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FASCINO DELLE
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ROVINE BARDO AD AQUILEIA
UNA GRANDE MOSTRA A ROMA AQUILEIA
MARCHE
L’ENIGMA DEI BRONZI DI PERGOLA SPECIALE
ALLA RICERCA DELLA PIÙ ANTICA CITTÀ DEL MONDO L’INTERVISTA
RICOSTRUIRE I MONUMENTI DISTRUTTI DELLA SIRIA? RISPONDE PAOLO MATTHIAE
€ 5,90
SPECIALE LA PIÙ ANTICA CITTÀ DEL MONDO
Mens. Anno XXXII n. 371 gennaio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
CARTOCETO
TESORI DAL MUSEO DEL BARDO
www.archeo.it
IO
EDITORIALE
LA STORIA DA DIFENDERE Negli ultimi quindici anni, le vicende geopolitiche del pianeta hanno coinvolto il mondo dell’archeologia come non era accaduto da un secolo. E con picchi di violenza inaudita e grottesca, in un primo momento incomprensibili: come spiegarsi, infatti, la distruzione delle due statue di Buddha sopravvissute incolumi per quasi due millenni, protette dalle gigantesche nicchie scavate nella falesia di una remota valle dell’Afghanistan? Accadde nel marzo del 2001, a pochi mesi da un’altra data fatidica, quella dell’11 settembre. Per quanto vicini nel tempo, era difficile, allora, collegare i due eventi: colpire il nemico, distruggendo un monumento appartenuto a una civiltà scomparsa e che nulla aveva a che fare con i diretti interessi del conflitto, cosa voleva significare? Abbiamo dovuto attendere gli eventi dell’anno appena trascorso per riconoscere, obtorto collo, che una logica, invece, si era fatta strada: una logica nuova – nuove le modalità d’esecuzione, nuovo il «programma», omicida e suicida al contempo –, che tra i primi obiettivi da colpire individua il suo stesso patrimonio archeologico. L’eco assordante della devastazione dei beni culturali iracheni continua a risuonare e lo farà ancora per molto tempo. E l’esito della nuova logica, che abbiamo sotto gli occhi, ci chiama a intervenire per contrastarne in tutti i modi la spaventosa deriva. Nelle pagine di questo numero vogliamo offrire, al riguardo, qualche utile spunto di riflessione: a partire dall’intervista con uno dei massimi protagonisti della ricerca archeologica (proprio nelle terre del Vicino Oriente antico), Paolo Matthiae, di cui presentiamo anche l’ultimo – attualissimo – libro. Viaggiamo poi in Afghanistan, per seguire le vicende di un salvataggio in extremis – e dagli esiti tutt’altro che scontati –, e torniamo quindi in Italia, al Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, dove una mostra allestita in collaborazione con il celebre Museo del Bardo di Tunisi, ricorda – a meno di un anno dall’attentato che costò la vita a ventidue persone – i secoli di convivenza e di scambi in epoca romana, testimoniati dagli straordinari mosaici del museo tunisino. Una mostra a Roma, infine, indaga l’oggetto stesso del desiderio degli amanti dell’antico, ovvero la «rovina». Insieme allo Speciale di questo numero (dedicato a smascherare un’ambizione velleitaria dell’archeologia) ci conduce davanti a uno specchio in cui possiamo riconoscere, percorrendo un lungo e labirintico percorso, i frutti di una storia che, oggi piú che mai, dobbiamo difendere. Andreas M. Steiner Niobidi, una delle fotografie di Alessandro Celani esposte nella mostra La forza delle rovine (vedi l’articolo alle pp. 52-59).
SOMMARIO EDITORIALE
La storia da difendere
SCOPERTE
di Andreas M. Steiner
Distruggere la storia per un pugno di dollari 28
Attualità
di Paolo Leonini, con contributi di Massimo Vidale e Giuseppe Salemi
Scoperta a Città della Pieve una tomba etrusca inviolata, con sarcofagi e urne funerarie 8
STORIA
3
LA NOTIZIA DEL MESE
NOTIZIARIO
10
SCOPERTE Il piú ricco tesoretto di monete romane mai trovato in Svizzera viene da... un frutteto 10
Il mistero dei «binari» di Malta
42
28
di David H. Trump
42
MOSTRE
Forza e fascino delle rovine
52
di Stefano Mammini
ALL’OMBRA DEL VESUVIO I nuovi progetti del Laboratorio di Ricerche Applicate di Pompei, fra ricerca e divulgazione 12 PAROLA D’ARCHEOLOGO Paolo Matthiae illustra lo spirito e le caratteristiche dell’avveniristico progetto di ricostruzione dei monumenti di Palmira distrutti dagli estremisti islamici 14
MOSTRE
Dialogo ad Aquileia
60
testi di Sergio Mattarella, Paola Ventura e Marta Novello
GLI IMPERDIBILI
Bronzi di Cartoceto
Un enigma tutto d’oro
68
di Daniele F. Maras In copertina Side (Turchia meridionale). I resti del colonnato del tempio di Apollo.
Anno XXXII, n. 371 - gennaio 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Stefano Cocco Cantini è musicista. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Marco Di Branco è ricercatore di storia bizantina e islamica all’Istituto Storico Germanico di Roma. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Daniele F. Maras è docente del dottorato di ricerca in storia linguistica del Mediterraneo antico presso l’Università IULM di Milano. Flavia Marimpietri è archeologa specializzata in archeologia greca e romana. Marta Novello è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Aquileia. Simona Rafanelli è direttore del Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» di Vetulonia. Alfonsina Russo è soprintendente archeologo del Lazio e dell’Etruria Meridionale. Giuseppe Salemi è professore associato di metodologie geomatiche per i beni culturali all’Università degli Studi di Padova. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. David H. Trump è stato docente di archeologia all’Università di Cambridge. Paola Ventura è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia del FriuliVenezia Giulia. Massimo Vidale è docente di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 74-76, 79-81, 88/89, 92-93, 108 – Cortesia Ufficio stampa: p. 3, 22, 54-55, 57 (alto), 58-59, 112 – Cortesia Soprintendenza Archeologia dell’Umbria: pp. 8-9 – Kanton Aargau: Béla Polyvàs: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Speciale ai BA Pompei, Ercolano e Stabia: pp. 12-13 – ANSA: p. 14 (alto) – Doc. red.: pp. 14/15, 16 (alto), 17, 36 (basso), 72 (basso), 73, 84-87, 94 (basso), 95 – Getty Images: Shah Marai: p. 16
Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO
Storia (e vita) di un monumento
98
di Daniele Manacorda
74 98 QUANDO L’ANTICA ROMA...
…inventò la fanteria di marina 104 di Romolo A. Staccioli
di Andrea Augenti
Esiste davvero la città «piú antica del mondo»?
108
74
di Massimo Vidale
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Per forza, piú che per amore
SCAVARE IL MEDIOEVO I crociati son tornati...
SPECIALE
110
di Francesca Ceci
LIBRI
(basso); MCT: pp. 28/29; John Moore: pp. 36/37; Robert Nickelsberg: pp. 38/39; Eric Lafforgue: p. 94 (alto); Tony Wheeler: p. 96; Hobermann Collection: p. 110 – Cortesia degli autori: pp. 18-19, 40 (alto e basso), 41, 105 (basso), 111 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale: p. 20 – Cortesia Mes Aynak Archeological Project: pp. 30 (alto, secondo piano), 31, 32 (alto), 33 – Cortesia German Camera Productions-Kartemquin Films: pp. 30 (basso), 32 (centro), 34-35 – Corbis Images: Christopher Boisvieux: p. 38 (basso) – Daniel Cilia: pp. 42-51 – Mondadori Portfolio: The Kobal Collection: pp. 52/53; AKG IMages: pp. 77-78, 104/105, 105 (alto); The Art Archive: pp. 91, 107 – Foto Scala, Firenze: Werner Forman Archive: pp. 56/57 – Gianluca Baronchelli: pp. 62-67 – Rocco D’Errico: pp. 68-71, 72 (alto) – Cortesia Missione Italiana a Gerico-«Sapienza» Università di Roma: pp. 82-83 – DeA Picture Library: p. 90; A. Dagli Orti: p. 106 – Cortesia SEMA snc: pp. 98-102 – Cortesia Aleks Pluskowski: p. 109 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 8, 30 (primo piano), 37, 40, 70. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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LA NOTIZIA DEL MESE Giuseppe M. Della Fina
QUI GIACCIONO LARIS E AULE NEL TERRITORIO DEL COMUNE UMBRO DI CITTÀ DELLA PIEVE È VENUTA ALLA LUCE UNA TOMBA ETRUSCA INVIOLATA. AL SUO INTERNO SONO STATI RECUPERATI SARCOFAGI E URNE FUNERARIE, CHE, IN ALMENO DUE CASI, POSSONO ESSERE ATTRIBUITI CON CERTEZZA AI LORO POSSESSORI
U
na tomba etrusca inviolata è stata scoperta in circostanze fortuite nelle settimane scorse in località San Donnino Fondovalle nel territorio del Comune di Città della Pieve (Perugia). Il monumento è stato quindi scavato da una équipe di archeologi coordinata da Clarita Natalini, della Soprintendenza Archeologia dell’Umbria. La tomba era dotata di un dromos (corridoio di accesso) e chiusa da una porta in travertino a doppia anta; la camera funeraria ha pianta rettangolare e un’ampiezza di 5 mq circa. Al suo interno sono stati In alto: Città della Pieve. L’urna funeraria in travertino che, sul coperchio, reca inciso, da destra verso sinistra, il nome del defunto: aule pulfna peris. Fine del IV-III sec. a.C. A sinistra: l’ingresso degli archeologi all’interno della tomba, che, scoperta casualmente, si presentava inviolata.
Perugia Chianciano Terme
Chiusi
Città della Pieve
Sarteano
Monte Amiata
Orvieto
Pitigliano
Bolsena
Vulci
Viterbo
Tuscania
Tarquinia
ere Tev
Lago di Bolsena
Spoleto
A1
Magliano Sabina Blera Nepi San Giovenale Lago di
Civitavecchia Tolfa
Bracciano
Bracciano Pyrgi
Cerveteri A12
8 archeo
Veio
Roma
Rieti
Palombara Sabina
rinvenuti due sarcofagi, uno dei quali reca un’iscrizione ben conservata, in corso di studio, ma che rinvia a uno degli esponenti della famiglia che volle la costruzione del sepolcro: laris pulfna, figlio di arnth. Sull’altro si conservano soltanto alcune lettere superstiti di un’iscrizione anch’essa a carattere onomastico. Accanto ai sarcofagi sono state ritrovate tre urne funerarie in travertino alabastrino e con il
A destra: il recupero dell’anfora a corpo ovoidale facente parte del corredo funebre rinvenuto all’interno della tomba di Città della Pieve. In basso: particolare del coperchio di una delle urne rinvenute all’interno della tomba. La compresenza di questo tipo di custodie e dei sarcofagi prova che, tra i membri della famiglia proprietaria del sepolcro, alcuni scelsero di farsi cremare, mentre altri optarono per l’inumazione.
coperchio a forma di figura maschile recumbente. Una reca l’iscrizione aule pulfna peris. Il coperchio di una di esse mostra tracce di policromia sul capo e le pupille dipinte.
IL VOLTO SENZA NOME Ai piedi del sarcofago caratterizzato dall’iscrizione, è stata rinvenuta una testa raffigurante un personaggio maschile, calvo, che presenta una frattura alla base del collo e di cui, al momento, non sono chiare la funzione, né il contesto di appartenenza. La presenza – non insolita – di sarcofagi e urne nella stessa tomba indica che alcuni membri della famiglia scelsero il rito dell’inumazione mentre altri optarono per la cremazione. Il corredo funerario – ancora da esaminare in maniera approfondita – comprende vasetti miniaturistici in ceramica acroma, un’olla e un’anfora dal corpo ovoidale.Tra i reperti metallici si segnalano i frammenti di uno strigile e di una olpe in bronzo. I sarcofagi, le urne e gli oggetti rinvenuti rinviano a Chiusi, il centro egemone della zona e, a un primo esame, l’utilizzo della tomba sembra collocarsi tra la fine del IV e durante il III secolo a.C. In attesa del restauro e dello studio, i reperti sono stati trasferiti presso il Museo Civico Diocesano di Città della Pieve.
archeo 9
n otiz iari o SCOPERTE Svizzera
IL FRUTTETO «DEI MIRACOLI», MA SENZA GATTO, NÉ VOLPE...
L
a località svizzera di Ueken, a metà strada tra Basilea e Zurigo, è stata teatro di una scoperta senza precedenti: vi è stato infatti rinvenuto uno dei piú ricchi tesori di monete di epoca romana mai restituiti dal territorio elvetico. Il ritrovamento è avvenuto in circostanze fortuite, quando un contadino intento a dissodare la terra del proprio frutteto ha visto affiorare alcune monete dall’aspetto antico. Sapendo che, alcuni mesi prima, nelle vicinanze erano state riportate alla luce le tracce di un insediamento romano, l’uomo ha pensato che ci potesse essere un nesso e ha prontamente contattato il servizio archeologico del cantone Argovia. Secondo la legislazione svizzera, infatti, ogni ritrovamento archeologico
effettuato appartiene allo Stato e deve essere denunciato di conseguenza. Gli archeologi e i volontari intervenuti, coordinati da Georg Matter, hanno quindi provveduto allo scavo e al
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VINDONISSA
Un caposaldo strategico
Vindonissa fu un importante campo legionario romano sorto alla confluenza dei fiumi Aare e Reuss, i cui resti, visitabili, si conservano nei pressi dell’odierna Windisch, presso Brugg, nel Cantone di Argovia. Il suo impianto venne deciso all’indomani della disfatta patita da Varo a Teutoburgo nel 9 d.C. o, al piú tardi, nel 16-17 d.C., quando, dopo l’abbandono dei piani per la conquista della Germania, il Danubio e il Reno tornarono a essere le frontiere dell’impero. Con Argentorate (Strasburgo), Mogontiacum (Magonza) e Vetera Castra (Xanten), anche Vindonissa divenne uno dei piú importanti capisaldi dell’esercito di stanza in Germania per la difesa delle frontiere. Dopo la conquista delle terre situate sulla sponda destra del Reno, sotto Vespasiano e Domiziano, l’avanzamento della frontiera dell’impero verso nord-ovest e la costruzione del limes fecero perdere a Vindonissa la sua importanza strategica: nel 101 d.C. le guarnigioni furono ritirate e il campo fu occupato dalla popolazione civile. Dopo l’invasione degli Alemanni e l’abbandono definitivo del limes sotto Gallieno (260 d.C.), Vindonissa si trovò nuovamente nelle immediate vicinanze della frontiera dell’impero e fu dotata di nuove fortificazioni. Nel IV secolo, a ovest del sito sorse un piccolo castello (Altenburg) edificato in massima parte con materiale di spoglio proveniente dal campo legionario, che fu definitivamente abbandonato nel 401 d.C., ma continuò a esistere come abitato civile ed è testimoniato nel VI secolo come sede vescovile. (red.)
In alto: la pulitura di una delle monete facenti parte del tesoretto rinvenuto a Ueken. L’insieme comprende oltre 4000 pezzi, databili nella seconda metà del III sec. d.C.
recupero del tesoro, operando, nella massima riservatezza, tra il settembre e l’ottobre dell’ anno che si è appena concluso. Il tesoro risulta composto da 4166 monete, in ottimo stato di conservazione, il cui bassissimo
grado di usura ha suggerito che possa trattarsi di un gruzzolo accumulato nel tempo dal suo proprietario, con pezzi freschi di conio, forse nascosto per assicurarsi un capitale di valore stabile nel tempo, in un epoca di
Sulle due pagine e qui sopra: due immagini del tesoretto di Ueken. Acquisito dallo Stato elvetico, l’insieme è ora esposto a Brugg, nel Museo di Vindonissa.
crescente inflazione. Tale ipotesi è anche avvalorata dal fatto che si tratta di monete con un contenuto di argento del 5%, insolitamente alto. La datazione proposta ricade complessivamente nella seconda metà del III secolo d.C., in un arco cronologico compreso tra il regno dell’imperatore Aureliano (270-275) e quello di Massimiano (286-305); le monete piú recenti si datano al 294 d.C., anno in cui si ipotizza che il tesoretto sia stato nascosto. Dopo l’esame dei reperti, il numismatico Hugo Doppler ha concluso che almeno 200 esemplari sono antoniniani, coniati dopo il 274 d.C. Adesso di proprietà statale, dopo le operazioni di pulitura e conservazione, il tesoro è stato esposto presso il Museo di Vindonissa, a Brugg, mentre al
fortunato contadino andranno un premio per il ritrovamento e la soddisfazione di essere stato protagonista di una grande scoperta archeologica. Paolo Leonini
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
CASTAGNE A VOLONTÀ IL LABORATORIO DI RICERCHE APPLICATE DI POMPEI È UN VERO ARCHIVIO DELLA BIODIVERSITÀ ANTICA. E LO STUDIO DELLE SUE COLLEZIONI SVELA PRESENZE INASPETTATE NELLA DIETA ALIMENTARE DELLE CITTÀ VESUVIANE
O
ltre a case e monumenti eccezionalmente conservati dall’eruzione vesuviana, Pompei restituisce un patrimonio d’informazioni meno appariscente, ma piú eloquente per conoscere l’aspetto dell’antico paesaggio e il tenore di vita dei suoi abitanti. Notizie che provengono dall’ambiente naturale in cui s’immergeva la città e dal quale, con adeguate tecniche colturali, si ricavavano copiose risorse alimentari. I dati archeobotanici di Pompei sono perciò assai interessanti, sia per la quantità e la qualità di conservazione dei reperti recuperati negli scavi, sia per la varietà delle specie documentate. Il Laboratorio di Ricerche Applicate della Soprintendenza Speciale per Pompei è oggi il custode di questa ingente ricchezza e, oltre alla conservazione e allo studio dei campioni, ne cura la divulgazione, attraverso progetti didattici e di ricerca svolti in collaborazione con varie università. Il merito di aver raccolto i reperti archeobotanici dai siti vesuviani spetta alla compianta Annamaria Ciarallo che, in qualità di coordinatrice del Laboratorio, ebbe il merito di rivolgere la sua attenzione proprio sul significato di tali testimonianze. Di alcune indagini in corso e del contributo alla progettazione del
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percorso didattico nello spazio espositivo – che, nei locali del Laboratorio, illustrerà i reperti non archeologici in senso tradizionale e principalmente i resti vegetali – ci parla Gaetano Di Pasquale, ricercatore di botanica ambientale e applicata all’Università degli Studi di Napoli Federico II, che con la Soprintendenza di Pompei sta affrontando nuove ricerche sull’ambiente e sulla produzione agricola vesuviana di età romana.
VECCHIE E NUOVE ACQUISIZIONI «Il lavoro per il quale siamo stati chiamati – spiega – è, innanzitutto, una verifica delle precedenti classificazioni botaniche, a cui
segue l’identificazione dei materiali mai analizzati finora e di quelli che provengono dagli scavi: passi indispensabili per definire i contenuti dell’itinerario espositivo che verrà realizzato. Esporre questi materiali significa raccontare prima di tutto l’eccezionale ricchezza del territorio vesuviano dal punto di vista delle risorse agrarie e forestali, in un percorso che parla di cosa si produceva in una delle regioni piú fertili del mondo antico. Nel nostro Laboratorio adottiamo un approccio diverso da quello tradizionale, perché intendiamo ricostruire la grande cultura alimentare romana, e poi i paesaggi in cui questi prodotti alimentari erano coltivati».
Di Pasquale ci racconta uno dei casi di indagine piú stimolanti e divertenti fra quelli che riguardano Pompei e l’area vesuviana. La ricerca interessa la storia del castagno, un albero molto diffuso in Italia e in tutto il Mediterraneo, che ha notevole rilevanza anche come tipologia di paesaggio storico: «In tutti i libri e i manuali di botanica e di storia dell’alimentazione si legge che il castagno è un albero originario del Caucaso, e che è stato diffuso nel Mediterraneo occidentale dai Romani per via del valore alimentare rappresentato dalla castagna. In realtà, i dati archeobotanici raccontano una storia diversa e molto piú articolata nello spazio e nel tempo, all’interno della quale l’area vesuviana ha un
frutto finora nota in Europa». Quindi, secondo Di Pasquale, il dato materiale non conferma la teoria della diffusione della castanicoltura in età romana.
UN USO MASSICCIO E CONTINUO «L’archeobotanica testimonia piuttosto l’uso sistematico del castagno come albero da legno, come nel caso della cosiddetta Villa di Augusto, a nord del Vesuvio presso Somma Vesuviana; qui il ritrovamento di grandi quantità di legno di castagno documenta un uso massiccio e continuo di questa pianta, tra II e V secolo d.C., non solo come materiale da costruzione ma anche come combustibile, mentre sono assenti le testimonianze di uso del frutto.
Nella pagina accanto: Gaetano Di Pasquale, ricercatore di botanica, al lavoro nel Laboratorio di Ricerche Applicate di Pompei, nei cui locali è in corso di allestimento anche uno spazio espositivo. In questa pagina: frutti, semi e altri reperti archeobotanici carbonizzati rinvenuti a Pompei e che compongono le collezioni di confronto allestite nel laboratorio pompeiano. particolare per il contesto archeologico da cui proviene. Una possibile spiegazione è che la castagna potesse essere all’epoca parte importante dell’alimentazione di bordo; in effetti le bucce di castagna compaiono sempre assieme a gusci di noci e nocciole, che nel complesso fanno pensare all’uso di frutta secca, che può essere stivata e conservata senza grossi problemi anche per lunghi periodi in qualsiasi stagione».
UN CASO FINORA UNICO
ruolo decisivo. Solo una decina di anni fa è stato dimostrato che il castagno è una specie autoctona; per quanto riguarda la tesi della sua diffusione in epoca romana, in tutta Europa, fino a qualche tempo fa, i ritrovamenti di frutti consistevano soltanto in due castagne, rinvenute sul tetto di uno degli ambienti della Villa A di Oplonti e attualmente conservate nel Laboratorio di Pompei: si trattava, per quanto è dato sapere, dell’unica testimonianza archeobotanica di
Nel complesso i dati suggeriscono che l’interesse verso il castagno in epoca romana fosse indirizzato essenzialmente al legno». «Ora, il recente studio dei macroresti (frutti, semi e altre parti di piante) provenienti dai paleofondali del porto di Napoli ha messo parzialmente in discussione quanto detto, perché ha rivelato la presenza di numerose bucce di castagne nei sedimenti del porto dal I al V secolo d.C. Ma si tratta di un dato molto
«I fondali del porto romano avrebbero quindi restituito resti di pasto consumati dagli equipaggi durante le soste davanti alla città. Va sottolineato che si tratta di una peculiarità del porto di Napoli, che non trova conferme in nessuna altra area analoga del Mediterraneo occidentale… Detto questo, per trovare la castagna nella dieta delle popolazioni italiane si deve arrivare al Basso Medioevo. Si tratta, quindi, di dati inattesi e stimolanti: per tornare a Pompei e ai materiali del Laboratorio della Soprintendenza, è evidente che le eccellenze alimentari della Campania attuale, dalle noci alle nocciole, dai fichi al grano, fino alle castagne, trovano qui una sorta di straordinaria certificazione di autenticità storica». Avviare ricerche genetiche su questi reperti potrebbe portare a risultati molto interessanti in termini di sapere e di sapori legati alle antiche eccellenze del territorio vesuviano.
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
UNA STAMPANTE PER PALMIRA? RICOSTRUIRE I MONUMENTI DISTRUTTI DALL’ISIS IN SIRIA E IRAQ È UN’IPOTESI REALIZZABILE, GRAZIE A TECNOLOGIE MODERNISSIME. SIAMO, DUNQUE, A UNA SVOLTA NELLE REGOLE CHE, FINO A IERI, HANNO SEGNATO IL NOSTRO RAPPORTO CON LE TESTIMONIANZE DEL PASSATO? RISPONDE L’ARCHEOLOGO PAOLO MATTHIAE…
R
icostruire con una stampante 3D i monumenti distrutti dall’ISIS a Palmira, in Siria, non è un sogno, ma l’obiettivo di un progetto presentato all’UNESCO di Parigi. Ne ha curato la consulenza scientifica Paolo Matthiae, professore emerito dell’Università «Sapienza» di Roma e Accademico dei Lincei, il cui nome è legato alla scoperta degli archivi reali di Ebla. Professor Matthiae, lei conosce molto da vicino la realtà siriana e ha dedicato la sua vita allo studio del Vicino Oriente Antico. È davvero pensabile – e possibile – ricostruire con una stampante i manufatti distrutti a Ninive, in Iraq, o a Palmira, in Siria? E quale senso può avere una simile operazione?
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«Il progetto di ricostruire le rovine, in particolare dopo i disastri inauditi di Palmira, è un’ipotesi realizzabile con le tecnologie moderne. E con risultati fino a pochi anni fa impensabili: cioè con fedeltà filologica e rispondenza scientifica con l’originale. Soprattuto noi italiani, che abbiamo una tradizione di restauro dei monumenti e dei centri storici molto rigorista, siamo stati sempre un po’ scettici sulla ricostruzione di opere perdute, a differenza della cultura europea, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Eppure anche in Italia sono stati ricostruiti monumenti distrutti dai bombardamenti, come la basilica di
S. Lorenzo a Roma o l’abbazia di Montecassino. Fra gli studiosi si sta facendo strada la convinzione che, grazie alle tecnologie moderne, una città come Palmira può non essere perduta. A questo mira il progetto presentato da Francesco Rutelli (Presidente dell’Associazione “Incontro di Civiltà”) con la mia collaborazione scientifica: ricostruire i monumenti distrutti dai terroristi, quando la crisi politico-militare siriana sarà stata risolta. Riteniamo che si debba, piú che si possa, restituire questi luoghi, che sono simbolo di civiltà,
al governo siriano e al futuro della Repubblica di Siria». Ma sarebbe davvero possibile ricostruire con fedeltà i templi andati perduti a Palmira? «Sí. Le tecnologie moderne permettono di riprodurre non solo i singoli oggetti, ma anche i monumenti. Alcune stampanti 3D arrivano a ricostruire manufatti alti fino a 12 m». In che modo? Ricomponendo le briciole di quanto è stato ormai polverizzato? «Al momento non conosciamo in dettaglio lo stato di conservazione delle rovine di Palmira. E non lo sapremo finché la città non sarà sottratta all’ISIS, come sembra dovrebbe avvenire nei prossimi mesi. Ora non conosciamo quali e quanti siano i resti delle esplosioni orrendamente documentate. Parte dei monumenti può essere recuperata, come alcuni blocchi della pietra di Palmira. Ma l’aspetto piú interessante della stampa 3D è la possibilità di ricomporre il monumento con i detriti recuperati nell’area archeologica. Ottenendo una materia prima avente una composizione molto simile, se non identica, a quella delle pietre originali. La fedeltà di queste
ricostruzioni è notevole. Pensiamo al Marco Aurelio in piazza del Campidoglio, a Roma: chi ignori che si tratta di una replica, può scambiarlo per l’originale (custodito nei Musei Capitolini). Nel caso di Palmira, l’impresa è ben piú impegnativa, anche dal punto di vista economico, trattandosi di interi edifici». Un impegno quantificabile in milioni di euro? «Sí, milioni. Per questo il progetto prevede il contributo rilevante dello Stato, dell’Unione Europea e dell’UNESCO». Quindi lei crede davvero che, un giorno, potremo ammirare di nuovo i monumenti palmireni, senza pensare che le rovine che abbiamo di fronte non sono – e non saranno mai piú – quelle di duemila anni fa? «La mia opinione personale è che si può realmente ricostruire. Per tutto il Novecento, Palmira è stata oggetto di missioni, studi, ricerche e rilievi molto accurati. Non c’è dubbio che una ricostruzione sia un falso storico. Ma se lei va a Dresda, oggi, la cattedrale protestante, uno dei gioielli del barocco dell’Europa Settentrionale, è un clamoroso falso storico. Ricostruito dalla stessa Repubblica Democratica
Sulle due pagine: Palmira in una foto scattata nel 2010. Al momento, si ignora l’esatta entità delle devastazioni compiute dall’ISIS. Tedesca e poi Germania Unificata prima dell’acquisizione delle tecniche moderne, che si sono sviluppate solo negli ultimi cinque anni. Come la nazione tedesca giustamente non si è privata di uno dei suoi tesori piú grandi, cosí tutti noi dobbiamo fare un grande sforzo di collaborazione internazionale perché la stessa cosa accada al popolo siriano. Palmira è un tesoro dei Siriani e di tutta l’umanità». Nel suo ultimo libro, Distruzioni, saccheggi e rinascite. Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’ISIS, in merito al concetto di perdita del patrimonio archeologico, lei scrive: «Un tema sterminato, che mai avrei pensato di affrontare». Con quale stato d’animo, professore, un archeologo militante come lei vive l’idea di una Palmira senza monumenti? «Un po’ come un micidiale paradosso. Per un archeologo, infatti, l’ideale è scoprire rovine distrutte in un unico momento, da un incendio o da un cataclisma per esempio, come è accaduto a
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Pompei ed Ercolano. Per chi voglia ricostruire un mondo antico perduto, un evento catastrofico inatteso congela in maniera perfetta i monumenti e la vita del sito nello stato di quell’istante. E cosí a Ebla, nel Palazzo Reale, la vita è rimasta bloccata nel momento in cui l’edificio è stato distrutto. Ma se la distruzione naturale o umana è l’ideale per un archeologo, assistervi con i nostri occhi, oggi, a Palmira, è scioccante. È una visione orrifica e micidiale». La distruzione del patrimonio culturale è una perdita irreparabile. Un crimine contro l’umanità, ha ribadito l’UNESCO. Ma «la nuova barbarie», si legge nel suo saggio in riferimento a quanto è accaduto a Palmira, «è il rinnovarsi di una barbarie antica quanto l’uomo». Cosa vuole dire, professore? «Sebbene noi occidentali deploriamo nel modo piú duro la devastazione del patrimonio archeologico perpetrata in Siria, di cui sono colpevoli gli estremisti totalitari e esclusivisti di religione islamica, non dobbiamo dimenticare che, nelle tempeste della storia, questi eventi si sono succeduti infinite volte. E non c’è dubbio che la colpa di queste distruzioni intenzionali sia l’odio verso l’altro. Nel mio libro, cito esempi clamorosi che a volte dimentichiamo. Nei decenni tra
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In alto: il piú grande dei Buddha di Bamiyan (Afghanistan) in una foto del
1976 e, in basso, il sito dopo la distruzione della statua.
Costantino il Grande e Teodosio il Grande, nel IV secolo d.C., c’è stato un naufragio spaventoso di arte greca e romana. Delle migliaia di statue di bronzo che esistevano nella Roma imperiale, se ne è salvata una soltanto: il Marco Aurelio, poiché venne scambiato per l’imperatore cristiano
Costantino. A Roma c’erano migliaia e migliaia di bronzi greci originali, di valore inestimabile, che sono andati perduti per sempre. I tre grandi saccheggi della Roma antica, da parte dei Visigoti e dei Vandali, nel 410, 455 e 472 d.C., sono stati tra le piú grandi rovine che abbiano mai impressionato il mondo. Piú tardi, anche il saccheggio di Baghdad da parte dei Mongoli, nel 1258, o quello di Costantinopoli del 1204, al tempo della Quarta Crociata, sgomentarono l’Occidente». La distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, nel 2001, è stato forse il primo «choc» mediatico causato dalla perdita di un monumento. E la distruzione di Palmira ha colpito l’immaginario collettivo forse ancor piú duramente. Dobbiamo rassegnarci a vivere senza monumenti, con le rovine delle rovine?
«La distruzione dei Buddha di Bamiyan ha colpito tutto il mondo, anche quello indiano e cinese. L’UNESCO aveva tentato in ogni modo di evitarla: il gesto era stato annunciato dai talebani, e, per dissuaderli, venne inviata una delegazione, che però non fu ricevuta dal mullah Omar e i Buddha vennero fatti saltare in aria. Come sostengo nel mio saggio, il mondo contemporaneo tende a considerare inviolabile, però, anche il patrimonio immateriale, come per esempio le tradizioni orali o le opere della natura, intimamente legate a quelle dell’uomo e da proteggere tanto quanto una scultura di Michelangelo. Sia i Buddha di Bamiyan che Palmira, prima di essere devastati, erano già importanti sul piano artistico, naturale e immateriale. Palmira è un sito spettacolare e un grande tesoro dell’umanità, non solo per le opere che i terroristi stanno distruggendo, ma anche per la splendida oasi naturale: un luogo
con uno straordinario significato per la storia dell’umanità». A proposito di protezione dei beni culturali, lei sostiene che l’UNESCO sta incontrando notevoli difficoltà per intervenire in Siria, poiché – come in ogni conflitto civile – non esistono regole, né autorità di riferimento. Come fare, allora, per difendere il nostro patrimonio archeologico? «Le guerre civili sono conflitti irregolari, nei quali può accadere di tutto. L’UNESCO lancia continui e disperati appelli, definendo un crimine di guerra la devastazione del patrimonio archeologico, ma, sul piano del diritto, non sono efficaci, poiché sul campo mancano regole e autorità riconosciute. Io credo che i “potenti” del nostro mondo abbiano una responsabilità rispetto a queste distruzioni. Si poteva non essere certi che sarebbero accaduti disastri del genere, ma la presa di Palmira da parte dell’ISIS si poteva evitare. È possibile che il presidente degli I cavalli di S. Marco, trafugati nel 1204 a Costantinopoli dai crociati. Collocati sulla facciata della basilica veneziana, vi sono rimasti fino al 1977. Sostituiti da una copia, gli originali sono ora custoditi nel Museo Marciano.
affascinante dove la pietra assume tonalità straordinarie all’alba e al tramonto. A Bamiyan c’è una grande nicchia vuota, ma si trova in una valle magnifica. Un Buddha è un capolavoro artistico, ma ha anche un valore immateriale: e questo non si perde con la distruzione della statua, ma rimane
USA Barack Obama, che ha detto di possedere il piú grande esercito del mondo, abbia promesso di sconfiggere l’ISIS in tre anni? Con tutte le armi di cui può disporre, non riesce a fermare 800 miliziani che hanno attaccato una città situata al centro di un deserto piatto, come Palmira?
Gliela abbiamo lasciata in pasto, perché c’erano in gioco interessi economici enormi. Nelle convenzioni UNESCO si dovrebbe affermare il valore “assolutamente assoluto” dei beni della cultura, materiali e immateriali. Trovo inaccettabile che una dichiarazione UNESCO (che cito nel libro), a proposito della protezione dei beni culturali durante le guerre di tipo tradizionale, affermi che i beni culturali materiali sono immuni dalle distruzioni “a meno che un’autorità militare di altissimo grado, per esigenze strategiche eccezionali, non ritenga opportuno colpire quel monumento”. Come dire che, se un gruppo di terroristi si barricasse all’interno della basilica di S. Pietro, sarebbe possibile, per motivi strategici eccezionali, bombardarla. Questo è inaccettabile. L’intangibilità del patrimonio culturale non può avere eccezioni, seppure rare. La tutela deve essere “assolutamente assoluta”. Nella storia succedono le cose piú macabre, almeno i princípi devono essere inattaccabili. Il patrimonio culturale dev’essere “universale, uguale e intangibile”. L’uguaglianza è fondamentale: i monumenti sono uguali tra loro, come lo sono gli uomini, per razza, cultura o religione. La basilica di S. Sofia, a Costantinopoli, ha lo stesso valore di quella di S. Pietro, a Roma, o del Taj Mahal, in India. Nel presente – come insegna la storia – non abbiamo gli strumenti critici per valutare l’importanza di un bene, poiché siamo condizionati dalla nostra cultura e condizione storica (fra cent’anni, per esempio, un’opera d’arte africana potrebbe valere molto piú di un dipinto di Giotto). Per questo i monumenti devono essere tutti uguali. Se si potesse scegliere, si potrebbe dire: “questo lo distruggo”. Invece no: l’intangibilità deve essere assoluta. E, sicuramente, piú importante delle esigenze strategico-militari».
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TURISMO ARCHEOLOGICO Toscana
LA MUSICA PERDUTA E... RITROVATA
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el mondo antico, la musica permeava ogni aspetto del vivere quotidiano, civile e religioso, pubblico e privato del singolo e della comunità e aveva uno spazio importante nella formazione dell’individuo. Ne abbiamo testimonianza, per la Grecia, da fonti del calibro di Platone e di Aristotele, che ci dicono come essa fosse parte integrante della paidèia (educazione) del giovane ateniese di età classica, destinato a divenire buon cittadino in quanto uomo colto, ossia «uomo musico» (mousikòs anèr), proprio perché esperto nelle arti insegnate dalle Muse, che univano alla musica – nell’accezione moderna del termine – il canto, la poesia, il teatro, la letteratura, la danza. Piú difficile è indagare il fenomeno nel mondo etrusco, orfano di esplicite fonti dirette, ma ricco di immagini in cui musici e danzatori ricorrono con frequenza nelle scene di banchetto, giochi, caccia, agoni sportivi, ludi funebri, riti e cerimonie religiose. Scene che documentano il ruolo di primo piano che la musica – e le performance di spettacolo a essa connesse – dovevano giocare in tutte le manifestazioni della vita e della morte di questa civiltà che potremmo non a torto definire la piú «musicale» dell’antichità e che, per assurdo, è rimasta per noi completamente «muta». Un breve accenno dello stesso Aristotele, tramandatoci da Ateneo, ci svela alcune curiosità, come quella secondo la quale «Gli Etruschi praticavano il pugilato, fustigavano i servi e impastavano il pane a suon di musica»: notizie succinte che trovano, d’altro canto, una conferma eclatante nelle immagini raffigurate sulla superficie dei vasi o sulle pareti di alcune camere funerarie affrescate di Chiusi (Tomba del Colle), Tarquinia (Tomba della Fustigazione) e Orvieto (Tomba Golini). Alla musica antica, e segnatamente a quella etrusca, è stata dedicata attenzione solo in tempi piuttosto recenti: ricordiamo, fra gli altri, il convegno su «La musica in Etruria», svoltosi a Tarquinia nel 2009, e la mostra «Musica e archeologia: reperti, immagini e suoni dal mondo antico», allestita a Castelluccio di Pienza nel 2010, perché hanno rappresentato gli episodi dai quali ha preso le mosse un Progetto speciale che la Rete museale della Maremma di Grosseto, sostenuta dalla Regione Toscana, ha voluto dedicare alla «musica perduta degli Etruschi», a partire dal 2011. 18 a r c h e o
Nato dal «dialogo scientifico» fra chi scrive – un musicista e un’archeologa –, il Progetto deve la sua novità innanzitutto al tipo di approccio all’argomento – archeologico e musicale al tempo stesso –, che coinvolge, in maniera inedita, un musicista e non un teorico della materia musicale. La presenza di un suonatore di strumenti a fiato, ai quali la Toscana, sin dalle sue radici etrusche, e l’intera penisola italiana sembrano accordare una speciale preferenza, ha indirizzato immediatamente il percorso di ricerca verso un obiettivo preciso: il recupero dei suoni perduti, trasformando l’iniziativa in un «viaggio alla ricerca di un suono». Punto di partenza di questo viaggio sono i dati materiali di cui l’archeologia dispone, rappresentati da alcuni strumenti musicali che l’antichità ci ha tramandato. Sul territorio toscano, il piccolo lotto di strumenti a fiato – in legno di bosso e in avorio, recuperato nelle acque della Baia del Campese (Isola del Giglio), dal relitto di una nave affondata circa duemilaseicento anni orsono – attualmente esposto nell’Antiquarium della Fortezza spagnola di Porto Santo Stefano, costituisce, a oggi, la principale fonte documentaria archeologica. Esso ha un pendant perfetto, sul suolo campano, nei due strumenti a fiato in osso di cervo restituiti da un corredo funerario databile agli inizi del V secolo a.C. e conservati nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum. La riproduzione al vero di questi strumenti, resa possibile dall’analisi autoptica degli stessi e dall’ausilio di artigiani professionisti capaci di eseguirne copie perfette, sia per materia – legno di bosso stagionato – che per misure, ha rappresentato dunque il primo stadio della ricerca, consentendo di procedere al suo obiettivo primario, nel quale risiede la novità del Progetto: quello di «far suonare» gli strumenti! Grazie alle sue competenze Nella pagina accanto: l’immagine di un suonatore di flauto a doppia canna dipinta su una delle pareti della Tomba dei Leopardi, facente parte della necropoli etrusca di Monterozzi a Tarquinia. 480-470 a.C. circa. A sinistra: ricostruzione al vero, in legno di bosso, di uno degli strumenti a fiato trovati nel carico del relitto della Baia del Campese (Isola del Giglio; a sinistra) e di uno degli analoghi strumenti recuperati in un corredo funerario di Paestum.
itinere in una forma spettacolare di alta divulgazione scientifica, allestita nei principali Musei archeologici italiani (Firenze, Siena, Milano, Roma, Paestum) e nei maggiori festival (Rovereto, Aquileia, Berchidda) e manifestazioni archeo-turistiche nazionali (Firenze, Paestum), ha prodotto dapprima una piccola pubblicazione, per prendere oggi le forme piú compiute di un film-documentario. Stadio ulteriore del Progetto, accanto al prosieguo dell’esplorazione delle capacità musicali degli strumenti a canna, semplici o doppi – noti a oggi unicamente con il nome greco di aulòs/aulòi o latino di tibia/tibiae –, che hanno rappresentato il punto di partenza di questo percorso alla ricerca di «suoni perduti», è la replica fedele di tutti gli strumenti musicali etruschi pervenuti sino a noi. Si potrà cosí comprenderne, insieme alla tipologia e alla struttura, le totali potenzialità espressive in termini di note, scale musicali e toni che potevano essere eseguiti dai professionisti etruschi, nel quadro di un’indagine scientifica della musica antica che, contrassegnata dai «modi» musicali, prende le distanze da quanto un’elaborazione in chiave moderna della stessa vorrebbe indurci ancora oggi ad accettare. Finalità auspicata di questo itinerario fra archeologia e musica diviene infine quella di tramandare ai posteri la «voce» dell’antichità, diffondendo la conoscenza dei «suoni ritrovati degli Etruschi» nei Musei archeologici italiani e stranieri. Stefano Cocco Cantini e Simona Rafanelli
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professionali, non disgiunte dall’«occhio del musicista», abituato a tradurre in musica la forma materiale degli strumenti, Stefano Cantini ha saputo rintracciare, nel ricco apparato pittorico fornito dagli affreschi funerari di Tarquinia, l’immagine, esibita sulla parete di fondo della Tomba Francesca Giustiniani (V secolo a.C.), nella quale era riposta la chiave dell’enigma rimasto senza risposta nel Convegno tarquiniese del 2009: come restituire la voce perduta agli strumenti che il passato fortunosamente ci ha conservato? Cantini ha individuato il tipo di ancia (semplice battente) capace di raccogliere la prima emissione d’aria dalla bocca del musicista e di trasmetterla alla lunga canna dello strumento, facendo vibrare la colonna d’aria contenuta nel calibro interno, il lungo foro a sezione circolare che lo attraversa per intero, e rendendolo di nuovo capace, a distanza di secoli, di emettere quei suoni che componevano e compongono la sua voce. Se dunque è ancora impossibile comprendere, in assenza di «spartiti» dell’epoca, quali fossero le melodie intonate dai fiatisti, lampante risulta il carattere straordinario del Progetto, che ha consentito di ritrovare la voce reale di strumenti rimasti a oggi muti, riconoscendo in quell’insieme di «suoni perduti» – e ora «ritrovati» –, le note, le scale, i toni e i modi che stavano alla base di quelle melodie e rompendo un silenzio durato oltre duemila anni. Il Progetto, che ha assunto sin dall’inizio le sembianze di una performance finalizzata a tradurre il lavoro in
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VALORIZZAZIONE Lazio
SULLE ORME DELL’APOSTOLO
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ostruita sullo scorcio del IV secolo a.C., la via Appia, nel suo primo tratto da Roma a Capua, segna ancora oggi in modo indelebile il territorio del Lazio meridionale. Emerge a tratti, inaspettatamente, tra le rovine di antiche città, isolata nella campagna o tra gli edifici dei moderni centri urbani, con il bianco abbagliante del basolato in calcare, solcato dalle ruote dei carri che velocemente la percorrevano. Per favorirne la riscoperta e la conoscenza è stato messo a punto un progetto (ideato dalla
territorio di Cisterna di Latina), citata negli Atti degli Apostoli per la sosta di san Paolo, prigioniero, lungo il viaggio verso Roma. Obiettivo del progetto è dunque la valorizzazione dell’itinerario storico-religioso e archeologico del «Cammino di S. Paolo nel Lazio meridionale», in particolare di uno dei luoghi. In questo quadro, sono state inoltre programmate la ripresa delle ricerche archeologiche e la sistemazione dei resti già emersi. Si potrà ricostruire la storia del sito di Tres Tabernae e focalizzare l’attenzione sulla A sinistra: resti di strutture riportate alla luce nell’area della mansio di Tres Tabernae, presso Cisterna di Latina. In basso: la via Appia a Minturnae.
Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale, in collaborazione con l’Istituto Pontificio di Archeologia Cristiana, il CNR-ITABC e i Comuni posti lungo il suo percorso), che, in occasione del Giubileo Straordinario della Misericordia, vuole promuovere un itinerario/ cammino da Roma sino al confine meridionale della regione. L’idea nasce dalla importante scoperta archeologica che ha portato all’identificazione certa, lungo il tracciato della regina viarum, della mansio (stazione di posta) delle Tres Tabernae (nel
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presenza di san Paolo nel Lazio meridionale. Contestualmente, saranno valorizzati anche gli altri insediamenti legati alla grande viabilità, quali Minturno, Formia, Terracina, Fondi e Ariccia, alcuni dei quali vengono menzionati dagli Itinerari antichi. Questo importante itinerario turistico-culturale è pensato per pellegrini e appassionati, che potranno sostare nei principali luoghi della cultura, dove visite guidate, mostre, concerti, conferenze saranno finalizzati alla valorizzazione del cammino. Infine, per offrire ai pellegrini un percorso definito, l’Associazione GoTellGo, in collaborazione con la Soprintendenza, sta provvedendo a tracciare il cammino con tappe programmate e ben segnalate: partenza dal comprensorio archeologico dell’antica Minturnae a ridosso del fiume Garigliano che segna il confine con la Campania; I tappa Mintuno-Formia, 17 km; II tappa Formia-Fondi, 22 km; III tappa Fondi- Terracina, 23,3 km; IV tappa Terracina-Borgo Faiti (Forum Appi), 28 km; V tappa Borgo Faiti-Cisterna di Latina (Tres Tabernae), 19 km; VI tappa Cisterna di Latina-Ariccia, 20,9 km; VII tappa Ariccia-basilica di S. Paolo a Roma, 23,8 Km (due giornate). Il progetto rappresenta un cammino di storia e spiritualità, che, per usare le parole di Marc Augé, si muove alla ricerca di «un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno piú il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare». Alfonsina Russo
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APPUNTAMENTI Roma
L’ARCHEOLOGIA ALLA RIBALTA Gli incontri al Teatro Argentina, in collaborazione con «Archeo»
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rosegue l’impegno del Teatro di Roma nella riscoperta della Capitale e della sua storia. Dopo il successo della prima edizione, torna Luce sull’Archeologia, la rassegna dedicata alla conoscenza storico-archeologica di Roma e del mondo romano ospitata nel Teatro Argentina. Il consenso avuto nel 2015 (oltre 7000 presenze) conferma che la «cura» del tesoro comune della memoria è indice di civiltà e che promuovere la conoscenza e la tutela dei beni culturali attiva nuova cultura. I templi dell’area sacra di largo di Torre Argentina in una foto del 1932. Alle loro spalle, si riconosce la facciata del Teatro Argentina.
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Maschera colossale in marmo proveniente dal Teatro di Marcello e conservata al Teatro Argentina. Il programma prevede 5 incontri, dal 24 gennaio al 20 marzo, che, in collaborazione con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, l’Istituto Nazionale di Studi Romani e con «Archeo», raccontano Roma e le sue memorie, disseminate in un paesaggio di struggente bellezza. Filo conduttore del secondo ciclo è «Roma. Uomini e Dèi», un tema che approfondisce la conoscenza della Roma imperiale, metropoli che fu cuore culturale e religioso, ma, soprattutto, politico ed economico di un impero vastissimo. Questi i titoli e i relatori degli appuntamenti i, che si svolgono alle ore 11,00: domenica 24 gennaio Una città a colori Eugenio La Rocca, Orietta Rossini
domenica 21 febbraio Città di uomini e dèi Andrea Giardina, Paolo Sommella, Marisa Ranieri Panetta domenica 28 febbraio Gli spazi del sacro. Culti antichi e nuovi Luciano Canfora, Annalisa Lo Monaco, Massimiliano Ghilardi domenica 13 marzo Una Città d’acqua e giardini Maria Rosaria Barbera, Emilia Talamo domenica 20 marzo L’immagine di Cesare nella storia e nell’arte Francesco Prosperetti, Eugenio La Rocca, Claudio Strinati (red.)
Luciano Calenda
ARCHEOFILATELIA
MILLENNI E MISTERI
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Meta turistica apprezzata per il bel mare (1), Malta è un luogo eccezionale anche per l’archeologia e, in particolare, per la 1 preistoria (2). Grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo, l’arcipelago maltese è stato infatti abitato fin da epoche remote e i primi templi megalitici risalgono al Neolitico e precedono i monumenti di Stonehenge o le piramidi egiziane. L’imponenza dei templi e delle strutture sotterranee e ancor piú i cart ruts di cui si parla in questo numero (vedi alle pp. 42-51), contribuiscono inoltre a creare l’alone di mistero che si avverte sull’isola. Il tempio di Mgarr, di cui si vede l’ingresso in questo francobollo (3), è tra i piú antichi e risale al 3800 a.C.; della stessa epoca sono il tempio di Ggantija, a Gozo (4) e quello di Hal Saflieni, esempio forse unico al mondo di tempio ipogeo (5). Di epoca piú recente, tra il 2800 e il 2500 a.C. sono i templi di Mnajdra (6) e di Tarxien (7) riprodotti su francobolli emessi dall’amministrazione postale all’epoca in cui l’isola era ancora un protettorato inglese; il primo, con re Giorgio VI, fu riemesso con colore diverso nel 1947 quando Malta ottenne una forma di autogoverno (8). Vi sono anche francobolli emessi per ricordare i reperti scoperti nelle aree dei templi megalitici, soprattutto le Veneri preistoriche, statuette che simboleggiano la dea madre (o dea terra). Qui si mostrano quella di Hagar Qim (9), un’altra forse proveniente da Ggantija (10) e un’ultima di provenienza ignota (11). Infine due francobolli maltesi sono dedicati ad altre ceramiche di epoca neolitica (12-13). La rassegna si chiude con un francobollo facente parte della serie ordinaria di 15 valori emessa nel 1973 che raffigura gli aspetti piú significativi della vita sociale, culturale ed economica dell’isola: a riprova della sua importanza, l’archeologia è stata scelta per il primo pezzo della serie (14).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it
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CALENDARIO
Italia ROMA Rampa Imperiale di Domiziano Nuovo percorso e mostra Foro Romano fino al 10.01.16
Tesori della Cina Imperiale
L’Età della Rinascita fra gli Han e i Tang (206 a.C.-907 d.C.) Palazzo Venezia fino al 28.02.16
Symbola. Il Potere dei Simboli
FIRENZE Il mondo che non c’era
L’arte precolombiana nella Collezione Ligabue Museo Archeologico Nazionale fino al 06.03.16
MILANO Mito e Natura
Dalla Grecia a Pompei Palazzo Reale fino al 10.01.16
NAPOLI Missioni italiane in Turchia
Recuperi archeologici della Guardia di Finanza Stadio di Domiziano fino al 15.04.16
Mostra fotografica e multimediale Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa fino al 31.01.16
ACQUI TERME La città ritrovata
POZZUOLI Tra terra e mare
Il Foro di Aquae Statiellae e il suo quartiere Museo Civico Archeologico fino al 31.03.16
BENEVENTO L’Arco e la Città
Storia, segni, disegni, restauri Archivio di Stato fino al 31.01.16
BOLOGNA Splendore millenario
Capolavori da Leiden a Bologna Museo Civico Archeologico fino al 17.01.16
BRESCIA Brixia. Roma e le genti del Po Un incontro di culture. III-I secolo a.C. Museo di Santa Giulia fino al 17.01.16
CAGLIARI Eurasia, fino alle soglie della Storia
Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna Palazzo di Città fino al 10.04.16
COLLEFERRO (ROMA) Il «Tesoro» dei Conti Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 31.03.16 24 a r c h e o
In alto: piatto apulo a figure rosse, da Ruvo di Puglia. 330-310 a.C.
Qui sopra: lastra in pietra con la figura a rilievo di un animale alato, da Karkemish.
All’origine del gusto Area archeologica del Rione Terra fino al 18.01.16
SAN GIOVANNI IN PERSICETO (BOLOGNA) Il cibo degli Dèi L’alimentazione nel mondo antico Palazzo Comunale fino al 29.02.16
Qui sotto: la Tomba degli Scudi in un dipinto di Adolfo Ajelli.
TARQUINIA Tarquinia etrusca nell’arte di Adolfo Ajelli Museo Archeologico Nazionale fino al 31.03.16
VERONA Palafitte
Un viaggio nel passato per alimentare il futuro Museo Civico di Storia Naturale fino al 10.04.16
VETULONIA (CASTIGLIONE DELLA PESCAIA) Antichità sequestrata A Vetulonia l’Italia antica si ritrova a tavola Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 10.01.16
Belgio BRUXELLES Anatolia
Casa dell’eternità BOZAR/Palais des Beaux-Arts fino al 17.01.16
Cimasa di kottabos in bronzo in forma di Sileno, da un deposito votivo sull’Arce di Vetulonia.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Sarcofagi
Egitto
TONGRES I gladiatori
Grecia
Sotto le stelle di Nut Musée du Cinquantenaire fino al 20.04.16
La fede dopo i faraoni British Museum fino al 07.02.16
Eroi del Colosseo Musée Gallo-romain fino al 03.04.16
ATENE Samotracia
Francia
I misteri dei Grandi Dèi Museo dell’Acropoli fino al 10.01.16
PARIGI Osiride
Olanda
Misteri sommersi d’Egitto Institut du monde arabe fino al 31.01.16
AMSTERDAM Roma
Il sogno dell’imperatore Costantino De Nieuwe Kerk fino al 07.02.16
Sepik
Arte da Papua Nuova Guinea Musée du quai Branly fino al 31.01.16
Svizzera
SAINT-ROMAIN-EN-GAL Il combattimento di Entello e Darete
BASILEA Il tesoro sommerso
Mosaici restaurati da Aix-en-Provence Musée gallo-romain fino al 24.04.16
Il relitto di Anticitera Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 27.03.16
Germania BERLINO Combattere per Troia
Le sculture del tempio di Egina contro i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16
MANNHEIM Egitto
Terra dell’immortalità Reiss-Engelhorn-Museen fino al 10.01.16
Gran Bretagna LONDRA Celti: arte e identità British Museum fino al 31.01.16
HAUTERIVE Dietro la Grande Muraglia
A sinistra: il fregio orientale del tempio di Egina ricostruito. Qui sotto: particolare del calderone di Gundestrup. Fine del II-I sec. a.C.
La Mongolia e la Cina al tempo dei primi imperatori Laténium, parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 29.05.16
MENDRISIO «Roma eterna».
Capolavori di scultura classica. La collezione Santarelli Museo d’arte Mendrisio fino al 31.01.16
Qui sopra: testa bronzea che forse ritrae un filosofo. 230 a.C. circa. In basso: rilievo raffigurante Sesostri I. 1964-1929 a.C.
USA NEW YORK L’antico Egitto trasformato Il Medio Regno The Metropolitan Museum of Art fino al 24.01.16
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SCOPERTE • MES AYNAK
DISTRUGGERE LA STORIA PER UN PUGNO DI DOLLARI 28 a r c h e o
A MES AYNAK, LA «PICCOLA MINIERA DI RAME» AFGANA A POCHI CHILOMETRI DA KABUL, SI LOTTA CONTRO IL TEMPO: NUOVI PADRONI DELL’INDUSTRIA E SIGNORI DELLA GUERRA MINACCIANO LA SOPRAVVIVENZA DI UN ANTICO SANTUARIO BUDDHISTA. MA C’È ANCHE CHI SPERA IN UN DESTINO DIVERSO di Paolo Leonini, con contributi di Massimo Vidale e Giuseppe Salemi
Q
uesta storia comincia negli anni Sessanta del Novecento in Afghanistan, quando gli archeologi della Délégation Archéologique Française en Afghanistan (DAFA) individuano i resti di un insediamento databile ai primi secoli dopo Cristo, in un’area collinare situata circa 40 km a est della capitale Kabul, nella provincia di Logar. Qui, il sottosuolo custodisce anche il secondo giacimento di rame piú grande al mondo, tanto che, non a caso, il nome del sito in lingua pashtu, Mes Aynak, significa «piccola miniera di rame». Sulla sommità di queste colline, recenti campagne di scavo hanno svelato un enorme complesso monastico buddhista, databile tra il II e il IV
Mes Aynak, Afghanistan. Il cantiere di scavo. Vi lavora una équipe di archeologi afgani e stranieri, coadiuvata da oltre 400 operai locali. a r c h e o 29
SCOPERTE • MES AYNAK
PRIORITÀ D’INTERVENTO La localizzazione di Mes Aynak (in basso, nel riquadro) e una planimetria del sito con il perimetro dell’«area rossa», la zona a cui è stata data priorità nelle esplorazioni. UZBEKISTAN
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secolo d.C. e tracce di occupazione risalenti fino all’età del Bronzo. A oggi gli scavi hanno portato alla luce un gran numero di strutture e reperti: edifici, stupa (monumenti devozionali buddhisti di ispirazione funeraria), statue in legno e in pietra, manoscritti, vasellame, monete.
UN EQUILIBRIO DIFFICILE Il sito è cresciuto in importanza e popolarità soprattutto negli ultimi 8 anni, non solo grazie agli eccezionali risultati delle ricerche, ma perché oggetto, dal 2009, di scavi d’emergenza. Mes Aynak è infatti divenuto protagonista di una delicata vicenda di salvaguardia del patrimonio culturale, scaturita dalla decisione del governo afgano di avviare lo sfruttamento industriale del giacimento sottostante, minacciando la distruzione dei resti archeologici. Prostrato dai ripetuti sconvolgimenti bellici e ancora connotato da una situazione politica instabile e da un’economia tra le meno sviluppate del pianeta, l’Afghanistan possiede 30 a r c h e o
notevoli ricchezze in termini di risorse naturali come petrolio, litio, rame, ferro. Fin dal 2003, la Banca Mondiale, attraverso i suoi programmi di sviluppo, sta fornendo consulenza al Paese, con l’obiettivo di rendere accessibile questo potenziale economico. Poiché a livello
Qui sopra: i resti di uno stupa, monumento devozionale buddhista di ispirazione funeraria. All’interno di queste strutture potevano essere custodite reliquie. In primo piano, il regista Brent Huffman effettua alcune riprese per il documentario Saving Mes Aynak (vedi box alle pp. 36-37).
nazionale mancano realtà industriali adeguate, il governo, prima sotto la guida del presidente Hamid Karzai e oggi del suo successore Ashraf Ghani, ha deciso di richiamare competenze dall’estero, assegnando concessioni di utilizzo a compagnie straniere, dietro garanzia di ricadute positive per il Paese.
APPALTI A NOVE ZERI Cosí, nel 2008, anche il sito Mes Aynak è stato oggetto di una gara d’appalto, vinta dal gruppo cinese Metallurgical Corporation of China Limited (MCC), che, in cambio del versamento di 3 miliardi di dollari, di royalties annuali, e dell’impegno alla realizzazione di una centrale energetica e di una ferrovia (subordinata, però, a studi di fattibilità), ha acquisito un diritto trentennale allo sfruttamento del giacimento.
Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
Il Ministero per le Miniere e il Petrolio ha allora incaricato il National Institute of Archaeology di procedere a uno scavo di emergenza, avvalendosi della collaborazione della DAFA per documentare e recuperare il maggior numero possibile di testimonianze archeologiche.
I lavori sono iniziati nel 2009 su un insediamento monastico a Gol Amid, e, fortunatamente, proseguono ancora oggi. Per il momento, infatti, le attività di estrazione sono ferme e, nel frattempo, Mes Aynak si è rivelato sempre piú come un sito di valore culturale eccezionale.
In alto: un’immagine dello scavo. In secondo piano, si può apprezzare la finezza del modellato delle parti inferiori di due statue in terracotta. Qui sopra: il campo base allestito nei pressi del sito dalla Metallurgical Corporation of China Limited per ospitare il proprio personale. a r c h e o 31
SCOPERTE • MES AYNAK
Due immagini delle operazioni di sminamento del terreno del sito archeologico. In alto: la nube di fumo e frammenti causati dalla deflagrazione controllata di un ordigno. A sinistra: un operatore provvisto di metal detector illustra al regista Brent Huffman il metodo di bonifica.
L’intervento di salvataggio archeologico è stato pianificato dividendo il sito in aree di priorità: precedenza assoluta è stata accordata all’«Area rossa», una superficie di circa 23 ettari, destinata a essere interessata per prima dall’avvio dell’attività mineraria. All’interno di questo perimetro ne è stato individuato un altro, di 15 ettari, nel quale si concentrano le presenze archeologiche, a sua volta suddiviso in 8 settori. Dopo le prime indagini, è stato possibile identificare la funzione delle varie strutture e su questa base sono stati definiti tre cantieri principali, due dei quali si trovano in uno degli 8 settori appena citati: si tratta della montagna di Aynak e della «Città bassa». Il primo interessa insedia32 a r c h e o
menti perlopiú difensivi, distribuiti sui versanti settentrionale e meridionale del rilievo, mentre nella parte centrale vi sono terrazzamenti dai quali antiche gallerie minerarie si dipartono verso l’interno della montagna. In quest’area, piú in basso, sui fianchi, sono ancora visibili i cumuli di rifiuti e scarti generati da secoli di attività estrattiva.
CASE E OFFICINE La seconda area, localizzata alle pendici del rilievo principale, sulla cima delle formazioni collinari circostanti, include insediamenti di natura abitativa, realizzati in mattoni di argilla. Alcuni edifici hanno restituito monete e frammenti di manoscritti, che ne suggeriscono una destinazione anche amministrativa.
Sono stati inoltre individuati segni di attività metallurgiche condotte su piccola scala e laboratori domestici, mentre alcuni complessi risultano provvisti di stupa. Nel terzo cantiere sono compresi 6 siti monastici, distribuiti intorno ai siti della «Città bassa». Sono collocati in punti rilevati e ben visibili dai dintorni, oppure nelle zone piú basse, nella regione a nord della montagna, a una distanza di circa 300 m l’uno dall’altro, secondo una disposizione ad arco. A questo nucleo è stato associato un sito, di dimensioni inferiori, che si ipotizza possa avere avuto la funzione di ingresso al complesso religioso. Come già accennato, l’importanza delle scoperte finora compiute e la minaccia rappresentata dai piani di
sfruttamento minerario hanno dato notorietà internazionale a Mes Aynak e hanno favorito l’afflusso di risorse. Una mobilitazione che si è tradotta anche in una notevole pressione sulle autorità afgane – di cui si sono fatte interpreti anche molte comunità buddhiste di tutto il mondo con i rispettivi governi – e sulla Banca Mondiale per un riesame del progetto di estrazione del rame. Ma non solo.
DEVASTAZIONI E RAZZIE Già nel 2004, in seguito alla segnalazione di scavi clandestini, una ricognizione del National Institute of Archaeology afgano aveva dovuto constatare gravi danni e il trafugamento di sculture e manufatti. Ulteriori saccheggi sono stati scongiurati, quando, in vista del suo sfruttamento, l’area è stata recintata e messa sotto sorveglianza armata. Un intervento che ha peraltro evitato che Mes Aynak finisse sotto il controllo delle forze
Qui sotto: una delle statue in legno rinvenute tra i resti dei templi. L’eccezionale stato di conservazione della materia prima è dovuto all’assenza di umidità del clima. In basso: un momento della pulitura di una testa in argilla.
talebane, già responsabili, come si ricorderà, della distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001. Per consentire agli archeologi di scavare e alla cinese MCC di impiantare il proprio campo base, è stato inoltre avviato lo sminamento della zona. Non si deve infatti dimenticare che tutta la regione circostante, negli ultimi trent’anni, è stata «seminata» dalle diverse forze militari qui transitate (ex Unione Sovietica, Pakistan, gruppi armati dei vari «signori della guerra» locali) e che, intorno al 2000, nelle immediate vicinanze di Mes Aynak, i talebani avevano allestito un campo di addestramento. La bonifica è stata affidata alla Mine Clearance Planning Agency, agenzia nazionale che, a oggi, ha messo in sicurezza circa 2000 ettari. Malgrado questi sforzi, durante le operazioni di sterro e scavo si sono registrati vari incidenti ed è per il momento imDidascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.
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SCOPERTE • MES AYNAK
possibile stabilire quanto tempo sarà necessario per ultimare la bonifica. Nel corso degli anni lo svolgimento delle indagini ha incontrato non pochi ostacoli e il cantiere, nonostante le misure di protezione adottate, continua a essere nel mirino dei gruppi armati talebani che controllano la zona, i quali hanno minacciato non solo gli archeologi, ma anche gli scavatori che provengono dai villaggi circostanti, accusandoli di essere simpatizzanti buddhisti per il fatto di prestare la loro manodopera come salariati.
UN «AIUTO» SGRADITO Paradossalmente, pressioni internazionali a parte, la distruzione di Mes Aynak è stata per il momento procrastinata proprio «grazie» ai talebani, che, nell’agosto 2012, hanno sferrato un attacco con razzi all’insediamento di container realizzato per alloggiare il personale della MCC. A seguito dell’attacco, la compagnia ha infatti richiamato in Cina molti dei propri dipendenti e sospeso l’avvio della miniera. In sei anni di scavi, a Mes Aynak ha operato un gruppo di lavoro comprendente archeologi afgani e stranieri, studenti di archeologia
e 450 scavatori. L’importanza del sito per la storia dell’Afghanistan è capitale. Si pensi, per esempio, ai manoscritti: i piú antichi testi buddhisti di cui oggi possiamo disporre provengono dall’Afghanistan, dove si sono conservati grazie alle condizioni climatiche favorevoli. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si tratta di reperti recuperati sul mercato clandestino, e dei quali si ignorano pertanto le circostanze di scavo e, spesso, anche la provenienza. A Mes Aynak, invece, già alla fine del 2014, erano stati rinvenuti quattro manoscritti completi, in eccellente stato di conservazione, datati al V secolo d.C. E tra i reperti si annovera inoltre un gran numero di sculture di Buddha in legno, anch’esse molto ben preservate grazie al basso grado di umidità del clima. Per quanto riguarda il progetto di sfruttamento minerario della MCC, il governo afgano è stato convinto anche dalle prospettive di benefiche ricadute sull’economia locale: la compagnia cinese si è per esempio impegnata a realizzare, contestualmente alla miniera, varie infrastrutture, come una ferrovia e una cen-
IL FILM Nel 2011, alla vicenda di Mes Aynak si è interessato anche il regista statunitense Brent Huffman. Appresa la notizia dell’imminente distruzione del sito, si è appassionato alla causa e ha deciso di recarsi in Afghanistan per realizzare un documentario sul sito. La motivazione è stata duplice: in primo luogo, di fronte alla prospettiva della scomparsa, fornire una documentazione video del luogo e delle strutture presenti avrebbe potuto rappresentare un’occasione per preservarne la memoria; in secondo luogo, ha voluto in questo modo dare visibilità alla situazione, nella speranza di mobilitare l’opinione pubblica e scongiurare la distruzione. Soprattutto perché l’impressione ricavata dai primi contatti era che il sito non godesse della dovuta considerazione né da parte delle autorità
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In alto e a destra: due momenti delle riprese del documentario Saving Mes Aynak. Già vincitrice di numerosi premi internazionali, la pellicola sarà proiettata a Parigi, il prossimo 28 gennaio.
trale elettrica.Tuttavia, nulla di tutto ciò ha ancora visto la luce e molti hanno anche obiettato che il piano della MCC prevede una miniera a cielo aperto, un metodo di estrazione dai costi contenuti ma dalle ricadute ambientali estremamente dannose. Esso lascerebbe nei terreni sfruttati un’elevata tossicità, con il rischio di una contaminazione quasi irreversibile. Altri ancora hanno sollevato perplessità sull’impatto che l’importante fabbisogno idrico della miniera avrà sulle risorse della regione, paventando il rischio che i pozzi locali si inaridiscano, privando
i villaggi circostanti della loro unica base di un Paese che ha esigenze di fonte di approvvigionamento. sviluppo irrinunciabili. Nello scorso settembre il nuovo ministro per le miniere e il petrolio COME ANDRÀ A FINIRE? Analizzando l’intera vicenda, colpi- Daud Saba ha annunciato che, entro sce il clima di tensione in cui gli un anno, nella provincia di Logar archeologi sono costretti a operare, sorgerà un museo nel quale saranno fra difficoltà non soltanto tecniche, esposti i reperti di Mes Aynak. L’ie con un palpabile senso di pericolo. niziativa è un passo importante in Resta la speranza che lottare per la direzione della salvaguardia del sito, difesa del patrimonio culturale sia ma non si deve dimenticare che le una battaglia difficile, ma che può strutture di Mes Aynak sono perloessere vinta, anche di fronte a impe- piú inamovibili e pertanto non posrativi economici apparentemente siamo che sperare in un accordo o incompatibili e piú stringenti, come una revisione dei piani che permetlo sviluppo delle infrastrutture di tano di salvare il sito archeologico. Un’altra immagine delle riprese di Saving Mes Aynak: qui Brent Huffman è con alcuni abitanti dei villaggi della zona. Il documentario dà ampio spazio al vissuto della popolazione locale e alle trasformazioni in atto.
afgane, né da parte dei responsabili della compagnia cinese, e che la demolizione di qualche cumulo di pietre fosse invece un sacrificio ritenuto tollerabile di fronte ai benefici che la miniera avrebbe apportato. Realizzato tra il 2012 e il 2014, il documentario racconta i fatti seguendo gli archeologi e gli operai sullo scavo. Uno dei protagonisti è Qadir Tremori, del National Institute of Archaeology di Kabul, il quale illustra le difficoltà affrontate e le grandi soddisfazioni per le straordinarie scoperte compiute. Altri protagonisti sono gli archeologi della DAFA, Philippe Marquis e Mark Kenyoer, cosí come gli abitanti dei villaggi circostanti, al lavoro come scavatori, che nelle interviste si rivelano intrappolati nell’incertezza quotidiana, tra le minacce di morte dei talebani e gli stipendi versati con mesi di ritardo.
Attorno all’iniziativa si è sviluppata un’attiva campagna di sensibilizzazione a livello mondiale, attraverso il sito internet www.savingmesaynak.com e canali social come Facebook, Twitter e Youtube. Il film è visibile gratuitamente in streaming per chi risiede in Afghanistan e dietro versamento di una piccola donazione per chi si trova nel resto del mondo, una quota della quale viene direttamente versata agli archeologi al lavoro sul sito. Dopo essere stato presentato in numerosi festival internazionali e altre sedi di prestigio, come l’Università di Yale, Saving Mes Aynak è stato premiato come miglior mediometraggio internazionale al Festival Cinemambiente di Torino ed è atteso in proiezione a Parigi, al Museo del Louvre, il prossimo 28 gennaio, nell’ambito delle Journées Internationales du Film Sur l’Art.
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SCOPERTE • MES AYNAK
L’INCANTO DELLA DEVOZIONE Nel segno del buddhismo sono fiorite espressioni artistiche sublimi, molte delle quali si concentrano nella regione del Gandhara di Massimo Vidale
L
e costruzioni devozionali e monastiche buddhiste dell’antico Gandhara (la distesa di valli che si intrecciano ai piedi dell’Hindukush e del Pamir, tra il Baluchistan settentrionale, il deserto del Dasht-i Margo e le pianure centro-asiatiche interne) costituiscono un patrimonio ancora poco noto, stratificatosi dai tempi delle satrapie orientali dell’impero persiano – Bactria (Balkh), Aria (Herat), Aracosia (Kandahar), e Drangiana (Sistan) – alle colonie di Alessandro Magno, all’impero seleucide e ai successivi regni greco-battriani. Inaspettatamente, un ramo dinastico di origine unna, noto alle fonti cinesi come Yue-chi e stanziatosi nelle piane della Battriana tra il II e il I secolo a.C., diede vita a un linguagIn alto, sulle due pagine: una fortezza nella provincia di Kandahar, territorio corrispondente all’antica Aracosia. Nella pagina accanto: cartina dell’area del Gandhara, con i principali luoghi di culto buddhista. A destra: valle di Najigram (Swat, Pakistan). L’area sacra buddhista di Abba Saheb China. I-III sec. d.C. 36 a r c h e o
gio artistico rivoluzionario, pervasivo e «strabordante»: quello della dinastia kushana (I-III secolo d.C.). I suoi sovrani patrocinarono culti iranici e centro-asiatici, fecero proprie divinità e immagini poi confluite nella tradizione induista e promossero la penetrazione capillare dei complessi monastici buddhisti. Le esplorazioni delle Missioni archeologiche Italiane in Afghanistan e nella vicina valle dello Swat (oggi
in Pakistan) hanno rivelato paesaggi stupefacenti, nei quali le cupole dorate degli stupa (monumenti devozionali buddhisti di ispirazione funeraria), coronate dai dischi sovrapposti degli ombrelli (chattrya), sbucavano tra la boscaglia, a pochi chilometri di distanza gli uni dagli altri. Nei monasteri si assisteva a riti complicati, accompagnati da musiche, danze, lunghi formulari, segno di un sapere esoterico e riservato a pochi.
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La vita stessa dei monasteri, fatta di cicli di eventi cerimoniali, di una continua manutenzione delle architetture in legno e pietra, delle decorazioni policrome e dei raffinati impianti idraulici, coinvolgeva le popolazioni indigene in un sistema di relazioni economiche e di penetrazione ideologica che giustificava e favoriva le gerarchie statali. Interminabili narrazioni mitologiche e religiose sulle vite del Buddha e dei suoi predecessori, tradotte in pietra e vivacissimi colori da scalpellini abilissimi, si svolgevano alla base degli stupa, ad altezza d’uomo, fondendosi in intricate scenografie. Foreste prima inaccessibili e inospitali
si trovavano cosí a brulicare di forme e vicende umanissime, quelle delle sofferenze, dei miracoli e della trascendenza finale del Buddha. La storia di questi complessi monumentali si trascinò in un lento degrado e un’agonia dorata, fino alle soglie del IX secolo d.C.
UNA CURA CERTOSINA In un recente studio, Bruno Mazzone, architetto dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, ha affiancato la ricostruzione del relitto di un aviogetto coinvolto in un incidente aereo a quella di uno stupa distrutto da scavi clandestini e ricomposto in un mu-
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seo. Il confronto dimostra come non vi fosse nulla di tanto curato, complesso e minuziosamente ordinato quanto un monumento del genere, né di tanto caotico e devastato come lo stesso stupa dopo la sua demolizione e il suo saccheggio. Nel 1979, una stima ufficiale governativa elencava 1279 siti archeologici in territorio afgano, ma se moltiplicassimo per 10 tale valore saremmo, con ogni probabilità, ancora lontani dal vero. Dai tempi dell’occupazione britannica, ma con intensità crescente in seguito all’invasione russa del 1979 e agli incerti scenari dei seguenti conflitti, il patrimonio scultoreo dei coma r c h e o 37
SCOPERTE • MES AYNAK
plessi gandharici è stato investito da onde di saccheggiatori. L’arte buddhista di età kushana, a torto travisata da antiquari e storici dell’arte europei come chiara dimostrazione della superiorità estetica dell’Ovest rispetto all’«irrazionalità figurativa» della cultura indiana, continua ad alimentare ancora oggi un mercato fiorente, ma anche un’ottima tradizione artigiana di falsari. Dopo tre generazioni di pratica continua, i falsari dell’arte del Gandhara hanno raggiunto livelli di vera eccellenza, ed è quasi certo che anche nelle collezioni dei maggiori musei, ormai, si celino dottissime ricreazioni moderne, quasi impossibili da smascherare anche per i conoscitori piú esperti.
UN MERCATO FIORENTE Tornando alle opere originali, bassorilievi e statue in scisto, vendute all’estremità opposta delle catene distributive a centinaia di migliaia di dollari, si muovono in autocarri dalla frontiera orientale afgana alle maggiori città del Pakistan. Da qui, mediante aviolinee commerciali e attraverso scali marittimi, le opere d’arte giungono agli scali arabi del Golfo Persico, e da questi, con vari espedienti, raggiungono «rispettabili» uffici di vendita in Svizzera, Francia, Inghilterra e Germania, nonché negli Stati Uniti. Proprio questi ultimi e l’Inghilterra sembrano esserne il maggior mercato (migliaia, ogni anno, sono i reperti afgani confiscati all’aereoporto londinese di Heathrow e restituiti al Museo Nazionale di Kabul). A questo incontrollabile stillicidio di furti generalizzati – accompagnati dalla distruzione spesso totale dei complessi monumentali usati come cava – si sono aggiunte le distruzioni «ideologiche» di antiche immagini sacre, promosse a scopo pubblicitario da combattenti fondamentalisti islamici. L’episodio piú tristemente famoso è stato la di38 a r c h e o
struzione irrimediabile dei colossali Buddha scolpiti nel conglomerato di Bamiyan, seguita subito dopo dai vandalismi delle sculture gandhariche del Museo di Kabul, capitanata, martello alla mano, dal «ministro della cultura» dell’allora governo talebano. Può consolare il fatto che, anche grazie agli sforzi dei restauratori italiani dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, circa il 70% di queste sculture è stato in seguito accuratamente ricomposto. Si stima che nel periodo tra 1979 e 1986, circa il 70-80% dei reperti appartenenti alle raccolte dello stesso Museo sia stato distrutto o rubato nel corso di scontri e razzie. Non facciamoci ingannare dalla propaganda di facciata: non abbiamo a che fare con dettami religiosi
estremizzati, ma, dalla Siria all’Afghanistan, con una sistematica guerra al turismo occidentale. Quest’ultimo, infatti, viene visto, a torto o a ragione, come un’impresa economica di massa capace di sostenere il progresso materiale delle classi medie delle nazioni del Medio Oriente, un processo inconciliabile con il tipo di comunità etnica e nazionale chiusa a cui si ispirano le destre radicali islamiste.
NON TUTTO È PERDUTO Ma non tutto è perduto per sempre. Grandi raccolte di arte e archeologia afgana si stanno formando grazie agli sforzi di intellettuali e nazionalisti afgani, in Paesi esteri, in attesa di possibili restituzioni a una patria futura, pacificata e stabile. Per ora, si tratta di prospettive visiona-
Sulle due pagine: l’interno della Chilzina o Grotta dei 40 gradini, un luogo di culto nei pressi di Kandahar pesantemente danneggiato negli anni Novanta, all’epoca delle lotte intestine scoppiate in Afghanistan dopo il ritiro dell’Armata Rossa. Nella pagina accanto: un tratto del fiume Swat nel distretto del Bahrain.
rie; ma certo, in un futuro indefinibile, l’ipotesi della ricostruzione del patrimonio museale afgano dipenderà in larga misura dalla generosità dei collezionisti privati. Nel frattempo, gli scavi scientifici e i restauri non si sono fermati. Il territorio afgano continua a far riemergere tesori inestimabili, come gli straordinari capolavori del monastero di Mes Aynak, di cui avete letto nella prima parte di questo servizio. a r c h e o 39
SCOPERTE • MES AYNAK
IL BUDDHA DI JAHANABAD Si deve a una missione italiana un avveniristico intervento sulla splendida scultura dello Swat di Giuseppe Salemi
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ahanabad, valle dello Swat (Pakistan), settembre 2015. Operatori locali, archeologi del progetto ACT e studiosi dell’Università di Padova si arrampicano su una gabbia di fusti di bambú per registrare con le piú avanzate tecniche di rilievo una monumentale scultura rupestre raffigurante un Buddha, «ferito» al volto da impatti esplosivi. L’area in cui si conserva la scultura è di particolare interesse storicoarcheologico, perché, come riportano le fonti, fu una tappa non secondaria della spedizione del 327 a.C. di Alessandro Magno in India. Nel 1955, l’orientalista, filosofo, storico delle religioni ed esploratore Giuseppe Tucci (1894-1984) fonda la Missione Archeologica Italiana (MAI). Da quell’anno e per i successivi sessanta, l’area è stata in-
Kabul
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dagata da équipe italiane in campo archeologico e antropologico, con pubblicazioni, studi e rapporti che coprono un orizzonte compreso tra il Neolitico e il Medioevo. Nel 2011 ha avuto avvio il programma PIDSA per la conversione del debito Italia-Pakistan con il progetto italo-pakistano ACT (Archaeology, Community, Tourism) diretto da Luca M. Olivieri dell’Università di Bologna, uno dei cui obiettivi è stato quello di sensibilizzare le comunità locali per la salvaguardia delle aree archeologiche. Nel 2007, il sito di Jahanabad fu oggetto di due differenti attacchi,
In alto: il Buddha di Jahanabad. In basso: una delle immagini della statua ricavate nell’ambito del progetto ACT.
che causarono il distacco di quasi la totalità del volto del Buddha, una scultura rupestre di circa 6 x 5 m, scolpita su una parete verticale di gneiss granitico a circa 5 m dal piano campagna (vedi «Archeo» n. 340, giugno 2013). Questo Buddha su un trono ad alto podio, fu scoperto dall’esploratore anglo-ungherese Aurel Stein (1862-1943) nel 1926 e studiato estensivamente da Anna Filigenzi nel 2014.
«CONGELARE» LO STATUS QUO La spedizione congiunta ACT-Università di Padova si è dunque recata sul posto per intraprendere un’iniziativa volta a «congelare» lo stato di fatto, dopo gli interventi conservativi precedenti. La classica documentazione fotografica acquisita dal basso non poteva essere sufficiente per restituire tutte le informazioni morfologiche e metriche. Si pensi,
per esempio, che la testa rappresenta circa 1/3 dell’intero monumento: una sproporzione voluta, che consente di compensare otticamente la percezione della figura dal basso. Inoltre, si rendeva necessario documentare metricamente quello che Luca M. Olivieri definisce «lavoro di medicazione della ferita»; ovvero, non la semplice ricostruzione della volumetria con i dettagli anatomici del volto, un’operazione che la comunità locale avrebbe potuto percepire come offensiva. L’intervento conservativo, attuato da Fabio Colombo, ha pertanto individuato le ampie aree di distacco traumatico, le perforazioni per l’esplosivo, le microfratture presenti su tutta l’area, le zone di percolazione di acqua piovana, i fenomeni esfoliativi. Dopo varie operazioni preliminari, è stato quindi possibile procedere alle infiltrazioni di resina in tutte le fratture, al consolidamento generale, al riempimento a infiltrazione delle Jahanabad. La struttura in canne di bambú realizzata per permettere la documentazione del Buddha.
cavità traumatiche maggiori, al riempimento dei grandi vuoti con malta formata da aggregati locali (sabbia, argilla filtrata, polvere di mattone). L’intervento è stato documentato non solo dal punto di vista cromatico, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista metrico e morfologico. Ciò può risultare utile nel caso malaugurato di altri attacchi, per ripristinare morfologicamente la struttura o per valutare metricamente la reazione tra l’intervento e la struttura stessa.
DETTAGLIO MILLIMETRICO Per farlo, è stata impiegata una metodologia non invasiva e non a contatto, conosciuta come «scansione laser». Per coprire l’intera area sono state eseguite oltre 200 scansioni e circa 600 riprese fotografiche, realizzate da chi scrive, da Fabio Colombo e da Danilo Rosati. Il risultato finale sarà un modello tridimensionale fotorealistico, metricamente ad altissima risoluzione e morfologicamente corretto. Le operazioni di mosaicatura, sia delle scansioni laser che della map-
patura fotografica, sono in corso di esecuzione presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Padova, nell’ambito della collaborazione scientifica ACT-Università di Padova con un progetto di applicazione di metodologie geomatiche per i beni culturali curato dallo scrivente, docente della disciplina, ed Emanuela Faresin. Questo progetto consentirà, inoltre, di poter prototipare alla scala piú idonea per le applicazioni museali l’intera struttura nel suo stato attuale di conservazione e/o nelle sue ipotesi ricostruttive, nonché di realizzare in resina «piccole» ricostruzioni dell’intera area (il contesto roccioso che ospita il bassorilievo) per consentire anche al pubblico dei non vedenti di «toccare con mano» un sito archeologico di indubbio fascino. La tecnologia della stampa 3D diventa cosí portavoce di un diverso sentire il bene culturale, consentendo di enfatizzare alcuni particolari o specifiche aree e costruendo modelli solidi, sui quali sperimentare anche nuovi interventi di recupero e di valorizzazione.
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SCOPERTE • MALTA
IL MISTERO DEI «BINARI» DI MALTA
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SPARSE SU TUTTO IL TERRITORIO, IN MANIERA APPARENTEMENTE CASUALE, LE STRANE «CARREGGIATE» SONO PARTE INTEGRANTE DEL PAESAGGIO CULTURALE DELL’ARCIPELAGO MALTESE. ALLA LORO ESPLORAZIONE SI È DEDICATO, DA MOLTI DECENNI, L’ARCHEOLOGO BRITANNICO DAVID TRUMP, APPENA INSIGNITO DELLA LAUREA HONORIS CAUSA ALL’UNIVERSITÀ DI MALTA… di David H. Trump, fotografie di Daniel Cilia
I
«binari» non facevano parte del mio programma, la prima volta che mi recai a Malta nel 1954, in occasione della campagna di scavo a Ggantija con John Evans. Ma devo essermici imbattuto non molto tempo dopo, quando ottenni l’incarico di curatore per l’Archeologia al Museo Nazionale di Valletta, nel 1958. Da allora, i «binari» non hanno mai smesso di affascinarmi e di sorprendermi (come, del resto, hanno affascinato anche tanti altri ricercatori, e per quasi 400 anni!). Nel ripensarci, quel che piú mi colpisce ancora oggi è che, in questo lasso di tempo, sono state piú le domande che non le risposte, a cui hanno dato adito… Gli straordinari templi neolitici di Malta sono famosi in tutto il mondo. Altrettanto straordinari – seppure molto meno conosciuti e apprezzati perfino dai Maltesi – sono, invece, i binari. Un fenomeno non certo sconosciuto a livello mondiale, dove, però, si presenta sotto forma di solchi incisi nel terreno, perlopiú in banchi di roccia tenera, destinati a essere dilavati dalle piogge o obliterati dal passaggio del carro successivo, lungo un percorso vicino, ma non identico. I casi di binari intenzionalmente scolpiti nella roccia, invece, – e dove il passaggio dei carri corrisponde sempre a un percorso obbligato – sono piuttosto rari. Si presentano perlopiú all’ingresso (o, meglio, all’uscita) di una cava, laddove i car-
ri sono carichi e, dunque, piú pesanti. Rari sono i casi in cui i solchi sono incisi nei pavimenti lastricati delle città, come, per esempio, a Pompei e a Siracusa. Ancora piú di rado accade che il percorso obbligato sia determinato dalla topografia, come nel caso della strada romana a Donnaz in Val d’Aosta, il cui tragitto si incunea tra uno sperone che s’innalza verticalmente da una parte e precipita bruscamente dall’altra.
SUL BORDO DELLA FALESIA Nell’isola di Malta si conoscono esempi di tutte e tre le categorie citate. Per quanto riguarda la prima categoria – quella che segnala la presenza di attività estrattive – ne conosco solo due (tralasciando i solchi prodotti da attività di estra-
zione in epoche piú tarde): un esempio si trova poco a est del famoso gruppo di Misrah ta’ Ghar il-Kbir, piú comunemente noto come Clapham Junction (in riferimento alla complessa rete di binari ferroviari della celebre stazione londinese, n.d.r.), mentre l’altro si trova 1 km a ovest del villaggio di Bahrija. Un interessante esempio di solco su lastricato cittadino si trova, invece, nelle fondamenta della domus romana di Rabat. Infine, un esempio – in verità poco significativo – della terza categoria lo possiamo incontrare lungo il bordo di una falesia, caratterizzata da un ripido pendio, 1 km a sud-est della chiesa di Imtahleb, in direzione della località di Ghar Zerrieq (nella parte centro-occidentale dell’isola di Malta, n.d.r.). Ora, i quattro casi di Nella pagina accanto: uno scorcio dei «binari» in località San Guzepp tat-Targa, presso la città di Mosta (Malta settentrionale). Qui accanto: ipotesi ricostruttiva del trasporto mediante carro «a slitta» trainato da un bue, lungo uno dei binari maltesi. a r c h e o 43
SCOPERTE • MALTA
solchi intenzionalmente scavati che abbiamo riportato rappresentano appena il 2% di tutti gli antichi binari di Malta e, al contempo, ben il 90% o piú di quelli scavati nel resto del mondo. Non c’è dubbio, dunque, che quello dei binari di Malta si presenta come un fenomeno piuttosto particolare.
UNA VITA PER L’ARCHEOLOGIA DI MALTA David H. Trump arriva a Malta per la prima volta nel 1954, come assistente di John Evans negli scavi del tempio megalitico di Ggantija, sull’isola di Gozo. Nel 1955 si laurea all’Università di Cambridge e nel 1958 diventa curatore per l’archeologia al Museo Nazionale di Valletta. Fino al 1963 conduce scavi nei siti preistorici dell’arcipelago, in particolare a Skorba. Torna poi a Cambridge, dove rimarrà per i trent’anni successivi. In questo periodo effettua indagini in Sardegna e, ancora, a Malta. Dal 1986 al 1994 partecipa agli scavi del Circolo di Xaghra (Gozo), diretti da Simon Stoddart e Caroline Malone. Per l’impegno nel campo dell’archeologia maltese, nel 2004 viene insignito del piú importante ordine al merito di Malta e, nel 2015, l’Università di Malta gli conferisce la laurea honoris causa. Trump è autore di numerose opere sull’archeologia mediterranea e, in particolare, maltese, tra cui The Prehistory of the Mediterranean, Malta: an Archaeological Guide, Malta, Prehistory and Temples, Cart-Ruts and their Impact on the Maltese Landscape.
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IL PROBLEMA DELLA DATAZIONE L’interesse per i «curt ruts» (i «binari», «solchi», «carreggiate» o anche «rotaie», nella traduzione italiana) era diffuso sin dai tempi di Gian Francesco Abela (1582-1655) – lo studioso considerato il «padre» della storiografia maltese –, che li descrisse nel lontano 1647. Nascevano allora la curiosità e anche i dibattiti intorno a essi che, nel tempo, arrivarono a concordare soltanto su un punto: quello della loro indiscutibile antichità. Un giudizio suggerito dal fatto che la topografia culturale attuale, a differenza di quella naturale, ignora totalmente i binari. Ma a quale epoca dobbiamo far risalire la conformazione del paesaggio culturale come lo possiamo riconoscere ancora oggi, e a quale età precedente dobbiamo ascrivere i nostri binari? Se l’origine del primo risale verosimilmente al Medioevo o poco prima, per la seconda disponiamo di molteplici ipotesi che partono, addi-
rittura, dal Neolitico (per arrivare allo stesso Medioevo). Molto suggestiva è l’idea che i binari risultassero dal trasporto degli enormi massi impiegati nella costruzione dei celebri templi megalitici maltesi (vedi «Archeo» n. 353, luglio 2014). Poiché, però, non sono noti binari che giungano fino ai templi e poiché, inoltre, appare altamente improbabile che già allora (il «periodo dei grandi templi» si data dal IV millennio alla metà del III millennio a.C., n.d.r.) si disponesse di strumenti da trasporto in grado di sostenere pesi cosí ingenti, l’ipotesi dev’essere, purtroppo, accantonata. Un discorso simile può essere fatto per il periodo medievale: non vi è alcun collegamento tra i siti dell’età di Mezzo e il tracciato dei solchi. Non rimane altro che collocare cronologicamente i binari in un periodo compreso tra l’età del Bronzo e la tarda età romana. Il vero problema è che non disponiamo di un metodo di datazione assoluta dei binari, né i solchi sono associati a reperti organici, che permetterebbero il ricorso al carbonio 14. Esiste, in verità, una tecnica che individua l’ultima esposizione di una roccia o di un terreno alla luce del sole, ma non può essere utilizzata nel nostro caso: la maggior parte dei binari, infatti, è ancora esposta al sole e, comunque, anche
se gli scavi ne portassero alla luce uno nuovo, potremmo ricavare informazioni sul suo ultimo utilizzo e non sul primo, che è invece quello che ci interessa. Il solo metodo di datazione utiliz-
In alto: cartina dell’arcipelago maltese con la distribuzione dei principali siti con tracce di «binari». Nella pagina accanto, in alto: David H. Trump esamina un binario presso la località di Nadur (Rabat, Malta).
Sulle due pagine: panoramica delle carreggiate in località Misrah ta’ Ghar il-Kbir (Buskett), nota come come «Clapham Junction», in riferimento alla celebre stazione ferroviaria londinese.
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SCOPERTE • MALTA
zabile, dunque, è quello di associare la presenza dei binari a un qualche elemento culturale di cui conosciamo la cronologia. A questo proposito, disponiamo di due casi particolari: il primo è quello dei solchi che arrivano dritti dritti alle porte dei villaggi del Bronzo, come a Qala Hill e Ras il-Gebel sulla falesia di Bajda, presso Fort Mosta e, naturalmente, nel celebre sito di Borg inNadur. In prossimità di quest’ultimo è stata individuata una carreggiata che s’interrompe proprio in corrispondenza di un gruppo di pozzi-silos scavati lungo la costa rocciosa. Poi vi sono i binari rinvenuti alle spalle della domus di Rabat (al centro dell’isola, n.d.r.), databili all’epoca romana, o anche quelli che partono dalla cava romana presso la località di Misrah ta’ Ghar il-Kbir, già menzionati sopra.
TOMBE PUNICHE Inoltre, vi sono casi in cui un binario può essere datato solo a un periodo successivo o a uno precedente rispetto a una precisa emergenza archeologica. I binari di Misrah ta’ Ghar il-Kbir, nelle località di Mtarfa e Bengemma, per esempio, sono «tagliati» da tombe di età punica e, pertanto, sono antecedenti a esse, anche se non conosciamo la datazione precisa di queste ultime. Ora, però, si è sostenuto che i binari non potessero essere di epoca pre-fenicia, poiché la loro pianificazione generale richiedeva l’esistenza di una sorta di autorità centrale. Secondo il mio parere, invece, non c’è alcuna prova del fatto che i binari seguano una qualche pianificazione e, pertanto, anche questa tesi può essere scartata. L’argomento è stato discusso a lungo e vivacemente, con studiosi che hanno attribuito i binari all’età del Bronzo, a quella fenicia o a quella romana, insistendo ogni volta su un unico periodo. A mio avviso si tratta di una controversia inutile: la profondità di alcuni dei binari, non46 a r c h e o
A sinistra: «Clapham Junction» (giardini di Buskett, Rabat). Veduta aerea dei binari, interrotti da tombe fenicie (vedi il particolare qui sopra).
ché il loro numero, suggeriscono a mio avviso un loro utilizzo esteso su un periodo assai lungo, che può facilmente estendersi dall’età del Bronzo fino a quella romana.
VEICOLI A RUOTE? Un secondo aspetto, su cui le opinioni sono quasi universalmente concordi, riguarda l’origine delle carreggiate: esse sarebbero il prodotto del traffico di veicoli. L’ipotesi che si tratti di canalizzazioni per l’acqua o di un sistema per delimitare appezzamenti di terreno coltivabile va esclusa, perché nell’isola i binari si presentano ovunque a coppie rigorosamente parallele, e su distanze considerevoli. E anche se il ristagno dell’acqua piovana può dar luogo a erosioni di qualche millimetro, per raggiungere le profondità delle carreggiate maltesi occorrerebbe uno scorrimento d’acqua di milioni di anni. Resta allora da chiedersi di quali veicoli si trattasse. Anche su questo argomento, però, si è scatenata una certa controversia.
Nel 1954, il capitano H.S. Gracie dimostrò che lo scartamento tra i binari, ovvero la distanza che separava i due solchi di una coppia, differiva leggermente da un gruppo di binari all’altro, e che i solchi stessi potevano misteriosamente variare tra di loro, per larghezza e profondità. Com’era compatibile tutto ciò con l’ipotesi di un veicolo dotato di ruote? E in effetti, nel 1955, l’archeologo John Evans condusse un esperimento che ne dimostrava l’impossibilità. Cosí, entrambi gli studiosi giunsero alla conclusione che i veicoli in questione dovevano muoversi su slitte, anziché su ruote. Contro questa ipotesi ci fu chi sosteneva che le slitte, essendo di legno, a contatto con la roccia viva avrebbero subito un logorio eccessivo, al punto che fu avanzata l’idea che le estremità delle slitte potessero essere «calzate» da protuberanze di pietra (vedi il disegno ricostruttivo a p. 43), un’idea che appariva subito poco praticabile. Ma la confezione di tali calzature sembrava assai poco pratica: una tale pietra avrebbe scavato il terreno a mo’ di un aratro o, piú semplicemente, avrebbe sortito un effetto frenante. Nel 2008, Derek Mottershead dell’Università di Portsmouth propugnò nuovamente l’idea di veicoli su ruote: dopo aver meticolosamente studiato la resistenza della roccia calcarea maltese (composta principalmente da globigerina e corallina), egli poté dimostrare che essa era molto inferiore di quanto non si fosse sempre pensato, in particolare se bagnata. Per Mottershead il logorio evidenziato dai binari sarebbe il risultato di pressione e non di abrasione, un effetto dovuto al passaggio di carri su ruote… Un altro interrogativo riguarda lo strumento di traino. Chi muoveva i carri (siano essi stati muniti di ruote o meno?). Se mettiamo da parte l’intervento di astronavi extraterrestri (e non mi sorprenderei se qualcuno lo ipotizzasse) o dell’uomo a r c h e o 47
SCOPERTE • MALTA
stesso (anche se basta provarci personalmente per scoprire che camminare dentro quei solchi è impossibile) non rimane che il bestiame: buoi o, forse, cavalli. Per quanto riguarda questi ultimi, però, è altamente improbabile che siano stati introdotti a Malta prima dell’avvento dei Fenici. In ogni caso, e fino all’età moderna, furono riservati a funzioni di «prestigio», anche se, in combinazione con i binari di età piú recente, abbiamo tracce del logorio causato da zoccoli di cavallo, assenti, però, tra i binari piú antichi.
A destra: i binari prospicienti la falesia in località Ta’ San Gabku (presso il Wied ir-Rum, la «Valle dei Cristiani»), Malta occidentale. In basso: un tratto dei solchi (nella zona indicata dal riquadro).
UN ENIGMA NELL’ENIGMA Ma veniamo alla questione forse piú interessante: cosa trasportavano i carri veicolati lungo le innumerevoli carreggiate di Malta? Per quanto suggestiva, l’ipotesi che i binari fossero usati per trasportare i grandi e pesantissimi blocchi impiegati nella costruzione dei celebri santuari megalitici è stata – come abbiamo ricordato all’inizio – accantonata da
alte dell’isola. I binari, infatti, spesso si inerpicano su per i crinali, per poi attraversarli, però, e ridiscendere dall’altro versante. Negli anni Ottanta del secolo scorso, anche Rowland Parker e Michael Rubinstein sostennero l’ipotesi del trasporto di terra per la costruzione di terrazzamenti lungo i pendii, con uno sforzo enorme dal punto di vista costruttivo e della manutenzione. Forse, invece, i binari servivano al trasporto dell’acqua, per l’irrigazione delle coltivazioni? Ma come si spiega, allora, la mancanza di associazione tra carreggiate e fonti idriche? E poi, in quali contenitori sarebbe stata trasportata l’acqua? Serbatoi di metallo o botti di legno non erano, all’epoca (quale
tempo. Abbastanza ragionevole, invece, appare l’idea di Sir Themistocles Zammit (1864-1935, archeologo e storico maltese, primo direttore del Museo archeologico di Malta, n.d.r.), secondo il quale sarebbero serviti a trasportare la terra dai depositi piú a valle, per poi spargerla sulla nuda roccia situata nelle parti
essa fosse!), disponibili e, semmai, per il trasporto dell’acqua, si utilizzavano otri in cuoio, da caricare sugli animali da soma, piuttosto che su appositi carri. Ma torniamo alla questione della meta dei binari. Abbiamo menzionato le cave, anche se solo due casi sono stati confermati. Come spiega-
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SCOPERTE • MALTA Clapham Junction
Baia di San Giorgio (Birzebbuga)
re, però, i binari che corrono fino al bordo del mare? Erano destinati a veicolare carichi di pesci, sale, o zostera (una pianta acquatica marina, n.d.r.) usata come fertilizzante, e forse importata? Un caso particolare è quello dei binari della baia di San Giorgio: questi si interrompono davanti ai pozzi-silos, suggerendo cosí il trasporto di granaglie, importate o esportate che fossero. Piú espliciti, ai miei occhi, risultano i binari che arrivano alle porte dei villaggi: possiamo immaginare il trasporto di utensili e braccianti verso i campi, o anche carri che tornano carichi di prodotti agricoli, materiale da costruzione, argilla per le ceramiche e simili. Cosa pensare, però, della grande maggioranza di binari che non sembrano avere alcuna destinazione?
RUOTE ENORMI E PESANTI Accennerò brevemente a un’altra serie di aspetti su cui si è soffermata la ricerca alla soluzione dei problemi appena elencati. Il primo riguarda la profondità dei solchi, che raggiunge i 60 cm, e, nel caso del gruppo denominato Mgarr (dall’omonima cittadina nel nord-est dell’isola di Malta), tocca i 71 cm. Se consi50 a r c h e o
San Pawl tat-Targa
deriamo il presumibile arco temporale in cui furono in uso, questa profondità non ci deve meravigliare. Ma se ammettiamo che i binari erano percorsi da carri muniti di ruote (secondo l’ipotesi da noi preferita), queste dovevano avere dimensioni impressionanti: considerando lo spessore dell’asse, esse dovevano avere almeno 1,50 m di diametro, ed essere dunque estremamente pesanti e difficili da costruire! Inoltre, il banco di roccia che si trova tra i due binari avrebbe obbligato ad attaccare il carico molto in alto, il che ne avrebbe drasticamente ridotto il volume. C’è poi il problema dei dislivelli. In
piú di un caso, una coppia di binari risale improvvisamente e notevolmente lungo un tratto piuttosto breve, prima di tornare in piano. Il dislivello piú ripido da me riscontrato si trova, ancora una volta, nel gruppo di Mgarr e presenta una pendenza di poco superiore ai 45 gradi. Pensate al povero bue a cui toccava trascinare un carro su per quell’erta... Possibile, allora, che il binario fosse utilizzato solo per il trasporto in discesa dei carichi? Ancora piú difficile da spiegare è, infine, il fenomeno della duplicazione, ovvero quando due paia di binari, rigorosamente paralleli, confluiscono l’uno nell’altro, o quando
un paio di solchi si biforca in due binari separati. Da tempo si è giunti alla conclusione che non poteva trattarsi di veri «snodi», poiché la base di ciascun binario era posta a un livello diverso, a dimostrazione che i due risalivano a età diverse, con il solco piú profondo che era anche il piú antico. Se è vero, dunque, che siamo riusciti a spiegare alcuni aspetti del funzionamento dei binari di Malta in modo piú o meno convincente, riSan Gwann
Bingemma
Sulle due pagine: alcuni dei numerosi siti con tracce degli antichi «binari» sparsi, in maniera apparentemente casuale, su tutto il territorio dell’arcipelago maltese.
Ta’ Tingi (Xewkija)
mane il fatto che la gran parte di essi – sparsi per giunta in modo pressoché casuale in gran parte della campagna maltese – non rientra in nessuna delle spiegazioni che abbiamo proposto. E, sebbene una spiegazione debba pur esserci, lo scenario fantastico offerto dal già citato sito di Misrah ta’ Ghar il-Kbir («la grande grotta», n.d.r.) sta lí a mettere a dura prova ogni senso logico ancora rimasto a nostra disposizione. Si dice che sia stato io a darle il nome popolare di «Clapham Junction». In verità non è cosí, anche se non posso escludere di averlo usato per primo in qualche pubblicazione. Il sito è oggi comunemente noto con questo nome, anche se il paragone con la stazione ferroviaria londinese non rende giustizia ai nostri binari: basta andare su Google Earth e confrontare i due siti per rendersi conto che la stazione di Londra è lontanissima dalla complessità che possiamo scorgere su quel pendio alle spalle dei giardini di Buskett. L’enigma dei binari di Malta, insomma, è ancora ben lontano dall’essere risolto. Spesso penso che, in qualche modo, sarebbe un peccato se un giorno trovassimo la risposta definitiva a tutti gli interrogativi che i binari pongono, perché a quel punto diventerebbero poco interessanti, addirittura noiosi. Ma non me ne preoccupo piú di tanto. Perché so che, quando verrà quel momento, io non ci sarò. a r c h e o 51
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FORZA E FASCINO DELLE ROVINE A DISPETTO DEL TITOLO, QUELLA IN CORSO IN PALAZZO ALTEMPS, A ROMA, È UNA MOSTRA STRAORDINARIAMENTE VITALE. SPAZIANDO DALLA SCULTURA AL CINEMA, DALLA LETTERATURA ALLA FOTOGRAFIA, LA VISIONE DELL’ANTICO È INFATTI LO SPUNTO PER UNA RIFLESSIONE DI GRANDE ATTUALITÀ E CHE PROVA LA DIMENSIONE «CONTEMPORANEA» DELL’ARCHEOLOGIA di Stefano Mammini
E
vocando le rovine, da sempre viste come simbolo (quando non addirittura come sinonimo) dell’archeologia, le sale di Palazzo Altemps – la magnifica sede del Museo Nazionale Romano nei pressi di piazza Navona – ospitano, fino al prossimo 31 gennaio, una mostra che ruota soprattutto intorno alla percezione dell’antico, ma che, in realtà, offre l’opportunità – rara – di
Sulle due pagine: un fotogramma di Roma, film del 1972 di Federico Fellini, nel quale si immagina la scoperta di una domus riccamente affrescata nel corso dei lavori per la metropolitana. a r c h e o 53
MOSTRE • ROMA
ragionare sul concetto che l’ha ispirata senza escluderne le sue pressoché infinite declinazioni. La forza delle rovine, questo è il titolo scelto per l’esposizione, è infatti un viaggio tra le grandi realizzazioni dell’arte classica che non si limita a sottolineare i valori estetici delle opere riunite per l’occasione – in piú d’un caso elevatissimi, facendo parte della selezione numerosi capolavori –, ma trasforma quel patrimonio nel filo conduttore di una riflessione ben piú ampia e sfaccettata, sviluppata anche grazie al concorso di tutte le espressioni dell’ingegno e della creatività: dalla letteratura alla musica, dalla fotografia al cinema.
NOMI CHE NON TI ASPETTI Tale scelta fa della mostra un’esperienza capace di dimostrare quanto l’archeologia possa felicemente prestarsi a letture accattivanti e attuali, e perciò ben lontane dallo stereotipo che vorrebbe lo studio del passato come una disciplina superata e in fondo noiosa. E, quasi a fugare possibili dubbi in proposito, sono significativi i «titoli di coda» pubblicati nella quarta di copertina del catalogo: una lista di nomi in cui, accanto a presenze che è logico immaginare in un simile contesto – Giovanni Battista Piranesi, Angelica Kauffmann, Luigi Valadier, solo per citare alcuni dei piú noti –, compaiono registi come Federico Fellini e Billy Wilder o fotografi come Gabriele Basilico e Robert Mapplethorpe. Altrettanto importante è lo stretto rapporto stabilito tra l’allestimento e il suo contenitore: come ha spiegato Marcello Barbanera (curatore del progetto insieme ad Alessandra Capodiferro), La forza delle rovine non è stata pensata come un corpo estraneo a Palazzo Altemps, ma è stata concepita in funzione degli 54 a r c h e o
Rappresentazione mirabile, il Torso del Belvedere gode da secoli di una fortuna indiscussa
Pollock’d Belvedere Torso
Rodin sul tetto
Torso di Polifemo
Sulle due pagine, da sinistra, in senso orario: il Torso del Belvedere. Prima metà del II sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani. Pollock’d Belvedere Torso, acrilico su compensato di Logan De La Cruz. 2015. Collezione privata. Torso di Polifemo, I-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps Rodin sul tetto, fotografia di Alessandro Celani. 2015.
spazi e delle collezioni del museo, che ne è divenuto parte integrante e qualificante.
LA CADUTA DELL’URSS Emblematica, in questo senso, è la sezione in cui il tema della mostra viene raccontato da scene tratte da una dozzina di film: l’idea, infatti, è stata suggerita dal fatto che l’edificio comprende un teatrino ed è sembrato dunque naturale farne rivivere la funzione originaria. Gli schermi rimandano immagini eterogenee, in cui le rovine appartengono a epoche a noi piú vicine e trasmettono spesso quell’ironia che pervade a piú riprese l’esposizione, come nel caso delle sequenze iniziali di Goldeneye, diciassettesimo capitolo della saga di 007, nelle quali, alludendo alla fine dell’URSS, si vedono crollare falci e martelli. Le citazioni attinte al repertorio della settima arte sono inserite nel primo capitolo della mostra, che a r c h e o 55
MOSTRE • ROMA
affronta appunto il tema delle rovine moderne e contemporanee, frutto di catastrofi naturali oppure causate dall’uomo. Un argomento dunque attualissimo, sviluppato, oltre che per mezzo del cinema, attraverso la pittura e la fotografia. Quest’ultima è un’altra delle presenze che caratterizzano l’intera esposizione e la scelta delle immagini è prova di una sensibilità non comune: molti, infatti, sono gli scatti capaci di esercitare un impatto fortissimo, come nel caso della ri-
Rilievo votivo in travertino dell’aruspice C. Fulvius Salvis. 80-65 a.C. Ostia, Museo Ostiense. 56 a r c h e o
presa di una Beirut devastata o della L’originale è oggi conservato ai desolante visione del teatro realizza- Musei Vaticani (e di lí non si è mosto da Pietro Consagra a Gibellina. so), ma la mostra ha potuto avvalersi di una delle sue repliche migliori: UN FRAMMENTO SUBLIME il Polifemo, un marmo del I-II secoSi passa quindi a documentare la lo d.C. che fa parte della collezione straordinaria fortuna di cui ha go- permanente di Palazzo Altemps. duto il Torso del Belvedere, il «fram- Il ciclope altempsiano serve dunque mento» forse piú celebre dell’arte a introdurre una sequenza davvero antica: si tratta, infatti, di una statua ricca, che comprende opere di quarinvenuta mutila, ma che, nonostan- lità altissima: dalla tela in cui Berte la lacunosità, è stata fin da subito nardo Licinio, pittore cinquecenteconsiderata come una delle rappre- sco, ritrae la famiglia del fratello, sentazioni auree della figura umana. uno dei cui componenti tiene un
modellino della scultura, a quella ottocentesca di Jean-Léon Gerôme, che immagina un Michelangelo vecchio e ormai cieco, accompagnato da un ragazzo, che gli guida le mani perché possa almeno toccare la magnifica statua; e poi ci sono anche le variazioni sul tema scolpite nel bronzo da Arturo Martini e Igor Mitoraj, oppure una fotografia di Robert Mapplethorpe, in cui la plasticità del corpo maschile ritratto emana una forza non inferiore a quella del Torso o, ancora, la surreale
In alto: Window, Packard Motors Plant, Detroit, foto di Yves Marchand e Romain Meffre. 2005. Parigi, Galerie Polka.
visione di un silos sormontato da una replica del Pensatore di Auguste Rodin. Quest’ultima, che si deve ad Alessandro Celani, ha una storia particolare: il silos appartiene a un contadino umbro che frequentò l’accademia di belle arti e che, non potendo assecondare la sua passione, ha voluto almeno conservarne il ricordo. Un omaggio al passato che, a ben vedere, risulta concettualmente analogo, per esempio, ai paesaggi di rovine idealizzati dei vedutisti del Settecento. E sono proprio le vedute ad animare la sezione successiva, nella quale sono riunite rappresentazioni realizzate tra il XV e il XIX secolo. Nel solco di una moda che ebbe una fortuna notevole, spiccano visioni arricchite da elementi fantastici o da improbabili giustapposizioni, ma non mancano dettagli ricchi di valore documentario, come nel caso della citazione di uno dei rilievi traianei poi reimpiegati nell’arco di Costantino. Fra i dipinti ottocenteschi, si può inoltre segnalare una veduta del Colosseo di Ippolito Caffi nel 1855: all’epoca l’arena dell’anfiteatro era ancora interrata e dunque praticabile, cosicché il dipinto offre un’immagine almeno in parte paragonabile all’aspetto che il monumento potrebbe assumere se a r c h e o 57
MOSTRE • ROMA
dovesse essere realizzato il ventilato progetto di ripristino dello spazio un tempo riservato agli spettacoli. Va peraltro segnalato che questa parte del percorso si sviluppa in due sale di Palazzo Altemps che sono state aperte per l’occasione e che, al termine della mostra, diventeranno ambienti stabilmente destinati alle esposizioni temporanee. Con un nuovo salto nella contemporaneità, si passa quindi dai paesaggi di rovine a quelli che sono stati battezzati Paesaggi rovinati. Ancora una volta è la fotografia a dominare la scena: anche in questo caso, le immagini non hanno bisogno di commenti particolari e, nel caso delle alterazioni artificiali, inducono a riflettere sulle troppe ferite che l’uomo infligge all’ambiente che lo circonda o sulla sconsideratezza con cui deturpa paesaggi ricchi di storia e fragili – è il caso di Venezia –, piegandoli a un consumo privo di rispetto. Follie che raggiungono il loro acme ideale nei 3 minuti e 37 58 a r c h e o
secondi del video Incompiuto siciliano: una sequenza di immagini impietosa e che sgomenta soprattutto perché, in questo caso, non si tratta di visioni idealizzate o fantastiche, ma della cruda realtà, dallo stadio per il polo di Giarre al velodromo di Paternò…
FINESTRA CON VISTA A questa sezione appartiene anche la foto scelta per la copertina del catalogo della mostra e come immagine guida: realizzata da Yves Marchand e Romain Meffre, mostra gli stabilimenti abbandonati della Packard, a Detroit, visti attraverso una vecchia finestra. Con una resa nitida e dettagliata quanto quella delle fotografie, sfilano poi le immagini di monumenti realizzate da Giovanni Battista Piranesi (1720-1788). In un excursus sulla raffigurazione dell’antico, la sua presenza non poteva mancare, ma, in questo caso, si è scelto di dare risalto a una delle caratteristi-
In alto: Il Colosseo visto dall’alto, olio su carta applicata su tela di Ippolito Caffi. 1855. Roma, Museo di Roma, Palazzo Braschi. Nella pagina accanto: Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps, Sala della Duchessa. In primo piano, statua di Afrodite accovacciata con delfino. Inizi del II sec. d.C.
che spesso ignorate del grande incisore e architetto: il suo essere, innanzitutto, un attento rilevatore delle strutture antiche. Cosí facendo, Piranesi poté dedicarsi con profitto, per esempio, allo studio delle tecniche costruttive o del funzionamento dei grandi impianti di servizio. Ne sono prova le tavole che documentano la ricostruzione dei sistemi di sollevamento dei blocchi o della Cloaca Maxima. Tra gli obiettivi dell’esposizione c’è anche quello di smentire una celebre asserzione di Diderot, l’enciclopedista, il quale definí «beati» gli antichi, in quanto non possedevano
A coronamento del percorso, la parola passa idealmente agli archeologi, e in particolare a quelli che, per primi, avviando i grandi scavi del XIX e del XX secolo, hanno messo mano a una vera e propria (ri)costruzione delle rovine. Il caso emblematico è quello della Cnosso ricreata da Arthur Evans, ma vi è spazio per un discorso piú ampio, che si allarga a comprendere il tema, attuale e stringente, del rapporto fra la città antica e quella moderna e dunque delle scelte operate nel tempo, per esempio a Roma, il contesto in cui la gestione di questo rapporto risulta piú complessa. E non è dunque un caso che questa difficile convivenza faccia da suggello all’esposizione, attraverso la sequenza forse piú celebre del film Roma, girato da Federico Fellini nel 1972: quella in cui, durante gli scavi per la metropolitana, viene alla luce una splendida domus, i cui affreschi, a contatto con l’aria, svaniscono… rovine. I Greci o i Romani avevano uno sguardo certamente diverso dal nostro – di fronte a una città devastata si sarebbero probabilmente augurati di non subire la medesima sorte e non avrebbero sviluppato una sorta di timore reverenziale -, ma non per questo ignoravano il valore delle testimonianze lasciate dalle culture e dalle genti che li avevano preceduti. Per questo, come immagina Gio-
vanni Paolo Pannini in un suo dipinto, Alessandro, giunto a Troia, vuole per prima cosa visitare la tomba di Achille, o, nel rilievo ostiense di Fulvius Salvis, databile alla prima metà del I secolo a.C., si vede un pescatore che sta issando la rete, colma di pesci, ma nella quale è rimasta impigliata anche una statua in bronzo. Segno, quest’ultimo, di come un simile evento potesse verificarsi già allora. DOVE E QUANDO «La forza delle rovine» Roma, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps fino al 31 gennaio Orario tutti i giorni, 9,00-19,30; chiuso il lunedí Info tel. 06 684851 (museo) tel. 06 39967700 (prenotazioni); http://archeoroma.beniculturali.it; www.coopculture.it Catalogo Electa a r c h e o 59
MOSTRE • AQUILEIA
DIALOGO AD
AQUILEIA
UNA MOSTRA AL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI AQUILEIA ESPONE OTTO CAPOLAVORI DELL’ARTE ANTICA GIUNTI DAL MUSEO NAZIONALE DEL BARDO DI TUNISI, COLPITO LO SCORSO 18 MARZO DALL’EFFERATEZZA DEL TERRORISMO FONDAMENTALISTA. LE PREZIOSE OPERE, MESSE A CONFRONTO CON I MANUFATTI AQUILEIESI, TESTIMONIANO I LEGAMI E I COLLEGAMENTI CHE CARATTERIZZAVANO IL NORD AFRICA E L’ALTO ADRIATICO IN ETÀ ROMANA. IN APERTA OPPOSIZIONE A CHI, OGGI, TENTA DI NEGARE LA VITALE COMPLESSITÀ DI UN SECOLARE CONFRONTO TRA CIVILTÀ
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n quella che sembra una rincorsa furiosa ed efferata del terrorismo a distruggere, uccidere, cancellare segni e memorie di secoli di fruttuosa interazione e convivenza, il Museo del Bardo è un simbolo di particolare forza evocativa. Recandomi nel grande museo di Tunisi il 18 maggio scorso, due mesi esatti dopo gli attentati che costarono la vita a ventidue persone, di cui quattro italiani, ho provato un’emozione forte insieme ai miei collaboratori e alle persone che mi accompagnavano. In quell’occasione è nata l’idea di un gesto che sottolineasse la nostra amicizia verso la Tunisia e il grande rispetto nei confronti degli sforzi che quel Paese sta facendo per mantenere vivi i valori della convivenza e del dialogo. L’esposizione ad Aquileia di alcune importanti testimonianze e opere provenienti dal Bardo è appunto questo : un gesto di amicizia e l’affermazione, convinta e forte, che solo attraverso la riproposizione dei valori della cultura e della storia comune, sarà possibile sconfiggere la cieca violenza e la barbarie di chi vorrebbe proporre infondati scontri di civiltà. Sono lieto che la mostra si realizzi in mesi cosí importanti e delicati per la ricerca di soluzioni ai grandi problemi aperti del Mediterraneo e sono d’altra parte certo che essa varrà a vivificare i legami profondi che ispirano l’amicizia e la stima tra Tunisia e Italia e il ruolo equilibrato e fautore di moderazione che i due Paesi svolgono nell’area. Gli attacchi e gli attentati perpetrati da formazioni e gruppi che si autoproclamano islamici, ma che nulla appaiono ad avere a che fare con una delle tre grandi religioni monoteistiche sorte tra la discendenza di Abramo, sembrano voler mettere al centro del mirino la comune eredità culturale. È anzitutto su questo piano che va sconfitta la loro violenza: la riaffermazione della indivisibilità del comune destino dell’uomo. Sergio Mattarella Presidente della Repubblica Italiana
A destra: testa di una statua di Lucio Vero, dal teatro di Thugga (Dougga). Ultimo quarto del II sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. Sulle due pagine: una delle sale del museo tunisino. a r c h e o 61
MOSTRE • AQUILEIA
AQUILEIA E TUNISIA: LA STORIA E I TRAFFICI COMMERCIALI di Paola Ventura
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icercare le tracce di remoti legami fra due terre altrettanto lontane – l’alto Adriatico, con la metropoli di Aquileia, e l’attuale Tunisia, che rappresentava in età romana l’Africa propriamente detta (costituita in provincia nel 146 a.C., divenuta poi Africa proconsolare nel 27 a.C., includendo anche la Numidia, con nuove suddivisioni sotto Diocleziano e Teodosio) – poteva apparire fino a qualche decennio fa una forzatura, o quanto meno un argomento poco prodigo di contenuti, anche per gli specialisti. Quando infatti – all’inizio degli anni Settanta – ci si propose di tracciare, in un convegno dedicato, un primo quadro d’insieme dei rapporti fra Aquileia e l’Africa, gli studi sulla cosiddetta cultura materiale, che ora ci forniscono la piú ampia messe di dati sulle attività produttive e sulle relazioni commerciali fra le diverse regioni dell’impero, erano ancora a uno stadio iniziale.
DESTINI DIVERSI Nel contempo, l’apporto delle fonti letterarie ed epigrafiche era, ed è rimasto, piuttosto scarno per buona parte dell’arco cronologico interessato, vale a dire dalla fondazione di Aquileia (181 a.C.) e dalla creazione della provincia Africa (146 a.C.) fino alla metà del V secolo d.C., quando si colloca convenzionalmente la fine della città adriatica, in coincidenza 62 a r c h e o
Qui accanto: statua di Giove, da Oued R’mel. II sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. Il padre degli dèi è raffigurato con una cornucopia in mano e, ai suoi piedi, l’aquila, a lui sacra.
LA MOSTRA DI AQUILEIA Nata dall’impegno congiunto di Fondazione Aquileia, Soprintendenza Archeologia e Polo Museale del Friuli-Venezia Giulia e Istituto Nazionale per il Patrimonio tunisino, l’esposizione presenta otto importanti reperti del Museo Nazionale del Bardo, che dialogano con i manufatti aquileiesi non solo per sottolineare i legami e i collegamenti tra il Nord Africa e l’Alto Adriatico in età romana, ma anche a testimonianza
di quanti si oppongono a questa nuova iconoclastia. Si vogliono cosí mantenere alte l’attenzione e la sensibilità verso il tema della distruzione di monumenti di eccezionale valore – eredità delle civiltà del passato – e quindi della volontà di cancellazione della memoria della storia universale dell’Uomo.
con l’incursione di Attila; la presenza romana in Africa fu invece interrotta dall’arrivo dei Vandali nel 439, ma il primario ruolo economico della regione si protrasse ancora per almeno due secoli. Invero, già alla fine del III secolo a.C. si ritrova nel racconto storico un primo punto di contatto fra la Tunisia ancora punica e la Cisalpina, cioè la regione a nord del Po, allora in via di romanizzazione, dove la discesa annibalica suscitò la sollevazione dei Galli, che controllavano il territorio intorno alle prime fondazioni coloniarie romane. La fine della III guerra punica e la nascita della provincia d’Africa, coincidono con un marcato spostamento verso il mare Mediterraneo delle mire della classe dominante della repubblica romana, portando ad imprese espansionistiIn questa pagina: il Museo Archeologico Nazionale di Aquilea e alcuni particolari dell’allestimento della mostra sulle opere del Museo del Bardo.
DOVE E QUANDO «Il Bardo ad Aquileia» Aquileia (Udine), Museo Archeologico Nazionale fino al 31 gennaio Orario martedí-domenica, 8,30-19,30; chiuso il lunedí Info tel: 0431-91035; e-mail: museoarcheoaquileia@beniculturali.it; www.museoarcheologicoaquileia.beniculturali.it; www.fondazioneaquileia.it Catalogo Allemandi a r c h e o 63
MOSTRE • AQUILEIA
Un prodotto tipicamente africano Rinvenuti nella necropoli di El Aouja, nella Tunisia centrale, questi vasi, databili entrambi al III sec. d.C., rappresentano una fiorente produzione artigianale di ceramica da mensa, la terra sigillata africana, cosí chiamata per le decorazioni figurate a rilievo (sigilla). Il colore arancio-rosso deriva dalla tecnica di cottura, praticata in ambiente ricco di ossigeno. Il primo recipiente è una bottiglia cilindrica, che può considerarsi una sorta di summa mitologica: le figure a rilievo rappresentano Apollo con la cetra seduto su un altare, un Sileno barbato, due Satiri e una baccante, Mercurio con la borsa e il caduceo, una scena erotica sormontata da due spighe, Marte appoggiato a una lancia, due Amorini affrontati a un elmo corinzio, un Satiro che tiene un tirso, Sileno, Vittoria, Venere e baccante. Il secondo vaso è una brocca, che reca al centro una conchiglia, una corona e un cartiglio a coda di rondine con l’acclamazione di vittoria (TAVRISCI NIKA), riferita a una delle associazioni (i Taurisci appunto) che organizzavano gli spettacoli nell’anfiteatro. Dall’altro lato sono rappresentati una ghirlanda e un leone in corsa.
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che non prive di ripercussioni all’interno di tutto lo Stato, ma senza che ciò creasse ancora una comunità e reciprocità di contatti diretti fra aree tanto distanti. Anche nella successiva storia politica e militare si è prefigurata un’unica possibile relazione indiretta fra le due regioni, all’epoca di Massimino il Trace, l’imperatore salito al potere grazie all’esercito nel 235, che morí nel 238 sotto le mura di Aquileia, la quale gli si oppose prendendo le parti del Senato. È stata notata una coincidenza con la forte opposizione al nuovo corso da parte della provincia dell’Africa, che giunge a sollevarglisi contro: un’ipotesi vuole che le due regioni, accomunate da uno spiccato sviluppo dei commerci, condividessero in maniera del tutto indipendente e forse anche inconsapevole l’interesse per il mantenimento di una situazione di pace, tale da non danneggiarne i traffici.
OLIO, SALSE DI PESCE E VINO Il ruolo della provincia d’Africa come fonte di approvvigionamento per tutto l’impero, in particolare in epoca tardo-antica, è testimoniato, infatti, dalla capillare diffusione da un capo all’altro del Mediterraneo, e anche nelle nostre regioni, delle anfore africane e delle altre classi ceramiche (come il vasellame da tavola e da cucina o le lucerne) che le accompagnavano. Grazie a decenni di studi, è stato possibile accertare sia i centri di produzione, sia le diverse derrate alimentari che vi erano contenute (in particolare olio, salse di pesce, ma anche vino), sia le rotte marittime attraverso le quali venivano commercializzate. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che i prodotti appena citati si affiancano alla principale risorsa agricola che riforniva Roma e l’impero, costituita dal grano, che però viaggiava in sacchi: l’assenza quindi di tracce materiali – alla
pari di altre merci sicuramente esportate dall’Africa, come le bestie feroci, utilizzate per i giochi dell’anfiteatro, e la porpora – non ci consente di affermare che anch’esso giungesse fino alle nostre regioni, sebbene la testimonianza di un giurista del II-inizi del III secolo, contenuta nel Digestum, menzioni un trasporto di grano ad Aquileia dalla Cirenaica.
CALVIA, MAESTRA DI PIACERI Forse non è sufficientemente noto che dalla fine del II secolo a.C. e almeno fino al II secolo d.C. il flusso di alcune merci, e segnatamente del vino, vedeva l’Africa non come punto di partenza ma come terminale. In particolare nel «muro delle anfore» di Byrsa, a Cartagine, sono presenti in buona percentuale anfore di origine adriatica: brindisina, picena e anche nord-adriatica. Questo dato ben si sposa con l’unica notizia di interessi diretti nella provincia, che ci giunge dalla tradizione letteraria: sappiamo da Tacito che una personalità di primo piano di queste terre, la celebre «maestra di piaceri di Nerone» Calvia Crispinilla, estese i possedimenti della sua famiglia, originaria dell’Istria, fino all’Apulia, all’Egitto e appunto all’Africa. A ogni modo, l’arrivo di anfore e di ceramica africana in Italia – anche nell’Adriatico meridionale e lungo la sua costa orientale – è accertato sin dalla fine del I secolo d.C. Il punto di svolta, per quanto riguarda Aquileia e il suo territorio, può però oggi essere posto alla metà del II secolo d.C., data alla quale risale il carico della Iulia Felix, imbarcazione naufragata al largo di Grado (approdo a mare della città), che trasportava in quantità significative, fra le altre, anfore del tipo Africana I, in origine destinate al trasporto dell’olio, ma riutilizzate per le salse a base di pesce.
Un cavaliere di lungo corso
Questa semplice stele, tipica della produzione funeraria della Tunisia, apparteneva a un cavaliere originario di Lugdunum (Lione), Marco Licinio Fedele, che morí a 32 anni dopo aver servito addirittura per 16 anni nella III Legione Augusta. Questa legione era di stanza ad Ammaedara (Haïdra), dove il cavaliere fu sepolto, a partire dal secondo quarto del I sec. d.C. e fino al 75 d.C. Il defunto è raffigurato in forme semplici e lineari, quasi primitive, nella parte alta del monumento, entro una nicchia. In posizione frontale, trattiene per le redini due cavalli, inseparabili compagni della vita militare, bardati da cerimonia.
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MOSTRE • AQUILEIA
Accanto alle anfore (ma forse anche assieme al grano) viaggiavano pure la ceramica da cucina di produzione africana e il vasellame da tavola, ovvero la terra sigillata (vedi box a p. 64). La posizione nodale di Aquileia, non solo approdo e luogo di consumo, ma anche punto di passaggio per l’ulteriore commercializzazione verso l’entroterra, si esplica ancor piú nella diffusione delle merci e quindi anche, limitandosi ai due prodotti meglio tracciabili, delle anfore (e del loro contenuto) e delle sigillate, il cui quadro di distribuzione è solo in parte sovrapponibile.
L’AVVENTO DI RAVENNA E DEL SUO PORTO Dall’esame dei contesti danubiani, alpini e in minor misura padani, si desume in effetti il carattere non esclusivo della funzione di Aquileia, in quanto la diffusione dei materiali africani in molti casi sopravanza in durata quella riscontrata nella città, che presenta un brusco calo alla metà del V secolo. Aquileia viene soppiantata nel suo ruolo di terminale adriatico da Ravenna, con il suo porto di Classe. L’anticipato declino di Aquileia ben si concilia con la limitata incidenza del fenomeno, comunque in passato in genere sopravvalutato, delle «imitazioni» locali soprattutto della sigillata africana e delle lucerne (si tratta di una pratica effettivamente attestata, per esempio in ambito ravennate, ma piuttosto nei secoli successivi): esso appare quasi inesistente per la prima, mentre si conferma piú consistente per le seconde. Le lucerne africane, numerosissime in Museo e nei suoi magazzini, ma purtroppo edite solo parzialmente, meritano ancora un cenno per la frequente presenza di decorazioni che richiamano simbologie del culto mitraico, della religione ebraica e soprattutto di quella cristiana, che, alla fine, prevalse al venir meno della religione tradizionale romana. 66 a r c h e o
LA PRODUZIONE MUSIVA di Marta Novello
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in dal primo allestimento del Museo del Bardo, i mosaici provenienti dai siti archeologici della Tunisia sono il fulcro del suo percorso espositivo e hanno reso celebre la raccolta. Analogamente, i rivestimenti in tessellato e lastre marmoree che accompagnano il visitatore nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia, oltre che nelle aree archeologiche all’aperto, provano l’importanza e la qualità di una produzione fra le piú copiose e originali del mondo romano. Tra i materiali che arricchiscono le due istituzioni museali, i mosaici sono la documentazione migliore degli intensi rapporti e scambi culturali tra il centro altoadriatico e le province dell’Africa settentrionale.
Posta al centro di itinerari marittimi e terrestri di grande rilevanza strategica, Aquileia, sin dalla fondazione nel 181 a.C., fu un fiorente centro economico-commerciale, luogo di transito di persone e merci provenienti da tutto l’ambito mediterraneo. Tale valenza strategica ne fece un punto di incontro di culture, favorendo lo sviluppo di una produzione artistica e artigianale di alto livello, esito dell’originale rielaborazione di influenze composite per provenienza e qualità. Il rilevante ruolo politico e amministrativo assegnato alla città fin dall’età augustea e ulteriormente accresciuto dalle riforme dioclezianee e costantiniane, che la elevarono al rango di capitale provinciale quale capoluogo della Venetia et Histria, determinò, nel contempo, la Sulle due pagine: mosaici della collezione del Museo del Bardo. Nella pagina accanto: la dea Cerere, dalla Casa dei Laberii a Uthina (Oudna). II sec. d.C. A sinistra: pannello con una coppia di lottatori, dal tepidarium delle terme di Gightis (Henchir Bou Ghrara). II-inizi del III sec. d.C.
Un immaginario condiviso L’esposizione aquileiese dà ampio risalto ai mosaici provenienti dai centri romani della Tunisia e facenti parte della collezione Museo del Bardo. Gli esemplari provenienti dai siti di Uthina (Oudhna) e di Gightis (Henchir Bou Ghrara) sono un campione altamente rappresentativo della eccezionale qualità raggiunta dai mosaicisti dell’Africa proconsolare nell’età imperiale. La ricchezza e la varietà delle decorazioni policrome che ne determinarono la fama condividono con i pavimenti di Aquileia un immaginario basato sulla celebrazione di motivi e concetti largamente condivisi. La raffigurazione della dea Cerere, cosí simile, con i suoi ricchi fasci di spighe, a tante personificazioni dell’Estate presenti nei mosaici di Aquileia, allude a quella ricchezza della natura a cui dovevano la loro fortuna i centri tunisini affacciati sul Mediterraneo. Con le loro acrobazie, le immagini dei lottatori di Gightis rimandano all’ambito tipicamente romano delle terme, ampiamente rappresentato negli esemplari del Museo di Aquileia.
presenza di una committenza in grado di competere, nelle richieste e nelle aspettative, con le élite dei piú importanti centri dell’impero. I legami artistici e culturali di Aquileia con le province africane si inseriscono, dunque, nel piú ampio sistema di rapporti di natura strategica ed economica, che trova la sua piú compiuta espressione a partire dal III sec. d.C., e poi soprattutto nei due secoli successivi, in coincidenza con l’intensificarsi degli scambi commerciali tra l’Africa proconsolare e l’Italia. I dati relativi alla cultura materiale forniscono il contesto en-
tro cui inquadrare la fitta rete di relazioni che, insieme alle merci, veicolava fra le due sponde del Mediterraneo anche modelli e tipi figurativi. L’ampia circolazione della ceramica africana come materiale d’accompagno delle derrate alimentari, la cui tecnica decorativa tocca nel IV secolo i livelli piú alti, contribuisce a diffondere in tutto il Mediterraneo un ricco repertorio di immagini, che raggiunge anche il centro altoadriatico. Se gli esemplari integri non possono competere con la ricchezza decorativa di quelli dei siti della Tunisia, i numerosi frammenti rin-
venuti negli scavi aquileiesi attestano una ben piú ampia varietà iconografica, che spazia dall’universo ludico (giochi del circo e dell’anfiteatro) a quello mitologico e cristiano. Ma è opinione comune che, unitamente a oggetti d’uso e derrate, lungo le piú battute vie di comunicazione terrestri e marittime dell’impero viaggiassero anche cartoni e maestranze, contribuendo alla creazione di una cultura figurativa condivisa, di cui rimane testimonianza nei supporti piú diversi: dalla ceramica, all’artigianato di lusso, alla decorazione pittorica e musiva. a r c h e o 67
GLI IMPERDIBILI • BRONZI DI CARTOCETO
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UN ENIGMA
el giugno del 1946, con SONO PERSONAGGI l’Italia ancora in ginocchio dopo i disastri CERTAMENTE DI RANGO della seconda guerra mondiale ELEVATO, LA CUI MEMORIA e le vicende politiche dell’inizio della repubblica, ben poco È TORNATA ALLA LUCE DUEMILA risalto veniva dato alle notizie ANNI DOPO L’OCCULTAMENTO di ritrovamenti archeologici nelle campagne. E tanto piú DELLE STATUE ERETTE questo era vero quando gli stes- IN LORO ONORE. EPPURE, si scopritori cercavano di tener nascosto il materiale nella spe- I PROTAGONISTI DEL ranza di trarne qualche lucro. GRANDIOSO GRUPPO Al di là del biasimo per le pratiche illecite, la guerra aveva EQUESTRE DI CARTOCETO lasciato uno strascico di fame e CONTINUANO A NASCONDERE miseria in molte parti d’Italia e non ci si deve perciò meravi- LA PROPRIA IDENTITÀ gliare se due fratelli che si imbatterono in alcuni grandi di Daniele F. Maras Il magnifico gruppo di sculture in bronzo dorato rinvenuto a Cartoceto di Pergola. Età augustea. Pergola, Museo dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola.
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TUTTO D’ORO
frammenti di statue del colore dell’oro, mentre lavoravano un campo a Cartoceto di Pergola, in provincia di Urbino, credettero di aver ricevuto un dono dal cielo e tennero per sé la scoperta.
Tuttavia, la notizia non tardò a diffondersi e presto arrivò alle orecchie dei funzionari della Soprintendenza Archeologica delle Marche, che ordinarono la consegna dei materiali rinvenuti. Superate alcune difficoltà, un gran numero di frammenti fu restituito alle autorità, assieme all’indicazione del luogo di ritrovamento. Fu subito chiaro che si trattava di un gruppo formato da varie statue in bronzo dorato, molto danneggiate dal tempo e dalla giacitura, ma che ancora conservavano mi-
nuti dettagli e buona parte della doratura originaria. Quanto prima furono condotti sul posto nuovi scavi, che portarono alla luce altri frammenti, anche se molte parti delle sculture originarie risultarono mancanti e sono ormai ben poche le speranze che possano essere un giorno recuperate. Sebbene lacunose, le statue di Cartoceto entrarono a far parte del ristretto novero dei grandi bronzi dell’antichità pervenuti fino a noi. Un interessante dato negativo emerso dagli scavi è che, salvo i resti della viabilità locale, nelle vicinanze mancavano tracce di strutture romane tali da poter giustificare la presenza di un gruppo monumentale di tale pregio e dimensioni. Già nell’antichità, quindi, i bronzi erano stati abbandonati in un luogo appartato e poco frequentato, fuor i dai centri abitati della regione. Vennero forse nascosti dopo un saccheggio? Abbandonati per cancellarne la memoria? Difficile a dirsi. Il gruppo di Cartoceto consiste in due statue equestri maschili e due stanti femminili, che dovevano con ogni probabilità essere disposte in modo simmetrico e piramidale, con le cavalcature al centro e le donne ai lati. a r c h e o 69
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San Marino
e paludamentum (corto mantello militare) e lascia le braccia nude, gli Senigallia Urbino conferisce un’aria marziale, quale si Ancona Pergola addice a un comandante di ritorno da una missione, privo della corazMarche Fabriano Macerata Civitanova za e acclamato per le sue imprese. Marche Mentre il cavallo avanza al piccolo San Severino Perugia Marche trotto, l’uomo alza la mano destra San Benedetto Umbria per salutare la folla (il cosiddetto del Tronto Ascoli Piceno gesto dell’adventus) e non per chiedere il silenzio prima di un discorTeramo so (adlocutio), come è stato da alcuni ipotizzato. La decorazione della I frammenti conservati hanno con- ricca bardatura del cavallo, che sentito di ricostruire quasi per inte- comprende sulla fronte una coppia ro uno dei cavalieri e una delle di tritoni che reggono uno scudo statue femminili, mentre quanto tra delfini guizzanti, sembra alluderesta delle altre due sculture fa pen- re a un’ambientazione marina o in sare che le pose dei personaggi fos- terre lontane delle sue vittorie, anche se non consente di andare oltre sero del tutto simili. con le ipotesi. QUEL RICCIOLO RIBELLE Dell’altro cavaliere, purtroppo, si La matrona meglio conservata è conservano soltanto le gambe con avvolta in ricche vesti, che com- gli elaborati calzari, oltre a buona prendono la stola (un abito lungo parte del cavallo, gemello del primo fino ai piedi) e la palla (manto – sebbene non identico –, sia nella riportato fin sopra la testa). Ne posa che nell’aspetto, e perfino nei fuoriescono solo la punta del pie- finimenti. Si è immaginato che de destro e le mani, oltre al volto anch’egli avesse un gesto simile al incorniciato dal velo, che lascia compagno, con il quale condivideva trasparire anche parte dell’accon- il ruolo di protagonista nel gruppo ciatura, con i capelli scriminati celebrativo. Da questo punto di visulla fronte. Di particolare inte- sta è importante che i calzari non resse è un ricciolo ribelle che appartengono al tipo indossato dai scende accanto all’orecchio sini- senatori (calceus senatorius), ma sono stro e conferisce un tocco giova- i calcei patricii, prerogativa dei maginile e leggiadro a un ritratto altri- strati curuli, che originariamente erano solo patrizi, e degli imperatomenti decisamente austero. Tutto considerato, nonostante la ri a partire da Augusto. deformazione subita dal bronzo, Chiude la sequenza la seconda stache neanche l’accurato restauro è tua femminile, ridotta purtroppo riuscito a riparare e impedisce di alla sola parte inferiore, che però già apprezzare la curva delle forme da sola evidenzia le differenze dalla sotto il panneggio, non sembra sia prima matrona. Infatti, per quanto la possibile attribuire alla matrona posa sia simile, con il piede destro un’età troppo avanzata, come pure avanzato che fa capolino dalla stola, il panneggio soprastante si incurva in passato è stato ipotizzato. Di età senz’altro matura, anche se in un’ampia piega sul davanti (sinus). non anziana, è invece il cavaliere di cui si conserva il busto: lo OPERE DI ALTO LIVELLO dimostrano l’ampia stempia- Le statue sono state realizzate con tura della fronte e i tratti il metodo della fusione a cera perasciutti del viso. La veste so- sa, in diverse sezioni poi montate lenne, che comprende tunica assieme, utilizzando una lega ternare
Lago Trasimeno
Tev e
Nella pagina accanto: la statua equestre di uno dei due cavalieri, ricomposta in ampia parte, e, nel riquadro, lo splendido modellato della testa della matrona. In questa pagina: una delle due statue femminili, raffigurante una matrona, ricostruita quasi interamente grazie ai frammenti recuperati nel 1946.
Pesaro Fano
Mare Adriatico
CARTA D’IDENTITÀ DELL’OPERA • Nome Bronzi Dorati di Cartoceto • Definizione Gruppo monumentale di due statue femminili e due equestri maschili a grandezza naturale • Cronologia Età augustea • Luogo di Pergola, di ritrovamento località Cartoceto • Luogo Pergola (PU), Museo di conservazione dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola • Identikit Ritratto di famiglia di un gruppo di eroi dimenticati
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GLI IMPERDIBILI • BRONZI DI CARTOCETO
ria di rame, stagno e piombo, con una forte percentuale di quest’ultimo metallo, secondo l’uso romano invalso per migliorare la lavorabilità del materiale. Sulla superficie esterna è stata poi aggiunta a freddo una doratura a foglia, di cui si conservano ampie parti, che contribuisce a conferire pregio alle sculture. La tecnica è particolarmente accurata, denotando un’officina specializzata di alta qualità, alla quale però non si adegua il livello artistico del modello, certamente di notevole efficacia scenica (soprattutto per quanto riguarda i cavalli), ma che non giustifica una eventuale committenza imperiale. L’analisi dei residui della terra di fusione ha rivelato la presenza di minerali vulcanici, che fanno pensare a una provenienza dall’area flegrea della Campania, anche se non si può escludere che il materiale grezzo sia stato importato in un’officina locale.
UN INDIZIO IMPORTANTE Di un certo interesse per la cronologia è la realizzazione degli occhi in bronzo per fusione, anziché con materiali pregiati riportati a parte (come avorio e pasta vitrea), secondo la norma della scultura greca e romana repubblicana.Tale caratteristica, infatti, si affaccia nella scul-
In alto: la testa del cavaliere di Cartoceto. A destra: statua equestre in bronzo di Augusto, del tipo Alcudia. I sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. 72 a r c h e o
tura romana solo a partire dalla prima età imperiale e diviene la regola dopo l’età adrianea. Sembra piuttosto difficile, pertanto, aderire ad alcune proposte di cronologia alta, secondo le quali i bronzi sarebbero stati realizzati in epoca tardorepubblicana o triumvirale. Questo ci porta alla questione ancora aperta dell’identificazione dei personaggi onorati dai bronzi di Cartoceto. In questo senso, l’assenza di un vero contesto archeologico si rivela ancor piú dolorosa e rende difficile trovare conferme per il possibile riconoscimento di figure storiche note, che si può quindi basare soltanto su elementi indiziari.
Una prima, affascinante ipotesi venne avanzata da Alessandro Stucchi (1922-1991) nel 1987, in occasione di un’esposizione delle statue a Firenze. Secondo l’insigne studioso, il gruppo avrebbe celebrato i figli di Germanico, Nerone Cesare e Druso, con la madre Agrippina e la bisnonna Livia (già moglie di Augusto).
UN CASO DI DAMNATIO MEMORIAE? L’ipotesi spiegherebbe anche l’abbattimento e seppellimento dei bronzi, come conseguenza della caduta in disgrazia dei protagonisti sotto il regno di Tiberio a causa delle macchinazioni di Seiano, il potente prefetto del pretorio che aspirava alla successione. Questa identificazione non può però essere accolta, a partire dal riconoscimento della statua femminile meglio conservata con Livia, i cui tipi iconografici noti non sono compatibili con il ritratto di Cartoceto. Similmente, anche l’età avanzata del cavaliere non corrisponde a quella che avrebbero dovuto avere i figli di Germanico. Una datazione ben piú alta, tra il 50 e il 30 a.C. è stata proposta da John Pollini e da Filippo Coarelli, che riconoscono nel gruppo rispettivamente la famiglia dei Domizi Enobarbi, tra cui il console del 32 a.C., ovvero quella di Marco Satrio, un notabile locale che fu luogotenente di Giulio Cesare e arrivò al rango senatorio, ma fu poi coinvolto nella congiura e cadde nella repressione del secondo triumvirato. Una recentissima proposta è stata avanzata da Bernard Andreae, il quale attribuisce il gruppo alla celebrazione del trionfo sugli Illiri nel 39 a.C. da parte di Gaio Asinio Pollione, astro nascente della politica nell’età triumvirale, noto anche per essere stato protettore del giovane Virgilio. Tuttavia, come abbiamo già accennato, tutte le ipotesi sono destinate
Testa ritratto dell’imperatore Augusto, del tipo Forbes. Inizi del I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.
a cadere per il dato tecnico degli occhi fusi in bronzo, che non sembrano poter risalire piú in là della prima età imperiale, e, almeno nel secondo caso, alla luce del dato antiquario offerto dai calzari, che indicano il rango curule di almeno uno dei protagonisti.
la forma triangolare della testa con la fronte ampia e le sopracciglia basse e pronunciate, nonché la leggera inclinazione verso destra, accompagnata dalla curva del collo e sottolineata dalle orecchie sporgenti. La tipologia dei ritratti imperiali era il modello di riferimento per tutte le statue onorarie e pubbliche, sia a Roma e nelle province. Rimane perciò piú che mai verosimile che il gruppo dei bronzi sia l’eccezionale testimonianza degli onori tributati a una famiglia locale di spicco, appartenente al rango equestre e presumibilmente coinvolta nelle campagne d’oltremare di Ottaviano Augusto, come ad Azio e in Egitto, oppure contro i pirati del Mediterraneo, alla quale per ora non è possibile fornire un nome preciso in mancanza di ulteriori dati. PER SAPERNE DI PIÚ Giuliano de Marinis, I Bronzi dorati da Cartoceto: il punto sulle conoscenze, in Bronzi e marmi della Flaminia. Sculture romane a confronto, Catalogo della mostra (Pergola, 2002), a cura di Giuliano de Marinis, Sergio Rinaldi Tufi, Gabriele Baldelli, Artioli Editore, Modena 2002; pp. 37-43. Roman bronzes of Cartoceto, Atti del colloquio (Montreal, Museum of Fine Arts, 2007), in The Ancient World 40, Ares Publishers, 2009; pp. 5-90. Bernard Andreae, Des Siegers Beute. Die vergoldeten Bronzestatuen von Cartoceto bei Pergola und Gaius Asinius Pollio, Franz Steiner Verlag, Stoccarda 2015
FRONTE AMPIA E ORECCHIE SPORGENTI Il gruppo può forse essere datato all’ultimo ventennio del I secolo a.C. per un confronto tra il cavaliere meglio conservato e alcuni ritratti di Augusto databili in questo periodo, come un bronzo equestre ritrovato nell’Egeo, oggi conservato al Museo Archeologico Nazionale di Atene (esempio attardato del tipo detto Alcudia), e una testa marmorea del Museo del Louvre di Parigi NELLA PROSSIMA PUNTATA (tipo Forbes). Entrambi i ritratti, infatti, condividono con il volto di Cartoceto • Il Vaso François
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SPECIALE • PRIME CITTÀ DEL MONDO Erbil (Iraq). Veduta della cittadella, i cui edifici sorgono sul tell (collina formatasi per l’accumulo dei resti di insediamenti succedutisi sempre nel medesimo luogo) frequentato dall’uomo fin dalla preistoria. Nel 2014, l’UNESCO ha dichiarato il sito Patrimonio dell’Umanità. In primo piano, la statua del filosofo curdo Ibn al-Mustawfi (1169-1239), nato a Erbil.
QUALE INSEDIAMENTO UMANO HA ESPRESSO PER PRIMO I TRATTI TIPICI DELLA CIVILTÀ URBANA? E GLI ARCHEOLOGI SARANNO IN GRADO DI INDIVIDUARE IL «LUOGO DI NASCITA» DI QUESTA POTENTE INVENZIONE? UN VIAGGIO IN DIECI LUOGHI MITICI, ALLA RICERCA DI UN (IMPROBABILE) PRIMATO… di Massimo Vidale
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ESISTE DAVVERO LA CITTÀ «PIÚ ANTICA DEL MONDO»?
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Gobekli Tepe Aleppo
Erbil
Damasco Balkh
Gerico Susa Uruk Crocodilopolis Varanasi
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l passato aleggia, capriccioso, intorno a noi, con la forza di mille idee: a volte semplici e chiare, a volte confuse, come fogli di carta dispersi da turbini imperiosi. È difficile da sopprimere per chi vorrebbe negarlo, magari costruendo un Luna Park sulla tomba di un profeta biblico o lasciando nelle nicchie di conglomerato della rupe di Bamiyan (Afghanistan, il sito dei colossali Buddha fatti esplodere nel 2001) la testimonianza della propria nullità spirituale. Ma lo stesso passato rimane difficile da mettere a fuoco anche per quanti vorrebbero plasmarlo e raccontarlo a proprio uso e consumo. In questi anni si sta ridisegnando l’assetto geopolitico del Medio Oriente e dell’Asia Media: per la prima volta vengono messi in discussione gli assurdi confini imposti dalle maggiori potenze coloniali alla fine del XIX secolo e lo si fa con la stessa violenza, lo stesso arbitrio e lo stesso spargimento di sangue che quei confini avevano già creato. Nazioni incerte, fragili identità etnico-religiose, dinastie e despoti al tramonto si combattono e confrontano, anche vantando discutibili e a volte fantasiosi primati culturali: fioriscono cosí le «culle della civiltà», i «popoli» che prima degli altri avrebbero inventato la ruota, la scrittura e addirittura la democrazia, e si discute animosamente sulla pertinenza geografica e culturale delle città piú antiche sorte in questo mondo. Si tratta di ricerche e di proclami sensati? La logica vorrebbe che sia effettivamente esistita la prima comunità capace di organizzarsi come cittadina in uno sconosciuto luogo dell’Eurasia, ma è difficile, se non altamente improbabile, che gli archeologi riescano a dissotterrare resti esattamente corrispondenti, nello spazio e nel tempo, a questa evoluzione epocale. L’archeologia
può, a volte, svelare innovazioni (l’adozione di una nuova soluzione su larga scala), piú che invenzioni vere e proprie (il contesto preciso in cui la stessa soluzione venne prefigurata per la prima volta).
UNA QUESTIONE SFUGGENTE D’altra parte, la questione è resa ancor piú incerta e sfuggente dal fatto che decidere cosa sia stata una città (per quanto embrionale) nella preistoria è tutt’altro che banale. Che cosa qualifica una città come tale? La sua estensione oppure un nome? Le sue mura? Una piazza per il mercato davanti al tempio di una divinità poliade, cioè protettrice della comunità urbana stessa? Oppure, piú prosaicamente, un manipolo di esattori sguinzagliati da un signore alla ricerca di tributi e tasse? La stessa parola «città», tramite il latino civis, cittadino, è annidata in modo ormai impercettibile nella parola «civiltà», della quale sono stati fatti gli usi piú svariati, spesso con una disinvoltura etica che dovrebbe lasciarci stupefatti. In breve, cercare la città piú antica del mondo significa partire per un viaggio impossibile e indefinito (e, nelle pagine che seguono, ne tentiamo, comunque un primo approccio), attraverso delusioni archeologiche e la nebbia dei miti, velleità nazionalistiche e non poche fole della rete, invece che per rovine e strati; un viaggio in cui un salutare relativismo sarà un comodo e sereno compagno e non un pericolo in agguato. Bronzetto raffigurante una divinità elamita, noto come il «dio dalla mano dorata». Inizi del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. L’Elam fu una delle nazioni protagoniste della storia della Mesopotamia ed ebbe come capitale Susa, uno degli insediamenti che rivendicano il titolo di città «piú antica del mondo» (vedi alle pp. 90-91). a r c h e o 77
SPECIALE • PRIME CITTÀ DEL MONDO
CROCODILOPOLIS
Quanto è davvero remota l’antichità del «paradiso dei coccodrilli», nella regione egiziana del Fayyum?
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x oriente lux, ma anche ex animalibus lux: perché non partire dall’antico Egitto e dalle sue bestie sacre, come facevano gli antichisti di due secoli fa? Secondo alcune tradizioni popolari, ampiamente divulgate dalla rete, la città piú antica del mondo sarebbe stata Shedit (pragmaticamente ribattezzata Crocodilopolis dai Greci), a sudovest della capitale Menfi. Qui si venerava Sobek, il potente dio dalla testa di coccodrillo. Era impersonato da Petsuchos, un coccodrillo vivente, custodito in una vasca entro un tempio nel quale il rettile viveva negli agi, coperto d’oro e di tesori; morto un Petsuchos, se ne faceva un altro. I Petsuchos erano poi mummificati e deposti in vaste necropoli di mummie animali. Un gruppo di archeologi dell’Università di Cardiff (UK) ha recentemente stimato in 8 000 000 il numero di mummie animali – soprattutto cani – deposte nelle catacombe di Anubi presso Saqqara, tanto per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno. Ma anche allora c’era chi barava: le radiografie mostrano che molte mummie animali, in realtà, erano vuote. Il poco che oggi resta di Crocodilopolis si trova nel distretto urbanizzato di Al-Fayyum (parola araba che deriva dal termine copto payom,
«lago» o «palude», che indicava il vicino lago). Shedit era stata ribattezzata Tolemaide Evergete dagli occupanti macedoni; Tolomeo II Filadelfo (309-246 a.C.) ne cambiò quindi il nome in Arsinoe, in onore della sorella; in età romana, divenne Arsinoiton Polis.
In alto: veduta dei resti di strutture appartenenti alla città di Crocodilopolis, sorta nella regione
egiziana del Fayyum, che fu il principale centro del culto tributato a Sobek, il dio coccodrillo.
UN’IDEA SUGGESTIVA, MA ARBITRARIA Oggi per gli Arabi è Medinet el-Fayyum (Città del Fayyum). Forse l’antichità del «paradiso dei coccodrilli» è riflessa da questo lungo mutare dei nomi, che trasmette un’immagine di vita urbana ininterrotta; ma l’idea che qui sia sorta la piú antica città della terra del Nilo è parziale e del tutto arbitraria. L’area del Fayyum, infatti, pur ricca di testimonianze che risalgono al Paleolitico e al Neolitico (V millennio a.C.) deve la sua fama di longevità abitativa ai vasti progetti di canalizzazione agricola iniziati ai tempi dei faraoni della XII dinastia (XIX secolo a.C.) e poi intensificati dai Tolomei all’inizio dell’ellenismo, piú che ai remoti insediamenti preistorici. Può rassicurarci, quindi, che la nostra ascendenza urbana non sia legata al culto dei pigri e voraci bestioni… del fiume piú lungo e piú celebre del nostro pianeta.
GERICO
L’archeologia ha dimostrato che il sito, di biblica memoria, fu abitato già nella preistoria da comunità pre-agricole
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voler indugiare su un altro primato, Gerico, situata 240 m sotto il livello del mare, è uno degli abitati piú depressi della terra. Sulla sua candidatura a «città piú antica» convergono – ed è una circostanza insolita – il fascino dei racconti biblici e le definizioni scientifiche di parte degli archeologi. Per questi ultimi, già 12 000 anni fa, la fonte che alimenta l’oasi era frequentata da cacciatori di gazzelle e raccoglitori di piante selvatiche.
La Gerico del primo Neolitico (VIII millennio a.C.) era un villaggio di poco meno di due ettari di estensione, appartenente alla cultura detta Sultaniano, dal nome popolare odierno del sito (Tell-es Sultan, la «Collina del Sultano»): una cultura ancora pienamente pre-agricola. Radici antichissime, al punto che il sito continua a essere definito, come ha fatto, per esempio, Lorenzo Nigro, «uno dei luoghi del Vicino Oriente dove piú lunga e continua è stata l’occupazione umana, e dove
Il crollo delle mura di Gerico narrato nel Libro di Giosuè in una delle tavole realizzate dal
disegnatore e incisore francese Gustave Doré per un’edizione della Bibbia pubblicata nel 1866.
SPECIALE • PRIME CITTÀ DEL MONDO
sono stati compiuti passi fondamentali della storia dell’Uomo» (vedi «Archeo» n. 293, luglio 2009). Il legame dell’oasi di Gerico con l’idea della città primordiale è complesso e stratificato nel tempo: viene dal celebre racconto biblico della conquista della Terra Promessa da parte degli Ebrei (in Giosuè 6, 1- 27) con il drammatico crollo delle mura di cinta infrante dagli assalitori al suono delle trombe, come dalla scoperta di imponenti circuiti murari costruiti e crollati sia in età neolitica sia nel corso del III millennio a.C. Allo stato attuale delle nostre conoscenze, chi afferma che Gerico è l’insediamento murato piú antico del mondo non deve temere smentite.
L’ENIGMA DELLA GRANDE TORRE La conquista biblica (XIV-XIII secolo a.C.) e le date archeologiche delle mura urbiche comunque non coincidono; ma i fautori dell’urbanità di Gerico hanno altri argomenti. Insieme alle mura neolitiche vi è il grandioso e unico torrione in pietra, alto quasi 9 m, innalzato poco dopo il 9000 a.C. Opera di difesa, osservatorio astronomico, luogo di culto, centro simbolico di potere o struttura funeraria: le opinioni divergono, ma mura e torrione furono certamente costruiti con notevoli sforzi collettivi, una delle caratteristiche essenziali delle prime città. Gerico, inoltre, è il sito archeologico nel quale furono scoperte per la prima volta le eccezionali statue in calce del Levante; opere raffinate, fatte con il piú antico materiale artificiale mai creato dall’uomo (anche se l’invenzione della calce stessa sembra piú antica di un paio di millenni). E anche la complessità delle tecnologie artigianali è uno dei tratti distintivi del successivo mondo urbano. Ma forse tutto ciò non basta. Gli scettici obiettano che un villaggio in cui potevano vivere poche centinaia di abitanti non si può definire città, data l’assenza di agricoltura, quindi di accumulazione progettuale e redistribuzione del prodotto agricolo. Gli abitanti di Gerico potevano accumulare beni come argilla, sale, bitume, pelli animali e carne secca: troppo poco per dare luogo alle condizioni di diseguaglianza sociale e asimmetria politica che sono proprie della realtà urbana. Gerico. Un settore dell’area scavata con, al centro, la torre circolare in pietra databile al Neolitico Aceramico A, 8500-7500 a.C. 80 a r c h e o
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FANTASMI DI CALCE Tra i «primati» di Gerico vi è anche quello della scoperta delle piú antiche effigi antropomorfe di grandi dimensioni del mondo: statue fatte di impasti a base di calce, alte quasi 1 m, con volti modellati e dipinti di straordinaria finezza, che contrasta con la rozzezza di corpi e torsi. Risalgono a piú di 9000 anni fa. La prima di queste immagini era stata trovata nel 1935 dall’archeologo inglese John Garstang (1876-1956) negli strati neolitici di Gerico; altre furono scoperte da Kathleen Kenyon (1906-1978) nei suoi scavi del tell tra il 1951 e il 1958. Tra il 1983 e il 1985, invece ne affiorarono una trentina negli scavi di emergenza del sito siriano di Ain Ghazal. Gli studiosi sono divisi sulle tecniche usate per crearle (marne argillose calcaree, o intonaco di calce
appositamente prodotto), sul significato delle evidenti anomalie formali, e sull’uso a cui queste pallide immagini erano destinate. Si tratta di antenati completamente spersonalizzati e divinizzati, come farebbero pensare l’assenza di caratteri sessuali e i volti privi di qualsiasi tratto individuale? Di divinità o esseri legati a pratiche funerarie? Di «manichini» destinati a essere rivestiti di stoffe e gioielli preziosi, lasciando scoperto solo il volto? Poiché alcune statue sono busti a due teste, e per qualche misteriosa ragione sia arti trovati a Gerico, sia altri recuperati ad Ain Ghazal recano sei dita invece che cinque, qualche studioso pensa che si tratti di immagini che riproducono gli effetti di anomalie genetiche, un’ipotesi tanto inquietante quanto difficile da dimostrare. A destra: Gerico, Area F: veduta generale dell’abitato e della strada del Bronzo Antico II-III, 3000-2350 a.C. A sinistra: cranio rimodellato in calce, da Gerico. Neolitico aceramico, 8500-6000 a.C.
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GÖBEKLI TEPE
La scoperta dello spettacolare sito anatolico è recente, ma la grandiosità dei suoi impianti cerimoniali lo ha subito proiettato nel gotha degli abitati preistorici del Vicino Oriente
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n queste non semplici riflessioni, si inserisce anche l’ormai celebre sito di Göbekli Tepe, presso Urfa (Turchia), nell’alta valle dell’Eufrate, scoperto e scavato dall’archeologo tedesco Klaus Schmidt (prematuramente scomparso nel 2014). Schmidt scrisse
che qui «si costruirono i primi templi», una primogenitura assai diversa da quella di Gerico. Il centro levantino era stato stabilmente abitato da poche centinaia di individui, ma Göbekli Tepe, con un anticipo di almeno mille anni – e sempre ben prima dell’invenzione
Gli scavi di Göbekli Tepe, sito dell’Anatolia sud-orientale (Turchia) scoperto da una missione archeologica tedesca. Sullo sfondo, le luci della moderna città di Urfa.
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dell’agricoltura –, era frequentato temporaneamente da migliaia di uomini e donne, che partecipavano a feste imponenti, forse tenute in occasioni cerimoniali importanti. In queste feste, masse di persone convenivano sulla collina, raccogliendosi nelle abitazioni che circondavano i centri di culto, e si dedicavano alla scultura, al trasporto e alla messa in opera di enormi monoliti in forme umane (maschili) fortemente stilizzate, associate a 86 a r c h e o
immagini e simboli di animali potenzialmente aggressivi e pericolosi, come uri, cinghiali, orsi, leopardi, vipere e vespe. I monoliti, nel ruolo di colonne perimetrali e portanti di grandi costruzioni semisotterranee, erano gli assi simbolici di complesse attività rituali, che ancora rimangono avvolte nel mistero. Dati etnografici raccolti nel Sud-Est asiatico indicano che il traino e il trasporto di blocchi monolitici di 4 mc richiedevano nel secolo
A sinistra: disegno ricostruttivo in cui si immagina il rito di deposizione dei morti all’ombra delle grandi stele scolpite, erette nei circoli megalitici di Göbekli Tepe. A destra: pilastro con un rilievo raffigurante un toro e una volpe. In basso: strumenti in pietra e schegge di lavorazione, recuperati nel corso degli scavi.
scorso gli sforzi di circa 500 persone; quelli di Göbekli Tepe sono cinque volte piú grandi.
BANCHETTI A BASE DI CARNE Sappiamo che ai tempi della fioritura di Göbekli Tepe prima, e di Gerico poi (10 5008000 a.C. circa) alcuni siti funerari del Vicino Oriente ospitavano fosse di scarico con le ossa di numerosi uri (tori selvatici), testimonianza della perigliosa caccia e del consumo collettivo di tonnellate di carne bovina, probabilmente in banchetti destinati a celebrare la preminenza sociale di alcuni capi. Quale rilevanza ha tutto questo con l’idea di città? Tra gli ospiti delle grandi costruzioni di Urfa, almeno negli ultimi secoli, vi erano persone che si distinguevano dalle altre per
mezzo di perline, vasi decorati e bracciali in pietra semipreziosa, appositamente creati da artigiani abilissimi. Inoltre, anche la temporanea raccolta di grandi masse umane nei medesimi luoghi per scopi rituali richiede specifiche forme di organizzazione. Per esempio, ancora oggi, in occasione della Maha Kumbh Mela (letteralmente «La Grande Festa del Vaso»), la maggiore festività tradizionale induista, il convegno di decine di milioni di persone crea a tutti gli effetti una sorta di Stato temporaneo, regolato da apposite leggi, procedure amministrative e proprie forze di sicurezza. Come Gerico, Göbekli non apparteneva certamente al novero delle città, ma deve averne anticipato, da alcuni punti di vista, parte dei tratti distintivi.
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VARANASI
Capitale dell’induismo, la città sulle rive del Gange «era già antica quando il Buddha era giovane»...
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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L
a grande Khumb Mela si tiene presso Allahabad, nel cuore della valle del Gange, alla confluenza dei due grandi fiumi indiani, il Gange e lo Yamuna. Per gli induisti, a essi si aggiunge la Sarasvati, il sacro fiume scomparso della tradizione, che sgorgherebbe da sottoterra aggiungendosi ai primi due. Nei pressi di questa confluenza, per due terzi geografica e per un terzo virtuale, sorgono le rovine di Jhusi, l’antica città di Pratisthanapuram, lentamente erose dalle acque del Gange. Il monticolo sezionato dalle acque mostra una possente stratigrafia, di 10-15 m di spessore, perlopiú di età storica, anche se si parla di strati preistorici identificati nei livelli piú antichi. Ma se si chiederà a un Indiano il Veduta della città indiana di Varanasi (un tempo nota come Benares), che sorge nello Stato dell’Uttar Pradesh, sulla riva sinistra del Gange.
nome della città piú antica della sua nazione, vi parlerà senz’altro di Varanasi (Benares). Varanasi è la piú importante di una serie di sette città sacre dell’induismo (con Ayodya, Mathura, Gaya, Kanchi, Avantika e Dwaravati) capaci di donare ai fedeli la mokhsa, ossia la liberazione dal ciclo delle rinascite e delle morti, auspicato in città da ben 23 000 templi e piú di 50 000 bramini. Secolare centro di poesia, filosofia e musica classica, Varanasi è anche una immensa necropoli vivente, poiché sui suoi ghat o sponde monumentali a gradoni, dedicate a vari rituali, ogni anno si cremano dai 20 000 ai 30 000 defunti. Cosí la descrive Salman Rushdie, ne I Figli della Mezzanotte: «Sulle rive del Gange (…) la piú antica città vivente del mondo, la città che era già antica quando il Buddha era giovane, Kashi-Benares-Varanasi, la città della Divina Luce, la casa del Libro Profetico, oroscopo degli oroscopi, nella quale ogni vita, passata, presente e futura, è già scritta. Qui la dea Ganga fluí giú sulla terra attraverso i capelli di Shiva (…) Benares, il sacello di Shiva-il-dio». Proprio nel Mrigadava («Parco delle gazzelle») di Sarnath, parte del palazzo di un nobile locale, il Buddha storico, Gautama Siddharta Shakyamuni, aveva iniziato la sua predicazione.
SOLO PICCOLI VILLAGGI Eppure a Varanasi, a fronte di tanta spiritualità e malgrado le locali tradizioni religiose parlino di una fondazione da parte dello stesso Shiva, circa 5000 anni fa, manca proprio la dimensione profonda del tempo percettibile. Nella valle del Gange, e negli stessi dintorni di Jhusi e Varanasi, sono attestati piccoli insediamenti di villaggio dell’età del Bronzo (II millennio a.C.), ma del favoloso mondo narrato nelle storie del Buddha, e prima ancora nei testi sacri della tradizione induista, gli archeologi non trovano traccia. Al di sotto dei primi impianti di età kushana (I-III secolo d.C. circa), infatti, di regola cessano architetture e mattoni, e compaiono enigmatici livelli di frequentazione con carboni, frammenti di ceramica e tracce di povere capanne, come se le metropoli, i palazzi e i principi dei testi sacri indiani non fossero mai esistiti. Ma basteranno gli aridi rapporti di scavo degli archeologi del Gange, letti da una manciata di loro colleghi, a oscurare una mitologia religiosa ancora straordinariamente popolare? a r c h e o 89
SPECIALE • PRIME CITTÀ DEL MONDO
SUSA
Abitato quasi ininterrottamente per seimila anni, il sito è da oltre un secolo uno dei termini di riferimento per l’archeologia dell’antico Iran
SUSA NELLA BIBBIA «Nel terzo anno del re Belshazzar (…) quando ebbi la visione ero a Susa, la residenza regale della provincia di Elam, e nella visione mi trovavo presso il fiume Ulai». Daniele (8: 2) sta per avere immagini profetiche, che, sotto forma di poderosi capridi in lotta e smisurate corna, gli riveleranno la distruzione dei grandi regni del mondo antico, in primis quelli di Media e di Persia, e la venuta e le effimere conquiste di Alessandro il Grande. Nella tradizione talmudica, la porta orientale del Tempio
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perduto di Gerusalemme rappresentava il palazzo reale di Susa, come ricordo della servitú ai Persiani e segno di riconoscenza per la liberazione del popolo ebraico. Altro importante legame tra la grande città iranica e il Vecchio Testamento è fornito dal Libro di Ester, uno dei rarissimi testi biblici che non menzionano direttamente Dio, ma raccontano piuttosto storie umane, in questo caso, molto simili a fiabe. Il libro, che ha come scenario la corte e il palazzo di Susa, racconta di una giovane
A
nche Susa, capitale del Khuzistan (Iran sud-occidentale), alla confluenza dei fiumi Karkeh e Dez (il Choaspe e l’Euleo dell’Antico Testamento, Daniele 7-12, dove il profeta ricevette la sua apocalittica visione del futuro), compare spesso tra le liste delle città piú antiche. Parte del suo prestigio deriva dall’essere stata abitata quasi continuamente dalla metà del V millennio a.C. a oggi, malgrado le distruzioni dell’esercito assiro di Assurbanipal nel 645 a.C., un grande incendio scoppiato al tempo del re achemenide Artaserse I (465-424 a.C.) e le devastazioni degli Arabi (638) e dei Mongoli (1218). Capitale regionale dei regni elamiti, persiano e partico, Susa, e la cosiddetta «Tomba di Daniele», monumento musulmano del XII secolo, avevano cominciato ad attirare l’attenzione di viaggiatori e archeologi già all’inizio del XIX secolo: il monumento infatti raccoglieva capitelli achemenidi e una «pietra nera», probabilmente un kudurru o pietra confinaria in basalto, presumibilmente portato a Susa con altri monumenti da conquistatori elamiti dopo il sacco di Babilonia (del kudurru mesopotamico, le cronache successive ricordano che sarebbe stato distrutto dal capobanda cieco di una bellicosa tribú locale, che vi cercava all’interno dell’oro). Le prime ricerche archeologiche, condotte nell’Ottocento, erano state incentrate sull’esplorazione parziale di grandi costruzioni achemenidi. Jacques de Morgan (1857-1924),
già responsabile del Servizio di Antichità egizie, visitò Susa nel 1891. La vista di strumenti in selce di aspetto preistorico ai piedi del tell lo convinse dell’assoluta antichità delle rovine.
UN MONDO PRIMORDIALE Nel 1902, infatti, scrisse che «Susa, per la sua grande antichità, forniva l’opportunità di risolvere il piú grande dei problemi, quello delle nostre origini. Questa città, credo, apparteneva a quel mondo primordiale che aveva assistito all’invenzione della scrittura, all’uso dei metalli, agli inizi dell’arte. Se un giorno dovessimo risolvere la questione delle origini, sarebbe in Caldea (l’antica Mesopotamia, n.d.r.), e particolarmente a Susa, che dovremmo ricercare gli elementi essenziali». Decidere della profonda antichità di Susa e perforarla con profondi tunnel verticali e «livelli» profondi 5 m, furono scelte conseguenti. Il sito venne quindi sterrato, recuperando opere inestimabili, come la «Stele della Vittoria» di Naram Sin o il monolite con i codici di Hammurabi, ma distruggendo al contempo, e in modo irrimediabile, tutti i contesti e le architetture in mattoni crudi. Giunto alla base della stratigrafia, de Morgan vi rinvenne resti di manufatti in rame. Quei livelli non potevano essere cosí antichi come aveva sognato e l’archeologo francese, sulle soglie della sua enorme trincea vuota, ne ricavò una cocente delusione, cosicché, dopo il 1907, rinunciò definitivamente agli scavi.
A sinistra: gli scavi della missione francese a Susa in una foto del 1958. A destra: giara con coperchio in terracotta dipinta e manufatti in bronzo, da Susa. 2450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
ebrea di nome Hadassah, figlia adottiva di Abiali, conosciuta come Ester, che divenne regina di Persia sposando il re Assuero (Serse I, 519-465 a.C.), e che in un intreccio di colpi di scena poté evitare la persecuzione del suo popolo da parte del malvagio consigliere Haman. La storia di Ester rappresenta il nucleo celebrativo del festival ebraico di Purim, durante il quale il Libro di Ester viene letto in pubblico due volte, alla sera e alla mattina del giorno seguente.
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DAMASCO E ALEPPO
Se pensiamo alla loro storia, è difficile accettare l’idea delle ferite inferte a queste due culle di civiltà «La mia voce risuona, stavolta, da Damasco risuona dalla casa di mia madre e di mio padre a Sham. La geografia del mio corpo cambia Le cellule del mio corpo divengono verdi Il mio alfabeto è verde a Sham. Una nuova bocca mi esce dalla bocca Una nuova voce esce per la mia voce e le mie dita divengono una tribú…» (Nizar Qabbani, Damasco, cosa mi stai facendo?; Sham sta per Bilad al-Sham, il Levante, e, per estensione, la Siria)
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ggi in Siria, come in questo poema, tutto sta vorticosamente cambiando: il mutamento è guidato da mille trasformazioni precedenti, e le grandi città siriane ne sono archivio vivente e doloroso. Se il criterio dell’antichità dei primi insediamenti viene abbinato a quello della continuità abitativa nei medesimi luoghi, sembra proprio che la palma del primato sia legittimamente contesa tra Damasco e Aleppo. Nel bacino di Damasco, a poche decine di chilometri dalla città, sono stati scavati alcuni importanti villaggi del Neolitico aceramico, come Tell Aswad, Tell Ramad e Tell Ghoraifé (VIII millennio a.C.), siti che hanno fornito gran parte dei dati oggi disponibili sulla graduale transizione delle comunità medioorientali al modo di vita agricolo.
NODO CAROVANIERO Damasco risulta essere stata fondata o abitata come città nel corso del III millennio a.C., e poi cresciuta come nodo carovaniero e centro politico dominante nei millenni successivi; tra gli abitati neolitici e quelli dell’età del Bronzo, tuttavia, sembra esservi una discontinuità. Capitale di un regno aramaico tra l’XI e il VII secolo a.C., Damasco fu conquistata dagli Israeliti, poi sconfitta dagli Assiri e annessa al 92 a r c h e o
loro Stato intorno al 600 a.C. Passò quindi in mano dei Persiani, poi dell’effimero impero di Alessandro il Macedone, dei Romani, dei Sasanidi e infine degli Arabi, che ne fecero la capitale dell’impero omayyade. La città vecchia di Damasco entro il circuito delle mura romane, che riflette questa tormentata serie di rivolgimenti politici in una ricca stratigrafia di costruzioni, rifacimenti, trasformazioni e demolizioni, è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità e protetta dall’UNESCO.
Qui sotto: Damasco. La grande moschea degli Omayyadi. Edificata nell’VIII sec., inglobò parte di una preesistente chiesa cristiana intitolata a san Giovanni Battista.
In alto: la cittadella di Aleppo, che si è sviluppata sul tell occupato già in età preistorica e il cui aspetto attuale è riconducibile alle
strutture innalzate fra il XIII sec. e il XVII sec. In basso: un settore della cittadella a ridosso delle mura che cingono il sito.
Tuttavia è Aleppo, oggi la maggiore città della Siria, un tempo la terza dell’Islam dopo Costantinopoli e il Cairo, che sembra avere tutte le carte in regola per il primato di cui parliamo. Sorta all’incrocio delle maggiori vie
carovaniere del mondo antico, Aleppo vanta stratigrafie del VI millennio a.C., mentre scavi ai margini settentrionali dell’area urbana hanno rivelato insediamenti nomadici di 5000 anni piú antichi. Accadici, Ittiti, Assiri, Greci, Romani, Omayyadi, Ayyubidi, Mamelucchi e Ottomani si sono succeduti nei palazzi e nei cantieri edilizi di Aleppo e hanno contribuito a cambiarla, come ad accrescere gradualmente il grande tell che ne sorregge la cittadella. La città iniziò a decadere solo dopo l’apertura del Canale di Suez, che stravolse irreparabilmente gli spazi, le rotte e le dimensioni delle attività commerciali delle città del Vicino e Medio Oriente. Ora i resti dei templi romani, le chiese bizantine, le moschee, gli hammam e i suk della città vecchia di Aleppo sono stati avvolti nel fuoco e nei fumi delle distruzioni della guerra civile e non sappiamo se, cosa e quando ne riemergerà. È di conforto sapere che i resti piú antichi di Aleppo sono ancora celati nelle profondità degli strati inferiori del tell che sorregge la cittadella, una vera «banca della bellezza» ancora capace, al momento, di proteggere i propri ignoti tesori. a r c h e o 93
ERBIL
Quando nei pressi dell’antica Arbela Alessandro colse una vittoria epocale, la città era da tempo fiorente e famosa
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ome Aleppo, la città curda di Erbil è coronata da un grande tell conico, sulla cima del quale sorge una cittadella fortificata alta circa 30 m dalle vie della città circostante. Gli strati archeologici, nel tell, occupano uno spessore di circa 35 m. Come altre grandi città mesopotamiche, Erbil era probabilmente già abitata nel corso del V millennio a.C., come rivelano frammenti di ceramica dipinta tipica del periodo. Forse non tutti sanno che Abdullah Ocalan, ex leader degli indipendentisti curdi attualmente imprigionato a vita in Turchia, scrive libri e saggi di storia politica, antropologia e archeologia del Medio Oriente. Secondo Ocalan, la ceramica preistorica detta di Halaf, diffusa 8000-7000 anni fa nelle piane settentrionali della jazirah («isola») tra il Tigri e l’Eufrate e nelle valli montane circostanti, sarebbe la traccia archeologica delle antichissime radici del popolo curdo.
SI FA PRESTO A DIRE «POPOLO» Va ricordato, comunque, che gli archeologi sono molto scettici sulla possibilità di legare in modo tanto semplicistico popoli e ceramiche e che la nozione stessa di «popolo» è vaga e sfuggente, soprattutto se proiettata tanto indietro nel tempo; le stratigrafie linguistiche, inoltre, si celano a profondità maggiori, e ben piú inaccessibili, di quelle archeologiche. Erbil, comunque, vanta antichità di tutto rispetto; come le maggiori città siriane, viene 94 a r c h e o
citata nei testi cuneiformi della seconda metà del III millennio a.C. – secondo Giovanni Pettinato, primo traduttore delle tavolette di Ebla, col nome di Irbilum. La città crebbe in estensione e benessere in età neo-assira (IX-VII secolo a.C.) come importante centro religioso dedicato al culto di Ishtar. Passò quindi nelle mani dei Medi, poi dei Persiani fino alla loro epocale sconfitta a opera di Alessandro nella battaglia di Gaugamela del 331 a.C. (vedi «Archeo» n. 360, febbraio 2015). Centro multiculturale e di frontiera, Erbil e la sua cittadella, vero ombelico storico dell’intera regione, conobbero conquistatori arabi e turcomanni, comunità cristiane giacobite e nestoriane, culti ebraici e buddhisti, assedi e saccheggi da parte di eserciti mongoli e di tribú curde. Oggi la capitale del Kurdistan iracheno rivive le sue agitate origini. Si trova, infatti, non lontano dalla frontiera del nuovo «califfato» di Iraq settentrionale e Siria orientale, attivamente impegnato a distruggere il patrimonio culturale delle terre occupate; mentre in terra curda l’UNESCO, le locali élite intellettuali e gli archeologi delle maggiori università europee (e anche italiane) continuano gli sforzi per salvare la cittadella dal degrado, investigando e ricostruendo la storia di un’altra «città piú antica del mondo».
In alto: la cittadella di Erbil, che, come accade in molti abitati del Vicino Oriente, si è sviluppata sul tell che custodisce le tracce della frequentazione del sito in epoca preistorica. In basso: un cantiere di scavo lungo il tracciato delle mura che cingono la cittadella.
URUK
Il grande sito della bassa Mesopotamia è uno dei candidati piú credibili per l’assegnazione del titolo di «prima città»
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e ad Aleppo ed Erbil la storia ha accumulato e ancora ammassa i suoi strati in senso verticale, a Uruk, nell’attuale provincia irachena del Dhi Qar, essa si è fermata in orizzontale. Uruk, infatti, appare come un immenso insieme di monticoli perduto nelle desertificate piane di Sumer. Alla città sumerica è quasi incollata l’etichetta della «prima città», soprattutto perché a Uruk è stato possibile studiare l’invenzione e la rapidissima evoluzione dei primi sistemi di scrittura. Ma non è tutto semplice come sembra. Si presume, sulla base di labili indizi, che molte delle città della Mesopotamia meridionale siano state fondate come centri di una certa rilevanza nel corso del V millennio a.C., ma considerando la mancata esplorazione dei livelli di occupazione inferiori e la vastità delle rovine, nessuno può giurare che queste città non siano ben piú antiche. A Uruk, come in nessun altro luogo, è stato esplorato il periodo omonimo, che corrisponde agli ultimi tre o quattro secoli del IV millennio a.C. La stessa enorme estensione della città (circa 400 ettari) e le po-
La ricostruzione virtuale della ziqqurat innalzata a Uruk in onore di Inanna/Ishtar, posta a confronto con quel che resta, oggi, del grandioso monumento. L’edificio venne costruito alla fine del III mill. a.C.
derose, complesse architetture sorte su ampie terrazze artificiali parlano di una «città trionfante», senza tuttavia che gli archeologi abbiano saputo spiegare che cosa effettivamente la gente facesse nelle grandi costruzioni (templi, palazzi, sale di assemblea e pasti comunitari?).
UN COLLASSO REPENTINO Attenzione, però: l’esposizione di queste vaste rovine da parte della missione archeologica tedesca fu possibile perché esse si trovavano quasi in superficie, senza alcuna edificazione posteriore. In altre parole, le costruzioni abbandonate sono testimonianza di un generale, rapido collasso, che ebbe luogo poco dopo la soglia del 3000 a.C., vuoi per un improvviso spostamento del letto dell’Eufrate, vuoi per una gravissima crisi climatica e sociale dalle coordinate ancora misteriose. Piú che «trionfante», Uruk fu città «crollante». Ed è piú che probabile che le stesse ideologie, e le stesse pratiche politiche ed economiche che avevano determinato l’esplosione urbanistica di Uruk ne avessero ipotecato il futuro. Se Uruk è stata la «prima città», essa fu anche il primo grande centro proto-urbano a implodere, anche se non totalmente, sotto il peso delle proprie contraddizioni, in un quadro umano ancora in gran parte sconosciuto. A Uruk, in fondo, è stato perso qualcosa che ancora non sappiamo; un’assenza che sottrae nitidezza alla nostra radicale scelta dell’universo urbano come scenario (irreversibile?) delle civiltà prossime venture.
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SPECIALE • PRIME CITTÀ DEL MONDO
BALKH
Ripetutamente passata di mano, la capitale della Battriana fu ribattezzata dagli Arabi «madre di tutte le città»
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n età pre-islamica (prima del 650 d.C.), Balkh (per i Greci Bactra, in antico battriano Pakhlo) era la capitale della Battriana, satrapia dell’impero persiano, che oggi in parte coincide con l’Afghanistan settentrionale). I resti della città antica si trovano presso un piccolo centro omonimo, non lontano da un corso fluviale minore e stagionale, un affluente dell’Amu Darya. Qui, secondo alcuni storici e archeologi, si sarebbero costituiti, nei grandi palazzi dell’età del Bronzo messi in luce da archeologi sovietici tra l’Afghanistan settentrionale e il Turkmenistan meridionale, i primi gruppi linguistici che parlavano lingue indo-iraniche, prima che, dopo il 2000 a.C., questi si separassero in due grandi tronconi: l’indo-ario (diffusosi a sud est verso l’India) e l’indo-iranico (in direzione dell’Altopiano Iranico).
LA PATRIA DI ZARATHUSTRA? Balkh, secondo molti, sarebbe anche la patria di Zarathustra, che qui, forse nel VI secolo a.C., avrebbe iniziato la sua predicazione, e che, secondo il poeta persiano Firdusi (9351025), vi sarebbe spirato. Nelle stesse pianure, duemila anni fa, si fermò un clan nobile degli Yueh-Chi. Erano Unni nomadi che costituirono una potente dinastia locale, prima di espandersi verso sud-est e creare, con il nome di Kushana, il secondo grande impero univer-
sale della storia del subcontinente indo-pakistano (I-III secolo d.C.). Incastonata tra India, Cina, Asia Centrale e Iran, crogiolo di modi di vita e di religioni incommensurabili, anche Balkh, come le antiche città della Siria, fu per secoli una metropoli composita: prima e dopo la conquista araba vi vissero comunità zoroastriane, ebraiche e buddhiste, e, in seguito, adepti del sufismo. Fino agli inizi dell’VIII secolo, i principi buddhisti di Balkh tennero in scacco efficacemente le armate arabe. L’idea della grande antichità della città e del mondo culturale battriano in generale era ben chiara agli storici e ai geografici arabi, che la chiamarono Umm Al-Belaad o «Madre di tutte le città». Preda secolare delle ambizioni di dinastie arabe – persiane, corasmie, turcomanne e mongole –, sempre di fede islamica, Balkh non rinunciò mai ai suoi attivi interessi commerciali, né a essere un centro culturale, religioso e mistico di straordinaria rilevanza. È bello pensare che Balkh, al di là della sua effettiva antichità (ancora in gran parte da indagare sul piano archeologico) sia vissuta tanto a lungo, e continui a ispirarci, proprio in virtú della sua poliedrica versatilità: un esempio straordinario di come la storia faccia sopravvivere quanti, come la salamandra e le fenici delle leggende medievali, siano capaci di mutare anche nelle mordenti spire del fuoco. Un tratto delle mura di Balkh, con una delle torri di avvistamento di cui il circuito difensivo era stato provvisto.
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IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda
STORIA (E VITA) DI UN MONUMENTO UNA NUOVISSIMA APPLICAZIONE RIPERCORRE LA PLURISECOLARE VICENDA DEL FORO DI TRAIANO. OFFRENDO UN RACCONTO «INEDITO», ATTRAVERSO LA STORIA DI QUESTO CELEBRE COMPLESSO MONUMENTALE (E DEL QUARTIERE CIRCOSTANTE) DALL’ETÀ IMPERIALE AI... GIORNI NOSTRI
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L’
offerta di strumenti per la comunicazione del patrimonio archeologico di Roma si è arricchita di un prodotto di qualità, dedicato al Foro di Traiano e alla sua evoluzione nel tempo. Sergio Fontana, e l’équipe da lui coordinata, hanno impiegato quattro anni per produrre uno strumento destinato a tutti, che è al tempo stesso un lavoro colto, anzi coltissimo. Una dimostrazione tangibile, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di come la divulgazione – compresa quella archeologica –, se è davvero tale, non coincide affatto con la banalizzazione dei contenuti. E chi, nel nostro mondo privilegiato di archeologi, storici dell’arte o architetti, insiste nell’arricciare il naso quando si parla di comunicazione come pilastro e dimensione etica del nostro lavoro, vuol dire che non ne
coglie il significato o che non sa da dove cominciare per metterla in atto. Corollario di questa osservazione è che gli specialisti dell’archeologia non devono certo togliere il lavoro ai «comunicatori» di mestiere, che posseggono e sviluppano proprie specifiche competenze, ma non possono neppure delegare loro un prodotto che deve e può nascere dalla contaminazione dei saperi e delle competenze specialistiche.
CAMBIAMENTI CONTINUI Tra le novità di questa app, che accompagna l’utente nei secoli della trasformazione di uno dei cuori del paesaggio archeologico di Roma, il Foro di Traiano, c’è la dichiarata preferenza per una rappresentazione diacronica della città. Credo sia una delle prime volte in cui Roma viene raccontata
al grande pubblico delle applicazioni nei suoi continui cambiamenti (certo moltiplicabili), quindi secondo l’ottica che l’archeologia urbana ci ha fornito in questa ultima generazione. D’altra parte, non è forse solo il movimento che ci permette di cogliere non dico il presente, ma la realtà tutta nel suo divenire storico? Una certa archeologia irrigidita e nostalgica, quando si cimenta con le ricostruzioni di siti di diversa natura, sembra volersi riportare sempre e solo all’attimo creativo iniziale del monumento o del paesaggio che studia, quasi a esorcizzare – rivisitandolo cosí com’era nel suo primo attimo di vita – la sua morte, segnata invece da una lunga vita fatta di trasformazioni, e cioè di cicatrici, cerotti, perdite di funzioni e di senso, e acquisizioni di senso e di funzioni nuove. L’archeologia moderna ha invece bisogno della vita e del movimento come dell’aria, e si muove nello spazio e nel tempo, a ritroso e viceversa, proprio come l’utente di questa app, disposto a sentirsi narrare dai luoghi stessi il racconto della propria esistenza.
ARCO DEI PANTANI 125 d.C.
CAMPO CARLEO 125 d.C.
SCENARI NUOVI Apprezziamo cosí le trasformazioni del paesaggio urbano immergendoci in scenari finora solo immaginabili chiudendo gli occhi, e ora invece aprendoli.
Tutte le immagini utilizzate a corredo dell’articolo sono tratte dalla app Imperial Fora (vedi box a p. 102).
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CAMPO CARLEO 1450 d.C.
E, soffermandoci sui dettagli, vediamo che dietro ogni immagine c’è un mondo di studio, c’è la conoscenza intima delle ultime acquisizioni scientifiche, c’è la confidenza con i repertori iconografici di piante e vedute, c’è
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Questa conoscenza profonda crea le condizioni per passare dalla informazione all’esperienza, e ci fa rivisitare alcuni scorci della Roma sparita tra Sette e Ottocento, e di quella rinascimentale truccata dall’«ubriacatura» del barocco, ma che sta ancora lí sotto i muri, non appena li scortichiamo per farli parlare (almeno dove non siano stati demoliti, come è il caso proprio del quartiere dei Pantani, erede storico dei Fori di Augusto e di Traiano, raso al suolo negli anni Venti e Trenta del secolo scorso). Seguendo i percorsi proposti nella app ho rivissuto la scoperta di
la padronanza del primo rilievo geodetico di Roma, quello condotto nel XVIII secolo da Giambattista Nolli (1701-1756), c’è lo studio delle trasformazioni edilizie racchiuse nei fascicoli del Titolo 54 dell’Archivio di Stato di Roma.
CAMPO CARLEO 1750 d.C.
quella percezione, non immediata ma conquistata, del rapporto spazio/tempo che mi ha accompagnato nei decenni trascorsi nel cantiere della Crypta Balbi a Roma, trent’anni fa.
ARCO DEI PANTANI 1450 d.C.
UNA FREQUENTAZIONE ININTERROTTA Una percezione affidata poi allora a qualche semplice morphing e ad alcuni bei disegni, che ci aiutavano (e spero aiutino tuttora i visitatori di quel museo) a capire che frequentiamo ancora gli stessi spazi, talora addirittura le stesse quote, che altri frequentarono
ARCO DEI PANTANI 1750 d.C.
prima di noi e che altri ancora frequenteranno. C’è una compresenza del passato che, lungi dallo stendere un’ombra di morte sul presente, permette a noi di illuminare di vita quel che è stato, riempiendo di senso le nostre
percezioni e le nostre sensazioni. E a pensarci bene, sarebbe certo affascinante arricchire un giorno quelle percezioni anche di altri aspetti sensoriali, non solo nel passaggio dal giorno alla notte, dall’alba al crepuscolo (le ombre
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ULPIA 1450 d.C.
usate nelle ricostruzioni della app sono quelle delle 10,30 del 21 aprile), ma restituendo voci, rumori, odori, tanfi, umanità. La cura filologica minutissima dei dettagli edilizi e ambientali e l’attenzione per la cultura materiale dei luoghi rivelano, come dicevo, un lavoro colto, ma anche una direzione di ricerca: quasi un programma per quel Museo della città di Roma che ancora non c’è e che di questa percezione del tempo e dello spazio, delle sue qualità e quantità dovrebbe o potrebbe fare il suo binario principale.
IL MUSEO CHE VERRÀ Quel museo un giorno ci sarà. I materiali di riflessione, rispetto al dibattito asfittico che sollevò e chiuse l’argomento trent’anni fa, ormai non mancano certo, e speriamo di poterlo vedere e apprezzare in un futuro non troppo lontano. Chissà, prima ancora vedremo forse come va a finire il progetto di copertura dell’area dell’Athenaeum, scoperta ai margini del Foro di Traiano durante i lavori per la Metro C, di cui si è momentaneamente persa traccia. Confesso che – se avessi partecipato al concorso di idee per la sua copertura e trasformazione in
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Un confronto continuo tra passato e presente
ULPIA 1815 d.C.
sito visitabile – avrei volentieri celato quei muri dietro i volumi immortalati in quel luogo qualche secolo fa dall’incisore Giuseppe Vasi (1710-1782), nello stile o, se volete, con l’empatia delle vedute ricostruite da Sergio Fontana. Qualcosa dunque si muove lungo i Fori Imperiali. L’acqua ferma dello stagno sembra essersi mossa, e rimette in campo nuove anastilosi, virtuali e reali, e riempie le serate romane con gli splendidi spettacoli ricostruttivi di Piero Angela e Paco Lanciano al Foro di Augusto e a quello di Cesare. Quest’aria nuova circola perché sembrano essersi mossi all’unisono alcuni pezzi delle istituzioni e alcuni settori dell’opinione pubblica, almeno quelli stufi di ascoltare certe prediche fondamentaliste declamate dai conservatori di un passato mai esistito e dai nostalgici del Grand Tour.
IMPERIAL FORA permette di cogliere l’immagine delle trasformazioni di Roma, dall’antichità ai giorni nostri, in un punto nevralgico della città, l’area dei Fori Imperiali. L’applicazione è composta da tre sezioni principali: Live 3D, Map, History. Nella sezione Live 3D si possono esplorare le aree dei Fori di Traiano e di Augusto cosí come sono oggi. La navigazione può essere impostata in quattro periodi storici: il 125 d.C., il 1450, il 1750 e il 1815. Alcuni cartelli segnalano i luoghi di interesse che possono essere osservati nella loro evoluzione nel corso del tempo. Lungo il cammino alcune sfere rotanti permettono di esplorare i luoghi come in una macchina del tempo, passando da un’epoca all’altra. Nella sezione Map è possibile accedere ai contenuti esplorando e manipolando modelli tridimensionali, che ricostruiscono l’area dell’applicazione nei vari periodi storici; ed è possibile visualizzare i contenuti su una foto aerea per localizzarli nella città attuale. La sezione History consente di rivivere, attraverso testi e immagini, le vicende storiche e urbanistiche dell’area dei Fori Imperiali dalla fondazione di Roma ai giorni nostri. Info: http://imperialfora.3drome.it/
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…INVENTÒ LA FANTERIA DI MARINA V
enti secoli prima che, nel 1775, fosse istituito, negli Stati Uniti d’America, il Corpo dei Marines (peraltro, a imitazione di un’analoga unità inglese piú vecchia d’una ventina d’anni, per non parlare dei «Fanti da Mar», creati dalla Repubblica di Venezia nel 1550), a Roma venne «inventata» quella che, a buon diritto, può essere detta la Fanteria di Marina, «antenata», quindi, di qualsiasi istituzione similare alla quale poi sia stata data vita. Accadde nel 311 a.C. – nel corso della seconda guerra sannitica – dopo che, l’anno prima, con una legge di iniziativa «popolare»,
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presentata dal tribuno della plebe Marco Decio, erano stati istituiti i duumviri navales: due magistrati, incaricati dell’allestimento e del mantenimento di una flotta militare. Sulle navi furono imbarcati soldati forniti dagli alleati delle città marittime dell’Italia, detti perciò socii navales. L’esordio, una ventina d’anni dopo l’agguato delle Forche Caudine, non fu brillante, anzi. Lo riferisce, senza «censure», Tito
ROMA COSTRUÍ LA SUA SUPREMAZIA ANCHE GRAZIE ALLE RIPETUTE VITTORIE NAVALI. OTTENUTE PER MERITO DI UOMINI CAPACI DI TRASFORMARSI IN «MACCHINE DA GUERRA» PRESSOCHÉ IMBATTIBILI
Qui accanto: disegno ricostruttivo di una quinquereme romana. Nella pagina accanto: ricostruzione dell’abbordaggio di una nave nemica con il corvus («corvo») e del conseguente arrembaggio.
Livio (IX, 38), il quale scrive che la flotta romana, guidata da un Publio Cornelio Scipione (antenato dell’Africano), a cui il Senato aveva dato il compito di sorvegliare il litorale campano, approdò a Pompei dove i soldati sbarcarono, andando a saccheggiare il territorio nucerino: «Dopo aver devastato in fretta i luoghi piú vicini, da dove si poteva tornare senza pericoli alle navi, allettati dalla preda, come è solito accadere, spintisi troppo avanti, richiamarono l’attenzione degli abitanti. Mentre erano sparpagliati per i campi – prosegue lo storico – nessuno andò loro incontro (...) ma, quando rientrarono in gruppo senza alcuna precauzione, i contadini, raggiuntili non lontano dalle navi, tolsero loro il bottino e parte ne uccisero. Il grosso, scampato alla strage, fu ricacciato, terrorizzato, verso le imbarcazioni».
colonna onoraria ornata di rostri), nel 260 a.C., al largo di Milazzo, fino all’ultima, vinta nel 241 da Lutazio Catulo, presso le Isole Egadi. Ma la Fanteria di Marina dei Romani, finalmente imbarcata sulle quinqueremi (anziché sulle vecchie e inadatte triremi), ebbe allora ben altra consistenza di quella avuta ai suoi primordi e un’efficacia forse nemmeno del tutto sperata. E ciò, non tanto perché – come si continua a ripetere, piuttosto banalmente, fin dall’antichità, a cominciare dagli storici greci – i Romani riuscirono a trasformare gli scontri navali in battaglie di terraferma (un’assurdità, se solo si pensa all’incomparabile diversità del «teatro» e delle condizioni Qui sotto: lo schema di funzionamento del corvus, una «passerella» alla cui estremità era applicata una punta metallica acuminata.
ROMA RIBALTA LA SCENA Mezzo secolo dopo questo grottesco esordio, scoppiata la prima guerra punica, la flotta romana dovette ripetutamente fronteggiare quella di Cartagine. E le cose andarono ben diversamente. Al punto che la «regina dei mari» venne sconfitta soprattutto nelle battaglie navali: da quella iniziale, vinta da Caio Duilio (il primo generale romano a ottenere il «trionfo navale» e una
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ambientali dei combattimenti, al di là dell’inevitabile analogia del «corpo a corpo» finale), ma perché, al contrario, seppero utilizzare (perfezionandola) una forma di combattimento tipicamente «navale». Cioè da mettere in atto esclusivamente sul mare, con uomini preparati allo scopo. Obiettivo del combattimento navale non fu piú, infatti (o non piú tanto), quello di distruggere le navi nemiche, bensí quello di neutralizzarne qualsiasi velleità di offesa e, possibilmente, di impadronirsene dopo averne preso il controllo. Nella già ricordata battaglia delle Egadi, secondo quanto riferisce lo storico greco Polibio (I, 61), le navi cartaginesi distrutte e affondate furono 50 e 70 quelle catturate dai Romani.
NUOVE STRATEGIE Per raggiungere lo scopo, venne dunque messa da parte (o lasciata in secondo piano) la tecnica dello speronamento col rostro, che mirava allo sfondamento delle fiancate delle navi nemiche (o anche alla distruzione dei loro organi di governo, come remi e timoni) e privilegiato l’arrembaggio. Ma, se per lo speronamento erano sufficienti marinai abili ed esperti, capaci di far compiere alla propria nave manovre particolarmente difficili (e pericolose) – oltre che di evitare lo speronamento nemico –, per l’arrembaggio, insieme ai pur sempre indispensabili marinai per le preliminari operazioni dell’abbordaggio, servivano soldati che, una volta passati sul ponte di coperta della nave nemica, sapessero avere rapidamente ragione di qualsiasi tentativo di resistenza. Per procedere all’arrembaggio la nave prescelta veniva agganciata con l’impiego di speciali «grappini d’abbordaggio», chiamati «mani di ferro» (manus ferreae), ma i Romani escogitarono
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anche uno «strumento» che agevolava il passaggio dei loro uomini sulla nave abbordata: il «corvo» (corvus). Secondo la descrizione di Polibio (I, 22), si trattava di una «passerella» o scala mobile di legno, fornita di un basso parapetto e alla cui estremità era applicata una punta metallica acuminata volta verso il basso (quasi un becco aguzzo, dal quale prese nome), assicurata a una lunga e robusta pertica munita in alto di una carrucola e issata in prua. Al momento opportuno, grazie a un sistema di funi, il «corvo», tenuto solitamente sollevato, veniva abbassato e fatto ricadere con forza sulla nave nemica (impedendone, tra l’altro, qualsiasi movimento), sulla quale si agganciava con la punta acuminata. Su questa sorta di ponte si lanciavano i soldati, affiancati due a due se l’abbordaggio avveniva in prua e «da ogni parte» se sul fianco.
LA TRACOTANZA PUNICA In ogni caso, ne nascevano piccoli scontri «di fanteria», perlopiú in forma di duello. Vale la pena di rileggere il brano che, ancora Polibio (I, 23) dedica alla battaglia di Milazzo, nella quale il «corvo» (la cui invenzione viene attribuita allo stesso Caio Duilio) fece la sua prima apparizione: «[I Cartaginesi] lieti ed entusiasti, mossero con centotrenta navi, pieni di disprezzo per l’inesperienza romana (...) quasi procedessero verso un sicuro bottino (...) A sinistra: ricostruzione della colonna con rostri e ancore eretta in onore di Caio Duilio per la vittoria navale ottenuta nel 260 a.C. a Milazzo. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto: Roma, Musei Capitolini, Sala di Annibale. Trionfo di Roma sulla Sicilia (particolare), affresco attribuito a Jacopo Ripanda. Inizi del XVI sec.
Avvicinatisi e visti sulla prora di ogni nave i corvi rivolti all’insú, rimasero sulle prime incerti, stupiti per la novità di quelle macchine; dopo un po’, tuttavia, ancora disprezzando il nemico, le avanguardie ingaggiarono arditamente battaglia. Via via che cozzavano, però, le navi venivano attanagliate dalle macchine e subito i Romani passavano a combattere sulle tolde delle navi nemiche; i Cartaginesi in parte furono uccisi e in parte, sconvolti per quanto era accaduto, si arresero: la battaglia finí col diventare in tutto simile a un combattimento di fanteria». Lo storico conclude scrivendo: «Infine, visto che da ogni parte i corvi incombevano minacciosi al punto che chi s’avvicinava veniva
inesorabilmente attanagliato, i Cartaginesi cedettero e volsero in fuga, terrorizzati da quella nuova esperienza».
TRUPPE SCELTE E BEN ADDESTRATE A nostra volta, dobbiamo aggiungere – e commentare – che il corpo a corpo finiva col diventare un combattimento «di fanteria», ma, nel caso, condotto da uomini specializzati, specificamente addestrati e allenati. Uomini che, sempre Polibio, dichiara «scelti tra i piú sicuri della fanteria» e, potremmo precisare, forniti di quello che in gergo si chiama «piede marino», cioè la capacità di restare lucidi ed efficienti anche in situazioni difficili e avverse.
Furono perciò chiamati milites navali e poi, in età imperiale, classarii (da classis, flotta). Per l’appunto, «fanti di marina»! Ai quali non spettava solo il compito dell’arrembaggio, ma anche quello di condurre altre operazioni «speciali», anfibie e di terraferma, come gli sbarchi, i combattimenti e i temporanei presidi sulle coste nemiche, agendo perlopiú di sorpresa. Con questi uomini, e con i mezzi e le tattiche di cui s’è detto (e un eccezionale impiego di energie e di risorse) Roma, dopo aver tolto ai Cartaginesi l’antica e consolidata supremazia navale, nel giro di un secolo, si assicurò il dominio assoluto del mare. Ciò che le consentí – per via transmarina – la progressiva conquista delle province d’oltremare e la creazione (iniziata proprio con la vittoria sui Cartaginesi) di un impero tricontinentale, che ebbe nel Mediterraneo – il Mare nostrum – il suo centro vitale. Resta da dire come, a partire da Augusto, quello che durante tutta la repubblica era stato approntato (spesso con carattere d’urgenza) al bisogno, divenne stabile. Furono infatti create due grandi flotte permanenti – ciascuna delle quali ebbe l’appellativo di praetoria e per comandante un praefectus – che, col compito di garantire la sicurezza, rispettivamente nel bacino occidentale del Mediterraneo e in quello orientale, ebbero la loro base a Capo Miseno e a Ravenna. Mentre altre flottiglie furono stanziate nei mari periferici e sui grandi fiumi. Vale infine anche anche la pena di sottolineare come ogni nave di queste flotte, qualunque fosse la sua importanza, venisse assimilata a una centuria dell’esercito legionario e il contingente di soldati imbarcato su ognuna di esse (pari a 130/150 uomini) fosse, per conseguenza, posto al comando di un centurione.
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SCAVARE IL MEDIOEVO Andrea Augenti
I CROCIATI SON TORNATI... QUALE IMPATTO AMBIENTALE POTEVA AVERE L’INSEDIAMENTO DI UN ORDINE MILITARE? E QUALI RIFLESSI SUL PIANO CULTURALE E SOCIALE? SONO QUESTI ALCUNI DEGLI INTERROGATIVI AI QUALI STANNO CERCANDO DI RISPONDERE GLI SPECIALISTI COINVOLTI IN UN PROGETTO INTERDISCIPLINARE DI GRANDE INTERESSE, AVVIATO NELLE REGIONI BALTICHE
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i sono aspetti del Medioevo che da sempre suscitano un grande fascino, perché considerati esotici, misteriosi, esoterici. Ne sono esempi emblematici i Templari o i Cavalieri Teutonici, appartenenti, questi ultimi, a un ordine monastico-militare nato in Terra Santa durante la terza Crociata per assistere i pellegrini (e che fu poi di ispirazione anche per il regime nazista, che gli intitolò un’onorificenza). Naturalmente, se non ci si ferma alla fascinazione iniziale, anche per temi come questi è possibile condurre ricerche con senso compiuto, e molto interessante. È quanto sta facendo un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’archeologo Aleks Pluskowski (Università di Reading, Inghilterra). Il progetto è stato intitolato «Ecologia delle Crociate» e impegna una nutrita serie di specialisti – archeologi, geologi, zooarcheologi, esperti di paleobotanica, nonché, naturalmente, storici delle fonti scritte – nell’area del Mar Baltico: Polonia, Lettonia, Lituania ed Estonia. Il fine è appunto quello di ricostruire l’impatto ambientale delle crociate in quei territori, fra il XIII e il XV secolo. I principali temi affrontati sono: le conseguenze della costruzione di una fitta rete di castelli da parte dei Cavalieri Teutonici; l’adattamento
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degli stessi Cavalieri allo sfruttamento della fauna locale, per esempio a scopo alimentare; la relazione che si venne a creare tra i nuovi arrivati – portatori dell’ideologia cristiana – e la popolazione locale, ancora pagana; piú in generale, l’impatto delle crociate sul paesaggio di quelle zone dal punto di vista ecologico, fisico e culturale. Il progetto è ancora in corso, ma le
hanno dimostrato che l’arrivo dei Cavalieri Teutonici in quella zona coincise con la diffusione della coltura dei cereali – in particolare la segale –, là dove prima lo spazio era occupato da un fitto bosco.
novità sono già molte. Per esempio, le analisi dei resti dei pollini contenuti negli strati di riempimento del fossato del castello di Malbork, in Polonia,
costruzione dei castelli, perché le comunità che vi risiedevano generarono una nuova domanda di prodotti agricoli, alla quale si rispose con una deforestazione
LA SCOMPARSA DEI BOSCHI Come quello attorno a Malbork, molti altri boschi furono compromessi proprio dalla
In alto: castello di Cesis (Lettonia centro-settentrionale). Resti di cavalli in corso di scavo all’interno di una scuderia parzialmente crollata. Il castello fu una delle basi dei Cavalieri Teutonici nella regione baltica. Nella pagina accanto: veduta del Castello di Marienburg (di Maria), detto Malbork dal 1945 (Polonia). Il castello, realizzato su un monastero fortificato del XIII sec., divenne, agli inizi del Trecento, l’imponente residenza dei Cavalieri Teutonici. massiccia. Le indagini hanno riguardato anche le tipologie dei cavalli, ricostruite alla luce dei resti ossei: piú grandi e massicci quelli dei Cavalieri Teutonici, bestie che permettevano loro l’impiego di armature e armi molto pesanti; completamente diversi i cavalli delle popolazioni locali, piú snelli e meno imponenti. Dall’epoca delle crociate, nell’area baltica, si afferma inoltre in modo capillare il
consumo del pesce, evidentemente centrale nei nuovi regimi dietetici di regioni da poco convertite al cristianesimo. E ancora, l’indagine ha analizzato l’impatto della colonizzazione sulle credenze e i rituali: per esempio, gli scavi in vari cimiteri hanno dimostrato che in Lituania, dal XIV secolo, si diffonde l’usanza di seppellire le donne anziane con collane dalle quali pendono artigli d’orso. Un rituale nel quale si può forse vedere un’interpretazione locale del concetto cristiano di resurrezione.
UN «GIOCO» SERISSIMO Una parte del progetto è stata poi dedicata al re-enactment, ovvero alle ricostruzioni in prima persona, da parte dei ricercatori, di situazioni storiche, con tanto di abiti e armature d’epoca. E non si tratta di un semplice passatempo: gli studiosi membri del progetto hanno simulato una delle
campagne condotte dai crociati lungo le frontiere della Lituania, armati di tutto punto e a cavallo, per verificare le difficoltà di queste spedizioni, che si svolgevano in territori molto diversi tra loro. Archeologia sperimentale, quindi, in piena regola. Al momento, «Ecologia delle Crociate» è uno dei progetti piú all’avanguardia nel campo dell’archeologia medievale; ne fanno parte studiosi di università dell’Europa occidentale, orientale, e degli Stati Uniti (Stanford), che collaborano fruttuosamente, grazie a un finanziamento dell’Unione Europea. È lo specchio di un mondo sempre piú globalizzato, anche dal punto di vista della ricerca scientifica; e della necessità di guardare con crescente attenzione ai contesti ambientali, se vogliamo davvero entrare nelle pieghe della storia attraverso le fonti archeologiche.
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L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
PER FORZA, PIÚ CHE PER AMORE SATIRI CHE SI DANNO ALL’INSEGUIMENTO E ALLA CATTURA DELLE NINFE ANIMANO LA MONETAZIONE DELL’ISOLA DI THASOS. E LE SCENE, SENZA DUBBIO ISPIRATE A MODELLI SCULTOREI, HANNO COME DENOMINATORE COMUNE UNA PASSIONE DECISAMENTE IMPETUOSA E CARNALE
T
hasos, montuosa isola nell’Egeo che dista appena 6 km dalla costa della Tracia, fu celebre per le ricchezze naturali, il fertile territorio, le cave di marmo, l’oro e altri metalli presenti in miniere, che, come racconta Erodoto, furono sfruttate per prime dai Fenici stabilitisi in questa terra, che prese nome dal loro condottiero Taso (Storie, VI, 46-47). I suoi prodotti tipici si fecero apprezzare in tutto il Mediterraneo: oltre ai già ricordati metalli e marmo, le castagne, il legno, l’olio e in particolare il vino, rosso e profumato.
DIO DELLA TRACIA Unendo al fattore commerciale l’aspetto religioso, la monetazione di Thasos, battuta intorno alla metà del VI secolo a.C., celebra nei suoi tipi l’uva, il vino (quindi il commercio) e naturalmente la divinità che lo rappresenta, Dioniso, insieme al suo corteggio di satiri/sileni, ninfe, baccanti e animali, tutti protagonisti dei riti a carattere orgiastico. Occorre peraltro ricordare che Dioniso era ritenuto di origine trace
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Dritto di uno statere in argento dell’isola di Thasos. Vi è raffigurato un satiro itifallico che tiene, o, forse meglio, trattiene una ninfa, che cerca di divincolarsi: la scena è riconducibile a riti dionisiaci e di auspicio della fertilità. 520-510 a.C. (Erodoto, Storie, V, 7) e il suo culto ebbe quindi una forte e particolare influenza in quel territorio. Come di regola, le emissioni d’argento di Thasos adottano tipi destinati a celebrare e rendere
riconoscibile quel che caratterizzava la comunità civica locale di provenienza. Troviamo cosí l’immagine di Eracle, relativa a un importante culto dell’eroe il cui tempio fu fondato dai Fenici, e quindi quella di Dioniso. Quest’ultimo compare su alcune emissioni, al dritto, con il suo bel profilo apollineo giovanile o con i tratti maturi piú caratterizzati. Su altri conii, invece, il dio lascia il posto al suo corteo di atavici personaggi semidivini quali satiri e ninfe, esseri a metà strada tra cielo e terra, non umani ma dall’aspetto umanoide, compagni degli dèi, ma non loro pari, soggetti alla morte e al dolore. E anche all’estasi dell’amore ferino, immediato, legato alla fecondità e al ciclo eterno della vita: in questo senso possono leggersi i tipi con satiro e ninfa sugli stateri e altri nominali in argento. La scena è composta da un satiro muscoloso e vigoroso, a volte itifallico, che sembra in ginocchio e tiene tra le braccia una ninfa (denominata negli studi anche «baccante»), avvolta in una leggera
veste plissettata, che cerca di divincolarsi e sfuggire. La postura inginocchiata del satiro, che farebbe pensare al compimento dell’atto sessuale,va invece ricollegata al modello arcaico, coevo, della corsa accovacciata che caratterizza la scena: il satiro rapisce la ninfa recalcitrante e la porta via correndo.
RAPIMENTI RITUALI È facile ricondurre questo rituale non solo a modelli dionisiaci, ma anche a quelli di antiche cerimonie di fertilità e di «rapimento» delle donne, come il ratto delle Sabine, riprodotto anch’esso sulle monete romane di età repubblicana, sebbene qui l’antica corsa accovacciata abbia ceduto il passo a una raffigurazione piú moderna. Con questa scena, ricorrente anche in altre località della Tracia, Thasos dovette produrre un gran numero di monete, ritrovate in aerea balcanica e mediterranea, facendone il tiposimbolo dell’isola. È interessante notare l’evolversi della rappresentazione dei due protagonisti, che segue quella della statuaria coeva, cosí come delle riproduzioni su altri supporti. Le monete del VI secolo a.C. sono poco naturalistiche nella resa – satiro e ninfa hanno pettinature a lunghe trecce e una certa meccanicità nella posizione –, mentre quelle del secolo successivo, mediate dall’influenza attica classica, sono dei veri capolavori dell’arte incisoria. Il disegno diviene allora quasi virtuosistico e il ratto a mero fine
In alto: denario di L. Titurius L.f. Sabinus, 89 a.C. Al dritto, testa del re sabino Tatius; al rovescio, il ratto delle Sabine. A sinistra: un altro statere d’argento di Thasos. 412-404 a.C. circa. Al dritto, ritroviamo il motivo del satiro che trattiene una ninfa recalcitrante; al rovescio, un quadrato incuso (elemento incavato rispetto al piano della moneta) suddiviso in quattro parti. La A che compare al dritto è interpretata come un’indicazione di zecca, una sigla dei magistrati preposti all’emissione o una sorta di firma dell’incisore. sessuale si trasforma in un’elegante, anche se possente, scena amorosa: quasi con galanteria, il satiro, con il volto maturo e la testa calva, trasporta con passione la giovane, le cui morbide forme sono coperte da un leggero panneggio che ricorda i chitoni delle figure femminili del Partenone. Infine, gli ignoti maestri del conio si diedero ad ardite composizioni di tre quarti, perfettamente riuscite, senza dubbio ispirate a gruppi scultorei coevi. (2 – continua)
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Paolo Matthiae
DISTRUZIONI, SACCHEGGI E RINASCITE Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’ISIS Electa, Milano, 264 pp., ill. col. e b/n 24,90 euro ISBN 978-88-3709656 www.electaweb.it
Cosa resta da fare a un grande archeologo che vede il territorio, nel quale ha scavato e studiato per decenni, sfigurato dalle devastazioni di una banda di terroristi? Può scrivere un libro che, perfino da un’esperienza cosí traumatica, tragga insegnamenti e li trasmetta al lettore. Nasce cosí Distruzioni, saccheggi e rinascite. Gli attacchi al patrimonio artistico dall’antichità all’ISIS, l’ultima fatica di Paolo Matthiae, lo
scopritore di Ebla, in Siria, luogo leggendario dell’archeologia vicino-orientale, nel quale il professore dell’Università «Sapienza» di Roma ha condotto 47 campagne di scavo, tra il 1964 e il 2010. È un libro scritto «cum ira et studio», con «irritazione e rancore fortissimi» e non minore partecipazione emotiva, intorno a un tema che l’autore credeva di non dover affrontare, convinto che «mai piú esso sarebbe divenuto di agghiacciante rilievo dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale». Ma l’insorgere, proprio nella terra cosí cara a Matthiae, di una nuovissima forma di barbarie, ha determinato un suo repentino, e doloroso, ripensamento. L’autore affronta l’argomento da lontano, dedicando al concetto
stesso di «rovina» – e al suo padre naturale, il degrado nel tempo – il capitolo iniziale del volume. «Il deperimento, fino alla rovina o alla scomparsa, delle strutture architettoniche e il degrado delle opere artistiche (…) si sono realizzati nella storia con modalità di una varietà infinita» scrive Matthiae; e ricorda la straordinaria intuizione di un grande sociologo dell’Ottocento, Georg Simmel, il quale annotava come «il fascino della rovina consiste nel fatto che essa presenta un’opera umana, pur producendo l’impressione di essere un’opera della natura». Nei capitoli successivi, alla forza distruttrice del tempo si sostituisce quella messa in atto dall’uomo, nelle sue diverse e millenarie declinazioni: dai saccheggi ai processi di appropriazione e conseguente acculturazione, all’annientamento deliberato della memoria culturale di un nemico. La seconda parte del volume si apre ai grandi temi della conservazione del patrimonio monumentale e artistico: prima nella sua forma passiva – di continuità tollerata – e, poi, di rinascenza, infine di riscoperta. Baghdad (Iraq), aprile 2003. Carri armati statunitensi davanti all’Iraq Museum, dopo il saccheggio.
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Le pagine conclusive di questo enciclopedico e necessario instant book riassumono la tragedia del patrimonio distrutto, partendo dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale per arrivare alle tragiche vicende siriane dell’estate 2015 (ampiamente documentate anche nelle pagine di «Archeo»): e, nel capitolo intitolato «Valori oltre la tradizione: universalità del patrimonio», l’autore elenca con appassionata chiarezza errori e responsabilità, ma anche le linee di condotta e gli strumenti con cui siamo chiamati a contrastare chi mira ad annientare il passato. E riporta le parole del direttore generale dell’UNESCO, Irina Bokova: «È nella diversità delle culture che le società crescono e si arricchiscono. Ma questo disturba gli estremisti dell’ISIS (...) Se il fanatismo è una deviazione intellettuale, dobbiamo rispondere con le armi dell’intelletto». Andreas M. Steiner
DALL’ITALIA Nicola Denzey Lewis
I MANOSCRITTI DI NAG HAMMADI Una biblioteca gnostica del IV secolo Carocci Editore, Roma, 448 pp. Ill. b/n 28,00 euro ISBN: 978-88-430-7185-2 www.carocci.it
Da qualche anno, la casa editrice Carocci si distingue per l’attività di traduzione di testi di alta qualità scientifica, da utilizzare in ambito universitario, e propone ora l’importante e utile monografia di Nicola Denzey Lewis Introduction to Gnosticism.
Il volume offre una notevole mole di dati interessanti e aggiornati sul fenomeno gnostico e sul cristianesimo delle origini, in forma chiara e leggibile. Nella traduzione italiana il titolo è divenuto I manoscritti di Nag Hammadi. Una biblioteca gnostica del IV secolo, giacché essa si incentra sull’analisi
dei testi della biblioteca gnostica scoperta nel 1945 nella località egiziana: l’autrice li presenta riunendoli per temi e secondo i generi letterari a cui fanno riferimento e li inquadra nel piú ampio contesto dei fenomeni religiosi dell’età tardoantica, contribuendo a sciogliere alcuni dei molti interrogativi che ancora suscitano. Marco Di Branco Simona Pannuzi (a cura di)
GANDHARA. TECNOLOGIA, PRODUZIONE E CONSERVAZIONE Indagini preliminari su sculture in pietra e stucco del Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci» Gangemi Editore, Roma, 96 pp., ill. col. e b/n 20,00 euro ISBN 978-88-492-2863-2 www.gangemieditore.it
Il volume dà conto del progetto di ricerca multidisciplinare condotto su alcune delle testimonianze dell’arte plastica gandharica facenti parte delle collezioni del Museo Nazionale d’Arte Orientale. L’Italia, e il museo romano innanzitutto, hanno una lunga e consolidata tradizione di studi in materia, se si considera che le prime missioni nella regione del Gandhara – oggi compresa fra il Pakistan e l’Afghanistan – furono condotte nel 1956, per iniziativa di Giuseppe Tucci. Come si legge nel capitolo introduttivo
Autunnali ha infatti immaginato che in Italia si sia deciso di far frequentare la scuola anche ai simpatici felini, creando per loro un percorso di studio simile a quello dei ragazzi. Tra i meriti del professor Bellandi c’è quello di appassionare la classe – con l’aiuto di un gatto-
di Simona Pannuzi, il progetto aveva come fine primario l’accertamento dell’effettivo aspetto originario delle sculture: analogamente a quanto fatto negli ultimi anni nell’ambito dell’arte greca e romana, si voleva cioè verificare l’eventuale presenza di rivestimenti in stucco, oro o altri materiali, utilizzati per conferire alle opere un aspetto ben diverso dalla «neutralità» che oggi le caratterizza. Stefano Mammini Melisanda Massei Autunnali
ETRURIA FELIX Edizioni Il Foglio, Piombino, 290 pp., 14 ill. in b/n 15,00 euro ISBN 978-88-7606-553-8 www.ilfoglioletterario.it
Alle numerose guide dell’Etruria se ne aggiunge una davvero originale: ne sono infatti protagonisti un docente avanti negli anni, sovrappeso, abitudinario, severo, ironico – il professor Augusto Bellandi – e una classe formata da... tredici gatti. Melisanda Massei
allievo indisciplinato e curioso, Ivano Tussinini – alla civiltà etrusca. Da qui una serie di gite in Etruria con visite a Populonia, Volterra, Chiusi (dove gli «scolari» incontrano un gatto saggio chiamato Porsenna), Cortona, Arezzo, Cerveteri, Tarquinia, Roselle, Piombino. O discussioni intorno alle città etrusche di Perugia e Vetulonia, o ancora escursioni individuali a Firenze. Per ogni luogo visitato, l’autrice indica i monumenti maggiori e ci accompagna nei musei segnalandone le opere piú significative. Giuseppe M. Della Fina a r c h e o 113