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AR ITI NE CHE GLI L P OL AN AR O O CO GIA
ARCHEO 376 GIUGNO
ESCLUSIVA
L’
ORO DEL
GROTTE SCALINA
TURKMENISTAN
L’AVVENTUROSA SCOPERTA DI UNA CIVILTÀ DI 4000 ANNI FA
REGNO DI CHU VINO ETRUSCO
NELLA VALLE DEL VINO ETRUSCO
MOSTRE VENETO
CHU. UN ANTICO REGNO CINESE
VITERBO
I MISTERI DI GROTTE SCALINA
€ 5,90
SPECIALE TURKMENISTAN
Mens. Anno XXXII n. 376 giugno 2016 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
MITRA PITIGLIANO
MAREMMA
www.archeo.it
EDITORIALE
IL SILENZIO, DIO E LE ROVINE Per molti è stato l’ultimo, grande protagonista di un’archeologia dalla conduzione personalistica, perfino totalizzante. Per altri fu l’esponente di una disciplina «imperiale», di un impero, tuttavia, destinato a incrinarsi di lí a breve. Quale che sia il giudizio dei posteri, a Viktor Sarianidi (1929-2013) si deve la scoperta di un universo culturale rimasto nascosto per millenni sotto la polvere di una delle regioni piú impervie del nostro pianeta, quella del deserto di Karakum (le «sabbie nere»), nell’odierno Turkmenistan. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, l’archeologo russo diresse le sue prime missioni di scavo nel Nord dell’Afghanistan: qui, nell’anno precedente l’invasione sovietica (1979), compie una scoperta sensazionale: a Tillya Tepe (la «collina d’oro») porta alla luce sei tumuli funerari ricolmi di oltre ventimila gioielli d’oro appartenuti a una civiltà nomade del I secolo a.C., il famoso «tesoro della Battriana». Ma erano i siti protostorici affioranti nell’area che piú affascinavano Sarianidi: per essi - sin dai primi anni Settanta - gli archeologi sovietici avevano coniato la definizione di «Complesso archeologico margiano-battriano», oggi conosciuto come «civiltà dell’Oxus». Battriana era il nome dato dai Greci alle regioni settentrionali dell’odierno Afghanistan, Margiana designava invece la vasta area corrispondente agli odierni Turkmenistan e Uzbekistan, Oxus, infine, era il nome greco per l’Amu Dar’ya, il fiume che attraversa questa terra. Cosí, mentre in Afghanistan infuria la guerra civile e, un decennio dopo, nel 1990, il mondo assiste al crollo dell’Unione Sovietica, Sarianidi sposta le sue esplorazioni piú a nord, nel delta di un altro fiume, il Murghab, le cui acque scaturiscono dalle montagne dell’Hindukush e si sperdono nelle infinite sabbie del Karakum, non prima, però, di dare forma a un vasto reticolo di oasi. E proprio qui, su una collina ai margini del deserto che i locali chiamano Gonur, «la grigia», e che, a un occhio inesperto appare come un’arida distesa di sabbia e macchia, l’archeologo porta alla luce i resti di una grande città, protetta da mura possenti: è la capitale di un’antica civiltà delle oasi, estesa – come sappiamo oggi – su un territorio di circa 1600 chilometri quadrati, contemporanea alle grandi culture fluviali protostoriche del Nilo, della Mesopotamia e dell’Indo. Ne parliamo nello speciale di questo numero (vedi alle pp. 80-105). L’identificazione con l’oggetto delle sue scoperte fu, per Sarianidi, totale: «Nessuno credeva che qualcuno avesse potuto abitare questo luogo desolato, fino a quando non sono arrivato io», aveva dichiarato nel 2006. E, confessando il suo attaccamento a una terra dura e inospitale, ma che gli aveva restituito la gloria, aveva aggiunto: «Sono tra quelli che non possono vivere senza il deserto, non c’è un posto simile al mondo; né moglie, né bambini, solo il silenzio, Dio e le rovine». Andreas M. Steiner
Viktor Sarianidi (primo da destra) sullo scavo di Gonur Depe.
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SOMMARIO EDITORIALE
Il silenzio, Dio e le rovine
SCOPERTE 3
di Andreas M. Steiner
Attualità NOTIZIARIO
Le due vite di un monumento
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di Vincent Jolivet, Edwige Lovergne e Luca Pesante
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SCOPERTE Arriva dalla Francia l’ennesima, straordinaria conferma: anche i nostri «cugini» neandertaliani celebravano pratiche rituali simili a quelle dei loro successori 8
SCOPERTE
Quel mitreo fatto in casa di Alfonsina Russo e Maria Gabriella Scapaticci
PARCHI ARCHEOLOGICI 40
O Piccola Gerusalemme! 46 di Carlo Casi, Enrico Pellegrini e Debora Rossi
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ALL’OMBRA DEL VESUVIO Pompei offre una suggestiva contaminazione tra antichità e arte contemporanea, esponendo, presso alcuni dei suoi monumenti piú famosi le sculture del maestro polacco Igor Mitoraj 12 PAROLA D’ARCHEOLOGO Sta per prendere il via lo scavo del sito egiziano di Umm al-Dabadib: ne parliamo con Corinna Rossi, che guida il progetto di ricerca 14
46 MOSTRE
Nel regno di Chu
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di Marco Meccarelli In copertina stella in oro verosimilmente facente parte dell’ornamento di una veste, da Gonur Depe. Tardo III mill. a.C.
Anno XXXII, n. 376 - giugno 2016 Registrazione al tribunale di Milano n. 255 del 07.04.1990
Direttore responsabile: Pietro Boroli Direttore editoriale: Andreas M. Steiner a.m.steiner@mywaymedia.it Redazione: Stefano Mammini stefano.mammini@mywaymedia.it Collaboratori della redazione: Ricerca iconografica: Lorella Cecilia lorella.cecilia@mywaymedia.it Impaginazione: Davide Tesei Redazione: Piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma tel. 02 0069.6352 Comitato Scientifico Internazionale
Richard E. Adams, Maxwell L. Anderson, Bernard Andreae, José M. Blázquez, John Boardman, Larissa Bonfante, Mounir Bouchenaki, Jean Chavaillon, Yves Coppens, W.A. van Es, M’Hamed Fantar, Otto H. Frey, Louis Godart, Friedrich W. von Hase, Thomas R. Hester, Donald C. Johanson, Vassos Karageorghis, Venceslas Kruta, Richard E. Leakey, Henry de Lumley, Javier Nieto, Patrice Pomey, Paul J. Riis, Conrad M. Stibbe
Comitato Scientifico Italiano
Enrico Acquaro, Ermanno A. Arslan, Andrea Augenti, Sandro F. Bondí, Francesco Buranelli,
Francesca Ceci, Francesco D’Andria, Giuseppe M. Della Fina, Paolo Delogu, Francesca Ghedini, Piero Alfredo Gianfrotta, Pier Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca, Daniele Manacorda, Danilo Mazzoleni, Cristiana Morigi Govi, Lorenzo Nigro, Sergio Pernigotti, Marcello Piperno, Claudio Saporetti, Giovanni Scichilone, Paolo Sommella, Romolo A. Staccioli, Giovanni Verardi, Massimo Vidale. Hanno collaborato a questo numero: Gian Luca Bonora è direttore della Missione Archeologica Italiana in Kazakistan. Luciano Calenda è consigliere del CIFT, Centro Italiano Filatelia Tematica. Carlo Casi è direttore scientifico della Fondazione Vulci. Francesca Ceci è archeologa presso la Direzione dei Musei Capitolini di Roma. Barbara Cerasetti è direttore della Missione Archeologica Italiana in Turkmenistan. Nadezhda A. Dubova è archeologa presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia RAS, Mosca. Marco Firmati è direttore del Museo Archeologico e della Vite e del Vino, Scansano. Vincent Jolivet è direttore di ricerca presso il CNRS. Paolo Leonini è storico dell’arte. Edwige Lovergne è archeologa. Alessandro Mandolesi si occupa di comunicazione archeologica per conto della Soprintendenza Pompei. Flavia Marimpietri è archeologa e giornalista. Marco Meccarelli è storico dell’arte orientale. Enrico Pellegrini è direttore archeologo presso la Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Luca Pesante è archeologo medievista. Debora Rossi è archeologa. Alfonsina Russo è soprintendente archeologo del Lazio e dell’Etruria meridionale. Maria Gabriella Scapaticci è direttore archeologo presso la Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale. Romolo A. Staccioli è stato professore di etruscologia e antichità italiche presso «Sapienza» Università di Roma. Massimo Vidale è docente di archeologia delle produzioni all’Università degli Studi di Padova. Andrea Zifferero è professore associato di etruscologia e antichità italiche all’Università degli Studi di Siena. Illustrazioni e immagini: Cortesia Nadezhda A. Dubova: copertina e pp. 3, 80/81, 82 (alto e centro), 83-99 – Cortesia Ufficio stampa CNRS: pp. 8 (Etienne Fabre-SSAC), 9 (alto e basso, Michel Soulier-SSAC) – Doc. red.: p. 10, 44, 70 (centro), 70 (basso, secondo piano), 70/71 (alto), 106 (alto e centro), 107-108 – Cortesia Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa: p. 11 – Cortesia Soprintendenza Pompei: foto Giovanni Ricci-Novara: pp. 12-13 – Cortesia Politecnico di Milano: pp. 14-15 – Cortesia Ufficio stampa: pp. 16, 18, 58-59, 60 (alto e centro), 61-68 – Cortesia degli autori: pp. 26/27, 29-35, 37-38, 50 (basso), 51 (basso),
STORIA
Nella valle del vino etrusco
70
di Marco Firmati e Andrea Zifferero
70
Rubriche QUANDO L’ANTICA ROMA... …s’affacciò sul Golfo Persico
106
di Romolo A. Staccioli
SPECIALE
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA
Tutti come Alessandro 110 di Francesca Ceci
LIBRI
80
112
Turkmenistan
Civiltà della Margiana
80
a cura di Massimo Vidale, con contributi di Gian Luca Bonora, Barbara Cerasetti e Nadezhda A. Dubova
52-53, 54 (alto), 70 (basso, primo piano), 71-75, 76 (disegno di di Andrea Sgherri), 77, 78 (alto), 78 (basso; Studio Inklink, Firenze), 110-111 – Shutterstock: pp. 36/37, 55 – Cortesia Soprintendenza Archeologia del Lazio e dell’Etruria meridionale: pp. 40-43 – Gianluca Baronchelli: pp. 46/47, 48, 50 (alto), 51 (alto), 54 (basso), 56 – Francesco Corni: disegno alle pp. 48/49 – Andreas M. Steiner: p. 79 – Cortesia Missione Archeologica Italiana in Turkmenistan: pp. 100-101 – Cortesia Missione Archeologica Italiana in Kazakistan: pp. 102-105 – Mondadori Portfolio: AKG Images: p. 106 (basso) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 28 (da: E. Colonna di Paolo, G. Colonna, Norchia, Roma 1978), 47, 60, 71, 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze.
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n otiz iari o SCOPERTE Francia
ANCHE I NEANDERTALIANI ADORAVANO IL FUOCO?
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in dalla sua scoperta, nel 1990, la grotta di Bruniquel, nel dipartimento Tarn-et-Garonne (Francia sud-occidentale), si era imposta all’attenzione per l’eccezionale stato di conservazione degli ambienti, per la ricchezza delle formazioni naturali, per la presenza di paleosuoli con ossa e impronte di orso e, soprattutto, perché custodiva una serie di strutture di forma circolare o subcircolare, realizzate con oltre 400 stalagmiti intere o frammentarie. A questi “circoli” erano associate varie testimonianze di uso del
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fuoco: frammenti di calcite anneriti dalla fiamma e dalla fuliggine, altri lesionati dal calore dei focolari e resti combusti, in particolare ossa calcinate. Qualche anno piú tardi, analisi effettuate con il 14C su un frammento d’osso avevano fornito una data di almeno 47 600 anni fa. Nel 2013 sono state avviate nuove ricerche ed eseguiti nuovi esami: oltre al rilievo tridimensionale delle strutture realizzate con le stalagmiti e la schedatura degli elementi che le compongono, è stato condotto uno studio mirato ad accertare eventuali anomalie causate dal calore sprigionato dai fuochi, che
ha permesso di redigere una mappa dei punti in cui essi furono accesi. I risultati piú interessanti sono scaturiti dall’esame delle strutture, poiché, a oggi, non si conoscono altri contesti in cui si sia fatto ricorso in maniera altrettanto massiccia alle stalagmiti come materiale da costruzione (si stima che ne siano state movimentate circa 2 tonnellate). Tuttavia, la vera sorpresa si è avuta all’indomani di una nuova campagna di analisi cronologiche, per le quali si è questa volta fatto ricorso al metodo dell’Uranio-Torio: alcuni frammenti di calcite hanno
Sulle due pagine: immagini della scoperta effettuata nella grotta di Bruniquel (Tarn-et-Garonne, Francia sud-occidentale). Da sinistra: una veduta della sala; un focolare; l’esecuzione di un carotaggio in uno dei depositi di stalagmiti. infatti restituito una data pari a 175 000 anni da oggi, con una possibile oscillazione di 2000 anni. Il dato è eccezionale, in quanto non soltanto riporta ben piú indietro nel tempo la realizzazione dei circoli, ma li assegna all’Uomo di Neandertal, confermando una realtà che le scoperte degli ultimi decenni rendono sempre piú chiara: il predecessore (anche se, almeno in parte, le due specie convissero) dell’uomo anatomicamente moderno aveva già sviluppato molti tratti destinati a divenire distintivi anche del secondo. Le scoperte compiute a Bruniquel, in
particolare, provano che anche i Neandertaliani frequentarono le grotte e vi realizzarono strutture complesse, dimostrando quindi la capacità di organizzare la manodopera e di coinvolgere, se necessario, una forza lavoro di proporzioni considerevoli. Né è meno importante la prova di una gestione del fuoco ormai
ampiamente sperimentata. E, per quanto riguarda il fuoco, non sono da escludere altre novità: prossimo obiettivo dei ricercatori è infatti quello di accertare le funzioni della grotta, che potrebbe essere stata utilizzata come un luogo adibito alla celebrazione di riti incentrati proprio sull’accensione dei focolari. Stefano Mammini
archeo 9
n otiz iario
SCOPERTE Spagna
STIPENDI SEPOLTI?
N
ella cittadina di Tomares, situata a circa 8 km da Siviglia, sulla riva occidentale del Guadalquivir, alla fine dello scorso aprile, alcuni operai stavano scavando nel Parco dell’Olivar del Zaudín, aprendo una trincea per la posa di una conduttura idrica, quando hanno notato nel terreno un’irregolarità «sospetta»: smuovendo la superficie, sono subito emersi frammenti di anfore e numerose monete antiche. I lavori sono stati immediatamente interrotti ed è stata convocata la polizia locale assieme agli archeologi del Museo di Siviglia, che hanno provveduto ad allargare lo scavo, potendo cosí recuperare un tesoro imponente, costituito da ben 600 kg di monete romane, contenute in 19 anfore, 9 delle quali sono state estratte dal terreno perfettamente integre. I reperti sono stati trasferiti presso il Museo, per essere ripuliti e studiati. La direttrice, Ana Navarro, ha dichiarato che si tratta di un ritrovamento di entità mai vista prima in Spagna. Le anfore sono del tipo comunemente impiegato per immagazzinare e trasportare
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Due eloquenti immagini della straordinaria scoperta compiuta nella cittadina spagnola di Tomares, presso Siviglia: chiuse in 19 anfore, sono state ritrovate piú di 50 000 monete romane, databili al II-III sec. d.C. olio in tutto l’impero e sono state ricollegate alle botteghe della vicina Alcolea del Rio. L’esame delle monete ha permesso di concludere che si tratta di oltre 50 000 pezzi di epoca tardo-imperiale, in bronzo e in alcuni casi bagnati in argento. Le iscrizioni rimandano agli imperatori Diocleziano, Massimiano, Massenzio e, probabilmente, Costanzo I e Severo II; pertanto la datazione proposta è
l’epoca della tetrarchia (293-313 d.C.). Sul verso di alcuni esemplari sono presenti varie raffigurazioni allegoriche tradizionali, tra cui quella dell’Abbondanza. Il grado di usura delle monete, pressoché nullo, ha suggerito che fossero appena coniate e accantonate in questo luogo forse per pagare gli stipendi dei soldati o dei funzionari imperiali. Rinvenute a circa 1 m di profondità nel terreno e ricoperte con mattoni e frammenti di terracotta, le ipotesi sulla loro presenza in quel punto specifico sono ancora molteplici e necessitano di ulteriori ricerche per essere consolidate. Forse erano state sepolte per metterle al riparo in un momento di instabilità politica o, forse, lí si trovava una sorta di deposito di sicurezza all’interno di un edificio militare, che anticamente sarebbe sorto nell’area. È atteso nel prossimo futuro un resoconto dettagliato da parte del Museo di Siviglia, che permetterà di orientare le eventuali ricerche nell’area del parco e di decidere il futuro della ricchissima collezione. Paolo Leonini
FORMAZIONE Campania
A PROCIDA, UNA NUOVA SCUOLA PER LE ARCHEOTECNOLOGIE
I
l patrimonio culturale archeologico italiano è fortemente caratterizzato dall’elemento marittimo. La ricerca su terra e in mare ha visto in questi ultimi anni un particolare sviluppo nel settore delle nuove tecnologie, soprattutto quelle dedicate alla rilevazione e modellizzazione tridimensionale e alle procedure diagnostiche chimico-fisiche. Le isole di Procida-Vivara hanno ospitato uno dei centri piú antichi nell’ambito dei commerci marittimi che collegarono la Grecia micenea con le regioni del Mediterraneo occidentale, e le tracce dell’insediamento dell’età del Bronzo (XVII-XV secolo a.C.) sull’isola di Vivara e quelle dell’antico porto-approdo – oggi sommerso a una profondità di circa 14 m sotto il livello del mare – sono oggetto della ricerca archeologica da diversi decenni. Il nodo italiano E-RIHS-European Research Infrastructure for Heritage and Science e l’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, d’intesa con il Comune di Procida e con la partecipazione di altri Atenei e Istituti di tutela e di ricerca nel settore dei Beni Culturali (Dipartimento di Scienze della Terra, del Territorio e delle Risorse dell’Università Federico II di Napoli,
Dipartimento di Beni Culturali dell’Università del Salento, Istituto Nazionale di Ottica del CNR, Soprintendenza del Mare della Regione Siciliana, Soprintendenza dell’Isola di Zacinto del Ministero della Cultura greco, Centro di Coordinamento delle Prospezioni Archeologiche Subacquee di Roma e Lega Navale di Procida) hanno deciso di dar vita a una scuola di formazione estiva, che permetta a discenti italiani ed europei di conoscere e sperimentare – in stretto rapporto con le procedure tradizionali della ricerca archeologica di terra e di mare – un ampio ventaglio di tecniche collegate con la documentazione, l’analisi diagnostica e le strategie di rappresentazione e fruizione di un comprensorio mediterraneo. Ampio spazio è altresí riservato alla ricerca bio- e geo-archeologica. Le attività formative si svolgeranno presso la Casa della Cultura del Comune di Procida, sede del Progetto TERRA, un plesso scientifico derivante da un accordo di collaborazione culturale fra Comune di Procida e Università Suor Orsola Benincasa. Qui sono situati un’area espositiva dedicata alla geologia, archeologia e topografia del comprensorio Procida-Vivara, una sala per
Una veduta di Vivara, isola del Golfo di Napoli unita a quella di Procida.
conferenze e un laboratorio archeologico. Il corso di formazione, interamente gratuito, si svolgerà dall’8 al 28 agosto e si indirizza a un vasto pubblico di operatori e studenti universitari del settore dei beni culturali. Nella parte finale del corso verrà celebrata una giornata di studio dedicata alle nuove tecnologie per il patrimonio culturale, messe in campo a livello nazionale ed europeo dalla infrastruttura E-RIHS, cui prenderanno parte studiosi italiani provenienti da diverse Istituzioni di ricerca all’avanguardia in questo settore scientifico. I posti a disposizione dei partecipanti sono 20, ai quali si aggiungono 5 posti riservati agli studenti provenienti da università estere. Per poter partecipare alla selezione ogni aspirante dovrà iscriversi telematicamente sul sito www.unisob.na.it/universita/ dopolaurea/formazione/ archeologia/, che sarà a disposizione a cominciare dal 10 giugno, seguendone la procedura e allegando i documenti necessari. Tenuto conto delle difficoltà di soggiorno a Procida durante il mese di agosto, il Comune ha predisposto la possibilità di usufruire di una struttura per il vitto e l’alloggio a prezzi universitari durante tutto il periodo di svolgimento delle attività. Inoltre, al fine di incentivare la formazione nel settore delle nuove tecnologie per i beni culturali archeologici, gli organizzatori mettono a disposizione ai primi classificati nelle diverse classi di studio una borsa consistente nel sostegno delle spese di vitto e alloggio presso la struttura di accoglienza prevista dal Comune di Procida.
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ALL’OMBRA DEL VULCANO Alessandro Mandolesi
ATTUALITÀ CLASSICA PER LA PRIMA VOLTA POMPEI ACCOGLIE FRA I SUOI MONUMENTI PIÚ RAPPRESENTATIVI UNA MOSTRA DEDICATA ALLE GRANDI SCULTURE CLASSICHE DI IGOR MITORAJ, IN UNO SPERIMENTALE CONNUBIO FRA ARCHEOLOGIA E ARTE CONTEMPORANEA
«I
n generale, deploro che l’architettura non integri nella sua elaborazione l’opera d’arte, che si aggiunge molto spesso a seconda delle risorse a disposizione e al di fuori di ogni considerazione estetica»: con questa critica lo scultore di origine polacca Igor Mitoraj (1944-2014), che aveva fatto della Versilia la sua terra d’adozione artistica, ambiva a stimolare una profonda relazione fra arte e luoghi, e, nel suo caso, un’integrazione armonica fra sculture sovradimensionate e scenari costruiti. Da sempre Pompei offre ai visitatori lo stupore entusiasmante della scoperta archeologica, che si rinnova attraverso strade, santuari, edifici pubblici, dimore riccamente decorate, strutture invase dalla calda luce mediterranea che, in
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ogni momento dell’anno, incantano l’osservatore con le loro variegate tonalità. Uno scenario straordinario, quindi, per accogliere – per la prima volta negli scavi – un progetto espositivo di arte
contemporanea fortemente voluto dallo stesso Mitoraj e dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali. Dopo le mostre dell’artista nella Valle dei Templi ad Agrigento e nei Mercati di Traiano a Roma, l’esposizione pompeiana suggella un binomio osmotico tra il sito archeologico e l’attualità classica di Mitoraj. Due realtà che finiscono col fondersi, senza mai sopraffarsi, e instaurano un legame dialettico equilibrato, che evidenzia e valorizza la solennità monumentale di Pompei e le molli e immanenti figure dell’artista. Trenta sculture in bronzo sono allestite in settori cruciali dell’area
archeologica, secondo un itinerario curato da Luca Pizzi, a partire dalla maestosa immagine del Dedalo, mitico artefice e inventore, affacciato sulla rupe del Tempio di Venere, che accoglie i visitatori all’ingresso di Piazza Esedra. Attraverso il viale delle Ginestre, con l’affettuosa rappresentazione di Hermanos (i Fratelli), i settori espositivi si snodano, una volta entrati nella città antica, dal Quadriportico dei Teatri, con il grande profilo del Teseo screpolato, il Torso di Ikaro e Gambe alate, per poi risalire al Foro Triangolare, nel quale spicca la composta eleganza della coppia di Ikaro alato e Ikaria, immaginata dall’artista come sorella di Icaro e Dedalo. Il percorso raggiunge in seguito il complesso delle Terme Stabiane, dove, al centro della palestra, domina il laconico sguardo del Centurione, mentre i gruppi enigmatici dei Pompeiani rinascono nell’apodyterium (spogliatoio) della sezione maschile dello stabilimento. Tramite via dell’Abbondanza, con spazi laterali che accolgono altre opere fra cui l’Eros alato e il Torso di Vulcano II, punzonato da metope popolate da figurine classicheggianti, si
raggiunge il Foro cittadino: qui la dimensione degli spazi si unifica all’imponenza delle colossali sculture di Mitoraj. Tindaro si fonde nel tradizionale scorcio del Tempio di Giove con il Vesuvio; l’Ikaro blu sembra invece appena precipitato dal cielo e mollemente adagiato sul pavimento della piazza, mentre il Centauro svetta con la sua lunga lancia su un alto podio meridionale del Foro, rievocando cosí l’antico fasto di questo spazio pubblico. Accanto al Foro, la Basilica ospita ancora una serie di immagini che sembrano dialogare: affrontate fra loro, Ikaro, Ikaro screpolato e Ikaria dalle bretelle rievocano le appassionate e animate discussioni che in questo grande edificio riguardavano la gestione degli affari e dell’amministrazione della giustizia. Toccata infine la piattaforma del Tempio di Venere, l’itinerario archeologico/artistico si conclude sulla scenografica terrazza dell’Antiquarium, appena riaperta al pubblico, suggellata dalle militaresche figure di Aphrodisios e Quirinus e, sullo sfondo vesuviano, dal Torso di Ikaria grande, che, con la sue morbide masse, affianca già
Sulle due pagine: alcune delle sculture di Igor Mitoraj attualmente esposte a Pompei: il Torso di Ikaria grande, collocato sulla terrazza dell’Antiquarium (in alto), Gambe alate e Torso di Ikaro, ospitati all’interno del Quadriportico dei Teatri (nella pagina accanto, in alto) e Tindaro, che fa bella mostra di sé nel Foro (nella pagina accanto, in basso). da lontano l’ingresso di Porta Marina. Gli imponenti ed eleganti personaggi di Mitoraj, ispirati all’iconologia classica dei miti e delle leggende, convivono quindi con le architetture dell’antica Pompei: un confronto diretto fra archeologia e arte contemporanea che apre il sito a inedite esperienze espositive. Qui la visione di Mitoraj si manifesta nella sua completezza; le sue sculture trovano nuova vita immerse in uno scenario archeologico unico.
DOVE E QUANDO «Mitoraj a Pompei» Scavi di Pompei fino all’8 gennaio 2017 Orario tutti i giorni, 9,00-19,30 (ultimo ingresso alle 18,00); Info www.pompeiisites.org
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PAROLA D’ARCHEOLOGO Flavia Marimpietri
UNA FORTEZZA NEL CUORE DELL’EGITTO ALLA VIGILIA DELLA PRIMA CAMPAGNA DI SCAVI, CORINNA ROSSI CI PARLA DEL SITO DI UMM AL-DABADIB, INSEDIAMENTO DI FRONTIERA DELL’IMPERO ROMANO
L’
insediamento di Umm al-Dabadib, il meglio conservato tra i siti archeologici dell’oasi egiziana di Kharga, è stato scelto come «caso studio» del progetto L.I.F.E. (Living In a Fringe Environment), che, attraverso l’analisi dei centri tardo-romani ai confini delle zone desertiche, mira a ricostruire la strategia dell’impero nello sfruttamento e nella gestione delle frontiere. Un progetto ideato da Corinna
Politecnico di Milano per lo sviluppo del progetto e l’Università degli Studi di Napoli Federico II come istituzione partner, aveva lavorato al rilievo delle strutture di Umm al-Dabadib. Dottoressa Rossi, che cosa rende speciale il sito di Umm al-Dabadib? «L’eccezionale stato di conservazione: sono intatti sia l’insediamento del IV secolo d.C., sia l’intero sistema agricolo creato per sostentare la comunità, con gli
siti tardo-romani con tracce di terreni agricoli, ma sono tutti frammentari. La particolarità di Umm al-Dabadib è quella di offrire un contesto completo e per di piú intatto. Il suo studio permetterà di ricostruire la strategia romana per il controllo delle vie del deserto che si incontravano nell’oasi di Kharga, offrendo un importante contributo al dibattito sulla difesa dei confini dell’impero tra Diocleziano e Costantino, fino al V secolo d.C.».
Rossi, laureata in Architettura a Napoli e specializzata in Egittologia a Cambridge, a cui è stato assegnato un premio del Consiglio Europeo della Ricerca – European Research Council (ERC) consolidator grant – di 2 milioni di euro per la durata di cinque anni, il primo mai assegnato in Italia per l’archeologia. Negli ultimi tre anni, l’egittologa, che ha scelto il
acquedotti e i campi coltivati. In un ambiente cosí ostile dal punto di vista climatico, l’elemento architettonico e quello agricolo sono due facce della stessa medaglia: l’uno non può esistere senza l’altro. In Egitto conosciamo altri
A quale contesto riportano i resti archeologici? «L’insediamento è tardo-romano, con preesistenze del II o III secolo d.C. I resti piú imponenti risalgono
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al IV secolo d.C., quando al villaggio piú antico viene affiancato un nuovo e compatto insediamento fortificato: il forte centrale è alto 12 m e circondato da abitazioni su piú livelli, servite da corridoi coperti che riparavano dal sole e dalla sabbia. Il fortino guarda verso il limes, la frontiera meridionale dell’impero, oltre il quale c’e il nulla. In quest’epoca viene attivato un grande sistema agricolo, dotato di ben sette acquedotti sotterranei: cinque sono lunghi tra i 2 e i 3 km; altri due, piú brevi e convergenti, portavano acqua alle due grandi coltivazioni che sorgevano a est e a ovest dell’insediamento. Il tracciato della centuriazione romana e i resti dei campi sono ancora visibili sulla superficie del deserto». Che cosa si coltivava a Umm al-Dabadib? «Qualche varietà di grano, forse. Abbiamo trovato resti di un mulino». Ma qual è il senso di insediamenti romani come questo, ai confini del mondo abitabile? «La prima impressione è che si tratti di un centro fortificato, ma è solo un’apparenza: la situazione è piú sfumata. L’estetica molto aggressiva e militaresca ha, in realtà, una funzione di propaganda. Il muro meridionale del fortino, infatti, appare compatto e munito di bastioni e torre, ma non ha uno spessore adeguato per servire come muro di difesa: solo un mattone e mezzo. Cosí non poteva resistere a nulla!».
Ma, allora, quale funzione aveva un forte sul confine nel deserto? «Fornire cibo e acqua: il vero “tesoro” in zone difficili come il deserto. La conferma archeologica l’ho avuta l’anno scorso quando, esplorando l’interno del forte, abbiamo scoperto due stanze che servivano come depositi di cibo. Ulteriori conferme arriveranno dagli scavi, che devono ancora cominciare. Dal 2013 a oggi, infatti, abbiamo proceduto al rilievo 3D delle strutture». Chi abitava il sito? «Qui siamo nel campo delle ipotesi. Credo fosse occupato da Egiziani, ma l’insediamento era nato su input dei Romani. Probabilmente siamo di fronte a uno dei primi esperimenti di colonizzazione del limes, un’anticipazione della divisione dell’esercito in limitanei, ovvero soldati stabilmente stanziati lungo le frontiere, e truppe mobili. Ma non siamo in presenza di un sito esclusivamente militare: secondo me gli abitanti erano locali, anche perché le tecniche di sepoltura sono egiziane». Nel senso che coloro che vivevano in questo luogo di frontiera, ai confini del mondo romano, mummificavano i defunti? «Sí. I corpi sono eviscerati e seppelliti all’egiziana, mummificati. Per questo, secondo me, i residenti erano egiziani. Tuttavia, l’insediamento è nato per iniziativa romana: solo le piú alte autorità potevano autorizzare e finanziare un progetto cosí ambizioso. Sappiamo che l’esercito romano era presente nell’oasi di Kharga, con guarnigioni non troppo numerose: e Umm al-Dabadib appartiene a una catena di insediamenti dalle caratteristiche simili. Penso che si tratti di una
Nella pagina accanto, in basso: Umm al-Dabadib, oasi di Kharga, Egitto. I resti del fortino di età tardo-romana, che si presentano in un eccezionale stato di conservazione. In basso, sulle due pagine: un rendering dell’insediamento, visto dal fronte meridionale. colonizzazione della frontiera gestita dall’esercito, abitata da Egiziani, e certamente ordinata dai “piani alti”: forse dallo stesso imperatore Diocleziano, che fondò alcuni forti legionari lungo la Valle del Nilo. Solo lo scavo archeologico potrà dirci se abbiamo ragione». Chi poteva dunque sfruttare quelle grandi aree coltivate, i ben sette acquedotti, i chilometri di condotte idriche, i depositi alimentari all’interno del forte? «La mia ipotesi è che l’insediamento garantisse l’autosufficienza della comunità locale – cosí isolata – per l’approvvigionamento di cibo e acqua, ma sostentasse anche le guarnigioni romane attraverso la raccolta dell’annona militaris, come era consuetudine. Escludo che potesse contribuire al carico di grano che ogni anno partiva dall’Egitto per raggiungere Roma: la distanza dell’oasi dalla valle è troppo grande». Il progetto vincitore del premio di ricerca europeo partirà il 1° luglio, e lo scavo aiuterà a rispondere ai numerosi interrogativi posti da questo suggestivo sito di frontiera. Fino a oggi, invece, il lavoro si è concentrato sul rilievo 3D dei resti archeologici… ci vuole raccontare? «Grazie al “3D Survey Group” del Politecnico di Milano, che sperimenta tecniche di fotogrammetria evoluta, negli ultimi tre anni ci siamo dedicati al
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In alto: i resti di uno degli acquedotti che componevano l’articolato sistema di approvvigionamento del sito di Umm al-Dabadib. Nella pagina accanto, in alto: la squadra guidata da Corinna Rossi davanti ai resti del fortino di età tardo-romana. In basso, sulle due pagine: una immagine 3D dei resti dell’insediamento.
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rilievo 3D del sito. La raccolta dati è velocissima: un aspetto fondamentale in ambienti logisticamente complessi come il Deserto Occidentale Egiziano. Non serve misurare punto per punto i resti archeologici: è sufficiente realizzare una documentazione fotografica
dettagliata e inserire i dati nel computer. Un software apposito, poi, allinea gli scatti ed elabora il rilievo 3D dell’edificio. Con il teodolite servirebbero vent’anni… Per noi archeologi, che operiamo in condizioni climatiche estreme, è molto utile: in una sola giornata
possiamo scattare centinaia di foto, ottenere una prima bozza 3D in tempo reale – per controllare se la documentazione è completa – e poi la sera, in tenda, inserire tutti i dati nel computer, che elabora il rilievo tridimensionale del sito. L’imponente sistema agricolo, invece, verrà studiato dal Centro MUSA (Musei delle Scienze
Agrarie) dell’Università Federico II di Napoli che, essendo specializzato nello studio degli ambienti iperaridi, è in grado di rilevare le evidenze esistenti sul terreno e ricostruire come funzionava la coltivazione antica». Cosa avete intenzione di scavare, appena inizieranno le ricerche? «Poiché il sito è molto esteso – 10 ettari la parte abitata e circa 30 quella coltivata – e sorge in
condizioni climatiche estreme, nonché in un contesto geopolitico attualmente critico, è impensabile scavarlo tutto. Abbiamo selezionato alcuni punti cruciali: all’interno del fortino (dove esistono stanze chiuse e sigillate che vogliamo in qualche modo raggiungere), in due abitazioni (di cui una conserva la cucina e molti resti organici, l’altra dei probabili magazzini) e infine nel cimitero, per le fasi corrispondenti all’insediamento del IV secolo a.C. Infine libereremo l’ingresso degli acquedotti, per entrare all’interno, cosa che attualmente è possibile fare solo in un caso. Il nostro lavoro servirà anche a definire meglio la cronologia della ceramica dell’oasi, finora poco studiata».
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MOSTRE New York
DALLA MONTAGNA DEGLI DÈI
L’
Onassis Cultural Center di New York ha voluto salutare la ristrutturazione dei suoi spazi espositivi con una ricca rassegna dedicata all’Olimpo, il picco che la tradizione greca identificava con la residenza degli dèi e, in particolare, alla relazione che con esso stabilí la città fiorita sulle pendici del monte, Dion. Per farlo, è stato realizzato un percorso immersivo, forte di una novantina di opere d’arte e reperti – fra cui mosaici, sculture, gioielli, ceramiche, monete e manufatti in vetro –, che abbracciano un orizzonte cronologico compreso fra il X e il IV secolo a.C. Si tratta di materiali che vengono esposti per la prima volta negli USA e che includono testimonianze di altissimo pregio, quali, per esempio, le sculture di età ellenistica e romana che ritraggono alcune delle divinità piú importanti del pantheon ellenico, come Zeus, Demetra o Afrodite. Né sono da meno i mosaici dalla Villa di Dioniso, esposti all’indomani dell’intervento di restauro effettuato grazie al supporto della stessa Onassis Foundation e che non erano mai stati presentati al pubblico prima d’ora. Realizzate tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., queste composizioni – che hanno come tema principale il Dioniso e il suo corteggio, ma che comprendono anche altri soggetti, fra cui maschere teatrali, il re Licurgo e un satiro – confermano l’importanza di Dion come città dello spettacolo: una tradizione attestata fin dall’epoca del re di Macedonia Archelao, che si dice avesse patrocinato Euripide nella scrittura delle sue Baccanti e ne avesse finanziato la prima rappresentazione.
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A destra: bracciale in oro con terminazioni leonine. Fine del III sec. a.C. Dion, Museo Archeologico. In basso: statua di Afrodite su base con dedica, dall’Iseo di Dion. 150-100 a.C. (statua), II sec. d.C. (base). Dion, Museo Archeologico.
Si possono poi segnalare gli oggetti riferibili alla sfera privata, fra cui una spilla a doppia spirale, che conserva resti del tessuto al quale doveva essere stata fermata (databile tra il X e il VII secolo a.C.) oppure un prezioso bracciale aureo con terminazioni a testa di leone della fine del III secolo a.C. Tornando alla statuaria, spiccano quattro ritratti di filosofi – in origine facenti parte della decorazione della già citata Villa di Dioniso –, nonché le immagini di un altro filosofo e di due divinità riferibili alla cerchia di Asclepio, dio della medicina, che si trovavano all’interno delle terme pubbliche di Dion. (red.)
DOVE E QUANDO «Dèi e mortali sull’Olimpo: l’antica Dion, città di Zeus» New York, The Onassis Cultural Center fino al 18 giugno Orario lu-sa, 10,00-18,00 (gio, apertura serale fino alle 21,00); chiuso domenica Info www.onassisusa.org
VIGNAIOLI DEL MORELLINO DI SCANSANO PER LA CANTINA MAREMMANA LA SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE È LA SCELTA MIGLIORE PER TUTELARE LA TRADIZIONE DEL MORELLINO DI SCANSANO, UN’ECCELLENZA ENOGASTRONOMICA TOSCANA
F
ondata nel 1972, la cantina dei Vignaioli del Morellino di Scansano da sempre si occupa di valorizzare il territorio in cui opera, quello della Maremma grossetana. Lo fa attraverso il lavoro dei suoi 150 soci, che, assieme alle loro famiglie, curano i vigneti nel rispetto della tradizione del Morellino di Scansano. Ma se questa è sempre stata terra dedita alla viticoltura, come testimoniano i reperti etruschi e romani trovati in zona, per far sí che anche le nuove generazioni ne possano godere è necessario pensare anche al futuro, un po’ come si fa tutelando un ritrovamento archeologico. Cosí, negli ultimi anni, la cantina ha rafforzato sempre piú le azioni volte alla sostenibilità ambientale, partendo dalla rilevazione della cosiddetta carbon footprint, che misura le emissioni di anidride carbonica di un vino dalla sua nascita nel vigneto fino allo smaltimento della bottiglia, per arrivare alla certificazione VIVA Sustainable Wine del Ministero dell’Ambiente, che punta a valutare l’impatto ambientale su acqua, aria e territorio. A essere certificati, i due vini principali, che assieme rappresentano il 70% della produzione, anche se poi le azioni adottate in cantina si riflettono su tutta la produzione. Cosí, spiega il direttore della cantina Sergio Bucci,
«Ogni scelta oggi è fatta guardando con lungimiranza al futuro: perché fare vini di qualità non basta, serve farli pensando anche alla salute nostra, di chi verrà dopo di noi, al rispetto delle risorse e dell’ambiente». Da un uso piú attento delle risorse energetiche, alla produzione stessa di energia attraverso fonti rinnovabili, da un packaging piú sostenibile, grazie ad esempio all’utilizzo di vetro piú leggero, al riciclo delle acque di prossima implementazione, alle nuove sperimentazioni in vigna e in cantina con l’ozono, una sostanza chimica a impatto zero, visto che introdotta nell’ambiente si trasforma in ossigeno. Tutto ciò nella consapevolezza che la qualità del vino nasce dalla tradizione, dalle radici, ma deve guardare sempre al futuro.
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n otiz iario
ARCHEOFILATELIA
Luciano Calenda
LEVIAMO I CALICI! Per la puntata di questo mese, abbiamo 1 2 scelto di prendere le mosse dall’articolo di 4 3 Marco Firmati e Andrea Zifferero sull’archeologia del vino e della vite in Etruria (vedi alle pp. 70-79), ampliando poi la nostra ricognizione al tema piú generale della produzione e del consumo della bevanda, alla quale si lega peraltro una ricca tradizione mitica e letteraria. 6 L’esordio della consueta rassegna è affidato a un vino moderno, il 5 Morellino di Scansano (1), riprodotto in un bel francobollo italiano del 2013, dal momento che la zona dell’antica Etruria indagata dagli studiosi è sostanzialmente quella della valle dell’Albegna con il vicino Comune di Scansano. 7 Passiamo quindi all’Etruria, con un annullo italiano di Piacenza del 2001, che raffigura il «fegato etrusco», sul quale sono riportati i nomi di molte divinità (2); una di esse è Fufluns, il 8 corrispondente etrusco del Dioniso greco e del Bacco dei Romani. Ed ecco tre pezzi che riguardano Dioniso: due greci (3-4) e un annullo italiano su Bacco (5). Ancora Dioniso è protagonista dei 9 10 mosaici nella casa che ne porta il nome nella località di Paphos, a Cipro: due francobolli, emessi in epoca diversa (6-7), sono 11 mostrati in sequenza, seguendo l’ordine di una sezione dei citati mosaici (8), che raffigurano (da sinistra): Dioniso che brinda con la ninfa Acmè, Icario di Atene – che ricevette per primo il vino da Dioniso – e due persone ebbre che, credendo di essere state da lui 13 avvelenate, aizzarono la popolazione contro lo stesso Icario, fino 12 a farlo uccidere. La vendemmia al tempo dei Romani è invece documentata da un annullo italiano del 2007, che raffigura Antinoo vendemmiatore, cosí come è stato ritratto in un bassorilievo rinvenuto nel 1907 a Cisterna di Roma (9), mentre semplici grappoli d’uva sono stati raffigurati su molti francobolli 15 e annulli di vari Paesi, come Grecia (10-11) e Cipro (12). 14 Altri riferimenti possono essere fatti ai pezzi che raffigurano antiche anfore per versare o trasportare il vino, come l’oinochoe del Dipylon, che reca uno dei piú antichi esempi di scrittura greca (13), o l’annullo italiano di Venosa, che raffigura una scena romana di raccolta dell’uva (14). E sono interessanti anche i pezzi che si riferiscono al trasporto su mare di grandi quantità di vino, 16 come il francobollo di Cipro che raffigura un’antica nave greca con anfore vinarie (15) e un annullo tedesco, sul quale si vede una 17 nave romana che trasporta anch’essa un carico di IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di anfore (16). Infine, è forse superfluo sottolineare Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si 14 l’importanza del vino nella cultura di ogni tempo dei può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per paesi dell’Europa meridionale; una delle piú famose qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: testimonianze di questa realtà sono i celebri versi di Segreteria c/o Alviero Batistini Luciano Calenda, Omero, il quale, nell’Odissea, racconta Via Tavanti, 8 C.P. 17037 dell’accecamento di Polifemo (17) da parte di Ulisse, 50134 Firenze Grottarossa info@cift.it, 00189 Roma. dopo che l’astuto eroe l’aveva ubriacato, facendogli 16 oppure lcalenda@yahoo.it; www.cift.it bere un vino che non conosceva...
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CALENDARIO
Italia
Qui sotto: frammento di antefissa con la Potnia Theròn.
ROMA Confluenze. Antico e Contemporaneo
Aquilanti Botta Canevari Fiorese Frare Mondazzi Peill Pirri Museo dell’Arte Classica, Città Universitaria della Sapienza Università di Roma fino al 18.06.16
Campidoglio
Mito, memoria, archeologia Musei Capitolini fino al 19.06.16
L’Ecuador al mondo
Un viaggio attraverso la sua storia ancestrale Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 03.07.16
Tra Roma e Bisanzio
La basilica di Santa Maria Antiqua e le sue pitture Foro Romano, S. Maria Antiqua fino all’11.09.16
MADE in Roma
Marchi di produzione e di possesso nella società antica Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali fino al 20.11.16
ADRIA (ROVIGO) L’arte della guerra
Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Archeologico fino al 25.09.16
BOLOGNA Egitto. Splendore millenario Museo Civico Archeologico fino al 17.07.16
COLLEFERRO (ROMA) Il «Tesoro» dei Conti
Museo Archeologico del Territorio Toleriense fino al 30.06.16
CORTONA Gli Etruschi, maestri di scrittura Società e cultura nell’Italia antica MAEC, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona fino al 31.07.16
ESTE (PADOVA) I suoni del Fiume Azzurro Meraviglie dello Stato di Chu Museo Nazionale Atestino fino al 25.09.16 22 a r c h e o
FINALE LIGURE (SAVONA) Sulle orme del passato in viaggio con l’archeologo sulle Vie della Seta e delle Spezie Museo Archeologico del Finale fino al 26.06.16
NAPOLI Mito e natura
Dalla Grecia a Pompei Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.16
PADOVA Pashedu
Un artigiano alla corte dei Faraoni Palazzo Zuckermann fino al 19.06.16
PENNABILLI (RIMINI) Antico Egitto
La vita e la morte lungo il Nilo Museo Mateureka fino al 28.08.16
POMPEI Egitto Pompei
In alto: affresco con natura morta e vaso in vetro, da Ercolano. Qui sopra: la tomba di Pashedu.
Palestra Grande e itinerario negli Scavi fino al 02.11.16
Per grazia ricevuta
La devozione religiosa a Pompei antica e moderna Antiquarium degli Scavi fino al 27.11.16
PRATO L’ombra degli Etruschi
Simboli di un popolo fra pianura e collina Museo di Palazzo Pretorio fino al 30.06.16
Qui sopra: larario con Minerva. Qui sotto: mosaico col Santo Sepolcro.
RAVENNA S.I.R.I.A. (Salvezza, Illuminazione e Redenzione nell’Iconografia dell’Architettura) Mosaici pavimentali siriani TAMO, Tutta l’Avventura del Mosaico fino al 06.01.17
SANT’AGATA DE’ GOTI (BENEVENTO) Stirpe di draghi
Mostra archeologica Complesso Monumentale San Francesco fino al 19.09.16
TORINO Il Nilo a Pompei
Visioni d’Egitto nel mondo romano Museo Egizio fino al 04.09.16
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Grecia
TRENTO Ostriche e vino
ATENE Un sogno tra splendide rovine...
In cucina con gli antichi romani Spazio Archeologico Sotterraneo del Sas fino al 30.09.16
Una passeggiata nell’Atene dei periegeti, XVII-XIX secolo Museo Archeologico Nazionale fino all’08.10.16
Francia
Qui sotto: il tempio di Zeus Olimpio, da Views in Greece (Londra, 1821).
PARIGI La terra, il fuoco, lo spirito
Capolavori della ceramica coreana Grand Palais, Salon d’honneur fino al 20.06.17
Miti fondatori
Da Ercole a Dart Fener Musée du Louvre, Petite Galerie fino al 04.07.16
Germania BERLINO Morte a Napoli
In alto: urna funeraria del regno di Silla. VIII sec. a.C. In basso: vaso con l’immagine della triscele, da Palma di Montechiaro. 650-600 a.C.
Nel 125° anniversario della morte di Heinrich Schliemann Neues Museum fino al 31.10.16
Olanda LEIDA Storie affilate
La spada come arma e simbolo Rijksmuseum van Oudheden fino al 02.10.16
Svizzera GINEVRA Amazzonia
Lo sciamano e il pensiero della foresta Musée d’ethnographie fino all’08.01.17
USA NEW YORK Pergamo e i regni ellenistici del mondo antico The Metropolitan Museum of Art fino al 17.07.16
Gran Bretagna LONDRA Sicilia: cultura e conquista The British Museum fino al 14.08.16
Città sommerse
I mondi perduti dell’Egitto The British Museum fino al 27.11.16
Dèi e mortali sull’Olimpo L’antica Dion, città di Zeus The Onassis Cultural Center fino al 18.06.16
PHILADELPHIA L’età d’oro del re Mida
Tesori dalla Turchia antica University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology fino al 27.11.16
Qui sopra: esemplari di spade attualmente esposti a Leida.
In basso: figurina in argento raffigurante un sacerdote, da Bayindir (Licia).
LE DUE VITE DI
UN MONUMENTO SCOPERTA NELL’OTTOCENTO DALL’ARCHEOLOGO VITERBESE LUIGI ROSSI DANIELLI, LA GRANDIOSA TOMBA RUPESTRE DI GROTTE SCALINA ERA SVANITA NEL NULLA. ECCO LA STORIA DI UNA STRAORDINARIA RISCOPERTA E DI UN IMPORTANTE PROGETTO DI RICERCA di Vincent Jolivet, Edwige Lovergne, Luca Pesante
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N
ei primi anni del Novecento, l’archeologo viterbese Luigi Rossi Danielli (1870-1909) condusse numerosi scavi intorno alla sua città, in particolare sui siti di San Giuliano, Ferento, Vetralla e Musarna. La fine prematura non gli consentí di pubblicarne i risultati, ma di quell’attività lasciò una documentazione assai ampia, sotto forma di note, piante e quaderni accuratamente redatti, purtroppo oggi dispersa tra varie sedi, e il cui potenziale informativo è in parte ancora da sfruttare. In questa ricca messe di dati, furono pubblicati nel 1962 una fotografia e due schizzi di un singolare monumento funerario. La fotografia, accompagnata dalla didascalia «Tomba a Cordigliano», ritrae l’archeologo
può stimare l’altezza del monumento in 6 m circa, mentre la profondità della camera funeraria, di pianta quadrata (2 m circa di lato), si sarebbe aggirata intorno ai 2 m. La vista zenitale propone un solo letto funerario lungo la parete posteriore, dotato di un cuscino alla sua estremità sinistra. UNA SUGGESTIVA Curiosamente, questo importante FONTE DI ISPIRAZIONE Gli schizzi (vedute frontale e zeni- monumento funerario – la cui fotale) consentono di precisarne le caratteristiche: si trattava del pro- Sulle due pagine: una veduta spetto di una tomba con porta cen- d’insieme della facciata della tomba trale sormontata da un architrave a monumentale di Grotte Scalina, nei becco di civetta, caratteristico dei pressi di Viterbo, localizzata per la sepolcri etruschi di età ellenistica. prima volta da Luigi Rossi Danielli e La porta era affiancata, a sinistra, riscoperta nel 1998. La tipica finta dalla scala monumentale, e, a destra, porta, al centro, è inquadrata tra la da un’anta sormontata da un capi- scalinata monumentale, a sinistra, e il tello. Anche in assenza di quote, si grande pilastro, a destra. viterbese e il suo collega e amico Luigi Scriattoli davanti all’imponente facciata di una tomba rupestre che presenta, oltre a un’alta finta porta – tipica delle tombe etrusche –, un’impressionante scala sporgente, scavata nel tufo.
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SCOPERTE • GROTTE SCALINA
tografia fu pubblicata per la prima volta da Luigi Scriattoli, nel 1920, nel suo volume dedicato ai monumenti viterbesi – scompare nei decenni successivi dalla copiosa letteratura dedicata all’archeologia di questa regione, alimentata da una fitta rete di scienziati, di eruditi, di appassionati o di scavatori clandestini. Questa sparizione, difficile da spiegare tenendo conto sia della mole del monumento, sia dell’indicazione esplicita del toponimo indicato sulla fotografia, rendeva del tutto impossibile la sua interpretazione: esso fu perciò considerato come una testimonianza dalle caratteristiche del tutto eccezionali. D’altronde, alcune anomalie non si spiegavano alla luce delle nostre conoscenze sull’architettura rupestre etrusca: la posizione sporgente della scala; la scarsa profondità dell’ipogeo; la posizione sbagliata del cuscino del letto funebre, che, per
TARQUINIA E IL SUO TERRITORIO All’inizio dell’età ellenistica, Tarquinia controlla direttamente un ampio territorio che va dal Mar Tirreno al Tevere, densamente occupato da insediamenti adibiti allo sfruttamento delle risorse agricole del territorio e dell’allevamento. Dalla fine del IV fino all’inizio del III secolo a.C., quando l’antica metropoli etrusca si trova in prima linea a proteggere l’intera Etruria contro Roma, questi siti ebbero anche un’importante funzione militare. All’indomani della resa di Tarquinia, nel 280 a.C., le città etrusche rimaste indipendenti caddero l’una dopo l’altra fino alla distruzione dell’ultima di esse, Volsinii, nel 264 a.C.
consentire al defunto di sdraiarsi, idealmente, sul gomito sinistro, dovrebbe trovarsi alla destra del letto.
LE NUOVE RICERCHE Nel 1983, l’inizio del ventennale programma di scavo eseguito sul sito di Civita Musarna, in collaborazione tra l’allora Soprintendenza archeologica dell’Etruria meridionale e l’École française de Rome, ci portò a riesaminare l’insieme della documentazione legata alla città antica e ai suoi dintorni, e in particolare al sito di Cordigliano, dove si sarebbe trovata la tomba. Si tratta di un piccolo oppido occupato in età arcaica, ellenistica e medievale, situato 1,5 km a nordest di Musarna, intorno al quale abbiamo cercato invano, per diversi anni, il monumento documentato da Rossi Danielli. L’esito negativo di queste ricerche, nonché la completa assenza di menSorrina
Grotte Scalina
Tuscana
Viterbo
Musarna
Axia
Salce Respampani
Orcla Forum Cassii
Un territorio fittamente popolato
Vetralla
Cartina dell’area in cui, oltre a Grotte Scalina, sono compresi numerosi altri centri etruschi di notevole importanza, fra cui Orcla/Norchia, Tuscana/Tuscania e Sorrina, che viene identificata con l’odierna Viterbo.
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A destra: una fotografia d’epoca, pubblicata nel 1962, ritrae l’archeologo Luigi Rossi Danielli e il collega Luigi Scriattoli di fronte alla tomba monumentale di Grotte Scalina. La didascalia recita «Viterbo-Tomba a Cordigliano». In basso: un’illustrazione artistica di Alice Lejeune che ritrae la tomba durante la campagna di scavo del 2012.
zioni della tomba nella letteratura dedicata all’archeologia di questa regione nel secolo scorso, ci avevano portato allora a concludere che essa, come diverse altre testimonianze archeologiche di questa zona, doveva essere stata distrutta nel corso di lavori agricoli.
mente scavato, mentre dovevamo allora concentrare i nostri sforzi sul sito di Musarna, e piú particolarmente sul suo abitato. Solo diversi anni dopo, nell’ambito dei lavori di studio e di pubblicazione della necropoli ellenistica di Musarna, sorse nuovamente l’interesse
per un approfondimento della nostra conoscenza di questo monumento, le cui caratteristiche, decisamente particolari, richiedevano un supplemento d’inchiesta. Una breve prima campagna, eseguita nel 2010, ci rivelò che l’ipogeo, in realtà, era molto piú profondo di quanto indi-
...E NEL BOSCO, LA SORPRESA Nel 1998, l’allargamento delle prospezioni archeologiche a una zona piú ampia ci consentí invece di ritrovare il monumento, al di fuori della tenuta di Macchia del Conte, nella quale si trova Musarna, di fronte al sito di Cordigliano, ma dalla parte opposta del fiume Leia, all’interno di un’area boschiva che fa parte della tenuta Pepponi, nella località che trae il suo nome dalla tomba stessa: Grotte Scalina. Il sito fu allora localizzato e documentato, ma senza procedere ad alcun ulteriore scavo: gli schizzi di Rossi Danielli mostravano un ipogeo molto piccolo e chiaramente già interaa r c h e o 29
SCOPERTE • GROTTE SCALINA A sinistra: la scala monumentale della tomba di Grotte Scalina. Nella pagina accanto, in alto: disegno ricostruttivo della coeva Tomba Lattanzi, a Norchia, che presenta affinità con quella di Grotte Scalina. Nella pagina accanto, in basso: rilievo di Luigi Rossi Danielli con prospetto e sezione dell’ipogeo di Grotte Scalina.
cato sullo schizzo dell’archeologo viterbese. Fu allora deciso, in accordo con la Soprintendenza, di svolgere un programma di studio con lo scopo di scavare sistematicamente il monumento, internamente ed esternamente, in modo da poterlo datare, da comprenderne l’insolita tipologia e da integrarlo pienamente nel quadro dell’architettura rupestre etrusca. Da allora, si è svolta ogni anno una campagna di scavo eseguita in collaborazione tra Soprintendenza, CNRS, École normale supérieure de Paris, Centre Jean Bérard di Napoli e École 30 a r c h e o
française de Rome, con l’appoggio della fondazione Carivit. Questi lavori, tuttora in corso, hanno rivelato il carattere effettivamente eccezionale del complesso funerario di Grotte Scalina.
UN’ARCHITETTURA DI GRANDE IMPATTO... Apparentemente isolata da qualsiasi monumento funerario di una qualche importanza, la tomba, interamente scavata nel tufo di un dirupo che si affaccia verso sud, domina da un’altezza di 7 m circa una strada antica che collegava Tuscania con
Musarna. La sua facciata, larga 14 m per un’altezza complessiva di 12 m, si divide in tre distinti piani, collegati tra di loro da due scale. La terrazza inferiore dava accesso a una impressionante sala del banchetto, di 4 x 10 m, che non ha finora confronti in Etruria. La facciata, fiancheggiata da due ante davanti alle quali due basi rettangolari indicano la probabile presenza di due sculture di animali apotropaici, scolpiti separatamente, era parzialmente chiusa da due colonne scanalate, di cui si sono conservate solo le poderose basi accuratamente modanate, dal diametro di quasi 2 m; la loro altezza originaria era pari a 6 m circa. Su ambedue i lati del dromos sono stati scolpiti un totale di sei letti, larghi 1,10 m, per una lunghezza che va da 1,50 a 2 m; ciascun letto era dotato di un cuscino ed era rivestito da un intonaco policromo, di cui rimangono vari lembi, di colore giallo o rosso. La base delle colonne e le pareti conservano anche labili strati di una preparazione bianca e di intonaco dipinto, di cui sono stati rinvenuti fuori contesto frammenti di colore giallo, rosso, verde e azzurro. Al centro della parete posteriore della sala, una finta porta – alta 4 m per una larghezza massima di 2,60 m – presenta un architrave dalle estremità modanate a becco di civetta. Al di sopra di essa, tre grandi nicchie accoglievano probabilmente busti di antenati o, piuttosto, di divinità legate al passaggio nell’Aldilà. Il fatto che la sala sia divisa in due dal profondo dromos che porta
L’ARCHITETTURA RUPESTRE ETRUSCA La zona della Tuscia viterbese presenta un insieme particolarmente spettacolare di sepolcri scavati nel tufo, in particolare nelle necropoli di Blera, Norchia e Castel d’Asso. Mentre nel VI secolo a.C. le camere funerarie sono direttamente
accessibili dalla porta aperta nel monumento stesso, in età ellenistica la tipologia delle tombe cambia profondamente. La camera funeraria, accessibile tramite un profondo dromos, è sormontata da un monumento che comporta spesso un vano di sottofacciata
coperto, dotato di una finta porta, talvolta porticato e provvisto di panchine, al di sopra del quale la facciata della tomba presenta una finta porta; il tetto piano, sul quale si svolgevano cerimonie funerarie, è accessibile tramite una e, talvolta, due scale.
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SCOPERTE • GROTTE SCALINA Planimetria dell’esterno della tomba di Grotte Scalina con sovrapposte alcune pedine da gioco, parte del corredo funerario.
A destra: il dromos con l’apertura che conduce alla camera funeraria. Nella pagina accanto: una veduta d’insieme dell’esterno della tomba di Grotte Scalina. Si distingue, in basso, il dromos.
all’ipogeo potrebbe spiegarsi con la volontà dei vivi di festeggiare a contatto con i defunti, compiendo le libagioni direttamente all’interno del dromos. Verso ovest, una scala contigua alla sala del banchetto porta al livello intermedio del monumento, alto 4 m, oggi quasi del tutto distrutto: si è conservata solo la base di un’anta, verso est, ma si può supporre che questo piano presentasse almeno quattro colonne in facciata. Verso est, una seconda scala, del tutto invisibile prima dello scavo, porta sulla sommità del monumento, di cui si è conservata solo la parte posteriore. Si tratta di un tetto a doppio spiovente, dotato, al centro, di un 32 a r c h e o
trave principale (columen) largo 1 m, e, ai lati, di due travi laterali (mutuli) larghi 0,35 m.
...ISPIRATA DA MODELLI PRESTIGIOSI Questo imponente prospetto esterno prova i legami con l’architettura etrusca rupestre, quale si era sviluppata nella Tuscia viterbese dal VI secolo a.C.: finta porta, scala esterna di accesso al tetto del monumento, lussuosa sala di banchetto al posto della classica e piú modesta «sottofacciata» delle tombe di età ellenistica. Tuttavia, la tomba mostra notevoli differenze rispetto ai pochi sepolcri che presentano dimensioni simili, ma che imitano una casa ari-
stocratica (la Tomba Grande di Castel d’Asso), oppure un tempio greco (la Tomba Ildebranda di Sovana). Esiste, tuttavia, un monumento gemello: è la Tomba Lattanzi di Norchia, realizzata per la famiglia dei Churcle, che presenta una struttura e proporzioni molto simili. I sarcofagi che in essa sono stati rinvenuti consentono di datarla intorno al 320 a.C., mentre la ceramica recuperata nel dromos e all’esterno della tomba di Grotte Scalina – probabilmente almeno in parte utilizzata nella sala del banchetto – ne documenta l’uso tra l’ultimo quarto del IV e la fine del II secolo a.C. I due monumenti sono dunque sicuramente coevi e furono probabilmente realizzati dalla stessa squadra.
ECHI DI MACEDONIA Ma quale poteva essere la fonte d’ispirazione di entrambi all’inizio dell’età ellenistica? Le loro facciate non riproducono una casa o un
tempio, dal momento che, sia in Italia che nel resto del mondo mediterraneo, non si conoscono facciate a due piani. Per questa epoca, l’unico confronto possibile è con i propilei dei palazzi macedoni di Pella e di Verghina, costruiti poco dopo la metà del IV secolo a.C., che presentano dimensioni e proporzioni simili a quelle delle tombe di Grotte Scalina e di Norchia. È facile immaginare l’impressione che questi grandiosi ingressi, dalle connotazioni trionfali e sacre, dovettero suscitare sugli aristocratici etruschi – nel caso specifico, tarquiniesi – giunti in Macedonia, per affari o come ambasciatori delle loro città, in un’epoca in cui la crescente minaccia di Roma portava le genti italiche a cercare un appoggio militare all’esterno della Penisola. Questi viaggiatori non potevano concepire un ingresso piú maestoso, degno di essere r iprodotto
nell’architettura dei loro sepolcri, a suggerire quello del passaggio nell’Aldilà.
UN IPOGEO SOLO ABBOZZATO? Il terrazzo inferiore del complesso è diviso in due dal dromos della tomba, orientato sud-nord e lungo 14,50 m, che, seguendo una pendenza regolare, conduce a una camera funeraria scavata 6,25 m sotto il livello del terrazzo e ripetutamente depredata nel secolo scorso. Intorno al suo ingresso – i cui blocchi di chiusura superiori sono stati asportati dai tombaroli già in età antica –, una fila regolare di chiodi di ferro potrebbe testimoniare l’uso di appendere corone di fiori nel corso delle cerimonie funebri. In spiccato contrasto con la monumentalità e la cura riposta nella realizzazione della facciata della tomba, la camera funeraria, scavata in uno strato di tufo morbido sigila r c h e o 33
SCOPERTE • GROTTE SCALINA
lato, al livello del soffitto, da uno strato di pozzolana, ha dimensioni modeste (5 x 6 m circa); presenta una pianta estremamente irregolare ed è stata rozzamente eseguita. Il suo unico pilastro, sommariamente risparmiato, è decentrato verso la destra della sala, a est dell’asse del dromos, mentre due nicchie rompono la linea, per il resto molto irregolare, della parete: una sul fondo, in asse con il dromos, l’altra a sinistra dell’ingresso.
LA MACEDONIA E L’OCCIDENTE Sia il Sud dell’Italia, e in particolare Taranto, che l’Etruria testimoniano stretti legami con la Macedonia di Filippo II e Alessandro Magno, lungo direttrici riprese successivamente dalla via Appia fino a Brindisi, in Italia, e dalla via Egnazia, che attraversa oggi l’Albania, la Macedonia e la Grecia. Oltre a relazioni di amicizia tra famiglie aristocratiche o a relazioni economiche, è probabile che Alessandro Magno, una volta conquistato l’Oriente, intendesse riunire anche l’Occidente sotto il dominio macedone. Questo disegno incompiuto l’avrebbe sicuramente portato in Italia, dove avrebbe dovuto affrontare Roma, come fecero alcuni condottieri greci o epiroti prima e dopo di lui.
IL NOME ABBREVIATO La camera conteneva otto sarcofagi, oggi in maggior parte frammentari, sette dei quali erano originariamente chiusi da un semplice coperchio piano o bombato. Secondo una notizia che si tramanda oralmente, sul coperchio dell’ottavo sarcofago era scolpita la figura di un defunto sdraiato. Solo un sarcofago recava un’iscrizione incisa, che indica il nome e il cognome – purtroppo abbreviato – del defunto: larth:vi. La famiglia va dunque identificata come una di quelle di ambiente tarquinio-tuscanese, i Vipe, i Vipina oppure i Vipinana, per esempio. Il riempimento della stanza, interamente sconvolto, In alto: ricostruzione della facciata del ha consentito di raccogliere pochi palazzo di Filippo II a Verghina.
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In basso: uno dei sarcofagi rinvenuti nell’ipogeo di Grotte Scalina.
elementi dei corredi funerari originari, databili nel III secolo a.C.: oltre a ceramica a vernice nera di ottima qualità, spiccano due assi di bronzo «alla prora», nove pedine da gioco e un dado in osso. Lo scavo dell’ipogeo evidenzia, perciò, varie anomalie per una tomba aristocratica riferibile all’ambiente tarquiniese della fine del IV secolo a.C.: il carattere molto rozzo dell’architettura della camera, la tipologia dei sarcofagi, la scarsità di documentazione epigrafica e l’assenza di materiali anteriori al III secolo a.C. Tale situazione si potrebbe spiegare con la presenza eventuale di un’altra camera funeraria sottostante, piú
antica di quella oggi nota, che verrà ricercata, nel corso delle future indagini, utilizzando il georadar.
A destra: particolare del pilastro alla destra della facciata della tomba. In basso: particolare di uno dei sarcofagi, con iscrizione del nome del defunto.
come risulta accertato in alcune tombe etrusche di età ellenistica. Poco a sud di questo dromos si trovava un piccolo tumulo (6 m di diametro) di età arcaica, che copre DALL’ABBANDONO due camere individuali, dotate ciaAL RIUSO Perpendicolarmente al dromos prin- scuna di una sola panchina, probacipale della tomba, un secondo cor- bilmente destinate a una coppia. ridoio, piú breve (7,25 m) e meno Interamente depredate, queste tomprofondo (3,90 m), sistemato a gra- be hanno restituito i resti di almeno dini, porta a un secondo ipogeo, sette individui, che ne testimoniano ancora da scavare, attestato anche l’uso per piú generazioni, che in un nella Tomba Ildebranda di Sovana e secondo momento la datazione al nella Tomba Lattanzi di Norchia. carbonio 14 delle ossa superstiti Questa scelta da parte della com- consentirà di precisare. Scavate ai mittenza aristocratica del sepolcro due lati del monumento, nella parte potrebbe spiegarsi con la volontà di alta del dirupo, due piccole grotte dividere due rami della famiglia potrebbero essere state abitate da oppure di separare uomini e donne, eremiti in un’epoca che la scarsa
ceramica rinvenuta sembra collocare tra il X e il XII secolo d.C. Dopo questo periodo, la frequentazione del sito è provata da numerosi frammenti ceramici databili tra il XVI e il XVIII secolo, rinvenuti in superficie; d’altronde, l’assenza di qualsiasi blocco del crollo della facciata rupestre del monumento indica che le macerie – a differenza di quelle della Tomba Lattanzi, tuttora in posizione di crollo – sono state accuratamente sgomberate, senza che la struttura venisse riutilizzata con finalità pratiche (casa, fienile, ecc.). Le uniche modifiche apportate in età moderna sono la costruzione di un padiglione rettangolare in legno, eretto al centro del terrazzo, a r c h e o 35
SCOPERTE • GROTTE SCALINA
LA CAMPAGNA VITERBESE TRA MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA Nel corso del Medioevo il Viterbese vede una fioritura di celle e piccoli luoghi di culto nelle campagne – poi in gran parte abbandonati dopo le invasioni longobarde –, spesso sistemati all’interno di cavità scavate nel tufo che ancora conservavano tracce della loro funzione originaria di sepolcri etruschi. La difficoltà nel reperire i materiali da costruzione e la generale regressione delle capacità tecniche spinse al naturale riuso dei numerosi ambienti antichi diffusi nel territorio. E in alcuni casi la continuità di vita dei luoghi di culto si protrasse fino all’epoca moderna. La ricca e potente abbazia di S. Salvatore sul Monte Amiata, che era proprietaria di beni nel territorio tuscanese, pose le sue unità amministrative in località sparse nel territorio, istituendo – siamo tra il X e l’XI secolo – le celle di S. Colombano e di S. Salvatore in Valle Rachana, la corte dell’antico monastero di S. Saturnino di fondazione laica, la cella e la corte di S. Severo in Paterno, nonché sei chiese e un altro monastero citato una sola volta. Nei secoli successivi, con lo sviluppo della civiltà comunale, si «ricuce» il rapporto tra città e campagna. La civitas (in cui risiede il vescovo) deve il suo potere e la sua ricchezza proprio alla campagna che la circonda. Rispetto ai secoli dell’Alto Medioevo, il diritto impone regole comuni, la città si fortifica e diviene sede di importanti istituti civili e religiosi. Essa offre sicurezza, opportunità di ricchezza e, di conseguenza, nuova dignità ai suoi cittadini. Nella Vita di san Paolo della Croce è scritto che, nel 1748,
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partito dal Monte Argentario con alcuni confratelli il santo si diresse verso Toscanella, l’attuale Tuscania, per fondare un luogo di preghiera: «Il luogo designato alla fondazione era un piccolo santuario detto la Madonna del Cerro, situato fuori della città, dentro un ampio e folto cerreto; e a quello si congiungeva un antico eremo, quasi cadente per le ingiurie del tempo, e sfornito di ogni cosa necessaria alla vita». Dal 1300, anno del primo Giubileo della cristianità, il flusso di pellegrini che in particolare dal Nord si riversa a Roma cambia il destino di molti centri abitati e campagne della Penisola. Non solo la via Francigena, ma l’Aurelia e la Clodia erano i percorsi che conducevano a Roma. L’area della tomba di Grotte Scalina si trova esattamente tra via Clodia e via Cassia (Francigena), sul cammino che molti pellegrini, mercanti e semplici viandanti provenienti dal litorale tirrenico dovevano percorrere per innestarsi sulla Cassia e raggiungere Viterbo prima di arrivare a Roma. Viterbo era una seconda Roma, molti papi la scelgono come residenza per lunghi periodi, e – come si diceva allora – «Ubi papa ibi Roma» («Dove si trova il papa, lí è Roma»). A Viterbo era inoltre possibile ristorarsi dopo mesi di viaggio nelle miracolose acque calde dei suoi numerosi bagni. I viaggiatori di ogni condizione sociale avevano a che fare ogni giorno con piaghe, pustole, scabbia, vesciche, pidocchi. Facile dunque immaginare il sollievo che le acque sulfuree viterbesi potevano offrire prima di giungere a Roma. I papi stessi decisero di
spostare la curia pontificia nella cittadina altolaziale principalmente per motivi legati alla salute del corpo. Tale particolare congiuntura territoriale determinò il ruolo di quest’area come punto di incrocio di percorsi diversi: il 15 gennaio del 1773, quando i de’ Gentili, proprietari del fondo di Castel Cardinale o Macchia del Conte (toponimo derivato dagli antichi possessori: i conti di Marsciano), nel quale si trova Grotte Scalina, ottengono da papa Clemente XIV il titolo di conti legato alla medesima tenuta e anche lo straordinario privilegio di poter fare una pubblica fiera il 20 giugno di ogni anno. Pertanto il privilegio di papa Clemente XIV accordato ai de’ Gentili conferma la particolare vocazione di quell’area a metà strada tra Viterbo e Tuscania: cioè essere equidistante tra importanti direttrici stradali e centri abitati di un certo rilievo, e non troppo distante da una struttura religiosa. I nuovi proprietari della tenuta erano tra i piú influenti esponenti della nuova nobiltà viterbese. Tutt’altro che confinati nell’infelice provincialismo che da secoli caratterizza il Viterbese, erano di origine corsa e legati da parentela ai Bonaparte: avevano una spiccata sensibilità per le arti e le antichità, la letteratura e la poesia. Per molti anni, sul finire dell’Ottocento, tennero in affitto come luogo di villeggiatura il palazzo Farnese di Caprarola, ma avevano proprietà anche a Roma, Parigi e Londra. La tenuta di queste fiere nelle vicinanze della tomba di Grotte Scalina riadattata, forse già nel XVI secolo, a una nuova funzione connessa con il Giubileo cristiano, contribuí probabilmente a un incremento della sua frequentazione, almeno per un breve periodo. Il sito sembra definitivamente abbandonato verso l’inizio del XIX secolo, qualche decennio prima dell’arrivo di nuovi, assidui visitatori di questo straordinario complesso funerario etrusco: i tombaroli. Luca Pesante
In basso, sulle due pagine: una veduta di Tuscania. In basso: un particolare degli apprestamenti interni del monumento.
documentato da buche di palo, e lo scavo di una grotta alla destra della facciata monumentale. Tali lavori risalgono probabilmente al XVI secolo, che segna l’inizio di una nuova frequentazione del luogo.
UNA SCOPERTA FORTUNATA Nella campagna di scavo condotta nel 2015, una scoperta fortunata ha fatto luce sulle ragioni della frequentazione in età moderna di una tomba pagana e della sua valorizzazione. Si tratta di una medaglia giubilare di bronzo esagonale che raffigura, sul dritto, l’apertura della Porta Santa con la leggenda PORTA SANCTA e, nell’esergo, ROMA, mentre sul rovescio è riprodotta la Scala Santa, con la dicitura SCAL SANC e, nell’esergo, ROMA. Ai lati della Scala Santa sono rappre-
Il banchetto funerario La sala del banchetto della tomba monumentale di Grotte Scalina, nella quale i letti di pietra venivano coperti con materassi e cuscini, risulta finora unica, anche se alcune tombe rupestri presentano semplici banchine probabilmente utilizzate per lo stesso scopo. Verosimilmente, i banchetti si svolgevano sia per ogni nuovo funerale, sia in occasione di determinate ricorrenze, come nel giorno in cui oggi si commemorano i defunti. Il banchetto, nel corso del quale si celebrava il morto, al quale venivano dedicate libagioni, serviva anche a rinsaldare l’unità del gruppo familiare.
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SCOPERTE • GROTTE SCALINA
A sinistra: la scala monumentale superiore della tomba di Grotte Scalina. In basso: la medaglietta in bronzo rinvenuta presso la tomba. Al dritto, è raffigurata l’apertura della Porta Santa; al rovescio, la Scala Santa tra due apostoli. XVII-XVIII sec.
sentati gli Apostoli Pietro e Paolo, stanti di prospetto, con nimbo, sopra una base elevata. La medaglia non reca alcuna data, ma presenta una stretta somiglianza con quelle coniate per i Giubilei del 1675 e del 1700. Simili medagliette-ricordo erano acquistate dai pellegrini durante le loro visite in occasione degli anni santi e sono state spesso ritrovate in contesti funerari, all’interno di tombe di fedeli morti nel 38 a r c h e o
corso del pellegrinaggio, a testimoniare la loro adesione alla fede cristiana. Risulta dunque estremamente probabile che tale oggetto fosse appartenuto a un pellegrino morto durante il ritorno da Roma, sulla via Francigena (se non a Grot-
te Scalina stessa), e seppellito nelle vicinanze, verosimilmente in una delle due tombe arcaiche presso le quali è stato scoperto. Lo stretto legame tra la rappresentazione figurata sulla medaglia giubilare e gli elementi architettonici piú impressionanti della tomba di Grotte Scalina può difficilmente essere considerato come fortuito: la finta porta, alta 4 m, scolpita al centro della parete di fondo della sala del banchetto, e la scalinata monumentale, interamente sporgente dopo la distruzione parziale della facciata, potevano facilmente essere associate alla Porta Santa e alla Scala Santa.
GRADINI CONSUNTI Alcune tacche scavate nei gradini inferiori della scalinata della tomba, molto logorati, potrebbero testimoniare l’uso di salire questa scala, come quella di Roma, in ginocchio, mentre il suo gradino superiore è stato ricavato, per tutta la sua lunghezza, da un profondo solco probabilmente destinato a incastrare la base di una lastra di pietra o di un dipinto raffigurante, come sul medaglione e nel santuario romano, l’immagine del Cristo in croce. La scoperta conferma che il sito di Grotte Scalina, nonostante si trovasse in un’area abbastanza remota e probabilmente boscosa e impervia, era conosciuto dai pellegrini che percorrevano la via Francigena, il cui tratto principale ricalcava in questo settore quello dell’antica via Cassia, distante 7 km verso est. Il sito, del resto, si trova ad appena una decina di km verso ovest, da Viterbo e, verso nord-ovest, da un’altra importante stazione di sosta in età medievale e moderna, quella di Santa Maria di Forcassi, vicino a Vetralla.
SCOPERTE • TARQUINIA
QUEL
MITREO
FATTO IN CASA UN FURGONE CARICO DI PIANTE VIAGGIA «SCORTATO» DA DUE AUTO: LA CIRCOSTANZA INSOSPETTISCE I CARABINIERI DEL COMANDO TUTELA PATRIMONIO CULTURALE, CHE NEL VEICOLO SCOPRONO UN CARICO BEN DIVERSO... COMINCIA COSÍ LA STORIA, A LIETO FINE, DEL MAGNIFICO MITRA TAUROCTONO DI TARQUINIA di Alfonsina Russo e Maria Gabriella Scapaticci
I
l rinvenimento di un mitreo a Tarquinia nel maggio del 2014 rappresenta una delle piú importanti scoperte archeologiche effettuate negli ultimi decenni in Italia, ancora una volta compiuta grazie al Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, a cui si deve l’input di avviare le ricerche in località Poggio della Civita, dove è localizzata la città etrusco-romana. L’intervento di scavo, tempestivamente condotto dalla Soprintendenza, mirava ad acquisire prove certe sulla provenienza di un magnifico gruppo marmoreo rappresentante il Mitra tauroctono, verosimilmente rinvenuto in quel-
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la contrada e recuperato dai Carabinieri a seguito di indagini dirette dalla Procura della Repubblica di Roma. Lo scavo ha restituito un frammento marmoreo pertinente
allo stesso gruppo scultoreo recuperato dall’Arma: raffigura un cane, appoggiato al ginocchio del toro, e si integra perfettamente nella composizione. Si tratta dunque della prova Il gruppo raffigurante il dio Mitra tauroctono (che uccide il toro), recuperato dai Carabinieri del Comando TPC a Fiumicino (Roma), ma di cui è stata accertata la provenienza da Tarquinia (Viterbo). II sec. d.C.
inconfutabile per confermare la provenienza del Mitra dalla Civita di Tarquinia e, conseguentemente, la sua autenticità. Dalla straordinaria scoperta è scaturito un grande progetto sul mitraismo, che consta sia dell’organizzazione di un convegno scientifico internazionale – in programma dal 16 al 19 giugno a Tarquinia,Vulci e Marino –, sia della prosecuzione delle indagini nel sito del rinvenimento, affidata a una équipe dell’Università degli Studi di Verona, diretta da Attilio Mastrocinque.
IL SUCCESSO DEI CULTI «STRANIERI» Il Convegno «Symposium Peregrinum 2016. The Mysteries of Mithras and other Mystic Cults in the Roman World-I Misteri di Mitra e altri culti mistici nel mondo romano» sarà l’occasione per approfondire il dibattito scientifico sul mitraismo e su altri culti «stranieri» presso i Romani, che avevano come destinatari Cibele, Iside e Serapide. Noti anche come «orientali» o «misterici», secondo un concetto proprio dei Romani, tali culti ebbero una grande diffusione all’interno della loro società. Come fossero organizzati o in
che modo e perché avessero attecchito cosí profondamente nel mondo romano è oggetto delle numerose ricerche in corso. In occasione del simposio verrà anche inaugurata una nuova sala
del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia, dedicata appunto al Mitra della Civita, grazie al sostegno della Fondazione Etruria Mater e al contributo dell’ENEL. (segue a p. 44)
In questa pagina: una veduta posteriore del gruppo con Mitra tauroctono (in alto) e un particolare dell’orecchio del toro: qui sono state individuate tracce di piombo, riferibili alla presenza di un perno, utilizzato per fissare questa parte della scultura.
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SCOPERTE • TARQUINIA
Un’opera di fattura squisita Il gruppo del Mitra tauroctono, scolpito in marmo bianco, è stato restaurato dall’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Secondo un uso molto attestato nella scultura romana, il reperto aveva alcune parti «a inserimento» oggi mancanti: la testa, la mano sinistra, il piede sinistro del dio e l’orecchio sinistro del toro, su cui resta – anche a prova della sua autenticità – ampia traccia della tecnica di piombatura antica di un perno di cui era dotato il pezzo inserito. Recenti indagini dei Carabinieri hanno portato al recupero di nuovi frammenti marmorei perfettamente combacianti con lo stesso gruppo scultoreo, che, una volta assemblati al pezzo principale, consentiranno di apprezzare l’opera d’arte con maggior completezza. Si tratta di parte del serpente, della mano destra del Mitra che stringe la spada, del mantello del dio, della coda del toro che, nella parte finale, prende le sembianze di un mazzo di spighe. Mitra indossa una corta tunica a due balze, con maniche lunghe (tunica manicata) e cintura alta sul petto, porta inoltre i pantaloni lunghi e aderenti di tipo orientale (anaxyrides) con piedi nudi; il mantello è fissato da una grande fibula tonda forse indicante una grande pietra preziosa. È raffigurato nell’atto di uccidere il toro. Appoggiato con la gamba sinistra sul dorso dell’animale, tiene con la mano sinistra il muso per le narici, mentre con la mano destra lo sta pugnalando al collo. Il toro è rappresentato mentre esala l’ultimo respiro; con
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la bocca semiaperta, curata nei minimi particolari, tanto che è stato rappresentato anche il dettaglio degli incisivi inferiori. Dalle sue ferite, a conferma della resa particolarmente realistica, sgorgano gocce di sangue. Al corpo del toro sono appoggiati un cane e un serpente. Uno scorpione è colto nell’atto di stringere tra le tenaglie i genitali del bovino. Elevato appare il livello artistico dell’opera, ascrivibile verosimilmente a uno scultore attivo a Roma, che ben conosce sia le produzioni legate al classicismo del periodo di Adriano, sia i canoni dell’iconografia tipica delle statue di culto pertinenti al mitraismo. La presenza di piccoli particolari incisi nelle pupille degli animali e l’uso limitato del trapano anche nel canale lacrimale degli occhi del toro contribuiscono a datare la scultura nei primi anni del regno di Antonino Pio (138-161 d.C.).
Nella pagina accanto: Tarquinia, località Poggio della Civita. Il frammento del gruppo che raffigura il cane al momento del ritrovamento. A destra: veduta frontale del Mitra tauroctono, con il cane ricollocato nella sua posizione originaria. In basso, sulle due pagine: Tarquinia, località Poggio della Civita. I resti del mitreo da cui proviene il gruppo scultoreo, che si trovava all’interno di una domus, il cui primo impianto risale al II sec. a.C.
Il Mitra tauroctono si appresta ad arricchire l’esposizione permanente del Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia
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SCOPERTE • TARQUINIA
SALVATAGGIO IN EXTREMIS Nell’aprile del 2014, a Fiumicino (Roma), nell’ambito delle attività di contrasto del traffico illecito di beni archeologici, il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (CC TPC) blocca un furgone che, benché trasporti piante e altro materiale coperto da un telone, aveva insospettito i militari, in quanto circolava scortato da due veicoli. Durante il controllo, sotto il telone, vengono rinvenute una scultura marmorea, raffigurante una figura maschile che uccide un toro circondato da altri piccoli animali e, all’interno dell’abitacolo, alcune mappe stradali della Svizzera, lasciando supporre che i malfattori volessero esportare illecitamente l’opera. La scultura è coperta da concrezioni terrose, segno che dev’essere frutto di uno scavo clandestino recente. Incrociando i dati raccolti con quelli tecnico-scientifici risultanti dagli esami che i funzionari del MiBACT effettuano appunto sulla terra, viene accertata la provenienza della statua dall’area archeologica di Tarquinia. La successiva campagna di scavo, condotta d’urgenza dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale, ha portato al ritrovamento di un cane, che combacia perfettamente con il gruppo scultoreo recuperato e riconducibile all’iconografia mitraica. L’indagine, quindi, ha consentito anche l’individuazione di un sito, all’interno di un’area archeologica nota ma non del tutto conosciuta, in cui nel corso del II secolo d.C. veniva venerato il dio Mitra. Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale
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Tarquinia. Palazzo Vitelleschi, sede del Museo Archeologico Nazionale.
L’indagine archeologica ha permesso di portare alla luce i resti di un edificio a piú vani, con una parte adibita al culto di Mitra, recuperando un dato scientifico straordinario, del tutto sconosciuto. Fino a oggi, infatti, nell’Etruria Meridionale, il solo gruppo raffigurante il Mitra tauroctono era quello di Vulci, rinvenuto dalla Soprintendenza nel 1975 e databile alla metà del III secolo d.C. Il nuovo rinvenimento prova, quindi, la diffusione di questo culto anche a Tarquinia già alla metà del II secolo d.C.
captazione delle acque, erano probabilmente funzionali ai complessi rituali del mitraismo. I dati di scavo mostrano che si trattava di un culto privato, come quello di Vulci, che perdurò fino alla probabile distruzione violenta del mitreo, come appare confermato dalle molteplici lacune presenti nella statua di culto, verosimilmente alla fine del IV secolo d.C. Momento in cui, a seguito dell’editto di Teodosio promulgato a Tessalonica (380 d.C.), il cristianesimo fu dichiarato religione di Stato e, nei successivi editti teodosiani del 391 e 392 d.C., fu sancita la fine dei LA SALA PER I FRATRES Come quello vulcente, il mitreo di culti preesistenti, con il divieto di Tarquinia (II secolo d.C.) si inseriva adorazione delle statue e dei sacrifiin una domus piú antica, databile alla ci agli dèi pagani. fine del II secolo a.C. I lavori di scavo hanno individuato la comples- DOVE E QUANDO sa articolazione planimetrica della residenza, che si presentava in cattivo «Symposium Peregrinum 2016. stato di conservazione a causa dello The Mysteries of Mithras and other scarso interro rispetto all’attuale pia- Mystic Cults in the Roman World. no di campagna. Notevole è stato il I Misteri di Mitra e altri culti mistici rinvenimento della sala dedicata al nel mondo romano» culto di Mitra, praticato da un grup- Tarquinia, Vulci, Marino, po piuttosto ristretto di adepti (fra- Soprintendenza Archeologia del tres), dove, inaspettatamente, sulla Lazio e dell’Etruria Meridionale parete di fondo, è stato individuato 16-19 giugno 2016 il frammento del cane appartenente Info www.archeologialazio. al gruppo. Due pozzi, di cui uno di beniculturali.it
PARCHI ARCHEOLOGICI • PITIGLIANO
O PICCOLA
GERUSALEMME! IL SOPRANNOME CONIATO PER LA CITTADINA DI PITIGLIANO EVOCA VICENDE DI ANTICA ACCOGLIENZA. PRIMA DI ALLORA, PERÒ, GIÀ LUNGA ERA STATA LA STORIA DEL SUGGESTIVO BORGO, LA CUI RUPE FU OCCUPATA FIN DALL’ETÀ DEL BRONZO E VIDE POI FIORIRE UN IMPORTANTE CENTRO ETRUSCO, DI CUI SONO OGGI TESTIMONIANZA LE RICCHE TOMBE DELLE SUE NECROPOLI di Carlo Casi, Enrico Pellegrini e Debora Rossi 46 a r c h e o
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itigliano appare d’improvviso, quando la brusca svolta sotto la chiesa della Madonna delle Grazie scopre la lingua tufacea sulla quale il borgo è nato e si è sviluppato, affacciato sulle strette e ombrose valli del Meleta e del Lente. L’impressione è quella di un’enorme scultura intagliata nella roccia da antichi artisti, al cui interno l’uomo ha scavato le sue abitazioni, trovando sicurezza e riparo. Mirabile crocevia di culture, quest’angolo recondito della Maremma grossetana ha rappresentato rifugio e salvezza per il popolo dei perseguitati che, a seguito delle bolle papali, dovette abbandonare le piú importanti città nelle quali si era storicamente insediato: gli Ebrei. Qui la comunità ebraica crebbe e si sviluppò, in un rapporto di convivenza e tolleranza cosí felice da far ribattezzare la cittadina «Piccola Gerusalemme».
LE PAROLE DI UN VIAGGIATORE CELEBRE Altre tracce, non meno importanti, ne hanno segnato la storia e si deve all’archeologo e diplomatico inglese George Dennis (1814-1898) il merito di aver identificato, durante i viaggi in Etruria compiuti tra il 1842 e il 1847, Pitigliano come «un luogo Etrusco, che, non essendo mai stato visitato dagli archeologi, non è stato riconosciuto ancora come tale. [Ci sono] tombe su ogni lato – dalla sommità dell’altura su cui si innalza la città, giú fino alle rive del torrente, e di nuovo su per l’opposto versante del burrone – pendio, rupe e sporgenze, sono crivellati di tombe.Vi sono anche tratti dell’antica strada, tagliati nel tufo, con dei colatoi laterali, e nicchie nelle pareti (...) Quali
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Lazio
Sulle due pagine: una panoramica di Pitigliano (Grosseto), centro fra i piú ricchi di storia della Maremma, visto dalla necropoli di San Giovanni. Il primo insediamento umano sul sito risale all’età del Bronzo. a r c h e o 47
PARCHI ARCHEOLOGICI • PITIGLIANO
che possano essere state le loro decorazioni interne o esterne, quasi duemila anni di profanazioni hanno talmente mutato le loro caratteristiche, che tali problemi possono essere risolti ormai solo dall’archeologo». In realtà, ritrovamenti di oggetti antichi nelle vicinanze del paese erano stati già effettuati agli inizi del XIX secolo, come conferma
gico presente nel Comune di Pitigliano è andato disperso a opera degli scavatori clandestini e venduto sia a privati, sia a musei stranieri (tra cui quelli di Philadelphia, Berkeley, Chicago e Berlino). È quanto emerso da un recente controllo sistematico del territorio avviato dalla Soprintendenza Archeologia della Toscana in collaborazione con
Il Museo all’aperto «Alberto Manzi» 1. Insediamenti etruschi 2. Necropoli del Gradone 3. Vie cave 4. Necropoli di San Giovanni
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l’acquisto, nel 1833, in favore delle Gallerie Granducali di sei vasi attici a figure nere e di una kalpis (vaso per acqua) a figure rosse insieme alla monumentale anfora del Pittore di Micali con Eracle e satiri.
NELL’ITALIA UNITA Un grande fervore di ricerche si riscontra subito dopo l’Unità d’Italia, alla fine del XIX secolo, a opera dei funzionari dell’appena costituita Regia Soprintendenza agli Scavi dell’Etruria, con sede a Firenze, che portò alla scoperta di numerose tombe nella zona e all’identificazione di un nuovo insediamento – una vera e propria città – e della sua necropoli sulle alture a strapiombo sul fiume Fiora (Poggio Buco; vedi box a p. 52). Purtroppo, complici la distanza dai centri amministrativi piú importanti, le strade disagevoli e l’impenetrabile macchia mediterranea, la maggior parte del patrimonio archeolo48 a r c h e o
A sinistra, in alto: la ricostruzione, a dimensioni quasi reali, di una capanna simile a quelle che dovevano comporre il villaggio della tarda età del Bronzo sorto sulla rupe di Pitigliano nell’XI-X sec. a.C. Qui accanto: una via cava, cosí chiamata perché scavata nel banco roccioso.
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l’Amministrazione comunale, che aveva come obiettivo la schedatura dei monumenti archeologici ancora identificabili e il monitoraggio del loro stato di conservazione.
UN PATRIMONIO DA SALVARE Di fronte alla forte accelerazione del processo di deterioramento del patrimonio ambientale e ai continui saccheggi dei monumenti funerari di età etrusca, le autorità locali hanno deciso di investire nella salvaguardia e nella riqualificazione del patrimonio naturale e storico che oltre due millenni di ininterrotta presenza dell’uomo hanno traman-
dato fino a noi, in un delicato equilibrio tra natura e attività umana. La scoperta di tombe etrusche sormontate da tumuli o decorate con rilievi architettonici scolpiti, l’identificazione di file di tombe rupestri disposte su piú ordini, la scoperta di una consistente occupazione dell’area in età ellenistica (IV-prima metà del III secolo a.C.) e di una serie di ambienti termali pertinenti a un importante edificio di età imperiale (II-III secolo d.C.) hanno permesso di aggiornare le conoscenze e di inserire lo sviluppo storico del territorio di Pitigliano in un piú ampio e vivace quadro storico. In particolare, l’esplorazione delle necro-
poli del Gradone e di San Giovanni ha consentito di realizzare il Museo all’aperto «Alberto Manzi».
L’INTUIZIONE DEL «MAESTRO» L’idea di affiancare al percorso espositivo del Museo Civico Archeologico di Pitigliano, nel quale sono esposti gli oggetti rinvenuti nelle tombe etrusche dei dintorni, la visita di quelle stesse tombe che li contenevano si deve infatti al mai dimenticato ideatore della trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi, il «maestro» Alberto Manzi, grande pedagogista e per breve tempo sindaco di Pitigliano. a r c h e o 49
PARCHI ARCHEOLOGICI • PITIGLIANO
Virtuosismi di un’antica architettura Una tomba etrusca della necropoli di San Giovanni, databile alla seconda metà del VI sec. a.C., accompagnata dalla pianta e dal prospetto, che ne illustrano le caratteristiche architettoniche piú salienti.
La tutela, la didattica e, non ultima, la ricerca scientifica sono stati i temi alla base dell’istituzione del Museo all’aperto di Pitigliano. Due sono le linee guida del parco archeologico, che si aggiunge a quello già in funzione nella vicina Sovana: attuare una conservazione integrata del pa50 a r c h e o
trimonio ambientale e architettonico riscoperto e consentire al visitatore di immergersi completamente nella storia di questi luoghi. La situazione topografica delle necropoli etrusche del Gradone e di San Giovanni, che si trovano nei pressi di una «via cava» (cioè «scava-
ta»: la definizione indica percorsi tagliati nel banco roccioso, che raggiungono spesso notevoli profondità, n.d.r.), e il contesto ambientale suggestivo, si sono rivelati particolarmente adatti a realizzare il progetto, che si propone di condurre il visitatore a esplorare la «città dei morti» in una situazione simile a quella originaria.
IL MUSEO ALL’APERTO Il percorso di visita dell’area archeologica ha comunque inizio dalla «città dei vivi». La fase del villaggio protostorico della tarda età del Bronzo (XI-X secolo a.C.), attestato archeologicamente sulla rupe tufacea di Pitigliano, è rappresentata da un modello didattico di abitazione del tipo a capanna circolare, realizzato in dimensioni quasi al vero. La ricostruzione di una casa etrusca ad atrio, tipica dell’età arcaica, consente invece, attraverso uno sguardo virtuale, di osservarne i tre ambienti principali: la cucina, la camera nuziale e la sala del banchetto. Una «via cava» conduce alla «città dei morti» immersa nella penombra del bosco. Per prima s’incontra la necropoli del Gradone, che fu in uso per circa centocinquant’anni (dalla seconda metà del VII al terzo quarto del VI secolo a.C.) e che ha restituito notevoli vasi sia di impasto locale con decorazione graffita sia d’importazione greca, perlopiú coppe a figure nere. Il sepolcreto comprende tombe con pianta cruciforme con un vestibolo scoperto al quale si accede per un dromos (corridoio) a gradini. Nelle camere, una bassa fossa quadrangolare distingue le banchine, sulle quali si aprono fosse di deposizione per i defunti inumati che presentano, in corrispondenza di una estremità, un alloggiamento rotondeggiante per la testa; talvolta sono anche presenti loculi aperti sulle pareti. Le camere funerarie sono state da tempo svuotate dei loro arredi, ma alla fine di questo primo percorso
In basso: assonometria ricostruttiva di una tomba a vestibolo scoperto con accesso a gradini e pianta cruciforme della necropoli del Gradone, databile al VII sec. a.C.
è possibile visitare la tomba di Velthur e Larthia e rivivere la sacralità e le emozioni di una cerimonia funebre etrusca.
UNA FORMULA DI SUCCESSO Attualizzare con tecniche moderne la suggestiva idea di ricreare il solenne momento del commiato ai defunti già deposti sulle banchine funebri – un’idea sperimentata con successo già nei primi decenni dell’Ottocento, con l’allestimento a Londra di undici tombe etrusche a opera dei fratelli Campanari di Tuscania nel 1837 – è sembrata la soluzione piú efficace per una divulgazione scientifica adeguata ai tempi attuali. Terza e ultima tappa è la necropoli In alto: l’interno della tomba in cui è stata ricostruita la sepoltura dei defunti Velthur e Larthia. a r c h e o 51
PARCHI ARCHEOLOGICI • PITIGLIANO
di San Giovanni, già nota agli studiosi per i vasi attici a figure nere recuperati negli scavi del 1897, ma della quale si era persa l’esatta ubicazione. Il ponte che scavalca il torrente Meleta si trova di fronte a una tomba monumentale, che ripropone caratteristiche proprie degli ambiti culturali vulcente e ceretano.
ALLA MANIERA VULCENTE Peculiare di Vulci è lo stretto vestibolo scoperto sul quale si affacciano tre ingressi (uno dei quali finto) a un’unica camera funeraria, il cui soffitto è finemente scolpito a imitazione di una travatura lignea ed è impreziosito dalla sottolineatura dipinta in rosso (caratteristiche riconducibili all’ambiente ceretano). Piú oltre, si incontrano dodici tombe a camera di età arcaica scavate nella parete tufacea e rese accessibili da un corridoio piú o meno profondo, anch’esso ricavato nella roccia, alle quali sono intercalate tombe a cassone di età elleni-
LA FORTEZZA DEI TESORI Le vicende storiche dei centri etruschi di Pitigliano e di Poggio Buco sono documentate dai materiali esposti nel Museo Archeologico Comunale, che ha sede nella Fortezza Orsini, nella piazza principale di Pitigliano. Il museo è stato inaugurato nel 1995, grazie alla donazione che Adele Vaselli volle fare alla comunità di piú di mille reperti di età etrusca provenienti dalla necropoli di Poggio Buco. Nel breve volgere di cinque anni, le nuove scoperte, la possibilità di esporre una selezione delle ceramiche di età etrusca rinvenute nel territorio di Pitigliano, conservate a Firenze presso la Soprintendenza Archeologia della Toscana, e il lavoro di restauro dei materiali di Poggio Buco, hanno quindi consentito di rinnovare il contenuto del museo.
Il nuovo allestimento è diviso in due sezioni: la prima comprende i materiali della necropoli di Poggio Buco della collezione Vaselli; la seconda i reperti provenienti da Pitigliano. Lungo tutto il percorso espositivo è visibile il magazzinolaboratorio con le ceramiche in restauro. Tra i materiali del centro etrusco di Poggio Buco, avamposto vulcente sulla direttrice del fiume Fiora, si segnalano le ceramiche in bucchero del tipo detto «pesante» e la produzione etrusco-corinzia figurata. Tra i buccheri, un’attenzione particolare meritano i vasi legati al simposio, quali i grandi crateri (vasi per miscelare il vino) e le hydriai (anfore per l’acqua) che imitano i contenitori in bronzo, decorati da testine e figure umane a rilievo. Del tutto diversa appare la
A POGGIO BUCO, SULLE TRACCE DEI SIGNORI ETRUSCHI Sul pianoro tufaceo che si affaccia sul fiume Fiora, a 9 km da Pitigliano, le indagini archeologiche condotte tra il 1894 e il 1897 misero in luce varie strutture, di uso abitativo e artigianale, una piazzetta lastricata a grandi blocchi di tufo e tratti della cinta di mura posta a difesa della città, databili tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. Le arature avevano tuttavia danneggiato l’impianto e nulla si rinvenne dell’alzato delle strutture. Tra le ceramiche spiccano alcune terrecotte architettoniche (lastre a rilievo) frammentarie, la cui presenza attesta l’esistenza di un importante edificio, probabilmente la sede di una famiglia aristocratica, come nel caso degli edifici di Acquarossa, presso Viterbo,
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e di Murlo, nel Senese. Tra i soggetti raffigurati sono presenti teorie di animali, come quelle che compaiono sui vasi dipinti nello stile etrusco-corinzio, e motivi legati al mondo eroico, quale quello con carri e corteo di armati. Il rinvenimento di ghiande missili di piombo con l’iscrizione staties/statiesi aveva fatto supporre che si potesse identificare questa città con la Statonia menzionata dalle fonti, oggi localizzata invece nella zona di Bomarzo. Un monumentale cratere (vaso in cui si mescolavano acqua e vino) in bucchero nero con testine femminili e figure umane a rilievo, dalla necropoli di Poggio Buco. Metà del VI sec. a.C. Pitigliano, Museo Civico Archeologico.
corredi delle tombe di età ellenistica della necropoli di San Giovanni e ai materiali archeologici provenienti da un recente scavo, che ha messo in evidenza una villa di età romana in località Quattro Strade, nei pressi di Pitigliano.
ceramica che accompagnava gli inumati delle necropoli di Pitigliano, piú legata alla produzione dei centri gravitanti intorno all’area del lago di Bolsena e a quella dei centri falisci del distretto tiberino. Predomina la ceramica d’impasto con decorazione incisa e graffita o dipinta in bianco su fondo rosso. Tra i reperti piú antichi si
stica. Gli spazi compresi tra le due serie di sepolture – arcaica ed ellenistica – dovevano essere funzionali allo svolgimento delle operazioni consuete del culto funerario (purificazioni, sacrifici, preghiere, compianti), dove anche l’elemento scenog rafico doveva contr ibuire all’ambientazione delle sacre processioni e rappresentazioni. Al termine del percorso, un’altra tomba, assai piú imponente, attesta l’importanza raggiunta da Pitigliano alla fine del VI secolo a.C.: la struttura è stata deturpata in età moderna, adattandola a porcilaia, ma se ne può ancora leggere la pianta, caratterizzata da due camere in asse, la prima delle quali di grandi dimensioni e munita di una coppia di pilastri. L’accesso alla seconda camera è sormontato da un timpano a rilievo; all’interno, sul soffitto leggermente displuviato, è riprodotto il trave centrale.
segnalano il vaso biconico dipinto con motivi geometrici della seconda metà dell’VIII secolo a.C., usato come contenitore per le ceneri del defunto, i vasi con alto collo e i kantharoi (tazze a due manici) con anse intrecciate, databili al VII secolo a.C. Agli inizi del prossimo mese di luglio, l’esposizione si arricchirà di due nuove vetrine, dedicate ai In questa pagina: reperti conservati nel Museo Civico Archeologico di Pitigliano. In alto, balsamari plastici configurati a cerbiatto e, al centro, alabastron (vasetto per unguenti o profumi) di forma ovoide. A destra, anfora del Pittore di Marsiliana, da Poggio Buco. Fine del VII sec. a.C.
La scoperta forse piú emozionante è stata però quella dell’antico percorso che costeggiava la necropoli, per ora riportato alla luce solo per un breve tratto e riconducibile, in questa realizzazione, alla fase ellenistica della frequentazione della necropoli. Costituito da un tracciato incassato nel tufo, sul piano del quale sono ancora ben visibili le tracce lasciate dalle ruote dei carri che lo percorrevano, il sentiero si snodava lungo la valle del fiume Meleta collegando il fondovalle con le pendici del pianoro su cui sorgeva la città.
DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico della Civiltà Etrusca Piazza Fortezza Orsini, 59/C Museo Archeologico all’aperto «Alberto Manzi» Via Cava del Gradone, S.P. 127 Orari gli orari e le modalità di accesso ai musei possono variare, anche in funzione della stagione; si consiglia quindi di verificarli attraverso il sito web della struttura oppure prendendo contatto con le sue sedi Info Tel. 0564 614067; e-mail: museo@comune.pitigliano.gr.it; www.comune.pitigliano.gr.it CoopZoe tel. 0761 458609; e-mail: coopzoe@libero.it ; www.coopzoe.it a r c h e o 53
ALLA SCOPERTA DI PITIGLIANO Al centro storico di Pitigliano si può accedere per la porta sormontata da un arco a grosse bugne in travertino rigato, anticamente denominata «del Soccorso». L’ampio terrazzo panoramico che la precede, sospeso sulla vallata del Meleta, ospita ciò che resta dell’emblema araldico ursino che un tempo adornava il bastione sud, gemello di quello ancora in situ visibile sul forte nord. Oltre la doppia porta d’accesso si giunge a piazza Garibaldi, fulcro della Cittadella, chiusa sul lato nord dall’attuale Palazzo Comunale, costruito nel 1939 sopra il Teatro che Tommaso Salvini, nel 1870, rinnovò dopo aver apportato modifiche a quello, piú antico, edificato dalla prestigiosa Accademia dei Ravvivati in piena epoca post-illuminista. Alla Fortezza Orsini e al centro storico del paese si accede percorrendo l’attuale via Cavour che collega piazza Garibaldi a piazza della Repubblica e segue l’andamento dell’acquedotto mediceo; al nucleo originale di quest’ultimo rimontano i due archi piú ampi, sostenuti da un poderoso pilastro 54 a r c h e o
Qui sopra: l’interno della Sinagoga dopo le opere di restauro condotte di recente, che hanno restituito all’edificio l’aspetto originario.
Nella pagina accanto, in alto: una veduta aerea del borgo di Pitigliano, dal lato ovest. A sinistra: il Palazzo (o Fortezza) Orsini, il cui assetto attuale è frutto di vari interventi e rifacimenti, in particolare di quelli operati tra XV e XVI sec. In basso: piazza della Repubblica: in primo piano, la fontana in travertino degli inizi del Novecento e, sullo sfondo, la fontana seicentesca detta «finestrone meridionale».
tufaceo visibile nella sottostante area dei Lavatoi. Il Palazzo o Fortezza Orsini, monumento principale del paese, domina la piazza e si articola in un complesso palinsesto di corpi di fabbrica di origine medievale a ovest del Cassero, fortemente alterato dalle trasformazioni architettoniche di Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi e Salvatore de Simone su incarico di Niccolò III e Niccolò IV Orsini tra il XV e il XVI secolo. Una rampa inclinata, seguita da un’ampia scalinata, dà accesso al cortile loggiato interno, corredato di pozzo esagonale, sul quale si affaccia l’antico Palazzo comitale, oggi sede del Museo Diocesano di Arte Sacra e del Vescovato. Sul lato opposto, un’ala
aggiunta nel XVIII secolo alla Fortezza, ospita il Museo Civico Archeologico (vedi box alle pp. 52-53). Il borgo medievale di Pitigliano, che si apre sul lato di ponente della piazza, è ordinato lungo un sistema di tre vie maggiori (di Sopra, di Sotto e di Mezzo), pressoché parallele, intersecate da oltre sessanta vicoli minori ortogonali, molti dei quali con affaccio sugli strapiombi laterali della rupe. Il nucleo piú antico e operoso del centro era sicuramente quello che costituisce l’attuale rione di Capisotto, localizzato sull’estremità occidentale del pianoro tufaceo, perimetrato già in epoca etrusca da un tratto di mura urbiche in opera quadrata. Sul lato opposto del paese, quello meridionale, si snoda a r c h e o 55
SCOPERTE • GROTTE SCALINA
Veduta panoramica di Pitigliano, al tramonto, dal lato sud. In basso: Palazzo Orsini, cortile interno. Particolare del loggiato a sei archi, il portale d’ingresso al Palazzo Comitale e il pozzo mediceo di forma esagonale.
via Zuccarelli – già di Sotto –, che dà accesso al quartiere ebraico con la Sinagoga della fine del XVI secolo, al centro del Ghetto, caratterizzato dai resti delle abitazioni del XV secolo. Un recente restauro ha restituito al tempio, crollato agli inizi degli anni Sessanta, l’antico aspetto e reso di nuovo visitabili gli ambienti sotterranei che a esso erano annessi (bagno rituale, cantina e macelleria kasher, forno per le azzime) e i locali dell’archivio, della biblioteca e della Scuola Israelitica, tutti gravemente danneggiati dai bombardamenti che colpirono il paese nel 1944. La principale via d’accesso al borgo è via Roma (l’antica via di Mezzo). Percorrendola si raggiunge la cattedrale dei SS. Pietro e Paolo, già Collegiata insigne nel 1509, sottoposta nei secoli a numerosi rifacimenti e comunicante con il quartiere ebraico per mezzo del viadotto di vicolo Manin. La robusta torre campanaria, che svetta sulla facciata barocca dell’edificio religioso, era un tempo adibita a uso civile e militare e rappresenta ancora oggi elemento caratterizzante del profilo urbano di Pitigliano. La naturale continuazione di via Roma, anticamente via delle Fabbrerie, è oggi via Generale Orsini, che si ricollega, all’altezza dell’antica Dogana, alla parallela via Vignoli; seguitando per Capisotto la via si ricongiunge a via Zuccarelli. Alla confluenza delle due strade si trova la chiesa di S. Rocco, già di S. Maria Assunta, dalla singolare pianta trapezoidale, probabilmente la piú antica di Pitigliano, come ricorda un bassorilievo del XII secolo murato sulla facciata esterna del lato di sinistra dell’edificio che reca la figura a mezzo busto di un uomo tra due mostri anguiformi. 56 a r c h e o
MOSTRE • ADRIA - ESTE
NEL REGNO DI CHU ALLESTITA NEI MUSEI ARCHEOLOGICI DI ADRIA E DI ESTE, CON UNA SIGNIFICATIVA «APPENDICE» A VENEZIA, LA MOSTRA SULLO STATO DI CHU GETTA LUCE SU UNO DEI MOMENTI DI MASSIMO FULGORE DELLA CINA ANTICA. I CUI PADRONI DI ALLORA FURONO VALENTI GUERRIERI, MA ANCHE RAFFINATI ESTIMATORI DELLE ARTI di Marco Meccarelli
In alto: incensiere in bronzo per uso domestico o funerario, dalla Tomba 2 di Jiuliandun, Hubei. V-III sec. a.C. A sinistra: contenitore rituale in bronzo per cuocere detto ding, da Jingmen, Hubei. V-III sec. a.C. 58 a r c h e o
A sinistra: candelabro in bronzo, da Jiangling, Hubei. IV sec. a.C. circa. In basso: contenitore rituale in bronzo per acqua detto yi, da Zhaojiabang, Hubei. VI sec. a.C. circa.
«S Salvo diversa indicazione, gli oggetti riprodotti in queste pagine sono esposti nella mostra «Meraviglie dello Stato di Chu», allestita nei Musei Nazionali di Este e Adria.
u di un carro a forma di fenice, tirato da quattro dragoni, m’innalzo verso il cielo, in un turbinio polveroso. Partii al mattino, iniziando il viaggio da Cangwu, giunsi alla sera ai giardini pensili del Paradiso». Sono alcuni dei versi delle Elegie di Chu (Chuci), tradizionalmente attribuite a Qu Yuan (IV-III secolo a.C.), il primo poeta cinese uscito dall’anonimato del cantore mitico. Siamo ai primordi della letteratura cinese e fa da cornice il potente e raffinato regno di Chu, che raggiunse l’apice tra il V e il III secolo a.C., ma le cui origini andrebbero fatte risalire a diversi secoli prima, sebbene siano ancora in parte offuscate dalle nebbie del mito. Sappiamo con certezza, però, che Chu lasciò una grande eredità nella solenne tradizione artistica e culturale della dinastia Han (206 a.C.220 d.C.): la versatilità delle manifestazioni regionali del glorioso regno, infatti, fu riletta secondo il gusto estetico dell’arte dinastica, fino a estendersi successivamente a tutta la civiltà imperiale. Tale complessità di fattori ha indotto gli studiosi a concepire
la cultura di Chu come un fenomeno tutt’altro che «monolitico», ma come l’esito di contributi molteplici, sedimentati nel corso dei secoli, fra tradizioni nomadi e sedentarie, tra cultura locale e interferenze esterne e ancora tra potere centrale e realtà periferica.
SUL FIUME AZZURRO Il nucleo originario di provenienza corrisponde alle odierne province dello Hubei e dello Hunan, lungo il corso del Fiume Azzurro (Yangzi), nell’attuale Cina sud-orientale, dove sono stati rinvenuti numerosi recipienti in bronzo riferibili al XIII-XI secolo a.C. e frutto di una produzione metallurgica che presenta chiare divergenze – per dimensioni, decorazioni e tenori delle leghe metalliche – rispetto alle coeve produzioni attestate nella Cina settentrionale. Nei primi anni, Chu fu innanzitutto uno Stato dall’impronta fortemente militare e in perenne espansione, tanto da aver fagocitato tutti gli altri con cui era solito allearsi. Progressivamente le origini nomadi e l’aggressività bellica lasciarono spazio a un solenne compiacimento
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MOSTRE • ADRIA - ESTE
il valore di semplici strumenti votivi per trasformarsi in «veicoli» della ritualità e simboli del sacro. Eppure il bronzo, spesso decorato con intarsi ad agemina di vari minerali e pietre dure, fu utilizzato anche per un vasellame che, contemplando tipologie differenti – come lampade, campane e specchi –, non venne finalizzato solamente per scopi magicorituali ma anche funzionali. Oltre agli strumenti liturgici, furono infatti prodotti anche recipienti e utensili – chiamati genericamente yanqi – destinati alla vita quotidiana delle famiglie aristocratiche, che legittimavano il proprio status anche attraverso il loro possesso.
di vita sedentaria e a un sempre piú sofisticato stile artistico, che raggiunse un alto grado di raffinatezza estetica. Lo attestano, per esempio, la qualità oltre che la quantità degli utensili in bronzo dalle svariate forme, arricchite sempre con motivi decorativi derivati dal contesto mitologico piú arcaico.
IL BANCHETTO RITUALE La maggior parte della bronzistica era destinata alla preparazione e alla conservazione del cibo e delle bevande durante il banchetto rituale, presieduto da sacerdoti e personalità appartenenti all’élite di potere che comunicavano con gli spiriti degli antenati o i numi tutelari, affinché guidassero le loro azioni terrene: la funzione e lo sviluppo della bronzistica concorrono a definire un contesto profondamente legato alle manifestazioni sacrali della vita sociale. Questi utensili – che hanno conservato tracce organiche di alimenti e vino – sembrano superare
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LO STILE «HUAI» In questo caso le risoluzioni decorative seguono stili meno formali, ma sempre piú raffinati e creativi, utili a confermare il ruolo dell’élite, detentrice del potere politico ed economico. Emergono in questo modo alcuni dei tratti specifici piú rappresentativi di Chu, come, per esempio, lo stile detto «Huai», in cui il fitto intreccio ornamentale di figurazioni zoomorfe e mitiche, con volute in rilievo, senza registri divisori, sembra assecondare un raffinato gusto proteso alle credenze magiche e religiose di probabile derivazione sciamanica. Lo testimoniano non solo le fonti letterarie, come le già citate Elegie di Chu, ma anche le pitture e i motivi decorativi, tra i quali si distingue la fenice, probabile animale totemico del regno, che aveva il ruolo di accompagnare l’anima del defunto In alto: disco in giada detto bi, da Jingmen, Hubei. V-III sec. a.C. Al centro: manufatto di uso funerario in corna di cervo e legno laccato del tipo del «guardiano della tomba», da Jiangling, Hubei. V-III sec. a.C. A sinistra: cartina con indicazione dei territori degli Stati Combattenti.
LE ORIGINI DELL’ARTE La produzione artistica del regno di Chu affonda le sue origini nella remota antichità. La bronzistica, per esempio, coincide con l’omonima età del Bronzo (XXI-VI secolo a.C.), anche se tuttora ignoriamo dove e quando sia iniziata in Cina la produzione di questa classe di manufatti. Realizzando oggetti di varie dimensioni, arricchiti da decorazioni e, col tempo, anche da iscrizioni, la funzione e lo sviluppo dell’arte del bronzo nascono in un contesto sociale e culturale in cui politica, religione e arte risultano indissolubilmente integrate. Ancor piú antiche sono le giade, soprattutto se si considerano le numerose culture neolitiche che hanno condiviso un’avanzata e duratura lavorazione della pietra, tanto da indurre molti studiosi, soprattutto cinesi, a proporre l’adozione di una nuova categoria nella divisione in periodi della Cina antica, con cui classificare un fenomeno, se non esclusivo, comunque tipico di questa civiltà: l’«età della Giada», collocabile tra l’età della Pietra e l’età del Bronzo, tra il 3500 e il 2000 a.C. L’uso della pietra, preziosa e difficile da lavorare, ha contribuito alla sedentarizzazione delle culture neolitiche, che, a loro volta, hanno avviato la stratificazione sociale, provata dalla qualità e dalla quantità della produzione, nella quale gli oggetti intagliati destinati all’élite diventano i simboli dell’autorità religiosa e politica.
A sinistra: ornamenti in giada formati da un disco, detto bi, sormontato da una forma di drago, da Jiangling, Hubei. IV sec. a.C. circa.
riportano i toni di ogni campana e «registrano» la complessa corrispondenza tra le note musicali e i loro equivalenti nelle tradizioni musicali dei contesti geografici limitrofi. Nella stessa tomba sono stati scoperti anche piú di 200 utensili ricoperti con il piú prezioso e creativo tra i rivestimenti naturali, tanto da essere divenuta anche una delle tecniche artistiche piú rappresentative di tutta l’Asia: la lacca, impiegata per rivestire le superfici di oggetti lignei (vassoi, tazze, bacili, tavolinetti, contenitori di varie forme) e di sculture funerarie. Recuperati in ottimo stato di conservazione e nell’aldilà e la cui immagine, non a dunque l’impresd ive n u t i e m b l e m i un caso, ricorre con frequenza sui sionante numero dell’elevato livello articorredi. Nelle sue varianti icono- (125) di strumenti stico raggiunto, gli oggrafiche, la si vede spesso in uno in bambú, bronzo, getti in lacca, decorati stile composito (corna di cervo), pietra e legno, che con motivi ritoccati a oppure accostata ad altri animali comprendono campapennello, presentano in(serpenti e tigri), ma ne vengono ne, tamburi, strumenti a trecci di draghi, volatili stilizsempre confermate la valenza sacra- corda, organi a fiato, flauti, le e quella regale, tanto da essere affiancati da ben 1851 accessori, tra zati che vennero poi riproposti, assuccessivamente identificata come cui telai, bacchette e supporti per la sieme ad altri motivi a spirale, onde sospensione e vasi rituali di bronzo, e nuvole, tra delicati ricami e arabel’emblema dell’imperatrice. La prosperità dello Stato di Chu è scoperti in un’unica tomba nel schi, nei manufatti analoghi di età inoltre rappresentata dal particolare 1978: quella del marchese Yi di imperiale, come quelli da Mainteresse per la musica. Inserita in Zeng, rinvenuta a Leigudun, Hubei, wangdui (Changsha, Hunan), dataun campo semantico che compren- e databile al 433 a.C., (420 a.C. cir- bili tra il 174 e il 145 a.C. Lo stile raffinato e maestoso convide non solamente l’arte dei suoni, ca secondo le analisi al C14). ve con un gusto profondamente ma anche la danza, la poesia e il sciamanico, tra divinità, bizzarre canto, la musica era strettamente LETTERE INTARSIATE connessa al rito, a sua volta accom- Particolarmente interessante è l’im- creature e leggende mitiche, senza pagnato dagli strumenti che dove- ponente gruppo formato da 19 disdegnare la rappresentazione di vano scandire e celebrare i tempi e campane niuzhong, 45 campane scene di vita quotidiana, processioi ritmi del cerimoniale, divenendo yongzhong e una campana bozhong, ni, battaglie e ritratti di personalità veri e propri capolavori artistici, ciascuna delle quali arricchita da locali.Tutte le decorazioni non solo anch’essi intrisi di molteplici valen- iscrizioni in caratteri (3755 in tota- sono l’esito artistico del regno di ze simboliche. Non deve stupire le) perlopiú intarsiati in oro, che Chu, ma sono anche la sintesi stilia r c h e o 61
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LE NECROPOLI Nell’area di Jiangling, là dove sorgeva l’antica capitale Chu, nella valle del Fiume Azzurro, sono state scavate necropoli in uso tra l’VIII e il III secolo a.C., che presentano esemplificative innovazioni introdotte in quest’epoca. A Jiudian (provincia di Hubei), per esempio, sono state individuate tombe di diversa tipologia: a grande fossa o a pozzo, con o senza rampa di accesso alla camera funeraria costruita con travi di legno e in alcuni casi suddivisa in tre camere, una per il sarcofago (singolo o doppio), e due per il corredo. Si tratta di tombe appartenenti alla bassa aristocrazia che venivano disposte a gruppi in base all’appartenenza a un determinato lignaggio, per lo meno fino a quando il sistema dei vincoli aristocratici del regno di Chu non entrò in crisi. La varietà tipologica delle tombe evidenzia inoltre un chiaro cosmopolitismo considerando che alcune presentano una commistione tra elementi culturali e rituali Chu e quelli di altre culture (Yue, Qin e Ba). Tra le sepolture del periodo va segnalata la tomba n. 1 di Mashan (Jiangling, provincia di Hubei) riferibile al IV secolo a.C., che accolse una signora di circa 40-45 anni di età. La camera era suddivisa in tre ambienti: quello piú ampio era riservato al sarcofago della defunta avvolto in diversi sudari di seta finemente ricamata, mentre gli altri due vani sono di diverse dimensioni e contenevano il corredo tra cui vasi e stoviglie di lacca. Famosa è la tomba del Marchese Yi di Zeng a Suixian (Leigudun, provincia di Hubei) del V secolo a.C. La struttura risulta piú articolata e sembra imitare simbolicamente una dimora nobiliare: al centro si trova la sala per il deposito del vasellame rituale, che simboleggia la sala di ricevimento; ai lati si trovano la camera sepolcrale, che rievoca l’appartamento privato, e la sala per le sepolture delle ancelle, che richiama gli appartamenti piú interni dell’abitazione. La distribuzione del corredo funerario ribadisce la corrispondenza con le aree della residenza del marchese in vita.
stica delle tradizioni ereditate dal passato, fino a elevarsi a modello di riferimento per le successive dinastie imperiali. Tra i manufatti non possono non essere menzionate le giade, che rinsaldano l’usanza risalente almeno al Tardo Neolitico (3000-2000 a.C.) di considerarli oggetti rituali, ma anche emblemi della regalità, connessi con le rappresentazioni derivate dal piú arcaico contesto mitologico. Col tempo, alla giada furono sempre piú attribuite qualità taumaturgiche e magico-sacrali, fino a farne il talismano prediletto del popolo cinese. Le giade di Chu attestano un alto grado di raffinatezza (come nel caso degli ornamenti del della Tomba 2 di Wangshan, Jian62 a r c h e o
A destra: strumento musicale in bronzo detto yong, dalla Tomba 1 di Jiuliandun. V-III sec. a.C. Era una sorta di campana armonizzata con altri 33 esemplari, che formavano insieme uno strumento a piú voci. Nella pagina accanto, in basso: le campane yong al momento del ritrovamento.
Sulle due pagine: una panoramica aerea del sito archeologico di Jiuliandun nella provincia di Hubei. Dallo scavo sono emerse due sepolture affiancate, appartenute a un dignitario di corte e alla sua consorte, dotate di straordinari corredi funerari. a r c h e o 63
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gling, provincia di Hubei, databili al IV secolo a.C.) e presentano una gamma di colorazioni dal bianco opalescente al verde, ma che comprende anche altre tonalità, in base alle percentuali di ferro, cromo o manganese. La classe al potere sembra confermare la propria autorità anche attraverso il possesso di tali manufatti, che divengono il simbolo del dominio politico congiunto alla sfera del sacro.
LEGNO, BAMBÚ E SETA Non va poi dimenticato lo straordinario stato di conservazione dei reperti organici, quali il legno, il bambú e la seta. Quelli in legno si riferiscono a statuette funerarie, cosí come a elaborati supporti per i tamburi cerimoniali, strumenti musicali e piccoli oggetti d’uso. Tra gli 64 a r c h e o
A destra: coppa su alto piede in legno dipinto e laccato, detta dou, dalla Tomba 2 di Jiuliandun (di cui, nella foto in alto, è illustrato il corredo al momento della scoperta). Concepite per uso alimentare, simili coppe potevano contenere carne e verdure cotte e, nei corredi, avevano sempre un corrispondente numero di vassoi rituali.
In alto e a destra: una coppa e una borraccia da vino in legno laccato, dalla Tomba 2 di Jiuliandun. V-III sec. a.C. La borraccia conserva il tappo di chiusura e anelli in bronzo.
oggetti in bambú vanno menzionate in particolare le listarelle databili alla fine del IV secolo a.C. su cui sono state trascritte opere filosofiche, alcune delle quali precedentemente sconosciute e di eccezionale valore (le 730 listarelle in bambú iscritte da Guodian, Jingmen, Hubei), oppure opere a carattere perlopiú mantico e giuridico (i reperti da Baoshan, Jinmen, Hunan).
n.1 a Mashan, Jiangling, Hubei), e una seta dipinta con una dama, in abiti eleganti, al di sotto di un drago e di una fenice (a Chenjiadashan, Changsha, Hunan). Siamo di fronte ai primi esemplari, a oggi noti, di pitture su seta che, nei secoli a venire, costituirono uno dei principali vanti dell’arte cinese. La grande abilità tecnica, in grado di padroneggiare tutte le fasi della filatura, ma anche l’elegante qualità e il vigore espressivo del prodotto artistico, segnalano senza ombra di dubbio la prosperità del regno di Chu. Ma a che cosa si deve questa straordinaria conservazione dei reperti? Principalmente alle sofisticatissime tecniche costruttive delle tombe, che hanno garantito eccezionali condizioni anaerobiche e hanno trasformato la camera sepolcrale nello «spazio sacro e regale» dell’im-
UN MANUALE DI ASTRONOMIA? I resti in seta, invece, tessuti e ricamati, presentano una decorazione che alterna motivi geometrici e regolari a quelli a soggetto sacrale.Tra i reperti si distinguono persino un manoscritto a carattere astronomico, decorato con esseri mitologici e probabilmente appartenenti allo zodiaco, tra cui spicca l’immagine di un gentiluomo e un drago (a Zidanku, Changsha, Hunan); ventuno ampi frammenti di sete e broccati (tomba a r c h e o 65
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riprodurre, simbolicamente e in scala ridotta, le sontuose dimore nobiliari: la stanza personale, l’armeria, la stanza della servitú vengono ricostruite attorno al fulcro, ovvero alla sala cerimoniale che nella tomba mantiene un chiaro ruolo celebrativo, poiché contiene il corredo funerario. All’utilizzo di travi di legno per rivestire le pareti della camera funeraria si affiancarono elementi piú duraturi, come pilastri e lastre di FUNZIONI BEN PRECISE Sebbene diverse per dimensioni, le pietra o mattoni cavi di argilla, che strutture piú complesse delle tombe potevano essere anche intonapresentano un numero vario di ca- cati e affrescati. Grande vamere, fino a nove nel sepolcro del re lore assunsero, di conseYou (al potere dal 237 al 228 a.C.), guenza, le immagini sculognuna delle quali sembra ricoprire toree dei guardiani delle una funzione specifica, come a voler tombe, forse identificabimortalità, emblema di rango, autorità e ricchezza, inalienabili anche dopo la morte. Nel cuore di queste tombe i defunti venivano sepolti in sarcofagi di legno laccato, incastrati l’uno dentro l’altro, riccamente istoriati e contornati da ingenti corredi funerari. L’insieme veniva infine ricoperto da materiali diversi come stuoie di bambú, carbone di legna e strati di argilla.
LE MERAVIGLIE DELLO STATO DI CHU Per la prima volta in Europa è stata organizzata una mostra-evento dedicata allo splendore dello Stato di Chu. Giade, bronzi, strumenti musicali, preziose testimonianze dell’antichissimo regno sono allestite fino al 25 settembre in due sezioni complementari nel Museo Nazionale Atestino di Este (Padova) e nel Museo Archeologico Nazionale di Adria (Rovigo), con una «finestra» al Museo d’Arte Orientale di Venezia. Intitolata «Meraviglie dello Stato di Chu», l’importante iniziativa è il risultato di un accordo tra Italia e Cina, e piú precisamente tra Veneto e la Provincia cinese dello Hubei, che in seguito ospiterà, nel Museo Provinciale, una rassegna incentrata sulla grande storia che ha preceduto la nascita di Venezia. La sezione allestita presso il Museo di Este, «I suoni del Fiume Azzurro», prevede un percorso plurisensoriale dedicato a reperti in legno laccato, oggetti in bronzo e giada e strumenti musicali provenienti da tombe aristocratiche che ricostruiscono
In alto: alcuni contenitori rituali al momento del ritrovamento, nella Tomba 1 di Jiuliandun. A sinistra e nella pagina accanto: due armature con copricapo composte da placche di cuoio pressato e laccato, cucite insieme con fili di seta, dalla Tomba 1 di Jiuliandun. V-III sec. a.C.
gli aspetti legati al banchetto funerario, specchio dell’organizzazione sociale e della raffinatezza artistica dello Stato di Chu. L’allestimento comprende angoli tattili con riproduzioni di oggetti da toccare con mano, ambienti multimediali-immersivi e strumenti interattivi. Il percorso plurisensoriale allestito invece nel Museo di
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GLI EROI DI CHU Il regno di Chu è da tempo entrato nella leggenda e qui ricordiamo alcune personalità che si distinsero nel corso della sua storia, la cui fase piú importante si dipana nel periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) Qu Yuan, famoso poeta e ministro del governo, sostenne la causa del suo Paese alleandosi con
Nella pagina accanto, in basso: strumento musicale detto se, dalla Tomba 2 di Jiuliandun. V-III sec. a.C. Di uso incerto, era forse una sorta di arpa o lira da tavolo. In basso: spada in bronzo con manico in legno, da Jiangling, Hubei. IV sec. a.C. circa
altri Stati per combattere l’ascesa dell’egemonia dello Stato di Qin, futuro fondatore dell’impero cinese. Venne esiliato dal re di Chu e, come si legge nell’Incontro col dolore (Li Sao) – un componimento a lui attribuito e contenuto nelle Elegie di Chu – fu tale il suo scoramento che preferí suicidarsi nel fiume Miluo piuttosto
che consegnarsi ai nemici. Xiang Yu fu invece un re guerriero, temibile sui campi di battaglia, ma la sua arroganza ne causò la caduta. Liu Bang, il fondatore della dinastia Han, fu un abile sovrano e statista, capace di avere la meglio sul genio militare Xiang Yu, circondandosi di esperti generali e forti alleati.
Adria, «Arte della guerra», prevede un allestimento immersivo che propone armi, armature e parti di carri da guerra, enfatizzando le tecniche militari e il valore simbolico del guerriero nello Stato di Chu. L’«Arte della guerra» presenta l’iconografia della Cina antica, ma anche lo status sociale del rango militare, attraverso oggetti di notevole eleganza e preziosità, come i capolavori in giada e seta, bronzi, lacche e oggetti rituali.
DOVE E QUANDO «Meraviglie dello Stato di Chu» fino al 25 settembre Este, Museo Nazionale Atestino Orario tutti i giorni 9,00-19,00 Adria, Museo Archeologico Nazionale Orario tutti i giorni 9,00-19,00 Venezia, Museo d’Arte Orientale Orario ma-do, 10,00-17,00 Info e prenotazioni Cultour Active, tel. 392 904 80 69 (attivo lu-ve, 9,00-16,30); e-mail: segreteria@ cultouractive.com
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essere i prototipi delle sculture funerarie in ceramica, dalla chiara valenza apotropaica, rinvenute successivamente, nelle sepolture imperiali del VI e del X secolo d.C. (dinastie Sui e Tang, 581-907 d.C.).
li con Tu Bo, la divinità degli inferi descritta nei testi di Chu. Se ne distinguono due varianti: la prima con una base squadrata di metallo o legno, utilizzata per sostenere corna di cervo (come a Changtaiguan, provincia di Henan, IV secolo a.C.) mentre la seconda accentua le sembianze decisamente eccentriche, ai limiti del fantastico (150 esemplari rinvenuti nelle 500 tombe scavate a Yutaishan, provincia di Hubei). Non mancano poi gli oggetti zoomorfi in legno, dalle sembianze curiose, utilizzati probabilmente per scacciare gli spiriti maligni (Tomba 2 Jiuliandun, Hubei, V-III secolo a.C.). Tutti questi reperti sembrano 68 a r c h e o
In alto: vaso rituale in bronzo, detto fou, da Jiangling. IV sec. a.C. Era destinato a contenere vino, ma talvolta anche acqua. A destra: manufatto in bronzo con funzione di supporto, coronato da una fenice, da Jingmen. V-III sec. a.C.
COME IN UNA PARATA Le armi, infine: non solo spade, ma anche pugnali, punte di frecce, impugnature e soprattutto armature sono state rinvenute spesso intatte e disposte all’interno delle tombe, quasi a voler simulare una parata prima del combattimento. Non siamo ancora di fronte al solenne e monumentale schieramento dell’esercito di terracotta del primo imperatore cinese (scoperto a Xi’an, Shaanxi, e databile al III secolo a.C.), ma siamo comunque in un periodo – quello degli Stati Combattenti – e all’interno di un contesto culturale – quello di Chu –, in cui la guerra è concepita come un’arte. Costituite da placche in cuoio pressato e laccato, cucite tra loro con fili di seta, le armature confermano l’abilità speciale degli artigiani e diventano uno strumento bellico da un lato e un manufatto artistico dall’altro, pur rimanendo sacre perché sono le «vesti» dei guerrieri vittoriosi, investiti del potere di rinnovare per sempre le loro imprese, anche nell’aldilà. In fin dei conti, l’arte della guerra e l’arte del rito costituiscono le due «anime», apparentemente in antitesi, del glorioso regno di Chu: con la spada fu sancita la supremazia terrena, mentre con gli utensili rituali fu conquistato il volere «celeste». Le due anime trovarono proprio nell’arte del bronzo la propria raffinata sintesi, laddove la supremazia culturale vinse di gran lunga quella militare.
NELLA VALLE DEL
VINO ETRUSCO LE COLLINE INTORNO A SCANSANO, CENTRO DI PRODUZIONE DI UN CELEBRE ROSSO, IL MORELLINO, SONO AL CENTRO DI UNA RICERCA VOLTA A INDIVIDUARE LE TRACCE DEL PAESAGGIO VEGETALE ETRUSCO di Marco Firmati e Andrea Zifferero
Grosseto Scansano Sorano Magliano in Toscana
Ghiaccio Forte
Marsiliana a Albegn
Pitigliano
Lago di Bolsena
Manciano
Albinia
Vulci Orbetello
Mar Tirreno
Viterbo
Tarquinia
N
el cuore della Maremma, arroccato sulla dorsale di colline che separa il bacino dell’Ombrone dalla valle dell’Albegna – sulla quale si affaccia –, il paese di Scansano è noto per il suo apprezzato vino rosso: il Morellino. Da oltre dieci anni, però, il borgo ha assunto un ruolo di primo piano nella ricerca archeologica sulla vitivinicoltura nell’antichità. Qui, infatti, si svolse nel 2005 il convegno «Archeologia della Vite e del Vino in Etruria» (organizzato da Università di Siena e di Milano, Soprintendenza Archeologia della Toscana e Comune di Scansano), che fece il punto sullo stato della ricerca internazionale nel settore. In quell’occasione furono illustrati anche i primi risultati dell’innovativo Progetto Vinum, avviato l’anno precedente tra Toscana e Lazio, muovendo dalla domanda: è possibile che nell’attuale vegetazione dell’Etruria siano sopravvissuti brandelli del paesaggio vegetale etrusco? E con quali metodi scientifici potremmo documentarne la natura e l’incidenza sulla vegetazione contemporanea? A cavallo tra archeologia, botanica e genetica, l’indagine ha avuto per oggetto le caratteristiche biomole-
Sulle due pagine e nella pagina accanto, in alto: filari di vite nella Maremma toscana. Nella pagina accanto in basso: coppa attica proveniente dalla tomba della Parrina (Orbetello). A destra: bronzetto con roncola dal santuario rurale di Montiano (Magliano in Toscana). a r c h e o 71
ETRUSCHI • PROGETTO ARCHEOVINO
LA VITE SELVATICA La vite selvatica (Vitis vinifera ssp. sylvestris) si differenzia da quella coltivata (Vitis vinifera ssp. sativa) per numerosi caratteri ecologici, morfologici e fisiologici. L’aspetto piú rilevante è legato alla sessualità delle piante e alla dimensione dei loro organi: le forme domestiche sono a fiore ermafrodita e con organi di dimensioni maggiori di quelle selvatiche, che sono invece dioiche, cioè a fiore maschile o femminile, e con organi vegetativi e riproduttivi in genere piú piccoli. La vite selvatica cresce prevalentemente su suoli alluvionali, lungo le rive
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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dei corsi d’acqua, ai margini dei boschi e nelle siepi campestri: perciò è particolarmente soggetta a danni prodotti dagli interventi dell’uomo per la sistemazione e la manutenzione di argini fluviali, strade e campi coltivati. Per sostenersi, la vite silvestre si appoggia ad alberi-tutore, quali aceri campestri, frassini e olmi. Dal momento che, nel bosco, la parte vegetativa (foglie, fiori e frutti) attinge la luce necessaria solo sopra le chiome degli alberi tutori, spesso le viti raggiungono anche altezze ragguardevoli (15-20 m).
colari e morfologiche delle viti, apparentemente selvatiche, che oggi vegetano in prossimità di siti archeologici. Indirizzata su aree di grande potenziale archeologico e botanico, l’esplorazione ha consentito d’individuare e campionare un numero elevato di viti nei pressi di insediamenti etruschi e romani, che in gran parte presentavano tracce di attività vitivinicole (trincee di coltivazione della vite, impianti di spremitura, abbondanza di contenitori in ceramica per conservare e trasportare il vino).
MODIFICHE E SELEZIONI Le analisi sui campioni raccolti hanno evidenziato la consistente diversità genetica tra le piante vicine ai siti archeologici e le popolazioni di vite selvatica nella flora spontanea in aree distanti da insediamenti antropici. In particolare, le viti prossime a siti archeologici hanno rivelato una ricchezza genetica decisamente maggiore e un’elevata biodiversità, che sembra attribuibile proprio all’azione degli antichi coltivatori. Partendo, infatti, dalla piú elementare forma di domesticazione, la coltivazione per protezione – verosimilmente applicata agli individui preferiti –, i primi «vignaioli» possono aver modificato le caratteristiche genetiche e morfologiche di viti che la selezione naturale avrebbe potuto altrimenti eliminare. Inoltre, la variabilità genetica registrata vicino agli insediamenti antichi può derivare sia dall’accumulo di vinaccioli provenienti da raccolte effettuate in un ampio raggio, sia dall’introduzione dei primi vitigni domestici d’importazione. La fase successiva della ricerca, il Progetto ArcheoVino, ha applicato lo stesso metodo, ma in un’area limitata, nella quale poter operare in modo sistematico e attraverso un’indagine botanica piú concentrata. L’esperienza maturata nella media valle dell’Albegna, tra il fiume e i suoi affluenti di destra (torrenti Mozza-
A destra: anfore vinarie etrusche prodotte nella valle dell’Albegna. Scansano, Museo Archeologico e della Vite e del Vino. Nella pagina accanto: immagini che mostrano fusti di vite silvestre cresciuti appoggiandosi ai tronchi degli alberi, nel bosco che circonda la collina di Ghiaccio Forte (Scansano).
piedi, Sanguinaio e Vivaio), offriva buone possibilità per avviare qui un lavoro mirato, in particolare sui periodi etrusco e romano. In questa parte della Maremma, infatti, il paesaggio risulta straordinariamente preservato dalla presenza umana dal Medioevo a oggi.
RICERCHE INTEGRATE La valle dell’Albegna offre inoltre un quadro archeologico definito da ricerche integrate (di scavo e di superficie) che negli ultimi trent’anni documentano un’economia antica fortemente legata alla produzione e al commercio del vino. Alla testimonianza d’età arcaica della fattoria di Podere Tartuchino, dove si trovava un torchio vinario, si aggiungono la tracce di produzione di anfore da trasporto etrusche – per il vino – nell’abitato di Doganella e nei pressi di Marsiliana. Gli scali portuali vicini alla foce dell’Albegna e nelle isole dell’Arcipelago Toscano, i relitti distribuiti lungo le rotte che portavano alle coste liguri e celtiche, le anfore e il vasellame etrusco (bucchero e bronzi) testimoniano il cospicuo flusso commerciale legato all’esportazione del
vino prodotto nel territorio di Vulci, del quale la valle dell’Albegna era una porzione significativa, specificamente per la produzione agricola. L’abbondante popolazione di viti silvestri (dette «lambruscaie») intorno all’insediamento etrusco di Ghiaccio Forte e ai siti rurali etruschi e romani tra il fiume Albegna e il fosso Sanguinaio è stata sottoposta all’analisi biomolecolare, che consente la mappatura del patrimonio genetico (genotipo), e ampelografica, che identifica e classifica le varietà dei vitigni attraverso la descrizione delle caratteristiche morfologiche (fenotipo). Dalle analisi è emerso che oltre il 50% delle piante campionate sono femminili o ermafrodite: una percentuale che contrasta con la tendenza naturale, nella quale gli esemplari maschili sono in netta prevalenza. Il dato potrebbe essere spiegato ipotizzando una pressione selettiva esercitata in antico dall’uomo al fine di selezionare e favorire gli elementi femminili o ermafroditi, cioè le piante produttive e quindi piú interessanti dal punto di vista economico. L’alta variabilità genetica sembra indicare che l’area sia stata un centro di domesticazione, cioè una zona in cui le piante locali sono state a r c h e o 73
ETRUSCHI • PROGETTO ARCHEOVINO
selezionate e incrociate con altre provenienti dall’esterno per ottenere varietà migliori dal punto di vista qualitativo o di resa economica. Il fatto che la variabilità sia maggiore negli esemplari femminili supporta tale ipotesi, poiché proprio queste piante vengono selezionate e incrociate per la produzione; le piante maschili, invece, mostrano una minore variabilità e sarebbero piú vicine alle viti originarie del luogo, non essendo state oggetto di pressione selettiva. L’estraneità genica rispetto alle viti di origine americana, introdotte in Italia nella seconda metà dell’Ottocento per contrastare la fillossera, accredita inoltre l’ipotesi di un’origine locale del patrimonio genetico delle viti analizzate, i cui apporti esterni sono da collocare in un periodo precedente, seguendo la direttrice est-ovest, che dai centri di domesticazione primaria del Caucaso giunge nella penisola ellenica e in quella italiana. Qui accanto: particolare dello stelo di un incensiere in bronzo sul quale «si arrampica» un uomo che impugna
una roncola, dalla necropoli di Talamonaccio. Orbetello, Museo Archeologico. 74 a r c h e o
SELVANS, DIO DEI CAMPI E DEI CONFINI Già nel VI secolo a.C. un santuario sorgeva sulla collina di Ghiaccio Forte, che domina dalla sponda settentrionale del fiume la media valle dell’Albegna. Nella seconda metà del IV secolo a.C. venne probabilmente smantellato in maniera rituale per costruirvi un insediamento fortificato. Blocchi di travertino e di nenfro, anche decorati, riconoscibili come parti di altari, furono reimpiegati nelle mura e nell’abitato, mentre rimase interrato un deposito di offerte votive, bronzi e terrecotte. Le offerte lasciate dai devoti documentano un culto rivolto alla salute e alla
fertilità dei campi, degli animali e del genere umano. Ai comuni offerenti (sia bronzetti che teste fittili) si accompagnano animali, parti anatomiche umane, come braccia e gambe, e organi genitali maschili e femminili. Tra i bronzetti, però, si distinguono due figure maschili che impugnano una roncola: lo strumento, tipico dei lavori campestri, rimanda a Selvans, una divinità di origine italica particolarmente venerata tra il IV e il III secolo a.C. nell’Etruria centrale, che protegge i campi e i confini. Altri giovani che impugnano una roncola sono stati recuperati lungo le colline a nord dell’Albegna: due bronzetti tra Doganella e Orbetello nella seconda metà dell’Ottocento, uno in un santuario rurale preso Montiano e un
incensiere di bronzo nella necropoli di Talamonaccio. Quest’ultimo, riconosciuto di produzione vulcente, presenta una figura maschile nuda arrampicata lungo lo stelo, in una posizione probabilmente comune nella pratica agricola antica e segnatamente nella coltura della vite ad arbustum e ad alberata, che comportavano un elevato sviluppo vegetativo delle piante. Queste presenze di figure maschili con roncola nel bacino dell’Albegna non sembrano dunque casuali: potrebbero essere legate al confine settentrionale del territorio di Vulci, ma non possiamo trascurare il fatto che la roncola è anche lo strumento
principale del viticoltore e che la valle, in età arcaica, produceva vino in quantità, come testimoniano la produzione anforica di Doganella e Marsiliana e l’esportazione in Gallia
In alto, sulle due pagine: la bassa valle dell’Albegna e il mare visti dalla collina di Ghiaccio Forte; all’orizzonte, da sinistra, il Monte Argentario e l’Isola del Giglio. A sinistra: piccolo gruppo in terracotta raffigurante una vacca con il vitello, dal deposito votivo di Ghiaccio Forte (Scansano).
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ETRUSCHI • PROGETTO ARCHEOVINO
DALLA LAMBRUSCAIA AI FILARI Grazie all’incrocio dei dati archeologici, botanici e biomolecolari, la ricerca condotta nell’ambito del Progetto Vinum ha permesso di formulare un ipotetico sviluppo della forma del vigneto nell’Italia centrale tirrenica. Ne proponiamo, qui di seguito, le tappe fondamentali. Fine del II millennio a.C.prima età del Ferro La lambruscaia è la prima forma di coltivazione e conta sulla naturale associazione della vite silvestre agli alberi ad alto fusto del bosco. Paesaggio naturale e agrario non sono nettamente distinti e il bosco ha un peso determinante nell’economia delle comunità. Le lambruscaie producono poco vino e di scarsa qualità, accompagnato o sostituito da altre bevande. In alto: disegno ricostruttivo della potatura dell’arbustum etrusco (vite maritata ad albero tutore).
Dall’analisi del DNA e dalla valutazione delle caratteristiche morfologiche, infine, sono emersi due campioni che presentano interessanti analogie con i vitigni Sangiovese e Canaiolo nero, ambedue autoctoni toscani, insieme a un terzo esemplare, vicino al Ciliegiolo. Il comprensorio scansanese si configura dunque come un’area di domesticazione secondaria della vite, verosimilmente attraverso forme di introgressione (passaggio di geni da una specie all’altra per ibridazione) delle viti silvestri operate in età antica e di miglioramento colturale delle viti locali con innesti di vitigni circolanti nel Mediterraneo antico. Se il contributo della ricerca biomolecolare restituisce questi dati, l’archeologia, dal canto suo, ha permesso di individuare i luoghi (aree 76 a r c h e o
boscose e umide intorno a siti antichi) e i tempi (datazione dei siti) dei processi di «proto-domesticazione» e «domesticazione» della vite.
EVOLUZIONE COSTANTE Con il primo termine gli storici dell’agricoltura intendono lo sviluppo delle piante di vite nate dal seme disperso negli immondezzai intorno agli abitati dell’età del Bronzo. Solo in seguito sarebbe avvenuta la «domesticazione», ovvero la scelta delle piante da moltiplicare, fissando e poi migliorando i caratteri piú utili alla produttività (ermafroditismo, dimensioni dei grappoli e degli acini) e alla qualità del prodotto (contenuto zuccherino). Nell’area tirrenica questa fase sembra collocarsi tra l’età del Ferro (fine del X-VIII secolo a.C.) e l’Orientalizzante (fine dell’VIII-inizi del VI secolo a.C.), quando i primi vini di qualità elevata compaiono come beni di lusso nelle sepolture aristo-
Seconda metà dell’VIII-ultimo quarto del VII secolo a.C. Le viti selvatiche vengono ancora coltivate nella forma della lambruscaia, al margine del bosco, ma se ne perfeziona l’efficacia con la selezione e il miglioramento delle piante piú produttive e l’innesto di talee di provenienza esterna (verosimilmente greca), in conseguenza della circolazione varietale legata alla colonizzazione greca in Magna Grecia e Sicilia. In questa fase, il vino è un prodotto di pregio: la preparazione e il consumo richiedono l’introduzione di nuove forme ceramiche dedicate. Ultimo quarto del VII-seconda metà del IV secolo a.C. L’incremento del popolamento rurale promosso dalle città dell’Etruria meridionale e lo sviluppo della viticoltura – tramite
cratiche intorno alla metà dell’VIII secolo a.C. In questo secolo si colloca una fase cruciale per la viticoltura in Etruria. La colonizzazione greca del Mediterraneo occidentale introduce vitigni selezionati in madrepatria, avviando nuove forme di domesticazione delle viti selvatiche in Italia meridionale. L’arrivo dei primi vini dall’area insulare greca sollecita la specializzazione nelle colture, trasferendo verosimilmente con le prime forme d’innesto, talee di vitigni pregiati sul piede delle viti locali. Dobbiamo tuttavia immaginare che l’Etruria abbia continuato a produrre vini dalle popolazioni di vite silvestre ora sottoposte a piú intensi processi di domesticazione, forse assimilabili al cosiddetto temetum delle fonti latine, un vino autoctono, distinto dal piú pregiato vino d’importazione. Certo è che questi processi portano in alcuni settori dell’Etruria meridionale (in parti-
la massiccia circolazione varietale di varia provenienza, l’introduzione di vitigni specializzati, la rigorosa potatura – rende possibile una cospicua produzione di vino, di migliore qualità, che, nelle anfore da trasporto di Cerveteri e di Vulci, viene esportato in grandi quantità verso le terre dei Celti. Seconda metà del IV secolo a.C.romanizzazione Tra la seconda metà del IV e gli inizi del III secolo a.C. la coltivazione a filari viene introdotta nella viticoltura etrusca. La tecnica degli scassi a trincee parallele, sostanzialmente uguale alla piú comune pratica contemporanea, si diffonde con la conquista romana nelle campagne d’Etruria, cosí come si afferma nella Grecia continentale e nelle colonie occidentali.
colare negli agri di Cerveteri e di Vulci) a una viticoltura intensiva e specializzata, dedita alla produzione di un vino etrusco prodotto in quantità massiccia, veicolato per via marittima dagli inizi del VI al IV secolo a.C. in varie regioni del Mediterraneo occidentale e soprattutto nelle terre dei Celti. Da ciò si desume, in linea per ora altamente ipotetica, come la zona scansanese – nel cuore di un distretto vitivinicolo rivelatosi estremamente produttivo tra la fine del VII e gli inizi del III secolo a.C., per poi continuare a produrre ed esportare vino sotto il controllo di Roma –, fino alla prima età imperiale, sia stato uno dei punti nevralgici nel processo di domesticazione della vite.
In alto: viti in filari entro solchi, la piú evoluta tecnica di coltivazione etrusco-romana. In basso: accanto all’acero campestre, si piantano due viti che vi si appoggeranno, replicando la tecnica dell’alberata (vite e albero tutore).
hanno suggerito di tentare la ricostruzione di un vigneto sperimentale che possa valorizzare le popolazioni di vite selvatica censite tra Albegna e Sanguinaio, conservando e studiando gli esemplari che, per similarità genetica con i vitigni Sangiovese e Canaiolo nero e per vicinanza a fattorie etrusche e romane, sembrano essere relitti della viticoltura antica. Su queste piante si fonda l’ipotesi che la valle dell’Albegna, già nota per l’intensa produzione vinicola etrusca e romana, sia stata un’area significativa nella Penisola per il processo della cosiddetta «domesticazione secondaria», cioè nella domesticazione e propagazione delle piante selvatiche attraverso piú sofisticate tecniche di coltivazione (selezione delle piante con frutti piú saporiti, tecniche specializzate di potatura e anche innesti con cultivar diffuse nel Mediterraneo occidentale). Con questa premessa e attraverso il concorso di numerosi enti (Università di Siena, Comune di Scansano, Consorzio di Tutela del Morellino di Scansano), si è giunti alla progettazione di un parco della viticoltura antica, che abbia contemporaneamente obiettivi scientifici, conservativi e didattico-di-
IL VIGNETO SPERIMENTALE Gli stimolanti risultati della ricerca scientifica sul campo e in laboratorio prodotti dal Progetto ArcheoVino a r c h e o 77
ETRUSCHI • PROGETTO ARCHEOVINO
STORIA DI UN TERRITORIO, DALLA PREISTORIA AI GIORNI NOSTRI Nel cuore medievale di Scansano («il Dentro»), il Museo Archeologico e della Vite e del Vino occupa il Palazzo Pretorio, edificato nella seconda metà del Quattrocento dagli Sforza di Santa Fiora come dipendenza della residenza del conte e divenuto poi Palazzo di Giustizia. L’identità del Museo è fortemente legata al territorio del quale è espressione: come indica la denominazione, in esso si fondono due percorsi espositivi, entrambi connessi alla coltura della vite. Tale attività ha infatti caratterizzato il paesaggio antico e moderno di questa parte della Maremma e, negli
vulgativi, ma che possa coniugare finalità turistiche al profilo storicoarcheologico dell’area. Cosí, individuata un’area già di notevole interesse per la presenza di diverse viti silvestri (lambruscaie) e raccolta l’entusiasta disponibilità della proprietà (Azienda Agricola Aquilaia-Ghiaccio Forte), è stato realizzato l’impianto del vigneto etrusco-romano, seguendo il protocollo delle sperimentazioni previsto dalla Regione Toscana. Su una superficie di 1000 mq sono state riprodotte varie forme di coltivazione (arbustum, alberata e sulci con tutore a palo secco), cosí da In alto: la prima sala del Museo Archeologico e della Vite e del Vino di Scansano. Il percorso espositivo si sviluppa cronologicamente e presenta materiali recuperati in scavi sistematici e scoperte occasionali. Nella pagina accanto: una veduta di Scansano, con l’indicazione del Palazzo Pretorio, sede del Museo. 78 a r c h e o
ultimi decenni, ha conquistato crescente valore economico. Il percorso si sviluppa cronologicamente, con la suddivisione degli ambienti per argomenti. Materiali e informazioni, restituiti dalle ricerche sistematiche degli ultimi quarant’anni (Soprintendenza, Comune di Scansano, University of Santa Barbara-California, Università di Siena) e da qualche scoperta occasionale, offrono una visione diacronica del paesaggio naturale e umano nella media valle dell’Albegna. La narrazione si apre con l’Eneolitico (necropoli di Poggio alle Sorche), ma le testimonianze piú cospicue sono etrusche e provengono dal santuario e dall’abitato fortificato di Ghiaccio Forte e dalle necropoli arcaiche di Poggio Marcuccio, Cancellone (Magliano in Toscana) e Marsiliana (Manciano), dove il corredo funebre è costituito perlopiú da vasi per preparare e consumare il vino. Il simposio in età arcaica, consumazione rituale del vino tra gli aristocratici etruschi, è illustrato in un’ambientazione realistica, dal vasellame dei corredi vulcenti: dai buccheri e dalla ceramica etrusco-corinzia per i ricchi defunti nella valle dell’Albegna (Cancellone)
TREKKING NELLA VALLE DEL VINO ETRUSCO Il vigneto sperimentale etrusco-romano è impiantato nella vicinanze dell’area archeologica di Ghiaccio Forte, già attrezzata per la libera visita, e il comprensorio raccoglie, nel raggio di un paio di chilometri, una serie significativa di luoghi d’interesse, dalla necropoli etrusca di Poggio Marcuccio, alla ricca popolazione di viti silvestri che cresce nella valle del Sanguinaio. Cosí si è deciso di realizzare un itinerario trekking che, collegando queste mete, consenta d’immergersi in una straordinaria parte di Maremma, ora esclusa dalle vie di comunicazione, ma intensamente abitata e percorsa dall’antichità al Medioevo. Disegno ricostruttivo della necropoli etrusca di Poggio Marcuccio.
e del Fiora (donazione Ginesi) fino alla ceramica attica della tomba della Parrina (Orbetello). L’età romana invece è documentata dai materiali della villa dell’Aia Nova, scavata estesamente, e da quelli provenienti da scavi d’urgenza effettuati dalla Soprintendenza (fattoria romana di Scrina di Porco, abitato arcaico e romano di Civitella, sepolcreto medievale di Poggioferro) e dalle ricerche sistematiche riprese, dal 1999, nel sito di Ghiaccio Forte e nel territorio di Scansano da parte del Comune. Inoltre, la ricerca sul campo e in laboratorio dell’ultimo decennio sulla viticoltura antica (Vinum, e poi ArcheoVino) ha raccolto una cospicua messe di dati e materiali che nel Museo descrivono l’economia della valle dell’Albegna nei periodi etrusco e romano, e rafforzano il legame con l’attuale assetto del territorio. Qui infatti sono prodotti apprezzati i vini DOC e DOCG (Morellino di Scansano, Bianco di Pitigliano, Parrina, Ansonica-Costa dell’Argentario, Capalbio, Sovana) che hanno una loro vetrina istituzionale proprio nel Museo della Vite e del Vino, sede della Strada del Vino e dei Sapori-Colli di Maremma. Pannelli didattici e proiezioni
fornire, accanto alle lambruscaie esistenti, un quadro completo dell’evoluzione della viticoltura antica. L’arbustum è la coltivazione con vite abbarbicata intorno a un albero tutore, nel nostro caso un acero campestre, e disposizione a distanze regolari. L’alberata, invece, è la prima tecnica di coltivazione delle viti su filare, agganciate ad alberi tutori e con tralci sviluppati su lunghi passanti in fibra vegetale condotti da albero ad albero. Nel vigneto sono
offrono le informazioni essenziali al visitatore, che può trovare nel bookshop materiali utili per ulteriori approfondimenti: guide al territorio e ai musei, cataloghi scientifici del percorso archeologico e delle mostre scansanesi e altre pubblicazioni sul comprensorio.
DOVE E QUANDO Museo Archeologico e della Vite e del Vino Scansano (Grosseto), piazza Pretorio Orario da giugno a settembre: martedí-domenica, 9,00-13,00 e 16,30-19,30; chiuso lunedí Info tel. 0564 509402, 509404 o 509106; e-mail: affarigenerali@comune.scansano.gr.it
stati messi a dimora 24 aceri (Acer campestre L.), quali tutori vivi e 160 pali che invece saranno i tutori di piante in filari entro solchi, secondo la tecnica di coltivazione piú evoluta etrusco-romana. Naturalmente il vigneto servirà anche a testare le piante per una futura produzione enologica e, con 38 viti su piede franco, a saggiare la resistenza ai parassiti e il diverso comportamento vegetativo e riproduttivo rispetto alle piante innestate.
Glossario Lambruscaia è la prima forma di coltivazione della vite silvestre, che vede la naturale associazione della pianta agli alberi ad alto fusto del bosco. Domesticazione la selezione operata dall’uomo su un certo numero di specie vegetali giudicate piú utili rispetto alla massa delle piante selvatiche, quando è iniziata l’agricoltura. Introgressione inglobamento permanente di geni di una specie entro un’altra specie in seguito a estesi fenomeni ibridogeni di retro-incrocio, che spesso danno origine a diversi ibridi intermedi. Può produrre: la fusione di specie diverse, il trasferimento di materiale genetico e quindi l’aumento della diversità genetica, la formazione di nuove specie.
PER SAPERNE DI PIÚ Andrea Ciacci e Andrea Zifferero (a cura di), Vinum, Un progetto per il riconoscimento della vite silvestre nel paesaggio archeologico della Toscana e del Lazio settentrionale, Ci.Vin., Siena 2005 Andrea Ciacci, Paola Rendini, Andrea Zifferero (a cura di), Archeologia della vite e del vino in Etruria, atti del convegno (Scansano 2005), Siena 2007 (anche on line: www.comune.scansano.gr.it/files/ vinum/v1-32.pdf). Marco Firmati, Paola Rendini, Andrea Zifferero (a cura di), La valle del vino etrusco, Archeologia della valle dell’Albegna in età arcaica, catalogo della mostra (Scansano 2011-2012), Edizioni Effigi, Arcidosso 2011 Andrea Ciacci, Paola Rendini, Andrea Zifferero (a cura di), Archeologia della vite e del vino in Toscana e nel Lazio, All’Insegna del Giglio, Firenze 2012. a r c h e o 79
SPECIALE • TURKMENISTAN
CIVILTÀ DELLA MARGIANA SEMBRA INCREDIBILE CHE LA «MARGUSH» DEI PERSIANI, POTENTE E RICCHISSIMA, SIA SFUGGITA ALLE ATTENZIONI DEGLI ARCHEOLOGI SINO A DUE DECENNI FA. NEMMENO I CONTEMPORANEI TESTI CUNEIFORMI DEL TARDO III MILLENNIO A.C. NE FANNO CHIARA MENZIONE. TUTTAVIA, GRAZIE ALL’INTUITO DEGLI STUDIOSI SOVIETICI, OGGI SAPPIAMO CHE I RE DELLA MARGIANA PROTOSTORICA VIVEVANO IN PALAZZI SONTUOSI, PARI A QUELLI DI UR, EBLA E MARI. E LE SCOPERTE DI GONUR HANNO RIVOLUZIONATO L’ARCHEOLOGIA ORIENTALE a cura di Massimo Vidale, con contributi di Nadezhda A. Dubova, Gian Luca Bonora e Barbara Cerasetti
N
el nostro immaginario, non è difficile dare vita alle carovane della Via della Seta che, in età tardo-antica e medievale, attraversavano le pianure dell’Asia interna, la distesa di steppe che forma la fragile spina dorsale dell’Eurasia. Merv, la grande città che ancora racchiude due consonanti del nome Margiana, «Margush» in antico persiano, era stata fondata almeno mille anni prima, dai «Re dei Re» achemenidi. Continuò poi a fiorire, dopo la scorreria di Alessandro, sotto il regno dei Seleucidi, quindi, senza interruzione, ai tempi dei Parti e dei grandi sovrani sasanidi; fino a che l’ultimo re,Yazdegird III (631651 d.C.), non fu assassinato nell’oasi stessa dai propri seguaci, incalzati dall’onda delle armate islamiche, che sembravano inarrestabili. Dalle trincee di scavo aperte nella cittadella di Erk Kala, l’acropoli, e nella città inferiore di Gyaur Kala, entrambe fittamente abitate prima dell’invasione araba, emergono opere d’arte e monete, iscrizioni nelle diverse lingue dell’impero (medio persiano, partico, battriano e sogdiano), croci cristiane, 80 a r c h e o
Viktor Sarianidi (1929-2013). Dopo la caduta dell’URSS, l’archeologo iniziò a collaborare con lo Stato indipendente del Turkmenistan, rendendosi protagonista delle clamorose e discusse scoperte raccontate in queste pagine.
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SPECIALE • TURKMENISTAN
eleganti ceramiche che imitavano prestigiosi vasi metallici, raffinati vasi in vetro fabbricati nell’entroterra iranico, a testimoniare una convivenza multiculturale e la natura cosmopolita del centro carovaniero. A Merv, la vita si spostò poi nell’area della successiva città islamica di Sultan Kala: fonti e scoperte la ritraggono come un centro nuovamente affollato di luoghi di mercato e culto e botteghe di vasai, orefici e maestri della forgiatura dell’acciaio. Nel 1221, la grande Merv medievale subí il saccheggio dei Mongoli: l’oscurità della desolazione ebbe la meglio, seppur temporaneamente, sui pervicaci sforzi di ripristino della vita civile.
La localizazzione del sito di Gonur lungo uno dei rami terminali del delta interno del Murghab, da una foto satellitare.
Gonur Depe
Delta del Murghab
TERRE INTRISE D’ACQUA Ma la storia dell’antica Margiana, come rivelano gli ultimi trent’anni di scoperte, affonda le radici in epoche ben piú antiche e non può essere compresa senza addentrarci nella preistoria. I gruppi umani che per millenni devono aver vissuto nell’ombra accogliente delle foreste di ripa dei fiumi Tedzen e Murghab, nelle terre che oggi formano il margine meridionale dei deserti del Turkmenistan, si trovarono a vivere in isole scure fatte di terra intrisa d’acqua, accerchiate da un oceano di sabbia e argilla dai colori abbacinanti. Case, villaggi e campi devono aver sentito costantemente l’abbraccio dell’acqua, che, come un Germania Repubblica Ceca Slovacchia Austria Ungheria
Fiume Murghab
Ucraina Moldavia
Romania
Croazia Serbia Italia
Bulgaria
Grecia
Kazakistan
Mar Nero Georgia
Mar Caspio Uzbekistan
Turchia
Kirghizistan
Turkmenistan Tagikistan
Frase colorata maximai Siria Mar Mediterraneo Libanofugiam, sanis onsectiorem Iraq mi, quoditae. Et expliquis Iran Israele Giordania olumqui quaerspit omnis
Gonur Depe Afghanistan
Pakistan
Libia
Egitto
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Nepal
Golfo Persico Mar Rosso
Arabia Saudita
Emirati Arabi Uniti
India
perimetro di catene invisibili, circoscriveva i luoghi in cui la vita era possibile. Nell’immaginario successivo dell’antico Iran, le terre intrise d’acqua e verde, create dai delta interni, appartenevano ad Ahura Mazda, «Buon Pensiero», la divinità della luce, dell’ordine cosmico e della civiltà. Oltre la portata dell’acqua regnava invece Ahriman, il principio opposto del caos e della dissoluzione dei valori umani in perenne agguato in un deserto ferocemente ostile, ma continuamente percorso da allevatori nomadi e mercanti pronti a sfidare la sorte.
I PRIMI «CASTELLI»? Le dimensioni stesse di questa «prigionia ecologica» possono forse aiutarci a spiegare perché, nel delta interno del fiume Tedzen, a ovest della Margiana, siano cresciuti, già nel IV millennio a.C., insediamenti enigmatici, che sembrano essere stati protetti da tracciati di mura in mattone crudo a pianta poligonale, con costruzioni angolari a pianta circolare che potrebbero ricordare altrettante torri. Si tratta dei primi, arcaici «castelli» voluti da ricche famiglie di allevatori di bestiame e abili agricoltori? Certo è che, una dozzina di secoli piú tardi, quando il delta del vicino Murghab fu coinvolto nelle rivoluzionarie innovazioni di una compiuta urbanizza- In alto: sigillo a stampo in bronzo con motivi cruciformi, dalle zione, i primi grandi centri urbani non nacquero sepolture della necropoli di Gonur. Tardo III mill. a.C.
Un ornamento a forma di stella in lamina d’oro, dalle sepolture della necropoli di Gonur. Tardo III mill. a.C.
dalla spontanea aggregazione di famiglie e corporazioni di mercanti, artigiani, allevatori e agricoltori, quanto dal prestigio incontrastato, ma forse effimero, di potenti capi tribali. Come mostrano le pagine che seguono, le prime città centro-asiatiche crebbero come tele di ragno, a cerchi concentrici, a partire da palazzi straordinariamente elaborati, tra mura, torrioni e porte ben difese. Le acque, nella stagione delle piene, dopo lo scioglimento delle cime innevate del Sud, percorrevano canali e davano vita a bestiame e raccolti, mentre mura e cortili ospitavano carovane che, già cinquemila anni fa, esportavano verso i mercati dell’Ovest beni pregiati, come animali, stagno e rame, tessuti, e forse spezie e droghe come l’oppio. L’archeologia dell’età del Bronzo della Margiana rivela un tessuto sociale fortemente gerarchico, capace di realizzazioni straordinarie e di acquisire rapidamente un lusso forse senza pari, ma al tempo stesso protagonista di collassi repentini ed epocali. Le immagini e le vicende che seguono, nelle parole di una diretta protagonista, raccontano l’avventura straordinaria di un archeologo discusso, ma pieno di intuito, guidandoci alla riscoperta di un passato tanto ricco quanto ancora scarsamente compreso. a r c h e o 83
SPECIALE • TURKMENISTAN
SCAVANDO LA «COLLINA GRIGIA» Viktor Sarianidi e le scoperte di Gonur Depe di Nadezhda A. Dubova
A
ncora agli inizi del XX secolo, la storia dell’Asia Media (l’enorme distesa continentale che si estende dall’altopiano Iranico verso la regione delle steppe centro-asiatiche a nord) iniziava nel Medioevo; nulla si sapeva del popolamento umano nella preistoria e nelle successive età del Rame, del Bronzo e del Ferro. Alla fine degli anni Quaranta risale una lunga serie di pionieristiche esplorazioni archeologiche in Asia Centrale, con la scoperta di importanti siti mesolitici, entro grotte o all’aperto (come Jebel, Kailyu e Dam-Dam-Cheshme) e quindi della locale cultura neolitica di Djeitun. Dagli anni Cinquanta in poi, lo scavo della grande capitale proto-urbana dell’antica età del Bronzo di Namazga Depe rivelò una lunga sequenza di sviluppi locali, che dimostravano come anche in queste remote distese semi-aride i fiumi creati dallo scioglimento
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Nella pagina accanto, in basso: Gonur. Viktor Sarianidi riporta in luce i resti di una cassa finemente intarsiata con immagini di creature mitologiche ed elementi geometrici fatti di faïence. Tardo III millennio a.C.
delle nevi stagionali, prima di estinguersi in bacini e delta interni, avessero dato vita alle forme locali della «Rivoluzione Urbana». La stratigrafia archeologica dell’Asia Centrale iniziava a prendere forma. Grandi archeologi – Vadim Mikhailovich Masson, Ovez Berdyev,Viktor Ivanovich Sarianidi e Igor Khlopin – esplorarono siti proto-urbani come Altyn Depe, Ulug Depe, l’arcaico Dakhistan, Nisa, la capitale della dinastia arsacide dei Parti, e molti altri insediamenti, alcuni oggi famosissimi, dell’attuale Turkmenistan. Nelle decadi successive, scavi estensivi lungo la pedemontana del Kopet Dagh mostrarono la continuità dello sviluppo delle culture e civiltà locali. Nessuno, tuttavia, avrebbe mai immaginato che altre civiltà e straordinari centri di potere potessero essersi sviluppati anche nelle remote sabbie del deserto del Karakum.
A Viktor Ivanovich Sarianidi (1929-2013) va il merito di aver ricostruito grandi pagine di storia dell’immenso territorio tra il Mar Caspio e il massiccio del Pamir, e svelato importanti legami tra le civiltà arcaiche dell’Asia Centrale, il Vicino Oriente, il Subcontinente Indo-pakistano e l’intera Eurasia. La sua morte ha segnato la fine di una grande epoca di scoperte, ma il suo lavoro costituisce una importante eredità: archeologi, storici e lin-
Sulle due pagine: i resti del Palazzo Reale di Gonur, costruito con mattoni crudi.
guisti stanno interpretando i risultati di una vita intera spesa per l’archeologia, accettandone una parte, e mettendone in discussione altri aspetti.
UN PREDESTINATO Viktor era nato il 23 settembre 1929 a Tashkent, in Uzbekistan. La sua famiglia apparteneva alle comunità greche immigrate nella regione del Ponto. Suo padre, Ivan Pa-
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SPECIALE • TURKMENISTAN 1
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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LA CITTÀ DEI PALAZZI CONCENTRICI Il sito di Gonur Nord (indicato, qui a destra, dal riquadro n. 1) si compone di un muro di cinta irregolare, che racchiude, a sua volta, le due cinte quadrangolari visibili nella foto alla pagina precedente. Gonur Sud (indicato, qui a destra, dal riquadro n. 2 e illustrato in dettaglio dalla foto in basso) è una seconda cinta con torri cilindriche, costruita alcuni secoli dopo. La costruzione fortificata interna a Gonur Sud potrebbe essere stata costruita in una ulteriore fase edilizia. In Margiana, le cinte murarie con
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2 torri rettangolari, tipiche del periodo compreso fra il 2300 e il 2100 a.C., caratterizzano la fase matura dell’età del Bronzo Medio, mentre le cinte con torri cilindriche, una scelta piú razionale in quanto le fortificazioni resistono molto meglio all’erosione e alla pioggia, si datano intorno al 2000 a.C., se non ai due secoli seguenti.
Nella pagina accanto: foto aerea zenitale dell’imponente complesso palatino scavato da Sarianidi nel sito chiamato Gonur Nord (2300-2100 a.C.).
nayotovich, era nato a Gyumyushkhana/Argiropolis, presso Trebisonda, e sua madre, Athena Vasilievna, veniva da Yalta, in Crimea. La famiglia si era spostata a Tashkent nella seconda metà degli anni Venti, dove gestiva un piccolo forno per il pane. Nei primi mesi di vita ebbe seri problemi di salute; i dottori non erano certi della sua sopravvivenza e la madre dovette portarlo in montagna, in cerca di climi e alimenti migliori. Qui la sua salute migliorò notevolmente. Viktor amava raccontare un aneddoto su come avesse deciso di diventare archeologo: la famiglia Sarianidis aveva una capra da latte benvoluta da adulti e bambini; quando morí,
fu sepolta in un angolo del giardino di casa e, anni dopo, quando il luogo della sepoltura dell’animale era stato ormai dimenticato, a Viktor fu chiesto di fare un piccolo scasso nell’orto. Sotto la sua pala erano emerse non solo le ossa, ma anche il picco2 lo collare che l’animale portava al collo e che lui ricordava perfettamente. Viktor Ivanovich sosteneva che quell’evento gli aveva palesato con immediatezza quasi brutale che il terreno custodiva il potere della memoria. Da allora in poi, molte domande continuarono a tornargli in mente: che cosa si nascondeva nel sottosuolo? Cosa era avvenuto in passato? Chi viveva in questi luoghi? Come si vestivano, cosa mangiavano, cosa mai avevano pensato gli uomini e le donne del passato? Entrato nel 1947 nella Facoltà di Storia dell’Università Statale dell’Asia Centrale, l’aspirante archeologo non perse occasione di partecipare a missioni di scavo: già nel 1948 (segue a p. 90) a r c h e o 87
SPECIALE • TURKMENISTAN
CULTURA E RELIGIONE DELLA CIVILTÀ DELL’OXUS Gli scavi in Margiana e Battriana ci parlano di una civiltà sorprendente e sofisticata, ma sollevano anche dubbi difficili da sciogliere di Massimo Vidale
Della civiltà dell’Oxus ignoriamo ancora oggi la lingua (o le lingue), cosí come il nome stesso. Alcuni studiosi pensano che il nome persiano Margush dato alla regione del delta del Murghab derivi da quello di Marhashi, che nei testi sumerici e accadici designa una potente nazione dell’Altopiano Iranico Orientale. Marhashi, piú probabilmente, era invece la grande civiltà da poco scoperta nelle piane di Jiroft (Kerman, Iran). Altri vi hanno invece riconosciuto Shimashki o Tukrish, altri Stati orientali citati in Mesopotamia tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C. Per Viktor Sarianidi, invece, gli abitanti dei grandi centri fortificati della Margiana sarebbero stati di cultura indo-iranica migrati dall’Occidente (Anatolia e Siria); la loro religione avrebbe precorso i grandi sistemi religiosi dell’India (induismo vedico) e dell’Iran (zoroastrismo) di due millenni successivi; mentre le tribú nomadiche del II millennio a.C., note agli archeologi con il nome di Andronovo, sarebbero state di lingua iranica. Tra i caratteri «vedici» e «zoroastriani» riconosciuti da Sarianidi nei grandi palazzi di Togolok 21 e Gonur Nord, grande rilievo aveva avuto la sua scoperta delle
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cosiddette White Rooms («Stanze Bianche»): ambienti racchiusi nella parte piú interna e nascosta delle cittadelle palatine fortificate e detti «bianchi» perché interamente rivestiti di candidi intonaci, e dotati di banchine, conche e contenitori, come se in essi si preparasse qualcosa di speciale. Sarianidi annunciò di avervi rinvenuto semi di efedra, canapa e papavero da oppio, a dimostrare che l’oggetto della preparazione erano bevande e composti psicotropi e allucinogeni: l’haoma della tradizione zoroastriana e il soma di quella vedica, entrambe sacralizzate e considerate come principi divini. La scoperta era importante, perché da sempre gli studiosi delle antiche culture di lingue indoeuropee cercavano di rintracciare gli ingredienti di questi liquidi inebrianti. Successivamente, tuttavia, il riesame degli stessi residui da parte dei botanici Harri Nyberg (1995) e Corrie Bakers (2003) non confermò l’identità delle piante. Sarianidi aveva anche identificato altre stanze come dakhma, parola persiana che indica speciali ambienti per la preparazione rituale dei defunti, nonché diversi altari, templi e vari spazi rituali. Queste idee oggi sono considerate con notevole scetticismo. Altri studiosi stanno discutendo dell’antica religione dell’Oxus da punti di vista differenti. In assenza di testi scritti, molto si basa sull’iconografia. L’archeologo francese Henri-Paul Francfort, per esempio, riconosce nell’arte dell’Oxus le manifestazioni di una potente dea della fertilità e della vegetazione, soprattutto nelle famose statuette in clorite e calcare delle «principesse battriane», e nelle immagini dei sigilli in oro, argento e bronzo, dove simili figure, a volte alate, siedono su grandi e feroci felini, su draghi, o tra uccelli e stambecchi. A questa ignota divinità, che ha tratti simili a quelli della grande dea della fertilità dell’antico Elam (Iran sud-occidentale), sembra accostarsi un uomo-aquila (dal muscoloso corpo umano, con testa e artigli di rapace), che compare sugli stessi sigilli in animate lotte con creature selvagge e feroci, come draghi, serpenti, cinghiali, a volte nell’atto di proteggere
tentate da Sarianidi sembrano vicoli ciechi: la vera storia del pensiero religioso protostorico di questa parte del mondo è ancora interamente da indagare. Sarianidi invece aveva avuto ragione nel sottolineare l’importanza delle pratiche sacrificali a Gonur. La grande fossa della tomba 3900, della quale parla Nadezhda Dubova nel suo testo, sembra contenere gli oggetti e i partecipanti a un corteo funebre, forse regale. L’uccisione rituale degli animali che trainavano i carri con i feretri e di numerosi esseri umani sembra replicare le sinistre usanze emerse dagli scavi del Cimitero Reale di Ur in Mesopotamia, pressappoco contemporanee. Sarianidi ha proposto che in Margiana, nel corso del tempo, l’uccisione di esseri umani fosse stata sostituita da sacrifici animali, soprattutto di pecore e cammelli. A sinistra: resti di un’immagine sacra, probabilmente di una dea della fertilità, con parti in legno, oro, bronzo e faïence, da una sepoltura di Gonur. Tardo III mill. a.C. Nella ricostruzione di Sarianidi (qui sotto), la dea era affiancata da due alberi simili a cipressi, mentre dal suo corpo, rivestito in oro, emergevano spighe d’orzo. Nella pagina accanto: da un mobile deposto in una sepoltura aristocratica di Gonur e ormai scomparso emerge la sagoma in bitume (?) e faïence di un rettile cornuto, con corpo di leone e ali d’aquila. Tardo III mill. a.C.
dei capridi. Questo secondo dio, anch’esso dal nome ignoto, condivide alcuni aspetti del «Signore degli animali» che traspare da alcune immagini dell’arte mesopotamica, ma anche in quella della contemporanea civiltà dell’Indo. Il repertorio delle immagini dei sigilli comprende anche leoni alati, scorpioni, grifoni, fiori simili a tulipani o forse papaveri e intricati schemi geometrici, spesso concentrici, che oltre a segnalare l’identità del portatore (la loro funzione pratica) sembrano alludere a forme di protezione magica. Questi disegni ricordano le planimetrie concentriche di diversi centri fortificati di questa civiltà. Insomma, per quanto sia piú che probabile che nella religione dell’Oxus si trovino le radici indo-iraniche dei piú tardi sistemi religiosi dell’Asia Media e del mondo indiano, le «scorciatoie»
Nel complesso di Gonur Nord, nella «Tomba dell’agnello», accanto all’animale erano stati deposti una testa di mazza in rame decorata, elaborati spilloni in rame e argento, ornamenti in avorio e probabilmente casse o mobilio dalle superfici coperte di intarsi in osso e faïence. Da non dimenticare, infine, il rilievo dato al cavallo, le cui immagini (in genere su armi in bronzo) sono tra le piú antiche note in Asia; anche il cavallo sembra essere stato oggetto di pratiche rituali e sepolto con cura nei pressi delle residenze regali. a r c h e o 89
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partecipò all’esplorazione dell’osservatorio medievale di Ulugbek, a Samarcanda, che portò alla scoperta delle fondazioni del monumento. Iniziò quindi a lavorare in Turkmenistan, scavando a Nisa (1949-1954) e a Sultan-Kala (1950-1954). Ebbe come insegnanti Alexander A. Semyonov (1873-1958), Mikhail E. Masson (1897-1986), Boris A. Litvinski (1923-2010), e nell’istituto che frequentava strinse una forte amicizia con Vadim Mikhailovich Masson (1929-2010).
UNA «TERRA PROMESSA» Grazie ad altre missioni sui siti di Takhirbai e Yaz-Depe nell’oasi di Merv, l’antica Margiana degli Achemenidi (1955-1956),Viktor Sarianidi aveva ben presto intuito che i deserti del Turkmenistan avrebbero potuto riservare scoperte straordinarie. Tra il 1957 e il 1959 l’Istituto di Archeologia dell’Accademia delle
In basso: vasi d’argento, bronzo e oro, gioielli in oro, cornalina e lapislazzuli, da tombe aristocratiche di Gonur. Tardo III mill. a.C. Molte sepolture del Bronzo Medio furono saccheggiate pochi secoli dopo la deposizione, ma alcune ancora mostrano la ricchezza di parte dei corredi.
Scienze di Mosca, dove aveva cominciato a lavorare, lo incaricò di dirigere gli scavi nella regione del delta del Tedzhen, nel Turkmenistan meridionale. Con altri giovani colleghi Viktor iniziò a scavare il depe (collina artificiale o tell) di Geoksyur, risalente al Calcolitico o età del Rame. Vi portò in luce una splendida ceramica policroma a grandi disegni geometrici, simili a quelli dei tappeti tradizionali delle tribú turcomanne, grandi abitazioni in mattone crudo a piú stanze e cortili, separate da vicoli stretti, e grandi sepolcri collettivi a pianta circolare, chiamati tholoi, usati come tombe dalle stesse famiglie. Tra il 1950 e il 1965, lavorò sui kurgan (tumuli sepolcrali dell’età del Bronzo) della regione nordcaucasica, ma il suo pensiero rimase sempre rivolto all’Asia Centrale e ai tesori archeologici che essa custodiva. 90 a r c h e o
In alto: vasi in terracotta contenenti ossa animali, pigmenti colorati, sigilli in bronzo e qualche vaso in alabastro, dalle tombe comuni di Gonur. Tardo III mill. a.C. A destra: perle in agata grigia con venature bianche e terminali in lamina d’oro, dalla necropoli di Gonur. Tardo III mill. a.C.
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Nel 1969, una spedizione sovietico-afghana diretta da Sarianidi e Irina Kruglikova fu incaricata di effettuare esplorazioni nel Nord dell’Afghanistan e di redigere una prima mappa archeologica della regione. L’ambiente accademico riconobbe a Sarianidi «uno straordinario intuito archeologico, non rimpiazzabile da alcuna erudizione libresca» (Boris Litvinski) e che «ovunque Sarianidi abbia lavorato, vi I CAMMELLI D’ORO E D’ARGENTO Sulle due pagine: immagini dello scavo della tomba 3220, una delle piú ricche di Gonur. Le tombe «regali» erano veri e propri mausolei sotterranei e alcune di esse, non del tutto violate e depredate, hanno restituito straordinari reperti in metallo prezioso, come un consistente gruppo di vasi d’argento e d’oro massiccio (a sinistra e nella pagina accanto). Un vaso cilindrico in argento mostra due cammelli battriani a sbalzo, mentre il fondo del vaso in oro reca incisa l’immagine di un secondo cammello e di un arco: entrambi potrebbero essere simboli del valore militare di un capo nomade.
furono scoperte memorabili, che aprirono nuove pagine di storia antica» (Mikhail Piotrovsky). La missione localizzò nuovi siti dell’età del Ferro e del Bronzo, fino alla sua epocale scoperta delle tombe regali della primissima dinastia Kushana a Tillya Depe, meglio nota al grande pubblico con l’etichetta sensazionale di «Oro della Battriana». Tuttavia, Sarianidi non fu soltanto uno scavatore fortunato; era anche uno studioso di larghe vedute, veloce nell’afferrare la sostanza dei problemi storici e a pubblicare in tempi brevi i risultati delle sue ricerche. Nel suo libro Drevnie zemledelie Afganistana (Antichi agricoltori dell’Afghanistan), pubblicato nel 92 a r c h e o
pianure della Battriana (Afghanistan settentrionale) e la Margiana, la pedemontana settentrionale del Kopet Dagh (Turkmenistan) a est; e, verso nord/nord-est, parti del Tagikistan e dell’Uzbekistan. Altri studiosi preferiscono invece parlare di una «Civiltà dell’Oxus» focalizzandone l’immagine sulla valle dell’Amu-Darya, l’antico Oxus dei Greci, denominazione che metterebbe questa realtà in parallelo con le altre grandi civiltà fluviali del tempo: quelle del Nilo, del Tigri e dell’Eufrate e dell’Indo. Secondo Viktor, la scoperta dei grandi complessi archeologici della Battriana e della Margiana, risalenti agli ultimi secoli del III millennio a.C., apriva scenari inediti alla questione, da lungo dibattuta su basi puramente linguistiche, della penetrazione e diffusione verso sud delle lingue indo-iraniche, parte della grande originaria «culla comune» delle lingue proto-indoeuropee. Secondo molti studiosi, infatti, poco dopo la soglia del 2000 a.C. – che coincideva con una drammatica contrazione della vita urbana in buona parte dell’Asia Media e della valle dell’Indo –, le culture indo-iraniche si sarebbero gradualmente divise in due diversi scenari, uno detto «indo-iranico» sul versante sud-occidentale, l’altro definito «indo-ario», in direzione delle valli meridionali dell’Hindukush e dell’alta valle dell’Indo. Dal primo scenario, col passare dei secoli, si 1977 e nel quale confluirono i dati acquisiti dalla missione sovietico-afghana, espose i concetti fondamentali che avrebbero guidato un’intera carriera, incentrati su contatti e migrazioni su lunghe distanze causate da vaste crisi climatiche, che connettevano l’Asia Centrale all’Anatolia, al Levante e al Subcontinente Indo-Pakistano, diffondendo idee di potere politico, modelli architettonici e vasti costrutti religiosi. Sono idee oggi non da tutti condivise, ma che hanno avuto comunque il merito di suscitare dibattiti e nuove ipotesi.
UN CONTRIBUTO DECISIVO Nel campo degli studi indoeuropei, il suo contributo piú importante fu l’identificazione del cosiddetto BMAC o «Complesso Archeologico Battriano-Margiano», definizione attribuita alle civiltà palaziali dell’età del Bronzo affermatesi nell’Asia Centrale, tra le a r c h e o 93
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NEL POZZO DELLA MORTE Alcune fasi dello scavo della tomba 3900, un vero e proprio «pozzo della morte» in cui fu sepolto il corteo funebre di un re di Gonur. Dall’individuazione di una grande fossa circolare sotto la superficie (qui sotto) la missione di Sarianidi procede allo scavo (a destra). Nel
fondo della fossa (in basso) vengono in luce i resti di un grande carro a pianale rettangolare e quattro ruote foderate di bronzo, due scettri sagomati in uno scisto grigio-argenteo, gli scheletri di due cammelli, due asini, sette ragazzi e sette grandi cani da guardia, nonché di un enorme calderone bronzeo largo piú di 1 m. Le scoperte sono messe in pianta nello schizzo registrato dagli scavatori (nella pagina accanto).
Frase colorata maximai onsectiorem fugiam, sanis mi, quoditae. Et expliquis olumqui quaerspit omnis
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sarebbero affermate le tribú di lingua iranica del cuore dell’altopiano omonimo, antenate dei Medi e dei Persiani, e la tradizione culturale e religiosa dello zoroastrismo, come lo conosciamo dai testi arcaici dell’Avesta, il libro sacro del profeta Zarathustra; dal secondo, la tradizione piú antica dell’induismo, che traspare negli inni del Rgveda, la parte piú antica dei Veda (testi sacri indiani). Se molti archeologi e linguisti avevano identificato le prime tribú indo-iraniche nelle società nomadiche delle steppe interne, tra il III e il II millennio a.C.,Viktor identificò nelle rovine dei palazzi della Margiana pratiche cultuali che materializzavano molti aspetti delle religioni vedica e zoroastriana, nonché alcune delle piú antiche immagini di cavalli note per l’intera età del Bronzo. Sarianidi apparteneva alla «fazione» degli studiosi per i quali la lingua madre proto-indoeuropea era parlata in Eurasia a partire dai margini delle civiltà vicino-orientali, dalla Siria settentrionale e dall’Armenia in direzione est. Le tribú indo-iraniche si sarebbero separate dalla zona di origine per diffondersi attraverso le steppe dell’Asia Centrale e l’altopiano dell’Iran, e poi raggiungere il Subcontinente Indo-Pakistano; un indicatore archeologico di questa diffusione sarebbe stato il cocchio trainato da cavalli domestici.
CULTI ANCESTRALI I grandi palazzi della Margiana, quindi, sarebbero state corti indo-iraniche, costruite su modelli molto simili a quelli dei grandi complessi palaziali del Vicino Oriente antico, e nelle quali si praticavano culti ancestrali e intimamente legati a quelli vedici e zoroastriani delle epoche successive. Sebbene queste ipotesi siano tuttora molto controverse, le scoperte e il pensiero di Viktor sono ancora oggi un termine di riferimento imprescindibile per chiunque affronti lo studio di questo problema storico. Sarianidi ha ripetutamente sottolineato, in libri e articoli, quali fossero, a suo avviso, le testimonianze archeologiche delle sue teorie diffusioniste. In particolare, rintracciò la diffusione di raffinati manufatti in pietra e metallo tra le regioni della Mesopotamia e dell’antico
Elam (Iran sud-occidentale) attraverso l’intero Altopiano Iranico, che delineavano una sorta di precedente preistorico della Via della Seta. Evidenziò inoltre come alcune caratteristiche architettoniche dell’edificio che ribattezzò «Cremlino» lo avrebbero connesso al Palazzo di Mari in Siria (Tell Hariri), al successivo impianto ittita di Hattusa nell’Anatolia Centrale, ai palazzi cretesi di Cnosso e Hagia Triada a Creta e ad altri complessi monumentali di epoche successive; la statuaria in pietra di piccole-medie dimensioni aveva legami sia con quella protodinastica dell’antica Mesopotamia, sia con quella di alcune importanti immagini della civiltà urbana dell’Indo. I legami tra le genti del delta del Murghab e quelle dell’Indo erano evidenziati anche dalla scoperta di preziosi articoli di lusso, come dadi per la divinazione e palette cosmetiche in avorio, e di alcuni tipici sigilli indiani in steatite, abbandonati a Gonur da famiglie di mercanti stabilitesi in loco.
CONVIVENZA PACIFICA Quando, nelle ultime fortunate scoperte a Gonur Depe, gli zoologi confermarono la presenza del cavallo, furono scoperti grandi carri a quattro ruote cerchiati in rame, del tutto simili a quelli trovati a Susa, la capitale dell’Elam, e nelle tombe comparvero raffinate opere a mosaico comparabili a quelle del Vicino Oriente antico: dati che Sarianidi considerò come una riprova dell’esattezza delle sue teorie. Le scoperte in Margiana testimoniavano una lunga e sostanzialmente pacifica convivenza e collaborazione tra le tribú semi-nomadiche delle steppe interne e gli agricoltori stanziali delle oasi dell’Asia centro-meridionale. La South-Turkmenistan Archaeological Complex Expedition (YUTAKE) aveva iniziato a lavorare nel Turkmenistan meridionale a partire dagli anni Cinquanta. Vadim Masson era il capo della spedizione e Viktor Sarianidi il suo «collega permanente», che poi assunse la direzione della Missione Archeologica in Margiana. La Margiana o Margush – nome dato a una ricca satrapia dell’impero persiano – corrisponde al delta del fiume Murghab (letteralmente «L’acqua degli uccelli»), che, nato dall’Hindukush in Afghanistan, attraversa il deserto del Karakum per poi spegnersi nel a r c h e o 95
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cuore del nulla, ma generando vaste distese di fertile limo e sabbie naturalmente irrigate. La sua capitale storica e medievale, Merv, sorgeva all’incrocio di importanti vie carovaniere e sfruttava allo stesso tempo una naturale vocazione commerciale e la localizzazione strategica con il notevole potenziale agricolo. Ma l’idea che tutto ciò avesse avuto inizio già 5000 anni fa giunse come uno shock negli ambienti archeologici. Come ha scritto l’archeologo statunitense Carl Clifford Lamberg-Karlovsky, il club delle antiche civiltà dell’età del Bronzo è molto esclusivo, e non accetta di buon grado nuovi venuti. Solo dopo il 2000, infatti, l’esistenza e le reali dimensioni della grande civiltà del BMAC (Complesso Archeologico Battriano-Margiano) sono state pienamente riconosciute.
SULLA «COLLINA GRIGIA» Quando, nel 1990, pubblicò il libro Antichità del paese della Margiana, Viktor vi aveva scoperto piú di 200 insediamenti dell’età del Bronzo, nelle oasi di Kelleli, Auchin, Takhirbay, Aji Kui e Togolok. A oggi, solo otto di questi siti sono stati indagati. Togolok 21 e il nucleo centrale di Gonur Depe sono stati scavati praticamente per intero. Il centro piú vasto e ricco fu Gonur Depe («Collina grigia» nel moderno turcomanno); Viktor lo aveva scoperto nel 1972, circa 85 km a nord dell’attuale Bayramali. Due anni dopo iniziò a scavare e avrebbe continuato a farlo sino alla fine dei suoi giorni. Gli fu subito chiaro che aveva scoperto le radici protostoriche dell’antica terra di Margush-Margiana, al tempo nota solamente dalle iscrizioni di Dario I sulla rupe di Behistun in Fars (Iran); tutti gli insediamenti antichi si snodavano lungo i rami del delta interno del Murghab, dando vita a oasi temporanee che venivano abitate e abbandonate alla desolazione dell’aridità a seconda delle divagazioni dei letti dei rami terminali. Gli scavi nell’oasi di Togolok avevano dato risultati eclatanti: architettura monumentale, sigilli complessi e raffinati, strutture interpretate da Sarianidi come «altari del fuoco» e resti considerati come prove della preparazione e del consumo rituale di sacre bevande allucinogene. Mentre lo scavatore riteneva, come si è detto, che tali culti sarebbero stati sviluppati, nei millenni seguenti, dalla religione zoroastriana, altri studiosi russi paragona96 a r c h e o
LA TOMBA DEI CARRI In una seconda, grande fossa tombale affiorano, smontati, i cerchi bronzei che rivestivano le ruote di un secondo grande veicolo. Cerchi del tutto identici sono stati rinvenuti in depositi contemporanei della città di Susa (Khuzistan, Iran), con la quale la civiltà dell’Oxus, nell’ultimo secolo del III mill. a.C., ebbe certamente rapporti politici durevoli e fiorenti attività commerciali.
LA COPPA DEGLI ANIMALI D’ARGENTO Uno dei piú straordinari reperti di Gonur è questa «coppa degli animali d’argento», a forma di cono rovesciato, finemente sbalzata con figure di animali in corsa e in lotta in una ideale ambientazione montana, dal Mausoleo 3235. Tardo III mill. a.C. In basso: il Mausoleo 3235, uno dei sepolcri reali sotterranei scoperti dalla missione turcomanno-russa nella necropoli di Gonur. Si noti l’articolazione in diverse camere funerarie e le numerose nicchie murarie, che in origine dovevano contenere le componenti piú preziose del corredo funebre.
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LUCI E OMBRE NEL LAVORO DELLO SCAVATORE Senza nulla voler togliere all’importanza delle scoperte di Viktor Sarianidi in Margiana e al suo indubbio, formidabile intuito di scavatore, non vanno celati i molti dubbi e le scie di critiche che la sua opera, in questa regione dell’Asia Centrale, si è lasciata dietro. Le
impressionanti dimensioni delle sue trincee di scavo sono dovute all’uso, negli strati superiori delle rovine in mattone crudo – come si vede in molte fotografie di scavo - di macchine scavatrici, una tecnica non accettabile dai moderni metodi archeologici. Nell’esplorazione dei
rono le intricate murature degli abitati fortificati della tarda età del Bronzo trovati in Battriana all’idea del Vara, un castello fortificato sotterraneo concettualmente analogo all’arca di Noè, nel quale, secondo un’antica tradizione riportata nell’Avesta zoroastriano, il genere umano si sarebbe annidato per sfuggire al gelo di un catastrofico inverno. Interpretazioni oggi al centro di un acceso dibattito e non da tutti condivise.
QUESTIONI CRONOLOGICHE Gli scavi di Sarianidi a Gonur Depe – il piú vasto e brillante centro del BMAC, costruito sulle rive del Murghab – offrirono una mole formidabile di dati e suscitarono molti nuovi interrogativi. Innanzitutto, la cronologia: piú di 80 datazioni al radiocarbonio collocano l’arco di vita della grande città murata di Gonur Depe tra il 2300 e il 1500 a.C. In questi secoli Gonur fu una città-palazzo-tempio al centro dell’intero sistema agrario del delta interno. Nelle ricostruzioni di Viktor solamente la famiglia del sovrano – o delle persone ai vertici del clero – e il personale di corte e di servizio vivevano nel grande palazzo emerso dagli scavi. Gli abitanti della regione vi si recavano in occasione di cerimonie e sacrifici, per pregare, consumare pasti e praticare riti in comune. 98 a r c h e o
In alto: Viktor Sarianidi in una pausa di riflessione, mentre esamina la «coppa degli animali d’argento» del Mausoleo 3235 e le sue finissime incisioni. La coppa (come si vede dalle foto a p. 97), risulta fortemente alterata e parzialmente corrosa dall’esterno, mentre dall’interno l’elevatissima qualità delle incisioni risulta immediatamente percepibile.
grandi palazzi di Togolok e Gonur Viktor privilegiò il rapido disseppellimento delle architetture monumentali, a scapito delle registrazioni stratigrafiche. Ancora oggi la sequenza precisa delle fasi di vita e abbandono dei palazzi della Margiana rimane molto incerta. Anche molte delle sue originali interpretazioni – soprattutto quelle che riguardavano l’identificazione in Margiana di templi, culti di tipo proto-zoroastriano, di antichi rituali con droghe allucinogene e le ipotesi di grandi migrazioni dal
Solo a volo d’uccello è possibile afferrare la vastità e la complessità delle architetture portate in luce a Gonur, databili alla seconda metà del III millennio a.C.Vi è un complesso fortificato chiamato «Gonur Nord», formato da un nucleo palaziale centrale, una cittadella protetta da torri a pianta rettangolare, poste a distanza regolare, con lati di 150 x 140 m. Intorno alla cittadella (o «Cremlino», come la chiamava Viktor), si estendeva una fascia di costruzioni importanti, spesso con piante complesse, protette da una seconda cinta muraria fortificata, simile a quella interna: lo scavatore vi riconobbe un «Tempio del Fuoco» sul lato est, altri templi sacrificali a ovest e sud, un «Tempio dell’acqua» presso un grande bacino idraulico interno, un altro «Tempio dell’haoma-soma» a sud-est (haoma nell’Avesta e soma nei Veda sono i nomi dati a sostanze vegetali psicotrope, consumate a scopi rituali). Una terza recinzione difensiva esterna, apparentemente a pianta ovale e priva di torrioni, era conservata soprattutto sul lato nord del complesso. Sembra che questo terzo anello insediativo ospitasse soprattutto le residenze del personale addetto alla corte e ai culti praticati in questo eccezionale complesso, e alcuni laboratori in cui abili artigiani creavano raffinati oggetti per i propri signori. Presso tutte le entrate alla città-palazzo fortificata (una per ogni lato) vi erano bacini per l’acqua, a riprova, secondo Viktor, del suo
Vicino Oriente, su cui Viktor tornò insistentemente per anni – sono state oggetto di critiche da parte di importanti specialisti, quali Sandro Salvatori e l’americano Carl Clifford Lamberg-Karlovsky, che le definirono poco o per nulla scientifiche. Eppure, in parte del vasto e variegato mondo dell’archeologia, chi «trova il tesoro» in qualche modo continua a vincere. Nadezhda Dubova, inoltre, ha certamente ragione nel sottolineare che – comunque stiano le cose –
delle idee di Sarianidi si continuerà a discutere per lungo tempo; e non sarà cancellato il ricordo dell’affetto che gli recavano i suoi
collaboratori, né della simpatia umana che Viktor continuò a trasmettere fino all’ultimo. Massimo Vidale
lare, viene detto «Gonur Sud» oppure «Temenos» (la parola greca per «recinto murato»); anche questo secondo complesso aveva, a sud delle mura esterne, il suo bacino idraulico. Il nome di Sarianidi è anche legato agli straordinari rinvenimenti compiuti nelle necropoli della sua città palaziale. Il novero dei tipi di tombe si rivelò molto vario: alcune erano semplici fosse, altre avevano le pareti appositamente combuste dalle fiamme; vi erano tombe a cista e a camera con le pareti rivestite da mattoni crudi, sepolcri a piú camere con due o tre ambienti, e piú rari
carattere sacrale: nessuno poteva accedervi senza aver praticato le abluzioni. Il bacino idraulico principale si estendeva come un lago di forma irregolare davanti al lato sud della seconda cinta; era alimentato da un canale artificiale che lo connetteva alle sponde del Murghab, che scorreva a ovest.
SEPOLTURE DI ANIMALI Sulla riva sinistra del fiume, a est delle rovine del «Tempio dell’acqua» del lato meridionale, sorgeva una vasta necropoli, mentre su quella opposta fu scavato un edificio, forse sacro, distinto dalla sepoltura di animali: tre pecore e un asino selvatico. Un secondo vasto complesso fortificato, di forma romboidale e protetto, questa volta, da torrioni a pianta circo-
In alto: una curiosa posa di Sarianidi sul campo. A destra: Nadezhda Dubova durante lo scavo della scultura di ariete in calcare bianco riprodotta qui sopra, adibita a poggiatesta per un defunto deposto nelle vicinanze.
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esempi di veri e propri mausolei sotterranei, con scale di accesso, porte murate, comprendenti da quattro a otto stanze interconnesse. Piú di una sepoltura si rivelò secondaria, cioè contenente resti scheletrici manipolati, scomposti e parziali. La variabilità delle pratiche funerarie, insieme all’evidente disparità della ricchezza dei corredi (ma molte tombe erano state saccheggiate già in antico) parla di una società palatina gerarchica e culturalmente composita. Piú di 80 sepolture, infine, contenevano solo resti di animali, a volte accompagnati da gioielli.
BENI DI ALTISSIMO PREGIO Nei corredi sopravvissuti, manufatti raffinati in pietra semipreziosa, oro, argento, rame e bronzo testimoniano la perizia, a volte quasi incredibile, degli artigiani dell’antica Margush. Molti reperti rivaleggiano e spesso superano in raffinatezza estetica e tecnica i tesori portati in luce da Leonard Woolley a Ur, in Mesopotamia, in sepolcri ipogei pressoché contemporanei. Per esempio, in quelle che sembrano essere state tombe regali, Sarianidi trovò e ricompose straordinari pannelli a mosaico nei quali eleganti forme geometriche, angolari e curvilinee, a volte dai colori fortemente contrastanti, si alternavano a immagini di grandi felini, grifoni, serpi, draghi e capridi. Altri pannelli a mosaico decoravano quasi certamente mobili e casse fatte di legni pregiati, che non erano sopravvissuti al degrado. Il materiale degli intarsi sembra essere stato una miscela silicatica cotta ad alta temperatura simile a quelle che gli archeologi chiamano faïence.Vi erano vasi a corpo conico in rame, argento e oro, contenitori per cosmetici in pietra e rame, vasi d’argento a forma di guscio di tartaruga, spilloni, sigilli a stampo e armi in rame e bronzo, sigilli, scatole decorate da mosaici di minutissime tessere in pietra, misteriose figure composite in oro, rame e faïence, forse statuette di dee delle fertilità circondate da alberi e spighe, e immagini di falchi negli stessi materiali nell’atto di calare gli artigli su A destra: amuleto in corniola con un leone dal corpo di serpente, da Togolok 1. Nella pagina accanto: immagine da satellite del Turkmenistan con i siti indagati dalla Missione Archeologica Italiana. 100 a r c h e o
MISSIONE IN TURKMENISTAN Le ricerche italiane ricostruiscono la dinamica dei rapporti fra genti nomadi e sedentarie di Barbara Cerasetti
Dal III al I millennio a.C., migrazioni e fusioni tra culture diverse dipinsero lo scenario di quella che è oggi geograficamente definibile come Asia Centrale. In questa immensa regione, popoli, idee, mercanzie e beni preziosi fluirono liberamente lungo i tratti di quella che poi, un pò arbitrariamente, è stata chiamata «Via della Seta». Ricostruire questo enorme puzzle significa anche individuare e comprendere le motivazioni di tali grandi trasformazioni. La Missione Archeologica Italiana in
Turkmenistan ha proficuamente investito quindici anni di lavoro nella redazione della carta archeologica del conoide alluvionale o delta del fiume Murghab, nel Turkmenistan meridionale, per la salvaguardia dell’antico paesaggio archeologico inesorabilmente distrutto dai grandi lavori agricoli avviati nel dopoguerra. Grazie all’uso delle piú aggiornate tecnologie di ricognizione a terra e telerilevamento sono stati localizzati circa 2000 siti, che
abbracciano un orizzonte cronologico compreso tra l’età del Bronzo e il periodo islamico; particolare attenzione è stata dedicata all’interazione tra le culture nomadiche e sedentarie nell’età del Bronzo e all’influenza che tale incontro ebbe sulla successiva età del Ferro. Questi contatti sono stati studiati nell’area dei vasti pascoli della zona nordorientale del delta, come nelle aree esterne (off-site areas), con lo scavo dei siti seminomadici di Ojakly (Sito 1744) e del Sito 1211-1219, ma anche in siti sedentari, come Adji Kui 1 e Togolok 1. È importante accertare quali usi e tradizioni i nomadi abbiano acquisito dai coevi centri sedentari, come li abbiano «reinterpretati», adattandoli alla loro vita quotidiana e spirituale, e in che misura abbiano invece conservato le proprie tradizioni; e, sul versante opposto, come i sedentari abbiano imparato a coabitare con i nomadi e quanto questi scambi abbiano influito sulla propria cultura. Nelle ultime campagne di scavo (2014-2015), la missione italiana si è concentrata sul sito di Togolok 1. Nonostante
sia un sito prettamente sedentario, nelle ultime fasi di vita esso sembra essere stato occupato da pastori semi-nomadi. Si fa molto piú evidente il livello di integrazione raggiunto tra le culture pastorale e agricola: per esempio, i pastori adottarono alcuni aspetti della produzione agricola dei sedentari, come testimonia la presenza in questi livelli abitativi dei resti di numerose piante domestiche. I nomadi, tuttavia, mantennero il loro stile di vita e la loro economia, come ancor oggi è possibile osservare nella moderna regione di Mary (l’antica Merv). Non esiste una chiara e statica dicotomia tra agricoltori e pastori, ma fluttuazioni nelle strategie di sussistenza, che alternativamente collegano e differenziano i due gruppi nel tempo. Simili relazioni, in continuo movimento, furono attive durante l’età del Bronzo nella regione del Murghab, con importanti conseguenze sull’evoluzione culturale nella successiva età del Ferro, mentre le culture locali entravano in contatto con la tormentata frontiera settentrionale dell’impero achemenide.
prede invisibili. Ancora oggi, le rovine e le tombe di Gonur sono gli unici contesti archeologici dai quali siano affiorate le misteriose «principesse battriane», statuette composite in clorite e calcare disperse in gran numero sul mercato antiquario da scavi clandestini. Parti componibili e figure dello stesso genere erano state scoperte dalla Missione Archeologica Italiana durante lo scavo di alcuni ambienti del Palazzo Reale G di Ebla, probabilmente distrutto dagli armati del conquistatore accadico Naram-Sin in un momento tardo del XXIII secolo a.C.
IL CARRO E GLI SCETTRI Impressionante, infine, è la testimonianza materiale di una crudele cerimonia raccolta nello scavo di un vasto pozzo circolare della necropoli (tomba 3900). Sebbene non ricco di manufatti preziosi, questo «pozzo della morte» raccoglieva i resti di un grande carro a quattro ruote, con le ruote rivestite di rame, di due grandi scettri in scisto levigato, di un calderone in bronzo ampio piú di un metro, e di un altro, anomalo vaso in bronzo a globi sovrapposti. Nel pozzo giacevano gli scheletri di sette individui giovanili, sepolti senza cura, di due cammelli, due asini e sette grandi cani. Due di questi erano stati uccisi e seppelliti presso il margine superiore della fossa, come a farvi per sempre la guardia, insieme alla pala di bronzo forse usata per sigillare il tutto. Secondo Sarianidi, questo sorprendente spreco di ricchezze (e di vite) era spiegabile con la posizione centrale della Margiana rispetto alle rotte commerciali e i grandi flussi migratori interni che percorsero tra la fine del III e il II millennio a.C. le steppe e i deserti del cuore continentale, unendo le regioni occidentali e orientali dell’Asia Media. Quanto fin qui ricordato non esaurisce certamente la portata delle scoperte di Viktor Sarianidi e la vastità delle sue analisi storiche, che richiederebbero una trattazione ben piú approfondita. Attualmente, l’Istituto di Etnologia e Antropologia (RAS) di Mosca, con il sostegno attivo del presidente del Turkmenistan e delle sue istituzioni governative, sta proseguendo i suoi sforzi per continuare le indagini archeologiche e approfondire le implicazioni delle idee di questo grande protagonista dell’archeologia. a r c h e o 101
SPECIALE • TURKMENISTAN
MISSIONE IN KAZAKISTAN Da alcuni anni, il villaggio dell’età del Bronzo di Shagalaly II viene scavato dagli archeologi italiani e sta restituendo dati preziosi sulla protostoria della regione di Gian Luca Bonora
L
a Missione Archeologica Italiana in Kazakistan è impegnata dal 2012 nello studio della media valle del fiume Chaglinka e nello scavo dell’insediamento dell’età del Bronzo di Shagalaly II, localizzato nella regione di Akmola (Kazakistan settentrionale), circa 270 km a nord-ovest dalla capitale del Paese, Astana, nel cuore delle Una stele in pietra individuata nel corso delle ricognizioni condotte dalla Missione Archeologica Italiana in Kazakistan nella media valle del fiume Chaglinka.
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steppe dell’Eurasia. Il villaggio di Shagalaly II fu scoperto da Kimal Akishev nel 1954, nel corso delle esplorazioni archeologiche del Kazakistan settentrionale e centrale connesse con il progetto politico della messa a coltura delle «Terre Vergini» attuato da Nikita Chruscëv. Nel 2010, l’Istituto di Archeologia interno all’Università Euroasiatica «L.N. Gumilev»
In alto: il campo base della Missione Archeologica Italiana in Kazakistan. In basso: vaso in ceramica da Shagalaly II.
di Astana ha intrapreso lo studio del settore centrale dell’insediamento come scavo-scuola per gli studenti della facoltà di Storia e della cattedra di Archeologia ed Etnologia della sopra citata Università. La Missione Italiana in Kazakistan, diretta da chi scrive, si è aggiunta al progetto negli ultimi quattro anni.
CASE SEMI-INTERRATE Il complesso archeologico di Shagalaly II è articolato in diversi settori: un villaggio della Media e Tarda età del Bronzo, composto da quattordici abitazioni semi-interrate, disteso su un terrazzo fluviale intaccato da sepolture dell’età del Bronzo Finale; una necropoli con tombe a cista della Tarda età del Bronzo e alcuni tumuli funerari dell’età del Ferro sulla
sommità della collina che protegge il lato meridionale del villaggio; una seconda necropoli di tombe a cista sul pendio della collina, poche decine di metri a sud del villaggio e una terza necropoli con tumuli funerari dell’età del Ferro e tardo-medievali sulle colline e sui pendii delle stesse a oriente del villaggio. Lungo il corso del fiume Chaglinka, diversi accampamenti di epoca neolitica sono contraddistinti da strumenti in selce (lame, lamelle e raschiatoi) e rari reperti ceramici decorati a incisione. L’interesse maggiore è suscitato dal villaggio che presenta una stratificazione archeologica e reperti datati alle fasi Media e Tarda dell’età del Bronzo. La piú antica fase d’insediamento è datata alla fine del III millennio a.C. e il
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SPECIALE • TURKMENISTAN
sito, con periodi di abbandono, fu abitato fino alla metà del II millennio a.C., quando le dimore vennero abbandonate per le continue esondazioni del fiume Chaglinka. Dopo la metà del II millennio, sia il terrazzo fluviale, sia i pendii delle colline attorno al sito che le loro sommità furono utilizzati come sepolcreti dalle comunità di allevatori mobili che sfruttavano i pascoli erbosi, le risorse lignee e idriche della zona. Le abitazioni erano di forma ovale (da 8 a 30 m di lunghezza e da 6 a 15 m di larghezza), con il pavimento scavato nel terreno per circa 80-100 cm, coperto da un impalcato ligneo. Le capanne erano coperte da frasche,
rami, terra e completamente rivestite di cenere per l’isolamento termico. Le coperture erano sostenute da pali allineati lungo l’asse maggiore della capanna. Il legno, di abete rosso o siberiano, era disponibile sulle pendici del monte Koshkarbay, che ancora oggi rappresenta un’isola sopraelevata boscosa in un panorama vallivo di pascoli e basse colline.
CERAMICA E OSSA D’ANIMALI La cultura materiale rinvenuta nel corso degli scavi archeologici è abbastanza povera: quasi esclusivamente frammenti ceramici e abbondanti ossa animali. Molto rari sono i ritrovamenti di manufatti in metallo (aghi e spilloni)
I resti di un kurgan (tumulo sepolcrale tipico dell’età del Bronzo) in corso di scavo.
e in osso (raschiatoi e ornamenti), piú comuni macine, macinelli, pestelli e percussori. I vasi sono in ceramica depurata e di alta qualità manifatturiera, di origine medio-asiatica, realizzati nelle cittadine di agricoltori e allevatori stanziali della Media e Tarda età del Bronzo localizzate tra Turkmenistan meridionale, Iran settentrionale, Uzbekistan e Tagikistan, distanti circa 1800-2000 km rispetto a Shagalaly II. I commerci su lunga distanza già alla fine del III-inizio del II millennio erano ampiamente sviluppati grazie alla domesticazione del cammello, avvenuta già nel III millennio nella zona del Lago d’Aral, che permetteva di superare le barriere geografiche
costituite dai deserti inospitali del Karakum e del Kyzylkum. La recente scoperta di un supporto in ceramica per la produzione in serie delle giare, un tipico manufatto della civiltà dell’Oxus, con un triplice marchio da vasaio a forma di tridente, anch’esso ampiamente attestato nei siti dell’età del Bronzo Medio e Tardo in Asia Media, dimostra che, già alla fine del III millennio, le comunità di allevatori mobili delle steppe dell’Eurasia e gli agricoltori stanziali della civiltà dell’Oxus scambiavano non solo numerosi elementi della loro cultura materiale, ma condividevano anche elementi specializzati dei loro sistemi simbolici di comunicazione.
QUANDO L’ANTICA ROMA… Romolo A. Staccioli
…S’AFFACCIÒ SUL GOLFO PERSICO I RAPPORTI CON L’ORIENTE CONOBBERO ALTERNE FORTUNE, SOPRATTUTTO PERCHÉ IN QUELLE TERRE ERA STANZIATO UNO DEI NEMICI STORICI DI ROMA: IL REGNO DEI PARTI. FINO A QUANDO, NEGLI ANNI FINALI DELL’IMPERO NON SI GIUNSE A UN ACCORDO DI «COESISTENZA PACIFICA»
A
vvenne, per la prima volta, giusto diciannove secoli fa, nell’anno 116 della nostra era. Protagonista, l’imperatore Traiano, il quale, alla vista dell’Oceano, si sarebbe rammaricato che l’età e le condizioni di salute non gli consentissero di poter emulare le gesta del Grande Alessandro, muovendo a ulteriori conquiste sulla via dell’India. Al Sinus Persicus l’imperatore era arrivato scendendo lungo il corso dell’Eufrate fino agli acquitrini lagunari che, molto all’interno dell’attuale linea di costa (e del sito
dove oggi sorge la città di Bassora) si estendevano alla foce dello stesso Eufrate e del Tigri, alla cui presenza era legata la Mesopotamia: la «Terra tra i due fiumi» (l’odierno Iraq). Mai Roma aveva spinto le sue insegne tanto lontano in Asia. Tutto era iniziato tre anni prima, allorché, fallito ogni tentativo d’accordo, Traiano decise di risolvere una volta per tutte le lunghe contese che avevano da sempre opposto Roma al regno dei Parti. Aveva cosí ripreso un vecchio progetto di Cesare per una guerra di completa eliminazione dell’unico
In basso: Naqsh-i-Rustam, Iran. Rilievo raffigurante il trionfo di Shapur I su Valeriano. III sec. d.C. La scena si riferisce all’episodio della cattura o, forse, piuttosto della resa volontaria dell’imperatore al re sasanide. nemico importante che s’opponeva all’Urbe in Oriente e per la conquista totale della Mesopotamia.
IL CASUS BELLI Pretesto per intervenire fu il colpo di mano attuato, nel 110, dal re partico Cosroe il quale, deponendo il sovrano d’Armenia, Exedare, e sostituendolo col fratello Partamasiride, aveva riportato l’Armenia sotto l’esclusiva influenza partica. Con ciò violando i patti stipulati all’epoca di Nerone che per quel regno prevedevano una sorta di «condominio» romano-partico.
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Accuratamente preparata, con largo impiego di uomini e mezzi, la campagna militare prese l’avvio nel 113. Occupata facilmente gran parte dell’Armenia e ridottala, nel 114, allo status di provincia dell’impero, nei due anni successivi fu la volta della Mesopotamia. Le operazioni furono assai piú difficili e complicate e in esse ebbero modo, tra l’altro, di eccellere le rilevanti capacità dei reparti del «genio» militare romano, che consentirono l’allestimento – e, all’occorrenza, il trasferimento via terra – di grandi imbarcazioni per la navigazione sui due fiumi e di ponti di barche per il loro attraversamento. L’assedio e la conquista della capitale partica, Ctesifonte (presso l’odierna Baghdad), e della vicina Seleucia sembravano aver concluso la guerra. Ma il re Cosroe, rifugiatosi nella parte orientale dei suoi territori, continuò a tener viva contro i Romani una vera e propria guerriglia. In ogni caso, a celebrazione e a ricordo dell’impresa, Traiano fece coniare una bella moneta di bronzo sulla quale, attorno alla scena con le personificazioni dell’Armenia, del Tigri e dell’Eufrate distese ai piedi dell’imperatore, correva la scritta Armenia et Mesopotamia in potestate P(opuli) R(omani) redactae.
LA RIVOLTA DEGLI EBREI A complicare la situazione ci fu, all’improvviso, la grande rivolta degli Ebrei della diaspora, che, scoppiata in Cirenaica nel 116 e rapidamente propagatasi a Cipro, in Egitto e nella stessa Mesopotamia, costrinse Traiano a rinunciare al programmato completo annullamento della forza militare e politica del re Cosroe. Trascorso a Babilonia l’inverno 116/17, una comprensibile
stanchezza e le precarie condizioni di salute convinsero poi l’imperatore a intraprendere la via del ritorno a Roma, lasciando al suo primo collaboratore (e ormai designato alla successione) Adriano, il compito di proseguire quelle operazioni. Ma, nell’agosto del 117, a Selinunte di Cilicia, in Asia Minore, dov’era pronto per imbarcarsi alla volta dell’Italia, Traiano, poco piú che sessantenne, morí per un colpo apoplettico. Adriano abbandonò la politica espansionistica del predecessore, privilegiando quella della sicurezza e della stabilizzazione delle
frontiere. Cosí, nel 120, la Mesopotamia fu in gran parte abbandonata e lasciata a precari insediamenti di sovrani piú o meno «vassalli». Da allora, per oltre due secoli e mezzo – e con maggiore intensità dopo che, nel 227, alla dinastia degli Arsacidi si sostituí quella persiana dei Sasanidi – la situazione rimase costantemente fluida e aperta a ogni evenienza. Anzi in perenne «movimento», con reciproche offensive e controffensive (che coinvolsero piú volte – come nel 240 e nel 252 – anche la Siria e altri territori vicini),
Nella pagina accanto, in alto: moneta fatta coniare da Traiano per celebrare la presa di Ctesifonte. II sec. d.C. In basso: solido aureo di Gioviano, battuto dalla zecca di Sirmium. 363-364 d.C. (ri)conquiste e abbandoni, tregue e trattati di pace, compromessi, incertezze e ambiguità. Come l’episodio, sconcertante e per molti versi «misterioso», della cattura o, forse, piuttosto della resa volontaria, nel 260, dell’imperatore Valeriano al re Shapur.
NUOVI SUCCESSI Non mancarono nuovi «momenti» di grande impegno da parte di vari imperatori (anche perché era soprattutto da quel «fronte» che potevano derivare, coi successi militari, gloria, prestigio, trionfi e bottino!) e di netta superiorità romana. Come al tempo di Marco Aurelio e di Lucio Vero che, nel 162, dette inizio alla parziale rioccupazione del territorio fra il Tigri e l’Eufrate. Fino a un nuovo, risoluto intervento di Settimio Severo il quale, vinto il suo rivale Pescennio Nigro (che proprio da quelle parti aveva trovato qualche appoggio per le sue mire), nel 197/98, rinnovò l’impresa di Traiano. Rioccupata Ctesifonte, la Mesopotamia venne nuovamente annessa all’impero romano sotto forma di provincia, affidata a un procurator dell’ordine equestre e con capitale la città di Nisibis (l’odierna Nusaybin, in Turchia, presso il confine con la Siria) elevata al rango di colonia. A presidio della conquista furono stanziate, a Singara e a Rhesaina, due delle tre legioni «partiche» create per la spedizione: la prima e la terza (la seconda l’imperatore preferí portarsela in Italia – a far da contrappeso allo strapotere del corpo dei pretoriani – costruendo
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per essa, sui colli alle porte di Roma, i Castra Albana, al posto dei quali poi sorse la cittadina che ancora porta il nome di Albano). Anche Settimio Severo, tuttavia, che aveva assunto, tra gli altri, il titolo onorifico di Parthicus Maximus, ritenne opportuno non impegnarsi eccessivamente e tornare alla «protezione diplomatica» della frontiera, ricorrendo ai regni vassalli creati subito al di là del Tigri. Sostanzialmente perduta al tempo di Filippo l’Arabo (che, nel 244, appena acclamato imperatore dalle truppe – proprio presso l’Eufrate – s’affrettò a sottoscrivere la pace coi Persiani), la Mesopotamia tornò alla ribalta, per i Romani, in un ultimo «momento di gloria», con Diocleziano il quale, dopo averla recuperata, vi creò, nel 298, una nuova forma di dominio. La regione venne infatti suddivisa in cinque piccole province – o, piuttosto, «satrapie», nell’accezione
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persiana – affidate a dignitari armeni sotto il controllo, sia pure indiretto, di Roma. Il controllo romano, diretto ed esclusivo, fu invece riservato ai traffici commerciali tra l’Impero e l’Oriente (da sempre una delle grandi ragioni del contendere) per cui tutte le carovane provenienti dall’altopiano iranico, dall’India e dalla Cina e dirette in Siria e ai porti del Mediterraneo dovevano passare attraverso la città romana – e i dazi doganali – di Nisibi. Con alterne vicende s’andò avanti ancora per qualche decennio.
L’EPILOGO Una delle ultime «spedizioni» romane fu condotta dal figlio di Costantino, Costanzo II, negli anni attorno al 345 (quando i Persiani «riesumarono» per la guerra gli elefanti muniti di torrette di legno fornite di arcieri). E tutto finí quando l’imperatore Gioviano (succeduto a Giuliano morto in
Ctesifonte (oggi al-Mada’in, Iraq). I resti del palazzo imperiale del sovrano sasanide Cosroe I (530-579). seguito a una ferita ricevuta combattendo nei pressi di Ctesifonte), nel 364, accolse la richiesta persiana per un trattato trentennale di pace e di «coesistenza pacifica», in virtú del quale Roma abbandonava definitivamente ogni pretesa sulla Mesopotamia e il protettorato sull’Armenia e s’impegnava inoltre a fornire ai Persiani aiuto finanziario per creare – nel comune interesse – una linea di difesa nel Caucaso contro le incursioni e le infiltrazioni delle popolazioni «barbariche» provenienti da nord. Il trattato fu puntualmente rinnovato alla sua scadenza, nel 394, da Teodosio alla vigilia della definitiva divisione dell’impero romano. Il seguito è... storia bizantina, fino all’invasione degli Arabi, alla metà del VII secolo.
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA Francesca Ceci
TUTTI COME ALESSANDRO QUELLO DEL MACEDONE FU UN MODELLO INSEGUITO DA MOLTI, GIÀ ALL’INDOMANI DELLA SUA MORTE. E LA MONETAZIONE NON È ESTRANEA AL FENOMENO, CON EMISSIONI DI ELEVATISSIMO VALORE ARTISTICO
V
i sono personaggi storici che, per il carisma posseduto e le gesta compiute, vennero considerati eccezionali già dai loro contemporanei: uno di essi fu senz’altro Alessandro Magno, la cui breve ma intensa esistenza, scandita da vittorie e conquiste, fu subito tramutata in mito, sapientemente orchestrato in vita e poi amplificato a dismisura alla sua morte (imitatio Alexandri). Creatore di un impero enorme, esteso dalla Macedonia ai confini dell’India, Alessandro assegnò naturalmente la dovuta importanza anche al commercio, al pagamento dei soldati e quindi alla monetazione, potente veicolo propagandistico basato sulla forza delle immagini: celebri e immediatamente riconoscibili sono i tipi che contraddistinguono i suoi tetradrammi d’argento e gli stateri d’oro.
ma ben fondato sull’aspetto reale, di Alessandro, immagine giunta sino a noi attraverso molteplici esempi e fonti letterarie. Primo tra tutti, il ritratto scultoreo che ne fece Lisippo, creando il fortunato modello del sovrano dallo sguardo volto verso l’alto, rapito in un invisibile colloquio con gli dèi, consistente nella «maniera di piegare il collo, leggermente inclinato verso sinistra» e negli occhi «umidi» (Plutarco, Vita di Alessandro, 2), resi ancor piú speciali da un’iride azzurra e l’altra nera (Romanzo di Alessandro, 1.13.3).
IL FIGLIO DI AMMONE
LA DRACMA PER MODELLO Improntate al piede attico della dracma ateniese – la moneta di maggior prestigio nel mondo greco di allora –, le emissioni di Alessandro III battute a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. si diffusero progressivamente e in gran numero per tutti i territori entrati nella sfera macedone. Fu, quindi, una produzione ad amplissimo raggio, imitata e
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prolungata nella tipologia ben oltre la morte del sovrano, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C. Il nobile e divino profilo di Eracle (dal quale si riteneva discendesse il padre di Alessandro, Filippo II), con il capo ricoperto dalla leontea, si staglia sul dritto delle monete e propone il volto, certo idealizzato
Il rovescio è dedicato a Zeus, il dio che Alessandro amava considerare – in un’abile manovra di creazione di un mito incoraggiato dalla madre Olimpiade – il suo vero padre, unitosi alla donna sotto forma di serpente (Plutarco, Vita di Alessandro, 3). Zeus siede in trono con i suoi attributi e l’aquila poggiata sulla mano; a lato compare, semplicemente, il nome dell’autorità emittente, Alexandrou (di Alessandro), a volte con la designazione della carica, basileos, «re». L’accostamento divino con Eracle fu poi sostituito con Zeus Ammone, quando Alessandro si recò all’oasi di Siwa, nel deserto libico, a visitare il tempio del dio, dove, tramite l’oracolo, fu dichiarato
ufficialmente figlio di Zeus. Da quel momento, all’iconografia di Alessandro vivente si aggiunsero le due corna di ariete tipiche della divinità sincretistica egizia, icona che si diffuse nel corso dei secoli nel mondo ebraico, medievale e islamico, veicolata – insieme con le altre immagini del re – anche dal successo del Romanzo di Alessandro (una raccolta di racconti sul Macedone composta tra il II e il IV secolo d.C., che ebbe successivi rimaneggiamenti sino all’anno Mille) e di tutta una serie di scritti che arrivarono a trasformare Alessandro in un principe cavalleresco.
LA SPARTIZIONE DEL REGNO Alla morte del Macedone seguirono immediatamente le guerre senza esclusioni di colpi tra i suoi generali, i Diadochi («Successori»), per spartirsene l’enorme regno. Nella serie delle battaglie si distinse la figura di Lisimaco (361/365-281 a.C.), che da guardia del corpo divenne prima satrapo di Tracia e dell’Asia Minore, quindi re di Macedonia per poi finire ucciso nell’ambito di conflitti fratricidi e familiari. La monetazione di Lisimaco, ispirata a quella di Alessandro e incentrata sulla celebrazione del Macedone innalzato a divinità, raggiunge esiti artistici altissimi, come ben testimoniano gli stateri d’oro e i tetradrammi
d’argento contraddistinti sul dritto dal profilo di Alessandro divinizzato dalle corna di Ammone, e sul rovescio da Atena in trono con Nike sul palmo della mano e la leggenda menzionante il re Lisimaco. Alcuni di questi conii, capolavori dell’arte incisoria, riportano i nomi abbreviati dei maestri che li realizzarono: si tratta
A sinistra: tetradramma di Lisimaco. Regno di Tracia, 305-281 a.C. circa. Al dritto: profilo di Alessandro Magno con le corna di Zeus Ammone; al rovescio: Atena in trono con Nike sul palmo e armi intorno. Sotto la mano della dea corre il nome abbreviato Sosith[eos]. Nella pagina accanto: tetradramma di Alessandro III. Regno di Macedonia, 336-323 a.C. Al dritto: testa di Eracle con leontea, ispirata ai tratti di Alessandro Magno; al rovescio: Zeus in trono, con aquila e scettro. In basso: tetradramma di Lisimaco. Regno di Tracia, zecca di Lampsaco, 305-281 a.C. circa. Al dritto: profilo di Alessandro Magno con le corna di Zeus Ammone; al rovescio: Atena in trono, con Nike sul palmo e armi intorno. Leggenda Basileos Lysimakou («del re Lisimaco»). di Menod[oros/otos?] e Sosith[eos?], i quali si firmano rispettivamente sul ritto e sul rovescio dei tetradrammi lisimachei (una circostanza forse spiegabile con il fatto che ciascun nome designava l’artefice di un solo lato della moneta).
COME VERI SCULTORI Il volto alessandrino denota una perizia e una creatività eccellenti, detenute da personaggi che dovevano trovarsi perfettamente a loro agio con i ritratti «patetici» di Alessandro, in particolare quelli redatti da Scopa, caratterizzati dall’occhio ingrandito, simbolo di divinità, la folta capigliatura mossa e le possenti, ma anche eleganti, corna divine. Atena, sul rovescio, è trattata con un calligrafico altorilievo, che ben evidenzia i particolari, dalla Nike all’umbone leonino sullo scudo. Il naturalismo plastico delle immagini, la raffinatezza dei contorni, la padronanza del chiaroscuro pone le due firme tra quelle della grande arte dell’ellenismo.
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I LIBRI DI ARCHEO
DALL’ITALIA Lara Anniboletti
79 STORIE SU POMPEI. CHE NON VI HANNO ANCORA RACCONTATO... L’Erma di Bretschneider, Roma, 127 pp., 150 ill. b/n 35,00 euro ISBN 978-88-913-0927-3 www.lerma.it
Il 79 d.C. è il tragico anno della fine di Pompei, quando in un giorno di fine estate viene cristallizzata la vita di un’intera e vivace comunità della Campania romana; e 79 sono gli aneddoti, le dicerie e le storie personali che, con chiarezza scientifica ed espositiva, l’archeologa Lara Anniboletti, specializzata su temi pompeiani, raccoglie in questo agile libro destinato a un pubblico numeroso ed esigente, appassionato di curiosità collegate alla quotidianità del centro vesuviano. Una Pompei quindi insolita e quanto mai vera quella tratteggiata nel volume, diversa da quella rigorosamente descrittiva degli edifici e delle relative testimonianze artistiche: è, prima di tutto, vita pompeiana, esistenze di duemila anni fa ricostruite grazie a oltre due secoli e mezzo di scavi, un insieme di storie di un’umanità lontana ma che si ripropone, in alcuni atteggiamenti, quasi con le stesse modalità attuali. In questo testo sono i fatti e le cronache umane a essere protagonisti: gente 112 a r c h e o
che lavora, ama, gioca, mangia, fa politica, scrive, mercanteggia, odia, ruba… Ecco quindi che le 79 storie riprendono frammenti di vita di personaggi reali che, sapientemente ricostruiti, tornano a vivere nella loro dimensione storica. Sfogliando il libro, si ha la sensazione di passeggiare fra piazze e vicoli dell’antica Pompei e di incontrare, pagina dopo pagina, queste persone e di conoscerne le vicende umane e professionali, le loro qualità e anche le loro debolezze, talora distanti dal gusto della nostra epoca, altre volte invece sorprendentemente affini, in un raffronto continuo, che permette al lettore di cogliere le differenze comportamentali fra uomo antico e moderno. Sulle vie di Pompei «si incontrano cosí il banchiere Cecilio Giocondo e l’astuta matrona Giulia Felice, accade che il barbiere Paventino rasi la barba di buon mattino e che un malcapitato alla bottega di Salvio sia vittima di truffa
al gioco dei dadi, mentre i profumi della panetteria di Modesto riempiono di nuovo l’aria, cosí come le grida del banditore, il vocio dei mercanti nel Foro, il rumore degli zoccoli dei cavalli sulle strade». Fatti lontani, ma straordinariamente vicini nei modi, che rivivono grazie alla paziente ricerca dell’autrice, che cosí ha permesso di non disperdere momenti di vita vissuta. Alessandro Mandolesi Rachele Dubbini
IL PAESAGGIO DELLA VIA APPIA AI CONFINI DELL’URBS La valle dell’Almone in età antica Edipuglia, Bari, 135 pp., ill. b/n 50,00 euro ISBN: 978-88-7228-770-5 www.edipuglia.it
Inserendosi in un filone assai battuto nel corso degli ultimi decenni, il volume di Rachele Dubbini arricchisce la letteratura archeologica sul suburbio romano, un universo che – grazie a ricognizioni di superficie,
scavi e nuove analisi delle fonti letterarie e archivistiche – si rivela davvero ricco di storia. Nell’opera in questione, di taglio specialistico, l’attenzione si concentra su un’area, la valle dell’Almone, che ebbe una particolare rilevanza nel contesto dell’Urbe e delle sue propaggini, vista la sua vicinanza con l’Appia e il fatto che il corso d’acqua che le dà nome – un tempo affluente del Tevere – si legò a una importante cerimonia religiosa legata alla dea Cibele. Dopo un ampio e significativo inquadramento metodologico, l’autrice passa in rassegna quelli che definisce gli «indizi» di carattere storicoletterario e archeologico, la cui ricchezza è la piú eloquente cartina di tornasole dell’importanza rivestita da quest’area in età antica. Seguono quindi le ben argomentate conclusioni, corredate da una sintesi in lingua inglese del testo e da una ampia raccolta di tavole. Stefano Mammini Giuseppe Nocca
CEREALIA Archeonutrizione e archeogusto nell’evoluzione delle strategie alimentari dei cereali Arbor Sapientiae Editore, Roma, 438 pp., ill. b/n, 45,00 euro ISBN 978-88-97805-60-1 www.arborsapientiae.com
Dopo essersi formato nel campo delle scienze
agrarie, l’autore ha coltivato con crescente passione l’interesse per l’archeologia e da questa sorta di matrimonio nasce il volume che qui presentiamo. Il risultato è una disamina molto
ampia e approfondita, che ha fra i suoi obiettivi dichiarati quello di «scagionare» i cereali dall’accusa di essere un alimento potenzialmente nocivo. Nocca argomenta le sue tesi fornendo un repertorio di dati davvero vasto, unito alla ricognizione sistematica delle fonti. Un lavoro encomiabile, dal quale emerge, fra l’altro, quella varietà di specie cerealicole consumate che l’uomo contemporaneo sta faticosamente cercando di recuperare. S. M. Ferdinando Fagnola
VIAGGIO A BANDIAGARA Sulle tracce della Missione Desplagnes 1904-1905. La prima esplorazione del Paese Dogon Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini»-Officina
Libraria, Milano, 328 pp., 397 ill. col. e b/n, 10 carte geografiche 48,00 euro ISBN 978-88-97737-58-2 www.officinalibraria.com
All’indomani della conquista francese di Bandiagara (allora in Sudan, oggi in Mali), il luogotenente Louis Desplagnes fu incaricato di effettuare una missione archeologica ed etnografica nella regione appena conquistata.
si colgono l’eccezionale qualità delle ricerche condotte da Desplagnes e il valore che esse hanno avuto per quella che, comunque, è stata molto piú di una «replica» della sua impresa. S. M.
DALL’ESTERO Bärbel Morstadt
DIE PHÖNIZIER Philipp von Zabern, Darmstadt, 176 pp., ill. b/n 29,95 euro ISBN 978-3-8053-4878-2 www.wbgwissenverbindet.de
Bärbel Morstadt propone una sintesi agile, ma esauriente, su una delle civiltà che hanno fatto la storia del mondo mediterraneo. L’opera si apre con un’introduzione storica, alla quale fanno seguito la ricognizione delle presenze fenicie In due anni – tra il 1903 e il 1905 – e dopo aver percorso quasi 3000 km, il militare raccolse una mole formidabile di dati sui Dogon, una delle piú importanti popolazioni africane. Poco meno di un secolo piú tardi, sulle sue orme è partito Ferdinando Fagnola, architetto torinese che da tempo si dedica allo studio della cultura di quelle genti – nota soprattutto per le sue straordinarie sculture – e, dal confronto fra le due esperienze, nasce ora questo volume. Il risultato e un’opera di notevole interesse, grazie alla quale
a oggi note, suddivisa secondo le diverse regioni: la madrepatria in primis, e poi le molte altre terre che videro lo stanziamento di questo
popolo, dall’area egea alla Sardegna, da Cipro all’Africa nord-occidentale, solo per citare alcuni dei casi piú significativi. S. M. Stefan Burmeister e Joseph Rottmann (a cura di)
ICH GERMANICUS Feldherr-Priester-Superstar Theiss, Darmstadt, 112 pp., ill. col. e b/n 19,95 euro ISBN 978-3-8062-3141-0 www.wbgwissenverbindet.de
Pubblicato in occasione della mostra omonima (allestita nel 2015 presso il Museo e parco archeologico di Kalkriese), il volume riepiloga il ruolo cruciale giocato
dal generale romano nelle turbolenze che fecero seguito alla morte di Augusto. La vicenda biografica di Germanico offre dunque l’opportunità di scoprire quali fossero le caratteristiche salienti dell’assetto politico, sociale ed economico che il neonato impero romano andava assumendo. S. M. a r c h e o 113