Archeo n. 368, Ottobre 2015

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ARCHEO 368 OTTOBRE

ARCHEO

DIANA A NEMI

GERTRUDE

VETULONIA

BELL

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SCOPERTE

DIANA E I MISTERI DEL LAGO DI NEMI SORANO

I LONGOBARDI IN MAREMMA PAESTUM

LA XVIII BORSA MEDITERRANEA DEL TURISMO ARCHEOLOGICO

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SPECIALE GERTRUDE BELL

Mens. Anno XXXI n. 368 ottobre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

LONGOBARDI IN MAREMMA

L’ARCHEOLOGA CHE INVENTÒ L’IRAQ

www.archeo.it

IO



EDITORIALE

BAAL-SHAMIN E LO SPIRITO DI PAESTUM Quando il 30 ottobre, nell’ambito della XVIII Borsa del Turismo Archeologico di Paestum, consegneremo a Katerina Peristeri, responsabile degli scavi del grande tumulo di Anfipoli, l’International Archaeological Discovery Award (il premio internazionale per la piú meritevole scoperta archeologica dell’anno), lo faremo in nome dell’archeologo siriano Khaled al-Assad. Al-Assad è stato uno studioso delle antichità di Palmira (città in cui era nato nel 1932) e, per piú di quarant’anni, ne aveva diretto il sito archeologico e il museo. Lo scorso 18 agosto, dopo settimane di prigionía e torture, è stato decapitato dai miliziani del sedicente «Stato Islamico». Aveva 83 anni. Nel commentare l’orrendo assassinio, gli organi di stampa e la rete hanno usato termini quali «eroe» e «martire». In buona fede, per onorarne la memoria, ma con Palmira (Siria). Il tempio di Baal-Shamin, oggi ridotto in macerie dall’ISIS, in una foto di Gertrude Bell del 1900.

una concessione alla retorica che rifuggiamo. Lasciando ad altri (e ad ambiti culturali molto lontani da noi) il privilegio di assurgere all’empireo di eroi e martiri, preferiamo dire che Khaled al-Assad era, semplicemente, «uno di noi»: un uomo che aveva dedicato la sua vita a studiare, interpretare, promuovere e proteggere un luogo della memoria straordinario come Palmira. Identificandosi con quel grandioso, ricco e multiforme spettro di civiltà di cui la «città delle palme» era stata, per lunghi secoli, espressione principe. Un uomo convinto dell’essenziale importanza – per l’identità stessa del popolo siriano e del consesso civile universale – della memoria storica racchiusa in quelle antichissime pietre. Nei giorni successivi alla sua barbara uccisione, gli uomini del Califfato hanno minato e fatto esplodere il tempio di Baal-Shamin (25 agosto)


EDITORIALE

e raso al suolo il tempio di Bel, il piú grande dei santuari palmireni (31 agosto). Sempre alla fine di agosto risale la distruzione di alcune tombe a torre della necropoli di Palmira, fra cui quelle di Giamblico, di Atenaten e di Elahbel, tra gli esempi piú belli di questo tipo di monumenti, datati al I secolo d.C. L’immagine del tempio di Bel è stata riprodotta nel servizio dedicato alle città carovaniere di Hatra e Palmira (vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015 alle pp. 44-45), quella del piccolo santuario di Baal-Shamin la mostriamo in questa pagina, in uno scatto raro, risalente all’anno 1900, realizzato dall’archeologa Gertrude Bell (alla quale è dedicato lo speciale di questo numero;

vedi alle pp. 86-105). Con la distruzione dei monumenti di Palmira è stata compiuta una cesura irrimediabile nella lunga catena della nostra memoria culturale. Non è la prima volta che accade, e – abbiamo buoni motivi per temerlo – non sarà l’ultima. Nella sua «crociata» contro la storia dell’umanità, finalizzata al raggiungimento di un nuovo, incontaminato e divino ordine mondiale, lo «Stato Islamico» segna una vittoria dopo l’altra, esaltata dallo stesso nostro sgomento e dalla nostra, palese, incapacità di reagire. A cosa potrà servire, allora, ricordare il nome di Khaled al-Assad, senza cadere, a nostra volta, nella trappola della sterile retorica?

Tomba a torre

Tomba a torre di Elahbel

Tomba a torre di Atenaten

Tomba a torre di Giamblico

Tomba a torre

Foto zenitale dell’area archeologica di Palmira, con, in evidenza, i monumenti distrutti dagli uomini del sedicente «Stato Islamico» nell’agosto del 2015 (fonte: The American School of Oriental Research).


EDITORIALE

Al momento, l’unica risposta alla triste e bigotta barbarie del Califfato appare quella di perseverare nello spirito che i monumenti distrutti di Palmira ci hanno tramandato nei secoli: uno spirito di civile coesistenza delle diversità religiose ed etniche, di scambi, dialoghi e tolleranza. Il piccolo tempio di Baal-Shamin – il «signore del cielo» adorato nelle città della costa del Levante – ne era l’espressione compiuta: costruito nel II secolo d.C. (forse in occasione del viaggio in Oriente dell’imperatore Adriano) serviva come luogo di culto ai commercianti fenici; l’edificio riproponeva i moduli dell’architettura romana (la cella interna scandita da pilastri,

le sei colonne corinzie del pronao), mentre il vasto cortile colonnato era ispirato ai grandi edifici templari del Vicino Oriente. Era il simbolo della città carovaniera, della sua pluralità culturale e religiosa. Ne parleremo in occasione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, di cui la nostra rivista è il principale media partner. Qui, all’ombra dei magnifici templi greci, donne e uomini provenienti da tutto il mondo si incontrano, ogni anno, per parlare di archeologia, di viaggi, di monumenti, luoghi e memorie. Nello spirito di Paestum, cosí simile a quello, perduto, di Palmira... Andreas M. Steiner

Tempio di Baal-Shamin

Tempio di Bel

Santuario


SOMMARIO EDITORIALE

Baal-Shamin e lo spirito di Paestum

SCAVI 3

di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

8

La dea del lago

34

testi di Giuseppina Ghini, Francesca Diosono, Paolo Braconi

MOSTRE

Il ritorno del Sileno

66

di Simona Rafanelli

34

SCOPERTE Nuovi e inaspettati ritrovamenti compiuti in Inghilterra insidiano il primato di Stonehenge 8 ALL’OMBRA DEL VESUVIO La Palestra Grande di Pompei riapre al pubblico e accoglie i magnifici affreschi di Moregine 16 INCONTRI Con un convegno a Roma e varie mostre correlate, l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria risale alle origini della gastronomia 20

DALLA STAMPA INTERNAZIONALE Una nuova ipotesi sulle cause che portarono al crollo repentino della civiltà micenea 30

STORIA

Le avventure di Anfiarao

54

di Monica Salvini

MOSTRE

Un archeologo con il saio di Giuseppe M. Della Fina

60

54

In copertina Gertrude Bell, viaggiatrice e studiosa d’archeologia inglese (1868-1926) nel giugno del 1900, presso il monumento funerario di Qubbet ed Duris (oggi in Libano).

Anno XXXI, n. 368 - ottobre 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Stefania Berlioz è archeologa. Claudio Bizzarri è direttore del PAAO (Parco Archeologico e Ambientale dell’Orvietano) e Professor in residence di University of Arizona Study Abroad Program in Italy. Paolo Braconi è ricercatore confermato di storia romana presso l’Università di Perugia. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è archeologo e direttore di Mastarna s.r.l., ente gestore del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Francesca Diosono è titolare di una borsa di studio Alexander von Humboldt presso l’Istituto di Archeologia Classica della Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Giuseppina Ghini è direttore del Museo delle Navi Romane di Nemi. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Luca Nejrotti è presidente dell’Associazione «Cultura e Storia» (ACT) di Torino. Manuela Paganelli è archeologa presso Mastarna s.r.l. Simona Rafanelli è direttore del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Monica Salvini è direttore del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Illustrazioni e immagini: The Gertrude Bell Archive, Newcastle University: copertina (e pp. 86/87), pp. 3, 88/89, 93-95, 96/97, 98-101, 102/103, 104/105 – Cortesia The American School of Oriental Research: pp. 4/5 – Cortesia Ludwig Boltzmann Institute for Archaeological Prospection and Virtual Archaeology: pp. 8/9, 10-11 – Cortesia University of Reading: p. 9 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 12-13, 34/35, 37 (piena pagina), 38-39, 40/41, 42-43, 44 (basso), 46-51, 52/53, 53, 70-72, 73 (basso), 74-80, 82-83, 106-108, 110-111 – Cortesia Soprintendenza


70

Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Ceneri senza nome 106 di Daniele Manacorda

SCAVI

Longobardi in Maremma di Carlo Casi, Manuela Paganelli, Luca Nejrotti

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

GLI IMPERDIBILI

E Prassitele creò la donna di Daniele F. Maras

106

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Virilità divina 80

di Francesca Ceci

LIBRI

Archeologia delle Marche: p. 14 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 16-17 – Cortesia Soprintendenza Archeologia dell’Emilia-Romagna: p. 20 – Doc. red.: pp. 21, 30, 85, 90-92, 96 (basso), 104 (alto) – Marka: Adam Eastland: p. 36; Marco Scataglini: p. 37 (riquadro) – Corbis Images: Bettmann: p. 41 (alto) – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale: p. 44 (alto; elaborazione grafica Guido Batocchioni e Laura Romagnoli, 2013), planimetria a p. 45, ricostruzione 3D a p. 52 (Guido Batocchioni e Giancarlo Verzilli) – Foto Scala, Firenze: p. 45 (alto); Mark E. Smith: p. 109 – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Toscana: pp. 54-59 – Cortesia Fondazione Civiltà Bresciana: pp. 60-64 – DeA Picture Library: G. Nimatallah: p. 65; A. Dagli Orti: p. 84 – Cortesia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi», Vetulonia: pp. 66-69 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 81; Rue des Archives/Spaarnestad: p. 88 (alto) – Archivi Alinari, Firenze: Mary Evans Picture Library: pp. 86 (Illustrated London News Ltd), 88 (centro), 103 (alto), 104 (centro), 105 – Bridgeman Images: Pictures from History: p. 89 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 36, 73 (alto). Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

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86 SPECIALE

Gertrude Bell e il sogno del Vicino Oriente 86 di Stefania Berlioz

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCOPERTE Gran Bretagna

PIÚ ANTICO, PIÚ GRANDE, PIÚ… STRANO!

M

eraviglia indiscussa del mondo moderno, Stonehenge è uno dei monumenti megalitici piú celebri di sempre, ma, nell’estate appena trascorsa, a insidiare il suo primato, dai terreni britannici sono emersi due contendenti di sicuro livello. Il primo è Marden Henge, circa 15 km a nord di Stonehenge (in direzione di un altro famoso circolo megalitico, Avebury): a un’occhiata superficiale, sembrerebbe soltanto un ridente paesaggio agricolo immerso nei campi di segale e, invece, si prospetta, come il piú grande sito neolitico della Gran Bretagna (dieci volte l’ampiezza di Stonehenge), databile secondo gli archeologi intorno al 2400 a.C. Il secondo «concorrente», Durrington Walls, si trova 3 km a nord di Stonehenge, e i ritrovamenti che vi sono stati

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effettuati hanno rivoluzionato le ipotesi finora formulate sull’aspetto di questo paesaggio nel Neolitico. Sotto il piano di campagna, infatti, sono state individuate le tracce di quasi 100 megaliti, risalenti a un periodo probabilmente coevo alla costruzione di Stonehenge, vale a dire intorno al 2500 a.C. Gli scavi a Marden Henge sono stati condotti da un’équipe dell’Università di Reading diretta da Jim Leary, che già nel 2010 aveva svolto indagini sul sito,


confermandone l’alto potenziale archeologico; fatto singolare, quelle furono le prime ricerche effettuate nell’area dopo alcuni studi della metà del secolo scorso. Gli scavi hanno portato alla luce strutture architettoniche, reperti litici e ceramici e resti animali e umani; un quadro complesso che ha aperto interrogativi affascinanti. In particolare, sono state individuate le ossa di almeno tredici esemplari di maiali, e questo ha fatto ipotizzare un grande consumo di carne, forse in occasione di banchetti rituali. Proseguendo gli scavi all’interno di una struttura neolitica, è emersa una sepoltura dell’età del Bronzo contenente lo scheletro di un individuo di giovane età, secondo Leary testimonianza del fatto che il luogo manteneva un’importanza anche in epoca piú tarda. Inoltre, il terreno e le pietre all’interno della struttura hanno mostrato segni di una combustione prolungata e ripetuta, suggerendo diverse ipotesi

interpretative. L’uso per cerimonie di purificazione rituale attraverso il fuoco e il vapore, o, piú prosaicamente, un ambiente usato come affumicatoio per le carni, o, addirittura – in considerazione della vicinanza cronologica con l’età del Bronzo –

In alto: Marden Henge (Wiltshire, Inghilterra sud-occidentale). Lo scheletro di un giovane sepolto nell’età del Bronzo all’interno di una piú antica struttura neolitica. Sulle due pagine: uno scorcio del circolo megalitico di Stonehenge, la cui realizzazione si colloca intorno alla metà del III mill. a.C. un rudimentale tentativo di lavorazione dei metalli. Le ricerche a Marden Henge sono svolte nell’ambito di un progetto triennale che terminerà nel 2017.

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n otiz iario A Durrington Walls, nell’immediata periferia di Stonehenge, invece, nessuno sospettava la presenza di costruzioni megalitiche. La scoperta è merito dello Stonehenge Hidden Landscape Project, un progetto di ricerca internazionale, guidato dall’Università di Birmingham in collaborazione con il viennese Ludwig Boltzmann Institute for

Archaeological Prospection and Virtual Archaeology e altri enti, che sta realizzando la mappatura del sottosuolo intorno al circolo. Le ricerche sono state effettuate dalla superficie con tecnologie non invasive – come il «georadar» –, che permettono di ottenere una panoramica del terreno, da pochi metri ad alcune decine di metri di

Qui sotto: fotomosaico dei monumenti megalitici localizzati nell’area di

Sotnehenge grazie alle prospezioni del Ludwig Boltzmann Institute.

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profondità, senza richiedere alcun intervento di scavo. Il sito si presenta come una conca digradante verso il letto del fiume Avon, caratterizzata da un rilievo di forma semicircolare a una delle estremità. Questo rappresenta il basamento di un muro di recinzione in terra, databile a circa un secolo dopo la costruzione di Stonehenge. La sorpresa è stata che proprio qui, in un periodo presumibilmente coevo o

addirittura precedente a Stonehenge, si ergeva una fila di quasi 60 monoliti, molti dei quali sono giunti indisturbati fino a oggi, perché custoditi dal terreno che li ha nascosti. Per il momento non sono ancora stati effettuati scavi, ma gli archeologi ipotizzano che si tratti di pietre sarsen (l’arenaria utilizzata anche per molti dei monoliti di Stonehenge) analoghe alla cosiddetta «Cuckoo Stone», unica nei dintorni, ancora visibile a poca distanza dal muro. Lo Stonehenge Hidden Landscape Project è un progetto di ricerca avviato nel 2010, i cui risultati saranno presentati in una mostra in programma dal 20 marzo al 27 novembre 2016 nella cittadina austriaca di Mistelbach. Paolo Leonini

In alto: elaborazione di una foto aerea di Durrington Walls, sulla quale è indicata, in 3D, la fila di monoliti di cui è stata scoperta la presenza. Sulle due pagine: prospezioni con il georadar nei pressi di Stonehenge. Nella pagina accanto, in alto: ricostruzione in 3D dei monoliti allineati a ridosso della conca digradante verso il fiume Avon.

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n otiz iario

SCAVI Etruria

IL TRUST SI ADDICE AGLI ETRUSCHI

N

el 2015, il Trust Sostratos ha raddoppiato i suoi sforzi e le attività, finanziando le campagne di scavo di Orvieto, presso la necropoli di Crocifisso del Tufo, e di Sferracavallo a Norchia, a conferma di come un soggetto privato possa contribuire alla creazione di progetti finalizzati nel campo della ricerca archeologica. Terminati gli scavi, le operazioni continuano ora con lo studio, il restauro e la musealizzazione dei reperti. Ma vediamo dunque quali sono stati gli esiti piú significativi delle indagini appena concluse. Dopo un lunga interruzione, sono riprese le indagini archeologiche nella necropoli di Crocifisso del Tufo a Orvieto. La campagna condotta nell’estate 2015 (la prima di un progetto almeno triennale) ha permesso il recupero del settore occidentale del complesso, nel quale si colloca una delle tombe a circolo piú antiche del sito, datata al VII secolo a.C.; sono stati ritrovati numerosi monumenti funerari, fra i quali una tomba a cassetta che ha restituito intatto il suo corredo di buccheri e vasi in bronzo. Tra i materiali, segnaliamo una paperella e un galletto in bucchero, quest’ultimo pertinente a un coperchio di anfora. È stata inoltre eliminata la vegetazione infestante da tutta la necropoli e sono stati installati pannelli esplicativi bilingue. Il progetto, infatti, opera a piú livelli, da quello della valorizzazione a quello della ricerca scientifica e della formazione. La necropoli di Crocifisso del Tufo è gestita dalla Soprintendenza Archeologia dell’Umbria, che l’ha affidata al Comune con una concessione triennale, nel cui ambito il Trust

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Nella pagina accanto, in alto: Norchia, località Sferracavallo. La tomba intatta localizzata durante le operazioni di ripulitura nell’area della vicina Tomba a Casetta. A destra: uno skyphos (bicchiere a due manici) facente parte del corredo della nuova tomba. Nella pagina accanto, in basso: Orvieto, necropoli di Crocifisso del Tufo. La paperella in bucchero trovata in una tomba a cassetta compresa in un complesso databile al VII sec. a.C. Sostratos assicura la copertura economica e l’organizzazione del cantiere, mentre l’Institute for Mediterranean Archaeology esegue indagini archeometriche e, sotto la direzione di Claudio Bizzarri e del suo staff, si alternano studenti di atenei italiani ed esteri, archeologi professionisti e volontari. Il cantiere è «aperto» e fornisce anche ai visitatori occasionali una rara opportunità per comprendere le tecniche legate alla moderna ricerca archeologica. Il sito torna a parlare, in maniera garbata ma forte, degli Etruschi di Orvieto, della loro voglia di vivere protetti dal terrore dell’ignoto, esorcizzato in mille modi, col bere e col mangiare, col costruire e col decorare, col lasciare che siano le pietre di oggi a raccontarci di loro. A Norchia, invece, nuove indagini hanno interessato la Tomba a Casetta di Sferracavallo (vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015). Coordinate da Simona Sterpa con Bianca Ballerini, coadiuvate da volontari, le indagini hanno avuto come risultati la pulitura della camera sepolcrale della Tomba a Casetta e il suo rilievo completo, comprensivo dell’interessante scaletta ricavata nel tufo che conduce alla sommità del masso in cui è stata ricavata la tomba e che

pare proseguire ancora verso la parete tufacea superiore, in una sorta di antico percorso funerario tutto da riscoprire. La pulizia del corridoio d’accesso alla sepoltura ha portato all’individuazione, a pochi metri di distanza dalla prima, di un’altra tomba inviolata, scavata nel tufo e sormontata in parete da una sorta di nicchia decorata (forse un bucranio o un altro segnacolo identificativo). Lo scavo di questa seconda deposizione, richiusa da un grande blocco rettangolare e anch’essa sorprendentemente intatta, se non per il crollo parziale del soffitto, ha restituito un corredo ceramico in 11 pezzi, attualmente in restauro, che si avvicina per cronologia a quello già rinvenuto (IV-III secolo a.C.) e che fa supporre legami, forse di parentela, tra gli antichi personaggi lí seppelliti. I favorevoli e insperati risultati conseguiti, tra il 2013 e il 2015, in meno di due mesi complessivi di scavo, con il ritrovamento di due tombe integre in una necropoli come quella di Norchia – dove da un trentennio non si effettuavano indagini sistematiche –, stanno

portando alla formulazione del «Progetto Norchia, la necropoli di Sferracavallo». Le parti sinora protagoniste delle operazioni – l’associazione Archeotuscia, Pietro Stelliferi, proprietario del terreno, e il Trust di scopo Sostratos – sottoporranno al Ministero competente un piano d’intervento triennale, che mira alla valorizzazione dell’area sepolcrale di Sferracavallo. Essa consisterà nella ripulitura delle numerose tombe circostanti e nella realizzazione di un percorso naturalistico e archeologico, che permetterà al visitatore di scoprire una zona poco nota di Norchia, situata a ridosso della via Clodia e del torrente Biedano, immersa nel verde e con un interessantissimo habitat naturale. La visita, supportata da un apparato didattico relativo a quanto presentato, inizierà cosí nella necropoli per concludersi a Viterbo, nel Museo Archeologico della Rocca Albornoz (dove è già esposto il corredo della Tomba a Casetta, che si spera venga quanto prima raggiunto dai materiali appena ritrovati). Claudio Bizzarri, Francesca Ceci

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n otiz iario

SCOPERTE Marche

OGNI COSA AL SUO POSTO

U

na necropoli picena è recentemente venuta alla luce in località Casine di Paterno, nel territorio del Comune di Ancona, grazie a un intervento di archeologia preventiva. Lo scavo stratigrafico, eseguito sotto la direzione scientifica della Soprintendenza Archeologia delle Marche, colloca le sepolture indagate nella fase dell’età del Ferro IVB, secondo la suddivisione proposta da Delia Lollini, cioè nel primo quarto del V secolo a.C. «Il settore di necropoli indagato – spiega Maria Raffaella Ciuccarelli, funzionario archeologo della Soprintendenza – consta al momento di quattro tombe a inumazione in fosse terragne, di

forma sub-rettangolare, di grandi dimensioni (1,80-2,00 x 1,40 m circa), aventi una profondità compresa fra i 40 e i 90 cm e orientate E-W o NE-SW. In due casi le fosse erano coperte da un assito ligneo orizzontale, di cui sono stati rinvenuti numerosi resti ben conservati; l’assito poggiava su una risega che correva lungo i margini del taglio ed era In alto: una delle tombe picene scoperte in località Casine di Paterno, nel territorio di Ancona, con il corredo ancora in posto. Primo quarto del V sec. a.C. A sinistra: la stessa tomba in corso di scavo.

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sostenuto da un palo centrale di cui è stata rinvenuta la buca sul fondo della fossa con resti lignei all’interno. Almeno in un caso (tomba 1) la fossa era inclusa in un circolo di circa 6 m di diametro, parzialmente conservato, costituito da pietre di arenaria. Gli inumati giacevano distesi a ridosso di uno dei lati lunghi e, a causa di eventi post-deposizionali, sono stati talvolta dislocati già in antico all’interno della tomba. Il corredo era disposto con un preciso ordine e grande regolarità ai piedi e soprattutto lungo il fianco dei defunti, con una chiara delimitazione degli spazi all’interno della fossa anche dettata dalla funzione del vasellame e dello strumentario deposto. Adiacente alla necropoli dell’età del Ferro, sono state rinvenute una tomba alla cappuccina di epoca romana e un’ampia area di frequentazione coeva alle sepolture picene con marcati caratteri insediativi e produttivi. La prosecuzione dell’indagine archeologica presso la necropoli e nell’area di frequentazione limitrofa apporterà certamente nuovi e significativi dati relativi agli aspetti di questa fase tarda dell’età del Ferro nell’entroterra anconetano anche in relazione ai siti di età ellenistica e romana già noti da segnalazioni nel territorio circostante. Giampiero Galasso



ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

APOLLO VA IN PALESTRA IL GRANDE IMPIANTO POMPEIANO PER LA PRATICA GINNICA E SPORTIVA È STATO RIAPERTO AL PUBBLICO E SI PROPONE COME CONTENITORE D’ECCEZIONE PER I MAGNIFICI AFFRESCHI PROVENIENTI DA MOREGINE

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ell’angolo sud-occidentale di Pompei, sulla piazza di fronte all’Anfiteatro (la cui arena ospita attualmente la piramide della mostra «Pompei e l’Europa»; vedi «Archeo» n. 367, settembre 2015), si trova un grande edificio rettangolare, dall’aspetto severo all’esterno, per via degli alti muri perimetrali merlati, ma aggraziato all’interno per la presenza di lunghi e armoniosi portici disposti solo su tre lati, scanditi da 118 colonne in laterizio stuccato. Si tratta della principale palestra pubblica cittadina, costruita in piena età augustea sul modello del ginnasio greco, in sostituzione della piccola Palestra di età sannitica, elegante ma ormai inadeguata, posta in prossimità del Foro triangolare e del Teatro. La Palestra Grande rappresentava uno spazio verde libero destinato alla formazione del corpo e della mente, e in particolare agli esercizi ginnici tenuti dalle associazioni giovanili locali: molte di queste attività erano promosse dalla propaganda dell’imperatore, che qui era venerato in un ambiente posto al centro del portico occidentale e aperto verso la corte interna, con la statua imperiale alloggiata su una base ancora conservata. Un’associazione sportiva giovanile attiva nella

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Palestra, identificata come Iuventus, forse a carattere paramilitare, potrebbe avere avuto non poco peso nella sanguinosa rissa contro i Nocerini scoppiata nel 59 d.C., che provocò la squalifica dell’Anfiteatro per ben 10 anni. Interamente scavato fra gli anni 1930 e 1950, l’edificio è rappresentato schematicamente proprio nella famosa pittura che raffigura quello scontro. Dopo il completamento dei restauri, la Palestra Grande è stata riaperta al pubblico e questo avviene con una proposta di visita che offre da un lato la possibilità di godere dei suoi spazi – nel loro aspetto originario – e, dall’altro, di ammirare, sotto i portici Uno scorcio della Palestra Grande di Pompei, riaperta nello scorso agosto dopo un ampio intervento di restauro.

meridionali, gli splendidi affreschi di Moregine, esibiti finora solo in mostre internazionali, mediante un allestimento d’impatto emozionale supportato da un’installazione sonora realizzata dal Centro di Ricerca Musicale di Roma. L’intervento si inserisce in un progetto della Soprintendenza che prevede la destinazione di uno degli edifici di maggiore estensione della città a spazio espositivo permanente, allo scopo di arricchire con nuovi percorsi di visita l’offerta turistica degli scavi. Per l’allestimento del portico sud della Palestra sono state utilizzate lastre di cristallo con acciaio Cor-Ten a rivestimento delle pareti, cosí da riprodurre un modulo


decorativo pittorico tripartito, alternate alle vetrine espositive con gli affreschi originali. Pannelli di tessuto, che ricordano gli antichi velari, sono stati inoltre posti tra le colonne del porticato per proteggere dai raggi solari gli affreschi e al contempo creare un suggestivo gioco di luci e ombre. Un’atmosfera particolare avvolge quindi gli affreschi dal complesso scoperto in località Moregine, circa 600 m a sud delle mura di Pompei, non lontano dalla foce del fiume Sarno e relativo scalo portuale. Il ritrovamento risale al 1959 in occasione della costruzione dell’autostrada Napoli-Salerno. Nei primi scavi venne alla luce l’edificio caratterizzato da un cortile porticato sul quale si affacciavano diversi triclini sontuosamente affrescati, con tramezzi mobili in legno perfettamente conservati, e la zona termale ancora in costruzione. Nel 1999, durante il completamento dello scavo del settore nord della costruzione, le difficoltà emerse durante i lavori, dovute all’affioramento della falda freatica, hanno costretto ad asportare le pregevoli pitture per motivi di conservazione (vedi «Archeo» nn. 183 e 190, maggio e dicembre 2000). Nella Palestra Grande si possono oggi vedere gli affreschi staccati dai tre triclini settentrionali di Moregine, in raffinato IV stile, databili all’epoca claudio-neroniana (metà del I secolo d.C.) e probabile opera delle stesse maestranze che decorarono a Pompei la nobile casa dei Vettii. Il ciclo degli affreschi di Moregine appartiene a un unico programma decorativo di gusto figurativo, commissionato da una proprietà di elevato livello culturale. Il triclinio A occidentale è composto da tre pareti a fondo rosso su cui sono dipinte, assieme ad Apollo, le Muse. Nel triclinio B centrale, le rappresentazioni di

In alto: le teche allestite nella Palestra Grande per esporre gli affreschi provenienti da Moregine. A sinistra: il particolare dell’affresco in cui compare il dio Apollo.

Elena e dei Dioscuri (Castore e Polluce), fra le raffigurazioni delle stagioni, si stagliano sulle eleganti pareti a fondo nero. Infine nel triclinio C orientale, spicca sulle pareti rosse l’originale personificazione di un fiume, forse proprio il Sarno, con vittorie alate tra offerenti legati al mondo apollineo e dionisiaco. Il complesso apparteneva probabilmente alla ricca famiglia puteolana dei Sulpicii, che qui custodiva parte del suo archivio contabile. Forse l’edificio serviva anche per ospitare mercanti e gruppi di avventori legati alle attività commerciali del vicino porto del Sarno. Lo scavo ha restituito, oltre alle strutture archeologiche,

anche materiali di grande interesse, che documentano sia l’apertura del sito ai commerci mediterranei (notevole è la presenza di anfore vinarie provenienti dall’Egeo), che le attività commerciali attraverso tavolette cerate con contratti registrati. Ma, soprattutto, spicca un nucleo di argenterie di eccezionale qualità. Di particolare interesse sono le modalità di rinvenimento dei preziosi, ritrovati nel settore termale dell’edificio: in una latrina fu scoperta una grande gerla in vimini, apparentemente piena di sola terra dell’eruzione. Dalle radiografie fatte dopo il recupero del contenitore si sono intravisti dei corpi metallici; venti vasi da tavola in argento sbalzato e cesellato che il microscavo ha consentito di portare alla luce: piatti, coppe, supporti, un cucchiaino. Oltre agli affreschi, nel porticato della Palestra sono esposti anche alcuni materiali provenienti dallo scavo del fastoso edificio.

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INCONTRI Roma

DA BISOGNO PRIMORDIALE A CULTURA

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acendo proprio il messaggio lanciato dall’EXPO 2015 («Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita»), l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria ha scelto l’alimentazione come tema della 50ma Riunione Scientifica, in programma a Roma, dal 5 al 9 ottobre. Ed è difficile pensare a una coincidenza piú felice: analizzare le modalità di reperimento, produzione o trattamento del cibo è, in ambito preistorico, una delle sfide piú avvincenti. Fin dalle epoche piú antiche, infatti, la risposta a quello che era un bisogno primordiale, e al cui soddisfacimento si è sempre legata la sopravvivenza, ha costituito uno stimolo formidabile per l’uomo: che, già da predatore, imparò ad affinare le tecniche di procacciamento della selvaggina o a produrre strumenti sempre meglio conformati, per esempio, per l’abbattimento delle prede o la macellazione delle carni. Cosí come, del resto, anche uno dei punti di svolta della nostra storia, la rivoluzione neolitica, si lega a doppio filo con la sfera «alimentare», dal momento che con essa si intende il passaggio alla produzione delle risorse, grazie alla domesticazione delle piante e degli animali. Non deve quindi stupire che l’incontro promosso dall’IIPP si sviluppi nell’arco di oltre tre giorni, articolandosi in quattro sezioni: L’uomo è ciò che mangia; L’ambiente come fonte di risorse alimentari; Manipolazione e conservazione delle risorse alimentari; Tra ritualità e potere. Titoli che, pur nella sintesi, suggeriscono uno degli elementi essenziali della questione (e della ricerca preistorica in generale), vale

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A destra: Cortile S. Martino (Parma). Un impianto idraulico di drenaggio e irrigazione della campagna, costituto da canalette, pozzi e cisterne. Inizi della Media età del Bronzo.

a dire l’importanza e la necessità dell’approccio interdisciplinare: a proposito del cibo, infatti, sarebbe impensabile condurre uno studio meramente classificatorio o statistico, senza avvalersi, per esempio, dei contributi offerti dalla paleobotanica o dallo studio delle tracce di sostanze riconducibili all’uso alimentare di utensili in selce o contenitori in ceramica. Merita senz’altro d’essere segnalata, in parallelo con lo svolgimento della Riunione, la programmazione di una serie di conferenze aperte al pubblico, nonché la realizzazione di due mostre temporanee legate al tema l’alimentazione: la prima, a Firenze, «30.000 anni fa. La prima farina» (fino al 6 gennaio 2016 negli Spazi Espositivi dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze); la seconda a Farnese (Viterbo): «Il sapore della storia» (fino al 31 dicembre, allestita nel Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller»). Il tutto mentre, pochi giorni prima

di mandare in stampa questo numero, è stato annunciato il ritrovamento di tracce di una sorta di farina di avena su un pestello in pietra proveniente dal giacimento paleolitico di Grotta Paglicci, nel Gargano, databile a 33 000 anni fa: ennesima testimonianza di una storia che non smette di arricchirsi e spostare sempre piú indietro nel tempo la messa a punto di approcci tutt’altro che casuali alla gestione delle risorse alimentari. Stefano Mammini

DOVE E QUANDO «Preistoria del cibo. L’alimentazione nella preistoria e nella protostoria» 50ma Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria dal 5 al 9 ottobre Roma, Musei Capitolini, Casa dell’Architettura e Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» Info www.preistoriadelcibo.it


MOSTRE Lazio

UN MISTERO DA SALVARE

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el cuore del rione Monti, a Roma, in un vicolo che si affaccia sull’imponente profilo del Colosseo, si trova la bottega d’arte del maestro Michele Paternuosto. Pittore e restauratore, da oltre cinquant’anni ricerca e sperimenta una delle piú affascinanti e misteriose tecniche artistiche tramandateci dall’antichità: l’encausto. Diffusa in Egitto, e poi in Grecia e a Roma, ne abbiamo ancora testimonianze dirette sulle pareti di Pompei, Ercolano e Oplontis e negli struggenti ritratti del Fayyum. Caduta in disuso nel Medioevo, nel Cinquecento fu recuperata da Leonardo da Vinci, il quale tentò, senza successo, di utilizzarla per la sua Battaglia di Anghiari in Palazzo Vecchio. Ingrediente principale di questa tecnica è la cera, a cui, liquefatta, vengono mescolati i pigmenti in polvere. Dopo la stesura, ogni parte deve essere ripassata con una punta di metallo (cauterio) opportunamente riscaldata, per fissare i colori al supporto. Versatile quanto difficile da padroneggiare, l’encausto si presta all’impiego su numerosi supporti

In alto: un ritratto di ragazza, realizzato dal maestro Paternuosto, con la tecnica dell’encausto su legno. In basso, a sinistra: un’altra opera del maestro, un esempio di decorazione pompeiana, a encausto su stucco. (tra gli altri: marmo, intonaco, gesso legno, cotto, vetro, carta) e consente anche di utilizzare colori come il nero, il cinabro, il minio, l’alizarina – incompatibili, per esempio, con l’affresco –, permettendo di ottenere risultati di grande intensità cromatica. La ricerca del maestro Paternuosto è iniziata con il fascino delle pitture della Villa dei Misteri, vedute in tenera età durante una visita con il padre, ed è proseguita incessantemente nel corso di una vita, inseguendo quella magia, attraverso lo studio e la verifica empirica delle fonti letterarie come Plinio il Vecchio (Naturalis Historia)

e Vitruvio (De Architectura), una meticolosa ricerca delle materie prime e il confronto con le fonti figurative. Il successo nei risultati è visibile oggi nelle sue opere, che danno pienamente ragione del lavoro svolto, come, nel tempo, confermato da autorevoli studiosi e restauratori, oltre che dal favore di committenti in Italia e all’estero. Ma quale futuro attende questo prezioso patrimonio di arte e conoscenza? Il desiderio di Paternuosto è quello di trasmetterlo ai giovani, perché non vada perso. Formare una scuola di allievi, a Roma, che, potendosi avvalere della sua esperienza, prosegua lo studio e la pratica di questa raffinata tecnica pittorica (la bottega del maestro si trova a Roma, in via del Cardello 21/b; info: www. encausticitalia.com; e-mail: morenart@libero.it). Chi voglia conoscere da vicino le opere di Michele Paternuosto potrà anche visitare la mostra che si aprirà ad Aquino tra pchi giorni. P. L.

DOVE E QUANDO «Encausto: l’arte della pittura antica nelle mani di un artista contemporaneo» fino al 21 novembre (dal 18 ottobre) Aquino (Frosinone), Museo della Città di Aquino Orario lu-gio, 9,00-13,00; ve, 15,30-18,30; sa, 9,00-18,30; do, 9,00-13,00 e 15,30-18,30; chiuso il mercoledí Info tel. 0776 729061; e-mail: museo@comune.aquino.fr.it

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

REGINA APPIA Il giornalista e saggista Paolo Rumiz ha 1 dedicato l’ormai tradizionale reportage estivo de la Repubblica all’Appia antica, la «regina viarum» delle strade consolari romane. Con una ridotta squadra di collaboratori, Rumiz ha effettuato a piedi l’originario percorso della via tracciata da Appio Claudio Cieco, rintracciandolo con enormi difficoltà tra ostacoli di ogni genere. Il suo obiettivo è quello di restituire agli Italiani la memoria e la fruibilità di questo incredibile patrimonio, o almeno di quel che ne rimane, cercando di preservarlo da ulteriori saccheggi, attraverso la creazione di un percorso archeologico-turistico, sulla falsariga di quanto sperimentato con la via Francigena o il cammino di Santiago de Compostela. Diamo quindi volentieri un contributo a questa iniziativa, presentando il materiale filatelico che riguarda la Via Appia e alcune località fino a Brindisi. L’inizio può essere simbolizzato da un francobollo italiano del 1932 che raffigura il Miliarium Aureum con il nome di alcune strade consolari tra cui l’Appia (1) e da un francobollo del 1955, che mostra il palazzo della FAO a Roma, sorto là dove una volta c’era Porta Capena, l’inizio effettivo della strada (2); un terzo francobollo può dare l’idea di come si presentasse il basolato di una strada romana (3). Nel tratto iniziale ci sono diverse catacombe famose, come quelle di Domitilla (4) e, poco dopo, il mausoleo di Cecilia Metella, il monumento forse piú celebre dell’intero percorso (5). L’immagine piú classica dell’Appia degli innamorati è ben raffigurata da un francobollo del 1988 e da questa maximum del 1989 (6, 7). Per la località di Tres Tabernae c’è un annullo automatico di Cisterna (8) e per la Pianura Pontina, con l’area poi bonificata, un francobollo del Vaticano (9). C’è anche la possibilità di illustrare il tempio di Giove Anxur a Terracina (10) e la tomba di Cicerone a Formia (11); il fiume Volturno con cartolina e francobollo (12) e Benevento con l’arco di Traiano (13); e cosí Venosa (14), la località che diede i natali a Orazio (famosa la sua V Satira, con la quale il poeta descrive il suo viaggio da Roma a Brindisi proprio lungo una parte dell’Appia). Infine la colonna terminale a Brindisi è ben raffigurata da questo annullo fatto sulla nave Vespucci (15).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it



CALENDARIO

Italia

CHIUSI La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi

ROMA Terrantica

Museo Nazionale Etrusco fino al 31.12.15

Volti, miti e immagini della terra nel mondo antico Colosseo fino all’11.10.15

Particolare della corsa delle bighe dipinta nell’atrio della Tomba del Colle di Chiusi. 475-450 a.C.

Nutrire l’Impero

Storie di alimentazione da Roma e Pompei Museo dell’Ara Pacis fino al 15.11.15

La forza delle rovine

Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 31.01.16 (dall’08.10.15)

Tesori della Cina Imperiale

In alto: la dea Annona sulla fronte dell’omonimo sarcofago.

L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16

ACQUI TERME La città ritrovata

Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16

BIBBIENA (AR) Alto Medioevo Appenninico

Testimonianze altomedievali fra Casentino e Val Bidente Museo Archeologico del Casentino fino al 01.11.15

BOLOGNA Splendore millenario

Capolavori da Leiden a Bologna Museo Civico Archeologico fino al 17.01.16

BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po

Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia e Area Archeologica fino al 17.02.16 (dal 16.10.15)

CASALE MONFERRATO diVino

Le antiche terre d’Egitto e del Monferrato regni della cultura del vino Castello, Manica Lunga fino all’01.11.15

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15 28 a r c h e o

FARNESE (VT) Il sapore della storia

Un racconto archeo-gastronomico della media valle del fiume Fiora Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» fino al 31.12.15

FIRENZE Il mondo che non c’era

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 06.03.16

GENOVA Le sfide di Homo sapiens Museo di Archeologia Ligure fino al 31.12.15

GROSSETO Uomini e elefanti

nella Maremma preistorica Cassero Senese fino al 31.12.15

MARANO LAGUNARE (UD) Spatha

Dal mare una spada con mille anni di storia Museo Archeologico della Laguna di Marano fino al 01.11.15

MILANO L’isola delle torri Tesori dalla Sardegna nuragica Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15

Mito e Natura Dalla Grecia a Pompei Palazzo Reale fino al 10.01.16

Affresco dalla Casa del Bracciale d’Oro di Pompei. Età giulio-claudia.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Gran Bretagna

NAPOLI E POMPEI Pompei e l’Europa 1748-1943

LONDRA Celti: arte e identità

Napoli, Museo Archeologico Nazionale Scavi di Pompei, Anfiteatro fino al 02.11.15

British Museum fino al 31.01.16

ORVIETO Voci ritrovate

Egitto

Archeologi italiani del Novecento Museo Archeologico «Claudio Faina» fino all’08.11.15

La fede dopo i faraoni British Museum fino al 07.02.16 (dal 29.10.15)

SENALES (BZ) Ma Ötzi, che lingua parlava?

Grecia

Parlare e scrivere-ieri e oggi ArcheoParc Val Senales fino al 01.11.15

ATENE Un sogno tra splendide rovine... Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.11.15

ZUGLIO (UD) Celti sui Monti di Smeraldo

Civico Museo Archeologico «Iulium Carnicum» fino al 31.10.15

Samotracia

I misteri dei Grandi Dèi Museo dell’Acropoli fino al 10.01.16 (prorogata)

Belgio BRUXELLES Anatolia

AMSTERDAM Roma

Sarcophages

Il sogno dell’imperatore Costantino De Nieuwe Kerk fino al 07.02.16

Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16 (dal 15.10.15)

Svizzera

Francia Le diseguaglianze nel Neolitico Musée national de Préhistoire fino al 15.11.15

Placchetta in avorio con figura di Sirena, da Efeso. Prima metà del VII sec. a.C.

ZURIGO Il gesso conserva

USA

BRAMSCHE-KALKRIESE Io Germanico!

NEW YORK Kongo: potere e maestà

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16

In basso: statuetta raffigurante una personificazione del potere, arte degli Yombe (Angola).

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia fino al 25.10.15

Germania Condottiero, sacerdote, superstar Museo e Parco Kalkriese fino all’01.11.15

Qui sopra: veduta del tempio di Zeus Olimpio col fiume Ilisso.

Olanda

Casa dell’eternità BOZAR/Palais des Beaux-Arts fino al 17.01.16 (dal 07.10.15)

LES EYZIES-DE-TAYAC Segni di ricchezza

In alto: testa in bronzo di Augusto, da Meroe. 27-25 a.C.

The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.16

PHILADELPHIA Sotto la superficie

Vita, morte e oro nell’antica Panama University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino all’01.11.15 a r c h e o 29


L’ARCHEOLOGIA NELLA STAMPA INTERNAZIONALE Andreas M. Steiner fino ai Babilonesi e agli Assiri. Nell’ultimo numero della rivista tedesca Antike Welt, vari contributi indagano sulla scomparsa repentina della fiorente civiltà palaziale di Micene.

CIVILTÀ AL COLLASSO

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entre risultano comprensibili (e, in parte, spiegabili) quei fenomeni che, nel lungo periodo, hanno portato alla nascita e, poi, alla decadenza di una civiltà, assai piú difficile è indagare le ragioni che, invece, hanno determinato la scomparsa di interi complessi culturali nell’arco di un periodo breve. Alla fine del XII secolo a.C., imponenti sconvolgimenti nelle strutture del potere politico hanno coinvolto una serie di culture del Mediterraneo orientale e del Vicino Oriente che, nei secoli precedenti erano in piena fioritura: dai Minoici ai Micenei, dagli Ittiti agli Egiziani,

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Un lungo elenco di nomi designa le civiltà che, tra il XV e il XIII secolo a.C., dominavano l’Egeo e il Mediterraneo orientale ed erano legate tra loro da intensi traffici commerciali. Come premette lo studioso americano Eric H. Cline (che al tema ha dedicato il volume 1177 a.C. il collasso della civiltà, Torino 2014), «Sappiamo anche che, in un certo momento, molte delle loro città subirono distruzioni e che, intorno al 1177 o poco dopo, le culture della tarda età del Bronzo dell’Egeo, del Mediterraneo orientale, dell’Egitto e del Vicino Oriente sarebbero scomparse». Ma non esistono prove univoche su chi o che cosa abbia causato la catastrofe che portò alla fine delle civiltà della tarda età del Bronzo. Si possono, però, elencare alcuni elementi che potrebbero aver Un tratto delle mura ciclopiche di Tirinto, uno dei piú importanti centri della civiltà micenea, situato nell’Argolide, a nord di Nauplia.

concorso al fenomeno, sebbene nessuno di questi possa essere considerato il fattore scatenante: vi furono terremoti (ma, in genere, dopo un terremoto una società, anche nell’antichità, si riprendeva); disponiamo di fonti testuali che parlano di carestie e cambiamenti climatici nell’area presa in esame; le fonti narrano, inoltre, di sollevamenti e rivoluzioni (in Grecia e altrove); nel Levante – da Ugarit (nell’odierna Siria), a nord, fino a Lachish (oggi in Israele), a sud – si verificarono flussi migratori e invasioni, con genti provenienti dall’Egeo, dall’Anatolia occidentale e da Cipro. Alcune delle città colpite da queste invasioni vennero distrutte, altre furono ripopolate, altre ancora rimasero intatte. Appare plausibile che questi fattori abbiano influito negativamente (e per un periodo piú o meno lungo) sui traffici commerciali delle singole culture coinvolte, i Micenei innanzitutto, dei quali sappiamo che dipendevano in modo particolare dai beni di importazione. Nessuno dei fattori sopraelencati possiede, però, le caratteristiche e la forza per determinare il collasso di un insieme di culture tanto vasto e articolato. In mancanza di una spiegazione univoca – osserva dunque Cline –, la fine dell’età del Bronzo nel Mediterraneo orientale può spiegarsi solo ricorrendo a un modello che contempli una combinazione di tutti questi elementi, il cui effetto moltiplicatore avrebbe sortito il collasso delle singole civiltà. E, poiché il Mediterraneo della tarda età del Bronzo era già un mondo globalizzato e interdipendente, il crollo di una civiltà causò, avviando un «effetto domino», la scomparsa di tutte le altre.



SCAVI • NEMI

«Sulla sinistra della via [Appia] per chi sale da Aricia c’è il santuario di Artemide, che chiamano “nemus” (…) Tutt’intorno le montagne formano un cerchio ininterrotto e assai elevato che abbraccia anche il tempio e l’acqua in un luogo incavato e profondo» (Strabone, Geografia,V, 12)

LA DEA DEL LAGO SPECCHIANDOSI NELLE ACQUE DEL BACINO NEMORENSE, IL SANTUARIO DEDICATO A DIANA FU UNO DEI PIÚ IMPORTANTI LUOGHI DI CULTO DEL LAZIO ANTICO, NEL QUALE SI PERPETUAVA ANCHE UN RITO ANCESTRALE: QUELLO DEL REX NEMORENSIS, RESO IMMORTALE DAL RAMO D’ORO DI JAMES GEORGE FRAZER testi di Giuseppina Ghini, Francesca Diosono, Paolo Braconi

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S

ulla riva settentrionale del lago di Nemi, poche decine di chilometri a sud-est di Roma, in un contesto ambientale e paesistico estremamente suggestivo, sorge il santuario di Diana, uno dei luoghi di culto dei Latini piú noti e scavati, a partire dal XVI secolo, anche se inizialmente in maniera discontinua e finalizzata al solo rinvenimento di opere d’arte e statue, finite quasi tutte in musei stranieri. Il fascino del luogo si deve al permanere di una natura pressoché incontaminata, con boschi che cambiano colore con le stagioni, specchiandosi in un lago ancora trasparente, le cui acque si increspano con il vento e brillano sotto i raggi del sole: lo speculum Dianae degli antichi. Altra suggestione, altrettanto forte, è quella determinata dal mito ambientato nel bosco del rex nemorensis, il sacerdote del santuario, che ispirò pittori e storici delle religioni (vedi box alle pp. 42-43). Tuttavia, a fronte di un indiscutibile interesse letterario e artistico, solo dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso sono state avviate ricerche sistematiche nel sito, tuttora in

William Turner, Il ramo d’oro. 1834, Londra, Tate Gallery (il dipinto è descritto in dettaglio a p. 43). a r c h e o 35


SCAVI • NEMI

corso da parte della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale, con la collaborazione, dal 2003, del Dipartimento di Lettere dell’Università degli Studi di Perugia. Il santuario occupa una superficie di 70 000 mq circa, divisa in due terrazze che si affacciano sul lago, occupate da edifici di culto, impianti termali e altri ambienti, oltre che da un ninfeo monumentale (vedi box alle pp. 52-53). I recenti scavi condotti sulla terrazza superiore del santuario provano la frequentazione del luogo, forse già con caratteristiche religiose, nella Media e Tarda età del Bronzo (XIIIXII secolo a.C.), peraltro indiziata dal ripostiglio di asce della Media età del Bronzo (XV secolo a.C.), rinvenuto agli inizi del secolo scorso nel bosco al di sopra del santuario

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Perugia Grosseto

Ascoli Piceno

Orvieto Teramo

Terni Orbetello

Viterbo Rieti

Tarquinia Bracciano Civitavecchia Roma

L’Aquila

Sulmona Tivoli

Nemi

Mar Tirreno Anzio

Frosinone

Latina Sabaudia

In basso: testa in bronzo di Medusa che decorava una delle navi-palazzo fatte allestire da Caligola nel lago di Nemi. I sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo.

e ora conservato al British Museum di Londra. In età arcaica il luogo di culto era un lucus, ossia un bosco sacro, nel quale la dea era venerata nel suo triplice aspetto di cacciatrice (Diana), protettrice

delle nascite (Lucina), divinità ctonia (Ecate) e rappresentata con un’immagine tricorpore (di cui abbiamo il ricordo in alcune monete bronzee di età cesariana; vedi foto a p. 42), che ha sullo sfondo un bosco, già ritenuto di cipressi e identificabile proprio con quello sacro alla dea.

CULTO E POLITICA In questo periodo il santuario nemorense aveva anche un significato politico, essendo il centro federale delle città latine che si riunivano presso il Lucus Ferentinae – identificato con Monte Savello, nel Comune di Albano Laziale – come risulta dall’elenco riportato da Catone nelle Origines; l’autore, che scrive nel II secolo a.C., ai suoi tempi vide la lista delle città che facevano parte della Lega Latina, incisa su una tavola bronzea ancora conservata nel


La «casa» delle navi-palazzo A sinistra: un particolare dell’allestimento del Museo delle Navi romane di Nemi. Progettato da Vittorio Morpurgo, fu costruito negli anni Trenta per ospitare le due navi-palazzo appartenute a Caligola (37-41 d.C.). In questa pagina: pianta dell’area del lago di Nemi, racchiuso tra la località omonima (in alto, a destra) e la cittadina di Genzano (in basso, a sinistra). Sulla riva settentrionale del bacino, il Museo delle Navi romane e l’area del santuario di Diana.

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SCAVI • NEMI

santuario.Tale funzione politica, già indebolita dopo la battaglia del lago Regillo (scontro che oppose, nel 499 o 496 a.C., Romani e Latini, alleati questi ultimi con il re Tarquinio il Superbo, n.d.r.), finí definitivamente dopo lo scioglimento della lega nel 338 a.C., a seguito della battaglia navale di Anzio. Accanto a Diana nel santuario si veneravano anche altre divinità:Virbio (vedi box alla pagina accanto), la ninfa Egeria, a cui era dedicata una fonte, tuttora attiva, situata sotto Nemi oltre a un ninfeo monumentale e, in età imperiale, Iside e Bubasti, divinità egiziane assimilate a Diana, il cui culto è attestato dal

ritrovamento di un’iscrizione, oltre che da oggetti di culto (vedi box a p. 47). In età repubblicana, il santuario – persa ormai la sua funzione politica di sede religiosa della Lega Latina – recupera quella di luogo in cui chiedere fertilità, salute e connesso ai riti di passaggio di status.

UN COMPLESSO ARTICOLATO L’impianto attualmente visibile è attribuibile al II secolo a.C.: è costituito da due terrazze, di cui quella inferiore consistente in una piattaforma di 200 x 175 m, ampliata a ovest nel I secolo a.C. fino a raggiungere i 300 x 175 m, sostenuta a

valle da sostruzioni triangolari (C; questa e le successive indicazioni si riferiscono alla pianta riprodotta a p. 45) e a monte, nell’angolo nord-est, da nicchioni semicircolari (B); all’interno vi erano due portici dorici: uno con colonne in muratura intonacate in rosso e trabeazione in peperino (R) e un secondo, di miA sinistra: la testa della statua di culto di Diana, rinvenuta in una delle celle del santuario. II sec. a.C. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek. Qui sotto: disegno di Pirro Ligorio in cui si immaginano due schiavi in lotta davanti al tempio di Virbio. 1569 circa. New York, Pierpont Morgan Library.


nori dimensioni, con colonne in peperino (Z). La tecnica impiegata era il conglomerato cementizio, rivestito in opera incerta e reticolata di peperino e basalto e, per i restauri adrianei, l’opera mista di reticolato e laterizio. Nella parte centrale della terrazza si trovava il tempio della dea (K). La statua di culto era un acrolito (dal greco akron, estremità, e lithos, pietra, indica un tipo di statua in cui solo la parte superiore, testa e busto, erano in pietra, marmo o avorio, mentre il resto era in legno o altro materiale, n.d.r.), la cui testa fu trovata nel secolo scorso in una delle celle, quindi in giacitura secondaria, ed è ora

esposta alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen; probabilmente formava un gruppo scultoreo insieme a un secondo acrolito, di VirbioAsclepio (vedi box in questa pagina).

LA VIA D’ACCESSO Il santuario era raggiungibile dalla via Appia tramite un diverticolo basolato che, staccatosi dalla strada all’altezza di Genzano, costeggiava il lago (se ne vedono ancora tratti nel giardino comunale di Genzano, lungo la via provinciale che conduce al lago e nel Museo delle Navi Romane di Nemi) per entrare nel recinto sacro dal lato occidentale (U). Nel I secolo a.C., al muro di fondo

della terrazza inferiore vennero addossati vari ambienti chiusi (M), che, per la ricchezza e la quantità dei reperti che contenevano, vennero definiti «celle donarie»; nello stesso periodo, all’esterno del complesso, furono realizzati bagni idroterapici (T), i cosiddetti «alloggi per i sacerdoti» (F) e un piccolo teatro (S); sulla terrazza superiore si realizzò una vasca circolare, che raccoglieva le acque di una vicina sorgente, legata a un culto forse ancora piú antico, poi collegato alla ninfa Egeria. Restauri e abbellimenti furono apportati dagli imperatori giulio-claudi, in particolare da Caligola, che trasformò la vasca della terrazza su-

IL GIOVANE CHE FU DUE VOLTE UOMO Nel santuario nemorense, accanto a Diana, si veneravano anche altre divinità: Virbio, la ninfa Egeria e, in età imperiale, Iside e Bubasti (vedi box a p. 47). Del culto della ninfa Egeria (vedi box alle pp. 52-53) e di Virbio-Ippolito ci danno notizia i poeti di età augustea, in particolare Ovidio, il quale, nei Fasti (III, 262-272) e nelle Metamorfosi (XV, 488 ss.), narra la storia della ninfa, del suo dolore per la morte del re Numa Pompilio e della fine atroce alla quale andò incontro il giovane Ippolito, che fu travolto dal suo carro mentre da Atene si recava verso Trezene, a causa della maledizione del padre Teseo. Accusato ingiustamente dalla matrigna Fedra, che se ne era invaghita senza essere ricambiata, di averla insidiata, venne cacciato dal padre che invocò contro di lui l’intervento del padre divino Poseidone, il quale fece uscire dalle onde del mare un mostro che fece imbizzarrire i cavalli del carro. Il giovane venne risuscitato da Asclepio grazie all’intercessione di Artemide, la quale, affinché non venisse riconosciuto, lo trasformò in un vecchio dal nome Virbio (vir bis, uomo per la seconda volta) e lo trasferí sulle rive del lago nemorense, dove divenne il primo sacerdote della dea Diana (il rex nemorensis), che per questo era chiamata anche Virbia. In ricordo di questo mito nel santuario era interdetto l’ingresso ai cavalli. Con Virbio-Ippolito o con Asclepio (il dio che lo resuscitò) è stato identificato il busto (qui a destra) rinvenuto nel XIX secolo in una delle celle donarie e oggi conservato nel Castle Museum di Nottingham. Giuseppina Ghini

Busto maschile rinvenuto in una delle celle donarie del santuario nemorense e identificato con Virbio-Ippolito o con Asclepio, il dio della medicina che resuscitò il giovane. Nottingham, Castle Museum.

a r c h e o 39


SCAVI • NEMI

«Riprendiamo la strada che s’inombra lungo il fianco della montagna fino a raggiungere Nemi; volgiamo lo sguardo nella conca profonda del lago (...). Ben poco è cambiato questo luogo da quando Diana riceveva l’omaggio dei suoi fedeli nel bosco sacro. Il tempio della dea silvana è scomparso, è vero; il re del bosco non monta piú la guardia al ramo d’oro, ma i boschi di Nemi sono ancora verdi» (James George Frazer, Il ramo d’oro) periore in un ninfeo monumentale e, nella terrazza inferiore, realizzò un’esedra decorata con statue della sua famiglia, apportò modifiche al teatro e, probabilmente, dedicò un sacello a Iside e Bubasti. All’imperatore Adriano risalgono alcuni restauri, fra cui il rifacimento dell’ala nord-orientale del portico interno al recinto a nicchioni (colonnato R in opera mista). Il santuario venne frequentato verosimilmente fino al IV secolo d.C., anche se il suo declino dovette iniziare poco dopo il II secolo d.C. 40 a r c h e o

Con l’avvento del cristianesimo, analogamente a quanto si verificò negli altri luoghi di culto pagani a seguito dell’editto di Teodosio (381 d.C.), venne abbandonato, spogliato di marmi e decorazioni, lasciato all’incuria degli uomini e alle rapine dei «cercatori di tesori», mentre la natura e la vegetazione riconquistavano lentamente i loro spazi.

Musei Capitolini a Roma. I primi scavi ebbero luogo nel secolo successivo e furono commissionati dai marchesi Mario e Pompeo Frangipane, all’epoca proprietari dei terreni attorno al lago di Nemi dopo i Colonna e prima degli Orsini; in quell’occasione si rinvennero materiali votivi e furono parzialmente riportati alla luce i nicchioni semicircolari del recinto sacro. Nel 1791-98 il cardinale Antonio LE PRIME SCOPERTE Il primo rinvenimento nell’area del Despuig eseguí scavi nell’area nesantuario risale al 1550 ed è relativo morense e in un punto imprecisato a una dedica a Diana-Vesta, ora ai di Vallericcia; parte dei reperti fu


DAL REX NEMORENSIS AL COLONNELLO KURTZ

Sulle due pagine: veduta della sponda settentrionale del lago di Nemi. A destra: James George Frazer in una fotografia del 1929 e il frontespizio di un’edizione del Ramo d’oro.

acquistata dalla Ny Carlsberg Glyptotek, gli altri furono venduti nel 1925 dagli eredi al Comune di Palma de Mallorca, dove tuttora si trovano presso il locale Museo. Nell’estate 1885 Lord Savile Lumley, ambasciatore inglese in Italia, condusse scavi frettolosi al santuario, bruscamente interrotti per dissapori con i proprietari dei terreni, i principi Orsini. I materiali rinvenuti in quell’occasione – statue, erme e vasi marmorei recuperati nelle cosidette celle donarie, ex voto delle favisse, decorazioni architettoniche – in parte furono portati nel Castle Museum di Nottingham, città natale di Lord Savile Lumley, in parte rimasero a Nemi, nel Castello degli Orsini, successivamente passato ai principi Ruspoli.

Il rituale della successione cruenta del rex nemorensis (vedi box alle pp. 42-43) ispirò Il ramo d’oro, dello studioso scozzese James George Frazer (1854-1941); scritta nel 1890 e riedita in diverse versioni fino a quella del 1915, l’opera può essere considerata una pietra miliare della storia delle religioni e dell’antropologia, anche se alcune teorie in essa contenute sono attualmente superate. Con il suo metodo comparativo tra civiltà «evolute» e civiltà «primitive», il testo riflette la cultura positivista dell’età vittoriana degli inizi del XX secolo e, benché accolto fin dalla prima edizione da commenti entusiastici e ritenuto dalla critica letteraria inglese la «Bibbia dei tempi moderni», ebbe anche feroci critiche. Come nelle Note sul «Ramo d’oro» di Frazer, in cui l’autore, un caustico Ludwig Wittgenstein, definiva il rex nemorensis descritto dall’antropologo scozzese «un sacerdote che in fondo non è altro che un pastore del nostro tempo, con tutta la sua stupidità e insipidezza». Il fascino del tema e lo stile quasi romanzato del testo hanno notevolmente ispirato la psicanalisi, la letteratura e persino il cinema e la musica. Sigmund Freud in uno dei quattro saggi che compongono Totem e tabú, scritto nel 1913, prende come esempio gli aborigeni australiani citati da Frazer per trattare il tema dell’uccisione del padre. Pochi anni prima (1902) Joseph Conrad, in Cuore di tenebra, identifica il protagonista Kurtz, che

verrà assassinato, proprio con il rex nemorensis. Nel poema La Terra desolata di Thomas Stearns Eliot (1922), il tema della crisi dell’uomo moderno viene affrontato come una metafora, ispirata all’uccisione sacrificale del re del bosco. E piena di significato è la scena di Apocalypse Now, il film sulla guerra in Vietnam realizzato nel 1979 da Francis Ford Coppola e a sua volta ispirato al conradiano Cuore di tenebra, in cui viene inquadrato il frontespizio di The Golden Bough, che il colonnello Kurtz (interpretato da Marlon Brando) stava leggendo poco prima di essere «giustiziato» dal capitano Willard, novello aspirante rex nemorensis, mentre si sente la voce di Jim Morrison dei Doors cantare un’autobiografica The End, che parla di una «desolata terra romana» e di «un lago antico». Giuseppina Ghini

a r c h e o 41


SCAVI • NEMI

IL RE DEL BOSCO SACRO di Francesca Diosono

Le fonti letterarie antiche descrivono un particolarissimo sacerdote nel santuario di Diana, il rex nemorensis: un ex schiavo che doveva difendere la propria vita dagli aspiranti successori, schiavi fuggiti dal loro padrone, i quali lo sfidavano a un duello all’ultimo sangue, dopo aver strappato un ramo dall’albero sacro che cresceva nel santuario. Ancora oggi, nel parlare del re del bosco di Nemi, occorre accennare all’opera che, dalla fine dell’Ottocento, ne ha fatto un topos della cultura occidentale: Il ramo d’oro, dell’antropologo scozzese James George Frazer (1854-1941). Il titolo richiama proprio il ramo sopra citato. Secondo Frazer, il re del bosco (nemorensis deriva infatti dalla parola nemus, bosco) era garante della fecondità della terra e della prosecuzione del ciclo naturale necessario alla società agricola di cui era il capo e il campione; la sua forza e il suo vigore erano il simbolo della forza e del vigore del suo popolo al quale assicuravano prosperità e futuro. La sfida di successione serviva dunque a garantire che il re/dio/sacerdote in carica fosse sempre il piú forte: se lo era, restava al potere, altrimenti veniva ucciso, perché la sua carica fosse trasmessa al suo successore piú potente. L’opera di Frazer ha avuto un influsso straordinario sulla cultura, non solo scientifica; ancora oggi è abbastanza letta nella sua versione «ridotta», anche se antropologi e storici hanno ormai cambiato del tutto metodi e prospettive. 42 a r c h e o

La successione a Nemi avveniva dunque attraverso il duello ritualizzato tra il rex e il suo sfidante: se il primo soccombeva, la sua carica si trasferiva immediatamente all’uomo piú adatto a ricoprirla, senza soluzione di continuità. La figura del rex nemorensis, cosí come è descritta nelle fonti greche e latine, appare molto contraddittoria: regna sul

Moneta in bronzo di Publio Accoleio Lariscolo con Diana nel suo triplice aspetto di cacciatrice (Diana), protettrice delle nascite (Lucina) e divinità ctonia (Ecate). I sec. a.C.

santuario, ma è, al contempo, uno schiavo fuggitivo, una figura tra le piú basse della scala sociale; è un sacerdote, ma deve girare armato ed essere sempre pronto a difendersi dall’aggressione mortale del suo aspirante successore. Non vi è poi alcun cenno a una sua

partecipazione diretta al culto di Diana o ai riti che si svolgono nel santuario. La sua morte, inoltre, rappresentava un rito cruento, isolato nella dimensione religiosa romana e quindi percepito come «remoto e barbaro»; per questo vari autori antichi tentano di spiegarne l’origine attraverso il mito greco, allo scopo di renderlo piú tollerabile agli occhi dei contemporanei. Inoltre, gli antenati leggendari dei re nemorensi venivano individuati in due eroi greci dalle caratteristiche assai diverse, ma le cui storie trovavano entrambe nella tradizione un epilogo nel bosco aricino (con riferimento alla vicina Aricia, oggi Ariccia), Oreste (il figlio di Agamennone e di Clitennestra, che uccide la madre, colpevole di aver assassinato il padre, n.d.r.) e Ippolito (cacciatore che sprezzava le relazioni amorose, figlio di Teseo, re di Atene, e di un’amazzone, n.d.r.). Per gli studiosi moderni, il rex nemorensis è il residuo di un’epoca precedente alla civiltà urbana arcaica, nella quale, dati i mutamenti sociali, questo tipo di re-sacerdote viene ormai superato. Il suo titolo appare un relitto, come quello del rex sacrorum o del rex sacrificulus a Roma, il quale in origine era un re, la cui carica sopravvive nell’età repubblicana solo in quanto isolata in una dimensione religiosa ben lontana da qualunque attività politica. A loro volta, però, i re delle città del Lazio arcaico già rappresentavano il superamento realizzato dalle comunità politiche cittadine rispetto al precedente tessuto sociale di tipo tribale,


William Turner, Il ramo d’oro. 1834. Londra, Tate Gallery. Nelle prime pagine del suo omonimo saggio, Frazer descrive il dipinto, in cui compare Enea con il ramo d’oro che deve spezzare, su indicazione della Sibilla cumana, nel bosco presso il lago d’Averno per ottenere l’accesso agli Inferi. Turner, che aveva già firmato varie vedute del lago di Nemi (soggetto assai diffuso per la sua suggestiva bellezza tra i vedutisti all’epoca del Grand Tour) colloca l’episodio mitico, descritto nell’Eneide, sullo sfondo del lago laziale, e non in Campania.

caratterizzato invece dalla piú antica figura del rex nemorensis. Quella nemorense, infatti, è una figura dominante di epoca protostorica, assai piú antica della regalità romulea, poiché basata su una forma di successione non ereditaria, ma attribuita, invece, per primati individuali (in questo caso, al vincitore di un duello all’ultimo sangue). In origine, il rex doveva essere il garante del benessere della collettività di cui era a capo, agendo in questo sia da guida politica e militare che da mediatore nei confronti degli dèi, fino a diventare un vero e proprio capro espiatorio. Inizialmente, dunque, il suo potere doveva avere una doppia natura, sia politica che religiosa, dualità definitivamente superata a Roma con la nascita della res publica. D’altra parte, l’uccisione del rex nemorensis si può comprendere solo all’interno di una società che consenta l’omicidio come strumento di successione in carica. Tutte queste caratteristiche contribuivano a rendere incomprensibile la natura stessa di questo rito per la società latina e romana, che continua ad assistervi almeno fino al II secolo d.C. (se non oltre). La tradizione antica tendeva a spiegare quest’anomalia nell’ambito

della cultura sacrificale romana, proiettandone, come abbiamo già visto, le origini in tempi mitici, barbari e remoti, nei quali la giusta pratica sacrificale non era ancora stata istituita. Il recente rinvenimento di tracce di un insediamento risalente all’età del Bronzo nell’area della terrazza mediana del santuario di Diana ha condotto gli studiosi a collocare la figura del rex nemorensis nel quadro dell’organizzazione sociale del Lazio in tale epoca; a questo orizzonte cronologico apparteneva assai probabilmente la società tribale che trovava nella figura egemone chiamata poi rex nemorensis un capo sia politico che religioso. Dopo l’età del Bronzo, il rex nemorensis probabilmente sopravvive per conservatorismo religioso, anche se ormai nella sola sfera del sacro e con una competenza limitata al nemus, fino a quando si perdono ormai la memoria e la consapevolezza della sua funzione e del suo ruolo; diventa cosí necessario attribuire al rex, attraverso il mito greco, un’origine barbara e lontana, mentre in realtà egli rappresentava le radici remote di una comunità latina divenuta ormai incapace di riconoscersi consapevolmente in esse.

Di questi una certa quantità venne poi acquistata da Carl Jacobsen per la Ny Carlsberg Glyptotek, che divenne cosí la raccolta piú ricca di materiali del santuario nemorense; la parte rimanente, rimasta nel Castello Ruspoli di Nemi, è stata di recente acquistata dallo Stato italiano ed è conservata nel Museo delle Navi Romane. Le indagini di Lord Savile Lumley vennero proseguite da Luigi Boccanera nel 1887: i materiali rinvenuti finirono in parte al Museum of Fine Arts di Boston, in parte vennero portati nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, dove sono attualmente esposti nella Villa Poniatowski; altri ancora si trovano all’University of Pennsylvania Museum di Philadelphia.

RECUPERI MALDESTRI Ulteriori scavi furono intrapresi nel 1895 dall’antiquario Eliseo Borghi, contemporaneamente ai tentativi di recupero delle navi di Caligola, condotti dallo stesso Borghi. Nel frattempo, usciva la prima edizione di The Golden Bough (Il ramo d’oro; vedi box a p. 41) di Sir James George Frazer, che prendeva il nome da un quadro di William Turner, di cui esistono varie versioni, la piú nota delle quali esposta alla Tate Gallery di Londra (riprodotta in apertura, alle pp. 34/35). L’indubbio fascino di entrambe le opere, nonché la ripresa dei tentativi (purtroppo distruttivi) di recupero delle enormi navi imperiali, attiravano l’attenzione del pubblico e degli studiosi sul sito. Proprio in questi anni si diffusero nuovi progetti di scavo scientifico degli scafi immersi nelle acque del lago e, per la prima volta, si propose di abbassarne il livello, per effettuare un recupero di tipo tradizionale, in terra e non subacqueo. Si dovette arrivare però al 1929 per realizzarlo. Nel frattempo, nel 1924, lo Stato italiano avviava gli scavi al teatro e agli edifici termali, poi reinterrati. (G. G.) a r c h e o 43


SCAVI • NEMI

GLI SCAVI RECENTI

F

ino agli scavi condotti dal 2003 sulla terrazza superiore e se si fa eccezione per una pianta della metà del XIX secolo redatta dall’archeologo Pietro Rosa, si riteneva che l’area del santuario nemorense fosse limitata alla terrazza inferiore, sostruita a valle, verso il lago, da muri con cortina in opera incerta, disposti a triangoli o a «denti di lupo» (C) e chiusa sui lati settentrionale e orientale da due serie di nicchioni semicircolari (B), costruiti contro terra, anch’essi con cortina in opera incerta di peperino, leucitite, pozzolana. Se ne conservano 13 sul lato orientale e altrettanti su quello settentrionale; attualmente sono interrati per 4,50 m circa, ma originariamente raggiungevano l’altezza di oltre 9 m.

44 a r c h e o

R

All’interno dei nicchioni gli scavi degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso hanno riportato alla luce un recinto (Q), conservato per un’altezza massima di 3,80 m e una lunghezza di 80 m nel lato nord-est

e di 85 in quello sud-est, anch’esso realizzato nella tecnica dell’opera incerta come le altre strutture del santuario. Il muro presenta aperture ad arco che permettono l’accesso a un re-


due in opera incerta, due in opera mista di reticolato e laterizio. Sono tutte rivestite da intonaco rosso e presentano una trabeazione dorica in peperino originariamente stuccata in bianco e azzurro.

trostante colonnato in peperino (Z), alcune delle quali successivamente chiuse con tamponature in opera reticolata di leucitite; il tutto, in età adrianea, venne decorato con una pittura a finti pilastri prospettici, mantenuta solo nella parte inferiore. A 6 m circa dal muro Q si è rinvenuto l’angolo di un portico (R), di cui si conservano quattro colonne,

RESTAURI E RIFACIMENTI Il colonnato dorico (Z) in peperino, che ha misure pari alla metà di quelle del colonnato R, come le colonne in opera incerta del portico R, appartengono alla fase della fine del II secolo a.C., mentre le colonne in opera mista e le tamponature in reticolato del muro Q sono attribuibili a restauri adrianei, forse imposti da un terremoto. A questo periodo appartengono anche il rifacimento del tetto del portico, di cui M si sono rinvenute numerose tegole bollate e la decorazione pittorica del muro Q. Complessivamente, il In alto: i nicchioni della terrazza colonnato R e la trabeazione dorica inferiore del santuario (B). raggiungevano l’altezza di 9 m, naNella pagina accanto, in alto: pianta del santuario nemorense su foto aerea. scondendo completamente i retrostanti nicchioni, che quindi avevano Nella pagina accanto, in basso: il una funzione esclusivamente statica portico R della terrazza inferiore. e sostruttiva. Gli scavi condotti nel XIX secolo sia davanti al tempio K, sia in trincee sparse nella terrazza centrale del sanV

Il sito dalla A alla Z G

M

B

b a c d e f

F T

Z R

Q

K

S B

A C C U

A. terrazza inferiore; B. nicchioni semicircolari; C. muro di sostruzione inferiore a nicchie triangolari; F. «abitazioni dei sacerdoti»; K. tempio di Diana; M. «celle donarie»: a. mosaico di Servilio Quarto; b. testa dell’acrolito maschile; c. terrecotte architettoniche; d. fregio in terracotta; e. iscrizioni; f. acrolito di Diana; g. aula absidata con ritratti dei Giulio-Claudi; Q. muro in opera incerta; R. colonnato in opera incerta e mista; S. teatro; T. «ambienti termali»; U. via d’accesso al santuario; V. ninfeo a esedra nella terrazza superiore; Z. colonnato dorico in peperino.

a r c h e o 45


SCAVI • NEMI A sinistra: una delle «celle donarie». In basso: la cella con il pavimento a mosaico e l’iscrizione di M. Servilio Quarto.

tuario, come anche quelli ripresi di recente, hanno riportato alla luce una quantità notevole di ex voto in terracotta e bronzo costituiti da teste, mezze teste, mani, piedi, visceri, uteri, maschere, statuine di offerenti, animali, monete, ceramica a vernice nera, balsamari, lucerne, frecce. I materiali rinvenuti in quelle occasioni si trovano in gran parte al Castle Museum di Nottingham, al Museo di Villa Giulia a Roma e, in quantità minore, al Museo delle Navi Romane di Nemi. Mentre le mezze statue, dalla fattura piuttosto rozza, con impasto bruno, sembrano inquadrabili nell’ambito del V secolo, gli altri ex voto rientrano nella piú diffusa datazione delle stipi repubblicane del IV-III secolo a.C.

LE «CELLE DONARIE» Circa a metà della terrazza inferiore la sostruzione a nicchioni terminava e una scala coperta da una volta a botte conduceva alla terrazza superiore. Proseguendo verso ovest, il recinto diveniva rettilineo, scandito da pilastri, a cui in età tardo-repubblicana si sostituirono muri in opera reticolata che determinarono una serie di ambienti paralleli. Questi vennero scavati tra il 1885 e il 1887, prima da Lord Savile Lumley, ambasciatore inglese a Roma, e poi da Luigi Boccanera. Il rinvenimento di statue, erme, vasi marmorei e di numeroso altro materiale meritò agli ambienti la definizione di «celle donarie». 46 a r c h e o

Una di queste celle si rivelò la piú ricca per la decorazione musiva del pavimento che recava il nome del donatore, M. Servilio Quarto, e per i materiali che conteneva, in particolare statue ed erme. Discosta dalle altre celle e in asse con il tempio di Diana si rinvenne un’esedra in opera laterizia contenente statue

della gens giulio-claudia, probabilmente attribuibile a un intervento da parte di Caligola. Le celle sono state nuovamente oggetto di intervento di scavo e restauro da parte della Soprintendenza a partire dagli anni Novanta, ai fini della musealizzazione del sito. (G. G.)

IL TEMPIO E LE STIPI Sulla terrazza inferiore un casale moderno ingloba due muri in opera reticolata di peperino appartenenti a un edificio templare, ormai definitivamente attribuibile a Diana. Le recenti indagini, tuttora in corso, hanno permesso di ricostruire tre fasi costruttive dell’edificio templare monumentale, databili tra la fine IV-inizi del III secolo a.C. e il secondo quarto del I secolo a.C. Nella prima fase il tempio aveva una


L’EGITTO A NEMI Un legame molto forte e attestato con certezza nel santuario di Diana è quello con i culti egiziani, provato da numerosi rinvenimenti. Il piú significativo è quello di una lunga iscrizione marmorea, che menziona offerte e doni preziosi ai fana (plurale di fanum, luogo sacro) di Iside e Bubasti, rinvenuta nel 1870 in giacitura secondaria, davanti ai primi nicchioni in opera incerta del santuario. Datato al I secolo d.C., il testo cita 17 statue, busti in argento, altari e un tripode in bronzo, vasi preziosi, sistri, collane, gioielli, abiti e stoffe preziose, ecc. Tra gli oggetti di culto del santuario, sempre negli scavi del XIX secolo, si rinvennero il manico bronzeo di uno specchio con una palmetta di loto e terminale inferiore a testa di cervo, che rimanderebbe all’Artemide Tauropòlos (o elaphochtonia, «che uccide la cerva»), una statuina bronzea di Arpocrate secondo la rappresentazione ellenistica di negretto con una cornucopia in mano, una testina in avorio di Iside. La quantità di oggetti del culto isiaco concentrati nella prima metà del I secolo d.C. va senza dubbio ricollegata alla figura di Caligola, che qui a Nemi possedeva una villa e due gigantesche navi, una con funzione di palazzo, l’altra cerimoniale, a bordo delle quali si sono rinvenuti oggetti di culto isiaco, in particolare un sistro. Durante il suo impero vennero apportate modifiche al teatro del santuario, realizzando vasche e apprestamenti idraulici in funzione di rituali isiaci e abbellendo la scena con statue, alcune delle quali con chiaro riferimento a culti egiziani, come una testa marmorea che indossa una cuffia di tipo egizio (klaft o calantica o calvatica) appartenente a una sacerdotessa di Iside o alla stessa dea. L’imperatore, tramandatoci come un despota folle e sanguinario, era particolarmente sensibile alle influenze orientali, avendo trascorso alcuni anni dell’infanzia in Oriente con il padre Germanico e a lui si deve non solo un rinnovato interesse per il rituale sanguinoso della successione violenta del rex nemorensis nel santuario di Diana, ma l’identificazione Diana-Iside, frutto del sincretismo religioso introdotto a Roma dopo la conquista dell’Oriente e in particolare

dell’Egitto. Il suo misticismo lo portava ad adorare la Luna e a identificarsi con Giove Capitolino e con Giove Laziare, il cui santuario, sul Mons Albanus, incombeva sul lago nemorense, da cui era visibile. È stato peraltro ipotizzato che almeno una delle due navi, la maggiore, con funzione cerimoniale, fosse utilizzata per l’Isidis navigium, il rituale dono di modelli navali alla dea, che si compiva il 5 marzo per ingraziarsene il favore e la protezione. Giuseppina Ghini A sinistra: ritratto di una sacerdotessa di Iside o della dea stessa, dal teatro del santuario. In basso: l’iscrizione che elenca doni preziosi offerti a Iside e Bubasti.

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SCAVI • NEMI

L’edificio K, ormai certamente identificato come tempio di Diana, in una ripresa fotografica zenitale.

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pianta molto allungata (37 x 15 m), con scalinata d’ingresso volta verso il lago, inquadrata tra due avancorpi; nella seconda al tempio si affiancarono edifici sacri minori, tra cui una piccola struttura circolare di 3 m di diametro, chiusa con una balaustra di cui si è rinvenuta la traccia sui gradini di accesso in peperino, che probabilmente doveva contenere una statua. In entrambe le fasi la decorazione scultorea era in terracotta (ora a Nottingham e in parte a Copenaghen). Nella terza e ultima fase il tempio venne ampliato, fino a raggiungere 30 m circa di larghezza; di questo periodo rimangono, oltre al podio con rivestimento di peperino, l’alzato in opera reticolata di peperino, conservata fino a circa 6 m di altezza, inglobato in un casale moderno. Gli scavi recenti condotti sia nel podio del tempio, sia nella zona antistante hanno riportato in luce molti reperti «sfuggiti» agli scavi di Lord Savile, tra cui vasi con iscrizioni dedicatorie, vari oggetti e monete in bronzo, oreficerie, la testa di una fanciulla velata in bronzo e una piccola colonna con dedica a Diana (vedi box e foto alle pp. 50-51). È stato inoltre recuperato numeroso materiale votivo frammentario di età arcaica e repubblicana, costituito da ceramica e statuette votive di soggetto var io, probabilmente quanto rimaneva delle stipi votive scavate nel XIX secolo. Infine, sia dalla terrazza mediana che dall’area del tempio provengono materiali del Neolitico e dell’età del Bronzo.

LA TERRAZZA SUPERIORE Indagini avviate a partire dal 2003 sulla terrazza superiore, a seguito di prospezioni geomagnetiche condotte dal CNR, hanno confermato l’ipotesi, avanzata fin dal XIX secolo, che il santuario si estendesse anche a quest’area; in particolare gli scavi degli anni 2003-2005 hanno riportato alla luce una struttura absidata con funzione di ninfeo, del a r c h e o 49


SCAVI • NEMI

diametro di 25 m, sovrapposta a una precedente vasca circolare, e una serie di ambienti in opera reticolata, disposti su vari livelli (vedi box alle pp. 52-53).

NEL NOME DELLA NINFA Pur trovandosi all’interno del santuario e avendo un diverso orientamento rispetto a tutta l’area sottostante, il ninfeo doveva rappresentare un settore a parte rispetto al complesso, sia dal punto di vista architettonico-topografico che, forse, anche religioso. Queste considerazioni hanno indotto ad attribuirgli un culto secondario connesso all’acqua e dedicato a una divinità diversa da Diana Nemorense, anche se legata a questa nell’ambito del mito del santuario stesso, verosimilmente da identificarsi con la ninfa Egeria, il cui culto è citato dalle fonti letterarie e di cui rimane tuttora memoria nel nome di una fonte ancora attiva. Da questo, che sembrerebbe il punto piú elevato del santuario, si godeva di una vista spettacolare sul lago e sulla terrazza inferiore che conteneva il tempio, raggiungibile mediante una scala/rampa di cui si è rinvenuta la volta di copertura, in fase di crollo. A sud-est di questa struttura, piú a valle, si conserva un’area priva di costruzioni, caratterizzata dalla presenza di un terrazzamento in massi non lavorati, con andamento da nord a sud, che sostiene strati contenenti materiali ceramici inquadrabili nell’età del Bronzo Finale (XIII-XII secolo a.C.) e materiale vegetale carbonizzato, che rimanda allo stesso arco cronologico; anche se i materiali ceramici non sono di natura votiva, la loro posizione, insieme alla presenza di resti lignei coevi, fa pensare a un’area rispettata e volutamente non costruita per mantenere la memoria di un luogo sacro, forse il lucus citato da Catone. L’ipotesi sembra avvalorata dal rin50 a r c h e o

PER GRAZIA RICEVUTA Per tutto il periodo repubblicano e fino al II secolo d.C. il santuario di Diana fu tra i piú importanti del Lazio, attraendo molti fedeli che chiedevano salute, fertilità e abbondanza, come testimoniato dai numerosi ex voto rinvenuti; in particolare, la dea proteggeva gli esseri umani nei momenti di passaggio della loro vita: la nascita, il passaggio dall’infanzia all’età adulta, la maternità, la morte. Intorno al tempio, sono state recuperate molte figurine votive in terracotta, ma ve ne sono anche in materiali piú pregiati, in particolare la testa di fanciulla offerente in bronzo, rinvenuta in una stipe votiva databile al III secolo a.C. Il materiale votivo è ricco e vario. Tra le ceramiche rinvenute, alcune erano utilizzate nel corso dei riti

(offerte di cibo o di liquidi, sacrifici, banchetti) e altre costituivano di per sè il dono alla divinità. Le lucerne, in particolare, appaiono tra le offerte piú diffuse in alcune aree del santuario, per il loro rappresentare la luce notturna come la luna di cui Diana era la dea. Vi sono anche testimonianze di devozioni di carattere piú ufficiale, come una colonna in peperino che riporta il nome del donatore, il pretore Caius Atilius, che doveva in origine essere probabilmente sormontata da una statuetta di bronzo. Tra i materiali edilizi, tanti sono i frammenti di terrecotte architettoniche che ornavano vari edifici nel santuario; tra essi, le antefisse triangolari con la testa di Diana, riconoscibile per l’arco che la dea porta appeso alla spalla. Giuseppina Ghini, Francesca Diosono In alto: frammento di antefissa con testa di Diana, dalle «celle donarie». A sinistra: colonna in peperino donata da Caius Atilius che attesta il culto per la dea Diana. Nella pagina accanto: testa di una statuina votiva in bronzo raffigurante una giovane offerente, da una stipe votiva databile al III sec. a.C.


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SCAVI • NEMI

IL NINFEO DI EGERIA Fino a dieci anni fa si riteneva che l’area del santuario fosse limitata alla spianata circondata dai due bracci porticati e all’«edificio K». Per questo motivo si è cercato il tempio di Diana sull’asse della piazza come di norma nei santuari ellenistici, anche nel Lazio. Poiché non v’erano tracce di edifici templari al centro della piazza, l’attenzione si è spostata sui terrazzamenti superiori, ipotizzando, cioè, un tempio in posizione assiale, ma dominante sul sottostante portico, come nel caso del tempio di Fortuna Primigenia a Palestrina. Le indagini hanno invece portato

alla luce, in quest’area, un grandioso e articolato ninfeo realizzato da Caligola al posto di un precedente bacino idrico circolare. Si tratta di un apprestamento che si adatta alle scoscese pendici del cratere vulcanico, con una grande vasca con esedra (con fronte di 28 m circa), aperta su di un’ampia terrazza sostenuta da ambienti voltati serviti da fontane e raccordata ai piani sottostanti da una rampa di scale laterale. Questo ninfeo sovrasta la sottostante area porticata, pur non essendo perfettamente assiale né coerente con l’orientamento del Qui sotto: ricostruzione tridimensionale del ninfeo di Egeria, la cui posizione fu scelta da Caligola in modo da creare un rapporto visivo con la sua grande villa.

complesso. La sua scoperta ha tuttavia costretto a rivedere l’ipotesi fatta e cercare altrove il tempio di Diana, infine identificato con l’«edificio K»; contrariamente a quanto si riteneva, infatti, si è scoperto che tale edificio si trovava effettivamente al centro di un ben piú vasto spazio porticato, di cui era nota solo la metà meridionale. Proprio ampliando la scala dell’osservazione, si comprende come l’asse dell’esedra sia orientato sulla villa di Caligola posta sull’altra sponda del lago. Il Ninfeo era alimentato certamente da una delle sorgenti di cui il cratere di Nemi è ricco; in questo caso doveva trattarsi di una fonte di particolare importanza, sia per la posizione gerarchica sul sottostante santuario, sia per il dialogo visivo che Caligola ha voluto istituire tra In alto: gli ambienti meridionali del ninfeo sulla terrazza superiore.

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tale monumentale mostra d’acqua e la sua grande villa, significativamente disposta nelle vicinanze dell’antichissimo emissario. Narra il mito che la ninfa Egeria, disperata per la morte dell’amato re di Roma Numa, si rifugiò in lacrime nel sacro bosco di Nemi. Per alleviarne il dolore, la dea Diana la trasformò in una sorgente perenne. In un tempo remoto, dunque, nel santuario di Nemi doveva esistere una sorgente sacra dedicata a questa figura femminile, Egeria, che sappiamo legata alla maturità sessuale e al buon esito delle gravidanze, in linea con una delle funzioni attribuibili alla sacralità delle acque. Abbiamo cosí in Egeria la candidata perfetta, almeno al momento delle nostre conoscenze, a cui assegnare il ninfeo ricostruito da Caligola a dominio del santuario di Diana. È altresí probabile che, in questa fase di «delirio» egittizzante dell’imperatore (che volle dotare il «suo» lago delle navi-palazzo, a imitazione dei dinasti nilotici), anche la ninfa Egeria si sia vestita di panni egittizzanti, rimandando a quella dea Iside che andava sostituendosi alla latina Diana. In sintesi, Caligola, dalla sua sede terrestre – la villa sopra l’emissario – dominava simbolicamente con lo sguardo il ciclo dell’acqua del Lago-Nilo sacro: quella che entra e quella che esce, come Osiride governava la piena del Nilo. Paolo Braconi

Qui sopra: la struttura per alloggiare l’albero sacro su cui si incentrava il culto di Diana e da cui l’aspirante rex nemorensis doveva staccare il ramo da presentare per avviare il duello.

venimento, immediatamente a sud di quest’area, di una struttura quadrata delimitata da bassi muretti, internamente pavimentata in tasselli di laterizio. Le caratteristiche di tale struttura e la sua posizione in risalto rispetto al complesso santuariale hanno condotto a identificarlo con l’alloggiamento per l’albero sacro, su cui si incentrava il culto nel lucus di Diana, da cui l’aspirante rex nemorensis doveva staccare il ramo da presentare per avviare il duello.

terrazzamenti si sono riempiti di serre per fiori e fragole; queste attività probabilmente hanno preservato e salvato le antiche testimonianze, ma anche le coltivazioni hanno ormai abbandonato questi luoghi, che solo da pochi anni si sono ripopolati del lavoro di scavo degli archeologi che in numero notevole affluiscono entusiasticamente da tutti i Paesi d’Europa per proseguire le ricerche sulle sponde del lago. (F. D.)

DA TEMPIO A CAVA Le strutture della terrazza superiore sono databili tra gli inizi del I secolo a.C. e il II d.C. Quest’area del santuario è quella che sembra aver subito maggiormente un sistematico spoglio di materiali architettonici e decorativi, in gran parte riutilizzati per costruire macere e terrazzamenti a scopo agricolo. In alcuni ambienti si sono installate calcare per ottenere calce, in altri povere sepolture terragne; dal periodo tardo-antico a quello moderno il sito è stato una vera cava di materiali lapidei. La terra ha poi ricoperto tutto e i

PER SAPERNE DI PIÚ Filippo Coarelli, I santuari del Lazio in età repubblicana, Carocci, Roma 1987; pp. 165-185 Filippo Coarelli, Paolo Braconi, Francesca Diosono, Giuseppina Ghini (a cura di), Il Santuario di Diana a Nemi. Le terrazze e il ninfeo (scavi 1989-2009), «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2014 Giuseppina Ghini, Il Santuario di Diana a Nemi (RM): nuove ricerche, in Settlement and Economy in Italy 1500 BC to AD 1500, Oxbow, Oxford 1995; pp. 143-154 a r c h e o 53


STORIA • CHIUSI

LE AVVENTURE NEL 1867, DURANTE L’ESPOSIZIONE UNIVERSALE SVOLTASI A PARIGI E DEDICATA AL TEMA DEL LAVORO DEI POPOLI, L’ITALIA FU RAPPRESENTATA DA UNA MAGNIFICA ANFORA A FIGURE NERE, TESTIMONIANZA ECCELSA DELLE ATTIVITÀ ARTIGIANALI ANTICHE. L’OPERA FA PARTE DELLA COLLEZIONE DEL MUSEO NAZIONALE ETRUSCO DI CHIUSI, AL CUI INTERNO SOPRAVVISSE, ANCHE SE NON DEL TUTTO INDENNE, AGLI EVENTI BELLICI... di Monica Salvini A sinistra: il lato A dell’anfora attica a figure nere con la partenza di Anfiarao. Attribuita al Pittore di Priamo, 510 a.C. Chiusi, Museo Nazionale Etrusco. 54 a r c h e o


DI ANFIARAO A

ll’inizio dell’estate appena trascorsa, l’apertura straordinaria della Tomba della Scimmia e della Tomba del Colle di Chiusi – i piú antichi esempi di sepolcri dipinti dell’Etruria interna, posti sui rilievi attorno alla città –, voluta dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, ha fatto registrare un successo straordinario (vedi «Archeo» n. 364, giugno 2015). E proprio nella Tomba del Colle il tema di EXPO 2015, l’alimentazione, trova una delle piú antiche raffigurazioni (secondo quarto del V secolo a.C.): sulle pareti dell’atrio, infatti, si trovano dipinte scene di banchetto, di tipo attico, con i partecipanti, cinque coppie maschili, semidistesi su klinai.

VINO E MUSICA Tutti i giovani che partecipano al simposio indossano mantelli colorati e gesticolano vivacemente, alcuni tendendo coroncine, fiori e rami, altri tenendo nella sinistra kylikes (coppe a due manici) e phialai (piattelli) inclinate, a indicare che il vino è stato consumato. Le coppie sono allietate da musici (un auleta con lunga veste e mantello che suona il doppio flauto) e assistite da tre schiavi nudi che aiutano a versare e mescere la preziosa bevanda. Nel 1867 il tema dell’Esposizione A destra: il lato B dell’anfora di Anfiarao (per la descrizione, vedi alle pp. 58-59). A sinistra: la sala del Museo Nazionale Etrusco di Chiusi che custodisce il magnifico vaso. a r c h e o 55


STORIA • CHIUSI Particolare del lato A dell’anfora, nel quale, in occasione del restauro condotto tra il 1973 e il 1974, fu inserito un frammento del corpo di Alcmeone precedentemente escluso.

Universale fu, invece, la storia del lavoro, che, come scrisse in proposito Francesco Netti, venne sviluppato con una selezione «degli oggetti piú importanti, tra quelli che erano nella sala italiana detta del lavoro, cioè delle industrie, delle arti e dei mestieri dei tempi divenuti storici. Porre il passato a paragone e quasi a guardia del presente, divulgare i modelli dell’antichità, e dimostrare colle opere l’origine di tutto ciò che noi sappiamo fare¸ ecco, credo, il concetto della Commissione Imperiale nello istituire questa Esposizione, concetto bellissimo quanto altri mai» (L’Italia alla esposizione universale di Parigi nel 1867. Rassegna critica descrittiva illustrata, 1868).

IL PENSIERO DIPINTO Per illustrare la sezione italiana, Alessandro Castellani (membro della celebre famiglia di orafi, collezionisti, antiquari e ceramisti attiva a Roma dal 1814 al 1930, n.d.r.), che ne aveva curato l’organizzazione, scelse di presentare, oltre alle oreficerie antiche in suo possesso, alcuni oggetti ritrovati a Chiusi.Tra di essi, un’anfora a figure nere con la partenza di Anfiarao, di proprietà di Giovanni Paolozzi, cosí descritta da Netti: «Il signor Paolozzi inviò un’anfora magnifica di antico stile, dipinta a figure nere su fondo rosso, trovata a Chiusi nel 1866. Il soggetto rappresenta da un lato la partenza di Anfiarao per la guerra di Tebe. Anfiarao, armato di tutto punto, si allontana dalla moglie e dal figlio per montare sul suo carro, ov’è l’Auriga, dalla cui bocca parte la iscrizione greca (in lettere latine) ANABA (monta!). Dal lato opposto sono delle divinità, Diana,Apollo, Mercurio, Latona. Il vaso è ricoperto di altre iscrizioni, che spiegano il quadro, secondo il sistema delle prime pitture, o perché queste eran credute insufficienti ad esprimere il sog56 a r c h e o


getto, o per completare colla parola scritta il pensiero dipinto dell’artista». Vi erano poi un piccolo rython (corno per bere) «a testa di moro con i capelli bianchi, trovato a Chiusi ed offerto dai sigg. Rollin e Feuardent», probabilmente un piccolo vaso attico a testa negroide, e, ancora inviati dal signor Paolozzi «una corona funebre composta di un fiore e di foglie delicatamente lavorate, degli anelli, due pendenti bellissimi a forma di barili, decorati di filigrana ed altri oggetti d’oro battuto, fatti a mano». Del rython e degli ornamenti in oro non abbiamo piú notizie, forse dispersi nella parte di collezione rimasta alla famiglia Paolozzi dopo la vendita del 1873 per il neo-costituito Museo Etrusco di Chiusi. Uno dei vasi attici a figure nere, invece, un’anfora, è ancora esposto nel museo.

LA PRIMA RACCOLTA Auspicato fin dal 1861, il Museo Etrusco di Chiusi fu costituito nel 1871 con i reperti delle famiglie della nobiltà agraria, tra le quali proprio i Paolozzi, e del clero locale; altri oggetti provenienti dall’agro chiusino furono raccolti in tre anni dalla Commissione Archeologica, di cui facevano parte Pietro Nardi Dei e Giovanni Paolozzi.Testimoni della lunga storia locale, i materiali formarono il primo nucleo della raccolta comunale, alla quale si aggiunsero ben presto i pochi materiali archeologici rimasti a Chiusi dopo il

passaggio della raccolta Bonci Casuccini al Museo di Palermo. Nel maggio 1872 Giovanni Paolozzi, in quel periodo sindaco di Chiusi, propose di cedere al museo la sua ricca collezione; per la transazione fu redatto un elenco e fatta una stima degli oggetti da parte di Giovanni d’Ondes Reggio, incaricato dal Comune di Chiusi, che, dopo

In alto: la vetrina che ospitava l’anfora di Anfiarao nell’allestimento del museo chiusino in una foto del 1934. In basso: cosí si presentava l’anfora di Anfiarao all’indomani dei danni patiti dal Museo Nazionale Etrusco durante la battaglia fra Tedeschi e forze alleate di cui la città toscana fu teatro nel giugno del 1944: lo splendido vaso era ridotto in oltre 100 frammenti.

alcune contestazioni, deliberò comunque di comprare il «museo Paolozzi» per 7400 lire, allora allestito all’interno del palazzo nobiliare, oggi sede della Banca di Credito Cooperativo Valdichiana. A questo primo acquisto, concretizzatosi nel 1874, seguirono da parte dei Paolozzi varie donazioni di materiali: nel 1883, nel 1897 e nel 1907 la parte piú cospicua della collezione, catalogata da Bartolomeo Nogara nel 1904. Altri materiali rimasero, invece, nel palazzo di a r c h e o 57


STORIA • CHIUSI

famiglia a Chiusi e nella villa di Gioiella, da dove furono trasferiti a Montepulciano e poi a Firenze, nella collezione della Cassa di Risparmio. Nel 1963 il civico Museo Etrusco di Chiusi fu statalizzato, diventando Nazionale. Come riferisce ancora Francesco Netti, il vaso a figure nere con la partenza di Anfiarao era stato scoperto da Giovanni Paolozzi nel 1866, il quale, in quegli anni, conduceva alcuni scavi, oltre che in località Castel San Giorgio presso Orvieto, nei suoi terreni a Dolciano, luoghi dai quali si può dunque presumere venisse il vaso. L’anfora entrò a far parte della collezione civica già con il primo lotto di materiali acquistato dai Paolozzi per il museo con il numero di inventario 1794: risale del resto al 1875 l’Inventario del museo civico, redatto da Edoardo Brizio per conto del Ministero della Pubblica Istruzione che aveva scelto, non a caso, il Museo di Chiusi per condurvi un censimento. Gravava, infatti, il sospetto di mistificazioni su molti oggetti della collezione comunale, che presentavano evidenti restauri integrativi e pastiche.

L’INCITAMENTO DELL’AURIGA L’anfora a figure nere, attribuita dall’archeologo e specialista di ceramografia classica britannico John Beazley (1885-1970) al Pittore di Priamo, si data al 510 a.C. Come già illustrato da Francesco Netti (vedi, nel testo, a p. 56), sul lato A è rappresentata la partenza di Anfiarao verso la guerra dei Sette contro Tebe (vedi foto qui accanto). Sul lato B (vedi foto nella pagina accanto), Artemide sale sul carro con Apollo, Hermes e Latona: la dea sale sulla quadriga, mentre Apollo procede verso destra suonando la lira, preceduto da Hermes; davanti ai cavalli cammina Latona. Tutti i personaggi sono indicati dal pro58 a r c h e o

nel 1901 e destinato fin dalla sua progettazione a cura dell’architetto purista senese Giuseppe Partini, in sinergia con l’archeologo Francesco Gamurrini, a ospitare le collezioni archeologiche di Chiusi; ancora nell’allestimento del 1934 il vaso era contenuto nella vetrina f dell’aula A, come descriveva Doro Levi nella Guida del museo. Risale a quegli anni anche la campagna fotografica condotta dai Fratelli Alinari di Firenze che ripresero tra gli oggetti notevoli conservati nel Museo Etrusco proprio l’anfora in questione.

prio nome, dipinto in prossimità della testa o del corpo. Alla base del piede si osservano le lettere graffite SO. Il monogramma è attribuito a Sostratos, famoso mercante originario di Egina, arricchitosi grazie ai commerci con l’Etruria di ceramiche figurate destinate alla ricca committenza locale, per la quale probabilmente selezionava le immagini riprodotte sui vasi. Chiusi fu senza dubbio un importante centro nel quale, grazie alla ricchezza di tipo agricolo accumulata dal ceto emergente, giungeva copiosa la ceramica greca importata dalle città etrusche costiere, e in particolare da Vulci, tramite Orvieto; da Chiusi, questa veniva poi ridistribuita nel suo agro, fino a Cortona e ai centri interni minori, utilizzando come via di comunicazione la valle della Chiana e dei suoi affluenti. L’anfora con la partenza di Anfiarao è sempre rimasta esposta nella prima sala grande del museo costruito

IL CAPOLAVORO IN FRANTUMI Durante la battaglia che si svolse a Chiusi nel giugno 1944 fra le truppe tedesche e alleate, le granate di artiglieria colpirono l’edificio, causando il crollo dei lucernari e di parte del tetto: anche l’anfora con la partenza di Anfiarao rimase seriamente danneggiata. I calcinacci, in-

La partenza dell’eroe Il lato A dell’anfora: Anfiarao (1), che aveva ricevuto il dono della profezia da Apollo, si prepara a salire sulla quadriga guidata da un auriga barbato (2), volgendo le spalle alla sposa Erifile (3), la quale tiene in braccio il piccolo Alcmeone (4); davanti ai cavalli avanza il guerriero Eupolemo (5).

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fatti, precipitando nell’interno avevano distrutto le vetrine a giorno (come quella dove era contenuto il vaso). I materiali vennero ridotti in minuti frammenti che non fu possibile raccogliere completamente, rendendo in molti casi i vasi non piú ricostruibili.

ALCMEONE RITROVATO Il lavoro di recupero, particolarmente complesso perché molti degli oggetti esposti erano alterati da antichi restauri del tutto arbitrari (alcuni frammenti risultavano essere stati limati affinché combaciassero, altri presentavano sovradipinture arbitrarie), fu eseguito tra il 1948 e il 1949 presso il Gabinetto di Restauro della Soprintendenza alle Antichità d’Etruria. Seppure molto frammentata (piú di 100 pezzi), l’anfora fu ricomposta durante i lavori di restauro e alcune parti mancanti integrate. Tra 1973 e 1974 il vaso fu di nuovo sottoposto a restauro e, come

afferma Anna Rastrelli, venne inserito un frammento del lato A con il corpo di Alcmeone che era stato trascurato nel restauro precedente (vedi foto a p. 56). A causa delle numerose perdite tra i vasi precedentemente esposti, non fu possibile ripristinare l’ordinamento del 1934. Si decise quindi di fondere la vecchia Collezione Civica (Aula A) con la Collezione Paolozzi (Aula B, costruita appositamente con un lascito dello stesso Giovanni Paolozzi per accogliere la donazione del 1907), riorganizzando l’esposizione a cura di Guglielmo Maetzke. L’anfora con la partenza di Anfiarao rimase, tuttavia, ancora nell’Aula A, nella vetrina a giorno g. Attualmente, essa fa bella mostra di sé all’interno della grande vetrina angolare sistemata nell’allestimento del 2003 nella seconda grande sala del museo, insieme ad alcune delle altre ceramiche attiche a figure nere ritrovate a Chiusi.

Una quadriga per la dea Il lato B dell’anfora: Artemide (1) sale sul carro con Apollo, Hermes e Latona: la dea monta sulla quadriga, mentre Apollo (2) procede verso destra suonando la lira, preceduto da Hermes (3); davanti ai cavalli cammina Latona (4). I nomi dei personaggi sono dipinti presso la testa o il corpo.

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La facciata dell’edificio neoclassico che, dal 1901, ospita il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi. Istituita nel 1871 come Museo Comunale, la raccolta passò in gestione allo Stato italiano nel 1963.

PER SAPERNE DI PIÚ Enrico Barni, Giulio Paolucci, Archeologia e antiquaria a Chiusi nell’Ottocento, Electa, Milano 1985 Doro Levi, Il Museo Civico di Chiusi e sue varianti, IPZS, Roma 1935 Guglielmo Maetzke, Museografia e restauri di monumenti-Chiusi, in Studi Etruschi XX, 1948-1949 Monica Salvini (a cura di), La tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi, Edizioni Quasar, Roma 2015 Francesco Netti, Su alcuni oggetti italiani esposti nelle sale della galleria del lavoro, in L’Italia alla esposizione universale di Parigi nel 1867. Rassegna critica descrittiva illustrata, Firenze 1868 Giulio Paolucci, Documenti e memorie sulle antichità e il museo di Chiusi, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 2005 Elisa Salvadori, Il Museo Etrusco di Via Mecenate, in Il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi tra storia e collezioni, SeB Editori, Colle Val d’Elsa 2012; pp. 59-63 Roberto Sanchini, Giovanni Paolozzi: archeologo e gentiluomo, in Marco Ciampolini (a cura di), in Palazzo Paolozzi in Via Porsenna a Chiusi dalla famiglia alla Banca Valdichiana, Edizioni Luì, Chiusi 2012 a r c h e o 59


MOSTRE • BRESCIA

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UN ARCHEOLOGO CON IL SAIO PER STENDHAL, PADRE MAURIZIO DA BRESCIA ERA UN «UOMO VENERABILE, DI UN’ASSOLUTA AMABILITÀ E INFORMATO SU TUTTI GLI STORICI DEL PASSATO». MA CHI FU FORTUNATO ANTONIO MALVESTITI (ERA QUESTO IL SUO NOME SECOLARE) E PERCHÉ, A CENTOCINQUANT’ANNI DALLA MORTE, SI È SCELTO DI RICORDARNE IL PREZIOSO CONTRIBUTO OFFERTO ALLO STUDIO DEGLI ETRUSCHI? di Giuseppe M. Della Fina

L

a vita del frate francescano Maurizio Malvestiti (1778-1865) fu lunga e movimentata e, nel 1837, fu segnata perfino dall’incontro con Stendhal, avvenuto all’epoca in cui lo scrittore era console francese a Civitavecchia. Nell’articolo Les Tombeaux de Corneto, pubblicato postumo nella rivista Revue des deux mondes nel 1853, ma scritto nel 1837, Stendhal affermava: «Per essere ammesso nel novero cosí rispettabile degli archeologi, bisogna sapere a memoria Diodoro Siculo, Plinio e una dozzina di altri storici; in piú bisogna aver abiurato ogni rispetto per la logica (…) Conosco undici teorie sull’origine dei vasi dipinti e delle tombe etrusche nascoste sotto terra. La piú assurda è, almeno mi sembra, quella che presume che tutto ciò sia stato fatto sotto Costantino e i suoi successori. La teoria che adotterei egregiamente e che proporrei al lettore, pur convenendo che è disgraziatamente priva del tutto di prove sufficienti, è

quella che mi è stata insegnata dal venerabile padre Maurizio, il quale, per un decennio, ha diretto scavi numerosi e importanti. Quest’uomo venerabile, di un’assoluta amabilità e informato su tutti gli storici del passato, come noi Francesi lo siamo per Voltaire, pensa che le tombe, che noi scaviamo, appartengano a un popolo molto antecedente agli Etruschi, forse contemporaneo dei primi Egiziani».

INCONTRO SULL’APPIA Gli «scavi numerosi e importanti» che il frate archeologo aveva diretto sono quelli nelle necropoli di Vulci, avviati nel 1828 per iniziativa di Alexandrine de Bleschamp e poi continuati dal marito Luciano Bonaparte, principe di Canino, e, appunto, da padre Maurizio. Quest’ultimo aveva conosciuto il fratello di Napoleone a Roma, nel 1806, in occasione di una visita alle catacombe di S. Sebastiano, ed era poi divenuto il precettore dei suoi figli e

quindi un suo stretto collaboratore e confidente. Prima che la sua figura tornasse a essere oggetto di attenzione da parte degli studiosi, gli interessi di padre Maurizio per l’archeologia erano stati quasi dimenticati: vi si faceva riferimento stancamente e solo nelle ricostruzioni del profilo di Luciano Bonaparte archeologo. Si dimenticava, per esempio, un’affermazione dell’archeologo tedesco Eduard Gerhard (1795-1867), il quale – un po’ come Stendhal – associava e quasi metteva sullo stesso piano il principe di Canino e padre Maurizio nella conduzione degli scavi vulcenti: «Speriamo inoltre di poter ben presto annunziare al pubblico un’edizione delle Nella pagina accanto: ritratto di padre Maurizio da Brescia (al secolo Fortunato Antonio Malvestiti), frate francescano ed erudito che diresse scavi a Vulci e fu assistente di Luciano Bonaparte, principe di Canino. a r c h e o 61


MOSTRE • BRESCIA

notizie intorno ai sepolcri dissotterrati, che per l’indifesso lavoro di V.E. e del Rmo Padre Maurizio da Brescia furono giornalmente notate, affinché alcun frutto non possa perdersi di quanto una sí costante diligenza ha ritolto all’oblio di tanti secoli». Cosí scriveva, nel 1829, nel Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica. Al tempo, non mancarono riconoscimenti a padre Maurizio: la nomina a socio corrispondente del prestigioso Instituto di Corrispondenza Archeologica nel 1830; a membro ordinario soprannumero della Pontificia Accademia Romana di Archeologia (15 gennaio 1846) e ad accademico onorario dell’Accademia Pontificia dei Nuovi Lincei dal 1847. Riconoscimenti significativi, ricevuti ad anni di distanza, a testimoniare un’attenzione e una considerazione durate nel tempo. I documenti – raccolti in occasione di una mostra attualmente allestita a Brescia –, cambiano il quadro e iniziano a restituire un ruolo autonomo a padre Maurizio nel contesto A destra: Carlo Luciano Bonaparte (figlio di Luciano Bonaparte e Alexandrine de Bleschamp) con i suoi precettori: padre Maurizio e il dottor De France, carboncino su carta di Jean-Baptiste Wicar. 1810 circa. Roma, Museo Napoleonico. In basso: un appunto nel quale padre Maurizio riporta alcune indicazioni per il restauro dei vasi.

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dell’archeologia italiana degli anni Venti, Trenta e Quaranta dell’Ottocento, vale a dire nella stagione del Romanticismo. La nuova documentazione è testimoniata soprattutto da alcune lettere e dal manoscritto di una relazione sugli scavi di Canino inviata da padre Maurizio all’Accademia degli Ardenti di Viterbo, dove venne letta nella seduta del 27 giugno 1833. Di quest’ultima si conservano due versioni: una sorta di brutta e di bella copia.

I DUBBI DI MADAME ALEXANDRINE Tra le lettere, due sembrano particolarmente interessanti: una risale all’11 dicembre 1851 ed è indirizzata, in lingua francese, ad Alexandrine de Bleschamp, vedova di Luciano Bonaparte, come risposta a una missiva precedente della principessa che chiedeva notizie sugli inizi degli scavi. Ne riportiamo, in traduzione, i brani piú significativi: «Poiché avete la bontà di credermi capace di risolvere i

vostri dubbi, mi accingo al meglio a tentare di soddisfarvi. Ma non crediate, Madame, che possa rispondervi senza esitazioni al pari di uno scolaro che sta passando un esame per ottenere i titoli e terminare la scuola. Sapete che fa freddo quest’anno, piú che l’anno passato? Poniamoci dunque a un angolo del camino (…) E che Jean ci prepari una tazza di thè (…) e chiacchieriamo insieme (…) voi vorreste sapere con precisione la data dell’anno in cui avete iniziato i primi scavi a Canino? (…) Aspettate (…) abbiamo trascorso l’estate del 1808 a Firenze a Palazzo Ximenes, non è vero? (…) l’inverno che seguí noi fummo per la prima volta tutti a Canino (…) e noi potemmo usufruire del grande bagno nell’inverno 18091810. Fu allora, che andando ai bagni, al principe venne l’idea di scavare sopra al vostro bagno nelle rovine degli antichi bagni etrusco-romani (…) Fu là che venne trovata la statua di Igea senza testa, e che M. Marin vi pose una testa in gesso ispirandosi al ritratto di Lolotte. E che M. de Des-bancs realizzò la pianta degli scavi, che lo fece disperare».


La prima pagina della lettera scritta l’11 dicembre 1851 da padre Maurizio ad Alexandrine de Bleschamp, in risposta ai dubbi della vedova di Luciano Bonaparte circa la data d’inizio degli scavi a Canino.

L’altra lettera si riferisce a una fase diversa degli scavi condotti dai Bonaparte a Canino. Padre Maurizio la indirizza al nipote, il 23 marzo 1846: «Gli scavi continuano a dare piccoli oggetti curiosi ma di poco valore. Del monumento non se ne può parlare, finché non sia venuta a riconoscerlo la commissione delle Belle Arti di Roma». Il nostro sembra quindi continuare a seguire le ricerche, o piú probabilmente a informarsi su di esse, anche dopo la morte di Luciano Bonaparte avvenuta nel 1840 e in una fase sulla quale caddero gli strali polemici dell’archeologo, scrittore di viaggi e diplomatico inglese George Dennis (1814-1898; vedi «Archeo» n. 365, luglio 2015).

Padre Maurizio pone l’inizio degli scavi presso le terme nell’inverno del 1809-1810, confermando nella sostanza i dati scaturiti dalla documentazione esaminata – negli anni scorsi – da Paolo Liverani, per la quale l’inizio degli scavi risalirebbe all’inverno-primavera del 1809. A questo proposito va ricordato che tale data – il 1809 – è menzionata nel Catalogo di scelte antichità etrusche trovate negli scavi del Principe di Canino. 1828-1829, Viterbo 1829 (nella di poco successiva edizione francese s’indica, invece, il 1807).

Il frate riconosce l’inizio delle ricerche dei Bonaparte a Canino in queste indagini e non nelle successive e ben piú fortunate campagne avviate nel 1828. E il suo interesse per l’archeologia si può far risalire a quest’epoca e non alla fine degli anni Venti dell’Ottocento. Egli, infatti, sembra aver seguito da vicino già queste prime ricerche: lo suggeriscono il ricordo sufficientemente preciso del loro avvio, la menzione della statua identificata con Igea e la memoria delle difficoltà incontrate per redigere la pianta dell’area.

L’ATTENZIONE PER IL RESTAURO Un appunto, rinvenuto nell’epistolario di padre Maurizio, riporta alcune indicazioni per restaurare i vasi, a testimonianza del suo impegno nel seguire anche gli interventi successivi allo scavo: «Per ristaurare i vasi etruschi.Tre once di gomma lacca, e nove di spirito di 21 o 22 gradi per i colori giallo, pavonazzo, e bianco. Quattronce di gomma lacca e otto di spirito per il color nero». Un interesse maggiore riveste la dissertazione archeologica inviata all’Accademia degli Ardenti di Viterbo che rappresenta, da un lato, il resoconto di padre Maurizio sulle scoperte effettuate a Canino e, dall’altro, la sua posizione nella querelle sull’etruscità o meno dei vasi figurati scoperti in Etruria. Un dibattito avviato da Johann Johachim Winckelmann (1717-1768) e Luigi Lanzi (1732-1810) alcuni decenni prima, ma ancora vivace nei primi anni Trenta dell’Ottocento, quando a r c h e o 63


MOSTRE • BRESCIA

scavi del principe a fronte delle ricerche disordinate condotte in Grecia: «Agli scavi di Ercolano, e di Pompei presiede un direttore con regia, e pubblica autorità, il quale rende conto al governo, e spesso anche al pubblico degli oggetti, che ivi si trovano. Il giornale, e i rapporti di questi direttori fanno testo istorico, e gli oggetti da essi esposti si devono riguardare come autentici, e irrefragabili. Similmente gli scavi del Principe di Canino, e gli oggetti ch’egli ha publicati o sta per publicare, in quanto al materiale loro ritrovamento, e al luogo preciso dove si sono trovati sepolti».

UN’IPOTESI SUPERATA Di seguito, si sofferma a lungo sulle iscrizioni presenti sui vasi e arriva a riconoscere che sono in lingua greca; ma ciò non gli sembra sufficiente per attribuire la loro fabbricazione alla Grecia. Il dato del luogo del ritrovamento per padre Maurizio appare come l’indicatore principale per tentare di localizzare

assunse toni polemici e – come vedremo – risvolti politici. La relazione si apre con un’analisi dell’impatto avuto dagli scavi effettuati, poi l’attenzione si sposta sull’analisi dei vasi dipinti rinvenuti e sul loro luogo di fabbricazione: la Grecia, o la penisola italiana. Padre Maurizio – sulle stesse posizioni di Luciano Bonaparte – si schiera in maniera convinta a favore della seconda ipotesi. Lo fa argomentando su piani diversi: inizialmente ridimensiona i ritrovamenti avvenuti in Grecia arrivando a metterli in dubbio; quindi introduce un argomento piú forte rivendicando la scrupolosità (la scientificità, potremmo dire noi oggi) degli 64 a r c h e o

una produzione. Noi oggi sappiamo che non è vero, dato che la rete dei commerci nel Mediterraneo antico era assai sviluppata; ma, al tempo, molti ritenevano impossibile ipotizzare uno scambio di prodotti cosí ampio e quindi il luogo di ritrovamento sembrava dover coincidere all’incirca con quello di fabbricazione. Dubbi, in proposito, erano stati avanzati già in precedenza e, nel 1831, era stato pubblicato il saggio Rapporto Volcente di Eduard Gerhard, il quale affermava con decisione la grecità dei vasi, ma la tesi opposta continuava ad avere sostenitori. In che modo, dunque, padre Maurizio risolse il problema della grecità delle iscrizioni? Ipotizzando A sinistra: ritratto di padre Maurizio realizzato da Jean-Baptiste Wicar. 1810 circa. Roma, Museo Napoleonico. In basso: una pagina della relazione inviata da padre Maurizio all’Accademia degli Ardenti di Viterbo.


un’epoca nella quale il greco sarebbe stato una lingua diffusa nella penisola italiana. Tale età sarebbe coincidente – sulla scorta di una lettura, un poco di comodo, del Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia di Luigi Lanzi (1789) – «Coi tempi mitologici, quando i Pelasghi primi Italiam tenuisse perhibentur. Quando in Italia, da ogni parte piena di Greci, si poteva dire che non si usasse altra lingua fuor che la greca». Di conseguenza: «I monumenti del Principe di Canino, che si avvicinano il piú alla forma delle lettere greche antiche, e circum-troiane sono monumenti nazionali della nostra antica Italia appartenenti all’epoca seconda di Lanzi, epoca in cui l’uso commune di scrivere in questi paesi era il greco». Una conferma di tale ipotesi per padre Maurizio sarebbe scaturita anche dall’analisi stilistica: «Lo stile delle pitture dei vasi di Canino, le figure degli Dei, gli attributi, i costumi e perfino gli ornamenti tutti annunziano l’epoca pelasga, ed escludono l’ellenica».

MONUMENTI «PELASGO-ETRUSCHI» Il nostro si rende conto che tali affermazioni rischiavano di offuscare gli Etruschi e allora elaborò una sorta di compromesso: «Ma se i vasi di Canino sono Greci e Pelasghi non sono etruschi? Piano un poco. I vasi del Principe di Canino, che portano iscrizioni greche, e rappresentazioni pelasgiche non sono di quell’epoca pura etrusca nella quale gli Etruschi ebbero lettere a parte, distinte dalle latine e dalle elleniche; in questo senso non sarebbero bene indicati col chiamarli puramente etruschi. Ma come sono incontrastabilmente trovati in Etruria parmi giusto, che nella loro speciale appellazione si conservi un cenno all’autentico loro ritrovamento, non meno, che dell’epoca alla quale appartengono pei loro dipinti, e da noi esaminati caratteri (…) [pertanto] non vedo che difficoltà ci potrebbe essere per chiamare i monumenti di Canino Pelasgo-Etruschi». L’idea di una fase «pelasgo-etrusca»

ritorna in piú interventi di Luciano Bonaparte a conferma di un serrato scambio di opinioni tra i due, anzi di una visione comune. Non sembra forzato, comunque, ritenere che l’intuizione della fase «pelasgoetrusca» sia da attribuire proprio a padre Maurizio dotato di una buona conoscenza delle fonti storiche e letterarie greche e latine.

FAUTORE DELL’UNIFICAZIONE Tale ardito castello di ipotesi crollò definitivamente nei decenni seguenti, a seguito di nuove sensazionali scoperte e, soprattutto, dell’evoluzione metodologica della disciplina archeologica. Per noi oggi può essere interessante provare a comprendere i motivi per i quali venne eretto. Nel caso di padre Maurizio, interessi diretti nel commercio di antiOssuario biconico con decorazione geometrica, da Vulci. 725-700 a.C. Vulci, Museo Nazionale Archeologico al Castello dalla Badia. A padre Maurizio da Brescia si devono importanti campagne di scavo nelle necropoli della città etrusca.

chità, presenti invece nei coniugi Bonaparte, vanno esclusi; l’insistenza nel volervi riconoscere «monumenti nazionali della nostra antica Italia» sembra rientrare in un pensiero politico – diffuso in diversi ambienti intellettuali italiani nei decenni finali del Settecento e nell’Ottocento (sino a unificazione avvenuta) al quale, tra l’altro, aveva pienamente aderito Luciano Bonaparte –, che guidò in seguito il comportamento di padre Maurizio durante la stagione risorgimentale, vedendolo su posizioni favorevoli all’unificazione del Paese. Tale pensiero politico intendeva esaltare la penisola italiana e l’Etruria, in particolare, quale culla della civilizzazione mediterranea ed europea: l’Italia non era soltanto un’«espressione geografica» – secondo la celebre espressione del Metternich –, bensí una Nazione con una storia luminosa alle spalle. Con ciò non si vuole affermare che padre Maurizio e Luciano Bonaparte fossero schierati su posizioni filoitaliche – in corso di superamento nel dibattito scientifico tra gli antichisti – strumentalmente, ma che ne comprendevano a pieno il valore ideale e vi riconoscevano le basi ideologiche per un riscatto piú o meno prossimo dell’Italia. DOVE E QUANDO «Padre Maurizio Malvestiti, patriota e... archeologo, astronomo, botanico, musicista e poeta» Brescia, Museo Diocesano fino al 27 ottobre Orario tutti i giorni, 10,00-12,00 e 15,00-18,00; chiuso il mercoledí Info tel. 030 40233; www.padremauriziodabrescia.it

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MOSTRE • VETULONIA

In questa pagina: cratere a campana apulo a figure rosse, con scena di banchetto a terra, IV sec. a.C. In vasi come questo, nelle occasioni conviviali, si mescolavano acqua e vino, che venivano poi serviti attingendo al cratere con recipienti piú piccoli. Nella pagina accanto, in secondo piano: particolare di una oinochoe (brocca da vino) trilobata in ceramica di produzione apula. Metà del IV sec. a.C. 66 a r c h e o


IL RITORNO DEL SILENO IL MUSEO CIVICO ARCHEOLOGICO «ISIDORO FALCHI» DI VETULONIA RIUNISCE UNA RICCA SELEZIONE DI REPERTI STRAPPATI AL MERCATO CLANDESTINO DALLA GUARDIA DI FINANZA. E, NEL SEGNO DEL SIMPOSIO, SALUTA IL RIENTRO DI UNO DEI REPERTI PIÚ PREZIOSI FRA QUELLI RINVENUTI NELLA CITTÀ ETRUSCA di Simona Rafanelli

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el 1989, il Centro di iniziativa per le arti visive di Piombino ospitò una mostra significativa, «Il patrimonio disperso», nata dalla collaborazione con la Guardia di Finanza, alla cui attività di tutela si doveva il recupero dei materiali presentati, sottratti al mercato clandestino in tutto il territorio nazionale e, in particolare, nell’area dell’antica città di Populonia. A d is ta n z a d i q u a s i trent’anni, dunque, anche Vetulonia ha scelto di collaborare con il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico delle Fiamme Gialle per puntare nuovamente i riflettori, ancora in territorio toscano, su un tema troppo spesso trascurato. Tuttavia, se l’iniziativa populoniese – attraverso l’esposizione di reperti decontestualizzati e

In basso: particolare di una brocca in impasto, sul cui manico compare la figura di un serpente a rilievo. VII sec. a.C.

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MOSTRE • VETULONIA

E COME PREMIO UN DOLCE, UN FRUTTO O ANCHE UN BACIO... Immagine guida della mostra «Antichità sequestrata» è una straordinaria statuina in bronzo, conservata da circa un secolo presso i depositi del Museo Archeologico Nazionale di Firenze e correlata strettamente al simposio, ultimo atto del banchetto aristocratico etrusco, al pari di quello greco, da cui quest’ultimo trae ispirazione. Un reperto recuperato agli inizi del Novecento da Isidoro Falchi – il medico appassionato di archeologia al quale si deve, sul cadere del XIX secolo, la riscoperta di Vetulonia – e dal genero di questi, l’archeologo Luigi Pernier, in uno dei depositi votivi scoperti sull’acrocoro A sinistra e nella pagina accanto, in alto: varie vedute della cimasa di kottabos in bronzo in forma di Sileno, rinvenuta in un deposito votivo scavato da Isidoro Falchi e Luigi Pernier sull’Arce di Vetulonia.

dunque compromessi nel loro valore storico intrinseco, perché privati del legame con il territorio e delle relazioni reciproche – intendeva sottolineare il messaggio negativo trasmesso da oggetti mutilati del potenziale storico, la mostra vetuloniese prova a ribaltare i canoni di quella innegabile connotazione negativa di simili materiali.

UNA TERNA DI VALORI Della terna di valori intrinseci di cui ogni reperto archeologico è portatore – storico, estetico e di testimone di una civiltà e della cultura che lo ha prodotto –, la rassegna allestita nel Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» pone in risalto soprattutto il terzo. In virtú di esso, infatti, il reperto, per quanto apparentemente muto, svolge comunque il suo ruolo, apportando, da un lato, preziosi elementi per lo studio e la conoscenza delle diverse classi di mate68 a r c h e o

della città, la cosiddetta Arce e mai tornato prima d’ora a Vetulonia. Il kottabos era un arredo originario della Sicilia, ma ebbe fortuna in Grecia e soprattutto in Etruria e serviva per il gioco dal quale prende il suo nome. L’oggetto è costituito da un’asta alta 2 m circa, che ha come base di appoggio un disco del diametro di circa 40 cm, con tre peducci come sostegno. A metà circa della sua altezza, l’asta presenta un secondo disco fissato all’asta stessa per mezzo di un anello. Sulla sommità dell’asta vi era un piattello. Come scrisse Luigi Pernier nel 1919 (in Ricordi di storia etrusca e di arte greca della città di Vetulonia, in Ausonia IX; pp. 11-54), il gioco «che di preferenza soleva rallegrare i banchetti galanti consisteva nel gettare con un gesto di elegante destrezza il poco liquido del fondo della coppa libata contro il piattello ch’era posto in bilico in cima all’asta del kottabos. Vinceva chi, colpendo il piattello, lo faceva cadere sul disco di mezzo, che risuonava alla percossa; ed era

riali – espressione della tradizione artigianale delle culture della Penisola – e, raccontando, dall’altro, per immagini, gli aspetti salienti di queste culture affacciate sul Mediterraneo. Questi ultimi sono rappresentati in mostra, dalla tavola e dal convivio, cioè dal «mangiare insieme», un atto dichiaratamente comunitario che, dalle origini della storia dell’uomo, si riveste di forme rituali e insieme religiose. Le scene del percorso simposiaco, Kylix (coppa a due manici) attica del V sec. a.C., il cui tondo interno è stato però realizzato nell’Ottocento.

dal consumo elitario del vino alla danza orgiastica, sotto l’egida di Dioniso-Fufluns-Bacco, dio del vino, raccontano ciò che, in un particolare momento storico, in quella determinata cultura che fioriva nell’Italia antica – specchio e riflesso di altre culture sorte nel Mediterraneo orientale –, il simposio e la mescita del vino volevano significare in seno alla cerimonialità divenuta appannaggio del ceto dominante e nell’orbita di una religione salvifica, che riservava un Aldilà dai tratti squisitamente aristocratici ai soli iniziati ai Misteri di Dioniso.

PORTATORI DI MEMORIA Documentando la storia di una «memoria cancellata», la mostra ridà voce ai reperti strappati dal loro contesto originario, restituendo loro la «storia» di cui sono stati privati. Un’operazione sviluppata attraverso il linguaggio della materia, della forma, della de-


premio un frutto, un dolce, un ninnolo, talora anche un bacio. Meglio di qualsiasi descrizione, varie scene dipinte su vasi greci ci fanno comprendere come questo giuoco si svolgesse, mostrandoci (…) piú spesso gli eleganti giovani o le etère (cortigiane) che, sdraiati sulla kline, il gomito sinistro poggiato sul cuscino, coll’indice della destra fanno roteare la kylix (coppa a due manici) per scagliare sul bersaglio il residuo della libazione». Il kottabos da Vetulonia è celebre soprattutto per la figura del Sileno posta sulla cima dell’asta a sorreggere il piattello del gioco. Il Sileno è una figura mitologica dai tratti umani, ma con coda, orecchie e zoccoli equini: particolarmente legato al culto di Dioniso, dio del vino e della viticoltura, viene raffigurato calvo e irsuto e assai

corazione che, identificandoli, li caratterizza e, soprattutto, per il tramite dei soggetti figurati, che campeggiano silenziosi sulle superfici dei vasi e diventano portatori di memoria e memoria essi stessi. E se, come aveva scritto Antonella Romualdi in occasione della mostra del 1989, «ogni oggetto che si perde è un frammento di storia che svanisce e quindi una perdita per tutti», l’intento dell’esposizione vetuloniese, coniugato allo scopo educativo, è quello di attuare un’opera di sensibilizzazione, rivolta al pubblico dei visitatori, che sono invitati – quali novelli partecipanti al «simposio della cultura» – a farsi parte attiva nella protezione e nella salvaguardia del patrimonio.

FRA LA VITA E LA MORTE Teatro d’eccezione per accogliere ed esibire oggetti «senza luogo e senza tempo» diviene il banchettosimposio immaginario e reale riprodotto sulle lastre che compongono il cassone della Tomba del Tuffatore di Paestum, eletto a sim-

frequentemente in preda all’ebbrezza. Scrive ancora Pernier: «Secondo i suoi istinti di natura burlesca, [il Sileno] si presta ad un giuoco di equilibrio e, come ebbro, prende una posizione malferma sulle gambe, allungando in alto il braccio destro per sorreggere un disco. Ogni muscolo del suo corpo asciutto e vigoroso è in tensione e lo sforzo per il difficile atteggiamento si rivela in particolare nel collo rigonfio e nella coda fortemente arcuata (…) Il Sileno, seguace di Dioniso, anch’egli amante del vino e dè conviti, partecipa al giuoco del kottabos e, quasi servo della gaia comitiva, mentre i commensali s’apprestano al lancio del liquido, con rara prova di equilibrio tiene in bilico il bersaglio, accrescendo l’instabilità di questo e l’interesse del giuoco».

bolo esemplare dell’incontro delle diverse culture che popolarono il suolo italico – greca, italica, etrusca, romana –, raccolte intorno al tavolo della mensa e chiamate a esprimersi, a raccontarsi, attraverso, appunto le tavole imbandite. Un ambiente sepolcrale misterioso e affascinante, un luogo «senza spaBruciaprofumi (thymiaterion) etrusco in impasto, con piattello impostato su una base in forma di ariete. IX-VIII sec. a.C.

zio e senza tempo», posto ai confini di un Aldilà in cui la vita e la morte si confondono nelle acque del tuffo spiccato dall’uomo rappresentato sul coperchio della tomba. Sulle pareti, si sviluppa la storia di un simposio, nella quale uno dei convitati, dopo aver bevuto, si lancia nel gioco del kottabos (vedi box in queste pagine) e in cui i protagonisti, non piú Greci, non piú Etruschi, non piú Lucani, non piú Romani – in virtú della tipologia delle scene rappresentate e del rituale funerario al quale manifestamente fanno riferimento – divengono emblema dei popoli di ogni tempo e di ogni luogo. DOVE E QUANDO «Antichità sequestrata. A Vetulonia l’Italia antica si ritrova a tavola» Vetulonia, Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10 gennaio 2016 Orario tutti i giorni, 10,00-16,00; chiuso lunedí Info tel. 0564 948058; e-mail: museovetulonia@libero.it a r c h e o 69


SCAVI • SORANO

LONGOBARDI IN MAREMMA

UNA PICCOLA NECROPOLI ALTOMEDIEVALE È STATA SCOPERTA NEL TERRITORIO DI SORANO, ANTICO BORGO DELLA TOSCANA MERIDIONALE. SI TRATTA DELLA PRIMA CONFERMA ARCHEOLOGICA DI UNA PRESENZA TUTT’ALTRO CHE SPORADICA IN QUESTA TERRA FORTEMENTE PLASMATA DAL SUO PASSATO ETRUSCO E ROMANO. E DI CUI SI CONSERVANO TESTIMONIANZE INASPETTATE NELLA TOPONOMASTICA E NEL DIALETTO LOCALE di Carlo Casi, Manuela Paganelli, Luca Nejrotti

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e l’avessimo vista con i nostri occhi, questa gente schierata sul campo di battaglia, con gli uomini allineati insieme alle donne – curiosamente pettinate con le lunghe chiome bionde sciolte fin sotto il mento – anche noi saremmo caduti nella tentazione di fare la stessa domanda del dio Odino: «Chi sono quelli con le lunghe barbe?». Avremmo cosí contribuito non solo alla nascita di una leggenda, quella dei Longobardi, ma anche alla loro vittoria sui Vandali, ottenuta grazie allo stratagemma suggerito alla profetessa Gambara dalla dea Frea. Quest’ultima sapeva che il suo divino marito – Odino – non sarebbe mai venuto meno alla promessa di dare la vittoria alle truppe sulle quali avrebbe posato il primo sguardo al sorgere del sole; tuttavia, si premurò di girare il talamo dell’immortale consorte verso oriente, laddove aveva già fatto schierare i suoi

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favoriti, proprio quegli «uomini dalle lunghe barbe» (o piú semplicemente dalla stravagante acconciatura). Il leggendario episodio è tramandato da varie fonti, prima fra tutte l’Historia Langobardorum, che redatta da Paolo Diacono nell’VIII secolo, è l’unica storia contemporanea di quel popolo.

Sorano, località La Biagiola. Una delle tombe della necropoli in corso di scavo. Le sepolture sono state datate alla metà del VII sec. d.C.

UN’EPOCA TURBOLENTA Quella dei Longobardi, però, non fu solo leggenda ma, soprattutto, storia. Una storia nobile, importante, intrecciata con quella delle genti romane e straniere che sin dal V secolo d.C. si sono trovate a vivere un’epoca di travolgenti trasformazioni politiche ed economiche che sconvolsero l’Europa occidentale, modificandone profondamente gli assetti sociali e culturali: l’Alto Medioevo. «Il Medioevo “oscuro” di Sorano» comincia da qui. Dagli uomini «dalle lunghe barbe» che davvero hanno


Sorano. La Fortezza Orsini, costruita sotto gli Aldobrandeschi nel XIII sec.

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SCAVI • SORANO

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Emilia-Romagna Liguria Mas asssssa ass a

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Sorano

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Lazio

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In basso: pianta dell’area della villa romana, sul cui sito si succedettero piú fasi di frequentazione, tra cui quella relativa all’impianto di una necropoli altomedievale.

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La villa romana I resti delle strutture riferibili a una villa di età romana individuati a ridosso dell’edificio noto come Casalaccio. La foto e la planimetria (qui accanto) evidenziano il sovrapporsi delle diverse fasi d’uso del sito: 1. allineamenti di blocchi di tufo della fase arcaica; 2. murature e pavimentazione di età romana; 3. sepolture altomedievali; 4. banchine e base circolare (5) di un torchio manuale.

contribuito a ridisegnare un territorio, quello della Tuscia, e dunque anche quello di Sorano. È questa una porzione d’Italia fortemente plasmata dal proprio passato etrusco e romano: ma, poiché su tali radici si sono poi innestate nuove genti, nuove organizzazioni sociali e nuovi linguaggi, queste terre hanno assistito al processo di armonizzazione tra le nuove e dirompenti energie e il «paesaggio», fisico e umano, che le aveva accolte. Alla fine del VI secolo d.C. i Longobardi avevano ormai saldamente occupato l’Italia settentrionale, si erano stanziati in Toscana e in Umbria, scendendo fino a conquistare ampie porzioni del nostro Meridione. La fondazione del ducato longo-

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SCAVI • SORANO

bardo della Tuscia, che era pars regni e non ducato autonomo, avvenne probabilmente dopo il 576: giocarono forse un ruolo decisivo alcuni dei militari al soldo dell’esercito bizantino che cambiarono repentinamente fronte. Lucca, dove si stabilirono una curtis regia e una ducale, venne affidata dal re a un duca, mentre nelle altre città della Toscana furono insediati i gastaldi. Bisanzio (dunque l’impero d’Oriente) e Roma (cioè l’autorità pontificia) sapevano quanto potevano essere pericolosi l’isolamento e l’accerchiamento da parte dei nemici: la loro sopravvivenza e il dominio su una parte dell’Italia dipendevano anche dall’esistenza di un «corridoio» che unisse le due città, Roma con la residenza del papa, e Ravenna, sede dell’esarca, l’alto dignitario dell’impero bizantino, governatore e rappresentante dell’autorità imperiale in Occidente.

POSIZIONI STRATEGICHE In questa nuova strategia del controllo del territorio, la Valle Tiberina e la via Amerina divennero un passaggio obbligato, da custodire e difendere, cosí come vennero controllati tutti gli sbocchi che si aprivano su di essa: ecco allora che anche le terre piú inter-

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In alto: frammento di anfora che conserva parte del bollo apposto dalla fornace in cui fu prodotta. A destra e in basso: due immagini degli scavi condotti nell’area occupata dai resti della villa.

ne della Maremma tosco-laziale, attraversate dall’Albegna, dall’Ombrone, dal Fiora e, piú a sud, dal Mignone – fiumi che marcarono i confini altalenanti tra Tuscia longobarda e ducato di Roma –, assunsero un ruolo strategico e ven- La Tuscia rinasce cosí, nel primo nero contese tra le due parti. Medioevo, in un’epoca in cui i Longobardi si stanziano nel territorio mantenendo i raggruppamenti familiari, le fare (da cui il frequente toponimo), mentre i Bizantini tentano la riconquista fortificando i punti strategici nelle loro mani. Proprio nella Tuscia, piuttosto che essere travolti dai Longobardi – che lo stesso papa Gregorio Magno aveva definito «gens nefandissima» –, gli abitanti della vicina Sovana preferirono, per esempio, una soluzione meno pericolosa promettendo di arrendersi pacificamente nel 592 ad Ariulfo di Spoleto. Una volta stabilizzato il dominio longobardo, il duca di Tuscia, uno dei piú potenti dignitari del regno, ebbe modo di controllare le frut-


tuose aziende agricole dislocate nel territorio tra Sorano e Manciano, e di certo ebbe tutto l’interesse a mantenerne ben saldo il controllo.

LE PRIME SCOPERTE Il sito de «La Biagiola», una vasta area nella zona di Pianetti di Sovana, nel Comune di Sorano, ove si localizzano numerose tracce archeologiche, è stato scoperto nel 2004 dal Gruppo Archeologico Torinese nel corso di interventi diretti dall’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e volti a verificare la segnalazione della presenza di strutture pertinenti a una villa romana, della quale si individuarono alcuni muri in opus reticulatum. Dal 2009 sono stati effettuati alcuni saggi di scavo localizzati a ridosso

dei ruderi di un edificio noto come Casalaccio, laddove già affioravano dal piano di calpestio lacerti di mura ascrivibili all’epoca romana. L’indagine archeologica ha cosí permesso di accertare la presenza di una sequenza di strutture murarie pertinenti a una villa. Le murature piú antiche appartengono al reticolo di fondamenta in blocchi di tufo squadrati, e sono riconducibili a una fase arcaica: si può immaginare che fossero destinate a sorreggere un alzato in crudo, di cui nulla è sopravvissuto. La fase immediatamente successiva è riconoscibile nelle murature in opus incertum, che vennero poi rasate per essere riutilizzate, sovrapponendo i caratteristici muri in opera reticolata. Della villa sono state cosí mes-

se in luce diverse strutture, tra le quali una cisterna, vari silos e alcune vaschette scavate direttamente nella roccia, probabilmente riconducibili ad attività vinaria o olearia. Un silo, riutilizzato come butto, ha restituito importanti reperti architettonici e ceramici, la cui datazione spazia dal periodo tardo-etrusco all’epoca tardo-antica. All’esterno del Casalaccio, gli scavi hanno messo in luce una piccola necropoli altomedievale. A eccezione di due sepolture, le tombe sono prive di corredo e le analisi del radiocarbonio le hanno attribuite a un arco cronologico compreso tra i secoli VII e X d.C. Persa la sua connotazione funeraria, il Casalaccio divenne in età moderna un casale rustico: da allora la prolungata attia r c h e o 75


SCAVI • SORANO

vità agricola e un’intensa attività di spoliazione hanno fortemente compromesso il deposito archeologico e disperso i materiali, a eccezione dei corredi di due tombe di epoca longobarda rinvenute intatte.

SCAVARE I LONGOBARDI Per gli archeologi, lo scavo di una necropoli longobarda è un’occasione unica di conoscenza delle dinamiche insediative, capace di gettare luce sulla progressiva integrazione dei Longobardi con la popolazione locale o, al contrario, della volontà di affermazione dell’appartenenza al gruppo di comando. I Longobardi seppellivano i propri defunti con gli abiti e gli ornamenti piú significativi. Come in vita, per gli uomini il segno distintivo del potere erano le armi: la spatha, arma lunga a due tagli, costituiva – insieme allo scudo – l’attributo piú importante del guerriero e veniva portata sospesa a una cintura, spesso rinforzata dalla tracolla, con pendenti di cuoio e terminazioni ornamentali; la lancia, al contrario, era un elemento variabile dell’equipaggiamento, mentre l’elmo, la corazza e l’arco erano in dotazione solo agli uomini di rango piú alto. La presenza di speroni e di finimenti dei cavalli nelle tombe connota alcuni defunti come cavalieri: curiosamente, fino al VII secolo i cavalieri longobardi indossavano un solo sperone ma, imitando l’armamento dei Bizantini, finirono anch’essi per adottare il secondo. Le donne venivano deposte con accessori delle vesti e dell’acconciatura. Accanto alle fibule – che in A sinistra: la tomba longobarda scoperta a La Biagiola e attribuibile a un individuo di sesso maschile, per la presenza dello scramasax, un lungo coltello a un solo taglio. Metà del VII sec. d.C. Nella pagina accanto: disegno ricostruttivo nel quale si immagina un momento del rito funebre longobardo. 76 a r c h e o


STREGHE, CAPRE E CIOCCHE DI CAPELLI L’impronta longobarda nella nostra penisola è oggi tangibile non solo nelle architetture e nelle manifestazioni artistiche custodite nelle città e nei musei, ma anche nei riflessi linguistici, apprezzabili in particolar modo nel nostro sistema onomastico e nella toponomastica. In Toscana, per esempio, non sono rari i nomi, e i cognomi, di probabile derivazione longobarda come i frequenti Adolfo, Alberto, Aldo o Guido, o i piú rari Brando, Folco, Lando o Ulderico. Anche nel dialetto toscano si possono riconoscere alcune parole che rimandano alla lingua dei Longobardi, e se in tutta Italia si usano probabili longobardismi – come arrosto, birra, gruzzolo e pozzanghera, solo per citarne alcuni –, nella regione che fu culla della lingua italiana troviamo espressioni particolari che utilizzano parole derivate dalle lingue germaniche, alle quali apparteneva quella longobarda. È il caso di «ammascare» usato per «scoprire» (da masca, strega); di «bracare» per «frugare» (da brakko, cane da caccia) e dell’espressione di ammirazione assai comune in Toscana «ganzo!» per «perfetto!» (da ganz, sano, illeso) o di quella, meno nota, «zazzicare», usata per indicare il modo di darsi da fare per tentare di risolvere un problema senza un preciso metodo, e soprattutto senza risultato (da zatza > zazza, ciocca di capelli: le donne le intrecciano alle dita spesso senza alcuno scopo). C’è chi ha perfino scomodato Dante Alighieri, che, nel XXXII Canto dell’Inferno, usa «zebe» per «capre», con un probabile rimando al termine

longobardo ziber / zubar, con il quale forse si indicava il caprone offerto per il sacrificio: il vocabolo pare sia sopravvissuto a lungo nelle campagne fiorentine e pistoiesi proprio per indicare la capra. Anche la toponomastica può suggerire talvolta un’antica presenza longobarda: in tutta Italia è assai frequente il toponimo «Fara», termine che designava i nuclei di famiglie patriarcali, alla base dell’organizzazione sociale longobarda, che corrisposero alle unità dislocate sul territorio conquistato. Altro toponimo frequente è «Sala», che indicava non soltanto una generica casa padronale, ma anche la sede dello Skuldhais, il funzionario addetto alla riscossione dei tributi. In Toscana si trova spesso un altro toponimo che trae origine dalla lingua longobarda, «Cafaggio» (o Cafaggiolo), derivante da gahagi, termine usato per indicare tanto un boschetto recintato quanto una tenuta di caccia, comunque un possedimento del re. E se l’etimologia ufficiale vuole che Maremma derivi dal latino maritima, «terra sulla riva del mare», c’è anche chi propone un’altra derivazione, quella dal termine marh, che – usato anche nell’Editto di Rotari – indica il cavallo. D’altra parte la Maremma è certamente la «terra dei cavalli», allo stato brado o raggruppati nelle mandrie di razza maremmana, appunto. Splendidi purosangue che possiamo vedere ancora oggi negli angoli incontaminati di questo affascinante lembo di Italia.

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SCAVI • SORANO

DA FORTEZZA A MUSEO Il 25 ottobre 1293 Anastasia degli Aldobrandeschi di Sovana, figlia della contessa Margherita e nipote di Ildebrandino, sposò Romano di Gentile Orsini: le nozze furono cariche di conseguenze per il piccolo borgo di Sovana, al quale gli Orsini preferirono altre sedi. Il castello di Sorano divenne allora un caposaldo difensivo della vasta «Contea di Pitigliano» e assunse un ruolo decisivo nel XV secolo, quando le mire espansionistiche della repubblica di Siena causarono aspre lotte con gli Orsini, i quali, nel 1417, si videro costretti a firmare una dichiarazione di indiretta sovranità dello Stato senese sulle loro terre. Alla caduta di Siena, avvenuta nel 1555, il conte Niccolò Orsini ritornò a Sorano: la famiglia ne mantenne il possesso fino al 1604 quando nulla poté contro nuovi nemici, i Medici di Firenze.

origine erano utilizzate esclusivamente per la chiusura dell’abito e del mantello, e che vennero poi portate in funzione simbolica appese al pendente di una cintura –, trovavano spazio altri oggetti quali il coltello, la borsetta, le conchiglie o le sfere di cristallo di rocca e altri ornamenti in bronzo e avorio. Per entrambi si aggiungevano doni funebri scelti tra oggetti appartenenti alla famiglia e di uso quotidiano, come i caratteristici pettini in osso, le monete, contenitori in vetro e resti di cibo che, a volte anche appositamente modificati, venivano deposti accanto al defunto e ne definivano lo status sociale anche nella vita ultraterrena. Le due tombe della necropoli del sito «La Biagiola», riferibili alla metà del VII secolo d.C., hanno restituito alcuni elementi di corredo tra i piú tipici della cultura 78 a r c h e o

L’abitato di Sorano, che conserva il caratteristico impianto medievale, è dominato dalla Fortezza Orsini: l’edificio, costruito sotto gli Aldobrandeschi nel XIII secolo, fu ampliato sotto il dominio degli Orsini, i quali ne fecero un funzionale esempio di architettura militare, rispondente alle nuove esigenze dettate dall’uso delle armi da fuoco. L’assetto definitivo fu raggiunto nel 1522, con la costruzione di due bastioni angolari e del mastio centrale, a opera dell’architetto senese Antonio Maria Lari. Lo stesso Cosimo I de’ Medici apprezzò le qualità e le soluzioni architettoniche del complesso militare, definendolo come lo «zolfanello delle guerre d’Italia». Nel 1737 a Sorano subentrarono i Lorena, ai quali i Medici lasciarono la successione nel governo della Toscana. La visita della Fortezza è una

scoperta continua. Nei resti dell’antico cassero, inglobati piú tardi nella ristrutturazione cinquecentesca, il Museo del Medioevo e del Rinascimento propone raffinate ceramiche recuperate nei numerosi «butti» rinvenuti non solo nella fortezza, ma anche a Sovana e Castell’Ottieri; è inoltre possibile ammirare, nella torre ottagonale, una piccola stanza leggiadramente decorata da affreschi eseguiti intorno al 1580, che, tra grottesche e scene mitologiche, ripropongono anche la partitura musicale di un madrigale musicato a quattro voci. Il mastio centrale, che un tempo, oltre al corpo di guardia e all’armeria, ospitava anche il magazzino della polvere da sparo e del salnitro, la fonderia e le prigioni, è oggi sede del Centro Informazioni del Parco tematico degli Etruschi. Il mastio era

longobarda. In una di esse, infatti, è stato rinvenuto uno scramasax, un’arma corta a un solo taglio (dalle due parole di origine germanica skrama, «ferita» e sachs, «coltello»), che si portava inserita in un fodero in cuoio appeso a una cintura decorata da pendenti con rivetti e fibbie, alcune delle quali sono state recuperate nella sepoltura insieme a un coltellino, un pettine in osso e una chiave.

Frammento di pettine in osso recuperato nella tomba che custodiva le spoglie dell’uomo sepolto con il suo scramasax.

SEPOLTURE MULTIPLE La seconda tomba fu utilizzata piú volte, come dimostra la presenza di uno scheletro scomposto pertinente alla deposizione piú antica. All’interno, riferibili alla deposizione piú recente, sono stati rinvenuti ben quindici elementi, tra pendenti e fibbie, appartenenti a una cintura per la sospensione delle armi, realizzati in agemina di argento e ottone.


collegato ai bastioni angolari, detti di San Marco (a levante) e di San Pietro (a ponente), che, a loro volta, ospitavano baluardi minori, abitazioni per la famiglia comitale e per i soldati, cisterne e magazzini,

oltre a mulini per la lavorazione delle granaglie e della polvere da sparo. Una fitta rete di camminamenti sotterranei su piú livelli, muniti di feritoie a bocca di lupo necessarie all’utilizzo di

archibugi e colubrine, permetteva lo spostamento delle truppe in caso di assalto, attraversando rapidamente l’intero complesso, che era ulteriormente difeso, all’esterno, da un doppio fossato.

DOVE E QUANDO

La ricostruzione di una delle tombe longobarde de La Biagiola realizzata all’interno del Museo del Medioevo e del Rinascimento di Sorano.

Si tratta di una tecnica di lavorazione dei metalli utilizzata per produrre effetti decorativi policromi attraverso l’applicazione di un metallo duttile (oro, argento, rame, ottone) inserito sotto forma di laminette e fili battuti a freddo nei solchi incisi sul metallo di base (molto spesso ferro, ma anche bronzo), che danno vita a disegni raffinati e assai complessi: la ritroviamo sulle armi, sulle placche e fibbie delle cinture da sospensione, sugli speroni e sui finimenti dei cavalli, sulle fibule o sugli sgabelli pieghevoli rinvenuti nelle tombe piú ricche. Sebbene gli scavi archeologici abbiano provato l’esistenza di artigiani itineranti nelle diverse comunità longobarde, in grado di produrre localmente i manufatti metallici (i corredi di alcune sepolture definiscono chiaramente l’attività di orefice del defunto), è ormai certo che

una buona parte degli oggetti rinvenuti nelle necropoli sono riferibili a veri e propri centri di produzione «centralizzata», di piú antica tradizione tardo-antica, come quello venuto alla luce a Roma, negli scavi della Crypta Balbi, che riforniva non solo il mercato locale, ma aveva una diffusione dei propri prodotti su un piú ampio raggio.

LO STILE ANIMALISTICO I pendenti e le fibbie rinvenuti nelle tombe longobarde de La Biagiola sono decorati con motivi geometrici o zoomorfi riproposti secondo i canoni del cosiddetto II stile «animalistico germanico», che utilizza rappresentazioni stilizzate di animali intrecciate a formare motivi assai complessi nei quali l’organicità della figura viene travolta, generando un disegno che risulta quasi astratto (mentre nel I stile le figure erano

Museo e Fortezza Orsini Sorano (GR), piazza Cairoli 3 Orario da due settimane prima di Pasqua al 2 novembre: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; 26 dicembre-6 gennaio: tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-17,00 Info Parco Archeologico «Città del Tufo»: tel. e fax: 0564 614074: www.leviecave.it Comune di Sorano: tel. 0564 633023; fax: 0564 633033 CoopZoe: tel. e fax: 0761 458609; e-mail coopzoe@libero.it; www.coopzoe.it

semplicemente accostate tra di loro). Questo nuovo gusto decorativo si sviluppa proprio in Italia ed è un importante marcatore cronologico, che consente di attribuire anche le tombe longobarde con corredo rinvenute in località La Biagiola, alla metà del VII secolo d.C. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile specificare ulteriormente i connotati della comunità che seppelliva i suoi defunti nella necropoli de La Biagiola: la prosecuzione delle indagini archeologiche però potrà gettare nuova luce su questo importante frammento di storia del nostro Medioevo. Si ringraziano per la collaborazione la direttrice del Parco Archeologico «Città del Tufo», Lara Arcangeli, la Presidente della Cooperativa Zoe, Claudia Pietrini, e il Presidente dell’Associazione Historia, Alessandro Barelli. a r c h e o 79


E PRASSITELE

CREÒ LA DONNA ECCO LA VENERE LANDOLINA DI SIRACUSA: UNA DEA CHE NASCE DALLE ACQUE E SVELA CON GESTO PUDICO LA PROPRIA SENSUALITÀ. IL TEMA, CARO ALLA SCULTURA DI ETÀ ELLENISTICA, FU ISPIRATO DA UN CAPOLAVORO DEL MAESTRO GRECO, CHE PER PRIMO OSÒ RITRARRE NUDA LA DIVINA CREATURA di Daniele F. Maras 80 a r c h e o


N

ei Sapienti a banchetto, opera erudita della prima metà del III secolo d.C., lo scrittore greco Ateneo narrò un aneddoto piccante che, a suo dire, sarebbe avvenuto in tempi remoti nella città di Siracusa. Due sorelle che vivevano in campagna si misero a competere per chi di loro avesse il piú bel posteriore: non trovando (ovviamente) un accordo, decisero maliziosamente di chiamare a giudice un giovane di città che si trovava a passare di là. Questi accettò di buon grado e decretò la vittoria della maggiore. In seguito, tornando a casa, il ragazzo confidò di essersi innamorato della ragazza vincitrice al fratello minore, che volle anch’egli conoscere le ragazze e fu preso da passione per la piú giovane. L’anziano padre dei due, che era molto ricco, cercò di convincere i figli a cercare mogli piú altolocate; ma, non riuscendovi, acconsentí alle nozze. Per questo motivo le ragazze, in segno di riconoscenza alla dea dell’amore, fecero costruire un tempio ad Afrodite Callipige, ovvero «dal bel posteriore».

MITO DI FONDAZIONE L’aneddoto non ha alcuna verosimiglianza storica, ma al di là dei particolari piccanti, ha l’aspetto di un mito di fondazione (aition) del santuario siracusano. Con ogni probabilità, il riferimento al «posteriore» della dea è stato ispirato dalla statua di culto ospitata nel tempio. La sorte ha voluto che gli scavi del teatro greco di Siracusa restituissero il frammento di un rilievo marmoreo che illustra in modo sorprendente la trama del racconto di Ateneo: vi si vedono due ragazze che si tengono per mano di fronte a una terza figura perduta; quella piú a destra, vista di tre quarti da dietro, mostra le proprie grazie abbassando la veste fino alle gambe. E non è sfuggito agli studiosi che

questa particolare figura non è altro che una riproduzione in miniatura, e da una prospettiva insolita, della celebre «Venere Landolina»: la statua piú famosa del Museo «Paolo Orsi» di Siracusa. Nei primi giorni del 1804 gli scavatori erano all’opera nell’antico Nella pagina accanto: la statua di Afrodite nota come Venere Landolina. Prima metà del II sec. d.C. (da un originale greco del II sec. a.C.). Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». In basso: particolare della Venere di Sandro Botticelli, rilettura del motivo della Venere «pudica» che già aveva ispirato la Venere Landolina. Olio su tavola, 1460. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

quartiere siracusano di Acradina, sotto il controllo del Regio Custode alle antichità per la Val Demone e la Val di Noto, il nobile archeologo Saverio Landolina (1743-1814). Qui, nella zona degli Orti Buonavia (presso l’odierno Ospedale Civile), il 7 gennaio fu ritrovata la preziosa statua di Venere tra i resti di un’antica costruzione, esattamente un mese dopo il rinvenimento, a breve distanza, di un’altra scultura di marmo, raffigurante Esculapio.

LE PRETESE DEL VICERÈ Le scoperte fecero presto notizia e, come spesso avveniva all’epoca, attirarono l’attenzione non solo di viaggiatori ed eruditi in tutta la Sicilia, ma anche quella di figure politiche di spicco, come il vicerè di Sicilia, principe di Cutò, il quale pretendeva l’immediato trasporto a Palermo della statua. Con ammirevole coerenza professionale, in grande anticipo sull’archeologia moderna, Landolina resistette alle pressioni governative e denunciò il pericolo di abusi e scavi clandestini da parte della popolazione locale, a causa dell’interesse destato dai nuovi ritrovamenti. Per evitare che la statua venisse requisita, inoltre, segnalò alla Segreteria della Casa Reale il pericolo che le statue potessero essere danneggiate da un frettoloso trasporto in condizioni precarie. Allo stesso tempo, l’infaticabile Custode si adoperò per istituire a Siracusa un museo nel quale raccogliere le antichità provenienti da tutto il territorio, sotto la sua giurisdizione. Cinque anni piú tardi, nonostante le forti resistenze della nobiltà locale, che temeva l’esproprio delle collezioni private e l’interruzione degli scavi non autorizzati, Landolina riuscí nel proprio intento, grazie alla munificenza del vescovo di Siracusa, Filippo Maria Trigona, che mise a disposizione gli ambienti del Seminario vescovile. a r c h e o 81


GLI IMPERDIBILI • VENERE LANDOLINA

altre copie dello stesso soggetto, di a.C., il quale per primo osò rappreminor qualità, conservate ad Atene sentare la nudità di una dea. e a Karlsruhe. L’uso dei contrasti di luce, che mette in risalto la pelle vellutata di Afrodite grazie alla lavorazione LA SFRONTATEZZA morbida della superficie, è evidente DI UNO SCULTORE Afrodite è ritratta nel momento specialmente nella visione frontale della propria nascita dalla spuma in cui la veste gonfiata dal vento del mare, mentre con gesto pudico incornicia le gambe in uno splendiporta la destra al seno e solleva un do colpo d’occhio. Questi elementi drappo a coprire il pube. Si tratta innovativi, in uno schema comune di una delle numerose varianti del- dell’arte ellenistica, permettono di la cosiddetta dea Anadiomene, lette- attribuire la scultura originale da cui ralmente «che sorge [dalle acque]», è tratta la copia siracusana alla scuocome prova il tozzo delfino guiz- la rodia, che, qualche decennio piú zante scolpito sul fianco destro del- tardi, produsse anche la ben piú fala statua. Il soggetto, caro all’arte mosa Venere di Milo. ellenistica, si ispirava alla famosa La visione posteriore, alla quale si Afrodite Cnidia di Prassitele, sculto- deve l’epiteto della dea e probabilre ateniese dell’avanzato IV secolo mente l’origine del racconto di Ateneo, era con ogni probabilità secondaria nella collocazione temDopo averla scoperta, Landolina plare dell’originale. Cionondimeno, si può ritenere che essa fosse apdovette battersi strenuamente per prezzata nella copia, grazie alla posdi camminare attorno alla impedire il trasferimento della Venere sibilità statua, come consente anche l’attuale allestimento museale. Il soggetto della «Venere pudica» rimase a lungo in voga presso i Romani, che consideravano le statue della dea nuda particolarmente adatte ad ambientazioni acquatiche, come fontane e ninfei. Come si è detto, capostipite della serie fu la statua scolpita da Prassitele per il tempio di Afrodite a Cnido, intorno al 350-330 a.C. Lo scultore mise in

Nasceva cosí il Museo Patrio di Siracusa, antenato del Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi», nella cui collezione la Venere Landolina (cosí chiamata in onore del suo scopritore) ha da sempre occupato il posto d’onore. Ricavata da un unico blocco di marmo pario, la statua è, in realtà, una copia romana di altissima qualità, che si ritiene sia stata ricavata tramite l’osservazione diretta dell’originale, presumibilmente conservato a Siracusa. Nonostante la mancanza della testa e di buona parte del braccio destro, la scultura conserva una potente presenza scenica, che ne giustifica la fama. In ogni caso è possibile avere una chiara idea della posa originaria grazie ad

A sinistra: il frammento di un rilievo marmoreo trovato nel teatro greco di Siracusa che rappresenta il racconto di Ateneo: due ragazze si tengono per mano di fronte a una terza figura, perduta; quella piú a destra, vista di tre quarti da dietro, mostra le proprie grazie abbassando la veste fino alle gambe. Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi». Nella pagina accanto: ancora due vedute della Venere Landolina; alla seconda, a destra, si deve l’epiteto di Callipige, «dal bel posteriore», assegnato all’immagine di Afrodite. 82 a r c h e o


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Venere Landolina • Definizione Copia romana di una scultura greca ellenistica • Cronologia Prima metà del II sec. d.C. (da un originale del II sec. a.C.) • Luogo di ritrovamento Siracusa, area dell’Ospedale Civile • L uogo di conservazione Siracusa, Museo Archeologico Regionale «Paolo Orsi» (inv. 694) • Identikit Prima apparizione della sensuale dea dell’Amore

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GLI IMPERDIBILI • VENERE LANDOLINA La statua di Afrodite Anadiomene rinvenuta a Cirene nel 1913. Copia di età imperiale di un originale ellenistico del II sec. a.C. La scultura è stata restituita alla Libia nel 2008.

scena il bagno della dea, sorpresa nel momento in cui si è liberata dell’ultimo indumento e si appresta a scendere in una vasca, a cui allude il grande contenitore per l’acqua sul quale sono appoggiate le vesti. L’ardita rappresentazione, appena mitigata dal gesto di pudore con cui Afrodite copre il pube, corrisponde alla nuova visione ellenistica degli dèi: non piú figure trascendenti alle quali si affida la salvezza della comunità, ma protettori personali in rapporto con gli individui. La nudità della dea e l’ordinarietà del suo bagno ne fanno una figura piú vicina alla vita quotidiana dei fedeli di quanto non fosse nell’età classica.

UN MODELLO DI SUCCESSO Il II secolo a.C. vede un vero e proprio «boom» di esperimenti sulla scia dell’opera prassitelica, dal tipo naturalistico e un po’ irrigidito della Venere Capitolina, caratterizzata da una ricca acconciatura, alla snella e acerba Venere di Cirene, restituita alla Libia pochi anni fa, alla quale si ispira la piú tarda e severa Venere dell’Esquilino. Nel secolo seguente si aggiunge l’aspetto leggiadro e sognante dell’Afrodite Medici, il cui originale è conservato agli Uffizi di Firenze e che suscitò l’interesse degli artisti neoclassici nell’epoca napoleonica. Si differenzia dalle altre, invece, l’Afrodite accovacciata, opera dello scultore bitinio Doidalsas, dalle forme piene e aggraziate, che si immagina al bagno sotto una sorgente d’acqua corrente. Comune a tutte queste sculture, come anche alla già citata Venere di Milo, è l’indugiare sulle forme del nudo femminile, che conferisce dignità divina al corpo della donna, contribuendo a rivoluzionare la rap84 a r c h e o


Ancora una variante della statua di Afrodite scolpita da Prassitele: è la Venere Esquilina, trovata negli Horti Lamiani nel 1874. Prima età imperiale. Roma, Musei Capitolini.

presentazione umana nell’arte. In questo panorama, la Venere Landolina ha un posto a sé, per la sapiente fusione di forme morbide e panneggi in chiaroscuro, che ha fatto parlare di tendenze barocche dell’ambiente artistico di produzione. Non stupisce a questo punto che la statua siracusana abbia attirato l’attenzione di un visitatore d’eccezione come Guy de Maupassant, che, in Viaggio in Sicilia, dedica una commossa pagina di alta letteratura alla seducente vitalità della dea: «Bella, proprio come l’avevo immaginata» commenta lo scr ittore dopo l’«incontro» con la statua, nel 1885. «Non è la donna vista dal poeta, la donna idealizzata, la donna divina o maestosa, come la Venere di Milo, è la donna cosí com’è, cosí come la si ama, come la si desidera, come la si vuole stringere». La vibrante fisicità della scultura continua ad affascinare i viaggiatori e contribuisce a farne un irrinunciabile elemento dell’identità del museo siracusano. E questo si deve, è bene ricordarlo, alla lungimiranza di Saverio Landolina, al quale giustamente spetta l’onore di dar nome alla statua. DOVE E QUANDO Santino A. Cugno, Il collezionismo archeologico siracusano tra XVIII e XIX secolo e la nascita del primo Museo Civico, in Studi Acrensi 4, 2013; pp. 57-72. Antonio Giuliano, La Afrodite Callipige di Siracusa, in Archeologia Classica V, 1953; pp. 210-214

NELLA PROSSIMA PUNTATA • La Tomba del Tuffatore di Paestum a r c h e o 85


SPECIALE • GERTRUDE BELL

GERTRUDE BELL E IL SOGNO DEL VICINO ORIENTE ARCHEOLOGA, SCRITTRICE, ALPINISTA E VIAGGIATRICE INSTANCABILE, MA ANCHE CONSULENTE POLITICA E AGENTE SEGRETO DI SUA MAESTÀ. ECCO LA STORIA DI UNA DONNA STRAORDINARIA, LA QUALE, CON SFRONTATA INTELLIGENZA UNITA ALLA CONOSCENZA PERFETTA DELLA LINGUA ARABA, CONTRIBUÍ IN MANIERA DETERMINANTE A PLASMARE LE SORTI DEL LEVANTE di Stefania Berlioz

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arkemish, 19 maggio 1911: non è una giornata qualsiasi per gli archeologi della missione britannica nella capitale ittita sull’alto corso dell’Eufrate (vedi box a p. 96). La tensione è palpabile: sta per arrivare Gertrude Bell, esploratrice, archeologa e scrittrice di fama. Un suo giudizio negativo può compromettere la reputazione di uno studioso. È necessario confonderla, distrarne lo sguardo dagli scavi condotti in modo grossolano: sterri in cerca di tesori da trasportare a Londra e dei quali, tra l’altro, non si è vista ancora traccia.

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Gertrude Bell, viaggiatrice, funzionaria governativa e studiosa d’archeologia inglese (1868-1926), in una foto del 1921 (in alto) e, nel giugno del 1900, a cavallo davanti al monumento funerario arabo noto come Qubbet ed Duris (oggi in Libano).


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SPECIALE • GERTRUDE BELL

Miss Bell non si fa aspettare: arriva a metà mattina a dorso di cammello. Indossa una giacca di lino, una gonna pantalone e un caschetto in canvas coperto dalla kefiah, il fazzoletto che gli Arabi portano come copricapo. È contrariata: poco prima di partire, ha appreso che David Hoghart – direttore della missione di Karkemish e suo carissimo amico – è stato richiamato in patria per un incarico prestigioso. Presso il villaggio di Jerablus, trova i suoi due assistenti: il filologo Reginald Campbell Thompson e un giovane fresco di laurea, il ventitreenne Thomas Edward Lawrence (passato alla storia come «Lawrence d’Arabia»).

UN INCONTRO FATALE Gertrude Bell e Thomas Edward Lawrence non potrebbero essere piú distanti: lei già famosa e appartenente a una ricca e influente famiglia d’Inghilterra; lui sconosciuto e figlio illegittimo della classe medio-bassa. Scoprono A destra, in alto: l’esploratrice britannica si accinge a salire a bordo del suo velivolo. A destra, al centro: la tenda dello sceicco ‘Awda Abu Tayi, che si uní alla rivolta antibritannica del 1916 e, con Lawrence d’Arabia, ebbe un ruolo di primo piano nella conquista di Aqaba, nel 1917.

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VIAGGIARE NEL DESERTO Per una donna occidentale, viaggiare sola nel deserto non era cosa da poco: i pericoli erano sempre in agguato. Le silenziose distese sabbiose erano scosse da periodiche ondate di violenza scatenate dagli odi tribali e dalle rivendicazioni etniche; bande di ladri scorrazzavano impunite, e le razzie e le uccisioni erano all’ordine del giorno. Incognite che non scoraggiarono Gertrude Bell, che amava commentare: «Viaggiare sola nel deserto non può essere piú difficile dello scalare una montagna!». Organizzava meticolosamente ogni escursione, senza tralasciare alcun dettaglio: gli itinerari, la scelta del suo


seguito e della guida, le provviste, i bagagli. Ben nascosti tra la biancheria e i servizi di porcellana, portava con sé un fucile e un revolver da utilizzare in casi di estremo pericolo o, all’occorrenza, per intimidire qualche ladro improvvisato. Durante i suoi spostamenti nel deserto adottò stratagemmi a prima vista avventati, ma che alla lunga si rivelarono efficaci: invece di accamparsi in angoli nascosti, lontani da sguardi indiscreti, si avvicinava agli accampamenti beduini e individuava la tenda piú grande, solitamente riservata ai capi. Sapeva bene che in Oriente l’ospitalità è sacra, e presentarsi con doni la poneva al riparo di ogni pericolo.

però di essere animati dalle stesse passioni: l’archeologia, il viaggio inteso come esplorazione, la politica e il mondo arabo. Del loro incontro, per molti versi fatale (pochi anni piú tardi le loro strade torneranno a incrociarsi), Lawrence scrisse alla madre: «Abbiamo dovuto metterla a tacere con una dimostrazione di erudizione. In cinque minuti l’abbiamo portata dall’architettura bizantina a quella romana, ai crociati, agli Ittiti e all’architettura francese (questa era la mia parte); poi il folclore greco, l’architettura assira e l’etnologia della Mesopotamia (e questa era la parte di Thompson). E questo era solo... l’aperitivo. Alla fine – stava diventando sempre piú rispettosa nei nostri confronti! – fissammo sette o otto temi per ciascuno sui quali cominciammo a farle una raffica di domande. Dopo un’ora e mezza fu contenta fosse arrivata l’ora del the. (...) E cosí l’abbiamo servita. È una donna piacevole, avrà circa 36 anni, non bella (tranne che con un velo addosso, forse). Sarebbe stato molto (segue a p. 93) A sinistra: Gertrude Bell durante una visita agli scavi di Babilonia, nel 1909. Sulle due pagine: marzo 1900, il campo base dell’esploratrice sullo Wadi Buseira (oggi in territorio giordano), nei pressi delle rovine dell’antica città di Bozrah.

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SPECIALE • GERTRUDE BELL

IN VICINO ORIENTE, CON LAWRENCE Biografia personale

Avvenimenti storici

Gertrude Margareth Lowthian Bell nasce il 14 luglio 1868 a Washington Hall (contea di Durham, Inghilterra). Ritratto di Gertrude Bell a 5 anni, con il padre, Hugh Bell.

1869 Apertura del canale di Suez.

A diciassette anni, entra 1885 Dopo dieci mesi di assedio, l’esercito mahdista all’Università di Oxford. conquista Khartum, annientando la guarnigione comandata dal generale inglese Gordon. Dopo aver studiato il farsi 1892 Gli Stati della Tregua (corrispondenti agli attuali da autodidatta, compie il primo Emirati Arabi Uniti) si legano alla Gran Bretagna con viaggio in Oriente, raggiungendo una serie di trattati esclusivi. lo zio Frank Lascelles a Teheran. Viaggia in tutto il mondo: Francia, Italia, Grecia, 1892- Nell’agosto del 1897 Basilea ospita il primo Svizzera. Pubblica, sotto pseudonimo, Persian 1897 Congresso Sionista, che ratifica la determinazione a creare uno Stato ebraico in Palestina. Pictures. A Book of Travel (1894) e traduce in inglese il divan (canzoniere) di Hafez. S’imbarca per Beirut, da dove prosegue 1899 L’impero ottomano, alleato con la Germania, cerca di per Gerusalemme. invadere il Kuwait, che chiede e ottiene l’aiuto della Gran Bretagna. Inizia il viaggio nelle province orientali 1900 dell’impero ottomano. È in Siria, con tappe a Salt, Madaba, Homs, 1905 L’impero ottomano e quello britannico sanciscono le Damasco, Aleppo, Antiochia, Baalbek. rispettive sovranità sullo Yemen del Nord e quello del Sud (che si riunificano solo nel 1990). Visita l’Asia Minore. 1907 Intesa anglo-russa. L’iran viene spartito tra le sfere d’influenza di Gran Bretagna e Russia. Viaggia in Mesopotamia: discende l’Eufrate sino a 1909 Contraccolpo ottomano. Massacro degli Armeni Kerbala, visita Babilonia, Seleucia, Ctesifonte e nella valle di Adana. raggiunge Baghdad. Poi risale il Tigri, sino a Mosul, e visita le regioni montuose popolate dai Curdi. Rientrata in Inghilterra, coltiva un’impossibile e 1912 Scoppiano le guerre balcaniche: le nazioni tormentata storia d’amore con il diplomatico dell’omonima penisola mirano a liberarsi dal dominio Richard Doughty-Wylie. ottomano. Intraprende un viaggio in Arabia, ma, fatta 1913 30 maggio: il trattato di pace firmato a Londra pone prigioniera e poi rilasciata, rientra in Inghilterra. fine alle guerre balcaniche: l’impero ottomano perde quasi interamente i suoi possedimenti in Europa.

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D’ARABIA E WINSTON CHURCHILL... Biografia personale

Avvenimenti storici

Con l’inizio del conflitto mondiale, chiede un 1914 Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’impero incarico in Medio Oriente, ma la richiesta viene ottomano si schiera a fianco di Austria-Ungheria, respinta. Entra come volontaria nella Croce Rossa. Germania e regno di Bulgaria. In seguito, Russia, Serbia e Montenegro dichiarano guerra agli Thomas Edward Lawrence, meglio Ottomani, seguite da Francia e Regno Unito. noto come «Lawrence d’Arabia».

Richard Doughty-Wylie muore a 1915 24 ottobre. Corrispondenza tra Sir Henry Mac Mahon, Alto Commissario inglese al Cairo, e Gallipoli, sui Dardanelli: Gertrude Hussein bin Ali, sharif della Mecca: la Gran ne è sconvolta. David Hogarth, Bretagna riconosce i diritti della nazione araba alla direttore dell’Arab Bureau, costituzione di un grande Stato indipendente, nel la chiama al Cairo, in qualità di caso di un crollo dell’impero ottomano. esperta. Collabora con Thomas Edward Lawrence. 1916 Accordo «Sykes-Picot» per la spartizione anglo-francese del Medio Oriente. Viene convocata a Baghdad da Percy Cox e le viene 1917 19 aprile, accordi di San Giovanni di Moriana: l’Italia conferito il ruolo ufficiale di «Oriental Secretary». riconosce l’Accordo Sykes-Picot; Francia e Gran Bretagna riconoscono all’Italia gli interessi per i porti di Haifa, San Giovanni d’Acri e Alessandretta. 2 novembre, dichiarazione Balfour: la Gran Bretagna sposa la causa sionista, promettendo un focolare nazionale ebraico in Palestina. L’emiro Faisal (futuro re dell’Iraq) a Versailles, in occasione della conferenza di pace di Parigi del 1919.

1919 Dopo la resa degli Ottomani, il 1° ottobre le truppe britanniche occupano i territori dell’attuale Iraq. Gertrude Bell (terza da sinistra) davanti alle Piramidi (con Winston Churchill (secondo da sinistra) in occasione della Conferenza del Cairo del 1921.

1921 Il 12 marzo si apre la Conferenza del Cairo: le potenze vincitrici decidono le sorti del Medio Oriente, dividendosi le terre dell’ex impero ottomano. 1922 Abolizione del sultanato. 1923 Proclamazione della repubblica turca.

Muore il 12 luglio a Baghdad. 1926 1932 L’Iraq conquista l’indipendenza nazionale.

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SPECIALE • GERTRUDE BELL

Cartina pubblicata dal New York Times che riassume l’assetto geopolitico della regione medio-orientale alla fine del 1918. 92 a r c h e o


antipatico se avesse denunciato per scritto i nostri metodi di scavo. Ora credo non lo farà». Nonostante l’ironia, Lawrence è molto incuriosito da questa donna: come ha potuto attraversare, da sola, le steppe e i deserti di Siria e Mesopotamia? Chi si nasconde dietro quello sguardo cosí distaccato e altezzoso?

UNA FAMIGLIA DI SUCCESSO Gertrude Margareth Lowthian Bell nasce il 14 luglio del 1868 a Washington Hall, cittadina della contea di Durham (Inghilterra nord-orientale). La sua è una famiglia di successo: suo nonno Isaac e suo padre Hugh, proprietari delle piú grandi acciaierie e miniere di carbone del Nord-Est britannico, coniugano abilità imprenditoriali a non comuni preparazione scientifica e apertura

Qui sotto: gennaio 1900, Gertrude Bell e Fritz Rosen, console tedesco a Gerusalemme, sul Mar Morto. In basso: l’articolo pubblicato dal New York Herald il 24 luglio 1921, nel quale Gertrude Bell fu definita «Regina senza corona della Mesopotamia».

mentale. L’infanzia di Gertrude, seppur funestata dalla morte della madre, trascorre tra gli agi e gli stimoli intellettuali. È una bambina intelligente, curiosa ed estremamente testarda: tenerla entro le mura domestiche è quasi un’impresa. Per volontà del padre e della matrigna (la commediografa Florence Olliffe, sposata in seconde nozze da Hugh Bell), Gertrude completa la sua educazione a Londra, presso l’esclusivo Queen’s College e, a diciassette anni, età in cui le sue coetanee debuttavano in società, per lei si aprono le porte dell’Università di Oxford, in un’epoca in cui la presenza femminile era tollerata a malapena. In questo mondo tutto al maschile, Gertrude si trova pienamente a suo agio. Si interessa di storia, politica, affari interna-

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SPECIALE • GERTRUDE BELL

Dopo aver compiuto il giro del mondo e scalato le montagne della Svizzera, Gertrude Bell cede al richiamo dell’Oriente: nel 1899 si imbarca per Beirut e, da lí, prosegue per Gerusalemme

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zionali ed è la prima donna a superare a pieni voti gli esami in storia moderna. Tanta spregiudicatezza non viene perdonata dalle rigide convenzioni sociali dell’Inghilterra vittoriana: dopo il trionfo negli studi, l’attende una prova che si rivela ben piú ardua: il debutto in società, ovvero la ricerca di un marito. Colta, esuberante e sicura di sé, ai limiti dello sprezzante, Gertrude intimidisce gli uomini, almeno quei pochi che le si avvicinano. Il tempo passa, le ambizioni di Gertrude – e della sua famiglia – vengono frustrate.

Sulle due pagine: foto scattate da Gertrude Bell a Gerusalemme, nel dicembre 1899: le tombe di «san Giacomo» e «Zaccaria» (qui sotto).

e villaggi sperduti, ma sono soprattutto le antiche rovine a esercitare su di lei un fascino irresistibile. Con tono rapito, Gertrude descriverà la sua ascesa a una Torre del Silenzio, antica struttura circolare in pietra e calce all’interno della quale i seguaci di Zoroastro esponevano i loro defunti. La sensualità dell’Oriente la seduce, ma, allo stesso tempo, rafforza in lei il senso di appar-

I PRIMI VIAGGI Ma invece di isolarsi a Rounton Grange, residenza di famiglia nello Yorkshsire, Gertude prende una decisione coraggiosa: viaggiare. Non un viaggio qualsiasi: studia da autodidatta il farsi e il 7 gennaio 1892 raggiunge Teheran, capitale della Persia cagiara (i Cagiari sono un dinastia persiana, ascesa al trono del pavone nel 1786 con Agha Muhammad

tenenza a una civiltà superiore, la civiltà del progresso e della modernità: «In mezzo al deserto – scrive nel suo diario di viaggio – la vita misteriosa dell’Oriente prosegue: una vita in cui nessun europeo può penetrare, i cui standard, i cui canoni sono talmente diversi dai suoi che l’intera esistenza che essi governano gli appare nebulosa e irreale, incomprensibile, del tutto imperscrutabile. Un’esistenza talmente monotona e invariata da un’epoca all’altra che non possiede alcuna caratteristica sufficientemente spiccata da lasciare un’impressione».

SCRITTRICE E TRADUTTRICE Ci vollero anni prima che Gertrude riuscisse, se non ad abbattere, almeno a scalfire alcuni Khan, capo dell’omonima tribú turcomanna, Qui sopra: la di questi pregiudizi, confrontandosi con l’On.d.r.), dove lo zio Frank Lascelles ricopriva Porta di Damasco. riente come realtà moderna. Ma i tempi non un importante incarico diplomatico. sono ancora maturi: l’improvvisa morte di Nella pagina In questa terra di polvere e pietre Gertrude accanto: la Henry Cadogan, con il quale aveva accarezassapora per la prima volta il gusto della liber- Spianata delle zato il sogno di una vita a due, la gettano tà. Presso l’ambasciata britannica conosce Moschee, vista nella piú cupa disperazione. Iniziano cinque Henry Cadogan, uomo colto e brillante, con dalla Porta di anni di attività frenetica: viaggia in Francia, il quale si avventura nel deserto, un’esperien- Faisal, con la Italia, Grecia, fa il giro del mondo con il fraza che le segnerà la vita. In passeggiate solita- Cupola della tello Maurice, scala montagne in Svizzera, rie si perdono tra le strade e i leggendari Roccia sullo pubblica il suo primo libro di successo (Pergiardini di Teheran; visitano palazzi sontuosi sfondo. sian Portraits, Londra 1894), e traduce in un a r c h e o 95


SPECIALE • GERTRUDE BELL

superbo inglese il canzoniere del poeta persiano Hafiz (attivo nel XIV secolo). Poi, mai sopito, il richiamo dell’Oriente torna a farsi sentire con prepotenza: nel novembre del 1899, al volgere del secolo, si imbarca per Beirut e da qui prosegue per Gerusalemme. È sua intenzione studiare l’arabo: attraverso la conoscenza della lingua – ne è certa – riuscirà finalmente a penetrare quel mondo cosí distante dal suo. A Gerusalemme organizza le prime spedizioni solitarie nel deserto. A interessarla sono soprattutto i monumenti romano-bizantini e l’architettura medievale islami-

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ca.Visita Gerico, le rovine del palazzo omayyade di Mshatta, Petra, l’oasi di Palmira.Attraverso la valle del Giordano raggiunge Bosra, nell’altopiano di Hawran, e da qui si inoltra nel cuore del Gebel dove intesse i primi rapporti con la bellicosa popolazione dei Drusi. Gli orizzonti di Gertrude si fanno infiniti.

NELLE PROVINCE DELL’IMPERO In 14 anni, dal 1900 sino allo scoppio della prima guerra mondiale, Gertrude Bell attraversa in lungo e in largo tutte le province orientali dell’impero ottomano (attuali Liba-

Barche alla fonda nel porto di Beirut, in una foto di Gertrude Bell del giugno 1900.


no, Siria, Iraq, Giordania, Palestina e Israele). Nel 1905 è in Siria, con tappe a Salt, Madaba, Homs, Damasco, Aleppo, Antiochia, Baalbek. Nel 1907 in Asia Minore; nel 1909 in Mesopotamia: scende il corso dell’Eufrate sino a Kerbala, città santa degli Sciti, visita Babilonia, Seleucia, Ctesifonte e raggiunge Baghdad. Poi risale il corso del Tigri sino a Mosul e prosegue verso nord, sino alle regioni montuose popolate dai Curdi. A non pochi lettori saranno venuti i brividi per questi itinerari su cui oggi si abbatte l’ombra del Califfato Nero di al-Baghdadi. Che

cosa avrebbe pensato Gertrude Bell delle armate jihadiste del sedicente Stato Islamico e delle persecuzioni delle minoranze etnicoreligiose di Siria e Iraq, dagliYazidi agli shabak, dai mandei ai Curdi? Cosa avrebbe detto dei templi di Palmira trasformati in macabri set cinematografici di esecuzioni sommarie? O ancora delle ruspe che spianano quel che resta delle capitali assire e del missile che ha sventrato il Krak dei Cavalieri (il piú straordinario dei palazzi crociati siriano), dove aveva passato una serata indimenticabile a fumare il narghilè insieme alle donne del palazzo?

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SUL PRIMO GUADO DELL’EUFRATE Dopo aver lambito con profonde e tortuose gole l’inaccessibile massiccio del Tauro, l’Eufrate entra nella steppa siriana, iniziando il suo percorso navigabile. A controllo del primo guado del fiume si erge, con la sua storia millenaria, Karkemish. I resti di questa antica capitale ittita sono impressionanti – la città si estende su una superficie di 90 ettari, circondata da una cinta fortificata che raggiunge, in alcuni punti, un’altezza di 20 m –, ma, per ammirarli, si devono attraversare due Paesi. L’area archeologica, per quanto paradossale possa sembrare, è infatti tagliata in due dalla linea di confine turco-siriana: la cittadella si trova in suolo turco, la città bassa in territorio siriano.

Dopo i leggendari scavi condotti tra il 1911 il 1920 da Leonard Woolley e Thomas Edward Lawrence, le indagini furono abbandonate, e, in seguito all’indipendenza della Turchia, l’antica città fu dimenticata e occupata da un sito di interesse militare turco, off limits anche per gli studiosi. Solo in anni recenti le autorità culturali della Repubblica Turca hanno restituito il sito alla ricerca. Dal 2011, infatti, opera una missione italo-turca (Università di Bologna, Gaziantep e Instabul), per riportare alla luce fondamentali monumenti della grande città neo-ittita degli inizi del I millennio a.C. e porre le basi per la creazione di un parco archeologico. Terremo informati i lettori di «Archeo»...

Karkemish, 1913. Thomas Edward Lawrence (a sinistra) e Charles Leonard Woolley posano di fronte al Lungo Muro delle Sculture. Due anni prima, il sito era stato teatro del primo incontro tra lo stesso Lawrence e Gertrude Bell.

Viene quasi nostalgia, come scrive in una nota dal fronte il giornalista Lorenzo Cremonesi, per quel «Medio Oriente con pochi confini e spazi immensi da esplorare» (Corriere della Sera, 18 gennaio 2015), abitati da una pletora di minoranze etniche e religiose che in qualche modo convivevano, grazie alle leggi sostanzialmente tolleranti della Sublime Porta.

ISTINTO E DIALETTICA Non che mancassero, anche ai tempi di Gertrude Bell, gli imprevisti e i pericoli di viaggio, ma con una meticolosa organizzazione degli spostamenti e una buona dose di spregiudicatezza tutto era possibile (vedi box alle pp. 88-89). La nostra indomita esploratrice si affida all’istinto e all’innata capacità di intessere il dialogo. Durante le sue spedizioni stringe rapporti con emiri, pasha, sceicchi, rappresentanti del governo 98 a r c h e o


In alto: Una strada di Qaryatayn, fotografia di Gertrude Bell. La città (nell’odierna Siria, a sud-ovest di Homs) vantava un ricco patrimonio archeologico e architettonico del quale faceva parte il monastero di Mar Elian, che il sedicente «Stato Islamico» ha annunciato di aver distrutto nello scorso agosto.

ottomano, nomadi del deserto, mercanti, contadini. Entra in contatto con i rappresentanti di tutte le sette del frammentato scacchiere confessionale del Medio Oriente: musulmani – sunniti e sciiti – cristiani, ebrei, drusi e yazidi. Ovunque viene accolta con grandi onori, nei palazzi piú fastosi come nei piú miseri villaggi o nelle tende beduine. «In Oriente – scrive al padre – troverai una maggiore tolleranza dovuta a una maggiore diversità. L’Europeo può andare su e giú per i luoghi piú selvaggi suscitando poca curiosità e ancor meno critiche. Le notizie che porta verranno ascoltate con interesse, le sue opinioni considerate con attenzione, ma non verrà considerato originale o pazzo solo perché il suo comportamento e i suoi modi di pensare sono diversi da quelli delle persone che lo circondano». Ma questo mondo è ormai al suo crepuscolo. L’impero ottomano va perdendo, pezzo per pezzo, i suoi possedimenti europei e in Asia la stretta autoritaria di Istanbul scatena le rivendicazioni nazionalistiche arabe.

In una lettera inviata nel dicembre del 1912 all’amico Valentine «Domnul» Chirol, corrispondente del Times, Gertrude scrive: «Non sarei sorpresa se dovessimo assistere, nel corso dei prossimi anni, allo sgretolamento dell’Impero anche in Asia» (domnul, in lingua rumena, significa gentiluomo e Gertrude Bell scelse di usare il vocabolo come soprannome dell’amico, che aveva conosciuto durante il suo soggiorno a Bucarest, n.d.r.). Quasi una profezia. Quello che Gertrude ancora non sa è che contribuirà lei stessa ad affossare quel regime.

UN AMORE IMPOSSIBILE Ma per il momento le condizioni del «Grande Ammalato» – cosí la Sublime Porta era stata ribattezzata in Occidente – non sono al centro della sua attenzione: nella pace di Rounton Grange – residenza estiva di famiglia – vive la sua tormentata (e incompiuta) storia d’amore con il diplomatico Richard Doughty-Wylie, l’uomo che aveva risvegliaa r c h e o 99


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to in lei i desideri piú profondi. Forse per sfuggire a questo amore impossibile – Richard è un uomo sposato –, Gertrude si avventura nella piú pericolosa delle sue spedizioni, l’Arabia. Intende attraversare il deserto del Neged ed entrare in contatto con gli emiri e i leader delle principali tribú arabe, nonché tracciare una mappa di quelle terre, visitate solo da un pugno di occidentali. Il suo cammino si interrompe a Hayil, roccaforte di Ibn Rashid, della tribú Shammar, dove rimane prigioniera due settimane. Il rientro forzato a Baghdad le lascia un senso di delusione: «Non ho fatto tutto quello che avrei voluto» scrive all’amato Richard. Quello che ai suoi occhi appare come un insuccesso è destinato a rivelarsi, di lí a poco, di straordinaria utilità per il governo britannico e i suoi alleati.

LA GRANDE GUERRA Nel giugno del 1914 Gertrude è in Inghilterra, di ritorno dalla sua spedizione in Arabia. Mentre sistema i suoi appunti di viaggio giunge notizia dell’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca austriaco Francesco Ferdinando

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Sulle due pagine: il sito archeologico di Baalbek (oggi in Libano), in due foto di Gertrude Bell del giugno 1900: il tempio di Giove (nella pagina accanto) e il monolite noto come hagar al-hubla («pietra della gestante») nel 1900. Si tratta di un blocco di proporzioni colossali, del peso di oltre 800 t, che ancora giace nella cava da cui era stato tratto.

(28 giugno 1914), scintilla che, nel giro di poche settimane, incendiò il mondo. Il 28 luglio l’impero austro-ungarico dichiara guerra alla Serbia, determinando la progressiva mobilitazione delle potenze europee. Da questo momento gli avvenimenti si susseguono a ritmi serrati. Sul fronte orientale l’impero ottomano si allea con la Germania contro le forze della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia). L’Inghilterra reagisce immediatamente, con uno sbarco nella penisola di Gallipoli, sui Dardanelli, per colpire sul fianco i Turchi e assicurare una comunicazione via mare tra il Mediterraneo e la Russia. Le scioccanti notizie della disfatta britannica (aprile 1915) giungono a Londra il 1° maggio. Una tragedia individuale si staglia sullo sfondo dell’immane tragedia collettiva: sulle spiagge di Gallipoli è caduto Richard Doughty-Wylie. «Questa perdita ha messo fine alla sua vita – scrive nel suo diario la sorella Molly – è difficile immaginare come possa ricostruire qualcosa dalle macerie che le sono rimaste». Ancora una volta è l’Oriente ad accoglierla e a offrirle un nuovo inizio. Dopo la sconfitta di Gallipoli, gli interessi


La grande esploratrice britannica fu testimone di un mondo che, in tempi recentissimi, è balzato a piú riprese agli onori delle cronache per le distruzioni di cui è vittima: circostanza che rende ancor piú prezioso l’archivio dei suoi numerosi reportage fotografici


SPECIALE • GERTRUDE BELL

inglesi si spostano in Mesopotamia (odierno Iraq, in epoca ottomana suddiviso nei tre distretti di Bassora, Baghdad e Mosul). Prende corpo l’idea di fomentare una rivolta delle tribú arabe contro gli Ottomani. Gertrude, ultima europea ad aver visitato quelle terre, diventa fonte di informazione vitale. E cosí, nel novembre del 1915, viene raggiunta da una lettera di David Hoghart: la sua presenza è richiesta al Cairo, presso l’Ufficio di intelligence militare britannico. Per la prima volta nella sua vita, Gertrude sarebbe andata in Oriente non come osservatrice, ma come esperta, una vera professionista: quel mondo che l’aveva bollata come un’eccentrica la riconosceva ora come persona. Arriva al Cairo il 26 novembre. Ad attenderla trova Thomas Edward Lawrence.

AL SERVIZIO DELL’INTELLIGENCE «Comincio a divertirmi», scrive Gertrude alla matrigna Florence dal suo ufficio presso l’Hotel Savoy del Cairo, quartier generale dell’Arab Bureau. I suoi primi mesi a servizio dell’intelligence britannico sono frenetici. Lavora fianco a fianco con Lawrence: lui aggiorna carte geografiche – linee ferroviarie, pozzi, sentieri –, lei scrive dettagliati rapporti sulle tribú arabe e tratteggia i profili dei

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loro sceicchi. Sono entrambi aperti sostenitori di una grande rivolta araba contro il giogo ottomano e fantasticano insieme sui «futuri governi dell’intero universo». Ma tutto il loro ardore, la loro consumata dimestichezza con gli uomini del deserto, le tribú, le oasi e i giacimenti di petrolio e, non ultima, la loro influenza nulla potranno contro la politica tanto spregiudicata quanto miope del governo britannico. In un intricato gioco di bugie, promesse scarsamente affidabili e partite giocate simultaneamente su tavoli diversi, la diplomazia e l’intelligence inglesi non riescono a guardare al di là dei propri interessi piú immediati. Gli stessi territori (le provincie turche in Asia) segretamente spartiti tra Inghilterra e Francia (vedi box a p. 103), vengono promessi a gruppi arabi di identità tribale e religiosa differenti, a volte francamente ostili gli uni agli altri, a patto che si rivoltino in armi contro i Turchi. A coronare il tutto, nel 1917, mentre le armate inglesi conquistano Baghdad, ponendo fine al dominio ottomano, si pianta il seme di una futura, tenace pianta della discordia: il ministro degli esteri inglese Arthur Balfour scrive a Lord Rotschild, come personalità eminente della comunità ebraica d’Inghil-

Nella pagina accanto: i partecipanti della conferenza svoltasi al Cairo nel 1921, per discutere degli assetti territoriali del Medio Oriente. In basso, sulle due pagine: Palmira, fotografia di Gertrude Bell. La Via Colonnata e, sullo sfondo, il castello costruito dall’emiro ayyubide Al-Malik Shirkuh nel 1230, su un’altura che sovrasta le rovine dell’antica città.


COME SPARTIRSI IL VICINO ORIENTE La destabilizzazione cronica che, da oltre un secolo, affligge i Paesi del Levante, affonda le sue radici nelle scelte operate dalle grandi potenze coloniali europee Gertrude uscite vincitrici dal primo Bell conflitto mondiale. Scelte spregiudicate, dettate solo da interessi economici. Già nel 1916, Francia e Inghilterra trattavano per la ripartizione Edmund Winston Lawrence delle provincie arabe Allenby Churchill d’Arabia dell’impero ottomano. Con una linea tracciata a tavolino su una mappa la regione fu divisa in storia come «Accordo Sykes-Picot» (dal nome del diplomatico britannico Mark Sykes e del primo due, senza tener minimamente conto delle differenti segretario dell’ambasciata francese a Londra François tradizioni etniche e religiose, delle divisioni tribali. Georges-Picot) fu firmato segretamente il 16 maggio Al Regno Unito fu assegnato il controllo della zona 1916, tradendo le promesse di indipendenza nazionale comprendente grosso modo la Giordania, l’Iraq fatte dagli Inglesi agli Arabi alla vigilia della grande (provincie di Baghdad e Bassora) e una piccola area rivolta araba contro i Turchi. intorno a Haifa. Alla Francia la Turchia sud-orientale, la parte settentrionale dell’Iraq (provincia di Mosul), la «Se fossi stato un consigliere onesto – scrive Lawrence d’Arabia – avrei detto agli Arabi di tornare a casa e non Siria e il Libano. Questo accordo, denominato arrischiare la vita per una simile prospettiva». ufficialmente Asia Minor Agreement, ma passato alla


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terra, dichiarandosi a favore della nascita di costellazione dei gruppi sciiti, le cui ambiziouno Stato ebraico nelle terre fortemente ni politiche sono radicalmente frustrate; al nuovo re viene audacemente affiancata una musulmane di Palestina. Costituzione, con un Parlamento e istituzioni civili, sulla falsariga di quelle inglesi. DISEGNARE L’IRAQ Su queste sabbie mobili per lei difficilmente Promossa «Consigliere dell’Impero», Gertrucontrollabili e tra ripensamenti, rivolte, re- de deve però assistere agli incerti passi della pressioni e pesanti intromissioni francesi, sua grande creatura e all’intensificarsi delle Gertrude Bell inventa l’Iraq su incarico di rivolte: uno stato di continua crisi che, negli Winston Churchill: in una lettera da Bagh- ultimi anni, le fa trovare un consolante rifugio dad, indirizzata al padre il 4 dicembre 1921 scrive «Ho bene impiegato l’intera mattina in ufficio a disegnare sulla carta geografica il confine meridionale del deserto iracheno». Il nuovo Stato si compone unificando tre province dell’ex impero ottomano, cercando di non scontentare troppo né le tribú arabe, né i rampanti interessi petroliferi britannici. Il nuovo Stato viene affidato al sunnita Faisal, rampollo della dinastia Hashemita degli Sharif della Mecca, preferito come capo a quelli dell’instabile

A destra: Baghdad, Cimitero degli Inglesi. La tomba di Gertrude Bell. Qui sotto: l’Iraq Museum, sorto grazie a Gertrude Bell, in una foto degli anni Trenta.

A sinistra: foto ricordo di un picnic (al centro, Gertrude Bell), al quale partecipò, tra gli altri, il re Faisal I (secondo da destra). 1922. In basso: un’altra veduta di Qaryatayn, nell’odierna Siria.

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Gertrude Bell si dedicò con entusiasmo alla creazione del primo Museo Nazionale dell’Iraq, e, come sempre, senza alcun risparmio di energia: un’abnegazione che, forse, contribuí alla sua fine prematura nell’archeologia. Ricade infatti sulle sue spalle, in qualità di Direttore Onorario delle Antichità, il progetto della creazione di un museo nazionale iracheno. Inizia a raccogliere le ingenti quantità di reperti che emergevano dagli scavi in corso nel Paese con un entusiasmo e una energia impareggiabili.

NASCITA DI UN MUSEO Il 3 marzo del 1926 scrive trionfante alla matrigna Florence: «Sono certa che sarai contenta di sapere che ho ottenuto l’edificio che volevo piú di tutti gli altri per il mio museo (l’antico edificio della stampa governativa in Ma’mun Street, n.d.r.). Oh, cara, come vorrei che lo vedessi! Sarà un vero museo, un po’ come il British Museum, solo un po’ piú piccolo. Sto ordinando lunghi cassetti poco profondi entro cassapanche per contenere i frammenti ceramici, cosí che tu tiri fuori un cassetto e guardi i pezzi sumerici e poi un altro e guardi gli smalti partici e un altro per la ceramica incisa arcaica e poi quella incisa araba (che posso raccogliere in quantità appena un quarto d’ora dalla mia

porta di casa) e poi la smaltata araba e cosí via. Non sarà bello? È anche bello pensare che potrò sgombrare le credenze della mia casa da una massa di scatole di biscotti, piena di frammenti polverosi». E non si può che perdonarle se, anche in questa sua ultima creazione, non poté fare a meno di proiettare modelli culturali propriamente occidentali. Quest’ultima fatica la prostra fisicamente e psicologicamente. Il 12 luglio dello stesso anno, a due giorni dal suo 58° compleanno si spegne improvvisamente, forse per un malore, forse per una volontaria overdose di sonniferi. La morte prematura le risparmia il dolore di un collasso finale: la conquista dell’indipendenza da parte della giovane nazione irachena, nel 1932. Gertrude Bell riposa oggi a Baghdad, nel Cimitero degli Inglesi. Ombreggiata da palme e gelsomini, la sua tomba reca una semplice iscrizione: «Gertrude Margaret Lowthian Bell, Oriental Secretary to the High Commissioner for Iraq. Died in Baghdad, 12th July 1926». a r c h e o 105


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

CENERI SENZA NOME IL COLOMBARIO ROMANO DI VIGNA CODINI VIENE TRADIZIONALMENTE ASSEGNATO AI «SERVI E AI LIBERTI DI MARCELLA». MA UN RECENTE STUDIO ANTROPOLOGICO PROVA CHE QUELL’ATTRIBUZIONE NASCE, CON OGNI PROBABILITÀ, DA UN’INVENZIONE DEL MARCHESE GIAMPIETRO CAMPANA...

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I

cosiddetti «colombari» sono una importante categoria di monumenti funerari, che caratterizza l’età augustea e la prima età imperiale, soprattutto a Roma. Prevalentemente sotterranei, questi edifici accolgono le ceneri di molte centinaia di defunti all’interno di urne di terracotta murate nei loculi ordinatamente predisposti lungo le pareti delle camere sepolcrali. Il numero elevato dei loculi indica che la capacità di queste tombe eccede largamente la scala delle famiglie biologiche. E infatti questi sepolcri collettivi vengono attribuiti a persone di rango inferiore (liberti e schiavi), che ruotavano attorno alle grandi famiglie aristocratiche romane, oppure ai membri di corporazioni professionali (anche se non mancano colombari i cui loculi erano aperti alla libera compravendita di quanti volevano una tomba modesta ma onorevole). Questo fenomeno, che sorge improvviso nel corso dell’età augustea, è stato interpretato enfatizzando di volta in volta i fattori economici, gli aspetti simbolici o quelli demografici.

PROBLEMI DI SPAZIO I colombari sono stati spiegati anche come una risposta efficace alle necessità create dalla crescita della popolazione e dalla riduzione degli spazi sepolcrali disponibili, soprattutto dopo la chiusura della grande necropoli dell’Esquilino. La rilevanza dei colombari dipende dal peso demografico dei settori della popolazione romana che li utilizzavano. Pur appartenendo a strati sociali inferiori, questi ceti si dimostrano in grado di organizzare, nel centro dell’impero, un sistema di sepolture collettive, che vanno al di là dei legami familiari e che, nella uniformità delle deposizioni, rappresentano la coesione sociale di quelle comunità. La posizione sotterranea capovolge

Nella pagina accanto: Roma, Secondo colombario di Vigna Codini. L’attuale disposizione di molte delle tabelle che riportano i nomi dei defunti, in particolare quelle murate al di sotto dei loculi che si aprono nella parete del sottarco che sostiene la scala, sarebbe frutto di una «reinterpretazione» operata dal marchese Giampietro Campana, che scoprí il sepolcro nel 1847. la tradizionale domanda di attenzione che era stata tipica dei sepolcri di età repubblicana, ostentati sul fronte delle vie, e favorisce un’atmosfera egualitaria, ribadita dalla brevità degli epitaffi e dal minimalismo delle decorazioni. L’uso generalizzato della cremazione del corpo, la localizzazione appartata della camera sepolcrale, la natura plurale dei sepolcri e il ricorso massiccio a sobrie iscrizioni funebri caratterizzano dunque un fenomeno sociale particolare, di cui furono protagoniste tante individualità, che non vanno perdute in uno spazio commemorativo che è al tempo stesso privato e collettivo. Tra i colombari di Roma, occupano un posto di rilievo quelli «di Vigna Codini», dal nome del terreno nel quale furono rinvenuti alla metà del XIX secolo. Si tratta di tre edifici, posti a breve distanza l’uno dall’altro, il secondo dei quali fu rinvenuto nel 1847 dal marchese Giampietro Campana, noto banchiere e collezionista del tempo, vicino al luogo in cui, nel 1840, aveva localizzato il primo di quei sepolcri. In entrambi i casi le tombe e il terreno circostante furono acquisite dal governo pontificio, che ne curò anche il rapido restauro, sotto la guida del celebre architetto Luigi Canina (1795-1856). Il Secondo colombario è organizzato nel sottosuolo come un cubo, le cui pareti sono forate da centinaia di loculi disposti su nove

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filari, i piú alti dei quali furono ricostruiti quando si risarcí la copertura del sepolcro, sprofondata al suo interno, per sostituirla con un basso edificio laterizio che ne garantisce la conservazione.

LA NIPOTE DI AUGUSTO Alle pareti si leggono tuttora centinaia di brevi testi affidati a piccole tabelle marmoree, che recano di solito poco piú del nome del defunto e, talvolta, l’età della sua morte. I nomi incisi sui marmi appartengono spesso a servi e liberti di una delle nipoti di Augusto, Marcella, figlia di sua sorella Ottavia minore. Sí che, quando nella seconda metà dell’Ottocento quelle iscrizioni furono diligentemente raccolte nel Corpus delle iscrizioni latine di Roma, quel colombario assunse il nome, che tuttora mantiene, di «Colombario dei servi e liberti di Marcella». In realtà, questa identificazione è inficiata dalle incertezze che regnano circa l’effettiva pertinenza a quella tomba di molte delle iscrizioni che oggi sono affisse alle sue pareti. C’è il dubbio, infatti, che la collocazione di quei marmi sotto i loculi sia il frutto di un restauro un po’ maldestro, da attribuire forse non

SECONDO COLOMBARIO 14 urne

Qui sopra: l’epigrafe che indica in Sesto, schiavo di Marcella, il titolare della sepoltura. In basso: schema che riassume le indicazioni ottenute dallo studio antropologico di un gruppo di urne del Secondo colombario. alcuni piccoli cippi marmorei. Insomma, tutto lascia pensare che l’immagine del Secondo colombario, cosí come oggi la vediamo, sia il frutto di un «pasticcio», condotto non saprei

10 urne con 1 individuo 3 urne con almeno 2 individui 1 urna con frammenti molto esigui

32 urne 18 urne vuote

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tanto al Canina, che si occupava degli aspetti strutturali del cantiere, quando allo stesso Campana, il quale, con spirito antiquario, operava con una certa leggerezza nel ricomporre contesti con materiali di varia provenienza. La disinvoltura del marchese emerge anche dal trattamento subito da una delle pareti del sepolcro, nella quale alcuni loculi centrali furono ampliati per accogliere i busti marmorei raccolti negli scavi e alcune urne di marmo, mentre sul podio sottostante si collocavano simmetricamente

Numero minimo di individui: 16

dire con quanta buona fede, mirato a valorizzare l’architettura del sepolcro con l’aggiunta di arredi che non gli appartenevano e enfatizzandone l’aspetto «scenografico». Questa alterazione del contesto originario potrebbe aver interessato anche il patrimonio epigrafico del sepolcro e, in particolare, le molte iscrizioni che citano personaggi legati a Marcella e alla sua famiglia. Non è forse un caso che la maggior parte di queste tabelle si trovi oggi murata al di sotto dei loculi presenti nel sottarco che sostiene la scala sulla parete d’accesso all’ipogeo. Insomma, il dubbio di una «messa in scena» è forte: è possibile che queste iscrizioni, raccolte sicuramente nei paraggi del colombario, siano state poste al suo interno per aumentarne il valore storico e patrimoniale, incuranti del «falso» che si stava producendo. L’osservazione attenta della parete indica che alcune lapidi vi furono murate sicuramente in occasione dei restauri: alcune sono spezzate, altre sono assicurate con malte di natura moderna.

ALLA RICERCA DI UNA PROVA Ma questo non esclude che quei marmi appartenessero comunque a quella parete. Per fare luce, è possibile percorrere altre strade alla ricerca di una prova «scientifica» del falso o almeno di indizi capaci di mettere in discussione la sistemazione attuale di questa importante tomba collettiva, mutandone quindi l’interpretazione storica. Possiamo infatti provare a mettere a confronto due sistemi di informazioni strettamente connessi, eppure assai lontani l’uno dall’altro: quello dei testi epigrafici e quello dei resti antropologici.


Ancora uno scorcio del Secondo colombario di Vigna Codini. La comparsa di simili sepolcri collettivi è stata variamente spiegata, attribuendola, di volta in volta, a fattori economici, ad aspetti simbolici o alla pressione demografica. Detto in altri termini: possiamo trovare eventuali corrispondenze tra il sesso e l’età denunciate dalle lapidi e i dati desumibili dall’analisi dei resti sminuzzati dello scheletro deposti nelle urne? È quello che ha fatto Paola Catalano, antropologa presso la Soprintendenza statale che cura la tutela dei monumenti di Roma, la quale – con l’aiuto del suo eccellente gruppo di ricerca e il sostegno di Rita Paris, che sovraintende al territorio gravitante sull’antica via Appia – ha sottoposto ad analisi le ceneri tuttora presenti in alcuni dei loculi del sottoscala. Dico «alcuni», perché delle 32 urne analizzate in quella parete molte sono risultate vuote, segno dunque di vicissitudini trascorse e di possibili interventi posteriori all’abbandono del sepolcro, se non addirittura coevi alla sua piú recente scoperta e ai successivi restauri. I risultati, presentati di recente, ci dicono, in sintesi, che solo 13 urne contenevano resti umani interpretabili, in dieci casi pertinenti a un solo individuo e in tre ad almeno due. 15 dei 16 individui avevano raggiunto l’età adulta: cinque erano donne, tre uomini, mentre degli altri sette non è stato possibile determinare il sesso.

DATI INOPPUGNABILI Messi a confronto con quelli indicati dalle lapidi affisse a cinque loculi (ogni loculo contiene due urne) che conservano un dato epigrafico utilizzabile, questi dati ci dicono che in due casi il riscontro è sicuro solo per uno dei due individui sepolti, in due casi il

riscontro è impossibile per uno dei due individui sepolti e in un caso è invece totalmente negativo: a fronte dei due defunti di sesso maschile indicati dall’iscrizione sepolcrale le ceneri contenute nelle due urne appartengono infatti inequivocabilmente a due donne. La base numerica non è alta, dunque, ma i riscontri sono interessanti. La totale discordanza di due campioni su dieci pesa in questo caso piú della potenziale corrispondenza di quattro campioni e della incertezza relativa agli altri quattro. Considerata la storia tormentata del colombario, che fu probabilmente già parzialmente investigato nel XV secolo, constatata l’attitudine antiquaria

del Campana – non nuovo a simili restauri disinvolti e alla confusione di materiali provenienti da contesti diversi –, e valutato inoltre che nessuna delle iscrizioni dei servi e liberti di Marcella può essere attualmente attribuita con certezza al nostro colombario, ecco che i risultati delle indagini antropologiche, se non risolutivi, portano un ulteriore contributo alla tesi del «pasticcio» ottocentesco. E questo con buona pace del marchese Campana, il quale certamente non ebbe a sospettare neanche per un attimo che, nel momento in cui organizzava i suoi «pasticci», creava le condizioni per cui, a oltre un secolo e mezzo di distanza, la moderna e curiosa archeologia l’avrebbe sbugiardato.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

VIRILITÀ DIVINA PRIAPO, DIO DELLA FERTILITÀ, ERA ORIGINARIO DELL’ELLESPONTO. E SONO NUMEROSE, INFATTI, LE MONETE DELLA SUA TERRA D’ORIGINE IN CUI GLI VIENE RESO OMAGGIO

T

ra le eredità che il mondo antico ci ha lasciato, vi sono immagini, simboli, gesti che ancora oggi prosperano e si ripetono, sebbene il contesto d’utilizzo sia mutato in maniera decisa, pur mantenendo il significato di fondo. È questo il caso del fallo, il membro virile che nel mondo contemporaneo può ritrovarsi scarabocchiato in forme piú o meno realistiche in segno di oscenità, provocazione, dileggio e non è mai Dritto di un denario di Quintus Titius con testa di Mutino Tutino (divinità minore che confluí in Priapo). 90 a.C.

una rappresentazione da ostentare in circostanze decorose. Nel mondo antico, invece, la sua presenza assume una valenza beneaugurante, protettiva e di forza

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generatrice maschile, e l’organo è esposto come manufatto in molteplici forme, occasioni e luoghi. Oggetto di venerazione, preghiere e riti misterici, il fallo si


Moneta in bronzo battuta al tempo di Settimio Severo. Zecca di Nicopolis ad Istrum, 193-211 d.C. Al dritto, il profilo dell’imperatore; al rovescio, l’immagine di un Priapo itifallico che indica il proprio attributo.

Nella pagina accanto, a destra: incisione di Jan Lamsveld nella quale Priapo, affiancato da due figure femminili, compare quale protettore dei campi e della fertilità. XVII sec. ritrova ampiamente attestato in ambiti urbani, basti pensare alle lastrine di terracotta collocate lungo le strade delle città romane dove esso può avere ali e zampe, oppure alle lucerne o ai tintinnabula, apposti al collo dei bambini con valore apotropaico. Il fallo in erezione spropositata è poi l’elemento distintivo di Priapo, una divinità che divenne assai popolare nel mondo antico, posto anche a tutela di luoghi agresti e suburbani. Priapo non appartiene agli dèi «primigeni» del pantheon greco raccontati da Esiodo e dai piú antichi mitografi, e il suo culto insieme alle effigi che lo ritraevano secondo vari modelli conobbero larga fortuna a partire dall’età ellenistica.

Altre importanti città della regione, come Kallatis, Nicopolis ad Istrum, Marcianopolis, lo scelgono per i loro conii, in particolare sotto gli imperatori (e alcune imperatrici) della dinastia dei Severi e poi nel corso del III secolo.

SOLO IL VOLTO

FIGLIO DI AFRODITE Nelle fonti letterarie è considerato perlopiú come figlio di Afrodite e Dioniso e, tra le sue virtú, vi è quella di guardiano dei campi e delle greggi, cosí come dei terreni, dove si ponevano sue erme itifalliche (dal greco ithys, dritto, e phallos, fallo, n.d.r.), che, oltre a segnalarne i confini, dovevano sconsigliare, tramite l’evocata potenza virile, i malintenzionati. Priapo fa parte del corteggio dionisiaco e in alcune fonti figura come protettore di porti e commerci: basti pensare al celebre affresco della Casa dei Vettii a Pompei, nel quale Priapo pesa il suo enorme attributo circondato da simboli di abbondanza e feracità, posto a protezione della magione e come buon auspicio per le fiorenti attività commerciali dei padroni di casa. In lui dovettero confluire

divinità minori legate alla sfera sessuale, come Mutino Tutino venerato in forma di fallo a Roma sulla Velia sino al I secolo a.C. e apposto sui denari di Quintus Titius, in tipi che ricordano le emissioni preromane di Lampsakos. Ma quali erano le origini di Priapo? Secondo le fonti, proveniva dalle coste microasiatiche dell’Ellesponto (l’odierno stretto dei Dardanelli) e da lí il suo culto si diffuse in tutta la Grecia tramite anche Alessandria d’Egitto. Sua patria d’origine era considerata la città di Lampsakos, sulla riva meridionale dei Dardanelli (presso l’attuale Lapseki), in Misia, come testimonia la monetazione provinciale qui battuta a partire da Augusto, dove Priapo compare quale gloria nazionale.

Molto interessante è il cambiamento iconografico che si riscontra nelle monete di Lampsakos: durante la coniazione autonoma del IV secolo a.C. e poi con Augusto e Adriano, Priapo è rappresentato nel solo volto con caratteri dionisiaci o satireschi, anche se questa identificazione è variamente discussa. In seguito si preferisce la figura intera nuda, o a forma di erma, di profilo, tre quarti e di fronte, sempre itifallico, contraddistinto da gesti ripetitivi come l’alzarsi la veste lunga, che può essere ricolma di frutti, e con la mano che tocca o indica il possente attributo. Non va poi trascurato l’aspetto ermafrodita del dio (Ermafrodito era un fratellastro di Priapo, essendo nato dall’unione della madre Afrodite con Hermes). In alcune raffigurazioni monetali infatti, come in un esemplare battuto a Nicopolis sotto Settimio Severo, oltre alla veste femminile fermata sulle spalle, la vita stretta ed eleganti stivaletti che ricordano quelli di Hermes, il dio ha un accenno di seno e addirittura una pettinatura a crocchia, in un’immagine che gioca sulla natura ambigua e a tutto campo della sessualità dei figli di Afrodite.

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Giuseppe Maiellaro

L’ASSEMBLEA DIVINA Le vicende del «Gran Vaso di Capodimonte» da Polignano al Metropolitan Grafiche Vito Radio Editore, Putignano (BA), 180 pp., ill. col. s.i.p. ISBN 978-88-96766-15-6 www.assembleadivina. com

Nel marzo del 1785, Mattia Santoro, vescovo di Polignano, effettua scavi in quello che all’epoca veniva indicato come «orto del monsignore»: un sito tuttora non identificato con precisione, ma che va collocato nei pressi delle antiche mura della cittadina pugliese. Lo sterro porta al rinvenimento di una tomba monumentale, subito ribattezzata Grand Mausolée, che restituisce un ricco corredo. Ne fa parte un magnifico cratere a volute di produzione apula, che Santoro invia in dono a Ferdinando IV, re di Napoli, il quale lo destina al Real Museo di Capodimonte. È questo l’inizio di una vicenda che Giuseppe Maiellaro ha studiato a fondo e che ora ha trasformato in un libro ineccepibile dal punto di vista della documentazione archeologica, storica e archivistica, ma, al tempo stesso, di lettura 112 a r c h e o

davvero godibile. La storia dello splendido manufatto si sviluppa quasi come un «giallo», soprattutto all’indomani del suo trafugamento, che, dalle vetrine della raccolta borbonica, fa entrare il «Gran Vaso di Capodimonte» (perché questa è nel frattempo divenuta la sua definizione) nel circuito del mercato antiquario e del collezionismo privato. Una permanenza protrattasi per oltre centocinquant’anni, fino a quando il cratere non viene acquistato dal Metropolitan Museum di New York, dove ora fa bella mostra di sé. E qui si inserisce il gran finale della vicenda, che è stato innescato proprio Il cratere a calice noto come «Gran Vaso di Capodimonte». Produzione apula, 310 a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

dalla pubblicazione del volume: agli inizi dell’estate appena trascorsa, infatti, i responsabili della sezione Greek and Roman Art della raccolta statunitense hanno riconosciuto la validità e la fondatezza delle ricerche condotte dallo studioso italiano, indicando in Polignano la provenienza del cratere, precedentemente non specificata. Il volume è disponibile su richiesta, attraverso il sito web www. assembleadivina.com

DALL’ESTERO Trevor Bryce

ANCIENT SYRIA A Three Thousand Year History Oxford University Press, Oxford, 400 pp., ill. b/n 25,00 GBP ISBN 978-0-19-964667-8 www.oup.com

I conflitti che dilaniano il Vicino Oriente hanno ripercussioni pesantissime sul patrimonio culturale di quelle terre e, fra le

vittime piú illustri, si colloca la Siria, molti dei cui monumenti sono ormai destinati a sopravvivere soltanto negli archivi fotografici (e della memoria). Sono perdite di cui non ha senso calcolare la sola entità materiale, perché si tratta della vera e propria cancellazione di interi capitoli di una storia che non è solo quella siriana o vicino-

orientale. Per averne un’idea, si può dunque utilmente consultare questo saggio di Trevor Bryce, che ripercorre i tre millenni durante i quali quella regione fu teatro di eventi di straordinaria rilevanza, compresi fra l’età del Bronzo e i primi secoli dell’era cristiana. Una sintesi storica che assume dunque il valore di un memento e che, per una coincidenza certo non voluta al momento della sua stesura, si chiude a Palmira, città la cui sorte sembra appesa a un filo che si fa sempre piú esile. (a cura di Stefano Mammini)



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