Archeo n. 361, Marzo 2015

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2015

CADICE

MOCHE

TELESFORO

PITTURA CINA

GUERRIERO DI CAPESTRANO

SPECIALE SAN VINCENZO AL VOLTURNO

€ 5,90

Mens. Anno XXXI n. 361 marzo 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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archeo 361 MARZO

IL GUERRIERO di

CAPESTRANO

la vera identità di una statua misteriosa

SCOPERTE

ECCO IL FIGLIO DI ESCULAPIO

CADICE

I FENICI IN SPAGNA

PRIMA DI COLOMBO

L’ENIGMA DEI MOCHE

www.archeo.it



editoriale

ma non è solo una «brutta barca» Mentre stiamo mandando in stampa questo numero (che segna il trentesimo anno di vita di «Archeo») sta facendo il giro del mondo una notizia che parla di un oggetto dal nome curioso, quasi idiomatico: la fontana della «Barcaccia», che i Francesi traducono con «vilain bateau», gli Inglesi con «ugly boat», la «brutta barca». Di che cosa si tratta e perché tutti ne parlano? La Barcaccia è un capolavoro della scultura barocca, voluta da papa Urbano VIII, il quale, nel 1627, ne affidò la realizzazione a Pietro Bernini e al figlio Gian Lorenzo. Si trova nel centro di Roma, in piazza di Spagna, ai piedi della celeberrima scalinata di Trinità dei Monti. Diverse sono le tradizioni che ne spiegano la forma insolita (del tutto eccezionale per un monumento del genere), simile a quella delle imbarcazioni fluviali che, nell’antica Roma, erano usate per il trasporto di anfore vinarie e derrate. Forse fu proprio il relitto di una simile barca, trasportata sul luogo durante una delle numerose piene del Tevere, a ispirare la scultura. Ma non è per questo, purtroppo, che l’opera è salita alla ribalta internazionale, bensí per un episodio di vandalismo, grave, inconsulto, imprevedibile (?), perpetrato da un gruppo di tifosi ai margini di una partita di calcio, e che, al monumento – appena reduce da un oneroso restauro – ha arrecato danni irreparabili. E noi, perché ne parliamo? Non certo per dar sfogo a retoriche quanto inutili dichiarazioni contro i «nemici della civiltà» o contro «i nuovi barbari». Ma per una constatazione molto semplice: per chi della frequentazione del passato e dei suoi monumenti ha fatto quasi una «ragione di vita», i tempi si fanno difficili. Nelle terre del Vicino Oriente, eserciti interi si stanno abbattendo sulle testimonianze dell’antichità (è di pochi giorni fa la notizia del bombardamento delle mura dell’antica Ninive), con l’intenzione di eliminarne ogni traccia. E un destino non dissimile si prospetta, a giudicare dalle notizie di cronaca, per i Paesi sulla sponda sud del Mediterraneo. Dobbiamo riconoscere che qualcosa, negli ultimi anni, è cambiato, e in peggio. È possibile per noi intervenire, e come? Forse solo rinnovando e intensificando, «religiosamente» e giorno per giorno, il nostro impegno di testimoni. Dichiarando, in controtendenza, la nostra dedizione al patrimonio del passato e al suo straordinario racconto, cercando di erodere terreno e potere agli artefici della distruzione, del degrado dei nostri monumenti, dei nostri centri storici e delle nostre aree archeologiche. Perché, oggi, siamo messi in condizioni di immaginarci anche l’inimmaginabile: cosa saremmo, e come vivremmo, se non fossimo circondati da centinaia e migliaia di «barcacce»? Roma. La Barcaccia, nome con cui è nota la fontana realizzata da Pietro e Gian Lorenzo Bernini in piazza di Spagna, nel 1627.

Andreas M. Steiner


Sommario Editoriale

Ma non è solo una «brutta barca»

storia 3

di Andreas M. Steiner

Attualità notiziario

restauri Che cosa è successo alla... barba di Tutankhamon?

Mistero andino

scoperte 6 6

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di Antonio Aimi

Il dio sfuggente

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di Alessandra La Fragola

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all’ombra del vesuvio Le ultime indagini nella Casa del Marinaio svelano la nuova «identità» della lussuosa residenza pompeiana 12

40 civiltà cinese/9 La pittura

Tutto l’universo in una pennellata

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di Marco Meccarelli

parola d’archeologo L’ormai celebre Uomo di Altamura potrebbe lasciare la grotta di Lamalunga: ma sarebbe davvero la scelta giusta? 14

scavi

Oltre le colonne d’Ercole 30 a cura di Giuseppe M. Della Fina

66 In copertina la statua nota come Guerriero di Capestrano. Secondo quarto del VI sec. a.C. Chieti, Museo Archeologico Nazionale.

Anno XXXI, n. 361 - marzo 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Antonio Aimi è professore a contratto di civiltà precolombiane all’Università degli Studi di Milano. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Alessandra La Fragola è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Alessandro Luciano, già cultore della materia in archeologia medievale presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, è in forza al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Federico Marazzi è professore associato di archeologia cristiana e medievale presso l’Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Doc. red.: copertina e pp. 6-7, 16, 60 (basso), 76, 78/79, 81 (centro e destra), 82, 106-107 – Shutterstock: p. 3 – Cortesia Inrap/foto Hervé Paitier: p. 8 – Cortesia François De Vleeschouwer: p. 9 – Cortesia Soprintendenza BA Umbria: p. 10 – Cortesia Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma: p. 11 – Cortesia Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza BA Puglia: pp. 14-15 – Cortesia dell’autore: pp. 30, 34 (alto), 57-59, 66-69, 70/71, 74/75, 86 (centro), 90/91,


scavare il medioevo

C’era una volta Tuscolo... 106 di Andrea Augenti

l’ordine rovesciato delle cose

Nel cuore (nascosto) di Siena 108 di Andrea De Pascale

l’altra faccia della medaglia

Il soffio divino

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libri

gli imperdibili

Guerriero di Capestrano

Chi era veramente quel soldato?

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di Francesca Ceci

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di Daniele F. Maras

speciale

Rubriche

San Vincenzo al Volturno

Buone notizie dal monastero

quando l’antica roma... ...fu sul punto di sdoppiarsi

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di Romolo A. Staccioli 91, 92/93, 93-97, 100-101, 110-111 – DeA Picture Library: C. Sappa: p. 31; G. Dagli Orti: p. 64; A. De Gregorio: p. 99 – Cortesia A.M. Sáez-R. Belizón Aragón: cartina alle pp. 30/31 – Cortesia J.-Ma. Gener Basallote-Gesdata, S.L.-OCE.ps/Vitelsa: p. 32 (alto) – Da Gadir-Gades. Nueva perspectiva interdisciplinar, Sevilla 2004: p. 32 (basso) – Cortesia Ayuntamiento de Cádiz/J.-Ma. Gener Basallote: pp. 32/33 – Cortesia E. López Rosendo-Ma. Dolores Rosendo: p. 34 (basso) – Cortesia Dipartimento di Fisica e Chimica dell’Università di Cadice: p. 35 (alto) – Cortesia OCE.ps División de Ocio, Cultura y Entretenimiento/Vitelsa: p. 35 (basso) – Cortessia J.-Ma. Gener Basallote: p. 36 – Cortesia Monumentos Alavista S.L.: p. 37 – Cortesia P. Bueno Serrano: p. 38 – Da Cádiz y Huelva. Puertos fenicios del Atlántico, Madrid 2010: p. 39 – Corbis Images: Nathan Benn: pp. 40/41 – Cortesia MEG, Ginevra: J. Watts/Ministerio de Cultura del Perú, Lima: pp. 41 (alto), 42, 44 (basso), 45 (centro), 49, 51; B. Glauser: pp. 48 (destra), 52-53; S. Bourget/Ministerio de Cultura del Perú, Lima: p. 50 – Antonio Aimi: pp. 43, 44/45, 54-55 – Anatol Dreyer, Linden-Museum, Stoccarda: pp. 46-47 – Ethnologisches Museum, Berlino: p. 48 (sinistra) – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Stéphane Maréchalle: p. 56; Archivio Seat: pp. 84/85, 86 (basso), 87; Bridgeman Images: pp. 102/103; Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA)/Collezione Palazzoli, Firenze: p. 104 – N. Lutzu: disegno a p. 58 – Cortesia Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro: pp. 58/59, 59, 60 (alto), 61, 62 – Alesssandra La Fragola: disegni a p. 61 – Cortesia Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano: pp. 63 (sinistra), 65 – Bridgeman Images: p. 63 (destra); Pictures From History: p. 70 (alto), 71 (basso), 72/73; FuZhai Archive: p. 77 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 75 (basso), 80 (e 81, sinistra), 83; Rue des Archives/RDA: pp. 22/23 – Alessia Frisetti: planimetrie alle pp. 88 (alto), 90 – Luciano Pedicini: p. 90 – Cortesia Archivio Associazione «La Diana»/foto Mauro Agnesoni: pp. 108-109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 42, 47, 58, 85, 86 (da un originale di Alessia Frisetti), 102, 106. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

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di Federico Marazzi e Alessandro Luciano

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Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl Via Pindaro, 17 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o restauri Egitto

giĂş la barba, tutankhamon!

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elle scorse settimane, una notizia ha scosso il mondo della cultura: la maschera di Tutankhamon, tesoro inestimabile, sarebbe stata danneggiata irreparabilmente nel suo luogo di conservazione, al Museo del Cairo. Prima curatori maldestri ne avrebbero spezzato la barba blu e oro, quindi restauratori incapaci l’avrebbero riattaccata utilizzando una colla epossidica non rimovibile. Un tam tam drammatico si è scatenato in ogni parte del mondo, tra pareri increduli e un rincorrersi di aggiornamenti che confermavano il danno irreversibile, annaspando, inutilmente, alla ricerca di un responsabile, ora indicato in un curatore o in un restauratore, ora in qualche operaio che avrebbe distaccato il pezzo durante un intervento di manutenzione alla In questa pagina: due immagini della maschera di Tutankhamon che documentano in maniera eloquente il maldestro intervento sulla barba.

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A sinistra: la facciata dell’edificio in stile neoclassico che, dal 1902, ospita il Museo Egizio del Cairo. In basso: la teca che accoglie la maschera funeraria di Tutankhamon.

teca, o, addirittura, durante una goffa operazione di pulizia. Fonti interne al museo, rimaste anonime per timore di ritorsioni, citate da importanti quotidiani internazionali, supportavano infatti la versione di un danneggiamento accidentale durante la manutenzione ordinaria e di un restauro eseguito in fretta dai restauratori, spinti da non meglio identificati «piani alti» affinché la maschera potesse rimanere in esposizione. Anche l’iniziale silenzio delle autorità del museo, forse colte di sorpresa dal fulmineo propagarsi della notizia, ha favorito il proliferare delle speculazioni. In seguito, in un’intervista ufficiale rilasciata assieme al capo del dipartimento per la conservazione Elham Abdelrahman, il direttore Mahmoud Halwagy ha smentito i fatti, attribuendo la querelle a incomprensioni tra funzionari interni. Seondo Halwagy, la maschera non ha patito incidenti dall’inizio del suo incarico, nell’ottobre del 2014, né la barba ha mai subito alcun distacco

accidentale. Relativamente alla patina di adesivo giallo visibile all’attaccatura, la spiegazione fornita è stata che, ben prima dell’arrivo di Halwagy al museo, il

chiarimenti definitivi solo al termine dell’indagine che un comitato interno sta portando avanti sulla vicenda. Paolo Leonini

dipartimento per la conservazione si era preoccupato che la giunzione della barba potesse nel tempo allentarsi dal mento e pertanto l’aveva assicurata con un adesivo, approvato ufficialmente dal ministero, magari, purtroppo, abbondando in quantità. In ogni caso, sull’esatta dinamica dei fatti si potranno avere

Errata corrige desideriamo precisare che gli schemi della battaglia di Alesia pubblicati nella Monografia di «Archeo» Imperium (n. 1/2012) sono rielaborazioni grafiche di creazioni originali realizzate dal sito web www. arsbellica.it. Della mancata attribuzione ci scusiamo con gli interessati.

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n otiz iario

SCAVI Francia

una sentinella sulla falesia

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ecenti scavi hanno confermato la vocazione di postazione strategica del piccolo agglomerato di Port-en-Bessin. Situato al centro dell’area utilizzata per lo sbarco in Normandia (1944), all’estremità orientale di Omaha Beach, il sito portuale era probabilmente già in

finale della cultura di La Tène (150-30 a.C.) un sito fortificato, un oppidum, installato su un luogo altamente strategico occupato fin dell’età del Bronzo Finale (1350-800 a.C.). L’insieme costituisce un sistema di protezione unico in quest’epoca

uso (come scalo di arenamento, cioè fruibile solo in alta marea) presso la popolazione gallica dei Baiocassi – che, curiosamente, non vengono mai citati da Giulio Cesare, ma che controllavano il flusso commerciale fra il Sud dell’Inghilterra e la Normandia – ed è storicamente attestato intorno all’anno 1000, come scalo della città di Bayeux. La sommità della scogliera che domina il paesino normanno verso est, chiamata Mont Castel, è al centro dell’interesse degli archeologi fin dal 2010, in seguito alla scoperta di ripetuti saccheggi. Una pratica ben rodata, se si presta fede alla leggenda locale secondo la quale, un tempo, i Portesi venivano a raccogliere monete antiche sulla spiaggia ai piedi della falesia, in continua erosione da duemila anni a questa parte. «L’altopiano – spiega Jean-Paul Guillaumet, specialista in metallurgia antica dell’università di Borgogna – ospitava nella fase

e in quest’area dell’Ovest della Francia ». I sondaggi hanno portato alla luce armamenti romani (foderi di spada, frecce di balestra, proiettili da fionda in piombo), e tracce di pali del diametro di 1 m, corrispondenti all’edificazione di baracche militari, all’interno delle quali si trovavano fosse adibite a dispense per conservare i cibi. Una di queste, usata invece come immondezzaio del campo, ha restituito vari oggetti fra cui chiodi per scarpe, resti di ceramica e frammenti di anfore vinarie. Monete provenienti da ogni angolo della Francia fanno pensare alla presenza di ausiliari originari dell’intera Gallia, arruolati nell’esercito romano. «Ci si aspettava – osserva l’archeologo Anthony Lefort – di individuare resti dell’agglomerato indigeno, che si trova probabilmente nella parte dell’altura non ancora indagata. Siamo invece alle prese con un oppidum gallico presidiato da

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In alto: moneta recante l’immagine di un elefante, da Port-en-Bessin. Età cesariana, 49-48 a.C. Qui sopra: i resti del bastione di epoca romana dell’oppidum di Mont Castel a Port-en-Bessin. truppe romane, incaricate di pacificare i territori di una Gallia sfinita e instabile dopo la conquista, e di controllare il porto contro la minaccia dei contingenti britannici che minacciavano il Continente». La presenza di militaria tardorepubblicani (già attestata nei vasti oppida della Gallia del nord e del centro-est) sul Mont Castel, è una novità per l’Ovest della Francia, e accredita l’ipotesi che i primi campi militari romani si siano impiantati sui grandi insediamenti fortificati gallici alla fine della conquista. Prima d’essere trasferiti, all’indomani della completa romanizzazione, sotto Augusto, lungo le frontiere germaniche, lontano dai nuclei urbani. Daniela Fuganti


SCoperte Cile

Polveri sottili: un problema antico...

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atagonia: un nome che evoca immagini di altopiani e praterie, cime innevate, laghi, fiumi e natura incontaminata. Eppure, anche queste aree sono, purtroppo, vittime dell’inquinamento, inclusa la presenza di metalli pesanti. In particolare, per effetto dell’attività estrattiva di oro e carbone avviata a partire dalla rivoluzione industriale, ma non solo. Un recente studio dell’Università di Tolosa, ha esaminato il terreno di una torbiera nel Parco Naturale di Karukinka (Terra del Fuoco), scoprendo polveri inquinanti da attività metallurgica stratificatesi nel corso di oltre 4000 anni. Il gruppo di ricercatori, guidato da François De Vleeschouwer, ha effettuato una serie di carotaggi fino a una profondità di 4,5 m e ha poi analizzato la stratificazione dei campioni di terreno con l’uso della spettrografia a raggi X. Il risultato è stato una cronologia di sedimentazione, che è stata poi messa in correlazione con gli eventi

storici del continente sudamericano. I risultati hanno mostrato accumuli di particelle di Rame e Antimonio, in periodi antecedenti l’inizio della metallurgia in quest’area dell’America Meridionale. Inoltre

anche tracce di Piombo e Stagno in corrispondenza dei periodi di attività estrattiva e metallurgica portata avanti prima dalla civiltà Inca e poi dagli Spagnoli nelle miniere andine situate oltre 4000 km piú a nord come quella di Potosí

In alto: un tipico paesaggio della regione compresa nel Parco Naturale di Karukinka (Terra del Fuoco, Cile). In basso: l’équipe impegnata in un’operazione di carotaggio. (Bolivia). La datazione ottenuta per l’inizio delle attività metallurgiche è precedente rispetto a quanto determinato fino a oggi attraverso i ritrovamenti archeologici. La particolare natura degli isotopi del piombo ha provato l’origine artificiale di queste polveri, riconducendone l’origine nelle regioni settentrionali. La stratigrafia ha infatti identificato anche le tracce dello sviluppo della metallurgia a livello locale in epoca postindustriale, che hanno rivelato quantità di sedimenti metallici ben piú consistenti. Questo è anche il primo studio scientifico che dimostra lo spostamento attraverso correnti d’aria delle emissioni da attività metallurgiche dalle Ande alla Terra del Fuoco. P. L.

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n otiz iario

SCAVI Umbria

per l’antica strada...

N

uove, importanti scoperte hanno avuto luogo nella città romana di Carsulae (Terni), uno dei siti archeologici piú importanti dell’Umbria. L’impianto urbano, che sorge su un pianoro appena ondulato posto ai piedi dei monti Martani, è uno dei pochi luoghi antichi non alterato da sovrapposizioni successive. Attraversato da nord a sud dal ramo occidentale della via Flaminia, vi si conservano notevoli giacimenti archeologici, tra cui i «templi gemelli», l’anfiteatro, il teatro, l’arco di San Damiano e alcune tombe monumentali. Le recenti indagini, dirette dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Umbria e finanziate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni, ed effettuate dagli archeologi Luco Donnini e Massimiliano Gasperini, si sono concentrate in due ampi saggi, nel settore Nord dell’abitato. «Il primo saggio – spiega Mario Pagano, soprintendente archeologo dell’Umbria – ha portato alla luce un complesso di strutture che presenta almeno tre fasi di ricostruzione, comprese tra l’epoca repubblicana e il periodo romano tardo. All’epoca repubblicana appartiene una cisterna sotterranea, coperta a volta e realizzata in muratura, in fase con un ampio lastricato lungo all’incirca 20 m e in perfetto stato di conservazione, datati tra il II e il I

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secolo a.C. Queste strutture conservano un orientamento coerente con quello dell’area centrale della città, a ridosso della piazza del foro, mostrando quindi l’impostazione urbanistica della Carsulae repubblicana. Tra la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I d.C., intorno al lastricato e soprattutto nel lato ovest, sorsero ambienti, probabilmente con funzione commerciale, pavimentati in opus spicatum e con pareti intonacate e una piccola fornace per la cottura di vasellame fine da mensa. A epoca piú tarda (II-III secolo d.C.) si datano invece altre murature pertinenti a una fase in cui l’area dovette essere adibita a uso agricolo (magazzini e impianti di lavorazione delle granaglie). Un dato molto importante emerso dalle ricerche in questo saggio è costituito dai materiali contenuti in un potente strato di macerie selezionate, individuato al di sopra dei lastricati e dei pavimenti e interpretato come strato di abbandono dell’area, successivo allo smontaggio totale delle strutture. La datazione indicata dai numerosi frammenti di sigillata chiara e di lucerne, si attesta tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C., costituendo il primo dato

In alto e in basso: Carsulae (Terni). Due immagini della strada basolata recentemente rinvenuta. stratigrafico attendibile circa l’abbandono della città, in accordo anche con il patrimonio epigrafico, che appare terminare proprio intorno al IV secolo d.C.». «Di eccezionale importanza – conclude Pagano – è la scoperta, lungo il margine settentrionale del pianoro, di una strada basolata sinora completamente sconosciuta, che si conserva per un tratto lungo piú di 30 m, compreso tra la via Flaminia e il margine nord della depressione. Tale strada era delimitata da due cordoli in grandi blocchi parallelepipedi, che dividevano la parte carrabile da quella pedonale, quest’ultima garantita da un marciapiede a grandi lastre di travertino. In epoca augustea questa strada sembrerebbe essere stata tagliata e collegata con un ampio lastricato, largo oltre 5 m, realizzato anch’esso in grandi lastre calcaree. A tale lastricato sono infine pertinenti almeno due ambienti ubicati lungo il margine settentrionale dello stesso. Sulla base dei dati stratigrafici sinora documentati, appare possibile datare la strada basolata a età tardo-repubblicana (II-I secolo a.C.) mentre il lastricato e gli ambienti a esso adiacenti si dovrebbero datare a epoca augustea, confermando di nuovo l’esistenza di un generale e sostanziale riassetto urbanistico del centro di Carsulae in epoca augustea». Giampiero Galasso


restauri Roma

Il Colosseo dà i numeri

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ome un moderno stadio, l’Anfiteatro Flavio disponeva di un sistema di indicazioni per orientare gli spettatori: i diversi settori della cavea erano contrassegnati da numeri incisi sulla superficie esterna dei fornici con lo scalpello, ben visibili ancora oggi, e dipinti in colore rosso. Una caratteristica, questa, che non era stato ancora possibile osservare, dato che la spessa patina di smog e sporco depositatasi sulla superficie del travertino nascondeva gli strati sottostanti. Durante i recenti lavori di restauro sui fornici del primo ordine del Colosseo, nel prospetto nord, è invece emersa la colorazione sottostante, nelle insegne numerate dalla 39 alla 42. Un ritrovamento accolto con entusiasmo da Rossella Rea, responsabile del monumento: «È una scoperta eccezionale, perché non ci aspettavamo che qualche traccia di rosso fosse ancora conservata». In seguito a questo incoraggiante risultato, si può pensare di recuperare testimonianze simili all’interno dell’anfiteatro. Come dice ancora Rea: «Ai numeri esterni, sul prospetto, corrispondevano anche numerazioni e indicazioni scritte all’interno, questa volta dipinte sulla superficie della pietra. Ne è

In alto: uno dei numeri che segnavano gli ingressi del Colosseo.

In alto: particolare della rubricatura, con tracce del colore rosso. In basso: uno dei numeri incisi nel travertino, dopo il restauro.

stata attestata la presenza all’inizio del XX secolo: con i lavori del terzo appalto sponsorizzato dal gruppo Tod’s, quindi con la pulitura delle superfici nelle gallerie interne al Colosseo, probabilmente troveremo tracce colorate anche di queste indicazioni». Il colore rosso facilitava la lettura dei numeri anche da lontano, e le incisioni venivano perciò sottoposte a un processo detto rubricatura (dal latino ruber, rosso). Come ha infatti spiegato Cinzia Conti, responsabile dei restauri, il pigmento rinvenuto è il residuo dell’ossido di ferro ricavato dall’argilla, che veniva steso negli incavi: un sistema pratico, perché il colore aderiva alla superficie senza bisogno di alcun legante. Il materiale si deteriorava però con il tempo e andava riapplicato ogni due o tre anni. La delicata operazione di pulitura, a cui vengono oggi sottoposte queste superfici, prevede l’impiego di acqua nebulizzata, con cui si riescono a rimuovere le patine superficiali, senza intaccare gli strati originali sottostanti. P. L.

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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandro Mandolesi

pane fatto in casa nuove ricerche in una delle piú lussuose residenze pompeiane, quella del marinaio, rivelano resti di strutture che provano l’esistenza di impianti produttivi all’interno del vasto complesso

L

a Casa del Marinaio (Regio VII 15, 2), cosí denominata dal mosaico della soglia d’ingresso con sei prue di navi e per il rinvenimento, in una delle sue sale, di un grande remo in bronzo, ha i caratteri tipici di una elegante e tradizionale casa di città – Giuseppe Fiorelli la definí «una nobilissima casa» al momento della sua scoperta, nel 1871 – dotata di ampi magazzini (horrea) a scopi produttivi e commerciali. Costruito alla fine del II secolo a.C. in un’area vicina al Foro su un terreno digradante sensibilmente verso settentrione, l’edificio si articola su due livelli raccordati da un giardino a quota intermedia, situato nell’angolo nord-ovest della domus. I principali ambienti si aprono su un monumentale atrio tuscanico decorato da affreschi, soprattutto di Terzo Stile, e da mosaici in bianco e nero. Degna di nota è la lastra di marmo dipinta, posta nell’oecus-triclinio invernale, con Niobe che stringe fra le braccia la figlia piú giovane colpita da un dardo (il dipinto, oggi evanide, è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli). Proprio in omaggio a questo straordinario reperto, Fiorelli denominò l’intero quartiere «Isola della Niobe».

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Nel corso del I secolo a.C. l’edificio fu ampliato verso oriente, con l’acquisizione di un’ala destinata a ospitare un piccolo complesso termale, mentre, nel I secolo d.C., tutti gli spazi del livello inferiore vennero adibiti a panificio, probabilmente a uso commerciale, e collegati agli ambienti semi-ipogei già esistenti. Roberta Pardi, funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, ha coordinato le ricerche svolte nell’autunno del 2014 all’interno della domus al fine di precisarne le fasi costruttive. È lei a illustrarci come «saggi di scavo precedenti abbiano confermato la presenza di

abitazioni medio-sannitiche anteriori alla prima fase di costruzione del complesso. Fin dal suo primo impianto, risalente alla tarda età sannitica (fine del II secolo a.C.), la domus prevedeva una serie di ambienti semisotterranei voltati che venivano a colmare il dislivello esistente fra il settore dell’atrio, a sud, edificato su un terrazzamento, e quello settentrionale gravitante sul vicolo dei Soprastanti; completava il complesso un giardino collegato al quartiere dell’atrio da un portico colonnato, posto alla medesima quota dei triclini e sostenuto dai vani voltati semi-ipogei. La sobria eleganza dell’architettura e dell’apparato decorativo della domus rivela il


A sinistra: il giardino della Casa del Marinaio, con la raccolta di anfore, in una foto scattata nel 1943, prima del bombardamento che lo colpí. In basso: l’ingresso alla Casa del Marinaio dal vicolo dei Soprastanti.

rango elevato del proprietario, forse identificabile, per l’ultimo periodo, con C. Lollius Fuscus, che concorse come edile nel 78 d.C.». Le indagini hanno permesso di delineare, oltre ai dettagli architettonici, anche l’importanza funzionale del complesso. «L’attuale sistemazione delle stanze della domus, sigillata dall’eruzione del 79 d.C. – continua Pardi – risale all’età augustea, quando il livello superiore della casa fu in gran parte ridecorato. Tuttavia, la casa non raggiunse mai una unitarietà di stile pittorico: resti di affreschi in diverso stile, di cui si conservano solo rari lacerti, vennero visti al momento

vicino alla bocca del forno, era presente una vaschetta d’acqua, e, originariamente, nel cortile si trovavano una macina manuale e un’altra a trazione animale. Le indagini hanno permesso l’individuazione di un forno piú antico di dimensioni minori, a uso probabilmente privato, con annessi che, danneggiati dal sisma del 62-63 d.C., vennero colmati e abbandonati per motivi di stabilità. Questo primo impianto, piú modesto rispetto al panificio già della scoperta. Come confermato noto, viene ricavato negli spazi anche dalla varietà dei dipinti, la sotterranei, situati al di sotto della storia dell’edificio abbraccia tre cucina e del corridoio che conduce secoli, dalla fine del II a.C. al dopoal settore termale. Contrariamente terremoto del 62-63 d.C. a quanto si può riscontrare nei La singolarità della domus magazzini di epoca piú tarda, dotati pompeiana è testimoniata da di pavimenti sospesi, la presenza in ulteriori recentissime indagini questi depositi di piani di calpestio archeologiche, condotte da in terra battuta indica uno Donatina Olivieri. L’interesse del stoccaggio di breve durata. complesso è indicato dalla Poco si conosce sui granai privati presenza, rara a Pompei, di horrea di una certa grandezza. È verosimile che comunque dovevano rispondere a esigenze di che l’inserimento di un panificio all’interno dei magazzini si sia reso accessibilità, sicurezza, possibilità di carico e scarico con carriaggi e necessario in seguito alle difficili animali al pari dei piú grandi horrea condizioni di vita post-terremoto, come testimoniato per il medesimo pubblici di epoca imperiale. Il magazzino della Casa del Marinaio periodo in altri impianti produttivi era situato in un’ottima posizione della città. per l’eventuale vendita dei suoi L’ambiente destinato alla prodotti: non lontano dalle lavorazione del pane presentava principali porte d’accesso alla città una serie di mensole, collocate e a breve distanza dal Foro e dai sulle pareti, per permettere la suoi mercati». lievitazione dell’impasto; sul muro Gli scavi hanno inoltre localizzato nord si apriva un passa-vivande le fosse scavate dalle bombe che con anta scorrevole connesso direttamente con il piano del forno, colpirono Pompei nella seconda guerra mondiale: nello specifico, in modo da facilitare il passaggio due ordigni danneggiarono la dei pani messi a lievitare nel domus, distruggendo parte delle laboratorio, dove si conservano strutture e della raccolta di anfore due grandi recipienti di pietra per allestita nel giardino nei primi mescolare e impastare il pane. decenni del Novecento. Nell’angolo nord-est del cortile,

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parola d’archeologo Flavia Marimpietri

svegliamo o no l’uomo di altamura? lo scheletro scoperto in una grotta della murgia pugliese è un reperto di eccezionale importanza. e ora c’è chi vorrebbe riportarlo in superficie: abbiamo raccolto in proposito il parere del soprintendente archeologo, luigi la rocca

L’

«Uomo di Altamura» riposa da millenni in fondo a una lunga e stretta valle sotterranea che si apre tra le gravine della Murgia pugliese, ad Altamura, nell’entroterra di Bari. Scoperto nel 1993 da speleologi locali in un ramo secondario della grotta di Lamalunga, si tratta di uno dei reperti paleontologici piú importanti al mondo ed è l’unico esemplare intatto di scheletro dell’Uomo di Neandertal a oggi rinvenuto in Europa. Negli ultimi tempi, il suo sonno millenario è stato scosso, poiché il Comune di Altamura ha indetto un

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Nella pagina accanto: l’Uomo di Altamura, «sigillato» dalle concrezioni all’interno della grotta di Lamalunga. In basso: una veduta della cavità. bando per lo studio e la valorizzazione dello scheletro, vinto da un consorzio di imprese e università che, a sorpresa, ha proposto un progetto che prevede la rimozione dello scheletro e la sua esposizione nel Museo Archeologico di Altamura. Sull’opportunità dell’intervento abbiamo raccolto il parere del soprintendente archeologo della Puglia, Luigi La Rocca: «Io sono d’accordo con un’eventuale rimozione, a condizione che lo scheletro non rischi di essere danneggiato. Ho dato un parere di massima favorevole a un suo spostamento, poiché credo che un reperto di tale importanza meriti un approfondimento degli studi. Si tratta di uno dei resti paleontologici potenzialmente piú importanti al mondo, ma è ormai acclarato dalla comunità internazionale che, per poter essere studiato, lo scheletro deve essere rimosso. L’operazione, però, va fatta in assoluta sicurezza, senza il minimo dubbio che possa nuocere alla conservazione del reperto». Quali garanzie le sono state date in merito? Quali rischi ci sono di danneggiare lo scheletro? «Siamo in una fase di valutazione della fattibilità dell’intervento, che

l’opinione del direttore del parco

No al trasloco, sí alla replica

All’interno del Parco Nazionale dell’Alta Murgia, a pochi metri dalla grotta in cui riposa l’ominide, esiste un Centro visite che propone la visione di filmati 3D dello scheletro dell’uomo di Neandertal e una visita virtuale della grotta che lo ospita, in un anfratto profondo e inaccessibile ai visitatori. Il presidente del parco, Cesare Veronico, cosí come il Comune di Altamura, si oppone all’ipotesi di uno spostamento delle ossa. Perché, Presidente? «Si tratta degli unici resti di scheletro umano intero del Paleolitico a oggi noti e non c’è alcuna certezza che lo spostamento non li danneggi. Il primo motivo è questo: mancano le garanzie che, in caso di rimozione, lo scheletro rimanga intatto e non venga intaccato. Inoltre vi sarebbe un forte impatto su un ambiente naturale spettacolare, con stalattiti e stalagmiti, creato in migliaia di anni, in cui il teschio è incastonato. Poi ci sono motivi di fruizione turistica: se lo scheletro venisse portato al Museo Archeologico di Altamura non ci sarebbe piú alcun interesse a recarsi al centro visite ». Ma adesso nessun turista può vedere lo scheletro, che è nascosto in un pertugio a decine di metri sotto terra e completamente inaccessibile: se fosse esposto nel Museo Archeologico di Altamura, invece, sarebbe visibile dal pubblico… «Questo è vero. Ma potremmo esporre al Museo di Altamura un calco del tutto identico all’originale, senza intaccare uno spettacolo naturale che risale a 45-50 000 anni fa, e collegare il Centro visite sul posto a due siti che sorgono a poche centinaia di metri: un’enorme dolina carsica e uno dei giacimenti piú ricchi di Europa di orme di dinosauro, risalente a 70-80 milioni di anni fa. La nostra idea è creare un percorso di turismo sostenibile, che coniughi ambiente, paleontologia e archeologia».

consisterebbe in un’operazione di smontaggio e prelievo delle ossa. Abbiamo effettuato un’unica discesa all’interno della grotta, con una sonda telescopica, per verificare quanti punti di contatto ci sono tra le ossa e le formazioni calcaree che lo circondano: in effetti ci sono varie criticità, poiché alcune concrezioni sono direttamente a contatto con lo scheletro. Se la cosa non si potrà fare, non si farà. Gli ultimi studi – condotti da Giorgio Manzi del Museo di Antropologia dell’Università di Roma, David Caramelli dell’Università di Firenze e Marcello Piperno dell’Università “Sapienza” di Roma – hanno ribadito che avremo per sempre un punto interrogativo sulla storia di questo reperto, se non si effettuano analisi direttamente sul teschio. Tuttavia, se le prossime indagini dovessero indicare che è rischioso rimuoverlo, non lo faremo». Anche perché il principio della

conservazione, in linea teorica, viene prima di quello della valorizzazione… «Certo. Come soprintendente non mi sognerei minimamente di mettere a rischio un pezzo di patrimonio archeologico. Tutto è subordinato al rischio zero per il reperto. Se anche ci fosse lo 0,1 per cento di dubbio di danneggiarlo, non lo faremo». Cosa immaginate o sperate di scoprire rimuovendolo? «Innanzitutto la datazione. Se davvero risale a oltre 100 000 anni fa, si tratterebbe di uno dei pochissimi esemplari di Neandertal arcaico esistenti al mondo: varrebbe la pena studiarlo. Ma, ripeto, non autorizzeremo alcun prelievo o intervento invasivo; anche nel caso in cui lo si rimuova, quindi, le indagini saranno superficiali, tipo TAC o radiografie. È impensabile togliere le incrostazioni dal cranio, per esempio quelle sugli occhi».

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n otiz iario

incontri Roma

Una città si racconta

P

roseguono gli incontri con i quali Il Teatro di Roma, in collaborazione con la Sovraintendenza ai Beni Culturali di Roma Capitale, vuole raccontare la grandiosità dell’idea di Roma, oltre che la ricchezza e unicità del suo straordinario patrimonio archeologico e dell’immaginario contenuto nei «frammenti» della città antica, che ci rivela ancora la nostra storia. Percorsi e testimonianze antiche, segni millenari di storia e cultura sono una traccia precisa di un riconoscimento della continuità di Roma, di uno splendore in parte dissolto ma che non ha mai interrotto una relazione con la civiltà moderna. Immensa è quindi l’eredità dell’Urbe, che anche il Teatro di Roma è chiamato a custodire e tramandare quale modello culturale universale con le sue meraviglie di rara suggestione. Il palcoscenico dell’Argentina ospita conversazioni tra archeologi, storici e altre figure di spicco del mondo culturale romano e non solo, coadiuvati da immagini e letture di testi antichi. Il prossimo appuntamento, domenica 15 marzo, è con una sintesi storica, topografica e

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archeologica del cuore di Roma, con le sue meraviglie e i suoi monumenti: Il Foro Romano: dalle origini alle invasioni barbariche, (intervengono Filippo Coarelli e Patrizia Fortini; Filippo Timi legge brani da Ab Urbe condita di Livio). Si prosegue, domenica 29 marzo, con l’incontro dedicato ai teatri di Roma antica nella pianura del Campo Marzio e alla loro straordinaria bellezza: I Teatri di Pompeo, Marcello, Balbo (intervengono Andrea Carandini e Claudio Parisi Presicce; Maddalena Crippa legge brani da Truculentus e Pseudolus di Plauto). A seguire, domenica 12 aprile, l’incontro dedicato alle grandi donne di potere nella Roma tra il I secolo a. C. e il II secolo d.C.: Le donne di “potere” nella Roma Imperiale, un tributo di intelligenza, poesia e bellezza (intervengono Francesca Cenerini e Andreas M. Steiner; Iaia Forte legge versi della poetessa romana Sulpicia e brani da Pro Caio Celio di Cicerone). Infine, domenica 19 aprile, l’incontro dedicato all’ultimo imperatore della dinastia giulioclaudia che ha lasciato al mondo la dimora piú sontuosa di tutti i tempi: La Reggia di Nerone: l’ultimo

In alto: il Foro Romano. imperatore della dinastia giulioclaudia (intervengono Fedora Filippi ed Eugenio La Rocca; Roberto De Francesco legge brani dagli Annales di Tacito e da Vite dei Cesari di Svetonio). Tutti gli incontri si svolgono alle ore 11,00, e sono a ingresso libero, fino a esaurimento posti; si consiglia la prenotazione ai numeri: tel. 06 684000356 oppure 06 684000345. Info: www.teatrodiroma.net Catia Fauci



n otiz iario

archeofilatelia

Luciano Calenda

libia, addio? Le drammatiche vicende degli ultimi tempi hanno richiamato l’attenzione su un Paese che, per molti storici motivi, è sempre stato vicino all’Italia anche se, per altrettante ragioni, è stato spesso percepito come lontano e difficile da visitare; ma mai come lo è ora, purtroppo… Al di là delle tragedie che si stanno consumando, il pensiero corre anche alle magnifiche vestigia romane disseminate un po’ ovunque e che, per chi non abbia mai avuto l’opportunità di visitarle, sono oggi divenute ancor piú irraggiungibili. Vogliamo ricordarle attraverso i francobolli che le hanno celebrate, mettendo a confronto quelli di epoca fascista, evidentemente intrisi di propaganda, con quelli di epoche successive. Cominciamo con una cartolina di franchigia per le Forze armate degli anni Quaranta, che raffigura l’intera Libia e le città piú importanti. Seguono quindi le località 1 piú note: Cirene, con la famosa «Venere» (1), due scorci del tempio di Apollo (2-3) e il Foro (4); Leptis Magna, di cui vediamo le rovine (5), il tempio (6), l’arco di Traiano (7) e il Teatro (8). Molto caratteristico, a Leptis Magna, è il rudere di una vecchia pressa olearia (9). Sabratha è celebre per il suo Teatro, qui in tre francobolli diversi (10, 11 e 12), e per il tempio di 4 Antonino (13). Infine, di Tripoli ricordiamo l’Arco di Marco Aurelio in due diverse prospettive (14, 15).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



calendario

Italia roma L’isola delle torri

Giovanni Lilliu e la Sardegna nuragica Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 21.03.15

Qui sotto: replica di un elmo gladiatorio trovato a Pompei.

Biblioteca Nazionale Braidense fino all’11.04.15

modena Le urne dei forti

Armi ed armature dell’impero romano Stadio di Domiziano fino al 30.03.15

La necropoli dell’età del Bronzo di Casinalbo Museo Civico Archeologico Etnologico fino al 07.06.15

Rivoluzione Augusto

L’imperatore che riscrisse il tempo e la città Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino al 02.06.15

novara In principio

Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte Complesso Monumentale del Broletto fino al 06.04.15

L’Età dell’Angoscia

Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15

Il cibo a Pompei e nell’Italia antica Palazzo Mazzetti fino al 05.07.15

bassano del grappa Il tesoro del Brenta: la spada restituita

Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15

milano Da Brera alle piramidi

Gladiatores e agone sportivo

Asti Alle origini del gusto

gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone

Qui sopra: i Fasti Praenestini, un calendario elaborato tra il 6 e il 10 d.C. In basso: Eracle in riposo, III sec. a.C. o I sec. d.C.

oderzo (TV) Omaggio a Tutankhamon L’arte egizia incontra l’arte contemporanea Palazzo Foscolo fino al 03.05.15

pennabilli (RN) Ipazia

Museo Civico fino al 03.05.15

Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15

bondeno (FE) Aquae

Sambuca di Sicilia (AG) Un Simposio di#vino

Cividale del Friuli All’alba della storia

Sant’Agata Bolognese (BO) La villa nel pozzo

firenze Potere e pathos

sant’agata dei goti (BN) L’oggetto del desiderio

Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi Centro Sociale 2000 fino al 31.05.15

Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15

Bronzi del mondo ellenistico Palazzo Strozzi fino al 21.06.15 (dal 14.03.15) 28 a r c h e o

Il Salinas a Sambuca Museo Archeologico di Palazzo Panitteri fino al 12.06.15

Un insediamento rustico romano a Sant’Agata Bolognese Sala «Nilla Pizzi» fino al 31.03.15

Europa torna a Sant’Agata Chiesa di S. Francesco fino al 17.05.15

In alto: illustrazione di un mausoleo immaginario, dalla Hypnerotomachia Poliphili... (1499).


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

villanova di castenaso (BO) Giovanni Gozzadini

Definire la bellezza

e la scoperta del villanoviano MUV-Museo della civiltà villanoviana fino al 02.06.15

Il corpo nell’arte dell’antica Grecia The British Museum fino al 05.07.15 (dal 26.03.15)

Belgio

Grecia

bruxelles Lascaux

Un capolavoro dell’arte preistorica Musée du Cinquantenaire fino al 15.03.15

In basso: il pannello della Grande Vacca Nera nella Grotta di Lascaux.

atene IASIS

Salute, malattia, cure, da Omero a Galeno Museo Goulandris di Arte Cicladica fino al 31.05.15

Paesi Bassi leida Cartagine

In alto: il Torso del Belvedere.

Rijksmuseum van Oudheden fino al 10.05.15

Slovacchia bratislava Etruschi di Perugia

Materiali dal Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria Castello fino al 29.03.15

Francia Saint-Germain-en-Laye Dèi dei Balcani Figurine neolitiche dal Kosovo Musée d’Archéologie nationale fino al 22.06.15 (dal 22.03.15)

Germania stoccarda Un sogno di Roma

Svizzera ginevra I sovrani Moche

Qui sopra: urna cineraria policroma d’età ellenistica.

Divinità e potere nell’antico Perú Museo Etnografico fino al 03.05.15

zurigo Il gesso conserva

La vita nelle città romane della Germania sud-occidentale Landesmuseum Württemberg fino al 12.04.15

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15 Qui sopra: elemento di collana in forma di testa umana, da Sipán.

Gran Bretagna

USA

Londra Antiche vite, nuove scoperte

new york Gli indiani delle pianure

Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 19.04.15

Artisti della terra e del cielo The Metropolitan Museum of Art fino al 10.05.15

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scavi • cadice

oltre le colonne d’ercole Sospesa tra l’Europa e l’Africa, Cadice fu l’estremo avamposto occidentale dei Fenici. Un popolo di mercanti navigatori che, grazie alle sue numerose colonie, mantenne a lungo il dominio commerciale del Mediterraneo. Oggi, gli scavi in corso nella città spagnola stanno contribuendo in maniera decisiva a tracciare il loro profilo… a cura di Giuseppe M. Della Fina

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N A sinistra: busto in terracotta di personaggio femminile, dagli scavi in calle Juan Ramón Jiménez n. 9 (Cadice). Fine del VI-prima metà del V sec. a.C. Cadice, Museo de Cadiz. Nella pagina accanto, a sinistra: bronzetto fenicio raffigurante un personaggio maschile con tiara alta e conica (lebbadé), dalle acque prospicienti l’isolotto di Sancti Petri. VIII-VII sec. a.C. Cadice, Museo de Cadiz. Nella pagina accanto, nel riquadro: cartina della Baia di Cadice con l’indicazione degli insediamenti fenici a oggi noti.

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scavi • cadice

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opo lo straordinario successo della mostra «I Fenici», allestita in Palazzo Grassi a Venezia, nel 1988, si disse che Sabatino Moscati aveva «inventato» i Fenici. L’insigne archeologo (vedi box a p. 39), in realtà, si era inserito in una lunga tradizione di studi in materia, ma, grazie alla sua attività di ricerca e di promozione della cultura, i Fenici erano arrivati a rioccupare, dagli anni Settanta del

Novecento, il posto che spettava tramite privilegiato di prodotti artiloro nella ricostruzione delle vicen- gianali spesso raffinatissimi, ma, sode del Mediterraneo antico. prattutto, d’idee e di acquisizioni scientifiche e culturali tra le genti mediterranee. Una presenza e un scambi di merci ruolo ereditati – non senza contrasti e di idee Era stato riconosciuto a pieno il - e poi portati avanti per secoli dalloro ruolo di ponte tra il Vicino e il la piú fortunata delle colonie feniMedio Oriente, la Grecia e il Me- cie, Cartagine, destinata a diventare diterraneo occidentale. La vocazio- la grande nemica di Roma. ne marinara e l’intraprendenza Limitandosi all’Italia, si può ricorcommerciale fecero dei Fenici il dare l’importante presenza fenicia e

In alto: proposta di ricostruzione 3D delle abitazioni fenicie messe in luce al Teatro Cómico (a sinistra) e la musealizzazione degli scavi del sito. A sinistra: paleotopografia della Baia di Cadice elaborata sulla scorta delle indagini piú recenti. 32 a r c h e o


poi punica in Sicilia e in Sardegna, ma anche il ruolo svolto dai Cartaginesi nelle dinamiche politiche dell’intera penisola, scegliendo di schierarsi con gli Etruschi contro i Greci. Proprio uno degli episodi storici piú noti del Mediterraneo occidentale, durante l’intero VI secolo a.C., ovvero la battaglia del Mar Sardo o di Alalía (oggi Aleria, sulla costa orientale della Corsica; 540 a.C. circa) suggerisce con chiarezza alleanze e schieramenti.

navi che venivano a disporre di un approdo intermedio. Dopo alcuni anni lo rafforzarono, inviando nuovi uomini, rendendolo piú stabile e costruendovi templi.A questo punto si arrivò allo scontro diretto. Erodoto ricorda che sessanta navi della coalizione punico-etrusca affrontarono la flotta avversaria composta da altrettante imbarcazioni. La battaglia si combatté davanti alle coste della Corsica: quaranta navi dei Focei vennero affondate e venti

doto aggiunge che un numero maggiore fu consegnato agli abitanti di Caere, che poi decisero di lapidarli. I rapporti tra i Cartaginesi e gli Etruschi non devono, comunque, essersi limitati a questo pur importante episodio: tanto che, Aristotele, nella Politica (3, 9) afferma: «Gli uomini non formano uno stato né attraverso un’alleanza militare che li difenda da possibili offese, né attraverso scambi e affari reciproci, perché allora gli Etruschi e i Cartagi-

A darne conto è il «padre della storia», Erodoto (Storie, I, 165-167): i Cartaginesi, a fianco degli Etruschi (nel cui ambito la polis di Caere, l’attuale Cerveteri, dovette svolgere un ruolo di primo piano), affrontarono i Focei che – in Occidente – avevano fondato Massalía (l’odierna Marsiglia) intorno al 600 a.C. Tempo dopo, intorno al 565 a.C., avevano dato vita al nuovo insediamento di Alalía, cosí da rendere meno pericoloso il viaggio per le loro

danneggiate. Gli sconfitti furono costretti ad abbandonare Alalía, caricarono sulle imbarcazioni ancora in grado navigare i figli, le donne e i beni che possedevano e veleggiarono verso l’Italia meridionale.

nesi, e quanti altri popoli hanno istituito tra loro convenzioni, sarebbero cittadini di un unico stato. Esistono infatti tra questi convenzioni sul tipo di beni da importare, patti sulla non aggressione reciproca e documenti scritti che regolano le forme di alleanza». Un luogo d’incontro privilegiato tra Cartaginesi ed Etruschi fu sicuramente il porto e l’area sacra di Pyrgi, dove – sono proprio ora cin(segue a p. 39)

i prigionieri lapidati I vincitori si divisero il bottino: i Cartaginesi assunsero il controllo delle coste della Sardegna, gli Etruschi quelle della Corsica. Anche i prigionieri vennero divisi, ma Ero-

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scavi • cadice

la baia rinasce grazie all’archeologia A colloquio con Massimo Botto Recenti scoperte hanno gettato nuova luce su Cadice, una delle piú antiche città europee fondata dai Fenici all’alba del I millennio a.C. Ne parliamo con Massimo Botto, Primo Ricercatore presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico (ISMA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche e curatore del volume, appena pubblicato, Los Fenicios en la Bahía de Cadiz. Nuevas investigaciones.

◆ Quale è stata l’importanza

di Cadice, o meglio della Cadice fenicia? L’insediamento di Cadice ha attirato da sempre gli interessi di storici e archeologi per svariati motivi. Si tratta, infatti, di una delle piú antiche

Il vino sardo Frammento di brocca askoide di produzione nuragica, dagli scavi al Teatro Cómico. Periodo II, 820/800-760/750 a.C. Insieme ad altri manufatti nuragici rinvenuti in vari insediamenti fenici e indigeni della Spagna meridionale, attesta il commercio di beni alimentari e vino dalla Sardegna alla penisola iberica.

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e famose colonie fenicie di Occidente, inferiore per importanza solo a Cartagine. In effetti, il magistero politico e culturale che Cadice esercitò nell’area strategica definita dagli specialisti con il termine di «Círculo del Estrecho» – sospesa tra l’Europa e l’Africa e ricca di luoghi simbolici come le «Colonne d’Ercole» – fu senz’altro di notevole portata e riconosciuto in modo unanime dai maggiori storici e geografi dell’antichità. Tuttavia, a dispetto della fama raggiunta e delle notizie raccolte nei testi classici che indicano in Cadice il faro della colonizzazione fenicia nell’area atlantica – sede di uno dei luoghi di culto piú venerati di tutto l’Occidente, il tempio del dio tirio Melqart, assimilato nelle fonti antiche all’Herakles greco e all’Ercole romano – sino a pochi anni fa ben poco si conosceva dell’insediamento fenicio. Gli indizi delle prime fasi di vita della colonia erano cosí labili che alcuni studiosi sono giunti a dubitare del fatto che potesse esistere una città fenicia sotto l’abitato moderno. La sensazionale scoperta, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, del Castillo de Doña Blanca, cioè di un potente insediamento fortificato collocato sulla terraferma e in posizione dominante a controllo della Baia di Cadice, ha contribuito ad alimentare questa ipotesi. In effetti l’insediamento messo in luce dall’archeologo spagnolo Diego Ruiz Mata e dalla sua équipe nel corso di numerose campagne di scavo può essere considerato a tutti gli effetti come una fondazione fenicia di alta antichità i cui materiali ceramici, che risalgono agli inizi del secondo quarto dell’VIII secolo a.C., attestano contatti commerciali ad ampio raggio con molte aree del Mediterraneo, dalla Fenicia alla Grecia, dal Nord Africa alla Sardegna.


A B

C

L’anello con i delfini Anello in oro rinvenuto all’interno del monumento funerario de la Casa del Obispo, con raffigurazione nel castone di due delfini sovrapposti. A. vista frontale e laterale

◆ Il Castillo de Doña Blanca, quindi,

può essere identificato con la Cadice citata dalle fonti antiche? A questa domanda molti specialisti hanno risposto affermando che quanto emerge chiaramente nei testi classici è l’aspetto insulare

dell’anello; B. particolare del delfino inferiore; C. confronto con il particolare di uno dei delfini raffigurato su una moneta siracusana coniata fra il 480 e il 478 a.C.

dell’insediamento, il cui paesaggio risulta «segnato» dalla presenza di luoghi sacri altamente simbolici. Infatti, oltre al tempio di Melqart tradizionalmente ubicato sull’isolotto di Sancti Petri, all’estrema punta sud-occidentale della maggiore delle

isole gaditane – denominata nelle fonti greche Kotinoussa – sono citati nelle fonti altri due santuari. Da una parte il Kronion, dedicato molto verosimilmente a Baal Hammon, l’interpretatio del dio greco Kronos, e dall’altra la grotta-santuario di Astarte ubicata sull’isola di Erytheia. Si è quindi ipotizzato che la strategia di occupazione della regione da parte dei Fenici potesse riprendere il modello orientale basato sulla «doppia fondazione», con un insediamento sulla terraferma e un altro insulare, come documentato nella madrepatria a Tiro e Arado. Di conseguenza, la mancanza di indizi sulle fasi piú antiche della presenza fenicia nella regione dipendeva dalla casualità dei rinvenimenti e dal fatto che l’originale nucleo abitativo rimaneva sepolto sotto uno spesso strato di deposito archeologico formatosi a seguito dei crolli delle strutture che, dall’epoca romana

L’antica baia Ricostruzione del paesaggio della Baia di Cadice prima della fondazione dell’abitato fenicio del Teatro Cómico.

a r c h e o 35


preso parte al progetto specialisti e studiosi dell’Università di Cadice e della Complutense di Madrid. La scoperta ha dato nuovo vigore alle indagini, promuovendo iniziative in tutta la baia e nei dintorni, atte a evidenziare le prime tappe della presenza fenicia nell’Andalusia occidentale. I nuovi scavi rafforzano l’idea avanzata da Diego Ruiz Mata di un’occupazione polinucleare della Baia di Cadice con la fondazione in tempi molto ravvicinati di aree abitative, produttive e a destinazione sacra e funeraria in stretta relazione fra di loro.

◆ Tra le ricerche in corso, quali

ritiene piú interessanti? Gli scavi al Teatro Cómico hanno

in poi, si erano andate costruendo e sovrapponendo negli esigui spazi insulari.

◆ Questa ipotesi è stata

confermata? La conferma di questa teoria si è avuta quando gli archeologi sono potuti intervenire nel cuore della città antica a seguito dei lavori di ristrutturazione di uno dei suoi piú importanti teatri, il cosiddetto «Teatro Cómico», noto ai cittadini di Cadice per la presentazione di spettacoli di marionette. Grazie agli scavi, avviati a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, sono emerse strutture e

36 a r c h e o

In alto: musealizzazione degli scavi alla Casa del Obispo: il muro di facciata dell’edificio punico (IV-III sec. a.C.) riutilizzato all’interno del Palazzo Vescovile. A destra: ricostruzione 3D del monumento funerario della Casa del Obispo.

materiali ceramici che è possibile datare fra la fine del IX e gli inizi dell’VIII secolo a.C.

◆ Quali Enti e Università hanno

partecipato alle ricerche? Oltre agli archeologi comunali hanno

avuto il merito di ridare nuova linfa a una discussione sulle origini dell’insediamento insulare che sembrava segnare il passo a causa della mancanza di dati archeologici affidabili. Le indagini hanno evidenziato l’esistenza di un nucleo


A

Alla Casa del Obispo Assonometrie ricostruttive (A-B) e ricostruzione 3D (C) delle strutture messe in luce negli scavi alla Casa del Obispo. Del complesso fa parte un criptoportico di epoca romana (D), utilizzato come galleria di servizio.

urbano di notevoli dimensioni, soggetto a ben tre fasi edilizie nell’arco di tempo compreso fra l’820/800 e il 760/750 a.C. Il grande sforzo compiuto dalla municipalità cittadina inteso a musealizzare l’intera area di scavo ha permesso di valorizzare appieno

B

l’impegno profuso dagli specialisti, favorendo la crescita di un turismo culturale in piena espansione, che premia l’oculatezza delle scelte operate. L’altro aspetto innovativo delle recenti indagini riguarda il fatto che il popolamento fenicio dell’arcipelago gaditano non si limita all’abitato ubicato in corrispondenza del Teatro Cómico, dal momento che sulle isole di Erytheia e di Kotinoussa sono stati individuati altri giacimenti che è possibile collocare in periodi storici molto antichi. Fra le molte novità, spiccano le scoperte compiute in corrispondenza dell’antico Palazzo Vescovile (Casa del Obispo), ubicato fra la vecchia e la nuova cattedrale. In questo caso è

D

C

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scavi • cadice

stata messa in luce un’ampia sequenza stratigrafica che va dall’800 a.C. circa sino alla fine del XX secolo, quando la dimora vescovile cadde in disuso. Uno degli eventi piú interessanti, a cui è stato dato grande risalto grazie alla musealizzazione dell’area di scavo, si colloca alla fine del VI secolo a.C., quando venne allestito un monumento funerario di dimensioni considerevoli destinato a un personaggio di alto rango della comunità di appartenenza. La scelta del sito in posizione distinta rispetto alla necropoli e dominante sul paesaggio della baia contribuí a fare del monumento un luogo deputato, attraverso il tempo, alla rievocazione e alla ricostruzione della memoria e del passato, questi ultimi proiettati in una dimensione extra-umana.

◆ Può accennare alle altre

indagini in corso? Le iniziative scientifiche non si limitano alla Baia di Cadice e riguardano anche le aree limitrofe. Da questo punto di vista, di notevole interesse sono gli scavi condotti nel moderno centro di Chiclana che hanno messo in luce un insediamento indigeno fortificato alla fine del VII secolo a.C. grazie all’arrivo dei Fenici, che aveva una funzione di controllo sia dell’accesso orientale della baia sia del tempio di Melqart, ubicato nelle vicinanze.

◆ Quali sono stati i tempi e i modi

della presenza dei Fenici nella Spagna meridionale? La piú antica presenza fenicia in Occidente si localizza a Onoba, la moderna Huelva. In questo brulicante porto dell’attuale Andalusia occidentale, a pochi chilometri in linea d’aria dal

38 a r c h e o


confine con il Portogallo, marinai e mercanti provenienti da Tiro, all’epoca la piú potente delle città della Fenicia, crearono, nel corso del IX secolo a.C., un’enclave commerciale dinamica e rivolta principalmente alle immense ricchezze dei distretti minerari del Riotinto e dell’Andévalo. Il commercio dei metalli svolse un ruolo molto importante nel processo di irradiazione fenicia nel Mediterraneo centro-occidentale e nell’Atlantico e, per questo motivo, il territorio controllato dalle élite indigene residenti a Onoba era particolarmente appetibile per i Fenici interessati soprattutto all’argento, che rivendevano sui principali mercati occidentali e del Vicino Oriente a un prezzo nettamente superiore a quello dell’acquisto. La rotta Tiro-Onoba era lunga e impegnativa per i navigli fenici, costretti a superare numerose difficoltà, fra cui la piú A destra: bronzetto di personaggio maschile con tiara dell’Alto Egitto bordata di piume, dalle acque prospicienti l’isolotto di Sancti Petri. VIII-VII sec. a.C. Cadice, Museo de Cadiz. Nella pagina accanto: veduta generale degli scavi nel centro storico di Chiclana. In primo piano, il tracciato del muro a doppio paramento realizzato da maestranze fenicie sullo scorcio del VII sec. a.C.

temibile era senza dubbio l’attraversamento dello Stretto di Gibilterra che introduceva dal Mediterraneo all’Atlantico. Per questo motivo vennero individuati porti sicuri nei quali ricoverare le imbarcazioni e approvvigionare gli equipaggi di viveri e acqua. Nella Spagna mediterranea la scelta cadde sul Golfo di Malaga, dove ben presto il primitivo approdo si trasformò in una vera e propria colonia, messa in luce nell’insediamento di La Rebanadilla, mentre al di là dello Stretto e quindi già in pieno Atlantico l’approdo piú idoneo venne individuato nella Baia di Cadice. Anche in questo caso la scelta si rivelò particolarmente felice e gli archeologi spagnoli sono riusciti a ricostruire in modo attendibile le tappe che portarono, nell’arco di pochi decenni, a una trasformazione radicale del paesaggio gaditano, con l’occupazione diffusa di tutta la baia e la creazione di templi, monumenti funerari e aree abitative e produttive di grande vitalità. Questa realtà si è cristallizzata nel nostro immaginario grazie alle descrizioni delle fonti classiche che definirono in modo appropriato la piú importante colonia fenicia della penisola iberica come «Ta Gadeira», ossia come un complesso di insediamenti raccolti nello spazio unitario della baia.

una vita per i fenici Sabatino Moscati è stato un insigne orientalista e il rifondatore degli studi feniciopunici in Italia. Era nato a Roma nel 1922, aveva studiato presso il Pontificio Istituto Biblico a causa delle leggi razziali e si era laureato in arabistica nel 1945. Ha insegnato in atenei italiani e stranieri e, a lungo, a Roma, presso le Università «Sapienza» e «Tor Vergata». Membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ne è stato presidente dal 1994 al 1997, anno della sua morte. Il suo impegno lo ha visto attivo in istituzioni e associazioni culturali, come, per esempio, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana-Treccani. Ha dato vita a pubblicazioni scientifiche e ha promosso campagne di scavo in Italia e in paesi del Mediterraneo orientale e occidentale. La sua amplissima produzione annovera piú di 600 titoli. Nel 1985 fondò la rivista «Archeo», di cui fu direttore fino al 1997.

quant’anni – furono rinvenute le celebri lamine auree scritte in etrusco e punico nelle quali viene ricordata una offerta alla divinità UniAstarte compiuta da parte di Thefarie Velianas, tiranno di Caere. Se rilevante è stato il ruolo dei Fenici e dei Cartaginesi nella penisola italiana, ancor piú significativa risulta l’azione da loro svolta nella penisola iberica. In merito, come ci racconta Massimo Botto nell’intervista che qui pubblichiamo, novità significative vengono dalle ricerche in corso a Cadice, la colonia fondata dai Fenici proprio in apertura del I millennio a.C. Esse consentono di comprendere i tempi e i modi di una colonizzazione destinata a influenzare le vicende dell’area per secoli. a r c h e o 39


storia • moche

Mistero andino DA DOVE VENIVANO? E QUALE FU LA VERA CAUSA DELLA LORO REPENTINA SCOMPARSA? SONO QUESTI DUE DEGLI INTERROGATIVI PRINCIPALI CHE ANCORA SI LEGANO ALLA STORIA DEI MOCHE, UNA DELLE PIú FIORENTI e raffinate CIVILTà dell’america precolombiana di Antonio Aimi

A sinistra e nella pagina accanto, in basso: bottiglie-ritratto in terracotta policroma con ansa a staffa. La produzione di questi spettacolari manufatti è stato uno dei caratteri distintivi dei Moche. Nella pagina accanto, in alto: orecchino in oro e crisocolla raffigurante un guerriero, dalla tomba 6 di Sipán. Moche Medio, 400-700 d.C. Lambayeque, Museo delle Tombe Reali di Sipán. 40 a r c h e o


S

ono grosso modo coevi dei Maya, ma sono pressoché sconosciuti al di fuori della cerchia degli specialisti. Eppure hanno prodotto una delle culture piú importanti e affascinanti dell’America precolombiana. Come i Maya, avevano centri cerimoniali con costruzioni enormi e ci hanno lasciato ceramiche splendide, che possono essere collocate tra le piú alte espressioni al mondo della pittura e della scultura in terracotta. Ciononostante, non sono entrati a far parte del nostro immaginario, forse perché le loro piramidi non sono state inghiottite dalla foresta pluviale, né sono state poi scoperte da intrepidi viaggiatori, ma, piú modestamente, si sono trasformate in colline d’argilla, essendo costruite con adobe («mattoni» d’argilla cotti al sole). Stiamo parlando dei Moche, una popolazione, che viveva nella Costa Settentrionale dell’antico Perú. a r c h e o 41


storia • moche

Si è scritto Moche, ma si sarebbe potuto scrivere anche Mochica, poiché i due termini sono praticamente sinonimi. Tuttavia, è bene ricordare che: Moche è il fiume che scorre nei pressi di quello che sembra il piú importante centro di questo popolo e che ha dato nome al sito e alla cultura; il muchik, o mochica, era, ed è, il nome di una delle lingue parlate nella regione all’arrivo degli Spagnoli. Alla luce di questi dati sembra piú corretto usare il termine Moche per indicare la cultura archeologica e la popolazione, o le popolazioni, che la condividevano, riservando quello di muchik o mochica alla lingua e alle sopravvivenze del passato precolombiano che tuttora perdurano.

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In alto: cartina dell’area in cui è attestata la diffusione dei Moche. A destra: ornamento da naso (nariguera) in oro e resina in forma di gufo, dalla tomba 2 di Dos Cabezas. Moche Medio, 400-700 d.C. Trujillo, Museo de Sitio de Chan Chan.

C

Lo spazio L’Area Peruviana, che in gran parte coincide con l’attuale Stato latinoamericano, è divisa dalle Ande in tre subaree molto diverse non solo sul piano ecologico, ma anche culturale ed etnico: la Costa, la Sierra e la Ceja de Selva (o Selva). La cultura Moche si sviluppò nella Costa Settentrionale, dalla valle del Rio Piura, a nord, a quella del Rio Huarmey, a sud, in una striscia di terra che corre per circa 600 km in direzione nord-sud, tra l’Oceano Pacifico e le prime propaggini delle Ande. La larghezza di questa striscia è limitata e non supera mai i 40-50 km, salvo allargarsi a circa 100 nelle regioni di Piura e Lambayeque, dove le Ande si allontanano un po’ dal mare e lasciano spazio a pianure relativamente estese. Apparentemente, l’ambiente della cultura Moche non si presenta per nulla ospitale, perché è caratterizza-

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In alto: Sipán. Particolare della tomba 14 durante gli scavi del 2008. A sinistra: un ambiente della Huaca de La Luna, una delle strutture cerimoniali della città capitale dei Moche, Huacas de Moche.

to da uno dei deserti piú aridi del mondo. Quest’ultimo è il risultato di due fattori: la presenza della catena delle Ande, che ferma le piogge dell’Amazzonia spinte verso ovest dagli alisei, e la Corrente di Humboldt, un immenso fiume d’acqua relativamente fredda (14-18 gradi), che «protegge» la regione dalle perturbazioni. A volte, però, per ragioni non ancora ben comprese, in teoria ogni 10-12 anni, la Corrente di Humboldt si indebolisce, la temperatura dell’acqua del mare aumenta di 4-6 gradi e si inverte il regime dei venti. La Costa del Perú viene

allora colpita da violente precipitazioni e, in qualche caso, da alluvioni impressionanti. È il fenomeno del Niño o ENSO (El Niño-Southern Oscillation), che prende il nome dal Bambino Gesú (niño vuol dire bambino in spagnolo), in quanto comincia a manifestarsi verso Natale.

una corrente che modera il clima Pur sviluppandosi in pieno Tropico (tra i 5° e 10° di latitudine Sud) la fascia occupata dai Moche non è particolarmente calda, grazie al già citato effetto rinfrescante della Cor-

rente di Humboldt. Tuttavia, lungo i 600 km dell’area interessata, le temperature cambiano leggermente a causa della latitudine (a febbraio, il mese piú caldo, la temperatura media massima è di 27° gradi a Chimbote, nel Sud, e di 30° a Chiclayo, nel Nord). Parallelamente, aumentano anche le scarsissime piogge, che, mentre a Chimbote non raggiungono i 15 mm all’anno, a Chiclayo sono circa 50 mm. Pur non potendo contare, quindi, su un consistente apporto di acque piovane, la vita nella costa non risultava particolarmente difficile, perché il deserto era interrotto con una certa regolarità dalle oasi fluviali formate dai piccoli fiumi a carattere torrentizio che dalle Ande scendono verso il Pacifico. Tali oasi erano originariamente occupate dal bosco secco tropicale, un particolare ecosistema formato di piante, soprattuta r c h e o 43


storia • moche

to carrubi, le cui radici riescono a raggiungere la falda freatica e a sopravvivere nei mesi e, a volte negli anni, senza piogge. Allora, nel bosco secco viveva un’abbondante fauna di cervi, orsi, puma, volpi e altri mammiferi che erano un’importante fonte di proteine animali. Ancor piú ricche erano le acque del mare, uno dei piú pescosi del mondo, che in epoca precolombiana doveva ospitare centinaia di migliaia di otarie e leoni marini. Per quanto la Costa Settentrionale

44 a r c h e o

sia abbastanza omogenea dal punto di vista geografico ed ecologico, le recenti ricerche archeologiche hanno portato a dividere l’area della cultura Moche in due zone: l’Area Moche Nord e l’Area Moche Sud, separate dalla Pampa de Paiján, un tratto di deserto privo di oasi fluviali di circa 60 km, che separa la valle di Jetepequete a nord dalla valle di Chicama a sud.

verso la complessità Per collocare la cultura Moche nel contesto dell’Area Peruviana, occorre ricordare che il lungo processo di passaggio dalla caccia e raccolta alla sedentarizzazione e all’agricoltura si era concluso con l’inizio del Formativo (2000200 a.C.), il periodo che vide la diffusione della terracotta, probabilmente «importata» dall’Area Amazzonica e/o dall’Area Intermedia. Erano inoltre iniziati quei processi che portarono alla nascita delle società complesse e alla strutturazione dei tratti culturali destinati a diventare panperuviani, come il Dio dei Bastoni o il «culto» delle montagne. Successivamente, con la fine del

In alto: Sipán. La Piramide Politico-Amministrativa e la Piramide Cerimoniale viste da sud. A sinistra: bottiglia in terracotta con ansa a staffa raffigurante un condor, dalla tomba 2 di Dos Cabezas. Moche Medio, 400-700 d.C. Trujillo, Museo de Sitio de Chan Chan. Nella pagina accanto: sonaglio in oro raffigurante Ai Apaec, la massima divinità Moche, che tiene nelle mani la testa di un sacrificato e un tumi (coltello sacrificale), da Sipán. Moche Medio, 400-700 d.C. Lambayeque, Museo delle Tombe Reali di Sipán.

Formativo, verso il 200 a.C., l’Area Peruviana vide l’alternarsi di periodi di unificazione culturale e di regionalizzazione. Seguendo il modello proposto dall’archeologo e antropologo statunitense John Howland Rowe (1918-2004), i primi sono chiamati Orizzonti e i secondi Periodi Intermedi. Il Formativo fu quindi seguito dal Periodo Intermedio Antico (200 a.C.-500 d.C.), dall’Orizzonte Medio (500900 d.C.), dal Periodo Intermedio Tardo (900-1470 d.C.) e dall’Orizzonte Tardo (1470-1532), che vide la nascita e l’espansione dell’impero inca (in realtà il modello di Rowe è leggermente diverso, perché prevede anche l’Orizzonte Antico, che qui, coerentemente con gli orientamenti di buona parte dell’archeolo-


primi studi e prime date Il fondatore degli studi sui Moche fu Rafael Larco Hoyle, un archeologo e imprenditore peruviano, di origine italiana, che aveva una grande azienda agricola a Chiclín, nella valle di Chicama e che nel contesto dell’oligarchia del tempo, si distingueva per una visione illuminata e una grande cultura. A lui si deve, nel 1948 ,la suddivisione della cultura Periodo Area Area Moche in cinque fasi che presupponevano una scansione Anno Sud Nord cronologica lineare. Tenendo conto che le ricerche recenti hanno in parte corretto il suo modello e precisando che ci sono scarti 600-850 d.C. Fase 5 Moche Tardo anche notevoli tra un sito e l’altro e tra un archeologo e l’altro, la 400-700 d.C. Fase 4 Moche Medio cronologia interna della cultura Moche può essere riassunta nel 250-450 d.C. Fase 3 Moche Antico quadro che qui accanto riportiamo. 200 (?)-500 (?) d.C. Fasi 1-2 ?

a r c h e o 45


storia • moche

gia peruviana, è collocato all’interno del Formativo). La cultura Moche si sviluppò durante il Periodo Intermedio Antico e, unitamente alla cultura Nasca della Costa Meridionale, è proprio uno dei punti di riferimento fondamentali che caratterizza questa epoca. Negli ultimi anni i «mochicologi» tendono a collocarla tra il 100 e l’850 d.C. Le date degli estremi, come sempre in questi casi, sono in parte convenzionali e c’è chi le sposta tanto verso il 200 a.C. quanto verso il 750 d.C.

un profilo sfumato Nonostante le ricerche piú recenti, spiegare oggi in poche righe che cosa sia la cultura Moche è piú difficile che ai tempi di Rafael Larco, il «fondatore» degli studi in materia (vedi box a p. 45). E se è vero che il compito della ricerca scientifica non è tanto, o non solo, quello di dare risposte, ma di suscitare nuove domande, occorre prendere atto che le campagne di scavo degli ultimi 25 anni sono servite egregiamente allo scopo. Tuttavia, studiare i Moche, a differenza di quanto avviene per Maya e Aztechi, vuol dire trovarsi quasi sempre al di qua «della barriera del significato»: si cerca un modello interpretativo convincente in grado di mettere insieme il puzzle dei dati di cui si dispone, ma il ritratto che ne esce rimane sempre sfumato. Queste incertezze sono dovute a diverse ragioni. In primo luogo, i Moche non avevano una scrittura e non c’è traccia dell’esistenza dei quipu, che, fino a prova contraria, sono solo uno strumento mnemotecnico e non una forma di scrittura vera e propria.Va poi considerato che l’irrimediabile distruzione dei siti archeologici cominciata nella colonia (si pensi che a Moche il fiume omonimo fu deviato per erodere la Huaca del Sol, dimezzando una costruzione che originaria46 a r c h e o

mente doveva svilupparsi per un milione e mezzo di metri cubi, per ritrovare circa 2800 kg d’oro). Inoltre, dopo il 1987, all’indomani della scoperta della tomba del Signore di Sipán (un re vissuto nel VII-VIII secolo d.C.), molte ricerche hanno assunto il carattere di una caccia al tesoro. Peraltro, l’interesse degli archeologi per le tombe inviolate di simili personaggi è comprensibile, poiché esse forniscono, oltre ai «tesori», molti piú dati per comprendere le pratiche funerarie preispaniche.

In basso: maschera funeraria in rame dorato, dalla Huaca de la Luna. Moche Medio, 400-700 d.C. Stoccarda, Linden-Museum.

Ma la difficoltà di ricavare un quadro definito delle dinamiche della cultura Moche è anche dovuta al fatto che non sono mai state condotte ricerche sistematiche ed estensive sulle aree popolate e manca, quindi, un quadro preciso dei fenomeni demografici e della nascita, dello sviluppo e della scomparsa dei centri urbani.


A destra: cartina della rete dei canali scavati nella valle del fiume Moche. In basso: ornamento di copricapo in rame dorato in forma di volpe, dalla Huaca de la Luna. Moche Medio, 400-700 d.C. Stoccarda, Linden-Museum.

Per ragioni a tutt’oggi sconosciute, verso la fine del Formativo, probabilmente a partire dal 400 a.C., le élite dei chiefdom (vocabolo con cui si designano comunità guidate da un capo, dall’inglese chief, n.d.r.) della costa intensificarono la costruzione di nuovi canali per l’irrigazione, che, a differenza di quanto generalmente si crede, almeno in una prima fase non erano di difficile realizzazione e potevano essere apprestati anche da comunità non molto grandi. La costruzione di questi canali e, probabilmente, l’utilizzo di varietà di mais e di zucche che garantivano una resa maggiore portarono a raccolti piú abbondanti e a un significativo sviluppo demografico.

nuovi rituali Questi successi rafforzarono il potere delle élite e le spinsero a introdurre una nuova ideologia e nuovi rituali, che legittimavano e ampliavano il loro potere. Il cambiamento fu modesto, ma decisivo, anche se le finalità delle pratiche religiose fondamentali rimasero, probabilmente, le stesse: garantire la fertilità dei campi e scongiurare siccità e/o inondazioni. Semplicemente, si passò da una religione che affidava agli sciamani e alle esperienze sciamaniche dei sacerdoti il compito di garantire l’equilibrio del cosmo, a una religione in cui la stessa funzione era garantita direttamente dalle élite. Queste ultime diventavano protagoniste di nuove forme di sacrifici e dei nuovi,

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spettacolari rituali, nei quali si reiteravano gli eventi dei miti cosmogonici e si associavano, probabilmente, le res gestae delle divinità a quelle dei lignaggi reali. Questi nuovi rituali, ovviamente, richiedevano nuovi paraphernalia (termine che indica l’insieme degli accessori propri di una determinata carica o classe sociale, n.d.r.) che dovevano servire sia nelle cerimonie, sia come corredo funerario, cosicché nell’inframondo ai sovrani non mancassero gli strumenti e i simboli del loro potere e anche lí potessero continuare a svolgere il loro ruolo. Questi paraphernalia erano formati dal complesso di terrecotte, ornamenti, vestiti e oggetti in oro, argento, rame dorato e rame che sono stati ritrovati nelle tombe delle élite e costituiscono il cuore di ciò che caratterizza i Moche e li distingue dalle altre culture costiere. Sebbene non si sappia dove tale (segue a p. 51) a r c h e o 47


storia • moche

moche: una nuova immagine A colloquio con Leonid Velarde Il nuovo MEG (Musé d’ethnographie de Genève; vedi box alle pp. 52-53) ha voluto dare il via alla sua attività espositiva con la mostra «I re Moche, divinità e potere nell’antico Perú», che, come rivela il titolo, prende in esame una delle culture piú intriganti dell’America precolombiana. Curata dagli archeologi Steve Bourget e Leonid

Velarde, l’esposizione riunisce circa trecento reperti, che provengono da alcuni dei piú importanti musei peruviani ed europei. La mostra si caratterizza per due aspetti. In primo luogo, presenta nuove interpretazioni, soprattutto sul piano iconografico, dei rituali che consentivano ai re Moche di legittimare il loro potere.

◆ Quali sono le idee alla base di

questa esposizione? Abbiamo voluto far conoscere un periodo storico ingiustamente vissuto come mitico e incomprensibile: quello che ha prodotto la cultura Moche delle Ande Centrali del Perú, una cultura che, pur non conoscendo la scrittura, ha saputo raggiungere livelli di abilità e un sapere che è giusto mostrare per uscire finalmente da una visione eurocentrica. Tutto ciò che è esposto esemplifica le cerimonie, i riti, i sacrifici umani, le guerre, gli esseri mitici e il loro rapporto con i fenomeni naturali, nonché gli

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In secondo, presenta gli oggetti piú importanti oggetti, circa un centinaio, scavati da Steve Bourget a Ucupe, un sito della Costa Settentrionale del Perú, prima in un progetto dell’Università del Texas di Austin e poi nel quadro delle attività di ricerca sul campo che da tempo sono uno dei fiori all’occhiello del museo ginevrino. In occasione dell’inaugurazione della mostra abbiamo incontrato Leonid Velarde. animali sacri simbolo del potere, che in genere erano predatori come il felino, il polpo, il ragno. Inoltre A sinistra: bottiglia-ritratto con ansa a staffa raffigurante un guerriero. 400-700 d.C. Berlino, Ethnologisches Museum. In basso: Ginevra. Un particolare dell’allestimento della mostra dedicata ai Moche dal nuovo MEG. Nella pagina accanto, in basso: bottiglia-ritratto con ansa a staffa raffigurante un uomo affetto da leishmaniosi, dalla Tomba 2 di Dos Cabezas. Moche Medio, 400-700 d.C. Trujillo, Museo de Sitio de Chan Chan.


qualità dei pezzi in metallo di Dos Cabezas e Ucupe, prestati eccezionalmente dal Ministero di Cultura del Perú, è altissima. Per non parlare ovviamente dei reperti di Sipán. Il pezzo in metallo che io amo di piú è una nariguera che rappresenta un gufo.

abbiamo voluto mettere in evidenza che la diversità del sapere umano non ha impedito la produzione di opere che sono diventate universali per il loro valore estetico.

◆ Che cosa si comprende

dunque seguendo l’esposizione? La mostra spiega che i Moche, e lo si vede chiaramente dai reperti esposti e dall’iconografia, avevano raggiunto una capacità nella gestione politica dello Stato, una creatività e un’attitudine artistica, sia nella ceramica che nella metallurgia, che sono al livello delle altre culture coeve del mondo.

◆ In questo percorso nel quale

prevale l’impostazione scientifica, si individuano comunque pezzi di grande valore estetico. Li vuole indicare? Effettivamente le terrecotte prestate dal Museo di Etnologia

In alto: maschera funeraria in rame dorato, conchiglie e resina, dalla Tomba 2 di Dos Cabezas. Moche Medio, 400-700 d.C. Trujillo, Museo de Sitio de Chan Chan.

di Berlino e dal Linden Museum di Stoccarda sono eccezionali. Naturalmente non si possono non ricordare gli «huacos retratos», che sono tra le opere Moche piú importanti esteticamente per il realismo e per l’abilità tecnica nella lavorazione dell’argilla. Inoltre le bottiglie di stile Moche IV, le cosiddette bottiglie di «linea fina», presentano disegni di prim’ordine. In particolare, c’è un pezzo che mi piace moltissimo, che rappresenta una scena del Sacrificio sulla Montagna, sul quale tutti i personaggi e le loro azioni sono facilmente identificabili. Anche la

◆ I reperti di Dos Cabezas sono stati ritrovati in tombe di individui affetti dalla sindrome di Marfan e nella mostra sono esposti diversi personaggi malati. Perché quest’enfasi sulla malattia? La malattia è ritenuta un momento di passaggio verso la morte, che non rappresenta la fine della vita, ma l’avvio al «nuovo mondo». Le persone malate erano il tramite con l’aldilà e ne favorivano il contatto. ◆ Quale valutazione dà di questa

esperienza? È sempre un problema tradurre in termini chiari anche per i non addetti ai lavori i dati scientifici degli scavi. L’adattamento alle esigenze museografiche ed espositive deve essere equilibrato. Quando si lavora in un museo questa sfida va affrontata con serenità e professionalità. Ma penso che nel nostro caso il risultato sia positivo.

dove e quando «I sovrani Moche Divinità e potere nell’antico Perú» Ginevra, Museo Etnografico fino al 3 maggio Orario martedí-domenica, 11,00-18,00; lunedí chiuso Info www.meg-geneve.ch

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storia • moche

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Nella pagina accanto: Huaca el Pueblo (valle di Zaña, Perú settentrionale). Il livello 13 della tomba del Signore di Ucupe in corso di scavo. La ricca sepoltura è stata indagata nell’ambito di un progetto di ricerca al quale ha partecipato, tra gli altri, anche il MEG.

processo ebbe inizio, dato che le élite della Costa Nord erano in contatto tra loro e condividevano i tratti culturali del Formativo, è lecito ipotizzare che la diffusione di questa nuova ideologia e dei suoi paraphernalia sia avvenuta in modo relativamente omogeneo e, in ogni caso, compatibile con le differenze cronologiche che emergono tra i diversi siti archeologici.

L’organizzazione sociale e politica Gli archeologi si sono a lungo domandati se la cultura Moche fosse espressione di un paramount chiefdom (una sorta di federazione di piú chiefdom – vedi nota a p. 47 – soggetti al controllo di un unico capo, n.d.r.) o di uno Stato centralizzato, forse il primo dell’Area Peruviana, o piuttosto di un insieme di valli-

Per chi scrive le diverse ipotesi sono plausibili, salvo quella di un chiefdom, perché le dimensioni delle costruzioni monumentali dei siti piú importanti e la divisione del lavoro necessaria alla realizzazione dei paraphernalia rituali, le differenze tra le élite e i ceti subalterni implicano l’esistenza di uno Stato. Tuttavia, nell’ipotesi di uno Stato

mostra che il tanto enfatizzato dirigismo incaico era in realtà molto blando e si limitava al controllo di alcuni centri, lasciando autonomie molto ampie alle élite locali. Nell’ipotesi di uno Stato centralizzato Moche non si deve perciò pensare che 1200 anni prima degli Inca esistessero politiche efficaci di controllo delle valli e delle popolazioni

In questa pagina: la maschera 1 (in alto) in rame argentato, conchiglie e resina, e la corona 7, in rame dorato (riassemblata dopo lo scavo), del Signore di Ucupe. Moche Medio, 400-700 d.C.

Stato, che condividevano la stessa ideologia. Parallelamente ci si è chiesti se le evidenti, ma non radicali differenze tra l’Area Nord e l’Area Sud possano essere ricondotte a due Stati.

centralizzato, non si dovrebbero proiettare sulle società antiche modelli di controllo del territorio propri della modernità. L’analisi dettagliata dell’effettiva presenza inca nella regione di Lambayeque, per esempio,

periferiche. È, invece, realistico ipotizzare che dalla capitale, certamente situata a Huacas de Moche, i detentori del potere si limitassero a chiedere un tributo alle diverse val(segue a p. 54) a r c h e o 51


storia • moche

cosí ginevra guarda all’«altro» A colloquio con Roberta Colombo Dougoud La mostra sui Moche attualmente in corso (vedi box alle pp. 48-49) è la prima esposizione temporanea del nuovo MEG (Musée d’ethnographie de Genève). La raccolta ginevrina conserva importanti collezioni etnografiche e archeologiche – si tratta, in tutto, di ben 80 000 reperti –, provenienti da tutte le aree culturali del mondo (e, in campo archeologico, risultano piuttosto importanti i nuclei delle culture protoclassiche del Messico occidentale delle culture costiere del Perú). Costato 68 milioni di franchi svizzeri (pari a circa 56 milioni di euro), il nuovo MEG occupa un edificio in gran parte interrato, che si sviluppa su 5 livelli nei quali trovano posto: la biblioteca, l’auditorium – con 250 posti a sedere –, due sale per i seminari, il ristorante, la boutique e due grandi spazi di 2000 mq complessivi per l’esposizione permanente e le mostre temporanee. La collezione permanente, denominata Les archives de la diversité humaine (Gli archivi della diversità umana), si sviluppa in due sale. Nella prima viene ripercorsa la storia del MEG e dello sguardo occidentale, e ginevrino, verso l’«altro». Nella seconda, molto ampia, sono presentati circa 1000 reperti, divisi tra cinque aree geografiche (i cinque continenti), che, a loro volta, si aprono in diversi percorsi tematici. Dell’allestimento abbiamo parlato con Roberta Colombo Dougoud, responsabile della sezione oceanica.

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◆ La sala principale del nuovo MEG

è molto densa e nelle vetrine ci sono molti oggetti. Potrebbe spiegarci con quale criterio li avete selezionati? Il direttore ha dato ai curatori la massima libertà, ma con l’indicazione di scegliere reperti importanti. E noi abbiamo scelto oggetti culturalmente significativi per la storia che raccontano e non tanto per le loro qualità estetiche.

◆ Come sono organizzate le sezioni

della collezione permanente? Ciascuna delle cinque sezioni, che si sviluppano nello spazio dedicato all’esposizione permanente, è introdotta da una carta geografica sulla quale sono individuati i Paesi da cui vengono gli oggetti. Ogni dipartimento è predisposto secondo l’impostazione scelta liberamente dal conservatore. Non vi è un criterio comune, perché ogni collezione ha una sua specificità e una sua storia, che vengono rispettate.

◆ Come ha pensato di presentare la

parte di sua competenza? Per quanto riguarda le collezioni dell’Oceania ho scelto di legare ogni

area geografica a un tema antropologico piú generale. Uno dei piú rilevanti è quello della navigazione, perché è molto importante capire in che modo le popolazioni della Polinesia siano arrivate nelle varie isole e quali conoscenze abbiano loro consentito di navigare nel Pacifico per migliaia di chilometri. A questo proposito mi è parso intrigante mostrare le loro carte geografiche (non si tratta di «carte geografiche» simili a quelle


Nella pagina accanto: due immagini dell’edificio che accoglie il nuovo MEG (Musée d’ethnographie de Genève). Il progetto è stato realizzato dallo studio Graber Pulver Architekten AG, associato allo studio di ingegneria civile Weber + Brönnimann AG. A destra: la biblioteca del museo, che conta un fondo di 45 000 titoli.

della cartografia occidentale, ma di modellini «sintetici», fatti con bastoncini piegati e legati tra loro, che rappresentano in modo molto schematico correnti, isole e venti, n.d.r.), che davano le informazioni per andare controvento e per tornare alle terre di partenza, qualora, durante i viaggi alla ricerca di nuove isole, avessero esaurito le scorte di acqua e cibo. Nella sezione della Polinesia Francese gli oggetti scelti hanno, invece, permesso di introdurre la questione del potere e un tema di genere, dato che le donne, e soltanto loro, producevano gli oggetti, in terracotta e soprattutto, i dipinti su sottocorteccia d’albero, che esse stesse disegnavano e che ancor oggi sono un oggetto di uso quotidiano e di prestigio.

◆ La sezione dell’Australia mi

sembra molto ricca... Effettivamente le nostre collezioni sono molto importanti e, per esempio, superano quelle del MQB (Musée du quai Branly, Parigi). Sono ricchissime di pezzi storici come i due alberi incisi (ce ne sono solo tre in Europa, uno a Basilea e due qui da noi), ma, purtroppo, non includono le pitture contemporanee con gli acrilici. La parte dedicata all’Australia privilegia la Terra di Arnhem, cosa che mi permette di parlare della pittura come espressione di identità e di introdurre il tema del culto dei morti: gli oggetti storici parlano del rapporto della morte con la vita, mentre le opere degli artisti

contemporanei rappresentano il mito tradizionale della creazione della morte.

◆ E la Nuova Guinea? Nella sezione sulla Nuova Guinea, un ampio spazio è riservato al Sepik. Qui è esposto un cranio rimodellato, scelto per raccontare il culto degli antenati. Ma il tema della morte è affrontato anche nella sezione dedicata alla Nuova Irlanda, dove presento le opere di artisti contemporanei e metto in evidenza, con la foto di André Breton (poeta, scrittore e polemista francese, 18961966), l’interesse degli intellettuali europei per l’Oceania ◆ La sezione dedicata a Vanuatu ha

invece un taglio diverso... Qui si introduce un tema di

antropologia politica, quello del sistema di gradi: gli uomini devono accumulare ricchezza che si trasforma nel prestigio che consente di salire i gradi delle società segrete. Il simbolo della ricchezza è il maiale; si sacrificano maiali per scalare la gerarchia e anche oggi le zanne del cinghiale sono rappresentate persino sulla bandiera.

dove e quando MEG, Musée d’ethnographie de Genève Ginevra, boulevard Carl-Vogt 65-67 Orario martedí-domenica, 11,00-18,00; chiuso tutti i lunedí, il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.meg-geneve.ch; e-mail: meg@ville-ge.ch

a r c h e o 53


storia • moche

li sotto il loro dominio senza interferire nel loro governo e nei loro rituali. In questo contesto la diffusione dei paraphernalia di cui si è parlato piú sopra e le differenze stilistiche e cronologiche tra un sito e l’altro potrebbero essere il risultato di normali e non rigide forme di imitazione centro-periferia.

una grave lacuna In ogni caso, per capire quale potrebbe essere lo scenario piú plausibile sarebbe fondamentale sapere che cosa fu trovato durante il periodo coloniale nella Huaca del Sol. Se, infatti, la costruzione avesse restituito reperti enormemente superiori a quelli ritrovati nella regione di Lambayeque, il Signore di Sipán potrebbe tranquillamente apparire un vassallo o il sovrano di uno Stato satellite; se, invece, il livello fosse grosso modo analogo, l’ipotesi di un certo numero di 54 a r c h e o

Stati sarebbe piú plausibile. In ogni caso sembra da escludere un processo di conquista militare a partire da Huacas de Moche, che pure è stato ipotizzato, eventualmente col trasferimento di un certo numero di coloni, solo per le valli piú meridionali dell’area Moche. Nel ricostruire l’organizzazione politica dei Moche sarebbe inoltre molto importante sapere se la Costa Nord fosse omogenea dal punto di vista etnico. Se si considera che alla vigilia della Conquista nella regione erano parlate cinque lingue diverse – quingnam, muchik, olmos, sechura e il tallan – e ipotizzando che questa situazione non fosse molto diversa da quella del periodo 100-850 d.C. e che lingue diverse fossero parlate da etnie diverse, risulta plausibile vedere nei Moche un complesso di popolazioni differenti, che condividevano una stessa cultura. In questo caso, considerando che il

quingnam era parlato nell’Area Moche Sud e le altre quattro lingue nell’Area Moche Nord (il muchik e l’olmos nella regione di Lambayeque e le altre in quella di Piura), avremmo un quadro che potrebbe attribuire anche a fattori etnici le differenze tra le due regioni.

il declino Verso il 600 e il 700 d.C. l’ideologia che aveva consentito alle élite Moche di governare per alcuni secoli si indebolí. Tra le probabili cause, sono stati ipotizzati fenomeni ambientali, e, in questo caso, si tratterebbe di episodi di Niño di portata eccezionale, che pure hanno lasciato tracce ben visibili dal punto di vista archeologico. Ma, come nel caso del collasso delle città maya del Periodo Classico, simili modelli non risultano plausibili. In passato si era pensato a una conquista Huari (cultura preincaica


A sinistra: una veduta del complesso della Huaca de La Luna. In basso: San Josè de Moro. Resti di strutture del centro cerimoniale.

attestata tra il VII e il X secolo), ma mancano le prove di un dominio diretto, che, peraltro, sono state scoperte recentemente nella Valle di Huarmey, ai confini meridionali dell’area Moche. E oggi sembra certo che la cultura Moche non fu

cancellata dall’impero Huari, ma continuò a svilupparsi, pur mostrando forti cambiamenti, per imboccare la via del declino cento o duecento anni prima della fine dell’Orizzonte Medio. Le élite Moche, che fino all’emergere della cultura Huari avevano vissuto in una sorta di splendido isolamento – pur avendo avuto rapporti di scambio e di conflitto con le popolazioni della sierra –, dovettero confrontarsi con un pesante convitato di pietra, che possedeva un’altra ideologia e, soprattutto, poteva fornire alle élite Moche estranee ai lignaggi reali modelli alternativi di gestione del potere. In un primo tempo furono introdotti stilemi Huari nei reperti rituali, poi, all’improvviso, questo processo s’interruppe e gli elementi che per secoli avevano caratterizzato la cultura Moche scomparvero. Probabilmente era crollato il sistema politico del quale quei paraphernalia erano espressione. Dopo il collasso si svilupparono le culture Sicán-Lambayeque nella regione di Lambayeque e Chimú in quella di La Libertad, che conti-

nuarono a riproporre evidenti tratti culturali Moche. Questa situazione, tuttavia, durò solo pochi secoli, perché l’area della cultura Moche ritrovò la sua unità nel 1375, quando i Chimú conquistarono la regione di Lambayeque e parte di quella di Piura. Infine, nel 1470 gli Inca, dopo un’aspra guerra, sconfissero i Chimú e imposero il loro dominio. Nel 1532 arrivarono gli Spagnoli, che per raggiungere Cajamarca, la città dove catturarono Atahualpa, attraversarono le regioni di Piura e Lambayeque. Il loro passaggio e la successiva nascita della Colonia non suscitarono alcuna opposizione da parte delle élite locali, che, in genere, gli Inca e gli stessi Chimú avevano lasciato al loro posto.

ma non tutto scomparve Leggendo di una cultura che «collassa» non si può non pensare ad avvenimenti traumatici, quali furono la distruzione di Cartagine o le invasioni barbariche e la fine dell’impero romano. E, immaginando che il collasso dei Moche sia stato un avvenimento analogo, ci si può chiedere che cosa sia accaduto alle diverse popolazioni che facevano parte di quella cultura quando il loro sistema politico crollò. La risposta è semplice: quasi nulla. Accadde, semplicemente, che le élite, cambiarono idea, abbandonarono le vecchie pratiche religiose e i vecchi rituali per adottarne di nuovi. È verosimile credere che alcuni lignaggi reali si siano estinti o siano comunque decaduti. Ma i pescatori continuarono a pescare e i contadini a coltivare la terra perché i canali di irrigazione continuavano a funzionare. I soli a risentire in qualche modo del collasso furono gli artisti e gli artigiani, che, nel giro di qualche decina d’anni (a volte anche meno), furono costretti ad abbandonare stilemi secolari per adottarne di nuovi. a r c h e o 55


56 a r c h e o


Il dio

sfuggente qualche anno fa, una tomba infantile della necropoli di alghero aveva restituito una statuetta in terracotta all’apparenza anonima. un esame piú approfondito del reperto sembra però portare a una conclusione molto diversa: la piccola immagine non potrebbe, forse, essere il ritratto del dio bambino, allievo e figlio di esculapio, nume tutelare della medicina? di Alessandra La Fragola

I

l territorio della Nurra di Sardegna, nella provincia di Sassari, è ben noto per la sua vocazione turistica: i suoi due centri principali – Alghero e Porto Torres – hanno entrambi una lunga storia alle spalle, ma qui ci soffermeremo su un periodo assai breve, compreso tra il I e il II secolo d.C. In quest’epoca, l’isola è da tempo una provincia romana, melting pot di genti che si mescolano a seguito di contatti commerciali, deduzioni di coloni e assegnazioni di appezzamenti di terra a veterani di guerra, riorganizzazione di latifondi da parte di liberti (come Claudia Atte, amata da Nerone e poi relegata nell’isola) e facoltosi cittadini romani. Gli scambi marittimi nel Mediterraneo nord-occidentale, in questo periodo, si concentrano sulla rotta ovest-est – che dalla penisola iberica porta a Ostia,

A destra: la statuina in terracotta rinvenuta in una tomba della necropoli romana di Alghero e identificabile con un’immagine del piccolo Telesforo, l’allievo-figlio di Esculapio. Nella pagina accanto: gruppo scultoreo in marmo bianco raffigurante Esculapio e Telesforo, dall’Italia. Età imperiale. Parigi, Museo del Louvre. a r c h e o 57


SCOPERTE • sardegna

attraverso le Baleari, la Nurra, le Bocche di Bonifacio e Olbia – e sulla rotta nord-sud, che dalle coste meridionali della Gallia conduce in Africa attraverso la Corsica e, in Sardegna: Bosa, Tharros, Sant’Antioco, Nora e Cagliari.

snodo nevralgico Nella prima età imperiale, Porto Torres (Turris Libisonis) è una colonia fiorente, ricca di terme e palazzi riccamente decorati a mosaico. Il territorio di Alghero, invece, è sede di un centro piú piccolo, Carbia, poco piú di una statio (luogo di posta) lungo la direttrice costiera che da Turris arriva sino a Cagliari. Minore per dimensioni e monumentalità, Carbia è però un luogo di scambio tra la costa e l’interno dell’isola e, ancora in età romana, mantiene un ruolo d’importante centro cultuale grazie a un santuario esistente già in età nuragica e poi frequentato sino all’epoca tardo antica (IV secolo d.C. almeno). Le necropoli di Turris circondano la città antica, con tombe caratterizzate spesso da lapidi funerarie e forme talvolta imponenti. Il sepolcreto di Carbia, invece, individuato presso la collina di Monte Carru per l’età pienamente imperiale (I-

Santa Teresa di Gallura

La Maddalena

Olbia

Porto Torres Sassari Alghero

Mar di Sardegna

Nuoro

Cabras

Mar Tirreno

Oristano

Iglesias

Cagliari

Quartu Sant’Elena

Sant’Antioco

A destra: Monte Carru di Alghero (Sassari). La sepoltura infantile del cui corredo faceva parte la statuina in terracotta identificata con Telesforo. I-II sec. d.C. In basso: ricostruzione grafica della deposizione del bambino all’interno della tomba, assieme alle cui spoglie viene deposto il corredo, comprendente la statuina. Nella pagina accanto, in basso: altri elementi del corredo della tomba: la statuina in terracotta raffigurante una figura femminile ammantata, forse una nutrice, una coppa a due manici e una brocchetta.

III secolo d.C.), non ha conservato segnacoli funerari. Ciò che accomuna entrambi i cimiteri è però la somiglianza dei corredi funebri, la cui composizione tipica, in questo periodo, è costituita da una moneta, una lucerna fittile, un piatto, un vasetto/bicchiere e una brocca in ceramica o vetro. È molto probabile che vi fossero anche stoviglie in materiale organico (legno, giunco), le prime ovviamente a distruggersi nel tempo. E proprio dalle necropoli di Carbia e Turris Libisonis ha inizio la nostra 58 a r c h e o


storia. Nel 2007, ad Alghero, lo scavo di una tomba del I secolo d.C. resituisce, insieme al resto del corredo, tre statuine fittili.

un caso unico Si tratta di un unicum in tutta la parte indagata della necropoli (350 tombe circa), sia per la tipologia della sepoltura – che è l’unica deposizione infantile distinguibile da tutte le altre, per via di basse spallette a secco a delimitarne lo spazio – sia per la presenza delle tre statuette nel corredo: un’apparente nutrice, a r c h e o 59


SCOPERTE • sardegna

minciano a essere studiate e a raccontare la loro storia. Per assurdo, la prima identificata è proprio il piccolo «siluro», che, in realtà, è un personaggio stante, totalmente avvolto in un mantello dal cappuccio a punta che lascia scoperti solo i piedi e il volto; i tratti del viso sono paffuti, come quelli di un bambino, i piedi scalzi, come quelli delle divinità a carattere ctonio. Queste caratteristiche permettono di identificarlo con Telesforo («colui che porta oltre»), il dio bambino meravigliosamente sfuggente nelle sue tante sfumature, giunto dall’Oriente mediterraneo fino nella Nurra sarda, dove fu venerato con ogni probabilità già all’interno di culti domestici e poi lasciato a custodia dei piccoli defunti.

un busto vagamente femminile e una sorta di piccolo siluro, quasi del tutto consunti per via della fragile argilla pastosa con cui furono fabbricati. Consumate, quasi illeggibili, ma certamente con una storia da raccontare, le tre statuette vengono inviate al restauro e, come a volte accade, dopo un po’ ci si dimentica di loro.

Il piccolo dio A distanza di tempo, una ricognizione delle vetrine del vicino Antiquarium Turritano svela l’esistenza di altre rare figurine provenienti dalle necropoli della città, meglio conservate nei contorni e definite genericamente «genietti» dagli studiosi degli anni Ottanta del secolo scorso. Fotografate per altri studi, le statuette di Porto Torres cominciano a suscitare una crescente curiosità perché sono in parte uguali a quelle rinvenute ad Alghero. Nel frattempo emergono nuovi confronti bibliografici e, finalmente, dopo qualche anno, le statuette co-

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In alto: statuine identificabili con Igea e Telesforo, da una sepoltura infantile di Porto Torres. A sinistra: stele marmorea su cui compare la triade Igea-TelesforoEsculapio, da Kyustendil (Bulgaria). II-III sec. d.C. Kyustendil, Museo Regionale di Storia Jordan Ivanov. In basso: restituzione grafica di una moneta di Commodo raffigurante anch’essa la triade IgeaTelesforo-Esculapio. Conio di Pergamo, 177-192 d.C.

la vera guarigione Dio della convalescenza, ma anche divinità che accompagna i morti nell’oltretomba, in particolare i bambini, Telesforo è insieme dio guaritore e dio infero, che affianca i piccini anche in quella che alcuni studiosi ipotizzano la vera guarigione dalla convalescenza della vita, cioè la morte. Le statuette sono pertanto una sorta di pensiero compensativo della perdita subita, un ultimo atto di protezione e amore da parte di genitori forse solo un po’ piú abbienti di altri, che non potevano, invece, permettersi la riproduzione in terracotta dell’effigie del dio, bensí soltanto qualche offerta o nulla piú di un’addolorata preghiera. Quelli erano tempi difficili per i bambini, in cui la malattia poteva nascere anche dall’infettarsi di un semplice graffio (alcune tracce di infezioni letali si rinvengono ancora oggi, osservando infiammazioni


penetrate sino al tessuto osseo, periostiti, in particolare tibiali) ed evolvere rapidamente in morte. Telesforo, come detto, è un dio sfuggente. Poco noto e scarsamente rappresentato anche in età antica, è portatore di un culto da sempre definito raro, ma che, con la dovuta

Qui sotto: la statuina fittile verosimilmente identificabile con Telesforo e la sua restituzione grafica, dalla necropoli di Porto Torres. In basso, a destra: metatarsali di gallo con speroni, dal santuario La Purissima di Alghero. L’animale era sacro a Esculapio.

Igea, raffigurato in triade con entrambi, o anche da solo. A Roma approda da Epidauro (Grecia) sull’isola Tiberina, nel santuario dedicato al padre al cui culto viene associato a partire dal 292 a.C. Intorno al 100 a.C., lo troviamo anche nel tempio della Magna Mater sul Palatino, dove dev’essere giunto per tramite di Attis (figura connessa alla Magna Mater Cibele), a cui Telesforo è a sua volta legato da un sincretismo, se pur poco noto.

la versione celtica Nel Nord Europa esiste inoltre una divinità di cui si discute da decenni l’affinità con Telesforo: è il genius cucullatus di origine celta o galata, del tutto assimilabile al nostro per il vestiario, ma che compare per lo piú in triade con se stesso o singolarmente, anche in veste di adulto barbato itifallico, la cui funzione scaramantica risulta chiara soprattutto nelle tombe. In Italia è attestato perlopiú nel Nord-Est. Oltre che nei santuari a lui espres-

Osservando con attenzione la statuetta, si può riconoscere l’immagine di un bambino, dal volto paffuto, avvolto in un mantello con cappuccio e con i piedi scalzi attenzione, si riesce a rintracciare soprattutto nei livelli piú semplici di devozione popolare. Si tratta, però, di tracce labili, per via della povertà dei materiali con cui quelle comunità ne realizzavano i simulacri. È infatti possibile che, ad accompagnare i piccoli defunti nell’oltretomba, fossero perlopiú immagini intagliate nel legno o nel corno: in Sardegna la tradizione dell’intaglio è tuttora forte, ma il clima dell’isola difficilmente consentirà di trovare resti di questo tipo.

Non è questa la sede per illustrare il forte sincretismo che lega Telesforo ad altre divinità, rendendone cosí problematica l’individuazione. Ci limiteremo a sottolineare solo alcune delle valenze piú note. Originario probabilmente dell’Asia Minore, Telesforo entra nel tardo pantheon greco a partire dall’età ellenistica, come allievo-figlio di Asclepio/ Esculapio e assume il carattere di dio guaritore. Da quel momento cammina nel mondo del mito a fianco del dio padre, con la sorella a r c h e o 61


SCOPERTE • sardegna Statuina in terracotta che raffigura un giovane intento alla pratica dell’incubazione, da Nora. Il rito consisteva nel giacere in un luogo sacro, fino ad addormentarsi e a sognare: tali sogni, creduti inviati dall’entità extraumana titolare del santuario in risposta ai quesiti del fedele, venivano poi interpretati dagli indovini. Nel caso di Telesforo, si credeva che il dio avrebbe cosí comunicato la cura da seguire per ottenere la guarigione.

la guarigione arriva in sogno Tra le prerogative di Telesforo, vi è quella dell’incubazione, (dal latino incubare, covare), connessa al suo carattere salutifero, che del resto caratterizzava anche il padre e la sorella. Come Asclepio e Igea, negli hospitalia allestiti nei santuari greci a loro dedicati, con tanto di medici al loro interno, il piccolo dio appariva ai malati durante il sonno (probabilmente indotto da oppiacei), indicando loro la cura da seguire per guarire. Quanto alla Sardegna, è nota l’esistenza a Nora, città posta sulla costa sud dell’isola, a breve distanza da Cagliari, di un tempio di Eshmun/Esculapio importante già in età punica e poi romana. Da lí provengono statuette fittili di giovani dormienti/incubanti, di cui uno avvolto dalle spire del serpente/Esculapio. Questa iconografia non ha nulla a che vedere con Telesforo, ma dimostra la conoscenza nell’isola della pratica dell’incubazione, almeno in connessione con il dio maggiore della triade salutifera. Sempre in Sardegna, altre notizie interessanti arrivano da Sulki (Sant’Antioco), dove recentemente è stato identificato un tempio dedicato anch’esso a Eshmun/Esculapio, in cui gli studiosi ritengono che si praticasse l’incubatio. Anche se finora in nessuno di questi luoghi sono state rinvenute (o riconosciute?) statuette di Telesforo, che cosa impedisce di postulare una possibile conoscenza/presenza del piccolo dio, accanto al padre Esculapio, magari raffigurato con le sembianze generiche di un fanciullo incubante?

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come non pensare che i devoti si rivolgessero anche al dio guaritore per eccellenza – e, perché no, a suo figlio Telesforo – come lascia intuire, tra le altre, l’offerta di galli, che erano animali sacri a questa divinità?

toponimi parlanti Qualche altro indizio si ricava dall’onomastica e dalla toponomastica della Sardegna. A Porto Torres è stata rinvenuta un’epigrafe funebre del II secolo d.C. apposta da un padre, che di cognome fa Telesphorus, sulla tomba del proprio figlio. Alla periferia di Cagliari, invece, in età giudicale (IX-XV secolo d.C.) il toponimo Santa Igia designava la capitale del Giudicato di Cagliari, una città quasi perduta nella sue tracce materiali, che però le fonti consentono di collocare presso l’at-

La presenza di ex voto riconducibili alla triade Igea-Esculapio-Telesforo prova la diffusione dei culti salutiferi samente dedicati, Esculapio veniva evocato anche in relazione ai culti delle acque salutari e la Sardegna è disseminata di luoghi sacri di questo tipo, attestati da consistenti depositi di terrecotte votive. Uno di essi si trova proprio ad Alghero, dove l’imponente pozzo nuragico-romano abbonda di ex voto, soprattutto anatomici. Il santuario è panteistico, ma

tuale stagno di Santa Gilla (toponimo che è una deformazione del nome originario). In questa zona, frequentata già in epoca punica e poi romana, sono state rinvenute bellissime terrecotte in parte legate alla sanatio. Sembra dunque plausibile che il toponimo nasca proprio dalla presenza nelle vicinanze di un culto di Igea che, come abbiamo


A destra: statua di Igea. I sec. d.C. Kassel, Antikensammlung. In basso: terracotta raffigurante una mano che tiene un serpente, da Santa Gilla (Cagliari). Il confronto tra le due immagini ne evidenzia l’affinità e rafforza l’ipotesi che il toponimo della località sarda non sia altro che una deformazione dell’originario Santa Igia, a sua volta discendente dal nome della dea legata a Esculapio. La circostanza è un’ulteriore conferma della diffusione, fin da epoca antica, dei culti salutiferi nell’isola.

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SCOPERTE • sardegna

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Un confronto simile a quello della mano che tiene il serpente (vedi a p. 63). In questo caso si tratta della mano che regge un rotolo di pergamena. Lo vediamo qui

attestato da una terracotta rinvenuta a Santa Gilla e da una statua di Esculapio, proveniente dall’Isola Tiberina (Roma), dove sorse, nel III sec. a.C., un tempio dedicato al dio

della medicina. La scultura è la copia romana di un originale greco e risale al II sec. d.C. È conservata a Roma, nel Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps.

detto, era la sorella di Telesforo, anch’essa dotata di virtú terapeutiche come il padre e il fratello. Le terrecotte, del resto, forniscono indizi significativi in tal senso, giacché fra di esse vi sono una mano con un serpente, che ricorda quella di Igea nell’atto di nutrire il serpente da una coppa, tenendolo avvolto nel braccio, e una mano che stringe un rotolo, riconducibile all’iconografia di Esculapio. Esculapio, Igea e Telesforo: quest’ultimo – per ora – risulta attestato solo tra le comunità di Carbia e Turris Libisonis, nella sua accezione di protettore dei bambini. Ma perché proprio in questo territorio? Il rinvenimento in Spagna di diverse statuine in terracotta raffiguranti il piccolo dio, talvolta anche in forma di tintinnabulum (campanello), con-

sente di ipotizzare un suo arrivo nella Nurra dalla penisola Iberica, attraverso la rotta che nella prima età imperiale la collegava alle coste della Sardegna settentrionale.

noscere in altri luoghi e in altre forme. Per il momento ci accontentiamo di averlo ritrovato a far compagnia ai piccini morti nella Nurra e speriamo che possa accompagnare anche i lettori-vacanzieri a fermarsi nel Museo della Città di Alghero, la cui apertura è imminente, e nell’Antiquarium Turritano di Porto Torres: qui, insieme a tanti altri volti e storie del passato, li aspetta il piccolo dio, finalmente riscoperto nonostante la sua millenaria capacità di rimanere nell’ombra.

gli armatori di turris Ma Telesforo può essere arrivato anche da Roma, sulle navi di quei navicularii Turritani, imprenditori marittimi di Turris Libisonis, cosí attivi nel porto di Ostia da lasciare traccia di sé nei mosaici del cosiddetto piazzale delle Corporazioni, una piazza porticata la cui decorazione musiva rende omaggio alle attività commerciali che facevano la ricchezza della città. La ricerca su Telesforo in Sardegna non è ancora finita ed è assai probabile che il dio bambino (e con lui la sorella Igea) non tardi a farsi rico-

La scoperta di Telesforo è avvenuta nell’ambito delle ricerche effettuate da chi scrive per uno studio in corso con l’Università di Pisa, in collaborazione con Daniela Rovina e Gabriella Gasperetti della Soprintendenza Archeologica per le province di Sassari e Nuoro. a r c h e o 65


civiltà cinese • le origini/1 Passeggiando su un sentiero in primavera, foglio d’album di Ma Yuan, dipinto a inchiostro e colori. XIII sec. Taipei, Museo di Palazzo.

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TUTTO

L’universo in una PENNELLATA fin dalle attestazioni piú antiche, che risalgono all’età preistorica, l’arte pittorica cinese si è ispirata a un’idea guida ben definita: le immagini, quali che fossero la composizione delle scene o lo stile di volta in volta elaborato, dovevano sempre ribadire l’atavico legame dell’uomo con la natura di Marco Meccarelli

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concetti di pittura, scultura e architettura succedutisi nel tempo dipendono da come ogni cultura ha veicolato la propria visione del mondo. Abbiamo finora analizzato in che modo la civiltà cinese si sia relazionata con la scultura e l’architettura (vedi «Archeo» nn. 359 e 360, gennaio e febbraio 2014). Mancava l’ultimo «tassello»: la pittura, le cui radici vanno rintracciate nel codice pittografico e ideografico, condiviso in tutto il mondo, dell’arte rupestre. Le famose pitture scoperte nelle grotte di Lascaux, nella Francia sud-occidentale, realizzate intorno ai 20 000 anni fa e che sono

valse al sito il soprannome di «Cappella Sistina del Paleolitico», sono tra le prime prove evidenti in Europa di uno dei piú significativi strumenti visivi con cui l’uomo delle origini ha «raccontato» se stesso; proprio come le incisioni rupestri in Mongolia Interna (Yinshan) lo sono per il continente asiatico (vedi «Archeo» n. 352 giugno 2014; anche on line su archeo.it). Sebbene siano molto piú tardi (IX millennio a.C.) e non comprendano pitture, i petroglifi mongoli attestano una continuità storica eccezionale, fino all’ultima dinastia Qing (1644-1911), e condividono con la pittura lo a r c h e o 67


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stesso valore estetico che la civiltà tura Yangshao (5000-3000 a.C.), so- quadrate, a festoni o a rete, cosí cocinese ha conferito al «segno», sin- cietà complessa che estese la propria me le curve allungate, talora sovraptesi grafica della realtà piuttosto che influenza culturale lungo le valli del poste, terminano a spirali. Fiume Giallo, mostrano motivi di- Sembra già formularsi uno degli tratto convenzionale. Occorre spostarsi nel Sud, nella lus- pinti con variazioni infinite su sem- aspetti fondanti della tradizione pitsureggiante provincia dello Yunnan plici temi di linee e punti: talvolta è torica cinese: l’inalienabile volontà (a Jinsha e a Cangyuan) per trovare, la superficie esterna del vasellame di raffigurare, sul limite dell’astrattiin buono stato di conservazione, che risulta completamente decorata smo, mediante una colossale operaimmagini dipinte su pareti rocciose, con spirali e figure geometriche zione di sintesi visiva, l’energia che risalenti a 3000 e 2000 anni fa, di disposte in fasce orizzontali (terra- infonde vitalità alla forma. Già da allora viene confer ita colore rosso scuro, che rafgrande enfasi alla linea, sefigurano, secondo un ordine compositivo gerar- Rappresentare l’energia che gno ineluttabile del dinachicamente strutturato, dà vita alla forma: è questo mismo ritmico. In altri casi i soggetti principali scene di caccia, pastorizia, agricoltura e celebrazioni uno dei dettami della pittura che dominano la decorazione rappresentano la virituali, con acrobati e giocolieri, attività solitamente associate cotta dipinta di Maodigou, Henan, ta di tutti i giorni, laddove volatili, V millennio a.C.); in altri casi anche pesci, asce di pietra vengono ritratte alle minoranze etniche. Nel Neolitico ingenti testimonian- la superficie interna viene dipinta con uno stile pittorico decisamente ze pittoriche sono state rintracciate con gruppi di «immagini totemi- sofisticato. sui manufatti in terracotta e segna- che» raffiguranti maschere o sogget- In base all’analisi dei reperti finora lano uno spiccato senso decorativo ti del mondo faunistico, effigi di rinvenuti, va fatto risalire almeno che si confonde sempre con il rito, probabile valenza sacra. Lisce o se- all’epoca Shang (1600-1050 a.C.) il condiviso dall’intero tessuto sociale. ghettate, le linee ondeggiano e si passaggio dei motivi pittorici sui Le testimonianze riferibili alla cul- incrociano, fino a formare figure tessuti, primo fra tutti la seta, simbo-

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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

lo della civiltà cinese (vedi «Archeo» n. 358, dicembre 2014). I soggetti decorativi sono geometrici e comprendono una considerevole gamma cromatica ottenuta con l’uso di un pennello morbido, ma non mancano le immagini zoomorfe e/o appartenenti all’antico repertorio mitico cinese, spesso ritratte sui reperti in lacca. La decorazione del piú prezioso e creativo tra i rivestimenti che la natura abbia mai offerto, la lacca appunto, diviene particolarmente frequente nel periodo che precede l’unificazione imperiale, soprattutto durante il fiorente regno di Chu (V-III secolo a.C.), nella Cina meridionale, lungo la media valle del Fiume Azzurro (Yangzi). Lo stile raffinato e maestoso convive con un gusto profondamente sciamanico, tra divinità, bizzarre creature e leggende mitiche, senza disdegnare anche la rappresentazione di scene di vita quotidiana, processioni, battaglie e ritratti di personalità locali.

Nelle decorazioni è già visibile un altro procedimento compositivo tipico dell’arte pittorica cinese: la suddivisione spaziale (scandita da immagini sovrapposte, di varie misure e separate da diversi piani livello) è strettamente connessa con la scansione temporale delle vicende descritte; un procedimento che trovò poi la massima espressione nella grande tradizione dei rotoli dipinti.

il drago e la fenice In questo periodo è molto fiorente anche la pittura a inchiostro su seta, come attestano i due stendardi, risalenti al III secolo a.C., scoperti a Changsha (Hunan), che riproducono, ritratti di profilo: una figura femminile con una fenice e un uomo con un drago. La linea assume in questo caso un chiaro valore estetico e si distingue già per morbidezza, fluidità, dinamismo e configurazione armoniosa. Il centro politico e religioso, inteso anche come luogo di creazione e di

In alto: Anping, provincia di Hebei. Pittura murale raffigurante un corteo di carri e cavalli, da una tomba degli Han Orientali. Nella pagina accanto: vaso in terracotta dipinta, a Baoji (Shaanxi). Cultura Yangshao, 5000-3000 a.C. Pechino, Museo Nazionale della Cina.

fruizione dell’arte, non è piú il tempio ancestrale: i «nuovi» luoghi del potere sono ormai i palazzi e i mausolei imperiali, un passaggio che giustifica l’impressionante varietà della produzione pittorica finalizzata ai corredi funerari. Non essendosi conservati gli alzati delle residenze degli imperatori, sono le fonti scritte, i resti rinvenuti durante le campagne di scavo e, soprattutto, le tombe a fornirci una panoramica dell’evoluzione pittorica cinese. Una sezione sopravvissuta delle imponenti mura trovate lungo un corridoio nel Palazzo 3 a Xianyang (Shaanxi) – capitale dell’impero nel III secolo a.C. – ritrae una proa r c h e o 69


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cessione di carri al galoppo, assieme a un frammento che illustra una dama di corte vestita con una lunga gonna dall’ampio orlo inferiore. Oltre a segnalarci la grande opulenza che dovevano trasmettere i luoghi di residenza imperiale, queste immagini riccamente decorate senza l’ausilio di contorni, vengono oggi considerate i primi esempi della tecnica pittorica cinese conosciuta come stile mogu (senza ossatura). La grande fioritura della pittura funeraria va rintracciata nel periodo Han (206 a.C.-220 d.C.), soprattutto nelle famose tombe di Mawangdui (Changsha) del II secolo a.C., dove immagini diverse, su 70 a r c h e o

molteplici oggetti, rispettano un coerente programma iconografico, attinente alla consacrazione del luogo di sepoltura regale.

morte e rinascita Incastonate l’una dentro l’altra, tutte e quattro le bare in legno laccato della Marchesa Dai presentano un vocabolario figurativo (personaggi mitici e animali compositi) e una scelta cromatica (nero e rosso) che vertono sul desiderio di protezione dopo la morte, di rinascita, ma anche di immortalità. I temi pittorici ricorrono su tutte le numerose suppellettili, cosí come sul famoso stendardo in seta, steso sopra la bara piú

interna e lungo circa 2 m. Dal punto di vista iconografico, esso ritrae il passaggio dalla morte terrena a una dimensione ultraterrena e stilisticamente presenta una combinazione di elementi inseriti secondo un preciso ordine prospettico oltreché simbolico. Nel I secolo d.C. mentre lo sviluppo della pittura funeraria sembra rallentare a favore dell’improvvisa popolarità delle sculture in pietra, allo stesso tempo, tra i motivi decorativi, viene accennato un tema che divenne, nei secoli successivi, il soggetto prediletto in pittura: il paesaggio. Con il crollo della dinastia Han si assiste a uno dei periodi piú turbo-


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto i quattro tesori dello taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium delle La calligrafia è la piú nobile quasped non etur reius nonem arti chequos si praticano in Cina e quam expercipsunt quos rest condivide con la pittura siamagni le autatur apicche teces enditibus teces. tecniche la qualità espressiva:

ogni calligrafo mira a imprimere sulla carta il proprio qi, la propria «energia-materia», attraverso l’acquisizione progressiva della tecnica di utilizzo del pennello. L’arte calligrafica comprende stili diversi: da quello sigillare (zhuan shu), che deriva da un adattamento dei caratteri arcaici, a quello d’erba (cao shu) piú estroso, quasi astratto, ai limiti dell’illeggibilità, ma profondamente artistico. Per la calligrafia sono necessari la carta, il pennello, l’inchiostro e la pietra per l’inchiostro, noti come «i quattro tesori dello studio» (wenfang si bao): si tratta degli stessi strumenti utilizzati in pittura. Il pennello comprende un manico di bambú e peli che

studio anche polvere di giada, di perle e di lacca grezza. Per rendere l’inchiostro liquido, si utilizzava una pietra particolare, che veniva accuratamente selezionata, lavorata e scolpita. Pur nelle forme piú varie, squadrate o arrotondate, essa comprendeva sempre una duplice vaschetta, che raccoglieva nella parte piú profonda l’acqua e, nella parte piú spaziosa, la polvere ottenuta sfregando la tavoletta d’inchiostro. Quando il pittore maneggiava il pennello, l’inchiostro creava diverse sfumature di colore sulla speciale carta cinese, tra cui si distingueva quella di riso (xuanzhi). Fondamentale era, infine, il sigillo, generalmente fatto di pietra, sul quale speciali intagliatori incidevano il nome.

Sulle due pagine: Ammonimenti della istitutrice alle dame di corte, rotolo dipinto da Gu Kaizhi (344 circa-406 circa) e conservato in una replica forse databile al VI-VIII sec. Londra British Museum. Nella pagina accanto e in basso sono illustrati due particolari dell’opera: la camera da letto del palazzo imperiale e le dame di corte intente alla toletta.

lenti della storia cinese che vede l’impero frantumarsi in numerosi regni in lotta tra di loro, molti dei quali di origine straniera, in concomitanza con l’affermazione di un nuovo culto proveniente dall’India che, di lí a poco, avrebbe stravolto il substrato sociale, culturale, artistico oltreché sacrale della Cina antica: il buddhismo. Nel conferire nuova vitalità espressiva, arricchendo il pantheon religioso di numerosissime divinità, il buddhismo divenne anche il fulcro dell’indagine pittorica nelle monumentali architetture rupestri. Quel-

potevano essere di donnola, martora, puzzola, lepre, coniglio, cervo o lupo. La loro morbidezza o durezza consentiva un’enorme padronanza del tratto e un controllo totale del modo in cui ciascun artista sceglieva di tracciare le linee. L’inchiostro veniva utilizzato sotto forma di tavolette nere, spesso riccamente decorate con coloratissimi soggetti, ornamenti d’oro o esempi di calligrafia cinese. Era formato da fuliggine o nerofumo impastato con colla e aromatizzato con canfora o muschio, e, talvolta, conteneva

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le di Mogao (Dunhuang, Gansu), a partire dal IV secolo in poi, ci offrono il repertorio piú ricco, che comprende una vivace commistione di motivi indiani e centro-asiatici, reinterpretati senza soluzione di continuità, con metodi espressivi appartenenti al repertorio artistico cinese. La stessa vivacità pittorica conquista anche le decorazioni all’interno delle tombe.

le regole di corte Se al Nord la pittura trova il proprio «spazio» creativo nelle imponenti architetture rupestri della tradizione buddhista, a Sud, invece, lo rintraccia nel piú intimo rotolo dipinto, che, grazie al sostegno di mecenati, intenditori e critici, raggiunge connotati di insolita raffinatezza. La sua «invenzione» si deve a Gu Kaizhi (344 circa-406 circa), primo pittore che, secondo la tradizione, uscí definitivamente dall’anonimato. Negli Ammonimenti della istitutrice alle dame di corte, illustra un testo didattico del III secolo che elenca le regole che le dame del gineceo di palazzo dovevano tenere, secondo l’alto tono morale del periodo. Le scene sono alternate da colofoni (breve descrizione testuale) e lo stile condivide con la calligrafia la peculiare qualità tecnica e stilistica. L’opera sancisce l’assioma estetico della tradizione cinese ed estremo-orientale, che concepisce la pittura, la poesia e la calligrafia come le «tre arti sublimi» o le «tre perfezioni» (sanjue). La poesia nel rotolo dipinto, al di là di delicatissimi passaggi cromatici, è affidata interamente al tratto, che descrive una situazione di grande intimità, di cui si fa protagonista assoluta la figura umana. La pittura diventa una macroscopica attitudine calligrafica, anche se non mancano tentativi di resa volumetrica. Ne La Ninfa del fiume Luo, il pittore trova ispirazione in un componimento poetico del III secolo in cui si narra l’infelice amore tra un uomo e una divinità fluviale. Nato in contrappo72 a r c h e o

sizione alla tesi confuciana secondo la quale la pittura doveva assumere una funzione esclusivamente didattico-moraleggiante, il dipinto è lungo piú di 5 m e alto all’incirca 20 cm e illustra, assieme all’altra opera, in che modo venissero utilizzati i rotoli cinesi orizzontali, aperti con la sinistra e riavvolti con la destra, per renderne visibile, di volta in volta, una porzione larga in base all’apertura delle spalle del fruitore. La lettura del rotolo viene segnalata dal volto dei personaggi e da alcuni elementi di congiuntura, come i volatili raffigurati in piú scene consecutive, o da altri elementi di cesura, quali, per esempio, le montagne scoscese e gli alberi – di specie diverse, tra cui salici e pini –, stretti l’uno accanto all’altro.

i primi paesaggi Si instaura un particolare rapporto di interesse tra le figure e l’ambiente circostante e sebbene sia ancora azzardato riconoscervi un’evoluzione del paesaggio come motivo pittorico indipendente, è fuori discussione che, in questo periodo, la rappresentazione della natura sia un espediente di coesione compositiva, oltreché cornice delle scene dipinte. Da allora, l’indagine pittorica iniziò a vertere su un nuovo soggetto da dipingere, che sembra costituire la rappresentazione figurativa piú idonea a manifestare la peculiare visione del mondo cinese: il paesaggio, intimo «cosmogramma» con cui il pittore rinsalda il proprio, atavico legame con la natura. Nel contesto di un eccezionale fermento culturale, vengono anche pubblicati i primi e fondamentali trattati di estetica, che raccolgono le conoscenze pittoriche della letteratura critica cinese sotto forma di norme da seguire.Alcuni (Introduzione alla pittura di paesaggio di Zong Particolare di un rotolo di Yan Liben (600-673) con il ritratto di Taizong, secondo imperatore Tang. 641 d.C.


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Bing 375-443) affrontano la necessità dell’immedesimazione dell’uomo con la natura, ponendo enfasi sull’abilità dell’artista di riuscire a cogliere l’essenza di qualsiasi elemento del paesaggio per saperlo riprodurre in pittura; altri (Sulla pittura, Wang Wei 415-443) si soffermano sulle capacità del tratto pittorico di saper evocare il «corpo» stesso del Dao. Ma è sicuramente la Raccolta della classificazione degli antichi dipinti (Gu hua pin lu) di Xie He, probabilmente scritta nel VI secolo, che contiene la prima formulazione teorica sui principî informatori della pittura cinese, i celebri «sei canoni» (liu fa), ai quali la critica d’arte ha fatto riferimento fino a oggi. L’arte pittorica viene ufficialmente riconosciuta come espressione artistica autonoma, nel momento in cui l’assimilazione dello stile degli antichi maestri viene considerata la condicio sine qua non per realizzare ogni opera. È opportuno ricordare che l’«idea

dell’antico» (guyi), tra i principali assiomi, va intesa come un recupero cosciente e una rigenerazione vitale dell’opera dei grandi maestri: la rielaborazione del passato non è un’imitazione pedissequa, ma una ripresa consapevole della peculiare identità storico-culturale cinese.

resa naturalistica Una volta ricostituitosi l’impero con la gloriosa dinastia Tang (618907), fu particolarmente privilegiato il ritratto in pittura, la cui funzione era in sostanza quella celebrativa, ancora una volta secondo l’etica confuciana. La descrizione della fisionomia è profondamente simbolica, distante da una resa naturalistica, perché finalizzata a esaltare le doti morali del personaggio e quanto alto fosse stato il suo esempio in vita. Lo attesta l’opera di Yan Liben (600-673), nella quale tredici figure imperiali vengono ritratte nella loro calligrafica monumentalità.

I paesaggi del poeta ed erudito Wang Wei (699-759) privilegiarono, invece, i mezzi espressivi dell’inchiostro monocromo con cui trasmise l’«essenza» al di là dell’immagine («scrivere idee», xie yi), tanto da divenire l’emblema delle piú alte virtú confuciane. Il pittore fu considerato, dai funzionari delle ultime dinastie cinesi, come il capostipite della tradizione dei letterati (wenren). D’altro canto, i due Li (Li Suxun, metà del VII secolo-715? e Li Zhaodao, VIII secolo) divennero i fondatori di uno stile pittorico decorativo, estremamente particolareggiato nei dettagli, mediante l’utilizzo di colori vivaci, con predominanza di azzurro e verde, che portò alla perfezione quel «tratto meticoloso» (gong bi), con cui sono stati riconosciuti gli elementi base dello stile accademico. Fu attivo in epoca Tang anche colui che viene considerato il padre della pittura cinese, Wu Daozi (680-759): pur essendo stato accolto dall’impe-

dieci «comandamenti» per una buona pittura In un catalogo della sua collezione pittorica, redatto nel 1120, l’imperatore Huizong (1082-1135) elencò le dieci categorie di soggetti da rappresentare: 1. taoisti e buddhisti; 2. fatti umani; 3. palazzi e altre costruzioni; 4. popoli stranieri; 5. draghi e pesci; 6. paesaggi; 7. animali; 8. fiori e uccelli; 9. bambú a inchiostro; 10. vegetali e frutti. Se i paesaggi e i bambú erano prediletti dai letterati cinesi, i fiori-e-uccelli assieme agli eventi dell’antichità (gushi) divennero i temi piú rappresentativi dei pittori accademici. Al di là delle varie classificazioni, le quattro tematiche

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principali della pittura tradizionale sono: paesaggi, ritratti, fiori-e-uccelli, piante-e-animali. La pittura cinese ha spesso conferito agli elementi naturali un forte significato simbolico: se il fiore di susino esprime la primavera, il crisantemo l’autunno, il bambú significa amicizia perenne, longevità e richiama il carattere del saggio (verde in tutte le stagioni e non si spezza sotto gli uragani); orchidea, bambú, susino e crisantemo rappresentano il qi (energia-materia) delle quattro stagioni e delle quattro età dell’uomo e sono considerati i «quattro nobili».


ratore, la tradizione ce lo descrive come «pittore di strada», poiché aveva deciso di vivere al di fuori del palazzo e delle sue rigide regole. A differenza dei pittori di corte – che prediligevano temi come fiori, cortigiane, cavalli, uccelli e insetti –, egli si dedicò alla pittura parietale su vasta scala, inserendo nella sua narrazione visiva anche la cultura popolare. Di lui sono rimaste soprattutto alcune incisioni su pietra, e sembra che il suo stile fosse caratterizzato da pennellate libere ma incisive. Come accade in poesia e in calligrafia, proprio tra il X e il XIII secolo, il lirismo pervade l’anima delle arti e si affermano i grandi maestri della

pittura cinese di paesaggio. Il fervente clima culturale dei Song (960-1280) in cui sovrani illuminati, mecenati intelligenti e spesso cultori delle arti si raccoglievano nelle splendide corti assieme a pittori, poeti e pensatori, permise l’ascesa delle Accademie imperiali, che, pur subendo nel tempo vari cambiamenti, rimasero alla fine il centro formativo di studiosi ed eruditi.

un talento indipendente Chi, in questo periodo, riuscí a combinare gli ideali poetici con la morbidezza stilistica in pittura, fu Mi Fei (o Mi Fu; 1052-1109), persona-

In alto: rotolo di seta dipinto da Wu Daozi (680-759), considerato il padre della pittura cinese. Pechino, Xu Beihong Memorial Museum. In basso: Mi Fei, Pini e montagne in primavera. 1100. Taipei, Museo di Palazzo.

lità eccentrica, il quale entrò a far parte di varie amministrazioni, divenendo peraltro uno dei grandi esponenti della pittura dei letterati: la sua fama fu dovuta soprattutto alla maniera, libera e disinvolta, di proporre nuove tecniche espressive in pittura e in calligrafia, con effetti a guazzo, che rafforzano i contorni con macchie di inchiostro piatte e larghe. A partire dal X secolo la carta e l’inchiostro divennero anche gli strumenti prediletti per la corrente di meditazione buddhista denominata Chan (assai piú nota nella sua versione giapponese Zen) che ridusse i mezzi espressivi al minimo e trasmise una ventata di rinnovamento e creatività nel panorama pittorico cinese. I colori vennero drasticamente eliminati e, sfruttando la raffinata esperienza derivata dalla disciplina calligrafica, i maestri buddhisti portarono a conseguenze estreme la sintesi estetica del segno scritto, riducendo l’immagine all’essenziale, in un susseguirsi di tratti al limite dell’astrattismo. È un processo visivo che si può apprezzare anche in opere non appartenenti necessariamente alla corrente buddhista, come in alcune pitture di Ma Yuan (1190-1224), pregne di lirismo, che tendono a isolare la figura a r c h e o 75


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Un italiano alla corte dei Qing Giuseppe Castiglione (1688-1766), conosciuto in Cina come Lang Shining, è stato un gesuita, missionario e pittore italiano (era nato a Milano), che entrò a far parte della corte di ben tre imperatori (Kangxi, Yongzheng e Qianlong), creando uno stile originale di pittura nel quale uní la tecnica occidentale con la tradizione estremo orientale. Particolarmente importanti furono i

ritratti dell’imperatore e delle sue concubine, straordinariamente apprezzati a corte, cosí come dei cavalli imperiali, soprattutto il dipinto verticale degli otto cavalli e il lungo rotolo dei cento cavalli, conservati nel museo del Palazzo di Taipei (in occasione dell’anno del cavallo, nel 2014 il museo ha fatto allestire una grande versione digitale animata del dipinto). La fama di Castiglione e la sua Nella pagina accanto: Giuseppe Castiglione, Ritratto dell’imperatore Qianlong in abiti di corte. Dipinto su seta, 1736. Pechino, Museo di Palazzo. A sinistra: Il nero guerriero del Nord, da un originale dipinto a inchiostro su carta di Wu Daozi. XIX sec.

grandezza come artista, fecero sí che l’imperatore Qianlong gli affidasse la progettazione e il completamento delle fontane e delle decorazioni dei padiglioni in stile occidentale all’interno dei giardini del cosiddetto Antico Palazzo d’Estate (Yuan ming yuan). I padiglioni occidentali vennero distrutti dalle truppe anglo-francesi nel 1860, per cui oggi se ne possono visitare solo le rovine.

umana, assieme a pochi elementi essenziali collocati solitamente in un angolo, evitando il superfluo e la profusione dei dettagli.

la porcellana Nelle dinastie successive la pittura su rotolo continuò a essere una delle principali espressioni visive, sia per paesaggi, fiori, uccelli, animali, bambú che per architetture e ritratti. Tutti questi temi cari alla tradizione pittorica furono trasferiti o, in fin dei conti, tornarono ad abbellire la terracotta, ma nella sua versione piú nobile e raffinata: la porcellana. La vena creativa poté sbizzarrirsi nelle linee sinuose, nei colori luminosi e nell’eccellente manifattura. L’immagine dipinta è un «diagramma» che riflette la peculiare concezione del mondo dell’artista. Sin dalle origini, la pittura cinese ha manifestato un chiaro ordine morale e sociale da seguire, ma ha riconosciuto anche in un «unico tratto di pennello» (yi hua) l’epifania dell’universo. Il segno può essere scarno, incisivo e secco ma anche equilibrato, delicato e sciolto, perché condensa in sé la struttura ritmica e dinamica del mondo fenomenico e riconferma l’atavico principio di vincolare l’uomo alla natura. La pittura cinese è l’arte del tratto, estetico ed etico, ma anche profondamente spirituale. (9 – continua) a r c h e o 77


CHI ERA VERAMENTE QUEL soldato? Sono numerosi i segreti svelati dagli studiosi intorno al celebre Guerriero di Capestrano. A partire dalla resa piú che particolareggiata dell’equipaggiamento, quasi una fotografia dell’antica armatura. Ma, a ottant’anni dal suo ritrovamento, rimane aperta la questione del significato di un’enigmatica iscrizione incisa sulla scultura... di Daniele F. Maras

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l ritrovamento della statua nota come «Guerriero di Capestrano» avvenne nel settembre del 1934 nei pressi dell’omonima cittadina abruzzese, in provincia dell’Aquila. Durante l’impianto di una vigna, un contadino, Michele Castagna, s’imbatté in un grande masso, che, a un’osservazione piú attenta, si rivelò parte di un’elaborata scultura, relativamente ben conservata. Proseguendo le ricerche negli immediati dintorni, lo scopritore trovò altri frammenti della statua e, qualche metro piú in là, il grande «cappello» rotondo che ne costituisce una delle caratteristiche piú emblematiche. Proprio sotto il cappello, poi, raccolse un grosso spezzone di un’altra statua, di dimensioni appena piú piccole, raffigurante un personaggio femminile, oggi nota con il nome di «Dama di Capestrano». Ignaro di aver legato il proprio nome a una delle maggiori scoperte del secolo, Castagna accantonò in un angolo quegli oggetti, che erano d’intralcio al

suo lavoro. Solo una ventina di giorni piú tardi, il comandante della locale stazione dei Carabinieri si accorse della rilevanza dei ritrovamenti e informò la Soprintendenza.

Il tumulo scomparso I resti furono raccolti e portati al restauro presso le Terme di Diocleziano a Roma e, già nel dicembre dello stesso anno, l’archeologo Giuseppe Moretti condusse sul sito una campagna di scavo, che mise in luce parte di una necropoli comprendente 33 tombe. Una quindicina erano attribuibili all’età arcaica e, tra queste, un gruppo di cinque mostrava un orientamento diverso rispetto al resto della necropoli (condizionato dalla presenza di un asse stradale). Le tombe numerate dal 12 al 15, infatti, erano disposte approssimativamente a raggiera attorno alla piú grande tomba 3, orientata nord/sud e dotata di una nicchia laterale per ospitare il corredo. Sembra evidente che questa sepoltura eminente fosse se-

gnalata sul terreno da un circolo di pietre, tipico degli usi funerari italici, forse coperto da un tumulo. La statua del Guerriero – e forse anche la sua compagna di soggetto femminile – era con ogni probabilità posta a coronamento del tumulo, che venne poi rispettato dalle successive deposizioni. Nel 1937, una ulteriore campagna di scavo mise in luce altre due basi di statue, una delle quali probabilmente pertinente alla Dama, ma purtroppo entrambe sono andate perdute. Le ricerche sul sito sono state poi riprese dall’Università di Pisa e dalla Soprintendenza Archeologica dell’Abruzzo, tra gli anni Sessanta e Novanta. Da ultimo, nel 2003, Vincenzo D’Ercole, allora ispettore archeologo presso la medesima Soprintendenza, ha condotto uno scavo nella necropoli, che Sulle due pagine: il Guerriero di Capestrano nell’allestimento ideato dall’artista Mimmo Paladino all’interno del Museo Archeologico Nazionale di Chieti. a r c h e o 79


gli imperdibili • guerriero di capestrano

della spada, riccamente decorata e portata di traverso sul petto, si direbbe in modo da poterla estrarre con la sinistra con un movimento semicircolare, piuttosto che con la destra, come un pugnale. Sopra il fodero è montata un altra guaina, piú piccola, che ospita un coltello, da usare come cote o come arma di supporto. La mano destra, appoggiata sul petto a palmo aperto, sostiene un’esile scure – una probabile insegna di rango piuttosto che un’arma da battaglia –, mentre la sinistra è appoggiata sul ventre, in un atteggiamento condiviso da numerose statue dell’epoca altoarcaica e che, probabilmente, deriva da una posa vicinoorientale adatta a personaggi di rango. Come ornamento, il personaggio Guerriero indossa un torques, «femminile»? ovvero un collare aperto sul La figura è lavorata con forme piene retro, e alcune armille sugli e arrotondate, che le conferiscono avambracci. Il pesante cintuun aspetto sensuale e morbido, al punto che non è mancato chi ha proposto di riconoscervi un personaggio femminile. La natura maschile, in realtà, è provata sia dall’equipaggiamento militare, sia dall’assenza di indicazione del seno, che spicca ancor di piú per confronto con il busto della Dama. L’elmo con ampia tesa – che lo rende simile a un sombrero – era scolpito a parte, in una pietra diversa, e connesso alla testa grazie a un sistema a incastro. Di enorme interesse antiquario è l’equipaggiamento del Guerriero, che corrisponde all’armamento militare delle aristocrazie italiche arcaiche, come confermano i ritrovamenti di armi in tombe coeve dell’Italia centrale. Elemento centrale dell’armatura è una coppia di dischi-corazza, che proteggono la regione del cuore e sono mantenuti in posizione da un sistema di corregge, presumibilmente di cuoio. Al di sotto di tale «corazza», il Guerriero sembra essere a torso nudo, a meno di non immaginare un corpetto aderente di lino o di cuoio. Alle stesse cinghie è fissato il fodero ha permesso di ricostruirne la storia e la topografia, mettendo in luce svariate decine di tombe. La statua riproduce una imponente figura maschile stante, di dimensioni leggermente maggiori del vero, che tocca un’altezza di 209 cm, comprendendo la base e l’elmo. È ricavata da una lastra di pietra calcarea, nella cui cornice sono scolpiti due pilastrini di sostegno, congiunti alla base e alle spalle della figura e decorati ai lati da due lance a rilievo con la punta rivolta in alto. I piedi, calzati, sono scolpiti in un blocco unico con la base, che era originariamente infissa nel terreno; ciononostante, sia i pilastrini che le gambe si ruppero, all’altezza della caviglia.

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rone militare portato in vita sostiene una sorta di perizoma, composto da due elementi triangolari, presumibilmente di cuoio, che proteggono l’inguine e i lombi.

sguardo ieratico Notevoli perplessità ha destato il volto, assai piú stilizzato del resto della figura, che comunica una inquietante ieraticità. Un bordino rilevato che corre intorno al viso, isolandolo dalla testa, ha fatto pensare che il Guerriero indossi una maschera, forse metallica. Ma il mancato ritrovamento di reperti confrontabili nelle armature arcaiche della regione non conferma tale ipotesi e c’è chi vede piuttosto nel bordino un laccio per mantenere in posizione l’ingombrante copricapo. Sin dalla sua scoperta, il Guerriero di Capestrano ha suscitato grandi discussioni sulla cultura artistica che lo ha prodotto e sulla sua dipendenza (o indipendenza) dalle altre esperienze artistiche dell’Italia e del Mediterraneo. Studi recenti hanno messo in evidenza come la scultura dell’area medio-adriatica, che ha un solido precedente protostorico nelle statue stele della Daunia nel Nord della Puglia, abbia recepito precocemente l’impulso della statuaria monumentale di tradizione orientale, approdata in Etruria nella prima età orientalizzante, ma rimasta lí poco produttiva. La trasformazione delle prime statue stele, aniconiche o con la figura umana appena abbozzata, in vere e proprie sculture monumentali ha seguito una sua evoluzione interna, attestata da opere eccezionali, come la stele di Guardiagrele, la testa di Numana, il torso di Atessa, il Guerriero e la Dama di Capestrano. Diverse ipotesi sono state avanzate per la funzione del Guerriero, dal momento che si è fin da subito dubitato della pertinenza alle tombe scavate nella necropoli, giudicate troppo povere per collegarle a un segnacolo cosí ricco. Ma, come og-


carta d’identità dell’opera • Nome • Definizione

uerriero di Capestrano G Scultura funeraria in pietra a tutto tondo • Cronologia Secondo quarto del VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Capestrano (L’Aquila) • Luogo di conservazione Chieti, Museo Archeologico Nazionale • Identikit Capolavoro della scultura italica arcaica 1

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Qui sopra: dischi corazza in bronzo (in alto) dalla necropoli di Alfedena (L’Aquila), associati alla loro ricostruzione grafica, analoga a quella della statua. Al centro: particolare della statua con l’iscrizione incisa sul pilastrino sinistro. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica dell’equipaggiamento di un guerriero ernico o volsco, simile all’armatura del Guerriero. a r c h e o 81


gli imperdibili • guerriero di capestrano

gi sappiamo, la ricchezza dei corredi funerari non dipende solo dalle disponibilità economiche del defunto, quanto piuttosto dal rituale funerario e dalle consuetudini sociali, che a volte (come nel caso di Roma in epoca tardo-arcaica) rifuggono da manifestazioni di lusso nelle sepolture. Vale la pena però di ricordare la proposta avanzata a suo tempo da Silvio Ferri, seguito da Louise Holland, che il Guerriero fosse stato inteso come un’immagine sostitutiva da seppellire al posto di una persona viva. Un passo di Livio, infatti, ci informa della pratica della devotio, per cui un comandante militare che temesse la sconfitta, invocava solennemente sopra di sé gli dèi inferi e prometteva di portare le schiere nemiche con lui nella morte.

come un kamikaze Avendo fatto questo giuramento stando in piedi sopra una lancia, si gettava come un ossesso contro l’esercito nemico, provocando scompiglio dovunque andasse, poiché i suoi avversari temevano di ucciderlo, per non incorrere nella maledizione. In questo modo egli forniva un valido aiuto ai propri soldati, che potevano facilmente aver la meglio sui nemici atterriti. Livio racconta il rituale in relazione alla battaglia di Sentino del 295 a.C., quando il console Publio Decio Mure si immolò in questo modo; ma aggiunge anche le norme imposte dalla legge sacra nell’eventualità (improbabile) in cui il comandante non morisse nella battaglia. In tale caso, dice Livio, «occorre seppellire in terra una statua alta sette piedi (207 cm circa) o piú e offrire un sacrificio; al magistrato romano non era lecito andare nel luogo in cui la statua era sepolta». Contro tale ipotesi, indubbiamente suggestiva e apparentemente avvalorata dalla coincidenza dell’altezza della statua, sta la difficoltà di spiegare l’analogo torso femminile tro82 a r c h e o

vato insieme al Guerriero, e l’esistenza di numerose altre statue simili o almeno paragonabili nelle regioni vicine, della cui natura funeraria non si può dubitare. Inoltre, la posa rigida della figura, tenuta in verticale apparentemente dalle due lance, materializzate nella scultura dai pilastrini di sostegno, sembra alludere all’esposizione «eroica» di un defunto in armi, dritto in piedi, come racconta Polibio per i funerali degli uomini illustri. E la stessa maschera, se di questo si

tratta, è piú adatta a coprire il volto di un defunto che non per una celata militare (che, come abbiamo detto, è senza confronti). A tale riguardo, vale la pena di avanzare un’ulteriore ipotesi, prendendo spunto dal medesimo passo di Polibio sui funerali romani. Dice infatti lo storico che a Roma era d’uso conservare un’immagine delle fattezze del defunto, da custodire in casa come oggetto sacro e da esibire, in seguito, in occasione dei funerali solenni, montata su un


busto rivestito come se fosse una persona viva, a memoria degli antenati della famiglia. La realizzazione di tali maschere – dette in latino imagines maiorum – faceva parte della cerimonia di sepoltura: perché non immaginare che il Guerriero di Capestrano indossi proprio una maschera (forse di cera) ricavata dal calco del suo viso? La statua in questo modo sarebbe servita a immortalare la cosiddetta prothesis, ovvero l’esposizione del defunto con le sue insegne di rango in occasione del funerale solenne. D’altronde, non sono molto diverse le maschere isolate che decorano la sommità di due delle stele di Penna Sant’Andrea al principio del V secolo a.C. e che potrebbero anch’es- In alto: frammento della statua se alludere alla pratica di conservare femminile denominata Dama di le imagines maiorum. Capestrano. Seconda metà del

Una dedica misteriosa Da ultimo resta da commentare un altro preziosissimo dato che fa del Guerriero di Capestrano un monumento di valore inestimabile. Si tratta di una lunga iscrizione nell’alfabeto definito convenzionalmente sud-piceno e nella arcaica lingua italica definita, anch’essa per convenzione, come paleo-sabellico. Il testo corre in una sola riga dal basso verso l’alto, lungo la faccia anteriore del pilastrino di sinistra ed è possibile leggerla quasi interamente, nonostante i danni subiti dalla superficie: «ma kuprí koram opsút aninis rakine×í× pomp[---(--)]×». Le difficoltà principali si incontrano nella sesta sequenza di lettere, letta da Adriano La Regina come raki nevíi, da tradurre «per il re Nevio», e da Alberto Calderini e Sergio Neri come rakinelís, da interpretare come un nome gentilizio al momento privo di confronti. Altre difficoltà riguardano la comprensione generale del testo, sul quale gli studiosi non concordano. Nella prima parte dell’iscrizione, meglio comprensibile, si legge il verbo opsút, traducibile come «fece»:

IV sec. a.C. Chieti, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: particolare del dorso del Guerriero di Capestrano che mette in evidenza l’allaccio del disco corazza.

il testo è stato perciò interpretato da alcuni come la firma di un artista di nome aninis (o anis, con errore di trascrizione), che avrebbe dedicato la sua opera a un personaggio di alto rango. Ma è piú probabile che Aninis sia il nome del committente, che «fece fare» e quindi donò la stele funeraria a Pompone (se cosí va integrato il nome finale) in quanto suo erede a capo della comunità e quindi, presumibilmente, suo figlio, cosa che spiegherebbe l’assenza di un secondo gentilizio e che troverebbe confronto nelle iscrizioni di alcune stele funerarie etrusche di poco piú antiche. Il Guerriero di Capestrano è oggi conservato a Chieti, nel Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, assieme alla Dama e ad altri straordinari esempi della scultura di area medio-adriatica. La sala che ospita il capolavoro è stata riallestita nel 2010 da Mimmo Paladino, artista

contemporaneo aderente alla Transavanguardia. Il Guerriero è posto in isolamento, al di fuori del tempo e dello spazio, in una sala rotonda e imbiancata, in cui un gioco di luci e ombre la pone al centro dell’attenzione, nell’intento di educare il gusto artistico dello spettatore attraverso la sottolineatura delle forme e delle geometrie. PER SAPERNE DI PIÚ Armando Cherici, Armi e società nel Piceno, con una premessa di metodo e una nota sul Guerriero di Capestrano, in I Piceni e l’Italia medio-adriatica (Atti del XXII Convegno di Studi Etruschi e Italici, 2000), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2003; pp. 521-531. Maria Ruggeri (a cura di), Guerrieri e re dell’Abruzzo antico, Carsa Edizioni, Ascoli Piceno 2007. Marco Buonocore, Luisa Franchi Dell’Orto, Adriano La Regina, Pinna Vestinorum e il popolo dei Vestini, I, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2011.

nella prossima puntata • La Chimera di Arezzo a r c h e o 83


speciale • san vincenzo al volturno

Buone notizie dal monastero

La «basilica nuova» di San Vincenzo al Volturno (inizi del XII sec.), costruita dopo l’abbandono e la demolizione del monastero altomedievale, situato sulla sponda opposta del Volturno. 84 a r c h e o


Il complesso monastico di San Vincenzo al Volturno rappresenta, da molti anni, uno straordinario osservatorio per lo studio della storia e dell’archeologia del Medioevo. Le nuove ricerche e il recente allestimento dei suoi reperti nel Museo di Venafro confermano la sua importanza come luogo della memoria e dell’identità europea di Federico Marazzi e Alessandro Luciano

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Giuglionesi on a caso è stata duca di Napoli, Atanasio Caprasotta Agnone soprannominata San Vincenzo II, nel corso della guerra Larino al Volturno Trivento e la «Pompei del contro i Longobardi di r rto Fo Medioevo». Come l’assai Capua. Come a Pompei, Isernia Campobasso Puglia Venafro piú celebre città campana, quel tragico evento ha Vinchiaturo infatti, anche l’abbazia di prodotto l’effetto «collateSan Vincenzo al Volturno rale» di offrire agli archeCampania perí per il fuoco, anche se ologi di oggi l’opportuninon fu quello eruttato daltà di riscoprire un monala bocca di un vulcano. Nel nostro caso, stero del IX secolo, la cui vita fu bloccaa decretare la fine di uno dei monasteri ta da una distruzione repentina. piú grandi e splendidi dell’Europa caro- A dire il vero, gli archeologi hanno polingia, fu l’incendio appiccato dai Sara- tuto avvalersi dell’«aiuto» degli stessi ceni, inviati sul posto il 10 ottobre monaci che, intorno al 1100, dopo alcudell’881, probabilmente dal vescovo- ni parziali tentativi di ricostruzione

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speciale • san vincenzo al volturno

dell’abbazia carolingia compiuti nel secolo precedente, decisero alla fine di trasferirla a qualche centinaio di metri di distanza, sulla riva destra del Volturno, erigendo quella che oggi viene abitualmente chiamata l’Abbazia Nuova. Questa scelta singolare ha lasciato indisturbato nei secoli a venire il sito dell’insediamento altomedievale, la cui memoria svaní progressivamente.

le prime ricerche La riscoperta di San Vincenzo al Volturno ha avuto inizio negli anni immediatamente successivi all’ultimo conflitto mondiale. Angelo Pantoni, il monaco cassinese che aveva indagato i resti medievali di Montecassino ricomparsi a seguito delle distruzioni causate dallo sciagurato bombardamento del febbraio 1944, intervenne attivamente nelle ricostruzioni dell’Abbazia Nuova condotte dal Genio Civile. Pantoni studiò i resti degli edifici medievali e promosse anche i primi scavi nell’area circostante la Cripta dell’Abate Epifanio. Questo sacello, scoperto casualmente nel 1832 e divenuto rapidamente celeberrimo per il ciclo di pitture di IX secolo sopravvissute al suo interno, si trova sulla riva sinistra del fiume. Pantoni pensava si trattasse di un oratorio isolato rispetto al nucleo principale del monastero che egli identificava con il complesso dell’Abbazia Nuova. All’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, tuttavia, nuovi scavi diretti dall’archeologo inglese Richard Hodges svelarono che la Cripta di Epifanio faceva parte dell’enorme complesso architettonico sviluppatosi fra l’VIII e il IX secolo (e frequentato sino alla fine dell’XI), chiarendo quindi definitivamente l’origine tardiva del monastero sorto sulla riva destra del Volturno. Nella prima metà degli anni Novanta giunse la scoperta dei resti della chiesa maggiore del monastero In alto: planimetria dell’area archeologica di San Vincenzo al Volturno, che evidenzia la posizione del complesso monastico altomedievale (sul lato sinistro del fiume) e di quello di età normanna (sul lato destro). Al centro: ricostruzione fotogrammetrica della Cripta dell’abate Epifanio, parete ovest. A destra: Cripta dell’abate Epifanio, zona absidale. Maria Vergine in trono e i quattro Arcangeli che scortano il Cristo del Giudizio Finale, ritratto in veste di potenza angelica. 86 a r c h e o

Chiesa abbaziale del XII sec. S. Vincenzo Minore Ponte della Zingara Colle della Torre

S. Vincenzo Magggiore

Officine

Area dell’abbazia del XII sec.


Cripta di Epifanio, parete di nord-ovest: il martirio dei santi Lorenzo (in primo piano) e Stefano.

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speciale • san vincenzo al volturno A sinistra: planimetria dell’area del monastero altomedievale: in blu, le aree scavate fra il 1980 e il 1996; in arancione, quelle indagate dal 2000 al 2002.

prima del mille

Ricostruzione grafica del monastero di San Vincenzo, cosí come doveva presentarsi alla metà del IX sec. (disegno S. Carracillo).

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altomedievale, dedicata a san Vincenzo, e che si rivelò essere uno dei piú grandi edifici di culto eretti in Europa al tempo di Carlo Magno. Il tempio venne alla luce a un centinaio di metri di distanza dal punto in cui si trova la Cripta di Epifanio, evidenziando cosí in modo chiaro la rilevante estensione del sito archeologico.

una visione ad ampio raggio Nei primi anni 2000 prese avvio un importante progetto di valorizzazione dell’area (diretto dalla Soprintendenza Archeologica del Molise con la collaborazione dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli), grazie al quale si è completato lo scavo della basilica dedicata a san Vincenzo e sono stati riportati alla luce gli edifici posti nell’area intermedia fra quest’ultima e le costruzioni scoperte immediatamente a sud della Cripta di Epifanio. Questa intensa fase di lavoro ha permesso di effettuare le prime valutazioni di ampia scala sulla topografia dell’insediamento monastico carolingio. Per esempio, si è compreso che la parte centrale del monastero si articolava in-


dopo il mille torno a un grande quadriportico a forma trapezoidale, ai margini del Veduta ricostruttiva del quale erano stati edificati – sul lato complesso monastico alla nord – il refettorio, le cucine e il metà dell’XI sec. quartiere per l’accoglienza degli ospi(disegno S. Carracillo). ti mentre, su quello meridionale, fu dislocato il quartiere per le attività produttive, alle cui spalle, su un terrazzamento leggermente arretrato, venne eretta la grande basilica dedicata a san Vincenzo. Ma dati fondamentali sono emersi in questo periodo anche sulle ricostruzioni che il monastero conobbe in età ottoniana, quando i monaci (fuggiti a Capua dopo il saccheggio subito dai Saraceni nell’881) cercarono di ripristinarne almeno in parte la funzionalità. A quest’epoca risale in particolare la ricostruzione della chiesa di san Vincenzo, alla quale fu aggiunto l’atrio, utilizzato in parte come area funeraria. L’edificio venne anche dotato di una poderosa torre addossata alla facciata, riprendendo un motivo dell’architettura ecclesiastica contemporanea di area franco-tedesca. È facile immaginare che questa decisione derivasse dall’adesione manifestata dalla comunità monastica al programma di rilancio

della presenza imperiale in Italia (Sud compreso) avviato dall’imperatore Ottone I e da suo figlio Ottone II. Tale ipotesi si conferma considerando che, nello stesso periodo, anche le chiese abbaziali di Farfa, Subiaco e Montecassino (le altre principali abbazie «filo-imperiali» dell’Italia centro-meridionale) conobbero un’analoga trasformazione e che l’elemento della torre in facciata si ritrova in altri edifici ecclesiastici coevi, in genere dipendenti proprio da Montecassino.

dallo scavo al museo Di tutte queste scoperte, nel corso dei decenni passati, «Archeo» ha fornito a piú riprese il resoconto. Accanto alle attività sul campo, la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise, attraverso la Soprintendenza ai Beni Archeologici e quella ai Beni Architettonici, ha operato per far progredire la sistemazione dell’area e, soprattutto, per consentire che i reperti piú importanti emersi in oltre trent’anni di scavi, potessero essere finalmente resi visibili al pubblico. A questo scopo, data la mancata ultimazione del museo di sito, a r c h e o 89


speciale • san vincenzo al volturno

si è deciso di destinare ai reperti di SanVincenzo al Volturno un’intera ala del Museo Archeologico di Venafro (vedi box alle pp. 98-99). Ma le indagini presso il sito sono continuate anche negli anni piú recenti, e precisamente fra il 2006 e il 2008, riprendendo poi nell’estate del 2013. Anche in quest’occasione, se mai ve ne fosse stato ancora bisogno, il sito monastico molisano si è confermato una vera miniera di conoscenze sull’architettura, l’arte, la tecnologia e l’economia dell’Alto Medioevo, permettendo di comprendere quale complessa e affascinante macchina costituissero i maggiori monasteri dell’età carolingia.

per lodare il signore Vere e proprie «città di Dio», essi radunavano le migliori energie e competenze del tempo, per far sí che la vita dei monaci, votata alla preghiera, potesse svolgersi in un contesto di splendore e di organizzata armonia, affinché la lode al Signore si levasse, anche attraverso le opere materiali, come l’offerta di ciò che di piú bello l’uomo era in grado di produrre con il suo lavoro e la sua intelligenza. Nel 2007, i lavori d’intubamento del corso del Volturno, decisi dall’ENEL in occasione della ristrutturazione della centrale idroelet-

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trica presente presso le sorgenti del fiume (situate 1 km circa a monte dell’area archeologica), hanno permesso di indagare un breve tratto dell’alveo fluviale posto di fronte alla parte piú settentrionale del complesso monastico, tra la chiesa in cui si trova la Cripta di Epifanio e il refettorio. Queste indagini hanno portato alla scoperta, a dir poco sensazionale, di un sistema di banchine di estese dimensioni, datato al IX secolo e costituito da piattaforme e pontili in legno, organizzati secondo un progetto architettonico piuttosto complesso.

In alto: il sito dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno visto da est: in primo piano gli edifici dell’«Abbazia Nuova» del XII sec. A sinistra: planimetria generale dell’area del monastero altomedievale. In basso a destra, perimetrata in rosso, è l’area PZ, ove sono stati effettuati gli scavi lungo il letto del Volturno.


Tra l’altro, l’area indagata, si trova pochi metri a valle del punto in cui, fra il 2001 e il 2002, furono identificate le cucine del monastero (vedi «Archeo» n. 260, ottobre 2006), e quindi i sedimenti, rivelatisi particolarmente ricchi di resti botanici e zoologici, hanno raccolto parte dei rifiuti delle attività culinarie, scaricati nel fiume attraverso le canalette di scolo delle cucine medesime, come si vedrà piú avanti.

La forte umidità del contesto archeologico, determinata proprio dalla vicinanza del Volturno, se da un lato ha complicato l’attività di ricerca, dall’altro ha consentito la perfetta conservazione delle strutture lignee, che, di solito, nei suoli degli ambienti mediterranei, difficilmente si mantengono intatte.

un antico loggiato? Rimosso il viottolo comunale che fiancheggiava l’area archeologica, sono stati rinvenuti imponenti accumuli di macerie, esito del crollo delle fabbriche monastiche causato dal già ricordato incendio che seguí il saccheggio dell’881. Negli strati di crollo sono stati rinvenuti, parzialmente disarticolati, pregevoli elementi di decorazione architettonica – quali capitelli per lesene e colonne – che potrebbero suggerire la possibilità che il fronte degli edifici prospicienti il fiume fosse almeno in parte aperto con un loggiato. Al di sotto dei crolli ha iniziato a rivelarsi la presenza di un complesso sistema di palificazioni lignee poggianti direttamente sul letto del fiume, che, a loro volta, mostravano evidenti segni di esposizione al fuoco. Le travi, i ritti e le assi che componevano l’insieme di queste strutture erano stati schiacciati dal peso dei crolli delle strutture soprastanti sul paleoalveo del Volturno, la cui stratificazione, al di sotto degli accumuli determinatisi al momento della traumatica uscita d’uso dell’area, si è rivelata composta da terreno limoso depositatosi durante la vita del monastero nel IX secolo, e che ha quindi restituito eccezionali quantità di reperti relativi alla vita quotidiana della comunità benedettina.

In basso: capitelli altomedievali (IX sec.) recuperati nei crolli delle strutture degli edifici monastici affacciati sul fiume.

le banchine lignee La poderosa struttura rinvenuta sembra essere parte di un esteso sistema di banchine costituito da una sorta di breve molo in muratura, che dipartendosi da un accesso che conduceva nel cosiddetto «refettorio degli ospiti di riguardo», si connetteva a un sistema di passerelle lignee. Il molo in muratura era costruito in parte su una gettata di terra e pietrame e parte su concamerazioni lignee riempite con pietre, ed era pavimentato con mattonelle in laterizio, le stesse impiegate negli ambienti retrostanti, pertinenti alla fase carolingia (IX secolo). Le banchine laterali erano costituite da una griglia di travi portanti orizzontali di quercia a sezione quadra-

La prossimità del Volturno ha reso umido il terreno, favorendo la conservazione dei reperti

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speciale • san vincenzo al volturno

ta, sulle quali erano sistemate, trasversalmente, assi piatte che formavano l’assito vero e proprio. Le travi orizzontali erano adagiate su ritti (in legno o pietra) inseriti direttamente nel paleoalveo del Volturno. I muri perimetrali del monastero, rispetto ai quali le strutture in legno si disponevano ortogonalmente, erano costruiti in opera quadrata con blocchi lapidei di notevoli dimensioni. Il moletto e i muri non seguivano un andamento rettilineo in rapporto al corso del fiume, ma leggermente convergente verso il centro di esso, e le singole sezioni murarie erano fra loro connesse, originando rientranze che dovevano avere l’effetto di creare delle gore atte a rallentare il flusso dell’acqua.

una barriera di pali I fronti in muratura degli edifici erano inoltre protetti da file di paletti lignei verticali, incassati nel paleoalveo e accostati tra loro in modo molto serrato, che dovevano servire da protezione delle murature medesime dallo sciabordio della corrente del fiume. I pali furono probabilmente piantati utilizzando battipali, macchine munite di pesanti magli in ferro e azionati da un’apparecchiatura nota, nelle fonti medievali, come capra. Sotto le passerelle del molo in muratura sono state rinvenute casseforme rettangolari lignee (costituite da quattro pali verticali muniti di incavi utili all’alloggio di assi lignee, poste di taglio a formare le pareti della struttura), ri-

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A destra: particolare dell’ordito delle travature della porzione del pontile ligneo a ridosso dell’accesso agli edifici monastici. In basso: ricostruzione grafica di una scena di vita nelle cucine monastiche nella seconda metà del IX sec. (disegno S. Carracillo).

empite da pietre legate da malta. Per la realizzazione del molo, si fece ricorso al sistema di costruzione per «arcae», un metodo descritto da Vitruvio in età romana e impiegato ancora durante l’Alto Medioevo. Affiancati alle casse, sono stati rinvenuti tre rocchi di colonnine in calcare, disposti in fila e conficcati in posizione verticale nel paleoalveo; probabilmente avevano la funzione di rendere piú saldo il melmoso fondo fluviale e dare maggiore stabilità alle casseforme.


A destra: le cassaforme lignee che sostenevano il piano del pontile nell’area piú prossima agli edifici monastici.

Per assemblare le strutture lignee non si impiegarono né il sistema degli incastri (particolarmente diffuso in ambito romano), né chiodi metallici (il costante contatto con l’acqua ne sconsigliava l’uso). Si utilizzarono, invece, cavicchi lignei, ritrovati in gran numero, e, molto probabilmente, corde saldamente legate; cunei di legno erano usati per rinsaldare i nodi e rendere la struttura ancor piú stabile e sicura. La lunghezza massima delle travi (6 m circa) non è casuale, perché il sistema di costruzione trilitico a cui erano destinate non consentiva di coprire luci piú ampie.

Gli scarichi fognari La vicinanza del fiume alle fabbriche monastiche permetteva ai monaci di convogliare verso di esso, mediante canalette, le acque di scolo. Lo scavo ha consentito di rintracciare, sul paramento murario del recinto monastico, gli sbocchi di una canaletta in muratura proveniente dalla cosiddetta «Corte a Giardino» e di due canalette in tubuli laterizi che provenivano direttamente dalle cucine e dal refettorio. In corrispondenza di questi sbocchi, e lungo tutto il tracciato murario, adagiati sul paleoalveo fluviale, sono stati identificati i conoidi degli scarichi, contenenti significative presenze di reperti organici e inorganici, e, al di sopra di essi, accumuli con oggetti, forse lanciati intenzionalmente verso il fiume durante il sacco dell’881 o forse trascinati dai crolli delle strutture degli edifici soprastanti. Tra i reperti inorganici, si segnala la presenza di catenelle bronzee di sospensione per lama r c h e o 93


speciale • san vincenzo al volturno

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teriale pertinente alle fasi di vita dell’area propone un quadro racchiuso nell’orizzonte cronologico del pieno IX secolo, senza che vi sia alcuna presenza di materiali piú tardi e con scarsissima residualità di materiali anteriori.

Nella pagina accanto: il punto di contatto di una delle travi orizzontali del pontile su uno dei ritti verticali di sostegno della struttura.

pade vitree; orli, fondi e pareti di vetro cavo; parti di pannelli di finestra; frammenti di ceramica acroma e dipinta a bande; frammenti di vasellame in pietra ollare e in vetrina pesante; fascette in piombo; oggetti in osso (frammenti di pettine e una fusaiola) e in metallo (chiodi, ganci ed elementi di serratura). Sicuramente pertinente a quella parte di stratigrafia formatasi in seguito agli eventi dell’881 è, infine, il rinvenimento di parte di una splendida vetrata sagomata a formare un busto di Cristo con aureola crucigera: è uno dei piú antichi esempi di vetrata figurativa sinora rinvenuti in Europa.

la vera età del ponte L’analisi di questa pur breve sezione del fronte fluviale degli edifici monastici indica che il fiume Volturno scorreva nell’Alto Medioevo entro un alveo notevolmente piú ampio rispetto a quello attuale, la cui larghezza complessiva è però indefinita, non essendo stata affrontata l’indagine della riva

In alto: la basilica Maggiore (sul lato destro dell’immagine) e gli edifici adiacenti ai piedi dell’altura del Colle della Torre (vista da sud-est).

La forte umidità del contesto, già richiamata per giustificare la perfetta conservazione delle infrastrutture lignee, ha consentito il ritrovamento di grandi quantità di reperti organici. Tra questi, ossa animali derivanti dal loro consumo alimentare (pesci, soprattutto di mare e di laguna, ovicaprini e gallinacei), resti di parti di pesci derivanti dalla preparazione dei medesimi per la cottura (teste, squame, ossa della coda), gusci d’uovo di gallina, gusci di noci, nocciole e mandorle, leguminose, reperti malacologici, pigne, elementi vegetali, resti di cuoio (forse pertinenti a otri), cavicchi e tappi in legno per recipienti. La valutazione complessiva della cultura ma-

opposta. Il restringimento dell’alveo fu determinato proprio dall’accumulo dei crolli delle strutture abbaziali, per poi accentuarsi ulteriormente in tempi recenti quando, in seguito alla costruzione della centrale idroelettrica alle sorgenti del fiume, buona parte della portata di esso è stata impiegata per alimentare le turbine. Tra l’altro, lo scavo ha permesso di comprendere che il ponte che attualmente attraversa il Volturno non è un manufatto di età tardo-antica o altomedievale, come sinora si supponeva, bensí una struttura da datarsi almeno alla fine del Medioevo o all’età moderna, poiché le sue fondazioni a r c h e o 95


speciale • san vincenzo al volturno

tagliano gli strati di crollo che obliterano le In alto: il portico banchine lignee e pongono fine alla vita e gli edifici che degli edifici monastici. delimitano, sul

A cosa servivano pontili e banchine? Ma quale funzione poteva avere un cosí complesso sistema di pontili lignei e di banchine? Esempi di simili strutture sono stati rivenuti anche presso altri siti altomedievali italiani ed europei. Ricordiamo i casi piú significativi: Dorestad (fine del VI-metà del IX secolo), in Olanda, nell’area deltizia del Reno; Groß Stromkendorf (VIII secolo), sulla costa baltica tedesca; l’emporio vichingo di Birka, in Svezia (VIII-X secolo); quello danese di Jelling (X secolo) e quello di Resen (XI-XII secolo), sempre in Germania; il porto medievale della City di Londra, sul Tamigi (X-XIV secolo). Anche in Italia non mancano i confronti, come dimostrano gli esempi del porto tardoantico di Classe (metà del V-inizi del VI secolo), presso Ravenna; l’approdo di Comacchio (fine del VII-IX secolo), nelle lagune del Po, che costituisce il confronto piú calzante con 96 a r c h e o

lato ovest, la grande area claustrale centrale; sullo sfondo, l’area del refettorio. A destra: frammento di vetrata policroma con busto del Cristo incorniciato dalle lettere «alfa» e «omega» (IX sec.), dai sedimenti fluviali sottostanti il pontile.


le strutture di San Vincenzo; i pontili nella valle di Nogara (IX-XII secolo), sul fiume Tartaro, presso Verona; il porto di Genova (XIII-XV secolo); l’approdo sull’Arno di Montelupo (XIII secolo), presso Firenze.

il trasporto del travertino Se la tipologia delle strutture rinvenute rimanda a contesti di tipo portuale, il tratto del fiume su cui queste strutture si affacciano solleva però piú di un interrogativo sulla loro funzione. A monte, infatti, il fiume incontra la sorgente ad appena 2 km circa di distanza, mentre poche centinaia di metri piú a valle il percorso del Volturno impegna una serie di salti e di rapide tumultuose che lo portano a discendere dai circa 550 m di quota della piana di Rocchetta ai circa 350 della zona circostante Cerro al Volturno. Non è quindi possibile che il tratto fluviale su cui si affaccia l’abbazia fosse interessato da un traffico significativo di imbarcazioni. L’unica possibile utilizzazione in tal senso sembra essere quella di un suo impiego per un tratto di circa un chilometro verso monte, sino a raggiungere l’area in cui si trovavano le cave di travertino sicuramente utilizzate in età altomedievale per alimentare il cantiere abbaziale. Profittando dell’abbondante portata del fiume, piccole chiatte si sarebbero potute utilizzare per trasportare blocchi dalle cave stesse sino al monastero, durante il periodo della sua maggiore espansione materiale, tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo. Ma nell’area esplorata le banchine riportate alla luce dovevano avere principalmente un’altra funzione, e cioè quella di fornire, attraverso il fiume, un varco di accesso alle persone e alle merci destinate al consumo alimentare, che venivano trasportati via terra sino alle soglie del complesso monastico. Presso le cucine e il fiume, infatti, stando al Chronicon Vulturnense, dovevano essere presenti i cellaria (magazzini) monastici visto che, durante il sacco arabo, gli assalitori gettarono direttamente nel fiume cereali e legumi. Forse una scafa (piccola imbarcazione priva di vela, n.d.r.) permetteva di raggiungere la riva sinistra del fiume, dove si trovava il monastero, provenendo dalla riva opposta, ove, tra l’altro, è possibile si fosse installato il burgus abitato da laici e serventi. Non è da escludere, però, che le banchine potessero in alcuni punti estendersi entro

Ipotesi ricostruttiva del pontile ligneo altomedievale rinvenuto negli scavi di Jelling (Danimarca).

l’alveo fluviale sino a congiungere le due rive, in modo da creare un attraversamento all’asciutto del Volturno. Purtroppo, però, l’interruzione degli scavi e successivamente il totale riseppellimento dell’area nell’estate del 2008, non ha consentito di completare l’esplorazione di un contesto che ha presentato caratteristiche di assoluta unicità nel quadro dell’archeologia medievale dell’Italia meridionale e che avrebbe potuto gettare luce ulteriore su aspetti essenziali della logistica e dell’organizzazione architettonica del monastero.

le nuove ricerche Fra il 2006 e il 2007, e poi di nuovo nel 2013, sondaggi aperti dinnanzi alla basilica di S. Vincenzo, in direzione del Volturno, hanno permesso di acquisire nuove conoscenze sulla topografia della grande area aperta e circondata da portici intorno alla quale, nel IX secolo, si disponevano alcuni dei principali edifici del monastero. In particolare, si è indagata parte del braccio est e di quello sud, mettendo in luce non solo i tratti dei due corridoi porticati, ma anche parti degli edifici a essi addossati sul lato esterno. È stato cosí possibile stabilire che l’area dedicata alle attività produttive del monastero si estendeva a r c h e o 97


speciale • san vincenzo al volturno

dAL volturno al museo All’inizio c’era un progetto: quello di lasciare i reperti rinvenuti nello scavo di San Vincenzo al Volturno il piú vicino possibile al sito. Si tratta – forse – della piú grande collezione di reperti altomedievali provenienti da un unico sito archeologico; sicuramente, è un insieme di oggetti sufficiente, per quantità e varietà, a riempire, da solo, un museo e a raccontare la vita quotidiana, la spiritualità, la sensibilità artistica e i saperi tecnologici di una comunità monastica che appartenne a buon diritto all’élite del mondo religioso europeo fra l’VIII e l’XI secolo. Frammenti di superfici pittoriche; elementi scultorei antichi riutilizzati e prodotti ex novo nell’Alto Medioevo; utensili per la lavorazione del vetro, del legno, del metallo, dei tessuti e del cuoio; vetro per finestra e per vasellame liturgico e da tavola; oggetti di oreficeria; laterizi per i tetti e i pavimenti degli edifici; ceramiche da mensa e da cucina; iscrizioni; marmi per pavimentazioni. Insomma, un caleidoscopio di oggetti che descrivono veramente a tutto tondo cosa di meglio si fosse in grado di immaginare e di produrre nel cuore dei cosiddetti «secoli bui» dell’Europa. Il Museo di sito (che sarebbe dovuto essere a gestione comunale) s’iniziò a costruirlo nel 1999 e, benché non fosse ancora stato terminato, i progettisti (lo «Studio n!» di architettura di Roma) avevano già ricevuto numerosi

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riconoscimenti nazionali e internazionali per la sua qualità architettonica. Poi, come spesso accade, ci si è dimenticati di farlo completare e, oggi, l’edificio rimane una delle tante «incompiute» presenti sul suolo italiano, destinato a divenire forse esso stesso un reperto archeologico. Di fronte a questa impasse, nel 2012 la Soprintendenza ai Beni Archeologici del Molise ha deciso che, in ogni caso, fosse inaccettabile che trent’anni di scavi condotti presso l’abbazia vulturnense non potessero essere conoscibili anche attraverso i loro reperti. Si è cosí provveduto a trovare una loro prima sistemazione espositiva nei suggestivi locali delle ex stalle del convento di S. Chiara di Venafro, che da qualche decennio ospita il locale Museo Archeologico. Quindi, nel 2013, nel quadro della generale risistemazione del Museo stesso, la Soprintendenza ne ha curato lo spostamento nell’ala sud del primo piano dell’antico convento, dove essi sono stati suddivisi su base tematica nelle diverse salette dedicate. Insieme ai reperti, sono stati esposti anche alcuni plastici che ricostruiscono l’insieme dell’area archeologica e l’edificio della grande basilica di S. Vincenzo. La collezione dei reperti vulturnensi costituisce il punto d’arrivo dell’itinerario di visita del Museo venafrano che, specialmente grazie al nuovo allestimento,


consente di godere della significativa collezione di reperti – prevalentemente di età romana – recuperati nel corso degli scavi effettuati in città e nei suoi immediati dintorni, tra cui le statue marmoree rinvenute all’interno del teatro e la celebre «Venere di Venafro», replica romana di un modello di età ellenistica. Soprattutto, proprio a «cerniera» fra la sezione su Venafro e quella su San Vincenzo al Volturno, sono stati esposti i famosi «scacchi di Venafro», realizzati in osso e databili tra la fine del IX e la fine del X secolo e che costituiscono una delle piú antiche testimonianze della pratica di questo gioco in ambito europeo. Essi furono rinvenuti nel 1932 nell’area del teatro romano e sono rimasti a lungo invisibili al pubblico. Considerando che Venafro, fra l’861 e l’865, fu occupata dalle milizie dell’emiro di Bari, Sawdan, è suggestivo immaginare che il gioco degli scacchi possa essere giunto nella città molisana proprio al seguito delle sue truppe.

dove e quando Museo Archeologico Venafro, ex monastero di S. Chiara, via Garibaldi 10 Orario ma-do, 9,00-19,00; lu chiuso Info tel. e fax 0865 900742; e-mail: museovenafro@ libero.it; http://archeologicamolise.beniculturali.it; https://www.facebook.com/pages/MuseoArcheologico-Di-Venafro/1501030150164311

ben oltre, in direzione del fiume, gli edifici rinvenuti negli anni passati a ridosso del fianco meridionale della basilica maggiore e che parti rilevanti degli ambienti che la componevano erano stati distribuiti anche nella zona posta direttamente di fronte alla facciata. Questa sistemazione bloccava il percorso del braccio porticato meridionale e lo obbligava a piegare a 90° verso settentrione, escludendo quindi in modo definitivo l’ipotesi che, in età carolingia, vi fosse un accesso frontale alla chiesa di san Vincenzo. Tale accesso fu invece realizzato alla fine del X secolo con la costruzione dell’atrio e – dinnanzi a esso in direzione del fiume – con la demolizione del braccio porticato meridionale e degli edifici che lo fiancheggiavano. In questo periodo, davanti all’atrio e alla scalinata che permetteva di accedervi fu realizzata una grande area aperta, delimitata verso il fiume da una sorta di portico monumentale, costruito ex novo, utilizzando

A destra: la «Venere di Venafro». Venafro, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: gli «scacchi di Venafro». Venafro, Museo Archeologico.

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speciale • san vincenzo al volturno A sinistra: immagine satellitare del sito archeologico di San Vincenzo al Volturno, con indicazione delle principali aree d’indagine (da Google Earth, rielaborato).

solo in parte i resti di quello del IX secolo. Risultati molto importanti ha anche fornito il sondaggio aperto nel 2013 sulla sommità della collina, detta Colle della Torre, che sovrasta a ovest l’area centrale del monastero. Sin dall’inizio degli anni Ottanta, ricognizioni e piccole trincee di scavo avevano rivelato che quest’area era interessata dalla presenza di numerosi edifici, disposti su terrazzamenti artificiali che avevano permesso di sfruttare al meglio lo spazio della collina. Tuttavia, rimaneva indeterminata la funzione che tale area poteva aver rivestito nell’ambito dell’organizzazione generale dell’insediamento di età carolingia.

muse e filosofi La nuova indagine ha permesso di comprendere che il pianoro sommitale era occupato da almeno un edificio di grandi dimensioni, a pianta rettangolare. Dotato di murature spesse 1,5 m circa (le piú poderose sinora rinvenute a San Vincenzo), doveva essere di altezza considerevole. Dato che l’altura è denominata «Colle della Torre», non è da escludere che si trattasse proprio di un edificio fortificato, utilizzato con funzioni di punto di osservazione e, forse di rifugio, in caso di pericolo. Di questo edificio è stata rinvenuta la soglia d’ingresso, all’interno della quale era stato riutilizzato l’angolo di un sarcofago di produzione romana databile fra il III secolo e gli inizi del IV, decorato sul fronte e sui fianchi con figure di muse e filosofi. Ha suscitato un certo stupore l’aver constata100 a r c h e o


to che anche questi edifici furono violentemente distrutti dall’incendio appiccato al monastero nel corso del raid saraceno dell’881. Ci troviamo infatti a una distanza – in linea d’aria – di oltre 200 m dalla zona del monastero affacciata sul Volturno e che fu probabilmente la prima a essere raggiunta e devastata dagli assalitori. Questo significa dunque che l’assalto fu condotto in maniera sistematica e con l’intento di infliggere danni estesi e significativi a tutte le sue parti.

Conclusioni Gli approfondimenti offerti dalle indagini di questi ultimi anni costituiscono, oltre che importanti novità riguardo la struttura e l’articolazione dell’insediamento vulturnense (soprattutto nel periodo della sua massima espansione, tra la fine dell’VIII e la prima metà del IX secolo), un invito a proseguire nell’attività di ricerca sul campo in questo eccezionale sito archeologico. Nonostante i progressi compiuti nell’ultimo quindicennio, conosciamo ancora relativamente poco: è stato infatti esplorato non piú di un quinto dell’area interessata dal giacimento archeologico. Ci sono ancora ignote la collocazione e la forma architettonica di molti edifici fondamentali per la vita della comunità monastica, come il dormitorio, la biblioteca e lo scriptorium, i magazzini e gli alloggi per gli animali, senza far menzione di molte delle chiese (almeno cinque) ricordate dal Chronicon Vulturnense e che – almeno in alcuni casi – doveva-

In alto: veduta zenitale dell’area di un tratto del braccio orientale del quadriportico monastico riportato alla luce nel 2013 (IX sec.) Nella pagina accanto, in basso: veduta dall’alto dei resti dell’angolo meridionale del quadriportico centrale del chiostro monastico (IX sec.).

no avere dimensioni e qualità costruttiva di tutto rispetto, anche se probabilmente lontane dal gigantismo raggiunto dalla grande basilica dedicata a san Vincenzo. La stessa ratio progettuale complessiva del monastero di età longobardo-carolingia ci sfugge ancora in buona parte, e ciò perché i grandi insediamenti monastici di quest’epoca non seguivano schemi planimetrici standardizzati, come invece sarebbe avvenuto dal Mille in poi. Ciascuno di essi costituiva un caso a sé, nel quale – grazie alle enormi risorse economiche disponibili e alle protezioni politiche accordate dai sovrani – si cercava di sperimentare soluzioni funzionali, artistiche e tecniche che soddisfacessero i desideri di abati che, il piú delle volte, portavano all’interno dei chiostri il piglio e l’ambizione propri del mondo aristocratico da cui provenivano. Il cantiere di San Vincenzo al Volturno, sul quale la Soprintendenza sta nel frattempo operando per migliorare le condizioni di tutela e di fruizione della vasta area già riportata alla luce, è dunque ancora in piena attività per proseguire un percorso di ricerca avviatosi ormai molti decenni orsono, i cui progressi apportano sempre ampliamenti importanti alla conoscenza dell’Europa altomedievale. Gli autori desiderano ringraziare la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise (direttore Gino Famiglietti), la Soprintendenza ai Beni Architettonici del Molise (soprintendente Carlo Birrozzi e i responsabili per il cantiere aperto lungo l’alveo fluviale, Fioravante Vignone e Franco Marianera) e la Soprintendenza ai Beni Archeologici del Molise (funzionari responsabili Paola Quaranta e, dal 2013, Diletta Colombo) per l’aiuto e il sostegno offerto nelle fasi delle indagini sul sito e per lo studio dei reperti. Un grazie particolare si rivolge a Rosaria Monda, che ha collaborato alle indagini nell’area del fiume, a Daniele Ferraiuolo e Ilaria Turco, che hanno condotto gli scavi rispettivamente sul Colle della Torre e nell’area dei chiostri, ad Alessia Frisetti, che ha curato la documentazione grafica con la collaborazione di Viviana Francone, a Consuelo Capolupo, che ha seguito le attività di post-scavo con l’ausilio di Federica D’Angelo e Nicodemo Abate. Questo articolo è dedicato in affettuoso ricordo alla memoria di madre Agnes Shaw OSB, una delle monache rifondatrici della comunità di San Vincenzo al Volturno, scomparsa nel novembre 2012. a r c h e o 101


Quando l’antica Roma… Romolo A. Staccioli

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però, poco mancò che, su un’altura poco distante dalla città, non sorgesse un’altra Roma, in conseguenza di una «secessione» messa in atto da una parte della cittadinanza. Nel 494 a.C., il

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gli inizi del V secolo a.C. la storia di Roma ebbe un sussulto destinato a rivelarsi determinante per l’assetto istituzionale (e per le fortune) della repubblica. In quell’occasione,

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nel 494 a.c. la plebe diede vita a una vera e propria secessione, ritirandosi a tre miglia dall’urbe, nel luogo chiamato sacer mons. e solo l’intervento di menenio agrippa riuscí a ricondurre i transfughi in città

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…fu sul punto di sdoppiarsi Anio

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Sulle due pagine: incisione ottocentesca in cui si immagina la plebe in armi, guidata da Gaio Sicinio Velluto, che abbandona Roma per ritirarsi sul Sacer Mons. conflitto che in ogni settore della vita civile opponeva il ceto dominante dei patrizi (legati alla grande proprietà immobiliare e, in particolare, terriera) e la plebe (la gran massa della popolazione, fatta di imprenditori, di commercianti e artigiani, spesso dotati di buoni mezzi finanziari, ma anche di nullatenenti, dediti ai lavori piú umili e non di rado in lotta per la sopravvivenza) era arrivato a uno stadio di estrema gravità. In particolare, la plebe minuta era disperata, perché oppressa dai

debiti e in balia degli usurai. Con il rischio – previsto dalla legge in caso d’insolvenza – dell’assoggettamento personale e della riduzione in schiavitú. I plebei avevano, inoltre, motivo di lamentarsi dei continui richiami alle armi che comportavano il forzato abbandono del lavoro e, al ritorno dalla guerra, la difficile ripresa, con la necessità di rinnovati e ripetuti indebitamenti e la sostanziale perdita della libertà.

l’esercito lascia roma La situazione era diventata a tal punto insostenibile che, sospese le magistrature ordinarie, venne nominato un dittatore, Marco Valerio, un patrizio moderato e ben disposto nei confronti della plebe, il quale, tuttavia, si scontrò con

l’intransigenza del Senato e specialmente dei suoi membri piú giovani. Fu cosí che l’esercito – cioè la plebe in armi – rientrato dall’ennesima campagna di guerra, decise di abbandonare la città. Guidato da Gaio Sicinio Velluto («il piú strenuo avversario dell’aristocrazia – come lo definisce Dionigi d’Alicarnasso – di infima nascita ed educato poveramente»), si trasferí a tre miglia da Roma, immediatamente al di là dell’Aniene, su un’altura che, dall’altare che vi fu poi consacrato in onore di Giove terrificus (cioè «che incute paura») – quasi un «contraltare» del Giove Capitolino – ebbe il nome di Monte Sacro (Sacer Mons), che tuttora conserva. Lí si pensò di dare vita a un’altra Roma. O meglio, fu costruito un «accampamento» (Livio lo chiama castrum), che avrebbe potuto essere il punto di partenza per l’edificazione di una nuova città: la Roma della plebe. Il luogo si prestava all’occorrenza, alto, protetto dal fiume e dalle paludi circostanti, con la possibilità di espandersi, in basso, su una superficie di 7-8 ettari (oggi percorsa dai viali Adriatico e Ionio!): una situazione non dissimile da quella del Palatino delle origini. La secessione, insomma, ebbe tutte le possibilità di diventare definitiva, andando ben oltre la scelta contingente di una dura forma di lotta politica. E si rivelò subito di estrema gravità per la giovane repubblica, privata come essa si venne improvvisamente a trovare, del nerbo dell’esercito e di gran parte della sua forza lavoro. Si dovette pertanto correre in fretta ai ripari. I racconti degli storici ci dicono dell’opera di mediazione e di convincimento esercitata, nei confronti della plebe, da Menenio Agrippa (peraltro egli stesso un plebeo). E celebre è rimasto il suo discorso – il famoso «apologo» – con il quale egli riuscí a ristabilire la concordia. Vale dunque la pena di

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Il Ponte Nomentano, che scavalca l’Aniene, in una foto del 1870-1890. rievocarlo, nella versione trasmessaci da Tito Livio (II 32,912): «Al tempo in cui nell’uomo non tutto, come adesso, era ancora in perfetta armonia, ma le singole membra avevano un loro proprio modo di pensare e di esprimersi, le diverse parti erano indignate perché tutto ciò che esse procuravano con la loro opera, la loro fatica e la loro dedizione andava a vantaggio dello stomaco, mentre quello se ne stava tranquillo, nel mezzo, senza pensare ad altro che a godere dei piaceri che gli venivano offerti. S’accordarono quindi che le mani non portassero piú il cibo alla bocca, che la bocca non accettasse piú ciò che le veniva dato, che i denti non masticassero piú. Cosí adirate, mentre credevano di poter domare lo stomaco con la fame, esse stesse, singolarmente e il corpo tutt’intero, si ridussero a uno stato di estremo esaurimento.

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Apparve pertanto evidente che anche lo stomaco aveva una sua funzione, e che, di fatto, non veniva nutrito piú di quanto non nutrisse egli stesso, restituendo a tutte le parti del corpo, equamente distribuito nelle vene e arricchito del cibo digerito, quel sangue per il quale viviamo e stiamo in forze».

una nuova magistratura Livio conclude dicendo che, grazie al suo apologo, Menenio Agrippa riuscí a far rientrare a Roma i secessionisti i quali tuttavia lo fecero – nel 439 a.C. – solo dopo aver ottenuto soddisfazione. In realtà, fu il patriziato a cedere, anche se la plebe non ottenne alcun beneficio economico. Tutto si risolse con una riforma istituzionale, ossia con la creazione di una nuova classe di magistrati – esclusivamente plebei –, che presero il nome dalle «tribú», le ripartizioni anagrafiche del territorio romano che servivano per la convocazione delle assemblee popolari, e si

chiamarono perciò «tribuni della plebe». Considerati «sacri» e inviolabili (cioè protetti da una forma di sacralità garantita dal giuramento collettivo della plebe stessa), i tribuni della plebe ebbero il potere di indire speciali assemblee legiferanti, come quelle convocate dai consoli, e di porre il veto contro le decisioni dei magistrati patrizi. In tal modo, Roma evitò il rischio di sdoppiarsi, ma la repubblica fu da allora retta da due forme di governo diverse e coesistenti. Di fatto, nasceva il nuovo Stato patrizio-plebeo e, nel suo ambito, una nuova classe di governo, la nobilitas, formata dalle grandi famiglie dell’una e dell’altra parte. Ma il tribunato della plebe rimase uno dei cardini della repubblica, tanto che Cicerone scrisse che senza di esso lo Stato non sarebbe esistito. E quando Augusto diede forma a quel nuovo tipo di governo che fu il principato, egli lo fondò, oltre che sul pilastro dell’imperium proconsulare, su quello della tribunicia potestas.



scavare il medioevo Andrea Augenti

c’era una volta Tuscolo...

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misura con le numerose città abbandonate dopo l’età romana: tra queste figurano le rovine della antica Tusculum, a sud-est di Roma, non lontano da Frascati, tra i percorsi della vie Latina e Labicana.

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e città abbandonate, veri «organismi viventi» lasciati andare alla deriva per le cause piú diverse, sono da sempre uno dei maggiori interessi degli archeologi. Anche l’archeologia medievale si

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nel 1191, l’esercito del comune di roma rade al suolo tusculum, città laziale a sud-est della capitale. cancellando secoli di vita, abbandoni e rinascite. che, oggi, sono al vaglio di nuove indagini archeologiche

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Probabilmente preceduto da un villaggio occupato nell’età del Ferro, il centro si espande tra il VII e il VI secolo a.C. e ben presto si afferma come uno dei piú importanti insediamenti del Lazio. In età romana il paesaggio monumentale della città – articolata in un’acropoli e un’area sottostante, estesa soprattutto verso ovest – si sviluppa sensibilmente grazie alla costruzione di svariati monumenti: il foro, un anfiteatro, un teatro, alcuni templi. A partire dal XIX secolo, Tuscolo è stata oggetto di ripetuti sterri; solo in tempi recenti, dal 1994, è stata finalmente indagata con il metodo stratigrafico dagli archeologi della Scuola Spagnola di Storia e Archeologia di Roma, sotto la direzione di Xavier Dupré. Proprio questi nuovi scavi hanno permesso di recuperare dati sulle fasi medievali del sito (indagate dall’archeologa Valeria Beolchini), aprendo nuove prospettive sulla sua storia. Dopo un periodo di abbandono, databile tra il V e il IX secolo, il luogo viene nuovamente occupato, su iniziativa della famiglia dei conti di Tuscolo (o Tuscolani), una delle piú potenti consorterie aristocratiche della Roma medievale, soprattutto tra il X e il XII secolo: basti pensare che riuscí nell’impresa di fare eleggere papi tre loro membri, in sequenza (Benedetto VIII, 1012-1024; Giovanni XIX, 1024-1032; Benedetto IX, 1032-1048, con varie interruzioni). I Tuscolani scegono Tuscolo come loro residenza fuori Roma fin dal X

secolo e progressivamente la potenziano, fino a farla diventare una città, per la seconda volta nella sua storia. Inizialmente, però, il progetto è meno ambizioso: i Tuscolani fortificano e ristrutturano la zona dell’acropoli, trasformandola in un castello, la cui funzione principale è il controllo della Valle Latina. Siamo tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo, e in questa fase vengono restaurate e rinforzate le mura romane, mentre nel contempo si attua una intensa spoliazione delle strutture antiche

della città bassa: lo dimostrano le molte fosse e trincee aperte per recuperare il materiale da costruzione nella zona del foro e di un edificio adiacente.

i magazzini e la chiesa I recenti scavi hanno inoltre portato alla luce numerosi silos per la conservazione del grano, il che spinge a pensare che una intera zona della città antica in questo momento fosse quasi esclusivamente dedicata allo stoccaggio delle derrate. Nello stesso periodo viene fondata la chiesa intitolata a sant’Agata, nel suburbio meridionale della città

Nella pagina accanto: i resti del teatro di Tusculum (Tuscolo) in un olio su tela del paesaggista svedese Gustaf Wilhelm Palm (1810-1890). In basso: un’immagine del cantiere di scavo aperto a Tuscolo dalla Scuola Spagnola di Storia e Archeologia, che ha avviato una nuova stagione di indagini sul sito nel 1994. Le ricerche hanno riportato alla luce numerose strutture e restituito informazioni preziose sulla storia dell’abitato. antica. In seguito l’abitato si espande: in una seconda fase databile nel corso del XII secolo si diffondono numerose case a schiera (dalle dimensioni di 10 x 4/5 m), bene allineate tra loro e sintomo di uno sviluppo pianificato intenzionalmente. Tuscolo è considerata e diviene a tutti gli effetti una civitas, come indicano le fonti scritte dell’epoca; allo stesso tempo continua l’attività di «cannibalizzazione» delle strutture romane: molti nuovi edifici sono costruiti con materiali antichi (cubilia dell’opus reticolatum, marmi, laterizi). Viene inoltre ristrutturata la chiesa di S. Agata, che diventa una basilica a tre navate con abside unica. La fine di Tuscolo e il suo abbandono definitivo si datano al 1191. In quell’anno il re Enrico VI, venuto nei pressi di Roma per essere incoronato imperatore, cede la città ai Romani come pegno per raggiungere il suo scopo; a quel punto l’esercito del Comune di Roma la attacca e la rade al suolo, fino a rendere impossibile qualsiasi ripresa. Un’altra città muore, per rinascere nuovamente, oggi, grazie all’archeologia.

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l’ordine rovesciato delle cose Andrea De Pascale

Nel cuore (nascosto) di Siena le viscere del capoluogo toscano sono attraversate da una rete di gallerie scavate nell’arenaria, dette Bottini, unica fonte di rifornimento idrico della città fino alla Prima Guerra Mondiale…

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n queste pagine, abbiamo piú volte ricordato come l’acqua sia indispensabile per la sopravvivenza. Acquedotti, cisterne, reti di captazione, nascoste nel sottosuolo delle città, ne consentono la vita. Uno dei casi piú interessanti in Italia, parzialmente visitabile, è quello dei Bottini di Siena, realizzati per risolverne il problema dell’approvvigionamento in un abitato sviluppatosi su un terreno arido. Dall’Alto Medioevo, la città ha fatto fronte alle sue esigenze idriche attraverso il difficile, e

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pericoloso, lavoro di squadre di operai specializzati – spesso provenienti dalle miniere delle colline metallifere della zona di Massa Marittima – che con picconi, pale e zappe, a lume di candela, hanno scavato nel sottosuolo cunicoli tra l’arenaria pliocenica, il cosiddetto «tufo impietrito» formato da sabbie compattate che filtrano l’acqua, e la sottostante argilla, consistente e impermeabile. Grazie a tali gallerie, note nei documenti dal 1226 con il nome di «Buctinus» per la forma a botte della volta, l’acqua veniva

«catturata» per stillicidio e trasportata sul fondo dei tunnel, attraverso una canaletta detta «gorello», a diversi punti della città, per alimentare fontane pubbliche e molti pozzi privati.

Regole precise L’ingegnoso sistema dei Bottini di Siena rientra in una tecnica, quella della costruzione di gallerie drenanti, utilizzata da millenni nel Nord Africa e in Asia, dove con nomi diversi si trovano sistemi simili (i foggara del Sahara e della Siria, i rhettara del Marocco, i qanat della


Qui accanto: particolare del «gorello» (canale per il trasporto dell’acqua) nel Bottino di Fonte Gaia. Nella pagina accanto: un tratto del Bottino di Fonte Gaia. Si notino sul fondo, oltre al gorello, i «galazzoni», serie di vasche utili alla sua decantazione per liberarla dalle impurità e dall’eccesso di calcare. In basso: un graffito sulle pareti del Bottino di Fonte Gaia.

Persia o i karez dell’Asia Centrale) di cui ci siamo già occupati (vedi «Archeo» n. 334, dicembre 2012; anche on line su archeo.it). A Siena questo stratagemma ha consentito lo sviluppo di una delle città medievali piú floride d’Europa. Ma, per poter funzionare, e, soprattutto, per non arrecare danni e pericoli alla popolazione e agli edifici soprastanti la città, tale sistema venne regolato nel corso dei secoli con precise norme da parte del Comune, che ancora oggi ne è proprietario. Per esempio, nei tratti che partono a nord del centro urbano, in aperta campagna, cunicoli e volte dovevano essere ricoperti di mattoni, per evitare che l’arenaria umida, e quindi friabile, che drenava l’acqua dai campi convogliandola nelle gallerie, ne

provocasse il crollo e l’occlusione. Alcune leggi furono promulgate per proibire l’accesso e il passaggio agli estranei nelle gallerie, cosí come, per evitare la contaminazione delle acque, era vietato coltivare e concimare le zone di terreno soprastanti i Bottini, in modo da scongiurare sia danni alle gallerie, sia inquinamenti.

chiusura precauzionale Nel 1467 vari accessi, necessari per effettuare la manutenzione, collocati all’esterno delle mura che cingevano la città, furono chiusi, onde evitare che potessero trasformarsi in vie d’ingresso per i nemici. In effetti, nella storia di Siena, vi sono stati alcuni casi memorabili, come l’assedio del 1553, o una precedente congiura, fallita, appoggiata nel 1526 da Papa Clemente VII per piegare il potere senese, che prevedeva proprio di usare i Bottini per fare penetrare dal sottosuolo l’esercito di assalitori. Le gallerie che compongono i circa 25 km di tunnel che attraversano il sottosuolo di Siena sono suddivisi in diversi rami, ossia singoli complessi di cunicoli con propri accessi, punti di partenza e arrivo delle acque. Il Bottino di

Fontebranda, con la sua lunghezza di 7 km e un percorso a notevole profondità, è uno dei due principali insieme a quello di Fonte Gaia. Il Bottino di Fontanella, invece, è quello piú suggestivo per le numerose e stupende formazioni calcaree che si possono osservare al suo interno, e probabilmente il piú antico, come suggerisce – caso unico – il soffitto, che non presenta la volta a botte, ma a capanna, ossia a doppio spiovente, probabile indizio della sua origine etrusca. Un insieme di strutture, che attraversando la città nelle sue viscere, le ha dato la vita e che oggi merita di essere riscoperto e protetto.

per saperne di piÚ Per chi, dopo aver ammirato lo splendore dei monumenti in superficie della città di Siena, vuole scoprirne l’affascinante sottosuolo, attraverso le gallerie dei Bottini, è possibile partecipare alle visite guidate organizzate dall’Associazione «La Diana». I Bottini appartengono al Comune di Siena e l’Associazione, attraverso convenzioni, provvede gratuitamente da vent’anni, grazie a volontari, alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale legato all’acqua della città di Siena. Per informazioni e prenotazioni, si può consultare il sito web www.ladianasiena.it, che raccoglie anche puntuali e interessanti approfondimenti.

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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci

Il soffio divino L’impalpabilità dell’aria ha sempre rappresentato una sfida per gli artisti e per gli incisori delle monete: la vinsero entrambi, dando «corpo» al volatile elemento con numerosi e suggestivi espedienti

I

l respiro del cosmo, elemento etereo intangibile ed essenziale alla vita, permea il mondo dell’uomo, cosí come quello degli dèi olimpici. Quando essi si muovono per raggiungere la terra ed entrare in contatto con la sfera umana, sia in un percorso solitario, sia usando veicoli celesti trainati da animali meravigliosi, il senso del volo è reso con ricorrenti modelli convenzionali. Il secondo dei quattro elementi empedoclei, l’aria, è inconsistente e vitale, tanto che, nella concezione medica di Ippocrate, corrisponde al sangue. Invisibile ma dagli effetti visibili e sperimentabile con i sensi, la presenza dell’aria si percepisce in numerose emissioni romane di età repubblicana e imperiale, conferendo alle raffigurazioni un realistico tocco di vitalità. Nell’iconografia monetale, infatti, l’aria è simboleggiata dal rigonfiamento delle vesti, dai capelli mossi, da ali che fendono il vento e altri espedienti che

suggeriscono il volo di divinità e personificazioni, anche associate al cosmo e ai pianeti.

Il volo degli dèi In un denario di Vitellio, emesso nel 69 d.C. durante i suoi poco piú che 8 mesi di regno, la Vittoria con lo scudo iscritto SPQR, simbolo della fedeltà dell’imperatore ai principi tradizionali di Roma, sembra stia per atterrare, con le ali quasi richiuse. La figura ha le forme longilinee avvolte in un sensuale drappeggio mosso dall’aria nel concludersi del volo,

probabilmente al cospetto del nuovo effimero regnante. Molto interessanti sono i conii battuti con Antonino Pio nel 147 d.C. in occasione dei 900 anni della nascita di Roma, contraddistinti da figurazioni che celebrano la gloria avita dell’Urbe e la sua origine leggendaria. Tra i tipi creati per la ricorrenza vi è quello dedicato all’origine prima della città, ovvero il momento dell’incontro amoroso tra Rea Silvia e Marte, dal quale nacquero Romolo e Remo ed ebbe inizio il destino millenario di Roma. Il sacro connubio, celebrato su monete e medaglioni, vede Marte discendere in volo, deciso ma In alto: denario di Vitellio, Tarragona. 69 d.C. Al dritto, il busto imperiale; al rovescio, la Vittoria in volo con uno scudo con l’iscrizione SPQR. A sinistra: denario di Antonino Pio, 140-144 d.C. Al dritto, busto imperiale; al rovescio, il dio Marte in volo verso Rea Silvia.

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leggero, con il manto svolazzante e le armi in pugno, pronto alla conquista della bella vestale discinta e languidamente addormentata, in una immagine che unisce all’eros la potenza militare. Questa composizione, simbolo di amore come di grandezza e dominio, ricorre anche sui medaglioni coniati da Antonio Pio per l’amata consorte Faustina Maggiore, prematuramente defunta nel 140/1 e celebrata quale diva nelle emissioni di ogni metallo sino al 161, alla morte di Antonino Pio.

culto della memoria Nei vent’anni di vedovanza, la moglie divinizzata fu oggetto di un vero e proprio culto della memoria, in cui l’affetto coniugale si assomma allo status di per sé già eccezionale dell’imperatore, che diviene pertanto marito di una divinità. La Diva Faustina ricorre su pezzi monetati di pregio quali i medaglioni, doni di rango che il regnante faceva al suo piú stretto entourage e nei quali l’arte incisoria romana tocca alti vertici. Tali pezzi, infatti, non destinati al commercio ma comunque di preciso valore economico, erano piú grandi degli altri nominali e quindi potevano lasciar ampio spazio all’inventiva dell’incisore. È facile immaginare che venissero commissionati ad artisti riconosciuti, i quali, sulla base di attente e complesse indicazioni dove l’iconografia si legava al messaggio ideologico, potevano sbrigliare il loro estro. Un fortunato e recente ritrovamento effettuato a Chouppes, in Francia, ha restituito un eccezionale medaglione per la Diva Faustina. Sul dritto compare il

A sinistra: medaglione di Antonino Pio per la Diva Faustina, 140 d.C. circa. Al dritto, busto di Faustina Maggiore; al rovescio, Luna in volo su una biga, si dirige verso Oceanus. In basso: il tondo dell’Arco di Costantino (315 d.C.) con Diana/Luna in quadriga in volo e Oceano in basso. bel busto dell’imperatrice, con volto sereno e la ricca acconciatura tipica delle emissioni a lei dedicate. Il tipo del rovescio è invece del tutto inedito, e inserisce il dritto, con la donna divenuta divinità, in un ambito cosmico elaborato. La Luna è su una biga di cavalli al galoppo, con il manto sul capo gonfiato dall’aria in volo discendente verso Oceanus, che l’attende con mano levata e mantello ingrossato dal vento a circondargli il capo, possente figura virile distesa sulle onde. In alto brillano sette stelle, interpretate come l’Orsa Maggiore o le Pleiadi. Questa composizione si avvicina a quella del tondo di età costantiniana sull’arco di Costantino a Roma, che presenta anch’esso la Luna in volo verso Oceano. Il confronto tra questa iconografia e le fonti letterarie antiche quali il Sogno di Scipione di Cicerone, insieme alle leggende monetali relative alla divinizzazione imperiale (sideribus receptus/ recepta) conferma il ruolo mediatore svolto da Luna, Oceano e le sette stelle nella trasformazione dell’uomo in dio. Il tutto inserito in un contesto dove immagine, letteratura e religione si intrecciano mirabilmente nell’accorto gioco politico e ideologico romano che trasforma i «buoni» regnanti in divinità olimpiche. (2 – continua)

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i libri di archeo

DALL’ITALIA Massimiliano Santi

La stele di Axum da bottino di guerra a patrimonio dell’umanità Una storia italiana Milano-Udine, Mimesis, 262 pp., 52 ill. b/n nel testo 20,00 euro ISBN 9788857521919

Appollaiata a 2200 m sull’altipiano etiopico, Axum è stata per millenni al centro di una delle civiltà piú sviluppate del continente africano. Collegato al porto di Adulis, quel regno fu per secoli il maggiore intermediario del commercio lungo le rotte del mar Rosso, in contatto con l’Oriente e con Roma. Gli obelischi (in verità stele) che ne segnano tuttora il

Roma, piazza di Porta Capena. La stele di Axum in una foto del 1956.

paesaggio archeologico sono considerati a buon diritto la manifestazione piú famosa dell’antica cultura axumita, entrata di prepotenza nella storia contemporanea italiana con l’aggressione

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fascista perpetrata ai danni dell’Etiopia nel 1935-36 e conclusasi con la proclamazione dell’impero mussoliniano: un impero, beninteso, grottesco, nato da una pretesa e non richiesta missione civilizzatrice nei confronti di quel Paese, sottoposto a violenze inaudite e stragi che costituiscono tuttora un’ombra cupa sulla storia recente dell’Italia. Da quella aggressione, ricordata da Angelo Del Boca nella sua introduzione a questo bel

libro, è nata la «questione Axum», fin da quando, nell’ottobre 1937, la stele fu eretta a Roma per celebrare il primo anniversario dell’impero, non casualmente all’imbocco della via Appia, tradizionale direttrice dell’espansione romana verso il Sud, e a ridosso del Ministero delle Colonie, che oggi ospita l’organizzazione mondiale della FAO. Molto materiale iconografico inedito illustra la storia delle stele e l’epopea del suo

viaggio dalle montagne etiopiche alle spiagge del Tirreno, come preda di guerra, rubato da parte di un Paese dimentico del dolore dei saccheggi di opere d’arte che avevano accompagnato poco piú di un secolo prima le campagne napoleoniche in Italia. Il volume racconta con dovizia di particolari e minuzia cronachistica le lunghe vicende che accompagnarono, finita la guerra, il contenzioso per la restituzione all’Etiopia della sua stele gigantesca, prevista fin dal trattato di pace del 1947, e poi ribadita da un accordo del 1956, quando ormai i due Stati avevano ristabilito normali rapporti diplomatici sanciti poi da una storica visita a Roma del negus Hailé Selassié. E ancora ribadita da una dichiarazione congiunta del 1997. Ma, ciononostante, la restituzione si poté dire conclusa solo con la consegna dell’ultimo concio del monumento il 25 aprile 2005, dopo un percorso diplomatico davvero lungo, condizionato da omissioni e reticenze, oltre che da vere o presunte difficoltà tecniche e finanziarie, che ne favorirono i continui rinvii. Non tutti, peraltro, d’origine nostrana, dal momento che la stessa storia dell’Etiopia contemporanea ha conosciuto, dopo il colpo di Stato del 1974, i massacri di una dura


guerra civile, l’isolamento internazionale e anche un altalenante interesse verso una restituzione, evidentemente legittima, che non sempre si sposava con le sensibilità e le culture di quel grande Paese (Axum è il cuore di una delle regioni storiche dell’Etiopia, il Tigrai). Fu dunque un ritorno difficile quello della stele ad Axum, marcato anche dal segno infausto di un fulmine che, nel 2002, ne danneggiò la cuspide. Ma in un giorno di settembre del 2008 migliaia di persone in festa salutarono con una cerimonia solenne il recupero di quel simbolo della cultura africana, e dell’Etiopia moderna, sí che il rimpatrio della stele è parso a molti come il possibile catalizzatore del ritorno a casa della messe infinita di oggetti sottratti all’Africa nel corso della recente storia coloniale. Quella restituzione è stata dunque anche l’occasione per il popolo etiopico per riflettere a sua volta sulla propria identità nazionale dopo decenni di lotte fratricide. Per noi Italiani, nati e vissuti nella democrazia e nel rifiuto non negoziabile della violenza nei confronti delle altre comunità del pianeta, il ritorno a casa della stele non può essere vissuto solo come un atto dovuto o un adempimento tecnico; al contrario, avrebbe potuto essere – come ha scritto

Nicola Labanca – anche l’occasione per riparare simbolicamente a un torto storico e riflettere sul nostro passato. Questo libro ci aiuta certamente a farlo. Daniele Manacorda

conseguenza, le loro necropoli rupestri sono lo specchio fedele di una solida e durevole fioritura. Gli interventi ora riuniti nel volume affrontano

AA. VV.

l’etruria meridionale rupestre Atti del convegno internazionale «L’Etruria rupestre dalla Protostoria al Medioevo. Insediamenti, necropoli, monumenti, confronti (Barbarano Romano-Blera, 8-10 ottobre 2010) Palombi Editori, Roma, 580 pp., ill. b/n e col. 29,00 euro ISBN 978-88-6060-629-7 palombieditori.it

A quattro anni dalla loro presentazione nell’omonimo convegno svoltosi a Blera, vengono pubblicati i contributi di studiosi italiani e stranieri su uno degli aspetti che maggiormente hanno caratterizzato l’architettura funeraria (ma non solo) degli Etruschi. Oggetto delle comunicazioni sono siti compresi in una Etruria che solo convenzionalmente può essere definita «minore», poiché, senza naturalmente negare il ruolo egemone delle grandi metropoli costiere, abitati come quelli di Blera, San Giovenale o Sovana si sono rivelati pedine di importanza nevralgica nella gestione del territorio. E, di

sia temi di carattere generale, sia singoli contesti e comprendono anche interessanti spunti di confronto, come quelli relativi alle affinità con contesti dell’area vicino-orientale. Merita inoltre d’essere segnalata l’attenzione per la tutela e la salvaguardia del patrimonio rupestre, fatto di monumenti che, proprio perché scavati nella roccia, si rivelano tanto spettacolari, quanto «fragili». Stefano Mammini

Quasi come in un’arca di Noè, Kitchell passa in rassegna tutti gli animali del creato, dall’addax – un’antilope del deserto che vive nell’Africa del Nord – agli zegeries, una delle tre specie di topi tipiche della Libia antica, oggi solitamente identificata con il roditore chiamato gundi. Il suo excursus si sviluppa sulla base delle citazioni contenute nelle opere degli autori greci e latini e dà vita a un repertorio di grande interesse, non soltanto in termini statistici, ma anche perché offre numerose testimonianze su come l’uomo vivesse il proprio rapporto con il mondo animale, soprattutto nel caso delle specie da compagnia, primo fra tutti il cane, e di quelle utilizzate come bestie da soma e/o come risorsa alimentare. Il volume è stato pensato innanzitutto per gli addetti ai lavori, ma lo stile delle descrizioni è tale da risultare accessibile anche agli appassionati. S. M.

dall’estero Kenneth F. Kitchell, Jr.

animals in the ancient world from a to z Routledge, Londra-New York, 262 pp., ill. b/n 125,00 USD ISBN 978-0-415-39243-3 routledge.com

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