Archeo n. 375, Maggio 2016

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ARCHEO 375 MAGGIO 2016 CAMPIDOGLIO TRONO DI BOSTON TAVOLETTE ENIGMATICHE

IL «MISTERO» DELLA

SCRITTURA ETRUSCA

L’AQUILA

ESCLUSIVA

INDAGINI SUL TRONO DI BOSTON

PREISTORIA

L’ENIGMA DI VALENTANO

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CRONACA DI UN INTRIGO INTERNAZIONALE

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Mens. Anno XXXII n. 375 maggio 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

QUANDO COMPARVE? È DAVVERO IMPOSSIBILE TRADURLA? PERCHÉ VENNE ABBANDONATA?

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EDITORIALE

COME UN PALAZZO INCANTATO Per evitare che un estraneo legga un appunto o una relazione tracciata su un foglio, lo si copre o, semplicemente, lo si gira. È accaduto piú o meno cosí a uno dei palinsesti archeologici e monumentali piú complicati e travagliati dell’antica storia di Roma, il Campidoglio. Chiunque, infatti, risalga oggi l’elegante rampa che, dalla piazza dell’Aracoeli, giunge in cima alla collina, potrà solo intuire la presenza delle sue vestigia antichissime, nascoste sotto lo spazio ridisegnato nientemeno che da Michelangelo e occupato da superbi edifici cinque e seicenteschi. È, poi, subito tratto in inganno dal completo capovolgimento dell’originaria prospettiva dello spazio, anticamente composto dalle due alture dell’Arx e del Capitolium, separate da un avvallamento, tradizionalmente denominato inter duos lucos («tra i due boschi sacri») o Asylum (una sorta di area franca che la leggenda vuole sia stata qui istituita dallo stesso Romolo). Piuttosto che affacciarsi verso nord-ovest, infatti, l’orientamento prevalente dei monumenti antichi (tra cui il grande tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva) era in direzione opposta, verso sud-est e la valle del Foro. Trasformazioni e travisamenti che nulla, però, hanno tolto al richiamo (e al fascino) di questo luogo: della sua originaria rilevanza come centro della vita politica e religiosa si ricordò il popolo di Roma, quando, nel XII secolo, diede vita a un proprio governo, in opposizione al dominio papale, costruendo proprio sulla collina il Palazzo Senatorio. E la sua imperitura potenza simbolica si riflette nella fortuna che il nome ebbe in età moderna: sul Capitol Hill, a Washington, sorse, alla fine del Settecento, la sede del Congresso degli Stati Uniti. In quello stesso scorcio di secolo aveva soggiornato a Roma Johann Wolfgang Goethe. Vale la pena di riportare le parole con le quali il grande poeta e scrittore tedesco – nell’aprile del 1788 – si congedò dalla città, al termine dei due anni trascorsi in Italia: «Dopo aver attraversato il Corso – certo per l’ultima volta – ascesi il Campidoglio, che si ergeva come un palazzo incantato nella solitudine di un deserto (…) discesi per la gradinata posteriore. Ed ecco in faccia a me l’Arco di trionfo di Settimio Severo nella tenebra piú fitta (…) gli oggetti a me ben noti, nella solitudine della via Sacra, mi sembravano strani e fantastici» (Viaggio in Italia, traduzione di Eugenio Zaniboni). Il passo sembra prefigurare l’impressionistica visione dipinta da William Turner nel 1839: la sua celebre opera Modern Rome. Campo Vaccino (era questo il nome con cui, durante il Medioevo, era conosciuta l’area del Foro Romano, mentre Colle Caprino designava il Campidoglio!) è attualmente esposta in una bella mostra allestita proprio in un palazzo sul Colle Capitolino. Ne parliamo alle pp. 40-55. Andreas M. Steiner Il Campidoglio e la chiesa di S. Maria in Aracoeli in un disegno di Giovanni Battista Piranesi. 1747-48. Collezione privata.


SOMMARIO EDITORIALE

Come un palazzo incantato 3 di Andreas M. Steiner

Attualità NOTIZIARIO

Diario di scavo per nativi digitali (ma non solo)

22

di Valentina Di Napoli

8

SCOPERTE Forse localizzato il valico scelto da Annibale per passare le Alpi con i suoi quasi leggendari elefanti 8 ALL’OMBRA DEL VESUVIO L’Antiquarium degli Scavi di Pompei riapre le porte con un insolito confronto tra devozione antica e moderna 12 PAROLA D’ARCHEOLOGO Dopo il clamoroso furto di tre anni fa, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia saluta il ritorno degli ori Castellani

DA ATENE

ESCLUSIVA

40

Ambiguità del falso 28

MOSTRE

Trono di Boston

di Marcello Barbanera

28

Sul piú sacro dei colli

40

di Alberto Danti

MISTERI

Tavolette enigmatiche

Punto-linea-punto... 56 di Carlo Casi, Patrizia Petitti, Sabrina Radicati e Fabio Rossi

INCHIESTE

Intrigo internazionale 64 14

INCONTRI Prende il via, a Murlo, la seconda edizione del festival Bluetrusco, fra archeologia e spettacolo 17

di Maurizio Pellegrini

RESTAURI

Nella città che rinasce

74

di Barbara Di Vincenzo In copertina in primo piano, frammento di un cofanetto in bucchero con iscrizione dedicatoria da parte di Laris Velkasnas e, sullo sfondo, la Tabula Cortonensis.

Anno XXXII, n. 375 - maggio 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990

Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale

Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe

Comitato Scientifico Italiano

Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,

Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Andrea Augenti è professore di archeologia medievale all’Università di Bologna. Marcello Barbanera è professore associato di archeologia classica presso Sapienza Università di Roma. Paolo Bruschetti è Vice Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Giovannangelo Camporeale è Accademico dei Lincei e Lucumone dell’Accademia Etrusca di Cortona. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Giovanni Colonna è Accademico dei Lincei. Alberto Danti è curatore beni culturali-archeologo presso la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Giuseppe M. Della Fina è direttore scientifico della Fondazione «Claudio Faina» di Orvieto. Andrea De Pascale è conservatore del Museo Archeologico del Finale (IISL) e membro del Centro Studi Sotterranei di Genova. Valentina Di Napoli è archeologa. Barbara Di Vincenzo è istruttore direttivo archeologo presso l’Ufficio Speciale per la Ricostruzione dei Comuni del Cratere, Fossa (L’Aquila). Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Giulierini è direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Fabio Isman è giornalista. Paolo Leonini è storico dell’arte. Daniele Manacorda è docente ordinario di metodologie della ricerca archeologica all’Università di Roma Tre. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Maurizio Pellegrini è responsabile del Laboratorio Didattica e Promozione Visuale della Soprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale. Patrizia Petitti è funzionario archeologo della Soprintendenza Archeologia Lazio ed Etruria Meridionale. Sabrina Radicati è operatore museale presso il Museo di Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese di Valentano. Fabio Rossi è direttore scientifico del Museo di Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese di Valentano. Flavio Russo è ingegnere, storico e scrittore, collabora con l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Eleonora Storri è epigrafista. Illustrazioni e immagini: Cortesia Ufficio Stampa: copertina e pp. 18, 80, 81 (sinistra), 82-93,


Rubriche IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Non si scrive sui muri!

100

di Daniele Manacorda

106 L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE

Nel cuore dell’umanità 106

100 A VOLTE RITORNANO

La forza della semplicità 104 di Flavio Russo

di Andrea De Pascale

di Francesca Ceci

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.

Segreteria marketing e pubblicità segreteriacommerciale@mywaymedia.it tel. 02 00696.346 Direzione, sede legale e operativa via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano tel. 02 00696.352

Scrivere etrusco

Suggestioni cretesi 110

96-99 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 3; The Art Archive: p. 33 (basso), 34-35 – ANSA: pp. 64/65, 66; Claudio Peri/Musei Vaticani: pp. 38/39 – Erich Lessing Archive/Magnum/ Contrasto: pp. 8/9 – Cortesia Soprintendenza Archeologia delle Marche: pp. 10-11 – Cortesia Soprintendenza Pompei: pp. 12-13 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale: p. 14 (alto) – Cortesia Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale: pp. 14 (basso), 15-16 – Doc. red.: pp. 17, 30-32, 33 (alto), 36-37, 56/57, 65, 72 (basso), 74-75 – American School of Classical Studies at Athens, Agora Excavations, cortesia Bruce Hartzler: pp. 22-25 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: p. 28: A. Dagli Orti: p. 29 – Cortesia Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali: pp. 40/41, 42, 44-51, 52 (basso), 53-55; Studio Inklink, Firenze: pp. 40 (alto e p. 52, alto), 43 – Shutterstock: p. 41 (alto), 59 (sfondo) – Cortesia degli autori: pp. 56, 57, 58 (basso), 59 (basso), 60-61, 62 (basso), 67-71, 77, 78-79, 101-102, 105 (alto), 110 – Marka: Peter Noyce: p. 62 (alto) – Foto Scala, Firenze: BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlino: p. 72 (alto); su concessione MiBACT: p. 100 – Per gentile concessione di Luciano Biondi: p. 77 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Hervé Lewandowski: p. 81 (destra) – Cortesia Mugello Valley Archeological Project: pp. 94-95 – Flavio Russo: pp. 104 (sinistra), 105 (basso) – Getty Images: Werner Forman: p. 104 (destra) – Andrea De Pascale: pp. 106-108 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 111 – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 58, 82.

Editore: My Way Media S.r.l. Presidente: Federico Curti Amministratore delegato: Stefano Bisatti Coordinatore editoriale: Alessandra Villa

SPECIALE

L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA

LIBRI

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a cura di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Paolo Bruschetti, Giovannangelo Camporeale, Giovanni Colonna e Paolo Giulierini

Distribuzione in Italia m-dis Distribuzione Media S.p.A. - via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Tel 02 2582.1 Stampa: NIIAG Spa - Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo Abbonamenti: Direct Channel srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Per abbonarsi con un click: www.miabbono.com Per informazioni, problemi di ricezione della rivista contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Telefono: 02 89708270 [lun-ven 9/13 - 14/18 ] Posta: Miabbono.com c/o Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: abbonamenti@directchannel.it Fax: 02 252007333 Posta: Direct Channel Srl - Via Pindaro, 17 - 20128 Milano Informativa ai sensi dell’art. 13, D. lgs. 196/2003. I suoi dati saranno trattati, manualmente ed elettronicamente da My Way Media Srl – titolare del trattamento – al fine di gestire il Suo rapporto di abbonamento. Inoltre, solo se ha espresso il suo consenso all’atto della sottoscrizione dell’abbonamento, My Way Media Srl potrà utilizzare i suoi dati per finalità di marketing, attività promozionali, offerte commerciali, analisi statistiche e ricerche di mercato. Responsabile del trattamento è: My Way Media Srl, via Roberto Lepetit 8/10 - 20124 Milano – la quale, appositamente autorizzata, si avvale di Direct Channel Srl, Via Pindaro 17, 20144 Milano. Le categorie di soggetti incaricati del trattamento dei dati per le finalità suddette sono gli addetti all’elaborazione dati, al confezionamento e spedizione del materiale editoriale e promozionale, al servizio di call center, alla gestione amministrativa degli abbonamenti ed alle transazioni e pagamenti connessi. Ai sensi dell’art. 7 d. lgs, 196/2003 potrà esercitare i relativi diritti, fra cui consultare, modificare, cancellare i suoi dati od opporsi al loro utilizzo per fini di comunicazione commerciale interattiva, rivolgendosi a My Way Media Srl. Al titolare potrà rivolgersi per ottenere l’elenco completo ed aggiornato dei responsabili.


n otiz iari o SCAVI Libia

SULLE «TRACCE» DEGLI ELEFANTI

Q

uale tragitto percorse Annibale per valicare le Alpi nel III secolo a.C.? Studiosi di ogni epoca, e perfino Napoleone, si sono interrogati sul quesito senza riuscire a dare una risposta definitiva. Oggi, un gruppo di ricerca multidisciplinare internazionale sembra avere raggiunto un punto di svolta. Capofila del team sono William Mahaney, del dipartimento di geografia della York University di Toronto, e Chris Allen, del dipartimento di microbiologia della Queen’s University di Belfast. Tutte le ipotesi finora formulate hanno preso in esame le fonti letterarie disponibili, ovvero il resoconto degli storici Polibio, Livio e Plutarco. Dei tre autori, il primo è considerato il piú attendibile, soprattutto perché visse all’epoca dei fatti e perché dichiarò di essersi informato direttamente da alcuni dei reduci di Annibale; Livio scrisse invece centocinquant’anni dopo e Plutarco quasi tre secoli piú tardi. La principale difficoltà nella ricostruzione del percorso, a partire da queste narrazioni, è rappresentata dalla mancanza di indicazioni univoche, chiaramente interpretabili anche a duemila anni di distanza. Due domande, in particolare, hanno orientato il dibattito storico: a quale altezza del fiume Rodano le truppe cartaginesi ne guadarono il corso? E qual è un valico alpino che mostri frane di terreno assimilabili a quelle riportate dalle fonti, che Annibale cercò inizialmente di aggirare, senza successo, e quindi superò aprendosi un passaggio?

8 archeo

Roma, Musei Capitolini, Sala di Annibale. Affresco attribuito a Jacopo Ripanda raffigurante la spedizione di Annibale in Italia. XVI sec.

LA SECONDA GUERRA PUNICA

Un conflitto lungo e incerto

Il passaggio delle Alpi di Annibale e del suo esercito si inserisce nel quadro della seconda guerra punica, scoppiata dopo che il generale cartaginese aveva assediato ed espugnato la città iberica di Sagunto (219 a.C.). Dopo la vittoria, Annibale lasciò in Spagna il fratello Asdrubale e, nel 218 a.C., mosse verso l’Italia, alla testa di un esercito forte di 25 000 uomini e 27 elefanti; superati i Pirenei e le Alpi, si presentò nella Pianura Padana, dove sconfisse le forze romane prima sul Ticino, poi sulla Trebbia. L’anno successivo (217), dopo aver superato l’Appennino non senza difficoltà (vi perse un occhio), sconfisse un altro esercito romano nei pressi del Trasimeno, e poi, nel 216, a Canne ottenne un risultato clamoroso con la tremenda sconfitta inflitta a un nuovo poderoso esercito avversario, forte di 50 000 uomini, il doppio dei suoi. Non ritenne però di marciare su Roma, che sapeva munitissima, tanto piú che le sue vittorie non ebbero l’effetto sperato di sollevare gli alleati italici dei Romani, eccettuate alcune città (Capua, Siracusa, Taranto). I Romani adottarono allora la tattica di Fabio Massimo della resistenza passiva, che finí con il mettere in difficoltà lo stesso Annibale, la cui situazione si fece critica quando i rinforzi portatigli dalla Spagna dal fratello Asdrubale vennero sconfitti al Metauro (207) e Cartagine cominciò a lesinare gli aiuti. Richiamato in patria, nel 202 fu sconfitto nella battaglia di Zama (combattuta in realtà a Naraggara) da parte di Scipione, il primo grande generale romano. La lunga guerra si concludeva disastrosamente per Cartagine.


I risultati ottenuti dal gruppo di Mahaney e Allen si basano su un lavoro di ricerca ventennale, iniziato con l’analisi di immagini satellitari e la ricognizione sui passi alpini, testi antichi alla mano, per verificare quale tra le diverse alternative possibili fosse la piú verosimile. L’attenzione è caduta su un valico delle Alpi Cozie, il Col de la Traversette (2950 m), che collega la Valle del Guil alla Valle del Po. Procedendo all’indagine del sottosuolo, a una profondità di circa 40 cm, è stato rilevato uno strato di terreno molto disturbato, contenente una grande quantità di escrementi misti a frammenti vegetali molto pressati e mescolati.

Attraverso l’analisi di laboratorio di alcuni campioni, è stato possibile isolare batteri del gruppo Clostridia, che hanno fatto ipotizzare il passaggio in quest’area di uomini, cavalli e di altri animali ruminanti; l’aspetto e la compattazione dello strato di terreno indicherebbero una presenza nell’ordine di migliaia di unità, compatibile con la dimensione delle truppe cartaginesi. Datato con il metodo del radiocarbonio, lo strato ha restituito un risultato compatibile con il 218 a.C., l’anno dell’impresa. I risultati sembrano dunque offrire un quadro convincente, oltre che suggestivo, ma non tutti sono concordi: per esempio l’archeologo

Patrick Hunt, dello Stanford Alpine Archaeology Project (che propende invece per un tragitto piú settentrionale), continua a dirsi scettico fino all’eventuale ritrovamento di prove schiaccianti, come potrebbero essere microrganismi che evidenzino la presenza degli elefanti. Le ricerche proseguiranno attraverso ulteriori analisi di laboratorio e, nelle intenzioni di Mahaney, anche con altre ricognizioni sul campo, ricorrendo all’impiego del georadar, per cercare di individuare gli eventuali oggetti che il passaggio di un tale esercito non può non aver lasciato dietro di sé. Paolo Leonini

archeo 9


n otiz iario

SCOPERTE Marche

TUTTI SUL FIANCO DESTRO

S

cavi condotti a San Costanzo, un piccolo centro collinare del Pesarese sulla sponda destra del Metauro, hanno rivelato una necropoli picena con sepolture risalenti all’VIII-VII secolo a.C. e, a poche decine di metri dal sepolcreto, un’area abitativa a essa cronologicamente precedente, riconducibile alla primissima età del Ferro (IX secolo a.C.). Una scoperta che fa del sito archeologico sancostanzese un vero e proprio unicum. Le sepolture si contraddistinguono

per l’uso particolare di sistemare i defunti in posizione rannicchiata sul fianco destro, sia che si trattasse di individui di sesso femminile – presenti, finora, in numero nettamente superiore rispetto agli uomini –, sia che si trattasse di individui adulti o di bambini. Numerose deposizioni erano dotate di corredi funebri e spesso, accanto a oggetti di ornamento personale – fibule in bronzo e collane in pasta vitrea, indossate o applicate alle vesti dell’inumato –, erano presenti anche vasellame

In alto: doluptu sanduntium eossint quaesto do dolorest lorest, ut exereca taspisci.

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San Costanzo (Pesaro). Due immagini dei materiali affioranti dalle tombe della necropoli picena individuata in occasione dei lavori di ampliamento del cimitero comunale. Le sepolture hanno restituito ceramiche e manufatti in bronzo dell’VIII-VII sec. a.C.

ceramico e oggetti che connotano il sesso dei defunti (armi e rasoi per gli uomini e rocchetti e fuseruole per la tessitura per le donne). L’eccezionalità dei ritrovamenti e l’utilizzo di tecniche e metodologie avanzate nello scavo rappresentano un’opportunità di tutela e valorizzazione culturale e turistica sia per San Costanzo che per l’intero territorio marchigiano. Obiettivi della Soprintendenza e del Comune sono ora quello di proseguire le indagini archeologiche in modo da raggiungere una completa comprensione dell’estensione e delle caratteristiche della necropoli e, non meno importante, quello di dare rilevanza e testimonianza di quanto già emerso, tramite un progetto di restauro, pubblicazione e di allestimento museale dei corredi rinvenuti (inclusi studi antropologici sugli scheletri per determinare il sesso, l’età e le eventuali patologie). Giampiero Galasso


INCONTRI Rimini

ANCHE LE PAROLE SALVANO L’ANTICO

È

un appuntamento ormai piú che «classico»: il Festival del Mondo antico, giunto alla sua 18a edizione, torna a Rimini dal 10 al 12 giugno, con un titolo quanto mai indicativo: «Ereditare il futuro, il patrimonio culturale tra memoria e damnatio». Concetto-guida che sarà esaminato sotto variegati profili (quelli della letteratura, della filosofia, della storia, arte, archeologia, religione, economia e antropologia), da importanti studiosi, e con formule diverse: dalla lectio magistralis, agli incontri a piú voci. Panorami italiani e scenari internazionali; distruzioni antiche e vandalismi moderni: anche quelli piú recenti; dagli echi del Grand Tour e dalle testimonianze della storia, alle imprese scellerate dello «Stato islamico», e ai nuovi orizzonti di un turismo consapevole, informato e sostenibile, che non sia limitato al consueto «triangolo delle Bermude» italiano, i cui vertici sono Roma, Pompei e Venezia. Un «ponte» tra passato e presente, con un occhio al futuro, che non guardi soltanto alle emergenze e ai fatti di casa nostra. La stessa Rimini, che per tre giorni sarà affollata di dibattiti e di incontri, ha

tuttavia subíto nei secoli profonde lacerazioni che, per mano dell’uomo o per cause naturali, le hanno fatto rischiare di perdere importanti pagine del tessuto sociale e di veder cancellate pagine rilevanti della sua bimillenaria storia. Basti pensare alle ferite dell’ultima guerra e ai terremoti, e a monumenti che sono tra gli stessi emblemi del luogo, a iniziare dal ponte di Augusto e di Tiberio. L’antico si distrugge per vendetta, per invidia, per lucro, fanatismo, religione; a causa di conflitti o attentati. E da sempre. La prima volta, accadde forse a Ur dei Caldei, nel Golfo Persico: la città di Abramo e della famosa ziqqurat, sorta verso il 3000 a.C. e rasa al suolo dagli Elamiti oltre quattromila anni fa, nel 2004, ma prima di Cristo, un’impresa cantata in un componimento sumerico pochi decenni dopo. Tutto questo, e non solo, costituirà il tema degli incontri e dibattiti di docenti, esperti e divulgatori di primo piano: da Luciano Canfora, a cui è affidata la lectio magistralis introduttiva, a Paolo Matthiae, lo scopritore della città e della civiltà di Ebla, il quale esaminerà (con chi scrive) le devastazioni (e le gravi perdite) che l’uomo ha causato nei secoli.

Particolare del mosaico detto «delle barche», dalla domus di palazzo Diotallevi di Rimini. Rimini, Museo della Città «Luigi Tonini». A Cirene, l’«Atene d’Africa», e ai suoi accadimenti d’oggi sarà dedicato il ricordo del professor Mario Luni, dell’Università di Urbino, che per anni ha guidato la missione archeologica in Libia, grande amico del Festival; e anche un documentario racconterà le vicissitudini del luogo. Alla rassegna interverranno, tra gli altri, Franco Cardini, Gastone Breccia, Giovanni Brizzi, Maria Pia Guermandi, Lorenzo Casini, Pietro Giovanni Guzzo, Francesco Erbani, Rita Paris, Egidio Ivetic, Andreas M. Steiner, Domenico Quirico, Sergio Valzania. Ai piú piccoli saranno dedicati, ancora una volta, spazi autonomi: una narrazione all’insegna del gioco, della creatività e del divertimento. Info: http://antico.comune.rimini.it Fabio Isman

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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi

PER GRAZIA RICEVUTA A SALUTARE LA RIAPERTURA DELL’ANTIQUARIUM DEGLI SCAVI DI POMPEI È UN’ESPOSIZIONE DAVVERO ORIGINALE, CHE PROPONE UN INEDITO CONFRONTO FRA LA DEVOZIONE PAGANA E QUELLA CRISTIANA

E

x voto suscepto, «secondo promessa fatta», era la formula latina per esprimere gratitudine nei confronti delle divinità pagane. Votum fecit, gratiam accepit, «Per grazia ricevuta», è invece la formula che piú spesso accompagna le offerte votive dei cristiani a Dio per aver ascoltato le preghiere e concesso loro l’aiuto. Espressioni devozionali, quindi, che, da tempo immemorabile e con una straordinaria continuità di espressione, accompagnano l’uomo nella sua relazione intima col supremo religioso e che vengono ora prese in esame in una mostra originale, basata su una documentazione materiale antica e moderna proveniente soprattutto da Pompei: «Per Grazia Ricevuta», nata da una collaborazione fra la Soprintendenza Pompei e il Santuario della Madonna del Rosario e realizzata in occasione del Giubileo straordinario e della riapertura dell’Antiquarium degli Scavi, creato verso il 1870 da Giuseppe Fiorelli e rimasto chiuso per alcuni decenni. L’uomo ha da sempre identificato nel divino un soggetto pronto ad aiutarlo a superare le difficoltà della vita (viaggi, malattie, guerre, ecc.) e a esaudire le sue preghiere (salute, prosperità,

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protezione per i propri cari), anche con un intervento miracoloso. Per questo motivo, le preghiere di supplica e di ringraziamento sono spesso accompagnate da un voto: una promessa al divino di adempiere «qualcosa», offrendo uno spontaneo ringraziamento al santuario. La parola «voto», in latino votum, deriva da vovére,

verbo che sta a significare una promessa, un obbligo liberamente assunto con la divinità. Il voto può definirsi come un impegno con il quale una persona, un’intera comunità o perfino una nazione che richiede l’aiuto divino, si impegnano a compiere una determinata azione. L’offerta dell’oggetto è quindi il «segno» di questa riconoscenza, e diviene perciò un atto di culto e di devozione. La mostra offre un confronto inedito tra le offerte votive che le popolazioni dell’antica Pompei (indigene, etrusche, sannitiche e romane) donavano alle proprie divinità e quelle che i cristiani offrono al santuario mariano della città odierna. Ne emerge un parallelismo stringente che, cambiati i tempi e le religioni, si perpetua in un rituale e in un «linguaggio» di offerte pressoché identici nelle forme. Il percorso realizzato nell’Antiquarium – da oggi nuovo contenitore espositivo degli Scavi – si snoda in tre sezioni: la prima, Sacra pompeiana, è archeologica ed esplora i piú significativi luoghi di culto e di cerimonie religiose attraverso oggetti devozionali provenienti sia dall’interno (templi di


Apollo, di Venere, Dorico del Foro Triangolare) che dall’esterno delle mura cittadine (santuari di S. Abbondio e Fondo Iozzino). A Pompei, come in tutto il mondo pagano, la devozione religiosa era parte integrante della vita quotidiana pubblica e privata: un potere divino, indecifrabile e immanente, governava la difficile vita degli uomini e propiziarsi le potenze che lo possedevano era una necessità assoluta. Per superare il timore del fato e delle avversità, occorreva vincolare la volontà degli dèi con attenti e accurati cerimoniali; un preciso rituale metteva i due mondi in relazione per garantire all’uomo la protezione delle divinità, con le quali poter instaurare e mantenere un buon accordo. Ogni rito non eseguito secondo le regole offendeva la divinità e minacciava di rompere il «contratto» con gli dèi: la pax deorum. Le offerte fittili, le piú numerose, sono attestate fin dall’età arcaica e hanno la massima diffusione a Roma e nell’Italia peninsulare tra la seconda metà del IV e il I secolo a.C.; comprendono statue maschili o femminili a grandezza naturale o ridotta, busti e teste isolate, statuette di offerenti singoli e intere famiglie con i genitori e figli, bambini in fasce, animali. Di particolare interesse sono le riproduzioni di parti anatomiche: piedi, gambe, mani, braccia, volti, occhi, orecchie, busti con le viscere esposte e una grande quantità di seni, uteri e falli legati al mondo della procreazione e della fertilità. Spesso anonime, le offerte assumono particolare significato quando recano un’iscrizione con il nome e l’intenzione del dedicante, nonché il nome della divinità alla quale si offre il dono. La seconda sezione mette invece a confronto l’iconografia pagana con quella cristiana, mediante una selezione di opere che illustrano come l’arte cristiana delle origini

A destra: larario a edicola con immagine di Minerva seduta, dalla villa residenziale di Carmiano, presso Stabiae. I sec. d.C. Nella pagina accanto: Andrea Pisano, Madonna del latte, marmo bianco di Carrara con tracce di policromia. Prima metà del XIV sec. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.

sia germogliata proprio dalla cultura figurativa pagana, conseguenza formalizzata con l’editto di Costantino del 313 d.C. L’iconografia cristiana, infatti, si appropria di alcuni modelli iconografici romani per assicurarsi una maggiore comprensione da parte della popolazione. In mostra si trovano opere legate al tema della maternità, che dall’antichità ai nostri tempi si perpetua negli stessi atteggiamenti dell’amore tra madre e figlio: dalla mater matuta o madre di Capua in veste cerimoniale (IV secolo a.C.) – dea del Mattino o dell’Aurora, protettrice delle partorienti e della fertilità – alla statua romana della dea che allatta un bambino, soggetto che si diffuse

dopo il Concilio di Efeso (431) come Maria madre di Gesú, rappresentata da alcuni capolavori come la scultura trecentesca di Andrea Pisano. La terza sezione ospita infine ex voto storici offerti nell’ambito del culto mariano nel moderno santuario di Pompei.

DOVE E QUANDO «Per Grazia Ricevuta. La devozione religiosa a Pompei antica e moderna» Scavi di Pompei, Antiquarium degli Scavi fino al 27 novembre Orario tutti i giorni, 9,00-19,30 (ultimo ingresso alle 18,00); Info www.pompeiisites.org

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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri

GLI ORI RITROVATI IL MUSEO NAZIONALE ETRUSCO DI VILLA GIULIA TORNA A ESPORRE I GIOIELLI DELLA COLLEZIONE CASTELLANI, RECUPERATI DOPO IL CLAMOROSO FURTO COMPIUTO TRE ANNI FA, NELLA NOTTE DI PASQUA. COME RICORDA LA SOPRINTENDENTE ALFONSINA RUSSO, DIRETTRICE DELLA PRESTIGIOSA RACCOLTA ROMANA ALL’EPOCA DEI FATTI

A

lla fine di una vicenda a dir poco rocambolesca, i preziosi gioielli della Collezione Castellani tornano finalmente nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, in quelle vetrine che tre anni fa, nella notte di Pasqua, vennero ridotte in frantumi e saccheggiate. All’epoca del furto era direttrice del museo Alfonsina Russo, oggi soprintendente per l’Archeologia del Lazio e dell’Etruria Meridionale, che non ha certo dimenticato quel 30 marzo del 2013… «Impossibile dimenticarlo – esordisce la soprintendente. È stato un evento cosí inaspettato per le sue modalità, da considerarlo non un furto, ma una rapina vera e propria. I ladri avevano scelto il momento ideale per colpire: alle 11,30 della sera, quando gli addetti alla sorveglianza si davano il

I gioielli illustrati sono opere della manifattura Castellani, realizzate nel XIX sec. imitando e rielaborando i modelli di oreficerie antiche. A destra: elementi di una collana in oro e perle sarde trafugati in occasione del furto: la parte restante del monile fu abbandonata dai ladri durante la fuga dal museo. Nella pagina accanto, in alto: gli ori Castellani presentati dai Carabinieri in occasione del recupero. Nella pagina accanto, in basso: spilla in oro con civetta a micromosaico.

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cambio, in un giorno particolare. Era la vigilia di Pasqua, in quel momento le campane suonavano. Non poteva non essere un colpo studiato a tavolino, come poi le indagini dei Carabinieri hanno dimostrato. Io quel giorno ero fuori, venni svegliata nel cuore della notte dal caposervizio e chiamai subito i Carabinieri. I ladri erano armati,indossavano passamontagna e avevano lacrimogeni per oscurare le telecamere. È stata una rapina velocissima: tutto si è svolto in otto minuti, di cui sei passati all’interno del museo. In una manciata di secondi i malviventi sono entrati, hanno oltrepassato il giardino, poi

il piano terra e, correndo, sono saliti al primo livello, per dirigersi alla sala degli ori. Hanno puntato direttamente alle due teche e hanno selezionato i gioielli da rubare: sapevano cosa portare via. Hanno arraffato qualcos’altro e sono fuggiti, lasciando a terra le accette utilizzate per frantumare i vetri antisfondamento delle vetrine». Ma il museo non dispone di un sistema d’allarme? «Sí: l’allarme ha suonato e i custodi si sono accorti di quanto stava accadendo, ma sono stati isolati dai ladri nello spazio tra la guardiola dell’ingresso e il giardino, sprangando le porte. Avendo predisposto un servizio di


guardiania H24, non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere. Del resto, se nel museo irrompe una banda armata, i custodi non possono fronteggiarla. Adesso, comunque, la sala degli ori è blindata». Sperava di rivedere i gioielli Castellani al loro posto? «La notizia del recupero mi ha commosso, sono felicissima. Una gioia che condivido con le colleghe che quei giorni erano con me e che hanno vissuto momenti di sofferenza: Daniela Rizzo, che mi sostituiva, e Ida Caruso, responsabile della Collezione Castellani. Peraltro, dopo la restituzione, con l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro (ISCR), abbiamo ripulito tutti i reperti, effettuato nuove ricerche e

riallestito la collezione su supporti piú appropriati». Che tipo di gioielli erano stati «scelti» dai ladri? «Orecchini, spille, monili con camei e micro-mosaici, tutti selezionati fra i manufatti moderni della

Collezione Castellani (vedi «Archeo» n. 374, aprile 2016). La sezione antica – che comprende migliaia di oggetti, tra ori, avori, bronzi e ceramiche – non è stata toccata. I pezzi rubati sono creazioni ottocentesche dei Castellani, gli orafi romani che inventarono il “gioiello archeologico”, di gran moda tra l’aristocrazia europea dell’epoca. Alcuni sono riproduzioni, altri rielaborazioni ottocentesche di forme etrusche, greche e romane. C’è, per esempio, una collana con decorazioni a ghiande e foglie che riprende modelli magno-greci. E poi un magnifico cristallo di rocca intagliato a testa di Medusa con pendente in ametista. O, ancora, un bracciale – di cui esistono solo due esemplari dei Castellani –, in oro

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avevano selezionato cosa rubare. La miliardaria russa, in effetti, si era rivolta a un antiquario romano, chiedendo alcuni ori ben precisi: tutti oggetti ampiamente noti e pubblicati su cataloghi internazionali. Per eseguire l’operazione, vennero assoldati alcuni malavitosi italiani gravitanti nell’area di Latina, in tutto sei persone: tre si vedono nei filmati delle telecamere di sicurezza del museo, gli altri facevano da palo all’esterno. Una settimana dopo la

fragilità intrinseca. Eppure i dati ufficiali delle forze dell’ordine dicono che i musei italiani sono sicuri. Come ho già detto, Villa Giulia può contare su una sorveglianza H24, su telecamere e un sistema d’allarme: quello che mancava, all’epoca del furto, era la porta blindata. Ma gli ori Castellani si trovavano lí dall’Ottocento e non era mai successo nulla. Casi come questo sono molto rari: qui c’era una volontà forte da parte del committente. I gioielli erano

rapina, la signora venne intercettata all’aeroporto di Roma e, sentendosi braccata, rinunciò all’acquisto». A quel punto, i ladri cercarono nuovi acquirenti, rivolgendosi a ricettatori, pregiudicati e, infine, a professionisti con facoltose conoscenze. Ma la notte in cui sarebbe dovuto avvenire lo scambio, presso un bar della periferia sud di Roma, i malviventi, alla vista delle forze dell’ordine, si diedero alla fuga e finirono per lanciare gli ori dal finestrino dell’automobile… Al di là degli aspetti rocamboleschi, è possibile che il museo etrusco piú importante d’Italia possa diventare preda di tali personaggi? «Villa Giulia è il museo etrusco piú importante del mondo, non solo del nostro Paese, ma questa vicenda mostra che il patrimonio culturale è vulnerabile per natura, ha una

pubblicati su molti cataloghi: la signora russa li aveva scelti uno per uno da quelle pagine». E aveva denari a sufficienza per pagare profumatamente il furto… «Immagino di sí. I ladri avevano studiato bene la pianta del museo e, nei giorni precedenti il colpo, lo avevano frequentato piú volte, nascosti fra i visitatori. Ma sono stati maldestri, perché nella fuga hanno lasciato a terra la metà di alcuni gioielli, come la collana delle “perle di pinna”, dal colore arancione». Felice di poterla ora ricongiungere? «Immensamente. Si è realizzata la promessa che il magistrato che coordina il Gruppo reati contro il patrimonio culturale della Procura di Roma, Giancarlo Capaldo, ci fece quella notte di Pasqua, vedendoci affrante e in lacrime di fronte alle vetrine vuote: “Troveremo gli ori”».

In alto: spilla con cristallo di rocca intagliato a testa di Medusa con pendente in ametista. A destra: bracciale in oro con farfalla a micromosaico, affiancata dalle legende Psiche ed Eros.

con smeraldi e rubini, con serpenti intrecciati, disegnato da Michelangelo Caetani, duca di Sermoneta». La storia del furto e del recupero è degna di un film: che vede protagonisti una ricca cittadina russa – la committente del colpo – e un antiquario romano. Secondo gli inquirenti, la collezione sarebbe dovuta finire in Russia, ma la signora venne fermata all’aeroporto di Fiumicino, mentre era in partenza per San Pietroburgo, con la figlia del ricettatore. Le trovarono nella borsa cataloghi degli ori di Villa Giulia e foto delle sale rapinate del museo, con tanto di particolari dell’impianto di videosorveglianza... «Un autentico giallo – commenta la Soprintendente. Apparve da subito chiaro che doveva trattarsi di un furto su commissione, poiché i ladri

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INCONTRI Toscana

NEL BLU, ETRUSCO DI BLU...

M

urlo festeggia i 50 anni dal ritrovamento di Poggio Civitate, la scoperta piú straordinaria sull’architettura etrusca (e gli scavi sono ancora in corso, con continue scoperte sorprendenti). Lo fa proponendo, per il secondo anno consecutivo, Bluetrusco, unico festival dedicato all’antico popolo, ideato e organizzato dal Comune insieme a università e autorevoli enti e di cui «Archeo» è media partner. Si tratta di un evento culturale ricco di spettacoli, sapori, esperienze, nel castello che apparteneva ai vescovi di Siena, e non solo: quest’anno, infatti, il festival si espande anche a Chiusi e Volterra. Dopo il successo della prima edizione, Bluetrusco ripropone una formula dimostratasi vincente e una straordinaria atmosfera. Luci blu, concerti di grandi artisti del jazz e del blues, nel nome della mitica

nota magica della stessa cromia servono a onorare la passione etrusca per la musica. E ancora: conferenze, mostre, spettacoli, installazioni, degustazioni, cene nello stile dell’antico symposium, che si alterneranno nel corso di un lungo periodo, anche per dimostrare come le contaminazioni (gli Etruschi hanno radici anche in Anatolia) generino civiltà. Bluetrusco prevede un’anteprima tra il 20 e il 22 maggio (fra i vari appuntamenti, venerdí 20, al Teatro «Pietro Mascagni» di Chiusi, Francesco Buranelli, Giuseppe M. Della Fina, Andrea Pessina e Andreas M. Steiner presentano la Monofgrafia di «Archeo» Nel mondo degli Etruschi), un corpo centrale di eventi culturali tra il 15 e il 31 luglio (con una Notte blu il 23 luglio, e l’aggiunta di una settimana musicale fino al 7 agosto). Infine, tra il 16 e il 18 settembre, ci sarà

Veduta del borgo di Murlo (Siena), che si accinge a ospitare, insieme a Chiusi e Volterra, il festival Bluetrusco. un’appendice enogastronomica. In mezzo sono in programma laboratori, visite guidate, mostre, escursioni, con riferimento il castello e il museo di Murlo, antiquarium di Poggio Civitate. (red.)

DOVE E QUANDO «Bluetrusco 2016. 50 anni di Poggio Civitate» Murlo-Chiusi-Volterra tra il 20 maggio e il 18 settembre escursioni, pernottamenti, musica, mostre, eventi culturali; direzione scientifica: Giuseppe M. Della Fina Info www.bluetrusco.land; e-mail: e.lillo@comune.murlo.siena.it Note pacchetto offerta con soggiorno promosso da «Archeo»

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TIRANA

Una cooperazione di lunga data Fino al 20 maggio, il Museo Storico Nazionale di Tirana ospita la mostra «Antiche Città e Paesaggi d’Albania», organizzata dall’Istituto Italiano di cultura e dall’Ambasciata d’Italia, in collaborazione con lo stesso Museo Storico Nazionale, l’Istituto di Archeologia di Tirana e le Università di Bari, Bologna, Chieti, Ferrara, Foggia e Macerata. L’esposizione presenta i principali risultati della collaborazione, nell’ambito della ricerca archeologica, fra Italia e Albania, che vanta una tradizione ormai quasi secolare. Dalle prime indagini archeologiche a cura di studiosi italiani, tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, fino alle piú recenti ricerche, avviate in collaborazione fra i due Paesi, a partire dal 2000, a cura degli atenei che hanno partecipato alla realizzazione della rassegna. Tra i materiali esposti figurano le sculture recuperate negli anni Venti del Novecento a Phoinike e a Butrinto. Info: www.iictirana.esteri.it

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MOSTRE Pompei

UN RAPPORTO ANTICO E MODERNO

S

i è inaugurata, nella restaurata Palestra Grande di Pompei, la seconda tappa del progetto «Egitto Pompei», che, oltre alla Soprintendenza della città vesuviana, vede coinvolti il Museo Egizio di Torino e l’Archeologico Nazionale di Napoli. La Palestra accoglie statue monumentali del Nuovo Regno (XVI-XI secolo a.C.). Provengono da Tebe, principale centro religioso dell’epoca, la magnifica statua seduta del faraone Thutmosi I (XV secolo a.C.), ritrovata nel tempio del dio Amon, a Karnak, e le sette colossali statue raffiguranti Sekhmet (XIV secolo a.C.), divinità dalla testa leonina misteriosa e inquietante. Seguendo le tracce di Iside e dell’Egitto a Pompei, il percorso prosegue con l’esposizione dei cosiddetti Aegyptiaca – manufatti e cimeli dell’antico Egitto usati in Campania, a partire dall’VIII secolo a.C., come amuleti – e con una video installazione originale di Studio Azzurro a evocare gli scambi intercorsi tra Pompei e l’Egitto. La visita si conclude con gli affreschi raffiguranti scene nilotiche

Pompei, Casa del Frutteto. Affresco raffigurante il toro Apis, particolare del giardino dipinto. con pigmei e animali esotici. Nel percorso è inserita anche l’opera di Nunzio, Senza titolo (2015), frutto dei progetti di collaborazione avviati dalla Soprintendenza per sviluppare il rapporto di Pompei con il mondo d’oggi. All’esterno, nell’area archeologica, si snoda infine un itinerario egizio: dal tempio di Iside, a cui è stata dedicata una app, alle numerose domus decorate con motivi egittizzanti, come la Casa dei Pigmei, aperta al pubblico per la prima volta dopo i restauri del Grande Progetto Pompei (GPP). (red.)

DOVE E QUANDO «Egitto Pompei» Pompei, Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 2 novembre Orario tutti i giorni, 9,00-19,30 (ultimo ingresso alle 18,00); Info www.pompeiisites.org


ARCHEOFILATELIA

Luciano Calenda

CIVETTE DI CARTA Valentina Di Napoli ci ha recentemente ricordato come la civetta impressa sulle 1 monete greche – che simboleggiava Atena e oggi la capitale stessa del Paese – si trovi spesso anche su francobolli ed annulli delle 3 Poste elleniche (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). Di conseguenza ci è sembrato naturale presentare una breve rassegna filatelica, a integrazione di quella 2 numismatica. Cominciamo da una lunga serie di 10 valori del 1959, che raffigurano antiche monete greche; uno di essi (1), 5 il 20 lepta di colore blu, riproduce una moneta con Atena (al dritto) e la civetta (al rovescio), la stessa che torna sulla banconota da 100 000 dracme citata nell’articolo (3). La medesima serie è stata 4 7 ristampata nel 1963, con nuovi valori facciali e nuovi colori e il nostro francobollo, da 3,50 dracme, è diventato rosso (2). Ecco dunque, in ordine cronologico, altri francobolli che riproducono la civetta, come simbolo di Atene e, piú in generale, della «grecità», emessi per eventi diversi. 1970: il rapace è stilizzato in uno (4) dei tre valori della serie Europa (emissione comune a 9 tutti i Paesi che facevano parte della CEPT, Conferenza 8 Europea Poste e Telecomunicazioni); 1987: la serie riguarda l’Educazione Superiore in Grecia e l’uccello notturno (5) è al fianco di una medaglia che riproduce l’Università di Atene; 1995: emissione sportiva per i XXIX Campionati Europei Maschili di Basket, giocati ad Amarusio, vicino ad Atene (6); 2015: ancora il Sistema Educativo Greco (7), con una 12 11 bandella laterale che può essere «personalizzata». Infine gli annulli, due dei quali per avvenimenti filatelici, tre per eventi sportivi e l’ultimo legato all’Università; 1982: Atene, Mostra Filatelica Panellenica (8); 2011: Drama (Tracia/Macedonia), 7ª Mostra Filatelica (9); 1982: Vecchia Olimpia, Accademia Internazionale Olimpica, V Congresso Funzionari Pedagogisti (10; è riprodotta la stessa moneta antica di cui all’annullo n. 8); 1988: Olimpia, VIII Assemblea dei Dirigenti Sportivi (11); 1995: ancora i XXIX Campionati Europei di Basket (12, vedi n. 6); 2013: Atene, 72ª 14 Sessione dei Rettori Universitari (13). L’ultimo pezzo è una cartolina postale del 2011, in Segreteria c/o Alviero Batistini versione maximum (con il francobollo e l’annullo sul lato Via Tavanti, 8 veduta) per l’85° anniversario dell’Accademia di Atene: nel 50134 Firenze dettaglio della facciata in primo piano si vede la civetta info@cift.it, richiamata, sia pure in modo stilizzato, dall’annullo (14). oppure

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Luciano Calenda, C.P. 17037 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it; www.cift.it

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CALENDARIO

Italia ROMA Confluenze. Antico e Contemporaneo

Qui sotto: il Foro Romano e il Campidoglio in un’acquaforte del 1829.

Aquilanti Botta Canevari Fiorese Frare Mondazzi Peill Pirri Museo dell’Arte Classica, Città Universitaria della Sapienza Università di Roma fino al 18.06.16 (dal 21.05.16)

Campidoglio

Mito, memoria, archeologia Musei Capitolini fino al 19.06.16

La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16

MADE in Roma

Qui sotto: statuetta in oro raffigurante un toro, dal tumulo di Majkop.

Museo Civico Archeologico fino al 17.07.16

CAGLIARI Eurasia. Fino alle soglie della storia

Capolavori dal Museo Ermitage e dai Musei della Sardegna Palazzo di Città fino al 29.05.16 (prorogata)

COLLEFERRO (ROMA) Il «Tesoro» dei Conti

Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 30.06.16

Società e cultura nell’Italia antica MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 31.07.16 20 a r c h e o

Qui sotto: la testa di una statua in diorite della dea Sekhmet.

Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16

PADOVA Pashedu

Un artigiano alla corte dei Faraoni Palazzo Zuckermann fino al 19.06.16

BOLOGNA Egitto. Splendore millenario

CORTONA Gli Etruschi, maestri di scrittura

in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie Museo Archeologico del Finale fino al 26.06.16

NAPOLI Mito e natura

Tra Roma e Bisanzio

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16

FINALE LIGURE (SAVONA) Sulle orme del passato

Storie di distruzioni e rinascita Museo Archeologico Nazionale fino al 05.06.16

Un viaggio attraverso la sua storia ancestrale Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 03.07.16

ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra

Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16

MANTOVA Salvare la Memoria (la bellezza, l’arte, la storia)

L’Ecuador al mondo

Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16 (dal 13.05.16)

ESTE (PADOVA) I suoni del Fiume Azzurro

POMPEI Egitto Pompei

Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16

Per grazia ricevuta

La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi Qui sotto: la stele del fino al 27.11.16 guerriero Larth Ninie, dai dintorni di Fiesole. PRATO

L’ombra degli Etruschi

Simboli di un popolo fra pianura e collina Museo di Palazzo Pretorio fino al 30.06.16

RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17

SAN LAZZARO DI SAVENA (BOLOGNA) Aqva Fons Vitae

Identità storia memoria di una comunità Sala di Città del Municipio fino al 29.05.16


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

SANT’AGATA DE’ GOTI (BENEVENTO) Stirpe di draghi Mostra archeologica Complesso Monumentale San Francesco fino al 19.09.16

Arte della preistoria

Pitture rupestri dalla Collezione Frobenius Martin-Gropius-Bau fino al 16.05.16

Gran Bretagna

TORINO Il Nilo a Pompei

LONDRA Sicilia: cultura e conquista

Visioni d’Egitto nel mondo romano Museo Egizio fino al 04.09.16

The British Museum fino all’14.08.16

TRENTO Ostriche e vino

Grecia

In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16

ATENE Un sogno tra splendide rovine...

VILLANOVA DI CASTENASO (BOLOGNA) Apparecchiare per i vivi e per i morti

I Villanoviani di pianura a partire dagli scavi di Elsa Silvestri MUV, Museo della civiltà Villanoviana fino al 05.06.16

Francia

Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16

In alto: coppa aurea per libagioni con figure di tori, da Sant’ Angelo Muxaro. 600 a.C. circa.

Olanda LEIDA Storie affilate

PARIGI Sciamani e divinità dell’Ecuador precolombiano

La spada come arma e simbolo Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.10.16

Musée du quai Branly fino al 15.05.16

Svizzera

Miti fondatori

HAUTERIVE Dietro la Grande Muraglia

Da Ercole a Dart Fener Musée du Louvre, Petite Galerie fino al 04.07.16

Qui sopra: esemplari di spade attualmente esposti a Leida.

La Mongolia e la Cina al tempo dei primi imperatori Laténium, parc et musée d’archéologie de Neuchâtel fino al 29.05.16

LE GRAND-PRESSIGNY Neandertal Un mistero preistorico Musée de la Préhistoire fino al 16.05.16

USA

Germania

NEW YORK Pergamo e i regni ellenistici del mondo antico

BERLINO Combattere per Troia

Le sculture del tempio di Egina «contro» i restauri di Bertel Thorvaldsen Altes Museum fino al 16.05.16

In basso: placchetta in avorio con figure di grifi, da Nimrud.

The Metropolitan Museum of Art fino al 17.07.16 Il fregio orientale del tempio di Egina ricostruito.

Dèi e mortali sull’Olimpo l’antica Dion, città di Zeus The Onassis Cultural Center fino al 18.06.16

PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida

Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16 a r c h e o 21


CORRISPONDENZA DA ATENE Valentina Di Napoli

DIARIO DI SCAVO PER NATIVI DIGITALI (MA NON SOLO) BRUCE HARTZLER, ARCHEOLOGO AMERICANO IMPEGNATO NELLE INDAGINI DELL’AGORÀ DI ATENE VOLEVA AVERE LA MENTE LIBERA, PER POTERSI CONCENTRARE AL MEGLIO SULLA COMPRENSIONE DEL CONTESTO SU CUI, INSIEME AI COLLEGHI, DOVEVA INTERVENIRE: È NATA COSÍ iDIG, UNA APP CHE SI AVVIA A RIVOLUZIONARE LA REGISTRAZIONE DEI DATI NEL CORSO DELLO SCAVO

L’

immagine dell’archeologo chino sul diario di scavo, intento a registrare ogni dato perché nessuna informazione vada perduta, sembra destinata a tramontare. Se l’ingresso della tecnologia nelle discipline archeologiche è ormai consolidato, un nuovo sistema digitale per registrare ed elaborare i dati di

In alto: un taccuino di scavo, che, dopo essere stato scansionato, è integrato nel sistema digitale iDig. A sinistra: un archeologo mentre analizza un settore dello scavo «interrogando» l’app iDig.

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scavo potrebbe portare una vera e propria rivoluzione. Stiamo parlando di iDig, un’applicazione per iPad creata da Bruce Hartzler per le ricerche statunitensi nell’Agorà di Atene. Impiegando un’interfaccia semplice e facilmente configurabile, iDig permette di registrare sul campo tutte le informazioni necessarie a In alto: una delle schermate generate da iDig, con varie annotazioni. A sinistra: l’utilizzo della app sullo scavo. Oltre alla registrazione dei dati, iDig consente di verificare in tempo reale eventuali errori.

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documentare in maniera esauriente contesti e resti archeologici. Due o tre iPad, impiegati in ogni trincea e sincronizzati piú volte al giorno con quelli di Hartzler e del direttore degli scavi, consentono sia di rilevare le strutture nella loro volumetria, sia di localizzare ogni rinvenimento e strato archeologico, grazie a un teodolite o a un GPS.

VERIFICHE IN TEMPO REALE Ne risulta un tipo nuovo d’informazione, che offre un feedback immediato e dà modo di rilevare eventuali errori in tempo reale. Ma non è soltanto questa la novità di iDig: infatti, la possibilità di accedere ai dati d’archivio e, quindi, di verificare che cosa sia stato scavato in quello stesso punto nelle stagioni precedenti, offre un quadro d’insieme che finora non era stato ancora sperimentato.

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In alto: ancora un esempio dei dati disponibili grazie a iDig. In basso: Bruce Hartzler, l’archeologo che ha ideato la app iDig.

Cosí, basta tracciare sullo schermo una linea con la punta del dito (un’operazione per la quale è stato anche coniato un nuovo verbo: «to camp», dal nome del direttore degli scavi americani nell’Agorà, John McK. Camp II) per ottenere una sezione che taglia tutti gli strati in quel punto. Inoltre, iDig può rispondere a richieste complesse. Può localizzare, solo per fare un esempio, tutta la ceramica databile al IV secolo a.C. rinvenuta in una determinata stagione di scavo a una profondità superiore ai 50 cm. E, alla fine di ogni campagna, l’intera documentazione può essere esportata su una banca dati in diversi formati, per una successiva elaborazione. iDig non è il risultato di una folgorazione. Anzi, si potrebbe dire che è nato una ventina d’anni fa, quando Bruce Hartzler arrivò ad Atene. Cercando di riunire dati


A destra: una foto del del corredo tipo di un archeologo «2.0»: oltre a strumenti e accessori tradizionali, fa bella mostra di sé l’iPad sul quale utilizzare la app iDig. In basso: operazioni di rilievo con il teodolite, i cui dati vengono acquisiti ed elaborati da iDig per ricavare il posizionamento di strutture e strati. accumulati in oltre 80 anni di scavi nell’Agorà, l’archeologo ha dapprima ideato un sistema digitale per registrare dati di scavo, quindi, nel 2009, ha lanciato ascsa. net, un database aperto che permette di ricercare in tutte le collezioni della American School, compresi i rinvenimenti di Corinto e gli archivi della Biblioteca Gennadius. L’anno seguente, grazie al Notebook Annotation Project, sono stati scansionati tutti i taccuini di scavo e create griglie che consentono di individuare riferimenti incrociati. A quel punto, la strada era spianata: l’app di iDig è stata lanciata nel 2011 e, nel 2012,

è stata perfezionata, anche se Hartzler è costantemente al lavoro su questo progetto.

CARO, VECCHIO TACCUINO E va sottolineato che i dati di scavo all’Agorà continuano a essere registrati anche sui classici taccuini,

ai quali, per il momento, non si pensa comunque di rinunciare. iDig è uno strumento flessibile e preziosissimo, che apre le porte verso nuove possibilità nel campo della ricerca archeologica. Forse solo il sogno di un visionario archeologo classico, allo stesso tempo esperto di computer (anche se Hartzler si definisce un autodidatta in materia), poteva combinare le necessità di chi lavora su uno scavo con le competenze di un informatico. «Il mio obiettivo – spiega lo studioso – era quello di liberare spazio nella mente dell’archeologo, per permettergli di concentrare tutti i suoi sforzi mentali sulla comprensione di cosa stia avvenendo in quel momento, dal punto di vista archeologico». iDig è disponibile come applicazione gratuita e ne stanno già sperimentando le possibilità anche i team svizzeri a Eretria e Amarinto e l’équipe belga di Torico. La prossima versione, prevista per la fine del 2016, sarà disponibile anche per OS X, iOS e Android. Se, come Hartzler spera, iDig sarà adottato anche da altri gruppi, forse sarà ancora piú facile condividere e confrontare dati, in una prospettiva davvero moderna e globale.

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ESCLUSIVA • TRONO DI BOSTON

AMBIGUITÀ DEL FALSO

NEL 1894, IN CIRCOSTANZE PIÚ CHE MISTERIOSE, VENNE ALLA LUCE IL RILIEVO OGGI NOTO COME «TRONO DI BOSTON»: UN’OPERA DECISAMENTE SINGOLARE, LA CUI AUTENTICITÀ SEMBRA NON POTER CONTINUARE A REGGERE ALL’INCHIESTA CHE QUI PUBBLICHIAMO IN ANTEPRIMA di Marcello Barbanera

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nche gli oggetti d’arte antica, come il grano e lo zucchero e le patate, hanno obbedito alle leggi ineluttabili del mercato (…) Quando han cominciato a mancare gli oggetti antichi, gli antiquari senza perdersi d’animo, spronati dalle generali richieste, han dovuto promuoverne la fabbricazione (…) L’antiquario compie un’azione altamente umanitaria e direi quasi sociale. In quanto incoraggia da un verso l’amore per l’arte, nobilitando cosí gli spiriti ancor rozzi dei popoli vergini, e dall’altro attrae nel proprio paese l’oro straniero». Cosí, il 1° dicembre 1907, sul Marzocco, lo scrittore Italo Mario Palmarini descriveva, con evidente ironia, la situazione del mercato di antichità in Italia, in cui i falsi proliferavano. Sembra che, all’epoca, nel nostro Paese gli oggetti antichi contraffatti fossero piú numerosi di quelli autentici presenti sul mercato mezzo secolo prima: la richiesta sempre piú pressante di manufatti 28 a r c h e o

artistici da parte dei musei europei e, soprattutto, dei privati e delle istituzioni museali statunitensi aveva determinato la fioritura di una vera specializzazione nella produzione di oggetti contraffatti: a Napoli si fabbricavano bronzi e terrecotte «pompeiane»; a Roma elmi, corazze, lance, daghe, bighe e altri oggetti simili, cosí come teste, gambe, torsi di bronzo e di marmo e di avorio i quali poi venivano lasciati a «stagionare» nel Tevere, per produrre la patina antica. Il termine «falso» o «falsificazione» è ambiguo, come lo sono gli oggetti che derivano da questa attività: il significato di questa parola e i conA sinistra: statua in bronzo di Apollo, da Piombino. II-I sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto: Giove bacia Ganimede, affresco in stile «pompeiano» dipinto da Anton Raphael Mengs (poi staccato e riportato su tela). 1760. Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini.


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creatività nella cultura occidentale attraverso le pratiche storico-artistiche, dal XIX secolo in poi. Il concetto di unicità, di irripetibilità, del «fatto di sua mano» viene messo alla prova, talvolta in scacco, dalla falsificazione. Il falso non è solo il doppio concreto dell’opera originale, ma anche una sua narcisistica immagine riflessa, perciò accecante. Licia Vlad Borrelli, a lungo direttrice dell’Istituto Centrale del Restauro, ha giustamente parlato di un accecamento amoroso, che cosí descrive: «[Il falso] compare quindi sul mercato anche in risposta a un desiderio di possedere qualcosa che si ama, come surrogato di questo, e confida in una delle arti tradizionali dell’amore, quella cioè di rendere cieco chi ne è colpito». In effetti il falso artistico è un oggetto deflagrante all’interno del sistema storia dell’arte: collezionismo, connoisseurship, relazione originale/ copia, stile, variazioni nel mercato artistico, implicazioni psicologiche del collezionista e altro ruotano attorno alla contraffazione. Il falso non è altro che il lato oscuro del vero, pertanto inscindibile dalla definizione di quest’ultimo; l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. E nessuna epoca ne è stata immune.

Santa Caterina d’Alessandria, olio su tavoletta con cimasa sagomata di Federico Icilio Joni (1866-1946), pittore

senese i cui falsi trassero in inganno perfino il grande storico e critico d’arte Bernard Berenson.

fini entro i quali essa può essere definita sono infatti molto piú fluidi e articolati di quanto consenta una considerazione superficiale.Vi sono altre pratiche, meno disprezzate, che con il falso sono collegate o collimano: il copiare, l’imitazione di opere specifiche o di definiti stili artistici, l’eccesso di restauro – che conduce allo stravolgimento dell’opera iniziale, finalizzato ad aumentarne il valore –, l’apposizione di

firme false, ecc. Dal punto di vista legale è stato argomentato che la ripetizione seriale di un lavoro, pur eseguita dall’autore, può essere considerata una falsificazione se l’acquirente ritiene di comprare un esemplare unico dell’artista. Per tutte queste ragioni (e altre ancora), il tema del falso è centrale nella storia dell’arte, in quanto tocca l’essenza stessa dell’opera d’arte come si è strutturata nell’ambito della

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PER ABBELLIRE LE VILLE Laddove esista un mercato dell’arte con collezionisti e venditori si crea lo spazio per il falso. Tra il III e il I secolo a.C., la conquista delle piú fiorenti città greche mise i Romani a contatto con una produzione artistica immensa. Dapprima una élite e poi anche altri strati della mobile società romana si interessarono all’acquisto di opere d’arte per decorare le loro ville suburbane. Come quello moderno, il collezionista romano aveva una psicologia complessa e sfaccettata: vi è colui che, come Verre, non esitò a saccheggiare luoghi pubblici e sacri per soddisfare la sua ebbrezza di


opere d’arte, oppure chi, come Cicerone, si affidò a intermediari (il fidato Attico), perché gli procurassero gli oggetti artistici con cui impreziosire le proprie case. Cosí come avvenne nel XVII e nel XVIII secolo, le opere, giunte a destinazione dopo navigazioni perigliose, dovevano essere restaurate e già questa pratica lasciava spazio a interventi che talvolta eccedevano, collocandosi al limite del falso. Si tendeva a risparmiare sui materiali, in particolare sui colori come ricorda Plinio il Vecchio. Falsari vengono menzionati da Marziale, ma è Fedro, lo scrittore di favole vissuto nella prima metà del I secolo, a darci la testimonianza piú articolata sul fenomeno quando menziona «certi

In alto: lo scultore e falsario Alceo Dossena al lavoro nel suo atelier. A destra: una delle sue creazioni: la statua della Atena detta «di Cleveland», perché acquistata dal museo della città statunitense, che l’ha poi ritirata dall’esposizione.

artisti dei nostri giorni che ottengono per le loro opere un maggiore apprezzamento se hanno firmato con il nome di Prassitele le loro statue di recente fattura, con quello di Mirone l’argento cesellato e con quello di Zeusi i loro quadri».

ca consolidata; spesso eseguivano riproduzioni accurate di opere celebri in una varietà di materiali, ma i modelli ereditati potevano anche essere utilizzati per creare opere sostanzialmente nuove. Pertanto, si possono plausibilmente trovare riproduzioni di opere che, in realtà, REPLICHE E INVENZIONI Ci sono pervenute opere che pos- non sono mai esistite, ma anche sono essere inquadrate in questo contraffazioni vere e proprie che sistema. Fino alla metà del XX se- venivano prodotte per soddisfare un colo, il celebre Apollo di Piombino mercato sempre piú avido e acquiera considerato un bronzo greco, state come originali. mentre oggi si concorda sul fatto Le epoche successive all’età classica che sia questa statua, sia un kouros hanno conosciuto, è appena il caso bronzeo di Pompei sono creazioni di ricordarlo, una fiorente attività di collocabili rispettivamente verso il contraffazione, sia di opere letteraII-I secolo a.C. e I-II secolo d.C., rie, sia di manufatti artistici. Nel che deliberatamente simulano, in XVIII secolo, per esempio, la pittututto o in alcuni dettagli, lo stile ra romana era ancora quasi sconoarcaico. Si può ipotizzare che gli sciuta, perciò il pittore Anton scultori ellenistici e romani Raphael Mengs (1728-1779) poté esercitassero la loro attività con beffare il suo amico Winckelmann un margine di creatività all’in- con un finto affresco pompeiano terno di una tradizione artisti- raffigurante Giove che bacia Ganimede. Era l’epoca in cui Giuseppe Guerra, operante a Roma, immise sul mercato antiquario centinaia di «dipinti romani», perlopiú ispirati dalle tavole delle Antichità di Ercolano, come originali.

L’INTESA CON GLI ERUDITI Accanto alla falsificazione vera e propria, si mettevano in atto pratiche che solo la discrezionalità di coloro che vi erano coinvolti poteva piú o meno far distinguere dalla falsificazione. Bartolomeo Cavaceppi, modesto come scultore, divenne uno degli antiquari-restauratori piú influenti di Roma. Grazie all’impiego di marmi di scavo affini all’opera su cui si stava intervenendo, le integrazioni dovevano garantire l’imitazione dello stile del loro antico autore e recuperare l’iconografia originaria. Il reperto su cui si interveniva era quindi attentamente analizzato, anche con gli eruditi. Accanto al lavoro delle botteghe condotte dai restauratori di punta a Roma, nel sottobosco del commercio antiquario agivano mestieranti a r c h e o 31


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con pochi scrupoli, la cui attività non differiva granché dalla fabbricazione di falsi. Nell’ambiente antiquario romano della seconda metà del XVIII secolo sembra dunque difficile districarsi tra copie, calchi, imitazioni, restauri piú o meno intensi e falsi intenzionali. Il motivo della falsificazione, in questi casi, era determinato dalla possibilità di un facile guadagno, nel momento in cui la richiesta dei collezionisti stranieri si faceva sempre piú crescente e i materiali scarseggiavano. Nella seconda metà dell’Ottocento si assiste al forte incremento del commercio delle opere d’arte, alimentato da collezionisti privati e da musei, soprattutto americani, desiderosi di arricchire le loro raccolte di arte antica e moderna. Tutto ciò avveniva in concomitanza con il restringersi delle maglie della legislazione sull’esportazione e la vendita di oggetti artistici. Nel divario creatosi tra domanda e offerta, l’Italia – da sempre serbatoio prediletto per i mercanti d’arte – diventò presto anche un luogo di prolifiche botteghe di falsari, parte di una rete composta da antiquari, mediatori e studiosi.

SOSPETTI E PAURE All’epoca, comunque, non serpeggiava ancora il forte sospetto che alla fine degli anni Venti del secolo seguente turbò il sonno di magnati dell’industria e collezionisti soprattutto statunitensi: il timore che gran parte dei materiali acquisiti con voracità nel mezzo secolo precedente consistesse perlopiú 32 a r c h e o

in falsificazioni, come mise in luce lo scandalo delle opere realizzate dallo scultore Alceo Dossena (1878-1937). Dossena fu l’autore di alcune tra le «sculture antiche» piú importanti apparse sul mercato internazionale nel decennio 1918-1928 circa, tra cui l’Eroe che rapisce una donna, derivante dal gruppo arcaico che raffigura Teseo e Antiope da Eretria, una kore del Metropolitan Mu-

In alto: Carl Jacobsen (1842-1914). Imprenditore nel settore della birra e grande collezionista di arte antica, fondò nel 1882 la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, nella quale confluirono opere di arte antica e moderna. Nella pagina accanto, in basso: il rilievo in marmo noto come Trono Ludovisi, scoperto a Roma nel 1887. L’opera viene datata al V sec. a.C., ma la sua autenticità è stata da alcuni messa in dubbio. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.

seum e l’Atena del Museo di Cleveland, solo per citare alcune opere tra le piú note.

UN INTRECCIO FLUIDO L’affaire Dossena mise in luce anche l’intreccio – ben noto nel mondo del commercio artistico – tra falsari, mercanti, intermediari ed esperti d’arte che non solo è necessar io nell’ambito della falsificazione, ma, alla fine dell’Ottocento, era altrettanto fluido, sebbene meno palese di quanto lo sia stato in seguito. Una pagina di diario di Mary Logan Berenson, moglie del grande storico dell’arte, getta luce sull’intreccio tra falsari, antiquari e connoisseurs. Mary commenta una visita al noto falsario senese Icilio Federico Joni, autore di numerosi dipinti che Bernard Berenson (1865-1959) aveva acquistato come autentici verso il 1898. Invece di intentargli una causa, lo scaltro studioso volle conoscere Joni. Dopo l’incontro, Berenson si convinse del fatto che se Joni aveva potuto ingannarlo, i quadri sarebbero stati considerati autentici da chiunque altro: fu cosí che li rivendette in alcune aste tenute a Londra. L’episodio raccontato da Mary Berenson segue di pochi anni il momento in cui Edward P. Warren, collezionista ed esteta bostoniano trapiantato in Inghilterra, iniziò un’attività collezionistica seria, accreditandosi con John Marshall – suo compagno e segretario – come figure significative del mercato antiquar io inter nazionale.


Nell’autunno del 1892, Marshall giunse a Roma per acquistare antichità, consigliato dall’archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915). Una delle scoperte archeologiche piú interessanti di quel tempo fu il rinvenimento del cosiddetto «Trono Ludovisi», nel 1887. Emerso durante i lavori di lottizzazione dell’ex villa Ludovisi – si dice, ma senza alcuna certezza, nella zona compresa tra le attuali via Piemonte, via Abruzzi e via Boncompagni - l’opera, ribattezzata «trono» in seguito alla supposizione che si trattasse del rivestimento di un seggio per Afrodite, andò ad arricchire la collezione del principe Boncompagni Ludovisi, a palazzo

Piombino. Qui lo poterono vedere antiquari, studiosi e conoscitori, tra cui Warren.

Qui sopra: l’archeologo tedesco Wolfgang Helbig (1839-1915), figura di spicco del mondo archeologico e antiquario romano.

VOCI DI CESSIONE All’inizio del 1894, si diffuse la voce che il principe Ludovisi avrebbe voluto vendere la sua collezione per rientrare del denaro perduto nella bancarotta di due grandi banche. Pertanto Warren inviò Marshall, pensando di acquistare l’intera collezione o i pezzi piú significativi, tra cui il Trono Ludovisi. Nel frattempo, Helbig inviò una fotografia del Trono al collezionista danese Carl Jacobsen, caldeggiandone l’acquisto. Nel 1898 Jacobsen e Warren pianificavano perfino di comprare insieme la collezione per

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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1 milione di lire e poi dividersi i pezzi, ma si sarebbe dovuto risolvere il problema del permesso di esportazione. E, contemporaneamente, lo Stato italiano stava negoziando l’acquisizione della collezione, che formalizzò nel 1901, per 1 milione e 400 000 lire. È importante considerare che questi fatti avvennero sullo sfondo del dibattito per l’approvazione di una nuova legge sui beni artistici voluta dal Ministero dell’Istruzione Pubblica e che avrebbe comportato forti restrizioni nell’esportazione di oggetti d’arte. La nuova normativa, che fu bocciata, avrebbe causato un danno sia per gli antiquari, i cui affari si sarebbero ridotti, sia per gli acquirenti, che vedevano frustrate le loro aspirazioni alla formazione di collezioni private e pubbliche. È facile intuire come la vendita del-

la collezione Ludovisi avesse sollecitato la bramosia di tutti coloro che con il mercato artistico prosperavano, in primis gli antiquari e i grandi intermediari, il cui principe era senz’altro Wolfgang Helbig. Un tentativo di far uscire il Trono dal Paese fu compiuto il 6 marzo 1894 dal procuratore generale del principe di Piombino, Rodolfo Boncompagni Ludovisi. Ma il permesso fu negato «per la sua storica provenienza, e per la sua connessione con altro frammento di scultura esistente nella stessa Villa Ludovisi e soggetto a vincolo fedecommissario» (la cosiddetta Giunone Ludovisi).

IL COLPO DI SCENA Sullo sfondo di questo intreccio di trattative in cui agiscono Marshall, Jacobsen, lo Stato italiano e Helbig, avviene il coup de théâtre: sul mercato appare improvvisamente un rilievo su tre lati, in tutto simile al Trono Ludovisi. Il connoisseur Paul Hartwig, che viveva a Roma ed era attivo

come consulente artistico per numerosi musei europei, il 3 ottobre 1894 scrisse a Jacobsen, manifestandogli la propria sorpresa e l’entusiasmo per una straordinaria opera antica, che aveva avuto modo di vedere presso un antiquario insieme all’amico Freidrich Hauser, archeologo di formazione: «Abbiamo esclamato all’unisono: questa è l’altra parte del cosiddetto Trono di Afrodite nella Villa Ludovisi!». La reazione di Hartwig è esattamente quella che ogni falsario avrebbe sperato di suscitare in un archeologo, facendo leva sulle sue aspettative, sull’appagamento del desiderio della scoperta del capolavoro inedito che – come dice Vlad Borrelli – rende ciechi. E questa è l’unica testimonianza oculare che ci sia pervenuta sul «Trono di Boston» dopo la scoperta. All’epoca, il manufatto si trovava nella disponibilità dei fratelli Antonio e Alessandro Jandolo, titolari di un negozio di antichità in via Margutta 51, a Roma, che l’avevano acquistato presumibilmente per 15 000 lire. Ora, nonostante il lodevole sforzo dell’archeologo americano Ernest Nash (1898-1974) nel ricostruire razionalmente le circostanze della scoperta (illustrate in un articolo del 1959), se qualcuno presentasse in un tribunale queste prove a favore del ritrovamento del Trono di Boston, anche un avvocato principiante smonterebbe con facilità le varie argomentazioni sulla base delle prove indiziarie a nostra disposizione. Prima di proseguire con il resto della storia, sarà utile soffermarsi su un passaggio della lettera appena citata che Hartwig scrisse a JaIl fianco destro del Trono Ludovisi, sul quale è raffigurata a rilievo una donna vestita di un chitone e un mantello rialzato sul capo che prende da una pisside alcuni grani di incenso e li pone in un bruciaprofumi.

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cobsen, perché esprime perfettamente lo stato d’animo dell’archeologo: gli comunica che non voleva piú fare offerte per la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen «per non sconfinare nella riserva di caccia di Helbig», ma qualcosa gli ha fatto cambiare idea: «Alcuni giorni fa, nella piú stretta confidenza mi è stato fatto capire che un rilievo con cinque figure è stato ritrovato».

UNA TRUFFA SOFISTICATA Questo stato di eccitazione è una chiave interpretativa dell’intera vicenda in cui, sebbene sia impossibile ricollocare tutti i tasselli al loro posto, si possono individuare gli attori principali di quella che sembra una truffa sofisticata. Hartwig contattò Helbig, il quale informò l’antiquario Francesco Martinetti del rilievo; quest’ultimo lo acquistò per 27 000 franchi e firmò un accordo, con l’avallo di Helbig, che avrebbe diviso i proventi della vendita con lo stesso Hartwig. Jacobsen, anch’egli entusiasta, si mostrò disponibile ad acquistare il trittico, chiese a Hartwig se fosse sicuro dell’autenticità dell’opera e gli ricordò che, comunque, tutte le transazioni di antichità a Roma dovevano passare attraverso Helbig. Offrí a Hartwig la somma di 20 000 lire, cioè il prezzo concordato con Helbig alcuni anni prima per l’acquisto del Trono Ludovisi. Jacobsen infor mò Helbig, ma quest’ultimo – come si evince dalla corrispondenza – rimase piuttosto freddo di fronte all’entusiasmo del collezionista danese, anzi lo informò che il pezzo era stato rubato presumibilmente al principe di

Piombino ed esisteva il rischio di una domanda di estradizione, che avrebbe comportato una lunga causa legale. Sembrerebbe un atteggiamento ragionevole, ma, in realtà, appare evidente che, per qualche ragione, Helbig non voleva che Jacobsen acquistasse il rilievo. Tuttavia, lascia trapelare con nonchalance la notizia dell’esistenza di una proposta del Museum of Fine Arts di Boston, pronto ad acquistare il Trono Ludovisi per 180 000 lire, circostanza che avrebbe stabilito il prezzo anche per il rilievo analogo. Jacobsen è deluso e si lamenta, pur apprezzando la cautela di Helbig, che imputa a uno scrupolo morale, pensando che lo studioso tedesco voglia tenere insieme i due trittici per amore della scienza. In realtà, Helbig sta solo tessendo la sua tela: evidentemente la somma di 20 000 lire offerta da Jacobsen gli sembrò molto modesta e comunque insufficiente a pagare tutti coloro che erano implicati nella vendita del

nuovo rilievo. Quando si crea un’opera falsa ambiziosa (non un ritratto o un frammento, ma un gruppo statuario, un sarcofago o un rilievo di dimensioni non comuni), infatti, chi vi è coinvolto punta a realizzare il prezzo piú alto possibile.

LOGICHE MERCANTILI Vi sono almeno due buone ragioni: la prima, come già osservato, è che il numero di persone coinvolte era tale che la somma doveva essere elevata per ricompensare tutti, anche se naturalmente in queste operazioni c’è una forte sperequazione tra gli esecutori materiali – quelli meno remunerati – e gli autori della transazione come il mercante e l’esperto; l’altra ragione è che vendere un pezzo per un prezzo basso sarebbe equivalso implicitamente a classificarlo come di qualità scaden-

Il rilievo sul fianco sinistro del Trono Ludovisi, che raffigura una suonatrice di doppio flauto. Una delle ipotesi avanzate sull’opera vuole che le due donne siano altrettante sacerdotesse del culto di Afrodite.

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CHE COS’È IL TRONO DI BOSTON L’opera oggi nota come «Trono di Boston» è un rilievo in marmo dolomitico, probabilmente proveniente da Taso, scolpito su tre lati in un singolo blocco, che ha le seguenti misure complessive: alt. 96 cm; largh. 161 cm; prof. 55 cm (sinistra) e 73 cm (destra). Fu esposto per la prima volta nel novembre del 1910, Sulle due pagine: veduta d’insieme e di dettaglio del Trono di Boston, opera caratterizzata, fra l’altro, da una composizione che non trova riscontri con altri manufatti dei quali dovrebbe essere coevo. I numeri indicano la posizione dei lati brevi rispetto all’elemento principale.

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nel Museum of Fine Arts di Boston, indicandolo come un rilievo della metà del V secolo a.C. In base all’analogia con il Trono Ludovisi, interpretato nel 1892 dall’archeologo Eugen von Petersen (1836-1919) come spalliera di un trono per una statua colossale, anche per il rilievo di Boston si propose una funzione simile. Sul lato principale è rappresentato un giovane alato in atto di pesare due minuscole figure alla presenza di due donne; sui lati brevi, a destra è raffigurato un giovane suonatore di lira, a sinistra, una vecchia accovacciata. A oggi, si contano numerose interpretazioni delle immagini; il MFA espone il rilievo spiegando che vi è raffigurato Eros che decide con una pesatura la contesa di Afrodite e Persefone per il possesso di Adone. Un’altra ipotesi ricorrente è che si tratti di una psicostasia («pesatura delle anime»), la forma del giudizio divino in cui l’anima del morto viene pesata sopra una bilancia, per il controllo dei suoi meriti. Nessuna delle ipotesi avanzate, però, spiega in maniera convincente la bizzarra iconografia.


te e a creare sospetti. Helbig è scaltro, sa come muoversi e cerca di ottenere il prezzo piú elevato. Le sue mosse sono collegate a Martinetti. Nel marzo 1895 arrivò a Roma Warren, l’esteta che, contrariamente a Jacobsen, non badava a spese e che era venuto a conoscenza dell’esistenza del Trono di Boston pochi mesi prima. Chi organizzò la «produzione» del rilievo potrebbe aver pensato a lui fin dal principio, forse non esclusivamente come unico acquirente, ma uno entro una rosa molto ristretta: sul Trono Ludovisi compaiono cinque figure femminili, mentre, singolarmente, nel rilievo corrispondente domina al centro il nudo del

supposto Eros e, su un lato, un altro giovane nudo, di cui si vede il pene, scolpito innaturalmente all’altezza dell’ombelico. Forse chi ha architettato la scultura ha pensato a un comJohn Marshall (a sinistra) con Edward P. Warren, protagonisti della vicenda legata al Trono di Boston.

L’oggetto sembra essere stato eseguito ricorrendo a una delle tecniche piú in voga tra i falsari, cioè quella della variazione o alterazione iconografica di un altro pezzo. Poiché il Trono di Boston doveva essere la controparte del Trono Ludovisi – e quest’ultimo ha come figura principale Afrodite –, ecco che vi compare Eros; al posto delle due assistenti chinate sulla dea emergente dalle acque vi sono due donne sedute; il petto e il chitone di quella di sinistra sono palesemente copiati da Afrodite. Al posto della fanciulla che suona il flauto vi è un giovane liricine visto di profilo con il pene, posto quasi all’altezza dell’ombelico; sull’altro lato, alla figura che arde incenso su un bruciaprofumi, corrisponde una grottesca figura femminile, con un viso rugoso, un’acconciatura quattrocentesca, priva di un braccio, che evidentemente il falsario non sapeva come rendere, schiacciata sulla lastra di marmo ricavata da un altro manufatto. Al centro del rilievo rimangono i fori della bilancia (?) metallica: ma se la traversa fosse presente, taglierebbe in maniera goffa le braccia di Eros e le gambe delle due donne. Le mancanze, che sembrano prodotte dal tempo, sono in realtà determinate da errori o insufficienza del marmo: il lato breve è stato spezzato con uno strumento appuntito, ma la frattura non compromette l’interezza della figura.

piacimento per Warren? Quest’ultimo fu accompagnato da Helbig al negozio di Martinetti, che apparentemente era membro del consorzio che possedeva il pezzo, e gli offrí 125 000 lire per il rilievo, a condizione di ottenere un permesso di esportazione anche per il Trono Ludovisi, ma Martinetti non poteva certo sbilanciarsi in questo senso. Nel frattempo, un altro agente di Edward Warren, Charles H. Pritchard, offrí 300 000 lire per entrambi i rilievi. A questo punto la rete stava per stringersi attorno alla preda: Martinetti, astutamente, rispose a Pritchard che il nuovo rilievo ora sarebbe costato 200 000 lire, mentre per il Trono Ludovisi non c’era-

Un’altra caratteristica dei falsi è di essere in ottime condizioni, in maniera da sollecitare l’avidità del collezionista, che desidera entrare in possesso di un pezzo migliore di quello che glidaè fare sfuggito. In questo Didascalia Ibusdae evendipsam, erupitdel antesto caso, laddove gli spazi angolari officte sulla fronte Trono cum ilita aut quatiur Ludovisi sono vuoti, taturi sul rilievo di Boston sonorestrum scolpite eicaectur, testo blaborenespalmette. ium eleganti volute che terminano con rigogliose quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

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no speranze, evidentemente a causa dell’interesse dello Stato. La corrispondenza intercorsa in quel periodo tra Helbig e Jacobsen a questo punto menziona il rilievo in codice, come «Ms. Dreifuss», e si comprende che Helbig non aveva mostrato il pezzo a Jacobsen, nonostante questi fosse stato a Roma nello stesso periodo di Warren e che il collezionista danese non era al corrente di quanto Helbig fosse coinvolto nella faccenda: un dato che potrebbe corroborare l’ipotesi che il nuovo «trono» fosse destinato a Warren. A un certo punto, però, del manu38 a r c h e o

fatto si perdono le tracce: il 31 ottobre 1895 Francesco Martinetti muore e, nell’elenco delle opere della sua bottega, compare il falso Diadumeno – poi acquistato da Jacobsen –, ma non il Trono di Boston, che non sappiamo dove si trovasse in quel momento.

IL TRONO TROVA CASA Esso ricomparve il 27 gennaio 1896, quando Edward Warren lo acquistò per 165 000 lire e lo inviò a Lewes House, la sua dimora inglese. Qui il pezzo fu esposto senza attirare particolare interesse, finché, nel 1909,

entrò nella collezione del Museum of Fine Arts di Boston. Tutti questi indizi ci consentono di ipotizzare che il pezzo fu una creazione concepita tra Helbig e Martinetti, come peraltro aveva giustamente intuito alcuni anni fa Margherita Guarducci (1902-1999). Tra i molti aspetti della vicenda che lasciano perplessi vi è quello della proprietà: se il rilievo apparteneva davvero al principe Ludovisi, perché egli non ne denunciò la scomparsa e il furto? Forse l’aristocratico fu pagato? E come fu possibile ottenere il permesso di espatrio, senza che né lo


Gruppo raffigurante Mitra tauroctono (che uccide il toro) esposto ai Musei Vaticani dopo il suo ritrovamento, frutto di un sequestro operato dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale nel 2014. L’opera è stata datata al II-III sec. d.C., ma, a giudizio dell’autore dell’articolo che qui pubblichiamo, sarebbe un falso. In secondo piano, sulla destra, si vede un gruppo di soggetto analogo, ma che, pur integrato nel Settecento, è un originale di epoca romana.

«reo confesso», come nel caso delle sculture di Alceo Dossena, oppure perché le analisi non hanno fornito risultati incontrovertibili, come è accaduto con i «guerrieri etruschi» del Metropolitan, nel cui impasto furono trovati materiali moderni. Le analisi del marmo – che pure i curatori hanno fatto eseguire – non potranno mai essere decisive, poiché il falsario accorto riutilizza sempre marmi antichi.

TROPPO INSOLITO PER ESSERE VERO Quanto alle interpretazioni, esse sono cosí numerose e fantasiose proprio perché il pezzo non ha una coerenza iconografica (vedi box alle pp. 36-37). In ogni caso, l’inquadramento stilistico oscillante di secoli e le interpretazioni iconografiche piú bizzarre rendono l’oggetto inutilizStato, né il legittimo proprietario avessero nulla da eccepire? Corrompendo gli ufficiali della dogana? Ma, in questo caso, non si trattava di un vaso o di una testa, bensí di un manufatto voluminoso, che difficilmente sarebbe passato inosservato. La ragione, probabilmente, risiede nel fatto che a nessuna delle persone strettamente coinvolte importava molto di un pezzo che nell’ambiente era noto per essere una contraffazione moderna. A differenza di altri falsi rimossi dai rispettivi musei, il Trono di Boston resiste perché non si è mai trovato il

zabile per la storia dell’arte antica e questo già basterebbe per espungerlo dal corpus delle opere che di essa fanno parte a buon diritto. L’oggetto è stato eseguito secondo una delle prassi predilette dai falsari, cioè quella della variazione o alterazione iconografica di un originale, presentando però un manufatto piú elaborato, cosí da sollecitare l’avidità del collezionista, che desidera acquisire un’opera migliore di quella che gli è sfuggita. Come in tutte le vicende di falsi, sembra che anche in questo caso si fossero create quelle particolari aspettative che portano ad accogliere con favore un oggetto falso, «quella candida ingenuità» – come ebbe a dire lo storico dell’arte Hans Tietzte (1880-1954) – «che permette a un falsario ignorante di ingannare colti archeologi». Molto probabilmente non sarà mai possibile conoscere i dettagli delle vere circostanze in cui il Trono di Boston emerse, né identificarne l’autore materiale. Certamente, l’epoca delle grandi falsificazioni in archeologia non terminò dopo la morte di Warren e Marshall (1928): oggi, nel mercato romano, circolano ancora supposte opere antiche (si veda il gruppo con Mitra che uccide il toro recentemente esposto in Vaticano), che a mio parere sono molto probabilmente contraffazioni.

Confronto «all’americana» La vicenda del Trono di Boston è al centro di un incontro organizzato dal Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps in collaborazione con il Museo dell’Arte Classica della Sapienza Università di Roma. A ripercorrere la storia della sua scoperta e ad analizzarne il rapporto, che sembra potersi ormai definire artificioso, con il Trono Ludovisi saranno, oltre all’autore dell’articolo che «Archeo» ha ospitato, Marcello Barbanera, professore associato di archeologia classica presso Sapienza Università di Roma, Alessandra Capodiferro, direttore del Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps, ed Enzo Lippolis, professore ordinario di archeologia classica presso Sapienza Università di Roma. L’appuntamento è per sabato 21 maggio, alle ore 18,00, nella Sala Grande del Galata di Palazzo Altemps; via di Sant’Apollinare, 8 - Roma; info: www.archeoroma.beniculturali.it

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MOSTRE • ROMA

SUL PIÚ

SACRO DEI COLLI In alto: disegno ricostruttivo ipotetico dell’aspetto del Campidoglio nel VI sec. a.C. Il grande edificio centrale rappresenta il tempio di Giove Ottimo Massimo. Sulle due pagine: Filippo Juvarra, Veduta del Campidoglio da nord, 1709. Roma, Museo di Roma, Gabinetto Comunale delle Stampe. Si distinguono, da sinistra: la basilica di S. Maria in Aracoeli, il Palazzo Nuovo, il Palazzo Senatorio e il Palazzo dei Conservatori.


È IL LUOGO SIMBOLO DI ROMA, ABITATO GIÀ PRIMA DELLA NASCITA STESSA DELLA CITTÀ. SU QUELL’ALTURA POCO DISTANTE DALLE RIVE DEL TEVERE SORSE IL PIÚ IMPORTANTE DEI SUOI SANTUARI, IL GRANDE TEMPIO DEDICATO A GIOVE. IN QUESTE PAGINE RIEVOCHIAMO LA COMPLESSA E AVVENTUROSA VICENDA DEL CAMPIDOGLIO, DALLE ORIGINI ALL’ETÀ MODERNA: UN RACCONTO SCANDITO DA DISTRUZIONI E RICOSTRUZIONI, AL QUALE, GRAZIE A RECENTI INDAGINI ARCHEOLOGICHE, SI È AGGIUNTO UN CAPITOLO NUOVO E STRAORDINARIO, CHE PRESENTIAMO IN ANTEPRIMA AI NOSTRI LETTORI di Alberto Danti

In alto: una veduta della piazza del Campidoglio. In primo piano, il ritratto equestre dell’imperatore Marco Aurelio (il cui originale è conservato nei Musei Capitolini), sullo sfondo, il Palazzo Senatorio, sede di rappresentanza del Comune di Roma.


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I

l Campidoglio deve la sua leggendaria fama e importanza principalmente alla posizione geografica; situata, infatti, vicino al Tevere, in un punto che permetteva un facile guado del fiume, l’altura fu meta di antichissimi insediamenti e zona di libero scambio e di incontro tra popoli e genti diverse. Anche la tradizione storica ne testimonia la precoce frequentazione: qui sorse la citta di Saturno, che accolse prima Eracle e in seguito lo stesso Enea, sbarcato proprio nella pianura del Foro Boario, la piú prossima al Campidoglio. La lunga storia del colle capitolino è l’argomento della mostra «Campidoglio. Mito, Memoria, Archeologia», in corso ai Musei Capitolini, in Palazzo Caffarelli. Sin dall’epoca della nascita di Roma, il colle capitolino si distinse nella sommità settentrionale, l’Arx, roccaforte occupata dai Sabini, e in quella sud-occidentale, il Capitolium, riservato ai piú importanti culti cittadini. Fra le due alture si distende la piccola e stretta valle

In alto, a destra: planimetria dell’area capitolina in epoca antica elaborata da Giuseppe Lugli per l’opera Roma antica (Roma, 1960). In basso: ritratto ad affresco dell’imperatore Carlo V. 1606-1610. Roma, Palazzo Caffarelli.

L’AREA CAPITOLINA Nota da numerose fonti storiche (tra cui Livio, Svetonio, Plinio e Tacito), l’Area Capitolina consisteva nello spazio che si estendeva intorno e davanti al tempio di Giove. La sua origine, pertanto, rimonta alla tarda età arcaica e l’Area fu ben presto occupata da templi, sacelli, edicole, statue, trofei e ogni genere di ornamento prezioso. L’aspetto di piazza lastricata e probabilmente bordata da portici continuò a svilupparsi durante l’età repubblicana, quando qui furono innalzati nuovi monumenti, tanto che fu sgomberata in piú momenti dalle numerose statue: una prima volta accadde nel 179 a.C. e, in seguito, nella prima età imperiale, per iniziativa di Augusto. Centro della vita religiosa della città, l’Area Capitolina era meta di pellegrinaggi continui e terminale delle fastose pompe trionfali dei generali vittoriosi, che qui giungevano a ringraziare la triade e a deporre il bottino di guerra. Sempre secondo i racconti degli scrittori antichi, nell’Area dovevano trovare posto le statue dei Dioscuri, una della Lupa che allatta Romolo, una statua dorata di Eracle e altre a ricordo dei sette re e dei principali personaggi politici e militari dell’Urbe, nonché degli imperatori. Si conoscono anche alcune delle divinità titolari dei numerosi templi o sacelli o altari che vi sorgevano: Iuppiter Custos, Iuppiter Tonans, Ops, Mens, Venus Ericina, Genius Publicus, Isis, Serapis, Fortuna Primigenia, Bellona, Iuppiter Soter, Iuppiter Depulsor. Il carattere di area particolarmente frequentata dalle milizie romane è inoltre attestato dal ritrovamento, nei secoli scorsi, di alcuni diplomi militari.

dell’Asylum, da sempre considerata una zona franca, destinata ad accogliere genti dei vicini abitati per incrementare la popolazione della nascente città (vedi la planimetria qui sopra). Con l’avvento della dinastia etrusca dei re Tarquini, si ebbe la consacrazione del Capitolium a supremo luo42 a r c h e o

go di culto in onore della triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva). Cosí, a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C., il Capitolium prese l’aspetto di acropoli della città, mediante la sistemazione delle sue pendici scoscese e rocciose e la realizzazione, sulla sommità, di una colossale platea di fondazione in


casupole che si formò intorno alle pendici, addossandosi all’antica Rupe Tarpea – soprattutto lungo i versanti meridionale e occidentale –, data la vicinanza al Tevere, divenute nuovamente fonte di vita e di sostentamento per la cittadinanza. Né va dimenticato che l’antica Area Capitolina, dopo l’istituzione del Comune di Roma nel 1143, fu destinata a luogo di esecuzioni capitali, aggravandone cosí l’identificazione come luogo funesto e tetro. Solo dalla fine del XVI secolo il colle cominciò a rinascere, grazie all’arrivo della nobile famiglia dei

Il colle ai giorni nostri Disegno ricostruttivo che illustra l’assetto odierno del Campidoglio. Nell’area in cui sorgeva il tempio di Giove si trova oggi il Giardino Romano dei Musei Capitolini.

blocchi di cappellaccio (particolare tipologia di tufo), sulla quale sorse il tempio di Giove Ottimo Massimo. Da quel momento in poi, il grande santuario condizionò lo sviluppo urbanistico e viario del colle: di fronte al tempio si estendeva la vasta piazza chiamata Area Capitolina, dove nel tempo sorsero sacelli, altari, statue onorarie e luoghi di culto connessi con i valori piú propri della civiltà romana (vedi box alla pagina precedente). Ripide rampe e anguste gradinate conducevano all’altura e all’area sacra, insieme a poche ma importanti arterie stradali, una delle quali era il Clivus Capitolinus, che, provenendo dal Foro Romano, terminava proprio di fronte al tempio di Giove.

CADUTA E RINASCITA Con la fine del periodo imperiale il Campidoglio venne abbandonato e i suoi monumenti saccheggiati e depauperati, spesso ridotti a cave di materiali da costruzione. Questo degrado fu particolarmente accentuato per il Capitolium, tanto che vennero coniati toponimi che indicavano in modo chiaro l’aspetto selvaggio e inospitale del colle, designandolo come «Monte Caprino». A ciò si aggiunse il fitto quartiere di

Se ci fosse il tempio... Il disegno mostra le relazioni di volume architettonico tra l’antico tempio di Giove e gli attuali edifici esistenti sul Campidoglio.

Il rapporto spaziale La pianta ricostruttiva illustra la posizione e l’area occupata anticamente dal Tempio di Giove, in relazione a quelle delle altre costruzioni.

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Modern Rome. Campo Vaccino, olio su tela di William Turner. 1839. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum.

Caffarelli, che ricevette in dono, nella persona di Ascanio Caffarelli, alcuni appezzamenti di terreno sul Campidoglio da parte di Carlo V, in occasione della sua visita a Roma nel 1536, quale atto di riconoscenza per essere stato il suo fedele paggio. Su quel terreno, intorno al 1562, sorse il primo nucleo del palazzo che gli eredi di Ascanio ampliarono fino alla metà del XVII secolo. Il complesso delle proprietà Caffarelli finí con l’occupare l’intera spianata del colle, fino al bordo superiore della Rupe Tarpea, con giardini, orti, case e negozi, poi concessi in affitto, e ambienti di servizio, quali il Granaro e le Scuderie vecchie. Uno dei piú consistenti interventi di ampliamento del palazzo si ebbe all’inizio del XVII secolo e proprio a questa fase appartiene un importante ciclo di affreschi distaccato da una volta dello scalone principale, confluito nel 1930 nelle raccolte civiche di Palazzo Braschi e ora fortunatamente recuperato dai depositi del Museo di Roma ed esposto in mostra.

PAESAGGI E RITRATTI Grazie a una fotografia e alle fonti documentarie, sappiamo che i quattordici pannelli superstiti facevano parte di un insieme in cui comparivano motivi a grottesca, paesaggi e i ritratti di Carlo V, Filippo II e dello stesso Ascanio Caffarelli. Probabilmente dipinte poco dopo la costruzione dello scalone, nel 1606, le pitture celebravano il forte legame della famiglia con gli Asburgo e riflettono un gusto tardo-cinquecentesco, ricalcando direttamente, per i paesaggi, opere dei contemporanei artisti Paul Bril (1554-1626) e Antonio Tempesta (1555-1630). A partire dal XVIII e per tutto il XIX secolo, il colle capitolino, pressoché assente nelle raffigurazioni pittoriche precedenti, diviene il luogo fisico dal quale gli artisti osservano i monumenti antichi conservatisi nel Foro Romano. Fra tuta r c h e o 45


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L’ARCHEOLOGIA SI ADDICE AI PRUSSIANI Nel 1823, con l’arrivo dei Prussiani in Campidoglio, nasce a Roma il Circolo degli Iperborei, grazie all’impegno e alla volontà di insigni studiosi, per dare spazio allo studio dei classici e delle scoperte archeologiche. Un circolo di natura internazionale, che venne benevolmente accolto da Christian

Karl Josias Bunsen negli spazi dell’Ambasciata Prussiana presso Palazzo Caffarelli. L’impegno del diplomatico e degli intellettuali del circolo ebbe una prima legittimazione nel 1829, il 21 aprile, quando si giunse a fondare l’Instituto di Corrispondenza Archeologica, un’istituzione basata

sull’avvicendamento di segnalazioni e scambi epistolari fra i diversi soci corrispondenti. Nel 1836, l’Instituto ebbe una sede stabile, in cui fu creata anche la Biblioteca, dove, nel tempo, confluirono molte edizioni di classici, libri e testi di antiquaria, oltre al materiale proveniente

prietà Marescotti, si prodigò per fondare l’Instituto di Corrispondenza Archeologica (1823; vedi box in queste pagine), l’Ospedale dei Protestanti e la Casa Tarpea (1835). Infine, nel 1853, con una scrittura privata, riuscí a vincolare alle proprietà prussiane tutto il fondo Caffarelli sul Campidoglio. Malgrado il contenzioso che si aprí con il Comune e il Vaticano, i Prussiani, con il contributo di vari architetti – fra i quali si distinsero Paul Laspeyres e Francesco Settimj –, mutarono il volto urbanistico di questa parte del colle. Il nuovo edificio dell’Istituto Archeologico, le Scuderie Nuove, le ristrutturazioni dell’ospedale e del palazzo sono alcune delle opere compiute, mentre altre non videro

mai la luce (l’Accademia di Archeologia e l’Ospedaletto). Pochi mesi prima dell’Armistizio dell’11 novembre 1918, che pose fine al primo conflitto mondiale, i Tedeschi abbandonarono il Campidoglio, le loro proprietà furono confiscate, mentre il Palazzo Caffarelli fu preso d’assalto dal popolo, che si riappropriò dell’edificio e del colle, simbolo della grandezza e della sacralità di Roma.

A destra: Palazzo Caffarelli e i suoi giardini in un’immagine del 1885. Roma, Archivio Disegni della Sovrintendenza Capitolina.

ti, un posto di particolare rilievo è occupato da William Turner, interprete di quella poetica del sublime dell’età romantica, che ben si evidenzia nel dipinto Modern RomeCampo Vaccino. L’importante opera, attualmente esposta in Palazzo Caffarelli, riassume in sé quella visione mitica e irrazionale che ha accompagnato nei secoli l’osservazione del sacro colle di Roma.

È ARRIVATO L’AMBASCIATORE... Ma l’inizio del XIX secolo rappresenta anche un momento decisivo per la storia urbanistica del Campidoglio, coincidente con l’arrivo dei Prussiani. Il primo atto che determina il loro insediamento sul colle è la venuta a Roma di Christian Karl Josias Bunsen (1791-1860), nel 1817, quale Segretario dell’Ambasciata Prussiana presso la Santa Sede a Palazzo Orsini. Nel novembre dello stesso anno, Bunsen ottenne in affitto alcuni locali del secondo piano di Palazzo Caffarelli, iniziando cosí la sua attività, caratterizzata da mecenatismo e dalla profonda difesa delle tradizioni teutoniche, tra le quali va annoverata, già nel 1819, l’istituzione della prima Comunità Evangelica Protestante a Roma. Piú tardi, dopo aver acquisito la pro46 a r c h e o

UNA STAGIONE NUOVA Si aprí cosí un nuovo periodo per questa parte del Campidoglio, che ebbe la sua tappa piú significativa nella riscoperta delle vestigia del tempio di Giove, interpretato come nuovo simbolo di Roma e dell’Italia unita. Si ipotizzò addirittura la de-


anche da Paesi e istituzioni accademiche estere. Nel 1871, con l’avvento del Reich e di Guglielmo I come imperatore, l’Istituto entrò a far parte degli enti accademici dell’impero germanico e divenne la filiale romana dell’Istituto Archeologico (Archäologisches Institut) di Berlino. A destra: tavola dei possedimenti dell’impero germanico sul Campidoglio, 1873 Roma, Istituto Archeologico Germanico di Roma.

molizione del Palazzo Caffarelli e di tutti i fabbricati realizzati durante l’«occupazione teutonica», sia per cancellare quella che era considerata un’onta, sia per agevolare al massimo gli scavi affidati all’archeologo Roberto Paribeni (1876-1956). L’intenzione era quella di creare il «Grande Parco Pubblico» del Campidoglio, nel quale dovevano avere grande rilievo i resti del tempio di Giove e le altre presenze archeologiche, opportunamente inserite in vasti giardini. Sul Belvedere Caffarelli fu anche proposta la realizzazione di un monumento dedicato alla figura di Dante Alighieri, a sancire la riconquista del colle da parte dell’italica intellighenzia, dopo il lungo dominio teutonico. Nell’ambito di questi impulsi, fortemente connotati di nazionalismo, si inserí, dal 1922, l’ideologia fascista, che fece del Campidoglio il proprio simbolo della romanità primigenia, stabilendo cosí un programma di demolizioni che doveva liberarlo da tutto il fatiscente quartiere che lo circondava, per riportarlo al suo antico aspetto di immobile saxum. L’espressione fu ripresa dall’episodio della morte di Eurialo e Niso, descritto da Virgilio nell’Eneide (libro IX, 446-449). Al termine del canto, infatti, lo stesso poeta assicura ai due

eroi troiani il ricordo imperituro e incrollabile, come la rupe del Campidoglio: «Fortunati ambo! Siquid mea carmina possunt, / nulla dies umquam memori vos eximet aevo, / dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum / accolet imperiumque pater Romanus habebit» («Fortunati ambidue! Se i versi miei / tanto han di forza, nè per morte mai, / nè per tempo sarà che ’l valor vostro / glorïoso non sia, finchè la stirpe / d’Enea possederà del Campidoglio / l’immobil sasso, e finché impero e lingua / avrà l’invitta e fortunata Roma»; traduzione di Annibal Caro).

GLI ANNI DELLE DEMOLIZIONI I lavori di isolamento, avviati già nel 1928, proseguirono senza sosta fino al 1935, partendo dagli sventramenti lungo via Tor de’ Specchi; in questi si inserirono anche gli interventi ai piedi della scalinata dell’Aracoeli, che ebbero un primo enfatico risultato con l’inaugurazione del primo tratto della via del Mare, il 28 ottobre 1930. Dal 1931, le demolizioni ripresero alacremente, con l’eliminazione di via Monte Caprino, via della Bufola e via della Consolazione, nel suo tratto piú prossimo alla nascente via del Mare. Dopo un periodo di pausa, a partire dal 1939

le operazioni si completarono con gli sventramenti nel tratto fra piazza della Consolazione e il portico degli Dèi Consenti che misero in luce le antiche strutture di contenimento del colle e il tratto ancora superstite del Clivo Capitolino. Sotto la direzione di Antonio Muñoz (1884-1960), al quale si deve un’ampia bibliografia relativa sia ai lavori eseguiti, sia ai ritrovamenti, furono abbattute le misere casupole addossate al colle. La propaganda del regime esaltò l’impresa, che ebbe il merito di ricondurre al primario valore quel che il Campidoglio aveva rappresentato nei secoli, nella sua veste di sacra roccaforte, inesorabilmente decaduta in un impietoso aspetto. E sicuramente concorsero a promuovere tale ideologia le notizie sui numerosi e notevoli ritrovamenti archeologici, che testimoniavano l’immensa antica grandezza e lo splendore di un colle che, al contrario, era da tempo caduto nell’oblio e nel declino. Per comprendere meglio gli esiti dei lavori di demolizione eseguiti in questo periodo, dai depositi del Museo di Roma sono stati recuperati – e ora esposti – due plastici in scala 1:1000 del Campidoglio, commissionati da Antonio Muñoz fra il 1928 e il 1932; essi costituiscono a r c h e o 47


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Evitata la demolizione di Palazzo Caffarelli, dopo le indagini archeologiche eseguite fra il 1919 e il 1920 da Roberto Paribeni (che non soddisfecero le aspettative) e per la forte opposizione e le proteste dell’opinione pubblica – come testimoniano le cronache dell’epoca –, si giunse all’accordo fra lo Stato e il Comune di Roma per la cessione a quest’ultimo del palazzo e dell’annesso giardino Caffarelli. Si recuperò cosí l’edificio e, avvalendosi del progetto architettonico di Ghino Venturi, nel 1925, negli ambienti del piano terra, fu inaugurato il «Museo Nuovo di scultura antica» (Museo Mussolini), contiguo al Museo del Palazzo dei Conservatori, mentre ai piani superiori venne allestita la prima sede della Nuova Galleria d’Arte Moderna.

In alto: una foto scattata nel 1941 che documenta le demolizioni avviate per permettere la costruzione della via del Mare. Roma, Museo di Roma.

una testimonianza tangibile dell’assetto urbanistico del colle prima e dopo alcuni dei lavori di isolamento che ne hanno modificato sostanzialmente la conformazione (vedi box in queste pagine). I plastici, inoltre, fanno parte di una lunga serie di analoghi esemplari, che rientravano

pienamente nel metodo, consolidato proprio in quegli anni, di eseguire modelli in scala a dimostrazione delle profonde trasformazioni che molti rioni e quartieri della città stavano ricevendo sulla spinta dei nuovi ideali della renovatio urbis voluta dal fascismo.

L’ ARCHEOLOGIA Nella mostra di Palazzo Caffarelli, l’ultima sezione è dedicata proprio alle indagini archeologiche del Campidoglio. Qui sono riunite pregevoli opere rinvenute durante le demolizioni dell’era fascista e, soprattutto, un grande plastico esegui-

Qui sotto e nella pagina accanto, in basso: due vedute del plastico che documenta l’assetto del Campidoglio prima delle demolizioni, 1928-1932. Roma, Museo di Roma.

Vittoriano

Aracoeli Palazzo Caffarelli

Istituto Archeologico

Palazzo Senatorio

Piazza del Campidoglio Edifici demoliti

Chiesa della Consolazione


A destra: case in demolizione per l’isolamento del Campidoglio, 1933. Roma, Museo di Roma.

to fra il 1926-27 su indicazione di Antonio Maria Colini (1900-1989) per illustrare le scoperte archeologiche compiute durante la realizzazione di nuovi uffici comunali e della Sala della Protomoteca (vedi a p. 51, in alto). La lunga stagione delle demolizioni fu accompagnata da numerosi ritrovamenti, soprattutto scultorei, sicuramente riferibili a manufatti crollati dalla sommità del colle. Molte di queste opere costituiscono oggi un vanto delle collezioni capitoline e Palazzo Senatorio Vittoriano

Chiesa della Consolazione

Aracoeli Palazzo dei Conservatori

Santa Rita Ospedale Teutonico Piazza del Campidoglio Palazzo Caffarelli

IL COLLE CAMBIA VOLTO Realizzati in gesso (scala 1:1000) fra il 1928 e il 1932, i due plastici progettati da Antonio Muñoz rispecchiano la situazione del Campidoglio prima e dopo alcuni degli interventi di isolamento. Nel primo, il colle è rappresentato secondo un assetto urbanistico che sostanzialmente non differisce dallo schema topografico presente nelle redazioni del Catasto Urbano del 1820 e del 1870: la piazza del Campidoglio non è stata ancora lastricata secondo il progetto michelangiolesco (opera che fu eseguita solo nel 1940); il Palazzo Caffarelli compare nella sua

completa struttura e ben distinto nei suoi tre fabbricati congiunti; ai piedi del Vittoriano è presente la chiesa di S. Rita; l’altura del colle è dominata dalle costruzioni teutoniche (Ospedale, Istituto Archeologico e la prima sede della Biblioteca); tutto il versante sud mostra i numerosi caseggiati che si appoggiano all’antica Rupe Tarpea, prospettando su via della Consolazione. Il secondo modello mostra alcune diversità, riscontrabili, per esempio, nell’assenza della chiesa di S. Rita, demolita e ricostruita nella vicina piazza Montanara nel

1938, per dare maggiore visibilità al lato corto del Vittoriano. Altre differenze si notano nella zona a ridosso della chiesa della Consolazione, dove, al posto delle abitazioni demolite lungo le pendici del colle, sorge un grande fabbricato destinato agli uffici comunali accanto al nuovo tracciato di via di Monte Tarpeo. Questo fabbricato non fu poi costruito, mentre a monte dello stesso, il nucleo di edifici progettati venne realizzato e si riferisce agli uffici della Tesoreria e Avvocatura del Comune, nonché alla Sala della Protomoteca.

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Piazza del Campidoglio durante i lavori di pavimentazione su disegno di Michelangelo, eseguiti solo nel 1940. Roma, Museo di Roma, Archivio Fotografico.

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hanno permesso di ricostruire una pagina importante della storia artistica del Campidoglio. I materiali selezionati permettono di sottolineare il carattere abitativo e residenziale che questa zona delle pendici doveva avere in antico (come testimonia il ninfeo dipinto del Vicus Iugarius) e quello commerciale, ricollegandosi cosí alle vicine aree dei mercati del Foro Olitorio e Boario (dedica a Caracalla dei Negotiantes Vasculari).

PALADINA DELLA PACE Anche la funzione sacra era attestata nell’area, stando al ritrovamento di un piccolo nucleo di sculture e iscrizioni che riconducono a un sacello dedicato alla Dea Caelestis (elaborazione romana della punica dea Tanit), che, a partire dal II secolo d.C., ebbe molti seguaci a Roma, poiché considerata paladina della pace e dispensatrice di abbondanza e felicità. Il plastico, in scala 1:50, prende in considerazione l’isolato compreso fra le odierne vie di Monte Tarpeo e del Campidoglio, e rappresenta una complessa successione di strutture, che vanno dall’età arcaica all’età imperiale. Partendo dalla zona piú elevata del modello, sono rappresentati: una fondazione in calcestruzzo, una fo-

In alto: il plastico in scala 1:50 dei ritrovamenti archeologici effettuati durante i lavori per gli uffici comunali in Campidoglio. Roma, Musei Capitolini. In basso: la sala Repubblicana nell’allestimento del Museo Mussolini a Palazzo Caffarelli, 1925. Roma, Archivio Storico dei Musei Capitolini.

gna rettilinea in opera quadrata, un pozzo, varie strutture in cappellaccio (pietra vulcanica), un pilone e muri in tufo, una fogna a cortina e due scalinate. Si segnala, inoltre, una serie di strutture che si ipotizza coincidano con il percorso originario del Clivus Capitolinus. Il fulcro

dei rinvenimenti archeologici fu considerato, tuttavia, un deposito votivo (favissa) sigillato da lastre di cappellaccio, che restituí vasellame ceramico in miniatura, bucchero e altri oggetti, fra i quali si distinsero le numerose riproduzioni fittili di «focacce», di varie dimensioni, e figure umane in lamina di bronzo, che hanno permesso di datare il contesto all’VIII secolo a.C.

IL TEMPIO DI GIOVE Il tempio di Giove fu realizzato sul finire del VI secolo a.C. dai re Tarquini, sulla vetta piú alta del Campidoglio, e visse ininterrottamente fino alla fine dell’età imperiale quale personificazione stessa della sacra grandezza di Roma. Perduta la sua memoria archeologica durante il Medioevo, dal XVI secolo il tempio è stato uno degli edifici piú dibattuti dagli studiosi, perlopiú inclini a collocarlo sul sito della chiesa dell’Aracoeli. Solo a partire dalla metà del XIX secolo, grazie ai ritrovaa r c h e o 51


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PER IL PADRE DEGLI DÈI

menti nelle proprietà Caffarelli, si poté comprenderne la posizione reale. Anche le colossali dimensioni del tempio furono oggetto di vivace dibattito, poiché a una fondazione cosí vasta avrebbe dovuto corrispondere un alzato di analoga mole, ma tale da creare notevoli problemi statici a tutto l’edificio. Dopo gli scavi di Pietro Rosa (1865), il quale non comprese di aver ritrovato per primo i resti delle fondazioni del tempio, seguirono le indagini di Rodolfo Lanciani (1875), Roberto Paribeni (1919-1920), Antonio Maria Colini (1925 e 1959, insieme a Einar Gjerstad) e, infine, la stagione degli scavi recenti (19992002) nelle aree del Giardino Romano e Caffarelli.

LE NUOVE ACQUISIZIONI Da ultimo, fra il 2008 e il 2014, durante i lavori di consolidamento dell’ex Ospedale Teutonico, situato sull’attuale via del Tempio di Giove, sono state svolte indagini archeologiche che hanno individuato, sotto le tracce superstiti di età medievale e moderna, una fondazione in calcestruzzo di età romana, realizzata in piú fasi, la piú antica delle quali, di età cesariana, è a pianta quasi qua52 a r c h e o

drata. In età domizianea (I secolo d.C.), essa fu ampliata, raggiungendo le dimensioni oggi note. Di fronte alla platea sono stati localizzati due plinti quadrati in calcestruzzo, in origine destinati a sostegno di statue, colonne o altari. È difficile, al momento, stabilire la destinazione di tale struttura: se debba cioè essere riferita a un edificio collegato alle funzioni sacre del tempio, rispetto al quale è perfettamente orientata (altare), oppure a uno dei molti edifici tramandati dalle fonti. Al di sotto e lungo tutto il lato corto est della struttura, in opera cementizia, è stato individuato un consistente strato di depositi, ricco di frammenti di materiale edilizio: si tratta, perlopiú, di tegole e coppi, e di materiali fittili di rivestimento con decorazione a rilievo dipinta.Tra questi elementi si distinguono prodotti a stampo (lastre, antefisse, sime e altro) e figure prodotte singolarmente a mano, databili dalla fine delVI secolo a.C. e fino al III secolo a.C. La ceramica presente nello strato e una moneta (semiocia) di età repubblicana hanno permesso di datare la formazione del deposito tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C., in un periodo in cui fu necessario rialzare

Durante la guerra contro i Sabini, Tarquinio Prisco, il primo re della dinastia etrusca, votò un tempio alla triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva). Ottenuta la vittoria, avviò la sistemazione del Capitolium, facendo spianare la cima del colle e realizzare mura di contenimento. Suo figlio, Tarquinio il Superbo, portò a compimento il progetto dopo diversi anni, impegnando il bottino ricavato dalla vittoria su Suessa Pometia, ma non riuscí a inaugurarlo, perché venne scacciato da Roma. La dedica del tempio avvenne cosí nel primo anno della repubblica romana, il 13 settembre del 509 a.C., da parte del console Orazio Pulvillo. Secondo la tradizione, nello scavare le fondazioni del santuario sarebbe stato rinvenuto un cranio umano: l’evento fu considerato un prodigio e non solo diede il nome di Capitolium a questa zona del colle (da caput, testa), ma consacrò il Campidoglio stesso a centro sacro e spirituale di Roma e di tutte le terre in seguito conquistate. Al tempo della repubblica, la crescita costante dell’importanza e del valore simbolico del tempio determinò un interesse e una cura continua per l’edificio, soprattutto sotto l’aspetto decorativo.


Colpito da fulmini e incendi e distrutto alla fine dell’età repubblicana e nella prima età imperiale (83 a.C., 69 e 80 d.C.), il santuario venne riedificato l’ultima volta in marmo pentelico da Domiziano, dotandolo di una decorazione sfarzosa. I canoni e i modelli architettonici e decorativi utilizzati furono ripresi in tutte le aree e le città conquistate dai Romani. La progressiva decadenza dell’impero è riflessa anche dal diminuire dell’interesse nei confronti del tempio, che, a partire dal IV secolo d.C., fu piú volte oggetto di spoliazioni e saccheggi. In alto: pianta che documenta il rinvenimento della platea di fondazione del tempio di Giove Capitolino. 1875. A destra: l’angolo nord-orientale della platea di fondazione del tempio, in via delle Tre Pile. 1959. Roma, Musei Capitolini. Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo ipotetico del tempio di Giove nel V sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: un’immagine degli scavi della fossa e della fondazione del tempio. 1999-2000. Roma, Musei Capitolini.

il piano di calpestio dell’Area Capitolina, nell’ambito della risistemazione dell’intero assetto urbanistico di questa zona del Campidoglio. I materiali, che senza dubbio si riferiscono alla decorazione fittile del tempio di Giove, vennero accumulati in occasione dei periodici rinnovamenti o lavori di manutenzione del grande santuario. Studi e confronti con gli ornati del medesimo periodo conosciuti sia per Roma, sia per tutta l’area etrusco italica, hanno permesso di individuare tre fasi: la prima risale alla fine del VI secolo a.C.; la seconda ai primi decenni del IV secolo a.C.; l’ultima al III secolo a.C. Il ritrovamento ha un’importanza particolare, poiché finora quasi nulla si conosceva dell’elevato del tempio. Costituito da oltre un migliaio di frammenti, il deposito ha consentito di ricostruire quasi per intero (grazie anche alla preziosa collaborazione di Francesco Galluccio) lo schema del sistema decorativo piú antico, che divenne, nella sua originalità e per il suo prestigio, un modello per i monumenti successivi.

UN TRIONFO DI COLORI I reperti, infatti, appartengono alla decorazione architettonica in terracotta posta sulla copertura del tempio, al fine di proteggere la carpenteria in legno e, al contempo, per abbellire l’edificio con rilievi e figurazioni riccamente variopinte. I numerosi frammenti hanno consentito di identificare le parti significative di ogni elemento, permettendone il riconoscimento e la ricostruzione, con l’ausilio, ove necessario, dei confronti con reperti simili, rinvenuti in altri contesti meglio conservati. Il buono stato di conservazione dei colori ha permesso di ricostruire gran parte degli ornati nella loro fantasiosa policromia, appartenente con certezza a un edificio di proporzioni eccezionali. La decorazione degli spioventi del frontone consisteva in una a r c h e o 53


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fascia alta 2,05 m. Gli architravi sopra le colonne erano coperti da grandi lastre di rivestimento, mentre agli angoli del frontone si dovevano disporre gli acroteri, di cui non si sono conservate tracce, e, sulla sommità del tetto, figure intere di dimensioni vicine al vero. I margini degli spioventi erano arricchiti da antefisse con Satiri e Menadi, Sirene e Signore degli Animali.

LA GRANDE SIGNORA Quest’ultima immagine nasce dalla tradizione campana: in particolare, a Capua fu rielaborato il motivo orientale della «Signora degli Animali» (Potnia Theròn; vedi box qui sotto), ricorrente nell’iconografia greca e coloniale, adattandolo come elemento decorativo dei tetti tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. Per la sua prestigiosa collocazione, l’antefissa del Campidoglio divenne, probabilmente, il modello delle terrecotte architettoniche sino alla tarda repubblica. L’importanza del reperto è però

UN CULTO NATO NELLA PREISTORIA Nel XXI libro dell’Iliade, in uno dei momenti piú cruciali ed epici del poema, è in atto la lotta fra gli dèi, mentre Achille fa strage dei Troiani che incontra, dopo aver dichiarato di essere rientrato in guerra. Poseidone provoca piú volte Apollo, il quale, a sua volta, non reagisce, per rispetto nei confronti del dio, fratello del padre. Interviene allora Artemide, che rimprovera il fratello proprio per i suoi rispettosi timori. Omero definisce la dea «Potnia Theròn», Signora delle Fiere, ricorrendo a un termine fino a quel momento sconosciuto e per di piú associato in modo appropriato alla figlia di Zeus e di Leto. La dea degli Animali, dunque, che richiama la Signora dei Serpenti, già

54 a r c h e o

nota in ambito minoico con testimonianze artistiche risalenti alla metà del II millennio a.C.; essa si identificava con la Dea Madre, dispensatrice di vita e di morte cosí come lo fu la Potnia (signora, padrona: si pensi alla radice pot presente nel verbo potere, in latino come in italiano). Col tempo, l’iconografia si arricchí e la dea fu rappresentata alata, circondata a volte da leoni o felini, oppure uccelli o altri animali. In età arcaica, cosí come appare su numerose figurazioni ceramiche, si fissarono anche alcuni elementi caratteristici della sua immagine, come il lungo chitone ionico pieghettato, i capelli che ricadono a volte sulle spalle e, infine, la


Il fregio architettonico Ipotesi ricostruttiva della decorazione del tempio di Giove nella fase tardo-arcaica (disegni di Francesco Galluccio).

rata

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tegole di gronda

ben altra: la Potnia Theròn capitolina è la prova piú convincente dell’appartenenza al tempio di Giove delle terrecotte rinvenute. Le proporzioni del suo coppo, lungo 90 cm, coincidono con quelle di una nota tegola di gronda dipinta a meandro, ge-

presenza di un arco o di un’ascia nelle mani. Il riconoscimento dell’antefissa con Potnia Theròn all’interno del programma decorativo della fase originaria del tempio di Giove Capitolino, rappresenta il piú antico

Nella pagina accanto, in alto: frammento di antefissa a figura intera con la Potnia Theròn, fine del VI sec. a.C. Roma, Musei Capitolini.

20

30 cm

100 cm

lastra di rivestimento del terzo spiovente altorilievo figurato

esempio dell’utilizzo di questa iconografia in ambito etrusco-romano, che fu in seguito ripresa e imitata in numerosi edifici templari, avendo cosí una grande diffusione su tutto il territorio italico. Nella pagina accanto: frammento di antefissa a figura intera con volto femminile, primi decenni del IV sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. A sinistra: ipotesi ricostruttiva di antefissa con Potnia Theròn della fine del VI sec. a.C. (disegno di Francesco Galluccio)

0 2 4 6 8 10

50

lastra di rivestimento dell’architrave

neralmente riconosciuta come la sola testimonianza sopravvissuta del grande santuario. L’antefissa, quindi, permetterebbe di ascrivere al tempio di Giove questo apparato decorativo ben connotato e qualitativamente rilevante, stupefacente nella sua innovativa grandiosità, al pari dell’edificio nel suo complesso. DOVE E QUANDO «Campidoglio. Mito, memoria, archeologia» a cura di Alberto Danti e Claudio Parisi Presicce Roma, Musei Capitolini fino al 19 giugno Orario tutti i giorni, 9,30-19,30 Info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it Catalogo Campisano Editore a r c h e o 55


MISTERI • TAVOLETTE ENIGMATICHE

PUNTO-LINEAPUNTO...

È

il 1993 e alcuni archeologi stanno svolgendo ricerche di superficie nell’entroterra vulcente, nell’area della Caldera di Latera (il termine caldera, di origine portoghese, indica una depressione di origine vulcanica, causata dallo sprofondamento di crateri, per effetto di eruzioni particolarmente violente, n.d.r.). Giunti in località Vallone, nel Comune di Valentano (Viterbo), vedono affiorare un oggetto che sembra un normale ciottolo di fiume, ma che l’occhio curioso del topografo identifica con 56 a r c h e o


ANCHE L’ALTO LAZIO È ENTRATO A FAR PARTE DELL’«ATLANTE» DELLE TAVOLETTE ENIGMATICHE: OGGETTI SUI QUALI, COME SUGGERISCE IL NOME, GLI ARCHEOLOGI CONTINUANO A INTERROGARSI. A OGGI, IL SOLO DATO CERTO È LA LORO DIFFUSIONE, CHE ABBRACCIA GRAN PARTE DELL’EUROPA di Carlo Casi, Patrizia Petitti, Sabrina Radicati e Fabio Rossi

Il tratto unificante è la presenza di segni realizzati su una o, meno frequentemente, su entrambe le facce: elementi geometrici (punti, coppelle o cerchi, quadrati, rettangoli, triangoli, scanalature, motivi cruciformi, rombi, spirali, ecc.), a volte campiti da segni minori (punti, trattini, piccole coppelle) e variamente associati a determinare un campionario ricco e multiforme di segni astratti, a cui si aggiungono – in area danubiana – segni naturalistici a forma di fiore, prodotti utilizzando come stampo i frutti di una pianta della famiglia delle Malvacee.

NON SEMPRE ORDINATI I segni si dispongono prevalentemente su sottili righe parallele, ma sono note anche tavolette che presentano i segni distribuiti senza un ordine apparente. Quanto alla tecnica di realizzazione, tali segni sono generalmente impressi, cioè prodotSulle due pagine: la Caldera di Latera, presso Valentano, nel Viterbese. In basso e nella pagina accanto: le due facce della tavoletta enigmatica rinvenuta in questa zona nel 1993, databile a un momento finale dell’età del Bronzo Antico (1900-1700 a.C.).

una «tavoletta enigmatica». Fino a quel momento, mai era stato ritrovato cosí a sud un esemplare di questa classe di materiali. Ma che cosa sono le tavolette enigmatiche? Già la definizione stessa di «tavoletta enigmatica», invalsa in tutta Europa, ne indica la difficile interpretazione funzionale. Sono oggetti di terracotta, piú raramente in pietra, di lunghezza compresa tra circa 3 e 12 cm, di forma soprattutto ellissoidale, ovoidale e rettangolare (ma sono noti anche esemplari trapezoidali o circolari). a r c h e o 57


MISTERI • TAVOLETTE ENIGMATICHE

ti sulla pasta ancora molle con uno stampino: l’esecuzione sul supporto prima della cottura indica che il tipo, il numero e l’organizzazione dei segni sono stati ideati in modo unitario e non possono essere il risultato di interventi successivi. Quello delle tavolette enigmatiche è un fenomeno europeo: sono state infatti rinvenute dalla Corsica all’Italia centro-settentrionale, alla Germania; verso oriente, raggiungono a nord la Polonia e, a sud-est, si distribuiscono lungo il corso del Danubio fino alla Romania. In alcune regioni i ritrovamenti sono particolar mente numerosi, come per esempio in Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Ancora piú ricche di ritrovamenti, in Italia, sono l’area benacense e quella padana. Per ciò che riguarda la cronologia, gli studi piú recenti tendono a collocare le tavolette nell’età del Bronzo Antico e nelle prime fasi del Bronzo Medio (2000-1300 a.C. circa).

UN CASO FINORA UNICO La tavoletta della Caldera di Latera, unico esemplare del genere nel Lazio e fra i pochi noti per l’intera Italia centrale, è in terracotta di colore bruno chiaro; di forma ellissoidale (misura 4,2 x 2,8 cm, per uno spessore, al centro, di 1,4 cm) è stata trovata integra, con la superficie leggermente erosa. Sulla faccia piú incurvata, quattro righe – leggermente oblique, da destra a sinistra – presentano un segno al centro: nella prima riga una coppella, nelle altre un quadrato; sulla faccia opposta, meno incurvata, tre righe simili mostrano al centro, rispettivamente, la prima una coppella campita da un punto centrale su cerchio rilevato, la seconda e la terza un quadrato. Una coppella centrale si riconosce anche sull’apice della tavoletta. Su un campione attuale di oltre 130 tavolette italiane, l’esemplare del Vallone è uno dei 58 a r c h e o

Acquapendente Grotte di Castro Pitigliano

Bolsena

Lago Valentano di Bolsena Marta Canino

Tuscania

A1

Montefiascone SR2

Viterbo

Montalto di Castro SS1

Tarquinia

pochi che presentino segni sulle due facce. Le sequenze e le sintassi sono eguali: in entrambi i casi la prima riga è occupata al centro da una coppella, le righe successive da un quadrato. L’associazione tra coppella e quadrato, attestata in altri siti, riveste comunque un particolare interesse, dato che, in un recente studio, l’analisi della frequenza dei diversi segni ha evidenziato per il

quadrato una percentuale piuttosto bassa, pari ad appena l’8%. Per la coppella dell’apice l’unico riferimento possibile in Italia è la tavoletta in pietra di Case Cocconi (Reggio Emilia), che presenta solcature trasversali su una faccia e parallele e una coppella sul margine di un’estremità. Un ulteriore confronto è la tavoletta austriaca di Nikitsch, che reca un segno ellittico sul margine dell’estremità. In base all’analisi stilistica, la tavoletta della Caldera di Latera è stata assegnata a un momento avanzato del Bronzo Antico, periodo al quale riconduce, nel complesso, anche il materiale ceramico di superficie rinvenuto associato a essa. Questa attribuzione cronologica è stata indirettamente confermata anche dai risultati delle indagini condotte nel 2010 nel sito del Vallone, nell’area da cui proviene la tavoletta: le forme dei reperti ceramici e le datazioni assolute ottenute sui campioni di carbone prelevati nello scavo rimandano infatti a un momento finale del Bronzo Antico (1900-1700 a.C.).

ANALISI E CONFRONTI La tavoletta è stata inoltre sottoposta ad analisi di laboratorio di natura chimico-fisica, finalizzate alla comprensione delle tecniche costruttive e dei materiali utilizzati. Come elementi di confronto sono stati scelti tre frammenti ceramici raccolti insieme alla tavoletta nella ricognizione del 1993 e altri tre provenienti dallo scavo del Vallone del 2010. Le analisi hanno rivelato, innanzitutto, che la tavoletta è interamente realizzata con un impasto argilloso piuttosto omogeneo, con minuti inclusi di quarzo. Tutta la superficie esterna del reperto presenta tracce di lisciatura. I segni grafici su entrambe le facce sono eseguiti con tecniche diverse: l’incisione (linee orizzontali) e l’excisione (segni), una tecnica, quest’ultima,


DISTRIBUZIONE DEI SITI EUROPEI CON TAVOLETTE ENIGMATICHE In questa pagina: mappa in cui sono indicati i siti in cui sono stati effettuati dei ritrovamenti di tavolette. In basso: tavoletta enigmatica proveniente da Mangolding. Ratisbona, Historisches Museum.

REPUBBLICA CECA GERMANIA

1

2-5

6 - 10

11 - 20

SLOVACCHIA

UNGHERIA

AUSTRIA ROMANIA

ITALIA

Nella pagina accanto: tavoletta enigmatica rinvenuta presso il sito archeologico di «Sotciastel». San Martino in Badia, Museum Ladin Ciastel de Tor. a r c h e o 59


MISTERI • TAVOLETTE ENIGMATICHE

che consiste nell’asportazione dell’argilla prima della cottura con uno strumento apposito, le cui tracce sono in questo caso visibili solo al microscopio ottico e che, sulla base delle analisi di laboratorio, era probabilmente in rame. L’insieme dei dati raccolti ha permesso di stabilire, inoltre, che la matrice ceramica della tavoletta è simile a quella dei frammenti dei vasi presi a confronto: l’omogeneità della componente argillosa suggerisce quindi lo sfruttamento di un unico giacimento, probabilmente locale e dunque la tavoletta dovrebbe essere stata prodotta nella Caldera di Latera. Diversa invece è risultata la composizione mineralogica negli strati al di sotto della superficie dei materiali analizzati: il quarzo è presente in tutti i campioni ma nella tavoletta enigmatica la componente cristallina principale è differente da quella che appare nei frammenti dei vasi. Tale differenza è dovuta essenzialmente alle diverse temperature di cottura, fino agli 850° C nella tavoletta, inferiori nei frammenti ceramici. Nel caso della tavoletta, inoltre, si è verificato un contatto con il fuoco molto breve che ha anche provocato, come hanno evidenziato le indagini radiografiche, una contrazione dell’impasto ceramico.

OGGETTI DI CULTO? Il fatto che molte tavolette non provengano da contesti archeologici, ma da ricerche di superficie rende piú difficile individuarne la funzione. Noti da oltre un secolo, questi oggetti sono stati nel tempo interpretati in modi diversi: molti autori hanno ipotizzato un valore cultuale, legato cioè alla sfera magico-religiosa, e in questa prospettiva le tavolette sono state considerate come idoli o talismani. Non è mancata una lettura piú «pratica» come forme di fusione per filigrane d’oro o altro metallo, ma tale tesi appare oggi insostenibile. 60 a r c h e o

L’elemento piú significativo ai fini dell’interpretazione è la presenza dei segni astratti: ciò ha fatto pensare a marchi di proprietà mentre l’ipotesi, formulata all’inizio del secolo scorso, che fossero oggetti per fare i conti grazie alla registrazione di ore di lavoro o merci scambiate si può escludere con certezza, perché, come già detto, i segni sulle tavolette sono realizzati prima della cottura e non sono quindi suscettibili di modifiche. Su questa stessa base si fonda la proposta di riconoscervi una sorta di calendario oppure annotazioni contabili. In tempi recenti un’indagine tipologica ha evidenziato che i simboli, ricorrenti, sono spesso combinati in sequenze e sintassi ripetute, rafforzate dalla presenza delle righe lungo le quali si distribuiscono i segni. In tal senso assai importante per la decifrazione del fenomeno è la presenza di segni eguali su tavolette rinvenute anche in siti lontani l’uno dall’altro: un esempio, fra i molti possibili, è quello dei cerchi con-

centrici molto simili sulla tavoletta corsa di Monte Ortu, sulle tavolette trentine di Borgo Sacco e San Mauro di Saline, su un esemplare dal sito veneto di Canar e infine su tavolette da Moncodogno in Istria, una distribuzione che sembra quindi documentare la diffusione di un segno anche su lunghe distanze. Ciò ha indotto a ipotizzare l’esistenza di un codice noto, interpretabile con precisione da parte delle comunità antiche.

UNA VASTA DIFFUSIONE Il fatto che oggetti sostanzialmente omogenei si trovino in regioni tanto lontane fra loro sembrerebbe indicare che le tavolette «viaggiassero», coprendo anche lunghe distanze. Alcuni studiosi hanno per esempio ipotizzato che le tavolette facessero parte di un sistema di comunicazione come segni di legittimazione di messaggi orali, oppure per accompagnare beni di scambio, e, una volta esaurita tale funzione, venissero spezzate.


DALLA PREISTORIA AL MEDIOEVO Aperto dal 1996, il Museo della Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese è ospitato appunto nella monumentale Rocca Farnese di Valentano. Si articola in due sezioni principali, distribuite nei due piani della struttura, dedicate rispettivamente alla Preistoria della Tuscia e alla Rocca Farnese e il suo territorio. La prima sezione espone reperti provenienti dai maggiori e piú importanti siti dell’Alto Lazio, in un arco di tempo che si estende dal Paleolitico alla prima età del Ferro. Per il Paleolitico, si ricordano gli importanti siti di Cenciano Diruto (Vignanello) e grotta delle Settecannelle, di cui sono esposti gli «oggetti di arte». Al Neolitico risalgono i materiali dall’importante insediamento di Poggio Olivastro (Canino) e dalla grotta cultuale di Monte Venere (Lago di Vico), mentre la sala dell’Eneolitico ospita i reperti provenienti dalla necropoli «rinaldoniana» della Selvicciola (Ischia di Castro) e dal sito di superficie di Torre Crognola, con ceramica «campaniforme». Per i secoli iniziali e centrali dell’età del Bronzo, spiccano le ceramiche e gli oggetti in metallo (fra cui numerose asce e due spade) provenienti dall’esteso insediamento palafitticolo del Lago di Mezzano (Valentano), oggi sommerso; a questi si aggiungono anche i ritrovamenti da Grotta Nuova (Ischia di Castro), una cavità usata come luogo di culto, e dalle tombe di Castelletto di Prato di Frabulino e del Naviglione, nel territorio di Farnese. Le fasi finali dell’età del Bronzo sono documentate dai materiali provenienti dagli abitati di Luni sul Mignone, Torrionaccio (Blera) e San Giovenale (Blera), tra cui un In alto: il cortile della Rocca Farnese di Valentano. Nella pagina accanto: la vetrina con le tavolette enigmatiche nel Museo della Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese di Valentano. In basso: una delle sale espositive del Museo.

frammento di ceramica micenea, e dalle necropoli di Crostoletto di Lamone, Ponte San Pietro e Castelfranco Lamoncello, nella valle del fiume Fiora. Per l’età del Ferro, infine, si segnala la recente acquisizione del ripostiglio di oggetti di bronzo dalla già citata Selvicciola. La seconda sezione, dedicata alla Rocca Farnese, è imperniata sullo sviluppo di Valentano e del suo territorio dall’Alto Medioevo (VII secolo circa) all’età contemporanea, con una particolare attenzione per la storia dei Farnese fra il 1300 e il 1600; ricchissima è la raccolta di maioliche rinvenute nei «butti» (gli antichi immondezzai) della Rocca, tra cui si segnala il corredo matrimoniale di Pier Luigi Farnese e Gerolama Orsini (1519). Il percorso di visita è arricchito, nelle due salette della Torre Ottagonale, dalla piccola ma pregevole collezione etrusca di ceramiche ceretane e vulcenti donata dal vescovo Giovanni D’Ascenzi (1920-2013), e dalla «tavoletta enigmatica» della Caldera di Latera.

DOVE E QUANDO Museo della Preistoria della Tuscia e della Rocca Farnese Valentano (Viterbo), piazza della Vittoria 11 Orario invernale (ott-mag): ma-gio, 9,00-13,00; ve-sa, 9,00-13,00 e 14,00-17,00; do, 10,00-13,00; lu chiuso; estivo (giu-set): ma-me, 10,00-13,00; gio-do, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; lu chiuso; Info tel. 0761 420018; e-mail: museo.valentano@alice.it; www.simulabo.it

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A sinistra: Valentano. Veduta di piazza della Vittoria, su cui affacciano la Rocca Farnese e la chiesa collegiata di S. Giovanni.

UNA VISITA A VALENTANO Le prime notizie certe dell’esistenza di Valentano sono rintracciabili in documenti contrattuali delle abbazie imperiali di Farfa e di San Salvatore sul Monte Amiata, risalenti agli anni 813-844. Quando i Farnese furono investiti del dominio su Valentano, il borgo era ancora diviso nei due nuclei della Rocca e di Porta S. Martino; per un secolo e mezzo i Farnese limitarono gli interventi di ristrutturazione alla rocca. Nel 1519 Pier Luigi ricevette il borgo dal padre Alessandro Farnese, il futuro papa Paolo III, e mutò il volto della cittadina, cancellandone quasi del tutto l’impianto medievale. La rocca fu trasformata in palazzo, con il contributo dell’architetto Antonio da Sangallo il Giovane. Nel centro storico, oltre alla porta monumentale appena ricordata, si conservano testimonianze significative della secolare storia. Ne ricordiamo qui alcune. La chiesa collegiata di S. Giovanni Evangelista, originariamente in stile romanico, subí diverse trasformazioni fino al definitivo rifacimento in epoca barocca. Custodisce numerosi dipinti di pregio e, sotto l’altare maggiore, si conserva l’urna artistica con le reliquie del compatrono, san Giustino Martire. Nella chiesa di S. Maria è visibile un pregevole affresco del XVI secolo raffigurante la Madonna della Rosa, una statua «vestita» della Madonna della Coroncina e importanti materiali archeologici (fra cui due fosse per la fusione di campane) datati fra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, venuti alla luce durante recenti scavi. Il Palazzo del Comune, edificato alla metà del XVI secolo, ospita sotto il portico lo stemma di papa Martino V Colonna e vari emblemi della famiglia Farnese, tra cui quello di papa Paolo III. A sinistra: la Scala Santa della Rocca Farnese, affrescata con scene tratte dalla Passione di Cristo. A destra: uno scorcio della rocca e del maschio, visti dalla parte del giardino.

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Due tavolette slovacche, sottoposte ad analisi analoghe a quelle eseguite sull’esemplare del Vallone, hanno dato risultati di grande interesse: una, da Budmerice, presenta un impasto eguale a quello di alcuni frammenti ceramici dallo stesso sito, l’altra, da Dvorníky-Posádka, risultava realizzata con materiali estranei alle disponibilità locali e dunque potrebbe documentare proprio la provenienza da un’altra regione. Per quanto riguarda la tavoletta della Caldera di Latera, se da un lato i risultati delle analisi chimico-fisiche sull’impasto argilloso suggeriscono che essa sia di produzione locale, dall’altro la maggiore durabilità e resistenza della superficie, ottenute grazie alla particolare cottura, garantiscono l’inalterabilità dei segni, rafforzando l’ipotesi che le tavolette avessero una funzione collegata alla registrazione e alla comunicazione.



INCHIESTE • ASCOLI SATRIANO

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INTRIGO

INTERNAZIONALE CHE IL MERCATO CLANDESTINO DI OPERE D’ARTE E D’ANTICHITÀ FACCIA AFFIDAMENTO SU UNA RETE VASTA E, PURTROPPO, ASSAI BEN ORGANIZZATA, NON È UNA NOVITÀ. MA IL RACCONTO CHE LEGGERETE IN QUESTE PAGINE, E CHE, ALMENO IN PARTE, HA UN LIETO FINE, È DAVVERO SCONCERTANTE... di Maurizio Pellegrini

I

l Paul Getty Museum di Malibu è recentemente tornato sulle prime pagine dei giornali italiani per aver restituito una straordinaria testa di Ade, trafugata negli anni Settanta in Sicilia, nei pressi del santuario extraurbano di San Francesco Bisconti a Morganti-

A sinistra: testa in terracotta policroma di Ade, dall’area sacra in contrada San Francesco Bisconti, Morgantina (Enna). IV sec. a.C. Aidone, Museo Archeologico Regionale.

na (Enna) ed esportata illegalmente negli Stati Uniti. Il rientro si deve a un’archeologa italiana, Serena Raffiotta, che ha riconosciuto in un ricciolo di barba custodito nei depositi del Museo di Aidone uno dei frammenti mancanti dalla testa conservata al Getty, che l’aveva

acquistata nel 1985 dal collezionista di New York Maurice Tempelsman per la cifra di 500 mila dollari (vedi «Archeo» n. 373, marzo 2016). Tempelsman, un uomo d’affari belga-americano e mercante di diamanti, è noto alle cronache italiane piú recenti per avere Qui accanto: trapezophoros (sostegno per mensa) in marmo raffigurante due grifoni che sbranano una cerva. IV sec. a.C. Ascoli Satriano (Foggia), Polo Museale.

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INCHIESTE • ASCOLI SATRIANO

venduto al J. Paul Getty Museum la sua raffinata collezione archeologica, che annoverava, tra gli altri, anche due reperti in marmo di inestimabile valore – un sostegno per mensa (trapezophoros) con due grifoni che attaccano una cerva e un bacino rituale (podanipter) al cui interno è rappresentata la scena di Tetide e delle Nereidi che portano le armi ad Achille –, trafugati entrambi nel territorio di Ascoli Satriano in Puglia. Dalla fine del 2006, i maggiori musei statunitensi hanno restituito all’Italia un ingente numero di reperti archeologici acquisiti illecitamente tra il 1970 e la fine degli anni Novanta. Le restituzioni sono state il frutto di lunghe trattative tra il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e i direttori delle importanti istituzioni america-

ne, culminate con l’esposizione dei capolavori rientrati al Quirinale: «Nostoi. Capolavori ritrovati» (21 dicembre 2007-2 marzo 2008).

INDAGINI ANTICHE E MODERNE Non tutti, però, sanno che questo eccellente risultato è l’esito di un lungo e paziente lavoro, svolto «dietro le quinte» da uno staff affiatato, formatosi casualmente dalla collaborazione tra la Procura della Repubblica di Roma e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale; una collaborazione che ha evidenziato come gli archeologi, che indagano nel passato, abbiano fornito un apporto fondamentale alla magistratura per indagini «moderne», concatenate tra loro. Nel corso dell’operazione, siamo entrati in

contatto con il mondo sconosciuto e impenetrabile dei traffici internazionali di opere d’arte e, pur non potendo raccontare tutti i fatti e gli episodi di cui siamo stati involontari protagonisti, credo sia utile ripercorrere, almeno in parte, la lunga strada compiuta a partire dal 1997, quando il Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, Paolo Giorgio Ferri, ha iniziato a indagare in quel mondo, coinvolgendo fin dall’inizio – e per la prima volta in modo cosí continuativo – gli archeologi della Soprintendenza. La storia inizia nel 1995, con una brillante operazione condotta dai Carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, in stretta collaborazione con la Polizia svizzera, che portò al sequestro di un deposito al Porto Franco di Ginevra, intestato a una società riconducibile a

Due carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale con la testa di Ade restituita dal J. Paul Getty Museum.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

66 a r c h e o


Giacomo Medici, un cittadino italiano molto noto nel territorio dell’Etruria meridionale. Il sequestro era composto da circa 3800 reperti, da una copiosa documentazione e da fotografie, Polaroid e numerosi negativi, in cui erano raffigurati migliaia di oggetti, provenienti per il 90% dal territorio italiano.

I RAPPORTI CON SOTHEBY’S Uno dei primi elementi che attirò la nostra attenzione fu la presenza di cartellini della casa d’aste Sotheby’s di Londra, ben in vista su molti reperti: il procuratore Ferri ottenne dai legali della casa d’aste la documentazione sui rapporti intercorsi nel tempo con la società ginevrina di Medici e ci chiese di individuare possibili anomalie nelle lunghe liste di reperti che questi inviava periodicamente alle aste londinesi, oppure attraverso gli esiti delle vendite

che la Sotheby’s trasmetteva a Medici, in qualità di proprietario degli oggetti. Il compito si presentava improbo, ma – in un mare di cifre, fotografie, riscontri bancari, ricevute e fatture – scoprimmo che i reperti rinvenuIn alto: il podanipter (bacino rituale in marmo) con Tetide e le Nereidi che portano le armi ad Achille. IV sec. a.C. Ascoli Satriano, Polo Museale. A destra: la Polaroid di un dettaglio dello stesso bacino, sequestrata a Giacomo Medici e il retro della foto, con il numero di serie. a r c h e o 67


INCHIESTE • ASCOLI SATRIANO

CRONOLOGIA DELLE INDAGINI Raid della Polizia svizzera e dei Carabinieri presso il Porto Franco di Ginevra. 1997 Analisi delle fotografie dei reperti e della documentazione della Edition Service da parte degli archeologi della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale Daniela Rizzo e Maurizio Pellegrini. 1998 Inizio delle attività di consulenza presso il Porto Franco di Ginevra su incarico del PM Ferri da parte di Maurizio Pellegrini per studiare la documentazione sequestrata. 1999 Consulenze alla Procura di Roma sui materiali in sequestro e relazioni da parte di Rizzo e Pellegrini sui materiali presenti nei musei americani, tra cui il Getty. 2000 Arrivo in Italia dei reperti sequestrati a Medici e depositati presso il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e di tutta la documentazione depositata poi in Procura e messa a disposizione dei consulenti. 2001 Missione del Procuratore Ferri a Los Angeles presso il Getty Center con la presenza dei consulenti Rizzo e Pellegrini. 1995

ti in Svizzera, apparentemente acquistati in un’asta pubblica e, quindi, provvisti di una provenienza legittima, erano stati in realtà messi in vendita da Giacomo Medici, che li aveva poi riacquistati mediante società di comodo. Dopo oltre un anno di sopralluoghi presso il Porto Franco di Ginevra, nel corso del quale sono stati associati i documenti ai materiali sequestrati e sono state esaminate le fotografie, comparandole con gli acqui68 a r c h e o

In alto: Robert Emanuel Hecht fotografato al Metropolitan Museum, accanto al cratere di Eufronio. In basso: Giacomo Medici posa accanto al trapezophoros di Ascoli Satriano allora esposto al J. Paul Getty Museum.

2001/03 Rogatorie internazionali, altri sequestri in Europa. 2002 Savino Berardi, tombarolo di Ascoli Satriano, confida ai Carabinieri la provenienza dei marmi. Inizio indagini su altri marmi sequestrati dalla Guardia di Finanza. 2005 Inizio del processo contro Marion True e Robert E. Hecht, con testimonianza di M. Pellegrini e D. Rizzo come consulenti del PM. 2006 Indagine dei giornalisti del Los Angeles Times Felch e Frammolino. 2006 Arrivo a Roma degli altri marmi provenienti da Ascoli Satriano. Il dottor Angelo Bottini individua la relazione tra questi e i tre marmi ancora al J. Paul Getty Museum. Condanna di Giacomo Medici in primo grado di giudizio. 2011/12 Condanna definitiva di Medici a 8 anni di reclusione ma assoluzione per prescrizione per Marion True e Robert Emanuel Hecht.

sti effettuati dai piú grandi musei del mondo, abbiamo avviato la raccolta di tutti gli elementi utili per provare la lunga e illecita attività di Medici nel campo del mercato internazionale dei beni archeologici.

LE FOTO RICORDO Non tralasciammo di esaminare nemmeno le fotografie «private», che il trafficante italiano aveva scattato in occasione dei suoi viaggi all’estero e che aveva incautamente

conservato insieme a quelle «di lavoro», rivelatesi poi una preziosa linea-guida. In particolare, ci concentrammo sulle fotografie in cui il Medici stesso e Robert Emanuel Hecht – altro personaggio di spicco del mercato clandestino –, venivano ritratti accanto alle vetrine che custodivano capolavori archeologici, come il cratere di Eufronio al Metropolitan Museum of Art, oppure la kylix di Onesimos e il sostegno di mensa con i grifoni che attaccano


una cerva al J. Paul Getty Museum: scoprimmo cosí che quelle che potevano sembrare innocenti foto-ricordo erano invece l’attestazione delle vendite portate a termine dai due, i quali, con malcelato orgoglio, si erano fatti immortalare accanto alla maggior parte dei reperti trafugati all’estero. Alcune delle Polaroid sequestrate a Ginevra, raffiguravano proprio il trapezophoros in frammenti, fotografato dentro il portabagagli di una macchina o appoggiato su giornali italiani, e il bacino rituale, ricoperto di incrostazioni terrose, tutte recanti lo stesso numero di supporto fotografico (00057703532), a conferma del fatto che dovevano essere state esposte insieme o in un breve lasso di tempo.

LA PROVA REGINA L’ipotesi di trovarci di fronte a un sistema organizzato di traffico illecito, che ha coinvolto una mole impressionante di oggetti archeologici, è diventata una certezza quando abbiamo potuto esaminare nel dettaglio tutta la documentazione dell’archivio Medici, inviata in Italia nel 2000 dai magistrati svizzeri, insieme ai reperti archeologici sequestrati. Le fotografie conservate con tanta cura dal trafficante come «memoria storica» delle sue transazioni ci consentirono di percorrere il cammino inverso compiuto anni prima dai materiali archeologici: gli oggetti fotografati nelle vetrine dei vari musei stranieri furono rintracciati tra le immagini sequestrate, spesso riconoscendoli tra cuA destra: statua marmorea di Apollo. II sec. d.C. Ascoli Satriano, Polo Museale. Venduta da Tempelsman al J. Paul Getty Museum, l’opera è stata poi restituita all’Italia.

muli di frammenti; attraverso il riscontro incrociato con tutta la bibliografia disponibile sui principali musei statunitensi ed europei, individuammo numerosi reperti arrivati all’estero ed esposti, per esempio, a Berlino, Monaco, Copenaghen, Ginevra, oppure Los Angeles, Boston, New York, Princeton, Tampa, Toledo, Cleveland o addirittura in Giappone e in Australia. I dati da noi raccolti furono utilizzati dalla Procura di Roma per avviare una serie di rogatorie internazionali, e i musei d’oltreoceano furono costretti a trasmettere in Italia tutta la documentazione riguardante i reperti «incriminati», costituita prevalentemente da schede in cui erano riportate, tra l’altro, le cifre pagate per l’acquisto e i nomi dei venditori e/o donatori: dati utilissimi, che svelarono le modalità di acquisizione dei materiali, non sempre trasparenti, da parte delle piú importanti istituzioni americane.

L’INCHIESTA SBARCA NEGLI USA Nel 2001, presso il prestigioso Getty Center di Los Angeles, come consulenti del dottor Ferri partecipammo all’interrogatorio di Marion True, allora responsabile della sezione antichità del Getty Museum, e, in quella occasione, parlammo a lungo dei materiali acquistati dal museo e, in particolare, del trapezophoros, del bacino rituale e di una statua di Apollo in marmo, che il Getty acquistò da Maurice Tempelsman, restituiti all’Italia e oggi esposti nel museo di Ascoli Satriano perché provenienti dalla stessa area archeologica. Fin qui il passato, ma proprio su questi materiali – e molti altri – c’è una nuova storia da raccontare. Nel corso del processo aperto presso a r c h e o 69


INCHIESTE • ASCOLI SATRIANO

il Tribunale di Roma contro i già citati Marion True e Robert Emanuel Hecht, si è a lungo dibattuto su un documento, datato ottobre 1985, che due giornalisti del Los Angeles Times, Jason Felch e Ralph Frammolino, erano riusciti a ottenere da una loro fonte confidenziale, probabilmente interna al J. Paul Getty Museum.

LA NOTA RISERVATA Il documento, una nota interna e riservata, scritta da Arthur Hougthon, predecessore di Marion True alla sezione antichità del Getty, a Deborah Gribbon, Direttrice associata del museo, riguardava alcune considerazioni relative a un articolo scientifico pubblicato poco prima, in cui l’autore indicava la stessa provenienza e datazione per tre capolavori marmorei recentemente acquisiti dal museo.

In basso: cratere a volute apulo a figure rosse, attribuito al Pittore di Dario. IV sec. a.C. Berlino, Staatliche Museen. In basso, a sinistra: foto Polaroid proveniente dall’archivio di Giacomo Medici, in cui si riconosce un dettaglio della scena raffigurata sul cratere conservato a Berlino.

A sostegno della sua tesi che il trapezophoros, il bacino rituale e la statua di Apollo provenissero dalla medesima località, ma da contesti diversi e di differente datazione, Hougthon riportava testualmente: «Ho avuto la possibilità di discutere la questione con il mercante che ha comprato i tre oggetti d a g l i s c ava t o r i . Questo individuo, Giacomo Medici, ha venduto uno dei reperti [la lekanis] a un secondo mercante, Robert Hecht, e i grifoni e l’Apollo a un terzo, Robin Symes. In seguito Hecht ha venduto la lekanis a Symes, che poi ha trasferito le tre sculture come un unico gruppo a Maurice Templesman, dal quale noi le abbiamo comprate». Houghton scrive poi che Medici ha confermato non solo che il trapezophoros e il bacino rituale provenivano da una stessa tomba «non lontano da Taranto», ma che il contesto includeva anche «un discreto numero di vasi del Pittore di Dario».

L’ORIGINE ERA NOTA Sebbene il documento interno «confidenziale» sembri accreditare la confessione del trafficante italiano – e per altro dimostri come il museo fosse consapevole della provenienza illecita dei tre reperti –, è sempre e comunque necessario trovare prove concrete che trasformino le ipotesi in certezze. E, nel corso del lavoro svolto per la Procura di Roma, ci siamo imbattuti in un gruppo di 21 vasi apuli, esposti presso gli Staatliche Museen di Berlino, tutti provenienti dalla medesi70 a r c h e o


ma tomba, come il museo stesso indica. Il nostro interesse si è rivolto soprattutto verso due crateri a mascheroni apuli a figure rosse, attribuiti al Pittore di Dario. Il complesso dei vasi è stato acquistato dal museo tedesco nel 1984, in un unico blocco, da una famiglia svizzera che li deteneva dai primi anni Settanta, un’indicazione suffragata da due testimoni: Fiorella Cottier Angeli – cittadina italiana residente a Ginevra, collezionista, restauratrice, funzionaria delle dogane presso il Porto Franco e, soprattutto, collaboratrice di fiducia di Giacomo Medici – e Jacques Chamay, direttore del Museo di Ginevra, piú volte implicato in indagini della magistratura italiana, il quale garantisce d’averli scoperti egli stesso.

IL NUMERO «VINCENTE» La Cottier dichiara di aver restaurato gli oggetti, garantendo di avere rilevato altri interventi di restauro, molto antichi. Ma la realtà appare decisamente diversa. Ben 4 dei 21 vasi apuli sono stati rintracciati nelle Polaroid dell’archivio Medici e due di essi appaiono ancora in frammenti, quindi prima di qualsiasi restauro, in un gruppo di Polaroid con i d e n t i c o nu m e ro d i s e r i e (00057703532), che facevano parte di una confezione di Polaroid «300 Istant Film» da 20 scatti. Ebbene, come abbiamo raccontato poco sopra, nel documento confidenziale del Getty, il trafficante informava che il trapezoforo e la lekanis provenivano da una tomba «non lontano da Taranto», che includeva un certo numero di vasi del Pittore di Dario. 13 Polaroid della stessa confezione ritraggono due crateri apuli a mascheroni del Pittore di

IL MAESTRO CHE GUARDAVA AL TEATRO «Pittore di Dario» è il nome convenzionale attribuito al grande artista dopo il ritrovamento, nel 1851, del «vaso di Dario», in una località poco distante da Canosa di Puglia (oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli), sul quale è appunto raffigurato Dario, re dei Persiani. Il ceramografo fu attivo nella seconda metà del IV secolo a.C., con una produzione di vasi di grandi dimensioni, perlopiú crateri a volute, anfore e loutrophoros, decorati con uno stile del tutto particolare per la trattazione del soggetto, la composizione delle figure su piú registri, per la ricchezza della decorazione e per l’abbondanza di colori aggiunti. La scelta iconografica era spesso ispirata alle scene teatrali, in particolare alle tragedie di Euripide, e ai temi mitologici che, a volte, sono noti solo attraverso i suoi capolavori, non essendo descritti nei testi letterari. Nella composizione delle scene l’artista tende a utilizzare tutto lo spazio del vaso, disponendo le figure armonicamente in piú registri e inserendo nelle diverse zone fregi che distinguono i diversi piani. Il suo attivissimo atelier era probabilmente situato a Taranto e vi lavoravano giovani artisti e allievi, mentre il maestro si dedicava ai lavori che gli venivano commissionati dalle famiglie aristocratiche dell’Apulia settentrionale. Arthur Dale Trendall, un’autorità nel campo della pittura vascolare del Sud Italia, ha definito il Pittore di Dario il piú importante pittore di scene mitologiche dell’intera ceramografia apula.

Didascalia da fare Ibusdae evendipsam, officte erupit antesto taturi cum ilita aut quatiur restrum eicaectur, testo blaborenes ium quasped quos non etur reius nonem quam expercipsunt quos rest magni autatur apic teces enditibus teces.

Particolare del lato principale del «Vaso di Dario», sul quale è raffigurato il re dei Persiani riunito in consiglio alla vigilia della guerra contro i Greci. IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. a r c h e o 71


INCHIESTE • ASCOLI SATRIANO

Dario, mentre 6 Polaroid, con identico numero di serie, mostrano il trapezophoros in pezzi e il bacino rituale dipinto ricoperto di incrostazioni terrose: tutto ciò dimostra che i vasi apuli, oggi a Berlino, e i reperti marmorei restituiti dal J. Paul Getty Museum, ora esposti ad Ascoli Satriano, provengono dalla stessa importante tomba apula della seconda metà del IV secolo a.C.

MA NON FINISCE QUI... Ma c’è di piú: alla mano del Pittore di Dario sono attribuiti anche altri capolavori, come l’anfora a figure rosse decorata con la scena della morte di Atreo, venduta da Hecht al Museum of Fine Arts di Boston (inv. 1991.437); la pelike apula a figure rosse con il ritorno di Andromeda venduta al J. Paul Getty Museum (inv. 87.AE.23); la loutrophoros apula a figure rosse decorata con Niobe in lutto, venduta al Prince72 a r c h e o

In alto: un altro cratere apulo a figure rosse del Pittore di Dario oggi conservato a Berlino e che compare in una Polaroid sequestrata a Giacomo Medici, il cui numero di serie (in basso) coincide con quello delle foto dei materiali di Ascoli Satriano restituiti dal Getty all’Italia.

ton University Museum of Art (inv.1989-29); un cratere a volute apulo a figure rosse venduto al Cleveland Museum of Art (inv. 1988.41); un dinos apulo a figure rosse con Ercole e Busiride venduto al Metropolitan Museum of Art di New York (inv. 1984.11.7). Non a caso, tutti questi vasi, acquistati tra il 1984 e il 1991 attraverso gli stessi personaggi, sono stati restituiti allo Stato italiano. Certo, non si può sostenere con assoluta sicu-

rezza che provengano anch’essi dalla stessa tomba di Ascoli Satriano, ma l’ipotesi è suggestiva; e forse le analisi delle ceramiche o quelle di eventuali concrezioni ancora presenti all’interno dei vasi potranno presto darne la conferma.



RESTAURI • L’AQUILA

L’Aquila. Il Castello Spagnolo, attualmente in corso di recupero. La costruzione della fortezza venne affidata dal vicerè don Pedro de Toledo al capitano Pirro Luis Escrivà.


A sinistra: particolare del gonfalone de L’Aquila, stendardo su seta dipinto da Giovanni Paolo Cardone. 1579. L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo. Raffigura una veduta del capoluogo abruzzese, «disteso» su un manto sorretto dai quattro protettori della città (san Massimo, Celestino V, san Bernardino da Siena e sant’Eutizio).

NELLA

CHE

CITTÀ

RINASCE

ALL’AQUILA OPERANO NUMEROSI CANTIERI FINALIZZATI AL RESTAURO DEL PATRIMONIO STORICO-ARCHITETTONICO. MA PIÚ DI UN MONUMENTO È IN ATTESA DI UN INTERVENTO CHE RISANI LE FERITE INFERTE DAL SISMA DEL 2009: COME IL «TORRIONE», LA STRUTTURA FUNERARIA CHE DÀ NOME A UNO DEI PIÚ POPOLOSI QUARTIERI CITTADINI di Barbara Di Vincenzo

I

l «Torrione» è uno dei quartieri piú popolosi della città dell’Aquila, che ha avuto un grande sviluppo a partire dagli anni Cinquanta. Come il resto della città e del suo territorio, è

stato gravemente danneggiato dal sisma del 6 Aprile 2009. Quest’ultimo non ha risparmiato i numerosi beni culturali che testimoniano lo straordinario passato del capoluogo, a r c h e o 75


RESTAURI • L’AQUILA

che già piú volte, in passato, ha dovuto fronteggiare epidemie di peste e violenti terremoti. Come si evince dal diploma di fondazione attribuito a Corrado IV, L’Aquila sorse nel 1254 a seguito di continue tensioni antifeudali che indussero la popolazione del contado a chiedere alla Chiesa di essere accolta nel proprio demanio, in modo da sfuggire al cattivo governo dei vassalli di Federico II.

LA RIVOLTA ANTISPAGNOLA Dopo la grande fioritura economica registrata nella seconda metà del Quattrocento, la rivolta antispagnola del 1528 segnò l’inizio del declino, che ebbe come conseguenza l’infeudamento dei castelli e delle terre del contado in quaranta com76 a r c h e o

In questa pagina: due tratti delle mura cittadine aquilane: in alto, dopo il restauro; a destra, nel corso dell’intervento di risanamento avviato per riparare i danni causati dal terremoto dell’aprile 2009.


In basso: il «Torrione» in una cartolina postale del 1903, nella quale viene indicato come parte dell’antico acquedotto della città.

plessi feudali. Essi furono affidati a capitani iberici come ricompensa per i meriti militari e per aumentare il controllo territoriale, determinando la definitiva separazione fra città e terre extra moenia. Oggi L’Aquila si presenta come un enorme cantiere di restauro: molte chiese stanno tornando all’originario splendore, cosí come le mura

cittadine, interamente recuperate, che, con i loro oltre 5 km di sviluppo lineare, costituiscono uno dei pochi esempi di fortificazione trecentesca quasi integralmente conservata. In fase di recupero è anche il Castello Spagnolo, l’imponente fortezza costruita a spese della città e del contado nel punto piú elevato dell’agglomerato urbano, voluta dal viceré don Pedro de Toledo che nel 1532 conferí l’incarico della progettazione e della direzione dei lavori a Pirro Luis Escrivà, un capitano dell’esercito imperiale.

UN CHECK UP COMPLETO Purtroppo, molti monumenti debbono ancora essere recuperati, fra cui la «misteriosa torre» che si erge maestosa fuori le mura cittadine e dalla quale deriva il nome il quartiere del «Torrione». Nel 2010, nell’ambito del progetto «Archeologia e Terremoto» – a cura della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo e del CNR-ITC dell’Aquila –, venne effettuata sul monumento un’analisi puntuale del danno e della vulnerabilità e furono compilate le «Schede Muratura», al fine di analizzare la tipologia del materiale e le caratteristiche della malta che, a una prima analisi, presenta un colore grigio, scarsi inclusi e consistenza piuttosto friabile. Oltre a un esteso crollo della parte sommitale, vennero riscontrate lesioni in corrispondenza della discontinuità della muratura e lungo i giunti di malta, fratture dei conci di pietra con conseguente espulsione di materiale. Lo stato di conservazione della struttura, la forma e lo sviluppo in altezza, la mancata manutenzione, il degrado dei materiali, l’attacco disgregante della vegetazione, le modifiche che il manufatto ha subito nel corso dei secoli, rappresentano alcuni fra gli elementi che, sommati alle sollecitazioni sismiche, hanno provocato gravi danni al monumento. Fra l’altro, esso fa parte dei a r c h e o 77


RESTAURI • L’AQUILA

beni archeologici un tempo ubicati in contesti extraurbani e che oggi si ritrovano invece all’interno di centri urbani o industrializzati, nei quali piú elevato è il rischio che l’azione antropica ne aumenti la vulnerabilità. In origine, infatti, l’altezza complessiva era di 15 m ridotta a circa 6 a causa del crollo della parte sommitale dovuto alle sollecitazioni prodotte dal sisma. È comunque certo che si tratta di una testimonianza isolata, visto che non si hanno notizie di rinvenimenti archeologici effettuati in passato nella zona e neppure i recenti scavi, condotti in concomitanza con i lavori di ricostruzione, hanno evidenziato presenze di strati antropizzati o materiali di interesse storicoarcheologico. Il primo a occuparsi dell’enigmatica costruzione, nel 1990, fu Cesare Miceli che le attribuí una funzione funeraria, datandola alla metà del I secolo d.C. (mentre Benedetto OrA sinistra: la parte superiore del «Torrione». La costruzione è interpretabile come monumento funerario e venne innalzata per volere di un personaggio di spicco della comunità cittadina, in prossimità della via Poplica Campana. I sec. d.C. A destra: prospetto del lato sud-est del «Torrione», che evidenzia le vaste lacune del rivestimento esterno. 78 a r c h e o


satti ha proposto di assegnarla al II secolo d.C.): essa è costituita da una base parallelepipeda con nucleo in malta cementizia (opus caementicium), ovvero scaglie di pietrame congiunte a malta e sabbia; il rivestimento esterno presenta invece blocchi di calcare locale squadrati, inseriti nel nucleo e posti alternativamente di testa e di taglio, dei quali si sono conservati soprattutto i primi, poiché penetrano incisivamente nel corpo di fabbrica, mentre degli altri si riscontra talvolta solo l’impronta sulla malta.

LA NICCHIA PER LE CENERI La parte sommitale è in opera laterizia, mentre il tratto in cui la struttura si restringe per innalzarsi dalla base è scandito da un rivestimento a lastre lapidee, alcune di forma parallelepipeda, altre di forma irregolare, disposte su quattro filari con andamento sub-orizzontale; la In alto: una foto d’insieme del monumento nelle sue condizioni attuali. A metà della muratura è affissa la targa nella quale è indicato come «Pilastro di Acquedotto detto “Torrione” del sec. XIV». Nel corso della sua storia, il manufatto ha rischiato di essere demolito per ben due volte, nel 1863 e nel 1951. A destra: prospetto del lato sud-ovest del «Torrione».

romane o lungo tracciati viari importanti e tratturi. La costruzione fu riutilizzata in epoca medievale, allorché divenne uno degli elementi pr incipali dell’acquedotto di Santanza, che aveva origine presso il monastero di S. Giuliano, costruito in un solo anno, nel 1304, dal toscano Guelfo da Lucca, capitano di Giustizia, a cinquant’anni dalla fondazione della città dell’Aquila. Si trattò di un’opera estremamente complessa, lunga oltre tre miglia, della quale facevano parte numerosi pozzi di varia profondità, cisterne e bottini di raccolta e di pressione: le fonti ci dicono, invece, che, non lontano dalle mura cittadine, vennero erette due «piramidi», non troppo distanti fra di loro, al fine di sollevare le colonne di acqua delle fontane. Per tale motivo, alcuni studiosi hanno identificato il «Torrione» con una delle «piramidi» descritte. E ancora oggi, una targa affissa sul monumento lo definisce Pilastro di Acquedotto detto composizione architettonica in ori- «Torrione» del sec. XIV. gine era completata da una piccola cuspide posta alla sommità, arricPER DUE VOLTE chita da elementi architettonici in SALVATO IN EXTREMIS pietra, quasi del tutto perduti. Alla Resta indubbio, a mio avviso, che base vi è ancora una piccola nicchia almeno nell’impianto originale, la che probabilmente conteneva l’ur- struttura sia riferibile all’epoca rona con le ceneri del defunto. Si mana, privata nel tempo del rivestitratterebbe, infatti, di un monumen- mento lapideo e di eventuali eleto funerario del tipo «a torre», vero- menti decorativi; sappiamo, inoltre, similmente appartenuto a un illustre che se ne tentò la demolizione nel personaggio, posto lungo un’arteria 1863, fortunatamente abbandonata, viaria, la via Poplica Campana, che e ancora nel 1951, il 9 maggio, proveniva dalla zona occidentale quando il sindaco dell’Aquila codella città per dirigersi a est. municò al soprintendente ai MonuTali monumenti sono solitamente menti di averne disposto la rimocomposti da un corpo cilindrico su zione parziale, poi non ultimata. base quadrata, che evolve in un cor- Oggi, a sette anni dal sisma, il repo parallelepipedo di notevole al- stauro del monumento è estrematezza oppure mantenendo distinta la mente urgente, per evitare l’aggraparte inferiore da quella superiore, varsi del suo stato di conservazione, che può terminare a cuspide o a ma anche perché siamo fermamenpianta poligonale o, ancora, aperta te convinti che il recupero delle con colonnine. E, nell’Aquilano, testimonianze storiche contribuisca sono attestati numerosi casi di tom- fortemente a ricostruire l’identità di be monumentali, di forme diverse, una città ferita, che deve rinascere generalmente poste fuori delle città proprio dal suo glorioso passato. a r c h e o 79


SPECIALE • SCRITTURA ETRUSCA

SCRIVERE

ETRUSCO LA LINGUA USATA DAL PIÚ IMPORTANTE DEI POPOLI PREROMANI È VITTIMA DI UNA SORTA DI «MALEDIZIONE», CHE LA VORREBBE PER NOI INCOMPRENSIBILE. MA È DAVVERO COSÍ? UNA MOSTRA ALLESTITA A CORTONA RACCONTA QUANTO DI VERO CI SIA IN UNA CONVINZIONE ANCORA OGGI ASSAI DIFFUSA. E QUALI SIANO, IN REALTÀ, LE MOLTE CERTEZZE ACQUISITE a cura di Giuseppe M. Della Fina, con contributi di Paolo Bruschetti, Giovannangelo Camporeale, Giovanni Colonna e Paolo Giulierini

80 a r c h e o


Qui accanto: stilo scrittorio in bronzo, dal Melone II di Cortona. 480-460 a.C. Cortona, MAEC (Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona). Nella pagina accanto: l’Apollo di Ferrara, bronzetto che ritrae il dio Aplu. Seconda metà del IV sec. a.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Sulla gamba sinistra corre una lunga iscrizione dedicatoria. A destra: vaso in bronzo per profumi. III sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Sulla fronte del volto femminile si legge suthina, termine traducibile con «che appartiene alla tomba», «funerario» ed esplicita la funzione dell’oggetto.

D

ue presunti «misteri» accompagnano la fascinazione che gli Etruschi ancora esercitano sulla cultura contemporanea: il problema delle origini e il tema della lingua. Questioni che, in realtà, l’archeologia ha da tempo risolto, ma che molti amano continuare a considerare come enigmi. Il secondo di essi, la lingua, è protagonista della mostra «Gli Etruschi maestri di scrittura. Società e cultura nell’Italia antica», allestita a Cortona negli spazi del Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona. Già presentata in Francia, al Museo a r c h e o 81


SPECIALE • SCRITTURA ETRUSCA

Henri Prades di Lattes-Montpellier, l’esposizione ripercorre i tempi e i modi dell’affermazione della scrittura in Etruria, della sua importanza nella vita politica, sociale e culturale, della diffusione nella penisola italiana e nell’area mediterranea e della successiva crisi, dovuta all’affermarsi progressivo di Roma e della sua cultura, che impose il latino come lingua scritta e parlata, nelle aree prima controllate degli Etruschi. Il percorso espositivo tocca anche la scomparsa della lingua etrusca, il conseguente naufragio della produzione letteraria che aveva Aryballos (vaso per unguenti o profumi) in bucchero su cui è inciso un serpente nel quale si snoda un’iscrizione. Metà del VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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espresso, e i tentativi – a partire dal Cinquecento – di provare a leggerla e a tradurla di nuovo, partendo dai testi recuperati dalla ricerca archeologica. E non manca uno sguardo sulle conoscenze a tutt’oggi acquisite, che si può cosí sintetizzare: la lettura dell’etrusco è difficoltosa, ma tutt’altro che impossibile, dal momento che, pur con qualche adattamento, gli Etruschi utilizzarono un alfabeto portato in Italia dai primi coloni greci.

DA DESTRA VERSO SINISTRA Se dunque si è in grado di leggere il greco, si può leggere anche l’etrusco, tenendo presente che gli Etruschi, in genere, scrivevano da destra verso sinistra, con un andamento quindi inverso rispetto al nostro. Inoltre, nei testi piú antichi, non c’è divisione tra le parole e, solo in un secondo (segue a p. 88) 82 a r c h e o


Foto e restituzione grafica della Tabula Cortonensis. II sec. a.C. Cortona, MAEC. Sulla lamina, in bronzo, è incisa un’iscrizione di carattere giuridico, che, con le sue circa 200 parole, è il terzo testo etrusco per lunghezza e ha reso noti 27 nuovi vocaboli.

Il testo della Tabula Cortonensis ha «rivelato» 27 nuove parole etrusche a r c h e o 83


SPECIALE • SCRITTURA ETRUSCA

I PRIMI TENTATIVI PER VENIRE A CAPO DEL «MISTERO» di Paolo Bruschetti e Paolo Giulierini

L’Accademia Etrusca di Cortona nacque negli anni Venti del Settecento, un periodo di grande evoluzione politica e culturale per l’Italia e, piú in generale, per il continente europeo. Nel granducato di Toscana, in particolare, dove da tempo si conoscevano le difficoltà per la successione nell’ambito dei Medici, si manifestò, fin dall’inizio del XVIII secolo, un ampio movimento di intellettuali, bene introdotti alla corte granducale, che, facendo leva sul sentimento A destra: statuetta in marmo di Venere. XV-XVI sec. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sulla base è incisa un’iscrizione in cui sono fusi i testi di due epigrafi etrusche. In basso: frontespizio dei Saggi di dissertazioni dell’Accademia Etrusca del 1735, in cui è compresa la ricerca di Lodovico Bourguet Sopra l’alfabeto etrusco.

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autonomista della popolazione, cercarono di ostacolare – pur senza successo – l’avvento di una dinastia straniera al posto della morente casata medicea, della quale si tendeva a sottolineare la legittimità come diretto seguito della stirpe etrusca da sempre presente in Toscana. Cosí lo studio e la rivalutazione delle antichità etrusche divenne quasi una forma di legittimazione di posizioni politiche diverse da quelle ufficiali. In tale contesto, la nascita e la fortuna iniziale dell’Accademia Etrusca a Cortona, a opera di un gruppo selezionato di intellettuali locali – formatisi però in ambito fiorentino, seguendo gli insegnamenti di Filippo Buonarroti, e nell’ambiente accademico pisano –, divenne una sorta di punto di riferimento culturale e politico per tutti coloro che intendevano avviare un modo nuovo e originale d’intendere la cultura come patrimonio di un popolo e come mezzo per l’evoluzione delle sue condizioni politiche e sociali. Fra gli argomenti che piú frequentemente venivano affrontati nelle ricerche vi era la lingua etrusca, che – secondo una tradizione assai diffusa – costituiva un elemento di difficile soluzione per la grafia ancora oscura e per i significati non sempre evidenti: nacque cosí una corrente di studi che si avvaleva delle tecniche piú raffinate allora conosciute, ma ancora del tutto insufficienti per dare risultati attendibili. Tutto ciò contribuí alla nascita del «mito» della lingua etrusca.


Fin dal primo tomo dei Saggi di Dissertazione, nel 1735, comparve una ricerca di Lodovico Bourguet, membro dell’Accademia di Berlino e professore a Neuchâtel, Sopra l’alfabeto etrusco, nella quale si spiegava come l’alfabeto usato nelle iscrizioni etrusche – cosí come individuato dalla lettura delle Tavole di Gubbio – non sia che una derivazione dei dialetti pelasgici, a loro volta legati a forme alfabetiche greche. Alla luce di tali considerazioni, Bourguet propose un’interpretazione di molte iscrizioni, ritenuta valida al tempo, che può ritenersi – al di là della condivisione degli assunti, se considerati alla luce delle conoscenze attuali – un caposaldo nelle ricerche sulla storia etrusca. Nel 1744, soprattutto per iniziativa di Marcello Venuti, che ne fu a

In alto: il frontespizio del De Etruria regali di Thomas Dempster. 1723. Cortona, Biblioteca del Comune di Cortona e dell’Accademia Etrusca. A destra: bronzetto di offerente. XVIII sec. Parigi, Museo del Louvre. L’iscrizione è totalmente inventata e unisce lettere di tipo etrusco a caratteri piú stravaganti. a r c h e o 85


SPECIALE • SCRITTURA ETRUSCA

A sinistra: una tavola del Saggio di lingua etrusca e di altre antiche d’Italia, scritto da Luigi Lanzi e pubblicato nel 1789. Cortona, Biblioteca del Comune di Cortona e dell’Accademia Etrusca. L’opera si articolava in due parti: la prima era una sorta di manuale divulgativo sui principi di lettura stilistica e storica della cultura antica; la seconda proponeva un’indagine sugli antichi idiomi d’Italia, condotta da Lanzi con criteri filologici ed epigrafici. Nella pagina accanto, in basso: cippo in pietra serena con un’iscrizione etrusca su tre righe, in caratteri settentrionali. Prima metà del II sec. a.C. Cortona, MAEC.

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A destra: la riproduzione di una corniola etrusca con il gruppo degli Eroi tebani scelta per ornare il frontespizio della prima edizione della Storia delle arti del disegno presso gli antichi, di Johann Joachim Winckelmann, pubblicata a Dresda nel 1764. Cortona, Biblioteca del Comune di Cortona e dell’Accademia Etrusca.

lungo fra i solerti estensori, prese avvio la stesura delle Notti Coritane, serie di verbali manoscritti di riunioni accademiche, durante le quali si discuteva degli argomenti piú svariati: dalla storia alle antichità, dai manoscritti alle iscrizioni, dalle medaglie alla storia naturale.

In molte pagine si parla di iscrizioni etrusche e si riportano giudizi e trascrizioni. L’intensità degli studi settecenteschi e la profonda dottrina con la quale i ricercatori documentavano le loro indagini non portò, comunque, a ipotesi sull’epigrafia etrusca e sull’interpretazione della lingua che oggi possiamo considerare ancora attendibili. Non vanno d’altronde dimenticate la scarsità della documentazione esistente e la mancanza di specifica preparazione glottologica. In ogni caso, non si può dimenticare che da questi studi prese avvio una tradizione che si concluse alla fine del secolo con l’edizione del già citato Saggio di Lingua etrusca di Luigi Lanzi, punto di arrivo della erudizione settecentesca e prima completa identificazione e spiegazione dell’alfabeto; da qui prese avvio la nuova e definitiva fase di conoscenza della lingua etrusca. I numerosi studi condotti sulla lingua per tutto il XVIII secolo ottennero un altro singolare risultato, comune peraltro allo spirito collezionistico del tempo. Come si cercava in ogni modo di

circondarsi di documenti dell’arte e dell’artigianato antico e, in loro assenza, non si esitava a imitarli, cosí, anche nel campo epigrafico, le raccolte non potevano essere prive di iscrizioni. Se queste non erano «disponibili», si cercava di realizzarle, imitando per quanto possibile i caratteri alfabetici etruschi, tentando di disporli secondo ordini logici e, in sostanza, costruendo iscrizioni che, alla luce delle conoscenze attuali, appaiono del tutto inattendibili e prive di significato. Nella stessa Accademia Etrusca di Cortona ve ne sono tracce: ciò non significa che si debbano considerare tali reperti come «falsi», destinati a ingannare il visitatore o il fruitore delle raccolte, ma come documenti di uno spirito culturale prevalente e comune in quel momento. Allora la presenza d’imitazioni non era altro che un momento dell’attività di studio e ricerca che in Accademia si realizzava: specchio di un’epoca di grandi studi e di proficue ricerche, senza le quali, probabilmente, la disciplina archeologica oggi non avrebbe compiuto molti dei suoi progressi. a r c h e o 87


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momento, essa iniziò a essere segnalata da segni di interpunzione o spazi. I problemi insorgono quando si cerca di tradurre l’etrusco: il vocabolario di cui si può disporre, formato su iscrizioni generalmente brevi e di carattere funerario, è assai ridotto e le conoscenze di grammatica sono limitate; di conseguenza, abbiamo difficoltà a comprendere testi piú lunghi e/o complessi. Del resto, un vocabolario limitato e la conoscenza di poche regole grammaticali rendono difficilmente traducibile qualsiasi lingua e quindi l’etrusco non è un «mistero» particolare, ma, piú semplicemente, un idioma morto, che nessuno utilizza piú da duemila anni.

UNA LUNGA TRADIZIONE DI STUDI Nonostante tutto quel che abbiamo fin qui ricordato, a partire dal Saggio di lingua etrusca (1789) di Luigi Lanzi, il fondatore dell’etruscologia scientifica alla fine del Settecento, molti passi in avanti sono stati fatti e i testi giunti sino a noi e altri che continuano a essere ritrovati, come la stele iscritta di Poggio Colla (vedi alle pp. 94-95), aiutano a comprendere una civiltà che ebbe un ruolo di primo piano nella penisola italiana per quasi un millennio. Tra le opere esposte a Cortona, figurano due testimonianze eccezionali, testi tra i piú lunghi

Statuetta in bronzo raffigurante un cane, forse da Cortona. III sec. a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. L’iscrizione sul fianco dell’animale identifica l’oggetto come un ex voto offerto al dio Selvans in un’accezione infera.

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e interessanti sinora scoperti: il Liber linteus di Zagabria e la Tabula Cortonensis. Il primo è un libro in lino, oggi conservato in Croazia, ma rinvenuto in Egitto, dove era stato tagliato in strisce e riutilizzato per avvolgere una mummia che fu acquistata da un mercante croato nel 1848 (o 1849). Solo piú tardi le lettere presenti sulle bende vennero riconosciute come etrusche e si comprese che si trattava di un libro di lino a carattere sacro. La Tabula Cortonensis è un’acquisizione ben piú recente (il suo ritrovamento risale infatti al 1992): si tratta di una tavola di bronzo, rinvenuta in frammenti, sulla quale corre un lungo testo di carattere giuridico.


L’ARRIVO DELL’ALFABETO di Giovannangelo Camporeale

L

a scrittura consta di segni convenzionali che, disposti secondo un ordine determinato, consentono di fissare (su un supporto) e tramandare un precetto, una legge, un trattato, un contratto, una definizione etnica, una creazione del genio o dell’ingegno. Perciò, l’arrivo della scrittura in una comunità «illitterata» è un evento di alto rilievo culturale, il cui interesse va al di là dell’ambito specificamente (epi)grafico, in quanto segna il passaggio dal disordine all’ordine, dall’indefinito al definito, dalla barbarie alla civiltà. La parola scritta garantisce continuità e universalità all’avvenimento descritto, mentre la parola orale resta un fatto momentaneo e personale. Nei primi secoli della civiltà etrusca (fine del X-inizi della seconda metà dell’VIII

A destra: restituzione grafica delle lettere A incise su alcuni rocchetti trovati in una tomba femminile della necropoli di Casale del Fosso, a Veio. Fine dell’VIII sec. a.C.

secolo a.C.) – che corrispondono all’età del Ferro –, nell’Etruria correntemente denominata «villanoviana», non si hanno documenti scritti, ma alcune testimonianze archeologiche preludono all’avvento della scrittura o, meglio, sottendono la stessa ideologia che è alla base dei piú recenti documenti scritti. Personalizzato dalla raffigurazione, l’oggetto diventa un mezzo per qualificare il ruolo socialmente elevato del possessore. Quando arriva la scrittura, lo stesso effetto si ottiene con i segni grafici in modo piú semplice e piú eloquente. Per esempio, le prime iscrizioni etrusche indicano la proprietà del manufatto inscritto, che può dipendere dal suo acquisto diretto o da un dono: una situazione espressa piú chiaramente dal testo scritto che non dall’eventuale decorazione.

UN MODELLO DI SUCCESSO È opinione comune che, stando alla tipologia delle lettere, i primi documenti scritti d’Etruria presuppongano un modello alfabetico euboico, trasmesso forse dalle fondazioni euboiche dell’Italia meridionale: In alto: tavoletta scrittoria in avorio, da Marsiliana d’Albegna. 675-650 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sul margine superiore corre una serie alfabetica di 26 lettere. a r c h e o 89


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L’ALFABETO ETRUSCO NEL TEMPO ALFABETARI I FASE

FASE ARCAICA

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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FASE RECENTE

TRASLITTERAZIONE


Pitecussa, Cuma. Un modello trasmesso anche ad altre compagini italiche come il Lazio antico o l’agro falisco. L’alfabeto rientra nel movimento commerciale del tempo; anzi ne è l’aspetto culturalmente piú qualificato.

UNA PRATICA ESCLUSIVA La piú antica testimonianza etrusca è forse rappresentata dalla A graffita sulla testata di alcuni rocchetti fittili provenienti da una tomba a fossa della necropoli veiente di Casale del Fosso, databile verso la fine dell’VIII secolo a.C.: si tratta, probabilmente, di un segno connesso con l’uso dei rocchetti stessi. Segni con il medesimo valore, noti fin dalla metà dell’VIII secolo a.C., sono espressi con motivi disegnativi vari, ai quali sono da aggiungere i grafemi dopo l’arrivo dell’alfabeto; è significativo che la lettera usata sia la prima della sequenza alfabetica. La provenienza da Veio dei rocchetti è la stes-

A destra: spatole in avorio usate per cancellare i segni incisi sulla cera stesa nella tavoletta di Marsiliana d’Albegna (vedi foto a p. 89). In basso: anforetta in bucchero su cui sono incisi due alfabetari e una serie di lettere dal significato forse magico. 630-620 a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

sa segnalata per il piú cospicuo numero di coppe euboiche rinvenute in Etruria: il fatto che i primi siano stati trovati in una tomba a deposizione femminile implica il coinvolgimento delle donne nell’alfabetizzazione dell’Etruria, e la relazione fra l’attività della filatura e le matrone etrusche conferisce al fenomeno dell’avvento della scrittura in Etruria un legame con il ceto economicamente piú alto.

STILI E FORMULE Dai primi del VII secolo a.C. cominciano a trovarsi le testimonianze scritte etrusche: si tratta di semplici epigrafi con le relative implicazioni che simili documenti comportano, come uno stile particolare o la riduzione della lingua a formule. Il numero non è alto: stando alle conoscenze attuali, un paio di centinaia, rispetto alle circa 12 000 iscrizioni distribuite nell’intero arco di sviluppo della civiltà etrusca. La maggior parte proviene dall’Etruria meridionale, dai a r c h e o 91


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centri coinvolti direttamente nel commercio con il mondo greco: Veio, Caere (Cerveteri), Tarquinia, Vulci, città che spesso sviluppano tradizioni locali. L’attestazione è su manufatti di alta qualità artigianale e di intrinseco valore venale (come ori, argenti, avori o ceramica dipinta). I testi indicano, secondo formulari definiti, la proprietà dell’oggetto, il dono di esso, la firma dell’artefice, il nome del committente: l’iscrizione ha un carattere privato. L’indirizzo è analogo a quello dei testi contemporanei sia greci, provenienti (anche) dalle colonie dell’Italia meridionale, sia fenici o babilonesi provenienti da siti etruschi. La scrittura, nei primi tempi, risulta dunque appannaggio della classe aristocratica.

Kyathos (coppa a un manico) in bucchero, dalla Tomba del Duce di Vetulonia. 650-625 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Sul piede è graffita una iscrizione di 46 lettere ad andamento sinistrorso e carattere dedicatorio.

Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis

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Già nelle iscrizioni piú antiche, accanto alla base euboica si riscontrano aperture ad altre tradizioni alfabetiche, per esempio a quella corinzia per il tsade (M = s) e per il gamma semilunato (C). Una situazione che si osserva anche nei coevi vasi greci da vino importati: i piú sono euboici, qualcuno corinzio. Già nel primo assestamento, l’alfabeto usato in Etruria presuppone pertanto varie componenti.

UN’IPOTESI SUPERATA Alla luce delle fonti dirette, il quadro è decisamente diverso da quello proposto dalla tradizione che attribuisce l’introduzione in Etruria delle litterae a Demarato (mercante corinzio che si trasferí a Tarquinia e di cui


A sinistra: repliche delle lamine auree rinvenute nel santuario di Pyrgi, uno dei porti di Caere (Cerveteri). VI sec. a.C. Sulle lamine sono incisi testi in etrusco (a sinistra e a destra) e in punico (al centro): purtroppo, però, non si tratta di un documento in tutto e per tutto bilingue.

sarebbe figlio Tarquinio Prisco, n.d.r.). I primi testi scritti etruschi sono infatti anteriori di circa mezzo secolo rispetto a Demarato, il quale, essendo di Corinto, avrebbe introdotto un alfabeto corinzio e non euboico. Dal VI secolo a.C. la documentazione scritta in etrusco aumenta notevolmente e diventa un’acquisizione del ceto medio, estendendosi a nuovi ambiti: didascalie a raffigurazioni, dediche a divinità, testi religiosi, epitaffi, ma-

In basso: olla con coperchio, da Vulci. Metà del VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. L’iscrizione ricorda il donatore del vaso, Piana Velethnice.

ledizioni, contratti. I ritrovamenti si registrano, oltre che nelle tombe, nei santuari e, piú raramente, negli abitati. Le iscrizioni presenti nei santuari acquistano un carattere pubblico. A questo periodo dovrebbero inoltre risalire le prime opere di letteratura, che sono esistite ma non ci sono pervenute. Problemi specifici sulla scrittura e la lingua degli Etruschi sono stati affrontati, impostati, in qualche modo risolti in un passato lontano e vicino, ma, si sa bene, la ricerca scientifica è un continuo divenire.

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100 SEGNI DI UNA NUOVA ISCRIZIONE La recentissima scoperta di Poggio Colla Come scrive Giovannangelo Camporeale, le ricerche sulla scrittura degli Etruschi sono in continuo divenire (vedi alle pp. 89-93). Una conferma è venuta dalla scoperta – recentissima – di una nuova stele iscritta etrusca avvenuta nel santuario etrusco di Poggio Colla, nel territorio del Comune di Vicchio (Firenze), durante indagini svolte nell’ambito del Mugello Valley Archaeological Project, diretto da Gregory Warden, su concessione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. La stele in arenaria ha la parte superiore levigata e parzialmente iscritta con il bordo superiore arrotondato, mentre la parte inferiore, solo sbozzata, era destinata a essere infissa nella terra. È stato calcolato che la superficie a vista, fuori dal terreno, doveva essere alta circa 75 cm. Essa è stata trovata riutilizzata nelle fondazioni del tempio monumentale arcaico, tra i blocchi destinati a sostenere il settore orientale del podio. Le strutture di fondazione erano alloggiate nel taglio di uno strato di terra caratterizzato dalla presenza di numerosi vasi in bucchero da banchetto databili nel periodo orientalizzante e arcaico. Di conseguenza, gli scopritori hanno ipotizzato che la stele fosse stata utilizzata nella fase pre-monumentale del tempio e poi A destra: Poggio Colla (Vicchio, Firenze). La stele al momento della scoperta, ancora inglobata nelle fondazioni del tempio per le quali venne reimpiegata.

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reimpiegata nelle fondazioni dell’edificio sacro. In proposito, si può ricordare che gli scavi hanno consentito di portare alla luce strutture ovali, probabilmente capanne, di epoca precedente: è questa la fase in cui la stele sarebbe stata in vista e in uso, «come simbolo di autorità connesso alla fase piú antica del tempio», secondo Gregory Warden. L’interesse, comunque, si è comprensibilmente concentrato soprattutto sull’iscrizione il cui studio è appena iniziato. Il testo è stato inciso su una delle facce a vista della stele e su entrambi i suoi bordi, che sembrano smussati appositamente per accogliere la scrittura.

La stele in pietra arenaria di Poggio Colla viene esaminata nel Centro di restauro della Soprintendenza Archeologia della Toscana. L’iscrizione incisa sul manufatto, databile al VI sec. a.C., è in corso di studio, ma sembra verosimile ipotizzare che si tratti di un testo a carattere sacro.

In basso: uno dei quattro bronzetti recuperati nel corso dell’ultima campagna di scavi a Poggio Colla. Le indagini si svolgono nell’ambito del Mugello Valley Archaeological Project e stanno riportando alla luce i

resti di un insediamento la cui frequentazione copre quasi l’intero orizzonte cronologico della civiltà etrusca, dal VII sec. a.C. fino alla romanizzazione, che investí questa zona agli inizi del II sec. a.C.

C’è quindi da comprendere se si tratti di un’iscrizione unica, o piú di una. Complessivamente, il numero delle lettere e dei segni d’interpunzione finora individuati è pari a 100, ma il dato potrebbe variare al termine del restauro (che si sta svolgendo nel Centro di restauro della Soprintendenza Archeologia della Toscana). L’ortografia sembra collocare l’iscrizione (o le iscrizioni) nella seconda metà del VI secolo a.C., in accordo con il contesto archeologico che suggerisce un terminus ante quem del 500-480 a.C. Di conseguenza, la stele avrebbe svolto la sua funzione originaria per alcuni decenni. Il ritrovamento non è destinato a costituire la chiave per comprendere i «segreti» della lingua etrusca, ma la stele di Poggio Colla rappresenta un’aquisizione comunque importante che – una volta analizzata e studiata – arricchirà significativamente il corpus delle iscrizioni etrusche a oggi note. G.M.D.F.

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UNA PRESENZA DIFFUSA di Giovanni Colonna

D

elle molte lingue parlate nel mosaico di popoli che è stata per tanti secoli l’Italia preromana, l’etrusco è quella che ha lasciato il maggior numero di testimonianze epigrafiche. Se infatti sommiamo alle iscrizioni raccolte nei fascicoli sinora pubblicati del Corpus Inscriptionum Etruscarum (CIE) quelle edite di anno in anno nella Rivista di epigrafia etrusca, si arriva a un totale di oltre 12 000 iscrizioni, che abbracciano un orizzonte cronologico tra la fine dell’VIII secolo a.C. e gli inizi del I secolo d.C. L’alfabeto utilizzato – le cui norme ortografiche sono variate secondo l’epoca e i luoghi, con marcate differenze tra il Meridione e il Settentrione del Paese – è servito da modello, con le opportune modifiche, alle scritture di quasi tutti i popoli dell’Italia centro-settentrionale, dalla latina alla venetica, dalla falisca all’umbra, dalla leponzia alla retica.

DAL PO AL VOLTURNO Le iscrizioni etrusche sono state rinvenute soprattutto nell’Etruria propria, che quasi coincide con la settima regio dell’Italia augustea (e che si fa convenzionalmente corrispondere con i territori compresi tra l’Arno e il Tevere, n.d.r.), e nelle due aree di piú antica espansione: la contigua Etruria padana, tra l’Appennino e il Po, con i centri urbani di Marzabotto, Bologna, Mantova, Spina e Adria; e la piú lontana Etruria campana, tra il Volturno e il Sele, con i centri urbani di Capua, Nola, Suessula, Pompei, Stabia,Vico Equense, Salerno, e Pontecagnano. Assai notevole è poi il numero delle iscrizioni rinvenute nell’agro falisco, che può essere considerato come un territorio pressoché bilingue, con una particolare concentrazione a Narce e a Corchiano, centri la cui dipendenza dalla confinante Etruria propria è stata da tempo acclarata. Ma iscrizioni etrusche, piú o meno isolate, sono state rinvenute anche al di fuori dei grandi comparti citati, suggerendo l’esistenza di individui o di piccoli gruppi che 96 a r c h e o

Qui sopra: coppa etrusca con iscrizione apa, da La Monédière (Linguadoca). 500-450 a.C. Nîmes, Centre de documentation archéologique. ISCRIZIONI ETRUSCHE OLTRE L’ETRURIA PROPRIA: PRINCIPALI SITI DELLE SCOPERTE 1. Pontecagnano 2. Salerno 3. Vico Equense 4. Stabia 5. Pompei 6. Nola 7. Suessula 8. Capua 9. Segni 10. Anagni 11. Palestrina 12. Ostia 13. Marzabotto 14. Bologna 15. Spina 16. Adria 17. Mantova

Nella pagina accanto, al centro: restituzione grafica dell’iscrizione etrusca incisa sotto il fondo di un vaso protocorinzio (VII sec. a.C.) trovato a Cuma, in una tomba maschile.

parlavano e scrivevano in etrusco in seno a realtà etnico-linguistiche diverse. In Italia, una delle piú antiche iscrizioni etrusche rinvenute fuori d’Etruria viene da una tomba della necropoli di Cuma riferibile a un individuo giovane (databile agli inizi del VII secolo a.C.). La presenza di Etruschi a Roma e in altri centri del Lazio è largamente attestata da iscrizioni provenienti dalla stessa Roma e, a titolo perlopiú isolato, da Preneste, Ostia, Ardea, Segni e Anagni, di età sia arcaica che recente. Una loro presenza è attestata inoltre tra gli Umbri, nell’Ager Gallicus e in Romagna, da non poche iscrizioni, con la maggiore concentrazione a Todi. Numerose sono anche le attestazioni epigrafiche di Etruschi presenti nell’Emilia occidentale. Particolarmente nota è quella fornita dal Fegato di Piacenza, un modello bronzeo di fe-


In alto: disegno del bronzetto di guerriero con dedica a Laran, il Marte etrusco, trovato nel Settecento a Ravenna.

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gato di pecora, databile intorno al 100 a.C., ricoperto sulla facciata inferiore da una rete di caselle iscritte con teonimi etruschi, rinvenuto appunto presso Piacenza, e appartenuto certamente a un aruspice del luogo (l’aruspicina era la pratica divinatoria basata, tra l’altro, sull’osservazione dei visceri degli animali sacrificati, n.d.r.). Piú recente è il rinvenimento di due cippi funerari monumentali nel letto del Secchia a Rubiera (Reggio Emilia), l’uno della fine del VII e l’altro della prima metà del VI secolo a.C., che recano lunghi epitaffi, di

L’etrusco è la lingua preromana che ha lasciato il maggior numero di testimonianze

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lettura in parte ancora controversa, con la menzione, nel piú recente, di un personaggio che «zilath a Misa (Marzabotto) fu». Graffiti etruschi del V secolo a.C. vengono dall’abitato di San Polo d’Enza, esplorato nell’Ottocento, e da centri minori nel Reggiano. Tra i Reti cisalpini s’incontrano, oltre all’enclave etrusca degli Arusnates, in Valpolicella, un’importante iscrizione lapidaria di carattere sacro a Feltre (Belluno), in lingua etrusca e


alfabeto retico, e un graffito su astragalo di bue da un’area di culto del Monte Ozol (Trento). La presenza di Etruschi tra i Liguri cisalpini, in Piemonte, Liguria e Toscana nord-occidentale è attestata da un discreto numero d’iscrizioni adeguate alle norme ortografiche dell’Etruria settentrionale. Il documento principe, noto sin dal Settecento, è la stele di Busca, nel Cuneese: un ciottolone fungente da segnacolo funerario su cui è stato scolpito, verso il 500 a.C., un epitaffio in lingua e alfabeto etrusco.

UN EMPORIO IN TERRA LIGURE Va considerato a parte il caso di Genova, divenuta, tra la fine del VI e il IV secolo a.C., un vero e proprio emporio etrusco in terra ligure: situato sul colle del Castello, l’abitato ha restituito molte sigle e alcune brevi iscrizioni, tutte in lingua e alfabeto etrusco settentrionale. Numerose iscrizioni etrusche sono state anche rinvenute nella Gallia meridionale, sia negli insediamenti della fascia costiera della Provenza e della Linguadoca che in un uno degli antistanti relitti di naufragi. Fra le testimonianze d’oltremare, il primo posto spetta ad Aleria, sulla costa orientale della Corsica, un insediamento coloniale etrusco della fine del VI secolo a.C. che ha occupato il sito abbandonato dai coloni focei dopo la battaglia navale del Mar Sardo (540 a.C. circa). Le relazioni commerciali di età arcaica

Nella pagina accanto, in alto: coppa a vernice nera con iscrizione dedicatoria, da Aleria (Corsica). Fine del IV sec. a.C. Aleria, Musée départemental d’archéologie. In basso, sulle due pagine: le due facce di una tessera hospitalis, da Roma, Foro Boario. Metà del VI sec. a.C. Roma, Musei Capitolini. L’iscrizione che corre sul retro indicherebbe che l’oggetto è stato donato da un personaggio di nome Spuriana ad Araz Silquetas.

tra Cartagine e il mondo punico da un lato, Romani ed Etruschi dall’altro, sono documentate indirettamente non solo dal trattato di amicizia tra Roma e Cartagine del 508 a.C., ma anche dalle tesserae hospitales, talvolta caratterizzate da iscrizioni in lingua etrusca. Piú tardi, in Tunisia, sono attestati i tre monumentali cippi di confine, rinvenuti tra il 1907 e il 1915 nell’entroterra di Tunisi, iscritti con un testo ripetuto fedelmente otto volte in una lingua riconosciuta come etrusca da Jacques Heurgon solo nel 1969. Appare certo il riferimento a un contingente di coloni etruschi il cui arrivo è stato messo in relazione con la fuga in Africa nell’82 a.C. di partigiani di Mario provenienti da Chiusi, ma ne è stata proposta anche una datazione nella prima età augustea. Non manca, infine, qualche testimonianza epigrafica di Etruschi in Grecia, prima fra tutte una dedica mutila dal santuario di Afaia a Egina. DOVE E QUANDO «Gli Etruschi, maestri di scrittura. Società e cultura nell’Italia antica» Cortona, MAEC fino al 31 luglio Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 Info tel. 0575 637248; http:// etruschimaestridiscrittura.cortonamaec.org Catalogo Silvana Editoriale


IL MESTIERE DELL’ARCHEOLOGO Daniele Manacorda

NON SI SCRIVE SUI MURI! LA SCOPERTA DI UNA «FIRMA», INCISA SUL CELEBRE RITRATTO DI SAN FRANCESCO AFFRESCATO NEL SACRO SPECO DI SUBIACO, SEMBRA CONFERMARE UNA SUGGESTIVA IPOTESI...

N

on si scrive sui muri! Eppure, i muri sono pieni di scritte. Meno che mai, si dovrebbe scrivere sui monumenti: è cronaca recente quella di due turiste americane, fatte oggetto di pubblico sdegno, che avevano lasciato i loro nomi niente di meno che sui muri del Colosseo. Abbiamo già altre volte ragionato sull’aspetto ormai storico delle infinite distruzioni subite da monumenti e opere d’arte nel corso dei secoli, e purtroppo ancora oggi. In questi casi, infatti, i gesti umani lasciano tracce, che, a loro volta, diventano documenti: anche la nostra firma insulsa può dunque diventare un documento? Certo, può diventarlo; anche se questo non autorizza nessuno a porla! Tutto ciò ci fa però riflettere sui modi imprevedibili attraverso i quali possiamo ricostruire gli eventi grandi e piccoli della storia. Anni fa, quando le impalcature del restauro delle colonne superstiti del tempio di Vespasiano e Tito al Foro Romano permisero di


raggiungerne i capitelli, fu scoperta una miriade di segni, lasciati sul marmo da coloro che erano già saliti altre volte lassú, oppure da chi si era aggirato attorno a quelle colonne quando il terreno, che in parte le seppelliva, si trovava a una quota assai superiore dell’attuale. Quelle firme furono allora accuratamente rilevate e addirittura pubblicate, proprio perché si ritenne che fossero ormai diventate un documento delle frequentazioni di quel luogo nei secoli passati e della sua percezione. D’altronde, perché stupirsi, se pensiamo che da decenni, ormai, ci si arrovella sull’interpretazione del graffito che sembra tramandare il nome di Pietro sul «muro rosso» che ancora si visita sotto la confessione della basilica vaticana? Insomma, a volte può capitare di trovarsi nella condizione, paradossale, di dover dare maggiore importanza documentaria al testo graffito sulla parete di un monumento che non al monumento stesso.

UN IMPULSO IRREFRENABILE Pensavo a tutto questo aggirandomi in quella sorta di Cappella Sistina del Medioevo che è il santuario del Sacro Speco di Subiaco, che sorge a precipizio sulla valle dell’Aniene a qualche decina di chilometri da Roma. Le pareti affrescate del labirinto di sale, scale e cappelle sono una vera e propria enciclopedia dell’impulso irrefrenabile che ha guidato la mano di tantissimi visitatori, i quali, senza curarsi delle pitture, hanno voluto far sapere di essere passati di lí. Questo impulso non ha risparmiato neppure una delle pitture piú celebri dello Speco: l’unica immagine di san Francesco a noi nota che sia stata dipinta quando era ancora in vita, privo delle stimmate e, in particolare, dell’aureola. Neppure un papa ha saputo vincere l’impulso a lasciare

Nella pagina accanto: Subiaco, Sacro Speco. San Francesco nel ritratto eseguito quando il santo era ancora in vita. Ante 1224. A destra: un particolare dell’affresco in cui si distingue la firma graffita di papa Pio II.

una traccia scritta del suo passaggio. Ma andiamo con ordine. Il 16 settembre del 1461, quando Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini), si recò in visita al Sacro Speco, si fermò sicuramente in contemplazione e preghiera nella cappella di Gregorio Magno, sulla cui parete d’ingresso si trovava (e tuttora si trova) l’immagine del Poverello; e volle lasciare una traccia del suo passaggio, dando incarico di incidere (o, chissà, incidendo lui stesso) il suo nome e la data della visita su piú righe, in una bella grafia. Apposta in alto a destra, esternamente alla cornice del pannello che accoglie l’immagine del santo, quella scritta fu seguita, quasi per attrazione, da quelle di altri visitatori. Una di queste risale al Cinquecento, altre furono tracciate tra Sette e Ottocento; e qualcuno pensò addirittura di correggere la data del passaggio di Pio II, aggiornandola al proprio tempo, prima che un’opportuna protezione in vetro allontanasse dal dipinto le mani di piú moderni «graffitari».

Tra questi visitatori spicca un nome, inciso accuratamente con un oggetto metallico, presumibilmente un chiodo, quasi al centro dell’affresco, cosí da non offendere troppo l’immagine del santo, ma da essere comunque ben visibile. Inciso a lettere ben distinte, il nome è di facile lettura: «d’Agincourt», cioè niente di meno che quello di Jean-Baptiste-Louis-Georges Seroux d’Agincourt, celebre storico dell’arte francese, che trascorse lunghi anni in Italia e soggiornò a Subiaco nel 1782.

UNA SCRITTA BREVE, MA MOLTO CHIARA Ma le sorprese non finiscono qui. Se osserviamo la parete dipinta, subito a sinistra del nome del d’Agincourt, compare un’altra scritta, finora sfuggita agli occhi degli studiosi che hanno analizzato l’immagine di san Francesco. Eppure è una scritta breve, ma molto chiara, e la sua lettura è piuttosto semplice e piana: «Cavall…». Un nome facilmente integrabile, nonostante una breve lacuna, che ne ha danneggiato le

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In alto: la scritta «Cavalli», che sembra interpretabile come firma del pittore Pietro Cavallini (1240 circa-1330 circa) e, a destra, il cognome dello storico dell’arte Jean-Baptiste-Louis-Georges Seroux d’Agincourt (1730-1814). ultime lettere. Dopo la seconda «l» si nota, infatti, la base di un piccolo tratto verticale, cioè di una «i»; sí che sembra ragionevole leggere il testo come «Cavalli[ni]». Se tale interpretazione fosse corretta, si tratterebbe di un’acquisizione di notevole importanza: saremmo infatti di fronte al nome di Petrus Cavallini de Cerronibus pictor, il piú grande e celebre dei pittori e mosaicisti romani della fine del Duecento. Della sua vita abbiamo scarse notizie e molte incertezze permangono sulla sua nascita, la durata della vita e le opere di sicura o probabile attribuzione. Queste opere, che precedono e accompagnano quelle create da Giotto nei suoi soggiorni a Roma, ornavano le basiliche di S. Pietro in Vaticano e di S. Paolo fuori le Mura e alcune si possono ancora ammirare in S. Maria in Trastevere,

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S. Cecilia e S. Maria in Aracoeli. Ma nessuno di questi lavori reca la sua firma, tanto meno graffita. Si pensa che Pietro sia nato poco prima della metà del Duecento. Il suo nome compare per la prima volta in un documento notarile del 1273, nelle vesti di testimone.

ARTISTA «DOTTISSIMO» Ma la nostra scritta si può datare? La paleografia, cioè la forma e la natura delle lettere, ci dice di sí, nonostante la brevità del testo: colpisce in particolare la forma della «C», aperta e quasi chiaroscurata, e della «v», riferibile a una tipica scrittura corsiva del XIII secolo. Ecco dunque un altro buon argomento in favore dell’integrazione del nome. Che Cavallini fosse alfabetizzato non v’è alcun dubbio; la sua era una famiglia di spicco della Roma del Duecento e Lorenzo Ghiberti ci assicura che egli «fu dottissimo infra tutti gl’altri maestri». La firma fu apposta in modo rapido, fugace, forse furtivo. Armata di un chiodo, la mano corse sulla superficie dipinta con tratto veloce, dall’alto verso il basso, lasciando tuttavia

una scritta perfettamente leggibile, allora come oggi. C’è semmai da domandarsi se d’Agincourt, che aveva sicuramente letto la firma di Pio II, appose lí in basso la sua perché vide e interpretò anche quella di Cavallini, e se, come lui, anche l’antico pittore sia stato attratto da quel settore della parete dipinta, centrale eppur distante dal volto del santo, che non creava imbarazzi rispetto al cuore dell’immagine, che a pochi decenni di distanza dalla sua realizzazione doveva presentarsi ancor piú viva nelle sue forme e nei suoi colori. Non sapremo mai perché Pietro Cavallini, del quale possediamo ora l’autografo, volle lasciare il suo nome accanto all’immagine di san Francesco. Tutto quel che sappiamo è che a Roma, nella chiesa di S. Francesco a Ripa, Cavallini lavorò certamente anche per i Francescani. Ci si è domandati spesso se avesse lasciato traccia della sua arte anche nel grande repertorio di pitture del Sacro Speco: ora sappiamo almeno con certezza che frequentò quel santuario. Se per lavoro o solo per devozione, questo ancora non possiamo dirlo.



A VOLTE RITORNANO Flavio Russo

LA FORZA DELLA SEMPLICITÀ CONGEGNI DAVVERO ELEMENTARI, LE GRU TROVARONO LARGO IMPIEGO IN EPOCA ANTICA. E SONO ANCORA OGGI ASSAI DIFFUSE, CON CARATTERISTICHE TECNICHE QUASI IMMUTATE

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he il loro motore fosse una ruota calcatoria, un argano o un cabestano, le gru romane non differivano granché da quelle odierne, definite «a derrick»: consistevano in un braccio formato da una o due travi convergenti e tenute insieme da una robusta legatura oppure da una caviglia di ferro. Il braccio era a inclinazione

variabile, con una escursione nel piano verticale di circa 50°, incapace, però, di ruotare nel piano orizzontale. Gru, pertanto, che si rivelarono efficaci per sollevare carichi anche considerevoli, ma non per spostarli orizzontalmente, una volta in quota. Vitruvio ne ha descritto tre tipologie, che hanno connotazioni diverse, ma il cui

Qui accanto: ricostruzione grafica di una gru romana del primo tipo descritto da Vitruvio, azionata da un verricello e munita di due «taglie». La taglia è un sistema formato da due o piú pulegge, disposte nel medesimo sostegno, nelle cui gole si avvolge un’unica corda, un’estremità della quale è avvolta sul verricello e l’altra fissata al sostegno stesso, insieme al gancio che solleva il peso.

A destra: particolare del rilievo dal Mausoleo degli Haterii in cui si riconosce una gru. II sec. d.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Profano.

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avvaleva di un paranco provvisto di due taglie similari, ma a cinque pulegge: «Nel caso in cui si abbiano tre pulegge nella taglia superiore e due in quella inferiore il congegno è detto pentaspastos».

UN’INNOVAZIONE VINCENTE

criterio informatore è sempre sostanzialmente identico, mentre lo spessore e la lunghezza delle travi variano in funzione del carico previsto, insieme al numero e alla robustezza delle funi controvento.

PARANCHI E PULEGGE Il gancio destinato ad afferrare il carico era fissato direttamente alla fune di trazione soltanto nelle macchine piú deboli, per essere avvolto su di un verricello collocato alla base delle travi; nelle altre, invece, stando alle descrizioni suddette, tra la fune e il gancio era frapposto un paranco, costituito da una coppia di taglie: una immobile, fissata alla sommità della gru; l’altra mobile e solidale al gancio stesso. Delle due, la prima contava in genere due o tre pulegge, mentre l’altra una o due. Assodato che, in sostanza, le gru romane concettualmente non differivano fra loro, se non per grandezza e organi motori, va precisato che l’elemento comune a tutte le maggiori era l’anzidetto paranco con le relative taglie. Il celebre trattatista romano ricordò il piú semplice, a tre pulegge, come trispastos (dal greco: che tira tre volte), e cosí lo descrisse: «È composto di due taglie, di cui una superiore con due pulegge che girano su altrettanti perni. Intorno

alla prima puleggia della taglia superiore si fa passare la fune che si tira fino alla puleggia della taglia inferiore, intorno alla quale la si fa passare per rimandarla alla seconda puleggia superiore; la si fa quindi discendere di nuovo e la si fissa a un perno della taglia inferiore. L’altro capo della fune è lasciato alla base della macchina». Anche per carichi maggiori ci si

In alto: «dispositivi di tensionatura» per le linee aeree delle ferrovie ad alta velocità, concettualmente analoghi al paranco definito pentaspastos da Vitruvio. Qui sopra: disegno di un tipico bozzello a puleggia unica, per impiego navale.

La precisazione che ogni puleggia avesse un suo perno, con funzioni di asse, permette di asserire che si trattava di un paranco in linea, costituito da una solida piastra dalla quale fuoriuscivano detti perni. Non molto tempo dopo, comparve e si diffuse un secondo tipo di taglia in cui le pulegge erano disposte affiancate su di un unico asse, posto in una staffa a «U», suddivisa in tanti settori quante le pulegge. In breve, la nuova taglia – che risultava piú semplice da costruire, piú leggera, piú compatta e di minore ingombro a parità di carichi sollevati – soppiantò la precedente, che finí per essere completamente dimenticata. Nel corso dei secoli il paranco con pulegge affiancate, invece, non scomparve mai dal novero degli utensili correntemente impiegati nei cantieri edili e sulle navi, potendo schierare sul medesimo asse anche piú di tre pulegge, cosí da esaltare la sua capacità di sollevamento. In ambito navale, la taglia a una o piú pulegge affiancate fu detta «bozzello», ampiamente testimoniata nei bassorilievi romani, come per esempio nell’arco di Orange o nel fregio della tomba degli Haterii, dove ne compaiono a due pulegge affiancate disposte su due ordini. La taglia in linea è ricomparsa solo di recente, a due e a tre pulegge, sia sul mare – nelle imbarcazioni a vela da diporto, dove per la forma è detta «bozzello a violino» –, sia a terra, con il nome di «dispositivo di tensionatura» per le linee aeree dell’alta velocità.

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L’ORDINE ROVESCIATO DELLE COSE Andrea De Pascale

A sinistra: Gheralta (Etiopia). Uno scorcio dell’interno della chiesa di Meskal Cristos.

NEL CUORE DELL’UMANITÀ TRA GLI ALTOPIANI SETTENTRIONALI DELL’ETIOPIA, IN UN PAESAGGIO DI SUGGESTIVA BELLEZZA, AGGRAPPATE A FALESIE E PINNACOLI DI PIETRA, SI NASCONDONO ANTICHE CHIESE SCAVATE NELLA ROCCIA. LUOGHI NEI QUALI LA FEDE CRISTIANA ORTODOSSA E LA LITURGIA DELLE ORIGINI SOPRAVVIVONO, APPARENTEMENTE IMMUTATE, DA MILLENNI

A

bbiamo già visto, in piú occasioni, come gli ambienti costruiti nel sottosuolo siano spesso totalmente celati alla vita «della superficie». Non rendere visibili gli accessi dei mondi sotterranei era una scelta deliberata: poteva trattarsi di una forma di difesa, per sfuggire a qualcuno durante momenti di pericolo, o di un sistema di isolamento per realizzare modelli di vita distaccati dal resto del mondo. Scelte cosí estreme, per un motivo

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o per l’altro, si comprendono bene visitando le chiese rupestri che, a partire almeno dal VI secolo, vennero scavate in luoghi inaccessibili tra le montagne degli altopiani settentrionali dell’Etiopia.

I PRIMI PASSI DELL’UMANITÀ Siamo nella stessa regione in cui, tra 4 e 3 milioni di anni fa, nella Rift Valley, il genere umano mosse i primi passi in posizione eretta, grazie all’Australopithecus

A destra: Lalibela (Etiopia). Uno scorcio esterno della chiesa rupestre di Bet Giorgis (San Giorgio). Realizzata con una pianta a croce, è una delle chiese ipogee meglio conservate del luogo.


afarensis. Tra questi nostri progenitori, si trovava «Lucy», i cui resti fossili – scoperti nel 1974 dal paleoantropologo Donald Johanson e oggi esposti al Museo Nazionale di Addis Abeba – hanno riscritto la storia dell’evoluzione umana. Né va dimenticato che in queste stesse terre ebbe origine anche la specie a cui noi tutti apparteniamo, Homo sapiens, intorno ai 200 000 anni da oggi. Meno conosciuta, ma non meno importante, è la storia etiope legata al primo cristianesimo. Nel poema

epico nazionale, il Kebra Nagast (La Gloria dei Re), datato al IV-VI secolo d.C., ma a noi noto nella sua formulazione del 1314-1322, le origini del popolo etiope vengono fatte risalire alla regina di Saba (attuale Yemen). Dall’incontro tra la sovrana e Salomone, terzo re d’Israele, nacque Menelik, primo imperatore etiope, il quale, da Gerusalemme, avrebbe portato in Etiopia l’Arca dell’Alleanza, contenente le Tavole della Legge, che, secondo la Bibbia, sarebbero state consegnate da Dio a Mosè.

Dal punto di vista archeologico, i rapporti con la cultura ebraica e con il mondo sud-arabico dei Sabei sono in effetti documentati.

CULLA DEL CRISTIANESIMO Molti sono gli influssi artistici e architettonici sabei rimasti poi nella tradizione del regno di Axum, l’impero che governò nelle regioni degli altopiani del Nord dell’Etiopia tra il I e il X secolo d.C. Insieme al regno di Axum, l’Etiopia fu il secondo Stato al mondo, dopo

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Lalibela. Donna in preghiera all’esterno della Biete Medhane Alem (Casa del Salvatore del Mondo), che si ritiene sia la piú grande chiesa monolitica esistente al mondo. Molte di queste strutture scavate nella roccia presentano elementi decorativi e forma delle finestre legati alla tradizione axumita. l’Armenia, ad adottare ufficialmente il cristianesimo: intorno al 316 d.C., due giovani fratelli cristiani di origini siriane, Frumenzio ed Edesio, durante un lungo viaggio verso oriente, furono gli unici a sopravvivere a un naufragio nel Mar Rosso, salvati da un funzionario del re che li portò alla corte axumita. Frumenzio ottenne incarichi di fiducia dal re Ezana (325-356), il quale, affascinato dai racconti del giovane collaboratore, decise di convertirsi, insieme a tutta la corte reale, al cristianesimo. Le antiche testimonianze di questo culto, inizialmente legato alla Chiesa ortodossa copta d’Egitto, sono ancora oggi vive nell’accogliente e solare popolazione dei villaggi del Nord dell’Etiopia, nelle regioni del Tigrai, Gheralta e Lalibela.

LA FEDE NELLA ROCCIA Qui, tra rilievi imponenti e un altopiano di suggestiva bellezza, nascoste nelle montagne, si celano oltre centocinquanta chiese, scavate nella roccia o costruite all’interno di caverne naturali, a partire almeno dal V secolo d.C., molte delle quali impreziosite da magnifici dipinti. In Etiopia è ancora possibile immergersi nella vivacità della tradizione culturale e della fede, soprattutto in alcuni momenti particolari dell’anno. Durante le celebrazioni del Natale (Genna), festeggiato dalla Chiesa ortodossa il 7 gennaio, migliaia di pellegrini, avvolti nelle loro shamme bianche, raggiungono

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Lalibela, luogo sacro d’eccellenza con le sue undici chiese scavate nella roccia nel XII-XIII secolo. Le maestose architetture rupestri, con veri e propri labirinti sotterranei che collegano i luoghi di culto, si animano con canti e danze al ritmo di tamburi e sistri, particolari strumenti le cui origini risalgono all’antico Egitto. Centinaia di monaci e sacerdoti guidano i riti e

partecipano alle celebrazioni, per due giorni ininterrotti, donando a questo luogo una spiritualità intensa, fatta di gesti, colori, suoni e profumo di incenso. In questi luoghi, oggi Patrimonio dell’Umanità UNESCO, si può cosí vivere una delle piú emozionanti testimonianze di fede e di una liturgia rimasta apparentemente immutata per secoli.



L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci

SUGGESTIONI CRETESI NELLA GRANDE ISOLA DEL MEDITERRANEO, LE ARCAICHE DIVINITÀ FEMMINILI DELLA TRADIZIONE MINOICA FURONO PROGRESSIVAMENTE «GRECIZZATE»: DANDO VITA A SINGOLARI FENOMENI DI SINCRETISMO, ATTESTATI ANCHE SU ALCUNE SERIE MONETALI FIRMATE

G

razie alle suggestive e variopinte ricostruzioni della reggia di Cnosso eseguite da sir Arthur Evans, Creta viene spesso vista come un favoloso mondo di colori, natura, bellissime fanciulle e dee. Dai magnifici affreschi e dalle statuette celeberrime ritrovati nell’isola, è infatti emersa una religiosità pre-greca incentrata su divinità femminili di forza, bellezza, capacità generatrice, potenti signore della natura, come del cielo: la Potnia, la Signora, la Grande Dea. Entrato il mondo minoico nella sfera d’influenza greca, queste dee «pericolose» per l’ordine sociale ellenico, alquanto maschilista, vengono imbrigliate entro le figure piú controllabili di un’Afrodite o di una Artemide, alle quali possono essere aggiunti epiteti che nascondono o parlano di

un lontano passato religioso. Come per Afrodite Paphia, venerata in tutto il Mediterraneo, o per le divinità cretesi del IV secolo a.C., che portano nomi antichi e affascinanti quali Britomartis, Dictynna, Akakallis. Alcune belle monete d’argento battute a Creta sono dedicate a

queste dee, ritratte in severi profili pieni di classicità da maestri locali che firmarono le loro opere.

MAESTRI DEL CONIO Si tratta degli incisori Neuantos e Pythodoros. Il primo, Neuantos, fu attivo a Kydonia (odierna Chania), importante città nel Nord-Est

In alto: statere d’argento di Kydonia (Creta). 320-280 a.C. circa. Al dritto, la testa di Dictynna con orecchini e corona con pampini; dietro, ora illeggibile, il nome Neuantos. Al rovescio, l’eroe Kydon, nudo e con un arco. A sinistra: dracma d’argento di Kydonia (Creta). 320-280 a.C. circa. Al dritto, testa di Atena con elmo corinzio. Al rovescio, una cagna che allatta un fanciullo: il tipo ricorda quello repubblicano e imperiale della Lupa Capitolina di Roma.

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Particolare di un arazzo raffigurante l’annegamento di Britomartis. Manifattura francese, 1547-59. New York, The Metropolitan Museum of Art. Artemide con il suo seguito assiste alla caduta di Britomartis nel mare, inseguita da Minosse, e la fa salvare dai pescatori con le reti.

dell’isola, e firmò verso la metà del IV secolo a.C. alcuni stateri dedicati ai numi locali. Sul dritto campeggia il profilo un profilo altero e deciso, da alcuni visto come quello di una ninfa o meglio di una divinità locale, Dictynna. Sconosciuta fuori dell’isola, va identificata con la cretese Britomartis, che a seguito dell’influenza religiosa greca venne legata strettamente ad Artemide.

DA DEA A NINFA Ma chi era Britomartis, il cui nome significa «dolce fanciulla»? Le fonti antiche parlano di questa antica dea minoica lunare, figlia di Zeus e nipote di Demetra, che, nella città di Olous, aveva un proprio tempio e una statua di legno (xoanon)

addirittura scolpita dal massimo artefice dell’isola, Dedalo (Pausania, IX, 40, 3). Al contatto con la religiosità greca, fu declassata a casta ninfa, vittima delle brame del re Minosse, il quale la inseguí per nove mesi; per sfuggirgli, si gettò in mare dal Monte Dictynio, dove fu salvata dalle reti dei pescatori sottostanti che, da allora, la chiamarono anche Dictynna, dal greco dictyon, rete da pesca e da caccia (Callimaco, Inno ad Artemide, v. 189 ss.; Diodoro Siculo, Biblioteca Storie, 76, 3). Cosí, fu facile per i Greci trasformarla in una ninfa fuggitiva al seguito dell’algida Artemide, che la accolse tra le sue preferite, tanto da aggiungere il nome di essa al

suo. In seguito, nell’ambito di una visione sincretistica del divino, Britomartis-Dictynna divenne tutt’uno con la dea vergine e cacciatrice. Le tre divinità distinte furono fuse, pur mantenendone il ricordo nei nomi. Secondo quanto si legge in Strabone, Artemide Dictynna aveva un celebre santuario sul monte Tityrus, nei pressi di Kydonia.

UNA BALIA A QUATTRO ZAMPE Anche il rovescio dello statere è legato a un eroe locale, l’ecista o fondatore Kydon, le cui vicende sono oscure e drammatiche. Figlio di Akakallis, figlia di Minosse, e di Hermes e/o Apollo (Pausania, VIII, 53; Omero, Odissea, XIX, 176), fu abbandonato nei boschi dalla madre per sfuggire alle ire del nonno. Venne nutrito da una cagna, da cui derivò il nome (kyon, cane), inviata da Hermes per allevarlo e salvarlo da morte certa. Considerato il fondatore della città, l’eroe compare sulle monete come un giovane nudo e vigoroso, impegnato a incordare l’arco e a volte accompagnato da un cagnolino, a ricordo della fanciullezza trascorsa nei boschi. Divenuto re, Kydon ebbe un crudele destino: la presa della sua città sarebbe stata evitata solo dal sacrificio di una vergine. La scelta, affidata al caso, cadde sulla figlia Eulimene, promessa sposa al re cretese Apteras, ma segretamente in attesa di un figlio concepito con Lykastos. Questi, prima che la fanciulla venisse sacrificata, confessò il loro amore segreto e l’attesa di un figlio, ma ciò non valse a salvarla: l’assemblea volle ucciderla egualmente. Quando i sacerdoti scoprirono che essa era effettivamente in attesa di un bimbo, si resero conto che averla uccisa – insieme all’innocente figliolo – a nulla era valso (Partenio, Le pene d’amore, 35, 19).

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I LIBRI DI ARCHEO

DALL’ITALIA

Eleonora Destefanis (a cura di)

IL PRIORATO CLUNIACENSE DEI SANTI PIETRO E PAOLO A CASTELLETTO CERVO

Daniela Velestino

LA NUOVA GALLERIA LAPIDARIA DEI MUSEI CAPITOLINI

Scavi e ricerche 2006-2014 presentazione di Christian Sapin, All’Insegna del Giglio, Firenze, 711 pp., ill. b/n e col. 120,00 euro ISBN 9788878146778 www.insegnadelgiglio.it

De Luca Edizioni d’Arte, Roma, 160 pp., 113 col., 13 b/n 24,00 euro ISBN 9788865572481 www.arborsapientiae.com

Nasce dal riallestimento della Galleria Lapidaria dei Musei Capitolini questo affascinante volume, che ne racconta la storia, dando voce alle parole iscritte che dal mondo romano sono giunte sino a noi. La vicenda moderna della collezione epigrafica capitolina nasce con la Galleria di Congiunzione, creata negli anni Trenta del Novecento sotto la piazza del Campidoglio per collegare il Palazzo dei Conservatori, il Palazzo Nuovo e il Palazzo Senatorio. Nel corso degli anni le pareti della Galleria ospitarono circa 1400 iscrizioni latine e greche, trasformandosi in una delle piú prestigiose raccolte italiane e internazionali, dove però le epigrafi «dialogavano» esclusivamente con gli specialisti della materia. In anni recenti, il complesso capitolino è stato oggetto di lavori di ristrutturazione che hanno compreso il riallestimento del settore epigrafico, ispirato a criteri espositivi in cui la comunicazione, il diletto e lo studio rendono interessante e gradita 112 a r c h e o

la visita a ogni tipo di pubblico. Le iscrizioni antiche, da quelle di carattere privato a quelle imperiali, tramandano la voce di chi le volle far redigere e in un museo devono ancora oggi parlare a chi le legge, anche senza conoscere il latino o le altre lingue in uso nell’impero romano: il percorso propone una fruizione agevole ma allo stesso tempo dettagliata. L’esposizione offre una selezione del ricco patrimonio epigrafico capitolino e si articola in dieci settori, che presentano un quadro completo della vita pubblica e privata della società romana: dalla dedica imperiale al dolore dei genitori per il figlioletto premorto, al luogo sacro dove è caduto un fulmine, alla taverna e ai giochi da tavolo... Tutto questo si ritrova nel volume di Daniela Velestino, responsabile delle Collezioni Epigrafiche Capitoline, e consente una vera «immersione» nel mondo romano, proiettandoci nella vita quotidiana di questa civiltà. Eleonora Storri

Questo corposo volume raccoglie i risultati di nove anni di ricerche presso il complesso monastico dei Santi Pietro e Paolo a Castelletto Cervo, una località non lontana da Vercelli. Eleonora Destefanis ha coordinato una nutrita équipe interdisciplinare, che ha interrogato il monumento e il territorio circostante sui temi piú diversi: dalle vicende storiche e insediative all’approvvigionamento dei materiali da costruzione, all’evoluzione delle architetture.Il quadro è davvero completo, e la storia del monastero si delinea con grande chiarezza: dalla costruzione della prima chiesa alla fine dell’XI secolo, a opera dei conti di Biella, alla nascita del chiostro e degli edifici circostanti e alle loro successive trasformazioni nel corso del tempo. Molti sono i temi da discutere, tra i quali, per esempio, le modalità di nascita dei monasteri medievali: che cosa li precede, in quale contesto insediativo si collocano?

In questo caso l’origine potrebbe essere un villaggio, che intravediamo attraverso il ritrovamento di un cimitero del IX secolo. Ma quello che davvero colpisce è l’altissima qualità della documentazione, grafica e fotografica dell’opera. L’archeologo racconta al suo meglio ciò che ha trovato solo quando

riesce a elaborare piante e grafici chiari e comprensibili, che spieghino il lavoro condotto e i risultati raggiunti. In questo caso aiutano molto l’uso dei colori, la nitidezza del tratto, l’attenzione per i particolari piú minuti. Ora conosciamo molto meglio la storia di un importante monastero del Piemonte, affiliato alla grande abbazia borgognona di Cluny. L’archeologia medievale italiana deve affacciarsi sempre di piú verso il contesto europeo e questo libro compie un passo importante proprio in quella direzione. Andrea Augenti


Daniele Sacco, Alessandro Tosarelli

LA FORTEZZA DI MONTEFELTRO San Leo: processi di trasformazione, archeologia dell’architettura e restauri storici All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 324 pp., ill. col. e b/n 70,00 euro ISBN 978-88-7814-689-1 www.insegnadelgiglio.it

Situata nell’entroterra di Rimini, la fortezza di San Leo è una delle piú importanti del Montefeltro – regione storica che si estendeva fra Romagna, Marche e Toscana – e, a dispetto della sua storia

autori, Alessandro Tosarelli. Opera di taglio specialistico, il volume si apre con un’ampia introduzione storica, alla quale fa seguito l’esito delle ricognizioni effettuate in archivio, per poi passare all’analisi archeologica del manufatto. La fortezza non è stata interessata da sondaggi o scavi stratigrafici, ma si è proceduto applicando la cosiddetta «archeologia dell’architettura», che da tempo ha rivelato le sue notevoli potenzialità, soprattutto in situazioni quale è appunto quella di San Leo. Prova ne sono le dettagliate ricostruzioni rese possibili dai dati acquisiti, che hanno permesso di definire non soltanto il succedersi di varie fasi edilizie, ma anche il ruolo che il fortilizio ha giocato nel corso della sua lunga frequentazione. Stefano Mammini Valentino Nizzo

ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA DELLA MORTE plurisecolare (la prima attestazione di un castrum nel sito risale all’età tardo-antica), non era mai stata fatta oggetto di uno studio sistematico. La lacuna viene ora colmata dalla pubblicazione delle ricerche condotte nell’ambito del «Progetto Montefeltro-Atlante del paesaggio feretrano» e della tesi di laurea magistrale di uno degli

Storia di un’idea Edipuglia, Bari, 720 pp., ill. b/n 90,00 euro ISBN: 978-88-7228-761-3 www.edipuglia.it

La morte e le sue molteplici implicazioni costituiscono uno degli ambiti d’indagine da sempre piú battuti dall’archeologia: non stupisce, quindi, che Valentino Nizzo ne sia

stato «travolto» e la trattazione concepita come capitolo introduttivo della sua ricerca sull’argomento si sia trasformata in un volume di oltre 600 pagine di testo, corredate da poco meno di un centinaio di pagine di bibliografia. Del resto, mai nella sua storia, l’uomo si è limitato a registrare la fine dell’esistenza terrena, elaborandola, invece, con

cerimonie, apprestamenti di strutture sepolcrali spesso monumentali, offerte, banchetti… Di tutto questo ragiona Nizzo, concentrandosi, in particolare, sulle società protostoriche, che codificarono rituali assai articolati e capaci di colmare, per l’archeologo, l’assenza di testimonianze scritte. Molto si può dunque ricostruire di quelle antiche sensibilità, anche e soprattutto, come quest’opera conferma, grazie al confronto con altre discipline, prima fra tutte l’antropologia. S. M.

DALL’ESTERO William O’Brien

PREHISTORIC COPPER MINING IN EUROPE Oxford University Press, Oxford, 368 pp., ill. b/n 85,00 GBP ISBN 978-0-19-960565-1 https://global.oup.com

A oggi, le prime miniere di rame note del continente europeo sono quelle scoperte nell’area balcanica e attive fra il VI e il V millennio a.C. È questo il punto di partenza del saggio di William O’Brien, che ha messo a punto una sorta di atlante del fenomeno, offrendo la catalogazione sistematica dei siti che ne hanno testimoniato la pratica, dalla preistoria, dunque, fino al VI secolo a.C. A questa ricognizione fanno seguito i capitoli nei quali l’autore si sofferma sugli aspetti tecnici della pratica metallurgica e, soprattutto, sulle implicazioni sociali ed economiche. Che, in questo caso, furono di eccezionale spessore. S. M. a r c h e o 113


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