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L’A R C RI QU OM TR ED A OV O AT TT O O
ARCHEO 366 AGOSTO
ARCHEO
TESORO DI SOVANA
NUTRIRE
ACQUEDOTTO TRAIANO
L’IMPERO
LA GLOBALIZZAZIONE DUEMILA ANNI PRIMA DELL’EXPO
GIOIELLI NEOLITICI
IL TESORO DI SOVANA OSTIA ANTICA
FRONTE DEL PORTO PREISTORIA
QUANDO L’UOMO INVENTÒ LA RICCHEZZA € 5,90
SPECIALE NUTRIRE L’IMPERO
Mens. Anno XXXI n. 366 agosto 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
PORTO DI OSTIA
MISTERI
www.archeo.it
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IV E RS A R
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EDITORIALE
A GONFIE VELE
Uno dei piú acclamati cantori moderni del Mediterraneo, Fernand Braudel (1902-1985), ci invita a compiere il seguente esercizio di introspezione. Il mare – scrive il grande storico – «bisogna cercare di immaginarlo, di vederlo con gli occhi di un uomo del passato: come un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte, come un’immensità ossessiva, onnipresente, meravigliosa, enigmatica (...) Fino a ieri il mare è rimasto sconfinato, secondo l’antico metro della vela e delle imbarcazioni sempre alla mercé del capriccio dei venti...». L’immagine di questa pagina riproduce la ricostruzione di una di queste imbarcazioni, una nave mercantile romana, forse diretta al porto di Pozzuoli o di Ostia, proveniente dalla lontana Alessandria (il tempo di percorrenza, un minimo di venti giorni, poteva variare sensibilmente a seconda del vento e delle condizioni del mare) o dalla piú vicina Africa (corrispondente alle odierne Algeria, Tunisia e Libia). Quest’ultima rotta fu preferita, a partire almeno da Nerone, perché piú breve e, dunque, piú economica. Il disegno fa parte della documentazione multimediale che scandisce il percorso di una mostra (al Museo dell’Ara Pacis di Roma), che ha ispirato lo speciale di questo numero. Il cui tema principale, oltre che l’impero, è proprio il mare. È impossibile, infatti, immaginare la nascita e l’espansione di Roma senza la sua proverbiale rete stradale, ma proviamo a pensare cosa sarebbe stata senza il Mediterraneo! Al Mare Nostrum si deve il fatto che, verso la fine dell’età repubblicana, economia e società dell’Urbe procedessero «a gonfie vele» verso la massima realizzazione. È lo stesso mare, sono le stesse rotte, che oggi profilano nuovi, imprevedibili, ordini economici e sociali. Quel mare che – come ricorda sempre Braudel – «non può spiegare tutto di un passato complesso, costruito dagli uomini con una dose piú o meno elevata di logica (…) ma rimette con pazienza al loro posto le esperienze del passato e le colloca sotto un cielo, in un paesaggio che possiamo vedere con i nostri occhi, uguali a quelli di un tempo» (da Memorie del Mediterraneo, Milano 1998). Andreas M. Steiner Ricostruzione di una nave mercantile romana (a cura de «L’Erma» di Bretschneider).
SOMMARIO EDITORIALE
A gonfie vele
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di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
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DALLA STAMPA INTERNAZIONALE
STORIA
Finalmente svelata l’identità dei defunti illustri sepolti nelle tombe reali di Verghina 22
SCOPERTE Il dio Priapo, icona della potenza sessuale, soffriva di una patologia che, se necessario, lo avrebbe reso assai poco virile... 6
DA ATENE
ALL’OMBRA DEL VESUVIO Avviata una nuova e promettente stagione di scavi nell’area sacra del Fondo Iozzino, situata oltre le mura della città di Pompei 10
Chi ha nascosto quel tesoro?
Compleanno con misteri
L’acquedotto perfetto
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di Giorgio Filippi e Cristiano Ranieri
24
di Valentina Di Napoli
SCOPERTE
32
di Carlo Casi
32
PAROLA D’ARCHEOLOGO Il Parco Archeologico di Egnazia, in Puglia, ha predisposto nuovi itinerari, arricchendo l’esperienza della visita ai resti dell’antica città con l’utilizzo delle tecnologie multimediali 12
42 SCAVI
Ecco il porto che non c’era
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di Jean-Philippe Goiran, Ferréol Salomon, Jonatan Christiansen, Giulio Palumbi In copertina statua in bronzo di efebo, dalla Casa di Marcus Fabius Rufus, a Pompei. I sec. d.C. (attualmente esposta nella mostra «Nutrire l’impero», vedi alle pp. 72-97)
Anno XXXI, n. 366 - agosto 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli, Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale.
Hanno collaborato a questo numero: Pascal Arnaud è professore di storia del mondo romano presso l’Université de Lyon 2. Paolo Braconi è ricercatore confermato di storia romana presso l’Università di Perugia. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Jonatan Christiansen è dottorando di ricerca in archeologia presso l’Université de Lyon 2. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Elena Felluca è archeologa. Giorgio Filippi è curatore della Raccolta Epigrafica dei Musei Vaticani. Francesco M. Galassi è coworker in storia della medicina presso l’Imperial College di Londra. Stefano Galassi è medico di medicina generale, specialista in igiene e medicina preventiva. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Jean-Philippe Goiran è ricercatore presso il CNRS (geoarcheologia dei porti anticchi), UMR 5133, Maison de l’Orient et de la Méditerranée, Lione. Paolo Leonini è storico dell’arte. Elio Lo Cascio è professore ordinario di storia romana presso «Sapienza» Università di Roma. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Giulio Palumbi è ricercatore presso il CNRS (archeologia), UMR 5133, Maison de l’Orient et de la Méditerranée, Lione. Cristiano Ranieri è archeologo. Orietta Rossini è Curatore responsabile del Museo dell’Ara Pacis. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ferréol Salomon è ricercatore post-doc (geoarcheologia fluviale) presso il Department of Maritime Archaeology della University of Southampton. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Catherine Virlouvet è direttrice dell’École française de Rome. Illustrazioni e immagini: Stefano Mammini: copertina e pp. 72-79, 81, 83, 84/85, 87-89, 92/93, 95, 97 – Cortesia «L’Erma» di Bretschneider: p. 3 – Doc. red.: pp. 6, 19, 23, 24 (alto), 38 (basso), 39, 41, 47 (sinistra), 57, 98 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 7, 16-17, 84 (alto), 86, 90-91, 93, 94, 96 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Piemonte: p. 8 – Da: Moenibus et portu celeberrima. Aquileia: storia di una città, IPZStato, Roma 2009: p. 9 (alto) – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Friuli-Venezia Giulia: p. 9 (basso) – Cortesia Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Puglia: p. 12-13, 15 (basso) – Cortesia ITABC-Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR: pp. 14, 15 (alto) – Ministero Ellenico alla Cultura, Museo dell’Acropoli: pp.
GLI IMPERDIBILI
Guerriero di Castiglione di Ragusa
Il cavaliere in rosso
QUANDO L’ANTICA ROMA... 60
…bruciò per nove giorni
102
di Romolo A. Staccioli
di Daniele F. Maras
60
102 L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE
MOSTRE
L’invenzione della ricchezza
66
di Stefano Mammini
106
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO di Daniele Manacorda
72
di Andrea De Pascale
Rubriche Qualcosa è cambiato
Sotto il castello del capitano
Alla ricerca dell’amore perduto 108 98
di Francesca Ceci
LIBRI
110
SPECIALE
Nutrire l’impero Come funzionava la prima globalizzazione alimentare? 72 testi di Catherine Virlouvet, Paolo Braconi, Pascal Arnaud, Elio Lo Cascio, con un’intervista a Orietta Rossini
108
24 (basso), 25 – DeA Picture Library: C. Sappa: pp. 28/29 – Cortesia degli autori: pp. 32-33, 34 (centro e basso), 35-37, 38 (alto), 42-46, 47 (destra), 48-49, 54 (alto), 109 – Foto Scala, Firenze: su concessione MiBACT: p. 50 – Cortesia Simon Keay: p. 51 – Jonatan Christiansen: pp. 53, 56/57, 59 (alto) – E. Pleuger: p. 54 (basso) – Jean-Philippe Goiran: p. 55 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 58, 60/61; The Art Archive: p. 59 (basso) – Da: Il Guerriero di Castiglione di Ragusa. Greci e Siculi nella Sicilia sud-orientale, Hespería 16, Roma 2002: pp. 62-64 – Ufficio stampa RMN-Grand Palais: pp. 66/67 (Musée d’Aquitaine, Bordeaux/photo Lysiane Gauthier, ville de Bordeaux), 68 (basso; Musée d’Archéologie nationale/Valorie Go), 69 (centro; Épernay, Musée régional d’Archéologie et du vin de Champagne), 69 (basso; Sophie Richard, Drac/SRA Languedoc-Roussillon), 70 (Sophie Izac, Drac/SRA Languedoc-Roussillon), 71 (Pétrequin CRAVA) – Da: Archeostorie, Monduzzi Editoriale, Milano 2015: pp. 99-100 – Altair4 Multimedia: p. 102/103, 105 – Archivio Castello D’Albertis-Museo delle Culture del Mondo, Genova: pp. 106-107 – Bridgeman Images: p. 108 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 40/41, 52, 80, 82, 83.
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n otiziario SCOPERTE Pompei
VIRILE, MA NON TROPPO...
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ivinità rustica venerata nell’antica Roma, Priapo è il simbolo della fertilità in cui si concentrano tutti i maggiori attributi mascolini, essendo immancabilmente rappresentato con il membro turgido e in abnorme stato di erezione. Simili immagini si rivelano assai utili all’antropologia e all’archeologia, poiché permettono di comprendere
Pompei, Casa dei Vettii. Affresco raffigurante il dio Priapo. I sec. d.C.
l’importanza rivestita dalla sessualità e dal timore atavico di difettare in potentia coeundi et generandi. In campo medico, invece, la belluina, e a tratti «satiresca», erezione priapea ha dato nome al «priapismo», ossia una spesso dolorosa e persistente erezione dell’asta virile. Le patologie urologiche erano ben documentate nell’antichità e le numerose effigi priapee a oggi rinvenute, ne testimoniano la funzione non solo propiziatoria, ma
anche apotropaica. In particolare, la condizione patologica detta fimosi, caratterizzata dall’impossibilità di retrarre la cute che copre il glande (prepuzio), ha da sempre afflitto un gran numero di adolescenti. Nei casi piú gravi, questo difetto anatomo-funzionale può impedire totalmente la mobilità della cute sopra il glande, impedendo l’espletazione di un regolare rapporto carnale. La Casa dei Vettii di Pompei ospita una delle raffigurazioni piú celebri di Priapo, colto nell’atto di pesare il proprio membro con una bilancia. Quel che attira immediatamente l’attenzione – se lo si confronta con altre immagini della divinità – è la completa chiusura del prepuzio sul glande, un dato che fa subito pensare a un caso di fimosi serrata. Tale osservazione permette di far luce sul motivo della presenza di una gran messe di oggetti anatomici votivi e del fiorire di superstizioni intorno alla fimosi e alle strategie (assai poco scientifiche, ça va sans dire) «terapeutiche» per fronteggiarla. Se persino l’espressione divina della fertilità, l’emblema della virilità per antonomasia veniva ritratto come affetto da tale difetto anatomico, è innegabile che l’impatto e la prevalenza della condizione urologica fossero a quel tempo estremamente rilevanti, tanto da ingenerare reazioni socioculturali i cui riflessi sono ancor ben visibili nell’antropologia, nella religione e non solo, quindi, nell’ambito della medicina. Francesco M. Galassi e Stefano Galassi
VALORIZZAZIONE Emilia-Romagna
E LA NAVE VA
Q
uello che tre anni fa avevamo definito «un progetto in corso di elaborazione» (vedi «Archeo» n. 333, novembre 2012, anche on line su archeo. it) è ora realtà: è stato infatti ufficialmente inaugurato il nuovo sito archeologico dell’Antico Porto di Classe. Con la musealizzazione e l’apertura al pubblico dell’area, ha dunque «preso il mare» anche il Parco Archeologico di Classe, sviluppato intorno alla grande basilica di S. Apollinare in Classe, e che, l’anno prossimo, è destinato ad arricchirsi con il Museo della Città e del Territorio, ricavato nell’ex Zuccherificio e, successivamente, con gli scavi della basilica di S. Severo. Il porto di Classe è stato uno degli scali piú prestigiosi del mondo antico: qui Augusto, verso la fine del I secolo a.C., fece costruire gli imponenti moli foranei che consentivano alle navi l’accesso dal mare e vi insediò la flotta imperiale a controllo dell’intero Mediterraneo orientale. Nel corso del V secolo, con Ravenna capitale (dal 402), Classe diventò un’importante civitas e non piú solo un porto, assumendo una funzione fondamentale come sbocco commerciale oltre che come baluardo militare verso il mare. Proprio al V secolo – l’epoca d’oro di Ravenna capitale e di Classe – risale l’impianto generale delle strade e degli edifici che sono al centro del progetto di musealizzazione a cielo aperto dell’Antico Porto, ossia la fase portuale databile al periodo tardo-antico e bizantino,
Classe (Ravenna). Un tratto della strada basolata che veniva percorsa dai carri che trasportavano le merci caricate sulle banchine dell’Antico Porto. che rende evidente la dimensione e il contesto di quello che all’epoca era un grande porto commerciale, al centro di traffici rilevantissimi con l’Africa e, in particolare dopo il 540, con l’Oriente. I visitatori possono ammirare quindi la ricostruzione di una grande infrastruttura portuale, cioè i magazzini, i collegamenti che conducevano dalle banchine all’isola al centro del canale portuale, la strada basolata dalla quale partivano i carri con le merci verso la città di Ravenna. Il sito archeologico evoca non solo la portata dei traffici commerciali, ma anche la dimensione cosmopolita della città di Classe. Uno dei temi focali dell’allestimento è inoltre l’assetto
idrogeologico del territorio. Poiché, rispetto all’attuale, la linea di costa si è allontanata una decina di chilometri, è stata ricostruita la dimensione dello specchio d’acqua e della vicinanza del mare con un intervento molto complesso. Si è intervenuti anche sul ripristino del paesaggio mentre tutti i camminamenti del percorso di visita e gli affacci sull’area archeologica sono stati realizzati con materiali ecocompatibili e a lunga durata in relazione all’esposizione a cielo aperto. Infine, è stato fatto ampio ricorso alle moderne tecnologie, a partire dal Centro Visite, l’aula multimediale che introduce al sito archeologico. (red.)
archeo 7
n otiz iario
SCAVI Piemonte
UN CIMITERO DI FAMIGLIA?
U
n intervento di archeologia preventiva effettuato a ovest di Santhià, centro del Vercellese occidentale, ha portato alla scoperta di una piccola necropoli databile tra la fine del I e il II secolo d.C. «Il nucleo sepolcrale, rimasto poco intaccato dalle secolari attività agricole – dichiara Elisa Panero, direttore archeologo della Soprintendenza Archeologia del Piemonte – conta una decina di tombe entro fossa a incinerazione
indiretta. La maggior parte delle sepolture si presenta entro fossa terragna ma con curato corredo sepolcrale che, per quanto composto prevalentemente da olpi e olle di ceramica comune di produzione locale, rileva una certa accuratezza nella fabbricazione rispetto ai dati finora noti provenienti dal territorio vercellese». «L’area funeraria, infatti, risulta organizzata in piccoli nuclei, con tombe in parte sovrapposte fra loro – che quindi farebbero ipotizzare generazioni successive dello stesso gruppo parentale –, disposti lungo un tracciato viario in battuto in ghiaia, ciottoli e frammenti laterizi
8 archeo
A destra e qui sotto: Santhià (Vercelli). Due immagini delle tombe riferibili a una piccola necropoli, forse a carattere familiare, in uso tra la fine del I e il II sec. d.C.
In basso: alcuni dei balsamari in vetro rinvenuti all’interno del vaso utilizzato come cinerario per la sepoltura di una donna verosimilmente appartenente a una classe sociale piuttosto elevata.
ben costipati e legati con terriccio recante ancora tracce del passaggio dei carri. Particolarmente significativa è una sepoltura che potremmo definire privilegiata, in quanto disposta in un punto non intaccato dalle altre deposizioni (che le si collocano intorno). Essa risulta la sola entro cassetta laterizia coperta da tegoloni, rinvenuta perfettamente intatta, e reca, oltre all’urna cineraria e agli oggetti di uso comune, come olle e brocche, anche materiali di un certo pregio come balsamari-portaprofumi in vetro. Questi ultimi sono stati trovati sia nella cassetta laterizia, sia, come ha mostrato il microscavo condotto in laboratorio, dentro l’urna cineraria, dove i balsamari risultano essere stati collocati al momento della deposizione delle ceneri in quanto appaiono perfettamente integri. Del corredo facevano parte anche lucerne del tipo Loeschcke IB e uno specchio in bronzo in frammenti pressoché ricostruibile, appartenente alla meno diffusa tipologia degli specchi rettangolari, ascrivibile al I secolo d.C. e i cui centri produttivi principali sono attestati in Italia settentrionale e in area nord-renana». Giampiero Galasso
SCOPERTE Aquileia
LA GIUSTA INTUIZIONE
L
a campagna di scavo che la missione dell’Università di Padova ha ultimato ad Aquileia, nell’area demaniale situata tra il Foro e le Grandi Terme, si è chiusa con un risultato di grande interesse: a conferma dell’ipotesi, avanzata a suo tempo da Luisa Bertacchi, secondo la quale in quel luogo si sarebbero trovati i resti dell’antico teatro cittadino, è infatti venuto alla luce un tratto cospicuo di muro curvilineo, dal quale, seguendo il caratteristico impianto di molte strutture per spettacoli dell’età romana, si dirama una serie di elementi radiali. Le indagini appena concluse hanno dunque consentito di scoprire una porzione significativa di quello che potrebbe essere uno dei piú importanti edifici pubblici aquileiesi. La campagna è stata svolta nell’ambito dell’ormai consolidata collaborazione con la Soprintendenza Archeologia del Friuli-Venezia Giulia, sotto la guida del funzionario archeologo Marta Novello. Come ha dichiarato il Soprintendente, Luigi Fozzati, «La presenza di Università italiane e straniere ad Aquileia è una realtà ormai consolidata che sottolinea l’importanza internazionale di
A destra: pianta di Aquileia con indicazione dei principali edifici pubblici: 1. circo; 2. Curia; 3. Foro; 4. porto fluviale; 5. teatro; 6. terme; 7. anfiteatro; 8. palazzo imperiale. In basso: Aquileia. Un’immagine dello scavo che ha portato alla localizzazione delle strutture riferibili al teatro.
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6 7
questa zona archeologica, ora anche sede di una Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici». Le indagini di quest’anno, alle quali hanno
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partecipato studenti, specializzandi e dottori di ricerca in archeologia, guidati da Andrea Raffaele Ghiotto, sono state rese possibili grazie al contributo della Fondazione Aquileia, impegnata su diversi fronti nella valorizzazione del sito UNESCO di Aquileia. «La collaborazione tra Soprintendenza, Università e Fondazione – afferma il direttore, Cristiano Tiussi – ha consentito di intervenire in maniera mirata per verificare l’intuizione di Luisa Bertacchi e accertare l’esistenza del grande edificio di spettacolo nell’area archeologica, di cui è in programma il futuro conferimento alla Fondazione». (red.)
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
IL RITORNO DI DEMETRA LA SOPRINTENDENZA HA AVVIATO NUOVE INDAGINI IN UNA DELLE PIÚ ANTICHE AREE SACRE DEL TERRITORIO POMPEIANO, IL FONDO IOZZINO
N
ei dintorni di Pompei, oltre a splendide ville suburbane e rustiche, sorgevano edifici per il culto extra-urbano, riservati alla popolazione rurale e ai viaggiatori. Abbiamo infatti testimonianza di alcune aree sacre costruite lungo le strade che dal centro dell’abitato si dirigevano verso la valle del Sarno e l’area di Stabiae. Con il sorgere della città, i luoghi di culto, urbani e non, vengono definiti attraverso costruzioni che segnavano il paesaggio sacro e che avevano importanti funzioni sociali e di rappresentanza sul territorio, perché collegate a riti e a feste religiose caratterizzati da gesti e comportamenti in cui la comunità locale si riconosceva, quasi come nelle nostre feste patronali.
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Gli archeologi hanno individuato diversi complessi del genere, ancora poco chiari, però, dal punto di vista dell’organizzazione. Fra questi, nel suburbio meridionale di Pompei, spicca l’area sacra del Fondo Iozzino, che godeva di una posizione straordinaria, in quanto ubicata su una bassa collina ben visibile dalla foce del Sarno e dagli approdi marittimi presenti nell’angolo meridionale del golfo di Napoli. La scoperta del sito e le prime indagini risalgono al 1960, quando una cava di lapillo intercettò i resti del santuario. Vennero allora alla luce due poderose strutture in opera pseudoisodoma, in blocchi di calcare del Sarno, di cui si conservano in alzato ancora quattro
filari. Le strutture sono state riconosciute come mura di recinzione dell’area sacra (temenos), estesa quasi 500 mq, al cui interno si trovano altri resti murari piú piccoli, realizzati in opera incerta in blocchetti di tufo grigio di Nocera: queste strutture definiscono una sorta di recinto minore, concentrico rispetto a quello esterno. All’interno di questo recinto minore ha avuto luogo il rinvenimento, eccezionale, di due grandi statue in terracotta femminili, identificate con Demetra e, la migliore delle due, con Afrodite. Una terza statua femminile, anch’essa in terracotta, proveniente dagli stessi scavi, è stata recentemente individuata nei granai del Foro di Pompei: si tratta un busto panneggiato di buona qualità artistica che, assieme alle altre, è in corso di restauro per la mostra sui culti preromani di Pompei Sacra Pompeiana, in programma al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma. Nel 1992 si avviò il restauro del temenos maggiore e, contestualmente, si effettuarono interventi, anche archeologici, sulle strutture del recinto minore. Il dato piú importante emerso dagli scavi condotti all’interno di questa seconda delimitazione, è rappresentato dal rinvenimento di uno strato archeologico di riporto,
A destra: Pompei, Fondo Iozzino. Veduta del recinto minore, oggetto della nuova campagna di scavi. Nella pagina accanto: fotografia satellitare di Pompei con, in evidenza, l’area sacra del Fondo Iozzino. In basso: busto in terracotta panneggiato di divinità, rinvenuto all’interno dell’area sacra. I sec. a.C. costituito da un ricco scarico di materiale votivo, parzialmente intaccato dalla prima esplorazione. Questo strato continua in profondità e scivola al di sotto delle fondazioni delle strutture finora messe in luce, a indicare quindi l’anteriorità della sua formazione rispetto alla realizzazione delle edicole e del recinto minore.
Il materiale incluso nello strato archeologico è coerente con quello raccolto al momento della scoperta dell’area sacra. Si tratta perlopiú di
ceramica a vernice nera databile fra il IV e il III secolo a.C.; ceramica a figure rosse di produzione italiota della fine del IV secolo a.C.; ceramica miniaturistica in grandissima quantità; bucchero di fabbrica campana; resti di terrecotte architettoniche e di coroplastica; monete in bronzo. La Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia ha avviato nuove ricerche archeologiche, rivolgendo le prime attenzioni proprio verso quest’area sacra. Sotto la responsabilità di Ernesto De Carolis e di Roberta Pardi, sono state infatti riprese le indagini (con l’impresa Nòstoi) in corrispondenza del recinto piú piccolo e dello strato con materiale votivo, al fine di accertare i rapporti e le prime frequentazioni religiose del luogo. L’analisi delle strutture messe in luce e dei materiali finora recuperati suggerisce la presenza di un luogo di culto risalente al VII secolo a.C., che avrebbe avuto un momento di particolare rilevanza nel III sec. a.C., quando il santuario sarebbe stato recintato col temenos maggiore. L’area vede poi una riorganizzazione in età romana, con lo scarico dei materiali votivi e la costruzione del recinto minore e dei podi per le edicole. Il santuario è stato infine abbandonato al momento dell’eruzione del 79 d.C.
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
LA SENTINELLA DEL MARE CITTÀ FIORENTE E DA SEMPRE PROIETTATA VERSO L’ORIENTE, EGNAZIA CONSERVA TRACCE IMPORTANTI DELLA SUA STORIA PLURISECOLARE. OGGI COMPRESE IN UN VASTO PARCO ARCHEOLOGICO, CHE HA ARRICCHITO L’ESPERIENZA DELLA VISITA CON L’INTRODUZIONE DELLA MULTIMEDIALITÀ
E
gnazia è una città nata «sul mare e per il mare», raccontavano i poeti latini. I resti delle sue possenti mura messapiche (IV-III secolo a.C) e quelli della città romana sono visitabili nel parco archeologico che li racchiude, sulla costa di Savelletri, in provincia di Brindisi. Qui sono stati inaugurati nuovi itinerari di visita e le strutture dell’antica città si possono ammirare anche grazie a passerelle sospese, munite di pannelli esplicativi, mentre il contiguo Museo Archeologico di Egnazia presenta installazioni multimediali
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e ricostruzioni 3D. Ne parliamo con Raffaella Cassano, già docente di archeologia e storia dell’arte greca e romana presso l’Università di Bari e curatrice del progetto su Egnazia. Professoressa, ci vuole raccontare, innanzitutto, del vincolo che lega quest’antica città al mare? «Quando ricorda il suo passaggio in città, al seguito di Ottaviano e alla volta di Brindisi, Orazio definisce Egnazia lymphis iratis exstructa: cioè costruita sulle acque tempestose dell’Adriatico. Il legame con il mare è molto forte: ha segnato la storia della città, creando un’attitudine naturale al
commercio e condizionando il paesaggio urbano». Di Egnazia sono ora visitabili luoghi fino a ieri inaccessibili ed è anche possibile scoprire il sito sul proprio tablet, grazie al progetto di cui lei è curatrice: vuole descrivercelo? «Si tratta di un programma articolato, gestito dal Segretariato Regionale dei Beni Culturali della Puglia e dalla Soprintendenza Archeologia della Puglia, con il coordinamento del Soprintendente Luigi La Rocca. Abbiamo dotato il sito di una nuova pannellistica e della possibilità di visita multimediale in loco: mentre si
Sulle due pagine, da sinistra: immagini del sito di Egnazia (Brindisi): una veduta aerea dell’area archeologica; un tratto del basolato della via Traiana; una sezione delle mura messapiche (IV-III a.C.).
visitano i monumenti, è possibile vederne la ricostruzione in 3D su tablet (curata da Altair srl, azienda spin off dell’Università di Bari attiva nel trasferimento tecnologico nel settore dei Beni Culturali, con la mia direzione scientifica)».
Quali sono le nuove aree di scavo aperte al pubblico? «Settori della città antica in cui si sono concentrate le ricerche piú recenti dell’Università di Bari, in particolare il settore a sud del Foro. Ovvero le terme, dove si può ora
ricalcare il percorso dei bagnanti, ambiente dopo ambiente, su un sistema di passerelle (progettate da Francesco Longobardi del Segretariato Regionale), e l’acropoli, unica area dell’insediamento in cui, dall’età del Bronzo al Medioevo, la frequentazione non si è mai interrotta. Una recente donazione allo Stato ha permesso, inoltre, di rendere fruibile un lungo tratto delle mura messapiche, ancora ben conservato nella sua imponenza tra gli ulivi secolari. La prima costruzione della cinta risale alla fine del IV secolo a.C., quando l’insediamento messapico inizia a diventare una città. Le mura
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vengono poi rinforzate nel III secolo a.C., al tempo dello scontro tra Roma eTaranto, e cingono la città sino alla fine del VI secolo, quando l’abitato, ormai ristretto sulla sola acropoli, si dota della fortificazione bizantina». A Egnazia è stato messo in luce anche un tratto della via Traiana, che portava da Roma a Brindisi lungo la costa: che cosa ci raccontano gli scavi? «Ci dicono che, in corrispondenza del Foro, la via Traiana compiva una forte deviazione in modo da separare l’area monumentale, con le terme, dalle case. Proprio all’ingresso delle terme, poi, dalla strada si stacca una diramazione
Egnazia (Brindisi). Veduta dei resti della vasca per il bagno freddo all’interno del grande complesso termale di età augustea.
A COLLOQUIO CON LUIGI LA ROCCA
Un patrimonio da valorizzare
Il sito di Egnazia è uno dei pochi parchi archeologici esistenti in Puglia e rappresenta un esempio positivo di tutela e valorizzazione in una terra in cui purtroppo, come abbiamo già raccontato, ciò non sempre accade (vedi «Archeo» n. 362, aprile 2015). Nel merito abbiamo raccolto l’opinione di Luigi La Rocca, Soprintendente Archeologo della Puglia. «Egnazia è certamente un esempio virtuoso di tutela e valorizzazione di un’area archeologica, che in questo caso è la piú importante della Puglia. Il progetto appena inaugurato nasce da una proficua collaborazione fra enti e istituzioni diversi. Si inserisce in un quadro di interventi attivo già da diversi anni, integrando l’attività di scavo e di ricerca a quelle di restauro, di conservazione, di tutela e di valorizzazione, sia all’interno del parco archeologico che nel museo». Il Museo di Archeologico di Egnazia è un altro fiore all’occhiello del sito, sia per la ricchezza dei reperti conservati che per le dotazioni tecnologiche… «Nel museo sono esposti migliaia di oggetti archeologici rinvenuti nel corso degli scavi: abbiamo voluto privilegiare in particolare l’aspetto della comunicazione, attraverso strumenti multimediali e nuove tecnologie che permettono di capire la storia e l’evoluzione della città nel tempo». Perché Egnazia ha avuto maggior fortuna degli altri – pochi – parchi archeologici pugliesi? «Rispetto agli altri due parchi archeologici pugliesi – quello di Monte Sannace, a Gioia del Colle, e quello di Canne della Battaglia –, il sito di Egnazia è stato oggetto di vari finanziamenti poiché in quel territorio è piú forte la ricettività: sorgendo sulla costa adriatica, tra Monopoli e Brindisi, a due passi da Savelletri e da Ostuni, l’area archeologica si trova al centro di una
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zona di grande interesse turistico. Monte Sannace e Canne della Battaglia, pur interessanti, patiscono l’esclusione dai grandi flussi turistici». Con quali fondi è stato finanziato il progetto Egnazia? «Con 1 milione di euro, messo a disposizione dalla società Arcus. Un investimento che si aggiunge a quello di 400 000 euro erogato dal MiBACT». Nel resto della regione, molti siti archeologici sono in stato di abbandono oppure in sofferenza… qual è la sua opinione? «È vero. C’è una miriade di siti archeologici disseminati su tutto il territorio, che si trovano in fortissima sofferenza a causa della sostanziale assenza di gestione e per i quali, ahimé, non sempre si riesce a ottenere finanziamenti per interventi di valorizzazione e di tutela. Ed esistono gravi difficoltà da parte degli enti proprietari – perlopiú i Comuni – nel garantire livelli adeguati di gestione e manutenzione». A quali casi si riferisce, in particolare? «È un peccato soprattutto se si pensa ad alcuni siti di straordinaria valenza – come l’area archeologica di Rudiae, in provincia di Lecce –, che si trovano all’interno di comuni importanti, che avrebbero le risorse per gestirli, ma che, tuttavia, non riescono a farli decollare. Comuni come Lecce, Bari e Taranto hanno la possibilità di investire, ma cosí non accade». Tornando a Egnazia, cosa le piacerebbe scoprire in futuro? «È necessario investire altre risorse ed energie in particolare nell’attività di scavo. Di fatto, oggi, di Egnazia conosciamo solo una porzione assai limitata, pari a circa un quarto della sua estensione. Speriamo di avere sorprese immediate con i prossimi scavi, soprattutto dall’area del Foro: le indagini nel cuore della città, infatti, devono essere ancora completate».
A sinistra: ricostruzione 3D della vasca per il bagno freddo, visualizzabile attraverso la visita virtuale su tablet (realizzata dall’ITABC-Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR, con il coordinamento di Paolo Mauriello, la direzione scientifica di Eva Pietroni e la collaborazione del Progetto KatatexiLux).
In basso: testa in marmo greco di Attis proveniente da una statua dedicata al dio, nel sacello nel centro monumentale della città. II sec. d.C. pedonale che permette l’ingresso allo spogliatoio del balneum». E quali nuovi elementi sono emersi dalle ultime ricerche sulle terme, ora aperte al pubblico? «Le terme sono un caso raro nell’Italia meridionale: uno dei pochi esempi completamente scavati e resi fruibili. Il balneum sorge nell’età di Augusto, quando si realizza anche il Foro, e rimane in uso sino alla fine del IV secolo. Poi, dagli inizi del V secolo d.C., quando la città cambia aspetto, sotto l’influenza del vescovo, le terme diventano “inopportune”, perché vicine alla chiesa episcopale: vengono allora trasformate in una fabbrica che produce laterizi e calce, bruciando nei forni gran parte dei marmi e delle sculture che decoravano gli ambienti termali». Che cosa è emerso di nuovo, invece, dall’area dell’acropoli? «Al centro dell’acropoli sorge l’area di culto forse piú antica di Egnazia, attiva già nel VI secolo a.C. Il primo tempio risale all’età tardo-repubblicana, ma è all’epoca di Traiano che il complesso diviene un santuario,
con un nuovo tempio su podio circondato da un portico. Si deve immaginare l’impatto che il monumento doveva suscitare in chi arrivava a Egnazia dal mare, entrando nel porto ai piedi dell’acropoli. In età tardo-antica il complesso viene rifunzionalizzato nell’ambito della nuova fortificazione bizantina che cinge l’acropoli». Egnazia rappresenta un mondo a cavallo tra Oriente e Occidente e, infatti, il culto di alcune divinità levantine è qui molto radicato: vuole spiegarcene il motivo? «Per la sua posizione, la città è stata da sempre aperta agli scambi verso il Mediterraneo orientale, dal periodo miceneo fino al Medioevo. Insieme alle merci sono arrivati uomini e, con loro, idee e culti. In epoca romana si affermano i culti di Cibele e Attis, divinità venerate anche a Brindisi, ma che a Egnazia sono oggetto di una devozione particolarmente intensa: lo dimostra il fatto che il santuario a loro dedicato trova spazio nel cuore dell’area monumentale. Per il culto delle divinità orientali si costruiscono edifici con modelli, però, tipici dell’architettura romana, come avviene in tutta la Penisola. Cosí accade per il tempietto di Cibele e per il sacello di Attis. Qui si trovava la statua del dio frigio, giunta forse da Afrodisia: di essa si conserva ancora il volto in marmo greco, di particolare qualità esecutiva, e la base con dedica iscritta».
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n otiz iario
MOSTRE Stati Uniti d’America
L’ALTA VIA DI TAHUANTINSUYO
U
na grande mostra allestita a Washington D.C., presso lo Smithsonian’s National Museum of the American Indian illustra una delle piú stupefacenti imprese d’ingegneria di tutti i tempi: la costruzione della grande Strada degli Inca (Cápac-nan). Una rete viaria di oltre 40 000 km che collegava da nord a sud i territori dell’antico impero e che oggi attraversa ben sei Stati: Argentina, Bolivia, Cile, Colombia, Equador e Perú. Realizzata oltre 500 anni fa, senza impiego di metallo, senza l’uso della ruota o di animali da tiro per lo spostamento di carichi pesanti, è un’interminabile «alta via» che, con brillanti soluzioni ingegneristiche, si adatta a terreni quanto mai diversi, dai picchi delle Ande, fino alla foresta amazzonica. Un efficace mezzo di comunicazione, oltre che uno strumento per l’unificazione politica dei diversi territori, per il popolo Inca questa strada rivestiva anche una dimensione sacra, e la sua realizzazione era connessa ai miti fondanti e intrisa di connotazioni spirituali. Il percorso espositivo si articola in
undici sezioni tematiche, che affrontano la dimensione geografica e quella storica, i popoli antecedenti l’avvento dell’impero – con il loro apporto alla costruzione del tracciato –, per poi approfondire la grande capitale Cuzco, centro ideale dell’impero e pertanto nucleo della rete viaria. Vengono poi illustrate in dettaglio le quattro regioni dette suyus – Chinchaysuyu, Antisuyu, Collasuyu, Contisuyu –, la morfologia, l’economia e le
In alto: Q’eswachaka (Cuzco, Perú). Ponte di corda sospeso sul fiume Apurimac. A sinistra: Q’eswachaka (Cuzco, Perú). Moderna autostrada andina.
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VETULONIA (GROSSETO) A sinistra: Rumi Colca (Cuzco, Perú). Uno dei varchi d’accesso della Strada degli Inca. In basso: canyon di Colca (Perú). Terrazzamenti agricoli ricavati sul fianco digradante di una collina.
innovazioni tecnologiche adottate per utilizzare le diverse risorse ambientali presenti. Inoltre, le figure chiave dei messaggeri (chaski), che portavano le comunicazioni correndo e contribuivano all’unità di un territorio cosí vasto, e il sistema numerico basato sui nodi (quipu). Una sezione approfondisce poi l’invasione dei conquistadores, che poterono sfruttare la strada per penetrare rapidamente all’interno dell’impero.
Infine, un filmato conclusivo illustra la continuità della cultura e delle tradizioni Inca oggi, in cui la Strada resta un saldo riferimento per oltre 500 comunità locali, che continuano a parlare la lingua dei Quechua e degli Aymara e a occuparsi della cura e della manutenzione di questo inestimabile patrimonio. L’esposizione rimarrà aperta fino al 1° giugno 2018: per maggiori informazioni sui numerosi eventi collaterali in programma e per una galleria degli splendidi oggetti in mostra si puó consultare il sito www.nmai.si.edu. Paolo Leonini
DOVE E QUANDO «La grande Strada degli Inca: costruire un impero» Washington, National Museum of the American Indian fino al 1° giugno 2018 Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 Info http://americanindian.si.edu/ inkaroad
Tutti a tavola! Sulla scia dell’EXPO 2015, il Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia propone «Antichità sequestrata. A Vetulonia l’Italia antica si ritrova a tavola». Il progetto espositivo è nato nel quadro del rapporto dialettico che si è voluto istituire tra il tema del banchetto e dell’alimentazione e quello del sequestro dei beni archeologici, recuperati dalle Forze dell’Ordine. La mostra vetuloniese raccoglie quindi «intorno alla tavola del banchetto» un nucleo di reperti mai esposti prima d’ora, scelti per raccontare la molteplice e variegata espressione dei popoli che componevano il quadro culturale dell’Italia antica riuniti intorno alla mensa conviviale. Simbolo della rassegna è una straordinaria statuina in bronzo, conservata da circa un secolo presso i depositi del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, correlata strettamente al simposio. Un reperto recuperato agli inizi del Novecento da Isidoro Falchi e dal genero, l’archeologo Luigi Pernier, e che torna a Vetulonia per la prima volta. Info: tel. 0564 948058; e-mail: museovetulonia@ libero.it Cimasa di kottabos in bronzo in forma di Sileno, da un deposito votivo scavato da Isidoro Falchi e Luigi Pernier sull’Arce di Vetulonia.
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
ACQUA A VOLONTÀ L’articolo dedicato all’acquedotto Traiano (vedi alle pp. 42-49) spiega come esso sia in buona parte 1 3 ancora funzionante ed è lo spunto per una veloce rassegna filatelica sugli impianti realizzati dai Romani per garantirsi l’approvvigionamento idrico. Molti di essi sono la testimonianza ben visibile dell’abilità di quegli antichi ingegneri e quasi tutti i Paesi in cui si trovano hanno dedicato loro un francobollo. L’acquedotto Claudio, uno degli undici impianti principali di Roma, è l’unico a essere stato rappresentato in un francobollo italiano, 2 nel 1926 (1; questo valore venne poi ristampato in anni successivi, con altri colori, e sovrastampato per le colonie). Particolari di acquedotti sono stati talvolta riprodotti solo come motivi secondari, come nel caso del valore emesso nel 2007 per celebrare 4 Concetto Marchesi (2). Vediamo quindi in che modo le opere piú famose 5 siano state ricordate all’estero. La «stella» è il Pont du Gard, spettacolare ponte-acquedotto nel Sud della Francia, costruito agli inizi del I secolo d.C.; lo mostriamo su un importante francobollo francese 6 del 1929 (3) e su uno automatico, sempre francese, su cartolina maximum (4). Anche l’Italia ha celebrato (5) il ponte antico piú alto 7 del mondo e l’unico a tre livelli ancora esistente; esso era funzionale a un acquedotto lungo circa 50 km. Anche la Spagna possiede alcune «perle» 8 dell’ingegneria idraulica romana. La piú famosa è l’acquedotto di Segovia, ricordato da un francobollo spagnolo (6) e ancora da uno italiano (7). Tra le strutture «minori» ricordiamo quelle francesi 9 del Gier a Chaponost, che portava l’acqua verso Lione, in un annullo del 2002 (8) e quelle iberiche di Los 10 Milagros a Mérida (9), in 12 Estremadura, e di Almunecar (10), vicino a Granada. 11 Per altre nazioni possiamo segnalare l’acquedotto di IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Kavala, nella Grecia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai nord-orientale (11) e quello di seguenti indirizzi: Zaghouan in Tunisia, riprodotto Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, su un vecchio francobollo del Via Tavanti, 8 C.P. 17037 1906 (12) e, in chiave piú 50134 Firenze Grottarossa moderna, su una cartolina info@cift.it, 00189 Roma. 13 maximum del 1999 (13). oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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INCONTRI Paestum
DUE DEBUTTI IMPORTANTI
D
In alto: Khajuraho (India). Rilievo nel tempio di Lakshmana. In basso: il tumulo di Anfipoli (Macedonia, Grecia). Le prime cinque scoperte archeologiche del 2014, in base alle indicazioni dei direttori delle testate, sono risultate: la Tomba di Anfipoli (Macedonia, Grecia; vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015); le impronte umane piú antiche d’Europa (Happisburgh, Inghilterra); la Tomba di Khentakawess III (Abu Sir, Egitto); la sepoltura con carro di un principe dei Galli (Warcq, Francia); il Tesoro di Orselina (Canton Ticino, Svizzera). L’ Archaeological Discovery International Award 2015 verrà dunque assegnato all’archeologa greca Katerina Peristeri, responsabile degli scavi ad Anfipoli, venerdí 30 ottobre, nell’ambito della conferenza che celebra l’anniversario dei 30 anni di «Archeo». Per la prima volta al mondo si è pensato a un riconoscimento dedicato agli archeologi, che affrontano quotidianamente il loro compito, nella doppia veste di studiosi del passato e di professionisti a servizio del territorio. La Borsa e «Archeo» hanno condiviso questo cammino in comune, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità». Per ulteriori informazioni: www.bmta.it
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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a
al prossimo 29 ottobre e fino al 1° novembre, l’area archeologica di Paestum, Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, torna a ospitare la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico. Giunta alla sua XVIII edizione, la rassegna promuove la cooperazione tra i popoli, la partecipazione di Paesi non solo del Mediterraneo e la presenza annuale di un Paese Ospite: per il 2015 è stata scelta l’India, che vanta una civiltà nata cinquemila anni fa e in cui ogni periodo storico ha lasciato le sue tracce in grandi monumenti (i templi e le pitture murali di Ajanta ed Ellora, il tempio del Sole a Konarak a forma di grande carro, solo per citare alcuni esempi). «L’India parteciperà quale Paese Ospite – sottolinea Chilka Gangadhar, Direttore dell’Ufficio del Turismo Indiano in Italia – avendo constatato gli eccellenti risultati ottenuti dalla manifestazione da quando la location è lo stesso sito UNESCO. Per noi è molto importante avere una efficace visibilità per presentare il nostro patrimonio archeologico e la Borsa di Paestum è l’unica in Italia dedicata al turismo archeologico. L’India ha uno straordinario, ricco ed eterogeneo patrimonio, con 32 siti UNESCO, di cui 25 culturali. Il nostro Istituto Nazionale Archeologico ha selezionato 25 siti degli oltre 3700 per il progetto Adarsh Smarak, che assicurerà in queste aree numerosi servizi (tra cui wi-fi, trasporti, segnaletica). Inoltre, è prevista una campagna di comunicazione dal nome Swachh Bharat Abhiyan, legata alla tutela e alla sicurezza con lo slogan “Swachh Smarak: Swachh Bharat” (“Monumenti puliti: India pulita”)». Grande novità della XVIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico è l’«Archaeological Discovery International Award», un riconoscimento ideato in collaborazione con «Archeo» per dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale da assegnare insieme alle testate internazionali che sono media partner della BMTA: Antike Welt (Germania), Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia).
CALENDARIO
Italia
CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce
ROMA Lacus Iuturnae
La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15
Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15
CHIUSI La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi
L’Età dell’Angoscia
Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15
Museo Nazionale Etrusco fino al 31.12.15
Terrantica
Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15
Tesori della Cina Imperiale L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16
ACQUI TERME La città ritrovata
Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16
BIBBIENA (AR) Alto Medioevo Appenninico Testimonianze altomedievali fra Casentino e Val Bidente Museo Archeologico del Casentino fino al 01.11.15
BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po
Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.01.16
CANINO (VT) Frutti d’oro e d’argento La spiga e l’ulivo Museo Archeologico Nazionale di Vulci fino al 31.10.15
CASALE MONFERRATO diVino Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15 20 a r c h e o
Stamnos con Atena che riceve Eretteo dalle braccia di Gaia, da Vulci. 470-455 a.C.
GENOVA Le sfide di Homo sapiens Museo di Archeologia Ligure fino al 31.12.15
MARANO LAGUNARE (UD) Spatha
Dal mare una spada con mille anni di storia Museo Archeologico della Laguna di Marano fino al 01.11.15
MILANO Africa
La terra degli spiriti MUDEC, Museo delle Culture fino al 30.08.15
L’isola delle torri
Tesori dalla Sardegna nuragica Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15
MONTEBELLUNA (TV) Storie di antichi Veneti La situla figurata di Montebelluna Museo Civico fino al 27.09.15
NAPOLI E POMPEI Pompei e l’Europa 1748-1943
Napoli, Museo Archeologico Nazionale Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 02.11.15
Particolare della corsa delle bighe dipinta nell’atrio della Tomba del Colle di Chiusi. 475-450 a.C.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
MANNHEIM Egitto
ORVIETO Voci ritrovate
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16
Archeologi italiani del Novecento Napoli, Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15
Austria
PENNABILLI (RN) Ipazia
VIENNA Monete e potere nell’antico Israele
Matematica alessandrina, 405-2015 Museo del Calcolo Mateureka fino al 30.08.15
Kunsthistorisches Museum fino al 13.09.2015
SARDARA (VS) S’Unda Manna
Un drone svela i cento nuraghi del Medio Campidano, colpiti e sepolti da un mare di fango Casa Pilloni fino al 04.10.15
SENALES (BZ) Ma Ötzi, che lingua parlava? Parlare e scrivere-ieri e oggi ArcheoParc Val Senales fino al 01.11.15
Svizzera ZURIGO Il gesso conserva
Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15 Due diverse repliche in gesso della Venere detta «di Arles».
VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) Antichità sequestrata A Vetulonia l’Italia antica si «ritrova» a tavola Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’11.11.15
ZUGLIO (UD) Celti sui Monti di Smeraldo
Civico Museo Archeologico «Iulium Carnicum» fino al 31.10.15
Germania BERLINO Un solo Dio. L’eredità di Abramo sul Nilo Ebrei, cristiani e musulmani in Egitto dall’antichità al Medioevo Bode Museum fino al 13.09.2015
USA PHILADELPHIA Sotto la superficie
BRAMSCHE-KALKRIESE Io Germanico!
Condottiero, sacerdote, superstar Museo e Parco Kalkriese fino all’01.11.15
Ritratto di Apa Abraham. 590-600 d.C.
Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15 a r c h e o 21
L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner
È
noto che Filippo II il Macedone è sepolto a Verghina, il grande tumulo situato nella Grecia settentrionale di cui abbiamo ampiamente trattato nello scorso numero di «Archeo». Già da tempo, però, come i nostri lettori ricorderanno, numerosi dubbi sono stati avanzati sull’attribuzione del monumentale sepolcreto al padre di Alessandro. Un’indagine antropologica eseguita sui resti ossei rinvenuti a Verghina da un équipe scientifica dell’Università Complutense di Madrid, diretta da Juan-Luis Arsuaga e appena pubblicata dalla rivista statunitense PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), sembra aver risolto l’annosa questione…
LA TOMBA SBAGLIATA Il tumulo di Verghina contiene tre tombe reali – denominate rispettivamente I, II e III – insieme a un heroon (un monumento celebrativo dedicato a un eroe) posto nelle vicinanze della Tomba I. L’intero complesso fu scavato negli anni 1977-78 e, in seguito al ritrovamento – nella Tomba II, risultata intatta – di un ricco corredo funerario, tra cui la celebre urna (larnax) d’oro decorata con la stella macedone, il sepolcreto viene, da allora, assegnato a Filippo II, sebbene piú di un indizio – archeologico e antropologico – suggerisca una sua diversa attribuzione, ovvero al fratellastro di Alessandro Magno, Filippo III Arrideo e a sua moglie Euridice. È unanimemente accettato, inoltre, che la Tomba III, dai tratti architettonici simili alla II,
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appartenga al figlio di Alessandro Magno, Alessandro IV. La Tomba I, invece, saccheggiata già nell’antichità (denominata «di Persefone» per il soggetto raffigurato in una delle straordinarie pitture che ne decorano l’interno), conteneva i resti ossei, inumati e non cremati, di tre individui, un maschio, una femmina e un neonato. E proprio sui resti ossei della Tomba I si sono concentrate le indagini dell’équipe dell’università madrilena, che hanno portato a un risultato sorprendente. L’elemento scatenante è stata la scoperta, su un osso della gamba sinistra del soggetto maschile (la cui altezza, anomala per l’epoca, era di 1,80 m), di evidenti segni di anchilosi del ginocchio (causata da un’andatura anomala) e di un foro all’altezza dello stesso, dovuto a una ferita che all’individuo aveva causato un processo infiammatorio spentosi anni prima del suo decesso. Le fonti antiche (Plutarco, Demostene, Ateneo e altri) narrano che Filippo II fu ferito in maniera quasi fatale nell’anno 339 a.C. (tre anni prima che venisse assassinato dalla sua guardia del corpo) durante uno scontro con la tribú dei Traci Triballi. Una lancia trafisse la gamba di Filippo, penetrando poi nel corpo del cavallo, uccidendolo. In seguito all’episodio il re rimase claudicante fino alla sua morte (è importante ricordare però, a questo punto, che i resti ossei cremati dell’individuo maschile rinvenuti nella Tomba II, quella fino a oggi ritenuta di Filippo II, non mostrano traccia di una ferita simile, mentre il cranio riporta, però, il segno di una lesione all’occhio destro, che sappiamo fu anche di Filippo II). Ma c’è di piú. Le nuove analisi offrono alcune
Testa in avorio (3,2 cm) di Filippo II, dalla Tomba II di Verghina. IV sec. a.C. Verghina, Museo e Tombe Reali. significative indicazioni a proposito dell’età raggiunta dai tre individui sepolti nella Tomba I: per l’uomo essa è indicata in circa 45 anni, per la donna in 18. Il terzo scheletro è quello di un neonato di cui, peraltro, non è stato possibile identificare il sesso. Per gli studiosi spagnoli, dunque, le conclusioni delle indagini sono evidenti: la Tomba I di Verghina appartiene al re Filippo II di Macedonia, seppellito insieme alla seconda, giovanissima, moglie Cleopatra e al loro infante. Il monumento, cosí riletto, getta una nuova luce su uno degli episodi piú drammatici che hanno segnato la lotta al potere nel regno di Macedonia: Olimpiade, prima moglie di Filippo e madre di Alessandro, uccise il neonato venuto al mondo pochi giorni dopo la morte del re e la nomina di suo figlio a erede del trono. Poi bruciò il corpo dell’assassino di Filippo, la guardia Pausania, e costrinse la seconda moglie del re, la giovane Cleopatra, a suicidarsi. Il motivo? Sgomberare la strada all’amato figlio Alessandro, la cui legittimità era inficiata dal fatto di essere figlio di una donna «non macedone» (Olimpiade appunto) e al quale il figlio – o la figlia – di Cleopatra avrebbe potuto, un giorno, contendere il diritto al trono. La mappa dei legittimi proprietari delle tombe di Verghina sembra, dunque, finalmente riscritta: con la Tomba II definitivamente attribuita al fratellastro di Alessandro, ucciso anch’egli per volere dalla feroce Olimpiade, e la Tomba I a Filippo II. Manca all’appello – e chissà per quanto ancora – quella del suo leggendario figlio…
CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli
COMPLEANNO CON MISTERI IL MUSEO DELL’ACROPOLI DI ATENE FESTEGGIA IL SUO SESTO ANNO DI ATTIVITÀ CON UNA RICCA ESPOSIZIONE DEDICATA AL SANTUARIO DEI GRANDI DÈI DI SAMOTRACIA
I
l sentimento religioso dell’antichità greca si rivolse anche a culti misterici, i piú famosi dei quali si svolgevano a Eleusi, in Attica, e a Samotracia, un’isola dell’Egeo settentrionale, a poca distanza dalle coste della Macedonia. Quest’ultima era celebre proprio per un venerando santuario dedicato ai Grandi Dèi (Megaloi Theoi), divinità alle quali si tributava un culto misterico che impediva agli iniziati di nominarli
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esplicitamente e di rivelare dettagli delle cerimonie. Chi abbia avuto la fortuna di visitare l’isola ne avrà apprezzato non solo le bellezze naturali, ma anche il fascino del santuario, che si sviluppa in modo assai peculiare, assecondando la topografia, su tre strette terrazze. Le cerimonie avevano luogo di notte, alla luce delle fiaccole; l’iniziato doveva partecipare a una cerimonia di
purificazione, assisteva alla rappresentazione rituale di racconti mitici e, indossata una larga fascia purpurea, era testimone della rivelazione di simboli sacri. La storia del santuario dei Grandi Dèi e numerosi reperti provenienti da quest’area sacra sono ora esposti al pubblico; per festeggiare il suo 6° compleanno, infatti, il Museo dell’Acropoli di Atene ha inaugurato la mostra «Samotracia. I misteri dei Grandi Dèi», che riunisce oltre 250 oggetti. Ad aprirla sono reperti provenienti dal sito di Mikrò Vouní, a pochi chilometri dal santuario, dove è stato riportato alla luce un insediamento del III millennio a.C. Il rinvenimento di sigilli che raffigurano pesci e doppie asce, confrontabili con quelli di Cnosso, potrebbe confermare la tradizione secondo la quale i misteri sarebbero nati a Creta per poi diffondersi in altre aree della Grecia.
PIANTE CIRCOLARI L’esposizione s’incentra su due edifici del santuario, caratteristici per la loro pianta circolare. Il primo è l’edificio di tipo teatrale dotato di un altare centrale e decorato da basi di statue, in cui è stato rinvenuto un leone di lamina d’oro di provenienza persiana. L’altro è la Tholos della regina Arsinoe II, dedicata tra il 288 e il 270 a.C. Sono esposte ricostruzioni della struttura, ma anche oggetti come
In alto: sima decorata a testa di leone, dalla Stoà (ampio portico parzialmente coperto, destinato agli iniziati) di Samotracia. 300-250 a.C. Nella pagina accanto, in alto: Samotracia. Veduta dei resti del santuario dei Grandi Dèi. Nella pagina accanto, in basso: frammento di cassone decorato con testa maschile a rilievo, dal soffitto dell’ingresso dell’Edificio del Fregio delle Danzatrici. 340-330 a.C. vasi potori, piatti e lucerne; qui gli iniziati si riunivano per celebrare la grande festa d’estate. Un gruppo di materiali proviene dall’Edificio del Fregio delle Danzatrici, noto come Hall of the Choral Dancers. Sotto al livello del pavimento di questa costruzione, che è stata messa in relazione con un dono di Filippo II, sono stati rinvenuti i piú antichi vasi rituali del santuario, risalenti al VII secolo a.C. Vi sono poi i reperti restituiti dal cosiddetto Hieron: un edificio dotato di banchine, in cui pare si svolgesse l’ultima fase del rito d’iniziazione, con la rivelazione dei simboli sacri, forse il tempio stesso del santuario. A chiudere il lato occidentale del santuario era un portico lungo ben 104 m, sulle cui pareti erano iscritti nomi di iniziati provenienti da molte aree del mondo mediterraneo: Coo,
Clazomene, Chio, Salonicco, Taso, Filippi, ma perfino Roma e Catania. Il percorso espositivo termina con gli oggetti rinvenuti nelle necropoli di Samotracia, tra cui un’anfora panatenaica risalente al 525 a.C. circa e riutilizzata come cinerario. Singolare è il pilastro iscritto che enuncia il divieto d’ingresso ai non iniziati, in greco e in latino.
INVITO AL VIAGGIO Questa dedicata al santuario dei Grandi Dèi di Samotracia è solo la prima di una serie di esposizioni itineranti, che saranno ospitate dal Museo dell’Acropoli. Si tratta di un’occasione unica da molti punti di vista: non solo perché offre a un museo e un sito periferici la possibilità di valorizzare la propria storia, ma anche perché rende possibile al composito pubblico del Museo dell’Acropoli, sia greco che internazionale, di viaggiare idealmente verso una meta lontana. E magari farà venire a piú d’uno il desiderio di visitare davvero quest’isola magica.
DOVE E QUANDO «Samotracia. I misteri dei Grandi Dèi» Atene, Museo dell’Acropoli fino al 30 settembre Orario lu, 8,00-16,00; ma-do, 8,00-20,00 (ve, apertura serale fino alle 22,00) Info www.theacropolismuseum.gr
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SCOPERTE • SOVANA
CHI HA NASCOSTO QUEL TESORO? DURANTE L’INVASIONE GOTA IN ITALIA VENNERO SEPPELLITE, NELLA CHIESA DI UN PICCOLO BORGO MAREMMANO, CIRCA 500 MONETE D’ORO. LA LORO RISCOPERTA, AVVENUTA QUALCHE ANNO FA, HA RIACCESO L’ATTENZIONE SU UN MISTERIOSO SANTO. LA CUI FIGURA SEMBRA INTRECCIARSI NIENTEMENO CHE CON LA CELEBRE LEGGENDA DEL CONTE DI MONTECRISTO... di Carlo Casi
A
lla scoperta del tesoro di monete nascosto nella chiesa di S. Mamiliano, a Sovana (Grosseto), avevamo già dato ampio risalto (vedi «Archeo» n. 331, settembre 2012; anche on line su archeo.it). Ma torniamo a parlarne, perché gli studi nel frattempo condotti su quell’eccezionale insieme di quasi 500 monete hanno permesso di gettare nuova luce sulla sua storia e di avanzare
nuove e suggestive ipotesi. Innanzitutto, però, ripercorriamo dall’inizio l’intera vicenda. Siamo nel 2004 e fervono i lavori di recupero dell’antico tempio, che si affaccia sulla piazza del Pretorio. Si stanno completando gli scavi di verifica nella cripta, per porre poi in sicurezza statica l’edificio, quando, al di sotto del muro perimetrale nord della chiesa, avviene la scoperta.
In alto: il vaso, un’olletta in impasto, con i 498 solidi in oro rinvenuto nella chiesa di S. Mamiliano, a Sovana (Grosseto). Le monete, battute al tempo di vari imperatori, sono comunque databili entro il V sec. d.C. Nella pagina accanto: ex voto in terracotta, dalla stipe votiva scoperta all’ingresso del Cavone, una delle vie cave di Sovana. IV-II sec. a.C. Sovana, Museo di S. Mamiliano.
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SCOPERTE • SOVANA
Dalla terra rimasta emerge un’olletta d’impasto, in parte frammentaria, ma colma di monete d’oro! Ben 498 solidi (vedi box alle pp. 36-37) riferibili tutti al V secolo d.C. Da Onorio, primo imperatore romano d’Occidente che regnò dal 395 al 423, a Zenone, che resse la corona imperiale dal 474 al 491, con una maggiore presenza di pezzi coniati sotto Leone I, tra il 457 e il 474. Compaiono anche solidi di Valentiniano III (425-455), Petronio (455), Maggiorano (457-461), Libio Seve-
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ro (461-465), Antemio (467-472), Teodosio II (408-450), Eudossia (450), Leone II (474), Basilisco (475-476) e Ariadne (476-491).
Emilia-Romagna Liguria Mas as ass a sss sa
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Lazio
UN PROFILO SFUGGENTE Monete battute perlopiú dalla zecca di Costantinopoli, ma anche da quelle di Arles, Roma, Milano e, in alcuni casi, Tessalonica. Ma come mai un tesoro cosí importante è stato nascosto proprio in quel luogo? Ci può forse essere un rapporto con la chiesa di S. Mamiliano?
Alcuni studiosi hanno avanzato una proposta suggestiva, legata alla vita del santo. Chi era, dunque, san Mamiliano? Non si hanno notizie precise su di lui sino al 450 d.C., quando i Vandali lo trovano vescovo di Palermo, dove forse era nato. Fu esiliato a Cartagine da Genserico, poi visse per un periodo in Sardegna e, infine, si ritirò sull’isola di Montecristo, dove si spense nel 460. La leggenda vuole che in una grotta, a lui dedicata e sovrastata dalle mura della
poderosa fortezza, abbia sconfitto un feroce drago, ottenendo in cambio acqua sorgiva. Fu anche uno dei primi evangelizzatori della Toscana meridionale e del suo arcipelago e,
patrono della diocesi di PitiglianoSovana-Orbetello, viene venerato dai marinai toscani e sardi. Le sue reliquie sono distribuite tra Palermo, Roma, Sovana, l’isola d’Elba e Pisa.
monete fossero state nascoste per proteggerle dalle razzie che, nel V sec. d.C., funestarono anche la regione maremmana.
Il santo è però legato anche a una serie di fatti accomunati da curiose coincidenze. Nella seconda metà del Cinquecento, il principe di Piombino prima e il granduca di Toscana poi mettono in guardia i propri sudditi dal ricercare il tesoro di Montecristo, visto l’imperversare dei pirati in quel tratto di mare; parallelamente si ha conoscenza di una spedizione di giovani corsi che vanno a scavare nella chiesa di S. Mamiliano, sulla stessa isola, all’inutile ricerca di ricchezze sepolte.
I secoli di una chiesa Oltre a rivelare la presenza del tesoretto, le indagini nella chiesa di S. Mamiliano hanno permesso di precisarne la vicenda costruttiva e le fasi di utilizzo. La documentazione qui riprodotta evidenzia, in particolare, lo sfruttamento di gran parte del sottosuolo dell’edificio a scopo sepolcrale: gli scavi hanno infatti accertato la presenza di un fitto reticolo di tombe (vedi pianta alla pagina accanto e sezione qui sotto). E proprio in corrispondenza di una di esse (la n. 30; vedi foto alla pagina accanto) è venuto alla luce il gruzzolo formato da quasi 500 solidi aurei. L’ipotesi piú probabile è che le
IL SEGRETO DELL’ABATE Balza agli occhi l’associazione tra il santo e il leggendario tesoro e, allo stesso tempo, risulta intrigante la In alto: il vaso parzialmente svuotato del suo prezioso contenuto, con le monete allineate per una prima inventariazione. a r c h e o 35
SCOPERTE • SOVANA
L’IMPERATORE E LA VITTORIA La storia degli esordi del solido, la moneta aurea coniata a partire dal 310 d.C., è il riflesso delle complesse vicende politiche e socio-economiche dell’epoca tardo-antica. Già nel 294, Diocleziano aveva dovuto provvedere a una riforma del sistema monetale, rivedendo il rapporto tra argento e bronzo nelle nuove monete, e promulgando l’Edictum de pretiis, un
calmiere che fissava i prezzi massimi di numerose merci: per esempio ½ litro dell’ottimo vino di Falerno non poteva costare oltre 30 denari (contro gli 8 del vino comune!), le piccole monete in rame con l’aggiunta di scarsissime tracce di argento. Nonostante gli sforzi, la riforma di Diocleziano non portò i benefici sperati e, nel 310, Costantino, da pochi anni acclamato imperatore d’Occidente, fece coniare nelle sue zecche il solidus aureus, la nuova moneta in oro, battuta a 1/72 di libra, pari a4,54 gr circa. Il solido si diffuse poi anche nelle province orientali, una
vicinanza cronologica fra l’epoca in cui Mamiliano visse e la datazione dei solidi. E perché non pensare, allora, che della leggenda, tramandata nei secoli, fosse venuto a conoscenza lo scrittore Alexandre Dumas (1824-1895), il quale potrebbe averne tratto ispirazione per Il Conte di Montecristo? Pubblicato nel 1846, il romanzo narra l’avvincente storia di Edmond Dantès e del segreto a lui rivelato dall’abate Faria riguardante un tesoro sepolto sull’isola di Montecristo. Il cui ritrovamento gli consentirà poi di vendicarsi dei torti precedentemente subiti, all’indomani della sua rocambolesca fuga dalla prigione del Castello d’If. Secondo questa ipotesi, il tesoro del Conte di Montecristo esisteva 36 a r c h e o
Qui sopra: uno dei solidi aurei di Antemio facenti parte del tesoro di S. Mamiliano. 467-472. Al dritto, il ritratto dell’imperatore; al rovescio, lo stesso Antemio e Leone I sorreggono un globo sormontato dalla croce; sotto la coppia si leggono le sigle COM e OB, che rimandavano, rispettivamente, all’autorità preposta al controllo delle finanze imperiali e alla purezza dell’oro. In alto: il tesoro nella teca che lo custodisce nel Museo di S. Mamiliano.
veramente, ma la chiesa di S. Mamiliano nella quale si sarebbe dovuto cercarlo non era quella isolana, bensí quella di Sovana! Ovvia-
mente, è bene sottolineare che, per quanto suggestiva, questa era e resta un’ipotesi. Gli scavi archeologici, d’altro canto, oltre a permettere il recupero delle monete, hanno riportato alla luce strutture murarie e stratigrafie che aiutano a far luce sul mistero. Piuttosto imponente è la fase romana, ben rappresentata dai resti di un’edificio termale con un pavimento musivo in tessere bianche e nere e dall’impianto dell’ipocausto. A questa succede un momento di abbandono dell’area, successivamente assorbito da una nuova edificazione, forse già databile in epoca paleocristiana, mentre la prima fondazione della chiesa romanica risale probabilmente al XII secolo a.C. Qui, nel 1460, furono trasferite dall’isola del Giglio le reliquie di san
volta che Costantino, sconfitto Licinio a Crisopoli nel 324, mise fine alla tetrarchia riunificando sotto il suo controllo l’impero romano. Il solido venne affiancato da due frazioni: il semisse, che aveva il valore di 1/2 solido, e il tremisse, che ne valeva 1/3. Nello stesso periodo Costantino introdusse come sottomultipli dei solidi, anche nuove monete in argento: il miliarensis (1/18) e la siliqua (1/24). Vennero coniati anche vari multipli, la cui funzione era spesso celebrativa: si tratta di «medaglioni-monete», che vanno dal valore di 1 solido e mezzo, fino a emissioni assai rare equivalenti a 30, 48 e 72 solidi. Questi rari solidi sono stati talvolta riutilizzati in opere di oreficeria, come oggetti ornamentali personali. Sui solidi la legenda COM (abbreviazione di Comes Sacrarum Largitionum, «conte delle sacre elargizioni») rimanda all’autorità che controllava le finanze dell’impero a partire da Costantino, mentre il marchio OB (=obryzum) indicava la purezza dell’oro. Sul dritto dei solidi è raffigurato il busto dell’imperatore, senza alcun intento ritrattistico; sul rovescio, si trova in genere l’immagine della Vittoria, con la croce e il globo crucigero, ma non mancano tipi con la personificazione di Costantinopoli, o gli imperatori in trono. Nella parte orientale dell’impero, il solido rimase in uso fino al X secolo d.C.
In alto: dritto e rovescio di un solido aureo di Onorio, emesso dalla zecca di Milano e facente parte del tesoro. 402-403, 405-406.
Mamiliano, poi traslate, dopo av- fine del V secolo, abbia occultato i plicherebbe una connessione con venturose vicende, nella cattedrale suoi «risparmi». Ma come spiegare, il nostro eremita e, soprattutto, di Sovana, che tuttora le custodisce. allora, il rapporto con la chiesa di S. con un suo seguace, al quale, dopo A questo punto S. Mamiliano viene Mamiliano? la morte del santo e al momento utilizzata anche a scopi sepolcrali, È naturalmente inverosimile sup- della costruzione di un simulacro come dimostra il reticolo di tombe porre che il proprietario delle in suo onore, avrebbe deposto il rinascimentali rinvenute. gruzzolo a futura memoUna pratica protrattasi Si dovrebbe inoltre In età romana, l’area della ria. quasi certamente sino alla ipotizzare che, all’indofine del Settecento, quanmani di questi eventi, nel chiesa di S. Mamiliano do la chiesa, visto il cattivo nome di san Mamiliano stato di conservazione, si fosse ingenerata la venne occupata da un viene abbandonata. confusione tra Sovana e impianto termale Sicuramente la deposiziol’isola di Montecr isto. ne monetale non venne Condizioni che, al moeffettuata dallo stesso Mamiliano, il monete potesse immaginare che mento, non trovano alcuna corriquale, essendo deceduto nel 460 proprio lí, secoli dopo, sarebbe spondenza oggettiva. d.C., non avrebbe potuto recupera- stata dedicata una chiesa al santo Nel V secolo, l’Italia era centro di re i solidi coniati all’indomani di patrono. È vero che il tesoro po- una crisi preoccupante, iniziata già quella data che sono invece com- trebbe essere in relazione con le con l’azione destabilizzante del presi nel tesoretto. Si deve quindi già citate strutture forse ascrivibi- cristianesimo e il dilagare della (segue a p. 41) ipotizzare che qualcun altro, verso la li all’età paleocristiana, ma ciò ima r c h e o 37
SCOPERTE • SOVANA
UN TUFFO NEL PASSATO Passeggiare a Sovana è come affrontare un lento ritorno al passato: lungo la strada che attraversa il piccolo borgo, i passi dei «viandanti» sono attutiti dalla pavimentazione in mattoni, pazientemente disposti a spina di pesce, che ben si amalgamano con le basse e ridenti abitazioni costruite in blocchetti di tufo. Il Medioevo si riconosce immediatamente, sin dall’ingresso presso i resti della Rocca, edificata intorno al Mille come abitazione fortificata dagli Aldobrandeschi, che ne furono proprietari fino alla fine del XIII secolo, quando passò di mano agli Orsini. Questi ultimi la riedificarono come dimora a tre piani, munita di cortile interno, cisterna per l’acqua, deposito per le granaglie, forno e, soprattutto, di un sistema di camminamenti e cunicoli sotterranei attraverso i quali ci si poteva rapidamente spostare in tutta sicurezza, e raggiungere la parte opposta dell’abitato. Conquistata da Siena agli inizi del Quattrocento, la Rocca fu restaurata da Cosimo I de’ Medici, nel 1572 e solo nel XVII secolo ebbe inizio il suo definitivo abbandono. I resti dell’edificio sono ancora oggi collegati ai sopravvissuti tratti di mura che in antico cingevano il borgo, al quale si accedeva attraversando tre porte:
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quella della Rocca, un tempo munita di ponte levatoio e antemurale; la Porta del Passo (o Segreta), ancora ben conservata; e la Porta Santa Croce, in prossimità del magnifico Duomo. Cuore del borgo medievale è la piazza del Pretorio, sulla quale prospettano il Palazzo Pretorio, il Palazzo Comunale (o dell’Archivio), e la chiesa di S. Mamiliano: questi edifici oggi fanno parte del Polo Museale di Sovana, inaugurato nel 2004 con una collezione di reperti
In alto: la piazza del Pretorio di Sovana. Al centro, il Palazzo Comunale (o dell’Archivio). Nella pagina accanto, in alto: una sala del Museo di S. Mamiliano, allestito negli spazi dell’omonima chiesa
medievale e in altri edifici adiacenti. Nella pagina accanto, in basso: Sovana, cripta del Duomo. Il reliquiario contenente le spoglie di san Mamiliano, morto sull’Isola di Montecristo nel 460.
provenienti dal ricchissimo territorio. Sulla piazza si affacciano anche la chiesa di S. Maria Maggiore e il piú recente Palazzo Bourbon del Monte. Nel XIII secolo il Palazzo del Pretorio era la sede comunale del tribunale, delle prigioni e delle magistrature forestiere: sulla facciata sono esposti gli stemmi dei commissari che governarono la cittadina tra il 1484 e il 1686, mentre sull’angolo esterno, inglobata dalla muratura dello sperone d’angolo, si nota la colonna sulla quale venivano affissi i bandi pubblici. Arricchito da affreschi del XVI secolo di scuola senese, l’edificio ospita al piano inferiore un centro di documentazione e informazione sulla cultura materiale del territorio, mentre il piano superiore è destinato alle mostre temporanee. «Parlano» di Medioevo anche la vicina Loggia del Capitano del Popolo, e – sul lato corto della piazza – il Palazzo Comunale, edificato nel XII secolo e utilizzato già nel XVII secolo come sede dell’archivio di Sovana. Seppur ampiamente rimaneggiata, dopo che in epoca rinascimentale alla sua facciata venne addossato il Palazzo Bourbon Del Monte, la chiesa di S. Maria Maggiore, risalente ai secoli XII-XIII, conserva un magnifico ciborio altomedievale, forse in origine collocato nella locale cattedrale. Alcuni affreschi del XV e XVI secolo decorano tratti delle pareti. La chiesa di S. Mamiliano, dedicata al santo che dal 1795 è il patrono di Sovana, venne edificata nel XII secolo sopra un impianto termale d’epoca romana. Qui furono inizialmente ospitate le reliquie di Mamiliano, prelevate nel 1460 dall’Isola del Giglio, e trasferite poi nel
Duomo di Sovana nel XVIII secolo. Negli ultimi anni, la struttura è stata recuperata e trasformata in sede museale, lasciando a vista un settore degli scavi archeologici (nel corso dei quali è venuto alla luce il «tesoro di San Mamiliano»). Piú tardo è invece il Palazzo Bourbon Del Monte, edificato nel XVI come residenza di un vescovo appartenente a una delle piú importanti famiglie aristocratiche del principato mediceo e attribuito a Jacopo Barozzi, detto il Vignola. La passeggiata può avere come ultima meta il Duomo dei SS. Pietro e Paolo, elegante esempio di architettura medievale in cui elementi romanici e gotici si fondono in un insieme di rara armonia. Sede vescovile, Sovana ricostruí tra la fine dell’XI e gli inizi del XII la sua cattedrale, che insiste su strutture piú antiche risalenti al IX-XI secolo. L’apparato scultoreo rapisce il visitatore sin dall’esterno, dove si ammira il portale serrato da bianche colonnine diversamente scanalate, ai cui lati spiccano due protomi leonine con le fauci spalancate. Anche gli stipiti marmorei del portale sono decorati con figure assai particolari: una sirena bicaudata a sinistra e un cavaliere con il braccio alzato in atto di brandire la spada, a destra. Completano il vivace apparato iconografico del portale le lastre, alcune di reimpiego, con pavoni, con l’albero della vita e con altri motivi vegetali. Dall’interno, suddiviso in tre navate da pilastri cruciformi bicromi, si accede alla cripta (forse risalente già all’VIII secolo), nella quale sono ancora conservate le reliquie di san Mamiliano. a r c h e o 39
SCOPERTE • SOVANA
STORIA E NATURA IN ARMONIA Inaugurato nel 1998, il Parco Archeologico «Città del Tufo» occupa un’area estesa, fortemente caratterizzata dall’azione erosiva dei torrenti e quindi da un paesaggio singolare e suggestivo, ricco di profondi canyon che si aprono nell’altopiano. Esso propone un percorso che realizza in pieno la sintesi tra natura, paesaggio e monumenti della civiltà etrusca e medievale. Nei suoi confini ricadono il borgo di Sovana, con i suoi monumenti piú significativi, le vie cave e le necropoli che si sviluppano intorno a esse, con le celebri tombe Ildebranda, della Sirena, Pola, Pisa e del Sileno. Qui è visitabile anche il Museo di S. Mamiliano. Nelle immediate vicinanze di Sorano, in posizione panoramica sopra il fiume Lente, è inoltre situato l’insediamento rupestre di San Rocco, con testimonianze di età medievale. Da qui si può raggiungere Sorano e visitare la Fortezza Orsini, che ospita il Museo del Medioevo e del Rinascimento. La visita al parco si completa con il villaggio rupestre di Vitozza, posto nelle immediate vicinanze della frazione di San Quirico di Sorano, con le sue duecento grotte.
DOVE E QUANDO Parco Archeologico «Città del Tufo» Visite gli orari e le modalità di accesso a siti e musei possono variare, anche in funzione della stagione: si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura o prendendo contatto con le sue sedi Info Parco Archeologico «Città del Tufo» tel. e fax: 0564 614074; www.leviecave.it Comune di Sorano tel.: 0564 633023; fax: 0564 633033 CoopZoe tel. e fax: 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it; www.coopzoe.it
Svastica con iscrizione etrusca
Tifone
Tomba Ildebranda
Poggio Stanziale
Tomba Pisa
Unità introduttiva Poggio Grezzano
1 Sentiero per Tomba Pola
e
Foss o
Colombari
Sovana
3
Pro v.le So va na ino art M an -S
Tomba Pola
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Palazzo Comunale S. Maria Maggiore
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Chiesa di S. Sebastiano (Unità introduttiva del Parco)
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Via Cava di S. Sebastiano
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Tomba della Sirena Necropoli di Sopraripa
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Palazzo Pretorio
Fine percorso attuale
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S. Mamiliano
Palazzo Bourbon ia del Monte lon
A sinistra: la facciata della Tomba della Sirena. Il frontone raffigura Scilla che avvolge nelle sue spire due amorini. Fine del III-inizi del II sec. a.C. Nella pagina accanto: pianta del Parco Archeologico «Città del Tufo» con i percorsi di visita: 1. Tomba Ildebranda; 2. Tomba della Sirena; 3. Poggio Grezzano; 4. Valle BonaMonte Rosello; 5. Costone del Folonia.
Tomba del Sileno Tomba dei Colombari
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a Prov.le Sovana - So Strad
rano
Via Cava
5 Tombe a dado Rocca Aldobrandesca Folonia Tomba Siena
corruzione della macchina burocratica imperiale. A ciò si deve aggiungere il pericolo delle invasioni dei popoli che premevano sulle frontiere, come i Goti che, dopo la battaglia di Adrianopoli (378), si erano stanziati in Mesia, Tracia e Macedonia, e, sotto la guida di Alarico, proprio agli inizi del V secolo, raggiunsero Roma e la saccheggiarono (410).
tempi, ma anche di un’ancora viva circolazione monetale. Testimonianza della relativa continuità con un passato ormai destinato a scomparire sotto i colpi dei tragici eventi che, tra la metà del VI e la metà del VII secolo – la guerra gotica, la conquista longobarda dell’Italia, la conquista vandala dell’Africa –, segnarono la fine del mondo classico.
LA FINE DI UN’ERA Nello stesso frangente, inoltre, si devono registrare carestie ed epidemie virulente, compresa la prima apparizione della malaria, che condizionarono notevolmente la vita di quel periodo e non solo. In un contesto cosí poco felice, è piú realistico pensare che fu l’insicurezza a suggerire ai facoltosi possessori la messa al sicuro del proprio gruzzolo. Infatti, molti sono i tesoretti tardo-antichi rinvenuti anche nell’area maremmana, a riprova della difficoltà dei
Desidero ringraziare per la collaborazione e per le riprese fotografiche la direttrice del Parco Archeologico «Città del Tufo», Lara Arcangeli, e la nuova gestione dello stesso, dalla presidente della Cooperativa Zoe, Claudia Pietrini, al presidente dell’Associazione Historia, Alessandro Barelli. PER SAPERNE DI PIÚ Lara Arcangeli, Gabriella Barbieri, Maria Angela Turchetti (a cura di), Il tesoro ritrovato, Laurum Editrice, Pitigliano 2012 a r c h e o 41
SCOPERTE • LAZIO
L’ACQUEDOTTO
PERFETTO L’ANTICO IMPIANTO CONCEPITO DALL’IMPERATORE TRAIANO CONTRIBUISCE TUTTORA, A DISTANZA DI MILLENNI, ALL’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO DELLA CITTÀ ETERNA. ECCO LA STORIA DI UN VERO PRODIGIO DELL’INGEGNERIA IDRAULICA ROMANA
di Giorgio Filippi e Cristiano Ranieri, con un contributo di Elena Felluca
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L’
acquedotto Traiano è uno degli impianti d’età antica che tuttora riforniscono Roma. Benché sia stato piú volte danneggiato in epoca tardo-antica e medievale e, in seguito al restauro di Paolo V Borghese (1605-1621), abbia assunto la denominazione di Acqua Paola (vedi box a p. 45), è verosimile credere che il tracciato e parte del condotto attualmente in uso ricalchino quelli originari. Recenti esplorazioni effettuate dal Gruppo Speleo Archeologico Vespertilio hanno gettato nuova luce sulla struttura e, in particolare, sulla localizzazione e la consistenza delle numerose opere di presa sulle pendici dei Monti Sabatini (gruppo montuoso dell’Antiappennino laziale che si estende intorno al lago di Bracciano, tra le province di Roma e Viterbo, n.d.r.) che hanno lasciato tracce archeologiche e nella toponomastica moderna. Nelle pagine che seguono, diamo conto delle ricerche che hanno interessato il caput aquae (inizio) dell’impianto traianeo.
RIFACIMENTI LIMITATI Le prese di captazione dell’acquedotto Traiano-Paolo presenti nella frazione di Pisciarelli (Bracciano), lungo il Fosso di Boccalupo sino alla zona detta di Grotta Renara, provano dunque che questo tratto dell’impianto e le relative prese risalgono all’epoca romana e che gli interventi e i rifacimenti rinascimentali sono piuttosto limitati. Nei pressi dell’Acqua Precilia, forse In questa pagina: Acqua Precilia (Bracciano, Roma). Un momento dell’esplorazione dell’acquedotto Traiano, nel punto in cui vi è una biforcazione tra il condotto principale e il tratto secondario di captazione. Nella pagina accanto: tenuta di Vicarello (Bracciano, Roma). Un tratto del condotto principale dell’acquedotto Traiano (poi Acqua Paola) sostenuto da arcate. a r c h e o 43
SCOPERTE • LAZIO
identificabile con la «Fonte del Grugnale», si trova il caput aquae principale, caratterizzato da una camera di captazione sotterranea di epoca romana alta 2,40 m, lunga 20 e larga 1,10, con volta a botte e paramento murario in opera laterizia e incerta. Alla base delle pareti si aprono, a intervalli regolari, numerose bocchette di presa che drenano l’acqua dal banco roccioso. Dalla camera di captazione l’acqua viene canalizzata all’interno di un piccolo cunicolo idraulico sino al condotto principale dell’Acqua Paola.
CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE Il cunicolo ha un’altezza compresa tra 1,00 e 1,40 m e una larghezza oscillante tra i 40 e i 60 cm. Lungo le pareti si notano alcuni rifacimenti di epoca rinascimentale. La volta, a sezione ogivale, è stata realizzata in conglomerato cementizio. La pavimentazione, in laterizio, forma piccoli gradini posti a diverse distanze lungo il tracciato per far defluire l’acqua dalla quota di captazione a quella del condotto principale. Nella volta del cunicolo si aprono due pozzi circolari, posti a distanza piú o meno regolare, utilizzati per l’aerazione e per l’accesso del personale addetto alla manutenzione. Sopra il punto di congiunzione tra il cunicolo di adduzione e il condotto principale vi è un terzo pozzo di ispezione. Anticamente in questo tratto venivano captate anche le sorgenti della «Botte del Belluccio» che è impossibile ispezionare a causa di un muro moderno. Si può invece percorrere l’acquedotto in discesa.Tuttavia, spessi depositi di terra, accumulatisi in alcuni tratti del tunnel principale, causano l’innalzamento dell’acqua e rendono oltremodo difficoltosa la progressione. Dopo circa 200 m, al di sotto di un A destra: Acqua Precilia. Condotto secondario a gradini di adduzione idraulica in opera mista. 44 a r c h e o
25 000 SCUDI PER DISSETARE ROMA L’Acqua Paola raccoglie varie sorgenti nelle colline a nord-ovest del lago di Bracciano e percorre la circonferenza del bacino fino ad Anguillara Sabazia, ove piega verso Roma sfociando sul Gianicolo. L’intero acquedotto entrò in funzione nel 1612, quando Paolo V ripristinò i condotti voluti dall’imperatore Traiano per rifornire d’acqua potabile la XIV regione transtiberina. Con Istromento 23 agosto 1608, Virginio Orsini, secondo duca di Bracciano e possessore del territorio lacuale, cedette a Paolo V alcune sorgenti e condotti antichi per fornire acqua potabile a Roma: «1. Che il signor Don Virginio dà, e concede à Nostro Signore, e successori, e ministri sopra ciò deputati l’acqua delle mole vecchie di Bracciano, l’acqua della Vigna Orsina, quella di Venere, il primo rio, e il secondo rio vicino a Trivignano, non vendute fin’ora dagli architetti, e non misurate». La cessione avvenne in cambio di 25 000 scudi e della metà delle acque che andava a favore del duca Orsini. Inizialmente l’Acqua Paola mescolava acque sorgive che, oltre al Fontanone del Gianicolo, rifornivano altre fontane pubbliche, mole, opifici, giardini, vigne, orti. Alessandro VII volle potenziare la portata di acqua del condotto principale ipotizzando di captare le sorgenti
della Fiora proprio per mantenerne la purezza, ma il progetto non venne mai realizzato. Poco tempo dopo, Clemente X stipulò un nuovo accordo con Flavio Orsini, ottenendo la possibilità di pescare acqua dal lago di Bracciano e introdurla nel condotto principale, aumentandone notevolmente la portata; scopo iniziale di questo potenziamento era quello di rifornire una seconda fontana in piazza S. Pietro.
Allora fu necessario adottare accorgimenti per regolare il regime dell’acqua e assicurarne la costanza, tra questi vi fu la costruzione di un muro di argine per regolare l’uscita dell’emissario Arrone, la costruzione di un condotto nuovo e di un edificio di presa vicino la foce dell’emissario stesso. È ben visibile la struttura realizzata da Pio VI e ancora in uso sebbene sia stata dotata di macchinari moderni. Un ulteriore potenziamento avvenne intorno al 1829 per mezzo di un canale sotterraneo che introduceva nel condotto l’acqua del lago di Martignano. L’acquedotto Paolo inizia nella frazione di Pisciarelli, dove è il toponimo Acqua Precilia, riconducibile a un gentilizio romano. Due cunicoli di captazione convergono nel condotto principale che scende lungo il fosso di Boccalupo, attraversandolo due volte; poi gira sul lato nord del lago fino a giungere ad Anguillara Sabazia, presso l’emissario Arrone, e da lí si dirige verso Roma. Elena Felluca In alto: percorso dell’acquedotto Traiano-Paolo, dalle sorgenti a Vigna Orsini (rielaborazione su carta IGM). A sinistra: Acqua Precilia. La botte di captazione dell’acquedotto.
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SCOPERTE • LAZIO
LE ULTIME SCOPERTE Nel Cortile della Pigna dei Musei Vaticani si conserva un cippo in travertino, che definiva l’area di terreno di pertinenza dell’acquedotto Traiano rispetto alle proprietà private confinanti. Proveniente da La Storta, al bivio tra la Cassia e la Braccianese (l’antica via Clodia), il manufatto reca un’iscrizione nella quale si legge che: «L’imperatore Cesare, figlio del divo Nerva, Nerva Traiano Augusto Germanico Dacico, pontefice massimo, nella tredicesima potestà tribunizia, acclamato imperatore per la sesta volta, console per la quinta, padre della patria, ha fatto addurre fino alla città [Roma], a spese proprie, l’aqua Traiana, dopo aver acquistato una fascia [di rispetto] larga 30 piedi [pari a 8,88 m]». Redatto tra il 10 dicembre del 108 e il 9 dicembre del 109, il testo documenta la fine dei lavori di costruzione dell’acquedotto Traiano. Papa Paolo V affidò la ristrutturazione dell’impianto all’architetto Giovanni Fontana (1540-1614), che la ultimò in circa cinque anni. Il percorso del nuovo acquedotto si mantiene quasi tutto sotterraneo, salvo brevi tratti affioranti: tra questi «gli Arcacci», l’opera forse piú vistosa del progetto di ricostruzione dell’aqua Traiana, situata nell’area extraterritoriale di Santa Maria di Galeria presso Cesano, proprietà della Santa Sede. Si tratta di un viadotto lungo 400 m, costruito in sostituzione del manufatto traianeo, che consentiva l’attraversamento del fosso Galeria. La lapide sulla sommità dell’arcata centrale ne ricorda le vicende costruttive: «Paolo V Pontefice Massimo, dopo aver ripristinato con un’opera sotterranea e su archi i condotti dell’aqua Alsietina, costruiti un tempo dall’Augusto Cesare [Traiano], subito dopo crollati, da Adriano I Pontefice Massimo [772-795] restaurati, gli stessi nuovamente caduti in rovina per vetustà, l’acqua raccolta da fonti piú salubri del territorio di Bracciano
altro pozzo circolare di ispezione, il condotto principale riceve l’apporto di un cunicolo che capta le acque della cosiddetta «Botte delle Cinque Vene». L’esplorazione di tale condotto secondario è stata fondamentale per la datazione di questo tratto. Il cunicolo fu costruito in parte a cielo aperto, tramite lo scavo di una trincea, e in parte attraverso un tunnel sotterraneo. La muratura laterale è in opera incerta, mentre la volta del condotto, a sezione ogivale, è realizzata in conglomerato cemen46 a r c h e o
proprietà degli Orsini, condusse nella Città nell’Anno della Salute 1608, quarto del pontificato». L’iscrizione attribuisce i resti antichi sottoposti all’opera moderna all’aqua Alsietina – detta anche Augusta, perché costruita per volere di Augusto oltre un secolo prima –, il cui tracciato correva poco lontano e intersecava la Traiana: a tale proposito gli studiosi hanno pensato finora a un errore. Recenti indagini archeologiche condotte dalla Direzione dei Musei Vaticani nell’area del Centro radiotrasmittente della
tizio. Il cunicolo misura 90 cm di stati impiegati nei Mercati Traianei altezza e 45 di larghezza. suggerisce che l’officina esistesse già intorno al 105 d.C. In particolare, il IL MARCHIO DI FABBRICA tipo di bollo in oggetto è ampiaLa pavimentazione è costituita da mente documentato nella piena età mattoni bipedali: finora ne sono traianea. Il testo epigrafico è il sestati identificati 25, recanti un mar- guente: DOL ANTEROT SEVER chio di fabbrica, non sempre leggi- CAES, cioè Dol(iare) Anterot(is) bile a causa del dilavamento. Quelli Sever(iani) Caes(aris). Si tratta della conservati recano impresso il tim- prima testimonianza epigrafica di bro di Anteros Severianus (vedi box a età traianea proveniente dall’interno p. 48): a oggi, non si conosce la data dell’acquedotto, che permette di d’inizio della sua produzione, ma il datare con sicurezza la costruzione fatto che gli stessi mattoni siano del manufatto.
Radio Vaticana offrono ora nuovi elementi di valutazione per dirimere la vexata quaestio dell’ambiguità della doppia denominazione dei due antichi acquedotti romani e della loro esatta identificazione topografica. Grazie a queste ricerche, sono stati riportati in luce: un tratto della via Clodia prossimo al sito di Careiae, ricordato da Sesto Giulio Frontino – sovrintendente delle acque addotte a Roma dal 97 alla morte, nel 101 d.C. – nell’opera De aquaeductibus Urbis Romae a proposito delle sorgenti dell’aqua Alsietina; resti di monumenti sepolcrali e una conduttura idrica in piombo sotto il basolato di un diverticolo della via Clodia. Tale approvvigionamento idrico, destinato a un’opera pubblica o a una proprietà privata, presuppone l’utilizzo di una certa quantità di acqua continua e la vicinanza di un acquedotto (aqua Alsietina). La scoperta può essere collegata al rinvenimento nella stessa area, nel 1928, di due fistulae aquariae recanti il nome di Vespasiano. Giorgio Filippi
Nel tratto terminale del piccolo cunicolo di adduzione si aprono direttamente lungo le pareti laterali e a distanza irregolare, diverse bocchette di captazione che drenano l’acqua dal banco roccioso. Dalla zona delle Cinque Vene, il cunicolo principale corre lungo il Fosso di Boccalupo, sino a scavalcarlo con un ponte-condotto, presso il quale riceve l’apporto idrico della sorgente «Botte del Micciaro». Si tratta di una camera di captazione sotterranea a pianta rettan-
In alto: la mostra dell’Acqua Paola sul Gianicolo, piú nota come «Fontanone», in un dipinto di Gaspare Vanvitelli (Gaspar Van Wittel). 1700. Collezione privata.
Botte del Micciaro. Camera con bocchette di captazione. Nella pagina accanto: cippo dell’acquedotto Traiano, da La Storta. 108-109 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. a r c h e o 47
SCOPERTE • LAZIO
CHI ERA ANTEROS SEVERIANUS? E DOVE AVEVA LE SUE FORNACI? La produzione laterizia di Anteros Caes(aris) n(ostri) ser(vus), «schiavo imperiale» tra il regno di Traiano (98-117) e il 123 (al tempo di Adriano), è documentata da 14 tipi di bollo, che si collocano nell’arco di circa un ventennio. La serie è stata finora riferita a un solo individuo, anche se, a rigore, potrebbe trattarsi di due personaggi omonimi, appartenenti alla stessa classe sociale e coinvolti, piú o meno contemporaneamente, nel medesimo settore produttivo: Anteros è infatti un nome molto comune tra gli schiavi della prima età imperiale. Alcuni dei suddetti bolli menzionano la proprietà di fig(linae) da parte di Anteros e recano la data del 123, in altri costui aggiunge al proprio nome servile il secondo cognome Severi(anus), che deriva certamente da un precedente padrone Severus; nei restanti il testo è formato dal primo nome seguito dalle sigle CAES, CAE, che esprimono la condizione di schiavo imperiale; in questi ultimi talvolta è aggiunta, al centro del bollo, la lettera P. Nell’area tiberina, dove il trasporto di materiale pesante in discesa era relativamente facile, mentre la risalita del fiume risultava assai piú difficile, lunga e costosa, la ricerca delle fornaci ha permesso di scoprire, attraverso lo studio della diffusione dei bolli, che i laterizi sono prodotti a monte per essere esportati a valle, verso i principali centri di mercato di Roma e Ostia. In quest’area la presenza di bolli – anche se in un numero limitato di esemplari – contribuisce a restringere, a una determinata altezza del corso del fiume, la localizzazione delle fabbriche laterizie. L’attestazione piú a nord di figlinae che abbiano fornito il mercato «urbano» sono i praedia imperiali di (Pompeia) Plotina Augusta, moglie di Traiano, localizzati tra Todi e Perugia. Poiché i siti tiberini «piú settentrionali» che abbiano restituito bolli laterizi dell’officina di Anteros (Severianus) sono nella Valle del Rio, che dalle pendici dei Monti Cimini scende al Tevere attraverso i Comuni di Soriano del Cimino e Bomarzo, è plausibile localizzare gli impianti produttivi in quel territorio, che si va rivelando di straordinario interesse per l’elevata concentrazione di fornaci laterizie di età
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imperiale. Rimangono ancora da indagare altri aspetti, tra cui la geografia della proprietà fondiaria imperiale e i rapporti tra imperatore e privati nella gestione e nel controllo degli appalti delle fornaci laterizie, un settore produttivo cruciale per la politica edilizia imperiale. Il fatto che il nome di Anteros (Severianus) ricorra sui laterizi di numerosi monumenti pubblici di Roma (Mercati di Traiano, Terme di Traiano, latrina pubblica sopra il Foro di Cesare, Portico degli Argentari, Casa delle Vestali, Pantheon, ecc.) suggerisce un controllo delle fornaci da parte dell’amministrazione imperiale di Traiano, a cui lo schiavo era forse legato in qualità di responsabile del settore produttivo o di amministratore del distretto in cui si trovano le fornaci: p(rocurator?). L’introduzione nel 110 d.C. della data consolare nei bolli dei laterizi destinati al mercato urbano, documenta che sotto Traiano erano iniziate nuove procedure amministrative di controllo della produzione e del trasporto, forse legate anche alla necessità di distinguere i laterizi destinati all’edilizia pubblica di Roma, per i quali l’amministrazione imperiale affrontava i costi di produzione, di trasporto e di posa in opera. G. F.
In alto: Grotta Renara. Il secondo ponte-condotto sul Fosso di Boccalupo. A sinistra: Valle del Paradiso. Il condotto principale in opera incerta con piccola captazione laterale. Nella pagina accanto, a destra: «Botte delle Cinque Vene». Un tratto del condotto secondario pavimentato con mattoni bipedali che recano il timbro di Anteros Severianus (del quale, a sinistra, è riprodotta la restituzione grafica).
golare (13,80 x 3,70 m, per un’altezza di 4,20 m), con volta a botte e muratura in opera laterizia e incerta. Alla base delle pareti si aprono, a intervalli regolari, 38 bocchette di presa, che intercettano l’acqua dallo strato roccioso. Sul lato orientale si apre un cunicolo idraulico in cui viene convogliata l’acqua raccolta dalle bocchette sino al condotto principale.
CUNICOLI E PONTI Dal Micciaro il condotto dell’Acquedotto Traiano-Paolo riprende il suo percorso, scavalcando con un altro ponte-condotto, nei pressi del «Passo del Pisciarello», un piccolo ruscello affluente del Fosso di Boccalupo. Lungo questo tratto dell’acquedotto si aprono, sulla volta del cunicolo, alcuni pozzi rettangolari in opera reticolata. In località «Valle del Paradiso» l’acquedotto, dopo aver incanalato l’acqua di una piccola vena sotterranea e aver scavalcato un altro rivo affluente del fosso principale con un’opera di imbrigliamento, capta le acque della sorgente «Botte della Piscina». Questi nuovi dati sull’acquedotto Traiano-Paolo sono stati presentati in una conferenza tenuta ai Musei Vaticani il 12 marzo 2015. Desideriamo ringraziare Loredana Fauci, Fabrizio Marincola, Elena Besana,Tullio Dobosz, Luigi Felluca e Mario Ranieri per l’impegno profuso e la consueta professionalità dimostrata nelle attività di ricerca. a r c h e o 49
SCOPERTE • OSTIA
ECCO IL PORTO CHE NON C’ERA SORTA ALLA FOCE DEL TEVERE, OSTIA FU LO SCALO PIÚ IMPORTANTE DELLA ROMA IMPERIALE. EPPURE, LE VESTIGIA DI QUELLA CHE DOVEVA ESSERE UNA STRUTTURA GRANDIOSA SCOMPARVERO SENZA LASCIARE TRACCIA. FINO AL GIORNO IN CUI È ENTRATA IN AZIONE UNA SPECIALE MACCHINA ESCAVATRICE… di Jean-Philippe Goiran, Ferréol Salomon, Jonatan Christiansen, Giulio Palumbi
O
stia è uno tra i siti antichi piú ricchi in Italia per dimensioni e qualità delle sue vestigia. Situata alla foce del Tevere (il nome deriva proprio dalla parola latina ostium che significa «ingresso», «entrata» o «foce di un fiume»), è la prima colonia marittima di Roma, che la leggenda vuole fondata dal re Anco Marzio alla fine del VII secolo a.C.: una storia che però, a oggi, non è stata confermata dalle indagini archeologiche. Al momento, i resti piú antichi di Ostia sono quelli del castrum (l’accampamento militare) e risalgono soltanto alla seconda metà del IV secolo a.C. A dispetto della profusione di fonti letterarie che evocano il primo porto di Roma, e contrariamente al sito di Portus (il bacino artificiale costruito da Claudio e Traiano) che si trova a Sulle due pagine: foto aerea dell’area archeologica di Ostia, sulla quale è riportata la posizione dei siti nei quali sono stati effettuati i carotaggi che hanno fornito indicazioni decisive per la localizzazione dell’antico porto. 50 a r c h e o
Qui sopra: lastra in terracotta raffigurante una nave caudicaria, un tipo di imbarcazione su cui si trasbordavano le derrate giunte al
porto, per inoltrarle, risalendo il corso del Tevere, fino a Roma, da una tomba della necropoli di Porto. Inizi del II sec. d.C. Ostia, Museo Ostiense.
PO1
PO2
a r c h e o 51
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SCOPERTE • OSTIA
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Laguna (stagno di Maccarese)
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52 a r c h e o
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UNA SINERGIA PROFICUA Piú recentemente un’équipe pluridisciplinare franco-italiana ha ottenuto per la prima volta (dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, sede di Ostia), l’autorizzazione a realizzare carotaggi sul sito di Ostia, mirati a verificare ed eventualmente accertare la presenza di un bacino portuale. I ricercatori hanno utilizzato una tecnica di carotaggio ad alta risoluzione elaborata dalla società GEOAMBIENTE, con una carotatrice meccanica rotativa provvista di tubi di rivestimento, che evitano la contaminazione dei campioni e hanno consentito di aggirare il problema della falda freatica, la cui presenza rende molto difficili gli scavi in questa zona. Il progetto, che è un esempio di proficua collaborazione tra pubblico e privato, evidenzia l’utilità della ricerca geo-archeologica e delle nuove tecnologie nello studio dei porti antichi. Due carotaggi di 13 m (PO1 e PO2) sono stati dunque effettuati nell’area in questione e hanno prodotto una stratigrafia unica che per-
di
Fiumicino, le installazioni portuali di Ostia sono ancora sconosciute, tanto da evocare perfino l’idea di un porto perduto! A partire dal XIX secolo si sono succeduti numerosi tentativi di localizzazione del porto fluviale, ma senza grandi successi. L’attenzione dei ricercatori si è concentrata in modo particolare su una depressione situata lungo gli argini, tra il Palazzo Imperiale e la Torre Boacciana (una torre medievale costruita su strutture di epoca romana). Agli inizi degli anni 2000, un’équipe di archeologi tedeschi ha condotto prospezioni geomagnetiche in questa zona, i cui risultati hanno confermato l’esistenza di un’area priva di costruzioni (un mercato? un bacino?), senza tuttavia porre fine al dibattito sulla possibile presenza di un bacino portuale.
Lido di Ostia
mette di risalire fino al I millennio a.C. Grazie allo studio e alle analisi dei sedimenti, sono state distinte tre fasi cronologiche. L’unità sedimetaria basale è la piú profonda. Datata al radiocarbonio tra il IX e l’VIII secolo a.C., ovvero a un periodo anteriore alla fondazione di Ostia, è composta di sedimenti di natura fluviale e marina: una circostanza che ha dunque consentito di localizzare, per la prima volta, la posizione geografica della foce del Tevere, in un momento che
In alto: cartina del settore centrale del litorale romano, con le aree occupate dagli insediamenti di Ostia e Portus, il bacino esagonale di Traiano, l’antico corso del Tevere e le principali strade.
Villa di Plinio il Giovane
La Torre Boacciana. La costruzione è di epoca medievale, almeno nella parte superiore, ma sorse su precedenti strutture di epoca romana, collegate all’attività portuale. Il nome «Boacciana» deriva probabilmente da quello della famiglia romana dei Bobazani.
Tevere
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SCOPERTE • OSTIA
LA SEQUENZA STRATIGRAFICA DEL CAROTAGGIO PO2 C
SCOMPARSA DEL PORTO
0
Livello del mare III-V sec. d.C. 160 a.C.-25 d.C. 160 a.C.-25 d.C.
Sabbie ricche di carboni
B2
45 a.C.-65 d.C. 165-5 d.C. 100-50 d.C. 165 a.C.-15 d.C.
-2
DEPOSITI PORTUALI
-3
Sabbie fluviali trascinate dalle piene del Tevere
Sabbie gialle Sabbie ricche di materiale organico
360-105 a.C.
365-170 a.C.
-4
Il porto viene ricoperto dai limi del Tevere
Sabbie gialle
B
-1
Profondità (m)
Limi giallastrI
Argille grigio scure con posidonie
B1
di Ostia in attività
725-260 a.C.
-5
350-50 a.C. 360-110 a.C. -6
-7
Fondo del bacino portuale A
Sabbie grigie con conchiglie fluvio-marine
A2
DEPOSITI PRE PORTUALI
Argille
835-735 a.C.
-8
Sabbie grigie fluvio-marine
A1
-9
MATERIALI DATATI 14C carbone legno materiali vegetali Posidonia 14C in corso
si colloca, appunto, agli inizi del I millennio a.C. La prima sequenza stratigrafica, composta principalmente di sabbie, è seguita da una seconda unità ricca di sedimenti melmosi che marcano dunque un cambiamento. A una sedimentazione sabbiosa e grossolana succedono infatti sedimenti fini limo-argillosi di colore grigio scuro. 54 a r c h e o
Paleo-foce del Tevere
ceramica frammenti di legno
A destra: la carotatrice in azione.
Questo cambiamento si situa a -6,7 m sotto lo zero marino attuale, ovvero a -5,9 m sotto lo zero marino antico. In questa seconda unità si registra il rafforzamento dell’influenza delle acque dolci di fiume. Allo stesso tempo è importante notare il carattere protetto e calmo di questo ambiente, documentato dai depositi fini di colore scuro.
Delta sottomarino
DAL SOTTOSUOLO AL LABORATORIO La piattaforma denominata OMEAA (Observation et mesure des environnements actuels et anciens, Osservazione e misurazione degli ambienti attuali e antichi) rappresenta un efficiente strumento di lavoro per condurre ricerche tecnologicamente avanzate in collaborazione tra geografi, biologi, archeologi, geologi e storici dell’Università di Lione e del CNRS (il Consiglio Nazionale delle Ricerche francese). Questa piattaforma è stata creata da due diversi laboratori di ricerca (l’UMR 5600 e l’UMR 5133) che hanno deciso di condividere le loro strumentazioni e le loro conoscenze. Una prima équipe è specializzata nella «lettura» degli archivi sedimentari in contesto archeologico. I sedimenti contengono un’enorme quantità di informazioni che le tecnologie moderne permettono di raccogliere, offrendo nuovi punti di vista su specifici aspetti della storia di una città antica. Una seconda équipe analizza invece i differenti tipi di ambiente (fluviale, marittimo, lacustre…) e i processi attuali. Tra le attività dell’OMEAA rientrano la preparazione e l’analisi dei campioni, il mantenimento e la gestione del materiale, l’organizzazione di esperimenti in laboratorio e sul campo, la fornitura di servizi ai propri partner (pubblici, privati e istituzioni scientifiche come l’Ecole Française de Rome, «Sapienza» Università di Roma, l’Università Roma Tre e il CNR), e infine lo stoccaggio degli archivi sedimentari in celle frigorifere. I campioni prelevati grazie ai carotaggi, infatti, vengono tagliati in due semi-cilindri: il primo viene analizzato e, di conseguenza, distrutto; il secondo, invece, è appunto conservato in cella frigorifera, cosí da poter essere analizzato in futuro con eventuali nuove metodologie.
Questa unità è tipica dei sedimenti che si depositano per decantazione in un bacino portuale, che è appunto un ambiente di sedimentazione calma, nel quale le navi possono entrare e scaricare le loro merci. L’analisi stratigrafica ha rivelato che tale ambiente ha tuttavia continuato a subire sia influenze marine che fluviali: si tratta, dunque, di un bacino situato
in prossimità della foce, la cui profondità, al momento dell’entrata in funzione, era pari a -6 m. Alla sua base, le datazioni radiocarboniche indicano un orizzonte compreso tra il IV e il II secolo a.C. Numerosi frammenti di ceramica, purtroppo non diagnostici, sono stati trovati tra i -3,3 e i -2,6 m di profondità. Il materiale organico,
In basso: gusci fossilizzati di balani (Balanus perforatus) sulla banchina (o il molo). La presenza di questi piccoli crostacei è prova della natura marina dei sedimenti. E, per la prima volta, fornisce un’indicazione sul livello del mare in età antica.
sottoposto anch’esso all’analisi radiocarbonica, ha invece fornito una datazione compresa tra la metà del II e l’inizio del I secolo a.C (ovvero tra il 160 a.C. e il 25 d.C. a una profondità di -1,6 m).
INTERPRETARE I DATI Come si possono dunque interpretare questi risultati in considerazione delle problematiche storiche e archeologiche? Il bacino inizia a funzionare dal IV-II secolo a.C., una data che coincide con l’impianto della colonia e si accorda bene anche con le testimonianze letterarie. Secondo le fonti, infatti, il porto di Ostia era uno scalo armato e altamente strategico. Base navale durante le guerre puniche, ebbe funzioni commerciali e militari durante il III secolo a.C. Nel 211 a.C., il padre di Scipione l’Africano sarebbe partito da Ostia con trenta quinqueremi (navi da guerra a remi), prima di raggiungere le coste dell’Iberia (Spagna), allo scopo di fermare l’esercito del fratello di Annibale, il generale Asdrubale (245-207 a.C.;Tito Livio, Ab Urbe Condita, XXVI, 19, 11). A partire dal II secolo a.C., il porto di Ostia sembra progressivamente orientarsi sull’esclusivo rifornimento di Roma, in particolare del grano proveniente dalla Sicilia e dall’Africa, continuando cosí almeno fino alla seconda metà del I secolo a.C. Nell’87 a.C., durante la guerra civile che vede opporsi i generali Mario (157-86 a.C.) e Silla (138-78 a.C.), lo scalo giocò un ruolo fondamentale. Mario prese e saccheggiò Ostia per bloccare l’approvvigionamento marittimo della capitale, che rappresentava un obiettivo cruciale durante le lotte intestine tra le differenti a r c h e o 55
SCOPERTE • OSTIA
fazioni repubblicane. Il porto era ancora in funzione nel 69 a.C., quando pirati, probabilmente provenienti dalle coste della Cilicia, in Asia Minore, vi penetrarono e bruciarono alcune navi (Dione Cassio, Storia Romana, XXXVI, 20). Questo raid evidenziò il crescente pericolo della pirateria nel Mediterraneo, che contendeva ai Romani la supremazia dei mari dalla fine del II secolo a.C. All’indomani di questo episodio, fu avviata la ricostruzione delle mura di Ostia. Tradizionalmente considerato come un porto fluviale precluso alle imbarcazioni di grande pescaggio, il bacino ostiense, grazie alle indagini geo-archeologiche, si è invece rivelato dotato di una profondità di almeno 6 m, che gli permetteva di ospitare navi commerciali e da carico. E la manutenzione di una simile infrastruttura localizzata sulla riva sinistra del Tevere, in diretta prossimità delle influenze e delle correnti marine, deve avere richiesto un impegno costante. L’analisi di laboratorio degli archivi sedimentari (vedi box a p. 55) ha evidenziato il cambiamento nella 56 a r c h e o
natura del riempimento del bacino. I geoarcheologi hanno infatti rilevato una prima fase di interramento, con sedimenti limo-argillosi, a cui segue un cambiamento improvviso della facies sedimentaria. La fine della sequenza stratigrafica portuale è infatti caratterizzata dall’accumulo massiccio di sedimenti alluvionali e dall’allettamento di sabbie limose giallastre. È stato possibile toccare con mano ciò che Strabone (58 a.C.-21/25 d.C.) aveva visto e descritto, ovvero «L’insabbiamento formatosi alla foce del Tevere a causa del limo trasportato dal fiume e dai suoi numerosi affluenti» (Geografia,V, 3, 5).
L’INSABBIAMENTO Le analisi radiocarboniche e laser micro-granulometriche provano che una successione di grandi piene del Tevere insabbiò definitivamente il bacino portuale di Ostia tra il II e il primo quarto del I secolo a.C. (malgrado eventuali fasi di ripulitura/dragaggio). In questo periodo, la profondità del bacino scese a meno 1 m, forse 50 cm circa, rendendo impossibile qualsiasi forma di navigazione.
Gli archivi sedimentari coincidono dunque con le fonti scritte. Gli autori antichi hanno infatti evocato spesso i problemi di navigazione alle foci del Tevere e l’insufficienza delle strutture portuali. Già alla fine del III secolo a.C., la nave che trasportava la statua di Cibele a Roma s’incagliò a Ostia su un banco di sabbia davanti alla foce del Tevere (Sesto Aurelio Vittore, De viris illustribus, 46 ; Ovidio, Fasti, 291-310). Un episodio che, pur non essendo direttamente legato al bacino portuale, mette in evidenza le difficili condizioni di navigazione e i ricorrenti problemi di insabbiamento della zona. Gli assalti di Mario nell’87 a.C. o quello dei pirati nel 69 a.C. dimostrano l’esistenza di un porto attivo nella prima metà del I secolo a.C., ma, dal primo quarto del I secolo d.C., la situazione cambia. Ancora Strabone cita Ostia come città sprovvista di uno scalo, principalmente a causa del fiume e del suo sbocco. Le grandi imbarcazioni sono infatti costrette a rimanere alla fonda davanti alla foce del Tevere: «Ostia è priva di porto a causa dei con-
che sembra perciò avere luogo molti decenni prima della costruzione del nuovo complesso di Portus – localizzato 3 km a nord di Ostia –, nel 42 d.C., sotto il regno di Claudio. Malgrado l’abbandono del suo bacino, Ostia non subí lo stesso destino, anzi: la fine dell’epoca repubblicana è per la città un periodo di grandi costruzioni pubbliche (come il nuovo teatro, sorto tra il 18 e il 12 a.C.) e di acquisizione di una maggiore autonomia. L’area urbana continua infatti ad allargarsi e, in prossimità di Porta Marina, all’epoca di Giulio Cesare sorgono vasti magazzini (Horrea), che sono prova della funzione annonaria (il servizio pubblico incaricato dell’approvvigionamento e della distribuzione del grano) del porto di Ostia. In alto: Ostia. La piazza del Foro. In basso: mappa di Ostia, dall’opera Civitates Orbis Terrarum di George Braun e Frans Hogenberg. 1572-1617 circa. Sono ben riconoscibili il porto di Claudio (sulla destra) e il bacino esagonale di Traiano.
tinui insabbiamenti che si formano alla foce del Tevere dovuti al limo trasportato dal fiume e dai suoi numerosi affluenti (…) [è dunque necessario] che, operazione non senza pericoli, le navi che vengono dal mare gettino l’ancora a una certa distanza dalla costa (…) successivamente una moltitudine di imbarcazioni leggere è sempre pronta a scaricare le merci delle navi ancorate al largo (…) permettendo cosí alle navi di ripartire in tempi brevi, senza dover entrare nel fiume» (Geografia,V, 3, 5). Dionigi di Alicarnasso (60 a.C.-8 a.C.), contemporaneo di Strabone ci fornisce una testimonianza analoga: «Le navi di grande tonnellaggio rimangono ancorate davanti alla foce e piccole barche fluviali scaricano e trasportano le merci» (Antichità Romane, III, 45). Nessun porto o bacino portuale viene dunque evocato in queste testimonianze. Una «scomparsa»
UNA QUESTIONE APERTA Ma come può essere stato assicurato l’approvvigionamento di Roma per quasi due generazioni, senza un bacino portuale alla foce del Tevere? La questione rimane aperta e tre sono le ipotesi principali: l’esistenza di un porto lineare con una sistemazione a molo delle rive del Tevere; l’apprestamento di un bacino portuale secondario non ancora individuato; la riorganizzazione del traffico marittimo su Pozzuoli. Dopo il II secolo a.C. e durante tutta l’epoca repubblicana, i circuiti
di approvigionamento garantito dal trasporto marittimo, e in particolare del grano, si estendono tra Pozzuoli e Ostia. Fino all’inizio dell’impero, la prima è considerata come il grande porto marittimo d’Italia, dotato di lunghi moli costruiti su archivolti. Mentre una parte delle derrate veniva scaricata in Campania ed era successivamente inoltrata via terra fino a Roma, un’altra parte veniva direttamente sbarcata e immagazzinata a Ostia. Questo sistema ha funzionato per almeno due secoli e si deve immaginare l’esistenza di un certo numero di imbarcazioni che effettuavano la spola tra la baia di Napoli e la foce del Tevere. Per superare le difficoltà del trasporto via terra, in età cesariana si pensò di realizzare un canale monumentale, capace di collegare Ostia e Puozzoli, ma il progetto non fu mai realizzato. Il degrado successivo all’insabbiamento del bacino portuale alla foce di Ostia avvenne tra il I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. e certamente modificò i circuiti di approvvigionamento, principalmente a vantaggio di Pozzuoli. Eppure, non è sicuro che Ostia non abbia usufruito di alcuna infrastruttura per due generazioni. Si può invece immaginare che se la foce era divenuta impraticabile, fossero state realizzate nuove infrastrutture sulla costa,
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SCOPERTE • OSTIA
forse lungo la spiaggia che fiancheggia la parte ovest della città. In effetti, resti interpretati come moli di epoca repubblicana sono ancora visibili sia nel «fiume morto» del Tevere, a nord-est della città, sia vicino a Porta Marina, sotto una villa di epoca piú tarda, ribattezzata «Edificio con opus sectile». Nel pri-
mo caso si tratta di un’installazione fluviale costruita perpendicolarmente agli argini; nel secondo, le strutture sono situate lungo la linea di costa, a ovest di Ostia, ma non è certo che siano di natura portuale. Le nuove indagini, attualmente in corso, potranno senz’altro apportare informazioni decisive a riguardo.
Per il momento, questi resti permettono comunque di confermare l’esistenza di infrastrutture marittime e portuali di vario tipo. E sembra certo che Ostia, come la maggior parte dei porti antichi, fu il frutto di una serie di riadattamenti derivanti dall’evoluzione continua del delta del Tevere.
«BIONDO», MA NON SEMPRE PLACIDO La storia idrologica del Tevere è la piú antica d’Europa. La prima menzione di una piena del Tevere risale al 414 a.C. Sappiamo infatti da Tito Livio che in quell’anno «Un’inondazione del Tevere aveva devastato terre e fattorie circostanti». Nella circostanza, i piú colpiti furono i Veientani, che abitavano appunto nel territorio di Veio, vale a dire poco a nord di Roma. Nei secoli seguenti, il rischio di piene si spostò verso l’Urbe e, infatti, la quasi totalità degli episodi menzionati nelle fonti corrisponde a inondazioni avvenute in città. Una piena particolarmente violenta si ebbe nel 54 a.C. e ne siamo informati sia da un osservatore diretto, Cicerone, che da Dione Cassio, il quale ne dà notizia nella Storia Romana. Successivamente, tra il 25 a.C e il 15 d.C, le fonti menzionano non meno di otto inondazioni. È probabile che una crisi idrosedimentaria (piene in combinazione con forte trasporto di sedimenti)
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avvenuta proprio in questo periodo abbia causato l’insabbiamento del porto di Ostia. In tempi piú recenti,due momenti hanno segnato la storia del Tevere con gravi inondazioni. Nel XVI secolo si registrarono due episodi importanti: la piena del 1557, che portò al taglio del meandro nelle vicinanze di Ostia, e quella del 1598, che fu particolarmente funesta e disastrosa per Roma. Un secondo periodo di forti inondazioni si verifica verso la metà del XIX secolo. In seguito a questa crisi idrologica, tra gli anni 1880 e 1890, subito dopo l’unificazione, lo Stato italiano avviò lavori colossali nel cuore di Roma. Il letto del Tevere fu allargato e il fiume venne imbrigliato da argini in muratura (i muraglioni). A questi dispositivi locali, fu aggiunta la diga di Corbara (presso Orvieto), costruita negli anni 1950-1960, e destinata a regolare il flusso delle acque del Tevere.
In alto: Ostia. Il piazzale delle Corporazioni e, a destra, uno dei mosaici, che attesta la presenza di navicularii (armatori) di Sullectum, città della provincia nordafricana di Bizacena (oggi in Tunisia). Nella pagina accanto: Nuova Roma. Castel Sant’Angelo, olio su tela di Feodosij Feodorovic Šcedrin, 1823. Mosca, Galleria Tretjakov. Nella veduta, il Tevere compare nell’aspetto originario, prima degli interventi operati all’indomani dell’Unità d’Italia.
A partire dalla creazione di Portus, la funzione di Ostia cambiò. Sebbene non si conoscano porti di età imperiale, la città rimase legata al commercio marittimo e non venne mai esclusa, né isolata dal nuovo complesso, al quale era collegata da un canale che attraversava l’Isola Sacra. Numerosi relitti sono stati infatti scoperti nelle immediate vicinanze del canale, sulla riva opposta alla Torre Boacciana.
UNA NUOVA FIORITURA Allo stesso tempo, Ostia trasse beneficio anche dalla storia e dal successo di Portus: la città conobbe infatti un rinnovamento e un dinamismo importanti. Imperatori come Traia-
no (53-117 d.C.) o Adriano (76138 d.C) la abbellirono, inaugurando fasi di ricostruzione e di rinnovamento. Il ruolo di Ostia era mutato, ma il piazzale delle Corporazioni, ingrandito da Caracalla (188217 d.C.) e da Settimio Severo (245-211 d.C.) continuava ad accoglie i navicularii (piccoli armatori) di tutto il Mediterraneo. Il legame con il grande commercio
marittimo non si interruppe mai. Agli inizi del II secolo d.C., la flotta della Classis Alexandrina incaricata del trasporto del grano egiziano sostò infatti davanti alla foce del Tevere e non piú a Pozzuoli. La città campana continuò a giocare un ruolo, seppur minore, nell’Annona, ma il binomio Portus-Ostia rappresentò il vero complesso portuale della Roma imperiale. a r c h e o 59
IL CAVALIERE IN ROSSO
UN’ANTICHISSIMA SCULTURA, PROVENIENTE DA UN CENTRO INDIGENO DELLA SICILIA ORIENTALE, RAFFIGURA UN ENIGMATICO UOMO A CAVALLO. E RACCONTA L’EPOPEA DI UN AVVENTURIERO GRECO AL TEMPO DELL’ESPANSIONE COLONIALE DI SIRACUSA, ONORATO COME UN RE E SEPOLTO COME UN CAPO MILITARE… di Daniele F. Maras
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el febbraio del l999 fu casualmente scoperto un eccezionale monumento onorario di età alto-arcaica, posto a cavallo tra la cultura greca coloniale e la realtà indigena della Sicilia orientale, il Guerriero di Castiglione di Ragusa. Si tratta, infatti, di un’opera per molti versi unica, sia per la dichiarata natura greca, confermata da un’iscrizione con cui l’artista ha firmato il proprio lavoro, sia dalla pertinenza a un contesto funerario indigeno di altissimo rango. La faccia principale della lastra di pietra calcarea è scolpita a rilievo con la raffigurazione di un cavallo rivolto a sinistra,
montato da un guerriero quasi interamente coperto dallo scudo rotondo che, vero punto focale della composizione, arriva inverosimilmente quasi a toccare terra.
COME UNO STEMMA Ai margini dello scudo si individuano il piede del cavaliere e le due estremità di una lunga lancia a lama fogliata. La testa dell’uomo, scolpita a tutto tondo, è ricavata nella sommità della lastra, rivolta verso lo spettatore, in uno schema quasi araldico, di grande impatto visivo. Sebbene non ne siano state trovate tracce, è piú che verosimile che la figura fosse
arricchita e completata da ritocchi pittorici, soprattutto per l’emblema dello scudo, che richiama analoghe soluzioni della ceramografia corinzia coeva. Le redini del cavallo risalgono sul collo dell’animale verso il volto del cavaliere, del quale non sono però visibili le spalle e le braccia, grazie alla voluta resa schematica della figura. In realtà, il margine superiore della lastra è interamente lavorato a giorno, cosí da coincidere nella metà sinistra con la criniera del cavallo, mentre la metà destra è configurata come fosse il treno anteriore di un toro in carica, con tanto di protome lavorata a tutto tondo lungo lo spigolo della scultura.
IL TORO E LA SFINGE Con uno sperimentalismo grafico sorprendente, l’artista ha saputo trasformare la superficie di sfondo della figura principale in una nuova immagine dinamica, che a un tempo si fonde e si distingue da quella del cavaliere, offrendo allo spettatore una doppia suggestione di movimento verso direzioni opposte. A fare da contrappunto alla protome taurina sul lato destro, il margine sinistro della lastra, regolarizzato con un taglio rettilineo, è stato arricchito da una protome femminile, da alcuni interpretato come allusione a una sfinge. Infine, anche la faccia inferiore della lastra presenta un bassorilievo, raffigurante un cavallo in movimento verso destra, privo di cavaliere, le cui zampe sono state asportate da un intervento antico di rifilatura dello spigolo. La lastra, infatti, presenta La scultura nota come Guerriero di Castiglione di Ragusa. Fine del VII-inizi del VI sec. a.C. Ragusa, Museo Archeologico Ibleo. a r c h e o 61
GLI IMPERDIBILI • GUERRIERO DI CASTIGLIONE DI RAGUSA
perciò possibile che il Guerriero costituisse il prestigioso segnacolo della tomba familiare. Anche nel caso in cui la lastra fosse stata associata a una diversa tomba, tale ipotesi (ormai non piú verificabile), potrebbe fornire una spiegazione della grossolana rilavorazione della I CRANI ISOLATI pregevole scultura, allo scopo di Tra l’VIII e il VI secolo a.C., Castiadattarla a stele funeraria, senza glione di Ragusa fu sede di un imtroppo riguardo per la decorazione portante sito fortificato indigeno, della faccia inferiore. posto a controllo della piana che In particolare, è stato osservato che separa dal mare i monti Iblei, nella la lastra doveva originariamente quale, nel 598/7 a.C. (secondo la essere posta in alto, presumibilcronologia tradizionale di Tucidide), mente in funzione di architrave di venne fondata la colonia siracusana una porta, in modo da mettere in di Camarina. Il centro può essere mostra anche il secondo cavallo quindi considerato un avampoa rilievo. I 125 cm di larghezza sto strategico del popolamento Lo stile della per mettevano di scavalcare siculo della regione all’epoca delle prime fasi della colonizza- scultura risulta quasi un’apertura di poco meno di 1 m, piú che sufficiente per una zione greca in Occidente. «espressionista» normale porta, anche se non In seguito alla scoperta del certo di dimensioni monuGuerriero, uno scavo archeologico venne subito condotto sul sito, rappresentanza del corpo, dopo la mentali. Ciononostante, nel contesto di un abitato indigeno di epoca mettendo in luce un piccolo sepol- decomposizione. creto composto da meno di venti In questa prospettiva, pertanto, la alto-arcaica, doveva trattarsi di un tombe da datare nel primo quarto tomba a fossa è rimasta in uso come edificio di carattere del tutto eccedel VI secolo a.C. Fra queste spicca, sepoltura familiare per un certo zionale. La decorazione a giorno una tomba a fossa principesca (T. tempo e non può essere dato per sui lati e alla sommità, però, mal si 12), entro un tumulo circolare di scontato che il corredo sia perti- presta all’inserimento in una corticui si conserva il basamento in pie- nente alla prima deposizione, che in na muraria, lasciandoci nel dubbio trame, nella quale venne ritrovato teoria potrebbe risalire all’inizio del sulla ricostruzione della posizione un ricco corredo funerario, com- secolo, se non alla fine del VII seco- originaria dell’architrave, forse poprendente un cratere di tipo calci- lo a.C., come la nostra scultura. È sto a coronamento dell’entrata di un recinto scoperto. tracce di rilavorazione nella parte posteriore, che ne lasciano supporre un precedente utilizzo in un’altra sede. A questo proposito, analizziamo piú da vicino il contesto di ritrovamento del Guerriero.
dese, due lucerne, una kylix (coppa a due manici) e un’anfora, la cui cronologia si pone entro la prima metà del VI secolo a.C. L’eccezionalità della sepoltura viene sottolineata dal rarissimo rito utilizzato, in cui presso il corpo di un defunto inumato erano disposti l’uno accanto all’altro sei crani di altri individui. Con ogni probabilità, si tratta del costume funerario dell’acefalia, noto in Sicilia anche a Butera (provincia di Caltanissetta), secondo il quale il cranio veniva risparmiato dalla cremazione e posto nella tomba accanto alle ceneri, ovvero riposto in ordine da solo, in
LA FIRMA DELL’ARTISTA Un aiuto per comprendere la prima funzione del Guerriero viene dalla preziosa iscrizione, in greco dorico, incisa di fronte alle zampe anteriori del cavallo sulla faccia principale. Si tratta di un esametro che ricorda a un tempo firma e dedica del monumento: «Skyllos fece per Pyrrhinos, figlio di Putikkas». Sia il nome dello scultore che quello del dediCastiglione di Ragusa. La Tomba 12 in corso di scavo. Intorno alla fossa destinata alle deposizioni, si conserva parte del basamento in pietrame del tumulo circolare che la racchiudeva. 62 a r c h e o
CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Guerriero di Castiglione di Ragusa • Definizione Scultura architettonica in pietra • Cronologia Fine del VII-inizi del VI secolo a.C. • Luogo di ritrovamento Castiglione di Ragusa • Luogo di conservazione Ragusa, Museo Archeologico Ibleo • Identikit Opera d’arte di Skyllos, scultore greco in terra sicula
L’estremità sinistra della lastra risulta scolpita in forma di protome femminile: alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che si tratti dell’immagine di una sfinge.
La protome taurina scolpita sulla destra che, fondendosi con il cavallo e il cavaliere sembra suggerire un movimento in due direzioni, opposte fra loro.
La testa del cavaliere, scolpita a tutto tondo e rivolta verso lo spettatore. L’iscrizione incisa in basso, a sinistra, lo identifica con un greco di nome Pyrrhinos, «figlio di Putikkas». a r c h e o 63
GLI IMPERDIBILI • GUERRIERO DI CASTIGLIONE DI RAGUSA
cante, completo di patronimico, sono decisamente greci, a conferma del fatto che il Guerriero di Castiglione non può essere etichettato come l’espressione eccezionale dell’arte indigena. Al contrario, il destinatario della dedica poteva vantare un’ascendenza dorica, forse da una famiglia di un certo rango, come lascia intravedere il raffinato gioco linguistico dei nomi Pyrrhinos (da pýrrhos, «rosso» di capelli) e Pytikkas (da pytá, «rosso» da tintore), secondo una suggestiva ipotesi di Federica Cordano. Lo scultore Skyllos, pertanto, Castiglione di Ragusa. Planimetria della Tomba 12, a cui si può attribuire la scultura del Guerriero.
di cui possiamo ammirare l’opera altamente innovativa e sperimentale, aveva buone ragioni di vantare la propria abilità e la committenza del suo lavoro. Si potrebbe arrivare a immaginare che Pyrrhinos abbia ottenuto presso i Siculi di Castiglione una posizione quasi regale, tale da giustificare l’uso di un rilievo per impreziosire la sua residenza, in seguito riutilizzato come stele funeraria nella sua tomba di famiglia.
ONORE AL CONDOTTIERO In ogni caso, fa riflettere la constatazione che, all’epoca in cui i Siracusani fondavano, o stavano per fondare la sub-colonia di Camarina – tramite la quale progettavano di controllare l’intera regione sud-
orientale della Sicilia –, un condottiero militare greco avesse ricevuto onori domestici e funerari principeschi in un importante centro siculo dell’entroterra. Piú tardi, verso la metà del VI secolo a.C., una vera e propria guerra di indipendenza vide schierati i Siculi dalla parte di Camarina, come ricorda lo storico Filisto (IV secolo a.C.), contro una coalizione di Siracusani, Megaresi e forse abitanti di Enna, mentre i soli Geloi si mantennero neutrali. Lo scontro si concluse con una schiacciante vittoria di Siracusa, in seguito alla quale i Camarinesi vennero deportati e il tiranno di Gela poté colonizzare di nuovo la loro città, come racconta Tucidide (V secolo a.C.). La vicenda fu sfavorevole anche per gli alleati Siculi, che subirono pesanti ripercussioni nella lotta per il controllo del territorio. Probabilmente non è un caso se intorno alla fine del VI secolo a.C., la frequentazione dell’abitato di Castiglione si sia interrotta repentinamente, forse a seguito della politica anti-sicula di Ippocrate di Gela, ma comunque senz’altro in seguito alla mutata situazione politica e militare della regione sotto l’incombente presenza siracusana. PER SAPERNE DI PIÚ Federica Cordano, Massimo Di Salvatore (a cura di), Il Guerriero di Castiglione di Ragusa. Greci e Siculi nella Sicilia sud-orientale, Atti del Seminario (Milano, 2000), Hespería 16, Roma 2002 Laurence Mercuri, Convivenze nei monti Iblei? Il caso di Castiglione di Ragusa, in Convivenze etniche, scontri e contatti di culture in Sicilia e Magna Grecia, a cura di Francesca Berlinzani, Aristonothos 7, 2012; pp. 281-299.
NELLA PROSSIMA PUNTATA • Il mosaico di Alessandro 64 a r c h e o
MOSTRE • FRANCIA
L’INVENZIONE DELLA RICCHEZZA ALLE GENTI NEOLITICHE NON DOBBIAMO SOLTANTO LA «SCOPERTA» DELL’AGRICOLTURA E DELL’ALLEVAMENTO: COME RACCONTA UNA BELLA MOSTRA ALLESTITA IN FRANCIA, LA LORO EPOCA FECE ANCHE REGISTRARE L’AVVENTO DELLE PRIME DISEGUAGLIANZE
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di Stefano Mammini Sulle due pagine: il corredo funerario rinvenuto a Pauilhac (Gers, Francia meridionale): 1. placchetta in oro; 2, 3. asce in giada; 4-9. sei grandi lame in selce; 10, 11. canini di suide perforati. Del corredo, rinvenuto fortuitamente nel 1865, facevano parte anche sette perle in oro, purtroppo perdute. Bordeaux, Musée d’Aquitaine e SaintGermain-en-Laye, Musée d’archéologie nationale. 66 a r c h e o
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he le genti neolitiche vivessero di agricoltura e allevamento e che in questo modo avessero segnato una cesura epocale con i loro predecessori – i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico – è un dato ormai acquisito. Meno diffusa, almeno tra i non addet-
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ti ai lavori, è però la consapevolezza che la dimensione rurale di quelle comunità non equivalesse affatto all’invenzione di arcaiche forme di collettivismo o avesse assicurato una prolungata e idilliaca epoca di pace e prosperità. Grazie all’avvento dell’econo-
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mia produttiva, infatti, il Neolitico favorí forme stabili di insediamento e rese meno aleatoria la sopravvivenza (vedi «Archeo» n. 347, gennaio 2014, anche on line su archeo.it), ma non per questo inibí il formarsi di società gerarchizzate e di stratificazioni sociali. Questa lunga stagione della preistoria – nell’area francese, pur considerando le variabili regionali, l’orizzonte cronologico della «rivoluzione neolitica» è compreso fra il VI e il III millennio a.C. – fu per molti versi simile ad altre fasi storiche, con il suo portato di violenze, soprusi e, soprattutto, come recita il sottotitolo della mostra allestita al Musée national de Préhistoire di Les Eyziesde-Tayac, «diseguaglianze». Tanto che Antoine Chancerel – uno dei commissari dell’esposizione – ha intitolato il saggio che apre il catalogo Il Neolitico o l’invenzione della ricchezza.
UNA PROSPETTIVA INEDITA La rassegna propone quindi un’analisi dell’età «della pietra nuova» condotta in una prospettiva insolita rispetto a quelle tradizionali e sviluppata attraverso la scelta di quei materiali che meglio esprimono l’esistenza di ranghi e ruoli sociali diversificati. Reperti che, vale la pena sottolinearlo, proprio perché voluti come espressione di ricchezza ed emblema del proprio status, sono davvero spettacolari e offrono un saggio eloquente delle capacità affinate dagli artigiani che, oltre a rinnovare la tradizione della scheggiatura della selce, si specializzarono, in particolare, nella lavorazione di materie prime quali le pietre dure, l’osso o la conchiglia. a r c h e o 67
MOSTRE • FRANCIA
Tra i contesti che meglio esprimono i concetti sviluppati dalla mostra, spicca il corredo funerario recuperato nel 1865 a Pauilhac, nel dipartimento del Gers (regione MidiPyrénées, Francia meridionale). I materiali furono scoperti dagli operai di una cava di ghiaia e non sono dunque l’esito di uno scavo vero e proprio: ciononostante, si ipotizza che fossero stati deposti in una grande tomba a tumulo, apprestata per un personaggio di rango elevato, forse il capo di una comunità. Si tratta di undici oggetti: 2 grandi asce levigate in giada, 6 lame in selce, 1 placchetta in oro e 2 canini di suide perforati (vedi foto alle pp. 6667); a questi si aggiungevano 6 perle in oro, purtroppo trafugate. Al momento del recupero furono trovati anche numerosi resti ossei – umani e animali (cavallo) –, che però furono in parte gettati via.
Copricapo ricamato
Collane
Pettorale
Bracciale Anello
MANUFATTI ESOTICI Nonostante le lacune, il corredo di Pauilhac offre molteplici motivi d’interesse: in primo luogo, non tutti gli oggetti appartengono al medesimo ambito culturale e cronologico e ciò dimostra il diffondersi della tesaurizzazione di manuMedaglione e cintura Vari tipi di abiti e accessori ricamati
A sinistra: grande anello discoidale in serpentinite, da Breuilpont (Eure, Alta Normandia, Francia settentrionale). Saint-Germainen-Laye, Musée d’archéologie nationale.
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fatti «antichi», il cui possesso doveva dunque essere considerato un segno di prestigio. In secondo luogo, alcuni oggetti, in particolare la placchetta in oro, sono tipologicamente affini a prodotti ascrivbili a culture neolitiche attestate nell’Europa centrale (Ungheria) e ciò conferma l’esistenza di scambi e contatti anche a lungo raggio, spesso finalizzati ad acquisire oggetti ritenuti esotici e perciò preziosi. Una propensione per l’esotismo ribadita dalla diffusione degli orna-
Tesori venuti dal mare Il disegno mostra i diversi possibili impieghi delle conchiglie nel corso del Neolitico antico attestati nella regione del bacino parigino e renano: come si può osservare, la materia prima poteva essere sfruttata per fabbricare monili oppure per decorare abiti e accessori del vestiario. Qui sotto: il corredo funerario rinvenuto in una tomba scoperta in località Bas-de-Vignes (Marne, Francia nord-orientale). Épernay, Musée d’Archéologie et du vin de Champagne. Spicca, in particolare, il grande pettorale, composto da oltre 800 piastrine ricavate da conchiglie di Dentalium.
che può raggiungere i 15 cm di lunghezza – si potevano appunto ottenere monili e decorazioni. La lavorazione era piuttosto complessa: dopo aver liberato le valve dalle spine, occorreva raschiare lo strato calcareo superficiale, fino a raggiungere la parte inferiore, che si connota per il colore candido, striato da venature violacee. È stato calcolato che, anche per via della durezza della materia prima, la realizzazione di un singolo pezzo potesse richiedere varie ore di lavoro. Difficoltà che, tuttavia, non impedirono l’elaborazione di un ricco campionario, che comprendeva perline, placchette, elementi di collana, bracciali, nonché piastrine o cilindri che potevano essere poi
nord-orientale). Qui venne sepolto un individuo di sesso femminile di poco meno di trent’anni, per la cui ultima vestizione furono impiegate oltre 1000 conchiglie di Dentalium provenienti dal canale della Manica o dall’Atlantico: di queste, oltre 800 furono cucite sull’abito indossato dalla donna, mentre le altre vennero utilizzate per comporre una grande collana, un bracciale e un ampio pettorale, formato da valve sagomate in forma di piccole piastre trapezoidali.
LAME NERE E LUCENTI Al mare rimanda poi l’ossidiana, il vetro vulcanico dal quale l’uomo imparò a ricavare lame affilatissime, ma che, per la sua natura e il suo colore, si fece apprezzare anche per le qualità estetiche ed entrò presto nel novero dei manufatti di pregio. Date le sue origini, l’ossidiana era reperibile solo in alcune località, quali per esempio la Sardegna e le isole di Pantelleria, Lipari e Palmarola, da dove ben presto si diffuse anche a distanze considerevoli. L’area francese non fu estranea alla sua circolazione e, grazie alle analisi sui reperti – ogni varietà ha un suo In basso: collana composta da 868 perle discoidali in steatite, dalla sepoltura in grotta scoperta in località Salpêtre de Coutach, a Sauve (Gard, Francia meridionale). Montpellier, DRAC Languedoc-Roussillon.
menti ricavati dalle conchiglie dello Spondylus gaederopus, un mollusco bivalve, tipico delle acque mediterranee, che entra stabilmente nei circuiti di scambio a partire dal VI millennio a.C., diffondendosi in tutto il territorio europeo. La specie, che vive fino a 50 m di profondità, attaccandosi con una delle valve alla roccia, fu molto apprezzata, perché dal suo guscio –
assemblati in veri e propri gioielli – come per esempio i pettorali – oppure cuciti su abiti o altri accessori del vestiario. Questa passione per il mare poteva esplicarsi anche attraverso altre specie: ne è un esempio il materiale recuperato in una sepoltura scoperta in località Bas-de-Vignes, a Vert-la-Gravelle (Marne, Francia a r c h e o 69
MOSTRE • FRANCIA
Il desiderio di procurarsi manufatti di pregio, realizzati con materie prime rare o esotiche, favorí l’instaurarsi di scambi a raggio anche molto ampio: cosicché, spesso, il luogo d’origine dei reperti dista centinaia di chilometri da quello della scoperta
«pedigree» chimico ed è perciò possibile stabilirne con esattezza il luogo di origine –, è stato osservato che il fornitore principale delle comunità neolitiche transalpine fu in un primo tempo Lipari, alla quale si sostituí poi la Sardegna. Lo smercio si mantenne costante all’incirca fino al III millennio a.C., quando l’avvento della metallurgia fece registrare un deciso mutamento del gusto e il desiderio di esprimere il proprio prestigio si tradusse nel possesso degli oggetti fabbricati con le nuove materie prime. 70 a r c h e o
Collana composta da 17 grandi perle in variscite, dalla grotta di Salpêtre a Pompignan (Gard, Francia meridionale). Montpellier, DRAC Languedoc-Roussillon. Lo spettacolare monile è stato trovato insieme a manufatti ascrivibili alla cultura di Chassey, facies neolitica attestata tra il 4200 e il 3500 a.C. circa.
Di origine continentale e, in questo caso, reperibili in numero assai elevato di giacimenti, erano invece le pietre genericamente definite «verdi», che le abili mani degli artigiani
trasformarono in uno dei fossili guida del Neolitico. Giada, nefrite, eclogite, serpentinite, solo per citare alcune delle varietà utilizzate, vennero lavorate per ottenere asce, accettine, anelli o elementi di collana, accomunati dall’accuratezza della rifinitura e dalla levigatura perfetta della materia prima, che dona ai manufatti la tipica lucentezza. Le varie sezioni della mostra propongono numerosi esemplari dei quali, soprattutto nel caso delle asce, viene spontaneo ipotizzare il carattere eccezionale, anche se, in
antropologi, un elemento che prova la particolarità di determinati manufatti è la loro rappresentazione, puntuale e dettagliata, su numerose sculture in pietra.
realtà, in molti casi il dibattito è ancora aperto. Anche in Francia, infatti, molti di questi reperti sono frutto di ritrovamenti sporadici o, in ogni caso, non sono ascrivibili con sicurezza a un particolare contesto e, solo in tempi recenti, è cresciuto il numero degli esemplari di provenienza certa. Una situazione che ha a lungo ostacolato l’interpretazione della loro reale funzione.
DONI FRA POTENTI Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, sembra emergere un legame con la sfera del sacro e del rituale e si è andata consolidando la certezza che, in ogni caso, si trattasse di oggetti ai quali si attribuiva un valore assai elevato. Sembra altresí probabile che le asce in pietra levigata, e quelle in giada in particolare, fossero inserite in un sistema di scambio che non ne prevedeva il commercio: è stato infatti ipotizzato che tali manufatti venissero donati, senza pretendere una contropartita, In alto: ascia-martello in rame, da Meaux (Seine-et-Marne, Francia settentrionale). Inizi del IV mill. a.C. Meaux, Musée Bossuet. Le analisi condotte sul metallo, hanno permesso di collocare la probabile origine del manufatto a Majdanpek, in Serbia. A destra: ascia levigata in giadeite, da Pezens, (Aude). Narbonne, Musée archéologique de Narbonne.
attribuendo a simili gesti l’intenzione di stabilire o rinsaldare i legami fra differenti centri e gruppi di potere. Una teoria suggestiva, che ha trovato riscontro anche nei paralleli etnografici con alcune popolazioni «primitive», per esempio, della Nuova Guinea. Come viene sottolineato a piú riprese nel percorso espositivo, al di là delle speculazioni di archeologi e
QUASI UNA FOTOGRAFIA Statue-stele e statue-menhir propongono spesso ritratti – maschili e femminili – nei quali non è difficile individuare vere e proprie «fotografie d’epoca» di alcuni degli accessori piú ricercati. È il caso delle asce, delle teste di mazza, cosí come dei pugnali o anche delle collane in steatite. Quest’ultima è una pietra di colore biancastro che veniva lavorata già nel Paleolitico e che anche nel Neolitico trova ampia diffusione per la fabbricazione di monili e ornamenti. Risulta perciò particolarmente suggestivo il confronto tra una collana, rinvenuta nella sepoltura in grotta di Salpêtre de Coutach (nella regione del Gard, Francia meridionale) e composta da oltre 800 perle discoidali in steatite, e la statua-menhir di Saint-Sernin-sur-Rance (Aveyron), che mostra una donna ornata appunto da una lunga collana, che forma ben sei giri. Immagini di un’epoca in cui prestigio e ricchezza erano dunque concetti acquisiti e dei quali furono codificate forme di rappresentazione eloquenti, attraverso le quali trasmettere la propria caratura sociale ai contemporanei e, forse, ai posteri. DOVE E QUANDO «Segni di ricchezza. Le diseguaglianze nel Neolitico» Les Eyzies-de-Tayac, Musée national de Préhistoire fino al 15 novembre Orario ago: tutti i giorni, 9,30-18,30; set: tutti i giorni, 9,30-18,00; ma chiuso; ott-nov: tutti i giorni, 9,30-12,30 e 14,00-17,30; ma chiuso Info www. musee-prehistoire-eyzies.fr a r c h e o 71
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
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Calco del rilievo funerario di un commerciante di vino con la raffigurazione della sua bottega rinvenuto a Til-Châtel (Francia). I-III sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.
Tutti gli oggetti riprodotti in queste pagine sono attualmente esposti nella mostra «Nutrire l’impero», allestita a Roma, nel Museo dell’Ara Pacis, fino al prossimo 15 novembre.
NUTRIRE L’IMPERO
COME FUNZIONAVA LA PRIMA GLOBALIZZAZIONE ALIMENTARE?
A
seguito della pax romana, intorno al bacino del Mediterraneo si determinò quella che oggi chiameremmo la prima «globalizzazione dei consumi»: in età imperiale i Romani bevevano in grandi quantità vini prodotti in Gallia, a Creta e a Cipro, oppure, se ricchi, i costosi vini campani; consumavano olio che giungeva per mare dall’odierna Andalusia; amavano il miele greco e soprattutto il garum, la salsa di pesce usata come condimento che face-
vano venire dall’Africa, dall’Oriente mediterraneo, dal lontano Portogallo, ma anche dalla vicina Pompei. Soprattutto il pane che i Romani mangiavano ogni giorno era un prodotto d’importazione, fatto con grano proveniente dall’Africa e dall’Egitto. Ma come venivano trasportate migliaia di tonnellate di provviste dai piú remoti angoli della terra? Come venivano fatte risalire lungo il Tevere fin nel cuore della città? E come venivano conservate durante tutto l’anno?
di Catherine Virlouvet, Paolo Braconi, Pascal Arnaud, Elio Lo Cascio, con un’intervista a Orietta Rossini a r c h e o 73
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
IL MEDITERRANEO GLOBALIZZATO di Elio Lo Cascio
Il Mare Nostrum dei Romani, lo spazio mediterraneo unificato e pacificato da Roma, era un mondo di città, anzi di grandi città, di «Mégapoles», per adoperare un felice neologismo creato dagli studiosi francesi di geografia.
C
ittà di diverse centinaia di migliaia di abitanti, come Alessandria, Antiochia e Cartagine e, ovviamente, soprattutto Roma, che raggiunse, e forse superò nell’età del Principato, la soglia di un milione di abitanti. La relativa numerosità di questi grandi centri urbani è ciò che caratterizza il Mediterraneo di età romana nei confronti, per esempio, dell’Europa dell’età medievale e moderna. E questa peculiarità si spiega come il prodotto di una spinta «connettività» entro lo spazio mediterraneo. Per poter sopravvivere, infatti, concentrazioni urbane di queste dimensioni abbisognavano non solo di un hinterland assai esteso, ma di regolari importazioni di derrate alimentari provenienti da aree molto distanti. La nozione di «connettività» e quella, contrapposta, di «frammentazione» – introdotte da Peregrine Horden e Nicholas Purcell in un libro importante e assai influente di quindici anni fa (The Corrupting Sea, WileyBlackwell, Oxford 2000) –, catturano bene le caratteristiche dello spazio mediterraneo: per un verso le diversità climatiche e ambientali in piccole aree formano talvolta delle vere e proprie «nicchie» ecologiche soggette al rischio dell’isolamento; per un altro verso il fatto che le colture siano grosso modo le stesse dappertutto, con in testa la «triade mediterranea» (grano, vite e olivo), mentre il clima è variabile e spesso imprevedibile, fa sí che si possano determinare condizioni di carestia in un luogo e di sovrabbondanza in un altro: donde l’avvertita necessità di trasferire le eccedenze di alcune aree verso quelle nelle quali si registra un deficit di produzione. Nella coscienza degli antichi era questa anche 74 a r c h e o
la funzione socialmente apprezzabile che svolgevano il commercio e i meccanismi di mercato: cosí – osservava nel VI secolo d.C. Cassiodoro, ministro di Teoderico – l’elevatezza del prezzo del grano nelle zone dove c’era carestia, pur danneggiando i consumatori, attirava i mercanti che, immettendo il loro grano sul mercato, contribuivano a risolvere la crisi (Cassiod., Variae 4.5).
Le soluzioni piú vantaggiose
Naturalmente, per i trasferimenti delle derrate alimentari sulla lunga distanza, si sceglieva la modalità di trasporto meno costosa, che, come risulta dal materiale comparativo, oltre che da un documento singolare qual è l’edictum de pretiis rerum venalium (l’editto-calmiere emanato nel 301 d.C. dall’imperatore Diocleziano), era quella per mare, rispetto al trasporto per altre vie d’acqua e soprattutto rispetto al trasporto per via di terra, con carri o con bestie da soma (anche se va contraddetta la diffusa opinione che il trasporto via terra fosse di importanza trascurabile e per esempio le grandi strade venissero adoperate sostanzialmente per finalità militari). La convenienza dei viaggi e del trasporto via mare delle derrate per approvvigionare i grandi centri urbani e in particolare Roma era anche un portato dell’esistenza stessa di un grande mare chiuso: i tragitti tra due località erano spesso piú brevi dei tragitti via terra e piú rapidi. Naturalmente vi erano le difficoltà legate al clima, che si avvertivano, per motivi di ordine vario e perché si trattava di affrontare rischi di tipo diverso, tanto nella navigazione sotto costa, quanto in quella in mare aperto. Talché, in linea di massima, si tendeva a non viaggiare tra settembre e mag-
Nella pagina accanto: statua in bronzo di efebo, dalla Casa di Marcus Fabius Rufus, a Pompei. I sec. d.C. Pompei, Deposito Archeologico.
gio, o quanto meno tra novembre e marzo ovvero si teneva conto, nei rapporti contrattuali tra i trasportatori marittimi e i loro clienti, della maggiore pericolosità dei viaggi per mare in quei mesi.
I magazzini per il grano
La stagionalità dei viaggi per mare imponeva un’organizzazione peculiare degli approvvigionamenti per i grandi centri urbani. A Roma alcuni prodotti, di piú facile e rapida deperibilità (latte e suoi derivati, uova, verdure, frutta, ecc.), non venivano evidentemente da regioni lontane e non per mare, mentre le bestie da macellare (lo sappiamo per i maiali) erano condotte a piedi e una quota di carne arrivava insaccata e comunque conservata sotto sale. Per un altro verso, quando la città cominciò ad avere una popolazione cospicua si rese necessario l’apprestamento di magazzini per accumulare, oltre che per conservare, le riserve di grano e horrea di diversificate dimensioni vennero costruiti a Roma, ma anche nei porti dove arrivava il grano per Roma: a Puteoli, a Ostia, e piú tardi a Porto. Ma anche cosí l’arrivo delle navi che trasportavano il grano egiziano da Alessandria dopo la pausa invernale veniva salutata a Pozzuoli con manifestazioni di giubilo per lo scampato pericolo della carestia (come ci rivela una ben nota lettera di Seneca, Epist. ad Luc. 77). Un decisivo incremento nei traffici commerciali via mare si verificò nel passaggio dal III al II secolo a.C., quando Roma si avviava a conquistare il suo impero e a costituire in tal modo uno spazio mediterraneo politicamente unificato. Del netto incrementarsi del commercio marittimo in questa età abbiamo un indicatore, parrebbe, incontrovertibile nei relitti delle navi che trasportavano il vino, l’olio, il garum (la salsa di pesce adoperata largamente come condimento nella cucina romana), rinvenuti lungo le coste del Mediterraneo. Il numero dei relitti che si datano, in base al loro contenuto di anfore ed eventualmente di ceramica fine da mensa, al II secolo a.C. è assai piú elevato del numero di relitti databili ai secoli precedenti. (segue a p. 79) a r c h e o 75
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
«UNA STRAORDINARIA CAPACITÀ ORGANIZZATIVA» A colloquio con Orietta Rossini Curatore responsabile del Museo dell’Ara Pacis, nonché collaboratrice di «Archeo», Orietta Rossini ha ideato e curato – con Claudio Parisi Presicce, Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali – la mostra «Nutrire l’impero». A lei ci siamo dunque
rivolti per analizzare i temi storici, politici ed economici piú significativi che l’esposizione analizza e documenta. Perché, al di là degli aspetti pratici, la produzione del cibo e il suo consumo furono un fenomeno di primaria rilevanza sociale.
◆ Dottoressa Rossini, uno degli
Dobbiamo renderci conto che, nei secoli che vanno da Augusto a Costantino, Roma diventa una città con circa 1 milione di abitanti, una vera e propria metropoli. Nessuna città ha mai piú raggiunto queste dimensioni fino alle soglie della moderna età industriale. Tutto l’impero, inoltre, contava 50/60 milioni di abitanti. Ora, garantire alla popolazione di una tale megalopoli il costante approvvigionamento di grano comporta una capacità organizzativa assolutamente straordinaria: sappiamo che, secondo la prassi delle frumentationes (la distribuzione gratuita di grano a un numero prescelto di un massimo di 200 000 cittadini, n.d.r.), ogni maschio romano adulto, residente nell’Urbe, riceveva dallo Stato, mensilmente, 5 moggi di grano, l’equivalente di circa 35 kg di frumento. Trasformati in pane, 5 moggi di grano erano piú che sufficienti per il sostentamento mensile di un individuo. Se moltiplichiamo i 35 kg per i soli 200 000 cittadini beneficiari delle frumentationes, arriviamo a una cifra annua pari a circa 84 000 tonnellate di grano! La cifra, poi, aumenta notevolmente, se consideriamo il rifornimento alimentare necessario all’intera città di Roma: la quantità stimata dagli storici varia tra i 50 e i 60 milioni di moggi l’anno, ovvero tra le 350 000 e le 420 000 tonnellate di grano. Dinnanzi a queste cifre viene immediatamente da chiedersi come
assunti della mostra «Nutrire l’Impero» è che, a seguito della pax romana, nel bacino del Mediterraneo si verificò, per la prima volta nella storia, una vera e propria «globalizzazione dei consumi»… …per giunta caratterizzata, come vedremo, anche dalla relativa «delocalizzazione della produzione». Questo fenomeno fu favorito, essenzialmente, da due fattori: la «messa in sicurezza» del Mediterraneo che, una volta liberato dai pirati, poté diventare crocevia di rotte commerciali stabili, e la conquista dell’Egitto. Cosí, alla fine della Repubblica, vediamo che i cittadini romani – inizialmente almeno quelli di Roma, ma poi anche delle altre megalopoli mediterranee – cominciamo a mangiare pane confezionato con farina che arrivava dalle province africane, a consumare olio e garum, prodotti per esempio in Spagna, a bere vino, che, a seconda delle tasche, poteva venire dalle isole greche o dalla Gallia. Per non parlare del pepe, un alimento pregiatissimo ottenuto tramite il commercio con le Indie…
◆ È il pane, però – e, dunque,
l’approvvigionamento del grano – il fenomeno forse piú impressionante di questa prima globalizzazione…
76 a r c h e o
l’impero risolvesse i problemi del trasporto, dell’immagazzinamento, della distribuzione, della contabilizzazione…
◆ Un’operazione complessa che
doveva richiedere una capacità organizzativa straordinaria… Il rifornimento alimentare di Roma avveniva attraverso uno dei «punti di forza» dell’Impero, il sistema amministrativo dell’Annona (il termine deriva dal nome dell’omonima dea a cui i Romani consacrarono i magazzini pubblici che conservavano le derrate, n.d.r.). Si tratta di un’impresa logistica di grande complessità, una vera e propria macchina ben funzionante.
◆ Chi gestiva questo meccanismo
amministrativo? A capo dell’amministrazione annonaria, Augusto aveva posto, nell’anno 8 d.C., un magistrato di alto rango, il prefetto dell’Annona, un imprenditore che apparteneva all’ordine dei cavalieri. Era nominato direttamente dall’imperatore. La sua carica non aveva limiti di tempo, ma poteva essere revocata dallo stesso imperatore in qualsiasi momento. Nei secoli dell’impero, il praefectus Annonae curò l’importazione a Roma delle enormi quantità di grano, di cui ho accennato prima, che ogni anno veniva versato dalle province al fisco, e, in seguito, anche dell’olio. Rifornire di frumento l’intera città comportava la stipula di un gran
numero di contratti con singoli imprenditori privati o anche con varie categorie di lavoratori, tra cui procuratori, trasportatori, armatori navali, autorità portuali, scaricatori, controllori, misuratori, proprietari di magazzini, mugnai e panettieri. Queste categorie di persone componevano la «filiera» del grano, dalla produzione al consumo. Il praefectus, vero braccio destro dell’imperatore, controllava i contratti e anche i versamenti di tasse e decime. Per questo si avvaleva anche di due «uffici» esteri, ad Alessandria d’Egitto e in Numidia, e di uno stuolo di collaboratori, compreso un «procuratore all’Annona» operante a Ostia, dove confluiva il grano fiscale. Intorno al 140 d.C., tra il regno di Adriano e quello di Antonino Pio, il praefectus dell’Annona divenne responsabile anche dell’approvvigionamento dell’olio per Roma, che veniva importato dalla Betica, la moderna Andalusia, e dall’Africa, nella misura di almeno 260 000 anfore, pari a circa 156 000 ettolitri ogni anno.
sottrarsi sotto scorta alla rabbia della plebe che, in pieno Foro, lo copre di insulti e lo colpisce con lanci di pane raffermo. Il povero Claudio deve rientrare nel palazzo imperiale da una porta laterale e protetto dai pretoriani, altrimenti la vicenda sarebbe andata oltre! Oppure la storia che vede protagonista Nerone (il quale, contrariamente a quello che si dice, era molto amato dal popolo), che deve rinunciare a esibirsi in Grecia perché il popolo teme che in sua assenza il cibo potrebbe scarseggiare a Roma! Il popolo romano identifica la figura dell’imperatore con la sua capacità di garantire l’approvvigionamento alimentare e l’abbondanza; questa sua responsabilità si riflette, poi, anche sul piano simbolico e artistico. Gli attributi dell’abbondanza – nelle vesti della dea Annona o di Cerere – entrarono stabilmente nell’immagine pubblica dell’imperatore e della sua famiglia: da Livia, moglie di Augusto, in poi, cominciano a comparire i ritratti delle imperatrici con le spighe in testa…
come appena detto, l’Africa acquista un peso sempre maggiore e, ben presto, diventa la seconda provincia piú ricca dell’impero (basta una visita al Museo del Bardo, a Tunisi, per rendersene conto!). Una delle ragioni di questa crescita può essere spiegata non solo con le capacità commerciali delle genti di quell’area, ma anche con un fattore logistico: infatti, per arrivare dal porto di Alessandria, in Egitto, a Pozzuoli, principale porto di Roma dopo quello di Traiano, si poteva impiegare da un minimo di venti fino a trenta giorni di navigazione, tempi che potevano aumentare di molto se si incontrava la bonaccia o il mare cattivo. Da Cartagine a Pozzuoli o a Roma, invece, erano sufficienti tre giorni. E cosí, riducendo il tempo di trasporto si tagliavano anche notevolmente i costi. Per questo, a un certo punto, Nerone estromise dall’affare sei grandi proprietari terrieri dell’Africa – che all’epoca era proconsolare – facendo diventare «imperiali» le loro terre.
◆ È curioso notare come uno degli
◆ L’Africa era la terra da cui
◆ Alle nuove forme di produzione e
aspetti fondamentali e garanti del buon funzionamento della società, ovvero quello del nutrimento della popolazione, fosse direttamente legato alla figura dell’imperatore… La fame è notoriamente la causa prima delle rivolte popolari. E, dunque, è evidente l’importanza politica di un approvvigionamento alimentare perfettamente organizzato che, da Augusto in poi, fu il principemonarca a controllare direttamente. Del resto, il popolo di Roma sapeva benissimo chi ringraziare in caso di abbondanza o con chi prendersela quando il cibo scarseggiava. Conosciamo alcuni episodi piuttosto espliciti a questo proposito: nel 51 d.C., l’imperatore Claudio deve
provenivano le principali forniture di grano… Alla fine dell’età repubblicana il grano consumato a Roma veniva dall’Africa, dalla Sicilia e dalla Sardegna. La situazione mutò per effetto della conquista dell’Egitto e della politica di espansione agricola che Roma attuò in Africa: durante l’alto impero, il tributo granario venne prodotto e pagato per un terzo dall’Egitto e per i restanti due terzi dall’Africa, la provincia corrispondente alle odierne Tunisia, Algeria e Libia. Si verificò cosí quella che potremmo chiamare una produzione «delocalizzata», caratterizzata da monoculture estensive e specializzate. In questo processo,
distribuzione si accompagna anche la nascita di nuove forme di consumo… …che, forse per la prima volta nella storia, possiamo considerare «globalizzate». Tutto ciò poté verificarsi grazie all’efficienza della macchina amministrativa statale, che da una parte favoriva il libero commercio e dall’altra riscuoteva il grano – ma anche il vino, l’olio e altri alimenti – quale imposta in natura, garantendo il suo trasporto su grandi navi mercantili che attraversavano il Mediterraneo, e ne seguiva il percorso fino ai monumentali magazzini (gli horrea) del grande Emporium romano, nell’odierno quartiere di Testaccio. (a cura di Andreas M. Steiner)
a r c h e o 77
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
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UN SIMBOLO DEL COMMERCIO A differenza degli alimenti solidi, come il grano, il trasporto delle derrate liquide o semiliquide come il vino, l’olio e le salse di pesce, è affidato a contenitori in terracotta, in particolare alle anfore (dal greco amphìphèro, «porto da entrambe le parti», riferito ai due manici di cui l’anfora era provvista). In queste pagine ne vediamo alcuni degli esemplari esposti nella mostra in corso a Roma, mentre nel riquadro è inserito il particolare del modello di una nave oneraria romana del I-III sec. d.C. (concesso in prestito dal Museo dell’Olivo e dell’Olio Lungarotti di Torgiano).
A partire dalla lex frumentaria di Gaio Gracco (123 a.C.), la res publica riconosce come suo compito ineludibile quello di provvedere alla distribuzione mensile di una razione di grano dapprima a prezzo politico, poi gratuitamente ai maschi adulti di status cittadino presenti – e piú tardi regolarmente domiciliati – a Roma. Certo sembra innegabile che la misura avesse come sua motivazione primaria la volontà di sostenere economicamente una parte consistente della popolazione della città, ma appunto solo una parte e non necessariamente la piú indigente: i beneficiari delle frumentationes, anzi, appaiono, e si autorappresentano, come un gruppo di privilegiati, a confronto del resto della popolazione cittadina che non gode del beneficio.
Distribuzioni garantite dallo Stato
Ora si è voluto sostenere che la politica frumentaria seguita dai magistrati repubblicani e poi dal princeps, che ha assicurato, salvo brevi e discussi periodi di interruzione, la regolarità delle distribuzioni, non sia andata al di là di questo obiettivo; la stessa amministrazione dell’annona, creata da Augusto per garantire il regolare afflusso del grano nella città, si sarebbe interessata esclusivamente delle quantità richieste dalle distribuzioni, e non di tutte quelle necessarie a soddisfare i consumi complessivi della popolazione della città. A soddisfare questi consumi sarebbe stato l’apporto dei privati e del mercato. Un’interpretazione che diremmo pan-mercantile dell’essor dei traffici sulla lunga distanza può accogliersi, anche se sostenere che l’amministrazione repubblicana e poi quella imperiale si limitassero a occuparsi del solo grano delle distribuzioni sarebbe irrealistico: dovremmo allora ritenere che gli stessi porti di Roma siano stati costruiti per ospitare le sole imbarcazioni che portavano il grano delle frumentazioni? D’altra parte ritenere che le sole esigenze del grande centro di consumo rappresentato da Roma esaurissero, di fatto, le possibilità di traffici sulla lunga distanza, è parimenti irrealistico. Voler leggere i trasferimenti di beni soprattutto alimentari per via marittima e sulla lunga distanza, nei termini di un’opposizione Stato-mercato sarebbe, in conclusione, del tutto anacronistico e antistorico. Pure nel III secolo cominciarono a essere a r c h e o 79
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
distribuite gratuitamente agli stessi appartenenti alla plebs frumentaria razioni di olio e di carne di maiale, e, a prezzo politico, di vino. A questa parte privilegiata della popolazione della città l’amministrazione imperiale forniva dunque ora il pane, il condimento, il companatico e la bevanda, soddisfacendone di fatto tutte le esigenze nutrizionali, in termini di apporto calorico. A garantire una dieta equilibrata sarebbe bastata l’aggiunta di formaggio, olive, legu-
mi freschi o secchi, verdure e frutta. E in verità questa parte forse minoritaria ma pur sempre numericamente consistente della popolazione della città, venendo sollevata, per effetto dell’esistenza delle distribuzioni gratuite, della spesa degli alimenti base, poteva destinare i propri redditi all’acquisto di altri beni alimentari magari piú costosi perché provenienti da fuor i i confini dell’impero, come il pepe, ovvero a beni non alimentari.
ROMA E I SUOI PORTI Famosa per le sue strade, Roma si riforniva soprattutto via mare degli alimenti di base: grano, olio, garum, vino e molto altro. Convergendo da ogni direzione verso il piú grande mercato dell’antichità, le navi si avvalevano di un’infrastruttura portuale «a sistema», che andava da Centumcellae (Civitavecchia) a nord, fino a Puteoli (Pozzuoli) a sud. Il grano egiziano, per esempio, arrivava a Pozzuoli, un enorme bacino naturale di 600 ettari provvisto di moli monumentali, come quello di 372 m fatto costruire da Nerone. Da Pozzuoli il grano, subito trasferito su navi piú piccole o prelevato nella stagione invernale dai magazzini, arrivava a Ostia dopo tre giorni di navigazione costiera. Di qui avrebbe risalito il Tevere sulle caudicarie, barche da carico con fondo piatto per un ridotto «pescaggio». Nell’anno 42 l’imperatore Claudio volle dare a Roma un porto alla sua altezza, che ovviasse alla complicata logistica dei trasporti da Pozzuoli. Diede perciò il via alla realizzazione di un’imponente «opera pubblica», forse la piú grande del tempo. Il Porto di Claudio fu scavato 3 km a nord di Ostia, in parte nella terra ferma, in parte chiudendo un bacino di 200 ettari, con due moli convergenti. L’ingresso era segnalato da un faro paragonabile per dimensioni a quello di Alessandria d’Egitto. Ma si vide che la stessa vastità del bacino ne minacciava la sicurezza e le correnti che portavano il limo dalla foce del Tevere al nuovo porto ne provocavano l’insabbiamento. Nerone pensò allora a un’infrastruttura alternativa alla logica portuale, facendo iniziare lo scavo di un canale navigabile per centinaia di chilometri tra il lago di Averno, all’altezza di Pozzuoli, e il Tevere, che avrebbe consentito l’alaggio delle merci, cioè il traino
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Vada Va Vollterrran rana
Ancona P ulo Po Pop on niu ni i m Co C Cos osa
Mare Ma re
Adri Ad riat ri atic at ico ic yrrgi gi Centtumcel Cen tumcel cellae lae e Pyr Rom oma om a A siu Als ium um m Por Po orttu tus us O Ost sttia ia Ant An nttiu um um Formiae Terracina Minturnae Gaeta Cuma Neapolis Puteoli Mar Tirreno
Ma Mar Ionio
dei carichi su barche da Pozzuoli a Roma. L’opera non fu mai realizzata. Fu invece Traiano a ridisegnare, tra il 100 e il 113 d.C., l’assetto definitivo del porto di Claudio, inaugurato appena quarant’anni prima, aggiungendo un bacino esagonale interno. L’imperatore fece anche scavare un nuovo canale largo 40 m, il Canale Romano, che univa il suo bacino esagonale al canale di Fiumicino e quindi al Tevere. Da qualche anno, l’area di Portus è oggetto di scavi e ricerche condotti da un team di archeologi dell’Università di Southampton (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009; anche on line su archeo.it).
Cartina nella quale sono indicati gli scali piú importanti del sistema portuale romano.
Ritratto in marmo di Livia (montato su un busto in alabastro antico, ma non pertinente). Età tiberianoclaudia. Roma, Musei Capitolini. L’imperatrice è rappresentata come Cerere, dea che tutelava le messi e i raccolti, con una corona di papaveri e spighe di grano.
SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO Rotomagus
Durocortorum
Vino
Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Porolissum Aquileia
Mediolanum
Lugdunum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Arelate Massilia Nemausus
Tolosa
Brigantium Asturica
Narbo Martius
Mare Adriatico
Narona
Caesaraugusta
Naissus
Dyrrhachium
Roma
Tarraco
Sirmium
Ariminum
Florentia
Bracara Augusta
Mar Nero
Thessalonica
Brundisium
Mar Tirreno
Emerita Augusta
Hispalis
Hippo Regius
Gades
Nicopolis
Ancyra
Pergamum Smyrna Ephesus
Athenae
Mar Egeo
Carthago
Cesarea
Sinope
Byzantium Nicomedia
Mare Ionio
Panormus
Carthago Nova
Olisipo
Aquincum
Augustodunum
Apamea Attalia
Tarsus Antiochia
Lambaesis Theveste
Banasa
M
a r
M e d i t e r r a n e o Damascus
Cyrene Alexandria
Gaza Heliopolis Petra
Rotomagus
Durocortorum
Olio
Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Porolissum
Lugdunum
Aquileia
Mediolanum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Tolosa
Brigantium
Narbo Martius
Asturica
Arelate Massilia Nemausus
Caesaraugusta
Roma
Cesarea Lambaesis
Banasa
Dyrrhachium
Mare Ionio
Panormus Hippo Regius
M
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Mar Nero
Thessalonica
Sinope
Byzantium Nicomedia
Nicopolis
Ancyra
Pergamum Smyrna
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Naissus
Brundisium
Mar Tirreno
Carthago Nova
Gades
Narona Mare Adriatico Puteoli Pompei
Tarraco
Emerita Augusta
Sirmium
Ariminum
Florentia
Bracara Augusta
Olisipo Hispalis
Aquincum
Augustodunum
Ephesus
Apamea Attalia
Tarsus Antiochia
M e d i t e r r a n e o Damascus Cyrene Alexandria
Gaza Heliopolis Petra
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I MAGNIFICI TRE Le tre cartine illustrano i flussi commerciali del vino, dell’olio e del garum (la salsa a base di pesce di cui i Romani furono grandi consumatori). Vino Dai porti sul Mediterraneo ispanici e gallici, ma anche da quelli della Grecia, dell’Anatolia (Asia Minore) e della Mauretania (Marocco), dai primi secoli dell’impero cominciarono a partire navi che trasportavano il vino in anfore verso i maggiori centri di consumo, ovvero le maggiori città del Mediterraneo, Roma in testa con un consumo formidabile, valutato tra 1 600 000 e 2 000 000 di ettolitri l’anno. Olio Per quanto riguarda i consumi di massa, la collina delle anfore di Testaccio (una discarica di frammenti di milioni di anfore accatastati tra il I e il III sec d.C. in prossimità dell’Emporium di Roma), testimonia un’importazione massiccia di olio proveniente dalla Betica, l’odierna Andalusia. In effetti, l’olio spagnolo dovette dominare il mercato romano rivolto al consumo popolare, alimentare e non, per tutto il primo secolo dell’impero, per poi essere affiancato e infine cedere il passo all’olio africano nel corso del II sec. d.C. Garum Il garum era una salsa a base di pesce, salata e lasciata macerare lungamente al sole, ampiamente usata
Rotomagus
Durocortorum
Mosaico parietale con scena di porto, da Roma, via Nazionale, Palazzo Rospigliosi, 1878. Fine del II-inizi del III sec. d.C. Roma, Musei Capitolini. nella cucina romana come esaltatore del gusto. Da Plinio e Marziale sappiamo che a Roma la varietà piú apprezzata era il «garum sociorum», che veniva dalla Betica (Spagna) e veniva prodotto a base di sgombro.
Garum (salsa di pesce)
Augusta Trevirorum
Lutetia
Augusta Vindelicorum Carnuntum
Portus Namnetus Caesarodunum
Oceano Atlantico
Lugdunum
Porolissum Aquileia
Mediolanum
Sarmizegetusa Servitium
Burdigala Tolosa
Brigantium Asturica
Narbo Martius
Arelate Massilia Nemausus
Caesaraugusta
Bracara Augusta
Florentia
Narona Mare Adriatico
Naissus
Dyrrhachium
Tarraco
Mar Nero
Thessalonica
Brundisium
Mar Tirreno
Mare Ionio
Carthago Nova Hispalis
Banasa
Sirmium
Ariminum
Roma
Emerita Augusta
Gades
Aquincum
Augustodunum
Hippo Regius Cesarea Lambaesis Theveste
Carthago
Nicomedia Nicopolis
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Ancyra
Pergamum
Athenae
Mar Egeo
Siracusae
M
Sinope
Byzantium
Smyrna Ephesus
Apamea Attalia
M e d i t e r r a n e o
Tarsus Antiochia
Damascus
Cyrene Alexandria
Gaza Heliopolis Petra
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SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
IL GRANO A PREZZO RIDOTTO di Catherine Virlouvet
Roma non è stata la prima città del mondo antico a conoscere un sistema di distribuzioni a prezzo ridotto o gratuite di derrate alimentari di prima necessità.
L
e città greche intervenivano nella fornitura dei cittadini, e organizzavano le distribuzioni almeno nei periodi di crisi. Questo è stato il caso anche di Atene nel V e IV secolo. Varie testimonianze suggeriscono che alcune città, come Samo agli inizi del II secolo a.C., organizzarono regolarmente distribuzioni gratuite di grano, almeno per un certo periodo. Tuttavia, il sistema istituito a Roma non ha equivalenti in termini di durata, di numero dei beneficiari, e di varietà dei prodotti man mano coinvolti: il grano dal II secolo a.C. (sotto forma di pane dal regno di Aureliano), l’olio dall’epoca di Severo, il vino e la carne dal regno di Aureliano.
La testimonianza delle fonti
Tale specificità è dovuta in gran parte al suo status di capitale politica: piú d’una fonte suggerisce che alcune città organizzarono distribuzioni dello stesso tipo, almeno per quanto riguarda i cereali (nella città egiziana di Ossirinco è documentato da papiri del III secolo), ma nessuna, indubbiamente, presentò un sistema cosí articolato, eccetto Costantinopoli a partire dal IV secolo, proprio a causa del suo status di nuova capitale dell’impero. Per soddisfare le proprie esigenze alimentari, oltre il 90% della popolazione delle società antiche doveva lavorare nel settore agricolo. La presenza di città, la cui popolazione era in parte occupata in altre attività politiche ed economiche (artigianato e commercio), rompeva questo fragile equilibrio, e richiedeva la produzione di eccedenze che non erano garantite tutti gli anni, ma dipendevano dai raccolti piú o meno abbondanti. L’aumento della popolazione della città, unitamente all’estensione del suo dominio sull’Italia e poi sul Mediterraneo, aggravò questo problema. Ci sono buone ragioni per credere che Roma era già nel II secolo a.C. una città di dimensioni sproporzionate rispetto agli standard del 84 a r c h e o
Quadretto ad affresco con scena di banchetto, dalla Casa del Triclinio a Pompei. Metà del I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
tempo: probabilmente contava qualche centinaio di migliaia di persone. La politica urbanistica del tempo, con la costruzione di acquedotti e di potenti strutture portuali, ai piedi del colle Aventino, sono la prova indiretta del crescente numero di abitanti e della preoccupazione dei magistrati riguardo all’approvvigionamento. Infatti, in tempi di difficile approvvigionamento delle materie prime essenziali (vale a
dire, in particolare il grano), quando i prezzi aumentavano eccessivamente o c’era la carestia, le autorità della città creavano commissioni frumentarie composte da senatori che dovevano portare il grano da altre regioni d’Italia, Etruria e Campania. A volte, si organizzavano distribuzioni a prezzo ridotto. Con le prime conquiste oltremare, la città entrò in possesso di cereali versati a titolo di imposta da alcune province. La Sicilia, poi l’Africa,
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SPECIALE • NUTRIRE L’IMPERO
LA GIUSTA MISURA Anche nel mondo romano i carichi di merci viaggiavano accompagnati dalla loro documentazione. L’anforetta, rinvenuta a Pompei e qui raffigurata, è uno di questi documenti e serviva a certificare genere, quantità, proprietà e trasportatore di un carico di 15 200 moggi (circa 106 tonnellate) di grano. Ma non solo, perché serviva anche a certificare, contro possibili frodi, la qualità del carico spedito. L’anforetta conteneva infatti un campione del grano trasportato, che doveva risultare conforme a quello consegnato. Sulla spalla dell’anforetta si legge:
(«Campione dei 15 200 modii del grano trasportato sulla nostra navicella da carico di proprietà di Publio Pompilio Saturo con l’insegna della Vittoria sotto la protezione di Giove e di Giunone. Comandante della nave Marco Lartidio Vitale, originario di Clupea»). Nella parte bassa del contenitore viene invece precisato il compenso spettante al trasportatore, pari a circa l’1,3% del carico:
Ante (missum) exemplar tr(itici) m(odiorum) XVCC in n(ostra) cumba AMPRI de tutela Iovis et Iuno(nis) parasemi Victoria P(ubli) Pompili Saturi. Mag(ister) M(arcus) Lartidius Vitalis domo Clupeis. Vect(ores)estis rec(epturi) sol (ven)di (causa ?) gratis m(odios) CC. («Voi trasportatori riceverete duecento modii di grano a titolo di compenso»). Nella stessa zona, poco sotto, viene anche indicata la data in cui avvennero la consegna della merce e il pagamento pattuito: S(olutio) f(acta) pr(idie) idusOctobr(es). («Consegna avvenuta il 14 ottobre»).
divennero alla fine del III e II secolo le province frumentarie di Roma, rifornendola regolarmente in grano. Questo non impediva alla città, la cui popolazione non cessava di aumentare, di avere problemi di approvvigionamento sempre piú frequenti. La volontà di contrastare queste difficoltà fu in buona parte il motivo della prima legge frumentaria adottata da Gaio Gracco durante il suo primo mandato di tribuno della plebe nel 123 a.C. Nel corso del I secolo, Cicerone condannò in seguito piú volte l’iniziativa di Gracco, ritenendola demagogica e rovinosa per le finanze pubbliche. Ma dobbiamo inserire la legge del 123 nel suo contesto economico e nell’insieme delle riforme adottate dal tribuno. Con la legge agraria approvata lo stesso anno, egli voleva risolvere le questioni 86 a r c h e o
Le iscrizioni dipinte su un’anforettacampione per il grano, da Pompei. I sec. d.C. Pompei, Depositi.
sollevate dall’afflusso nella capitale di persone senza terra e senza lavoro. La legge agraria cercava di ridare la terra a chi non l’aveva piú, riducendo cosí il numero degli abitanti di Roma, mentre la legge frumentaria tentava di stabilizzare il mercato del grano in città, offrendo ai cittadini romani la possibilità di acquistare a prezzo ridotto (6 assi e 1/3 per modius) una certa quantità di cereali ogni mese (la cifra di cinque modii, circa 35 kg, è accertata solo per il I secolo a.C.).
Regolare il mercato
Queste vendite, organizzate dallo Stato con il prodotto delle tasse, miravano anche ad abbassare i prezzi del mercato romano. Alcune misure aggiuntive, come la creazione di granai pubblici, mostrano che la legge frumentaria
di cereali della città, istituendo un sistema di sorveglianza dei magazzini. Da quella data in poi, gli elenchi dei beneficiari sembrano non essere piú stati aggiornati con precisione, ci furono molti abusi e il numero dei beneficiari crebbe costantemente fino a raggiungere la cifra di 320 000 sotto la dittatura di Cesare. Egli impose nel 46 a.C. una revisione delle liste e un numero chiuso di 150 000 beneficiari che venivano sostituiti tramite un’estrazione a sorte all’interno del gruppo di citta-
aspirava, in maniera piú generale, e al di là delle distribuzioni ai cittadini, anche a regolare indirettamente l’intero mercato granario. La reazione contro Gracco, che seguí la morte del tribuno, svuotò la legge agraria di gran parte del suo contenuto. L’aumento della popolazione della capitale continuò, e il suo rifornimento rimase al centro delle preoccupazioni del potere politico. Le frumentationes divennero centrali nella competizione fra le fazioni politiche per conquistare il favore della plebe du-
rante l’ultimo secolo della Repubblica: probabilmente soppresse durante la dittatura di Silla, furono ristabilite negli anni Settanta. È a partire da questa data che siamo a conoscenza della quantità massima concessa a ogni cittadino adulto di sesso maschile. Non è chiaro se questo privilegio sia stato concesso a tutti i cittadini che vivevano a Roma o a un numero limitato di essi e quali siano stati i criteri per definire chi ne aveva diritto. Sembra in ogni caso che un provvedimento adottato su iniziativa di Catone, nel 62 a.C., abbia portato un aumento importante dei beneficiari. Il loro numero è cresciuto ulteriormente negli anni successivi: Clodio, tribuno nel 58 a.C., fece approvare una legge che introdusse la distribuzione gratuita e che si interessava piú generalmente anche all’approvvigionamento
Affresco con scena di carico della nave Isis Geminiana, dalla necropoli della via Laurentina. Prima metà del III sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
dini che erano domiciliati nell’Urbs. Se la morte di Cesare ha segnato l’inizio di un nuovo periodo di abuso e di un’inflazione nel numero dei beneficiari, Augusto, dopo aver consolidato il suo potere, riprese il regolamento di Cesare fissandone un numero massimo di 200 000 e istituendo un servizio speciale incaricato di provvedere a queste distribuzioni mensili, sotto il comando di un prefetto di rango senatorio, il praefectus frumenti dandi. Il trasporto, la conservazione e la fornitura delle derrate necessarie per queste distribuzioni fu però affidata da Augusto al prefetto dell’annona, di rango equestre. Questo gruppo di beneficiari del grano pubblico si mantenne quasi invariato per il resto del periodo imperiale, oscillando tra 150 000 e poco piú di 200 000 persone. a r c h e o 87
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causa della loro natura altamente politica e del loro stretto legame con la condizione dei cittadini. Dal regno di Claudio, un edificio è usato appositamente per le distribuzioni, in un sito che aveva forse già svolto questo ruolo prima. Si tratta della Porticus Minucia Frumentaria, abitualmente identificata con il portico intorno al tempio di via delle Botteghe Oscure, accanto alla Porticus Minucia vetus che circonda l’area dei quattro templi di epoca repubblicana ancora visibili a largo Argentina.
Aureliano modifica le procedure
Bisogna fermarsi un momento sul profilo dei beneficiari: si tratta di cittadini maschi adulti residenti a Roma, nati liberi. I liberti, le donne, i bambini, i residenti non domiciliati in città sono in linea di principio esclusi da questo privilegio. Il termine di privilegio non è abusivo. Questo diritto al grano gratuito non deve essere interpretato come una sorta di mensa per i cittadini piú poveri, come le distribuzioni agli indigenti che furono organizzate in altri tempi e in altre civiltà. Sembra anche che all’inizio non vi fosse alcun criterio di reddito, anche se i membri della élite politica, senatori e cavalieri, non dovettero mai rivendicare questo diritto. L’organizzazione delle distribuzioni in città richiedeva una logistica complessa. Finché le frumentationes riguardarono i cereali, si svolsero verosimilmente in un unico luogo della città, dove i beneficiari si presentavano in piccoli gruppi distribuiti sull’insieme del mese, muniti di una tavoletta, la tessera frumentaria, che dimostrava il loro diritto ad accedere al grano pubblico, e dove erano iscritti la data e il luogo in cui dovevano riceverlo. È probabile che sia questo lo strumento agitato dalla dea Annona sul «sarcofago Aquari» nel Museo Nazionale Romano. Non conosciamo con sicurezza i luoghi delle distribuzioni durante il periodo repubblicano, ma ci sono buone ragioni per credere che dovevano svolgersi nel centro della città, a
Qui sopra: il sarcofago detto «dell’Annona», da una camera sepolcrale sul primo tratto della via Latina. 270-280 d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Nella pagina accanto: l’immagine della dea Annona scolpita sulla fronte dell’omonimo sarcofago: è stato ipotizzato che lo strumento impugnato dalla divinità nella mano destra sia una tessera frumentaria, il documento che dava diritto ad accedere al grano pubblico.
Il gran numero di beneficiari e i notevoli quantitativi di cereali che servivano ogni mese ci fanno capire la complessità dell’organizzazione che era necessaria, sia in termini di portatori che convogliavano fino al portico le quantità richieste, conservate in magazzini vicino al porto e attorno al luogo della distribuzione, sia in termini di addetti preposti ai registri e al controllo dei beneficiari al momento della distribuzione. Dal III secolo d.C., probabilmente durante il regno di Aureliano, la distribuzione giornaliera di pane che sostituí le distribuzioni mensili di grano portò un cambiamento profondo delle procedure e una proliferazione dei luoghi di distribuzione collegati alle panetterie. Tuttavia, anche se non è ancora del tutto chiaro cos’erano i gradus, dove veniva distribuito il pane a quell’epoca, la parola stessa rivela la volontà persistente di mettere in scena queste distribuzioni, di renderle ben visibili in città, perché continuavano a rappresentare un privilegio civico che bisognava controllare. Come abbiamo già detto, durante l’impero, il sistema delle elargizioni gratuite coinvolse anche altri generi alimentari. L’olio, distribuito prima in modo eccezionale e poi regolarmente a partire dai Severi, è stato l’oggetto di distribuzioni quotidiane, nelle mensae oleariae sparse in tutta la città. Si ritiene generalmente che il prefetto dell’annona fosse direttamente responsabile di questo servizio. Tuttavia, quando Aureliano istituí nel III secolo distribuzioni di carne gratuita per cinque mesi all’anno e di vino a prezzo ridotto, derrate provenienti dall’Italia, affidò questo incarico al praefectus Urbis. Per il rifornimento di grano e olio, il prefetto dell’annona rimase indipendente fino al regno di Costantino, quando entrò poi a far parte della prefettura della città. a r c h e o 89
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ALIMENTAZIONE A MIGLIA ZERO di Paolo Braconi
Quando non esistevano i frigoriferi, i terreni vicini ai centri abitati erano tra i piú pregiati, per la possibilità di rifornire il mercato cittadino con prodotti freschi e difficilmente conservabili.
I
noltre, la vicinanza al luogo di consumo abbatteva e abbatte tuttora notevolmente le spese di trasporto ed è proprio per sottolineare questa opportunità che è nata la locuzione moderna a «chilometri zero», che designa la produzione agroalimentare consumata nel territorio di origine, senza emissioni di inquinanti dovuti alla lunga conservazione e al trasporto. La distribuzione su corta distanza favorisce inoltre la genuinità e la conservazione di specie e varietà locali, nonché di processi di trasformazione tradizionali.Tutto ciò in dichiarato contrasto con le sofisticazioni, l’impoverimento genetico e l’erosione delle biodiversità imposte dalla globalizzazione. Ricordato che lo zero in quanto valore numerico era sconosciuto nell’età che ci interessa e che prodotti realmente a chilometri o a miglia zero sono piuttosto improbabili nel caso di grandi centri urbani, affrontiamo qui il tema delle risorse alimentari fornite agli abitanti di Roma dal territorio nelle immediate vicinanze della città, quello che quotidianamente metteva il produttore a diretto contatto col consumatore finale, prefigurando un altro tema caro alla nostra sensibilità attuale, quello della filiera corta. Sia che si prenda come bacino produttivo un 90 a r c h e o
«hinterland» compreso in un raggio medio di circa 20 miglia da Roma, sia che si consideri la cerchia piú ristretta del Suburbium entro il IX miglio dal centro, possiamo affermare che questo territorio costituiva una sorta di gigantesca dispensa a cielo aperto per il fabbisogno alimentare dei Romani.
L’acqua
Partiamo dall’alimento vitale base per tutti i viventi: l’acqua. I Romani delle origini bevevano l’acqua del Tevere e dei pozzi e delle sorgenti all’interno o nelle immediate vicinanze della città. Il fiume e le fonti erano elementi naturali venerati come divinità e certamente l’acqua, base di ogni vita, ne era la ragione.Tra le sorgenti che hanno segnato la storia anche religiosa di Roma ricordiamo per esempio quella di Giuturna, nel Foro, quella di Anna Perenna, nell’odierno quartiere Parioli e quella delle Camene a porta Capena. La fitta rete di cunicoli, pozzi, cisterne che caratterizza la Roma sotterranea, testimonia la grande maestria con la quale i Romani seppero apprestare impianti idrici «a miglia zero», in grado cioè di captare, raccogliere e conservare sia le acque del sottosuolo che quelle piovane. La potenza dell’impero era per gli antichi
In alto: fronte di sarcofago, dalla tomba 90 della necropoli di Portus, Isola Sacra. Secondo quarto del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. Il rilievo è diviso in due scene: a sinistra, una nave entra in porto, guidata verso il faro da una barca a remi; a destra, all’interno di una taberna, una donna serve da bere a uno dei due clienti seduti al tavolo. Si tratta di una metafora legata all’ambito funerario: l’arrivo in porto è l’immagine del cammino verso la salvezza, mentre la scena nella taberna allude al banchetto.
stessi simboleggiata anche dalla maestosità e dal numero degli acquedotti che alimentavano l’Urbs, che tuttavia non ha mai rinunciato alle proprie strategiche risorse idriche interne, alle quali ricorrere nel caso in cui gli acquedotti venissero meno. L’acqua pura costituiva la bevanda per eccellenza, ma sappiamo che di norma veniva aggiunta anche al vino (e all’aceto), calda in inverno e ghiacciata con la neve delle neviere, in estate. L’acqua era anche elemento portante delle zuppe e farinate che da sempre hanno accompagnato la storia alimentare dell’uomo. In basso: affresco con l’immagine della Fenice, originariamente collocato, a mo’ di insegna, all’esterno della caupona (osteria) di Euxinus, a Pompei. I sec. d.C. Pompei, Depositi.
La «triade mediterranea»
nel senso che diamo oggi alla parola pane (farina, lievito, crosta e mollica, ecc.), e per questo motivo i Romani nei primi tre secoli della loro storia non mangiarono che farro, prevalentemente bollito (puls). Era la base a cui si potevano aggiungere altri ingredienti, sia in cottura che come condimento: ortaggi, legumi, uova, latte, olio, formaggio, pezzi vari di carne. L’antico cereale vestito delle origini venne ben presto sostituito dai piú nobili grani nudi importati dalle regioni piú vocate a questa produzione e via via conquistate, ma l’antica usanza di ricorrere al farro per cerimonie particolarmente solenni o tradizionali lascia supporre che alcuni appezzamenti di questo cereale siano rimasti a portata di mano, negli immediati sobborghi della Roma imperiale. A metà maggio per esempio, le vergini vestali confezionavano la mola salsa con le spighe del farro ancora lattescente, raccolte da loro stesse, dunque nei pressi della città. Era indispensabile per «immolare» cioè cospargere di mola la testa delle vittime da sacrificare.
La base dell’alimentazione era fornita dal mondo vegetale, in primo luogo dagli alimenti della «triade mediterranea»: il pane, il vino e l’olio. Sarebbe meglio dire grano, vite e olivo perché in realtà i prodotti di queste piante potevano essere consumati a prescindere dalla loro piú elaborata trasformazione. Il cereale piú antico di Roma era stato il farro, prodotto dalle campagne immediatamente circostanti la città romulea e probabilmente prescelto tra le diverse specie di grani noti per la sua adattabilità ai terreni Leggi e raccomandazioni umidi. Il farro era difficilmente panificabile Anche la vite in origine faceva parte dell’immaginario urbano di Roma. Basti ricordare che una legge delle XII tavole prescriveva la stessa tutela per l’uso di una trave del tetto di una casa e per quella di una vigna (tignum iunctum aedibus vineaeve) e che all’interno o nelle immediate vicinanze della città si trovava la vinea publica, nella quale il Flamen Dialis celebrava l’avvio della stagione della vendemmia (auspicatio vindemiae). D’altra parte già Catone aveva raccomandato di tenere il fundum suburbanum ad alberata (arbustum), cioè in coltura promiscua dove viti maritate a tutori vivi crescevano in alto lasciando spazio negli interfilari alle colture erbacee, ai legumi e all’orticoltura. Il caso del vino dimostra che non sempre la vicinanza del prodotto al luogo di consumo comporta buona qualità: i Colli Albani, a una giornata di cammino da Roma, producevano un ottimo vino (albanum), mentre il vicinissimo vino del Vaticano (vaticanum) aveva una pessima fama. L’uva non serviva solo per fare il vino, ma era anche un ottimo e nutriente alimento, sia fresca che conservata per disidratazione (uva passa) o entro vasi, sotto le vinacce o immersa nel mosto cotto. a r c h e o 91
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Oliveti a miglia zero producevano non solo l’indispensabile olio, ma anche olive da conserva, sempre per il fondo suburbano, ottime verdi e intere sotto salamoia o schiacciate nel lentisco, oppure nere e asciutte, macerate nel sale o nel mosto cotto. La campagna intorno a Roma doveva apparire fittamente popolata di alberi, non solo viti e olivi, ma anche altri alberi da frutto, come le diverse varietà, precoci o tardive, di mele e pere già raccomandate da Catone, reperibili anche in conserva di mosto cotto, come pure le sorbe. Ma il grande grande ventre della Roma imperiale era rifornito e assistito sistematica-
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mente dalla imponente macchina dell’annona: il pane era ormai fatto col frumento delle province e olio e vino giungevano in anfore dalle piú lontane regioni, in una sorta di globalizzazione ante litteram. Proprio l’opportunità di sgravare le terre del suburbio dall’obbligo di rifornire di granaglie la città incentivò la produzione di beni a piú alto valore aggiunto. Se dunque la materia prima per il pane poteva provenire dall’Africa, il companatico (pulmentarium) poteva piú facilmente essere «a miglia zero», a partire proprio da quei vegetali da consumarsi freschi e dunque necessariamente prodotti da campi e orti del circondario.
Calco del rilievo con il busto del macellaio T. Iulius Vitalis. Ultimo quarto del II sec. d.C. Roma, Museo della Civiltà. Alla sinistra del ritratto, si vede lo stesso personaggio impegnato nella sua attività.
A destra: rilievo raffigurante una donna che vende ortaggi e legumi. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium.
La disponibilità di acqua (a volte, anche abusivamente, derivata dagli acquedotti) consentiva l’orticultura, favorita dalla grande abbondanza di rifiuti urbani «umidi» che venivano raccolti e prontamente riciclati come concime, insieme a quelli prodotti dagli animali.
Cuocere con il sole
Non solo le ovvie erbe da insalata come lattughe, indivie, e diversi aromi ed erbette selvatiche o coltivate, come la rucola, ma anche cipolle, porri, agli e infiorescenze di cavoli e rape e perfino fave e ceci consumati ancora verdi: un piccolo universo vegetale che pote-
va essere assunto senza dispendio di energia termica in quanto «cotto» dal sole e dunque crudo solo apparentemente e che poteva essere condito dai parchi Romani dell’età piú antica semplicemente con aceto, come ci racconta Plinio il Vecchio: «Dell’orto si tenevano in gran conto i prodotti che non avevano bisogno di cottura e facevano risparmiare legna, sempre pronti e disponibili, detti acetaria, facili da digerire, tali da non appesantire l’organismo a causa del cibo e da ridurre al minimo il desiderio di pane» (Storia Naturale, 19,58). V’erano poi erbe e ortaggi da consumare cotti, come zucche e radici di ogni genere, broccoli e foglie di rape e di cavoli dalle diverse varietà e tanto cari già al vecchio Catone, e poi ancora legumi secchi come fave, piselli, lenticchie, cicerchie, ceci, lupini. Possiamo facilmente immaginare boschetti e terreni marginali come balze scoscese o sponde di fossi e ruscelli nei quali si potevano raccogliere germogli vari come asparagi, vitalbe, pungitopi e altri frutti selvatici (come le more) o varie specie di funghi.
La città fagocita la campagna
Le fonti scritte e la ricerca archeologica ci consentono insomma di ricostruire una Roma circondata da appezzamenti di terreno di varie dimensioni (da particelle minime di pochi iugeri – unità di misura di sua r c h e o 93
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perficie agraria pari a 0,252 ettari, n.d.r. – a estesi domini) sfruttati sia per l’autoconsumo che per il mercato. Spazi rurali che la città nel suo espandersi continuo fagocitava e spingeva a rinascere nelle nuove periferie, che cosí perdevano l’antico aspetto di aperta campagna. Naturalmente la cintura di orti e ville rustiche o altri edifici e complessi agricoli era interrotta dalle ville d’otium suburbane che ogni notabile romano doveva possedere per poter agevolmente rilassarsi dopo un’affannosa mattinata trascorsa nel convulso cuore della capitale dell’impero. Queste ricche dimore suburbane erano anche luoghi di consumo alimentare, concepiti per il riposo,lo svago e l’ ostentazione di agio e lusso, come gli horti non piú intesi per coltivare holera (ortaggi), ma come giardini, sempre piú lussuosi quanto improduttivi e destinati a insinuarsi all’interno del tessuto stesso della città. A ogni buon conto, quasi tutto quello che un Romano della Roma imperiale desiderava per il suo prandium o per la sua cena, poteva in realtà trovarsi «a miglia zero» nel senso che abbiamo convenuto. Nei casi che abbiamo riportato, solo le acciughine e la salsa di tonno e le spezie esotiche (come il In basso: rilievo raffigurante una pollivendola. Prima metà del III sec. d.C. Ostia, Antiquarium. Si noti, sulla destra, il tocco esotico conferito alla scena dall’immagine delle due scimmie sedute sul banco della venditrice.
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pepe) con cui erano certamente condite le carni sono prodotti estranei al territorio suburbano piú ristretto. Si deve però ricordare che le ville marittime, gli stagni e i laghi del Lazio furono anche luoghi di una fiorente itticoltura. Non mancò neanche il tentativo di importare nel Tirreno, tra la foce del Tevere e la costa campana, una specie ittica del Mediterraneo orientale come il pesce pappagallo (Plinio, Storia Naturale 9,62-63). Persino le stravaganti specie animali asiatiche o africane (per esempio il pavone), vennero riprodotte negli allevamenti di volatili (aviaria) che rifornivano il mercato alimentare romano. Diventarono di fatto a miglia zero specie animali e vegetali (come le ciliegie) che mai erano state tipiche o tradizionali di Roma, del Lazio o dell’Italia. Notiamo infine che pur in presenza di un prestigioso mercato di vini blasonati esteri, il vino di Marziale è locale (nomentanum), cosí come la neve del dessert di Plinio doveva provenire dai monti circostanti.
«Condividere» la carne
Una caratteristica nutrizionale salta in sintesi agli occhi dai nostri esempi e dall’immagine stereotipata del romano a banchetto e cioè la presenza di abbondanti proteine animali: uova, carne e latte. Persino il rustico moretum di Simulo è a base di formaggio, sia pure insaporito con erbe. Sappiamo in effetti che in età imperiale ogni cena che si
Calco del fianco di un sarcofago con la raffigurazione di un pastore che munge una capra rinvenuto in un sacello cristiano sulla via Tiburtina, in località Aguzzano. 280-290 d.C. Roma, Museo della Civiltà Romana.
rispettasse doveva essere a base di carne. A dire il vero, dicono linguisti e antropologi che la cena (o coena) era sin dall’origine la «condivisione della carne» (del sacrificio) e che invitare a cena qualcuno senza offrire una pietanza a base di carne era praticamente un controsenso.
La frugalità dei padri
Ciononostante, si tende in genere a considerare il consumo di carne nel mondo romano come eccezionale, un lusso, e di conseguenza a ritenere quell’alimentazione piuttosto di tipo «mediterraneo», sana e genuina come la dieta che oggi porta questo nome. Ma la Dieta Mediterranea non è un’invenzione antica, bensí l’etichetta che gli Americani hanno dato al sobrio stile di vita di popoli mediterranei accomunati dalla cronica impossibilità economico-ambientale di accedere a piacimento a cibi di origine animale,
ripiegando su nutrienti piú economici e disponibili a base vegetale. La prova di questa semplice constatazione è data proprio dagli esempi che abbiamo visto e dall’opinione che i Romani avevano della loro storia alimentare. La sobria frugalità «mediterranea» dei padri della repubblica, quella degli acetaria che comportavano persino poco pane, vagheggiati da Plinio, non è evidentemente lo stile alimentare della Roma imperiale, ma appunto un ricordo che sa di rimpianto, in una Roma che diventa o ambirebbe a diventare sempre piú carnivora. Anche il cibo di strada, disponibile nelle popinae (taverne) per i molti che non potevano disporre di una cucina propria, sembra rimandare irresistibilmente a prodotti a base di carne con il suo grasso e alle uova: spezzatini, trippe, sanguinacci, salsicce e padellate di uova frammiste a verdure o carni di vario genere (patinae). a r c h e o 95
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LE ROTTE MARINE di Pascal Arnaud
L’immagine lasciata da Roma presso i moderni è spesso quella di un popolo che avrebbe sin dalle origini girato le spalle al mare.
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lla formazione di questa immagine ha contribuito non poco Lucrezio con il suo notissimo suave, mari magno, turbantibus aequora ventis, e terra magnum alterius spectare laborem: «Dolce, quando sul vasto mare i venti sollevano i flutti, assistere da terra alle dure prove altrui» (II, 1-2). La cattiva impressione lasciata dalla dimensione marinara di Roma è stata rinforzata dal «cimitero» marittimo scoperto grazie all’archeologia subacquea. Il numero di relitti di età romana supera quello di ogni altra età. Erano cosí maldestri i marinai romani o il numero dei relitti
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Restituzione grafica del graffito raffigurante la nave Europa, visibile nell’omonima casa pompeiana.
identificabili è piú alto grazie alle anfore del carico? Sarà la seconda la risposta giusta: il grafico dei relitti a noi noti segue perfettamente l’evoluzione quantitativa del commercio delle anfore. Sottovalutata dalla storiografia moderna, la dimensione marittima dell’impero romano va interamente riconsiderata. Piú delle notissime vie romane, fu il mare, ormai pacificato e liberato della pressione dei pirati, a collegare le diverse parti dell’impero e a portare gente, idee e soprattutto merci da una sponda all’altra di un mare che, già nel IV secolo a.C., Platone paragonava a un laghetto.
LA MOSTRA Il percorso dell’esposizione allestita nel Museo dell’Ara Pacis, ideata e curata da Claudio Parisi Presicce e Orietta Rossini ripercorre le soluzioni adottate dai Romani per il rifornimento e la distribuzione del cibo, con i mezzi di trasporto via terra e soprattutto lungo le rotte marine. Vengono inoltre affrontati i temi della distribuzione «di massa» e del consumo alimentare nei diversi ceti sociali in due luoghi emblematici: Roma, la piú vasta e popolosa metropoli dell’antichità, e l’area vesuviana, con particolare riguardo a Pompei, Ercolano e Oplontis.
Solo il trasporto per via d’acqua consentiva il movimento di grandi quantità di merci e di pesi elevati mantenendo un costo economicamente accettabile. Richard Duncan-Jones ha calcolato il costo del trasporto per via terrestre, fluviale e marittima in base all’editto pubblicato da Diocleziano nel 301 d.C. I risultati hanno rivelato una scala di costi chiaramente a favore della via marittima. Non c’è da stupirsi di questo risultato, confermato dai paralleli con l’Ottocento o con la situazione odierna. Il trasporto terrestre è sempre stato piú costoso di quello fluviale, e quest’ultimo piú oneroso del trasporto marittimo. Le cifre tratte dall’editto mostrano che trasportare la stessa quantità di grano via terra costa, per la medesima distanza, almeno trenta volte il prezzo del suo trasporto per via marittima, mentre il costo del trasporto fluviale è quasi quattro volte piú elevato di quello del trasporto marittimo quando si scende il fiume, e quasi otto volte quando lo si risale. André Tchernia ha proposto una stima del volume di merci necessarie al rifornimento annuo di Roma sotto l’impero romano, la maggior parte delle quali era trasportata per via marittima: – 50 milioni di moggi di grano, equivalenti a 350 000 tonnellate; – almeno 260 000 anfore di olio, ciascuna del peso medio di 90 kg; – 1 600 000 hl di vino. Senza tener conto del resto delle merci, per le quali è difficile proporre una sti-
Una delle sezioni della mostra allestita nel Museo dell’Ara Pacis.
ma precisa ma il cui volume era senza dubbio importante (pesce salato e garum, lenticchie, ceci, fagioli, manufatti, legno da fuoco o da costruzione, marmi, tegole, mattoni) e dividendo per due le quantità di vino trasportate per mare, Tchernia raggiungeva un numero minimo di 786 viaggi di navi della portata di 150 fino a 350 tonnellate al porto di Ostia, allo sbocco del fiume. La cifra di 1500 viaggi, includendo barche piú piccole, non sembra per nulla irrealistica. La realtà era probabilmente molto piú elevata, se si aggiungono da un lato i prodotti non inclusi nel calcolo, tra i quali, marmi e legno rappresentano quantità e pesi elevati, nonché le merci che transitavano nel solo porto di Roma, e il vino sbarcato in altri porti e poi trasportato per via fluviale, terrestre o per via di cabotaggio. I testi di questo speciale sono tratti dal catalogo che accompagna la mostra. DOVE E QUANDO «Nutrire l’Impero. Storie di alimentazione da Roma e Pompei» Roma, Museo dell’Ara Pacis fino al 15 novembre Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.arapacis.it; www.museiincomuneroma.it; Twitter: @museiincomune #Nutrirelimpero Catalogo «L’Erma» di Bretschneider a r c h e o 97
IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
QUALCOSA È CAMBIATO QUALI PROSPETTIVE PROFESSIONALI PUÒ OFFRIRE, OGGI, LO STUDIO DELL’ARCHEOLOGIA? RISPONDERE NON È FACILE, MA UN RECENTE LIBRO-INCHIESTA HA PROVATO A FOTOGRAFARE LA REALTÀ ITALIANA
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egli anni Settanta, appena laureato, sapevo che il mestiere di archeologo avrebbe potuto aprire una porta nel campo della ricerca universitaria o in quello della pubblica amministrazione della tutela. Già allora i «posti» erano pochissimi. Poi si sono fatti ancora piú rari ed evanescenti fino a far equivalere la laurea in archeologia alla disoccupazione certa. A mano a mano che il mercato del lavoro pubblico si chiudeva, si andava però aprendo un mercato
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privato: l’archeologia cambiava pelle facendosi pratica sociale. Difficile, spesso dura, sempre incerta. E oggi?
STORIE «DI FRONTIERA» In una fase storica segnata dalle difficoltà lavorative, è bene fare il punto sul «mestiere di archeologo» evitando discorsi troppo generici e andando a vedere che cosa succede. Ecco dunque che 34 professionisti – coordinati dalla giornalista Cinzia Dal Maso e dal giovane archeologo Francesco
Ripanti – hanno deciso di raccontare ciascuno la propria esperienza «di frontiera», per proporci una riflessione collettiva, e freschissima, sul senso del loro lavoro nell’Italia di oggi. Ne è scaturito un «manuale non convenzionale», una sorta di bottega artigiana, in cui la giovane archeologia italiana, che fa i conti con il mondo globalizzato, si interroga fattivamente su di sé e sulle sue prospettive, non si piange addosso, ma indica le tante strade, antiche e nuove, del nostro
«mestiere». È un libro che si legge tutto d’un fiato, e ti fa divertire. Ma, soprattutto, è un libro che infonde un senso di fiducia, lancia un segnale di speranza per l’archeologia e per i giovani che intendono dedicarle la loro vita. Come ci avvertono i curatori, in queste pagine, infatti, c’è tanta vita vissuta, eppure, al tempo stesso, c’è quella solidità che ne fa anche uno strumento che ti aiuta a capire il mondo che hai attorno e nel quale c’è anche posto per te. Perché l’archeologia è diventata fonte di «mille mestieri», è un campo che si presta a tante nuove professioni, che fanno vivere gli archeologi, ma fanno anche vivere l’archeologia, cioè le danno un futuro.
burocratismo ministeriale. Qualcuno ci rivela quanto sia stato importante capire che in archeologia, come in ogni buon lavoro artigianale, è importante imparare a «rubare il mestiere»; qualcuno ci ricorda quanto l’archeologia non sia mai neutra né neutrale; qualcuno ci invita a liberarci dal settarismo degli specialismi e a costruire ponti fra le discipline. Qualcuno ci racconta quanto è bello concepire l’archeologia come un territorio aperto, nel quale ci si scambia liberamente dati e idee; qualcuno ci ricorda come la battaglia per la libera circolazione delle immagini del nostro patrimonio storico pubblico abbia fatto passi in avanti, ma non sia ancora finita; qualcuno ci fa riflettere che lavorare sulle fotografie non significa fare a meno degli originali, ma, al contrario, ci regala davanti a essi l’emozione di ri-conoscere ciò che in parte si conosce già.
PENSARE POSITIVO Il segreto sta nella visione positiva del presente – pur con tutti i suoi problemi epocali, che anche i giovani archeologi conoscono e incontrano tutti i giorni –, che mette al bando le lamentazioni e ti fa rimboccare le maniche: chi l’ha detto che non c’è posto per gli archeologi del futuro? Certo, molto dipende da che cosa intendiamo per archeologia. Se qualcuno pensa ancora che sia la ricerca dell’antico per distogliere l’attenzione dal presente o per centellinarne poi un distillato di scienza in modo sussiegoso ed esoterico: beh, questa archeologia ha finito il suo tempo. L’archeologia, oggi, vive se lavora per un bene comune, cercando il suo equilibrio tra una percezione profonda del fascino del passato e una grande curiosità per la modernità. L’archeologia pubblica, leggiamo nel libro, è innanzitutto una forma mentis, che si sviluppa e matura a mano a mano che ci si rende conto che la sopravvivenza stessa dell’archeologia dipende dal suo ruolo nella società contemporanea. Sfogliando il volume, troviamo di che riflettere sul senso
SAPER RACCONTARE In questa pagina, dall’alto: Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino e autore di uno dei contributi contenuti nel volume Archeostorie, al lavoro nel Piccolo Tempio di Amon a Medinet Abu, Luxor; la simpatica immagine di un’archeologa impegnata in un cantiere di scavo. Il contributo femminile alla ricerca sul campo è oggetto di un altro dei saggi contenuti nel volume. Nella pagina accanto: Mnajdra (Malta). Veduta del complesso templare. Anche il patrimonio dell’isola viene evocato in uno dei contributi riuniti in Archeostorie. dell’insegnamento universitario, e sui tanti modi, utili o inutili, di praticarlo; e siamo invitati a ragionare sul modo di riscattare la figura dell’archeologo, offuscata dal sussiego accademico o dal
Lungo tutto il volume corre un pensiero condiviso, e cioè la centralità della comunicazione, che è la ragion d’essere della ricerca umanistica (di quella almeno che non pensa di essere piú seria perché rinserrata nella sua torre d’avorio). Di qui l’esigenza di un’archeologia capace di farsi ascoltare, che impari a raccontarsi e a raccontare quelle «storie», che tanti anni fa Andrea Carandini aveva messo nel titolo del primo manuale di stratigrafia archeologica scritto da un italiano. La dimensione narrativa dell’archeologia è una conquista grandiosa per un mondo che ha sempre dovuto fare i conti con l’alterigia di chi si asteneva dalla divulgazione, come da una pratica in fondo disdicevole. Per le nuove narrazioni, le tecnologie sono senza dubbio fondamentali (e il volume è ricco di sperimentazioni in materia),
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persone, di individui con la loro storia. E bene fa l’archeologo a non restarci male se, in visita a Pompei o a Ercolano, qualcuno trae piú emozione dalla vista degli scheletri delle vittime sventurate di quella tragedia piuttosto che dalle ultime scoperte sul sistema idraulico della città antica, che appassionano le nostre ricerche.
BEN VENGA L’ALLEGRIA!
Ancora due immagini tratte da Archeostorie: in alto, la Chimera di Arezzo, capolavoro della bronzistica etrusca oggi conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze; in basso, due volontarie impegnate nello scavo di Poggio del Molino, sito compreso nel territorio dell’antica Populonia, sul golfo di Baratti, la cui esplorazione si avvale anche di un’attività di crowdfunding. ma con una certezza, ragionevole e colta, e cioè che non è necessario armarsi di tecnologie di ultimo grido per generare interesse ed emozione: queste vengono prima, come già ci insegnava Omero tremila anni fa. Se l’archeologia dà nuova importanza alle emozioni, questo non vuol dire che si arrenda ad aspetti irrazionali, quanto piuttosto ad aspetti umani. Perché dietro a ogni pubblico ci sono tanti pubblici, ai quali parlare con linguaggi diversi, e ognuno di questi pubblici è composto semplicemente di
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Perché l’archeologia è anche sentimento, è divertimento, allegria. Chi ha detto che le mura rotte degli antichi debbano essere visitate e frequentate compuntamente in religioso silenzioso? Quanto farebbe bene ai nostri studi un po’ piú di ironia! Quanto ci aiuterebbe a liberarli di quell’aura di sacralità, che allontana le persone, relegate al ruolo passivo di «pubblico» privato del suo stesso patrimonio; e cosí spinto alla distrazione e al disinteresse, quando non alla pura e semplice speculazione, come se si trattasse di una merce da consumare. Se un’archeologia senza pubblico non esiste, allora non dobbiamo solo offrire qualcosa di meglio, ma occorre aprire le porte alla valorizzazione sociale, condivisa, creativa, che significa aprire le porte della gestione del patrimonio a pezzi organizzati della società civile, molti dei quali già lavorano nella ricerca archeologica come nella comunicazione. E fanno impresa, creano un’economia pulita, si aprono al volontariato come segno di grande impegno civile, non certo per sottrarre lavoro a tanti giovani formati e disoccupati. Potrei raccontare ancora tanti altri aspetti che i giovani archeologi di Archeostorie hanno messo sotto i
riflettori come materia di riflessione per tutti. A me, non piú giovane, non resta che dire grazie a tutti loro, perché la mia generazione ha faticato molto per dissodare il terreno dell’archeologia quando era un maggese pieno di sterpi, quando la parola divulgazione evocava ambienti culturalmente sospetti e pratiche marginali, quando chi scriveva libri seri per un pubblico vasto veniva declassato al rango di giornalista, quando nei consigli accademici l’impegno dedicato ai temi della formazione era ridicolmente inferiore a quello riservato alla esaltazione delle proprie ricerche. Non posso dire che la nostra generazione abbia vinto alcunché. Ma piú vado in giro e piú sento, vedo, spero, e anzi ora sono convinto, che la generazione successiva alla mia questo sforzo lo abbia compreso e lo abbia fatto suo con maggior naturalezza di quanto abbiamo potuto fare noi.
PER SAPERNE DI PIÚ Cinzia Dal Maso e Francesco Ripanti (a cura di), Archeostorie. Manuale non convenzionale di archeologia vissuta, Cisalpino, Milano, 320 pp., ill b/n
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…BRUCIÒ PER NOVE GIORNI NEL 64 D.C. ROMA VENNE QUASI INTERAMENTE DISTRUTTA DA UN INCENDIO DI PROPORZIONI MAI VISTE. FIN DA SUBITO, MOLTI NE ADDOSSARONO LA RESPONSABILITÀ A NERONE, MA, SOPRATTUTTO ALLA LUCE DEGLI STUDI PIÚ RECENTI, IL PUR DISCUSSO IMPERATORE VA ASSOLTO DALLA TERRIBILE ACCUSA
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ei sotterranei del palazzo che è sede dell’Intendenza del Quirinale (nella via omonima, che ricalca il tracciato dell’antica Alta Semita) si conserva, in situ, un altare di travertino (6,25 x 3,25 m, alto1,26 m), un tempo rivestito di lastre marmoree, elevato con due gradini su una platea, anch’essa in travertino, delimitata da una serie di cippi. Un’iscrizione, ritrovata nel 1640, durante la costruzione della vicina chiesa di S. Andrea, ha
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permesso di identificare l’altare come uno di quelli fatti erigere, nel 92 d.C., dall’imperatore Domiziano in diverse parti della città, forse in corrispondenza dei limiti raggiunti dall’incendio dell’anno 64 d.C. (quando urbs per novem dies arsit neronianis temporibus), e sui quali, ogni anno, il 23 agosto, in occasione dei Volcanalia, venivano sacrificati a Vulcano un vitello e un maiale per scongiurare il pericolo di altri incendi (incendiorum
arcendorum causa). Nella stessa iscrizione – una vera e propria lex sacra – si precisava che nell’area recintata era vietato costruire, occupare il suolo pubblico in modo permanente, piantare o disporre piante decorative.
UN INCUBO COSTANTE Nell’antica Roma gli incendi erano all’ordine del giorno. E, soprattutto, della notte. Si trattò di una vera e propria «piaga» che costringeva i
l’illuminazione (con candele di cera e lucerne a olio) e, d’inverno, per il riscaldamento (con scaldini e bracieri). E questo in ambienti quasi sempre angusti e sovraffollati, dove, all’assenza di acqua corrente, faceva riscontro l’abbondanza di tende, tappeti, stuoie e legno largamente impiegato (insieme ad altri materiali leggeri e infiammabili, come le canne), per soppalchi, soffitte, tramezzi, sottotetti e soprelevazioni. A sinistra: ricostruzione dello scoppio dell’incendio che devastò Roma nel luglio del 64 d.C. Si riconosce il Circo Massimo, presso il cui lato curvo, secondo la testimonianza dello storico Tacito, si sarebbe appunto acceso il primo focolaio. In basso: particolare della Forma Urbis Romae redatta tra il 1893 e il 1901 da Rodolfo Lanciani nel quale è indicata la posizione dell’altare innalzato sul Quirinale, sul quale si sacrificava, in occasione dei Volcanalia, per scongiurare il pericolo degli incendi.
Le vie strette e tortuose, i caseggiati a piú piani, la densità della popolazione, le molte sistemazioni di fortuna e, non di rado, il vento (come quello, classico, di ponente), facevano il resto.
QUELLA NOTTE DI LUGLIO L’incendio piú devastante di tutti fu appunto quello del 64 d.C., famoso e ingiustamente attribuito a Nerone. Divampato la notte tra il 18 e il 19 luglio, infuriò per sei giorni prima d’essere soffocato dalle stesse macerie che aveva provocato. Poi riprese nel Campo Marzio, prolungandosi per altri tre giorni, fino al 27. Gli autori che ne riferiscono, da Svetonio (Nero, 38, 3-7) a Dione Cassio (62, 16-18), ne parlano come di una vera catastrofe. Ma il resoconto piú drammatico dell’incendio «neroniano» è quello di Tacito il quale, negli Annales (XV, 38-41), lo definisce il piú grave e terribile disastro che per violenza di fuoco la città avesse mai sofferto.
cittadini a vivere costantemente sotto l’incubo del fuoco. Lo denuncia chiaramente Giovenale quando scrive, disperato (III, 197 segg.), del suo anelito ad abitare «in un luogo dove non ci siano incendi e le notti trascorrano senza la paura di morire» (ubi nulla incendia nulli morte metu). Che poi gli incendi fossero tanti e tanto frequenti si spiega pensando all’uso del fuoco in casa, non solo per la cucina, ma anche per
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Le fiamme ebbero inizio, secondo lo storico, presso il lato curvo del Circo Massimo, in quella parte di esso «che è contigua al Palatino e al Celio dove, alimentato nelle botteghe dalla quantità delle merci combustibili, si propagò, rapidamente e impetuosamente, sospinto dal vento, per tutta la lunghezza del Circo, dato che non vi erano case con recinti né templi circondati da mura, né altro che avesse potuto frapporre ostacolo. Furiosamente devastò dapprima le zone in piano, quindi salí in alto per ridiscendere in basso, essendo impossibile ogni difesa per via della rapidità del flagello del quale erano facile preda le strade strette e tortuose e i grandi agglomerati di case, quali erano nella vecchia Roma. S’aggiungano le grida delle donne spaventate, la debolezza dei vecchi, lo smarrimento dei fanciulli; e quelli che si affannavano per sé e quelli che cercavano di aiutare gli altri, trascinando gli invalidi o fermandosi per aspettarli; una parte indugiava, l’altra si precipitava, ed entrambe erano causa d’impedimento. Spesso, mentre si guardavano alle spalle, venivano investiti di fronte o ai fianchi, oppure, se riuscivano a fuggire nelle vicinanze le trovavano già invase dalle fiamme e quei luoghi che ritenevano sicuri perché lontani li raggiungevano quando erano già avvolti dalla rovina. Alla fine, non sapendo piú da che parte fuggire e dove riparare, si riversavano per le strade e si gettavano a terra nei campi, mentre alcuni, perduta ogni speranza anche soltanto nel cibo quotidiano, altri per l’affetto verso i loro cari che non avevano potuto salvare, pur avendo la possibilità di scampare, si lasciavano morire. Nessuno osava combattere l’incendio dato che molti, minacciando, ne vietavano lo spegnimento e perché altri apertamente scagliavano torce accese gridando che c’era chi lo
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aveva ordinato, sia che lo facessero per saccheggiare liberamente o perché davvero comandati». «Nerone, che in quel tempo si trovava ad Anzio, non fece ritorno a Roma fino a che l’incendio non s’avvicinò al palazzo da lui fatto costruire per unire il Palatino alla villa di Mecenate. Ma non fu possibile trattenere il fuoco dal divorare il Palatino e il palazzo e tutto quello che v’era intorno.
IL POPOLO IN CERCA DI UN RICOVERO A conforto del popolo vagante senza tetto Nerone aprí il Campo Marzio e gli edifici di Agrippa e la sua stessa villa, dove fece costruire in fretta ricoveri per la folla degli indigenti; da Ostia e dai Municipi vicini fece venire cose di prima necessità e il prezzo del grano fu ridotto a tre nummi. Ma questi provvedimenti, sebbene dedicati al popolo, non fruttarono popolarità poiché s’era diffusa la voce che, proprio mentre la città bruciava, egli fosse salito, come su un palcoscenico, sulla terrazza del palazzo imperiale e avesse cantato l’incendio di Troia, paragonando i mali presenti a quell’antica sciagura». «Il sesto giorno, finalmente, l’incendio si estinse ai piedi dell’Esquilino, essendo stati abbattuti gli edifici per un larghissimo spazio in modo da opporre alla sua insistente violenza la terra nuda e il vuoto orizzonte. Ma non era ancora scomparso il timore e ritornata la speranza nel popolo, quando il fuoco divampò nuovamente nelle zone piú aperte della città, per cui fu minore la strage di vite umane, ma piú ampia la distruzione di templi dedicati agli dèi e di portici destinati al piacere della gente. Questo secondo incendio provocò maggiore sdegno essendosi sprigionato dai giardini Emiliani di proprietà di Tigellino, sicché parve che Nerone ricercasse
la gloria di edificare una nuova città e di chiamarla col suo nome». Lo storico ricorda poi che delle quattordici regioni in cui Augusto aveva suddiviso Roma solo quattro rimasero intatte, e furono la I (Porta Capena), la V (Esquiliae), la VI (Alta Semita) e la XIV (Transtiberim). Tre invece – la III (Isis et Serapis), la X (Palatium) e la XI (Circus Maximus) – furono rase al suolo. Delle altre sette (II, Caelimontium; IV, Templum Pacis; VII, Via Lata; VIII, Forum Romanum; IX, Circus Flaminius; XII, Piscina Publica; XIII, Aventinus), «restarono pochi avanzi di case rovinate e semibruciate». Passando a qualche notizia piú dettagliata, Tacito aggiunge: «Non è facile dire il numero dei palazzi, dei caseggiati e dei templi che andarono perduti. Ma tra questi ultimi, bruciarono quelli dei culti piú venerandi per antichità: il tempio che Servio Tullio aveva dedicato alla Luna, il Grande Altare e il tempio che l’Arcade Evandro aveva consacrato a Ercole, il tempio di Giove Statore votato da Romolo, la Reggia di Numa, il tempio di Vesta coi Penati del Popolo Romano. E, inoltre, le ricchezze conquistate in tante vittorie, i capolavori dell’arte greca e, insieme, i documenti originali del pensiero antico, cosicché, pur nello splendore della città risorta, i vecchi rimpiangevano molte cose che in nessun modo avrebbero potuto essere rifatte. E ci fu chi notò che l’incendio scoppiò il quattordicesimo giorno prima delle calende del mese di sestile (cioè il 19 luglio), il giorno stesso in cui i Galli avevano preso Roma dandola alle fiamme. Altri, andando anche piú in là, arrivarono a calcolare l’intervallo di tempo tra i due incendi, in uno stesso numero di anni, di mesi e di giorni». Nel suo resoconto Tacito restò ambiguo circa la responsabilità dell’imperatore nell’aver fatto appiccare o, quanto meno,
Pianta ricostruttiva a volo d’uccello che mostra le regioni di Roma colpite dall’incendio del 64 d.C. fomentare, l’incendio, «senza che si potesse sapere se dovuto al caso o alla perfidia del principe – egli scrive, all’inizio – essendo state entrambe le versioni tramandate dagli scrittori». E ciò, di fronte al parere decisamente accusatorio di autori come Plinio, Svetonio, Dione Cassio, fino a san Girolamo e Orosio. Mentre «innocentisti» furono, tra gli altri, Giuseppe Flavio e Marziale. Certamente la voce della colpevolezza di Nerone si diffuse quando il fuoco ancora ardeva e, del resto, lo stesso Nerone, come si sa, cercò di allontanare da sé ogni sospetto, accusando, a sua volta, i cristiani (contro i quali scatenò la prima violenta persecuzione).
UN’IPOTESI IMPROBABILE Quanto all’opinione degli studiosi moderni, essi sono pressoché tutti convinti nel sollevare l’imperatore dall’accusa di «incendiario». Oltretutto, come qualcuno ha fatto osservare, egli non avrebbe scelto, per attuare il suo perverso proposito, una notte di luna piena, durante la quale difficilmente i suoi
incaricati sarebbero sfuggiti all’attenzione della gente. Mentre è del tutto verosimile – come osserva Tacito – che qualche «sciacallo», sorpreso, per salvarsi dall’ira dei cittadini, abbia detto di aver ricevuto ordini dall’imperatore o da chi per lui. Piuttosto c’è da dire che Nerone corse prontamente ai ripari favorendo in ogni modo la ricostruzione, oculata e razionale, della città, alla quale – come scrive Svetonio (Nero 16) – «immaginò di dare un nuovo aspetto» (formam [...] urbis novam excogitavit). E Tacito, ancora una volta precisa (cap. 43): «Quello che restava della città fu ricostruito non come dopo l’incendio gallico, senza alcun ordine e a caso, ma furono misurate le strutture dei quartieri e data maggiore ampiezza alle strade, limitata l’altezza degli edifici, aperti gli spazi, aggiunti portici a protezione della fronte degli isolati. E quei portici Nerone promise di costruirli a sue spese e di riconsegnare ai proprietari le aree ripulite. Aggiunse premi secondo la categoria sociale di ognuno e l’entità del patrimonio familiare e fissò i tempi in cui le case e le insulae dovevano essere finite per avere diritto al premio (...)
Volle pure che gli stessi edifici, in determinate loro parti, fossero resi solidi non con travi di legno ma con pietra gabina o albana, refrattarie al fuoco; stabilí una vigilanza perché l’acqua abusivamente intercettata dai privati, scorresse piú abbondante e in piú luoghi, in pubblico; ordinò che ognuno disponesse, in luoghi accessibili, di mezzi adatti a combattere gli incendi e che gli edifici non avessero pareti in comune, ma ognuno i propri muri». Lo storico osserva infine come tutti quei provvedimenti, ben accetti per la loro utilità, portassero anche decoro alla città. «Tuttavia – egli conclude – vi era chi pensava che le antiche strutture fossero piú consone alla salubrità, perché l’angustia delle strade e l’altezza degli edifici non lasciavano penetrare i raggi del sole: ora, invece, gli ampi spazi e la mancata difesa dell’ombra favorivano un insopportabile calore». La stessa lamentela – si potrebbe osservare – riaffiorata, puntuale, sulla bocca dei Romani degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, al tempo degli «sventramenti» urbanistici che hanno trasformato il vecchio «centro storico» nella «città nuova» dei nostri giorni.
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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale
SOTTO IL CASTELLO DEL CAPITANO LA SUGGESTIVA DIMORA GENOVESE DI ENRICO ALBERTO D’ALBERTIS OSPITA DA OLTRE UN DECENNIO IL MUSEO DELLE CULTURE DEL MONDO. UNA RACCOLTA DI GRANDE INTERESSE CHE, FINO AL PROSSIMO 10 SETTEMBRE, OFFRE AI VISITATORI UN «FUORI PROGRAMMA» AFFASCINANTE
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astello D’Albertis nasce come eclettica dimora in stile neogotico di un uomo di mare genovese, il capitano Enrico Alberto D’Albertis (1846-1932). Dal 2004 ospita il Museo delle Culture del Mondo e il percorso espositivo svela una lussuosa e sorprendente casa di fine Ottocento, ma consente anche di partire per un viaggio che conduce sulle tracce dei popoli del mondo, attraverso un emozionante allestimento per sezioni, tra America, Africa, Oceania e Asia. Percorrendo le numerose stanze del
castello, dai curiosi nomi – Sala colombiana, Sala delle meridiane, Salotto turco – si affronta un percorso tra armi, carte nautiche, orologi solari, arredi e centinaia di ricordi raccolti da D’Albertis, tra il XIX e il XX secolo, nei suoi viaggi intorno al mondo. D’Albertis ordinò nella sua dimora, secondo lo stile di un «gabinetto di curiosità» o «camera delle meraviglie» (Wunderkammer), una vasta collezione, in cui campioni del regno animale e vegetale affiancano materiali etnografici dei continenti extraeuropei, insieme a oggetti preziosi e reperti archeologici, molti dei quali provengono dall’Egeo e dall’Africa mediterranea.
UNO SGUARDO SULL’ALTRO Terminata la visita alla dimora neogotica, inizia un secondo percorso che consente di immergersi nelle culture del mondo, entrando all’interno di un bastione delle mura cinquecentesche della città di Genova. Su tale opera difensiva antica, infatti, venne costruito, letteralmente appoggiato, Castello D’Albertis nell’Ottocento: usato come fondamenta dell’edificio voluto dal capitano, e per questo riempito di detriti per divenire un
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terrapieno, quel bastione, in occasione dei restauri condotti vent’anni fa è stato svuotato, ricavando cosí suggestivi e ampi spazi espositivi. Qui il materiale archeologico ed etnografico viene illustrato attraverso il dialogo e lo scambio con le popolazioni da cui proviene. Un approccio rinnovato e contemporaneo, che va oltre gli stereotipi e le convenzioni, in linea con le piú recenti teorie museologiche, e favorisce la comunicazione con il mondo extraeuropeo attraverso suoni, immagini ed eventi che contribuiscono alla migliore comprensione delle collezioni. Di queste fanno parte tessuti e terrecotte precolombiani (tra cui Moche, Nasca, Tiawanaku, Sicán-Lambayeque, Chancay, Chimú, Inca, Teotihuacán, Maya, Aztechi), monili e oggetti di uso quotidiano e rituale degli Indiani delle Pianure, degli Hopi dell’Arizona, degli arcipelaghi polinesiani. Curiosa e stimolante è poi la sezione dedicata all’esplorazione della filosofia, della storia, dei principi, della fisiologia e delle tecniche delle medicine tradizionali dei popoli, con particolare riferimento alle tradizioni principali di Cina, India, Tibet e Mondo Arabo-islamico.
In alto: Genova, Castello D’Albertis. Alla base di una delle torri, si apre uno degli accessi ai passaggi segreti. Nella pagina accanto: l’argano di manovra dell’inferriata del portale d’ingresso dell’edificio, nella camera celata nei passaggi segreti.
con piccoli affacci attraverso strette feritoie sull’esterno, che consentono non solo di spostarsi indisturbati da un punto all’altro del maniero, ma permettono anche di accedere a spazi ricchi di fascino e di importanza nevralgica.
In piú, ma solo fino al prossimo 10 settembre, il Museo delle Culture del Mondo offre un’opportunità da non mancare. Infatti, come in ogni castello che si rispetti, si trovano passaggi segreti e ambienti sotterranei. Alla dimora storica e al museo si aggiungono quindi visite guidate a questi luoghi, che si sviluppano al di sotto dell’edificio, circondato da un lussureggiante parco con piante secolari. Si tratta di corridoi e camminamenti celati all’interno delle mura, in alcuni casi
UN PANORAMA MOZZAFIATO Per esempio, è possibile scoprire l’ambiente che accoglie il grande argano con il quale si comandava, attraverso pesanti catene, il movimento dell’inferriata posta a protezione del portale di accesso al castello. Oppure si può raggiungere l’interno di una torre dell’edificio e, attraverso una scala a chiocciola di mirabile fattura, ritrovarsi dal sottosuolo alla sua cima merlata, da dove godere di un panorama
unico sulla città storica. A questi suggestivi ipogei eccezionalmente aperti al pubblico se ne aggiunge un altro, non visitabile per l’angusto accesso e il suo sviluppo, esplorato e documentato dal Centro Studi Sotterranei di Genova. Si tratta di una cisterna lineare, probabilmente riferibile all’originaria struttura militare cinquecentesca e poi rimasta inglobata nella costruzione ottocentesca.
DOVE E QUANDO Castello D’Albertis-Museo delle Culture del Mondo Genova, corso Dogali 18 Info tel. 010 2327820; www.museidigenova.it/spip. php?rubrique25
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
ALLA RICERCA DELL’AMORE PERDUTO L’INFELICE VICENDA DI ORFEO ED EURIDICE È STATA RESA IMMORTALE DA INNUMEREVOLI RILETTURE. TRA LE QUALI FIGURANO ANCHE ALCUNE MONETE BATTUTE NELLA PATRIA DEL MITICO CANTORE 108 a r c h e o
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Nella pagina accanto: rilievo marmoreo con Orfeo, Euridice e Hermes. Copia romana d’età augustea di un originale greco della fine del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. In questa pagina: moneta in bronzo di Gordiano III, emessa a Hadrianopolis, 238-244 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, tre personaggi identificati come Orfeo, Euridice e Hermes, circondati da altrettante piccole personificazioni di fiumi.
uale follia ha distrutto me infelice e te, Orfeo? Di nuovo mi chiamano indietro i fati crudeli e il sonno spegne i miei occhi offuscati. Addio: mi circonda e mi inghiotte una notte infinita mentre non piú tua, a te tendo invano le mani. Cosí disse, e sparve alla vista come il fumo disperso nell’aria tenue» (Virgilio, Georgiche, IV, 494-500). Il grande poeta latino ha eternato cosí il pathos amoroso di Orfeo ed Euridice, il cui sentimento voleva vincere le leggi infere, ma invece fallí, ribadendo la morte come evento impossibile da riscattare. Come già ricordato (vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015), il mito di Orfeo ricorre su monete battute a Philippopolis in Tracia, patria del cantore, e la classica ambientazione tra gli animali in estatico ascolto rende esplicito il soggetto del conio. Piú problematica è invece l’iconografia sulle monete in bronzo di Gordiano III emesse a Hadrianopolis, sempre in Tracia (oggi Edirne, in Turchia), alquanto rare e di ancora incerta definizione nei particolari.
LA SCELTA FATALE Su questi esemplari compaiono due uomini e una donna al centro, insieme a tre piccole personificazioni di fiumi, uno a lato e due in esergo. Trattandosi dell’emissione di una città trace, il tipo è stato interpretato come Euridice affiancata a sinistra da Orfeo che la sta guardando, contravvenendo a quanto ordinatogli da Ade e perdendola cosí per sempre, e a destra da Hermes, che, in qualità di psicopompo, la riconduce agli Inferi, toccandole il braccio. L’identificazione con Euridice è stata suffragata anche dal suo piede destro volto come a retrocedere, quale accenno al ritorno all’oltretomba, in una posa
verso la donna tiene un oggetto che potrebbe essere identificato con un plettro, spesso in mano a Orfeo mentre suona la lira. L’altro uomo sembra invece avere una sorta di cappello sulla nuca simile a un petaso, il copricapo alato di Hermes.
IL CAPO VELATO
che, peraltro, è la stessa degli altri due personaggi. In effetti, il rivolgere il piede indietro potrebbe essere attinente per Orfeo, che si gira per guardare la sua sposa, e per Hermes, che la riporta con sé agli Inferi. Quindi, per tutti, la semplice posizione del piede alluderebbe al ritorno senza speranza alla condizione sancita dalla «prima» morte della ninfa Euridice: Orfeo in solitudine, la sua sposa negli Inferi e Hermes che si riprende ciò che non può essere restituito. La nudità dei personaggi maschili, che hanno sul braccio solo una clamide, e la mancanza di attributi riconoscibili quali il petaso o la lira, impedisce l’identificazione certa con Orfeo e Hermes, anche se, in questo esemplare, l’uomo rivolto
A complicare il tutto, sull’esemplare qui illustrato, viene anche la ribattitura della figura femminile, che crea un effetto straniante e impedisce di cogliere aspetti tipici di Euridice, quali il velo sul capo e la posizione della testa. Il confronto con due celebri rilievi in marmo conservati al Louvre e al Museo Archeologico di Napoli contribuisce a suffragare la scena come l’addio definitivo tra Orfeo e Euridice. Le tre piccole divinità fluviali sono ricondotte alla personificazione dei fiumi locali, essendo Hadrianopolis sorta sulle rive dell’Hebrus alla confluenza del Tungia e dell’Arda. Altri invece vi hanno voluto vedere tre dei cinque fiumi infernali, inserendo cosí la scena in un contesto pienamente infero. Va detto, infine, che questo tipo monetale è stato anche inteso come una raffigurazione di Elena tra i suoi fratelli, i Dioscuri, per la posa dei due uomini, tipica dei divini figli di Zeus. (2 – continua)
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Luigi Spina
L’ORA INCERTA Electaphoto, Electa, Milano, 176 pp., 140 ill. col. e in tricromia 35,00 euro ISBN 978-88-918-0328-3 www.electaweb.com
Secondo titolo della collana che l’editore Electa ha voluto dedicare alla fotografia e ai suoi protagonisti, questa Ora incerta di Luigi Spina sembra fermare il tempo. E non solo perché, ovviamente, si tratta di immagini fisse, né per via del soggetto – l’area archeologica centrale di Roma – che può a buon diritto essere considerato uno dei simboli universali
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dell’antico. Il tempo sembra essersi fermato perché Luigi Spina, del quale già in passato abbiamo apprezzato progetti come quello sull’anfiteatro romano di Capua, continua a sviluppare una ricerca che va controcorrente e riporta la fotografia a una dimensione felicemente «arcaica». Senza voler fissare graduatorie, né assegnare patenti di legittimità, in un’epoca in cui lo scatto è spesso compulsivo e parte da apparecchi che non sono macchine fotografiche, colpisce e (personalmente) affascina
l’idea che le immagini scelte per la pubblicazione siano il frutto di una campagna condotta nell’arco di sessanta giorni, trascorsi tra Foro Romano e Palatino per piú ore al giorno, cosí da cogliere le illustri rovine in condizioni di luce di volta in volta diverse, fino a selezionare quelle ritenute migliori. E, per quanto riguarda le vedute in bianco e nero, ottenute addirittura attraverso l’uso del banco ottico. Per chiunque abbia una conoscenza appena discreta della Roma antica, i soggetti sono piú che familiari, ma la forza
delle visioni di Spina sta anche nel trasformare la Casa delle Vestali, il tempio di Saturno o l’Arco di Tito in soggetti capaci di sorprendere, quasi fossero stati appena scoperti. E per quanti, invece, non abbiano mai avuto occasione di vedere da vicino i magnifici resti della Roma imperiale, L’Ora incerta può essere un invito a non rimandare oltre l’esperienza della conoscenza diretta. Merita d’essere infine segnalata la scelta di aprire il volume ripubblicando il saggio Il libro piú grande, nel quale Ferdinando
Roma. Lo Stadio compreso nel palazzo imperiale del Palatino in una foto scattata da Luigi Spina alle 11,25. A dispetto del nome con il quale viene convenzionalmente indicata, la struttura era verosimilmente un grande giardino, utilizzato anche come maneggio.
Castagnoli – insigne archeologo e topografo (1917-1988), accademico dei Lincei e per lunghi anni titolare della cattedra di Topografia di Roma e dell’Italia antica all’Università «La Sapienza» di Roma – ripercorre le visioni e le percezioni che della Roma antica si ebbero dal Medioevo fino all’età moderna. Pagine scritte
nel pieno del dibattito apertosi alla metà degli anni Ottanta all’indomani delle prime proposte di scavo dell’area dei Fori Imperiali e che tornano quindi di grande attualità. Anche se, almeno a giudizio di chi scrive, proprio le fotografie di Luigi Spina dovrebbero far riflettere una volta di piú su quel progetto: se mai lo stradone dovesse essere smantellato, appare infatti difficile immaginare che il fotografo campano potrebbe dare un seguito al volume appena pubblicato, documentando un altro «mezzo miglio quadrato» di splendidi avanzi. Stefano Mammini
Roma. Il poderoso basamento del tempio di Saturno, nell’area nord-occidentale del Foro Romano, in una foto scattata alle 10,35 del mattino. a r c h e o 111
Marina Miraglia, Massimo Osanna
POMPEI, LA FOTOGRAFIA Electaphoto, Electa, Milano, 168 pp., 187 ill. col. e b/n 40,00 euro ISBN 978-88-918-0453-2 www.electaweb.com
e proprio viaggio, che permette di ripercorrere visivamente un’avventura che ha avuto pochi eguali nella storia dell’archeologia: basti pensare alle foto che documentano, per esempio, le grandi campagne della fine del XIX secolo, in occasione delle quali fu perfino apprestata una linea rotabile per lo smaltimento delle terre di risulta, e dalle quali, come in uno scatto del 1896 alla Casa dei Vettii,
si percepisce, osservando l’interro, la portata dell’impresa. Parallelamente, come già detto, si rimane colpiti dalla ricchezza della produzione grafica e fotografica che a Pompei si ispirò, con la creazione di composizioni e scene in cui si immaginavano gli antichi abitanti della città in momenti della vita quotidiana oppure dediti ai loro svaghi preferiti. Pur essendo perlopiú diverso il medium, l’effetto è paragonabile a
Guido Rey, Colloquio. Planotipia, 1898. Biella, Fondazione Sella, Collezione Sircana.
Massimo Osanna, attuale Soprintendente archeologo di Pompei e co-autore del volume, scrive che la difficoltà maggiore nel portare a compimento quest’impresa è consistita nella selezione delle immagini da pubblicare: un’affermazione che non sorprende, se solo si consideri la storia ormai plurisecolare delle ricerche condotte nel sito vesuviano. Ciò premesso, il volume propone una carrellata di immagini di grandissimo interesse, poiché non si tratta soltanto di materiali che documentano le indagini archeologiche, ma anche di vedute – fotografiche e non –, che testimoniano la percezione che dell’antica città si ebbe in particolare dall’Ottocento in poi. Ne scaturisce un vero 112 a r c h e o
quello delle celebri tele di Lawrence Alma-Tadema (che pure è citato ed è presente nel volume) e, in ogni caso, si rivela assai suggestivo. Né mancano immagini che in qualche modo riprendono il testimone di lastre e acquerelli, come nel caso dei «ritratti» che Mimmo Jodice ha realizzato per alcune celebri statue o in quello del progetto sviluppato da Cristina Omenetto tra il 1988 e il 1989. Dalle pagine e dalle illustrazioni dell’opera emerge dunque una Pompei che, a dispetto della fissità dettata dalla bidimensionalità, si rivela viva e dinamica. S. M. Gabriele Baldelli e Fulvia Lo Schiavo
AMORE PER L’ANTICO Dal Tirreno all’Adriatico, dalla Preistoria al Medioevo e oltre. Studi di antichità in ricordo di Giuliano de Marinis Scienze e Lettere, Roma, 2 voll. (574 + 612 pp.), ill. b/n 120,00 euro ISBN 978-88-6687-076-0 www.scienzeelettere.it
Prematuramente scomparso nel 2012, Giuliano de Marinis – archeologo il cui nome è legato soprattutto al lungo impegno presso le Soprintendenze della Toscana, delle Marche e del Veneto – viene ricordato da amici e colleghi con una raccolta ricca e articolata. Nei due volumi sono
infatti confluiti oltre 100 contributi di taglio scientifico, ai quali vanno aggiunti alcuni ricordi di carattere piú personale, nonché, in chiusura, un testo inedito dello stesso de Marinis. Ne risulta un quadro eterogeneo – i saggi spaziano dalla preistoria al Medioevo –, che i curatori dell’opera hanno organizzato secondo un criterio geografico, fissato proprio sulla base dei diversi territori nei quali lo studioso svolse la sua attività. Data la natura degli interventi, l’opera si indirizza agli addetti ai lavori, ma ci sentiamo di dire che sarebbe assai apprezzabile estrapolarne e pubblicare autonomamente proprio le pagine scritte da de Marinis: si tratta di un breve racconto, L’ultima avventura, che, pur ispirandosi alle vicende di Ulisse e Diomede, nacque come riflessione autobiografica. Una testimonianza toccante dello spessore umano, oltre che professionale, del suo autore.
Enrico Giovannini
Marisa D’Aloiso
NEL NOME, LA STORIA
CLEOPATRA REGINA DI ROMA
Toponomastica del Suburbio di Roma antica a cura di Benedetto Coccia, Editrice Apes, Roma, 134 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 978-88-7233-116-3 http://www.editriceapes.it
Ananke, Torino, 94 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 978-88-7325-582-6 www.ananke-edizioni.com
Oggetto dello studio sono 281 toponimi attestati nell’area romana compresa fra le Mura Aureliane e il Grande Raccordo Anulare. Un campione dunque considerevole, che riporta alla ribalta vicende, personaggi e antiche località. L’opera ha il merito di non offrire un mero elenco di aneddoti o curiosità, ma inquadra
La stessa Marisa D’Aloiso esordisce chiedendosi per quale motivo si debba parlare ancora di Cleopatra: si tratta, naturalmente, di una domanda retorica, alla quale risponde con il tentativo di tracciare un profilo della regina egiziana «completamente nuovo». L’operazione si sviluppa quindi ripercorrendo l’intera vicenda biografica della figlia di Tolomeo XII Aulete, che ebbe inizio nel 69 a.C. e si concluse tragicamente all’indomani della sconfitta patita ad Azio nel 31 a.C. Poco meno di quarant’anni, dunque, dei quali vengono analizzati in particolare quelli in cui la sovrana entrò nell’orbita, non soltanto politica, dei signori di Roma: dapprima Giulio Cesare e poi Marco Antonio.
E proprio perché la natura di quei rapporti non fu soltanto diplomatica, fin dall’antichità, a Cleopatra non furono risparmiate calunnie di ogni tipo. Una fama sulfurea, di cui D’Aloiso prova a verificare l’attendibilità, rileggendo e incrociando dati storici, archeologici e letterari.
DALL’ESTERO Clemente Marconi (a cura di)
THE OXFORD HANDBOOK OF GREEK AND ROMAN ART AND ARCHITECTURE Oxford University Press, New York, 728 pp., ill. b/n 150,00 USD ISBN 978-0-19-978330-4 www.oup.com
Clemente Marconi ha qui coordinato e curato un’approfondita ricognizione dello stato dell’arte negli studi sull’arte e l’architettura greco-romana, la cui lettura, soprattutto negli ultimi decenni, si è proficuamente giovata di nuovi approcci multidisciplinari. (a cura di Stefano Mammini)
le note esplicative di ogni denominazione nel contesto storico di pertinenza e ricorda, ove disponibili, le citazioni reperibili nelle opere letterarie e nelle fonti epigrafiche. Destinatario naturale del volume è il pubblico romano, ma chiunque sia appassionato alla storia dell’Urbe potrà trovarvi piú di un valido motivo d’interesse. a r c h e o 113