfrancesco Callieri – sono emersi, proprio a Persepoli, i resti di una costruzione imponente, le cui parete erano ugualmente rivestite da mattoni policromi invetriati. Da grandi crolli, ancora in corso di scavo, emergono parti di figure di leoni e altre creature, elementi decorativi vegetali e i primi componenti di una o piú iscrizioni monumentali in caratteri cuneiformi, nei quali, al momento, si legge un’unica parola: «Re». Il nuovo monumento di Persepoli sembra replicare, per la tecnica e le immagini, la famosa Porta di Ishtar di Babilonia, e deve certamente risalire a tempi di poco successivi alla conquista di questa città a opera di Ciro (538 a.C.). 102 a r c h e o
In alto: Roma, Villa della Farnesina. Le nozze di Alessandro il Macedone con la principessa battriana Rossane in un affresco del Sodoma. 1519. Nella pagina accanto: decorazioni in mattoni invetriati policromi dal palazzo reale di Susa: sfingi alate con testa umana sormontate dal dio Ahura Mazda e un arciere. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
zione e devoluzione, avrebbe portato i Persiani – con Parti e Sasanidi – a governare l’intera Asia Media per un altro millennio. Il mondo continua a cambiare, e non lo fa in modo pacifico; e la storia – soprattutto quella dei sentimenti popolari – continua a essere scritta e riscritta in modo interessato e fazioso. Nel 2007, il film 300, di Zack Snyder e Frank Miller, descrisse il Gran Re dei Persiani come una specie di mostro obeso e perverso, e i suoi soldati come tristi figuri senza volto, coperti di stracci neri e impegnati a cadere a migliaia, come mosche, sotto le «virili» spade spartane. Il filmato, lungi dal descrivere fedelmente i Persiani, parlava evidentemente, e con una profonda ipocrisia, della paura dell’Occidente per minacce terroristiche che con l’antico Iran non avevano nulla a che fare. Da un certo punto di vista, il traboccare delle formidabili flotte e degli eserciti del Gran Re oltre l’Ellesponto, e i collassi che ne seguirono, furono una scelta inevitabile. L’impero di Ciro e Dario era stato condannato dalla sua stessa vocazione universale a dilatarsi oltre le «naturali» frontiere d’Asia, sino a perdere irri-
mediabilmente la sua capacità di coordinarsi efficacemente sia dal punto di vista politico, sia da quello economico e militare.
un matrimonio epocale A noi piace ricordare il primo impero universale sotto una luce che si distacca tanto dall’«orologeria sociale» dei disciplinati rilievi della corte achemenide, quanto dalle facili falsità cinematografiche odierne: un ricco pluriverso umano in cui si parlavano centinaia di lingue diverse, e se ne imparavano di comuni; dove un indiano poteva imparare a scolpire, dipingere e cantare da un fenicio del Levante, da un greco d’Asia Minore o da un artigiano giunto dalle pianure della Scizia; dove i filosofi, i geografi e i medici dell’Ellade potevano lambiccarsi nello sforzo di comprendere il sapere dei «gimnosofisti», gli asceti nudi della valle del Gange; dove la parola «barbaro» era sempre piú difficile da usare, e dove il piú grande conquistatore del mondo antico avrebbe sposato la piú incantevole principessa battriana, in un matrimonio epocale che mai dovremmo dimenticare. a r c h e o 103
il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda
quando gli eroi divennero gemelli... una ipotesi rivoluzionaria attribuisce una nuova «identità» ai celebri bronzi. E spiegherebbe anche il luogo del loro ritrovamento...
I
Bronzi di Riace tornano periodicamente alla ribalta: ora per le perplessità circa i possibili spostamenti dalla sede che finalmente li accoglie nel Museo Nazionale di Reggio Calabria (vedi «Archeo» n. 358, dicembre 2014), ora per le polemiche suscitate da episodi curiosi, come quello che li ha visti trasformati in mannequin, per una performance artistico-pubblicitaria, le cui responsabilità – come è tipico di ogni «commedia all’italiana» – sono state rimpallate di qua e di là. Ma non di questi episodi transeunti parliamo oggi, quanto piuttosto della storia millenaria di queste statue, cominciata ben prima di quel 16 agosto 1972, quando un giovane subacqueo, Stefano Mariottini, le localizzò, ancora in ottime condizioni, a 300 m dalle coste di Riace, sul mare Ionio, a poca distanza l’una dall’altra, ad appena 8 m di profondità. Si tratta di due statue di dimensioni leggermente superiori al vero (alte 205 e 198 cm), intorno alle quali la critica storica e artistica ha giustamente concentrato in questi quarant’anni la propria attenzione,
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Sulle due pagine: i Bronzi di Riace. 450 a.C. circa. Reggio Calabria, Museo Nazionale. Secondo l’ipotesi di Paolo Moreno il Bronzo A (in questa pagina), sarebbe l’eroe dell’Etolia, Tideo, figlio di Ares, uno dei partecipanti all’impresa dei Sette contro Tebe.
andando alla ricerca dei nomi dei personaggi raffigurati, di quello dell’artista (o degli artisti) a cui attribuirne la creazione, e del luogo della loro originaria provenienza.
restauri e primi interrogativi Una infinità di studi, condotti dopo il primo intervento sulle statue eseguito presso il Centro di Restauro della Soprintendenza Archeologica della Toscana, ne ha confermato l’appartenenza al momento di massima fioritura della bronzistica greca, ma ha dato risposte diverse agli interrogativi sopra elencati. La maggior parte degli studiosi propende per un’origine dalla Grecia stessa (si sono fatti i nomi di Atene, Olimpia e Delfi), ma non manca chi ha cercato di attribuirli alla Magna Grecia. Si sono distinte stilisticamente le due statue, attribuendole a età leggermente diverse e ad artisti differenti, operanti nei decenni a cavallo della metà del V secolo a.C.
(si sono fatti i nomi di Pitagora di Reggio, Mirone, Onatas, Fidia, Alcamenes…). Si sono riconosciuti nei due personaggi ora questa ora quella personalità divina o mitica (senza escludere che si trattasse di comandanti militari o di atleti vincitori di qualche gara…). Insomma, come è normale in casi come questo, le ipotesi e le argomentazioni sono state tante, ma senza che si sia giunti a un giudizio unanime. Nel 1995 i due bronzi furono
sottoposti a un secondo restauro, che ha permesso di approfondire le analisi scientifiche sulla materia e le tecnologie di produzione.
i sette a tebe Ne è scaturita la convinzione (sostenuta da Paolo Moreno; vedi «Archeo» n. 174, agosto 1999), che le statue riproducano le fattezze di personaggi mitologici appartenenti a uno stesso gruppo statuario, e che, in particolare, raffigurino l’una, il cosidetto Bronzo A, l’eroe dell’Etolia Tideo, figlio di Ares, l’altra, il Bronzo B, Anfiarao, il guerriero che profetizzò la propria morte sotto le mura di Tebe. Entrambi furono infatti protagonisti della spedizione contro quella città a opera di Argo, nella cui agorà Pausania, nel II secolo d.C., ancora descrive un monumento che raffigurava appunto i Sette contro Tebe, e cioè gli eroi che fallirono l’impresa, e i loro Epigoni, che invece la portarono a termine con successo.
La statua nota come Bronzo B, che, sempre secondo Paolo Moreno, sarebbe Anfiarao, il guerriero che profetizzò la propria morte sotto le mura di Tebe.
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Va detto, però, che non altrettanto impegno è stato messo nel cercare di spiegare uno degli aspetti meno chiari della scoperta. E cioè: come mai le due statue si trovavano nel fondale di quel tratto di mare? Della nave che li avrebbe trasportati non solo non si conosce la provenienza e la destinazione, ma non è stata trovata alcuna traccia: difficile dunque che si sia trattato di
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un naufragio. Si è allora pensato che i due pesanti bronzi siano stati gettati fuori bordo da una nave in difficoltà per alleggerire il suo carico, che in tal caso sarebbe stato costituito (non sarebbe il primo caso) di opere d’arte, di veri e propri pezzi d’antiquariato divelti dalle loro sedi originarie e trasportati dalla Grecia all’Italia, sede dei nuovi ricchi padroni del
Mediterraneo, nel periodo di massima diffusione del collezionismo antico, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Al di là del fatto che la posizione delle due statue non sembra compatibile con una tale ricostruzione degli eventi, ci si domanda anche come mai un carico cosí prezioso, gettato a mare non lontano dalla riva, non sia stato
Nella pagina accanto: 16 agosto 1972: Stefano Mariottini sorride accanto alla statua B di Riace, dopo il recupero. In basso: Riace. La processione dei SS. Cosma e Damiano, che si svolge ogni seconda domenica di maggio. poi recuperato. Le varie indagini condotte sui bronzi hanno comunque dimostrato che parte delle braccia della statua B presentavano tracce di una fusione diversa dal resto della statua, sicuramente successiva, tanto da far presumere che gli arti originali fossero stati sostituiti, magari a seguito di qualche danneggiamento nel luogo ove le statue erano esposte, chissà dove e chissà quando. In mancanza di altri indizi, questa osservazione permette però di interrogarsi anche sulla vita di quei due capolavori, e non solo sull’epoca e sul luogo in cui videro la luce. È quello che ha fatto di recente Giuseppe Roma, noto studioso di antichità cristiane presso l’Università della Calabria, al quale dobbiamo una ipotesi interpretativa dei Bronzi che potremmo definire «rivoluzionaria». Ribaltando la
prospettiva sin qui seguita (dal presunto naufragio alla creazione dei bronzi, quindi a ritroso nel tempo), Roma si è interrogato su ciò che è accaduto dal momento in cui i Bronzi sono finiti in mare sino a oggi. Entrano quindi in campo il folklore locale e le tradizioni religiose, che vogliono che da tempo immemorabile si svolga a Riace, ancora oggi nella seconda domenica di maggio, una processione, che parte dal santuario dei SS.Cosma e Damiano in direzione della riva del mare.
la scogliera dei santi Qui il percorso continua su di una barca, che porta le reliquie dei Santi Medici verso un punto chiamato «la scogliera dei santi Cosma e Damiano», proprio là dove nel 1972 furono rivenuti i due bronzi. Una recente ricerca sulle variazioni della linea di costa in questo tratto di mare ha dimostrato che in età antica la costa era avanzata, rispetto a quella attuale, di circa 500 m, e che anche in età medievale doveva essere ben al di là del punto in cui vennero rinvenuti i bronzi. Ecco dunque che sorge l’ipotesi,
tutt’altro che fragile, secondo la quale le due statue non caddero in mare, ma furono sepolte volontariamente in terra in un luogo che poi sarebbe stato guadagnato dall’avanzata delle acque marine. Non sarebbe questo il primo caso di seppellimento di antiche statue di divinità. Colpite dalle dure persecuzioni inferte dal cristianesimo trionfante alle popolazioni pagane tra il V e il VI secolo, molte comunità cercarono di salvare le immagini dei loro culti riponendole pietosamente nel sottosuolo. La tradizione religiosa cristiana, che ritorna in mare ancor oggi per immergere le reliquie dei santi Cosma e Damiano in un luogo che conserva evidentemente una sua antichissima sacralità, crea dunque un collegamento affascinante tra il culto dei santi guaritori e il luogo in cui quelle antiche statue per secoli hanno «riposato». Poiché è ben noto che il culto proprio di quei santi guaritori sostituí diffusamente quello dei Dioscuri, ecco che sorge spontanea l’ipotesi che i due Bronzi raffigurino effettivamente Castore e Polluce. Tra Tarda Antichità e Alto Medioevo il ricordo di quelle statue, protette dall’ultima pietà del paganesimo morente, fu di fatto acquisito dai fedeli della nuova religione, che lo inserirono nel rito dei loro culti giunto intatto fino a noi. I Bronzi di Riace rappresentano dunque i Dioscuri? O è possibile supporre che quelle statue greche, sottoposte a restauri già nell’antichità, siano state un giorno trasformate in quelle dei due divini gemelli? Non risolveremo qui il problema. Ma l’intuizione di Giuseppe Roma potrebbe aver colto nel segno, dimostrando ancora una volta che la storia è un poliedro dalle mille facce e che un solo paio d’occhiali quasi mai ci permette di fare luce su quanto è effettivamente accaduto nel corso del tempo.
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scavare il medioevo Andrea Augenti
dalla scozia con furore rinvenute in un’isola scozzese, le pedine deGli «scacchi di lewis» nascondono un mistero inquietante: l’esplosione della furia dei cosiddetti «berserkir», gli uomini con la pelle d’orso
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apolavoro del regista svedese Ingmar Bergman (1918-2007), Il settimo sigillo (1957) è un film di ambientazione medievale, memorabile anche per molte inquadrature. Ce n’è una, in particolare, rimasta indimenticabile: la partita a scacchi tra il protagonista, il cavaliere Antonius Block, e la Morte. Sono immagini di grande fascino, nonché filologicamente ineccepibili, poiché gli scacchi erano un gioco molto diffuso e praticato nel Medioevo. Ne sono prova le molte immagini dell’epoca – pitture, mosaici, sculture –, ma anche le pedine di
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vario tipo emerse dagli scavi archeologici. Fra tutte, la scoperta piú famosa è quella degli «Scacchi di Lewis». Le circostanze del rinvenimento sono avvolte in una nebbia piuttosto fitta.
una scoperta fortuita Gli scacchi sarebbero venuti alla luce casualmente nel 1831, in una località chiamata Uig Bay, nell’isola di Lewis (facente parte dell’arcipelago delle Ebridi, al largo delle coste scozzesi), per mano di un contadino, intento a scavare il terreno sabbioso di una spiaggia. Poi inizia una intricatissima vicenda
di compravendite e dispersione dei pezzi, tra musei, case d’aste e collezionisti, al punto che non è chiaro quanti fossero in origine. Il British Museum ne acquistò la maggior parte molto presto, mentre 11 pezzi finirono nel Museo Nazionale di Edimburgo. Oggi se ne contano in tutto 78, di grandezze Alcuni dei pezzi che compongono gli scacchi di Lewis, rinvenuti nel 1831 nell’omonima isola delle Ebridi (Scozia). Seconda metà del XII sec. Londra, British Museum. Ricavati da zanne di tricheco, furono forse realizzati a Trondheim, in Norvegia.
Alcune delle pedine appartenenti al set degli scacchi di Lewis sagomate in forma di berserkir, i guerrieri «dalla pelle d’orso», che sono stati rappresentati nell’atto di mordere i propri scudi. Seconda metà del XII sec. Londra, British Museum. diverse, appartenenti perlomeno a quattro diverse scacchiere. Gli scacchi di Lewis risalgono molto probabilmente al XII secolo e furono scolpiti usando zanne di tricheco. Questo, assieme ad altri, è un indizio molto forte del fatto che potrebbero provenire dalla Scandinavia, e in particolare dalla Norvegia. Alcuni dettagli suggeriscono che potrebbero essere stati fabbricati a Trondheim: lí esisteva una industria molto fiorente della lavorazione di questo materiale; inoltre, sappiamo che i mercanti locali intrattenevano rapporti commerciali con l’Irlanda (specialmente con l’importante porto di Dublino), e le Ebridi si trovano proprio su quella rotta.
regine malinconiche... A ogni modo gli scacchi di Lewis sono piccole sculture che ci parlano del microcosmo delle società del Medioevo in Europa settentrionale, e di molti altri aspetti collegati a esse. Prendiamo per esempio i re: tutti seduti sul trono, con una grande spada – nel Medioevo l’emblema del potere per eccellenza – poggiata sulle gambe. Le regine, anch’esse sul trono, guardano in lontananza, e con un gesto quasi perplesso sorreggono il mento con la mano destra, mentre sul loro viso si legge un’espressione malinconica. È difficile interpretare questa rappresentazione, forse un rammarico per la forte subordinazione delle donne al potere maschile? O è l’attesa speranzosa per il ritorno del marito, partito per una guerra lontana? Abbiamo poi i vescovi, che portano
il pastorale e – in alcuni casi – la Bibbia; la loro presenza è un segnale della loro crescente importanza sociale nell’Europa del XII secolo. Quindi ci sono i cavalieri, utilissimi per ricostruire l’armamento dell’epoca: portano lance e i caratteristici scudi allungati e decorati, e spade ed elmi appuntiti, con e senza paranaso. E ancora, i soldati, anch’essi con elmo, spada e scudo. Alcuni, però, sono diversi da tutti gli altri, soprattutto per il gesto che li contraddistingue: con le bocche spalancate, mordono il bordo superiore dello scudo davanti a sé. Di chi si tratta?
...e guerrieri spietati Sono berserkir, figure tipiche dell’area scandinava: guerrieri vestiti di pelli d’orso (berserkr, singolare di berserkir, sembra derivare dalla radice germanica *ber, orso, e da serkr, che in antico scandinavo ha il significato di «camicia», «veste senza maniche», n.d.r.) che combattono senza alcuna paura, quasi selvaggiamente, in preda a una sorta di trance sciamanica che li rende piú simili
ad animali che a uomini. E, per sfidare e intimorire il nemico, tra le altre cose mordono i loro stessi scudi (ancora oggi, to go berserk, in inglese, significa «andare su tutte le furie»). Infine i pedoni: non si tratta di veri e propri personaggi, ma di elementi simbolici, semplici parallelepipedi decorati solo a volte con motivi geometrici. Ultime ruote del carro della guerra, i fanti, evidentemente, non meritavano una rappresentazione naturalistica. E poi ci sono le preziose decorazioni dei troni, degli scudi, delle vesti… Gli scacchi di Lewis sono oggetti di alto artigianato, che ci raccontano molte cose sul Medioevo, non ultima la disponibilità di tempo libero utile per giocare che avevano solo i livelli piú alti della società. Un gioco per nobili e re, insomma, che, grazie alle sue regole cosí intelligenti, ha trionfato nel tempo, e ancora oggi è uno dei piú praticati al mondo. Con le loro facce un po’ stralunate, involontariamente anche un po’ comiche, gli scacchi di Lewis sono tra i reperti piú noti e popolari del Medioevo.
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
Un incisore distratto? Un medaglione di Apamea al Meandro sintetizza, in una visione inedita, il rapporto speciale che legava la città alle sue sorgenti d’acqua
L
a monetazione d’età imperiale della città frigia di Apamea (oggi Dinar, in Turchia) è ricca di creazione iconografiche inedite e originali. Come si è visto nelle puntate precedenti (vedi «Archeo» nn. 357 e 358, novembre e dicembre 2014), nel corso della dominazione romana le scelte spaziano dall’unicum relativo all’arca di Noè alle vicende di Marsia, che ricorre piú volte e in diverse composizioni celebrative, in quanto è considerato l’essere semidivino dal quale origina il fiume Marsias, presso la cui sorgente sorse Apamea. Le fonti antiche menzionano le acque di cui la città era ricca e che contribuirono al suo sviluppo come centro commerciale di successo. Si tratta, oltre al Meandro, del Marsias e dell’Orgas, affiancati anche da sorgenti termali.
A destra: restituzione grafica del verso di un medaglione di Gordiano III, battuto ad Apamea. 238-244 d.C. Al centro è Artemide Efesia tra due cervi, circondata da quattro divinità fluviali, ciascuna identificata dall’abbreviazione del nome, che rappresentano il sistema idrologico della città: in basso Meandro (a sinistra) e forse Marsia (a destra); in alto la ninfa Therma (a sinistra) e probabilmente Orgas (a destra).
Conclude la nostra rassegna sulla monetazione provinciale d’Apamea un medaglione battuto sotto Gordiano III sul quale campeggia un’ardita e complessa composizione piramidale, con la quale la città celebra se stessa attraverso fiumi, fonti e divinità. Ricordiamo che i medaglioni sono multipli monetali donati dall’imperatore ai suoi piú stretti collaboratori in occasioni speciali e il maggior campo di rappresentazione permetteva di creare immagini complesse e dettagliate di grande impatto. A sinistra: medaglione di Caracalla (198-217 d.C.) battuto ad Apamea in alleanza con Efeso. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, Artemide Efesia, di fronte a Zeus in trono con patera e scettro.
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Nell’esemplare in questione, al centro campeggia Artemide Efesia, la dea signora degli animali, la «Grande Madre» venerata a Efeso in un tempio considerato come una delle sette meraviglie del mondo, e poi in tutto il bacino mediterraneo.
La dea nera Il simulacro della dea efesina aveva le parti del corpo visibili (testa, mani, piedi) in legno scuro trattato con olii che lo rendevano nero, mentre il resto era in marmo, con il tipico costume ricoperto da protuberanze dal molle aspetto, identificate come mammelle o anche come testicoli di tori, entrambi comunque alludenti alla sua caratteristica di protettrice della natura, della fertilità e, benché vergine, dei parti. La sua immagine è frequente nella monetazione provinciale microasiatica e ricorre anche ad Apamea, dove il suo culto è attestato almeno dal VI secolo a.C. La dea, ieratica, appare nelle monete stante e solitaria, oppure con Zeus o, ancora, attorniata da altre figure, come nel medaglione di Gordiano. Qui Artemide tiene due bastoni nodosi simili a lunghi scettri ed è affiancata da due cervi, animali a lei sacri. Le fanno da cornice quattro personificazioni fluviali, che ben rappresentano il ricco sistema idrologico della città. Il Meandro è il fiume principale di Apamea, nel quale confluiscono il Marsias, l’Orgas e l’Obrimas. Importante per la qualità della vita degli antichi erano le terme con le loro sorgenti calde, presenti anche ad Apamea, dove la fonte era sotto la protezione della ninfa dall’esplicito nome di Therma. È interessante notare che nella composizione sono presenti le abbreviazioni dei nomi dei personaggi raffigurati, leggibili da
A sinistra: copia romana in alabastro e bronzo (di restauro) dell’Artemide Efesia. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il busto regge file di mammelle (o testicoli di tori), simbolo di fecondità. destra a sinistra: in alto THER (ma), OR(gas), e in basso MAI(andros) e MARS(ias), lí apposte proprio per facilitarne l’identificazione. Le personificazioni in basso sono quelle principali e quindi rese in forma monumentale secondo le consuete iconografie dei fiumi, mentre quelle superiori sono piú piccole, ma meglio caratterizzate.
zampe caprine e doppio flauto Sia la leggenda della moneta, sia la moderna letteratura numismatica identificano i fiumi tramite il nome, ma un’attenta analisi delle immagini può forse rivelare una svista dell’antico incisore del conio. Il personaggio in alto a destra, denominato Orgas, sembra infatti avere zampe caprine, tiene un bastone da pastore tipico dei satiri (pedum) in una mano e con l’altra porta uno strumento alla bocca in cui, dato il mito, sarebbe facile riconoscere il doppio flauto; infine, poggia su una roccia che ricorda sia l’ambiente silvano in cui si svolsero le vicende di Marsia, sia la grotta dove si riteneva pendessero da un albero le sue spoglie dopo la sfida mortale con Apollo. Gli studi moderni su questa moneta non sembrano cogliere l’incongruenza, anche considerando la maggiore importanza del Marsias rispetto all’Orgas, ma se l’iconografia ha un suo perché, qui sembrerebbe proprio lecito porsi un dubbio, supponendo una confusione nella legenda e un fraintendimento delle immagini basato sull’auctoritas del conio antico. (3 – fine)
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Pierre Carlier
omero e la storia Carocci Editore, Roma, 264 pp. 17,00 euro ISBN 978-88-430-7189-0 www.carocci.it
I poemi omerici sono qui considerati come documenti storici fondamentali da integrare con le altre fonti, per esempio quelle archeologiche o epigrafiche, nel tentativo di una ricomposizione piú ampia del quadro storico-sociale del mondo ellenico. Il libro è diviso in tre parti: nella prima viene raccontata l’evoluzione della civiltà greca, dall’epoca micenea fino all’età arcaica per
Nella seconda parte del volume, Pierre Carlier propone le proprie considerazioni sui diversi modi di interpretare queste opere. Il tratto personale, e forse piú originale, del libro, emerge nei capitoli finali quando l’autore confronta mondo omerico e mondo greco proponendo un approccio di tipo «contestuale». La cornice scenografica degli episodi diventa, di fatto, l’elemento prevalente per la conoscenza sulla società del tempo e solo dopo un’attenta analisi viene confrontata con storia e archeologia. Chiude il saggio un’appendice che ospita l’analisi dei documenti scritti di età micenea. Luna S. Michelangeli Mariangela Galatea Vaglio
Didone, per esempio Nuove storie dal passato Lit Edizioni, Roma, 244 pp. 14,00 euro ISBN 978-88-6776-102-9
inquadrare il contesto storico in cui furono elaborate le opere; segue una parte in cui vengono spiegate l’origine e la diffusione dell’Iliade e dell’Odissea, seguite da un commento breve. 112 a r c h e o
Cosí come i biopic sono spesso in cima alle classifiche dei film piú visti, il racconto delle vicende dei grandi personaggi del passato è ormai da tempo uno dei generi piú frequentati da scrittori e giornalisti e alla folta schiera si unisce ora Mariangela Galatea Vaglio, che ci propone una trentina di profili illustri, spaziando dal mondo degli eroi della mitologia all’età dell’impero romano. Si tratta di biografie in pillole, scritte
con tono brioso (e con qualche ammiccamento di troppo, soprattutto nella titolazione), che conducono il lettore alla scoperta (o riscoperta) delle gesta di uomini e donne che, in piú d’un caso, hanno davvero fatto la storia: nella affollata galleria, infatti, non mancano, tra gli altri, Pericle, Alessandro il Macedone, Giulio Cesare e, non poteva essere altrimenti in tempi di celebrazione, Augusto, il primo imperatore. Stefano Mammini
dall’estero eiszeitjÄger Leben im Paradies. Europa vor 15 000 jahren Nünnerich-Asmus Verlag & Media, Magonza, 350 pp., ill. col. e b/n 29,90 euro ISBN 978-3-943904-80-2 www.na-verlag.de
Pubblicato in occasione dell’omonima esposizione allestita al Landesmuseum di Bonn, il volume, come è ormai d’uso in questi
casi, è molto piú del semplice catalogo e si offre, piuttosto, come un aggiornamento sulle piú recenti acquisizioni riferibili al tema trattato, che è quello della vita al tempo delle comunità di cacciatori raccoglitori del Paleolitico Superiore. Nell’opera, che ha un taglio prevalentemente specialistico, sono dunque confluiti contributi che, di volta in volta, affrontano singoli contesti o piú ampie problematiche legate alla preistoria. Tra i primi,
possiamo ricordare, per esempio, la rivisitazione di una delle piú importanti scoperte compiute in Germania, vale a dire quella dei resti scheletrici attribuiti all’Uomo di Oberkassel (località nei pressi di Bonn); mentre fra i secondi, segnaliamo la disamina di reperti che attestano la diffusione delle pratiche sciamaniche, nonché gli studi archeozoologici che permettono di fissare il momento in cui il cane divenne «miglior amico dell’uomo». S. M.