Archeo n. 369, Novembre 2015

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ARCHEO 369 NOVEMBRE

ARCHEO

2015 IL SEGRETO DI NEFERTITI

TUTANKHAMON E IL MISTERO DELLA TOMBA DI

NEFERTITI

L’AVVENTURA CONTINUA…

ITTITI TOMBA DEL TUFFATORE

ROMA E LE GENTI DEL PO NAPOLI

ALLA RISCOPERTA DEGLI ITTITI SPECIALE

A FIRENZE LE CIVILTÀ DELL’AMERICA PRECOLOMBIANA

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SPECIALE PRECOLOMBIANI A FIRENZE

Mens. Anno XXXI n. 369 novembre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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EDITORIALE

EGITTOMANIA È mai successo che la visita a un museo vi abbia cambiato la vita? Non è cosa di tutti i giorni, ma può accadere ed è accaduto. Contribuendo, talvolta, a forgiare i contorni di un epos esistenziale fuori dal comune e – come nello straordinario caso di Dorothy Eady (di cui narriamo nell’articolo di apertura di questo numero; vedi alle pp. 26-39) – addirittura fuori dal… naturale. Ora, non vogliamo suggerire che un simile evento sia auspicabile per tutti, anche se, entro certi limiti, sarebbe deprecabile il contrario. Come rimanere la stessa persona di prima, infatti, dopo aver visto, poniamo, la Venere di Milo o, anche, i Bronzi di Riace? E, poi, ci sono musei e musei. Non si potrà negare, cosí, che un mondo del tutto a parte è costituito da quelli dedicati alla civiltà dell’antico Egitto! Vale la pena ricordare, a questo punto che, in quanto a collezioni di antichità egizie, l’Italia vanta un primato straordinario, per la secolare consuetudine che Roma ebbe con il paese del Nilo e, piú di recente, per l’impegno che alla riscoperta delle sue antichità hanno dedicato alcuni grandi nomi (italiani) dell’egittologia di tutti i tempi. Rinnoviamo, cosí, l’invito ai nostri lettori a programmare una visita al «nuovo» Museo Egizio di Torino (vedi «Archeo» n. 363, maggio 2015; anche on line su archeo.it), un’esperienza che, se forse non imprimerà un nuovo corso alla vostra vita, vi racconterà come sia stata plasmata quella di coloro che, una volta solcate le sabbie del deserto faraonico, da quel mondo non si staccarono mai piú… Sapevate, poi, che dopo Torino, la seconda collezione di antichità egizie è quella del Museo Archeologico di Firenze (sí, proprio quello della celebre Chimera d’Arezzo e del Vaso François), città che, inoltre, nella michelangiolesca Biblioteca Laurenziana custodisce la piú importante collezione di papiri egizi del nostro Paese? O che anche il Museo Civico Archeologico di Bologna conserva una collezione egittologica tra le piú importanti al mondo? A questo proposito – e per non dilungarci in un elenco che richiederebbe ben altro spazio e attenzione –, programmate fin da subito una visita al museo della città emiliana: qui, nelle sue sale appena rinnovate, è allestita una mostra (ne parleremo diffusamente in un prossimo numero) che si preannuncia come l’evento espositivo dell’anno: «Egitto, splendore millenario», anche se non vi cambierà la vita, sicuramente non vi lascerà indifferenti… Andreas M. Steiner

In alto: tavola in alabastro per offerte di Defdji. Fine della V-VI dinastia, 2347-2216 a.C. Collezione D’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. A sinistra: sarcofago antropoide in legno stuccato e dipinto di Peftjauneith. XXVI dinastia, 664-525 a.C. Collezione D’Anastasi. Leida, Rijksmuseum van Oudheden.


SOMMARIO EDITORIALE

Egittomania 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

SCOPERTE

Tutankhamon e la stanza dei misteri

26

di Andreas M. Steiner

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SCOPERTE I resti di una grande casa di età arcaica, venuti alla luce sul Quirinale, potrebbero riscrivere la storia della Roma arcaica 6 ALL’OMBRA DEL VESUVIO Sono piú che promettenti i primi risultati delle ricerche avviate a Pompei nelle Terme Repubblicane 9

STORIA

Riscoprire gli Ittiti

40

di Stefano de Martino, Massimiliano Marazzi e Andreas Schachner

26 GLI IMPERDIBILI

Tomba del Tuffatore

Quel tuffo nell’ignoto 64

40

di Daniele F. Maras

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Nuove indagini archeometriche riaprono il dibattito sull’identità dei Bronzi di Riace 12

DA ATENE

Al capezzale dell’orologio 22

MOSTRE

di Valentina Di Napoli

di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista a Luigi Malnati

Fiore d’Italia

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In copertina un fotomontaggio «all’egiziana», dominato dal celebre busto in pietra calcarea e stucco dipinto della regina Nefertiti, conservato al Neues Museum di Berlino

Anno XXXI, n. 369 - novembre 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. André Delpuech è responsabile della Sezione Patrimoniale delle Collezioni Americane del Musée du quai Branly di Parigi. Stefano de Martino è professore di ittitologia presso l’Università degli Studi di Torino e direttore del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Adriano Favaro è direttore del Ligabue Magazine. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Massimiliano Marazzi è professore di filologia egeo-anatolica dell’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Andreas Schachner è direttore degli scavi di Hattusa per l’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina (e p. 36) e pp. 40/41 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 3, 56-63, 70-73, 75-81, 86-90, 91 (basso), 92 – ANSA: Angelo Carconi: pp. 6/7 – Cortesia Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma: pp. 6 (basso), 7 (alto e basso) – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Lombardia: p. 8 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 9-11 – Doc. red.:


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO

Architetti coraggiosi 94 di Daniele Manacorda

70

94 QUANDO L’ANTICA ROMA... …arbitrava le «questioni» del Medio Oriente

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SPECIALE

Collezione Ligabue

Alla scoperta del mondo che non c’era

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di André Delpuech, con un contributo di Adriano Favaro

di Romolo A. Staccioli

L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Apriti, Sesamo!

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Il mistero del falso blu di Andrea Augenti

A VOLTE RITORNANO

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

di Flavio Russo

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Un frutto ancestrale 110 di Francesca Ceci

pp. 12-13, 29 (sinistra), 37-39, 66 (alto), 74, 98, 110, 111 (alto) – Cortesia Dipartimento di Beni Culturali, Università degli Studi di Padova: S. Castelli p. 14 (alto); I. Angelini: p. 14 (cento); G. Guida: p. 14 (basso) – Cortesia degli autori: pp. 16, 43, 45 (alto), 46, 50, 50/51, 104-105, 111 (basso) – DeA Picture Library: p. 68; G. Dagli Orti: pp. 26/27; A. De Gregorio: pp. 66 (basso), 67; A. Dagli Orti: p. 109 – Bridgeman Images: p. 29 (destra); Pictures from History: p. 22; Look and Learn/Elgar Collection: pp. 28, 101; Photo Tarker: p. 44 – Cortesia Soprintendenza alle Antichità di Atene: p. 23 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 30/31, 69, 100;The Art Archive: p. 45 (basso) – Factum Arte, Madrid: pp. 32/33 – Golden Section Graphics, Berlino: p. 35 – Cortesia Stefano de Martino: p. 42 – Cortesia Missione archeologica tedesca a Hattusa: pp. 47, 48/49 – Cortesia Missione archeologica italiana a Kinik: pp. 49 (basso), 54/55 – Cortesia Missione archeologica italiana a Karkemish: pp. 52, 53 (basso) – Cortesia Missione archeologica italiana a Usakli: pp. 53 (alto), 55 (basso) – Archivi Alinari, Firenze: Bridgeman Images: pp. 64/65; Archivio SEAT: p. 106 – Cortesia Centro Studi e Ricerche Ligabue: p. 91 (alto) – Gianluca Baronchelli: p. 94-97, 108 – Cortesia Boaz Zissu: p. 102 – Cortesia Archivio Centro Studi Sotterranei: Francine Dolso: p. 103 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 34, 42/43 (da originale di Massimiliano Marazzi), 51 (da originale di Massimiliano Marazzi), 83, 84, 99. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

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di Andrea De Pascale

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LIBRI

SCAVARE IL MEDIOEVO

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n otiz iari o SCOPERTE Roma

C’È UNA CASA SOTTO IL PALAZZO

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lle spalle della chiesa romana di S. Maria della Vittoria (che custodisce la spettacolare Estasi di Santa Teresa, scolpita da Gian Lorenzo Bernini tra il 1647 e il 1652), si trova oggi uno dei cantieri archeologici piú interessanti per la conoscenza del periodo arcaico della città. Sotto l’imponente mole di Palazzo Canevari (voluto da Quintino Sella per ospitare l’allora Regio Ufficio Geologico e costruito tra il 1873 e il 1881 su progetto di Raffaele Canevari), oggi proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, gli scavi sono iniziati nel 2003, dopo la decisione di procedere alla ristrutturazione dell’edificio per trasferirvi alcuni uffici. Già dopo le prime indagini sono emerse alcune strutture, poi

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rivelatesi i resti di un tempio arcaico di grandi dimensioni (almeno 40 m di lunghezza per 10 di larghezza). Questo edificio, scoperto nel 2013, è ancora senza un’attribuzione di culto per il mancato ritrovamento di reperti decisivi in questo senso. Dalle fonti letterarie si apprende però che anticamente due templi si trovavano sull’antico mons Quirinalis, il Capitolium Vetus e il tempio di Quirino. A questa scoperta iniziale, già di grande impatto, se ne è ora aggiunta un’altra di altrettanto valore, consistente nel ritrovamento, nello stesso sito, di strutture appartenenti a una dimora arcaica del VI secolo a.C. Gli scavi hanno evidenziato un edificio – eccezionalmente ben conservato, nonostante i ripetuti interventi succedutisi in questa zona (prima di Palazzo Canevari, il

In alto: Roma, Palazzo Canevari. Veduta dell’ala del tempio di epoca arcaica e del muro di terrazzamento. A oggi, si ignora l’identità della divinità titolare dell’edificio di culto. Sulle due pagine: veduta generale dello scavo della dimora arcaica, databile al VI sec. a.C. Nella pagina accanto: mappa con indicazione delle strutture emerse. In basso: particolare del muro d’angolo dell’abitazione, con all’interno il crollo dell’edificio. sito era occupato dal convento dell’adiacente chiesa di S. Maria della Vittoria) – di circa 10 x 4 m, che doveva svilupparsi in elevato per 3,5 m circa. Una casa ampia e ricca, formata da due ambienti e forse da un porticato esterno, con muri intonacati di argilla e coperti da un tetto di tegole. Secondo gli archeologi, si trattava dell’abitazione di una importante famiglia, probabilmente connessa all’area sacra adiacente, con incarichi di custodia. La scoperta è di notevole importanza in quanto fornisce elementi nuovi per la ricostruzione dell’assetto urbanistico della Roma arcaica. Prima di questi scavi si riteneva che sul colle si trovasse solo una necropoli, mentre sta emergendo invece un profilo ben diverso, occupato da strutture di notevole entità. Paolo Leonini

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n otiz iario

SCAVI Lombardia

LA SECONDA VITA DI UN ANTICO VILLAGGIO

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Casazza, in provincia di Bergamo, è stata recentemente aperta al pubblico l’area archeologica riferibile al villaggio di età romana di Cavellas, rimasto sepolto per circa quattordici secoli sotto i depositi alluvionali del torrente Drione e riportato alla luce quasi trent’anni fa. Il sito ha una particolare importanza storicoculturale, sia per l’estensione che per l’unicità nell’ambito della Val Cavallina e dei territori circostanti, oltre che per la durata della sua frequentazione, compresa tra il I e il V secolo d.C. Gli scavi, condotti negli anni Ottanta dalla Soprintendenza Archeologia della Lombardia, hanno fatto emergere un settore del villaggio avente un’estensione di 1500 mq circa, con tracce di spazi abitativi definiti da strutture murarie in pietrame che in alzato superano anche il metro e

Casazza (Bergamo). Una veduta panoramica dell’area archeologica di Cavellas, con i resti del villaggio occupato tra il I e il V sec. d.C.

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che vanno a delimitare ambienti di forma quadrata o rettangolare. «Nel sito – spiega Maria Fortunati, archeologo direttore, responsabile di zona – vi sono resti di edifici, talvolta separati da stretti corridoi, con diversi ambienti, che hanno restituito testimonianze di vita quotidiana, come il vasellame da mensa (olle, coperchi, tegami, vasi per la produzione di formaggi); sono inoltre documentate le attività artigianali, come prova il ritrovamento di una macina in porfido per la molitura dei cereali e di pesi da telaio. I crolli hanno evidenziato la copertura dei tetti in tegole, mentre alcune pareti interne risultavano intonacate e le pavimentazioni erano realizzate con ciottoli ricoperti da malta o semplicemente in acciottolato. Quattro ambienti erano riscaldati da focolari, delimitati da pietre.

A sinistra: statuetta in terracotta con tipico abbigliamento del gladiatore «trace». II sec. d.C. In alto: piede di una coppa in ceramica comune, forse utilizzata per colare il latte. I-IV sec. d.C. Le analisi dei macroresti vegetali rinvenuti nel corso degli scavi hanno fornito interessanti indicazioni sulle consuetudini alimentari e su paesaggio naturale circostante: orzo, frumento, segale, favino venivano, per esempio, impiegati per la preparazione di polente. E il paesaggio naturale si componeva di abeti, noci, faggi, carpini, querce, olmi, maggiociondoli: una vegetazione di tipo prealpino che trova una precisa rispondenza nei passi pliniani della Naturalis Historia». Giampiero Galasso


ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PICCOLO È BELLO SCAVATE NEGLI ANNI CINQUANTA DA AMEDEO MAIURI, LE TERME REPUBBLICANE FURONO IN SEGUITO DIMENTICATE. NUOVE INDAGINI HANNO INTERROTTO IL LUNGO OBLIO DEL COMPLESSO, RICONOSCIUTO COME UNO DEI PRIMI IMPIANTI DEL GENERE REALIZZATI A POMPEI: UNA SORTA DI «PROVA GENERALE» DEL MODELLO CHE POI DIVENNE CANONICO

L

a grande passione per le terme è testimoniata a Pompei da vari stabilimenti pubblici, situati in prossimità dei luoghi piú frequentati della città e trovati quasi tutti in restauro dopo il violento terremoto del 62-63 d.C. Le meno conosciute di queste

costruzioni sono le cosiddette «Terme Repubblicane» (nella Regio VIII), adiacenti all’ingresso del Foro Triangolare: si tratta di uno dei piú antichi fra gli edifici balneari non solo della stessa Pompei, ma dell’intera area campana se non addirittura romana.

Un impianto, quindi, di grande interesse scientifico e che, da qualche mese, è oggetto di un nuovo progetto di ricerca. Dal punto di vista architettonico, le Terme Repubblicane sembrerebbero un impianto «sperimentale», che precede la soluzione ottimale adottata nelle vicine Terme Stabiane, anch’esse molto antiche. Le piccole Terme Repubblicane costituiscono un esempio di stabilimento riferibile alla fase di passaggio tra il modello greco (balaneion) e quello romano. Vennero scavate nel 1950 e tempestivamente pubblicate da Amedeo Maiuri (l’archeologo che assunse la direzione degli scavi di Pompei nel 1924 e la mantenne fino al 1961, n.d.r.), il quale ne descrisse gli ambienti e ne documentò la planimetria; all’indomani di quell’intervento, il complesso non venne piú considerato. Situate in corrispondenza di una delle piú antiche zone di Pompei, le Terme Repubblicane hanno una storia lunga e complessa. Le prime tracce di frequentazione dell’area Pompei. Veduta dell’area delle Terme Repubblicane dall’ingresso del Foro Triangolare.

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risalgono almeno all’epoca arcaica (VI secolo a.C.). L’utilizzo del sito continua in epoca ellenistica (IV-III secolo a.C.) e, nel corso del II secolo a.C., viene infine costruito l’impianto termale, a pianta quadrangolare, con un perimetro di 30 x 30 m circa di lato e con un’organizzazione planimetrica avanzata. La terma mostra una suddivisione in due settori, maschile e femminile, con ingressi separati: ciascuno esibisce la sequenza canonica delle strutture termali romane, consolidata in età successiva, ovvero lo spogliatoio (apodyterium), la sala per il bagno tiepido (tepidarium) e quella per il bagno caldo (calidarium). Lo sviluppo speculare dei due settori prevede i due calidaria affiancati e direttamente connessi

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al praefurnium (grande forno). Nel settore sud-est viene inoltre realizzato un laconicum (sauna). Tutti gli ambienti balneari presentano pavimenti in cocciopesto, ornati da inserti di calcari bianchi o pietre policrome, oppure da motivi geometrici in tessere bianche, a eccezione del calidarium maschile, che ostenta invece un pregevole pavimento in scaglie di calcare (lytostroton) ornato con una sinuosa coppia di palmette. Le pareti dei vari ambienti erano decorate da pitture di I stile, quasi totalmente perdute, con zoccoli a fondo rosso e stipiti delle porte in bianco. L’edificio termale non sembra avere avuto un utilizzo prolungato. L’impianto si può far risalire – allo stato attuale delle nostre conoscenze – al pieno II secolo a.C.

(corrispondente all’ultima fase di vita della Pompei sannitica) e sembra che sia stato frequentato sino alla fine del I secolo a.C., quando l’intero stabilimento viene dismesso e smantellato. In passato si pensava che il funzionamento delle terme fosse durato fino a poco dopo le guerre sociali, in base al ritrovamento nei suoi scarichi di un gruzzolo di monete risalente attorno all’80 a.C., forse perduto o nascosto da uno dei frequentatori dei bagni. A testimoniare invece l’utilizzo prolungato del complesso restano le ristrutturazioni che riguardano soprattutto il calidarium maschile (risistemazione della vasca), il praefurnium (rialzamento del pavimento) e il pozzo preesistente (copertura e creazione di un’intercapedine per


l’alloggiamento della ruota idraulica per attingere a un’antica vena d’acqua). Dopo decenni di abbandono, la Soprintendenza Speciale per Pompei sostiene un progetto di studio e di valorizzazione dell’edificio, condotto dalla Freie Universität di Berlino (direzione di Monika Trümper) in collaborazione con la Oxford University, mirato alla conoscenza archeologica dell’impianto repubblicano e dello sviluppo della cultura termale a Pompei. La prima campagna di indagini si è conclusa alla fine dello scorso settembre, concentrata nel settore sud, nell’area del laconicum e del praefurnium, al fine di precisarne lo sviluppo cronologico e il funzionamento.

I risultati delle ricerche consentiranno peraltro di fornire gli strumenti scientifici adatti alla progettazione del restauro di uno dei complessi pubblici meno noti dell’antica Pompei. In alto: una veduta del laconicum (sauna). Nella pagina accanto: il praefurnium; sono evidenti le intercapedini che servivano per diffondere l’aria calda sotto il pavimento degli altri ambienti, riscaldati con il sistema a ipocausto. A sinistra: un’immagine del calidarium maschile, il cui pavimento, a differenza di quelli degli altri locali, era realizzato in pregevoli scaglie di calcare e ornato con un motivo a palmette.

I primi dati emersi dalle ricerche sono già significativi. Innanzitutto, si conferma l’antica origine dell’impianto, caratterizzato dalla presenza di particolari intercapedini usate per la diffusione di aria calda al di sotto dei pavimenti dei calidaria maschile e femminile, costituite da canali paralleli realizzati in opera cementizia al posto del tradizionale sistema delle colonnine di mattoni, in seguito largamente adottate in tutte le terme romane. L’«invenzione» del riscaldamento a ipocausto (pensiles balneae) viene attribuita dalle fonti antiche (su tutti Plinio il Vecchio) al campano Sergius Orata, il quale, tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C., avrebbe tratto questo sistema dall’itticoltura, una delle sue attività favorite, come dimostrerebbe il cognome, forse derivante dal suo pesce preferito. Il sistema di intercapedini/canali per il riscaldamento delle stanze è impiegato nei piú antichi impianti termali greci: è dunque possibile che le Terme Repubblicane rientrino in un ristretto gruppo di stabilimenti scoperti in Grecia, Sicilia (Gela, Siracusa), Magna Grecia (Velia) e aree campana (Cuma) e laziale (Fregellae), databili fra la fine del IV e il II secolo a.C. Impianti che vengono considerati precursori delle sale da bagno con riscaldamento a ipocausto.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

COSÍ VICINI, COSÍ LONTANI QUASI MEZZO SECOLO È PASSATO DA QUEL MATTINO D’AGOSTO DEL 1972, QUANDO RIEMERSERO DAL MARE, MA LA PAROLA «FINE», NELLA STORIA DEI BRONZI DI RIACE, SEMBRA ANCORA LONTANA. ECCO, IN ANTEPRIMA PER «ARCHEO», LE ULTIME E CLAMOROSE NOVITÀ...

V

engono presentati a Modena e Padova, il 9 e 10 novembre, nel corso del congresso internazionale «L’identità tecnica dei Bronzi di Riace» (www. riaceidentity.com) i risultati dell’ultima ricerca condotta sui metalli e sulle terre di fusione delle statue dagli studiosi dell’Università di Padova e dell’Università di Modena e Reggio Emilia, in collaborazione con le Università di Lecce e di Glasgow e con l’ISCR di Roma. Le novità dello studio non sono poche, come ci spiega Massimo Vidale, ricercatore presso l’Università di Padova (nonché membro del Comitato Scientifico e collaboratore «storico» di «Archeo») e coordinatore del progetto, insieme a Sara Levi, del Dipartimento Scienze chimiche e geologiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Professor Vidale, vuole darci qualche anticipazione? «Le analisi sui materiali costitutivi delle statue – terre e tracce di metallo conservati all’interno – provano che i due personaggi provengono dalla stessa area, ma hanno padri e materiali differenti. Si potrebbe dire che i Bronzi sono due “fratellastri”.

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È l’archeometria a dirlo. Il nostro è un progetto interdisciplinare: Lucio Calcagnile, del Centro di Datazione e Diagnostica (CEDAD) dell’Università del Salento, ha condotto le analisi al radiocarbonio per la datazione assoluta; Ivana Angelini, ricercatrice dell’Università di Padova, e Gilberto Artioli, professore ordinario di Geoscienze presso lo stesso ateneo, hanno analizzato Un’immagine della statua A, «il giovane». Prima tra le due opere a essere realizzata, venne fusa in Grecia, intorno al 470-460 a.C.


A COLLOQUIO CON SARA LEVI

Un indizio che viene dalle rocce

A coordinare il gruppo di lavoro che ha analizzato le terre di fusione dei Bronzi di Riace sono Sara Levi e Daniele Brunelli, docenti presso il Dipartimento di Scienze chimiche e geologiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Professoressa Levi, che cosa raccontano le tracce di argilla contenute all’interno delle statue? «Moltissimo. Anche perché, dal momento che i Bronzi sono rimasti a lungo sott’acqua, la parte terrosa che faceva da anima per la fusione è molto ben conservata. Ci siamo concentrati sull’aspetto archeometrico, utilizzando analisi chimiche, petrografiche e di estremo dettaglio, con il microscopio a scansione elettronica. Le terre delle due statue risultano provenienti da due luoghi diversi della stessa area geografica. E il braccio destro della statua B, che ha al suo interno una terra di fusione diversa – piú grossolana e carbonatica – è stato realizzato in un terzo luogo ancora, e rimpiazzato, in epoca ellenistica, affinché le statue assumessero la stessa postura. Insomma, i due Bronzi non sono stati fatti nello stesso momento, né nel medesimo luogo. Abbiamo lavorato su tre ipotesi: l’area di Corinto, quella di Atene e quella di Argo. L’ubicazione piú probabile è l’Argolide, dove ci sono rocce di tipo “ofiolitico” associate a granitoidi e carbonati come quelli individuati nelle statue. Abbiamo infatti trovato tracce di cromiti, tipiche dei complessi ofiolitici, molto diffusi in Argolide. Questa, al momento, sembra dunque l’ipotesi piú plausibile, ma stiamo proseguendo il confronto con i campioni delle terre di fusione di altre statue greche. Per ora, il risultato piú significativo del nostro studio è consistito nell’aver potuto mettere alcuni punti fermi, escludendo con certezza determinate zone, come per esempio l’Attica».

campioni delle “sbavature di fusione” (le tracce di metallo all’interno della terra di fusione della statua), rinvenuti e prelevati da Mario Micheli e dal suo gruppo di lavoro nel corso del penultimo restauro a Reggio Calabria, agli inizi degli anni Novanta». Veniamo subito alle novità: le due statue sono simili, ma molto meno di quanto sembri... «Hanno un’identità estetica simile, ma un’identità tecnica molto diversa (per quanto riguarda la prima, ricordiamo che «Archeo» ha ospitato in proposito gli importanti contributi di Paolo Moreno; si veda, in particolare, il n. 174, dell’agosto 1999, n.d.r.). Negli ultimi vent’anni, a partire dalla fine del restauro di Reggio Calabria, ha prevalso l’opinione che i Bronzi fossero due gemelli, fatti dalle stesse persone, negli stessi luoghi e con la stessa tecnica. Ebbene, abbiamo scoperto che non è affatto cosí: hanno, al contrario, una storia tecnica molto composita e frammentata».

Il bronzo B, «il vecchio», fu realizzato anch’esso in Grecia, ma in una diversa area dell’Argolide, e successivamente all’altro, probabilmente intorno al 450-430 a.C. Che cosa vuol dire? «Che fin dall’inizio, cioè da quando sono stati creati, nel corso del V secolo a.C, nascono diversi. La terra dell’anima di fusione è leggermente differente, sebbene provenga dalla medesima regione». Quale? Da dove viene la terra all’interno delle statue? «Come confermato dal lavoro dei colleghi di Modena, potrebbe venire dall’Argolide; questa, al momento, è l’ipotesi piú probabile». Quindi, i Bronzi di Riace sono senz’altro originali greci? «Sí, non sono copie romane. L’analisi degli isotopi del piombo della lega della colata principale delle statue, inoltre, rivela che sono state fatte con due partite di

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A sinistra: colatura di bronzo proveniente dall’interno della gamba sinistra della statua B, analizzata nel corso dei recenti studi archeometrici.

metallo completamente differenti, dal punto di vista chimico: il rame della lega bronzea proviene da lotti diversi e da regioni divergenti. Anche la tecnica di costruzione dell’anima di fusione in terra cambia: nella statua A la muscolatura è plasmata principalmente nella cera, mentre nella statua B, dagli accenti policletei, i muscoli e l’aspetto anatomico sono suggeriti dal modellato nella terra». La vostra ricerca ha confermato, inoltre, che uno dei due Bronzi viene modificato, cosí da somigliare maggiormente all’altro... «Sí. In età ellenistica, fra il IV e il III secolo a.C., la posizione delle braccia della statua B viene modificata, per renderla piú simile a quella della statua A. Questa somiglianza è, in pratica, una costruzione di epoca ellenistica. I Bronzi di Riace sono tutt’altro che “gemelli”: sono diversi all’origine e lo divengono ancor piú alla fine del IV secolo a.C., quando il “vecchio” viene rimaneggiato per assomigliare al “giovane”, piú prestigioso». Vanno quindi assegnati a scultori differenti, che li realizzano in tempi diversi, nel corso del V secolo a.C., e vengono poi modificati dalle generazioni successive... «Sí. Chissà qual era l’identità originaria della statua B, forse non

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Qui sopra: immagine registrata in microscopia ottica in luce riflessa, a ingrandimenti di 500X, di un campione della saldatura a cui è riferibile la colatura di bronzo illustrata in alto. Oltre all’alto contenuto di rame e di stagno (quest’ultimo particolarmente concentrato nelle aree grigio-azzurre) si osserva una elevata presenza di piombo (aree grigio scuro-nere).

Qui sopra: campione di saldatura proveniente dalla statua B, analizzato in microscopia elettronica a scansione. Le aree bianche corrispondono alle numerose segregazioni di piombo presenti all’interno del bronzo.

era un guerriero... Gli storici dell’arte si sono lanciati in ricostruzioni basate su ipotesi poco attendibili: non abbiamo alcuna base scultorea o documento storico che permettano di identificare l’autore dei Bronzi. Ma questi sono i dati e da certi paletti non si può uscire: è una produzione che potrebbe essere legata all’Argolide, con lotti di rame di provenienza diversa. Il braccio della statua B ha terra e metallo differenti. La datazione proposta è che il bronzo A sia del 470-460 a.C, il B del 450-430 a.C. Le braccia montate in un secondo tempo alla statua B hanno un tenore di piombo molto alto, tipico della bronzistica attestata dal 350 a.C. in poi: la modifica, quindi, è avvenuta all’incirca duetre generazioni piú tardi». E che cosa dovevano rappresentare, dopo la «trasformazione» operata in epoca ellenistica? «Non sappiamo in quali personaggi si volesse cambiarli. Forse addirittura in Achille e Ettore, anche se la statua B, in origine, era un’altra cosa, ma questa è un’altra ipotesi che non può essere scientificamente dimostrata». Che cosa dicono, invece, le datazioni al radiocarbonio? «Sono state analizzate le componenti organiche delle terre di fusione: ciocche di peli di pecora, che venivano mischiati all’argilla per darle una consistenza simile a quella della “lana di vetro”, e semi carbonizzati. Tutte le datazioni si collocano entro il V secolo a.C.: un dato che rende insostenibili le teorie secondo le quali i Bronzi sarebbero rifacimenti di epoca romana. La nostra ricerca – anche se per il V secolo a.C. non si può essere piú precisi a causa di condizioni anomale nell’atmosfera – vuole ricondurre il dibattito entro alcuni punti fermi. E questo è il primo: i Bronzi di Riace sono statue greche, non copie neo-attiche».



n otiz iario

MUSEI Puglia

STORIE DI ATLETI E DI GUERRIERI

N

ato per iniziativa di Teresa De Palo Ungaro, promotrice dell’omonima Fondazione, il Museo Archeologico di Bitonto (Bari) è formato da due mostre permanenti: «Gli antichi Peucezi a Bitonto» e «Donne e Guerrieri da Ruvo e Bitonto». Il percorso si svolge in tre sale, attraverso le quali vengono ricostruite le dinamiche sociali e culturali della popolazione antica dell’importante centro peucezio con l’esposizione di corredi funerari che coprono un arco cronologico compreso tra il VI e il III secolo a.C. Nella prima sala si trova la sepoltura piú antica, di età arcaica, appartenente a un personaggio di rilievo dell’élite locale, ma è al IV secolo a.C. che si data la maggior parte dei corredi esposti: proprio in questo secolo l’abitato dei Peucezi riceve un importante impulso economico grazie sia allo sviluppo delle attività artigianali sia al ruolo preminente di Taranto sul territorio apulo. Tra i corredi del ceto emergente si rilevano armi e attrezzi da palestra che connotano i defunti di sesso maschile, mentre tra i manufatti vascolari si affermano la ceramica apula a figure rosse, la ceramica di Gnathia e la ceramica a vernice nera. Interessante è la sepoltura di un atleta con cratere apulo a campana su cui è raffigurata una dea alata che porge una corona d’alloro a un atleta, il quale, a sua volta, offre una libagione sull’altare della dea con una phiale. Il corredo funerario piú ricco proviene, invece, dall’unica tomba a semicamera individuata a Bitonto, che occupa interamente la seconda sala ed è composto da

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circa cinquanta reperti ceramici e metallici. Ne fanno parte un intero servizio da simposio a figure rosse, con un grande cratere a mascheroni sul quale sono raffigurati due personaggi maschili entro un naiskos. Il corredo metallico, prevalentemente in piombo, include gli strumenti per la cottura della carne e un tripode, deposti simbolicamente nella tomba. Al III secolo a.C. si datano, in questa sala, i corredi funerari acromi e di bassa qualità, che riproducono le forme vascolari di età ellenistica e segnano l’inizio del progressivo decadimento del centro peucezio in seguito all’avanzata di Roma e alla crisi di Taranto.

In basso: cratere attribuito al Pittore di Baltimora, raffigurante un guerriero che tiene per le briglie un cavallo, entro un naiskos. IV sec. a.C. Bitonto, Museo Archeologico della Fondazione De Palo Ungaro. Nella terza sala troviamo i corredi funerari provenienti dalla necropoli di via Traiana: le tombe maschili sono caratterizzate da strigili e armi, mentre pesi da telaio, fibule, pendenti, vaghi in pasta vitrea e ambra identificano le sepolture femminili. L’ultima sala conserva anche due sepolture di antichi guerrieri da Ruvo di Puglia: la Tomba A (fine del V-inizi del IV secolo a.C.) comprende un servizio ceramico da simposio con un cratere a campana protolucano a figure rosse attribuito al Pittore di Amykos e diversi oggetti metallici che alludono alla sfera maschile. Il defunto della Tomba B indossava un cinturone in bronzo ed era accompagnato da utensili metallici per la cottura dei cibi, oltre allo strigile e a dei pugnali: il servizio da simposio include qui vasi a vernice nera e vasi apuli a figure rosse tra cui un grande cratere a mascheroni attribuito al Pittore di Baltimora. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO Museo Archeologico della Fondazione De Palo Ungaro Bitonto (Bari), via Mazzini 44 Orario lu-ve, 9,00-12,30; ma, 16,00-19,00 Info tel. 080 3715402; http://fondazionedepaloungaro. jimdo.com; e-mail: fond_depaloungaro@libero.it


ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

TUTANKHAMON VAL BENE UNA REPLICA Tutankhamon è il faraone forse piú famoso dell’antico Egitto. Il suo nome non è legato a gesta o imprese 1 eroiche, né alla costruzioni di grandi monumenti, ma semplicemente al fatto che la sua tomba è una delle poche, se non l’unica, rinvenuta realmente inviolata. I suoi magnifici tesori sono ben noti in tutto il mondo, a cominciare dalla splendida maschera aurea funeraria 2 ripresa in un francobollo egiziano del 1993 (1). 4 Fra le molte teorie su chi fossero i genitori del faraone bambino c’è quella che lo vorrebbe figlio di Nefertiti – la regina passata alla storia per la 3 sua bellezza, documentata dallo splendido busto che le viene comunemente attribuito, qui presentato in un altro francobollo egiziano del 2004 con relativo annullo speciale (2) – e di Akhenaton, il faraone «eretico», che introdusse il culto del dio Sole (3, 4; 5 Egitto 1977 e 1994) . 6 7 Se torniamo a occuparci di Tutankhamon e di Nefertiti, è perché hanno fatto scalpore le recenti affermazioni dell’archeologo inglese Nicholas Reeves. 8 Sulla base del riesame di tutta la documentazione nota e di nuovi studi, egli ritiene molto probabile l’esistenza di due camere segrete, ancora chiuse, attigue al 12 13 14 15 perimetro dei locali scoperti da Carter nel 1922. Ne 9 potete leggere, in questo numero, nell’articolo di Andreas M. Steiner (vedi alle pp. 30-39), che ci offre lo spunto per documentare, filatelicamente, il famoso 10 faraone e la sua tomba. In estrema sintesi, riepiloghiamo gli indizi che Reeves ha preso in considerazione, per affermare la propria tesi: la tomba è di dimensioni molto anguste rispetto a 11 quelle degli altri faraoni; l’impressione, ricavata dalle prime immagini di Carter, che il tesoro di Tutankhamon sia stato accumulato e sistemato con molta fretta ed approssimazione; l’esistenza di due pareti i cui affreschi sembrano camuffare due porte su altri 16 17 ambienti confinanti (5, 6, 7); molti degli oggetti trovati sembrano propri di un corredo IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Temafemminile e non di quello destinato a un tica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: giovane faraone (8-15). Tutto ciò porterebbe alla conclusione che la tomba, in realtà, fosse Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, quelle della regina Nefertiti (16), scomparsa Via Tavanti, 8 C.P. 17037 già da alcuni anni, e che sia stata «adattata» 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. in tutta fretta per l’improvvisa morte di Tutankhamon oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it (17). Staremo a vedere...

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CALENDARIO

Italia

FIRENZE 30.000 anni fa

ROMA Nutrire l’Impero

La prima farina Spazi Espositivi dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze fino al 06.01.16

Storie di alimentazione da Roma e Pompei Museo dell’Ara Pacis fino al 15.11.15

GENOVA Le sfide di Homo sapiens

La forza delle rovine

Museo di Archeologia Ligure fino al 31.12.15

Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 31.01.16

Tesori della Cina Imperiale

L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16

In alto: Solitudine, olio e tempera grassa su tavola di Arturo Nathan. 1930.

Symbola. Il Potere dei Simboli

Dalla Grecia a Pompei Palazzo Reale fino al 10.01.16

Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16

TRENTO Ostriche e vino

In cucina con gli antichi romani Area archeologica di Palazzo Lodron fino all’08.01.16

BOLOGNA Splendore millenario

VERONA Palafitte

Capolavori da Leiden a Bologna Museo Civico Archeologico fino al 17.01.16

Un viaggio nel passato per alimentare il futuro Museo Civico di Storia Naturale fino al 10.04.16

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce

VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) Antichità sequestrata

Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15

FARNESE (VT) Il sapore della storia

Un racconto archeo-gastronomico della media valle del fiume Fiora Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» fino al 31.12.15 20 a r c h e o

MILANO L’isola delle torri

Mito e Natura

ACQUI TERME La città ritrovata

Museo Nazionale Etrusco fino al 31.12.15

nella Maremma preistorica Cassero Senese fino al 31.12.15

Tesori dalla Sardegna nuragica Civico Museo Archeologico fino al 29.11.15

Recuperi archeologici della Guardia di Finanza Stadio di Domiziano fino al 15.04.16

CHIUSI La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi

GROSSETO Uomini e elefanti

A Vetulonia l’Italia antica si ritrova a tavola Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.01.16 In alto: la statua del Pastore, dall’omonima villa di Stabiae.

Belgio BRUXELLES Anatolia

Casa dell’eternità BOZAR/Palais des Beaux-Arts fino al 17.01.16

Sarcofagi

Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Egitto

Francia

La fede dopo i faraoni British Museum fino al 07.02.16

PARIGI Osiride

Misteri sommersi d’Egitto Institut du monde arabe fino al 31.01.16

Grecia

Sepik

ATENE Samotracia

LES EYZIES-DE-TAYAC Segni di ricchezza

Olanda

Arte da Papua Nuova Guinea Musée du quai Branly fino al 31.01.16

I misteri dei Grandi Dèi Museo dell’Acropoli fino al 10.01.16

Le diseguaglianze nel Neolitico Musée national de Préhistoire fino al 15.11.15

AMSTERDAM Roma

Germania

Il sogno dell’imperatore Costantino De Nieuwe Kerk fino al 07.02.16

BERLINO Combattere per Troia

Svizzera

Le sculture del tempio di Egina contro i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16

Leone in lamina d’oro, destinato a ornare un abito. IV sec. a.C.

HAUTERIVE Dietro la Grande Muraglia

La Mongolia e la Cina al tempo dei primi imperatori Laténium, parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 29.05.16

MANNHEIM Egitto

Gruppo in terracotta raffigurante un bue che traina un carro. Dinastia Han.

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16

Gran Bretagna LONDRA Celti: arte e identità British Museum fino al 31.01.16

A sinistra: particolare del calderone celtico di Gundestrup. Fine del II-I sec. a.C.

ZURIGO Il gesso conserva

Repliche di originali danneggiati, perduti e distrutti Università di Zurigo, Istituto di Archeologia In basso: testa di fino al 25.10.15 divinità in forma di bue.

USA NEW YORK Kongo: potere e maestà The Metropolitan Museum of Art fino al 03.01.16

L’antico Egitto si trasforma Il Medio Regno The Metropolitan Museum of Art fino al 24.01.16

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CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

AL CAPEZZALE DELL’OROLOGIO UNO DEI PIÚ NOTI MONUMENTI ATENIESI È OGGETTO DI UN INTERVENTO DI RESTAURO CHE, OLTRE A RISANARLO, GETTA LUCE SULLA SUA STORIA. AL TERMINE DEI LAVORI, LE VICENDE E LE PERIPEZIE DELLA TORRE DEI VENTI SARANNO ANCHE RACCONTATE DA NUOVI AUSILI DIDATTICI

I

n questi tempi difficili per la Grecia, segnati anche dalle continue riduzioni dei fondi destinati alla cultura, una buona organizzazione – e l’aiuto dell’Europa – possono fare miracoli. Lo dimostrano i lavori attualmente in corso nel cuore dell’agorà romana di Atene, sull’Orologio di Andronico. Costruito tra il 150 e il 50 a.C., su progetto dell’architetto e astronomo Andronico di Cirro, questo edificio dalla peculiare pianta ottagonale – noto anche come «Torre dei Venti» – ha avuto una lunga storia, che arriva fino all’epoca ottomana: allora era infatti la sede dei dervisci dell’ordine dei Mevlevi. Si tratta di un monumento dalla struttura architettonica molto particolare: è una torre ottagonale alta quasi 14 m, costruita interamente in marmo pentelico e poggiante su un basamento di tre gradini.

IL TRITONE SEGNAVENTO Alla sommità della copertura conica, composta di lastre marmoree, si è conservata la parte inferiore di un capitello corinzio sul quale, a quanto riferisce Vitruvio, poggiava un Tritone che fungeva da segnavento. Generazioni di archeologi si sono domandate a che cosa servisse la splendida costruzione. La presenza di un meccanismo idraulico all’interno ha fatto pensare che funzionasse

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come orologio idraulico; va inoltre segnalata la recente proposta di Hermann Kienast, secondo il quale l’Orologio di Andronico svolgeva anche la funzione di planetario. Su ognuna delle facce esterne vi era un orologio solare, a uso di chi frequentava l’agorà romana, un’enorme piazza a carattere commerciale; e ciascuna delle facce era decorata con una lastra a rilievo recante la personificazione dei venti principali: Borea, Cecia, Apeliote, Euro, Noto, Libeccio, A destra: la danza dei dervisci nella Torre dei Venti di Atene, in una delle tavole a colori dall’irlandese Edward Dodwell per la serie Views in Greece, stampata nel 1821. Il disegno è una vivace testimonianza dell’epoca in cui il monumento, quando la Grecia si trovava sotto il dominio ottomano, era stato appunto adibito a sede dell’Ordine dei dervisci rotanti.

Zefiro e Scirone, ciascuno dei quali designato da un’iscrizione e raffigurato con i propri simboli.

UN MONUMENTO FRAGILE Ma la Torre dei Venti è, soprattutto, un monumento delicato. Dopo i primi lavori di restauro, effettuati tra il 1915 e il 1919 su progetto di Anastasios Orlandos, nuove operazioni avevano avuto luogo nel 1976; nel 2003, invece, si era provveduto a impermeabilizzare la copertura. Dall’agosto del 2013,


grazie a fondi europei e in parte nazionali, sono cominciati complessi interventi di restauro e valorizzazione, che dovrebbero concludersi entro l’anno in corso.

RESTAURI E RIVELAZIONI L’esame della struttura ha evidenziato molteplici danni, come il cattivo stato di conservazione delle lastre del fregio, dal quale mancano alcuni frammenti e su cui sono presenti incrostazioni, nonché numerose fessurazioni del marmo, anche sulla copertura. Si è cosí deciso, su progetto della Direzione alla Conservazione dei Monumenti Antichi e Moderni, di praticare il restauro e la conservazione dei marmi, sia dell’esterno sia dell’interno, di pulire le superfici e rimuovere i sedimenti. Operazioni che stanno avendo come conseguenza anche la migliore conoscenza del monumento: infatti, dopo aver rimosso i materiali aggiunti in occasione dei restauri precedenti, sono state rinvenute pitture parietali di soggetto sacro, che hanno dimostrato come in età bizantina l’Orologio avesse un impiego ecclesiastico. Al termine dei lavori sarà creato un percorso

Atene. L’Orologio di Andronico (piú noto come Torre dei Venti), avvolto dalle impalcature (in alto) e una delle fasi del restauro (a sinistra). interno per rendere accessibile il monumento al pubblico e verranno apposti cartelli esplicativi in greco, inglese e alfabeto braille. Una novità importante è anche il fatto che saranno rispettati gli interventi ottomani all’interno della Torre. Scelte, dunque, che non solo mirano a rendere fruibile l’Orologio e ad assicurarne la stabilità, ma che tengono anche conto della sua lunga storia e delle diverse fasi del suo impiego. La direzione dei lavori è affidata alla Soprintendenza alle Antichità di Atene, nella persona della Soprintendente Eleni Banou; responsabile generale del progetto è l’archeologo Nikos Tsoniotis, i restauratori Stelios Daskalakis e Serafim Korosis sono responsabili dei restauri, mentre l’ingegnere Evrikleia Alexandraki e l’architetto Panayota Anastasakou curano gli interventi strutturali e architettonici. La squadra coinvolta nel progetto è composta da 26 persone e dispone di un budget di circa 900 000 euro.

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SCOPERTE • NEFERTITI

Luxor, Valle dei Re. La camera funeraria di Tutankhamon nella replica realizzata grazie alle riprese ad alta definizione e scanner tridimensionali del monumento originale dai tecnici della ditta Factum Arte. 26 a r c h e o


TUTANKHAMON E LA STANZA DEI MISTERI

L’EGITTOLOGO INGLESE NICHOLAS REEVES HA ESAMINATO LE RIPRESE AD ALTA DEFINIZIONE ESEGUITE SULLE PARETI DELLA CELEBRE CAMERA FUNERARIA. SU DI ESSE, SECONDO LO STUDIOSO, VI SONO I SEGNI INEQUIVOCABILI DELLA PRESENZA DI AMBIENTI NASCOSTI. SE CONFERMATA, QUESTA IPOTESI POTREBBE PRELUDERE ALLA SCOPERTA DEL SECOLO... di Andreas M. Steiner a r c h e o 27


SCOPERTE • NEFERTITI

D

orothy Louise Eady, meglio nota come «Omm Seti», nacque a Londra nel 1904. All’età di tre anni cadde dalle scale e perse conoscenza. Il medico di famiglia ne aveva già dichiarato la morte quando, qualche ora dopo l’accaduto, la piccola rinvenne e fu trovata, viva e vegeta, seduta nel suo letto. Ma qualcosa era accaduto, durante quell’incidente: la bambina cominciò a raccontare di sogni ricorrenti, ambientati in vasti edifici colonnati, e spesso fu trovata a piangere, affermando che «voleva tornare a casa». Un giorno – Dorothy aveva compiuto 4 anni – i genitori la portarono in visita al British Museum. Entrando nelle sale dedicate all’antico Egitto, la bambina prese a correre lungo i corridoi baciando i piedi delle statue. In seguito, davanti a una fotografia dei templi del Nuovo 28 a r c h e o

In alto: la sala egiziana del British Museum in un’incisione ottocentesca di scuola inglese. Collezione privata. Le visite alla prestigiosa raccolta londinese ebbero un’influenza decisiva sulla vita di Dorothy Louise Eady, che piú tardi, osservando una foto del tempio di Seti, sostenne di avervi riconosciuto la propria casa.

Regno ad Abido, esclamò: «Ecco la mia casa! Ma dove sono gli alberi? Dove sono i giardini?». Il tempio riprodotto nella foto era quello di Seti I, padre di Ramesse II.

IL FARAONE VIEN DI NOTTE Quel primo contatto con la civiltà del Nilo segnò l’esistenza di Dorothy. La ragazza comincia a studiare antichità egiziane e le visite al Museo si fanno sempre piú requenti. Qui incontra l’egittologo

Ernest Alfred Wallis Budge, il quale la incoraggia ad apprendere la scrittura geroglifica. Ma Dorothy ha disturbi psichici, è sonnambula e soffre di incubi notturni: ha quindici anni quando riferisce di una visita notturna del faraone Seti I. La sua condizione fa sí che, piú di una volta, venga rinchiusa in sanatorio. L’Egitto però continua a dominare la sua vita: inizia a collezionare reperti archeologici e, in una rappresentazione teatrale, recita il ruolo di Iside che lamenta la morte del dio Osiride. Infine, nel 1931, si trasferisce nel Paese sul Nilo, seguendo uno studente egiziano conosciuto a Londra e che diventerà suo marito. Arrivata in Egitto, Dorothy bacia il suolo della terra faraonica e dichiara di essere tornata a casa per non lasciarla mai piú. E cosí sarà. Il matrimonio non dura a lungo, ma quanto


di disegnatrice), la donna viene assunta dall’archeologo Ahmed Fakhry, lo scavatore di Dashur. In questo periodo, Dorothy «Omm Seti» continuò a pregare gli dèi dell’antico Egitto, spesso trascorrendo le notti all’interno della piramide di Cheope. I successi professionali, inoltre, non impedirono il continuo verificarsi di visioni e apparizioni notturne: in una di esse, Dorothy apprende di essere stata, in una precedente esistenza, una giovane donna vissuta nell’antico Egitto durante il regno di Seti I e di essere entrata a far parte, all’età di dodici anni, delle sacerdotesse di Iside, votandosi al celibato. Un giorno, però, incontra il faraone e ne diviene l’amante. Rimane incinta del re, e, per non dover affrontare l’onta della pubblica condanna, si uccide. Convinta di essere una reincarnazione della sacerdotessa Bentreshyt, nella primavera del 1956 Dorothy, ormai cinquantenne, partí alla volta di Abido, sede del grande tempio costruito dal faraone Seti I nel XIII secolo a.C. Qui, nel luogo che aveva prefigurato nelle sue visioni di quando era bambina, Omm Seti visse e lavorò fin quasi alla morte, avvenuta nel 1981.

basta perché nasca un figlio, Seti. In seguito il nome di Dorothy cambierà, secondo l’usanza locale, in Omm Seti, la «madre di Seti». Nel 1935 Dorothy «Omm Seti» trasloca dal Cairo in un villaggio nei pressi delle piramidi di Giza. Qui incontra Selim Hassan, archeologo al Dipartimento delle Antichità dell’Egitto, che la assume come segretaria personale e disegnatrice. Secondo quanto riferisce l’egittologa Barbara Lesko, Omm Seti «fu di grande aiuto per gli studiosi egiziani (…) ai quali correggeva l’inglese (…). Fu cosí che questa ragazza inglese, di modesta educazione, in Egitto divenne una disegnatrice di prim’ordine nonché una scrittrice prolifica e di talento».

ALLE DIPENDENZE DI AHMED FAKHRY Alla morte di Hassan (che negli Scavi di Giza, la sua opera magna in dieci volumi, riserva a Dorothy Eady un particolare ringraziamento per il lavoro di revisione dei testi e

In alto: la mummia di Seti I, faraone della XIX dinastia, vissuto a cavallo tra il XIV e il XIII sec. a.C. A sinistra: Omm Seti (al secolo Dorothy Louise Eady), in una fotografia che la ritrae in età avanzata.

COINCIDENZE SORPRENDENTI È sorprendente notare come il personaggio, a parte le convinzioni circa la reincarnazione e la manifesta e ostentata devozione agli dèi dell’antico Egitto, fosse universalmente riconosciuto come una donna di straordinarie e indubbie capacità da ampia parte del mondo scientifico. Oltre alle sue conoscenze strettamente egittologiche, ne furono molto apprezzate soprattutto le osservazioni di carattere etnografico, le ricerche sulle antiche pratiche mediche e quelle che riguardavano la sopravvivenza di credenze religiose di età faraonica tra la popolazione musulmana dell’Egitto a r c h e o 29


SCOPERTE • NEFERTITI

contemporaneo: ha scritto l’egittologo Kent Weeks, direttore del Theban Mapping Project (il progetto di una grande mappa archeologica informatizzata della Valle dei Re, avviato nel 1978, consultabile anche on line: www.thebanmappingproject. com), che nessuno studioso «aveva mai messo in dubbio l’accuratezza delle osservazioni sul campo di Omm Seti. Come 30 a r c h e o

etnografa e osservatrice partecipe della vita di un villaggio dell’Egitto di oggi, Omm Seti aveva pochi eguali». A proposito delle sue capacità di effettuare vere e proprie scoperte archeologiche, non basandosi su dati scientifici, ma su quello che lei stessa dichiarava essere frutto di «ricordi» (un caso eclatante è quello dei giardini intorno al tempio di

Seti I, «visti» da Dorothy e di cui indica la collocazione confermata poi dagli scavi), la maggior parte dei suoi colleghi egittologi ha preferito sospendere il giudizio.

«MI DISSE DOV’ERA...» Ma allora, perché raccontare la vicenda di questo affascinante personaggio del secolo scorso in apertura di un articolo dedi-


cato a una recentissima ipotesi circa la tomba di Nefertiti? Il motivo è semplice: nei primi anni Settanta del secolo scorso, Omm Seti confidò ad alcuni suoi collaboratori di sapere dove si trovasse il sepolcro della moglie di Akhenaton: «Un giorno chiesi a Sua Maesta [Seti I] dove si trovasse ed egli me lo rivelò. Disse, ‘perché lo vuoi sapere?’ Gli risposi che avrei

voluto scavarla, e egli mi disse, ‘No, non devi. Non vogliamo che si sappiano altre cose su quella famiglia’. Ma mi disse, effettivamente, dove fosse, e ciò è quanto posso rivelarvi. È nella Valle dei Re, ed è molto vicina alla tomba di Tutankhamon. Ma si trova in un posto dove nessuno penserebbe di andare a cercarla (…) e, verosimilmente, è ancora intatta».

Abido. Una suggestiva veduta dell’interno del tempio di Seti I, la cui costruzione fu avviata dallo stesso faraone e completata dal figlio Ramesse II, agli inizi del XIII sec. a.C. È uno dei monumenti piú grandiosi dell’antico Egitto.

a r c h e o 31


SCOPERTE • NEFERTITI

N

ell’estate del 2014 venne presentata al pubblico la replica della tomba di Tutankhamon, il sepolcro del giovane regnante morto intorno al 1323 a.C. all’età di circa 18 anni, scoperto nella Valle dei Re nel 1922 dall’esploratore inglese Howard Carter (vedi «Archeo» n. 352, giugno 2014; anche on line su archeo.it). Per creare il modello digitale che poi avrebbe permesso di realizzare la copia del monumento noto come KV 62 – oggi allestita in un edificio sot-

La camera del sarcofago

Fotomosaico delle pareti della camera funeraria di Tutankhamon, nella tomba omonima (classificata come KV 62) della Valle dei Re, a Luxor (antica Tebe). In alto, da sinistra: la porzione superstite della parete sud; la barca solare e i dodici babbuini; le tre scene del passaggio di Tutankhamon nell’oltretomba; la parete est, con il varco che conduce alla «Camera del Tesoro». Nella fascia in basso sono riprodotte le corrispondenti immagini tridimensionali, rilevate dal laserscan, delle pareti stesse e da cui è stata «cancellata» la decorazione pittorica: sulle pareti ovest e nord sono emerse tracce (evidenziate con la linea tratteggiata in rosso) che suggeriscono la presenza di aperture nascoste sotto le celebri pitture.

32 a r c h e o

terraneo a poca distanza dalla casa (musealizzata) in cui aveva soggiornato Carter nel periodo delle sue esplorazioni – gli operatori della ditta Factum Arte impiegarono macchine fotografiche ad altissima risoluzione, insieme a scanner tridimensionali. Proprio queste immagini – in particolare quelle effettuate all’inter no del cosiddetto «ambiente J», la celeberrima «Camera del Sarcofago» di Tutankhamon – hanno catturato l’attenzione dell’egittologo inParete Sud

glese Nicholas Reeves. Un esame della superficie delle pareti, restituita dalle immagini tridimensionali ad altissima risoluzione, ha portato Reeves a formulare un’ipotesi spettacolare: una serie di linee rette, difficilmente interpretabili come dovute alla naturale conformazione della roccia, suggeriscono che dietro alle pareti della «Camera del Sarcofago» si celino altri ambienti, ai quali si accedeva attraverso alcuni passaggi che, in un secondo momento, sono stati Parete Ovest


murati, ricoperti da intonaco e decorati con le pitture note in tutto il mondo. L’affermazione equivale a dire che, nel 1922, Howard Carter avrebbe scoperto solo una – e, forse, una minima parte – di un complesso sepolcrale assai piú vasto e… importante. In una sua recente pubblicazione (Occasional Paper no. 1 nella collana dell’Amarna Royal Tombs Project, luglio 2015), Reeves sostiene anche di sapere a chi potrebbe appartenere il monumento funerario che, verosimilmente, Parete Nord

dovrebbe essere ancora intatto: nientemeno che a Nefertiti, la sposa-regina del faraone Akhenaton, il probabile padre di Tutankhamon.

PASSAGGI NASCOSTI Dove si trovano i passaggi individuati da Reeves? Uno di essi condurrebbe attraverso la parete ovest della «Camera del Sarcofago», decorata con la barca solare e dodici babbuini, ognuno simbolo delle dodici ore della notte. Questo passaggio corrisponderebbe esattamente,

per forma e per dimensioni, a un’apertura già nota, quella che dall’anticamera del sepolcro conduce alla cosiddetta «camera laterale», nella quale Carter rinvenne una serie di oggetti accatastati, tra cui mobili e vasi per unguenti (vedi lo schema ricostruttivo a p. 35). La presenza di un tale ambiente, se dovesse essere confermata, rappresenterebbe, già di per sé, una scoperta notevole. Ancor piú sensazionali, però, si presentano le tracce individuate da Reeves nelle immagini Parete Est

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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SCOPERTE • NEFERTITI

N

tridimensionali della parete nord Necropoli di Tebe (Valle dei Re) 1 (Ramesse VII) dello stesso ambiente: qui, sotto una delle pitture piú celebri di tutta l’arte egiziana (rafMar figura il faraone Mediterraneo defunto in tre Cairo «quadri», da leggeSinai re da destra a sinistra, come mum2 (Ramesse IV) mia, in presenza della dea Nut e, Valle dei Re munito del tipico copricapo celesteMar EGITTO 62 (Tutankhamon) Rosso oro, di fronte al dio Lago 8 (Merneptah) 7 (Ramesse II) Nasser Osiride), appare il 5 profilo di un passaggio che sembra 6 (Ramesse IX) (Ramesse VI) 55 9 segnare il proseguimento ideale di 56 un percorso proveniente dall’anti58 12 (Horemheb) camera e che attraverserebbe la stes57 35 10 (Amenhotep II) sa «Camera del Sarcofago». Un per48 (Amenmeses) 16 11 (Amenemipet) (Ramesse III) 17 (Ramesse III) corso che, secondo Reeves, non (Seti I) 18 54 può condurre che a un’altra camera (Ramesse X) 36 (Mei-her-peri) 61 sepolcrale: lo suggeriscono le sue 13 29 dimensioni, adatte al trasporto e alla collocazione di un sarcofago di (Tewosret) 14 47 grandi dimensioni. Se l’esistenza di (Siptah) 40 38 questo ipotetico ambiente fosse (Thutmosi 26 I) confermata, è assai probabile che si 30 59 15 tratterebbe di un sepolcro intatto, 31 (Seti II) appartenuto – secondo Reeves – a 37 32 un personaggio di rango regale. ilo

3 46 (Yuya and Tuya) 4 (Ramesse XI)

45 (Userhet) 44 28 27 21

60 (Hatshepsut) 20 19 (Mentu-her-khepshef)

43 (Thutmosi IV)

42

L’ANALISI DELLE PITTURE Tuttavia, le immagini delle misteriose aperture non sono gli unici indizi della presenza di un ambiente nascosto. L’analisi delle pitture murali della «Camera del Sarcofago», eseguita nel 2012 dal Getty Conservation Institute, prova che le scene della parete nord della camera si distinguono, dal punto di vista della tecnica, da quelle delle altre tre pareti: qui, infatti, le figure (che rappresentano Tutankhamon nelle tre scene descritte sopra) furono prima dipinte su uno sfondo bianco, mentre il colore giallo-oro – tipico degli ambienti sepolcrali – sembra essere stato applicato in un passaggio successivo. In origine, dunque, le figure non decoravano un ambiente funerario. 34 a r c h e o

N

34 (Thutmosi III)

Quest’ultimo sarebbe stato inzialmente un vano adibito a passaggio verso un sepolcro piú antico (situato all’estremità nord del complesso ipogeo), poi trasformato in camera sepolcrale, quella del faraone-bambino appunto. Ma – prosegue la deduzione di Reeves – se la decorazione della parete nord inizialmente serviva solo a dissimulare il passaggio verso il primitivo sepolcro, non è certa neanche la tradizionale identificazione delle figure con Tutankhamon! I cartigli che recano il suo nome sono stati dipinti sullo sfondo giallo-oro e potrebbero, cosí, coprire quelli piú antichi, tracciati

0

75 m

sull’originario sfondo bianco… Un ulteriore elemento, di cui si era persa la memoria, potrebbe aggiungere un tassello di veridicità all’ipotesi di una porta murata e dissimulata da pitture murarie: come ricorda l’egittologo Joachim Willeitner in un suo recente commento alle teorie di Reeves, anche le pareti est e sud erano decorate con pitture. Su quest’ultima, infatti, era raffigurata la dea Iside in compagnia di tre divinità in forma di mummie accovacciate (i frammenti di questa parete decorata furono ritrovati, negli anni Ottanta del secolo scorso, all’interno della tomba di Tawosret,


Ingresso

L’ingresso al complesso funerario, scavato per la prima volta da Howard Carter nel novembre del 1922.

LA TOMBA DI TUTANKHAMON (KV 62) NELLA VALLE DEI RE

Il disegno ricostruttivo mostra la celebre tomba vista da nord, con le camere scoperte da Howard Carter nel 1922 e le camere nascoste ipotizzate dall’egittologo Nicholas Reeves.

Corridoio

Il corridoio d’accesso, lungo circa 8 m, conduce all’anticamera della tomba.

Anticamera

L’anticamera conteneva piú di 600 oggetti accatastati alla rinfusa, tra cui cofanetti decorati, tre letti zoomorfi, parti di carri da corsa, resti di cibo e due statue a grandezza naturale, a guardia del passaggio verso la camera funeraria.

Camera laterale

Nella camera laterale furono trovati resti di cibo, unguenti, olio, vino e alcuni sedili.

Camera del tesoro

La camera del tesoro conteneva oltre 500 manufatti preziosi, tra cui un armadio dorato, la scultura del dio Anubi e uno scrigno con i vasi canopi contenenti gli organi interni mummificati del faraone.

Camera sepolcrale

La camera sepolcrale era quasi interamente occupata dal grande sarcofago ligneo, riccamente decorato, al cui interno era posta la mummia di Tutankhamon, ricoperta dalla celebre maschera d’oro.

Ipotetico ambiente nascosto, forse la camera sepolcrale di Nefertiti

Ipotetica camera laterale

Passaggi murati in origine Mura abbattute durante le esplorazioni del 1923.

POSSIBILE EVOLUZIONE COSTRUTTIVA DELLA TOMBA KV 62 Fasi costruttive

Sepolcro originario Il sepolcro originario, costruito per Nefertiti, la sposa di Akhenaton.

Ambienti rinvenuti durante gli scavi del 1923

Ampliamento

Ampliamento del sepolcro, destinato a Nefertiti in quanto coreggente.

Nuovo ampliamento La tomba viene ampliata ancora una volta quando Nefertiti assume il potere.

Camera della regina

La camera funeraria della regina si trova all’estremità nord del complesso.

a r c h e o 35


SCOPERTE • NEFERTITI

Il celebre busto di Nefertiti, in pietra calcarea e stucco dipinto (alt. 24 cm). XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). L’oggetto è stato rinvenuto nel 1912, nella bottega dello scultore Thutmosi, nel quartiere meridionale di Tell el-Amarna. Dal 2009 la scultura è esposta al Neues Museum di Berlino. 36 a r c h e o


Le porte murate Secondo Howard Carter, gli antichi tombaroli avevano forzato la porta murata d’accesso ed erano penetrati nel corridoio. Da lí si sarebbero introdotti nelle quattro camere funerarie. Ma quando i guardiani scoprirono gli intrusi, questi avrebbero nuovamente sigillato gli accessi e riempito il corridoio di Porta 4 detriti. Sempre secondo Carter, una quindicina di anni dopo si sarebbe verificata la seconda intrusione: Apertura coperta dal questa volta i tombaroli avrebbero cesto di vimini raggiunto le camere funerarie penetrando nella massa dei detriti lasciati dai loro predecessori. Nell’immagine, la parete sud ancora intatta, vista dall’anticamera.

Prima intrusione

Camera del sarcofago

Seconda intrusione Intrusione di Carter

Camera del tesoro Porta 4 Camera laterale Corridoio

Anticamera

Porta 3 Detriti

la KV 14, dove erano state verosimilmente depositate dallo stesso Carter e dove, sfortunatamente, sono andate distrutte, poco dopo la loro riscoperta, in seguito a una infiltrazione di acqua piovana). La decorazione ricopriva il muro di mattoni d’argilla che chiudeva l’accesso alla «Camera del Sarcofago» e che Howard Carter aveva fatto abbattere qualche mese dopo la scoperta del sepolcro. L’iniziativa si era resa necessaria, dopo che lo scopritore aveva recuperato e messo in salvo i reperti rinvenuti nell’ampia anticamera, per far posto all’impresa, assai impegnativa, di far uscire dalla tomba i quattro sarcofagi in legno dorato, posti l’uno all’interno dell’altro e le cui dimensioni erano tali da riempire l’intera camera sepolcrale.

Porta 1

In origine, provenendo dall’anticamera, il passaggio murato era «contrassegnato» dalla presenza di due statue lignee a grandezza naturale, raffiguranti altrettanti guardiani.

I PITTORI AL LAVORO Il passaggio murato, denominato «porta 4» e ben riconoscibile in una foto di scavo del 1922, conferma l’ipotesi di Reeves su quel che i costruttori della tomba di Tutankhamon avrebbero fatto sulle pareti nord e ovest: essi intonacarono i passaggi tra la roccia viva e le murature in mattoni e poi le dipinsero. In antico, una piccola apertura nell’angolo inferiore destro del passaggio murato aveva consentito all’artista, a compimento della sua opera, di abbandonare la «Camera del Sarcofa-

go» (nella foto del 1922, riprodotta qui accanto, l’apertura appare coperta da un cesto di vimini). In sintesi: secondo Reeves, quella di Tutankhamon è una tomba «di seconda mano», realizzata grazie alla trasformazione e all’occultamento di un precedente, importante sepolcro che, logica vuole, poteva solo essere stato destinato al predecessore del giovane faraone. Ma chi era questo misterioso personaggio? Per Reeves si tratta di Nefertiti, moglie di Akhenaton, il faraone «eretico», rivoluzionario fondatore di un nuovo culto solare e protagonista, insieme alla consorte, del cosiddetto «periodo di Amarna» (dal nome della nuova capitale del regno da lui stesso voluta). Secondo lo studioso inglese, la celeberrima regina è l’unica candidata degna di ambire a una sepoltura tale, anche per motivi di semplice cronologia.

NUOVE IDENTITÀ Ma Reeves si spinge oltre, proponendo una nuova lettura del ciclo raffigurato sulla parete nord: se, fino a ieri, il protagonista delle tre scene era ritenuto essere Tutankhamon (ricordiamo che la prima, quella a destra, mostra il suo successore, Ay, nell’atto di infondere nuova vita nella mummia del faraone defunto mediante il rito dell’«apertura della bocca»), esso, invece, rappresenterebbe la stessa Nefertiti, «rivivificata» dal suo successore, Tutankhamon. Solo in un secondo momento, quando fu il faraone fanciullo a essere seppellito nella tomba, l’identità dei personaggi venne «adattata» al nuovo contesto. Sarebbe un significativo elemento pittorico a comprovare ulteriormente questa ipotesi: la presenza, nei volti del Tutankhamon della parete nord, di marcate pieghe ai lati della bocca, una caratteristica dei ritratti tardi di Nefertiti (esemplificati in maniera particolare dal celebre busto della regina, oggi conservato a Berlino). a r c h e o 37


SCOPERTE • NEFERTITI

Amenofi IV/Akhenaton (1348-1331 a.C.) Akhenaton, che qui vediamo insieme a Nefertiti in un rilievo oggi conservato al Brooklyn Museum di New York, era il secondogenito di Amenofi III e Teye e salí sul trono d’Egitto alla morte del fratello maggiore, Thutmosi. Nei primi anni di regno svolse un’intensa attività edilizia a Karnak. Nel V anno fondò una nuova città nella località di Tell el-Amarna alla quale attribuí il nome di Akhet-Aton («Orizzonte di Aton»). Nello stesso periodo cambiò il proprio nome in Akhenaton («Spirito di Aton» oppure «Colui che giova all’Aton»). Morí dopo diciassette anni di regno.

Nefertiti Un’osservazione simile riguarda la figura di Ay, il successore di Tutankhamon, che svolge il rito dell’«apertura della bocca»: il volto mostra un leggero «doppio mento», assente in ogni altro ritratto di Ay, mentre appare come attributo tipico dei membri della famiglia di Akhenaton e, in particolare, di Tutankhamon. La successione degli avvenimenti, per l’egittologo inglese, si sarebbe svolta, infatti, nel modo seguente: prima la tomba sarebbe stata pro38 a r c h e o

gettata per accogliere le spoglie della principale moglie di Akhenaton. In seguito, quando questa assurse al trono, il sepolcro fu ampliato e trasformato in tomba reale; una parte fu, poi, destinata a ospitare il sarcofago del faraone fanciullo. Ma proprio la genealogia della successione faraonica suscita dubbi e incertezze tra gli egittologi. Fu, davvero, Nefertiti a succedere al regno di Akhenaton e a precedere quello di Tutankhamon? Non tutti gli studiosi, infatti, concordano con la

Sposa principale di Akhenaton compare al suo fianco nelle raffigurazioni ufficiali della famiglia reale a partire dal IV anno di regno. Non vi sono notizie esplicite sulle sue origini ed è stato supposto che fosse figlia di Ay. Il suo nome significa «È giunta la bella» o «È giunta la bellezza». Di poco successiva è l’aggiunta dell’epiteto Nefer-neferu-aton («Bella è la bellezza di Aton») al suo nome. Nefertiti scompare verso la fine del regno di Akhenaton.


Il disegno raffigura Howard Carter, lo scopritore della tomba di Tutankhamon, mentre, nel novembre del 1922, si affaccia nell’anticamera del complesso tombale.

L’egittologo inglese Nicholas Reeves.

successione su cui si fondano gli assunti di Reeves. Se è fuor di dubbio che Nefertiti sia stata la moglie di Akhenaton, a partire dal sedicesimo anno di reggenza di quest’ultimo il nome della donna scompare dalle fonti. Al suo posto appaiono due nomi dalle caratteristiche regali: quello di una donna, Neferneferuaton, e di un uomo, Smenkhara. Sembra che entrambi siano succeduti al trono di Akhenaton, o forse, come la stessa Nefertiti, ne siano stati, per un periodo, coreggenti. Ma non per piú di quattro anni: poi il potere venne assunto da Tutankhamon, che all’epoca aveva 9 anni. Un dato significativo è, però, che di nessuna delle tre persone – Nefertiti, Nefernefe-

ruaton e Smenkhara – sia stata trovata la tomba. Per Reeves si tratta, però, dell’ennesimo tassello a favore della sua argomentazione.

QUESTIONI ONOMASTICHE L’analisi piú approfondita dei tre nomi ha infatti portato lo studioso ad affermare quanto già ipotizzato da altri egittologi prima di lui: che Neferneferuaton e Smenkhara fossero un’unica persona, da identificare, per giunta, con la stessa Nefertiti. Quando, infatti, la moglie di Akhenaton fu nominata coreggente, assunse anche un nuovo nome, Ankhkheperure Nererneferuaton. Ma quando i sacerdoti del culto di Amon riconquistarono il

potere, il nome (con il suo riferimento al dio solare Aton) divenne pericoloso e, pertanto, fu trasformato in Smenkhara. Alla luce di questa ricostruzione, le tombe mancanti non sarebbero tre, bensí una sola: quella della bellissima e misteriosa Nefertiti. Nicholas Reeves crede di sapere dove cercarla. E se le prossime indagini (già in corso mentre state sfogliando le pagine di questo numero di «Archeo») dovessero confermare le sue intuizioni, assisteremmo a una delle piú straordinarie scoperte archeologiche di tutti i tempi. Insieme alla tardiva, quanto inattesa, riabilitazione di una curiosa sacerdotessa di Osiride, dalle origini anglosassoni… a r c h e o 39


STORIA • ITTITI

RISCOPRIRE

IL PROSSIMO 4 DICEMBRE, UN CONVEGNO INTERNAZIONALE ALL’UNIVERSITÀ SUOR ORSOLA BENINCASA DI NAPOLI FARÀ IL PUNTO SULLE RICERCHE ARCHEOLOGICHE INTORNO ALL’ANTICA CIVILTÀ ANATOLICA. IN QUESTE PAGINE PRESENTIAMO IL RACCONTO DI QUEL REGNO MILLENARIO E DELLA SUA RISCOPERTA. E DI COME, ESATTAMENTE CENTO ANNI FA, AVVENNE LA DECIFRAZIONE DI UNA LINGUA MISTERIOSA FINO AD ALLORA SCONOSCIUTA…

L

a conoscenza della civiltà ittita ci viene dagli scavi archeologici intrapresi in Turchia – principalmente nel sito della loro capitale, Hattusa (Bogazkale/Bogazköy), ma anche in altri centri anatolici – e dal rinvenimento di circa 26 000 tavolette scritte in caratteri cuneiformi. Queste tavolette sono redatte in ittita, in accadico – la lingua internazionale del tempo –, in hurrita – parlato da una parte della popolazione anatolica –, nonché in altre lingue (imparentate con l’ittita, come il luvio e il palaico, oppure preesistenti sul suolo anatolico, come il hattico). Le tavolette provengono dagli di Stefano de Martino archivi dei principali centri del

40 a r c h e o


GLI ITTITI

regno di Hatti, la struttura politica formatasi in Anatolia nel XVII secolo a.C. e che ha dominato sull’intera penisola e parte della Siria fino ai primi decenni del XII secolo a.C. Si tratta di archivi palatini e templari che, quindi, conservavano documenti ufficiali di carattere politico, amministrativo, giuridico, letterario e religioso. La ricchezza e l’articolazione tematica di questa documentazione hanno permesso di ricostruire la storia politica del regno di Hatti; inoltre, fonti cuneiformi assire, babilonesi, siriane ed egiziane integrano la documentazione anatolica, soprattutto per quel periodo e quegli eventi nei quali il regno

ittita ha interagito in maniera Pithana, un principe anatolico oridiretta con gli altri Paesi del Vi- ginario della città di Kussara e appartenente a quei gruppi indocino Oriente e con l’Egitto. europei giunti in Anatolia e ivi acculturatisi verso la fine del III STAGNO IN CAMBIO millennio a.C., conquista Kanesh DI ARGENTO Nei primi secoli del II millennio tra la fine del XVIII secolo e l’ia.C. l’Anatolia era divisa in poten- nizio del XVII secolo a.C. La tati linguisticamente eterogenei e città prende il nome di Nesa e spesso in lotta fra loro. Tra questi, sotto Anitta, figlio di Pithana, diquello di Kanesh (presso il sito viene il centro di un grande Stato. moderno di Kültepe) aveva acqui- Nesa/Kanesh e le sue vicende sito un certo prestigio politico ed storiche rivestono un ruolo di economico; era anche sede di un notevole importanza nella tradiemporio commerciale gestito da zione letteraria ittita di età succesmercanti assiri che esportavano siva, come prova anche il fatto che stagno, metallo indispensabile per gli Ittiti chiamarono il proprio produrre armi e utensili in bron- idioma «la [lingua] di Nesa». zo, vendendolo ai re locali anato- Nei decenni successivi, la capitale di questo nascente regno si lici in cambio di argento.

Veduta dell’antica Hattusa, capitale del regno ittita. Il sito si trova nei pressi dell’odierna Bogazkale/ Bogazköy, in Turchia, 150 km a est di Ankara. a r c h e o 41


STORIA • ITTITI

sposta nella città di Hattusa, antico centro politico della terra di Hatti, il cui primo re, attestato da un’ampia documentazione scritta, prende il nome di Hattusili I. Discendente della stessa dinastia di Kussara da cui proveniva Anitta, questo sovrano sale al potere nei primi decenni del XVII secolo a.C. e intraprende una serie di conquiste militari volte a controllare la regione di cerniera tra Anatolia e Siria. Di lí, infatti, passavano le vie carovaniere che congiungevano la Mesopotamia e la Siria a Hatti. Attraverso queste vie giungeva anche lo stagno, reperito in Asia centrale e importato attraverso commerci a lunga distanza. Come già ricordato, esso era indispensabile per fabbricare le armi e, quindi, acquisire il controllo di questa regione costituiva un obiettivo di fondamentale importanza per Hattusili I. A quest’ultimo si deve anche l’introduzione della scrittura cuneiforme alla corte e nell’amministrazione del regno. Il suo successore, Mursili I, amplia vieppiú i confini del regno, attraverso numerose campagne militari, soprattutto in territorio siriano: conquista Aleppo/Halpa e si spinge anche contro la lontana Babilonia. Quest’ultima impresa ha una forte valenza propagandistica, perché sancisce a livello internazionale il ruolo politico che Hatti andava acquisendo nello scenario del Vicino Oriente del tempo.

NUOVI NEMICI Nel periodo che segue gli Ittiti perdono il controllo della Siria, a causa dell’emergere del regno di Mittani, caratterizzato da un’élite politica che parla l’hurrita, una lingua forse di origine caucasica e propria di popolazioni infiltratesi da Oriente nel III millennio nell’area dell’alta Mesopotamia. Questo nuovo Stato territoriale, che prende forma sul finire del XVI secolo a.C., domina su gran parte della Siria ed espande la sua influenza sull’Anatolia sud-orientale. 42 a r c h e o

La riscossa ittita matura alla fine del XV secolo a.C., al tempo del re Tuthaliya I, che fa rivivere i sogni dei suoi predecessori Hattusili I e Mursili I. Approfittando del fatto che le spedizioni militari condotte dal faraone Thutmosi I andavano minando la stabilità del potere di Mittani sulla Siria occidentale, attacca ed espugna Aleppo. Inoltre, conduce campagne in Anatolia occidentale e orientale. Tuthaliya annette ai domini ittiti il Paese di Kizzuwatna, corrispondente alla Cilicia di età classica, e sposa una principessa della locale casa reale. A Tuthaliya I succedono Arnuwanda I e poi Tuthaliya II; quest’ultimo fonda una grande e magnifica città, Sapinuwa (presso il sito moderno di Ortaköy), che scavi archeologici turchi stanno riportando alla luce e dove è stato rinvenuto anche un archivio di quasi 4000 tavolette cuneiformi.


Qui sotto: il gran re ittita Muwatalli immortalato, assieme al suo nome in scrittura geroglifica, su un rilievo rupestre nell’area di Sirkeli (Anatolia sud-orientale, nella regione dell’antica Kizzuwatna). Sulle due pagine: cartina geopolitica dell’Anatolia ittita. Nella pagina accanto: una tavoletta iscritta in cuneiforme ittita al momento del ritrovamento. La decifrazione della lingua parlata nel regno di Hatti si deve allo studioso di origine ceca Bedrich (Friedrich) Hrozný. a r c h e o 43


STORIA • ITTITI

Suppiluliuma I, il successore di Tuthaliya I, amplia in maniera definitiva i confini del regno ittita, inglobando quello di Mittani, con i Paesi siriani a lui subordinati, e arrivando a dominare la Siria fino a Qadesh, cioè sino al fiume Oronte. Entrano nella sfera di dominio ittita Paesi della Siria occidentale, quali Aleppo, il regno di Ugarit – che era il principale porto del Mediterraneo orientale –, il regno di Amurru, Qadesh, Karkemish (sul fiume Eufrate), e Mittani. Suppiluliuma stipula trattati di vassallaggio con ciascuno di questi Paesi. Inoltre, pone sul trono di Karkemish un proprio figlio, dando cosí vita a una dinastia direttamente discendente dalla famiglia reale ittita: l’intento è quello di assicurarsi la piena fedeltà di Karkemish, investito della funzione di vicereame, centro di controllo dei domini siriani per conto del re di Hatti. Gli eventi del regno di Suppiluliuma sono documentati da numerosi testi su tavoletta d’argilla scritti in cuneiforme 44 a r c h e o

ittita, quali, per esempio, un lungo trattato storiografico fatto redigere dal figlio e successore Mursili II, e anche da fonti rinvenute in Egitto. In particolare, l’archivio del «Ministero degli Affari Esteri» del faraone Amenofi IV, riportato alla luce negli scavi di Akhetaten (Tell el-Amarna), la nuova capitale da lui voluta nel Medio Egitto, conserva lettere scambiate tra la corte faraonica e i sovrani dei potentati siriani subordinati all’Egitto.

LE IMPRESE DI MURSILI II Mursili II completa l’opera iniziata dal padre, conquistando l’Anatolia occidentale – fino ad allora controllata dal regno di Arzawa –, con capitale ad Abasa (la Efeso di età classica). Al pari di quelle di Suppiluliuma, le sue imprese sono documentate, in testi storici di carattere annalistico. Muwatalli II, figlio di Mursili II, deve fronteggiare l’attacco sferrato dal faraone Ramesse II, deciso a riacquisire il controllo dei territori

In alto: Tebe, Ramesseum. Particolare del rilievo con la battaglia di Qadesh: Ramesse scocca una freccia dal suo carro da battaglia. XIII sec. a.C.

siriani che Amenofi IV aveva perso al tempo di Suppiluliuma I. Ramesse muove con un’armata poderosa contro Hatti e Muwatalli II risponde mobilitando anch’egli un esercito grandioso. Tutti i Paesi ittiti subordinati a Hatti, dall’Anatolia occidentale alla Siria, forniscono truppe. Lo scontro avviene nel 1274 a.C. nei pressi di Qadesh: la battaglia si svolge per molte ore ed entrambi gli eserciti riportano pesanti perdite. Tuttavia, le ostilità si chiudono senza un vero vincitore. Le fasi della battaglia di Qadesh sono documentate da fonti egiziane tramandate da epigrafi monumentali e rilievi incisi sulle pareti dei templi fatti edificare da Ramesse II a Karnak,Abydos e Luxor. Coerentemente con l’allora vigente ideologia del potere, il faraone millanta una grande vittoria, anche se non risparmia


critiche ai suoi generali, indizio, questo, di una conduzione non felice della battaglia. In realtà, Ramesse II non riesce a riconquistare alcun territorio siriano perso al tempo di Amenofi IV. Muwatalli II è noto alla posterità non solo per aver resistito all’attacco egiziano, ma anche per aver fondato una nuova capitale, Tarhuntassa, in Anatolia meridionale, che non è ancora stata localizzata e, dunque, l’archivio di questo sovrano, con anche la documentazione relativa alla battaglia di Qadesh, attende ancora di essere scoperto. Dopo il breve regno di uno dei figli di Muwatalli, Mursili III, sale al trono il re Hattusili II, fratello di Muwatalli, che prende il potere con un colpo di Stato ai danni del nipote. Hattusili II conclude un trattato di pace e alleanza con l’Egitto, ponendo fine allo scontro tra Hatti e l’Egitto e suggella l’accordo con il matrimonio interdinastico tra sua figlia e il faraone.

L’INIZIO DELLA FINE Alla morte di Hattusili II sale al trono il figlio, Tuthaliya IV, durante il cui regno, tutto proteso all’attuazione di un processo di riorganizzazione e stabilizzazione delle regioni sottomesse, già si manifestano i primi segni di una inarrestabile disgregazione politica e territoriale. L’ultimo re di Hatti è Suppiluliuma II, che vive ormai in un periodo di crisi politica, sociale ed economica. Molte delle strutture politiche che avevano prosperato nella seconda metà del II millennio a.C patiscono un collasso gestionale e amministrativo, dovuto a piú fattori concomitanti, quali gli elevati costi del complesso apparato statale, il sistema fiscale gravoso e iniquo, le continue guerre, lo spopolamento, il progressivo impoverimento dei ceti piú umili. La contemporanea crisi dei

In alto: tavoletta cuneiforme con il trattato di pace fra Hattusili II e Ramesse II, stipulato dopo la battaglia di Qadesh, combattuta nel 1274 a.C. In basso: tavoletta recante, al centro, il sigillo del re ittita Mursili II, da Ugarit. 1345-1315 a.C. circa. Damasco, Museo Nazionale.

regni micenei in Grecia e della rete dei traffici transmarini fra l’Egeo e il Levante determina ingenti spostamenti di popolazioni in tutta l’area del Mediterraneo orientale e la perdita del controllo dei gruppi marittimi costieri e insulari fino a quel momento asserviti alle necessità

commerciali e belliche delle burocrazie degli Stati territoriali. In base alle piú recenti indagini archeologiche condotte nel sito della capitale ittita si ritiene che Suppiluliuma II abbia abbandonato Hattusa, portando via tutti i beni piú preziosi conservati nei templi e nei palazzi. Non sappiamo dove la corte si fosse temporaneamente trasferita, ma le conseguenze furono sconvolgenti: dalla disgregazione dello Stato centralizzato ittita emerge una costellazione di ministati, detti «neoittiti», che fanno perno sui centri urbani piú rilevanti del regno, dislocati fra l’Anatolia meridionale e sud-orientale e la Siria centro-settentrionale.

LA POLITICA ESTERA I rapporti fra i re ittiti e i Paesi stranieri, sia quelli a loro subordinati – quali i potentati della Siria e dell’Anatolia occidentale –, sia i regni di pari peso politico, come l’Egitto, l’Assiria e la Babilonia, erano regolati da trattati internazionali. Negli archivi ittiti, a oggi, ne sono stati

Tutti i re di Hatti Antico Regno (XVII-XV secolo a.C.) Huzziya I, Labarna, Hattusili I, Mursili I, Hantili I, Zidanta I, Ammuna, Huzziya II, Telipinu, Alluwamna, Hantili II, Tahurwaili, Zidanta II, Huzziya III, Muwatalli I Nuovo Regno (fine del XV-inizi del XII secolo a.C.) Tuthaliya I, Arnuwanda I, Tuthaliya II, Suppiluliuma I, Arnuwanda II, Mursili II, Muwatalli II, Mursili III, Hattusili II, Tuthaliya III, Arnuwanda III, Suppiluliuma II

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STORIA • ITTITI

rinvenuti circa quaranta; si tratta del numero di gran lunga piú elevato di documenti di questa tipologia trovati in tutto il Vicino Oriente. I trattati ittiti si aprono spesso con un’introduzione storica che presenta gli eventi principali che hanno preceduto l’accordo e ne hanno posto le basi. Soprattutto nel caso dei trattati di subordinazione, queste ricostruzioni storiche non necessariamente danno conto in maniera fedele del reale corso degli eventi. Si tratta, infatti, di una visione di parte ittita, mirata a imporre al re subordinato una «memoria condivisa» degli eventi del passato che riguardano entrambe le parti. Segue una sezione normativa, con le varie clausole. I sovrani sottoposti al dominio ittita dovevano versare un tributo annuo al re di Hatti e fornire un effettivo sostegno militare in occasione di guerre da lui condotte, come nel caso dello scontro tra Muwatalli II e Ramesse II. Il re di Hatti, in cambio, offriva protezione da eventuali attacchi contro il Paese a lui sottoposto. Il trattato concluso da Tuthaliya III con il re di Amurru Shaushgamuwa contiene una clausola estremamente interessante: si tratta, infatti, di un embargo che il sovrano ittita impone al regno assiro, impedendo ad Amurru di inoltrare verso l’Assiria le merci in arrivo dal Mediterraneo. È la piú antica testimonianza di un embargo volto a isolare economicamente un Paese con cui i rapporti politici erano ostili oppure tesi. I trattati erano scritti su tavole di metallo: quello tra Hattusili II e Ramesse II era su due lastre in argento. Trattandosi di un accordo paritetico tra due Paesi di uguale peso politico, il trattato veniva redatto in due copie gemelle, una di parte ittita e una di parte egiziana, a dimostrazione della condizione di totale parità di rango dei due sovrani contraenti e della piena reciprocità dei loro rapporti. Come tutti i trattati internazionali 46 a r c h e o

stipulati tra Paesi non di lingua ittita, veniva redatto in babilonese, lingua della diplomazia e delle relazioni internazionali dell’epoca. Le due tavole di argento non ci sono giunte, mentre possediamo le copie su tavolette di argilla e la versione in traduzione egiziana su due stele, una a Karnak e una a Tebe, nel Ramesseum. A oggi è stata rinvenuta una sola tavola di metallo, relativa al trattato stipulato da Tuthaliya III con il cugino Kurunta, re di Tarhuntassa, e oggi conservata nel Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara.

IL POPOLO DEI MILLE DÈI La religione ittita era politeistica: era caratterizzata da una moltitudine di divinità, tanto che i testi stessi parlano dei «mille dèi di Hatti». L’alto numero degli dèi del pantheon ittita deriva dal fatto che il regno di Hatti era una realtà multilingue e multiculturale, una costellazione di poA destra: tavola in bronzo iscritta in cuneiforme ittita contenente il testo del trattato fra il re Tuthaliya III con il re di Tarhuntassa, Kurunta, figlio di Muwatalli e cugino di Tuthaliya. 1235 a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

poli di lingua e tradizioni diverse; i sovrani ittiti avevano sempre seguito una politica di tolleranza religiosa, anche allo scopo di favorire l’integrazione di questa congerie di genti diverse. La divinità principale è il dio della Tempesta, Tarhuna, che presenta caratteri molto simili a quelli di Zeus della tradizione classica. La sua consorte è una divinità femminile, una dea solare, protettrice della natura e della terra. Si costruivano templi di grandi dimensioni per custodire i simulacri divini e celebrare i riti in onore degli dèi. Il Tempio I, nella capitale ittita, è l’esempio piú grandioso: ha un nucleo piú interno, con la doppia cella – per il dio della Tempesta e la dea Sole – e una corona di ambienti con funzione di magazzini per le derrate alimentari e i beni donati alle divinità, ma anche di archivio di documenti di carattere politico-religioso.


Per le grandi feste in onore degli dèi Hattusa, Città Bassa. Una veduta panoramica (in alto) e la ricostruzione ideale degli originari fabbricati del Tempio 1. Si tratta del piú imponente complesso religioso a oggi noto, nel cui nucleo piú interno era stata apprestata una cella adibita al culto del dio della Tempesta e della dea Sole.

Il culto delle divinità trovava i suoi momenti piú significativi in occasione delle feste. Le due principali ricorrenze del calendario religioso

ittita segnavano le fasi salienti del ciclo agricolo: una festa di primavera, quando la natura si risvegliava e la neve delle montagne cominciava

a sciogliersi, e una di autunno, quando le provviste alimentari venivano immagazzinate per l’inverno. Tali feste non si svolgevano solo nella capitale ittita, nell’area della città alta caratterizzata da una vera e propria «valle dei templi», ma anche in altri centri del regno.Vi partecipavano il re, la regina e i membri della corte. Il momento saliente era l’offerta alle divinità, seguita a volte da un banchetto rituale che aveva lo scopo di rinsaldare la coesione tra uomini e dèi. Molte azioni rituali si svolgevano al suono di musiche eseguite con lire, liuti, strumenti a percussione, e accompagnate da canti e danze. Alcuni vasi rituali, i piú antichi in argilla decorata a rilievo e dipinti, i piú recenti in metallo, ci illustrano, attraverso le loro decorazioni, i momenti salienti di queste celebrazioni e vanno cosí a integrare, attraverso una narrazione per immagini, quanto ci dicono le molte migliaia di tavolette che registrano in maniera minuziosa lo svolgimento delle cerimonie di culto. a r c h e o 47


STORIA • ITTITI

ANATOLIA: UN SECOLO DI SCAVI di Massimiliano Marazzi

N

el 1906, con l’apertura degli scavi presso il villaggio di Bogazköy, al centro dell’altopiano anatolico – dove il fiume Kizilirmak forma un’ampia ansa prima di dirigersi a nord e sfociare nel Mar Nero all’altezza di Bafra –, si posero i fondamenti di due importanti premesse per la riscoperta degli Ittiti: si dava inizio a una ricerca archeologica regolare e organizzata, che avrebbe portato in breve tempo a metterne in luce la prestigiosa e monumentale capitale, e, nel contempo, si dava vita a una stretta collaborazione turco-tedesca e a un’archeologia fortemente interdisciplinare, che sarebbero continuate, pur attraverso le sconvolgenti vicende di ben due conflitti mondiali, fino ai nostri giorni.

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Infatti, dopo le ricognizioni di Charles Texier (1834), i sondaggi di Andreas D. Mordtmann e Heinrich Barth (1855), le visite di Georges Perrot (1861) e la stesura di nuove planimetrie dei principali monumenti, nonché alcuni calchi dei rilievi presenti nel vicino santuario rupestre di Yazilikaya (1882), due studiosi, il turco Theodor Makridi del museo di Istanbul, e l’assiriologo tedesco Hugo Winckler, avviarono la prima campagna di scavi regolari nel sito della capitale ittita.

RICERCHE SISTEMATICHE Le nuove indagini si arricchirono vieppiú negli anni immediatamente successivi, grazie alla creazione di un solido gruppo di specialisti, diretto dall’archeologo Otto Puch-

stein e al sostegno dell’Istituto Archeologico Germanico. Con le ricerche di Makridi e Winckler si apriva altresí un nuovo capitolo nella storia dei grandi archivi di documenti in scrittura cuneiforme su tavolette d’argilla provenienti dalle principali città del Vicino Oriente antico. Precedenti ricognizioni avevano già permesso la raccolta sporadica di tali documenti in diversi punti dell’area di Bogazköy. Ora, però, si poteva cominciare a individuarne sistematicamente gli archivi e le biblioteche e a catalogarne in maniera organica le migliaia di documenti. Tuttavia, solo una parte minoritaria di tali importanti testimonianze risultò in un primo momento interpretabile: quella contenente testi


in lingua babilonese, la lingua franca usata in tutti gli stati vicinoorientali di quell’epoca. Il grosso delle testimonianze, infatti, pur redatto in una scrittura cuneiforme leggibile, nascondeva una lingua, quella appunto degli Ittiti, ancora sconosciuta. Si dovette attendere la decifrazione di uno studioso di origine ceca, attivo presso l’università di Vienna, Bedrich (Friedrich) Hrozný, il quale, prima con la pubblicazione del saggio La soluzione del problema ittita (1915) e poi con la monografia La lingua degli Ittiti (1917), dimostrò che la lingua degli Ittiti – al pari del greco, del latino e del sanscrito – apparteneva alla famiglia indoeuropea, anche se ne testimoniava una manifestazione di particolare arcaicità. A distanza di ormai un secolo da quei giorni, lo studio della civiltà ittita ha fatto progressi incredibili. Missioni archeologiche di diversi Paesi hanno portato alla luce un ricco sistema di centri spesso identificabili con i toponimi presenti

nei documenti conservati negli archivi della capitale e, a loro volta, aventi propri archivi di carattere non solo amministrativo (lettere scambiate con la capitale, inventari di terre messe a coltura e atti relativi al controllo del territorio), ma anche religioso (celebrazione di culti e di feste locali, rituali e testi oracolari e mitologici). Testimonianze che non sono rappresentate soltanto da centri di carattere urbano, cinti di mura e ricchi di imponenti fabbricati.

L’ALTRA SCRITTURA Gli Ittiti usavano anche un’altra scrittura, che gli studiosi chiamano «geroglifica» per la sua peculiarità di manifestarsi attraverso segni che spesso riproducono in maniera stiQui sopra: il frontespizio della prima edizione de La lingua degli Ittiti di Berdrich (Friedrich) Hrozný, pubblicata nel 1917. A sinistra, sulle due pagine: Hattusa. Un’immagine dei primi scavi condotti

nel 1907 della missione dell’Istituto Archeologico Germanico. Qui sotto: Kinik Höyük (Nigde). Una delle aree messe in luce dai piú recenti scavi della missione italiana dell’Università di Pavia.

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STORIA • ITTITI

LA CAPITALE IN 3D Dallo scorso anno, un gruppo di specialisti dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, di concerto con la missione tedesca dell’Istituto Archeologico Germanico di Istanbul, diretta da Andreas Schachner – che conduce scavi e ricerche a Hattusa, capitale degli Ittiti nel cuore dell’altopiano anatolico –, lavora in questa suggestiva area archeologica, oggi Patrimonio dell’UNESCO. Obiettivo della cooperazione – che si svolge d’intesa con il Ministero della Cultura e del Turismo turco –, è il rilievo dell’intero complesso monumentale con strumenti nuovi, in parte ancora in fase di sperimentazione, atti a riprodurre modelli tridimensionali. Hattusa in 3D, quindi, al fine non soltanto di poter preservare nel tempo testimonianze archeologiche che rischiano di scomparire, ma anche di creare in ambienti museali itinerari virtuali in camere immersive, atte a «far passeggiare» il visitatore fra le rovine, accompagnandolo con un tutor virtuale che ne racconti la storia e ne illustri il significato. Dietro a questa operazione di «turismo culturale» vi sono, però,

anche e soprattutto obiettivi piú propriamente scientifici. I modelli elaborati attraverso l’ausilio contemporaneo di diverse tecnologie di rilevazione tridimensionale, possono permettere – adeguatamente «manipolati» in appositi «spazi virtuali» – di mostrare particolari non rilevabili nella realtà all’occhio umano. È il caso, per esempio, di molte iscrizioni monumentali redatte in quella scrittura che gli specialisti chiamano «geroglifica», spesso giunte fino a noi in uno stato di estremo deterioramento, tale da impedirne la lettura, come l’iscrizione su parete rocciosa di Nishantash (un’altura all’interno del perimetro della città alta di Hattusa), sulla quale l’ultimo re ittita ha voluto immortalare il racconto delle sue imprese belliche. I lavori sono ancora all’inizio, ma già le prime sperimentazioni, condotte proprio sulla suddetta iscrizione e su quella dello stesso re collocata nella Camera Cultuale 2 della città Alta, stanno aprendo agli studiosi scenari fino a oggi sconosciuti. Massimiliano Marazzi, Andreas Schachner

lizzata elementi del mondo che li circondava (animali, arredi, architetture e parti del corpo umano). Questa scrittura, decorativa e monumentale, associata spesso con rilievi che rappresentano divinità e personaggi di rango, ha lasciato traccia di sé su tutto il territorio del regno: sulle pareti rupestri lungo i fiumi e i valichi montani, sui blocchi di pietra che circondavano i bacini sacri legati alle fonti d’acqua, su stele e altari posti nei pressi e all’interno di edifici religiosi e aree dedicate al culto. Numerosi rilievi sono stati messi in luce nella stessa capitale Hattusa: alcuni di essi, imponenti per dimensioni e finemente intagliati A sinistra: un momento delle operazioni di rilievo effettuate nell’ambito del progetto finalizzato alla ricostruzione in 3D di Hattusa. Nella pagina accanto: cartina con l’indicazione dei siti di epoca ittita in cui operano le missioni archeologiche italiane oggi presenti in Turchia.

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Fraktin (Anatolia centro-meridionale). Il rilievo rupestre con iscrizione geroglifica nel quale sono rappresentati il re Hattusili II

e la sua consorte Puduhepa nell’atto di offrire una libagione di fronte alle immagini del dio della Tempesta e alla sua paredra. Mar N ero N NO

NE

SO

SE

O

Wilu Wilu ussa a

A r z a w a

Bogazköy Usakli

S

Ku Kumm K umma u an anna nna n a

Kinik Höyük

Abas A bas a a

IIkk Ik Ikku kku kku kuw wani wa a ja

Milllawan wan anda nda da

Karkemish

Yumuktepe

M i t t a n i

U g a r i t

nella pietra, narravano le imprese belliche dei monarchi. A fronte delle numerose spedizioni archeologiche internazionali e turche che, dal primo dopoguerra, si dedicarono sul territorio anatolico alla ricerca delle vestigia lasciate dagli Ittiti e che hanno portato, ma-

Malatya

K i z z u w a t n a

T a r h u n t a s s a Tla Tlaw T lawa L u k k a

E

A s s i r i a

no a mano, alla scoperta di importanti centri come Alaca Höyük, Alisar, Karahöyük, Gözlü Kule (antica Tarsus), Kültepe (antica Kanesh/ Nesha), Masat Höyük (antica Tapikka), Kusakli (antica Sharishsha), Ortaköy (antica Shapinuwa), Oymagaac (antica Nerik), gli archeologi

italiani, attivi fra le due guerre soprattutto nell’Egeo e sulle isole del Dodecaneso, arrivano nella Turchia ittita con molto ritardo.

IL LINGUISTA ITALIANO E può suonare strano, ma le prime ricognizioni sull’antica terra degli Ittiti sono frutto dell’infaticabile impegno di un linguista, padre fondatore in Italia, assieme all’assiriologo Giuseppe Furlani, degli studi sulla civiltà di questo antico popolo: Piero Meriggi (1899-1982). Dopo un lungo periodo di studi e ricerche in Germania, dove però la sua carriera si interrompe sul finire degli anni Trenta dello scorso secolo a causa delle sue idee fortemente antifasciste, ottiene, finalmente, nel 1949 la cattedra di Glottologia all’Università di Pavia. La sua passione per le lingue indoeuropee dell’Anatolia preclassica (licio, luvio, ittita) lo porta allora a intraprendere numerosi viaggi sul territorio turco, dove raccoglie dati, appunta le evidenze monumentali a r c h e o 51


STORIA • ITTITI

presenti in molte località e, soprattutto, comincia a documentare tutte quelle iscrizioni «geroglifiche» sparse in luoghi spesso di difficile accesso: un censimento fatto che gli consentí, negli anni Settanta, di pubblicarne il primo corpus organico in diversi volumi. Insieme a Salvatore M. Puglisi, professore di paletnologia presso l’Università di Roma, partecipa, nel 1961, alla ripresa degli scavi ad Arslantepe/Malatya, uno dei siti chiave, già a cominciare dal IV millennio a.C., per la storia dell’Anatolia sudorientale e dove gli archeologi francesi – prima negli anni Trenta e poi sul finire dei Quaranta –, avevano portato alla luce i resti monumentali di un grande centro urbano della fine del II millennio a.C. Sul finire degli anni Sessanta, Meriggi partecipa alle prime campagne di scavo sostenute dal Consiglio Na52 a r c h e o

In alto: Karkemish. Gli elementi architettonici decorati a rilievo al momento della loro scoperta da parte della missione italiana. Nella pagina accanto, in alto: una delle tavolette di carattere religioso in

scrittura cuneiforme ittita rinvenute nell’area della collina di Usakli. Nella pagina accanto, in basso: una lastra in pietra (ortostata) decorata a rilievo con la figura di un animale alato, da Karkemish.

zionale delle Ricerche in un altro anni a Roma (con Alfonso Archi), importante sito, della Cappadocia e Firenze (con Fiorella Imparati) e a da lui stesso segnalato: Topakli. Pavia (con Onofrio Carruba). E i contatti internazionali dell’ittitologia italiana si rafforzano attraverso UN ISTITUTO AD HOC Con gli studi di Meriggi e la crea- un intenso scambio di studenti e zione, sul finire degli anni Sessanta, studiosi italiani, in primis con la di un istituto dedicato all’archeolo- Germania postbellica, seguendo le gia e alla filologia dell’Egeo e orme di Piero Meriggi, ma anche dell’Anatolia preclassici in seno al con la Francia, dove a Parigi EmmaConsiglio Nazionale delle Ricerche nuel Laroche edita nel 1971 il pri(fortemente voluto dall’allora stori- mo catalogo sistematico di tutti i co del mondo antico Giovanni Pu- testi ittiti in scrittura cuneiforme gliese Carratelli), l’ittitologia entra a fino ad allora messi in luce. pieno diritto nell’«Accademia» ita- Questa breve e sommaria storia, liana. Cattedre dedicate a questo alla quale si potrebbero aggiungere settore di studi nascono in quegli numerosi e non meno interessanti


A CENTO ANNI DALLA DECIFRAZIONE DELLA LINGUA ITTITA, UN SUMMIT ALL’UNIVERSITÀ SUOR ORSOLA BENINCASA DI NAPOLI Il 2015 è stato dichiarato dal Consiglio e dal Parlamento Europeo «Anno Europeo per lo sviluppo», con l’obiettivo di informare, sensibilizzare e coinvolgere i cittadini europei sui temi della cooperazione allo sviluppo. Ma il 2015 segna anche il centenario della decifrazione della lingua degli Ittiti, un evento che ha rivoluzionato non solo la storia del Vicino Oriente antico, ma anche la nostra conoscenza di una delle famiglie linguistiche fra le piú importanti nella storia dell’Europa e dell’Oriente: quella degli Indoeuropei. Per celebrare i due eventi, le missioni archeologiche italiane impegnate in scavi e progetti di cooperazione legati agli Ittiti si sono date appuntamento a Napoli, presso l’Università Suor Orsola Benincasa. Qui, il 4 dicembre, grazie all’iniziativa congiunta dell’ateneo campano e del Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia, i direttori delle missioni (appartenenti alle

Università di Roma «Sapienza», Bologna, Pavia, Firenze, Lecce e della stessa Suor Orsola Benincasa) illustreranno il proprio lavoro e i principali risultati raggiunti. La missione tedesca che dal 1906 opera a Hattusa, sarà presente nelle persone del direttore degli scavi, Andreas Schachner, e dell’epigrafista Daniel Schwemer, dell’Università bavarese di Würzburg. Ma l’evento piú interessante, soprattutto per il pubblico degli appassionati di archeologia, sarà la contestuale inaugurazione, nell’area espositiva del fabbricato storico di questa antica università napoletana, di una mostra fotografica e multimediale dedicata interamente agli scavi delle missioni italiane sul territorio turco e alle ricerche che l’Accademia delle Scienze di Magonza sta conducendo per la riproduzione digitale tridimensionale dei documenti cuneiformi degli Ittiti. Info www.unisob.na.it/eventi

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STORIA • ITTITI

episodi (come le ricerche del filologo Mirjo Salvini ai confini piú orientali dell’Anatolia, o quelle dell’archeologo Paolo Emilio Pecorella nelle regioni di confine fra Siria e Turchia, entrambi attivi fra gli anni Settanta e Ottanta presso il ricordato Istituto del CNR), fa da sfondo all’intensa e fruttuosa attività archeologica che gli studiosi italiani svolgono oggi in diverse regioni del territorio un tempo dominato da Hattusa. Attualmente sono impegnati in scavi e ricerche ben cinque atenei, spesso in collaborazione con le istituzioni turche o con altri enti di ricerca internazionali: nell’Anatolia orientale, l’originaria missione ad Arslantepe/Malatya di Salvatore M. Puglisi viene continuata da Marcella Frangipane, una sua allieva, anch’essa appartenente all’ateneo romano della «Sapienza». Le ricerche, condotte su una superficie di 4000 mq circa, hanno portato alla luce un centro urbano che, già nel III millennio a.C., era caratterizzato da un complesso palaziale monu54 a r c h e o

mentale, costituito da un insieme di edifici con diverse funzioni, disposti su piú terrazzi lungo il pendio della collina e collegati in un unico sistema architettonico: due templi, un complesso di magazzini, cortili e corridoi, edifici di rappresentanza.

SULLA COLLINA DEI LEONI Il ritrovamento di migliaia di cretule sigillate, apposte a chiusura di porte e contenitori di mercanzie, conferma l’esistenza, già in un’epoca cosí antica, di un’organizzazione di tipo statale. Il sito mantiene il suo carattere urbano fino ancora ai primi secoli del I millennio a.C., quando, ormai collassato il potere centrale di Hattusa, Malatya diviene centro principale di un potentato locale e, sull’antica porta urbica di epoca ittita, viene costruito un ingresso monumentale, decorato dalle sculture di due leoni, dai quali deriva appunto il nome di Arslantepe, «la collina dei leoni». Piú a sud, al confine fra Siria e Anatolia, dove sorgeva l’antica Karke-

mish, sede del vicereame ittita per il controllo dei territori a ovest dell’Eufrate – importanti per l’accesso ai grandi porti mediterranei dell’epoca –, opera oggi la missione italo-turca guidata da Nicolò Marchetti, dell’Università di Bologna. Il sito ha una storia millenaria e rappresenta uno dei luoghi piú suggestivi dell’antico Vicino Oriente. Gli Inglesi (e tra loro anche «Lawrence d’Arabia») vi scavarono fino agli anni Venti, mettendo in luce soprattutto la città neoittita. Il lavoro degli Italiani a Karkemish è cominciato già da alcuni anni e sta riportando alla luce i palazzi dei regnanti di quest’epoca, finemente decorati con sculture a rilievo. Ma la prospettiva di portare alla luce la Karkemish dell’epoca ittita, con i suoi archivi internazionali, fa di questo sito uno dei piú promettenti per la ricerca storica. Sempre nel Sud, ma verso occidente, nella piana della Cilicia, dove era collocata l’antica regione di Kizzuwatna – area strategica per i collegamenti fra l’Anatolia e l’area eufra-


tica –, opera a Mersin-Yumuktepe la missione dell’Università del Salento, sotto la direzione di Isabella Caneva. Anche questo luogo era abitato dalla piú antica preistoria e anche qui, sul finire degli anni Trenta, furono condotte ricerche dagli Inglesi (John Garstang dell’Università di Liverpool). Nuove opere di fortificazione di epoca ittita stanno venendo alla luce, caratterizzando questo insediamento come un importante centro fortificato.

In alto: veduta della collina di Kinik Höyük, presso Nigde. Gli scavi della missione italiana stanno portando alla luce i resti di una cittadella fortificata di età tardo-ittita. A sinistra: uno dei settori di scavo nella collina di Usakli, forse l’antica città di Zippalanda, uno dei centri religiosi piú antichi e importanti del regno ittita.

PROSPETTIVE INCORAGGIANTI Ritornando verso il centro dell’altipiano nel quale sorgeva la capitale, pochi chilometri a sud-est della stessa, troviamo la collina di Usakli, forse l’antica città di Zippalanda, uno dei centri religiosi piú antichi e importanti del regno ittita. Qui lavora la Missione Archeologica in Anatolia Centrale dell’Università di Firenze, sotto la guida di Stefania Mazzoni. Gli scavi sono cominciati da pochi anni (le prime prospezioni dell’area risalgono al 2008), ma i risultati già raggiunti non concorrono soltanto alla conoscenza «archeologica». Infatti è già venuto alla luce un certo numero di testi su tavoletta d’argilla e in scrittura cuneiforme (lettere e documenti di carattere religioso), assieme ad alcune cretule recanti brevi iscrizioni in scrittura geroglifica. Infine, la missione piú recente, che vede la cooperazione fra l’Università di Pavia e la New York University, sotto la guida di Clelia Mora e Lorenzo D’Alfonso, opera nel territorio di Nigde, sulla collina di Kinik Höyük. Gli scavi, iniziati dopo una serie di ricognizioni e di prospezioni geo-radar condotte fra il 2005 e il 2010, stanno anche qui portando alla luce una cittadella fortificata di età tardo-ittita, le cui mura presentano un’elevazione che raggiunge i 5 m di altezza. I cantieri aperti sono ben quattro e i primi risultati aprono prospettive promettenti. a r c h e o 55


MOSTRE • BRESCIA

FIORE

D’ITALIA COSÍ, IN UNA DELLE SUE CELEBRI FILIPPICHE, MARCO TULLIO CICERONE DEFINÍ LA GALLIA CISALPINA, MOSTRANDO DI AVERNE COMPRESO A PIENO L’IMPORTANZA NELLE VICENDE DELLA PENISOLA. UN RUOLO NEVRALGICO, ORA RACCONTATO DALLA RICCA RASSEGNA ALLESTITA A BRESCIA, CITTÀ CHE DI QUEL «FIORE» FU UNO DEI PETALI PIÚ IMPORTANTI di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista a Luigi Malnati

Statua femminile in marmo pario da Milano. Fine del II-prima metà del I sec. a.C. Milano, Civico Museo Archeologico.

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L

ungo il percorso espositivo della mostra «Brixia. Roma e le genti del Po», allestita a Brescia nel Museo di Santa Giulia, i reperti archeologici raccontano i tre secoli di un momento storico decisivo. I materiali esposti narrano lo scontro e l’incontro tra le popolazioni che abitavano l’area del Po e Roma, i tempi e i modi di un processo che – in maniera non lineare – ha portato alla romanizzazione di una regione della penisola italiana di particolare rilevanza. Importante – nell’antichità, ma ancora oggi – per la fertilità dei campi, la perizia e intrapren-


denza dei suoi agricoltori e per essere l’area di transito verso l’Europa centrale e orientale. Un processo che portò al conseguimento di un equilibrio soddisfacente e in grado di restare vitale per secoli in ambito politico, economico e culturale. La storia si può fare iniziare a Sentino (presso Sassoferrato, nelle Marche attuali) dove, nel 295 a.C., un esercito costituito da Sanniti, Umbr i, Etruschi e Celti affrontò quello di Roma e dei suoi alleati. Fu uno degli scontri piú sanguinosi dell’Italia antica: secondo la storico greco Duride, vi avrebbero trovato la morte 100 000 soldati (25 000 nel resoconto di Tito Livio). Il valore e il significato di queste cifre – spaventose anche ai nostri occhi – vanno rapportati al numero degli abitanti della Penisola del tempo, decisamente inferiore all’attuale. La battaglia segnò un’intera generazione: una parte rilevante vi cadde, un’altra ne portò i segni o il triste ricordo per tutta la vita.

ROMA VERSO L’EGEMONIA La vicenda proseguí su altri campi di battaglia come quelli del lago Vadimone (283 a.C.), dove la stessa coalizione fu ancora una volta sconfitta dall’esercito romano, o quello di Talamone, dove le truppe di alcune tribú celtiche – i Boi e gli Insubri alleati con i Taurisci e i Gesati – vennero circondate e distrutte dai Romani settant’anni dopo Sentino, a ribadire una superiorità che non era soltanto militare, ma iniziava a essere economica e politica e che non si riscontrava ancora al tempo di Sentino.

Torso in terracotta di guerriero, dal cosiddetto palazzo di Teodorico. Ravenna, Museo Nazionale. Su base stilistica, l’opera è stata datata al III sec. a.C., che ne farebbe la scultura fittile piú antica dell’Italia settentrionale a oggi nota. a r c h e o 57


MOSTRE • BRESCIA

Da questa ulteriore vittoria romana prese avvio una sorta di rivoluzione che, nel volgere di alcuni decenni, portò a una romanizzazione profonda dell’Italia settentrionale agevolata probabilmente dalla precedente presenza etrusca nella Pianura Padana, non del tutto cancellata dalla successiva celtizzazione della regione. Si pensi, per esempio, alla consuetudine con la dimensione urbana dell’Etruria padana che può avere facilitato l’accettazione del modello insediativo – la città – imposto da Roma.

BRIXIA, RICCA E VIVACE Proprio l’enfasi data alle città è ben testimoniata dai resti monumentali romani presenti nell’Italia settentrionale e spesso ancora inseriti nel tessuto urbano attuale; nel caso di Brescia, si possono ricordare il Capitolium – oggetto di restauro e ora interamente aperto al pubblico –, il teatro e alcune domus, che riescono a suggerire il benessere e la vivacità dell’antica Brixia.

Pascoli, foreste e diciotto grandi e belle città... Il letterato e filosofo Plutarco, nella Vita di Camillo (compresa nelle Vite parallele), ricorda che «I Galli [i Celti] invasero e occuparono in un lampo la regione che si stende dalle Alpi ai due mari e fu anticamente occupata dagli Etruschi. La contrada è coperta da foreste, ricca di ottimi pascoli per il bestiame e irrigata abbondantemente dai fiumi. Vi sorgono diciotto grandi e belle città dove si svolgono commerci lucrosi e una vita festosa. I Galli ne espulsero gli Etruschi e vi si installarono loro».

L’attenzione per il modello insediativo della città a seguito della romanizzazione si accompagnò all’uso razionale e attento dei terreni dando vita a un’agricoltura fiorente. Anche in questo caso il passato etrusco può avere rappresentato un sostrato di colture agricole avanzate e di conoscenze tecniche relative alla regimazione delle acque particolarmente necessarie in un’area come quella padana: l’introduzione delle novità portate da Roma può aver trovato un ambiente preparato ad accoglierle e a riconoscerle come non completamente estranee alla realtà locale. A sinistra: la stele di Komevios, dalla fossa 120 della necropoli celtica di Dormelletto (Novara). Fine del II sec. a.C. Torino, Museo di Antichità.

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I documenti archeologici suggeriscono poi gli elementi classici della romanizzazione: la capacità di Roma di stringere accordi con l’aristocrazia locale (o con famiglie particolarmente rappresentative di essa); di inserirsi nelle divisioni tra le diverse realtà etniche; di agevolare i collegamenti con l’apertura di nuove strade; di far stringere rapporti tra persone di origine romana e latina con i locali attraverso la fondazione di colonie e la militanza comune nell’esercito. Ma, soprattutto, la scelta di far partecipare – nel giro di breve tempo – alcuni personaggi, particolarmente rappresentativi dei popoli sconfitti, alle dinamiche politiche ed economiche di Roma, come pure la forza di una lingua e di una cultura che si erano andate affermando nella penisola italiana.

TERRA DI POETI La riprova della riuscita della romanizzazione si ebbe durante la campagna d’Italia di Annibale, nell’ambito della seconda guerra punica, quando, nonostante le schiaccianti vittorie iniziali del condottiero punico, la maggior parte delle genti italiche scelse di rimanere al fianco di Roma, sentendosi parte del suo futuro. O, piú tardi, e su un piano prettamente culturale, si può pensare alla provenienza dall’Italia settentrionale di alcuni dei maggiori poeti latini: Catullo e Virgilio su tutti. Si pensi, inoltre, a Tito Livio, divenuto lo storico per eccellenza dell’ascesa di Roma nel Mediterraneo. Torniamo, comunque, alla mostra. Il percorso espositivo, costituito da


Particolare del frontone di Talamone, dagli scavi del tempio scoperto in località Talamonaccio alla fine dell’Ottocento. Orbetello, Museo Civico Archeologico «Polveriera Guzman». Il rilievo raffigura il mito dei Sette contro Tebe e viene oggi datato alla metà del II sec. a.C. In questo frammento compare Anfiarao, a bordo del suo carro, che sprofonda negli Inferi, guidato da una figura femminile alata.

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MOSTRE • BRESCIA

REALTÀ DIVERSE A CONFRONTO A colloquio con Luigi Malnati Direttore Generale per i Beni Archeologici del MiBACT dal 2010 al 2014, Luigi Malnati, uno degli ideatori della mostra bresciana, è Soprintendente Archeologo dell’Emilia-Romagna. Titolare di numerose docenze universitarie, ha

◆ Professor Malnati, quali

motivazioni l’hanno spinta a promuovere e a realizzare la mostra? La mostra è nata quando ricoprivo l’incarico di Direttore Generale per le Antichità e aveva una duplice motivazione: affrontare un problema storico, la romanizzazione dell’Italia padana, secondo un’ottica complessiva e non da opposte visioni, celticoprotostorica da un lato e classicista romanocentrica dall’altro; fare lavorare insieme le diverse Soprintendenze per l’archeologia, in questo caso del nord, al di là degli attuali confini amministrativi. Per quanto riguarda il primo obiettivo, si è scelta un’ottica storicocronologica, tale da raccontare le vicende del territorio attraverso i documenti archeologici contemporanei, al di là delle diverse provenienze culturali, dimostrando che le differenze tra le diverse popolazioni e i Romani erano molto meno nette di quanto non si voglia far apparire; per quanto riguarda il secondo obiettivo, la mostra espone un quadro dei ritrovamenti completo e aggiornato con gli scavi piú recenti messi a disposizione da tutte le Soprintendenze in un quadro storico unitario. L’occasione bresciana è dovuta alla possibilità di celebrare congiuntamente gli splendidi

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svolto una rilevante attività scientifica, con pubblicazioni nel campo della protostoria dell’Italia settentrionale, dell’etruscologia, ma anche in relazione a problematiche di tutela, museologia, archeologia urbana e archeologia preventiva. restauri del Capitolium di Brixia (Brescia), ora interamente aperto al pubblico, uno dei monumenti romani piú importanti del nord Italia.

◆ Di quali collaborazioni si è

avvalso? Hanno collaborato, oltre alla Direzione Generale alle Antichità, il Museo di Santa Giulia e la Fondazione BresciaMusei, tutte le Soprintendenze dell’Italia settentrionale e quella della Toscana, studiosi appartenenti alle Università di Bologna, Padova, Milano, Pavia, Testa di divinità femminile da Alba Pompeia, ritrovata nel 1839 dietro il Duomo di Alba. Fine del II-inizi del I sec. a.C. Torino, Museo di Antichità.

Venezia, Trieste, Roma nonché studiosi attivi in diversi Musei Civici. La mostra è stata curata, insieme a me, da Filli Rossi, già funzionario della Soprintendenza Archeologia della Lombardia, alla quale si deve la riscoperta della Brescia romana e preromana; i cataloghi, invece, sono stati curati da me con Valentina Manzelli, Filli Rossi e Francesca Morandini.

◆ Quali interessi spinsero i Romani

a conquistare l’Italia settentrionale? In un primo tempo, è possibile che i Romani si siano interessati all’Italia settentrionale per una forma di autodifesa nei confronti di popolazioni ostili (Senoni, Boi, Insubri) e per stabilire alleanze con i Veneti e, forse, i Cenomani. Successivamente, per chiari intenti di difesa militare dell’Italia peninsulare (dalla fine del III secolo a.C.) e come sbocco per l’espansione demografica (dal II secolo a.C.) ed economica (dal I secolo a.C.). In seguito l’Italia del Nord divenne un trampolino di lancio politico nel corso delle guerre civili (da Pompeo Strabone a Giulio Cesare).

◆ Quale fu il ruolo di Brescia in

epoca romana? Brescia è stata la capitale di un importante Stato alleato, quello dei Cenomani, e quindi ebbe per tutta l’età repubblicana un ruolo politico essenziale, in contrasto con la


quasi 500 reperti, si articola in 12 sezioni: i protagonisti; l’età prima di Annibale; la sua invasione dell’Italia e le successive sconfitte dei Celti; la propaganda romana; la Gallia Cisalpina in epoca repubblicana; i simboli delle città (mura, impianti urbani, edifici civili); i templi; il gusto privato; l’immagine e la memoria; il territorio; gli dèi del territorio; la voce dei letterati latini. Tra le molte opere selezionate, spicca, per il valore artistico e documentario, il frontone del tempio di Talamone, voluto dai Romani per celebrare – ancora decenni dopo – la vittoria del 225 a.C. su alcune tribú celtiche e ribadire la loro supremazia.

Falera in argento da Manerbio sul Mella (Brescia). Prima metà del I sec. a.C. Brescia, Musei Civici d’Arte e Storia. Utilizzato nella

Milano insubre. A giudicare dall’importanza dei monumenti conservati, anche durante l’intera età imperiale fu un centro economico e culturale di primo piano.

◆ Quali sono le opere esposte che

ritiene piú significative? La mostra è un’esposizione «collettiva»: l’obiettivo non è presentare singoli reperti, o singole opere eccellenti per motivi estetici o culturali, quanto presentare reperti di scavo e mettere a confronto diverse realtà archeologiche che

bardatura dei cavalli per coprire gli incroci dei finimenti, il manufatto è decorato da teste umane stilizzate e da un triscele.

illustrino una «storia» e facciano comprendere al pubblico quale sia l’obiettivo dell’archeologia, che non deve «ritrovare cose» piú o meno eclatanti, ma documentare, ricostruire e interpretare contesti di scavo a fini storici. Vorrei che ci fossero altre mostre con tali finalità… Certo, ci sono anche il frontone di Talamone, l’elmo celtico di Bologna, l’acrolito di Alba, i mosaici di Aquileia, il letto funerario di Piacenza o le falere d’argento di Manerbio, ma non sono lí per caso…

ALL’USO ETRUSCO La decorazione dell’edificio sacro venne realizzata in terracotta, secondo l’uso etrusco e centro-italico, e raffigura il mito dei Sette contro Tebe, ispirandosi a un ciclo elaborato in Grecia. Nella sua realizzazione confluirono quindi due tradizioni – una «locale» e l’altra greca –, che sono alla base degli sviluppi dell’arte romana. Ai lati sono i carri da guerra di Anfiarao, trascinato agli Inferi, e di Adrasto, in fuga dalla battaglia, entrambi accompagnati da demoni e furie. Il centro della scena, in basso, è occupato da Edipo affranto e posto tra i due figli morenti Eteocle e Polinice; il primo è sorretto dalla madre Giocasta e l’altro da un compagno d’armi. Nella zona centrale, ma in alto, vi è anche Capaneo, che tenta di scalare le mura della città, con accanto altri due guerrieri e una portatrice di fiaccola. Sullo sfondo, in secondo piano, sono altri combattenti, perlopiú nudi, ma forniti di elmo, spada e scudo, raffigurati in posizione di assalto o feriti. Anfiarao e Adrasto sono stati letti a r c h e o 61


MOSTRE • BRESCIA

come un’allusione ai due comandanti celti dello scontro di Talamone: Aneroesto, morto suicida e trascinato quindi agli Inferi, e Concolitano, prima fuggiasco e poi catturato dai vincitori. Entrambi combattevano su carro secondo la consuetudine celta. Ancora piú certa appare l’interpretazione del mito dei Sette contro Tebe come il riferimento simbolico a un attacco fallito alla città e alla sua forza militare, sociale, economica e culturale: Tebe come Roma e viceversa. Inizialmente, Luigi Adriano Milani aveva datato la decorazione del frontone alla fine del III secolo a.C., ma oggi si tende a collocarla intorno alla metà del secolo successivo.

CONTAMINAZIONE DI CULTURE D’impatto minore, ma decisamente significativa, è la stele di Ostalia Gallenia proveniente dall’area veneta: tre personaggi, due uomini e una donna, sono su un carro trainato da due cavalli al galoppo e guidato da uno dei personaggi maschili. Gli uomini indossano tunica e toga secondo gli usi romani, mentre la donna, in posizione frontale, è vestita con il suo costume venetico: sopra la veste porta uno scialle fissato al petto e, sulla testa, un copricapo a

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forma di disco. L’iscrizione incisa sulla cornice è in lingua latina. Un contaminazione tra culture che balza agli occhi, con una che si è affermata e l’altra che sta declinando, ma

In alto: stele di Ostalia Gallenia. I sec. a.C. Este, Museo Archeologico Nazionale Atestino. In basso: tesoretto monetale trovato in località Gavrine Nuove (Manerbio) nel 1955. Brescia, Museo di Santa Giulia.


In alto: statuette d’argento rinvenute presso Santorso (Vicenza) nell’area di un santuario frequentato dalla fine del VI sec. a.C. al IV sec. d.C. Padova, Soprintendenza Archeologia Veneto. A sinistra: testa di cosiddetto «principe ellenistico» (Marco Emilio Lepido). Terracina, Museo Civico Archeologico «Pio Capponi».

non è stata ancora cancellata, con i valori tradizionali perpetuati da Ostalia Gallenia. Possiamo ancora segnalare un grande ciottolo di fiume che reca un’iscrizione in cui si ricorda il consolato di Marco Tullio Cicerone nel 63 a.C., nell’anno della congiura di Catilina: la memoria di uno dei protagonisti della civiltà romana affidata a una semplice pietra. DOVE E QUANDO «Brixia. Roma e le genti del Po. Un incontro di culture. III-I secolo a.C.» Brescia, Museo di Santa Giulia fino al 17 gennaio 2016 Orario ma-ve, 9,30-17,30; sa-do, 9,30-19,00; 1° gennaio, 12,00-17,30; chiuso tutti i lunedí non festivi, 24, 25 e 31 dicembre Info tel. 030 2977.833-834; e-mail: santagiulia@bresciamusei.com; www.brixia.bresciamusei.com a r c h e o 63


QUEL TUFFO

NELL’IGNOTO

CAPOLAVORO (ISOLATO) DELLA PITTURA GRECA DI ETÀ CLASSICA, LA TOMBA DEL TUFFATORE DI PAESTUM CI RIPORTA A UNA RAFFINATA SOCIETÀ DI ESTETI ARISTOCRATICI, AMANTI DEL BELLO, DELLA MUSICA E DEL VINO... di Daniele F. Maras

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agli anni Sessanta del Novecento, dopo la difficile situazione del secondo dopoguerra, si assistette in Italia a un rinnovato interesse per l’archeologia greca nel Mezzogiorno, che portò all’inaugurazione dei convegni dell’Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia. Anno dopo anno, l’Istituto ha coinvolto (e coinvolge) nella sua sede di Taranto centinaia di studiosi per affrontare e approfondire tematiche complesse. L’effetto rigenerante di questo appuntamento annuale non si fece attendere, sia per l’attività di scavo, che per quelle di studio e pubblicazione. Tra le sco64 a r c h e o


perte di quegli anni, la piú importante è senza alcun dubbio quella della Tomba del Tuffatore, effettuata a Paestum nel 1968. Il ritrovamento avvenne nel corso di un regolare scavo condotto dall’archeologo Mario Napoli in una piccola necropoli posta circa un chilometro e mezzo a sud dell’antica città di Poseidonia, poi Paestum, in località Tempa del

Prete, nel territorio del moder- La lastra di copertura della Tomba del no Comune di Capaccio, in Tuffatore, dalla necropoli di Tempa provincia di Salerno. del Prete (Paestum). 480-470 a.C.

UNA CURA INSOLITA Fino ad allora, il sito aveva restituito altre tre tombe del modesto tipo a fossa rivestita con lastre di travertino: l’unica anomalia rilevata dagli scavatori al momento di scoperchiare la «cassa litica» era l’insolita cura

Paestum, Museo Archeologico Nazionale. La scena, da cui la sepoltura ha preso nome, è l’elemento che piú caratterizza il monumento e il gesto atletico rappresenta una metafora del passaggio alla vita ultraterrena, che, come le acque del mare, riserva un destino che non può essere conosciuto.

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GLI IMPERDIBILI • TOMBA DEL TUFFATORE

con cui le lastre erano state stuccate ai bordi, in modo da non far filtrare l’umidità all’interno. Ma una volta aperta, la tomba rivelò la sua splendida unicità, dovuta alla scelta di affrescare tutte le lastre con scene policrome disposte attorno al defunto e al suo scarno corredo e anche sulla copertura.

UOMINI NOBILI E RAFFINATI Grazie all’illusione creata dagli affreschi, il giovane individuo sepolto nella tomba era immerso in un eterno simposio tra i suoi pari, nobili e raffinati. Su entrambi i lati lunghi, infatti, una serie di tre lettini (klinai) ospitano coppie di banchettanti: tutti uomini, come si conveniva a una riunione di aristocratici greci. Su uno dei lati corti, invece, è riprodotto il cratere da cui veniva attinto il vino, mentre sul lato opposto un giovane nudo, simile agli altri, sembra sopraggiungere accompagnato

In alto: fotomosaico che mostra la disposizione delle lastre della Tomba del Tuffatore. Qui sotto: particolare delle pitture che mostra un banchettante solitario, nell’atto di porgere un

barbitos (una lira dalle tonalità basse). Nella pagina accanto: uno dei lati lunghi della tomba, con due commensali al centro e un cantante a destra.


CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Tomba del Tuffatore • Definizione Isolato capolavoro della pittura funeraria magno-greca • Cronologia 480-470 a.C. • Luogo di ritrovamento Paestum, necropoli in località Tempa del Prete • Luogo di conservazione Paestum (Capaccio, Salerno), Museo Archeologico Nazionale • Identikit Un tributo alla gioia di vivere prima dell’ultimo salto verso l’ignoto

da un personaggio anziano e da una flautista bambina. L’intera scena assume una dimensione gioiosa e a un tempo eterea, grazie allo sfondo bianco e asettico, che si contrappone alla fascia bruna del terreno sotto i piedi dei letti e dei tavolini. La lastra di copertura, invece, contornata da una cornice geometrica-vegetale, ospita una scena completamente diversa: un giovane nudo si tuffa dall’alto di un’alta costruzione di blocchi bianchi entro uno specchio d’acqua ondulata, tra due alberi fronzuti. Ad accompagnare il defunto, probabilmente scomparso ancora in giovane età, erano stati deposti nella tomba solo alcuni recipienti per olio e unguenti – una brocca (lekythos) e due fiasche (aryballoi), che alludevano alla cura del corpo di un

atleta – e una lira, di cui rimaneva soltanto la cassa acustica ricavata dal guscio di una testuggine. Sia il corredo che le pitture, pertanto, sottolineavano l’ambiente raffinato in cui viveva il defunto, dedito sia alla cura del corpo che alle gioie della musica, e abituato a partecipare a simposi tra compagni di pari rango.

LE REGOLE DEL SIMPOSIO Le coppie di banchettanti disposte sui lettini sulle lastre maggiori sembrano costituire un catalogo dei diversi modi di partecipare a queste riunioni aristocratiche: uno dei commensali intona un canto ispirato, accompagnato dal vicino al suono di un doppio flauto; due banchettanti conversano amabilmente, con in mano una coppa di buon vino; un’altra coppia indulge in una

scena di affetto omosessuale, che apparentemente consegue all’apprezzamento per una performance musicale; la scena attira l’attenzione di uno dei due commensali del lettino seguente, mentre il secondo si dedica al tipico gioco del kottabos, che conferiva al simposio greco un tono festoso e spensierato. Il gioco consisteva nel lanciare con destrezza l’ultima goccia di vino rimasta nella coppa, dopo averne bevuto tutto il contenuto, verso un bersaglio posto in alto: in genere un dischetto da far cadere in un piatto o un galleggiante da far affondare in un contenitore pieno d’acqua. Si trattava in sostanza di dimostrare di aver mantenuto una buona mira anche dopo essersi inebriati di vino. In questo caso il bersaglio non è rappresentato, ma il gesto del giocaa r c h e o 67


GLI IMPERDIBILI • TOMBA DEL TUFFATORE Tarquinia, Tomba della Caccia e della Pesca. 510-500 a.C. Particolare delle pitture murali raffigurante un giovane che si tuffa. La somiglianza con la scena del sepolcro scoperto a Paestum ha suggerito l’ipotesi che il defunto potesse essersi ispirato alla tradizione funeraria etrusca, anche se, dal punto di vista stilistico, la tomba pestana è sicuramente riferibile alla cultura artistica greca.

so i simposasti e rispondere al saluto del convitato che brinda. Sul lato opposto, l’uomo con il barbitos si volta di scatto proprio verso di lui (se si considera la disposizione antica delle lastre), come per richiamarne l’attenzione.

tore è stato messo sagacemente in rapporto da Luca Cerchiai con il tuffatore riprodotto sulla lastra di copertura, che al momento della sepoltura era aperta a sovrastare la scena di banchetto. Come la goccia di vino attraversa l’aria nel corso di un gioco di società, cosí il defunto si tuffa verso un destino ignoto al di là della vita. Significativamente, due lettini sono occupati da un banchettante solitario, che in un caso sembra levare il 68 a r c h e o

calice in un brindisi di accoglienza, mentre nell’altro porge un barbitos (una speciale lira dalle tonalità basse) guardando alle proprie spalle. Come non pensare che almeno uno dei posti vuoti sia riservato proprio al defunto, in procinto di unirsi per l’eternità al banchetto gioioso dei suoi amici? E, in effetti, il giovane riprodotto sul lato breve, nudo se non per il drappo azzurro avvolto sulle braccia, sembra appunto affrettarsi ver-

AMICI E AMANTI Entrambi, va notato, sono ritratti con la barba e perciò di età matura, in opposizione al giovane imberbe, evidentemente appartenente a una classe di età piú giovane. Non è senza significato, infatti, che in tutte le coppie di commensali sia riprodotto lo stesso rapporto di età, con un evidente allusione al ruolo sociale ed educativo che nel mondo greco univa due amici e amanti, detti erastes il piú anziano ed eromenos il piú giovane. Sembra evidente, perciò, che al giovane defunto si augurasse di trovare nell’aldilà un’accoglienza simile a quella della vita che lasciava, dove compagni affettuosi e piú esperti lo avrebbero iniziato alle delizie del banchetto eterno. A conferma di questo aspetto educativo e iniziatico, il giovane è seguito nel dipinto da un pedagogo, responsabile della sua istruzione, mentre l’accompagnamento di un flauto conferisce solennità alla sua marcia verso la nuova vita. Meno scontata e piú intrigante appare invece l’interpretazione della scena sulla lastra di copertura, collegata alle immagini del banchetto grazie al gioco di simmetrie a cui abbiamo accennato, ma separata dal


resto grazie alla cornice vegetale e all’ambientazione bucolica e surreale. È parso da subito evidente agli studiosi che il tuffo dal trampolino fosse una metafora del salto verso l’ignoto cui va incontro chiunque oltrepassa la soglia della vita mortale. L’acqua, specialmente quella dell’Oceano che racchiude i confini del mondo, è il simbolo di una realtà diversa e inconoscibile, che tutti prima o poi siamo destinati ad affrontare. Molto interessante, però, è la scelta di rappresentare il luogo da cui il giovane tuffatore prende lo slancio come un’alta costruzione di candidi blocchi, che si erge sulle rive dell’ultimo specchio d’acqua. Grazie all’intuizione di Giovanni Becatti, valorizzata da Bruno d’Agostino, sappiamo che quella costruzione allude ai pilastri delle grandi porte dell’Ade, poste al termine del percorso solare e ai confini del nostro mondo, oltre le quali a nessuno è lecito andare per poi tornare indietro. Le scene dipinte nella Tomba del Tuffatore costituiscono pertanto un sistema di segni, a un tempo semplice e complesso, dettato da una profonda sensibilità poetica. Il tuffo nell’ignoto rappresenta la na-

turale domanda attonita di noi tutti, nel passato come nel presente, di fronte al mistero della morte; il banchetto spensierato che attende nell’aldilà il giovane defunto, strappato all’affetto dei suoi cari, è la risposta che la società civile e raffinata della greca Poseidonia poteva dare per consolarsi della perdita di uno dei suoi membri.

IN SPLENDIDA SOLITUDINE Al momento della sua scoperta, la Tomba del Tuffatore fu salutata come il primo monumento che ci permettesse di avere esperienza della pittura greca, considerata dagli antichi la piú importante delle arti, ma di cui ben poca traccia è rimasta oggi. La speranza di tutti era ovviamente che essa fosse solo la prima di una serie di simili tombe dipinte, in grado di fornire un corrispondente greco delle pitture funerarie etrusche. Purtroppo, tale speranza rimase delusa: le altre pur numerose tombe dipinte di Paestum risalgono a un’epoca assai piú recente e appartengono alla tradizione artistica italica (lucana), piuttosto che a quella greca. Resta pertanto aperta la questione

Tarquinia. La parete di fonfo della camera di sepoltura della Tomba della Caccia e della Pesca, con le scene che danno nome al sepolcro. 510-500 a.C.

della ragione per cui solo un giovane membro dell’élite di Poseidonia abbia avuto questo tipo eccezionale di sepoltura. La risposta potrebbe venire dall’analisi della necropoli di Tempa del Prete, alla quale la tomba apparteneva e che, secondo un’ipotesi di Emanuele Greco, si riferiva a un piccolo insediamento di meteci (ovvero di immigrati, non in possesso di pieni diritti civili). Se si accetta tale ipotesi, l’anomalia della tomba potrebbe essere spiegata con il riferimento a una diversa tradizione funeraria, straniera, eventualmente dipendente dalla vicina cultura etrusca, che spiegherebbe il ricorso alla pittura ad affresco. Ma anche in tal caso va rilevato che tanto lo stile, quanto soprattutto i soggetti delle scene dipinte sono del tutto dipendenti dalla cultura aristocratica greca. Ben diversa è infatti la scelta della poco piú antica tomba tarquiniese della Caccia e della Pesca (510-500 a.C.), dove pure è riprodotta la scena del tuffatore, ma nella quale il simposio che attende il defunto coinvolge i membri della sua famiglia, ivi compresa la moglie e i figli. Perciò, se pure fosse stato di origine straniera, il giovane sepolto nella Tomba del Tuffatore dimostra la sua piena integrazione culturale e il desiderio essere ricordato a pieno titolo come un membro della società poseidoniate, di cui aveva fatto parte in vita. PER SAPERNE DI PIÚ Emanuele Greco, Non morire in città. Annotazioni sulla necropoli del «Tuffatore» di Poseidonia, in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli. Sez. Archeologia IV, 1982; pp. 50-55. Luca Cerchiai, Bruno D’Agostino, Il mare, la morte, l’amore. Gli Etruschi, i Greci e l’immagine, Donzelli Editore, Roma 1999; pp. 53-71

NELLA PROSSIMA PUNTATA • I bronzi di Cartoceto a r c h e o 69


ALLA SCOPERTA DEL

MONDO CHE NON C’ERA

LE CIVILTÀ PRECOLOMBIANE SONO PROTAGONISTE DI UNA STRAORDINARIA MOSTRA ALLESTITA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI FIRENZE. ESPOSTI SONO CENTINAIA DI REPERTI, SCELTI TRA I CAPOLAVORI RACCOLTI NEI DECENNI DALL’IMPRENDITORE, COLLEZIONISTA E VIAGGIATORE VENEZIANO GIANCARLO LIGABUE. CURATA DAI MASSIMI ESPERTI A LIVELLO INTERNAZIONALE, LA RASSEGNA È UN’OCCASIONE UNICA PER AVVICINARE QUESTO ARTICOLATO E AFFASCINANTE UNIVERSO CULTURALE. AL QUALE CI INTRODUCONO LE RIFLESSIONI DI ANDRÉ DELPUECH, RESPONSABILE DELLE COLLEZIONI AMERICANE AL MUSÉE DU QUAI BRANLY DI PARIGI di André Delpuech 70 a r c h e o


Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti riprodotti in questo Speciale fanno parte della Collezione Ligabue.

Maschera funebre in rame ricoperto da lamina d’oro. Cultura ChimúLambayeque, Perú. 1300 d.C. Riproduce fattezze e attributi dell’antenato mitico delle genti di Lambayeque, Ñaymlap, che trae nome da un uccello acquatico (namla). Applicata all’involto di tessuti che copriva il corpo, la maschera manifestava la partecipazione del defunto alla regalità divina dell’AntenatoUccello.

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e la Spagna e il Portogallo sono i due Paesi europei che hanno giocato un ruolo di primo piano e centrale nella «Scoperta» e poi nella Conquista delle Americhe, allo stesso modo l’Italia è stata un attore decisivo in tale avvenimento, considerato come «la cosa piú grande dopo la creazione del mondo, escludendo l’incarnazione e la morte di colui che l’ha creata». Cosí scriveva, nel 1552, il cronista Francisco López de Gómara (1512-1572 circa) nella sua Historia General de las Indias. Il grande antropologo Claude Lévi-Strauss (1908-2009, con altre parole che tuttavia racchiudono lo stesso significato, parlava nel 1992, per il quinto centenar io dell’«Incontro di due mondi», dell’evento «forse piú importante della storia dell’umanità». Questo «mondo che non c’era» agli occhi degli Europei del Rinascimento si è trovato per caso sul cammino preso da Cristoforo Colombo durante il suo famoso viaggio del 1492, il cui scopo era raggiungere l’Asia. Il celebre navigatore genovese voleva arrivare nella lontana Cina, visitata e descritta poco tempo prima da un altro famoso a r c h e o 71


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

italiano, Marco Polo, avventurandosi verso ovest in un oceano ancora sconosciuto. Arrivato nelle attuali Grandi Antille, incontrò gli abitanti autoctoni che sono chiamati oggi taïno ma che battezzò «indiani», credendo di essere arrivato nelle Indie, in qualche isola al largo del Giappone.

FIRENZE, VENEZIA E ROMA IN PRIMA FILA Spetta a un altro italiano il compito di dare il suo nome a questo continente imprevisto: Amerigo Vespucci. Quest’ultimo fu senza dubbio tra i primi a prendere vera coscienza del fatto che si trattava di un universo completamente nuovo, e i cartografi battezzeranno nel 1507 questo Mundus Novus «America» dal nome del navigatore fiorentino. L’Italia, con le città di Firenze, Venezia e Roma in prima fila, ha anche giocato un ruolo decisivo nella diffusione di questa storia fondamentale rappresentata dall’incontro di due metà dell’umanità che si ignoravano da migliaia di anni. Nella maggior parte dei casi, le lettere e i diari di bordo di molti di questi famosi marinai sono stati pubblicati in Italia. Un autore come il lombardo Pietro Martire d’Anghiera (storico e geografo, 1457-1526), insediato alla corte di Castiglia, fece conoscere attraverso le sue pubblicazioni di successo il Nuovo Mondo, la sua natura e i suoi abitanti. Molti di questi «Indiani» furono condotti in Europa come testimonianza delle terre recentemente scoperte. Allo stesso modo, numerosi oggetti della loro arte – pezzi in oro ovviamente, ma anche armi, parure, sculture – furono portati in Spagna dai conquistatori, inviati ai sovrani, ai principi o ai prelati, in particolare in Italia, dove alcuni sono stati meticolosamente conservati nei gabinetti delle curiosità, sul modello di quello dei Medici a Firenze. 72 a r c h e o

Scultura antropomorfa in terracotta di colorazione rossastra. Cultura Quimbaya, regione del Cauca. III sec. d.C. Alla figura plasmata nell’argilla è stato aggiunto un anello d’oro al naso.

NEL CAMMINO DI CIPANGO E DEL CATHAY Il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo (1451-1506), navigatore genovese al servizio dei Re Cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, alla testa della sua flotta di tre caravelle costeggiava una piccola isola dopo trentatré giorni di navigazione nel Mar Oceano, dopo aver lasciato l’arcipelago delle Canarie. Alla ricerca di una nuova via delle spezie per raggiungere dall’ovest l’oriente dell’Asia, credette, e questo fino alla sua morte, di essere arrivato da qualche parte al largo del Giappone, il Cipango dalle case dalle tegole d’oro descritte tempo prima da Marco Polo nel suo Libro delle Meraviglie del Mondo, scritto nel 1356. Colui che diventerà l’Ammiraglio del Mar Oceano e che passerà ai posteri come lo scopritore dell’America stava costeggiando le Bahamas. La piccola isola di Guanahani, che ribattezzò San Salvador, fu cosí il teatro di questo primo incontro tra Europei e Amerindi. Questi ultimi erano i taïno e abitavano la parte piú vasta delle Grandi Antille. In base alle indicazioni di alcuni autoctoni che prese con sé a bordo, toccò in seguito la costa nord di Cuba, che credette per un periodo essere il Giappone. Infine, riprendendo la rotta verso est, costeggiò una grande isola denominata Ayti dai suoi abitanti e che battezzò Hispaniola, la piccola Spagna. In base ai suoi calcoli, Colombo pensava di essere arrivato non lontano dalla Cina, il Cathay di Kublai Khan di cui parlava Marco Polo. D’altronde, ascoltando parlare i taïnos dei loro vicini meridionali bellicosi, che venivano spesso a fare loro la guerra catturando guerrieri e dedicandosi a pratiche antropofaghe, pensò anche che questi «cannibali» o «caribes» potessero esseri i soldati del gran Khan!


Mappa del Sud America di Giovanni Battista Agnese. 1553. Venezia, Musei Civici Veneziani. a r c h e o 73


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE Montezuma L’imperatore Montezuma II (1466-1520), in un olio su tela attribuito ad Antonio Rodríguez (1636-1691). Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti. Si tratta dell’unica immagine non stilizzata, naturalistica, dell’ultimo imperatore azteco. Realizzata circa 200 anni dopo la conquista spagnola, l’opera rappresenta anche il primo ritratto integrale del personaggio, per la quale l’autore forse si ispirò a un modello rinvenuto su un codice indigeno oggi perduto, o, secondo un’altra ipotesi, alla figura di uno degli indigeni che, in occasione della celebrazione cristiana dell’Eucarestia, eseguivano una danza rituale chiamata, appunto, la «Danza di Montezuma».

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rifiuto progressivo delle interpretazioni asiatiche di Colombo. Un altro navigatore italiano, originario di Firenze, giocherà un ruolo decisivo nella presa di coscienza che gli Europei si trovano davanti ad un nuovo continente. Amerigo Vespucci (1454-1512) realizzò tre, probabilmente quattro viaggi: l’effettuazione del primo, del 1497-1498, è oggi contestata; il secondo, tra il maggio 1499 e il settembre 1500, si rivela decisivo nel processo di riconoscimento della realtà delle nuove terre. Realizzata al servizio della Spagna, con Alonso de Ojeda come comandante della flotta, la spedizione costeggia l’attuale regione della Guyana, poi Vespucci fa vela verso sud L’ANNUNCIO DELLA SCOPERTA A forma scoprendo la foce del Rio delle Amazzoni e L’annuncio ufficiale della scoperta di nuove d’aquila isole nel Mar Oceano viene fatta a papa Ales- Pendente d’oro, in costeggiando le coste nord del Brasile, prima di ritornare verso Trinidad e il delta dell’Orisandro VI dall’ambasciatore spagnolo il 19 lega con altri noco e raggiungere la Spagna passando da giugno 1493, assieme alla rivendicazione metalli, in forma Hispaniola. territoriale, presso l’arbitro internazionale di aquila con le Questo viaggio sarà oggetto di una lettera dell’epoca, dei nuovi territori scoperti. Que- ali aperte e con indirizzata dal navigatore fiorentino a Lorenzo sto sfocerà nel trattato di Tordesillas, firmato collane al collo. di Pierfrancesco de’ Medici. I suoi due ultimi dai sovrani spagnoli e portoghesi nel 1494 Cultura Tairona, viaggi sono condotti al servizio del Portogallo. sotto l’egida del papa. Una linea di divisione 800-1300 d.C. dei mondi da scoprire viene tracciata, 370 (segue a p. 78) leghe a ovest delle isole di Capo Verde: tutte le terre a est di questo meridiano apparterranno alla corona di Portogallo (sarà il caso del Brasile, scoperto ufficialmente nel 1500), quelle a ovest saranno attribuite alle corone di Castiglia e di Aragona. Cristoforo Colombo realizza un secondo viaggio alla fine del 1493, una vera impresa di colonizzazione con 17 navi e quasi 1500 uomini. Costeggia le Piccole Antille, dove incontra i «cannibali» di cui gli avevano parlato i taïno l’anno prima, poi, arrivato a Hispaniola, vi fa costruire i primi avamposti spagnoli (La Isabela, prima città, poi Santo Domingo). Solo nel corso del suo terzo viaggio, nel 1498, tocca il continente sud-americano, la «terraferma», come fu spesso denominata, all’altezza della foce dell’Orinoco, sulle coste dell’attuale Venezuela. Un’ultima esplorazione, tra il 1502 e il 1504, lo porterà a costeggiare l’America centrale. Ma alla fine il navigatore genovese non si rese mai davvero conto che si trovava alle porte di un nuovo continente. Numerose esplorazioni marittime vengono condotte approfittando dei primi viaggi. Quattro spedizioni raggiungono cosí il continente nel 1499 e costeggiano gli attuali Venezuela, Guyana e Brasile. Questi viaggi, realizzati intorno all’anno 1500, provocano il Al suo ritorno, nel marzo 1493, fu accolto trionfalmente dai sovrani spagnoli che fecero tuttavia una pubblicità minima alla notizia in termini di precisazioni geografiche, con l’evidente volontà di custodire il segreto. La posta in gioco commerciale era fondamentale, quella cioè di trovare una nuova via delle spezie, mentre i loro concorrenti portoghesi continuavano da decenni la loro esplorazione delle coste dell’Africa arrivando a doppiare, all’estremità sud, il capo di Buona Speranza nel 1487 e aprendo in questo modo la tanto desiderata via delle Indie e delle loro spezie.

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SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

L’AMERICA PRECOLOMBIANA A FIRENZE Forte di un corpus di capolavori perlopiú inediti, la mostra «Il mondo che non c’era» è dedicata alle grandi civiltà della Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador) e delle Ande (Panama, Colombia, Ecuador, Perú e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dagli Olmechi ai Maya, agli Aztechi; dalla cultura Chavín, a quelle Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca. Fu il fiorentino Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone), ma un nuovo continente che, pochi anni piú tardi, fu chiamato, in suo onore, «America». E i Medici, signori di Firenze, risultarono i primi governanti europei a decidere di preservare nelle loro collezioni alcuni degli affascinanti e spesso enigmatici manufatti arrivati dalle «Indie» come quelli dei taïno - gli indigeni incontrati da Colombo - che i conquistatores avevano portato in Europa. Tra i primi a considerare quegli oggetti vere opere d’arte fu Albrecht Dürer che, di fronte ai regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse: «Queste cose son piú belle che delle meraviglie (…) Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti». Promossa dal Centro Studi e Ricerche Ligabue di Venezia e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana-Museo Archeologico Nazionale, prodotta con atto di mecenatismo da Ligabue SpA, con il patrocinio della Regione Toscana e del Comune di Firenze, la mostra presenta pezzi eccezionali e unici, appartenuti proprio alle collezioni medicee, cosí come

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opere preziose del Musée du quai Branly di Parigi e di prestigiose collezioni internazionali. Ma il nucleo centrale è costituito da una vasta selezione di opere delle antiche culture americane appartenenti alla Collezione Ligabue. A pochi mesi dalla sua scomparsa, questa mostra vuole essere infatti anche un omaggio alla figura di Giancarlo Ligabue (1931-2015) da parte del figlio Inti, che continua l’impegno nella ricerca culturale e scientifica e nella divulgazione, attraverso il Centro Studi fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo. Il viaggio nel cuore delle civiltà mesoamericane prende dunque il via dalle testimonianze delle culture tlalica e olmeca (1200-400 circa a.C.), con esempi di quelle figurine antropomorfe di ceramica cava provenienti da necropoli, che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi surrealisti. La cultura olmeca si diffuse attraverso tutta la Mesoamerica fino alla Costa Rica, compresa la regione


Sulle due pagine: alcune immagini dell’allestimento della mostra «Il mondo che non c’era», dedicata alla Collezione Ligabue e ospitata nelle sale del Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al prossimo 6 marzo 2016.

di Guerrero (Xochipala), famosa per le statuine di donne nude, giocatori della palla, coppie o danzatori dai corpi modellati e realistici e, in genere, per la produzione lapidea (tra il 500 a.C e il 500 d.C.), che si svilupperà anche nella cosiddetta scultura Mezcala. Tra il 300 a.C. e il 250 d.C. l’Occidente del Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo collocate sotto le abitazioni. Tra le varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C.) è conosciuta per le statuette policrome di ceramica cava, delle quali sono in mostra alcuni notevoli esemplari, come la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla appartenuta alla collezione Guy Joussemet e ora in quella Ligabue. Quindi Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale, letteralmente «la città dove si fanno gli dèi» e dove furono costruiti monumenti emblematici come la Piramide del Sole, quella della Luna e la Piramide del Serpente piumato. Leggendaria l’abilità dei tagliatori di pietra di Teotihuacan; l’arte lapidaria appare molto stilizzata, persino geometrizzata e ha prodotto pezzi

monumentali ma anche le famose e inconsuete maschere di Teotihuacan. Una di queste, in onice verde, conservata al Museo degli Argenti è appartenuta alla collezione dei Medici ed è un esemplare davvero notevole di quella produzione. Della cultura zapoteca – che si diffonde nel Centro del Messico nella regione di Oaxaca dal 500 a.C. al 700 d.C e vede il suo centro nella città di Monte Albán – sono altresí in mostra alcune delle famose urne cinerarie che appaiono dal 200 a.C al 200 d.C (II fase). Con la loro

effigie spesso antropomorfa, rappresentante un personaggio seduto con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia – probabilmente Cocijo, dio della pioggia, del fulmine e del tuono – sono state trovate in differenti inumazioni; e resta da chiarire ancora la loro funzione. Singolari anche le statuette realistiche in ceramica della cultura classica della Costa del Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con bitume dopo la cottura, come anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della palla e le statue che rappresentano personaggi sorridenti o ridenti, davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che frequentemente propone esseri impersonali e inespressivi. A introdurci nella cultura e nelle società dei Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali addomesticati come i tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e con bellissimi gioielli raffigurati in piatti, sculture o stele. Ma sono soprattutto i bellissimi e preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente decorati, che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o giovani signori dai copricapi piumati sono i protagonisti che popolano i vasellami in mostra. Sono aztechi invece gli importanti propulsori o atlatl – utilizzati per lanciare frecce – provenienti dalle Wunderkammer medicee e ora nel Museo di Antropologia di Firenze: sono tra i pochissimi strumenti di questo tipo decorati in oro. Il viaggio continua con le testimonianze dal Sud America: dalla spettacolare produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, agli oggetti degli Inca; dal mondo dell’antico Chavín, dai tessuti e vasi della regione di Nazca, all’affascinante cultura Moche. Ma sarà l’oro – come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata «tumbaga») – a spingere nelle Ande Spagnoli e avventurieri alla ricerca dell’«El Dorado», uno dei grandi miti, vero motore della Conquista. (red.) a r c h e o 77


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE L’ascia si fa uomo Statuetta antropomorfa in diorite (particolare). Cultura Mezcala, Stato di Guerrero, Messico. Preclassico recente, 300-100 a.C Il manufatto nasce dall’adattamento di un’ascia che assume progressivamente le sembianze di una figura umana, pur mantenendo una traccia della sua origine funzionale.

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Il terzo, dal maggio 1501 al settembre 1502, segue un itinerario che lo porta dal nordest brasiliano fino al di là del cinquantesimo grado sud, lungo l’attuale Argentina, fino all’altezza delle isole Falkland, non lontano dalla punta meridionale dell’America del Sud. Questo significa che il navigatore fiorentino conobbe, tra il 1499 e il 1502, la maggior parte del litorale atlantico dell’America del Sud. Le relazioni dei diversi viaggi, scritte di pugno da Vespucci o riprese dagli editori, conobbero un successo folgorante. Se Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci sono i due esploratori piú conosciuti, altri marinai italiani fuori dall’Italia daranno il loro contributo alla scoperta del nuovo continente che bloccava la via per le Indie. Cosí, cercando un percorso verso l’Asia a nord, Giovanni Caboto (1450 circa-1498), al servizio dei mercanti del porto di Bristol e inviato dal re d’Inghilterra, naviga verso nordovest nel maggio 1497 e tocca la costa nordamericana, in un luogo indeterminato che battezzerà Terra Prima Vista, forse all’altezza dell’isola di Terranova. È il primo europeo conosciuto che arriva in America del Nord, dopo i Vichinghi che si erano insediati nel Vinland (senza dubbio Labrador e Terranova) nell’XI secolo. Al «misterioso» Giovanni Caboto, nato a Genova o a Venezia e scomparso nel 1498 durante il suo secondo viaggio, succederà il figlio Sebastiano (1484-1557), che per conto del re d’Inghilterra continuerà le esplorazioni marittime verso nord cosí come verso l’America del Sud. Infine, tra i marinai italiani alla scoperta dell’America citiamo Giovanni Verrazzano (1485 circa-1528), nato vicino a Firenze o a Lione, in Francia, da una famiglia di origine fiorentina. Sotto l’impulso e con il sostegno dei banchieri di Lione, Rouen e Dieppe, cosí come con l’appoggio di re Francesco I, nel 1524 conduce una spedizione alla ricerca di un passaggio verso l’Oceano Pacifico a nord-ovest. Costeggia cosí anche la costa orientale degli attuali Stati Uniti, dal nord della Florida fino a Terranova. Di sfuggita, il 17 aprile 1524, Verrazzano scopre la baia di New York che denomina «Nuova Angoulême». A questa data, la quasi totalità delle coste orientali dell’America è stata esplorata e il primo giro del mondo è stato realizzato da Magellano. Il mondo è cambiato di dimensioni: un quarto continente è nato.


L’INVENZIONE DELL’AMERICA Il 1492 è diventata una data chiave nella storia occidentale. Si ritiene convenzionalmente che questa data determini la fine del Medioevo e l’inizio dei tempi moderni. Tuttavia, i contemporanei europei hanno saputo solo tempo dopo che l’America era stata scoperta. I navigatori e gli eruditi si sono resi conto che le terre trovate nell’Oceano Atlantico erano un nuovo continente solo dodici o quindici anni piú tardi. E occorrerà attendere una trentina d’anni e piú perché questa scoperta sia comunemente nota.

La donna seduta Statuetta in ceramica che ritrae una figura femminile seduta. Cultura Xochipala, stile Xalitla, Stato di Guerrero, Messico. Preclassico medio, 900-600 a.C.

Abbiamo visto che Cristoforo Colombo per primo credette di essere arrivato ai confini orientali dell’Asia. Considerò che le terre scoperte nel Mar dei Caraibi si trovassero al largo del Giappone, poco distanti dalle Indie e dalle loro ricchezze. Queste isole del Mare Oceano, senza spezie e alla fin fine con poco oro, all’epoca contavano poco agli occhi degli Europei della fine del XV secolo e dell’inizio del XVI secolo, molto poco rispetto alle spedizioni portoghesi che, con Vasco de Gama, varcavano il capo di Buona Speranza nel 1497 e raggiungevano direttamente le Indie. Il ritorno trionfale a Lisbona del navigatore portoghese, nel 1498, inaugurava una nuova rotta commerciale tra l’Europa e l’Estremo Oriente, proprio nel momento in cui la via commerciale attraverso il Medio Oriente veniva seriamente compromessa dall’espansione dell’impero ottomano.

IL CLIMA MITE DELL’EDEN Ciò nondimeno, bisognava pur spiegare l’esistenza di queste nuove terre a occidente dell’Oceano Atlantico. Com’era consuetudine all’epoca, si cercò nei testi biblici o antichi una traccia: isole mitiche come Ophir, la favolosa isola delle miniere del re Salomone, le isole delle temibili Amazzoni, il giardino delle Esperidi o la fontana della giovinezza, o ancora le Isole Fortunate, antico luogo mitologico agli estremi confini del mondo. Bartolomé de Las Casas avanza addirittura l’ipotesi che Colombo abbia scoperto Atlantide. Durante il suo primo viaggio l’Ammiraglio del Mare Oceano, fervente cristiano ossessionato dalla Bibbia, si preoccupò anche della ricerca dell’Eden. Il 21 febbraio 1493 annota questo nel suo diario di bordo: «I teologi sacri e i saggi filosofi hanno ben detto che il paradiso terrestre è situato alla fine dell’Oriente, perché ha un clima molto mite». È vero che al tramonto del Medioevo l’opinione comune situava il paradiso a oriente, in una regione molto umida, dalla flora lussureggiante e dal clima mite, poiché Adamo ed Eva vi abitavano nudi. a r c h e o 79


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

A partire dal suo arrivo nelle Antille, Cristoforo Colombo ha creduto di essere alle porte dell’Eden: clima mite, vegetazione esuberante, indigeni dalla natura pacifica, di una dolcezza angelica, senza dubbio perché vivevano vicino al paradiso. Questi abitanti, inoltre, vivevano nudi come Adamo ed Eva prima del peccato. La nudità dei popoli amerindi dei Caraibi o delle coste brasiliane verrà citata continuamente da navigatori e cronisti. Inoltre, Amerigo Vespucci assegnerà agli autoctoni del Nuovo Mondo una qualità supplementare, che attribuirà un’età dell’oro alle Indie: la longevità. Calcola che in Brasile gli uomini piú anziani vivono fino ai 150 anni; questo alimenterà l’antica credenza nella fontana della giovinezza, che il conquistador Juan Ponce de León, primo governatore di Porto Rico, cercherà invano in Florida nel 1513. Allo stesso modo, nei testi sacri viene detto che quattro grandi fiumi scorrono dal paradiso. Arrivato alla foce dell’Orinoco, nel 1498, stupefatto dalla massa d’acqua dolce di questo grande fiume tropicale, oltre al fatto che intuiva la presenza di un grande continente, Colombo pensò che si trattasse di uno dei fiumi provenienti dall’Eden.

ANIMALI IMMAGINARI Occorre ricordare le conoscenze, la visione del mondo e le credenze della fine del Medioevo, quando per i navigatori il paradiso era plausibile da trovare sulla loro rotta tanto quanto animali immaginari, mostri marini, sirene o cinocefali, gli uomini dalla testa di cane descritti nei testi medievali. Tuttavia, sulla base di osservazioni e calcoli, nei primissimi anni del XVI secolo l’Europa degli avventurieri come quella degli intellettuali poco a poco 80 a r c h e o

Dalla città degli dèi Maschera in serpentina verde scuro a superficie levigata. Cultura Teotihuacan, Valle del Messico, Messico. Classico, 450-650 d.C.

mette in dubbio che le nuove terre appartengano alle «Indie» e inventa un continente imprevisto, l’America. In questa presa di coscienza, cosí come nella diffusione della notizia, conviene segnalare il ruolo di un italiano che non è un navigatore e non ha mai lasciato l’Europa: l’umanista e scrittore Pietro Martire d’Anghiera (1457-1526). Nato ad Arona (Milano), passato da Roma e poi insediatosi dal 1492 alla corte di Castiglia, si è improvvisato storico della scoperta. La sua abbondante corrispondenza, inviata in particolare ad amici italiani, è servita da materia prima per la sua pubblicazione De Orbe Novo, (Del Nuovo Mondo). Questa prima decade, redatta tra il 1493 e il 1510, fu pubblicata solamente in latino a Siviglia nel 1511, mentre altre parti furono diffuse molto piú avanti. I due primi libri della prima decade sono semplicemente le prime due lettere scritte al cardinale Ascanio Sforza di Milano, datate 13 novembre 1493 e 29 apr ile 1494. Pietro Martire vi dà prova di un certo scetticismo nei confronti di Colombo, di cui è amico, per quanto riguarda l’ipotesi asiatica. Descrive infatti le «isole del Mar Oceano», non delle Indie. Fin dall’inizio della seconda lettera parla anche di «Nuovo Mondo» (Orbe Novo), espressione di cui è il vero creatore. Tra il 1500 e il 1502, Amerigo Vespucci indirizza varie lettere a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, ambasciatore di Firenze presso il re di Francia, tra cui quella del settembre 1502 in cui descrive il suo terzo viaggio. Anche se il testo originale è scomparso, fu subito tradotto in latino e apparve a Parigi a partire dal 1503, poi a Venezia l’anno seguente con il titolo di Mundus Novus, un Mondo Nuovo. Dal 1503 al 1506 in tutta Europa se ne ristampano undici edizioni latine, che ne provano la vasta eco.


Dopo il suo ultimo viaggio, lo stesso Vespucci invia da Lisbona, il 4 settembre 1504, una lettera all’amico Pier Soderini a Firenze. Il testo italiano fu pubblicato con il titolo Lettera di Amerigo Vespucci delle isole nuovamente trovate in quattro suoi viaggi, conosciuto anche nella versione latina come Quatuor navigationes. Questi testi essenziali, che descrivono i suoi viaggi nella terraferma, stabiliscono la vera portata della scoperta. Il loro contenuto faceva scalpore: Vespucci formulava l’ipotesi che le regioni appena esplorate non appartenessero all’Asia, ma facessero parte di un continente distinto.

LA «TERRA DI AMERIGO» In che modo Vespucci donò il suo nome all’America? Fu in una piccola città dell’Est della Francia, a Saint-Dié, nei Vosgi, dove un gruppo di monaci garantí con la sua attività la gloria postuma del navigatore fiorentino. Questo circolo di letterati, e in particolare di geografi, noto con il nome di Gymnasium Vosagense, pubblica in particolare, nel 1507, una Cosmographiae Introductio, inserendovi le Quattro navigazioni di Vespucci e accompagnandola con un nuovo atlante che teneva conto delle recenti scoperte che allargavano il mondo conosciuto. È il vero atto di battesimo del nuovo continente. In effetti, si può leggere al capitolo IX: «Una quarta parte [del mondo] è stata scoperta da Amerigo Vespucci e non vedo perché ci si opporrebbe al fatto che questa terra fosse chiamata, a partire dal nome di colui che l’ha scoperta, Amerigo (...) Ameri-gê, terra di Amerigo, cioè America, poiché è da un nome di donna che l’Europa e l’Asia hanno tratto il loro nome». Nella nuova edizione della cosmografia di Tolomeo pubblicata nell’aprile 1507, il cartografo Waldseemüller fece incidere nel suo celebre planisfero il ritratto delle due personalità che gli sembravano fondamentali per la storia della geografia: Tolomeo, iniziatore della de-

Volti di pietra Maschera antropomorfa in pietra dura di colore grigio-verde. Cultura pre-Teotihuacan, Stato di Guerrero, Messico. Preclassico recente, 400-100 a.C.

scrizione del mondo nell’antichità, e Vespucci il cui apporto poteva essere considerato come la piú grande novità dell’epoca. Su questa carta il nuovo continente viene rappresentato, come una semplice striscia stretta che coincide con le sole coste orientali conosciute all’epoca, e porta il nome di AMERICA. Infine, il cartografo tedesco rappresentò un grande oceano tra il Nuovo Mondo e l’Asia. La terra prendeva poco a poco le sue vere sembianze. L’ampiezza e le dimensioni del nuovo continente non erano ancora concepibili, ma il nome America doveva passare ai posteri. Solo qualche decennio piú tardi, con la conquista del Messico e del Perú, il giro del mondo di Magellano, la discesa del Rio delle Amazzoni e i primi esploratori dell’America del Nord, l’Europa prenderà coscienza della vastità smisurata di questa quarta parte del mondo che le era stata rivelata. (segue a p. 86) a r c h e o 81


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

LE PRINCIPALI CULTURE DELL’AMERICA PRECOLOMBIANA

piramidi e palazzi disposti secondo un piano geometrico preordinato che portò alla nascita di una città molto grande capace di ospitare 150 000 abitanti. Teotihuacan si affermò su tutto l’Altopiano fin dall’inizio della nostra era. Nonostante il declino iniziato nel 550 d.C., la fama del sito rimase immensa e, anche molti secoli dopo la caduta in rovina dei suoi edifici, Montezuma, imperatore degli Aztechi, si recava ancora in questo luogo per compiere le sue cerimonie.

LA CULTURA ZAPOTECA Apogeo tra il 200 e il 700 d.C.

GLI OLMECHI

Preclassico medio (1200-400 a.C.) Tra il 1200 e il 400 a.C. gli Olmechi svilupparono la prima civiltà mesoamericana, la cui scomparsa coincide con gli iniziali balbettii della civiltà maya. Sulla costa del Golfo del Messico si trovano i centri cerimoniali olmechi piú importanti, accuratamente progettati, ma privi di uno stile architettonico vero e proprio: è molto presente, invece, la scultura monumentale in altorilievo. Contemporaneamente all’area del Golfo si sono sviluppate in modo spettacolare diverse regioni del Messico che hanno adottato la simbologia e lo stile definiti «olmechi». La loro caratteristica piú rilevante è il riferimento al giaguaro, immagine di forza e potere.

IL MESSICO OCCIDENTALE

Periodo delle culture dei villaggi (300 a.C.-250 d.C.) Il Messico Occidentale è una delle aree culturali piú singolari della Mesoamerica: rimasta lontana dall’influenza olmeca, questa tradizione millenaria segue un percorso originale e relativamente autonomo. Estese su oltre nove Stati della repubblica messicana, le culture regionali che compongono l’Occidente hanno origine nel Colima, Jalisco e Nayarit. Il Messico Occidentale si distingue per una vita religiosa incentrata sul culto degli antenati e per la creazione di strutture funerarie sotterranee a carattere familiare, le «tombe a pozzo». Tra le offerte in esse deposte, vi sono straordinarie sculture di terracotta, la cui ricchezza espressiva, stilistica e tematica rispecchia in modo commovente il genio della società del Messico Occidentale.

TEOTIHUACAN, CITTÀ DEGLI DÈI 100 a.C.-650 d.C.

Il periodo classico delle civiltà precolombiane ebbe inizio a Teotihuacan con grandi architetti, scultori e pittori che innalzarono templi immensi e armoniosi, 82 a r c h e o

Il centro principale di questa popolazione, caratterizzato da un’organizzazione sociale, politica e religiosa avanzata, è Monte Albán, straordinaria città edificata su terrazze artificiali sulla sommità di una montagna che domina la valle di Oaxaca. Uno dei tratti tipici di questa cultura fu la sua architettura funeraria: tombe realizzate in pietra tagliata, decorate con pitture, talvolta autentici palazzi in miniatura; qui i defunti erano inumati con un importante viatico funerario in ceramica. L’apice della cultura zapoteca è identificabile nella fase di Monte Albán definita IIIa-b (200-700 d.C.).

LA COSTA DEL GOLFO NEL CLASSICO 200-900 d.C.

La cultura classica della Costa del Golfo o «cultura classica di Veracruz» fiorí nel I millennio della nostra era sui bassopiani della Costa del Golfo del Messico, a nord del territorio occupato dagli Olmechi, nel periodo del Preclassico. Si trattava di una società stratificata con un’élite dirigente e attività specializzate. El Tajín è il piú importante centro cerimoniale della cultura classica della Costa del Golfo; giunto all’apice tra il 600 e il 900 d.C., è famoso per i suoi edifici a piramide caratterizzati da una decorazione varia e per i suoi numerosi terreni dedicati al gioco della palla. Il gioco della palla e i sacrifici umani a esso collegati sembrano aver avuto un ruolo molto importante in questa cultura.

I MAYA

Periodo classico (250-900 d.C.) La civiltà maya classica dei bassopiani si sviluppò tra il 250 e il 900 della nostra era su un territorio con differenti piani ecologici. Anche il paesaggio politico fu molto diviso e mutevole, in conseguenza di guerre e alleanze. Grazie al loro calendario e alla loro scrittura, i sovrani di regni molto numerosi e dalle dimensioni piú diverse affidarono la memoria della propria monarchia a monumenti di pietra, strutture che furono erette a ripetizione in differenti epoche.


MESOAMERICA Messico

Ixtlán del Rio

G o lfo del Messi co

Chupicuaro Occidente del Messico

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Teotihuacan Tlatico

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Rio Verde

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El Tajin Aparicio Veracruz Classico

Isola de Jaina

Bassopiani del Nord

Città del Me M ssi s co si c Remojadas Sulpetec Maya Olmechi Olmechi Las Bocas Las Venta El Mirador Rio Balsas Mezcala Tres Zapotes Tikal Palenque Xochipala San Lorenzo Bel e mopann Guerrero B ssopianii del Ba e Centro Monte Albán Yaxchilán Zapotechi

Guatemala

O ce a n o Pac i fi c o

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Capitali

G o lfo d i Te h u a n t e p e c

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Copán Città dell Gu G atemala Teg Te Teg eguc uci u c gal g pa El Salvad addor

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Tamohi Tamtok

Messico

Rio Verde

Toltechi

Taraschi Tzintzuntzán

Chichén Itzá

G o lfo del Messi co

Huaxtechi

Mayapán

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Tulum

Bassopiani del Nord

Ciit ittà del Messico Mexico-Tenochtitán Aztechi

Maya

Rio Balsas

Monte Albán

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Capitali Siti archeologici

B ssopiani del Ba e Centro

Bel e mopan n

Mixtechi

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Dal Preclassico al Classico Cartina della Mesoamerica nella quale sono indicate le culture attestate nell’area fra il periodo Preclassico (2500 a.C.200 d.C.) e il Classico (200-900 d.C.).

Oceano Pa c i fi c o

G o lfo d i Tehu an t e p e c

Guatemala Honduras ass A topiani Maya Al Città del ell Gu Guatemala a Teguci Teg uci uc c gal g pa Ell Salvad E vad ad dor

El Salvador El

Ma il loro potere cosí fermamente costituito fu un ostacolo all’unità politica. Le città rivaleggiavano l’una con l’altra nel campo dell’arte monumentale alla ricerca di prestigio e identità (si pensi a centri come Palenque, Tikal o Copán), ma queste spese sontuose furono una delle cause che portarono al declino della civiltà maya. In compenso, la circolazione di manufatti di piccole dimensioni (ceramiche, giade) fu un fattore di unità.

GLI AZTECHI 1325-1521 d.C.

Il declino dei grandi siti del Classico segna l’inizio di una serie di cambiamenti importanti. Alcune culture scompaiono, altre si trasformano, mentre nuove popolazioni giungono nella Mesoamerica e vi si integrano

Il Post classico Cartina della Mesoamerica nella quale sono indicate le culture attestate nell’area nel periodo Postclassico (900-1521).

a poco a poco. È l’ultimo periodo prima dell’arrivo degli Spagnoli, denominato «Postclassico». Se nel Postclassico antico (900-1200 d.C.) a predominare sono soprattutto i Toltechi (popolazione di lingua nahua, che si caratterizza per una società patriarcale e agricola, gerarchizzata e fortemente teocratica), nel Postclassico recente (1200-1521 d.C.) sono invece gli Aztechi. All’epoca della Conquista, essi controllavano la maggior parte del Messico centrale e la loro influenza si faceva sentire sulle culture limitrofe: sui Mixtechi, Huaxtechi, Taraschi e altre popolazioni. Pur possedendo proprie specificità, gli Aztechi furono comunque eredi delle precedenti culture mesoamericane: non è raro che una certa pratica o un certo tema iconografico risalga ai Toltechi, se non anche a Teotihuacan o addirittura alle culture preclassiche. a r c h e o 83


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

CENTRO E SUD AMERICA Quito

Nicaragu ua Valdivia

M a r e C a r a i bi c o

Guan nacast ste st te Niccoy N o oya Cost sa Central Co Region Ri R ca c

Ecuador

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Bogotá

Tolima

Kunturwasi Huaca Prieta Cuélaap Pa ajaté én (Abiseo) Trujillo Pacopampa Congón (V ( ilaaya) y Caballo o Mu uerrtto ue o La Galgadda C n Chán Cha Chavín Cotosh Sechín

Quimbaya

Oceano Pa cifico

La Tol To ita San Augustin Nariño Na iño ñ ño Jam Jam a a Nar Coa Co C o que Quito Man Man anteña Ba Bah Bahía Ba ahía Val alldiv d ia Machalilla Ch horrera

La aricoocha c Recuay (Huaylas))

Las Aldas

America centrale e meridionale Cartine nelle quali sono riportati i principali insediamenti e culture dell’America centrale, del Perú e dell’area andina.

Perù Chancay Cu urayacu r

Lima

Huari (Wari)

Chilca Pachacámac

Huáncayo

Tambo Colorado

Oceano Pac i fi c o

An

Garagay

Ayacucho

Paracas

de

Bolivia

Cusco Pucara

Nazca Puno

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Churajón

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S

Capitali

GRAN NICOYA (SUBREGIONE GUANACASTE) 300 a.C.- 500 d.C.

Dal punto di vista archeologico, il territorio della Costa Rica si divide in tre aree: il Guanacaste, la regione centrale e il Gran Chiriquí. Il Guanacaste, una subregione archeologica della Gran Nicoya, ha ricevuto influssi culturali provenienti dalla Mesoamerica, particolarmente evidenti nella sfera economica e in quella artistica. 84 a r c h e o

La Paz

Arequipa

E

Sillusta taa tan ani

Tiahuanaco

PANAMA, COCLÉ

Ceramica policroma (500-1200 d.C.) La tradizione artistica Coclé, propria dell’omonima regione del Panama centrale, che raggiunge il suo apice fra il 500 e il 1200 d.C., consiste in una produzione particolarmente rilevante di terrecotte policrome e di oggetti d’oreficeria. Tale produzione è propria di società a base agricola, dotate di un’organizzazione statuale e di un’ideologia religiosa perfettamente efficienti, in cui è il cacicco a detenere il potere supremo.


COLOMBIA, QUIMBAYA 300-1550 d.C.

Affacciato su due oceani, il difficile territorio della Colombia non ha mai ostacolato gli scambi economici, favorendo, al contrario, rapporti dialettici fra ecosistemi diversificati. L’architettura, la ceramica (Tumaco e Quimbaya) e la scultura di grandi dimensioni, come quella di San Agustín, sono le sue testimonianze piú alte.

ECUADOR Se la Colombia è la terra dell’oro, l’Ecuador, che pure utilizza l’oro e il platino già dalla cultura La Tolita, è la terra della ceramica cerimoniale: dalla cultura Valdivia (3000 a.C. circa, la prima ceramica del continente), il corpo umano assume via via le immagini dai tratti incisivi della cultura Chorrera (1200-300/200 a.C.), la singolare goffaggine delle figure Machalilla (1500-1200 a.C.) o l’inquietudine della produzione Bahía de Caraquez.

CHAVÍN

Dal 1200 a.C. al 200 a.C. Cultura fiorita sulle Ande centro-settentrionali nel dipartimento di Ancash, sulla costa pacifica, vive la massima espansione nel 600 a.C. e ha in Chavín de Huántar il centro cultuale piú importante.

piattaforme sovrapposte e ampie platee. La sua espressione piú alta è la ceramica che, negli esemplari a uso funerario, raggiunge un insuperabile realismo nei vasi-ritratto e una grande finezza nella pittura che ritrae scene di caccia e di guerra, rituali e sacrifici.

RECUAY

200 a.C-600 d.C. La cultura Recuay fiorisce nel Callejón de Huaylas, sierra settentrionale del Perú. La sua ceramica si distingue per la varietà delle forme, con predominanza della rappresentazione plastica di personaggi mitici.

TIAHUANACO 600-1000 d.C.

Suo luogo d’origine è la porzione meridionale della meseta nei pressi del lago Titicaca, oggi in territorio boliviano, a 3600 m d’altezza. Dall’800 d.C., si espande fino alle Ande di Ayacucho e si diffonde quindi in tutto il Callejón de Huaylas e su un’ampia fascia della costa pacifica, dando origine al cosiddetto «impero» TiwanakuWari, poi sottomesso dagli Inca.

LAMBAYEQUE E CHIMÚ 800-1000 d.C. / 1200-1450 d.C.

Vicús, nel dipartimento di Piura, è il sito eponimo della cultura Vicús, originaria della costa pacifica settentrionale. Un decennio di scavi del Centro Studi e Ricerche Ligabue sulla sierra di Piura ne ha svelato molti aspetti inediti.

Tra il 700 e l’800 d.C. dopo il declino dei Moche e prima dell’affermazione militare dei Chimú, sulla costa settentrionale fiorisce una cultura i cui antenati, secondo il mito, giunsero dal mare sotto la guida di Naymlap. Agli inizi del 1100, l’«impero» Tiwanaku-Wari entra in crisi ed emergono importanti señoríos: «regni» indipendenti come quello di Chimor, o Chimú, i cui domini si estendevano sulla costa pacifica settentrionale e la cui capitale era Chan Chan.

NAZCA

INCA

Formatasi nel corso del 500 a.C. sulla costa pacifica meridionale nelle località di Nazca, Ica, Pisco e Chincha, la cultura Nazca giunge a maturità nel 200 d.C. Celebri sono i geoglifi di Pampa del Ingenio: gigantesche figure realizzate asportando il terreno superficiale piú oscuro per via dell’ossidazione dei sali di ferro.

La dinastia degli Inca inizia verso il 1200, con l’antenato mitico Manqo Qhapaq. Il proto-inca, mediante il lancio d’una verga d’oro, scelse il luogo in cui sarebbe sorta la città sacra del Qozqo/Cuzco, ombelico del mondo e capitale di un «impero» che, ai tempi della sua massima espansione, dall’Ecuador si estendeva fino al Cile Settentrionale e alle Ande dell’Argentina comprendendo l’attuale Perú e Bolivia. Con gli Inca, la tessitura giunge alla sua perfezione tecnica. Espressione suprema del genio inca è anche l’architettura, specialmente quella che utilizzava la pietra tagliata e connessa senza leganti con una perizia tecnica insuperata, come nel tempio fortezza di Saqsayhuamán.

VICÚS

200 a.C.-600 d.C.

100 a.C.-650 d.C.

MOCHE

200 a.C.-600 d.C. Sviluppatasi sulla costa pacifica settentrionale, la cultura Moche (o Mochica) realizza colossali centri cerimoniali, caratterizzati da edifici cultuali a

1438-1532 d.C.

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SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

UN MONDO NUOVO, DEI POPOLI ANTICHI Anche se si parla di solito della scoperta dell’America nel 1492 e del suo scopritore, Cristoforo Colombo, ciò avviene perpetrando un vero abuso linguistico, attraverso una visione interamente coloniale e incentrata sul solo punto di vista europeo. I primi scopritori di questo grande continente furono infatti gli uomini e le donne paleolitici, venuti dal Nord-Est dell’Asia, che superarono lo stretto di Bering almeno 30 000 anni fa, come attestano le piú recenti scoperte di occupazioni preistoriche del Brasile. Popolando l’insieme delle terre dall’Alaska alla Patagonia, dalle coste del Pacifico a quelle dell’Atlantico, dalle Montagne Rocciose alla Cordigliera delle Ande, dai deserti ghiacciati del Grande Nord alla foresta amazzonica, questi primi Americani hanno sviluppato durante i millenni innumerevoli culture, senza alcun contatto né con l’Eurasia né con l’Africa. Alla fine del XVI secolo, con l’irruzione degli Europei nelle isole delle Antille e sulle coste orientali delle Americhe, ha luogo l’incontro di due metà dell’umanità che si ignoravano l’un l’altra dalla notte dei tempi.

UN TRAGICO EQUIVOCO Non abbiamo testimonianze dirette dei primi amerindi che videro sorgere dall’oceano queste navi sconosciute, con a bordo esseri strani barbuti e vestiti, che possedevano materiali inauditi (utensili in ferro, perle di vetro...), accompagnati da mostri terrificanti come i cavalli, che sapevano far parlare il fulmine con i loro cannoni e le armi da fuoco. Si tratta chiaramente di un incontro di extraterrestri. I cronisti della Conquista riferiscono che in parecchi luoghi gli autoctoni avrebbero scambiato gli Spagnoli per degli dèi. Ma occorre fare attenzione al problema cruciale della comprensione tra persone di culture diverse, che parlavano lingue completamente straniere. Malintesi, incomprensioni, errori manifesti negli scambi, dai due lati! Gli Spagnoli e gli altri Europei che danno resoconti dei dialoghi tra le due parti hanno molto spesso voluto capire ciò che faceva loro comodo, o quello a cui credevano. 86 a r c h e o


Quasi come in un serraglio Bottiglia in terracotta a forma di pesce, ottenuta da forno a cottura in atmosfera riducente, esecuzione a stampa, decorazione incisa. Cultura Chavín-Cupisnique, 400 a.C.-200 d.C. Nella ceramica cultuale Chavín sono plasmati esseri del mondo mitico: giaguari e puma, aquile giaguarizzate, ma anche frutti e piante sacre, come, per esempio il cactus allucinogeno achuma, usato, nelle sessioni oracolari. Il medesimo repertorio compare in monili aurei e utensili. Elementi iconografici, espressioni dell’originaria cosmovisione, che passarono a far parte del repertorio stilistico delle culture Paracas e Nazca.

Citiamo Colombo, che sentendo parlare i taïno di Cibao, una regione montagnosa dell’isola di Hispaniola, ha voluto comprendere Cipango, il Giappone dove credeva di essere arrivato. Tuttavia, si intrapresero sforzi per disporre di interpreti e poter dialogare con i nuovi venuti. Pietro Martire d’Anghiera riporta cosí che, al ritorno dal suo primo viaggio nel 1493, Colombo «conduceva con lui dieci uomini di laggiú, grazie ai quali fu stabilito che si poteva scrivere in lettere latine la lingua di tutte le isole nella sua totalità. Tra di essi cielo si dice infatti turei, casa boa o cauni, uomo con possedimenti, borghese, tayno». Da quest’ultima parola è derivato il termine taïno, con il quale ben piú tardi, al principio del XX secolo, si è presa l’abitudine di designare gli abitanti delle Grandi Antille dei quali, alla fine, sappiamo davvero poco.

CRONACHE DI SECONDA MANO Pochissimo in effetti è stato raccolto sui loro usi e costumi, sul modo di vita, l’organizzazione sociale, le credenze. Solamente fra’ Ramón Pané, monaco gerolamino che accompagnava la flotta del secondo viaggio di Colombo, passò un po’ di tempo tra i taïno, apprese la loro lingua e redasse verso il 1498 la Relación acerca de las antigüedades de los indios, primo testo etnografico che tratta degli abitanti dell’America. L’originale spagnolo di questo raro e prezioso documento raccolto presso gli autoctoni è scomparso e se ne conosce solo la versione italiana, pubblicata nel 1571 a Venezia. Ramón Pané ci informa in particolare sulla religione e la mitologia degli autoctoni dell’isola di Ayti: «Riporto ciò che ho potuto apprendere della credenza e dell’idolatria degli Indiani, e della loro maniera di vedere i loro dèi». Altri scritti ci informano sui taïno, ma sono spesso di seconda mano, redatti tardivamente, come quelli di Bartolomé de Las Casas. Per loro grande sfortuna, questi primi amerindi che incontrarono gli Europei furono anche il primo popolo a essere annichilito dalla Conquista, con le armi cosí come con la schiavitú e ancor piú a causa delle malattie importate dall’Antico Mondo, contro le quali non erano immunizzati. Si ritiene che verso il 1530 non esistesse piú un solo taïno vivente! Comparate con le fonti storiche, le ricerche archeologiche permettono di far rivivere la storia di queste comunità antillane, di vederne la complessità, la ricchezza della cultura, la a r c h e o 87


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

bellezza dell’arte. Originari delle basse terre tropicali del Venezuela e abitanti da molti millenni dell’arcipelago caraibico, i taïno, i caribe e i loro antenati erano popoli di grandi marinai, abili pescatori e giardinieri notevoli. Coltivavano, con i loro vicini della terraferma, innumerevoli piante (mais, manioca, patata dolce, ecc.) oggi consumate nel mondo intero. Le loro società strutturate e sviluppate erano integrate in una larga rete di alleanze che si stendeva dal continente alle Bahamas.

TUTT’ALTRO CHE SELVAGGI All’arrivo degli Spagnoli, le società taïno formavano un grande insieme culturale piú o meno omogeneo, che inglobava le isole di Porto Rico, Hispaniola, l’est di Cuba, la Giamaica, le Isole Vergini e il nord delle Piccole Antille. Possedevano un’organizzazione sociopolitica e religiosa elaborata, dove un numero limitato di distretti territoriali, i caciccati, controllavano vaste regioni. I popoli incontrati lungo le coste del Venezuela, della Guyana, del Brasile o ancora della Colombia e dell’America centrale presentavano elementi di organizzazione simili. Siamo ben lungi dall’immagine caricaturale del selvaggio nudo, pauroso e pusillanime, che viveva senza re, senza autorità, senza religione o come un inumano mostro cannibale. Torniamo alla fine del Medioevo, quando gli Spagnoli sbucarono in questo universo abitato da migliaia di anni da comunità amerindie ancestrali. Dal punto di vista europeo, la scoperta dell’America ha posto presto agli eruditi domande sulla natura e l’origine dei suoi abitanti. Se ne doveva per forza fare menzione da qualche parte nella Bibbia, o almeno nella storia conosciuta. Il campo delle speculazioni fu immenso: le tribú perdute di Israele, Fenici o Arabi, o 88 a r c h e o

addirittura Vichinghi norvegesi sono stati convocati nel tribunale dei popoli migratori che popolano l’America. Ancora in epoca tarda, nella sua Historia de las Indias de Nueva España e islas de la tierra firme scritta tra il 1576 e il 1581, il frate Diego Durán si impegna a dimostrare che gli Indiani d’America erano i sopravvissuti delle dieci tribú scomparse di Israele. E il domenicano Gregorio García, in un libro consacrato all’Origen de los indios del nuevo mundo e indias occidentales pubblicato nel 1607, sosteneva la stessa teoria tracciando il loro possibile cammino: provenendo dalla Mongolia e dalla Cina, i superstiti delle tribú sarebbero passati nel Nuovo Mondo dal Nord-Est della Siberia. Alla fin fine una buona intuizione, poiché è il cammino seguito dagli scopritori dell’America, ma qualche decina di migliaia di anni prima. Parallelamente si poneva la questione sulla natura stessa di questi popoli: erano davvero umani? Avevano solo un’anima? Potevano essere incamminati sulla strada della vera fede e convertiti al cristianesimo? La diversità delle culture indiane alimentava la confusione. Come raccapezzarsi con popolazioni formate tanto dagli uomini nudi delle coste caraibiche e brasiliane, senza fede, né legge, né re, che vivevano pr imitivamente, quanto dalle brillanti civiltà urbane azteche e inca, che avevano stupito poco a poco gli Spagnoli; o ancora dagli abitanti miti e pacifici delle Grandi Antille, creature innocenti Un’immagine universale Venere in ceramica cava policroma a ingobbio beige chiaro e rosso mattone, con pitture ornamentali nere e superficie verniciata. Cultura Chupícuaro, Stato di Guanajuato, Messico occidentale. Preclassico recente, 400-100 a.C.


uscite dall’Eden, e dai guerrieri cannibali delle Piccole Antille e delle coste brasiliane, antropofagi diabolici (dicotomia che godrà di una lunga posterità). Sorsero numerose polemiche delle quali la piú famosa è quella di Valladolid, del 1550-1551, che oppose Ginès de Sepúlveda e Bartolomé de Las Casas. Il primo conclamava senza esitare l’inferiorità degli «Indiani»: esseri primitivi, dai costumi depravati, che si davano alla sodomia, che praticavano i sacrifici umani e il cannibalismo; «cosí diversi dai Cristiani, come le scimmie sono diverse dall’uomo». Giustificava la loro messa in schiavitú e la nozione di «guerra giusta» contro di loro: «Quelli sono per natura degli schiavi».

IL DIFENSORE DEGLI INDIANI Da parte sua, Bartolomé de Las Casas, il grande difensore degli indiani, riteneva che la Conquista e le sue guerre erano del tutto «ingiuste». Questi popoli vivevano da sempre nelle loro terre, non avevano aggredito gli Spagnoli e questi ultimi erano venuti a spogliarli dei loro beni, a costringerli al lavoro, ad annichilirli con le armi e le malattie. Per Las Casas gli Amerindi godevano di una piena umanità. Eppure, a partire dalla bolla Sublimis Deus di papa Paolo III, del 2 giugno 1537, gli Indiani erano dichiarati «veri uomini, non solo capaci di abbracciare la fede di Cristo ma (...) molto inclini a questa fede», e che questi Indiani «non siano privati della libertà e del possesso dei loro beni, al contrario, che possano liberamente e lecitamente usare e godere di questa libertà e di questo possesso e che non si possa ridurli in schiavitú». È necessario constatare che il seguito della conquista delle Americhe fece poco caso alle parole del papa e che la colonizzazione non fu altro che una sequela di espulsioni dai territori, di deportazioni, di distruzioni delle culture amerindie. Quanto agli schiavi africani importati fin dall’inizio del XVI secolo nelle Americhe per rimediare all’annientamento delle popolazioni autoctone, non venivano presi in considerazione dalla bolla pontificia!

Lanci piú lunghi Propulsore atlatl in legno e oro. Cultura azteca, Valle del Messico Messico. 1450-1521 d.C., , Firenze, Museo Nazionale di Antropologia ed Estnologia. Grazie all’atlatl, era possibile proiettare i dardi con gittate piú lunghe di quelle di un lancio diretto.

DALL’AMERICA ALL’EUROPA Fin dal primo rientro, nel marzo 1493, Cristoforo Colombo lo scrive: «Porto con me uomini di quest’isola e di altre isole per testimoniare della mia parola». Allo stesso modo, numerosi altri Amerindi fecero il viaggio verso l’Europa, una scoperta nell’altro senso. La grande maggioranza non fece piú ritorno: la durezza della traversata, i cambiamenti di clima e di cibo e ancor piú le malattie li decimarono rapidamente. Cos’hanno potuto pensare scoprendo le città della Castiglia o del Portogallo, osservando il fasto delle corti dei sovrani davanti ai quali venivano spesso presentati come curiosi animali? Se alcuni furono trattati bene, altri furono deportati come schiavi, con il pretesto fallace che erano stati catturati nel corso di «guerre giuste». Cristoforo Colombo fu il primo a riportare varie decine di Amerindi per venderli e far fruttare cosí i suoi viaggi, dove l’oro mancava o in ogni caso non era all’altezza dei suoi sogni sulle città d’oro dell’Asia. Non esistono testimonianze di questi primi Americani che calpestarono il suolo della vecchia Europa. Tuttavia, al tempo stesso, altre curiosità varcavano l’oceano.

PIANTE E ANIMALI ESOTICI Gli exotica, come li si chiamava, erano anche piante, animali, «oggetti dei selvaggi» portati dalle contrade lontane che si stavano scoprendo, dall’Africa, dall’Asia e particolarmente da questo Mundus Novus cosí strano sorto dal nulla. Le piante sconosciute, cosí come gli animali americani, arrivavano a bizzeffe nei porti delle coste atlantiche d’Europa. Pappagalli multicolori, armadilli, tucani dal grande becco o ancora iguane. La loro presenza testimoniava la veridicità dei racconti degli esploratori. I naturalia si mescolavano con gli artificilia, oggetti fabbricati dalla mano dell’uomo che erano anche «le prove dei lontani», del mondo altro incontrato al di là dell’oceano. I pezzi in oro sono i primi raccolti sulle coste delle «Indie»: parure a r c h e o 89


SPECIALE • COLLEZIONE LIGABUE

DA VENEZIA A SIPÁN

GIANCARLO LIGABUE: 130 SPEDIZIONI

Oltre quarant’anni di attività con importanti scienziati e università tra le piú prestigiose al mondo. Piú di 130 spedizioni in tutti i continenti, numerose scoperte paleontologiche e archeologiche, decine di relazioni scientifiche, partecipazioni a convegni, mostre, esposizioni. Il Centro Studi e Ricerche Ligabue, fondato da Giancarlo Ligabue e ora presieduto dal figlio, Inti, annovera tra i suoi membri piú prestigiosi scienziati come Donald Johanson, Philippe Taquet e Federico Kauffmann Doig. Tra i riconoscimenti piú importanti quello ottenuto nel 2000, a Parigi, quando al CSRL venne conferito il premio UNESCO per la divulgazione scientifica e l’impegno nelle attività museali. Fra gli innumerevoli successi, possiamo ricordare le ricerche condotte alla fine degli anni Novanta nel Nord del Perú. Nel 1987, nella valle di Lambayeque, a Sipán, una spedizione finanziata dal National Geographic aveva rinvenuto la tomba di uno dei sovrani locali (300 d.C. circa), il cui regale corredo permise di comprendere meglio religione e struttura sociale dei Moche. Il Centro Studi subentrò al National (che aveva rinunciato all’attività in loco), ritrovando, sorprendentemente – grazie agli archeologi Walter Alva e Mario Polia – altre spettacolari sepolture di un «signore», inumato con otto suoi accompagnatori. (red.)

Ci sono due episodi, tra i tanti, che permettono di ricordare l’attività di Giancarlo Ligabue (Venezia, 1931-2015). Il primo, della seconda metà degli anni Ottanta, è la testimonianza dell’archeologo Sabatino Moscati: «Dopo i lavori di Giancarlo Ligabue occorre riscrivere una parte dei libri di storia dell’archeologia, soprattutto per quanto riguarda la Battriana». La Battriana è un’antica civiltà del Turkestan afghano che già nel III millennio a.C. aveva dato prove di capacità tecnologiche e culturali. L’altro episodio è legato ad una lettera datata 1990: Wilbur E. Garrett, direttore del National Geographic, si complimentava con lui e con il Centro Studi e Ricerche che ne porta il nome e che da poco ha compiuto 40 anni di attività. Garrett esprimeva particolari riconoscimenti anche per la rivista che Ligabue editava, il Magazine, semestrale bilingue capace di raccontare scoperte e avventure, storie e ritrovamenti, come pochi. Il conto dei riconoscimenti è diventato un obbligo dopo la morte di Giancarlo, avvenuta nel gennaio scorso: dalle cinque lauree honoris causa (Venezia Bologna, Modena, Askabat – Turkmenistan –, Lima) al premio UNESCO nel 2000 per la divulgazione scientifica con riviste, film e libri, per le ricerche e l’organizzazione museale. Da imprenditore e paleontologo, dedicò gran parte dei suoi sforzi al

Il gioco della palla Vaso cilindrico policromo sul quale sono raffigurati personaggi impegnati nel gioco della palla. Cultura maya, Guatemala. Classico recente, 600-800 d.C.

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portate dai taïno e dai loro vicini, maschere, statuette... Non resta piú nulla di quei primi tempi della Conquista: l’attrazione e il valore del metallo prezioso ha fatto sí che tutti questi tesori siano stati fusi.

UN PATRIMONIO SCOMPARSO Altri oggetti amerindi sono stati raccolti nei gabinetti delle curiosità dei sovrani, dei principi e degli eruditi: copricapo e mantelli di piume multicolori, collane di denti o di conchiglie, bambole di cotone, statue in legno, utensili e sculture di pietra, armi come quegli spacca-testa o archi che gli indigeni scambiavano volentieri con perle di vetro, asce o coltelli in ferro, metallo sconosciuto per loro... Purtroppo, alla vista degli Spagnoli, questi preziosi oggetti etnografici non erano che curiosità esotiche o possedevano solamente il valore dell’oro che contenevano. La maggior parte fu trascurata, gettata o distrutta a causa dell’usura e delle vicissitudini del tempo e fu


E UN’EREDITÀ CULTURALE DA CONDIVIDERE trascorrere, ogni anno, settimane in Museo di Storia Naturale di Venezia posti estremi: Ande peruviane, isola (sono in tanti ora che chiedono che di Pasqua, deserto del Kalahari, a lui venga dedicato), che altipiani boliviani, Sudan, Brasile, presiedette per decenni e al quale Tanzania, Sud Africa, Patagonia, regalò uno dei ritrovamenti piú belli Indonesia. Belize. della sua avventura di ricercatore: Amava cercare nei bordi delle quell’Ouranosaurus nigeriensis civiltà: come quando una sua scavato con il professor Philippe spedizione nel Nord delle Ande Taquet in Niger. fece scoprire al Perú stesso i «Una spedizione tra mille difficoltà Chachapoya, una popolazione di – raccontava Ligabue –. Ma il fieri oppositori della conquista problema piú grosso fu incaica. Coltivava con sapienza all’aeroporto di Venezia. In dogana l’arte del convivere: in casa del nessuno sapeva come fare per proprietario di una delle piú grandi l’importazione di un dinosauro, non aziende di catering del mondo si era previsto niente del genere». potevano incontrare l’archeologo Dal Niger alle steppe asiatiche il Chachapoya, Perú. Giancarlo Ligabue russo Victor Sarianidi o Woody percorso di ricerca di Giancarlo con la testa fittile di un sarcofago. Allen, Luca Cavalli Sforza o Irenäus Ligabue è durato oltre 40 anni: 130 Eibl-Eibesfeldt, o Donald Johanson spedizioni da lui organizzate (molte lo scopritore della celebre «Lucy». con la sua presenza), una quarantina di libri e Ligabue – che collaborava con i piú grandi centri di un’ottantina di filmati, tanti trasmessi dalla RAI nei ricerca e università del mondo – ha lasciato un’eredità programmi di Piero Angela. culturale enorme. Che il figlio Inti ha raccolto e che Da giurato del «Rolex Award», Ligabue spiegava: «Non intende, sulle orme del padre, continuare a condividere. si può essere buon imprenditore se non si conoscono i Adriano Favaro problemi del mondo». Questo per lui significava

persa per la storia. Oggi nessuno degli oggetti riportati da Colombo è rimasto in Europa. I sovrani spagnoli, tuttavia, ne hanno spedito qualcuno, come testimonianza dei popoli incontrati, in Italia, al papa e ai cardinali amici; qualcuno è stato miracolosamente preservato, come i due oggetti taïno (una coppa e una collana) e i due propulsori aztechi conservati nello studiolo dei Medici a Firenze. Tramite un itinerario complesso in seno alle istituzioni museali della città, questi pezzi eccezionali sono oggi preziosamente conservati nel Museo di Antropologia e Etnologia. Gli umanisti italiani che la regina Isabella aveva alla sua corte utilizzarono anche oggetti amerindi come regali esotici che inviarono ai loro amici in Italia. Alcuni, molto rari, si trovano a Roma, nei Musei Vaticani e al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, e senza dubbio in altri luoghi. Altre curiosità hanno preso la strada della Germania e dell’Austria. Anche l’imperatore Massimiliano, padre del

Per bere la cioccolata Vaso cilindrico di stile codex, divinità dell’inframondo. Cultura maya. Classico recente, 600-800 d.C. Questo bicchiere è tipico di una forma dello stile codex che si utilizzava per bere la cioccolata durante le feste date dai membri dell’élite dirigente.

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Come una calcolatrice... Un quipu, un assieme di cordicelle in fibra vegetale di differenti colori, annodate per calcoli, numerazioni o comunicazioni. Cultura Inca. Periodo Tardo, 1400-1500 d.C.

principe Filippo, marito di Giovanna, la figlia dei Re Cattolici, possedeva un gabinetto delle curiosità e ricevette qualche oggetto etnografico riportato dai

Una corona di mille colori Tessuto e copricapo fabbricati con piume di uccelli amazzonici e corda. Cultura Nazca. 200. a.C.

primi conquistatori: alcuni sono oggi conservati allo Staatliches Museum für Völkerkunde di Vienna. Sono le ultime testimonianze di queste prime società amerindie che, in un giorno del settembre 1492, hanno visto arrivare all’orizzonte, dal lato del sole che sorge, strane imbarcazioni con grandi vele bianche scintillanti sul mare. Il testo qui pubblicato, per gentile concessione di 5 Continents Editions, è tratto dal catalogo della mostra, curato da Adriano Favaro. DOVE E QUANDO «Il mondo che non c’era. L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue» Firenze, Museo Archeologico Nazionale fino al 6 marzo 2016 Orario lunedí, 8,30-14,00; martedí-venerdí, 8,30-19,00; sabato e domenica, 8,30-14,00: chiuso: 25 dicembre e 1° gennaio Info tel. 055 294883; www.ilmondochenoncera.it

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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

ARCHITETTI CORAGGIOSI I MOSAICI TARDO-ANTICHI DELLA SÜDHALLE DI AQUILEIA HANNO UNA CASA NUOVA DI ZECCA. ESITO DI UN PROGETTO CHE CONIUGA IN MANIERA ESEMPLARE LE ESIGENZE DEL RESTAURO E DELLA CONSERVAZIONE CON LA VOLONTÀ DI VALORIZZARE AL MEGLIO IL MONUMENTO

I

l restauro architettonico dei ruderi archeologici e gli interventi di valorizzazione dei siti sono da tempo terreno di dibattito e sperimentazione. Personalmente, me ne sono interessato come archeologo, quindi non da potenziale regista (compito che spetta all’architetto), ma come potenziale sceneggiatore. E in questa disciplina affascinante e complessa ho sempre sentito il bisogno di veder rompere alcuni schemi, di smetterla di sentirsi rassicurati dalla certezza delle procedure «corrette», di aprirsi alle diverse soluzioni possibili che solo un’analisi contestuale può indicare di volta in volta non come «giuste»,

ma come «preferibili». Sento insomma la necessità di un approccio libero e laico al restauro dei monumenti e dei complessi archeologici (non solo antichi), ma che non per questo rinunci allo specialismo (ma curioso), alla professionalità (ma contaminata), all’utilità di una manualistica (non solo tecnica ma intrisa di cultura materiale) che accompagni una creatività sobria e colta. Aquileia. L’allestimento interno (a destra) e una veduta dall’esterno della struttura realizzata per la musealizzazione della Südhalle, la grande aula che fiancheggiava il battistero sul lato meridionale. Queste e altre considerazioni mi sono tornate alla mente visitando la basilica di Aquileia dopo i restauri seguiti ai recenti scavi effettuati nella Südhalle, la grande aula che fiancheggiava il celebre battistero sul suo lato meridionale. Messa in luce già agli inizi del Novecento da archeologi austriaci, l’aula era stata poi ricoperta: i vasti lacerti di mosaico che la pavimentavano necessitavano, infatti, di un intervento conservativo duraturo, che al tempo non poteva essere garantito. Da quelle scoperte è nato

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il progetto avviato in occasione del Giubileo del 2000, che ha comportato la ripresa degli scavi in vista di una valorizzazione, che è stata al centro di un concorso di idee, vinto dagli architetti Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni. Conclusi gli scavi, il progetto è stato ultimato (grazie all’impegno della Fondazione Aquileia), con un risultato che ai miei occhi costituisce un esempio mirabile di intervento, a cui fare riferimento per altre analoghe occasioni. Dove le vedute ottocentesche

ritraevano un lungo muro di recinzione a fianco della basilica e dove un secolo dopo si stendeva un’area aperta, sorge ora un corpo edilizio a forma di basso parallelepipedo, che si addossa al complesso del battistero, interrompendosi all’altezza del portico d’accesso della basilica.

UN EDIFICIO NUOVO Quel volume non esisteva ed è appunto il prodotto del progetto che ha deciso di costruire un manufatto nuovo su di un’area un

tempo edificata, le cui strutture in elevato erano state spazzate via dal tempo, mentre i mosaici pavimentali tornavano alla luce danneggiati dal fuoco, da vistosi avvallamenti del suolo e dallo scavo di tombe posteriori. Del muro meridionale dell’edificio perduto restavano tuttavia le fondazioni, molto solide, e su queste gli architetti hanno impostato quelle del nuovo edificio: un volume discreto ed essenziale, compatto e privo di aperture, realizzato «su misura» e in corposa

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muratura di mattoni e pietra aurisina a spacco, umili materiali provenienti in gran parte dal livellamento del suolo circostante. In poche parole, è un muro rifatto con le sue stesse macerie. L’impatto estetico del nuovo manufatto è perfetto. La sua copertura piana non interferisce con le linee architettoniche del battistero e la tessitura del paramento per dimensione e natura dei materiali impiegati (anzi, reimpiegati) si fonde armonicamente con l’impatto visivo dell’intero complesso retrostante. Piú che un manufatto interamente nuovo, sembra di osservare un rudere antico consolidato e recuperato fino a una quota compatibile con l’uso dello spazio interno. Direi quasi che si ha la piacevole impressione di trovarsi davanti a un gradevole falso. Naturalmente i progettisti non hanno potuto spingersi fino a questo limite di provocazione estetica e intellettuale e hanno reso

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riconoscibili «a vista» le parti ricostruite sopra i muri antichi e quelle interamente nuove.

«COMPITI» E «REGOLE» Esulando dal caso in esame, si tratta di accorgimenti ormai largamente acquisiti, sui quali si potrebbe ragionare ulteriormente, domandandosi se la confessione delle parti di restauro – non sobria, ma vistosa – non riveli, a volte, l’atteggiamento di chi voglia dimostrare di aver ben fatto il proprio «compito» e applicato le «regole» e non nasca, invece, dalla volontà di proporre ai fruitori dei luoghi un’immagine compiuta, pacata e umana dei resti edilizi recuperati, dove le «buone pratiche» specialistiche potrebbero tranquillamente fare un passo indietro. Ciò detto, il nuovo complesso edilizio sorto sull’antico, o, meglio, «dall’antico», si impone per la gradevolezza dell’impatto visivo e la sobrietà del segno architettonico

nel suo contesto paesistico. Voglio però sottolineare la scelta, niente affatto scontata, di caricare le fondazioni antiche del peso delle murature moderne, fisicamente ricollocate sui resti perduti e reinventate cosí come avrebbero potuto essere. Ne traiamo la convinzione che il rifiuto di certe pratiche feticistiche, che impongono su tanti siti archeologici la duplicazione degli elementi strutturali portanti delle nuove coperture, in omaggio a un presunto rispetto verso i muri antichi, può essere tranquillamente adottato. Questo atteggiamento quasi di sacralizzazione del prodotto dello scavo archeologico (cioè, nella maggiore parte dei casi, di muri rasati al suolo quando non al livello delle fondazioni) fa sí che nei progetti di restauro dei ruderi archeologici i muri antichi, quando pur strutturalmente ancora in grado di farlo, vengano esclusi dal recupero della propria funzione naturale, quasi ne venissero offesi.


sottolivello, e chiudendo con malta neutra le lacune piú ampie, riprendendone tuttavia la trama geometrica di fondo. La valorizzazione in situ dei mosaici si inserisce nella tradizione ormai acquisita che rigetta la pratica dello strappo, cioè della decontestualizzazione dell’arredo, che un tempo si accompagnava spesso a pratiche espositive «a parete», che trasformavano in arazzi, o meglio (o peggio) in quadri, i pavimenti musivi. Questa scelta è stata tuttavia adottata per il mosaico del Pavone, un lacerto rinvenuto al tempo degli scavi austriaci nel nartece della basilica (quindi nelle vicinanze, ma al di fuori della Südhalle), poi reinterrato

Quando visitiamo quei luoghi, troviamo le tracce delle antiche murature condannate a mostrare di sé la bidimensionalità della pianta del loro corpo sezionato (mai pensato e prodotto per essere esposto) e non la tridimensionalità della struttura.

INTERVENTI DIVERSIFICATI Il nuovo falso muro eretto su fondazioni vere costituisce oggi parte dell’involucro che accoglie la rinata Südhalle di Aquileia con i suoi mosaici tardo-antichi. Per il loro restauro sono state intelligentemente adottate diverse tipologie di intervento, reintegrando, ove possibile, le lacune di ampiezza limitata che si prestavano a ricostruzioni certe, risarcite con tessere in sottotono e

Qui sopra: un frammento del mosaico del Pavone. In alto, sulle due pagine: un’altra immagine del nuovo allestimento della Südhalle. e in seguito distrutto da lavori di canalizzazione delle acque che ne causarono la perdita di un’ampia porzione e il distacco di un frammento, solo in parte recuperato in anni piú recenti. La parte del mosaico rimasta in situ è stata quindi rimessa in luce, distaccata e ricomposta con la porzione superstite prelevata agli inizi del Novecento. I resti originali sono stati poi opportunamente

risarciti del settore perduto sulla base della ottima documentazione grafica che ne dette il primo scopritore, il conte Lanckoronski. In questo caso quindi non si è praticato il consolidamento in situ del brano musivo (che sarebbe rimasto nuovamente sepolto), ma si è seguita la strada della reintegrazione della parte perduta, «musealizzando» il lacerto nel volume di nuova costruzione, giustificandone in tal senso l’esposizione «a parete», che ne valorizza l’impatto estetico piuttosto che quello funzionale.

BEN VENGA IL CONFRONTO Pur nella loro diversità concettuale, le soluzioni adottate dimostrano dunque l’elasticità mentale dei progettisti. Se l’intervento di ricostruzione dell’aula meridionale del battistero di Aquileia – al quale è stato peraltro assegnato uno dei Premi per il Patrimonio Culturale dell’Unione Europea/Europa Nostra Awards 2015 – si può presentare oggi come un caso positivo di architettura che nasce direttamente in funzione del contesto che la giustifica e da cui trae le indicazioni fondamentali, ciò è dovuto anche al fatto che i progettisti hanno accettato – come confessa lo stesso Tortelli – di «diventare un po’ archeologi». E questa attitudine al confronto li ha convinti che un rapporto tra archeologia e architettura «è possibile e stimolante». Questa può sembrare una frase di circostanza, ma non lo è il suo corollario: «Nel nostro Paese, dove le testimonianze archeologiche sono moltissime e di straordinaria importanza – conclude infatti Tortelli – c’è bisogno di molta attenzione, ma forse anche di un po’ piú di coraggio». Archeologi e architetti – se non preferiscono la scelta di don Abbondio – questo coraggio, insomma, se l’hanno da dare.

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QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…ARBITRAVA LE «QUESTIONI» DEL MEDIO ORIENTE DOPO ESSERSI A LUNGO TENUTA LONTANA DAI FOCOLAI DI TENSIONE CHE SPESSO SI ACCENDEVANO FRA L’EGITTO E L’ASIA MINORE, ROMA, IN PIÚ D’UN CASO OBTORTO COLLO, DOVETTE RISOLVERSI A INTERVENIRE. RIBADENDO IL SUO RUOLO DI «TUTORE» DELL’ORDINE MONDIALE

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uasi ventidue secoli fa, toccò a Roma intervenire (e non per la prima volta) in Siria o, meglio, contro la Siria. Al tempo in cui essa esercitava una vera e propria funzione di mediatrice e di arbitra tra i Paesi di quello che oggi chiamiamo – erroneamente (e ridicolmente) – Medio Oriente e, invece, è Vicino Oriente. Protagonisti delle «inquietudini» e delle contese (che, peraltro, interessavano tutto il Levante) erano gli Stati ellenistici nati dalla frantumazione dell’effimero impero di Alessandro Magno: i regni di Siria e d’Egitto, in primo luogo, quello di Macedonia (con la Grecia a ridosso), il regno di Pergamo, la repubblica marinara di Rodi e tutti gli Stati minori della penisola anatolica, dalla Bitinia alla

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Suddivisione 133 Conquiste e annessioni dal 120 al 58 a.C. Zona d’influenza di Cesare Lo Stato romano nel 201 a.C. dello Stato (56 a.C.) di Giulio Conquiste eConquiste annessioni dal 201Cesare al 121 a.C.

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Conquiste e annessioni dal 120 al 58 a.C.

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Conquiste di Giulio Cesare alla Cappadocia, dalla Paflagonia Galazia, al Ponto. Su questo mondo «antico», vasto e instabile – ma anche progredito, ricco ed evoluto –, aveva già prodotto grande impressione la vittoria riportata dai Romani a Benevento, nel 275 a.C., contro Pirro, il re dell’Epiro che di quel mondo faceva parte, sia pure marginale. Dopo quel successo, la stessa Roma che, in varia misura, s’era assicurata l’egemonia su tutte le città greche della penisola italiana, venne automaticamente a trovarsi implicata nelle vicende della grecità ellenistica dalla quale fu vista come erede del suo tradizionale antagonismo con Cartagine.

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Nel 273 a.C., l’Egitto deldire Tolomeo Zona d’influenza Crasso Filadelfo (che, pure, di Pirro era stato inutile alleato) s’affrettò a inviare ambasciatori carichi di doni all’ormai non piú «lontana» ed estranea città dei sette colli.

RICHIESTA D’AIUTO Una trentina d’anni piú tardi, Roma, attestatasi saldamente all’imboccatura dell’Adriatico con la fondazione della colonia di Brindisi, fu per la prima volta indotta a interessarsi dei Balcani per la richiesta d’aiuto rivoltale dai coloni siracusani dell’isola di Lissa, attaccata dai pirati illirici della regina Teuta: una minaccia che incombeva anche sulla costa

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Mar Rosso

Province romane e data di conquista

66 Battaglie e date Province romane Alleati di Roma e data di conquista

Battaglie eConfini date del regno di Pergamo nel 133 a.C. Alleati di Roma Confini del regno

Nella pagina busto di Pirro, di Pergamo nel accanto: 133 a.C. re dell’Epiro, con elmo ornato da una corona di quercia, dalla Villa dei Papiri di Ercolano. Copia romana del I sec. d.C. di un originale greco dei primi decenni del III sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. orientale dell’Italia. L’intervento vittorioso di Roma non fu «gradito» dalla Macedonia che coltivava mire d’egemonia sulla regione e ne nacque un contrasto che si tradusse in conflitto aperto quando il re Filippo V pensò bene di allearsi, in funzione chiaramente antiromana, con Annibale, il quale, nel 218 a.C., aveva invaso l’Italia. Proprio dopo aver vinto Annibale

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ed essersi sbarazzata di Cartagine Roma, assurta al rango di Stato egemone dell’Occidente mediterraneo, dovette impegnarsi nello scacchiere del Mediterraneo orientale. Tanto piú che il suo intervento venne spesso addirittura richiesto dall’uno o dall’altro degli «schieramenti» che in quello scacchiere erano rivali e nemici.

essi (o anche piú d’uno) divenisse troppo potente, a spese degli altri. Ne sarebbe andata di mezzo anche la libertà di navigazione e di commercio nel Mediterraneo orientale. L’occhio vigile di Roma sullo scacchiere dette luogo per qualche decennio a un autentico «viavai» di ambascerie, di visite, di missioni, di

UN MONDO TURBOLENTO Si susseguirono allora numerose operazioni, volta a volta (o anche al tempo stesso), politiche, diplomatiche e militari. Prima di tutto, nei confronti del turbolento mondo della Grecia propria, incapace di vivere in pace, con città e leghe in perenne lotta tra loro e sempre in gara nel sollecitare l’appoggio romano, per potersi sopraffare a vicenda. Poi, nel ben piú grave conflitto scoppiato tra la Siria in vena d’espansione, da una parte, e Pergamo e Rodi, dall’altra. Il re Antioco III di Siria (che aveva al suo fianco, come consigliere, l’esule Annibale) fu affrontato e sconfitto dai Romani prima in Grecia e poi, nel 190 a.C., nella battaglia campale di Magnesia al Sipilo, nella quale i legionari, comandati da Lucio Cornelio Scipione (che aveva come legato l’Africano, suo fratello), si trovarono per la prima volta a combattere in Asia. Dopo la vittoria e la pace, Roma si limitò a ridisegnare la carta geopolitica dell’Asia Minore, rinunciando a qualsiasi occupazione territoriale, giudicata inopportuna e perfino contraria agli interessi della repubblica i cui impegni piú urgenti erano ancora in Occidente e, segnatamente, nella penisola iberica. In Oriente, almeno per il momento, ciò che importava era mantenere un certo equilibrio tra i diversi Stati e impedire che uno di

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legazioni, di sopralluoghi tra la stessa Roma e le varie capitali ellenistiche. Tutto ciò, in un continuo alternarsi di grandi disegni strategici e di piccoli giochi di potere, di politiche intelligenti e realistiche e di furberie «levantine», di lunghe intese e di repentini voltafaccia. Provocando un tale «ingorgo» verso le sponde del Tevere da obbligare il Senato a vietare l’accesso in Italia a qualsiasi re o ambasciatore straniero. Particolarmente diuturni (e pacifici) furono i rapporti con l’Egitto, travagliato dalle endemiche lotte intestine per la successione nelle quali piú volte Roma dovette intromettersi come arbitra.

GUERRA SUL NILO

Didramma in argento di Tolomeo VI Filometore (186 circa-145 a.C.). Re dell’Egitto, succedette nel 181 al padre Tolomeo V; in seguito alle incursioni di Antioco IV, associò poi al trono i fratelli Tolomeo VII e Cleopatra II.

Ma l’intervento piú importante a favore dell’Egitto essa lo compí quando la Siria tentò di rifarsi delle perdite territoriali in Asia Minore invadendo quella regione intermedia che, a ridosso del Libano, si spingeva a sud verso la Palestina e nell’interno arrivava a Damasco e a Palmira, che gli antichi chiamavano Celesiria (Coelesyria), già causa di conflitti con l’Egitto fin dal tempo dei faraoni e motivo di ripetute guerre «locali» tra i due Stati. La sesta e ultima di tali guerre scoppiò nel 169 a.C. Poiché il re Antioco IV aveva invaso l’Egitto, catturato il re Tolomeo VI, si era fatto incoronare al posto di quest’ultimo e, infine, aveva stretto d’assedio la capitale Alessandria, Roma non poté fare a meno d’intervenire. E lo fece in maniera drastica e risolutiva. Senza però ricorrere alle sue legioni, ma, semplicemente, con un ultimatum del Senato recapitato «sul campo» al re siriano dal legato Marco Popilio Lenate.


Incisione di scuola inglese in cui si immagina Marco Popilio Lenate che consegna l’ultimatum del Senato ad Antioco IV di Siria. XVIII sec. ingiunse di dare una risposta al Senato prima d’essere uscito da esso». Polibio continua sottolineando lo stupore del re «per l’arroganza del romano». Poi annota che Antioco, «dopo un attimo d’incertezza, dichiarò che avrebbe fatto tutto ciò che i Romani avessero ordinato» e che nel messaggio «era scritto che Antioco doveva porre fine immediatamente alla guerra contro Tolomeo». Lo storico conclude ricordando come al re siriaco fosse stato concesso un termine di pochi giorni entro il quale egli ricondusse le sue truppe in Siria, «umiliato e afflitto».

ROMA ROMPE GLI INDUGI

Come riferisce lo storico greco Polibio (contemporaneo dell’avvenimento), Popilio, consegnato al re il messaggio, gli ordinò di leggerlo immediatamente e poi: «Quando il

re – scrive lo storico –, dopo aver letto, disse di volersi consultare con i suoi (...) col bastoncino di vite che teneva in mano come ambasciatore, disegnò un cerchio in terra attorno ad Antioco al quale

Tutto questo accadeva nel 168 a.C. Vent’anni dopo, per risolvere definitivamente ogni problema d’ulteriore intervento, Roma decise di sfruttare al massimo i successi, militari e diplomatici, che già da tempo le avrebbero consentito di annettersi territori dai quali invece s’era sempre puntualmente ritirata. E cosí, uno dopo l’altro, gli Stati ellenistici finirono con l’entrare a far parte integrante del suo impero. Per prima, nel 147 a.C., fu ridotta a provincia la Macedonia (alla quale venne annessa la Grecia col nome di Acaia). Poi, nel 133, fu la volta del regno di Pergamo, peraltro lasciatole «in eredità» dal suo ultimo re, Attalo III. Toccò infine alla Siria e allo stesso Egitto: la prima, travolta, nel 62, dalle fulminee campagne di Pompeo; il secondo, sottomesso nel 30, dopo che l’anno prima era stata sconfitta ad Azio l’ultima sua regina, Cleopatra, la quale, abilmente inseritasi nella guerra civile tra Antonio e Ottaviano, aveva tentato di sostituire l’Egitto a Roma, al vertice di un nuovo impero universale.

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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale

APRITI, SESAMO! PORTE SIMILI A TAPPI, OPPURE A BATTENTE, CON LASTRE PESANTI VARIE TONNELLATE: È UN REPERTORIO DAVVERO RICCO QUELLO DELLE SOLUZIONI ADOTTATE PER CHIUDERE GLI INGRESSI DI TOMBE, CUNICOLI O PERFINO CASTELLI

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lcuni mesi orsono (vedi «Archeo» n. 363, maggio 2015) abbiamo compiuto un breve viaggio alla scoperta dei sorprendenti e diffusissimi sistemi di chiusura dei rifugi sotterranei di epoca bizantina presenti in Cappadocia (Turchia centrale), basati principalmente sull’uso di impressionanti monoliti scolpiti a forma di pietre da mulino: le cosiddette porte-macina.

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Anche in altre regioni del Vicino Oriente si trovano porte di pietra simili a quelle anatoliche, cosí come altre di differente tipologia, variamente utilizzate in epoche e strutture con destinazioni d’uso anche assai diverse tra loro. In Israele sono state documentate porte di pietra a forma di macina, solitamente destinate a sigillare tombe scavate nella roccia. In questo caso le porte-macina erano

usate per ottenere chiusure mobili tali da permettere inumazioni successive in sepolcri rupestri in uso a gruppi familiari.

COME UN TAPPO DI BOTTIGLIA Esse sono piuttosto comuni tra il tardo periodo romano e l’età bizantina (vale a dire in un arco di tempo compreso tra il II e il VII secolo d.C.): i monoliti hanno un


diametro di 90 cm circa e sono semplicemente appoggiati alla parete di roccia dove è ubicato l’ingresso della sepoltura. Si conoscono soltanto quattro tombe scavate nella roccia e dotate di porte-macina piú antiche, datate tra il I secolo a.C. e il 70 d.C. Si tratta di sepolcri appartenenti a famiglie particolarmente benestanti, le cui porte hanno un diametro maggiore, tra i 120 e i 140 cm, ed erano manovrate in apposite trincee scavate nell’area antistante l’imbocco.

In questo stesso periodo erano invece particolarmente diffuse (almeno in 900 tombe finora documentate) altre chiusure, realizzate con pietre squadrate, appena piú larghe dell’ingresso e di circa 20-30 cm di spessore, dotate di una protuberanza a forma di «tappo di bottiglia», utile a incastrarsi nella cornice del varco di apertura. Tale sistema doveva certamente garantire una buona sigillatura delle tombe, ma queste porte erano chiaramente meno agevoli da movimentare rispetto a

Nella pagina accanto: porta di pietra a forma di «tappo di bottiglia» nella tomba di Tel Lavnin (Israele). Sepolcri come questo sono databili tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. In questa pagina: porta di pietra a battente all’ingresso del castello di Azraq (Giordania). quelle in forma di macina. In Armenia, presso Orgov, abbiamo invece un singolare esempio di «porta-dado». Si tratta di un blocco di basalto di forma cubica, collocato a lato di uno stretto cunicolo, largo circa 40 cm.

NEL CASTELLO DI LAWRENCE D’ARABIA Il «dado» è appoggiato su uno spigolo su cui, presumibilmente, veniva fatto ruotare per bloccare l’esiguo passaggio. La struttura ipogea, scarsamente investigata, è di difficile datazione, come la fortezza ciclopica soprastante che viene generalmente attribuita al III-II millennio a.C. Meglio documentate sono invece le porte a battente, costituite da lastre piatte e squadrate (pesanti da 1 a 3 tonnellate), poste verticalmente, con protuberanze scolpite alle estremità, funzionanti come cardini girevoli su incavi scavati anch’essi nella pietra. Si trovano collocate all’ingresso di edifici in muratura con annesse parti rupestri: una nella fortezza di Amberd, sempre in Armenia, altre in Giordania, nel castello di Azraq, che si presenta nella sua forma attuale dopo gli interventi degli Ayyubidi nel XIII secolo e che è divenuto famoso per essere stato usato come base da Lawrence d’Arabia, nel 1917. Porte di pietra su cardini sono note anche in Israele, utilizzate sia in abitazioni private, sia per chiudere l’ingresso di tombe a camera scavate nella roccia. Rare nel tardo periodo romano, diventarono comuni nel II secolo d.C., assieme a quelle a forma di macina già citate.

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A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

MIETERE «ALLA FRANCESE» NELLA DESCRIZIONE PLINIANA DELLE TECNICHE AGRICOLE DELLA GALLIA, SI LEGGE DI UNA MACCHINA A LUNGO GIUDICATA COME UN’INVENZIONE: E INVECE, ANCORA UNA VOLTA, IL GRANDE NATURALISTA AVEVA DATO METICOLOSAMENTE CONTO DI UN CONGEGNO TUTTORA DIFFUSISSIMO

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pprofondendo le informazioni sulla coltivazione del grano, Plinio il Vecchio, com’è sua abitudine, non manca di ricordare, sia pur laconicamente, che nelle vaste pianure della Gallia esisteva e si utilizzava correntemente una trebbiatrice meccanica ruotata: «Nei latifondi della Gallia, enormi benne, con il bordo dentato e collocate su due ruote, vengono spinte attraverso i campi da una bestia da soma aggiogata alla rovescia; pertanto le spighe tranciate cadono nella trebbiatrice» (Storia Naturale XVIII, 72, 296). A lungo si è presunto che l’enigmatica macchina agricola, ricordata nel testo col nome di vallus, altro non fosse che una mera fantasia di Plinio o, nel migliore dei casi, una sua errata interpretazione di una carretta usata dai contadini per ammassarvi sopra le spighe falciate, via via che avanzavano nei

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campi. Vallus, infatti, non compariva in alcun autore coevo, non si ravvisava in qualche esplicita allusione iconica, né vantava, infine, una qualunque attinenza relativa a un qualsiasi congegno.

LA CONFERMA Per rintracciare una descrizione che sembra attagliarsi perfettamente alla trebbiatrice meccanica di Plinio occorre attendere Rutilio Tauro Emiliano Palladio, vissuto intorno al IV secolo e forse appartenente all’aristocrazia imperiale. A lui si deve un trattato in quindici libri, intitolato Opus agriculturae (o De re rustica), in cui, al secondo paragrafo del VII libro, si può leggere una precisa descrizione della fantomatica macchina, cosí rievocata nella traduzione integrale dell’opera che Francesco Sansovino diede alle stampe nel 1560 in Venezia, col nuovo titolo di Villa. Ricordava il Palladio in merito alla trebbiatrice meccanica che: «Una parte della Francia usa di mietere a questo modo, che è breve, & senza affaticar gli huomini s’adopera un bue solo in tutto il ricolto; Si fa un carro su due ruote piccole, la quadrata superficie del quale si guernisce di tavole, le quali piegandosi dal lato di fuori, rendono lo spatio di sopra alquanto piú largo. E dalla parte dinanzi del carro, le tavole son piú corte. Quivi si mettono per ordine alcuni dentelli alla misura delle spighe, & di sopra ritorti alquanto, dalla parte di dietro del carro si formano due timoni cortissimi come due pertiche di carrette, fra le quali si pone un bue col giogo rivolto col capo verso la carretta: il qual sia mansueto, & che non faccia piú oltre di quel che vuole il mietitore. Quando adunque costui comincia a

spinger la carretta per lo grano, tutte le spighe prese da denticelli s’ammucchiano nella carretta rotte, & lasciate fuori le paglie, hora mettendone, & hora levandone il bifolco che va dietro al carro, & cosí per breve spatio di tempo andando & ritornando poche volte, si compie di mietere ogni cosa» (Villa VII, 2.2). Sebbene quella piú recente descrizione confermasse l’attendibilità della notizia di Plinio, permaneva un dubbio circa l’esatta connotazione della macchina, una curiosità che si poté soddisfare solo alla metà del Novecento, grazie all’archeologia. Nell’autunno del

1958, tra i ruderi del sito fortificato di Montauban (presso Buzenol, Belgio), affiorarono vari bassorilievi romani. La fattura li fece facilmente ascrivere al III-IV secolo e l’indubbia importanza ne suggerí la custodia nel vicino Musée Gaumais di Virton. Tra le scene scolpite, sebbene ridotte a frammenti, un paio corrispondevano alla macchina di Plinio e di Palladio, somigliando molto strettamente alla benna dentata di una moderna pala caricatrice e anticipando della stessa la collocazione posteriore della forza motrice che la spinge e il criterio della dentatura dirimente anteriore. Un bassorilievo simile è custodito nel Museo Archeologico di Treviri: è formato da tre

Nella pagina accanto: confronto fra la restituzione grafica del rilievo con la trebbiatrice conservato nel Museo Archeologico di Treviri (in alto) e quello trovato a Montauban (Belgio), oggi nel Musée Gaumais di Virton. In questa pagina: una moderna escavatrice provvista di benna. frammenti riuniti, e la somiglianza con una moderna benna dentata è ancor piú stringente.

UN’ETIMOLOGIA ANTICA Non a caso il termine «benna», deriva etimologicamente dal tardo latino benna, mutuato dal vocabolo celtico che lo riservò a un carro a quattro ruote e, per estensione, a un generico carretto agricolo. Unendo il criterio di veicolo ruotato e capacità automatica di acquisizione e stivaggio di un carico incoerente, in epoca recente, il termine benna fu adottato per quella sorta di enorme cucchiaio anteriore di cui sono provviste le macchine utilizzate per il movimento terra. Benne simili, inoltre, sono state negli ultimi decenni adottate nelle complesse mietitrebbiatrici, che vengono cosí ad acquisire una stretta affinità funzionale con l’antica trebbiatrice meccanica romana. La principale differenza fra le due, peraltro già ricordata da Palladio era che: «Questo modo è utile nei luoghi campestri, & uguali, & a coloro, i quali non hanno bisogno della paglia». La trebbiatrice romana, infatti, strappava la sola spiga, lasciando sul terreno i suoi lunghi steli, preziosa risorsa per l’alimentazione invernale del bestiame: nelle nuove macchine, invece, si raccolgono entrambi, separando al loro interno la paglia dal grano, imballando la prima e stivando il secondo.

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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti

IL MISTERO DEL FALSO BLU È TEMPO CHE ANCHE GLI ARCHEOLOGI MEDIEVALI SI «SPORCHINO LE MANI» CON LA STORIA DELL’ARTE. UNA CONTAMINAZIONE CHE PUÒ OFFRIRE ESITI DECISIVI, COME È ACCADUTO DI RECENTE A CIVIDALE DEL FRIULI

E

siste una differenza sostanziale tra l’archeologia medievale e quella classica, bene esplicitata nei nomi delle materie nei corsi di studio universitari (archeologia medievale, appunto, e archeologia

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e storia dell’arte greca e romana). Tale differenza si deve a una lunga tradizione, che rimonta alle origini stesse delle due discipline. Cosí, l’archeologia classica si è fatta da subito anche storia dell’arte, per

via di un’impostazione che vedeva nell’opera d’arte un’espressione materiale fondamentale delle civiltà antiche. Mentre l’archeologia medievale ha a lungo tralasciato il rapporto con la storia dell’arte.


Ma perché? La motivazione è soprattutto ideologica: l’archeologia medievale, infatti, si afferma negli anni Sessanta/ Settanta del Novecento, in un’epoca di contestazione e di ripensamento del metodo e dell’oggetto dell’indagine archeologica. Restituire voce alle classi subalterne del Medioevo attraverso lo studio della loro cultura materiale divenne quindi senz’altro una delle principali voci in agenda, forse la prima. E perciò, fin dall’inizio, l’elemento storico-artistico passò in secondo piano. Il risultato di tutto questo è che mentre gli archeologi classici si misurano da piú di cento anni con monumenti come il Partenone e il Colosseo, con le opere di Fidia e Policleto, e con le pitture di Pompei, i medievisti hanno lasciato «in esclusiva» agli storici dell’arte medievale le cattedrali, i palazzi pubblici e le opere di Giotto e Arnolfo di Cambio.

UNA DICOTOMIA DA RICOMPORRE Ma sono ancora valide queste impostazioni, su un versante e sull’altro? Ci sono stati e permangono rischi e incongruenze, che pesano su entrambi i piatti della bilancia. Come ha osservato Daniele Manacorda, «L’archeologia classica, nata in buona misura dalla storia dell’arte, ha corso il rischio di ridurre lo studio delle società antiche alle manifestazioni artistiche delle loro élite, e se ne è in seguito emancipata. La piú giovane archeologia medievale, invece, è nata ignorando il fenomeno artistico del suo tempo (…) Sono ormai maturi i tempi per una ricomposizione vantaggiosa della dicotomia troppo severa che ha separato archeologia e storia dell’arte o almeno per affrontare su basi paritarie un dialogo necessario all’una e all’altra e per ragioni diverse interrotto

(archeologia classica/arte antica) o mai avviato (archeologia medievale/arte medievale)». Se dunque vogliamo comprendere davvero la società medievale nelle sue manifestazioni materiali, non possiamo piú ignorare il fattore artistico, che ne faceva parte a buon diritto e con il quale abbiamo spesso a che fare, perfino quando non ce lo aspettiamo: come nel caso di un manufatto con valore artistico restituito da uno scavo.

CATALOGARE NON BASTA In realtà, agli archeologi del Medioevo succede spesso di occuparsi di manufatti con valore artistico, di alcuni in modo particolare: per esempio, con gli accessori del vestiario, come fibule, fibbie, orecchini (perché si trovano quasi abitualmente durante gli scavi); e capita con le sculture, con gli elementi della decorazione architettonica degli edifici: capitelli, architravi, transenne… In questi casi, l’archeologo procede di norma alla schedatura, al catalogo, e poi stabilisce tipologie, quando possibile. Ma se vogliamo davvero prendere la strada di una storia archeologica dell’arte medievale, cioè di un approccio archeologico all’artigianato artistico, allora il lavoro non dovrebbe fermarsi qui. La chiave di volta diventa il concetto di contesto: occorre analizzare e ricostruire l’oggetto, il suo aspetto originario e le sue funzioni. Prendiamo per esempio le sculture: da alcuni decenni, il Centro Italiano per lo Studio dell’Alto Medioevo (CISAM) pubblica il Corpus della scultura altomedievale. Ogni volume è un catalogo di sculture relative a determinati ambiti geografici (perlopiú antiche diocesi, o singole città). Si tratta di una tipica opera di servizio (il catalogo), utilissima, alla cui redazione deve però seguire un lavoro piú organico di discussione e

Nella pagina accanto: coppia di fibule ad arco in argento con dorature, dalla tomba 37 della necropoli longobarda di Nocera Umbra. 590-610 d.C. Roma, Museo Nazionale dell’Alto Medioevo. ricontestualizzazione dei pezzi: altrimenti la parte analitica resta fine a se stessa, e dà scarsi frutti. A proposito della scultura si possono infatti imbastire discorsi di molti generi, tutti a carattere contestuale: dalla ricostruzione delle botteghe artigiane e del loro operato nel corso del tempo, all’individuazione dell’origine dei modelli e allo studio della loro diffusione, alla ricostruzione delle oscillazioni del gusto nella decorazione, fino alla ricomposizione degli apparati originari (recinzioni presbiteriali, altari, cibori) di cui oggi restano solo pochi frammenti. Questo tipo di approccio contestualizzante è stato finora perseguito solo raramente dagli archeologi, che ne hanno tutte le potenzialità, ma preferiscono misurarsi con altri temi e con altri elementi della cultura materiale. E cosí si perde una buona occasione per ricomporre archeologia e storia dell’arte.

IL CONTRIBUTO DELL’ARCHEOMETRIA La pittura è un altro ambito privilegiato nel quale sperimentare forme avanzate di dialogo tra archeologia e storia dell’arte. Per esempio, coinvolgendo nell’analisi le indagini archeometriche. Da sempre, lo studio degli edifici piú significativi su cui abbiamo poca documentazione viene affrontato con impegno dagli storici dell’arte, che tendono a interrogarsi sulla provenienza delle maestranze e dei materiali. E, nella maggior parte dei casi, sono costretti a rispondere usando come guida l’analisi stilistica del monumento o delle

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sue singole parti: se un ciclo pittorico sembra di gusto orientale, allora le maestranze che lo hanno concepito ed eseguito saranno probabilmente venute dall’Oriente. Ci soddisfa, questo procedimento, tenendo conto del suo alto tasso di arbitrarietà? E, accettandolo, qual è lo spazio residuo per valutare la diffusione di tecniche, stilemi e modelli artistici per emulazione? Perché un pittore locale non potrebbe aver deciso di eseguire degli affreschi seguendo - per esempio – la maniera in quel momento prevalente in Oriente, magari dopo essersene impadronito grazie a un viaggio di studio? È questo uno dei dilemmi che ricorrono spesso nell’analisi dei cicli di affreschi, soprattutto se altomedievali (rispetto ai quali la documentazione è piú scarsa). Individuare la provenienza delle maestranze è un tema spinoso, ma risolvibile, talvolta, se affrontato con gli strumenti adatti. Prendiamo un monumento fondamentale dell’Alto Medioevo italiano: il

Tempietto longobardo di Cividale del Friuli. Di recente è stata condotta un’indagine archeometrica sulle sue pitture e i risultati sono davvero sorprendenti: analisi di vario genere, tra cui la spettrometria, hanno messo in luce innanzitutto l’uso di un pigmento detto «falso blu», e cioè un blu ottenuto dal carbone (in genere il blu usato nelle pitture viene realizzato grazie alla macinazione di minerali: lapislazzuli o azzurrite, prevalentemente). Il falso blu non è attestato in Occidente durante l’Alto Medioevo.

COTONE NELL’INTONACO E c’è di piú. Altre analisi archeometriche hanno accertato la presenza di filamenti di cotone negli intonaci del Tempietto. Ora, il cotone è una fibra che proviene dall’Asia, e in Occidente non viene usato nell’Alto Medioevo, né per il vestiario, né, tantomeno, per realizzare gli intonaci. D’altro canto, la tecnica che prevede l’inserimento di questo

Nella pagina accanto: Cividale del Friuli. La parete ovest del Tempietto longobardo con sei statue femminili in stucco e, nella parte inferiore, la lunetta affrescata con Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele. In basso: frammento di capitello decorato a rilievo raffigurante un venditore di unguenti. XII sec. Modena, Museo Civico d’Arte. materiale nell’intonaco è bene attestata in alcuni trattati artistici redatti in Oriente in area bizantina. Ecco risolto, a quanto pare, uno dei dubbi piú consistenti su questo importante monumento: ascrivibile dal punto di vista architettonico alla tradizione occidentale, venne decorato da maestranze venute dall’Oriente (forse dall’area siropalestinese, come sembrerebbe indicare anche la fattura degli stucchi affiancati alle pitture). Insomma, il Tempietto longobardo di Cividale dimostra quanto proficuo possa essere l’apporto alle conoscenze di una «via archeologica» alla storia dell’arte.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

UN FRUTTO ANCESTRALE LA STORIA DELLA VITE E DEL VINO VA DI PARI PASSO CON QUELLA DELL’UMANITÀ. E NON È DUNQUE UN CASO CHE ENTRAMBI RICORRANO CON GRANDE FREQUENZA SULLE MONETE DI TUTTO IL MONDO ANTICO

L

a vite e il vino sono ampiamente testimoniati negli usi degli antichi, come confermano i sempre piú frequenti ritrovamenti di semi e contenitori tra Oriente e Occidente (spesso ottenuti grazie a indagini chimiche e paleobotaniche

che hanno permesso di accertare la presenza di resti di uve fermentate all’interno dei vasi, n.d.r.). Mitologia, vasi specificamente fabbricati per la produzione, lo stoccaggio e il consumo del vino e immagini di grande suggestione

celebrano la vite e i suoi prodotti, come nel magnifico affresco dei vendemmiatori e vinificatori che doveva rallegrare per l’eternità l’ultima dimora di Nakht, scriba al tempo del faraone Thutmosi IV (XVIII dinastia, 1397-1387 a.C.), dal momento che la bevanda era anche un dono destinato ai defunti. L’uva appartiene al mondo divino e nel mito sumerico, egizio, ebraico, greco, etrusco e romano la bevanda diviene nettare per gli dèi, eroi e principi, simbolo del vivere civile che regola gli eccessi del bere vino puro, tipico dei barbari. Medium religioso, simbolico e ludico, il bere insieme nel simposio è la cerimonia con cui l’aristocrazia celebra se stessa. Dioniso, divino figlio di Zeus e Semele, con l’ebbrezza dei Sheikh Abd el-Qurna (Egitto), Tomba di Nakht. Particolare di una pittura con scena di pigiatura in un tino. XVIII dinastia, fine del regno di Thutmosi IV (1397-1387 a.C. circa)-inizi del regno di Amenofi III (1387-1348 a.C. circa).

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A sinistra: particolare della decorazione di una kylix a figure nere con scena di banchetto tra tralci di vite. VI sec. a.C. Grosseto, Museo Archeologico della Maremma. In basso: statere in argento, da Soloi, Cilicia. 425-400 a.C. Al dritto, Amazzone inginocchiata con arco e faretra; al rovescio, un grappolo d’uva.

suoi misteri si fa tramite fra l’uomo e la divinità: il vino libera dai legami terreni e pone l’iniziato in uno stato d’esaltazione mistica che lo avvicina alle divinità.

dedicato con ricercatezza al disegno del grappolo ricolmo di acini, al rovescio, riportando al dritto varie figure.

LITURGIA E COMMERCIO

Le emissioni della città di Soloi, in Cilicia (rifondata nel 66 a.C. con il nome Pompeiopolis, oggi nei pressi di Mersin in Turchia) ripropongono con frequenza il grappolo d’uva, segno dell’importanza del prodotto nell’economia locale. Il dritto è sempre molto raffinato, come negli stateri con Amazzone con arco e faretra, inginocchiata in una posizione che ne esalta la muscolatura quasi virile, certo derivata da un originale statuario (si pensi alla scultura conservata a Roma, nella Centrale Montemartini, e proveniente dal tempio di Apollo Daphnephoros a Eretria, VI secolo a.C.). Un piccolo volto di Satiro riporta al mondo dionisiaco, mentre sul rovescio un’ape, estremamente realistica, conferisce un tocco di naturalismo bucolico al rigonfio grappolo d’uva. (1 – continua)

Anche nelle religioni monoteistiche, come l’ebraismo e il cristianesimo, il vino ha un valore liturgico e simbolico ancora oggi fortemente presente nel culto. In campo economico, il commercio di vino ha un ruolo primario in ambito mediterraneo e non solo, come testimoniano le anfore da trasporto vinario e i contenitori per libagioni di varia grandezza e valore ritrovati un po’ ovunque. Plinio il Vecchio dedica l’intero libro XIV della sua Storia Naturale al vino, all’uva, alle coltivazioni e ai modi del bere. Il valore riconosciuto e la stretta connessione tra vino/vite, religiosità e scambi non poteva quindi mancare nell’iconografia monetale, dove anfore, grappoli e viti intere ricorrono sin dalle piú antiche emissioni greche in argento del VI secolo a.C. Queste immagini ritornano poi nella monetazione

L’AMAZZONE E L’APE

romana, giudaica e quindi provinciale sino al III secolo d.C. Nel tema «uva» la resa estetica delle monete greche è particolarmente efficace, laddove l’anonimo incisore del conio si è

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Amalia Nizzoli

MEMORIE SULL’EGITTO E SPECIALMENTE SUI COSTUMI DELLE DONNE ORIENTALI E GLI HAREM Scritte durante il suo soggiorno in quel paese a cura di Sergio Pernigotti, Editrice La Mandragora, Imola, 286 pp. 23,00 euro ISBN 978-887586-462-0 www. editricelamandragora.it

C’è un mondo davvero «antico» (ma non piccolo) in queste pagine scritte da Amalia Nizzoli e ora ripubblicate da Sergio Pernigotti in una nuova versione commentata. La sua testimonianza, infatti, si riferisce al soggiorno in Egitto di cui fu protagonista quasi duecento anni fa, quando la situazione del Paese del Nilo era di gran lunga diversa, a cominciare dalla sua appartenenza all’impero ottomano. Tuttavia, al di là degli aspetti politici, l’elemento di maggior interesse, come sottolinea lo stesso Pernigotti, è dato dal trovarsi alle prese con una donna che non solo mostra un interesse per la realtà locale di tipo quasi etnografico, ma si pone perfino a capo di uno scavo, a Saqqara: pur non essendo né un’etnologa, né un’archeologa! Dalle pagine di queste memorie emerge dunque la figura di una sorta di reporter, attenta e brillante, e che, come 112 a r c h e o

scrisse nell’Introduzione, vincendo le proprie ritrosie, volle «far conoscere, come donna italiana, alle mie concittadine i costumi e le usanze da me esaminati, aneddoti ed avventure o non troppo noti, o grandemente travisati».

la piú che plausibile discendenza di molte delle pratiche che ne caratterizzarono l’attività dalla piú antica tradizione egiziana. E non si tratta soltanto di questioni squisitamente tecniche, poiché, ed è forse il dato piú interessante, il tributo degli specialisti ellenici nei confronti dei loro colleghi e predecessori attivi nel Paese dei faraoni riguarda anche l’impostazione filosofica del proprio operato. L’analisi viene sviluppata in maniera assai articolata, esaminando la documentazione archeologica e il prezioso contributo forniti dai numerosi papiri medici a oggi noti. Né mancano le considerazioni sugli

Paola Cosmacini

IL MEDICO D’OGGI È NATO IN EGITTO Alle origini del pensiero medico moderno Piccin, Padova, 148 pp., 19 tavv. b/n e col. 20,00 euro ISBN 978-88-299-2769-5 www.piccin.it

Se pensiamo che il Giuramento di Ippocrate è ancora oggi considerato il cardine deontologico della professione medica, non è difficile intuire l’importanza di questo saggio appena dato alle stampe da Paola Cosmacini. Senza nulla togliere ai meriti del grande medico di Coo, che visse e operò a cavallo tra il V e il IV secolo a.C., l’autrice documenta, infatti,

echi della tradizione egiziana non soltanto presso i Greci, ma anche in ambiti ben diversi e lontani nel tempo, come quando viene ricordato l’interesse dell’egittologo Victor Loret per la scienza medica e in particolare per le tesi sostenute dal neuropsichiatra

Jean-Martin Charcot, che presentavano sorprendenti affinità con formulazioni attestate dai già citati papiri medici. Il volume, dunque, riserva non poche sorprese e ha il merito d’essere scritto in una forma che potrà renderlo piú che godibile anche presso il pubblico dei non addetti ai lavori. Francesca Ceci

VIA CASSIA II Da Monterosi alle pendici di Montefiascone Collana «Antiche Strade», Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 176 pp., ill. col. e b/n 28,50 euro ISBN 978-88-240-1430-4 www.ipzs.it

Il volume passa in rassegna il patrimonio storico-artistico e archeologico che si conserva nel territorio attraversato da un tratto di poco meno di 60 km della via Cassia. Un percorso nello spazio e nel tempo: basti considerare che siamo su una delle grandi consolari romane, che,


nel Medioevo, fu in larga parte ricalcata dalla via Francigena. Sfilano dunque testimonianze variegate: da monumenti noti, come lo spettacolare anfiteatro di Sutri, interamente scavato nel tufo, a gioielli piú nascosti, ma altrettanto suggestivi, come la chiesa di S. Francesco a Vetralla.

vengono ripercorse la storia del Museo della Città e quella delle piú recenti acquisizioni scaturite dalle indagini condotte nel centro storico di Acquapendente.

Beatrice Casocavallo, Enrico Pellegrini

MATERIALI ARCHEOLOGICI DAL COMPLESSO DI SANT’AGOSTINO AD ACQUAPENDENTE La sezione Torre Julia De Jacopo del Museo della Città Quaderni del Sistema Museale del Lago di Bolsena, Bolsena, 120 pp., ill. col e b/n 10,00 euro ISBN 978-88-95066-32-6 www.simulabo.it

La Torre Julia De Jacopo ospita i materiali restituiti da scavi condotti nel 1995 in alcuni ambienti dell’ex convento agostiniano di Acquapendente. Le indagini accertarono l’esistenza di una stratigrafia caratterizzata dalla copiosa presenza di ceramiche, vetri, metalli e resti ossei. Un deposito eterogeneo che è frutto dell’utilizzo della struttura come immondezzaio. Il volume fornisce il catalogo dettagliato dei reperti, preceduto da ampi capitoli introduttivi, nei quali, oltre alla descrizione del contesto archeologico in questione,

al fine di rintracciarne l’attuale collocazione e ricostruire le modalità che portarono alla loro acquisizione. Ed è proprio quest’ultimo uno degli aspetti piú interessanti, poiché getta luce sulla personalità stessa di Lanzi e sull’indirizzo che presero i suoi studi negli anni in cui la raccolta vide la luce, fino a farne uno dei piú autorevoli esperti nel campo della ceramica antica, capace di impostare su nuove basi scientifiche, insieme a Winckelmann, la sua classificazione.

Maria Grazia Marzi

IL GABINETTO DELLE TERRE DI LUIGI LANZI Vasi, terrecotte, lucerne e vetri dalla Galleria degli Uffizi al Museo Archeologico Nazionale di Firenze Leo S. Olschki Editore, Firenze, 368 pp., ill. b/n 48,00 euro ISBN 978-88-222-6263-9 www.olschki.it

Letterato e storico dell’arte, Luigi Lanzi (1732-1810) fu chiamato nel 1775 a Firenze dal granduca Pietro Leopoldo, dove divenne aiutante antiquario del direttore della Galleria degli Uffizi. Un impegno che culminò nella creazione, nel 1784, del Gabinetto delle Terre a cui è dedicato il volume di Maria Grazia Marzi. L’opera dà conto delle ricerche sui materiali confluiti nel Gabinetto,

DALL’ESTERO Bernard A. Knapp e Peter van Dommelen (a cura di)

THE CAMBRIDGE PREHISTORY OF THE BRONZE AND IRON AGE MEDITERRANEAN Cambridge University Press, Cambridge, 700 pp., ill. b/n 120,00 GBP ISBN 978-0-521-76688-3 www.cambridge.org

Tenere il passo degli eventi che, nella regione

mediterranea, scandirono gli ultimi tre millenni prima dell’era cristiana è impresa impegnativa:

basti pensare che in quell’arco di tempo si verificano, solo per citare alcuni dei fenomeni piú importanti, l’avvento e poi il crollo della civiltà minoica e di quella micenea oppure, volendo ricordare una realtà a noi piú vicina, la fioritura della civiltà nuragica. Le età del Bronzo e del Ferro, sono, insomma, momenti davvero epocali, che si caratterizzano anche per la fitta rete di scambi (non solo commerciali) che si dispiega nelle acque del Mare Nostrum. Un mondo in pieno fermento, del quale la raccolta di saggi curata da Knapp e van Dommelen propone un’analisi articolata e approfondita, sviluppata grazie ai contributi di studiosi autorevoli, che proprio nel confronto tra culture diverse hanno il filo conduttore piú significativo. (a cura di Stefano Mammini) a r c h e o 113


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