Archeo n. 370, Dicembre 2015

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ARCHEO 370 DICEMBRE

ARCHEO

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IV E RS A R

2015

L’ENIGMA DEL BUON PASTORE

BUON PASTORE

GUERRIERO DI PILO

È la scultura simbolo del cristianesimo antico. Ma qual è il suo messaggio nascosto?

OSIRIDE

NEL MONDO DEI CANOPI PARIGI

ALLA RICERCA DI OSIRIDE SPECIALE

LA GRANDE METAMORFOSI Quando Roma divenne la capitale dei cristiani

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SPECIALE ROMA IMPERIALE E CRISTIANA

Mens. Anno XXXI n. 370 dicembre 2015 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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ETRUSCHI

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EDITORIALE

METAMORFOSI Una trasformazione epocale, verificatasi nel volgere di pochi secoli, una vera rivoluzione architettonica e urbanistica: la metamorfosi di Roma – da «pagana» caput mundi a città simbolo della cristianità – si rivelò un processo unico, tra i piú incisivi e longevi del mondo antico. Ne ha scritto pagine mirabili Richard Krautheimer (1897-1994), il grande storico dell’arte tedesco che a Roma visse piú di sessant’anni: per lui, l’architettura tardo-antica della città rappresenta l’espressione stessa del suo destino. Lo spunto per parlarne in questo numero è fornito da una mostra, in corso ad Amsterdam, e intitolata Roma. Il sogno dell’imperatore Costantino, con riferimento a quella misteriosa quanto leggendaria visione che determinò un nuovo corso nella storia dell’Occidente. Le opere esposte provengono quasi interamente da musei italiani e da quelli Vaticani: tra esse, alcuni reperti unici e emblematici, come la statua del «Buon Pastore» o quella del «Cristo docente», raffigurato qui accanto. Scrive nello speciale Lucrezia Spera, studiosa di archeologia cristiana e medievale: «Alle soglie del Medioevo, la cristianizzazione degli spazi di Roma appare compiuta, radicale e per certi versi ridondante». Ma come avvenne questo cambiamento? Qual è stato il rapporto delle nuove, inedite (per forma e dimensioni) espressioni architettoniche, con le preesistenze di età imperiale? Ed è vero che – come aveva suggerito Krautheimer – Costantino fu un imperatore attento «a non offendere la sensibilità pagana, pur continuando a promuovere la nuova religione»? Se oggi viviamo in un «mondo in trasformazione» (le cui traiettorie, per giunta, ci appaiono incerte e poco rassicuranti), ripercorrere quell’epoca può rappresentare un esercizio della mente e… dell’anima: abbiamo la fortuna – che fu poi anche di Krautheimer – di poter vedere, toccare, riconoscere quei monumenti del destino che sono le grandi architetture tardo-antiche di Roma. In tempi in cui, altrove, prevalgono distruzioni e violenza, non è un privilegio da poco... Invitiamo, cosí, il lettore a recarsi a Roma per visitare il Mausoleo di Costanza, costruito per accogliere le spoglie delle figlie di Costantino: con soli 40 centesimi si accendono le luci e la penombra dominante all’interno del monumento si trasforma nei mille riflessi policromi restituiti dagli originari mosaici del IV secolo che decorano le volte del corridoio anulare. O, ancora, a entrare nelle sale del Museo Pio Cristiano (parte dei Musei Vaticani) per incontrare da vicino la statuetta del «Buon Pastore» (che, all’uscita in edicola di questo numero, sarà ritornata «a casa», dopo il suo soggiorno olandese). Della singolare metamorfosi di cui la scultura è stata – ed è ancora – una mirabile protagonista, ci parla, nell’articolo di apertura, Umberto Utro. Buona lettura e buona visita, allora. E i nostri migliori auguri per il Natale e l’Anno Nuovo. Andreas M. Steiner Statuetta di Cristo docente, forse proveniente da Civita Lavinia (Roma). IV sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.


SOMMARIO EDITORIALE

Metamorfosi 3 di Andreas M. Steiner

DA ATENE

Ecco la tomba del guerriero!

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Attualità

di Valentina Di Napoli

La Grecia sceglie la solidarietà e apre l’area archeologica dell’Odeion di Coo ai profughi che sbarcano sull’isola

Il «Buon Pastore» rivelato 40

LA NOTIZIA DEL MESE

NOTIZIARIO

SCOPERTE

di Umberto Utro

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SCOPERTE La tomba di una necropoli romana scavata ad Alghero restituisce l’inedita testimonianza di un piccolo scrivano 12 ALL’OMBRA DEL VESUVIO La Schola Armaturarum si accinge a diventare il simbolo della rinascita di Pompei 16 PAROLA D’ARCHEOLOGO Gabriel Zuchtriegel, neodirettore del Parco Archeologico di Paestum, illustra la sua strategia per la promozione del sito 18

32 ETRURIA DEI MISTERI Gli Etruschi ci parlano

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di Giuseppe M. Della Fina, con un’intervista a Giulio Paolucci

MOSTRE

I misteri sommersi di Osiride

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di Daniela Fuganti, con un’intervista a Franck Goddio In copertina particolare del Buon Pastore, scultura realizzata a cavallo tra il III e il IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano

Anno XXXI, n. 370 - dicembre 2015 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Sible de Blaauw è professore di archeologia cristiana all’Università Radboud di Nimega. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Daniela Fuganti è giornalista. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Alessandra La Fragola è archeologa e storica. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Danilo Mazzoleni è rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Simona Minozzi è antropologa presso l’Università degli Studi di Pisa. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Lucrezia Spera è docente di archeologia tardo-antica all’Università di Roma Tor Vergata e professore di topografia cristiana di Roma presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Umberto Utro è curatore del reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani. Alessandro Vella è assistente del reparto di Antichità Cristiane dei Musei Vaticani. Illustrazioni e immagini: © Musei Vaticani: pp. 83, 91; Servizio fotografico dei Musei Vaticani/foto Alessandro Bracchetti: copertina e pp. 40-43, 46 – Doc. red.: pp. 3, 12/13, 17 (basso), 44 (basso), 66, 70/71, 85, 86, 92 (alto) – Shutterstock: pp. 8/9, 9 (destra, alto e centro), 49 – Mondadori Portfolio: Rue des Archives: p. 9 (sinistra, alto); Electa/Andrea Jemolo: pp. 74/75; Album: pp. 80/81; Archivio Arnaldo Vescovo/Arnaldo Vescovo: p. 81; AKG Images: pp. 82 (alto), 91 (basso); Rue des Archives/ Tallandier: p. 96; Leemage: p. 103 – © SARS NDRS Archive: pp. 10-11 – Natalina Lutzu: disegni


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Fare cultura in letizia

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di Daniele Manacorda

QUANDO L’ANTICA ROMA...

…corse il rischio d’essere abbandonata 102 di Romolo A. Staccioli

64 SPECIALE

Quando (e come) Roma divenne cristiana

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testi di Sible de Blaauw, Lucrezia Spera, Danilo Mazzoleni, Umberto Utro, Alessandro Vella

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A VOLTE RITORNANO

Mulini e mulinelli

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

di Andrea De Pascale

di Francesca Ceci

Estasi e sregolatezza

alle pp. 12 e 13 – Università di Ginevra: p. 14 – Cortesia Soprintendenza Archeologia della Lombardia: p. 15 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 16, 17 (alto e centro) – Cortesia Parco Archeologico di Paestum: pp. 18-19 – Cortesia Soprintendenza Archeologia dell’Umbria: p. 20 – Cortesia Ufficio stampa: p. 24 – University of Cincinnati, Pylos Excavations: pp. 32, 33, 34 (basso), 36, 37 – Jennifer Stephens: p. 34 (alto e destra) – Denitsa Nenova: disegno a p. 35 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: p. 44 (alto e centro) – DeA Picture Library: pp. 88/89, 93; A. Dagli Orti: p. 45 (alto); G. Dagli Orti: p. 45 (basso) – Leonardo Di Blasi: disegno a p. 46 – Cortesia Museo Civico Archeologico delle Acque, Chianciano Terme: pp. 50-55 – Christoph Gerigk © Franck Goddio/ Hilti Foundation: pp. 56-59, 60 (basso), 61-63 – Corbis Images: Eric Fougere/VIP Images: p. 60 (alto) – Foto Scala, Firenze: pp. 64/65, 67, 69, 72, 82 (basso); su concessione MiBACT: p. 87; White Images: p. 97 – Cortesia Ufficio stampa De Nieuwe Kerk: Evert Elzinga: pp. 76-77 – Da: L’edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi, Bordighera 2001: pianta alle pp. 78/79 – Da: Costantino il Grande (catalogo della mostra), Milano 2005: disegno a p. 79 – Marka: Gustavo Tomsich: p. 81; Marco Scataglini: p. 102 – Andreas M. Steiner: p. 84 – Da: Franz Alto Bauer, Das Bild der Stadt Rom im Frühmittelalter, Wiesbaden 2005: pianta a p. 90 – Cortesia degli autori: pp. 94, 108, 109 (basso), 110-111 – Getty Images: AFP Photo/Andreas Solaro: pp. 98, 100 – Luca Riccardi: pp. 104-105 – Per gentile concessione del Mulino Faini, Grezzano, Borgo San Lorenzo (Firenze): p. 106 (alto) – Flavio Russo: ricostruzioni grafiche alle pp. 106, 107, 109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 33, 52, 58 Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa Segreteria marketing e pubblicità segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346

LIBRI

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di Flavio Russo

L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE

Chi trova un piccione, trova un tesoro 104

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Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352 Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


LA NOTIZIA DEL MESE Valentina Di Napoli

ARCHEOLOGIA SOLIDALE IL CONSIGLIO ARCHEOLOGICO CENTRALE GRECO HA DIMOSTRATO LA SUA ATTENZIONE PER LA CRISI UMANITARIA CHE DA TEMPO COINVOLGE L’EUROPA. PERCHÉ LA CULTURA È FATTA DI PERSONE, PRIMA ANCORA CHE DI MONUMENTI

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a riunione del Consiglio Archeologico Centrale, tenutasi il 12 novembre scorso, non è stata uguale alle altre. Il sancta sanctorum dell’archeologia greca, la commissione a cui spetta l’ultima parola in materia, è stata chiamata a decidere della sorte di uomini, prima che di monumenti. L’ordine del giorno prevedeva infatti «la concessione, per l’alloggio temporaneo di rifugiati, dell’area sita nella zona archeologica non edificata dell’Odeion romano di Coo». Un’area che, trovandosi dunque all’interno di un sito archeologico, secondo la legge greca è vincolata e, in pratica, intoccabile. In un clima di forte commozione, il Consiglio ha deciso di superare lo scoglio burocratico del vincolo archeologico, «in via eccezionale e per motivi umanitari», come recitano gli atti. È stata cosí accettata la richiesta di Medici Senza Frontiere di predisporre nel

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sito 12 WC chimici e 2 tende riscaldate, che daranno alloggio a 240 persone.

ACCOGLIENZA E CURE Apostolos Veizis, direttore della sezione greca di MSF, ha espresso la sua gratitudine, in nome delle 300 persone che sbarcano ogni giorno sull’isola con un disperato bisogno di alloggio, cibo, cure mediche. «Ci sono ancora tanti che dormono all’aperto, e l’inverno è alle porte», ha dichiarato. «Dallo scorso marzo solo i rifugiati che hanno avuto bisogno di cure mediche sono oltre 16 000; nonostante i tentativi fatti, gli spazi per accoglierli sono ancora insufficienti e la Banca del Pireo, che ci aveva concesso un albergo, l’ha rivoluto indietro», ha aggiunto. Il fenomeno dei profughi tocca molto da vicino i Greci, che hanno vissuto anche in epoche recenti il dramma della deportazione e la necessità di emigrare

all’estero. Lo ha ricordato Dimitris Athanasoulis, direttore dell’Eforia delle Cicladi, sottolineando come i profughi del 1922, dopo quella che gli storici greci chiamano «catastrofe dell’Asia Minore», fossero stati alloggiati nelle chiese, compresi monumenti storici come la celebre Achiropiitos di Salonicco. Sugli stessi toni anche le parole di Dimitris Karydis, professore di architettura presso il Politecnico di Atene, che si è riferito anche al 1956, «quando noi Greci facevamo la fila, dietro ai Tedeschi belli grassi e grossi. Ora siamo noi a essere grassi e grossi e dietro di noi ci sono persone spaventate: dobbiamo fare il nostro dovere». «In un’isola con tanti immobili,


In questa pagina, da sinistra: donne greche rifugiate in Tracia all’epoca della guerra greco-turca (1919-1922); profughi sbarcati a Coo nello scorso settembre; l’Odeion di Coo. Sulle due pagine: Coo. I resti della basilica cristiana di S. Stefano. tanti spazi non edificati e tanti parcheggi, persone di buona volontà potrebbero trovare aree per i rifugiati. Tutto ciò denuncia inerzia e indifferenza», ha dichiarato Manolis Korrès, professore di architettura al Politecnico di Atene. E molta perplessità ha suscitato la lettera inviata dal Comune di Coo, che ha espresso parere contrario ad alloggiare profughi non solo in quell’area, ma in tutti i siti archeologici dell’isola. Eppure, nonostante tutto, in un Paese che in questi anni viene messo duramente alla prova, la decisione è stata presa. A riassumerne lo spirito sono le commosse parole di Nikos Stampolidis, direttore del Museo di Arte Cicladica: «La cultura non sono i monumenti: sono, in fondo, gli uomini».

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n otiz iari o SCAVI Sudan

LE PIRAMIDI DELL’ANTICA NUBIA

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el Sudan settentrionale, una équipe del British Museum, in collaborazione con la Sudan Archeological Research Society e numerosi esperti internazionali, sta portando avanti un progetto di ricerca su uno dei siti archeologici meglio preservati del Paese africano, Gematon (oggi Kawa, in lingua araba). La toponomastica lo collega all’epoca egiziana: il nome significa infatti «l’Aton è presente»

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e riconduce al regno del faraone Amenhotep IV, conosciuto anche come Akhenaton, o ai primi anni del regno di Tutankhamon, quando ancora il giovane faraone andava sotto il nome di Tutankhaton; siamo pertanto in un arco di circa quarant’anni, tra il 1370 e il 1330 a.C. Tuttavia, l’area era occupata da insediamenti anche prima del XIV secolo a.C., durante il periodo della cultura di Kerma, quando

Kawa era una fonte primaria per l’approvvigionamento dei cereali. Tre sono le principali zone di indagine individuate nel sito: l’antico abitato, il tempio di Tutankhamon e la necropoli. Intorno al 1070 a.C., al venir meno dell’impero egiziano, l’economia dell’area subisce una fase di arresto e la città va incontro alla drastica riduzione della popolazione o forse anche all’abbandono totale.


Nell’arco di 300 anni torna però a fiorire sotto i sovrani kushiti, e raggiunge il suo apogeo durante il regno di Taharqa (690-664 a.C.), epoca a cui risalgono un tempio vicino a quello di Tutankhamon e un piccolo santuario decorato da pitture. Nell’area della necropoli, un gruppo di imponenti monumenti funerari distingue alcune sepolture. Si tratta di 16 piramidi, sei in pietra e dieci in mattoni di argilla, la piú

grande delle quali misura oltre 10 m di lato e si è calcolato che potesse raggiungere i 14 di altezza. Secondo il direttore dello scavo, Derek Welsby, sono costruzioni rare nel regno di Kush e se ne trovano altri esempi solo in sepolture reali quali quelle di el-Kurru, Nuri, Jebel Barkal e Meroe. Non è escluso che, nascoste sotto la sabbia, se ne possano celare altre. Gematon è un sito di estremo

interesse archeologico, perché, oltre alla buona conservazione delle strutture e all’ampia cronologia rappresentata, offre agli studiosi la possibilità di indagare parallelamente un abitato e la necropoli a esso collegata, e permette quindi di tracciare un quadro piú preciso sull’evoluzione dell’area e sulla vita dei suoi abitanti. Paolo Leonini

Sulle due pagine: Gematon/Kawa (Sudan). I resti di una delle piramidi funerarie in pietra scoperte nel corso delle ricerche condotte da una missione internazionale guidata dal British Museum. Nella pagina accanto: una tavola in bronzo per offerte, ritrovata nell’area della piramide.

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n otiz iario

SCOPERTE Alghero

ESSERE SCOLARI NELLA SARDEGNA ROMANA

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uante persone sapevano leggere e scrivere in un insediamento provinciale di età romana? E quanti bambini godevano del privilegio di venire iniziati all’arte scrittoria? Adesso sappiamo che in quella che si presume essere stata l’antica comunità rurale di Carbia, nel territorio di Alghero, almeno un bambino (o una bambina), tra i 350 individui sepolti nella necropoli e vissuti tra il I e il III secolo d.C., ebbe l’opportunità di farlo. La sepoltura a cremazione di un giovane tra i 10 e gli 11 anni, vissuto nel II secolo d.C., ha infatti restituito un rarissimo set scrittorio, costituito dalle labili tracce combuste di un regolo mensorio (righello) in osso, di un calamaio in bronzo, di una spatola in ferro per spalmare la cera e, forse, della tavoletta ossea su cui si scriveva (di quest’ultima rimangono pochi frammenti). Nulla si è conservato dello stilo, verosimilmente in osso o canna, né dell’eventuale pergamena su cui scrivere con l’inchiostro attinto dal calamaio.

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Si tratta del primo ritrovamento di un intero set nei contesti della Sardegna romana (e forse unico anche per l’intera Penisola), ma ciò che qui si vuole sottolineare, al di là delle caratteristiche dei reperti, è l’aspetto sociale della comunità di appartenenza, la rilevanza o meno del ritrovare un segno distintivo potente in un centro periferico: l’alfabetizzazione era forse dunque piú accentuata di quanto si potesse credere o, al contrario, quest’unico ritrovamento testimonia la rarità della scrittura? Del resto, uniche nella necropoli sono anche una tavola oftalmica, una pinza in ferro e una roncola per potare. Ma chi era dunque questo bambino? Forse solo il piccolo di una famiglia agiata che poteva permettersi di «sprecare» il set scrittorio del figlio, seppellendolo per sempre insieme a lui? E si può comprendere qualcosa da ciò che rimane di questa sepoltura? Per rispondere, occorre focalizzare l’attenzione sul contesto sociale indiziato dai dati archeologici. Rimane una tegola con marchio di fabbrica posta a copertura della tomba, consistente in una sepoltura terragna, nella quale il set scrittorio e due chiodi di ferro furono deposti accanto ai resti cremati. Questi ultimi risultano in giacitura secondaria: furono cioè bruciati su

una pira (ustrinum) che doveva trovarsi altrove e poi raccolti in questo contesto. Nella produzione delle tegole, quelle bollate costituivano una percentuale esigua (il marchio veniva impresso su un numero limitato di esemplari) e venivano usate solo per poche sepolture. In alcuni casi, il privilegio di essere sepolti sotto di esse poteva derivare dal significato di appartenenza a una gens espresso dal cartiglio. Al momento, però, non sembra essere questo il caso dell’esemplare di Alghero. La presenza di chiodi nelle sepolture è stata a lungo riferita a lettighe funebri o casse lignee. Tuttavia, quando il posizionamento dei chiodi ne esclude l’utilizzo per


A sinistra: penna e calamai di età romana. Châtillon-sur-Seine, Musée du Châtillonnais. Nella pagina accanto: disegno nel quale si immagina un maestro che impartisce una lezione di scrittura a un bambino, che si serve di strumenti analoghi a quelli trovati nella necropoli di Monte Carru. In basso: schizzo degli strumenti scrittori rinvenuti ad Alghero: A. spatola da cera in ferro (accanto alla quale sono stati rinvenuti anche i due chiodi in ferro); B. regolo mensorio in osso; C. frammenti in osso probabilmente pertinenti a una tabula cerata; D. ricostruzione ipotetica di eventuale stilo in canna vegetale; E. calamaio frammentario in bronzo.

simili assemblaggi o si rinvengono in numero ridotto o in posizioni particolari, si è ormai certi che si tratti di oggetti a uso scaramantico. In questo caso, peraltro, non si può escluderne l’uso come graphia (lo stilo per graffiare la cera e scrivere sulla tavoletta cerata), in assenza di uno stilo vero e proprio. Il set «parla» dunque da solo, mentre le ossa forniscono solo piccoli indizi sull’età del defunto, tenuto presente che si tratta di resti combusti, giovanili e molto deteriorati dalle infiltrazioni e dall’acidità del terreno in cui sono stati deposti. Vi sono, infine, le informazioni dettate da quel che non c’è: la sepoltura è priva di vasi per il banchetto funebre o da toletta,

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E

frequenti in questo periodo. La deposizione è dunque volutamente focalizzata sul ruolo del giovane: il suo essere uno «scolaro», una posizione ritenuta

sicuramente importante dalla famiglia (forse un segno di distinzione sociale in una comunità agraria in seno alla quale ogni individuo era a suo modo utile e necessario allo svolgimento della vita nei campi?) e che doveva risultare parimenti ben chiaro al suo ingresso nel regno di Ade. L’intento evidente era di propiziare nella nuova vita ultraterrena il ruolo a lui dovuto, precocemente interrotto. Una sorta di «biglietto da visita» indirizzato al mondo nuovo che andava a raggiungere, dal momento che qui, nel mondo dei vivi, la sua piccola tomba si presentava apparentemente in forma anonima. La sepoltura e i suoi materiali sono in corso di pubblicazione presso l’Università degli Studi di Lecce. I reperti sono esposti nel Museo della Città di Alghero. L’intervento archeologico nella necropoli romana di Monte Carru è avvenuto per conto della Soprintendenza Archeologica per le province di Sassari e Nuoro (funzionario responsabile, Daniela Rovina). Alessandra La Fragola, Simona Minozzi

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n otiz iario

ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Grecia

UNA FORTEZZA IN FONDO AL MARE

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ella baia di Kilada, in Grecia, proseguono con successo le ricerche subacquee che l’Università di Ginevra svolge in collaborazione con l’Eforato Greco per le Antichità Sommerse, sotto l’egida della Scuola Svizzera di Archeologia in Grecia. I lavori sono cominciati nel 2014 nell’ambito del progetto «Terra Submersa», per il quale viene impiegata anche l’avveniristica imbarcazione a energia solare MS Turanor PlanetSolar (vedi «Archeo» n. 355, settembre 2014; anche on line su archeo.it). Nella campagna condotta nel 2014, la missione aveva completato la ricognizione della costa orientale del golfo dell’Argolide, nei dintorni di grotta Franchti (occupata a piú riprese tra il Paleolitico e il Neolitico), alla ricerca di tracce di frequentazione dell’uomo

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A destra: baia di Kilada (Grecia). Elaborazione in 3D dell’immagine di una delle strutture fortificate. In basso: un tratto delle fondazioni in pietra del muro di fortificazione. preistorico, e aveva individuato un’area promettente nei fondali antistanti la spiaggia di Lampagianna. Nell’estate del 2015, i ricercatori, guidati da Julien Beck, hanno avuto conferma delle loro ipotesi. Le indagini sono state eseguite attraverso immersioni con autorespiratore e avvalendosi della sofisticata strumentazione della Turanor PlanetSolar, come

l’ecoscandaglio a fasci multipli, il sonar a scansione laterale e il rilevatore GPS, grazie ai quali è stata elaborata un’accurata mappa del fondo marino. Gli archeologi hanno potuto individuare le rovine di quello che è stato interpretato come un insediamento fortificato, distribuite su un’area di oltre 1 ettaro, e localizzate a profondità comprese tra 1 e 3 m. Sono state isolate strutture con diversi tipi di pianta (ortogonale, circolare o absidale), databili alla prima età del Bronzo, e superfici lastricate che presentano una larghezza costante di circa 3,5 m (potrebbe trattarsi di strade). Sono stati inoltre riconosciuti anche elementi della fortificazione esterna di questo insediamento e tre massicce fondamenta a ferro di cavallo, a essa collegate, interpretate come resti di torri difensive, di dimensioni finora ineguagliate in tutta la Grecia. Gli archeologi hanno inoltre potuto recuperare oltre 6000 reperti, databili alla metà del III millennio a.C. Il vasellame è dell’Antico Elladico II, cosí come gli utensili in pietra, le lame di ossidiana e altri oggetti. Sono stati effettuati anche vari carotaggi del fondale, prelevando campioni di terreno che saranno sottoposti ad analisi di laboratorio. P. L.


SCAVI Lombardia

SULLE RIVE DEL LAGO

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A sinistra: necropoli di Lovere. Una sepoltura multipla individuata in occasione delle recenti indagini. In basso: una delle tombe in corso di scavo. Si vede affiorare uno dei vasi di corredo.

a necropoli di Lovere (cittadina situata all’estremità nordoccidentale del lago d’Iseo, in provincia di Bergamo) è uno dei siti archeologici piú importanti di questo comprensorio, per l’ampio arco temporale abbracciato dalle sepolture che ne fanno parte (I-IV secolo d.C.) e per i rari oggetti di prestigio in essa rinvenuti. Di recente, a quasi due secoli dai primi ritrovamenti – effettuati nel 1819 –, è stata condotta una nuova indagine, che ha interessato le tombe oggi situate sotto il campo di calcio parrocchiale. «Nel corso della campagna di scavo – spiega Maria Fortunati,

archeologo direttore della Soprintendenza Archeologia della Lombardia e direttore scientifico dello scavo – sono stati rinvenuti sei recinti funerari di dimensioni e planimetria variabili, tra i 41 e i 145 mq, che all’interno contenevano complessivamente 140 tombe, di cui 91 inumazioni (databili in età tardo romana, tra la fine del III e il IV secolo d.C.) e 48 incinerazioni, inquadrabili nella prima e media età imperiale (I-metà III secolo d.C.).

Per quanto riguarda il rito funerario, prevale l’inumazione in nuda terra, con circa 50 casi (in ogni recinto è il tipo di sepoltura piú comune). Abbastanza frequenti sono comunque le incinerazioni in struttura laterizia, in particolare in cassetta laterizia.Tra le incinerazioni vi sono due sepolture in struttura muraria, una in cassa litica e due in urna cineraria. Le inumazioni sono attestate in strutture laterizie o strutture miste di laterizi e pietre.

Nel recinto 5 è stata inoltre individuata una sepoltura a inumazione con scheletro in posizione prona: un tipo di deposizione anomala, ma comunque attestata in età romana. Quasi tutte le tombe contenevano elementi di corredo, con oggetti di varia tipologia e natura: vaghi di collana in pasta vitrea; armille in bronzo; anelli in argento con castone, alcuni dei quali conservano l’elemento decorativo originario; vasi in ceramica di differente forma e tipologia; numerose lucerne; orecchini; fibule e fibbie; dadi da gioco in bronzo. Non manca la classe dei vetri con balsamari, bottiglie e bicchieri». I nuovi rinvenimenti vanno ora combinati con i dati ricavabili dalla campagna di scavi del 1996 e con quelli scaturiti dalle indagini precedenti, effettuate in modo sporadico e casuale nel XIX e XX secolo. Da segnalare, infine, il ritrovamento di sepolture che insistono nell’area cimiteriale in età medievale, quando i recinti erano ormai defunzionalizzati. Giampiero Galasso

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

IL RILANCIO COMINCIA DALLA SCHOLA CINQUE ANNI FA, UN CROLLO RESE PURTROPPO CELEBRE LA SEDE DI UNA DELLE MAGGIORI ASSOCIAZIONI MILITARI DI POMPEI. ADESSO, QUELLE STESSE MURA SONO IL SIMBOLO DEL «NUOVO CORSO» NELLA GESTIONE E NELLA VALORIZZAZIONE DELLA CITTÀ VESUVIANA

A

ffacciato sulla frenetica via dell’Abbondanza, all’incrocio con un vicolo diretto a nord verso Porta Nolana, nella Regio III di Pompei, si trova un singolare edificio pubblico, di modeste dimensioni, costruito pochi anni prima dell’eruzione del Vesuvio.

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Il fabbricato ospitava la sede di un’importante associazione di stampo militare, all’interno della quale gli affiliati dovevano animarsi fra riunioni e discussioni sulle iniziative locali, oltre che programmare le attività ludiche e militari del

sodalizio da svolgersi nella vicina Palestra Grande o addirittura nel piú spettacolare anfiteatro: uno spazio, quindi, ricreativo e, al contempo, fortemente identitario, legato a una compagine cittadina di alta considerazione sociale. Conosciuto con il nome di Schola Armaturarum, l’edificio è dolorosamente noto per il crollo verificatosi nel novembre del 2010, soprattutto a causa del dissesto idrogeologico – accentuato negli ultimi anni dai cambiamenti climatici – che interessa tutti i fronti di terreno non scavato di Pompei. La Soprintendenza Speciale ha cosí avviato, attraverso il Grande Progetto Pompei, un articolato programma di lavori destinato a


A sinistra: la Schola vista dall’angolo tra via dell’Abbondanza e un vicolo ancora da scavare, in una foto scattata all’epoca degli scavi condotti da Vittorio Spinazzola tra il 1915 e il 1916; su due semipilastri è appoggiato il calco, appena eseguito, dell’armadio ligneo. Nella pagina accanto: una veduta frontale della Schola Armaturarum, cosí come si presentava al momento dello scavo 1915-1916. risolvere questa annosa criticità, e oggi intende trasformare proprio la Schola Armaturarum da simbolo dei «crolli» a simbolo di «rilancio» della città antica. Il progetto di restauro della Schola è destinato essenzialmente a restituire un’immagine meritevole a un monumento particolarmente sfortunato per tutti gli eventi negativi verificatisi all’indomani della sua scoperta. Scavata fra il 1915 e il 1916 dall’allora Soprintendente di Pompei Vittorio Spinazzola, la sede associativa era costituita da un ampio salone – con annessi di servizio retrostanti – largamente aperto su via dell’Abbondanza, dalla quale però si separava mediante un’imponente transenna lignea a intreccio obliquo, ricostruita in occasione dei primi restauri in base ai calchi delle impronte lasciate nella cenere della struttura. Gli incassi presenti sulle pareti della grande sala

testimoniano invece il montaggio di vistose scaffalature, dove probabilmente facevano bella mostra di sé armature e trofei militari, emblemi distintivi dell’associazione. La parete principale di fondo, visibile da Via dell’Abbondanza, era scandita in basso da semipilastri destinati a sorreggere grandi mensole, sopra una delle quali, al momento dello scavo, poggiava un armadio di cui fu immediatamente eseguito il calco in gesso. Qualificava l’edificio una vivace

In alto: l’edificio dopo il restauro post-bellico, con la pesante copertura in cemento. A sinistra: una ricostruzione virtuale della Schola Armaturarum.

decorazione dipinta in IV stile, stesa sia all’interno che all’esterno, dominata da motivi di stile militare-associativo: la parte inferiore del salone, compresa fra i semipilastri, era ornata su fondo rosso (per un’altezza di 1,80 m circa) con Vittorie alate armate; sui pilastri interni dell’ingresso trovava invece posto il motivo del candelabro stilizzato, associato, in alto, a emblemi militari, quali l’aquila e il globo radiato. Sui pilastri esterni erano stati invece rappresentati, su fondo giallo, grandi trofei, con numerose armi alla base e sottostanti iscrizioni elettorali dipinte o sovrapposte fra loro; sugli stipiti, infine, rami di palme, legate al coronamento dei vincitori delle gare. Dopo la scoperta e i primi restauri, iniziarono le sfortune dell’edificio: il pesante bombardamento alleato del settembre 1943 danneggiò gravemente la copertura metallica, il lato occidentale del salone e gli affreschi con trofei sui pilastri d’ingresso; delle Vittorie alate dipinte nel salone, solo quattro si salvarono; anche i calchi dell’armadio e delle transenne su via dell’Abbondanza furono polverizzati. Nell’immediato dopoguerra l’edificio venne prontamente ricostruito fino alla copertura, con la messa in dimora di un pesante solaio in cemento armato, oggetto poi del recente e drammatico crollo.

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

SIMPOSIO CON VISTA SUI TEMPLI GABRIEL ZUCHTRIEGEL È STATO CHIAMATO AD ASSUMERE LA GUIDA DEL PARCO ARCHEOLOGICO DI PAESTUM: HA INAUGURATO IL SUO MANDATO CON... UN BRINDISI E INTENDE SVILUPPARLO NEL SEGNO DELL’INTERATTIVITÀ

N

ato 34 anni fa in Germania, Gabriel Zuchtriegel è il piú giovane dei venti direttori chiamati a guidare i «supermusei» statali autonomi voluti dalla recente riforma del ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini. Da novembre guida il Parco Archeologico di Paestum e una delle sue prime iniziative è stata l’organizzazione di una sorta di simposio tra i templi: «Il Vino del tuffatore. Archeologia e dieta mediterranea». Ci vuole raccontare, direttore? «I visitatori hanno potuto contemplare le lastre dipinte della Tomba del Tuffatore (480-470 a.C.; vedi «Archeo» n. 369, novembre 2015), sulle quali è rappresentato un simposio greco, con un calice di vino in mano: vis à vis con i banchettanti antichi. Nel museo, infatti, oltre a relazioni e tavole rotonde su archeologia, enologia e medicina, sono state organizzate degustazioni di vini di aziende locali e nazionali che hanno concorso per il premio “il Vino del Tuffatore”. L’evento è nato dall’idea di far dialogare l’archeologia con la tradizione ancora viva e vivace, oggi, di produrre e consumare il vino in Italia. Si è parlato del vino nel Mediterraneo antico, delle sue proprietà nutrizionali e mediche, ma anche del marketing e della produzione in tempi moderni».

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Avete insomma dato vita a una sorta di «simposio moderno», sul e con il vino? «Si è parlato di simposio greco come luogo cruciale per la trasmissione di valori e saperi, dalla poesia, alla musica al canto lirico, in cui le immagini dipinte non sono solo illustrazioni, ma camminano insieme ai testi lirici, come ha sottolineato Maria Luisa Catoni. Nel banchetto si esprime il ruolo che ognuno ricopre all’interno della società. Teognide dice che, come la fiamma rivela l’essenza dell’oro, cosí il vino rivela l’anima dell’uomo: durante il simposio si capisce con chi hai che fare». Sono state presentate nuove scoperte archeologiche sul simposio? «Sí, per esempio quella del sito di Torre di Satriano, in Basilicata,

dove è stata trovata la residenza di un capo locale, crollata intorno al 480 a.C. a causa di un terremoto, nella quale sono rimaste sigillate le suppellettili e un servizio per simposio con centinaia di vasi attici. Una testimonianza preziosa sul banchetto antico, poiché è una delle poche che vengano da un abitato e non da una necropoli. Si tratta del primo insediamento di età arcaica scavato con metodo stratigrafico, che ha permesso di ricostruire la vita e non solo l’ideologia funeraria della comunità. E, come ha spiegato Massimo Osanna, l’ideologia del vino era centrale in questo contesto indigeno». Iniziative come questa possono contribuire a far vivere il museo come una realtà pulsante e non avulsa dal mondo esterno... «Troppo spesso i musei sono luoghi


A destra: fotomosaico che mostra la disposizione delle lastre della Tomba del Tuffatore, scoperta nella necropoli di Tempa del Prete (Paestum). 480-470 a.C. Paestum, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, in basso: Paestum. Il tempio detto «di Nettuno», ma, in realtà, dedicato ad Apollo o forse a Zeus. 470 a.C. circa. silenziosi e oscuri. Con il “Vino del Tuffatore” abbiamo voluto fare un passo verso un museo piú “dionisiaco”, nel quale ci sia spazio anche per l’esperienza soggettiva e l’ebbrezza dell’arte. Un museo meno “apollineo”, in cui il turista non sia solo un oggetto passivo, che riceve informazioni dalle didascalie o dai pannelli esplicativi, ma nel quale si instaura uno scambio in entrambe le direzioni. E il museo diventa un luogo di partecipazione». È quindi sua intenzione imprimere un «nuovo corso» alla gestione del museo di Paestum, dando piú voce al visitatore. E quali altre strade pensa di percorrere? «Per esempio attraverso i social network: abbiamo creato una pagina Facebook del Parco Archeologico, che permette di dialogare e postare foto e commenti in tempo reale, durante la visita. Questo è un esempio di come dare spazio all’esperienza e al punto di vista dei visitatori. Fino a oggi esisteva solo un modulo per reclami, per segnalare una luce o un bagno non funzionante, ora c’è la possibilità di condividere impressioni, immagini, commenti. È una sorta di guest book interattivo». Sogna, quindi, una Paestum 2.0? «Fino a tutto l’Ottocento il museo era innanzitutto conservazione: la comunicazione avveniva in una direzione univoca. Noi vogliamo creare un dialogo reciproco, educando e imparando al tempo

stesso, raccogliendo impressioni e domande. Noi ci mettiamo al fianco del visitatore: cosí da poter guardare insieme il reperto archeologico». Professor Zuchtriegel, la sua formazione è avvenuta in Germania, ma ha seguito anche diversi scavi in Italia, lavorando in Basilicata e poi a Pompei. Che cosa porta della sua esperienza straniera, nella sua nuova missione italiana di direttore del Parco Archeologico di Paestum? «Ho una visione europea, non germanica. Ho lavorato tanto a Pompei e non mi sento come uno straniero che viene da fuori per cambiare le cose “alla tedesca”. La mia è un’ottica europea. Per questo vorrei allargare le collaborazioni con le università europee che scavano a Paestum, nonché realizzare mostre e iniziative di valorizzazione in una prospettiva globale». A quali progetti sta pensando per il futuro dei templi di Paestum? «Ho in progetto di aprirne almeno

uno ai visitatori: al momento sono accessibili solo dall’esterno, mentre potervi entrare sarebbe un’esperienza bellissima; stiamo studiando in che modo poterlo fare. Abbiamo, inoltre, un programma di fund raising (raccolta fondi) sul modello di altri musei internazionali, che non si limita a un evento circoscritto nel tempo. Vorremmo instaurare un rapporto piú intenso tra il museo e i suoi sostenitori, in modo da renderli partecipi del nostro percorso, anche offrendo iniziative, eventi, borse di studio e ingressi gratuiti. C’è un grande interesse da parte di soggetti italiani e stranieri, che ci chiedono in che modo si possa dare un contributo: questa è una grande opportunità per il museo, non solo economica, ma anche di dialogo con i donatori. Con il nuovo Art Bonus, cioè il piano di agevolazioni fiscali per chi dona fondi alla cultura, previsto dalla riforma Franceschini, si aprono nuove prospettive per i musei statali in questa direzione».

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n otiz iario

MOSTRE Umbria

IL LUSSO DEL SONNO

A

Perugia, in località Strozzacapponi, indagini di archeologia preventiva hanno messo in luce numerose tombe etrusche ipogee scavate nel travertino, tra quella degli Anei marcna, detta «del letto funebre». Si tratta di una sepoltura ipogea scavata nel banco roccioso e preceduta da un lungo dromos con lastrone di chiusura in travertino: la camera sepolcrale a pianta quadrangolare presenta un pilastro centrale addossato alla parete di fondo, banchine che corrono su tre lati e un pozzetto centrale. Sulle banchine sono state recuperate otto urne cinerarie in travertino e alcuni elementi in bronzo, che dovevano ricoprire i telai di legno di due letti, dei quali rimangono esigue tracce. «I numerosi elementi bronzei, pertinenti a letti funebri, inquadrabili alla fine del II secolo a.C. – spiega Luana Cenciaioli, della Soprintendenza Archeologia dell’Umbria, che ha diretto i lavori – erano concentrati in due nuclei distinti, collocati sulla banchina di sinistra. Il gruppo 1 conteneva

A destra: la testa bronzea di cavallo (o mulo) del fulcrum (spalliera) del letto B. In basso: la ricostruzione del letto A. elementi pertinenti a uno stesso letto funebre (letto A), provvisto di testata con fulcrum (spalliera a forma di «S») a testa di animale acquatico. Gli elementi di sostegno hanno permesso di ricostruirne la struttura: si tratta di un letto a testata unica, con doppio telaio ligneo, dotato di due passanti trasversali, inseriti a metà zampa e ai piedi. Il telaio superiore era decorato da rivestimenti bronzei e le zampe formate dalla sovrapposizione di elementi a incastro. Il gruppo 2 conteneva elementi pertinenti al letto B, caratterizzato da una testata con fulcrum a testa di cavallo o mulo. La struttura è analoga a quella del letto A, ma di dimensioni minori. In conclusione la tomba ha restituito elementi pertinenti a letti funebri, con la stessa struttura, realizzati dalla stessa bottega».

Un delicato e lungo lavoro di restauro e ricomposizione ha permesso di ricostruire il letto A e il cuscino del letto B, con la creazione di una struttura autoportante in legno e acciaio, sulla quale sono stati appoggiati a incastro gli elementi in bronzo. I due manufatti sono ora esposti nell’Antiquarium Comunale di Corciano (Perugia), nell’ambito della mostra «Il Lusso del Sonno», curata dalla stessa Luana Cenciaioli. Oltre ai due letti in bronzo, che rivestono senza dubbio un’estrema importanza sia per la pregiata esecuzione sia per la rarità dei pezzi, l’esposizione presenta altri reperti provenienti dalla tomba degli Anei marcna, come il vasellame in ceramica comune e a vernice rossa (brocchette, olpette, vasetti miniaturistici, piatti e unguentari), specchi in bronzo e alcuni elementi di cassetta in osso lavorato. Giampiero Galasso

DOVE E QUANDO «Il Lusso del Sonno. I letti di bronzo di Strozzacapponi» Corciano, Antiquarium fino al 31 agosto 2016 Orario giorni feriali, 9,00-13,00 e 15,00-18,00; giorni festivi, 10,00-13,00 e 15,00-18,00; chiuso il lunedí Info tel. 075 5188.255/260; e-mail: infopoint@comune.corciano.pg.it

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TURISMO ARCHEOLOGICO Toscana

NELLE TERRE DEGLI ETRUSCHI

L

a Toscana è considerata la culla degli Etruschi, civiltà che si sviluppò a partire dal IX secolo a.C. e che gradualmente, con processi non sempre pacifici, andò a integrarsi con le gentes romane, anche grazie alla Lex Iulia de Civitate del 90 a.C. Gli Etruschi hanno peculiarità che li rendono, ancora oggi, affascinanti, misteriosi, moderni. Furono considerati e apprezzati come il popolo dotato dell’organizzazione piú efficiente tra tutti quelli che abitavano la fascia costiera tirrenica. Furono abilissimi nello sfruttamento delle risorse minerarie, nelle coltivazioni agricole di qualità – tra cui la vite e l’olivo –, nella misurazione e divisione dei terreni, nell’allevamento del bestiame, nelle tecniche idrauliche e nel drenaggio delle acque, negli scambi commerciali con paesi lontani, nella navigazione e nell’arte della guerra, nella vita domestica, nelle attività artigianali, nelle arti e nei mestieri, nello sport.

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Nella civiltà etrusca il rapporto tra uomo e donna era regolato da un vincolo, ma la seconda aveva un ruolo sociale ben delineato: partecipava di diritto al banchetto con il proprio compagno, aveva molta cura del proprio corpo, indossava gioielli, amava abiti lussuosi, acconciature e trucchi vistosi, manteneva il proprio cognome anche dopo il matrimonio, aveva diritto a una propria tomba, era titolare di atti di compravendita e di successione ereditaria. Alla base della religione etrusca, vi era l’idea che la natura dipendesse strettamente dalla divinità; i luoghi ove si svolgevano i riti erano delimitati e consacrati e nelle funzioni trovavano ampio spazio musica e danza. I sacrifici religiosi coinvolgevano categorie particolari di animali e le offerte comprendevano prodotti della terra; particolarmente diffusa era l’usanza dei doni votivi con riproduzioni di offerte. Un posto particolare era dedicato al culto dei morti e a quello degli antenati.


La tomba di famiglia diventava il monumento sacrario della stirpe e della sua storia. Le produzioni artistiche etrusche – tra cui terrecotte, buccheri e bronzi –, avevano principalmente funzioni decorative, a servizio delle esigenze devozionali. Significative sono le ricche produzioni degli intagli in avorio e osso (periodo orientalizzante e arcaico) e quello delle gemme incise su pietre dure, a rilievo negativo. I prodotti piú originali e riusciti dell’artigianato artistico etrusco si hanno nell’oreficeria, soprattutto in quella realizzata tra la metà del VII e la fine del VI secolo a.C. La pittura ebbe, in Etruria, connotazioni prevalentemente funerarie e tombali. In Toscana il territorio, il contesto ambientale, le aree archeologiche, le necropoli, i musei tramandano la straordinaria civiltà etrusca che può essere vissuta, giorno dopo giorno, in un viaggio affascinante, pieno di emozioni, di sapori, di vita vissuta.

Gli itinerari proposti all’interno del portale www.terredeglietruschi.it devono essere percorsi senza fretta, in sintonia con l’ambiente che li circonda, alla ricerca delle origini di una delle piú affascinanti civiltà dell’antichità. Ecco i nostri suggerimenti: • itinerari di trekking e Mountain bike Arezzo-San Casciano dei Bagni Grosseto-Sorano (Via Clodia) Volterra-Piombino Volterra-Firenze Vetulonia-Monterotondo Marittimo • itinerari per cicloturisti Fiesole-Volterra Volterra-Populonia Monterotondo Marittimo-Vetulonia Arezzo-San Casciano dei Bagni Pitigliano-Roselle (Via Clodia) • itinerari auto su strada Fiesole-Firenze Pisa-Volterra-Certaldo Alle pendici del Montalbano Siena-Rapolano-Murlo Talamone-Cosa-Vulci Confini montani dell’Etruria Arezzo-Chianciano Terme Massa Marittima-Grosseto Piombino-Pisa Scansano-Civiltà del tufo Contatti: info@terredeglietruschi.it; è possibile scaricare gratuitamente le APP Android e iOS. Ario Locci

Sulle due pagine, da sinistra: una tipica «via cava», strada etrusca tagliata nella roccia; la cittadella di Populonia; la porta etrusca di Saturnia.

i n f o r m a z i o n e p u b b l i c i ta r i a

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MOSTRE New York

QUANDO IL POTERE CAMBIÒ IL SUO VOLTO

L’

ascesa al trono d’Egitto del faraone Mentuhotep II (20642013 a.C.), segna l’inizio del Medio Regno: un periodo che abbraccia circa quattro secoli (2064-1797 a.C.) e che fu segnato da una notevole fioritura culturale. Le tradizioni maturate nel corso del precedente Antico Regno vennero rielaborate ed è proprio quest’ondata rinnovatrice l’oggetto della mostra allestita nelle Tisch Galleries del Metropolitan di New York. La rassegna propone 230 oggetti e opere d’arte, che, attingendo alle collezioni permanenti del museo newyorchese e integrandole con prestiti di istituti statunitensi ed europei, documentano tutte le espressioni piú significative del periodo considerato: spaziando da sculture monumentali a raffinati monili. Come ha detto Adela Oppenheim, curatore della sezione di antichità egiziane del Met, «La straordinaria continuità culturale dell’antico Egitto, che

Qui sotto: rilievo raffigurante Sesostri I. 1964-1929 a.C. Londra, Petrie Museum of Egyptian Archaeology.

vede protrarsi immutabili, per millenni, alcuni dei suoi principi basilari, dà la sensazione di un mondo incapace di cambiare: una visione che le opere riunite per la mostra correggono, dando prova di un’evoluzione costante, che si manifesta in un contesto duttile e flessibile, nel quale le idee nuove non si limitano a soppiantare le vecchie». In alto: particolare della statua del funzionario Nemtihotep. 1981-1802 a.C. circa. Berlino, Staatliche Museen. Qui sotto: testa di una statua di Amenemete III che indossa la corona bianca. 1861-1813 a.C. circa. Copenaghen, Ny Carlsberg Glyptotek.

Ad aprire il percorso espositivo, che si snoda cronologicamente, è un ritratto colossale dello stesso Mentuhotep II, scolpito in una foggia dai tratti volutamente arcaizzanti, con i quali si vuole suggerire il legame del faraone con i leggendari sovrani dell’epoca predinastica. Sfilano quindi numerose altre statue di membri della famiglia reale, attraverso le cui fisionomie è invece possibile cogliere i mutamenti dell’idea di regalità nel corso dei secoli. E se i faraoni delle fasi iniziali del Medio Regno vengono solitamente ritratti con volti giovanili ed espressioni cariche di orgoglio e consapevolezza del proprio potere, le immagini dei re che si succedettero sul finire del periodo risultano meno marziali e ci propongono sovrani colti spesso in età matura, che si mostrano con sguardi pacati e benevoli. (red.)

DOVE E QUANDO «L’Antico Egitto trasformato. Il Medio Regno» New York, The Metropolitan Museum of Art fino al 24 gennaio 2016 Orario tutti i giorni, 10,00-17,30 (ve-sa, apertura serale fino alle 21,00); chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.metmuseum.org

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n otiz iario

ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

SACRO E PROFANO L’articolo sulla statua del Buon Pastore (scolpita tra il III e il IV secolo d.C.) e conservata nei Musei Vaticani (1-2) illustra in che modo si sia riusciti a comprendere i messaggi nascosti nell’opera, accreditatasi come una 1 2 3 testimonianza importante della transizione dalla Roma pagana alla Roma cristiana (vedi alle pp. 40-49). Tutto nasce dal fatto che, in origine, il soggetto dell’opera era un simbolo pagano che si riferiva al mondo pastorale, con un piú antico richiamo a Hermes (3) quale «portatore delle anime»: i cristiani dell’epoca (4, dalla catacomba di S. Callisto) se ne appropriarono, facendone uno dei piú noti simboli della cristianità. Qui cerchiamo di documentare 5 filatelicamente (pur con una scelta limitata dallo 4 spazio a disposizione) alcuni dei concetti su cui si basano le considerazioni proposte nell’articolo. La statuetta del pastore che portava l’agnello sulle spalle era il simbolo di un atteggiamento di benevolenza verso gli umani; i cristiani recisero il legame di questo simbolo col dio Mercurio/Hermes 8 mantenendo solo il concetto di benevolenza, la humanitas latina. Poi ci sono vari passi dei Vangeli nei 7 quali Gesú è definito «buon pastore» o «che va alla 6 ricerca della pecorella smarrita lasciando le altre novantanove nell’ovile», affermando di essere il Messia attraverso il quale «Dio pascerà il suo popolo». Si può quindi affermare che l’immagine del «buon pastore» è stata usata contemporaneamente da pagani (Hermes/Mercurio) e cristiani (5-6-7). Dal punto di vista archeologico, la statua nacque, in realtà, come parte del rilievo che ornava la fronte di un sarcofago pagano e che fu trasformato in scultura a 10 tutto tondo nel 1764, come risulta dai documenti conservati nell’Archivio Vaticano. Ecco dunque un’altra trasformazione del pastore «pagano» in «cristiano» (8-9; il foglietto del Vaticano raffigura, oltre all’intera statuetta, particolari di sarcofagi pagani). Altro simbolismo religioso attribuito al «Buon 9 11 Pastore» è l’accostamento al Gesú risorto che porta sulle spalle l’intera umanità, l’agnello, verso il Cielo (10-11: entrambi emessi per ricordare la IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere Pasqua di Resurrezione). Questa ricchezza di alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai significati spiega perché l’immagine di Gesú seguenti indirizzi: come «Buon Pastore» sia tanto diffusa. E Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, soprattutto, come potrete leggere nell’articolo, Via Tavanti, 8 C.P. 17037 perché sia divenuta il simbolo di «tutta la storia della 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. salvezza cristiana (la condizione originale, il peccato, la oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it redenzione), con una chiarezza abbagliante».

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CALENDARIO

Italia

CHIUSI La Tomba del Colle nella Passeggiata Archeologica a Chiusi

ROMA Rampa Imperiale di Domiziano

Museo Nazionale Etrusco fino al 31.12.15

Nuovo percorso e mostra Foro Romano fino al 10.01.16

Particolare della corsa delle bighe dipinta nell’atrio della Tomba del Colle di Chiusi. 475-450 a.C.

La forza delle rovine Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 31.01.16

Tesori della Cina Imperiale

L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16

In alto: la Rampa Imperiale di Domiziano.

Un racconto archeo-gastronomico della media valle del fiume Fiora Museo Civico «Ferrante Rittatore Vonwiller» fino al 31.12.15

Symbola. Il Potere dei Simboli

FIRENZE 30.000 anni fa

Recuperi archeologici della Guardia di Finanza Stadio di Domiziano fino al 15.04.16

La prima farina Spazi Espositivi dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze fino al 06.01.16

ACQUI TERME La città ritrovata

Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16

Il mondo che non c’era Qui sotto: stele di Ostalia Gallenia. I sec. a.C.

BOLOGNA Splendore millenario

nella Maremma preistorica Cassero Senese fino al 31.12.15

Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia fino al 17.01.16

CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) Dal Buio alla Luce

Opere e reperti dalle ville di Stabiae Palazzo Reale di Quisisana fino al 31.12.15 30 a r c h e o

GENOVA Le sfide di Homo sapiens

GROSSETO Uomini e elefanti

BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po

Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna Palazzo di Città fino al 10.04.16 (dall’11.12.15)

L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 06.03.16

Museo di Archeologia Ligure fino al 31.12.15

Capolavori da Leiden a Bologna Museo Civico Archeologico fino al 17.01.16

CAGLIARI Eurasia, fino alle soglie della Storia

FARNESE (VT) Il sapore della storia

MILANO Mito e Natura In basso: affresco che raffigura Perseo, da Villa San Marco.

Dalla Grecia a Pompei Palazzo Reale fino al 10.01.16

NAPOLI Missioni italiane in Turchia

Mostra fotografica e multimediale Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa fino al 31.01.16

POZZUOLI Tra terra e mare

All’origine del gusto Area archeologica del Rione Terra fino al 18.01.16

Qui sotto: affresco dalla Casa del Bracciale d’Oro di Pompei. Età giulio-claudia.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SAN GIOVANNI IN PERSICETO (BOLOGNA) Il cibo degli Dèi

SAINT-ROMAIN-EN-GAL Il combattimento di Entello e Darete

TRENTO Ostriche e vino

Germania

L’alimentazione nel mondo antico Palazzo Comunale fino al 29.02.16

In cucina con gli antichi romani Area archeologica di Palazzo Lodron fino all’08.01.16

VERONA Palafitte

Un viaggio nel passato per alimentare il futuro Museo Civico di Storia Naturale fino al 10.04.16

VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) Antichità sequestrata A Vetulonia l’Italia antica si ritrova a tavola Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.01.16

VILLANOVA DI CASTENASO (BOLOGNA) Apparecchiare per i vivi e per i morti I Villanoviani di pianura a partire dagli scavi di Elsa Silvestri MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 05.06.16

Mosaici restaurati da Aix-en-Provence Musée gallo-romain fino al 24.04.16

BERLINO Combattere per Troia

Le sculture del tempio di Egina contro i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16

MANNHEIM Egitto

Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16

Gran Bretagna LONDRA Celti: arte e identità British Museum fino al 31.01.16

Egitto

Belgio

La fede dopo i faraoni British Museum fino al 07.02.16

BRUXELLES Anatolia

Grecia

Casa dell’eternità BOZAR/Palais des Beaux-Arts fino al 17.01.16

Sarcofagi

Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16

TONGRES I gladiatori

Eroi del Colosseo Musée Gallo-romain fino al 03.04.16

Francia PARIGI Sepik

Arte da Papua Nuova Guinea Musée du quai Branly fino al 31.01.16

ATENE Samotracia

I misteri dei Grandi Dèi Museo dell’Acropoli fino al 10.01.16

Svizzera BASILEA Il tesoro sommerso

Testa in bronzo di Augusto, da Meroe. 27-25 a.C.

Ercole fanciullo con il serpente. Seconda metà del XVII sec.

Il relitto di Anticitera Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 27.03.16

MENDRISIO «Roma eterna».

Capolavori di scultura classica. La collezione Santarelli Museo d’arte Mendrisio fino al 31.01.16 a r c h e o 31


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

ECCO LA TOMBA DEL GUERRIERO! LA MISSIONE DELL’UNIVERSITÀ DI CINCINNATI A PILO HA COMPIUTO UNA SCOPERTA STRAORDINARIA: NON LONTANO DAL PALAZZO DI NESTORE È VENUTA ALLA LUCE LA SEPOLTURA DI UN PERSONAGGIO CERTAMENTE DI SPICCO, DEPOSTO CON UN CORREDO RICCHISSIMO E NEL QUALE SPICCANO ALCUNE PRESENZE «ANOMALE»... 32 a r c h e o


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on c’è da stupirsi che la notizia abbia fatto il giro del mondo in poche ore, suscitando grande interesse anche tra i non addetti ai lavori: non è certo normale routine, infatti, scoprire la tomba di un guerriero di epoca micenea, a poche decine di metri dal Palazzo di Nestore a Pilo. Se poi si tratta di una sepoltura inviolata e che, per di piú, ha restituito oltre 1400 oggetti di corredo, allora si può davvero parlare di un autentico, piccolo miracolo. La comunità scientifica non nutriva alcun sospetto sul ritrovamento effettuato da Sharon Stocker e Jack Davis nella scorsa estate. I due archeologi dell’Università di Cincinnati (vedi box a p. 37), infatti, avevano mantenuto il riserbo piú assoluto sulla scoperta, in attesa di portare a termine lo scavo. Cosí, quando un comunicato stampa del Ministero Ellenico alla Cultura ha annunciato ufficialmente il rinvenimento, molti archeologi, primi fra tutti gli specialisti di preistoria egea, sono rimasti sorpresi e piacevolmente stupiti.

UN EVENTO MEMORABILE D’altro canto, sarebbe stato davvero difficile rimanere indifferenti: siamo infatti alle prese con il rinvenimento piú importante che sia stato effettuato nella Grecia continentale negli ultimi 65 anni! Perfino Stocker e Davis si sono detti sorpresi: «Non ci aspettavamo per nulla di fare una scoperta simile.

GRECIA Atene

Pilo Mar Ionio

Mare Egeo

Nella pagina accanto, in alto: Pilo. Due archeologhe eseguono rilevamenti sulla tomba del guerriero. Nella pagina accanto, in basso: Sharon Stocker mostra la lunga collana d’oro e pietre preziose indossata dal guerriero.

In alto: una veduta della sepoltura in corso di scavo. Si tratta di una tomba a fossa, in cui il corpo del defunto era deposto dentro una cassa di legno. Lo scavo ha restituito l’intero corredo, composto da oltre 1400 oggetti, perlopiú in oro, argento e bronzo.

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Non eravamo alla ricerca di una tomba e trovarne una intatta è un evento eccezionale!». Quel che è tornato alla luce a Pilo parla da sé: si tratta di una tomba a fossa, databile al Tardo Elladico II, cioè attorno al 1500 a.C., contenente i resti di un guerriero, un uomo dell’età di circa 30-35 anni, deposti all’interno di una cassa di legno.

SOLTANTO ORO, ARGENTO E BRONZO La messe di manufatti trovati nella sepoltura riflette la volontà di ostentare la ricchezza del defunto, accumulando un corredo che, a oggi, ha pochi confronti. Il guerriero, infatti, fu sepolto assieme al suo elmo (ne sono state trovate le zanne di cinghiale) e a una lunga spada di bronzo con l’elsa d’avorio ricoperta d’oro (una tecnica impiegata raramente, che imita l’ageminatura); al di sotto, fu posto un pugnale, anch’esso bronzeo, e con l’impugnatura in oro, lavorata in una tecnica simile, mentre ai piedi dell’uomo si trovavano altre armi e vasi in bronzo, tra cui ciotole, un’anfora e alcune coppe.

Un disegno ricostruttivo descrive l’interno della sepoltura, con lo scheletro del guerriero defunto circondato dagli oggetti del corredo. La preziosissima collana (1) in fili d’oro intrecciati, si trovava attorno al collo del guerriero. Lo specchio (2) era adagiato ai suoi piedi. Nella tomba erano anche presenti numerosi anelli in oro e sigilli in pietra, con decorazoni zoomorfe in stile minoico.

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«In questo periodo, in Grecia, i corredi erano solitamente composti da oggetti di ceramica», ha commentato Jack Davis, che ha aggiunto: «Invece, questo personaggio era cosí ricco che il suo corredo non comprendeva vasi in ceramica, ma solo manufatti in bronzo, argento e oro». E non solo: la tomba ha restituito oltre 50 sigilli, chiaramente prodotti a Creta, con immagini incise i cui confronti si ritrovano nell’arte minoica: divinità, altari, leoni, tori e una taurocatapsie, il gioco con probabile valenza rituale consistente nel dare la caccia a un toro e legarlo, saltandogli sopra. La presenza di sigilli di stampo minoico in Grecia continentale, ben prima della nascita della cultura palaziale – quando cioè non vi era ancora necessità di impiegarli in operazioni di tipo burocratico –, potrebbe indicare che il guerriero di Pilo li avesse accumulati in ragione del loro valore, della loro natura esotica e forse anche per il loro contenuto ideografico, ha supposto Davis.

I SIGILLI MINOICI Il corredo comprendeva inoltre quattro anelli aurei con sigillo, due coppe d’oro, sette coppe in argento (una delle quali con labbro in oro), uno specchio di bronzo, una lunga collana d’oro, sei pettini d’avorio, vari frammenti di avorio – tra cui due che rappresentano un grifone dalle ali spiegate e un leone che attacca un grifone –, e piú di mille vaghi di pietre preziose (cornalina, agata, diaspro, ametista), posti attorno alla testa e sul lato destro del corpo: alcuni di essi, probabilmente, decoravano il sudario. Colpisce, in questo lungo

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elenco, la presenza dei pettini d’avorio, dello specchio e della collana, trovata sul collo del guerriero: una catena d’oro della lunghezza di 76 cm, inframmezzata da tre vaghi di pietre preziose e chiusa da due placchette auree in forma di foglie d’edera.

UN’OCCASIONE UNICA «Siamo al cospetto di un uomo, un guerriero, sepolto con pettini, collane e uno specchio. Se questa fosse stata una sepoltura multipla in cui erano stati inumati anche

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Nella pagina accanto, in alto: alcune delle armi in bronzo deposte con il guerriero. In basso, a sinistra: uno dei sei pettini in avorio rinvenuti nella tomba. In basso, a destra: un archeologo impegnato nel recupero del corredo.

L’UNIVERSITÀ DI CINCINNATI IN GRECIA

Una lunga tradizione

Le ricerche dell’Università di Cincinnati a Pilo, che si svolgono come previsto dal protocollo sotto la supervisione del Ministero Ellenico alla Cultura, sono state finanziate dall’INSTAP, dal Fondo Louise Taft Semple del Dipartimento di Studi Classici dell’Università di Cincinnati e da sponsor privati. Sharon Stocker, professore associato presso il Dipartimento di Studi Classici dell’Università di Cincinnati e direttrice del programma di pubblicazione degli scavi di questa Università al Palazzo di Nestore, e suo marito Jack Davis, professore di archeologia greca presso il medesimo ateneo ed ex direttore della Scuola Americana di Studi Classici ad Atene, hanno alle loro spalle una solida tradizione di studi e ricerche sulla cultura micenea: l’Università di Cincinnati, infatti, è da lungo tempo legata alla storia della Grecia in quell’epoca e del Palazzo di Nestore, avendo avuto tra i suoi docenti anche l’archeologo Carl William Blegen (1887-1971). Blegen, che fu professore di archeologia classica presso l’ateneo statunitense, diresse le indagini a

Troia tra il 1932 e il 1938, individuando attraverso scavi stratigrafici le nove fasi di vita del sito, poi rimaste un caposaldo negli studi; le sue ricerche a Troia furono pubblicate in 4 volumi. Tornato in Grecia nel 1939, ancora sulle tracce dei siti descritti da Omero, Blegen si mise alla ricerca della Pilo di Nestore, individuando come probabile sito la collina di Ano Englianòs, in Messenia, 5 km a nord della Baia di Navarino. Proprio lí, tra il 1939 e il 1964, Blegen e il suo team riportarono alla luce non solo il palazzo miceneo ancora oggi definito «di Nestore», ma anche piú di un migliaio di tavolette in Lineare B e numerose tombe micenee dotate di corredi ricchissimi. A questa figura di spicco dell’archeologia nord-americana, di recente analizzata in una monografia che ne illustra la vita e l’opera (Carl W. Blegen. Personal and Archaeological Narratives), è intitolata la cattedra di archeologia greca dell’Università di Cincinnati, oggi tenuta da Jack Davis. Non a caso, verrebbe da dire.

individui di sesso femminile, avremmo supposto che a questi ultimi fossero pertinenti quegli oggetti», ha commentato Sharon Stocker. Un’occasione unica, insomma, per rivedere teorie di gender studies, ma anche per valutare l’impatto della cultura minoica sulle prime fasi della civiltà micenea, quelle che precedono l’epoca del Palazzo di Nestore e che sono per l’appunto oggetto delle ricerche dei due archeologi a Pilo. Infine, ad accrescere il valore della scoperta è la presenza di un contesto archeologico. Per concludere con le parole di Jack Davis, «sono le informazioni relative al contesto – che cosa è stato trovato, dove e assieme a quali manufatti – che ci forniscono gli strumenti necessari per decifrare il significato che questi oggetti avevano per la comunità che li ha sepolti col guerriero».

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SCOPERTE • BUON PASTORE

Particolare del Buon Pastore, scultura realizzata a cavallo tra il III e il IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano (vedi l’immagine intera a p. 46).

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IL

«BUON PASTORE»

RIVELATO

È IL REPERTO PALEOCRISTIANO PIÚ CELEBRE TRA QUELLI CONSERVATI NEI MUSEI VATICANI. FORSE PERCHÉ È UN SIMBOLO PER ECCELLENZA DEL CRISTIANESIMO ANTICO; O, ANCHE, PER LA SUA INTRINSECA E SERENA BELLEZZA. MA A CHI SI ISPIRANO I SOAVI TRATTI DEL SUO VOLTO? ED È PROPRIO VERO CHE L’IMMAGINE DEL GIOVANE CON L’AGNELLO FU DIRETTAMENTE ISPIRATA AI PASSI DEL VANGELO? UMBERTO UTRO, STUDIOSO DELL’ARTE PALEOCRISTIANA, CI CONDUCE A UN APPROFONDITO ESAME DELL’AFFASCINANTE SCULTURA E DEI SUOI SIGNIFICATI. PER SCOPRIRE CHE… di Umberto Utro

L

a statuetta marmorea nota come «Buon Pastore», il reperto piú celebre della collezione di antichità cristiane dei Musei Vaticani, è un’immagine-simbolo dell’arte paleocristiana. Non tutti sanno, però, che il soggetto della scultura – databile tra la fine del III e gli inizi del IV secolo – era, in origine, un simbolo «pagano», che i cristiani fecero proprio, rilevandolo tal quale dall’immaginario degli antichi. Vale la pena, dunque, approfondire l’antico significato di questa preziosa immagine – o, meglio, i suoi molteplici significati – per ripercorrerne il complesso processo di trasformazione semantica, specchio dell’epocale passaggio dal

mondo pagano a quello cristiano. La nostra figura racchiudeva, anticamente, un riferimento al mondo bucolico, pastorale, tratto quanto di piú comune nell’antichità, insieme ai temi del mondo marino. Un mondo, invero, idealizzato: se pensiamo, per esempio, alle virgiliane Bucoliche, capiamo come la cultura degli antichi contrapponesse quel mondo alle fatiche della vita cittadina (nell’antitesi otium/negotium), immaginando raffinati pastori discutere dei piú profondi temi esistenziali. Ma la figura del pastore aveva, in antico, un significato ancor piú preciso: essa era una delle rappresentazioni simboliche del dio Hermes, il Mercurio romano.

L’immagine di un pastore che porta un agnello (o un ariete) sulle spalle (in greco kriophóros) richiamava quella di Hermes quale portatore delle anime (psicopompo) nell’aldilà, in un atteggiamento – tratto non frequente tra le divinità antiche – di benevolenza verso gli umani. Nel corso dei secoli, arrivando ai primi dell’era cristiana, questa immagine venne lentamente a sganciarsi dal suo legame con il dio Mercurio, per diventare sempre piú simbolo e personificazione stessa di questa benevolenza nei confronti del genere umano: una virtú evocata con la parola greca philanthropía (che potremmo tradurre con l’«aver a cuore gli esseri umani») e che i Latini a r c h e o 41


SCOPERTE • BUON PASTORE

chiamarono humanitas, con bella e intraducibile parola. In questa nuova veste i cristiani entrarono in contatto con la nostra immagine, priva, ormai, della sua componente «idolatrica», senza mutarla in nulla, almeno inizialmente. Veniamo ora alle parole del Vangelo, scritte entro il I secolo della nuova era e, in particolare, ai due brani essenziali al nostro discorso. Uno è quello di Giovanni, al capitolo 10, forse il piú importante, perché proprio in esso Gesú si definisce «buon pastore»: «Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Lo ripete poi ancora: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me… e do la mia vita per le pecore» (vv. 14-15).

IL PASTORE DIVINO… Vi è poi un altro passo evangelico in cui si parla del «buon pastore»: è quello dei Vangeli sinottici Matteo e Luca (Mt 18,12-14; Lc 15,3-7), che va in cerca della pecora smarrita, lasciando nell’ovile le altre novantanove. Anche questo brano giocherà un ruolo decisivo per la comprensione dell’immagine del nostro pastore. Torniamo, però, al brano di Giovanni: «Io sono il buon pastore…». È da lí che occorre partire per capire come i primi cristiani hanno voluto riferirsi alla figura di Cristo, usando una preesistente immagine/simbolo. Innanzitutto, occorre soffermarsi sull’incipit della frase: dire «Io sono» da parte di Gesú – insegnano gli esegeti – è una vera rivelazione teofanica. Infatti, nella Bibbia è Dio che dice di sé «Io sono», rivelando il suo nome (cfr. Es 3,14). In tutti i passi evangelici, dunque, in cui Gesú afferma con assolutezza «Io sono», egli intende rivelare 42 a r c h e o

qualcosa di fondamentale di sé e della sua natura divina. Quando Gesú dice «Io sono il buon pastore», in particolare, egli applica a se stesso un’immagine profetica ben presente al suo uditorio: nel libro di Ezechiele, al capitolo 34, Dio rivela, infatti, che attraverso il Messia (simboleggiato dalla figura di Davide) sarà lui stesso a pascere il suo popolo: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. (…) Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita. (…) Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide-mio-servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore. Io, il Signore, sarò il loro Dio e Davidemio-servo sarà principe in mezzo a loro» (Ez 34,15-16.23-24; cfr. Ger 23,3; Sal 23). Pertanto, attraverso quella breve e, in apparenza, semplice frase («Il sono il buon pastore»), Gesú rivendica in modo esplicito la sua figliolanza divina e la sua identità messianica, rivelando che in quel momento si compie la profezia sulla venuta di Dio tra gli uomini per guidare il suo popolo.

…BELLO-E-BUONO Il Vangelo di Giovanni qualifica poi il pastore/Gesú come «buono», un epiteto a noi familiare, grazie all’espressione, appunto, del «Buon Pastore». Ma è davvero cosí? Nella versione originale greca del racconto l’evangelista non usa, alla lettera, questa parola. Seguiamo il testo greco: Egó eimi («io sono») ho poimèn («il pastore») e ci aspetteremmo adesso ho agathós («buono»). Invece Giovanni dice, testualmente, ho poimèn ho kalós (« il bel pastore»)! Ma, se è cosí, le comuni versioni che noi leggiamo, anche in testi liturgici, riporterebbero una traduzione errata? Per sciogliere questo dubbio

dobbiamo calarci nella temperie culturale in cui viene scritto il Vangelo in questione. Giovanni, infatti, è un Ebreo di cultura greca e sa bene che la parola kalós per i Greci non ha un valore esclusivamente estetico, ma ne possiede anche uno morale: la bellezza non è solamente quella fisica, il termine fa riferimento anche – e se possibile ancor piú – a quella interiore. È all’antico ideale della perfezione umana, la greca kalokagathía (cioè «bellezza-ebontà») che si riferisce Giovanni! Infatti, subito dopo aver fatto dire a Gesú «Egó eimi ho poimèn ho kalós», continua: «e do la vita per le mie pecore», ripetendo il concetto due volte, perché è questa la vera bellezza del buon pastore, il fatto che liberamente dà la vita per la salvezza degli uomini, egli sí, vero «filantropo»: «Dio, infatti, ha tanto amato il (segue a p. 47)


Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.


SCOPERTE • BUON PASTORE

QUEL PESO SULLE SPALLE... L’immagine di un uomo (o di una divinità) che porta un animale sulle spalle, un vitello (in greco móschos, da cui moscoforo) o un ariete (kriós, da cui crioforo) è un motivo iconografico che fa la sua comparsa nell’arte greca sin dal VII secolo a.C. Da lí si diffuse, sia nel periodo arcaico, sia nei secoli successivi, fino all’età ellenistica, per poi passare a quella romana e cristiana Caduceo e sandali alati Un’immagine di Hermes crioforo dipinta su un’olpe attica a figure nere. 515-510 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Si notino gli attributi tipici del dio: il caduceo, i sandali alati e il mantello a larghe falde (petaso).

Doppia identità Statuetta in terracotta di Hermes come crioforo, da Tebe. 500-475 a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’immagine del dio allude anche alla sua natura di psicopompo, cioè di «portatore delle anime» nell’aldilà.

Un modello di successo Ancora un Hermes crioforo, probabile replica di un originale dello scultore greco Calamide (attivo nel V sec. a.C.). Età tardo-imperiale romana. Roma, Museo di Scultura Antica «Giovanni Barracco».

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La versione di Aquileia Aquileia, basilica. L’immagine del Buon Pastore in uno dei quadretti del grande mosaico pavimentale policromo realizzato per volere del vescovo Teodoro (308-319 d.C.).

Il pastore tra i leoni Sarcofago strigilato sul quale, fra due teste leonine, compare l’immagine del pastore crioforo. III sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Questa figura si avvicina di molto all’immagine del Buon Pastore dei Vaticani.

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SCOPERTE • BUON PASTORE

UNA STATUA CHE NON È UNA STATUA Vi è un altro particolare da ricordare, a proposito del singolare recupero di un soggetto pagano operato dai cristiani: la statuetta vaticana, in realtà, non è una statua. La preziosa opera, infatti, è stata «trasformata» in statuetta nel Settecento, quando un restauratore intraprendente aggiunse la parte bassa mancante, insieme a qualche altro particolare! Nell’Archivio Segreto Vaticano sono ancora conservati in originale i conti del pagamento di questo restauro. In essi è attestato che Giuseppe Angelini, valente scultore che realizzò la nuova presentazione dell’opera, propose al papa la trasformazione, appunto in statua, di «un grosso fragmento di bassorilievo»: si trattava, molto probabilmente, di un pezzo frammentario della fronte di un sarcofago. La nostra «statua», dunque (che misura 100 x 36 x 27 cm), era in origine parte della decorazione a rilievo di un sarcofago cristiano, forse proveniente dalle catacombe romane. Un particolare, questo della sua de-costruzione, piuttosto importante: come avremmo potuto spiegarci, altrimenti, il fatto che i primi cristiani, cosí pronti a denunciare come «stoltissimi» i simulacri in marmo degli dèi (come fa, per esempio, il filosofo, teologo e Padre della Chiesa Clemente Alessandrino nel suo Protrepticon, 4,46,1), avrebbero poi essi stessi realizzato con tanta facilità una statua di Cristo?

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Nella pagina accanto, a sinistra: il Buon Pastore. L’aspetto attuale è frutto del restauro (operato nel 1764 da Giuseppe Angelini) di un originale del III-IV sec. d.C. L’intervento ha determinato le attuali dimensioni della scultura, pari a 100 x 36 x 27 cm. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. Nella pagina accanto, in basso, a destra: ricostruzione grafica della configurazione originaria della scultura, facente parte della decorazione di un sarcofago.

mondo da dare il Figlio unigenito (…) perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,16.17). Nella nostra statuetta, datata a pochi anni dalla Pace costantiniana (313 d.C.), possiamo riconoscere un nuovo, importante, passo compiuto dal cristianesimo delle origini nell’appropriarsi di un simbolo antico. Dobbiamo sottolineare, infatti, che nell’arte dei primi secoli non ci è dato di distinguere veramente un pastore «pagano» da un pastore «cristiano». Chi studia questo periodo dell’arte sa che, trovandosi di fronte – su una pittura o nella decorazione di un sarcofago – la figura del pastore con un ovino sulle spalle (immagine che siamo abituati, ormai, a chiamare, appunto, del «Buon Pastore»), ciò non ci autorizza affatto ad affermare che siamo in presenza di un monumento cristiano: quell’immagine, identica, era infatti usata contemporaneamente da cristiani e pagani! Tuttavia, in un momento successivo – siamo ormai alla fine del III secolo –, i cristiani si sono adoperati per distinguere il «loro» Buon Pastore, conferendogli esplicitamente il volto di Cristo. Ma quale?

IL VOLTO APOLLINEO… DI GESÚ Quale volto scegliere, dunque, se, contrariamente alle tante leggende e tradizioni, non è mai esistito un ritratto antico del volto di Gesú? Ebbene, tornando al discorso delle

radici ellenistiche del cristianesimo antico, il primo volto scelto dai cristiani per raffigurare Cristo fu quello… del dio Apollo. È la tipologia che, in storia dell’arte, chiamiamo «volto apollineo». Sebbene, infatti, i Padri della Chiesa si fossero scagliati contro l’«idolatria», e però vero che essi non disprezzarono in toto la cultura classica. Per loro, questa non era da rigettare nei suoi aspetti piú elevati, dei quali facevano parte, paradossalmente, anche alcuni temi della religione pagana stessa, considerati dai Padri della Chiesa come aspetti preparatori alla «vera» religione, ovvero il cristianesimo. Cosí, Giustino († 165 circa; uno dei primi Padri della Chiesa, i cosiddetti apologisti), nel II secolo teorizza

Per i primi Padri della Chiesa, il paganesimo aveva «preparato il terreno» per l’avvento della religione cristiana una forma liberante di inclusione del pensiero degli antichi, in quell’irrefrenabile spinta all’inculturazione della fede, al «farsi tutto a tutti», che caratterizzò fin dai suoi primi passi la diffusione del kérygma, l’annuncio del messaggio cristiano. Scriveva il martire filosofo nell’Apologia dei cristiani: «Coloro che vissero secondo il Logos sono cristiani, anche se furono giudicati atei, come, tra i Greci, Socrate ed Eraclito e altri come loro» (Apol. 1,46,3). «[Ciò] grazie al seme del Logos che è innato in ogni stirpe umana» (Apol. 2,8,1): «infatti tutto ciò che rettamente enunciarono e trovarono via via filosofi e legislatori, in loro è frutto di ricerca e speculazione, grazie a una parte di Logos» (2,10,2-3); «dunque ciò che di buono è stato espres-

so da chiunque, appartiene a noi cristiani: (…) infatti una cosa è un seme e un’imitazione concessa per quanto è possibile, un’altra è la cosa in sé, di cui, per sua grazia, noi abbiamo la partecipazione» (2,13,3-5).

IL VERO E IL FALSO E Apollo dunque, cos’ha a che fare con Cristo? Proprio seguendo la via segnata da Giustino, il falso dio della bellezza e della parola, figlio di Zeus, può rimandare al Logos, vera Parola e Figlio di Dio, il «piú bello dei Figli dell’Uomo, sulle cui labbra è diffusa la grazia» (Sal 45,3). È cosí, allora, che Apollo può prestare il suo volto alla vera divina Bellezza che si è fatta visibile, alla Parola che si è fatta carne, come dice ancora Giovanni (1,14). Anche la sua identificazione con Helios, il dio Sole, rafforzava il riferimento a Cristo, vero «Sol invictus» (cfr. Ap 22,5). A ciò serví dunque, nella potente libertà dei primi artisti e pensatori cristiani, il volto imberbe di Apollo, con i suoi boccoli, i capelli fluenti, di antica (ma per i cristiani incompiuta) bellezza. Per spiegare la capillare diffusione dell’immagine-simbolo di Gesú Buon Pastore in ogni angolo del mondo cristiano antico vale a questo punto la pena rileggere le riflessioni dei Padri della Chiesa, vero specchio del pensiero cristiano dei primi secoli. I Padri tutti ebbero assai caro questo simbolo, riconoscendo nell’evidente ricchezza dei suoi significati una sintesi «visibile» dell’intero mistero della salvezza. Seguiamone il ragionamento. Innanzitutto, essi, sorprendentemente, si lasciarono guidare, piuttosto che dal Pastore giovanneo, da quello ricordato nei Vangeli sinottici (nella parabola della pecora smarrita), prendendo spunto da una intuizione decisiva: mossero infatti il loro ragionamento dal versetto matteano secondo il quale il pastore lasciò le altre pecore «sui monti» (Mt 18,12) e scese a r c h e o 47


SCOPERTE • BUON PASTORE

sulla pianura a cercare quella perduta. Riferendosi al senso biblico del monte – che è immagine frequente, nella Scrittura, per significare Dio, il cielo, l’alto – i Padri hanno riconosciuto in questo incipit della parabola il grande mistero dell’Incarnazione: il fatto, cioè, che il Figlio ha lasciato la sua condizione celeste per assumere la natura umana, scendendo dal Cielo.

LA DIVINA DISCESA Dice Origene (185 circa-253 o 254), grande esegeta alessandrino del III secolo: «È questa una discesa straordinaria dovuta a un eccesso di amore per gli uomini, per ricondurre, secondo l’espressione misteriosa della divina Scrittura, «le pecore perdute della casa di Israele» discese dai monti» (Contra Cœlsum, 4,17). La discesa (katábasis, in greco) del pastore diviene cosí immagine della sua kénosis, cioè del suo «abbassamento», della sua «umiliazione»: egli – sostiene san Paolo – «pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò (ekénosen) se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, poi, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8). Come Origene in Oriente, anche Ireneo di Lione (fine del II secolo) traduce negli stessi termini la parabola sinottica del «buon pastore»: «Il Signore è venuto a cercare la pecora che si era perduta, ed è l’uomo che si era perduto» (Demonstratio apostolicæ praedicationis, 33). Ma la «discesa» del Pastore divino nella sua incarnazione è anche la sua discesa nella morte, compimento estremo della sua kénosis: la parabola della pecorella smarrita viene letta, allora, come «parabola della Passione» (Pseudo Cipriano, De centesima, 10), indicando come Cristo, morendo, «è disceso nelle profondità della terra per cercarvi la pecorella smarrita» (Ireneo, Contra hæreses, 3,19,3). 48 a r c h e o

Proprio Ireneo, riprendendo un’imIstanbul, chiesa magine della Lettera agli Ebrei («ha di S. Salvatore fatto risalire dai morti il grande pastore in Chora. Affresco delle pecore»: 13,20), porta a pieno raffigurante compimento la ricca simbologia del l’Anástasis pastore, mostrando, infine, la sua (Risurrezione). ascesa (anábasis in greco), la sua risa1315-1321. lita dai morti, la Risurrezione: «DoCristo, uscendo po esser disceso per noi nelle profondità dagli inferi, fa della terra (…), risale in alto per offrire risorgere anche e ridare al Padre suo l’uomo cosí ritroAdamo ed Eva, vato» (ibidem). E riassume Origene: prendendoli per «Per una sola piccola pecora che si era mano; sotto i smarrita, egli è disceso sulla terra; l’ha piedi del trovata; l’ha presa sulle spalle e riportaSalvatore, si ta in cielo» (In Josue, 7,16). vedono le porte La parola anábasis evoca un’altra dell’inferno espressione greca: anástasis, la parodivelte, la della Risurrezione. È questo, un’immagine infatti, il significato vero di quello di Satana che forse è il piú importante sim(oggi quasi bolo cristiano: davanti al Buon Paevanescente) e store ci troviamo al cospetto del vari simboli che Cristo risorto, anzi che risorge, con alludono la pecora/umanità sulle spalle, perall’oltretomba, ché se l’è presa dagli inferi e la sta come catene, portando in Cielo: per i Padri e per chiodi, chiavi e la cristianità antica questa è, in deceppi. La finitiva, l’immagine della Risurrecomplessa zione di Cristo e, in lui, dell’umaraffigurazione è nità salvata. ispirata al L’icona bizantina della risurrezione racconto del non rappresenta, come in Occiden- Vangelo apocrifo te, Gesú con il vessillo che esce dal di Nicodemo. sepolcro, ma è quella che noi conosciamo come la «discesa agli inferi» (che gli Orientali chiamano piú semplicemente e propriamente Anástasis). Vi compare Gesú nella notte degli inferi entro una mandorla di luce, che prende per mano inferi. L’immagine antica del Buon i progenitori prigionieri di Satana. Pastore non è, in fondo, altro che la stessa traduzione di questa immagine, di secoli successiva, dell’Oriente: FRA ORIENTE Cristo risale, con l’umanità ormai E OCCIDENTE Ma la denominazione «occidentale» redenta, verso il Cielo. di quest’icona non è esatta: nel mo- La sua «ascensione» non sarà altro mento fissato dall’icona, infatti, che il completamento di questa Gesú è già disceso: la luce ha già risalita del Figlio di Dio al cielo invaso le tenebre, le porte sono di- con l’umanità ritrovata. Infatti, velte, i chiavistelli rotti, il diavolo «prendendo su di sé la pecora, il pastoincatenato; egli prende Adamo ed re è diventato una cosa con essa; la Eva per portarseli fuori. Non sta pecora assunta sulle spalle del pastore, scendendo, dunque, ma risale dagli cioè nella divinità del Signore, diventa


una sola cosa con lui perché se l’è caricata su di sé» (Gregorio di Nissa, Contra Apollinarem, 16). Ecco la ricchezza di significati nascosta nella statuetta dei Musei Vaticani: essa rivela, in una sola immagine, tutta la storia della salvezza cristiana (la condizione originale, il peccato, la redenzione), con una chiarezza abbagliante. Sempre in tal senso (in una chiave «tipologica», cioè di prefigurazione messianica), essa è portatrice viva dei precedenti biblici del Testamento ebraico, che i

cristiani riferiscono esplicitamente a Gesú. Essa infine – ed è questa la scelta rivoluzionaria del cristianesimo antico, richiamata prima attraverso Giustino – è testimone di tutto il buono della cultura degli antichi e della loro arte somma, che, liberata dai contenuti idolatrici, potrà condurre lungo i secoli ai capolavori di una nuova «arte cristiana»: fino al volto apollineo del Cristo/ Sole di Michelangelo nella Sistina, anche quello un nuovo capitolo dell’umanesimo cristiano.

PER SAPERNE DI PIÚ Martine Dulaey, I simboli cristiani. Catechesi e Bibbia (I-VI secolo), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004; pp. 52-69 Jutta Dresken Weiland, Immagine e parola. Alle origini dell’iconografia cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012; pp. 64-76 Umberto Utro, Cristo «buon pastore», cioè Signore che risorge, in Ecclesia Mater, 52, 2014/3; pp. 136-143 a r c h e o 49


STORIA • ETRURIA DEI MISTERI

GLI ETRUSCHI CI PARLANO DESTINATI A RACCOGLIERE E CUSTODIRE LE CENERI DEI DEFUNTI, I CANOPI, TIPICI DEL TERRITORIO CHIUSINO, AVEVANO UN VALORE SIMBOLICO PER MOLTI VERSI SUPERIORE A QUELLO FUNZIONALE: COME DIMOSTRANO GLI STUDI PIÚ RECENTI, ESSI CELEBRAVANO LA MEMORIA DEI LORO «OCCUPANTI» E NE RIFLETTEVANO LO STATUS SOCIALE di Giuseppe M. Della Fina

I A sinistra: canopo femminile realizzato con una matrice utilizzabile sia per esemplari maschili sia femminili, dalla tomba 70. Decenni finali del VII sec. a.C. Nella pagina accanto: canopo maschile con occhi in osso e pupilla in ambra, dalla tomba 422. Metà del VII sec. a.C. 50 a r c h e o

canopi occupano un posto speciale nell’artigianato artistico etrusco: si tratta di contenitori singolari, in genere realizzati in argilla, riservati alle ceneri di un defunto e connessi quindi col rito della cremazione, attestato in periodi storici diversi e con maggiore frequenza in determinate aree. Se, da un lato, si distruggeva il corpo, dall’altro lo si voleva ricreare simbolicamente, attribuendo un’enfasi particolare alla testa. A differenza di quel che in passato si era ipotizzato, i canopi non propongono ritratti reali, ma immagini simboliche dei personaggi – uomini e donne – che si volevano celebrare e ricordare. Un’attenzione quasi esclusiva per queste urne cinerarie si riscontra a Chiusi e nel suo territorio e i pochi esemplari attestati al di fuori di questo contesto sono probabilmente riferibili a persone di origine chiusina che – trasferitesi altrove – avevano voluto conser-


Tutti gli oggetti riprodotti in queste pagine sono stati ritrovati nel corso degli scavi condotti nella necropoli di Tolle e sono oggi esposti nel Museo Civico Archeologico delle Acque di Chianciano Terme (Siena).

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SCAVI • XXXX XXXXXX

trettanto accadde, quattrodici anni piú tardi, per un’altra testa scoperta nei pressi di Sarteano. Altri ritrovamenti si ebbero nella stessa area e gli antiquari iniziarono a interrogarsi sul loro significato: il veronese Scipione Maffei (1675-1755), uno dei campioni dell’«etruscheria», ipotizzò che i cinerari a forma umana andassero riferiti a sepolture di sacerdoti etruschi e la sua suggestione trovò un certo seguito.

Montepulciano

UMBRIA

TOSCANA Lago di Chiusi

Chianciano Terme

Chiusi

Località Tolle-La Foce

Sarteano

Cetona

Città della Pieve

vare la tradizione funeraria del luogo di origine. L’interesse per i canopi (la loro denominazione deriva dagli omonimi contenitori usati in Egitto per accogliere le viscere estratte dal corpo dei defunti, al momento della mummificazione, n.d.r.) non è nuovo e Giulio Paolucci, direttore del Museo Civico Archeologico delle Acque di Chianciano Terme, dopo l’analisi della letteratura scientifica e In alto: la tomba 604 in fase di scavo. Inizi del VI sec. a.C. A destra: canopo deposto all’interno di un dolio (tomba a ziro) collocato nello stesso luogo in cui era stato incinerato il defunto, dalla tomba 401. Secondo quarto del VII sec. a.C. 52 a r c h e o

della documentazione di archivio, lo ha fatto risalire al 1734. In quell’anno, infatti, è ricordato il ritrovamento del primo canopo, avvenuto casualmente in località Poggio al Grosso, presso Montepulciano, nel corso di lavori agricoli. La testa canopica recuperata confluí nella raccolta di Pietro Bucelli, che era conservata nel palazzo di famiglia proprio a Montepulciano. Al-

LE PRIME IPOTESI Qualche decennio piú tardi, già nell’Ottocento, Francesco Inghirami (1772-1846) ipotizzò invece che fossero «simboli di recipienti, allusivi al mondo contenente tutte le cose create, e il capo che gli sta sopra additava la divinità che è superiore a tutto l’orbe creato». In un’opera successiva – Etrusco Museo Chiusino – riconobbe in essi singole divinità: in un esemplare maschile, un Bacco con valenza infernale e in un altro, femminile, una Proserpina. Per Wilhelm Dorow (1790-1846), i canopi rappresentavano l’immagine del defunto; una tesi condivisa, tra gli altri, da Giuseppe Micali (1769 -1844), uno dei fondatori delle ricerche sul mondo etrusco-italico.


Durante l’Ottocento il numero dei canopi ritrovati aumentò in maniera esponenziale, ma purtroppo si continuò a prestare poca attenzione al contesto di provenienza: scarsa cura venne data al resto del corredo funerario (che, invece, sarebbe stato particolarmente utile per addivenire a una datazione convincente) e alla tipologia stessa della tomba che li accoglieva. Nel frattempo, iniziò a manifestarsi una reazione alla tendenza a riconoscere in essi veri e propri ritratti e a segnalarne, invece, il valore simbolico. Alessandro Della Seta (1879-1944), uno dei maggiori archeologi della prima metà del Novecento, scrisse, nel 1928, in proposito: «La forma del corpo che dal fuoco era stata distrutta e che ora riposava cenere inerte nel fondo del vaso si voleva rianimarla, conservarla per il defunto stesso, almeno nella parte piú espressiva, nel volto». Un’interpretazione accolta poi da Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975) e da Mauro Cristofani (1941-1997), tornati piú volte sull’argomento. Il grande stori-

Canopo femminile deposto insieme a un figlio morto all’età di 10 anni circa, dalla tomba 184. Fine del VII sec. a.C.

co dell’arte antica, in precedenza, negli anni 1925-1926 – quando era un giovane studioso interessato al mondo etrusco –, aveva affermato che i canopi potevano essere considerati «il primo tentativo di ritratto compiuto sul suolo artistico d’Italia». Può sembrare una contraddizione (e tale apparve allo stesso Bianchi Bandinelli), ma forse non lo era. Ritrarre «simbolicamente» un uomo o una donna, può infatti avere rappresentato il primo passo verso la ritrattistica individuale. Nella breve rassegna sulla nascita e sugli sviluppi dell’interesse per i canopi non può infine essere trascurato Robert D. Gempeler, autore, nel 1974, dello studio sinora piú completo su tale produzione.

UN QUADRO NUOVO Ora il quadro è mutato profondamente e ciò si deve al già citato Giulio Paolucci, responsabile di uno degli scavi piú forieri di risultati svolti in Etruria negli ultimi anni. Le campagne di scavo da lui condotte nella necropoli di Tolle hanno infatti restitu-

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STORIA • ETRURIA DEI MISTERI

UNA RITUALITÀ FUNERARIA COMPLESSA A colloquio con Giulio Paolucci A Giulio Paolucci si deve lo studio piú recente e accurato sui canopi, che ha preso le mosse dal fortunato esito delle campagne di scavo condotte nella necropoli di Tolle. A lui abbiamo chiesto quali siano gli aspetti piú significativi delle sue ricerche.

In basso: la tomba 529 in fase di scavo. Inizi del VI sec. a.C.

◆ Dottor Paolucci, lo scavo della

serie di emergenze frutto di scavi abusivi. Le indagini presero il via anche in ragione dell’importanza del sito, posto a controllo di uno dei maggiori itinerari che mettevano in collegamento la costa tirrenica e, in particolare, le grandi città di Vetulonia e Roselle, con la Val di Chiana. Inoltre, durante il XIX secolo, alcuni ritrovamenti avevano portato alla luce testimonianze significative, confluite in due importanti collezioni di antichità entrate, in momenti diversi, nei musei archeologici di Siena e Chiusi. Le sedici campagne di scavo hanno permesso di riportare alla luce oltre 1100 tombe che offrono uno spaccato imprescindibile per la storia del territorio fra il VII e il II secolo a.C. ◆ Quali sono i dati di maggior interesse scaturiti dalle indagini? Lo scavo di Tolle ha evidenziato la presenza di una compagine sociale articolata per un

necropoli di Tolle ha dato risultati d’importanza notevole. Quali sono stati i motivi che, inizialmente, l’hanno spinta a investigare quella località? Lo scavo nella necropoli di Tolle si è svolto tra il 1996 e il 2011. L’inizio è avvenuto a seguito di ricerche di superficie che localizzarono una

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arco cronologico compreso fra l’età orientalizzante e quella tardoetrusca. Le sepolture evidenziano una stratificazione sociale che potrà essere definita meglio dall’esame complessivo dei materiali, tuttavia è da segnalare una complessa ritualità funeraria. Per esempio, nei casi in cui il cinerario si era conservato integro e quindi è stato possibile scavarlo in laboratorio, si è notato che le ossa superstiti erano state deposte replicando la composizione del corpo in posizione eretta. Talvolta alla sommità risultava collocato un grande chiodo di ferro piegato intenzionalmente a evidenziare un fissaggio eterno al cinerario e alla sua dimora tombale. Inoltre, sono state rimesse in luce sepolture anomale in genere prive di corredo, oppure con un solo oggetto pertinente all’abbigliamento. Si tratta di inumati deposti in fosse senza alcuna indicazione di sorta e che, in alcuni casi, mostrano segni evidenti di una fine violenta. Potrebbe trattarsi di persone sacrificate in onore di divinità ctonie. In un caso il defunto è stato ritrovato in posizione quasi seduta e, in un altro, deposto quasi verticalmente con la testa collocata fra i piedi. In altre parole la necropoli di Tolle, oltre a offrire un contributo imprescindibile allo studio dei materiali, che risultano numerosissimi, offre indicazioni di grande interesse sulla ritualità antica segnalando aspetti anche molto cruenti.

PER SAPERNE DI PIÚ Giulio Paolucci, Tombe con ossuari antropomorfi dalla necropoli di Tolle (Chianciano Terme), «Monumenti Etruschi», 13, Giorgio Bretschneider Editore, Roma 2015


ito ben 116 canopi (vedi l’intervista a p. 54). Una conferma è venuta, innanzitutto, per le datazioni proposte piú di recente, che suggeriscono una produzione tra il primo quarto del VII secolo a.C. per i cinerari piú antichi e gli inizi del secolo successivo per quelli piú recenti. Un’altra indicazione avvalorata è quella che vede il canopo come un contenitore delle ceneri riservato a uomini e donne di spicco all’interno della comunità, o, almeno, da loro preferito.Tale cinerario poteva essere utilizzato anche per individui morti in giovane età.

FRAMMENTI DI STOFFA Una novità è rappresentata dall’osservazione che i canopi venivano «vestiti», come suggeriscono i numerosi resti mineralizzati di tessuto conservatisi sugli ornamenti metallici ritrovati attorno al cinerario e caduti sul fondo della tomba con il disfacimento delle stoffe. Il canopo veniva rivestito con una sorta di abito fissato da fibule o da fermagli. Nel caso di quelli che accoglievano le ceneri di una donna, il corpo era stretto all’altezza della vita da alte cinture di cuoio o di altro materiale deperibile, chiuse con affibbiagli di ferro o di bronzo. L’analisi del grado di consunzione dei loro anelli sembra suggerire che si trattava di oggetti utilizzati in vita e magari per lungo tempo. In un esemplare la stoffa che avvolgeva il cinerario era ornata con placchette di bronzo dalle forme diverse e da catenelle. L’attenzione era concentrata sulla testa: la capigliatura era ottenuta con una sorta di parrucca, fissata attraverso i fori esistenti sulla calotta cranica, o attraverso la policromia o tramite la resa a rilievo dei capelli. Ai lobi delle orecchie erano posti orecchini in bronzo o in argento; al collo potevano essere appesi dei pendenti o messe collane in ambra e vetro.

In un limitato numero di casi, i canopi rinvenuti a Tolle erano collocati su seggi in terracotta e molto piú raramente in pietra: una sorta di trono che doveva caratterizzare il defunto in senso aristocratico. Va osservato, infine, che i canopi erano posti all’interno di tombe di tipologia diversa. Nel caso della necropoli scavata da Paolucci sono attestate tombe a ziro, a camera

semplice, a tramezzo, con pilastro, a caditoia, a cassa litica che contenevano rispettivamente 56, 33, 14, 1, 1, e 11 esemplari. L’archeologia restituisce anche singole azioni e allora si può segnalare la foratura di alcuni ziri e di qualche vaso cinerario: attraverso i fori ottenuti, i liquidi potevano passare nella terra ed essere assorbiti divenendo un’offerta alle divinità degli Inferi.

Canopo maschile su trono che ne esalta il rango sociale molto elevato, dalla tomba 253. Fine del VII sec. a.C.

IL CANOPO VUOTO Si possono cogliere, inoltre, comportamenti che continuano a commuoverci: una donna volle che lo ziro destinato a contenere le ceneri del marito fosse uno dei recipienti della sua dispensa, come viene suggerito dall’iscrizione presente sulla spalla del contenitore. In un’altra sepoltura il canopo è vuoto, non contiene le ceneri del defunto, ma il cinerario è stato deposto ugualmente. Il corpo del defunto, forse scomparso in battaglia (o, comunque, in una circostanza tragica), non era stato ritrovato, non si era potuto bruciare sulla pira, ma al familiare si volle dare, comunque, una sepoltura degna del suo rango eroico. Ancora una volta la ricerca archeologica riesce a parlare delle scelte e persino dei sentimenti di uomini e donne vissuti in un tempo lontano. DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico delle Acque Chianciano Terme (Siena), viale Dante Orario aprile-ottobre e periodo natalizio: ma-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; lu chiuso; novembre-marzo: giorni festivi e pre-festivi, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 0578 30471; e-mail: museo@comune. chianciano-terme.si.it; www.museoetrusco.it a r c h e o 55


MOSTRE • PARIGI

I MISTERI

SOMMERSI

DI OSIRIDE

L’ISTITUTO DEL MONDO ARABO DI PARIGI OSPITA UNA SPETTACOLARE RASSEGNA NATA DALLE SCOPERTE EFFETTUATE DA FRANCK GODDIO NELLE ACQUE DELLA BAIA DI ABUKIR. RITROVAMENTI CHE GETTANO UNA LUCE NUOVA E INEDITA SU UNA DELLE PIÚ IMPORTANTI MANIFESTAZIONI DELLA RELIGIONE EGIZIANA di Daniela Fuganti, con un’intervista a Franck Goddio

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Abukir, Egitto. Una suggestiva immagine subacquea del fondale della baia, mostra i resti di una barca rituale in piombo e alcune statuette di Osiride in bronzo. Nell’area, un tempo emersa, sono stati localizzati i resti dell’antica città di Thonis-Heracleion.

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MOSTRE • PARIGI

F

fascinante al quale l’Istituto del Mondo Arabo di Parigi dedica ora una grande esposizione. Siamo nella baia di Abukir, una distesa d’acqua formatasi intorno all’VIII secolo d.C. per effetto di un evento geologico o sismico cosí repentino che nessun autore o cronista ne ha lasciato testimonianza. Qui, prima del cataclisma, prosperarono la corrotta e santa città di Canopo e la cosmopoBaia di Abukir

Cairo

N ilo

ra il 1997 e il 2001, Franck Goddio, direttore dell’Istituto Europeo per l’Archeologia Subacquea (IEASM) e la sua équipe individuarono nella baia di Abukir, in Egitto, i resti sommersi della città di Thonis-Heracleion e della vicina Canopo, scomparse da secoli e mai localizzate. Le scoperte (che, fin dall’inizio, «Archeo» ha piú volte documentato, l’ultima delle quali nel marzo 2009, nel n. 289, disponibile anche on line su archeo.it) furono seguite da indagini che, grazie all’inatteso ritrovamento di una moltitudine di oggetti legati al culto di Osiride, hanno gettato luce su uno dei miti fondanti della civiltà egiziana: la leggenda del dio morto e resuscitato. Un tema af-

E G I T TO

Lago Nasser

Mar Rosso

In alto: cartina dell’Egitto, con la localizzazione della baia di Abukir. A sinistra: scultura raffigurante il risveglio di Oriside. XXVI dinastia, 664-525 a.C. Il Cairo, Museo Egizio.


A destra: simulacro rituale di Osiride, realizzato con materiali vegetali e deposto dentro un apposito sarcofago dotato di coperchio decorato (in basso). Il Cairo, Museo Egizio.

lita Thonis, chiamata Heracleion dai Greci, in omaggio a Eracle, il quale, come riferisce Erodoto, l’avrebbe visitata quando per la prima volta mise piede in Egitto. E infatti a Thonis sorgeva il tempio in onore di Amon-Gereb, lo Zeus greco: un santuario che, secondo la tradizione, sarebbe stato fondato all’epoca della guerra di Troia e che venne dedicato anche al figlio di Amon, Khonsu, equiparato a Eracle in età ellenistica. Sempre secondo la leggenda, vi avrebbero sostato Elena e Menelao accompagnati dal valoroso pilota della loro nave, Canopo, ucciso da un serpente appena sbarcato, in ricordo del quale sorse poi l’omonima città.

CROCEVIA DI POPOLI Passaggio obbligato per l’emporio greco di Naucratis e centro di riscossione dei dazi doganali, Thonis-Heracleion fu una piazza commerciale attivissima (soprattutto fra il VI e IV secolo a.C.): Greci, Persiani, Fenici ed Egiziani si mescolavano in questo crocevia, tutelato dal colossale tempio di Amon-Gereb, che accordava asilo non solo ai pellegrini o ai mercanti, ma anche – come attesta una gigantesca stele in granito rosa rinvenuta nel santuario – agli schiavi fuggiaschi. Al momento della sua cancellazione dalla carta geografica (segue a p. 63)

LA TRIADE DIVINA Secondo il mito, in tempi remoti, Osiride, figlio della terra e del cielo, regnava sulle cose del mondo, aveva insegnato agli uomini l’agricoltura e aveva dato loro le leggi e la pace. Il fratello Seth, per invidia, lo uccise e sparse i pezzi del suo cadavere in tutto l’Egitto. Grazie ai suoi poteri divini, Iside, la sorella-sposa, ricostituí il corpo di Osiride e gli ridiede vita, giusto per il tempo necessario a concepire con lui un figlio: Horus. Osiride divenne allora il sovrano dell’aldilà, mentre Horus, vittorioso su Seth, ereditò l’Egitto. Seth incarnava il disordine e il nemico da combattere, mentre Horus, nel fargli fronte per vendicare il padre, rappresentava la stabilità politica e sociale. La passione del dio egiziano che conosce il tradimento del fratello e la morte, e che, grazie all’amore della sua sorella-sposa, trionfa sull’uno e sull’altra, è assai simile – ma nettamente anteriore – al racconto biblico della vicenda di Caino e Abele. Non meno interessante è la constatazione di certe prossimità con la religione cristiana: fra la divinità maschile Osiride e il Cristo, anch’egli resuscitato; fra la divinità femminile Iside e Maria, madre universale che allatta il figlio.

A destra: occhio di Horus, o udjat, in oro, da ThonisHeracleion. IV-I sec. a.C.

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MOSTRE • PARIGI

UN’AVVENTURA EMOZIONANTE Incontro con Franck Goddio Franck Goddio ha condotto le sue prime esplorazioni subacquee agli inizi degli anni Ottanta e ha fondato l’Institut Européen d’Archéologie Sous-Ma­rine (IEASM) nel 1987. Ha rivolto la sua attenzione alla baia di Abukir nel 1992, avviando una campagna di prospezioni alla quale hanno fatto seguito le

◆ Professor Goddio, le vostre

ricerche nella baia di Abukir hanno svelato dettagli inediti sulle cerimonie legate ai misteri di Osiride: in che modo si svolgevano questi riti? Fin dal 2001 ci aveva stupito la fittissima presenza di tracce del culto di Osiride. Fra i canali intorno al tempio di Amon-Gereb, uno in particolare era disseminato di depositi votivi e univa con un percorso di 3 chilometri le città di Heracleion e Canopo. Il canale è lo stesso di cui si parla nel decreto di Canopo: quell’anno, nella data fissa – il 29 del mese di Khoyac – in cui le acque dell’inondazione si ritirano e i campi rinverdiscono, Berenice figlia defunta di Tolomeo III Evergete fu invitata a unirsi alle cerimonie in onore di Osiride nella barca sacra, per risalire accanto a lui il fiume che univa il tempio di Amon-Gereb al santuario di Canopo ed essere divinizzata come sua paredra. Secondo i rilievi delle cappelle osiriache scolpiti sul tempio di Dendera, la prima tappa dei misteri consisteva nella realizzazione di una mummia del dio al fine di simboleggiare la sua resurrezione, battezzata Osiris vegetante (dal latino vegetus, «vigoroso»). Con il supporto di mestoli, coppe e pinze – strumenti ora riuniti nell’esposizione all’IMA e prima

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indagini, condotte d’intesa con il Consiglio Supremo per le Antichità dell’Egitto. A lui è stato affidato il coordinamento della mostra allestita a Parigi, che evidenzia, in particolare, il contributo che le ricerche dell’IEASM hanno dato alla comprensione dei riti connessi al culto del dio Osiride. d’ora mai scoperti in altri siti – il sacerdote riempiva di acqua, orzo e limo del Nilo due mezzi stampi in oro, che venivano quindi posati sul fondo di una couve (ne abbiamo trovato un esemplare magnifico in granito rosa), chiamata couve-giardino, e innaffiati regolarmente con un’apposita situla. Quando l’orzo rituale germinava, simboleggiando la futura rinascita del dio defunto, le due metà venivano riunite e seccate al sole. In alto: Frank Goddio, direttore dell’Istituto Europeo di Archeologia Sottomarina, scopritore dei tesori sommersi nella baia di Abukir. In basso: statuette di divinità osiriache affioranti dal fondale. Nella pagina accanto: un frammento del naos delle Decadi. 380-362 a.C.

Si fabbricava nello stesso tempo una seconda statuetta, l’Osiris Sokar, con un misto di aromi e pietre preziose schiacciate, annaffiata a sua volta con l’acqua sacra del Nilo per favorire la sua rigenerazione. Quando le trasmutazioni si erano ormai compiute, e il dio aveva preso corpo nei due simulacri, al calar del sole aveva luogo la processione nautica, illuminata da 365 lampade a olio a rappresentare tutti i giorni dell’anno, fino al santuario di Serapide a Canopo. Lungo tutto il percorso del canale abbiamo recuperato una gran quantità di piatti per offerte, lampade a olio in


ceramica e molte barche votive in bronzo – miniature dei battelli in papiro che accompagnavano la navigazione – destinate a segnalare il percorso e a «sacralizzarlo». Queste scoperte non solo corroborano i testi antichi, ma rivelano anche l’esistenza di pratiche sacre finora non documentate.

◆ Che cosa succedeva quando il

corteo giungeva a destinazione? I riti erano estremamente codificati. Una barca lunga 11 m, in legno di sicomoro (che abbiamo localizzato intenzionalmente affondata e abbiamo preferito lasciare in situ), veniva verosimilmente utilizzata per il trasporto delle effigi del dio, protetto nel suo viaggio fluviale da altre ventinove divinità e accompagnato da due ali di battelli, 27 a est e altrettanti a ovest. Quando le due statuette fasciate – le bende di lino perpetuano l’assassinio di Osiride e la sua rinascita – giungevano a destinazione, si provvedeva a

sostituirle nella tomba con quelle dell’anno prima: per un brevissimo istante, la divinità non era piú al suo posto e dunque l’Egitto si ritrovava per un attimo «senza difesa». Il sacerdote agiva facendo le veci del faraone, era lui che rigenerava Horus, assicurando l’eternità della dinastia regnante. Poter toccare questi oggetti – all’epoca maneggiati solo dai sacerdoti e dai faraoni – è stata un’esperienza commovente! I reperti suggeriscono che nel mese di Khoyac i fedeli di Dioniso accompagnassero la processione: si tratterebbe di pratiche introdotte nel VII secolo a.C., quando i Greci si stabilirono nella regione. Del resto, Erodoto, che visita l’Egitto nel V secolo a.C., scrive che i sacerdoti egiziani stessi gli avevano segnalato l’equivalenza fra Osiride e Dionisio.

◆ La regione di Canopo è stata

sommersa in un tempo brevissimo. Le vostre indagini hanno permesso di formulare

un’ipotesi verosimile sulle modalità di questo evento, non documentato dalle fonti antiche? Come per il Portus Magnus di Alessandria, le ricerche nella baia di Abukir miravano a determinare la topografia antica della regione canopica, ora sommersa. Ma anche a realizzare prospezioni geofisiche e geologiche tali da evidenziare eventuali anomalie magnetiche causate da eventi sismici. Non dimentichiamo che il Mediterraneo orientale ha conosciuto vari periodi di forte attività sismica, con terremoti e maremoti. Alcuni dei quali ricordati dalle fonti: per esempio, nel 221 e nel 38 a.C., poi nel 39, nel 320 e nel 365 d.C. A proposito di quest’ultimo evento, Ammiano Marcellino (330-397 d.C.) riferisce che ad Alessandria il maremoto trascinò le navi nell’entroterra per due chilometri circa! Quello del 18 gennaio 746 d.C., dopo la conquista araba, sembra sia stato particolarmente

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MOSTRE • PARIGI

la fortuna di individuare un naos dedicato ad Amon-Gereb che rivelava il nome della città in cui sorgeva: la leggendaria Heracleion. Ma il vero colpo di scena venne da un altro eccezionale ritrovamento. Sotto un muro del medesimo santuario, fu infatti rinvenuta una stele intatta in granito nero (gemella di quella scoperta a Naucratis nel 1890): vi è menzionata una città

chiamata «Honé di Sais», cioè Thonis. Ecco dunque il nome della città inghiottita dalle acque, Thonis. In altri termini, l’Heracleion dei Greci non era altro che la Thonis degli Egiziani, ossia il ricco porto che controllava la regione canopica. Aveva dunque ragione l’egittologo Jean Yoyotte (scomparso nel 2009), che aveva scritto tutto questo già cinquant’anni fa!

◆ Per quanto tempo si continuò a

In alto: un sommozzatore esamina la statuetta bronzea di un faraone, riprodotta qui accanto, forse ritraente Psammetico II (595-589 a.C.).

violento. Fino a oggi non abbiamo rilevato alcun fenomeno sismico posteriore al 746 d.C., e questo sembra provare che le città di ThonisHeracleion e di Canopo siano definitivamente scomparse a causa di quest’ultima catastrofe, proprio come il porto antico di Alessandria.

◆ Quali sono state le fasi

piú emozionanti della vostra avventura? Nel 1997, seguendo il corso del delta canopico verso nord, a 6 km dalla costa, ci imbattemmo in un sito vastissimo, cosparso di centinaia di ancore, decine di relitti e una miriade di ex voto in corrispondenza del porto. Testimonianze che ribadivano l’importanza economica di questo luogo. Fra i resti monumentali di un grande tempio, abbiamo avuto

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celebrare la cerimonia dei misteri di Osiride? Conservare il rito dei misteri significa mantenere l’ordine cosmico, a propiziare l’abbondanza e la stabilità del potere dinastico. Grazie alla lunga durata della teocrazia faraonica, i misteri attraversano le varie epoche. È piú che probabile, per esempio, che l’imperatore romano Adriano, il quale soggiorna nel 131 ad Alessandria, abbia celebrato i misteri nella sua veste di faraone d’Egitto. Al suo ritorno a Roma, costruisce nella villa Adriana il Canopo e il tempio di Serapide, sul modello del Serapeaum di Canopo. La splendida statua del dio toro Apis (prestata dal Museo di Alessandria e datata all’epoca adrianea), esprime tutta l’ambivalenza dell’animale sacro, immagine della successione reale e, al tempo stesso, è il simbolo della rinascita osiriaca.

◆ Ci parli dunque del progetto

espositivo… Cosí come la lava del Vesuvio ha sigillato Pompei, salvandola dall’usura del tempo e dai saccheggi, anche le città della baia di Abukir sono state protette nei secoli, in questo caso dalle acque del mare. Nella mostra, abbiamo voluto evocare il mito di Osiride con


una scenografia spettacolare, immergendo il visitatore nelle profondità del mondo marino, per consentirgli di seguire i pellegrini che si recavano ogni anno in processione da Thonis a Canopo. Su una parete di tulle, sfila una lunga processione di sacerdoti e divinità: immagini proiettate che provengono dalla cappella osiriaca di Dendera. Il corteo avanza verso una colossale statua in granito rosa di Hapy (recuperata davanti al tempio di Amon-Gereb e che misura 5,5 m di altezza), il dio della fertilità, che simboleggia le inondazioni del Nilo, base stessa della sopravvivenza del popolo egiziano. I misteri garantivano l’abbondanza

giorni in piú. Il reperto, ricomposto in questa occasione, è un vero puzzle archeologico che si è andato ricostituendo nell’arco di due secoli. Il tetto si trova al Louvre fin dall’Ottocento, la base e la parete posteriore sono stati scoperti nella baia di Abukir nel 1940, e le pareti laterali sono state portate alla luce dai sommozzatori dell’IEASM nel 1999. Fra i prestiti concessi dai Musei del Cairo e di Alessandria, oltre alla già ricordata statua di Api, possiamo senz’altro ricordare: la statua del risveglio di Osiride, un’immagine indimenticabile di serenità e di gioia solare; Iside

Un sommozzatore recupera una testa in granito nero, pertinente a una statua di sacerdote. IV-I sec. a.C.

ma anche l’ordine cosmico. E gli Egiziani, che furono anche valenti astronomi, avevano creato un calendario basato sulla riapparizione annuale di Sirio. Il naos delle Decadi, trovato nella baia di Abukir (e che nella nostra esposizione possiamo ammirare in anteprima), presenta la divisione del tempo del calendario egizio: 12 mesi di 30 giorni, frazionati in decadi di 10 giorni, e poi, per completare l’anno, 5

nell’atto di allattare Osiride e il suo incredibile avatar in pietra nera, la dea-ippopotamo Thoueris, simbolo della fecondità dello scuro limo del fiume… Per concludere, una statua di Osiride bendata ricorda che il dio non deve la sua sopravvivenza eterna che all’amore di Iside e all’ingegno del dio sciacallo Anubi, al quale gli Egiziani attribuivano l’invenzione della mummificazione.

nell’VIII secolo, l’epoca d’oro della città era tramontata da tempo: l’ascesa di Alessandria l’aveva relegata a un ruolo secondario e Thonis era stata dimenticata.

IL VIAGGIO DEL DIO Fino al 1881, quando Gaston Maspero la fece risorgere, scoprendo a Kom el-Hisn la stele del decreto di Canopo, incisa nel 238 a.C.: un’iscrizione trilingue (geroglifico, demotico e greco), che racconta come nel tempio di Amon-Gereb, in una città chiamata Heracleion, si celebrassero, al pari delle maggiori città egiziane, le cerimonie dei misteri di Osiride. Esse terminavano con una lunga processione nautica sui canali, che portava il simulacro del dio dal tempio cittadino al suo santuario nella vicina Canopo. Insieme ai resti di architetture monumentali e statue colossali, gli oggetti strappati ai flutti dagli archeologi-sommozzatori dell’IEASM confermano l’esattezza del contenuto della stele e gettano luce su una delle piú enigmatiche cerimonie religiose dell’antichità egiziana: i misteri di Osiride, il dio garante della stabilità del potere dinastico e dell’ordine cosmico. Plutarco, nel II secolo d.C., aveva dato una forma narrativa alla leggenda, illustrata fino ad allora soltanto nelle pitture e sculture prodotte a partire dal Medio Regno (2033-1710 a.C.). DOVE E QUANDO «Osiride. Misteri sommersi d’Egitto» Parigi, Institut du Monde Arabe fino al 31 gennaio 2016 Orario ma-gio, 10,00-19,00; ve, 10,00-21,30; sa-do, 10,00-20,00;
 lu chiuso Info www.exposition-osiris.com a r c h e o 63


Quando (e come)

ROMA DIVENNE CRISTIANA

testi di Sible de Blaauw, Lucrezia Spera, Umberto Utro, Alessandro Vella


A

chi vi fosse giunto durante il regno di Carlo Magno, Roma sarebbe apparsa completamente trasformata nel paesaggio urbano: una fitta rete di chiese era sorta nel corso dei secoli, dentro e fuori le mura, a partire dagli anni della «svolta» con cui Costantino, promulgando l’editto di tolleranza del 313, aveva favorito la definitiva visibilizzazione del cristianesimo. L’antica capitale dell’impero si era trasformata nella città degli apostoli e dei martiri. Alle soglie del IX secolo, la sua immagine esterna e la sua perimetrazione – ancora costituita dalle mura volute alla fine del III secolo dall’imperatore Aureliano e continuamente restaurate – si conservavano pressoché intatte, interventi di manutenzione avevano garantito il funzionamento dei principali acquedotti e di alcune infrastrutture e il tessuto urbanistico risultava ancora segnato da molti edifici antichi (terme, teatri, circhi e stadi, l’Anfiteatro Flavio), non piú in funzione e prestati a riutilizzi di vario tipo. In questo quadro, le novità piú significative erano le numerose fondazioni ecclesiali e gli organismi di servizio a queste afferenti – il quartiere episcopale, le chiese titolari e le diaconie, i monasteri, i centri per l’assistenza a poveri, malati e stranieri, le basiliche e gli oratori devozionali e martiriali –, che riassumevano i caratteri della rinnovata identità cittadina. Durante il Medioevo, nell’immaginario collettivo recarsi a Roma arriva significativamente a identificarsi con l’«andare alle tombe degli apostoli» (ire ad limina apostolorum), espressione ricorrente nelle fonti letterarie coeve. Pochi secoli per attuare il sogno di Costantino. O addirittura per superarlo.

Città del Vaticano, Stanze di Raffaello, Sala di Costantino. Particolare della Battaglia di Costantino contro Massenzio, affresco eseguito dagli allievi di Raffaello, sulla base di disegni del maestro, morto prematuramente prima della fine dei lavori (1520). a r c h e o 65


SPECIALE • ROMA CRISTIANA

DA CITTÀ DEGLI IMPERATORI A CITTÀ DEI PAPI

A

ll’indomani della sconfitta di Massenzio (312), Roma era libera e pronta per essere rimodellata dal vincitore, Costantino. Nell’edilizia pubblica, il legittimo imperatore non interviene con intenti innovativi: i suoi progetti tendono perlopiú a sovrapporsi a quelli di Massenzio e, cosí, anche l’espressione piú eloquente dell’impresa di rilancio monumentale dell’Urbe attuata dal secondo, la grande aula giudiziaria della prefettura urbana sulla Velia, venne affidata ai posteri con l’etichetta di «basilica costantiniana». Gli elementi di novità del progetto di Costantino si riconoscono nella promozione dei cantieri per la costruzione di chie-

Plastico del mausoleo di Elena, innalzato lungo la via Labicana e (nella pagina accanto) il monumentale sarcofago in porfido rosso destinato ad accogliere le spoglie della madre dell’imperatore, morta intorno al 335 d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino.

se, che, per alcuni decenni dopo il 313, interessarono Roma e il suburbio. La biografia di papa Silvestro compresa nel Liber pontificalis (VI secolo) attribuisce all’imperatore e alla sua famiglia la realizzazione di varie basiliche («fecit Constantinus Augustus basilicas istas»): la chiesa episcopale del Laterano con l’annesso battistero (S. Giovanni in Laterano), la basilica sulla tomba dell’apostolo Pietro, quella, piú piccola, sul sepolcro di Paolo, su espresso suggerimento del papa, l’oratorio per il culto della Croce nella residenza costantiniana del Sessorium, presso l’odierna porta Maggiore (S. Croce in Gerusalemme); ancora, le basiliche suburbane attratte dalla presenza di tombe di martiri venerati, cioè la chiesa della Nomentana dedicata ad Agnese, per esaudire la richiesta della figlia Costantina, quelle sulla Tiburtina di S. Lorenzo e sulla Labicana (attuale Casilina) dei Ss. Marcellino e Pietro, costruita insieme al mausoleo della madre Elena. A tali opere va affiancata, con buona sicurezza, malgrado il silenzio della biografia, la realizzazione della basilica dedicata a Pietro e Paolo al III miglio della via Appia (l’odierna S. Sebastiano), progetto capace di concedere migliore rilievo monumentale a un piú antico luogo per il culto congiunto dei


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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

due apostoli, senza poi dimenticare anche il contributo dell’imperatore nelle imprese edilizie del successore di Silvestro, il papa Marco, la chiesa urbana presso le pendici del Campidoglio (S. Marco a piazza Venezia) e l’impianto cimiteriale della via Ardeatina, con la sepoltura dello stesso vescovo.

studiati per la manifestazione dell’imperatore nelle sue qualità di essere divino. Le stesse chiese funerarie circiformi, cioè «a forma di circo», rievocavano i luoghi piú direttamente correlati ai rituali del cerimoniale imperiale, compresi quelli per la celebrazione della morte e il culto della memoria, grazie al richiamo alla ciclicità del tempo, e perciò all’eternità, attribuito alle corse e alle strutture che le accoglievano.

UN LINGUAGGIO NUOVO Ciascun progetto portava, ben impresso, il marchio imperiale. Ogni nuova chiesa rievocava, nelle dimensioni smisurate e nelle forme IL RITORNO DEI COSTANTINIDI delle architetture, nei programmi decorativi, In alcuni di questi complessi la presenza imnei preziosissimi arredi donati, d’oro e d’arperiale è resa piú esplicita dalla scelta di assogento (vedi box a p. 79), valori e significati ben ciare alle nuove basiliche funerarie, valorizzapresenti nell’immaginario collettivo come te dal legame con un culto martiriale, mausoespressioni di potere. L’intento primario di lei destinati a membri della famiglia regnante, Costantino, scrive Eusebio di Cesarea, suo previsti, per i promotori dell’impresa edilizia, biografo (e apologeta), era quello di attribuire già in fase progettuale: è il caso, per esempio, una monumentalità senza del monumentale edificio precedenti agli edifici per per la sepoltura di Elena, Per alcuni membri della il culto cristiano. connesso alla chiesa in Le basiliche romane, con onore di Marcellino e famiglia di Costantino, le loro volumetrie del tutPietro sulla via Labicana, to inedite nell’architettura la scelta di farsi seppellire che avrebbe forse dovuto cristiana (basilica lateraaccogliere, prima della a Roma fu un gesto nense: 100 x 56 m, h. 27 fondazione della città sul m; S. Pietro: 123 x 66 m; Bosforo, lo stesso Costandi alto valore simbolico complesso dei Ss. Marceltino (al quale meglio si lino e Pietro: basilica, 65 x addice il prestigioso sarco29 m, mausoleo Ø 20 m; complesso di S. fago di porfido con scene di battaglia contro Agnese: basilica, 98 x 40 m, mausoleo Ø 37 i barbari); allo stesso modo, Costantina e sua m; basilica Apostolorum: 73 x 30 m), ingombrasorella Elena, entrambe figlie dell’imperatore, vano ampi spazi dei quartieri nei quali erano avevano scelto per la propria sepoltura nella state erette, mostrandosi capaci di rivoluziosede romana il sito presso la basilica dedicata nare la configurazione del paesaggio urbano; ad Agnese, sulla via Nomentana. esse, in fondo, non sfiguravano affatto – anche Per la famiglia imperiale si tratta di una per le ricche decorazioni interne e i preziosi scelta ideologicamente assai significativa: arredi –, al confronto con le piú prestigiose dopo una fase di grande dispersione (Dioarchitetture imperiali del periodo, come la cleziano aveva preferito Spalato, Massimiamonumentale basilica della Velia (100 x 65 m; no Milano, Galerio Romuliana, nell’attuale h. 35 m) o l’aula palatina di Treviri (67 x 28 Serbia, Costanzo Cloro, piú logicamente, m; h. 30 m). Treviri), Roma rivendicava il ritorno degli Anche la scelta di specifiche forme architetimperatori almeno nella morte, ed è ancora toniche va letta entro il programma di attriEusebio di Cesarea a raccontare la delusione buire valori indiscussi ai nuovi edifici dei dei Romani al desiderio di Costantino di cristiani: l’adozione del modello basilicale in non tornare nell’Urbe, ma di affidare la pronavate con terminazione absidale – al Laterapria tomba e il culto a essa correlato alla no e nell’impresa sul colle vaticano –, se da città che ne portava il nome. una parte prende in prestito dall’architettura Anche gli interni delle chiese costantiniane civile una soluzione funzionalmente adatta a vanno rivisitati all’insegna dei significati nuograndi riunioni e alle esigenze della liturgia, vi indotti dal protettorato dell’imperatore: richiama l’immagine delle aule di ricevimenacquistarono un ruolo di primo piano proto dei palazzi imperiali, i migliori scenari (segue a p. 74) 68 a r c h e o


UNA SCENA DAI MOLTI SIGNIFICATI Per traditio Legis (letteralmente «consegna della Legge»), si intende un tema iconografico dell’arte paleocristiana che ebbe una straordinaria diffusione per il suo alto valore simbolico e perché una delle sue prime rappresentazioni era quella scelta per decorare il catino absidale dell’antica basilica di S. Pietro. La scena ebbe immediatamente una straordinaria fortuna sia sui sarcofagi, sia in altri monumenti, come nel caso del mausoleo di Costantina sulla via Nomentana (vedi l’immagine qui sotto), dove venne realizzata,

a mosaico, alla metà del IV sec. Secondo lo schema canonico, il Cristo-imperatore figura al centro della composizione, nell’atto di passare un rotolo all’apostolo Pietro, pronto a riceverlo con le mani coperte dal pallio, alla presenza di Paolo acclamante (meno diffusa, ma attestata, è anche la versione in cui il Salvatore affida la Legge a quest’ultimo). Non sfugge il valore politico della rappresentazione: l’affidamento del rotolo a Pietro sottintendeva, infatti, la scelta di riconoscere alla sede petrina il primato sulle altre Chiese.

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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

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Una cittĂ che cambia

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Pianta di Roma realizzata dal pittore e architetto Pirro Ligorio. 1570. Si notano, evidenziati nel tessuto urbano, i grandi monumenti antichi (templi, terme, edifici per spettacoli, acquedotti, colonne coclidi, le rovine del Foro Romano (1), i magazzini del porto presso il Testaccio (2), ecc.). A fianco a essi, compaiono i complessi ecclesiastici di antica fondazione, come, per esempio, il Laterano (3), il Vaticano (4), Santa Croce (5) e gli altri numerosi edifici di culto cristiani, sorti nelle maglie della cittĂ antica e rimasti, in alcuni casi, quasi isolati, in zone ormai disabitate.

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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

I PROTAGONISTI IV SECOLO

IMPERATORI

PAPI

Massenzio (306-312) Costantino (306-337)

Costantino II (337-340) Costante (337-350) Costanzo II (337-361) Magnenzio (350-353) Giuliano (361-363) Gioviano (363-364) Valentiniano (364-375) Valente (364-378) Graziano (367-383) Valentiniano II (375-392) Teodosio (379-395) Eugenio (392-394)

VI SECOLO

V SECOLO

Occidente Onorio (395-423)

Arcadio (395-408)

Petronio Massimo (455) Avito (455-456) Maggiorano (457-461) Libio Severo (461-465) Antemio (467-472) Glicerio (473-474) Giulio Nepote (474-475) Romolo Augustolo (475-476)

Marciano (450-457)

Maurizio Tiberio (582-602)

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Liberio (352-366) Felice II (356-365)

Elena, figlia di Costantino († 360) Sinodo di Antiochia (378) Battaglia di Adrianopoli (378) Editto di Tessalonica (380) Concilio di Costantinopoli (381) Decreti di Teodosio (391-392) Stilicone, generale dell’esercito romano († 408)

Oriente

Teodosio II (408-450)

[…]

Grande persecuzione (303-311) Editto di Serdica (311) Battaglia di Ponte Milvio (312) Cosiddetto «Editto di Milano» (313) Concilio di Nicea (325) Fausta, moglie di Costantino († 326) Costantina, figlia di Costantino († 354)

Siricio (384-399)

Valentiniano III (425-455)

Giustiniano (527-565)

Marcellino (296-304) Marcello I (308-309) Eusebio (309) Milziade (311-314) Silvestro I (314-335) Marco (336) Giulio I (337-352)

Damaso I (366-384) Ursino (366-367)

[…]

Giustino (518-527)

EVENTI E PERSONAGGI NOTEVOLI

Leone I (457-474)

Anastasio I (399-401) Innocenzo I (401-417) […] Celestino I (422-432) Sisto III (432-440) Leone I (440-461) Ilaro (461-468) Simplicio (468-483)

Zenone (475-491) Anastasio I (491-518)

Simmaco (498-514) […] Giovanni I (523-526) Felice IV (526-530) Bonifacio II (530-532) […] Vigilio (537-555) Pelagio I (556-561) […] Pelagio II (579-590) Gregorio I (590-604)

Maria, moglie di Onorio († 408) Sacco di Alarico (410) Alarico, re dei Visigoti († 410) Ataulfo, re dei Visigoti († 415) Concilio di Efeso (431) Galla Placidia, figlia di Teodosio, madre di Valentiniano III († 450) Concilio di Calcedonia (451) Attila in Italia (452) Sacco di Genserico (455) Eudocia, moglie di Teodosio II († 460) Deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente (476) Eudossia, figlia di Teodosio II, moglie di Valentiniano III († 493) Teoderico, re degli Ostrogoti (474-526) Sinodo di Roma (531) Guerra greco-gotica (535-553) II Concilio di Costantinopoli (553)

Gregorio di Tours († 594) Sinodo di Roma (595)


DEL CAMBIAMENTO IMPERATORI

Teodoro I (642-649) Martino I (649-655) […] Vitaliano (657-672) […]

Giustiniano II (669-695)

Sergio I (687-701)

Leonzio (695-698)

Osuiu, re di Bernicia e di Northumbria (642-670) III Concilio di Costantinopoli (680-681) Caedwalla, re del Wessex (685-688) Ina, re del Wessex (688-726)

Tiberio III (698-705) Giovanni VI (701-705) […] Zaccaria (741-752) Stefano II (752-757) Paolo I (757-767) Stefano III (768-772) Adriano I (772-795)

Leone IV (775-780) Costantino VI (780-797) Irene (797-802)

Leone III (795-816)

Cenred, re di Mercia (704-708) Editto iconoclasta di Leone III: rottura tra Roma e Bisanzio (730) Beda († 735) Ratchis, re dei Longobardi (744-749) I Longobardi conquistano Ravenna (751) Desiderio, re dei Longobardi (756-774) Offa, re dei Sassoni (757-796) Cade il regno longobardo (774) II Concilio di Nicea (787) Paolo Diacono († 799) Leone III incorona Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero (800)

VIII SECOLO

Giustiniano II (705-711) […] Leone III Isaurico (717-741) Costantino V (741-775)

Bisanzio

EVENTI E PERSONAGGI NOTEVOLI VII SECOLO

[…] Costante II (641-668)

PAPI

Sacro Romano Impero Carlo Magno (800-814)

[…]

Ludovico il Pio (814-840)

Michele III (842-867)

Lotario (840-855)

Basilio I (867-886)

[…]

[…]

Carlo II il Calvo (875-877) Adriano II (867-872) IV Concilio di Costantinopoli (869) Carlo III il Grosso (881-887) Giovanni VIII (872-882) Fondazione della […] […] Giovannipoli (872-882)

Leone IV (847-855) Fine dell’iconoclastia (842) Benedetto III (855-858) Incursione saracena a Roma (846) Niccolò I (858-867) Civitas Leoniana (853)

I nomi in corsivo indicano imperatori usurpatori o antipapi; i puntini di sospensione sono stati inseriti laddove le liste sono solo parziali e riportano imperatori e papi principali.

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IX SECOLO

[…]

Carlo Magno: re dei Franchi dal 768, dei Longobardi dal 774, imperatore dall’800 († 814)

Niceforo I (802-811)


SPECIALE • ROMA CRISTIANA

grammi iconografici inediti, conformati all’arte di corte. Nell’abside della chiesa costruita sul sepolcro di Pietro venne con ogni probabilità elaborata per la prima volta la scena dell’affidamento della Legge di Cristo all’apostolo (traditio Legis), scena che con sicurezza, sulla base di disegni, la decorava nel Medioevo e che ebbe immediatamente una straordinaria fortuna sia sui sarcofagi, sia in altri monumenti, come il mausoleo di Costantina sulla via Nomentana (vedi box a p. 69).

UN IMPERATORE TIMOROSO? Nell’insieme, tuttavia, tale programma di promozione del cristianesimo è stato, fino agli studi piú recenti, da una parte valutato come l’effettivo tentativo di realizzare il «sogno» di una Roma cristiana, dall’altra sminuito, attribuendo a Costantino qualche remora e timore nei confronti della parte pagana dell’aristocrazia – giudicata la piú consistente –, tanto In alto: l’interno dell’antica basilica di S. Pietro prima della sua ricostruzione cinquecentesca, in un affresco di Giovan Battista Ricci. Inizi del XVII sec. Città del Vaticano, Grotte Vaticane.

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da circoscrivere gli interventi costruttivi, pure grandiosi, perlopiú in terreni di proprietà del fisco o direttamente della casa imperiale (cosí alcune delle basiliche «circiformi») o in aree comunque non troppo esposte. Soprattutto, la realizzazione del complesso episcopale in un settore non centrale della città, nella periferia sud-est, a ridosso delle mura aureliane, è apparsa l’atto di un imperatore attento «a non offendere la sensibilità pagana, pur continuando a promuovere la nuova religione» (Krautheimer). Solo a Costantinopoli, si è pensato per molto tempo, nella «sua» città, Costantino avrebbe in pieno realizzato il sogno di una città cristiana. A un’osservazione piú accurata, il significato risulta però ben diverso. Intanto, se un’ulteriore testimonianza di Eusebio di Cesarea si considera affidabile, all’indomani della vittoria su Massenzio l’imperatore avrebbe fatto collocare «immediatamente» nella mano di

In basso, sulle due pagine: particolare del plastico realizzato da Italo Gismondi (1937) che mostra l’area vaticana prima della costruzione della basilica di S. Pietro: gran parte della zona era ancora all’epoca occupata dal circo di Nerone. Roma, Museo della Civiltà Romana.

una propria statua il vessillo della vittoria, descritto come «un’alta asta a forma di croce», in un luogo in cui potesse avere la massima visibilità e pubblicità, probabilmente proprio il Foro Romano, non tradendo, appunto, alcun imbarazzo in un intervento che lo rivelasse vicino al Dio dei cristiani.

UNA CHIESA AL POSTO DELLA CASERMA Il Laterano, poi, doveva configurarsi come lo spazio migliore per l’esecuzione di un progetto di tale ambizione. Era un’area particolarmente estesa, progressivamente acquisita dal demanio e già occupata da prestigiose residenze e dalle due importanti caserme (i castra priora e nova) degli equites singulares; ora, con Costantino, lo scioglimento del corpo della guardia imperiale, gli equites, appunto, e il piú generale programma di demilitarizzazione dell’Urbe avevano determinato la brusca di-

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SPECIALE • ROMA CRISTIANA Nella pagina accanto: lo scenografico allestimento della mostra su Costantino in corso presso la Nieuwe Kerk di Amsterdam. In basso: la mano destra di una colossale statua in marmo dell’imperatore Costantino proveniente dalla basilica di Massenzio. 313-324 d.C. Roma, Musei Capitolini.

smissione di edifici e la disponibilità immediata di spazi costruttivi, che sarebbe stato ben piú difficile rintracciare in aree centrali a continuità di uso. Il progetto di Costantino è in effetti duale: da una parte la grande chiesa dei cristiani, edificio monumentale al centro di una serie complessa di strutture – un vero e proprio quartiere –, dall’altra la residenza imperiale del Sessorium, sede preferenziale dei soggiorni a Roma della madre Elena, che ripristinava l’antica proprietà dei Severi con splendide nuove costruzioni di rappresentanza e un oratorio con funzione di cappella palatina dedicato alla Croce. La chiesa del vescovo e il palazzo dell’imperatore: un binomio che forniva alla prima una chiara etichetta di privilegio e protezione, secondo un progetto che sarebbe stato attuato, anche in altre città «capitali», forse a Tessalonica e ad Antiochia, sicuramente a Treviri e a Costantinopoli.

UN PATROCINIO ININTERROTTO A Costantino va dunque riconosciuta la capacità di introdurre un modello operativo inedito, di stabilire un sodalizio duraturo tra i regnanti e la Chiesa, quest’ultima favorita dagli interventi evergetici dei primi (ben presto emulati dalla classe aristocratica): quasi tutte le piú eccellenti imprese di edilizia chiesastica attuate a Roma fino al V secolo si avvalgono del supporto diretto dell’imperatore o di un membro della sua famiglia. Con un rescritto del 383, i tre imperatori in carica – Teodosio,Valentiniano II e Arcadio –, indirizzavano il prefetto Sallustio a intraprendere il progetto di riedificazione ben piú monumentale della prima chiesa sul sepolcro dell’apostolo Paolo, pianificando un’opera di grande rilevanza: la realizzazione di una basilica a cinque navate, per la cui costruzione, condizionata dalla posizione della tomba originaria e dalla presenza del Tevere a ovest e di una prominenza rocciosa a est, si rivelava necessaria la risistemazione della viabilità cir(segue a p. 81) 76 a r c h e o

COSTANTINO AD AMSTERDAM La mostra allestita presso la Nieuwe Kerk di Amsterdam presenta la trasformazione di Roma da capitale imperiale multireligiosa in città cristiana. La cerniera dell’argomento è la svolta nella politica religiosa dell’impero sotto Costantino. L’esposizione si concentra sulla contestualizzazione culturale della crescita del cristianesimo nella Roma di età tardo-antica, una metropoli cosmopolita e multireligiosa. Per farlo, sono stati selezionati numerosi capolavori e opere meno conosciute, che permettono confronti interessanti. Si tratta di sculture, mosaici, vetri dorati, iscrizioni, ma anche di dipinti piú recenti, con temi paleocristiani. Completano la rassegna monete e manoscritti provenienti da raccolte dei Paesi Bassi. L’elemento di maggior rilievo è forse l’eccezionale incontro di due sculture identitarie dell’arte paleocristiana, il Buon Pastore dei Musei Vaticani (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 40-49) e il Cristo docente del Museo Nazionale Romano. Come già ricordato, la mostra è ospitata dalla Nieuwe Kerk, grandiosa chiesa gotica nella piazza principale (Dam) di Amsterdam, di cui l’allestimento sfrutta al meglio gli immensi spazi. All’ingresso si viene accolti dalla spettacolare replica schematica in scala 1:2 dell’arco trionfale di Costantino a Roma: da qui l’attenzione è catturata dalla copia digitale del colosso

di Costantino, nella sua presunta altezza originaria, pari a ben 12 m. Nel percorso espositivo, proprio nel coro della chiesa, riproduzioni degli affreschi raffiguranti la visione di Costantino e la battaglia di Ponte Milvio (dalla Sala di Costantino nei Palazzi Vaticani), circondano le opere, illustrando la svolta religiosa dell’imperatore «cristiano».

DOVE E QUANDO «Roma. Il sogno dell’imperatore Costantino. Tesori d’arte dalla Città Eterna» Amsterdam, De Nieuwe Kerk fino al 7 febbraio 2016 Orario tutti i giorni, 11,00-17,00; chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.nieuwekerk.nl


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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

n

prima del 384 384-483 483-555 556-642 642-752 752-882

CHIESE TITOLARI CHIESE DEVOZIONALI MONASTERI DIACONIE XENODOCHIA, HOSPITIA VIE PORTICATE SUBURBIO - CHIESE MARTIRIALI SUBURBIO - BATTISTERI CIMITERI E IPOGEI SUBURBIO - RESIDENZE EPISCOPALI SUBURBIO - HABITACULA PAUPERIBUS SUBURBIO - BALNEA SUBURBIO - BIBLIOTECHE MAUSOLEI

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Pianta di Roma e del suburbio con l’indicazione dei principali luoghi legati alla cristianizzazione della città e sorti fra il IV e il IX sec.

IL DONO COME ESERCIZIO DEL POTERE Le chiese costantiniane di Roma vennero valorizzate soprattutto con dotazioni di straordinaria ricchezza: beni immobili (terreni, case, servizi commerciali e strutture produttive) da cui ricavare rendite tali da garantirne l’autosostentamento e il funzionamento degli apparati di illuminazione, ma anche donativi di oggetti in metalli nobili da arredo e per la liturgia. Nella biografia di papa Silvestro le notizie di fondazione sono corredate da elenchi dettagliati dei manufatti elargiti, perlopiú in oro e argento, raramente in oricalco, dei quali si precisa anche il peso in libbre (1 libbra= 327,168 g): altari, candelabri, lucerne e ceri e vasellame liturgico – calici, patene, tazze (scyphi), contenitori per il vino (amulae) –, incensieri, oggetti in qualche caso impreziositi da gemme o contrassegnati da iscrizioni del donatore. Sulla croce d’oro del peso di circa 50 kg fatta pendere nel presbiterio della chiesa dedicata a Pietro, in corrispondenza del sepolcro, splendevano i nomi di Costantino e di Elena, i dedicanti dell’edificio che sembrava rifulgere come una «casa regale», recitava la stessa iscrizione. Il progetto piú impegnativo, dalla descrizione del Liber pontificalis, interessò il complesso episcopale, con la realizzazione, nella basilica, di un baldacchino monumentale (fastigium) in argento massiccio, decorato da due distinte composizioni figurate: verso l’aula una scena di magistero con Cristo tra i dodici apostoli e, verso l’abside, Cristo in trono tra quattro angeli. In dettaglio vengono precisati i singoli valori ponderali: 662 kg per la struttura, rispettivamente circa 39 e 46 kg per le due immagini di Cristo, 353 kg d’argento per gli apostoli, 137 kg per gli

angeli, per un totale complessivo pari a oltre 1237 kg di argento. Anche nel battistero lateranense la munificenza dell’imperatore aveva impreziosito gli addobbi della vasca con statue realizzate in metalli preziosi, un agnello d’oro, dal peso di 10 kg, tra Cristo e Giovanni Battista (rispettivamente di 55 e quasi 41 kg d’argento), mentre sette cervi, anch’essi argentei, per un peso complessivo di circa 184 kg, erano disposti intorno al bacino per l’adduzione dell’acqua battesimale; la colonna di porfido posta al centro della vasca era poi sormontata da una lucerna di 17 kg d’oro. Quantità spropositate di metalli nobili, insomma, quantificabili, nei totali complessivi – se si presta piena attendibilità ai dati registrati dal biografo di Silvestro –, in oltre 812 kg di oro e circa 6110 kg di argento. La possibile disposizione della decorazione del battistero lateranense nella risistemazione di Sisto III (432-440).

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SPECIALE • NOME

SEPOLCRI SOTTRATTI ALL’ANONIMATO Con la significativa eccezione dei «principi degli apostoli», gli interventi imperiali che all’epoca di Costantino andavano mutando il volto di Roma interessarono solo marginalmente i luoghi di sepoltura dei martiri. Divenuti precocemente oggetto di devozione e di pellegrinaggio, si trattava spesso di tombe di tipo comune, talvolta collocate nelle regioni sotterranee dei cimiteri comunitari («catacombe»), nelle quali gli stretti ambulacri mal si prestavano ad accogliere flussi crescenti di fedeli, desiderosi di un contatto con le sepolture venerate. A Costantino si attribuisce un solo intervento di valorizzazione nelle catacombe, relativo alla sepoltura di Lorenzo presso il cimitero «di Ciriaca» sulla via Tiburtina, consistente nella realizzazione di un percorso di visita «a senso unico», con scale per la discesa e per la risalita, cosí da limitare l’assembramento legato al «viavai» dei fedeli; il sepolcro stesso, enfatizzato dall’aggiunta di una struttura absidata, venne ornato di marmi e metalli preziosi. Solo pochi anni dopo, con papa Liberio, i lavori di monumentalizzazione del sepolcro della martire Agnese, nell’omonimo cimitero della via Nomentana, appaiono legati all’iniziativa del pontefice, benché ancora inquadrabili nella ristrutturazione degli edifici del sopratterra che, tramite la realizzazione di un sontuoso mausoleo imperiale, vennero predisposti ad accogliere le sepolture di Costantina ed Elena, figlie del defunto Costantino: il sepolcro di Agnese venne allora cinto di plutei marmorei, di cui si conserva uno splendido esemplare decorato con la raffigurazione della giovane martire. L’attenzione della Chiesa al culto dei martiri raggiunse uno dei culmini della sua intensità con Damaso,

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l’energico papa successore di Liberio. Questi avviò la sistematica ricognizione e valorizzazione dei sepolcri martiriali, impreziosendo le tombe con apparati architettonici e con monumentali iscrizioni commemorative in versi; gli ambienti che ospitavano le sepolture vennero talvolta allargati, predisponendo percorsi «agevolati» per la visita dei fedeli e creando nuove aree sepolcrali destinate a chi desiderava acquistare una tomba prossima a quella del martire


«patrono». Nel corso del VI secolo, la prassi di far coincidere il luogo della celebrazione eucaristica con la tomba venerata di un martire diede avvio a una nuova stagione per i santuari delle catacombe che, a prezzo di vasti sbancamenti, videro spesso sorgere vere e proprie basiliche «ad corpus», cioè realizzate a diretto contatto con i sepolcri venerati. Ben presto, però, motivi di sicurezza legati alle incursioni longobarde e saracene suggerirono, con poche eccezioni, di rinunciare alla frequentazione dei santuari extraurbani: in molti casi, tra il VII e il IX secolo, le spoglie dei martiri furono trasferite nelle chiese all’interno delle mura, contravvenendo cosí per la prima volta in modo sistematico al tradizionale precetto dell’inviolabilità del sepolcro.

costante. Un lungo cantiere architettonico, con interventi topografici su ampia scala, dunque, che rispondeva al diretto interessamento di Teodosio e dei figli Onorio e Galla Placidia, prosecutori del progetto, e correlato forse a un proposito, mai piú attuabile in senso definitivo, di ricentralizzare Roma come fulcro dell’impero d’Occidente. Negli anni successivi può in qualche modo apparire come un novello Costantino Valentiniano III, il figlio della stessa Galla Placidia e imperatore dal 425 al 455, diretto promotore della ricostruzione della chiesa titolare di Lucina (S. Lorenzo in Lucina) e, forse, dell’edificazione del prestigioso edificio dedicato al protomartire Stefano sul Celio (S. Stefano Rotondo), consacrato piú tardi In alto, sulle due pagine: Roma. I resti della basilica circiforme voluta da Costantino in onore della martire Agnese, sulla via Nomentana. Nella pagina accanto, in basso: Roma. L’interno del mausoleo di Costantina (poi S. Costanza). Qui sotto: Roma, basilica di S. Agnese. Uno dei plutei (lastre marmoree) posti da papa Liberio sul sepolcro della santa, nel quale la martire è ritratta come una bambina, poiché fu messa a morte in giovanissima età. IV sec.

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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

da papa Simplicio, sorto in un terreno pubblico precedentemente occupato da una caserma di soldati peregrini. Soprattutto, all’imperatore si deve un’attività munifica allargata, con consistenti donativi di manufatti preziosi, rivolta a sanare le gravi conseguenze dei saccheggi dei Goti nelle chiese di Roma, in particolare a S. Pietro, S. Paolo e S. Lorenzo, oltre che nella basilica lateranense, dove, sulla base del Liber pontificalis, fu necessario ripristinare anche il fastigium argenteum costantiniano distrutto dai barbari. Alla moglie di Valentiniano III, Eudossia, si deve invece il finanziamento del progetto della chiesa degli apostoli sul colle Oppio (S. Pietro in Vincoli), con il quale l’imperatrice scioglieva il voto del padre Teodosio II e della madre Eudocia.

IL SOGNO REALIZZATO Nella Roma alle soglie del Medioevo, la cristianizzazione degli spazi appare compiuta, radicale e, per certi versi, ridondante. In una città profondamente modificata, con una popolazione scesa dai circa 800 000 abitanti dell’età costantiniana a meno di 100 000, con i grandi edifici pubblici dismessi, con l’introduzione, dentro le mura, di funzioni inconsuete (le attività produttive, l’uso sepolcrale) e con l’adozione di nuovi modelli abitativi, le numerose chiese sono presenze di straordinaria vitalità nella connotazione dei nuovi quartieri, urbani e suburbani.

IL PRIMATO DI ROMA FRA CARITÀ E GIURISDIZIONE «Ignazio (…) a colei che ha ricevuto misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e di Gesú Cristo suo unico figlio: la Chiesa amata e illuminata (…) che presiede (prokáthetai) nella terra di Roma, degna di Dio, di venerazione, di lode, di successo, di candore, che presiede alla carità (prokatheméne tês agápes), che porta la legge di Cristo e il nome del Padre». Nei primi anni del II secolo Ignazio, vescovo d’Antiochia, cosí scrive ai cristiani romani avvicinandosi alla capitale dell’impero, condannato a subirvi il supplizio ad bestias, durante il regno di Traiano (la locuzione latina, letteralmente, «alle belve», indicava la condanna a combattere senza armi contro le fiere nell’anfiteatro, che venne inflitta soprattutto ai cristiani, n.d.r.). Molto è stato scritto su questa «presidenza» della Chiesa romana e sul senso da dare alla

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parola agápe, qui forse riferita alla «carità» esercitata verso le Chiese piú povere con la raccolta di offerte. In ogni caso, com’è evidente dalle parole di Ignazio, il primato della Chiesa romana sulle altre Chiese del mondo antico nasce proprio da questa venerazione per la comunità generata dalla testimonianza degli apostoli e dal sangue dei martiri. Cosí come esistette un mito di Roma, capitale «colossale» e magnifica dell’impero, cosí ci fu un mito di Roma fra i cristiani dei primi secoli, denso di ammirazione per l’eroismo della sua testimonianza a Cristo. Questo primato fu alimentato anche dalle controversie dottrinali che molte Chiese locali sottoponevano, proprio per la sua fama, alla Chiesa dell’Urbe, in cerca di un arbitro imparziale. Papa Stefano (254-257) per primo rivendicò tale autorità dottrinale per il vescovo di Roma in rapporto alla «successione a Pietro, sul quale furono poste le fondamenta della Chiesa» (Cypr., epist. 75,17), con rimando esplicito a Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»). Il graduale trasferimento del primato della comunità cristiana romana al suo vescovo, il papa (il termine, di origine orientale, «padre», è attestato per la prima volta in riferimento a Marcellino, 296-304) avviene proprio durante il III secolo e si accentuerà nel secolo della Pace, già durante l’impero di Costantino, quando la Chiesa romana vide trasformarsi la sua identità e la sua presenza nel territorio urbano ed assunse, soprattutto in occasione delle sempre piú complesse controversie che dilaniavano la comunità cristiana da Oriente a Occidente, un ruolo di arbitro talvolta anche contraddittorio nei confronti del potere imperiale. Dopo la metà del secolo, fu papa Damaso a ribadire decisamente il primato del vescovo di Roma sugli altri vescovi dell’orbis christianus. Al fine di combattere le eresie e riaffermare la fede proclamata nel Concilio di Nicea, fece approvare in un sinodo delle Chiese orientali ad Antiochia la norma per la quale la nomina di un vescovo fosse valida solo se approvata dal vescovo di Roma. Dopo Damaso, anche il suo successore Siricio riaffermò costantemente un primato, quello petrino, che si andava ormai caratterizzando come una supremazia giuridica del vescovo di Roma su tutte le Chiese.

UNITI NELLA CONCORDIA Le immagini di Pietro e Paolo uniti in un abbraccio o affrontati in concordia celebrano non solo – riprendendo una nota iconografia imperiale – l’incontro solidale fra i due apostoli sotto le mura di Roma, avviati al comune martirio, ma alludono anche all’incontro e alla «concordia» fra le due anime della Chiesa antica da essi personificate, quella giudeo-cristiana e quella pagano-cristiana (ex circumcisione ed ex gentibus). Il tema si diffonde soprattutto dalla metà del IV secolo, e sembra un tentativo di rileggere in positivo gli sforzi di superamento delle controversie dottrinali esplose dopo la Pace religiosa, che spesso contenevano in nuce anche lo sviluppo di sensibilità e usanze differenti tra le Chiese dell’Oriente e quelle dell’Occidente, acuite dalla divisione dell’impero: riconciliazione richiamata e perseguita, nel IV secolo, non solo dalla Chiesa romana, ma anche da quell’autorità imperiale impegnata ad arginare, sempre piú illusoriamente, quelle spinte disgregatrici inesorabili nei secoli della fine del mondo antico.

In alto: vetro dorato con i ritratti di san Pietro e san Paolo. Seconda metà del IV sec. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Cristiano. Nella pagina accanto, in alto: frammento del mosaico realizzato per l’abside di S. Pietro al tempo di Innocenzo III (1198-1216) con una figura coronata che viene tradizionalmente identificata con una personificazione della Chiesa di Roma. Roma, Museo Barracco. Nella pagina accanto, in basso: Roma, basilica di S. Paolo fuori le Mura. Il mosaico dell’arco trionfale è attribuito alla committenza di Galla Placidia, durante il pontificato di Leone I (metà del V sec.). a r c h e o 83


SPECIALE • ROMA CRISTIANA

LA «CRISTIANIZZAZIONE» DELL’ARTIGIANATO L’affermazione del cristianesimo nell’Urbe investí anche la cultura cittadina e l’elaborazione di caratteri identitari sempre piú peculiari entrò, per esempio, nella sfera privata, negli ambiti legati alla vita e in quelli funerari. Entro tali contorni si sviluppa l’uso sempre piú ampio di prodotti specificamente connotati. Soprattutto per quelli connessi alla liturgia (arredi, suppellettile, abiti), si può in alcuni casi supporre l’esistenza di botteghe con destinazione esclusiva e per produzioni seriali massive attive a Roma e, forse, per particolari categorie di manufatti, di diretta gestione ecclesiastica. Un’officina lapidaria operante sotto il controllo episcopale era quella, prestigiosa, legata a Damaso; il papa, dopo la composizione dei versi dedicati ai martiri, ne affidava l’incisione su marmo a Furio Dionisio Filocalo, al quale si attribuisce l’invenzione e la realizzazione di caratteri grafici nobili e inconfondibili. Dalla sua bottega erano uscite le lastre marmoree inscritte con gli epigrammi che avevano decorato, raccontando le storie del loro martirio, le tombe di tutti i santi riconosciuti come autentici dal papa; alcune di esse, quelle per Agnese e per Eutichio soprattutto, si conservano praticamente integre.

All’interno delle mura erano sorte numerose chiese «titolari» (dal termine titulus, che ne indicava forse il titolo giuridico di proprietà originario, n.d.r.) – venticinque alla fine del VI secolo sulla base di un elenco delle firme dei partecipanti a un sinodo –, alle quali, su delega episcopale, era affidata la cura delle anime (la catechesi e il battesimo, la penitenza, la liturgia settimanale) e perciò ben radicate nelle zone residenziali, a servizio diretto delle comunità afferenti.

NEL NOME DEI SANTI Molti altri edifici religiosi, sorti nell’arco di circa quattro secoli, avevano poi assecondato esclusivamente programmi devozionali entro cornici di politica religiosa man mano aggiornata, alimentata dal dibattito teologico (come nel caso della basilica di S. Maria Maggiore, sull’Esquilino, fondata dopo il concilio di Efe84 a r c h e o

Per il periodo tra la fine del VI e il VII secolo, l’epistolario di Gregorio Magno ci ha tramandato copiose informazioni sulle diverse categorie di oggetti devozionali (reliquari, encolpi, ampolle). Numerosi sono i riferimenti a chiavi e croci in oro e argento offerte come doni speciali a personaggi eminenti e spesso contenenti la polvere della limatura delle catene di Pietro e Paolo, le prime realizzate probabilmente a imitazione della chiave che apriva il recinto della confessione. Si può presumere che, per il loro valore ideologico, la Chiesa detenesse il monopolio esclusivo di fabbricazione e distribuzione di questi oggetti, come suggeriscono le normative per la produzione, ben piú tarda, delle «quadrangulae» di pellegrinaggio, in piombo e stagno, con le immagini Pietro e Paolo, per le quali un provvedimento di Innocenzo III del 1199 attribuisce l’autorità di fusione o quella di concederne la fusione al Capitolo della Basilica di S. Pietro, pena la scomunica di eventuali falsificatori e produttori non autorizzati.

so del 431 che aveva definito la maternità divina di Maria Theotókos) o dai cambiamenti istituzionali; a questi ultimi si lega, in particolare, il gran numero di chiese dedicate a santi orientali tra il VI e il VII secolo, sotto il governo bizantino. Le fondazioni devozionali potevano anche trasformarsi in occasioni di rilancio per spazi urbani altrimenti destinati al degrado, anche per la diffusa tendenza a installarsi in edifici preesistenti non piú in uso. Molte costruzioni, di diretta committenza papale o promosse dall’evergetismo (elargizione di doni alla collettività da parte di un privato, n.d.r.) della classe aristocratica, avevano nel corso del tempo assicurato l’accoglienza dei poveri e degli stranieri e la cura dei malati (originariamente gli xenodochia), funzione espletata anche da piú d’uno dei numerosi monasteri, sia latini che greci – cinquantasei documentati entro l’VIII seco-


Nella pagina accanto: Roma, basilica di S. Agnese. Il carme composto da papa Damaso per il martirio di Agnese. L’incisione è attribuita a Furio Dionisio Filocalo, ideatore dei caratteri adottati, detti appunto lettere «filocaliane». Qui accanto: insegna di pellegrinaggio (quadrangula) con Pietro e Paolo. XIII-XIV sec. Parigi, Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge.

lo –, che avevano gradualmente assunto un efficace ruolo di primo piano nel culto, nella liturgia, nel supporto alla popolazione, nella gestione di attività produttive.

NASCONO LE DIACONIE Con l’accentuarsi delle responsabilità del vescovo in relazione alla città e ai cittadini e, dunque, ai problemi dell’assistenza un tempo prevalentemente affidati all’annona civica, erano poi nate, dall’VIII secolo, le diaconie (funzione spesso attribuita a chiese già esistenti, soprattutto devozionali): complessi articolati, con un’aula cultuale (si tratta, in genere, della sola parte ben nota), strutture di servizio, magazzini e ambienti di accoglienza. Riutilizzando spesso monumenti antichi, esse sorsero perlopiú in siti centrali, presso strade agevoli e

di grande percorrenza e nell’area tiberina, favorita dalla comodità dei rifornimenti. Anche il suburbio, nei secoli dopo Costantino, si era arricchito di chiese e oratori: una guida destinata ai pellegrini dei primi decenni del VII secolo, il De locis sanctis, annovera ben 170 santuari meritevoli di una visita! Solo pochi di essi, tuttavia, sopravvissero al tempo, ai saccheggi e alla massiccia traslazione delle reliquie nelle chiese intramuranee. Primi fra tutti i grandi santuari apostolici di Pietro e di Paolo, trasformati da semplici tombe in «città»: la civitas leoniana, dal nome di papa Leone IV, quella del Vaticano, e la Giovannipoli, per il fondatore Giovanni VIII, quella dell’Ostiense. Due siti originariamente sepolcrali che il cristianesimo aveva reso, definitivamente, «spazio dei vivi». a r c h e o 85


SPECIALE • ROMA CRISTIANA

GLI IMPERATORI TORNANO A ROMA Dall’inizio della tetrarchia (286 d.C.) Roma non fu piú la sede amministrativa dell’impero e la residenza preferenziale dell’imperatore; l’instaurarsi del governo collegiale, con la ripartizione dei poteri tra due Augusti e due Cesari, e le necessità di controllare la frontiera, resa instabile dalla pressione dei popoli «barbari», avevano determinato una inedita proliferazione di centri del potere: in Occidente, soprattutto Milano e Treviri, ma anche Aquileia e Arles; in Oriente, prima della fondazione di Costantinopoli, Sirmium, Nicomedia, Antiochia, Tessalonica. Roma, però, non smise mai di svolgere il ruolo di «capitale virtuale» e continuò a essere lo scenario migliore per i cerimoniali del potere, in particolare quelli con cui si celebravano le ricorrenze periodiche delle assunzioni delle cariche (per i dieci e venti anni di governo: decennalia e vicennalia) e le vittorie militari. Gli imperatori della prima tetrarchia che tornavano a Roma potevano ricalcare gli antichi tragitti rituali: quando arrivavano da Nord, i cortei giungevano alla porta Triumphalis dalla via Flaminia e ne continuavano il percorso passando sotto l’arco di Claudio e poi sotto quello dedicato a Diocleziano nel 293; seguivano quindi il profilo del Campidoglio attraverso il Foro Boario e giungevano, dopo il teatro di Marcello, al Circo Massimo e al Foro Romano, per concludersi al tempio capitolino di Giove Ottimo Massimo. Le trasformazioni costantiniane ebbero conseguenze anche sul cerimoniale dell’ingresso (adventus) a Roma degli imperatori, poiché lo stesso Costantino, forse già nei festeggiamenti per la vittoria del 312 o, perlomeno, per i vicennalia del 326 – stando alla testimonianza dello storico pagano Zosimo –,avrebbe seguito solo parzialmente l’itinerario del trionfo, evitandone il tradizionale (e significativo) epilogo sul Campidoglio, un vero e proprio «rifiuto», secondo gli storici, dettato dall’adesione al cristianesimo. Nei decenni successivi si andò però imponendo un’altra polarità religiosa per le fastose pompe imperiali, quella costituita oltre il Tevere dal santuario di Pietro. Al tempo di Onorio (395-423) è questo il nuovo «tempio cittadino», fulcro catalizzatore dell’ossequio politico ufficializzato, ed è qui che, forse desideroso di un rientro definitivo a Roma dei regnanti in Occidente, l’imperatore fa costruire un mausoleo, contiguo al transetto della basilica, destinato a ospitare i membri della propria famiglia e, in sequenza, quasi tutti i successori nell’impero occidentale fino al 476. Una scelta speculare a quella che il fratello Arcadio

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aveva promosso per sé a Costantinopoli, presso la chiesa dei Ss. Apostoli. Tra il regno di Teodosio (379-395) e quello del figlio Onorio, per l’arrivo al santuario fu anche allestito un sontuoso sistema di portici, che partiva dal Campo Marzio, forse con piú strade colonnate convergenti verso il ponte Elio (l’odierno ponte Sant’Angelo) – i «grandissimi portici» (porticus maximae) citati in un’iscrizione copiata nella silloge di Einsiedeln – e attraversava due archi trionfali eretti a distanza ravvicinata: il primo a spese degli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio tra il 379 e il 383, l’altro dedicato ad Arcadio, Onorio e Teodosio II tra il 402 e il 407 per le vittorie sui Goti. Il percorso attraversava quindi il Tevere sul ponte del mausoleo di Adriano e proseguiva, ancora con colonnati, fino alla basilica. Quest’ultima divenne anche meta obbligata nei cerimoniali delle visite imperiali nell’Urbe, se il vescovo di Ippona Agostino, in un’omelia degli inizi del V secolo, alludendo evidentemente alla consuetudine contemporanea, poteva compiacersi soddisfatto (e un po’ ironico) del cambiamento epocale: «Giungono i re a Roma (…). Là è il sepolcro del pescatore, là invece il tempio dell’imperatore. Pietro è là nel sepolcro, Adriano è là nel tempio. Il tempio di Adriano, la memoria di Pietro. Viene l’imperatore. Vediamo, su, a chi presterà attenzione, dove vorrà inginocchiarsi: nel tempio dell’imperatore o presso la memoria del pescatore? Toltosi il diadema, si batte il petto dov’è il corpo del pescatore». Né questa prassi fu mai piú interrotta se, nel 500, arrivando a Roma, anche il re goto Teoderico, di religione ariana, si recò al sepolcro di Pietro, come atto formale verso la città e verso il papato. Tre secoli piú tardi, anche Carlo Magno fece costruire una residenza per i re franchi oltre il Tevere, presso S. Pietro, indiscusso centro catalizzatore, religioso e politico. In alto: bulla di Maria, figlia di Stilicone, moglie di Onorio, ritrovata in S. Pietro nel 1544. Cammeo in agata, oro, smeraldi e rubini. 398-407. Parigi, Museo del Louvre. I nomi di Onorio, Stilicone, Serena e Maria, incisi insieme all’acclamazione «vivatis», formano il cristogramma.


LA FRONTIERA GUARDA ROMA Tra l’età tardo-antica e il primo Medioevo, l’Urbe assume una nuova identità: è il polo d’attrazione di pellegrinaggi sempre piú frequenti, intrapresi soprattutto da fedeli provenienti dall’Europa del Nord

L

a dissoluzione dell’impero romano in Occidente e la cristianizzazione delle nazioni dell’Europa nord-occidentale innescarono rapporti nuovi tra le regioni e i Paesi «di frontiera» e il centro secolare del mondo antico. Dinamiche al cui interno crebbe il

peso dei fattori religiosi e spirituali. Roma si fece capitale spirituale di un mondo sempre meno «romano» e acquisí un ruolo nuovo nel contesto internazionale. Il fenomeno dei pellegrinaggi dai Paesi transalpini è tra quelli che meglio testimoniano questa interazione

Cofanetto reliquiario in avorio detto Capsella di Samagher, perché trovato (1906) nella chiesa di S. Ermagora a Samagher di Pola. Metà del V sec.

Venezia, Museo Archeologico Nazionale. Sulla faccia qui illustrata si riconosce la disposizione data al sepolcro di Pietro in età costantiniana.

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SPECIALE • ROMA CRISTIANA

inedita tra centro e periferia. Tra l’età tardoantica e l’Alto Medioevo prese forma una nuova immagine della Città Eterna, che non solo visse nella memoria degli stranieri del Nord, ma ebbe anche conseguenze sull’urbanistica e l’identità della stessa Roma.

QUELLE «MIRIADI DI ANIME»... Lo storico Eusebio di Cesarea, che mai si recò a Roma, sottolineava la frequentazione di «miriadi di anime accorrenti da ogni parte dell’impero romano al glorioso sepolcro di Pietro e a quello di Paolo, con intensa e grande venerazione» (Theophania, 4, 7). Cosí il biografo di Costan88 a r c h e o

tino documentava il pellegrinaggio internazionale ancor prima della monumentalizzazione dei sepolcri apostolici. Subito dopo, venne ultimata la grande basilica costantiniana di S. Pietro, mentre ancora doveva prendere forma, dalla prima modesta chiesa, una basilica analoga sulla tomba di S. Paolo. La costruzione dei piú grandi monumenti paleocristiani sulle tombe degli apostoli fondatori della Chiesa romana fu una conseguenza dell’afflusso dei pellegrini e, nel contempo, uno stimolo per l’ulteriore aumento dei viaggi devozionali ad limina apostolorum. Il termine limen, soglia, è attestato dal 400 nel


La città di Roma nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di una carta del mondo conosciuto intorno al IV sec. XIII-XIV sec. Vienna, Biblioteca Nazionale.

contesto della visita alle tombe apostoliche, talvolta associata ad altri sepolcri di martiri (Prudenzio, Peristefanon, 2, 520). La soglia del monumento funerario diventa il simbolo per la meta di pellegrinaggio. La metafora scaturisce forse da una visione «di distanza»: la soglia come destinazione e come il punto piú vicino alle spoglie degli apostoli, da raggiungere dopo un lungo viaggio. Cosí, dall’VIII secolo, la visitatio liminum indica la visita periodica di vescovi da fuori Roma alla Santa Sede. La basilica vaticana era la meta primaria dell’affluenza transalpina verso Roma. A questo riguardo, dobbiamo le prime infor-

mazioni estese e sistematiche a Gregorio di Tours (vescovo e agiografo gallo-romano, † 594), il quale, per esempio, racconta del pellegrinaggio che il vescovo Servazio di Tongres (nell’odierno Belgio), compie alla tomba di Pietro alla metà del V secolo. Da allora in poi, i fedeli che partono per rendere omaggio alle reliquie di Pietro e Paolo provengono soprattutto dall’Europa occidentale e non è un caso che, nell’VIII secolo, le scholae peregrinorum – istituzioni nazionali di accoglienza e alloggio per Anglosassoni, Franchi, Longobardi e Frisoni – sorgano tutte nei pressi della basilica vaticana. a r c h e o 89


Ricostruzione dei percorsi di visita alle chiese e ai santuari di Roma menzionati nell’Itinerario di Einsiedeln (800 circa).

Nella pagina accanto, in alto: ex voto in oro con croce e occhi, trovato nella confessione di S. Pietro. VI-VII sec. Città del Vaticano, Fabbrica di San Pietro. Nella pagina accanto, in basso: Pellegrini sulla tomba di san Sebastiano, olio su tavola di Josse Lieferinxe. 1497. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica. 90 a r c h e o


L’interesse di Franchi e Anglosassoni per la Roma cristiana è ben documentato. Si tratta soprattutto di notizie sulle visite di autorità ecclesiastiche o civili, forse leggibili come pars pro toto di un’affluenza piú ampia. Lo storico anglosassone Beda (725 circa) riferisce di nobili e gente comune, chierici e laici, uomini e donne, in gruppi che contano fino a ottanta persone. I graffiti di stranieri nelle catacombe sono di visitatori colti, in grado di leggere e scrivere correntemente (vedi box a p. 95).

PREGHIERA E DIGIUNO Cardine del culto alla tomba apostolica da parte dei visitatori stranieri era la preghiera, individuale o collettiva. Del vescovo Servazio, si racconta che si rivolse a san Pietro affinché gli desse sostegno e consiglio nell’ottenere la grazia del Signore necessaria per la sua autorità episcopale e che pregò per molti giorni sul sepolcro apostolico, osservando il digiuno (Gregorio di Tours, Hist. Franc., 2, 5). Della visita del diacono Agiulfo, compiuta intorno al 590, lo stesso Gregorio narra che il chierico franco poteva oltrepassare i cancelli intorno al monumento apostolico, aprire le porticine della fenestella confessionis e introdurvi la testa per pregare: un accesso alla confessione difficilmente concesso a un pellegrino comune. (segue a p. 95) a r c h e o 91


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«LA CITTÀ DEI PELLEGRINI»: GLI SPAZI DELL’ACCOGLIENZA Persino l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, fiero avversario della Chiesa, individuò la chiave del successo dei cristiani nell’attitudine ad accogliere e ad assistere stranieri e indigenti (Epist. 84). A Roma, l’attività caritativa era gestita dal vescovo, affiancato da sette diaconi, con competenza territoriale su altrettanti comparti cittadini (le regiones). Tra la fine del IV e gli inizi del V secolo sono attestati nella città i primi organismi espressamente dedicati all’assistenza dei bisognosi, indicati nelle fonti con il nome greco di xenodochia (latino: hospitalia, da cui l’italiano «ospedali»). Si tratta di fondazioni pietose destinate all’ospitalità di stranieri indigenti, categoria «marginale» per eccellenza. Alla categoria degli istituti assistenziali possono ricollegarsi anche gli «alloggi per i poveri» (habitacula pauperibus) predisposti da papa Simmaco presso S. Pietro, S. Paolo e S. Lorenzo. Il provvedimento nasce dall’esigenza dei principali santuari suburbani di gestire i cospicui flussi del pellegrinaggio. Dagli anni centrali del V secolo, infatti, e nei decenni successivi, i martyria di Lorenzo e di Paolo, come probabilmente anche il santuario petrino, furono dotati di servizi igienici (balnea); nel contempo, a partire dal pontificato di Sisto III, alcuni monasteri sorsero a fianco delle basiliche degli Apostoli sulla via Appia (oggi S. Sebastiano), di S. Pietro e di S. Lorenzo, a cui seguí, entro la fine del VI secolo, la prima fondazione monastica presso S. Paolo: i monaci erano chiamati a garantire il servizio liturgico delle grandi basiliche (piú tardi, anche di quello della cattedrale e delle chiese urbane) e, contemporaneamente, a farsi carico del servizio assistenziale nei confronti dei pellegrini e delle masse di indigenti che i santuari quotidianamente richiamavano. Il servizio centralizzato dell’assistenza caritativa legata all’episcopio lateranense (che pure contava quattro monasteri e un proprio xenodochium, lo Ptochium) prese nel tempo il nome di «Diaconia» (dal greco diakonéo, «servire»); in età avanzata, entro gli inizi dell’VIII secolo, esso venne affiancato da istituti «satellite» denominati, a loro volta, singolarmente, «diaconiae». 92 a r c h e o

L’origine di queste ultime resta un problema non risolto: alcuni dati suggeriscono un legame con l’Oriente greco e il coinvolgimento finanziario di ricchi laici legati ai vertici della politica romana, in un momento in cui l’Urbe era soggetta all’amministrazione del governo bizantino e la città pullulava di monaci greci. Tra i compiti delle diaconie risaltava la distribuzione di cibo agli indigenti, ai quali veniva garantito anche l’adempimento delle pratiche igieniche. L’importanza delle diaconie romane crebbe nell’VIII secolo, quando la rottura con Bisanzio fece ricadere sui papi l’onere dell’amministrazione civile e del vettovagliamento della città: i patrimoni pontifici dell’area laziale vennero riorganizzati con la fondazione di vaste aziende agricole (le domuscultae papali), destinate a garantire i rifornimenti alimentari e l’assistenza ai bisognosi attraverso i granai ecclesiastici e i magazzini del Laterano. Nuovi equilibri politici portarono contemporaneamente Roma a gravitare piú decisamente verso l’Europa continentale: agli occhi dei sovrani carolingi, nuovi «sponsor» del papato, l’importanza della città era ormai legata al prestigio del santuario petrino, che attirava enormi masse di pellegrini, soprattutto dai Paesi del Nord. Ciò impose ai pontefici il potenziamento dei servizi assistenziali: entro gli inizi del IX secolo, la basilica di S. Pietro era contornata da ben cinque monasteri (Ss. Giovanni e Paolo, S. Stefano Maggiore, S. Martino, S. Stefano Minore e Hierusalem), un balneum, alloggi per i poveri, due ospedali (S. Gregorio iuxta grados e S. Pellegrino) e cinque diaconie (Ss. Sergio e Bacco, S. Silvestro, S. Martino, S. Maria in caput portici, S. Maria in Hadrianio), a cui Stefano II associò due nuovi xenodochia. Contemporaneamente, l’importanza delle comunità straniere stanziate per motivi devozionali attorno a S. Pietro crebbe fino a stimolare la nascita di istituti «nazionali», le Scholae Peregrinorum. Oltre Tevere, attorno alla tomba dell’apostolo Pietro, era ormai sorta una vera e propria «città dei pellegrini», che, alla metà del IX secolo, papa Leone IV provvide a cingere di mura.


Pianta di Roma a volo d’uccello, miniatura su pergamena di Pietro del Massaio. 1469. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La «città» del Vaticano stessa compare in basso, a destra. Nella pagina accanto: rilievo di epoca romana che raffigura un viandante seduto. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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PELLEGRINI «CELEBRI» ED ECCLESIASTICI ITINERANTI Nell’Alto Medioevo, il pellegrinaggio ad limina Petri si era trasformato in un fenomeno di massa. Secondo Paolo Diacono e Beda il Venerabile «a quel tempo molti abitanti dell’Inghilterra, nobili e plebei, laici ed ecclesiastici, uomini e donne, a gara, avevano la consuetudine di farlo [di venire a Roma]». Nella Storia ecclesiastica, Beda dà un particolare rilievo alla scelta di alcuni sovrani dei regni anglosassoni – Osuiu, re dei Nordanimbri (Angli Aquilonari), Caedwalla e Ina, re dei Sassoni Occidentali, Cenred, re dei Merci, e Offa, re dei Sassoni – i quali, per assecondare il desiderio di una completa purificazione, arrivano ad abbandonare ogni forma di vita terrena e a ritirarsi a Roma a coltivare, nei luoghi piú santi, l’ascesi spirituale. Sulla base della testimonianza dello stesso Beda arrivano a Roma anche alti esponenti della gerarchia ecclesiastica dei Paesi di nuova evangelizzazione, soprattutto per apprendere rettamente i principi della fede e ricevere la consacrazione episcopale direttamente dal papa: la Storia ecclesiastica nomina Nynias, della stirpe dei Brettoni, il vescovo di Hoxham Aeca, i vescovi Wighard e Wilfrid, il vescovo Oftor; Mellito, vescovo di Luidonia, trovandosi a Roma, partecipa anche a un sinodo indetto da Bonifacio II. Di alcuni di questi «ecclesiastici itineranti» – e di molti altri pellegrini – si

possono ancora oggi leggere le firme lasciate sugli intonaci di alcuni santuari. Le catacombe romane hanno restituito circa 370 iscrizioni a sgraffio altomedievali, 337 latine, solo 30 greche e 3 runiche; il 36% di queste testimonianze va riferito sicuramente a ecclesiastici, i cui nomi sono spesso accompagnati da epiteti di umiliazione. Nella maggior parte dei casi le firme si limitano al semplice nome del pellegrino, talora accompagnato da formule acclamatorie (come biba o biba in deo) o da richieste di preghiere (ora pro me; ora pro me peccatore; in mente habeas in horationibus); piú rari, e segno di una cultura dottrinale che doveva essere appannaggio di esponenti del clero, appaiono i riferimenti a passi scritturistici, come il «dominus regit me, et nihil mihi deerit», citazione del Salmo 23 (22), letta nella basilichetta ipogea di Marcellino e Pietro. Accanto ai pellegrini stranieri, tuttavia, la tradizione commemorativa dei martiri nei giorni anniversari rimase vivissima tra i cristiani di Roma per tutta la tarda antichità e l’Alto Medioevo; alcuni degli esecutori dei graffiti si dicono presbiteri o monaci di istituzioni intramuranee: cosí il monachus de sancte Cecilie, che lasciò il proprio nome accanto a quelli, numerosissimi, degli altri fedeli nella già ricordata basilica ipogea dedicata a Marcellino e Pietro.

Un privilegio particolare consisteva nel procurarsi reliquie di contatto – brandea, palliola o sanctuaria – solitamente costituite da strisce di stoffa che acquistavano il valore di resti sacri veri e propri grazie appunto al contatto con la tomba apostolica, che avveniva attraverso la loro deposizione nella nicchia della confessione. D’altra parte, coloro che avevano visto le proprie preghiere ricompensate, per esempio con una guarigione, talvolta lasciavano un ex voto nella nicchia. I pellegrini potevano assistere alla liturgia regolare delle basiliche e la frequenza delle messe celebrate nelle cappelle e nella cripta in S. Pietro aumentò notevolmente nell’VIII secolo. L’organizzazione stazionale della liturgia pontificia, che prevedeva celebrazioni officiate dal papa e dall’alto clero in molte chiese dell’Urbe («stazioni») nei giorni di festa e nelle domeniche di periodi importanti dell’anno ecclesiastico, dovette esercitare un fascino particolare sugli stranieri, soprattutto su chi visitava Roma in occasione delle ricorrenze liturgiche principali e durante la Quaresima.

PROCESSIONI PENITENZIALI La concessione delle indulgenze come ricompensa per aver toccato le diverse «stazioni» si sviluppò solo nel Medioevo, ma i pellegrini potevano partecipare alle collectae, processioni di carattere penitenziale verso la chiesa stazionale del giorno. E proprio la valenza penitenziale caratterizza numerose testimonianze: ci fu perfino chi raggiunse Roma per dedicarsi a una vita di ascesi totale. Il viaggio nella Città Eterna poteva anche avere come scopo il battesimo. La presenza di battisteri connessi alle basiliche cimiteriali e martiriali e perfino nelle catacombe suggerisce l’uso di ricevere la grazia battesimale a diretto contatto con i martiri. È possibile che il visitatore inglese Healfred abbia lasciato il suo nome in un affresco della catacomba di Ponziano proprio perché era stato battezzato nella vasca sotterranea di questo cimitero. E il re sassone Caedwalla abbandonò il trono del Wessex, nel 688, per recarsi a Roma e «ottenere per sé la singolare gloria di ricevere il battesimo presso le tombe dei beati apostoli» (Beda, Hist. Eccl., 5. 7). Nella pagina accanto: Roma, catacomba di Priscilla. Graffiti incisi sulle pareti del cimitero da pellegrini tardo-antichi e medievali. a r c h e o 95


SPECIALE • ROMA CRISTIANA

L’importanza liturgica di S. Pietro crebbe fino a sorpassare quella della cattedrale papale del Laterano: un fenomeno verosimilmente indotto dalla sempre maggiore attenzione manifestata dagli stranieri per la tomba dell’apostolo. Questo «trasferimento» di ruoli dalla basilica costantiniana intramuranea a quella ancor piú grande situata oltre Tevere giunge a compimento intorno al 600, non solo quando il maggior numero di celebrazioni stazionali si svolge nella basilica vaticana, ma quando S. Pietro si è ormai imposta come sede

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esclusiva della consacrazione del pontefice e Miniatura della sua sepoltura. raffigurante

I VIAGGI DI CARLO MAGNO Con i suoi viaggi a Roma, il re franco Carlo Magno (768-814) si inseriva in una lunga tradizione di regnanti-pellegrini d’Oltralpe, anche se le implicazioni politiche della sua intesa con il papato avevano ben altro spessore. Quando arriva per la prima volta, il Sabato Santo del 774, dopo la pompa del ricevimento, Carlo si inginocchia umilmente, per

l’incoronazione di Carlo Magno, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. 1375-1380. Parigi, Bibliothèque nationale de France.


Tavola a colori raffigurante l’archeologo Giovanni Battista de Rossi che illustra a papa Pio IX la Cripta dei Papi da lui scoperta nel 1852 nelle catacombe di S. Callisto. 1923.

baciare i gradini della scalinata esterna di S. Pietro. Insieme a papa Adriano I, il re si reca alla confessione sotto l’altare maggiore per recitare una preghiera e poi scende nella cripta, nella quale viene pronunciato un giuramento di fedeltà reciproca, formulato quindi nella piú intima vicinanza alla tomba del principe degli apostoli. Carlo Magno visitò Roma ancora nel 781, 787 e nell’800-801, e, ogni volta, il soggiorno comprese la celebrazione della Pasqua. Nell’800 vi trascorse anche il Natale, quando ricevette la corona imperiale durante la messa stazionale in S. Pietro. Nella notte di Pasqua del 781 fece battezzare il figlio CarlomannoPipino dal papa, nel battistero Lateranense. Nei viaggi romani del re franco si concentrano tutti i motivi del movimento spirituale che dal Nord aveva toccato Roma nei

secoli precedenti. Colpiscono l’habitus di pellegrino umile ed emozionato nei confronti delle tombe degli apostoli, la netta predilezione per la basilica di S. Pietro, il desiderio di prendere parte alla ricca vita liturgica papale, il dare particolare importanza alla celebrazione del battesimo nella città degli apostoli. L’unico aspetto non tramandato è la visita alle catacombe. D’altra parte, la Roma paleocristiana costituiva un tassello fondamentale per portare a compimento la renovatio culturale e spirituale del mondo carolingio. I pellegrinaggi di Carlo Magno suggellarono il legame tra l’Europa neocristiana e l’antica capitale dell’impero, sviluppatosi durante i secoli precedenti, soprattutto grazie alle tombe degli apostoli: Roma continuava cosí a imporsi come centro del mondo cristiano. PER SAPERNE DI PIÚ

APPUNTAMENTO IN OLANDA Nel 1894 Spalato e Salona ospitarono il I Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, in occasione del quale si rese omaggio a Giovanni Battista de Rossi, ritenuto uno dei padri fondatori della disciplina, scomparso in quell’anno. Da allora, l’appuntamento si è rinnovato per quindici volte, fino al simposio tenutosi a Roma nel 2013. In quell’occasione, l’Olanda è stata scelta come sede della XVII edizione del Congresso, che sarà ospitato dalle città di Nimega e Utrecht. L’appuntamento è per il luglio del 2018 e il tema sarà «Frontiere: le trasformazioni dell’impero romano tra centro e periferia». Non si parlerà, però, solo del limes che segnava i confini dell’impero in quei territori, ma in generale di tutte le aree periferiche, in Occidente come in Oriente, analizzando i mutamenti che avvennero sia dal punto di vista storico e religioso, ma soprattutto da quello archeologico, nella tarda antichità fino all’Alto Medioevo. Danilo Mazzoleni

Charles Pietri, Roma christiana, École Française de Rome, Roma 1976 Richard Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Edizioni dell’Elefante, Roma 1981 Richard Krautheimer, Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Einaudi, Torino 1987 Lucrezia Spera, Ad limina apostolorum. Santuari e pellegrini a Roma tra la tarda antichità e l’alto medioevo, in Claudio Cerreti (a cura di), La geografia della città di Roma e lo spazio del sacro, Società Geografica Italiana, Roma 1998; pp. 1-108 Vincenzo Fiocchi Nicolai, Strutture funerarie ed edifici di culto paleocristiani di Roma dal IV al VI secolo, Pontificia Commissione di Archeologia sacra, Città del Vaticano 2001 Hugo Brandenburg, Le prime chiese di Roma, IV-VII secolo, Jaca Book, Milano 2004 Sible de Blaauw, Le origini e gli inizi dell’architettura cristiana, in Storia dell’architettura italiana. Da Costantino a Carlo Magno, Electa, Milano 2010; pp. 22-53 Enciclopedia Costantiniana, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2013 Vincenzo Fiocchi Nicolai, Le catacombe romane, in Fabrizio Bisconti, Olof Brandt (a cura di), Lezioni di archeologia cristiana, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Città del Vaticano 2014, pp. 273-360 Lucrezia Spera, La cristianizzazione di Roma: forme e tempi, ibidem; pp. 207-272 a r c h e o 97


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

FARE CULTURA IN LETIZIA IL DIBATTITO SULL’USO DEI MONUMENTI ANTICHI RENDE PIÚ CHE MAI ATTUALI LE RIFLESSIONI DI UNO DEI FONDATORI DEL FONDO PER L’AMBIENTE ITALIANO, L’ARCHITETTO E URBANISTA RENATO BAZZONI. PERCHÉ LA «SECONDA VITA» DEL NOSTRO PATRIMONIO ARCHEOLOGICO NON PUÒ PRESCINDERE DAL CONTRIBUTO E DAL SOSTEGNO DELLE ASSOCIAZIONI E DEI CITTADINI

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e cronache recenti si sono spesso arricchite di vivaci discussioni sull’opportunità o meno che il nostro patrimonio archeologico e monumentale sia sede di eventi e manifestazioni di varia natura, intesi come uno dei modi per far tornare la vita, quella di oggi, in siti altrimenti abbandonati. E ben venga se questo produce una ricchezza pulita. Torneremo magari un’altra volta su questo argomento, che, per essere affrontato, va posto in una prospettiva piú ampia, quella dell’uso dei luoghi del nostro patrimonio storico. Usare questi luoghi, infatti, non vuol dire adibirli necessariamente a platee e palcoscenico di qualche spettacolo,

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bello o brutto che sia. Significa viverli, poterci stare, trovare le condizioni per passare (in un museo, un castello, un parco archeologico…) un tempo di qualità, da soli o in compagnia di amici e familiari, a partire dai piú piccoli. Modalità di fruizione che devono essere garantite dai servizi (che tanto spesso mancano nei nostri musei), che non sono affatto «aggiuntivi», come spesso si sente dire, ma necessari. Parliamo di luoghi di ristoro, di sosta, di svago, nei quali lasciare magari i bambini mentre i grandi proseguono con tempi piú rilassati la loro visita.

UNA VITA ARMONICA Si tratta di librerie e negozi con merci di qualità, di strutture e impianti accoglienti, insomma di quei mille accorgimenti che suscitano il desiderio di passare una giornata intera in un luogo che la merita, dove arricchire le proprie conoscenze e godere di cose belle e interessanti con sentimenti di letizia e momenti di divertimento. I luoghi della cultura pretendono vita, una vita armonica, che non coincide con la pura contemplazione. I servizi, tuttavia, sono soltanto uno degli apprestamenti finali (insieme con gli strumenti della comunicazione) di un lungo processo, che prevede la gestione ordinata ed efficiente di musei e parchi, e la loro manutenzione continua, frutto di un progetto di restauro, che non può mai rimanere fine a se stesso. L’Italia è da sempre maestra nel produrre restauri tecnicamente ineccepibili, ma disinteressati a quello che succede «dopo» in quel museo rimesso in ordine, in quel castello risanato, in quel parco archeologico nato dal nulla, magari dopo una lunga stagione di scavi. Ecco dunque, che, procedendo a ritroso, dalla gestione dei servizi alla manutenzione, al restauro, alla ricerca che produce nuove

conoscenze, abbiamo forse attinto il senso della parola «tutela», che non è una somma di interdizioni (ci vogliono, certo, anche quelle), ma lo strumento attraverso il quale possiamo diffondere al meglio la cultura, e quindi anche il senso della storia del nostro Paese, cosí come leggiamo nell’articolo 9 della nostra Costituzione. Chi farà tutto questo? Su quali spalle si reggerà questa impalcatura di «cose da fare»? Certamente, innanzitutto, su quelle di un’amministrazione pubblica efficace ed efficiente. Che, però, non basta davvero in un Paese nel quale il patrimonio culturale è intrecciato con i luoghi delle nostre vite. Per questo servono, prima durante e dopo, l’aiuto di tutti i cittadini e la loro partecipazione attiva. Servono gruppi di opinione e di libero impegno che diffondano e mantengano vivo un costume civile, una consapevolezza serena dei motivi che ci spingono a volere e praticare la conservazione delle memorie e dei loro paesaggi.

LE PAROLE DELL’ARCHITETTO A tutto ciò pensavo leggendo gli scritti di Renato Bazzoni (1922-1996), l’architetto e urbanista che fu nel 1975 tra i fondatori del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano), raccolti in un bel volume a cura di Antonella Cicalò Donioni. Uomo pragmatico e curioso al tempo stesso, tecnico competente ma capace di inserire ogni singolo problema in strategie di piú largo respiro, Bazzoni si rivolge a tutti con linguaggio piano e parlava – già venti, trenta, quarant’anni fa – con parole chiare e profonde che rispondono limpidamente alle domande che ancora oggi insistentemente ci poniamo. Il libro merita di essere letto tutto. Ma diamo la parola a Bazzoni, almeno per quel tanto che lo consentono queste pagine:

Qui sopra: l’architetto e urbanista Renato Bazzoni (1922-1996). Nella pagina accanto: Roma. Capodanno in piazza del Colosseo, con l’Anfiteatro Flavio a fare da sfondo dei giochi pirotecnici. «Non c’è dubbio che il restauro salvi edifici e ambienti antichi, ma è la gestione che li conserva e li tramanda. Cosí il FAI è cresciuto dandosi un ferreo principio: restauro scientificamente corretto, ma finalizzato a una gestione ovviamente compatibile con la storia, la forma, i valori d’arte dell’edificio (...). Restauro significa certamente eliminare le fenditure, consolidare le strutture, riassettare i tetti piangenti, togliere la patina di sporco (si badi bene, non la patina del tempo, che è cosa del tutto diversa). Significa far sí che il nostro intervento in queste strutture delicatissime non danneggi in modo pesante la fisicità antica del luogo. Ma significa anche conservare, anzi, gelosamente conservare, rendendo percettibile da tutti un altro sottile, indefinibile valore: l’atmosfera. (…) A questo punto a qualcuno verrebbe voglia di eliminare le visite a edifici antichi, a parchi, a tutto, ed eliminare le manifestazioni che vi si svolgono. (…) Le manifestazioni, a qualsiasi genere appartengano e purché non venga mai meno la dignità, sono

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Roma, Mercati di Traiano. Due figuranti impegnati in una partita di latrunculi (gioco simile agli scacchi) durante una rievocazione storica. linfa vitale, sono presenza di uomini, donne, bambini, sono la vita che torna. Ma sono ancora di piú. Sono un fatto educativo e sociale di altissimo valore. Infatti, portare la gente in questi luoghi (…) significa immergerla nella storia, non quella che si studia al liceo ma quella che si impara frequentandone i segni giunti fino a noi. Significa anche avvolgere la gente nel Bello, nello Spirituale e quindi averla domani al nostro fianco, casomai dovessimo scenderne in difesa. Anzi, significa creare schiere di protettori che, anche da soli, scenderebbero in battaglia. Ma questi altissimi scopi, economici, culturali, educativi e sociali a un tempo devono essere accompagnati da considerazione umane. Chi visita un castello, una villa, chi si immerge in un parco o in un giardino storico è un uomo, una

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donna, un bambino. Che si stanca, che ha sete e fame; hanno voglia di sacre pietre, ma anche di una panchina immersa nel verde. Hanno voglia di portarsi a casa un libro da leggere con calma e riandare con la memoria a quanto hanno visto, o un ricordo, magari solo un vasetto di miele.

Una linea che volendola tradurre in uno slogan è: fare cultura in letizia. Dare cioè alla cultura un lieto volto umano».

LA LEZIONE DEGLI ALTRI Noi dobbiamo rispondere anche a queste necessità. Abbiamo imparato da solenni musei tedeschi, olandesi, inglesi, dalle splendide dimore del National Trust che la gente deve trovare una caffetteria, un luogo di sosta nel verde, dove capire – anche attraverso gli oggetti dell’artigianato offerti dai negozi – il genius loci. Con queste pause nella visita, con questi momenti di letizia si comprende meglio anche il piú tumultuoso dei musei, la piú affollata delle ville, il piú tenebroso dei castelli». In una variante autografa del testo (1993), Bazzoni scriveva: «Se la sorte sarà benigna la nostra linea culturale avrà presto un seguito.

PER SAPERNE DI PIÚ Renato Bazzoni, Tutta questa bellezza, a cura di Antonella Cicalò Donioni, Rizzoli, Milano 2014



QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli

…CORSE IL RISCHIO D’ESSERE ABBANDONATA SPAVENTATA DALL’OLTRAGGIO SUBÍTO PER MANO DI BRENNO, ROMA SI DIVISE FRA CHI VOLEVA CONTINUARE A PRESIDIARE LA CITTÀ E CHI, INVECE, SUGGERÍ UN’EMIGRAZIONE DI MASSA...

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irca un secolo dopo la secessione della plebe e la scampata minaccia di un suo «sdoppiamento» (vedi «Archeo» n. 361, marzo 2015; anche on line su archeo.it) Roma corse il rischio d’essere del tutto abbandonata. Fu in occasione – e in conseguenza – del «sacco dei Galli» avvenuto all’inizio del IV secolo a.C., in un anno tra il 390 e il 384 (la data precisa, nonostante l’eccezionalità e la gravità dell’evento, non ci è nota). Tito Livio scrive al riguardo che, dopo il ritiro dei Galli, tra i cittadini scoppiò un’aspra polemica. Motivo del contendere, la proposta, avanzata dai tribuni della plebe, di trasferire Roma,

devastata dagli incendi e dai saccheggi, a Veio, l’antica rivale etrusca, da poco conquistata. Non a caso, a Veio s’era già rifugiata gran parte dell’esercito sconfitto dai Galli nella battaglia dell’Allia (piccolo affluente del Tevere, undici miglia a nord della città), che aveva aperto ai barbari la via per raggiungere l’Urbe.

LA CITTÀ DILANIATA Essendo il patriziato fermamente contrario alla proposta dei tribuni, ne derivò un’ennesima lacerazione all’interno del corpo sociale della repubblica e si profilò il pericolo di una nuova secessione. Ci furono tentativi di mediazione e interventi

autorevoli. Lo stesso Livio – che all’episodio dedica ben cinque capitoli (51-55) del libro V delle sue Storie – «riporta» il lungo e circostanziato discorso con il quale Furio Camillo (l’artefice della rivalsa sui Galli), nelle sue funzioni di dictator, cercò di contrastare la proposta «che la plebe era propensa ad assecondare» e di perorare la causa della ricostruzione «in loco» della città. Tanto piú, dopo che, tra le rovine del Palatino, era stato «ritrovato» il lituo di Romolo, ossia il bastone augurale con il quale il fondatore aveva «inaugurato» la città: segno che questa avrebbe dovuto risorgere nello stesso luogo dov’era nata. Camillo giustamente chiedeva perché mai essi avrebbero strappato Roma al nemico «se, dopo averla ripresa – diceva – noi stessi l’abbandoniamo?». E personalmente aggiungeva: «Abbandonarla fino a che le resti vita, per altri sarebbe vergognoso, per Camillo anche sacrilego». Quindi faceva osservare quanto assurdo sarebbe stato che la «buona sorte» avesse «spopolato la città piú di quanto non l’abbia A sinistra: Veio. Un tratto di basolato romano nell’area della città. Nella pagina accanto, in alto: Brenno pone la sua spada sulla bilancia, olio su tela di Jacques-Antoine Beaufort. XVIII sec. Marsiglia, Musée des Beaux-Arts. Dopo la presa di Roma, il capo dei Galli getta la spada su uno dei piatti della bilancia con cui si stava pesando l’oro chiesto come riscatto, per aumentarne la quantità.

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spopolata la sorte avversa». Infine, appellandosi ai sentimenti, concludeva: «E poi? Se per caso o per dolo a Veio scoppiasse un incendio e le fiamme, propagate dal vento, come può succedere, distruggessero la maggior parte della città, cercheremmo forse Fidene o Gabi o qualche altra città dove trasmigrare? Non vi sentite affatto legati al suolo della patria e a questa terra che chiamiamo madre?». Tito Livio, tuttavia – che pure aveva già riconosciuto a Camillo (V, 49) il merito d’esser riuscito a salvare Roma una seconda volta, in pace, dopo averla salvata in guerra impedendo la migrazione a Veio – sembra alla fine privilegiare il caso o, piuttosto, il fato. Nel capitolo 55, infatti, egli scrive che, mentre il Senato era riunito nella Curia per discutere della questione, un drappello di soldati che tornava dal servizio si trovò a passare per il Comizio (sul quale la Curia s’affacciava) e che un centurione,

dopo aver deciso di fare una sosta, esclamò a voce alta: «Signifer, statue signum. Hic manebimus optime» («Vessillifero, pianta l’insegna. Qui staremo magnificamente»).

UN SEGNO DEL FATO Quella frase fu udita dai senatori i quali, usciti dalla Curia, dichiararono di prenderla come «segno» augurale del volere divino «e la plebe, affollatasi intorno, approvò. Sicché la proposta di legge venne respinta e si cominciò a ricostruire la città». In realtà, ancora una volta la plebe s’arrese solo dopo aver ottenuto una contropartita adeguata o, quanto meno, formali promesse (come, tra l’altro, quella dell’accesso al consolato, effettivamente conseguito poco tempo dopo). È curioso che Veio sia tornata a essere indicata, sia pure ironicamente, come possibile meta di un «trasloco in massa» dei Romani dopo tanti secoli, al tempo

in cui Nerone stava facendosi costruire, a spese della città devastata dall’incendio dell’anno 64, la sua estesa Domus Aurea. Questo, almeno stando alla nota «pasquinata» che fu allora diffusa tra la gente inferocita, che diceva: «Roma sta diventando un’unica grande casa: emigrate a Veio, Quiriti, seppure questa Casa non arriverà fino lí». Si può concludere – con un salto d’una decina di secoli – ricordando come nei momenti piú bui del Medioevo, il pericolo per Roma d’essere abbandonata sia tornato piú d’una volta. Per esempio, dopo i saccheggi, le distruzioni, le stragi e le deportazioni perpetrate dai Normanni di Roberto il Guiscardo, nel 1084. Ridotti fino a poche decine di migliaia (forse solo due!), i superstiti seppero tuttavia resistere alla tentazione di lasciare la loro città e, abbarbicati ai ruderi degli antichi palazzi, evitarono che Roma diventasse una «città morta», come era capitato a tante altre.

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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale

CHI TROVA UN PICCIONE, TROVA UN TESORO I

l Viterbese è una delle aree italiane piú interessanti e importanti per il patrimonio rupestre. Qui, infatti, sono state scavate nel tufo migliaia di cavità artificiali, molte delle quali risalenti almeno all’epoca etrusca, per ottenere ambienti e strutture destinate alle piú diverse funzioni. Un ottimo esempio della varietà di queste opere ipogee, delle loro caratteristiche funzionali e delle tecniche di costruzione è il complesso di «Orte sotterranea», che si snoda per centinaia di metri nel cuore della rupe su cui sorge la cittadina, conducendo alla scoperta, tra gli altri, di acquedotti e piccionaie. L’archeologo Giancarlo

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NELLE VISCERE DELLA RUPE SU CUI SORGE LA CITTADINA ALTOLAZIALE DI ORTE SI SVILUPPA UNA VERA «CITTÀ SOTTO LA CITTÀ». UN COMPLESSO ARTICOLATO ED ESTESO, NEL QUALE, PER SECOLI, SONO STATI SCAVATI CUNICOLI, POZZI, CISTERNE, MAGAZZINI, STALLE E LABORATORI ARTIGIANALI Pastura, che ne è il direttore, ha raccolto i risultati di una ricerca pluriennale sulla rete idraulica ipogea e le attività produttive del sottosuolo di Orte, le «architetture in negativo» piú imponenti di quella che viene comunemente definita «la città sotto la città». Tale ricerca ha permesso di gettare nuova luce sulle strutture

sotterranee della città e di giungere a un percorso di visita articolato e interessante.

VIVAI E LUOGHI DI DELIZIE Come sottolinea Pastura, nel tufo della rupe di Orte, «sono state ricavate la rete di rifornimento idrico (cunicoli, cisterne, pozzi) e di evacuazione delle acque reflue, i


secoli, a partire dall’età etrusca fino ai giorni d’oggi. Lungo il percorso del cunicolo principale si incontrano numerose diramazioni, i cosiddetti “cunicoli di troppo pieno”, realizzati per recuperare le acque reflue e immagazzinarle in apposite cisterne. Queste ultime rappresentano esempi di pregevole fattura di ingegneria idraulica di diversi periodi: si passa dall’etrusco pozzo di Via Gramsci, a quello romano di via Venezia pavimentato completamente in cocciopesto fino ad arrivare alla cisterna medievale, successivamente trasformata in ambiente di stoccaggio, a servizio della casa-torre di piazza Fratini».

UNA PRESENZA DIFFUSA Altrettanto interessanti risultano le piccionaie rupestri, di cui ci siamo già occupati in passato (vedi «Archeo» nn. 352 e 353, giugno e luglio 2014; anche on line su archeo. it) e che nel Lazio vengono definite «colombaie», da non confondersi con i «colombari». Questi ultimi, infatti, sono i caratteristici sepolcri costruiti dai Romani, a partire dall’età tardo-repubblicana, per contenere le ceneri dei cremati poste in urne conservate entro nicchie ricavate nelle pareti durante magazzini, i depositi, le cantine, le stalle, le colombaie, alcuni vani di abitazione, i laboratori artigianali (per la lavorazione di lana e canapa), i lavatoi, le fontane, i triclini estivi, i vivai e i luoghi di delizie di giardini privati». Particolarmente importanti sono le opere idrauliche ipogee, realizzate a partire dal VI-V secolo a.C., e alcuni ambienti destinati all’allevamento di piccioni. Le prime consistono in gallerie e strutture che, spiega ancora Pastura, «permettono di leggere tutte le tracce di lavorazione e di installazione del cantiere per la loro realizzazione e di capire l’approvvigionamento idrico della cittadina nel corso dei

Sulle due pagine: Orte, Viterbo. Immagini delle cavità ipogee che si snodano sotto il centro urbano. A sinistra: l’interno di una colombaia rupestre; in basso: uno scorcio delle gallerie sotto via Fratini. la costruzione stessa degli ipogei, e pertanto simili alle piccionaie. Censite in gran numero, le colombaie di Orte risalgono al Medioevo e rientrano tra le attività produttive per uso alimentare. In queste stanze sotterranee, le cui pareti sono quasi totalmente ricoperte da nicchiette, disposte ordinatamente su piú file, e da finestre, era praticato l’allevamento dei colombi che, ricorda ancora Pastura, «in epoca romana, doveva essere molto remunerativo, poichè Varrone indica il valore di una coppia di bei piccioni, venduta al mercato dell’Urbe, pari a 200 nummi o addirittura a 1000». La ricerca di cui si dà conto nell’articolo è stata svolta nel quadro di indagini di piú ampio respiro condotte d’intesa con la direzione scientifica del Museo Civico Archeologico di Orte, grazie al supporto dell’Amministrazione Comunale e la collaborazione della Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale.

PER SAPERNE DI PIÚ Giancarlo Pastura (a cura di), La città sotto la città. Ricerche e analisi sulla parte sepolta dell’abitato di Orte, Quaderni del Museo Civico Archeologico di Orte, 1, 2013

DOVE E QUANDO Orte sotterranea Info Ufficio Turistico Orte Orte, via Matteotti, 57 tel. 0761 404357 oppure 348 7672750; e-mail: visitaorte@gmail.com; www.visitaorte.com

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A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

MULINI E MULINELLI IL FUNZIONAMENTO DI UN MULINO ROMANO SCOPERTO A CHEMTOU, IN TUNISIA, SEMBRAVA UN MISTERO. FINO A QUANDO, POCHI ANNI FA, UN INGEGNERE AUSTRIACO NON HA IDEATO UN NUOVO TIPO DI CENTRALINA IDROELETTRICA...

I

ntorno all’85 a.C., l’epigrammista greco Antipatro di Tessalonica, suggeriva alle mugnaie: «Dormite fino a tardi, anche se il canto del gallo annuncia l’alba. Poiché Demetra ha ordinato alle ninfe di eseguire il lavoro che facevate con le vostre mani, ed esse, saltando giú sulla sommità della ruota, ne fanno girare l’asse che pone in rotazione le pesanti macine concave».

Un ventennio piú tardi, Strabone, il «padre» della geografia, menziona un mulino idraulico di pertinenza del palazzo di Mitridate edificato a Cabira (città del Ponto). E nell’ultimo quarto dello stesso secolo, l’architetto e trattatista romano Vitruvio Pollione ricorda che «nei fiumi si fanno delle ruote [con] palette, le quali urtate dalla corrente del fiume che trapassa, le obbligano a girarsi».

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Sul finire dell’età repubblicana, dunque, i mulini idraulici ad asse orizzontale, mossi dall’acqua per caduta dall’alto o per trascinamento dal basso – funzionamenti ambedue definiti «ad acqua fluente» –, erano già da tempo in uso. Diversi, ovviamente, erano i rendimenti meccanici e le esigenze idriche ambientali, che ne suggerirono i rispettivi criteri d’impiego: per lievi cadute e scarse portate si scelsero strette ruote, con pale di appena 30-40 cm di larghezza; per il lento corso dei fiumi, invece, ruote ampie, con pale eccedenti il metro di larghezza, capaci in tal modo non solo di eguagliare la potenza delle prime, ma spesso persino di superarla.

Nella pagina accanto, in alto: un ritrecine, ruota idraulica orizzontale a pale concave attestata nel Medioevo. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione grafica del funzionamento di una ruota orizzontale con le pale piatte, montate inclinate rispetto all’asse orizzontale. In basso: ricostruzione grafica della stessa ruota orizzontale, vista a secco.

...E VARIANTI INEDITE

VERI PROTOTIPI... Nei successivi due millenni, certi che quei due criteri informatori fossero privi di alternative, le migliorie delle ruote idrauliche riguardarono sempre e soltanto la maniera con la quale l’acqua insisteva sulle loro pale. Tuttavia, l’archetipo del mulino idraulico ad acqua fluente non va identificato con l’una o l’altra tipologia, bensí nelle rozze giranti ad asse verticale – probabile derivazione dei mulini eolici mesopotamici – risalenti agli inizi del I millennio a.C. e che, come quelli, montavano la macina sull’asse verticale della ruota. La ruota orizzontale, mai dimenticata del tutto, ma azionata da un getto d’acqua sulle sue pale concave ricomparve nel Medioevo, con il curioso nome di ritrecine, un’allusione dialettale alla sua rilevante velocità di rotazione. Sebbene garantisse uno scarso rendimento, per facilità di costruzione, semplicità di manutenzione e affidabilità di funzionamento anche con poca acqua, ebbe presto un’ampia

dell’epoca ellenistica, quando venne impiegata per macinare il grano immersa nei torrenti della Grecia o della Scandinavia. Ma se l’asse verticale distingueva quei mulini dalle due precedenti tipologie, dal punto di vista idrodinamico non se ne discostava granché, trattandosi comunque di una ruota ad acqua fluente, le cui pale erano infatti sempre spinte dalla corrente dell’acqua, a conferma del fatto che si trattava dell’unica soluzione praticabile.

diffusione e nella sua progettazione si cimentarono anche tecnici del calibro di Francesco di Giorgio e Leonardo da Vinci. Prima ancora, però, dell’adozione delle pale concave, la ruota orizzontale le ebbe piatte, montate leggermente inclinate rispetto all’asse verticale, una connotazione originaria

A porre in discussione quella sorta di postulato ha contribuito un recente prototipo di generatore idroelettrico, che ha suggerito di interpretare come un inedito terzo tipo di mulino non ad acqua fluente gli enigmatici ruderi romani ancora ben visibili a Chemtou (nell’odierna Tunisia, a circa 20 km da Jendouba nei pressi del confine con l’Algeria), assegnati da alcuni autori agli inizi del II secolo, da altri a quelli del IV. Un impianto pressoché uguale, sebbene non altrettanto ben conservato, ma coevo, è stato identificato anche nella non lontana Testour, una piccola città situata nella media valle del Medjerda, fondata agli inizi del I secolo. Per le precipue peculiarità di funzionamento, ambedue i mulini andrebbero definiti «a vortice», dal momento che le loro ruote ad asse verticale erano poste in rotazione non dal deflusso dell’acqua ma dal vortice provocato dalla sua rapida fuoriuscita da un foro di evacuazione praticato sul fondo del loro alloggiamento. Una differenza che si conferma piú marcata osservando che, rispetto alle ruote idrauliche per caduta o per trascinamento – nelle quali soltanto poche pale sono spinte parzialmente dall’acqua –, in quella

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A sinistra: Chemtou, Tunisia. Una delle cavità che alloggiavano le turbine idrauliche del mulino di età romana. In basso: schema del funzionamento dell’impianto di Chemtou secondo l’ipotesi di Josef e Gertrud Röder. Steinbrücke und die antike Stadt, Magonza 1993). A loro giudizio – ipotesi fatta propria anche da Friedrich Rakob –, sul fondo di quelle cavità stavano alloggiate tre ruote con pale oblique, simili in sostanza a un’elica marina, oggi nota come turbina Kaplan (dal nome dell’ingegnere austriaco Viktor Kaplan, che la progettò nel 1913, prendendo spunto proprio dalle coeve eliche navali). Dal punto di vista strettamente tecnico la Kaplan è una turbina alimentata da un flusso assiale, nella quale cioè la massa d’acqua entra nella direzione del suo asse a vortice tutte le pale vengono trascinate nella loro interezza dalla rotazione del vortice d’acqua. Intorno alla metà dell’Ottocento, due celebri romanzieri fornirono una terrificante descrizione del grande gorgo del maelstrom, in realtà ben piú modesto, causato dalla corrente di marea che, due volte al giorno, avanza e indietreggia nello stretto tra Lofotodden e Værøy, presso la costa atlantica della Norvegia.

VORTICI «DOMESTICI» In pratica, però, i soli vortici d’acqua che abbiamo occasione di vedere di frequente sono quelli provocati dal deflusso dell’acqua, quando si svuotano un lavabo o una vasca da bagno, mulinelli che si formano sulla verticale del foro di scarico. Se poi la vasca è circolare e di discrete dimensioni, alimentata eccentricamente con un forte flusso d’acqua tangenziale, la formazione del gorgo non solo è scontata, ma lo è anche il suo senso di rotazione: antiorario nel caso di immissione

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sul bordo destro e viceversa. I ruderi di Chemtou sono riferibili a un mulino e mostrano tre cavità cilindriche nelle quali confluiscono altrettante brevi canalette di uguale profondità, strette e fortemente strombate, che conducevano l’acqua, accelerandone il deflusso, ad altrettante ruote ad asse verticale, da definirsi piú propriamente turbine. Josef e Gertrud Röder hanno studiato quei resti, pubblicandone i risultati (Die antike Turbinenmühle in Chemtou, in Friedrich Rakob, Simitthus 1. Die

per fuoriuscirne sempre nella medesima, non subendo perciò alcuna rotazione durante il passaggio attraverso la girante. In pratica, a differenza delle altre ruote idrauliche, la turbina Kaplan è sempre completamente immersa nell’acqua e nella rotazione sono coinvolte tutte le sue pale in egual maniera, per cui risulta ideale per i piccoli salti, riuscendo a sfruttarne al massimo l’energia cinetica. Ma tutte le ruote riconducibili a una moderna turbina Kaplan, esattamente come la stessa,


richiedono di essere alimentate da un flusso assiale di acqua e mai laterale o, peggio, tangenziale. L’interpretazione dei Röder perciò sarebbe da condividere in pieno se i canali di alimentazione non fossero fortemente strombati e non avessero la stessa profondità delle cavità cilindriche nelle quali si innestano, come chiaramente testimoniano i ruderi. Cosí come sono, invece, costringono l’acqua a impattare sulle ruote non solo dall’alto, scendendo nelle cavità – una condizione, come ricordato, di funzionamento ottimale per quel tipo di turbina –, ma anche di lato, decurtandone le prestazioni e danneggiandole con le spinte laterali. Altrettanto vale per la strombatura, anch’essa inutile e controproducente, poiché l’acqua spingeva sulle ruote soltanto verticalmente e per gravità. La profondità e la strombatura dei tre canali, pertanto, contrasterebbero col buon funzionamento dell’impianto, che avrebbe per contro richiesto un canale a sponde parallele, largo quanto il diametro della cavità e non piú profondo di 50 cm. La conformazione strutturale dei tre canali e il loro innesto tangenziale In basso: Ober-Grafendorf, Austria. Una centralina idroelettrica a vortice.

La ricostruzione grafica del gruppo motore del mulino di Chemtou proposta e descritta nell’articolo.

agli alloggiamenti delle ruote suscita notevoli dubbi sia sul tipo di girante adottata sia, soprattutto, sul suo funzionamento effettivo.

«EUREKA!» Dubbi però fugati dal recente brevetto della centralina idroelettrica di modesta potenza di un ingegnere austriaco, costituita da una vasca circolare di circa 10 m di diametro profonda meno di 2 m, con un foro di deflusso posto al centro del suo fondo. Un canale di scarsa portata, ottenuto derivandolo da un torrente, ne alimenta la vasca immettendovisi

tangenzialmente nel suo bordo destro e uno sfioratoio ne stabilizza l’afflusso dell’acqua. Al centro della vasca, direttamente sul foro di scarico, quindi al centro del vortice è immersa una turbina ad asse verticale, di poche pale anch’esse verticali. Solidale all’asse della turbina sta il generatore, che trasforma l’energia di rotazione in energia elettrica, sufficiente nella fattispecie ad alimentare una quindicina di abitazioni unifamiliari. La soluzione dell’enigma archeologico diviene a questo punto abbastanza agevole: le ruote che azionavano le macine a Chemtou avevano le pale molto lunghe e perpendicolari e non erano poste in rotazione dal deflusso dell’acqua nella cavità, ma dal vortice provocato dalla sua immissione tangenziale per l’intera altezza della cavità. Lo scarsissimo salto del corso del fiume e la sua ancor piú modesta portata, fattori ostativi per qualsiasi altro tipo di mulino, non lo furono per questo a vortice, che costituí una soluzione certamente d’avanguardia ma priva di seguito, vigendo altrove le condizioni d’impianto vuoi per le ruote a caduta vuoi per quelle a trascinamento.

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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

ESTASI E SREGOLATEZZA ALLA FOLTA SCHIERA DEL CORTEGGIO DI DIONISO APPARTENGONO DUE CURIOSE CATEGORIE DI ESSERI IBRIDI, DALLE SEMBIANZE PER METÀ UMANE E PER METÀ CAPRINE: SONO I SATIRI E I SILENI. CHE MOSTRANO SPESSO UNA PREDILEZIONE PARTICOLARE PER IL MULO, ANIMALE ANCH’ESSO ASSOCIATO AL DIO DEL VINO E PRESENTE SU ALCUNE PREGEVOLI EMISSIONI MONETALI

N

el pantheon greco vi sono divinità minori la cui natura ferina, connessa al mondo primordiale nel quale ancora non regnavano gli dèi dell’Olimpo, incarna il tempo antichissimo delle origini. Tra di loro si annoverano i satiri, i sileni e le ninfe, legati alla natura e all’ambiente silvano: a metà strada tra umano e ferino, per le appendici animali e di incerta distinzione tra loro, sono essenzialmente contraddistinti nell’iconografia da orecchie appuntite, zampe e code che possono essere caprine, equine ma anche umane. Ben presto essi intessono un rapporto strettissimo con Dioniso, educato dal saggio e anziano Sileno che poi diverrà suo compagno inseparabile nel corteggio bacchico, nel quale satiri, sileni, ninfe, menadi, animali svolgono un ruolo essenziale nell’estasi orgiastica tipica della ritualità misterica.

SESSUALITÀ PROROMPENTE Intimamente uniti a Dioniso e all’ebbrezza sacra, i satiri/sileni sono caratterizzati da una sessualità prorompente (si pensi alle innumerevoli rappresentazioni in cui sono

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itifallici, e va ricordato che lo svelamento del fallo era un momento importante nel rito iniziatico), che coinvolge senza distinzione tutti gli esseri viventi. I satiri condividono con gli uomini anche destini tragici, come quello del celebre sileno Marsia, musico eccelso vittima della furia crudele di Apollo. Vino, vite, vinificazione e libagione costituiscono temi

fondamentali del mondo dei satiri/ sileni, rappresentati con dovizia e molteplicità di scene a partire dal VII secolo a.C. su ogni supporto, dai servizi da banchetto, agli affreschi, alle gemme e anche nelle monete.

REPLICHE IN MINIATURA Queste ultime, in particolare quelle greche in argento, sviluppano una preziosa varietà iconografica incentrata sul vino e i suoi riti, creando veri e propri capolavori dell’incisione miniaturistica, senz’altro ispirata a prototipi di dimensioni maggiori e di genere diverso. Molto raffinate sono le monete di Mende, città della penisola di Pallene (il «dito» occidentale della Calcidica), nell’Egeo settentrionale. Grazie alla sua posizione strategica, la città controllava le rotte provenienti dalla Tracia e commerciava i suoi prodotti: minerali pregiati e il celebre vino smerciato in altrettanto note anfore da trasporto. Dorato e di sapore Vaso composito formato da un contenitore globulare privo del coperchio e apposto sulla groppa di un mulo, a cui un satiro si congiunge in un amplesso. Fine del VI sec. a.C. Ravanusa, Museo Archeologico «Salvatore Lauricella».


Tetradramma da Mende (Pallene, Calcidica). V-IV sec. a.C. Al dritto, Dioniso su un mulo con in mano un kantharos (tazza a due manici); al rovescio, composizione con grappoli d’uva.

secco o dolce, il «vino di Mende» era molto apprezzato e rinomato anche in Italia, in particolare tra la fine del V e il IV secolo a.C. Il riferimento al vino, e dunque a Dioniso, è forte nella tipologia monetale e ricorre in molteplici varianti. Raffinati sono i tetradrammi sui quali compare Dioniso con un kantharos (tazza a due manici) in mano, mollemente sdraiato su un mulo, animale parte del corteo bacchico, al dritto e grappoli di uva variamente composti al rovescio.

composito della fine del VI secolo a.C., formato da un contenitore globulare centrale simile a una giara, al quale manca il coperchio e apposto sulla groppa di un mulo. A questo si aggrappa un satiro intento all’amplesso. Sotto sono dipinti due satiri, uno con lungo corno potorio. Di vasi cosí conformati si conoscono solo altri due esemplari: uno al Museo di Agrigento, proveniente da un pozzo sacro nei pressi di un santuario di Demetra e Kore, e uno al Paul Getty Museum di Malibu (di provenienza ignota, ma considerando gli altri due rinvenimenti si potrebbe ipotizzare che venga anch’esso da Agrigento?). La forma e le pitture fanno pensare a un’unica officina attica e il loro ritrovamento in contesti sacri e funerari suggerisce che potesse trattarsi di vasi particolari e rari, connessi a rituali misterici di morte e rigenerazione. (1 – continua)

LA «REGALITÀ» DEL MULO La rappresentazione è particolarmente preziosa nella resa dei particolari, come la veste perlinata che avvolge le gambe del dio, creando un effetto di trasparenza e movimento; il mulo poi ha una sua nobile regalità, come conviene a una cavalcatura che trasporta un dio di tale importanza. Anche i satiri/sileni interagiscono con questo animale, seppure ad altri livelli e con minore dignità. Numerose, infatti, sono le immagini, perlopiú dipinte sui vasi attici, in cui il satiro e il mulo sono protagonisti di amplessi o camminano itifallici. Ne è un esempio una brocca in terracotta esposta nel Museo Archeologico di Ravanusa (Agrigento), presso il Monte Saraceno. Quest’ultimo, situato lungo la valle del Salso, ha avuto una continuità di vita dall’età preistorica fino al III secolo a.C. Intorno alla metà del VI secolo a.C., l’abitato si dette un impianto urbano regolare, cinto da mura, con aree per il culto e necropoli. In questa fase, conclusasi alla fine del V secolo a.C., il centro raggiunse la massima fioritura.

Il villaggio indigeno è documentato da ceramica di produzione locale riferibile all’VIII secolo a.C., mentre la fase arcaica è rappresentata da frammenti di terrecotte architettoniche. Gli scavi condotti nelle necropoli hanno restituito corredi funerari con vasi di importazione corinzia, attica e greco-orientale. Tra questi, figura appunto un eccezionale vaso in ceramica di produzione attica, parte del corredo di un giovinetto sepolto entro un sarcofago a cassa. Si tratta di un rarissimo manufatto

DOVE E QUANDO Museo Archeologico «Salvatore Lauricella» Ravanusa (Agrigento), corso della Repubblica, 13 Orario lu-ve: 9,00-13,00; martedí e giovedì: apertura pomeridiana, 16,00-18,30 Area archeologica Monte Saraceno Orario lu-sa, 8,00-19,30; chiuso nei giorni festivi Info http://museodiravanusa.it

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA Francesco Erbani

POMPEI, ITALIA Feltrinelli, Milano, 173 pp. 14,00 Euro ISBN 978-88-07-17292-2 www.feltrinellieditore.it

La cura per la scrittura e l’amore per la città indagata risultano evidenti già in apertura di questo nuovo saggio di Francesco Erbani: «Vista dall’alto, dal terrapieno dove sorge la Casina dell’Aquila, Pompei trasmette un senso di calma. Il silenzio sembra mescolarsi a una specie di muta saggezza e riveste le pareti scoperchiate, le pietre, i colonnati». Una vena che non viene meno, ecco le righe finali: «Sollevando lo sguardo dall’area archeologica e allontanandosene fino a che gli scavi non appaiono come una macchia marrone sullo schermo di Google Earth, si vede Pompei mescolarsi in un territorio dove tutto sembra pendere a un filo sottile (…) E l’unica certezza ha la forma di un paradosso singolare. Il ritorno all’ordinario è vissuto come un enigma». Nella sua inchiesta che diviene un reportage, Erbani ripercorre i problemi posti dalla gestione di una delle piú note e delicate aree archeologiche del mondo e analizza le soluzioni individuate e spesso rivelatesi tutt’altro che risolutive. 112 a r c h e o

Con un’attenzione particolare per gli ultimi decenni, caratterizzati da una progettazione persino eccessiva, quasi sempre confusa, spesso contraddittoria, talora con risvolti poco limpidi. L’autore lo ha fatto attraverso l’osservazione diretta e dal confronto con archeologi che hanno avuto la responsabilità dell’area archeologica, o che l’hanno studiata a fondo: Pier Giovanni Guzzo e Fabrizio Pesando su tutti. Con uno sguardo – da giornalista attento – sul contesto politico e sociale dell’area vesuviana, senza indulgere in semplificazioni scandalistiche, ma senza nemmeno fare sconti. L’idea di fondo del libro è infatti che i problemi di Pompei non si possono comprendere (e meno che mai superare) se non si cala la sua eccezionalità nell’altra eccezionalità – di genere completamente diverso – rappresentata da una zona con una densità di popolazione

tra le piú alte di Europa e caratterizzata, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, da una speculazione edilizia che ha cancellato paesaggi, spazzato via un’agricoltura fiorente e modificato, di conseguenza, assetti sociali secolari. L’ulteriore convinzione è che Pompei va considerata come una città vera e propria seppure particolarissima e priva degli abitanti: la sua tutela dovrebbe partire da questa constatazione e di conseguenza privilegiare la manutenzione ordinaria rispetto all’intervento dettato, di volta in volta, da un’emergenza piú o meno enfatizzata. In quest’ottica è bello il ricordo della biologa Annamaria Ciarallo che – fra Grandi Progetti enfatizzati da televisioni e giornali e puntualmente falliti – cercava di rendere meno friabili i terrapieni di via dell’Abbondanza piantando rosmarino rampicante, cosí che le radici, insieme a una corretta regimentazione delle acque, impedissero il dilavamento delle pareti. L’autore – durante la stesura del lavoro – si è reso conto che trattare dei problemi e delle possibili soluzioni per Pompei è parlare dei beni culturali italiani (da qui il titolo Pompei, Italia) e il lettore, arrivato al termine del libro, si troverà probabilmente

a concordare con lui e a provare qualche punta di amarezza. Giuseppe M. Della Fina Pierre Cosme

L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI 21 Editore, Palermo, 414 pp. 18,00 euro ISBN 978-88-909610-7-6 www.21editore.it

L’anno al quale si allude nel titolo (e che del saggio costituisce l’oggetto) è il 69 d.C.: una parentesi temporalmente breve, se

paragonata al lungo corso della storia, ma di cruciale importanza. Fu infatti la data che segnò il passaggio dalla dinastia giulio-claudia a quella dei Flavi, una transizione macchiata dal sangue di Nerone (morto suicida nel giugno del 68 d.C.) e poi di Galba, Otone e Vitellio, prima dell’avvento di Vespasiano, capace di restituire stabilità a un impero a dir poco scosso. Sarebbe però


un errore considerare questi eventi come un semplice succedersi di violenze, poiché il 69 d.C. fu un momento di svolta globale, destinato ad avere ripercussioni di lungo termine. Pierre Cosme lo racconta in maniera dettagliata, incrociando fonti storiche ed epigrafiche e confrontandole con la corposa letteratura che sul tema si è accumulata fin da quando il grande Theodor Mommsen coniò per primo la definizione di «anno dei quattro imperatori» nel corso di una conferenza tenuta a Berlino nel 1870. Stefano Mammini Laura Sudiro, Giovanni Rispoli

ORO DENTRO Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente Skira, Milano, 190 pp. 16,00 euro ISBN 978-88-572-2650-7 www.skira.net

Senza indulgere a sentimentalismi, ma con grande sensibilità, Laura Sudiro e Giovanni Rispoli raccontano la vicenda di Fabio Maniscalco, archeologo napoletano che, partito al seguito di varie missioni militari italiane, contrasse un tumore causato dall’esposizione all’uranio impoverito e scomparve prematuramente nel 2008. Se qui ne diamo conto è perché, al di là degli aspetti umani, che pure hanno (e giustamente)

un ruolo essenziale, il volume è una lucida e puntuale disamina dei «danni collaterali» che qualsiasi conflitto arreca al patrimonio culturale e delle strategie che si

conoscenze al servizio di situazioni cosí particolari), per quanti abbiano a cuore la tutela del nostro passato nelle zone in cui esso corre i maggiori rischi di distruzione o dispersione. S. M.

due milioni di anni non era impresa facile, ma le scelte adottate da Panafieu e Plantevin si rivelano senz’altro vincenti. S. M.

PER I PIÚ PICCOLI

Clark Spencer Larsen (a cura di)

Jean-Baptiste de Panafieu, con illustrazioni di Guillaume Plantevin

Interpreting Behavior from the Human Skeleton Cambridge University Press, Cambridge, 654 pp., ill. col. e b/n 39,99 GBP ISBN 978-0-521-54748-2 www.cambridge.org

AL TEMPO DEI PRIMI UOMINI Editoriale Scienza, Firenze, volume pop up (20 pp.) 15,90 euro ISBN 978-88-7307-758-9 www.editorialescienza.it

possono attuare per rimediarvi. Strategie che Maniscalco elaborò fin dal suo primo intervento sul campo, nei territori della ex Jugoslavia. Ripercorrendo la vicenda del giovane studioso, si coglie la straordinaria attualità dei problemi di volta in volta sottolineati, poiché se alcuni dei fronti in cui si trovò a operare sono oggi meno «caldi», molti altri se ne sono aperti, con inevitabili ripercussioni sulla salvaguardia dei beni culturali. Oro dentro può dunque essere letto come testimonianza, ma può anche essere considerato una lezione preziosa (e, del resto, lo stesso Maniscalco si adoperò fino alla fine per trasmettere le esperienze acquisite e formare archeologi capaci di mettere le proprie

L’immaginario collettivo della preistoria è spesso costellato da convinzioni a dir poco bizzarre (prima fra tutte l’idea che, seppure in un tempo remoto, uomini e dinosauri abbiano abitato il nostro pianeta nello stesso momento…) ed è dunque piú che apprezzabile la scelta di chiarire gli estremi

DALL’ESTERO BIOARCHAEOLOGY

Clark Spencer Larsen firma la seconda edizione del suo manuale (di taglio prettamente specialistico), aggiornando la disamina degli argomenti affrontati alla luce delle acquisizioni piú recenti. Un’opera che ribadisce gli eccezionali arricchimenti che le ricerche di laboratorio (in questo caso sui resti umani) possono dare alla ricerca archeologica. Con esiti decisivi per l’ambito preistorico, ma non solo. S. M.

della questione a beneficio dei piú piccoli. Condensare e rendere facilmente comprensibile una vicenda che si è sviluppata nell’arco di a r c h e o 113


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