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archeo 362 APRILE
ARCHEO
OPERAZIONE TESEO
ESCLUSIVA
RIAPRE LA VILLA dei
CASINALBO
MISTERI
• LE IMMAGINI DEL RESTAURO
DUE PINI
• IL SIGNIFICATO DELLE PITTURE
FIRENZE
LA CHIMERA DI AREZZO OPERAZIONE TESEO
l’antichità salvata dai carabinieri ANTEPRIMA
IL NUOVO MUSEO EGIZIO DI TORINO
€ 5,90
SPECIALE POMPEI LA VILLA DEI MISTERI
Mens. Anno XXXI n. 362 aprile 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
CHIMERA DI AREZZO
• IL SEGRETO DEI RITI DIONISIACI
www.archeo.it
editoriale
i nostri primi trent’anni Trecentosessantadue numeri fa, nel marzo del 1985, nasceva «Archeo». A partire da quella data, la nostra rivista è apparsa in edicola ogni mese, ininterrottamente, per raccontare il divenire di un mondo, quello dell’archeologia, all’epoca ancora appannaggio di pochi iniziati. Potremmo a buon diritto affermare che, nei trent’anni trascorsi da allora, «molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere», poiché proprio su questo fiume si affacciava la prima redazione romana di «Archeo». L’archeologia, forse anche grazie alla nostra presenza in questi anni, è oggi un argomento alla portata di tutti coloro che al mondo del passato, alle sue testimonianze monumentali e materiali, riconoscono la valenza di «interlocutore» privilegiato sia sul piano della propria esistenza intellettuale e, perché no, anche di quella «sentimentale». Dicevamo che di acqua ne è passata molta sotto i ponti del Tevere e, aggiungiamo, «nel bene e nel male»: la sorte spietata che proprio in queste settimane e giorni si sta accanendo contro una parte fondamentale del patrimonio archeologico dell’umanità, spesso con esiti drammaticamente irreversibili (si veda, anche in questo numero, il contributo di Daniele Manacorda alle pp. 98-101), ci indurrebbe, oggi, a riflettere piú che a celebrare. Ma, come talvolta accade, sono le vicende piú prossime a risollevarci l’animo. Ecco allora, che, proprio in questi giorni – e nel nostro Paese – assistiamo a due eventi culturali di grande rilievo: a Pompei, la riapertura al pubblico della Villa dei Misteri, dove un lungo e accurato restauro ha restituito colori e vita alle sue celebri pitture murarie (ne parliamo, in anteprima esclusiva per i nostri lettori nello speciale alle pp. 72-97); a Torino, l’inaugurazione del rinnovato Museo Egizio, una delle piú importanti istituzioni museali del mondo e la seconda collezione di antichità egizie, dopo quella del Cairo (ne parleremo diffusamente nel prossimo numero di maggio). Due eventi che, davvero, vale la pena di celebrare e per i quali ringraziamo tutti coloro che hanno contribuito a realizzarli. Un «grazie» speciale anche agli autori di «Archeo», «antichi» e nuovi – che, con entusiasmo e competenza, trasmettono la quotidianità del loro impegno sulle pagine della rivista – e, soprattutto, ai nostri lettori: a loro, per trent’anni, abbiamo dedicato il nostro lavoro, e insieme intendiamo procedere nelle prossime esplorazioni del passato. Andreas M. Steiner
Sommario Editoriale
I nostri primi trent’anni 3 di Andreas M. Steiner
Attualità
la notizia del mese Completamente rinnovato e ampliato, riapre le porte il Museo Egizio di Torino, una delle piú importanti raccolte sul Paese dei faraoni a livello mondiale 6
notiziario
8
archeologia sperimentale Pitture e opere letterarie ne danno ampia testimonianza: ma come si svolgeva, veramente, il gioco del kottabos? 8
all’ombra del vesuvio Restauri e scavi gettano nuova luce sulla storia della magnifica Casa del Criptoportico 12
30
parola d’archeologo Apulia Felix è un esempio concreto di partecipazione attiva alla tutela del patrimonio: ce ne parla Giuliano Volpe 16
reportage
dalla stampa internazionale
di Carlo Casi e Patrizia Petitti
Una casa come quella di Gesú e una straordinaria maschera di bronzo 28
Operazione «Teseo» 30 di Paolo Leonini
scoperte
Gente di laguna
40
scavi
Le regole dell’addio 52 di Andrea Cardarelli e Cristiana Zanasi
52
AVVISO AI LETTORI In questo numero, per motivi di spazio, non compare la serie «Civiltà cinese», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.
In copertina Pompei, Villa dei Misteri. Particolare delle pitture a tema dionisiaco che ornano la sala della Megalografia.
Anno XXXI, n. 362 - aprile 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Giancarlo Ligabue, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Andrea Cardarelli è professore ordinario di protostoria europea presso «Sapienza» Università di Roma. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Giancarlo Napoli è direttore tecnico della società Atramentum. Patrizia Petitti è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Vulci. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Stefano Vanacore è funzionario della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia. Cristiana Zanasi è curatrice del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena. Illustrazioni e immagini: Cortesia Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia: copertina e pp. 12-14, 72-74, 76-89 – Corbis Images: pp. 106/107; Antonino Di Marco/ ANSA: p. 6 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 7, 22/23; Luciano Pedicini: p. 91; Leemage: pp. 108-109; Album: p. 110 – Cortesia Andrew Snyder e Heather F. Sharpe: pp. 8-9 – Cortesia Soprintendenza ai Beni Archeologici delle Provincie di Salerno, Avellino, Benevento e Caserta: p. 10 – Cortesia Giuliano Volpe: pp. 16-18 – Cortesia Ufficio stampa: modello di Lorenzo Possenti, foto Arrigo Coppitz: p. 20 – Da Biblical Archaeology Review, vol. 41, mar-apr
gli imperdibili
102
Un mistero ruggente 64
quando l’antica roma...
Chimera di Arezzo
Rubriche
…fece dell’Arabia una provincia dell’impero 102
il mestiere dell’archeologo
a volte ritornano
di Daniele F. Maras
Da Mosul al Foro Romano e ritorno
di Romolo A. Staccioli
98
di Daniele Manacorda
Altalene che danno la vita
106
di Flavio Russo
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scavare il medioevo
L’architetto che «visse» nell’età di Mezzo 108 di Andrea Augenti
l’altra faccia della medaglia Madre celeste
72 110
Villa dei Misteri
di Francesca Ceci
libri
speciale
112
I colori di Dioniso
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di Alessandro Mandolesi, con un contributo di Stefano Vanacore e Giancarlo Napoli
2015: p. 28 – Cortesia Michael Eisenberg: p. 29 – Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: pp. 30-31, 33-35, 37 (destra, alto e basso), 38/39 – Doc. red.: pp. 32, 36, 37 (sinistra), 38 (alto), 64, 66, 68 (basso), 69, 75, 98 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 40/41, 42, 43 (alto), 44-51, 70 (destra), 107, 111 – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 43 (basso, sfondo) – Paolo Terzi: pp. 52/53, 54 (basso), 55 (basso), 53, 56/57, 57 (alto e basso), 59 (alto), 60-63 – Riccardo Merlo: disegni alle pp. 55, 56, 56/57 – Gianluca Pellacani: elaborazioni grafiche alle pp. 58, 59 – DeA Picture Library: pp. 67, 68 (alto); W. Buss: p. 104 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: p. 70 (sinistra) – Pasquale Sorrentino: pp. 90/91, 92-97 – Cortesia Archivio Fotografico Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma (SSCOL): pp. 98 (alto), 99-101 – Shutterstock: p. 102 – Marka: Targa: p. 103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 43 (centro), 54. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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la notizia del mese
l’egizio di torino raddoppia il museo del capoluogo piemontese si presenta in un allestimento totalmente rinnovato, la cui realizzazione si accompagna al raddoppio del percorso espositivo. un intervento che valorizza ed esalta la straordinaria ricchezza di una raccolta degna di competere con la collezione del cairo
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ercoledí 1° aprile, con un’apertura straordinaria e gratuita, il Museo Egizio di Torino ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, ormai lunga e gloriosa. Dedicata, come quella del Cairo, all’arte e alla cultura dell’Egitto antico, la raccolta torinese vide infatti la luce nel 1824, per volere di Carlo Felice di Savoia, che acquistò la collezione del console di Francia in Egitto Bernardino Drovetti. L’eccezionale rilevanza del neonato istituto fu subito riconosciuta, tanto da far affermare a Jean-François Champollion, il decifratore dei geroglifici, che: «La strada per Menfi e Tebe passa da Torino». Il museo venne allestito nel palazzo dell’Accademia delle Scienze (che ne è tuttora la sede), e la sua dotazione fu significativamente arricchita tra il 1920 e il 1937 dagli scavi degli egittologi Ernesto Schiaparelli e Giulio Farina. Oggi, al termine di un ampio intervento di ristrutturazione, il Museo Egizio si presenta in un allestimento interamente rinnovato, che si è potuto giovare del raddoppio del percorso di visita. Attraverso il progetto scientifico la direzione, in linea con i piú attuali e internazionali criteri espositivi, ha dedicato grande attenzione alle relazioni fra i reperti della collezione sia attraverso la storia del loro reperimento, sia attraverso la ricomposizione dei contesti archeologici di provenienza. I reperti presenti nella collezione
6 archeo
sono dunque letti con una doppia chiave: come testimonianze di specifiche epoche e luoghi dell’antica storia egizia, ma, nello stesso tempo, come risultato di una pratica di esplorazione, scavo e acquisizione. L’allestimento quindi ricostruisce contesti cultuali e abitativi e corredi funerari, ma anche la storia delle missioni, la loro organizzazione, il loro modo di operare.
la realtà aumentata applicata a supporti multimediali (come per esempio i tablet) fornisce un ausilio assai efficace per la ricerca degli insiemi presenti all’interno della collezione, per descrivere la storia che li ha portati a Torino, e per evidenziare i reperti che dialogano con quelli di altre collezioni. Questi nuovi supporti possono tradurre e rendere fruibile per il grande pubblico i risultati della
I rapporti tra i diversi reperti non vengono sottolineati solo all’interno della collezione torinese: i legami storici e la rete di collaborazioni scientifiche con gli altri enti museali, nazionali e internazionali, hanno infatti trovato un significativo spazio nel nuovo Museo Egizio: uno dei piú importanti obiettivi è dunque la ricomposizione di contesti dispersi tra le collezioni nazionali e internazionali. Fondamentale, a questo proposito, è l’uso delle nuove tecnologie che offrono un supporto potenzialmente illimitato:
ricerca scientifica e contribuire a ricomporre virtualmente quello che nel tempo è stato separato. Di grande importanza è, infine, il nuovo allestimento dedicato alla storia del Museo e della collezione per raccontare la sua nascita che si colloca in una temperie culturale – quella del primo Ottocento – permeata dalle idee illuministiche e dalla necessità di sistematizzare lo scibile e il mondo conosciuto. A tutto questo (e molto altro) dedicheremo un ampio servizio esclusivo, che troverete nel numero di maggio di «Archeo».
Nella pagina accanto: un particolare dell’allestimento temporaneo del Museo Egizio, approntato per consentire la realizzazione del nuovo percorso espositivo. In basso: particolare di un sarcofago con geroglifici intarsiati, dalla tomba di Petosiri e della sua famiglia a Tuna el-Gebel. Età tolemaica, 332-30 a.C. Il testo contiene i titoli del defunto, i nomi dei genitori e il capitolo LXXII del Libro dei Morti.
Dove e quando Museo Egizio Torino, via Accademia delle Scienze, 6 Orario al momento di andare in stampa, i nuovi orari del museo erano in via di definizione Info tel. 011 5617776; e-mail: info@museitorino.it www.museoegizio.it
archeo 7
n otiz iari o archeologia sperimentale Stati Uniti
L’ebbrezza del gioco
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ra disquisizioni filosofiche e declamazioni di poesia, con l’intelletto ormai un po’ appannato dai vapori dell’alcool, il simposiasta, cioè colui che partecipa al simposio (dal greco sin, insieme, unito alla radice di pinein, bere, il termine indica il momento in cui, nell’antica Grecia e poi a Roma, tutti i commensali bevevano appunto insieme, dopo il pasto principale consumato sul far della sera) si prende un po’ di licenza cimentandosi nel gioco del kottabos. Bevuto un sorso di vino dalla sua kylix (coppa a due manici su alto piede), ne regge l’ansa con l’indice della mano e, con gesto elegante, lancia le ultime gocce verso il bersaglio al centro della sala, che, colpito, cade con sonoro frastuono tra le acclamazioni dei presenti. Una scena verosimile,
8 archeo
che Heather Sharpe (docente di storia dell’arte alla West Chester University, Pennsylvania) ha voluto ricostruire dal vivo, per capire meglio come si svolgeva questo gioco degli antichi, quali abilità erano necessarie per vincere e quale doveva essere la dimensione ottimale della kylix per bere, tra le varie di cui le fonti ci danno testimonianza. Per il suo progetto, Sharpe ha chiesto la collaborazione di Andrew Snyder, un collega ceramista, e di alcuni studenti, calatisi anch’essi nel ruolo di simposiasti. Snyder ha realizzato varie repliche di kylix in terracotta, in tre misure diverse, e ha poi creato anche alcuni modelli infrangibili per il gioco utilizzando un software di modellazione e una stampante 3D, caricata con resina atossica a base di mais. Le copie
misurano 14 cm di diametro (in ragione della stampante utilizzata), ma rispecchiano comunque gli originali piú piccoli di cui abbiamo testimonianza. Il moderno andron per il simposio (la sala degli uomini, in cui si svolgevano i banchetti) è stato allestito in un’aula universitaria, utilizzando una coppia di panche disposte ad angolo retto e ponendo al centro dello spazio due tipologie di bersagli, per cimentarsi nelle due varianti del gioco. Nel kottabos di’ oxybaphon, i partecipanti dovevano centrare e affondare alcuni piattini (oxibapha) galleggianti dentro un bacile (lekane) pieno d’acqua. Nel kottabos kataktos, invece, si doveva cercare di far cadere un piattello metallico (plastinx), appoggiato in equilibrio precario su un’asta.
I professori e gli studenti hanno provato a turno a bere dai diversi recipienti e a colpire i bersagli, da una posizione seduta o semisdraiata. Trattandosi di un esperimento svolto in ambito accademico, il vino è stato sostituito con succo d’uva analcolico. La sperimentazione ha permesso di concludere che i recipienti di maggiori dimensioni risultano scomodi per bere, a causa dell’ingombro e del peso. E la forma stessa – esteticamente splendida – della kylix impone una certa destrezza per non rovesciarne il contenuto, ed è comunque poco pratica per bere grandi quantità, ancor piú se sotto gli effetti dell’alcool (non si deve dimenticare, infatti, che, per ubriacare rapidamente i partecipanti, il simposiarca – direttore del simposio – poteva invitarli a bere da recipienti piú adatti allo scopo, come gli skyphoi, bicchieri a due manici).
In compenso, la kylix offre una superficie adatta a ospitare pitture e decorazioni. Oltre a scene figurative, spesso il tondo inferiore riporta due occhi dipinti, in modo che, alzando il recipiente per bere, si dia l’impressione di indossare una maschera. Dopo alcuni lanci, i moderni simposiasti hanno concluso che per avere successo nel kottabos non era tanto necessario proiettare il
In alto: Emily Moore e Mara O’Hara impegnate nel gioco del kottabos. Nella pagina accanto: la replica del bacile colmo d’acqua e con i piattelli galleggianti usati come bersagli. A sinistra: repliche in terracotta di kylikes di varie misure. liquido con molta forza, quanto dirigerne la traiattoria con equilibrio e destrezza. La ricerca ha anche cercato di stimare gli effetti che l’alcool doveva avere sui partecipanti. Dopo aver bevuto il contentuto di due grandi kylikes (23 cm di diametro, per 1 litro e mezzo circa di bevanda – 1 parte di vino e 2 di acqua, secondo la consuetudine), un uomo di 63 kg avrebbe avuto un tasso alcolemico di 0,86 g/l. Tra gli effetti si possono ipotizzare alterazioni della percezione, del senso dell’equilibrio e del coordinamento motorio. Alla fine del banchetto, realizzare un buon lancio al kottabos, dunque, non doveva essere certo facile... Paolo Leonini
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n otiz iario
SCAVI Campania
ai margini della regina viarum
R
ecenti indagini preventive condotte nel territorio del Comune di Grottaminarda (Avellino) hanno gettato nuova luce sulla storia del suburbio orientale del vicino centro romano di Aeclanum (Mirabella Eclano). Un insediamento sviluppatosi in epoca sannita nella media valle del Calore lungo il percorso poi ricalcato dalla via Appia e divenuto municipium in età sillana e quindi colonia in epoca adrianea. «L’indagine archeologica – spiega Ida Gennarelli, funzionario della locale Soprintendenza ai Beni Archeologici – ha portato alla luce un sito pluristratificato, con funzioni produttive, databile tra l’epoca medio-tardo repubblicana (IV-I secolo a.C.) e i primi decenni del secolo scorso, legato allo sfruttamento dell’acqua sorgiva».
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La piú antica fase di occupazione dell’area è testimoniata dai resti di una struttura a pianta presumibilmente rettangolare, di cui si conserva l’intersezione dei muri perimetrali ovest e sud, per un’altezza massima di circa 1,50 m dal piano d’uso originale, realizzata in opera poligonale con grosse bozze di calcare locale accuratamente lavorate e assemblate. Il materiale da costruzione doveva quasi certamente provenire da una piccola cava di tipo «a cielo aperto», individuata poco a monte, in cui sono evidenti i segni delle tecniche di estrazione impiegate che prevedevano l’uso di cunei di legno e strumenti in metallo e che – dal materiale recuperato nei vari livelli di riempimento – sembrerebbe sfruttata periodicamente da epoca romana fino agli inizi del XX secolo. Nel corso dell’età medioimperiale, a poca distanza da questa struttura, almeno in parte ancora utilizzata, era ubicata una piú modesta costruzione in opera incerta, articolata in due vani rettangolari adiacenti (14 mq circa) con pavimenti di malta lisciata su spessi massetti preparatori, e di cui si conservano solo pochi resti a causa delle attività di spoliazione successive all’abbandono. Gli elementi ricavati dall’indagine suggeriscono che i due ambienti fossero stati costruiti per imbrigliare e convogliare le acque della sorgente qui presente, il cui sfruttamento pare riprendere in epoca altomedievale, quando, per costruire una condotta ipogeica in muratura, furono incisi i depositi relativi all’eruzione vesuviana detta «di Pollena» (472 d.C.), che sigillano ovunque i resti delle
In alto: Grottaminarda (Avellino). La cava «a cielo aperto» di epoca romana individuata nel corso di recenti scavi condotti nei pressi dell’antica Aeclanum. Da qui provengono i blocchi impiegati nella costruzione di una struttura in uso in età tardo-repubblicana (IV-I sec. a.C.) A sinistra: un tratto della strada glareata (cioè formata da un battuto di ciottoli o ghiaia) individuata nel corso degli scavi. Il tracciato corre in direzione di un vicino diverticolo della via Appia, alla cui presenza si lega la fioritura economica di Aeclanum. strutture riportate alla luce nel corso dello scavo. Sembra infine essere in fase con la costruzione di epoca medio-imperiale, e forse anche con una delle fasi di uso della cava di calcare, un tratto di strada glareata (formata da un battuto di ciottoli o ghiaia), indagato per una lunghezza di quasi 17 m, individuato nel settore piú occidentale dello scavo e orientato in direzione di un diverticolo dell’Appia. Le indagini sono state condotte sul campo dagli archeologi Adele Palermo e Roberto Esposito. Giampiero Galasso
ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandro Mandolesi
gli affreschi ritrovati i recenti interventi di restauro e di scavo nella casa del criptoportico hanno fornito importanti integrazioni al patrimonio di conoscenze sulla storia del complesso. e hanno restituito la freschezza originaria ai colori delle sue pitture
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a Casa del Criptoportico di Pompei deve la sua denominazione moderna alla presenza, al di sotto dell’ampio giardino quadrangolare che funge da fulcro dell’intero edificio, di un sontuoso criptoportico fenestrato, sul quale si aprivano una stanza di soggiorno (oecus) e quattro ambienti termali, coperti da volte a botte e a crociera originariamente decorate in fine stucco. Le ali del criptoportico erano affrescate con un ciclo pittorico ispirato a episodi dell’Iliade, un pregevole esempio di pittura pompeiana di Secondo stile finale. Al di sopra di grandi erme dipinte, unite da festoni, si snodava il lungo fregio, composto da una sequenza di quadretti, nei quali comparivano personaggi eroici e divini, indicati da didascalie in greco. L’ampio oecus, che conserva il pavimento in mosaico di tessere nere con scaglie di travertino, presentava sulle pareti una composizione pittorica simile al criptoportico, ma con
Pompei, Casa del Criptoportico. Una fase dell’intervento di restauro sulle pitture che ornano il larario della residenza, tra le quali compare un Agathodaimon, divinità salutare rappresentata in forma di serpente.
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quadretti a soggetti dionisiaci. Altre raffigurazioni dipinte, raffinate e scenografiche, decoravano gli ambienti termali, di cui rimangono soltanto gli affreschi del frigidarium. Il primo impianto della
domus risale al III secolo a.C. e, nel secolo successivo, l’edificio arrivò a inglobare gli ambienti dell’adiacente Casa del Sacello Iliaco. Dopo il terremoto del 62-63 d.C., le due abitazioni tornarono a
In questa pagina: frammenti di pitture murali recuperati in occasione delle nuove indagini condotte nella Casa del Criptoportico.
essere divise e indipendenti. Con l’ultimo proprietario, negli anni che precedettero l’eruzione del 79 d.C., il criptoportico e gli ambienti del balneum privato vennero utilizzati solo come depositi di anfore vinarie e la domus perse ogni carattere di sontuosità. Scavata a piú riprese fra il 1911 e il 1929 da Vittorio Spinazzola e Amedeo Maiuri, la Casa del Criptoportico si trova nella Regio I, con ingresso sulla via dell’Abbondanza. Nel 1914, durante le operazioni di scavo nell’area del giardino, furono ritrovati i resti di vittime dell’eruzione, raccolti in gruppi di 6 e 10 individui, di cui furono realizzati alcuni calchi, tuttora conservati nella domus. Si tratta, forse, degli abitanti della casa, i quali, ai primi segni della catastrofe, trovarono rifugio nel criptoportico, ma che, in seguito, colmandosi di cenere e lapilli anche gli ambienti piú nascosti, guadagnarono l’uscita dalle finestre e si avventurarono in giardino, cercando inutilmente scampo.
Giovanna Patrizia Tabone, funzionario archeologo della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, ha diretto le ricerche condotte durante i lavori di restauro architettonico e strutturale, che hanno interessato la Casa del Criptoportico tra il 2013 e il 2014. «Il restauro architettonico, finanziato con i fondi del Grande Progetto Pompei e diretto dall’architetto della Soprintendenza Maria Previti – spiega – ha riguardato il consolidamento strutturale di tutto l’edificio, la sostituzione delle coperture
esistenti e la riconfigurazione spaziale con centine in legno, sia della volta a botte del forno (praefurnium), sia dell’unica volta a crociera documentata a Pompei, nell’ambiente caldo delle terme (calidarium), restituendo la volumetria originaria, compromessa anche a causa del bombardamento alleato che colpí Pompei tra l’agosto e il settembre 1943 e danneggiò gravemente anche la Casa del Criptoportico. Si è inoltre ricreato l’originario collegamento tra il criptoportico e il piano superiore, realizzando una passerella in legno per consentire la visione dall’alto degli ambienti termali ipogei e delle rispettive superfici decorate». Il cantiere di restauro ha offerto anche l’opportunità di aggiungere nuove e significative informazioni sulle fasi edilizie del complesso, documentate attraverso mirate indagini di scavo, che hanno interessato l’ambiente del tepidarium e uno degli ambienti meridionali, prendendo avvio dai saggi di scavo già in parte condotti
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A destra: la prima pulitura dei reperti restituiti dallo scavo. nel 1933 sotto la direzione di Amedeo Maiuri e subito rinterrati. «Il tepidarium è stato liberato dei detriti che erano stati accumulati dall’ultimo abitante pompeiano della domus – prosegue l’archeologa –, portando cosí in luce numerosi e interessanti frammenti di intonaci dipinti e di stucchi a rilievo, che dovevano appartenere alla decorazione dell’ambiente stesso. L’ipotesi ricostruttiva è suggerita dalle modalità di rinvenimento di alcuni gruppi di frammenti di intonaco dipinto, direttamente collassati dalle pareti. Le attività di scavo e ripulitura di questo ambiente hanno portato anche alla “riscoperta” di alcuni frammenti delle pitture parietali del criptoportico, che all’epoca degli scavi dello Spinazzola erano stati ricomposti e in parte ricollocati sulle pareti, ma di cui si era persa ogni traccia dopo il bombardamento del 1943». «Un’altra indagine archeologica è stata condotta in uno degli ambienti meridionali, subito all’esterno dell’oecus, rivelando l’esistenza di piú livelli pavimentali sovrapposti, sia in mosaico che in cocciopesto, e le diverse
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In basso: un altro frammento di intonaco che conserva resti di una pittura murale a vivaci colori.
destinazioni d’uso dell’ambiente negli ultimi decenni di vita di Pompei. Dallo scavo degli interri detritici, qui accumulati dall’ultimo proprietario della domus dopo il terremoto del 62, provengono numerosi e significativi frammenti di stucchi decorati a rilievo e intonaci dipinti. L’indagine ha consentito, inoltre, di riportare in luce il tappeto musivo, del tutto inedito, che decorava la soglia di passaggio tra l’oecus e questo vano, indicando come anch’esso facesse parte degli ambienti nobili della casa». In queste settimane si sta procedendo al restauro degli affreschi, degli stucchi che decoravano le volte e dei pavimenti in mosaico, nonché alla sistemazione dei reperti rinvenuti nel corso degli scavi, con la collaborazione di due giovani tirocinanti del programma formativo ministeriale «Mille giovani per la cultura».
parola d’archeologo Flavia Marimpietri
«FELIX», MA NON FACILE fondata e presieduta da giuliano volpe, l’associazione che porta il nome dell’antica daunia vuole contribuire concretamente alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico pugliese. un modello vincente e che potrebbe essere utilmente «esportato»
I
n una realtà economica e sociale tra le piú difficili della Puglia, opera un’associazione no profit determinata a creare sviluppo attraverso la cultura e l’archeologia. È nata un paio di anni fa, sotto l’egida dell’Università di Foggia, per iniziativa di un piccolo gruppo di imprenditori locali, e si chiama «Apulia Felix». Un nome che, in due parole, è già una dichiarazione di intenti. Ne abbiamo incontrato il presidente e fondatore, Giuliano Volpe, professore di archeologia all’Università di Foggia, nonché Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Professor Volpe, qual è il senso di questa nuova realtà? Perché «felix», in una terra cosí critica? «Con il termine Apulia, si indica la Puglia centrosettentrionale, corrispondente all’antica Daunia nel suo periodo di maggior splendore economico culturale. E l’aggettivo Felix, in latino, vuol dire non solo felice, ma anche che dà frutti, che è produttivo, fertile. Qui sta il senso della nostra iniziativa. Noi vorremmo un territorio fertile, innanzitutto culturalmente, poi anche socialmente. Vogliamo dare un segnale forte alla società locale e trasmettere un messaggio di ottimismo e di voglia di progresso, contro ogni rischio di
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rassegnazione, di lamentela, di autoassoluzione e di autocommiserazione». Quindi l’archeologia e la cultura sono intese come strumenti di crescita sociale del territorio... «Esatto. Non a caso l’esperienza nasce da un gruppo di imprenditori e professionisti locali, che hanno messo a disposizione le loro risorse economiche personali per dare vita a un’iniziativa in favore della loro comunità. Si tratta di una struttura di servizio per la città di Foggia e il suo territorio, finalizzata alla promozione di attività culturali, formazione e ricerca scientifica, all’impegno sociale per le
categorie piú sfortunate. In pratica, l’obbiettivo è il miglioramento delle condizioni del territorio e la crescita della qualità della vita, attraverso la creazione di occasioni di lavoro qualificato e di piccola imprenditoria giovanile in tutti i settori della cultura». Non va dunque considerata casuale la scelta di Foggia… «È importante che il segnale venga da una realtà difficile, problematica, che deve fare i conti quotidianamente con la criminalità organizzata, il degrado, la mancanza di lavoro. È un messaggio che ha un potenziale straordinario per tutta la Puglia e per tutto il Sud. Una delle iniziative piú importanti di Apulia Felix è l’aver preso in comodato d’uso e
ristrutturato la splendida chiesa barocca di S. Chiara a Foggia, che il Comune aveva già ristrutturato in passato, adattandola a luogo di cultura globale. Ora vi si svolgono conferenze, incontri, presentazioni di libri, concerti, rappresentazioni teatrali, mostre e documentari archeologici dedicati ai luoghi simbolo della Daunia». Quali sono i siti archeologici «simbolo» della Daunia su cui si è concentrata la vostra attività di divulgazione e promozione? «Innazitutto Herdonia, in provincia di Foggia, un sito daunio divenuto in epoca romana un’importante città lungo la Via Traiana. Poi l’Ipogeo della Medusa di Arpi, preziosa tomba del IV secolo a.C. Infine il sito archeologico di Ascoli Satriano, con i suoi meravigliosi marmi policromi di IV secolo a.C., il piú significativo dei quali, il cosiddetto “trapezoforo” sarà esposto all’EXPO di Milano, nel
padiglione dedicato alle eccellenze italiane». Piú in generale, con la sua attività, l’associazione vuole insomma offrire un nuovo modello di utilizzo della cultura per lo sviluppo del Mezzogiorno? «Sí. Vorremmo infatti candidarci nel settore della gestione dei beni culturali, come con la già citata chiesa di S. Chiara, e assumere la gestione di siti archeologici e musei, dimostrando che, grazie alla partecipazione attiva dei cittadini e degli imprenditori – non a fini di lucro, ma benefici – si possono rivitalizzare i luoghi della cultura, abbandonando quella logica elitaria che li rende spazi chiusi e senza vita». Nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, quali sono, a suo avviso, i principali problemi nella gestione dei beni archeologici nel Mezzogiorno?
Nella pagina accanto: una veduta aerea del sito di Egnazia. In questa pagina: il gruppo scultoreo policromo, con due grifi che azzannano un cerbiatto, adibito a sostegno di una mensa e perciò detto «trapezoforo», da Ascoli Satriano. «Sono i problemi che riguardano tutta l’Italia. Criticità che però, qui in Puglia, vengono complicate dalla mancanza di risorse dedicate, come per esempio quelle delle fondazioni bancarie, oppure finanziamenti specifici per la cultura. Non abbiamo nulla, al di là dei fondi della Regione, che pure fa molto. Mancano del tutto altre forme di investimento nei beni culturali. A ciò si aggiunge l’incapacità di utilizzare le professioni e competenze disposizione, come i giovani. A Canosa esiste un’associazione, la “Fondazione archeologica canosina”, che in questo senso funziona molto bene:
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è un altro esempio di come l’iniziativa dei cittadini possa dare il suo contributo, laddove lo Stato non arriva, per una migliore gestione dei beni culturali». Quali sono i siti archeologici piú sofferenti in Puglia? Quelli a cui maggiormente gioverebbe l’intervento dei cittadini e degli investimenti economici dei privati? «I siti archeologici che non funzionano in Puglia sono la norma. In tutta la regione, a esclusione dell’area archeologica dell’antica città di Egnazia, che è il solo sito attrezzato e fruibile, non ci sono altri parchi archeologici, all’infuori del Parco Archeologico delle Mura Messapiche e dell’antica città di Manduria, in provincia di Taranto. La stessa Herdonia, un’area archeologica spettacolare, scavata per piú di 40 anni, a oggi versa in uno stato di completo abbandono e non è fruibile. Anche Siponto, vicino Manfredonia, in provincia di Foggia, oppure il sito peucezio di Monte Sannace, nel territorio di Gioia del Colle, in provincia di Bari, o anche l’area archeologica di Botromagno a Gravina (un sito peucezio, dove pure sono stati spesi milioni di euro).
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Sono tutti siti che non conoscono una vera gestione, come musei all’aperto o come parchi archeologici. Se non si liberano energie in tutte le varie forme possibili, dalle piccole società, alle fondazioni, al volontariato, i siti archeologici della Puglia sono destinati a rimanere inutilizzati». Come si può restituire un simile patrimonio ai Pugliesi, e non solo? «I cittadini devono innanzitutto essere messi in condizione di percepire il patrimonio come proprio. Noi professori, esperti e archeologi dobbiamo smetterla di considerarlo come il “nostro”. Ci vuole un’ottica piú laica: la cultura e l’archeologia non sono un possesso, ma un patrimonio da
In alto: Faragola (Ascoli Satriano, Foggia). La musealizzazione della cenatio (sala da pranzo) della villa tardo-antica scoperta in loco. In basso: la ricostruzione 3D del medesimo ambiente della residenza. tutelare, conservare e valorizzare insieme. I padri costituenti, all’art 9 della Costituzione Italiana, dicevano che la tutela non ha senso se non ci sono la promozione della cultura e la valorizzazione. E questo vuol dire gestione partecipata, in tutte le forme possibili: con lo Stato che dà gli indirizzi e controlla, ma lascia gestire il patrimonio culturale al territorio in tutte le varie forme possibili».
mostre Firenze
il cammino dell’uomo
M
odelli di scarpe che hanno fatto la storia della moda, foto di grandi nomi del cinema internazionale e poi, poco oltre, il modello di una coppia formata da un maschio e una femmina di australopiteco (della specie afarensis) che camminano e
lasciano le proprie impronte sulla cenere vulcanica… Questa curiosa sequenza (ma anche molto altro) si può vedere a Firenze, nella mostra «Equilibrium», allestita negli spazi del Palazzo Spini Ferroni che ora ospitano il Museo Salvatore Ferragamo. L’esposizione, va detto, non è una mostra di archeologia in senso stretto, ma, proprio perché, tra gli altri, documenta il lunghissimo percorso che, dalle prime specie umane, si è dipanato fino ai bipedi contemporanei e al loro modo di
Il modello di un maschio e una femmina di Australopithecus afarensis, ai quali sono state attribuite le orme scoperte nel sito di Laetoli (Tanzania) e riferibili a una «passeggiata» compiuta intorno ai 3,6 milioni di anni fa.
deambulare, correre, saltare o danzare, ha nelle testimonianze dell’antico uno dei suoi elementi di forza. Ai nostri occhi di uomini moderni probabilmente sfugge la carica «rivoluzionaria» del muoversi su due arti anziché quattro, eppure, quando i nostri progenitori cominciarono a farlo, la storia del pianeta (e la nostra) visse una svolta epocale. Dai primissimi passi delle autralopitecine di Laetoli (Tanzania) – le cui orme, scoperte da Mary Leakey, sono databili a 3,6 milioni di anni fa circa – prende dunque le mosse il percorso espositivo, raccontando una sorta di storia vista dal basso. Sfilano reperti greci, etruschi e romani che, soprattutto nel caso delle opere plastiche, provano come lo studio dell’anatomia dovette essere già allora una prassi consueta: non si spiegherebbe altrimenti, infatti, il realismo delle raffigurazioni. Una lezione che, nei secoli successivi, viene fatta propria e sistematizzata da altri artisti, ma anche da scienziati ed enciclopedisti, affiancando alle osservazioni, la redazione di trattati e saggi in molti casi riccamente e accuratamente illustrati. Un patrimonio di conoscenze prezioso, destinato a contribuire in maniera decisiva alle geniali intuizioni di quel Salvatore Ferragamo che amò definirsi un semplice «calzolaio». Stefano Mammini
Dove e quando «Equilibrium» Firenze, Museo Salvatore Ferragamo fino al 12 aprile Orario tutti i giorni, 10,00-19,30 Info www.museoferragamo.com Catalogo Skira
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calendario
Italia
Piccoli Grandi Bronzi
roma Rivoluzione Augusto
Capolavori greci, etruschi e romani delle collezioni mediceo-lorenesi Museo Archeologico Nazionale fino al 21.06.15
L’imperatore che riscrisse il tempo e la città Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino al 02.06.15
gambettola (FC) Dalla fattoria al Palazzone Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15
Lacus Iuturnae
La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15
milano Da Brera alle piramidi
L’Età dell’Angoscia
Biblioteca Nazionale Braidense fino all’11.04.15
Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15
novara In principio
Asti Alle origini del gusto
Gruppo in marmo pario di Artemide e Ifigenia. 150 d.C. circa.
Il cibo a Pompei e nell’Italia antica Palazzo Mazzetti fino al 05.07.15
bassano del grappa Il tesoro del Brenta: la spada restituita Museo Civico fino al 03.05.15
bondeno (FE) Aquae
L’arte egizia incontra l’arte contemporanea Palazzo Foscolo fino al 03.05.15
In alto: illustrazione di un mausoleo immaginario, dalla Hypnerotomachia Poliphili... (1499).
Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15
Civita Castellana (VT), Mazzano Romano (roma) I Tempi del Rito
Sambuca di Sicilia (AG) Un Simposio di#vino
Il Santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce Museo Archeologico dell’Agro falisco, Museo Civico Archeologico-Virtuale di Narce fino al 30.06.15
Il Salinas a Sambuca Museo Archeologico di Palazzo Panitteri fino al 12.06.15
Cividale del Friuli All’alba della storia Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15
Bronzi del mondo ellenistico Palazzo Strozzi fino al 21.06.15
oderzo (TV) Omaggio a Tutankhamon
pennabilli (RN) Ipazia
Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi Centro Sociale 2000 fino al 31.05.15
firenze Potere e pathos
Dalla nascita dell’Universo all’origine dell’arte Complesso Monumentale del Broletto fino al 06.04.15
A sinistra: l’«Incognita negra». combinazione di una brocca ellenistica a testa di negretta e parti moderne.
sant’agata dei goti (BN) L’oggetto del desiderio Europa torna a Sant’Agata Chiesa di S. Francesco fino al 17.05.15
villanova di castenaso (BO) Giovanni Gozzadini e la scoperta del villanoviano MUV-Museo della civiltà villanoviana fino al 02.06.15
Particolare della stele villanoviana detta «delle Spade».
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Belgio
Grecia
bruxelles Lascaux
atene IASIS
Un capolavoro dell’arte preistorica Musée du Cinquantenaire fino al 12.04.15 (prorogata)
Salute, malattia, cure, da Omero a Galeno Museo Goulandris di Arte Cicladica fino al 31.05.15
Francia
Paesi Bassi
parigi La Vittoria di Samotracia
leida Cartagine
Riscoprire un capolavoro Museo del Louvre fino al 15.06.15
Rijksmuseum van Oudheden fino al 10.05.15
Saint-Germain-en-Laye Dèi dei Balcani Figurine neolitiche dal Kosovo Musée d’Archéologie nationale fino al 22.06.15
Germania
Svizzera In alto: la Nike di Samotracia dopo il restauro.
mannheim Egitto
Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15
stoccarda Un sogno di Roma
La vita nelle città romane della Germania sud-occidentale Landesmuseum Württemberg fino al 12.04.15
Londra Antiche vite, nuove scoperte
Otto mummie dall’Egitto e dal Sudan The British Museum fino al 19.04.15
Divinità e potere nell’antico Perú Museo Etnografico fino al 03.05.15
zurigo Il gesso conserva
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 17.05.15
Gran Bretagna
ginevra I sovrani Moche
USA In basso: statua maschile (Dioniso?), dal frontone orientale del Partenone.
new york Gli indiani delle pianure
Due diverse repliche in gesso della Venere detta «di Arles».
Artisti della terra e del cielo The Metropolitan Museum of Art fino al 10.05.15
Definire la bellezza Il corpo nell’arte dell’antica Grecia The British Museum fino al 05.07.15
Philadelphia Sotto la superficie
Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15 a r c h e o 27
l’archeologia nella stampa internazionale Andreas M. Steiner A destra: Nazaret. Gli scavi di un’abitazione del I sec. d.C. sotto la basilica dell’Annunciazione, e, in basso, i resti della cosiddetta «casa di Gesú».
I
resti di una semplice abitazione del I secolo d.C., costruita in pietra e malta di calce, rinvenuta a Nazaret, potrebbe essere la casa in cui visse la sua adolescenza Gesú? È quanto ha ipotizzato Ken Dark, docente all’Università di Reading (Regno Unito), che nella città della Galilea dirige scavi archeologici sin dal 2006. La notizia ha fatto il giro del mondo, suscitando un’immediata precisazione da parte dell’archeologo…
una casa (come quella) di gesú «È impossibile sostenere un’affermazione del genere solo sulla base dei risultati acquisiti grazie allo scavo – spiega il professor Dark, in un articolo apparso sull’ultimo numero della rivista Biblical Archaeology Review –, ma non c’è alcun dato archeologico che possa impedire una tale identificazione». Ma, allora, perché proprio i resti di questo edificio - uno dei tanti rinvenuti a Nazaret - evoca la suggestiva associazione con gli anni giovanili di Gesú? Forse proprio per la sua storia
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«archeologica»: venne, infatti, scoperto per la prima volta negli anni Ottanta dell’Ottocento da alcune suore del convento delle Sorelle di Nazaret e poi, nel 1936, documentato da un gesuita, Henri Senes, che ne eseguí i rilievi. In età bizantina (tra il IV e l’VIII secolo), il primitivo edificio fu decorato con un mosaico, e una chiesa, nota come Chiesa della Nutrizione, venne costruita sopra i suoi resti, verosimilmente allo scopo di proteggerlo. I secoli successivi riservarono al complesso sorti alterne: caduto in rovina in seguito all’invasione islamica dell’VIII secolo, fu ricostruito dai crociati e nuovamente distrutto dai musulmani nel XIII secolo. In un testo redatto nel 670 da un monaco dell’isola di Iona (Scozia), e basato su un pellegrinaggio a Nazaret dal vescovo Arculfo, si legge che la chiesa «un tempo sorgeva nel luogo in cui il Signore veniva nutrito durante la sua infanzia».
il dio pan in galilea
U
na grande maschera in bronzo, raffigurante il volto del dio Pan, è stata scoperta poche settimane fa nel sito della città ellenistico-romana di Hippos-Susita, situata sulla costa orientale del lago di Tiberiade (vedi anche la Monografia di «Archeo» La Terra Santa al tempo di Gesú, attualmente in edicola). Si tratta di un rinvenimento eccezionale, sia per le dimensioni del reperto, sia per il soggetto raffigurato. La maschera è emersa durante lo scavo di una fortificazione all’esterno del circuito murario della città. «È poco probabile che si tratti di un luogo dedicato al culto della divinità – spiega Michael Eisenberg, l’archeologo dell’Università di Haifa che dirige gli scavi di Hippos-Susita.
«Pan, in genere, era venerato in santuari posti in grotte o altri luoghi naturali dalla conformazione particolare, come, per esempio, il celebre complesso sacro dedicato al dio nella città di Banias, che si trova a nord di Susita. Potremo ottenere la risposta proseguendo con lo scavo della struttura dalla quale è emerso il nostro Pan. Non è da escludere, infatti, che l’edifico, una volta abbandonata la sua funzione difensiva (per esempio durante la pax romana), sia stato trasformato in un sacello dedicato al dio delle greggi. Il cui culto – che prevedeva bevute, sacrifici e riti estatici – si svolgeva abitualmente fuori dalle mura cittadine». L’archeologo Michael Eisenberg con la maschera di Pan, rinvenuta nel sito di Hippos-Susita (Galilea).
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Operazione «
Teseo»
Il mitico eroe, uccisore del minotauro, è raffigurato su un’anfora corinzia recuperata, insieme a oltre 5000 altri reperti, dal Comando Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri. Avvenuto a conclusione di una complessa indagine internazionale, è il piú importante sequestro del genere mai realizzato. E non solo per gli oggetti sottratti al mercato clandestino: le informazioni emerse dall’operazione tracciano, infatti, una vera e propria mappa del traffico illecito, popolata da tombaroli, commercianti italiani e stranieri e grandi istituzioni museali di Paolo Leonini
I
Carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) guidati dal generale Mariano Mossa, sono riusciti a sottrarre al mercato clandestino un ingente quantità di reperti archeologici, restituendoli alla collettività, a conclusione di un’ampia indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo della Procura della Repubblica di Roma e iniziata otto anni fa. Si tratta di ben 5361 pezzi provenienti da Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria e databili tra l’VIII secolo a.C. e il III secolo d.C. Fra di essi vi sono manufatti di pregio eccezionale, come anfore (tra cui – la piú preziosa – anche un esemplare corinzio del VI secolo a.C. su cui è raffigurato il mito di Teseo; vedi foto a p. 35), crateri, loutrophoroi
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(anfore per l’acqua, utilizzate sia per le nozze, che per i funerali), oinochoai (brocche da vino), kantharoi (attingitoi a due manici), trozzelle (vasi globulari tipici dell’antica Messapia), vasi plastici, statue A sinistra e nella pagina accanto: un significativo campione dei vasi sequestrati dal Comando TPC dei Carabinieri. Con oltre 5000 pezzi recuperati, l’Operazione Teseo è la piú importante del genere mai condotta fino a oggi. I materiali sono attualmente depositati presso il Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano. Nel futuro, si pensa di distribuirli tra i musei che custodiscono reperti affini per tipologia e provenienza o anche di utilizzarli per dare vita a nuove raccolte.
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reportage • operazione teseo
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l’europa di Assteas Nel 1970, a Sant’Agata de’ Goti (l’antica Saticula), durante alcuni lavori, un contadino trova casualmente una sepoltura e vi scopre dentro un vaso del ceramografo greco Assteas (Paestum, III secolo a.C.), un artista del quale ci è giunta un’ampia produzione, e le cui rinomate opere venivano spesso incluse nei corredi funerari. In ottime condizioni di conservazione, il cratere raffigura il ratto di Europa da parte di Zeus, con il dio nelle sembianze di un toro bianco. Il contadino si fa immortalare in una polaroid accanto al cratere, che, qualche anno piú tardi, rivende dietro pagamento di 1 milione di lire e un maialino. Dal 1978 il vaso permane in Svizzera, in una collezione privata. Nel 1981 il Getty Museum di Los Angeles acquista il reperto per 380 000 dollari: Becchina è l’intermediario dell’operazione. Dal 1983 l’opera inizia a essere discussa dagli studiosi, molti la inseriscono nelle loro pubblicazioni, e viene rapidamente attribuita ad Assteas, in ragione della firma. In questo periodo ne vengono a conoscenza anche le autorità italiane. Nel 2007, grazie alle indagini dei Carabinieri del Comando TPC, l’Italia chiede e ottiene la restituzione del vaso dal Getty Museum. Lo splendido cratere è oggi conservato nel Museo Archeologico di Paestum, le cui collezioni annoverano molte altre opere prodotte da ceramisti locali attivi tra il V e il III secolo a.C. Fino al prossimo 17 maggio, il vaso può essere ammirato nel luogo della suo ritrovamento, nella mostra «L’oggetto del desiderio. Europa torna a Sant’Agata», allestita a Sant’Agata de Goti (BN), nella chiesa di S. Francesco.
votive, affreschi, corazze in bronzo, il cui valore è stato stimato in oltre 50 milioni di euro. L’operazione «Teseo» inizia a margine dell’indagine internazionale che ha ricondotto in patria il vaso di Assteas (vedi box e foto alle pp. 3233) illecitamente scavato, venduto al Getty Museum nel 1981 e recuperato dai Carabinieri del Nucleo TPC nel 2007. In quell’occasione gli inquirenti vengono insospettiti dalla figura di Gianfranco Becchina, imprenditore e gallerista, titolare di alcune attività a Basiliea, intermediario nella vicenda del vaso di Assteas e allora noto anche per la controversa vendita di un kouros (vedi box e foto alle pp. 36-37). Le autorità italiane decidono di approfondire la sua posizione, e la Procura di Roma promuove una rogatoria all’autorità giudiziaria della capitale elvetica. Con un’operazione internazionale coordinata,
Nella pagina accanto: la faccia del magnifico cratere dipinto dal pittore pestano Assteas su cui compare la scena del rapimento di Europa da parte di Zeus, sotto forma di un toro dal candido manto. III sec. a.C. Lo splendido manufatto è attualmente esposto a Sant’Agata dei Goti, ma è destinato a confluire nella collezione permanente del Museo Archeologico Nazionale del Sannio Caudino a Montesarchio (Benevento). In basso: una coppia di orecchini e un bracciale in oro di possibile produzione tarantina.
il Nucleo TPC passa al setaccio le sue attività commerciali, in cui anche la moglie ricopre un ruolo di primo piano; l’attenzione degli inquirenti si concentra su cinque magazzini situati a Basilea intestati proprio alla donna. A un sopralluogo delle autorità italiane ed elvetiche, i depositi risulta-
A Basilea, gli investigatori scoprono cinque depositi stracolmi di reperti, documenti, foto e... listini prezzi
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reportage • operazione teseo Vasi plastici riferibili a una produzione tipica di Canosa di Puglia e databili intorno al 300 a.C. circa.
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no contenere numerosi reperti archeologici chiaramente provenienti da scavi condotti in Italia e sprovvisti di documentazione giustificativa, oltre a faldoni di documenti, listini prezzi e foto delle opere prima e dopo il restauro. Da parte della polizia elvetica scatta il provvedimento
di fermo per la signora, mentre in Italia i Carabinieri raggiungono il marito presso l’aeroporto di Linate, in procinto di lasciare il Paese. Si apre allora una vicenda giudiziaria che vedrà una prima conclusione solo agli inizi del 2011. Il reato di ricettazione, il piú grave tra quel-
li contestati al Becchina, non è piú perseguibile per la legge italiana, per la decorrenza dei termini di prescrizione. Tuttavia, il Giudice dell’Udienza Preliminare (GUP) del Tribunale di Roma, nella medesima sentenza in cui dichiara per il gallerista il «non luogo a procedere»,
evidenzia l’origine illegale dei reperti: «Si deve affermare che i reperti trasmessi dalle autorità elvetiche e sequestrati a suo tempo a Basilea provengono da scavi clandestini compiuti in Italia e sono stati illecitamente esportati in Svizzera dal Becchina». Oltre a confermare l’im-
A sinistra: l’anfora corinzia a figure nere su cui compare l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo, il mitico eroe che ha dato nome all’operazione dei Carabinieri TPC. VI sec. a.C. Qui sotto: oinochoe plastica in forma di testa femminile. Produzione canosina, 300 a.C. circa.
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reportage • operazione teseo
pianto accusatorio della Procura della Repubblica, quindi, emette un provvedimento di confisca per i beni ritrovati nei magazzini di Basilea, dichiarandone l’accertata provenienza clandestina, da scavo, furto, ricettazione, nonché da esportazione clandestina. I beni vengono quindi riportati in Italia e, nel febbraio 2012, infine, la
Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso del Becchina contro la confisca e conferma la restituzione allo Stato italiano di tutti i reperti e della documentazione acquisita durante la perquisizione, provvedimento che sarà poi confermato anche dalle Autorità della Confederazione Svizzera, come prescritto dal Giudice italiano.
Facendo seguito a questo successo, le indagini del Comando TPC sono proseguite senza sosta per seguire gli indizi emersi e mappare il traffico di beni, una rete che includeva, oltre a intermediari come Becchina, tombaroli professionisti, commercianti d’arte internazionali e famose istituzioni museali a livello mondiale.
Il kouros della discordia Nel 1983 ai responsabili del Getty Museum viene proposto l’acquisto di un kouros del VI secolo a.C., alto 2 m, in condizioni di conservazione eccezionali, che si trova a Basilea, nella disponibilità di Gianfranco Becchina. La proposta di acquisizione viene avallata dal curatore della sezione di antichità, Jiri Frel, e, nello stesso anno, l’opera giunge al museo, sotto forma di prestito, per ulteriori accertamenti. Data l’importanza del reperto, vengono coinvolti numerosi specialisti per verificarne l’autenticità prima di procedere verso un’acquisizione definitiva. Emergono subito aspetti controversi: per esempio, la provenienza dell’opera è sconosciuta. Per supplire a questa lacuna la statua è accompagnata da alcune lettere che dovrebbero chiarirne l’origine e attestarne l’autenticità. Secondo questa documentazione, il kouros proverrebbe dalla collezione del medico svizzero Jean Lauffenburger, che l’avrebbe acquistato da un mercante greco intorno al 1930. Una lettera in cui si loda la bellezza dell’opera e ne viene attestata l’autenticità è apparentemente datata 1952; porta la firma dell’insigne archeologo tedesco Ernst Langlotz (1895-1978), specializzatosi nello studio di scultura arcaica, ed è indirizzata al Lauffenburger. In una seconda missiva indirizzata ancora a Lauffenburger, un certo Herman Rosenberg dichiara di aver udito Langlotz lodare la magnifica statua, capolavoro dell’età classica. Vi è, infine, una terza lettera, datata 1955, di un artigiano di Basilea, A.E. Bigenwald, che Lauffenburger avrebbe consultato per riparazioni sull’opera. Se non risolutivo, il carteggio sembra chiarire almeno i 36 a r c h e o
passaggi di proprietà. L’incertezza sull’autenticità è anche dovuta alle dimensioni colossali dell’opera – un unicum nel panorama mondiale – e ai caratteri stilistici che ad alcuni appaiono un bizzarro pastiche di diverse influenze. Federico Zeri, allora membro del consiglio d’amministrazione del museo, si esprime contro l’acquisizione dell’opera, reputandola un falso; quando nel 1985 si decide infine per l’acquisto, si dimette dall’incarico in segno di dissenso. La prova decisiva che convince il Getty viene da alcune analisi chimiche, che identificano il marmo come proveniente dall’isola di Thasos, e stabiliscono che la superficie ha subito un processo di decalcificazione che si verifica naturalmente con il passare dei secoli, ritenuto non replicabile artificialmente. L’autenticità sembra quindi avvalorata. L’acquisizione viene suggellata dal pagamento di circa 9 milioni di dollari a Becchina. L’incertezza, tuttavia, permane e quando, poco tempo dopo, Jiri Frel viene sospeso dal suo incarico per conclamate opacità nella gestione delle donazioni al museo. Insorgono dubbi anche sull’autenticità delle lettere che accompagnano il kouros e una perizia indipendente accerta che effettivamente si tratta di falsi. Questo tuttavia non fa escludere al Getty che la statua possa essere originale e non viene richiesto l’annullamento della vendita. La successiva scoperta di copie moderne provenienti dalla bottega di un artigiano romano, molto simili al kouros per stile e materia – inclusa la decalcificazione della superficie –, ne mette ulteriormente in discussione l’autenticità. A oggi, tuttavia, non sono state portate prove definitive a favore dell’una o dell’altra ipotesi e l’opera è esposta nella Getty Villa (la sezione del museo californiano che ha sede a Malibu) con un’etichetta che recita «Datazione: VI secolo a.C. circa o falso contemporaneo».
A sinistra e nella pagina accanto: due immagini del kouros conservato presso il Getty Museum di Malibu. L’opera potrebbe risalire al VI sec. a.C., anche se, a oggi, non è possibile escludere che si tratti di un falso.
Guerra e prestigio Un elmo di probabile produzione etrusca (in alto) e una corazza anatomica in bronzo facenti parte dei materiali sequestrati dai Carabinieri. In entrambi i casi si tratta, verosimilmente, di armi da parata o comunque realizzate come elementi destinati a corredi funebri e scelti per indicare il prestigio del rispettivo proprietario. Soprattutto all’indomani dell’avvento del ferro, infatti, la lega di rame e stagno fu accantonata per la produzione bellica. Dal punto di vista tipologico, l’elmo è una variante dei modelli messi a punto in Grecia, in particolare di quelli ionici e corinzi, ed è provvisto di paragnatidi (paraguance) fisse.
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reportage • operazione teseo Un’immagine eloquente dell’ingente quantità di reperti accumulata da Gianfranco Becchina nei suoi depositi di Basilea.
Un’altra immagine dei vasi sequestrati nell’ambito dell’operazione «Teseo». I materiali sono in corso di inventariazione e schedatura, anche per cercare di sopperire alle lacune circa la loro provenienza (e, non da ultimo, di verificare l’eventuale presenza di falsi). A una prima ricognizione, tuttavia, è possibile indicare in Puglia, Sicilia, Sardegna e Calabria le regioni che hanno maggiormente sofferto delle razzie compiute dagli scavatori clandestini.
Infatti, oltre al ritrovamento di un patrimonio di enorme importanza, che fa dell’operazione «Teseo» il piú importante recupero nella storia del Nucleo Tutela del Patrimonio, la confisca della documentazione rinvenuta ha permesso alle autorità di entrare in possesso di preziose informazioni relative al traffico di beni culturali, che sono state subito messe a frutto per rintracciare opere provenienti da attività di scavo clandestino e circolanti sul mercato internazionale. A questo, per esempio, si collega il rientro in Italia anche di una pelike (anfora) e di uno stamnos (giara, orcio per in vino) messi in vendita
nel 2012 presso una importante casa d’aste newyorkese, la cui origine illecita è stata dimostrata ricorrendo appunto al dossier elaborato nel corso dell’indagine. Gli oltre 5000 reperti sono attualmente conservati a Roma, presso il Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano. Dal momento che non è piú possibile stabilirne con certezza i luoghi di provenienza, in futuro saranno destinati a musei che contengono collezioni affini, o alla costituzione di nuove strutture dedicate, in modo che il pubblico possa fruirne e anche verificare il danno culturale rappresentato dal traffico clandestino di simili beni.
Gente di laguna Lo scavo di una vasta necropoli etrusca, situata sulla costa tirrenica al confine tra Lazio e Toscana, racconta la storia antica della Maremma: quando i suoi acquitrini, sino a poco tempo fa inospitali e malsani, rappresentavano invece una fonte di industriosa ricchezza di Carlo Casi e Patrizia Petitti
Un settore della necropoli etrusca scoperta in località Due Pini, oggi nel territorio del Comune di Montalto di Castro. Il sepolcreto è riferibile a un abitato che ricadeva nell’orbita della vicina città di Vulci, centro egemone di questa porzione dell’Etruria.
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l territorio della città etrusca di Vulci si estendeva dall’Amiata al mare e dai monti dell’Uccellina al fiume Arrone, comprendendo al suo interno una lunga e variegata linea di costa, sulla quale si affacciava prepotentemente il porto di Regisvilla (oggi Le Murelle, nel territorio del Comune di Montalto di Castro) con il suo ampio e ancora visibile antemurale. Una fascia costiera, oggi posta al confine tra Lazio
e Toscana, caratterizzata da un’alternanza di situazioni geomorfologiche che la rendono particolarmente eterogenea dal punto di vista paesaggistico. Alla piatta costa dei comuni di Montalto di Castro e Capalbio succede il promontorio roccioso di Ansedonia, collegato al Monte Argentario dall’arenile della Feniglia. Un’altra striscia di sabbia, il Tombolo della Giannella, unisce piú a nord
scavi • vulci
la penisola rocciosa dell’Argentario alla costa sabbiosa della foce dell’Albegna che s’interrompe al Colle di Talamonaccio, per poi riprendere sino a Talamone, dove i monti calcarei dell’Uccellina si affacciano sul mare. In questa diversità si coglie, però, il residuo di un elemento comune che ha caratterizzato, sino ai tempi recenti, questo paesaggio costiero: la palude. Nonostante numerose bonifiche abbiano interessato l’area almeno sin dall’epoca romana, zone acquitrinose si riconoscono ancora nella Tenuta Guglielmi, sulla costa montaltese, nel Lago di Burano, vicino Capalbio, e nella piú ampia Laguna di Orbetello. La storica inospitalità della Maremma deve buona parte della sua triste fama principalmente a questi terreni bassi e paludosi, retaggio di un mancato sbocco al mare delle acque superficiali provenienti da monte. In queste zone,
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infatti, regnava la zanzara che trasmetteva la malaria che nell’Ottocento decimò la popolazione maremmana: basti pensare che nel territorio della provincia di Grosseto la vita media, intorno alla metà del XIX secolo, era pari a 23 anni e che, su circa 100 000 abitanti, uno su tre contrasse la malattia e uno su ottanta ne morí.
prime tracce del morbo Ma non è sempre stato cosí, e ciò che la memoria recente ci tramanda trasudando tragedie e avversità, in un passato lontano rappresentava ricchezza e potere. Solamente tra il V e il VI secolo, infatti, con la comparsa dell’anemia mediter ranea – un’alterazione congenita del sangue che però rende immuni alla malaria – si rileva la prima testimonianza, seppur indiretta, della malattia che fu
sconfitta solo verso la metà del secolo scorso grazie all’abbondante utilizzo del DDT. Prima di allora, le estese paludi che delimitavano verso l’interno le ondulate dune sabbiose bagnate sull’altro lato dal Mar Tirreno – al quale erano collegate in prossimità delle foci dei fiumi principali – si caratterizzavano per un habitat ricco di risorse sia alimentari, come gli uccelli, i pesci o il sale, sia viarie. Le calme acque interne che seguivano Nella pagina accanto, in alto: planimetria dell’area costiera attualmente compresa fra Montalto di Castro e Pescia Romana, con l’indicazione dei siti archeologici a oggi noti, fra cui la necropoli etrusca scoperta in località Due Pini (n. 9). In basso: veduta dall’alto della tomba 2, attribuibile alla II fase di utilizzo del sepolcreto, compresa fra la seconda metà del VII e gli inizi del VI sec. a.C.
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12 1 INSEDIAMENTO NECROPOLI STRADA STATALE N. 1 AURELIA
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Poggio Magliano Aquilone in Toscana Talamone
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Poggio Buco
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Grotte di Castro Pitigliano
Orbetello
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Nunziatella
Valentano Bisenzio
Ischia di Castro
Marta Piansano Canino
Capalbio
Monte Argentario
Via Au rel ia
Vulci
Montalto di Castro Giannutri
Lago di Bolsena
M a r Ti r r e n o
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Ma
Tarquinia
Insediamenti 1. Montalto di Castro 2. Regisvilla 3. Mandrione e Lestra d’Asti 4. Pescia Romana 5. Infernetto di Sotto Necropoli 6. Il Torraccio 7. S. Maria 8. Mezzagnone 9. Due Pini 10. Prataccione 11. La Memoria 12. Pian de’ Gangani 13. Poggio Lungo 14. Quarto della Moletta 15. Quarto dei Magazzini 16. Serpentaro 17. Quarto della Capanna Murata 18. Quarto della Padovella a r c h e o 43
scavi • vulci In questa pagina: planimetra di un settore della necropoli di Due Pini.
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un ambiente ricco di risorse L’ambiente lagunare si configura, quindi, come una nicchia ecologica particolarmente ricca di risorse, in grado di favorire la comunicazione e lo smistamento di beni attraverso i numerosi corsi d’acqua che, provenendo da monte, rappresentano le naturali vie di penetrazione verso l’interno.Tale situazione, documentata già a partire dal Neolitico, resta praticamente inalterata sino alla conquista di Roma. È dunque probabile che anche l’insediamento 44 a r c h e o
4 Tomba 7
Tombe della I Fase In alto: i materiali del corredo rinvenuto nella tomba 7 (la piú antica della necropoli) in corso di scavo. Fra gli altri, si riconoscono una grande tazza baccellata (8), al cui interno è una fibula in bronzo (9). Nella pagina accanto, in alto: la fossa della tomba 23 in corso di scavo. Sulla base degli oggetti di corredo, si tratta, verosimilmente, di una deposizione maschile. Nella pagina accanto, in basso: la tomba 1, del tipo a camera con vestibolo «a cielo aperto».
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la linea di costa, a volte evitando lunghi cabotaggi come quello intorno all’Argentario, non dovettero passare inosservate agli antichi naviganti, che potevano rispettare le rotte previste al riparo dei marosi e per i quali le lagune costiere rappresentarono vere e proprie «autostrade del mare». L’occupazione umana dell’area venne infatti fortemente condizionata dalla presenza di queste vaste lagune salmastre, che erano densamente popolate soprattutto lungo le rive interne. E una miriade di piccoli insediamenti produttivi, a fianco di alcuni centri piú importanti, viveva proprio grazie a questo ristagnare delle acque.
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etrusco in località Due Pini sia da collocare all’interno di questo sistema costiero, organizzato e controllato da Vulci. Lo scavo della relativa necropoli (di cui era stata data una prima notizia in «Archeo» n. 326, aprile 2012; anche on line su
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Tomba 23
Tomba 1
archeo.it) permette ora di confermare le caratteristiche del popolamento che le ricerche ottocentesche avevano già evidenziato per l’area della vicina Pescia Romana, dove piccoli nuclei di tombe sparse
sono collegabili a centri minori della costa vulcente. L’area si presenta prevalentemente pianeggiante, tranne un dosso che si sviluppa in senso N-S in corrispondenza dell’attuale strada di servizio
dell’area industriale. Largo circa 50 m e lungo circa 200, il dosso degrada verso est, dove si apre in una ampia pianura. Le indagini hanno evidenziato in corrispondenza del rilievo un banco calcareo di colore bianco: a nord la formazione rocciosa diventa perlopiú di colore marrone, mentre a sud digrada in un terreno compatto sabbioso, ricco di resti di malacofauna marina. Si può quindi ipotizzare che il dosso digradasse in un’ampia area lagunare, come suggerisce la composizione delle colonne stratigrafiche rilevate in piú punti dell’area esplorata. Nell’angolo SO della zona indagata sono state individuate tracce di un abitato; immediatamente a monte è stata invece isolata una necropoli, e, infine, nell’area NO è riconoscibile una strada interna alla necropoli stessa: si tratta di una traccia orientata Est-Ovest, visibile sul banco calcareo, dai margini e angoli originari e ben definiti.
le due fasi della necropoli Le 43 tombe della necropoli sono collocate all’apice del dosso calcareo, del quale seguono l’andamento. I dati raccolti hanno permesso di riconoscere due periodi di utilizzo del sepolcreto, compresi tra la prima metà del VII e gli inizi del VI secolo a.C. Alla I fase (prima metà del VII secolo a.C.) appartengono le tombe 7, 23 e 24. Tomba 7. È la sepoltura piú antica e consiste in una fossa ovoidale, oggi profonda appena 50 cm in quanto intaccata dalle ripetute arature, che non hanno purtroppo risparmiato i materiali del ricco corredo funebre. All’interno della fossa furono collocate numerose olle «a rete» (definizione che indica vasi caratterizzati da una decorazione plastica che ricorda appunto le maglie di una rete da pesca, n.d.r.), disposte lungo le pareti della struttura, e altri oggetti rinvenuti ancora impilati, tra a r c h e o 45
scavi • vulci In questa pagina: due tombe della necropoli a scavo ultimato. Nella pagina accanto, in alto: una fase del restauro dei reperti; in basso: una oinochoe in bucchero sulla quale è stato eseguito un saggio di restauro, prima dell’intervento definitivo.
i quali spicca una tazza baccellata, decorata a lamelle metalliche. Tomba 23. Disturbata anch’essa dai lavori agricoli moderni, è una fossa di grandi dimensioni, alla quale appartengono alcuni frammenti di lastre calcaree di copertura. Al suo interno è stato possibile recuperare solo poveri resti scheletrici dell’inumato, deposto in posizione supina e orientato NO-SE. Il materiale ceramico del corredo funebre consisteva in olle a rete e «a costolature verticali», in tazze e vasi in impasto bruno associati a due calici in bucchero sottile. La presenza di un coltello, un’ascia e di una punta di lancia ne suggeriscono l’attribuzione a un individuo di sesso maschile. Tomba 24. Rinvenuta già violata dai clandestini, è una fossa rettangolare, un tempo coperta da lastre squadrate di travertino. Il rinvenimento di un vaso biconico con coperchio a palla e di un fermatrecce in argento lasciano ipotizzare che si tratti dell’incinerazione di una donna, forse in stretto rapporto di parentela con l’individuo sepolto nella vicina tomba 23.
sfruttamento intensivo Tra la seconda metà del VII e gli inizi del VI secolo a.C. (II Fase), l’utilizzo della necropoli si intensifica con la realizzazione di tombe a camera con vestibolo a cielo aperto, alle quali si affiancano tombe a camera senza vestibolo. Tomba 1. Situata nel settore occidentale della necropoli, è del tipo a camera con «vestibolo a cielo aperto»: si distingue per la presenza della scalinata di accesso, con 5 gradini delimitati da pseudo-lese46 a r c h e o
Tomba 4 Tomba 2
ne, e per la particolare accuratezza degli accorgimenti architettonici. Nella camera principale restano tracce di una decorazione pittorica parietale con banda rossa marginata da due sottili fasce in nero, mentre sulla banchina orientale sono presenti due incavi rettangolari, probabilmente pertinenti all’alloggiamento del letto funebre. Tomba 2. È un grande ipogeo con vestibolo a cielo aperto e consta di quattro camere: la maggiore, quella centrale (B), è corredata da due banchine di deposizione lungo i lati nord e sud, e da una banchina piú stretta, probabilmente funzionale alla deposizione del corredo. Come le altre due camere laterali (AC), anche quella centrale è stata rinvenuta ormai violata. Il vano posto sul lato nord del vestibolo ha invece restituito un ricco corredo e conserva il soffitto a doppio spiovente con trave di colmo (columen) centrale. Da qui proviene, tra gli altri, un grande bacile in bronzo – che, a sua volta, conteneva tre calici in bucchero con decorazioni a «ventaglietto» –, un’anfora da trasporto, poggiata alla parete della banchina, un’oinochoe (brocca da vino) in bucchero e un’olla globulare in prossimità della porta.
una sola camera Tomba 3. Appar tiene anch’essa al classico tipo vulcente a camera «con vestibolo a cielo aperto», ed è localizzata nel limite occidentale della necropoli. Come molte altre tombe del sepolcreto, la struttura, violata, si compone di tre elementi costruttivi principali: il corridoio d’accesso (dromos), il vestibolo e la camera funeraria. Tra i frammenti ceramici sfuggiti al saccheggio, sono stati recuperati due piattelli di piccole dimensioni decorati con punti e bande di colore rosso, databili agli inizi del VI secolo a C. Il monumento si disitn-
gue per avere una sola camera, ricavata all’estremità sud-est del vestibolo, quasi a indicare la volontà di realizzare successivamente un secondo vano, speculare al primo, ma mai approntato. Tomba 4. Rinvenuta purtroppo già violata, è caratterizzata dalla notevole cura riposta negli accorgimenti architettonici, che ne fa un unicum all’interno del sepolcreto. Presenta un breve dromos e un vestibolo con interessanti mensole poste agli angoli del vano ed è completata da due piccole camere con banchine funebri: quella della camera B, elegantemente, e forse volutamente, realizzata intagliando un ricco deposito malacologico, conserva ben leggibili i quattro incassi per l’alloggiamento dei piedi del letto funebre, mentre la banchina della camera «A» presenta due blocchi posti a suo rinforzo. La scarsa ceramica rinvenuta e, in particolare, un piccolo frammento in bucchero indicano una datazione approssimativamente riconducibile agli inizi del VI secolo a.C. To m b a 1 0 . Presenta anch’essa la planimetria a camera «con vestibolo a cielo aperto». Scavata sul plateau calcareo che attraversa la necropoli, è situata a nord-est delle tombe 8 e 9 e si caratterizza per la presenza di un breve e ripido dromos di forma rettangolare irregolare e di un vestibolo dal quale si accede alle camere di deposizione. Nell’ambiente A sono stati rinvenuti resti ossei in giacitura primaria, ma non in connessione anatomica, e frammenti ceramici relativi a una parte del corredo funebre. I materiali recuperati comprendono un bacile in bronzo con orlo perlinato; una coppa etrusco-corinzia, frammenti ossei e lancia in ferro. La deposizione era probabilmente unia r c h e o 47
scavi • vulci
ca, ma non è possibile stabilirlo con certezza per l’esiguità dei resti osteologici, che si presentavano per di piú fortemente rimaneggiati.
L’ultimo pasto Una parte considerevole dei reperti restituiti dall’ambiente B è stata trovata in giacitura primaria, sopra l’apposita banchina. Il loro stato di conservazione è ottimo: i materiali sono perlopiú integri e non hanno subito danni in seguito all’azione degli scavatori clandestini. Del corredo fanno parte vari oggetti in bucchero – un’oinochoe, un calice, una coppa e una scodella –, una coppa acroma su piede a tromba, un piattino in ceramica depurata, un alabastron (piccolo vaso per unguenti o profumi) etrusco-corinzio, una scodella d’impasto con ossa animali all’interno. Queste ultime sono attribuibili a un bovino e rappresentano un chiaro indizio del- l’«ultimo pasto» del defunto, cioè quello a lui dedicato dai familiari ma mai consumato. Sono stati recuperati anche tre reperti di ferro: un coltello/lancia, un frammento non facilmente identificabile, poiché molto eroso e parte di una punta di lancia. L’unico manufatto in bronzo è invece un notevole bacile di forma circolare. La struttura ha una planimetria co-
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In questa pagina, dall’alto: oggetti del corredo della tomba 10: una scodella d’impasto con resti di ossa bovine, una oinochoe in bucchero e un bacile in bronzo di forma circolare. Nella pagina accanto, in alto: l’iscrizione incisa su un blocco in tufo pertinente alla tomba 37a. Nella pagina accanto, in basso: la tomba 30 in corso di scavo: si riconoscono un bacile in bronzo e alcuni resti ossei del defunto.
TOMBA 37a
mune nella necropoli di Due Pini, articolata in un dromos, un vestibolo e due camere. Il monumento ha subito ripetuti rimaneggiamenti ed è stato reso instabile dalle violazioni e dai continui crolli patiti. Tuttavia, nonostante le molte alterazioni, il corredo è stato trovato in situ, intatto, insieme all’inumato, nell’ambiente B. Allo stato attuale, non è facile sta-
bilire l’età, né il sesso degli inumati deposti negli ambienti A e B. La presenza del coltello e della lancia in ferro suggeriscono che si tratti di individui maschi maturi, i quali, secondo un primo esame del corredo funerario, sono stati sepolti con rito inumatorio agli inizi del VI secolo a.C. Tomba 30. Presenta un breve e
stretto dromos che immette in un profondo e ampio vestibolo, il quale, a sua volta, dà accesso alle camere funerarie: quella principale, che si apre sul lato lungo del vestibolo, non è in asse con il dromos, forse perché il progetto originario – non compiuto – prevedeva la realizzazione di altri ambienti. Questa camera si caratterizza per la monuTOMBA 30
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scavi • vulci
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Il Museo e il parco di Vulci Museo Archeologico Nazionale di Vulci. La raccolta ha sede nel Castello della Badia, un suggestivo edificio che sorge a controllo del ponte omonimo, una struttura di impianto etrusco che raggiunge un’altezza di oltre 30 m dall’alveo del fiume. Dal 2012 il pianterreno del museo ospita mostre temporanee, mentre nelle sale al piano superiore l’esposizione permanente consente di cogliere l’evoluzione artistica delle diverse produzioni ceramiche in uso a Vulci, in un arco cronologico che va dai secoli di massima fioritura dell’antica metropoli (VIII-VII a.C.) alla conquista da parte di Roma (280 a.C.). Parco Naturalistico Archeologico. Nel territorio del Parco ricadono i resti dell’antica città etrusco-romana. Gli scavi archeologici hanno riportato alla luce tratti di mura di cinta e alcuni monumentali ingressi alla città, tra i quali Porta Ovest, difesa da un avancorpo triangolare in blocchi di tufo rosso. Lungo il decumano massimo si affacciano edifici pubblici, come il Tempio Grande, e privati, come la Domus del Criptoportico, di epoca romana, della quale si ammirano i raffinati ambienti del pianterreno e i sotterranei. Nella vallata lambita dal Fiora sono visibili i resti di imponenti strutture murarie, poste un tempo ad arginare le sponde del fiume e a difesa della città. I diversi itinerari di visita conducono poi i visitatori ad ammirare il suggestivo Laghetto del Pellicone. Nella Necropoli Orientale è possibile visitare, oltre al Tumulo della Cuccumella e alla Tomba delle Iscrizioni, anche la celebre Tomba François, aperta al pubblico nel corso delle visite guidate in programma nel calendario degli eventi primaverili del parco.
dove e quando Museo Archeologico Nazionale di Vulci Vulci, Castello della Badia Orario ma-do, 8,30-19,30; lu chiuso Info tel. 0761 437787; www.etruriameridionale.beniculturali.it Parco Naturalistico Archeologico di Vulci Località Vulci (Montalto di Castro, VT) Orario tutti i giorni 9,00-17,00 (autunno e inverno) e 10,00-18,00 (primavera es estate) Info tel. 0766 89298; e-mail: info@vulci.it; www.vulci.it; Facebook: Parco di Vulci e ParcodiVulci Gli Amici
Nella pagina accanto: una veduta aerea dell’area oggi compresa nel Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. In basso, si riconosce il Castello della Badia (vedi anche la foto in questa pagina) a destra del quale è il corso del fiume Fiora.
mentalità dell’entrata, sottolineata da due stipiti monolitici di grandi dimensioni, e per la presenza delle due banchine di deposizione, sempre in grandi blocchi di pietra. Tomba 37a. Del tipo a fossa, è stata pesantemente danneggiata dalle violazioni clandestine e dalle ripetute attività agricole. Durante il suo apprestamento, in prossimità del limite sud – confinante con l’ipogeo 37 –, sulla superficie della fossa è stato steso un sottile strato di preparazione, composto da frammenti di tegole e pietre calcaree. Al di sopra, forse per delimitare il piccolo spazio sepolcrale, è stato successivamente realizzato un muretto a secco con blocchi di tufo rosso. Ne rimangono solamente l’ultimo, mal conservato, e il primo, di dimensioni maggiori e forma parallelepipeda. Quest’ultimo, nonostante i danni causati dalle arature, conserva parte di un’iscrizione in lingua etrusca. Il testo, ad andamento destrorso, è purtroppo lacunoso, ma, a un’analisi preliminare sembra attestare la formula mi (io), seguita dal gentilizio. Lo scavo della necropoli di Due Pini è stato finanziato dal Comune di Montalto di Castro ed è stato eseguito da Mastarna Srl, società che gestisce il Parco Archeologico e Naturalistico di Vulci, sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici per l’Etruria Meridionale e con la collaborazione della Cooperativa Archeologia di Firenze e della Scuola di Restauro dell’Accademia di Belle Arti di Viterbo. I materiali sono in corso di studio da parte di Carlo Regoli, nell’ambito del suo dottorato di ricerca in etruscologia presso l’Università «Sapienza» di Roma. a r c h e o 51
SCOPERTE • xxxx xxxxxx
Una delle installazioni audiovisive realizzate in occasione della mostra «Le urne dei forti», dedicata alle scoperte nella necropoli dell’età del Bronzo di Casinalbo (Modena) e allestita nel Museo Civico Archeologico di Modena fino al prossimo 7 giugno. In questo caso, è stato ricostruito il momento in cui il corpo del defunto veniva deposto sulla pira, per procedere alla cremazione.
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Le regole dell’addio
i nuovi scavi a casinalbo, piccolo centro del modenese, offrono dati preziosi per ricostruire il modus vivendi delle comunità terramaricole che, nell’età del bronzo, dominarono la pianura padana
di Andrea Cardarelli e Cristiana Zanasi
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ell’apr ile del 1880, quando Carlo Boni (1830-1894), fondatore e direttore del Museo Civico di Modena, annunciò la scoperta di una necropoli presso la terramara di Casinalbo (Modena), Luigi Pigorini (1842-1925), il piú importante studioso di preistoria dell’epoca, probabilmente sobbalzò sulla sua poltrona al Collegio Romano, sede del Museo Preistorico Etnografico Nazionale che dirigeva da qualche anno. Fino ad allora, infatti, i grandi scavi condotti in molte terramare emiliane avevano fornito informazioni copiose sull’organizzazione di questi villaggi dell’età del Bronzo (vedi box alle pp. 54-55), ma poco si conosceva delle loro necropoli. Ai due studiosi parve dunque questa l’occasione per indagare sistematicamente un sepolcreto terramaricolo, ma difficoltà burocratiche ed economiche impedirono l’attuazione del progetto.
la ripresa degli scavi A oltre un secolo da quegli eventi, il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena ha ripreso le ricerche nella necropoli, portando alla luce oltre 600 sepolture (in gran parte edite in due volumi scientifici di recente pubblicazione; vedi a p. 63) ed esposte nella mostra «Le urne dei forti» (vedi box alle pp. 62-63). a r c h e o 53
SCavi • casinalbo
I costumi funerari delle terramare sono oggi piú conosciuti di quanto lo fossero nel XIX secolo: sappiamo, per esempio, che nel territorio terramaricolo a sud del Po era esclusivo il rituale della cremazione, mentre a nord del fiume sono note anche necropoli birituali, in cui nelle fasi piú antiche prevaleva l’inumazione, sostituita progressivamente dalla cremazione.
modelli ricorrenti Situata poco a sud di Modena, la necropoli di Casinalbo comprende esclusivamente sepolture a incinerazione. Come accertato anche per la maggior parte degli altri sepolcreti terramaricoli, si trovava poco a monte dell’abitato (200 m circa) e aveva una probabile estensione di 1, 2 ettari. Gli scavi finora condotti hanno esplorato il 20% circa della sua superficie e si può presupporre che il sepolcreto ospitasse in origine 3000/3500 sepolture. Suddividendo tale numero per il periodo di utilizzo della necropoli (grosso modo compreso tra il 1450 e il 1150 a.C.), si può stimare che vi fossero sepolti mediamente circa 250/300 individui per generazione. L’indagine sistematica della necroIn alto: Carlo Boni (1830-1894), fondatore del Museo Civico di Modena, che per primo diede notizia della scoperta della necropoli di Casinalbo. A destra: il recupero di un’urna cineraria da una delle tombe. In basso: cartina dell’area centrale della Pianura Padana, zona in cui è piú diffusa la presenza di siti terramaricoli, tra cui Casinalbo. Mantova
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Piacenza Fidenza Noceto
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Le terramare e la grande pianura Il nome «terramare» deriva dalla denominazione data al terriccio da concime estratto da alcune collinette che si ergevano per pochi metri nell’area centrale della Pianura Padana. All’inizio degli anni Sessanta del XIX secolo la ricerca archeologica ebbe un enorme sviluppo e, in pochi anni, le terramare divennero note in tutta Europa. La loro nascita è in gran parte l’esito di una colonizzazione che, dal 1650 a.C., interessò la Pianura Padana centrale. I villaggi, che nel periodo piú tardo raggiungevano anche 20 ettari di estensione, erano generalmente di forma quadrangolare, circondati da un fossato e fortificati con un argine. Le abitazioni erano spesso sopraelevate su assiti lignei per isolarle dall’umidità del terreno. L’economia delle terramare si basava su un’agricoltura intensiva, principalmente indirizzata verso la cerealicoltura, resa piú produttiva da sistemi irrigui ottenuti con reti di canali artificiali. L’allevamento di ovini, bovini e suini era molto sviluppato, al contrario della caccia, che aveva un ruolo marginale. Produzioni artigianali estremamente raffinate, come quella di manufatti in bronzo, evidenziano la presenza di figure specializzate. La società prevedeva una differenziazione basata sul rango, senza particolari concentrazioni personali di ricchezza: al vertice erano i guerrieri e le loro consorti. Verso la fine dell’età del Bronzo Recente (1200-1150 a.C.), probabilmente a seguito di una crisi ambientale determinata da un periodo di siccità e da un eccessivo sfruttamento del territorio, il sistema delle terramare entra in crisi e, nel breve volgere di alcuni decenni, provoca il collasso di una civiltà che aveva dominato per cinque secoli la grande pianura del Po.
A monte dell’abitato Disegno ricostruttivo che mostra il rapporto spaziale fra l’area del villaggio terramaricolo (in alto) e la necropoli di Casinalbo. La foto in basso mostra un gruppo di sepolture la cui presenza è indicata da ciottoli segnacolo.
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Ieri e oggi
In alto, da sinistra: disegno ricostruttivo che mostra la posizione del contesto archeologico rispetto al piano di campagna attuale; un particolare della stratigrafia, nella quale si vedono, ancora in situ, un ciottolo segnacolo e tre urne funerarie; particolare di un segnacolo, che mostra alcune «rosette» ottenute a picchiettatura sulla superficie.
poli di Casinalbo ha restituito preziose informazioni non solo sul rituale, ma anche sull’organizzazione sociale delle comunità terramaricole. Il sepolcreto era organizzato per comparti o isolati, delimitati da vie di percorrenza che si intersecavano ortogonalmente. Il confronto con quanto conosciamo dagli abitati, e in particolare con le evidenze della terramara del villaggio grande di Santa Rosa di Poviglio (Reggio Emilia), sembra indicare che l’organizzazione delle necropoli rispecchiava sostanzialmente quella degli abitati. All’interno degli isolati le sepolture si disponevano prevalentemente in raggruppamenti molto fitti, che nel tempo prendevano la forma di tumuli irregolari, risultato della progressiva sovrapposizione delle tombe. Queste ultime erano indicate da 56 a r c h e o
segnacoli costituiti da ciottoli fluviali, che in origine dovevano essere resi riconoscibili da segni particolari, come nel caso di una rosetta ottenuta a picchiettature. Le sepolture si presentano come buche poco profonde o pozzetti, che contengono un’urna cineraria (talvolta piú di una e fino a 4), al cui interno si trovano le ossa del defunto, accuratamente pulite e disposte in modo da collocare nella parte piú alta i resti scheletrici pertinenti al cranio, quasi a voler ricostituire una sembianza antropomorfa.
Di quella pira… Nella necropoli, tuttavia, non sono state trovate solo sepolture. Una concentrazione di buche di palo ad andamento circolare è stata interpretata come la traccia di una piattaforma su cui forse il defunto veniva adagiato per la preparazione, prima della deposizione sulla pira funeraria e la cremazione. Poco distante da questa piattafor ma, una grande chiazza di terreno arrossato dal fuoco è probabilmente da riferi-
re a un ustrino, cioè al luogo stesso della cremazione. Molte altre testimonianze di carattere rituale sono state individuate: in particolare, roghi o focolari che, in vari casi, furono realizzati per sancire la conclusione dell’utilizzo
la stratigrafia
funerario di un’area della necropoli. In una di queste strutture sono stati trovati numerosi carboni costituiti da fascine legate fra loro da una sostanza amalgamante, compatibile per esempio con il miele. La suggestione di attribuire queste
segnacolo con «rosette»
tracce a cerimonie funerarie simili a quelle della tradizione omerica e classica – in cui lo spegnimento del fuoco e l’offerta ai defunti e alle divinità degli inferi era effettuato con il vino mischiato a miele – è indiziata anche da un altro dato importante.
In basso, da sinistra: una delle urne dopo il restauro; disegno ricostruttivo nel quale si immagina la celebrazione delle cerimonie funerarie; veduta dall’alto di un’urna nella quale si conservano resti combusti del defunto, raccolti dopo la cremazione.
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Nella vicina terramara di Montale (vedi «Archeo» n. 351, maggio 2014; anche on line su archeo.it), a partire dalla fine dell’età del Bronzo Medio (fine del XIV secolo a.C.), è infatti attestata una massiccia presenza di vinaccioli, in gran parte compatibili, dimensionalmente e morfologicamente, con la vite domestica.
uguali o diversi? Nelle urne non sono quasi mai presenti oggetti di corredo maschili, mentre raramente compaiono alcuni elementi riferibili a donne adulte o adolescenti.Tale mancanza è lega58 a r c h e o
ta a precisi codici rituali. Secondo alcuni autori, infatti, l’adozione della cremazione comportò un cambiamento sostanziale: per assurgere alla sfera immateriale del divino, il defunto veniva equiparato a una vittima sacrificale, da offrire alla divinità e, grazie alla cremazione, era liberato da ogni materialità e reminiscenza terrena. Nella versione piú ortodossa di questo rito, gli oggetti che accompagnavano il defunto durante il rogo erano anch’essi offerti alla divinità e dunque non potevano piú essere utilizzati da nessuno, né esse-
Planimetria della necropoli di Casinalbo, con i raggruppamenti di sepolture e i percorsi ortogonali. Nei particolari sulla destra, la piattaforma per l’esposizione del defunto (in alto) e l’ustrino, cioè il luogo in cui si praticava la cremazione.
re inseriti nell’urna. Per questo motivo, probabilmente, a Casinalbo la grande maggioranza delle urne cinerarie ne è priva. Un importante rinvenimento ha confermato questa supposizione: in una zona della necropoli (area α), è stata trovata un’elevata concentra-
zione di frammenti di vasellame pertinenti perlopiú a olle e tazze attingitoio, raggruppati intorno a un grande dolio biconico. L’analisi della dispersione dei reperti mostra che in prossimità del dolio, evidentemente collocato al centro di un’area rituale, dovevano avvenire cerimonie durante le quali, con ogni probabilità, si svolgevano libagioni collettive e veniva effettuata la frantumazione rituale degli oggetti per-
sonali dei defunti, per defunzionalizzarli.Tali frammenti venivano poi deposti nell’area cerimoniale, secondo una logica che determinava la massima presenza di quelli pertinenti a spade e a ornamenti di pregio in prossimità del dolio (area α1).
A sinistra: fossa con resti di rogo. Al suo interno sono stati trovati carboni e forse tracce di miele: una circostanza che sembra evocare il rituale secondo il quale lo spegnimento del fuoco e l’offerta ai defunti e alle divinità degli inferi si effettuavano con vino mischiato appunto a miele.
In basso: planimetria del gruppo K, con la suddivisione in settori differenziati per le sepolture maschili (in colore scuro) e femminili (in colore chiaro). Le tombe non colorate sono pertinenti a bambini e adolescenti, mentre quelle con asterisco a individui giovani.
questioni di status Allontanandosi dal nucleo centrale, i resti di spade scomparivano, e rimanevano solo ornamenti femmi-
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Bronzo, perle di vetro e corno di cervo... Gli elementi appartenenti a vari corredi funebri sui quali sono state riscontrate tracce di esposizione al rogo: 1-2. coppie di spilloni in bronzo pertinenti a corredi femminili; 3-4. orecchini in bronzo e perle in materiale vetroso da tombe di donne adulte e di adolescenti femmine; 5-7. fermatrecce, pendaglio in bronzo e rotelle raggiate e piene in
nili e qualche frammento di pugnale. Questa collocazione differenziata indica senza dubbio una diversa connotazione «sociale» nell’uso rituale dell’area cerimoniale. Gli oggetti pertinenti agli individui di
rango piú elevato (guerrieri con spada) erano deposti in prossimità del centro, mentre, allontanandosi, prevalevano gli oggetti di minore rilevanza sociale. Che l’apice della scala sociale fosse
occupato dai maschi guerrieri è testimoniato anche dal fatto che, assieme alle ossa cremate, sono stati talvolta trovati resti combusti di animali, evidentemente deposti sulla pira funeraria come offerte. Nella quasi totalità dei casi si tratta di offerte associate a individui maschili adulti. Si può dunque affermare che il defunto veniva posto sulla pira funebre dotato di alcuni oggetti che, nei casi socialmente piú rilevanti, ne connotavano lo status. Solo successivamente al rituale della cremazione gli oggetti venivano separati dai resti umani e seguivano un trattamento diverso. I resti del grande dolio biconico che doveva trovarsi al centro di un’area rituale e presso il quale, con ogni probabilità, i membri della comunità terramaricola svolgevano cerimonie che comprendevano libagioni collettive e la frantumazione rituale degli oggetti personali dei defunti, attuata al fine di defunzionalizzarli.
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corno di cervo da sepolture di adolescenti femmine. In generale, nelle urne deposte nelle tombe di Casinalbo non sono quasi mai presenti oggetti di corredo maschili, mentre raramente compaiono elementi riferibili a donne adulte o adolescenti: circostanze legate a precisi codici rituali.
Un’ulteriore conferma di tale co- dove i maschi adulti di rango guer- colare per bambini, adolescenti e stume è data dalla presenza sui resti riero venivano deposti con le loro donne. Possiamo dunque ritenere ossei combusti di macchie verdi, spade, mentre le loro consorti con che la natura delle società delle terdovute alla parziale fusione degli ornamenti di pregio e ambra. ramare fosse fortemente inclusiva e oggetti bronzei posti assieme al de- Le ricerche nella necropoli hanno la sua struttura improntata a una funto sulla pira. Percentualmente, fornito anche altre importanti in- forte coesione comunitaria, che, tali macchie sono attestate in misu- formazioni sulla composizione e tuttavia, prevedeva differenziazioni ra maggiore per i maschi, che inve- struttura della società delle terrama- basate sul rango. ce – come si è detto – non Lo studio dettagliato della hanno mai elementi di ha dimostrato La necropoli di Casinalbo cronologia corredo inseriti nell’urna, che i gruppi sepolcrali, soa conferma del fatto che prattutto quelli piú grandi è uno «specchio» degli anche gli uomini adulti (costituiti da alcune decierano frequentemente acne di tombe) sono rimasti usi e dei costumi diffusi compagnati sulla pira dain uso spesso per circa due presso le terramare gli oggetti che ne definisecoli, espandendosi in vano la pertinenza sociale. modo quasi concentrico. In definitiva, il rituale ha determi- re. Lo studio paleodemografico ha Al loro interno tuttavia si nota frenato, dal punto dell’osservazione dimostrato che il sepolcreto, con la quentemente una distinzione fra archeologica, una sorta di masche- sola esclusione apparente dei neo- settori maschili e femminili, a sottoramento della realtà sociale, ma nati, accoglieva la quasi totalità del- lineare l’esistenza di differenze di tutto fa ritenere che la società di la comunità, un costume che, per genere e di ruolo. Casinalbo non fosse per nulla di- l’età del Bronzo, non è tanto scon- È stato inoltre possibile calcolare versa da quella delle comunità ter- tato quanto si potrebbe immaginare. che ogni coppia genitoriale aveva ramaricole a nord del Po, presso le In molte necropoli coeve dell’Italia mediamente sei figli, di cui due quali durante la Media età del meridionale, infatti, l’accesso al se- morivano in età neonatale, e dunBronzo si praticava l’inumazione, e polcreto era piú selettivo, in parti- que non venivano sepolti nella nea r c h e o 61
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Le urne de’ forti Il titolo della mostra attualmente in corso presso il Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena riprende il noto passo del carme I Sepolcri di Ugo Foscolo. I versi furono scritti nel 1806, in seguito all’editto napoleonico che imponeva di seppellire i morti al di fuori delle mura delle città, con tombe tutte uguali per evitare discriminazioni fra i defunti. La nuova legge spinse il poeta a una meditazione filosofica sulla morte, incentrata sul concetto secondo il quale gli ideali e i valori in cui l’individuo ha creduto
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possono sopravvivere alla sua morte rimanendo nella memoria di chi resta. Ma se i sepolcri a cui è affidata questa memoria sono impersonali e distanti dai luoghi frequentati dai vivi fatalmente il ricordo svanirà. La necropoli della terramara di Casinalbo pare incarnare i timori del Foscolo: collocata all’esterno di un abitato, nella sua uniformità minimalista sembrerebbe voler cancellare ogni singola individualità, condannando quella comunità all’oblio di una storia che si perde nel buio dei millenni.
Ma è proprio cosí? La storia di quelle persone è definitivamente perduta? La sfida di questa ricerca è stata quella di tentare di restituire una memoria di quegli uomini e di quelle donne, se non per ogni singolo individuo, almeno per l’intera comunità. Attraverso le metodologie sofisticate di cui dispongono oggi gli archeologi è stato possibile ridare voce a quelle lontane vite in modo che la loro storia divenga parte della nostra stessa storia. Chi visita la mostra viene accolto dall’immagine evocativa di un
Per saperne di piú I risultati delle nuove ricerche condotte a Casinalbo e lo studio dei reperti rinvenuti sono stati pubblicati nell’opera La necropoli della Terramara di Casinalbo (Tomi 1 e 2), curata da Andrea Cardarelli e pubblicata da L’Insegna del Giglio.
Sulle due pagine: particolari dell’allestimento della mostra «Le urne dei forti».
fuoco che arde intorno al rogo. Voci in sottofondo recitano i brani del funerale di Patroclo, tratti dall’Iliade, che ricordano alcuni dei rituali attestati nella necropoli di Casinalbo. A descriverne la sequenza sono suggestive ricostruzioni a grandezza naturale e filmati che, attraverso ombre appartenenti a un antico passato, evocano i gesti dolenti e solenni di cerimonie che oltre tremila anni fa accompagnavano i defunti nel loro ultimo viaggio: il corteo funebre, la preparazione della salma con grassi e unguenti, la cremazione del corpo sulla pira, l’ossilegio e altre cerimonie che prevedevano libagioni e frammentazioni rituali di oggetti personali del defunto. Oltrepassando i confini dello spazio evocativo, l’esposizione dà conto di come una ricerca specialistica abbia permesso di raggiungere un livello di dettaglio cosí elevato: dalle modalità di seppellimento, all’evoluzione cronologica, alle forme rituali, per approdare infine alla ricostruzione della demografia e dell’organizzazione sociale. Una successione ininterrotta di
risultati delle ricerche, illustrata dai reperti della necropoli di Casinalbo e da altre importanti contesti funerari e rituali dell’età del Bronzo dell’Emilia-Romagna , del Veneto e del Piemonte, accompagnata da pannelli, sequenze di immagini, filmati. E, per concludere, un excursus sul rito della cremazione attraverso i secoli, con storie di ceneri, imperatori, diamanti e… fuochi d’artificio.
dove e quando «Le Urne dei forti. Storie di vita e di morte in una comunità dell’età del Bronzo» Modena, Museo Civico Archeologico Etnologico fino al 7 giugno Orario ma-ve, 9,00-12,00; sa-do e festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 059 203.101 o 125; e-mail: museo.archeologico@ comune.modena.it; www.comune.modena.it/ museoarcheologico fbmuseoarcheologicomodena
cropoli, uno o due morivano fra i 2 e i 20 anni, e due o tre, infine, raggiungevano l’età adulta, dando luogo a un’altra famiglia nucleare.
da una generazione all’altra Sulla base di questi dati è stata proposta un’interpretazione dei raggruppamenti sepolcrali, identificati con gruppi parentelari. Incrociando il dato antropologico con quello cronologico, è stata realizzata una simulazione da cui si ricava che il raggruppamento K, perdurato per circa 7 generazioni (cioè 175 anni), e costituito da 75 sepolture, era verosimilmente riferibile a una famiglia estesa, composta cioè da piú famiglie nucleari tra loro imparentate; il gruppo I, invece, con 35 tombe distribuite su 9 generazioni (225 anni), era probabilmente riferibile a una successione continua di famiglie nucleari. a r c h e o 63
gli imperdibili • chimera di arezzo
un mistero ruggente
La statua simbolo dell’arte etrusca rappresenta una terrificante belva mitologica. fin dalla sua scoperta, suscitò notevoli suggestioni, a cui fecero seguito ipotesi spesso fantasiose. ma qual è, allora, la vera «identità» dell’opera? di Daniele F. Maras
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ddí 15 novembre 1553, mentre fuori le mura della città di Arezzo, presso Porta S. Lorentino, si scavava terra per portarla nel nuovo bastione che vi si sta costruendo, fu trovato il seguente insigne monumento degli Etruschi. Era un leone di bronzo fatto con maestria e eleganza, di grandezza naturale, di aspetto feroce, furente, forse per la ferita che aveva sulla coscia sinistra, teneva irte le chiome e spalancate le fauci, e come un trofeo da ostentare portava sopra la schiena una testa di capro ucciso, che perde sangue e vita». Con queste parole il registro delle Deliberazioni del Magistrato, dei Priori e del Consiglio Generale di Arezzo descrive la scoperta di uno dei capolavori dell’arte etrusca, destinato a riportare alla ribalta la cultura indipendente dei popoli dell’Italia preromana, grazie alla fortunata coincidenza con gli interessi della corte fiorentina rinascimentale. Il ritrovamento ebbe luogo sotto l’egida di Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze da ormai 16 anni, che da tempo aveva iniziato un’attività di recupero di antichità, allo scopo di reintegrare le collezioni di famiglia, drasticamente ridottesi in seguito alle burrascose vicende
del ducato. Fu quindi accolta con entusiasmo la notizia della scoperta aretina, avvenuta proprio in seguito ai grandi lavori di edilizia militare voluti da Cosimo, anche in previsione delle future campagne contro la Repubblica senese. Grazie alla sua evidente «maniera» artistica etrusca, sottolineata da tutti i commentatori dell’epoca, la Chimera non solo costituiva una novità assoluta nel panorama delle collezioni antiquarie rinascimentali, ma aveva anche un altissimo valore potenziale di propaganda. L’autonomia culturale degli Etruschi, considerati precedenti ai Romani e quindi piú «puri» in un’ottica di recupero dell’originaria identità italiana, era infatti destinata a diventare la bandiera di una rivendicazione di indipendenza anche politica, tanto dalla Roma papalina, quanto dall’impero, erede della potenza romana.
il duca restauratore La Chimera venne subito portata a Firenze, in Palazzo Vecchio, dove ottenne un posto d’onore nella sala di Leone X, mentre il cospicuo gruppo di bronzetti trovato insieme alla statua venne posto al piano superiore, La Chimera d’Arezzo, rinvenuta nella città toscana nel 1553. a r c h e o 65
gli imperdibili • chimera di arezzo
nello studiolo privato di Cosimo, in seguito denominato «Scrittoio di Calliope». Come racconta Benvenuto Cellini nella propria autobiografia, Cosimo si dilettava a restaurare con attrezzi da orafo sia la Chimera, sia le statuette piú piccole, dell’altezza di un piede ciascuna (pari a 30 cm circa), che raffiguravano giovinetti, animali (tra cui alcuni uccelli e un cavallo) e uomini barbuti. Purtroppo la collezione andò in seguito dispersa e soltanto due o tre di questi reperti sono stati riconosciuti tra le antichità ancora conservate nel Museo di Firenze. La propaganda politica si mise subito all’opera, dapprima con la presentazione del bronzo al mondo artistico dell’epoca, suscitando i commenti ammirati di figure del calibro di Tiziano,Vasari e Cellini. In seguito, uno studio antiquario accurato, basato sulle monete e medaglie antiche e sull’autorevole parere di Pirro Ligorio, serví a dimostrare che la statua riproduceva effettivamente il mostro mitologico sconfitto da Bellerofonte (vedi box a p. 70) e non
già un leone carico di una testa di capro a mo’ di trofeo, come si era detto in precedenza. L’identità della belva fu poi usata dal Vasari per sottolineare la coincidenza del fato, che aveva posto la statua in potere di Cosimo de’ Medici, «il quale è oggi domatore di tutte le fiere».
«maniera» etrusca L’identificazione della coda di serpente tra i frammenti pervenuti assieme alla statua fu opera di Cellini, mentre la riflessione artistica sulla «maniera» etrusca si deve all’aretino Giorgio Vasari, che osservò la contraddizione tra la dettagliata vena naturalistica dell’anatomia della belva, a paragone con l’arcaica e meccanica resa del pelame e soprattutto della criniera, che conferisce al muso l’aspetto di una maschera. Con queste osservazioni venne di fatto inaugurato il moderno esame critico della cifra stilistica etrusca tardoarcaica e classica, in cui sperimentalismo e innovazione convivono con la conservazione di modelli e schemi piú antichi.
carta d’identità dell’opera • Nome Chimera d’Arezzo • Definizione Scultura in bronzo raffigurante la mitica belva • Cronologia Primo quarto del IV secolo a.C. • L uogo di ritrovamento Arezzo • L uogo di conservazione Firenze, Museo Archeologico Nazionale • I dentikit Apice e simbolo della «maniera» etrusca
Un’altra immagine della statua e, nella pagina accanto, la Chimera in una incisione del Museum Etruscum di Anton Francesco Gori. 1737.
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gli imperdibili • chimera di arezzo A sinistra: Cosimo I de’ Medici (1519-1574) in un’incisione di André Thevet (1502-1590). In basso: veduta posteriore della Chimera. La coda, di cui fu trovata solo una parte, troncata dal corpo, è rivolta a mordere uno dei corni del capro per effetto di un malinteso restauro settecentesco.
Come si è detto, l’identificazione della «maniera» etrusca aveva anche risvolti politici e culturali. Già alla fine del Quattrocento, infatti, il frate domenicano Annio da Viterbo aveva avocato alla propria città natale il ruolo di erede dell’antica grandezza etrusca, come antefatto del dominio dei papi, da lui ritenuti successori dei lucumoni etruschi. La propaganda di Cosimo trasformò questo riferimento storico in funzione della sua ambizione a ricostituire il territorio d’Etruria sotto la bandiera fiorentina e con il titolo di Magnus Dux Etruriae. Un balzo in avanti nella realizzazione di
tale progetto si ebbe con la conquista di Siena, condotta da Firenze in nome dell’imperatore Carlo V (1555), e successivamente premiata con l’annessione del territorio senese (1557) e l’agognata nomina papale a granduca di Toscana (1569). La nuova situazione politica, però, riportò la propaganda antiquaria di Cosimo sul piú consueto binario dell’eredità classica romana, dal momento che la fedeltà all’imperatore e la riconciliazione con il papa erano indispensabili a
Assai utile ai disegni politici del granducato di Toscana, la scoperta della Chimera fu salutata con grande entusiasmo 68 a r c h e o
consolidare il suo potere. Per questo motivo, anche se la Chimera conservò sempre un posto di primo piano nelle collezioni granducali, il ritrovamento di un nuovo grande bronzo etrusco nel 1566, universalmente noto come l’Arringatore, venne salutato come un ritratto di Scipione e il prototipo del perfetto cittadino romano, benché di origine evidentemente etrusca.
naturalezza del mito Quando venne ritrovata, la Chimera era praticamente integra, a eccezione della coda, troncata alla base, e di pochi danni alle zampe.
La statua rappresenta il mostro mitologico ferito, inarcato e teso nell’imminenza di un ultimo disperato balzo contro un avversario che lo sovrasta. La testa di capro che spunta dal dorso è già stata ferita mortalmente al collo e pende da un lato agonizzante, mentre il serpente che costituiva la coda dell’animale era probabilmente rivolto verso il nemico e non ripiegato a mordere un corno, come si vede oggi in seguito a un malinteso restauro settecentesco. Le gocce di sangue che grondano dalle ferite – e che causarono l’ammirazione stupita di Tiziano per la loro «liquida» verosimiglianza – mostrano un colore rosso grazie all’agemina di rame. L’aspetto piú impressionante della belva è senz’altro la «maschera» leonina, che ruggisce la propria impotenza sollevando in alto lo sguardo, come se intuisse la propria fine ormai vicina. Le fauci vuote della belva, che si possono immaginare traboccanti di fiamme, erano in origine completate da zanne in altro materiale, cosí come gli occhi. Ciò nondimeno, la lugubre ombra che oggi riempie quelle cavità contribuisce non poco a catturare l’imma-
ginazione dello spettatore. La criniera è divisa in ciocche triangolari che richiamano alla mente altrettante fiamme, disposte come nella corolla di un fiore a incorniciare il muso della bestia, che è stato efficacemente paragonato da Mauro Cristofani a un volto di Gorgone, simbolo di morte e di paure ancestrali.
In alto: veduta di tre quarti del bronzo: si noti una delle gocce di sangue di cui Tiziano colse il «liquido» realismo. In basso: l’iscrizione tinscvil, incisa su una delle zampe della Chimera.
una scelta insolita Il recupero di un modulo arcaico per la testa leonina non deve stupire, nell’assenza di qualunque possibilità di rifarsi a un modello naturalistico:
i leoni erano noti in Etruria solo come creature esotiche, altrettanto leggendarie e sconosciute quanto la Chimera del mito. A dimostrazione di ciò è facile osservare come l’impianto della figura e la curva tesa della bestia pronta a scattare siano decisamente piú compatibili con un grosso cane, quale un mastino o un molosso, piuttosto che con un grande felino. Curiosamente, a differenza di altre raffigurazioni, che vedono nella Chimera una femmina, in conformità con il nome greco, la statua di Arezzo è invece rappresentata come un maschio. La zampa anteriore destra della belva presenta un’iscrizione etrusca realizzata in tutt’uno con la scultura, incidendo le lettere nella cera del modello originale che dette la forma al bronzo con il metodo della fusione a cera persa. Il testo consiste di una sola parola: tinscvil, che non corrisponde alla firma dell’artista come ingenuamente aveva supposto il Vasari, in mancanza di qualunque conoscenza della lingua etrusca. Si tratta invece di un termine di consacrazione, che compare identico e isolato anche su altre figurine di a r c h e o 69
gli imperdibili • chimera di arezzo
Bellerofonte e la Chimera La Chimera era un mostro primordiale, figlio di Tifone (il gigante che aveva osato sfidare gli dèi) ed Echidna. Si trattava di una bestia ibrida, che Omero dice composta di un corpo di capra, coda di serpente e fauci di leone che eruttano fiamme; ma piú spesso fu immaginata con tre teste. Il mostro infestava le montagne della Licia, dove, il re Iobate, che voleva uccidere l’eroe, inviò Bellerofonte a stanarla. Il giovane ottenne però l’aiuto degli dèi, che
gli insegnarono come imbrigliare il cavallo alato Pegaso, grazie al quale poté avvicinarsi alla Chimera. La tradizione vuole che l’eroe si sia limitato a bersagliare il mostro con arco e frecce, ma una rara versione raccontata dall’erudito bizantino Giovanni Tzetzes (attivo nel XII secolo) dice che Bellerofonte fissò alla propria lancia un lingotto di piombo; cosí, quando ne conficcò la punta nelle fauci della belva, il metallo si fuse e la soffocò definitivamente.
presenza di una serie di validi confronti negli specchi incisi, su vasi dipinti e persino, in miniatura, su gemme lungo un arco di tempo che va dall’epoca arcaica all’età romana imperiale. La maggioranza di questi confronti vedono il gruppo nel suo insieme, col cavallo in genere impennato a sovrastare la belva e l’eroe Bellerofonte che affonda la propria lancia nelle fauci. L’esistenza o meno del gruppo maggiore è probabilmente destinata a rimanere nel dubbio; ma va ricordata la possibilità, suggerita da Francesco De Angelis, che l’artista etrusco abbia inteso offrire allo spettatore la prospettiva di essere assimilato all’eroe che sconfigge il mostro. In tal caso il modello ricavabile dai confronti esistenti era effettivamente operante al livello della memoria dello spettatore, il quale per poter leggere l’iscrizione si trovava esattamente nel punto in cui il mitico cavaliere aveva sferrato il colpo di grazia alla bestia morente, sollevando per un attimo un comune mortale al livello di un eroe del mito. PER SAPERNE DI PIÚ
animali mitologici o spaventosi, come un grifone e un cane/lupo da Cortona. In etrusco la parola significava originariamente «sacro a Tinia», il Giove etrusco; ma venne in seguito utilizzata, piú genericamente, per la consacrazione a divinità infere (come nel caso di alcuni altari volsiniesi e del famoso Lampadario di Cortona) o alla dea Uni (sulla base di una statuetta cortonese). Sin dalla sua produzione, la Chimera era stata dunque concepita come un’offerta votiva, cosa che spiega il suo ritrovamento in un deposito assieme ad altri bronzetti, evidentemente donati nello stesso santuario. Non è chiaro, però, se la statua fos70 a r c h e o
A sinistra: vaso a figure rosse con la Chimera (a sinistra) e Bellerofonte in sella a Pegaso. 420-400 a.C. Parigi, Museo del Louvre. In alto: restituzione grafica di uno specchio proveniente da Palestrina (330 a.C. circa), raffigurante Bellerofonte che uccide la Chimera.
Giovanni Colonna, Dalla Chimera all’Arringatore, in Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca, XLVII, Olschki, Firenze 1985; pp. 167-186. Armando Cherici, Alcuni appunti su monumenti archeologici di provenienza aretina, in Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca, XLVIII; Olschki, Firenze 1986; pp. 3-39. Carlotta Cianferoni, Mario Iozzo, Elisabetta Setari (a cura di), Myth, allegory, emblem: the many lives of the Chimaera of Arezzo, Atti del Colloquio (2009), Aracne, Roma 2012.
se un pezzo isolato o facesse parte di un gruppo comprendente il suo uccisore, Bellerofonte, raffigurato sul cavallo alato Pegaso sul punto di dare il colpo di grazia al mostro. A favore di tale ipotesi vanno notate nella prossima puntata la posizione asimmetrica e tesa della Chimera, che presuppone l’esi- • Il Guerriero di stenza di un avversario, nonché la Castiglione di Ragusa
Pompei, Villa dei Misteri. La sala decorata dal grande dipinto a tema dionisiaco che ha dato nome alla splendida residenza. 72 a r c h e o
villa dei misteri
i colori di dioniso una delle residenze piú lussuose di pompei torna a offrirsi all’ammirazione dei visitatori. e le sue meravigliose pitture, prima fra tutte l’enigmatico ciclo con scene rituali, sono ancora una volta pronte, luminose e vivaci, a incantare e a stupirci di Alessandro Mandolesi
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osí la “Villa dei Misteri” con il suo grande dipinto di soggetto dionisiaco, con le nobili strutture e decorazioni del quartiere signorile e con gli impianti della sua azienda agricola, compendia e riassume in sé, nell’arte, nella religione e nell’industria tratta dal lavoro dei campi, i diversi ed essenziali aspetti della città sepolta». Con queste parole Amedeo Maiuri (1886-1963), che scavò la famosa villa pompeiana fra il 1929 e il 1930, riassume con estrema efficacia le singolarità di uno degli edifici piú affascinanti della città vesuviana. Oggi, dopo un attento e accurato restauro condotto dalla Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, a r c h e o 73
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il monumento torna a svelare al pubblico l’eleganza delle sue stanze e la meraviglia dei suoi eccezionali affreschi e pavimenti, veri capolavori dell’arte romana.
pittura «colta» Da pochi giorni, infatti, il visitatore di Pompei ha l’occasione di immergersi negli spazi rivitalizzati del grandioso edificio, per apprezzare non solo la freschezza dei colori originali della pittura pompeiana piú colta, ma anche le atmosfere di una delle cerimonie sacre piú «misteriose» del mondo antico. Lungo le pareti della sala del triclinio, infatti, si svolgono scene tanto mirabili quanto impenetrabili, di discussa interpretazione, con figure a gran74 a r c h e o
dezza quasi naturale: una megalografia di Secondo stile (vedi box a p. 92), probabilmente ispirata a modelli greco-ellenistici. La Villa dei Misteri appartenne forse agli Istacidii, una delle famiglie piú note della Pompei di età augustea, la cui tomba, decorata con statue dei maggiori rappresentanti della stirpe, è ben visibile nella vicina necropoli fuori Porta Ercolano. Fra gli esempi meglio riusciti di commistione fra villa d’otium e villa rustica, sviluppatasi proprio nelle aree vesuviane, il complesso rappresenta – assieme alla confinante Villa di Diomede (vedi «Archeo» n. 359, gennaio 2015) – il tipico modello di residenza di periferia delle classi elevate, diffusosi a partire dal tardo II secolo a.C. come «rifugio»
La Villa dei Misteri è un esempio di residenza di lusso, voluta come «rifugio» dal caos urbano dal caos urbano e come centro di produzione ed elaborazione di prodotti agricoli. Costruita su un pendio affacciato verso la marina, lungo la strada che, uscendo da Pompei, si dirigeva a Ercolano, la Villa dei Misteri raggiunse l’aspetto monumentale attorno al 60 a.C., quando venne rinnovata con una ricchissima decorazione parietale e pavimentale. In età augustea, la villa fu oggetto di un secondo rimaneggiamento, che ha riguardato soprattutto gli alloggi della servitú dove è stato rinvenuto il sigillo di L. Istacidus Zosimus, un liberto degli Istacidii. L’aspetto odierno della villa si deve agli interventi seguiti al terremoto del 62-63 d.C., momento in cui se ne è avviata una conversione da villa residenziale a fattoria agricola. All’epoca dell’eruzione del 79 d.C., l’ultimo proprietario stava riadattando l’edificio al gusto corrente della sua età e soprattutto alle
proprie condizioni sociali ed economiche, sicuramente meno elevate rispetto a quelle di chi l’aveva preceduto. I pochi oggetti rinvenuti durante gli scavi hanno fatto supporre che, all’epoca degli ultimi lavori di ristrutturazione, il complesso fosse in parte disabitato. Uno degli ambienti nobili, il cubicolo a doppia alcova con pavimentazione a mosaico, era stato addirittura destinato a deposito di cipolle. È probabile quindi che, al momento dell’eruzione, la villa fosse stata svuotata di gran parte delle suppellettili. Il Maiuri rinvenne scheletri umani nella parte servile della casa, una circostanza che indicherebbe invece che questa parte di villa era abitata. Dall’ingresso principale, aperto a est (ancora non completamente scavato), prospiciente la via principale pavimentata fino al varco della residenza, si accedeva all’ampio e luminoso peristilio, che raccordava i vari settori dell’e-
A sinistra: veduta esterna della Villa dei Misteri, con il giardino in primo piano. In basso: l’area archeologica di Pompei, con alcuni dei siti e monumenti di maggior interesse: 1. Villa dei Misteri (esterna alla pianta qui riprodotta); 2. Foro; 3. Teatro Grande; 4. Via dell’Abbondanza (sulla quale si affacciano numerose case e botteghe); 5. Anfiteatro.
Pompei
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Villa dei Misteri
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un complesso vasto e articolato Planimetria della Villa dei Misteri. Si tratta di uno degli esempi meglio riusciti di commistione fra villa d’otium e villa rustica ed è il tipico modello di residenza di periferia delle classi elevate, diffusosi a partire dal tardo II sec. a.C. come «rifugio» lontano dal caos urbano e come centro di produzione ed elaborazione di prodotti agricoli.
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dificio: un vero e proprio snodo vitale della villa. Ai lati dell’ingresso si sviluppava il quartiere servile, strettamente collegato ai locali produttivi, fra cui quelli destinati alla lavorazione del vino (torcularia). Il lussuoso quartiere residenziale si trovava sul lato opposto, a ovest, in direzione del mare, e si impostava originariamente su un suggestivo asse prospettico costituito in sequenza da atrio, tablino e sala di soggiorno, chiusa in fondo da un’imponente esedra semicircolare
Restauratori al lavoro nella sala del grande dipinto a tema dionisiaco, detta appunto «della Megalografia» o «dei Misteri».
pate» dalle scene dionisiache della sala del triclinio, come la maliziosa immagine del satiro danzante. Sempre a sud del complesso trovava posto un grazioso piccolo atrio con adiacente peristilio: qui, al momento dell’eruzione, era stata provvisoriamente deposta una statua, forse raffigurante l’imperatrice Livia, in attesa di essere riallocata una volta ultimati i lavori della villa. Una grande cucina e l’irrinunciabile zona termale completano i servizi presenti su questo lato.
La decorazione pittorica riflette la passione dei committenti per la cultura greco-ellenistica
fenestrata, simile alle grandi verande vetrate di certe ville moderne. Il fronte mare, sostenuto da un solido criptoportico, era il piú scenografico, con una lunga terrazza immersa fra lussureggianti giardini pensili. Nella parte meridionale della villa si trovavano i cubicoli, il piú elegante dei quali affrescato con slanciate architetture reali arricchite da false aperture tipo trompe-l’œil e affiancate da figure isolate idealmente «strap-
Le sale in cui si snoda il quartiere residenziale – considerate fra le piú lussuose di Pompei – manifestano, attraverso raffinate e incomparabili soluzioni architettoniche e ornamentali, il gusto dei committenti e la loro sensibilità per la cultura greco-ellenistica, che nel I secolo a.C. stava dilagando nel mondo romano. Il tutto viene sapientemente tradotto in espressione artistica da capaci maestranze di possibile origine campana. a r c h e o 77
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TABLInO STANZA 2
Originariamente aperto sul peristilio, ma poi chiuso e trasformato in stanza, il tablino della villa è ornato con una raffinata decorazione in Terzo stile, a fondo nero e con ricercati motivi miniaturistici, ispirati alla pittura dell’antico Egitto.
Gli ambienti residenziali, dove si sono concentrati i recenti lavori di restauro della Soprintendenza, sono affrescati con pitture prevalentemente di Secondo stile. Dall’atrio si entra nel tablino, originariamente aperto sul peristilio, ma poi chiuso e trasformato in stanza, impreziosito da una raffinata decorazione in Terzo stile, a fondo nero e con ricercati motivi miniaturistici direttamente ispirati alla pittura dell’antico Egitto, che tanto affascinò i nuovi conquistatori della terra dei faraoni. Dal soggiorno con esedra si accede, attraverso un passaggio laterale, alla sala del grande dipinto a tema dionisiaco, una delle meraviglie artistiche della città di Pompei. In origine questo ambiente era un oecus, collegato all’adiacente doppia alcova nuziale, e solo piú tardi assunse la destinazione di triclinio invernale. Il nome della villa si deve appunto agli
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doppia ALCOVA nuziale STANZA 4
Adiacente alla sala della Megalografia, vi è un cubicolo a doppia alcova, al cui interno si conservano, tra le altre, le figure di un Satiro danzante e di una sacerdotessa.
imponenti affreschi della sala, detta anche «della Megalografia» o «dei Misteri», per via del soggetto molto discusso e pervaso da una calma religiosa. La tesi piú seguita riconosce nella scena la rappresentazione di un rito legato a Dioniso, ispirata a un originale ellenistico datato fra il IV e il II secolo a.C.: forse l’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci (vedi box alle pp. 90-91). È noto dalle fonti antiche che, a chiunque partecipasse a culti di questo genere, fosse fatto divieto assoluto di lasciarsi sfuggire qualsiasi minima indiscrezione legata al rito. I Misteri passarono a Roma proprio dall’ambito campano ed etrusco e si svilupparono parallelamente alla religione ufficiale. Per via del a r c h e o 81
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CUBICoLo a doppia alcova STANZA 16
Alcune immagini della ricca decorazione di uno dei cubicoli a doppia alcova, giocata su una successione di finte architetture, nella quale si alternano colonne, archi e timpani rappresentati su un possente zoccolo. L’ambiente, pavimentato a mosaico, era uno dei piú eleganti della villa, ma cadde in disuso all’epoca delle ultime ristrutturazioni del complesso, tanto da essere trasformato in deposito di cipolle.
loro rapido successo presso i ceti abbienti dell’Italia meridionale, furono lungamente avversati dal Senato. Ma chi commissionò questo impegnativo ciclo di affreschi? Secondo alcuni studiosi proprio la facoltosa padrona della villa, che, per l’originale tematica dei dipinti, è stata perfino considerata una ministra del culto di Dioniso. Non sappiamo se l’ambiente ospitasse in principio anche riti iniziatici di questo genere, ma l’alcova nuziale attigua e dipendente dalla sala dipinta principale potrebbe essere un indizio a favore di questa ipotesi. L’unica certezza è che i proprietari della villa concepirono per questa sala un programma decorativo di straordinario rinnovamento, fortemente imbevuto di classicità greca.
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CUBIColo a doppia alcova STAnza 8 Un altro cubicolo a doppia alcova. Anche in questo caso la decorazione è costituita da finte architetture. Questo genere di composizioni fu elaborato nell’ambito del Primo stile pompeiano (202-80 a.C.), ma venne ulteriormente raffinato e arricchito nel Secondo stile (che si sviluppa tra l’80 a.C. e l’età augustea). La sua applicazione a Pompei, e nella Villa dei Misteri in particolare, ce ne ha lasciato attestazioni di qualità altissima. 84 a r c h e o
Le due foto documentano lo stato delle pitture prima (in basso) e dopo l’esecuzione degli interventi di restauro appena ultimati.
Le scene della megalografia occupano la fascia mediana della sala e poggiano su uno zoccolo decorato a finto marmo. Le figure, con la loro aulica imponenza, sono disposte a gruppi e sembrano essere state ritagliate, incollate e quasi private delle ombre. La particolaritĂ del soggetto ha fatto sĂ che archeologi, storici e restauratori si esprimessero su questo impianto decorativo, alcuni addirittu(segue a p. 88)
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SALA DElla megalografia La parete settentrionale della sala in cui si sviluppa il grande affresco a tema dionisiaco. A sinistra, subito dopo la piccola porta di collegamento con il cubicolo nuziale a doppia alcova (stanza 4; vedi alle pp. 80-81), si vede un primo gruppo di figure, composto da un bambino (Dioniso fanciullo?) che legge un testo e due donne.
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o dei misteri stanza 5 Nello spazio restante si succedono: una donna che porta offerte sacre (forse una focaccia di buon auspicio per i novelli sposi); la preparazione di un bagno rituale, che, secondo la tradizione, anticipava e seguiva il primo rapporto sessuale; un sileno che suona e canta; una panisca che allatta una cerbiatta; e, infine, una menade che assiste alla cerimonia.
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Le pitture della parete di fondo: un sileno impugna una coppa e offre da bere a un satiro alle sue spalle, mentre un secondo satiro innalza una maschera teatrale; al centro, Dioniso si abbandona sulla figura femminile seduta in trono (identificata con Arianna); la scena culmina, sulla destra, con lo svelamento della mystica vannus, la cesta mistica che contiene un fallo, simbolo di fecondità.
ra interpretando il podio illusionistico come una rappresentazione teatrale. In sintesi, si possono indicare per la cerimonia due spiegazioni principali, forse combacianti: potrebbe trattarsi di un rito iniziatico dionisiaco oppure dei preparativi per le nozze di una giovane altolocata. Come in una sequenza di fotogrammi, il grande fregio individua momenti diversi della cerimonia, che vede le figure impegnate in azioni sacre. 88 a r c h e o
Già dalla prima scena da sinistra, accanto alla porticina di collegamento con il cubicolo nuziale a doppia alcova, l’interpretazione del soggetto è alquanto controversa. Il primo gruppo è costituito da due donne e un bambino che legge un testo. Secondo alcuni studiosi, il bambino è da identificare con lo stesso Dioniso fanciullo intento nella lettura delle prescrizioni del rituale tra la madre Semele e la sorella Ino. Secondo Maiuri, invece,
si tratterebbe piuttosto di uno «dei giovinetti adibiti in funzione di sacerdoti fanciulli al servizio della divinità di Dioniso, iniziati anch’essi ai Misteri»; infine, lo storico Paul Veyne ritiene che si tratti del fratellino della giovane sposa, impegnato nella lettura dei classici, seguito dalla precettrice e affiancato dalla madre. A questa scena segue una giovane donna che porta offerte sacre e che transita tra la prima rappresentazione e la successiva: secondo una delle interpretazioni piú accreditate, saremmo di fronte all’offerta di una focaccia ai convitati, considerata di buon auspicio per i novelli sposi. Seguono altre donne, impegnate nella preparazione di un bagno rituale, che,
secondo la tradizione, anticipava e seguiva il primo rapporto sessuale. Un sileno che suona e canta precede poi una panisca (una originale versione romana di Pan al femminile), che offre il suo seno a una cerbiatta. Chiude la parete una menade in posizione dinamica che assiste al compimento della cerimonia. Il gruppo successivo, a sinistra della parete di fondo della stanza, ha stimolato l’ipotesi che l’affresco possa riprendere una rappresentazione teatrale, per la presenza di un sileno che impugna una coppa e offre da bere a un satiro alle sue spalle, mentre un secondo satiro innalza una maschera teatrale. Lo svolgimento del rito converge al (segue a p. 93)
Un particolare delle pitture della parete meridionale: la scena rappresenta la flagellazione rituale ed espiatoria di una donna colpita da un essere alato (vedi foto alla pagina accanto), mentre si china sul grembo di una compagna; accanto, una menade danza in preda all’esaltazione rituale.
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I riti dionisiaci Secondo la mitologia greca, Dioniso piantò la vite, inebriandosi della bevanda che da essa sgorgava. Peregrinava a cavallo di un asino, accompagnato da un corteo di animali feroci e figure fantastiche quali menadi, satiri e sileni, divenute poi rappresentative delle cerimonie in onore al dio. Il ruolo importante rivestito dai riti dionisiaci nell’antichità è stato messo in evidenza da Friedrich Nietzsche, nel saggio La nascita della Tragedia (1872): accanto alla spiritualità apollinea, caratterizzata da equilibrio e armonia, il filosofo tedesco sottolinea la funzione del lato dionisiaco, connesso ai
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comportamenti istintivi della vita e della creatività. Dioniso (il Bacco dei Romani) era quindi il dio dell’eccesso e dell’infrazione. Approvava la dissolutezza e favoriva la violenza. Amava il travestimento e la maschera, talvolta veniva addirittura rappresentato abbigliato da donna. Dominato dal caos, stravolgeva le leggi, ed era infatti l’unico, tra gli dèi dell’Olimpo, ad accettare la presenza di donne e schiavi durante le sue celebrazioni. Nel mondo greco la razionalità era una qualità che apparteneva principalmente al mondo maschile e a essa si contrapponeva l’irrazionalità,
rappresentata dal fenomeno femminile del menadismo. Alla figura di Dioniso si lega l’invenzione della tragedia, intrinsecamente legata alle manifestazioni dei suoi culti. Nei riti dionisiaci – caratterizzati dall’ebbrezza del vino, dalla musica, dalla danza –, satiri e baccanti, alter ego mitici degli adepti, raggiungevano uno stato di trance. L’esito del rito era anticamente collegato al ciclo vitale della vegetazione (della vendemmia in particolare) ed era il temporaneo ritorno dell’adepto a una condizione naturale e animalesca, di cui la caccia e lo sbranamento di un animale selvaggio erano il coronamento finale.
In alto: quadretto ad affresco con Dioniso e Arianna, dalla Casa di Marco Lucrezio Frontone. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: un momento dei restauri nella sala della Megalografia.
Nel mondo italico e romano la devozione a Bacco ha radici profonde e si accompagna alla diffusione dei «Baccanali», festività tramutate in veri e propri riti orgiastici. Il dio veniva invocato nelle cerimonie, e ai partecipanti era dato di evadere dalla realtà attraverso l’ebbrezza divina. In Campania il culto di Bacco-Dioniso ebbe una particolare diffusione. Nel 186 a.C. il Senato romano, per porre freno all’inarrestabile diffusione di queste manifestazioni di tipo misterico, estranee alla religione ufficiale di Stato e destabilizzanti l’ordine pubblico, emanò un’ordinanza, il Senatus consultum de Bacchanalibus, che di fatto ne vietava lo svolgimento. Il culto di Bacco era destinato a ogni modo a continuare, e Pompei ne ha restituito tracce significative sino alla sua distruzione. Una straordinaria testimonianza della complessità di tali riti e dell’intreccio stretto con quelli di Dioniso-Arianna o di Afrodite-Venere (per le cerimonie nuziali) è rappresentata dal ciclo degli affreschi del triclinio della Villa dei Misteri.
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I quattro stili della pittura Alla fine dell’Ottocento, i documenti pittorici restituiti dalle città vesuviane furono ordinati e classificati dall’archeologo tedesco August Mau (1840-1909), al quale dobbiamo la definizione dei quattro stili tuttora in uso nello studio di queste testimonianze. Primo stile. Il periodo compreso tra la fine della seconda guerra punica (202 a.C.) e la deduzione della colonia sillana (80 a.C.) corrisponde all’età del Primo stile (o «stile strutturale»), nato in Grecia come imitazione in stucco colorato, negli interni, della struttura muraria esterna in opera quadrata a bugnato. A Pompei questo schema prevede la suddivisione verticale della parete in tre zone (inferiore, mediana, superiore) alle quali corrisponde un ornato differente. Sopra uno zoccolo a fondo cromatico unico si stagliano elementi rettangolari (ortostati), sovrastati da bugne policrome. La decorazione della finta architettura in stucco della parete è completata da cornici aggettanti, al di sopra delle quali, in rari casi, può comparire un ulteriore ornato architettonico in stucco a rilievo. Secondo stile. Con la deduzione della colonia sillana (80 a.C.) fa la sua comparsa a Pompei un nuovo tipo di pittura parietale, il Secondo stile, impiegato fino all’epoca augustea (27 a.C.). In sostanza, viene riproposto illusionisticamente con la pittura ciò che lo
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stile precedente realizzava in rilievo, per cui la parete risulta scandita, con il pennello, da elementi architettonici che si dispongono su una finta superficie muraria policroma. Il piú antico edificio pompeiano in cui compare questo nuovo stile decorativo è il tempio di Giove, divenuto Capitolium, che presenta nei muri della cella un ornato con pannelli inquadrati da colonne ioniche, del tutto simili a quelle reali. Nell’edilizia privata un suggestivo esempio di questa illusionistica dilatazione delle pareti si trova nel cubicolo della Villa dei Misteri, in cui campeggia una complessa e articolata architettura in quattro piani sovrapposti. Rientrano nella pittura di Secondo stile anche le composizioni figurate, definite «megalographiae», termine con il quale si identificavano grandiosi affreschi e di soggetto aulico, mirabilmente attestate, anche in questo caso, nella Villa dei Misteri. Terzo stile. Nella prima età imperiale, da Augusto a Claudio (27 a.C.-54 d.C.), compare il Terzo stile, che si configura come una reazione agli schemi movimentati precedenti. L’illusione prospettica sparisce del tutto, a favore di una visione decorativa improntata all’equilibrio classico, in linea con la mentalità e la politica della casa regnante. La parete è chiusa da campi a fondo unito e la superficie, generalmente tripartita e ornata con quadri di ispirazione classica, scandita dagli elementi architettonici solo in senso verticale e nella parte superiore (Case di Marco Lucrezio Frontone e del Frutteto). Quarto stile. Intorno alla metà del I secolo d.C., nell’ultimo periodo di vita della città, si assiste a un cambiamento nel gusto pittorico con l’introduzione del Quarto stile, che caratterizza il passaggio all’età neroniana. La parete è decorata con larghi pannelli in serie costituiti da tappeti sospesi con gli orli ricamati da stoffa colorata, che evocano l’uso ellenistico di appendere arazzi figurati, inquadrati da esili architetture fantastiche particolarmente suggestive. Il repertorio figurativo e ornamentale diventa standardizzato e ripetitivo, denunciando una scadenza della qualità dovuta alla natura artigianale dei decoratori. Le pareti si affollano di piccoli quadretti, figure volanti, eroti, coppie mitiche convenzionali (Dioniso e Arianna, Marte e Venere) la cui finalità decorativa è unicamente quella di riempire gli spazi. In questo panorama di generale povertà espressiva, troviamo alcune eccezioni, come gli affreschi della Casa dei Vettii, in cui gli acculturati proprietari offrono allo spettatore un vero e proprio programma decorativo, di grande effetto scenografico. (red.)
In alto: i tecnici dell’Università di Kiel al lavoro nella sala della Megalografia. Nella pagina accanto: un momento della documentazione dello stato di conservazione delle pitture.
centro della parete di fondo, occupata da Dioniso che si abbandona mollemente sull’aggraziata figura femminile seduta in trono (purtroppo lacunosa), identificata con Arianna: un riferimento alle nozze fra i due protagonisti, simbolo della felicità ultraterrena che attende gli iniziati al culto. Uno studio recente riconosce invece nella figura femminile la dea Afrodite (Pappalardo), in quanto, avendo la donna un ruolo rilevante nella scena, sembrerebbe piú plausibile identificarla con una divinità.
subire la flagellazione per cacciare dal suo corpo l’onta della sterilità»: ipotesi che assimila in parte i Misteri ai Lupercalia, antichi rituali in cui le donne infeconde venivano fustigate. Sulle pareti ai lati dell’ingresso della sala trovano infine posto: da una parte, la scena della toeletta di una sposa dallo sguardo ammaliante, acconciata per il rito nuziale; dall’altra, il ritratto di una donna seduta e ammantata, forse proprio la domina alla quale suggestivamente si potrebbe attribuire la commissione del grande affresco dionisiaco. La rappresentazione simbolica delle sue nozze? La megalografia della Villa dei Misteri si dispiega in una scena di grande respiro e livello artistico, imbevuta di profondo significato liturgico e mistico. L’impostazione solenne delle immagini, che sommerge ogni aspetto puramente decorativo, è figlia di una dimensione allo stesso tempo reale e allegorica. Una vena di malinconia pervade le figure di questo affresco dai colori densi e spirituali e dal ritmo solenne, che costituisce uno dei migliori esiti della pittura romana infusa di arte ellenistica e anticipa soluzioni narrative che saranno proprie della pittura rinascimentale.
la cesta mistica Un momento significativo del culto è raggiunto con lo svelamento della mystica vannus (cesto mistico), tradotto con l’immagine di una giovane donna in atto di proteggere il contenuto di un paniere coperto da un panno, da identificare con il fallo simbolo della fecondità. La cerimonia continua con la flagellazione rituale ed espiatoria di una donna colpita da un essere femminile alato mentre si china sul grembo di una compagna; accanto, una menade nuda del corteggio danza vorticosamente in preda all’esaltazione rituale. Nei riti dionisiaci, secondo le fonti antiche, la fustigazione era intesa come mezzo catartico. Suggestiva è l’ipotesi di Maiuri, secondo la quale questa don- Alle ricerche bibliografiche hanno collaborato Fedena «è una giovane sposa infeconda che deve rica Pignata e Luciana Ranieri.
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Cronaca di un restauro di Stefano Vanacore e Giancarlo Napoli
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opo venti mesi di lavoro, è giunto a conclusione il restauro della Villa dei Misteri. Nel corso degli anni l’edificio è stato piú volte interessato da interventi parziali che hanno coinvolto alcune strutture architettoniche (copertura dell’atrio nel 1969; coperture del peristilio e del portico nord tra il 1973 e il 1974; restauri diffusi nel 1986) e superfici decorate (pavimenti nel 1981; sigillatura dei bordi e restauri degli affreschi tra il 1981 e il 1982). I recenti interventi, iniziati nel maggio del 2013 e finanziati con fondi ordinari della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, hanno interessato tutti gli apparati della villa, dai mosaici agli affreschi. I lavori sono stati preceduti da una puntuale campagna di indagini preliminari, volta all’identificazione e alla caratterizzazione dei materiali e delle tecniche pittoriche, della natura delle alterazioni cromatiche e delle incrostazioni prodottesi nel tempo. Un ruolo rilevante nei restauri è stato rico94 a r c h e o
perto da chimici, fisici e archeologi, che hanno contribuito in vario modo a migliorare la conoscenza dei manufatti, affiancando in ogni momento l’attività e la sensibilità del restauratore.
diagnosi e studio Il lavoro è cominciato con lo studio del manufatto antico, con il confronto nel tempo delle immagini dei decori, con le analisi diagnostiche finalizzate all’identificazione e alla caratterizzazione dei materiali e delle tecniche pittoriche. La diagnostica si è articolata in due fasi principali: la prima, mirata al campionamento degli strati pittorici, all’identificazione dei motivi del degrado e dello stato di salute degli strati preparatori; la seconda fase è stata invece dedicata quasi esclusivamente alla conoscenza delle tecniche di esecuzione del ciclo pittorico del triclinio, o sala dei Misteri. Alla campagna di diagnostica hanno collaborato il Dipartimento di Scienze chimiche e geologiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il
Operazioni di documentazione e controllo delle condizioni ambientali nella sala della Megalografia.
Dipartimento di Diagnostica per i Beni Culturali dell’Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli, la Christian-Albrechts Universität di Kiel (Germania) e il chimico Andrea Rossi. I risultati degli esami hanno consentito di definire gli elementi che compongono i dipinti, le malte utilizzate per gli strati preparatori, gli elementi costitutivi dei pigmenti e le tecniche di esecuzione.
Indagini non distruttive Sono state eseguite la termografia a infrarossi (IR), il GPR (Ground Penetrating Radar), misure a ultrasuoni, esame XRF, spettroscopia Raman. Si tratta di indagini non distruttive per identificare la qualità del pigmento, i distacchi e le crepe all’interno degli strati preparatori dei dipinti. IR, GPR e misurazioni a ultrasuoni hanno infatti diverse capacità di penetrazione e di risoluzione in profondità, che permettono la conoscenza dettagliata delle strutture indagate. Queste analisi hanno permesso di precisare il consolidamento degli strati preparatori e di non affidarne l’esito alla sensibilità delle mani del restauratore. Le indagini diagnostiche hanno inoltre consentito di analizzare il degrado dei decori e di identificare le soluzioni piú idonee per contenere o arrestare gli effetti dei processi di deterioramento. Sulle pitture murali è stata utilizzata la tecnicaVIL (Visible Induced Luminescence) per l’individuazione del blu egizio senza la necessità di prelievi di intonaci. Il prezioso pigmento è stato rilevato nel tablinio (ambiente egizio), dove fu ampiamente utilizzato per dipingere alcune porzioni delle vesti degli dèi e nelle colorazioni piú vivaci. Gli interventi di consolidamento hanno interessato tutti gli intonaci e i pavimenti con tessere, in cocciopesto e lavapesto. Sono state utilizzate malte idrauliche e piccole percentuali di copolimeri acrilici in acqua. Le lacune visibili sono state completamente integrate con stuccature di sacrificio, le quali nascondendo, in alcuni casi, la caotica tessitura muraria, hanno unito esteticamente i frammenti disgiunti e consolidato le porzioni di intonaco senza iniettare sostanze estranee, nonché assorbire l’eventuale umidità di risalita. All’epoca della scoperta della villa e allo stato delle conoscenze tecniche di allora sulla pittura pompeiana appartengono i consolidanti abbondantemente applicati sulla superficie
dipinta, aspetto che ha permesso di documentare l’uso frequente di paraffina mista a idrocarburi: la vecchia mistura «cera e benzina». Si sono contati sei strati di sovrapposizioni, e l’uso consistente di questo prodotto ha comunque salvaguardato la struttura superficiale dei dipinti determinando solo una patina brunastra da ossidatura. Un altro caso di degrado riscontrato è legato ai restauri precedenti: purtroppo l’uso massiccio di sostanze filmogene in aggiunta alle cere preesistenti e l’impiego di malte cementizie ricche di sali, hanno portato alla solfatazione della superficie, producendo distacchi di piccole e medie porzioni con perdita di pellicola pittorica. L’esperienza di cantiere porta alla consapevolezza dei limiti d’intervento in rapporto alle caratteristiche specifiche del manufatto. Per far fronte a problemi di conservazione relativi a specifiche sostanze sovrapposte, il restauratore deve indirizzarsi verso soluzioni alternative con consapevolezza e coraggio. Gli interventi sono stati mirati principalmente alla conservazione delle pitture, per cui si sono mantenuti gli ultimi strati di cera, i quali garantiscono nel tempo una buona aderenza dei pigmenti decoesi al supporto e, allo stesso tempo, lo difendono da solfatazione da malta. Si è inoltre sperimentata la pulitura con metodo laser delle alterazioni e dei depositi sulla superficie parietale.
tradizione e innovazione Questa tecnica – caratterizzata da elevata precisione, selettività e minimo impatto sull’opera d’arte – è di recente impiego sulle superfici policrome, e rappresenta il campo d’applicazione piú delicato. Per la prima volta il laser è stato utilizzato su affreschi pompeiani, con risultati soddisfacenti. È stato un valido complemento alla pulitura chimica e meccanica. La pulitura tradizionale, finalizzata alla rimozione di strati superficiali di cera, è stata realizzata con sostanze assorbenti e solventi, oltre a impacchi localizzati in piccole porzioni per la rimozione di ri-carbonatazioni. Rilievo è stato dato anche all’uso del laser-scanner: tale intervento ha permesso di documentare lo stato delle strutture con preciso e costante monitoraggio dei lavori. I restauri, portati a termine non senza difficoltà tecniche, hanno imposto un’attenzione continua sul manufatto, confronti serrati su a r c h e o 95
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A sinistra: un momento dell’intervento che ha interessato i mosaici. Sulle due pagine: la documentazione fotografica della residenza si è avvalsa anche dell’uso di un drone. A destra: operazioni di pulitura sulle pitture.
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metodologie e materiali da utilizzare, continue scelte tese ad affrontare nuove sfide conservative. Etica, scienza e metodo sono sinergie per un buon restauro, alla base del quale resta comunque la passione, vero atto d’amore per Pompei. I restauri della Villa dei Misteri sono stati finanziati con fondi ordinari della Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia: Massimo Osanna, soprintendente; Grete Stefani, responsabile del procedimento; Stefano Vanacore, direttore dei lavori; Manuela Valentini, direttore operativo. I lavori sono stati eseguiti dalla ditta Atramentum: Giancarlo Napoli, responsabile tecnico; Monica Manzo e Massimo Manfellotto, direttori di cantiere; hanno partecipato, con varie mansioni, Antimo Muccio, Massimo De Maio, Francesco Santarpia, Ferdinando Mandara, Nicola Ruggiero, Carlo Tortorella, Samyr Moukrim, Alberto Picariello, Angelo Carotenuto, Maria Moscarelli, Solin Pirvulescu, Loretta Petrella, Elena Pencheva Laleva e Peter Georgiev Pelov. Inoltre: Antonio De Simone e Umberto Pappalardo, consulenti archeologi; Andrea Rossi, chimico; Pietro Baraldi (Università di Modena e Reggio Emilia), Giorgio Trojsi (Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa» di Napoli), Kristin Burmeister, Sandra Christen, Luigia Cristiano, Ercan Erkul, Annika Fediuk, Thomas Meier, Detlef Schulte-Kortnack e Manfred Wenk (ChristianAlbrechts Universität zu Kiel). Rilievo laserscanner di Edoardo Fiorillo (Trimble Italia) e Benecon s.c.a.r.l.; progetto esecutivo Officina del restauro di Francesco Esposito.
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il mestiere dell’archeologo Daniele Manacorda
Da Mosul al Foro Romano e ritorno È lecito paragonare la furia dell’estremismo islamico ai danni del patrimonio archeologico del vicino oriente con l’accanimento dei primi cristiani nei confronti delle immagini che raffiguravano gli dèi pagani?
A
bbiamo ancora negli occhi, e purtroppo non è la prima volta che accade, le immagini disgustose di un branco di invasati che si accanisce con ostentata violenza sulle statue del Museo Archeologico di Mosul, in Iraq. Quelle sculture sarebbero «colpevoli» di raffigurare immagini di idoli pagani agli occhi di chi dimostra, peraltro, di non avere remore a rappresentare se stesso nell’area mediatica globale nell’atto di compiere quel misfatto insensato. Una simile violenza non ha nulla a che vedere con i gesti dei folli, che periodicamente si autoesaltano prendendo a martellate la Pietà di Michelangelo o imbrattando di vernice qualche celebre tela. Prima ancora che della polvere delle pietre, le mani di Mosul sono purtroppo imbrattate del sangue di migliaia di persone sacrificate sull’altare di una perversione mentale, dalla quale il nostro
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Qui sotto: statua in marmo bianco del cavallo denominato C, facente parte del gruppo dei Dioscuri rinvenuto nel Lacus Iuturnae, nel Foro Romano. II sec. a.C. Roma, Antiquarium Forense. In basso: fotogrammi del video in cui alcuni militanti dell’ISIS distruggono le statue del Museo di Mosul.
tempo non ha saputo proteggerci. Fa troppo male parlare di quelle distruzioni, che si accompagnano non solo al disprezzo per la cultura, ma allo stesso rispetto per la vita. Quelle immagini diffuse nella rete vogliono essere un pugno nello stomaco, che
provochi sgomento in chi lo subisce, ma sono accompagnate dal ribrezzo per la miseria umana in cui questi osceni episodi si inseriscono. L’archeologo, quindi, non piange tanto sui monumenti distrutti, come se solo di quelli
dovesse interessarsi, quanto sulla furia omicida che li accompagna, perché riconosce nei due gesti la disumanità che li accomuna e l’ignoranza che produce l’una e l’altra forma di violenza. E cerca «conforto» nella storia; perché la storia è conoscenza, è consapevolezza di sé, è capacità di capire il mondo, quello passato per spiegare ciò che è avvenuto, e quello contemporaneo per dare un senso (non per giustificare!) a un presente che sembra non averne e a un futuro, che ci spaventa. Fa male parlarne, e per questo, giorni fa, ho preferito chiudere i giornali e andare a visitare la mostra organizzata nel Foro Romano, nel cosiddetto Tempio di Romolo, che ricostruisce il contesto dei rinvenimenti effettuati (in particolare all’inizio del Novecento) nel Lacus Iuturnae. Quell’antica fonte ospitava un bacino di marmo nel quale furono ritrovate varie sculture, tra cui il celebre gruppo dei Dioscuri con i loro due cavalli.
furia iconoclasta Ciò che resta delle statue è stato ricomposto per quanto possibile, data l’estrema frammentarietà in cui Giacomo Boni le recuperò svuotando il celebre bacino. Le figure di Castore e Polluce, cosí come quelle dei loro divini destrieri, erano state «sfigurate», volutamente spaccate e triturate, prese a martellate come le statue di Mosul, perché perdessero non solo la loro funzione cultuale, ma anche la forza comunicativa che gli stessi loro distruttori non potevano non vedere (e di qui la loro paura e la loro condanna). Gli scavi di oltre un secolo fa ci impediscono di analizzare il contesto di quella distruzione – che possiamo genericamente collocare nei secoli della tarda antichità –, ma che qui si
Un altro elemento del gruppo dei Dioscuri, il torso B. II sec. a.C. La distruzione dell’opera si consumò nella tarda antichità, nell’ambito della lotta agli «idoli pagani». propone come uno fra i possibili esempi di una delle stagioni piú cupe della storia dell’Occidente: la deliberata distruzione della cultura del mondo antico da parte del cristianesimo trionfante attraverso la polverizzazione del suo patrimonio di immagini, affidato alle piú alte espressioni dell’arte come alle piú quotidiane manifestazioni dell’artigianato.
fede e fanatismo Non c’è sito del mondo compreso un tempo nei confini dell’impero romano che non abbia restituito in abbondanza le tracce di quelle vaste distruzioni dei cosiddetti «idoli» pagani, che le orde fanatiche delle comunità cristiane, ormai assurte ai vertici del potere politico, hanno perseguito con assai maggior pervicacia ed efficienza rispetto alle persecuzioni di cui i primi cristiani erano stati a loro volta vittime. Ma le persecuzioni che periodicamente si riaccendevano in questa o quella parte dell’impero nei confronti di comunità che, in nome della loro nuova fede, si rifiutavano di riconoscere l’autorità imperiale, erano dure e a volte durissime persecuzioni politiche. Quelle riversate dai cristiani verso i pagani, e i loro luoghi di culto, furono persecuzioni altrettanto politiche, ma fatte in nome di principi religiosi. E questa fu la grande differenza, che marcò una svolta lacerante nella nostra storia. Là dove la potenza militare di Roma si manifestava, in grazia del suo politeismo, con una diffusa tolleranza verso i culti delle genti sottomesse (delle quali spesso si
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assumevano gli stessi dèi, con un atteggiamento di curiosità e al tempo stesso di inclusione), l’integralismo cristiano, in forza del suo monoteismo, si manifestava invece con la violenza di chi si attribuiva il diritto di agire «in nome di Dio» («ce lo ha ordinato Allah», urlano i carnefici dell’ISIS, «Dio è con noi» gridavano i nazisti nei loro roghi di libri), usando la religione come una clava (in barba al Vangelo) e come una autogiustificazione dei crimini piú orrendi. Nelle lunghe vicende che nella tarda antichità portarono dalla
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A sinistra: il puteale del pozzo della fonte di Giuturna. Reca due iscrizioni che ricordano il magistrato Marcus Barbatius Pollio (I sec. a.C.). Nella pagina accanto, a sinistra: il Tempio di Romolo, sede della mostra sul Lacus Iuturnae; a destra: statua acefala di Apollo, che, con i Dioscuri, era collocata nel Lacus Iuturnae. Età adrianeo-antonina, I-II sec. d.C.
civiltà classica a quella che chiamiamo sbrigativamente «civiltà medievale», le distruzioni dei templi e delle statue dei culti precristiani rappresentano un percorso che ci aiuta a capire anche alcuni aspetti delle «inconcepibili» vicende del presente. Nel 392, ad Alessandria d’Egitto, quando il patriarca Teofilo guidò le sue milizie alla distruzione del grande Serapeo, la statua dell’antico dio (opera di uno dei massimi scultori della Grecia classica) venne decapitata come un nemico in carne e ossa, in omaggio agli editti con i quali l’imperatore cristiano Teodosio aveva prima vietato la libera professione dei culti pagani e poi avviato la distruzione violenta dei loro templi e dei loro simulacri.
libertà di culto La violenza omicida perpetrata «legalmente» sulle pietre (e accompagnata da stragi di persone) segnò allora il punto di arrivo di un processo avviato all’inizio del IV secolo con l’editto di tolleranza di Costantino. Quell’atto, infatti, dava non solo ai cristiani, ma a tutti gli abitanti dell’impero, la libera facoltà di «dedicare la mente» al culto cristiano o alla religione che ciascuno sentiva piú conforme a sé. Per concedere finalmente la libertà di culto ai cristiani, quell’atto si muoveva dunque nella lunga tollerante tradizione politeistica dell’impero. Meno di un secolo dopo, gli editti degli imperatori cristiani imposero «alle menti» dei sudditi idee e comportamenti: le menti dei cittadini dell’impero, la cui libertà era stata proclamata da Costantino, sono ormai soggette al potere politico. La storia ci dice che avvenne allora la definitiva rottura tra il mondo antico, politeista e perciò piú tollerante, e quello che sarebbe poi stato chiamato mondo medievale, monoteista e perciò piú intollerante, che troveremo
impegnato per secoli in roghi di «eretici», crociate contro «infedeli» e guerre di religione fratricide. Certo, le statue sono state prese a martellate anche per altri motivi, «piú prosaici»: per esempio, per farne calce. Quelle distruzioni, che hanno segnato il nostro Rinascimento, non sono molto diverse da certi abusivismi edilizi che distruggono il paesaggio in nome di un immediato tornaconto personale. La costruzione abusiva sulla spiaggia ignora l’armonia del contesto che distrugge, il calcararo che calcola la quantità di marmi necessari per la sua infornata non si domanda chi avesse scolpito quelle vecchie statue e perché; cosí come un genio dell’arte barocca quale fu Bernini non trovava affatto scandaloso abbattere il sepolcro di Cecilia Metella per erigere con le sue pietre la mostra della nuova Acqua Vergine. Attenzione: le vicende odierne e quelle di un lontano passato hanno alle spalle situazioni storiche talmente diverse, che non possono
essere messe superficialmente a confronto. Lo sguardo nel tempo ci dice, però, che i monaci di Alessandria al seguito di Teofilo e i barbuti martellatori di oggi percepiscono, seppur confusamente, il senso delle pietre che distruggono (e si accaniscono, infatti, anche sui siti archeologici, non solo sulle statue): percepiscono che i segni della storia ci ammoniscono che non esistono Verità con la lettera maiuscola affermate una volta per sempre e fuori del tempo. I segni della storia ci ricordano, infatti, che il loro senso sta tutto nelle relazioni che riusciamo a stabilire con il passato, non per ripercorrerlo, ma per trarne la consapevolezza del presente. Per questo, a volte diciamo che il patrimonio archeologico non ha un valore in sé, ma possiede un grande valore di relazione, poiché ci permette di capire chi siamo e da dove veniamo, e forse può aiutarci a capire almeno dove non vogliamo andare.
dove e quando «Lacus Iuturnae. La fontana sacra del Foro Romano» Roma, Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20 settembre Orario fino al 31 ago: tutti i giorni, 8,30-18,15; dal 1° al 20 settembre: tutti i giorni, 8,30-18,00; chiuso il 1° maggio Info tel. 06 39967700; www.coopculture.it
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Quando l’antica Roma… Romolo A. Staccioli
…fece dell’Arabia una provincia dell’impero intensi furono i rapporti (e non di rado gli scontri) tra roma e le regioni vicino-orientali. una vicenda vissuta a fasi alterne, fin da quando, nel I secolo a.c., pompeo assoggettò le terre dei nabatei
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li Arabi entrarono per la prima volta in contatto diretto con i Romani al tempo delle «campagne asiatiche» di Pompeo che, nel 63 a.C., portarono alla conquista della Siria e della Palestina. Si trattò, in particolare, dei Nabatei stanziati nel territorio immediatamente adiacente a quello delle due regioni sottomesse, genti che, già nel corso
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del V secolo a.C., da nomadi divenuti sedentari, avevano affermato la loro presenza a spese degli Edomiti (dai quali «ereditarono» un precario e conflittuale rapporto col mondo ebraico). Organizzatisi in un forte regno con capitale Petra – donde la denominazione di Arabia Petrea, data alla loro regione – avevano
raggiunto una notevole prosperità grazie alla loro situazione strategica sulle rotte commerciali tra l’Oriente e la Penisola Arabica e i porti del Mediterraneo orientale, difendendo con successo la propria indipendenza dalla Siria e dall’Egitto. Nel I secolo a.C. avevano raggiunto la massima espansione e i legati di Pompeo si limitarono a
condurre contro di loro azioni «dimostrative», che convinsero il sovrano Areta III a fare del suo regno uno Stato «cliente» di Roma. I Nabatei seppero barcamenarsi nel conflitto tra Cesare e Pompeo, poi furono con Antonio, che incluse il loro regno nelle terre da lui «donate» a Cleopatra (e fu verso le coste arabe del Mar Rosso che l’ex regina d’Egitto tentò un’inutile fuga dopo la sconfitta di Azio). Augusto preferí andare oltre di essi rivolgendosi ai piú lontani Sabei, i quali, nell’angolo sud-orientale della Penisola Arabica, controllavano, a loro volta, la «via dell’incenso» (delle spezie e dei profumi) attraverso le rotte marittime tra l’India (e forse la Cina) e l’attuale Yemen. La spedizione militare che nel 26 a.C. venne affidata al governatore dell’Egitto, Elio Gallo, nel Paese chiamato Arabia Felix, non ebbe successo. Ma, nelle sue Res gestae, l’imperatore, menzionandola (insieme a quella condotta pressoché contemporaneamente da Caio Petronio in Etiopia), ricorda che essa si spinse fino alla capitale Marib (nell’odierno Yemen) e che «in entrambe le spedizioni (...) una gran quantità di genti ostili venne uccisa in combattimento e molte città conquistate». I Romani riuscirono, comunque, a mantenere una certa presenza nelle acque del golfo di Aden, attraverso le vie diplomatiche. Le stesse che continuarono a praticare per tutto il I secolo della nostra era con il regno nabateo, mentre Petra diventava una importante e ricca città cosmopolita, punto di riferimento commerciale di prima grandezza. A testimoniarlo restano alcuni dei piú significativi monumenti della città, perlopiú «rupestri», tra i quali, in primo luogo, quello celebre detto el-Khazne («Il Tesoro»). Reparti di «ausiliari» arabi fecero piú volte parte dell’esercito romano, come quello che combatté a fianco delle
All’inizio del II secolo il regno nabateo venne annesso all’impero romano. L’anno 105 d.C. Traiano affidò l’operazione al governatore della Siria, Aulo Cornelio Palma, il quale, deposto il re Rabel II, sistemò il territorio a provincia col nome di Arabia. Anche se al legato imperiale vennero concessi gli ornamenta triumphalia, tutto dovette svolgersi in maniera sostanzialmente pacifica. Senza alcuna delle campagne militari di cui i Traiano fu condottiero invincibile. Lo dimostrano, tra l’altro, la mancata assunzione, da parte dello stesso Traiano, del cognomen ex virtute, o titolo onorifico, di Arabicus (come fu invece per quelli di Germanicus, Dacicus, Parthicus) e l’espressione
Arabia adquisita che compare sulle monete commemorative, a fronte di quelle come Parthia capta o Armenia et Mesopotamia in potestate P(opuli) R(omani) redactae, che sottolineano la conquista militare. Il territorio della nuova provincia occupava una stretta fascia tra il Giordano e il Mar Morto e il deserto. A nord arrivava alla Palmirene, a sud comprendeva il Negev e il Sinai. Dalla Siria gli furono trasferite le città di Gerasa e di Philadelphia (l’odierna Amman) e come capitale fu scelta Bostra, «ribattezzata» Nea Traiana Bostra, dove fu stanziata la legione III Cyrenaica, fatta arrivare dall’Egitto. Ciò segnò il declino di Petra (che pure il successore di Traiano, Adriano, insigní del titolo di metropoli), mentre a nord di essa prendeva il sopravvento, dal punto di visto commerciale, la sua «concorrente» Palmira. Al tempo di Settimio Severo, nel 195 d.C., con la nuova sistemazione della provincia di Siria, all’Arabia fu annesso il territorio dell’Auranitide, con la città di Qanatha (mentre
Nella pagina accanto: l’ed-Deir («il Monastero»), forse un mausoleo commemorativo dedicato al re Oboda I o all’ultimo re nabateo, Rabbel II.
Qui sopra: Qanatha (oggi Qanawat, Siria). Particolare di un mosaico raffigurante Carite (una delle Grazie) che rimprovera la dea Afrodite.
legioni di Vespasiano e Tito nella guerra giudaica che, nel 70 d.C., portò alla conquista romana di Gerusalemme, mentre lapidi funerarie di militari arabi sono state ritrovate in Germania, lungo il confine del Reno.
un’annessione pacifica
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l’imperatore, avendo sottomesso gli Arabi della Mesopotamia e dell’Adiabene, assumeva il titolo di Arabicus testimoniato dall’iscrizione dedicatoria del suo arco nel Foro Romano).
figlio dello «sceicco» Alla metà del III secolo un nativo della provincia – Filippo, detto, per l’appunto, «l’Arabo» – arrivò a sedere sul trono di Roma. Marco Giulio Vero Filippo, era figlio dello «sceicco» Giulio Marino, appartenente a una famiglia che aveva avuto la cittadinanza romana da un imperatore (imprecisato) della casa giulia. Appartenente all’ordine equestre, Filippo fu quello che oggi si direbbe un «ufficiale di carriera». Al tempo di Gordiano III divenne luogotenente del prefetto del pretorio Timesiteo e nel 243 d.C. gli succedette, tanto rapidamente dopo la morte da destare qualche sospetto di averne ordito l’uccisione. Nel febbraio del 244, quando le truppe, impegnate nella guerra contro i Persiani si ribellarono al giovane Gordiano, anche per sua istigazione, Filippo fu acclamato imperatore, ottenendo subito la ratifica del Senato. Conclusa vantaggiosamente la pace con i Persiani (tanto da ritenersi autorizzato a fregiarsi del titolo di Persicus Maximus) e sistemate le cose d’Oriente lasciandovi come «supergovernatore» con l’inconsueto titolo di Rector Orientis, il fratello Giulio Prisco, tra il 246 e il 247 Filippo s’impegnò a respingere con successo i Carpi sul confine danubiano, derivandone il titolo di Carpicus Maximus. Quindi rientrò a Roma dove, il 21 aprile del 248 (con un anno di ritardo rispetto alla data tradizionale fissata dal computo varroniano al 753 a.C. ), poté celebrare solennemente i primi mille anni della fondazione dell’Urbe. La ricorrenza fu sottolineata da una speciale e
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fastosa edizione dei Ludi Saeculares e da spettacoli eccezionali, nel Colosseo e al Circo Massimo, per i quali Filippo destinò, tra l’altro, uomini e animali che erano stati portati a Roma per il suo trionfo: 2000 gladiatori, 32 elefanti, 60 tra leoni, tigri e leopardi e ippopotami e una quantità di altri esemplari rari ed esotici quale non era stata mai vista. Intanto, quando già in diverse parti dell’impero scoppiavano rivolte e tentativi di secessione e di usurpazione, veniva designato alla successione il figlio Giulio Severo Filippo, insignito del titolo di Caesar e, subito dopo, associato al trono, quello di Augustus (mentre il titolo di Augusta veniva attribuito alla moglie dell’imperatore, Otacilia Severa). Alla fine dello stesso anno, le legioni che sul Danubio erano impegnate a respingere un’ennesima incursione dei Goti acclamarono imperatore il loro generale vittorioso Gaio Messio Decio. Filippo decise di andargli contro, ma, nel settembre del 249, nella battaglia campale combattuta presso Verona fu sconfitto e ucciso (mentre i pretoriani eliminavano il figlio). Finiva cosí l’imperatore venuto dall’Arabia che, se fosse vera la notizia riferita da Eusebio il quale lo voleva figlio di genitori cristiani ed egli stesso seguace della nuova religione – verso la quale si mostrò, in ogni caso,
Naqsh-i-Rustam (Iran). Particolare del rilievo raffigurante il trionfo del re di Persia Shapur I sugli imperatori romani Valeriano e Filippo l’Arabo. tollerante – sarebbe da annoverare come il primo imperatore cristiano, con largo anticipo su quelli del IV secolo. Lasciava a sua memoria il nome di Philippopolis dato alla città d’origine della sua famiglia, elevata al rango di «colonia».
san paolo in arabia A proposito di cristianesimo, si può ricordare che l’Arabia, dove da tempo erano presenti insediamenti ebraici, fu «visitata» da san Paolo, mentre negli Atti degli Apostoli si parla anche di Arabi che ascoltarono il primo annuncio del Vangelo. Ancora Eusebio scrive di rapporti tra i cristiani d’Arabia e quelli di Roma. Le principali città della provincia ebbero i propri vescovi e Bostra divenne sede metropolita del «vescovo dell’Arabia». L’ultima importante novità si ebbe con Diocleziano. Questi, infatti, come altrove, divise l’Arabia in due: rimase provincia Arabia, con Bostra, la parte settentrionale, fertile e densamente popolata; divenne provincia Palaestina Salutaris (o tertia), con Petra, la parte meridionale prevalentemente desertica. Cosí, fino alla fine del mondo antico.
a volte ritornano Flavio Russo
altalene che danno la vita già in età preistorica l’uomo si industriò per mettere a punto «macchine» destinate all’approvvigionamento idrico. nacque cosí lo shaduf, i cui «nipoti» ancora oggi assicurano la fornitura di un bene non meno prezioso dell’acqua...
A
gli albori della storia nel paesaggio mesopotamico, il monotono e cigolante saliscendi dei bilancieri per il prelievo dell’acqua,
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piú noti come shaduf, scandí il debutto delle macchine destinate ad alleviare la fatica quotidiana. Congegni elementari, ma talmente
efficaci da non essere piú dismessi, tanto che tuttora se ne incontrano gli estremi epigoni in funzione lungo il Tigri, l’Eufrate e il Nilo.
E in quel medesimo paesaggio oggi oscillano altri enormi bilancieri, chiamati pumpjack, sempre in moto per sollevare non piú acqua, ma petrolio. Per elargire il suo apporto, come avverrà poi anche con l’«oro nero», l’acqua doveva innalzarsi: un compito gravoso e ininterrotto, che stimolò l’invenzione dello shaduf, subito diffusosi in tutte le civiltà fluviali e tramandatoci già sui rilievi del III millennio a.C.
Un congegno elementare Facile da comprendere e da costruire, esso richiedeva soltanto alcune rozze pertiche, un po’ di corda e una grossa pietra, componenti reperibili in abbondanza e gratuitamente ovunque. In pratica, su uno o due pali infissi nel suolo verticalmente e fungenti da fulcro, era posta una stanga lunga e libera di oscillare dal basso verso l’alto. Le sue due parti, altrettanti bracci di rado uguali, recavano, all’estremità della maggiore, la fune con il contenitore per l’acqua, e, all’opposta, una pietra di peso adeguato. Quest’ultima veniva scelta avendo cura che, allorquando il contenitore fosse pieno (20-30 litri circa), la stanga si trovasse a sua volta in equilibrio; bastava perciò un minimo sforzo per sollevarla di un paio di metri, fino alla quota del terreno. Quel che si guadagnava alzandola, si perdeva abbassandola, poiché occorreva sollevare la pietra: il vantaggio consisteva pertanto nel rendere piú lieve, anche se piú prolungata, la fatica; un esito che, in ogni caso, permetteva anche alle donne di compiere quel lavoro, garantendo un prelievo di 3000 litri circa al giorno. Nei casi in cui il dislivello eccedeva i 2-3 m, gli shaduf venivano disposti in serie, uno sopra l’altro e in posizione arretrata, completati da altrettante vasche intermedie di scambio. Al pari dell’acqua, in quelle stesse
regioni e, piú in generale, nell’intero Vicino Oriente, anche il petrolio, per essere estratto, va innanzitutto sollevato, e non di un paio di metri appena, ma, spesso, di un paio di miglia, quando non oltre! Per simili profondità, le normali pompe risultano inefficaci – anche a voler trascurare le difficoltà derivanti dalla vischiosità del petrolio greggio –, poiché dovrebbero essere posizionate sul fondo del pozzo di prelievo e perciò di ridotto ingombro e alimentate con un lunghissimo cavo elettrico.
dal legno all’acciaio Per avere un’idea delle grandezze in gioco, il sollevamento del petrolio da un pozzo profondo 2000 m dentro un tubo di soli 12 cm di diametro richiede una forza di 2 tonnellate! Non deve stupire, pertanto, che la soluzione escogitata, consapevolmente o meno, si ispirò all’antico shaduf, trasformandone il tradizionale contenitore in una sorta di secchia metallica, un lungo stantuffo munito alla base di un’apposita valvola. Calandolo con un cavo d’acciaio, e, piú spesso, con
In alto: una pumpjack al lavoro in un campo petrolifero del Vicino Oriente Nella pagina accanto: stampa che raffigura una batteria di shaduf in azione in Egitto. un’asta, anch’essa in acciaio, in prossimità del fondo del pozzo la valvola si apre (per la differente pressione fra il suo interno e l’esterno), facendolo riempire, e lo richiude un istante dopo, appena inizia il sollevamento, che peraltro non eccede i 2-3 m. Il moto ascendente dello stantuffo si estende allora all’intera colonna sovrastante di petrolio che, per conseguenza, tracima dalla bocca del pozzo. Al pari dello shaduf, ogni sollevamento, sebbene sia prodotto da poderosi motori e non piú da scarne braccia, fornisce dai 20 ai 40 litri. L’acqua che, per mezzo degli shaduf, irrigava gli aridi campi mesopotamici, mettendoli in condizione di garantire raccolti che fornivano l’apporto energetico per la vita all’epoca, trova cosí un corrispettivo nel petrolio, che, grazie alle moderne pumpjack, assicura gran parte dell’energia che utilizziamo ogni giorno.
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scavare il medioevo Andrea Augenti
l’architetto che «visse» nell’età di mezzo autodidatta di genio, eugène-emmanuel viollet-le-duc dedicò l’intera esistenza allo studio e al restauro dei monumenti francesi. con un approccio oggi in parte superato, ma che, comunque, ne fa uno dei «padri» dell’archeologia medievale
L’
archeologia medievale è una disciplina relativamente giovane: ha iniziato ad affermarsi, infatti, negli anni Settanta del Novecento. Le sue origini sono però molto piú antiche: nel corso del XIX secolo si contano molti scavi relativi a siti dell’età di Mezzo (anche se di una vera e propria archeologia medievale a quei tempi non si parlava ancora, se non sporadicamente). La disciplina può inoltre vantare alcuni padri illustri, uno dei quali è senz’altro il francese Eugène-Emmanuel Viollet-le Duc (1814-1879). La sua è una vicenda per molti aspetti singolare: architetto autodidatta, non volle mai frequentare corsi universitari, ma esercitò un’enorme influenza nel suo settore, e molto a lungo. Il suo approccio era del tutto diverso, e personale; al centro della sua formazione poneva i viaggi, lunghe peregrinazioni attraverso le regioni della Francia, per studiare e disegnare, documentare i monumenti del Medioevo, dai piú famosi ai piú sconosciuti. Negli anni dedicati a questa pratica Viollet-le-Duc accumulò un sapere tecnico davvero notevole, e una conoscenza altrettanto invidiabile: probabilmente nessuno ha mai studiato i resti materiali del Medioevo in maniera cosí estesa e al tempo stesso approfondita quanto lui. Tutto questo confluí
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Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879). Formatosi negli ambienti parigini romantici e antiaccademici, iniziò nel 1838 un’intensa attività, dedicata, a livello sia operativo sia teorico, al restauro «interpretativo» di complessi monumentali medievali.
nelle sue due opere principali, il Dizionario ragionato dell’architettura francese dall’XI al XVI secolo (9 volumi in tutto, pubblicati tra il 1854 e 1868) e il Dizionario ragionato dei reperti dall’epoca carolingia al Rinascimento (1858-1874, in 7 volumi).
una vita per il restauro Molto giovane, all’età di 26 anni, Viollet-le-Duc fu incaricato dallo scrittore Prosper Mérimée (proprio lui, l’autore del racconto da cui fu tratta la Carmen di Bizet, a quel tempo a capo della Commissione dei Monumenti Storici), del restauro della chiesa di S. Maddalena a Vézelay, uno dei capolavori del romanico francese. Comincia qui la carriera di architetto-restauratore per Viollet-le-Duc, un’attività alla quale si dedicò per tutta la vita; tra i suoi restauri piú importanti vanno ricordati quelli di monumenti come la cattedrale di Notre-Dame a Parigi, la cinta muraria della città di Carcassonne e molti altri. Ma allora, in che senso possiamo dire che Viollet-le-Duc è stato un padre fondatore dell’archeologia medievale? Innanzitutto per il suo enorme interesse analitico ed enciclopedico per il Medioevo, che
lo portava a documentarsi in modo davvero minuzioso su ogni dettaglio architettonico (e non solo) prima di intraprendere una nuova campagna di restauri. Questo interesse era animato da un pensiero di natura archeologica: occorreva comprendere l’intera storia del monumento, le sue vicende attraverso i secoli, comprese le dinamiche del suo disfacimento, anche attraverso lo scavo. Basta leggere questo passo: «Quando si tratta di completare un edificio caduto in rovina, prima di cominciare bisogna scavare tutto, riunire i piú piccoli frammenti, avendo cura di constatare il punto in cui sono stati scoperti, e mettersi all’opera solo quando tutti questi resti hanno trovato la loro logica destinazione, come i pezzi di un gioco di pazienza (…) Persino la maniera in cui questi frammenti si sono comportati cadendo è spesso un’indicazione del posto che essi occupavano. In questi casi l’architetto deve dunque essere presente negli scavi e affidarli a scavatori intelligenti». Successivamente, Viollet-le-Duc spinse oltre le sue tesi sul restauro, arrivando a teorizzare che «Restaurare un edificio non è
smantellarlo, ripararlo o rifarlo, vuol dire ristabilirlo in uno stato completo che può anche non essere mai esistito». È il pensiero alla radice del suo ultimo modo di restaurare (quello adottato nell’intervento sul castello di Pierrefonds, per esempio): il monumento deve essere «ripulito» di tutte le aggiunte successive, che ne impediscono una piena comprensione.
tornare alle origini È il cosiddetto «restauro interpretativo», una concezione alla quale Viollet-le-Duc arriva grazie alla sua profondissima conoscenza del Medioevo e delle sue costruzioni. In altre parole: il restauratore deve farsi «architetto medievale», quasi che il monumento l’abbia concepito egli stesso; e agire di conseguenza, facendo tornare il monumento al suo stato originario. Oggi ragioniamo in maniera molto diversa, e guardiamo ai monumenti come la somma di tutti gli interventi che li hanno modificati nel corso del tempo. Ogni intervento è una pagina di storia, e nessuno ritiene piú che sia lecito distruggerla in nome della ricostituzione di una «purezza originaria» del
Veduta della città di Carcassonne, lato est, prima e dopo il restauro, disegno alla mina di piombo e acquerello di Eugène-Emmauel Viollet-le-Duc. 1853. Parigi, Direction du Patrimoine. Nella città della Linguadoca l’architetto francese condusse alcuni dei suoi interventi di restauro piú estesi e significativi. monumento. Ma l’opera e il pensiero di Viollet-le-Duc restano comunque una pietra miliare. Se una delle anime che hanno dato vita all’archeologia medievale è sicuramente l’archeologia dei monumenti, lo studioso francese ne è sicuramente uno dei fondatori. Di piú: il suo lavoro si colloca in quella zona di intersezione tra archeologia e restauro che è una delle applicazioni di ciò che chiamiamo «archeologia dell’architettura», una branca molto praticata dell’archeologia medievale. Come già faceva Viollet-le-Duc, oggi gli archeologi che studiano le architetture le analizzano nel dettaglio, le scompongono virtualmente nelle loro parti, e – quando possibile – scavano intorno e dentro ai monumenti, per accrescere il dossier delle informazioni disponibili.
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l’altra faccia della medaglia Francesca Ceci
madre celeste battezzata gea dai greci e tellus dai romani, la terra È al centro di osservazioni e speculazioni filosofiche. ma È anche un simbolo, potente e chiaro, di pace, armonia ed equilibrio
L
a sfericità della terra e dei pianeti, cosí come il loro rapporto gravitazionale, era nel mondo greco un dato acquisito sin dal V secolo a.C.: la Terra era considerata un globo immobile al centro della sfera celeste che ruotava intorno al suo asse. Strumenti per la rappresentazione, la comprensione e il calcolo riguardo al cosmo (sfere celesti corredate dalle stelle, astrolabi con il cielo e la terra al centro, globi terrestri con meridiani e paralleli) erano diffusi e usati nelle scuole e ricorrevano anche nelle opere d’arte, come il celebre Atlante Farnese che regge il cosmo con le sue costellazioni figurate.
rotonda ma immobile Platone definisce la terra rotonda, immobile al centro della sfera celeste e ruotante intorno al proprio asse (Fedro, 108 ss.) e Aristotele, nel trattato cosmologico De coelo, afferma la sfericità del cielo e della terra, ferma al centro di un sistema. Anche i raggruppamenti stellari erano ben conosciuti, cosí come il loro moto; Cicerone racconta con ammirazione stupita come Eudosso di Cnido (fine del IV-III secolo a.C.) fu il primo a riportare in un planetario le costellazioni (De re publica, I, 14). La Terra, che è uno dei quattro elementi empedoclei, assunse una
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La statua dell’Atlante detto Farnese. II sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Gigante della mitologia greca, Atlante partecipò alla lotta contro gli dèi e fu punito da Zeus con la condanna a sostenere il mondo sulle spalle.
connotazione divina quale madre primordiale, per essere poi denominata Gea e inserita autonomamente nel sistema cosmogonico e mitologico del pantheon greco. A Roma divenne Tellus e si caratterizzò per la connessione con Cerere, con la fertilità in generale e con il mondo infero, legato al ciclo nascita/morte delle stagioni e della vita umana. Era simbolo di abbondanza e prosperità per gli uomini, i quali la invocavano come Terra Mater e anche come Tellus Stabilita, in particolare nel caso di terremoti.
strumento di propaganda Stabilità, concordia, feracità, un benessere generale che doveva riportare l’umanità alla perduta età dell’oro: cosí viene presentata la pax romana inaugurata da Augusto. Gli imperatori ne adottarono la personificazione per propagandare il loro fausto regno, anche se, nella
A destra: aureo di Domiziano per la moglie Domizia. 82-83 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatrice; al rovescio, un infante su globo con le braccia alzate e circondato da sette stelle. In basso: medaglione di Commodo. 186-187 d.C. Al dritto, il busto bifronte dell’imperatore; al rovescio, la Tellus con globo e le Quattro Stagioni. realtà, si trattò spesso di un messaggio ingannevole. Si veda al riguardo il magnifico medaglione di Commodo, emesso nel 186-187 d.C. quale dono di Capodanno, come chiarisce il dritto, su cui il volto imperiale compare nella forma di Giano bifronte, dio di ogni inizio. Qui la Terra è morbidamente reclinata a busto scoperto, con il braccio appoggiato a un cesto dal quale fuoriesce un tralcio di vite, e una mano posata sul globo decorato da stelle e circondato dalle Stagioni in forma di giovinette. Un’immagine dal significato cosmico, di cui sono protagonisti la terra, il cosmo e l’eterno ciclo del tempo. Il tutto, insieme alla leggenda Tellus Stabil(is o -ita), richiama un’idilliaca stabilità assicurata dall’imperatore, che, nel caso di Commodo, non corrispose al vero, anche se nell’anno di emissione del medaglione – il 187 d.C. – si attraversò un momento di relativa calma.
Il globo cosmico In altri contesti la terra è simboleggiata dal globo liscio, insegna del potere imperiale sul mondo come attestano scettri e oggetti da parata, quali, per esempio, quelli eccezionali, appartenuti a Massenzio e ritrovati in un fortunato scavo effettuato alle falde del Palatino, dove erano stati con cura riposti da un ignoto personaggio a lui fedele probabilmente prima della battaglia di Ponte Milvio. Belli e legati a un evento familiare doloroso sono i denari e gli aurei
battuti nell’82-83 d.C. da Domiziano per commemorare la breve vita e la conseguente trasformazione in dio del figlio avuto dalla moglie Domizia; il bimbo, il cui nome non è noto, nacque nel 73 e morí tra il 77 e l’81 d.C. Al dritto compare il profilo imperiale di uno dei due genitori, mentre al rovescio un infante con le braccia alzate al cielo è seduto sul globo attraversato da due fasce che si intersecano (un riferimento alle ellissi celesti? o alla terra con i suoi meridiani e paralleli?) e circondato dalle sette stelle, attributo e simbolo di divinizzazione. La morte del bambino, prontamente divinizzato, viene funzionalmente inserita nell’accorto sistema politico-religioso romano, che fa di mogli e figli premorti altrettante divinità apparentate all’imperatore, rendendo cosí ancor piú eccezionale la superiorità irraggiungibile del princeps. (3 – continua)
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i libri di archeo
DALL’ITALIA Giulio Paolucci
Archeologia romantica in Etruria Gli scavi di Alessandro François e Adolphe Noël des Vergers Edizioni Quasar, Roma, 184 pp., ill. in b/n 20,00 euro ISBN 978-88-7140-577-3 www.edizioniquasar.it
I Fondi Antichi della Biblioteca Gambalunga di Rimini conservano un carteggio che permette di ricostruire l’attività di Alessandro François (1796-1857), uno dei piú abili ricercatori di antichità dell’Ottocento italiano. In particolare, quella documentazione – ora esaminata da Giulio Paolucci – getta luce sui suoi rapporti con il nobile ed erudito francese Adolphe Noël des Vergers e sull’attività della società di scavo che i due costituirono all’inizio del 1850. Un’impresa piú tardi allargata al suocero di des Vergers, l’editore Ambroise Firmin Didot. Gli accordi prevedevano la condivisione dei costi di scavo e la spartizione del materiale ritrovato, riconoscendo a François la prerogativa di effettuare la prima scelta. A quest’ultimo spettavano l’individuazione delle aree di scavo, la stipula degli accordi con i proprietari dei terreni, la direzione delle esplorazioni e la supervisione dei successivi restauri. Agli altri soci – grazie 112 a r c h e o
al loro rilevante ruolo sociale e alla florida posizione economica – competevano l’anticipo dei fondi necessari e la cura dei contatti con le autorità. Essi s’impegnarono, per esempio, a fare in modo che il governo toscano autorizzasse François ad assentarsi dall’impiego ricoperto per seguire i lavori da vicino. Dai documenti si apprende quali furono le zone dell’Etruria
che vennero indagate: l’area tra Pisa e Volterra, Populonia e, soprattutto, Chiusi con il suo territorio e Vulci. In quest’ultimo centro gli accordi furono presi – in qualità di proprietari dei terreni – con la principessa Alexandrine de Bleschamps, vedova di Luciano Bonaparte, e poi con i Torlonia. E proprio in questa stagione di ricerche venne rinvenuta le celeberrima tomba François, che ad Alessandro fu intitolata. Dalle carte si comprende anche come l’archeologo avrebbe voluto estendere
le ricerche all’Italia meridionale, alla Tunisia e all’Egitto. Giuseppe M. Della Fina Federico Marazzi
La «basilica maior» di San Vincenzo al Volturno (Scavi 2000-2007) Volturnia Edizioni, Cerro al Volturno (IS), 374 pp., ill. col. e b/n 75,00 euro ISBN 978-88-96092-3-1 www.volturniaedizioni.com
Questo nuovo tassello nel mosaico delle conoscenze sul complesso monastico di San Vincenzo al Volturno è di particolare interesse, in quanto non contiene soltanto il resoconto dettagliato delle indagini piú recenti e l’edizione dei materiali che quelle ricerche hanno restituito. L’ampia e articolata disamina viene infatti sviluppata senza mai perdere di vista un dato ben sintetizzato da Federico Marazzi nell’Introduzione, quando scrive che «Lo studio archeologico di un complesso monastico
non può prescindere dalla conoscenza del retroterra di concetti e di obbiettivi esistenziali che lo hanno ispirato e che trovano esplicitazione nelle fonti (…) che trattano della vita cenobitica». Una dichiarazione d’intenti meno ovvia di quanto si potrebbe pensare, poiché è certamente vero che ogni contesto archeologico ha peculiarità ben precise – vuoi per ragioni storiche, vuoi per questioni funzionali –, ma non si può negare che la realizzazione di una sorta di «cittadella della fede e del lavoro», quale fu appunto l’insediamento molisano, dovette essere l’esito di considerazioni non soltanto pratiche o formali. Dopo aver ripercorso la storia, non sempre serena, degli scavi, il volume presenta la descrizione sistematica dei settori esplorati (area dell’edificio basilicale, atrio e avancorpo, area a nord della basilica maior) per poi offrire un corposo capitolo di inquadramento generale, grazie al quale non è difficile cogliere l’eccezionale importanza di San Vincenzo non soltanto nel contesto italiano, ma nel piú ampio ambito dell’Europa altomedievale e carolingia. Un dato di fatto rispetto al quale non si può che condividere il rammarico di Marazzi nel constatare che, nonostante la sua oggettiva importanza, il sito di San Vincenzo al
Volturno non sia ancora riuscito ad avere la visibilità che meriterebbe. Stefano Mammini
miriade di reperti emersi dalle viscere di una delle piú antiche città del mondo. Andreas M. Steiner
dall’estero
Colin Renfrew, Paul Bahn (a cura di)
Katharina Galor e Hanswulf Bloedhorn (a cura di)
The Cambridge World Prehistory
The Archaeology of Jerusalem Yale University Press, New Haven e Lobdra, 368 pp., ill. col. e b/n 50,00 USD ISBN 978-0-300-11195-8 www.yalebooks.com
La complessità storica e archeologica di Gerusalemme è pari solo a quella di altre capitali del mondo antico, quali Roma, Atene e Costantinopoli. Ne sono testimonianza le ripetute esplorazioni che, dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri, hanno interessato le aree monumentali del centro storico della città e i suoi dintorni. Altrettanto numerosi sono i rapporti di scavo, stilati, nel corso dei decenni, da studiosi israeliani, britannici, statunitensi, tedeschi, olandesi e italiani. Fino a ieri, chiunque avesse voluto accedere alla storia archeologica della Città Santa doveva cimentarsi con trattazioni monografiche, raccolte perlopiú all’interno di opere enciclopediche e di riviste specializzate. Il volume curato da Katharina Galor e Hanswulf Bloedhorn offre ora una sintesi, estremamente aggiornata
e agevolmente consultabile, attraverso seimila anni di storia documentata dagli scavi archeologici. Dalla preistoria e l’età del Bronzo e del Ferro, attraverso i grandi periodi «storici» (babilonese e persiano, ellenistico e romano), fino all’epoca bizantina, islamica e crociata, per concludersi con quella ayyubide, mamelucca e ottomana, il volume segue un filo conduttore cronologico, scandito dalle scoperte che hanno scritto e riscritto la storia antica della città. Uno dei molti meriti di Galor e Bloedhorn consiste nell’avere evitato di cedere a quei condizionamenti ideologici (politici e religiosi) che, in passato, hanno non di rado compromesso la lettura storico-scientifica dei dati di scavo; la complessa storia di Gerusalemme, in cui si susseguono e intrecciano le prospettive legate a giudaismo, cristianesimo e Islam, sono presentate in un quadro obiettivo, in cui la parola è data, esclusivamente, alla
Cambridge University Press, New York, 3 voll., 2049 pp. totali, 659 ill. b/n, 190 cartine, 14 tavv. 675,00 USD ISBN 978-0-521-11993-1 www.cambridge.org
Opere come questa sono destinate innanzitutto a studiosi e studenti, per i quali divengono preziosi strumenti di lavoro. Darne conto in maniera sistematica sarebbe qui naturalmente impossibile e avrebbe
un’utilità assai relativa. Quel che piú conta, infatti, è soffermarsi sull’impostazione del progetto editoriale e su alcune delle caratteristiche che maggiormente potranno contribuire al suo successo. È innanzitutto opportuno sottolineare
come i curatori di questo dizionario enciclopedico, Colin Renfrew e Paul Bahn, oltre a essere studiosi di chiarissima fama, abbiano alle spalle altre felici esperienze del genere, primo fra tutti quell’Archeologia. Teoria, metodi, pratica che da tempo è uno dei manuali imprescindibili per chiunque abbia scelto di accostarsi allo studio delle culture del passato. Per quanto riguarda i contenuti, la scelta è stata quella di affrontare l’intero arco della preistoria, dalla comparsa dell’uomo (che si colloca intorno ai 2 milioni di anni da oggi), in tutte le regioni del globo. A fronte di un orizzonte cosí vasto, altrettanto ampio è il novero degli studiosi chiamati a contribuire alle varie sezioni e anche in questo caso spicca la presenza di tutti i nomi autorevoli per i singoli ambiti di ricerca. Emblematici dell’approccio scelto sono i capitoli iniziali, che riflettono la predisposizione a «leggere» la preistoria con ogni possibile lente: non a caso, dunque, il secondo è dedicato al DNA, il cui studio ha dato, soprattutto negli ultimi anni, contributi fondamentali. Ricche e aggiornate sono le bibliografie che corredano i singoli testi e anche questa è senza dubbio una delle carte vincenti dell’intera opera. Stefano Mammini a r c h e o 113