Archeo n. 365, Luglio 2015

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ARCHEO

HATRA E PALMIRA

NELLA TERRA DELL’ORO

IN MACEDONIA SULLE ORME DI

GEORGE DENNIS

ALESSANDRO MAGNO

ANFIPOLI

UN TRUST PER SALVARE LA NECROPOLI

HATRA E PALMIRA

QUALE FUTURO PER LE REGINE DEL DESERTO?

ANTEPRIMA

GEORGE DENNIS UN GENTILUOMO INGLESE IN ETRURIA

€ 5,90

SPECIALE MACEDONIA TERRA DELL’ORO

Mens. Anno XXXI n. 365 luglio 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN TRUST PER NORCHIA

NORCHIA

www.archeo.it

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EDITORIALE

L’ARCHEOLOGIA AL TEMPO DELLA CRISI Sono tre gli argomenti principali presentati in questo numero, tutti segnati da un denominatore comune. Partiamo dallo speciale, dedicato alla scoperta della patria di Alessandro Magno, la storica regione della Macedonia, una terra bellissima nella Grecia settentrionale, con la sua capitale Salonicco (una città affascinante, viva, piena di giovani, con un antico e glorioso passato) e la vasta, fertile pianura a nord del Golfo Termaico, solcata da fiumi auriferi dai nomi leggendari. Qui si trovano alcuni tra i siti archeologici piú importanti d’Europa: Verghina, per esempio, la prima capitale del regno macedone, con il suo fantastico tumulo «musealizzato», forse una delle opere del genere meglio riuscite di questo secolo. È un vero gioiello dell’archeologia, tenuto con grande cura e, non a caso, visitato ogni anno da centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo. O anche Pella, un sito vastissimo, dove sono in corso imponenti lavori di scavo e di ricostruzione. Poi vi sono i numerosi musei archeologici – tutti magnificamente allestiti – della regione. E, naturalmente, le rovine della leggendaria Anfipoli, di cui abbiamo sentito parlare molto in questi ultimi mesi. Purtroppo, come ci ha riferito l’archeologa che da diversi anni sta indagando il grande tumulo che domina la vasta città antica, scavi e progetti di musealizzazione dello stesso sono, attualmente, «congelati». A causa della crisi finanziaria… Una crisi di segno diverso, invece, attanaglia uno dei siti archeologici nostrani tra i piú affascinanti e, al contempo, piú negletti: quello della necropoli rupestre di Norchia. Un luogo di struggente bellezza, che abbiamo già presentato ai nostri lettori (vedi «Archeo» n. 358, dicembre 2014). Ne riparliamo riferendo notizie positive: la scoperta di una piccola tomba rupestre, ancora intatta, e l’impegno di un gruppo di imprenditori, accomunati dall’amore per l’archeologia, grazie al quale è stato recuperato e restaurato l’intero corredo rinvenuto nel sepolcro. Un’iniziativa circoscritta, certo, ma coronata da successo. E, comunque, in controtendenza rispetto alla «crisi di abbandono» cui questo luogo meraviglioso sembra, altrimenti, essere destinato… Veniamo al servizio di apertura di questo numero. Mentre scriviamo queste righe, le agenzie di stampa stanno diffondendo la notizia che i miliziani dell’ISIS hanno minato le antiche rovine di Palmira, forse in risposta all’avanzata dell’esercito siriano, intento alla riconquista dell’antica città carovaniera. È, questa, certamente la crisi piú grave di cui siamo costretti a riferirvi. Una crisi di civiltà, iniziata da tempo e alla cui gestazione nefasta l’Occidente ha assistito senza essere in grado, apparentemente, di porre alcun valido rimedio. Andreas M. Steiner Veduta del grande tumulo di Anfipoli (Macedonia centrale).


SOMMARIO EDITORIALE

I LUOGHI DELLA LEGGENDA

SCAVI

di Andreas M. Steiner

Le regine del deserto

Quanti amici per Vel!

Attualità

di Marco Di Branco e Massimo Vidale

L’archeologia al tempo della crisi 3

NOTIZIARIO

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SCOPERTE Un intervento compiuto nell’area del Circo Massimo, a Roma, ha riportato alla luce i resti del maestoso arco di Tito 6

Hatra e Palmira

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Norchia

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di Francesca Ceci

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ALL’OMBRA DEL VESUVIO Il Laboratorio di Ricerche Applicate di Pompei si muove, con successo, sulle orme di Giuseppe Fiorelli 10 PAROLA D’ARCHEOLOGO Milano rende omaggio alla civiltà nuragica con una grande mostra al Civico Museo Archeologico 14

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DA ATENE

ANTEPRIME

di Valentina Di Napoli

di Giuseppe M. Della Fina

Ecco il museo invisibile! 24

Un gentiluomo inglese in Etruria

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In copertina Iarnax (urna) d’oro decorata con la stella macedone a 16 raggi, ritrovata nel sarcofago di marmo nella Tomba «di Filippo II», a Verghina. Seconda metà del IV sec. a.C.

Anno XXXI, n. 365 - luglio 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Valentina Di Napoli è archeologa. Maria Katsinopoulou è archeologa. Paolo Leonini è storico dell’arte. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Luna S. Michelangeli è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è professore di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: ANSA: pp. 6, 7, 82; Associated Press: copertina (e pp. 72/73), pp. 38 (basso, sinistra e destra), 80/81 (sfondo), 88, 93 (alto) – Université de Caen Basse-Normandie, Plan de Rome: pp. 6/7 – Cortesia Missione Archeologica Univ. Milano in Sudan: p. 8 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici Pompei Ercolano e Stabia: pp. 10-12 – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 14-18 – Museo Archeologico Nazionale di Atene: pp. 24-25 – Getty Images: AFP/ Joseph Eid: pp. 32/33, 48/49, 52/53; Nick Laing: pp. 42/43; Digital Globe/ScapeWare3d/Scott Olson: p. 46 (alto); Gamma-Rapho/Raphael Gaillarde: p. 55; Athanasios Gioumpasis: pp. 74/75, 78/79, 80; National Geographic/Robert J. Teringo: p. 89; Keystone: p. 106; Hutton Archive: p. 107; AFP/Emmanuel Dunand: p. 108; Gamma-Rapho/Marc Deville: p. 109 – Contrasto: Arne Hodalic Saola/eyevine: pp. 34/35, 38 (alto) – Marka: Danita Delimont Stock: p. 36; Nico Tondini: pp. 40/41, 64/65; Interfoto: p. 97 (destra) – Corbis Images: Nico Tondini/Robert Harding World Imagery: pp.


Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA... …ricevette in dono la Cirenaica

102

di Romolo A. Staccioli

102

72 SPECIALE Macedonia

Nella terra dell’oro

A VOLTE RITORNANO

Quando il vino non fa perdere la bussola... 106 di Flavio Russo

72

di Carlo Casi e Andreas M. Steiner, con la collaborazione di Maria Katsinopoulou

SCAVARE IL MEDIOEVO

Salvate il soldato Brandt 108

LIBRI

112

di Andrea Augenti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

106

Quel canto ammaliatore... 110 di Francesca Ceci

36/37; Aristidis Vafeiadakis/ZUMA Press: pp. 82/83; Konstantinos Tsakalidis/Demotix: p. 84 (basso) – Shutterstock: pp. 44/45, 102/103 – Andreas M. Steiner: p. 46 (basso), 53 – Dea Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 50,51; C. Sappa: pp. 54, 104/105; Bridgeman Art Library: p. 105 – Cortesia Nuova Immagine ed.: pp. 56/63 – Cortesia A. Pagliari: pp. 64, 67, 71(alto)- Cortesia L. Proietti: p. 66 – Cortesia A. Zolla: p. 69 (basso) – Cortesia M. Ioppolo: pp. 68, 69 (alto), 70, 71 (basso) – Jacques Descloitres, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC: pp. 76/77 – Doc. red.: pp. 84 (alto), 85, 90, 91, 92, 94-95, 96, 97 (sinistra), 98-101 – Carlo Casi: pp. 86/87, 90/91 (alto), 93 (basso, sinistra e destra) – Flavio Russo: disegno a p. 106 – Mondadori Portfolio: Album: p. 110 – Cortesia dell’autore: p. 111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 39, 46/47, 66, 77, 78. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCAVI Italia

UN «NUOVO» ARCO DI TITO

S

ul finire del I secolo d.C. i viaggiatori che giungevano a Roma dall’Apulia, percorrevano la via Appia, ed entravano da Porta Capena. Possiamo immaginare la meraviglia che dovevano provare quando, poco dopo aver varcato la porta, davanti ai loro occhi si parava un monumento di impressionante magnificenza. Un enorme arco trionfale si ergeva tra le mura del Circo Massimo. Rivestito in marmo lunense, alto piú di 10 m, con tre fornici che si estendevano in larghezza per circa 17 m e in profondità per 15, il monumento onorava l’imperatore Tito, e gli era stato dedicato nell’anno della morte, l’81 d.C., per celebrare la vittoria riportata sui Giudei nel 70 d.C. Tornando ai giorni nostri, trascorsi quasi 2000 anni, del monumento non era rimasta traccia visibile. Se ne avevano notizie attraverso la pianta riportata sulla Forma Urbis e da alcune rappresentazioni datate dal II al IV secolo a.C., oltre al contenuto dell’iscrizione posta sull’attico, trascritta alla fine dell’VIII secolo dall’Anonimo di Einsiedeln.

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Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione virtuale dell’arco di Tito. Sulle due pagine: modello ricostruttivo di Roma antica; in evidenza, la localizzazione dell’arco. In alto: uno dei plinti rinvenuti. Nello scorso mese di maggio, i lavori della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali nell’area del Circo Massimo, nei pressi della Torre della Moletta, hanno riportato alla luce numerosi frammenti architettonici pertinenti all’attico e alla trabeazione dell’arco, nonché i tre plinti frontali delle colonne e parte di un quarto. Il monumento si trovava infatti al centro dell’emiciclo del Circo Massimo, ed era dotato di una scalinata sulla fronte verso il circo e di due gradini che lo collegavano all’esterno. Un risultato di grande soddisfazione per gli archeologi, date anche le difficili condizioni di scavo, a causa della falda acquifera sovrastante il livello di scavo. L’arco sarà a breve nuovamente interrato, per proteggerlo dai rischi di danneggiamento, in attesa di finanziamenti che ne permetteranno la ricostruzione con l’anastilosi e una valorizzazione permanente. Paolo Leonini

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n otiz iario

SCAVI Sudan

CHE TEMPO CHE... FU!

U

na équipe internazionale, formata da studiosi dell’Università di Adelaide, del Centro Studi Sudanesi e Subsahariani e dell’Università di Milano, ha recentemente pubblicato i risultati degli ultimi lavori di ricerca condotti nell’area del Sudan centrale. Lo studio fornisce un contributo significativo per la comprensione dei cambiamenti climatici della regione, nel periodo che va dal tardo Pleistocene all’Olocene (circa 12 000 anni fa), in relazione all’occupazione antropica e alle variazioni della portata del Nilo. I ricercatori hanno affrontato direttamente alcuni interrogativi rimasti aperti per oltre sessant’anni, fin dalle prime ricerche nell’area. Innanzitutto, qual è la motivazione dell’abbassamento del livello del Nilo, che si registra nel primo Olocene? Fu originata da una diminuzione del volume delle acque, determinata da un fenomeno di incisione dell’alveo o da una combinazione dei due

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fattori? Inoltre, l’andamento delle piene del Nilo influenzava il clima locale e si registrava una maggiore umidità nei periodi di piena? Infine, sussistono nella regione siti archeologici stratificati, con tracce di occupazione antropica, conservatisi inalterati nel tempo? Relativamente all’andamento del flusso delle acque, le indagini si sono basate sull’analisi dei dati prelevati da tre località a ovest e a est del basso corso del Nilo Bianco: Esh Shawal, Tagra e Shabona. Se non è stato possibile stabilire con certezza la relazione con l’incisione dell’alveo, è stata però confermata una riduzione del volume del Nilo Bianco nel tardo Pleistocene e nell’Olocene, esaminando, per esempio, le fluttuazioni dei laghi in prossimità delle sorgenti del Nilo Bianco e del Nilo Blu come il Lago Vittoria, il Challa, il Tana e il Turkana. Anche un un carotaggio di sedimento marino prelevato dal delta del Nilo nel Mediterraneo orientale, ha dimostrato che l’intensità dello scarico idrico del Nilo Blu era maggiore durante l’Olocene iniziale e tardo, ma ridotta tra 8000 e 4000 anni fa.

In alto: Al Khiday. Archeologi del Centro Studi Sudanesi al lavoro presso il sito mesolitico 16D4. A sinistra, in basso: Al Khiday (Sudan). Due archeologi al lavoro su una sepoltura pre-mesolitica. In basso: veduta di un villaggio sudanese lungo le sponde del Nilo. Un terzo elemento a sostegno di quest’ipotesi è stato trovato nei depositi alluvionali del Nilo Bianco che si riducono progressivamente da 28 000 a 4500 anni fa. In merito al clima, è stato dimostrato che a periodi di piena del Nilo, durante il primo Olocene, corrispondeva una maggiore umidità nell’area inferiore della valle del Nilo Bianco. I ricercatori sono arrivati a queste conclusioni basandosi sull’analisi della fauna dei siti mesolitici e da Wadi Mansurab. Infine, avvalendosi di tecniche di scavo particolarmente delicate, supportate dall’analisi micromorfologica dei depositi, per la prima volta nella regione è stato possibile distinguere contesti primari non alterati dall’uomo o dall’ambiente; per esempio nel sito di Al Khiday. P. L.



ALL’OMBRA DEL VULCANO di Alessandro Mandolesi

UNA WUNDERKAMMER CLIMATIZZATA IL LABORATORIO DI RICERCHE APPLICATE DI POMPEI È L’EREDE MODERNO DELLE STORICHE VICENDE CHE HANNO INTERESSATO DA OLTRE DUE SECOLI E MEZZO LA RACCOLTA E LA CONSERVAZIONE DEI REPERTI ORGANICI PROVENIENTE DAGLI SCAVI

«Q

uel poco che ho potuto distinguere dei vestimenti è stato, che molti avevano de’ panni in testa, che gli scendevano fin sopra le spalle; che gli abiti si tenevano fino a due o tre uno sopra l’altro; che le calze erano di tela o panno tagliate come lunghi calzoni; che alcuni non avevano affatto le scarpe». Nella relazione del 1860, il direttore degli scavi di Pompei Giuseppe Fiorelli fornisce un’emozionante descrizione dell’abbigliamento indossato dalle vittime al momento dell’eruzione. Informazioni estremamente preziose per gli archeologi che, confrontate con le contemporanee raffigurazioni e fonti letterarie, permettono di ricostruire i gusti e le mode degli abitanti delle città romane.

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I rinvenimenti di reperti organici hanno accompagnato da sempre la storia delle scoperte vesuviane, a partire da Ercolano quando nel 1710 venne in luce un pozzo per l’acqua che ancora conservava oggetti in materiale deperibile. A Pompei grande stupore generarono i resti vegetali, in particolare frutta e commestibili, oltre a stoffe e conchiglie, che con gli altri reperti simili furono raccolti nel settecentesco Herculanense Museum, ospitato nella Villa Reale di Portici. Conservati con i materiali di valore nel «Gabinetto dei Preziosi», i «Commestibili», furono

una delle maggiori «attrazioni» del primo museo dedicato alle antichità vesuviane. Accanto a oreficerie, argenterie, gemme e cammei, in bella vista comparivano infatti tessuti, pigmenti di colori e resti alimentari, fra cui un panis quadratus con bollo di proprietà, rinvenuto nella Casa dei Cervi di Ercolano nel 1748: «È da vedersi il tanto rinomato pane ridotto in carbone, che per la sua singolarità conservasi in un vaso di cristallo: ha nove pollici di diametro, e quattro di grossezza, e sopra vi si leggono queste parole: Segilo granii cicere». L’esposizione


Nella pagina accanto: contenitore in ceramica aperto per uova, con resti di gusci, da Pompei, Casa di Giulio Polibio. I sec. d.C. di Portici era un evidente e suggestivo richiamo al modello della Wunderkammer («camera delle meraviglie») di tradizione nord-europea, naturale evoluzione del collezionismo enciclopedico delle corti, in cui venivano raccolti reperti preziosi e singolari, fossero essi di origine naturale o artificiale. Si arrivò al superamento della Wunderkammer solo con il nuovo ordinamento delle Collezioni voluto da Fiorelli, fra il 1863 e il 1875, che per la prima volta considerò la questione dell’adeguata conservazione delle testimonianze organiche: «I commestibili, tolti dalla sala degli ori e delle gemme, ove prima trovavansi, si sono trasportati in una stanza isolata, che per condizioni speciali è meno

soggetta ad alterazioni atmosferiche. Ivi pure saranno situati in altre vetrine, le conchiglie, i tessuti, i cordami, le essenze, i bitumi e tutti gli avanzi organici raccolti a Pompei, tranne i colori, già collocati in apposite tavole nella sala degli antichi dipinti». In alto: frammento di affresco raffigurante una forma di panis quadratus. I sec. d. C. Da Pompei. A sinistra: un panis quadratus conservato in una teca protettiva. Pompei, Laboratorio di Ricerche Applicate.

Con la nascita nel 1874 dell’Antiquarium di Pompei a Porta Marina, i reperti organici rimasero nella città vesuviana in modo da offrire ai visitatori una panoramica piú ampia sulla quotidianità del centro. Nella I stanza erano conservati avanzi di tessuti e una fune dalla Casa del Camillo, e nella III stanza si custodiva una campionatura di pigmenti e di resti carbonizzati di commestibili quali cereali, fave, olive, fichi, noci, uova, 81 pagnotte rinvenute nel Panificio di Modestus, oltre a numerose conchiglie. La stessa stanza accoglieva crani umani, di cui uno con tracce di capelli, e animali, fra cui cavalli, cani, gatti e un recipiente di bronzo con all’interno lo scheletro di un coniglio. Il disastroso bombardamento del 1943 colpí anche questi ambienti espositivi causando la perdita di un gran numero di reperti: negli anni successivi, contemporaneamente al restauro degli edifici danneggiati, l’Antiquarium venne prontamente ricostruito da Amedeo Maiuri. Ma piú tardi, il terremoto dell’Irpinia del 1980 provocò ancora gravi danni all’Antiquarium che perciò venne chiuso al pubblico. Solo nel 1994, per risolvere il problema conservativo e di catalogazione dei reperti organici,

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A sinistra: un momento del lavoro di laboratorio sui reperti alimentari.

fu allestita una Camera climatizzata nei locali della vecchia Direzione degli scavi, annessa al Laboratorio di Ricerche Applicate: qui confluirono i ritrovamenti di Pompei e suburbio e una selezione di quelli ercolanesi. Il nucleo piú consistente della collezione pompeiana è costituito da vegetali carbonizzati, perlopiú cereali e legumi (farro, orzo, lenticchie, veccioli, favino), all’epoca importanti fonti di energia per l’organismo. Documentati sono pure i pani, elementi insostituibili nell’alimentazione, ottenuti con farina di grano di diverse qualità e acquistato nelle botteghe a seconda delle disponibilità economiche del cliente. Fra gli ortaggi piú consumati si segnalano le tante cipolle rinvenute nelle abitazioni, utilizzate anche per scopi terapeutici; Columella ricorda che la varietà pompeiana era molto apprezzata: «Scegli le cipolle pompeiane o quelle di Ascalona o anche le cipolle marsiche semplici, che i contadini chiamano unio cioè quelle che non sono andate in seme nè hanno dei getti aderenti» Tra i reperti vesuviani è presente la frutta, come noci, melograni, fichi e gli esotici datteri. Nella Camera

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sono conservati numerosi melograni, i famosi Punica granata largamente coltivati sulle coste mediterranee. Dieci quintali, secondo una stima indicativa, erano stati addirittura depositati al momento dell’eruzione in un ambiente della Villa di Oplonti. Tra i condimenti, oltre all’olio di oliva e all’aceto, era largamente diffuso nelle preparazioni culinarie il celebre garum, ottenuto dalla fermentazione nel sale degli intestini e degli scarti del pesce, prodotto anche a Pompei. Il Laboratorio di Ricerche Applicate di Pompei è quindi l’erede delle storiche vicende che hanno interessato da oltre due secoli e mezzo la raccolta e la conservazione dei reperti organici provenienti dagli scavi. Operativo dal 1994, all’inizio sotto la responsabilità della botanica Annamaria Ciarallo, il centro ha raccolto nel tempo preziose informazioni sull’ambiente vesuviano del 79 d.C. e sullo sfruttamento delle risorse naturali locali. L’attività di ricerca, grazie alle collaborazioni con Università e Istituti di Ricerca italiani e stranieri, si è aperta negli ultimi anni alle piú diverse discipline.

Oggi, in particolare, gli ambiti di indagine sono orientati verso la conoscenza del paesaggio antico (flora e fauna, domesticazione e acclimatazione delle specie vegetali e animali, ricostruzione degli habitat ed evoluzione degli stessi anche in termini di cultivar e biodiversità, analisi sui sedimenti di natura organica, uso delle risorse naturali organiche nella vita quotidiana, indagini antropologiche); la conoscenza a fini conservativi e di restauro (macroflora e microflora in ambienti esterni e interni, sperimentazioni per la salvaguardia dei reperti organici); e, infine, la fruizione e la valorizzazione (gestione integrata del verde, studio sulle antiche biodiversità floristiche dell’area vesuviana, studio sulle cultivar e reimpianto di antiche colture all’interno dell’area archeologica attraverso orti, vigneti, frutteti e viridari). Il Laboratorio, coordinato dall’archeologo Ernesto De Carolis, coadiuvato da un valido gruppo di collaboratori, svolge regolarmente attività didattiche ed espositive e ospita tirocini, tesi di laurea e di dottorato con studenti provenienti da tutto il mondo. Sono recentemente confluite nella Camera climatizzata tutte le coppette contenenti pigmenti trovate a Pompei, oltre a numerosi resti vegetali già conservati nei depositi di Oplonti. Al Laboratorio sono annessi anche l’Orto Botanico della flora antica, i vivai con numerose piante da mettere gradualmente a dimora negli spazi verdi degli scavi e due depositi climatizzati per la conservazione in acqua degli eccezionali legni provenienti dalla Villa suburbana di Moregine e dall’insediamento fluviale preromano di Poggiomarino.



PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

L’ISOLA DELLE TORRI UNA MOSTRA AL CIVICO MUSEO ARCHEOLOGICO DI MILANO RACCONTA LA MILLENARIA STORIA DELLA CIVILTÀ NURAGICA. NE ABBIAMO PARLATO CON GIANFRANCA SALIS, DELLA SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGIA DELLA SARDEGNA, E CON IL SOPRINTENDENTE MARCO MINOJA

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l metallo, l’acqua, la pietra: tre elementi a cui la civiltà nuragica appare nel tempo indissolubilmente legata, nelle sue espressioni architettoniche, artistiche, economiche, culturali, sociali e religiose. Sono i temi che oggi costituiscono il filo conduttore del percorso narrativo della mostra «L’isola delle torri. Tesori dalla Sardegna nuragica», appena inaugurata presso il Civico Museo

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Archeologico di Milano e visitabile per tutta la durata dell’esposizione universale EXPO 2015, fino al 29 novembre. Oltre 1000 reperti in pietra, ceramica e bronzo che raccontano la storia millenaria della civiltà nuragica – ripercorrendo la complessa e articolata protostoria della Sardegna – provenienti dai piú significativi contesti messi in luce nel corso degli studi e degli scavi della Soprintendenza negli ultimi decenni. «La mostra vuole dare una lettura della Sardegna nuragica che esca dagli schemi tradizionali», spiega Gianfranca Salis, archeologa della


A COLLOQUIO CON IL SOPRINTENDENTE

«Un giusto riconoscimento alla civiltà nuragica» È soddisfatto dell’esposizione milanese Marco Minoja, Soprintendente Archeologo della Sardegna e curatore de «L’isola delle torri»... «Con questa mostra abbiamo dato visibilità alla civiltà nuragica a livello extrainsulare esattamente dopo trent’anni dall’ultima mostra sul mondo nuragico: quella del 1985, proprio a Milano. Un giusto riconoscimento alla cultura nuragica nel panorama archeologico internazionale. Credo che non sia sbagliato dire che la dimensione e la complessità del patrimonio archeologico sardo sono, in assoluto, le meno conosciute. La Sardegna ha una densità archeologica straordinaria. Bisogna anche considerare che è la terza regione in Italia per grandezza, per cui il paesaggio archeologico è tra i piú estesi. Una regione con una tale densità di monumenti archeologici non esiste altrove. Sono 8000 solo i nuraghi censiti, figuriamoci quelli meno conosciuti. Oggi c’è una buona mappatura del territorio, ma non è escluso che ci sfuggano molte cose. Inoltre, è l’unica regione d’Europa in cui si può ancora camminare in un paesaggio dell’età del Bronzo». Vuole dire che il paesaggio sardo che vediamo oggi è esattamente lo stesso che lo sguardo poteva abbracciare in epoca preistorica? «Sí. A parte il mondo peninsulare egeo e l’area della Corsica, quello sardo è l’unico paesaggio che si sia conservato vergine e intatto, oggi come allora. Se in alcune zone della Sardegna, come quelle costiere, le trasformazioni del territorio sono state molto violente, in altre il paesaggio è ancora vergine: nell’entroterra, per esempio, dove ci sono estensioni a bosco immense. Quello è un paesaggio che non è stato toccato». Per questo il paesaggio sardo ha quel fascino ancestrale, quasi primordiale? «Sí, è proprio questa idea ancestrale a renderlo unico. Ed è ben motivata, perché la Sardegna conserva moltissimi tratti del paesaggio rimasti inalterati dalla preistoria fino a oggi». Per esempio? «L’interno del Nuorese, l’Ogliastra, il Gennargentu, la Barbagia: tutte zone vergini e al tempo stesso molto importanti dal punto di vista archeologico, come la valle del Lanaitto, con Tiscali che incombe sulla montagna, o anche Sa Sedda e Sos Carros, uno dei

Nella pagina accanto, a sinistra: testina femminile in bronzo. Nella pagina accanto, a destra: il sito nuragico di S’Arcu ‘e Is Forros (Villagrande Strisaili, Ogliastra).

monumenti sacri piú famosi della zona orientale, che sorge in un’area completamente vergine, dove ci si addentra in territori rimasti allo stato originario. La ragione della mostra è proprio far conoscere un territorio il cui patrimonio archeologico non è ancora del tutto conosciuto e apprezzato, e in questo senso l’EXPO 2015 è una vetrina internazionale e mondiale che rappresenta un valore aggiunto fondamentale. La mostra «L’isola dele torri», dopo Milano, andrà a Zurigo, cominciando a interessare gli archeologi europei». Soprintendente, ma perché il patrimonio archeologico della Sardegna è cosí poco conosciuto non solo dal pubblico, ma anche dagli stessi studiosi e archeologi? «Dopo il magistero del grande Giovanni Lilliu, la ricerca archeologica è rimasta confinata a livello locale. Non è stata potenziata l’attenzione sui siti preistorici a livello continentale e italiano, e la Sardegna è rimasta indietro. Basti pensare che l’archeologia nuragica, all’Università, faceva parte del corso di “antichità sarde”e non di quello sulla preistoria italiana e europea. Gli studi sulla Sardegna archeologica sono rimasti confinati sull’isola». Il percorso della mostra comprende un’installazione dedicata ai giganti di Monte Prama, restaurati dopo anni di oblio nei magazzini del Museo di Cagliari (vedi «Archeo» nn. 323 e 354, gennaio 2012 e agosto 2014; anche on line su archeo.it)… ma le statue sono presenti solo virtualmente... «Un’installazione con scansione laser 3D permette di esplorare virtualmente ogni singola scultura in tutte le sue parti. I metodi di multi-risoluzione combinati con luci e ombreggiature sintetiche, permettono visioni di dettaglio dei piú piccoli rilievi superficiali. È una realizzazione estremamente all’avanguardia dal punto di vista tecnico: innovativa, puntuale e riconosciuta a livello internazionale come lo stato dell’arte sulla riproduzione del patrimonio. Le statue sono la piú grande banca dati esistente al mondo di punti matematici rilevati su un bene culturale mobile. Non esiste nessun altro reperto al mondo con una cosi densa scansione 3D. Si parla di alcuni miliardi di punti rilevati, di 8 scansioni per ogni millimetro di superficie, di 4 misure di forme e 4 di colori che riproducono le statue che, dopo tanti anni di oblio, sono finalmente visibili al grande pubblico».

Soprintendenza archeologia della Sardegna, curatrice della mostra insieme a Marco Minoja, Soprintendente Archeologo della Sardegna, e a Luisanna Usai. «Quella nuragica è una civiltà segnata da processi di

trasformazione e caratterizzata da un costante e fruttuoso dialogo con il mondo esterno. Lo spirito della mostra è proprio questo: rappresentare una civiltà molto meno fissa e immobile di quanto non si pensi. Il Mediterraneo, allora,

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non rappresentava una barriera o un ostacolo, ma un veicolo di comunicazione». Dottoressa Salis, quali contatti della civiltà nuragica con gli altri popoli del Mediterraneo documenta la mostra? «A Milano sono esposti oggetti sardi recuperati in tutta l’Italia, in particolare dall’area tirrenica ma non solo. Per esempio, la navicella nuragica proveniente dalla tomba principesca di Montevetrano (n. 74), in provincia di Salerno, sepoltura etrusca dell’VIII secolo a.C., o quella della coeva tomba del duce di Vetulonia, in Toscana, unica per la ricchezza dell’apparato decorativo, con teoria di animali e scena di caccia; o anche la navicella di Crotone, del VII secolo a.C, che invece viene da un’area sacra della Calabria. Nella sezione dedicata agli scambi c’è l’ambra, che arrivava in Sardegna dal Baltico attraverso la mediazione della Pianura Padana. Reperti che danno l’idea di commerci ad ampio raggio. Anche il “bottone di Populonia” documenta scambi con il mondo etrusco». Non mancano rapporti con il mondo miceneo… «Nella mostra c’è una sezione dedicata ai reperti micenei recuperati in Sardegna e a quelli, invece, micenei ma di imitazione locale, come gli oggetti rinvenuti

nel nuraghe Antigori, presso Sarroch, in provincia di Cagliari. Contatti con i Micenei testimoniati non solo per la Sardegna costiera, ma anche per l’entroterra, come dimostra il nuraghe Arrubbiu di Orroli, presso Cagliari, da cui proviene un vasetto miceneo». A Milano sono esposti anche reperti provenienti dal complesso nuragico di S’Arcu ‘e Is Forros, nel comune di Villagrande Strisaili, nella provincia dell’Ogliastra: un villaggio-santuario con un tempio a megaron e un centro di produzione metallurgica, con officine per la S’Arcu ‘e Is Forros (Sardegna). Dettaglio di un altare nuragico (in alto) dentro il santuario e veduta dell’ingresso all’area di culto (a sinistra).

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fusione dei metalli, che era probabilmente il piú importante della Sardegna nuragica… «S’Arcu ‘e Is Forros fu attivo per un lungo arco cronologico, dall’età del Bronzo fino al VI e V secolo a.C. Tra gli oggetti tesaurizzati nel santuario c’erano manufatti di produzione locale, o di ispirazione etrusca, oppure di produzione etrusca e calabra. L’altare del megaron, inoltre, è a forma di modello di nuraghe. Come mostrano alcuni betili esposti, il nuraghe non è solo il monumento eponimo della civiltà nuragica, ma il simbolo della civiltà stessa, anche quando essa cambia volto. Questo è quello che abbiamo voluto rappresentare nella mostra: la civiltà nuragica non rimane uguale nei millenni, ma subisce una profonda evoluzione anche in relazione agli influssi esterni». Oltre alla pietra, un elemento molto amato dalla civiltà nuragica è l’acqua… «Assolutamente sí. La ritualità dell’acqua è molto importante nella religione nuragica, come mostrano i templi a pozzo e le aree santuariali».



n otiz iario

INCONTRI Toscana

BLUETRUSCO

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al 3 luglio al 2 agosto l’appuntamento è a Murlo, nella suggestiva cornice del Castello medievale, con «Bluetrusco». La prima rassegna dedicata al mondo degli Etruschi, con la direzione scientifica di Giuseppe M. Della Fina e «Archeo» come media partner, offrirà a tutti i visitatori una serie di appuntamenti da non mancare, che vedranno protagoniste l’archeologia, la cultura, la bellezza e le bontà del territorio dell’antica Etruria. Il festival durerà 19 giorni, con eventi ogni settimana, dal giovedí alla domenica. Il programma rispecchia la contaminazione e l’amore per la musica che contraddistinguono le origini dell’antico popolo; in ogni giornata si alterneranno momenti di approfondimento teorico a degustazioni enogastronomiche, passeggiate ed esperienze di laboratori didattici per bambini e adulti, per poi concludere con spettacoli di grande musica e teatro. Il sito internet dedicato www. bluetrusco.land permette di ottenere maggiori informazioni e consultare il ricco programma di eventi. Ogni giornata avrà un tema

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Acroterio raffigurante una figura maschile barbata con cappello. VI sec. a.C. Murlo, Antiquarium di Poggio Civitate. diverso, che verrà sviluppato attraverso gli eventi, suddivisi in sei categorie: «Voci dall’Etruria: lezioni, dialoghi, confronti», «Blue Note: musica, cinema, letture, teatro», «Esperienza al castello: laboratori, veglie contadine», «Bello&Buono: artigianato, enogastronomia», «Esplorazione: escursioni e visite guidate». Durante il festival saranno allestite quattro mostre: «Mulax» (a cura di Anthony Tuck), «I nuovi Etruschi» (a cura di Luciana

Petti), «Sotto il cielo di Murlo» (a cura di Fabio Cappelli), «Le vigne degli etruschi», (a cura di Andrea Ciacci e Andrea Zifferero) e verrà anche organizzata una fiera libraria che vedrà la partecipazione di numerose case editrici. Tra le numerose iniziative, ci si limita qui a segnalarne alcune: la lectio magistralis di Maurizio Bettini «Fondare una città: gli Etruschi, i Romani e la costruzione del mondo» (venerdí 3 luglio, alle ore 18,00); «La genesi della civiltà etrusca: risorse del suolo e del sottosuolo» a cura di Giovannangelo Camporeale (4 luglio, ore 17,00); «Sulle origini degli Etruschi», dialogo tra Vincenzo Bellelli e Alberto Piazza, la conferenza di Franco Cambi «Paesaggi dell’Etruria Antica» (10 luglio, ore 22,00); l’incontro «Archeologia e musica: reperti, immagini e suoni dal mondo antico» (11 luglio, ore 17,00) con Giovanna Sarti e Giulio Paolucci; la giornata di domenica 12 luglio dedicata alla figura di Ranuccio Bianchi Bandinelli con la partecipazione, tra gli altri, di Marcello Barbanera; la due giorni (18-19 luglio) dedicata alla pubblicazione della prima edizione integrale italiana di Città e necropoli ell’Etruria, di George Dennis (Nuova Immagine Editrice) – vedi anche, in questo numero di l’articolo alle pp. 56-63 – , con la partecipazione, tra gli altri di Cristopher Smith e Andreas M. Steiner. Infine, le conferenze «La coltivazione della vite e del vino in Etruria» di Andrea Ciacci (25 luglio, ore 17,00) e «Il banchetto in etruria uno sguardo sulla vita dell’aristocrazia» di Francesca Ceci (1 agosto, ore 17,00). (red.)



n otiz iario

Luciano Calenda

ARCHEOFILATELIA

PER NON DIMENTICARE... Le drammatiche vicende delle località storiche dell’area mesopotamica sono raccontate nell’ampio servizio che apre questo numero (vedi alle pp. 32-55). In questa rubrica desideriamo dare il nostro «piccolo» contributo a conservare la memoria di tanti siti già violentati dalla follia umana e a esprimere l’augurio che altri, oggi in pericolo, non abbiano a subire la stessa sorte… IRAQ In questi complessi archeologici iracheni danni sono stati già fatti. A Mosul (1) è stato semidistrutto il locale Museo, a Ninive (2), famosa antica capitale dell’Impero Assiro, è stato abbattuto un tratto delle mura cittadine nei pressi della Grande Moschea. E anche Nimrud (3), da cui proviene la famosa «Monna Lisa di Nimrud» (4), ha subito la furia iconoclasta delle forze d’occupazione miliziane: sono stati fatti saltare con esplosivo gli scavi dell’antica località. Ruspe ed esplosivi hanno distrutto una buona parte di Hatra (5); famosa è la statua (6) proveniente dal tempio sulla cui sorte, fino a oggi, non si hanno certezze. SIRIA Sulla città di Palmira sventola da qualche settimana la nera bandiera dell’ISIS; sembra che alcuni danneggiamenti irreparabili, anche se marginali, siano già avvenuti, ma al momento non ci sono notizie di esplosioni o ruspe contro questo gioiello dell’antichità.Tutto il mondo è con il fiato sospeso con la speranza di riuscire a godere, in un giorno non troppo lontano, della bellezza dello spettacolo che si intuisce soltanto dalla rassegna di francobolli siriani che raffigurano con prospettive diverse l’antico sito: l’arco di Settimio Severo (7-8), il teatro romano (9), il tempio di Baal (10), l’imponente colonnato (11,12). L’augurio è che l’intero sito riesca a uscire piú o meno illeso da questa brutta avventura e che si possano ancora trovare, in futuro, reperti come questo (13). E che lo spirito della famosa regina Zenobia (14) protegga la «sua» Palmira, anche per tutti noi...

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure 13

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Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

MONTEBELLUNA (TV) Storie di antichi Veneti

ROMA Lacus Iuturnae

La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15

L’Età dell’Angoscia

In alto: il cavallo C del gruppo dei Dioscuri.

La situla figurata di Montebelluna Museo Civico fino al 27.09.15

Particolare delle pitture della Villa dei Misteri, a Pompei.

Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15

Terrantica

Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15

Nutrire l’impero

Storie di alimentazione da Roma a Pompei Museo dell’Ara Pacis fino al 15.11.15

BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po

Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.01.16

CANINO (VT) Frutti d’oro e d’argento

La spiga e l’ulivo Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.10.15

CASALE MONFERRATO diVino

Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce

Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15

MILANO Africa

La terra degli spiriti MUDEC, Museo delle Culture fino al 30.08.15

L’isola delle torri

Tesori dalla Sardegna nuragica Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15 22 a r c h e o

Qui sopra: statuetta cicladica femminile tipo Spedos, da Koufonisia (?). Antico Cicladico II, 2800-2300 a.C.

In basso: testa commemorativa. Regno del Benin.

NAPOLI E POMPEI Pompei e l’Europa 1748-1943 Oggi come ieri, chi visita Pompei scopre un’antichità fatta di vita e di arte, una sintesi poetica tra vero e verosimile. Per salvaguardare e trasmettere questo capolavoro, la Soprintendenza Speciale di Pompei, Ercolano e Stabia con il sostegno del Grande Progetto Pompei ha voluto affiancare una grande mostra all’impegno degli archeologi che lavorano al mantenimento del piú grande scavo del mondo. Pompei e l’Europa, allestita nel Museo Archeologico di Napoli, evoca la suggestione esercitata da Pompei nell’immaginario europeo dall’inizio degli scavi nel 1748 al bombardamento del 1943. In parallelo, nell’Anfiteatro di Pompei, si espongono i calchi delle vittime dell’eruzione, presentati per la prima volta dopo il recente restauro, e una mostra di fotografie dell’archivio della Soprintendenza che testimoniano il progresso degli scavi tra Ottocento e Novecento.

DOVE E QUANDO Napoli, Museo Archeologico Nazionale Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 02.11.15 Info tel. 081 4422149 ; www.mostrapompeieuropa.it/index.html


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

ORVIETO Voci ritrovate

Germania

Archeologi italiani del Novecento Napoli, Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15

BERLINO Un solo Dio. L’eredità di Abramo sul Nilo Ebrei, cristiani e musulmani in Egitto dall’antichità al Medioevo Bode Museum fino al 13.09.2015

PENNABILLI (RN) Ipazia

Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15

BRAMSCHE-KALKRIESE Io Germanico!

SARDARA (CA) S’Unda Manna

Un drone svela i cento nuraghi del Medio Campidano, colpiti e sepolti da un mare di fango Casa Pilloni fino al 04.10.15

Condottiero, sacerdote, superstar In alto: ritratto di Germanico. Museo e Parco Kalkriese Tolosa, Musée Saint-Raymond. fino all’01.11.15 Il nuraghe Millanu, presso Nuragus.

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16 (prorogata)

Austria VIENNA Monete e potere nell’antico Israele

Kunsthistorisches Museum fino al 13.09.2015

Svizzera ZURIGO Il gesso conserva Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15

Francia PARIGI L’epopea dei re traci Scoperte archeologiche in Bulgaria Museo del Louvre fino all’11.07.15

LES EYZIES-DE-TAYAC Segni di ricchezza

Qui sotto: anello-disco in pietra dura da Breuilpont (Eure).

USA PHILADELPHIA Sotto la superficie

Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15

Replica in gesso della testa di uno dei Dioscuri del gruppo collocato a Roma, sul Quirinale.

La disuguaglianza nel Neolitico Musée national de Préhistoire fino al 15.11.15

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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

ECCO IL MUSEO INVISIBILE! L’ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI ATENE HA SAPUTO REAGIRE AL CALO DI PRESENZE REGISTRATO NEGLI ULTIMI ANNI: DALLO SCORSO FEBBRAIO, OLTRE A MOSTRE, CONCERTI E VISITE GUIDATE, HANNO COMINCIATO A USCIRE DAI DEPOSITI REPERTI MAI VISTI PRIMA D’ORA. UN’OCCASIONE DA NON MANCARE PER SCOPRIRE CAPOLAVORI DI VALORE INESTIMABILE

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l Museo Archeologico Nazionale di Atene, che ha da poco festeggiato i 180 anni di vita, è una delle piú importanti raccolte europee. Custodisce tesori provenienti dalle piú svariate aree della Grecia e non (basti pensare alle collezioni etrusca ed egizia) distribuiti su un lunghissimo arco cronologico, che va dalla preistoria alla tarda età imperiale. Nelle sue 64 sale, sono esposti oltre 11 000 reperti. Ma ciò che forse i non addetti ai lavori ignorano è che nei suoi magazzini cela un vero e proprio tesoro: solo i reperti catalogati ammontano a oltre 200 000 pezzi, che restano però appannaggio di pochi specialisti.

SFIDA AL DEGRADO Eppure, dopo l’apertura del rinnovato Museo dell’Acropoli, che gode di un’ampia visibilità, il numero di visitatori del Museo Archeologico Nazionale di Atene è

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crollato. Una flessione a cui ha contribuito in larga misura il fatto che l’esposizione, pur trovandosi nel centro della città, non è molto vicina al quartiere turistico della Plaka, in una zona inoltre colpita

dal degrado. Cosí, molti dei turisti che soggiornano ad Atene tralasciano di visitare il Museo Nazionale. Tuttavia, questa complessa situazione ha costituito un fattore di stimolo per gli


A sinistra: restauratori al lavoro sull’«Artemide dal mare». IV sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: uno scorcio dei magazzini del Museo Archeologico Nazionale di Atene. Nella pagina accanto, in basso: il sigillo del cosiddetto «anello di Teseo», da Micene. XV sec. a.C. In basso: sarcofago egizio in bronzo per la mummia di una gatta.

archeologi del museo e per i suoi direttori, prima Nikolaos Kaltsàs e ora Maria Lagogianni. Le iniziative finora prese sono molteplici e mirano anche a sensibilizzare gli abitanti del quartiere: concerti nel bel giardino, tenutisi anche in un momento particolarmente difficile, quando una delle vie che costeggiano il museo si era letteralmente trasformata in un mercato all’aperto di stupefacenti; mostre itineranti, non solo a carattere archeologico, ma anche fotografico e artistico. Ma l’iniziativa piú lodevole, a nostro avviso, è quella inaugurata all’inizio di quest’anno e che sta proseguendo con successo.

L’«ARTEMIDE DAL MARE» Ogni due mesi, un reperto scelto abbandona i magazzini e, dopo accurate operazioni di restauro, viene presentato al pubblico, che ha cosí la possibilità di vedere da vicino materiali spesso di rara bellezza. Visite guidate gratuite eseguite dai curatori del museo sono offerte in date stabilite. Un’occasione unica, che ha riportato alla luce, per primo, nello scorso febbraio, il cosiddetto

«anello di Teseo», un capolavoro della glittica micenea, rinvenuto fortuitamente durante scavi sull’Acropoli negli anni Cinquanta del secolo scorso. È stata quindi la volta del sarcofago bronzeo destinato alla mummia di una gatta egizia, dedica alla dea Bastet, parte di una collezione privata poi confluita nelle collezioni del Museo Nazionale. E ora, fino al 19 luglio, tocca alla cosiddetta «Artemide dal mare». Si tratta di una splendida statuetta bronzea risalente alla fine del IV secolo a.C., rinvenuta nel maggio del 1959 da un pescatore nelle acque al largo di Mykonos e da allora sempre nascosta nei magazzini del museo. Solo pochi studiosi avevano finora potuto ammirare questo capolavoro che raffigura la dea Artemide, una delle pochissime opere bronzee della prima età ellenistica nella categoria delle statuette di piccole dimensioni. «Il Museo Invisibile» – questo il nome dell’iniziativa – offre la rara occasione di raccontare la storia segreta che si cela dietro a reperti conservati da decenni nei magazzini e presentati, spesso per la prima volta, al pubblico.

L’iniziativa è ancor piú lodevole se si pensa che gli archeologi coinvolti nel progetto vi lavorano senza percepire straordinari, proprio in un frangente in cui la carenza di personale porta la direttrice alla chiusura forzata delle sale, a rotazione. La lista dei prossimi capolavori candidati è lunga: per saperne di piú, basta seguire il blog del museo, all’indirizzo: https:// https://all4nam.wordpress.com/ category/αθεατο-μουσειο-unseenmuseum/

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Nazionale Atene, 44 Patission Orario tutti i giorni, 8,00-20,00; chiuso 25, 26 dicembre, 1° gennaio, 25 marzo, Pasqua ortodossa e 1° maggio Info www.namuseum.gr

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LE REGINE QUALE FUTURO PER HATRA E PALMIRA?

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces. 32 a r c h e o


DEL DESERTO Hatra e Palmira sono due città accomunate dal loro status di luoghi di incontro commerciale e culturale, dove gli uomini si scambiano merci, esperienze e conoscenze, dove le tradizioni urbanistiche, architettoniche e figurative ellenistiche, eredi della tradizione classica, si incontrano con quelle del mondo semitico e iranico, dando luogo a una sintesi straordinariamente originale e affascinante. Colpire queste due splendide gemme dell’archeologia mondiale significa sferrare un attacco alla cultura mondiale e all’idea stessa di convivenza pacifica e interazione reciproca tra popoli e culture. E di ciò, chiunque abbia ideato la strategia messa in atto dall’ISIS è, purtroppo, pienamente consapevole. di Marco Di Branco e Massimo Vidale

Palmira. Veduta dei resti dell’antica città; sullo sfondo, il castello ayyubide del XIII sec. La fotografia è stata scattata il 14 marzo 2014.

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HATRA E PALMIRA • I LUOGHI DELLA LEGGENDA

Sulle due pagine: Hatra. Veduta delle antiche rovine della città, prima della distruzione operata dalle milizie dell’ISIS. Le autorità irachene non dispongono di dati certi sull’entità dei danni.

L’

intellettuale andaluso Ibn Khaldun (13321406), in una vita al servizio dei potentati arabi di Nord Africa e Spagna, era stato ambasciatore presso il re di Castiglia e di Timur Leng (Tamerlano). Nei suoi lunghi viaggi, aveva studiato a fondo le società beduine dei deserti berberi, d’Arabia e di Persia. Secondo lo studioso, le popolazioni delle zone aride si dividevano tra quelle incapaci di resistere ai richiami del deserto, innamorate dei vasti pascoli per le mandrie, condannate a una vita di apparente marginalità; e le tribú che popolavano città, desiderose invece di accu-

Armenia

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Mar Caspio

Tu r ch i a

Aleppo Mar Mediterraneo

Raqqa

Siria

Hatra Mari

Palmira (Tadmor)

Libano Damasco

A destra: cartina della regione mediorientale con la localizzazione dei siti dichiarati Patrimonio Mondiale dell’Umanità e minacciati dal conflitto: Hatra in Siria e Palmira e Baghdad in Iraq.

Azerbaigian

Giordania Arabia Saudita

Iraq Baghdad

Iran


HATRA

mulare ricchezze ben superiori alle proprie immediate necessità, ben presto avvezze all’abbondanza e allo sfarzo. La gente sedentarizzata in città, dimenticando gradualmente le antiche origini nomadi, era destinata all’indebolimento e alla corruzione, e a cadere inesorabilmente preda dell’aggressivo espansionismo di nuovi gruppi pastorali. Si tratta davvero di realtà endemicamente ostili e inconciliabili?

UMANITÀ IN MOVIMENTO La lezione dell’archeologia è forse diversa. Sin dal Neolitico, nell’Asia Media, le prime città avevano solide radici negli spazi di steppe e deserti, e, quando, fatalmente, i campi si inaridivano e le mandrie bovine languivano, ci si salvava mettendosi in moto. Comunque si valutino le ipotesi di «ciclo storico» di Ibn Khal-

dun – del resto condivise per secoli dai sociologi dell’Occidente – il deserto non ci appare luogo di mortifera desolazione, ma teatro brulicante di umanità e animali in continuo movimento: mercanti, armati e cammelli tra oasi, prese d’acqua e caravanserragli, su innumerevoli piste tracciate millenni prima. La fortuna di tante «perle del deserto» come Petra, Palmira, Hatra, Dura Europos, Antiochia e Merv, o la stessa Medina, si deve alla geniale sintesi tra i mondi e le prospettive di vita di transumanti e sedentari, di coltivatori e commercianti, di donne incardinate nel cuore di famiglie possenti e uomini irrequieti, sospesi come fili tra città lontane migliaia di chilometri l’una dall’altra. L’inestimabile patrimonio archeologico rappresentato da importantissimi siti in territorio siriano e iracheno, e, con esso la testimonianza di una importante fucina a r c h e o 35


HATRA E PALMIRA • I LUOGHI DELLA LEGGENDA

LE ISCRIZIONI DI HATRA Le circa 500 iscrizioni rinvenute a Hatra, che costituiscono il piú importante strumento di conoscenza della storia sociale e religiosa della città, sono state studiate da un epigrafista italiano, Roberto Bertolino. Dalle sue ricerche emerge che i testi hatreni sono incisi su sei tipi di reperti archeologici (strutture, blocchi, statue, rilievi, altari e oggetti); a livello paleografico, i casi piú interessanti caratterizzano le strutture e i blocchi, che sono peraltro assai importanti per la datazione degli edifici. Il tipo di formulario ricorrente è quello commemorativo (per esempio: «Sia ricordato Orode»), e spesso sono menzionati i nomi di re, militari, scultori e architetti.

della cultura araba, sta affrontando la minaccia piú grave mai incontrata in duemila anni di storia. Secondo fonti curde, dopo le azioni contro il museo della città irachena di Mosul e le rovine dell’antica capitale assira Nimrud, le truppe del califfato islamico dell’ISIS, fra il marzo e l’aprile 2015 avrebbero sferrato un attacco contro Hatra, uno dei siti archeologici piú interessanti e suggestivi di tutto il Vicino Oriente, posto sotto la protezione dell’UNESCO. Fortunatamente, le notizie relative a estese distruzioni nell’area non risultano confermate, ma è evidente che la minaccia del fondamentalismo islamico costituisce una terribile spada di Damocle non solo per Hatra, ma anche per molti altri siti e monumenti della Siria e dell’Iraq, sia pagani, sia cristiani, sia islamici. In effetti, dopo Hatra, l’ISIS ha puntato le armi contro la grande gemma dell’archeologia siriana, l’oasi carovaniera di Palmira, che, nel III secolo d.C., durante il governo della regina Zenobia, fu una delle città piú importanti e fiorenti dell’impero romano. Peraltro, l’azione dell’ISIS sembrerebbe del tutto priva di logica e, soprattutto, di relazioni con il tradizionale atteggiamento di tolleranza tenuto dai musulmani nei confronti dei monu36 a r c h e o

In alto, a sinistra: Hatra. Un’iscrizione in aramaico su un mattone di un iwan del Grande Tempio. Sulle due pagine: Hatra. Veduta del prospetto settentrionale del Tempio di Allat.

menti e delle opere d’arte antica presenti nei territori conquistati dalle truppe islamiche. In effetti, sia i monumenti di Hatra sia quelli di Palmira, dopo la conquista araba, sono sopravvissuti per secoli senza che neppure si ponesse il problema del loro carattere pagano. Come la storia preislamica, anche le


HATRA

LA CITTÀ DELL’ESORCISTA A Hatra furono girate le prime scene de L’Esorcista, celeberrima pellicola del 1973 diretta da William Friedkin e tratta dall’omonimo romanzo di William Peter Blatty, che scrisse anche la sceneggiatura. Il film si apre con la

scena di uno scavo archeologico, durante il quale ha luogo il ritrovamento di una statuetta che raffigura il volto di un demone. Uno degli archeologi presenti, Merrin Lankaster, sacerdote cattolico anziano e malato di cuore, rimane

molto turbato dalla scoperta. Non sono pochi gli appassionati che, negli anni successivi all’uscita del film, si sono recati a Hatra per vedere da vicino questa esotica e suggestiva location del principe degli horror.

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HATRA E PALMIRA • I LUOGHI DELLA LEGGENDA

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S tr a

Nella pagina accanto, in alto: Hatra. Una protome antropomorfa. In basso, a sinistra: Hatra. Un militante si appresta a distruggere una statua. L’immagine è stata diffusa dall’ISIS via internet, in un video pubblicato il 3 aprile 2015. In basso a destra: Hatra. Veduta aerea della città, in un’altra immagine diffusa dall’ISIS nello scorso aprile. In questa pagina, a destra: pianta di Hatra con la localizzazione dei principali edifici.

da mo derna

HATRA

Palazzo

Nuovi scavi

V

IV

X XI

VI

III

Nuovi scavi

Grande Temenos (recinto sacro) VIII

IX

VII XII

Necropoli

I II

Necropoli

Mura interne N

vestigia delle civiltà del passato erano considerate parte del progetto provvidenziale messo in atto da Dio in vista della Salvezza, e, in quanto tale, meritavano rispetto. Un esempio molto chiaro di tale attitudine ci viene dal mondo sunnita egiziano, presso il quale si impose l’idea che i magnifici monumenti dell’antichità dovessero essere rispettati e protetti, perché, come scrive lo storico al-Rashidi, «anche i venerabili compagni del Profeta che si erano stabiliti in Giza, non avevano fatto nulla alle piramidi e alla Sfinge».

MALVAGITÀ E FANATISMO Cosí, quando, nel XIV secolo, un derviscio fanatico mutilò il naso della Sfinge, il suo atto fu quasi unanimemente ritenuto come dettato dalla malvagità e dal fanatismo. I fondamentalisti che nel mondo arabo dei nostri giorni tornano a sostenere la necessità di distruggere i monumenti preislamici in quanto idoli che offendono l’Islam, dovrebbero forse rileggere con attenzione i testi del cosiddetto «Medioevo islamico», assai piú moderno di quanto spesso non si creda. Al di là delle inquietanti domande sull’esistenza di una regia occulta dietro le azioni dell’ISIS, è innegabile che le iniziative militari dell’organizzazione abbiano sem-

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IV Templi Strade antiche

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400 mt.

pre un notevolissimo impatto mediatico, che mira alla diffusione dell’immagine di un Islam chiuso in se stesso e autoreferenziale, privo di qualsivoglia volontà di dialogo con il mondo esterno. Non è certo un caso, dunque, che gli obiettivi propagandistici degli attacchi del califfato, come la moschea di Giona a Mosul, o come Hatra e Palmira, siano accomunati da una caratteristica fondamentale: quella di costituire luoghi di dialogo interculturale, nei quali si intersecano e si incontrano genti, storie, lingue e religioni diverse. La città di Hatra, che occupa un posto estremamente importante nella Mesopotamia di epoca partica, è un esempio perfetto di tale incrocio di culture: essa, infatti, è stata a lungo la capitale di un piccolo regno, a capo del quale si sono succedute piú dinastie appartenenti a popolazioni di vario tipo. Il sito di Hatra, patrimonio dell’UNESCO dal 1985, si trova circa 100 km a sud-ovest di Mosul, nella regione della Jazira, ed è stato scavato solo parzialmente da missioni irachene. La maggior parte delle informazioni riguardanti la città proviene dalle circa 500 iscrizioni che vi sono state rinvenute (di cui solo 24 datate): esse sono in gran parte nella lingua aramaica locale, a cui si aggiungono alcune epigrafi latine, greche e aramaiche a r c h e o 39


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palmirene. Da tali epigrafi si evince che Hatra fu inizialmente una città vassalla della dinastia arsacide, la cui importanza era data soprattutto dal fatto di trovarsi in una posizione strategica sul limes tra l’impero partico e quello romano e dal costituire una tappa obbligata per tutti coloro che entravano in Mesopotamia da Occidente; successivamente, i Romani tentarono di impossessarsene, assediandola per due volte; infine, la città cadde nelle mani dei Sasanidi. Scarse sono le fonti letterarie che fanno riferimento a Hatra: una biografia del profeta Mani risalente al V secolo d.C. (il «Codice di Colonia»), che colloca la conquista sasanide della città nel 240-41 d.C.; un breve passo di Ammiano Marcellino, dal quale si apprende che nel 363 d.C. Hatra era un oppidum olimque desertum, e alcuni brevi cenni di autori arabi e persiani, come lo storico al-Dinawari e il poeta Firdawsi, che attribuiscono la presa di Hatra a Shapur II (309/10-379 d.C.).

CASE, TEMPLI E SANTUARI Come un’altra famosa città carovaniera, la siriana Dura Europos, Hatra fu al tempo stesso un importante avamposto militare, un ricco emporio commerciale e un centro religioso di prima grandezza. Con Dura, Hatra condivideva anche il carattere multietnico dei suoi abitanti: nelle due città, infatti, coesistevano genti di origine semitica (araba e aramica), iranica, greca e romana, e ciò dava origine a una mescolanza di elementi linguistici, culturali e religiosi che rendeva impossibile individuare la matrice predominante. Neanche lo studio dell’onomastica hatrena ha permesso di dire una parola definitiva in merito. Nel II secolo, Hatra conobbe un grandioso sviluppo edilizio, culminato nella costruzione del santuario dedicato alla piú venerata divinità femminile araba preislamica, Allat, del tempio della Triade semitica Maran, Martan e Bar Marayn, e nel rafforzamento delle mura urbiche. Fin dal periodo piú antico, il centro della città era costituito da un grande recinto sacro in pietra, dedicato al dio solare mesopotamico Shamash, che racchiudeva i templi principali, costruiti con una tecnica edilizia di origine romana, ma con pianta spesso derivante dagli edifici di epoca achemenide: sala centrale quadrata separata dal mondo esterno da un deambulatorio. Nel territorio della città sono stati scavati anche 14 templi minori, con schema architettonico di tradizione mesopotamica, babilonese e assira, da cui proviene una quantità straordinaria di rilievi e statue raffiguranti divinità, sacerdoti e sovrani. Lo schema planimetrico delle case di Hatra rispecchia il modello utilizzato nell’antica Mesopotamia: un cortile centrale circondato da una serie di ambienti, spesso dotati di iwan, ambiente chiuso e coperto che si apre verso l’esterno e il cui ingresso risulta perlopiú sormontato da un arco. 40 a r c h e o

Chiunque l’abbia visto, non può certo dimenticare il video, diffuso in rete e riproposto dalle televisioni di tutto il mondo, in cui fantomatici miliziani dell’ISIS distruggono a colpi di piccone e raffiche di kalashnikov le statue e i bassorilievi di Hatra. Il filmato, dal significativo titolo «Schiacciare gli idoli», dura sette minuti e si apre con una panoramica sul sito archeologico; quindi, dopo aver pronunciato alcune parole in arabo all’indirizzo della telecamera, i miliziani si accaniscono contro i preziosi artefatti. Uno abbatte una statua a colpi di piccone; altri aprono il fuoco coi kalashnikov o utilizzano mazze da fabbri contro le sculture poste sulle mura della città. Seppure sussistano dubbi sulla reale consistenza della devastazione, il messaggio mediatico,


HATRA Hatra. Veduta esterna di un’ala del Grande Tempio, in cui si distinguono gli iwan.

nella sua brutalità, è apparentemente chiarissimo, Nei templi partici l’espressione plastica del culto delle facendo leva sulla tradizionale ostilità islamica nei divinità era il rilievo, basso o alto. Il solo esempio noto è quello di un monumento di un tempio di Hatra, ora confronti degli idoli. al Museo Archeologico di Baghdad, che rappresenta una divinità del mondo infero, Hades-Nergal-Ahriman, RADICARE LO «SCONTRO DI CIVILTÀ» Tuttavia, le cose stanno in maniera assai diversa, poi- in piedi e frontale, secondo la norma iranica. Abbigliato ché le statue di Hatra, come del resto quelle di Palmi- con la moda partica, il demone tiene al guinzaglio un ra e dei molti siti archeologici in terra islamica, non cane a tre teste, e, alla sua destra, stanno i sette emblemi sono piú oggetto di culto da quasi duemila anni e dei pianeti celesti. Ma la scultura hatrena è anche a appartengono al patrimonio culturale di tutto il mon- tutto tondo: nelle statue dei re di Hatra, alla resa minudo. Attaccare statue e siti archeologici non ha nulla a ziosa dei particolari dell’abbigliamento si unisce la rigiche fare con la religione, ma è funzionale a radicaliz- dità della posa frontale. È evidente che l’arte mesopozare lo «scontro di civiltà» fino a un punto di non tamica continuava a servire da modello, anche se risulritorno: ed è probabile che i registi occulti del sedi- ta forte l’influsso achemenide e partico. cente ISIS ne siano ben consapevoli. (segue a p. 44) a r c h e o 41


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Palmira. Panoramica aerea dell’oasi in cui sorgono le rovine della città. Si distingue, al centro, la grande Via Colonnata. 42 a r c h e o


PALMIRA

«Quando, dopo un giorno estenuante di marcia attraverso il deserto siriano, le lunghe carovane scorgono Palmira, nel pallido lucore delle stelle, l’uniformità dell’orizzonte diviene una fitta linea di colonnati irregolari, di mura infrante, di facciate di palazzo crollate per metà; quando la sabbia sembra alla fine venir meno, non nel verde di un’oasi, ma sotto una profusione di marmi e pietre tagliate, il silenzio cade sui viaggiatori. Anche i cammellieri cessano i canti della marcia, e non vi è piú nulla da ascoltare, se non la sabbia che crepita sotto ai piedi, e il vento che mugula tra le rovine (…) è allora che un uomo, anche il meno civilizzato, si sente piccolo e, suo malgrado, sente la presenza di quelle rovine come quella di una grande tristezza». (Lucien Double, Les Césars de Palmyre, Parigi 1877)

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L’

immagine delle bandiere nere dello Stato islamico che sventolano sulla cittadella di Palmira è un simbolo estremamente inquietante. Secondo l’archeologo Ma’mun Abdulkarim, responsabile del Dipartimento delle Antichità di Damasco, miliziani dell’ISIS sarebbero entrati nel museo archeologico e avrebbero danneggiato le copie in gesso di statue e bassorilievi, ma non avrebbero sottratto nulla, in quanto gran parte dei reperti era stata trasferita in precedenza in un luogo sicuro dal governo siriano. «Attacchi barbarici», li definisce il Consiglio di sicurezza dell’ONU, che condanna con forza l’occupazione di Palmira. Mentre questo numero di «Archeo» sta andando in stampa, giunge la notizia che i miliziani dell’ISIS hanno piazzato cariche esplosive nelle rovine dell’antica città. E tuttavia, la questione resta avvolta tra molti misteri e ambiguità.

INCENSO E SETA Palmira (l’antica Tadmor) fu una delle piú grandi e importanti città carovaniere del mondo antico: le carovane che trasportavano incenso, seta (una stoffa rinvenuta nella necropoli sembra essere di manifattura cinese) e altre merci preziosissime, facendo obbligatoriamente tappa in questa grande oasi, ne determinarono la ricchezza per almeno 300 anni. L’inizio della fioritura di Palmira-Tadmor si colloca alla metà del I secolo a.C., quando Augusto mise momentaneamente fine al contrasto tra Roma e l’impero partico per mezzo di un’intesa diplomatica che si protrasse fino al regno di Traiano. Cosí, il commercio carovaniero attraverso la Siria e lungo l’Eufrate (e di lí verso la Persia e l’Asia centrale)

Palmira. Il santuario di Bel, divinità suprema e benefica, venerata dagli abitanti della città. L’edificio fu dedicato nel 32 d.C. e ospitava anche il culto di altri dèi.


PALMIRA

si riattivò, sino a raggiungere proporzioni mai verificatesi prima a causa dell’enorme richiesta di beni di lusso da parte di Roma. La città si arricchí allora di vie colonnate, di templi, di strutture commerciali e di tombe monumentali, che ne condizionarono la fisionomia successiva. Attraverso grandi opere pubbliche, si provvide all’approvvigionamento idrico, rendendo possibile l’estensione delle aree coltivabili attorno all’area abitata. Tuttavia, all’inizio del II secolo d.C., la politica di indipendenza che caratterizzava la città ricevette un duro colpo per mano di Traiano, che tentò di mettere l’impero partico, e di conseguenza anche Palmira, sotto il diretto controllo di Roma. Alla morte dell’imperato-

re, il suo successore, Adriano, abbandonò questa politica interventista e per Palmira si aprí un’epoca di notevole prosperità, che durò fino al III secolo d.C. La maggior parte dei monumenti oggi visibili a Palmira risale a questo periodo. La popolazione palmirena, come quella di Hatra, era molto composita, formata com’era da un melange di Amorrei, Aramei, Nabatei e Arabi: questi ultimi avevano finito con il rappresentare il gruppo dominante. L’aramaico era la lingua comune, che permise la graduale fusione di elementi delle tre culture, influenzate anche dalle tradizioni di Siria e Palestina, del mondo fenicio e babilonese. (segue a p. 49)


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IL SITO DI PALMIRA Il sito di Palmira è formato da due nuclei principali, il grande santuario del dio Bel, e il campo militare dell’imperatore Diocleziano, uniti dalla celebre via colonnata. I vari elementi costitutivi delle architetture palmirene testimoniano l’adozione di formule e scenografie greco-romane (via colonnata, teatri, terme, tetrapili), ma la relazione con il mondo classico è spesso solo superficiale. Se infatti le forme sono tipicamente ellenistiche, la realtà architettonica di insieme si rivela sostanzialmente estranea all’ellenismo e pertinente alla tradizione iranica o mesopotamica. Come l’iwan, in molte case palmirene, permette di confrontarle con quelle di Hatra e Dura Europos, con caratteri piú tipicamente partici, negli edifici destinati al culto e nelle celebri tombe a torre le convenzioni occidentali non sono in grado di soddisfare esigenze e costumi radicati nella popolazione della città. Cosí, lo schema del tempio di Bel, costruito durante il regno di Tiberio, è di tradizione occidentale, ma i suoi dettagli, come i pinnacoli decorativi del tetto, tradiscono la loro

In alto: veduta aerea del sito di Palmira. A destra: pianta dell’antica città e della Valle delle Tombe. A sinistra: il castello di Fakhr ad-Din II fa da sfondo a una delle tombe a torre della necropoli occidentale di Palmira. I sec. d.C.

Moqimo Hagego

Moqimo Zebida Worod

Elahbel

Qasr al-Abiad

Zabdate

Atenatan

Yarhai

Zabdila

V a l l e d e l l e To m b e Periodi:

Tombe a torre

Ellenistico

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Romano

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Islamico

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Jebel Muntar O

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Tempio di Bel Hammon 200 mt.

origine mesopotamica, che si evidenzia anche nella particolare ripartizione della cella. Come il tempio di Salomone a Gerusalemme e altri templi siriani dello stesso periodo, era formato da un’ampia corte, con la cella su uno dei lati lunghi. Da est, dominava l’intera città. Dedicato nel 32, il tempio di Bel fu seguito da quello di Baal Shamin il «Signore del Cielo», poi da quello del dio mesopotamico Nabu, che i Greci identificavano con Hermes. Agli inizi del II secolo d.C. risalgono l’altare costruito davanti al tempio di Baal Shamin e la costruzione del tempio di Allat. La città continuò ad abbellirsi di un ninfeo, di un teatro e di una agorà, o piazza del mercato, in cui figuravano i busti di Settimio Severo e di sua moglie Giulia Domna,

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PALMIRA

Castello di Fakhr ad-Din II

Necropoli settentrionale

Jebel Husseiniye

Tempio funerario

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Tempio di Allat

Kithoth Taimarso

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Museo

Basilica IV Campo di Diocleziano Basilica I

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Basilica II

Kithot

Porta di Dura A’ailami & Zabida

Hotel Zenobia

Basilica III

Tempio di Baal-Shamin

Piazza Ovale

Resti di colonnato

A Umm al-Belqis

Ninfeo Mercato omayyade Tetrapylon

Città ellenistica Mura ellenistiche

Tempio di Arsu

Ninfeo

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A

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto Terme taturi cum ilita aut quatiur restrum di Diocleziano eicaectur, testo blaborenes ium Terme di Diocleziano Arco quasped quos non etur reius nonem. Monumentale

Tempio di Nabu Esedra

Sorgente di Efqa

A Tempio di Bel

mentre le grandi vie urbane venivano monumentalizzate con colonne e vasti porticati. Le grandi costruzioni continuarono anche dopo la caduta del potere di Zenobia: sembra infatti che le grandi terme di Diocleziano, costruite alla fine del III secolo, sorgano sui resti spianati del grande palazzo della regina ribelle. Sotto alla facciata romana ed ellenizzante, la struttura sociale di Palmira rimase intimamente tribale: lo rivelano la stretta associazione tra le 17 maggiori tribú note dalle epigrafi, spesso in rivalità tra loro, molte tra loro, delle quali curavano la manutenzione e la gestione di importanti edifici di culto, e la principale divinità palmirena. Per esempio, il nome dei Bene (figli di) Gaddibol si traduce come «Bol è la mia Fortuna»; quello

A

dei Bene Zabdibol come «Schiavo di Bol»; mentre i Bene Mattabol si dichiaravano figli del «Dono di Bol». Roma cercò di comprimere questa frammentazione socio-rituale in un sistema semplificato di quattro tribú maggiormente gestibili, e di promuovere nuovi culti cittadini a scapito di quelli tradizionali. Oltre a gestire specifici luoghi ed edifici di culto, le tribú o gruppi di famiglie costruivano e usavano le grandi tombe a torre, i cui loculi si potevano acquistare grazie a speciali convenzioni economiche. Molti frammenti di statue e rilievi funerari palmireni vengono da questi monumenti. In pochi casi, le tombe contenevano camere sotterranee dipinte a vivaci colori, perfettamente conservati dal clima asciutto del deserto.

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Palmira. Veduta ravvicinata del Tetrapilo (II sec. d.C.), l’entrata dell’antica città, in una foto risalente all’aprile del 2014. Il monumento venne in parte ricostruito nel 1963 dal Dipartimento delle Antichità di Damasco.

La città era retta da un’oligarchia commerciale che raggiunse l’apogeo della propria potenza mantenendosi neutrale e rendendosi indispensabile ai due imperi, romano e persiano, tra i quali veniva a porsi. I suoi mercanti erano i mediatori tra il mondo romano e quello partico e cercavano di monopolizzare il commercio con l’Oriente, sia organizzando carovane e traffici propri, sia impiantando stazioni commerciali in Persia e nell’impero romano (Dacia, Gallia, Spagna, Egitto, Roma). La «tariffa di Palmira», un’iscrizione del 138 d.C., documenta sia il numero delle merci che confluivano nell’oasi, sia la perfetta organizzazione del mercato palmireno. Ciò che sappiamo dell’antica città viene dalle menzioni degli storici romani, e, in modo indiretto, da centinaia di iscrizioni in palmireno – un dialetto aramaico occidentale, scritto con caratteri simili a quelli ebraici –, e in greco.

L’AVVENTURA DI ZENOBIA Con il sorgere della nuova e bellicosa dinastia persiana dei Sasanidi (224-651 d.C.), gli imperatori romani individuarono in Palmira un baluardo a difesa del limes dell’Eufrate e le concessero nuovamente ampia autonomia in chiave anti-persiana. La città venne in tal modo a giocare un ruolo decisivo nello scacchiere mediorientale e una nobile famiglia palmirena assurse al rango di vera e propria dinastia regale. Sotto l’imperatore Valeriano, Odenato, rifacendosi alla titolatura achemenide e partica, si attribuí il titolo di «Re dei Re».Vaballato, figlio di Odenato, sotto la reggenza della madre, la mitica Zenobia, estese il potere della città a gran parte della Siria e dell’Asia Minore e all’Egitto. Quando Zenobia giunse ad autoproclamarsi Augusta e discendente di Cleopatra, insignendo anche suo figlio del titolo imperiale, Roma comprese che era il momento di intervenire. Ad assumersi l’incarico di domare la ribellione fu l’imperatore Aureliano. Nel 272, l’esercito palmireno e quello romano si scontrarono sulle rive del fiume Oronte, dove Aureliano ottenne una vittoria strepitosa. Zenobia e il suo generale, Zabdos, furono costretti a riparare ad Antiochia e poi a Emesa e proprio qui i Romani riportarono il successo decisivo, Zenobia, però, non si arrese e si ritirò a Palmira. Aureliano pose allora l’assedio alla città e offrí una resa onorevole alla regina, che, confidando nell’aiuto delle tribú del deserto, non accettò. Quando comprese che nessuno sarebbe venuto in suo soccorso, Zenobia fuggí con suo figlio Vaballato a dorso di dromedario, unendosi a una carovana di nomadi, ma i due furono riconosciuti, catturati e inviati a Roma come trofeo trionfale. Il figlio morí durante il viaggio, mentre la regina venne fatta sfilare legata al carro dell’imperatore con catene d’oro. (segue a p. 55) a r c h e o 49


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GLI DÈI ARMATI DI PALMIRA I nomi teofori degli abitanti di Palmira, insieme alle iscrizioni ufficiali, sia onorifiche e di dedica a statue e costruzioni, sia funerarie, testimoniano le sorti di una comunità ricca e devota, molto legata alle proprie tribú di origine e al variegato pantheon che queste proteggeva. La suprema divinità cosmica era Bel, nome che, sotto influenze mesopotamiche, aveva sostituito il Bol dei secoli pre-ellenistici. Bel era un dio onnicomprensivo e generoso, che ospitava nel suo tempio le divinità di diverse tribú. A Palmira era adorato come il centro della triade di cui facevano parte anche Yahribol e Aglibol; il primo era una divinità ancestrale della fonte di Efca, intorno alla quale era sorta la città e che divenne col tempo la massima divinità solare, fondendosi con Malakbel, altra divinità solare; il secondo era un dio-luna, importato dal Nord. La triade di Bel, Yahribol e Aglibol era anche venerata in un tempio palmireno a Roma. La consorte di Bel era una divinità che gli Aramei onoravano come Hadad e Atargatis, i Fenici come Astarte, e gli Arabi come Allat. Il santuario della dea, chiamata «Mia Signora, Signora del tempio, Fortuna della tribú», era il fulcro cerimoniale unitario delle tribú arabe. A volte era rappresentata con scudo e lancia, e affiancata da leoni. Un’altra divinità importante per gli Arabi di Palmira era Rahim («Il compassionevole»), adorato con Allat e il dio babilonese del sole e della giustizia Shamash. Il dio Sadrafa era una divinità marziale, di probabili origini iraniche, come dall’Est venivano le dee Herta e Nanai. Il culto del dio dell’agricoltura Baal Shamin, invece, era giunto da Ovest, finendo per affiancarsi e quasi sovrapporsi a quelli delle divinità precedenti. A queste divinità «urbane», oggetto di culti ufficiali e centralizzati, si opponeva una galassia di divinità tutelari minori chiamati ginnaye, termine legato all’attuale parola araba jiin. I jiin (geni, spiriti) nell’immaginario arabo oggi sono entità malefiche e distruttive, ma per i Palmireni di 1800 anni fa erano spiriti protettivi, simili in aspetto e comportamento agli esseri umani, che si prendevano cura – particolarmente nel vuoto dei deserti – di viaggiatori, mercanti, accampamenti, stazioni e bestiame (un po’ come gli angeli della nostra tradizione religiosa). Spesso invocati in coppia, i ginnaye erano per questo assimilati dai Greci ai Dioscuri; nei rilievi devozionali figurano armati di spada, lancia e scudo, come si conviene ai guardiani delle carovane. Tra i nomi delle dinità tutelari palmirene troviamo Abgal, Maan, Saad, Asharu, Selamanes, Shai’ al qaum. Un tipo particolare di gynnaye erano le Gad, che potremmo tradurre con il termine di «Fortune», spesso associate come entità tutelari ai nomi di tribú, villaggi e città. In un rilevo trovato a Dura Europos compare la gd tdmr, ossia «La gad (Fortuna) di Tadmor», antico nome 50 a r c h e o

In alto: rilievo raffigurante le dee Ishtar e Tyche con le sembianze della regina Zenobia e di una sua ancella, da un Ipogeo di Palmira. II sec. d.C. A destra: rilievo raffigurante il dio Luna e il dio Baal Shamin, da Palmira. I sec. d.C.

di Palmira. La dea siede su una roccia, ponendo il piede su un busto femminile, la personificazione della fonte di Efca a Palmira; quest’ultima è rappresentata come una donna nuda, che sorregge un seno con la mano destra, e spinge il braccio opposto nel gesto del nuoto. A lato, figura il leone, simbolo della dea siriana Atargatis. A queste iconografie esplicite, che rimandano ad antichissimi culti della fertilità, si contrappongono l’ambiguità e il mistero sull’entità sacra che gli esperti chiamano «Il dio anonimo di Palmira». Non pochi altari e iscrizioni di dedica in palmireno e in greco, infatti, si rivolgono al dio «il cui nome deve essere benedetto in eterno» o all’«uno, solo e misericordioso Dio», con accenti chiaramente come monoteistici, e comparabili, secondo alcuni, al culto ebraico di Yahweh. Tuttavia, non è chiaro se tali formule e circonlocuzioni identifichino una divinità specifica dal nome impronunciabile per motivi sacrali, o non si tratti di formule liturgiche adattabili a Bel o a Yahribol, o ad altre divinità preminenti della città.


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Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem.

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PALMIRA

Sulle due pagine: Palmira. Veduta dei resti del teatro, in una fotografia scattata nell’aprile del 2014. In basso, a destra: lo storico Zenobia Hotel, affacciato sul tempio di Baal Shamin, in un’immagine del 2002.

IL MITO DI ZENOBIA L’esotica e romantica figura di Zenobia ha riscosso un notevole interesse nella cultura europea. Alle vicende di Aureliano e Zenobia, rilette in chiave fantastica ed erotica, è dedicata un’opera famosa di Gioacchino Rossini, Aureliano in Palmira. Musicata quasi certamente su libretto di Gian Francesco Romanelli, l’opera non ebbe successo alla prima rappresentazione per ragioni indipendenti dall’esecuzione e dalla qualità della musica; infatti, il celebre tenore Giovanni David diede forfait all’ultimo momento e anche il sopranista Giovanni Battista Velluti non si rivelò all’altezza della sua fama. Il soggetto tratta della rivalità tra Aureliano e Arsace per la bella Zenobia innamorata di quest’ultimo. Solo dopo avere inutilmente imprigionato il rivale e mosso una guerra vittoriosa a Palmira, l’imperatore, ammirato dall’indissolubile legame tra i due amanti, li perdonerà lasciandoli liberi. Alla mitica regina di Palmira è anche intitolato il piú vecchio albergo presente sul sito, l’Hotel Zenobia, che fu costruito negli anni Trenta del Novecento, durante il Mandato francese, da una avventuriera, la contessa Margot d’Andurian, che si credeva la reincarnazione della sovrana. Agatha Christie, in compagnia del marito, l’archeologo Max Mallowan, vi alloggiò per tre mesi, nella camera numero 2. Speriamo davvero di poterci tornare anche noi, alla fine di questa guerra devastante.

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IL DIO CHE NON BEVEVA VINO I rilievi funerari palmireni possiedono tratti strani e inquietanti e non sono stati valutati in modo uniforme dalla critica storico-artistica. Per alcuni si tratta di opere fredde, arroganti e senza ispirazione; altri, al contrario, le considerano vive e, nell’ambiguità della contaminazione tra tradizioni stilistiche diverse, piene di fascino. Le sculture mostrano i busti dei defunti con tratti marcati, in forte altorilievo, a fatica contenuti su piccole lastre. È quasi certo siano ritratti individuali, anche se molto idealizzati e in qualche modo standardizzati dalle convenzioni artigiane degli scalpellini. Gli occhi sono aperti sull’osservatore, la bocca quasi dischiusa, come in un ultimo ripensamento, o in un saluto tardivo ormai impossibile, quasi due piccole lastre dello sfondo fossero davvero le soglie dell’aldilà. Alcuni, forse i piú poveri, rappresentavano al posto delle immagini il mutismo di una tenda chiusa.

La parola palmirena per questi rilievi era naphsha, letteralmente «anima». Queste sono due delle iscrizioni che accompagnano i ritratti: Con tristezza, Berreta, figlia di Yarhai, sua figlia Marta, con tristezza. Artabano, chiamato Zabdun, figlio di Malku, figlio di Yarhai, figlio di Nida, il buon sacerdote di Aglibol e Malkedek. Il valore storico di queste iscrizioni consiste nella ricostruzione delle identità dei defunti, grazie ai loro attributi professionali, spesso scolpiti sulle lastre, e delle loro carriere; e in quella degli alberi genealogici delle rispettive famiglie. Molti aspetti del culto, della vita civile e della storia delle tribú semitiche di Palmira si deducono invece da

DOVE INCONTRARE L’ARTE DI PALMIRA Chi voglia cercare le tracce dell’antica Palmira e della sua cultura oltre i confini della Siria potrebbe cominciare col prendere un caffè a Roma, nei bar dell’area della moderna stazione di Trastevere, e pensare di trovarsi nei pressi dello scomparso tempio di Bel Palmireno. Qui, già in età rinascimentale, era stato scavato il sito di Vigna Bonelli, dove erano state trovate alcune delle piú importanti testimonianze dei culti orientali di Roma, in seguito traslate nel giardino della casa della famiglia Mattei, sempre a Trastevere. Tra questi reperti vi era il bellissimo altare dedicato al culto del Sole palmireno, oggi proprietà dei Musei Capitolini, e iscrizioni latine, greche e greco-palmirene; parte dei reperti oggi figura nella collezione della Centrale Montemartini, facilmente raggiungibile con poche femate di tram e autobus dalla stessa stazione di Trastevere. Le testimonianze dell’arte e dei culti dell’antica città sono oggi disperse nelle piú importanti collezioni archeologiche del mondo; per esempio, al Museo del Louvre a Parigi (sala 20 delle Antichità Orientali), al British Museum di Londra, al Metropolitan Museum of Art di New York, o al Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung di Vienna. All’Hermitage di San Pietroburgo, invece, figura dal 1901 una famosa stele, alta 5 m, con le tariffe commerciali della città. Una collezione di tredici splendidi rilievi, in gran parte appartenuti alla collezione privata di Federico Zeri, è visitabile ai Musei Vaticani. Da non perdere è la splendida «Dama di Palmira», uno dei vanti del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci».

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PALMIRA

iscrizioni di dedica come quella che segue (la grafia dei nomi è stata semplificata): Questi due altari sono stati eretti da Ubaidu, figlio di Animu, figlio di Saadallat, un Nabateo della tribú di Rahawa (…) a Shai’ al qaum, il dio buono e generoso che non beve vino, per la sua vita e quelle di Mu’ithi e Abdu, suoi fratelli, e di suo figlio Saadallat; nel mese di Elul, nell’anno 443 (…) di fronte a Shai’ al qaum, il buon dio (…) E possano essere ricordati coloro che visiteranno questi altari, e diranno «Che tutti costoro siano ricordati per sempre!» Colpiscono, in questa iscrizione, la devozione per la divinità e l’attaccamento ai destini familiari e il desiderio d’essere ricordati «per sempre» come tribú, famiglia e individui; ma anche la fiducia nella nuova comunità urbana, alla quale spetterà il compito di leggere le epigrafi, resuscitarne per un attimo i protagonisti e renderne immortale il ricordo. Tutto questo, nel nome di un dio benevolo che non apprezzava i fumi dell’alcool, prefigurando forse la futura condanna islamica del vino. Nella pagina accanto: frammento di rilievo funerario con figura maschile e femminile, da Palmira. II sec. d.C. Tadmur, Museo Archeologico.

Le fonti offrono due versioni diverse su ciò che le accadde dopo il trionfo: secondo il cronista siro Giovanni Malala, l’imperatore l’avrebbe fatta decapitare, mentre la piú romantica Historia Augusta riferisce che Aureliano, soggiogato dal fascino di Zenobia, le avrebbe concesso di terminare i suoi giorni presso Tivoli, in una splendida villa. Scrive lo storico Richard Stoneman: «Certamente, mentre Zenobia sedeva, alla sera, con un calice di vino, guardando distratta le verdi ombre dove cantavano le cicale e turbinavano le rondini, il ricordo della sua città abbattuta doveva tornarle continuamente alla memoria» (Palmyra and its Empire, 1992). L’originalità dell’arte palmirena si manifesta in particolare nella scultura, le cui forme ellenistiche si fondono con una concezione artistica di derivazione iranica. Di particolare interesse sono rilievi funerari, destinati alla chiusura dei loculi, nei quali le figure maschili sono abbigliate con caratteristici pantaloni e calzature di foggia partica, e quelle femminili portano diademi, collane, orecchini e bracciali che ricordano da un lato gli ornamenti delle popolazioni nomadi della steppa, dall’altro il gusto fastoso delle oreficerie achemenidi. Piú in ge-

In alto: frammento di rilievo funerario con personaggio femminile, da Palmira, Tomba dei Tre Fratelli. III sec. d.C. Tadmur, Museo Archeologico.

nerale, la scultura palmirena è caratterizzata dalla rappresentazione frontale dei personaggi, senza alcuna concessione al naturalismo, secondo uno stile tipico dell’arte persiana. Altri elementi fondamentali sono la mescolanza di elementi reali e simbolici, la disposizione su uno stesso piano di figure umane e divine, distinte solo dagli attributi, la mancanza di qualsiasi indicazione spaziale e paesaggistica, e il rapporto tra dimensioni dei personaggi rappresentati e loro rango gerarchico: tutti motivi che divennero poi classici nell’arte romana tardo-antica. PER SAPERNE DI PIÚ Roberto Bertolino, La cronologia di Hatra. Interazione di archeologia e di epigrafia, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1995. Michael Rostozeff, Città carovaniere, tr. it. di Charis Cortese De Bosis, Laterza, Bari 1934. Iaiu Browning, Palmyra, Chatto & Windus, London 1979. Richard Stoneman, Palmyra and its Empire, The University of Michigan Press, Ann Arbor 1992. a r c h e o 55


STORIA • STORIA DEI GRECI/14

UN GENTILUOMO

INGLESE IN ETRURIA

A GEORGE DENNIS, ESPLORATORE, DIPLOMATICO E ARCHEOLOGO BRITANNICO, DOBBIAMO UN’OPERA SUI SITI E I MONUMENTI DEGLI ETRUSCHI CHE – A OLTRE CENTOCINQUANT’ANNI DALLA SUA PRIMA PUBBLICAZIONE – È ANCORA PREZIOSA. IN QUESTI GIORNI VEDE LA LUCE LA PRIMA TRADUZIONE INTEGRALE IN ITALIANO DELL’OPERA. UN’ INIZIATIVA CHE SALUTIAMO CON ENTUSIASMO E DI CUI PRESENTIAMO, IN ESCLUSIVA PER I NOSTRI LETTORI, ALCUNI DEI PASSI PIÚ SIGNIFICATIVI di Giuseppe M. Della Fina

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Samuel J. Ainsley, Cerveteri, Interno della Tomba dei Rilievi (1843). Pittore, disegnatore e acquarellista, Ainsley accompagnò George Dennis durante il suo viaggio in Etruria.

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ul finire del 1848, a Londra, l’editore John Murray pubblicò la prima edizione di un libro di viaggio destinato ad avere una fortuna duratura: The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis, di cui ora viene stampata la prima edizione integrale in lingua italiana. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, ma, soprattutto, ci si può chiedere se ne sia valsa la pena. Per un etruscologo italiano la risposta positiva è quasi d’obbligo: si tratta infatti di uno studio che si consulta ancora con una certa frequenza e utilmente. Da allora il quadro è profondamente mutato, diverse ricostruzioni non sono piú condivisibili e singole intuizioni neppure. Inoltre problemi presentati come irrisolti, oggi invece lo sono: penso, per esempio, al tema delle origini degli Etruschi, superato alla luce della lezione di Massimo Pallottino e all’introduzione del concetto di formazione nel dibattito scientifico.

TUSCANIA O TOSCANELLA? I limiti cronologici attribuiti alla loro civiltà erano allora diversi da quelli attuali e una profonda revisione ha riguardato la datazione delle opere dell’arte e dell’artigianato artistico etrusco. La localizzazione di alcuni insediamenti – segnalati nelle fonti letterarie latine e greche – non era ancora avvenuta, o se ne accettava una rivelatasi in seguito sbagliata. Sono mutati persino i nomi di singole località come Tarquinia, allora denominata Corneto, o Tuscania che veniva chiamata Toscanella. Perché, dunque, uno studioso del mondo etrusco dovrebbe continua re a consultare Città e necropoli dell’Etruria? Perché nelle sue pagine, sono registrate informazioni preziose. Soprattutto per quello che concerne lo stato di conservazione di numerosi monumenti, decisaa r c h e o 57


ANTEPRIME • GEORGE DENNIS A sinistra: Samuel J. Ainsley, Veduta di Montalto di Castro (1842). In basso: disegno di un bronzetto etrusco rinvenuto a Roselle nel 1875. Nella pagina accanto, in alto: un’immagine di George Dennis. Nella pagina accanto, in basso: Sovana, Tomba della Sirena, da Città e necropoli d’Etruria. A fianco, la prima edizione dell’opera in italiano.

mente migliore rispetto a quello attuale. Inoltre, l’autore propone con frequenza una descrizione dettagliata di musei che oggi si presentano in una forma completamente diversa o che, talora, non esistono piú. Per non parlare delle collezioni private andate disperse nel frattempo. La sua esposizione consente di riconoscere singole opere d’arte che il commercio antiquario ha portato altrove e di cui è andata perduta la collocazione originaria. Un archeologo può riflettere inoltre su come sia mutato il suo mestiere, un tempo legato principalmente all’analisi della storia dell’arte antica e oggi indirizzato soprattutto verso la ricostruzione della storia sociale ed economica. Né voglio nascondere un altro motivo d’interesse, che va oltre le usuali attitudini degli studiosi o degli appassionati del mondo etrusco: la notevole capacità di scrittura di George Dennis. In poche 58 a r c h e o

righe – come si potrà intuire dalla selezione di brani che viene proposta in questo articolo grazie alla disponibilità della casa editrice Nuova Immagine – l’autore riesce a restituire con vivezza un paesaggio, un incontro, uno stato d’animo. Dalla sua opera affiora un’Italia che non esiste piÚ: si confrontino idealmente le descrizioni fornite con i paesaggi che possiamo osservare noi oggi. Luoghi di cui viene descritta la bellezza struggente e ora trasformati in periferie di centri urbani che sembrano avere perso persino la consapevolezza del proprio passato. Siti carichi di storia divenuti privi d’identità e oggetto di una speculazione feroce.

SIMPATIE RISORGIMENTALI Anche se – va detto – l’Etruria sa ancora sorprendere: in anni recenti, ho visto le pecore pascolare nel foro di Bolsena, ho visitato aree archeologiche importanti in completa solitudine (la città di Vulci o le necropoli di

Castel d’Asso, solo per fare qualche esempio), ho sentito il suono del vento sulle acropoli di Cosa e di Populonia, ho ascoltato il rumore dei miei passi per le vie di Sovana, ho potuto raggiungere monumenti o intere aree archeologiche solo a piedi e con una certa difficoltà. Ho incontrato personaggi singolari, in fondo non diversi da alcuni fissati per sempre da Dennis. Ho parlato di un’Italia che non esiste piú che emerge dalle pagine dello scrittore/archeologo inglese, ma non voglio indulgere nella nostalgia: quello che viene descritto è infatti un Paese povero, flagellato dalla malaria in ampie zone, con condizioni igieniche precarie (una locanda o un albergo pulito vengono segnalati con grande evidenza, quasi con gioia), con un’agricoltura arretrata nei sistemi di conduzione, con una rete di trasporti ampiamente insufficiente almeno ai nostri occhi. Un Paese che tentava di conquistare con difficoltà una sua unità e condizioni di vita migliore. Proprio verso la nuova Italia andavano le simpatie di Dennis, autore di un pamphlet di denuncia sulle condizio-


ni delle carceri borboniche: egli chiese, piú tardi, senza successo, al suo editore di pubblicare in inglese le memorie di Giuseppe Garibaldi. In una lettera a lui indirizzata il 22 giugno 1874 afferma: «Vi scrivo su un argomento che forse voi non apprezzate quanto me e, sebbene riguardi il piú importante e meraviglioso capitolo dell’Italia moderna, è però di interesse mondiale, cioè Garibaldi. Il vecchio eroe, trascorsi i giorni dei combattimenti, si è messo a scrivere per ricordare, come Cesare, le sue imprese». Nell’edizione del 1878 della sua opera, data alle stampe dopo una serie di nuovi viaggi in Etruria, non mancò di segnalare con qualche enfasi i mutamenti avvenuti sia nella gestione dei beni culturali che nell’organizzazione stessa della società.

UN ARCHEOLOGO DIPLOMATICO Ma chi era George Dennis? Era nato a Londra nel 1814 e presto si era sviluppato in lui l’interesse per i viaggi e per il mondo classico. In una lettera ricevuta da uno zio, quando aveva 10 o 12 anni, si può leggere: «Stavo per aggiungere: spero che siate un bravo ragazzo, ma tutti gli zii dicono cosí. Inoltre so che siete bravo. Spero che siate un tipo vivace, virile, amante del pattinaggio, del nuoto e dell’equitazione, che abbiate in odio l’aritmetica, le bugie, i ragazzi con le unghie sporche, senza guanti, con le scarpe sporche, senza pettine in tasca». In apertura della stessa missiva gli chiedeva: «Quanto siete cresciuto? Siete grande abbastanza da leggere il greco senza vocabolario?». Negli anni Trenta dell’Ottocento, quando era stato assunto già presso l’Excise Office, dove lavorava anche il padre, ebbero inizio i suoi viaggi: il Galles, la Scozia e quindi il Portogallo e la Spagna meridionale. Da quest’ultimo scaturí il suo primo libro A Summer in Andalucia, che incontrò un successo notevole.

Agli inizi degli anni Quaranta – sempre meno soddisfatto dall’impiego londinese – scelse di visitare l’Etruria. Dalle numerose escursioni in zone allora difficili da raggiungere e dai lunghi soggiorni a Roma nacque The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicato – in prima edizione – nel 1848: un’opera in due volumi, che complessivamente supera le mille pagine. Nello stesso anno vi fu una svolta importante nella sua vita professionale: lasciò l’Excise Office ed entrò a far parte del Colonial Office. Il nuovo incarico lo allontanò per piú di dieci anni dall’Europa e dal Mediterraneo: la sua attività si svolse infatti nella Guiana Britannica. Negli anni Sessanta, ammesso nella carriera diplomatica, riuscí a rientrare e fu vice console e poi console britannico in Sicilia, in Libia e in Turchia, potendo tornare agli studi classici e intraprendendo campagne di scavo piú o meno fortunate. Archeologia e diplomazia in lui si fusero. Gli anni Settanta furono l’occasione per una revisione profonda della sua opera piú celebrata e, nel 1878, ne uscí una seconda edizione, profondamente rinnovata rispetto alla prima. Nel frattempo, aveva scritto la guida A Handbook for Travellers in Sicily. Nuovi viaggi e ulteriori campagne di scavo caratterizzarono il decennio seguente che, nel 1888, vide anche il suo ritiro per pensionamento dall’attività diplomatica. George Dennis morí a Londra nel 1898.

RITORNO DI UN CLASSICO La prima edizione integrale italiana dell’opera The Cities and Cemeteries of Etruria, pubblicata dalla Nuova Immagine (curatela di Elisa Chiatti e Silvia Nerucci, traduzione di Domenico Mantovani) verrà presentata a Murlo (Siena) nell’ambito del festival Bluetrusco nelle giornate del 18 e del 19 luglio. All’iniziativa interverranno Andreas M. Steiner (direttore editoriale di «Archeo»), Christopher Smith (direttore della British School at Rome), Maria Grazia Celuzza (direttrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma, Grosseto), Alessandra Minetti (direttrice del Museo Civico Archeologico di Sarteano) e Giuseppe M. Della Fina (direttore scientifico del festival). Brani tratti dall’opera verranno letti dall’attore David Riondino.

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ANTEPRIME • GEORGE DENNIS

A SPASSO CON... DENNIS Ecco alcuni brani tratti da Città e necropoli dell’Etruria di George Dennis ora per la prima volta tradotto integralmente in italiano

venendo da Roma, ma poiché il baroccino ha solo due posti, non sempre se ne può avere uno. Se il viaggiatore, però, non vuole fare una passeggiata di otto chilometri attraverso le basse colline, scriva il giorno prima a Giovanni Passeggieri di Cerveteri, che gli farà trovare una vettura pronta alla stazione di Palo.

GONFALONIERE E «CICERONE»

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uando visitai Corneto [Tarquinia] per la prima volta, ebbi la fortuna di avere come guida il signor Carlo Avvolta, il gonfaloniere della città. Era un vecchio signore attivo e intelligente, esperto di scavi, profondamente interessato alle antichità della città natale, sempre pronto a dare un’informazione e dimostrare cortesia tanto verso i forestieri, quanto cordialità agli amici. Lo si poteva consultare con COME RAGGIUNGERE CERVETERI alla stazione ferroviaria di Palo il viaggiatore potrà profitto sulle piú notevoli faccende dei passatempi e dei divedere davanti a sé un piccolo villaggio con un grande vertimenti maremmani. Sebbene quasi ottantenne, era ancoedificio scintillante al sole, ai piedi delle colline che si alzano ra un accanito sportivo, e affrontava le fatiche e i pericoli a nord, rese oscure dalla vegetazione. È Cerveteri, che oggi rappresenta l’antica città di Caere. Se fosse arrivato in treno In basso: Samuel J. Ainsley, Veduta di Tarquinia (1842). con lo scopo di visitare il sito, probabilmente incontrerà delle Nella pagina accanto: Tarquinia, Tomba Giustiniani. difficoltà nel trovare un mezzo di trasporto. Vi è un corriere La figura di una danzatrice dipinta sulla parete di fondo che porta a Cerveteri la posta che il treno del mattino lascia della camera funeraria del sepolcro. 450-425 a.C.

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della caccia con l’ardore di un trentenne. Dovunque la sua attività potesse condurlo durante il giorno, la sera lo si poteva trovare sicuramente al caffè, o alla spezieria, a descrivere, con tutto l’entusiasmo della sua natura, l’ultimo cinghiale o capriolo al quale aveva fatto mordere la polvere, o a discutere delle pitture e delle suppellettili delle tombe etrusche.

NELLA TOMBA GIUSTINIANI A TARQUINIA

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oltatevi verso la parete di destra. Che spirito, che vita, che naturalezza, in quella ragazza che balla! La veste di velo o di mussolina si solleva intorno a lei in pieghe gonfie d’aria; il largo nastro blu che fascia la graziosa capigliatura castana e la sciarpa rossa appesa alla spalla attraverso il seno, ondeggiano dietro di lei con la rapidità dei suoi movimenti; mentre la danzatrice abbassa il volto e alza il braccio per dare espressione ai suoi passi.L’altro braccio è appoggiato al fianco e con i gomiti in fuori, sí che si potrebbe affermare che sta danzando il salterello.Tra le ballerine di Tarquinii non ha rivali per vivacità, grazie e stile. (...) Ma sfortunatamente ora le rimane ben poco da vivere; presto farà il suo ultimo passo e sparirà dal muro. Il suo compagno di danza è quasi cancellato, sebbene ne rimanga quel tanto per rivelare un atteggiamento pieno di grazia.

LA CITTÀ CHE NON C’È

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a vostra voce passa sopra la desolata solitudine e non incontra il muro di un tempio, di un edificio, di un palazzo, per riecheggiare il grido: «Dove sono?». La città non c’è piú. A stento potete trovare una pietra sopra l’altra. E i suoi abitanti? Essi dormono nella profondità della collina, laggiú. Non resta una casa dei vivi, ma tombe ve ne sono a migliaia. Qui giacciono i resti di Tarquinii e le ceneri dei cittadini, i tesori d’oro e di argento, di bronzo e di ceramica, le pitture e le sculture, tutte le cose che essi apprezzavano in vita, non si trovano qui, ma lí, sepolte con loro. Davvero strano: mentre il luogo della loro dimora sulla terra è muto, le loro tombe possono parlare con l’eloquente voce della verità!

TRA I MISTERI DI VULCI

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ulci si trova vicino al Ponte della Badia, 11-13 chilometri da Montalto verso l’interno e ci si può andare con un carrettino, cioè un veicolo leggero. Tutto questo comprensorio è un deserto: un deserto coltivato a grano, è vero, ma quasi del tutto disabitato, tanto terribilmente mortale è il flagello della malaria. (…) Dopo avere oltrepassato il Ponte Sodo entrammo in una vasta landa senza alberi, senza segni di vita, tranne qualche capanna a cono fatta di giunchi, che qua e là si alzava dalla piatta superficie, e un castello scuro, che s’innalzava al centro maestosamente solitario, circa cinque chilometri davanti a noi. Tutta questa landa, dall’altro versante di Ponte Sodo fino al castello e molto al di là, era la necropoli di Vulci; ma nessun segno di sepoltura era visia r c h e o 61


ANTEPRIME • GEORGE DENNIS

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Nella pagina accanto: Volterra, Porta all’Arco, da George Dennis, Città e necropoli d’Etruria. In basso: Samuel J. Ainsley, Vulci, Ponte della Badia (1842).

tri di distanza, una altura isolata, somigliante a un tronco di cono, incoronata dalle torri di Orvieto. Il cielo era coperto da nubi, l’atmosfera era densa di vapori, e mancavano i colori brillanti del sole; tuttavia le grandi linee della scena erano visibili come in una stampa.

bile, tranne un elevato tumulo – la Cuccumella – tra noi e il castello. (…) Scendemmo all’ingresso del castello. Si tratta di una fortezza medievale e nella massima parte degli altri Paesi sarebbe considerata una cosa molto antica. Qui invece UN’ESCURSIONE A CHIUSI è una costruzione moderna, senza alcun interesse oltre il suo e tombe di Chiusi, che sono lasciate aperte per le visite carattere pittoresco. Quando la vidi la prima volta, ospitava dei viaggiatori, non sono, come a Tarquinia, disposte a la Dogana Pontificia; pochi doganieri facevano da qui la un lato della città, ma si trovano tutte intorno ad essa, talguardia alla vicina frontiera, e riscuotevano il dazio sul be- volta lontano diversi chilometri; e poiché i sentieri di camstiame e le merci che la attraversavano. pagna non sono facilmente percorribili a piedi nella stagione piovosa sarebbe bene, in particolare per le signore, procurarsi delle cavalcature in città. Queste non sempre sono disponibili; in sostituzione io consiglierei un carro coi buoi; questo mezzo di trasporto, sebbene primitivo e modesto, è preferibile, dopo violente piogge, alla sella, per quanto concerne pulizia e sicurezza. Le chiavi delle tombe sono affidate a un custode nominato dal Comune, che deve essere espressamente inviato da Chiusi a incontrare i visitatori.

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DA CORTONA A PERUGIA

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«L’INVERNO DEI PAESI MERIDIONALI»

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elice colui che con l’animo disposto ad accogliere gli influssi della Natura compie il viaggio in un giorno luminoso da Cortona a Perugia! Egli passa attraverso uno dei piú splendidi paesaggi di questa Italia colma di bellezze, vicino a uno dei laghi piú belli, sopra una terra che reca l’impronta di eventi fra i piú memorabili della storia del mondo antico. Infatti sulle spiagge del «Trasimeno, folto di canne», il fiero cartaginese calcò il piede sull’orgoglioso collo di Roma. Questa era considerata la piú importante carrozzabile da Firenze a Roma, passando per Perugia e Foligno, e ancora oggi segue il percorso della ferrovia che, mentre ha facilitato grandemente le comunicazioni, ha cancellato certi tratti caratteristici del viaggio in Italia, cosí familiari a quelli che conobbero il Paese prima dell’unità politica.

ra una giornata meravigliosa quando arrivai a Bolsena. Il cielo era senza una nube – il lago, le sue isolette, e ogni oggetto lungo le spiagge, erano immersi in una vampa di luce e di calore estivo – gli oliveti erano pieni di contadini seminudi che raccoglievano i grassi frutti – miriadi di folaghe oscuravano le acque, che nessuna vela solcava – il mio occhio spaziava per l’ampio anfiteatro formato dall’antico cratere, e da ogni lato scorgeva le colline dalla base alla cima rese oscure dalle varie tonalità del fogliame. Come era possibile credere a ciò che si presentava ai miei occhi – a ogni mio senso, e QUELLA PORTA SUL PENDIO ammettere di trovarsi nel colmo dell’inverno, prima che la nvidio il visitatore che per la prima volta si avvicini a vegetazione avesse cacciato una gemma o un fiore? Eppure questa porta. L’altezza dell’arco, l’audacia della sua camera cosí, ma era l’inverno dei Paesi meridionali. pata, la solidità dei blocchi di pietra, che rimpicciolisce la mole delle mura medievali da cui è circondata fino a farle diventare insignificanti, il venerando eppure massiccio aspetto dell’insieme; e piú di tutto, le oscure, informi e misteriose L’APPARIZIONE DI ORVIETO a prima vista di Orvieto da questo lato è una delle teste che la coronano, e che sporgono come se volessero racpiú maestose d’Italia. La strada, che per la maggior contare di stirpi e di fatti passati; il sito stesso della porta, parte del suo cammino è pianeggiante e completamente proprio sull’orlo del pendio, con al di sotto una stupenda spoglia, conduce inaspettatamente all’orlo di un dirupo, carta spiegata, dove sono rappresentati valli, fiumi, pianure, dove di colpo balza agli occhi una scena stupenda e tale monti, mare, promontori e isole: tutto tende a fare di questa da far dimenticare ogni disagio. Dal centro dell’ampia e porta una delle piú singolari e imponenti concepite dall’uoprofonda vallata ai miei piedi, sorgeva, a circa tre chilome- mo, e a fissarla indelebilmente nella memoria.

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SCAVI • XXXX XXXXXX

QUANTI

AMICI

PER VEL!

SCOPERTA NEL 2010, LA TOMBA A CASETTA DI NORCHIA È UNA DELLE ACQUISIZIONI PIÚ IMPORTANTI DEGLI ULTIMI ANNI PER LA SPLENDIDA NECROPOLI. UN SITO CHE MERITEREBBE MAGGIOR NOTORIETÀ E NEL QUALE SI STA SPERIMENTANDO CON SUCCESSO LA SINERGIA TRA PUBBLICO E PRIVATO APPLICATA ALLA SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO

di Francesca Ceci

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orchia, una delle piú importanti necropoli rupestri dell’intera Etruria, fiorita con la sua città soprattutto tra il IV e il II secolo a.C., è da sempre, purtroppo, uno dei siti che piú patisco-

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no i saccheggi degli scavatori clandestini (vedi «Archeo» n. 358, dicembre 2014; anche on line su archeo.it) e condivide questo triste destino con gli altri sepolcri etruschi del Viterbese.

Sulle due pagine: Norchia (Viterbo). Veduta di un settore della necropoli etrusca. IV-II sec. a.C. In basso: architrave a «becco di civetta». Particolare della finta porta a rilievo sulla facciata della Tomba a Casetta di Sferracavallo.


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SCAVI • NORCHIA ABRUZZO

Grosseto

Acquapendente

TOSCANA

Todi

Orvieto

Sovana Sorano Bolsena Poggio Buco Pitigliano Lago di Bolsena Manciano Castro Narni Montefiascone Canino Orbetello Tuscania Viterbo Orte Vulci Monte Castel d’Asso Argentario Civita Montalto Norchia Castellana di Castro Tarquinia Vetralla Ronciglione Falerii Novi LAZIO Sutri

Mar Tirreno

Civitavecchia

Tolfa

Lago di Bracciano

Bracciano

ere Tev

La costante carenza di mezzi a disposizione degli enti di tutela ha fatto sí che le operazioni di scavo sistematico e programmato siano state sempre molto limitate, ma, quando effettuate, hanno portato a ritrovamenti di grande importanza. Gli ultimi interventi della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale risalgono ormai agli anni Novanta del secolo scorso, con il rinvenimento di una sepoltura che ha restituito, oltre al corredo, anche i sandali della defunta. Da allora, la necropoli è vittima di un abbandono che sta favorendo il degrado progressivo delle sue delicate architetture in pietra. Il sito, che potrebbe rappresentare una punta di diamante della regione ed essere meta di un flusso turistico «intelligente» capace di coniugare felicemente trekking, archeologia, natura e spirito d’avventura, è oggi frequentato con regolarità quasi

Campagnano di Roma

ROMA

unicamente dagli appassionati, che vi si recano per constatare il costante peggioramento delle sue «condizioni di salute».

LA GRANDE SCOPERTA Nel corso di uno di questo sopraluoghi, effettuati dalla onlus viterbese Archeotuscia, è stata scoperta nel 2010 da Mario Sanna una tomba rupestre in località Sferracavallo, dalla conformazione a casetta, tipica

dell’architettura funeraria etrusca, che ha dato il nome alla sepoltura. Il monumento è compreso nell’area sepolcrale dislocata lungo la vallata del torrente Biedano, nel settore nord-orientale della necropoli di Norchia alle falde del pianoro del Casalone, e si compone di numerose tombe di varia tipologia, quasi tutte purtroppo «visitate» dai tombaroli. Per questo mai ci si sarebbe aspettati di trovare una sepoltura inviolata in una posizione cosí visibile, con l’ingresso parzialmente scavato e di relativamente facile accesso. La tomba, che appartiene al tipo detto «a semidado» in quanto realizzata e modellata su un blocco di tufo, ha il prospetto ispirato – come già detto – a quello di una casa etrusca del IV secolo a.C., secondo un atteggiamento ideologico che mirava a riproporre nel mondo dei morti l’abitazione in uso tra i vivi. La fronte ha un tetto a due spioventi ai cui vertici sono raffigurati il trave centrale e i due laterali, che nella casa erano in legno e sorreggevano la copertura di tegole. Lateralmente è rappresentato un accenno di gronda, a protezione della parete di fianco e che dà un’impressione «realistica» e tridimensionale alla fronte del monumento, accentuata anche dal beve proseguimento del trave di colmo centrale in profondità. Al centro della facciata si trova una finta porta, che imita quella reale, con una cornice rilevata e un architrave terminante a «becco di civetta», anch’esso tipico delle tombe dell’epoca. Alla tomba si accedeva per una cavità o un corridoio sul terreno che immetteva in una stanza sottostante la fronte. Ad aumentare l’eccezionalità della scoperta ha contributo la presenza, In alto: cartina geografica con la localizzazione di Norchia. A sinistra: la Tomba a Casetta di Sferracavallo al momento della scoperta, nel 2010.

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La facciata della Tomba a Casetta di Sferracavallo. Si distingue la decorazione a rilievo che riproduce una finta porta. Secondo il costume etrusco la tomba rappresentava la casa del defunto. a r c h e o 67


SCAVI • NORCHIA

UN TRUST PER LA STORIA L’azienda fiorentina Kostelia srl, protagonista del recupero e del restauro del magnifico corredo di cui abbiamo trattato in questo articolo, è una convinta sostenitrice del Trust di Scopo Sostratos che ha ormai oltre un anno di vita. Questa organizzazione non-profit è stata fondata da quattro imprenditori, saluzzesi e fiorentini, accomunati dal profondo amore per la storia

antica, l’archeologia e la cultura legate al mondo dell’antico Mediterraneo. La filosofia del Trust, uno strumento «societario» legato al mondo anglosassone, si fonda sulla convinzione che la cultura, l’evoluzione della conoscenza, l’allargamento dell’esperienza, siano la piú grande ricchezza che l’essere umano possa accumulare per rendere migliore il futuro della società civile. Su questi concetti, anche tramite le loro rispettive aziende, gli imprenditori di Sostratos hanno finanziato ricerche e spedizioni di entomologi nelle foreste pluviali di Malesia e Vietnam, restauri di sale espositive del Museo della Specola di Firenze, mostre divulgative sulle ricerche finanziate. Ma è con il 2011 che si materializza l’impegno nel finanziamento della ricerca archeologica: per tre anni, fino alla campagna del 2013, Sostratos e i suoi promotori hanno cofinanziato le ricerche nell’area dei grandi tumuli monumentali della necropoli etrusca della Doganaccia di Tarquinia svolte dall’équipe dell’Università di Torino, diretta da Alessandro Mandolesi. Nel settembre 2013 in

ne può dunque solo essere ipotetica: «eta u i velus/...c.nas ...../.a...s.a», che potrebbe tradursi «questa è la tomba di Vel figlio di Laris (oppure sull’architrave della finta porta, figlio di Larth?)». dell’iscrizione con il nome del proprietario della sepoltura. Posta sulla UN CORREDO SONTUOSO specchiatura della porta, l’epigrafe Databile intorno alla metà del IV ricorda il nome del personaggio secolo a.C., la tomba va ad aggiunsepolto, secondo la consueta formu- gersi per tipologia alle limitate attela di possesso che però risulta forte- stazioni di quelle a forma di casa mente mutila e la cui interpretazio- nella zona (Tuscania, Blera, Barbara-

In questa pagina: due momenti del restauro dei reperti provenienti dalla Tomba a Casetta di Sferracavallo.

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no Romano, Castro) e apporta un nuovo importante contributo alla storia dell’architettura funeraria di Norchia e delle necropoli rupestri del Viterbese. La particolare tipologia architettonica e la presenza di un’iscrizione hanno reso subito evidente l’eccezionalità della scoperta, comunicata alla Soprintendenza competente e al proprietario del sito, Pietro Stelliferi – dato che Norchia risulta di


quest’area è stata scoperta la tomba etrusca del VI secolo a.C., completamente inviolata, battezzata dell’Aryballos sospeso (vedi «Archeo» n.345, novembre 2013; anche on line su archeo.it). Quest’ultima campagna di scavo fu finanziata totalmente dai componenti del Trust. Esaurita l’esperienza tarquiniese, il Trust di Scopo Sostratos, nel 2014, ha finanziato la campagna di scavo estiva a Baratti-Populonia e la mostra Falisci, il popolo delle colline. Nell’ambito del restauro, oltre all’intervento sul corredo della Tomba a Casetta, il Trust

e suoi componenti hanno finanziato il recupero del Carro della Regina, rinvenuto durante gli scavi al Tumulo della Regina a Tarquinia. I prossimi impegni del Trust sono come sempre molto ambiziosi e coinvolgenti; per l’estate 2015 saranno riaperti gli scavi alla necropoli del Crocefisso del Tufo, a Orvieto, ed è stato anche rinnovato l’impegno per il recupero dell’area sepolcrale della Tomba a Casetta di Sferracavallo di Norchia. Il Trust di Scopo Sostratos è condotto con criteri tipicamente imprenditoriali: sfruttando le risorse iniziali versate dai fondatori, un vero e proprio capitale aziendale, la direzione del Trust sviluppa progetti commerciali nel merchandising e nel turismo atti al reperimento di risorse che vengono totalmente impiegate nei progetti di ricerca finanziati dal Trust stesso. Di particolare interesse è la formula di finanziamento che il Trust propone alle imprese che si mostrino sensibili all’elemento etico dell’attività: con l’acquisto di un pacchetto di merchandising promozionale di poche migliaia di euro, al 100% detraibile sia ai fini IVA che dal reddito d’impresa, l’azienda che aderisce ai progetti finalizzati del Trust ha la possibilità di vedere il proprio nome tra i protagonisti dell’attività di finanziamento della cultura con tutte le positive ricadute sulla propria immagine che tutti possiamo immaginare. Sono ovviamente possibili anche piccole e grandi donazioni da parte di privati cittadini. Aderire al Trust è semplice e tutti possono partecipare attivamente alle attività di scavo finanziate da Sostratos; si possono ottenere piú approfondite informazioni scrivendo a direzione@sostratos.it e visitando il sito www.sostratos.it Lorenzo Benini A sinistra: skyphos di produzione falisca rinvenuto nella tomba, dopo il restauro. IV-III sec. a.C.

proprietà privata –, il quale ha subito collaborato con entusiasmo e disponibilità a tutte le operazioni che ne sono conseguite. La felice sinergia e la comunanza di intenti tra Soprintendenza, proprietà e associazione onlus ha reso possibile, nel 2013, la pulizia della tomba, come accennato che sembrava già violata come tutte quelle circostanti: la ripulitura avrebbe dovuto restituire almeno la planimetria del-

A destra: i volontari dell’associazione Archeotuscia e Soriano Terzo Millennio che hanno recuperato i reperti.

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SCAVI • NORCHIA

Con grande sorpresa all’interno della tomba è affiorato un corredo composto da vasi del IV-III secolo a.C.

la stanza, permettendo di completare lo studio della struttura. Le operazioni sono iniziate con lo scopo di liberare dalla terra che vi si era accumulata il vano sepolcrale ipogeo parzialmente visibile. È cosí riemersa una camera con banchina laterale a destra, a pianta quasi rettangolare. Con grande sorpresa, poco dopo avere raggiunto il fondo della stanza, è affiorato un corredo ceramico

disposto lungo il corridoio, composto da 17 vasi in ceramica databili tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. e da uno strigile in bronzo frammentario. Si tratta In alto: lo skyphos rinvenuto nella tomba, prima del restauro. In basso: un momento del restauro, effettuato con l’ausilio del microscopio elettronico.

dell’abituale dotazione di oggetti pertinenti al banchetto funebre per il defunto, insieme a un utensile relativo invece alla sfera della toletta personale. Spicca, tra tutti, uno skyphos (bicchiere a due manici) di produzione falisca decorato sui due lati dai volti di un Satiro e di una Menade. Corredo e tomba sono coevi, confermando la datazione complessiva della sepoltura.

VIRTUOSE SINERGIE Lo scavo del vano e cosí anche dell’accesso alla sepoltura devono essere ancora ultimati e l’intervento dovrebbe concludersi nell’estate di quest’anno. Elemento di ulteriore interesse è la presenza delle tracce, visibili sul terreno, di possibili altri corridoi di accesso a sepolture limitrofe alla Tomba a Casetta e che si dipartono dal suo vano d’accesso, lasciando ipotizzare un complesso sistema planimetrico dell’area, ancora tutta da indagare. 70 a r c h e o


il 7 dicembre 2014, alla presentazione del corredo della Tomba a Casetta, che è ora inserito nella esposizione permanente del Museo Nazionale Etrusco della Rocca Albornoz di Viterbo. Oltre a restituire alla comunità una nuova importate architettura sepolcrale e un corredo di rilievo, l’«operazione Tomba a Casetta» rappresenta anche un felice esempio di collaborazione armonica tra le autorità di tutela (oggi Soprintendenza Archeologia per il Lazio e l’Etruria Merdionale), il proprietario di un sito archeologico, associazioni di volontariato e un finanziatore privato. All’indagine della Tomba a Casetta hanno partecipato i soci delle associazioni Archeotuscia di Viterbo e Soriano Terzo Millennio, coordinati da archeologi e secondo le indicazioni della Soprintendenza Archeologia per il Lazio e l’Etruria Meridionale, Funzionario Responsabile Luca Mercuri.

La lunga fase di frequentazione di questa zona, anche quando ormai era lontana la sua vocazione funeraria, è testimoniata dal riutilizzo della parte superiore esterna della Tomba a Casetta come probabile luogo di lavorazioni artigianali. Sul lato destro della facciata venne infatti ricavata una scala grossolana, non visibile dalla fronte monumentale, che conduce sopra la sepoltura dove si trovano alcune pestarole, ovvero vasche di varia forma scavate nel tufo e difficilmente databili, comunque di età tardo-antica o medievale. Recuperato il corredo e consegnato alla Soprintendenza in previsione del restauro e della sua esposizione, la camera è stata ricoperta e messa in sicurezza, in attesa del prossimo intervento di scavo. Il restauro dei materiali è stato successivamente realizzato grazie al prezioso contributo della Kostelia Group di Lorenzo Benini e del Trust di Scopo Sostratos. È stato cosí possibile giungere,

PER SAPERNE DI PIÚ

In alto: Viterbo. L’esposizione permanente dedicata alla tomba al Museo Nazionale Etrusco della Rocca Albornoz. A destra: brocca dal corredo funebre.

AA.VV., Dallo scavo al museo. La Tomba a Casetta dalla necropoli di Sferracavallo a Norchia. Un modello di riuscita sinergia tra pubblico e privato, Prato 2014 a r c h e o 71


NELLA TERRA IN MACEDONIA SULLE ORME DI

ALESSANDRO MAGNO

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DELL’ORO

DALL’ANTICA ANFIPOLI O, IN ALTERNATIVA, DALLA MODERNA SALONICCO, PRENDE IL VIA IL NOSTRO VIAGGIO ALLA RISCOPERTA DELLA PATRIA DELL’IMPERO MACEDONE. UN PERCORSO SCANDITO DA SITI ARCHEOLOGICI DI INEGUAGLIABILE FASCINO E DA UNA RETE DI MAGNIFICI MUSEI, NEI QUALI PREDOMINA LA MAGICA LUCE DEL PIÚ NOBILE DI TUTTI I METALLI di Carlo Casi e Andreas M. Steiner, con la collaborazione di Maria Katsinopoulou Larnax (urna) d’oro decorata con la stella macedone a 16 raggi, ritrovata all’interno del sarcofago di marmo nella cosiddetta «Tomba di Filippo II» a Verghina (seconda metà del IV sec. a.C).

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SPECIALE • MACEDONIA

M

orbidamente adagiata su un’ondulata collina, Anfipoli, dominava la valle verdeggiante che il fiume Strimone taglia come una rilucente lama d’acciaio prima di gettarsi in quel mare antico dal quale Alessandro Magno salpò alla volta dell’Asia. Città da sempre agognata, ha visto passare Ateniesi, Spartani, Macedoni, Traci, Romani, Bizantini e Ottomani; tutti hanno lasciato e tutti hanno preso: benessere e cultura in cambio dell’oro e dell’argento del vicino Monte Pangeo. Atene la fondò nel 437 a.C. come apoikia (colonia), dopo che già Pisistrato, nella seconda metà del VI secolo a.C., si era qui arrichito. Ma non fu certo cosa semplice sconfiggere gli indigeni Edoni che avevano in questo luogo un centro urbano dal singolare nome di Le Nove Vie (Ennea Hodoi): un primo e non riuscito tentativo causò la morte di 10 000 Ateniesi in quel di Drabesco nel

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465-464 a.C. E non ebbe comunque vita facile la nuova città, nonostante le imponenti mura che la recingevano. Già nel 424 a.C., infatti, Sparta spostò la guerra del Peloponneso sulle rive dello Strimone dove, con un audace colpo di mano, le truppe comandate da Brasida, entrarono in città, superando in maniera rocambolesca la cinta muraria all’altezza del ponte. Nemmeno lo storico Tucidide, all’epoca comandante ateniese, riuscí a scongiurare la presa di Anfipoli e le drammatiche conseguenze si riscontrarono nella cruenta battaglia del 421 a.C., nella quale persero la vita lo stesso Brasida e il capo dell’esercito ateniese Cleone. Anche Filippo II la volle per sé e la annetté al regno macedone insieme a Filippi e alla Tracia. Qui Androstene di Taso, uno dei suoi ammiragli vi abitò. Rossane e Alessandro IV, rispettivamente moglie e figlio del grande Macedone, invece, vi morirono, nel 310-309

Anfipoli (Macedonia centrale). La collina di Kasta con il grande tumulo macedone individuato da Dimitris Lazaridis nel 1964 e oggi in corso di scavo da un’équipe diretta da Katerina Peristeri. Sullo sfondo, si nota l’alta sagoma del Monte Pangeo, nel quale si trovano le ricche miniere d’oro e d’argento.


a.C., per mano di Cassandro, uno dei diadochi in lotta per la successione che aveva già ucciso anche la madre, Olimpiade, qualche anno prima, nel 316 a.C., a Pidna.

UN TUMULO FASTOSO La recente scoperta del tumulo monumentale attribuito alla mano di Dinocrate, l’architetto di fiducia di Alessandro, e risalente all’ultimo quarto del IV secolo a.C., pone certamente molti quesiti (vedi «Archeo» nn. 345, 356 e 357, novembre 2013, ottobre e novembre 2014; anche on line su archeo.it). Il cerchio perfetto che il possente muro descrive, realizzato in blocchi di marmo di Taso e alto 3 m, si sviluppa per quasi 500 m. Il portale è incorniciato da un arco in pietra che contiene due bellissime sfingi, purtroppo acefale, oltre il quale si accede a un corridoio pavimentato a mosaico riproducente il ratto di Persefone. In fondo, emerge un se-

condo portale contraddistinto dalla presenza di due artistiche cariatidi, che chiude l’accesso alla camera funeraria vera e propria. È possibile che una struttura cosí monumentale e ben rifinita possa essere stata appannaggio della famiglia reale macedone? E, se sí, a quale o a quali dei membri va ascritta la tomba di Kasta? Varie sono le ipotesi avanzate a riguardo: c’è chi pensa alla sepoltura della madre o della moglie di Alessandro, di un suo generale o anche del Macedone stesso. Torna quindi alla ribalta il mistero dell’ultima dimora del grande sovrano: il suo feretro partí da Babilonia dopo piú di due anni dalla sua morte, avvenuta nel 323 a.C., ma, a oggi, non abbiamo alcuna certezza sulla località di arrivo. Diodoro ci ha lasciato l’impressionante descrizione del corteo funebre, probabilmente raccolta da una fonte dell’epoca che assistette ai lavori – forse Ieronimo di Cardia –, e suggerisce l’oasi di Siwa (nel deserto egiziano)

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SPECIALE • MACEDONIA

Fotografia satellitare della Grecia settentrionale con le principali località citate nel testo. Nella pagina accanto: carta dell’impero macedone nella sua massima espansione.

Serres

Macedonia Centrale

Anfipoli

Pella Salonicco Verghina

Stagira

Taso

Penisola Calcidica

Samotracia

Olinto Monte Athos

Monte Olimpo

Lemno

Mar Egeo

Eubea

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Mar Nero

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Golfo Persico

Mar Rosso

Le spedizioni in Asia (334-326 a.C.) Esercito di Alessandro in marcia verso est

Il ritorno in Occidente Esercito di Alessandro Esercito di Cratero Flotta di Nearco Battaglie e data Città fondate da Alessandro

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Limite estremo dell’impero

Persepoli

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Anno delle conquiste

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Regno di Macedonia all’avvento di Alessandro (336 a.C.) Lega di Corinto alleata di Alessandro Territori conquistati da Alessandro (336-323 a.C.)

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L’impero di Alessandro

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Menfi Oasi di Siwa (Tempio di Giove Ammone)

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Lago dell’Oxo (Lago d’Aral)

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Gedrosia

Pura Armonia (Hormuz)

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Alessandria

Pattala

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Produzioni e attività nel periodo ellenistico Au Oro

Sale

Cereali

Vetro

Ag Argento

Marmo

Vino

Lana

Cu Rame

Papiro

Legname

Tessuti

Zn Zinco

Profumi

Incenso

Fe Ferro

Cantieri navali

Lino

N 0

400 Km

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SPECIALE • MACEDONIA Insediamento preistorico (Collina 133)

quale meta finale. Pausania, invece, è convinto che il corpo di Alessandro dovesse rientrare in Macedonia, forse a Ege e solamente grazie a un colpo di mano di Tolomeo, esso raggiunse Menfi, come sembra confermare anche l’iscrizione di Paro, riferibile al 321-320 a.C.: «Alessandro fu collocato a Menfi e Perdicca, avendo condotto una spedizione contro l’Egitto, morí».

ECHI DI UNA DAMNATIO MEMORIAE Che la salma di Alessandro si sia trovata in Egitto lo racconta anche Svetonio quando, nella sua biografia su Augusto, descrive la visita alla tomba del Macedone ad Alessandria: «In quello stesso tempo, fatta tirar fuori dalla tomba l’arca con il corpo di Alessandro, lo guardò a lungo, quindi vi pose una corona d’oro e vi sparse fiori e poi richiesto se volesse vedere anche quelle dei Tolomei rispose che era venuto per vedere un re, non dei morti». E almeno sino al tempo di Caracalla, pervaso di mistico fanatismo nei suoi confronti, in Egitto dovette restare. Da quel momento in poi la tomba del re macedone sembra sparire nel nulla e già alla fine del IV secolo d.C., san Giovanni Crisostomo cosí recitava: «Dov’è, dimmi, la tomba di Alessandro? Mostramela, e dimmi in che giorno mori!». La scomparsa va quindi collocata tra la fine del III e la fine del IV secolo, un periodo nel quale distruzioni e terremoti si accavallano nella città sulla foce del Nilo e che fece registrare l’affermazione definitiva del cristianesimo. A celare per sempre il monumento funerario del Macedone fu forse una forma di damnatio memoriae del suo culto, visto in quel momento come un elemento di disturbo all’immagine dell’altro re, quello dei Giudei, morto anch’esso a 33 anni? E poco importa, in questo caso, se secondo altri il corpo di Alessandro è nascosto sotto mentite spoglie a Venezia, nella cattedrale di S. Marco. Di certo, se il corteo funebre fosse diretto in (segue a p. 82) In alto: pianta dell’antica Anfipoli. A destra: il Leone di Anfipoli, alto piú di 5 m, nella sua attuale collocazione nei pressi del fiume Strimone. 78 a r c h e o

Tumulo di Kasta

Anfipoli Mura cittadine del periodo classico ed ellenistico Mura di fortificazione interne Necropoli

Ponte antico Torre bizantina Museo

Muro di età romana

Acropoli

Necropoli di età classica Casa ellenistica Ginnasio

Monumenti di età paleocristiana

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1 Km.

Ponte moderno Strimone

Leone di Anfipoli

Verso Eione e il delta


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SPECIALE • MACEDONIA

INCONTRO AD ANFIPOLI A colloquio con l’archeologa Katerina Peristeri Su un’altura a nord dell’antico abitato di Anfipoli si erge il grande tumulo di Kasta. Sorvegliato a vista, 24 ore su 24 (è impossibile avvicinarsi, se non accompagnati

◆ Professoressa Peristeri,

l’esistenza del tumulo di Kasta era nota da molto tempo. A piú riprese, nel 1964/65 e poi tra il 1971 e il 1982, Dimitris Lazaridis aveva scavato alcune trincee in quella che egli aveva subito identificato come una collina artificiale. Perché ha deciso di proseguire con gli scavi? Quando abbiamo ripreso gli scavi, tra il 2012 e il 2014, non avevamo alcuna nozione della presenza di una tomba. Dalle campagne di scavo di Lazaridis erano emersi i resti di una necropoli dell’età del Ferro e di età arcaica dal terreno di una collinetta naturale che

dagli stessi archeologi), dal 2012 il sito viene esplorato da un’équipe di archeologi guidati da Katerina Peristeri. Siamo andati ad Anfipoli e l’abbiamo intervistata… sorgeva qui ed era pertinente a un insediamento preistorico situato su un’altura adiacente, la cosiddetta «Collina 113». Nel 2012, come Sovrintendente Capo della Sovrintendenza delle Antichità a Serres, ho pensato di scavare la collina, ma a un livello piú basso del piano stradale attuale, in una parte mai indagata prima. Se mi chiede «Perché proprio lí?», le rispondo: «Puro istinto di archeologa!» Sta di fatto che, dopo diversi tentativi, sono riuscita ad arrivare al peribolo del tumulo (già identificato nel 1964 da gli scavi di Lazaridis, n.d.r.) che poi, nel corso dei tre anni, abbiamo scavato per tutto il suo perimetro, di ben 497 m. Fu durante lo scavo del muro perimetrale che, nell’agosto del 2014, la mia squadra si è imbattuta in un varco, da cui si accedeva alla tomba. Della quale, va ricordato, non era noto alcun riferimento, né bibliografico, né archeologico.

◆ Come si spiegano le dimensioni

assolutamente anomale del tumulo (quasi dieci volte superiori a quelle di Verghina)? Si conoscono altri tumuli di queste dimensioni, scavati o ancora da scavare, in Macedonia o nella zona di Anfipoli? No, non si conoscono tombe simili. Inoltre, il complesso funerario da noi scavato è davvero unico: non si tratta, infatti, di una tipica tomba macedone, con il suo vestibolo, una semplice anticamera, la porta macedone e poi la camera. Nel nostro caso, oltre la

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porta e la camera, seguono altri tre ambienti: una struttura unica che, ovviamente, non è stata fatta a caso. Doveva essere destinata a una persona molto importante.

◆ Qual è la datazione del complesso funerario? La costruzione di questo monumento risale all’ultimo quarto del IV secolo a.C., a un periodo successivo alla morte di Alessandro Magno, intorno agli anni tra il 325 e il 300 a.C. Questa datazione è suggerita dalle le sculture rinvenute, ma anche dallo splendido mosaico di Persefone. Sicuramente siamo di fronte a un complesso funerario che non ha eguali in Macedonia. Per la varietà di elementi che formano questo meraviglioso capolavoro – tra cui quelli «orientali», d’ispirazione egiziana –, dovremmo parlare, piú che di una tomba macedone, di una «tomba ecumenica macedone».

◆ Durante le esplorazioni effettuate

da Dimitris Lazaridis nel 1973, sulla sommità della collina era stata scoperta una struttura architettonica interpretata come il basamento di un monumento, funzionale – verosimilmente – a sostenere un segnacolo funerario. Vi sono elementi a favore dell’ipotesi che ad aver ornato la sommità del monumento sia stato proprio il celebre «Leone di Anfipoli» (la scultura, di 5,30 m di altezza, sorge oggi a sud della città antica, nei pressi del ponte che attraversa il fiume Strimone, vedi a p. 79 e qui accanto, n.d.r.)?


La celebre scultura era sicuramente posta in cima alla tomba. Essa era parte integrante di questo straordinario complesso funerario, insieme al grande muro perimetrale e alla tomba commemorativa da noi individuata. Siamo certi di questo perché, durante lo scavo della tomba, abbiamo trovato pezzi di marmo appartenenti al Leone insieme a campioni della base marmorea del monumento. E il marmo (di Taso) è lo stesso con cui sono fatti i blocchi del peribolo. A partire dall’epoca romana, tutto il monumento venne sottoposto a un progressivo saccheggio, per cui troviamo blocchi di marmo che provengono da esso sparsi in tutta l’area di Anfipoli, nel fiume Strimone, alcuni, infine, riutilizzati per costruire altri edifici e una diga sul fiume. Negli anni Trenta, alcuni blocchi furono trovati e accatastati nei pressi del ponte moderno (dove oggi si trova la statua del Leone, n.d.r.). Perfino la base moderna che oggi sorregge il Leone, anch’esso rinvenuto in frammenti e ricomposto dallo scultore Panagiotakis, è formata da elementi provenienti dal saccheggio del monumento. Certamente la presenza del Leone sulla cima del tumulo sta a indicare che al suo interno era deposto un personaggio di grande rilievo!

◆ Facciamo un passo indietro: può

spiegarmi in che rapporto si trova il muro perimetrale con le tombe arcaiche individuate da Lazaridis? Il nostro peribolo non ha nulla a che fare con le tombe di epoca arcaica. Sicuramente, come abbiamo detto, c’era una preesistente necropoli arcaica situata all’interno di una collinetta bassa. Nel IV secolo, però, periodo in cui viene costruito il muro perimetrale, questa collina si trasforma, viene artificialmente ricoperta per assumere la forma di un grande tumulo sulla cui cima, come ho già detto, è posizionato un

segnacolo, il Leone. I nostri scavi hanno dimostrato che non vi è alcun collegamento con l’epoca arcaica.

◆ Come proseguiranno gli scavi?

Quali saranno le prossime tappe e i tempi dell’indagine? È possibile anticipare ai nostri lettori qualche nuovo dato di scavo? Allo stato attuale dobbiamo studiare gli elementi emersi dallo scavo, quelli che si possono spostare e quelli che devono rimanere in situ. Dobbiamo effettuare interventi di manutenzione e di consolidamento per rendere stabile il monumento. Poi dobbiamo procedere alla sua valorizzazione e alla promozione. E poi lo scavo, naturalmente, non è concluso. I dati finora acquisiti sono la prova del fatto che ci troviamo di fronte a un contesto funerario eccezionale: non sappiamo, però, se all’interno di questo complesso esistano altri elementi importanti, visto che lo scavo della tomba non è stato ancora completato. Purtroppo non sappiamo quando potremo procedere con i lavori: l’attuale crisi ha fatto sí che il nostro Ministero dei Beni Culturali non disponga piú dei fondi necessari.

◆ Nel novembre del 2014, lo stesso

Ministero ha diffuso la notizia della scoperta, sotto il pavimento della terza camera della tomba, dei resti di un sarcofago ligneo e dei frammenti di uno scheletro, appartenuto a una figura maschile. Può esprimere una sua personale opinione circa il possibile, o i possibili, occupanti del tumulo? Allo stato attuale non ha senso avanzare alcuna ipotesi: gli elementi a disposizione non ci permettono di giungere ad alcuna certezza, se non per qualche dato relativo all’età e all’altezza. È troppo presto, ancora, per dire di piú. Dobbiamo portare avanti le ricerche, complessivamente, per ottenere altri elementi che

potrebbero portarci a una conclusione certa. Ma ripeto: è il tumulo stesso che «parla»! Si tratta di un monumento importante, che troneggiava nell’area e che, ovviamente, non era costruito per una persona semplice. Uno dei problemi è costituito dal fatto che la tomba ha subito saccheggi già nell’antichità, motivo per cui la camera funeraria principale era ridotta in condizioni piuttosto caotiche. Sto parlando di tombaroli antichi, naturalmente. In età moderna, infatti, la collina sembrava un’altura naturale e non si distingueva dalle altre, fino alle indagini di Lazaridis.

◆ L’innegabile grandiosità del

tumulo e la straordinaria vicenda della sua esplorazione hanno suscitato un interesse mondiale e ha aumentato il flusso dei visitatori della vasta area archeologica e del Museo di Anfipoli. L’accesso al tumulo stesso, però, oggi è interdetto. Quando potrà essere visitato? Prima dobbiamo effettuare i lavori di cui abbiamo accennato per restituire al pubblico l’idea dell’aspetto originario del complesso e rendere la visita sicura. Ma è ancora presto. Pensiamo soltanto che, per rendere visitabile la Tomba di Filippo II a Verghina, scoperta e scavata da Manolis Andronikos, ci sono voluti quasi 23 anni! Non è un’impresa facile, e non possiamo ottenere tutto in poco tempo. Inoltre si rivela necessario reperire i fondi, che oggi mancano. Ma l’importanza del tumulo di Anfipoli è fuori discussione: la sua valorizzazione è un dovere, per lo Stato e per la comunità scientifica internazionale. Secondo la mia personale opinione, il monumento andrebbe posto sotto la tutela dell’UNESCO. A. M. S.

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SPECIALE • MACEDONIA

Macedonia, visti i due anni occorsi per la realizzazione del mastodontico carro aureo, ci sarebbe stato tutto il tempo per allestire un monumento funerario degno di tal nome. Qualcuno ha persino ipotizzato che possa essere identificato con il tumulo reale di Verghina, scoperto nel 1977 da Andronikos. E se, invece, fosse proprio quello grandioso di Anfipoli? Un sepolcro, quindi, preparato per lui ma mai usato a tale scopo? E, se cosí fosse, a chi appartengono allora le ossa dei cinque individui seppelliti nel gigantesco tumulo? Solo il prosieguo degli scavi, tuttora in corso, potrà forse risolvere il dilemma. Ma la storia di Anfipoli non finisce certo con il dominio macedone: sotto Roma, infatti, a partire dal 168 a.C., diventa la capitale della Macedonia Prima e le sue case si affacciano sulla piú importante arteria di comunicazione dell’epoca, la via Egnatia. Anche Paolo di Tarso, la visitò nel 50 d.C., prima di recarsi a Salonicco.

A destra: particolare di una delle due cariatidi, scolpite nel marmo dell’isola di Taso, che incorniciano la porta della stanza funeraria principale della tomba per ora rinvenuta all’interno del tumulo di Anfipoli. Entrambe sono alte piú di 2 m e presentano chiare tracce di colore rosso e blu.

ALL’INTERNO DEL TUMULO

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In alto: la coppia di Sfingi che sormonta l’architrave della porta d’ingresso. A destra: Anfipoli. Il grande mosaico policromo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade, che la porta con sÊ su un carro trainato da due cavalli, preceduti dal dio Ermes. Fine del IV-inizi del III sec. a.C.

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IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI ANFIPOLI Sulle rive dello Strimone, a pochi chilometri dal mare e non troppo distante dalle miniere d’oro del monte Pangeo, naturalmente protetta su tre lati dall’ansa del fiume e da possenti mura sul quarto lato, l’antica Anfipoli (che prima della colonizzazione di Atene nel 437 a.C. era detta «Nove strade») vanta una storia lunga e appassionante, fatta di conquiste e di difese strenue, di commerci e di razzie, di re e di santi. Una storia narrata nel locale Museo Archeologico, allestito in un edificio moderno, a ridosso degli scavi dell’antica città. L’esposizione segue l’ordine cronologico e si apre quindi con i reperti provenienti dagli scavi di siti frequentati nel Neolitico (6000-3000 a.C.), tra i quali spiccano le numerose figurine antropomorfe rinvenute presso la «Collina 13», un insediamento preistorico sviluppatosi su una collina in prossimità dell’antica città. L’età arcaica è rappresentata dai reperti provenienti dalle sepolture dell’età del Ferro delle necropoli piú antiche di Anfipoli, tra le quali i tumuli di Kasta: già in questo periodo le vicine miniere d’oro vennero abilmente sfruttate per la realizzazione di capolavori di oreficeria. All’età classica e al periodo ellenistico rimandano invece alcune statue di divinità e di figure mitologiche, monete, terrecotte e almeno due raffinate corone con foglie in oro, una rinvenuta presso una sepoltura maschile risalente al IV secolo, l’altra scoperta all’interno di un urna cineraria in argento. Al momento della conquista da parte di Roma del regno di Macedonia, nel 168 a.C., Anfipoli divenne la capitale della provincia Macedonia Prima: alla dominazione romana risalgono alcuni mosaici e porzioni di affreschi parietali provenienti da aristocratiche domus urbane. Protagonista della diffusione del cristianesimo ad Anfipoli fu l’apostolo Paolo, che negli anni 49-50, in viaggio da Filippi a Tessalonica, sostò nella città. 84 a r c h e o

La comunità cristiana si sviluppò precocemente e, già nel IV secolo d.C., Anfipoli, che in questo periodo occupava l’antica acropoli, divenne sede di diocesi: una sede importante, se si considera la presenza di un numero cospicuo di edifici di culto cristiano, alcuni dei quali innalzati al di sopra dei santuari pagani piú antichi e decorati con splendidi pavimenti musivi. Alcuni reperti in mostra al Museo Archeologico rimandano a questo felice periodo della vita della città. L’esposizione si completa con reperti provenienti dalle aree portuali della città, Agilos e Eion, e con una sezione dedicata alla scoperta e al restauro del Leone di Anfipoli, la grande scultura rinvenuta nel 1913 in prossimità dello Strimone.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Anfipoli Serres, Macedonia Orario ma-do, 8,00-14,30; lu chiuso Info www.macedonian-heritage.gr In alto: corona aurea a foglie di quercia da una tomba maschile del IV sec. a.C. In basso: l’interno del Museo Archeologico di Anfipoli.


GLI ANNI DELL’IMPERO UNIVERSALE 334 a.C. Alessandro attraversa l’Ellesponto e raggiunge le forze macedoni già in Asia. 334 a.C. Alessandro sbaraglia le forze persiane al Granico e annette i territori e le città della costa dell’Asia Minore. Poi entra in Paflagonia, Cappadocia e Cilicia. L’esercito avanza verso la Siria. 333 a.C. Alessandro rovescia l’esercito novembre persiano, condotto dallo stesso Dario III, nella battaglia di Isso. Dario fugge, ma lascia la famiglia prigioniera dei Macedoni. 332 a.C. Occupazione delle città della Fenicia, della Siria e dell’Egitto. Qui viene accettato dai sacerdoti di Menfi come un nuovo faraone. L’oracolo dell’Oasi di Siwa lo proclama «Figlio di Amon». 331 a.C. Nuova vittoria macedone a Gaugamela, in Mesopotamia. Alessandro giunge a Babilonia, sacrifica al dio Marduk e riceve l’antico titolo sumero-accadico di «re delle 4 parti del mondo». Arrivato a Susa, nel Khuzistan, recupera le statue dei Tirannicidi che i Persiani avevano rubato ad Atene in segno di sfregio verso la politica democratica della città. 330 a.C. Giunge a Persepolis (Parsa), a Pasargade, poi a Ecbatana, e si impadronisce del tesoro reale persiano. Un sovrano Incendio di Persepoli. Dario III fugge verso l’Ircania, la sponda sud-orientale grecodel Mar Caspio, dove il satrapo Besso lo battriano. III-II sec. a.C. cattura, e, all’arrivo di Alessandro, lo fa pugnalare a morte. 330-327 a.C. Conquista e sistemazione dei regni orientali: Ircania, Partia (attuale Khorassan), Aria (Afghanistan centrale), Drangiana (Sistan), Gedrosia (Makran, Beluchistan meridionale), Aracosia (Afghanistan meridionale, regione di Kandahar). Nel 329 occupa la Battriana. Qui fonda una città che chiamerà «Alessandria Estrema», «Ultima», a Fibbia di segnare il compimento di un’altra tappa cintura. I-II sec. d.C. della sua impresa: la conquista dell’Oriente fino alle frontiere dell’India. 327 a.C. Fondazione della città di Nikaia («Vittoria») a sud di Kabul (attuale Begram). I Macedoni attraversano la regione del Ghandara e occupano la città di Peucelaotis (attuale Charsadda). Alessandro entra nella regione delle valli

del Bajaur, del Dir e del fiume Swat, impadronendosi di città e fortezze. Alla confluenza con l’Indo, gli viene consegnata la città di Taxila. L’esercito macedone si spinge verso il Punjab (la valle formata dai 5 affluenti dell’Indo). 326 a.C. Un re del Punjab di nome Poros (l’indiano Paurava) sbarra la strada ad Alessandro sulle sponde del fiume Idaspe (odierno Testa di guerriero da Jhelum). Khalchajan, Alessandro riesce ad avere la meglio Uzbekistan. sull’esercito indiano e i suoi elefanti da guerra, ma, impressionato dal coraggio I sec. a.C. del re, lo reinsedia sul trono. Procede lungo l’Idraote (oggi Ravi) verso i territori del Kashmir. Giunge cosí all’Ifasi (Beas), confine ultimo con la valle del Gange. Qui avviene la famosa rivolta dei suoi soldati, che si rifiutano di procedere oltre e gli impongono il ritorno. L’esercito procede alla volta della confluenza dei rami dell’Indo. Occupazione del Sindh ed esplorazione del delta del grande fiume. 325 a.C. Alessandro e un esercito di truppe scelte tentano la traversata dei deserti della Gedrosia, teatro di fallimenti leggendari Cratere da parte di Semiramide e di Ciro il attico a figure rosse. Grande. La traversata, durata due mesi, è 470/460 a.C fatale per gran parte dei soldati. Nearco, al comando della flotta, naviga la costa nord del Golfo Persico verso lo Stretto di Hormuz. Di qui raggiunge le bocche del Tigri. Alessandro con i superstiti raggiunge la Carmania (Kerman) e consolida i regni dell’Iran centroorientale. Restaura con tutti gli onori la tomba di Ciro il Grande, violata a Pasargade. 324 a.C. Alessandro giunge a Susa e si dedica al rafforzamento del suo regno sterminato. Alessandro Deve sedare una pericolosa rivolta scoppiata in Mesopotamia tra le sue Magno. Copia di età truppe. Combatte nelle valli dei monti Zagros e procede verso ovest. augustea. 323 a.C. Accompagnato da sinistri presagi, Alessandro entra a Babilonia. Vi muore il 10 giugno, all’età di 33 anni, vittima di una malattia o, secondo altre versioni, di avvelenamento, mentre prepara una grande spedizione navale diretta alle coste dell’Arabia. a r c h e o 85


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IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI SERRES Capoluogo dell’omonima prefettura, Serres è la seconda città della Macedonia e il suo Museo Archeologico è allestito in un suggestivo edificio che evidenzia l’articolata storia locale: «Bezesteni» era infatti un mercato al coperto costruito nella seconda metà del XV secolo, durante la dominazione ottomana; venne trasformato in museo nel 1970, quando fu inaugurato esponendo due piccole collezioni che raccoglievano principalmente sculture e iscrizioni di epoca tarda. Nel corso degli anni l’esposizione si è arricchita con i reperti provenienti dai numerosi scavi e siti del territorio, appartenenti un ampio orizzonte cronologico, che va dall’epoca preistorica a quella bizantina. Oggi l’esposizione offre dunque un quadro piú dettagliato sulla vita delle popolazioni che sin dal tardo Neolitico si sono insediate nella regione: nella sezione dedicata alla preistoria risultano di particolare interesse i reperti provenienti dall’insediamento di «Promachonas», in prossimità del confine con la Bulgaria: vasi, strumenti in pietra e oggetti in osso lavorato che fanno luce sulle attività quotidiane. In epoca storica, la presenza del fiume Strymon ha consentito lo sviluppo e la comunicazione tra i diversi insediamenti della valle, e ha inoltre favorito i contatti e gli scambi con la Tracia interna e i Balcani: come Sirris (antico nome di Serres), anche Vergi, Argilos e altri centri hanno dunque beneficiato della loro posizione geografica in termini di continuità e di prosperità dell’insediamento, come dimostrano i vasi, le monete, le oreficerie e le sculture rinvenuti nei recenti scavi in atto nel territorio della Prefettura. Le due grandi porte di marmo provenienti dalle tombe di Anfipoli, i frammenti di un letto funebre e alcuni vasi sono gli unici reperti di epoca macedone esposti nel museo di Serres, mentre la successiva epoca romana è ben testimoniate da iscrizioni, statue, vasi e vetri: un ricco repertorio di oggetti, indice della vivacità e prosperità della città che, senza soluzione di continuità, caratterizza ancora l’epoca bizantina, alla quale appartiene anche una solenne icona marmorea raffigurante Cristo Benefattore.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Serres Serres, piazza Eleftherias Orario ma-do, 8,00-14,30; lu chiuso Info www.macedonian-heritage.gr

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Veduta del Museo di Serres con, in primo piano, uno dei grandi pilastri che sorreggono l’edificio di età ottomana.


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a Anfipoli si dipana comunque il sottile filo rosso che lega tutto il territorio sul quale regnò la dinastia degli Argeadi, caratterizzandone le produzioni e le manifestazioni: l’oro macedone. Oro che trasuda da tutti i pori di questa terra, ricca non solo di miniere. E cosí basta spostarsi di poco e raggiungere la già citata Verghina, l’antica Ege, ed entrare nell’eccezionale ricostruzione del tumulo fatto erigere da Antigono II Gonata nel 270 a.C., per evitare probabilmente che si potesse ripetere il saccheggio dei Galati, avvenuto qualche anno prima e narrato da Plutarco nella Vita di Pirro. L’allestimento attuale rende piena giustizia all’importanza dei personaggi lí sepolti e una penombra affascinante avvolge il contrasto di emozioni che pervadono il visitatore. Emergono a poco a poco gli oggetti favolosi che hanno accompagnato i defunti nel loro ultimo viaggio. Dapprima fanno bella mostra di sé, disposte in fila come per una parata militare, alcune stele funerarie dipinte con i nomi dei defunti, unici resti dell’antica razzia; poi incontriamo le spoglie di una tomba distrutta e,

salendo di qualche metro ci avviciniamo a un heroon che domina la vicina Tomba di Persefone, purtroppo saccheggiata anch’essa già in antico. Per fortuna, però, sono ancora visibili i resti delle pitture con il ratto della dea che dà nome alla sepoltura, inquadrabili cronologicamente intorno alla metà del IV secolo a.C.

«UNA PESTE DI MACEDONE» L’oro torna prepotentemente alla ribalta nelle vetrine dedicate alla cosiddetta «Tomba di Filippo II», con reperti che sembrano quasi brillare di luce propria. E il vicino ingresso alla tomba rievoca l’ambientazione della fortunata scoperta grazie ai sigilli volutamente lasciati in posto, dominati dall’idilliaco affresco raffigurante una mitica battuta di caccia in cui Filippo uccide un leone sotto lo sguardo del già coronato Alessandro che monta l’irrequieto Bucefalo. Certamente l’immagine che se ne ricava è molto distante da quanto lasciatoci da Demostene nella sua Terza Filippica: «Eppure non solo egli non è un greco e non ha nessuna affinità con noi, ma non è neppure un barbaro originario di una regione che è onorevole menzionare, ma è una peste di Macedone, di una regione dalla quale prima non era nemmeno possibile acquistare uno schiavo di valore». Anche in questo caso, tuttavia, l’attribuzione della tomba al padre della Macedonia non è da tutti accettata. C’è chi ha addirittura riproposto la teoria secondo la quale i resti del corpo di Alessandro Magno, rientrati a Ege proprio sotto il salvatore del tumulo, Antigono II Gonata, sarebbero contenuti dall’urna d’oro rinvenuta in questa tomba. Ma come spiegare, allora, i racconti dei famosi personaggi che gli resero omaggio in seguito ad Alessandria, per alcune centinaia d’anni? Si dovrebbe ammettere anche una nascosta sostituzione del Nella pagina accanto: la facciata della «Tomba di Filippo II» con sopra l’architrave il fregio dipinto raffigurante una battuta di caccia alla quale partecipano Alessandro Magno e il padre. A sinistra: disegno ricostruttivo della stessa. Verghina, Tombe Reali. a r c h e o 89


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cadavere, della quale, però, non vi è alcuna traccia. Meno affascinante ma piú realistica sembra la proposta di riconoscere nel tumulo di Verghina, la sepoltura dell’epilettico Filippo III Arrideo, fratellastro di Alessandro fatto uccidere da Olimpiade nel 317 a.C., magari piú coincidente dal punto di vista cronologico ma non del tutto convincente in un’ottica storica, poiché mancano all’appello sua moglie Euridice e sua suocera Kynna, che secondo le fonti furono invece seppellite insieme a lui. Anche se non si può escludere che i resti

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di una giovane donna, rinvenuti nell’anticamera, siano proprio quelli di Euridice. Piú sicura risulta l’attribuzione della Tomba del Principe, anch’essa rinvenuta intatta da Andronikos. Le analisi paleosteologiche suggeriscono che il defunto fosse morto intorno ai 14 anni d’età, mentre il corredo si segnala come inequivocabilmente maschile e riferibile alla fase finale del IV secolo. Inoltre, la presenza della corona a foglie di quercia in oro rimanda con certezza a un membro della dinastia argeide: indizi in base ai quali l’unico

In alto: la moderna ricostruzione del tumulo di Antigono II Gonata a Verghina che racchiude al suo interno l’esposizione museale comprendente le tombe dette «di Filippo II» e «del Principe» con i loro regali corredi. A sinistra: la facciata di una delle due tombe rinvenute intatte nel 1977 da Manolis Andronikos e forse attribuibile ad Alessandro IV, figlio del «Grande» e di Rossane.


A destra: una delle stele funerarie dipinte con iscritto il nome del defunto, probabile residuo della razzia perpetuata ai danni del cimitero macedone dai Galati nel 274 a.C., motivo per il quale Antigono II Gonata realizzò nel 270 a.C. il tumulo «protettivo».

nome possibile è quello di Alessandro IV, figlio di Rossane e di Alessandro Magno, nato nell’anno, il 323 a.C., e nel luogo della morte del padre (Babilonia). L’altro candidato, Eracle, presunto figlio di Barsine e Alessandro, va escluso, dal momento che l’età supposta alla morte doveva essere intorno ai 17/18 anni. I due giovani furono uccisi nel 309 a.C. dalla stessa mano assassina, quella di Cassandro, e vennero seppelliti nella nuda terra, nel tentativo di occultarne l’omicidio. È possibile perciò che sia proprio Eracle il cremato regale rinvenuto nel 2008 all’interno della fossa terragna posta nel recinto del santuario di Eukleia nell’agorà di Ege.

LA PRIMA CAPITALE Altri ori, e non solo, provenienti dalle tombe dell’antica Aigai saranno presto esposti nel nuovo museo che sta per essere inaugurato a Verghina, degno riconoscimento alla prima capitale macedone. Ma la storia di questo centro comincia molto prima, già nel III millennio a.C., quando una società ben organizzata costruí i primi tumuli sepolcrali lungo le sponde del fiume Aliacmone. Da allora in poi, gli eventi riguardanti si succedono ininterrottamente, fino a che il sito viene scelto dagli Argeadi come loro residenza principale. L’area urbana è oggi parzialmente visitabile e qui risalta maestosamente il profilo del palazzo reale che sovrasta il teatro in cui, nel 336 a.C., Filippo II perse la vita per mano di Pausania di Orestide e dove il giovane Alessandro venne acclamato dalle truppe suo successore. a r c h e o 91


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L’urna cineraria d’argento con la corona d’oro a foglie di quercia, contenente le ceneri di un giovane di 14 anni, probabilmente Alessandro IV, figlio di Alessandro Magno e Rossane. 92 a r c h e o

Nella pagina accanto a sinistra: la grande larnax e la corona d’oro con 313 foglie di quercia e 68 ghiande, dalla cosiddetta «Tomba di Filippo II».


La corazza in ferro decorata in oro insieme alle armi del re macedone con il suo scudo e la spada. In basso a destra: gambali di bronzo e la faretra aurea decorata con guerrieri in lotta, insieme ad altri oggetti d’oro rinvenuti nella cosiddetta «Tomba di Filippo II».

SOTTO IL TUMULO, IL TESORO DEI RE All’interno del grande tumulo ricostruito sopra le tombe regali di Verghina, è stato allestito un museo che espone i ricchissimi corredi funerari, emersi dagli scavi condotti da Manolis Andronikos. Per info: www.aigai.gr

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ra la fine del V e gli inizi del IV secolo a.C., la corte si trasferisce però a Pella, forse topograficamente piú confacente alle nuove strategie di sviluppo che si stavano imponendo in quel momento. Sotto Filippo II, la città diviene un’importante metropoli con una grande agorà centrale, santuari e lussuose case private, come quella di Dioniso e quella del Ratto di Elena riccamente decorate da mosaici, risalenti alla fine del IV secolo a.C. Qui, il 20 luglio del 356 a.C., nacque Alessandro e, ancora oggi, visitando l’estesa area archeologica, non è difficile immaginarlo bambino mentre viene redarguito dall’epirota Leonida, suo primo e austero maestro, o mentre apprende i segreti dell’oratoria grazie ai suggerimenti di Anaximenes, altro suo insegnante che proveniva dall’Asia Minore. La visita di Pella non può che cominciare dal nuovo Museo archeologico, grazie al quale si rinnova il legame con il metallo piú prezioso: qui intere parure auree arricchiscono i corredi delle sepolture piú aristocratiche. D’oro sono anche le corone regali che da sempre studia Bettina Tsigarida, la direttrice del mu-

In basso: il pavimento musivo nell’agorà di Pella. III sec. a.C. Nella pagina accanto: l’interno del Museo archeologico di Pella.

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IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI PELLA L’antica Pella fu scelta quale capitale del regno di Macedonia da Archelao I (413-399 a.C.), che nel suo palazzo reale ospitò musicisti, poeti e tragediografi come Euripide – autore di opere come Alcesti, Medea e molte altre –, nonché artisti come Zeusi, il piú noto pittore dell’antichità. A Pella nacquero poi Filippo II (nel 382 a.C.) e suo figlio, Alessandro Magno (nel 356 a.C.): i loro nomi rievocano dunque un passato importante ed è per questo che la visita agli scavi archeologici, dove si cammina tra antiche domus, edifici pubblici e santuari, è un’esperienza emozionante. Come lo è la visita al Museo archeologico, allestito in un edificio moderno alla periferia del piccolo abitato odierno, collocato a metà tra l’area degli scavi dell’agorà antica a sud, e quella del Palazzo reale, poco piú a nord. Come in uno scavo stratigrafico, i tre diversi livelli del museo, in comunicazione con l’antico sito attraverso le vetrate della struttura, narrano la storia di Pella e dei suoi abitanti, primo fra tutti Alessandro Magno, ritratto in una raffinata testa marmorea che lo presenta con il capo leggermente reclinato e incorniciato da capelli. La ricostruzione di una porta lignea introduce alla sezione sulla vita quotidiana degli abitanti di Pella, le cui residenze erano sontuosamente decorate da pavimenti musivi come quelli


provenienti dalla Casa di Dioniso e dalla Casa del Rapimento di Elena, che raffigurano scene di caccia o immagini tratte dalla mitologia e realizzati utilizzando come tessere piccoli ciottoli. La vita quotidiana è indagata poi attraverso gli oggetti di uso quotidiano, l’abbigliamento e gli utensili rinvenuti negli scavi. Altro tema dell’esposizione riguarda la vita pubblica: i reperti provengono principalmente dall’agorà. Si tratta di iscrizioni, monete e sculture monumentali che illustrano gli aspetti relativi all’amministrazione della città, mentre un ampio repertorio di ceramiche introduce al tema delle produzioni locali e dei commerci. Oggetti votivi e mosaici pavimentali provenienti da santuari introducono poi l’aspetto religioso della vita degli antichi abitanti di Pella, i cui rituali funerari sono trattati nell’ultima sezione tematica del museo.

DOVE E QUANDO Museo Archeologico di Pella Strada Statale Salonicco-Edessa Orario estivo: lu, 12,30-21,00; ma-ve, 8,00-21,00; sa e do, 8,30-17,00; invernale: ma-do, 8,00-14,30, lu chiuso Info www.pella-museum.gr

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seo e degli scavi. E proprio grazie a lei e a Nikolas Zirganos (un giornalista greco), che un’operazione di polizia internazionale è riuscita a smascherare un’organizzazione dedita a traffici illeciti di opere d’arte e a far rientrare dal J. Paul Getty Museum di Malibu la famosa corona intrecciata di foglie e fiori di mirto che oggi apre sontuosamente il percorso espositivo del Museo Archeologico di Salonicco.

UNA POSIZIONE FELICE Bettina Tsigarida si occupa anche di un altro importante centro impregnato di storia macedone: Olinto. La felice posizione dominante sull’incontaminata baia di Cassandra ha fatto di questa città, sin dall’epoca della sua fondazione per mano calcidese, nel VI secolo a.C., merce ambita per gli Ateniesi, per gli Spartani e per i Macedoni. Citata anche da Demostene nelle Olintiche, pronunciate inutilmente un anno prima della sua distruzione per convincere Atene a intervenire in sua

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In alto: il lato orientale dell’agorà di Pella, con i resti delle botteghe e dei magazzini che si affacciavano sulla piazza. In basso a sinistra: la direttrice degli scavi di Pella e di Olinto, Bettina Tsigarida. Qui sotto: mosaico dalla Casa a peristilio di Pella, con Alessandro ed Efestione a caccia del leone. 320 a.C.

difesa, fu poi rasa al suolo nel 348 a.C. da un inferocito Filippo II, che ridusse in schiavitú tutti i sopravvissuti. Il benessere raggiunto da Olinthos, soprattutto nel periodo in cui fu a capo della Lega Calcidica, filtra ancora oggi tra le rovine che occupano le due piatte colline, affacciate sull’omonimo fiume in prossimità della foce. Allontanandoci di poco, in direzione est, si raggiunge un altro dei luoghi mitici macedoni: Stagira. Meta straordinariamente evocativa per aver dato i natali ad Aristotele (384 a.C.), presenta comunque una lunga storia che comincia già alla metà del VII secolo a.C. quando alcuni coloni provenienti dall’isola di Andros la fondarono. Prima distrutta e poi ricostruita in onore del filosofo da Filippo II, Stagira sorge in posizione arroccata nella penisola di Liotopi. Gli scavi hanno messo in luce alcuni edifici e alcune porzioni dell’imponente cinta muraria rendendo la visita, insieme alla posizione quasi a strapiombo sul mare, particolarmente suggestiva.


Il corredo aureo di una tomba di Pella. In basso a destra: statua raffigurante il filosofo greco Aristotele.

UN GRANDE PRECETTORE PER ALESSANDRO Il nome di Aristotele, nato nel 384 a.C. a Stagira (città della penisola Calcidica), è indissolubilmente legato a quello di Alessandro Magno e alla dinastia macedone, tanto da essere il motivo dell’accusa per empietà che costrinse il grande filosofo ad abbandonare la sua scuola e fuggire da Atene per rifugiarsi in Eubea, a Calcide. Figlio di Nicomaco, medico della corte del regno di Macedonia, passò gli anni della fanciullezza a Pella. A diciassette anni fu introdotto alla scuola di Platone, con il quale rimase per ben vent’anni, fino alla morte del maestro, avvenuta nel 347. Poco piú tardi, Filippo II lo volle come precettore del giovane Alessandro Magno allora solo quattordicenne. Nel loro ritiro nella piccola città di Mieza, imposto dal re, Aristotele e Alessandro, insieme ad altri ragazzi, discutevano di filosofia, di arte, della storia degli antenati e costruivano, forse senza saperlo, una delle piú grandi avventure della storia dell’uomo. Nel 335 a.C., alla morte di Filippo II, a cui seguí l’ascesa al trono del figlio Alessandro, Aristotele lasciò la Macedonia e si stabilí ad Atene, dove fondò una propria scuola, Liceo (dal nome della località in prossimità della collina del Licabetto, scelta come sede della scuola e già sacra ad Apollo Licio). La precoce morte di Alessandro, nel 323 a.C., scatenò ad Atene un forte risentimento nei confronti della dinastia macedone e Aristotele, a causa dei suoi trascorsi di precettore del grande condottiero, preferí abbandonare la città, temendo che l’accusa di empietà si trasformasse in condanna Il suo esilio durò però appena un anno, poiché la morte lo colse a Calcide all’età di 62 anni. La mente feconda di Aristotele affrontò studi sulla «fisica», la natura, che comprendevano la biologia e la psicologia, si occupò di metafisica, di etica e di politica, e, ancora, studiò la poetica, la retorica; ma mise comunque alla base di ogni sapere la logica, supportata dal sillogismo, che è forse la piú importante conquista del pensiero aristotelico. Nel catalogo redatto da Andronico Rodio (I secolo a.C.), le sue opere ammontavano a circa mille volumi.

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«SALONICCO, UN’ANTICA CITTÀ COSMOPOLITA» Un incontro con Polyxeni Adam-Veleni Il Museo Archeologico di Salonicco, situato in un edificio costruito negli anni Sessanta, ampliato negli anni Ottanta e, di recente rinnovato, è uno dei piú importanti musei archeologici della Grecia. È da qui che, secondo la sua dinamica Salonicco fu fondata nel 315 a.C. dallo stratega Cassandro, cognato di Alessandro il Grande, poiché ne aveva sposato la sorellastra, Tessalonica. Come è noto, il padre di Alessandro, Filippo, si sposò otto volte, sempre per motivi di alleanze politiche. La prima moglie fu Olimpiade (che proveniva dall’Epiro), in seguito sposò una donna tracia, una donna scita e anche una principessa della Tessalia. Tessalonica – il cui nome si traduce con «la donna che protegge le sorgenti d’acqua» – era, appunto, la figlia di questa principessa. Cassandro era una persona ambiziosa e senza scrupoli: cresciuto a corte insieme ad Alessandro,voleva dominare, e diventare re. Fu proprio lui ad assassinare Rossane, la moglie di

direttrice, l’archeologa Polyxeni Adam-Veleni, dovrebbe partire l’itinerario alla scoperta del territorio e della storia antica della Macedonia. Alla professoressa Adam-Veleni abbiamo chiesto di spiegarci perché… Alessandro, il loro figlio Alessandro IV, e la madre del Macedone, Olimpiade.

◆ Cassandro divenne re una decina

di anni dopo la morte di Alessandro… ...e aveva cominciato subito a imitarlo! Proseguendo, per fare un esempio, l’usanza, inaugurata da Alessandro, di fondare nuove città (dopo Alessandria d’Egitto, al Macedone dobbiamo altre 60/70 fondazioni di città nelle terre d’Oriente!). In Calcidica fonda Cassandria – che, nelle sue intenzioni, doveva diventare la nuova capitale del suo impero – e, sul Golfo Termaico, la città di Tessalonica, dal nome di suo moglie, la quale, cosí, divenne la prima regina della corte macedone.

L’arco di Galerio, nel centro di Salonicco. 303 d.C.

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◆ Di Tessalonica le fonti narrano

che fosse particolarmente bella e potente… Anche perché era lei ad avere sangue regale, era lei il nesso con la dinastia macedone di Filippo II e Alessandro Magno, non Cassandro. Da quest’unione nacque un figlio, Alessandro V, che, però, venne assassinato all’età di 12/13 anni. Una leggenda vuole che, da allora, Tessalonica si sia trasformata in una sirena che solca le acque dell’Egeo, in perenne ricerca del figlio perduto e del fratellastro, Alessandro Magno, chiedendo ai viaggiatori di mare: «Vive re Alessandro?».

◆ Come avvenne la fondazione

della città, e perché proprio in questo luogo? Cassandro riuní nel luogo della futura Salonicco una popolazione che egli prelevò da 26 villaggi situati intorno al Golfo Termaico, un territorio colonizzato dai Greci del sud sin dal XII secolo a.C. perché particolarmente fertile, grazie anche alla presenza di ben quattro corsi d’acqua. Non dimentichiamo che la Macedonia, rispetto al resto della Grecia, è un territorio privilegiato, cosparso da fertili valli e colline che, un tempo, erano ricoperte di foreste, il cui legno serviva per costruire navi. E navi, nel mondo antico, significavano potere, militare e economico. Poi, in Macedonia vi erano le miniere, d’oro, d’argento e di altri materiali preziosi.


◆ Una città ricca e, potremmo dire,

multiculturale sin dalle sue origini? Sí, certamente, con una popolazione iniziale già composita sin dalla sua fondazione. Un tratto che, inoltre ha conservato fino all’età moderna. Ma un altro aspetto particolare caratterizza Salonicco rispetto a tutte le altre città della Grecia: la sua ininterrotta continuità di vita – lunga ben 2330 anni –, dall’antichità fino ai giorni nostri.

◆ A quando risale la vera fioritura

di Salonicco? Salonicco ebbe il suo momento di maggiore fioritura nel III-II secolo a.C., sotto la nuova dinastia degli Antigonidi. Le altre città della Macedonia – la prima capitale Aigai, e la seconda, Pella – erano già in declino, quando Salonicco, forse grazie alla sua posizione sul mare, assunse un’importanza rilevante. In particolare, poi, con l’arrivo dei Romani, alla metà del II secolo a.C.: nel 168, il re Perseo fu sconfitto da Roma e Salonicco fu occupata. I Romani avevano una sorta di complesso d’inferiorità verso la figura di Alessandro e la sua capitale, Pella. Volevano imitare la sua grandezza, ma volevano anche cancellare dalla faccia della terra la città del Macedone. Cosa che fecero nel 168 a.C. Cosí, mentre Pella non si riprese mai piú e si avviò verso un progressivo declino, i Romani conferirono i privilegi a Salonicco, che divenne capitale della provincia romana di Macedonia. Nella città si trasferirono numerose famiglie romane, attratte anche dalle nuove potenzialità – militari, economiche ma anche culturali – offerte dalla costruzione (alla metà del II secolo a.C.) di una nuova strada, la via Egnatia, che univa l’Europa all’Asia passando proprio per Salonicco. Grazie alla favorevole posizione geografica, questa nuova

L’area di scavo dell’agorà di Salonicco. La città entrò a far parte dell’Impero romano nel 146 a.C.

arteria stradale potenziò la vocazione commerciale della città, un aspetto che spiega la presenza di una folta comunità ebraica, le cui origini risalgono addirittura alla fine del III secolo a.C. Romani, Ebrei… Ecco un altro elemento di multiculturalità che caratterizza la storia della città.

◆ Ancora oggi, nella città moderna

s’incontrano numerose rovine di età romana… Tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d.C., Salonicco divenne una delle capitali della tetrarchia: qui si insediò il tetrarca Galerio, con tutto il suo seguito; di questo periodo, la città conserva i resti del palazzo imperiale e anche il celebre arco trionfale. E poi vi è la grande agorà romana, la quinta, per dimensione, di tutto l’impero; a riprova che Salonicco fu una città importante, con una popolazione numerosa. Lo stesso Costantino aveva meditato di spostare la sua capitale da Roma a Salonicco, prima di optare per una soluzione piú «orientale», quella di Bisanzio che poi divenne Costantinopoli. La sua prima opzione, però, era stata proprio Salonicco che, comunque, durante tutto il periodo bizantino, continuò a essere la seconda città dell’impero, per numero di abitanti e importanza. Di questo periodo di fioritura della città testimoniano, ancora oggi, molti monumenti insigni, le chiese e i monasteri, le strutture portuali volute dallo stesso Costantino...

◆ Un’importanza che mantenne

anche dopo la conquista ottomana del 1430… Sí, e proprio agli Ottomani si deve un’altra decisione che ha contribuito in maniera decisiva alla storia multiculturale di Salonicco (che i Turchi avevano rinominato Selanik): quando, alla fine del XV secolo, i re di Spagna, Ferdinando e Isabella, espulsero gli Ebrei dalla Penisola Iberica, le autorità ottomane di Salonicco diedero loro il permesso di stabilirsi nella città. Fu cosí che, grazie agli Ebrei fuggiti dalla Spagna, a Salonicco si stanziò e prosperò la piú grande comunità giudaica d’Europa. Per lungo tempo gli Ebrei costituirono la maggioranza della popolazione cittadina. Agli inizi del Novecento se ne contavano piú di 60 000 (nel 1943 la comunità ebraica di Salonicco fu quasi interamente deportata nei campi di sterminio nazisti, n.d.r.). Dunque: Ebrei, Turchi, Greci, Armeni… ecco le principali componenti della multiculturalità di Salonicco! Una tradizione che, inoltre, si riflette molto bene anche sul piano culinario: quando poi, dopo i fatti del 1922, giunsero qui i profughi greci espulsi dall’Asia Minore e dal Ponto Eusino (Mar Nero), anch’essi portarono con sé le consuetudini alimentari vicino-orientali. Sancendo, cosí, il definitivo primato della cucina di Salonicco su quella di tutto il resto della Grecia… A. M. S.

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SPECIALE • MACEDONIA

IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI SALONICCO Il Museo Archeologico di Salonicco espone i tesori dell’antica Macedonia, supportandoli con un coinvolgente apparato didattico multimediale, all’interno di un edificio che, progettato nel 1962 dal noto architetto greco Patroklos Karantinos, è stato oggetto di recenti ampliamenti. Non si tratta solamente di un museo, ma di un vero e proprio centro di cultura: oltre all’esposizione permanente e alle mostre temporanee, vi si svolgono conferenze, seminari, eventi e programmi didattici. L’esposizione si divide in sette sezioni tematiche. La vita degli abitanti di questa nobile regione è indagata sin dalla preistoria: le risorse alimentari, la fabbricazione di utensili, i costumi funerari, l’apparire di una differenziazione sociale in epoca micenea e la rete di scambi che si amplia con il progredire della storia. Un fenomeno che viene quindi approfondito nella sezione dedicata alla nascita delle città, indagata nel divenire delle dinamiche sociali che hanno portato alla specializzazione delle attività e alla nascita di un potere riconosciuto e centrale. Trasformazioni che si riflettono negli articolati ritrovamenti effettuati nelle necropoli dell’età del Ferro (XI-VIII secolo a.C.) della regione. La Macedonia dal VII secolo a.C. fino alla tarda antichità è il tema della terza sezione, una storia che va dall’avvento della sovranità macedone fino all’età romana, attraverso l’epopea di Alessandro Magno e degli Argeadi, le cui tombe sono mirabilmente descritte grazie a un innovativo apparato didattico multimediale. La proiezione di rappresentazioni teatrali di drammi greci e l’esecuzione di musiche antiche, effettuata grazie allo studio dei simboli musicali raffigurati su una stele del III secolo a.C. rinvenuta a Vrasna, nella provincia di Salonicco, rendono particolarmente suggestiva la visita di questa parte del museo. È dunque la volta della storia di ThessalonikiSalonicco: una metropoli antica svelata non solo attraverso i reperti rinvenuti nell’area urbana, dove si imponeva il palazzo voluto da Galerio, ma anche dalle statue che narrano della dominazione romana e dalle architetture sapientemente riproposte. L’ oro di Macedonia è uno dei veri protagonisti della storia di questa regione dell’antica Grecia e, di conseguenza, anche del museo. Al prezioso metallo, alle tecniche di estrazione e di lavorazione, e alle associazioni con le credenze e i rituali di vita e di morte è dedicata la quinta sezione dell’esposizione permanente, che presenta tra i molti reperti provenienti dalle necropoli della regione, un capolavoro della toreutica antica, il «Cratere di Derveni». Si tratta di un’urna cineraria alta ben 91 cm, appartenuta a Astion, che fu ufficiale tessalo dell’esercito di Filippo II, il cui nome è scritto in lettere d’argento applicate 100 a r c h e o


sull’orlo del cratere. Il vaso è in bronzo dorato, arricchito da raffinate decorazioni a sbalzo e statuine applicate raffiguranti Dioniso, Arianna, menadi, satiri danzanti e altri personaggi che compongono un insieme dal significato escatologico complesso, nel quale è inoltre possibile individuare precisi rimandi alla tragedia di Euripide, Baccanti, scritta a Pella, città della Macedonia, presso la corte del re Archelao. Una moneta d’oro di Filippo II, rinvenuta all’interno del cratere, ha consentito di datare lo splendido vaso a un periodo compreso tra gli anni finali del regno di Filippo II e l’inizio del regno di Alessandro. Ne fu artefice forse Antipatro, citato da Plinio come uno tra i toreuti celebri dell’antichità (Nat. Hist., XXXIII, 156). Le ultime due sezioni sono di recente allestimento: un’area a cielo aperto, «Memorie di pietra», con monumenti funerari, sarcofagi e altari provenienti dalle necropoli; e «Macedonia». Dai frammenti ai pixel, un allestimento all’avanguardia dove, grazie alle tecnologie avanzate, l’archeologia e la storia della Macedonia sono riproposte come esperienze interattive e dove il gioco si trasforma in conoscenza attraverso rappresentazioni digitali degli antichi reperti e appassionanti viaggi nel tempo e nello spazio. In alto: la corona a foglie di mirto in oro. Il reperto, oggi esposto al Museo di Salonicco, è rientrato dagli Stati Uniti grazie alla scoperta di un traffico illecito di opere d’arte. A sinistra: il «Cratere di Derveni», in bronzo dorato. Alto ben 91 cm, è oggi simbolo stesso del museo.

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ltro breve spostamento e si raggiunge Salonicco, la città che controlla il Golfo Termaico. Anche questo centro ha un passato macedone: fu infatti fondata alla fine del IV secolo a.C. da Cassandro, che la chiamò Thessalonike, in onore della sua sposa e forse sorella di Alessandro Magno. Dopo la conquista romana, Salonicco diventò, nel 146 a.C., capitale della provincia di Macedonia e, poco a poco, estese il controllo anche sulla Mesia, sulla Tracia e sull’Illiria. Galerio volle qui realizzare, nel III secolo d.C., un grande arco per celebrare la vittoria sui Persiani e vi fece erigere il suo mausoleo. Posta al centro di uno straordinario golfo che separa momentaneamente la Penisola Calcidica dalla terraferma, Salonicco è una città dalla doppia anima, con lo sguardo proteso verso Bisanzio e l’Oriente, ma con le spalle ben appoggiate al roccioso massiccio dell’Olimpo. Una storica dicotomia di cui soffrí anche il piú grande dei Macedoni. Costantemente in bilico tra il rispetto della tradizione e l’ansia della scoperta.

DOVE E QUANDO

Per conoscere la terra di Alessandro Magno e Aristotele attraverso percorsi culturali personalizzati: Itinerari Doc Tel. 0422 827029, www.itineraridoc.it

Museo Archeologico di Salonicco Salonicco, Manolis Andronikos, 6 Orario tutti i giorni, 9,00-16,00; chiuso 25 e 26 dicembre, 1° gennaio, 25 marzo, 1° maggio e domenica di Pasqua Info www.amth.gr

«Archeo» ringrazia il governo della Macedonia Centrale, il Comune di Salonicco, il Comune di Serres, il Soprintendente di Salonicco Stamatios T. Chondrogiannis ed Eleni Sarikosta per la preziosa collaborazione. a r c h e o 101


QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…RICEVETTE IN DONO LA CIRENAICA RICCO E FERTILE, IL TERRITORIO DI CIRENE EBBE, NEL TEMPO, NUMEROSI «PADRONI». FINO A CHE NON DIVENNE PARTE DELL’IMPERO ROMANO, SOTTO IL QUALE CONTINUÒ A PROSPERARE E, NEL III SECOLO D.C., ASSUNSE IL NOME DI LIBYA, DA CUI DERIVA L’ODIERNA DENOMINAZIONE DEL PAESE CHE LA COMPRENDE

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uando, nel 96 a.C., morí Tolomeo Apione, figlio illegittimo di uno degli ultimi re dell’Egitto ellenistico, il suo «feudo» personale passò in eredità al Popolo Romano. Si trattava della Cirenaica, affacciatasi alla ribalta della storia nella seconda metà del VII secolo a.C. con la colonizzazione greca. La capitale Cirene, infatti, era stata fondata, nel 631 a.C. (dopo un paio di tentativi e un cambiamento di luogo, presso una fonte chiamata Kyra), da coloni provenienti dall’isola di Thera, l’odierna Santorino, in crisi per una lunga e grave siccità.

DAI «CAPITANI» DI VENTURA AI ROMANI Ispiratore dell’iniziativa era stato l’oracolo di Apollo; a guida dei coloni si pose un certo Batto che, diventato re, fu il capostipite di una dinastia ereditaria che egemonizzò l’intero territorio tra la Grande Sirti e il golfo di Sollum, e, dopo avere riconosciuto l’alta sovranità del re di Persia, finí nel 456 a.C. In quell’anno, ucciso l’ultimo dei Battiadi, Arcesilao IV, venne proclamata la repubblica. Nel 331 a.C., Cirene e la Cirenaica si dettero spontaneamente ad

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Alessandro Magno e, alla morte di questi, passarono, con l’Egitto, sotto il governo di Tolomeo I, generale e amico dello stesso Alessandro. Godendo, di fatto, di una sostanziale autonomia, la regione fu variamente e piú volte contesa da avventurieri e «capitani» di ventura, finché la figlia di uno di questi, Berenice, sposando il futuro Tolomeo III Evergete, la portò in dote a lui e, quindi, nuovamente, all’Egitto. Ricca e fertile (al punto da rifornire di grano le città della Grecia colpite, nel 330 a.C., dalla carestia), in posizione strategica sulle rotte marittime lungo l’Africa settentrionale, pacificato il rapporto con Cartagine (a vantaggio di questa), la Cirenaica fu rinomata per l’allevamento dei cavalli e per la raccolta del silfio, una pianta selvatica (estintasi già nell’antichità) assai ricercata – e largamente esportata – per i numerosi usi che se ne facevano, dalla cucina alla farmacia. Pindaro cantò piú volte i suoi atleti, distintisi nelle gare panelleniche. Alla fine del IV secolo a.C. dette i natali a Callimaco, il rinnovatore dell’arte poetica greca. Nel 164 a.C., le discordie tra il re

Tolomeo Fiscone e il fratello provocarono l’intervento dei Romani. Alla fine, fu assegnata, come una sorta di possedimento personale, a quel Tolomeo Apione che morendo senza eredi, la lasciò a Roma (come era già avvenuto, nel 133 a.C., col regno di Pergamo, in Asia Minore, alla morte del re Attalo III). Ma l’eredità non fu senza contrasti.

UN DESTINO TURBOLENTO Per una ventina d’anni i Romani, incamerati i beni regi, si limitarono a tenere sotto controllo la regione – da essi denominata per la prima volta nella storia col nome di Cirenaica –, lasciando ampia autonomia a Cirene e alle altre


Cirene (Libia). Uno scorcio delle rovine dell’antica città romana, inclusa nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dal 1982.

città, fondate dai Greci, che, tutte insieme formavano la federazione delle «cinque città» (o Pentapoli): Euesperide, diventata Berenice (antenata dell’attuale Bengasi), Teucheira (Arsinoe), Tolemaide e Apollonia. Poi, nel 75 a.C., vista la grande instabilità della regione e il persistere di tensioni e rivalità, il Senato decise di farne una provincia dell’impero, alla quale, nel 67 a.C., venne aggregata l’isola di Creta. Coinvolta nelle guerre civili della fine della repubblica romana, nel 34 a.C., quando Marco Antonio assunse il controllo dell’intero Oriente, la Cirenaica fu «donata» dallo stesso Antonio alla figlia, Cleopatra Selene, avuta da Cleopatra. Ma durò poco.

Dopo la vittoria di Azio, nel 31 a.C, Ottaviano/Augusto la «recuperò», affidandone il governo al Senato, che vi inviava un proconsole di rango pretorio a cui venivano assegnate due residenze: una a Cirene, l’altra nella città cretese di Gortina.

NASCE LA LIBYA Tornata alla prosperità, in buoni rapporti con le tribú berbere dell’immediato entroterra che giunsero, almeno in parte, a integrarsi dando vita a gruppi etnici misti, la Cirenaica fu devastata dalla grande rivolta giudaica scoppiata in Egitto, sotto Traiano, nel 115, e domata, nel 117, da Adriano, il quale dovette ripopolarla con l’invio di colonie militari.

Al tempo di Diocleziano, con la riforma dell’impero, nel 305, fu separata da Creta e assegnata alla Diocesi d’Oriente, ma divisa in due, con la medesima denominazione Libya (per la prima volta impiegata per designare una realtà geografica e amministrativa ben definita e circoscritta): Libya Superior, corrispondente alla Cirenaica vera e propria, e Libya Inferior, corrispondente alla Marmarica. Nella stessa occasione, inoltre, comparve ufficialmente il nome di un’altra nuova provincia dell’impero, la Tripolitana, formata col territorio delle «tre città» (tris poleis), Oea, l’odierna Tripoli, Sabratha e Leptis Magna, staccato da quella che fino a quel momento era stata (con l’attuale Tunisia) la

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provincia dell’Africa proconsularis. Si può concludere aggiungendo come la sistemazione dioclezianea venne a ribadire la netta distinzione tra la Cirenaica, da sempre gravitante verso l’Egitto, e la Tripolitania, strettamente unita, fin dai tempi dell’impero cartaginese, all’«Africa» vera e propria.

VOCAZIONI GEOPOLITICHE Una distinzione peraltro naturale, determinata da quella sorta di diaframma rappresentato dalla regione «intermedia» della Sirte (la Syrtica dei Romani), inospitale, desertica e pressoché spopolata, con il mare antistante difficile da navigare. Una distinzione

A sinistra: Cirene (Libia). Veduta aerea del Santuario di Apollo con, in primo piano, il Tempio di Apollo. In basso: rilievo di età romana raffigurante Cirene incoronata dalla Libia. continuata poi, salvo brevi intervalli, anche dopo l’invasione araba e durante l’impero ottomano, fino all’occupazione italiana, quando, per designare l’unità tra la Tripolitania e la Cirenaica (e il Fezzan), fu riesumato l’antico nome greco-romano dimenticato da secoli e solo graficamente italianizzato in Libia (con la seconda i al posto della y, tornata nella versione inglese attuale.

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A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

QUANDO IL VINO NON FA PERDERE LA BUSSOLA… UN PASSO DI PLINIO IL VECCHIO È LA TESTIMONIANZA PIÚ SIGNIFICATIVA DELL’ESISTENZA DI BUSSOLE CAPACI DI FUNZIONARE SEMPLICEMENTE GRAZIE ALLA LUCE SOLARE: CONGEGNI ELEMENTARI EPPURE AFFIDABILI, TANTO DA AVER TROVATO APPLICAZIONE, IN TEMPI RECENTISSIMI, IN OCCASIONE DELLE ESPLORAZIONI CONDOTTE SUL PIANETA MARTE!

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el giugno del 1931, il maggiore dell’esercito britannico Ralph Bagnold intraprese con alcuni amici un raid con tre Ford Model T, light car patrol nel deserto della Libia, con l’intento di ritrovare la leggendaria oasi di Zerzura. Si spinse oltre 200 miglia a est del Nilo e, per orientarsi in

quella piatta distesa di sabbia, priva di punti di riferimento – poiché non poteva utilizzare la bussola magnetica, il cui ago era deviato dal ferro dei veicoli – si avvalse di una sorta di bussola da lui riscoperta, in grado di funzionare con l’ombra del sole. Che cosa fosse e come funzionasse una bussola pelasgica o solare è presto detto: in prima approssimazione è una meridiana a gnomone verticale e quadrante orizzontale, che, mentre nell’impiego statico indica col variare della direzione dell’ombra il trascorrere delle ore, in quello mobile, invece, indica, con adeguate compensazioni, il Nord.

UN’INVENZIONE ANTICA In dettaglio, nell’emisfero settentrionale, esattamente alle 12,00, l’ombra – che è la piú corta della giornata –, indica il Nord geografico, per cui, evidenziandone la progressiva contrazione mediante dei cerchi concentrici allo

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gnomone, se ne può stabilire agevolmente il valore minimo e quindi la direzione nord. Noto sin dall’antichità, lo strumento constava di una sorta di scodella con incisi i cerchi concentrici, al centro dei quali stava infissa una cannuccia del tipo di quella usata per scrivere, detta calamus fungente da gnomone. Versandovi dentro del vino rosso e portandolo a lambire uno dei cerchi se ne accertava l’orizzontalità, indispensabile per l’attendibilità della indicazione. Un’implicita testimonianza del suo utilizzo ci viene cosí tramandata da Plinio il Vecchio: «Da Pelusio (città dell’antico Egitto, 30 km circa a sud-est dell’attuale Port Said, n.d.A.) nelle sabbie del deserto la direzione non si trova se non attraverso i calami saldamente conficcati, cancellando rapidamente il vento ogni traccia» (N.H. VI, 167). I calami non erano gli antesignani delineatori a bande gialle e nere, impiegati per suggerire lo snodarsi delle strade quando la neve le nasconde, ma proprio le cannucce delle bussole solari, una della quali era infissa nel foro centrale dell’esemplare trovato nel 1954, in una grotta di Qumran, in Palestina. Una sorta di ciotola di 14,5 cm di diametro, scandita da


Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo della bussola solare utilizzata dagli esploratori britannici, in sostituzione di quella magnetica, inutilizzabile a causa del campo magnetico prodotto dal ferro dei veicoli. Nella pagina accanto, in basso: un ritratto del maggiore Ralph Bagnold. A sinistra: gli esploratori sulle tre Ford Model T light car patrol utilizzate per la spedizione. Al centro, in evidenza, la bussola solare montata sul cruscotto del veicolo. vari cerchi concentrici, incisi con gradazioni approssimate. Risultava facile, anche con uno strumento tanto rozzo, ricavare il mezzogiorno e il Nord, e mantenerne l’indicazione, per il resto della giornata, portando progressivamente a coincidere le successive tacche con l’ombra. L’avvento della bussola magnetica soppiantò quella solare, tanto piú che navi e vascelli fin quasi al secolo scorso erano di legno. Scoppiato l’ultimo conflitto, Bagnold fu richiamato col grado di colonnello e, in virtú della sua esperienza, gli fu consentito di formare piccole unità per incursioni a lungo raggio nel deserto, dotandole di camionette con armi automatiche, potenti radio e

bussole solari, piazzate sul cruscotto. Finita la guerra, l’alto ufficiale andò in congedò e con lui anche la sua bussola, resa obsoleta da quelle elettroniche. Nel 1977 la NASA, però, nell’ambito dei preliminari per l’esplorazione indiretta di Marte, invitò il professor Bagnold, ormai insegnante presso l’Imperial College di Londra e reputato un’autorità in materia di spostamenti di veicoli nei deserti aridi e sabbiosi, per suggerire efficaci dispositivi di orientamento.

SULLE SABBIE DI MARTE Per una stranissima coincidenza, il giorno di Marte ha quasi la stessa durata di quello terrestre come pure l’inclinazione del suo asse: di conseguenza, a parità di latitudine

e di stagione, una nostra meridiana risulterebbe discretamente precisa, e, piú ancora, risulterebbe ideale come bussola, mancando sul pianeta rosso un apprezzabile campo magnetico, ed essendo di gran lunga piú robusta di un giroscopio, nonché priva di esigenze energetiche. Cosí, dopo 25 secoli di impiego nelle sabbie del dei deserti, la bussola solare debuttò nelle sabbie di Marte! Insediata a favore delle telecamere di bordo a poppa dei rover ha fornito informazioni indispensabili, senza consumare neppure 1 watt nei tanti lunghi anni di funzionamento, notificando la direzione di marcia e l’ora solare: mai come in questo caso, nulla di nuovo sotto il Sole!

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

SALVATE IL SOLDATO BRANDT L’IDENTIFICAZIONE DEI RESTI DI UN GIOVANE OLANDESE CHE COMBATTÉ A WATERLOO SEMBRAVA COSTITUIRE LA FELICE CONCLUSIONE DELLE RICERCHE CHE LO AVEVANO RIGUARDATO. INVECE, LE POLEMICHE SCATENATE DALLA SCELTA DI ESPORRE IL SUO SCHELETRO IN UNA MOSTRA CHE RICORDA LA CELEBRE BATTAGLIA EVIDENZIANO LA DELICATEZZA DEI TEMI CHE L’ARCHEOLOGIA PUÒ TROVARSI AD AFFRONTARE

G

li archeologi medievisti tendono ad accettare la proposta del grande storico francese Jaques Le Goff (1924-2014), secondo il quale il Medioevo abbraccia in realtà un periodo storico molto piú lungo di quanto siamo abituati a pensare, e in alcuni casi si spinge fino oltre l’età moderna. Infatti, il piú delle volte sono gli stessi specialisti dell’età di Mezzo a occuparsi dell’«archeologia post-medievale», un territorio scientifico di grande interesse e molto praticato nel Nord Europa, ma che ancora fatica

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In basso: lo scheletro del soldato Friedrich C. Brandt, che combatté nella battaglia di Waterloo. Rinvenuto nel 2012, è stato esposto in una mostra nella città belga, suscitando reazioni contrastanti.

a prendere piede in Italia, sia nel mondo accademico che presso il grande pubblico.

CONTORNI DI UN «GIALLO» Questa volta voglio fare un passo proprio in quella direzione, per segnalare un piccolo «giallo» relativo a un ritrovamento abbastanza recente, che ha ora suscitato un’eco notevole per via di un problema etico non trascurabile. La storia comincia nel 2012, quando, compiendo indagini preliminari alla costruzione di un


A sinistra: Waterloo. Un momento di una rievocazione in costume. Sullo sfondo, la «butte du lion», tumulo commemorativo fatto innalzare nel 1820 da Guglielmo I dei Paesi Bassi, sopra il quale è collocata la statua di un leone.

parcheggio non lontano dal luogo della battaglia di Waterloo (in Belgio), l’archeologo Dominique Bosquet ha portato alla luce lo scheletro di un uomo. Il ritrovamento è notevole: si tratta infatti dell’unico scheletro intatto di un soldato coinvolto nella battaglia, uno dei piú sanguinosi scontri dell’epoca, alla fine del quale si contarono circa 50 000 caduti. L’uomo era stato ucciso dalla pallottola di un moschetto, puntualmente ritrovata tra le sue costole. Inizialmente, si dubitava di riuscire a dare un nome al soldato e il team degli scavatori si era quasi dato per vinto, ma, in seguito, alcuni indizi hanno permesso l’identificazione dei resti. L’analisi dei pochi reperti associati allo scheletro ha infatti individuato da poco tempo, su un oggetto in legno appartenuto al milite, le iniziali «F. C. B.». E cosí, dopo tre anni di minuziose indagini, conosciamo finalmente il suo nome: Friedrich C. Brandt. A questo punto è potuta iniziare la ricerca negli archivi militari, e si è scoperto che Brandt era un tedesco, addestrato in Inghilterra e

poi assegnato di stanza in Olanda. E da qui aveva preso parte alla famosa battaglia, nella quale Inglesi e Olandesi combatterono fianco a fianco contro Napoleone.

SCAPOLO E SOFFERENTE Dall’analisi dei resti ossei risulta che il soldato Brandt, al momento della morte, aveva tra i venti e i trent’anni e che soffriva di alcune patologie della spina dorsale (nonché di una pronunciata deformità della schiena), che in base agli standard di oggi avrebbero reso impossibile il suo arruolamento, o quanto meno la possibilità per lui di prendere parte a una battaglia. Inoltre sappiamo che Brandt doveva essere scapolo, visto che nessuna vedova ha fatto richiesta di percepire la sua pensione. Il «giallo» è stato dunque risolto, ma la vicenda non finisce qui. Quest’anno, infatti, trattandosi del bicentenario, la celebrazione della battaglia di Waterloo – che si combatté il 18 giugno 1815 – è stata accompagnata da numerosi eventi e, tra gli altri, da una mostra che commemora lo scontro. E, in

una delle vetrine, si è scelto di esporre lo scheletro del soldato Brandt. Il dibattito non ha tardato ad accendersi e in rete sono comparse una pagina Facebook battezzata «Pace per Friedrich Brandt», nonché una petizione attraverso il sito Change.org, che chiede di dare degna sepoltura allo scheletro (va detto che, al momento in cui abbiamo mandato in stampa questo articolo, le firme raccolte erano poco piú di 600, n.d.r.). Molti hanno chiesto rispetto per le spoglie del morto e quindi che i resti siano perlomeno tolti dalla vetrina; alcuni ne hanno addirittura proposto il rientro in patria (ma dove? In Inghilterra, per il cui esercito si era arruolato, o in Germania dalla quale proveniva? Chi può prendere una decisione del genere?); secondo altri, Brandt avrebbe perfino diritto a un funerale militare, per rendergli finalmente onore. Reazioni che provano la potenza dell’archeologia, soprattutto quando si occupa di eventi cronologicamente cosí vicini a noi. Questa scoperta fortunosa – nonché il suo uso pubblico successivo – ha toccato alcuni nervi scoperti, legati al rispetto dei defunti e all’onore dei militari. Occorre fare molta attenzione, quando si pratica l’archeologia post-medievale di un evento storicamente cosí importante. Resta infatti una sola domanda: la scoperta e l’esposizione delle spoglie del soldato avrebbero avuto la stessa risonanza, se la sua morte fosse avvenuta in uno scontro secondario di quella stessa guerra, o di un’altra?

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

QUEL CANTO AMMALIATORE… LA FIGURA DI ORFEO, IL MITICO CANTORE PADRE DELL’ORFISMO, È CELEBRATA NELLA MONETAZIONE ROMANA CON INTERESSANTI SOLUZIONI ARTISTICHE

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ella Nascita della tragedia dallo spirito della musica, del 1872, il filosofo Friedrich Nietzsche tratta i concetti antitetici di apollineo e dionisiaco, i due poli entro i quali si muove lo spirito dell’uomo greco. A seguito del

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perduto equilibrio tra la vitale frenesia legata a Dioniso e l’olimpica perfezione incarnata da Apollo, l’autore propone come riscatto del mondo occidentale la musica tedesca, e in particolare quella wagneriana.

Già nel titolo dello scritto, si ravvisa la figura di Orfeo e la forza magica della musica e della potenza poetica, alle quali si unisce la tensione tra amore, morte e resurrezione dell’anima. Tutto ciò contraddistingue il mitico cantore e


Nella pagina accanto: mosaico pavimentale raffigurante Orfeo con la lira. III sec. d.C. Palermo, Museo Archeologico «Antonio Salinas». A sinistra: emissione in bronzo da Philippopolis (Tracia). 209-211 d.C. Al dritto, busto di Geta; al rovescio, Orfeo, seduto su una roccia, suona la lira.

il suo drammatico rapporto con il mondo lirico di Apollo e con quello legato alla natura selvaggia, ai misteri religiosi e agli inferi che connota Dioniso.

LA LIRA INCANTATRICE La vicenda eccezionale di Orfeo inizia dalla nascita, che lo vuole figlio del re trace Eagro o di Apollo e di una Musa (in genere Calliope). Le sue origini sono dunque regali e/o divine, e da subito il giovane si distingue per le eccezionali capacità nel canto e nel suono della lira (simbolo apollineo), in grado di affascinare tutti gli esseri viventi, ma anche quelli legati al mondo infero. L’episodio piú celebre che vede Orfeo protagonista è quello legato alla morte dell’amata moglie, la ninfa Euridice, che ottenne di riscattare dagli Inferi, ma involontariamente perduta per essersi voltato indietro a guardarla, prima di averla portata fuori dall’aldilà. Segno, questo, dell’ineluttabilità della morte e dell’impossibilità di un ritorno, per chi è spento, tra i vivi; ritorno che costituirebbe un pericoloso sovvertimento delle leggi del Fato. Lasciata definitivamente Euridice, Orfeo si allontanò dall’amore per le donne e in seguito a varie circostanze (e con differenti tradizioni letterarie) fu ucciso dalle Menadi di Tracia, che ne fecero a pezzi il corpo; la testa, gettata in mare, giunse a Lesbo, dove mantenne capacità di vaticinio e canto, e gli isolani la venerarono quale oggetto di culto, facendo dell’isola la patria della poesia.Il romantico e triste caso di Orfeo, al di là della sua simbologia, ha conosciuto enorme fortuna dall’età antica ai giorni nostri, dalla speculazione filosofico-religiosa

alla letteratura alla musica, all’arte e alla psicoanalisi. La scena piú celebre e riprodotta è certo quella di Orfeo che canta e suona la lira, ammaliando gli animali che lo circondano pacifici.

RAFFIGURAZIONI DI UN MITO Innumerevoli sono infatti le raffigurazioni di questo momento, che compare in particolare su mosaici, affreschi, marmi e vasellame. Nonché sulle monete, segnatamente quelle romane provinciali, destinate alla

circolazione nei luoghi soggetti a Roma e sotto il suo controllo, la cui tipologia è volutamente incentrata sulla celebrazione delle glorie patrie dei territori annessi, rese con uno stile e un gusto particolare che a volte raggiunge esiti barocchi. Orfeo si presenta quale «gloria nazionale» sulle monete battute in Tracia (Philippopolis, l’odierna Plovdiv, e Adrianopolis, l’odierna Edirne, entrambe in Bulgaria), ma anche su quelle emesse in Egitto (Alexandria) e in Cilicia (Seleucia ad Calycadnum) a partire dall’età antonina. Qui, nel ridotto spazio del conio, gli incisori tratteggiarono le scene salienti e di maggior successo iconografico legate a Orfeo. A Philippopolis (Geta) e ad Alexandria (Antonino Pio) alcuni tipi su nominali in bronzo raffigurano appunto Orfeo in abito trace, mentre suona la lira seduto su una roccia, circondato da animali domestici e ferini, oppure da solo. Queste immagini rispecchiano fedelmente i mosaici coevi e poi tardo-imperiali e potrebbero anche derivare da gruppi statuari locali, come lascerebbero supporre, in questo conio, le «basette» sulle quali poggiano gli animali. Il confronto tra l’iconografia monetale e le raffigurazioni di diverso genere permette quindi di cogliere quale fosse in verità, per l’uomo antico, l’immagine immediatamente collegata al mitico cantore con la lira.

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I LIBRI DI ARCHEO

Gianpietro Grecchi (a cura di)

IL «NARRATIVE» DI GIOVANNI BATTISTA BELZONI Oltre Edizioni, Sestri Levante, 242 pp., ill. col. 24,50 Euro ISBN 978-88-97264-41-5 www.edizioni.oltre.it

Giovanni Battista Belzoni (1778-1823) era un esploratore italiano appassionato di antichità egizie e, nella prima metà dell’Ottocento, intraprese ben sei viaggi nella terra dei faraoni alla scoperta delle sue ricchezze monumentali. Un’avventura cominciata nel 1815 da Alessandria e conclusa nel 1819, percorrendo il Nilo fino nel territorio della Nubia: in Egitto, Belzoni visitò molte regioni in qualità di ricercatore di antichi siti e rovine abbandonate. Considerato una figura marginale dell’egittologia, Belzoni venne ricordato per le sue imprese solo molti anni piú tardi, e, in particolare, per le scoperte della tomba di Seti I e del tempio di Abu Simbel. In questo libro, Giampietro Grecchi

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presenta il Narrative, il diario di viaggio che l’esploratore padovano scrisse durante le sue spedizioni, in una nuova versione tradotta e arricchita dai disegni dell’opera originale pubblicata nel 1820. Nella parte finale sono poi inseriti altri due saggi: il primo concerne due lettere riguardanti l’ultimo viaggio intrapreso dall’esploratore nel 1823 verso il Niger; il secondo, invece, racconta le impressioni di sua moglie (che lo seguiva negli spostamenti) sulle donne egiziane, nubiane e turche.

piú importanti della scienza medica, segnata da alcune tappe fondamentali, lette e interpretate in maniera «contestuale»; per questo motivo, la

Valentina Gazzaniga

LA MEDICINA ANTICA Carocci editore, Roma, 176 pp. 13,00 Euro ISBN 978-88-430-7316-0 www.carocci.it

Valentina Cazzaniga ripercorre la storia della medicina dall’età greca all’epoca romana raccontando l’evoluzione di quest’antichissima pratica. Il libro si presenta come una guida sintetica che racconta lo sviluppo di questa disciplina attraverso l’analisi delle fonti scritte. I testi antichi, infatti, possono fornire molte informazioni sui protocolli terapeutici dell’epoca, come pure sui prontuari relativi alla preparazione dei rimedi. La finalità dell’autrice, è quella di mettere in evidenza i cambiamenti e le trasformazioni

trattazione si avvale anche dell’antropologia e dell’archeologia, materie indispensabili per ampliare il panorama conoscitivo sui molteplici aspetti tra cui quello della professione medica in sé, divenuta tale proprio a partire dalla civiltà greca.

tempo diversi significati allegorici e, assimilato dall’iconografia di età romana, divenne parte del repertorio artistico delle grandi ville romane, esposto in giardini e peristili. In questo volume viene presentata la statua di un Marsia di età adrianea, rinvenuta nel 2009 durante gli scavi nella residenza suburbana delle Vignacce a Roma. L’autrice, Nadia Agnoli, ricompone la storia di questa scultura rappresentata nell’atto del supplizio ampliandone le ricerche note fino a oggi. Infatti, l’analisi della scultura, effettuata sia su base stilistica che attraverso indagini fisico-chimiche, ha permesso di individuare

Nadia Agnoli

MARSIA La superbia punita De Luca Editori d’Arte, Roma, 96 pp., ill. col. 24,00 Euro ISBN 978-88-6557-204-7 www.delucaeditori.com

Marsia, il satiro superbo, sconfitto da Apollo durante una gara di flauto, venne punito dal dio che, vendicandosi, lo appese a un albero e lo scorticò vivo. L’episodio, narrato dagli autori antichi, assunse nel

una produzione artistica ben precisa. La realizzazione di questa statua, cosí come di altre opere simili a questa, sarebbe stata effettuata da un gruppo di scultori originari della città di Afrodisia in Asia minore piuttosto noti a Roma proprio all’epoca dell’imperatore Adriano. (a cura di Luna S. Michelangeli)



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