Archeo n. 367, Settembre 2015

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ARCHEO 367 SETTEMBRE

ARCHEO

2015 ORVIETO YEMEN IN GUERRA POMPEI E L’EUROPA MOSAICO DI ALESSANDRO

NELLA TERRA DELLE AQUILE VIAGGIO IN ALBANIA, TRA STORIA E ARCHEOLOGIA

REPORTAGE

YEMEN IN GUERRA: QUALE FUTURO PER L’ARABIA FELIX?

ORVIETO

LA GROTTA DEL GUERRIERO € 5,90

SPECIALE VIAGGIO IN ALBANIA

Mens. Anno XXXI n. 367 settembre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

SPECIALE

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EDITORIALE

PATRIMONIO

Come non gioire di fronte alla notizia, diffusa all’inizio di agosto, dello stanziamento di fondi – 80 milioni di euro – che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha previsto per il «completamento dei grandi musei nazionali di rilevante interesse culturale» (il Museo delle Navi di Pisa, quello di Aquileia, ma anche quello dei Giganti di Mont’e Prama a Cabras, per citare solo le raccolte di interesse strettamente archeologico), nonché per altri nove progetti di tutela e valorizzazione, tra cui spicca il ripristino dell’arena del Colosseo. Una proposta semplice ma geniale, lanciata – i nostri lettori lo ricorderanno – proprio dalle pagine di «Archeo» (vedi il n. 353, luglio 2014; anche on line su archeo.it). Da assidui frequentatori del venerabile monumento, siamo tuttora e sempre piú convinti della giusta utilità di un tale intervento, che, oltre a rendere l’anfiteatro adatto a ospitare manifestazioni letterarie e musicali, permetterà ai visitatori di «viverlo» dal suo interno, di posizionarsi al centro della celeberrima arena e, conquistata la nuova e unica prospettiva, interiorizzare visivamente la grandiosa geometria della sua paradigmatica ellisse. È naturale e giusto che l’annuncio del Ministro dei Beni Culturali abbia suscitato non solo consensi. Le critiche riguardano, per esempio, la somma ritagliata per l’«operazione Colosseo». 18,5 milioni sono forse troppi per una struttura da realizzare con materiali e soluzioni all’avanguardia (in grado di garantire durata, funzionalità e sicurezza)? E perché, allora, non destinare parte dello stanziamento ai tanti altri monumenti e siti archeologici della Penisola compromessi dall’incuria, ma assai meno fortunati del nostro anfiteatro (il Colosseo, da solo, garantisce un ricavo annuo di oltre 50 milioni di euro e, in piú, è stato oggetto di un intervento di ripulitura e restauro, in fase di completamento, sponsorizzato con 20 milioni di euro dall’imprenditore Diego Della Valle)? Noi possiamo dare soltanto suggerimenti, le risposte (e l’azione) spettano al ministro. Con il quale ci permettiamo, però, di dissentire su un aspetto puramente verbale (ma, si sa, le parole sono pietre): per descrivere le bellezze dell’Italia, i musei, i paesaggi, i luoghi d’arte, egli usa l’espressione «miniere d’oro». Le miniere, però, di qualsiasi tipo esse siano, esistono per essere sfruttate e, a un certo punto, si esauriscono. Per quanto ci riguarda, dunque, continueremo a parlare di «patrimonio»: del dovere (munus) dei padri (pater) verso i figli, del bene da preservare e trasmettere alle generazioni future. Andreas M. Steiner Roma. Il lato nord del Colosseo dopo i recenti restauri.


SOMMARIO EDITORIALE

Patrimonio 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

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SCOPERTE Un team di ricerca coordinato da studiosi del Manchester Museum esplora il contenuto delle mummie animali diffuse nell’antico Egitto. E rivela il segreto dei gatti... 6

SCOPERTE

C’è un guerriero nella grotta

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di Claudio Bizzarri

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STORIA

MOSTRE

di Sabina Antonini de Maigret e Iris Gerlach

di Luigi Gallo, con contributi di Annalisa Capurso e Sara Matilde Masseroli

Dimenticare l’Arabia felix? 36

Pompei per sempre

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36

PAROLA D’ARCHEOLOGO Quale fu la causa del collasso repentino della civiltà nuragica? Una ricognizione effettuata con l’ausilio di un drone, e ora presentata in una mostra, suggerisce una nuova ipotesi 10 VALORIZZAZIONE Un allestimento multimediale nei sotterranei di Palazzo Martinengo Cesaresco getta nuova luce sulla storia di Brixia e del suo Foro 18 In copertina Butrinto (Albania). I resti del teatro: l’edificio per spettacoli venne fondato alla metà del III sec. a.C., ma subí in seguito vari rimaneggiamenti e fu in uso fino al IV sec. d.C.

Anno XXXI, n. 367 - settembre 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe.

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Sabina Antonini de Maigret è responsabile della Missione archeologica italiana in Yemen. Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Claudio Bizzarri è direttore del PAAO (Parco Archeologico e Ambientale dell’Orvietano) e Professor in residence di University of Arizona Study Abroad Program in Italy. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Annalisa Capurso è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Neritan Ceka, archeologo, è Ambasciatore della Repubblica di Albania a Roma. Paola Faroni è architetto presso la Provincia di Brescia, Settore Interventi sul Patrimonio. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Luigi Gallo è dottore di ricerca all’Università Paris I-Sorbonne e curatore della mostra, con Massimo Osanna e Maria Teresa Caracciolo, «Pompei e l’Europa 1748-1943». Iris Gerlach è responsabile dell’Istituto Archeologico Germanico di San’a. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Sara Matilde Masseroli è funzionario archeologo presso la Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Filli Rossi è archeologa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 28/29, 101, 108 – Andreas M. Steiner: p. 3 – Manchester Museum, the University of Manchester: pp. 6-7 – Cortesia Soprintendenza Archeologia dell’Umbria: p. 8 – Flemming Kaul, Nationalmuseet, Copenaghen: p. 9 (alto) – Morten Petersen, Museum Vestsjælland: p. 9 (basso) – Cortesia Sergio Frau: 10 (alto), 10/11, 11-15 – Daniela Zedda: p. 10 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 16, 31-35, 68-72, 75-97 –


GLI IMPERDIBILI

Mosaico di Alessandro

Echi di un’antica gloria 62 di Daniele F. Maras

62

68 SPECIALE Albania

Nella terra delle aquile

68

di Neritan Ceka, con un’intervista all’autore a cura di Andreas M. Steiner

LIBRI

SCAVARE IL MEDIOEVO Romolo su dente di balena

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Quando nasce il restauro?

98

QUANDO L’ANTICA ROMA... di Romolo A. Staccioli

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A VOLTE RITORNANO

di Daniele Manacorda

…declinò l’offerta dell’oro di Napoli

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di Andrea Augenti

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102

Quel tram per Pompei

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di Flavio Russo

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

Mentre la donna fugge, l’uomo pensa... 110 di Francesca Ceci

Cortesia Provincia di Brescia: 18 (alto) – Altair4 Multimedia: pp. 18/19 (basso), 19 – Marco Santopietro: pp. 30/31 – © DAI/foto I. Wagner: pp. 36/37, 44/45 – © MAIRY/foto M. Jung: p. 38 – © MAIRY/foto S. Antonini: p. 39 – Getty Images: Anadolu Images: p. 40; Giorgio Cosulich: p. 66 – © Digital Globe 2002: p. 41 – © DAI/foto H. Hitgen: pp. 42/43 – © GOAM/Mabkhut Mohtem: p. 43 – © DAI/foto J. Kramer: p. 46 – Cortesia Ufficio Stampa/foto A. Jemolo: pp. 48/49, 54 (alto), 55-57 – Doc. red.: 50-53, 54 (basso), 98/99, 106-107, 110 (basso), 111 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 58-60 – Mondadori Portfolio: The Art Archive: pp. 62-65, 67; Leemage: pp. 72/73 – DeA Picture Library: p. 100; G. Veggi: p. 102; A. Dagli Orti: pp. 104/105 – Jean-Claude Golvin: p. 103 – Archivi Alinari, Firenze: Archivio Villani, Firenze: p. 109 – Bridgeman Images: p. 110 (alto) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 31, 40, 71, 84, 88, 93, 94, 96. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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n otiz iari o SCOPERTE Gran Bretagna

MUMMIE: L’APPARENZA INGANNA!

L’

impiego di tecniche radiografiche in campo archeologico, per esaminare l’interno di mummie o sarcofagi, è una pratica da tempo nota e adottata con successo e permette di evitare i rischi collegati allo sbendaggio o all’apertura (ne sono un esempio, anche in Italia, le ricerche del Mummy Project, vedi «Archeo» n. 330, agosto 2013; anche on line su archeo.it). Recentemente, un gruppo di ricercatori dell’Università di

Manchester ha diffuso i risultati delle analisi realizzate con tale metodologia, in un arco di 15 anni, su 300 mummie animali conservate al Manchester Museum. I risultati dello studio hanno riservato grandi sorprese e sono stati anche oggetto di un recente documentario prodotto dalla BBC intitolato 70 Million Animal Mummies: Egypt’s Dark Secret (70 milioni di mummie animali: il segreto nascosto dell’Egitto). Il team di ricerca – composto da Lidija McKnight (Università di Manchester), Campbell Price (Manchester Museum) e Judith Adams (Central Manchester University Hospital) – ha esaminato gli esemplari ai raggi X, utilizzando uno scanner per la tomografia computerizzata, nel laboratorio medico del Royal Manchester Children Hospital. Le radiografie hanno spesso mostrato un contenuto ben diverso da quanto atteso. Per esempio, un piccolo involucro, irriconoscibile dall’aspetto esterno In alto e qui accanto: varie immagini di una mummia di gatto, contenente all’interno lo scheletro intero dell’animale. In almeno un terzo delle mummie esaminate, invece, all’interno degli involucri era stato collocato solo qualche resto animale (o anche nessuno), colmando il vuoto rimanente con altri materiali.

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(proveniente dall’Egitto meridionale, datato 664-332 a.C. e parte dell’esposizione permanente), ha rivelato lo scheletro di un topo. Un sacchetto accluso, che i ricercatori pensavano avrebbe contenuto del cibo per la vita ultraterrena dell’animale, ha mostrato soltanto un’imbottitura di lino. In altri casi, le mummie contenevano resti animali, che si sono però rivelati ben diversi dalle


apparenze. Un involucro a forma di coccodrillo, per esempio, peraltro di dimensioni alquanto modeste, non conteneva un solo esemplare, come suggeriva l’aspetto esterno, bensí quattro piccoli crani, ordinatamente disposti uno dietro l’altro e quattro scheletri, assieme a un’asticella di legno, usata probabilmente per sostenere la forma complessiva. Gatti, alligatori, babbuini e altre specie si presentavano come esemplari interi, mentre solo alcuni contenevano effettivamente resti animali. È stato questo il caso di una mummia di gatto, al cui interno è stato ritrovato l’intero scheletro

dell’animale. Altre volte, invece, solo legno e pezzi di tessuto. Per esempio, un’altra mummia di gatto proveniente dal sito di Beni Hassan (Medio Egitto), molto rifinita esteriormente, conteneva solo una vertebra del felino, mentre il resto era composto da materiale di riempimento. In conclusione, circa un terzo dei reperti esaminati non conteneva alcun materiale animale, mentre gli altri due terzi erano composti da mummie con animali piú o meno completi all’interno. È verosimile, spiegano i ricercatori, che, soprattutto a partire dal V In alto: una mummia in forma di coccodrillo. A sinistra: diversi involucri in forma di animali oggetto delle indagini. La terza mummia da destra, in forma di coccodrillo, conteneva, in realtà, 4 crani allineati e 4 scheletri di altrettanti esemplari del rettile (foto qui sopra, a destra).

secolo a.C., la domanda di questi manufatti votivi superasse di gran lunga la disponibilità degli animali necessari alla loro realizzazione, e, pertanto, venissero prodotti questi «surrogati». Il loro valore devozionale, comunque, non ne risentiva; i pellegrini li acquistavano presso il tempio e li offrivano al dio, quindi un sacerdote si occupava di seppellirli. Le mummie animali, a differenza di quelle umane – che servivano per la preservazione dei defunti –, erano ex voto per gli dèi e l’importante era che fossero riconoscibili per la divinità. Una grande mostra, «Gifts for the Gods: Animal Mummies Revealed» è in preparazione al Manchester Museum per il prossimo autunno (dall’8 ottobre al 17 aprile 2016) e includerà anche i risultati scaturiti da queste indagini. Paolo Leonini

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n otiz iario

SCOPERTE Umbria

ULTIMISSIME DA GUBBIO

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Guastuglia, presso Gubbio (Perugia), scavi archeologici, diretti da Luana Cenciaioli (Soprintendenza Archeologia dell’Umbria) e seguiti sul campo da Francesco Giorgi, hanno portato a nuove scoperte in quello che doveva essere un articolato quartiere residenziale (la cui frequentazione va dal I secolo a.C. al IV secolo d.C.). La ricerca si è concentrata all’interno della domus detta «dei Mosaici», in ambienti individuati in occasione di precedenti interventi. «Le nuove indagini – spiega Luana Cenciaioli – hanno apportato nuove interessanti informazioni sulle fasi di costruzione e la planimetria della domus, che, nel solo settore indagato, occupa una superficie di oltre 1000 mq. Gli ambienti esplorati risultano pertinenti alla pars urbana (sono tutti vani di rappresentanza), mentre alla pars rustica sono attribuibili due piccoli locali di servizio. La loro disposizione ha permesso di

Guastuglia (Gubbio, Perugia). Alcuni degli ambienti pavimentati a mosaico riportati alla luce grazie ai recenti scavi. individuare i due fulcri attorno ai quali si sviluppa l’intero edificio: un grande peristilio e un corridoio coperto, defilato sul margine est. Le fasi costruttive rimandano all’età augustea, epoca in cui sembra collocarsi l’intervento principale dell’edificio e periodo in cui a Gubbio si registra un notevole sviluppo topografico. I mosaici sono in bianco e nero (in tre casi è presente anche il rosa) e rappresentano motivi geometrici: scacchiera di clessidre, quadrati e losanghe, quadrati e rettangoli, intrecci a canestro, stelle a 6 e 8 punte, ottagoni, meandri. Tra gli altri, è stato rimesso in luce un ambiente di circa 25 mq, con Uno dei mosaici piú interessanti fra quelli rinvenuti: pertinente a un ambiente di 25 mq di superficie, si caratterizza per la complessità della composizione geometrica scelta come decorazione.

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pavimentazione a mosaico policromo (bianco, nero e rosa) preceduto da soglia decorata da un motivo a doppie pelte contrapposte da un lato e da cassettoni dall’altro. Il tappeto musivo, delimitato da un’alta fascia nera, è decorato da una composizione geometrica complessa: al centro, un tondo con fiore a quattro petali è inserito all’interno di un motivo a stella, che, a sua volta contornato da quadrati e losanghe, rientra in un ottagono; segue un altro ottagono con grandi ventagli e quadrati agli angoli. Ricorda come schema compositivo un mosaico rinvenuto a Roma, nella via Trionfale, durante la costruzione di case popolari». Le tipologie dei mosaici scoperti a Gubbio, diffuse tra l’età tardorepubblicana e quella augustea, sono di un livello qualitativo alto e ricercato, a conferma di come la ricca domus indagata fosse compresa nel piano urbanistico della città, che, come già detto, in età augustea vide uno sviluppo marcato, con la realizzazione di edifici pubblici – come il teatro romano –, e la destinazione a zona pubblica dell’area della Guastuglia, con la costruzione di un tempio dedicato a una divinità femminile nei pressi del Foro e di case di personaggi di elevato rango sociale. Le indagini archeologiche sono state eseguite grazie a fondi erogati dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Perugia. Giampiero Galasso


SCOPERTE Danimarca

IL MISTERO DEI RICCIOLI D’ORO

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uasi 2000 lamine di oro massiccio avvolte in forma di minute spirali, databili all’età del Bronzo (900-700 a.C.), sono al centro di una sorprendente scoperta avvenuta a Boeslunde (Isola di Sjælland, Danimarca). L’area non è nuova a ritrovamenti di metalli preziosi, ma questo ha entusiasmato gli archeologi per la sua ricchezza e unicità. In seguito alla scoperta, circa due anni fa, di quattro bracciali in oro massiccio, il locale Museum Vestsjælland ha promosso due campagne di scavo. In un crescendo di interesse, durante la seconda, a cui, assieme a Kirsten Christensen – curatore del Museum Vestsjælland – hanno preso parte gli archeologi del Museo Nazionale di Copenaghen, è venuto alla luce l’eccezionale insieme di riccioli d’oro. Nello scavo, le lamine sono apparse distribuite su una superficie di pochi metri quadrati, e raggruppate in due zone: nella prima, raccolte in piccoli gruppi e in file di 3-4

A sinistra: Boeslunde (Danimarca). Le spirali al momento del ritrovamento. In basso: ogni spirale è lunga 3 cm circa e pesa 0,1 g, con uno spessore della lamina d’oro di 0,1 mm. elementi, nella seconda, ammucchiate in un cumulo. Al di sotto di quest’ultimo sono state rinvenute anche scaglie di un materiale nero, pece, probabilmente di betulla. Le scaglie portavano impressa su una faccia l’impronta di una superfice in legno e sull’altra la traccia di un rivestimento in pelle. L’ipotesi è che le spirali d’oro fossero contenute in un cofanetto, internamente foderato di pelliccia. Come ha dichiarato Flemming Kaul, curatore presso il Museo Nazionale, la preziosità dei materiali unita alle informazioni emerse dallo scavo, fanno pensare al corredo di un personaggio importante, forse un re-sacerdote, riconducibile a un culto preistorico del Sole. Le lamine potevano far parte dei

paramenti rituali indossati – magari insieme ai quattro bracciali – nelle occasioni cerimoniali, e poi riposti nella cassa di legno. Resta comunque ancora avvolta nel mistero la loro precisa funzione: se fossero indossate tra i capelli, cucite come ornamento su un tessuto oppure legate a cordicelle come pendenti. Prospettando ulteriori ritrovamenti, il Museum Vestsjælland ha annunciato che continuerà le ricerche nell’area, avvalendosi della collaborazione degli archeologi locali. P. L.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

LA SARDEGNA VISTA DAL DRONE

UNA STRAORDINARIA CAMPAGNA FOTOGRAFICA, PROMOSSA DAL GIORNALISTA SERGIO FRAU, HA RIPORTATO L’ATTENZIONE SULLE IPOTESI AVANZATE DALLO SCRITTORE SU ALCUNI ASPETTI AFFASCINANTI DELLA CIVILTÀ NURAGICA. IPOTESI DISCUSSE E MOLTO CONTESTATE, CHE, TUTTAVIA, HANNO RISCOSSO UN’ECO INTERNAZIONALE. NE ABBIAMO PARLATO CON L’AUTORE...

L’

eco delle sue teorie ha raggiunto perfino le pagine del quotidiano francese Le Monde, che, in occasione della mostra «S’Unda Manna, Sardegna, Isola Mito?» (allestita a Sardara, nella

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provincia del Medio Campidano), si è occupato dell’inchiesta sulla Sardegna nuragica che Sergio Frau, giornalista, tra i fondatori de la Repubblica, porta avanti da oltre 15 anni.


Soddisfatto, dopo tanto lavoro e qualche polemica, dell’attenzione riservata da Le Monde alla sua inchiesta? «Beh, finire “da vivo” sulle pagine de Le Monde – esordisce Frau, con la consueta ironia – è quasi un miracolo! Dopo anni di ricerca, il merito è anche di un drone “buono”…» A proposito di droni: grazie a questi strumenti, e alla visuale a volo di uccello che offrono, avete potuto mappare dal cielo gran parte della Sardegna, raccogliendo centinaia di scatti fotografici. Immagini ora esposte a Sardara. Che cosa avete voluto documentare? «La Sardegna convive con un mistero: per tutto il II millennio a.C. si costruiscono 20 000 nuraghi, l’isola è un paradiso di benessere e ricchezza: poi, d’improvviso, intorno al 1100 a.C., diventa un inferno, fatto di malaria e di abbandono. Una circostanza che invita a chiedersi che cosa abbia messo fine alla serenità di quell’isola beata, di cui rimangono molte memorie in Oriente

Nella pagina accanto: in primo piano, il geometra Ettore Tronci impegnato nelle ricognizioni con il drone; sullo sfondo, il nuraghe di Millanus, nel territorio del Comune di Nuragus (Cagliari), a 369 m di quota. In basso: Gesturi (Medio Campidano). I resti del nuraghe di Pranu e Mendula, a 402 m di quota. (attraverso le testimonianze scritte di Egiziani e Greci)». Che cosa si vede dal drone? «Un centinaio di nuraghi sepolti. Abbiamo “messo a fuoco” il Medio Campidano e la zona di Barumini, dove Giovanni Lilliu (1914-2012; insigne studioso, da molti considerato il “padre” dell’archeologia nuragica, n.d.r.), da una collina di fango alta 30 m, ha disseppellito la reggia nuragica che oggi è Patrimonio UNESCO. Bene: di Barumini noi dimostriamo che ce ne sono almeno altre 50…». Quanti dei nuraghi che avete sorvolato sono noti all’archeologia ufficiale? «Sono tutti schedati, ma solo due o tre scavati: Barumini, Genna Maria

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a Villanovaforru, Villanovafranca e poco altro. Hanno restituito una tale quantità di materiale da riempire interi musei. La nostra è l’unica documentazione aerea esistente per molti nuraghi, a disposizione di chi voglia ragionare. Abbiamo fotografato interi complessi nuragici, con torri di oltre 10 m di diametro, ricoperti dal fango». E come avete potuto documentare centinaia di nuraghi con il drone? «È stato un lavoro capillare, portato avanti da Ettore Tronci. Platone, fuori dalla sua Accademia, aveva fatto scrivere “non entri chi non sa la geometria”. Ecco, Ettore è un geometra appassionato di archeologia, al Nella pagina accanto: Ussaramanna (Medio Campidano). Il nuraghe Santa Barbara, a 151 m di quota. In basso: Collinas (Medio Campidano). Il nuraghe Corti Marini, a 251 m di quota.

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quale abbiamo affidato un drone: in due anni e mezzo, ha censito gran parte del Medio Campidano, rispettando le stagioni, quando i nuraghi sono circondati dal grano che non si può calpestare, o le piogge. Un lavoro straordinario e mai fatto prima d’ora». Facciamo un passo indietro. Partiamo dalla sua teoria sulle Colonne d’Ercole (descritta nel volume Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta, pubblicato nel 2002 da Nur Neon). Tutto è iniziato da un dubbio, 16 anni fa… «Sí, un dubbio del 1999. Leggevo un libro di Vittorio Castellani, astrofisico e accademico dei Lincei: mostrava un Mediterraneo della protostoria nel quale Sicilia e Tunisia quasi si toccavano. D’improvviso, mi sono reso conto che gli stretti, nel Mediterraneo antico, erano due. Non c’era solo Gibilterra, ma ne esisteva un altro, nella zona che ancora oggi è la piú


assassina del Mare Nostrum e dove, allora, il mondo greco si divideva dal mondo fenicio-punico: il Canale di Sicilia. L’area che il grande archeologo Sabatino Moscati (1922-1997) chiamava “la cortina di ferro dell’antichità”: lo spartiacque tra mondo greco e fenicio». E cosí lei ha «spostato» le Colonne d’Ercole… «Io le ho solo “rimesse a posto”, erano gli altri ad averle spostate! Ho restituito al Canale di Sicilia

quelle Colonne che Eratostene, il grande geografo, alla fine del III secolo a.C., aveva spostato a Gibilterra per adeguare le sue mappe al mondo che Alessandro Magno, giunto fino in India, aveva reso piú grande. La cortina di ferro cade e l’orizzonte del Mediterraneo si amplia. Ma, fino al III secolo a.C., il mondo immaginabile era inquadrato tra il Caucaso e la Sardegna, cioè tra Prometeo e suo fratello Atlante, con Delfi a fare da omphalos, ovvero da

ombelico. E le “prime” Colonne d’Ercole, che Pindaro ci dice piantate in vaste lagune, in bassifondi pericolosi, erano nel Canale di Sicilia. Poi, con Alessandro Magno e la caduta di Cartagine, l’orizzonte si apre verso il Mediterraneo occidentale ed Eratostene allarga l’inquadratura dell’obiettivo, facendo slittare le “prime Colonne d’Ercole” allo stretto di Gibilterra». Quindi, secondo lei, le Colonne d’Ercole, che nell’immaginario

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In alto: Ussaramanna (Medio Campidano). Il nuraghe Cabonu Mannu, a 196 m di quota. Nella pagina accanto: Pauli Arbarei (Medio Campidano). Il nuraghe Bruncu Mannu, a 200 m di quota.

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collettivo antico rappresentavano la fine del mondo conosciuto dai Greci, fino al III secolo a.C. erano collocate presso il Canale di Sicilia, poi a Gibilterra. Un’intuizione «rivoluzionaria», apprezzata da studiosi dell’UNESCO e dell’Accademia dei Lincei. Molto contestata dagli archeologi, invece,

è la sua ipotesi su cosa ci fosse al di là delle Colonne d’Ercole... «La Sardegna come l’isola di Atlante. Ma a quel punto sono i Greci che parlano: Platone, i tragici, persino Omero con la sua Scheria. Preciso che ci sono 7400 libri su Atlantide e il mio è il primo sulle Colonne d’Ercole. Nel Crizia,


Platone racconta che, uscendo dalle (mie “prime”) Colonne d’Ercole, s’incontrava un’isola “che governava sull’intera Tirrenía”, che aveva “eterne primavere, i vecchi piú vecchi, ricca di metalli e di acque calde e fredde”: tutte cose che in Sardegna sono normali, ma che, uscendo da Gibilterra per cercare l’“isola mito”, hanno fatto sembrare fantastico il racconto. Perché cercare quell’isola a Cuba o in Inghilterra?» E se invece l’isola di Atlante fosse soltanto un mito? O fosse davvero Santorini, come alcuni sostengono? «A mio avviso, è difficile che Santorini sia al di là delle Colonne d’Ercole e che governi sull’intera Tirrenía. E poi sappiamo che il cataclisma che sconvolge Santorini è molto precedente, intorno al 1600-1700 a.C. Quelli di Platone sono racconti troppo dettagliati per essere fantasticherie. Ci sono 100 fonti orientali che narrano di un’isola senza realtà e c’è una Sardegna che regge quelle storie strabilianti. Perché non credere agli antichi?» Adesso a cosa sta lavorando? «Tra le bellurie che si narravano dell’“isola mito” (per me la

Sardegna), sia dall’Egitto che dalla Grecia, veniva la notizia di un terribile cataclisma marino che avrebbe colpito l’isola per punirne gli abitanti. Fatto sta che, dal XII secolo a.C., in Sardegna non si costruiscono piú nuraghi. In tutto il Campidano troviamo nuraghi colpiti dal fango, circostanza che non si registra appena si sale di quota, dall’altopiano delle Giare fino alla Gallura, di 500 m. Perché? In questi anni avevamo commissionato alcuni carotaggi nella costa occidentale – dove ci sono decine di nuraghi sepolti –, che ci hanno confermato tracce di uno tsunami. Quella esposta a Sardara (e prossimamente a Paestum, in occasione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico) è la prima documentazione aerea che mostri una devastazione di portata eccezionale, nel Campidano fino alla Giara di Gesturi, di tutto ciò che di nuragico esisteva. Il colpo ricevuto da queste torri megalitiche è sempre da sud verso nord, tanto che il geofisico Stefano Tinti ha ipotizzato un’onda marina proveniente dal Golfo di Cagliari. A mio avviso, infatti, i nuraghi sono stati sconquassati da forze molto piú potenti del vento (come spesso si è detto)». Dopo tanti punti interrogativi – nel suo libro se ne contano oltre 1700 – qualche dubbio lo ha colmato? «I dubbi sono come le ciliegie. Uno tira l’altro... Bisogna chiedersi il perché delle cose. Io ho voluto solo invitare gli archeologi a porsi qualche domanda in piú».

DOVE E QUANDO «S’Unda Manna» Sardara (Medio Campidano), Casa Pilloni Orario tutti i giorni, 9,00-13,00 e 17,00-19,00.; chiuso il lunedí Info tel. 070 9386011

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n otiz iario

MUSEI Campania

ETRUSCHI DI FRONTIERA

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ra la fine del X e il IX secolo a.C., nel Vallo di Diano, in provincia di Salerno, si insediò una folta comunità di incineratori di cultura villanoviana proveniente dall’Etruria meridionale spinta fin qui alla ricerca di terre fertili. Vaste necropoli testimoniano la loro presenza, dovuta a un vero e proprio movimento migratorio nord-sud, e proprio in seguito al recupero di centinaia di corredi tombali, caratterizzati dalle urne biconiche utilizzate come cinerari, nel 1957 fu inaugurato il Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale, allestito nella Certosa di S. Lorenzo di Padula. Fulcro dell’esposizione sono i materiali provenienti dall’insediamento proto-etrusco di Sala Consilina e da quello di età classica di Padula, ascrivibili a un arco cronologico che va dalla fine del X al V secolo a.C. Il percorso espositivo segue un criterio cronologico e topografico e si apre con i corredi funerari villanoviani. Nella fase orientalizzante, intorno alla metà dell’VIII secolo a.C.,

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Due reperti facenti parte delle collezioni del Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale di Padula: un elmo in bronzo (a destra) e un torso virile in marmo, datato al II sec. a.C., identificato con l’Apollo metapontino.

scompare l’originario aspetto etrusco-villanoviano, assorbito dalla componente indigena enotria, sin dall’inizio presente all’interno della comunità. A questo periodo risalgono brocche, scodelle, tazze di impasto, in associazione con vasi «a tenda» in argilla decorati con motivi triangolari dipinti. Né mancano ornamenti personali in bronzo e armi in ferro. Nel V secolo a.C., quando la necropoli di Sala Consilina cade in disuso, quella di Padula – l’antica Consilinum – assume il ruolo di centro piú importante del Vallo di Diano. Ora i corredi si caratterizzano per l’adesione all’ideologia greca del banchetto con vasi e oggetti destinati alla mescita e alla degustazione del vino. Preponderante è la presenza di forme ceramiche greche di notevole pregio, tra cui un gruppo di crateri a colonnette a figure nere e a figure rosse di produzione attica. Al IV secolo a. C. risalgono ceramiche a vernice nera e a figure rosse e un complesso di oggetti,

candelabro-alari-spiedi, con funzione simbolica a connotare il livello sociale del defunto. Chiudono l’esposizione alcuni capitelli figurati del III-II secolo a. C., di probabile origine apula, mentre alla tarda età repubblicana, con qualche esemplare piú tardo, appartengono statue e stele funerarie. Da una villa della tarda età imperiale romana scoperta a Padula provengono infine frammenti di mosaici pavimentali policromi con motivi geometrici e floreali e due unguentari d’argento. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale Padula (Salerno), Certosa di S. Lorenzo Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il martedí Info Numero Verde 800 219 661; tel. 0975 77117; fax: 089 225 578; www.museibiblioteche.provincia. salerno.it



n otiz iario

MUSEI Brescia

VIVERE L’ARCHEOLOGIA

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allo scorso 18 luglio è stato riaperto al pubblico, nel centro storico di Brescia, il percorso archeologico in Palazzo Martinengo Cesaresco, costruito nel 1663 in un’area che coincide con l’incrocio tra il decumano massimo della Brixia romana e il Foro: nelle sue sale sotterranee, le strutture emerse dagli scavi recenti raccontano quasi tremila anni di storia, esaltati ora da un nuovo allestimento curato dalla Provincia di Brescia in collaborazione con la

DOVE E QUANDO Palazzo Martinengo Cesaresco Brescia, via Musei 30 Orario ma-do, 10,00-18,00

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Soprintendenza Archeologia della Lombardia. La visita si inoltra nella ricca stratigrafia del sito, tra reperti archeologici di varia epoca, fino a raggiungere l’antica taberna in origine prospiciente il Foro; da qui, la piazza dell’antica Brixia è facilmente immaginabile oltre la monumentale muratura che contiene varie parti architettoniche dei suoi portici, composte in uno straordinario collage in epoca longobarda. Luogo centrale della vita della comunità, il Foro fu costruito in età flavia (tra il 69 e 96 d.C.) sui resti di una piazza risalente ai tempi di Augusto e su quelli del piú antico villaggio dei Celti Cenomàni. Organizzato su terrazze digradanti, era dominato dall’alto dal tempio capitolino voluto dall’imperatore Vespasiano e chiuso in basso dalla basilica: i due edifici, simbolicamente contrapposti, rappresentavano i massimi valori ideologici, religiosi e civili, di Brixia. Nella grande piazza la monumentalità dello spazio, esaltata dal movimento scenografico delle terrazze, era resa piú viva dall’uso sapiente di preziosi marmi colorati. A partire dal V secolo e poi nel Medioevo, quando tutta la città subí saccheggi e distruzioni, capitelli, colonne, pavimenti in marmo che avevano ornato il foro in epoca romana furono depredati e distrutti e gli spazi vennero occupati da capanne, botteghe, sepolture. Oggi, questa lunga storia rivive grazie a Brixia Light Box, un allestimento multimediale immersivo, che propone lo spazio dell’antica taberna, momento conclusivo del percorso archeologico, come una scatola

In alto e sulle due pagine: ricostruzioni virtuali del Foro di Brescia realizzate per il progetto Brixia Light Box. Nella pagina accanto, in alto: un particolare dell’allestimento nei sotterranei di Palazzo Martinengo. magica in cui le pareti si aprono virtualmente, introducendo il visitatore da protagonista nel Foro della città antica, ricostruito per la prima volta sulla base di precisi riscontri scientifici. Un viaggio nell’antica Brixia attraverso un’esperienza in cui la stessa architettura del palazzo seicentesco, ricomposta nei secoli sui resti romani, si trasforma in maxischermo. Realizzato da Altair4 Multimedia per la Provincia di Brescia, il progetto è stato promosso dall’Agenzia per la Coesione Territoriale nell’ambito del programma «Sensi Contemporanei», da UNESCO per International Year of Light 2015 e dalla Società Italiana di Fisica. Paola Faroni e Filli Rossi

DOVE E QUANDO Palazzo Martinengo Cesaresco Brescia, via Musei 30 Orario ma-do, 10,00-18,00

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i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

n otiz iario

INCONTRI Paestum

PREMI E COMPLEANNI

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er festeggiare i trent’anni di «Archeo», sbarcherà in Italia anche Filippo II di Macedonia… Succederà tra poche settimane, a Paestum, in occasione della XVIII Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, in programma dal prossimo 29 ottobre e fino al 1° novembre. Quest’anno, infatti, tra le novità di spicco della rassegna c’è l’«Archaeological Discovery International Award», un riconoscimento ideato in collaborazione con «Archeo» per dare il giusto tributo alle scoperte archeologiche attraverso un Premio annuale da assegnare insieme alle testate internazionali che sono media partner della BMTA: Antike Welt (Germania), Archäologie der Schweiz (Svizzera), Current Archaeology (Regno Unito), Dossiers d’Archéologie (Francia). Le prime cinque scoperte archeologiche del 2014, in base alle indicazioni dei direttori delle testate, sono risultate: la Tomba di Anfipoli (Macedonia, Grecia; vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015); le impronte umane piú antiche d’Europa (Happisburgh, Inghilterra); la Tomba di Khentakawess III (Abu Sir, Egitto); la sepoltura con carro di un principe dei Galli (Warcq, Francia); il Tesoro di Orselina (Canton Ticino, Svizzera). L’ Archaeological Discovery International Award 2015 verrà dunque assegnato all’archeologa greca Katerina Peristeri, responsabile degli scavi ad Anfipoli, venerdí 30 ottobre, nell’ambito della conferenza che celebra l’anniversario dei 30 anni di «Archeo». Per la prima volta al mondo si è pensato a un riconoscimento dedicato agli archeologi, che affrontano quotidianamente il loro compito. La Borsa e «Archeo» hanno condiviso questo cammino in comune, consapevoli che «le civiltà e le culture del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante assumono oggi sempre piú un’importanza legata alla riscoperta delle identità». Bubaneswar (India). Il tempio di Mukteswar. 950 circa.

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Anfipoli (Macedonia). Una delle cariatidi venute alla luce nell’anticamera della tomba, la cui scoperta verrà premiata con I’Archaeological Discovery International Award.

La Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, ospitata all’interno dell’area archeologica di Paestum, Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, promuove la cooperazione tra i popoli, la partecipazione di Paesi non solo del Mediterraneo e la presenza annuale di un Paese Ospite: per il 2015 è stata scelta l’India, che vanta una civiltà nata cinquemila anni fa e che ha lasciato le sue tracce in grandi monumenti (i templi e le pitture murali di Ajanta ed Ellora, il tempio del Sole a Konarak a forma di grande carro, solo per citare alcuni esempi). «L’India parteciperà quale Paese Ospite – sottolinea Chilka Gangadhar, Direttore dell’Ufficio del Turismo Indiano in Italia – avendo constatato gli eccellenti risultati ottenuti dalla manifestazione da quando la location è lo stesso sito UNESCO. Per noi è molto importante avere una efficace visibilità per presentare il nostro patrimonio archeologico e la Borsa di Paestum è l’unica in Italia dedicata al turismo archeologico. L’India ha uno straordinario, ricco ed eterogeneo patrimonio, con 32 siti UNESCO, di cui 25 culturali. Il nostro Istituto Nazionale Archeologico ha selezionato 25 siti degli oltre 3700 per il progetto Adarsh Smarak, che assicurerà in queste aree numerosi servizi (tra cui wi-fi, trasporti, segnaletica). Inoltre, è prevista una campagna di comunicazione dal nome Swachh Bharat Abhiyan, legata alla tutela e alla sicurezza con lo slogan “Swachh Smarak: Swachh Bharat” (“Monumenti puliti: India pulita”)». Per ulteriori informazioni: www.bmta.it



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Luciano Calenda

ARCHEOFILATELIA

ALBANIA, LONTANA E VICINA... 2 1 3 Lo speciale di Neritan Ceka sulla storia e l’archeologia dell’Albania si conclude suggerendo tre itinerari archeologici (vedi alle pp. 68-97). Qui, ai potenziali turisti, abbiamo voluto illustrare la terza di quelle proposte, attraverso il materiale filatelico che ricorda le località citate. Si parte da Tirana che, tra le altre cose, mostra anche le sue antiche mura (1) in direzione di Durres (Durazzo, Durresti), con visita ai monumenti (2), ai resti romani (3) e al museo della città antica, bizantina e veneziana di 4 Dyrrachion-Epidamnos (4). Si continua verso sud, per visitare Berat (5) con il castello illiricobizantino (6) e le chiese bizantine (7). Ancora piú a sud, si raggiunge Apollonia, con i suoi scavi (8) e il museo archeologico (9, 10). Si può quindi proseguire in direzione della baia di Valona, dove 5 si trova Oricum, e poi arrivare al passo di Llogara, dove Cesare transitò nel 48 a.C. Tappe successive sono il castello medievale di Himara 7 e a quello tardo-medievale di Porto Palermo. A Saranda (11) si possono ammirare i monumenti tardo-antichi della citta di Onchesmus (mura del castello, sinagoga del IV secolo d.C. e basilica dei 6 Santi Quaranta), mentre Butrinto offre i resti del piú importante sito archeologico d’Albania (12), tra cui si annovera il famoso anfiteatro, 8 9 riprodotto in tre diversi francobolli albanesi (13, 14, 15). Sulla via del ritorno, si può fare tappa ad Argirocastro, in albanese Gjirokastra (16, 17) 10 dove si visita il castello medievale, al teatro romano di Hadrianopolis e alla città di 12 Antigoneia, fondata da Pirro verso il 290 a.C. 13 Infine, prima del rientro a Tirana, si visita Byllis, con monumenti del III sec. a.C. (mura, teatro, 11 stoà, stadio e le 14 basiliche della tarda 14 15 antichità). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tema-

tica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce

ROMA Arte della Civiltà Islamica

La Collezione al-Sabah, Kuwait Scuderie del Quirinale fino al 20.09.15

Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15

Lacus Iuturnae

CHIUSI La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi

La fontana sacra del Foro Romano Tempio di Romolo nel Foro Romano fino al 20.09.15

L’Età dell’Angoscia

Da Commodo a Diocleziano (192-305 d.C.) Musei Capitolini fino al 04.10.15

In alto: scatola cilindrica in avorio scolpito. Inizi dell’XI sec.

Terrantica

Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15

ACQUI TERME La città ritrovata

Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16

Museo di Archeologia Ligure fino al 31.12.15

Dal mare una spada con mille anni di storia Museo Archeologico della Laguna di Marano fino al 01.11.15

Storie di alimentazione da Roma e Pompei Museo dell’Ara Pacis fino al 15.11.15 L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16

GENOVA Le sfide di Homo sapiens

MARANO LAGUNARE (UD) Spatha

Nutrire l’Impero

Tesori della Cina Imperiale

Museo Nazionale Etrusco fino al 31.12.15

In alto: la statua del Pastore, dall’omonima villa di Stabiae.

MILANO L’isola delle torri Qui sopra: affresco con la Fenice, utilizzato come insegna dall’oste pompeiano Euxinus. I sec. d.C.

Tesori dalla Sardegna nuragica Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15

Mito e Natura

Dalla Grecia a Pompei Palazzo Reale fino al 10.01.16

BIBBIENA (AR) Alto Medioevo Appenninico Testimonianze altomedievali fra Casentino e Val Bidente Museo Archeologico del Casentino fino al 01.11.15

BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po

Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.01.16

La scena che dà nome alla Tomba del Tuffatore di Paestum, dipinta sulla faccia interna della lastra di chiusura del sepolcro. 480-470 a.C.

CASALE MONFERRATO diVino

MONTEBELLUNA (TV) Storie di antichi Veneti

Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15 24 a r c h e o

La situla figurata di Montebelluna Museo Civico fino al 27.09.15


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

ORVIETO Voci ritrovate

Archeologi italiani del Novecento Napoli, Museo Archeologico Nazionale Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15

SENALES (BZ) Ma Ötzi, che lingua parlava? Parlare e scrivere-ieri e oggi ArcheoParc Val Senales fino al 01.11.15

Gran Bretagna

VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) Antichità sequestrata A Vetulonia l’Italia antica si «ritrova» a tavola Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino all’11.11.15

ZUGLIO (UD) Celti sui Monti di Smeraldo Civico Museo Archeologico «Iulium Carnicum» fino al 31.10.15

LONDRA Celti: arte e identità Cimasa di kottabos in bronzo in forma di Sileno, da Vetulonia.

BRAMSCHE-KALKRIESE Io Germanico!

I misteri dei Grandi Dèi Museo dell’Acropoli fino al 30.09.15 Qui sotto: ritratto di Germanico.

Svizzera ZURIGO Il gesso conserva

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15

USA

Condottiero, sacerdote, superstar Museo e Parco Kalkriese fino all’01.11.15

NEW YORK Kongo: potere e maestà

MANNHEIM Egitto

PHILADELPHIA Sotto la superficie

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16

Qui sotto: leone in lamina d’oro, destinato a ornare un abito. IV sec. a.C.

ATENE Samotracia

Le diseguaglianze nel Neolitico Musée national de Préhistoire fino al 15.11.15

Ebrei, cristiani e musulmani in Egitto dall’antichità al Medioevo Bode Museum fino al 13.09.2015

AMSTERDAM Roma

Grecia

LES EYZIES-DE-TAYAC Segni di ricchezza

BERLINO Un solo Dio. L’eredità di Abramo sul Nilo

Olanda Il sogno dell’imperatore Costantino De Nieuwe Kerk fino al 07.02.16 (dal 03.10.15)

Francia

Germania

British Museum fino al 31.01.16 (dal 24.09.15)

Particolare del Calderone di Gundestrup. Fine del II-I sec. a.C.

The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.16 (dal 18.09.15)

Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15 a r c h e o 25


C’È UN GUERRIERO NELLA GROTTA Sulle due pagine: Orvieto. La campagna umbra vista dalla sommità del masso roccioso su cui sorge il centro abitato.

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A ORVIETO, ESPLORANDO QUELLA CHE SEMBRAVA UNA NORMALE CANTINA, È STATA COMPIUTA UNA SCOPERTA DI ECCEZIONALE IMPORTANZA. CHE RIPORTA IN PRIMO PIANO L’UNIVERSO SOTTERRANEO DELLA CITTÀ IN ETÀ ETRUSCA

C

ittadina oggi in Umbria, ma che di umbro ha poco, Orvieto, ar roccata com’è sull’ampio tavolato di tufi e pozzolane, cela un sottosuolo definito in mille modi diversi: una groviera, le radici e le viscere oscure della città, un labirinto… In effetti, con le sue 1200 grotte artificiali ufficialmente censite, Orvieto rappresenta una realtà tra le piú importanti d’Italia, anche per il livello della ricerca condotta negli ultimi trent’anni, soprattutto a causa dei consistenti lavori di risanamento che si sono resi necessari per arrestare il degrado della roccia vulcanica, un deterioramento che rischiava di farne un’altra «città che muore», come Civita di Bagnoregio. Se l’aspetto «superficiale» della città di Claudio Bizzarri è mutato nei secoli, le strutture ipo-

gee che le sono state funzionali sono rimaste, in buona parte, intatte. Vi sono tracce dell’etrusca Velzna, della medievale Urbs Vetus e della città rinascimentale e moderna. È uno straordinario viaggio nel tempo, un percorso emozionante nel cuore di Orvieto, che qui affonda le proprie radici e conserva un’insospettata e suggestiva memoria.

LA PRIMA FONDAZIONE La prima, vera città costruita sulla parte alta del masso è sicuramente quella etrusca, che trova una sua formulazione monumentale a partire dall’epoca arcaica (VI secolo a.C.). Purtroppo, sappiamo poco della sua estensione e del suo aspetto reale, ma possiamo immaginare che il tessuto urbano fosse strutturato regolarmente, risolvendo il

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SCOPERTE • ORVIETO

problema della carenza idrica presente sulla parte alta del pianoro con la costruzione di cisterne di vario tipo, collegate a sistemi di cunicoli piú o meno articolati, in parte scavati o costruiti al di sotto delle strade della polis e in collegamento con le strutture abitative. Una tipologia particolare di strutture ipogee della Volsinii etrusca è quella dei «pozzi con pedarole». Si tratta di condotti verticali, di norma a sezione quadrangolare con dimensioni di 120 x 80 cm, che presentano sui lati lunghi incavi scavati a intervalli regolari, detti «pedarole», che servivano a salire e scendere, sia durante la realizzazione del condotto, sia per le successive fasi di manutenzione. 30 a r c h e o

In alcuni casi erano veri e propri pozzi per acqua, raggiungendo la falda che si trova al di sotto del masso vulcanico, a notevole profondità. Nella seconda metà dell’Ottocento venne indagato, nella zona di Porta Romana, un condotto verticale circolare con pedarole, che raggiunse la profondità di 45 m; le pareti prossime al fondo si allargavano a campana ed erano rivestite con conci di tufo, mentre un cunicolo afferente assicurava l’approvvigionamento idrico costante.

larità risiede nella tecnica di impermeabilizzazione: il grande cilindro scavato nella roccia era foderato con uno strato omogeneo di argilla, pura e duttile, che ne garantiva la tenuta stagna. Il tamburo interno era costituito da un rivestimento lapideo realizzato in tecniche diverse: a scacchiera, in opera isodoma, a piccole lastre irregolari di tufo. Una caratteristica in comune è la copertura monumentale di queste cisterne, realizzata con un anello di mensole aggettanti, dal profilo stondato (verso il centro della struttura). CILINDRI NELLA ROCCIA Nella seconda metà dell’Ottocento, Le cisterne del tipo piú antico sono uno dei piú capaci archeologi scavate nel deposito di ignimbriti dell’epoca, Gian Francesco Gamur(tufi e pozzolane) e la loro partico- rini (1835-1923), individuò una


Perugia Chianciano Terme

Chiusi

Sarteano Marsciano

Monte Amiata

Orvieto

Pitigliano

Bolsena

Vulci

Viterbo

Tuscania

Tarquinia

A1

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Lago di Bolsena

Magliano Sabina Blera Nepi San Giovenale Lago di

Civitavecchia Tolfa

Bracciano

Bracciano Pyrgi

Cerveteri A12

cisterna di questo tipo presso la chiesa di S. Francesco e la descrisse minuziosamente, interpretandola però quale thesauròs pelasgico, una sorta di deposito sacro di una delle mitiche popolazioni dell’area mediterranea. La cura riposta nella realizzazione e l’elaborata copertura della cisterna non potevano essere attribuite, secondo lo studioso, a una semplice conserva d’acqua. In epoca ellenistica la tecnica cambia e gli Etruschi di Orvieto (e non solo) adottarono un metodo tecnologicamente piú avanzato per impermeabilizzare le strutture ipogee: sulle pareti del vano veniva stesa una sorta di malta idraulica, realizzata con calce, sabbia e frammenti di

Nella pagina accanto: colombario all’interno dell’ambiente ipogeo sotto via Spoleto Ripa Medici. In basso: frammento di kylix Rieti a figure rosse riconducibile alla cerchia del Pittore di Pentesilea. Palombara Sabina V sec. a.C.

Veio

Roma

terracotta finemente triturati, da cui il nome di «cocciopesto».

UNA FUNZIONE DUPLICE I cunicoli sono invece le strutture piú facilmente individuabili: si tratta di condotti di norma ad andamento orizzontale, scavati nel masso, il tipo piú frequente, oppure costruiti in conci di tufo. Nel contesto urbano il cunicolo svolgeva una doppia funzione, di drenaggio o captazione. Quelli a sezione verticale ogivale sono i piú comuni e, di norma, sono organizzati su di un asse/cunicolo principale che corre al di sotto della sede

stradale, dal quale si sviluppano ortogonalmente i rami collegati alle cisterne scavate sotto le abitazioni private. Le canalizzazioni erano costituite da elementi in terracotta e a Orvieto ne sono stati documentati alcuni in bucchero, sigillati con argilla plastica. La rete di cunicoli e la collocazione delle cisterne consentono la parziale ricostruzione dei quartieri della città etrusca, che, in maniera non molto dissimile da quanto è dato vedere nella necropoli disposta ai piedi della rupe, si doveva sviluppare in maniera organica e ordinata. Infine, sono state rinvenute anche alcune favisse: definizione che in archeologia si applica ad ambienti ipogei, generalmente fosse e pozzi, riferibili a un santuario e intenzionalmente riempiti con offerte votive o elementi architettonici pertinenti al tempio. L’autore latino Festo tramanda una definizione del termine molto interessante: «Favissae locum sic appellabant in quo erat aqua inclusa circa templa». Si tratta, dunque, di strutture incluse all’interno di santuari, con evidente carattere funzionale collegato alla raccolta dell’acqua. Per le sue caratteristiche geomorfologiche, il masso tufaceo su cui sorge Orvieto è permeabile e quasi ovunque fortemente drenante. Per poter quindi disporre dell’acqua, che doveva essere di origine meteorica, in prossimità di alcuni santuari si realizzarono vasche, alcune di esse vere e proprie favissae. In questo variegato panorama sotterraneo il progetto Orvieto Ipogea è nato per lo studio delle cavità d’epoca etrusca. Nella primavera del 2011, un gruppo di ricercatori, condotti dai membri della società di consulenza ipogea Speleotecnica s.r.l., è entrato in quella che sembrava essere una normale cantina, in via a r c h e o 31


SCOPERTE • ORVIETO

descrivere: il complesso ipogeo è caratterizzato, infatti, da almeno tre strutture aventi una forma troncopiramidale sinora mai attestate, né a Orvieto, né in altri contesti culturali affini. La superficie del vano aumenta cioè man mano che si procede verso il basso, con un andamento piuttosto regolare. Attualmente il vano A misura 6 x 7 m e ha raggiunto una profondità di 10 m dal piano attuale della città.

Ripa Medici (vedi «Archeo» n. 359, In alto: Orvieto. Un’immagine della gennaio 2015; anche on line su ar- cavità 254 all’interno dell’ambiente cheo.it): in quel pomeriggio di mag- ipogeo sotto via Ripa Medici. gio non si aveva idea di cosa si nascondesse in quei sotterranei scavati nel tufo. È stato però facile constatare che, lungo la parete di uno dei vani adibito a cantina, si conservavano alti gradoni regolari, che scendevano chiaramente oltre il piano di calpestio in terra battuta: in questa zona, denominata Vano A, hanno preso il via le nostre indagini archeologiche. La cavità è situata lungo il margine sud-ovest della rupe di Orvieto, in corrispondenza dell’area del plateau tufaceo dalla quale oggi si può dominare la piana di Campo della Fiera (dove l’Università di Perugia ha portato alla luce i resti di uno dei piú importanti santuari d’epoca etrusca), di fronte alle balze che salgono verso il territorio di Porano (noto per la presenza delle uniche tombe affrescate volsiniesi). In questa grotta, rispetto al quadro tracciato precedentemente, è stata riscontrata l’«anomalia» che a noi interessa 32 a r c h e o

FALSARI E FALEGNAMI L’intera cavità 254 (numero progressivo attribuitogli nel censimento della Regione Umbria) è composta da ambienti parzialmente sovrapposti ed è stata oggetto di utilizzi protrattisi sino alla prima metà del XX secolo: da laboratorio dei fratelli Riccardi, che confezionarono i ben noti «warriors» per il Metropolitan Museum di New York (si tratta di tre statue in terracotta, spacciate per etrusche, che furono acquistate dal museo statunitense tra il 1915 e il 1921 e delle quali si accertò poi la falsità, n.d.r.), a fornace del maestro Ilario Ciaurro che, assieme allo studioso orvietano Pericle Perali, contribuí alla riscoperta della ceramica medievale locale. Intorno agli anni Trenta del Novecento, la grotta divenne sede di un mobilificio artigianale e poi di una falegnameria, legata agli attuali proprietari, senza la cui liberalità ed entusiasmo il progetto non avrebbe visto la luce. La parte superiore di questo settore è chiusa da una volta in malta e tufi, di probabile origine medievale, la cui creazione ha distrutto l’accesso originario alla cavità d’epoca etrusca; un modesto battuto, costituito da calce e tufarina, verosimilmente databile al XVIII secolo, fungeva da piano di calpestio della cantina.Vale la pena di ricor-


In questa pagina e nella pagina accanto, in basso: due immagini dell’altorilievo con personaggio maschile, forse riferibile al mito di Capaneo, rinvenuto nell’ambiente ipogeo (altezza conservata, 24 cm). 480 a.C. circa.

a r c h e o 33


SCOPERTE • ORVIETO

piattelli. Alla classe della ceramica di uso comune possono essere ricondotti materiali con caratteristiche molto diversificate. Tra i materiali fittili spicca una piccola protome, identificabile come il frammento di un foculo, una sorta di vassoio per cibi od offerte. Per la ceramica d’importazione, sono stati riconosciuti frammenti di anfore di produzione greca, e abbondanti sono le ceramiche decorate: tra quelle a figure nere, si ricorda la presenza di frammenti di un’anfora del Gruppo Tirrenico (databile attorno al 550 a.C.) e di varie kylikes (coppe per bere vino); anche fra quelle a figure rosse sono numerose le coppe, con esemplari riconducibili alla cerchia del Pittore di Pentesilea, la cui bottega è già ampiamente documentata a Orvieto.

dare un piattello con monogramma di San Bernardino e un paio di frammenti di piatti in ceramica decorata «a lustro», probabilmente da ricondurre a botteghe di Deruta se non a officine locali, attestate sulla base del rinvenimento, nel vicino Pozzo della Cava, dell’unica fornace «a muffola» individuata in Umbria, in uso nel Centro Italia tra il XV e il XVI secolo. L’asportazione della scarna seriazione stratigrafica post-antica ha rapidamente consentito di mettere in luce uno strato di terreno di colore marrone, straordinariamente ricco di materiale archeologico etrusco. Era il primo di una notevole serie di scarichi, per i quali si riconoscono marcate differenze composizionali, ma anche un’omogeneità cronologica data dalla natura dei reperti. Nella parte centrale dell’ambiente si trova il materiale piú fine, con inclusi di piccola pezzatura, mentre lungo le pareti sono abbondanti gli inclusi medio-grandi e i frammenti fittili di maggiori dimensioni, in una sorta di cono detritico dovuto alle modalità di sversamento. L’affidabilità stratigrafica del deposito è ottima.

UNA LUNGA FREQUENTAZIONE Una rapida carrellata dei materiali piú significativi rende appieno l’importanza del sito. Molti frammenti sono riferibili alla classe degli impasti non torniti. Si tratta di materiali residuali, che coprono un intervallo cronologico compreso tra l’età del Bronzo Finale e l’Orientalizzante Antico. L’avarizia con cui Orvieto ha restituito materiali simili, e la loro provenienza dalla sommità del pianoro, ne amplificano il significato per la ricostruzione della storia della città. I buccheri risultano essere la classe piú attestata, immediatamente dopo la ceramica d’uso, e 34 a r c h e o

Piccola protome in terracotta, pertinente a un foculo (vassoio) per cibi e offerte votive. VI-V sec. a.C.

coprono un arco cronologico compreso tra la fine del VII/inizi VI secolo a.C. e il V secolo a.C. Accanto a scarsi frammenti di bucchero nero sottile e di bucchero transizionale grigiastro (in un caso decorato da ventaglietti impressi), sono stati recuperati alcuni frammenti di bucchero nero pesante, tipico delle produzioni di Orvieto e della vicina Chiusi. La classe del bucchero grigio è massicciamente documentata, con vasi spesso integri, o comunque interamente ricostruibili, in massima parte coppe e

IL GUERRIERO SENZA NOME Pregevoli sono le terrecotte architettoniche, tra le quali si distingue un piccolo altorilievo, raffigurante un personaggio maschile inginocchiato e rivolto verso sinistra. Il rilievo è molto alto e una leggera ma marcata curvatura del lato posteriore indica che non si tratta una lastra. La policromia è ben conservata e l’incarnato è reso con colore rosso; il manufatto è da collocare attorno al 480 a.C. Per il nostro guerriero ancora senza nome, come indicazione del tutto preliminare, è suggestiva la cifra stilistica dei tratti scomposti del volto, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta: elementi che possono evocare lo stupore di Capaneo, l’eroe che non tiene a freno la sua tracotanza e viene colpito dal fulmine di Zeus mentre scala le mura di Tebe, un episodio che ben conosciamo grazie all’altorilievo del tempio A di Pyrgi. Si tratta di un ulteriore legame di Orvieto con Cerveteri, alla quale rimanda, per esempio, la for-


ma delle tombe a dado della necropoli di Crocefisso del Tufo. Scarsissimi sono i reperti in metallo, mentre imponente è la quantità di materiale osteologico. In attesa dello studio sistematico, che potrà for nire notevoli infor mazioni sull’allevamento degli animali e sul consumo di carni, ci si limita a segnalare la presenza di grandi erbivori, di suini (sia d’allevamento che selvatici), volatili e pesci, questi ultimi presenti con un paio di vertebre. Molte ossa presentano segni di macellazione e di esposizione al fuoco. Nel laboratorio di chimica del Saint Anselm College sono in corso analisi su campioni prelevati da alcune decine di reperti ceramici (con particolare riferimento a forme chiuse in ceramica comune), al fine di verificare la presenza di eventuali residui organici. Ai materiali fin qui elencati si aggiungono pesi da telaio e fuseruole in terracotta. Tra i manufatti in pietra, vi sono frammenti di macine «a sfregamento» in leucitite, la cui presenza è indicativa, giacché la pietra lavica risulta compatibile con quella degli affioramenti localizzati lungo i margini orientali dell’altopiano dell’Alfina, a sud-ovest di Orvieto. I manufatti della cavità 254, databili almeno al V secolo a.C., costituiscono a oggi la piú antica testimonianza dell’utilizzo di questo materiale in area volsiniese.

pretazione univoca. Per la funzione originaria del vano, l’assenza d’impermeabilizzazione esclude la destinazione a conserva idrica, mentre le pareti ben rifinite, con l’eccezione di quella orientale, non sembrano compatibili con l’estrazione di materiale da costruzione; peculiare è la presenza della scala elicoidale. Anche la natura del riempimento suggerisce interpretazioni diversificate. Come s’è visto, accanto a ceramiche di uso comune, che sarebbe logico riferire ad ambito domestico, si riscontra la presenza di terrecotte

Frammento di calice in bucchero nero. Seconda metà del VI sec. a.C.

architettoniche. La grande quantità di detrito e l’omogeneità cronologica agli ultimi decenni del V secolo, lascia pensare alla ristrutturazione/ OLTRE 100 ISCRIZIONI Un ultimo dato è l’individuazione, recupero di un’ampia parte dell’area sui manufatti ceramici, di oltre 100 urbana, magari in seguito a un iscrizioni (148 per ora) in caratteri evento traumatico altrimenti non etruschi, in massima parte incom- documentato. Occorre considerare plete e, per circa la metà dei casi, che, oltre all’obliterazione dell’amcomposte da segni non alfabetici. Si biente «A» della cavità 254, si ritrovano principalmente entro la va- scontra il contemporaneo abbandosca di coppe o sull’orlo di olle in no di un complesso di cunicoli idraulici in piazza Ranieri e il riemceramica da fuoco. La documentazione archeologica pimento di ambienti ipogei etruschi non si presta, purtroppo, a un’inter- in via Pianzola. Né va dimenticata

la ristrutturazione che interessa sia il tempio del Belvedere che quello al quale erano pertinenti le terrecotte di via San Leonardo, entrambi collocati sul pianoro di Orvieto. Non è però possibile escludere che la riorganizzazione di una parte dell’area urbana possa essere stata prevista dall’autorità cittadina, come in altre realtà urbane d’Etruria.

LE PROSPETTIVE FUTURE Rimane da comprendere, col prosieguo dell’indagine, se l’atto legato al riempimento, chiaramente voluto, sia anche da considerarsi «dovuto», con tutte le implicazioni del caso. Di certo l’intuizione avuta da Pericle Perali nella prima metà del Novecento ha trovato conferma: lo studioso infatti consigliava un attento e completo rilievo delle cavità esistenti per avere un quadro integrato della città nella sua diacronia. Come s’è visto, a distanza di quasi cento anni dai primi passi effettuati nel campo della ricerca ipogea, è ancora il sottosuolo di Orvieto a fornire eccezionali elementi utili alla comprensione dei suoi sviluppi storici: molto si trova ancora custodito nella miriade di grotte per le quali è auspicabile un approccio scientifico complessivo nella direzione del quale va proprio il progetto Orvieto Ipogea. Lo scavo della cavità 254 ha visto la collaborazione fra la Fondazione per il Museo Claudio Faina di Orvieto (che ha richiesto la concessione ministeriale), il Saint Anselm College di Manchester, nel New Hampshire (USA), che ne ha fatto un campo scuola, coordinato da David B. George, e il Parco Archeologico e Ambientale dell’Orvietano, il cui direttore, Claudio Bizzarri, è anche il direttore scientifico del progetto e che, nella sua qualità di professor in residence della University of Arizona Study Abroad Program in Italy, ha coinvolto anche quest’ultima nel progetto. a r c h e o 35


DIMENTICARE L’ARABIA FELIX?

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IL TERRITORIO DELLO YEMEN RACCHIUDE IL PIÚ ANTICO E STRATIFICATO PAESAGGIO CULTURALE DELLA PENISOLA ARABICA. UN PATRIMONIO MILLENARIO, DI VALORE INESTIMABILE, OGGI AL CENTRO DI UN CONFLITTO INTERNAZIONALE CHE MINACCIA DI DISTRUGGERLO. ECCO UN PRIMO BILANCIO. E UN INVITO A NON DIMENTICARE... di Sabina Antonini de Maigret e Iris Gerlach

N

Sirwah, Yemen. I pilastri del propileo del Tempio di Almaqah.

on bastava che fosse il Paese piú povero della Penisola Arabica, con problemi millenari di conflitti interni. A ridurre lo Yemen allo stremo, con migliaia di civili uccisi e in fuga, è ora «Tempesta decisiva», l’operazione militare di una coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro obiettivi «militari» del gruppo sciita Houthi. In tutto il Paese, ma soprattutto nella capitale San’a, le infrastrutture hanno subíto gravi danni, scarseggia l’acqua potabile, l’elettricità e la benzina sono praticamente inesistenti. Un disastro umanitario. E la distruzione prosegue senza sosta, inutilmente e senza raggiungere gli obiettivi politici della campagna militare della coalizione. a r c h e o 37


REPORTAGE • YEMEN

Dallo scorso marzo, l’aviazione della coalizione insegue i ribelli Houthi, ovunque essi segnalino la loro presenza, e dunque da nord a sud, da Sa’da (loro regione di origine) ad Aden, e da ovest a est, da alHudayda, a San’a e il Jawf. Si è parlato poco del disastro umanitario di questa inutile operazione e dei danni provocati al patrimonio storico dello Yemen, obiettivo dei raid aerei. Ma la situazione cambia, in peggio, di giorno in giorno. Le immagini da satellite pubblicate da UNDP (United Nations Development Programme) e UNOSAT (Operational Satellite Applications Programme dello United Nations Institute for Training and Research, UNITAR), mostrano i danni e le distruzioni patiti da città, case, mercati, ospedali, aeroporti e infrastrutture pubbliche, ponti e strade. Al momento in cui scriviamo, sono 36 i monumenti o i siti gravemente danneggiati o distrutti dall’inizio del conflitto. Citiamo qui i piú noti.

LE VITTIME ECCELLENTI Dichiarata dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità, San’a è stata colpita dall’aviazione saudita il 12 giugno. Si tratta di una città antica, nota sia per i suoi palazzi – la cui architettura risale al periodo preislamico –, sia per essere uno dei centri di diffusione dell’Islam in Arabia Meridionale. Ne è testimonianza la Moschea Grande (al-Jami’ al-Kabir, 705-715 d.C.), che si trova nel cuore della città vecchia. Accanto alla moschea c’è il Dar al-Makhtutat che, con l’Archivio Nazionale di San’a, raccoglie i piú antichi manoscritti yemeniti, alcuni dei quali risalgono agli albori dell’Islam. Nella città vecchia, circondata dalle antiche mura in mattoni crudi, sorgono anche il suq al-Meleh e i famosi palazzi, le case-torri, costruiti Sa’da. La moschea di al-Hadi (IX-X sec.) prima che fosse danneggiata dai bombardamenti. 38 a r c h e o

I PROTAGONISTI DEL CONFLITTO L’operazione militare «Tempesta decisiva», iniziata il 26 marzo 2015 da una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, è stata scatenata con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei ribelli sciiti Houthi in Yemen. Qui di seguito, riportiamo un breve profilo delle forze coinvolte in quella che si è ormai trasformata in una vera e propria guerra. Ali Abd Allah Saleh È salito al potere nel 1978, inizialmente come presidente dello Yemen del Nord, uno Stato indipendente fino alla riunificazione con lo Yemen del Sud nel 1990. Nel 2012, in seguito alle proteste popolari ispirate alle primavere arabe, lascia l’incarico, ma continua ad avere il sostegno di gran parte dell’apparato di sicurezza. Abd Rabbo Mansur Hadi Ex vice di Saleh, come nuovo presidente appoggia la lotta contro il terrorismo jihadista nello Yemen e di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa), ed è sostenuto a livello internazionale dagli Stati Uniti e dalla maggioranza dei Paesi del Golfo. Con l’avvicinarsi degli Houthi ad Aden, Hadi è fuggito in Arabia Saudita. Houthi Detti «Ansar Allah» (Partigiani di Dio), sono seguaci dello zaidismo, una variante locale dell’Islam sciita. Nascono nei primi anni Novanta, nella regione di Sa’da, nel Nord-Ovest del Paese. Dopo la rivoluzione del 2011, e in particolare a partire dal 2013, gli Houthi si sono scontrati a varie riprese con altre milizie, con potenti gruppi tribali e con i combattenti di al-Qaeda. Nella loro avanzata hanno stretto un’alleanza di circostanza con il loro vecchio nemico, l’ex presidente Ali Abd Allah Saleh.


Al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqpa). Considerato il ramo piú pericoloso di al-Qaeda, il gruppo combatte sia contro gli Houthi sia contro il Presidente Hadi. Si è formato nel gennaio del 2009 dalla fusione dei rami yemenita e saudita di al-Qaeda.

San’a. Il Dar al-Sa’d, uno dei palazzi degli ultimi imam dello Yemen, che, con l’ex ospedale turco, ospita il Museo Archeologico.

Stato islamico Ha annunciato il suo arrivo nello Yemen recentemente. Finora le uniche operazioni del gruppo sono stati gli attentati suicidi contro due moschee sciite a San’a, che hanno provocato 137 morti. Alcuni gruppi jihadisti locali accusano l’Aqpa di non essere stata in grado di fare gli interessi dei sunniti yemeniti e si sono avvicinati allo Stato islamico.

in mattoni e pietra, alti anche cinque piani, magnifici esempi architettonici di antichissima tradizione. Alcuni di questi palazzi sono stati distrutti, tra cui tre case contigue che si affacciano sul famoso orto/ giardino (bustan) di al-Qasimi. Danni sono stati causati anche al Qasr al-Silah, l’antico Ghumdan, dove sorgeva il rinomato Palazzo reale o Castello fortificato di epoca pre-islamica (San’a, significa «fortificata», nome attribuito alla città forse proprio per la presenza di quella costruzione). La fortezza si estende a est della Moschea Grande e a nord-est di Bab al-Yemen, la principale porta d’accesso alla città vecchia. Le fonti arabe attribuisco-

Arabia Saudita L’Arabia Saudita ha sempre sostenuto il governo di San’a e ha tenuto una posizione ostile verso i ribelli Houthi. Riyadh ha sempre considerato lo Yemen l’anello piú debole per la sicurezza della regione del Golfo e un terreno fertile per le ingerenze di Teheran. Iran L’allontanamento dal potere dell’ex presidente Saleh ha riacceso gli interessi iraniani nei confronti dello Yemen. Nazioni Unite Il 14 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione che impone un embargo sulle armi degli Houthi e chiede ai ribelli di ritirarsi dai territori conquistati.

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Kuwait

Arabia Saudita Yathrib/al-Madîna

Bahrain Golfo

Gerrha

Qatar Persico

Penisola

Egitto

EAU

-K

Arabica

La Mecca

al

Mar Rosso

Oman

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Sudan

A

r-

ru

Sa’da

Eritrea

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San’a

Baraqish Ye m e n Sirwah

Okèlis Aden

Etiopia

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t

Dhamar

Mouza

Gibuti

Hadra

Zingibar

Mare Arabico

Golfo di Aden Somalia

toni di fango munito di una torre circolare; nella piazza al-Tahrir c’è l’altro palazzo dell’imam, il Dar alShukr, anch’esso trasformato in museo, che ospita le collezioni delle tradizioni popolari yemenite; dalla parte opposta della stessa piazza sorge il Museo Militare, nel Dar al-Dhiafa (una guest house del tempo dell’imam Yahya), che raccoglie anche una collezione archeologica, oltre alla documentazione della storia piú recente dello Yemen, tra la fine della monarchia (1962) e la prima Repubblica Araba Yemenita. Questi palazzi hanno subíto danni strutturali in conseguenza alle deflagrazioni in città, soprattutto il complesso museale che comprende i due palazzi degli ultimi imam dello Yemen. Le collezioni per ora sono salve. La città di Sa’da, vicino al confine saudita e uno dei centri della rivolta degli Houthi, è stata gravemente danneggiata (80% secondo le fonti

La lista dei danni inferti al patrimonio yemenita è lunga. E, purtroppo, si tratta di un bilancio solo provvisorio no la costruzione del palazzo al re In alto: cartina dello Yemen con la sabeo Ilisharah Yahdub, che ha re- localizzazione dei siti citati nel testo. gnato all’inizio III secolo d.C. Lo storico di San’a al-Hamdani (X secolo) riporta una dettagliata descrizione del palazzo, che potrebbe essere stato residenza e sede del governo di Abraha, il re cristiano etiope, che, verso la metà del VI secolo, spostò la capitale del regno di Himyar da Zafar a San’a, dove fece costruire una immensa chiesa. La città tutta è colpita, compreso il famoso quartiere turco e i musei che si trovano fuori dalle mura storiche. Il Museo archeologico dello Yemen è ospitato in uno dei palazzi degli imam, il Dar al-Sa’d, e nell’ex ospedale turco; l’intero complesso architettonico è circondato da un bellissimo muro di mat40 a r c h e o

In basso: San’a. La devastazione dei palazzi intorno al giardino al-Qasimi.


ufficiali yemenite), e ingenti danni sono stati causati all’antica moschea zaydita di al-Hadi, che, secondo la tradizione fu commissionata da alHadi stesso, il primo imam zaydita (un ramo moderato dalla Shia), intorno al IX-X secolo. Ma la lista, purtroppo, è ancora lunga, a cominciare dai simboli dello Yemen. Evidentemente non è servito a nulla il fatto che l’UNESCO – grazie alla collaborazione tempestiva e compatta di tutte le Missioni Archeologiche che hanno operato nel Paese – abbia fornito alla coalizione una lista specifica con le coordinate dei siti e monumenti da risparmiare. Si ha notizia ufficiale di danni (30%) provocati a Baraqish, la città-simbolo del regno carovaniero di Ma’in. Nota con il nome di Athrula, la città è menzionata dalle fonti classiche per essere stata assediata e conquistata dalle truppe romane guidate da Elio Gallo nel 25 a.C. La Missione

Archeologica Italiana vi ha condotto scavi estensivi, mettendo in luce due templi dedicati alla dea ‘Athtar dhuQabd e al dio-confessore/guaritore Nakrah. Quest’ultimo fu restaurato dalla stessa missione una decina di anni fa (vedi «Archeo» nn. 67 e 304, settembre 1999 e giugno 2010; anche on line su archeo.it). Purtroppo non ci è giunta la documentazione fotografica di tali danni.

TESORI PERDUTI Il Museo Regionale di Dhamar, cittadina a sud della capitale San’a, era stato inaugurato nel 2002 e raccoglieva una collezione di 12 000 manufatti di vario genere, materiali archeologici di epoca pre-islamica e manufatti del periodo islamico, comprese iscrizioni arabe, gioielli e artigianato della regione. L’opera piú preziosa era il minbar (pulpito) in legno della Moschea Grande della città, datato intorno al 1000. Questo museo è stato raso al suolo

il 21 maggio scorso dall’aviazione saudita della coalizione. I funzionari della General Organization for Antiquities and Museums (GOAM) sono riusciti a recuperare soltanto 1500 oggetti. Allo studio delle iscrizioni pre-islamiche aveva partecipato l’Università di Pisa (http://arabiantica.humnet.unipi.it). Non è stato risparmiato neanche il piccolo Museo archeologico di Zingibar, nel Governatorato di Abyan, 50 km circa a est di Aden. Da quando è iniziata «Tempesta decisiva», il 31 maggio è stata colpita e danneggiata la Chiusa Nord della famosa diga di Marib, menzionata anche nel Corano. L’aviazione ha colpito anche la città vecchia di Marib – le cui rovine sorgono sul tell considerato l’acropoli dell’antica capitale sabea – e il sito di Sirwah, importante quanto Marib per il culto del dio patrono sabeo Almaqah. Sabina Antonini de Maigret

Foto satellitare dell’Oasi di Marib, con l’indicazione dell’area occupata dalla città antica, della Grande Diga e dell’abitato protosabeo. Antico sistema di irrigazione

Insediamento protosabeo

Città di Marib Wadi as-Sa’ila (Jufaina) Wadi Jufaina

Grande Diga Edificio A Wadi Dhana Lago artificiale moderno

Edificio B

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REPORTAGE • YEMEN

UN PATRIMONIO IN PERICOLO di Iris Gerlach Lo Yemen, l’antica Arabia Meridionale, la terra della regina di Saba e, oggi, non piú Arabia Felix, è uno tra i piú antichi e ricchi paesaggi culturali della Penisola arabica. Il suo inestimabile patrimonio risale a migliaia di anni fa. Dalla fine del marzo 2015 il Paese è bersaglio di attacchi aerei di una coalizione guidata dall’Arabia Saudita: in altre parole, oltre alla guerra civile, lo Yemen è in stato di guerra internazionale! Raid aerei e pesanti combattimenti di terra, attacchi terroristici, atti di vandalismo, scavi clandestini e il saccheggio dei musei, oltre alla mancanza di controlli da parte del governo, hanno causato la devastante distruzione del patrimonio culturale in diverse province dello Yemen. Questa situazione riguarda anche la provincia di Marib, situata 150 km a est della capitale San’a.Tra l’altopiano dello Yemen e il tratto occidentale interno del deserto del 42 a r c h e o

Rub’ al-Khali («Quarto Vuoto»), alla fine del II millennio a.C. fiorí il regno di Saba, la cui potenza echeggia nell’Antico Testamento (1 Re 10: 1-13; 2 Cronache 9: 1-12) e nel Corano (XXVII, 15-44, da sura della Formica). La leggenda vuole che la regina di Saba si fosse recata a Gerusalemme (X secolo a.C.) in visita al saggio re Salomone, portandogli in dono oro e incenso dal suo Paese (vedi «Archeo» n. 334, dicembre 2012; anche on line su archeo.it). Grazie a sistemi di irrigazione altamente sviluppati, a Marib i Sabei resero il deserto rigoglioso e fertile, per mantenere la piú grande oasi dell’epoca: un paesaggio creato artificialmente nel mondo antico e che durò per piú di mille anni.

RESINE E BALSAMI Centro di un importante crocevia di rotte commerciali dell’Arabia interna, il regno di Saba organizzava e controllava il lucroso commercio a lunga distanza di resine e balsami, principalmente l’incenso e la mirra. L’esportazione di questi prodotti, richiesti soprattutto nel mondo me-

diterraneo e in Mesopotamia, garantí ingenti guadagni ai regni sudarabici, tra cui quello di Saba, che fu per secoli il piú influente e il piú potente. Grazie a tali profitti, i Sabei realizzarono e svilupparono complessi programmi urbanistici, santuari, palazzi, e sistemi idraulici per la regimentazione delle abbondanti acque stagionali. Dal 1978 l’Istituto Archeologico Germanico (Deutsches Archäologisches Institut, DAI), con la sua filiale a San’a, ha condotto ricerche nel territorio che fu del regno di Saba e nello specifico nella provincia di Marib. Le ricerche si sono concentrate sull’origine delle civiltà delle oasi ai margini del deserto, sulle strategie di insediamento, sulla gestione delle acque e sui contatti culturali attraverso gli scambi commerciali internazionali. Oltre a questi ambiti, l’Istituto ha portato avanti ricerche sull’architettura sacra, sui costumi funerari e sui rituali di culto dei Sabei. Anche l’antica città di Marib, capitale del regno di Saba, è interessata dalle ricerche archeologiche del


conservare l’acqua, ma piuttosto di rallentarne il flusso precipitoso e distruttivo, canalizzandola e controllando l’irrigazione dei campi. A tale scopo, i Sabei avevano eretto una barriera di terra con paramento in pietra, lunga 680 m, larga circa 100 m e alta circa 20, tra le due chiuse, settentrionale e meridionale. Costruite in blocchi di pietra locale (calcare), le due strutture poggiano direttamente sulla roccia madre, proprio per evitare che le fondazioni fossero trascinate via dall’acqua.

DAI. Il grande centro urbano (94 ettari) è circondato dalla cinta muraria che racchiude magnifici complessi cultuali, palazzi, quartieri residenziali, estesi giardini e aree di sosta per le carovane di cammelli.

UN CAPOLAVORO D’INGEGNERIA I giardini e i campi coltivati erano irrigati con un sistema ampiamente ramificato di canali, che erano alimentati dalla famosa Grande Diga di Marib. Questa costruzione era un autentico capolavoro di ingegneria idraulica: l’irrigazione dei campi era possibile grazie alle abbondanti piogge monsoniche che cadevano in due stagioni annuali sulle alte montagne dell’altopiano centrale yemenita. Le precipitazioni naturalmente convogliate negli wadi (fiumi stagionali) raggiungevano le aride zone desertiche del Paese. Il wadi Dhana, a Marib, drena una superficie di circa 10 000 kmq negli altipiani dello Yemen, che corrisponde a una media annua di 200 milioni di metri cubi di acqua. Queste immense masse d’acqua che

scorrevano incontrollate dalle montagne verso il deserto venivano bloccate a Marib da una diga costruita tra due massicci rocciosi del Jabal Balaq al-Qibli. La funzione principale di questo sistema di irrigazione non era tanto quella di

RESTAURI FILOLOGICI Questo sistema di irrigazione nell’oasi di Marib terminò per la rottura della diga (verso la fine del VI secolo d.C.), un evento di risonanza tale da essere descritto anche nel Corano. Ciononostante, le due chiuse rimasero intatte per secoli. Nel corso degli studi sulla gestione delle risorse idriche, il DAI ha effettuato, nell’arco di alcuni anni, laboriosi restauri della Chiusa Nord. Gli originali materiali da costruzione sono stati documentati e restaurati con le tecniche piú moderne, e, nello stesso tempo, per le integra-

In alto: Marib. Veduta d’insieme del tell. I resti delle case in fango insistono sull’antica capitale del regno di Saba. A destra: Marib. La Chiusa Nord della Grande Diga, dopo la recente distruzione.

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REPORTAGE • YEMEN

zioni sono state impiegate tecniche artigianali, seguendo le piú antiche tradizioni locali. Purtroppo, nel corso dei recenti conflitti, la Diga di Marib è stata gravemente danneggiata da un raid aereo, e si trova tuttora sotto attacco. E cosí ancora un altro eccezionale monumento del patrimonio culturale yemenita è stato irreparabilmente distrutto. Per fortuna, i templi Bar’an e Awam (noti rispettivamente come Arsh Bilqis e Mahram Bilqis), i due santuari dedicati al dio patrono dei

Sabei Almaqah, che si trovano ri senza malta, è conservato per nell’oasi di Marib, sinora non hanno un’altezza di 10 m. subíto alcun danno. Si accedeva al complesso cultuale attraverso un doppio propileo di pilastri monumentali: all’interno IN ONORE DI ALMAQAH Non ha avuto la stessa fortuna l’al- erano conservati in situ – oltre ad tro celebre sito sabeo di Sirwah, che altari, un tesoro, strutture per pasti si trova 40 km a ovest di Marib. Il rituali e centinaia di ex voto – due DAI vi ha condotto scavi e ricerche celeberrime iscrizioni monumensin dal 1990. L’edificio piú impo- tali di carattere storico. I testi parnente è il santuario dedicato al dio lano delle imprese belliche di due Almaqah, con il suo straordinario re sabei (mukarrib) che vissero tra muro ovale, il cui alzato originale, l’VIII e il VII secolo a.C., pietre costruito con blocchi di calcare ac- miliari per la piú antica storia curatamente lavorati e posati in fila- dell’Arabia Meridionale.


Già all’epoca del dominio sabeo (VIII-VI secolo a.C.), Sirwah era un crocevia di vie commerciali che collegavano le genti dell’altopiano con Marib e con le popolazioni nelle oasi presenti ai confini con il deserto. L’insediamento e il tempio, adeguatamente fortificati, occupavano, dunque, una posizione strategica. Come allora, anche oggi Sirwah è considerato, dal punto di vista militare, un sito nevralgico, nel quale si combattono le piú feroci battaglie e dove ha colpito l’aviazione della coali-

zione. I segni di tali combattimenti si vedono sulla parete esterna del muro, eccezionalmente conservata per millenni, la torre che rischia di crollare, i rilievi distrutti e i pilastri del propileo fortemente compromessi. I pilastri monolitici, che sono alti piú di 6 m e pesano circa 5,5 tonnellate, furono restaurati dalla Missione del DAI: con l’aiuto di una gru, furono smontati uno a uno e adagiati sul terreno per il restauro, e, consolidati ciascuno con barre in acciaio, vennero rimontati e anco-

Sirwah. Il cantiere allestito per il restauro dei pilastri dell’ingresso del tempio di Almaqah.


REPORTAGE • YEMEN

Sirwah. Un’immagine delle iscrizioni storiche sabee nel tempio di Almaqah. I testi danno conto delle imprese belliche di due re sabei (mukarrib) vissuti tra l’VIII e il VII sec. a.C. e sono testimonianze fondamentali per la piú antica storia dell’Arabia Meridionale.

rati alla base con altrettanti perni di acciaio. Grazie a questi restauri, i pilastri hanno resistito al fuoco pesante durante i recenti conflitti, ma i danni sono comunque ingenti, i peggiori mai subiti nei loro 2700 anni di vita. Il conflitto non è finito, e dunque non è ancora possibile fare un bilancio definitivo sulla sorte del patrimonio archeologico di Sirwah. Le operazioni militari hanno inoltre colpito la sede della Missione del DAI a Marib: il piano superiore dell’edificio è stato distrutto da un attacco aereo, e la ceramoteca devastata, senza per fortuna arrecare alcun danno alle persone. 46 a r c h e o

PER NON DIMENTICARE Non esistono giustificazioni o spiegazioni per quest’attacco a obiettivi civili e a testimonianze storiche e archeologiche di valore inestimabile: distruggere il patrimonio culturale di un popolo significa distruggerne la storia e le origini, ossia la memoria di un Paese. Nel caso dello Yemen, vuol dire cancellare le origini della civiltà della Penisola Arabica tutta. Lo Yemen è sempre stato «un paese di costruttori», come lo definirono Paolo Costa e Ennio Vicario (in Yemen, Land of Builders, Academy Editions, Londra 1977). Fondatore di grandi regni e maestosi edifici nel lontano passato dell’Arabia Felix (Alessandro de Maigret, Arabia Felix. An Exploration of the Archaeological History of Yemen, Stacey International, Londra 2009) e nel piú recente Medioevo (Manfredi Nicoletti, Architettura e paesaggio nello Yemen del Nord, Editori Laterza Roma-Bari 1985), lo Yemen saprà come ricostruire il suo inestimabile patrimonio, nonostante il

disprezzo per la cultura pre-islamica e islamica mostrato da chi lo distrugge. Il 15 e 16 luglio, a Parigi, nella sede dell’UNESCO, si è svolta una conferenza internazionale, alla quale hanno partecipato specialisti a tutto campo dello Yemen (tra cui le autrici di questo articolo) e rappresentanti delle istituzioni yemenite e di organizzazioni internazionali per la protezione del patrimonio culturale. Allo stato dell’arte in conseguenza del conflitto ancora in corso, lo scopo è stato quello di definire una strategia per la salvaguardia d’emergenza del patrimonio culturale dello Yemen. E noi continuiamo a celebrare il leggendario passato del Paese, inaugurando la mostra «Searching of the Queen of Sheba», il 26 settembre 2015, al Museo Fernbank, in Atlanta (Georgia, USA). Organizzata dal Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» (Roma) e da Contemporanea Progetti (Firenze), l’esposizione rimarrà aperta fino al 3 gennaio 2016. S.A.d.M., I.G.



MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA

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POMPEI PER SEMPRE LA RISCOPERTA DELLA PIÚ CELEBRE CITTÀ VESUVIANA HA INIZIO NEL 1748. DA QUEL MOMENTO IN POI, IL SUO FASCINO SI DIFFONDE BEN OLTRE L’ITALIA: UNA POPOLARITÀ E UNA FORTUNA STRAORDINARIE, CHE S’INTERROMPONO BRUSCAMENTE SOTTO LE BOMBE DEL 1943. A QUEI DUE SECOLI (E ALLA SECONDA RINASCITA DEL SITO) È ORA DEDICATA UNA GRANDE MOSTRA, ALLESTITA FRA NAPOLI E LA STESSA POMPEI di Luigi Gallo

S

in dalla loro fortuita scoperta, Ercolano nel 1738 e Pompei nel 1748, le città sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., hanno attratto artisti, eruditi e connoisseurs, rivoluzionando non solo la scienza antiquaria, ma anche la cultura e la vita dei moderni. La vicenda romanzesca della scoperta del teatro di Ercolano, il mistero che circondò a lungo sia i lavori di scavo che i reperti archeologici esposti nella reggia di Portici (consultabili solo da una limitata cerchia di eletti) stimolarono la sensibilità e l’immaginazione settecenteschi. Scipione Maffei, raffinato intellettuale veneto (1675-1755), fondatore del museo epigrafico che Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il Salone della Meridiana, con, in primo piano, la statua in bronzo di un fauno danzante che dà nome alla casa pompeiana in cui fu rinvenuto. Fine del II sec. a.C. (?).

porta il suo nome a Verona, preconizzava nel 1747 il folgorante richiamo che il sito archeologico era destinato a esercitare in Europa: «O qual grande ventura de’ nostri giorni è mai, che si discopra non uno e altro antico monumento, ma una Città».

RITORNO ALL’ANTICO Sigillate dalla lava e dai lapilli, le antiche metropoli e la loro ricca messe di reperti e di affreschi, dagli inediti accordi cromatici, accesi e perfettamente conservati, restituivano con immediatezza il mondo che le aveva create, consentendo ai posteri di conoscere tanto i singoli e insigni monumenti, quanto i piú modesti edifici privati e una serie abbondante e variegata di oggetti appartenuti a un luogo passato repentinamente dalla vita alla morte. Dissepolte e divulgate dalle raffinate incisioni realizzate per i volumi delle Antichità di Ercolano esposte, editi fra il 1757 e il 1792, le antichità a r c h e o 49


MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA L’ultimo giorno di Pompei, olio su tela, di Karl Brjullov (1799-1852). 1830-33. San Pietroburgo, Museo Statale Russo. Il quadro, realizzato dopo una visita del pittore a Pompei nel 1828, ebbe grande successo e fu anche fonte d’ispirazione per il famoso romanzo Gli ultimi giorni di Pompei di Edward Bulwer-Lytton (1834).

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vesuviane divennero le principali fonti d’ispirazione per un ritorno all’antico che influenzò le arti figurative, l’ornato e i modelli architettonici europei. Le principali reggie europee si riempirono cosí di decori rappresentanti delicate danzatrici, ispirate a quelle scoperte nella cosiddetta Villa di Cicerone tra il 1748 e il 1749 e considerate da Winckelmann «fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie», che entrarono a far parte non solo del vocabolario ornamentale, ma anche della moda e liberarono il corpo femminile dal pesante giogo del corsetto.

VISIONI ROMANTICHE Nel mese di gennaio del 1804, recandosi da Roma a Pompei, François-René de Chateaubriand (1768-1848) riprendeva l’idea di Scipione Maffei, trasfigurandola in una grandiosa e lungimirante visione romantica. A Pompei, notava Chateaubriand, i reperti antichi andavano lasciati nei luoghi in cui venivano riportati alla luce; andavano rifatti i tetti, i soffitti, i pavimenti e le finestre delle case, perché le pitture degli interni fossero salvaguardate. Protetta da muri di cinta ricostruiti e da porte nuovamente agibili e chiuse, la città andava affidata a una sorveglianza militare e restituita al controllo di una cerchia eletta, ma limitata, di studiosi e di artisti. La vicenda di Pompei segue l’evoluzione del pensiero e della cultura in epoca romantica. Romanzi, opere liriche e teatrali, dipinti raccontano la fatidica eruzione del 79 d.C. in chiave catastrofica e fatalistica, associando all’episodio la nuova visione, schiettamente ottocentesca, di un cristianesimo (segue a p. 54) a r c h e o 51


MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA

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Scavi a Pompei. Olio su tela di Edouard Alexandre de Sain. 1865. Parigi. Musée d’Orsay. Il dipinto risale all’epoca in cui operava Giuseppe Fiorelli, grazie al quale, come scrisse nel 1864 il letterato e saggista svizzero Marc Monnier, «i lavori vigorosamente ripresi hanno impiegato fino a settecento lavoranti per volta che hanno dissotterrato, in tre anni, piú tesori di quanti se ne erano trovati nei trenta anni precedenti».

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MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA

In alto: Pompei. Panoramica della piramide realizzata nell’Anfiteatro (su progetto di Francesco Venezia), che alloggia al suo interno la sala espositiva per la sezione «Rapiti alla morte. I calchi» (vedi alle pp. 58-61). In basso: un’immagine degli scavi condotti a Pompei intorno al 1900, utilizzata per una cartolina postale. Tra la fine del XIX e gli inizi del XX sec., la direzione dei lavori fu affidata a Michele Ruggero (1875-1893), Giulio de Petra (1893-1901 e 1906-1910), Ettore Pais (1901-1905) e Antonio Sogliano(1905-1910).

In alto: Pompei. Panoramica della piramide realizzata all’interno dell’Anfiteatro (progetto Francesco Venezia), che alloggia al suo interno la sala espositiva per la sezione «Rapiti alla morte. I calchi».

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fervido e giovane, che trionfa su un’antichità pagana, raffinata ma decadente. Lo testimonia il dipinto del russo Karl Brjullov, L’ultimo giorno di Pompei, del 1830, ispirato all’opera omonima di Giovanni Pacini, presentata al San Carlo e alla Scala nel 1825 (vedi alle pp. 50/51). Ultimato a Napoli e presentato a Roma dove riscosse uno straordinario successo, il quadro intraprese con il suo autore una trionfale tournée con tappe a Milano, dove venne messo in mostra all’Accademia di Brera nel 1833, e a Parigi, dove fu esposto al Salon del 1834. L’opera venne infine inviata in Russia. Grande fortuna conobbe anche il romanzo The Last Days of Pompeii, dello scrittore inglese Edward George Earle BulwerLytton, un vero e proprio best seller internazionale, con innumerevoli ristampe in piú lingue. L’accesso agli scavi, reso piú semplice nel corso del secolo, permise a


letterati, pittori e architetti di confrontarsi con la città antica. Le rovine di Pompei diedero modo di immaginare con accuratezza la vita quotidiana nelle domus e nei luoghi pubblici della città campana, i cui spazi furono riprodotti in dipinti, decori, esercitazioni accademiche, progetti architettonici, quando non in vere e proprie period rooms e residenze principesche. La policromia originale dei monumenti pompeiani stimolò inoltre la nascita di un dibattito sul decoro architettonico che contraddistinse la metà dell’Ottocento.

L’AVVENTO DI FIORELLI A partire dal 1860, nell’Italia unificata, il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II e il suo ministro Cavour vollero dare un indirizzo piú razionale agli scavi di Pompei. Ne fu nominato direttore Giuseppe Fiorelli, l’inventore – tra le molte innovazioni apportate alla concezione e alla gestione dei lavori – di un metodo originale per ottenere calchi riproducenti l’atteggiamento dei corpi dei Pompeiani sorpresi dalla morte (vedi alle pp. 56-59). Di grande importanza per lo sviluppo di un moderno approccio con il sito, diverso dagli sterri borbonici che avevano causato la perdita di innumerevoli dati sulla città, fu l’istituzione della «Scuola di Pompei», fondata nel 1866 per volere dello stesso Fiorelli. L’istituzione aveva il fine di formare una generazione di archeologi che, alla preparazione filologica, unissero una solida esperienza «sul campo», strumento indispensabile per comprendere e salvaguardare i reperti antichi. Nella seconda metà dell’Ottocento, seguendo l’impulso dato dai direttori che si susseguirono dopo Fiorelli, gli scavi di Pompei conobbero un’evoluzione sempre piú scientifica, fino al giorno d’oggi.

Une trouvaille à Pompei, statua in bronzo di Hippolyte Moulin ispirata al Fauno dell’omonima Casa (vedi a p. 48). 1863. Parigi, Musée d’Orsay.

Alla fine dell’Ottocento lo scavo sistematico delle domus permette cosí di scoprire l’eccezionale stato di conservazione delle dimore del Centenario (1879), dei Vettii (18941895) del Principe di Napoli (18961897) le cui pareti dipinte impressionano il sempre crescente numero di visitatori. Nel 1910 Vittorio Spinazzola avvia lo scavo del tronco orientale della via dell’Abbondanza, oltre l’incrocio con la via Stabiana. L’impresa è epica, perché porta al collegamento fisico dei grandi monumenti cittadini, il Foro, i Teatri e l’Anfiteatro, permettendo di traversare senza interruzioni le aree piú significative dello spazio urbano. Le facciate monumentali, coperte da decine di iscrizioni elettorali, restituiscono con immediatezza la vitalità della città antica. La moltiplicazione delle campagne fotografiche costituisce il vero cambiamento in questi anni: le lastre e poi la pellicola registrano e diffondono nel mondo l’immagine della città, lo stato di avanzamento dei lavori e la ricchezza delle opere d’arte, dei gioielli, dei decori che continuano a emergere dagli scavi.

BANDO ALLE NOSTALGIE Nel 1924 Amedeo Maiuri, in carica fino al 1961, succede a Spinazzola; a lui si deve l’estensione degli scavi che ancora oggi si visitano. Il fine è restituire la città nella sua interezza, coprire le case e, quando possibile, ricostruire le facciate: la meditazione nostalgica sulle rovine lascia il posto alla restituzione filologica. Una simile tendenza è leggibile nei film ispirati al romanzo di BulwerLytton, che, dal 1900, si susseguono a cadenza serrata, come anche nei disegni per i concorsi accademici, che prevedono un restauro ideale dei monumenti pompeiani, intriso di riferimenti contemporanei. a r c h e o 55


MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA

Gli artisti continuano a visitare la città antica, traendo ispirazione dalla straordinaria impressione di vita che emana, influente anche per la letteratura di stampo psicanalitico e per il movimento surrealista. Si pensi al giovane Paul Klee, che visita le rovine nella primavera del 1902, a Pablo Picasso, negli scavi in compagnia di Jean Cocteau nel 1917, a Mario Sironi, Achille Funi, Giorgio De Chirico e Arturo Martini, che, fra il 1920 e il 1940, si avvicendano nel sito, capace di accendere l’entusiasmo per un’anti56 a r c h e o

chità nella quale l’eterno ha il interessi dinastici e i sistemi sapore del mito. arcaici che ne minacciavano l’integrità la conservazione; la UNA CESURA DOLOROSA seconda, legata all’immaginaLa rinascita di Pompei viene zione, che ricrea, in armonia brutalmente inter rotta dal con il proprio tempo, un’altra bombardamento del 24 agosto Pompei, dotata di una realtà 1943. Nei due secoli che lo pre- poetica avvincente nella sua cedono e che sono stati presi in mutevolezza. esame dalla mostra in corso tra Nella lunga vicenda del sito, la Napoli e Pompei, la città vesu- fortuna di Pompei in letteratuviana è rinata grazie a due idee ra, nel teatro, nella musica e complementari: la prima, ra- nell’arte costituisce il versante zionale e metodica, conscia complementare ai lavori degli della necessità di far rivivere la antiquari e degli architetti sette città nella sua interezza, lottan- e ottocenteschi come degli ardo contro l’inerzia, gli abusi, gli cheologi moderni, direttori e


Una veduta d’insieme della sezione «Rapiti alla morte. I calchi», allestita nella piramide posizionata nell’Anfiteatro di Pompei.

autori di scavi. L’esposizione presentata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, evoca la storia della città vesuviana tra questi due versanti, che esercitarono l’uno sull’altro un influsso costante e vicendevole, dall’inizio degli scavi nel 1748 al bombardamento del 1943. Il confronto fra reperti antichi e opere moderne (dipinti, disegni, stampe, progetti architettonici, fotografie, sculture, arte decorativa, ecc.) documenta l’influenza della classicità sugli sviluppi dell’arte e dell’estetica moderna, fra emulazione e

reinterpretazione. Pompei è parte integrante della storia mondiale che della meditazione sull’antico ha fatto il baricentro del pensiero moderno. Negli anni post-bellici sono state intraprese grandi campagne di restauri e ancora oggi la salvaguardia dell’antica città campana occupa un posto centrale nella cultura europea, come testimonia la sua iscrizione nel 1997 nella lista dei beni protetti dall’UNESCO. Restituire la storia del sito e il suo irraggiamento culturale è il fine di questa mostra.

DOVE E QUANDO «Pompei e l’Europa 1748-1943» fino al 02 novembre 2015 Napoli, Museo Archeologico Nazionale Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il martedí Scavi di Pompei, Anfiteatro Orario tutti i giorni, 9,00-19,30 Info tel. 081 4422149; www.mostrapompeieuropa.it; http://cir.campania.beniculturali.it/ museoarcheologiconazionale/; www.pompeiisites.org Catalogo Electa a r c h e o 57


MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA

L’ULTIMO SONNO di Annalisa Capurso

I

l cantiere di restauro e valorizzazione dei calchi di Pompei e Boscoreale è stato avviato nella scorsa primavera e comprende anche la attività di catalogazione, studio, esami diagnostici e riproduzione in 3D degli stessi (vedi «Archeo» n. 364, giugno 2015).

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L’identità delle persone racchiuse nei calchi viene ricostruita attraverso il riconoscimento nelle foto e nella documentazione d’archivio, tramite il consolidamento, gli esami antropologici e, non ultimo, grazie alla ricostruzione degli eventi che hanno portato non solo alla morte,

ma anche alla creazione del loro calco-immagine. La storia di Pompei, purtroppo, è segnata da piú episodi tragici: non solo l’eruzione del 79 d.C., ma anche il bombardamento del 1943 e il terremoto del 1980; avvenimenti che hanno contribuito alla dispersione di alcuni di questi preziosissimi «reperti» tanto che molti davano per scomparsi calchi che sono ancora sul sito. La loro creazione comincia il 3 febbraio del 1863 quando Giuseppe Fiorelli, geniale Soprintendente di Pompei, ferma alcuni operai che stanno scavando nella Regio VII, perché comprende che è stata intercettata una cavità nel banco di cenere al cui interno si trovano ossa umane. Era già accaduto, negli anni


Il calco di un uomo fermato dalla morte nella posizione di un dormiente, conservato sul posto, presso il lato ovest esterno di Porta Nocera.

precedenti, di trovare impronte di arredi nella cenere, dei quali era stato tratto il calco utilizzando il cosiddetto «gesso di Parigi». Ebbene Fiorelli intuí che forse si poteva ricavare anche l’impronta dei corpi e cosí diede inizio a questa pratica che, a Pompei, è stata utilizzata fino al 2002. Nel primo cinquantennio che segue la scoperta furono creati 20 calchi, con risultati variabili, ma generalmente di grande qualità. Importanti studiosi assistettero agli scavi e riferirono della grande emozione che avevano provato: per esempio, il letterato Luigi Settembrini (1813-1876), che seguí personalmente la creazione dei primi tre calchi e scrisse: «Lí non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa (...) è il dolore della morte che racquista

corpo e figura», o l’archeologo inglese Henry Layard (1817-1894), che raggiunse Pompei dopo aver scavato le città di Ninive e Nimrud in Mesopotamia. Lo stesso Fiorelli, entusiasta della sua invenzione, comprese di aver creato una nuova classe di monumenti, fatta non piú dai marmi o dai bronzi, ma dai corpi stessi degli antichi «rapiti alla morte, dopo 18 secoli di oblio».

QUATTRO NUBI ARDENTI I corpi di cui si riusciva a realizzare il calco si trovavano sempre all’interno dei pacchetti di cenere proveniente dai surges, le quattro nubi ardenti che all’alba del secondo giorno dell’eruzione, entrarono nella città e, nell’arco di un’ora e mezza circa – tra le 6,30 e le 8,00

del mattino – distrussero ogni cosa. Cosí le vittime che stavano disperatamente cercando di salvarsi, muovendosi su oltre 2,5 m di accumulo di pomici cadute precedentemente, vennero uccise dalle nubi e racchiuse dentro la cenere, che si compattò attorno ai loro corpi conservandone l’impronta della superficie. I calchi sono perciò una riproduzione della massa corporea con la struttura ossea originale all’interno. Non tutte le ossa sono conservate, poiché, a partire da Fiorelli, la metodologia in uso prevedeva che dalla cavità attraverso la quale si colava il gesso liquido fossero prima prelevate le ossa che potevano compromettere la riuscita dell’operazione.

LUNGO LE STRADE Tuttavia, la procedura era complessa e venne adottata poche volte: dei 650 corpi trovati negli strati di cenere, solo un centinaio vi fu sottoposto. Dei primi 20, ne sono stati finora localizzati 15, di cui 14 provenienti da Pompei e uno dalla villa della Pisanella di Boscoreale. Quelli rinvenuti dentro la città si concentrano soprattutto lungo le strade (11 vittime), probabilmente perché, in quel caso, lo scavo permetteva di ottenere il calco piú facilmente, non essendoci secondi piani e arredi crollati sopra. La tendenza, infatti, si inverte man mano che, nel tempo, migliorano le tecniche di indagine: al momento è stata ricostruita la posizione di altri 58 calchi da Pompei – oltre ai 14 citati – e, di questi, ben 42 vengono dall’interno di edifici, compresi gli ambienti aperti, come giardini e porticati. Occorre immaginare lo scenario che si presentava ai malcapitati all’alba del secondo giorno: l’eruzione era ormai in atto dalle 13,00 del giorno precedente; durante quelle ore, come scrive Plinio il Giovane, testimone diretto degli eventi, «la cenere cadeva sempre piú calda e piú densa, vi cadevano ormai anche pomici e pietre nere, il mare si era ritirato (…) le ville abbandonate a r c h e o 59


MOSTRE • POMPEI E L’EUROPA A sinistra: lo scavo dell’Orto dei Fuggiaschi nel 1961. Le 13 vittime erano posizionate in circa 3 gruppi ravvicinati. In basso: un’immagine dell’esposizione dei calchi nel Museo Pompeiano, prima del bombardamento del 1943.

bruciavano (...) i caseggiati traballavano sotto l’azione di frequenti ed enormi scosse». Lo strato di pomici accumulatosi fino all’inizio del secondo giorno impediva di passare dai piani terra e imprigionava al suo interno già quasi 400 vittime uccise in maggioranza dai crolli. A questo punto i Pompeiani rimasti si muovevano terrorizzati, perlopiú in gruppi: i piú numerosi (tra i calchi) sono quelli trovati all’Orto dei fuggiaschi e fuori Porta Nola, con 13 e 15 elementi ciascuno, ma altri gruppi piú piccoli avevano cercato riparo, per esempio, al piano superiore di una caupona 60 a r c h e o

della Regio I (9 elementi), o appena all’esterno delle porte urbane (porte Nola e Nocera) o nei sottoscala e nei giardini di alcune case.

FIDUCIA NEL RITORNO Il dato interessante è che, nonostante lo scenario infernale e tragico che si presentava, molti di loro pensavano di salvarsi. Accanto a diversi corpi, infatti, furono trovati i tesoretti di famiglia – gioielli, argenterie, monete – o addirittura chiavi, che testimoniano, inequivocabilmente, come la fuga non sia stata precipitosa e che c’era addirittura

chi pensava di ritornare. I surges uccisero nel giro di pochissimo tempo ogni essere vivente: i primi a cadere dovettero essere coloro che si trovavano nella Villa dei Misteri, gli ultimi, probabilmente, quelli presso le mura meridionali della città. Oggi si sta cercando di stabilire che cosa li abbia uccisi: l’asfissia dovuta alla cenere di cui l’aria era satura oppure lo shock termico fulminante per esposizione rapida ad altissima temperatura, o entrambe le cose? Oltre a risolvere tale quesito, le analisi diagnostiche in corso potranno fornire dati anche sul sesso, l’età, lo stato di salute e gli eventuali rapporti di parentela tra i gruppi. Le ricerche di laboratorio sono indirizzate anche alla ricostruzione dell’abbigliamento, di cui restano impronte su almeno 40 di queste vittime; di molti si distingue la trama del tessuto, che può essere confrontata con i resti di lino, lana e feltro conservati presso il Laboratorio di Ricerche applicate di Pompei. A questo proposito va aggiunto che circa la metà di questi 40 calchi ha le vesti visibilmente arrotolate in vita; data la posizione dei corpi è improbabile che fossero volontariamente sollevate per facilitare la fuga o per ripararsi la bocca, mentre è piú verosimile che si siano alzate nella caduta o a causa del vento che accompagnava i surges. Infine, le posture delle vittime sono varie: da chi è raggomitolato come se si stesse proteggendo a chi sta cercando di rialzarsi da terra a chi, paradossalmente, sembra dormire placidamente. Posizione, quest’ultima, testimoniata proprio a proposito della morte del grande naturalista, Plinio il Vecchio, che perí a Stabia lo stesso giorno di queste vittime; scrive infatti il nipote: «Quando riapparve la luce del sole (...) il suo cadavere fu trovato intatto, illeso e rivestito degli stessi abiti (...) la maniera con cui il suo corpo si presentava faceva piú pensare a uno che dormisse che non a un morto».


I CALCHI IN MOSTRA di Sara Matilde Masseroli

D

agli scavi di Pompei provengono i resti di 1047 vittime dell’eruzione del 79 d.C., alle quali vanno aggiunti almeno altri 100 corpi, a cui dovevano appartenere gli scheletri e le ossa citati, ma non quantificati, nelle relazioni di scavo. La posizione delle vittime negli strati di materiale vulcanico che ricopre la città ha permesso di accertare le differenti modalità della loro tragica fine. Durante la prima fase dell’eruzione gli abitanti che non si erano allontanati in tempo dalla città rimangono intrappolati negli ambienti invasi da pomici e lapilli o vengono investiti dai crolli provocati dal peso del materiale eruttivo depositatosi fino a un’altezza di oltre 2 m; di queste vittime si sono rinvenuti soltanto gli scheletri, appartenenti a 394 corpi. Successivamente, «nubi ardenti» di gas e ceneri investono la città a grande velocità (oltre 100 km orari) e altissima temperatura (fino a 300-400° C), riempiendo gli spazi non ancora invasi dai materiali vulcanici e provocando la morte istantanea per shock termico di chi in quegli spazi aveva trovato rifugio o si era dato alla fuga. I loro corpi, ben 653, coperti da oltre 1 m di cenere finissima, rimangono nella posizione in cui sono stati investiti dal flusso piroclastico e la cenere solidificata ne conserva l’impronta dopo la decomposizione. Ben 103 sono i calchi di queste impronte, realizzati a partire dall’eccezionale intuizione di Giuseppe Fiorelli nel 1863 e fino al 2002. I calchi suscitano grande commozione fin dalla loro prima comparsa e sono tra i reperti piú ammirati del primo «Museo Pompeiano», allestito stesso Fiorelli nel 1873-1874 presso Porta Marina. Inizialmente,

sono le vetrine della Sala II del nuovo museo a ospitare i calchi fino ad allora realizzati: la figura imponente di uomo, due donne e la «donna incinta», di cui si ottennero i calchi nel 1863 nella strada che da loro prese il nome di vicolo degli Scheletri; un’impronta maschile realizzata nel 1868 nella Casa di M. Gavio Rufo; e un altro calco di uomo supino prodotto nel 1871. Nella Sala III vengono poi esposti una figura maschile realizzata nel 1873; il celebre cane alla catena rinvenuto nel 1874 nella Casa di Orfeo; e gli splendidi calchi di una donna caduta con la testa appoggiata sul braccio piegato e di un uomo, ottenuti nel 1875 su via del Vesuvio. Si aggiungono quindi altri otto calchi: un bambino da vicolo delle Pareti Rosse (1882) e due piccoli gruppi di fuggitivi rinvenuti fuori Porta Stabia nel 1889 e nel 1890.

L’ORTO DEI FUGGIASCHI I numerosi calchi del secolo successivo vengono invece generalmente lasciati a vista in situ, in vetrine o protetti da tettoie: dai due uomini trovati fuori da Porta Nola nel 1908 e nel 1911 alle quattro vittime della Casa del Criptoportico scoperte da Vittorio Spinazzola nel 1914; dai tredici corpi da cui prende nome l’Orto dei Fuggiaschi ai tre della Casa di M. Fabio Rufo, rinvenuti tutti da Amedeo Maiuri nel 1961, alle quattro figure (un uomo, una donna e due bambini, forse una famiglia) rimesse in luce tra il 1974 e il 1978 nella Casa del Bracciale d’Oro. Non mancano, tuttavia, nuovi calchi esposti nel museo, come quello famoso dell’uomo accovacciato dalla Palestra Grande realizzato nel 1939, tanto che, nell’ultimo riallestimento di Amedeo Maiuri, le teche

che li contengono sono addirittura disposte le une sopra le altre. Purtroppo, come ci raccontano le «Librette» contenenti il catalogo del Museo e un elenco redatto nel 1949 (conservati negli archivi della Soprintendenza), molti calchi esposti vengono distrutti o gravemente danneggiati dai bombardamenti del 24 agosto e del 20 settembre 1943, anche se Maiuri e il personale degli scavi riescono a recuperarne e restaurarne una parte.Tuttavia, i calchi sopravvissuti agli eventi bellici non trovano posto nel nuovo Antiquarium, inaugurato nel 1948, e di alcuni si perde addirittura memoria. Oggi il lavoro di ricerca, conoscenza e restauro condotto nell’ambito del Grande Progetto Pompei prevede anche il rilievo con laser scanner di tutti i calchi conservati per realizzare, attraverso la stampa 3D, numerose copie, destinate al prestito per mostre temporanee, mentre a Pompei sarà curata una nuova esposizione di questi reperti preziosissimi, persone prima che testimonianze o, meglio, testimoni davvero unici della Pompei del 79 d.C. e della sua tragica fine. Si ringrazia Massimo Osanna, Soprintendente Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia, per aver sostenuto questo articolo. PER SAPERNE DI PIÚ Antonio d’Ambrosio, Pier Giovanni Guzzo, Marisa Mastroroberto (a cura di), Storie da un’eruzione. Pompei Ercolano Oplontis, Electa, Milano 2003 Ernesto De Carolis, Giovanni Patricelli, Annamaria Ciarallo, Rinvenimenti di corpi umani nell’area urbana di Pompei, RStP 9, 1998; pp.75-123 Laurentino García y García, Danni di guerra a Pompei. Una dolorosa vicenda quasi dimenticata, Studi SAP 15, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2006 Grete Stefani, I calchi, Milano 2010 a r c h e o 61


GLI IMPERDIBILI • MOSAICO DI ALESSANDRO

ECHI DI UN’ANTICA GLORIA È IL PIÚ FAMOSO MOSAICO DELL’ANTICHITÀ E, ALLO STESSO TEMPO, UNA TESTIMONIANZA STRAORDINARIA DELLA GRANDE PITTURA GRECA CLASSICA: IL SUO AUTORE ERA APELLE, IL MAESTRO PIÚ INSIGNE DEL SUO TEMPO E L’UNICO DAL QUALE ALESSANDRO MAGNO SI LASCIASSE RITRARRE di Daniele F. Maras

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I

l 24 ottobre del 1831 gli scavatori di Pompei esploravano una grande e ricca abitazione che era stata battezzata «Casa di Goethe», in ricordo di una visita di August von Goethe, figlio del grande poeta tedesco. La residenza aveva già restituito raffinati mosaici policromi e oggetti d’arte, ma nulla faceva presagire che di lí a poco un vero e proprio capolavoro sarebbe venuto alla luce, in grado di eclissare tutti i ritrovamenti precedenti. In un’esedra di rappresentanza della casa, infatti, si scoprí un pavi-

mento a mosaico in tessere minute che riproduceva un grandioso affresco di battaglia, poco danneggiato dall’eruzione e dai secoli, e che conservava intatti i colori originali.

UNA RESIDENZA DI LUSSO La casa venne subito ribattezzata in onore del «Gran Musaico», come fu chiamato il reperto, e corrisponde a quella che oggi è nota come Casa del Fauno: una imponente residenza signorile dell’età sannitica, rimodernata alla fine del II secolo a.C. e conservata con gusto

antiquario fino a quel pomeriggio del 79 d.C. in cui la città fu sepolta dal cataclisma che la consegnò all’odierno Patrimonio dell’Umanità. Il mosaico è un esempio raffinato di opus vermiculatum, la tecnica che consiste nel realizzare il contorno, le campiture delle figure e i riempimenti con pietruzze minute, disposte in file Il Mosaico di Alessandro, dalla Casa del Fauno a Pompei. Copia della fine del II a.C. da un originale dipinto da Apelle alla fine del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


GLI IMPERDIBILI • MOSAICO DI ALESSANDRO

curvilinee che ricordano l’andamento contorto di altrettanti vermi. L’effetto generale, con colpi di luce e accostamenti di colori, è tanto straordinario che, se osservato da opportuna distanza, dà l’illusione di una pittura a fresco. Ancor piú notevole è il fatto che, in realtà, la scena risulta realizzata in quadricromia, secondo una tecnica pittorica antica, con l’uso esclusivo di gradazioni di bianco, nero, giallo e rosso, senza impiego di verde e blu. Per quasi due secoli gli studiosi hanLe rappresentazioni di Alessandro Magno (in basso) e Dario III che figurano nel mosaico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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no analizzato, commentato e interpretato il mosaico, ricostruendone le parti mancanti o danneggiate e ponendosi quesiti sul modello originale e sulla scena rappresentata.

PURA MERAVIGLIA Primo fra tutti spicca il commento di Wolfgang Goethe, che poté prendere visione di un dettagliato disegno dell’opera, eseguito dall’architetto tedesco Wilhelm Zahn, e che commentò saggiamente: «Presente e futuro non potranno giungere a dare giusto commento di tale meraviglia dell’arte, e sempre dovremo ritornare, dopo aver studiato e spiegato, alla semplice, pura meraviglia». Il dibattito si è a lungo concentrato

sull’identità del pittore al quale attribuire l’originale imitato dal mosaico. In particolare, sono stati fatti i nomi di Elena di Alessandria, pittrice alla corte di Tolomeo Sotere in Egitto, e, piú insistentemente, di Filosseno di Eretria, attivo alla corte di Cassandro, salito al trono di Macedonia alla fine del IV secolo a.C. Di entrambi si sa che furono autori di famosi dipinti ispirati alle gesta di Alessandro Magno: in particolare, alla prima veniva attribuita una riproduzione della battaglia di Isso, mentre del secondo si ricordava uno scontro tra il condottiero macedone e il re persiano Dario III. L’identificazione dell’evento rappresentato è quindi cruciale per identificare l’autore del modello. Paolo Moreno (che delle sue ricerche in proposito ha dato conto anche in «Archeo»: vedi n. 191, gennaio 2001) ha approfondito un precedente suggerimento di Bernard Andreae, che escludeva l’attribuzione dell’originale a uno dei pittori ellenistici ricordati dalle fonti. La ricerca etnografica testimoniata dalle riproduzioni di vestiti e armi e lo scoperto intento storico della rappresentazione d’insieme – celebrativo piú per Alessandro in sé che non per i suoi fedeli compagni – sarebbero pertanto dovuti alla mano di un artista vicino agli eventi che riproduceva: forse un testimone oculare (se non della battaglia, almeno dei luoghi e dei protagonisti). L’unica possibilità è in questo caso Apelle, uno dei maggiori pittori dell’antichità greca, artista di corte di Alessandro assieme all’altrettanto famoso scultore Lisippo. Allo stile a un tempo classico e innovatore di Apelle si deve quindi la realizzazione del grandioso e dettagliato quadro storico, una vera e propria megalografia, in cui si è calcolato che siano coinvolte piú di cinquanta figure e venti cavalli, tra protagonisti e comparse. D’altro canto è assai probabile, come ha sostenuto Fausto Zevi, che le opere


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Mosaico di Alessandro (già «Gran Musaico») • Definizione Riproduzione musiva di un originale pittorico greco • Cronologia Fine del II secolo a.C. (da un originale del tardo IV secolo a.C.) • Luogo di ritrovamento Pompei, Casa del Fauno • Luogo di conservazione Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. 10020) • Identikit Capolavoro in quadricromia di pittura e mosaico


GLI IMPERDIBILI • MOSAICO DI ALESSANDRO Pompei. Turisti in visita alla Casa del Fauno, di fronte alla riproduzione del Mosaico di Alessandro.

di analogo soggetto degli altri pittori ellenistici siano state fortemente ispirate da questo primo capolavoro, riproducendolo e aggiornandolo in funzione del gusto e delle necessità di propaganda dei vari successori di Alessandro Magno.

GAUGAMELA, NON ISSO Ancora a Paolo Moreno si deve l’accurato studio condotto per identificare l’evento storico rappresentato, che non è la battaglia di Isso, come spesso si ripete: si tratta, invece, della battaglia di Gaugamela, l’ultimo e decisivo scontro con il quale, nel 331 a.C., Alessandro Magno, ormai penetrato nel cuore dell’impero persiano, affrontò e sconfisse le forze del Gran Re, superiori nel numero, ma non sufficientemente ben organizzate. Ne sono prova le lunghe lance di tipo macedone, le sarisse, brandite dai soldati persiani: un’innovazione voluta da Dario III proprio a Gaugamela, nel disperato tentativo di sconfiggere la falange macedone con le sue stesse armi. Emblematico è anche l’albero secco che spicca sullo sfondo della scena, quale unica notazione ambientale; in esso, infatti, si può riconoscere il platano solitario che marcava il luogo dell’antica battaglia, come annotò piú di mille anni dopo un testimone di eccezione: Marco Polo. Nella piana di Gaugamela (località nella pianura di Erbil, in Assiria, corrispondente all’odierno Tell Gomel, n.d.r.), Alessandro Magno, forte di poco piú di 47 000 uomini, si scontrò contro circa 235 000 effettivi dell’esercito persiano, dotati di armi pesanti e carri da guerra, in una battaglia epica, destinata a decidere le sorti dell’intera spedizione. L’inferiorità numerica fu compensata dalla maggiore efficienza e manovrabilità delle forze greche, che 66 a r c h e o

consentirono al condottiero macedone di aprire una breccia nelle difese nemiche e affondare direttamente verso la postazione di comando del Gran Re, presidiata dalla sua guardia scelta.

LA SORTITA VINCENTE L’audace e spericolata mossa di Alessandro, accompagnato dai piú fedeli compagni d’arme (i cosiddetti hetairoi), ottenne l’effetto sperato di sorprendere e spaventare il nemico, gettando nella confusione le schiere persiane. Gli avversari piú coraggiosi diedero la vita per impedire al Macedone di raggiungere Dario e, all’ultimo istante, il conducente del carro del sovrano si volse in fuga per evitare lo scontro fatale. Il mosaico pompeiano riproduce esattamente l’istante in cui il pesante carro reale ha ormai completato l’inversione e si appresta a travolgere i soldati stessi di Dario III, nel tentativo estremo di sfuggire alla carica di Alessandro. Protagonisti assoluti del momento drammatico sono proprio i due condottieri, le cui fattezze spiccano come isolate in mezzo alla moltitudine di corpi e armi che pervade ogni dove in una quantità di dettagli accurati, resi però confusi dall’insieme caotico della battaglia. Alessandro irrompe da destra, af-

fiancato da uno scudiero a piedi (di cui non resta che parte del volto) e seguito da un drappello di valorosi, purtroppo in larga parte perduti nelle lacune della metà sinistra del mosaico. Priva dell’elmo, la testa del figlio di Filippo II testimonia della ricercatezza del ritratto, giovane e distaccato, con un accenno di barba e i capelli ondeggianti al vento. I dettagli della corazza sono riportati minuziosamente, dalle cinghie degli spallacci alla testa di Gorgone al centro del petto. La sua lancia, abbassata nella carica, passa da parte a parte un eroico avversario, che gli si è gettato di fronte, con sprezzo della vita, per salvare il proprio re. E proprio verso il suo nobile salvatore Dario protende la mano, assistendo impotente al sacrificio; né tenta di contrattaccare col proprio arco, perché la sua faretra è ormai vuota.

AUTORITRATTO D’ARTISTA Accanto al carro un altro difensore volge freneticamente il proprio cavallo, per seguire e proteggere il re nella fuga, mentre il grande carro è ormai quasi completamente volto indietro e investe i guerrieri caduti. Se ne contano tre, uno dei quali merita maggiore attenzione: esattamente al di sotto di Dario, infatti, un nobile persiano caduto, con la veste ricamata, osserva se stesso nel-


la superficie lucida di uno scudo, al quale appoggia la mano destra negli ultimi istanti prima di essere travolto. Lo sguardo fermo e malinconico non corrisponde a quanto ci aspetteremmo da un uomo che contempla la propria fine, come invece è ben rappresentato dall’arciere investito dai cavalli poco piú a destra. Si direbbe piuttosto che rispecchi, in qualche modo, il gorgoneion che abbiamo osservato al centro della corazza di Alessandro (e anche nel mito la Medusa vide la propria morte riflessa in uno scudo). In proposito, ancora Paolo Moreno ha ricordato la notizia che Apelle dipinse se stesso in un proprio quadro e ha proposto, convincentemente, che il riflesso dell’ignoto persiano non sia altri che il viso del pittore, riprodotto assieme alla propria mano, con un suggestivo espediente scenico, che al tempo stesso Particolare del viso del soldato persiano morente che si riflette nello scudo, interpretato come un autoritratto del pittore Apelle.

assolveva l’artista da possibili accuse di vanità: il suo volto, infatti, veniva attribuito a un nemico morente, in un riflesso distorto al modo della Gorgone del mito.

SPOSTAMENTI E COPIE Il gran Mosaico di Alessandro fa oggi bella mostra di sé sulla parete di una salla del Museo Archeologico Nazionale di Napoli dedicata alla Casa del Fauno: una posizione che forse snatura la sua funzione di pavimento, ma che per noi ripristina l’originale collocazione verticale del modello, certamente dipinto su una tavola. Una riproduzione della scena, con integrazioni delle parti perdute, è stata recentemente esposta a fianco dell’originale, per permettere a tutti di apprezzare la complessità dell’opera. Nell’esedra della casa pompeiana è stata invece installata una replica dettagliata del mosaico, con colori piú tenui, che restituisce ai visitatori l’effetto di sorpresa che ebbero gli scopritori nell’ambiente originario. Tuttavia, è stato osservato che, in

realtà, il pavimento musivo non era stato costruito per l’esedra in cui venne ritrovato, ma vi era stato trasportato nell’antichità, adattandone le dimensioni, da un’altra e diversa collocazione. Ne fanno fede i numerosi punti in cui la scena è stata danneggiata e ricostruita con le stesse tessere originali, ma senza rispettarne il disegno: ciò è avvenuto, per esempio, presso il guerriero caduto che si specchia nello scudo e nel settore centrale del mosaico (presumibilmente tagliato in due parti per facilitarne il trasporto). Cosí si spiegano errori vistosi come due lance che non continuano al di là della testa di un guerriero, il cui volto è a sua volta deformato fino a essere irriconoscibile, oppure la presenza di una gamba priva di proprietario e perfino di uno zoccolo equino che si direbbe mozzato, a terra di fronte al guerriero trafitto da Alessandro. Fortunatamente, però, tali riparazioni, a volte maldestre o frettolose, non impediscono di cogliere la grandiosità della visione di insieme, che immortala l’ultima eroica battaglia con cui Alessandro sconfiggeva il piú grande dei barbari d’Oriente e inaugurava una nuova era. PER SAPERNE DI PIÙ Paolo Moreno, Apelle. La battaglia di Alessandro, Skira, Milano 2000 Fausto Zevi, Il mosaico di Alessandro, Alessandro e i Romani: qualche appunto, in Ultra terminum vagari. Scritti in onore di Carl Nylander, Quasar, Roma 1996; pp. 387-397. Fausto Zevi, Pompei, Casa del Fauno, in Studi sull’Italia dei Sanniti, Electa, Milano 2000; pp. 118-137.

NELLA PROSSIMA PUNTATA • La Venere Landolina a r c h e o 67


NELLA

TERRA DELLE

AQUILE

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TEATRI E TEMPLI, NECROPOLI RUPESTRI E BASILICHE BIZANTINE, INTERE CITTÀ ANTICHE ASSISE SULLE MONTAGNE O ADAGIATE SULLE COSTE DELL’ADRIATICO. IN QUESTO SPECIALE, L’AMBASCIATORE DI ALBANIA IN ITALIA (ARCHEOLOGO EGLI STESSO, NONCHÉ FIGLIO DEL FONDATORE DELL’ARCHEOLOGIA ALBANESE) CI INTRODUCE, CON UN MIRABOLANTE «VOLO D’AQUILA», ALLA STORIA, AI PAESAGGI CULTURALI E AI MONUMENTI DI UN PAESE A NOI MOLTO VICINO, EPPURE ANCORA SCONOSCIUTO di Neritan Ceka, con un’intervista all’autore a cura di Andreas M. Steiner

Byllis (Albania meridionale). Veduta panoramica del sito, con i resti del teatro greco di età ellenistica. III sec. a.C. a r c h e o 69


SPECIALE • ALBANIA

L’

Albania è un luogo di incontri. In prima istanza, e soprattutto, incontro di paesaggi tra i piú vari, che si schiudono intorno a una bassa pianura costiera, delimitata da spiagge sabbiose interrotte dalle foci dei fiumi e dalle loro lagune. A nord-est, subito dopo il lago di Scutari, si elevano le Alpi Albanesi, una copia in miniatura di quelle italiane. A sud, le spiagge di rena lasciano

Sulle due pagine: Byllis. L’iscrizione nel nome di Augusto, sulla porta meridionale della città. Sullo sfondo, la valle della Voiussa.

improvvisamente posto a una costa rocciosa simile ai tirrenici litorali scoscesi di Sorrento o Amalfi. Un arco montuoso, che raggiunge i 2800 m di altezza, attraversato da valli fluviali che segnano le strade verso oriente, racchiude l’enorme teatro nel quale, per migliaia di anni, è andata in scena la storia del Paese delle aquile.

UN PASSATO ANCORA VIVO E, in effetti, l’Albania è anche il luogo d’incontro di grandi civiltà ed eventi. Qui, duemilacinquecento anni fa, la cultura degli Illiri, antenati degli Albanesi, si incontrava con quella greca e poi con quelle di Roma e Bisanzio. Questi luoghi hanno visto passare gli eserciti di Alessandro Magno, Pirro, Cesare, Pompeo, Marco Antonio, Teodorico il Grande, Roberto il Guiscardo, seguiti da numerosi imperatori bizantini e sultani ottomani.


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Corinto

Cartina dell’antica Illiria con indicazione delle diverse città di fondazione illirica, greca e romana.

DAI COLONI CORINZI A SCANDERBEG X secolo a.C. Insediamento degli Illiri venuti dall’Europa centrale. VIII-V Greci di Corfú e di Corinto colonizzano secolo a.C. la costa. Vengono fondate Epidamnos, Dyrrachion, Apollonia e Bouthroton. 250 a.C. Il re illirico Agrone si pone a capo di uno Stato indipendente. 229-167 a.C. Conquista romana ottenuta in seguito alla disfatta del re illirico Genzio. Gli Albanesi sottomessi alla legge romana, per cinque secoli, stanno per diventare gli Arberesi. 397 d.C. I territori albanesi vengono annessi all’impero di Bisanzio. V-XI Periodo di invasioni. Goti, Avari, Celti, secolo Slavi, Bulgari, Normanni irrompono nel Paese, ma l’autorità di Bisanzio finisce per ristabilire l’ordine. 1096 Le armate della prima crociata attraversano il Paese. 1204 Saccheggio di Costantinopoli per mano dei crociati. 1344 Il Paese viene annesso al regno di Serbia. I capi locali entrano in disaccordo. 1431 I Turchi si impossessano di Janina. 1442 Giorgio Castriota, detto Scanderbeg, eroe nazionale, si prepara ad attaccare l’armata ottomana, con l’appoggio di Alfonso di Napoli e ben presto dei Veneziani. 1468 Stroncato dalla febbre, Scanderbeg muore a Leza.


SPECIALE • ALBANIA A destra: Teuta, regina dei pirati illirici, tavola realizzata per l’Histoire générale de la Marine, opera pubblicata a Parigi nel 1845. Moglie del re Agrone, gli succedette sul trono nel 230. Dedita all’attività piratesca, nel 230 Teuta mise a sacco la città di Phoinike, in Epiro, uccidendo alcuni mercanti italici e causando in tal modo la prima guerra illirica (229-228), che si concluse con la sua sconfitta. In basso: rilievo che ritrae una donna in abiti tipici dell’Illiria, da Apollonia. II sec. d.C.

A chi visita l’Albania rimane la sensazione che qui il passato sia ancora vivo, non soltanto per la presenza dei monumenti antichi – inframmezzati a quelli moderni nelle città di Durazzo, Lezha o Scutari –, ma anche per le impressioni restituite dalla vita quotidiana. Lo stesso nome degli Albanesi deriva direttamente dall’antichità, quando gli Albanoi erano una popolazione che abitava l’attuale Albania centrale. Il loro centro, la città di Albanopolis, è stato identificato con i resti presso Zgërdhesh, non lontano da Kruja. Molte delle attuali città conservano i toponimi antichi: Scutari (Shkodra) da Scodra, Lezha da Lissus, Durazzo (Durrësi) da Dyrrachion,Valona (Vlora) da Aulona, solo per fare alcuni degli esempi piú noti. Gli studiosi concordano sul legame tra gli Albanesi moderni e le genti che avevano abitato queste regioni nell’antichità. In merito alla loro provenienza, l’ipotesi prevalente è che si tratti di un’etnia direttamente derivata dagli Illiri, popolazione di lingua indoeuropea stanziata nel settore nord-occidentale della penisola balcanica, ma della quale sono attestati anche nuclei insediatisi in Grecia e nella Messapia, lungo le coste sud-orientali dell’Italia adriatica.

UNA POPOLAZIONE BELLICOSA Nelle Storie di Erodoto, gli Illiri sono attestati per la prima volta come abitanti il territorio che si estende dalla riva orientale dell’Adriatico fino alle valli degli affluenti del Danubio. Tucidide, nella seconda metà del V secolo a.C., attribuisce loro un ruolo fondamentale negli avvenimenti che innescarono la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), che prese avvio, nel 435 a.C., dallo scontro tra il partito degli aristocratici e quello dei democratici nella colonia greca di Dyrrachion. Gli abitanti locali, chiamati Taulanti, di etnia illirica come riferisce Tucidide (Guerra del Peloponneso I, 24, 5), presero le parti degli aristocratici, alleati di Corcira (l’odierna Corfú) e Atene, mentre i democratici, una volta scacciati, chiesero l’aiuto dei Corinzi e degli Spartani. Come conseguenza, questo mondo «barbaro», non greco, venne coinvolto nel piú grande conflitto dell’età antica, in alleanze che testimoniano interessi politici di ampio respiro. Nel 429 a.C. le popolazioni meridionali si unirono al fronte spartano, (segue a p. 76) 72 a r c h e o


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SPECIALE • ALBANIA

UN AMBASCIATORE DELL’ARCHEOLOGIA Incontro con Neritan Ceka Neritan Ceka, classe 1941, è ambasciatore d’Albania in Italia. Ma non solo: l’autore dello speciale di questo numero di «Archeo» è, come ribadisce egli stesso, soprattutto, uno studioso, che alla sua terra ha dedicato lunghi anni di ricerche e pubblicazioni. A Roma ci ha accolti nel suo ufficio dove, all’ombra di un grande dipinto che Sono un professore di archeologia e tale rimarrò per sempre. Si tratta, del resto, di una condizione «di famiglia»: mio padre, Hasan Ceka, è stato il fondatore dell’archeologia albanese. Aveva studiato a Vienna prima della seconda guerra mondiale, e lí si era specializzato in archeologia. E, poi, anche mia figlia ha studiato archeologia in Francia. Cosí abbiamo tre generazioni di archeologi.

◆ Professor Ceka, qual è

l’aspetto dell’archeologia albanese su cui si è maggiormente concentrata la sua attività di ricerca e di insegnamento? Mi sono occupato soprattutto di quello che noi chiamiamo la «classicità illirica», ovvero l’impatto che la cultura classica greca ha avuto sulla popolazione indigena dell’antica Albania, quella degli Illiri. A partire dal V secolo a.C., a distanza di due secoli dalle fondazione delle colonie greche, sulla costa orientale dell’Adriatico si erano creati importanti insediamenti indigeni di tipologia classica, come per esempio Byllis, vicino ad Apollonia, o Scodra e Lissus, nel nord del Paese, vicino a Dyrrhachion, l’odierna Durazzo. A sud, invece, in quella terra che

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ritrae l’eroe nazionale albanese Giorgio Castriota Scanderbeg, per parlarci delle antichità del suo Paese, di una curiosa scoperta avvenuta di recente nel centro di Roma e della ragione per cui, piuttosto che «Signor Ambasciatore», preferisce essere chiamato, semplicemente, «professore»… nell’antichità era chiamata Epiro, abbiamo gli insediamenti di Antigoneia e di Fenice (Phoinike). Oggi, questi antichi centri sono siti archeologici ben conservati e visitabili dal pubblico.

◆ Nell’articolo accenna a una

particolare atmosfera che, ancora oggi, il visitatore incontra nel Suo Paese, dove il passato sembra essere ancora vivo… Sí, questo particolare «respiro dell’antichità» esiste, e si è miracolosamente conservato, grazie alla cura che ai monumenti è stata riservata nei decenni precedenti l’urbanizzazione intensiva della moderna Albania: negli anni Venti del secolo scorso arrivarono in Albania le prime missioni archeologiche straniere, a Butrinto gli Italiani con Luigi Maria Ugolini, ad Apollonia i Francesi guidati da Leòn Rey. La loro venuta ebbe l’effetto di sensibilizzare l’opinione pubblica albanese, cosicché venne istituito un apposito Servizio Archeologico, allo scopo di sorvegliare e affiancare l’operato delle missioni straniere. Dopo la guerra, poi, il comunismo fu particolarmente interessato a creare una nuova immagine dell’antichità del popolo albanese e, a questo fine, potenziò il Servizio con la creazione di musei, centri di studio e parchi archeologici. Grazie a questa continuità di attenzioni si sono potuti

conservare i monumenti di Durazzo, di Elbasan nel Centro del Paese (sorta sulle fondamenta dell’antica Scampinus, fondata sulla via Egnatia nel I secolo a.C., n.d.r.), e, nel Sud, di Apollonia e di Butrinto, siti rimasti praticamente intatti fino a oggi.

◆ E oggi, quali rischi corre il

patrimonio archeologico albanese? La situazione in Albania è simile, ormai, a quella di molti Paesi in via di sviluppo. Un problema grave è rappresentato dal dilagante abusivismo edilizio: un esempio drammatico è quello di Durazzo, dove siamo stati in grado, però, di arginarlo, vincolando con una legge tutto il centro storico, oggi interdetto a ogni tipo di intervento di costruzioni, tranne quelli necessari alle infrastrutture. Un altro pericolo «nuovo» è rappresentato dagli scavi clandestini e dal traffico illegale di reperti, anche quelli frutto di ritrovamenti fortuiti: prima esisteva la consuetudine di donare questi ritrovamenti ai musei, oggi sono diventati «merce», e prendono altre vie. Affrontiamo questa nuova minaccia con un apposito servizio di controllo del territorio, un po’ come accade in tutti i Paesi del Mediterraneo.

◆ Ci sono, oggi, missioni straniere che scavano in Albania?


Durante il periodo comunista, gli archeologi stranieri erano considerati spie potenziali e, dunque, era loro vietato l’accesso al Paese. Dal 1991, però, i Francesi sono tornati ad Apollonia, gli Inglesi a Butrinto, i Tedeschi a Lissus. E poi ci sono, naturalmente, gli Italiani: ad Adrianopoli lavora una missione congiunta dell’Istituto Archeologico di Tirana e dell’Università di Macerata, a Phoinike quella con l’Università di Bologna (che, dallo scorso agosto, scava anche a Butrinto, n.d.r.). Oggi sono una decina le missioni miste, straniere e albanesi, che scavano in Albania.

◆ Quali mete consiglia a un

viaggiatore che visiti per la prima volta l’Albania? Nel nord del Paese vanno viste Lissus e Scodra, le due capitali del

regno illirico nel III e II secolo a.C., calati in un paesaggio alpino e che il viaggiatore non si aspetta. Poi, procedendo verso sud, Dyrrhachion, Durazzo, e Apollonia, colonia fondata dai Greci di Corfú nel VII secolo, ambedue località ricche di monumenti e di musei. Consiglierei di seguire le tracce di Cesare, ma all’inverso, in direzione di Valona e Oricum, e attraversare il passo di Logara, che fu valicato da Cesare nel 48 a.C., durante la sua campagna contro Pompeo. Poi si può scendere a sud, verso Butrinto, vera perla dell’archeologia albanese. E, da lí, procedere nell’entroterra, verso Antigoneia, la città fondata da Pirro (in onore di una delle sue mogli, Antigone, n.d.r.), e visitare anche due siti UNESCO dell’Albania, Girocastro, e poi Berat, un centro antico ma anche una bellissima città medievale.

L’archeologo albanese Hasan Ceka (1900-1998) sugli scavi di Apollonia.

E poi, se si ha piú tempo a disposizione, vale la pena visitare anche le famose tombe reali di Selca, nella parte orientale del Paese. Scavate nella roccia durante il IV-III secolo a.C., sono un monumento unico. Voglio sottolineare che tutti questi siti fanno parte di una rete di parchi archeologici, ben funzionanti e accessibili al pubblico.

◆ Dall’Albania torniamo in Italia, e

precisamente a Roma, dove Lei, professor Ceka, ha fatto una piccola scoperta… Devo precisare che la «scoperta» di cui ora parlerò non è stata fatta da me, ma da un mio collega francese che scava ad Apollonia. In una mail, mi ha segnalato che nei giardini antistanti Palazzo Caffarelli, sul Campidoglio, c’è un monumento moderno che ingloba un reperto antico, un piccolo rilievo, molto ben conservato, databile al III secolo a.C. e raffigurante un militare nell’atto di compiere una cerimonia religiosa davanti a un altare. L’iscrizione sulla stele rivela che il monumento era stato consacrato da un pritane, un sindaco di Apollonia, e da un tossarco, un comandante delle guardie di frontiera. Il rilievo possiede un particolare significato storico, perché segnala dove fossero le frontiere di Apollonia verso la vicina comunità illirica degli Amantini. Ora, il reperto fu pubblicato nel 1827 da Luigi Maria Ugolini. Sappiamo che il rilievo era collocato davanti alla direzione della miniera di bitume di Selenizza, all’epoca una concessione italiana. Ma, dopo la seconda guerra mondiale, il monumento era scomparso. Attualmente sono in corso contatti con il Ministero degli Esteri italiano per far tornare questo piccolo, ma per noi importante, monumento in Albania. (a cura di Andreas M. Steiner)

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ZGëRDHESH Situata pochi chilometri a sud di Kruja, l’antica città di Zgërdhesh conserva parti delle mura di fortificazione (nella foto, un tratto del circuito, e i resti di una delle torri che completavano il sistema di difesa) e, nel XIX sec., attirò l’attenzione dell’ambasciatore e filologo austriaco Johann Georg von Hahn (1811-1869), che propose di identificarla con la città di Albanopolis, uno dei centri degli Illiri. Scavi archeologici hanno provato che l’inizio della frequentazione del sito si colloca nel VI-V sec. a.C., quando la sommità della collina, che domina il territorio circostante, viene scelta per l’edificazione di una rocca.

contribuendo con 5000 uomini nell’azione dello stratega Cnemo contro Acarnani e Corinzi, alleati degli Ateniesi. Come spiega Tucidide, questi gruppi meridionali si distinguevano per la diversa organizzazione politica: i Caoni e i Tesproti, senza re, erano infatti amministrati da due magistrati eletti annualmente; i Molossi erano governati da un monarca, mentre gli Atintanni da un suo rappresentante. Da questo momento in poi, il mondo «barbaro» settentrionale collaborò politicamente, nel Meridione, con la Grecia, attraverso due grandi formazioni indipendenti: il regno illirico, che si estendeva nell’entroterra di Epidamnos e Apollonia, e il regno molosso – successivamente epirota –, collocato nel continente davanti a Corcira. In questo periodo, Atene e Corinto vissero una fase di declino, causata dalle distruzioni della guerra del Peloponneso, mentre lo spirito greco, con la sua intraprendenza e la sua cultura, era ormai migrato nella Magna Grecia e in Sicilia.

TRA GRECI E MACEDONI Dionisio I di Siracusa fu il primo a intuire il ruolo che Illiri e Molossi potevano giocare nel suo progetto di dominio dell’Adriatico. Nel 386 a.C., oltre ad Ancona e Adria, fondò anche Issa (oggi Lissa), in una delle isole della costa illirica. L’anno successivo, alleatosi con

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LISSUS (LEZHA) Fondata da Dionisio I di Siracusa, la città si trovava all’incira a metà strada fra Dyrrachion e Scodra, su un rilievo di poco meno di 200 m di quota, che controllava il corso del fiume Drino. La foto mostra i resti della torre di guardia posta al vertice sud-orientale dell’abitato.

gli Illiri, intervenne in Molossia per insediare sul trono Alceta, un erede della dinastia eacide (famiglia dei principi dei Molossi e poi dei re di Epiro che si vantavano di discendere dal leggendario Eaco, padre di Peleo, nonno di Achille, che consideravano fondatore della dinastia, n.d.r.), rifugiato da anni presso la sua corte. Diodoro Siculo (Biblioteca storica XV, 3) ricorda come Dionisio avrebbe portato 2000

In basso: Saranda. Una panoramica del lago di Butrinto (a sinistra) e dello stretto di Corfú, dal castello medievale di Likursi.

guerrieri a combattere fianco a fianco con l’esercito illirico, fornendo anche 500 panoplie ai soldati illirici. Alceta si insediò sul trono portando idee nuove, che si concretizzarono nella fondazione di città e in una piú rapida diffusione della cultura greca nel regno molosso. Un altro beneficiario di questa collaborazione fu il re degli Illiri Bardylis, una figura leggendaria, che se-

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condo Luciano (Macr. 10), avrebbe combattuto a cavallo fino all’eta di 90 anni. Il regno illirico aveva ormai spostato il suo interesse militare verso oriente, dove, dagli inizi del IV secolo a.C., aveva sottomesso la Macedonia. Nel 369 a.C. i Macedoni tentarono di ribellarsi al tributo annuale che pagavano a Bardylis, ma vennero sconfitti e tra le condizioni della pace era inclusa anche la clausola di lasciare Filippo II come ostaggio presso la corte illirica. Quest’ultimo, una volta salito sul trono macedone, nel 356 a.C. si vendicò, vincendo una battaglia decisiva a est dei laghi Lincesti (gli odierni laghi Ocrida e Prespa) e conquistando una parte dei territori orientali del regno illirico. La Macedonia divenne all’improvviso un pericolo per i propri vicini. Diodoro (XVI, 22, 3) scrive che, nel 356 a.C., tre re, quello degli Illiri, quello dei Peoni e quello dei Traci, si allearono per combattere Filippo II di Macedonia. Promotrice principale di questa alleanza fu Atene, come testimonia un decreto rinvenuto in quella città recante i nomi dei tre sovrani: Cetriporus, re dei Traci, Lykpeius, re dei Peoni, e Grabos, re degli Illiri. Fu un’alleanza sfortunata. Nel 344 Filippo II sconfisse nuovamente gli Illiri, ma, se si eccettua la costruzione di alcune fortificazioni nei territori conquistati, non ebbe il tempo di occuparsi del loro regno. Con la Molossia, invece, risolse la questione sposando Olimpiade, nipote di Alceta e futura madre di Alessandro Magno. Quest’ultimo, dopo la sua ascesa al trono, nel 336 a.C., seguí la stessa politica del padre. Nel 335 a.C. sedò una ribellione nei territori illirici occupati capeggiata da Kleitos, nipote di Bardylis, ma non attaccò il centro del regno illirico, nei territori dei Taulanti, vicino a Epidamnos, dove si era insediata una nuova dinastia sotto la guida di Glaucia. All’ombra del regno macedone, i Molossi credettero di poterne condividere la gloria. Nel 334 a.C., mentre Alessandro Magno si preparava a passare l’Ellesponto alla conquista dell’Asia, suo zio, Alessandro il Molosso, attraversava lo Ionio, alla conquista dell’Italia. Ebbe però poca fortuna: dopo alcune vittorie su Lucani e Sanniti e un trattato favorevole con i Romani, venne ucciso in battaglia nel 332 a.C. Questo momento segnò anche la fine della supremazia dei Molossi sul regno dominato dalla dinastia eacide, che successivamente fu 78 a r c h e o

noto come Symmachia degli Epiroti, un’alleanza militare delle tre grandi regioni della terraferma (apeiros in greco) davanti a Corcira: la Molossia, la Tesprozia e la Caonia. Si trattava del primo passo verso un sistema statale piú evoluto, in quanto, come scrive Aristotele nella Politica (V, 11) «I monarchi in queste occasioni diventano un po’ meno dispotici», mentre per Plutarco (Pyrr, 5, 5) «I re e il popolo, dopo i sacrifici nel tempio del Dio della Guerra a Passaron, giuravano ora l’uno all’altro che avrebbero rispettato insieme le leggi».

IL NIPOTE DI OLIMPIADE Pur avendo combattuto per un secolo in fazioni contrapposte della politica mediterranea, il regno illirico e quello epirota avevano mantenuto buoni rapporti, e il re illirico

AMANTIA L’abitato sorse sulla sommità di un altopiano roccioso naturalmente difeso dai suoi fianchi scoscesi. Si estendeva su una superficie di circa 13 ettari e le indagini archeologiche hanno dimostrato che la prima fase di frequentazione è di tipo pre-urbano. Ne sono prova, in particolare, alcuni manufatti in bronzo di epoca arcaica, databili nel VI sec. a.C. La trasformazione in una città vera e propria si colloca nel secolo successivo ed è caratterizzata dalla costruzione di una cinta muraria che si sviluppa per oltre 2 km. Lungo questo circuito si aprivano tre porte urbiche, una delle quali è quella qui illustrata.

Sulle due pagine: Amantia. Una delle porta della città antica. Prima metà del IV sec. a.C.


Glaucia, che dominava su Epidamnos, aveva sposato una principessa eacide. Inoltre, nel 317 a.C., la sua corte accolse il fuggiasco Pirro, dopo che un complotto ordito dai Macedoni aveva rovesciato suo padre dal trono. Sempre grazie all’appoggio di Glaucia, Pirro riuscí a insediarsi sul trono epirota nel 306 a.C. La storia riservò a questo nipote di Olimpiade alcune pagine di gloria nel primo quarto del III secolo a.C., quando conquistò la Macedonia e la Grecia con la stessa facilità con cui, successivamente, le perdette. Come il suo predecessore Alessandro il Molosso, guidò una campagna italica tra gli anni 280-275 a.C., fatta di famose vittorie e altrettanto celebri sconfitte contro i Romani, come quelle di Eraclea, Ausculum e Benevento. Questo grande condottiero, che veniva para-

gonato ad Alessandro Magno, morí ingloriosamente nel 272 a.C., colpito da una tegola gettata da una donna nelle strade della città di Argo in Peloponneso.

DAGLI EACIDI ALLA REPUBBLICA Dopo Pirro, la Symmachia degli Epiroti conobbe un periodo inquieto, segnato dalle guerre per la difesa dei territori e dai conflitti sociali. Nel 232 a.C. la dinastia eacide venne rovesciata e fu sostituita da un sistema di tipo repubblicano, noto come Koinon degli Epiroti. La capitale venne spostata da Ambracia, dove era stata stabilita da Pirro, a Phoinike, in Caonia, considerato il centro dell’Epiro piú ricco e meglio fortificato. In verità, si trovava molto vicino al regno illirico, che in questo periodo era divenuto una potenza militare.

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antigoneia

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Alla metà del III sec. a.C., dopo averne acquisito il controllo, Pirro fondò nella valle del Drino una nuova importante città, che chiamò Antigoneia (dal nome di una delle sue mogli). Da allora, il sito fu ripetutamente coinvolto in guerre e rivolte ed è possibile che, nel 167 a.C.,


sia stata una delle 70 città dell’Epiro distrutte dal console romano Lucio Emilio Paolo. L’inizio della sua riscoperta si deve a Dhimosten Buda, che vi condusse i primi scavi nel 1966. In queste pagine sono illustrati la principale arteria cittadina e resti di case del III sec. a.C.

Nel 231 a.C. una flotta di 100 navi del re Agrone aveva sbarcato 5000 soldati lungo le coste dell’Acarnania e aveva facilmente sconfitto l’esercito etolico, considerato uno dei piú potenti della Grecia, che aveva cinto d’assedio la città di Medion. Secondo il racconto di Polibio, Agrone festeggiò la vittoria con banchetti e vino eccessivi, che lo portarono prima alla malattia e quindi alla morte. Il trono fu quindi occupato dalla vedova, Teuta, in ossequio a una secolare tradizione illirica ed epirota. Per rafforzare le sue posizioni in Meridione, la regina inviò l’esercito e la flotta alla conquista di Phoinike. La flotta degli Achei, inviata in aiuto del capoluogo, venne distrutta da quella illirica nei pressi di Corcira. Epiroti e Acarnani furono quindi costretti a stringere un’alleanza con il regno illirico. Nel 229 a.C. la regina inviò nuovamente la sua flotta verso sud, alla conquista di Corcira, che costituiva un punto chiave nel controllo dell’Adriatico e dello Ionio e in seguito le sue navi bloccarono le colonie greche di Apollonia, Epidamnos e Issa.

UNA NUOVA POTENZA NAVALE L’iniziativa costituí un chiaro segnale d’allarme per Roma, che aveva acquisito il controllo dell’intera Penisola italica e che, dopo la prima guerra punica, si trovava ora sotto la minaccia cartaginese. Al Senato romano non erano certo passati inosservati gli avvenimenti che stavano scandendo la nascita di una nuova potenza navale nell’Adriatico, a partire dalla conquista di Medion per mano di Agrone fino a quella di Phoinike da parte di Teuta. Ma la conquista di Corcira fu una sfida che Roma volle affrontare, aprendo un secondo fronte di guerra che si protrasse per mezzo secolo e fu uno dei piú importanti nella strada verso la creazione dell’impero romano. Polibio (Storia II, 2, 3-4) ne aveva una chiara consapevolezza quando scriveva: «Quelli che vogliono capire chiaramente come crebbe e come fu costruita la dominazione romana, devono analizzare queste vicende non superficialmente, ma con particolare attenzione. Essi [i Romani] decisero di intraprendere questa campagna per questi motivi: Agrone, il re degli Illiri e figlio di Pleurate, disponevano di una potenza navale e terrestre molto piú grande di quella dei re illirici precedenti». L’azione di Roma fu fulminea e potente. Senza lasciare tempo a Teuta di rafforzare i propri successi, due consoli romani con 200 a r c h e o 81


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navi e 20 000 soldati invasero Corcira, Epidamnos, Apollonia e Issa. Teuta si ritirò dalle sue basi nel golfo Rizonico (oggi Bocche di Cattaro) e firmò la pace, rinunciando ai territori meridionali. Nei decenni successivi la presenza romana sulla sponda illirica dell’Adriatico fu un intreccio fra una politica finalizzata a mantenere in un rapporto di vassallaggio ciò che restava del regno illirico con capitale a Scodra (Scutari) e un’azione volta a incoraggiare le autonomie locali delle organizzazioni regionali, le koina, costituite da un numero limitato di città con i rispettivi territori, riconoscendo loro un’ampia autonomia amministrativa e monetaria, derivata dai re illirici e macedoni.

ALLA CONQUISTA DELLA COSTA Nel 215 a.C. Filippo V di Macedonia si alleò con Annibale contro Roma e intraprese una vasta campagna militare alla conquista della costa illirica, cosí da poterla utilizzare come base di partenza verso l’Italia. Ma la vittoria di Tito Quinzio Flaminino del 198 a.C. presso le gole dell’Aoos, vicino all’attuale Tepelena, assicurò ai Romani il controllo definitivo della costa. Nel 168 a.C. Roma distrusse definitivamente il regno illirico con capoluogo a Scodra, e trascinò il suo ultimo re, Genzio, in trionfo nell’Urbe, davanti al carro del pretore Lucio Anicio Gallo, vincitore della guerra. Un anno piú tardi, nel 167

nia ed Epidamnos/Dyrrachion erano i porti principali che l’esercito romano utilizzava nella sua via verso l’Oriente, passando per la via Egnatia, costruita dal proconsole della Macedonia Gneo Egnazio attorno all’anno 146 a.C. Queste città erano anche mete di pellegrinaggi culturali: Cicerone, per esempio, visitò Epidamnos, che giudicò troppo rumorosa per via della presenza del porto e dei commerci, e Apollonia, che trovò invece incantevole e grandiosa. In seguito, sempre ad Apollonia era giunto anche il futuro Augusto, accompagnato da Agrippa, per studiarvi l’oratoria greca. Correva l’anno 44 a.C., quando Cesare fu assassinato a Roma e quando gli Apolloniati aiutarono Ottaviano a rientrare nell’Urbe, un favore piú tardi ricompensato dalla concessione alla città dello statuto di civitas libera. Un altro evento importante di cui queste regioni furono teatro comincia con lo sbarco di Cesare a Palaeste, l’odierna Palasa, nel 48 a.C., che segna l’inizio della sua guerra contro Pompeo, il quale aveva collocato il suo quartier generale a Epidamnos. Lo stesso Cesare, nei Commentarii de Bello Civili, ha lasciato una descrizione della sua avventura in Illiria. Dopo alcune facili vittorie a Orico e Apollonia, subí una pesante sconfitta nei pressi di Epidamnos. Qualche anno piú tardi, nel 42 a.C., Bruto stabilí i propri quartieri generali a Epidamons e Apollonia. Le colonie greche della costa, le piú indagate

Secondo Cicerone, Epidamnos era troppo rumorosa per via della presenza del porto e dei commerci, mentre Apollonia gli sembrò incantevole e grandiosa a.C., l’esercito consolare di Lucio Emilio Paolo, dopo aver definitivamente sconfitto i Macedoni a Pidna, sferrò un colpo tremendo anche sull’Epiro, distruggendo 70 città in Molossia e Tesprozia e conducendo a Roma come schiavi 150 000 Epiroti. Questi avvenimenti posero fine alla storia delle entità statali formatesi a partire dal V secolo a.C. nell’Illiria e in Epiro. Ma la vita economica, culturale e politica continuò senza importanti cesure per un altro secolo e poche tracce documentano la presenza dei Romani in qualità di conquistatori. Apollo82 a r c h e o

dagli studi moderni e contemporanei, conobbero una nuova fioritura grazie alla tranquillità determinata dalla pax romana. Apollonia conservò la propria autonomia, il proprio sistema amministrativo, la lingua greca, il diritto di battere monete e altro ancora. Ogni anno venivano eletti i pritani, a capo dell’esecutivo; gli agonoteti, che dirigevano l’organizzazione delle feste; gli archierei, che si occupavano delle cose sacre; i ginnasiarchi, che si occupavano dell’educazione fisica. La vita sociale continuava a svolgersi nell’agorà, di cui ancora oggi si a percepisce l’im-


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Apollonia. Una veduta panoramica del dentro della città antica e del monastero della Vergine. Sullo sfondo, si distinguono i monti Acrocerauni e l’isola di Saseno.

ponenza, con il teatro che poteva contenere circa 10 000 spettatori, aperto verso il mare all’orizzonte. Il desiderio del mare da parte di questi successori dei coloni corinzi e corciresi si esplicita anche nell’orientamento della facciata della stoà. Si tratta di un monumento particolare, edificato nel corso del IV secolo a.C. per il piacere dei cittadini di Apollonia, che potevano passeggiare e incontrarsi tra le colonne e lo sguardo indifferente delle statue di marmo che riempivano le 37 nicchie della parete di fondo. Un altro luogo di incontro, soprattutto per le donne, escluse dalla vita pubblica, era il ninfeo monumentale, una costruzione singolare, che raccoglieva le acque delle fonti sotto l’acropoli e le distribuiva attraverso un colonnato dorico. Un sistema ortogonale di strade che si intersecavano ad angolo retto divideva la città in

insulae di uguali dimensioni di 120 x 60 m, secondo uno schema acquisito dalla Magna Grecia. Un altro elemento importante era costituito dalla cinta muraria, che conservava tutti i segni degli assedi, attacchi e restauri a partire dal VII secolo a.C., ma che aveva perduto, in questo periodo, la sua funzione difensiva e stava a segnalare la separazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

LA STORIA NELLE TOMBE La necropoli, che si estendeva fuori da queste mura, si è oggi trasformata in una sorta di grande archivio per gli studiosi, nel quale gli oggetti che accompagnano i defunti sono parte della loro storia personale e di quella della città. Tra i reperti piú antichi si annoverano i vasi corinzi e corciresi, portati o importati dalla madrepatria dai coloni. I (segue a p. 86) a r c h e o 83


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APOLLONIA Sito archeologico tra i piú importanti dell’Albania, Apollonia è stata oggetto di esplorazioni sistematiche fin dal 1924, per iniziativa della missione francese guidata da Léon Rey. Nuove indagini sono state quindi condotte, nel secondo dopoguerra, sotto la guida di Hasan Ceka. Come si può osservare dalle immagini, gli scavi hanno riportato alla luce avanzi consistenti dei monumenti principali della città, che visse il suo momento di massima fioritura nel IV sec. a.C. 1. Veduta dei resti del ninfeo. III sec. a.C.

4. Propilei 5. Stoà B 6. Tempio di Diana 7. Prytaneion 8. Bouleterion 9. Stoà A 10. Biblioteca 2. Il muro del temenos del tempio di Apollo, con la porta d’accesso.

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3. Una veduta dei resti dell’odÊon. II sec. d.C.

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vasi a figure nere e rosse testimoniano i frequenti contatti con l’Atene di età classica. Successivamente, con la crisi che seguí la guerra del Peloponneso, cominciarono a comparire i vasi importati dalla Magna Grecia, a precorrere e ad accompagnare la politica illirica di Dionisio I di Siracusa. Queste importazioni servirono come modelli sui quali si sviluppò in seguito la produzione locale del IV secolo a.C. Non solo i vasi ceramici, corredo comune di tutte le case, ma anche le terracotte decorative seguirono modelli tarantini. Il successivo III secolo a.C. fu caratterizzato da una produzione spesso semplice, che dovette assecondare la crescita demografica della cittadina e assicurare scorte sufficienti per le esportazioni nell’entroterra illirico. L’elemento illirico divenne allora parte integrante della città, come testimoniano le statue raffiguranti donne con vesti locali. I nomi illirici di molti pritani dimostrano che non vi erano pregiudizi o impedimenti ad accettare che i vicini «barbari» potessero raggiungere anche le cariche piú alte della città. Per un curioso paradosso, l’arte apolloniate si manifesta piú spesso nel mondo della morte che in quello della vita. A fronte dello scarso numero di statue e rilievi rinvenuti nella città, moltissime sono le stele portate alla luce nelle sue necropoli, con forme e temi originali, frutto del felice amalgama tra precisione artigianale e ispirazione artistica. Le statue rinvenute in città riflettono la storia: per esempio, un ritratto in marmo di altissima fattura d’età giulio-claudia e un’iscrizione in onore di Giulia testimoniano i privilegi che Augusto, come già ricordato, concesse ad Apollonia, come segno della riconoscenza per il periodo trascorso nella città a studiare l’arte oratoria.

L’ETÀ D’ORO Ad Apollonia, inoltre, è stato rinvenuto uno splendido gruppo di statue del periodo antonino e severo collocate nell’agorà, al centro della quale, nel II secolo d.C., erano stati eretti monumenti tipicamente romani. La facciata del bouleuterion, oggi restaurata, si distingueva per il colonnato corinzio e il frontone che recava l’iscrizione greca della costruzione e la dedica del monumento da parte della famiglia romana Villius. Davanti a questo si trovava l’odeon, un piccolo teatro 86 a r c h e o

per rappresentazioni letterarie e musicali, ma anche per riunioni politiche. Di fianco, un arco di trionfo e un archivio. Piú oltre, con vista verso il mare, terrazze che scendevano verso la pianura ospitavano le dimore dei cittadini. Il II secolo d.C., vale a dire il periodo degli Antonini, fu per Apollonia il momento del massimo splendore. Raffinati mosaici, tra i quali spicca quello con Achille e Pentesilea, la regina delle Amazzoni, decoravano i pavimenti delle sue case.

Apollonia. Un’altra immagine del muro del temenos del tempio di Apollo.


In queste abitazioni si ritrova anche il segno della fine di Apollonia, ovvero il suo abbandono nel corso del IV secolo a.C. a seguito dell’insabbiamento del porto, ma anche del generale stato di insicurezza dovuto alle invasioni gote. Gli abitanti si rifugiarono nell’entroterra, nella città di Byllis, fondata nella prima metà del IV secolo a.C. dalla popolazione illirica dei Bylliones e da sempre rivale di Apollonia. Le mura di cinta in blocchi rettangolari erano le stesse del periodo della fondazione, e parimenti si erano conservati

l’agorà, il teatro, lo stadio e i portici: una città completa, centro di un koinon, una sorta di repubblica autonoma che aveva adottato le forme istituzionali di Apollonia.

TESTIMONIANZE SCRITTE SULLA PIETRA Byllis aveva anche coniato monete in bronzo, che però differivano in peso e simboli da quelle di Apollonia. Non erano mancati poi gli artisti che avevano creato rilievi e sculture, ma con risultati piú vicini all’artigianato

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BYLLIS Città di fondazione illirica, Byllis, sorta fra il 370-350 a.C., fu la principale rivale di Apollonia. La sua nascita è l’esito della fioritura economica delle genti stanziate nell’area, che ne fecero la propria capitale, scegliendo per l’insediamento una delle alture che dominavano la naturale via di collegamento fra Apollonia e la costa illirica con l’Epiro e la Macedonia.

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1. Particolare di un mosaico nella navata centrale della Basilica B. VI sec. d.C.

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1. Le colonne del tribelon (sequenza di tre archi) della Basilica B. VI sec. d.C.

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2. Casa B 3. Basilica A 4. Casa A 5. Basilica C 6. Cisterna 7. Stadio 8. Teatro 9. Basilica D 10. Basilica E


1. Una veduta del quadriportico della Basilica B con le rampe di accesso. VI sec. d.C.

che all’arte. Gli abitanti incisero iscrizioni sulla pietra, ma mai nella propria lingua. Questi testi di Byllis sono le uniche testimonianze dell’organizzazione statale, della presenza della schiavitú, dell’atteggiamento verso Roma e la Macedonia durante i conflitti del III-II secolo a.C. Il passaggio repentino dal greco al latino nelle iscrizioni è una ulteriore testimonianza della fondazione a Byllis di una colonia romana sotto Augusto. Una bella testa di marmo dell’imperatore Adriano prova che la città, al pari della vicina Apollonia, visse sotto gli Antonini il suo momento di maggiore fioritura, seguito da una sorta di letargo nel III secolo d.C. e, infine, dal trionfo su Apollonia nel IV secolo d.C. Alla fine del V secolo d.C. il vescovo di Apollonia si spostò nella città, che diventò la sede vescovile piú importante della provincia bizantina dell’Epirus Nova dopo il suo capoluogo, Dyrrhachium. Fino alla metà del VI secolo vennero costruite cinque basiliche, che sono veri e propri musei dell’arte del mosaico cosí come della scultura decorativa. Le sculture presentano anche i segni di due distruzioni avvenute nella seconda metà del VI secolo, dovute alla furia delle invasioni slave, dopo le quali la città venne abbandonata.

LE PRIME RICERCHE Altri due centri divennero colonie romane e vissero piú a lungo di Byllis. Una di questa è Butrinto, la Bouthroton antica, oggi il simbolo dell’archeologia in Albania, grazie al contributo di diverse generazioni di archeologi, a partire dall’italiano Luigi Maria Ugolini, che vi operò dal 1928. La sorte riservò a questo studioso una serie incredibile di scoperte, come se il destino avesse deciso di ricompensarlo in fretta vista la prematura scomparsa nel 1936, all’età di 41 anni. I suoi successori impiegarono cinquant’anni per completare il suo progetto di un parco archeologico (vedi alle pp. 92-95) all’interno del quale i monumenti – che compaiono quasi magicamente all’interno del bosco circostante – raccontano la storia della città in cui, secondo Virgilio, Enea incontrò Andromaca, vedova dell’eroe troiano Ettore. Dyrrhachium fu la colonia romana piú importante, se non altro per il fatto di trovarsi al punto d’inizio della via Egnatia, che attraversava la Macedonia fino a Salonicco, prosea r c h e o 89


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guendo quindi verso Bisanzio. La città era stata fondata nel 627 a.C. da coloni corciresi e corinzi e aveva avuto vicende simili a quelle di Apollonia. Salí alla ribalta della grande storia solo due volte: nel 435 a.C., quando aveva dato inizio alla guerra del Peloponneso, e nel 48 a.C., quando Pompeo Magno vi installò il suo stato maggiore durante la guerra contro Cesare. Attorno al 30 a.C. divenne colonia romana, perdendo la sua secolare autonomia e adottando il latino al posto del greco come lingua ufficiale. In questo sito gli scavi archeologici sono cominciati piuttosto tardi, nel 1966, quando venne scoperto l’anfiteatro romano edificato sotto il regno di Adriano. Da allora le indagini non hanno potuto compiere progressi significativi, per via dell’urbanizzazione. Co-

munque, una parte della storia di Dyrrachium si può leggere nel museo della città, che espone i primi oggetti portati con sé dai coloni che qui si insediarono nel 627 a.C.: vasi corinzi e oggetti di culto. Meravigliosi vasi a figure rosse, di produzione apula, costituiscono il segnale di un nuovo orientamento dei contatti a seguito del declino di Atene. In questo periodo, infatti, la Magna Grecia diviene il partner commerciale privilegiato, nonché anche l’ispiratrice delle principali correnti artistiche, come si può constatare osservando la decorazione dei vasi di pregio di produzione locale. Epidamnos e Apollonia erano città gemelle, come risulta dall’origine comune e dagli stessi simboli adottati sulle monete d’argento. È

Nella pagina accanto: Byllis. Un settore della Basilica B, con, in primo piano, la splendida decorazione pavimentale a mosaico e, in secondo, le colonne del tribelon. In basso: Byllis. Veduta delle mura di cinta con una delle possenti torri. III sec. a.C.

Aristotele, nella Politica, a sottolineare una differenza, considerando le leggi di Epidamnos piú liberali per quanto riguardava l’integrazione degli stranieri. Ne abbiamo conferma sia nelle iscrizioni funerarie di Epidamnos, dove troviamo numerose testimonianze di nomi illirici, sia nei busti scolpiti dai maestri locali, che ritraggono spesso donne illiriche, ben identificabili grazie al loro immutato abito tradizionale.

QUEL NOME FORIERO DI DISGRAZIE... Dal 229 a.C entrambe le città servirono come punto di partenza verso l’Oriente, attraverso la strada che, a partire dalla metà del II secolo a.C., fu conosciuta come via Egnatia. Il tempo favorí Dyrrachium, un nome che i Romani

preferirono a quello di Epidamnos, che sembrava loro portare sfortuna (dal momento che evocava la parola damnum: danno). In verità, le due piú grandi disgrazie che la città dovette subire furono il lungo assedio da parte dell’esercito di Cesare, nei primi mesi del 48 a.C., e lo stabilirsi in quel luogo dello stato maggiore di Bruto nel 44 a.C. Ciò bastò ad Augusto per trasformare la colonia greca in colonia romana intorno al 30 a.C. Tuttavia, la città trasse grande beneficio dalla presenza della via Egnatia e divenne nota come Hadriae taberna (secondo la definizione coniata dal poeta Catullo, traducibile con «bordello dell’Adriatico», n.d.r.), un luogo di svago per i marinai delle navi che frequentavano il suo porto. Alcune sculture del museo a r c h e o 91


SPECIALE • ALBANIA 1. La Porta Scea. cosí chiamata dall’archeologo italiano Luigi Ugolini, per evocare l’approdo di Enea a Butrinto narrato da Virgilio. Si apre nel settore oggi meglio conservato delle mura della città, databili al IV sec. a.C.

di Durazzo testimoniano la propensione della città per l’arte: fra di esse, una statua di marmo, priva della parte superiore in conseguenza di un intervento di damnatio memoriae, è stata identificata – in base alla decorazione dell’armatura – come un ritratto dell’imperatore Nerone.

IL DONO DELL’IMPERATORE Mentre Apollonia andava lentamente spopolandosi, Dyrrachium, grazie alla riforma di Diocleziano (284-305 d.C.), divenne il capoluogo della provincia dell’Epirus Nova, legando il proprio destino a quello del futuro impero bizantino. Le mura in mattoni, conservate quasi interamente nella parte nord-occidentale della città, sono un ricordo di quel tempo, dono dell’imperatore d’Oriente Anastasio I (491-518 d.C.), che in questa città era nato nel 430. Il macellum, un mercato coperto cinto da colonne di marmo, sembra essere stato costruito negli stessi anni. Alcune colonne di notevoli dimensioni e capitelli marmorei provengono da una basilica paleocristiana tuttora non individuata. In questo periodo l’anfiteatro si era trasformato in un cimitero cristiano, con una piccola cappella decorata con mosaici del VI secolo di un livello artistico pari a quelli ra(segue a p. 97) 92 a r c h e o

BUTRINTO L’antica Bouthroton occupa una posizione spettacolare: la città antica si estende su di una collinetta protesa nel canale di Vivari, un corso d’acqua che collega i canali di Corfú, 4 km a ovest di Butrinto, con il lago di Butrinto, un bacino salato dell’entroterra. A sud del canale si apre una piatta pianura bonificata che, di fatto separa Butrinto dal sistema montuoso che si snoda in corrispondenza del confine meridionale dell’Albania con la Grecia.


2

1

2. Acropoli 3. Basilica 4. AgorĂ 5. Ginnasio 6. Battistero 7. Palazzo vescovile 8. Torre di Ali Pasha

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4

5

6

8 7

Sulle due pagine: una veduta panoramica del sito di Butrinto e della piana di Vrina. Nell’ovale (qui sopra), un particolare del mosaico policromo del battistero (6).

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SPECIALE • ALBANIA

BUTRINTO (CASTELLO E AGORÀ) La fondazione del primo insediamento può essere fatta risalire all’VIII sec. a.C. e si deve a mercanti di Corcira (Corfú) che avevano regolari scambi con l’Epiro, le colonie greche dell’Italia meridionale e i porti albanesi di Epidamnos e Apollonia. Sembra certo che il nuovo insediamento corrispondesse alla città che la tradizione associava alla leggenda di Enea. Nel IV sec. a.C., Butrinto era uno degli scali portuali piú importanti della Caonia.

1. Tempio 2. Teatro 3. Stoà 4. Casa a peristilio 5. Capitolium 6. Prytaneion 7. Santuario di Asclepio 8. Terme romane

6

3 1

5

2 4

7 8

In alto (sopra la pianta): il castello di Vivari, costruito dai Veneziani e poi rimaneggiato dai Turchi. Veduta dell’agorà, al cui interno sono compresi i monumenti indicati nella pianta di dettaglio. 94 a r c h e o


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SPECIALE • ALBANIA

SULLE TRACCE DI UNA STORIA PLURISECOLARE di Selca e Poshtme (Pelion), con tombe rupestri risalenti al IV-III secolo a.C. Si può poi proseguire verso Korça, nota per gli insediamenti preistorici e le chiese bizantine.

Mo M o ntt en n eg g rro o M. Jez M. Je J ezerc e ercës ës

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45 Km

L’Albania, sulla costa e nell’entroterra, conserva un paesaggio simile a quello antico, anche se sempre piú spesso insidiato dall’edilizia intensiva. Qui proponiamo 3 itinerari archeologici, tra loro complementari. 1. Da Tirana a Scodra (1-2 giorni) Partenza da Tirana e visita a Kruja, castello e Museo di Skanderbeg. Tappa nella vicina Zgërdhesh, l’antica Albanopolis, da cui deriva il nome moderno degli Albanesi. Si continua verso nord, per visitare la città di Lissus, l’odierna Lezha, nella quale si trova anche il cenotafio di Skanderbeg. Tappa successiva è Scutari: qui si può visitare il castello illirico-veneziano di Scodra. 2. Verso est, lungo la via Egnatia (1-2 giorni) Partenza da Tirana verso Elbasan, l’antica Scampis, dove si visitano il castello e la chiesa paleocristiana con mosaici del VI secolo d.C. Si continua verso est, seguendo anche la via Egnatia. Visita delle città antiche 96 a r c h e o

3. Epidamnos, Apollonia, Byllis e Butrinto (2-3 giorni) Si parte da Tirana per Durres, con visita dei monumenti e del museo della città antica, bizantina e veneziana di Dyrrachion-Epidamnos. Si procede verso sud, per visitare Berat, con il castello illirico-bizantino e le chiese bizantine. Si prosegue quindi, ancora in direzione sud, per visitare Apollonia, con gli scavi e il museo archeologico. Si continua verso la baia di Valona, dove si trova Oricum, per poi dirigersi verso il passo di Logara, dove transitò Cesare nel 48 a.C. Visita al castello medievale di Himara e a quello tardo-medievale di Porto Palermo. A Saranda si conservano i monumenti tardo-antichi della citta di Onchesmus (mura del castello, sinagoga del IV secolo d.C., basilica dei Santi Quaranta). Si prosegue per Butrinto, per visitare il piú importante sito archeologico d’Albania. Si torna verso Gjirokasta (Girocastro), dove si visitano il castello medievale, il teatro romano di Hadrianopolis e la città di Antigoneia. Tornando verso Tirana, si visita Byllis, con monumenti del III secolo a.C.: mura, teatro, stoà, stadio, e basiliche della tarda antichità.


Qui accanto: Berat (l’antica Partha). La porta principale della città, costruita in età illirica nel IV sec. a.C. e poi inglobata nelle successive ricostruzioni di epoca bizantina e ottomana. Nella pagina accanto: Dyrrachium (l’odierna Durres, Durazzo). Uno scorcio dell’anfiteatro, risalente all’età adrianea (II sec. d.C.).

dei castelli di Kruja e Lezha, abitati dalla stessa popolazione. Ciò indica che la formazione della popolazione albanese, sulle basi di quella illirica, si stava sviluppando non solo nelle regioni interne e meno coinvolte in processi di assimilazione, ma anche a Dyrrachium, dove l’influenza delle altre culture dominanti risultava piú forte. Di conseguenza, non deve essere considerato casuale che una delle prime apparizioni degli attuali Albanesi nella storia medievale sia documentata proprio in questa città. Nel 1081, infatti, l’imperatore Alessio Comneno giunse a capo dell’esercito bizantino per affrontare i Normanni di Roberto il Guiscardo, che aveva cinto d’assedio la città, ma subí una pesante sconfitta a poche miglia dalle mura di Dyrrachium. Imboccata la vecchia via Egnatia verso Constantinopoli, egli affidò la difesa della città a un comiscortes di origine albanese, un capo militare di truppe locali della regione chiamata Arbanon, che altro non è che la forma bizantina del toponimo Albania. Si trattava dello stesso nome che portavano gli Illiri stanziati nell’entroterra di Dyrrachion, come attesta Claudio Tolomeo di Alessandria nella Geografia, redatta nel II secolo d.C. E da qui prende inizio una nuova storia.

vennati. Un secondo mosaico che decorava il pavimento di una basilica paleocristiana ad Arapaj, alla periferia di Durazzo, è l’ulteriore testimonianza dell’importanza della città nel periodo bizantino. Di alta qualità doveva essere anche l’artigianato locale, come conferma il ritratto di un uomo scolpito in pietra PER SAPERNE DI PIÚ calcarea da un artista ignoto.

CASTELLI BIZANTINI Il persistere dell’antica popolazione greca e illirica, i coloni romani e i nuovi arrivati dall’Oriente attraverso la via Egnatia fecero della Dyrrachium del primo Medioevo una tipica città bizantina. Eppure una necropoli di questo periodo testimonia come l’originaria popolazione illirica avesse mantenuto la propria identità e avviato il processo che la trasformò nella popolazione albanese moderna. Gli oggetti rinvenuti nei corredi appartengono alla cultura di Komani, che prende il nome da un castello dell’Alto Medioevo nella valle del Drino, nell’Albania settentrionale. Materiali simili si ritrovano anche nelle necropoli

Neritan Ceka, Archaeological Treasures from Albania, 2 voll., Migieni, Tirana 2013 Neritan Ceka, The Illyrians to the Albanians, Migieni, Tirana 2013 Apollon Baçe (a cura di), Tesori del patrimonio culturale albanese, catalogo della mostra (Torino, 24 gennaio-7 aprile 2013), Gangemi Editore, Roma 2013 Luigi M. Ugolini, Butrinto. Il mito d’Enea; gli scavi, Istituto Grafico Tiberino, Roma 1937, ristampato dall’Istituto Italiano di Cultura di Tirana, Tirana 1999 Lorenzo Braccesi, Grecità adriatica: un capitolo della colonizzazione greca in Occidente, Pàtron, Bologna 1977 a r c h e o 97


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

QUANDO NASCE IL RESTAURO? GIÀ IN EPOCA TARDO-ANTICA, LE TESTIMONIANZE DEL PASSATO FURONO OGGETTO DI ATTENZIONI DIVERSE. E ALCUNI DEGLI APPROCCI MATURATI NEI CONFRONTI DI QUEL PATRIMONIO POSSONO ESSERE VISTI COME I PRODROMI DELLE MODERNE TEORIE SULLA CONSERVAZIONE

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I

l restauro delle opere d’arte o di architettura, cosí come dei manufatti archeologici, è una disciplina moderna, basata su una visione storica del contesto sul quale operare e una lettura critica che orienti le scelte. L’architetto Alessandro Pergoli Campanelli ha provato ad analizzarne, in un libro di recente pubblicazione, le radici piú profonde, attraverso una ricca argomentazione, che guarda al di là dei confini delle singole discipline.

Nella sua accezione odierna – questo il succo del pensiero dell’autore –, il restauro ha origini piú lontane di quanto si pensi. Già nella tarda antichità si sarebbe sviluppata una sensibilità nuova in seguito all’innesto della cultura cristiana, con la sua attenzione alla conservazione della materia autentica, nelle strutture giuridiche del mondo romano. Queste, infatti, erano orientate da tempo alla manutenzione di edifici e opere d’arte, con un atteggiamento di rispetto dei documenti di una storia antichissima, accresciuto poi dal rimpianto per la grandezza tramontata di Roma. La storia di Roma nella tarda antichità fu assai altalenante: ad azioni di illuminata salvaguardia si affiancarono molti provvedimenti distruttivi, ma un seme fu gettato allora. Soprattutto in Occidente, dal momento che il concetto di autenticità fu alla base di un diverso atteggiamento delle due parti dell’impero in relazione alla conservazione dei monumenti: piú attento alla materia in Occidente, e alla sola immagine in Oriente.

LA NUOVA ROMA Mentre a Roma Maioriano o Teoderico tentavano di impedire la perdita dei grandiosi monumenti del passato, Costantinopoli si accresceva trasformando integralmente l’esistente, giudicato inadatto. I paragoni al di là del tempo e dello spazio lasciano il tempo che trovano, ma se consideriamo che Costantinopoli si abbellí di monumenti presi altrove e che con il suo nuovo nome aveva cancellato il ricordo dell’antica Bisanzio, il processo messo in luce da Pergoli non è poi cosí diverso da quello che distingue ancora l’Europa dal Nuovo Mondo, dove il vecchio, nelle architetture delle città, si distrugge e si rinnova ben prima che diventi antico. A differenza di altre, nella cultura

Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino. Visione della Croce, affresco realizzato dagli allievi di Raffaello, sulla base di disegni del maestro. 1520-1524. occidentale si è dunque sviluppata una predisposizione a preservare i monumenti del passato. Questo è vero, come vero è il suo contrario: la cultura occidentale infatti è la stessa che, con Sisto IV, inventa il museo di Campidoglio e demolisce con Alessandro VI la Meta Romuli, che affida a Raffaello la cura dei monumenti di Roma e giustifica immani distruzioni per la nuova fabbrica di S. Pietro, che allestisce le prime collezioni di antichità e butta a terra il tempio di Minerva per alzare la mostra dell’Acqua Paola... È, insomma, una cultura dalle molte facce. Una delle quali è l’intolleranza religiosa, che per l’autore fu la principale causa della distruzione dei monumenti antichi; un’altra è la tradizionale cura per gli edifici pubblici da parte dell’autorità imperiale, che evitò, ove possibile, il diffondersi di distruzioni incontrollate. L’uno e l’altro assunto sono rintracciabili nei testi giuridici, che con una mano decretano la distruzione delle statue e dei templi pagani e con l’altra ne tentano una maldestra difesa, che – a mio modo di vedere – prima che culturale, sembra economica e amministrativa (come quando, per esempio, nel 364 Valentiniano impedisce di trasformare in case private i magazzini di Roma o quando Teodosio, nel 390, pretende che si restaurino gli edifici antichi prima di realizzarne di moderni). Sono disposizioni che salvaguardano le architetture in quanto patrimoni edilizi: agli arredi, con i loro valori ideologici, si riserva infatti ben altra sorte. Nella tarda antichità gli eventi si susseguono con ritmo incalzante e le contingenze dello scontro politico si accavallano alle

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trasformazioni culturali, sí che occorre distinguere le diverse fasi storiche del periodo compreso fra l’età di Costantino e quella di Gregorio Magno. Se una costituzione del 376 ancora prevede tutele per le architetture antiche, tra il 380 e il 391/92 gli editti di Teodosio segnano una cesura epocale dichiarando guerra non solo ai templi e ai riti che vi si svolgevano, ma ai cittadini dell’impero che vi si riconoscevano. È difficile osservare quegli avvenimenti accantonando la drammaticità epocale della situazione. Quei decenni di sangue e terrore accendono i fari sulla fase «trionfante» della nuova cultura cristiana, quando gli editti imperiali proibiscono ogni culto pagano anche privato e autorizzano la delazione dei sudditi gli uni contro gli altri; e arrivano a costringere i proprietari di altari privati a distruggerli con le loro stesse mani.

L’APPELLO DI MAIORIANO Quando l’imperatore Maioriano, mezzo secolo piú tardi, implora la salvaguardia dei vecchi monumenti di Roma quali simbolo di un’antica potenza, dobbiamo guardare la data: nel 458, infatti, la guerra al paganesimo è già vinta; e semmai c’è da vincere quella altrettanto crudele che oppose le diverse fazioni cristiane, che si dichiarano custodi dell’ortodossia, alle cosidette eresie dei perdenti. In tutt’altro quadro si sviluppa la politica edilizia dei re goti, quando restaurare l’ornatus delle città italiane è tema che si nutre del fascino dei resti maestosi di Roma, ma questo solo dopo la vittoria definitiva sul paganesimo e sulla sua cultura. Altro ancora fu il quadro in cui opera Gregorio Magno, nel quale convivono una saggezza tipicamente romana, una visione politica lucida e il paternalismo dei forti verso i barbari. Ma la domanda che viene

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spontanea è un’altra: di quale tutela stiamo parlando in quegli anni di ferro e di fuoco? Davvero possiamo pensare che la costituzione del cristiano Onorio che vieta di abbattere i templi svuotati dei loro arredi indica che l’imperatore cerca di tutelare quelle antiche architetture? Che tutela è mai questa? Sono i templi che vengono tutelati o la pura sopravvivenza materiale dei loro muri? Quale senso dobbiamo attribuire a una tutela delle forme architettoniche spogliate degli arredi necessari al loro uso? «Persone oltre le cose» può essere uno slogan pubblicitario di successo, ma quando Mortimer Wheeler ci dice «che l’archeologo

non scava cose ma esseri umani», perché le prime hanno senso in quanto parlano ai secondi che le hanno prodotte o usate, ci propone un programma che non li separa asetticamente. E la storia del restauro non è tale se tiene conto soltanto di uno dei due protagonisti. Quando l’imperatore Arcadio ordinava in Oriente la distruzione dei santuari extraurbani che non avessero alcuna funzione estetica, dobbiamo ritenere che la percezione dell’arte separata dagli uomini sia una conquista che va posta all’origine della nostra concezione moderna del restauro? Sarebbe un aspetto davvero inquietante della modernità: l’arte come valore in sé, e neanche


sostenuta da una percezione storica del suo valore. La mancata distruzione delle architetture è passata anche attraverso un diffuso fenomeno di conversione di templi pagani al culto cristiano. Ma lo storico non può evitare di mettere nel conto il prezzo umano di queste conservazioni effettuate salvando la materia, ma distruggendo il senso delle sue forme o separando il suo valore estetico dal suo senso storico. Sono davvero queste le radici dell’idea moderna del restauro o non piuttosto della sua patologia? Nella pagina accanto, in alto: Melozzo da Forlí, Sisto IV nomina il Platina prefetto della Biblioteca Vaticana. Affresco, 1477. Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. In basso: mano bronzea colossale di Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.

Pergoli Campanelli a proposito della tutela giuridica dei monumenti funebri opera una utile distinzione tra sacro e religioso. Il caso, notissimo, della tomba di Pietro minuziosamente rispettata e inglobata nel cuore della basilica costantiniana è l’esempio palese di una concezione sacrale delle cose da tutelare, da cui può trarre linfa l’idea del restauro come conservazione del sacro, di una tutela come culto. «Ovviamente – scrive l’autore – nel corso dei secoli l’ambito proprio della tutela e del restauro si è via via ampliato, sino a ricomprendere non solo i monumenti funebri, le reliquie e gli oggetti di culto ma tutte le testimonianze aventi valore di storia, arte e cultura, ovvero i monumenti in senso moderno».

IL NODO CRUCIALE Ed è qui che viene al pettine il nodo del valore di questo patrimonio: di un valore in sé, come è quello sacrale, o di un valore relazionale, proprio dell’approccio laico alla cultura intesa come conoscenza e alla storia come consapevolezza di sé. È un valore che la nostra generazione ha spesso smarrito, a mano a mano che abbiamo sacralizzato il patrimonio culturale. Ne parliamo a volte come un valore assoluto, che in nome della storia rischiamo in fondo di sottrarre alla storia stessa, cioè a noi. In conclusione, nell’idea di restauro rintracciata da Pergoli Campanelli nella cultura tardoantica, non v’è una dimensione né storica né critica, mentre la moderna teoria e pratica del restauro sono fondamentalmente storicistiche e laiche, e tengono conto di un approccio scientifico,

estetico, culturale e psicologico nel quale operano al tempo stesso ragione e sentimenti. Questo bel lavoro ce ne fa intuire tuttavia anche le antiche origini ideologiche, che ne favorirono una interpretazione sacrale, facilitata poi da una «estetizzazione» del restauro (quale disciplina applicata in primis all’opera d’arte), questa sí tutta moderna. Mettere in luce queste antiche radici ci invita implicitamente a guardarci dal coltivare una visione religiosa dell’oggetto da restaurare, semplicemente perché questa religione non è universale. È un tema tanto delicato quanto attualissimo. Nel momento in cui la disciplina del restauro, con il suo poderoso bagaglio tecnico, si è fatta sempre piú riserva di caccia degli specialisti, occorre mettere in primo piano il suo valore culturale, aprendosi non solo alle esigenze dei conservatori della materia, ma a quelle, assai piú variegate, di chi ne conserva e trasmette il senso.

PER SAPERNE DI PIÚ Alessandro Pergoli Campanelli, La nascita del restauro. Dall’antichità all’Alto Medioevo, Jaca Book, Milano, 380 pp.

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…DECLINÒ L’OFFERTA DELL’ORO DI NAPOLI ALL’INDOMANI DELLA SCONFITTA PATITA PER MANO DI ANNIBALE AL LAGO TRASIMENO, ROMA RICEVETTE UN’AMBASCERIA PARTENOPEA, GIUNTA PER OFFRIRE AIUTI ECONOMICI E MILITARI. MA DA CHE COSA NASCEVA TANTA SOLIDARIETÀ?

C

orreva l’anno 536 dalla fondazione dell’Urbe (217 a.C.); nel mese di giugno, i Romani avevano subíto il disastroso «agguato» teso da Annibale (che aveva già vinto al Ticino e alla Trebbia) sulla sponda settentrionale

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del lago Trasimeno, all’esercito del console Caio Flaminio Nepote che vi aveva lasciato la vita; l’inverno aveva temporaneamente fermato le operazioni militari nei pressi di Gereonio, in Apulia, sulla riva destra del Fortore, quando – come

scrive Tito Livio (XXII, 32,4-9) – «arrivarono a Roma ambasciatori da Napoli». Essi portavano con sé quaranta coppe d’oro di gran peso e, ricevuti nella Curia del Senato, tennero un discorso che lo storico «ricostruisce» nel modo seguente: «Dicevano di sapere che l’erario del Popolo Romano s’era andato esaurendo per le spese della guerra e, dal momento che si combatteva per le città e i territori degli alleati e per la capitale e la roccaforte dell’Italia, la città di Roma e il suo dominio, i Napoletani avevano ritenuto giusto di correre in aiuto dei Romani con l’oro lasciato loro dagli avi per ornamento dei templi e per riserva contro le avversità». Livio aggiunge che gli


A destra: il golfo di Napoli in epoca romana in un disegno ricostruttivo di Jean-Claude Golvin. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: calco di un rilievo raffigurante la prua di una bireme, dal tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina. Seconda metà del I sec. a.C. Albenga, Museo Navale Romano. ambasciatori, inoltre, dichiararono che la loro città, se i Romani avessero avuto fiducia in essa, era pronta a fornire aiuti militari e – soprattutto – insistettero nell’affermare «che sarebbe stato loro gradito se i Senatori e il Popolo Romano avessero considerate come proprie le ricchezze dei Napoletani e avessero giudicato degni coloro dai quali ricevevano un dono offerto volentieri, con animo e intenti maggiori del suo valore venale». Da dove veniva tanta inattesa generosità? Per dirla in breve, da oltre un secolo di amicizia! Tutto era cominciato nel 328 a.C. quando Neapolis si trovò (per certi versi suo malgrado) in conflitto con Roma. Livio (VIII, 22, 23, 25, 26) e Dionigi d’Alicarnasso (XV, 5) ci riferiscono di avvenimenti che s’inseriscono nella fase iniziale della seconda guerra sannitica. La componente sannitica della popolazione napoletana fu accusata dai Romani di atti ostili nei confronti dei Campani di Capua, alleati di Roma, e, quando gli stessi Romani cercarono di convincere l’elemento greco (ossia l’aristocrazia e il ceto imprenditoriale) di Napoli a distaccarsi dal nucleo sannitico (e popolare) della cittadinanza, questa ebbe la meglio, suscitando la reazione di Roma. La quale inviò contro la città del golfo – che nel frattempo aveva accolto nelle sue mura 2000 soldati nolani e 4000 sannitici – una parte dell’esercito legionario al comando del console

Q. Publilio Filone (mentre l’altra parte, con il secondo console, L. Cornelio Lentulo, si attestava nell’interno della Campania per fronteggiare i Sanniti).

UNA CITTÀ DIVISA IN DUE A quel tempo Napoli si componeva di due nuclei urbani ben distinti: la Città Vecchia (Palepoli) dove in origine i Greci avevano fondato la colonia di Partenope, e la Città Nuova (Neapoli) sorta nella zona alta pianeggiante, a oriente. L’esercito romano andò a occupare lo spazio che intercorreva tra le due «città» con l’intento di dividere le forze avversarie. Ma si trattò anche di un’abile mossa politica, che mirava a separare e a isolare gli elementi sannitici da quelli greci. Questi ultimi, favorevoli a Roma, s’accordarono con il console Filone e riuscirono a far entrare i suoi soldati nella Palepoli, dopo aver convinto i Sanniti che vi si trovavano a scendere verso il mare per organizzare una spedizione notturna contro i Romani. I quali ne approfittarono per entrare

nella «Città Vecchia», cosicché i Sanniti, rimasti fuori, furono costretti a ritirarsi verso l’interno mentre i Nolani riprendevano la via di casa. Nel 326 a.C., per questa «impresa», Filone ottenne l’onore del trionfo (de Samnitibus Palaepolitanis) e Napoli, al tempo stesso, la pace e l’alleanza con Roma, in condizioni di assoluta parità. In virtú del trattato (foedus) che fu quindi del tipo che i Romani chiamavano equum, Napoli mantenne la sua autonomia e ogni aspetto della sua antica identità greca: dalla lingua ai culti alle tradizioni, dalle magistrature al diritto di battere moneta. Come unica contropartita, le fu chiesto d’impegnarsi a fornire a Roma, in caso di necessità, l’aiuto della sua flotta. Come infatti avvenne, per esempio, nel 264 a.C., all’inizio della prima guerra punica tra Roma e Cartagine, in occasione della spedizione romana in Sicilia. Lo storico greco Polibio ricorda (I, 20) che, insieme a Taranto, Locri ed Elea, Napoli forní a Roma, che ne era completamente sprovvista, navi

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da guerra (triremi) e da trasporto truppe (pentecontere). I Napoletani si mantennero sempre fedeli all’alleanza, anche in circostanze di gravi difficoltà per Roma, come era già stato, nel 280, al tempo della guerra contro Pirro, quando rifiutarono di passare dalla parte del re epirota pur momentaneamente vincente. E – come s’è visto sopra – Napoli non venne meno alla sua lealtà, nemmeno durante la guerra annibalica quando, oltre ad aver subito a piú riprese devastazioni del suo territorio, venne attaccata dalla cavalleria cartaginese che, di fronte alla solidità delle sue possenti mura (quelle delle quali resta in vista un bel tratto in piazza Bellini), fu indotta a ritirarsi.

ANNIBALE RINUNCIA ALLA CONQUISTA Livio (XXIII, 14 e 15) scrive che dopo la defezione di Capua, Annibale portò il suo esercito nel territorio di Nola «dopo aver tentato invano di piegare l’animo dei Napoletani, né con la speranza né con la paura». E, successivamente, racconta che, essendosi il Cartaginese spostato sulla costa, nei pressi della città «desiderando fortemente d’impadronirsi di quella piazzaforte marittima, per rendere piú sicuro il tragitto delle navi provenienti dall’Africa», la lasciò perdere, dopo aver appreso che la città era presidiata dal prefetto romano, M. Giunio Silano, «chiamato dagli stessi Napoletani». Cosí le cose andarono avanti per quasi duecentocinquant’anni. Nonostante Napoli, agli inizi del II secolo a.C., avesse sofferto serie conseguenze per la scelta dei Romani di privilegiare a fini commerciali il porto di Pozzuoli – piú facilmente e rapidamente collegato con Roma –, rimanendo il porto di Napoli quasi solamente in uso per scopi militari (peraltro venuti anch’essi meno in età

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Particolare di una pittura tombale raffigurante un guerriero sannita, da Nola. 330 a.C. circa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. augustea, quando Agrippa allestí la grande base navale di Miseno). La situazione cambiò radicalmente nel 90 a.C., allorché, per effetto della legge Giulia de civitate danda, con la quale Roma concesse la propria cittadinanza a tutti gli alleati rimasti fedeli, al tempo della «secessione italica», Napoli, da civitas foederata quale era, passò, non senza qualche malcontento, allo stato di municipium dell’Italia romana. E tale rimase per tutta l’età imperiale, ormai lontana dalla grande storia, ripiegata in se stessa ma conservando a lungo gelosamente la sua originale grecità, culturale e linguistica, e assumendo le caratteristiche di una città colta e dalla dolce vita, dedita agli studi, agli spettacoli e al piacere. Orazio ne parla come di otiosa Neapolis. Fu danneggiata dal sisma del 62 d.C. e dall’eruzione vesuviana del 79. Nel 476, nella villa che era stata di Lucullo, sull’altura di Pizzofalcone, fu sede dell’esilio in cui venne relegato, dopo la deposizione, il giovane Romolo Augustolo, ultimo effimero imperatore di Roma. Quanto alle coppe d’oro (dalle quali siamo partiti) offerte nel 216 e provenienti dalla «riserva aurea» della comunità napoletana – che, come in tutte le antiche città-stato anziché in lingotti depositati nelle «banche centrali» era conservata sotto forma di «doni votivi» nei santuari (e, dunque, in questo caso, quasi un «tesoro di san Gennaro» ante litteram) – Livio conclude il racconto dell’episodio scrivendo che «agli ambasciatori furono rese grazie per tanta sollecitudine e munificenza» (pro munificentia curaque), ma che «una sola coppa fu accettata»: quae ponderis minimi fuit («quella che pesava di meno»).


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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

ROMOLO SU DENTE DI BALENA IL FAMOSO «COFANETTO FRANKS» È UN PRODOTTO DI ALTO ARTIGIANATO, IMPREZIOSITO DA UNA TEORIA DI VIVACI RAFFIGURAZIONI. CHE, FORSE, FURONO VOLUTE COME SOUVENIR DI UN VIAGGIO A ROMA...

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a 1300 anni, ed è uno degli oggetti piú famosi dell’Alto Medioevo: si tratta del cofanetto Franks, oggi al British Museum. Il manufatto prende nome da Augustus Wollaston Franks, il quale lo donò al museo nel 1867, dopo esserne diventato curatore del Dipartimento di Antichità Britanniche e Medievali. Non è particolarmente grande: misura 23 cm di lunghezza e 13 d’altezza, quanto basta per contenere un libro, forse un Vangelo; ma le sue raffigurazioni, ricche e dettagliate, sono un

concentrato di leggende antiche e medievali, che ne fanno uno dei reperti piú affascinanti dell’epoca.

LA VENDETTA DEL FABBRO Su un lato si snoda la storia del fabbro Weland, esiliato e imprigionato dal crudele re Nithhad, che lo aveva costretto a lavorare per lui. Per vendicarsi, l’artigiano uccise i due figli del re e trasformò in coppe i loro teschi. Accanto, l’Adorazione dei Magi e, sul lato opposto, l’esercito romano guidato dall’imperatore Tito che

saccheggia Gerusalemme. Gli Ebrei sono in fuga e al centro troneggia l’arca dell’Alleanza. Uno dei due lati corti è al Museo del Bargello, a Firenze (l’unica parte del cofanetto che non si trovi a Londra); vi è raffigurata una non meglio identificata leggenda germanica: si vedono un guerriero, un cavallo e tre personaggi con mantello e cappuccio. Sul pannello opposto, invece, si riconoscono Romolo e Remo, allattati dalla lupa. Infine, sul coperchio, c’è una scena di assedio, con l’arciere Egil che difende una fortezza dentro la Sulle due pagine: due immagini del cofanetto Franks, ricavato da un dente di balena. Produzione anglosassone, 700 d.C. circa. Londra, British Museum. Sul lato posteriore (a sinistra) è raffigurato il saccheggio di Gerusalemme da parte delle truppe di Tito; sul lato corto sinistro (nella pagina accanto) compare la lupa che allatta Romolo e Remo.

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quale siede una donna. Ogni raffigurazione è incorniciata da scritte in caratteri runici, che descrivono e spiegano ciò che accade, identificano i personaggi ed esplicitano persino il materiale in cui fu realizzato l’oggetto: «dente di balena». Il cofanetto Franks fu prodotto intorno all’anno 700 nel mondo anglosassone, probabilmente nel regno di Northumbria. Si è scritto molto su di esso, e alle sue raffigurazioni sono state date numerose differenti interpretazioni, rispetto alle quali probabilmente non arriveremo mai ad avere certezze. Di sicuro, si tratta di un interessantissimo coacervo di tradizioni, antiche e medievali, di storie e di leggende apparentemente senza legami l’una con l’altra. Qualcuno ha voluto spiegare il tutto alla luce di

un messaggio cristiano, per cui, per esempio, la scena di Romolo e Remo sarebbe da interpretare alla luce del tema della salvezza…

RIFERIMENTI PRECISI Ma forse c’è spazio anche per un’altra ipotesi, piú concreta. E cioè che il cofanetto non sia decorato solo da una variegata miscela di leggende e storie nordiche e cristiane, legate da sottotesti piú o meno sottili e per noi difficili da afferrare. Alcune delle raffigurazioni, infatti, potrebbero avere un altro tipo di legame tra loro. Mi riferisco alla scena del sacco di Gerusalemme e proprio a quella di Romolo e Remo. A chi conosca la topografia di Roma, balza agli occhi che si tratta di due riferimenti molto netti, legati a due monumenti vicini tra loro: l’Arco di Tito, di fronte al Colosseo,

sul quale è scolpita proprio la scena dell’esercito romano a Gerusalemme, con il furto della menorah dal Tempio; e il Lupercal, la grotta di Romolo e Remo, situata non lontano, alle pendici del Palatino. E allora, che cosa può significare tutto questo? È possibile che il cofanetto sia stato commissionato da qualcuno, o per qualcuno, che si era recato in pellegrinaggio a Roma, e che rimase particolarmente colpito da alcuni monumenti dell’Urbe, concentrati nella stessa zona. Insomma, la preziosa teca potrebbe essere una «mappa» di un’area della città. Forse realizzata proprio per un re – o una regina – di Northumbria, che voleva un ricordo tangibile di quei luoghi. E che ha voluto fondere le sue tradizioni con quelle di un mondo lontano, visto almeno una volta nella vita.

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A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

QUEL TRAM PER POMPEI INAUGURATA NEL 1830, LA FERROVIA LIVERPOOL-MANCHESTER DETIENE NUMEROSI PRIMATI. E IL SUO SCARTAMENTO ADOTTA LE MISURE FISSATE, DUEMILA ANNI PRIMA, DAGLI INGEGNERI DELL’ANTICA ROMA!

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orse l’idea maturò in inverno, quando le ruote di alcuni pesanti carri a due assi sprofondavano nella mota, uscendone a stento, tra le urla dei conduttori e i nitriti dei cavalli. Recuperato il terreno solido, si lasciavano alle spalle due solchi paralleli che, una volta rappresosi il fango nella buona stagione, convogliavano le ruote degli altri carri in una precisa direzione, agevolandone la guida. Non erano neppure allora una novità, poiché, sin dalla preistoria, carrarecce simili s’incisero nella

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roccia per agevolare il trasporto dei grandi blocchi di pietra delle costruzioni megalitiche, a Malta come in Puglia, in Grecia come in Europa centrale.

UN USO MILLENARIO In inglese furono definiti cart-ruts, che in italiano si può rendere con «solchi guida-ruote», attribuendoli in entrambi i casi, sia pur implicitamente, a rudimentali veicoli. E anche quando le strade delle legioni si snodarono per decine di migliaia di chilometri, consentendo l’agevole transito ai

carriaggi, quelle incisioni non scomparvero del tutto e rimasero in uso nei settori critici della viabilità, quali le ripide salite e i vicoli urbani. Fattore comune tra le prime e i secondi è il restringersi della carreggiata tra due alte banchine, spesso con sopralzi centrali, come nel caso degli attraversamenti pedonali di Pompei, apprestati nei punti in cui una qualsiasi lieve asperità del basolato sarebbe stata sufficiente a farvi impattare le ruote, frantumandole. Grazie ai solchi ultramillenari, ogni carro poteva trasformarsi in un


antesignano veicolo a guida vincolata, anticipando tram e treni, e superando il problema degli anzidetti incidenti. A favorire la loro realizzazione fu una basilare ordinanza imperiale, forse una legge, che obbligò i carradori a separare le ruote di un assale esattamente di 5 piedi, pari a 1 passo (corrispondente a 1480 mm). Da allora, fu quella la distanza canonica tra i guida-ruote, definita in seguito «scartamento», adottata perfino dall’ingegnere inglese George Stephenson (1781-1848), quando, nel 1830, costruí la prima ferrovia Liverpool-Manchester, fissando appunto la distanza fra i fianchi interni delle rotaie a 1435 mm, misurata a 14 mm sotto al loro piano di rotolamento: se rilevata al centro, avrebbe coinciso esattamente con lo scartamento romano! La ragione che persuase Stephenson a tale scelta non è ben nota, ma si presume che sia dipesa dall’essere ancora quello lo scartamento del maggior numero di carrozze e di carri, estremi

epigoni dei similari di età imperiale. Del resto, veicoli con scartamenti diversi avrebbero incontrato notevoli difficoltà nell’attraversare gli ormai diffusissimi guida-ruote, fino a rischiare il ribaltamento. Oggi lo «scartamento Stephenson» è il piú adottato nel mondo per le ferrovie e per le tramvie, sebbene i binari di quest’ultime siano leggermente diversi, dovendosi affiancare al manto stradale.

SCELTE OCULATE A Pompei, nelle viuzze piú strette e meno trafficate, i guida-ruote che vi corrono in asse per centinaia di metri o, per intuibili ragioni, soltanto per poche decine in corrispondenza dei passaggi pedonali, si sono conservati in modo ottimale. La scelta di ricorrervi fu quanto mai oculata, poiché i veicoli a ruota guidata possono transitare in sedi di poco piú larghe di loro, senza scarti laterali ed eccessive oscillazioni verticali, riducendo per giunta la resistenza all’avanzamento. Nella pagina accanto: Pompei. Una strada basolata sul cui tracciato sono ben visibili i «solchi guida-ruote». A sinistra: Bologna. Rotaie per tram in via di San Vitale. 1960 circa.

Anche se quei solchi vengono tradizionalmente attribuiti all’usura prodotta dai cerchioni di ferro sul basalto dei basoli – un esito parzialmente vero, ma imputabile al loro degradarsi in assenza di manutenzione –, l’origine storica va ricondotta a un preciso progetto e a un’altrettanto precisa esecuzione. Infatti, là dove i guida-ruote pompeiani sembrano di piú recente fattura e perciò privi di slabbrature, mostrano un’incisione accurata, con bordi superiori convessi e sezione trasversale a «U», che forma una gola larga 10 cm circa e profonda poco meno. La configurazione dei guida-ruote di Pompei costituí il criterio informatore adottato per le rotaie «a raso» delle moderne tramvie, sin dal loro esordio a trazione animale sul finire del XIX secolo, e soltanto migliorato nel secolo successivo. Infatti, a differenza del binario ferroviario, che correndo in sede propria non crea ostacoli (nonostante i suoi quasi 20 cm di elevazione sulle traverse), quello tramviario, che correva in sede promiscua, dovette uniformarsi al manto stradale per non intralciare il traffico su gomma. La rotaia perciò si trasformò, aggregando una gola laterale larga 36 mm e profonda 47, con un proprio orlo di protezione per impedirne il costipamento e assumendo la denominazione di «rotaia Phoenix». Al suo interno, come nei guida-ruote pompeiani, il bordino del cerchione poteva perciò girare senza fuoriuscirne, consentendo quindi di stendere le rotaie a raso con la superficie della strada, quale che ne fosse la pavimentazione. La logica d’impiego fra le due rotaie, antica e moderna, a questo punto coincise per connotazione e dimensione, fatta salva la lieve differenza di larghezza delle rispettive gole, determinando una stringente somiglianza tra i rispettivi binari.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

MENTRE LA DONNA FUGGE, L’UOMO PENSA... ALCUNE EMISSIONI PROVINCIALI ROMANE SEMBRANO EVOCARE, ANCORA UNA VOLTA, IL MITO DI ORFEO ED EURIDICE. MA SI PRESTANO ANCHE A UNA LETTURA DIVERSA E MISTERIOSA

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a rassegna delle iconografie monetali relative alle vicende di Orfeo si completa con alcune immagini, interessanti e al contempo dibattute. È il caso, per esempio, delle monete in bronzo emesse a nome di Gordiano III nella città di Seleucia ad Calycadnum, in Cilicia (l’odierna Silifke in Turchia), sulle quali compare, in due varianti, un’enigmatica coppia. Mentre sul dritto, come di regola,

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In alto: La morte di Chione, penna e bistro con acquerello grigio scuro di Nicolas Poussin, 1620-1623. Windsor castle, Royal Library. A destra: moneta in bronzo di Gordiano III, emessa a Seleucia ad Calycadnum. 238-244 d.C. Al dritto, il busto dell’imperatore; al rovescio, Artemide con arco, frecce e cagnolino ai piedi, è seguita da Hermes, con i suoi attributi e i calzari alati.


Statere d’oro battuto dalla zecca di Lampsakos. 350-340 a.C. Berlino, Staatliche Museen. Al dritto, raffigurazione di una protome di Pegaso, alata; al rovescio, Orfeo con copricapo trace e manto, siede pensoso su una roccia con il mento appoggiato su una mano e nell’altra tiene una grande lira da cui pende una fascia.

campeggia il busto imperiale, al rovescio compare una curiosa scena, nella quale si riconosce Hermes – con i suoi attributi classici: petaso e caduceo –, che sta per afferrare la spalla di una donna con uno svolazzante abito lungo; lei si volta verso il dio, alzando un braccio come se stesse chiedendo aiuto o gridando qualcosa. La donna è stata identificata in Euridice riconquistata da Hermes psicopompo e destinata senza piú speranza agli Inferi, dopo che Orfeo si era rivolto a guardarla, contravvenendo alla condizione posta da Ade e Proserpina per il suo ritorno tra i vivi.

Vantatasi di questi amori eccezionali e dei figli portentosi, si proclamò piú bella (e feconda, si può aggiungere) di Artemide. Cosí come era accaduto con Niobe, l’algida dea uccise allora con i suoi crudeli dardi la giovane, trafiggendola proprio nella lingua improvvida.

UN MITO IGNOTO? Sebbene suggestiva, tale ipotesi non sembra scontata, anche perché, nelle raffigurazioni antiche, Euridice è di regola piú mesta e meno attiva di quanto invece appaia nella moneta. Oppure, l’artista a cui si deve il conio, libero creatore o legato a modelli statuari che non conosciamo, volle raffigurare la ninfa mentre, ormai perduta, lancia il suo ultimo disperato grido all’amato cantore. Né si può escludere che il tipo si riferisca genericamente al ruolo ctonio di Hermes, proponendo una scena di consegna di una donna agli Inferi, che però mal si accorda, forse, con l’intento innanzitutto celebrativo della monetazione romana. Che si tratti, quindi, di un altro mito, forse locale, a oggi ignoto? Questo gruppo a due trova poi corrispondenza su altre emissioni in bronzo della stessa città e per di piú coeve, nelle quali, accanto a Hermes, che compare nel medesimo atteggiamento, si riconosce senza ombra di dubbio Artemide – contraddistinta dal corto chitone, dall’arco e dal

NESSUNA PIETÀ PER LA TRACOTANZA

cagnolino da caccia –, che si gira verso il dio che la segue. L’accostamento tra i due viene visto come un richiamo al mondo silvestre/venatorio e pastorale proprio di Artemide cacciatrice e di Hermes nòmios, che protegge i pastori, titolo che peraltro condivide con Apollo, fratello di Artemide. Tuttavia, la composizione potrebbe evocare un contesto diverso, egualmente drammatico, ovvero quello della triste vicenda d’amore e morte della bella ninfa Chione, amata (con inganno divino) nella stessa notte da Hermes e Apollo, dai quali ebbe due gemelli.

Il tipo potrebbe rifarsi a questo mito, stigmatizzando ancora una volta la hybris, ossia la tracotanza verso gli dèi da parte degli esseri inferiori, umani o semidivini come lo era la ninfa, sempre e inesorabilmente punita. Un’ultima emissione, questa volta d’oro e piú antica delle precedenti, ci riporta a Orfeo. Si tratta di uno degli stateri aurei di Lampsakos, città in territorio originariamente trace (in Misia, presso Lapseki in Turchia), emesso intorno al 350/40 a.C. e che rappresenta il cantore trace, riconoscibile dall’abito tipico e dalla grande lira posata sul ginocchio. L’atteggiamento pensoso in cui è colto lo sospende in un momento imprecisato della sua vicenda, forse al sorgere di un’ispirazione musicale incantatrice oppure dopo la perdita della moglie, quando l’aspetto misterico e filosofico della sua personalità diventa preponderante, sino a farne uno dei maestri del pensiero antico e moderno. (3 – fine)

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Claudio Centimeri, Olimpia Soleri

VIAGGIO IN 3-D NELL’ANTICO EGITTO Dalle immagini stereoscopiche d’epoca alla fotografia tridimensionale AdArte, Torino, 128 pp., ill. b/n e 3D 18,50 euro ISBN 978-88-89082-57-7 www. adartepublishing.com

Nello speciale dedicato all’apertura del rinnovato Museo Egizio di Torino (vedi «Archeo» n. 363, maggio 2015), era stata sottolineata l’importanza dell’archivio fotografico che la raccolta possiede: un patrimonio documentario di valore

tratta di un repertorio di grande interesse. Sia per il valore ormai storico di molti di quegli scatti, sia, per esempio, per le frequenti implicazioni di carattere etnografico, come nel caso dello scatto che mostra l’utilizzo dello shaduf, il bilanciere utilizzato per l’approvvigionamento idrico che si basa su prototipi elaborati almeno nel II millennio a.C. (vedi «Archeo» n. 362, aprile 2015). Meritano, infine, d’essere segnalate le puntuali note esplicative alle immagini, curate dall’egittologa Olimpia Soleri. Marta Berogno, Generoso Urciuoli

GERUSALEMME: L’ULTIMA CENA Ananke, Torino, 204 pp., ill. b/n 16,50 euro ISBN 978-88-7325-607-6 www.ananke-edizioni.com

inestimabile, il cui studio non cessa di fornire nuove acquisizioni sulla storia delle ricerche compiute nel Paese dei faraoni. In quella scia si colloca idealmente questo volume, che prende le mosse dalle immagini stereoscopiche pubblicate nel 1908 dall’egittologo statunitense James Henry Breasted (1865-1935). nell’opera Egypt Through The Stereoscope. Al di là della suggestione, innegabile, che scaturisce dalla visione in 3D, si 112 a r c h e o

È possibile stabilire cosa fosse stato portato in tavola in occasione del pasto serale piú famoso della storia?

Hanno provato a farlo Marta Berogno e Generoso Urciuoli, i quali, dopo essersi cimentati con l’impresa, ne offrono ora i risultati. Come si può constatare scorrendo le pagine del volume, la ricerca si è sviluppata su piú fronti, da quello archeologico a quello storico-religioso. Ne scaturisce una ricostruzione che, in ogni caso, conserva margini di incertezza, poiché, sebbene suggestivo, risulterebbe azzardato affermare quale fosse stato il «menu» di quello specialissimo convivio. Vi sono, tuttavia, anche molti elementi piú che plausibili e non soltanto dal punto di vista gastronomico: è il caso, per esempio, delle considerazioni su dove il pasto fosse stato consumato e se le modalità fossero state quelle accreditate da una vasta tradizione iconografica, che trova nel Cenacolo vinciano la sua declinazione piú nota: primo fra tutti, il dubbio circa l’effettivo utilizzo di una tavola, attorno alla quale si sarebbero seduti Gesú e i dodici apostoli. L’indagine si rivela dunque avvincente e attribuisce all’evento una dimensione credibile, arricchita da notazioni che fanno dell’Ultima Cena una sorta di «fotografia» degli usi e costumi attestati in Palestina e a Gerusalemme a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

DALL’ESTERO Jean Macintosh Turfa (a cura di)

THE ETRUSCAN WORLD Routledge, Londra-New York, 1168 pp., ill. b/n 295,00 USD ISBN 978-0-415-67308-2 www.routledge.com

Coordinando oltre cinquanta studiosi italiani e stranieri, Jean Macintosh ha confezionato una ponderosa sintesi sulla civiltà etrusca (rivolta al pubblico degli addetti ai lavori), che ha fra i suoi punti di forza la ricezione delle piú recenti acquisizioni in materia. L’opera si articola in sezioni tematiche che spaziano dall’humus culturale nel quale germogliò la grande cultura preromana all’eredità che se ne può cogliere anche in epoche ben posteriori alla sua fioritura, come nel caso del saggio sugli approcci di Thomas Dempster e Filippo Buonarroti, tra Sei e Settecento. (a cura di Stefano Mammini)



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