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ARCHEO 363 MAGGIO
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ANTICHE CITTÀ DELLA MESSAPIA DIONISO A REGGIO EMILIA SPECIALE MUSEO EGIZIO
Mens. Anno XXXI n. 363 maggio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
IL NUOVO
MUSEO
EGIZIO DI TORINO STORIA, ARTE, RELIGIONE E VITA QUOTIDIANA DELLA CIVILTÀ DEI FARAONI PUGLIA
NELLA TERRA DEI MESSAPI MOSTRE
A FIRENZE, I BRONZI DEL MONDO ELLENISTICO
€ 5,90
www.archeo.it
POTERE E PATHOS
IN ESCLUSIVA VISITIAMO INSIEME
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EDITORIALE
LO SCRIGNO DEI TESORI Quello di Torino è oggi il piú importante museo egizio al mondo, e non – come si sente dire spesso con eccesso di understatement – il «secondo dopo quello del Cairo» (al quale spetta, naturalmente, un primato per la quantità di reperti che custodisce). C’è, a nostro avviso, piú di un motivo per affermarlo. E non ci riferiamo soltanto alla maggiore accessibilità del museo torinese rispetto a quello cairota, pesantemente compromessa dagli eventi politici di questi ultimi anni, quanto, piuttosto, alla sua straordinaria «novità». Infatti, la veneranda, storica collezione torinese, con migliaia e migliaia di reperti di straordinario significato artistico e archeologico, da sempre nota per essere, appunto, la «seconda collezione egittologica per importanza al mondo», oggi si presenta come il frutto di una vera e propria palingenesi. Chiunque abbia frequentato, in anni passati, le sale di Palazzo dell’Accademia delle Scienze, non potrà non riconoscere e ammirare i risultati dei lavori di «rifunzionalizzazione, ampliamento e restauro» che – secondo le misurate parole del direttore Christian Greco – hanno coinvolto, dal 2009, contenitore e contenuti del museo. Dallo scorso 1° aprile, gli esiti di questo intervento sono sotto gli occhi di tutti. Nello speciale di questo numero proponiamo una prima, esclusiva, «visita» al neonato Museo delle Antichità Egizie: le immagini, scattate all’indomani dell’inaugurazione, insieme al racconto di Stefano Mammini, offrono un’idea del nuovo allestimento e non pretendono certo di sostituirsi alla sua visione diretta. Preparano, però, a un viaggio che i nostri lettori, prima o poi, vorranno affrontare, nella certezza di andare incontro a un’esperienza conoscitiva, estetica e intellettuale, unica. Perché l’Egizio di Torino è un grandioso scrigno di arte e storia; uno scrigno che, in anni di lavoro, è stato cautamente e meticolosamente dischiuso, cosí da poter mostrare al mondo i suoi irripetibili tesori. Andreas M. Steiner
Cofanetto in legno dipinto appartenuto a una defunta di nome Tamit, da Tebe. Nuovo Regno, XVIII dinastia, 1539-1292 a.C. Torino, Museo Egizio.
SOMMARIO EDITORIALE
Lo scrigno dei tesori
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di Andreas M. Steiner
Attualità
LA NOTIZIA DEL MESE Depresso e afflitto da un male misterioso: cosí Giulio Cesare visse i suoi ultimi anni. Ma qual era la vera natura dei suoi disturbi?
SCAVI
Tre regine per la terra di mezzo 6
di Francesco M. Galassi e Hutan Ashrafian
NOTIZIARIO
PAROLA D’ARCHEOLOGO Roma ha salutato il restauro della Piramide Cestia, reso possibile dal supporto finanziario di un imprenditore nipponico. Un esempio che si spera venga presto emulato 20
di Francesco D’Andria
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54 MOSTRE
Il potere dei grandi bronzi
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di James Bradburne, Timothy Potts, Earl A. Powell III
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SCOPERTE Ritrovata in Francia l’ultima dimora di un principe celtico, sepolto con un corredo funebre di straordinaria ricchezza 10 ALL’OMBRA DEL VESUVIO Una ricca esposizione ripercorre la storia delle magnifiche ville stabiane, offrendo un saggio delle loro lussuose decorazioni 16
In copertina particolare di una statua in granodiorite di Tutmosi III. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C. Torino, Museo Egizio, Galleria dei Re
Anno XXXI, n. 363 - maggio 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Witold Hensel, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Hutan Ashrafian è chirurgo e clinical lecturer presso l’Imperial College di Londra. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Giacomo Baldini è collaboratore della Soprintendenza Archeologia della Toscana. James Bradburne è direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Renata Curina è archeologo della Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna. Francesco D’Andria è professore di archeologia e storia dell’arte greca e romana all’Università del Salento di Lecce. Valeria d’Aquino è collaboratore della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Daniela Fuganti è giornalista. Francesco M. Galassi è coworker in storia della medicina presso l’Imperial College di Londra. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Emanuele Mariotti è collaboratore della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Timothy Potts è direttore del J. Paul Getty Museum. Earl A. Powell III è direttore della National Gallery of Art di Washington. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Elena Sorge è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia della Toscana. Illustrazioni e immagini: Mimmo Frassineti: copertina e pp. 74-75, 82/83, 86-89, 92-101, 102/103, 104 – Doc. red.: pp. 3, 7-8, 90 (alto), 91, 108 (alto), 109, 112 (alto) – Cortesia INRAP/foto Denis Gliksman: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Toscana: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Molise: p. 14 – Cortesia Labex Archimede: pp. 15 (alto, S. Mauné), 15 (basso, Desbonnets) – Cortesia Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 16-19 – Cortesia Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici
SCOPERTE
Nel segno di Dioniso
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di Renata Curina
82 SPECIALE
Il nuovo Museo Egizio di Torino
Festa egiziana
82
di Stefano Mammini, con un’intervista a Christian Greco
SCAVARE IL MEDIOEVO La chiesa in una nave
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108
di Andrea Augenti
68 Rubriche
L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Macine contro gli invasori di Andrea De Pascale
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Un mare d’amore
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di Francesca Ceci
A VOLTE RITORNANO
AVVISO AI LETTORI
di Flavio Russo
In questo numero, per motivi di spazio, non compare la consueta rubrica dedicata ai Libri, la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il mese prossimo.
Quel benefico torpore... 106
di Roma: pp. 20-22 – Cortesia F. D’Andria-InkLink Firenze: pp. 38/39, 44/45, 48/49 – Cortesia Laboratorio di informatica per l’Archeologia Università del Salento: pp. 40 (alto, rielaborazione Cippigraphix), 46-47, 52 (basso) – Cortesia C. Notario: pp. 40 (centro e basso), 42 (basso) – Ny Carlsberg Glyptotek Copenaghen: p. 41 – Cortesia J.-C. Golvin: pp. 42 (alto), 43 – Cortesia architetto F. Ghio: p. 48 – Cortesia A.R.Va, Cavallino: p. 51 (alto) – Cortesia M. Limoncelli: p. 51 (basso) – MUST, Lecce: p. 52 (alto) – Cortesia Ufficio stampa: pp. 54-66, 79 (secondo piano), 84, 85 (alto), 102 – Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo: pp. 68-72 (foto Roberto Macrí; ricostruzione grafica Rossana Gabusi, Sopritnendenza Archeologia dell’EmiliaRomagna) – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 76, 78, 103 – Mondadori Portfolio: p. 107 (basso); AKG Images: p. 77 – Archivi Alinari, Firenze: p. 79 (primo piano) – Marka: Giovanni Mereghetti: p. 85 (basso) – Studio Inklink, Firenze: p. 90 (basso) – Cortesia dell’autore: pp. 106, 112 (basso), 113 – Corbis Images: Fred Bavendam/Minden Pictures: p. 107 (alto) – Jacques Descloitres, MODIS Land Rapid Response Team, NASA/GSFC: p. 108 (basso) – Gilda Bologna: pp. 110, 111 (sinistra) – Roberto Bixio: disegno a p. 111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 58/59, 78. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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LA NOTIZIA DEL MESE Francesco M. Galassi e Hutan Ashrafian
VITTORIOSO, MA VULNERABILE ALLA METÀ DEL I SECOLO A.C. ROMA E TUTTO IL MONDO ALLORA CONOSCIUTO SI CONVINSERO CHE GIULIO CESARE FOSSE INVINCIBILE E, FORSE, IMMORTALE. SOPRATTUTTO NEGLI ULTIMI ANNI DI VITA, PERÒ, L’ESISTENZA DEL GRANDE GENERALE FU TUTT’ALTRO CHE STRAORDINARIA: PRIMA DI CONCLUDERSI NEL SANGUE DELLE IDI DI MARZO, VENNE INFATTI SEGNATA DALLA DEPRESSIONE E DA UN MORBO MISTERIOSO...
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on le sue conquiste e la decisione di marciare in armi contro la propria patria, Caio Giulio Cesare, considerato il massimo condottiero romano, mutò radicalmente il volto della res publica, catalizzando irreversibilmente la trasformazione di quest’ultima in un principato. Sebbene il suo nome fosse destinato a divenire ben presto sinonimo di «potere assoluto», il dominio cesariano ebbe vita breve, cadendo sotto i colpi di pugnale dei congiurati il giorno delle Idi di Marzo dell’anno 44 a.C. La vita del generale abbonda di aneddoti e curiosità, tuttavia nulla ha mai tanto attirato l’attenzione dei commentatori antichi e moderni quanto le condizioni di salute che lo afflissero negli anni precedenti la morte. La tradizione lo ha sempre ritenuto epilettico e studi recenti, prendendo per valido questo assunto, non hanno fatto altro che concentrarsi sulla eziologia dell’epilessia.
IL SILENZIO DELLE FONTI Tuttavia, dal momento che nessuna fonte antica menziona il fatto che Cesare fosse stato soggetto ad attacchi epilettici in gioventú, si è pensato a una forma di epilessia insorta nell’età adulta e varie ipotesi si sono avvicendate per individuarne la causa scatenante: trauma cranico, neurocisticercosi,
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arteriosclerosi, sifilide, glioma, tubercolosi, ecc. Riesaminando le fonti classiche, tuttavia, è possibile rilevare una differenza sostanziale tra la fonte greca principale (Plutarco) e quella latina (Svetonio). Infatti, mentre Plutarco si serve del termine epileptikós, Svetonio utilizza le parole morbus comitialis, categoria molto piú generica e che non necessariamente indica l’epilessia, ma può riferirsi a qualsiasi evento patologico che cagioni cadute improvvise, tali, per esempio, da determinare l’interruzione di un’assemblea. Forti di questa osservazione filologica, abbiamo ritenuto interessante investigare la possibilità che Giulio Cesare non soffrisse di epilessia. In effetti, i sintomi riportati nelle fonti (cefalea, vertigine, cadute, cambiamenti di personalità, depressione, ecc.) sono coerenti con una diagnosi di episodi cerebrovascolari, quale può essere un ictus. Servendoci nuovamente delle fonti classiche, abbiamo notato che Plinio il Vecchio, parlando di due antenati del dittatore (uno dei quali è il padre), afferma che essi erano deceduti improvvisamente, senza alcuna spiegazione, mentre indossavano i calzari. Benché, ancora una volta nell’alveo della tradizione che vuole il generale epilettico, questi eventi
siano stati interpretati in termini di SUDEP (Sudden Unexpected Death in Epilepsy, Morte inattesa improvvisa nell’epilessia), è molto piú logico, probabile e meno complesso pensare a episodi quali un ictus o un infarto miocardico letale. Questo fornirebbe un solido supporto all’idea che in Giulio Cesare vi fosse una predisposizione genetica allo sviluppo di malattie cardiovascolari.
FOSCHI PRESAGI In un uomo della sua età (Cesare venne trucidato a 56 anni, pertanto non pochi per i tempi in cui visse) è logico pensare che insulti di natura cerebrovascolare ne abbiano condizionato la fase finale dell’esistenza, causandone, in ultima analisi, la forma depressiva che lo afflisse prima di morire. Questa patente depressione, come dimostrato da altri in studi precedenti, lo spinse forse a congedare la scorta o, quantomeno, indusse le persone attorno a lui a prendere l’iniziativa, avendo queste ultime, in ogni caso, ormai da tempo in animo di mettere fine ai sogni di dominio incontrastato del dittatore. Un realistico ritratto di Caio Giulio Cesare in età matura, con il capo cinto da una corona d’alloro, realizzato dall’artista e illustratore statunitense Bruce Wolfe.
Titolo finto dida box Mus inullac eaquam aspellandi dicto imus, con repel iur, tempedic tempos andit ulpa est et versper estions erovid essitat ecearum volo dus etur? Quibus rehenti ditius doloritamet alis ipsant facero ipsumet ellest magniet ma exped qui.
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A destra: Alessandro Magno raffigurato come «monarca universale» su un medaglione aureo proveniente da Abukir, Egitto. 220-240 d.C. circa. Berlino, Staatliche Museen. Il Macedone costituí per Cesare un modello di riferimento costante. In basso: testa di Ottaviano (su busto non pertinente), figlio adottivo e successore di Giulio Cesare. 35-29 a.C. Roma, Musei Capitolini.
Naturalmente, come spiegazione della sua condizione, possono essere addotte altre cause meramente psicologiche, quali il fatto che Cesare si fosse reso conto che i tempi non erano maturi per una trasformazione dello Stato romano in una monarchia. Senza voler dare una chiave di lettura puramente biologica della storia, siamo dell’opinione che una causa organica possa ben collocarsi all’interno del quadro di mini-ictus descritto.
UN MODELLO CHE DIVENNE OSSESSIONE Approfondendo, poi, le ragioni del perdurare dell’ipotesi epilettica sino ai giorni nostri, ci siamo domandati se Giulio Cesare stesso o il suo successore e figlio adottivo Ottaviano possano aver avuto un ruolo decisivo. Il generale fu ossessionato per tutta la vita dalla figura di Alessandro il Grande e si racconta di come versasse
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copiose lacrime quando pensava alle gesta compiute dal Macedone ancora giovane, mentre per lui gli anni della gloria erano ancora lontani. La tradizione vuole che Alessandro soffrisse di epilessia, un morbo considerato sacro nell’antichità ed espressione di divinità: non si può pertanto escludere che lo stesso Cesare, perseguendo la sua personale imitatio Alexandri, abbia voluto inculcare nell’immaginario collettivo l’idea che le sue cadute e i suoi sintomi fossero dovuti allo stesso male. Ottaviano, poi, potrebbe aver prediletto questa versione a scopi propagandistici, poiché perfettamente collocabile nel quadro di divinizzazione del padre adottivo, discendente di Enea e «padre nobile» della gens iulia, padrona ormai del nascente impero universale. Tuttavia, per un personaggio pubblico quale fu Giulio Cesare, se si fosse trattato di attacchi epilettici, ci si dovrebbe aspettare descrizioni molto piú dettagliate nelle fonti di quante ve ne siano. L’insieme di queste osservazioni e considerazioni ci ha dunque suggerito una una nuova lettura dei fatti, alla luce di un approccio combinato medicostorico-filologico, proponendo una diagnosi di mini-ictus come spiegazione del misterioso morbo che effettivamente afflisse Giulio Cesare e che si può presumere ne influenzò il comportamento negli ultimi anni di vita.
n otiz iari o SCAVI Francia
IL PRINCIPE DI LAVAU
L’
archeologia francese ha potuto recentemente salutare una scoperta davvero straordinaria, paragonabile a quella che, nel 1953, aveva riportato alla luce la tomba di Vix, e il suo celebre cratere. A Lavau, presso Troyes, nella Champagne, in occasione dei lavori per una nuova zona commerciale, un’équipe dell’Inrap (Institut national de recherches archéologiques préventives) ha rinvenuto una tomba principesca databile al V secolo a.C., che si annuncia come uno dei ritrovamenti piú notevoli della cultura celtica di Hallstatt (fiorita tra l’800 e il 450 a.C.). Si tratta d’una camera funeraria, ricca di oggetti di grande pregio, che provano il potere del defunto e
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In alto: una delle teste di Acheloo che ornano il calderone in bronzo trovato nella tomba principesca di Lavau. In basso: l’oinochoe attica con l’immagine di Dioniso in una vigna di fronte a una figura femminile.
attestano gli scambi fra le élite locali, la Grecia e le città etrusche. Al centro di un tumulo avente un diametro di 40 m, l’uomo riposava su un carro, posto in una camera funeraria eccezionalmente grande (14 mq), una delle piú vaste fra quelle hallstattiane a oggi note. Vicino alle sue spoglie furono deposti, fra altri oggetti, un’arma da taglio e il suo fodero, una situla in bronzo e un grande calderone (1 m di diametro), vero e proprio «pezzo forte» del corredo. Le quattro anse del contenitore, il cui bordo è ornato da otto raffinate leonesse, sono decorate da teste di Acheloo, il dio greco del fiume rappresentato con la barba, le corna, le orecchie di toro e un triplice baffo: «Siamo certamente di fronte a un’opera
A sinistra: una fase dello scavo della tomba di Lavau, riferibile alla cultura di Hallstatt (800-450 a.C.).
etrusca », sottolineano gli archeologi dell’Inrap. Nel calderone era stata collocata una oinochoe (brocca da vino) attica, a figure nere, con una scena raffigurante Dioniso sdraiato sotto una vigna, di fronte a un personaggio femminile. «Il vaso, il piú settentrionale del genere finora rinvenuto – osserva Dominique Garcia, presidente dell’Inrap – proviene probabilmente dagli atelier di Atene ed è impreziosito dalla doratura del labbro e del piede, volta ad accrescerne il valore e a personalizzarlo. Questo “servizio per bevande”, che comprende un colino dorato per filtrare il vino dalle sue spezie, riflette la pratica del banchetto presso l’aristocrazia celtica».
In basso: ancora un particolare dello scavo: si riconoscono il bordo del calderone e l’oinochoe attica.
Ma come poté il principe in questione entrare in possesso di un simile tesoro? Situati sull’alta valle della Senna, Lavau e la sua regione occupavano una collocazione ideale per gli scambi commerciali sviluppatisi tra il VI e il V secolo a.C. fra le città-stato etrusche e le poleis greche d’Occidente, Marsiglia in particolare. Alla ricerca di materie prime – stagno proveniente dell’Inghilterra, ambra di origine baltica, e schiavi – i mercanti mediterranei commerciavano con i Celti continentali, che controllavano le principali vie di comunicazione intorno alla Senna, il Rodano, la Saona e il Reno. Le aristocrazie locali entrarono cosí in possesso di oggetti prestigiosi come quelli rinvenuti ora a Lavau, che vanno ad arricchire la lista di quelli già noti provenienti dalle tombe a tumulo di Heuneburg e Hochdorf in Germania, e Vix in Francia. Nello stesso sito sono venute alla luce anche altre sepolture, piú antiche: una ventina di urne cinerarie risalenti alla fine dell’età del Bronzo (1300-800 a.C.), alle quali succedono, nel corso della prima età del Ferro, un guerriero con la sua spada e una donna agghindata da un braccialetto in bronzo massiccio. Tutte le deposizioni furono comprese in uno stesso vasto tumulo, nel V secolo a.C.: un insieme monumentale di molti metri di altezza, circondato da un profondo fossato, che doveva segnare fortemente il paesaggio. Daniela Fuganti
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n otiz iario
SCAVI Toscana
VOLTERRA, WORK IN PROGRESS
L
a città di Volterra continua a riservare sorprese: dopo le importanti scoperte seguite al crollo delle mura del gennaio 2014 e del muro di contenimento del viale Trento e Trieste (che hanno portato alla luce resti di capanne di età villanoviana), nello scorso mese di marzo – in vista della realizzazione del nuovo asilo nido «L’Arcobaleno» –, è stato avviato un intervento di archeologia preventiva in località Ortino, vale a dire proprio ai piedi delle mura della città. Totalmente privo di edifici, il terreno si trova in un’area assai significativa: poco distante, infatti, monsignor Mario Guarnacci prima (1759) e Annibale Cinci poi (1874-1884) scavarono le terme di San Felice, mentre in località Le Colombaie, agli inizi del XX
Volterra. Il cantiere di scavo in località Ortino, ai piedi della cinta muraria della città toscana.
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secolo, fu rinvenuta una tomba a camera, mirabile esempio di architettura funeraria di età orientalizzante, che richiama coeve esperienze della costa, soprattutto di area populoniese. Del resto anche la toponomastica è indicativa: nei pressi dell’area è attestato il toponimo Sburleo, volgarizzazione del latino mausoleum, che potrebbe indicare la presenza di strutture funerarie, cosí come testimoniato dall’edicola laterizia di Spedaletto, nell’omonima località in Valdera, proprio ai piedi di Volterra. Le ricerche si sono concentrate sui quasi 600 mq interessati dal progetto per la realizzazione dell’edificio scolastico: al di sotto dello strato di terreno formatosi a seguito dei lavori agricoli, è stato evidenziato un interessante livello antropizzato, caratterizzato dalla presenza di canalette/drenaggi di età moderna, riferibili a vigneti documentati nell’area e,
soprattutto, da numerose testimonianze di età antica: infatti, oltre a reperti residuali nel terreno agricolo (riferibili all’età etrusca e romana) sono stati trovati strati antropizzati in relazione a strutture in pietra e, nel settore sud-orientale dell’area, due sepolture. In virtú del carattere preliminare delle ricerche, è stato deciso di indagare subito le sepolture e di aprire un piccolo saggio di approfondimento, per raccogliere maggiori elementi e definire la strategia di intervento. Per quanto riguarda le tombe, si trattava di due sepolture, una di inumato, molto compromessa dalle arature e priva di corredo (salvo alcuni ornamenti personali in ferro), l’altra di incinerato entro ziro: la struttura consiste di un grande contenitore del diametro conservato di oltre 80 cm e di un’altezza presumibile di oltre 1 m. Con l’eccezione della parte sommitale, ovvero della bocca,
A destra: una fase delle operazioni di asportazione dello ziro. In basso: veduta dall’alto del contenitore, con i frammenti di copertura crollati al suo interno. intaccata probabilmente dai lavori agricoli, il vaso, appare in buone condizioni di conservazione. Era stato inserito in un ampio pozzetto circolare e calzato con ben tre filari di pietre disposte a raggiera e alternate a strati di sabbia. Nel cantiere è stato iniziato lo scavo anche dell’interno del contenitore, ma si è subito accertato che parte della copertura di sassi era crollata all’interno già in antico. I frammenti del corredo che è stato possibile recuperare suggeriscono che si tratti di una sepoltura di epoca villanoviana. Stanti le precarie condizioni di conservazione dei reperti custoditi all’interno del vaso, si è deciso, di concerto con l’amministrazione comunale, di procedere alla rimozione del dolio e al trasporto della sepoltura presso il laboratorio
di restauro della Soprintendenza, dove sarà possibile procedere alle necessarie analisi, allo scavo e al restauro del corredo e del dolio. L’indagine nel saggio ha rivelato una situazione stratigrafica assai complessa ma di estremo
interesse: al di sotto di strati di obliterazione riferibili a età ellenistica (per la presenza di ceramica a vernice nera volterrana) è stata individuata una struttura in pietre commesse a secco, larga oltre 70 cm, che attraversa l’intero saggio e può essere messa in relazione con alcune grandi pietre, parallele al muro ed equidistanti tra loro, forse basi per colonne o pilastri. In attesa che lo scavo fornisca ulteriori e piú precise informazioni, soprattutto sulla natura del sito, i numerosi materiali recuperati (frammenti di vasi in bucchero e di impasto grezzo, alcuni dei quali decorati) suggeriscono che la frequentazione di questo settore sia avvenuta tra l’età orientalizzante e la piena età arcaica. Le ricerche in località Ortino sono dirette da chi scrive per conto della Soprintendenza Archeologia della Toscana e sono finanziate dal Comune di Volterra. Elena Sorge, Giacomo Baldini, Valeria d’Aquino ed Emanuele Mariotti
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n otiz iario
SCAVI Molise
PIETAS E CULTI MISTERICI
U
n’area funeraria di epoca classica è venuta alla luce nel Comune di Ururi, in provincia di Campobasso, grazie a un recente intervento di archeologia preventiva. Al centro di una millenaria rete viaria, in corrispondenza della biforcazione del tratturo AteletaBiferno, tra le valli dei fiumi Biferno e Fortore, i corredi tombali della piccola necropoli hanno restituito la dimensione piú umana dell’aristocrazia agraria frentana. «Lo scavo – spiega Angela Di Niro, funzionario archeologo responsabile di zona per la Soprintendenza Archeologia del Molise – ha individuato una sepoltura maschile a incinerazione in stamnos (giara) bronzeo, databile tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C. e, poco distante, una tomba a semicamera che ospitava una sepoltura femminile a incinerazione e una maschile a inumazione, risalenti agli ultimi decenni del IV secolo a.C. Nello stamnos, pertinente alla sepoltura piú antica, oltre ai resti semicombusti del defunto, sono stati rinvenuti i frammenti di un gladio in ferro spezzato e avanzi di legno, probabilmente da attribuire al fodero. Le altre due sepolture, come detto, erano ospitate in una tomba a semicamera, parzialmente distrutta già in antico e della quale si conservano tre filari di blocchi in pietra tenera. La copertura era a doppio spiovente, come confermato dal blocco a timpano posto a chiusura dell’unico lato breve conservato, ed era completata da filari di tegoloni». Molto probabilmente, la tomba venne usata, in due momenti differenti: costruita per accogliere una giovane donna, morta presumibilmente prima del
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matrimonio e seppellita secondo il rito della cremazione, ospitò poi anche un maschio inumato, con il cinturone di bronzo, la lancia di ferro e un modellino di biga con auriga. Pertinenti a quest’ultima deposizione, sono state rinvenute anche numerose grappe di ferro della cassa lignea. «Gli elementi dei corredi delle due sepolture, rinvenuti sconvolti a circa 4 m di profondità – spiega la Di Niro – testimoniano la ricchezza e il rango dei defunti: una grande olla acroma, una serie di vasi figurati, tra cui un cratere a campana, uno skyphos (bicchiere a due manici) con scene dionisiache, due crateri a mascheroni con scene funerarie – attribuibili alla scuola del Pittore di Dario –; un servizio di vasellame a vernice nera e in stile Gnathia, tra cui tre pissidi con coperchio; e prodotti di lusso sono anche cinque balsamari di vetro di tipo fenicio». In alto: le tre pissidi con coperchio a vernice nera recuperate nella tomba a semicamera. In basso: il modellino di biga con auriga, proveniente anch’esso dalla tomba a semicamera.
L’analisi delle terre contenute nei vasi ha dato risultati interessanti: l’olla acroma e il grande skyphos figurato contenevano vino, mentre in uno dei due crateri a mascheroni sono stati trovati chicchi di grano e fave; nell’altro c’erano sei uova. Gli indizi suggeriti da quel che resta del banchetto funebre e dai temi figurati che compaiono sui vasi riconducono a un contesto religioso/iniziatico nel quale sono presenti le quattro principali dottrine misteriche: il culto dionisiaco, testimoniato dai vasi da simposio e dal vino che contenevano, oltre che da alcuni dei temi raffigurati sui vasi; i misteri eleusini, legati al culto di Demetra e Kore/Persefone, attraverso i cereali; la dottrina pitagorica, richiamata dalle fave; infine l’orfismo, di cui l’uovo è uno degli elementi centrali perché all’origine di ogni cosa ed essenza stessa della vita. Giampiero Galasso
SCOPERTE Spagna
ANTICHE BIOMASSE
L’
impiego sostenibile delle materie prime e il recupero degli scarti dei processi industriali sono temi di estrema attualità, costantemente oggetto di valutazioni e decisioni in ambito politico ed economico. Ma già nell’antichità accadeva qualcosa di simile, come a Pompei, nel I secolo d.C., dove gli scarti della trasformazione olearia venivano bruciati nei forni dei panifici. O come nel bacino del Guadalquivir, nella Spagna meridionale, dove, dal I al III secolo d.C., un imponente distretto di produzione di terracotte si avvaleva di una biomassa simile per alimentare i forni di cottura. Proprio questo secondo caso è al centro delle ricerche condotte da un’équipe franco-spagnola nei pressi della cittadina di Écija (la romana Astigi). Si tratta della prima attestazione a oggi nota dell’uso di questo combustibile ecologico per la produzione ceramica. Il gruppo di ricerca, formato dall’Università di Montpellier, dall’Università di Siviglia e dalla Casa di Velazquez,
ha iniziato le indagini nell’area nel 2013 e sta adesso studiando il sito di Las Delicias. Sede di un’officina per la produzione di anfore, assieme ad altri 89 stabilimenti rinvenuti nei dintorni, qui venivano realizzati oltre 7000 recipienti all’anno, per immagazzinare e trasportare l’olio della Betica, la provincia romana in cui i siti erano compresi. E che fu un importantissimo centro di produzione: secondo le stime, nei trecento anni fino al III secolo d.C, la sola Roma ricevette da questa regione oltre 85 000 000 di anfore d’olio, a cui si devono aggiungere
In alto: Las Delicias. Uno dei due grandi forni in corso di scavo. In basso: carta di distribuzione degli impianti legati alla produzione delle anfore, tra cui quello di Las Delicias. gli approvvigionamenti per le provincie settentrionali (le Gallie, le Germanie, la Britannia). Per la cottura dei manufatti, Las Delicias disponeva di due grandi forni (70 mc ciascuno), a cui si aggiungevano quelli, una ventina, delle altre botteghe, formando un distretto produttivo con importanti necessità di approvvigionamento di combustibile, e dunque con un impatto ambientale potenzialmente molto pesante. L’analisi dei residui di combustione scavati ha invece mostrato che solo nel I secolo d.C. viene bruciato legname, mentre già cento anni piú tardi questo è impiegato misto alla biomassa da olive, e, dal secondo quarto del III secolo d.C., l’utilizzo della biomassa diviene esclusivo. All’epoca, il laboratorio di Las Delicias era quindi integrato in una filiera produttiva che ricavava tutto il combustibile necessario dal riciclo degli scarti di lavorazione; un dato confermato anche dalla scoperta, a pochi metri dallo stabilimento, di un frantoio a doppia macina. Paolo Leonini
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ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandro Mandolesi
«DOLCE VITA» A STABIAE I PROPRIETARI DELLE VILLE D’OZIO SORTE NEI PRESSI DEL CENTRO VESUVIANO FECERO A GARA PER ABBELLIRLE CON QUANTO DI MEGLIO POTEVA OFFRIRE L’ARTE DELL’EPOCA. UNA COMPETIZIONE ALLA QUALE DOBBIAMO I TESORI ORA RIUNITI IN UNA MOSTRA A CASTELLAMMARE DI STABIA
«P
ompei… Pompei… e Stabia? Non era stata distrutta anche Stabia? Dov’era Stabia? Perché non la scoprivano? Plinio il Vecchio vi perdè la vita!». Cosí Libero d’Orsi, studioso locale e ispettore onorario dell’allora Soprintendenza, sintetizza – nel suo Come ritrovai l’antica Stabia del 1956 – le motivazioni che lo convinsero, nell’iniziale scetticismo generale, a riscoprire, dopo gli scavi borbonici, i resti delle fastose ville romane che costellavano la collina stabiana. Oggi il Palazzo Reale di Quisisana, in un invidiabile punto panoramico sopra Castellammare di Stabia, ospita, dopo un importante intervento di restauro architettonico, una mostra promossa dalla locale amministrazione comunale e curata dalla Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, dal titolo «dal Buio alla Luce» (fino al 31 dicembre 2015), dedicata alle dimore romane emerse nel territorio di Stabiae e allo stile romano del «vivere in villa». L’esposizione accoglie una Particolare della statua del Pastore, dall’omonima villa, scelta come simbolo della mostra. I sec. d.C.
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selezione di reperti provenienti dalle domus – esplorate nel Settecento e riportate alla luce a partire dal 1950 – costruite in posizione privilegiata, quasi senza
soluzione di continuità, sul ciglio della lunga collina di Varano, affacciato sulla parte meridionale del golfo di Napoli: oggetti d’uso quotidiano, strumenti agricoli, resti
Villa San Marco. Uno scorcio degli interni (in alto) e una veduta del giardino. La residenza sorse in epoca augustea e subí successive trasformazioni in età claudia. di affreschi e di stucchi trovati, in particolare, nelle ville di San Marco, di Arianna, del Pastore e del Petraro. Curata dagli archeologi della Soprintendenza, Giovanna Bonifacio e Serena De Caro, la mostra ha come immagine guida la pregevole statua in marmo originariamente policroma (I secolo d.C.) di un anziano pastore con un agnello e un cesto di frutta e spighe sulle spalle, trovata nel 1967 nell’omonima villa stabiana. La romana Stabiae aveva un importante ruolo strategico e commerciale, legato al suo scalo marittimo, strettamente connesso alla valle del Sarno. Alcuni studiosi datano l’impianto urbano al II secolo a.C., mentre altri lo considerano successivo alla distruzione dell’abitato fortificato piú antico da parte di Silla, nell’89 a.C. Dal punto di vista amministrativo, Stabiae dipendeva da Nuceria-Nocera. Dal I secolo a.C. l’entroterra dell’ager Stabianus si arricchí di piccoli insediamenti agricoli (villae
rusticae), specializzati soprattutto nella coltivazione della vite e dell’ulivo; viceversa, sulla dominante collina di Varano (con un’eccezionale visuale da Capo Miseno a Punta Campanella), sorgevano, in continuità topografica, villae d’otium di notevole estensione, concepite prevalentemente a fini residenziali, con lussuosi quartieri abitativi, strutture termali, portici e ninfei fastosamente decorati e aperti con giardini verso la costiera. Questi stanziamenti vennero cancellati dall’eruzione del 79 d.C., che seppellí gli edifici, molti dei quali interessati da lavori di rinnovamento. La calamità, però, non segnò la scomparsa della vita
in queste zone. Infatti, pochi decenni dopo la distruzione, il poeta Publio Papinio Stazio esortava sua moglie Claudia a raggiungerlo sulla costa campana, citando Stabias renatas, e venne ripristinata la strada di collegamento con Nuceria, come documentato da una colonnina miliare segnante l’XI miglio della strada verso Sorrento. Fra le ville stabiane piú ricche spiccano in particolare tre grandi complessi, ancora non completamente scavati, ma aperti al pubblico (info: www. pompeiisites.org). Villa San Marco (cosí denominata per la presenza di una cappella settecentesca), con una superficie di circa 11 000 mq, è
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In alto: Villa Arianna. Il triclinio n. 3: qui compare l’affresco con la scena di Arianna scoperta da Dioniso dopo l’abbandono da parte di Teseo che dà nome alla residenza. A sinistra: una veduta esterna di Villa Arianna, che si estende su una superficie di ben 14 000 mq.
fra le residenze piú sfarzose della collina. Esplorata in epoca borbonica, è stata riscavata in estensione da Libero d’Orsi. Il nucleo piú antico, della prima età augustea, comprende l’atrio tetrastilo ionico, decorato con pitture di IV stile iniziale e aperto sulla strada – scavata dai Borbone – che collegava il complesso al centro urbano di Stabiae. Intorno all’atrio si organizzano il tablino, quattro cubiculi e il vano con la scala di accesso al piano superiore. Dall’atrio si accede inoltre agli ambienti di servizio e all’ampia cucina, dotata di una vasca per il lavaggio delle stoviglie e di un imponente bancone con ripostigli per la legna. Un corridoio conduce
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poi al quartiere termale, con ambienti per il riposo e i massaggi (nella mostra di Quisisana è esposto un interessante affresco raffigurante un cantiere edile con operai in attività, proveniente dal calidarium). Un ampio giardino con natatio centrale, lunga circa 30 m, è circondato da un portico, sulle cui pareti erano dipinti medaglioni e riquadri, distaccati in gran parte dai Borbone. A sud della piscina si trova un ninfeo, attribuito alla seconda fase della villa, con mosaici, stucchi e pitture di IV stile, non ancora ultimati all’epoca dell’eruzione. Ai lati del ninfeo si aprono due appartamenti gemelli, splendidamente affrescati. Il lato nord del giardino porticato è invece
riservato agli ambienti di ricevimento e di soggiorno, con magnifica visuale sul golfo. Villa Arianna, la piú antica fra quelle stabiane, deve il nome alla grande pittura a soggetto mitologico che campeggia nella parete di fondo di uno dei tre triclini allestiti nell’edificio. Il complesso attuale è l’esito di ripetuti ampliamenti e rimaneggiamenti, realizzati per adeguare la struttura, che occupa una superficie di 14 000 mq, alla morfologia del pianoro, come dimostrano i sei livelli di rampe, perfettamente integrati nel paesaggio, che collegano la villa alla pianura sottostante. Il nucleo primitivo, degli inizi del I secolo a.C., comprende l’ingresso e il peristilio quadrato, attualmente interrato, dal quale, secondo una sequenza canonica nelle ville suburbane, si raggiungeva l’atrio di tipo tuscanico e gli ambienti adiacenti. Nella parte meridionale
della villa si trovava lo stabulum (deposito rustico) che custodiva due carri da trasporto agricolo (uno in metallo e legno carbonizzato, attentamente ricostruito, è esposto in mostra). Adiacenti al tablino si aprono gli ambienti di servizio, un cortile con vasca quadrangolare e la cucina con bancone di cottura. Piú avanti, si incontrano il settore termale, che comprende un calidarium absidato con pavimento in opus sectile, asportato dai Borbone, e il laconicum. Gli apparati decorativi della villa testimoniano l’alto tenore di vita e il gusto estremamente raffinato di una committenza altolocata ed esigente. Nei piccoli ambienti di soggiorno prevalgono decorazioni miniaturistiche, con figurine volanti, amorini, personaggi mitologici, quadretti di paesaggi, maschere, busti di personaggi entro medaglioni (resti di affreschi esposti in mostra). Negli ambienti
In alto e in basso: Villa Arianna. Due particolari delle pitture che esprimono il gusto per la decorazione miniaturistica, che predilige piccole figure volanti, amorini, personaggi mitologici, quadretti di paesaggi, maschere, busti di personaggi entro medaglioni.
In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca taspisci. A sinistra: dida finta doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, Parthenos doluptu sanduntium eossint quaesto dolorest, ut exereca.
di maggiori dimensioni, aperti verso il mare, sono invece rappresentati temi mitologici con grandi figure, ispirati soprattutto a Dioniso, come nel triclinio n. 3 (pareti e soffitto splendidamente affrescati in IV stile) con quadri
raffiguranti Arianna scoperta dal dio dopo l’abbandono da parte Teseo, Licurgo e Ambrosia, Ippolito e Fedra. Completano la ricchezza decorativa degli alzati gli apparati pavimentali con eleganti mosaici a motivi bianco-neri. Un vicus separava Villa Arianna dal cosiddetto Secondo Complesso, anch’esso scoperto nel Settecento e riportato parzialmente in luce per una superficie di circa 800 mq. Nella pianta elaborata in epoca borbonica è visibile un ampio viridarium, con peschiera a vasca quadrata provvista di canna in piombo per zampilli d’acqua, parzialmente circondato da portici, un lato del quale è delimitato da un muro con semicolonne che lo separa dal quartiere termale, attualmente interrato. La villa si compone di un corpo piú antico, che si svolge intorno al peristilio, e di una parte piú moderna nord-occidentale con orientamento diverso, forse un ampliamento di età imperiale o un raccordo con altro edificio. La raffinata decorazione della villa è parzialmente conservata, mentre i mosaici sono stati in gran parte asportati dai Borbone e sono custoditi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
IL CAVALIERE BIANCO E LA PIRAMIDE UN IMPRENDITORE GIAPPONESE HA VOLUTO FINANZIARE IL RESTAURO DI UNO DEI MONUMENTI ROMANI PIÚ FAMOSI. CHE HA POTUTO COSÍ RITROVARE IL SUO CANDORE ORIGINARIO, LO STESSO DELLE VESTI DEL SUO BENEFATTORE...
Y
uzo Yagi è un imprenditore tessile giapponese ed è uno dei nuovi mecenati dell’archeologia italiana: innamorato della nostra cultura, ha finanziato con 2 milioni di euro il restauro della Piramide di Caio Cestio, a Roma. Ne parliamo con Rita Paris, responsabile del restauro come Direttore Archeologo della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Dottoressa Paris, si dice che Yuzo Yagi accomuni la preziosità dei suoi capi di moda alla bellezza delle opere d’arte che si trovano in Italia... può raccontarci qualcosa in proposito? «Questo finanziamento privato è un’operazione eccezionale innanzitutto per la persona che l’ha voluta: nello scegliere il
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monumento da finanziare, ovvero la Piramide Cestia sulla via Ostiense, Yuzo Yagi, ha dimostrato una sensibilità eccezionale e un’attenzione sincera per il patrimonio antico di Roma, mostrando un approccio davvero raro nel fare questo atto di beneficenza». È stato lo stesso Yagi a scegliere il monumento che avrebbe goduto della sua liberale elargizione? «Sí, lo ha scelto personalmente, venendo in visita a Roma. Il suo gesto magnanimo, come ha detto in occasione dell’inaugurazione del monumento, è una forma di ringraziamento all’Italia per il contributo dato all’affermarsi della ditta tessile di cui è presidente, la Yagi Tsusho Limited in Japan and International Group of Companies.
La società è cresciuta molto grazie al nostro Paese e Yagi, con sua donazione, voleva restituire qualcosa all’Italia. La scelta poi è caduta su Roma e sulla Piramide di Caio Cestio. Voleva farla tornare bianca». Non a caso, infatti, lo chiamano «il mecenate in bianco»... «Sí, lo chiamano cosí perché è sempre vestito di bianco. Anche l’allestimento della cerimonia di inaugurazione del restauro della Piramide, il 20 aprile scorso, è stata all’insegna del bianco. Soprattutto, il monumento aveva un estremo bisogno di essere restaurato e pulito: quello sporco era una bruttura sotto gli occhi di tutti. Troppo spesso siamo passati distrattamente davanti alla Piramide, con l’auto, senza fermaci
Nella pagina accanto: la Piramide Cestia dopo il restauro. In questa pagina: un’immagine del cantiere allestito per l’intervento e un momento delle operazioni di ripulitura dei blocchi di marmo. a riflettere su quanto fosse indecoroso vederla nera di smog. A fare da cassa di risonanza al restauro è stato non solo l’intervento di pulizia della piramide, che l’ha fatta tornare a brillare, ma anche la personalità che l’ha voluto e finanziato. Quindi a Yuzo Yagi va un doppio grazie per lavoro svolto». Come si è svolto l’intervento di restauro? «Iniziato nel novembre 2012 e terminato nel dicembre 2014, il restauro ha goduto di due tranche di finanziamenti da parte di Yuzo Yagi, di 1 milione di euro ciascuno. L’intera operazione, condotta da un team di restauratori, archeologi, architetti, ingegneri, chimici, meccanici coordinati dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, sotto la mia
IDENTIKIT DI UN MONUMENTO
Alla maniera egiziana
La Piramide Cestia è il solo monumento superstite di una serie presente a Roma nel I secolo a.C., quando l’edilizia funeraria fu interessata dalla moda sorta all’indomani della conquista dell’Egitto nel 31 a.C. Caio Cestio, uomo politico, membro del collegio sacerdotale degli epuloni, dispose nel testamento che la costruzione del proprio sepolcro, in forma di piramide, avvenisse in 330 giorni. La tomba fu innalzata lungo la via Ostiense, tra il 18 e il 12 a.C. La piramide fu successivamente inglobata nella cinta muraria costruita tra il 272 e il 279 per iniziativa dell’imperatore Aureliano. La struttura, alta 36,40 m con una base quadrata di 29,50 m di lato, è composta da un nucleo di opera cementizia con cortina di mattoni; il rivestimento esterno è costituito da lastre in marmo. La camera sepolcrale, di circa 23 mq, con volta a botte, fu murata al momento della sepoltura, secondo l’usanza egiziana. Al Medioevo risale probabilmente la prima violazione, che ha determinato la perdita dell’urna cineraria e di porzioni notevoli della decorazione. Le pareti sono decorate a fresco, secondo uno schema decorativo a pannelli, con figure di ninfe alternate a vasi lustrali. In alto, agli angoli della volta, quattro Vittorie alate recano una corona e un nastro; al centro in origine doveva essere una scena di apoteosi raffigurante il titolare del sepolcro. (informazioni tratte da http://archeoroma.beniculturali.it)
direzione, e dall’Istituto per la Conservazione ed il restauro (ISCR), con l’architetto Maria Grazia Filetici, rappresenta un modello di riferimento nel restauro dei monumenti, per le nuove conoscenze acquisite sulla Piramide e sulla reazione dei protettivi del marmo all’inquinamento. Nel corso dei lavori il monumento è rimasto sempre aperto al pubblico, con visite guidate rese possibili anche
grazie alla disponibilità del personale di custodia del Museo di Porta San Paolo». E quali sono gli interventi realizzati? «Il restauro ha previsto un ponteggio montato sulle quattro facce della piramide, cosa mai fatta prima d’ora, cosí da poter lavorare contemporaneamente su tutti i lati della struttura, scendendo dall’alto verso il basso. È stato cosí possibile ripulire il marmo di Carrara,
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Una suggestiva immagine notturna della Piramide di Caio Cestio. deturpato dagli interventi degli anni Sessanta, per un totale di 2264,94 mq di superficie restaurata. Ma anche definire l’assestamento dei blocchi, che già in antico erano leggermente dissestati. Il monumento, infatti, fu innalzato in soli 330 giorni: tra il 18 e il 12 a.C. E 327 ne sono stati impiegati per il restauro. Nell’anno in cui la Piramide fu edificata entrarono in vigore le leggi sul lusso: Caio Cestio, che aveva pensato in vita a quale dovesse esserne l’aspetto, aveva inizialmente previsto che fosse abbellita con preziosi arazzi pergameni. Poiché le leggi sumptuarie lo vietarono, gli arazzi vennero venduti e con il ricavato furono realizzate le due statue di bronzo che lo ritraggono: oggi ne rimangono le basi, conservate presso i Musei Capitolini, sulle quali è iscritta la storia del monumento. In origine, le due sculture dovevano essere collocate
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davanti alla piramide». Con il restauro della Piramide Cestia avete anche sperimentato delle nuove tecniche di conservazione e monitoraggio del monumento, non è vero? «Sí. Oltre a restaurare, occorre infatti considerare anche la necessità di mantenere l’oggetto del restauro. La nostra preoccupazione è che i monumenti conservino il proprio stato nel tempo. Per questo abbiamo messo a punto particolari protettivi chimici, utili affinché la piramide non assorba di nuovo l’inquinamento. Abbiamo inoltre realizzato tasselli provvisti di ganci, che permetteranno a rocciatori o free climber, una sorta di «uomini ragno», di arrampicarsi in cima alla struttura per effettuare prelievi al fine di stabilire il degrado del marmo, senza dover rimontare tutti i ponteggi. Cosí eviteremo che il monumento si sporchi di nuovo nel giro di poco tempo». Il finanziamento da parte di benefattori privati si afferma
sempre piú come strumento utile per la conservazione e il restauro dei monumenti antichi, anche perché interviene laddove c’è carenza di risorse pubbliche. Ne è prova, sempre a Roma, il progetto di ricostruzione del doppio ordine di colonne della navata centrale della Basilica Ulpia, nel Foro di Traiano, che verrà finanziato con 1 milione e mezzo di euro dal magnate uzbeko-russo Alisher Usmanov. Quanto è importante la sponsorizzazione privata nel restauro archeologico, oggi? «L’intervento di sponsor privati è fondamentale non solo per la disponibilità delle risorse economiche, che altrimenti mancherebbero, ma anche perché porta una partecipazione civile all’opera. Se la collaborazione pubblico-privato è ben condotta, e se il privato è cosí sensibile e ha un interesse esclusivo alla conservazione, come nel caso della Piramide Cestia, gli atti di mecenatismo possono diventare davvero preziosi».
PAESTUM
INCONTRI Toscana
Al via l’International Archaeological Discovery Award
UN’ESTATE CON GLI ETRUSCHI
La Borsa Mediterranea del Tursimo Archeologico (BMTA) e «Archeo» presentano la prima edizione dell’International Archaeological Discovery Award, un premio assegnato alle scoperte archeologiche piú significative, in collaborazione con le testate internazionali di archeologia, che sono anche tradizionali media partner della Borsa (Current Archaeology, Regno Unito; Antike Welt, Germania; Dossiers d’Archéologie, Francia; e Archäologie der Schweiz, Svizzera). Il Premio sarà assegnato alle prime tre scoperte classificate, secondo le segnalazioni ricevute da ogni testata, che indicherà cinque ritrovamenti in ordine di preferenza, tutti avvenuti nell’anno precedente. È la prima volta a livello mondiale che si pensa a un premio per il mondo dell’archeologia e, in particolare, per i suoi protagonisti, gli archeologi, che con sacrificio, dedizione, competenza e ricerca scientifica affrontano il loro compito nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. Sarà inoltre attribuito uno Special Award alla scoperta che avrà ricevuto il maggior numero di consensi attraverso la pagina Facebook della Borsa, tra il 1° giugno e il 31 agosto prossimi. I premi saranno consegnati a Paestum, venerdí 30 ottobre 2015, alla presenza dei direttori delle testate, che intervisteranno i protagonisti. Info: www. borsaturismoarcheologico.it
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M
urlo, a pochi chilometri da Siena, si avvia a ospitare il primo festival Bluetrusco. In viaggio con gli Etruschi di ieri e di oggi (3 luglio-2 agosto 2015) con la direzione scientifica di Giuseppe M. Della Fina, che avrà «Archeo» come media partner. Prima rassegna dedicata espressamente al mondo degli Etruschi, Bluetrusco proporrà incontri, laboratori, escursioni e spettacoli. Durante la manifestazione saranno allestite quattro mostre: «Mulax» (a cura di Anthony Tuck), «I nuovi Etruschi» (a cura di Luciana Petti), «Sotto il cielo di Murlo» (a cura di Fabio Cappelli), «Le vigne degli Etruschi» (a cura di Andrea Ciacci e Andrea Zifferero) e verrà anche organizzata una fiera libraria, animata dalla partecipazione di numerose case editrici. Nel ricco programma dell’iniziativa voluta dal Comune di Murlo – e visibile per intero sul sito web di «Archeo» (www.archeo.it) – ci si limita a segnalare le conferenze tenute da Maurizio Bettini, Fondare una città: gli Etruschi, i Romani e la costruzione del mondo (3 luglio, ore 18,00); Giovannangelo
Camporeale, La genesi della civiltà etrusca: risorse del suolo e del sottosuolo (4 luglio, ore 17,00); il dialogo tra Vincenzo Bellelli e Alberto Piazza, Sulle origini degli Etruschi (10 luglio, ore 17,00) seguito dalla conferenza di Franco Cambi, Paesaggi dell’Etruria antica (10 luglio, ore 22,00). Inoltre si ricordano l’incontro tra Susanna Sarti e Giulio Paolucci su Archeologia e musica. Reperti, immagini e suoni dal mondo antico (11 luglio, ore 17,00); la giornata di domenica 12 luglio dedicata alla figura di Ranuccio Bianchi Bandinelli con la partecipazione, tra gli altri, di Marcello Barbanera; la due giorni (18-19 luglio) dedicata alla pubblicazione della prima edizione integrale italiana di Città e necropoli dell’Etruria di George Dennis (Nuova Immagine Editrice) con la partecipazione, tra gli altri, di Cristopher Smith e Andreas M. Steiner. Infine le conferenze La coltivazione della vite e del vino in Etruria di Andrea Ciacci (25 luglio, ore 17,00) e Francesca Ceci, Il banchetto in Etruria: uno sguardo sulla vita dell’aristocrazia (1 agosto, ore 17,00).
n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
I MISTERI DI POMPEI Il recente Speciale sui rinnovati splendori di Villa dei Misteri a Pompei (vedi «Archeo» n. 362, aprile 2015) 1 2 impone un omaggio filatelico all’avvenimento per continuare a godere di quelle bellissime immagini, sia pure in formato ridotto… Molti francobolli riproducono affreschi e mosaici romani, sia a Pompei che altrove, ma relativamente pochi sono quelli che si riferiscono esclusivamente alla piú famosa delle ville pompeiane, anzi alla sua sala piú celebre, quella «della Megalografia» (o «dei Misteri», appunto). 4 Presentiamo i pezzi rispettando l’ordine degli affreschi, cosí come si vedrebbero se si fosse sul posto, partendo dalla parete settentrionale. Il primo francobollo, francese, è del 2007; riproduce, sia come assieme che come sfondo, la scena iniziale con due donne e un bambino (Dioniso fanciullo?) che legge; una terza donna porta offerte sacre (1). Il secondo è italiano. La serie regionale del 2005 ha 3 usato, come testimonial della Regione Campania, un busto femminile, particolare della scena successiva dello stupendo affresco (2). Una piú ampia sezione di questa scena è raffigurata nel francobollo di Ajman (il meno esteso dei sette emirati che costituiscono gli Emirati Arabi Uniti), su una cartolina maximum (3), che, a sua volta, è la parte centrale di un foglietto, sempre di Ajman, che raffigura l’intera sezione del 6 «bagno rituale» con un sileno che suona e canta (4). Si può quindi continuare con un altro francobollo di 5 Ajman (5) che mostra la menade che assiste alla cerimonia; anche questo è solo un particolare della piú ampia sezione che comprende una panisca che allatta una cerbiatta e, dopo la menade, un sileno e due satiri, il tutto ripreso, ancora una volta, da un’emissione di Ajman (6). La sequenza termina con lo svelamento della mystica vannus, la cesta mistica che contiene un fallo, simbolo di fecondità, scena cosí riprodotta in un francobollo del Gambia (7). È bene sapere che quelli che abbiamo qui presentato 8 sono quasi tutti i francobolli relativi alla Villa dei 7 Misteri. Come si è visto, ben quattro di essi provengono dall’Ajman (uno Stato non proprio IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia esemplare in quanto a serietà filatelica), che si Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai sono rivelati assai utili per documentare gli seguenti indirizzi: affreschi appena restaurati. E, per arricchire il Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, materiale di una ipotetica collezione sulla celebre Via Tavanti, 8 C.P. 17037 residenza pompeiana, si potrebbe infine ricorrere 50134 Firenze Grottarossa anche a questo annullo italiano, che riporta proprio la info@cift.it, 00189 Roma. dicitura «Pompei Scavi» (8). oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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CALENDARIO
Italia
ORVIETO
ROMA Rivoluzione Augusto
Voci ritrovate
L’imperatore che riscrisse il tempo e la città Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo fino al 02.06.15
Archeologi italiani del Novecento
Lacus Iuturnae
La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15
L’Età dell’Angoscia
Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15
In alto: i Fasti Praenestini. 6-10 d.C.
Terrantica
Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15
DOVE E QUANDO
Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15 Orario fino al 30.09: 9,30-18,00; dall’01.10: 10,00-17,00 Info www.vociritrovate.it
ASTI Alle origini del gusto Il cibo a Pompei e nell’Italia antica Palazzo Mazzetti fino al 05.07.15
In basso: frammento della vasca di un sarcofago con leone e antilope. 270-280 d.C. A sinistra: affreschi del triclinio della Villa di Carmiano presso Stabiae. I sec. d.C.
BONDENO (FE) Aquae
Acque e bonifiche a Bondeno dal Neolitico ad oggi Centro Sociale 2000 fino al 31.05.15
BRESCIA Roma e le genti del Po
Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.01.16 (dal 09.05.15) 34 a r c h e o
La mostra nasce da uno scavo, ma non nel terreno. Scaturisce infatti dall’indagine condotta nell’Archivio della Fondazione per il Museo «Claudio Faina» che ha consentito la «scoperta» di una serie di nastri registrati che avevano raccolto e conservato la voce di alcuni dei maggiori archeologi e storici italiani del secolo scorso. Dall’ascolto delle loro voci scaturiscono riflessioni sul mestiere che avevano scelto; intuizioni rivelatesi attuali ad anni di distanza; problemi di metodo su cui si continua a dibattere; considerazioni che ci interpellano; ironie capaci di suscitare un sorriso; confessioni sull’avventura – per usare una parola cara a Sabatino Moscati – della loro vita professionale.
CASALE MONFERRATO diVino
Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15 (dal 10.05.15)
CIVITA CASTELLANA (VT), MAZZANO ROMANO (ROMA) I Tempi del Rito
Il Santuario di Monte Li Santi-Le Rote a Narce Museo Archeologico dell’Agro falisco, Museo Civico Archeologico-Virtuale di Narce fino al 30.06.15
CIVIDALE DEL FRIULI All’alba della storia
Genti antiche dal territorio cividalese Museo Archeologico Nazionale fino al 24.05.15
FIRENZE Potere e pathos
Bronzi del mondo ellenistico Palazzo Strozzi fino al 21.06.15
Statuetta di Eracle in riposo, copia di un bronzo lisippeo del IV sec. a.C.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
SAINT-GERMAIN-EN-LAYE Dèi dei Balcani
Piccoli Grandi Bronzi
Capolavori greci, etruschi e romani delle collezioni mediceo-lorenesi Museo Archeologico Nazionale fino al 21.06.15
Figurine neolitiche dal Kosovo Musée d’Archéologie nationale fino al 22.06.15
GAMBETTOLA (FC) Dalla fattoria al Palazzone
Gran Bretagna
Storie di Gambettola Biblioteca Comunale fino al 03.05.15
MONTEBELLUNA (TV) Storie di antichi Veneti
La situla figurata di Montebelluna Museo Civico fino al 27.09.15 (prorogata)
NAPOLI E POMPEI Pompei e l’Europa. 1748-1943
LONDRA Definire la bellezza In alto: particolare di un bronzetto raffigurante Giove in maestà. Età augustea.
Il corpo nell’arte dell’antica Grecia The British Museum fino al 05.07.15
Grecia ATENE IASIS
Napoli, Museo Archeologico Nazionale Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 02.11.15 (dal 27.05.15)
Salute, malattia, cure, da Omero a Galeno Museo Goulandris di Arte Cicladica fino al 31.05.15
PENNABILLI (RN) Ipazia
In alto: il Torso del Belvedere. Qui sotto: rilievo votivo: sotto lo sguardo di Igea, Asclepio cura una paziente distesa.
Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15
SAMBUCA DI SICILIA (AG) Un Simposio di#vino Il Salinas a Sambuca Museo Archeologico di Palazzo Panitteri fino al 12.06.15
SANT’AGATA DEI GOTI (BN) L’oggetto del desiderio
Svizzera
Europa torna a Sant’Agata Chiesa di S. Francesco fino al 17.05.15
ZURIGO Il gesso conserva
VILLANOVA DI CASTENASO (BO) Giovanni Gozzadini
Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15
e la scoperta del villanoviano MUV-Museo della civiltà villanoviana fino al 02.06.15
USA
Francia PARIGI La Vittoria di Samotracia Riscoprire un capolavoro Museo del Louvre fino al 15.06.15
In basso: piatto in ceramica policroma con immagini stilizzate di tartarughe da Sitio Conte (Panama). 700-900 d.C. circa.
PHILADELPHIA Sotto la superficie Qui sopra: biconico dalla tomba 1 di Villanova di Castenaso.
Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15 a r c h e o 35
SCOPERTE • PUGLIA
TRE REGINE PER LA TERRA DI MEZZO
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QUANDO I GRECI GIUNSERO NELLA PENISOLA SALENTINA LA DENOMINARONO «MESSAPIA», LA TERRA POSTA TRA I MARI IONIO E ADRIATICO. QUI LA POPOLAZIONE INDIGENA AVEVA REALIZZATO UN VASTO E COMPLESSO SISTEMA DI INSEDIAMENTI, DEL TUTTO DIVERSO DA QUELLO ELLENICO, CARATTERIZZATO DA VILLAGGI PROTETTI DA PODEROSE FORTIFICAZIONI. ECCO COSA HANNO RIVELATO LE RECENTI INDAGINI NEI SITI DI CAVALLINO, RUDIAE E LUPIAE, L’ANTICA LECCE... di Francesco D’Andria
N
on fu facile per i Romani conquistare il Salento: per ottenere il controllo su queste terre situate in posizione strategica, rivolte a Oriente, essi dovettero ingaggiare varie campagne militari. I Fasti Capitolini registrano due trionfi su Sallentini e Messapi: il primo nel 267 a.C. con i consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Giulio Libone, e quindi, nell’anno successivo, sotto il comando dei consoli Numerio Fabio Pittore e Decimo Giunio Pera. Soltanto dopo queste vicende, essi riuscirono ad assicurarsi il controllo degli approdi di Brindisi, fondando, nel 244 a.C., sulle rovine della città messapica, una colonia latina, nuovo polo di romanità e punto di partenza per la conquista dei territori orientali di Grecia e Anatolia.
UN POPOLO «BELLICOSO» La penisola salentina, il tacco d’Italia, prima dell’arrivo dei Romani, era abitata dai Messapi, genti bellicose, almeno per come li descrive Erodoto quando racconta delle guerre tra la colonia spartana di Taranto e le popolazioni indigene della Puglia meridionale; esse furono all’origine del phonos ellenikos megistos, la piú grande strage di Greci, attribuita proprio ai Messapi, che ai Tarentini inflissero l’umiliazione piú cocente. Diodoro Siculo riferisce che gli Iapigi (la piú antica denominazione di queste genti) inseguirono l’esercito tarentino in disfatta e, quindi, i loro alleati reggini, «come se dovessero piombare a Reggio insieme ai fuggiaschi e impadronirsi della città». Tutto questo avveniva nella prima metà del V secolo a.C., quando i Greci di Atene e delle altre città alleate riportarono la storica vittoria su altri e ben piú potenti barbari, i Ricostruzione grafica dell’aspetto che dovevano avere le mura della città di Castro nel IV sec. a.C. a r c h e o 39
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Persiani, e i Greci della Sicilia, con la battaglia di Himera del 480 a.C., ricacciarono i Cartaginesi che erano insediati sulla punta piú occidentale dell’isola. Infine, anche i Tarentini riuscirono a debellare gli indigeni della Puglia e, per celebrare le loro vittorie, innalzarono a Delfi monumenti di bronzo. Ma le relazioni tra Taranto e i popoli del Salento erano iniziate già al momento della for mazione dell’insediamento greco sulle coste del golfo ionico, alla fine dell’VIII secolo a.C. In quegli anni, i rapporti si erano andati sviluppando in un lungo periodo, non solo attraverso conflitti, ma soprattutto all’interno di una rete complessa di traffici commerciali, condivisione di culti, trasferimento di artigiani, favorendo il formarsi di una cultura originale, pur mantenendo la specificità delle lingue: il greco, a Taranto, e il messapico, parlato e scritto in tutto il Salento. I Greci indicavano la penisola salentina, con il termine di Messapia, ossia «Terra di Mezzo», perché era posta tra i mari Ionio e Adriatico, e anche tra culture diverse, gli Illiri
Egnazia
Morfologia (valori in m s.l.m.)
N NO
High: 520,000000
E
SO
SE
S
0
Low: 5,000000
20 Km
Carovigno San Vito dei Normanni Brindisi Ceglie Messapica. Muro Tenente
Follerato
Oria Taranto
S. Elia
Mar Ionio
Mare Adriatico
Mesagne Muro Maurizio Valesio
Manduria San Pancrazio Salentino Lecce Rudiae Li Castelli Cavallino
Nardò
Rocavecchia
Soleto
Otranto
Muro Leccese Alezio
Vaste
Dimensioni stimate in ettari Non classificabile Meno di 10 Da 10 a 50 Da 50 a 100
Castro Ugento I Fani
Vereto
Oltre 100
In alto: cartina della Messapia in età arcaica. Qui accanto: epigrafe latina da Rudiae. Monteroni, Palazzo Ducale. Nel testo si ricorda Tuccius Cerialis, un liberto nominato cavaliere da Adriano che assegnò al municipio cittadino un lascito di 80 000 sesterzi. A sinistra: cippi da Otranto. Lecce, MUSA, Museo Storico-Archeologico dell’Università del Salento.
sulle coste dell’Albania e dell’Epiro, i coloni greci a Occidente, e poi, a Oriente, le grandi poleis elleniche come Corinto, Atene, Sparta.
REALTÀ CANTONALI In questa «Terra di Mezzo», i Messapi avevano creato un sistema insediativo molto complesso, formato da realtà cantonali che ruotavano intorno a centri dominanti, posti nelle pianure interne, protetti da fortificazioni poderose, che racchiudevano una superficie superiore ai 100 ettari. Intorno a essi si trovavano gli insediamenti secondari, che potevano raggiungere anche i 60 ettari; le campagne erano costellate di fattorie, alcune munite di mura di difesa, mentre sulle coste fiorivano gli approdi portuali come Gallipoli, 40 a r c h e o
NE
O
Otranto, Castro (vedi la ricostruzione in apertura di questo articolo), ancora oggi splendide cittadine affacciate su un mare azzurrissimo. Alcuni di questi insediamenti maggiori sono stati scavati con metodi scientifici, dando origine a significativi interventi di tutela; pensiamo a Ugento, a Muro Leccese, a Oria o a Vaste; altri, come Nardò, sono stati investiti, in anni recenti, da una furia distruttiva che ha creato orrende periferie di cemento là dove si conservava uno straordinario paesaggio rurale salentino di oliveti e vigneti e, nel sottosuolo, le mura di fortificaNella pagina accanto: trozzella con rappresentazione del duello tra Diomede ed Enea a Troia. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.
Segno distintivo della cultura materiale dei Messapi sono le trozzelle, vasi in ceramica decorata con caratteristiche rondelle, chiamate ÂŤtrozzeÂť nel dialetto salentino
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zione, le case, i luoghi di aggregazione e di culto dei Messapi: di tutto questo restano ormai soltanto pochi vasi in ceramica, qualche terracotta figurata, alcune monete. Segno distintivo dell’identità messapica era la lingua, conservatasi in un corpus straordinario che supera le 500 iscrizioni; in esse viene utilizzato l’alfabeto greco, ma con alcuni segni specifici come quello a tridente. I glottologi hanno riconosciuto nel messapico una lingua di provenienza balcanica, affine all’illirico 42 a r c h e o
CAVALLINO A sinistra: ricostruzione dell’insediamento messapico nel VI sec. a.C. Qui sotto: ricostruzione di un quartiere abitativo del medesimo insediamento nel VI sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: la Porta Nord-Est (VI sec. a.C.) con la Torre di Zeus.
che si parlava nelle regioni interne dell’Albania antica, ma che non ha lasciato traccia epigrafica, sopraffatto dalla scrittura greca, utilizzata nelle colonie elleniche della costa, come Epidamno e Apollonia. Anche nell’artigianato l’identità messapica era indicata dalla funzione di un vaso e dalla sua forma immediatamente riconoscibile, la trozzella, cosí chiamata per le caratteristiche rondelle poste a decorare le anse (trozze nel dialetto salentino). Ma i Messapi si distinguevano dai
UN MODELLO INNOVATIVO Il Museo Diffuso di Cavallino costituisce un’esperienza innovativa di tutela e di gestione di un’area archeologica, realizzata tra il 2002 e il 2004, su un progetto elaborato da Francesco Baratti, insieme a chi scrive, grazie a finanziamenti della Regione Puglia, e con il supporto dell’Amministrazione Comunale e dell’allora sindaco, Gaetano Gorgoni. Il Museo Diffuso è oggi diretto da Grazia Semeraro e le attività sul campo sono coordinate da Corrado Notario.
Greci soprattutto per il modo, totalmente diverso, di organizzare il loro spazio insediativo: grandi cinte che racchiudevano spazi non costruiti, destinati all’agricoltura e al pascolo, gruppi di case che si disponevano in modo naturale nel paesaggio, seguendo le leggere curve di livello delle pianure salentine, luoghi di culto in ambienti naturali e grotte. Nulla che ricordasse i rigorosi impianti ortogonali di poleis greche come Metaponto o Sibari, dove la regolarità degli isolati
Dall’esperienza di Cavallino hanno preso avvio gli Ecomusei del Salento, in cui le aree e i paesaggi archeologici sono diventati oggetto di tutela e valorizzazione diffusa, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali, secondo le indicazioni della Carta Europea del Paesaggio. Per saperne di piú: Francesco Baratti, Ecomusei, paesaggi e comunità. Esperienze, progetti e ricerche nel Salento, con presentazione di Francesco D’Andria, Franco Angeli, Milano 2012.
richiama l’esigenza di una divisione egualitaria, tra i coloni, dei lotti di terreno da utilizzare sia per lo sfruttamento agricolo che per le strutture abitative. La cultura messapica ha lasciato testimonianze di notevole importanza proprio a Lecce, attuale capoluogo del Salento e nota soprattutto per i monumenti del barocco. La città si trova al centro della penisola salentina: dal campanile del suo Duomo è possibile osservare (segue a p. 46) a r c h e o 43
SCOPERTE • PUGLIA
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CAVALLINO Disegno ricostruttivo con alcuni guerrieri in uscita dalla Porta Nord-Est dell’insediamento messapico.
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sia il mare Adriatico che lo Ionio e, in alcune giornate invernali senza foschia, anche le catene montuose dell’Albania.
I TRE CUORI DI UN POETA A 3 km dal centro storico, sorge inoltre una vasta area archeologica, corrispondente alla città messapica di Rudiae, che Strabone definí polis hellenis, «città greca». Probabilmente il geografo fa riferimento con questa espressione al poeta Ennio, uno dei fondatori della letteratura latina, autore degli Annali, il quale diceva di avere «tria corda» («tre cuori»), poiché conosceva tre lingue: il greco, l’osco e il latino. Quinto Ennio nacque infatti a Rudiae e giunse a Roma come schiavo, distinguendosi per le doti intellettuali ed entrando a far parte del circolo degli Scipioni. Nel IV secolo a.C. Rudiae era il centro cantonale dominante di questa zona centrale del Salento, con una superficie abitativa di circa 110 ettari; nello stesso periodo Lecce costituiva invece un centro secondario, con una superficie di 50 ettari, ma era cinta da mura che ancora oggi ne delimitano la forma urbana, anche se obliterate quasi completamente dalle fortificazioni spagnole di Carlo V, con i suoi bastioni monumentali e i fossati. In un antico palazzo del suo centro storico, già nel Settecento, era noto uno straordinario monumento: una tomba a tre camere, indicata come ipogeo Palmieri, dal nome dei proprietari della residenza. Nel corridoio di ingresso (dromos) si dispiegano due fregi, intagliati nella morbida «pietra leccese», con motivi caratteristici dell’arte ellenistica tarentina: girali vegetali abitati da uccelli ed Eroti, fregi con combattimenti tra guerrieri che richiamano cicli scultorei piú famosi, come quelli del mausoleo di Alicarnasso. A 3 km di distanza verso est, in direzione della costa adriatica, ai margini del piccolo centro di Cavallino, si trovano i resti di un altro insedia46 a r c h e o
mento messapico di circa 65 ettari, delimitato anch’esso da un profondo fossato, scavato nel banco di roccia, e da una fortificazione realizzata con grandi massi, di forma e dimensioni diverse, che rivela caratteri arcaici nella tecnica costruttiva. L’abitato rappresenta infatti un esempio di insediamento sviluppatosi nel VI e nella prima metà del V secolo a.C., quando venne abbandonato, molto probabilmente a causa di devastanti eventi bellici, riconoscibili nella distruzione delle mura, nel contemporaneo e voluto riempimento delle cisterne e nelle tracce di incendio. Non si riscontrano inoltre tracce significative di frequentazione dopo questo periodo, quando l’abitato sembra trasferirsi piú a ovest, nella piana di Lecce, in corrispondenza dell’insediamento di Rudiae che, nel corso del V e del IV secolo a.C. raggiunge un’estensione e un’importanza ragguardevoli. I ritrovamenti nelle sue necropoli, a partire dal Settecento, hanno infatti incrementato le collezioni locali, andan-
do a costituire il nucleo piú significativo del Museo Provinciale, oggi intitolato al patriota risorgimentale Sigismondo Castromediano. La centralità di Rudiae in questo ambito territoriale dovette mantenersi anche dopo la conquista romana e fu probabilmente sostenuta anche dal prestigio intellettuale che a Roma aveva assunto Ennio, uno dei prigionieri portati nella capitale dopo la conquista: tra essi vi erano uomini di raffinata cultura, come Livio Andronico, tarentino, che aveva tradotto in latino l’Odissea di Omero o Pacuvio, originario di Brindisi, autore di tragedie e nipote dello stesso Ennio.
LA FEDELTÀ RIPAGATA Soltanto in età augustea Lecce, il cui nome antico era Lupiae, assurse al ruolo di centro principale, relegando Rudiae in secondo piano. Gli scrittori antichi come Appiano o Nicolao di Damasco, spiegano perché la città acquisí questo primato; essi si riferiscono alle vicende seguite all’assassinio di Giulio Cesare,
nel 44 a.C.: il diciannovenne Ottaviano si trovava allora ad Apollonia (oggi in Albania) e, nel viaggio di ritorno a Roma, fu costretto a rifugiarsi a Lecce, per evitare potenziali nemici che controllavano il RUDIAE porto di Brindisi. In alto: pianta dell’insediamento. Nella città salentina egli ricevette la copia del testamento di Cesare che A sinistra: particolare di una lo riconosceva come figlio ed erede; con l’inizio del principato augusteo, pelike attica a infatti, la città fu dotata di monufigure rosse con Polinice che dona menti prestigiosi, come il teatro e l’anfiteatro, ed ebbe un Foro sul la collana di Armonia a Erifile, quale si affacciava il Capitolium. A tale edificio appartengono probabilda Rudiae. mente i grandi capitelli ionici in Lecce, Museo marmo, rinvenuti in quest’area, che Provinciale riprendono i motivi decorativi «Sigismondo dell’Eretteo di Atene, riportati in Castromediano». auge proprio nel clima classicistico Nella pagina accanto: un tratto promosso da Augusto. di strada basolata Per tutta l’età imperiale le clientele di Lupiae continuarono a coltivare di età romana. a r c h e o 47
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con successo i rapporti con il potere centrale: Marco Aurelio vantava origini messapiche poiché il suo antenato era Dasummus, figlio del re salentino Malemnius, fondatore di 48 a r c h e o
Lecce. Di fatto, la città divenne il centro principale del Salento tra il I e il V secolo d.C., mantenendo questo ruolo nel corso del Medioevo, sino ai nostri giorni.
Queste complesse vicende insediative hanno permesso la formazione di una realtà straordinaria, costituita da tre centri archeologici posti a breve distanza uno dall’altro, in
LUPIAE/LECCE In alto: ricostruzione della città in età romana. A sinistra: pianta del centro storico: in rosso, le mura messapiche; in verde, le mura spagnole; in blu, il teatro e l’anfiteatro di età romana.
una sequenza in cui Cavallino fiorisce dal VI agli inizi del V secolo a.C., Rudiae diventa centro dominante dal V secolo a.C. all’età di Augusto, quando Lecce acquista il
primato che conserva ancora. Si tratta di una stratificazione orizzontale, in cui tre abitati antichi, ciascuno con una propria specificità, formano una realtà complessa
che abbiamo definito «Sistema delle tre Città». A Cavallino le ricerche sistematiche iniziarono già negli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ambito a r c h e o 49
SCOPERTE • PUGLIA
di una collaborazione tra Università di Lecce e Scuola Normale Superiore di Pisa, a cui si aggiunse poi l’École Française di Roma; a Lecce negli ultimi anni si è sviluppato un Progetto di archeologia urbana, in collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica della Puglia (Luigi Tondo) e l’Università del Salento.
era stata indicata nell’Ottocento con il toponimo di Circo. Tuttavia, a Rudiae, alcuni tratti di muro affioranti con andamento curvilineo e la grande forma ellittica evidenziata dalle foto aeree richiedevano un’attenta verifica sul terreno; questa era iniziata nel 2011, con un intervento limitato, che aveva però evidenziato il grande corridoio di ingresso (aditus), e un breve tratto di muro della recinzione esterna. Oggi, grazie a un finanziamento europeo POin, sono in corso scavi sistematici che, giorno dopo giorno, stanno rivelando le strutture, molto ben conservate, di un grande anfiteatro con un asse maggiore che supera gli 80 m. Lecce, dunque, possiede all’interno del suo territorio comunale ben due anfiteatri romani: un fenome-
vea poggia infatti su un poderoso aggere di pietre e terra, delimitato da un muro a blocchi squadrati accuratamente lavorati e messi in opera con grande maestria. Il suo vicino, a Lecce, è invece del tipo a struttura vuota, poiché i sedili della cavea poggiano su una complessa serie di gallerie voltate.
CARATTERI ARCAICI L’INDIZIO DECISIVO Gli anfiteatri a struttura piena sono quelli piú antichi e si datano all’età Ancor piú di recente, dopo una repubblicana, come quello di Pomserie di eventi negativi, con propei – costruito nell’80 a.C. –, che getti di lottizzazione che avevano costituisce l’esempio piú celebre messo in pericolo la conservazione anche per il suo straordinario stato del sito, sono iniziate ricerche sidi conservazione. Ma altri edifici stematiche anche a Rudiae. Finandello stesso tipo si conoscono, per ziamenti europei hanno permesso esempio, a Cuma o in altre città, la creazione del Polo Didattico prevalentemente tra Lazio e Camdell’Archeologia, destinato ai rapania. L’edificio di Rudiae offre gazzi delle scuole medie e, proprio adesso nuovi spunti di rial centro dell’insediaflessione alla conoscenza mento antico, il Comune Nel corso del V e del IV delle prime fasi di imdi Lecce ha potuto acquidi questi particostare una vasta area indisecolo a.C., Rudiae fu uno pianto lari edifici: la struttura cata come Fondo Anfiteutilizza blocchi proveatro, dove un avvallamendei centri piú importanti nienti dalle vicine cave di to di forma ovoidale, già della penisola salentina «pietra leccese», lo stesso nell’Ottocento, aveva materiale che ha permessuggerito la possibilità che, nel sottosuolo, fosse presente no raro che trova pochi confronti so la realizzazione delle meraviun edificio destinato ai ludi gladia- tra le antiche città dell’Impero! gliose chiese barocche. torii. Tuttavia, questa suggestione Molto piú noto e meta di visita da Anche la tecnica costruttiva preera rimasta a livello di ipotesi, sen- parte dei turisti è l’altro edificio senta caratteri piú arcaici rispetto za essere recepita dalla letteratura dello stesso tipo, che si trova nel all’anfiteatro di Lecce, dove i muri centro del capoluogo salentino: sono in opera reticolata e le volte scientifica. Chi scrive, qualche anno fa, aveva scoperto alla fine dell’Ottocento in tecnica cementizia: a Rudiae abanche avanzato dubbi sulla pre- da Cosimo De Giorgi, venne por- biamo invece strutture isodomiche senza di un anfiteatro, proponen- tato alla luce durante il periodo a bugnato, che richiamano i modo di riconoscere nella grande fascista, insieme al teatro, nel clima delli costruttivi tardo ellenistici, diffusi in particolare nelle vicine depressione, una formazione tipi- di esaltazione della romanità. ca della natura carsica di questo Recenti studi hanno permesso di regioni dell’Epiro e dell’Albania. territorio, una sorta di dolina che, datare sia l’anfiteatro che il teatro Anche gli archi di accesso alle scain età messapica, doveva essere all’età augustea, quando il vecchio lette che collegano l’arena alla cautilizzata come lacus, bacino di insediamento messapico di Lupiae vea sono ricavati da un unico blocraccolta delle acque piovane che fu trasformato in città, con gli edi- co. I primi saggi stratigrafici nel confluivano dalle superfici del ter- fici che la caratterizzavano come riempimento della cavea, inoltre, ritorio circostante, costituendo tale, rendendola una parva imago restituiscono ceramica ellenistica a una preziosa risorsa per l’alleva- Urbis. Ma l’anfiteatro di Rudiae si pasta grigia compatibile con una mento degli animali. Anche nel distingue dal suo vicino leccese per datazione dell’edificio a un periovicino abitato arcaico di Cavallino il fatto di appartenere al tipo piú do compreso tra la fine del II e gli una simile formazione naturale antico di questo genere di edifici, inizi del I secolo a.C. era utilizzata allo stesso scopo ed quello a struttura piena. La sua ca- Molto particolare è inoltre la posi50 a r c h e o
zione del monumento, che sorse proprio nel centro dell’antico abitato messapico, come si è detto, in corrispondenza della dolina: in generale, a causa dell’afflusso degli spettatori e dei veicoli in occasione dei munera gladiatoria e delle venationes – cacce con animali feroci –, questi edifici erano collocati in aree periferiche delle città, onde evitare ingorghi e affollamenti. Anche a Lecce l’anfiteatro si trova ai margini della città romana che aveva il suo centro nel Foro, in corrispondenza dell’odierna piazza Duomo. A Rudiae la posizione centrale dell’anfiteatro si spiega invece con il fatto che, al momento della sua costruzione, si volle sfruttare la forma ovale della dolina, la quale, con limitati interventi, fu adattata a ospitare la cavea e l’arena.
UNA SINERGIA VINCENTE Il Progetto Anfiteatro di Rudiae (elaborato dagli architetti Roberto Bozza e Enrico Ampolo) ha ricevuto un Finanziamento POin FESR 2007-2013. I lavori si svolgono sotto l’egida del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, attraverso la Soprintendenza Archeologia della Puglia, diretta da Luigi La Rocca; ispettore per il territorio di Lecce, Rino Bianco; il Comune di
IL FORO DI RUDIAE Accanto all’anfiteatro dovette svilupparsi, nel corso del II e del I secolo a.C., il Foro, polo pubblico della nuova città che si andava costituendo con la trasformazione funzionale degli spazi del precedente centro messapico. A sud-ovest di esso, corre una bella strada basolata che lo divide da un complesso architettonico caratterizzato da un portico e da un edificio di culto del quale si sono ritrovate le fondazioni del recinto e della cella. Si è ora compreso inoltre che, prima della costruzione dell’anfiteatro, la dolina era effettivamente usata come riserva d’acqua: lo prova la presenza di canali scavati nel banco di roccia, che confluiscono nella parte centrale dell’avvallamento in cui, in seguito, venne ricavata l’arena. Il paesaggio di quest’area in età messapica, tra il IV e il III secolo a.C., era dunque caratter izzato dalla presenza dell’acqua raccolta nel lacus, circondato da muri di terrazzamento in blocchi di calcarenite che correvano lungo i bordi della conca, In questa pagina: i resti dell’anfiteatro a sostegno di una strada, evidente- di Rudiae in una foto da drone (in alto)
Lecce, grazie all’impegno del Sindaco, Paolo Perrone, e dell’Assessore ai Lavori Pubblici, Gaetano Messuti, ha promosso le varie fasi del Progetto. Le attività di scavo sono condotte dalla Ditta Nicolí di Lequile (Le) e dalla Società A.R.V.A, spin-off dell’Università del Salento, con il coordinamento sul campo di Caterina Polito.
e la ricostruzione virtuale del monumento (qui sopra). a r c h e o 51
SCOPERTE • PUGLIA
L’IMPERATORE RITROVATO Nella sede del MUST-Museo Storico Città di Lecce, ospitato nell’antico convento delle Clarisse, che si affaccia sul Teatro Romano, è stata allestita la mostra «L’imperatore torna sulla scena», a cura di Katia Mannino e di chi scrive. L’iniziativa prende le mosse dalla riscoperta di una statua loricata in marmo che apparteneva
mente funzionale al passaggio degli armenti che erano portati ad abbeverarsi. Durante la prima età imperiale, in prossimità dell’anfiteatro doveva trovarsi un luogo che ospitava un ciclo statuario, con immagini di personaggi della famiglia imperiale. Nel corso dello scavo dell’aditus sud-orientale si sono rinvenuti numerosi frammenti di statue in marmo, tra le quali notevole risulta parte di un togato velato capite; il frammento di una testa con pettinatura riferibile ad Agrippina Minore, permette di attribuire il ciclo a età giulio-claudia. Anche se gradualmente superata da Lupiae per rilevanza istituzionale, Rudiae continua a svilupparsi e a utilizzare i suoi edifici pubblici durante tutta l’età imperiale. Lo attestano numerose iscrizioni: non lontano dall’anfiteatro infatti fu rinvenuta nel Settecento, un’epigrafe in calcare, portata poi nel vicino Palazzo Ducale di Monteroni e qui murata sopra un camino.
LA MUNIFICENZA DI UN EX LIBERTO Il testo ricorda Tuccius Cerialis, un liberto che era stato nominato cavaliere dall’imperatore Adriano e che viene indicato come patrono della città, il quale assegna al municipio cittadino un lascito di ben 52 a r c h e o
alla decorazione della scena del Teatro. Realizzata in collaborazione tra la Soprintendenza Archeologia della Puglia, il Comune di Lecce e la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici «Dinu Adamesteanu», dell’Università del Salento, la Mostra, è stata inserita nelle celebrazioni per il Bimillenario della morte di Augusto.
80 000 sesterzi, una cifra considerevole, al fine di commemorare, nel giorno del suo compleanno, il figlio scomparso prematuramente. Solo a partire dal IV secolo d.C. ci sono segni molto evidenti di una interruzione dei munera, poiché la conca della cavea iniziò a essere utilizzata come una grande discarica, coprendo le strutture sotto una coltre di terreno alta circa 4 m, che
Frammento di statua raffigurante un imperatore con corazza, dal teatro romano. Lecce, MUST, Museo Storico Città di Lecce. In basso: frammento di testa di statua di Agrippina Minore dall’anfiteatro di Rudiae. Lecce, Archivio Laboratorio Archeologia Classica Università del Salento.
ne ha permesso la straordinaria conservazione. Lo scavo archeologico sta ora asportando le varie gettate, riferibili alle attività quotidiane che si svolgevano in città: scarichi di focolare molto ricchi di ceneri, scarti di pasti e di macellazione, resti delle demolizioni di edifici, scorie di ferro. I reperti ceramici, in particolare le sigillate africane e le anfore da trasporto, restituiscono un quadro straordinario delle produzioni locali e delle importazioni provenienti in grande quantità dall’Africa proconsolare, tra il IV e il V secolo d.C., quando l’abitato di Rudiae sembra essere stato gradualmente abbandonato. Con la conclusione degli scavi e dei restauri di questo nuovo e inedito anfiteatro romano, si potrà realizzare un ambizioso progetto di riattivazione della struttura, per ospitare manifestazioni musicali e teatrali e per inserire quest’area suburbana di grande valore storico e paesaggistico, nel tessuto culturale di Lecce.
MOSTRE • FIRENZE
Atleta con Strigile (Apoxyomenos di Efeso)
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1-50 d.C., bronzo. Vienna, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung. Rinvenuto nel 1896, nelle Terme-Ginnasio del porto di Efeso, si presentava in 234 frammenti ed è oggi ampiamente considerato una copia di un originale greco del IV sec. a.C., accreditato alla scuola di Policleto, a Dedalo o a Lisippo.
IL POTERE DEI
GRANDI BRONZI UNA MOSTRA A PALAZZO STROZZI A FIRENZE ESPONE UNA STRAORDINARIA PANORAMICA DELLA STATUARIA DI ETÀ ELLENISTICA. UN PERCORSO SCANDITO DA NUMEROSI CAPOLAVORI PROVENIENTI DAI PRINCIPALI MUSEI ITALIANI E INTERNAZIONALI di James Bradburne, Timothy Potts, Earl A. Powell III
Statuetta di Alessandro Magno a cavallo I sec. a.C., bronzo con intarsi in argento. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 55
MOSTRE • FIRENZE
L
a rappresentazione artistica della figura umana è centrale in gran parte delle culture antiche, ma è la Grecia il luogo in cui ha avuto maggiore importanza e influenza sulla storia dell’arte successiva. Che si trattasse di raffigurare dei immortali, eroi mitici, guerrieri caduti, atleti vittoriosi o altri personaggi celebri, l’interesse dei Greci verso la resa della forma, del carattere e dello status dell’individuo – il piú delle volte maschile – mediante la rappresentazione scultorea del suo corpo sfociò in una delle conquiste artistiche piú eccezionali e illustri della storia. (segue a p. 60)
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Eracle Epitrapezios
I sec. a.C.I sec. d.C., bronzo e calcare. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Recuperata nel 1902 da una villa vicino al fiume Sarno, costituiva l’elemento centrale di un programma scultoreo collocato nel giardino.
ELLENISMO: CENNI STORICI Il termine Hellenismus è stato creato dalla storiografia ottocentesca, per designare il periodo della cultura greca compreso tra le conquiste di Alessandro Magno (336-323 a.C.), la battaglia di Azio (31 a.C.) e la conquista romana dell’Egitto e la morte di Augusto (14 d.C.), primo imperatore. Alessandro era figlio di Filippo, sovrano di Macedonia che nel 338 a.C. aveva assoggettato le poleis greche. La fine delle poleis non aveva però significato l’interruzione della continuità culturale del mondo greco. I Macedoni avevano assorbito molti elementi della cultura ellenica; Filippo aveva chiamato alla sua corte il filosofo Aristotele come precettore per il figlio, ed è probabile che artisti greci lavorassero nella Macedonia dell’epoca. Filippo aspirava a capeggiare la rivincita dei Greci sui Persiani, sogno che fu realizzato da Alessandro, poi chiamato «Magno». Dalle sue imprese nacque un impero enorme, esteso dalla Macedonia e dai confini dell’Etiopia all’Indo. Morto Alessandro di febbri a trentatré anni nel 323 a.C., l’impero si divise in tre grandi regni nelle mani dei suoi generali, i Diàdochi (successori): ai discendenti di Tolemeo andò il regno d’Egitto; a quelli di Seleuco l’Asia Minore; e ai discendenti di Antigono il regno comprendente la Grecia e la Macedonia. Detti ellenistici, questi regni furono disgregati dalla pressione dell’impero romano agli inizi del II secolo a.C. Il progetto vagheggiato da Alessandro era di fondere la cultura greca e quella orientale, e le monarchie ellenistiche cercarono di realizzare quell’ideale promuovendo una cultura unitaria e una koiné linguistica. Si tentò di costringere le altre società – ritenute «barbare» dai Greci – ad accettare il modello culturale ellenico. La koiné linguistica garantí un bacino di circolazione dal Mediterraneo occidentale all’India. I tratti comuni appaiono da un lato il tradizionalismo, il culto e la conservazione del passato, dall’altro un ripiegamento intimistico e l’abbandono dei temi civili che avevano caratterizzato la cultura greca. Fervidissime furono la ricerca e l’erudizione; nacquero biblioteche (come quella di Alessandria d’Egitto), gli antichi linguaggi divennero oggetti di studio, passi avanti furono compiuti nell’ambito della ricerca scientifica, con il matematico e
fisico siracusano Archimede o il matematico, fisico e astronomo Aristarco di Samo. L’ellenizzazione delle culture orientali trasformò profondamente il modello originario: dello spirito greco si accolsero le manifestazioni esterne. L’arte greca classica coincideva con l’ideologia della polis e la cultura greca si impose con l’abbandono dei concetti di «utilità» e di «servizio». Non piú rivolta alla città e ai cittadini, l’arte giardò alla corte e ai despoti. L’artista di corte doveva celebrare il monarca e le sue imprese attraverso la ricerca del fasto e della grandiosità a cui l’arte greca aveva rinunciato. La diffusione dei modelli orientali era facilitata dalla caduta delle barriere fra gli Stati; gli artisti provavano interesse per le nuove genti: in un clima di cosmopolitismo, l’arte si internazionalizzava. Non essere piú al servizio delle poleis significava per gli artisti essere al servizio delle corti, ma anche dei committenti privati. Questo favorí lo studio e la rappresentazione del privato, dell’elemento quotidiano, privo di eccezionalità, di eroismo, di grandezza. Gli artisti – nelle arti figurative, la poesia, il teatro – cominciarono a rappresentare le attività quotidiane degli artigiani. Fu il trionfo del realismo e dell’individualismo: si spiega cosí lo straordinario sviluppo in età ellenistica del ritratto, strumento di indagine psicologica per eccellenza. I soggetti non sono idealizzati, ma resi dal vivo, belli o brutti; gli artisti vogliono che i ritratti esprimano la complessità dei sentimenti, l’intima essenza dei modelli. In età ellenistica l’arte, non piú legata alla committenza della polis, è emanazione delle raffinate corti orientali, al cui interno la cultura greca si confronta e si contamina con i linguaggi dei territori conquistati da Alessandro. L’eleganza di costumi e la connotazione culturale si uniscono a una straordinaria competenza tecnica; cosí, il dominio dei mezzi espressivi porta la scultura al limite del virtuosismo formale, con forte accentuazione veristica, fino al raggiungimento di effetti illusionistici e accentuatamente patetici.
Figura maschile IV-III sec. a.C., bronzo. Atene, Eforia delle Antichità Sottomarine. Recuperata nel 2004 nei pressi dell’isola di Citno, la statua raffigura probabilmente un atleta, forse un discobolo. All’interno è stata ritrovata una massa di argilla consolidata, forse residuo della tecnica di fusione a cera persa.
MOSTRE • FIRENZE
Statuetta di Eracle in riposo III sec. a.C. o I sec. d.C (?), bronzo e argento. Chieti, Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo. La scultura è una copia di un bronzo di Lisippo del IV secolo a.C., e riporta una dedica a un facoltoso mercante del I secolo d.C..
Augst
Zuglio
Venezia
Vele Orjule Fiesole
Livorno
Arezzo
Pesaro Sanguineto Todi
Piombino
Lago di Bolsena
Corsica
Mare Adriatico
Sulmona
Roma
San Giovanni Lipioni
Castel Gandolfo
Sardegna
Ercolano Pompei
Napoli Baìa
Mar Tirreno
Brindisi
Salerno Saponara
Ugento
Riace Marina Porticello Mazara del Vallo
Sicilia
Mar Ionio
Mar Caspio Shami
Kermanshah Laodicea Seleucia Babilonia
Takht-e Sangin Ai Khanum Begram
Susa
Memfi
Mar Rosso Meroe
Tamna
Mar Arabico
Luoghi di ritrovamento dei bronzi in terraferma Luoghi di ritrovamento dei bronzi in mare Altri luoghi e siti archeologici menzionati nei testi
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IL MEDITERRANEO DEI GRANDI BRONZI
Mar
Un piccolo capolavoro La statuetta, raffigura Ercole in riposo dopo aver compiuto le dodici fatiche. La mano dietro la schiena reggeva originariamente i pomi delle Esperidi, andati perduti.
Nero
Sipka
Costantinopoli Derveni
Calcedonia
Tessalonica Vergina Dion Agiostrati
Dodona
Cizico
Mar Egeo
Pergamo Capo Artemisio
Delfi
Kyme
Calcide
Tebe Megara
Olimpia Megalopoli
Maratona Atene Corinto Pireo
Licosoura
Citno
Samo
Didyma
Delo
Messene
Efeso
Afrodisia
Alicarnasso
Calimno Rodi
Citera
Anticitera
Creta Ierapetra
M a r Cirene
Tiro
M e d i t e r r a n e o
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MOSTRE • FIRENZE
Molti fattori contribuirono alla traiettoria peculiare della scultura greca tra la fine del VII e il II secolo a.C., ma il piú rilevante fu senz’altro l’ossessione verso un sempre maggiore naturalismo: lo sforzo concertato, tramite un attento esame dell’anatomia e dell’articolazione corporea, volto a rappresentare la figura com’era «realmente», rispetto alle immagini stereotipate di Egizi, Fenici e altri popoli coevi. Il punto di partenza (ispirato quasi sicuramente alla scultura egizia) era il kouros: un giovane uomo nudo a grandezza naturale o superiore, con
una gamba avanzata, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo fisso di fronte a sé. In principio, l’affrancamento da questa forma rigida e statica si manifestò semplicemente nella muscolatura, che assunse via via contorni piú naturali, insieme a una resa piú realistica di capelli e lineamenti facciali.
NUOVI GESTI E NUOVE POSE La portata e la rapidità dei mutamenti vissero un exploit dal 480 a.C. circa, con una proliferazione radicale di nuovi gesti e posizioni che riflettevano la distribuzione
naturalmente irregolare del peso del corpo, fosse esso a riposo – posa chiastica – o in movimento. Alla fine dell’età classica (330 a.C. circa) gli scultori greci avevano raggiunto un’abilità straordinaria, senza precedenti nell’arte mondiale, nell’imitare la disposizione e la forma plastica del corpo. Tuttavia, la figura classica, malgrado l’elevata sofisticazione formale, restava fisicamente idealizzata (quella maschile quasi sempre avvenente e atletica) e psicologicamente vuota, lasciando che fosse l’osservatore, edotto della narrativa mitologica, storica o letteraria attinente, ad ascrivere al sog-
Eros Dormiente III-II sec. a.C., bronzo. New York, Metropolitan Museum of Art. Ritenuta scoperta a Rodi, la statua è realizzata in bronzo cavo con la fusione indiretta a cera persa, e presenta una patina verde in superficie. La rappresentazione del piccolo dio dormiente si discosta dai tipi della statuaria classica che lo raffigurano invece come un giovane capriccioso. Le sembianze di bambino di Eros dimostrano che questa scultura aderisce alla tradizione mitica che si diffuse in età ellenistica, che lo vedeva come frutto dell’unione tra Afrodite, dea dell’amore e Ares dio della guerra.
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Medaglione con il busto di Atena Prima metà del II sec. a.C., bronzo e pasta di vetro bianco. Salonicco, Museo Archeologico. Ritrovato nel 1990 a Salonicco, in piazza Kyprion Agoniston, tra i resti, verosimilmente, del palazzo reale macedone. Decorava la parte anteriore di un lussuoso carro da parata, la testa è realizzata per fusione mentre il bordo è battuto. La dea è raffigurata secondo il tipo dell’Atena Promachos o Alkidemos, particolarmente cara ai re macedoni, l’elmo che indossa è coperto dalla maschera di Medusa.
MOSTRE • FIRENZE
I MEDICI E L’ANTICO: COSIMO IL VECCHIO E LORENZO IL MAGNIFICO Per il rapporto di Cosimo il Vecchio con l’antico, profondamente evocativo e creativo, fu fondamentale l’incontro, avvenuto nel viaggio a Roma del 1427, con la «maestà devastata» dell’architettura romana. L’umanista Poggio Bracciolini aveva lasciato in eredità a Cosimo tre teste provenienti da Rodi e altre sculture si trovavano nel cortile e nell’«orto» del palazzo di via Larga, oggi noto come Medici Riccardi. Anche Vasari
Statua ritratto di Aule Meteli – «L’Arringatore» Fine del II sec. a.C., bronzo. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Rinvenuta nel 1566 sul lago Trasimeno, è realizzata in dimensioni appena maggiori del vero, e richiama nello stile le esperienze figurative della tarda repubblica. È una statua votiva in onore di un personaggio di spicco della gens dei Meteli, come indica l’iscrizione in etrusco in basso sulla toga.
conferma la passione di Cosimo e del nipote Lorenzo il Magnifico per le sculture classiche: «Cosimo de’ Medici [che] avuto di Roma molte anticaglie, aveva dentro alla porta del suo giardino, o vero cortile, che riesce nella via de’ Ginori fatto porre un bellissimo Marsia di marmo bianco, impiccato a un tronco per dovere essere scorticato; perché volendo Lorenzo suo nipote, al quale era venuto alle mani un torso con la testa d’un altro Marsia antichissimo e molto piú bello che l’altro e di pietra rossa, accompagnarlo col primo, non poteva ciò fare essendo imperfettissimo» ne affidò il restauro ad Andrea del Verrocchio. Probabilmente fu il primo marmo antico di grandi dimensioni a entrare in Palazzo Medici. La bronzea Testa di cavallo detta «Medici Riccardi», esposta alla mostra di Palazzo Strozzi, appartenne certamente alla collezione di Lorenzo il Magnifico. Nel 1560 Cosimo I compí il suo primo viaggio a Roma, che forní non solo nuovi modelli di regalità all’iconografia ducale, ma anche stimoli culturali all’ambiente erudito e al linguaggio degli artisti. Per l’esigenza di decorare la nuova reggia, Palazzo Pitti, e la «Galleria» degli Uffizi, si innestò un meccanismo caratterizzato da una frenetica campagna di acquisti di statue antiche, condotta con l’aiuto di intermediari romani quali i cardinali vicini ai Medici o gli stessi artisti toscani: Vasari e Dosio passarono intere stagioni a Roma a copiare monumenti e statue delle collezioni pontificie e patrizie, alcune delle quali giunsero a Firenze tramite donazioni.
getto una vera drammaticità o intensità emotiva. Solo nella successiva età ellenistica – soggetto di questa mostra – gli artisti greci si dedicarono di comune accordo alla raffigurazione di quanto era esplicitamente «non ideale» – le molte contingenze della fisionomia autentica, come la pelle raggrinzita, la pancia prominente e l’incipiente calvizie di Sileno, o il volto sgradevole del poeta – enfatizzando la dimensione drammatica e psicologica dell’arte narrativa, nella furia sanguinaria della battaglia come nella pacifica contemplazione del filosofo o nel pathos solitario della morte. Furono gli scultori ellenistici che per primi spinsero al limite gli effet-
Fece parte della collezione di Cosimo il cosiddetto Arringatore (esposto a Palazzo Strozzi). La statua, con ogni probabilità proveniente da un santuario, venne casualmente alla luce, durante lavori agricoli, in località Sanguineto presso il lago Trasimeno e, come racconta il Vasari, fu consegnata a Cosimo I de’ Medici nel settembre del 1566. Rimase nelle stanze private di Cosimo in Palazzo Pitti fino alla morte del principe, per confluire già dal 1587 nel primo nucleo della Galleria degli Uffizi, voluta dal nuovo granduca Francesco. Anche la grande statua bronzea di Minerva (ugualmente in mostra a Strozzi) – rinvenuta nel 1541 ad Arezzo, nello scavare un pozzo nella parte alta della città – passò nel 1551 nelle collezioni di antichità di Cosimo I de’ Medici; dal 1559 Minerva, dea della guerra e della sapienza, decorò lo Scrittoio del duca. L’inventario redatto alla morte di Cosimo I registra nel 1574 un gruppo di antichità in Palazzo Vecchio, e un vero e proprio nucleo museografico a Pitti, nella «Sala delle Nicchie», dove era radunato il frutto di un’intensa opera di raccolta da lui voluta. Si trattava comunque di una sede precaria che fu parzialmente modificata con l’arredo della «Galleria delle Statue» degli Uffizi, nel 1588, un ambiente neutro architettonicamente, nel quale la funzione decorativa era delegata proprio alle sculture, gran parte delle quali antiche, ma con inserimenti «moderni» quali opere di Donatello, Michelangelo e Bandinelli: quasi che gli artisti toscani fossero eredi diretti degli antichi.
Atena (Minerva di Arezzo) 300-270 a.C., bronzo e rame. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Scoperta ad Arezzo nel 1541, la statua riprende le forme della cosiddetta Atena Vescovali, una copia in marmo il cui archetipo sarebbe stato creato nel IV secolo a.C. dalla bottega dello scultore Cefisodoto il Vecchio. L’elmo, corinzio, presenta una civetta in rilievo, una patina di rame riveste le labbra, mentre gli occhi, perduti, erano in materiale diverso dal bronzo. L’assenza di esemplari di comparabile livello tecnico in Etruria negli stessi anni, porta a suggerire un’origine magno-greca.
i confini della cultura greti drammatici dei panneggi ondeggianti, dei capelli diIn seguito alle conquiste ca come mai prima. In contesto d’un tratto sordinati, delle smorfie a di Alessandro, scuole di questo cosmopolita, la Grecia ridenti stretti; fu per mano loro che le forme esteriori scultura sorsero anche in mase un punto focale dell’innovazione artistica, della scultura divennero ugualmente espressive del Turchia, Egitto e in Oriente ma sorsero importanti scuole di scultura anche trionfo e della tragedia interiori; ed è nelle loro immagini a quotidiana o lo scontro tra Achille e nei nuovi domini greci quali Turchia, Egitto e Medio Oriente. grandezza naturale che vediamo per i Troiani. la prima volta una rappresentazione L’età ellenistica fu inaugurata da La scultura ellenistica giunta sino del tutto credibile di individui ed Alessandro Magno, che con le sue a noi è perlopiú in marmo, eppueventi reali, fossero essi scene di vita conquiste su scala mondiale ampliò (segue a p. 66) a r c h e o 63
MOSTRE • FIRENZE
IL RESTAURO DELLA TESTA DI CAVALLO MEDICI RICCARDI Non vi sono dati sulla provenienza e le circostanze di rinvenimento della protome, che appartenne a Lorenzo il Magnifico ed è nota come «Medici Riccardi», dal nome del palazzo in cui per secoli fu conservata: prima della cacciata dei Medici, si trovava nel giardino del palazzo mediceo di via Larga, come appare dagli atti di confisca dei beni della famiglia, che la citano come una «testa di bronzo di cavallo che era nell’orto». Il 1494 è dunque un termine ante quem, ma non sappiamo quando la statua sia entrata nelle raccolte medicee. Il confronto di questo bronzo sia con la Protome Carafa (attribuita a Donatello, come già affermato da Giorgio Vasari, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli perché Lorenzo nel 1471 l’aveva donata a Diomede Carafa, Consigliere di Ferdinando I, re di Napoli), che con la testa del cavallo del Monumento equestre al Gattamelata, realizzato da Donatello tra il quinto e il sesto decennio del Quattrocento, indica una forte analogia formale tra il modello antico e le due opere «moderne». Donatello, cui i Medici affidarono la cura di tutti i loro reperti antichi, parrebbe dunque aver studiato direttamente questa Testa anche prima della sua partenza per Padova, alla fine del 1443: se cosí fosse, dovremmo pensare che quest’opera figurava tra le «anticaglie» di Cosimo il Vecchio già in tempi precedenti al trasferimento della famiglia nel nuovo palazzo michelozziano (1458 circa). La passione del Medici per le sculture classiche è del resto confermata da Vasari, laddove ricorda, a proposito del Marsia (oggi agli Uffizi) posto all’ingresso del secondo cortile del palazzo, che Cosimo aveva «avuto di Roma molte anticaglie». Dopo la confisca del 1494-1495 la Testa fu conservata a Palazzo Vecchio, per essere restituita ai Medici dopo il loro rientro a Firenze nel 1512: essa tornò allora nei giardini del palazzo di via Larga, fino a quando, poco dopo la metà del Seicento, Bartolomeo Cennini la restaurò e venne adattata a bocca di fontana; piú tardi (dopo il 1672) fu accostata, sempre con la stessa funzione, a una statua celebrativa del marchese Francesco Riccardi, nuovo proprietario del palazzo. Nel 1815 fu esposta agli Uffizi, da dove nel 1890 raggiunse il Museo Archeologico, ospitato nel Palazzo della Crocetta.
Testa di cavallo detta Medici Riccardi Seconda metà del IV sec. a.C., bronzo. Firenze Museo Archeologico. Originale greco di grande realismo anatomico, faceva parte di una grande statua perduta.
La scultura, che riveste caratteri di assoluta eccezionalità, è uno dei pezzi piú significativi nel panorama dei bronzi delle collezioni fiorentine, esemplificando efficacemente la ricchezza dei grandi bronzi antichi, rappresentanti divinità, imperatori, o anche semplici cittadini, presenti in gran numero nelle città antiche. La fame di metalli dell’Alto Medioevo, periodo in cui le statue di bronzo venivano smembrate per essere rifuse, ha contribuito alla quasi totale scomparsa dei grandi bronzi. Anche la testa Medici Riccardi costituisce un’eloquente testimonianza di questi scempi: è infatti evidente che il cavallo era montato, come dimostra la barra del morso ancora visibile all’interno della bocca. Non rimane altro dei finimenti e delle briglie; si conserva invece la lingua, per quanto anch’essa realizzata a parte e poi inserita. Degli occhi, originariamente inseriti in materiale diverso, non restano che le orbite vuote. Il cavallo, raffigurato in posizione dinamica, con la bocca aperta, stirata dall’azione del morso, le labbra che scoprono i denti fra i quali si intravede la lingua, le froge dilatate, presenta caratteristiche anatomiche di grande verismo, in particolare il tracciato delle vene, le orecchie con il bordo peloso, il taglio dell’occhio, le pieghe cutanee, unitamente al ciuffo frontale legato in alto e alla corta criniera a spazzola. In base alla tecnica di lavorazione e ai dati stilistici, la statua è stata interpretata come un originale greco databile tra la fine dell’età classica e l’inizio dell’età ellenistica (seconda metà del IV secolo a.C.). La frattura alla base del collo fu mascherata dal restauro di Bartolomeo Cennini, che, tra il 1660 e il 1665, vi applicò un collare a fascia con il cartiglio. Il restauro, che si deve alla generosità della Fondazione no profit Friends of Florence, è stato condotto da Nicola Salvioli e diretto da Mario Iozzo, con la supervisione di Stefano Sarri (Centro di restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana). Il bronzo della protome presenta la caratteristica superficie di un manufatto metallico di scavo, rimasto per molto tempo sepolto. In passato deve probabilmente aver subito una pulitura chimica molto forte, che ha rimosso buona parte delle patine nobili formatesi nei secoli. Il già citato intervento di Bartolomeo Cennini determinò l’attuale appoggio e la posizione della testa; probabilmente fu sempre lui a rimuovere i medaglioni e le fibbie che
adornavano la testiera e delle cui attaccature rimane traccia. Su tutta la superficie bronzea sono presenti residui di calcare risalenti al periodo in cui l’opera fu usata come bocca d’acqua. A differenza di quel che si potrebbe immaginare, l’acqua non doveva sprizzare dalla bocca, che pure è aperta, ma dal foro che si apre all’estremità del ciuffo frontale: all’interno della bocca, infatti, non vi sono tracce di calcare, che invece si concentrano proprio nella parte alta della testa. Al momento del trasferimento della protome agli Uffizi, il calcare fu eliminato attraverso una pulitura meccanica, che graffiò parte della superficie. In seguito l’opera subí certamente trattamenti di omogeneizzazione e manutenzione a base di sostanze cerose, anche pigmentate, che offuscavano la superficie. Sono state anche eliminate le corrosioni instabili e rinvenuti vari residui di doratura, in quantità molto superiore a quanto finora visibile a occhio nudo. La pulitura, eseguita negli ambienti stessi del Museo Archeologico ma sempre nel rispetto dell’opera e del pubblico, ha visto l’alternarsi di tecniche chimiche a base acquosa e di solventi supportati da gel, mentre la rifinitura meccanica ha consentito di rimuovere i residui calcarei e le corrosioni, poi inibite. Tale combinazione ha permesso di raggiungere le patine naturali e di rilevare i dettagli della lavorazione e della doratura. La campagna diagnostica ha permesso di approfondire le conoscenze tecnologiche dell’opera in quanto originale greco e distinguerne le modifiche e le aggiunte nei vari interventi di riparazione e restauro susseguitisi nel tempo. Con l’occasione, è stato rivisto anche il supporto ligneo ottocentesco e con l’ausilio della scansione 3D, formulata attraverso simulazioni, è stata realizzata una nuova ipotesi di supporto. a r c h e o 65
MOSTRE • FIRENZE
re la statuaria in bronzo godeva di maggiore prestigio nell’antichità, attirando i mecenati e gli artisti piú eminenti. La superficie scintillante riproduceva al meglio la pelle lucida di atleti e guerrieri in una nudità eroica. I delicati intarsi in rame, argento e oro risaltavano i dettagli di diademi, occhi, labbra, capezzoli, orli delle vesti e
altri elementi, con un’accuratezza preclusa al marmo. Purtroppo il bronzo era anche facile da rifondere e riciclare, cosí si è persa ogni traccia archeologica di molte tra quelle che dovevano essere migliaia di sculture spettacolari prodotte in tutto il mondo ellenistico. Le opere in questa mostra sono le piú pregiate tra i pochi esemplari
Testa di Apollo Citaredo I sec. a.C.-I sec. d.C., bronzo. Salerno, Museo Archeologico Provinciale. Rinvenuta da un pescatore nel Golfo di Salerno nel 1930, la testa era assemblata su un corpo andato perduto. Realizzata in fusione indiretta a cera persa, la statua è stata assemblata e quindi rifinita con cesello e bulino.
conservati. Da questo campione, per quanto limitato, si evince che in epoca ellenistica la qualità tecnica dei bronzi monumentali (a grandezza naturale) aveva raggiunto nuovi livelli di sofisticazione. Sorprende la resa straordinariamente dettagliata di vene, rughe, tendini e muscoli, associata a una vasta gamma di espressioni facciali, cosí come la maestria necessaria a gettare, saldare e rifinire oggetti compositi di tali dimensioni.
VERTICI A LUNGO INEGUAGLIATI Questo livello di perizia tecnica in bronzo è stato eguagliato solo di rado – dopo l’antichità bisogna aspettare il Quattrocento, con Ghiberti, per trovare opere analoghe in termini di dimensioni e finitura. Raccogliendo una selezione dei piú pregiati bronzi monumentali dal mondo ellenistico, questa mostra offre un’esperienza unica della scultura greca al culmine della sua espressività. È un punto di arrivo, non solo perché di lí a poco la Grecia sarebbe stata assorbita nell’impero romano in ascesa (il conquistatore conquistato dalle arti del vicino piú civilizzato, come osserva il poeta Orazio), ma soprattutto perché la tradizione naturalistica della scultura figurativa aveva raggiunto un livello di perfezione difficilmente superabile. Al suo apice, la scultura ellenistica non lascia nulla da desiderare o da migliorare. DOVE E QUANDO «Potere e pathos. Bronzi del mondo ellenistico» Firenze, Palazzo Strozzi fino al 21 giugno Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 (giovedí, 10,00-23,00) Info tel. 055 2645155; www.palazzostrozzi.org Catalogo Giunti Editore
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NEL SEGNO DI DIONISO UN MAGNIFICO MOSAICO PAVIMENTALE DELL’ETÀ TARDO-IMPERIALE HA «RIPOSATO» INDISTURBATO, PER OLTRE UN MILLENNIO, SOTTO LA CRIPTA DELLA CATTEDRALE DI REGGIO EMILIA. UN RECENTE INTERVENTO DI SCAVO L’HA RIPORTATO ALLA LUCE E LA SPLENDIDA COMPOSIZIONE FA ORA BELLA MOSTRA DI SÉ NEL MUSEO DIOCESANO di Renata Curina
R
egium Lepidi (l’odierna Reggio Emilia) fu fondata dal console Marco Emilio Lepido intorno al 175 a.C., ovvero in un periodo corrispondente alla seconda fase di colonizzazione che definí il processo espansionistico dei Romani nella Pianura Padana. All’inizio del I secolo a.C. la città assunse il caratteristico sistema di assi ortogonali tipico degli impianti di fondazione romana, mentre, tra la metà del I secolo a.C. e il I d.C., si assiste alla maggiore fior itura dell’insediamento. Quest’ultima è attestata nell’edilizia privata dalla presenza di domus con architetture impostate sul binomio atrio e ambienti di rappre68 a r c h e o
A sinistra: il magnifico mosaico pavimentale venuto alla luce nella cripta della Cattedrale reggiana di S. Maria Assunta e realizzato in occasione della ristrutturazione di una ricca domus della Regium Lepidi romana. IV sec. d.C. In basso, sulle due pagine: alcune immagini di uccelli raffigurati nel tappeto musivo: una gazza (a sinistra) e un pavone (qui sotto).
sentanza con ornamenti di pregio, pareti affrescate, pavimenti in signino o a mosaico. Scavi condotti tra il 2004 e il 2009 nella Cattedrale reggiana di S. Maria Assunta, hanno quindi contribuito a evidenziare l’intensa attività edilizia e insediativa che aveva investito la città in età imperiale e tardo-antica, permettendo inoltre di comprendere anche la trasformazione urbanistica avvenuta appunto tra il tardo antico e l’Alto Medioevo.
A OCCIDENTE DEL FORO In età romana, l’area oggi occupata dalla Cattedrale e dal Palazzo Vescovile corrispondeva a due isolati che dovevano collocarsi tra il primo e il a r c h e o 69
SCOPERTE • REGGIO EMILIA
secondo cardine a ovest del maximus e in prossimità del foro. Nella prima età imperiale questi erano occupati da fabbricati variamente articolati, ma, tra l’ultimo quarto del III e il IV secolo d.C., venne attuata una imponente ristrutturazione, frutto di un progetto unitario di costruzione di un edificio, esteso forse per un intero isolato e affacciantesi sul cardine ritenuto il limite occidentale dell’area forense. Di questo complesso edilizio l’ambiente piú importante, per dimensioni e composizione decorativa, doveva essere proprio il pavimento figurato policromo recuperato nel corso dello scavo archeologico all’interno della cripta e che ora è esposto in una sala del Museo Diocesano di Reggio Emilia. Delimitato da una cornice a treccia, il tappeto musivo presenta una struttura geometrica con motivi circolari simmetrici interrotti da campi quadrangolari in cui sono rappresentate coppie di personaggi; all’interno dei cerchi, bordati anch’essi da una treccia policroma, sono iscritti riquadri animati da danzatori con cembali e danzatrici, mentre negli spazi romboidali tra gli 70 a r c h e o
elementi circolari sono raffigurati volatili dalle piume variopinte. Gli elementi geometrici e figurati si fondono cosí da creare un disegno ricco e complesso, caratterizzato da un’intensa policromia. Dei grandi pannelli figurati che in origine arricchivano il pavimento dell’ampia sala, quasi sicuramente quattro a coronarne uno centrale, sono oggi chiaramente visibili i due orientali, mentre si intuisce la presenza di quello centrale, perduto; da un ulteriore pannello a ovest proviene un frammento mutilo con figura maschile (attualmente non esposto).
UN DIADEMA DORATO I riquadri presentano coppie a figure intere contrapposte. In uno di essi, un uomo coperto da un mantello fermato sul petto da una fibula, cinto da un diadema dorato, regge due anatre e un tralcio mentre avanza verso una donna; questa tiene un pesce con la lenza e con la sinistra trattiene il velo che le copre il capo e le ricade fino ai piedi. Nell’altro figura una giovane donna con corona di rose affiancata da un uomo coronato di edera, che tiene un pedum (bastone da pastore, curvato alla
sommità, usato nell’antichità grecoromana e spesso attributo di divinità agresti, n.d.r.) nella mano sinistra e con la destra offre alla fanciulla, in un gesto delicato, una rosa. Nell’insieme le scene sembrano provviste di un contenuto miticoallegorico, forse gravitante in ambito dionisiaco; nello stesso tempo la scelta dei simboli che caratterizzano
In questa pagina: planimetria ricostruttiva del mosaico, inserita nelle strutture della Cattedrale. Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario: altri particolari della composizione: un frammento oggi isolato dalla porzione meglio conservata, nel quale si vede una figura maschile; un danzatore che si accompagna suonando i cembali; una danzatrice.
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SCOPERTE • REGGIO EMILIA
i singoli personaggi sembra ricondurre anche al tema dell’acqua e della terra, allo scorrere del tempo e delle stagioni. Nel riquadro di destra per chi entrava nell’aula, quindi, la giovane donna raffigurata potrebbe personificare la primavera, caratterizzata dalla corona di rose, mentre il gesto dell’uomo che le porge un bocciolo sembra amplificare il significato della rappresentazione. Nel riquadro di sinistra, la donna ammantata e con canne palustri sul capo potrebbe rappresentare l’inverno, mentre allo stesso modo l’uomo, anch’esso con ricco mantello, accresce il significato porgendole due anatre selvatiche, sempre simbolo di questa stagione. INVERNO Nel riquadro mutilo, infine, potrebbe essere raffigurata la personifica- I pannelli che sembrano potersi zione dell’autunno. identificare con altrettante allegorie
STAGIONI E COSTELLAZIONI La presenza dei personaggi maschili che tengono in mano gli elementi distintivi delle stagioni, sembra rafforzare e dilatare la simbologia sottesa nelle figure femminili; si potrebbe quindi supporre che accanto alla personificazione delle stagioni
dell’inverno e della primavera.
venisse rappresentata anche la costellazione di riferimento, quella di Boote per la primavera, quella di Orione per l’inverno. Se si accetta questa interpretazione, si deve tener conto di come anche i soggetti delle stagioni e dei mesi siano spesso in rapporto con temi PRIMAVERA
dionisiaci; Dioniso, infatti, viene considerato Kosmokrator (onnipotente), il dio che regola il corso delle stagioni e governa il ciclo dell’acqua, garante della fecondità della terra e della rigenerazione della vita. Nel progetto di recupero avviato nel 2002 dal Comitato per il Restauro della Cattedrale di S. Maria Assunta di Reggio Emilia è stato coinvolto il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, attraverso tre diverse Soprintendenze (Beni Archeologici, Beni Architettonici, Beni Artistici/Storici), che hanno operato in stretta collaborazione con la Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla e l’Ufficio Diocesano Beni Culturali. DOVE E QUANDO Museo Diocesano Reggio Emilia, via Vittorio Veneto 6 Orario fino al 07.06 e dal 05.09 al 31.10: ma e ve, 9,30-12,30; sa-do, 9,30-12,30 e 15,30-18,30; dal 10.06 al 26.07: me, 21,00-22,30, ve, 9,30-12,30 e 21,00-22,30, sa-do, 9,30-12,30 e 16,00-19,00; chiuso dal 27.07 al 04.09 Info tel. 0522 1757930; e-mail: beniculturali@diocesi.re.it; www.archeobo.arti.beniculturali.it
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SPECIALE • MUSEO EGIZIO DI TORINO
FESTA EGIZIANA SI È INAUGURATO A TORINO IL NUOVO ALLESTIMENTO DEL MUSEO EGIZIO: LA RACCOLTA VOLUTA NEL 1824 DA CARLO FELICE DI SAVOIA HA SAPUTO RINNOVARSI IN MANIERA ESEMPLARE, VALORIZZANDO AL MEGLIO I SUOI TESORI INESTIMABILI. UNA VISITA IN ANTEPRIMA di Stefano Mammini, con un’intervista a Christian Greco reportage fotografico di Mimmo Frassineti
R
addoppiare dimezzando: l’ossimoro ben si presta a sintetizzare la strategia che ha guidato il progetto di rinnovamento del Museo Egizio di Torino. La superficie espositiva della prestigiosa raccolta è stata infatti duplicata (e ha raggiunto i 10 000 mq circa) e in essa sono stati distribuiti 3300 reperti, vale a dire poco piú della metà dei 6500 inseriti nell’allestimento precedente. Cifre che, in sé, significano poco o forse nulla, ma delle quali non si fatica a percepire l’importanza visitando le nuove sale dell’Egizio: la sensazione, infatti, è quella di un contenitore arioso e ben
Sulle due pagine: una veduta della Galleria dei Re, allestita al piano terra del Museo Egizio (vedi alle pp. 103-104). A destra: particolare di una statua in granodiorite raffigurante la dea Iside (o forse Hathor), da Copto. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C.
SPECIALE • MUSEO EGIZIO DI TORINO
articolato, nel quale i contenuti esprimono al meglio il proprio valore estetico e documentario. Può dunque dirsi vinta la scommessa di dare un volto nuovo a un’istituzione museale affermatasi nel tempo come una delle piú prestigiose al mondo nel campo dell’egittologia.
L’ATTO DI NASCITA Una delle prime grandi responsabilità che gravavano sulle spalle di chi ha voluto il rinnovamento era proprio quella di non tradire la storia del Museo Egizio, cercando di far percepire al visitatore l’atmosfera culturale che ne aveva visto la nascita, nel 1824, per iniziativa di Carlo Felice di Savoia. Per questo, nell’articolazione del percorso espositivo, il criterio antiquario che aveva connotato l’allestimento della raccolta originaria è stato in prevalenza soverchiato da un approccio piú marcatamente archeologico, ma senza che quest’ultimo divenisse esclusivo. E, soprattutto, la prima sezione del nuovo museo, dislocata al primo piano ipogeo, è dedicata appunto alla sua storia. Anzi, il punto di partenza ci riporta ancor piú indietro del 1824, poiché il reperto che apre l’esposizione è la Mensa Isiaca, una tavola in 76 a r c h e o
La Mensa Isiaca, una tavola in bronzo con altre leghe metalliche intarsiate negli alveoli, forse proveniente dall’Iseo Campense di Roma. I sec. d.C.
bronzo con inclusioni in rame, argento e niello, sulla quale si possono vedere alcuni geroglifici che non formano un’iscrizione di senso compiuto, ma hanno in questo caso una funzione puramente decorativa. Il curioso reperto, forse proveniente dall’Iseo Campense di Roma e databile al I secolo d.C., venne acquistato da Carlo Emanuele I nel 1626 e, tra i primi a studiarlo, vi fu l’erudito gesuita Athanasius Kircher (1602-1680). Una notazione non casuale, poiché, nel segno della circolarità perseguita dal nuovo proget-
PIANO -1 1. Storia del Museo
DALLE ARMI ALL’ARCHEOLOGIA Nato nel 1776 a Barbania (Torino), Bernardino Drovetti era figlio di un notaio del quale avrebbe dovuto seguire le orme. Ma, investito dalla bufera napoleonica che scosse l’Europa, nel giugno del 1796 si arruolò nell’esercito francese e fece una rapida e brillante carriera. Deposte le armi, divenne giudice a Torino, ma, nel 1803, decise di accettare l’incarico di sottocommissario francese alle relazioni commerciali, con sede ad Alessandria d’Egitto. Nell’anno seguente era già il rappresentante degli interessi francesi nel Paese nordafricano e si era accreditato come consigliere influente del pascià Muhammad Alí. Nel frattempo, in Francia la parabola di Napoleone volse al termine e, alla sua caduta, l’incarico diplomatico di Drovetti fu revocato, ma l’ormai ex sottocommissario scelse di rimanere in Egitto.
Da quel momento iniziò a interessarsi delle antichità egiziane, creando una rete di collaboratori che eseguivano prospezioni e scavi per suo conto. Nel giro di pochi anni, mise insieme una raccolta ricchissima, tanto che Drovetti pensò infine di alienarla: nel gennaio del 1824, dopo essere stata rifiutata dalla Francia, la collezione – comprendente 169 papiri, 102 mummie, 95 statue di grande valore –, fu acquistata dai Piemontesi. Nel 1829 lasciò l’amato Egitto, ed ebbe inizio un decennio di viaggi che lo portarono a raggiungere diverse città d’Europa. Negli anni Quaranta dell’Ottocento, ormai sessantenne, stanco di viaggi e avventure, Drovetti scelse di risiedere stabilmente in Piemonte, dedicandosi agli affari di famiglia e alla beneficenza. Morí nel maggio del 1852 a Torino, lasciando ai poveri il suo intero patrimonio. Stampa raffigurante Bernardino Drovetti (al centro) in Egitto, nel 1819.
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SPECIALE • MUSEO EGIZIO DI TORINO
ANTICO EGITTO: LE DATE
Mar Mediterraneo Porto Said Alessandria El Alamein
Il Cairo
3900-3000 a.C. circa
Periodo di Naqada
Suez
Giza
Saqqara
Sinai
Menfi Ain Sukhna
Periodo protodinastico (o thinita)
I-II dinastia
2600-2100 a.C. circa
Antico Regno
III-VI dinastia
2118-1980 a.C.
Primo Periodo Intermedio
VII-X dinastia
1980-1710 a.C.
Medio Regno
XI-XIII dinastia
1710-1550 a.C.
Secondo Periodo Intermedio
XIV-XVII dinastia
1539-1076 a.C.
Nuovo Regno
XVIII-XX dinastia
1076-722 a.C.
Terzo Periodo Intermedio
XXI-XXIV dinastia
Golfo di Suez
Gharib N il o
3100-2700 a.C. circa
Fayyum
De
el-Minya Beni Hassan
rt
Antinoupolis
o
Dairut
se
el-Ashmunein Hermopolis
Tell el-Amarna
Or ie
Assiut
nt al
Sohag
e
Akhmim el-Balyana
Qena Copto
Abido Dendera Tebe Deir el-Medina
Luxor
Gebelein Egitto
722-332 a.C.
Epoca Tarda
332-30 a.C.
Età tolemaica
XXV-XXX dinastia
N il o
Edfu
Kom Ombo
Assuan
Vasi con decorazioni dipinte raffiguranti ibis (a sinistra) e un’imbarcazione. Cultura predinastica di Naqada II, 3600-3350 a.C. circa. 78 a r c h e o
to espositivo, il dotto religioso, oltre a essere l’alfa del percorso, ne rappresenta anche l’omega: dal museo a lui intitolato provengono infatti i materiali che chiudono l’ultima sezione, dedicata all’epoca romana e tardo-antica.
18,5 METRI DI FORMULE Dopo la Mensa Isiaca e una pregevole statua in granodiorite della dea Iside proveniente da Copto, si incontra un altro dei documenti piú importanti della raccolta torinese: è il papiro di Iuefankh, che non solo è il piú lungo (18,5 m) tra quelli conservati, ma costituisce anche un documento imprescindibile per gli studi di egittologia. Su di esso, infatti, si conserva l’unica redazione integrale del Libro dei
In alto: una delle sale dedicate alla storia del museo. A destra: veduta integrale della statua di Iside (o Hathor) da Copto. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C.
PIANO 2
2. Epoca Predinastica/ Antico Regno 3. Tomba degli Ignoti/Tomba di Iti e Neferu 4. Medio Regno 5. Medio Regno/Nuovo Regno
SPECIALE • MUSEO EGIZIO DI TORINO
NEL SEGNO DELLE CONNESSIONI A colloquio con Christian Greco Dal febbraio del 2014, Christian Greco (classe 1975) è il Direttore della Fondazione Museo delle Antichità Egizie di Torino, la piú importante istituzione del genere in Europa. È stato docente del corso «Egyptian funerary archaeology and archaeology of Nubia and the Sudan» presso l’Università di Leida, il miglior centro di egittologia dei Paesi Bassi, e curatore di una delle
◆ Direttore Greco, attraversando
oggi le sale del Museo Egizio si ha la percezione di trovarsi all’interno di un’esposizione «nuova». È come se i reperti fossero appena emersi dagli scavi e esposti per la prima volta. Le sale che inaugurano il percorso di visita, però, ci rivelano la storia ormai secolare di questa istituzione… Per far fronte alla sua storia, ormai bicentenaria, il Museo Egizio ha affrontato un imponente progetto di rifunzionalizzazione, ampliamento e restauro. È lecito interrogarsi sul perché un’istituzione museale debba rinnovarsi e su quali siano stati i principi attorno ai quali il rinnovamento dell’Egizio si è sviluppato poiché il riordino di un museo implica necessariamente un ripensamento radicale. La volontà di tutto lo staff scientifico è stata quella di valorizzare la storia di un museo che ormai esiste da 200 anni e che ha deciso di dare dignità alla sua «metastoria», di raccontare la sua evoluzione all’interno del contesto storico- politico dell’Europa. Una storia che non vuole essere una sommatoria di elementi astratti, ordinati solo secondo un criterio cronologico, ma un
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collezioni egizie piú importanti d’Europa, quella del Museo delle Antichità di Leida. Greco ha anche partecipato alla missione epigrafica americana a Luxor e, da alcuni anni, è condirettore della missione archeologica olandese nel sito di Saqqara. Lo scorso 1° aprile ha inaugurato il rinnovato Museo Egizio e, in quell’occasione, lo abbiamo incontrato… racconto prosopografico, la storia di donne e uomini che hanno contribuito a formare, studiare e dare valore alla magnifica collezione che custodiamo. L’allestimento quindi ricostruisce contesti cultuali e abitativi e corredi funerari ma anche la storia delle missioni, la loro organizzazione, il loro modo di operare. È il motivo per cui documenti dell’epoca trovano posto nel nuovo allestimento che riporta anche visivamente l’Egitto nelle sale.
◆ Quello di Torino è il piú grande
museo dedicato alla civiltà egizia, dopo la raccolta del Cairo. Il nuovo allestimento, però, espone solo una parte, sebbene vastissima, dei reperti raccolti e custoditi nel Museo Egizio, a partire dalla sua fondazione, avvenuta nel 1824. Quali sono stati i criteri che hanno informato la vostra scelta? Le rispondo con una parola, un concetto, che ha guidato me e lo staff scientifico nella redazione del progetto scientifico e nell’allestimento delle nuove sale del Museo Egizio: connessioni. Il concetto di connessione materializza nel nuovo allestimento il metodo e lo strumento con cui si intendono valorizzare i contenuti della collezione nel quadro piú ampio della loro contestualizzazione
archeologica, prosopografica e antiquaria. Il concetto esprime in modo efficace l’orizzonte scientifico del nuovo Museo Egizio che, attraverso la ricerca e le collaborazioni internazionali, mira a connettere realtà museali e istituti di ricerca affinché i risultati conseguiti in diverse sedi possano illuminare le nostre collezioni e far proseguire lo studio su di esse. Inoltre uno dei piú importanti obiettivi che il museo si è posto è quello di ricomporre i disiecta membra, i reperti provenienti da un unico contesto di scavo ma che sono stati separati e sparsi tra le collezioni nazionali e internazionali, in modo tale che siano valorizzati e ricomposti i contesti archeologici e storici degli oggetti. Gli oggetti esposti sono, come sottolinea, solo una parte di quelli di cui il museo dispone: abbiamo preferito privilegiare la fruizione dei reperti e non il loro accumulo, la loro qualità intrinseca e non la quantità. Ciò che vogliamo offrire al pubblico è la possibilità di comprendere e godere appieno i reperti all’interno della loro contestualizzazione archeologica.
◆ Tra gli aspetti innovativi mi ha
colpito l’uso (elegante e non «intrusivo») di strumenti didattici e informativi, tra cui, per esempio, il video che ricostruisce,
mediante la dinamizzazione di fotografie vecchie e nuove, la tomba di Kha… Sono convinto che un museo che si presenta come centro di ricerca all’avanguardia capace di dialogare con realtà nazionali e internazionali, debba oggi confrontarsi con le nuove tecnologie: se queste non possono essere poste a cifra scientifica del nuovo allestimento, esse sono tuttavia in grado oggi di articolare e manifestare quella stessa cifra in modi che prima non era possibile fare. Sono convinto che queste tecnologie applicate alla didattica e all’informazione introducano nel nuovo allestimento del Museo Egizio di Torino un quid innovativo e distintivo. Un’attenta disamina delle fonti, unita a uno studio rigoroso ha portato, grazie alla collaborazione con l’istituto IBAM del CNR, a individuare un paio di corredi e a sviluppare per questi nuovi metodi di fruizione che offrono al pubblico un ausilio prezioso per comprendere e contestualizzare i reperti. Cosí sono state prodotte ricostruzioni digitali della tomba di Kha, della tomba di Nefertari e della Cappella di Maia. Il nuovo museo si avvale di altri supporti, già sperimentati dalle piú importanti raccolte internazionali, come la ricostruzione grafica su pannelli di quanto è andato perduto e l’uso di videoguide che accompagnino il visitatore, con una differenziazione fra percorsi per adulti e per bambini, con approfondimenti relativi agli oggetti e alla loro contestualizzazione.
◆ Parlando della tomba di Kha (o
anche delle straordinarie pitture della tomba di Iti e Neferu e di tanti altri complessi riallestiti), emerge con evidenza come il museo non rappresenti solo un grande percorso attraverso la civiltà dell’antico Egitto, ma
Morti, un formulario magico-religioso che conteneva le prescrizioni riservate al defunto per il suo viaggio nell’aldilà. Ci si trova quindi al cospetto di Bernardino Drovetti (vedi box a p. 77), il diplomatico piemontese senza il quale, di fatto, il Museo Egizio non esisterebbe: la sua collezione, infatti, acquistata dal Piemonte nel gennaio del 1824 (dopo essere stata rifiutata dalla Francia), per 400 000 lire, costituí il nucleo iniziale della raccolta. Le sale della sezione storica documentano dunque l’attività svolta da Drovetti negli anni in cui fu console francese in Egitto (1803-1830), sottolineando un aspetto non secondario delle sue esplorazioni. Seppur interessato al valore venale dei reperti, l’italiano fu infatti uno dei pochi a raccogliere (e proporre l’acquisto) non solo degli oggetti integri, ma anche dei frammenti.
IL «SECONDO FONDATORE» Dopo di lui c’è spazio per il «secondo fondatore» del Museo Egizio, Ernesto Schiaparelli (1856-1928), l’egittologo che ne assunse la guida nel 1894. A lui si devono, infatti, le campagne condotte in numerosi siti, tra cui Deir el-Medina e Gebelein, grazie alle quali la raccolta poté arricchirsi di migliaia di reperti. L’ampliamento delle collezioni, tuttavia, non fu merito del solo Schiaparelli e, in questo senso, si è scelto di rendere un omaggio piú che doveroso a tutti gli studiosi che con lui e dopo di lui operarono per conto del Museo Egizio: Francesco Ballerini (18771910),Virginio Rosa (1886-1912), l’antropologo Giovanni Marro (1875-1952), fino a Giulio Farina (1889-1947), che ne assunse la direzione nel 1928. Le loro missioni sono illustrate da reperti e documenti di varia natura e, soprattutto, da numerose foto d’epoca, nella maggior parte dei casi inedite. Il ricorso a queste preziose testimonianze è uno dei fili conduttori dell’intero allestimento e vuole richiamarne anche l’eccezionale valore documentario: la ricomposizione di molti contesti archeologici operata nelle varie sezioni è stata infatti resa possibile proprio dall’analisi delle fotografie in bianco e nero scattate nel corso delle campagne di ricerca. Istantanee che spesso parlano piú e meglio dei giornali di scavo e, per giunta, sono di indubbia suggestione. Merita inoltre d’essere segnalata la scelta di presentare una parte dei materiali riuniti in questa sezione all’interno di a r c h e o 81
SPECIALE • MUSEO EGIZIO DI TORINO
anche il racconto della grande stagione della ricerca archeologica italiana nel Paese del Nilo… Una considerevole parte della nostra collezione proviene dalle campagne di scavo condotte da Ernesto Schiaparelli nei primi vent’anni del Novecento. Il nuovo allestimento ha scelto di valorizzare il momento degli scavi attraverso la contestualizzazione archeologica, lo studio prosopografico e la ricostruzione della storia del reperto, sia come finestra sul mondo egizio sia come testimonianza di una storia affascinante e piú recente, quella appunto degli scavi e delle scoperte archeologiche.
◆ Il Museo Egizio rilancerà
questa stagione di ricerche?
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In quale luogo e su quali argomenti si concentrerà? Il museo si sta preparando a un’imminente quanto attesa campagna di scavo nella necropoli di Saqqara, che partirà a maggio 2015: si tratta di una missione congiunta con il Museo di Antichità e l’Università di Leida, che è titolare della concessione fin dal 1975, quando gli archeologi olandesi iniziarono lo scavo insieme ad archeologi inglesi dell’Egypt Exploration Society. Lo scavo interessa un’area del sito di Saqqara che rappresenta la vasta necropoli della capitale dello Stato faraonico di Menfi. Fino ad anni recenti i monumenti piú noti della necropoli di Saqqara erano le tombe delle prime dinastie, il complesso funerario e la celebre piramide del faraone Djoser (III dinastia), le piramidi dei faraoni della VI dinastia e le tombe dei funzionari di corte dell’Antico Regno.
Gli scavi olandesi-inglesi hanno invece messo in luce un’area della necropoli che ospita le tombe di ufficiali di altissimo rango vissuti durante il Nuovo Regno (1539-1076 a.C.) e in particolare quelle di importanti membri della corte dei faraoni della fine della XVIII dinastia. Fra questi ultimi il potente tesoriere Maya, vissuto al tempo del faraone Tutankhamon e il generale Horemheb. Gli scavi olandesi a Saqqara sono anche legati al filone di ricerca della ricostruzione dei contesti di provenienza di oggetti giunti nelle grandi collezioni europee nella prima metà dell’Ottocento (quindi privi di un contesto preciso). Per maggiori informazioni i lettori possono visitare il sito web http:// www.saqqara.nl/excavations
◆ L’inaugurazione del «nuovo»
Museo Egizio ratifica il ruolo chiave di questa istituzione nel quadro della cultura archeologica (e, vorrei aggiungere, umanistica) europea e occidentale.
Non possiamo ignorare, però, che l’evento si è verificato in un periodo molto critico per quanto riguarda la stessa sopravvivenza delle testimonianze monumentali e storiche del mondo vicino-orientale… Purtroppo in periodi di guerra e barbarie l’arte risulta essere troppo spesso una delle prime vittime, forse perché essa induce al pensiero critico, nemico di ogni fondamentalismo. Eppure, il particolare momento storico che stiamo vivendo ci fa avvertire con forza ancora maggiore la vicinanza verso il Paese da cui provengono le collezioni di cui siamo i custodi. Abbiamo l’onore di essere ambasciatori della civiltà dell’antico Egitto, una civiltà magnifica, che tanto ha influenzato anche il nostro Paese e la nostra cultura. Oggi piú che mai, siamo orgogliosi di poter far conoscere a un pubblico sempre piú vasto le meraviglie di questo mondo del passato. (a cura di Andreas M. Steiner)
Sulle due pagine: la teca che ospita il lungo papiro di Iuefankh (18,5 m), da Tebe. Epoca tolemaica, 332-30 a.C. Sul documento compare una redazione completa del Libro dei Morti, una raccolta di formule intese a facilitare i momenti del passaggio dell’anima dei defunti dalla vita terrena a quella ultraterrena.
due delle vetrine originarie del museo, a voler ribadire che il nuovo Egizio non dimentica chi è stato e da dove viene. Ultimata la visita della sezione sulla storia del museo, si può salire al secondo piano (il percorso è stato concepito come una discesa): lungo le rampe delle scale mobili, si viene accompagnati dal Grande Nilo, una suggestiva opera in tecnica mista realizzata da Dante Ferretti, che evoca il corso del fiume e, al contempo, vuol essere un omaggio dello scenografo ai «sacchi» di Alberto Burri.
PRIMA DEI FARAONI Il viaggio nell’Egitto archeologico si apre con il periodo predinastico e, in particolare, con i resti mummificati di un uomo vissuto nell’epoca definita Naqada II (3600-3350 a.C. circa). Si tratta di una mummia a tutti gli effetti, che, tuttavia, rispetto a quelle che s’incontrano nelle sale successive, è il risultato di un’azione naturale e non umana. Le spoglie dell’individuo si sono infatti conservate grazie alle particolari condizioni climatiche (una circostanza che caratterizza ampia parte dei reperti di un museo egittologico): l’eccezionale stato di conservazione di manufatti altrove scomparsi – per esempio oggetti in legno o fibre vegetali, tessuti o resti di derrate alimentari – si deve infatti al particolarissimo microclima dell’Egitto. La mummia giace in posizione fetale, accompagnata da uno scarno corredo, mentre, poco oltre, sfilano le manifestazioni piú significative della cultura materiale predinastica, come per esempio le tavolozze per cosmesi o i caratteristici vasi di colore rosso bruno e nero. Siamo alle soglie dell’età dei faraoni classica-
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mente intesa, ma non per questo dobbiamo immaginare una realtà povera e priva di immaginazione artistica: basti pensare al magnifico telo di lino dipinto trovato nel 1930 da Giulio Farina a Gebelein, nel quale compaiono scene di vita sul Nilo. Sfruttando lo sviluppo degli spazi, in questa parte del Museo Egizio sono stati ricavati due soppalchi. Il primo è destinato a mostre fotografiche temporanee (in questo momento vi è stata allestita quella che documenta il restauro del sarcofago di Butehamon, uno dei fiori all’occhiello della Galleria dei Sarcofagi; vedi oltre), mentre il secondo accoglierà i depositi visitabili del museo. Poiché, infatti, a fronte dei materiali esposti, ve ne sono molti di piú custoditi nei magazzini, si vuole fare in modo che anche questa parte essenziale del museo possa essere fruita dai visitatori. Una accessibilità che si potrà ottenere grazie alla rotazione dei reperti, conciliando cosí l’intenzione di ampliare l’offerta con le importanti esigenze di conservazione.Va ricordato, peraltro, che la stragrande maggioranza dei materiali – si pensi, per esempio, ai papiri o alle stoffe – è particolarmente deperibi-
In alto e nella pagina accanto: la sala dedicata all’epoca predinastica. In basso: resti mummificati di un individuo vissuto al tempo della cultura di Naqada II, 3600-3350 a.C. circa.
le e dunque, oltre ad adottare ogni accorgimento necessario in termini di illuminazione o tasso di umidità relativa, non può che giovarsi di un periodico avvicendamento.
RICOMPORRE I CONTESTI Con il passaggio all’Antico Regno, si incontra una delle sale simbolo del nuovo Museo Egizio: è quella che ospita i materiali recuperati in una tomba familiare scavata da Schiaparelli a Gebelein nel 1911. Databile alla V dinastia (2435-2305 a.C.), il sepolcro, rinve-
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nuto intatto, custodiva quattro sarcofagi, con i rispettivi corredi. Grazie al minuzioso rapporto di scavo redatto da Virginio Rosa, la tomba è stata «ricreata», distribuendo ogni elemento secondo la pianta disegnata al momento dell’esplorazione (e riportata nel pannello esplicativo della sala). Il contesto archeologico originario ha cosí ritrovato la sua unitarietà e, al tempo stesso, si è ottenuta un’immagine vivida e realistica di cosa significhi penetrare all’interno di un monumento funebre inviolato e ancora provvisto della sua suppellettile. Unica lacuna è l’identità dei defunti: nell’Antico Regno, infatti, i loro nomi venivano solitamente scritti sugli oggetti o sulle pareti della struttura esterna, qui perduta, ed è per questo che la tomba viene detta «di Ignoti». Subito oltre, si apre la vasta sala dedicata alla tomba di Iti e Neferu, scoperta anch’essa a Gebelein nel 1911. Si tratta di un monumento funerario di notevole interesse e importanza, sia per la sua straordinaria decorazione 86 a r c h e o
In alto: un particolare dell’allestimento delle pitture provenienti dalla tomba di Iti e Neferu, scoperta a Gebelein nel 1911. Primo Periodo Intermedio, 2118-1980 a.C. Nella pagina accanto: sarcofagi e corredi della tomba familiare detta «di Ignoti», scoperta anch’essa a Gebelein. V dinastia, 2435-2305 a.C.
pittorica, sia per l’articolazione architettonica. In particolare, davanti alle undici stanze destinate alla sepoltura, era stata eretta una fila di sedici pilastri che aprivano su un ampio cortile digradante verso la valle: con una scelta di notevole suggestione, questa successione di spazi e strutture è stata replicata all’interno del museo, collocando, al di là dei finti pilastri, una grande immagine retroilluminata del paesaggio che doveva effettivamente mostrarsi agli occhi di chi si fosse soffermato nel portico della tomba.
SCENE DI VITA QUOTIDIANA Anche in questo caso, quindi, si è voluta offrire una ricomposizione per quanto possibile fedele del contesto archeologico, includendovi l’elemento ambientale. Una scenografia spettacolare, che, tuttavia, non sminuisce la teoria dei dipinti, nei quali si succedono numerose scene legate alla preparazione delle offerte per il defunto: di conseguenza, vere e proprie «fotografie» degli usi
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e dei costumi dell’antico Egitto e delle attività di ogni giorno, come l’agricoltura e l’allevamento. A differenza della tomba «di Ignoti», quella di Iti e Neferu fu violata già in antico, ma ciò non ha impedito di individuarne i possessori, che furono, rispettivamente, un «Capo delle truppe» e «Tesoriere del re», e la sua consorte, vissuti nel Primo Periodo Intermedio (2118-1980 a.C.).
NAVIGARE SUL NILO Le attività quotidiane evocate dalle pitture della tomba di Iti e Neferu rappresentano un altro importante filo conduttore dell’allestimento del museo. All’interno della suddivisione principale, infatti, che è di tipo cronologico, i materiali sono spesso raggruppati secondo un criterio tematico: la navigazione sul Nilo, per esempio, è documentata dai numerosi modellini di barche recuperati nelle tombe. E, del resto, proprio per la sua connotazione «domestica», la suppellettile funeraria rappresenta, per lo studioso ma anche per il semplice appassionato, un osservatorio privilegiato: la civiltà egiziana, insomma, nota essenzialmente per le testimonianze legate alla morte e agli usi funerari, grazie alla certezza di un’esistenza ultraterrena, ci ha permesso di ricostruire fin nei minimi particolari lo svolgersi della vita terrena. In questa pagina: ushebty (a sinistra) e vasi canopi. Nuovo Regno, 1593-1076 a.C. Nella pagina accanto: modello di imbarcazione con rematori e baldacchino, sotto il quale viene trasportato un sarcofago (Medio Regno, 1980-1700 a.C.); in secondo piano, statua in legno dipinto raffigurante Djefahapi (XII dinastia, 1939-1759 a.C.).
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PIANO 1
6. Deir el-Medina 7. Tomba di Kha 8. Galleria dei Sarcofagi 9. Papiroteca 10. Valle delle Regine (Tomba di Nefertari) 11. Epoca Tarda 12. Epoca Tolemaica 13. Epoca Romana e Tardo-antica
A riprova di questa visione del ciclo esistenziale, ancora fra i reperti riferibili al Primo Periodo Intermedio, spiccano alcuni sarcofagi che presentano su uno dei lati lunghi due occhi udjat, dipinti in corrispondenza della testa della mummia deposta all’interno della cassa: una collocazione spiegabile con l’intenzione di permettere al defunto di «guardare» in direzione della porta del suo sepolcro.
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CERCANDO LA «SEDE DELLA VERITÀ»... L’esplorazione delle aree archeologiche dislocate sulla riva ovest di Tebe ebbe inizio all’indomani delle campagne napoleoniche. I primi scavi furono effettuati – tra il 1811 e il 1815 – da Bernardino Drovetti (vedi box a p. 77). I circa 3000 oggetti da lui recuperati, soprattutto nella zona di Karnak e Luxor, formarono la sua prima collezione di antichità, che, acquistata dai Savoia nel 1824, diede origine al primo Museo di Antichità Egizie. Intorno al 1880 Gaston Maspero visitò il museo di Torino e fu particolarmente attratto da alcune stele e documenti provenienti dalla collezione Drovetti, che portavano titoli connessi con le tombe regali, come quello di «segem ash em set maat», ossia «colui che ascolta la voce nella Sede della Verità» e ne riconobbe la provenienza da Deir el-Medina. Nel 1904 Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio e già allievo del Maspero, decise di intraprendere una campagna di ricerca sistematica nella zona. Fino a quel momento, infatti, erano state 90 a r c h e o
effettuate solo rapide esplorazioni, di cui una, particolarmente fruttuosa, aveva portato, nel 1886, alla scoperta, da parte di Maspero e dello spagnolo Toda, della tomba intatta di Sennedjen, con un magnifico corredo che fu purtroppo disperso tra vari musei. Nel 1905 Schiaparelli mise in luce varie piccole tombe dipinte, tra le quali quella del pittore Maia, mentre al 1906 risale la scoperta della tomba intatta dell’architetto Kha e di sua moglie Merit. Gli scavi italiani
continuarono fino al 1909, quando Schiaparelli abbandonò la concessione, che, dopo essere stata affidata per breve tempo al tedesco Georg Müller (1911-1913), prima dell’interruzione dovuta alla Grande Guerra, passò all’Istituto Francese di Archeologia Orientale.
Disegno ricostruttivo di una tipica casa di Deir el-Medina.
Di poco posteriore – risale infatti al Medio Regno e, in particolare, agli inizi della XII dinastia (1939-1840 a.C.) –, è invece un sarcofago che apre un’altra finestra sulle conoscenze degli Egiziani. All’interno del suo coperchio, infatti, figura una tabella in cui si vedono colonne con immagini di stelle, alternate a brevi testi: non si tratta, evidentemente, di una semplice decorazione, bensí di quello che gli studiosi hanno definito «orologio stellare diagonale», vale a dire un sistema periodico che indicava lo spostamento apparente di 36 stelle, dette «decani», permettendo cosí di calcolare in quale giorno e ora ci si trovasse.
LE STATUETTE «CHE RISPONDONO» Nella stessa sala fanno la loro comparsa gli ushebty, le statuette funerarie che cominciarono a essere deposte nelle tombe nel Medio Regno e continuarono a costituire una presenza costante fino all’età tolemaica. Il loro nome significa letteralmente «colui che risponde» (dal verbo usheb, «rispondere»), con riferimento al dialogo tratto dal Libro dei Morti che solitamente veniva riportato sul loro dorso. Realizzati in materiali diversi, come la faïence o il legno, spesso potevano essere collocati in cofanetti in legno dipinto ai quali si dava una forma simile a quella delle cappelle di epoca arcaica.
Nella pagina accanto, in alto: veduta del sito di Deir el-Medina, con i resti del villaggio degli operai. In basso: l’ostrakon in calcare con la figura di una danzatrice impegnata in un esercizio acrobatico, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, 1539-1076 a.C.
UNA VITA PER L’EGITTO Nato nel 1856 a Occhieppo Inferiore (Biella), Ernesto Schiaparelli è stato uno dei massimi egittologi italiani. Diresse il Museo Egizio di Firenze (dal 1881) e successivamente (dal 1894) quello di Torino, rivelando straordinarie qualità di organizzatore. Dal 1910 fu titolare della cattedra di egittologia presso l’Università di Torino. Dapprima con acquisti e poi, tra il 1903 e il 1920, conducendo importanti ricerche in varie località egiziane, quali Deir el-Medina e Gebelein, arricchí considerevolmente le collezioni del Museo torinese. Tra le sue scoperte piú importanti, vi sono la tomba dipinta di Gebelein, risalente alla XI dinastia, la tomba intatta dell’architetto Kha e della moglie Merit, e la tomba della regina Nefertari nella Valle delle Regine. Tra le principali opere pubblicate, Del sentimento religioso degli antichi Egiziani (1877), Il libro dei funerali degli antichi Egiziani (1882-90), Relazione sui lavori della missione archeologica italiana in Egitto (1924-27). Nominato senatore del Regno d’Italia nel 1924, Schiaparelli si spense a Torino nel 1928.
Assieme a quella degli ushebty, il Medio Regno fa registrare anche l’introduzione dei vasi canopi, i contenitori destinati ad accogliere le viscere estratte dal corpo dei defunti, al momento della mummificazione. I recipienti erano quattro, ciascuno dei quali contrassegnato da uno dei figli del dio Horo: Amseti, con la testa di uomo, conteneva il fegato; Duamutef aveva la testa di sciacallo e proteggeva i polmoni; Kebehsenuf era raffigurato con la testa di un falco e custodiva gli intestini; infine Hapi, con la testa di babbuino, vegliava sullo stomaco. Con le immagini realizzate per l’oltretomba e i canopi si chiude il percorso del secondo piano. Per scendere al livello successivo, è possibile servirsi dello scalone monumentale ottocentesco progettato da Alessandro Mazzucchetti. La reaa r c h e o 91
lizzazione del nuovo Museo Egizio ne ha comportato il restauro e cosí la struttura può essere ammirata nella sua imponenza originaria, sottolineata dalle false finestre dipinte ai lati di quelle vere, che danno luce a questa sezione dell’edificio.
NEL VILLAGGIO DEGLI OPERAI Il primo piano accoglie il visitatore con uno dei contesti che meglio ci avvicinano alla vita quotidiana dell’Egitto faraonico: l’esordio di questa parte del museo è infatti affidato alla ricca raccolta di materiali recuperati nel villaggio operaio di Deir el-Medina, dove Ernesto Schiaparelli lavorò dal 1905 al 1909. In quella località, ubicata in una vallata del Deserto Occidentale, nella regione di Tebe, furono infatti individuati i resti del villaggio nel quale abitarono gli operai e gli artigiani che, tra la XVIII e la XXI dinastia, lavorarono alla costruzione delle tombe reali. L’esplorazione di questo sito straordinario – che si presentò pressoché intatto agli archeologi, dal momento che fu abbandonato appunto agli inizi della XXI dinastia (vedi anche il box a p. 90) – ha restituito una messe copiosa di reperti e, soprattutto, ha permesso di effettuare uno dei primi studi di archeologia della produzione e di recuperare nel dettaglio non soltanto gli esiti materiali dell’attività di quella massa di manodopera, ma anche di ricostruirne aspetti fondamentali della vita sociale e dell’organizzazione del lavoro. Ricostruzioni non necessariamente anonime, 92 a r c h e o
In alto: la cassa del sarcofago di Kha un importante funzionario vissuto intorno all’epoca del Nuovo Regno, la cui tomba fu scoperta da Ernesto Schiaparelli a Deir el-Medina, nel 1906. XVIII dinastia, 1539-1292 a.C. Nella pagina accanto: la testa del coperchio del sarcofago antropoide di Merit, la moglie di Kha: è decorata con una parrucca lunga e striata e gli occhi sono intarsiati con vetro colorato.
poiché in piú d’un caso, soprattutto grazie ai papiri, è possibile associare nomi ben precisi ad alcuni dei tanti mastri artigiani e operai attivi a Deir el-Medina. E, proprio in questa sala, alcuni documenti scritti sono stati collocati in una grande teca trasparente, che permette cosí di vedere le iscrizioni vergate su entrambe le facce dei documenti. E merita d’essere segnalato quello noto come Papiro dello Sciopero, nel quale si dà conto delle proteste scoppiate al tempo di Ramesse III (1186-1155 a.C.): un documento di grande valore storico, che sembra cancellare in poche righe i trenta secoli che lo separano dal mondo contemporaneo.
LE ACROBAZIE DI UNA DANZATRICE Alle spalle di questa antichissima rivendicazione, non si può fare a meno di segnalare la presenza di un oggetto umile, destinato, però, a trasformarsi in uno dei simboli della raccolta torinese: è l’ostrakon (vocabolo greco che indica frammenti di terracotta utilizzati come supporto per schizzi o iscrizioni) sul quale si vede una ballerina in posizione acrobatica. Ascrivibile a un periodo compreso tra la XIX e la XX dinastia (12921077 a.C.) è un’immagine che, pur nella staticità imposta dalla bidimensionalità e da uno stile estremamente semplice (ma non rozzo), riesce a trasmettere il dinamismo del gesto, e, con un po’ di immaginazione, avvi(segue a p. 97)
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UN CAPOLAVORO E IL SUO DOPPIO La teca realizzata per la Cappella di Maia, un pittore vissuto alla fine della XVIII dinastia (1539-1292 a.C.), accanto alla quale è disponibile la postazione multimediale che ne propone la ricostruzione elaborata dall’IBAM-CNR (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Consiglio Nazionale delle Ricerche). Il piccolo sacello, facente parte della tomba dell’artista (scoperta a Deir el-Medina nel 1905), fu decorato con pitture a tempera, stese su un intonaco di fango e paglia, che furono distaccate e poi ricomposte a Torino. Le scene sono distribuite su tre registri e, nella parete di sinistra (che è quella visibile nella foto) compaiono immagini relative al trasporto del feretro e di compianto funebre, la presentazione delle offerte e tre imbarcazioni. Sul soffitto, voltato a botte, corre invece una vivace decorazione policroma a motivi geometrici.
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Veduta integrale (a destra) e un particolare del sarcofago dello scriba reale Butehamon, da Deir el-Medina. XXI dinastia, 1076-943 a.C. Sul petto, decorato da una collana usekh, si incrociano le braccia scolpite e dipinte.
cina l’ignota danzatrice di Deir el-Medina all’altrettanto ignoto acrobata che compie il salto del toro nel celebre affresco minoico scoperto nel palazzo di Cnosso. Sul fondo della sala si può invece ammirare la Cappella di Maia (vedi anche a p. 95): la piccola struttura (185 x 145 x 225 cm) è collocata in una nuova teca, che ne ha notevolmente migliorato la visibilità delle pitture che la decorano. Le scene, articolate su piú registri, illustrano ancora una volta la convinzione che ogni individuo fosse destinato a una seconda vita, ultraterrena. Le raffigurazioni hanno conservato la vivace policromia originaria, ma presentano varie lacune, alle quali si è scelto di ovviare con una postazione multimediale, che propone la ricostruzione tridimensionale del monumento e suggerisce la possibile fisionomia delle porzioni mancanti, realizzata, quest’ultima, sulla base di confronti con analoghi contesti e avvalorata dall’esistenza di canoni piuttosto standardizzati nella composizione di opere del genere. La ricostruzione costituisce il primo degli interventi curati dall’IBAM-CNR (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali del Consiglio Nazionale delle Ricerche), che, in casi come questo, integrano con efficacia il dato archeologico.
I TESORI DI UN FUNZIONARIO Un’installazione analoga è disponibile nella sala successiva, questa volta a integrazione della ricchissima suppellettile restituita dallo scavo della tomba di Kha, un importante funzionario vissuto intorno al 1400-1350 a.C., che si fece seppellire insieme alla moglie Merit a Deir el-Medina. Il suo sepolcro venne scoperto da Schiaparelli nel 1906, ma il suo nome era da tempo noto agli egittologi: già nel 1824, infatti, una stele funeraria che ritrae il funzionario insieme ai familiari era giunta a Torino, in quanto parte della Collezione Drovetti, e successivamente la sua cappella funeraria fu ripetutamente visitata dal francese Prisse d’Avennes e dal tedesco Lepsius. Fu però grazie a un altro grande egittologo francese, Gaston Maspero (1846-1916), a r c h e o 97
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che Schiaparelli poté scavare a Deir el-Medina e, fra gli altri, recuperare i materiali che avevano accompagnato Kha e Merit nel loro ultimo viaggio. Con un criterio affine a quello scelto per la tomba di Ignoti nella sezione dell’Antico Regno, l’esposizione del corredo «ricrea» le condizioni in cui i materiali si trovavano al momento della loro scoperta. Una soluzione alla quale fanno per forza di cose eccezione i sarcofagi, tre per Kha e due per Merit, presentati in successione cosí da poterne ammirare la splendida fattura. Il corredo che attornia le casse comprende un repertorio pressoché completo di tutto ciò che poteva costituire la dotazione personale del defunto per la sua vita nell’aldilà: in una sorta di fantastico bazar dell’antico Egitto, si possono vedere lettighe, sgabelli, contenitori di varia foggia, una folta parrucca, una ciotola di carrube, o,
A destra: la Galleria dei Sarcofagi. In basso: particolare della cassa interna del sarcofago antropoide di Butehamon, da Deir el-Medina. XXI dinastia, 1076-943 a.C. L’interno è dipinto in bianco e iscritto con il testo ieratico del Rituale dell’apertura della bocca.
ancora, numerosi abiti. Su questi ultimi, peraltro, è stata riscontrata la presenza dei monogrammi dei loro proprietari: un espediente che si adottava per evitarne lo smarrimento quando li si affidava periodicamente alle lavanderie affinché venissero puliti.
UN TRIPUDIO DI FORME E COLORI Lasciata la sala di Kha e Merit, si può godere dello straordinario colpo d’occhio offerto da una delle novità piú significative dell’allestimento: si imbocca, infatti, la Galleria dei Sarcofagi, nella quale sono riuniti alcuni degli esemplari piú interessanti fra quelli che 98 a r c h e o
A sinistra: il modello in scala della tomba di Nefertari, fatto realizzare da Ernesto Schiaparelli all’indomani della scoperta del sepolcro.
la raccolta può vantare. A dare il benvenuto è la cassa destinata ad accogliere le spoglie dello scriba reale Butehamon (Terzo Periodo Intermedio: XXI dinastia, 1076-943 a.C.), trovata a Deir el-Medina all’interno di una tomba in origine realizzata per accogliere Nakhtmin e Nu (vissuti all’epoca della XVIII dinastia). Il manufatto è espressione di un momento di transizione nell’ideale religioso e nella produzione artistica e, come già aca r c h e o 99
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cennato in precedenza, si offre all’ammirazione dei visitatori in tutta la sua originaria vivacità, grazie all’intervento di restauro condotto nell’ambito del Vatican Coffin Project.
AL COSPETTO DELLA REGINA A metà della galleria, sulla sinistra, si apre la sala dedicata alla tomba di Nefertari. La sposa di Ramesse II (1301-1235 a.C.), alla quale, insieme alla dea Hathor, era stato dedicato il tempio minore di Abu Simbel, fu deposta in un sepolcro splendidamente dipinto, che Ernesto Schiaparelli scoprí, già violato, nella Valle delle Regine a Tebe. Come nella sezione storica al piano ipogeo, anche in questa sala si è scelto di esporre i materiali servendosi di vetrine che appartenevano al vecchio allestimento del museo. Ma, soprattutto, è stato dato ampio risalto allo straordinario modello in scala del monumento fatto realizzare dallo stesso Schiaparelli all’indomani della scoperta (1904). La replica riproduce in miniatura – ma con la massima fedeltà – la tomba: per realizzarla, lo studioso coinvolse perfino un pittore, al quale fece compiere vari sopralluoghi sul posto, in modo da riportare, con esattezza assoluta, la policromia delle pitture, che le riprese fotografiche in bianco e nero – utilizzate all’epoca dello scavo – non potevano, naturalmente, documentare. E non meno sorprendente è pensare come, in una suggestiva osmosi fra metodi pioneristici e tecnologie avanzate, il video rico-
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struttivo in 3D della tomba (che si deve anch’esso all’IBAM-CNR) sia stato realizzato anche grazie alle riprese effettuate da un drone fatto volare all’interno del modello! Merita infine d’essere ricordata l’attenzione che Schiaparelli mostrò di nutrire nei confronti dei visitatori piú piccoli: la struttura in legno in cui la replica è inserita fu infatti provvista di un gradino, cosí da permetterne la visione ideale anche ai bambini. Una piccola sala adiacente ospita due delle mummie meglio conservate fra quelle dell’Egizio: appartengono rispettivamente, alla principessa Ahmose (figlia del faraone Seqenenra Tao, della XVII dinastia) e al visir Imhotep, vissuto all’epoca della XVIII dinastia, sotto il faraone Tutmosi I. La prima proviene da una delle tombe piú antiche fra quelle a oggi note nella Valle delle Regine e che si colloca in un momento cruciale nella storia dell’antico Egitto, poiché precede di poco la riunificazione del Paese operata dai sovrani tebani del Nuovo Regno. Le spoglie del visir vennero alla luce in una tomba non lontana da quella della principessa, che, seppur violata, permise il recupero di molti oggetti di notevole interesse, tra cui alcuni contenitori in legno con resti imbalsa-
tanti: in particolare, dall’età tolemaica, si moltiplicano i fenomeni di sincretismo, che trovano un riscontro esteriore nello sviluppo di canoni artistici figli di una «internazionalizzazione» del contesto culturale. Se, all’inizio della Galleria dei Sarcofagi, si era stati accolti, con fare ieratico e severo, dallo scriba reale Butehamon, l’ingresso nella sala dedicata all’Epoca Tarda è quasi giocoso. La prima, grande, vetrina, infatti, riunisce una VERSO L’EPILOGO Le ultime tre sale del primo piano ripercor- straordinaria selezione di mummie di anirono le fasi finali della storia dell’Egitto anti- mali: da quelle di gatto alla pseudo mummia co, dall’Epoca Tarda (722-332 a.C.) alla ro- di un toro, dai sarcofagi di pesce alla «bara» manizzazione del Paese, momenti tra i quali si interpone il periodo tolemaico (332-30 a.C.). Sebbene rimangano ben vivi tutti gli elementi estetici che, nei secoli precedenti, avevano contribuito a plasmare l’identità culturale egiziana, si colgono mutamenti impormati di offerte alimentari (tra cui anitre e carne di bovino), nonché una placchetta in alabastro e un vaso canopo rivelatisi determinanti per l’identificazione del defunto. Parallelamente al primo tratto della Galleria dei Sarcofagi, si sviluppa la Papiroteca, nella quale compare una selezione significativa del patrimonio papirologico dal Museo Egizio.
La mummia della principessa Ahmose, figlia del faraone Seqenenra Tao, penultimo sovrano della XVII dinastia, ?-1539 a.C.
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PIANO TERRA
2. Epoca Predinastica/ Antico Regno 3. Tomba degli Ignoti/Tomba di Iti e Neferu 4. Medio Regno 5. Medio Regno/Nuovo Regno
realizzata per un coccodrillo… Materiali che, in ogni caso, non vogliono soltanto introdurre una nota curiosa o sorprendente, ma testimoniare il complesso legame che esisteva tra gli Egiziani e il mondo animale (testimoniato, del resto, anche dalla natura «bestiale» di molte delle divinità piú importanti). Poco oltre, il grande sarcofago in grovacca (dal tedesco Grauwache, roccia scura, un particolare tipo di arenaria) del visir Gemenefherbak – vissuto al tempo della XXVI dinastia (saitica), 664-525 a.C. – è una delle testimonianze dell’elaborazione di nuovi modelli estetici e della persistenza di un artigianato artistico di qualità altissima: la straordinaria morbidezza delle forme scolpite è infatti tale da far dimenticare la durezza della materia prima scelta per il contenitore. Il coperchio del sarcofago mostra un ritratto del defunto, con al collo l’immagine della dea Maat, mentre sulla cassa vera e propria corrono varie iscrizioni, fra cui quelle che riportano il cursus honorum di Gemenefherbak e uno dei capitoli del Libro dei Morti.
UN POSTO PER OGNI AMULETO L’allestimento del nuovo Museo Egizio, nel suo insieme, si rivela facilmente accessibile anche ai non addetti ai lavori, e, proprio in questa sala, compare uno dei supporti che meglio coniugano le esigenze della documentazione scientifica con quelle della divul102 a r c h e o
Nella pagina accanto: la vetrina che riunisce le mummie di animali nella sala dell’Epoca Tarda. A sinistra: un’immagine della Galleria dei Re. A destra: statua in granodiorite di Ramesse II in trono, dal tempio di Amon a Karnak, Tebe. 1279-1213 a.C.
gazione. Su una delle pareti è stata infatti collocata la sagoma di una mummia, sulla quale sono disposti tutti gli amuleti che potevano normalmente formarne la decorazione, illustrando il significato simbolico di ogni elemento. È una soluzione di grande immediatezza, grazie alla quale chiunque può scoprire che le riproduzioni in miniatura di scarabei, divinità o dei poggiatesta venivano cucite sulla spoglia del defunto secondo un ordine e un significato ben precisi. Come già accennato, le sezioni dedicate alle fasi tolemaica e romana denotano con chiarezza l’avvento di culture «altre» e al tempo stesso il moltiplicarsi dei casi di commistione. Parallelamente, si sviluppano produzioni importanti, come quella dei ritratti detti «del Fayyum» o dei tessuti, che avviarono una tradizione capace di perdurare anche ben oltre la fine dell’impero capitolino.
IL GRAN FINALE A coronare il percorso, dopo aver riguadagnato il piano terreno, sono le due sale della suggestiva Galleria dei Re (o Statuario). In questo caso, l’intervento di rinnovamento è stato parziale, nell’intento di non alterare l’impianto creato dallo scenografo Dante Ferretti pochi anni or sono: la scelta è stata quella di ridurre il numero delle opere espoa r c h e o 103
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TRA INNOVAZIONI E RECUPERI Il progetto architettonico del nuovo Museo Egizio è stato firmato da Aimaro Isola, ISOLARCHITETTI, Dante Ferretti (scenografie), Paolo Marconi, Giancarlo Battista e Gabriella De Monte (restauro), ICIS (progetto, direzione lavori, strutture e sicurezza), Proeco e Itaca (impianti). Esso s’inserisce e prosegue la storia dell’edificio guariniano e ne arricchisce e porta a compimento i significati e le funzioni succedutisi nel tempo: Collegio dei Gesuiti, sede dell’Accademia delle Scienze, Museo di Storia Naturale, Galleria Sabauda.
Ai volumi storici dell’originario Museo e della preesistente Galleria Sabauda, recuperati e restaurati per le funzioni espositive, il progetto ha aggiunto tre nuovi piani, scavati al di sotto dell’area cortilizia, per dare ampio respiro ai servizi dell’accoglienza, alle centrali tecnologiche, a nuovi depositi e officine, ha ricercato altri spazi sopraelevando il fabbricato di via Duse per un roof garden e ha recuperato tutti i sottotetti per le piú sofisticate dotazioni impiantistiche.
Statua in diorite della dea Sekhmet, forse dal tempio di Amenofi III a Karnak, Tebe (reimpiegata nel tempio di Mut). Terzo Periodo Intermedio, XXIXXIV dinastia, 1076-722 a.C.
ste, allo scopo di esaltare ancor di piú il valore artistico di ogni singolo reperto. Il fascino di questa raccolta è dunque rimasto intatto e, al di là delle notazioni storiche, lasciarsi semplicemente guidare dall’occhio si rivela forse una delle esperienze piú gratificanti. E, in ogni caso, i pannelli in tre lingue (inglese e arabo, oltre all’italiano) mettono a disposizione tutte le coordinate necessarie per inquadrare i maestosi ritratti che qui sono concentrati: la galleria accoglie tutti i piú «bei nomi» della monarchia egiziana, le cui immagini sono, in piú di un caso, altrettanti capolavori della statuaria, come provano le statue di Tutmosi I e Tutmosi III, o quelle, celeberrime, di Ramesse II e Sethi II. Ma l’epilogo vero e proprio è affidato alle antichità della Nubia, rappresentate innanzitutto dal tempio di Ellesiya, un monumento religioso che l’Egitto volle donare allo Stato italiano in segno di gratitudine per l’aiuto prestato dal nostro Paese durante il salvataggio dei templi nubiani all’epoca della costruzione della diga di Assuan. La conclusione del percorso, si realizza, quindi, con una soluzione spettacolare, ma non fine a se stessa. Del resto, proprio in questa felice fusione tra forma e contenuto si può identificare la cifra distintiva del nuovo Museo Egizio: una raccolta che ha saputo rinnovarsi senza rinnegare la propria storia, trasformando in un racconto avvincente e accessibile la grandiosa parabola del Paese dei faraoni. DOVE E QUANDO Museo Egizio Torino, via Accademia delle Scienze, 6 Orario lunedí, 9,00-14,00; martedí-domenica, 8,30-19,30 Info tel. 011 5617776; e-mail: info@ museoegizio.it; prenotazioni: tel. 011 4406903 (lunedí-venerdí, 9,00-13,00 e 14,3017,00; sabato, 9,00-13,00) Note all’acquisto del biglietto d’ingresso, ciascun visitatore riceve una videoguida, un’apparecchiatura di nuova generazione che offre l’opportunità di scegliere percorsi di visita differenziati per contenuti e durata (per esempio, I capolavori del Museo Egizio, 120’; Vita quotidiana, Deir el-Medina e Tomba di Kha, 90’, ecc.) Catalogo Franco Cosimo Panini Editore
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A VOLTE RITORNANO Flavio Russo
QUEL BENEFICO TORPORE... LE POTENZIALITÀ TERAPEUTICHE DELL’ENERGIA ELETTRICA FURONO INTUITE GIÀ NELL’ANTICA ROMA. NE È PROVA L’UTILIZZO IN TAL SENSO DELLE TORPEDINI, DI CUI CI È GIUNTA UNA PRECISA TESTIMONIANZA GRAZIE AL TRATTATO SCRITTO DA SCRIBONIO LARGO, UN MEDICO DEL I SECOLO D.C.
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elle fonti dell’età classica ricorrono i riferimenti a fenomeni che oggi sappiamo connessi con l’elettricità, ma solo in ambito medico si rintraccia un piú preciso riscontro di quelle embrionali e larvate conoscenze. Spicca, al riguardo, il trattato di Scribonio Largo, Compositiones, nel quale si legge la prima menzione dell’impiego dell’elettricità in due terapie che oggi andrebbero definite rispettivamente elettroterapia ed elettroshock. Per la storia, Scribonio Largo fu con molta probabilità un medico militare, di origine siciliana e di condizione libertina. Sappiamo, infatti, che partecipò alla spedizione del 43 d.C. in Britannia, al seguito delle legioni di Claudio e, per quanto è possibile arguire, nell’anno seguente iniziò a scrivere il suo trattato, che pubblicò quattro anni piú tardi, dedicandolo al potente liberto imperiale Gaio Giulio Callisto.
UN TESTO DI SUCCESSO Nonostante la forma linguistica sciatta e ricca di volgarismi, l’opera ebbe una indubbia fortuna sia all’epoca, che nel Medioevo. Tanto che le 271 ricette che ne compongono il testo ci sono giunte integre, confermandosi in maggioranza dettate da un sano buon senso, non privo di effettiva efficacia, e, in tre casi, addirittura avveniristiche, con l’applicazioni di
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scariche elettriche. Ovviamente, l’elettricità poteva scaturire soltanto dagli organi elettrogeni già disponibili in natura, quali quelli delle torpedini, una vasta famiglia di pesci cartilaginei capaci di generare loro tramite una intensa differenza di potenziale, compresa fra gli 8 e i 200 volt, secondo la specie e il grado di eccitazione. Nella circostanza si trattò della Torpedo nobiliana (torpedine nera),
presente anche nel Mediterraneo e riconoscibile, oltre che per le dimensioni (può raggiungere il metro di lunghezza e il peso di alcune decine di chilogrammi), per il colore bruno-violaceo del dorso. Le sue scariche trovarono perciò adozione in antesignane terapie antalgiche, attualmente incluse nella galvanoterapia, con esiti indubbiamente positivi. L’insensibilità locale cosí provocata,
A sinistra: una Torpedo nobiliana, riconoscibile dal manto nero-violaceo. Nella pagina accanto: apparecchio portatile per galvanoterapia del 1898. In basso: una donna si sottopone a una seduta di elettroterapia con correnti ad alta frequenza in una sala delle Terme di Agnano (Napoli). Anni Venti del Novecento.
definita per la facile derivazione etimologica «torpore», infatti, attenuava il dolore e non di rado ne inibiva irreversibilmente le cause, determinando la completa guarigione. Ecco dunque due delle ricette riportate da Scribonio Largo: 11. Capitis dolorem quamvis veterem et intolerabilem protinus tollit et in perpetuum remediat torpedo nigra viva inposita eo loco, qui in dolore est, donec desinat dolor et obstupescat ea pars. Quod cum primum senserit, removeatur remedium, ne sensus auferatur eius partis. Plures autem parandae sunt eius generis torpedines, quia nonnumquam vix ad duas tresve respondet curatio, id est torpor, quod signum est remediationis. 11. Sebbene cronico e intollerabile, il dolore di testa è tolto subito e definitivamente da una nera torpedine viva, posta sul punto dolorante, finché questo non
scompaia e la zona non resti intorpidita. E non appena ciò si avvertirà, sia rimosso il rimedio, perché non sia tolta del tutto la sensibilità di quella parte. È necessario procurarsi piú torpedini di quel genere, poiché talvolta la cura a stento risponde dopo l’applicazione di due o tre, ovvero si manifesta il torpore, che è indizio di guarigione. 99. Sanat ergo morbo comitiali correptos, quos epilepticos Graeci vocant, et furiosos, quos maenomenos dicunt. Item sanat quibus subito tenebrae obversantur oculis cum vertigine quadam (scotomaticos hos Graeci appellant) nec minus diutino correptos capitis dolore, quem cephalalgiam appellant (…) Dare autem his oportet secundum purgationem (bis enim aut ter spumosa et glutinosa deiciunt) ptisanae cremorem, holera lenia ex
urtica, lapathio, malva facta, torpedine interdum admixta et cum exiguo pane, aquamque potui. 99. Sana poi quelli presi dal male dei comizi, che i Greci chiamano epilettici e i furibondi che dicono folli. Parimenti cura quelli che i Greci dicono furiosi ai quali gli occhi sono oscurati da tenebre improvvise con rotazione degli stessi, né giova di meno a quelli presi da dolore di testa cronico che dicono cefalea (…) Dargli dopo averli purgati per la seconda volta una tisana composta con erbe leggere, ortica, malva, talvolta intervallandole con (l’applicazione di) una torpedine e con poco pane e acqua.
COINCIDENZE SIGNIFICATIVE Al giorno d’oggi, nella galvanoterapia, tramite due spugne bagnate, si collocano altrettanti elettrodi agli antipodi della zona di trattamento, quindi si invia la corrente incrementandone progressivamente il voltaggio, finché il paziente non la percepisce come un leggero pizzicore. È interessante osservare che la precisazione di Scribonio di mantenere l’arto nell’acqua di mare durante le scariche, trova un corrispettivo nelle bacinelle piene d’acqua, in cui il paziente di norma posiziona le mani o i piedi. Con tale accorgimento si aumenta l’area di trattamento e si sfruttano anche le proprietà chimiche e osmostiche dell’acqua che reagisce con la corrente. Ma quest’ultimo apporto non rientrava nelle conoscenze dell’antico clinico romano!
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
LA CHIESA IN UNA NAVE IL RELITTO DI MARZAMEMI È TORNATO SOTTO LA LENTE DEGLI ARCHEOLOGI: E NUOVI DETTAGLI ARRICCHIRANNO PRESTO LA STORIA DEL SUO INSOLITO CARICO...
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uando parlano di commerci nella tarda antichità, gli archeologi pensano prima di tutto alle ceramiche, e soprattutto alle anfore per il trasporto di vino, olio, salsa di pesce… Sulle rotte del Mediterraneo, tuttavia, non viaggiavano soltanto le derrate alimentari e una delle scoperte piú straordinarie a questo proposito è avvenuta nel 1960, quando un
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pescatore di polipi notò una serie di blocchi di marmo lavorati che giacevano al largo di Marzamemi (Siracusa), presso la costa orientale della Sicilia. Dopo le prime immersioni mirate ad accertare l’entità del ritrovamento, iniziarono le ricerche vere e proprie, che si protrassero per alcuni anni. Lo scavo dimostrò che i marmi dovevano trovarsi a bordo di una
Marzamemi
Sulle due pagine: un momento delle esplorazioni condotte nelle acque di Marzamemi (Siracusa) sul relitto della nave da carico che trasportava la decorazione architettonica di una chiesa, a oggi non identificata. nave da carico lunga 25-30 m, di cui ben poco era rimasto. In compenso, se ne era conservato il carico, davvero speciale: una quantità notevole di elementi in marmo scolpito – colonne (ben 28!), capitelli, basi, lastre… – per un totale di almeno 77 tonnellate!
GLI INDIZI DECISIVI Una semplice fornitura per un porto non meglio identificabile? No, qualcosa di piú. Altri pezzi presenti nel carico hanno fornito gli indizi decisivi: balaustre, pilastrini, piccoli capitelli e lastre, tutti relativi a un pulpito; poi, le parti di un altare e quelle di una recinzione presbiteriale. A questo punto tutto è apparso chiaro: al momento del naufragio, la nave trasportava la decorazione architettonica in marmo di un’intera chiesa, già scolpita e pronta per il montaggio. Ma in quale direzione stava andando il battello? E dove si trovava la chiesa alla quale erano destinate le sculture? A risolvere l’enigma può aiutarci la datazione del ritrovamento: i reperti (ceramiche associate al carico, tipologia delle decorazioni scolpite sui marmi) suggeriscono che il naufragio si sia verificato al tempo di Giustiniano (527-565). L’ipotesi piú probabile, allora, è che la nave, proveniente dall’Egeo, avesse il compito di trasportare l’arredo di un’intera basilica appena costruita, o in corso di edificazione, nell’Africa del Nord. Dopo la conquista dell’Africa, sappiamo che l’imperatore realizzò un programma edilizio di ampio respiro proprio in quelle zone e la nuova chiesa africana potrebbe aver fatto parte di tale iniziativa.
Per molto tempo non si è piú parlato del relitto di Marzamemi. Ma, dal 2013, è stata avviata una nuova campagna di ricerca, grazie all’interessamento delle Università di Stanford e della Pennsylvania (USA), che, assieme alla Soprintendenza del Mare della Regione Sicilia, hanno avviato il Marzamemi Maritime Heritage Project, ideato e messo a punto da Justin Leidwanger.
MAPPATURE DI DETTAGLIO Se è vero che l’archeologo (un po’ come l’assassino...) torna sempre sul luogo degli scavi, è altrettanto vero che ogni nuova esplorazione porta con sé nuove domande, e nuove metodologie d’indagine.
E il relitto di Marzamemi ha ancora molto da raccontare. Questa volta, rispetto alle ricerche degli anni Sessanta, l’attenzione è indirizzata soprattutto alla mappatura di dettaglio del relitto e del carico. La maggiore precisione offrirà nuovi dati sul commercio transmarino, sull’economia in epoca tardo-antica, sull’architettura e sulla fabbricazione delle navi; per ora, il progetto si presenta come un importante momento di collaborazione scientifica, nonché come occasione di formazione per studenti interessati all’archeologia subacquea. È prevista anche la creazione di un museo locale, che potrà restituire alle comunità della zona una pagina importante del loro passato.
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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale
MACINE CONTRO GLI INVASORI I GRANDI DISCHI DI PIETRA IN CUI SPESSO CI SI IMBATTE NEI SITI SOTTERRANEI DELLA CAPPADOCIA NON SERVIVANO A MACINARE... SI TRATTA, INFATTI, DI «PORTE», CHE, A DISPETTO DEL PESO, POTEVANO ESSERE VELOCEMENTE AZIONATE PER SBARRARE IL PASSO A QUALSIASI MALINTENZIONATO
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gni struttura realizzata dall’uomo – abitativa, cultuale, funeraria, ecc. – è generalmente caratterizzata dalla presenza di elementi di chiusura piú o meno complessi, composti con materiali differenti. Tali apprestamenti, solitamente formati da porte, portelli e botole, avevano il compito di isolare dall’esterno gli ambienti e contribuire cosí alla conservazione di ciò che in essi era
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contenuto. I sistemi di chiusura rivestono un ruolo importante anche nel caso dell’architettura rupestre e delle cavità artificiali e possono assumere forme assai particolari e ingegnose.
UNA TIPOLOGIA VARIEGATA Ancora oggi, per esempio, è facile imbattersi, in Cappadocia (Turchia centrale), in vani ipogei provvisti di
rustici battenti di legno, perlomeno in quelli abbandonati piú di recente. Dove ormai sono scomparsi si trova comunque traccia dei relativi telai, oppure di cornici e incastri scolpiti direttamente nella roccia. Tuttavia, nei rifugi sotterranei cappadoci questi elementi passano solitamente quasi inosservati, perché l’attenzione viene immancabilmente catturata da
Tuttavia, prove di movimentazione fatte nel corso delle spedizioni del Centro Studi Sotterranei sin dal 1991, hanno dimostrato che un piccolo gruppo di persone (tre/ quattro), in pochi minuti, poteva far rotolare i pesanti monoliti, bloccandoli poi, in posizione di chiusura, con una semplice zeppa, che ne rendeva impossibile l’apertura da parte degli aggressori. Ma ancora piú sorprendenti, sebbene risultino meno evidenti, sono i diversi accorgimenti abbinati alle porte-macina al fine di
A sinistra: una porta-macina ancora in posizione di chiusura nel rifugio sotterraneo di Filiktepe (Cappadocia). Nella pagina accanto: una possente porta-macina, oggi abbattuta, nel rifugio di Sivasa (Cappadocia). In basso: ricostruzione dell’attacco a un rifugio della Cappadocia: quattro porte-macina difendono i cunicoli che conducono alla camera centrale.
ottimizzarne l’efficacia e accrescere la sicurezza degli ambienti ipogei: dai semplici spioncini a vere e proprie feritoie, laterali o sul soffitto, per colpire di sorpresa l’aggressore impedendogli di avvicinarsi alla porta; da tunnel a gomito in prossimità delle porte per inibire l’uso di arieti, a trappole costituite da strettoie o pozzetti; sino alla progettazione di schemi che, nei rifugi piú complessi, prevedeva intere aree che potevano essere divise progressivamente per mezzo di sale isolanti in sequenza. Simili monoliti, dunque, non erano semplici usci di uso quotidiano, sia
richiedeva l’intervento di piú persone al momento della movimentazione. E anche il loro posizionamento, sempre localizzato nelle aree piú interne dei reticoli sotterranei, con dispositivi spesso raddoppiati anche a distanza di pochi metri, suggerisce come le porte-macina non dovessero essere impiegate quotidianamente. La loro funzione era chiaramente difensiva, concepita per i casi di incombente pericolo, come del resto accadeva in Cappadocia piú volte all’anno, nel corso delle razzie arabe, compiute tra l’VIII e il X secolo.
per l’impegno che occorreva nel realizzarli – scavandoli dalla roccia viva –, a volte in cave distanti dai rifugi, sia per la loro mole, che
inaspettate ruote di pietra, spesso enormi e molto diffuse: dislocate lungo i cunicoli che si inoltrano nel sottosuolo o all’imbocco di camere interne, che sembrano ancora oggi pronte per essere fatte rotolare attraverso i passaggi.
UNA SOLUZIONE SORPRENDENTE Per la verità, a prima vista fanno pensare a macine da mulino (per questo motivo sono state battezzate «porte-macina»), ma la loro collocazione è inequivocabile: posizionate in appositi alloggiamenti costituiti da pilastri, lastre di pietra e incastri verticali, erano evidentemente predisposte per essere spinte allo scopo di bloccare l’ingresso a visitatori indesiderati. L’aspetto sorprendente di queste porte di pietra sono le dimensioni: in piú d’un caso raggiungono i 190 cm di diametro e i 35 di spessore, per un peso stimato di oltre 2 tonnellate.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
UN MARE D’AMORE L’ACQUA, IL QUARTO DEGLI ELEMENTI EMPEDOCLEI, RAPPRESENTA LA FORZA INCOERCIBILE DELLA NATURA. MA ANCHE LA VERA POTENZA DI ROMA...
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enza l’acqua, principio primordiale, non c’è vita e non esiste neanche il vivere civile: anche per questo, essa ricorre con notevole frequenza nella monetazione romana. Tra i luoghi simbolo della cultura cittadina e dello stile di vita esportato dall’Urbe rientrano, infatti, le opere pubbliche legate all’acqua, quali ponti, acquedotti, terme, ninfei. Dall’età repubblicana e ancor di piú in quella imperiale, questi mirabili apprestamenti idrici compaiono sulle monete quali simbolo delle azioni benefiche dello Stato e della
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Sesterzio battuto al tempo di Traiano, 104-107 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, il genius dell’Aqua Traiana: reclinata e con un
braccio appoggiato a un vaso dal quale esce acqua, la figura è circondata da arcate che rappresentano l’acquedotto.
Nella pagina accanto, in alto: Porta Maggiore (Roma) in un’incisione ottocentesca. Il monumento è in realtà costituito da due arcate degli acquedotti realizzati dall’imperatore Claudio (Aqua Claudia e Anio Novus). Divenne una porta vera e propria quando fu incluso nel circuito delle mura Aureliane. generosità del regnante. Un fenomeno che si registra anche nella monetazione provinciale. L’acquedotto, una delle opere edilizie fondamentali della cultura romana, viene celebrato piú volte, come nel caso dell’Aqua Marcia riprodotta sulle emissioni repubblicane, dell’Aqua Virgo sotto Claudio e dell’Aqua Traiana su quelle di Traiano. Quest’ultimo impianto, il decimo di Roma, fu costruito tra il 109 e il 117 d.C. e adduceva l’acqua captata da varie sorgenti situate intorno al lago di Bracciano, dopo un percorso di 60 km circa, alla zona di Trastevere, che ancora non disponeva di un approvvigionamento diretto. L’iconografia monetale lo commemora con la classica figura del genius della fonte o dell’acquedotto stesso, nella posa recumbente tipica dei fiumi, con in mano la pianta della canna e il gomito appoggiato a un vaso, circondato da arcate. Si tratta di una stilizzazione delle arcate dell’acquedotto o di una sua mostra monumentale esistente. Tuttavia è anche possibile che l’incisore abbia voluto suggerire, attraverso la forma arcuata che circonda il genius, l’idea di una grotta antica, della sorgente da cui scaturisce la fonte di vita. Segno di potere erano anche i ponti, che passano sui fiumi, le cui acque sono solcate dalle navi: nel medaglione d’oro di Arras di Costanzo Cloro, emesso in
A sinistra: rovescio del medaglione di Arras coniato a Treviri per Costanzo Cloro, 297 d.C. Vi è raffigurato l’imperatore a cavallo che riceve l’omaggio di una figura inchinata; in secondo piano sono le mura di Londinium e, in basso, una galera con quattro soldati che naviga nel Tamigi. In basso: rovescio di una moneta in bronzo di Settimio Severo battuta ad Abydos, 177-180 d.C. Vi è raffigurato Leandro che nuota verso la torre dove lo attende Hero, affiancato da delfini e sovrastato da Eros.
occasione della riconquista di Londinium del 296 d.C., fu realizzata una condensata descrizione dell’evento bellico. La città personificata (o secondo alcuni la Britannia) si inchina davanti all’imperatore a cavallo, sotto il quale una galera naviga in un fiume, probabilmente il Tamigi.
ANNEGARE PER AMORE L’acqua, infine, ha un ruolo centrale e drammatico nell’infelice amore tra Hero e Leandro, giovani protagonisti di un amore contrastato celebre nell’antichità. Leandro, abitante di Abydos, sull’Ellesponto, ogni sera raggiungeva a nuoto la riva
opposta, dove, a Sestos, lo attendeva segretamente l’amata Hero, sacerdotessa di Afrodite. La fanciulla lo guidava alla riva innalzando una lucerna dalla torre dove risiedeva. Il braccio di mare, corrispondente a poco piú di un miglio, segna la parte piú stretta tra le sponde dei Dardanelli; in una notte tempestosa, mentre Leandro nuotava tra i marosi, la lucerna si spense e il giovane, disorientato, annegò. Il corpo senza vita raggiunse infine la spiaggia, dove lo trovò Hero, la quale, per la disperazione, si gettò dalla torre, morendo anch’essa. La tragica vicenda, amata da poeti e musicisti romantici (l’inglese Lord Byron, poeta e grande nuotatore, nel 1810 attraversò il tratto di mare dell’Ellesponto per ripetere l’impresa di Leandro), viene riproposta quale racconto locale nelle coniazioni provinciali di Abydos e Sestos, battute sotto Commodo e i Severi. E con l’acqua si conclude questa breve panoramica sui quattro elementi in ambito numismatico. (4 – fine; le puntate precedenti sono state pubblicate nei nn. 360, 361 e 362, febbraio, marzo e aprile 2015)
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